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Frane esco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La form...
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Frane esco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La formazione del pensiero filosofico dalle origini a Platone VI-IV secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA II. Filosofia, cultura, scuole, tra Aristotele e Augusto IV-II secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA III. Pensiero, culture e concezioni religiose II secolo a.C. -II secolo d.C. LA FILOSOFIA ANTICA IV. Cultura, filosofia, politica e religiosità II-VI secolo d.C.
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FRANCESCO ADORNO lA FnDSOFIA ANriCA m. Pensiero, culture e concezioni religiose n secolo a.C.- n secolo d.C.
~ Feltrinelli www.scribd.com/Baruhk
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione agosto 1961 Prima edizione nell"'Universale Economica" marzo 1992 ISBN 88-07-81137-5
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Parte prima
Le componenti del pensiero dal Il secolo a. C. ad Augusto
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Capitolo primo
Il compimento del pensiero greco e Roma
l. Cultura e tradizioni greche a RMna Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei filosofi greci a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di "categoria" che è divenuto il termine eclettismo, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica philosophiae, Il, Lipsia, 1742-44, p. 193) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosf parlato di eclettismo per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.) successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'eclettismo sarebbe, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidòne, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito Lucrezio Caro (98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il .secolo in cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa; che permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diver~ significato rispetto a quello di Car-
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neade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto ~ Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i termini de! mondo r.omano, della sua cultura e della sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della Repubblica) ha operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da città-stato, avente una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in impero, in mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e culture. · D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare con esattezza l'esistenza di una linea originaria e originale della tradizione romana, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale (168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che furono Cuma e l'Etruria prima (fin dall'viii secolo a.C.), Taranto, la Magna Grecia (282-266), la Sicilia (264-210) poi. A ·tal proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichiarare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una "filosofia," vede una tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della Città e un tipo di éthos, in una struttura di Stato aristocratico e contadino-militare, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione aristocratico-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime origini .di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo; il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare; però, quando lo Stato fu liberato dal regime monarchico, si verificò un progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni
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specie di primato. Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri antenati né della costituzione e del governo dello Stato... Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri antenati avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pltagora, che visse in Italia al tempo in cui liberò la patria Lucio Bruto... Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetrò anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni indizi. Infatti le grandi e potenti città greche dell'Italia meridionale, che appunto fu chiamata Magna Grecia, erano al culmine del loro splendore ed ivi aveva grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei Pitagorici: chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i Pitagorici anche il re Numa [che avrebbe regnato tra il 714 e il 671, molto prima del tempo di Pitagora] fu stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti .conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro progenitori avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re; ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perdeva nella lontananza del tempo, credettero che colui che primeggiava per sapienza fosse un alunno di Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'indizi sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente discussione, Si· dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica: e Catone, scrittore autorevolissimo, disse nelle sue Origini che presso i nostri antenati vigeva nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esisteva il canto applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche le Dodici Tavole rivelano che già allora si coltivava la poesia: una legge [tab. VIII) sanciva che non era lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono della lira: e questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di Appio Cieco [console nel 307 e nel, 296), che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone [di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi], è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai Pitagorici; ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi... Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a Lelio [detto sapiens, oratore, stoico, console nel 140] e Scipione [Emiliano]. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati dagli Ate-
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niesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade [155 a. C.] (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata l'unilateralità della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica austerità romana, cui poteva servire il t6pos della "vita pitagorica," e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della cultura greca, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si presentavano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'~atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal giovanile De inventùme, un manuale di retorica, al maturo De Orillore), non può concretamente agire, determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo greco e il mòndo romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di cicerone è incomprensibile, quando non si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche e giuridiche a _quelle in cui si· tenta di delineare il
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significato del vir bonus, dell' orator che, mediante il suo sapere, la sua virtus, sa inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta honestas. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e ·di società, si preoccupi dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da Cicerone - da quella di Sulpicio e di Scevola, a quella di Cotta, di Crasso e di Antonio, a quella dei Gracchi e di Ortensio, di Bruto - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal De inventione al De Oratore, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in oratoria, cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (eloquenza) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che "ragionevolmente" - anche dell'ordine del tutto e della realtà e del divino - può essere accettato (consensus gentium ), donde, nel conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla Retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle "ipotesi" (discussione giuridica di casi particolari), alle "tesi" (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli Stoici - la cui casistica e discussione scclastica, offriva larga mèsse per le "tesi " -, ma anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto contrasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità... (Tusc. disp., IV, 4).
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Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza portava Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi elaborati dai greci, aveva cercato di dare una consapevolezza critica (filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né meramente precettistica e scolastica: Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1).
Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cos( via), ché, sempre, anche quando Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro punti fondamentali : l) La cultura greca, in senso stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in Roma sotto forma di insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci, soprattutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~reci erano richiesti dai romani
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delle classi superion, m quanto strumento per una formazione culturale che servisse alla vita politica. 3) Anche i maestri piu noti e i capiscuola di Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente. 4) Nessun romano, discepolo di piu di un maestro greco e attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare, consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della "vita contemplativa," o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato e dell'Impero.
2. Filosofia, retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone Rispetto al primo punto sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui Cicerone riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla conquista del mondo greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei maestri greci, fu veramente con incredibile studio che i romani s'infiammarono per l'eloquenza ... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) aveva la retorica, e poiché incontrarono presso i greci e le scuole gr.eche la piu ampia discussione e pre-
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cisazione di quell'arte, si servirono dei greci, trovand6 numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto ('Zl2), quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegnamento privato del greco, ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegnava Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola greca, 'l'insegnamento secondario. L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storio dell'èducazione nell'antic/Utà, trad. it., Roma 1950, p. 333). "L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m secolo a. C .. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che non possedeva una letteratura nazionale? Di qui il paradosso, che non è forse stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente data in greco. Il primo poeta latino, che ~ anche il primo professore di letteratura latina, è quello stesso Livio Andronico di Taranto che abbiamo segnalato come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli tradusse in latino l'Odiss.ea, servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio... Tale traduzione era per Andronico un testo che egli spiegava, praelegehat, parallelamente ai classici greci (Svet., Gram., 1, 1). Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia latina, ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario: due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci, continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango di .classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò definitivamente la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano benissimo il greco e già lo usavano come lingua diplomatica, per cui non ebbero· piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata per tutto il secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i! discorso, sul piano del conte-
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nuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento superiore, servi ai romani, che avevano possibilità di fare carriera politica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione, .s1 come per l'insegnamento secondario serviva la grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indi~ scriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica, indipendentemente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse mediante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toccavano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si discuteva il pro e il contro di casi particolari in relazione a testi di. legge, in modo astratto e precettistico; ma questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in T eofrasto, esse vennero poste in primo piano da Ermagora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici. L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i giovani colti, col suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica, dunque, non presentava soltanto l'insegnamento di una precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discussioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuridici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato, poi, a seconda dell'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio (XXXI, 24) testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero di maestri greci. Del 161 è il Senatoconsulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore della razza del celebre Catone "il Censore" (234-149) 1 si preoccupasse del1
Nato nella Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio Catone, di una famiglia
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l'introduzione in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo tempo, ch'egli considerava dei degenerati.
t sf bene - scriveva nei celebri Praecepta ad filium - avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. Razza cattivissima e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei Greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice questo: se, quando che sia, codesta gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se verranno qua i suoi medici. Hanno congiurato di ammazzare con la loro medicina tutti i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne temeva le possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )>ata non sia diminuita da parte dello Stato ... _, L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Gli Stati furono costituiti e le comunità cittadine furono ordinate appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomi~i": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine
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dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere... Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste proprietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto, sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come ordine gerarchico e armO. nico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere assoluto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon ), nella cui attuazione consiste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci .lo chiamano xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov. E cosf
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definiscono questi doveri, in modo da stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune .quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel prendere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé 1 (co gnitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realizzazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre il complesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali1 (De ofJ., I, 7-34) all'educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle abitazioni (1, 39) e cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, esteticamente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e misura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa ... consiste il decoro, che in greco si dice 7tpé7tov, prépon" (De off., l, 27, 93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rapporto di equilibrio e di rispetto, in cui sta l' humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro, che, in quanto armonico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. Qualunque
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cosa infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assennatezza e prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero... La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa nobiltà... A noi la natura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura stessa essendo state assegnate le parti della costanza, della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle: .membra attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri ... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza ... (Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
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di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di realizzazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quell'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza morale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttarele indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come un'enciclopedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce : la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di ciascuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità razionale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formulando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in particolare si erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto costruzione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel co-
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stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, diverso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve essere, potendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costituito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradualmente, da quella Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come malinconicamente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole situazioni politiche delle città greche, condizione della possibile realizzazione dell'armonia delle genti ed internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esaltato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che Polibio, rifacendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Scipione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di lui, Polibio accompagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine ( 146), sia in quella contro Numanzio ( 134 ). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58),
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libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui fatti, • pragmatica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata? (I, l)... Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una unitaria visione d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo... (I, 4).
E nel VI libro si legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi bastano a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse considerato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora .ai nOstri giorni, sono le stesse (VI, 11)... Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia.
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necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la. loro costituzione è perfetta sotto tutti i riguardi. Quando poi, liberati dai timori esterni, essi godono del benessere seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa ... (VI, 18).
Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10). Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella oclocrazia (potere della plebe). "La moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca" (VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano, decadono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu alta forma di democrazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costituito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con-
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tro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) - fa dire Cicerone a Scipione - è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo potrebbe rimanere isolato 1. Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la società... Tutta la popolazione, che è costituita da un raggruppamento di gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente, onde essere duraturo... [Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi. 1 Da questa suole sorgere il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordinamenti politici; è proprio del filosofo conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al governo dello Stato, moderandone il corso e mantenendolo in propria potestà, questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento, moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1 che ho menzionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29).
Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto razionalmente ordinato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il tentativo di un ordinamento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua giustificazione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine naturale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se formalmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto
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naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di una nazione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti : e la risposta non può essere rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effettuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica, quando l'influenza della filosofia politica greca era forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma. e delle vicine tribu da ultime assoggettate - con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a considerare come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp. 136-37). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe dirigente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scan-
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disce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retoricamente espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per gli epicurei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razionalità è conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rielaborazione del concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo, Panezio) vien data del diritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rappresenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle particolarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI).
Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e convenzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice: ·
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Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo... ; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono considerati supplizi (Cic., De rep., III, 33).
Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali de) T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occorrendo anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa .per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione... (Leggi, l, 19-20).
Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epicurea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - " non temo che mi senta alcuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico, infatti,
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la comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa mediante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve mantenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la funzione cosmica (ordinatrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere convenientemente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, rispetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della parola "della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giustizia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giustizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fondamento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per· altro verso, studio delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruotarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a cominciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa), avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. FanDio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Augure (174 circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro di V arrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giustizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cicerone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le concezioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-
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giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Valerio Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico compiuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo suicidio è rimasto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.).
4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo. quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una. pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città grecosiriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a. C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove, ·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scientifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato dalle maggiori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò appositamente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli tramandati: Fisica {~cnxòç ).6yoç l; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OU l; Sugli dèi (IIe:pt &t:wv l; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\l l; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJç l; Sulla divinazione (IIt:pl I'(XVTLlrijc;; l; Sulla anima (IIcpl ~U)('ijt; l; Introduzione al linguaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl criterio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(XyV.CC mpt 6py'ijç l; Sulle virtu (IIa:pl~~'lipCTW\1 l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc; l ; Protrepttci (IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc; l; Esege# del Timeo di Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10ste che i settantadue sapienti traduttori ebrei avrebbero dato a settantadue
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domande poste dal re su come si debba governare, dimostrano da un lato l'artificiosità della lettera, ma dall'altro che al tempo in cui essa fu scritta, entro. il quadro di ·un'interpretazione, ormai consolidatasi, della concezione ebraica in chiave di un qual certo diffuso platonismo e stoicismo, anzi di certi diffusi motivi religiosi, era possibile alla comunità ebraica di Aless~ndria inserirsi, anche politicamente, nell'àmbito della struttura soc~ale delle monarchie ellenistiche. I motivi di fondo sono simili a quelli che abbiamo già veduto. Essere e divinità coincidono: dio è ordine e legge, e, in quanto tale, è provvidenza e bontà. Uno, dio, egli è monarca dell'Universo. Divino, in terra, è il monarca, in quanto imita dio, è del suo stesso genere. "Come posso mantenere saldo il regno sino alla fine? " chiede T olomeo, e a lui rispondono i saggi ebrei: "Imitando la continua bontà di Dio" (188, ed. W endland), volgendosi sempre a dio e adorandolo, ma non con doni e sacrifizi, bens1 con animo puro {tò TtfL«v -ròv &e6v· -ro\ho 3'èCJTtv où 3wpott; où3è .&ual<Xtt; clllà: ~ux_ljt; x<X.&<Xp6njTt ... : 234), e per ciò il re, imitando dio, come dio è provvidenza (np6vot<X, pr6noia) e provvede a tutto, s1 che tutto sia dove è bene che sia, cosi anch'egli in quanto ordina uomini, in modo che essi siano dove è bene che siano nell'ordine sociale, è veramente tale, se è filantropo (208). Certo dalla lettera vien fuori piu che un dio degli eserciti, un dio paterno, legale, benevolo, s1 come l'ideale re che ne ricaviamo è un re benevolo, paterno, legale, un principe che non è tale per dirittO di nascita né perché legalmente eletto, ma perché è "migliore per natura (cpuaEt) " (289). "L'abilità nel governare dipende dal buon carattere e dalla buona educazione. Tu sei un gran re, ma la tua superiorità non consiste nella fama e nella grandezza del tuo impero, ma nel fatto che hai superato tutti gli uomini in equità e filantropia (ISaov btr.&:txE(~ x<Xt cptÀ<Xv.&pc.om(~ n«v-r<Xt; liv.&pwnout; ~nEpljx«ç), avendoti dio concesso questi doni per un tempo piu lungo che agli altri" (290). La Lettera di Aristea si innesta in un ambiente preparato, ove il commento della Bibbia in greco da parte degli ebrei delle comunità greche, oramai culturalmente ellenizzate o, se vogliamo, scolasticamente ellenizzate, in funzione delle carriere da assumere in seno ai nuovi regni, poteva farsi, sul piano di una generica cultura, entro i termini di quella koinè religiosa, che· ritroviamo diffusa in tutto l'àmbito del mondo ellenizzato e poi romanizzato, in cui confluivano, sganciati dai 1loro contesti, motivi platonici, aristotelici, stoici, pitagorici, onde i libri sacri ebraici si potevano interpretare mediante un certo Platone o un certo Aristotele, e viceversa un certo Platone o un certo Aristotele mediante la Bibbia stessa.
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Non a caso, cosi, Aristobulo, un ebreo di Alessandria, vissuto sulla fine del II secolo, secondo Eusebio seguace della filo~fia di Aristotele oltre che della propria religione, l'ebraica (dr. Eusebio, Praep. ev., VIII, 9, 38), trovando forti analogie tra certi testi dei Sacri libri e certi testi di Platone, sosteneva che Platone aveva conosciuto la Bibbia. Di qui a far di Platone un Mosè attico e di Mosè un Platone ebraico, in una sola dottrina religiosa, ugualmente rivelata ai saggi di Oriente e agli antichi sapienti greci (come dirà nel II secolo d. C. Numenio di Apamea: cfr. Clemente Alessandrino, Stromata, l, 22), il passo era breve, si come breve era il passo a giungere alla consapevole affermazione che sapienza greca (veduta attraverso un certo Platone e un certo stoicismo) e rivelazione ebraica coincidono nella concezione dell'unico dio, d'onde tutto discende (come sosterrà Filone l'Ebreo, di Alessandria, vissuto tra il 30 a. C. e il 40 d. C.), in un'interpretazione simbolico· allegorica dei testi. Clemente Alessandrino ed Eusebio riferiscono che Aristobulo nel I dei libri a Filometore avrebbe scritto: Anche Platone si è uniformato alla legislazione che vige presso noi [ebrei], ed è chiaro che si è occupato di tutto ciò che è detto nella nostra legislazione... Molto egli ha ripreso poiché era multisciente (noÀu~c;) sf come Pitagora [non si scordi il topos della polimatia di Pitagora], molto ha ripreso da noi, inserendolo nelle sue dottrine ( 3oy(J.«T01tOL(at) (Clemente, Stromata, l, 22, 410; Eusebio, Praep. ev., XIII, 12, 663). È interessante· poi, scrive Eusebio, ascoltare come Aristobulo ha par· lato di ciò che vien detto nei Libri Sacri, a proposito delle membra di Dio, mediante un'interpretazione allegorica, rivolgendosi al re Tolomeo:
Per spiegarti perché nella nostra legge [concezione] anche le mani e il braccio e il volto e l'andatura indicano la potenza divina ... ti esorto... ad impadronirti del pensiero che ci pone in rapporto con Dio senza cadere nella umana consuetudine narrativa. Molto spesso il legislatore nostro Mosè, dando forma ai discorsi in termini diversi da quello che è in effetto il suo pensiero, annunzia disposizioni naturali e i preparativi di grandi azioni. E coloro che pensano bene, ammirano la sua sapienza e il divino soffio (pnéuma) di lui, anche riguardo a ciò che ha profetizzato. Tra coloro che pensavano bene sono i filosofi sopracitati [Pitagora, Socrate, Platone, i quali dicono di avere ascoltato la voce di Dio, che non è discorso: in Eusebio, Praep. ev., XIII, 12, 3], ed altri, anche poeti [Orfeo, Arato del proemio ai Fenomeni, Esiodo, Omero, Lino: cfr. in Eusebio, ib., XIII, 12, 3-15), che hanno preso da Mosè grandi motivi di ispirazione,
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e per questo sono ammirati. A coloro, invece, cui non è data potenza d'in_tclktto, ma che si limitano solo alla lettera, quando si spiega, non appare nulla di straordinario ... Evidentemente, dunque, le mani, anche tra di noi, possono avere chiari e piuttosto comuni significati. Ad esempio, quando tu, che sei re, dài segni del tuo potere volendo compiere qualcosa, noi diciamo: grande mano ha il rei Chi ascolta è, cosi, portato a comprendere la tua potenza. E tale significato si rivela anche nella nostra legislazione, quando Mosè dice: con potente mano Dio ha guidato fuori dell'Egitto; e quando Dio afferma: stenderò la mia mano e distruggerò gli Egiziani. E Mosè dice al Faraone sulla fine del dominio di lui: la mano del Signore sarà sui tuoi possessi e su tutti i tuoi averi grande sarà la morte. Ecco, dunque, che anche le mani !ignificano la potenza di Dio: si, perché giusto è pensare che pur tutta la potenza degli uomini e la loro capacità sta nelle mani. Bene, perciò, il legislatore ha immaginato dicendo: le opere sono le mani di Dio. Dio, infatti, sovrintende a tutto e tutto è stato messo in ordine ed ha ricevuto saldezza, s{ che gli uomini ritengono che tutte le cose siano immutabili. Mai il cielo è divenuto terra e il sole splendente mai diviene luna, né la hma il sole, né i fiumi il mare né il mare i fiumi. Mai l'uomo sarà bestia, né la bestia uomo. E cosi avviene per tutto, per le piante, per le altre cose: tutto è immutabile: cangiamenti e corruzioni avvengono entro ciascuna cosa in sé. La saldezza di Dio si potrebbe esprimere in tal modo, ché a Dio sono sottoposte tutte le cose... Cosi anche la discesa di Dio sul monte Sinai non è spaziale ... (in Eusebio, Praep. ev., VIII, 10, l sgg.).
E come indice della possibilità di innestare la sapienza ebraica entro i termini della tradizione ellenistica, in una interpretazione del divino ordine e della legge del tutto (platonismo, aristotelismo, stoicismo), che si coglie di là da ogni procedimento discorsivo, intuitivamente (perciò poteva servire un certo Platone e la leggenda di Pitagora verbo di Dio), onde. poi il sapere consiste nel ripercorrere, discorrendone mediante immagini e metafore evocative (di qui la ricostruzione e l'importanza data a certi poeti, Orfeo, Lino), la stessa sapienza di Dio che è prima di tutto e da cui tutto discende (per cui poteva giuocare il motivo aristotelico della scienza divina che tale è, perché ha per oggetto Dio e "perché solo Dio la possiede compiutamente": Aristotele, )\.fetaf., I, c. 2), altrettanto interessante è quest'altro testo di Aristobulo, riportato da Eusebio: Nella sua Interpretazione delle Leggi ebraiche, Aristobulo dice a Tolomeo: La medesima cosa si potrebbe riferire metaforicamente anche alla Sapienza: tutta la luce è da lui, e per ciò anche alcuni della setta dei Peripatetici hanno sostenuto che come lampada sta la sapienza. Chi, difatti, la segue diventa imperturbabile per .l'intera vita. Ma piu saggiamente
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ancora e meglio, ha detto uno dei nostri progenitori, Salomone, che la sapienza è prima del cielo e della terra ... (in Eusebio, Praep. ev., VII, 14; e cfr. anche XIII, IZ, 3-15) [su Aristobulo cfr. ancora: Clemente Alessandrino, Stromata, VI, 755 sgg.; Eusebio, Hist. eccl., VII, 32, 16]. Non sembra cosi un caso che nell'Ecclesiastico - tale nome gli fu dato piu tardi, perché fu il libro maggiormente usato dalle prime chiese per la preparazione dei catecumenti e dei neofiti, mentre Sapienza fu chiamato nella versione siriaca, dai Greci e dagli Ebrei, composto con ogni probabilità in ambiente alessandrino, al principio del n secolo a. C., e nel Libro della Sapienza, composto in greco, ad Alessandria, tra il 11 e il 1 secolo a. C., si colgano gli stessi motivi che troviamo in Aristobulo. Si rivela in essi una chiara consapevolezza di un~ pace culturale di sfondo, mediante cui sia possibile una visione unitaria nell'unico e supremo ordine divino, garante anche di una giustizia politica, di contro al pericolo del vaglio critico di certe posizioni di punta, come potevano essere, di là dall'accettata ed acquisita atmosfera culturale - voluta anche dai sovrani e già in Roma accarezzata dalla classe al potere, - le acute discussioni che si svolgevano in seno all'Accademia (dal tempo di Arcesilao e di Carneade), o la vigorosa presa di posizione della scuola epicurea. "Amate la giustizia, voi che governate la terra: pensate bene di Dio, e lui cercate con semplicità di cuore," si dice al principio del Libro della Sapienza, per passare subito dopo ad un attacco contro coloro i quali ritengono che l'uomo sia uomo finché resta in questa terra, onde si abbandonano ai piaceri, che sembra, in effetto, un attacco contro posizioni epicuree. "Il nqstro tempo, essi dicono, è un'ombra che passa, e finiti che siamo non si torna da capo, si mette il sigillo e nessuno torna indietro. Nati dal nulla, poi saremo come se non fossimo stati..." (Libro della Sapienza, I, 2, 5 e 2). E nell'Ecclesiastico si dice: La sapienza di Dio, la quale va avanti a tutte le cose, chi l'ha compresa? Prima di tutte le cose fu creata la sapienza e la prudente intelligenza è da tutti i tempi.· Fonte della sapienza è il verbo di Dio nei cieli, e le sue vie sono gli eterni comandamenti... La disciplina della sapienza Dio la creò in Spirito Santo, e la vide e la numerò e la misurò. E la sparse sopra tutte le sue opere, e sopra ogni carne secondo la misura da lui stabilita, e la diede a quelli che lo amano (Eccles., l, l, 3 sgg.) ... Non cercare quello che è sopra di te e non volere indagare ciò che_ sorpassa le tue forze: ma pensa sempre a quello che Dio ti ha comandato: e non essere curioso scrutatore di molte opere di lui... (Eccles., I, 3, 22).
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La generica ispirazione platonico-stoica e pitagorizzante, con qualche elemento aristotelico, poteva risolvere la concezione ebraica in un'interpretazione dello stesso platonismo, stoicismo, aristotelismo, in chiave ebraico-rivelazionistica, che, senza dubbio, ebbe il suo peso nella formazione della comune concezione religiosa propria del n e del 1 secolo a. C. Se da un lato ciò assicurava una comune cultura, che serviva anche al potere dei re, dall'altro lato nella frattura tra possibilità razionale di cogliere il supremo perché e quel perché medesimo colto per altre vie, dava, soprattutto al livello popolare, la speranza, di là dalla ragione e dalla cultura propria di una certa classe dominante, di cogliere un mondo migliore attraverso forze irrazionali : di qui i sogni, la suggestione della magia, il fascino di una certa astrologia, che costitu1 la base di altri modi di intendere lo stesso "pitagorismo" e lo stesso "platonismo." 3. T erapeuti. Esseni. Gli Ebrei di Palestina e la cultura ellenistica. Verso il Cristianesimo
Unica, purtroppo, è la fonte sulla comunità ebraica dei Terapeuti. Di essi ha parlato Filone l'Ebreo nel De vita contemplativa - di cui molti mettono in dubbio l'autenticità, - con un modo d'interpretare estremamente allegorico e per ciò stesso sospetto. La comunità ebraica dei Terapeuti visse in Egitto, in forma conventuale e ascetica, presso la palude Mareotide, nelle vicinanze di Alessandria, nel corso del n secolo a. C. Filone presenta la comunità dei Terapeuti come esempio di vita monastica, che mediante esercizi (ascen) - digiuni, castità, tecniche con cui ottenere sogni e visioni - culmina nella pio alta forma di vita contemplativa (~(ot; ~(J)pl)Ttx6t;). Si è parlato di influenze pitagoriche, di influenze dei misteri egiziani, di pratiche pitagorico-gimnosofistiche. In effetto sono tutte ipotesi, come, di contro, è altrettanto ipotetico parlare di dirette influenze ebraiche sulla formazione di certo pitagorismo e di certo orfismo. Pio preoccupante è oggi, dopo le scoperte dei cosiddetti "rotoli del Mar Morto" (1947 e seguenti), determinare il significato e la portata storica sulla comunità ebraica degli Esseni. La comunità degli Esseni è probabilmente da inquadrare entro i termini della difesa religiosa e, perciò, del "popolo" ebraico, dell'originario giudaismo, in un ritorno alle fonti pure della ToriJ, soprattutto dopo la rivolta dei Maccabei (167-160). Non si scordi che la Palestina meridionale, compresa Gerusalemme, dopo la battaglia di Paneio (200 a. C.) era passata dai Tolomei ai Seleucidi, e che la rivolta mac-
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cabeica si svolge contro Antioco Epifane Seleucida che aveva tentato di assimilare definitivamente il "popolo" ebraico al nuovo regno, distruggendolo nella sua cultura, nella sua "legislazione. " Durante la rivolta, alcuni dei grandi sacerdoti ebrei ci avevano rimesso la vita, molti ebrei erano stati trucidati e perseguitati. Durante la persecuzione, alcuni gruppi avevano trovato scampo esulando verso il nord, in Siria, nei pressi di Damasco, e in altri regni ellenistici. Ognuno di questi gruppi, di fronte al diffondersi dell'ellenismo, si era sempre piu stretto intorno all'originaria religione dei padri, sentendosi l'autentico depositario della "Santa Alleanza." Di qui, forse, in Egitto quella comunità che fu detta alla greca la comunità dei t~apeuti (veneranti, sacerdoti: forse sul modello dei sacerdoti di Iside a Delo, detti appunto th~apeutai) e in Palestina prima, in Siria poi la comunità che, ritenendosi la vera depositaria del sacerdozio, poiché i loro sacerdoti e maestri di giustizia discendevano dal gran sacerdote Sadok, fu poi la comunità dei Sadducei. A loro probabilmente risale la disciplina della comunità consegnata al cosiddetto Scritto di Damasco, ritrovato alla fine del secolo scorso, e che ha molti punti di contatto con il Manuale di Disciplina dei rotoli, scoperti ora presso il Mar Morto. In Palestina erano rimasti i seguaci dei Maccabei e gli Assidei, " uomini dei piu valorosi di Israele e tutto zelo per la legge"; "messo insieme un esercito, diedero addosso con furia ai peccatori e agli iniqui con indignazione, mentre tutti gli altri fuggirbno presso le altre nazioni per mettersi in salvo" (Maccabei, II, 42). Dopo la vittoria dei Maccabei, ricostituitosi il "popolo" ebraico, ritornati pacifici i rapporti coi re, il gran sacerdozio fu assunto da Jonata Maccabeo. "Dopo la morte di Alcimo, il sommo pontificato era rimasto senza titolare per parecchi anni; Gerusalemme veniva resa agli Ebrei. Alessandro Baia, tenendo a farsi di Jonata un alleato, lo riconosce amico del re e gli offre il sommo sacerdozio che lo pone alla testa della nazione. Jonata, capo di guerra, d'altra parte di famiglia sacerdotale, accetta tutto, il potere civile e l'egemonia religiosa. Si capisce che i 'figli di Sadok' non fossero soddisfatti di ciò che potevano giustamente considerare come un'usurpazione. Allontanati dalla Palestina, respinti per le loro stesse pretese, si ripiegano su se stessi e si costituiscono in una setta che mantiene i suoi antichi diritti, irrigidisce la propria linea di condotta e, naturalmente, anche le proprie idee" (A. Vincent, Les manuscrits hebreur du dh~t de fuda, Parigi, 1955, pp. 237-38). A loro, ai "figli di Sadok," i " fedeli della nuova alleanza," sembra si debbano riferire alcuni degli scritti del Qumrin (cos} detto dagli Arabi lo scoscendimento vicino al quale si sono rinvenuti i primi rotoli) nel deserto di Giuda (Guerra dei figli della Luce, Inni della
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Grazia, il Commento di Abacuc}, che sarebbero stati composti nei loro rifugi presso il Mar Morto, ancora al tempo della lotta contro i Seleucidi, insieme a una specie di manuale di disciplina, che sarebbe poi lo Scritto di Damasco, il quale risalirebbe al tempo della loro permanenza in Siria, prima del ritorno in Palestina, avvenuto probabilmente nel 37 a. C., all'avvento di Erode, con cui ebbe fine la dinastia Asmonea. I Farisei, invece, i Separati (Parushlm}, deriverebbero da quegli Assidei - "i piu devoti alla legge": Maccabei, Il, 42, - che si allearono con i Maccabei al tempo della guerra contro i Seleucidi, ma che da essi si separarono, allorché i discendenti dei Maccabei assunsero anche il potere politico, rimanendo, essi, invece, fissi all'aspetto rigidamente legale e letterale della legge, o concezione religiosa, in una esasperazione del rito, fino a costituire un'associazione (Khéber) d'interpreti e d'intransigenti dottori della Legge. Il po' che sapevamo sugli Esseni lo dovevamo a Plinio (Hist. nat., V, 17, 4), a Filone l'Ebreo (Quod omnii probus liber sit, passim}, e a Giuseppe l'Ebreo (Vita, 11; Bellum Judaicum, Il, 8, 2-13; Ant. Jud., XVIII, l, 5). Sull'origine e il significato del loro nome si è molto discusso. Già Filone è in dubbio quando dice: secondo me, il nome degli Esseni, che non si può esattamente tradurre in greco, indica la santita {oatO'")
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la rivelazione si fa presente all'uomo. Senza di essa l'uomo, mediante la liberazione dal senso, mediante il ripiegamento su se stesso in quanto intelligenza pura, mediante, alla fine, l'abbandono della stessa intelligenza perché discorso, neppure potrebbe cominciate la ricerca di Dio, la chiarificazione della fede, per giungere, di là dal discorso, alla unione con Dio, attraverso Dio, ché, in effetto, non si va dall'uomo o dal mondo a Dio, ma, per Dio, da Dio a Dio. lsrael in caldeo significa ciò che in greco è colui che vede Dio; non certo Dio quale è, ... ma che Dio è. Apprende questo non da un maestro estraneo; non l'apprende dalle cose terreStri, né dalle cose celesti, né CQn il concorso di un qualsiasi elementd, mortale o immortale; ma ne è· edotto da Dio solo, che volle svelare la sua propria esistenza al suo devoto ... Per mezzo di Dio soltanto noi vediamo Dio; niente altro può aiutarci a questo... (De praemiis et poenis, 44). È impossibile all'uomo percepire da se stesso l'essere assoluto; bisogna che l'Essere assoluto si manifesti e si mostri (De Abrahamo, 80). "Il Signore disse ad Abramo: Esci dalla tua terra e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, e vai nel paese che io ti mostrerò" [Genesi, XII, 1-3]. Dio vuol purificare l'anima dell'uomo: le indica quindi, come mezzo perfetto di salvezza, di allontanarsi da tre regioni che sono: il corpo, la sensibilità e il "l6gos" ossia il pensiero parlato. La terra è il simbolo del corpo; il parentado, il simbolo della sensibilità; la casa del padre il simbolo del "l6gos" ... (De migratione Abrahami, 1-2). Esci, dunque, dal corpo ("alcune anime, riconosciuta la gran vanità del corpo, chiamano il corpo carcere e tomba e come da prigione e sepolcro ne fuggono": De somniis, I, 139)... Esci anche dalla sensazione congenita [ché, su questo piano, hanno ragione gli scettici: De migr. Abr., De ebrietate, De cherub.] ... Ma esci anche da questo discorso enunciativo ... e l'intelligenza abbandoni l'esercizio delle sue proprie energie (De migr. Abrah., 3 sgg.), [ché, insufficiente, come vogliono gli scettici, è la ragione umana a cogliere l'essenza, mentre la scienza umana è ricerca e conflitto all'infinito: Che cosa, dunque, ci dovrebbe zatare se non la necessità di sospendere il giudizio?: cfr. De ebrietate, 40 sgg.; anche De profug.; Leg. All., II; De piane. Noe; Q. rev. div. haer.]. Ma io, mentre avevo lo spirito vuoto, a un tratto, mettendomi all'opera, diventavo pieno; i pensieri mi cadevano dall'alto come semente. Per azione divina io mi trovavo in estasi, non riconoscevo piu affatto i luoghi, i presenti, me stesso, quel che dicevo e quel che scrivevo (De migrat. Abrah., 35).
Questa l'esperienza vitale di Filone, che, certo, a lui deriva non dalla tradizione greco-romana, ma dalla meditazione sui sacri libri ebraici, dai libri di Mosè:
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Quasi tutto o la maggior parte nelle Leggi ha senso allegorico (De losepho, 28). C'è chi, ritenendo che il testo della Legge sia simbolo di cose intelligibili, queste cura assai, quella trascura fadlmente. Io biasimo tale leggerezza. Di entrambe le cose bisogna preoccuparsi: della ricerca accurata del senso nascosto, e della diligente osservanza dei segni palesi... Certo, il settimo giorno, ad esempio, significa per noi la potenza dell'increato e il riposo imposto all'opera della creazione: ma questo non deve valere come pretesto per distruggere la legislazione del settimo giorno... E cosi pure è vero che ogni solennità è simbolo della gioia interiore e del rendimento di grazie dovuto al Signore; ma non rifiutiamoci di partecipare alle riunioni che a epoche fisse sono obbligatorie... La lettera è come il corpo, il senso mistico è come l'anima ... (De migr. Abr., 89 sgg.).
Senza dubbio il metodo allegorico - già presente in Aristobulo porta Filone di là dal puro racconto popolare biblico, ma attraverso questo egli si rende conto della propria personale esperienza : un atto d'intendere profondo, che è illuminazione con cui si vede Dio ("Dio, che è luce di se stesso, solo per se stesso si vede, null'altro cooperando o potendo cooperare alla pura concezione della sua esistenza" : De praemiis et p.oenis, 45-46), anche se di Dio non si coglie l'essenza ("se alcuno poté concepire Dio per se stesso... si chiama veggente di Dio : non che veda quale è Dio, che è impossibile, ma che è... Una cosa è se Dio esiste ... altra che cosa sia per sua essenza" : De praem. et poenis, 44), illuminazione dovuta a Dio stesso, da .cui per altra via può prendere poi le mosse l'interpretazione di quella visione, sia interpretando le Sacre Scritture, sia discorrendo in termini umani di quella visione stessa. Si capisce cosi come per Filone la filosofia debba prendere le mosse dalla rivelazione e sia, quindi, chiarificatrice di quella, in un solo circolo (cfr. De congressu eruditionis gratia, 79-80). Quello di Filone è un itinerario della mente a Dio, che presuppone Dio che si rivela, e perciò è anche itinerario da Dio, ed un commento alla rivelazione di Dio, manifestatasi nei libri di Mosè e nella creazione. Questo, sembra, l'aspetto originale che troviamo in Filone. Di qui, da un lato la sua interpretazione dei sacri libri ebraici e, dall'altro lato, la sua interpretazione - sempre allegorica - di quell'aspetto della cultura greca che s'era formato attraverso Platone, certo pitagorismo, Aristotele, i manuali stoici, e, per altro verso, alcuni testi pseudo orfico-pitagorici, circolanti nell'ambiente di Alessandria, che soprattutto insistevano sulla caduta dell'anima nel carcere del corpo e sul suo ritorno, mediante l'iniziazione e il rintraccio da parte del divino (si ricordi il mito di Zagreo, gran cacciatore di anime), alla patria celeste d'onde è venuta.
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Sotto questo aspetto, entro i termini di questa esperienza (non v'è pensiero che non venga da Dio, "solo di Dio è proprio agire... di ciò che è generato patire": De cherub., n), si capisce come Filone, interpretando Platone e la tradizione stoica, attraverso il cui linguaggio è possibile esprimere discorsivamente la propria esperienza extraumana, extradiscorsiva, potesse sostenere che anche Platone, Eraclito, gli Stoici, e cosi via, avevano avuto da Dio, traducendola in termini umani, quella stessa rivelazione da Dio data a Mosè, rifacendosi anche direttamente ai libri stessi di Mosè. Di qui, per Filone, la possibilità di interpretare Platone o gli Stoici attraverso la Bibbia, o la Bibbia attraverso certi passi di Platone, di Aristotele, degli Stoici, quasi che i pensatori greci, cui Filone si rivolge, avessero attinto alla Legge ("Eraclito ebbe ragione nel seguire la dottrina di Mosè": Legum Allegoriae, I, 108; "Sembra che Zenone abbia attinta la sua dottrina, qu_asi da una fonte, dalle Leggi degli ebrei" : Quod omnis probus liber sit, 57). Già, posti, dunque, i libri sacri come allegorie dell'indicibile visione di Dio e della sua opera, di essi, come del mondo (ombra di Dio: mediante cui, come attraverso l'opera l'artefice, si concepisce Dio) e come dell'intima ed extraumana rivelazione di Dio in noi, non si può parlare che allegoricamente. Mosè, scrutando l'essenza di colui che è, non poté intenderla: mi vedrai di spalle, non vedrai la mia faccia. Basta infatti al sapiente conoscere le potenze seguenti e successive a Dio; ma chi volesse guardare l'essenza principale, sarebbe accecato dallo splendore dei raggi prima che potesse v~ere (De post. Caini, 169).
Questo il metodo allegorico di Filone, che, proprio in ciò, si differenzia dal metodo allegorico con cui già i Greci ed in particolare gli Stoici tendevano a razionalizzare la mitologia greca, e che, d'altra parte non ha nulla a che fare col mito platonico, usato in funzione di ipotesi, anche se alcuni di quei miti potevano dar luogo a ipostatizzazioni allegorizzanti. In effetto, per Filone, ogni discorso su Dio ·(e il discorso non può essere che su Dio, che solo Dio è: cfr. Quod detmus potiori insidiari soleat) non può non essere che allusivo, allegorico, ma tale che serva al ritorno a Dio dello stesso Dio, alla salvazione, ad evocare e a far vivere attraverso i simboli la verità nascosta, il Dio nascosto, di là da ogni discorso. E, per ciò, appunto, potevano servire anche certi testi della tradizione greca, di là dal significato contestuale di quei testi stessi, di cui, in realtà, Filone si serve sempre in funzione della propria interpretazione, per mostrare l'unica rivelazione di Dio. Ciò, per altro verso, si vede bene, quando si prendono in conside-
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razione quelle pagine in cui Filone, riprendendo gran parte delle argomentazioni, divenute oramai tradizionali, dello scetticismo, sostiene che se la ricerca non si fonda sulla rivelazione, la ricerca stessa rimane aperta all•infinito, onde sarebbe necessario sospendere il giudizio, in una critica, alla fine, sia del processo conoscitivo d'origine platonica (dal senso, alla ragione, all'intellezione), sia di tutte quelle posizioni (in particolare il protagoreismo e l'epicureismo) che negano che a fondamento della realtà tutta vi sia una ragione, sostenendo che tutto si produce a caso, spontaneamente ( cht«U't'O!J.«'t'(~ov-rcx), che le " arti, i mestieri, le leggi, i costumi, la politica, la giustizia individuale e sociale, sono fondate fmtro) dall'intelligenza umana" (Leg. Alleg., III, 30-31). Maestri nell'arte della dimostrazione e del discorso (De post. Caini, 79-80), Filone ritiene estremamente pericolosi tutti quei filosofi che, empi, costituiscono una realtà che si dimostra frutto dell'attività della ragione umana, che ritengono razionale la realtà, in quanto proiettano nella realtà e in Dio la loro stessa razionalità (cfr. De Cherub., 57-65), si che alla fine, per essi, Dio non è causa ma strumento (cfr. De confus. ling.), spacciapdo per verità ciò ch'è dovuto all'uomo, e facendo della filosofia un fine e non uno strumento. Entro quest'accusa rientrano per Filone anche i platonici e gli stoici, se non vengano illuminati dai libri di Mosè, se non ci si riferisca - almeno per certe frasi, certi miti di Platone e per altre tesi della letteratura pitagorica sulla simbolica dei numeri che si possono interpretare allegoricamente ad una ispirazione mosaica e profetica. Di contro aii•empio dogmatismo (De Cherub., De sacr. Abr. et Cai., Quod det. pot. ins., De post. Caini, De conf. ling.) era facile per· Filone riprendere i t6poi delle argomentazioni, le aporie degli scettici, mediante cui dimostrare la nullità e l'impotenza dell'uomo, di fronte all'empio orgoglio (-rii<pot;) dei dogmatici. Filone (cfr. in particolare De ebrietate, 171-206; De Josepho, 125-143; De somniis, l, 21-24, 30-33), riassumendo le note argomentazioni sulla fallacia dei sensi contro la teoria stoica e neo-aceademica dell'assenso (cfr. De ebrietate, 165) e della fantasia catalettica, sottolineando la differenza di opinioni dei filosofi sulla origine del ~ondo e sul bene e servendosi per ciò delle dossografie (lo dimostra lo stesso andamento; relativamente alle questioni: Dio, la generazione, la Provvidenza, l'anima), tende a dimostrare l'incertezza delle conoscenze umane, ché, in conclusione, è per l'intelletto impossibile comprendere se stesso, onde anche di Dio e della verità non è possibile dire nulla (e ancora una volta Filone si rifà alle tesi opposte sul divino e sui cieli: cfr. De somniis, l, 21, 24, 30-33). Se anche Filone nel De ebrietate, nel De
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somniis e nel De fosepho non fa nomi è certo ch'egli, soprattutto per la disposizione e l'ordine degli argomenti, per i tropi usati, per la discussione nei confronti delle piu recenti tesi dei neo-accademici (Antioco di Ascalona?), ha presente il complesso di un testo scettico, abbastanza vicino nel tempo a lui, e assai diffuso, se già assunto per i suoi argomenti a documento. Probabilmente si tratta, come ha cercato di dimostrare il Bréhier (Les idées phi/osophiques et re/igieuses de Phi/. d'Alex., Parigi, 1908, pp. 210 sgg.), di Enesidemo di Cnosso. In effetto, come aveva già sostenuto Arnim (Quellenstudien zu Philon, in "Kissling u. v. Wilamowitz philol. Untersuch.," XI, pp. 101-40) i testi, se vogliamo dire cosi, scettici di Filone (nel De ebrietate) sono una redazione dei tropi di Enesidemo, piu antica di quella di Sesto Empirico, in accordo con quella di Aristocle (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 17-18, 11: 9 tropi invece che 10 come in Sesto), mentre alcuni passi del De somniis, in cui si sostiene l'incomprensibilità del cielo (il quarto degli elementi che compongono il mondo) e dell'anima (la quarta delle facoltà dell'anima), sono assai vicini all'esposizione che dello stesso argomento dà Aezio nei Placita e la cui fonte sembra essere Enesidemo (cfr. Wendland, Eine doxographisçhe Quelle. Philos., in "Sitzungsber. der K. preusse. Akad. der Wiss.," 1897: Sesto, del resto, riferisce a uno scettico la tesi che l'intelletto non può afferrare se stesso: Adv. math., VII, 313), s1 come a Enesidemo, si potrebbe riferire il modo filoniano di opporre le varie opinioni dei filosofi sullo stesso problema, per dimostrare le opposte ragioni e perciò l'incertezza e la vacuità, ché tale sembra fosse il procedimento di Enesidemo (cfr. oltre; cfr. anche Diels, Doxographi graeci, 210). Non solo, ma in un testo del De fosepho (125-143), come è stato sottolineato, l'irrealtà della "comprensione" vi è provata non con gli errori della rappresentazione stessa, ma con l'argomento eracliteo del perpetuo flusso delle cose. "Tutta la prima parte dello sviluppo dell'argomentazione, fino al paragrafo 142, è certamente tratta da fonte eraclitea, e se vi si trovano termini usati dagli stoici (per esempio xcx't'lXÀYJ\jltç'), è che la dottrina di Eraclito è utilizzata contro le concezioni degli stoici. La stretta parentela che vi è tra questa argomentazione e Io· scetticismo di Enesidemo, tanto qui, quanto nel De ebrietate, mostra che colui che ne fa uso è lo scettico Enesidemo" (Bréhier, op. cit., p. 213). In effetto, attraverso··Sesto Empirico (Pyrrh. hypot., I, 210), sappiamo che secondo Enesidemo lo scetticismo può sfociare in una posizione eraclitea. Posto questo, tanto _meglio si potrà comprendere la posizione di Filone, il senso del suo platonismo e del suo stoicismo, il significato della novità rivelazione e creazione, se ci si renderà conto della portata
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dello scetticismo, e, fuori di Alessandria, anche indipendentemente dalla particolare situazione di Filone, uomo di cultura greca ma in ambiente ebraico, della crisi che, in una piu generale crisi politica e sociale, subirà la cultura ch'era stata propria della classe dirigente, da Tiberio in poi sempre piu esautorata. E allora, parallelamente a Filone, tanto meglio si potrà comprendere - ma in Roma e in un uomo non di origine ebraica - il significato dello stoicismo di Seneca, di appena una trentina d'anni posteriore a Filone, il suo moralismo e la sua religiosità.
2. Il neo-pirronismo. Da Enesidemo ad Agrippa Di Enesidemo 2 sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza interessante relativamente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva avere dell'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica dell'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera principale il titolo Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equivoca posizione di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegnamento nella cultura romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedicato i Discorsi pirroniani "a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia illustre, che aveva avuto magistrature civili non volgari" (Fozio, Myr., 169 b). A parte un Tu2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo nativo d.i Egea). Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo. Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo al pirronismo, Elementi, Prima introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei discepoli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica.
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berone piu antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tuberone, amico di Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nell'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto liberarsi dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoicheggiante. In effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la polemica di Enesidemo è soprattutto volta contro i qeo-accademici, " stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà, ma alla comprensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la NuovaAccademia, in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del II secolo d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Accademia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica" : Pyrrh. hypot., l, 235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164), sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio" (cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne classificati cinque (cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32, tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263, un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti
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o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave allo Zeller, il. quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo al piu antico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone riprendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirroniani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al "recente" di Aristocle e all'" antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava con Pirrone e antico a Sesto che lo raffrontava con filosofi a lui posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, 1950, p. 278). I Discorsi pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1 secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera culturale, adagiatasi, attraverso Antioco e Cicerone, in una generica concezione stoico-platonica, accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente scolastica, anche se posta da alcuni come verità "probabile," una corrente scettica (come atteggiamento critico che " a ogni ragione oppone una ragione di egual valore" : Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8, "senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze" : Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesidemo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?).
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Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, bisognerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo generico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,. tuttavia, trasportando questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordinato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintracciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della "sospensione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma teoreticamente e scientificamente un compromesso, al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'insieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso organico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di contro alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo platonizzante e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua dialettica assunse un significato prevalentemente metodologico... Analisi rigorosa e infaticabilmente esauriente di tutti gli aspetti di un problema; abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica ... In origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina dello spirito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo; l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla
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tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origin es de l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, 1962, pp. 553, 554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filosofico e in una discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affermazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qualcosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fisica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o negazione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rapporti di inerenza. Di qui scaturisce la critica sia alla logica proposizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di inerenza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via.
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Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo v -re xott civ.&pc.>7tlvc.>v È7tta-r~!J.l)V: "gli Stoici dicevano che la sapienza è scienza delle divine e delle umane cose": Aezio, Plac., I, Proem. 2), se, una volta posto il rapporto Dio-mondo, Dio-uomo, il discorso può essere effettivamente quello stesso degli Stoici o del Platone ultimo, interpretato stoicamente, ciò che piu colpisce in questo testo è un certo linguaggio' (ad esempio la filosofia ancella, la sapienza vera moglie, la passività di fronte alla sapienza), e, particolarmente, il significato diverso che assume qui il concetto di sapienza rispetto al concetto di sapienza proprio della posizione cleantea e platonico-aristotelico-stoica in generale. Se per gli Stoici, attraverso l'esercizio della ragione ("filosofia è l'esercizio dell'arte necessaria alla sapienza": Aezio, Plac., l, Proem. 2), si giunge, sia pur per analogia a porre la condizione d'onde il tutto scaturisce (principio attivo e passivo; di cui l'attivo è Dio, in quanto pneuma caldo, vitale, ragione seminale, l6gos spermatik6s donde tutte le cose assumono la loro ragione: cfr. I vol.), sapienza consiste, appunto, nel ripercorre{e l'astorico processo del divino, del L6gos. Esso come seme ;mico che dal di dentro si espande differenzia la materia nelle singole qualità, per cui ogni cosa diviene quella che è, diversa dall'altra, mai ugu.ale all'alttà, mantenendo comunque il tutto unito nella tensione dei due termini (cfr. Cleante e Crisippo), oppure in un affievolirsi della tensione, si giunge dal l6gos fino ai gradi pio bassi sempre piu privi di l6gos (cfr. Posidonio). E anche se per Platone e per· un certo Aristotele vero sapiente è Dio (la divinità), in quanto ragion d'essere del tutto, in effetto all'uomo, in quanto aspetto di quel tutto, è possibile, mediante l'amore del sapere (filosofia), ripercorrere le trame stesse su cui si scandisce e· si realizza la ragione divina, principio e fine, condizione e scopo della realtà nella sua totalità. Per Filone, invece, solo Dio è sapiente e la ~osofia può avviare alla sapienza delle umane e divine cose solo quarido un lume di sapienza gli è dato gratuitamente da Dio. Solo allora si può, mediante la visione dell'ordine delle cose, dei cieli, e cosi via, mediante le argomentazioni stoiche, platoniche, aristoteliche, avvicinarsi all'idea di Dio, a concepire ch'egli esiste (rendendosi conto di ciò che viene da lui, dopo di lui: "Tu vedrai ciò che è dietro di me, ma non vedrai llr mia faccia [Esodo, 33, 23] ; che vuoi dire: Tutto ciò che viene dopo Dio l'uomo
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buono può apprenderlo ... " : De posteritate Caini, 169), ma non, appunto, a coglierne l'essenza. Il motivo della sapienza filoniana richiama piuttosto, anche se interpretazione della sapienza stoico-platonica, il significato dato a sapienza nell'Ecclesiastico, che da circa il 130 a. C. circolava in greco, che fu composto tra il m e il n secolo a. C., e che certo (come appare da molti accostamenti che si possono fare tra questo testo e i testi filoniani) Filone aveva presente (non va, d'altra parte, scordato, per comprendere certe derivazioni filoniane nella prima formazione della cultura cristiana, che l'Ecclesiastico fu usato nelle prime Chiese cristiane - da qui il nome: prima andava sotto il titolo Sapienza di Gesu figlio di Sirach, il presu!lto autore - per l'istruzione dei catecumeni e dei neofiti). Ogni sapienza viene dal Signore Dio, e fu sempre con lui ed è prima dei secoli. La sabbia del mare, le gocce della pioggia, i giorni del secolo chi li può contare? L'altezza del cielo, l'ampiezza della terra e la profondità dell'abisso chi può misurarle? La sapienza di Dio la quale va avanti a tutte le cose, chi l'ha compresa? Prima di tutte le cose fu creata la sapienza e la prudente intelligenza è da tutti i tempi. Fonte della sapienza è il verbo di Dio nei cieli, e le sue vie sono gli eterni comandamenti. La radice della sapienza a chi fu rivelata? E chi conobbe i suoi disegni? La disciplina della sapienza a· chi fu mai rivelata e manifestata? E chi comprese la molteplicità delle su!:' vie? Solo l'Altissimo Creatore Onnipotente, il re sovrano... Egli l~ creò in Spirito Santo e la vide, e la numerò e la misurò. E la sparse sopra tutte le sue opere e sopra ogni carne, secondo la misura da lui stabilita, e la diede a quelli che lo amano (Ecclesiastico, I, l, 1-10).
Sul concetto di sapienza cosi inteso ruotano i due piani sui quali si muove il pensiero di Filone; Da un lato - entro i termini della interpretazione biblica - la fede in un Dio unico e solo, trascendente, persona, e perciò al di là di ogni qualificazione e denominazione, atto gratuito con cui viene all'uomo il soffio divino; dall'altro lato, posta la rivelazione, la capacità attraverso le scienze e lo studio delle cose, di comprendere l'esistenza di un supremo ordinatore. E se, certo, a questo, come dicevamo, possono servire le argomentazioni degli Stoici, di Platone, di Aristotele, esse, tuttavia, pur consentendo a tutti di giungere a determinare l'esis~enza del divino, non portano a coglierne l'essenza. Di qui la filoso~ ancella della sapienza, cioè della teologia e i due piani su cui si muove Filone, il piano umano che porterà a discorrere di Dio e della struttura dell'universo in un certo senso - che può essere benissimo quello stoico-platonico - e il piano della
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fede che, pur necessaria per il primo discorso, ma d'altra parte da esso illuminata, porterà, in un salto, ad un'altra visione di Dio e del mondo. Difficile è comprendere, difficile afferrare il padre e principe (~ye:j.I.WV) dell'universo ('rwv auj.1.1tMWV ), ma ciò non c'impedisca di ricercarlo. In tale ricerca di Dio, due sono le questioni principali che si presentano all'intelletto del filosofo autentico: innanzi tutto se il divino esiste - problema che si pone a causa di coloro che praticano l'ateismo, il piu grande dei vizi; - in secondo luogo in che consista il divino nella sua essenza (oòmcx). La risposta alla prima questione non implica grande sforzo, mentre difficile, per non dire impossibile, è rispondere alla seconda. Esaminiamo ambedue. Sempre, per natura, si è passati dalle opere prodotte (31J!LLOUpYY)&bncx) alla conoscenza di coloro che le hanno prodotte (37jj.I.LOupy&v ). Chi, infatti, alla vista di statue o pitture, non ha subito la nozione di uno scultore o di un pittore? O chi, vedendo vestiti, navi; case, non ha concepito l'idea di un tessitore, di un costruttore di navi, di un architetto? E se si entra in una città ove ottime sono le leggi (còvoj.l.l«), ove tutto ciò che concerne gli affari pubblici è ammirevolmente amministrato, come sfuggire all'ipotesi che tale città sia retta da buoni governanti? Cosi, dunque, chi entra in questo mondo, che è veramente la grande Città, quando abbia veduto montagne e pianure pullulare di esseri viventi e di piante, corsi di fiumi scaturiti da sorgenti o dovuti alle piogge invernali, vasti mari, climi ben temperati dall'aria, il susseguirsi delle stagioni annuali, il sole e la luna che presiedono al giorno e alla notte, le orbite e le rivoluzioni degli altri astri erranti e fissi nell'intero cielo, non è verosimile, non è necessario che si giunga alla comprensione del fattore e padre, del principe di tutte queste cose? Nessun prodotto dell'arte si genera da sé. Il mondo è l'opera in cui si vede la maggior arte, la maggiore scienza, e quindi esso è stato fatto dal piu saggio, dal migliore degli artigiani. Ecco come abbiamo acquisito la nozione dell'esistenza di Dio (De special. legibus, I, 32-36). Argomentazione vecchia, questa, ove chiaro è il ricordo di Platone (si pensi soprattutto a certe pagine del Timeo, delle Leggi, dell'Epinomide), di alcuni Stoici (si pensi all'Inno a Zcus di Cleante, al Proemio dei Fenomeni di Arato di Soli) e di tutta la religione astrale,' iniziatasi, in Grecia, con Platone, da distinguere dall'altra tradizione di studi sulle leggi che regolano le stelle e i moti stellari che si era delineata, sul piano scientifico, in funzione delle possibili misurazioni. Solo che tutto questo - e per questo Filone poteva recuperare, anche se al di fuori dei loro contesti, le argomentazioni stoiche e platoniche non significa affatto, per Filone, avere afferrato l'essenza di Dio: si pone l'esistenza di un fattore, di una ragion d'essere, ma non la conoscenza di quel che sia quel fattore e quella stessa ragione. Su
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questo piano tutte le ipotesi sono possibili, per cm e necessario, su chi sia Dio e sulle sue ragioni, sospendere teoreticamente ogni giudizio. Si può giungere ipoteticamente a porre l'esistenza di Dio, ma ignoto resta Dio, ignote le sue infinite ragioni (sapienza di Dio). A Filone, ebreo, commentatore dei sacri libri ebraici, ripugnava sia la religione astrale (donde la sua critica contro l'astrolatria caldea, ove ~ da tener presente che per "caldei" s'intendeva ormai astrologhi : cfr. De Abrah., 69-72; De migr. Abrah., 177-181; Quis rerum divinarum heres sit, 97-99; De mutatione nom~nurn, 16), in cui Dio diviene gli astri stessi e la loro stessa necessità, sia la religione del mondo per cui Dio è il mondo medesimo. Tali le conclusioni cUi si può giungere, secondo Fi-. Ione, da una pura contemplazione dell'universo, se non si ·è sorretti dal soffio della sapienza divina che proviene da Dio stesso. L'unica possibilità era l'illogicità (umanamente parlando) di Dio, cioè l'affermazione di un Dio trascendente e persona, indicibile, inafferrabile, il biblico Dio che neppure a Mosè mostra la faccia, unico essere, colui che è, presente solo in quanto rivelazione da parte di Dio stesso del bisogno e del desiderio di lui. Ecco perché la conoscenza di Dio - non la sua presenza - resta desiderio e amore, resta ricerca, per cui, appunto, se purè utile da un lato la contemplazione del tutto per intuire l'esistenza di un supremo fattore, dall'altro lato questa stessa contemplazione è vana, se non si trova Dio in noi, la sua presenza in noi come rivelazione. Alla visione reale [del mondo] succede l'analogia, la congettura, e tutto ciò che rientra nell'àmbito del verosimile e del probabile... Eppure, pur non potendosi avere alcuna visione chiara di Dio in quello che è l'essere suo, non dobbiamo rinunciare alla ricerca, perché la sola ricerca, anche se non lo si trova, è in se stessa cosa felicissima... (De special legibus, I, 38-41 ). Che tu esisti e sussisti, o Dio, questo mondo visibile ce l'ha mostrato come un maestro e una guida... Rivelati a me... Io ardo dal desiderio di sapere ciò che tu sei secondo la tua essenza, e, per questa scienza, non trovo aleuna guida in nessuna parte dell'universo. Te ne supplico, mi rivolgo al tuo augusto nome:· lascia che a te s'innalzi la preghiera di un supplice, di un tuo amico, e che altro non chieda se non di servirti. Come la luce non si lascia discernere che da se stessa ed essa sola dà i mezzi per scoprirla, cos{ anche tu, tu solo hai il potere di parlare di te stesso ... (De spec. legibus, I, 41-42). Dopo essersi aperti una via, a partire dal proprio sé, nella speranza di giungere, per questa strada, a formarsi una nozione del padre dell'universo, diJiicile a comprendere e a indovinare, si _aggiungerà forse alla ·conoscenza esatta di sé quella di Dio... (De migratione Abr., 195). Abbandona alla fine la ricerca delle cose celesti e conosci te stesso... t. un uomo di questo genere che gli Ebrei chiamano Tara, i Greci Socrate, poiché anche lui, secondo i Greci, è invecchiato nella meditazione di questa massima: "Conosci te stesso... " (De somn., I, 57-58).
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I due piani di cui parlavamo sopra si delineano anche come due vie di ricerca: la via fuori di. noi e la via dentro di noi, mediante la quale ultima, attraverso la rivelazione di Dio - donde l'interpretazione platonica del conosci te stesso socratico, e l'interpretazione dell'intuizione platonica in chiave d'illuminazione da parte di Dio, - lo stesso mondo appare come la creatura di Dio, non realtà per sé, esso stesso Dio, non essere nella sua totalità, ma opera di Dio, creatura voluta da Dio. L'impossibilità di concepire Dio, senza ridurlo allo stesso tutto, pone Dio, in una visione interiore, come trascendente e persona, libertà, essere unico, egli creatore (non conoscenza, ma fede), egli ragione della ragione e, perciò, attraverso lui ragione del tutto, ciò da cui proviene, in quanto creatore, la ragione (l6gos) del mondo, che è appunto ill6gos di Dio, il verbo (la sapienza) di Dio; Posta una simile interpretazione di certi testi biblici e in funzione di essa, interpretate nel senso che abbiamo visto le due vie platoniche (la contemplazione del mondo, insieme a quella delle leggi stellari - si cfr. Timeo, Leggi, Epinomide; ma anche molti dei motivi dello stoicismo antico-teologico -; l'abbandono del mondo dei sensi in un socratico-platonico ripiegamento su di sé), sembra chiarirsi il rapporto Dio-mondo qual è descritto da Filone, volta a volta, nei suoi commentari. In realtà, il mondo, per Filone, non è, c'è in quanto creato da Dio; verbo di Dio, dicevamo, non in tanto in quanto sia una irradiazione e realizzazione di Dio che non sarebbe se non appunto rivelando sé (mondo), ma in quanto parola (realtà) di Dio, altro da Dio, proprio in quanto parola. Sotto questo aspetto non è contraddittorio dire ad un tempo che il mondo è Dio e che il mondo non è Dio, che l'essere che è, proprio perché essere, sciolto da ogni limite, è infinite possibilità, in lui tutte in atto (in lui che è oltre l'uno e la monade, oltre il Bene e il Bello in sé) e perciò stesso onnipotente, Signore, che non ha nulla di fronte a sé, e che in quanto potenza assoluta - ricchezza di tutto - crea, ex nihilo, una ragione che diviene la ragione di quella sua creatura, donde si costituisce tutto il resto,. che ~ppunto in quanto creatura non è il suo creatore, ma ha in sé la ragione (quella r.agione) del suo creatore. Come, dunque, posto un Dio creatore e onnipotente, egli solo Essere, si può ammettere la realtà de) mondo in quanto parola di Dio che assume una sua ragione, tale in quanto fatta da Dio, cosi, ad un tempo, si può ammettere che tra il mondo limite, materia, molteplice, e Dio, Dio abbia creato delle potenze intermediarie. E come la stessa materia è entità voluta da Dio, cosi entità possono essere gl'intermediari tra Dio e la materia. Non vediamo, cosi, a meno che non si voglia da Filone ciò che è venuto dopo Filone e s'interpretino certi testi filo-
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niani al lume del rapporto uno-molti di Plotino e Dio-mondo di Agostino; in che modo si possa parlare di un'oscillazione filoniana tra una concezione strettamente creazionistica e una concezione emanatistica, tra il Verbo di Dio, inteso come attributo di Dio, principio eterno della razionalità con cui Dio crea il tutto, e il verbo inteso come entità da Dio creata, tra un dualismo che non spiegherebbe il rapporto Diomondo, e un monismo che ancora una volta ridurrebbe il divino ad essere in quanto ragion d'essere del tutto, uno col tutto, fra trascendenza e immanenza, tra Dio bene, benefattore, e il male e la punizione che non possono essere opera di Dio. In effetto alcuni testi di Filone si prestano a suggerire una problematica volta in tal senso, ma solo quando si astraggano dai contesti in cui si trovano, sempre, cioè, in funzione interpretativa di passi biblici, talvolta molto distanti tra loro, in un linguaggio ch'era il linguaggio d'una certa cultura, e qualora, ripetiamo, si cerchi di vedere in essi una serie di questioni sorte piu tardi, nella polemica plotiniana nei confronti dell'irrazionalismo della gnosi e nella discussione di certi gruppi cristiani sull'irriducibilità della visione cristiana entro i termini di un certo neoplatonismo e di certo stoicismo. Peraltro grande, senza dubbio, fu l'influenza di Filone su queste correnti, e fu proprio ,la discussione e il commento su Filone che determinò, almeno in parte, quelle stesse posizioni e interpretazioni (si rimanda per questo e per la tesi che sostiene esser stato Filone padre della filosofia religiosa subordinante la filosofia alla teologia e fondatore della filosofia scolastica, non solo occidentale, ma ebraica ed araoa, allo studio di H. A. Wolfson, Philo: foundations of. religious philosophy in Judaism, Christianity and lslam, Cambridge, Mass., 1947). Per Filone, entro i termini della sua cultura e del suo linguaggio e dell'ésegesi di alcuni libri della Bibbia, non v'è nessuna contraddizione fra il negare qualsivoglia attributo e qualificazione di Dio, appunto perché Dio è l'essere, che in quanto essere esclude da sé ogni limite, e l'affermare, riflettendo sul mondo che non può non essere se non creatura di Dio, che ha essere da Dio e perciò da lui la sua ragione, attraverso ciò che è dietro a Dio (''Tu vedrai ciò che è dietro di me, non vedrai il mio volto": "tutto quel che viene dopo Dio l'uomo dabbene · può apprendere, ma Dio stesso no": De post. Caini, 169), che Dio è perfezione e bontà, -che in quanto essere in atto, perfetto, eterno, è sempre in atto buono e perfetto, e, perciò stesso, potente, e in eterno creatore. Né tempo né spazio Dio, il tempo e lo spazio ci sono con le creature ("Dio ha generato con i corpi lo spazio e il luogo": De conf. ling., 136; "il tempo fu da Dio generato con il cosmo": Legum alleg., l, 2), onde Dio non crea in un certo momento in un qualcosa, ché il tempo e il qualcosa sca-
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turiscono dal suo stesso atto creatore, per cui si può dire che la decisione (atto della sua imperscrutabile volontà) di creare questo mondo visibile (De op. mundi, 20) ad immagine del mondo intelligibile anch'esso tale in quanto tra le infinite possibilità tutte in atto in Dio essere perfetto, la sua decisione è atemporale, essa costituente la temporalità, e perciò la distinzione e la limitazione, la numerazione ("il fattore non ha bisogno di una certa lunghezza di tempo, ché Dio fa tutto in un sol colpo": De op. mundi, 13). Appunto perché Dio è Dio, è "colui che è," egli tutto in atto e a un tempo tutte le infinite possibilità, la sua decisione (non a caso Filone dice decisione, cioè non necessità intrinseca a Dio) non ha perché, ché altrimenti Dio sarebbe limitato a quel perché stesso, mentre è egli a far diventare perché il perché, a far diventare ragione quella ragione, già in lui presente in quanto obietto del suo pensiero, costituente un certo mondo di idee, uno tra le infinite possibilità in lui in atto: Ma il mondo fatto di idee... non può avere altro luogo ehe il Pensiero (Myoç) divino ordinatore di queste cose. Poiché quale altro luogo ci può essere, capace di accogliere e contenere le potenze di lui, non dico tutte, ma semplicemente una qualsiasi? Ora è bene una potenza quella creatrice, che ha per fonte il vero bene (De opif. mundi, 20-21) ... Dio, perciò, avendo deciso di creare questo mondo visibile, modellò prima l'intelligibile per potere, valendosi del modello incorporeo e similissimo a Dio, formare questo mondo corporeo, immagine posteriore dell'altra anteriore e contenente tante specie sensibili quante sono le intelligibili in quella (~OUÀ1Jhlç TÒV Òp«TÒV x6a!J.OV TOUTOVt 31J!J.LOUp'fìia«L 7tpoe:;e:'t'ti7tOU TÒV V01JT6V, [vot J(p6>~J.EVOç «a(a)(J4T(f) xoct &eoe:t3&aTIXT(f) 7totpot3e:(y!J.otTL TÒV (J(a)!LOCTLXÒV «1tEpy~..cx aua't"lja<X(L&vov ~x !J.1J !lv-rwv (Leg. alleg., III, 10) e ciò che non era chiamò all'essere. Su questi testi si è molto discusso. Vi è chi ha sostenuto che Filone, pur ammettendo che Dio, mediante il l6gos, crea l'universo e le potenze incorporee, mantiene alla materia, come quantità, una sua realtà, e c'è, invece, chi ha sostenuto che Filone ammette come creatura di Dio sia il 16gos sia la materia (sulle varie tesi cfr. Bréhier, cit., pp. 80-2; W olfson, cit., pp. 300 sgg.). In effetto bisogna tener presente che l'opera di Filone non è né un trattato, né l'esposizione di un sistema, ma un commento e un'esegesi di alcuni libri della Bibbia, ognuno dei quali si presta ad interpretazioni diverse. Un commento della Genesi, in cui senza dubbio non v'è affatto il concetto della creazione della materia, né quello della creazione dal nulla, si prestava, andando di là della povertà della lettera, ad una interpretazione in chiave platonica, o meglio in chiave di certi testi del Timeo letti attraverso l'occhio di testi stoici. Altri testi del Vecchio Testamento, invece, particolarmente - e diremmo unica· mente, - un testo del II dei Maccabei (II, 7, 28), molto tardo e ber piu evoluto, in netto e consapevole contrasto contro la cultura elle nistica, poteva esser tenuto presente da Filone, nell'interpretazion• del significato del Dio degli Ebrei (cfr. specialmente Sapienza, 13, 1-9 in contrapposizione, appunto, con la divinità, atto puro, ragion d'e! sere, l6gos, leggi stellari, propria della rielaborazione di quella cultun Non a caso il testo dei Maccabei dice: Ti prego, guarda il cielo e la terra e tutte le cose che contengono, sappi. che Dio fece dal nulla quelle cose e l'umana progenie (Il, 7, 28
e non a caso Filone sottolinea: Dio non è stato semplicemente ordinatore, ma creatore ( où 37)!J.tOupyi !J.6vov IDCÌ: xcxl x·da't"lj3tot) loro natura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei dodici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e microcosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto domina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo.
"Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attraverso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo discende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, sistemando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del
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suo mordente magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vogliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali perciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rivelata a chi sappia contemplarla : Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32).
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14).
Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stellari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare riferimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistemazione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determinando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini,
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senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il significato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appariva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacrifici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10).
E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione dell'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama : Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto contro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di persuasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine
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egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, interpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espressione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irrevocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le pràtiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenusque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66) ... Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chiederle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tuttavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di contro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egiziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la causalità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storicamènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla imposizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi-
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bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizzazione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico dell'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divinazione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisicomatematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, 1908, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati dell'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-matematici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, riprodotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte? ... ] non giunsero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante destino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' ( Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candidamente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4).
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3. Lo «stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste concezioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt istituzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esigenze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono realmente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vogliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal principio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel II secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Calvisio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d 'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche
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esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato all'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova imperatrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrippina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messalina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d 'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane imperatore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita · allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scrivere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come
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I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la· tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati accusato di a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Sencca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carattere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, Ad Marciam de consolatione, De uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (composto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di Caligola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per consolare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si
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ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella .dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada perduto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi"); De elementi~~ (indirizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolarmente opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si definisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, perdono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di ritirarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo .rendano necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore, probabilmente autore del poemetto A etna; Seneca, abbandonàta la questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Provvidenza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia beneficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno composte tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epistulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa).
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delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo ..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4). - Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vincere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo con te la lingua stoica... ; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di pensatori, le cui concezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cricica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come " filosofia teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti : ... forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le azio9i; ... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili ... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ragionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica - "anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili ..., impariamo per la scuola anzi che per la vita ... " (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da
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una continua riflessione su esperienze di vita : dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vigliaccheria, dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette cronologicamente una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qualsiasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soccorso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla mèta fatale ... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è ancora in grado di capire ... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'affatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi che non sono infelice ... (5, 2). Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò... : io vivo sprofondato in difetti di ogni genere (De vita beata, 17, 3-4).
La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctmsolatio ad Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Polibio - liberto di Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor-
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sica, consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Polybium, del 43 o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, composta, contro Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento politico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvidentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De providentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estremamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari compromessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era
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figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo Novato, (adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolarmente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprattutto dal padre - che temeva per · la salute cagionevole del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'eccessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acrimoniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre
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per Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è perduta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condannare a morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca, Messina, 1920, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella certa situazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che .senso si possa dire, che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'analisi minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---' conflitto di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini in funzione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ritenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica dena filosofia,
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ché altra è venuta ad essere la situazione . politica, l'ambiente, gli uomini su cui operare, altro l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua confessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Caligola e Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini: uomini che potessero, in un reciproco rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca : da un lato una descrizione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una misura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si vedano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito ... Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte ... I destini compiono la loro opera" ; e nel De ira (III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto] ... Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. l) Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di ciascuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibilità da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono essere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio-
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nevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, realizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a modello del presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa ogni possibilità d'azione - onde il "saggio" stoico resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la raZionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la composizione della pluralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di cultura -la koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora vivissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il significato della morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscillazioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quell'amico, in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati il De ira, il De vita beata; a Sereno, cui sono dedicati il De constantia sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino,
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cui è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la condizione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore ... Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, conoscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasformarsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria dell'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che daranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Perché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco specializzato? ..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono un .saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori ..." "Però,"
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tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o maligni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei ... Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII).
Di qui anche un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del " saggio" stoico di ritirarsi dalla., vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza dell'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il "saggio" da tutto monasticamente si ritira, non piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti, nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio" tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in realta, alla fine, non si comprende piu che tutto, proprio perché è come deve essere, perché è natura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una persona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessivamente generosi, .irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci; :erto, su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quell'esclusivo amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non solo, ma un altro pericolo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a vivere secondo la ragione universale, venga, in conclusione, ad annullare l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento della
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propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al disprezzo per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una certa condizione e situazione che non dipendono da noi, comprendere che l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa riflessione, attraverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizzazione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle singole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vivere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bisogno, senza di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione può diventare
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inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'autentica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose? Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep. a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna prevale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la fortuna n~tn ·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al contatto dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribunale e ti si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn
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la tua voce, e se qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'incedere stesso egli serve... Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circostanze fortuite o dalle condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i Trenta Tiranni la straziavano? ... Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e consolava i padri piangenti ed esortava coloro che disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo della loro perniciosa avarizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo volevano imitare, camminando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spontaneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tranquillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epicuro di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle
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opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De brevitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes_sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare .:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la povertà, e ·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza .della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli insegnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi ... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo cominciai da giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non mi' vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammirazione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla soddisfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si annienta ... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine con ampiezza di argomenti, "non credi," soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi, incominciai ad astenermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente piu svelta, seb-
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bene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni ... (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22).
Di Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevitale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altro una sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo professorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine "stoico" sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dottrina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e passivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il costituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine • stoicismo," • pitagorismo," "platonismo" evocava in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato sostenuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede in un ordine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui,
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cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Ci zio, "cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma. solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presentando se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quotidiana vita della Roma ._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimostrare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'eloquenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero -:-·· ··!! modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di ;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere ..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, il migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di ammirazione per quel semi nudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci riesce.
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La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3).
Non a caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà per sovvertire gli ordinamenti dell'impero ... Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti ... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia ... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti ... Un tale atteggiamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est ... " (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compromettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo coraggio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio ... (Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo" : esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, opposizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone.
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Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe dovuto essere l'" uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima educazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logicogrammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare l'impossibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni : cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si precludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misurata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguaggio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costituisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in
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quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche .divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno contribuisce alla trasformazione dei costumi, .::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche? .Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Platone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù ... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia; ... le cose tutte sono il risultato dell'elemento. paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep . .. U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristotele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Platone, poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{ presente: questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se .stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili, instancabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU:: "pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. problemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi, che no~
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ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia? • lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si disperdono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la filosofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paSsaggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver cominciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos( a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.).
Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando già Seneca era stato cOstretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo, • ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto provenga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'essere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non conclusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni definitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,
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capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova moltissi~o anche a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e quanti significati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello .che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in materia cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a sciogliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio... (Ep. a Luc., 48, 2~.
Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La perfezione di una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre direzioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo XV, "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, 1962, p. 65).
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Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca.