Vittorino Grossi Angelo Di Berardino
la chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni
boria
i l formarsi di un pensier...
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Vittorino Grossi Angelo Di Berardino
la chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni
boria
i l formarsi di un pensiero cristiano dopo il NT
Per entrare in merito al formarsi di un pensiero cristia no, dopo il Nuovo Testamento, vanno tenuti sempre pre senti due fattori che furono determinanti per tutto lo sviluppo ulteriore : l. Il cammino fatto dalla comunità cristiana, quanto alla comprensione di se stessa, dagli inizi al tempo delle lettere pastorali (gli scritti cerniera tra il cristianesimo neotestamentario e quello sub-aposto lico); 2. L'intreccio dei problemi interni ed esterni che attraversarono costantemente il nuovo gruppo religioso. Accenneremo brevemente al primo e più estesamente al secondo, che ci darà le coordinate del formarsi di un pensiero cristiano nell'ambito della storia del pensiero umano. 1
. Un nuovo gruppo religioso
I discepoli di Gesù di Nazareth, chiamati « cristiani » dal la amministrazione romana o dalla gente di Antiochia (Atti 11, 26), nell'intento di legare altri al nazareno, rac contarono le cose dette e operate da Gesù (dieta e facta Jesu) con i mezzi di comunicazione allora a disposizione: prendendo la parola nelle sinagoghe degli ebrei o sotto i portici delle città, utilizzando possibilità di incontri etnici e familiari. Dalla raccolta di tali racconti nacquero i nostri Vangeli (Evangelia = buone notizie) . Dall'attività dei dodici discepoli, qualificati poi col nome di Apostoli, che da Gerusalemme si sparsero nei maggiori centri del l'impero diffondendo un po' dovunque il cristianesimo, nacquero gli Atti degli Apostoli (la raccolta dell'operato 7
di Pietro e di Paolo) (1). Gli Apostoli, alle comunità cui avevano dato inizio, scrissero delle lettere: le cosiddette « lettere apostoliche »; lettere dalla pngwnia; lettere « cattoliche », chiamate così perché erano indirizzate a tutte le comunità. Tali lettere, scritte a comunità in for mazione, registrano le prime difficoltà di continuare, sul piano quotidiano, l'esperienza religiosa di Gesù di Naza reth, come pure le prime interpretazioni del modo di essere « cristiani ». Così, ad esempio, al riconoscimento di ampi spazi di libertà nella comunità di Corinto, fa riscontro, in quella di Tessalonica, il bisogno di un ritorno agli impe gni del vivere quotidiano. Le comunità dei cristiani si consolidano ormai come un gruppo religioso che ha uno spazio diverso da quello originario giudaico, anzi ne assume uno proprio tra i tanti gruppi religiosi del tempo. Questo processo di indi viduazione portò naturalmente a una comprensione deli mitativa del gruppo stesso, che cominciò a porsi come « religione cristiana » cioè come una nuova comprensione di > tramandato (da Paolo) , difendendolo da « chiacchiere vuote e profane e dalle diatribe di una scienza falsamente ritenuta tale >> (6, 20). Si fa strada, mentre si mette in luce la fedeltà al messaggio cristiano ricevuto da Paolo, la coscienza che « la Chiesa del Dio vivente è colonna e fondamento della verità>> {3, 15). Si insiste cioè, nelle Lettere pastorali, sulla credibilità della verità custodita nella Chiesa. Non è prevalente ancora l'organizzazione che presiede a tale discriminazione tra ciò che è conforme al deposito della fede e ciò che lo falsa; rimane tuttavia la domanda su chi diresse e con quali criteri quella che sarà poi indicata come la dialetti ca tra l'ortodossia da una parte e l'eresia e l'eterodossia dall'altra. 2. l problemi del nuovo gruppo religioso
Il cristianesimo dovette far fronte all'inizio, e contempo raneamente, come ci risulta dal contesto dialettico delle sue fonti interne ed esterne, a una quadruplice serie di problemi. l . Il primo fu quello interno riguardante le Scritture (precisazione dei libri canonici e del testo) ; la storicità di Gesù; l'etica dei cristiani nel comune contesto del vivere di tutti; la parte organizzativa delle sue strutture.
2. La dialettica ortodossia-eresia: le fonti e l'origine del9
l'eresia e, di contrasto, la fede cristologia-trinità-pneumatologia-la ria-Ia vita cristiana.
«
sana » riguardante la dottrina sacramenta
3. Il problema giudaico, sia riguardo alle profezie riguar danti il Messia che, per i cristiani, si riferivano a Gesù di Nazareth; sia riguardo alla comunità cristiana che si ri teneva il vero erede e il vero popolo di Dio che, d'altra parte, si riannodava completamente alle Scritture del giudaismo e quindi poneva il problema del valore di tan te prescrizioni anche per i cristiani; sia infine riguardo a molte citazioni dell'Antico Testamento che i cristiani ri vendicavano per loro e che i giudei rifiutavano. 4. Il problema del rapporto col mondo pagano, aperto da Paolo all'areopago di Atene (Atti 17, 22-3 1), sul concetto e natura di Dio, sulla possibilità per l'uomo di trovarlo; e sulla risurrezione dei morti, quale punto centrale e spe ranza fondamentale della nuova dottrina religiosa. Dell'intera problematica c'interessa qui direttamente quel la interna relativa alla dialettica ortodossia-eresia con i suoi punti di riferimento (confessioni, simboli e regole di fede ; il ruolo del vescovo, in particolare di quello di Roma; il canone delle Scritture) e alle « note » ( = termi ne tecnico nella teologia per indicare le caratteristiche che individuano la comunità cristiana) dell'apostolicità, vericidità e santità, con le relative conseguenze.
La storia del problema interno del cristianesimo antico viene, in genere, distinto nel periodo prima di Costantino e dopo Costantino; quello prima di Costantino lo si divi de ancora: inizi-fine sec. II; sec. III. La prima divisione è giustificata dalla situazione civile della Chiesa, che venne riconosciuta nel 3 1 3 (editto di Costantino) dalle autorità dell'impero romano. Ciò comportò una diversa compren sione di essere cristiani nella società rispetto alla chiesa dei primi tre secoli. La suddivisione del periodo preco stantiniano: fino alla fine del sec. II e sec. III va fatta perché nei primi due secoli si ebbe il passaggio dalla Chiesa apostolica a quella subapostolica, che si affermò nei tre gruppi fondamentali predominanti: giudeo-cristiani; giudeo cristiani ellenisti; cristiani di origine pagana. Nel III secolo si ebbe: il consolidamento della Chiesa nelle sue strutture; l'affermarsi del cristianesimo asiatico ed lO
alessandrino e di quello africano nel mondo latino. Si posero allora le premesse dell'enorme sviluppo che ebbe poi il cristianesimo sul piano sociale e intellettuale, che si affermerà con le grandi eresie cristologico-trinitarie del sec. IV. La nostra esposizione, pur procedendo per tema tiche, terrà presente lo sviluppo cronologico storico del pensiero cristiano.
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chiesa-ortodossia-eresia
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. La dialettica ortodossia-eresia
Il problema del rapporto ortodossia-eresia nell'antichità cristiana è stato posto, criticamente, o almeno in modo provocatorio nei tempi moderni da W. Bauer. Egli nel 1 934 propose, in uno studio sull'argomento, la compren sione dell'eresia come un dato originario del cristianesi mo, dal cui fondo sarebbe poi emersa l'ortodossia, nel senso che tra le varie letture del cristianesimo primitivo s'impose quella qualificatasi poi come ortodossa, ma che all'origine era alla pari delle altre. Egli giunse a tali conclusioni per due inavvertenze, forse inconsce: l. ap plicò alle testimonianze cristiane antiche la categoria se mantica di eresia allora in uso nelle filosofie, che stava a significare una delle scelte possibili nella ricerca della verità; 2. pensò la dialettica ortodossia-eresia come due aspetti non solo distinguibili ma anche passibili di sepa razione reale. Nel cristianesimo antico la dialettica orto dossia-eresia fu diversa. Al dato originario di Gesù di Nazareth (detti e fatti) venne data, come lettura dotata di garanzia, l'unica possibile dei testimoni diretti, accettati come tali nella comunità. Su tale linea si attestò l'orto dossia cristiana; al di fuori di tale solco, indicato poi tecnicamente come « apostolico » e non prescindendo da esso, si attestò l'eresia che, pertanto, si può definire non in sé ma solo in rapporto all'ortodossia. Nonostante que sti limiti lo studio di W. Bauer provocò il problema sia storico che teoretico relativo al cristianesimo degli inizi e quello successivo, riguardo alle seguenti questioni: come nacque (e nasce) l'eresia nel cristianesimo; quale metro 12
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la definisce tale e, in concreto, quale norma guidò la Chiesa nascente nel suo costituirsi « ortodossa » rispetto ad altre comprensioni del cristianesimo, qualificate come « eretiche ». Oggi, alle domande suscitate da W. Bauer, se ne aggiunge un'altra di natura sociologica, vale a dire: in quale tipo di società umana si pone la questione di un'ortodossia e dell'eresia: solo in raggruppamenti religiosi o pseudo-re ligiosi, oppure nella società umana in quanto tale? La chiesa, ci si chiede, da questo punto di vista, quale tipo di società incarna? D'altra parte il cristianesimo preco stantiniano reclamò per sé, nell'ambito delle sette filo sofiche antiche, un posto alla pari (Melitone, Apolo gia, 3; Eusebio, HE IV, 26, 7-1 1), e Giustino lottò ferma mente perché l'autorità civile gli riconoscesse la sua li bertà di opinione (Apologia I e II). Nella chiesa do po-Costantino il problema della libertà di coscienza, in materia religiosa, si pose acutamente a causa della pole mica donatista, e come problema interno della Chiesa. In questo complesso problema storico-teorico possiamo dire che una società, a carattere religioso, ha sempre i suoi punti di riferimento come presupposto accettato dai componenti, che non mette in discussione, perché altri menti rinnegherebbe se stessa. D'altra parte la storia in segna che tali punti di riferimento, pur costituendo un tutt'uno, possono essere utilizzati gerarchicamente diver sificati: può prevalere ora l'uno ora l'altro a seconda del valore che s'impone. Nella comunità cristiana criteri, co me il libro ispirato, la successione apostolica, la tradizio ne nella disciplina del Maestro, l'autorità del vescovo o dei concili ecc., possono essere articolati ponendoli o me no al primo posto della scala, con la conseguenza che gli spazi « ortodossi ,, sono soggetti ad ampliarsi o a restrin gersi secondo il prevalere del punto di riferimento. La dialettica ordotossia-eresia è soggetta a tale oscillazione e la storia dei punti di riferimento coincide spesso con l'evolversi e il formarsi medesimo del pensiero cristiano. Esso ha, al suo interno, una dialettica che, nei punti più cruciali, si manifesta in quella di ortodossia-eresia, ma che costituisce la sua stessa vitalità che, per sua natura, non è mai del tutto soggetta a una cristallizzazione sia epocale che culturale, benché si esprima in tali mediazio ni. 13
Quanto all'antichità cristiana, la scuola di Harnack volle circoscrivere il problema fino al sec. III, applicando alla chiesa sub-apostolica una categoria, evidente per tale scuola, già nella chiesa del Nuovo Testamento. La chiesa nascente sarebbe stata costituita da due gruppi di fedeli: uno facente capo agli Apostoli (il gruppo istituzionale) ; e un altro facente capo non a un'autorità-istituzione bensì agli uomini spirituali guidati dallo Spirito (il gruppo ca rismatico). I due gruppi si sarebbero dissolti nel sec. III allorché i vescovi assursero a unica autorità normativa, sia giurisdizionale che magisteriale. Sino al secolo III quindi si sarebbe avuta la religione dello Spirito, col ministero dell'insegnamento guidato dai carismatici; poi il tutto sarebbe passato nelle mani dei vescovi, ritenuti essi gli uomini ispirati dallo Spirito, assommanti in sé le prerogative dell'apostolo, del profeta e del maestro. La scuola di Harnack distingue ancora tra un cristianesimo di Gesù (l'evangelium Christi) e un cristianesimo di Paolo (l'evangelium de Christo) nella cui linea si sarebbe poi sviluppato il dogma cristiano, visto come l'ellenizzazione di un cristianesimo che, all'origine, non era dogmatico. Dell'esemplificazione della storia del pensiero cristiano, fatta da Harnack, c'è rimasta la distinzione tra Evange lium Christi e Evangelium de Christo utilizzata da Bult mann nella sua nota traduzione di Urchristentum e Christentum (cristianesimo originario e cristianesimo, quello dopo Gesù). Tale distinzione, applicata metodologi camente ai testi neotestamentari, ha dato origine alle questioni del Gesù storico e del Cristo della fede. Ridi mensionate le soluzioni della scuola di Harnack ai pro blemi che al suo tempo erano sul tappeto, in particolare allo sviluppo del dogma cristiano come ellenizzazione del cristianesimo e all'influsso di Paolo nel Vangelo cristiano, rimangono tuttavia in piedi le questioni di sempre: quale norma scelse la Chiesa nascente per qualificarsi come « cristiana » e riconoscersi tale e da chi fu fatta in con creto tale scelta? Ci si chiede chi abbia guidato la dialet tica ortodossia-eresia, contribuendo alla formazione delle confessioni di fede che, già presenti nel Nuovo Testamen to, avranno poi il loro sbocco nella Chiesa sub-apostolica, nei simboli e nelle regole di fede. Ci si interroga sulla loro origine e sulla loro funzione. Pur riconoscendo alle confessioni di fede un ampio contesto, da quello liturgi14
co-kerigmatico a quello pm strettamente polemico ri guardante la dialettica ortodossia-eresia, ci si chiede quali siano stati la guida e i criteri nel formarsi di tali confes sioni (nel NT è detto che nascono dallo Spirito, cfr. V. H. Neufeld, The Earliest Christian Confessions, Michigan 1 936) e quale ruolo vi abbia giuocato soprattutto l'autori tà nello sviluppo concreto di tale dialettica. Fu essa ca rismatica o istituzionale? Lo sviluppo del pensiero cri stiano fu, in altre parole, anch'esso il risultato di un rapporto tra un'ideologia e il potere anche se in ambito strettamente religioso, oppure fu l'espressione di un nuovo modo di capirsi dell'uomo nell'ambito di un mondo diversamente rapportato a lui, in seguito alla incarnazio ne del Logos, il Figlio di Dio? 2. Confessioni di fede
·
Simbol i di fede · regole di fede
Queste tre sintesi della fede cristiana hanno in comune di rappresentarne una sintesi ortodossa nell'ambito di una professione di fede, che può essere eulogica (la lode e il ringraziamento a Dio con formule brevi e per lo più dossologiche), battesimale (la risposta alle domande bat tesimali che esprimeva una concordanza di fede col dia logante), dottrinale (nel quadro dell'insegnamento della fede, dell'apologetica e della lotta contro l'eresia) . Le confessioni di fede (l'homologhia = concordanza) sono le prime espressioni della fede della Chiesa - in esse pertanto si trova la forma più antica della tradizione cristiana - e costituiscono la culla del credo cristiano, attestatosi già sulla linea ortodossa. Si ha cioè la homo loghia cristiana, accanto ad altre homologhie di diversa estrazione. Quali siano stati i contenuti o meglio il conte nuto più antico, gli studiosi, pur convenendo sul dato cristologico, danno diverse indicazioni. La più antica sa rebbe quella riferita a Gesù, seguito dal titolo Cristo (Ge sù è il Cristo), poi dagli altri titoli di kyrios, Figlio di Dio ecc. l simboli di fede (dal verbo syn-ballo = gettare insieme cioè combaciare, concordare) , una serie di articoli di fede del numero di 14, 12 o 9, a struttura binaria o ternaria perché costruiti sulla Trinità o sul binomio Padre-Figlio, 15
rappresentano la traduzione nel linguaggio corrente del messaggio cristiano contenuto nelle Scritture. Essi espri mono perciò una sintesi di fede, avvenuta nelle comunità cristiane antiche. Si formarono man mano, di qui la va riabilità nel numero degli articoli, e assolsero alla funzio ne di essere, per i cristiani, un mezzo di riconoscimento e di appartenenza. Forse Tertulliano allude ad essi quando parla di pactio fidei conventio (De pudic. 9, 16; De anima 35, 3). Sviluppatisi soprattutto in ambito battesimale (i più antichi sembrano essere quelli del Simbolo romano e della Tradizione d'Ippolito) assursero a prevalente valore dottrinale dal sec. IV in poi. Allora ogni chiesa aveva il suo simbolo che veniva usato come base dell'intelligere della fede in ogni riunione sinodale o conciliare. All'aper tura dei lavori lo si leggeva e lo si commentava (ci è rimasto ad esempio il commento al simbolo fatto da A gostino al concilio di Ippona del 393 = De fide et symbo lo), così come avveniva nel rito battesimale. In questo facendolo imparare e recitare al candidato come pubblica professione di fede; con una breve spiegazione si inten deva affidarglielo come tessera di fede, ed esso assolveva tale funzione in ogni questione emergente nella comunità. Le regole di fede o veritatis stanno accanto ai simboli, ne riflettono molta parte ma, più che sul piano di una pro fessione di fede, sono una sintesi cristiana da contenuti più vasti che rifletteva e delimitava gli spazi entro cui ci si riconosceva cristiani nel vivere e nella ricerca dottrina le. Era norma nella fede, e norma di fede. Per tale moti vo con esse s'intendeva talvolta « la predicazione della Chiesa » ma che rifletteva sempre il messaggio degli apo stoli (Origene, In Io. comm. 5, 8). E in tal senso era « il canone ecclesiastico » (Clemente Aless. Strom. 6, 1 8 , 165) o la « regola della tradizione » (ivi, l, l , 1 5 ) . L'espressione tecnica di regula fidei o veritatis l'abbiamo in Ireneo (Adv. haer. l, l, 20; Epideixis 3) e in Tertulliano (praescr. 1 3 : l'enumerazione degli articoli), ma era già presente negli Apologisti ad es. in Aristide (Apol. l, 15, 2). La regula fidei era la norma metodologica nella ricerca cristiana (Tert. praescr. 1 2-13), nella lettura delle Scrittu re (Ireneo, Adv. haer; Ps. Atanasio, De trin. 7, 5) ; nel linguaggio da usare che non può usufruire della libertà concessa ai filosofi (Agostino, De civ. Dei 10, 23); nelle 16
tradizioni da rispettare, come la data della celebrazione della Pasqua (Eusebio, HE 5, 24, 6); nella formula trinita ria da usare nell'amministrazione del battesimo (Ps. Ata nasio, De trin. 7, 10). La regula fidei rilevava più che l'appartenenza nella fede, la sua delimitazione, aveva quindi un ruolo che lasciava emergere la eterodossia. È rimasto classico l'uso fattone da Ireneo per la confutazione del modo di intendere la fede da parte degli gnostici Valentiniani. Era facile che la regula fidei diventasse strumento nelle mani dell'istitu zione, vale a dire da medium fidei diventasse norma: della fede, della dottrina, della stessa ortodossia. Con l'e spansione cristiana dopo Costantino la regula fidei venne ad identificarsi infatti col simbolo o credo, niceno prima e poi anche costantinopolitano, e servì a instaurare l'u nità di fede in tutto l'impero, ma non più solo come espressione di fede dei molti, bensì anche come controllo della fede di tutti. Ciò avvenne non solo sul piano istitu zionale ecclesiastico ma anche civile, allorché il simbolo venne inserito nel Codice di Giustiniano. Il simbolo, in questa utilizzazione, non unisce più una comunità perché si ha tutti una medesima fede, ma assume la funzione giuridica di controllo della fede e quindi di separare co loro che non si ritrovano su tale metro. Simile funzione del simbolo, divenuta normale dopo la caduta dell'impero romano, ne costituì un uso riduttivo. All'inizio esso ave va rappresentato, nell'evoluzione del pensiero cristiano, soprattutto un regola significativa del sensus ecclesiae dell'intera comunità, più che uno strumento di controllo. Riportiamo il simbolo della fede contenuto nella Tradi zione Apostolica e la regola della fede contenuta negli scritti di Ireneo e di Tertulliano. Il simbolo della Tradizione Apostolica è praticamente il simbolo romano o degli Apostoli di cui ci parla Rufino (PL 39, 2 1 89-2 190), ha dieci articoli, sui dodici abituali, mancano quelli riguardanti la remissione dei peccati e la vita eterna, che dovettero essere aggiunti non molto più tardi: « Credo in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo, figlio di Dio che è nato da11o Spirito Santo da Maria Vergine. e crocifisso sotto Ponzio Pilato e morto e sepolto, 17
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e risorse vivo dai morti il terzo giorno, e ascese al cielo, e siede alla destra del Padre verrà a giudicare i vivi e i morti. E nello Spirito Santo e la santa Chiesa, e la risurrezione della carne ». (n. 2 1 : ed. Botte, Miinster 1963, pp. 48-50). La regola della fede, dall'Epideixis di Ireneo, c. 3: ,, Noi dobbiamo mantenere inalterata la regola della fe de ... Innanzitutto la fede ci invita con insistenza a ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per la remissione dei peccati nel nome di Dio Padre e nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, morto e risuscitato, e nello Spirito Santo di Dio ». La
regola della fede, dal De praescriptione di Tertulliano, c. 13-14: « credere che non c'è che un solo Dio; non c'è altro Dio che il creatore del mondo. Egli ha tratto tutte le cose dal nulla per la mediazione del suo Verbo emesso prima di tutte le cose. Questo Verbo è chiamato suo Figlio. In nome di Dio, egli si fece vedere sotto diverse forme dai patriarchi, sentire dai pro feti, e infine discese, ad opera dello Spirito e della Poten za di Dio Padre, nella Vergine Maria, si fece carne nel suo seno e, nascendo da lei, visse come Gesù Cristo. Predicò allora una nuova legge e la nuova promessa del regno dei cieli. Compì dei miracoli, fu crocifisso e risusci tò il terzo giorno. Elevato ai cieli, sedette alla destra del Padre. Mandò al suo posto la potenza dello Spirito Santo, per guidare i fedeli. Ritornerà nella gloria per prendere i santi e farli godere della vita eterna e delle promesse celesti, nonché per condannare i colpevoli nel fuoco eter no, quando sarà avvenuta la resurrezione degli uni e degli altri, con la restaurazione della loro carne. Questa regola, come dimostreremo, fu insegnata da Cri sto. Essa non sollevò tra noi nessuna discussione, se non quelle introdotte dalle eresie e fatte dagli eretici ». •.•
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3. Il vescovo. Il vescovo di Roma
Per la comprensione del ruolo assunto dai vescovi, non solo nel dirigere le comunità ma anche nell'incidere sullo sviluppo del pensiero cristiano dal sec. III in poi, oltre alla loro successione in chiese di derivazione apostolica, va tenuta presente la collocazione dei cristiani in un am biente sociale dove il capo aveva un'enorme importanza. Se effettivamente, come ha ben rilevato Harnack (nel suo Missione e diffusione del cristianesimo) fino al sec. I I abbiamo come capi morali della comunità cristiana prima i dottori (didaskaloi) e i profeti e poi, accanto ad essi, i presbiteri-episcopoi-diaconi; dal sec. III in poi il regolato re della disciplina e della fede della comunità è il vesco vo. I cristiani vennero a trovarsi in un constesto sociale il cui punto di riferimento principale era la polis. Il citta dino aveva la sua rilevanza non in quanto individuo ma perché facente parte della polis, cui convergeva l'ideale della paideia e della filosofia. Chi nella polis contava non era perciò il singolo, quanto colui che lo rappresentava cioè il capo, punto di coesione di tutti i cittadini. I cristiani, facendo leva sul destino del singolo, contesta rono la concezione della polis e la sua paideia, sia a livello locale sia a livello della polis cosmica di estrazione stoica. Anzi rifiutandosi di appartenere a qualsiasi città, si ritennero in esse degli itineranti verso un'altra città. Precisarono tuttavia che agendo così non intendevano de responsabilizzarsi dai comuni doveri cittadini (Giustino, Apol. I, 14; Origene, C. Celso 7, 55; Tertulliano, Apol. 42, 3), né si consideravano diversi dagli altri (A Diogne to, 5-6), solo non si sentivano legati, per il loro desti no individuale al capo della polis e quindi alle poleis nelle quali vivevano. Tertulliano consigliava all'imperatore di accontentarsi di essere « chiamato imperatore e nulla più>> (Apol. 33, 2) cioè come uno che sta a capo, ma che non ha nulla a che fare col destino dei singoli cittadini. I cristiani tuttavia, come ci riferisce Origene, affermavano di costruire la città nelle loro chiese ( C. Celso), vale a dire che vivevano secondo la disciplina del Maestro, che aveva le sue leggi (in Giustino, Apol. I 14- 1 8 il discorso della montagna è redatto in forma di leggi) , quelle del pro prio capo. In tale contesto in ambiente romano capirono la preghiera del Padre nostro sul p iano legislativo dell'o19
ratio principis (il discorso inaugurale di un nuovo imperatore che aveva, nella legislazione romana, valore di legge: cfr. il De oratione di Tertulliano e il De oratione dominica di Cipriano). La « disciplina >> cristiana assunse il significato corrispon dente di paideia (con paideia viene indicato lo stesso cristianesimo: in Clemente Romano, Lettera ai Corinzi 66, 16; 2 1 , 8; Taziano, Discorso ai greci 1 8; Atenagora, A pol. 7). La paideia cristiana è la disciplina del Maestro, vissuta nella comunità dei credenti. I loro capi si indivi duano sempre più in uno, il vescovo ( = colui che vigila dall'alto) al quale si è legati nella, e, per la salvezza, nella fede e nella disciplina. Anche nella civitas cristiana vi è un capo, considerato il doctor e il garante del trovarsi nell'ambito dei cittadini che si raccolgono attorno a Cri sto. Tale capo venne individuato sempre più, nella ne cessità di garantire il vero cristianesimo, in colui che si riannodava agli Apostoli; ma egli ormai acquistava an che, nell'ambito della civitas religiosa, i connotati del capo della polis civile. Il proestos (colui che preside) dell'as semblea eucaristica di Giustino (Apol. I, 67) , al quale fa riferimento ogni attività caritativa della comunità, in I gnazio antiocheno è l'episcopos che ha il primo posto nella costituzione medesima della comunità cristiana, tan to che senza di lui non si ha la celebrazione eucaristica (Trall. 3, 1 ) . In Ireneo egli è indicato come colui che succede all'Apostolo nelle varie chiese (Adv. haer. III, 3, l PG 7, 848). In Tertulliano (De praescriptione) la succes sione apostolica del vescovo ha, come in Ireneo, un valo re di successione teologica; in Cipriano il vescovo riceve infine la sua teorizzazione teologica. L'unità di un solo Dio e di un solo Cristo ha la sua immagine nella Chiesa (Ad Rom., inscr.) e Ireneo di una sua potentior principalitas perché fondata dagli apostoli Pietro e Paolo (Adv. Haer. III, 3, 2). Allo stesso modo si esprime Tert. nel De praescriptione (32) ; poi, da montanista, egli negò la successione del pri mato di Pietro (pudìc 21, è la prima testimonianza antica in tal senso). Cipriano parla della cathedra Petri (ep. 59, 14) e della chiesa di Roma come il locus Petri (ep. 55, 8). Sulla comprensione della preminenza della chiesa di Roma e quindi del suo vescovo rispetto agli altri ve scovi, la prospettiva di Cipriano è che la Chiesa, essendo « cattolica >> cioè una nella fede in Dio e nel Cristo, ha i suoi punti nodali di riferimento perché la sua unità venga continuamente salvaguardata e promossa. Scrive Cipriano: (2) Del c. 4 del De ecclesiae unitate di Cipriano si hanno due re Primatus Textus che lo Hartel non dazioni: una longior (PT accolse nella sua edizione critica: CSEL 3/1, 212, Vienna 1 868) ; una brevior ritenuta autentica nella quale non si insiste sul primato di Pietro. Attualmente si ritiene che ambedue le redazioni, nate dalla diversità dei destinatari, siano originarie dello stesso Cipriano (A. Demoustier, in RechScRelig 52, 1964, 337-369) . =
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« La Chiesa universale è una, non è scissa in parti, essa forma un tutt'uno di cui l'unione dei vescovi è il legame » (ep. 66, 8) e « (La chiesa di Roma) è la matrice e la radice della chiesa cattolica » (ep. 48, 3); « (essa) è la cattedra di Pietro e la Chiesa principale da cui è nata l'unità episco pale » ( ep. 59, 1 4 ). Agostino, sulla scìa di Cipriano, scrive rà: « (Pietro) ricevette uno per tutti (il potere di scioglie re e di legare) perché in tutti vige l'unità » (In Io. ev. 1 1 9, 4; ep. 93, 9, 29); (egli personificava) « l'universalità e l'unità della Chiesa » (serm. 295, 2). Questo profondo le game tra Pietro, il vescovo di Roma, e gli altri vescovi, va capito anche nell'ambito dei rapporti allora esistenti tra chiesa evangelizzante e chiese evangelizzate. La chiesa e vangelizzante costituiva il punto di riferimento dottrina le-liturgico e disciplinare delle nuove comunità. Una tale impostazione contribuì a creare un'omogeneità dottrinale e liturgica in vaste aree, per lo più tra loro culturalmente similari. Nacquero così quelle tradizioni cristiane sfociate nelle grandi famiglie liturgiche, che facevano capo alle principali metropoli dell'antichità (Antiochia, Costantino poli, Alessandria, Cartagine, Roma, Aquileia, Milano, Ra venna, Lione ecc.). I testi di Cipriano e di Agostino, riferentisi a Roma, sono da capirsi nell'ambito di Roma, ecclesia principalis della chiesa africana come dell'Occidente latino che, natural mente, non prescindeva da altri elementi sia locali che di provenienza orientale (in particolare per la chiesa di Mi lano e di Lione). Al tempo di Cipriano si ebbe nei rappor ti tra l'Africa cristiana e Roma la questione dei ribattez zandi: si ribattezzavano coloro che venivano dallo scisma o dall'eresia (cfr. nell'epistolario di Cipriano; epp. 69, l ; 73; 7 0 e 7 1 ; 7 4 . 4-6). Gli africani, con a capo Cipriano, erano favorevoli a ribattezzarli (3) ; a Roma non vi era (3) La documentazione sulla questione si ha nell'epistolario di Ci priano. Nel 255 Magno chiese a Cipriano: Se tra gli eretici, quelli che vengono da Novaziano, dopo aver ricevuto il suo ( di Novaziano) lavacro profano, devono essere battezzati e santificati nella Chiesa cattolica col legittimo e vero e unico battesimo della Chiesa, (ep. 69, 1). Cipriano nel De unitate, 11 aveva già espresso il suo giudizio negativo sul battesimo degli eretici. La prassi di ribattezzare gli eretici convertiti, Cipriano la aveva ereditata dal suo predecessore Agrippina ( Presso di noi, Cipriano, non è cosa nuova o improvvisata l'uso di battezzare coloro che ven gono dall'eresia alla Chiesa. Già da molti anni ed è trascorso tanto «
>. Questa connotava, anticamente, l 'unità della Chiesa sul piano locale e universale nella sua fede in Dio e in Cristo. La chiesa perciò, essendo una, è universale (cattolica) anche nella molteplicità delle comunità. Questa questione fu preminente nella questione donatista ( anni 3 1 1-411) sviluppatasi nell'Africa cristiana dopo Costantino ( P . M . Berlek, D e vocis catholica > > origine et notione, Antonianum 38 ( 1963) 253-287) . «
> della apostolicità tutta via, se in sé confinava con l'idea di tradizione dell'intero messaggio cristiano, in effetti veniva utilizzata come cri sterio esterno (storico) che segnava i limiti entro cui si poteva essere cristiani. Per tale motivo la Chiesa, riguar do ai contenuti di verità del suo messaggio, soprattutto quello soteriologico, li giustificò con l'autocomprensione che ebbe di sé, come ( Sulla Pasqua 43, 300-302 : Perler, p. 82). Nel ragionamento di Melitone e delle testimonianze in genere del cristianesimo dell'Asia Minore si applicò alla Chiesa la funzione unitiva e divisoria della croce di Cri sto, tanto sviluppata nelle omelie pasquali del tempo. La Chiesa, nella linea della comprensione della croce, albero della vita (sul paradigma dell'albero della vita piantato nel paradiso terrestre, Genesi 2) e anima mundi (la cate goria platonico-stoica del principio vitale cosmologico e antropologico), viene ad assommare in sé tale duplice funzione: a lei spetta unire e dividere gli uomini dal punto di vista religioso. La croce di Cristo infatti è quello albero della vita di cui parlano le Scritture e l'anima mundi dei filosofi, piantato ormai nel mondo e propria mente nella Chiesa. Si sviluppò in tale visione lo stretto rapporto tra Cristo e la Chiesa per cui, secondo Ireneo, Gesù Cristo se non è quello del praeconium Ecclesiae non è più il Gesù Cristo da adorare, ma un uomo nella linea degli antichi filo sofi (Adv. haer. l , 22, 1). La Chiesa, intesa come « ri cettacolo della verità », nel contesto della comprensio ne della croce, si comprese come la sola portatrice del la Vita (Gesù Cristo) rispetto ai giudei, agli scìsmatici e agli eretici. L'altra categoria della croce, anima mundi (categoria della concezione cosmologica del platonismo e dello stoicismo che, nell'alessandrinismo prima e nel cri stianesimo poi, divenne modulo espressivo dell'antropolo gia nei termini del logos e del pneuma) sviluppava la funzione connettiva della croce da cui dipende la stabilità del mondo stesso. Scrive un autore del II secolo: « Que st'albero dalle dimensioni celesti (è) ... fondamento di tut te le cose, sostegno dell'universo, supporto del mondo intero, vincolo cosmico ... L'universo intero era sul punto 32
di ricadere nel caos e di dissolversi ... ma, al risalire dello spirito divino, come rianimato, vivificato e consolidato, l 'universo ritrovò la sua stabilità » (Sulla Pasqua 5 1 , 9-10 e 55, 3 : ed. Nautin SChr 27, 179 e 183). Nell'ambito semantico del verbo sterizo (consolidare, es sere di sostegno), si sviluppò nell'applicazione alla Chiesa delle funzioni della croce, quel concetto , connotava all'ini zio la comunità cristiana apostolica, come luogo storico dell'adempiersi delle promesse di Dio per l'umanità ed evidenziava il binomio Cristo-Chiesa, la Chiesa, >, creava un altro binomio di comprensione della sua funzione, quello di Chiesa-Spirito che indicava la comunità cristiana come unica garante di verità, per ché ciò che nasce in lei è frutto dello Spirito di Gesù Cristo. L'elemento > diede alla comprensione di Chiesa una visione più larga di quella legata alla for mula >, che si era andata li mitando, nel significato, a contenuti di verità e suo de positum, intesi sul piano logico-dottrinale e non più sul piano storico del compiersi in essa della redenzione uma na. Lo Spirito pone nell'uomo il suo sigillo; nell'unzione bat tesimale lo rende e della polemica donatista. -
3. La santità della Chiesa·
Donatismo-Svolta costantiniana
L'apostolicità legava la Chiesa alle sue ongm1 per cui essa, come rilevava Clemente Alessandrino, era una, catto lica, antica e non vi era possibilità di misurarsi con lei da parte di gruppi scismatici ed eretici (Strom. l, 16-17). In tale contesto lo gnostico ortodosso, nella linea dei vesco vi, custodi della traditio ecclesiastica e aventi potere di giudicare le dottrine eretiche (Origene, In Num. hom. 9 , 1), svolgeva il ruolo di custode delle dottrine ortodosse degli apostoli e delle chiese (Cl. Aless. Strom. 7, 16, 1 04) . Il legame della Chiesa allo Spirito portò invece, oltre che alla comprensione della veridicità della Chiesa, alla con cezione di una Chiesa « santa >> . Questa non viene com presa come luogo ma come « assemblea di eletti >> (Strom. 35
7, 5, 29), un coetus sanctorum che vive nella giustizia (lp polito, In Dan. l, 14 e 1 7) . In tale linea la chiesa temporale è intesa come « sposa di Cristo » (Il commento di Ippolito al Cantico dei Cantici), come immagine della Chiesa celeste (Cl. Aless. Strom. 4, 8, 66; Tert. De bapti smo 15), quale immagine della stessa Trinità (Tert. De pudic. 2 1 ) . Si entra nella Chiesa col battesimo, porta di accesso alla comunione dei santi, dei giusti e sigillo dello Spirito. Coloro che la compongono sono pertanto gli uo mini nati dallo Spirito cioè gli uomini spirituali. Scriveva Tertulliano in polemica con i vescovi : « La Chiesa, propria mente e principalmente, è lo stesso Spirito nel quale è la Trinità di una divinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito santo. (È Lui che) raduna quella Chiesa che il Signore pose nei Tre e, da allora, anche l'intero numero di coloro che sono stretti da una stessa fede. Sono essi che sono considerati la Chiesa dal suo autore e consacratore. Quindi la Chiesa perdonerà i peccati, ma la Chiesa-Spirito per mezzo dell'uomo spirituale, non la Chiesa-numero dei vescovi » (De pudic. 2 1 ) . Se con Tertulliano si pose il p roblema « Spirito » nel suo legame con i vescovi e gli uomini spirituali ( = i profeti di Montano per Tertullia no); con la questione dei lapsi sorta durante la persecu zione di Decio (249-251) si estese tale problematica a una comprensione generale di Chiesa. Accanto alla situazione di cristiani che avevano confes sato Cristo (sottoponendosi al carcere, a pene pecuniarie, alla perdita del posto di lavoro e anche della vita) si ebbe, nella grande maggioranza, una defezione in massa dal confessare pubblicamente la fede cristiana. Mentre i pri mi si qualificarono come martiri ( = testimoni), gli altri vennero indicati come lapsi ( = coloro che erano caduti). Questi ultimi vennero classificati in: libellatici (da libel lum = attestato) cioè coloro che avevano ottenuto un cer tificato di aver offerto incenso agli dèi; turificati, coloro che avevano offerto un granello d'incenso richiesto dalle autorità; e traditores ( da tradere = consegnare), coloro che avevano consegnato i libri sacri alle autorità civili. Tra i due gruppi, una volta passata la persecuzione, venne a crearsi la difficoltà di convivenza. Nomi molto noti, co me Novaziano e Ippolito, insistevano per la separazione dei due gruppi; altri, in particolare Cipriano, si adopera rono perché la comunità cristiana superasse tale frattura 36
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che rischiava di snaturare la Chiesa come comunità aper ta alla redenzione degli uomini, anche dopo il battesimo. Le istanze di Novaziano e Ippolito vennero raccolte in Africa dai Donatisti (7) . Questi, coagulando proteste di va ria natura esistenti allora nell'Africa del nord (naziona Iismi, tensioni sociali ed ecclesiastiche nelle città come nelle campagne), radicalizzarono la scissione ponendosi essi nella continuazione della Chiesa dei martiri, e cono cando gli altri cristiani, vale a dire la Chiesa >, quando ormai già esisteva l'alleanza tra i cristiani e l'impero. La Chiesa, nella sua visione, non si pone come una società alternati va alla società, un luogo di rifugio, un'arca di Noè, una casa dove possono abitarvi solo alcuni (i santi della con-
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cezione donatista di Chiesa); essa può abbracciare l'inte ra società umana perché ne è all'interno. La società è il campo della Chiesa quanto a forza e compito di unificar la, data la scissione inerente all'umanità che nasce tutta da Adamo. La « cattolica » è un microcosmo della ristabi lita unità della razza umana, anche se essa porta in sé, come l'intera società umana, la contraddittorietà di due città (quella che perisce fondata sull'interesse privato, l'amor sui, la città terrena; quella fondata sull amor Dei che si costituisce come unica e definitiva città, la Città di Dio). In questa nuova prospettiva delle due città, sia le istituzioni civili che quelle ecclesiastiche vengono segnate dal limite della loro mediazione, dalla relatività del loro apporto al raggiungimento del destino di ogni singolo. Viene valorizzato l'individuo che, solo, è dominus, e che con la scelta del suo amore, costruisce se stesso come cittadino della civitas che perisce (la civitas terrena) o di quella eterna (la civitas Dei) ( 1 1 ) '
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( 1 1) Sulla svolta costantiniana e la Chiesa, vedi L. De Giovanni, Cf!stantino e il mondo pagano, Napoli 1977 ; V. Grossi, Regno di Dw e città terrena: da Costantino alla Riforma, in Regno di Dio . , terrena, Torino 1979, 79-125. e Cltta
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gl i IniZI della riflessione teologica
Il secolo III significò, per la cristianità, il prendere le misure col mondo della cultura a livello di riflessione. Il cristianesimo, che sin dall'inizio aveva portato nel suo ambito molta gente del mondo medio del lavoro, anche i simplices e gli idiotai, a partire del secondo secolo si presenta sempre più come una « filosofia », come un mo do cioè di intendere la vita, capace di dare proprie solu zioni ai problemi del cosmo, dell'uomo, di Dio. A diffe renza di altre religioni che, limitate a pratiche iniziatiche e al senso religioso, non avevano per lo più una teologia, il cristianesimo riflette sulla sua religione, sul suo stesso modo di « essere religiosi », dando origine alla teologia cristiana. I libri di testo di tale teologia furono la Bibbia dei 70 per l'Antico Testamento e il canone del Nuovo Testamento, letti per i problemi riguardanti l'origine del tutto, la libertà dell'uomo e il suo destino. Di fronte a tale fenomeno gli uomini della cultura iniziano ad avvici nare il cristianesimo, a prenderlo in seria considerazione e a darne, naturalmente, una loro lettura. Mentre si con vertono al nuovo credo filosofi come Giustino, alcuni cri stiani, ad es. Melitone di Sardi, propongono e presentano al mondo culturale greco-romano la loro religione come « filosofia » (in Eusebio, HE V, 26, 4-1 1 ) . Dappertutto na scono, sulla falsariga delle scuole filosofiche pagane, scuo le cristiane che mediano il messaggio cristiano nelle cate gorie epistemologiche ellenistiche. Giustino e Taziano fondano, come maestri itineranti, scuole cristiane nelle grandi città; Rodone e i due Teodoto hanno scuole a Roma con dimora fissa (Eusebio, HE V, 1 3 e 18). Prassea, oltre che a Roma e in Asia, fonda una scuola anche a 44
Cartagine (Tertulliano, Adv. Prax) . Tali scuole, che si mi suravano con quelle dei filosofi pagani del tempo, mentre creavano un linguaggio culturale cristiano adeguato ai tempi, davano tuttavia l'immagine di scuole che, in qual che modo, erano sette a sé, non aventi il taglio della Grande Chiesa. I doctores di tali scuole trovavano difficoltà nell'essere capiti dall'intera comunità cristiana, anche se nei discepoli vi era molto entusiasmo per i maestri, e molti venivano guadagnati a tali scuole, soprat tutto i meno preparati intellettualmente. Nei pagani si ingenerava l'impressione che si trattasse di scuole filo sofiche come le loro, mentre i cristiani, diffusisi ormai un po' dappertutto nell'ecumene antica, avevano sempre più coscienza di essere la vera religione dell'umanità tutta ( giudei, greci e barbari), essi cioè erano religiosamente « cattolici » (universali). In seguito a tale situazione in cominciò a diffondersi nel sec. III una vera p sicosi di diffidenza nei riguardi di quei doctores che, tramite la cultura greca, volevano dare una propria lettura del cri stianesimo. « Sembrò quasi, come scrive Harnack (Mis sione e diffusione del cristianesimo, Milano 1945, p. 288), che la salvezza della Chiesa dipendesse dal conservarsi immune da ogni contatto con la cortigiana del demonio, la filosofia ». In realtà, il fatto nuovo che era avvenuto, era l'uscita del cristianesimo dall'orizzonte culturale vetero-testamentario. La comunità cristiana nel rivendicare a sé, come reli gione, l'appellativo di « cattolica » operò, sul piano del pensiero, la rottura con l'universo giudaico. Il suo de positum fidei veniva ormai a essere mediato da altre categorie, quelle ellenistiche, in relazione alla sua conce zione di Dio col conseguente nuovo rapporto con il cosmo e con l'uomo; di Gesù Cristo Dio-uomo; della storia. L'incontro tra cristianesimo e cultura ellenistica, che po teva considerarsi come un riconoscimento ufficiale del messaggio cristiano da parte del mondo della cultura, provocò tra i cristiani una crisi profonda. Il trapasso culturale, dall'universo giudaico a quello ellenistico, fu talmente violento che suscitò in molti l'impressione, a dire di Tertulliano, che non si riusciva più a distinguere la porta vera dove entrare per diventare cristiani (praescr. S-7). La lettura della « filosofia cristiana », da parte degli intellettuali, fece nascere il problema dello 45
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gnosticismo ortodosso tra le file cristiane, una conoscenza cioè della loro fede mediata in categorie culturali greche. Il fascino del pensiero greco portò Marcione a rigettare l'Antico Testamento e tutte quelle parti del Nuovo Te stamento che, secondo lui, sapevano di giudaismo. Si vo leva essere cristiani > (Serm. 228, 8). Dal vissuto si passava solo in un secondo momento alla sua comprensione e riflessione. Mentre in Africa il segre to riguardava solo l'eucaristia, in altre chiese, per esem pio a Gerusalemme, esso avvolgeva tutti e tre i sacramen ti dell'iniziazione (battesimo, confermazione ed eucaristia) e anche il simbolo e il Padre nostro, e la loro spiegazione era riservata sia al periodo in cui si svolgevano i riti sia al periodo postbattesimale. Si ammonivano i battezzandi a conservare in seguito il segreto. Per questo la normale predicazione dei vescovi in chiesa non affrontava la tema tica sacramentale se non in linguaggio velato, che solo i battezzati potevano capire.
4. Fase cruciale: i riti battesimali Ricerche recenti hanno messo in luce l'ampiezza dello spettro dei riti battesimali nella chiesa più antica, non solo in aspetti marginali ma anche fondamentali. Non esisteva ancora il monolitismo liturgico che si è andato creando dal IV secolo in poi sotto l'impulso di influssi reciproci. Emergono sempre più differenze rituali e anche interpretative di tali riti, soprattutto tra le chiese siro-pa lestinesi e le altre; sono differenze che risalgono a diverse tradizioni liturgiche primitive, originali, della chiesa apo stolica. Si postulava un'uniformità liturgica primitiva perché le conoscenze del IV secolo venivano proiettate al II, offrendo così una ricostruzione distorta dei fatti. In vece la liturgia non è partita da un rito semplice e sostanzialmente uniforme nelle varie chiese, ma da una diversità di riti, propri delle varie comunità in cui il cristianesimo si articolava diffondendosi nei primi decen ni. Proprio perché non esisteva un rituale, un testo nor mativa, si è creato immediatamente un ventaglio di riti in cui si esprimeva la vita liturgica della chiesa. Pertanto l'uniformità non va ricercata agli inizi del processo di sviluppo ma soltanto alla fine. 8?Prattutto, per la convinzione che era necessaria prima una espe nenza per comprendere alcune verità, che sono più accessibili solo a chi sta crescendo o è cresciuto nella fede.
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Il battesimo ( = immersione, abluzione) cristiano risale a Cristo nel senso che esso si amministra per suo man dato ed è distinto da altri tipi di battesimo, in uso presso gli ebrei, e perché, indipendentemente da chi battezza, si considera che è sempre Cristo che battezza: « Egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco » (Matteo 3, 1 1 ). Il battesimo è definito da Paolo: > (Tradiz.ione apost. 21) . «
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Da diversi testi neotestamentari risulta anche l'esistenza del gesto dell'imposizione delle mani (Atti 19, 5 s; 8, 14-17), legato alla discesa dello Spirito santo sul neofita. Non abbiamo testimonianze sicure di altri riti, come rinuncia a satana, esorcismi oppure unzioni con olio, e neppure circa i tempi e i luoghi, i ministri. Le unzioni sono certe per la fine del II secolo, quando ormai guidare la liturgia era prerogativa del vescovo: « senza il vescovo non è lecito né battezzare né celebrare l'agape », scrive Ignazio agli Smirnesi all'inizio del secolo (8, 2). La testimonianza più notevole e precisa sul rito battesimale all'inizio del III secolo ci è offerta dalla Tradizione apostolica di Ippo lito, che si rifà a tradizioni precedenti e rispecchia una comunità urbana, forse romana, a differenza dell'arcaica Didachè. Altri documenti ricchi di informazioni sono, principalmente, il De baptismo di Tertulliano, gli Atti di Tommaso, un apocrifo siriaco, la Didascalia siriaca. Sulla base di questi testi possiamo ricostruire approssima tivamente il rito battesimale, che normalmente doveva svolgersi nella notte di Pasqua; il suo ministro era il vescovo. Avevano luogo varie unzioni diverse per numero secondo le fonti e con spiegazioni diverse; almeno una di esse era collegata con il conferimento dello Spirito. Dopo la benedizione dell'acqua, avveniva da parte del battez zando la rinuncia a satana, a indicare il rifiuto degli dèi pagani, e si svolgevano gli esorcismi per esprimere che Cristo ha il dominio su tutte le cose. La rinuncia a sata· na, gli esorcismi e la confessione di fede, dato il diverso contesto religioso, non erano praticate nelle antiche chie se siro-palestinesi. Il battesimo, nel rito normale, comportava una triplice immersione: ciascuna a ogni risposta del candidato al ministro che poneva domande sulla fede trinitaria. Così la Tradizione apostolica descrive il rito centrale: > (In Joan. Ev. Tract. VI, 7). La ricerca attuale ha raggiunto anche un punto fermo sul battesimo dei bambini. Pur non essendoci testi in propo sito negli scritti neotestamentari, si ritiene certo che sia esistito sin dal periodo apostolico. Abbiamo comunque testimonianze esplicite solo per i secoli seguenti. Non esisteva però un rito speciale per i bambini - creato solo recentemente, dopo il Concilio Vaticano II - ma si osservava quello degli adulti con opportuni adattamenti. Sappiamo della presenza del padrino in ogni tipo di rito battesimale, la cui funzione era di essere garante della vita e della condotta del candidato al momento dell'am missione tra i catecumeni, seguirlo e aiutarlo durante il periodo di preparazione e alla fine testimoniare sulla sua dignità di ricevere il battesimo: pertanto riguardava il periodo preparatorio e non il successivo. Per i bambini la funzione di padrino era svolta dai genitori e per gli schiavi dai loro padroni. ( 1 3) Tutti erano convinti che il battesimo non poteva ripetersi ; tuttavia Cipriano ribattezzava gli eretici convertiti, perché era convinto che essi non avevano ricevuto il vero battesimo, che pu ò essere amministrato solo nella vera Chiesa, perché solo questa ha e può dare lo Spirito santo. Intorno agli anni 256/257 sors e un'accanita discussione al riguardo tra Cipriano di Cartagine e il papa Stefano. Ben presto però la prassi africana, diffusa anche in qualche altra regione, scomparve.
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5. Battesimo-confermazione-eucaristia
Questi tre sacramenti, nell'antichità cristiana, erano stret tamente legati tra loro, poiché immediatamente dopo i riti battesimali si accedeva all 'eucaristia e solo allora. La liturgia battesimale normalmente si chiudeva con la ce lebrazione eucaristica, eccetto il caso del battesimo dei clinici, quelli che erano battezzati per necessità di grave malattia, o dei bambini piccoli, ai quali la comunione era differita. Secondo la prassi comune il battesimo non po teva ripetersi; e a chi peccava gravemente si concedeva la possibilità della penitenza. L'eucaristia invece era fre quentemente ripetuta nella vita della comunità. Battesimo (perdono dei peccati e rinascita spirituale) e confermazione (dono dello Spirito santo) erano stretta mente uniti sia nella riflessione teologica che nella predi cazione catechetica ed erano conferiti dallo stesso mini stro, il vescovo locale, durante la medesima liturgia, per cui è difficile determinare i gesti specifici che si riferisco no alla confermazione. Quando il cristianesimo si diffuse anche nelle campagne e cessò di essere un fatto esclusivamente urbano, si crea rono parrocchie rurali lontane dal centro cittadino, dove risiedeva il vescovo. Per motivi pratici e disciplinari, in Occidente il battesimo in queste parrocchie poteva essere amministrato da preti mentre la confermazione era riser vata al vescovo; in Oriente invece dallo stesso battezzante ma con l'olio (il myron) benedetto dal vescovo. Siamo però in periodo in cui i riti son ormai ben significativi e si ha piena coscienza della distinzione dei due sacramenti. Non altrettanto si può dire per i primi secoli. La ricerca storica recente, iniziata in Inghilterra dopo l'ultima guerra e poi diffusasi sul continente, ha portato notevoli chiariamenti sulla confermazione, anche se non definitivi e completi, che vengono qui sintetizzati (14). Nel Nuovo Testamento si dà importanza all'effusione del lo Spirito santo sul nuovo convertito. Nel caso del centu· rione Cornelio essa avviene prima del battesimo (Atti 10, 44-48; 1 1 , 15-17), ma è un caso eccezionale; in genere (14) .Cfr. A. Caprioli, Saggio bibliografico sulla confermazione nel le rzce rche storico-teologiche dal 1946 al 1973: Scuola cattolica 103 ( 1975) 645-659 . 73
l'effusione dello Spirito si ha dopo il battesimo e per imposizione delle mani degli apostoli, ed è gesto necessa rio per completare il battesimo stesso. « Essi (Pietro e Giovanni) discesero e pregarono per loro perché riceves sero lo Spirito santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano le mani e quelli ricevevano lo Spirito » (Atti 8, 15-17; cfr. anche 1 9, 1-6). Infatti per essere a pieno titolo membri della nuova comunità erano necessarie sia l'immersione (ablu zione) nell'acqua, sia l'imposizione delle mani. Ben presto vediamo che il rito formava una unità, senza intervalli, pur distinguendosi le varie parti, e tutto era ricoperto sotto l'unico nome di battesimo. Ne erano sinonimi: ba gno battesimale, abluzione, rinascita o nuova nascita, il luminazione, sphragis (sigillo). Gli autori antichi sono unanimi nell'affermare che nel battesimo si ottiene il dono dello Spirito santo: « non può esserci battesimo senza lo Spirito » (Cipriano, epist. 70, 1 ) . Tuttavia precisare quale sia il rito specifico è e stremamente difficile, perché i riti si sono evoluti, arric chiti e differenziati, anche radicalmente, nelle varie regio ni. Lo stesso Cipriano in un 'altra lettera scrive : > (o. c. cap. 10). I riti e le preghiere della Tradizione apostolica hanno avuto enorme influsso sui documenti canonici-liturgici dei secoli seguenti. La preghiera dell'ordinazione del vescovo è stata ripresa recentemente sia dalla liturgia cattolica che dalla chiesa episcopale americana. Si discute sull'origine di questi riti e sul loro retroterra giudaico o pagano. Comunemente si pensa, al seguito di Lohse ( 4 ), che l'ordinazione cristiana sia stata strutturata sul modello dell'ordinazione giudaica (la semikhah), pur ricevendo un significato nuovo nella chiesa primitiva. Ma tale opinio communis è stata contestata dal rabbino ame ricano, L. Hoffman (5), secondo il quale non è stata an cora provata la dipendenza dell'ordinazione cristiana da quella rabbinica: infatti nessun testo tannaitico palesti nese, cioè prima del 200 d.C., prova che nell'ordinazione giudaica vi fosse una imposizione delle mani, ma sembra che il rabbino agiva nelle su funzioni solo per mezzo della parola. I rabbini erano istituiti come dottori e giu risti, ma senza funzioni di presidenza nella comunità. Del resto Cristo ha istituito gli apostoli in forza della sola parola, mentre questi hanno istituito i sette con l'imposi zione delle mani e la preghiera (Atti 6, 6); altrettanto avviene con Paolo e Barnaba ad Antiochia (Atti 13, 3); ma non sappiamo molto sull'importanza di questi gesti al fine del conferimento di un mandato. Il rito si precisa solo con le lettere pastorali (l Timoteo 4, 14; 2 Timoteo l , 6 e passim). La persona così investita di autorità riceve (4) E. Lohse, Die Ordination in Spiitjudentum und im Neuen Te
stam ent, Berlino 1951. (5) L. A. Hoffman, L'ordination juive à la veille du christianisme: La Maison-Dieu 138 (1979) 7-49.
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un carisma, cioè un potere per esercitare fruttuosamente la sua funzione : gli viene conferito simbolicamente un mandato, durante un'assemblea liturgica, per il ministero della parola e della guida della comunità da parte di persone che già tale mandato esercitavano. L'imposizione delle mani, che abbiamo visto così frequen te nell'antichità, è un gesto cultuale (liturgico) dai diversi significati, ed è di volta in volta specificata sia dal conte nuto della preghiera alla quale è unita e sia dal motivo per cui viene compiuta; un conferimento di ordini, batte simo, benedizioni ... Certamente non ha un significato ma gico, come si ricava dalle preghiere che I'accompa!Snano. Infatti la creazione di un ministro comporta due elementi essenziali: imposizione delle mani e preghiera. Pertanto non è un semplice rito di installazione, come quando uno prende possesso di un ufficio, per esempio un console designato a Roma, e non coincide neppure con la desi gnazione del clero fatta dalla comunità locale. Il genere letterario delle preghiere di ordinazione è l'epfclesi, invo cazione rivolta a Dio perché invii lo Spirito santo sulla persona da ordinare, perché questa, fortificata dal dono dello Spirito, possa adempiere le sue funzioni. In tal mo do il vescovo e il presbitero ricevono il ministero (servi zio) dei sacramenti, della parola e più in generale di essere pastori della comunità: secondo l'espressione di Agostino, il sacerdote è il minister verbi et sacramenti (Epist. 2 1 , 4; 228, 2; 26 1 , 2). Per sempre, durante lo svolgimento delle sue funzioni, il ministro resta sotto l'azione dello Spirito, per guidare la comunità lasciandosi egli stesso guidare da esso: è lo Spirito, donato nell'ordinazione, che fonda l'autorità del ministro nella comunità e dà potere per compiere le sue mansioni. Nella Tradizione apostolica solo il confessore, colui che aveva confessato la fede durante la persecuzio ne e che di frequente veniva promosso agli uffici eccle siastici, non riceve l'ordinazione che conferisce lo Spirito, perché, secondo la concezione antica, egli avendo sofferto per la fede già ne è in possesso. Ma questa eccezione, non valida per l'episcopato, la quale sembra derivare da un compromesso tra conferimento del carisma divino e rito d'istituzione, presto scompare. I riti descritti nella Tradi zione apostolica sostanzialmente resteranno in tutti i do cumenti canonico-liturgici posteriori, che aggiungeranno 94
solo precisazioni e arricchimenti di altri elementi. Mentre in Occidente ci si attiene tuttora alla distinzione della Tradizione relativa al gesto dell'imposizione delle mani, riservato alla creazione di un vescovo, di un presbitero e di un diacono, in Oriente esso è stato esteso anche al sud diacono, al lettore e alla diaconessa; anzi nella chiesa di Antiochia anche ad altri uffici (6). Nel IV secolo, nell'ordinazione di un vescovo, si aggiun gerà il gesto dell'imposizione del libro dei Vangeli sulle sue spalle e nel V sorge l'uso del pastorale; poi nel pe riodo franco si moltiplicheranno riti simboli e oggetti: le unzioni, la croce pettorale e l'anello, la mitra. Ognuno di questi elementi ha un significato proprio: sociologica mente il rito di assunzione di un ufficio si arricchisce di nuovi elementi e si appesantisce; teologicamente ogni simbolo vuole esprimere un aspetto dell'ufficio pastorale. Esiste anche un rito di creazione degli ordini minori: lettore, esorcista, ostiario .. (7), che non ci è molto noto per i primi secoli. Dai primi documenti in nostro posses so, come gli Statuta ecclesiae antiqua del V secolo (ed. Munier, numeri 93-97), il rito si componeva di un'ammo nizione, della consegna degli strumenti propri, simboli dell'ufficio, e di una benedizione. Già la Tradizione Apo stolica per il lettore dice: (Giovanni Crisostomo, Comm. in 2 Tim. 2, 2: PG 62, 6 1 0). Viene continuamente ripetuto che il ministero cristiano è un servizio, che si ramifica in un molteplicità di ministeri, di funzioni, ge rarchicamente disposti, e già nel Nuovo Testamento c'è varietà di ministeri, secondo i luoghi e i tempi, in uno spirito di creatività e di adattamento alle varie esigenze. Anzitutto abbiamo la comunità di Gerusalemme, animata dai Dodici, istituiti da Gesù stesso. Essi vengono chiamati anche apostoli, nome che però si può applicare anche ad altre persone, come Paolo e Barnaba. Giacché la comuni t� è composta da giudei palestinesi, dediti alla predica ZIOne del messaggio, e da quelli della diaspora (ellenisti ), sorgono dissensi. Allora al servizio di questi viene creato 97
un gruppo di Sette, che soltanto secoli più tardi verranno considerati i prototipi dei diaconi. Nel testo degli Atti si dice che essi erano destinati al servizio delle mense (cap. 6) ; in realtà agiscono soltanto come predicatori coraggiosi e dinamici. Le esigenze della predicazione disperdono i due gruppi, dei Dodici e dei Sette, che perciò perdono gradatamente il loro significato originario. Alcuni anni più tardi la comunità di Gerusalemme ci appare struttu rata diversamente: Giacomo ne è il capo, coadiuvato da gli anziani (presbiteri), in analogia col consiglio delle si nagoghe: essi hanno sia funzioni dottrinali (Atti 1 5, 2-29), che assistenziali (Atti 12, 23-30; Epist. di Giacomo 5, 14; Galati 2, 10). Gli Atti parlano di anziani anche in comuni tà paoline (Atti 14, 21-23 ; 20, 17-30) con funzioni direttive. Compaioni altri ministeri, cosicché la chiesa neotestamen taria ci appare articolata in una varietà di funzioni: « Al cuni perciò Dio li ha posti nella chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i doni ... di assistenza, di governo » (l Corinzi 12, 28). « t:: lui che ha stabilito alcuni come pastori e maestri, per rendere idonei i fratel-. li a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo » (Efesini 4, 1 1 s). Nelle lettere sicuramente paoline non s i parla degli anziani; oltre i ministeri menzionati nella lettera ai Corinzi, si aggiungono i vescovi e i diaco ni . Gli uni con l'ufficio di sorveglianza (episkopè), gli altri con quello di servizio (diakonia) : sono i nuovi ministeri legati alle comunità locali provenienti dal paganesimo; sono ministeri stabili in confronto a quelli itineranti, co me gli apostoli e i profeti. Le comunità a prevalenza giudaica invece dovevano avere una struttura simile a quella di Gerusalemme: un · capo unico e un consiglio di collaboratori; anche la terza lette ra di Giovanni mostra un modello di chiesa con un solo capo. La Didachè, della seconda metà del primo secolo, rispecchia invece una situazione fluttuante, in evoluzione, di comunità cristiane provenienti dal paganesimo: « sce glietevi degli episcopi e diaconi degni del Signore, essi eserciteranno per voi la funzione dei profeti e dottori » (Didachè, cap. 15, 1). Le lettere pastorali ci presentano comunità che hanno per capi Tito e Timoteo, come orga nizzatori di tutta la vita ecclesiale, dell'insegnamento e della nomina dei presbiteri-vescovi. Non sappiamo esat98
tamente se questi due ti_toli indic � ir_10 in . quest� l7 tter� funzioni diverse ovvero siano termm1 eqmvalent1, smom mi : cioè se per indicare la stessa funzione si adoperi il termine giudaico tradizionale di presbitero ( = anziano) e il nuovo, improntato alla lingua greca, di vescovo. Essi co stituiscono il consiglio della comunità locale, hanno au torità su di essa, sono incaricati dell'insegnamento e vigi lano sulla dottrina. Hanno diritto alla ricompensa. L'au tore delle lettere insiste nel delineare la figura morale e ministeriale del presbitero-vescovo. Più o meno le stesse qualità devono essere possedute dai diaconi . Questo breve schizzo ci mostra una varietà di organizzazione e di ter minologia, che mano a mano si vanno precisando, come un bambino che nel crescere va assumendo i caratteri somatici e psicologici definitivi . Nel corso del secondo secolo troviamo ancora presbiteri, dottori e profeti, ma già con Ignazio di Antiochia appare ben definita a capo della chiesa la triade vescovo-presbi tero-diacono, anche se le rispettive funzioni non sono mol to chiare. I tre ministeri costituiranno ormai per sempre la struttura gerarchica fondamentale e dirigente della chiesa, e nel corso dei secoli III e IV le loro funzioni si preciseranno e delimiteranno sia teologicamente che giu ridicamente. Nascono intanto anche altri uffici di grado inferiore, con specifici compiti e uno statuto giuridico diffe rente, cosicché si creano due blocchi: il primo, i chierici superioris ordinis, costituito da vescovi presbiteri e dia coni, si trova in ogni chiesa e i tre ordini sono sempre nominati nei documenti con lo stesso ordine decrescente o ascendente. Era la parte dirigente della chiesa per auto rità e cultura e la loro incidenza sociale era molto forte, come dimostra l'abbondante legislazione imperiale nei lo ro riguardi. Il secondo gruppo, i chierici inferioris ordi nis, variano come numero, compiti e importanza secondo le varie province. Svolgono gli uffici più umili, anche cul turalmente, e sono socialmente meno rilevanti. Essi han no diri tti, responsabilità e doveri abbastanza diversi, ai quali accennerò nelle pagine seguenti. Qui mi limiterò a un� ? �eve esposizione sui chierici superioris ordinis, i chienCI dei ministeri di direzione. Si è soliti concepire questi ministeri - episcopato, pre . sbiterato e diaconato - quasi esclusivamente nella loro componente cultuale. Questa è una concezione medievale. 99
Nell'antichità invece essi abbracciavano tutta la vita cri stiana: insegnamento, culto, vita religiosa, assistenza di ogni genere e amministrazione dei beni della comunità. Scrive Gregorio di Nissa che il ministro, con l'ordinazio ne, « è costituito precettore, presidente, maestro, mista gogo dei misteri invisibili » (In diem luminem, PG 46, 581 D). La notevole varietà terminologica per indicarli può sconcertarci, ma essa non riguarda tanto l'unità del ministero in sé quanto le sue molteplici funzioni. L'ele mento economico, per esempio, non è marginale, perché ci sono vedove, poveri, forestieri e malati da aiutare. Perciò le indicazioni qui accennate, quantunque si riferi scano soprattutto ai vescovi, riguardano anche i presbiteri e i diaconi, anche se in misura minore. Conviene soffer marci sui singoli uffici . Il vescovo è il capo della comunità in tutte le sue mani festazioni. Già Ignazio, all'inizio del Il secolo, scriveva: del vescovo. I diaconi, essendo i più stretti collaboratori del vescovo e nelle grandi città in numero ridotto rispetto ai presbiteri, in pratica avevano più potere. Il loro numero poteva variare; alcune grandi chiese si attenevano al numero canonico di sette, che era considerato assolutamente non superabile; per questo il loro numero era notevolmente inferiore a quello sempre crescente dei presbiteri. Ma in Oriente, Costantinopoli nel sec. V ne aveva 100, e l'impe ratore Eraclio li portò a 1 5 0. Essi influenzavano e deter minavano le decisioni del vescovo molto di più del col legio dei presbiteri. Avevano un'ampia gamma di funzioni liturgiche, ma soprattutto erano incaricati dell'assistenza ai bisognosi, dell'amministrazione dei beni della comunità e di altre mansioni affidate loro dai vescovi. Erano uomi ni esperti nel governo e nella finanza; godevano prestigio; per questo a Roma il papa, in genere, fu scelto per molti secoli dal loro rango. Era perciò ben naturale che avan zassero pretese a diritti e onori non tradizionali. Sono innumerevoli i testi che richiamano i diaconi al loro ran go, a non dimenticare che il loro ufficio è un ministerium, un servizio, secondo il significato originale della parola greca diakonos. Lo ricorda anche il concilio di Nicea del 325 : « I diaconi sono i servitori dei vescovi e inferiori ai presbiteri » (can. 1 8) . Forse per questo Ambrogio prefe risce la parola ministro, servitore, a diacono, perché più indicativo, per l'orecchio di un latino, del ruolo specifico che spetta al suo titolare, rispetto alla parola greca lati nazzata. Tra i diaconi il primo posto è occupato dall'arcidiacono, che è il loro presidente e il più stretto collaboratore del vescovo. Esercitava autorità sui diaconi, vigilava su tutta l'amministrazione e l'assistenza, suppliva in mancanza del vescovo, controllava le ordinazioni ministeriali, la litur gia; spesso succedeva al vescovo. :È spiegabile perciò perché negli antichi testi si parli maggiormente di ciò che è proibito ai diaconi, che di quello che essi debbono fare. Non è loro permesso benedire, battezzare, offrire l'euca ristia, predicare, ma solo distribuire la comunione. Più tardi si permette loro di leggere il vangelo durante la messa - prima era ufficio del lettore - e battezzare in 104
certe condizioni. �'att�vità as�istenziale c�ms�steva sitare gli ammalati e 1 poven, soccorrerli, ruutare gnosi d'ogni genere.
�el. vi 1
biso
s. Ministri inferiori e altre funzioni
Il papa Innocenza I (401-417) in una lettera distingue i chierici dell'ordine superiore da quelli dell'ordine infe rio re (Epist. 2, 3).
Avendo parlato già della prima categoria accenno ora alla seconda, facendo presente che essa varia molto secondo i tempi e i luoghi e che molte precisazioni ancora ci sfug gono, per cui conviene proporre solo una panoramica complessiva. S. Paolo accenna a una diaconessa, Febe di Corinto (Ro mani 1 6, l ) ; Plinio nella sua lettera all'imperatore Traiano parla di ministrae cristiane (10, 96) . Non sappiamo quali fossero le loro mansioni e se il termine abbia già si gnificato specifico . Altrettanta incertezza c'è circa le ve dove: se fossero soltanto persone assistite ovvero svol gessero anche un ministero, un servizio. Nel Nuovo Te stamento comunque è molto ben attestata la presenza femminile per l'opera del vangelo: donne accolgono in casa riunioni, sono profetesse, prestano diversi servizi, anch'esse « hanno faticato » e « hanno lavorato » per il Signore (Romani 1 6. 1-16). Nei secoli seguenti è attestato un gruppo di vedove ufficialmente riconosciuto dalla chie sa, con un posto speciale nelle assemblee liturgiche. Essé dovevano rispondere ai requisiti della prima lettera a Timoteo: aver compiuto sessant'anni, sposate una sola volta, possedere la testimonianza delle buone opere. So stentate dalla comunità, sicuramente si dedicavano a ope re di bene, a consigliare le più giovani, a una più intensa pratica ascetica. Era loro richiesta la continenza, una vita più dedita alla preghiera e all'ascesi. Il termine vedova pertanto già indica sia una condizione sociale, sia una posizione ecclesiale, con diritti e doveri. Esiste un ordine delle ve dove, che in T ertulliano figura appartenere al cle ro, ed è ammesso dalla comunità, come uno stato di vita, �a . senza avere un compito liturgico : insieme con le ver g�m e gli asceti prefigurano in un certo senso il monache Slmo. 105
Forse al I I I secolo risale in alcune chiese il diaconato fem minile; non è uno sdoppiamento del vedovaggio, ma una creazione nuova, che sostituisce in parte le funzioni delle vedove e in parte ne ha di nuove. Anche se è opinione comune che le diaconesse si identificassero con le vedove, si deve giustamente osservare che mentre queste abbrac ciavano una condizione di vita, le altre invece erano dedi te a compiti di servizio. Secondo un testo del III secolo, la Didascalia degli apostoli, la diaconessa e la vedova svolgono le medesime funzioni assistenziali, ma la prima però svolge anche compiti liturgici relativi alle catecume ne e al battesimo delle donne. II IV - V secolo è il periodo di maggiore fioritura delle diaconesse, soprattutto in ambiente di lingua siriaca. In Occidente l'istituzione non ebbe fortuna, mentre quella delle vedove continuò a esistere. In Siria le diaconesse, scelte tra le vergini o le vedove, appartengono al clero e ricevono l'ordinazione mediante l'imposizione delle mani del vescovo . Hanno una certa autorità, svolgono alcune funzioni liturgiche ben precise: accoglienza nella chiesa e unzioni delle donne, visite alle malate, un po' di catechesi e di assistenza alle donne; sono le intermediarie tra queste e il clero. Sembra però che il diaconato femminile in queste regioni non sia da intendere come promozione della donna, come in pubbli cazioni recenti si vuoi far credere, quanto piuttosto segno di distacco e di separazione tra il clero e le donne stesse. L'età variava; l'imperatore Teodosio aveva stabilito i ses sant'anni; poi anche la legislazione civile si allineò con la disposizione del concilio di Calcedonia, che la fissava ai 40. In ambiente ortodosso mai fu conferito a donne l'ufficio del presbiterato o dell 'episcopato. Il papa Cornelio scrivendo nel 2 5 1 a Fabio di Antiochia espone la situazione della chiesa romana, dove ci sono 46 presbiteri, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti lettori e ostiari (Eusebio di Cesarea, Storia ecc. VI , 43, 1 1 ). Questo testo prezioso, che ci dà l'indicazione completa dei quadri del clero di Roma nel III secolo, quadro che poi sarà di tutta la chiesa latina, già testimo nia una evoluzione: molte delle funzioni di servizio che nei primi due secoli erano proprie del diacono, ora, nel I I I secolo, sono affidate a persone distinte, aventi anche denominazione specifica. Nelle chiese dove non c'erano 106
lcuni ordini minori, il loro ufficio era svolto da altri, che ssommavano in sé più funzioni. L 'Ufficio del suddiacono �ra . qu_ello di aiutante del diac� no ed egli svolgeva manswm diverse, secondo le comum tà · l'accolito era al servizio del diacono o del suddiacono, ed era un ministero quasi esclusivamente occidentale. L'esorcist q_, che imponeva le mani ai catecumeni e ai malati, avè'va il compito di fare esorcismi per liberare il pos seduto dalla presenza diabolica, secondo le credenze dell'epoca; nel rito dell'ordinazione riceveva come segno il libro degli esorcismi. Quest'ordine non fu diffuso in ogni regione, e sembra che scompaia verso il VI secolo. L'o stiario (il portiere) aveva la cura dell'edificio; a Roma non esiste più al tempo di Gregorio Magno. Il suo ufficio nell'alto Medioevo, almeno in alcuni luoghi, fu svolto dal mansiona rio (il sagrestano) , che aveva cura della chiesa, presso la quale abitava, o del cimitero. Ma il mansionario non apparteneva al clero . L'ordine minore più importante e presente in tutte le chiese era quello del lettore, che era incaricato di leggere nelle assemblee liturgiche; in alcune chiese, come in Oc cidente e in Africa era incaricato anche del canto . A Roma invece fino al tempo di Gregorio Magno cantavano i diaconi, e fu il papa a permetterlo anche ai membri degli ordini inferiori. Negli Statuta ecclesiae antigua è attestato anche l'ordine dei cantori, secondo la prassi orientale e di altre chiese, dove esistevano due uffici di versi: il lettore e il salmista. Il lettorato rappresentava in genere l'inizio della carriera ecclesiastica e in questo gruppo venivano iscritti anche ragazzi, che iniziavano una formazione speciale. Ma normalmente il lettore doveva avere non meno di 18 anni; molti grandi Padri furono lettori in gioventù. Era in effetti necessaria una certa cultura e una speciale educazione per leggere in pubblico dal pulpito: saper modulare la voce, pronunziare bene, capire il testo, che allora non aveva la punteggiatura. Il lettore leggeva tutti i testi necessari per l'azione liturgica, a�che il vangelo, la cui lettura in tempo successivo fu nservata al diacono o al presbitero. Si esigeva da lui una buona condotta, per essere di esempio agli ascoltatori. "\PP�rtenevano al clero anche i fossores (copiatae), inca ncah di scavare nelle catacombe e nei cimiteri le tombe dei defunti, ed eseguire tutte le opere di abbellimento;
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era di loro competenza anche l 'amministrazione di questi luoghi. A Roma Leone Magno istituì anche l'ufficio dei cubicularii per la custodia speciale delle due tombe degli apostoli: ma tale ufficio è documentato solo per questa città. La legislazione civile si è interessata ai fossori, in quanto essi rivestivano notevole importanza sociale ed economica. Nel loro lavoro, che apprendevano in modo pratico, erano aiutati da ingegneri e personale specializza to. Erano numerosi. All'inizio vivevano delle offerte dei fedeli e a spese della comunità (Tertulliano, Apologet. 36, 3; Tradizione apost. cap. 40), ma in seguito vendeva no essi stessi direttamente le tombe: per gli abusi che ne derivarono il loro ufficio fu soppresso, forse nel secolo V. I n alcune chiese bilingui, che erano molte nell'Oriente greco-siriano, c'era un personaggio ufficiale e appartenen te al clero, il quale era incaricato della traduzione duran te la liturgia. Egeria, alla fine del IV secolo, trattando della liturgia pasquale a Gerusalemme, scrive che il ve scovo parlava in greco, un prete traduceva in siriaco do po di lui, mentre per quelli che parlavano latino ci si affidava a qualcuno di buona volontà. Uno speciale onore era riservato ai confessori che però non apartenevano al clero; essi avevano infatti confessato la fede durante la persecuzione. Nei primi due secoli i termini martire e confessore sono considerati sinonimi; soltanto più tardi si stabilisce una precisa distinzione tra il martire, che muore durante i supplizi, e il confessore, che sopravvive. Ma ambedue sono accomunati nella soffe renza per liberarsi dal mondo presente per amore di Cristo, partecipando alla sua passione, ed essi possono compiere la loro confessione di fede solo per virtù dello Spirito di Dio che è in loro: Nos pati pro Dea non possumus nìsì Spiritus Dei sit in nobis (Tertulliano, Adversus Praxeam 39) . « Lo Spirito di Dio Padre, che non abbandona e non lascia i confessori, parla ed è coronato » in essi (Cipriano, Epist. 58, 5). Il martirio viene conside rato dono divino : per questo il martire durante le soffe renze ha visioni, compie miracoli, resta sereno . Non solo i martiri, ma anche i confessori erano venerati dalla co munità e tenuti in grande considerazione: veniva loro riconosciuto il potere efficace di intercedere per i fedeli, di intervenire nella vita della chiesa, di perdonare i pec cati. 108
La Tradizione apostolica che f?rse risp�cchia una consue tudine diffusa, ammette tra Il clero Il vero confessore senza rito di ordinazione: « Se un confessore è stato in prigione per il nome del Signore, non gli si faccia l'impo sizione per ordinario diacono o sacerdote » (cap. 9). La confessione di fede sostituisce perciò l'ordinazione e la designazione da parte della comunità, che si limita a constatare l'autenticità della sofferenza per la fede. L'im posizione delle mani invece è richiesta per l'episcopato. Anche Cipriano stesso, pur difendendo i diritti della ge rarchia, attribuisce grande valore alla testimonianza resa dai confessori e li ammette nel clero, perché essi non hanno bisogno di « una testimonianza umana quando precede l'approvazione divina » (Epist. 38, l , 1 ) . Tuttavia è il vescovo che decide l'ammissione e compie l'ordinazione che egli considera necessaria in ogni caso. Anche per la remissione dei peccati, Cipriano riconosce al confessore il potere di intercedere e di contribuire al perdono, però riserva alla gerarchia la decisione e la riammissione di fatto, anche al fine di evitare numerosi abusi ( 1 1 ) . Il ter mine confessore nel IV e V secolo subisce un'amplificazio ne e include anche persone che in senso lato avevano lottato per la fede, come i grandi vescovi coinvolti nella crisi ariana, o tutti quelli che si impegnavano a vivere il cristianesimo in modo più radicale; diventa allora sino nimo di asceta. Nella chiesa dei primi secoli, oltre i ministeri istituziona li, incontriamo altre persone che si dedicano al suo servi zio e alla sua crescita: i profeti e i dottori, che però nel III secolo sono già scomparsi come figure dominanti. Negli scritti neotestamentari i profeti, in quanto carisma tici, sono personaggi influenti, che « pronunciano parole di edificazione, esortazione e consolazione » (l Corinzi 1 4_, 3) e hanno anche un ruolo liturgico (l Corinzi 14, 3-39 ; Dzdachè capp. X I e XIII). II profeta, uomo di Dio, svolge ( 1 1) Durante la persecuzione di Decio ci furono molti lapsi (non avev�no confessato la fede) e molti confessares ; i primi, volendo la _n � oncili azione con la Chiesa, a volte si rivolgevano a questi u_lh mi, che rilasciavano un libellum pacis in segno di riconcilia Zione. Cipriano, e in genere l'episcopato, pur riconoscendo l'im porta nza dell'intervento dei confessori, esigeva che i peccatori si o tomet tessero a una debita penitenza proporzionata alla gravità e pecc ato di apos tasia.
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quindi una funzione a beneficio di tutti: è l 'uomo ispirato in modo particolare e diretto da Dio, per questo gode di libertà e la sua azione è insindacabile. Ma il sorgere di falsi profeti discredita la categoria e spinge a richiedere al profeta prove di autenticità del suo carisma e a sotto parlo al giudizio della comunità. Nel II secolo ci sono ancora rari profeti e il profetismo è apprezzato , ma guardato con un certo sospetto; il montanismo contribuì a svalutarlo e a farlo scomparire. Altro personaggio eminente era il didaskalos (il maestro, il dottore) che veniva nell'ordine subito dopo gli apostoli e i profeti. Egli insegnava non una sua qualunque dottri na, ma quella ufficiale della comunità, di cui era anche catechista e il suo ufficio continua anche nei secoli se guenti. Nella Tradizione apostolica i dottori preparano e istruiscono i catecumeni al battesimo . Invece in Africa, al tempo di Cipriano questi vengono istruiti da presbiteri, che sono detti doctores. Oltre l'istituzione ufficiale c'erano anche maestri privati, che aprivano loro scuole e insegnavano in modo indipen dente la dottrina cristiana alla pari dei filosofi pagani. Potremmo citare Giustino, Rodone, Panteno, Clemente a lessandrino. Origene si sentiva eminentemente un mae stro; egli si qualifica un doctor ecclesiae (Homil, in Eze ch. 2, 2).
Anche i laici, maestri o no, influirono enormemente alla diffusione del cristianesimo. Ma la lotta contro l 'eresia portò gradatamente a insistere sempre più sulla vera dottrina e sulla tradizione che si trasmettono attraverso la successione episcopale. Così il maestro per eccellenza nella comunità diventò il vescovo e la sua cathedra fu il simbolo del suo insegnamento: così anche le funzioni di profeta e di maestro finirono per accentrarsi nella figura del vescovo. Possiamo accennare brevemente ad altro personale legato in qualche modo alla vita della comunità, che diventa sempre più articolata e complessa dopo Costantino. Ad Alessandria e poi a Costantinopoli sorge una associazione di uomini, dediti alla cura degli infermi, detti parabalani, cioè coloro che rischiano la loro vita. In Africa esistevano i seniores laici, una specie di consiglieri di amministra zione, personale laico qualificato, a servizio del vescovo e dell'amministrazione dei suoi beni. 1 10
segretari, impiegati pubblici, che ci I notarii, stenografi e Atti dei martiri, sono presenti anche andato tram hanno comunità ecclesiale per redi della struttura nella he anc gere atti, stenogra�are discorsi in chiesa, att� ?ei con�ili. � dis cussioni pubbliche. Potevano essere lmci o chwnci provenienti dall'ufficio del lettorato. Molti discorsi dei Padri sono stati ripresi dalla viva voce dell'oratore grazie alla loro opera. Un discorso di Agostino ci è stato tra mandato dagli stenografi in tutta la sua vivacità: « Come vedete i notarii ecclesiastici stenografano ciò che diciamo noi e ciò che dite voi: non andranno perdute né le mie parole né le vostre acclamazioni . Per dirla più chiaramen te: stiamo redigendo i verbali canonici con cui desidero vedere confermata la mia volontà per quanto ciò è in potere degli uomini » (Agostino, Epist . 2 1 3 , 2). I notarii romanae ecclesiae, l'espressione è di Leone Magno, cioè i cancellieri, avevano la custodia di tutti i documenti ufficiali, svolgevano un lavoro di documenta zione, trascrivevano documenti dettati, dei quali facevano più copie. Per questo essi ebbero una notevole importan za a Roma, dal V secolo in poi, ed erano raggruppati in un collegio. � Un'altra figura, che si diffti\e solo lentamente, è quella del defensor ecclesiae, cioè una specie di avvocato, ini zialmente laico e successivamente scelto tra il clero infe riore a partire dal tempo di papa Gelasio (492-496). Il defensor, che originariamente doveva difendere gli inte ressi della chiesa nei tribunali, divenne presto, già agli inizi del secolo V, un collaboratore dei vescovi in varie incombenze di carattere temporale. Al tempo di Gregorio Magno a Roma erano sette e svolgevano diversi compiti di carattere giudiziario e amministrativo. 6. Verginità e continenza (celibato)
Negli scritti neotestamentari la verginità viene lodata e raccomandata: essa è dono di Dio ed ha valore se è scelta in vista del regno dei cieli, non come fatto pura mente fisico di astensione dalle facoltà sessuali. Anzi co loro che rifiutano il matrimonio per disprezzo sono con dannati ( l Timoteo 4, 3). La verginità permette di servire più liberamente il Signo111
re; è segno di una realtà futura, della vita futura, ora che siamo negli ultimi tempi, mentre H matrimonio è una realtà del mondo presente, per questo transitorio. I Padri riprendono e ripropongono queste motivazioni fondamentali, anche se a volte si insinuano nella loro esaltazione della verginità motivi non propriamente bibli ci, derivati da concetti correnti al loro tempo: la purità rituale, la svalutazione del corpo di origine platonica, la concezione stoica dell'atarassia, l'idea aristotelica che il matrimonio è un bene minore e anche i fastidi e le noie della vita coniugale. Ma soltanto alcune sette eterodosse disprezzano e rifiutano il matrimonio (12) . I Padri li con dannano e sostengono che questo è un bene, tuttavia la verginità è un bene migliore e superiore al matrimonio. · Scrive s . Ambrogio : « Nessuno che ha scelto le nozze biasimi la verginità, e nessuno che segue la verginità condanni le nozze. Tutti gli avversari di questa norma già da tempo sono stati condannati dalla chiesa, quelli cioè che osano scioglere il vincolo coniugale >> (La verginità 6, 34). E Giovanni Crisostomo: > (La verginità 9 : PG 48, 539) . Agostino scrive: > (La verginità 1 , 1 ) . Agostino però, in questa opera dedicata a tessere l 'elogio della verginità, sembra più preoccupato di difendere la dignità del matri monio, che la verginità stessa. Abbiamo citato tre opere con lo stesso titolo, a indicare la vasta letteratura dedicata all'argomento. Per i Padri la verginità ha valore se è libera e congiunta alla fede retta e non in se stessa. « Se noi onoriamo le vergini, non è perché siano vergini, ma perché sono ver gini consacrate a Dio con virtù della continenza >> (Ago stino, o.c. 10, 1 1) . Per questo la verginità delle vestali romane, temporanea e soltanto fisica, non viene conside rata una virtù. L'alto numero di uomini e di donne che ( 12) Questo argomento sarà ripreso nel capitolo VII. Erano di· verse le sette che rifiutavano il matrimonio: per es. Adamiti, apostolici, encratiti, marcioniti, priscillianisti (cfr. appendice fi· naie) . 112
è già proposto dagli apologisti del II Vl·vono coinmecastità ' cnper mostrare l' al ta moral"1ta argomento ecolo � � par pagani da dei anche ne ? mirazi � a suscita e a : �tianeretici vergm1 . sono mvece condannab1h, secondo 1 .
Gli Padri, perché disprezzano il matrimonio, opera di Dio e non collaborano con il creatore. La verginità cristiana è una forma di vita perpetua e di carattere ascetico : è necessaria l'ascesi per conservarla, ed essa favorisce la libertà per la contemplazione. Non ha finalità attive, caritative o altro. È la stessa santità per sonale che è di beneficio per tutta la chiesa. Non consta però che nei primi tre secoli ci fosse voto pubblico di verginità, né un rito speciale di consacrazione, come si riscontrerà invece dal IV secolo in poi. Le prime sanzioni canoniche contro coloro che mancano all'impegno preso risalgono ai concili di Elvira (306 circa) e di Ancira (314). Va qui osservato che i termini verginità e vergini nor malmente si applicano alle donne; più volte però, quando si parla in generale, si riferiscono anche agli uomini, che più sovente vengono chiamati asceti. Le donne viventi in verginità vengono denominate le ver gini sante, le vergini di Cristo, spose di Cristo e di Dio (nubere Dea). Già dal tempo di Tertulliano si elabora l'idea dello sposalizio spirituale con Cristo, e il venire meno ad esso è qualificato come adulterio. Con Origene invece si introduce il concetto della fecondità spirituale, propria delle vergini, che vengono considerate membra eccellenti del corpo di Cristo, cioè della chiesa. Esse, in quanto praticano anche l'ascesi, vengono paragonate, anzi equiparate ai martiri e meritano la corona della verginità, come esiste quella del martirio. Per questo occupano un posto riservato nelle assemblee liturgiche e nella vita del la chiesa; appartengono non alla gerarchia ministeriale ma a quella spirituale della chiesa, una specie di aristo crazia spirituale. Nel IV secolo si introduce, in Occidente soltanto, il rito della velatio che, secondo papa Siricio (384-399), si dove v� svolgere a Natale, all'Epifania e a Pasqua, con cerimo llla pubblica che comportava l'imposizione di un velo, il cambiamento del vestito e un breve discorso del vescovo, al quale era riservata la direzione della cerimonia. La velatio, imitazione del rito matrimoniale romano, espri meva lo sposalizio mistico della vergine con Cristo e di1 13
venne termine tecnico per indicare la consacrazione delle vergini. Il velo si doveva imporre solo alle giovani ben formate nella fede e dalla condotta irreprensibile; copriva la testa e le spalle, e doveva essere portato sia in chiesa che fuori. Le vergini consacrate vivevano nelle loro case con le loro famiglie. Perciò si inculcava in loro tutto un codice di comportamento: vestire modestamente, non partecipare a banchetti nuziali, che spesso assumevano carattero osceno, non frequentare le terme, dedicarsi a pratiche ascetiche e preghiere. Nel IV secolo alcune di esse cominciarono a vivere insieme in case private o nei monasteri, dando origine a un'usanza che si confonde con le origini del monachesimo femminile; altre invece conti nuarono a vivere per proprio conto. Nel versante maschile conosciamo i continenti (continen tes) : sono quelli che lottano per conservare la castità oppure persone sposate che si astengono per motivo asce tico dalle relazioni sessuali. In questo contesto va in quadrato un fenomeno che durò diversi secoli: quello che riguarda le agapète (dilette), dette anche un po' sprezzan temente le . virgines subintroductae (le intruse, le illeggit timamente introdotte). Si tratta della coabitazione tra u na vergine consacrata, più tardi anche una vedova, e un asceta o un chierico, con l'unico scopo di un aiuto reci proco sia materiale che spirituale, escludendo il rapporto sessuale. Non sappiamo se questo comportamento fosse ispirato all'idea del matrimonio spirituale, come pure i gnoriamo la sua reale diffusione. Certo è che si prestava ad abusi di ogni genere sicché sono molto numerosi gli interventi dei Padri o dei concili, che si collocano in un vasto arco di tempo e di spazio, per condannarlo aspra mente: segno che il fenomeno era molto diffuso e molto ben radicato. Gli uomini che praticavano la continenza, di cui già si è fatto parola, non constituivano uno speciale ardo, come le vergini. Alcuni di loro potevano essere ammessi tra il clero, i cui membri, a quanto si può dedurre dalla scar sità delle testimonianze, prima di Costantino, erano in maggioranza sposati. Non esiste infatti alcuna legge pri ma del IV secolo, che obblighi il clero al celibato, anche se già nel III c'è un movimento di pensiero crescente in suo favore. Erano proibite solo le seconde nozze, qualora la moglie legittima moriva; ma anche questa norma a 114
era disattesa. I motivi addotti da Tertulliano e da
�orlte igene per preferire un clero non sposato sono piuttosto della preferenza per la d' carattere cultuale, al contrario �a da a:gomenti bi motiva ampiamente e�a che , ità v�rgin spirituali. Clemente Alessandnno aggmnge anche
blici e ragioni pastorali. Nel IV secolo si ammettono ancora uomini sposati agli ordini maggio ri, purché però siano di ottima moralità e non abbiano commesso gravi colpe sessuali, e al momen to del matrimonio ambedue gli sposi fossero vergini. In linea generale non sono ammessi uomini risposati o che abbiano contratto matrimonio con una donna non vergi ne, per esempio con una vedova. Ma non sempre queste dispo sizioni venivano osservate, soprattutto in Oriente. In effetti dall'inizio del IV secolo riscontriamo, in materia, sia in Oriente che in Occidente, un ventaglio di indicazio ni e prescrizioni estremamente vario e complesso, difficile da riassumersi : prova che il celibato o la continenza non entrarono subito nella prassi e che su questo punto si procedette per tentativi. Per questo possiamo presentare solo alcune linee generali, che manifestano divergenza sostanziale tra le due parti della Chiesa a partire dal IV secolo, mentre in precedenza c'era stata una medesima prassi. Nelle chiese di lingua greca si stabilisce che il celibe che viene ammesso agli ordini maggiori, episcopato presbite rata e diaconato, non possa più sposarsi dopo l 'ordina zione. Tale legislazione talvolta si applica anche ai sud diaconi, ma non agli altri membri degli ordini inferiori, che possono contrarre matrimonio. Se invece al momento del l'ordinazione uno è già sposato, può continuare a convivere in matrimonio. È ben vero che su questo punto sono attestate anche tendenze rigoriste: il concilio di Gangra del 340/341 biasima coloro che non vogliono ricevere i sacramenti dal clero sposato . La prassi orientale trova la sua consacrazione ufficiale e definitiva al concilio di Quini sesto del 69 1 : > (Eusebio di C., Storia ecc. 10, 7) . Nel documento Costantino espone i principi generali che hanno determinato la disposizione imperiale: la religione non ben praticata apporta grandi danni agli affari pubbli ci (argomento storico) ; se invece la si accetta e la si conserva, essa apporta benefici allo Stato e ai cittadini (speranza per il futuro) . Di qui discendono le provvidenze a favore del clero cristiano. Le disposizioni emanate nel corso del 3 1 3 costituiscono la base di una vasta legisla zione susseguente, ricca di ampliamenti, ripensamenti e restrizioni. Essa è perciò complessa, a volte non chiara e persino contraddittoria e non mi risulta che sia stato tentato un esame critico delle sue applicazioni pratiche e delle conseguenze createsi. Qui perciò mi limito a cogliere alcuni elementi unificanti che emergono lungo la legislazione del IV e V secolo. Il clero era liberato dall'obbligo di far parte del senato municipale (curia, curiales) e da tutti i suoi doveri; d'al tra parte però era proibito ai curiali di entrare nel clero, 118
che doveva ess.ere reclut�t � . tra �en�e povera; e . il f�euente ripetersi della prOibiziOne mdica che molti cuna ambivano di entrare nel clero per motivi prevalente mente economici. Comunque il privilegio favorì soprattut to la prima generazione clericale, cioè quella costantinia na. Il clero era inoltre esentato dai munera sordida, cioè da un insieme di servizi da rendere allo Stato, dall'impo sta fondiaria per i beni della chiesa, da pagarsi invece da parte del clero provinciale, dalla capitazione e da certe tasse straordinarie; il clero dedito al commercio non pa gava le tasse proprie dei commercianti (collatio lustralis) . Non sappiamo comunque quale incidenza economica ab biano avuto tali esenzioni, perché ai cittadini ricchi era proibito entrare nel clero, che perciò in maggioranza era povero, anche se le proprietà delle chiese aumentavano. Inoltre l'istituto romano della patria potestas impediva a molti del clero di intestare a se stessi dei beni. Questi vantaggi si estendevano a tutti i membri del clero rico nosciuto ortodosso, dai vescovi ai lettori e agli ostiari, mentre i monaci non appartenevano al clero. In linea generale erano esclusi gli eretici e gli scismatici, in quan to favorire i cattolici era anche mezzo politico per pro muovere l'unità religiosa dell'Impero. Vi erano inoltre immunità che riguardavano solo una parte del clero: i presbiteri non erano tenuti a compiere cerimonie pagane, potevano essere chiamati a testimonia re senza essere sottoposti alla tortura, potevano non esse re tutori e curatori. Il clero delle due capitali godeva ancora di maggiori vantaggi. Nel 355 fu stabilito che i vescovi non potessero essere giudicati dal tribunale civile, bensì dagli altri vescovi (Codice Teod., 1 1 , 39, 8); da Teo dosio furono esentati anche dal testimoniare nei processi. Sorse così il privilegio del foro, in seguito sempre stre nuamente difeso dalla chiesa: il clero può essere giu dicato solo dall'autorità ecclesiastica.
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3
autorità e organizzazione nella chiesa antica
1.
L'autorità nella chiesa
L'espressione « i ministri di direzione », usata nel capitolo precedente, implica l'esistenza di persone che hanno au torità nella chiesa. « Per molto tempo predominava l'idea che la chiesa neotestamentaria da principio avesse avuto una costituzione puramente carismatica e fosse stata ret ta esclusivamente da persone elette in maniera carismati ca e dotate di prerogative carismatiche. Poiché in seguito i carismi si attenuarono fino a cessare del tutto, nella chiesa sarebbe stata instaurata la legge dell'uomo. Que st'ultima potrebbe dunque essere considerata un'emer genza, ma sarebbe contraria all'essenza della chiesa. Per quanto siffatta rigida contrapposizione possa non calzare, il rapporto tra Spirito e ministero rappresenta un pro blema della storia della chiesa delle origini e forse di sempre >> ( l). Per questo ci sarebbe una cesura tra la prima generazione cristiana e quella post-apostolica, cioè tra la primitiva comunità con carattere prettamente ca ri smatico e quella con una struttura gerarchizzata e con delle istituzioni; nel momento in cui si produce un tale cambiamento nascerebbe la chiesa cattolica come comu nità di credenti aventi una gerarchia. Una simile interpre tazione sorge dall'opposizione tra carisma, segno di crea tività e di spontaneità, e istituzione; ma essa, non trovando un riscontro pieno nel Nuovo Testamento, in parte è stata abbandonata; tuttavia è servita a comprendere me( 1 ) K. H. Schelkle, Teologia del Nuovo Testamento, vol. IV: Eccle sz olo gia, escatologia, Bologna 1980 pag. 48 s . ,
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glio la struttura della chiesa antica, i suoi vari ministeri e il loro evolversi. Già nel periodo neotestamentario si parla di persone che hanno autorità e si esige l 'obbedienza da parte della co munità. Ci sono gli apostoli che comandano e istituiscono gli episcopi-presbiteri, i diaconi e altri ministri che hanno responsabilità. Tutte queste persone vengono indicate con nomi diversi : capi, guide, maestri ... D'altra parte si parla di obbedienza: « Vi preghiamo poi, fratelli, di aver ri guardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro » ( l Tes salonicesi 5, 12-13). « Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, co� me chi ha da rendere conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo » (Ebrei 1 3 , 17. Cfr. l Co rinzi 16, 16; 1 3, l ; 13, 24 ...) . La comunità deve obbedire, ma nello stesso tempo deve essere critica nei loro riguar di. Non c'è opposizione tra carisma e istituzione, perché questa, intesa come servizio, è anch'essa un carisma. C'è il carisma della spontaneità, ma c'è anche quello dell'or dine, per cui i profeti vanno giudicati dalla comunità e dai suoi capi (cfr. l Corinzi 1 4, 29-30) . Esiste un rapporto dialettico tra la comunità, l'ecclesia, cioè l'assemblea dei fratelli convocati dal Signore, e alcuni che hanno delle responsabilità. Le realtà istituzionali e i carismi non pos sono separarsi, perché sono complementari e condizio nantisi a vicenda. Dopo il periodo apostolico abbiamo una unificazione di caratteristiche di autorità, in precedenza appartenenti a volte a ministeri diversi, nella persona del vescovo, che è il capo, il pastore, il dottore, il liturgo (sacerdote) , il profeta e l 'uomo dello Spirito, ottenuto mediante l'ordi nazione, per l' ecclesia. Clemente Romano, scrivendo alla fine del primo secolo ai corinzi, pur con atteggiamento delicato e pastorale, parla con fermezza ed esorta all'ordine e all'obbedienza ai propri capi: « noi proclamiamo che non possono, secondo giustizia, essere deposti » (44, 3), perché il fondamento della loro autorità sono gli apostoli inviati da Cristo. Qui Clemente già insinua chiaramente l'idea fondamentale della successione apostolica (cfr. cap. 42). Appare chiaro 122
cristiana è organizzata d tutta la lettera che la comunità con la chiesa istitui identifica si essa ed g rarchicamente o. nst c · ta d a all'inizio del secondo Più fortemente Ignazio di Antiochia e secolo ribatte l'idea di unità e sottomission ai ministri, nte v� sibile de� rappresenta il è. he � �escovo, �1 soprattutto . Magnest Lettere at (cfr. Cnsto e che le, invisibi covo ves 3 1 -2; ai Trallesi 3, l ) ; resistere al vescovo è resistere a Dio (Lettera agli Efesini 5, 3) . Ireneo enfatizza il ruolo dei vescovi nella comunità: « bisogna obbedire nella chiesa ai presbiteri (vescovi), a questi che hanno la successione degli apostoli ... ; i quali con la successione dell'episcopato hanno ricevuto il charisma veritatis certum, secondo la volontà del Padre » (Contro le eresie IV, 6, 2). Si è parlato fin qui dell'esistenza dell'autorità, al singola re, nella chiesa e non delle autorità, al plurale, perché queste sono esplicitazioni dipendenti da quella. Inoltre, sembra che vada ben distinto, almeno teoricamente, il concetto di autorità da quello di potere, secondo la famo sa espressione di papa Gelasio nella lettera scritta nel 494 all'imperatore Anastasio: Duo quippe sunt, imperator au guste, quibus principaliter mundus regitur: auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas (Epist. 8: PL 59, 42) ; il potere è possibilità di agire sugli altri, mentre l'autorità è il diritto, e anche il dovere in certi casi, di esercitare il potere. Già Cipriano, scrivendo al vescovo Rogaziano, aveva distinto i due concetti: « Avevi la possi bilità (potestas) di punirlo (un diacono) immediatamente in virtù dell'episcopato (vigore episcopatus) e dell'autori tà della tua cattedra (cathedrae auctoritate) (Epist. 3, l) (2). Per i cambiamenti avvenuti all'interno della chiesa e nelle condizioni esterne dopo Costantino, i significati dei due termini tendono a confond ersi. La suprema autorità naturalmente è quella divina, che si concretizza in Cristo e nel suo insegnamento; quest'ulti mo a sua volta si manifesta nella Scrittura e nella Tradì-
:
(�)
Cfr. anche la dichiarazione di Cipriano al concilio di Carta gme del 256 (Hartel III, l, pag. 435 s ) . Nel secondo secolo l'ac . cento è messo sul vescovo considerato come maestro, che possiede l� :vera tradizione per mezzo della successione ; la sua cathedra, d1':lene simbolo del suo insegnamento e quindi della stessa auto . . n ta ep1scopale.
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zione apostolica. Il ricorso ad esse è un fatto continuo nell'antichità cristiana e in ogni circostanza, secondo l'espressione di Cipriano : « Infatti se noi ritorniamo alla sorgente e all'origine della tradizione divina ... Se la verità ha ceduto in qualche punto, dobbiamo risalire alla fonte del Salvatore, alla tradizione dei vangeli e degli apostoli. Da qui si deve derivare la motivazione del nostro agire, perché da qui ha avuto origine il nostro ordinamento » (Epist. 74 , 10; cfr. Agostino, Sul battesimo contro i Dona listi V, 25, 36-26, 37); più brevemente Cipriano esprime lo stesso concetto quando scrive: si ad evangelicam auctori
tatem atque ad apostolicam traditionem sincera et reli giosa fide revertimur (Epist. 73, 1 5 , 2; cfr . Epist. 69, 12, 1) . Per i Padri la fonte ultima, dicevo, dell'autorità è divi na (3), secondo lo schema biblico: il Padre manda il Fi glio, che a sua volta invia gli apostoli (cfr. Vangelo di Giovanni 20, 2 1 ; 17, 18). A tale schema primitivo si ag giungono ben presto i vescovi, già da Clemente Romano (Lettera ai Corinzi, i capitoli 40-44), e più ancora I reneo (Contro le eresie III, 3, 3 ; IV, 26, 2-5) e Tertulliano, che così sintetizza l'argomento: in ea regula incedimus quam
ecclesia ab apostolis, apostoli a Christo, Christus a Dea (La prescrizione 37, l ; cfr. 2 1 , 4).
Il fondamento mediato però di ogni autorità nella chiesa
è costituito dagli apostoli. Il concetto di apostolicità, affermatosi nel corso del II secolo, diventa una categoria fondamentale per comprendere la chiesa antica: accenna to da Clemente Romano, presente nelle liste episcopali di Egesippo, elaborato in modo particolare da Ireneo, Ippo lito, Tertulliano e Cipriano, diventa per loro uno stru mento concettuale indispensabile sia nelle elaborazioni dottrinali che nella prassi quotidiana. Ad esso si connette quello di successione dei vescovi. I due concetti si ri chiamano e si includono a vicenda. L'apostolicità riguarda sia l'origine della chiesa, sia la dottrina e sia la succes sione episcopale. Quest'ultima viene provata sia storica mente mediante la redazione di liste episcopali delle chie(3) Qui parliamo dell'autorità nella chiesa ; ogni autorità, sia se condo s. Paolo (Lettera ai Romani 13, ls.) che secondo l'antica con
cezione imperiale deriva da una fonte divina, cfr. P. De Francisci,
Arcana lmperii, Vol. III, 2, Roma 1970 (rist.) , pp. 86-135. 124
sempre verificabili, per esigenze apologetiche, sia con il ricorso a citazioni della Scrittura, e sia teologicamente. Contingenze storiche, come la lotta agli eretici che �i :ichiamavano a un� tradiz one segreta, hanno spinto a msistere sulla successiOne episcopale. Ire neo esplicitamente lo ricorda quando scrive che « i vesco vi istituiti dagli apostoli e i loro successori » fino al suo tempo mai hanno insegnato le dottrine proprie degli gnostici (cfr. Contro le eresie I I I , 3, 1 ) . Tertulliano, nel suo libello La prescrizione degli eretici, dalla quale poco so pra è stata citata una sintetica espressione, nell'intento di dimostrare che la vera dottrina si trova solo nella chiesa cattolica, fonda la sua argomentazione precisamente sulla successione episcopale esistente nelle comunità cristiane e risalente agli apostoli. Ippolito, nello stesso torno di tempo, scrive : « Noi (i vescovi) che siamo i loro succes sori (degli apostoli) , che partecipiamo alla grazia del sommo sacerdozio e del magistero, noi che siamo consi derati i guardiani della chiesa » (Confutazione di tutte le eresie, prefazione, ed. Wendland p . 3, 3-6). Cipria"'lo ha espressioni estremamente precise e forti, alcune delle quali suggeriscono identità di funzioni tra i vescovi e gli apostoli : « Il Signore ha scelto gli apostoli, cioè ha scelto i vescovi e i capi » (Epist. 3, 3); « Cristo, il quale dice agli apostoli e, attraverso loro, a tutti i vescovi che succedono agli apostoli e ne diventano i vicari per ordine di succes sione (apostolis vicaria ordinatione succedunt) : chi ascol ta voi, ascolta me (Luca 10, 16) » (Epist. 66, 4). Dal I I I secolo la dottrina della successione apostolica è costantemente affermata, e non necessita conferma di al tra indicazioni di testi; tuttavia merita qualche delucida zione. L'espressione vicaria ordinatione di Cipriano ci aiu ta a capire il senso della successione apostolica, che è successione di ministero nel pascere, di genere suppletti vo e dipendente dagli apostoli - gli unici che hanno carattere fondante - ma con la stessa autorità, derivata e (4)
�ibli�amente
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(4) Attraverso Eusebio di Cesarea (Storia ecci. IV, 22, 2) sappiamo che Egesippo nel II secolo redasse alcune liste episcopali. Cfr. Ireneo, Contro le eresie III, 3, 3 per la chiesa romana. Sull'impor tanza di queste liste si vedano: Dict. Arch. Chrét et Liturgie e Real _ �n f. Antike und Christ. ; J. Dubois, Les listes épiscopales, l�xik temo_ zf!S de. l'organisation ecclésiastique et de la transmission des tradztzons, m Rev. Hist. Ecc. de France 62 ( 1972) 9-23.
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da Cristo. :E costante presso i Padri l'affermazione che Cristo è presente nei suoi ministri, e in primo luogo nei vescovi, che sono i suoi servitori e rappresentanti, e lo rendono presente e visibile nella comunità. Le espressioni sono varie; essi vengono chiamati: i vicari di Cristo (Ci priano, Epist. 59, 5; 63, 1 4; 68, 5), le immagini e le icone di Cristo (Ignazio, Trallesi 3, l ; Ambrogio, Comm. ai Salmi 63, 1 4 ; Giovanni Crist., Omelie su 2 Ti mo teo) ; agiscono vice Christi (Cipriano, Epist. 63, 14) e sono la > (Didascalia degli apost. II, 28, 9) (5). La successione apostolica è il ponte che unisce il momen to irrepetibile degli apostoli con il presente, e l'apostolici tà riguarda non solo i vescovi, ma tutta la chiesa, tutti i cristiani (6) ; ora poiché > (Cipriano, Epist. 66, 8), in lui essa si esprime visibilmente e concretamente. Per questo il rito di ordinazione, di cui già si è parlato nel capitolo prece dente, svolge una funzione importante ed è il titolo che inserisce nella linea di successione, la quale, si noti bene, è successione in un ufficio di autorità non per diretta consacrazione da parte del predecessore, proibita dalla prassi e dai canoni, ma per designazione divina ed eccle siale. L'imposizione delle mani, nel rito di ordinazione, dona lo Spirito santo, che deve trasformare interiormente gli ordinati per essere modelli al popolo e conferisce ad essi quell'autorità necessaria e efficace per adempiere le loro funzioni. Anche quando il vescovo veniva eletto da tutta la comunità, egli non si considerava mai - questo va ribadito con forza - un delegato degli elettori; la sua autorità non viene dal basso, ma dall'alto, dallo Spirito. Allorché però non è fedele alla sua missione di guida e di pastore, perché vien meno nella fede o nel comportamen to , può essere deposto dalla sua comunità e soprattutto dagli altri vescovi. Dopo aver parlato dell'esistenza e del fondamento dell'au(5) Le basi bibliche più frequentemente citate sono: Matteo 10, 40 ( Chi accoglie voi accoglie me ...) ; Luca 10, 16 ( Chi ascolta voi a· scolta me, ...) ; Matteo 28, 18-20 (E Gesù, avvicinatosi, disse loro: mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra ... ) ; Atti l, 8 . (6) Cfr. i testi citati nel corso del presente paragrafo d i Ter tulliano ; anche nella confessione di fede ( i l credo) ci si riferisce a tutta la chiesa e non solo ai vescovi, affermando I'apostolicità della chiesa.
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è necessario accennare brevemente ton" tà nella chiesa, · da parte d e1· P ad n· . della med es1ma one nche alla concezi ma dipen autonomo di qualcosa essendo non , 'autorità sempre c