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Francesco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La formazione del pensiero filos...
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Francesco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La formazione del pensiero filosofico dalle origini a Platone VI-IV secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA II. Filosofia, cultura, scuole, tra Aristotele e Augusto IV-II secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA III. Pensiero, culture e concezioni religiose II secolo a.C. -II secolo d.C. LA FILOSOFIA ANTICA IV. Cultura, filosofia, politica e religiosità II-VI secolo d.C.
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FRANCESCO ADORNO IAFIWSOFIA ANTICA N. Cultura, filosofia, politica e religiosità ll -VI secolo d.C.
~ Feltrinelli www.scribd.com/Baruhk
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione agosto 1961 Prima edizione nell"'Universale Economica" ottobre 1992 ISBN 88-07 81138-3
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Parte prima
Cultura filosofica, politica e religiosità dal II al V secolo d. C.
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Capitolo primo
Da Diane di Prusa e Plutarco a Platino
l. Dione di Prusa. La politica culturale delflmpero nel Il secolo Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cultura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in funzione di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione morale, attraverso cui in un consapevole distacco dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel 114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio. Particolarmente interessanti sono le cosiddette orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica (XXXVI) e l'Euboica {Vll).
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in volta, si concreta come cortesia e generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8) .. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita sociale come misura e intelligente equilibrio, si capisce, in principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale, libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accusati di complotto contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al 96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli aveva disprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia dell'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e· di Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8
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di cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia davvero un male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo axii!J.IX, delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e costituzionalizzazione dell'Impero, che soffriva, relativamente alla fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la funzione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio antoniniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializzazione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'impero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cultura. Nel vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di elementi etnici e culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala maggiore, favorito dall'unità politica e amministrativa. E diventa quindi sempre meno sostenibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad assimilare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per prudenza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compromesso il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende militari, ma già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue-
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cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrnbito dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'opposizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne giustificassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibilmente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'impero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale ... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere imperiale alle condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, trad. it., Firenze, 1946, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Domiziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove partecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cittadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche dell'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la c@nvivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine cosmico, retto in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia-
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baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di. T raiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone ( 8e:<m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un " filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che- e sarebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo arbitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo parlato, quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'imperatore a quella che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia. • Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti
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presso il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminatamente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione e intelletto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scrivendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli con il massimo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orientali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforzamento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua importanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Imperatore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chiamato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distribuisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da
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Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affermatosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il principio dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati. Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia, piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per parentela, e gli altri li avete assoggettati a loro. Né .il mare né alcuna vasta distesa di terra possono impedire a uno di diventare cittadino romano; nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e rappresentava la propaganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant ") e molti furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica imperiale, abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli imperatori, che - per politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influenzato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel u secolo. 13
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Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni . nei confronti dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali dell'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu( ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filosofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quarantamila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo intervento fin( col divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato dall'autorità dell'imperatore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si assumeva cos( un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La decisione si collegava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo spirito anticristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giustiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione imperiale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possibilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cultura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale.
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2. Plutarco di Cheronea
Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò al platonismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della politica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto dall'imperatore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute autentiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale a quelli filosofico religiosi, polemici, critici, filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, Ad prineipem ineruditt~m, An seni Respublit'a gerenda sit, Praeupta gerendae Reipublit'ae, De uni11s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De
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mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il significato del "platonismo" e del "pitagorismo" di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misticismo e della teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Alessandria, maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto "plutarchea, "· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu "" ipis sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri quinque.
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riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epinomide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolarmente delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni : ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò è .assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immortale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distruggeranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene accantonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della concezione platonica, o come un approfondimento dd!' Aristotele interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-
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stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del "probabile" in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente - di ·certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvicinati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'aristocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egiziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della religione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'interpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egiziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nell'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi : Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpretazioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, credono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egiziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale, hanno un
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aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equilatero - alle quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro categorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il Determinato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus ], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia ... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costituisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a).
Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola religione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle religioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della politica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da imperatori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti.
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Iside è dea eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, come il nome stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli iniziati, poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea ... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [ sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene tramandato ... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali opinioni e riferiscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354 ], per usare la parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e. a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze, . tu lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'elemento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside
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(il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato del mito egiziano alla mitologia iranicocaldea e a certi testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, probabilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equilibrate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo che è mortale e morbosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplosioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del principio attivo che implica una passività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà
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molteplice, ché, pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura quantità; e se altrettanto ripugnante è l'ipotesi epicurea che spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile, irrazionale; l'unica possibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C