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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME O...
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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME OTTAVO
Il Novecento (z) Con specifici contributi di U go Giacomini, Pina Madami, Corrado Mangione, Franca Meotti, Felice Mondella, Mario Quaranta, Renato Tisato
GARZANTI
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I edizione: aprile I 97 2. Nuova edizione: settembre I976 Ristampa 1981
© Garzanti
Editore s.p.a., 1972., I976, I98I
Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto Printed in Italy
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SEZIONE DECIMA
Problemi e dibattiti filosofici e scientifici
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CAPI'I'OLO PRIMO
Nota introduttiva
Quanto detto all'inizio del volume settimo per ciò che riguarda l'impegno teoretico che ne ha guidato l'intera stesura, può venire letteralmente ripetuto a proposito del presente volume. Ciò che li distingue è che, mentre il settimo era interamente dedicato alla trattazione delle correnti filosofiche del xx secolo, questo concede invece largo spazio alle scienze come già avevano fatto il quinto e il sesto volume. Esso non prende in esame soltanto le cosiddette scienze esatte - logica, matematica, fisica, cosmologia, biologia - ma pure le nuove scienze concernenti l'uomo: psicologia e sociologia. I capitoli (ottavo e nono) dedicati a queste ultime costituiscono la diretta prosecuzione di quelli rivolti al medesimo argomento, contenuti nel volume sesto. Sia i due capitoli testé citati, sia soprattutto quelli dedicati alla matematica, alla fisica e alla cosmologia non pretendono di fornirci un quadro storico, sia pure schematico, dello sviluppo di tali discipline nel nostro secolo, ma solo di evidenziarne alcuni problemi o indirizzi particolarmente caratteristici. Per esempio nel capitolo sesto è dato uno speciale rilievo alla svolta impressa alla matematica dal largo impiego del metodo assiomatico, nonché al nuovo significato che essa viene ad assumere in seguito a tale impiego; per quanto poi riguarda la fisica, va precisato che i soli problemi presi in considerazione con una certa ampiezza sono quelli che hanno suscitato maggiore interesse presso i filosofi. Lo scopo che ci si è proposti nella loro analisi è stato quello di illustrarne con esattezza il significato e la portata, sia per porne in luce l'importanza filosofica generale, sia per togliere ogni fondamento a talune false interpretazioni che ancora oggi sogliano darne gli incompetenti. Un posto particolare occupa il capitolo quarto, il cui titolo stesso (Biologia e filosofia) dimostra che la trattazione è soprattutto rivolta a evidenziare l'aspetto filosofico dei complessi dibattiti intorno al problema della vita: dibattiti che hanno avuto il merito di porre in luce il significato profondo della contrapposizione tra meccanicisti e vitalisti, preparando il terreno a quella che sarà la grande svolta della biologia in anni più recenti. Le notevolissime dimensioni del capitolo quinto, sulla logica nel vente-
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Nota introduttiva
simo secolo, costituiscono una evidente conferma del peso costantemente attribuito a tale disciplina in tutta la presente opera. Qui la trattazione ha di necessità un andamento storico, in quanto sarebbe impossibile spiegare l'autentico significato di una teoria senza fare riferimento ai risultati ottenuti nelle ricerche che l'hanno preceduta. Il quadro complessivo che il capitolo ci fornisce, decennio per decennio, dei progressi conseguiti dagli studi logici è pressoché esauriente sia dal punto di vista filosofico sia da quello scientifico; né mancano le punte polemiche, in particolare contro la « logica crociana » che è stata una delle cause principali della decadenza delle ricerche logiche in Italia. Queste punte polemiche vengono in certo senso a completare l'esposizione della filosofia italiana contemporanea, contenuta nel capitolo terzo; capitolo che, insieme con il secondo dedicato ai problemi fondamentali della pedagogia odierna, risulta senza dubbio uno dei più impegnativi del volume .. Se è vero che il predetto capitolò terzo ha, esso pure, un'impostazione storica, vero è però che intende suggerire un'interpretazione in certo senso nuova dello sviluppo della filosofia presa in considerazione, sviluppo che viene direttamente collegato alle vicende generali della cultura italiana nel periodo in esame nonché alle lotte sociali e politiche che agitarono il nostro paese. Uno speciale rilievo merita quanto viene detto intorno ai caratteri e ai limiti del marxismo post-gramsciano. L'ultimo paragrafo, diretto a illustrare il significato della rinascita, in Italia, del materialismo dialettico, è particolarmente impegnativo per gli autori del capitolo; mira infatti a dare un'idea dell'impostazione filosofica che ha guidato la stesura generale dell'opera, nel suo complesso se non in ciascuna delle sue parti. Rappresenta perciò, in certo senso, il traguardo cui essa voleva giungere; spiega cioè il significato che intende avere entro la cultura italiana contemporanea: il contributo che si è proposto di dare al suo radicale rinnovamento.
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CAPITOLO SECONDO
Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea DI RENATO TISATO
I
· SOCIETÀ DEMOCRATICA IN CAMMINO E «RIVOLUZIONE COPERNICANA»
Dovendo prendere in esame gli sviluppi della pedagogia verificatisi nel periodo compreso tra la fine della prima guerra mondiale e i giorni nostri, il primo punto su cui ci sembra opportuno concentrare l'attenzione riguarda la diffusione e il passaggio al piano operativo della crescente consapevolezza che il carattere dinamico della nostra civiltà, lo sviluppo della scienza e della tecnica e dell'industria e l'affermarsi della democrazia, non possono non provocare una decisiva rivoluzione anche sul piano dell'educazione. Abbiamo parlato di « diffusione» e di « passaggio al piano operativo » giacché è chiaro che nel pensiero degli studiosi più accorti ed aggiornati tale consapevolezza era presente già da parecchi decenni. Dewey, come sappiamo, osservava che il concepire l'educazione come una specie di corsa del bambino a raggiungere le attitudini e le risorse del gruppo adulto si può applicare, in linea di massima, nelle società statiche, le quali prendono come misura di valore il mantenimento dei costumi stabiliti, ma non nelle comunità progressive, le quali tentano di modellare le esperienze dei giovani in modo che invece di riprodurre le abitudini correnti promuovano abitudini migliori. Arnauld Clausse, contrapponendo il « mondo tradizionale » al « mondo moderno », vede quali aspetti essenziali del primo la « permanenza » e la « dicotomia» (separazione fra l'élite che pensa e dirige e i lavoratori che subiscono ed eseguono) ; come caratteristiche salienti del secondo il « dinamismo » e la « grande mobilità sociale» per cui ogni vecchia dicotomia è scomparsa e l'uomo vale non tanto per ciò che egli è alla partenza quanto per ciò che è capace di realizzare al traguardo. Per scuola vecchia intendiamo, dunque, la scuola di una società autoritaria e statica in quanto autoconsiderantesi depositaria di valori assoluti e quindi definitivi, affidati a ben determinate opere « canoniche », cristallizzati in certi costumi e tecniche e nei precetti di un certo stile, il cui possesso è prerogativa di una aristocrazia, sacerdotale o civile, e il cui esser posti al di sopra dell'accidentale e del transeunte, sul piano privilegiato della rivelazione o della metafisica,
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Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea
è garanzia di conservazione di un particolare stadio di sviluppo della società e di una particolare situazione della civiltà. Se ciò che deve essere accolto dall'alunno è la scienza nella sua oggettività, col suo ordine e le sue strutture, il problema del metodo si risolve in quello di scomporre la scienza stessa nei suoi elementi costitutivi, così che il discente possa impadronirsi dell'intero sistema partendo dagli elementi e ripercorrendo ordinatamente la via segnata dalla logica. Da questo punto di vista la svalutazione del mondo del fanciullo, il disinteresse per la psicologia dell'età evolutiva e per le differenze individuali si rivelano altrettanti aspetti di quella concezione finalistica del mondo la quale, a sua volta, costituisce la trasposizione in chiave metafisica di una società aristocratica e statica. Al contrario, una delle note che caratterizzano la concezione moderna del mondo è, da un lato, il rifiuto dell'interpretazione teleologica del mondo stesso, dall'altro la consapevolezza che, se pure non tutti i cambiamenti sono buoni, il progresso può aver luogo soltanto attraverso variazioni, differenze. «Il polimorfismo psicologico,» scrive a questo proposito John Scott Haldane, «è stato una delle cause principali dell'affermazione della specie uomo e un pieno riconoscimento di questo polimorfismo e delle sue giustificazioni è condizione essenziale per una rinnovata affermazione non soltanto nel lontano futuro ma anche durante la nostra generazione... La libertà è il riconoscimento pratico del polimorfismo umano.» Sul piano pedagogico la crisi del modello definitivo porta all'affermazione della tesi secondo cui ogni età della vita ha una sua particolare forma di perfezione (Rousseau) e non è fondata la pretesa di attribuire un grado di perfezione a un momento piuttosto che a un altro (Vico). Un 'altra car:!tteristica della nostra epoca è la velocità crescente delle trasformazioni. Come osserva acutamente William Heard Kilpatrick, laddove i mezzi che Napoleone possedeva per mandare notizie da Roma a Parigi erano gli stessi che già aveva posseduto Giulio Cesare per comunicare da Parigi con Roma, da Napoleone ai nostri giorni sono stati invece costruiti per il trasporto delle cose e delle persone il treno, l'automobile, le navi a motore, l'aeroplano e, per la trasmissione di notizie, il telegrafo, la radio, la televisione, il telefono. La psicologia dell'età evolutiva avanza addirittura l'ipotesi che le stesse intuizioni di tempo e d1 spazio dei fanciulli nati nell'epoca del pieno sviluppo dei mezzi di comunicazione ultraveloci e capaci di metterei in contatto pressoché immediato con eventi verificantisi in luoghi remotissimi dello spazio terrestre ed extraterrestre, siano profondamente modificate rispetto a quelle delle generazioni precedenti. Sul piano pedagogico la consapevolezza della crescente velocità della trasformazione porta a concludere che, nell'impossibilità di prevedere con precisione come sarà la civiltà di qui a pochissimi decenni, la sola formazione che ragionevolmente si può dare al fanciullo è quella che deriva dal pieno possesso di tutte le sue
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Prohlemi fondamentali della pedagogia contemporanea
facoltà, dalla maturità di giudizio, dal sicuro possesso del metodo dell'indagine, così ch'egli possa, quali che siano le condizioni in cui gli capiterà di vivere, agire economicamente ed efficientemente. Possediamo, ora, gli elementi necessari per poter abbozzare un primo schema della problematica pedagogica quale si è venuta delineando nel corso dell'epoca contemporanea. 1) «Rivoluzione copernicana.» L'immagine si trova in Scuola e società di Dewey: «Nella nostra educazione si sta verificando lo spostamento del centro di gravità. È un cambiamento, una rivoluzione, non diversa da quella provocata da Copernico ..... Nel nostro caso il fanciullo diventa il sole intorno al quale girano gli strumenti dell'educazione. »Ma al di là del fanciullo in quanto tale c'è l'individuo, coi suoi caratteri irripetibili. Si prospetta, così, una rivoluzione più radicale, per la quale il valore si identifica colla espansione spontanea dei caratteri individuali. z) Educazione progressiva. Non si tratta solo di educare all'adattamento, al mutamento (al limite questo sarebbe il più integrale dei conformismi), ma di educare alla riflessione critica sul presente, inteso come punto d'arrivo del passato, ed allo spirito di intrapresa per la realizzazione di un futuro migliore. In una società in mutamento, afferma Margaret Mead, è regolare che i figli si ripromettano di comportarsi in modo diverso dai genitori e di trattare a loro volta i figli diversamente da come essi stessi sono stati trattati. 3) Superamento dell'intellettualismo e del teoreticismo e rivalutazione dell'uomo integrale, anima e corpo, intelletto e impulso, capace di contemplare la reald. ma anche di trasformarla. Per quanto riguarda il primo punto, il periodo preso in esame vede lo sviluppo rigoglioso di alcune discipline che, senza alcuna intenzione valutativa, riteniamo di poter indicare come « scienze ausiliarie»: la psicologia dell'età evolutiva e in particolare la psicoanalisi, le ricerche sullo sviluppo del bambino osservato nei nidi e nei giardini d'infanzia, l'antropologia culturale. Per quanto riguarda il secondo punto, il motivo che viene assumendo via via importanza dominante è quello che riguarda la centralità del metodo. È un motivo, per verità, già presente nella concezione pedagogica dei positivisti, che ora, però, acquista un rilievo assai maggiore. Fra l'altro il concetto di metodo, in pedagogia, è venuto assumendo in questi ultimi decenni, un significato più ampio e ricco che nel passato. Il metodo «in senso stretto » (ci rifacciamo alla terminologia proposta da Kilpatrick) si riferisce all'insegnamento-apprendimento di discipline particolari; il metodo «in senso più largo», invece, « concerne l'educazione come un tutto, l'educazione considerata in rapporto alla vita nel suo complesso », tien conto di tutti i pensieri e le idee che sorgono congiuntamente col lavoro specifico che in quel momento si sta compiendo e di tutti gli atteggiamenti concomitanti, verso il lavoro, i comII
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pagni, la scuola, se stessi, la vita, che sono evocati, quasi tonalità a volta a volta piacevole o spiacevole, dal modo, dalla situazione, dal clima in cui il lavoro stesso si svolge. Il pedagogista tedesco Eduard Spranger parlerà, a questo proposito, di «effetti collaterali involontari» nell'educazione. Per quanto si riferisce, infine, al terzo punto, la scuola nuova si atteggia come scuola del lavoro, non tanto in quanto aggiunga il lavoro alle discipline tradizionali, sibbene in quanto riconduce alla fondamentale matrice pratica le manifestazioni culturali anche apparentemente più astratte e attribuisce la dovuta importanza alle motivazioni, alla sfera emozionale, alla socializzazione. A questo punto è indispensabile richiamare l'attenzione del lettore sopra un fatto di fondamentale importanza anche nel nostro campo. In questi ultimi decenni si è avuta una vera e propria esplosione nel campo delle scienze umane, con una vertiginosa accumulazione di dati, di esperimenti, di ipotesi, di teorie e con un corrispondente frantumarsi di poche scienze fondamentali in un grande numero, sempre crescente, di ricerche specializzate. Processo di apprendimento, maturazione dell'affettività e della socialità, condizionamento sociale dell'intelligenza, della conoscenza, del rendimento scolastico, origine e dinamica dei gruppi, per non scegliere che alcuni temi, fra i più generali ed i più importanti, sono diventati ormai specifici settori riservati ad altrettante scienze particolari. Ne consegue che, all'inizio degli anni 1970, «parlare di pedagogia come un campo dai contorni univoci, come una struttura compatta di problemi, è altrettanto arbitrario quanto parlare... di un insegnamento genericamente denominato medicina » (Antonio Santoni Rugiu). Di qui la nostra rinuncia a fornire una rassegna il più possibile completa delle scuole, delle correnti, degli uomini che durante gli anni presi in esame hanno fornito contributi di qualche rilievo a questa o a quella delle numerosissime discipline alle quali, per la comune convergenza verso il fatto dell'educazione e per comodità stenografica, diamo ancora il nome di pedagogia. Il presente capitolo, pertanto, cercherà, invece, di mettere in luce alcuni gruppi di problemi che, a parer nostro, sono venuti assumendo importanza essenziale. Il rispetto dell'impostazione storica è garantito sia dal continuo riferimento della problematica pedagogica alle strutture portanti di carattere economico, sociale e politico, sia dal fatto che i problemi sono stati considerati in rapporto a quegli studiosi le proposte dei quali, sempre a parer nostro, si sono affermate come i più significativi paradigmi nei vari campi. Il criterio in base al quale i problemi sono stati scelti è implicito nelle pagine che precedono. Non sarà però inutile la sua esplicitazione. Se la rivoluzione copernicana pone al centro dell'interesse pedagogico l'educando, si tratta di vedere che cosa, in ordine a questo personaggio, ha detto di importante la scienza durante gli ultimi decenni. Dunque: prima di tutto il 12
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fanciullo, l'adolescente in quanto tale, considerato come soggetto di apprendimento e di attività etico-sociale. Ma, come sappiamo, il fanciullo, l'adolescente sono astrazioni, meno spinte dell'« uomo » ma pur sempre tali. Reale è l'individuo, colla sua irripetibilità, non monade in sé conchiusa ma momento di una tensione dialettica, di un rapporto interattivo con gli altri uomini, con la società, la natura, la cultura, il passato, il futuro. Ed ecco il problema della individualizzazione. D'altra parte, la scuola attiva o progressiva è fiorita nel campo capitalisticoborghese, in una ben precisa situazione storica. Costituisce, essa, ciononostante, una meta definitiva e universalmente valida oppure è travagliata da intime e insuperabili contraddizioni? E qual è l'atteggiamento che nei suoi riguardi è stato assunto e si assume nell'altra jàccia della luna, cioè nel campo socialista? Si tratta (mi riferisco specialmente all'ultimo punto) di argomenti che cercheremo di chiarire nel capitolo VI del volume nono e che in questo abbiamo soprattutto voluto mettere a fuoco in rapporto alla loro matrice storica. II · L 'EDUCAZIONE IN RAPPORTO ALL'ATTIVITÀ COGNITIVA E ALL'APPRENDIMENTO
La didattica tradizionale era fondata su di una psicologia atomistica e associazionistica, secondo la quale l'esperienza partirebbe dalle cosiddette idee semplici per costruire, attraverso la sintesi, idee via via più complesse. A livello della conoscenza sensibile questo vuol dire muovere dalle sensazioni fornite dai vari organi per giungere alle percezioni, ma si tratta di un processo che si ritrova puntualmente a tutti i livelli della conoscenza, non solo, ma in tutti i campi della realtà, concepita, appunto, come un insieme di aggregati di elementi minutissimi, atomi o cellule. Sul piano della didattica ne deriva che le formule « dal facile al difficile » e «dal semplice al complesso» vengono risolte nell'altra« dalla parte al tutto». Così nella lettura si parte dalle singole lettere per passare alle sillabe, alle parole, alle frasi; nella scrittura ci si spinge addirittura a quelle aste e a quelle curve che costituiscono gli elementi della singola lettera. Ma è facile rendersi conto che la stessa osservazione può essere fatta anche a proposito delle elaborazioni più complesse del pensiero umano. Alla concezione atomistico-associazionistica si viene però via via sostituendo, nel corso del secolo attuale, una molteplicità di teorie concordi nell'affermare che la conoscenza, nel suo stadio iniziale, coglie non già elementi separati da associare per formare un tutto, ma, appunto, un tutto, senza differenziazione e correlazione dei vari elementi strutturali. Si tratta di una affermazione a proposito della quale si realizza la convergenza di studiosi pur moventi da campi assai lontani e mossi da interessi differenti. Di questa corrente si parla a lungo nel capi-
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Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea
tolo 11 del vol urne sesto. Quello che interessa, qui, è vedere come essa si inserisca nella problematica pedagogica. Ora, è indiscutibile che, perlomeno fin verso la fine degli anni cinquanta, un'incontestabile superiorità, nel campo che ci interessa, ha avuto il globalismo del belga Ovide Decroly (187I-1932). È una superiorità dovuta soprattutto al fatto che, mentre gli altri studiosi erano per lo più psicologi privi di una esperienza diretta della pratica educativa, Decroly fu un autentico psico-pedagogista. Secondo Decroly l'attività globalizzatrice fa da ponte fra l'attività istintiva e quella superiore dell'intelligenza: si collega con la prima per gli stimoli che la determinano, con la seconda in quanto, come questa, costituisce un mezzo di adattamento a circostanze nuove. Si tratta di una impostazione del problema della conoscenza di tipo evidentemente pragmatistico. « È facile capire, » osserva il nostro autore, « come sia importante che noi, per una economia di energia nervosa, possiamo orientarci nella infinita molteplicità delle forme e dei movimenti, cogliendone soltanto gli aspetti fondamentali, quegli aspetti, cioè, che ne rappresentano il segno caratteristico e differenziale. »1 Mentre nel gestaltismo classico prevale la tendenza a concepire la forma, a livello psichico, come qualcosa di solidale, pur nella peculiarità dei suoi caratteri, a certe configurazioni del mondo fisico ed alle strutture fisico-chimich~ del sistema nervoso, e pertanto come qualcosa che obbedisce a leggi obiettive e sperimentalmente verificabili, Decroly sembra annettere particolare importanza ai bisogni, agli interessi, allo stato emotivo del soggetto, nonché alle sue esperienze precedenti. Nulla in comune, dunque, con la schematizzazione concettualizzatrice. Non a caso, del resto, in una prolusione del 1922 Decroly dice che il potere in questione, «meglio ancora» che globalizzante dovrebbe essere detto > L'articolo in parola individuava poi «i due pericoli a cui la filosofia si trova oggi esposta. La tentazione dell'evasione accademica o retorica dell'idea e l'opposta del decadentismo o retorica del sentire >>. La cultura filosofica italiana si è caratterizzata subito per una pluralità di orientamenti, resi possibili dal mutato clima di apertura verso pensatori e correnti prima poco conosciuti o esclusi dalla circolazione culturale. Bisogna inoltre osservare che le nuove correnti che emergono e si affermano, non riprendono affatto, o riprendono in modo indiretto, filosofie precedenti la nascita del fascismo. La fenomenologia, l'esistenzialismo, il neoempirismo, la filosofia della scienza, non hanno infatti solidi motivi di continuità con la cultura italiana del primo decennio del secolo. Questi orientamenti erano sorti nell'ambito della cultura europea degli anni trenta e in un primo momento non avevano avuto che deboli risonanze in Italia; solo ora, in un più aperto e serrato dialogo con la cultura europea, precisano il loro orientamento. Nel breve volgere di un quinquennio (1945-50) si diffonde in tutti gli ambienti un'esigenza sempre più viva di aggiornamento della cultura filosofica e politica. Il primo congresso internazionale di filosofia si svolge a Roma nel 1946 ed è significativamente dedicato all'esistenzialismo e al marxismo. Sorgono riviste che dibattono i temi della cultura scientifica («Analisi», « Sigma », «Methodos »). Emergono nuove problematiche all'interno di ogni campo del sapere: dalla filosofia del diritto alla pedagogia, dalla storiografia alla scienza. Discipline che erano state completamente emarginate o escluse dalla circolazione culturale come la psicologia, la psicanalisi, la sociologia, la linguistica, vengono ora seriamente studiate. In particolare la filosofia della scienza e la storia della scienza, che avevano trovato in Enriques un instancabile difensore, cominciano ad essere attivamente discusse. È un campo in cui si fa subito più evidente lo stacco della cultura italiana rispetto a quella europea; pertanto si traducono libri, si organizzano convegni. A Torino sorge, nel 1946, un Centro di studi metodologici, a Milano un Centro di metodologia e analisi del linguaggio (1945) e a Roma un Centro di sintesi ( r 94 5). In tali organizzazioni, filosofi e scienziati (matematici, fisici,
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La filosofia italiana contemporanea
biologi ecc.) di diversi orientamenti, si incontrano per una avvertita necessità conoscitiva di approfondimento, di verifica delle proprie proposte di studio e di ricerca. Parallelamente a questo interesse per i problemi metodologici delle scienze, si « riscoprono » filosofi prima troppo rapidamente liquidati dall'idealismo, come Giovanni Vailati. Nel campo della storiografia filosofica si hanno i risultati più cospicui e persuasivi. Si dimostrano rapidamente logori e insufficienti i precedenti canoni interpretativi di stampo idealistico, che avevano portato alla più recisa esclusione di tutta la tradizione scientifica, per privilegiare un ipotetico « primato » italiano. C'è inoltre un diverso apprezzamento di opere recenti e lontane della cultura europea, ora esaminate in una prospettiva nuova. Avviene insomma la definitiva eclissi del filosofo di tipo tradizionale perché cambia il suo ruolo sociale e ideologico-politico, che prima è stato di tipo profetico, nella duplice variante populistica e aristocraticistica. Come sostiene Bobbio, scompare la « figura- così tipica in tutta la nostra storia risorgimentale e post-risorgimentale sino al fascismo incluso - dell'intellettuale mentore o pedagogo, il cui compito principale che lo eleva al di sopra della massa è quello nobilissimo, solenne, sublime, dell'educazione nazionale, quel compito che trae alimento dall'idea che l'Italia è fatta e bisogna fare gli italiani». Questa nuova situazione culturale fu definita con il termine « neoilluminismo », non per caratterizzare un preciso orientamento filosofico, ma piuttosto un modo diverso di fare filosofia, un nuovo atteggiamento verso i problemi dell'uomo e della storia, una maggiore attenzione agli strumenti logico-linguistici del mestiere del filosofo, una più vigile cautela nelle generalizzazioni e uno studio accurato e puntuale delle metodologie delle scienze. Lo sorresse la persuasione che non esiste una razionalità assoluta, attingibile con strumenti extra-razionali, ma che la razionalità è umana e l'uomo progredisce solo potenziandola nella concretezza della ricerca scientifica, nella lotta per liberarla dai risorgenti miti e « idola », insomma dalla permanente tentazione metafisica che esclude la problematicità e l 'inesauribile varietà della realtà e della ricerca. Il neoilluminismo designò non una filosofia nel senso tradizionale, di sistemazione compiuta degli «eterni» problemi, ma una «politica culturale» che ebbe l'obbiettivo di «tradurre i principi in istituzioni vive. Non rifare il mondo, ma partecipando dell'esistente correggerlo» (Bobbio). In questo orientamento si riconobbero il razionalismo critico di Banfi e l'esistenzialismo positivo di Abbagnano, il neopragmatismo di Preti e il nuovo razionalismo di Bobbio e di Geymonat, insieme alle sorgenti tendenze analitiche e fenomenologiche soste~ nute da Rossi-Landi e Paci. Questi filosofi, unificabili più per una certa omogeneità di interessi nella ricerca che per le soluzioni prospettate, sono seriamente impegnati in una profonda opera di aggiornamento della filosofia e di rinnovamento democratico dell'Italia. 73
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11 riferimento all'illuminismo è accolto per il significato polemico che esso ha non solo verso l'idealismo italiano -che ne aveva fatto il suo costante bersaglio polemico - ma anche per la funzione riconosciuta alla ragione e alla scienza come strumenti essenziali per progettare una nuova società. Orbene, questa confluenza di diversi orientamenti filosofici quali risultati ha raggiunto sul piano della politica culturale e della ricerca? Nel campo della storiografia filosofica laica vanno ricordati in particolare i contributi di Mario Dal Pra, Eugenio Garin, Paolo Rossi, Pietro Rossi, Carlo Augusto Viano. Rinascono gli studi sociologici e nel I950 appaiono i« Quaderni di sociologia » diretti da N. Abbagnano e F. Ferrarotti. Riprende ad uscire sia la « Rivista di psicanalisi » (I 94 5) (anche se i primi collaboratori sono prevalentemente stranieri) sia nuove riviste filosofiche di cui diamo informazioni nel paragrafo successivo. Questa rinascita neoilluministica è stata avviata dal già menzionato Centro di studi metodologici, di Torino, sorto per iniziativa di otto studiosi (N. Abbagnano, N. Bobbio, P. Buzano, C. Codegone, E. Frola, L. Geymonat, P. Nuvoli, E. Persico). Attraverso un rapporto di stretta collaborazione e uno scambio culturale frequente e impegnato, questi studiosi sono riusciti a dare un effettivo contributo al rinnovamento della cultura filosofica. I risultati dei dibattiti dei primi anni sono raccolti nei due volumi Fondamenti logici della scienza (I 94 7; con scritti, nell'ordine, di: Geymonat, Persico, Buzzati-Traverso, Buzano, Frola, Abbagnano) e Saggi di critica delle scienze (I95o; con scritti, nell'ordine, di: Abbagnano, Bobbio, Buzano, Codegone, Frola, Geymonat, Nuvoli, De Finetti). L'esame di questi lavori può testimoniare non solo una sicura conoscenza dei risultati più aggiornati raggiunti fuori d'Italia, ma anche un tentativo di rielaborazione e di accertamento di tali nuove tecniche nell'ambito delle singole competenze scientifiche. Inoltre il Centro ha promosso - pubblicandone gli atti - un congresso di studi metodologici (dicembre I952), con sessantasei fra relazioni e interventi, una raccolta organica di saggi su Il pensiero americano contemporaneo, sotto la direzione di F. Rossi-Landi. Negli anni sessanta l'attività si è « specializzata» attraverso approfondimenti critici di campi delimitati del sapere scientifico, riscontrabili in queste pubblicazioni: « Atti del convegno nazionale di logica» dell'aprile I96I; «Atti del convegno sui problemi metodologici di storia della scienza » del marzo I 967; « Atti del convegno sulla metodologia della termodinamica » del marzo I968. Il segno più evidente della presenza culturale del neoilluminismo è dato dal fatto che i contributi filosofici più rilevanti degli anni quaranta-cinquanta, rientrano nell'ambito di tale orientamento, e così pure i dibattiti di politica culturale, di cui riferiamo nel paragrafo xr. Più complesso è il giudizio sul neoilluminismo come « politica culturale », perché nel dopoguerra, dopo che il blocco della conservazione ottenne, nelle
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La filosofia italiana contemporanea
elezioni del I 8 aprile I 948, un amplissimo consenso elettorale, lo spazio politico del riformismo e del radicalismo si restrinse, o meglio, rientrò in larga misura nella stessa dinamica del blocco conservatore perché il riformismo cattolico si saldò con quello sostenuto da una parte minoritaria del movimento operaio (dopo la scissione del PSI del I947), ma sufficiente per garantire la conservazione del sistema sociale. Pertanto le istanze politiche « neoilluministiche » quando non sono state riassorbite dai partiti di governo non hanno trovato adeguata accoglienza negli altri partiti operai, per complesse ragioni che vedremo più oltre. Se sul piano politico i « neoilluministi » non hanno raggiunto risultati consistenti, sul piano culturale la loro azione è stata più ampia e incisiva, anche in ragione dei limiti del personale culturale dei partiti di massa. L'insufficienza più rimarchevole si è avuta sul terreno della lotta per un rinnovamento della scuola. La scuola è rimasta sostanzialmente gentiliana nelle strutture e nei c•mtcnuti. Su questo terreno i neoilluministi non hanno saputo offrire una reale alternativa; questa passività ha permesso al blocco della conservazione di estendere e rafforzare la sua presenza, facilitato dalla struttura gerarchico-autoritaria di tale i!>tituzione, permettendo così il controllo di uno degli strumenti fondamentali ddla formazione delle nuove generazioni, le quali solo nel '68 hanno inizia1o una ribellione di massa contro questa scuola. VII
• LE NUOVE RIVISTE FILOSOFICHE DELL'IMMEDIATO DOPOGUERRA
In seguito all'avanzata delle forze anglo-americane, in Italia veniva concessa l'autorizzazione all'uscita dei giornali, e nei primi mesi del I945 anche al nord non solo i partiti politici, ma anche i locali Comitati di liberazione promossero e diressero decine di giornali in difesa della nuova democrazia che gli italiani stavano conquistando contro l'occupazione nazista e il fasci~mo. Per neutralizzare questa stampa, gli alleati concessero l'uscita delle testate tradizionali- i cosiddetti giornali di informazione - che si erano compromesse con il passato regime. Tale situazione si ripropose anche per le riviste politiche e culturali. Nel breve volgere di alcuni anni, I944-46, molte riviste, espressioni dei partiti e di diverse tendenze culturali, intrecciarono un serrato dibattito politico e ideologico, affrontando tutti i più importanti problemi che la vittoria contro il fascismo apriva. Ne ricordiamo alcune: «Nord-Sud» (D'Ambrosia, Milano), «Lo stato moderno» (M. Paggi, Milano), «Città libera» (G. Granata, Roma), « La nuova Europa» (L. Salvatorelli), « Realtà politica» (B. Bauer), «Nuovo Risorgimento» (V. Fiore, Bari), «L'Acropoli» (A. Omodeo), « Risorgimento Liberale» (M. Pannunzio), «Nuova società» (M. Bonfantini), «Rinascita» (Togliatti), «Conoscere». (B. Widmar). Noi ora ci occuperemo sommariamente delle nuove riviste di filosofia più 75
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significative, che furono pubblicate nel corso del triennio 1945-48. Dopo quella data, che segue una svolta nettamente moderata, cambia la situazione politica e culturale italiana e le riviste assumono caratteri meno significativi di quel panorama culturale cui è dedicato il presente paragrafo. Durante gli anni trenta avevamo assistito al sorgere di numerose riviste letterarie, direttamente organizzate dalle istituzioni fasciste; ma anche quelle che sorgevano per germinazione spontanea, o come espressione di gruppi culturali ristretti e autonomi, si occuparono quasi esclusivamente di letteratura; pochi sono gli articoli di filosofia ivi presenti. Solo «Il Saggiatore » (1930-33) diretto da D. Carella difese il pragmatismo, assunto più come atteggiamento esistenziale che in rigorosi termini filosofici. Fu soprattutto un modo per opporsi al dominante idealismo, rivendicando la legittimità di un pluralismo di posizioni culturali e politiche. Le nuove riviste filosofiche che si pubblicano durante il ventennio in Italia, « non avevano, come si suo l dire, una buona stampa » (Bobbio). Se si escludono le riviste dirette da Croce, Gentile, Martinetti e Banfi, le altre «erano appannaggio di istituti ufficiali o di professori che possedevano insieme con una cattedra, un sistema compiuto, e la filosofia che ne esalava era quasi sempre l'espressione di una società chiusa che parlava di sé e dentro di sé, a guisa di una arcadia di pastori lontani dal mondo» (Bobbio). È indubbio che l'intellettuale tradizionale, di formazione letteraria, assolve un ruolo preciso nella società fascista; la « società delle lettere » degli anni trenta ha un suo spazio politico sia nel momento in cui offre strumenti di consenso per il regime, che in quello contestativo, perché essa accetta comunque una sua autosufficienza ideologica di gruppo, precludendosi un impatto immediatamente politico con la realtà. I dibattiti filosofici, quando si sviluppano, mettono in evidenza tensioni e linee culturali antagonistiche non facilmente mediabili: è il caso di quello sull'esistenzialismo sviluppato su «Primato» (1940-43), la rivista diretta da Giuseppe Bottai, il quale riuscì a convogliare, attorno al fascismo, in una operazione di articolata collaborazione culturale, una grande parte dei letterati italiani. I filosofi che sono intervenuti, da Ab bagnano a Paci, da della Volpe a Luporini, a Banfi e altri, hanno evidenziato posizioni riprese e approfondite nel dopoguerra. La discussione politica che fa da sfondo al dibattito culturale di quegli anni riguarda gli obbiettivi politici e sociali che debbono essere raggiunti attraverso la « democrazia progressiva ». Il movimento operaio e quello comunista in particolare, fin dal vn congresso dell'Internazionale (I 9 35) aveva discusso tale questione, nella convinzione che, fermo restando l'obbiettivo storico dei partiti comunisti, la dittatura del proletariato, la nuova situazione creata dalla guerra antifascista imponeva la creazione di una repubblica di tipo nuovo. Mao Tsetung ha espresso questa posizione nel saggio del 1940, La nuova democrazia, in cui ha affermato che la « repubblica di nuova democrazia » differisce sia dalla re-
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pubblica capitalista di vecchio tipo europeo sia dalla repubblica socialista di tipo sovietico. Analoghi dibattiti avvengono nei gruppi dirigenti dei partiti operai italiani e anche in quelli cosiddetti di « terza forza», e viene trovata una unità sulla base dell'obbiettivo di un regime di repubblica parlamentare, di tipo sostanzialmente prefascista, fondato sull'alleanza politica dei tre partiti di massa ne PSI PCI e l'adesione delle altre forze liberai-democratiche. L'altra interpretazione della «democrazia progressiva», che ha avuto in E. Curiel il suo più coerente teorico, parte dal riconoscimento - conseguente a un'analisi del fascismo come regime reazionario di massa - che solo l'abbattimento delle istituzioni statali fasciste può aprire la possibilità di una democrazia di tipo nuovo, forte dell'adesione degli organismi politici creati nel corso della lotta antifascista e perciò con un equilibrio fra i partiti nettamente favorevoli alle forze popolari. Con i decreti luogotenenziali del '44 e del '46 l'Assemblea costituente venne privata - come già si è detto - del potere legislativo ordinario, che fu invece delegato al governo, per cui non furono abrogate le istituzioni fasciste e su questa base poté essere realizzata una solidarietà fra i tre partiti di massa, interrotta poco dopo dall'inizio della guerra fredda. Le due linee di politica culturale che emersero in questo periodo furono emblematicamente rappresentate dal « Politecnico » di Elio Vittorini, teso alla ricerca di una nuova cultura, che rompesse radicalmente con la nostra inveterata tradizione retorico-umanistica e l'altra, rappresentata da « Società», diretta da Cesare Luporini insieme ad altri, che invece evidenziò i motivi e i momenti di continuità della tradizione storicistica della cultura italiana. Il « Politecnico » rappresenta il progetto politico-culturale più organico elaborato da una parte degli intellettuali antifascisti e democratici per dare consistenza ideologica e concretezza di contributi specifici alla democrazia progressiva. Il giornale diretto da E. Vittorini ed edito da Giulio Einaudi -l'editore della «nuova cultura» di quegli anni - uscì il 29 settembre 1945 e fino al n. 28 (6 aprile 1946) fu settimanale, in formato quotidiano a due colori, con impostazione grafica originale e irrepetibile di AJbe Steiner. Dal n. 29 al n. 39 (dicembre 1947) proseguì come mensile. I redattori furono F. Fortini, F. Calamandrei, V. Pandolfi e successivamente G. Ferrata. «Il Politecnico» nasce alla conclusione di un vasto, articolato lavoro pr-ttico-politico precedente, attuato attraverso il «Fronte della gioventù» e il «Fronte della cultura», due strumenti di organizzazione e intervento politico che nel nord, e a Milano in particolare, avevano assolto una funzione di netta rottura politica, e di una prima organizzazione di strumenti di base poi, di grande rilievo. « Il Politecnico » che si richiama fin dal titolo alla migliore tradizione illuministica italiana rappresentata da Cattaneo, è il punto di convergenza di questo
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lavoro politico, preparato e portato avanti da un vasto schieramento di forze, che però non si identificano in un solo partito, ma piuttosto in un fronte unito contro il fascismo in tutte le sue manifestazioni (sociali, politiche e culturali). Inoltre i diretti collaboratori hanno una precisa storia di lotta politica. Vittorini è uno degli intellettuali che ha partecipato da protagonista alle più importanti discussioni delle riviste dei Guf e letterarie degli anni trenta, sempre in atteggiamento di ricerca conoscitiva e di critica, al limite della legittimità e tolleranza accettate dal regime fascista. Egli ha dato alla cultura antifascista uno dei risultati letterariamente più alti, in cui si è riconosciuta una generazione di giovani, Conversazione in Sicilia del I94I. Anche gli altri collaboratori provengono dalla resistenza: Preti, che imposta e dirige un fondamentale dibattito teorico, proviene da una esperienza militante di opposizione, condotta su « Corrente » (I 9 38-40) e su« Studi filosofici», prima serie (I940-44). Il « gruppo » di Banfi partecipa direttamente al giornale, le cui linee programmatiche erano state discusse inizialmente da Vittorini e Banfi con Eugenio Curie l. La dichiarazione programmatica inizia in questi termini: «Il nostro settimanale si occupa: I) di cose di problemi culturali ma con criterio inteso a soddisfare veramente le esigenze culturali dei lettori; z) ha interessi specifici ma per tutti i campi e tutti gli aspetti della cultura, dalla poesia alla politica e dai problemi sociali alle: arti figurative; 3) ha un indirizzo non formato, ma in via di formazione, che cerca nel contatto con le masse un nuovo volto culturale e non altro presuppone in chi legge che il bisogno di conoscere, volontà di conoscere e capacità di compiere uno sforzo per conoscere. » «Il Politecnico» rimase fedele a questo compito e lo assolse con grande impegno e rigore intellettuale; tentò un'analisi della cultura borghese, in un aperto colloquio con le correnti filosofiche allora dominanti (esistenzialismo, pragmatismo), propose il recupero della tradizione letteraria più avanzata e rivoluzionaria, in un rapporto di tensione critica, per evidenziarne i limiti o gli esiti che dovevano essere superati e trasferiti in una cultura nuova, di rottura. Andò alla ricerca della sconosciuta, autentica realtà sociale e umana dell'Italia postfascista, per indicare le linee di un possibile intervento culturale e politico, per allargare la base di consensi e di lotta per la democrazia progressiva, con un richiamo polemico ai compiti politici dello schieramento democratico verso la spagna. Sviluppò insomma le linee tendenziali di una politica culturale che portava a nuove contraddizioni la politica di un reciproco compromesso intrapresa allora dai tre partiti di massa. Ed è significativo che « Il Politecnico » costituisca ancora un punto di riferimento nell'odierno dibattito, cioè nel momento in cui si ripresentano alcuni dei problemi affrontati e non risolti dal « Politecnico » e da chi ha interrotto quel lavoro. Su Vittorini di quel periodo il giudizio più persuasivo è stato espresso da Francesco Leonetti: «La posizione di Vittorini sul
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lavoro culturale non è quella del materialismo dialettico; tuttavia non contiene qui a nostro avviso, come insuperabili, indicazioni contrarie, mentre più oltre, bloccato il rapporto costruttivo col partito, Vittorini si attesta inevitabilmente nel radicalismo democratico, senz'altro spazio. È vero che Vittorini parla qui a lungo di "autonomia della cultura". E questo concetto è poi diventato di specialismo di destra. In Vittorini assume però un valore di difesa dello " specifico " non ridotto né subalterno o compromesso, in quanto Vittorini non mette in dubbio la priorità dello scopo rivoluzionario. » L 'altra rivista della sinistra, « Società », nei primi sei fascicoli del biennio 1945-46, dà ampio spazio alla letteratura italiana, inglese e russa; pubblica saggi di aggiornamento e di analisi di economia, storia, diritto e alcuni contributi filosofici di Cesare Luporini e Arturo Massolo oltre a documenti, recensioni e rassegne delle riviste politiche; è del tutto assente la problcmatica scientifica. La linea è espressa in editoriali che chiariscono le posizioni e l'C: linee di intervento culturale della rivista. Nel primo numero è affermato: «Come dice il titolo stesso della rivista, noi crediamo, innanzitutto, a una strettissima, a una intima connessione fra cultura e società che la esprime e in cui essa si esprime. » L'analisi de! fascismo «nato dalle viscere della nostra società» è tale da sottolineare ora più i motivi di permanente continuità che quelli di rottura, i pericoli di un ritorno delle vecchie forze che le ragioni di una possibile loro neutralizzazione ed emarginazione, la necessità di avviare da parte degli intellettuali, in stretto rapporto di collaborazione con le forze sociali del lavoro «un immenso lavoro, un'operosa costruzione in uno sforzo costante verso un mondo nuovo e migliore»,, in cui l'accento è posto più sulla necessità di integrazione nella cultura, con compiti non di progetto o proposta alternativa, ma di sollecitazione di dibattiti, di mediazione dei contrasti, in una visione solidaristica con le forze politiche che combattono per restituire all'Italia un regime parlamentare. Pertanto il centro culturale d'interesse è la storia poiché « nessuna conquista nel campo della civiltà umana è possibile, senza un vigoroso e pregnante senso della storia » (R. Bianchi Bandinelli). In questa prima fase C. Luporini porta la critica più radicale al « Politecnico », negando la legittimità stessa della ricerca o dell'ipotesi di una nuova cultura, come anticipazione di una realtà e di contenuti culturali nuovi e ribadisce che il connotato di storicità è intrinseco alla cultura. Con il 1947 « Società» conclude la fase «sperimentale», e può presentarsi, ora che la posizione tendenzialmente antagonistica del « Politecnico » tace, in una nuova serie come «rivista di tendenza», pubblicando nel primo numero dell'annata alcuni scritti filosofici dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Veniva così iniziata quella utilizzazione di Gramsci in funzione di una linea culturale, le cui matrici erano diverse e diversamente motivate, perché quegli scritti erano separati dal preciso riferimento politico di lotta leninista condotta da Gramsci durante la sua direzione del partito («Tesi di Lione», 1926) prima, e contro 79 www.scribd.com/Baruhk
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la teorizzazione del socialfascismo poi, negli anni trenta, quando la teoria del socialfascismo fu rifiutata apertamente da Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli, Alfonso Leonetti e anche, dal carcere, da Umberto Terracini e Antonio Gramsci. Al rinnovamento della cultura filosofica ha dato un contributo rilevantissimo « Studi filosofici», diretta da A. Banfi e con la collaborazione di un ristretto ma agguerrito gruppo di redattori, che hanno approfondito con tendenza unitaria, ma differenziata nei contributi, la ricerca nei diversi campi culturali: R. Cantoni, G.M. Bertin, E. Paci, G. Preti, L. Anceschi, D. Formaggio e altri. La linea antiidealistica della prima serie (1940-44) in difesa di un problematicismo volto alla delineazione di una sistematica del sapere aperta alla integrazione delle scienze umane, si radicalizza nella nuova serie (1946-49) nella discussione con l'esistenzialismo, il pragmatismo, il realismo e contro le risorgenti tentazioni spiritualistiche. Banfi precisa subito che « Studi filosofici» «non vuol essere l'esponente di un particolare indirizzo sistematico. Vuole essere piuttosto un organo di ricerca e di analisi critiche, rivolte a porre in piena luce una differenziazione delle sue forme e delle sue direzioni, la problematica filosofica, traendola fuori dall'irrigidimento di posizione o soluzioni dogmatiche o dalla contaminazione di generici valori spirituali ». Il punto d'approdo di questa ricerca è stato un marxismo antidogmatico, inteso come l'orizzonte teorico più adeguato per inquadrarvi la complessa articolazione delle scienze umane. Gli ampi saggi di Banfi (poi raccolti nel volume L'uo1110 copernicano, 1950), di Preti sul neopositivismo, sullo spiritualismo italiano nonché i suoi precisi « panorami scientifici »; gli scritti di Cantoni sul marxismo, quelli di Bertin sull'attualismo, e le integrazioni di Lukacs, Cornu, Geymonat, della Volpe, portano contributi originali e approfondimenti nuovi, a cui è necessario anche oggi riferirsi per comprendere adeguatamente le vicende della nostra recente storia culturale. Un tentativo di aprire un serio dibattito e incontro fra le due culture è condotto da « Analisi » (rassegna di critica della scienza, r 94 5-47) diretta dal fisiologo Giuseppe Fachini, l'astronomo Livio Gratton e Giulio Preti. I redattori - di diversi orientamenti filosofici - precisano subito il loro obbiettivo: « Proporre un luogo di discussione libera per quanti, cultori di discipline scientifiche e filosofiche, abbiano interesse ai problemi di metodologia generale e speciale delle scienze. » È un primo tentativo, che coinvolge scienziati, ricercatori e filosofi, i quali discutono collettivamente i risultati delle loro ricerche e dei loro saggi, in uno stile collaborativo nuovo e insolito per la cultura italiana, che però non avrà una continuità. Nel 1940-41 era uscita da Einaudi la rivista « Il Saggiatore », che aveva pubblicato articoli di alta divulgazione scientifica, informati e precisi. Nel gennaio 1947 esce il primo dei sei fascicoli di« Sigma »(conoscenza unitaria), a cura di Giuseppe Vaccarino e Vittorio Somenzi e collaborazione determinante di Silvio Ceccato. So
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Un indubbio merito della rivista è stato quello di avere pubblicato numerosi e importanti saggi inediti di Eugenio Colorni, la cui ricerca teorica è stata diretta ad una analisi dell'uomo, attraverso l 'utilizzazione dei risultati più persuasivi della psicanalisi e una considerazione della scienza che escluda influenze estranee e fuorvianti (secondo il modello avanzato da Bachelard). Egli ha così proposto una « metodologia non filosofica» di tipo operativistico. I redattori però non sono pervenuti all'operativismo attraverso lo studio degli scritti colorniani ma piuttosto quegli scritti hanno confermato che uno fra i più acuti filosofi dell'ultima generazione stava pervenendo ad analoghi risultati. Alla fine di una prima ricognizione teorica di carattere generale, i redattori annunciano che proseguiranno la ricerca, con allargamento di collaborazioni e con ulteriore approfondimento di « tecnica filosofica », dando origine a un'altra rivista, « Methodos », che infatti inizierà a uscire nel 1949. Nel 1946 esce anche la «Rivista di storia della filosofia», diretta da M. Dal Pra, con lo scopo di « promuovere le ricerche e gli studi di storia della filosofia sul fondamento di indagini filosofiche severamente condotte e in riferimento a problemi di interesse particolarmente vivo nella cultura del nostro tempo». Viene iniziata una revisione della storiografia filosofica idealistica, la quale aveva analizzato e valutato i pensa tori secondo schemi aprioristici; di qui la necessità di un lavoro che « muove dalla coscienza di una maggiore complessità della storia», attraverso un più serio uso delle fonti e un maggior rispetto delle procedure di accertamento dei dati, trascurati o distorti da chi predetermina la ricerca secondo ben definite categorie filosofiche. A partire dal 1949 diventa « Rivista critica di storia della filosofia » e in un aperto, vivace dibattito sull'orientamento filosofico che era sotteso al lavoro storiografico della rivista e solo accennato in modo un po' confuso nell'editoriale di presentazione - il « trascendentalismo della prassi » - ne emergono i limiti e gli esiti metafisici, tanto che questa posizione, che nasceva da una giusta esigenza critica verso un risorgente intellettualismo filosofico, fu abbandonata. Oltre a queste nuove riviste, riprendono a uscire alcune testate del periodo precedente; la« Rivista di filosofia» diretta da N. Bobbio, si afferma subito come uno dei centri più vivi del dibattito teorico e storiografico, con saggi sul pensiero contemporaneo italiano e una dichiarata volontà di aggiornamento critico verso le correnti filosofiche europee e americane. « Scientia » continua la linea di informazione sulla cultura scientifica europea. Altre riviste mantengono il vecchio orientamento, che più marcatamente ne evidenzia l'arcaicità o l'inutilità: riprende a uscire il « Giornale critico della filosofia italiana » che, dopo un fascicolo per il periodo 1944-46, inizia nel 1947 la terza serie come organo della «Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici», « Sophia » (1946) di C. Ottaviano, la «Rivista di filosofia neoscolastica » (1945) diretta da A. Gemelli, «Ricerche filosofiche» dirette da D.A. Carbone, l'« Archivio di filosofia» (1945) diretto da 81
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E. Castelli, che diventa una raccolta di monografie su argomenti specifici. Nascono altre riviste di «scuola», nel senso tradizionale del termine: « Teoresi » (1946) di V. La Via e il «Giornale di metafisica» (1946) di M.F. Sciacca. VIII
• L 'ESISTENZIALISMO
Con l'opera di Nicola Ab bagnano Struttura dell'esistenza del 1939, l'esistenzialismo italiano acquista precisi connotati - culturali e teorici - rispetto alle altre forme di esistenzialismo, delineate nel capitolo vrr del volume settimo. Negli anni. precedenti ha costituito un motivo di dibattito, o all'interno della tematica attualistica (Ernesto Grass~: Il problema dellogo, 1935), o di quella fenomenologica (Giulio Grasselli: La fenomenologia di Husserl e l'ontologia di M. Heidegger, 192.8). Anche Banfi ha dibattuto tali problemi, ma con atteggiamento fortemente critico; ne ha indicato il limite nella forma dogmatica in cui pone il problema dell'esistenza, perché « non è visto nell'universalità della sua posizione logica e perciò non è svolto né da un punto di vista soggettivo - come problema dell'intuizione - né da un punto di vista oggettivo - come problema della persona, dell'umanità, della storia, della natura - in tutta la pienezza delle sue forme e dei suoi sensi d'esperienza». Una delle caratteristiche dell'esistenzialismo italiano è lo scarso rilievo che assume il problema religioso; tale problema è stato invece discusso e variamente risolto sia dagli spiritualisti cattolici, alcuni dei quali - come indichiamo nel paragrafo IX - hanno mediato istanze esistenzialistiche, sia da studiosi protestanti, che si richiamarono al pensiero di Barth: G. Miegge, Protestantesimo e spiritualismo (1941) e dalle riviste «Gioventù cristiana», « L'appello» e «Protestantesimo». L'esistenzialismo italiano si rifà alla tematica della finitezza, di ispirazione kantiana, ma senza pervenire a soluzioni nullistiche, rivelando così «un senso molto più vivo dell'operare umano, una concezione molto più positiva della storia, una sensibilità molto più spiccata per le realizzazioni assiologiche» (Pareyson). La polemica- esplicita in Luporini e Massolo - è contro l'idealismo italiano, per la riaffermazione della realtà dell'individuo - naturale e umana - e della società, non risolta spiritualisticamente, come nell'ultima opera gentiliana, ma considerata nella storicità delle sue strutture. Infine è affrontato - con soluzione anti-idealistica - il problema del valore conoscitivo della scienza, negato o irrisolto dalle altre forme di esistenzialismo; esso accoglie istanze ed esigenze della filosofia analitica come del neoempirismo, di cui l'esistenzialismo intende offrire non una fondazione metafisica - sia pure di tipo nuovo - ma un comune orizzonte problematico, incentrato sulla categoria della possibilità. Per tali caratteri l'esistenzialismo italiano si è aperto a un fecondo dibattito con il marxismo di cui ha evidenziato la polemica anti-idealistica e la progettazione di una nuova condizione umana e sociale. (Alcuni filosofi marxisti - Massolo, Luporini - sono passati S.z
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attraverso l'esistenzialismo.) L'unico che ha mantenuto una posizione esistenzialistica, variamente motivata e con successive integrazioni tematiche, è stato Nicola Abbagnano (n. I9oi), già allievo di Aliotta. Egli è pervenuto all'esistenzialismo dopo avere compiuto una serie di complesse ricerche filosofiche e storiografiche, in cui ha indagato la consistenza teorica dei fondamentali orientamenti filosofici antichi e moderni. Nel I923 pubblica Le sorgenti irrazionali del pensiero, o ve sostiene l 'impossibilità di risolvere la realtà, la vita, in termini di razionalità perché permane nell'uomo un complesso di itnpulsi e tendenze che « formano il nucleo centrale e profondo della sua vita ». Egli cerca conferma di questo assunto nei Problemi dell'arte (I 92 5) e nello studio dell'idealismo anglosassone, Nuovo idealismo inglese e americano (I 92 7). Pubblica altri lavori storico-critici: Guglielmo d'Occa/11 (I93I), La nozione del tempo in Aristotele (I933) e teorici: La fisica nuova (I934) e Il principio di metafisica (I936). Questi ultimi due costituiscono l'antecedente teorico del suo esistenzialismo, che è compiutamente espresso in: La stmttura dell'esistenza (I 9 39), Introduzione all' esistenzia!imto (I 942 ), Filosofia, religione, scienza (I947), Esistenzialismo positivo (I948). L'incontro con l'empirismo è testimoniato dalla sua collaborazione al« Centro di studi metodologici » di Torino; il suo avvicinamento a Dewey e la proposta di un neoilluminismo, aperto ai risultati della scienza, sono espliciti nei saggi: Verso un nuovo illuminismo: fohn Dewey (I948), Il nuovo illuminismo (I949), L'appello alla ragione e le tecniche della ragione (I952), saggi raccolti in: Possibilità e libertà (I956). L'ultima sistemazione del suo pensiero, con un privilegiamento dei problemi etico-sociologici, si trova in: Problemi di sociologia (I959), La mia prospettiva etica (I 96 5). Nello scritto su La fisica nuova sostiene che l'esperienza più autentica dell'uomo è quella che avviene nell'intimità del soggetto, prima dell'organizzazione razionale dei dati « oggettivi». Una conferma di questa tesi sarebbe ricavabile secondo l'autore - da un attento studio della relatività. «La fisica relativistica è consapevole che essa ha da fare unicamente con fenomeni; cioè con eventi suscettibili di definizioni e misure fisiche e ripudia e considera affatto priva di senso ogni entità oltre di quella che può essere osservata e misurata. In questo senso la teoria della relatività rappresenta la soggettivazione del mondo fisico. » Il costante riferimento alla posizione di Eddington chiarisce la matrice idealistica di tale interpretazione. Abbagnano ammette la decisiva importanza della scienza, ma come un momento o un livello dell'esperienza, la cui struttura categoriale deve essere fondata &u un principio trascendentale. Questa e altre ricerche lo convincono che dalla descrizione fenomenologica dell'esperienza non si perviene a nessuna forma di antologia, « a nessun ente o sostanza di nessun genere che sia presupposta all'atto del conoscere »; questo principio unitario e unificante deve radicarsi nella costituzione dell'uomo in quanto tale e nel volume La struttura dell'esistenza egli presenta la sua soluzione esistenzialistica: « La filosofia non
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è una sfera delimitata dell'esistenza; è il significato autentico strutturale, la natura dell'esistenza. » Siffatta ricerca dell'autenticità dell'essere non è comunque garantita- secondo il nostro autore- da certezze precostituite. Se l'uomo «cerca l'essere, non lo possiede, non è lui l'essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a fondo la natura è il compito fondamentale dell'esistenzialismo». Accettato che l'esistenza è tensione verso l'essere, Abbagnano rifiuta sia la posizione di Heidegger che qu'ella di Jaspers, perché l'uno configura il punto da cui muove l'essere, cioè il nulla, e perciò l'esistenza è vivere per il nulla; l'altro presenta il punto d'arrivo della ricerca dell'essere come un inevitabile scacco. Il superamento di questa antinomia è offerta dal concetto di struttura: essa è posta al centro dell'analisi di Abbagnano, come «la sola alternativa atta a fondare una analisi esistenziale che non sia la semplice negazione del problema dell'essere». «L'analisi esistenziale è analisi di rapporti», cioè determinazione di condizioni e la condizione trascendentale di tale rapporto è data dalla possibilità: è essa che fonda l'essere come possibilità concreta, progettante. Egli ritiene che solo in questo modo sia salvaguardata la possibilità come condizione permanente di libertà, che non si trasforma mai né nel necessario, né nell'impossibile. La libertà è scelta, possibilità di rapporti, garantita da un'opzione che non è metafisica perché non esclude la ricerca dell'essere, ma è l'unica scelta che rende possibile qualsiasi altra scelta e qualsiasi ricerca che usi gli strumenti della ragione, limitati ma sempre revisionabili e perfezionabili. Questo principio della possibilità del possibile ci conferma insomma che il principio primo non è l'essere ma la possibilità dell'essere, e perciò esso è apertura verso una indagine che abbraccia tutti i campi della realtà. Questo atteggiamento problematico di fronte alla vita non significa né che si procede verso un esito sicuramente negativo, né che si è in grado di superare tutte le difficoltà. Si dovrà pertanto accettare una situazione di rischio: è questo il messaggio di Ab bagnano. « L'esistenzialismo tende a sottrarre l 'uomo all 'indifferentismo anonimo, alla dissipazione, all'infedeltà a se stesso e agli altri: tende a restituirlo al suo destino, e reintegrarlo nella sua libertà.» La libertà è l'ultimo e conclusivo suo tema fondamentale: «L'uomo libero è l'uomo che ha un destino. Il destino è la fedeltà al proprio compito storico, cioè a se stessi, alla comunità e all'ordine del mondo. » L'esistenzialismo di Abbagnano è stato da lui stesso definito «esistenzialismo positivo », proprio per mettere in evidenza che la categoria della possibilità, inerente alla struttura dell'essere e della persona, apre la via a una conclusione positiva: «Pensando, operando, lottando, l'uomo cerca di conquistare l'essere e di possederlo, ma non raggiunge mai la stabilità di una conquista definitiva e di un possesso totale. » Bisogna pertanto accettare questa situazione problematica nella persuasione che l 'uomo abbia gli strumenti conoscitivi per risolverla; una soluzione non conclusiva né che si approssima a un assoluto trascendente, ma pur sempre sufficiente, per affrontare i problemi umani che la vita pone dinanzi a noi.
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È in questo orientamento che si precisa il suo incontro con lo strumentalismo di Dewey, e lo sbocco sociologico ed etico del suo pensiero. La ricerca dell'uomo avviene in un contesto sociale, in cui può realizzare i suoi progetti. «L'uomo ha bisogno dell'aiuto dell'altro uomo, non tanto per conservare la sua vita corporea quanto per essere veramente se stesso. Ma se vuole realizzare la sua unità, se vuole assumere interamente la responsabilità della sua riuscita, l'aiuto degli altri è decisivo. » Nell'ultimo periodo di attività il nostro autore ha scritto ampi studi sulla sociologia, portandovi una sensibilità nuova, in un ambiente, come quello italiano, che ne aveva escluso lo studio. Si tratta però non di ricerche concrete, specifiche, ma di analisi metodologiche generali, utili perché hanno fatto conoscere il pensiero europeo e, in particolare, quello americano, stimolando indagini e discussioni. Fra gli allievi di Ab bagnano ci limitiamo a ricordare: Pietro Chiodi (I 9I 5-7o), Pietro Rossi (n. I93o), Carlo Augusto Viano (n. I929) e Mario Trinchero. Tutti e quattro hanno dato rilevanti contributi nella storiografia filosofica e sociologica. Un altro importante contributo all'esistenzialismo è dato da Enzo Paci (19I I-76). Egli ha partecipato negli anni trenta al dibattito politico-culturale prima su « Urpheus » (I 9 32-33 ), poi su « Cantiere » (I 9 34-3 5); ha discusso il contributo del neokantismo e della fenomwologia e ha approfondito il problema del non-essere e del rapporto uno-molteplice in: Il significato del Partnenide nella filosofia di Platone (I938), in cui sono presenti molti motivi del suo pensiero, fino all'ultima fase. Una prima sistemazione complessiva del suo orientamento è data in: Principii di una filosofia dell'essere (I 939) i cui temi saranno approfonditi e rimessi in discussione in altri scritti: Pensiero, esistenza e valore (I 940), Esistenza ed in1magine(1947), Esistenzialismo e storicisnto (1950), Il nulla e il problema dell'uomo (1950), Esistenzialismo (I 9 53). Nei Principii affronta - con utilizzazione del razionalismo banfiano- il problèma della personalità, della natura e dell'esistenza: «La vita nelle sue forme è tensione tra l'esistenza ed il valore. » L'esistenza è anteriore allo spirito, è «assai vicino all'immediatezza del sentimento e dell'inconscio che appare come natura e rende possibile, nello stesso tempo, lo spirito »: essa è possibilità che tende al valore come suo principio regolativo; la storicità costituisce la sua essenza come temporalità e siccome « esistere nel tempo significa avere dei bisogni: le verità di fatto sono la struttura economico-utilitaria dell'esistenza», onde la filosofia progetta la trasformazione delle situazioni negative in positive, secondo finalità storicamente determinate. L'esistenzialismo di Paci si inscrive così in quello positivo di Ab bagnano; egli cerca di delineare una metafisica del finito, fondata sulla negatività come principio; infatti se l'esistere è costitutivamente bisogno, consumo, «l'essenza metafisica necessaria dell'esistenza è la sua struttura, concepita, in senso lato, come economica, ma proprio questa necessità toglie all'esistenza ogni assolutezza e ogni autonomia». Su di lui ri-
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torniamo nel paragrafo x per delineare la sua conclusiva fase fenomenologica. Cesare Luporini (n. I9o9) è stato in Germania, alla scuola di Heidegger; egli ritiene che l'esistenzialismo non sia un sistema, ma il punto di confluenza di movimenti e di esigenze storicamente precise, « l 'idealismo italiano, la filosofia della vita e la filosofia esistenziale». L'avvio è dato da Kant, di cui Luporini propone una lettura in chiave nettamente anti-idealistica nel primo saggio, Critica e metafisica della filosofia kantiana (I 9 3 5), ed esplicita il suo esistenzialismo in: Situazione e libertà nell'esistenza utnana (I 942, n ed. modificata e aumentata, I 94 5). Il problema dell'esistente è stato posto da Aristotele e da Kant in antagonismo con la linea Platone-Hegel: l 'individuo non è traducibile in termini logico-scientifici: è oggetto dell'esperienza e non della scienza. Kant ha indicato una soluzione ancora valida del rapporto tra ragione ed esperienza, cioè tra « i modi del contemplare (le leggi del pensiero) e i modi del contemplato (le leggi del reale) »; è questo il senso stesso della sua rivoluzione copernicana: l 'attività della ragione « muove sempre da una deficienza, dalla molteplicità, alla ricerca di una sufficienza, dell'unità (incondizionata, assoluta). La deficienza è la finitezza dell'uomo, ossia la sua stessa realtà». L'uomo vive questa irrisolta antinomicità, fra l'atto e il fatto in cui la ragione si definisce nel rinvio a una « irriconoscibile », e perciò urgente, libertà. L'esistenza è appunto «l'immanente esperienza che abbiamo della nostra libertà»; nella duplice accezione trascendentale e come piano della « fattuosità »,cioè del concreto, storico operare che è anche un cooperare con gli altri uomini. La filosofia è antropologia, cioè esame di tale situazione, in cui l'apertura trascendentistica come quella idealistica è respinta perché è una fuga evasiva, edificante, verso una impersonale Ragione in cui le vicende umane non trovano alcuna giustificazione. Luporini rivendica - in diretta e persuasiva polemica con Bontadini -l'immanentismo, come terreno di soluzione del rapporto individualità-socialità, tematizzati da Kierkegaard e Marx: « L 'uno denuncia l 'equivoco dell'uomo cristiano, l'altro l'equivoco dell'uomo nello Stato, indicando la doppia inautenticità, prodottasi storicamente, del mondo cristiano e del mondo borghese. » L'esistenzialismo si configura pertanto come « umanismo reale», come riappropriazione, da parte dell'uomo, della sua dimensione finita, storica, in una tensione problematica verso la progettazione di un futuro. Quest'atto problematico, costitutivo del rapporto pensiero-libertà « è insieme sempre storicità e moralità: in quanto storicità risolve il passato, in quanto moralità determina il futuro ». Sullo sviluppo in senso marxista del pensiero di Luporini ritorniamo nel paragrafo xn. Arturo Massolo (1909-66) ha definito il suo esistenzialismo in: Storicità della metafisica ( r 944): è una critica all'attualismo, alla sua irrisolta tematica della soggettività. Egli riprende l'interpretazione heideggeriana di Kant (Heidey;ger e la fondazione kantiana, 1941) per condurre a radicale critica l'uso idealistico di Kant e proporre così non una filosofia sull'uomo, ma dell'uomo, colto nella fini86
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tezza della sua condizione esistenziale, ma teso alla ricerca del fondamento, a una metafisica, a una trascendenza pura e « in quanto pura, secondo il preciso senso kantiano, essa è originaria, tale, cioè, che da sé originandosi trascende se stessa ». Questa problematica è ripresa e approfondita, con una serrata discussione del problema della deduzione trascendentale soggettiva, nella Introduzione alla analitica kantiana (1946), in cui l'autore perviene a recuperare il significato di una ragione, non in termini illuministici, e perciò intellettualistici, ma consapevole dell'orizzonte metafisico, « che di volta in volta dà una propria configurazione e un suo proprio senso ai singoli problemi, in quanto ne è generatore e non generato». La filosofia assolve così una funzione indispensabile di ricostruzione antropologica perché mette « l'uomo innanzi a un compito che lo singolarizza e gli ritorna il senso della storia misconosciuta dalle filosofie intellettualistiche » (Santucci). Infine Armando Vedaldi (r9rz-6r) ha proposto una integrazione dell'esistenzialismo positivo di Abbagnano, con la tematica economico-sociale nei volumi: Essere gli altri (1948), Struttura della proprietà (1951) e Dire il tentpo (196o). Egli ritiene che «solo spostando la tematica esistenziale in senso politico potrà esser colto l'obbiettivo che l'esistenzialismo si propone», quello appunto di fondare in senso etico-politico la persona. «L'azione esige l'alterità, perché si fonda e si costituisce sugli altri»; di qui la necessità di analizzare la struttura della società; ma per offrire una soluzione personalistica è necessario chiarire il rapporto con il marxismo. Vedaldi ritiene che il diritto di proprietà (non della proprietà privata) deve essere riconosciuto a tutti e inoltre, se il punto di convergenza fra le due correnti può essere rintracciato nella comune polemica anti-hegeliana e nella riaffermazione della finitezza dell'uomo, i motivi di divergenza stanno nella progettazione della società futura. Ambedue tendono a riformare la società, il marxismo però, prospettando la dittatura del proletariato, verrebbe meno - secondo l'autore - alla sua stessa ispirazione dialettica, perché concluderebbe il processo storico. IX
• LO SPIRITUALISMO
CRISTIANO E LA NEOSCOLASTICA
In questo paragrafo indicheremo le linee generali dello spiritualismo cristiano (a cui sono pervenuti quei filosofi che hanno assunto una iniziale posizione idealistica) e della neoscolastica. Gli spiritualisti rivendicano, insieme al riconoscimento della irriducibilità della persona umana, l'assolutezza e trascendenza di dio. Essi accolgono - contrariamente ai neoscolastici - il criticismo moderno, nel senso che tentano di giustificare - sul piano razionale o quello della fede la trascendenza, ma senza negare validità al trascendentale (che aveva condotto, storicamente, all'immanentismo). Mentre i neoscolastici affermano che « vi è armonia logica fra la metafisica aristotelica e il pensiero cristiano» (U. Padovani),
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gli spiritualisti ritengono che partire da Aristotele significhi accettarne il naturalismo, incompatibile con la dottrina cristiana. Nel 1945, per iniziativa del gesuita Carlo Giacon e Umberto Padovani, fu organizzato il primo convegno di quello che poi fu chiamato il Centro di studi filosofici cristiani di Gallarate dove si tennero successivamente annuali convegni di studio, di confronto critico e di dibattito fra spiritualisti e neotomisti, con il duplice scopo di una riorganizzazione culturale del fronte cattolico e di operare quel rinnovamento e approfondimento di temi e di autori che il mutato clima culturale e il nuovo impegno assunto dal movimento cattolico italiano imponevano. Così le due correnti sono giunte a concordare - pur nella diversità di atteggiamenti ·- posizioni comuni contro quelle del pensiero laico, operando inoltre un impegnativo aggiornamento del personale culturale cattolico italiano. Armando Carlini (1878-1959) il cui idealismo, esplicito in La vita dello spirito (19z1), criticato in Il mito del realismo (1934), è abbandonato in Cattolicesimo e pensiero moderno ( 19 53); ha poi pubblicato Che cos'è la metafisica? Polemiche e ricostruzione (1957). Egli ha condotto nel modo più radicale l'autocritica dell'idealismo, tentando una mediazione tra il principio immanentistico dell'attualismo e la teologia cristiana. Il punto di innervazione fra il trascendentale e il trascendente è dato dal soprannaturale, il quale dovrebbe dimostrare l'unità del trascendentale (che è nell'uomo), con il trascendente. La ricerca di Cadini è rimasta nell'ambito di questa dicotomia perché accogliere il soprannaturale in senso teologico significa negare l'autonomia della filosofia, accoglierlo in senso diverso vuol dire non accettare il cristianesimo. Da ultimo egli ha proposto una fondazione non teoretica ma fideistica dell'accettazione della trascendenza. Una via diversa ha scelto il suo allievo Marino Gentile (n. 19o6), espressa negli scritti La problematicità pura (194z), Come si pone il problema metafisica (195 5), Breve trattato di filosofia (1974). Egli sostiene che la metafisica classica- intesa come difesa della perennità dei valori del pensiero antico - risponde più integralmente alla problematicità e criticità sostenute, ma non soddisfatte, dal pensiero moderno. Da tale problematicità pura sorge la necessità ideale di un atto puro che soddisfi in modo adeguato alla richiesta di una integrale aspirazione indigenziale e potenziale, onde il « domandare tutto » che è anche un« tutto domandare » rinvia a una fondazione metafisica. Alla necessità di fuoriuscire completamente dall'attualismo, attraverso il riconoscimento del primato della metafisica è pervenuto anche Michele Federico Sciacca (1908-74), lo spiritualista più fecondo di opere storiografiche (su Platone, Reid, Rosmini, Pasca! ecc.) e teoriche, fra cui Linee di uno spiritualismo critico (1936), Filosofia e metafisica (1973), L'i11teriorità oggettiva (1967), Ontologia triadica e trinitaria (1973). Egli sostiene che la verità fondativa della metafisica, superatrice delle persistenti aporie dello stesso spiritualismo, è l'essere come idea perché esso « è la verità per cui è vero ogni giudizio conoscitivo, morale ed estetico; è il principio primo ed indipendente nell'ordine della conoscenza 88 www.scribd.com/Baruhk
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umana, di tutta l'attività spirituale ed è perciò il principio metafisica del conoscere, del volere e del sentire, in quanto è il principio di intelligibilità della vita spirituale, dell'esistenza e del reale». Augusto Guzzo (n. 1894) è stato allievo di Sebastiano Maturi (1843-1917), estraneo perciò all'idealismo soggettivo italiano e più aperto al riconoscimento della dimensione religiosa dell'assoluto, inteso come termine ultimo del pensiero e dell'attività umana. Le sue opere filosofiche più importanti sono: Verità e realtà. Apologia dell'idealismo (1925), Giudizio e valore (1928), Idealismo e cristianesimo (1936). Egli riconosce, all'interno dell'atto, la trascendenza del mondo e di dio, onde l'attività spirituale dell'uomo non è limitata alla ricerca del fondamento metafisica; ma si esplica attraverso le opere, che sono « forme » di tale attività produttrice, risposte diverse, personali a quell'esigenza di valore, che in quanto tale richiede la presenza di un Valore fondativo dell'uomo. Di qui la necessità di presentare la complessa fenomenologia delle «forme», attraverso cui l'uomo si manifesta. Guzzo ha tentato di dare una sistemazione complessiva del suo pensiero con un'ampia ricerca in più volumi, di cui sono usciti: L'uomo (1944), L'io e la ragione (1947), La moralità (1950), La scienza (195 5), L'arte (1962). Felice Battaglia (n. 1902) è giunto allo spiritualismo attraverso la meditazione dei temi etico-giuridici dell'attualismo, e la giustificazione di un Valore, fondativo della razionalità della storia. Ha scritto: Diritto e filosofia della pratica (1932), Il valore nella storia (1948), Moralità e storia nella prospettiva spiritualistica (195 3). Altri contributi alla problematica spiritualistica hanno portato Vincenzo La Via (n. 1895), Giuseppe Capograssi (1889-1956), Nicola Petruzzellis (n. 1910) e Renato Lazzerini (1891-1974), con personale accentuazione agostiniano-blondeliana. Per vie personali sono pervenuti a un esito spiritualistico Santino Caramella (1902-72), i due allievi di Varisco: Enrico Castelli Gattinara di Zubiena (n. 19oo), Gallo Galli (1889-1974) e i due allievi di Francesco De Sarlo: Eustachio Paolo Lamanna (1885-1967) e Gaetano Capone Braga (1889-1956). Segnaliamo infine la proposta di un « personalismo » cristiano, incentrato su una «metafisica della persona» - di contro la «metafisica dell'essere» dei neotomisti-avanzata da Luigi Stefanini (I 891-195 6) e da Luigi Pareyson (n. 191 8). In ambedue, la critica dell'idealismo, che avrebbe risolto - o meglio dissolto la persona nell'atto, si accompagna a una iniziale apertura all'esistenzialismo, il quale, come ricerca dell'autenticità della persona, è considerato un'esperienza che avanza, con maggiore acutezza, l'esigenza trascendentistica; oppure è giudicato come l'ultimo, conclusivo approdo del pensiero laico moderno in cui emergono, con più evidente consequenzialità, le sue aporie di fondo. Lo stesso spiritualismo cristiano, che nasce da una critica interna all'attualismo, non lo supererebbe completamente, perché ne accetta i fondamentali termini di discussione. Di qui la necessità, per Stefanini, di partire da una affermazione - e fondazione teorica - della persona, che si definisce nella sua irrepetibile singolarità, come
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sfera autonoma, ma non autosufficiente, della coscienza soggettiva, con una propria vita interiore, onde dall'esperienza dell'uomo emerge l'apertura a un esito metafisica: «L'essere è personale e tutto ciò che non è personale nell'essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone. » Stefanini ha sviluppato la sua ricerca, in campo storiografico, con i due volumi su Platone (I 9 32-3 5), su V. Gioberti ( r 94 7) e L'esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico (I 9 52); in quello estetico: Problemi attuali d'arte (I939), Trattato di estetica (I955) e in quello filosofico: Metafisica della forma (I949), Metafisica della persona (I95o), Personalismo filosofico (1962, postumo). Luigi Pareyson parte da un'analisi critica dell'esistenzialismo in: La filosofia dell'esistenza e Carlo ]aspers ( r 940), giungendo a questa conclusione: « La filosofia dell'esistenza dello Jaspers pur portando tanti motivi per una soluzione concreta del problema della persona, non giunge a soddisfare l'esigenza personalistica, che è l'assunto dello stesso esistenzialismo.» Egli sostiene che la persona è singolarità, non autosufficiente ma aperta alla ricerca e bisognosa di una fondazione metafisica. La vita è essenzialmente creazione di forme e « poiché ogni aspetto della forma è relativo, attraverso uno solo di essi l'interpretazione può cogliere la totalità della forma; ma poiché nessun aspetto è esauriente, la forma può sempre esigere ulteriori sforzi di penetrazione ». La ricerca conoscitiva privilegia l'interpretazione perché essa è appunto «conoscenza di forme da parte di persone ». Il compito del filosofo è quello di delineare la complessa fenomenologia della formatività nel campo della critica, della gnoseologia e dell'estetica. Le opere più importanti del nostro autore sono queste: Studi sull' esistenzialismo (I943), Esistenza e persona (195o), Estetica: teoria della formatività (1954), L'estetica e i suoi problemi (196o), Verità e interpretazione (1971). Anche i neotomisti italiani hanno operato un aggiornamento metodologico e culturale, incentrando la critica teorica verso l 'idealismo e realizzando un ampio lavoro di storiografia filosofica, in alternativa a quella idealistica, espresso anche in volumi miscellanei su Vico (1926), Hegel (I932), Spinoza (I934), Cartesio (I937), Malebranche(1938), Galileo(I942), Leibniz(I947)· C'è inoltre una attenzione nuova verso la scienza, ma si è trattato di un fenomeno di breve durata, che non ha apportato risultati significativi. I pensatori neotomisti hanno continuato la loro polemica anti-idealistica e anti-marxista, rinnovando poi le motivazioni contro l'esistenzialismo e il neopositivismo. Il programma dei neoscolastici ha avuto un notevole incremento dopo la fondazione dell'Università Cattolica di Milano (1922), sotto l'attivo impulso di Agostino Gemelli (1879-1959). Emilio Chiocchetti (188o-I95 I) e Francesco Olgiati (1886-1962) hanno dato discussi contributi storiografici rispettivamente su: La filosofia di B. Croce (19I5 2), La filosofia di G. Gentile (1922), Il pragmatismo (1926), La filosofia di G.B. Vico (193 5), e su: L'idealismo di Berkeley ed il suo significato storico (1926), Il significato storico di Leibniz
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(1930), Cartesio (1934), B. Croce e lo storicismo (195 3). Altti contributi storiografici sono venuti da Mariano Campo e Luigi Pelloux. Un impegno più direttamente teoretico ha dato Umberto Padovani (18941968), scolaro di Martinetti, il quale ha sottolineato la necessità di dare una fondazione teologica della storia e di indicare una pratica ascetica per spiegare - e accettare - il male presente nel mondo, male che ha la sua matrice nel mistero del peccato originale e della redenzione. Ha scritto: Il fondamento e il contenuto della morale (1947), Filosofia e teologia della storia (1953). Carlo Giacon (n. 19oo) ha presentato e difeso le tesi fondamentali del tomismo, privilegiando h dottrina dell'atto e della potenza: Le grandi tesi del tomismo (1945). Altri contributi teorici sono stati dati da Amato Masnovo (1880-195 5): Brevi appunti di metodo sul problema della conoscenza (1935); Giuseppe Zamboni (1875-1950): Sistema di gnoseologia e di morale (193o); Cornelio Fabro (n. 1911): Dall'essere all'esistente (1957); Carlo Mezzantini (I 895-1971): Filosofia perenne e personalità filosofiche ( 1942). Un rilievo particolare è riconosciuto a Gustavo Bontadini (n. 1903) il quale è partito da una critica dell'attualismo - a cui riconosce le peculiarità di avere condotto alle estreme conseguenze il dualismo gnoseologico della filosofia moderna, evidenziandone le aporie- per poi proporre una diversa fenomenologia dell'esperienza, colta nell'unità iniziale, in cui realismo e idealismo coincidono, e sviluppata secondo quella reinterpretazione della metafisica classica che ha nel principio di non-contraddizione la sua giustificazione più persuasiva. Le opere principali sono: Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938), Studi sull'idealispJo (1942), Indagini sul gnoseologismo tJtoderno (1952), Conversazioni di metafisica, 2 voli. (1971). Lo spiritualismo cristiano e in parte la stessa neoscolastica derivano dalla problematica idealistica e questo determina la caratteristica fondamentale di tali correnti: dall'attualismo infatti ereditano e mantengono una radicale negazione del valore della scienza o quando sostengono una sua strutturale differenza rispetto alla filosofia non fanno alcun riferimento ai caratteri assunti dell'odierna metodologia. La tematica teoretica è incentrata sul problema della metafisica come problema dell'interiorità, sull'autocoscienza e la trascendenza; c'è l'abbandono di ogni serio interesse etico-politico: insomma assistiamo a un reale impoverimento teorico, forse reso possibile dal fatto che « già il pensiero gentiliano era un compromesso fra idealismo e cattolicesimo, ed esso stesso, col crescere di preoccupazioni teologiche, si era andato involvendo verso posizioni sempre più teologiche, scoprendo da ultimo l'elemento dogmatico che era implicito nella sua dottrina» (Preti). Se la polemica contro l'idealismo e in particolare contro la sua concezione della storia del pensiero filosofico li ha indotti a dichiarare una certa autonomia della storiografia filosofica, i risultati di tali ricerche hanno poi rivelato non solo il peso di interessi politico-culturali, connessi con la lotta contro l'idealismo e il marxismo, ma soprattutto un criterio interpretativo non meno arbitrario di quello idealistico e finalizzato alla tesi che « la filosofia scolastica è ... la filosofia »
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(Masnovo). Essi sostengono - in particolare Bontadini - che la storia della filosofia moderna non è che l'eredità di fondamentali distorsioni gnoseologicodualistiche derivate da una acritica accettazione di metodi scientifici estranei alla filosofia come tale; di qui il problema di ritornare alla tematica antologica e metafisica del pensiero classico o medievale. Negli studi storiografici gli spiritualisti hanno privilegiato Blondel e Rosmini, Gioberti e Fichte. Solo Guzzo ha dedicato alla scienza un ampio studio e dalla sua scuola è uscita - per opera di Francesco Barone- la più informata monografia sul neopositivismo, mentre i neoscolastici hanno dato contributi sul pensiero medievale e accentuato la critica alle correnti filosofiche contemporanee. Degna di particolare attenzione l'opera storiografica di Sofia Vanni-Rovighi. X
• LA PENO ME NOLOGIA
La presenza di Husserl nella cultura italiana, fino agli anni cinquanta, è stata assai scarsa e delimitabile con precisione. Husserl è partito - come Vailati affrontando il problema della logistica, del calcolo logico, con sottolineatura dell'importanza decisiva della fondazione psicologica. Vailati invece riconosce subito che l'obbiettivo della logica è quello di emanciparsi dalla psicologia; comunque i rapporti logica-psicologia sono al centro della prima elaborazione del suo pragmatismo, che avviene in continuo contatto collaborativo e di discussione con lo psicologo G.C. Ferrari (1868-1932). Nel 1900 Husserl (Ricerche logiche) indica nella psicologia la fonte dello scetticismo logico e pertanto tenta di prospettare una soluzione del rapporto logica-psicologia diversa da quella presente nell'opera 1:/losofia dell'aritmetica (1891). Nella cultura italiana del primo Novecento, la scuola di Peano- che poteva discutere tali questioni- è stata emarginata presto, e successivamente è prevalso, nelle ricerche di logica, un orientamento psicologistico, a cui non potevano interessare le elaborazioni di Husserl. Solo De Sarlo all'inizio degli anni venti recupera la fenomenologia per reimpostare il problema, ma in termini che riecheggiano la sua adesione a Brentano (Lineamenti di una fenomenologia dello spirito, 1924), mentre successivamente il pensiero di Husserl viene discusso o attraverso la mediazione dell'esistenzialismo o come termine di confronto di autonome posizioni filosofiche (Aliotta, Pastore, De Ruggiero, Stefanini) o infine per un interesse di ricerca (Bobbio, Vanni-Rovighi). Solo Banfi - e poi Preti e Paci- ne accolgono sostanzialmente l'orientamento; nel primo però prevale il « primo » Husserl, da cui trae i motivi più validi per la sua sistematica del sapere. L'ultimo Husserl, quello della Krisis è recensito con sostanziale adesione da M.M. Rossi - il quale procederà in autonome ricerche di storia della filosofia accogliendo la tesi fondamentale di quell'opera. Banfì nell'ultimo scritto (Husserl e la crisi della civiltà europea, 1957) ne aveva evidenziato i limiti metafisici e Preti parla esplicitamente di una «greve metafisica
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idealistica». Solo Paci - dopo una complessa ricerca, di cui abbiamo indicato nel paragrafo VIII la fase esistenzialistica - ritiene che la Krisis costituisca il punto d'approdo del pensiero husserliano, da cui il nostro autore parte per proporre una nuova enciclopedia fenomenologica del sapere, nei due volumi: Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1963), Idee per una enciclopedia fenomenologica (1973). Egli perviene a questa posizione sia attraverso un ampio lavoro interpretativo del pensiero di Husserl (Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, I 96 I), dopo aver prospettato una concezione filosofica ( relazionismo ), ispirata al pensiero di Whitehead (Tempo e relazione, 1954, Dall'esistenzialismo al relazionismo, 1957). Paci ha discusso criticamente il pensiero di tutti i più rappresentativi filosofi contemporanei; quello di Whitehead ha in comune con l'ultimo Husserl sia la persuasione che con Galileo ha inizio la crisi del sapere scientifico, con la conseguente ricerca delle essenze costitutive della realtà; gli « eventi », che Paci avvicina al mondo della Lebenswelt. Ora indicheremo brevemente in che cosa consiste la rielaborazione della tematica della Krisis tentata da Paci e la specificità della sua posizione. Egli si richiama alla fondamentale tesi husserliana, secondo cui la crisi della cultura europea si presenta « come un apparente fallimento del razionalismo », perché la manifestazione di tale razionalismo è stato il naturalismo e l'oggettivismo. Orbene, per il nostro autore « l'oggettivismo è la degradazione del soggetto a oggetto, il rovesciamento del soggettivo nell'oggettivo. In queso senso è alienazione dell'uomo», in un senso cioè accoglibile in una prospettiva marxiana. Insomma, « è fallito il cattivo uso della scienza e cioè il naturalismo che rende l'uomo cosa ed oggetto. Questa è la vera crisi della scienza, che è poi una crisi dell'esistenza umana». Di qui la necessità di integrare. la Krisis con una proposta di rifondazione dell'unità delle scienze. È questo il fine della fenomenologia come scienza nuova, in grado di prospettare una risposta risolutiva alla crisi della cuhura europea. Paci procede a una serie di critkhe al neopositivismo e ali 'impostazione stessa che è alla base dell'enciclopedia delle scienze. Il neopositivismo - che sarebbe venuto meno al suo duplice obbiettivo di indicare un fondamento sicuro delle scienze ed eliminare ogni tipo di metafisica - si configura come « profonda crisi sofistica ». Esso indica i limiti di un sapere, ma non può offrirne una alternativa, in quanto nega alla radice la possibilità stessa della filosofia, perché « il discorso filosofico, non verificabile né logicamente né empiricamente, è privo di significato in quanto non è né vero né falso ». Il neopositivismo avrebbe isolato il linguaggio dal mondo della vita, assolutizzando alcune tecniche; esso si muoverebbe in una atmosfera antistoricistica, e in quanto sancisce una chiusura verso il mondo della vita, che costituisce la struttura stessa dell'esistenza, è anche antiumanismo. Il rapporto tra l'esperienza e la matematica, che è al centro dell'epistemologia contemporanea, si risolve - secondo Paci - non attraverso il perfezionamento
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dei nostri strumenti conoscitivi, ma con un ricorso all'epoché, che supera tale dualismo in quanto « le scienze e ogni forma di sapere possono tendere all'unificazione perché già all'origine sono implicitamente unite nella concretezza delle operazioni radicate nella percezione e nell' Erlebnis ». Già è stato sottolineato, nel capitolo n del volume settimo dedicato all'analisi della Krisis, che il ricorso al precategoriale come momento fondativo di tutta l'esperienza non risolve affatto il problema del valore conoscitivo della scienza. Limitarsi a sostenere che «la fenomenologia, se critica la scienza, la critica in quanto dimentica il precategoriale », significa scambiare il punto di partenza del processo conoscitivo (comune e scientifico) con il punto d'arrivo. Egli, pur riconoscendo che il processo conoscitivo si instaura nel rapporto fra i dati osservativi e le categorie, ritiene di potere offrire una conoscenza valida, esatta e sicura della realtà, togliendo (epochizzando) il momento categoriale. La filosofia come fenomenologia si presenta allora come « scienza delle operazioni soggettive fondanti » e l'unificazione del sapere « si chiarisce in funzione delle operazioni soggettive e storiche del precategoriale ». Paci precisa infine che « la realtà a cui ogni eidos e ogni scienza si riferiscono è il plenum precategoriale. La struttura delle scienze si presenta in tal modo come continua interrelazione tra regioni eidetiche e come continuo riferirsi delle regioni eidetiche stesse al punto di partenza concreto ». Al di fuori di tale rapporto ogni struttura diventa astratta e perde così il suo valore conoscitivo. L'unificazione delle scienze non è pertanto il risultato di una indagine sulle loro effettive strutture logiche, perché « la natura stessa, così come è concepita, e deve essere concepita, dalla fisica matematica, è una natura categoriale, mentre la natura reale è precategoriale e la prima è fondata sulla seconda ». Questa posizione porta ad escludere - in linea di principio - una seria indagine degli odierni dibattiti metodologici, dei più importanti risultati della epistemologia, nella persuasione che l'unico compito del filosofo sia quello di delineare una metafisica fondativa del sapere scientifico. La Lebenswelt permetterebbe appunto « un tipo nuovo di metafisica nel senso di filosofia prima ma di cui è possibile un'indagine eidetica, strutturale, morfologica ». Su questa base Paci propone un incontro e una integrazione con il marxismo, non solo al fine di consolidare la fenomenologia, con il riconoscimento che « le forme fenomenologiche sono rapporti di produzione, lavoro economico, valore d'uso e di scambio: in ogni caso valore», ma anche al fine di « fondare » la fenomenologia stessa, a cui è finora stata estranea una adeguata considerazione dell'economia. Tuttavia non è uno studio rigoroso dell'economia che viene promosso o condotto; è solo dichiarato il proposito di trattare «il problema della fondazione precategoriale dell'economia politica». Il fenomenologo cioè non deve dare dei contributi scientifici, né delle indicazioni di ricerca specifica, ma solo accertare che la ricerca non si emancipi dai connotati di esperienza da cui deve partire: è la negazione stessa della con-
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cezione del sapete scientifico elaborato dal pensiero moderno. Per quanto riguarda il marxismo viene espunta la dialettica e a maggior ragione la dialettica della natura, dal momento che se « la natura è separata dai soggetti che la studiano essa è natura morta, come astratta assunzione di categotie logiche ». Il marxismo è ridotto, al più, a materialismo storico, a esigenza di un cambiamento della società, secondo però un vago ideale etico-politico che si richiama al socialismo. Il privilegiamento del momento precategoriale dell'economia politica può essere considerato pertanto un ritorno a posizioni che si richiamano alla revisione soggettivistica dell'economia politica condotta dalla scuola austriaca dell'inizio del Novecento o anche al concetto di «vitalità» dell'ultimo Croce. Paci ha fondato e diretto la rivista «Aut Aut» (195 1-76) che in un certo senso è diventata l'organo della fenomenologia in Italia. L'orientamento fenomenologico, di ispirazione banfiana, ha trovato una estesa e approfondita applicazione nell'estetica, con una novità di fondo: mentre in Banfì l'estetica costituiva una «regione» di una più vasta realtà problematica, questi allievi tendono a configurare l'estetica come una forma conoscitiva privilegiata, tale da offrirei i lineamenti di una concezione complessiva della realtà, come già aveva tentato Baratono. Luciano Anceschi (n. 19I I), dopo un primo tentativo (AutonopJia ed eteronomia dell'arte. Sviluppo di un proble11ta estetico, I936, n ed. 1..95 9), ha presentato una compiuta proposta estetica, secondo i criteri fenomenologici in: Progetto di una sistematica dell'arte (I962), verificata poi in precisi saggi letterari. Egli sostiene che l'estetica fenomenologica non ha come criterio metodico la ricerca di principi definitivi di valutazione; non si chiede che cos'è l'arte, ma indica le diverse modalità in cui si presenta il prodotto artistico. L'estetica non richiede una fondazione filosofica o sociologica, perché essa ha in sé il principio della sua costituzione. Dirige dal 1952 la rivista« Il V erri», che ha sollecitato indagini nuove, con promozione e difesa dei movimenti dell'avanguardia letteraria. Dino Formaggio (n. I9I4) ha espresso il suo orientamento anticrociano e antigentiliano in: L'arte come comunicazione. Fenomenologia della tecnica artistica (195 3), e ha avanzato la sua proposta di una estetica fenomenologica in: L'idea di artisticità (1962), con approfondimento e teorizzazione dell'arte «come logica della possibilità progettuale »in: Arte (I973)· Luigi Rognoni (n. I9I3) si è interessato dell'applicazione dei criteri fenomenologici alla musica, con particolare interesse ai condizionamenti che anche l'arte d'avanguardia subisce da parte del potere. Ha pubblicato Espressionismo e dodecafonia (I954), Fenomenologia della musica radicale (I966). Al di fuori della « scuola » banfìana, hanno progettato estetiche di orientamento fenomenologico Guido Morpurgo Tagliabue, con Il concetto dello stile (1951) e L'esperienza artistica (I967), e Carlo Diano (1902-72) con Forma ed evento (I 9 52) e Linee per una fenomenologia dell'arte (I 9 52). 95 www.scribd.com/Baruhk
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Giovanni Maria Bertin (n. I9I2), ha approfondito lo studio dei problemi educativi, in una prospettiva fenomenologica: Introduzione al problematicispto pedagogico (I95 I), Etica e pedagogia dell'impegno (I95 3), Esistenzialismo, marxismo, problematicismo nella pedagogia (I 9 55), L'idea pedagogica e il prin>ipio di ragione in A. Banft (I96I), Educazione alla ragione (I968). Infine Remo Cantoni (n. I9I4) ha portato all'orientamento fenomenologico un contributo di indagini storico-critiche su autori e temi, in cui emerge in modo emblematico la crisi della cultura odierna: Crisi dell'uomo. Il pensiero di Dostojewski (I948); La coscienza inquieta. S. Kierkegaard (I949). Ha approfondito criticamente la concezione della storia, elaborata dalla cultura tedesca contemporanea, in Mito e storia ( r 9 58), che integra il suo primo lavoro pionieristico su Il pensiero dei pnmitivi (1941, n ed. I963). In Umano e disumano (195 8) presenta i lineamenti della sua filosofia, «una filosofia dell'uomo come ente finito e storico, portatore di valori che nessuna potenza metafisica o cosmica, a lui trascendente, può, in sua vece, garantire o fondare». Tale orientamento è ripreso in: Illusione e pregiudizio (I 967) e Antropologia quotidiana (I 97 5). Ha fondato e diretto la rivista «Il pensiero critico» (prima serie: I952-54; seconda serie I959-62), con un programma di aggiornamento della tematica delle scienze umane. Altri lavori ispirati alla fenomenologia husserliana sono dovuti a Giuseppe Semerari e Renzo Raggiunti, autore di un interessante volume su: Husserl, dalla logica alla jrmo1nenologia (I967). XI
• IL NEOEMPIRISMO E LA FILOSOFIA ANALITICA
Già nel paragrafo VI abbiamo dato una valutazione complessiva della politica culturale del neo illuminismo degli anni quaranta-cinquanta; ora tenteremo una valutazione del contributo teorico del neoempirismo italiano. Innanzi tutto va subito notato che in Italia non è possibile indicare un neoempirista « ortodosso », seguace cioè del Circolo di Vienna. Sulla rivista del movimento, « Erkenntnis », non si trova alcun apporto di studiosi italiani (solo Enriques partecipò ad alcune riunioni redazionali); pertanto tale termin~ - o altri equivalenti come neopositivismo --ha assunto in Italia un significato abbastanza esteso, comprendendo metodologi, analisti del linguaggio, filosofi della scienza.! Il neoempirismo si è configurato più come un atteggiamento culturale che come una precisa filosofia, e anche quando i motivi più significativi di tale orientamento sono stati accolti, si sono innestati su posizioni filosofiche affini. I Nel 195 3-54 è stato pubblicato il materiale più significativo - di dibattito e di studio ispirato al neoempirismo. Nel 1953-54, la sezione lombarda della SFI (Società filosofica italiana) organizza a Milano una serie di conferenze sul Circolo di Vienna; vengono promossi da studiosi di Torino e di Milano quottro convegni na-
zionali che hanno per oggetto la discussione del rapporto fra filosofia, scienza e analisi del linguaggio. Inoltre nel I 9 53 sono pubblicati questi libri: L. Geymonat: Saggi di filosofia neorazionalistica; G. Preti: Linguaxgio comune e linguaggi scientifici; P. Filiasi Carcano: Problematica della filosofia odierna; F. Barone: Il neopositivismo logico.
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Quei filosofi che non sono stati direttamente legati alla tradizione filosofica italiana- in cui più radicale è stato il divorzio fra ricerca scientifica e filosofia(Abbagnano, Preti, Geymonat), non hanno aderito integralmente al neoempirismo, ma piuttosto ne hanno proposto una utilizzazione in direzioni diverse. La prima informazione, in certo senso problematica, del Circolo di Vienna si trova nel volume di L. Geymonat: La nuova filosofia della natura in Ger111ania, del 1934, e del 193 5 è il saggio Nuovi indirizzi della filosofia austriaca, considerato dallo stesso Schlick l'esposizione «migliore da un punto di vista neutrale» del Circolo di Vienna. Il libro che più si avvicina al neoempirismo, con introduzione esplicita di elementi critici e indicazione di necessarie integrazioni dell'analisi formalistica, con quella semantica e pragmatica e successivamente con l'introduzione della dimensione storica, è Studi per un nuovo razionalismo, di L. Geymonat ( 194 5). Insomma il neoempirismo si è presentato sostanzialmente come una nuova mentalità filosofica, che aveva abbandonato la retorica idealistica connessa all'altra, di ordine politico, su un presunto primato italiano. Di qui l'urgenza di riprendere fruttuosi rapporti con la cultura dell'area anglosassone, in cui più evidente era il riconoscimento del primato della scienza. Viene proposta una filosofia militante con un'apertura agli orientamenti più diversi (pragmatismo, neopositivismo, filosofia analitica). Non è un'operazione accademica, di recupero nell'ordine culturale, di fermenti nuovi; nella maggioranza si tratta di studiosi in cui la ricerca di nuovi strumenti conoscitivi è unita alla tensione per la trasformazione sociale, oltre che culturale. Un punto di convergenza importante, riscontrabile fra gli studiosi neoempiristi, è costituito dalla concezione della ragione come tecnica di ricerca, esposta in questi termini nel saggio di Ab bagnano L'appello alla ragione e le tecniche della ragione (1952): «Il termine ragione, in quanto indica un'attività o un potere specifico dell'uomo, può essere assunto in due significati fondamentali diversi. Esso può significare: 1) Una qualsiasi ricerca, in quanto tende a liberarsi da presupposti, pregiudizi e inceppi di ogni genere che tendono a vincolarla; z) Una particolare tecnica di ricerca... Ragione in questo secondo senso è per esempio l'organizzazione dei termini e delle proposizioni secondo le regole della sillogistica o secondo altre regole. Ma qualsiasi tecnica di ricerca, comunicabile e dovuta alla iniziativa del ricercante, è in questo senso ragione. La dialettica platonica, la scienz;J aristotelica, l'intuizione evidenziale di Cartesio, la dialettica hegeliana, sono esempi di queste tecniche. » Questa concezione antidogmatica della ragione è stata largamente accolta, con integrazioni e approfondimenti, dagli studiosi neoempiristi, e variamente utilizzata in precise analisi storicocritiche. Vogliamo solo accennare all'efficacia anti-idealistica e, più in generale, anti-assolutistica, assolta da questo uso critico della ragione. L'interpretazione delle teorie scientifiche come tecniche e della stessa storia della scienza come progettazione di tecniche sempre più perfezionate, ha permesso di superare i li97 www.scribd.com/Baruhk
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miti della metodologia convenzionalista. È indubbio che alcuni studiosi hanno accentuato l'importanza del soggetto nell'attività scientifica; comunque, intendere ogni teoria scientifica come tecnica significa non solo riconoscere che la razionalità non è assoluta, ma appunto uno strumento e in quanto tale sempre più perfezionabile, ma soprattutto che tale strumento ci mette in contatto con la natura, di cui ci permette una conoscenza via via più profonda. In questa concezione la metodologia assume un rilievo del tutto particolare: essa non è più identificabile con la filosofia della scienza - che affronta i problemi più generali sul valore conoscitivo della scienza- ma assolve un compito specifico, nell'ambito della concreta opera dello scienziato. Il metodologo cioè deve contribuire a fare riflettere lo scienziato sulle sue procedure tecniche, conoscitive; sulle trasformazioni e i miglioramenti che si debbono operare; insomma la sua funzion~.: diventa insostituibile sia nel lavoro scientifico sia per la stessa delineazione di una filosofia della scienza che non discetta più in termini generali, ma che sorge sulla base di un serio studio dell'indagine scientifica. Un'altra importante funzione metodica innovativa si è riscontrata nella storiografia filosofica, con un ampliamento del campo di indagine, dal momento che viene meno la differenza strutturale fra ricerche filosofiche e non-filosofiche; è lo stesso oggetto della filosofia che si allarga, senza però perdere il suo spessore teorico. La tendenza antimetafisica del neoempirismo è affermata nel momento stesso in cui si riconosce che l'appello alla ragione è la condizione stessa che esclude la ricerca di una « vera razionalità », attingibile al di fuori di precise tecniche: sono le stesse categorie interpretative idealistiche - come quella « classica » di superamento - che sono riconosciute come- tecniche, e perciò parziali, provvisorie, migliorabili, per cui non hanno alcuno statuto teorico privilegiato perché « la razionalità non si esaurisce in nessuna di queste tecniche isolatamente prese, ma vive nell'umanità che le crea, le sviluppa, le modifica, le :rinnova... non esiste una tecnica di per sé razionale, come non esiste una razionalità assoluta fuori della storia: la razionalità vive unicamente nell'uomo che lavora e lotta per potenziare le proprie idee ed azioni» (Geymonat). Questo movimento neoempiristico è stato un momento significativo nella cultura italiana degli anni cinquanta, in cui si è riconosciuta una generazione di filosofi che poi sono giunti a esiti teorici anche assai differenti; ma il fatto che abbiano contribuito a una seria riforma del filosofare, permette ancora oggi di individuare fra questi un comune, importante progetto di rinnovamento della cultura italiana. Il filosofo più rappresentativo del neoempirismo italiano è Giulio Preti (19II-72), sia perché tale orientamento è rimasto in lui dominante- come egli stesso riconobbe nella sua breve autobiografia filosofica (Il mio punto di vista empiristico, I 9 58) - sia perché ha espresso - di tale filosofia - alcune delle migliori potenzialità critiche. La sua attività filosofica è inscindibile da quella politico-
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culturale, attestata dalla sua presenza determinante nelle riviste più combattive dagli anni trenta agli anni cinquanta. Al fondo è rimasta la lezione banfiana di una filosofia che affonda le ragioni della sua validità nell'individuazione delle tensioni teoriche in vista di un più complessivo progetto politico umanistico di liberazione dell'uomo. I primi scritti indicano una scelta fondamentale, insieme a un impegno mediativo di esigenze diverse, che sarà una caratteristica peculiare del suo « stile » di filosofo: I fondaptenti della logica formale pura nella « Wissenschaftslehre » di B. Bolzano e nelle « Logische Untersuchungen » di E. Husserl (1935), Dialettica e principio di non contraddizione (r937), Tipologia e sviluppo nella teoria hegeliana della storiografta ftlosoftca (1938). Una prim::~ sistemazione del suo pensiero è espressa in due volumi: La fenomenologia del valore ( r 942) e Idealismo e positivismo (1943). In quest'ultima opera Preti tenta una mediazione fra le due posizioni teoriche, nella persuasione che sia possibile espungere le metafisiche costruite sui principi metodici dell'idealismo e del positivismo; al fondo di ambedue, sia pure espressa in linguaggi diversi, c'è un'istanza razionalistica, di unificazione dell'esperienza con la ragione, istanza che è anche alla base del suo dichiarato razionalismo critico. Quelle due correnti ·avrebbero scambiato il principio metodico, che serve per comprendere l'esperienza, con un dato dell'esperienza stessa. Quest'operazione (teorica e culturale) è condotta secondo la prospettiva di un «nuovo» positivismo a cui l'autore riconosce «profonde parentele con la fenomenologia di Husserl, il Circolo di Vienna, e con forme di trascendentalismo critico, quali il pensiero di E. Cassirer e di A. Banfi ». Successivamente approfondisce sia lo studio di alcuni autori, mettendone in rilievo l'intrinseca connessione esistente tra il loro pensiero filosofico e un più complessivo progetto culturale: Pasca! e i giansenisti (1944), Newton (1950), Il cristianesimo universale di G. G. Leibniz (195 3), sia la tematica pragmatistica e neopositivistica, sia infine la problematica storiografica, in un complesso tentativo di ricostruzione filosofica. Egli sottopone a precise e spesso persuasive critiche teoriche le diverse correnti del pensiero contemporaneo, ne chiarisce una possibile utilizzazione quando afferma, a proposito del neopositivismo, che esso manca di « una dialettica trascendentale, come legge generale della deduzione e dello sviluppo fenomenologico delle categorie della scienza ». Secondo Preti la filosofia deve costruire un quadro antologico-formale e, attraverso l'analisi delle strutture dei vari linguaggi, realizzare una autentica cultura, che offra efficaci strumenti conoscitivi e sia soprattutto democratica. In ultima analisi egli rivendica la validità della fenomenologia come analisi del sapere, in cui il compito antidogmatico della filosofia è quello di « esplicitamente delle forme, strutture linguistiche, categoriali ecc., della tradizione »: è la proposta di un trascendentalismo profondamente diverso da quello kantiano o neokantiano poiché ora « non si tratta di forme pure di un coscienza in generale o io penso, bensì di. schemi, scheletri, costruiti dall'uomo, e il perché e il come siano stati costruiti è piuttosto oggetto
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di antropologia pos1t1va che non di speculazione filosofica». D'altra parte, la critica filosofica non deve limitarsi a un controllo logico-metodologico o logicolinguistico degli enunciati; anzi essa è anche critica dei presupposti e dei fondamenti, onde evitare il dogmatismo in cui ogni filosofia rischia di cadere. L'attività filosofica si caratterizza pertanto come analisi critica all'interno di ogni campo del sapere, per fare corrispondere il sapere filosofico ai « bisogni di sapere », sempre storicamente determinati e perciò variabili. Questa concezione del filosofare esprime tutta la sua carica innovativa e polemica nel libro Praxis ed et71piris?l10 (1957), pubblicato insieme a: Alle origini dell'etica contemporanea. Ada?JIO Smith ( 19 57). I due testi sono complementari, con una proposta filosofica complessiva, in cui quella teorica del primo si integra con il recupero della migliore tradizione etica dell'illuminismo, insieme alle più moderne analisi logico-linguistiche dell'empirismo contemporaneo inglese presente nel secondo. Anche in questo caso Preti opera una « riduzione » delle correnti discusse, per metterne in evidenza non una integrazione a livello di concezioni del mondo ma a quello metodico-interpretativo, onde il marxismo accolto è quello degli scritti giovanili di Marx, insieme al pragmatismo deweyano e alle istanze logiche del neoempirismo, nella persuasione che alla base sia rintracciabile un progetto sostanzialmente unitario: quello di una cultura aperta alle scienze umane, democratica e tesa a un cambiamento della società. In questo contesto le difficoltà teoriche si stemperano e sono superabili solo se si accerta che « la forma di cultura che esse tendono a produrre deve essere in _sostanza la medesima, altrimenti ogni loro convivenza, anche semplicemente come simbiosi, non sarebbe possibile». In queste opere Preti continua la proposta che aveva già abbozzata sul « Politecnico »: quella di una cultura democratica, accessibile a tutti, nel senso che « tutti possano, senza aver bisogno di rivelazioni privilegiatorie, arrivare a sapere tutto quello che altri sanno. L'essenziale è che non ci siano " autorità ", che la cultura si fondi su qualcosa che tutti possono verificare in comune, " vedere " insieme». Il marxismo dovrebbe appunto costituire la coscienza critica di tale progetto, in un rapporto di collaborazione con le altre forze intellettuali. Questo tentativo di mediazione tra il marxismo e altre forze culturali, in primo luogo il neoempirismo, corrispondeva al nuovo clima culturale sorto dopo il xx congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica (1956). Non intendiamo entrare nel merito di tale proposta politicoculturale, né discutere la consistenza teorica di questo libro, che ha determinato una delle più vivaci e feconde discussioni sul finire degli anni cinquanta. Preti ha continuato con l'approfondire gli altri temi teorici di attualità, espressi in particolare in Retorica e logica. Le due culture (1968) e, postumo: Umanismo e strutturalismo (1973). Un interesse particolare assume nel pensiero di Preti il problema della scienza, discusso in molti saggi teorici e storici. Secondo la prospettiva trascendentalista, sopra delineata, Preti riconosce che ogni campo del sapere («universo del discorso») gode di una relativa autonomia, data appunto dalla 100
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sua dimensione trascendentale, cioè dal suo campo di significati, categorie, onde una unificazione di tali universi di discorsi è possibile solo sul piano formale; ne risulta una varietà di campi del sapere coesistenti ma non compiutamente comunicanti fra di loro. Una proposta risolutiva di unificazione del sapere può essere offerta, secondo il nostro autore, da una epistemologia storica o storia della scienza, che si configuri sia come storia del trasformarsi delle strutture del linguaggio scientifico (all'internG di ogni scienza istituzionalizzata), sia come traduzione, riduzione, trasposizione da un universo del discorso all'altro; operazioni sempre legittime e possibili, ma sempre entro limiti, superando i quali si perde la specificità delle singole ontologie regionali. La dimensione della « storicità » non è un connotato antologico della scienza ma una idea regolativa, un ideale del sapere, un'esigenza più che una verità, che costituisce la permanente tensione verso l'appropriazione conoscitiva e pratica della realtà da parte dell'uomo. Anche per la filosofia analitica valgono le considerazioni introduttive al neoempirismo; in Italia il pensiero del secondo Wittgenstein, R yle e Austin, ha subito l'impatto con una tradizione culturale storicistica e con problemi teorici difficilmente assimilabili a quelli della filosofia analitica inglese. Non considereremo i molti lavori di autori italiani sulla filosofia analitica, svolti non con adesione sostanziale a tale orientamento ma per fare opera di divulgazione o di aggiornamento, nell'ambito di posizioni poco convergenti o antitetiche. È il caso degli studiosi cattolici, che per lo più, andando oltre l 'intento informativo, operano lo stesso stravolgimento condotto prima verso l'idealismo, il marxismo ecc., come abbiamo precisato nel paragrafo IX. I filosofi che hanno prodotto saggi e studi di filosofia analitica sono stati: Ferruccio Rossi-Landi, Renzo Piovesan, Uberto Scarpelli, Norberto Bobbio, Amedeo G. Conte e Franco Restaino. Rossi-Landi (n. 1921) ha svolto negli anni cinquanta un ampio lavoro informativo sulla filosofia analitica, con tentativi di utilizzare le nuove tecniche logico-linguistiche in studi specifici, per saggiarne l'efficacia interpretativa e la novità dei risultati ri~petto alla storiografia storicistica. La proposta culturale che avanza alle altre correnti è, più che la definizione di un accordo su qualcosa (principi, concezioni del mondo ecc.), verso qualcosa (la liberazione dei nostri strumenti conoscitivi dai nuovi idola fori; l'uso della lingua e del linguaggio intesi come un insieme di tecniche; la ripresa di una tradizione italiana - che va da Cattaneo a Vailati ecc.). Fra gli scritti di questo periodo segnaliamo: Charles Morris (195 3); l'edizione italiana, con tagli e aggiunte e un saggio introduttivo di: Lo spirito come comportamento, di G. Ryle (1955); La filosofia analitica di Oxford (1955); L'eredità di Moore e la filosofia delle quattro parole (1956); Sul carattere linguistico del filosofare (1957); Universo del discorso e lingua ideale in filosofia (195 8). La sua posizione filosofica è posta all'incrocio di molteplici indirizzi (dalla semi o ti ca di Ch. Morris al pragmatismo americano e quello di Vailati, dall'operativismo di Dingler a Wittgenstein e Ryle- questi ultimi due IOI
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in posizione privilegiata). Nella sua opera più rilevante di filosofo analista, Significato, comunicazione e parlare cotnttne (I 96 I), ha prospettato questo preciso criterio metodico: « Intendo studiare l'apriori nel linguaggio in una direzione ispirata alla kantiana logica trascendentale come indagine non tanto di fatto quanto di diritto. » Il linguaggio, il parlare comune, non è quello quotidiano, ma appunto quello che è presente in ogni situazione linguisticamente significativa, e come tale è presupposta in ogni linguaggio, anche quelli speciali delle scienze. Il suo obbiettivo, di delineare « una metodologia generale del linguaggio e parlar comune in quanto significante », è raggiunto attraverso precise e circostanziate analisi dei fatti linguistici. In questa concezione del filosofare come attività chiarificante anziché come scienza di qualcosa, il linguaggio comune (o ordinario) esprime delle« costanti» insopprimibili dell'esperienza comune che come tali non possono essere considerate pre- o anti-scientifiche, superate o espunte dai linguaggi scientifici. I linguaggi formalizzati sono utilizzati nelle teorie scientifiche ma non sono applicabili al linguaggio comune, la cui struttura ubbidisce a una logica informale, altrettanto complessa e importante della logica simbolica. Successivamente Rossi-Landi ha esteso i suoi interessi e approfondito le ricerche in una direzione marxiana, espressa nelle due raccolte di saggi: Il linguaggio come lavoro e come mercato (I968) e Semiotica e ideoloFJa (I972). Renzo Piovesan (n. I 924) nel volume: Analisi filosofica e fenomenologia linguistica (I96I), e poi in: Filosofia e prassi linguistica (I974), considera come momento culminante della filosofia analitica la teoria degli atti linguistici di John L. Austin. Accentuando, rispetto allo stesso Austin, l'interesse al contesto e agli aspetti pragmatici o « performativi » dell'agire linguistico, vede nel linguaggio non un sistema di segni o un'attività o istituzione autonoma, bensì una complessa modalità del «fare umano» variamente socializzato, istituzionalizzato e tecnicizzato. Altri studiosi hanno applicato l'analisi linguistica in specifici campi del sapere: Norberto Bobbio (n. I9o9) e Uberto Scarpelli (n. I924) nella giurisprudenza. Bobbio è stato -ed è tuttora -l'ideologo più agguerrito del neoempirismo italiano. I suoi interventi politico-culturali hanno determinato alcuni dei più fecondi dibattiti nella cultura italiana; egli ha così svolto con efficacia una funzione di critica costruttiva, con orientamento laico e antifascista, insistendo per un recupero non meramente culturalistico della nostra tradizione illuministica. Allievo di Gioele Solari, negli anni trenta ha pubblicato studi sulla fenomenologia e la filosofia dei valori, e negli anni quaranta: La filosofia del decadentismo (I 944), Introduzione alla filosofia del diritto (I 94 7), con il riconoscimento del primato spettante al concetto di giustizia. Nel I950 ha scritto il «manifesto» analitico per la giurisprudenza: 5 cienza del diritto e analisi del linguaggio, in cui avanza e motiva la nuova proposta di una giurisprudenza come scienza. L'uso delle tecniche analitiche, con indipendenza da scuole e da posizioni acquisite, è esplicito in: Teoria della scienza giuridica (I 9 5o). Altri importanti libri: Politica e cultura (I 9 55), Italia
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civile (I 964), Gittsnaturalistllo e positivimto giuridico (I 96 5), Da Hobbes a Marx (I 96 5), Saggi sttlla scienza politica in l t alia (I 969) e infine il fondamentale bilancio dell'empirismo italiano: Empiristllo e scienze sociali in Italia (I 97 3). Scarpelli ha scritto: Filosofia analitica e giurisprudenza (I 9 53) e, con approfondimento e posizione autonoma: Il problmta della definizione e il concetto del diritto (I95 5). Infine ha esteso i suoi interessi nel campo dell'etica con orientamento più esplicitamente analitico e con ampia informazione: Etica e linguaggio (I954), Contributo alla semantica del linguapgio nomtativo (I 9 59), Filosofia analitica, norme e valori (I962), Etica. Linguaggio e ragione (I974).
Ha dedicato importanti lavori storico-critici al neopos1t1v1smo, con aggiornata discussione della tematica analitica e delle scienze umane e con tendenza sincretistica, Paolo Filiasi Carcano (n. I 9 I 2): Antimetafisica e sperimentalismo (I941), Problematica della filosofia odierna (195 3), La metodologia nel rinnovarsi del pensiero contemporaneo (I957), Epistemologia delle scienze umane (1975). XII
• IL MARXISMO
In questo paragrafo ci limiteremo a precisare il pensiero di alcuni filosofi marxisti, che hanno riconosciuto cioè l'autonomia teorica del marxismo, senza proporne integrazioni fondative (vuoi fenomenologiche, vuoi strutturalistiche ecc.), anche se con tali orientamenti questi autori hanno intrecciato un dialogo serrato. Inoltre non discuteremo l'uso del marxismo o di suoi aspetti o di alcuni criteri metodici- fatto da studiosi delle scienze umane. Infine rimarrà fuori dalla nostra messa a punto il pur importante dibattito politico-culturale che si è avuto in questi ultimi trent'anni sia all'interno del marxismo italiano sia nel dialogo che esso ha istituito con le altre correnti filosofiche. Per avere un quadro complessivo del marxismo bisognerebbe analizzare almeno la pubblicistica più significativa degli anni venti e degli anni trenta. Fino all'instaurazione della dittatura, molte riviste teoriche dei partiti operai e di movimento come «Non mollare» (1925), «Il caffè» (1924-25), «Quarto stato» (1925-26), «Ordine nuovo» (1919-25), hanno dato un rilevante contributo di analisi e di discussioni; poi, durante il periodo della dittatura, nell'emigrazione, il dibattito è continuato in un rapporto critico e a volte costruttivo fra le correnti del socialismo europeo e dell'internazionale comunista; basti accennare alla rivista «Stato operaio» (I929-37), a «Politica socialista » (1933-35), ai tredici quaderni di« Giustizia e libertà» (1932-35). Su queste riviste è presente non solo una seria analisi della situazione italiana, del fascismo, ma anche un tentativo di reinterpretazione del marxismo stesso. È evidente che una attendibile presentazione del marxismo italiano non può prescindere dai contributi sopraddetti a cui bisogna aggiungere i lavori di Rodolfo Mondolfo (I877-I976), che è stato in Italia fino al 1938 quando, a causa
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delle leggi razziali, è emigrato in Argentina. Il suo pensiero ha avuto larga diffusione specialmente nell'area socialista. Infine segnaliamo Luigi Dal Pane, l'allievo di Labriola, il quale ha continuato a produrre importanti lavori di storia economica fino a delineare un originale ripensamento teorico del pensiero labriolano. Ricordiamo, oltre all'ormai «classico» Antonio Labriola. La vita e il pensiero (1935, n ed. rivista e aumentata, 1975), Lo sviluppo uonomico d'Italia negli ttlti!lzi cento anni (1962), Orimta!lJenti per lo st11dio della storia economica (1965), La storia come storia de/lavoro (1968), Sulle origini del materialis11Jo storico (1974). Una delle correnti più vive della cultura italiana di questo secondo dopoguerra è stata senza dubbio il marxismo. Come premessa di carattere generale è da accogliere l'osservazione di Banfi, il quale annotava come la quasi totalità dei « filosofi che possono oggi in Italia dirsi marxisti siano giunti al marxismo sopra tutto attraverso l'esperienza della lotta politica e sociale [onde], proprio per l'origine essenzialmente pratica del loro orientamento, teoricamente provengono da vari indirizzi e correnti della filosofia contemporanea ». È indubbio che l'azione politica di unità nazionale, svolta dai partiti operai durante la lotta di liberazione nazionale e anche dopo, è stata uno dei motivi che hanno determinato l'adesione di una larga parte di intellettuali a questi partiti, anche se le loro posizioni teoriche non si caratterizzavano come marxiste. Valga per tutti l'esempio di molti intellettuali raccolti attorno alle numerose riviste politiche e filosofiche, di cui abbiamo parlato nel paragrafo vn. Non intendiamo affrontare la complessa storia dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, né esaminare l'itinerario filosofico di coloro che hanno raggiunto, nel corso stesso della loro milizia politica, posizioni definibili marxiste, in senso lato. Ci limiteremo a ribadire che il fatto culturalmente più rilevante, nell'ambito della cultura democratica, è stato senza dubbio la pubblicazione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Le sue nuove proposte interpretati ve della storia d'Italia e della cultura italiana hanno contribuito a un profondo rinnovamento della storiografia politica e letteraria; in questo campo si sono avuti i risultati più importanti e innovatori. Gli scritti gramsciani sono stati anche al centro di fecondi dibattiti, che si sono estesi alle ricerche sulla scuola, sulla pedagogia e la letteratura. Fino a che punto l'incontro con Gramsci sia stato determinante nell'orientamento dei filosofi marxisti italiani, è ancora una questione aperta ali 'indagine e alla discussione. I più importanti filosofi marxisti, Antonio Banfi, Galvano della Volpe, Cesare Luporini e altri, hanno raggiunto posizioni marxiste, in senso lato, dopo una complessa e assai diversa esperienza culturale, e la loro sistemazione teorica era già sostanzialmente conclusa quando iniziò la conoscenza dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Tenuto conto di ciò, va riconosciuto che l'influenza esercitata dal pensiero
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gramsciano entro la cultura italiana, in questo venticinquennio, è forse circoscrivibile più nei campi della politica, degli studi storici e letterari, che non in quelli più propriamente filosofici. In questi ultimi anni però assistiamo a una ripresa, con approfondimento storico-critico e riutilizzazione nuova del pensiero gramsciano, in Italia e in Francia, in diretta connessione con una nuova fase di elaborazione politica di intellettuali marxisti legati alla nuova pratica politica di massa. Tali questioni, insieme all'indagine sull'uso che del « gramscismo » è stato fatto negli anni cinquanta, fuoriescono da questo breve paragrafo. Il marxismo di Cesare Luporini è stato recentemente dallo stesso rimesso in discussione nei suoi presupposti teorico-politici, onde l'opportunità di presentare alcuni temi, più che una compiuu esposizione analitica del suo pensiero. La caratteristica di fondo della sua ricerca è costituita da una tesa e sofferta necessità di collegarsi con la pratica politica, di misurarsi cioè con i problemi di un impegno di progettazione politica, non solo come antidoto a esiti intimistici o mistici di certo esistenzialismo personalistico, ma soprattutto conseguente all'accettazione di una dimensione pratico-collaborativa dell'uomo come soggetto storico. Cosicché le sue ricerche segnano momenti di un itinerario filosofico complesso, in cui la ricerca storica, condotta in una zona nuova rispetto alla storiografia idealistica e comunque fortemente innovativa, rinvia a scelte e verifiche teoriche precise, così riassunte dallo stesso autore: « Per alcuni marxisti il fondamento antropologicofilosofico rimane, o almeno deve essere recuperato dal Marx giovanile, del I 844. Il marxismo, in ultima analisi, sarebbe cioè una filosofia dell'uomo, proprio nel senso che questa gli servirebbe da fondamento, penetrando e dilatandosi attraverso tutta la storia. Per altri marxisti, la rivoluzione teorica prodotta da Marx consiste, all'opposto, nella abolizione, attraverso il materialismo storico, di quella Philosophische Grundlage (antropologica). Chi vi parla appartiene a questo secondo gruppo. » I suoi scritti sono: Filosofi vecchi e nuovi (I 942), con il noto saggio su Leopardi - che ha segnato una svolta nella storiografia su quell'autore La mente di Leonardo (I 9 53), I l criticis?JJO di Kant (I 9 55), inserito poi in: Spazio e materia in Kant (I96I), Voltaire e le « Lettres philosophiques » (I95 5), Dialettica e tnaterialiSlno (I974), raccolta organica di saggi dal I95 5 al I972. Fra i contributi
teorici degli anni cinquanta sottolineiamo l'importante lavoro su Kant. Il nostro autore tenta di staccare il pensiero di Kant «dalla successiva ricostruzione metafisico-speculativa » condotta dall'idealismo, che rappresenta una distorsione teorica del suo stesso pensiero, dal momento che « in Kant non si trova mai il personaggio "Io trascendentale", tante volte attribuitogli dagli interpreti sulla scorta dell'idealismo fichtiano e posteriore. Chi conosce e opera, anche per Kant, sono gli uomini e soltanto gli uomini, individui umani viventi ». Egli rimette in discussione così le componenti essenziali del kantismo, nella persuasione che «tutta la filosofia di Kant è caratteristicamente avvolta in un'area di empiricità », ove centrale è la nozione d! possibilità reale, perché essa conduce a riconoscere
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l 'importanza gnoseologica del dato oggettivo, onde « al problema critico come ricerca della condizione della possibilità, è perciò sempre correlativa la domanda intorno alla realtà oggettiva o validità soggettiva: di contro alla validità soggettiva (invero intersoggettiva) fondata sul solo a priori». Il concetto di possibilità reale costituisce il centro teorico di Kant, inscindibilmente connesso con la ricerca di una fondazione del sapere scientifico; di qui l 'impossibilità di scindere il rapporto filosofia-scienza, tanto stretto, da indurre Kant a proporre una correzione anti-teologica rispetto allo stesso Newton, per offrire una interpretazione integralmente anti-metafisica del mondo naturale. L'autore può così polemizzare con le critiche di Hegel a Kant e rivendicare la necessità di una sua legittima inserzione nella tematica marxista. Tale istanza è giustificata dal fatto che molti marxisti hanno dato del kantismo più un giudizio ideologico, che una critica teorica; di qui la necessità- per criticare radicalmente l 'idealismo - di recuperare la tradizione filosofico-scientifica nel punto di massima tensione problematica, rappresentata da Kant, il cui pensiero è stato riconosciuto - con troppa facilità anche da alcuni marxisti parte integrante dell'idealismo contemporaneo. Questo atteggiamento critico verso l'idealismo si era successivamente attenuato, fino a giungere a una difesa dello storicismo perché, ora afferma, «lo storicismo appariva l'unica interpretazione del marxismo perfettamente adeguata e corrispondente alla politica del partito (comunista), alla sua linea strategica. Alla linea cioè dell'unità antifascista, della svolta di Saletno, della Costituente, e magari del voto dell'articolo 7 (della Costituzione)». Comunque in quest'ultima fase Luporini sottopone a serrata critica sia lo storicismo che lo strutturalismo, e propone un« ritorno» al Capitale, indagato nel nesso teoria-pratica che esso istituisce e con privilegiamento delle «forme» cioè delle costanti logiche che in Marx sono strettamente collegate fra loro in quanto forme «nella logica (cioè nella interna necessità) di quel determinato modo di produzione ». La critica allo storicismo è radicale, perché - secondo Luporini - esso si risolve completamente in ideologia politica - quasi sempre conservatrice e perché «in fondo ogni storicismo entifica la storia, dice che c'è la storia e finisce, lo confessi o meno, per identificarla con tutta la realtà. Cioè crea un ens rationis ». Non è possibile, all'interno dello storicismo, condurre un'operazione di discernimento fra aspetto metodico e momento ideologico, distinzione che vale per lo strutturalismo, onde di questo è possibile un recupero di alcune tecniche di indagine, ciò che è impossibile fare del primo. Sulla dicotomia storicismo-strutturalismo aveva iniziato un'indagine analoga Preti nell'ultimo scritto del 1971, Luporini la conduce fino in fondo, ritrovando un Marx, rivisto con strumenti di indagine empirico-formale di matrice kantiana. Il nostro autore critka l'antisoggettivismo dello strutturalismo, per riprenderè la tematica della soggettività, in termini nuovi rispetto sia all'impostazione 106
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di Sartre che a quella di Paci. Anzi, mentre Paci ritiene che occorra una nuova :filosofia prima che sia insieme « scienza che studia le operazioni fondanti » del soggetto, per collegarle con la Lebenswelt e superare l'aggettivazione, che « è proprio l'alienazione nei suoi vari significati »; invece Luporini ritiene che il superamento del precategoriale sia la condizione stessa per ripresentare il marxismo nella duplice funzione di conoscenza scientifica e progettazione rivoluzionaria, con al centro la !ematica della « soggettività operaia ». In questo senso egli può dichiarare: « Credo nella meta-fisica nel senso in cui questa parola veniva largamente usata nel Settecento, ossia in quanto considerazione di elementi comuni a campi diversi», ma non in una direzione di interdisciplinarietà, di cui denuncia i limiti ideologici, ma in quello di una « lettura» nuova di « Marx secondo Marx », che lo porta a un giudizio sul Capitale, sostanzialmente divergente da quello proposto da Della Volpe: « Il materialismo storico - concezione della storia- non è propriamente una " scienza ", ma una dottrina critico-scientifica (della società umana e della storia) fondata criticamente», onde il problema della fuoriuscita dal sistema capitalistico non si pone in termini necessaristici, scienti:fico-previsionali, ma in termini fortemente politici (con determinante funzione della « soggettività» operaia e della direzione pratico-rivoluzionaria). « Si tratta dunque di una necessità particolare, e non di una legge evolutiva generale che domini l'umanità e la indirizzi :finalisticamente, dal giorno in cui il primo uomo intraprese a produrre in senso economico. Il carattere ipotetico di tale necessità, che ai tempi di Marx poteva apparire quasi evanescente, è invece drammaticamente sottolineato ai giorni nostri dalla possibilità reale di una guerra sterminatrice e con conseguente suicidio o qua~>i-suicidio del genere umano. » Che è un modo per ribadire il ruolo determinante dell'uomo insieme alla necessità di una ininterrotta analisi di classe (logico-pratica), secondo un'indicazione anche di Labriola: « Solo nello studio co ti diano della lotta di classe, solo nella prova e riprova delle forze proletarie ci è dato conoscere !es chances del socialismo: se no si è e si rimane utopisti anche nel riverito nome di M arx » (Discorrendo di socialismo e di filosofia). Galvano della Volpe (1895-1968) è partito da una critica interna dell'attualismo, espressa nel saggio L'idealismo dell'atto e il proble?JJa delle categorie (I 924), in cui perviene alla conclusione che rimane ancora aperto il problema « di una conciliazione rigorosamente dialettica della relazione degli opposti con quella dei distinti onde render ragione più profondamente della vita dell'Atto, e colmare quelli che paiono i difetti della concezione gentiliana». L'approfondimento qui richiesto viene compiuto attraverso una ricognizione della tradizione idealistica ed empiristica, passata e presente; attraverso un'analisi del problema estetico, in una prospettiva antiromantica, e concluso con la proposta di una logica storica che risolva il rapporto razionale-reale senza privilegiare il primo termine né vani:ficare il secondo. Su questa base avviene l'incontro con il Marx storico e critico
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della società nonché delle procedure logico-idealistiche che tendono a legittimare questa società borghese-capitalistica. I suoi più importanti contributi nel campo della storia del pensiero filosofico sono: Hegel romantico e mistico (I929), La mistica speculativa di M. Eckhart (I93o), La .filosofia dell'esperienza di Davide Hume (2 voli., I933-35). Nel campo estetico ha scritto: Il verosimile .filmico (I954), Poetica del Cinquecento (I954), Critica del gusto (I963). Gli scritti logici e sociologici più importanti sono: C ritica dei principi logici (I 940; poi, Logica come scienza positiva, I 95 6), Discorso sulla ineguaglianza (I 942), La .libertà comunista (I 946), Per la teoria di -un um;nesimo positivo (I 949), Metodologia scientifica. La struttura logica della lqge economica del marxismo (I95 5), Rousseau e Marx (I96r). Nella vasta produzione del nostro autore, la Logica assume un posto centrale e pertanto ci soffermeremo brevemente per indi carne l'orientamento e le tesi principali. Della Volpe nell 'indagine sulla storia della filosofia individua due linee di pensiero, tra loro radicalmente antagoniste : una realistico-empiristica, l'altra idealistico-mistica; quest'ultima non sarebbe mai riuscita a superare (cioè inglobare e giustificare razionalmente) le istanze empiristiche. Pertanto si sono date due proposte di «logica», quella empiristica e quella idealistica, con soluzioni antitetiche al problema del rapporto uno-molteplice. Platone prima e Hegel dopo sono stati i più radicali negatori della positività del non-essere (che si ritrova poi in Leibniz, W olf e nello stesso Kant, sia pure in formulazioni diverse). Anzi« con Hegel il principio della dialettica si rivela del tutto insufficiente e non solo nei confronti dell'istanza anti-eleatica e anti-platonica di Aristotele, ma altresì, in certo senso, nei confronti dell'istanza anti-eleatica e anti-critica di Platone» rivelandosi pertanto « più dogmatico platonico di Platone stesso ». Il primo che abbia condotto una critica radicale della logica hegeliana è stato Marx, il quale ne ha messo in evidenza la funzione mistificatoria. Orbene, secondo della Volpe, Marx non « invera » Hegel, nel senso che ne accetti il metodo e respinga l'« involucro mistico», perché l'uno è parte integrante dell'altro: è la filosofia hegeliana in quanto tale che va respinta, e la dialettica va espunta dalla genesi stessa del marxismo. Un suo accoglimento, anche metodico o parziale (come avviene con Luckacs ), rimetterebbe in discussione il marxismo come concezione scientifica della realtà. Pertanto bisogna riprendere il problema dal versante empiristico - quello che va da Aristotele a Galileo e Hume. Infatti quest'ultimo è il primo che ha sottolineato l'istanza «dell'esistenza in quanto sinonimo del molteplice, o contingente, o irrazionalesingolare ». Della Volpe ritiene che la struttura della nuova logica - la quale deve fondare scientificamente anche l'economia politica - debba essere elaborata portando a nuova consapevolezza le procedure logiche eia bo rate da Aristotele nella critica a Platone e quelle messe in atto da Galileo nella critica ai fisici aristotelici. Il significato di tale filiazione è così espresso dal nostro autore: « Ora che la critica marxiana coincida altresì con la critica galileiana dei fondamenti aprioristici della fisica peripatetica, e però appartenga all'ordine di istanze 108
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critiche da cui nasce la scienza sperimentale moderna della natura; tutto questo significa che essa, col mostrarci implicitamente nell'Hegel moralista e logico apriorista (e non già solo nell'Hegel filosofo apriorista della natura) una sorta di novello Simplicio peripatetico, ci conferma a fortiori l'infecondità e illegittimità dell'apriorismo (non solo hegeliano) nella filosofia in genere, dunque anche nelle cosiddette "scienze morali", aprendoci la prospettiva, ch'è filosofica in quanto scienza sperimentale anche dell'uomo con tutti i suoi problemi. » Il principio strutturale della nuova logica materialistica, fondativa dell'unificazione di esperienza e ragione è quello di « identità tautoeterologica in cui si esprime la reciprocità o circolarità funzionale di ragione e materia (sensazione)». Il valore logico-filosofico di questo principio risiede nel fatto che la contraddizione non è solo una figura logica ma è il connotato della realtà oggettiva. La nuova dialettica, proposta dal nostro autore, è pertanto quella fondata sulle astrazioni determinate, storiche e razionali, presenti anche nelle ipotesi scientifiche delle scienze naturali. Il suo carattere scientifico è intrinseco allo stesso « criterio della presente logica, il criterio della etetogeneità e reciproca funzionalità di ragione (coscienza) e materia, ossia di predicato e soggetto, è infatti risultato tanto di induzione che di deduzione». La conclusione cui perviene è pertanto questa: «Non c'è che una scienza, perché non c'è che un metodo ossia una logica: la logica materialistica della scienza sperimentale galileiana. Onde, dalla legge fisica alla legge morale ed a quella economica e così via, variano le tecniche che le costituiscono quanto varia l'esperienza e la realtà, ma non varia il metodo, la logica, il cui simbolo resta il suddetto circolo concreto-astratto-concreto. » A questa logica sono state elevate diverse critiche nell'ambiente marxista. I problemi sollevati da quest'opera sono del tutto estranei alle più serie e moderne ricerche logiche ed epistemologiche. Un suo allievo, N. Merker ha ritenuto di riassumere in questi termini gli indubbi meriti culturali del nostro autore: « La riscoperta del metodo logico marxiano in economia e l'indicazione su come generalizzarlo a campi sovrastrutturali diversi da quello dell'economia politica, è un titolo di merito che a della Volpe spetta in pieno; e si accompagna legittimamente all'altro, di aver tratto alla luce, cioè di aver reso parlante in tutta la ricchezza delle sue articolazioni ed implicazioni, il testo della critica di Marx alle ipostasi hegeliane e la validità di esse come generale critica materialistico-storica dell'apriorismo. » Alla scuola di della Volpe appartengono: Lucio Colletti, Umberto Cerroni, Nicolao Merker, Mario Rossi, i quali hanno dato contributi alla storiografia filosofica, in particolare della filosofia tedesca, moderna e contemporanea. Un rilevante contributo al marxismo ha dato Aurelio Macchioro (n. 191 5). Dopo alcune ricerche sulla teoria degli scambi internazionali e sugli aspetti monetari del ciclo economico, ha avvertito la necessità, negli anni cinquanta, di un approfondimento della storia del pensiero economico, che dai marxisti italiani era stranamente trascurata. Ha collaborato per oltre un ventennio alle più 109
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importanti rtvlste economiche e di cultura della sinistra, fra cui « Società », « Rivista storica del socialismo », « Studi storici », raccogliendo gli articoli più importanti nell'ampio volume: Studi di storia del pensiero economico e altri saggi (I97o). Ha condotto una puntigliosa ricognizione storico-critica su V. Pareto, A. Marshall, J.M. Keynes; indagini sulle origini della scienza economica e sulla rivoluzione marginalistica, col recupero della migliore tradizione illuministica, da Melchiorre Gioia a Cattaneo. Inoltre ha approfondito le questioni teoriche nei saggi su L'economia politica del marxismo. Egli è pervenuto così a una «lettura» del Capitale di Marx con preoccupazioni ricostruttive, avvicinabili a quelle di Luporini (non dellavolpiane); ha condotto insieme a Bruno Maffi la più rigorosa traduzione del libro primo de Il Capitale, con ampia introduzione e ha compiuto un notevole tentativo di unificare la storia del pensiero economico con la scienza nel saggio: La storia del pensiero economico fra storia e scienza (I974)· Mentre Luporini incentra l'analisi sulla trama logica dell'indagine economica, Macchioro mette in evidenza la duplice e contemporanea demistificazione hegeliano-ricardiana di Marx, perché « si tratta di due arrovesciamenti conseguenti l 'uno dall'altro: la fondazione storica del materialismo storico (contro l'idealismo hegeliano) essendo la stessa operazione che si sviluppa come fondazione della critica dell'economia politica». Di qui la necessità di una chiave interna alla lettura del Capitale, per non trasformare in aspetti dicotomici ciò che in Marx è inscindibilmente unito: il critico dell'economia politica con il rivoluzionario dialettico. Tale «chiave» è indicata nell'utopia del possibile che è la società senza classi, alla cui progettazione hanno lavorato Marx ed Engels, e la cui validità euristica è data dal fatto che « senza l'utopia del possibile i due versanti - il versante teorico e il versante pratico operativo della struttura del Capitale - rimarrebbero disgiunti, in pro del teoricismo addottrinato da un lato e del praticismo dall 'altro ». Nicola Badaloni (n. I924) ha espresso il suo orientamento marxista-storicista sia in ricerche di storia del pensiero filosofico sia in saggi teorici, raccolti con il titolo programmatico: Marxismo come storicismo (I962). Tale contributo ha suscitato negli ultimi anni un dibattito chiarificatore all'interno del marxismo italiano. Inoltre ha pubblicato La .filosofia di G. Bruno (I95 5), Introduzione a G.B. Vico (I96I); Tommaso Campanella (I965); Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltai re (I 968); con questi tre studi ha privilegiato la tradizione che confluisce poi nell'orientamento storicistico, con accentuazione degli aspetti laicomondani rispetto a quelli religiosi e con esclusione della tradizione scientifica. Negli scritti di quest'ultimo periodo si è impegnato nell'analisi delle componenti diverse del marxismo italiano e ha condotto un tentativo nuovo di studio del pensiero di Gramsci: Scienza e .filosofia in Engels e Lenin (I 970), Il marxismo italiano degli anni sessanta (I971), Per il comunismo. Questioni di teoria (I972), Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica ( 197 5). Nel primo libro egli confronta IlO
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il marxismo con i contributi critici e /o alternativi di Dal Pra, Ab bagnano, Croce, Bobbio, per esaminare quali conseguenze positive possa trarre il marxismo da un impatto con le altre correnti del pensiero contemporaneo. Egli propone una differenziazione-scomposizione fra la metodologia e l'ideologia, presenti nel marxismo: l'una disciplina il momento logico-scientifico, l'altra ne è il prolungamento e insieme la soluzione, scientificamente fondata e controllata. Questo plesso gnoseologico-pratico è determinato dalla dialettica, il cui uso non è metaforico-didattico, ma costitutivo. La dialettica unifica il metodo storico con quello logico, nel senso che individua le contraddizioni reali, oggettive e ne prospetta soluzioni che per essere tali - e non solo ipotesi - abbisognano dell'intervento pratico-ideologico. Le stesse critiche alla posizione di della Volpe sono condotte in funzione di una possibile ricomposizione di motivi e istanze, anche tra loro diverse, perché l'autore ritiene che una tematizzazione della dialettica possa permettere al marxismo di dare una soluzione a quei problemi sorti in contesti storico-teorici fra loro diversi ma egualmente decisivi. Nei saggi su Gramsci, Badaloni tenta di individuare con esattezza le componenti culturali e teoriche del marxismo gramsciano (da Sorel a Croce, a Marx e Lenin) perché proprio « gli effetti di questa fusione fanno del pensiero di Gramsci una delle voci più autorevoli di una via rivoluzionaria in Occidente». Non si tratta pertanto solo di condurre una più rigorosa indagine storico-critica del pensiero di Gramsci, ma di attualizzare l'aspetto metodico del suo pensiero, tentando cioè una ricomposizione nuova degli strumenti teorici e delle tendenze pratico-politiche presenti nel marxismo odierno, in vista di una proposta di marxismo che sia all'altezza dei nuovi compiti teorico-pratici emergenti dall'attuale congiuntura storica. Prima di enunciare e motivare una conclusiva proposta teorica di materialismo dialettico, va sottolineato che anche in Italia, negli anni sessanta, è avvenuta una larga ripresa di studi sul pensiero di Marx, Engels e Lenin. Tale rinascita è indubbiamente legata a complesse motivazioni di ordine politico e altre di carattere teorico, cioè interne a una ridefìnizione della validità del marxismo e del leninismo di fronte alle nuove realtà del mondo contemporaneo. Senza affrontare quest'ultima discussione, sulla cui importanza - e quindi sulla necessità di approfondirla - non nutriamo alcun dubbio, intendiamo ora segnalare solo alcuni fra i contributi più significativi di rivalutazione complessiva del pensiero di Engels, considerato in sostanziale continuità politica e teorica con quello di Marx, e ulteriormente rielaborato da Lenin. L'annosa questione circa la differenza di fondo che esisterebbe fra il pensiero di Engels e quello di Marx (successivamente ripresentata nel rapporto fra il marxismo e illeninismo) è stata ripresentata in Italia in questi anni particolarmente da Lucio Colletti. I contributi più validi si pongono però sul versante opposto; basterà ricordare, oltre al contributo di Badaloni già segnalato, quelli di Eleonora Fiorani, F. Engels e il materialismo dialettico (1971), Compendio engelsiano-leniniano I I I
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(1972), Critica delle interpretazioni di Marx-Engels (1975), e ancora, in collaborazione con Ferdinando Vidoni, Il Giovane Engels: cultura, classe e materialismo dialettico (1974). In questi studi è presente una rigorosa ricostruzione complessiva dell'itinerario politico e teorico di Engels, con esatta indicazione dei «fondamenti gnoseologici della visione del mondo nella quale s'inquadra il materialismo storico » e, con accentuazione polemica, la conferma dell'unità di pensiero fra Engels e Marx e dell'attualità del materialismo dialettico. Sebastiano Timpanaro in Sul materialismo (1970, n ed. ampliata 1975) ha ribadito la validità del materialismo (più che della dialettica), come visione del mondo in cui centrale è il rapporto uomo-natura, nella duplice persuasione che « l'antiengelsismo è un sintomo di idealismo perdurante» e anche se En_gels «non offre soluzioni bell'c pronte per nessuno dei problemi ai quali abbiamo accennato », da lui « bisogna ripartire per affrontarli di nuovo ». Altri contributi, come quello di Ernesto Ragionieri, Il « vecchio » Engels e la storicità del marxismo (1970), hanno evidenziato la continuità di corrette posizioni politiche dell'ultimo Engels rispetto al patrimonio marxiano. Anche i capitoli su Engels e Lenin di quest'opera si pongono esplicitamente come una ripresa e riconferma dell'attualità della linea engelsiana-leniniana, cui si è giunti attraverso un autonomo lavoro all'interno della tematica dell'epistemologia contemporanea, onde indicare poi nel materialismo dialettico lo strumento teorico più idoneo per risolvere i problemi emergenti all'interno del sapere scientifico e per progettare non utopisticamente una nuova società. XIII
• SCIENZA E FILOSOFIA.
RINASCITA DEL MATERIALISMO DIALETTICO
Risulta ormai chiaro, da quanto abbiamo esposto nei paragrafi precedenti, che, tra le varie esigenze messe in moto dal generale desiderio di rinnovamento che pervase la cultura italiana alla fine della seconda guerra mondiale, merita una menzione particolare quella di riuscire finalmente ad aprire le ricerche filosofiche verso la problcmatica della scienza. Fu un'esigenza motivata sia dal desiderio di liberarsi dalla pesante eredità lasciata, in questo settore, dall'attualismo gentiliano (che per un certo tempo era stato considerato, come sappiamo, la filosofia ufficiale del fascismo), sia dal desiderio di aggiornarsi su quanto era stato operato, in proposito, da alcuni fra i più celebri indirizzi stranieri. L'impresa si rivelò tuttavia di notevole difficoltà, da un lato perché la frattura tra filosofia e scienza aveva radici assai più lontane (si ricordi quanto abbiamo accennato nel secondo paragrafo), dall'altro perché nella maggioranza dei casi non si fu capaci di collegarsi ai pochi, ma pur seri, tentativi che già erano stati compiuti in questa direzione nei primi decenni del secolo, ad opera, per esem112
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pio, di Vailati e di Enriques, onde il programma di riavvicinamento della filosofia alla scienza fu guardato con un certo sospetto da chi si preoccupava di difendere la tradizione italiana dall'invadenza delle « mode» d'oltreoceano. Intendiamo riferirei in particolare al sospetto di cui furono circondate, per alcuni anni, le ricerche di epistemologia e di logica, accusate tutte, molto sommariamente, di essere pure e semplici propaggini del neopositivismo. Questa diffidenza fu presente perfino tra le file dei marxisti, dove uno studioso del valore di Galvano della Volpe includeva sì nel proprio programma l'esaltazione del metodo galileiano, ma si guardava bene dal cimentarsi sui grandi problemi filosofici sollevati dalle nuove conquiste della logica, della matematica, della fisica e della biologia. È significativo come il ben giustificato sforzo della scuola dellavolpiana di affermare la propria indipendenza nei confronti del materialismo dialettico sovietico del periodo staliniano, l'abbia condotta non già a tentare di contrapporre alle tesi spesso rozze e dogmatiche di tale materialismo una visione altrettanto materialistica ma più critica e raffinata del mondo naturale, bensì a interessarsi unicamente di problemi «umani» (storici, economici, sociali ecc.) come se l'uomo potesse venire concepito al di fuori della natura, o come se i suoi rapporti con essa potessero venire interpretati esclusivamente quali rapporti di ordine pratico e non anche di ordine conoscitivo. Di qui il ben noto atteggiamento di non-intervento, che tale scuola mantenne (e mantiene) nei dibattiti generali intorno al valore - conoscitivo o no - della scienza, o a quelli specifici intorno al significato - realistico o idealistico della teoria della relatività, della meccanica quantistica, della genetica ecc.; dibattiti nei quali si erano invece cimentati (e continuano a cimentarsi) valenti marxisti di altri paesi, in primo luogo dell'Unione Sovietica. Per parte loro, gran parte degli scienziati italiani hanno preferito mantenersi al di fuori di qualunque dibattito che comportasse un diretto impegno filosofico; ciò non vale ovviamente per tutti, ma senza dubbio nessuno di essi ha assunto una posizione filosofica esplicita e combattiva, come a suo tempo aveva fatto Enriques. Forse la sconfitta da questi subita, nella polemica con Croce e Gentile, li ha dissuasi dal seguire apertamente la sua strada. I più hanno preferito sostenere che le stesse indagini sui fondamenti delle varie discipline scientifiche vanno svolte, almeno da parte degli scienziati, in termini puramente tecnici, filosoficamente pressoché neutrali. È un orientamento che, in non pochi casi, può venire riscontrato perfino nell'ambito dei logici matematici; cosa tanto più singolare se tenhmo conto che fuori d'Italia parecchi logici matP.matici si sono fatti, invece, assertori di ben precisi indirizzi filosofici (non importa se più o meno soddisfacenti); si pensi per esempio a Russell, a Carnap, a Quine ecc. Prescindendo dalle ragioni storiche che hanno condotto a questa separazione tra filosofia e scienza, possiamo dire che, per un lato, essa rivela la giusta preoc-
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cupazione di evitare comunque prese di posizione affrettate e generiche; per un altro lato, però, rivela purtroppo una scarsa comprensione dell'importanza dei problemi filosofico-scientifici. È chiaro infatti, che chi sia veramente consapevole del peso spettante a tali problemi nella cultura odierna non avrà timore di tentarne una soluzione, pur sapendo che essa può soltanto essere provvisoria e parziale. Tra la prudenza e la mancanza di effettivo interesse, il passo è abbastanza breve e non di rado la prima viene proprio invocata per mascherare la seconda. È vero che oggi si parla, da varie parti, di interdisciplinarità, ma è un fatto che essa rimane spesso più nel campo delle aspirazioni che non in quello dei programmi seri. Riguarda, comunque, assai più i rapporti fra materie affini (per esempio fra storia, letteratura, sociologia ecc. oppure tra fisica, chimica, biologia e materie analoghe) che non quelli tra filosofia e scienza. Essa può venire semmai interpretata come il tentativo di porre un freno allo specialismo più sfrenato, dilagante sia nell'ambito delle discipline umanistiche sia in quello delle discipline naturali; compito senza dubbio assai importante, ma diverso da quello ben preciso di cui stiamo discutendo. La realtà è che la via maestra da cui il filosofo viene condotto - e in certo senso costretto - a prendere posizione di fronte alla scienza, risulta costituita oggi come ieri dal complesso dei vastissimi problemi concernenti la conoscenza. È vero che recentemente taluno vorrebbe sostituirla con un'altra, caratterizzata invece dai problemi concernenti il rapporto fra scienza e società, e in particolare il rapporto fra lo sviluppo delle indagini scientifiche e le richieste di ordine pratico che le classi dominanti rivolgono di volta in volta agli scienziati. Ma è chiaro che l'impostazione stessa di quest'ultimo gruppo di problemi (intorno ai rapporti fra scienza e società) dipende a rigore dalla risoluzione che si fornisce ai problemi del gruppo precedente: se infatti si ritiene che la scienza non sia un'attività conoscitiva ma soltanto pratica, sarà facile concluderne che il suo rapporto con le classi dirigenti è di totale subordinazione, mentre la risposta diventa notevolmente più complessa se si attribuisce alla scienza un valore autenticamente conoscitivo; in tal caso in vero non si potrà fare a meno di ammettere che il suo sviluppo non dipende soltanto dalle richieste della società dell'epoca, ma anche dalle informazioni che lo scienziato riesce via via a ricavare intorno agli oggetti indagati. Lo si voglia o no, la scienza si presenta, oggi, come l'espressione più elevata della nostra attività conoscitiva (decisamente superiore alla conoscenza comune e a quella intuiti va); anche se fossimo convinti che questo giudizio è errato, dovremmo discuterlo per confutarlo, e dovremmo discuterlo proprio in sede di esame critico del problema della conoscenza. I filosofi che si rifiutano di affrontare questa discussione sono alla fin fine costretti, per coerenza, a negare l'importanza del problema della conoscenza. Ciò facendo dovrebbero però giustificare come mai esso abbia perso oggi la sua importanza tradizionale; dovrebbero 114
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cioè spiegare che cosa è sopravvenuto perché un problema, che fu per millenni considerato centrale per la filosofia, sia stato improvvisamente collocato ai margini della ricerca filosofica. Crediamo di poter rispondere che la motivazione di tale improvviso mutamento vada cercata nella profonda diversità esistente fra i caratteri delle più avanzate conoscenze scientifiche odierne e i caratteri che per molti secoli vennero attribuiti alla conoscenza in generale e furono ritenuti degni di attenta indagine filosofica. È una diversità dovuta al fatto che le più avanzate conoscenze scientifiche odierne hanno perso da tempo la assolutezza che si pensava propria di qualsiasi conoscenza vera: assolutezza che attualmente non si saprebbe più a quale tipo di conoscenza attribuire (salvo forse a c1ualche vaga intuizione che pensatori isolati credono di aver raggiunta nell'intcrio:ità del proprio animo senza, ovviamente, e:.sere in grado di comunicarla agli altri!). È per l'appunto questa nuova situazione che ha indotto molti filosofi a concludere frettolosamente che il problema della conoscenza ha perso la sua antica rispettabilità ... perché in realtà non si conosce nulla, nel vecchio senso del termine « conoscere». Riteniamo lecito dire che l'odierna rinascita, in Italia, del materialismo dialettico trae proprio origine dal rifiuto della conclusione testé accennata. In altre parole: i fautori di tale rinascita sostengono che dalla constatata impossibilità di continuare ad attribuire, oggi, alle nostre conoscenze più elevate (cioè appunto alle conoscenze scientifiche) i caratteri tradizionalmente attribuiti alla conoscenza in generale, non si possa affatto dedurre « dunque ... non si conosce nulla », ma si debba dedurre invece «occorre rinnovare radicalmente la vecchia nozione di conoscenza». Secondo essi, occorre cioè abbandonare la pretesa che le «conoscenze vere» siano assolute e colgano nella sua totalità il reale oggettivo; visto che la vecchia nozione di conoscenza assoluta è diventata insostenibile, dovremo sostituirle la nozione di « conoscenza dialetticamente vera » cioè di conoscenza perennemente trasformabile, capace sì di cogliere gradualmente la realtà, ma non di esaurirla una volta per sempre. Gli anzidetti fautori di una rinascita del materialismo dialettico aggiungono poi: è incontestabile che la nuova nozione di « conoscenza dialetticamente vera» si ritrova già negli scritti filosofici di Lenin, ma non è perché venne insegnata da Lenin che noi l'accettiamo, bensì perché ci viene suggerita da un'attenta e spregiudicata riflessione sull'effettivo procedere della scienza odierna. Quanto ora detto ci fa comprendere con chiarezza r) per quale motivo l'attuale rinascita in Italia del materialismo dialettico incentri il suo programma filosofico su di una piena e consapevole rivalutazione del problema della conoscenza, z) per quale motivo questo programma faccia perno sui problemi di filosofia della scienza, 3) per quale motivo l'anzidetta rinascita sia caparbiamente osteggiata da tutti gli indirizzi che, qualificandosi sotto un nome o sotto l'altro, sostengono una complèta separazione tra filosofia e scienza. Per quanto riguarda 115 www.scribd.com/Baruhk
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il secondo di questi punti, va osservato che parecchi difensori del materialismo dialettico prendono proprio le mosse- in Italia e non solo in Italia- da un accuratissimo esame delle moderne, più accreditate, correnti occidentali di filosofia della scienza vuoi per accoglierne e "precisarne alcuni risultati, vuoi per correggerne e integrarne altri che a un attento esame critico si rivelano in contrasto con ciò che ci insegna l'analisi obbiettiva del concreto procedere della ricerca scientifica. Un'impostazione siffatta è ad esempio presente nei membri del cosiddetto « gruppo di Milano » (Enrico Bellone, Ludovico Geymonat, Giulio Giorello, Silvano Tagliagambe e vari altri) la cui adesione al materialismo dialettico scaturisce proprio dallo studio dei problemi della conoscenza scientifica e dalla constatazione che tale materialismo è in grado di delinearne una soluzione più soddisfacente di quella solitamente offerta dalle correnti fenomenistiche, convenzionalistiche ecc. oggi maggiormente conosciute. Contro un tale approccio al materialismo dialettico vengono da alcune parti sollevate due obbiezioni, senza dubbio assai serie: I) che esso trascurerebbe l'impegno ontologico presente nei « classici » del materialismo dialettico, 2) che dimostrerebbe troppo scarso interesse per le conseguenze pratiche (rivoluzionarie) che tali «classici» hanno sempre ricavato dalla filosofia materialisticodialettica. Alla prima abbiezione i summenzionati fautori della rinascita, in Italia, del materialismo dialettico sono soliti rispondere che è impossibile giungere ad una valida difesa dell'antologia materialistico-dialettica se non partendo da una soddisfacente risoluzione (in senso materialistico) dei più difficili nodi della conoscenza scientifica moderna. In altre parole: a loro parere solo uno scrupoloso dibattito intorno alle famose tesi che Lenin denotava coi termini: «approfondimento delle conosc~nze », « flessibilità delle categorie », « inesauribilità della natura » (Lenin scriveva «dell'elettrone») può costituire la base di partenza per la formulazione di una concezione materialistica della realtà non attaccabile dalle solite, volgari, accuse di dogmatismo, accuse che si reggono proprio sull'ignoranza dei legami inscindibili fra antologia e gnoseologia. È del resto significativo che anche i più raffinati studiosi odierni dell'Unione Sovietica, nella loro difesa del materialismo dialettico, prendano le mosse proprio dalla trattazione materialistica del problema della conoscenza e in particolare della conoscenza scientifica. Alla seconda abbiezione rispondono in termini più modesti, ammettendo di non avere ancora sviluppato se non in forma molto schematica le conseguenze pratiche della concezione materialistico-dialettica difesa in sede teorica. Ritengono tuttavia che la scrupolosa chiarificazione teoretica di tale concezione sia indispensabile ad uno sviluppo coerente delle anzidette conseguenze, come hanno validamente sostenuto proprio i classici del marxismo, e lo sia tanto più oggi quando alcuni autori credono di poter difendere un nuovo tipo di rivoluzionarismo sulla base di concezioni non dialettiche e non materialistiche. Abbiamo già 116
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visto, parlando dell'esistenzialismo, che su tali basi sono stati elaborati orientamenti di stampo sostanzialmente spontaneistico e irrazionalistico. Sull'incidenza di questa ripresa del materialismo dialettico nella cultura italiana è, per il momento, pressoché impossibile pronunciare un giudizio seriamente fondato. Sembra lecito, tuttavia, affermare che essa ha aperto una nuova via all'intensificazione dei rapporti tra ricerche filosofiche e ricerche scientifiche. Risulta pertanto difficile negarne l'interesse, per lo meno da questo punto di vista. È auspicabile che i suoi avversari si sentano stimolati a contrapporre - alle sempre più numerose ricerche di epistemologia e di storia della scienza ispirate al risorgente materialismo dialettico - altre ricerche, altrettanto precise e altrettanto valide, anzi possibilmente più valide. Sarà proprio questa dialettica a far progredire la cultura scièntifico-filosofica italhna.
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CAPI'TOLO QUAR'TO
Biologia e ftlosofta DI
FELICE
MONDELLA
I· PREMESSA
La biologia dall'inizio del nostro secolo ad oggi ha subito un rivolgimento di grande importanza, quasi rivoluzionario. Non vi è stato in essa tuttavia un cambiamento del quadro concettuale paragonabile a quello che si è verificato nella fisica tra il 1890 e il 1930. Si potrebbe anzi dire che già all'inizio del secolo si trovavano presenti sia pure in forma approssimata alcune delle formulazioni teoriche fondamentali che dovevano poi svilupparsi ed essere confermate in questi ultimi decenni con la rifondazione della teoria dell'evoluzione sulla base della genetica e con il sorgere della biologia molecolare. Alla tesi qui accennata della continuità fra questi due periodi si può obiettare che i risultati teorici compiuti dopo il 1930 hanno costituito una svolta improvvisa e quasi inattesa rispetto alla situazione di grave crisi teorica in cui si trovava la biologia nei decenni precedenti e che era già maturata alla fine dell'Ottocento con il declino del darwinismo e il sorgere del vitalismo. Riten.iamo tuttavia di dover rispondere che solo un'analisi approfondita del primo periodo possa condurre ad una esatta comprensione del significato dei risultati del secondo periodo. Se è infatti vero che nella prima fase appaiono chiaramente i condiziona~ menti negativi di una concezione della conoscenza scientifica di tipo fenomenistico e irrazionalistico è però anche vero che attraverso i dibatti filosofici svoltisi in questo periodo emergono anche esigenze di chiarimento metodologico e di analisi critica che risulteranno fecondi per i successivi sviluppi. Questi dibattiti filosofici vertevano soprattutto sul significato e sui limiti del meccanicismo biologico nonché sulle proposte di una concezione organicistica capace di utilizzare tutta la fecondità dell'indagine fisico-chimica sugli organismi, ma nello stesso tempo in grado di caratterizzare le loro proprietà peculiari rispetto ai restanti fenomeni della natura. Il meccanicismo biologico assume nei primi decenni del nostro secolo due forme in parte almeno contrapposte. Da un lato si presenta come uno sviluppo del darwinismo, integrato da una concezione ipotetica su una organizzazione 118
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nascosta nel plasma germinale; dall'altro, secondo un'impostazione più vicina al fenomenismo scientific:::>, tale meccanicismo si presenta come la trattazione fisicochimica dei processi attualmente osservabili in laboratorio. La prima forma è legata ad una concezione storica e materialistica della natura, la seconda si pone su un piano apparentemente più neutrale, ma in realtà aperto alle interpretazioni filosofiche di tipo idealistico o spiritualistico. L'organicismo, nella sua forma più valida e convincente, rivendicava nello studio dei viventi il riconoscimento di un livello di organizzazione avente leggi proprie, senza però escludere che tali leggi potessero di principio essere riducibili alle leggi più generali delle scienze inorganiche della natura. Ma il dibattito che portò a riconoscere la validità di questa impostazione organicistica si sarebbe limitato alla semplice rivendicazione della legittimità di un metodo se le svolte decisive della genetica e quelle più recenti della biochimica non le avessero dato un diverso significato. Queste ricerche risultano sostanzialmente in una conferma dell'indirizzo evoluzionistico neo-darwiniano, dell'idea sostenuta da Weismann di un'organizzazione nascosta della materia vivente che può spiegame le proprietà e il comportamento passato e presente degli organismi. In questo capitolo ci soffermeremo in modo più esteso sulle discussioni teoriche e metodologiche sviluppatesi nel primo periodo anche per il loro stretto legame con la cultura filosofica dell'epoca. Nella parte finale accenneremo invece ai risultati scientifici più recenti !imitandoci a rilevare come essi assumano un particolare significato alla luce della problematica teorico-filosofica del periodo precedente. Per comprendere questo significato è importante chiarire che tali risultati, più che una conferma di un generico meccanicismo biologico, rappresentano la convalida di una più ampia concezione materialistica sostenuta alla fine dell'Ottocento da alcuni dei più validi rappresentanti del darwinismo. Che questo materialismo non debba più, come allora, considerarsi rigorosamente meccanicistico, può essere suggerito da una visione più ampia dell'evoluzione degli organismi nella storia della natura e dal fatto che le critiche dell'organicismo e del materialismo dialettico sembrano indicare nel meccanicismo una concezione incapace di interpretare, nel divenire della materia, la produzione delle forme e dei livelli più elevati della natura, quali la vita e le attività sociali e spirituali dell'uomo. II· IL
MECCANICISMO
BIOLOGICO:
DIFFICOLTÀ E
CONTRADDIZIONI
Durante i primi anni del Novecento l'influenza del vitalismo, sia nella formulazione di Driesch sia in quella di altri autori, fu indubbiamente rilevante. Ma ne fu più sensibilizzato il clima culturale filosofico-scientifico in generale che non la maggior parte dei settori più circoscritti delle ricerche biologicosperimentali.
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La concezione fenomenistica e convenzionalistica della conoscenza fisicomatematica della natura aveva già contestato alla scienza il diritto di presentarsi come una conoscenza valida ed oggettiva della natura. L'affermazione poi che la vita stessa sfuggiva completamente anche a questo tipo di conoscenza non poteva che accentuare il senso di precarietà e d'incertezza, per l'infrangersi di quel quadro coerente ed unitario che solo pochi decenni prima si pensava di aver fissato attraverso i risultati della fisica meccanicistica e della biologia darwiniana. Da tali precarietà ed incertezze trassero alimento i vari tipi di filosofia della vita di colorazione più o meno irrazionalista e, nel campo stesso della biologia, trassero giustificazione le formulazioni teoriche più disparate ed inconciliabili. Nei primi anni del Novecento questo disorientamento che coinvolgeva i principali problemi teorici della biologia quali l'evoluzione, l'eredità, la selezione, l'adattamento ecc., non impedì il concreto svolgersi di importanti ricerche sperimentali che nel giro di pochi decenni avrebbero chiarito su un piano teorico molte incertezze e fatto giustizia di molte formulazioni non sufficientemente fondate o arbitrarie. Le stesse ricerche di laboratorio più serie dovevano tuttavia trovare giustificazione in alcuni assunti teorici precisi e perciò il dibattito su problemi di carattere generale interessò direttamente non pochi degli autori più seri ed impegnati nella stessa ricerca sperimentale. Il vitalismo, pur non essendo stato accolto favorevolmente dalla grande maggioranza dei biologi, cionondimeno suscitò un ampio dibattito che si protrasse oltre gli anni venti. Tale
IZZ
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sentazione, ne viene logicamente che solo la mia propria psiche esiste veramente. » Questa concezione, scriveva ancora Verworn nel 1895, «fu posta a base dei loro sistemi da Berkeley, e recentemente da Fichte e Schopenhauer, e in tempi recentissimi ad esso applicarono le loro idee sulla conoscenza teoretica A venarius fra i filosofi e Mach fra i naturalisti. Speriamo che questa idea fondamentale, che mena ad un vero concetto monistico del mondo, guadagnando sempre più terreno nella scienza della natura, metta fine al vecchio dualismo fra il corpo e l'anima, quell'antico concetto che ... ai tempi moderni spetta di riabbattere. Una cosa sola esiste- la psiche». Questa posizione filosofica accettata da Verworn poteva non essere del tutto indifferente alla valutazione che egli forniva della teoria del plasma germinale. Come Mach ed Ostwald, partendo da una concezione fenomenistica ed energetistica della fisica si erano opposti all'atomismo di Boltzmann che postulava entità reali invisibili al di là del mondo sensibile, così Verworn si oppone all'idea di un'organizzazione invisibile della materia vivente. Se inoltre l'unica realtà è la psiche, tutta l'interpretazione evoluzionistica degli organismi come risultato della storia della terra veniva a perdere, se non la sua validità scientifica, almeno il suo significato generale per interpretare ia realtà stessa dell'uomo, cioè il suo posto nella natura. Alla concezione neo-darwiniana, oltre al meccanicismo chimico-fisiologico caratteristico di Verworn si contrapponeva, almeno in parte, anche un altro indirizzo presentantesi con altrettante credenziali di modernità e di rigorosa analisi sperimentale e fisico-chimica del problema della vita. Tale indirizzo si proponeva di affrontare lo studio degli organismi in via indiretta cercando di individuare nell'ambito di interazioni fra sostanze organiche e inorganiche non viventi il prodursi di strutture o azioni simili a quelle viventi. Si tratta di un campo di ricerche già sviluppato negli ultimi decenni dell'Ottocento facendo interagire fra loro varie soluzioni chimiche capaci di produrre forme e movimenti simili a quelli di cellule viventi. Se ad esempio una goccia di sostanza oleosa viene posta in una soluzione alcalina, alla superficie di contatto può avvenire, per formazione di sapone, una diminuzione della tensione superficiale della stessa goccia oleosa per cui si producono in essa delle estroflessioni che simulano la forma dei movimenti di un'ameba. Fra i più convinti assertori di queste ricerche, che si estesero ampiamente nei primi decenni del Novecento, vi fu lo zoologo tedesco Otto Biitschli (1848-1920). Convinto che un'indagine fisico-chimica diretta degli organismi anche più semplici possa fornirci ben pochi dati sui processi nascosti che in essi effettivamente si svolgono, egli sostiene che questo tipo di indagini basate su modelli e analogie ci fornisca delle informazioni indirette ma fondamentali per comprendere il costituirsi delle stesse strutture morfologiche viventi. Nello scritto Mechanismus und Vitalismus (Meccanicismo e vitalismo, 1901) egli ritiene, rifacendosi proprio ai risultati di tali sue indagini, di poter replicare in modo efficace alle argomentazioni vitalistiche di Driesch basantisi sui processi
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di rigenerazione e regolazione embrionale. Osserva ad esempio come gocce di liquidi in emulsione possano riacquistare la loro originaria forma sferica, dopo l'asportazione di una parte. Riferendosi poi al processo di autoriparazione di cristalli lesionati, che avviene in una soluzione, osserva come in questo caso si verifica che da ogni particella di un cristallo si può ricostituire un cristallo tipico, così che, nel senso di Driesch, anche un cristallo deve considerarsi un « sistema equipotenziale armonico». È interessante osservare che anche Bi.itschli partendo dalle sue indagini fisico-chimiche sul vivente respinge l'idea di Roux e Weismann dell'esistenza di « metastrutture » invisibili del plasma germinale. Contro ogni concezione di questo tipo egli afferma che in generale « una struttura meccanica non può essere la condizione di processi chimici», anche se sappiamo che «la pressione meccanica è sufficiente per provocare nel plasma vivente dei processi di scomposizione chimica ». Pur proclamandosi meccanicista e sostenendo che il corpo organizzato dei viventi è sorto in modo « casuale » ed è stato stabilizzato dalla selezione naturale, Bi.itschli in tal modo si oppone al filone del meccanicismo neo-darwiniano di W eismann che potremmo indicare come « micromorfologico ». Quest'ultimo indirizzo di ricerca era presto destinato a ritrovare una nuova e importantissima fase di sviluppo nelle ricerche di genetica che avevano preso l'avvio all'inizio del secolo specialmente negli Stati Uniti per opera di 'Thomas Hunt Morgan e la sua scuola. A queste indagini tuttavia non cominciò ad essere riconosciuto il loro vero significato di prosecuzione e di sostanziale convalida del neo-darwinismo weismanniano se non dopo gli anni trenta. Molti sino a questo periodo ritengono anzi che i risultati della genetica se non ponevano in dubbio la stessa idea di evoluzione biologica, per lo meno non gettavano alcuna luce importante su di essa. Le divergenze molto forti che in tal modo dividevano nei primi decenni del secolo coloro che ugualmente si richiamavano al meccanicismo biologico e quindi l'estrema difficoltà di costituire in base ad esso un coerente edificio teorico, si riflettono anche nell'opera dell'autore che fu forse il più importante e più combattivo assertore di questo indirizzo, Jacques Loeb (1859-1924), del quale si è già parlato nel volume sesto. Nato da una famiglia ebrea della Renania egli era emigrato nel 1891 negli Stati Uniti ove, in un clima culturale appena sfiorato dalla «reazione idealistica alla scienza », rimase fedele ad un materialismo meccanicistico ancora di impronta ottocentesca. Egli dichiarava con estrema convinzione che « gli esseri viventi sono macchine chimiche, che consistono essenzialmente di materiale colloidale e che possiedono la proprietà di svilupparsi automaticamente, di conservarsi e di riprodursi». Trovava una prova importante di questa sua affermazione nelle stesse ricerche sperimentali che egli aveva già iniziato in Europa, applicnndo stimoli chimico-fisici allo sviluppo dell'uovo e al comportamento animale.
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L 'orientamento verso la luce di questo anellide ( « spirographis ») è uno dei tropismi studiati da ]. Loeb.
Nel primo caso, ad esempio, egli era giunto, variando la concentrazione dell'acqua di mare, ad ottenere lo sviluppo embrionale delle uova di riccio. Questa partenogenesi « sperimentale » poteva costituire una prova a favore del meccanicismo in quanto dimostrava che una tipica funzione vitale, quale la fecondazione normalmente compiuta dallo spermatozoo, poteva essere sostituita dall'azione di processi o stimoli fisico-chimici controllabili. Nel secondo caso, partendo da note osservazioni sulle piante, egli aveva sperimentato la reazione di insetti o di altri animali inferiori a stimoli luminosi chimici ed elettrici concludendo che la loro reazione costituisce un comportamento automatico svolgentesi in modo rigidamente deterministico. I bruchi, ad esempio, si muovono immancabilmente verso una sorgente luminosa anche se la loro fonte di cibo si trova nella direzione opposta. Questi effetti deterministici di un automatismo individuato nel comportamento degli animali, e da lui denominati tropismi, non solo dovevano confutare ogni considerazione psicologica sull'infallibilità dei loro istinti di autoconservazione, ma condurre anche ad una soluzione scientifica e deterministica del libero arbitrio. Col tempo - egli afferma - si giungerà a comprendere come « i nostri desideri e speranze, le nostre delusioni e sofferenze, i nostri sforzi e le nostre lotte sono confrontabili con l'istinto per la luce degli animali eliotropici ». Poteva ~·osi concludere che « la nostra vita sociale ed etica dovrà essere posta su base scientifica e le nostre regole di condotta dovranno essere armonizzate con i risultati della biologia scientifica ». Queste parole venivano pronunciate in un discorso su La concezione meccanicistica della vita tenuto al primo congresso dei monisti riunito ad Amburgo nel 1911. Organizzato dal grande biologo Haeckel parteciparono ad esso migliaia di persone di diversi paesi, ma nonostante l'atmosfera trionfale esso segnava ormai la fine di un movimento di pensiero inficiato da una sostanziale fragilità ed ambiguità teorico-filosofica. Basti ricordare che a presiedere la riunione vi era l'illustre chimico Wilhelm Ostwald che nel 1895 aveva decretato solenne125
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mente la fine del materialismo scientifico in nome dell'energetismo, ma aveva però subito una dura sconfitta dovendo ammettere nel 1909 la validità scientifica della teoria atomica e molecolare contro cui egli stesso, con i seguaci della « fisica fenomenologica » ed energetista, si era così a lungo accanito. Di questa sconfitta dell'energetismo certo Loeb poteva valersi per rivendicare la validità del meccanicismo anche in biologia, ma egli non era effettivamente in grado di difendere la sua posizione materialistica su .quel terreno di discussione critico-filosofico ove si era affermata la concezione soggettivistica e convenzionalistica della conoscenza scientifica. Egli rimaneva ancorato al materialismo popolare ottocentesco. Non si rendeva conto, al pari di molti, che proclamare la riducibilità dell'attività psichica e morale dell'uomo a processi fisicochimici aveva costituito più che un preciso risultato scientifico una posizione ideologico-filosofica nella battaglia contro il clericalismo su cui poggiava il potere politico in Germania, in una battaglia che aveva ormai perso molto del suo significato nella nuova situazione storica. Non avvertiva come tale riduzione, pur continuando a costituire un punto di partenza valido per la ricerca scientifica, sul piano teorico-filosofico poteva anche prestarsi alle mistificazioni più pericolose, dal razzismo alla eugenetica, alla più completa sottovalutazione dei fattori socio-economici dell'attività umana. Tale sottovalutazione corrispondeva evidentemente agli interessi ideologici della classe al potere, volti a mistificare l'analisi scientifica delle reali condizioni di esistenza dell'uomo. I limiti teorici del meccanicismo biologico di Loeb oltre che sul piano filosofico possono riflettersi anche sul piano strettamente scientifico. Come molti sostenitori di un meccanicismo di tipo fisiologico, anch'egli infatti sottovaluta la teoria dell'evoluzione, la concezione storica della vita i cui problemi estremamente controversi gli apparivano del tutto insolubili in base a quell'atteggiamento rigorosamente sperimentale che egli rivendicava come l'unico e sicuro metodo della biologia. Pur tenendosi lontano da quella prospettiva storica che occorreva comunque assumere per una coerente comprensione scientifico-materialistica della vita, egli tuttavia di fronte al problema della finalità e dell'armonia funzionale degli organismi assume un criterio interpretativo astorico, ma di tipo darwiniano. Giunge cioè ad affermare che può esistere « soltanto quella limitata frazione di specie che non possiede alcuna grossolana disarmonia nel suo meccanismo automatico di preservazione e riproduzione. Disarmonie ed erronei tentativi sono la regola nella natura, i sistemi armonicamente sviluppati sono una rara eccezione. Ma dal momento che noi percepiamo solo questi ultimi abbiamo l'erronea impressione che l'adattamento delle parti al piano del tutto sia una caratteristica generale e specifica della natura animata che la distingue da quella inanimata ». Questo richiamo agli effetti di una selezione naturale non si rivolge però al passato. Da sperimentatore convinto egli ritiene che « non possiamo considerare nessuna teoria dell'evoluzione come provata a meno che essa ci 126 www.scribd.com/Baruhk
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permetta di trasformare a piacere una specie in un'altra e ciò non è stato ancora realizzato ». Egli avanza perciò l'ipotesi che una estrema variabilità di forme nuove e solo in piccola parte capaci di sopravvivere, possa sorgere attualmente dall'incrocio di specie diverse, e ritiene che ciò possa ad esempio verificarsi nei pesci teleostei; in questo modo il prodursi casuale di strutture armonicamente organizzate si potrebbe considerare come un processo osservabile e controllabile al presente. Con tale ipotesi, egli afferma, «il nostro modo di spiegare l'assenza di un progetto (design) nella natura vivente sarebbe valido anche se non vi fosse nessuna teoria dell'evoluzione o se non vi fosse mai stata una evoluzione». Con questa ipotesi, che si dimostrerà del tutto insostenibile, egli sembra riecheggiare l'atomismo biologico di Diderot di cui, come di tutto il naturalismo illuministico, era un convinto ammiratore, e a cui dedica una delle sue maggiori opere, The organimt as a whole from a physicochemical viewpoint (L'organismo come un tutto dal punto di vista ftsico-chintico, 1916). In questo, come in altri scritti, egli ha il merito di riconoscere l'importanza teorica della nuova genetica mendeliana, ma deve ammettere che «se noi assumiamo che l'organismo non è altro che un mosaico di caratteri mendeliani è davvero difficile comprendere come essi possano connettersi l'un l'altro in un tutto armonico». Per risolvere questa difficoltà egli come altri autori giunge a negare l'azione preminente del plasma germinale del nucleo nello sviluppo dell'organismo, sostenendo invece che nell'uovo «il citoplasma contiene una preformazione approssimata del futuro embrione » e che i fattori mendeliani del nucleo producono solo sostanze attivanti la microstruttura embrionale nascosta nel citoplasma. Senza entrare nel merito della plausibilità scientifica che poteva allora accreditare questa ipotesi si può rilevare come nell'atteggiamento di Loeb si presentava ancora una volta la contrapposizione da noi più volte rilevata tra l'indirizzo meccanicistico di tipo fisiologico e quello, esso pure meccanicistico, di tipo micromorfologico dei neo-darwiniani che ponevano nel nucleo i determinanti dello sviluppo embrionale. A tale profondo contrasto che, come già si è detto, toglieva al meccanicismo biologico la possibilità di presentarsi come un edificio teorico sufficientemente coerente e unitario va aggiunta un'ulteriore difficoltà: quella che sorgeva dal problema dell'origine della vita. Senza soffermarci su questo argomento, ricorderemo soltanto come all'inizio del secolo molti autori tf:ndevano a risolvere questo problema sostenendo che la vita aveva avuto inizio sulla terra giungendovi attraverso germi microscopici da altre zone dello spazio o addirittura sostenendo la sua eternità, coeva a quella stessa del mondo. Quest'ultima tesi venne ribadita con convinzione in questo periodo da uno dei più acuti e vivaci sostenitori del meccanicismo biologico, il tedesco ] ulius Schultz. In uno scritto del I 9 I 3 egli respinge la teoria darwiniana da
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lui definita « Chaostheorie » e sostiene invece una « Maschinentheorie » degli organismi. Secondo questa teoria la vita è costituita da una costellazione ordinata di materia da sempre esistente. È inutile, egli afferma, chied~rsi l'origine di tale struttura. Chiedersi le cause dell'ordine è un atteggiamento infantile o comunque inattuale: « Deve perciò essere ben chiaro che un caos primitivo non è comunque più comprensibile di un kosmos primitivo. » Questo rifiuto di una concezione storica della natura e dell'origine della vita si accompagna in lui, in modo molto significativo, con una concezione soggettivistica della conoscenza scientifica che egli esprime con molta chiarezza affermando: «Una materia eternamente ordinata in un determinato senso non può più essere concepita come pura materia, ma solo come fenomeno di un principio spirituale ». III • ALCUNE
OBIEZIONI
AL
VITALISMO
Se il meccanicismo biologico non poteva nel complesso costituire un edificio teorico coerente, esso continuava tuttavia ad essere uno strumento metodologico di ricerca per la quasi totalità dei biologi, rappresentando quell'implicito « materialismo da laboratorio » che Lenin vedeva operante nel lavoro quotidiano dello scienziato, malgrado le distorsioni ideologiche del fenomenismo. Ciò spiega come la grande maggioranza dei biologi abbia rifiutato il vitalismo, anche se tale rifiuto avvenne attraverso un dibattito vivace e interessante per i suoi aspetti filosofico-metodologici. Non potendoci soffermare su di esso ci limiteremo ad indicare alcune delle obiezioni fondamentali che venivano rivolte in particolare alla concezione di Driesch. Fra queste obiezioni forse di maggior interesse è quella secondo cui il vitalismo in quanto tale è inconciliabile con il procedimento deterministico sperimentale universalmente accettato nel mondo scientifico. Questa obiezione può essere illustrata molto chiaramente dalle considerazioni di un illustre biologo americano Herbert Spencer Jennings (1868-1947). Secondo Driesch, egli osserva in un suo articolo del 1913, «due sistemi assolutamente identici in ogni aspetto fisico-chimico, possono comportarsi differentemente sotto condizioni assolutamente identiche, nel caso che i sistemi siano sistemi viventi». Ciò dipende dal fatto che sempre secondo Driesch le condizioni per l'intervento dell'entelechia sono presenti in ogni organismo e in ogni cellula dell'organismo. Ma in tal caso, osserva l'autore americano, «chi sperimenta sugli organismi e raggiunge risultati differenti in differenti casi può trovarsi sulla strada sbagliata se cerca qualche differenza percepibile nei due casi; la diversità dei due risultati può essere dovuta alla diversa operazione dell'entelechia su due sistemi percepibilmente identici»; perciò «lo sperimentatore si troverà sempre nel dubbio se valga la pena di ricercare differenze percepibili che determinino risultati differenti nei due esperimenti ». A questa sorta di « indeterminismo sperimentale » che risultava inevitabile
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per chiunque ammettesse l'intervento di un fattore guida non materiale nei processi fisico-chimici dell'organismo, si aggiungeva un'obiezione del tutto teoricofilosofica che aveva dietro di sé una lunga tradizione ma che poteva essere rivolta ancora con efficacia allo stesso Driesch. Dato e non concesso che esista una entelechia nella cellula-uovo, si dovranno anche ammettere entelechie in ciascuna delle cellule embrionali; ma come si può spiegare questa divisione di entelechie? Inoltre, dato il carattere di totalità dell'organismo, bisognerà ammettere o una comunicazione fra le entelechie oppure il governo di una superentelechia. Ma come spiegare tutto ciò? Il Driesch certo si impegnò alacremente per dare a queste domande una risposta. Ma essa evidentemente interessava ormai ben poche persone, almeno fra i biologi. Maggior rilievo potevano avere invece altre considerazioni direttamente legate alla cosiddetta « base sperimentale» delle argomentazioni di Driesch. Roux osservava ad esempio nel 1915 come l'entelechia non potrebbe comunque essere considerata un fattore finalistico, poiché vi sono fenomeni di rigenerazione che dimostrano un carattere del tutto anomalo e disteleologico. È il caso ad esempio di una lucertola a cui, in luogo della coda amputata, ne crescono due. Risultava inoltre sempre più evidente dalle ricerche embriologiche che i fenomeni di regolazione producenti la ricostituzione completa di un embrione rappresentavano piuttosto l'eccezione che la regola. Nella maggior parte delle nuove ricerche sui casi di spostamento o di isolamento delle prime cellule embrionali si ottenevano infatti abbozzi incompleti di embrioni o delle mostruosità. IV • CRITICHE AL MECCANICISMO E AUTONOMIA DELLA BIOLOGIA
Le reali difficoltà incontrate dal meccanicismo biologico e d'altro canto l'insostenibilità del vitalismo, almeno nella sua forma metafisica quale veniva espressa tipicamente nelle opere di Driesch, convinsero diversi autori negli anni successivi alla prima guerra mondiale a proporre una nuova concezione della biologia. Si tratta di vari indirizzi che si presentavano in genere come un superamento dei due contrastanti indirizzi del meccanicismo e del vitalismo. Malgrado una gamma di posizioni molto differenti i sostenitori di questa nuova concezione erano accomunati da un radicale antimeccanicismo e dall'esigenza di rivendicare alla biologia lo status di una scienza autonoma. almeno a livello del metodo. Essi sostenevano un uguale distacco sia dal meccanicismo che dal vitalismo e qualcuno ripeteva con enfasi che il vitalismo traeva la sua ragion d'essere proprio dalla concezione meccanicistica del vivente; si poteva infatti dire che, almeno per Driesch, l'organismo non era che una macchina guidata da un interno fantasma, da un invisibile macchinista che lo dirige e lo regola. Ma in effetti i sostenitori di questo nuovo indirizzo si impegnano molto più ampiamente nella critica del meccanicismo, il quale dominava di fatto i vari indirizzi
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della ricerca biologica che non del vitalismo ormai screditato, ma a cui essi riconoscevano il merito di aver posto l'accento su ciò che di specifico e di irriducibile vi è nel mondo della vita. Alcuni di questi indirizzi si alimentavano nel loro complesso di un clima culturale diverso da quello che alla fine dell'Ottocento aveva condotto alle varie forme di vitalismo. I notevoli risultati conseguiti dalle scienze fisiche con l'affermarsi della teoria dei quanti e della relatività, nonché gli sviluppi ottenuti dalla logica matematica, avevano ricreato un'atmosfera di maggior fiducia nella conoscenza scientifica. La crisi della fisica e della biologia verificatasi alla fine dell'Ottocento a molti non appariva più dopo gli anni venti il segno sicuro della bancarotta della scienza, l'affermazione definitiva del carattere fenomenistico di essa e quindi la giustificazione per ogni forma di ripiegamento più o meno irrazionalistico nell'io onde rintracciarvi la radice autentica del conoscere o la sorgente sicura dei valori. La crisi delle scienze della natura che aveva accompagnato il crollo del positivismo, poteva ora apparire come il punto di partenza di una nuova visione scientifico-filosofica della natura o almeno di un modo nuovo e più ampio di concepire la teoria della scienza. D'altro lato questi indirizzi antimcccanicistici della biologia potevano trarre spunto oltre che dalla tematica, che era stata propria al vitalismo, anche da alcuni importanti indirizzi teorico-scientifici che si sviluppavano soprattutto nell'ambito della fisiologia e della medicina. I fenomeni di omeostasi, cioè di stabilizzazione mediante processi regolativi di vari equilibri interni dell'organismo o fra organismo e ambiente, i processi endocrini e neurofisiologici che sono alla base di questa omeostasi e che intervengono a collegare i vari organi e le funzioni degli apparati corporei, indicavano un tipo nuovo di processi integrativi che la tradizionale ricerca di impronta meccanicistica aveva trascurato e che risultavano una espressione dello specifico carattere di totalità del vivente. Tali indirizzi antimeccanicistici si dispiegano fra due posizioni estreme: da un lato proclamano una irriducibilità di principio dei processi biologici a quelli fisico-chimici o addirittura la derivabilità di quest'ultimi dai primi e dall'altro enunciano una irriducibilità almeno di fatto non escludendo per il futuro un successo del meccanicismo. Queste concezioni si caratterizzano in vario modo anche per un forte condizionamento delle rispettive culture nazionali, in particolare quella anglosassone e tedesca in cui ess1 soprattutto trovarono sviluppo. Negli autori anglosassoni, specialmente britannici, si risente in particolare del fatto che la reazione al naturalismo e al positivismo nella seconda metà dell'Ottocento era avvenuta soprattutto sulla base di un idealismo oggettivo di stampo hegeliano, culminato nell'opera di Bradley. In Germania invece la reazione al materialismo monistico di impronta meccanicistica si era svolta anche attraverso il ritorno a Kant secondo una tematica fenomenistica e neocriti-
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c1st1ca, a cui non erano mancati anche apporti irrazionalistici, specialmente attraverso il richiamo a Schopenhauer. Va infine ricordato come in Francia la reazione al materialismo sia culminata nell'opera di Bergson in cui si traeva spunto proprio dalla teoria dell'evoluzione per elaborare una visione generale del mondo, in cui la conoscenza fisico-matematica della natura risultava espressione di un'attività intellettiva, !imitatrice e mortificante dell'autentico fondo della realtà colto intuitivamente nell'esperienza soggettiva dell'io. V· ORGANICISMO, OLISMO NEI
PAESI
ED
EMERGENTISMO
ANGLOSASSONI
Fra gli autori che per primi si inoltrarono per questa nuova via vi fu uno dei più illustri ed autorevoli fisiologi inglesi, John Scott Haldane (r86o-1936), appartenente ad una nobile ed influente famiglia ed universalmente apprezzato per le importanti ricerche condotte specialmente sui processi di respirazione e di secrezione renale. Già in uno scritto giovanile risalente al r884 l'autore sosteneva che i processi di adattamento e regolazione fisiologica, in cui appariva chiaramente la tendenza ad uno scopo, non possono essere spiegati nei termini meccanici di causa ed effetto, ma richiedono una nuova categoria, quella della reciprocità. Tale categoria non esprime però tutte le caratteristiche essenziali alla vita; vi può essere, ad esempio, un sistema in cui per una componente « il fatto di far parte del sistema non è essenziale alla sua esistenza, dal momento che essa ha numerose proprietà che le appartengono prescindendo dalla sua relazione con il sistema. Ora nel caso del sistema della vita le parti non sono così indipendenti. Esse sono determinate, non solo per quanto riguarda la loro azione reciproca l'una sull'altra, ma anche per quanto è inerente alle parti in se stesse ... » Nel vivente cioè « non vi è niente nelle parti che non sia una manifestazione del tutto ... In tutto ciò che le parti fanno ed in ciò che esse sono, esse manifestano il tutto ». E solo in quanto determinate dal tutto esse manifestano ciò che sono in se stesse. Già in queste osservazioni possono individuarsi quei principi che poi vennero generalmente ritenuti caratteristici della concezione organicistica, cioè: il tutto determina la natura delle parti, o le parti non possono essere comprese se considerate isolatamente dal tutto. Questi principi, nell'ambito dell'indirizzo filosofico neo-hegeliano a cui si rifà J. S. Haldane, devono essere intesi alla luce del cosiddetto problema delle « relazioni interne » che trovò soprattutto nell'opera di Bradley, Appearence and rea!ity (Apparenza e realtà, 1893), il suo sviluppo più approfondito. Come afferma D. C. Philips, a proposito di questo problema « Bradley sosteneva che quando un'entità A entra in relazione con le entità Bo C essa assume
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una certa proprietà o qualità caratteristica P, come risultato di questa relazione. Senza la relazione e quindi senza la proprietà P, sosteneva Bradley, A sarebbe differente, sarebbe non A. Ogni qualsiasi relazione fra A ed ogni altra entità necessariamente determina qualche proprietà di A senza cui A sarebbe differente da ciò che è. Questo è il nucleo della teoria delle relazioni interne: le entità sono necessariamente alterate, dalla relazione in cui esse entrano ». Questa concezione - continua Philips - è del tutto estranea al meccanicismo la cui caratteristica, secondo quanto afferma Hegel è che « qualsiasi relazione intercorra tra i termini è estranea ad essi e non concerne la loro natura: anche se essa coinvolge l'apparenza di un Uno esso non rimane altro che un accostamento, un mescolamento, un ammucchiamento o simili» (nella Scienza della logica). J. S. Haldane accetta dunque l'idea del neo-hegelismo inglese secondo cui la realtà profonda ed autentica è di natura spirituale e quello che si conosce sul piano scientifico riguarda più l'apparenza che la realtà, anche se ciò può rivelarci qualcosa della realtà. « Le generalizzazioni scientifiche, » egli afferma nel I 9 I 5, « non rappresentano la realtà in se stessa, ma soltanto certi aspetti di essa. Esse sono solo gli strumenti con cui noi formiamo il mondo dell'apparenza sensoriale, e nel formarlo esse ci rivelano la sua realtà spirituale. » Poiché questa realtà si compie in modo più elevato nella personalità dell'uomo le categorie psicologiche ce ne daranno una conoscenza più autentica, cioè meno astratta di quanto ce ne diano le categorie biologiche. Non ha perciò senso sostenere una riduzione della psicologia alla biologia, così come non è ammissibile una riduzione della biologia alla fisica, poiché quest'ultima ci dà della realtà una conoscenza ancor più astratta e schematica, cioè più povera.« Il mondo "oggettivo",» egli afferma nel I 9 I 8, « non è altro che il mondo quale è interpretato nella conoscenza ed i mondi fisici o biologici sono solo astrazioni di questo mondo oggettivo. Non solo quando osserviamo fenomeni psicologici in altre persone, ma anche quando studiamo fenomeni naturali di ogni genere, il nostro mondo è un mondo psicologico o un mondo spirituale. » Abbiamo particolarmente insistito nell'illustrare la concezione filosofica di Haldane, poiché questa rende comprensibile l'interpretazione organicistica che egli stesso diede alle sue ricerche fisiologiche e ci fa meglio comprendere il tipo di influenza che egli ebbe nella cultura scientifica del suo tempo. Ciò che colpiva in modo particolare i contemporanei e rendeva in un certo senso oscura la sua posizione era il fatto che egli potesse affermare la sua radicale posizione antimeccanicistica e condurre coerentemente un'attività di ricerca fisiologica che consisteva essenzialmente nell'indagine dei processi di regolazione fisico-chimica dell'organismo. Le sue indagini già negli ultimi anni dell'Ottocento erano infatti dirette a sviluppare il principio enunciato da Claude Bernard, secondo cui l'organismo tende a mantenere costante la composizione del suo «mezzo interno», cioè dei liquidi organici quale il sangue. Studiando in particolare la respirazione,
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J.
S. Haldane era così giunto ad individuare con estrema precisione i processi di coordinazione fisiologica che tendono a mantenere costante nel sangue la concentrazione dell'anidride carbonica e più in generale il grado di alcalinità, sia con la stimolazione o l'inibizione del centro respiratorio sia con la variazione della secrezione renale. Per J. S. Haldane ciò che rende i processi fisiologici irriducibili ad una spiegazione meccanicistica non è solo il fatto che essi devono essere individuati singolarmente come attività di un tutto, ma in particolare il fatto che essi non possono essere ricondotti ad una struttura. Egli osserva ad esempio che secondo i meccanicisti l'attività fisiologica che regola il mezzo interno dovrebbe essere ricondotta alla peculiare struttura ultra-microscopica di determinate cellule dell' organismo. « Ora, » egli scrive a questo proposito nella sua opera The sciences and philosophy (Le scienze e la filosofia, 192.9), «risulta che sia il comportamento che la struttura delle unità cellulari dipendono dal "mezzo" locale in cui le cellule sono poste ... D'altro lato è ugualmente evidente che il mezzo ... può considerarsi determinato dall'attività delle cellule. Compiamo perciò un ragionamento circolare se attribuiamo la peculiarità del comportamento cellulare alla loro particolare struttura, dal momento che questa peculiarità, e la struttura che l'accompagna, dipendono dal mezzo locale ». D 'altronde il meccanicismo- osserva J. S. Haldane- deve ammettere che la struttura microscopica della cellula venga mantenuta costante e riprodotta attraverso le generazioni malgrado la !abilità del protoplasma. Ma egli osserva nella citata opera del 192.9: «Di questa riproduzione la teoria meccanicistica non può rendere conto in alcun modo. Neppure con il più grande sforzo di immaginazione possiamo concepire un meccanismo strutturale che continui a riprodursi indefinitamente; e quante più strutture o complessità chimiche noi effettivamente scopriamo od ammettiamo in un organismo, tanto più disperato diviene il problema della sua riproduzione e conservazione dal punto di vista meccanicistico. » Queste affermazioni che potrebbero apparirci anacronistiche in un momento in cui gli studi di genetica ottenevano i primi importanti riconoscimenti, ci confermano il peso della sua rigida impostazione filosofica e del clima antimeccanicistico che dominava ancora l'atteggiamento teorico di alcuni biologi. Egli cercava in effetti di presentare una corretta esigenza della ricerca fisiologica, cioè quella di considerare ogni singolo processo dell'organismo in stretta correlazione con tutti gli altri, come espressione o conseguenza di una concezione metafisica di tipo spiritualistico. Non ci meraviglia quindi che egli, dimostrando l'insostenibilità del meccanicismo in base alla nuova fisiologia, potesse affermare che: «Nonè lontano il tempo quando i nostri successori ricorderanno con meraviglia la superstizione materialistica dei tempi in cui viviamo; poiché il materialismo non è altro che una superstizione allo stesso livello della credenza nelle streghe e nei diavoli. »
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La concezione filosofico-scientifica di Haldane ebbe una sensibile influenza nella cultura anglosassone, ma solo in Germania egli trovò un seguace che seppe svilupparla in uno dei modi più rigorosamente conseguenti, cioè lo psichiatra di Amburgo Adolf Meyer-Abich. Secondo l'autore inglese, come si è visto, nel quadro complessivo delle scienze psicologia, biologia, fisica e matematica «rappresentano successivi stadi in cui la nostra esperienza viene sempre più spogliata del suo attuale contenuto mediante un processo di artificiale astrazione ». Meyer-Abich sviluppando in un modo antologico-formale questo principio ritiene che tale gerarchia corrisponda ad una realtà in cui « ogni ambito inferiore o più semplice si lasci per così dire assorbire o aspirare dall'ambito che si t(ova situato ad un grado più elevato e presenta una complicazione maggiore. La realtà nel suo insieme appare così come un tutto avente una organizzazione razionale, come un olismo organico ... Perciò tutte le realtà più semplici si trovano allo stato latente, in potenza nella realtà ultima e più elevata, rappresentata, se si vuole, da dio». Questo rapporto di inclusione del più semplice nel più complesso dovrebbe comportare, secondo l'autore, sul piano della conoscenza, un processo di « semplificazione olistica » per cui si possono dedurre le leggi della biologia da quelle della psicologia, quelle della fisica da quelle della biologia e « al termine di questo processo, si arriva, attraverso gli assiomi della fisica, a quelli della geometria, a quelli delle matematiche e finalmente a quelli della logica». Secondo Meyer-Abich questo programma di conoscenza costituisce il rovesciamento di tutto l'ideale della scienza moderna ed un ritorno ad una visione organicistica di tipo aristotelico. Benché l'autore abbia sostenuto la sua teoria olistica in numerosi scritti, analizzando accuratamente e con ampi e dettagliati riferimenti storico-filosofici i principali problemi della biologia contemporanea, tale teoria non ha avuto un'ampia eco. Egli è comunque rimasto famoso per un esempio volutamente bizzarro di «deduzione olistica », per cui sarebbe possibile derivare la legge galileiana della caduta libera dei gravi da una ipotetica legge di caduta biologica, ad esempio di un gatto capace di precipitare da un albero toccando il terreno con le quattro zampe. Cioè: «Sottraendo dalla formula dell'animale vivo quella che esprime la caduta dell'animale morto si ottiene il coefficiente della caduta tipicamente vitale. E inversamente la legge della caduta, formulata da Galileo, si lascia dedurre dalla formula esprimente la caduta biologica, mediante 'l'eliminazione dei coefficienti tipicamente vitali ... » Le concezioni olistiche sinora illustrate, sostenendo che la realtà è un tutto organico culminante nello spirito, attribuiscono alla biologia ed ancor più alla psicologia un ruolo del tutto privilegiato in quanto conoscenze riguardanti più direttamente l 'uomo il quale, nella sua esperienza interiore, si trova più vicino a tale centro spirituale della realtà. Nella concezione di J. S. Haldane ad esempio il richiamo ad Hegel non comporta l'assunzione di una molteplicità di contraci-
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dizioni che si svolgono posltlvamente in un processo storico della realtà verso un livello più elevato, ma tali contraddizioni sono inerenti sostanzialmente alla conoscenza logico-scientifica della realtà e rimandano per essere risolte ad una realtà totale che si trova al di fuori di ogni processo storico. In questa prospettiva idealistica la concezione evoluzionistica del mondo organico e più in generale della natura, se pur non veniva respinta, perdeva però il suo significato di spiegazione o di interpretazione storica della realtà come sviluppo dal più semplice al più complesso. Ad esso poteva invece venir contrapposta una derivazione più autentica e del tutto astorica del più semplice dal più complesso, sviluppato su un piano non reale ma ideale. Se ciò risultava dalle suggestioni del neo-hegelismo inglese, esprimendo un tema già presente nella scienza romantica, era tuttavia possibile che questo filone culturale potesse ispirare anche una diversa concezione della realtà più vicino all'idea di uno sviluppo storico e progressivo della natura e dell'uomo stesso. Si tratta appunto di un altro indirizzo di carattere realistico che nell'ambito della cultura anglosassone può configurarsi come un incontro fra il neohegelismo ed il naturalismo evoluzionistico di Spencer. A questo indirizzo realistico in cui parimenti ci si propone il compito di un superamento sia del meccanicismo che del vitalismo appartiene l'opera Holism and evolution (Oiismo ed evoluzione, 1926) di Jan Christian Smuts (1875-1950). Nato in Sudafrica egli aveva compiuto gli studi giuridici in Inghilterra ed alternando poi l'attività di studioso a quella di militare e di uomo politico giunse infine a ricoprire per diversi anni la carica di primo ministro del Sudafrica. L'interesse scientifico-filosofico di Smuts non si limita alla biologia ma si estende ambiziosamente ad una visione globale della natura, che proprio in base alla teoria dell'evoluzione deve essere considerata come un processo di sviluppo ascendente verso gradi sempre più elevati di unità o totalità. Al pari di Spencer egli ritiene di poter individuare empiricamente una legge generale dell'evoluzione che si estende a tutta la natura e ne costituisce il principio fondamentale. Tale legge si identifica con la tendenza ad una sintesi creativa per cui gli elementi costitutivi di una struttura vengono a disporsi in una struttura qualitativamente nuova nella quale aumenta il grado di interazione e di coordinamento unitario. «L'unità d'azione, che è caratteristica della totalità, si mostra nell'accentuato potere di regolazione e correlazione che il tutto risulta possedere rispetto alle sue parti. » Ciò appare chiaramente soprattutto nel mondo dei viventi, ma il carattere di totalità è presente, sia pure ad un grado inferiore, anche nel mondo inorganico. «Così l'acqua come composto chimico è ... un tutto in senso limitato, un tutto incipiente, poiché differisce qualitativamente dai suoi elementi ... idrogeno ed ossigeno in semplice stato di miscela. » Il grado di totalità si eleva attraverso la creatività del processo evolutivo da un minimo del mondo inorganico ad un massimo che attraverso la vita si 135 www.scribd.com/Baruhk
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realizza come mente e persona. La vita e lo spirito non sono quindi separabili dalla materia ma sono un risultato del suo processo ascensionale. La materia « nell'atto di produrre la vita o la mente si mostra tuttavia in un carattere interamente insospettato e non può essere più la vecchia materia ... che era semplicemente veicolo del movimento e dell'energia». Ciò comporta l'abbandono del concetto di materia quale era implicito nel meccanicismo. Il meccanicismo si dimostra inadeguato ad una conoscenza della natura proprio perché non è in grado di spiegare il carattere creativo del suo sviluppo. «Il grande problema della conoscenza, il vero grande mistero della realtà è proprio questo : come possono gli elementi o i fattori a e b incontrarsi, combinarsi e fondersi a formare una nuova unità o entità x differente da ambedue? » Anche a parere di Smuts il meccanicismo « comporta un sistema o combinazione di parti in relazione reciproca, tale che queste parti non perdono la loro identità o indipendenza sostanziale nel ruolo combinato che esse svolgono nel sistema». In tal modo l'azione del sistema «è la risultante delle attività indipendenti di tutte queste parti. Le parti rimangono e l'attività del sistema è la somma matematica delle loro attività ». Tale attività meccanica non può spiegare il sorgere di nuove proprietà, di nuove qualità nel corso creativo dell'evoluzione. Esse possono prodursi solo attraverso un processo olistico in cui « la funzione risultante non è una semplice addizione e composizione degli inalterati elementi funzionali componenti, ma il cambiamento sia degli elementi che del loro risultato finale». Nel processo olistico non solo la sintesi delle parti influenza, realmente costituisce il tutto; ma « il tutto a sua volta imprime il suo carattere su ogni parte individuale, che risente la sua influenza nel modo più reale e più intimo ». Ma se il processo olistico, inteso come «sintesi unitaria», cioè creazione evolutiva di strutture qualitativamente nuove, può avere a livello biologico un plausibile riferimento empirico, tale da convalidare la concezione di Smuts, esso assume invece un'impronta tipicamente filosofica quando viene esteso dall'autore a tutto l'universo. Secondo Smuts infatti questo « si diparte dal carattere meramente meccanico verso la realizzazione dell'olismo quale suo ideale immanente ... La natura dell'universo punta a qualcosa di più profondo, a qualcosa oltre se stesso. Esso ha una tendenza... Esso ha un telos ». L'autore vuole però rifuggire da ogni concezione spiritualistica della realtà ed afferma infatti che «sarebbe un errore ed una falsa denominazione chiamare questa tendenza uno scopo, ed ancor peggio inventare una Mente a cui riferire questo proposito ». Il culmine del processo evolutivo è infatti realizzato soltanto dall'uomo, anche se dall'uomo che si esprime nelle grandi personalità eroiche capaci di lottare per il bene. L'ottimismo romantico ed il realismo naturalistico che si fondono nell'opera di Smuts sembrano l'espressione di un atteggiamento culturale che non
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era stato toccato dalle incrinature scettico-irrazionalistiche tipiche della cultura europea. Nella cultura del suo paese infatti, così come in quella di altre nazioni extraeuropee, il naturalismo ottocentesco non aveva incontrato delle violente reazioni ma poteva svilupparsi come l'ideologia di una classe borghese che non aveva visto gravemente minacciato il proprio potere nella società. Sempre nell'ambito di questo indirizzo realistico della cultura anglosassone una posizione concorde con quella di Smuts, nell'ammettere un generale processo ascendente nella storia della natura, è quella dell'evoluzione emergente sostenuta- con un'impostazione esplicitamente metafisica, ma anche con una più complessa articolazione filosofica - da Samuel Alexander e da Conway Lloyd Morgan (rSp-1936). Morgan, che aveva condotto importanti ricerche nel campo della psicologia animale, si era occupato in particolare del problema psico-fisico dal punto di vista della teoria dell'evoluzione. Egli era giunto così a respingere l'idea di una graduale comparsa di nuove proprietà, nel processo di trasformazione della natura, e a sostenere invece che queste si realizzano improvvisamente per una sorta di salto qualitativo. Tale generale processo evolutivo comporta secondo Morgan la distinzione fra proprietà risultanti e proprietà emergenti. Le prime sono ad esempio le proprietà additive di un composto chimico che risultano prevedibili in base alla conoscenza delle parti (come il peso), le proprietà emergenti sono invece quelle non prevedibili in base a tale conoscenza e costituiscono l'effetto qualitativamente nuovo di una relazione che non è semplicemente additiva o meccanica (come le proprietà dell'acqua rispetto a quelle dell'ossigeno e dell'idrogeno che la compongono). La « sintesi relazionale superiore » che viene designata come emergente è conoscibile sul piano scientifico naturale, ma non è spiegabile in termini scientifici. Essa deve essere accettata e riconosciuta con una sorta di « pietà naturale » e se una spiegazione di essa va cercata la si può trovare in termini « sopranaturalistici», cioè in un'attività divina che pervade tutta la realtà. Morgan dunque, pur essendo partito nella sua riflessione da problemi biologici e psicologici posti dalla teoria scientifica dell'evoluzione, giunge ad elaborare una concezione antimeccanicistica ed antimaterialistica ponendosi anch'egli su un piano generale di filosofia della scienza e di filosofia della natura. Più aderenti invece ai concreti problemi della biologia che venivano dibattuti nei primi decenni del Novecento sono le riflessioni di uno dei maggiori rappresentanti dell'organicismo, l'inglese Edward Stuart Russell. Già in uno scritto del 19II egli aveva rifiutato esplicitamente il vitalismo di Driesch in quanto «accettare un'influenza psichica o metafisica su ciò che è fisico significa in effetti negare l'assoluta validità delle leggi fisiche, in quanto, ammettendo ciò, ognuna di esse potrebbe essere alterata da un agente non fisico». Occorre invece riconoscere l'universale validità delle leggi fisico-chi137
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miche e sostenere tuttavia che le leggi della biologia non possono essere ridotte al loro livello. Così un fenomeno tipicamente biologico come la migrazione delle anguille in alcune zone dell'Atlantico, durante il periodo della loro riproduzione, può considerarsi determinato da tutti i singoli processi fisico-chimici che lo compongono, tuttavia il significato del fenomeno nella sua globalità non può essere spiegato in base ai singoli processi. Esso è un fenomeno ereditario che ha la base storica nella trasformazione evolutiva della specie. Ora la teoria dell'evoluzione non può avere una spiegazione meccanica poiché la stessa selezione naturale presuppone « certe proprietà peculiarmente vitali, la variabilità e l'eredità, e non pretende di offrire una spiegazione meccanica di queste». Fondare l'autonomia delle leggi biologiche e la loro irriducibilità sopra una particolare concezione del processo evolutivo, rappresentava tuttavia una posizione esposta a troppe incertezze, a tutte le incertezze che dividevano in quel periodo i biologi a proposito di questa teoria. E. S. Russell, che si occupava in particolare di psicologia animale, si orienta quindi, come altri autori di questo periodo, ad individuare la peculiarità del vivente in una proprietà che poteva essere più direttamente evidenziabile, quella psichica. Più precisamente egli afferma che i viventi sono caratterizzati da un'unità psico-fisica irriducibile ad ogni interpretazione materialistica; essi presentano cioè «un'attività sui generis, il cui standard ed esemplare è l'attività di cui noi in quanto individui siamo immediatamente consci ». Giungeva così nel I 924 ad affermare: « Le attività dell'essere vivente dovrebbero essere considerate come una risposta, il termine essendo inteso in un senso speciale e tecnico per designare le reazioni di una individualità psico-fisica ad un ambiente percepito o ad un cambiamento del suo proprio organismo, generalmente in relazione a qualche forza pulsiva o hormé risultante quale tendenza istintiva. » Il termine hormé era stato usato dallo psicologo angloamericano William Mc Dougall (I871-1938) per indicare la tendenza istintiva che si trova alla base di tutta l'attività psichica e che egli inserisce in un'interpretazione animistica della biologia e della psicologia. E. S. Russell, pur avendo aderito a questa concezione psico-biologica, soprattutto nell'intento di elaborare in concreto una biologia funzionale, risente ben presto le difficoltà filosofiche inerenti ad una simile interpretazione e giunge infine ad una concezione organicistica in cui, pur affermando che il punto di vista psico-biologico può essere usato nello studio del comportamento animale, riconosce che non si può tuttavia usare la coscienza come una spiegazione dei processi biologici. L'esperienza dell'unità psico-biologica che l'uomo compie direttamente in se stesso continua comunque a costituire un punto di vista privilegiato per la conoscenza della vita anche se « naturalmente la diretta ed intuitiva comprensione che risulta da questa immediata esperienza del vivente non può costituire l'argomento della biologia, che è una scienza oggettiva». Tale esperienza ci
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fornisce però un « criterio con il quale controllare le nostre concezioni del vivente», un criterio che consiste nel concepire appunto l'organismo come «una unità psico-fisica continua o un'individualità che agisce come un tutto in rapporto all'ambiente». Nello svolgersi della ricerca scientifica le varie teorie, sotto l'influenza dell'esigenza analitica imposta fondamentalmente dal meccanicismo, hanno abbandonato questa concezione originaria di derivazione aristotelica sino a negare, con un processo di progressiva astrazione, l'unità stessa del vivente. In tale processo, partendo dall'organismo come un tutto, si astrae innanzitutto dalla soggettiva e privilegiata esperienza diretta per giungere dapprima a concepire l'organismo come una unità psico-fisica e successivamente, astraendo dall'aspetto psichico, per giungere alla « comune concezione "scientifica" dell'organismo come una macchina, o più in generale un sistema fisico-chimico. Questo ci conduce all'astrazione meccanicistica che può tuttavia permanere integrativa, può cioè considerare l'organismo in una certa misura come una unità». Ma l'astrazione meccanicistica, per quanto necessaria all'indagine biologica, porta con sé una perdita irrimediabile. Infatti - secondo E. S. Russell- «l'unità dell'organismo ... non può essere risintetizzabile nella sua originaria completezza dagli astratti componenti distinti dall'analisi. Ciò può essere compendiato nella seguente legge fondamentale del metodo biologico: /'attività del tutto non può essere completamente spiegata nei termini dell'attività delle parti isolate mediante l'analisi, e può essere tanto meno spiegata quanto più astratte sono le parti distinte ». Occorre però cercare di riconsiderare le parti alla luce del tutto e in questo tentativo di ricondurre gli aspetti fisico-chimici alla loro concretezza biologica si può individuare una seconda legge generale del metodo biologico: « Nessuna parte di qualsiasi unità vivente e nessun singolo processo di qualsiasi complessa attività organica possono essere completamente compresi isolando/i dalle strutture e dall'attività dell'organismo come un tutto». Se nessun autore di indirizzo meccanicistico può negare la validità di quest'ultima legge - afferma E. S. Russell - il misconoscimento della prima legge è "invece comune a tutti i meccanicisti e può portare a gravi errori teorici. Fra questi quello contro cui l'autore polemizza più vivacemente - sempre nella citata opera del 1930- è la teoria del plasma germinale di Weismann che pone una sorta di dualismo fra citoplasma e nucleo, concependo il primo come passivo e il secondo come attivo, per la presenza in esso di ipotetiche strutture microscopiche, che costituirebbero - secondo Russell - una sorta di « entelechia materiale». La teoria di Weissmann, così come quella più recente della genetica, «in cui i geni sono considerati come delle entità reali», incorre poi nel grave errore di risolvere l'unità dell'organismo in parti isolate, cioè in una sorta di atomismo biologico che, già all'inizio del secolo, il biologo francese Yves Delage aveva denominato «micromerismo». Queste concezioni non sono 1 39
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che il risultato del materialismo (da lui sostanzialmente identificato con il meccanicismo di Laplace), che è una dottrina ormai superata sul piano filosofico, ed un metodo i cui limiti sono ormai evidenti sul piano scientifico. Alla concezione meccanicistica egli contrappone il punto di vista organismico (organismal) già proposto dallo zoologo americano W. E. Ritter che si trovava più vicino ad un pluralismo di tipo aristotelico che al monismo idealistico di]. S. Haldane. Secondo questo punto di vista l'organismo costituisce una realtà sui generis, con un'individualità bio-psichica che è immersa in un processo temporale continuo, con un costante riferimento al passato e al futuro. E. S. Russell ritiene infatti che per elaborare una concezione dell'organismo, adatta in particolare allo studio dello sviluppo embrionale, il contributo filosofico più importante gli derivi dalle opere recenti del filosofo inglese Whitehead. Questi ha rovesciato la posizione materialistica ed invece di « tentare di spiegare la natura dal basso verso l'alto, con l'aiuto di pochi concetti estremamente astratti, affronta il problema dall'altro estremo e generalizza l'idea concreta di organismo, quale risulta dalla esperienza immediata, così che essa si applica giù giù lungo la scala, dall'organico all'ino'rganico nei suoi più minuti dettagli». In tale prospettiva anche i cristalli, le molecole, gli elettroni, sono organismi ma di livello inferiore. Partendo da questa concezione di Whitehead è inoltre possibile affrontare il problema - difficile da chiarire per la concezione organismica del rapporto fra l'attività dell'organismo come un tutto e l'attività dei processi che ne costituiscono la base fisico-chimica. Per Whitehead infatti i viventi in quanto « organismi di organismi » sono costituiti da una continuità gerarchica di livelli e di processi ciascuno dei quali ha un certo grado di indipendenza ma è al servizio del tutto. Ora tale «continuità deve essere considerata come una continuità dall'alto al basso; è impossibile spiegare i modi di azione di qualsiasi livello di unità mediante i modi di azione di qualsiasi livello inferiore; al contrario qualcosa dei caratteri dei livelli più elevati filtra, per così dire, in giù e colora l'azione anche dei livelli più bassi ... Per questo, se non per altra ragione, è impossibile spiegare completamente l'attività globale del tutto nei termini delle attività delle sue unità subordinate e necessariamente astratte». La filosofia di Whitehead - che considera gli elementi reali della natura come organismi e vede la concezione materialistica come una astrazione applicabile alla natura solo in modo parziale e limitato - costituisce dunque per E. S. Russell un notevole sostegno filosofico alla concezione organismica. Tale filosofia le permette di evitare quel dualismo di mente e corpo che ha così a lungo travagliato il pensiero biologico, così come le consente di evitare lo scoglio del meccanicismo. Questo infatti « con il suo uso illimitato del metodo dell'astrazione analitica comporta la disintegrazione dell'organismo in un concatenamento di processi di ordine inferiore, alla cui disposizione e collaborazione, al cui ordine
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nello spazio e nel tempo esso non può fornire alcuna chiave. Tale analisi lascia sempre un residuo irrazionale, che è ipostatizzato come un'entelechia o come un agente "controllore" materialistico, quale il plasma germinale». Russell ritiene comunque che la concezione organismica, per quanto sia il giusto punto di vista per trattare scientificamente gli esseri viventi, non pretende di darci una completa comprensione di essi. « Il profondo segreto della vita eluderà sempre una trattazione scientifica; esso può essere puramente sperimentato, immaginato, anche sentito, ma mai completamente spiegato ». VI· INDETERMINISMO
FISICO
E
AUTONOMIA
DELLA
VITA
La critica antimeccanicistica svolta da Russell come dalla maggior parte degli autori finora considerati, si basa sull'assunto che gli organismi presentino una unità o coordinazione specifica delle parti che non può essere adeguatamente rappresentata dall'unità di un sistema fisico-chimico e dall'interazione delle sue parti. Tale unità deve essere invece compresa alla luce di un'interazione o di una coordinazione più complessa e profonda, che si realizza nel modo più tipico al livello dell'esperienza o della conoscenza soggettiva. Accanto a questa definizione dei limiti del meccanicismo biologico vi furono però altri tentativi di caratterizzare la tipicità dei viventi, senza un riferimento all'esperienza soggettiva dell'uomo, ma considerandoli come particolari strutture materiali, che traggono la loro specificità dal fatto che in essi si riscontrerebbe una non validità o un contrasto nei riguardi di alcune leggi fisiche di carattere generale. Ciò è stato affermato in particolare nei riguardi della validità del secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, nel complesso dei fenomeni naturali, il dislivello di temperatura che occorre per trasformare calore in lavoro meccanico va continuamente diminuendo e quindi diminuisce la possibilità di produrre lavoro: si ha cioè una degradazione dell'energia. Già nell'Ottocento il fisico William Thompson e lo stesso Helmholtz avevano posto in dubbio che tale principio fosse applicabile ai processi fisicochimici dell'organismo e questa perplessità non mancò di essere utilizzata in senso vitalistico, individuando cioè nell'eccezione dei viventi a questa legge l'intervento di un fattore vitale. L'affermazione più clamorosa del contrasto fra mondo della vita e secondo principio della termodinamica si ebbe tuttavia con Bergson, nella sua opera Evoluzione creatrice del 1907. L'autore francese riconosce che tale principio indica una direzione dei pròcessi naturali e afferma che: « Il senso verso cui procede questa realtà ci suggerisce qualcosa che si disfa; in ciò vi è senza alcun dubbio uno dei tratti essenziali della materialità. Cosa concludere da ciò se non che il processo per cui questa cosa si fa è diretto in senso contrario ai processi fisici e che essa è allora per definizione stessa immateriale? La nostra visione del mondo
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materiale è quella di un peso che cade; nessuna immagine tratta dalla materia propriamente detta ci darà l'idea di un peso che si alza ... Tutte le nostre analisi mostrano nella vita uno sforzo per risalire la china che la materia discende ... » La vita per Bergson è incapace di invertire questa generale direzione delle trasformazioni fisiche, ma può tuttavia rallentarne il corso opponendosi ad essa. Questo tema venne sviluppato pochi anni dopo anche da un autore tedesco, Felix Auerbach (1856-1933) nell'opera Ektropismtts oder die Physikalische Theorie des Lebens (Ectropismo o teoria fisica della vita, 1910). Ai fenomeni entropici di degradazione o discesa si contrappongono nella natura quelli ectropici o di ascesa caratteristici della vita. La lotta della vita contro l'aumento dell'entropia si realizza mediante l'evoluzione delle forme biologiche, l'aumento della loro complessità, la concentrazione e l'accumulo di energia nei più piccoli componenti materiali. La biologia, secondo Auerbach, dovrebbe in tal modo divenire una «fisica dell'evoluzione», cioè una fisica di quei sistemi che sono in grado di operare autonomamente in modo ectropico ed ordinativo utilizzando l'energia libera esterna. Per quanto meno vaghe di quelle di Bergson, le formulazioni di Auerbach non affrontavano ancora in concreto il problema dei rapporti della seconda legge della termodinamica con i processi fisico-chimici del vivente, quali potevano essere precisati a livello delle più recenti indagini fisiologiche. Uno dei primi passi importanti in questa direzione venne compiuto dallo svizzero CharlesEugène Guye in una serie di scritti pubblicati nell'opera Evolution physico-chymique (Evoluzione fisico-chimica, 1922). L'autore osserva che dal punto di vista di un'interpretazione probabilistica del secondo principio, quale era stata formulata da Boltzmann e Gibbs ed ormai universalmente accettata, si può ammettere che almeno in alcune fasi delle funzioni fisico-chimiche del vivente si svolga un processo anti-entropico, cioè contrario al mescolamento sempre più omogeneo delle componenti molecolari. A tale proposito si possono considerare due possibilità. L'una, di carattere vitalistico e metafisica, consisterebbe nell'ammettere che un agente speciale, un vero demone di Maxwell, intervenga agendo sulle molecole isolate, per guidare i processi in una certa direzione. L'altra possibilità, evidentemente più accettabile, è che nel decorso stesso verso stati più probabili possa verificarsi una fluttuazione molto rara. Tale fluttuazione può avere tanto più importanza, può cioè determinare un effetto tanto più rilevante sul processo complessivo, quanto più ristretto è l'ambito omogeneo di molecole in cui essa avviene. Si avrebbe cioè un effetto analogo a quello che si produce in un'esplosione in cui può amplificarsi macroscopicamente una singola fluttuazione molecolare. « Ma,» egli osserva, « allorché dichiariamo che il capriccio delle fluttuazioni potrebbe svolgere un qualche ruolo nell'evoluzione cellullare, ciò non vuol dire che questa evoluzione non sia sottomessa ad alcuna legge. Ciò significa
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semplicemente che le leggi di questa evoluzione non sono più necessariamente delle leggi statistiche precise come lo sono quelle della nostra fisico-chimica. » Sarebbero piuttosto delle leggi che riguardano azioni individuali. Ammettere però leggi riguardanti fenomeni individuali poteva apparire una contraddizione in termini, almeno per chi considera la legge come la definizione di una regolare ripetizione di fenomeni, vedendo invece nell'evento individuale qualcosa di irripetibile e di nuovo. Questo tipo di considerazioni veniva in effetti sviluppato dal biologo americano Ralph S. Lillie, per cercare di dare una caratterizzazione dei fenomeni della vita proprio dal punto di vista generale delle leggi della natura. In uno scritto del 1926 egli infatti accetta la tesi secondo cui « caratteristica della vitalità è una certa qualità creativa e non ripetitiva che sembra sovrapposta alla semplice routine puramente fisica richiesta dalle condizioni dell'esistenza organica». Trova perciò che il dilemma al quale ci si trova di fronte nell'interpretazione scientifica dei processi biologici è appunto quello di conciliare l'aspetto di stabilità con quello di novità ed individualità inerenti ambedue agli organismi. Tale dilemma, secondo Lillie, può essere superato ammettendo «qualche fattore che agisce attraverso o dentro la natura, sebbene ristretto nelle sue espressioni naturali da condizioni fisse, quali quelle risultanti in una concezione scientifica, come l'atomismo o le leggi termodinamiche ». In tal caso si assumerebbe un punto di vista del tutto coerente con l'interpretazione fisico-chimica della vita. La possibilità di sviluppare questo punto di vista gli veniva offerta proprio in quegli anni dai risultati più importanti della fisica quantistica, in particolare dal principio di indeterminazione di Heisenberg che appariva come un'affermazione che le particelle micro-fisiche sfuggono all'usuale causalità «esterna» dei fenomeni macrofisici. In un articolo del 1927 Lillie poteva così affermare che nel vivente esiste un in determinismo fisico di tipo microscopico: « Se noi consideriamo un sistema nel quale singoli eventi ultra-microscopici individualmente indeterminati o "liberi"- siano essi movimenti browniani, fenomeni quantici o alcunché di più profondo - hanno in qualche modo la possibilità di controllare effettivamente nel sistema gli eventi macroscopici, esso (a questo livello) potrà apparire come non controllato dall'esterno o libero». Si apriva così la possibilità di considerare il problema della vita organica dal punto di vista di un nuovo indeterminismo ben più profondo e radicale di quello offerto dalle fluttuazioni termodinamiche, cioè dal punto di vista dell'indeterminismo della nuova fisica quantistica. Questa possibilità si realizzò soprattutto per opera del fisico tedesco Pascual Jordan in numerosi scritti che, durante gli anni trenta, suscitarono in Germania una vivace discus"" sione, svoltasi anche sulle pagine della rivista del circolo di Vienna, « Erkenntnis ». Senza soffermarci su tale discussione è possibile riassumere le considerazioni di Jordan in alcuni punti essenziali. 143
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In primo luogo l'autore tedesco accettava la concezione di Heisenberg e Bohr secondo cui il principio di indeterminazione stabilirebbe in modo definitivo l'esistenza di fenomeni microfisici non soggetti a causalità o «liberi», ciò che costituiva evidentemente una posizione non condivisa da tutti gli autori impegnati nella discussione teorico-filosofica sulla nuova fisica. In secondo luogo J ordan sosteneva, più o meno esplicitamente, che i processi vitali fossero essenzialmente caratterizzabili mediante quel sentimento di libertà che viene vissuto nell'esperienza soggettiva, cioè mediante una sorta di spontaneità imprevedibile. Ma ciò urtava evidentemente contro l'accertata stabilità e regolarità dei processi biologici evidenti anche nei fenomeni di reazione e di adattamento. In terzo luogo, e qui ci si presenta la fase più propriamente scientifica dell'opera di Jordan, egli riteneva che nel vivente si realizzassero dei processi di amplificazione o rafforzamento tali da trasformare l'effetto di un singolo evento microfisico sino al livello del comportamento macroscopico dell'organismo. Questa ipotesi poteva trovare appoggio in dati sperimentali recenti della ricerca biologica. Ad esempio il prodursi di mutazioni ereditarie per l'urto di particelle o radiazioni elettromagnetiche su ambiti ristretti del materiale ereditario; tali mutazioni risultavano dall'apporto di uno o pochi quanti di energia e producevano un effetto di amplificazione coll'insorgenza di caratteri ereditari nuovi o coll'uccisione dell'organismo. Tali processi di amplificazione, che secondo J ordan dovevano caratterizzare la base fisica del funzionamento dell'organismo, si mostrarono però, ad una più precisa analisi critica, del tutto marginali rispetto al comportamento globale dell'organismo e alle strutture funzionali che lo determinano. VII· IRRAZIONALISMO DEL
MONDO
E IN
VISIONI
BIOLOGICHE
GERMANIA
Sin dall'inizio del secolo nell'ambito della cultura tedesca il nuovo vitalismo non solo aveva provocato un ampio dibattito filosofico e metodologico, che suscitò l'interesse anche dei biologi più qualificati, ma aveva inciso profondamente nella cultura filosofica in generale alimentando « filosofie della vita » di impronta più o meno irrazionalistica. Queste filosofie si svilupparono negli anni precedenti e in quelli successivi la prima guerra mondiale e a loro volta influenzarono il pensiero biologico tedesco in forme che per vari aspetti richiamavano temi della filosofia della natura romantica. Oltre che dal vitalismo uno dei punti da cui muovevano le correnti di tipo irrazionalistico, che alimentavano le filosofie della vita, fu il diffondersi della concezione fenomenistica della scienza e quindi della convinzione che il significato autentico non solo dell'uomo e della storia, ma anche della stessa natura, 144
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sfuggendo alla conoscenza di tipo scientifico, doveva essere cercato in un ambito diverso di esperienza spirituale. La ricerca del valore e del significato della vita deve cioè orientarsi verso il mondo irripetibile della storia, in un orizzonte in cui le istanze più immediate dell'uomo tendono ad assumere un valore universale di norma o di eventi esempla·ri. Ma la vita creatrice di valori, che risulta da queste esperienze dell'uomo è ben diversa dalla vita quale ci viene presentata nelle scienze biologiche dalla con1 >scenza di tipo meccanicistico della natura. La scienza stessa sorge secondo Mach dal bisogno dell'uomo di organizzare in modo economico i dati dell'esperienza sensoriale per garantire la sopravvivenza biologica. In tale luce la critica della nuova fisica risultava la conferma più sicura del carattere fenomenistico della conoscenza e ci si poteva chiedere alloracon il biologo tedesco Raoul H. Francé - che altro è la materia « se non il "mondo come rappresentazione" di Schopenhauer, al quale soltanto, con i filosofi moderni, si può ricollegare la nuova fisica? Ma Schopenhauer è il tipico filosofo biologo, poiché tutta la sua immagine del mondo, sia quello delle rappresentazioni, sia quello della volontà, si riduce all'affermazione: il mondo sussiste solo per l'uomo, ed egli lo conosce solo attraverso la sua capacità vitale. Anche per lui è la vita il giudice supremo ». Già con Nietzsche, attraverso l'iniziale richiamo a Schopenhauer e la successiva interpretazione etica del darwinismo, la vita era stata posta come l'ambito originario e irriducibile dell'affermazione dell'uomo, al di là di ogni dettato della morale e della ragione. Ma anche questa di Nietzsche non poteva essere la vita irrigidita e impoverita degli schemi scientifici della biologia. Nella Genealogia della morale egli affermava infatti che «l'idiosincrasia democratica contro tutto ciò che domina e vuole dominare sembra essersi impadronita di tutta la fisiologia e la dottrina della vita, evidentemente a suo danno, poiché ha fatto sparire il suo concetto fondamentale, quello della vera e propria attività. Sotto la pression> che si differenziano tra loro le varie posizioni intuizioniste. Prima di chiudere questo paragrafo, vogliamo fare ancora un accenno alla scuola italiana, che, salvo che con Peano e Cesare Burali-Forti (1861-1931), è stata nominata solo di sfuggita. E in effetti, se un altro nome si deve aggiungere è soltanto quello di Alessandro Padoa (1868-1937) che fra il 1900 e il 1904 presenta una serie di risultati sulla definibilità dei concetti che opportunamente elaborati sopravvivono ancora oggi nei trattati di logica moderna. Un altro nome vorremmo poter aggiungere, quello di Giovanni Vailati (1863-1909), la cui prematura scomparsa ha privato indubbiamente l'ambiente culturale italiano del periodo di un possibile apporto certamente significativo; e diciamo « vorremmo » per due opposti motivi: da una parte perché egli era una fra le poche figure con una visione globale della cultura, con interessi assai vari (anche se alquanto dispersivi) e certamente non «provinciale»; dall'altra perché Vailati in effetti pur facendo parte della scuola di Peano non si interessò che marginalmente di logica. Va aggiunto che nel 1905 vedeva la luce quella Logica come scienza del concetto pt~ro di Benedetto Croce che parrebbe offrire- se non l'unica- almeno la ragione principale del totale decadimento di una scuola pur apparentemente tanto « vitale » come quella peaniana. Non è qui il caso di valutare e analizzare le influenze e i condizionamenti che l'opera complessiva di Croce ebbe sulla cultura, anche scientifica, italiana (si veda il capitolo XI del volume settimo). Non possiamo tuttavia esimerci dal notare come ben difficilmente si riesca a trovare in un'altra opera un repertorio così vasto e nutrito di inesattezze, superficialità, di vere e proprie insulsag- gini per quanto riguarda la logica « formalistica » - come Croce la chiama e i vari tentativi di riformarla « ... il più solenne dei quali è la già ricordata Logica matematica, denominata anche calcolatoria, algebrica, algoritmica, simbolica, nuova analitica, calcolo logico o Logistica ». 1 E mentre in tutte le ctJltttre europee I Ovvio che « formalistica » vuol essere un dispregiativo il cui impiego Croce ritiene di poter giustificare con dovizia c.li motivazioni. A parte il fatto che per lui « ora è il bel tempo dei Peano, dei Boole [sic!], dei Couturat » e che per lui « la stessa dottrina della quantiftcazione del predicato » è stata un po' il « lievito » della « riforma » della logica, è sconsolante vedere come uno scrittore così acuto, brillante e profondo possa cadere semplicemente nel ridicolo per una totale mancanza di informazione spicciola, banale (che ov-
viamente diventa grossa responsabilità culturale quando, ed è questo il caso, ha una chiara origine dogmatica). In particolare tutto il terzo capitolo della sezione seconda della prima parte di quest'opera di Croce è un coacervo di tali amenità ! È chiaro quindi che se ci occupiamo di Croce in questo contesto è soltanto per l'indubbia influenza e per il grosso condizionamento che egli ha esercitato (e parzialmente continua a esercitare) sulla cultura italiana.
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La logica nel ventesimo secolo (1)
(basti pensare a quella francese, o inglese, o tedesca) tutta una serie di studiosi affrontava con serietà e rigore i profondi problemi che erano stati sollevati dalle antinomie, dagli sforzi per superarle, dalle diverse concezioni che si dividevano il campo intorno al problema dell'esistenza degli enti matematici, da noi invece il saggio di Pescasseroli, il genio universale della filosofia italiana decideva che « se come scienza del pensiero la Logistica è cosa risibile, degna veramente dei cervelli che l'hanno costruita [e abbiamo avuto occasione di nominare in queste pagine alcuni di quegli inetti e limitati cervelli che tale brutta azione avevano commesso] ... non è poi nostro assunto esaminarla in quanto formulario provvisto di pratica utilità; e su questo punto ci restringiamo a insistere sopra una sola e assai semplice osservazione ». Da Leibniz in poi, osserva sostanzialmente Croce, « questi nuovi congegni sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre li hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa 1/0it sembra probabile, e, ad ogni modo, è fuori dalla competenza della filosofia e appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, a commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, fin da ora, pienamente provata » (corsivo nostro). Scusi il lettore la lunga citazione che tuttavia ci sembrava troppo significativa e paradigmatica. E naturalmente solo su questo si potrebbe parlare a lungo; ma tempo e spazio possono essere impegnati, a nostro parere, in modo assai più proficuo sicché ci si può limitare a osservare - a parte l'impressionante, quasi profetico potere di previsione di cui Croce fa sfoggio in questo passo che probabilmente l'accenno « economicista » è stato stilato di getto, avendo presente il « mercato » di Pescasseroli, o, a essere compiacenti, quello italiano. Per quanto riguarda infine il rapporto della logica con la filosofia (e sempre, per essere brevi, su pure basi pragmatiche) va invece tutto bene: purché Croce a quella « filosofia » premetta un « mia »: perché allora è certo che la logica matematica non vuole avere nulla a che fare con la sua filosofia. Purtroppo, a nostro parere, la situazione sta in termini ben più gravi e complessi, perché non può imputarsi solo a Croce la decadenza della scuola logica italiana; Croce piuttosto interviene nel decretare per le scienze in generale - e quindi per la logica in particolare - l'esclusione dalla «area culturale», relegandole a mere manipolatrici di pseudoconcetti. Ma tutto ciò avviene con la decisiva e colpevole complicità degli scienziati italiani. Per quanto in particolare riguarda la logica, il suo declino inizierà paradossalmente proprio con Peano, con la sua « sordità », immediatamente ereditata dai suoi «scolari», verso una collocazione più generale dell'enorme problema2.51
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La logica nel ventesimo secolo (r)
tica che lui stesso aveva contribuito a sollevare nel mondo. E ciò sembra dovuto alla sua tendenza a «chiudere» un sistema, una ricerca, un'impresa, se necessario forzatamente, invece di spingersi fino alle estreme conseguenze sperimentali di nuovi tentativi, principi, metodi: è forse un malinteso senso di « onestà intellettuale » che lo porta a escludere dai suoi discorsi ogni considerazione che non sia, come lui stesso dice, di « stretta pertinenza matematica ». Peano, che già dovette combattere in patria contro coloro che ritenevano frutto di « senilità » la sua produzione e i suoi interessi logici, ci appare inevitabilmente conservatore e provinciale non appena ci si affacci oltre i confini italiani; e ciò non solo perché come ebbe a scrivere nel 1915 «la logica matematica, utile nei ragionamenti matematici (ed in questo senso io ne feci uso) interessa pure la filosofia », portando poi Louis Couturat come esempio in proposito; ma anche soprattutto perché sempre nello stesso articolo (Importanza dei simboli in matematica) afferma testualmente: « ... se giuste sono dunque le critiche di Eugenio Rignano contro coloro che considerano la logica matematica quale scienza in sé, i cui lavori, è verissimo, sono spesso poco proficui; invece più non lo sarebbero all'indirizzo di coloro ... che considerano la logica matematica come uno strumento utile per risolvere questioni matematiche resistenti ai metodi com1111i » (corsivi nostri). Come unico commento basterà qui ricordare al lettore che solo due anni prima era comparsa la prima edizione dell'ultimo volume dei Principia. Del resto le stesse formule di « disimpegno » di Peano sono estremamente illuminanti in questo senso. Quando, ad esempio, a proposito del paradosso di Richard, egli dichiara emblematicamente che « exemplo de Richard non pertinet ad mathematica sed ad linguistica » ciò rappresenta per lui un modo di liquidare una questione che non solo non lo interessa. come matematico perché ha varcato i limiti della sua competenza (ché qui ancora potremmo parlare di «onestà intellettuale») ma che respinge come uomo di cultura perché è al di là della sua stessa apertura mentale. Si pensi soltanto che la sua affermazione sopra riportata agirà non come freno, bensì come potente catalizzatore, come lievito, per un autore ben diversamente disposto, quel F. P. Ramsey di cui avremo occasione di parlare in un prossimo paragrafo. Senza neppure ricordare le parole di Zermelo sopra viste - e che ci sembrano quanto mai appropriate- non può non colpire la singolare vicenda intellettuale di un uomo come Peano - indubbiamente grande matematico e grande logico- destinato a fornire spunti di apertura a Russell, a Ramsey, a Couturat, a tutto un mondo culturale insomma, e tuttavia decisamente bloccato a livello di una propria elaborazione culturale autonoma, di un inserimento dei suoi stessi metodi e problemi in un più ampio contesto. Fatalmente, questa visione ristretta venne ereditata - grazie anche a una robusta dose di puro « accademismo » che alla nostra cultura universitaria non ha certo mai fatto difetto - dai suoi « scolari ». A leggere articoli, conferenze, lavori di ogni tipo, degli allievi di Hilbert (che non è certo matematico di levatura inferiore a quella di Peano ), ad esempio
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La logica nel ventesimo secolo (1)
di un Paul Bernays,di unJohn vonNeumann(1903-1957) non si troveranno mai locuzioni come « il g:rande Hilbert» o « come ha definitivamente mostrato il nostro maestro Hilbert » o alt:re di questo teno:re che con tutta tranquillità e :regolarità abbondano invece negli scritti di un Burali-Fo:rti, o di un Padoa, o di un Vacca (ovviamente con la sostituzione Hilbert-Peano): si tratta, nel p:rimo caso di discutere, approfondire, :rielabo:ra:re, supe:ra:re un :risultato che o si sa essere di Hilbert o si :riconosce come tale pe:r dovuta co:r:rettezza; nel secondo invece si t:ratta di magnificare anzitutto il risultato del « maestro », quindi di aggiungere modestamente, con le dovute cautele, qualche briciola. È chia:ro che la causa di tale situazione non può farsi risalire a Peano, ma a tutto un ambiente che del :resto solo oggi (1972) tende in generale a scomparire. Comunque, pe:r terminare, riteniamo che le seguenti pa:role di Burali-Fo:rti, t:ratte dalla seconda edizione (1919) della sua Logica matematica, mostrino con sufficiente chiarezza come la cultura italiana- anche specifica- dell'epoca si fosse estraniata dai grandi temi allora dibattuti dalle va:rie scuole e si fosse già :rinchiusa in un provincialismo masochistico senza respiro né sbocchi. Burali-Fo:rti dunque si augu:ra che la sua fatica possa avere migliore fortuna di alt:re e nel contempo dichiara che volendo ((presentare al lettore la logica simbolica in azione, cioè come strumento di analisi e di scrittura abbreviata [e qui è difficile non da:r :ragione a Croce!] mi so n potuto :risparmiare l'enorme [!] fatica di stabilire un sistema completo di proposizioni primitive; tanto più che è dubbio se tale enorme fatica potrebbe essere coronata da successo, visto che i tentativi fatti finora sono ben lontani dall'aver dato risultati esaurimti » (corsivo nostro). Dove appunto è chiaro che gli italiani
non :ricercavano o sperimentavano ma o avevano « risultati esaurienti » oppu:re niente! E la nota finale mi sembra addirittura proponga quel triste e speriamo o:rmai lontano e superato anelito autarchico-nazionalista che ben alt:ro peso avrebbe dovuto pu:rt:roppo ave:re sulla nostra vita politica e sociale: « E a proposito di merce ntera,- afferma Burali-Fo:rti- conviene fa:r nota:re come, specialmente dagli italiani ( !), si citi e si usi il caotico e impreciso sistema geometrico dell'Hilbert, quasi non esistessero i sistemi semplici, chiari e precisi (ma sono italiani!) e ben superiori a quello dell'Hilbert, di M. Pie:ri. » Pe:r concludere tuttavia con una nota di ottimismo vogliamo di:re che da quando, attorno agli anni sessanta, è rinato in Italia un ce:rto interesse pe:r la logica, molti ambienti matematici e filosofici hanno via via mostrato nei suoi :riguardi un'ape:rtu:ra semp:re maggiore. Non che oggi la situazione sia :rosea: ma si può ce:rto affe:rma:re che ove anco:ra allignino posizioni alla Bu:rali-Fo:rti, esse sono destinate o a mo:ri:re pe:r consunzione di mo:rte naturale, o a essere violentemente estirpate dalle nuove generazioni che non accettano etichette o confini statici e p:recostituiti.
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III · GLI ANNI VENTI
Lasciamo quindi da parte l'ambiente italiano, ormai decisamente emarginato dalla ricerca logica, e osserviamo piuttosto che i problemi sul tappeto sono molti e complessi, dopo questa prima, rinnovata fase di indagine sulla logica e sui fondamenti della matematica; ai sostenitori delle varie scuole si prospetta dunque un intenso lavoro di chiarificazione, elaborazione e approfondimento di tale complessa problematica. Il punto di riferimento obbligato, ancora agli inizi degli anni venti, è sempre costituito dai Prittcipia mathematica (che vedranno la seconda edizione fra il 1925 e il I927) riguardati- oltre che, ovviamente, come manifesto della scuola logicista - come momento operativo di trascrizione logica di tutta la matematica, con la preoccupazione centrale di evitare i paradossi. Abbiamo visto quale sia il prezzo pagato da Russell e Whitehead per questo ambizioso programma: a parte locali e contingenti lacune di chiarezza o rigore, si tratta più intrinsecamente della notevole complessità e pesantezza della teoria dei tipi ramificata e delle necessarie, assai impegnative assunzioni che gli autori dei Prirtcipia sono costretti a fare: assioma di riducibilità, assioma moltiplicativo, assioma dell'infinito. La natura esplicitamente esistenziale di questi assiomi faceva sorgere in modo naturale la domanda circa l'estensione stessa del campo logico nel cui ambito doveva, secondo la tesi logicista dei Prittcipia, essere riportata tutta la matematica. Detto in modo diverso, quello che in certo senso possiamo assumere un po' come leitmotiv per la ricerca logica e fondamentalista di questo nuovo periodo è il problema (che riceverà una risposta decisamente diversa da quella implicitamente intesa da Frege e Russell) che può esprimersi con la domanda: cos'è la logica? e qual è il suo linguaggio? Orbene uno degli esiti generali più caratteristici e significativi della ricerca negli anni venti sarà proprio quello di giungere a riconoscere la possibilità di frantumare la « grande logica » di Frege e Russell per interessarsi di calcoli particolari, impieganti linguaggi ad hoc; o in diretta critica nei riguardi della logica dei Prittcipia, o sotto la spinta dell'atteggiamento matematico-assiomatico, si accoglierà cioè come fatto acquisito l'opportunità (se non addirittura la necessità) di istituire linguaggi e «logiche» diversi per descrivere e parlare di «mondi» diversi. Tanto i lavori dell'americano Emil Leon Post (1897-1954) relativi alla logica enunciativa intesa come sistema formale autonomo, quanto la proposta di logiche « non classiche » avanzata da Clarence Irving Lewis (I883-1964) e da alcuni esponenti della scuola polacca, come infine la canonizzazione dei vari calcoli data nel 1928 da Hilbert e Ackermann possono infatti essere riguardati come momenti diversi di questa esigenza. Per quanto più specificamente riguarda le tre scuole di filosofia della matematica, le loro vicende in questo periodo sono altamente differenziate. Per la scuola intuizionista, oltre ai numerosissimi interventi di Brouwer, o di chiari-
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La logica nel ventesimo secolo (r)
mento e riedificazione di una matematica intuizionista o di polemica in particolare contro la scuola formalista, questo periodo farà assistere a un primo e interessantissimo tentativo di formalizzazione della « logica » (e della matematica) intuizioniste; questo tentativo oltre ad anticipare risultati che matureranno compiutamente, come vedremo, all'inizio degli anni trenta, renderà possibile l'instaurarsi di un primo concreto e fruttuoso confronto fra le idee intuizioniste e quelle delle altre scuole. Si assiste invece ad una sorta di « ridimensionamento » della scuola logicista che, pur difesa ancora con vigore da Rudolf Carnap (1891-1971) proprio verso il 1930, giunge sostanzialmente a un punto morto tanto a causa di critiche «esterne » quanto per i profondi ripensamenti che autori qualificantisi essi stessi come logicisti, primo fra tutti F. P. Ramsey, vengono pubblicando in questi anni. Questo decennio è invece particolarmente favorevole alla scuola formalista che vede Hilbert e tutta una schiera di collaboratori, fra i quali Ackermann, von Neumann, Bernays e altri impegnati nell'esposizione ed elaborazione della piattaforma teorica definitiva di tipo formalista e nella presentazione di numerosi, interessanti e assai promettenti risultati parziali che portano lo stesso mondo matematico alla sostanziale pur se implicita convinzione circa la completa e pressoché certa attuazione del programma hilbertiano. Ulteriore caratteristica di questo decennio l'intenso lavoro sulla teoria degli insiemi: in questo campo viene portata a una sistemazione pressoché definitiva (nel senso che ancor oggi la riteniamo valida) la base assiomatica che- come abbiamo visto- Zermelo aveva presentato nel 1908. I nomi che qui emergono sono quelli di Fraenkel, von Neumann e Skolem. A proposito di quest'ultimo autore, che avremo occasione di menzionare spesso nelle pagine che seguono tanto fondamentali e molteplici sono stati i suoi interessi e i suoi risultati, a stretto rigore cronologico avremmo anche dovuto far cenno a tutto un aspetto della sua produzione che si aggancia a un teorema di Lowenheim del 1915 e che non solo ha riflessi sulla stessa concezione assiomatica, ma rappresenta anche la continuità con un'altra possibile linea di approccio alla logica che si riallaccia direttamente a Schroder. Ci è sembrato però più opportuno rimandare l'esame di questo aspetto al paragrafo IV, dedicato agli anni trenta, al periodo cioè nel quale, grazie alle riflessioni di Godei e ai risultati da lui raggiunti, si potrà considerare una confluenza fra queste due alternative.
I) La rottura della «grande logica». Logiche «non classiche» Abbiamo visto come alla sistemazione dei Principia fossero state sollevate notevoli critiche. Quelle cui finora abbiamo accennato e che prenderemo in esame più dettagliato in paragrafi successivi, riguardavano tuttavia quasi esclusivamente la concreta realizzazione del sistema logico dei Principia in rapporto al programma logicista professato dai suoi autori (in particolare, ovviamente, 255
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La logica nel ventesimo secolo (1)
da Russell). Oltre però a rappresentare un potente stimolo alla discussione fra scuole e alla ricerca in questa direzione, i Principia diedero lo spunto a tutta un'altra serie di riflessioni, solo apparentemente più locali, e che sfociarono in varie proposte alternative che avranno un enorme peso nello sviluppo successivo della logica. Le indagini in questa seconda direzione possono farsi cominciare con il Survry of rymbolic logic (Panorama di logica simbolica, 1918) dell'americano Lewis e proseguono in effetti per tutti gli anni venti, con notevoli contributi di autori americani e soprattutto degli studiosi della cosiddetta scuola polacca. In quest'ordine di idee- come dicevamo - può situarsi anche la « canonizzazione » della frattura della grande logica di Frege e Russell che si ebbe nel 1928 con i Grundziige der theoretischen Logik (Lineamenti di logica teorica) di Hilbert e Ackermann. Occupiamoci, per cominciare, di quell'aspetto della questione che può individuarsi nell'osservazione che già nel 1920 faceva l'americano Post del fatto che «nella teoria generale della logica costruita da Whitehead e Russell ... per fornire la base per tutta la matematica, esiste una certa sottoteoria che è unica nella sua semplicità e precisione e, malgrado tutte le altre parti dell'opera si fondino su questa sottoteoria, essa è completamente indipendente da quelle ». Post allude qui alla logica delle proposizioni ossia a quella parte del sistema logico dei Principia che riguarda semplicemente le connessioni inferenziali che possono stabilirsi considerando come « dati iniziali » proposizioni non analizzate (e non funzioni proposizionali) quando esse vengano variamente collegate fra loro tramite i normali connettivi logici. L'interesse che muove Post in questa sua osservazione, le motivazioni che lo spingono a proporre le generalizzazioni cui accenneremo sono per sua dichiazione esplicita puramente formali, sicché le estensioni generalizzanti cui egli giunge sono semplici e naturali estensioni suggerite dalla struttura stessa della teoria così isolata, senza alcuna preoccupazione per le eventuali interpretazioni logiche che tali risultati possono o meno avere. Quest'atteggiamento consente a Post, tra l'altro, di cogliere ed esplicitare la distinzione fra il linguaggio della teoria che è oggetto di studio e il linguaggio nel quale si conduce lo studio della teoria stessa; di tracciare cioè una consapevole linea di demarcazione fra teoria e metateoria - per usare una terminologia oggi corrente - o se si preferisce, nel caso particolare, fra logica e metalogica: «Vogliamo qui porre l'accento sul fatto che i teoremi di questo lavoro vertono sulla logica ma non sono inclusi in essa ». Questo atteggiamento « metamatematico » sarà caratteristico della posizione hilbertiana mentre il discorso metamatematico stesso diverrà oggetto di studio approfondito per la scuola polacca. Naturalmente la parte proposizionale della logica era nota almeno dal tempo di Frege come sistema autonomo, e in effetti già da Boole come interpretazione del proprio sistema formale; e anzi tipiche ricerche di « economicità » delle as-
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La logica nel ventesimo secolo (r)
sunzioni e dei termtm fondamentali avevano portato Henry Maurice Sheffer (1883-1964) nel 1913 a ridurre a uno solo i connettivi proposizionali e Jean Nicod (1893-1924) nel 1917 a ridurre a un solo assioma la base assiomatica proposizionale. Ma tutto ciò era sempre inteso come semplificazione operativa o di principio all'interno del sistema di Russell (o, nel caso di Frege, come primo passo verso la «grande logica»). Merito di Post è invece quello di aver isolato il sistema di logica proposizionale (o enunciativa, come anche diremo) come una teoria assiomatica e deduttiva autonoma, nell'aver cioè assunto come unico oggetto di indagine, senza altro contesto, una teoria costruita su una porzione estremamente limitata del linguaggio «universale» dei Principia, e nell'aver distinto i due livelli linguistici della teoria e della metateoria come piani su cui muoversi separatamente. Si noti che questo linguaggio proposizionale, evidentemente il «minimo» linguaggio logico disponibile, ha tuttavia indubbiamente un potere espressivo assai ampio; può parlare, per così dire, di « mondi » assai disparati e diversi tra loro o viceversa può essere interpretato in una grande varietà di « mondi », di universi del discorso. Solo che esso è assai superficiale e poco incisivo, nel senso che non riesce a convogliare informazioni sufficientemente dettagliate sui mondi di cui eventualmente parla. Di questa limitazione è evidentemente conscio lo stesso Post quando auspica un prosieguo del suo lavoro su teorie logiche espresse con linguaggi più « sottili e ricchi di informazione». Post dà una versione estremamente precisa della logica proposizionale dei Principia tanto dal punto di vista assiomatico, quanto dal punto di vista delle tavole di verità. Nel primo caso assume, come nei Principia, i due soli connettivi di negazione (-----,) e disgiunzione ( V ), sulla base dei quali, a partire dalle lettere proposizionali, si costituiscono tutte le rimanenti formule del linguaggio; nel secondo caso dà una versione rigorosa delle tavole di verità a due valori. Il sistema proposizionale è caratterizzato da un certo numero finito di assiomi che risultano essere tautologie, e da due regole di inferenza: il modus ponens o regola di separazione, che dai teoremi d e d--+ @ permette di derivare il 1-d, l-d-+@) teorema @ ( 1-@ e la regola di sostituzione, secondo la quale a ogni
lettera indicante una proposizione (lettera o variabile proposizionale) si può sostituire qualunque altra formula del linguaggio. Il calcolo è organizzato in modo tale che a partire dagli assiomi, ossia da tautologie, si possono ottenere, applicando le regole di deduzione, dei teoremi che si rivelano a loro volta essere tautologie. Ciò si esprime dicendo che il sistema è valido (ossia dà luogo solo a teoremi che sono logicamente validi). Si pone allora in modo naturale la domanda inversa: è il nostro calcolo in grado di farci ottenere come teoremi tutte le tautologie? È intuitivo il nome di completezza se mantica (o, in terminologia più recente, adeguatezza) che si dà a questa proprietà di una teoria, che, nel caso 257
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La logica nel ventesimo secolo (x)
ne goda, viene appunto detta (semanticamente) completa o adeguata. 1 Post dimostra che il sistema proposizionale è completo in questo senso. 2 Nella sua dimostrazione ottiene anche una procedura di decisione per la logica proposizionale e cioè un metodo meccanico grazie al quale, data una qualunque formula proposizionale, è possibile stabilire in un numero finito di passi se tale formula è un teorema oppure no. Post dimostra inoltre che il sistema da lui considerato è consistente, ossia che in esso non è possibile dimostrare contemporaneamente una formula d e la sua negazione ---, d. 3 Una prima generalizzazione considerata da Post riguarda da una parte sistemi con un numero finito qualunque di connettivi, dall'altra sistemi con un numero finito qualunque di assiomi e fo regole di inferenza. Una seconda generalizzazione riguarda invece la considerazione di « tavole di verità » (che vengono ora dette più appropriatamente« matrici») con un numero finito qualunque di valori, ossia consiste, dal punto di vista interpretativo, nel considerare la teoria di logiche proposizionali con un numero finito di « valori di verità » maggiore o uguale a 2. Da un punto di vista intuitivo ciò significa evidentemente prendere in esame, accanto ai due tradizionali valori di verità Vero e Falso, anche altri valori di verità come potrebbero essere ad esempio « incerto », « indifferente», « ìndeterminato » e simili; si tratta cioè di considerare, in linguaggio moderno, logiche polivalenti, invece della classica logica bivalente. Va ribadito tuttavia che per Post queste generalizzazioni si presentano come naturali dalla teoria dei Principia sistemata rigorosamente e non comportano minimamente la preoccupazione di una eventuale interpretazione logica. Converrà esaurire questo primo aspetto della questione, considerando subito quella suddivisione in linguaggi e calcoli logici che i Grundziige di Hilbert e Ackermann rendono generale e paradigmatica. Il criterio di suddivisione è già stato implicitamente accennato: possibilità espressive dei linguaggi anche in relazione al tipo di analisi che consentono di fare del contenuto che sono destinati a esprimere. La prima grande distinzione avviene quindi tra linguaggio enunciativo, i cui elementi base sono proposizioni non analizzate e i soliti connettivi, e /in_ I Ove non sorgano confusioni diremo anche semplicemente completezza invece di completezza semantica; la ragione della necessità, almeno in certi contesti, della qualificazione, consiste nel fatto che più avanti accenneremo a un altro tipo di completezza che verrà detta sintattica. 2 In effetti, oltre alla proprietà sopra definita, per la quale non introduce una denominazione particolare, Post introduce altre due nozioni di «completezza». Secondo la prima (detta oggi completezza nel senso di Post) un sistema è completo se ogni sua formula diventa dimostrabile ogniqualvolta noi aggiungiamo come assioma una qualunque formula non dimostrabile nel sistema; la seconda è quella che noi oggi
diciamo completezza funzionale (e a questa proprietà Post riserva il nome di completezza) e consiste nel fatto che ogni funzione di verità può essere scritta in termini dei due connettivi primitivi da lui assunti. 3 Post introduce anche un'altra nozione di consistenza, detta talora consistenza nel senso di Post: un calcolo che contiene variabili proposizionali è consistente in questo senso se in esso non può essere dimostrata una singola variabile proposizionale. Post dimostra che il sistema da lui considerato è consistente anche in questo senso. Si noti che i due concetti coincidono per sistemi che ammettano la negazione come connettivo.
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La logica nel ventesimo secolo (I)
guagg,io predicativo in cui le proposizioni sono pensate analizzate nelle loro componenti predicativa (o più in generale relazionale) e soggettiva; oltre ai connettivi proposizionali il linguaggio predicativo comprende gli operatori logici di quantificazione. Nell'ambito del linguaggio predicativo interviene una distinzione ulteriore a seconda che si convenga di applicare la quantificazione alle sole variabili individuali (potendo così esprimere nel linguaggio frasi come, ad esempio « per tutti gli individui...» o «esiste almeno un individuo tale che ... ») oppure si intenda estendere la quantificazione anche a variabili predicative (sicché diventano esprimibili frasi quali « per tutte le proprietà (di individui) ... » o « esiste almeno una proprietà (di individui) tale che ... »). Si ottiene così il linguaggio predicativo del primo ordine (quantificazione limitata) o del secondo ordine (quantificazione estesa). Dovrebbe essere chiaro com'è possibile continuare in questa gerarchia; va detto però che raramente si avverte la necessità di linguaggi di ordine superiore al secondo e che in generale il linguaggio del primo ordine, pur essendo una porzione molto limitata del linguaggio comune, è sostanzialmente sufficiente per esprimere almeno la maggior parte delle teorie matematiche interessanti. 1 Dal punto di vista simbolico, che ci permetterà di presentare poi i calcoli logici, potremmo porre le cose come segue. Il linguaggio proposizionale consta di un insieme infinito numerabile di lettere proposizionali (destinate a essere interpretate su proposizioni, o meglio su valori di verità) p, q, r, s ... dei connettivi --,, 1\, V , --+, ~. di simboli ausiliari quali le parentesi, la virgola ecc. Per costruire su questo « alfabeto » il sistema deduttivo del calcolo proposizionale, occorre definire le formule, gli assiomi e dare le regole di inferenza. Intuitivamente le formule sono quelle, fra tutte le espressioni che possono farsi componendo linearmente segni dell'alfabeto, che vogliamo considerare come sintatticamente significanti (è chiaro peraltro che esse saranno scelte in modo tale da risultare « significanti » anche da un punto di vista semantico, sotto opportune interpretazioni standard); gli assiomi sono quelle, fra le formule, che noi scegliamo come elementi iniziali del procedimento dimostrativo. Le formule sono così definite: I) ogni lettera proposizionale è una formula; 2) se d e !!J sono formule allora anche --, d, d 1\ !!J , d V !!J , d --+ !!J , d~ !!J sono formule; 3) nient'altro è una formula. Gli assiomi sono I 5 divisi in cinque gruppi, ognuno dei quali regola il comportamento di un connettivo. Assiomi dell'implicazione I) P--+(q~p) z) (P--+(P--+ q))--+(P--+ q) 3) (P-+ q)--+ ((q-H)--+ (p--+ r)) I Altri possibili criteri, che danno luogo ad altri tipi di linguaggi, ad esempio ai linguaggi
infinitari, sono venuti alla ribalta molto di recente e verranno accennati più avanti (paragrafo v).
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La logica nel ventesimo secolo (I)
Assiomi della congiunzione 4) PA q_, P 5)PAq_,q 6) (p_,q)_,((p_,r)_,(p_, q A r)) Assiomi della disgiunzione 7)P_,PVq
8) q_, p v q 9) (p_,r)_,((q_,r)_,(p V q--H)) Assiomi dell'equivalenza
IO) II) 12)
(p~q)_,(p->,q)
(P~ (P~
q)_, (q_, p) q)_, ((q_, p)_, (p_, q))
Assiomi della negazione I3) (p_, q)-->,(-, q->,-,p) I4) p_,-, -,p
I5)-,-,p->,p Come regole assumiamo la regola di separazione e la regola di sostituzione. 1 Per la logica del primo ordine avremo come possibile naturale estensione ad esempio la seguente. Il linguaggio comprende: à) un insieme infinito numerabile di variabili individuali x 1 , x 2 , x 3 , ... x. , ... ; b) le lettere proposizionali, che verranno ora indicate per comodità con ~' Pf, ~ , ... ; delle lettere predicative (almeno una) indicate con P; dove i (~ o, finito) è un indice di differenziazione e k (~ I, finito) indica il numero di posti della lettera predicativa (si potranno considerare le lettere proposizionali come lettere predicative « degeneri » assumendo per k - come noi faremo - valori finiti maggiori o uguali a zero); i connettivi proposizionali (-,, A , V , ---+, ~) e i quantificatori (3, V). Le formule saranno ora così definite: a) se P1 è una lettera predicativa a k posti e x 1 , x 2 , ... , X~: sono variabili, allora P~ (x1 , x 2 , ... , x~:) è una formula (formule atomiche); b) se d è una formula, -, d è una formula; se d e ~ sono formule anche d A ~ , d V ~ , d_, ~ , d~ ~ sono formule; se d è una formula e x una variabile, allora anche Vxd e 3xd sono formule; c) nient'altro è una formula. I Come sistemazione assiomatica abbiamo in realtà riportato quella di Hilbert e Bernays, Grundlagen der Mathematik (Fondamenti della matematica, z volumi; I934-1939)- Naturalmente questo sistema è equivalente ai numerosi sistemi proposizionali allora correnti e che si differenziavano fra loro e per le diverse assunzioni « linguistiche » (numero dei connettivi) e per le diverse assunzioni« deduttive» (assiomi e regole). Attualmente si preferisce in generale dare tali sistemi a livello meta/inguistico, usando cioè nella enunciazione
degli assiomi variabili metalinguistiche che possono essere immaginate sostituite in modo uniforme da formule linguistiche qualunque. Questo permette di eliminare la regola di sostituzione. Un esempio di tali sistemi, basato su due connettivi e tre assiomi, è il seguente: w--+(~M.:...,.w)
(w--+(~--+ 'W))--+ ((w--+ ~M)--+ (w--+ 'W)) (---, ~--+ ---, w)--+ ((---, 1M--+ w)--+ ~M))
con la sola regola del motlus ponens.
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La logica-nel ventesimo secolo (I)
Gli assiomi del calcolo predicativo sono ora: I) gli assiomi enunciativi (opportunamente formulati nel nuovo linguaggio); 2) \fxP(x)-" P(y) 3) P(y)-" 3xP(x) (o ve abbiamo adottato evidenti abbreviazioni); oltre alla regola di separazione si aggiungono altre due regole che possono indicarsi compendiosamente con i seguenti schemi d -"&B(x) &B(x)-"d e d___, \fx&B(x) purché in entrambi gli schemi x non figuri libera in d. Occorrerà, naturalmente, una regola di sostituzione per variabili individuali libere e una per variabili predicative. 1 Ovviamente in questo contesto, l'esplicitazione formalizzata di una teoria in un dato linguaggio comprenderà, oltre che gli assiomi logici, anche assiomi specifici per la teoria, ossia delle proposizioni formalizzate la cui interpretazione è destinata per così dtre a limitare le possibili realizzazioni della teoria stessa a quelle che appunto ne soddisfano gli assiomi. Assumiamo per ora questi termini in senso intuitivo (con perfetta aderenza storica del resto, ché infatti la precisazione rigorosa dell'aspetto semantico interpretativo non sarà un risultato acquisito che negli anni trenta). Ad esempio per il caso dell'aritmetica avremo un sistema elementare del tipo seguente (che indicheremo come sistema \.P, da Peano). I) Un qualunque sistema di assiomi per il calcolo dei predicati con identità 2) Assiomi specifici 2.I \lx (---,s(x) =o) 2.2 '\f x\fy(s(x) =s(y) -'t X= y) 2.3 d(o)/\ \fx(d(x)-"d(s(x)))--+ \fxd(x) 2.4 Vx'lly(x+o=x f\x-ts(y)=s(x-1-- y)) 2.5 \fx'\fy(x·o=of\x-s(y)=((x-y)+x)) 2 I Ricollegandoci alla nota precedente, si adotta ad esempio un sistema come il seguente: I) Gli assiomi enunciativi 2) Gli assiomi 'v'x.W(x)-> .W(y); 'v'x(.W-> al')->(.W-> 'v'x !?l); (con opportune limitazioni sulle variabiliy e x) e con, oltre alla regola di separazione, la sola regola
di generalizzazione ~ , e una di sostituvx.W
zione per variabili individuali libere. Nel seguito ci riferiremo sempre, all'occorrenza, a questi sistemi « più semplici » ribadendo tuttavia la loro equivalenza espressiva e deduttiva col sistema di Hilbert-Bernays qui presentato. A questo propo-
sito va ancora aggiunto che al primo ordine si conviene in generale di considerare l'identità come un predicato costante il cui comportamento è regolato da opportuni assiomi (di solito 2). È quindi ormai uso comune inserire tale predicato (e gli assiomi relativi) nella parte logica di una teoria: si parla allora, in questo caso, di teorie con identità o di teorie elementari. 2 Ovviamente facciamo l'ipotesi di aver stabilito il linguaggio in modo tale da poter esprimere, e in modo sensato, ossia come formule, gli assiomi precedenti. Intuitivamente, « s (x) » va letto come « successore di x », gli altri segni sono intesi nel loro significato usuale. 2. I afferma allora che o non è successore di alcun numero;
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La logica nel ventesimo secolo (r)
Tanto nei Grundziige quanto nella conferenza di Bologna del I927, Hilbert porrà (in linea con l'aspirazione di Post) in modo esplicito il problema della completezza semantica per la logica dei prediçati (è ogni formula predicativa logicamente valida derivabile sintatticamente nel corrispondente sistema formale?) e quello della completezza sintattica per l'aritmetica (presa una qualunque formula chiusa d della teoria dei numeri si ha ~d oppure ry---, d nel sistema formale?). La risposta a entrambe queste domande verrà data solo qualche anno dopo, agli inizi del trenta, da Kurt Godei e avrà come vedremo ripercussioni catastrofiche per il programma hilbertiano, che prenderemo in considerazione nel paragrafo III+ L'altro aspetto della «rottura» cui si accennava si ha con le cosiddette logiche «non classiche». In questo caso da una parte si ritiene (con Lewis) che il linguaggio dei Principia (anche al solo livello proposizionale, che è l'unico preso in considerazione da questo autore) sia ineliminabilmente troppo povero e grossolano per esprimere le reali connessioni inferenziali; in particolare, il connettivo di implicazione materiale non rende in modo compiuto e soddisfacente la relazione di deducibilità: occorrono connettivi «più potenti». D'altra parte si ritiene che il concetto di verità classico, tradizionalmente bivalente, sia troppo rigido, come accennavamo, per tradurre tutta una serie di situazioni reali: i connettivi abbisognano di interpretazioni diverse e più sfumate. Si vedrà peraltro che questi due aspetti sono fra loro intimamente connessi, come del resto è facile intuire. Cominciamo con la logica modale di Lewis, il cui primo sistema viene presentato come dicevamo nel ' I 8 (ma la sistemazione viene criticata da Post che vi scoprì un errore) e quindi in forma definitiva nel '3 2 in Symbolic Logic (Logica simbolica) scritto da Lewis in collaborazione con Cooper Harold Langford (I 89 5I 96 5). Va notato che lo sviluppo di questo aspetto della logica, che come vedremo è uno dei tratti caratteristici della ricerca degli ultimi decenni, lungi dall'essere un fenomeno tipico e originale del periodo che stiamo qui considerando, in effetti riprende dopo secoli di abbandono una tradizione profondamente radicata nella logica antica e medioevale. Prima dell'inizio dell'era moderna non era mai venuta meno la convinzione che lo studio delle nozioni modali -necessario, possibile, contingente, impossibile - rientrasse a pieno diritto nell'ambito della logica. Anzi la prima trattazione sistematica delle modalità si ritrova, accanto alla logica 2.2 che se due numeri hanno successori uguali sono uguali; 2.4 e 2.5 definiscono induttivamente le operazioni di somma e prodotto; 2.3, infine, esprime l'assioma di induzione ossia afferma che se o gode della proprietà espressa da una certa formula .9/ e se per un qualunque numero, se esso gode di quella proprietà anche il suo successore ne gode, allora tutti i numeri godono di quella proprietà. Si noti che 2.3 non è un assioma bensì uno schema (metalinguistico) di assiomi, dal
quale cioè si possono ricavare infiniti assiomi sostituendo ad .9/ (variabile metalinguistica) una qualunque formula con una variabile libera del linguaggio. 2.3 non esprime completamente il contenuto del principio di induzione; per farlo dovrebbe essere esteso a tutte le proprietà (e non solo a quelle esprimibili nel nostro linguaggio) ma sappiamo che per poter esprimere ciò occorrerebbe passare al secondo ordine. Riprenderemo più avanti la questione.
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degli enunc1at1 categorici, nell'Organon aristotelico. Va osservato tuttavia che nell'opera di Aristotele, in cui viene sviluppata una teoria notevolmente matura e articolata del sillogismo modale, manca una definizione rigorosa e univocamente determinata delle nozioni modali fondamentali. Negli Analitici infatti Aristotele sembra intendere il possibile come « ciò che non è né necessariamente falso né necessariamente vero », mentre nel De interpretatione propende per la definizione del possibile come « ciò che non è necessariamente falso ». Questa seconda accezione è quella ereditata da Teofrasto, suo successore alla direzione del Liceo, e con lui da tutta la logica successiva. A partire da Teofrasto i rapporti di interrelazione tra le modalità si possono esprimere mediante un quadrato di opposizioni così costruito : Necessario ( D p) Impossibile (-, O P)
C><J
Possibile ( O p) Contingente (-, D p) 1 e mediante le definizioni: DP =-, O -,p e O P = -, D-, p. Ma già la corretta « lettura » degli enunciati modali presenta dei problemi. Per usare la terminologia dei medioevali, le modalità si possono intendere come modalità de dicto o sensu composito oppure come modalità de re o sensu diviso: nel primo caso la modalità viene intesa come attributo di un enunciato (ad esempio « 'Socrate corre' è possibile») mentre nel secondo caso è intesa come modo della predicazione, ossia dell'attribuzione di un predicato al soggetto (« Socrate è possibile che corra »). Secondo Oskar Becker e secondo Innocenza Bochenski, Aristotele intende le modalità come modalità de re. La questione del rapporto fra i due tipi di modalità non era comunque oggetto di discussione tanto nell'antichità quanto nel medioevo cristiano, in cui continuava ad esser viva e operante la distinzione tra enunciati modali ed enunciati de inesse o de puro inesse (ossia categorici). Analisi ragguardevoli delle modalità si ritrovano in Pietro Ispano, Abelardo, Alberto Magno e nell'opuscolo De modalibus propositionibus attribuito a S. Tommaso. La logica araba del medioevo è pure interessata alle modalità ma con sfumature diverse, che derivano dall'eredità dei megarici e degli stoici e dalla loro tendenza a legare le modalità allo studio del tempo (in questo atteggiamento interviene anche l'interesse per i problemi del fatalismo e della r La definizione qui adottata del contingente è più comprensiva della definizione, pure di uso corrente, secondo cui una proposizione è contingente quando per stabilire la sua verità o falsità è decisiva l'esperienza (e pertanto quando non è né necessaria né impossibile: --, O p/\
1\ --,O p). Nella logica antica e medioevale la nozione era ancora più equivoca: molto spesso il contingente veniva identificato con il possibile, o viceversa. Secondo Bochenski questa confusione si ritrova anche in Teofrasto.
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predestinazione: per il fatalista ciò che accade accade necessariamente, e cioè P~
o p).
Questa tradizione si esaurisce con l'era moderna. Le modalità cessano di essere di competenza della logica e passano nell'area della filosofia: i modi della predicazione (così sono ormai considerate le modalità) non riguardano tanto le proposizioni quanto i giudizi, considerati come gli atti mentali che vengono espressi nella proposizione. Questo modo di intendere le modalità trova la sua espressione più caratteristica nell'Analitica trascendentale kantiana, in cui le modalità. compaiono come categorie dell'intelletto dedotte appunto dalla tavola dei giudizi. La circostanza più interessante dal punto di vista storico non è però l'abbandono della tradizione logico-modale nell'era moderna, quanto piuttosto il fatto che la logica formale del xrx secolo e gli stessi Principia mathematica nascono ignorando completamente le modalità e persino il problema di una loro eventuale collocazione nell'ambito della logica. E la cosa può risultare tanto più sorprendente quando si pensi che non mancavano gli strumenti, in particolare a partire dall'algebra delle classi di Boole (e quindi di Schroder) per la fondazione di una logica delle modalità. Senza addentrarci nella questione, notiamo che la cosa dipende, nel caso ad esempio della sistemazione logicista, e dall'aver ammesso una rigida semantica proposizionale, per cui ogni proposizione, estensionalmente, può solo interpretarsi o come vera o come falsa (e non ad esempio come talora vera e talora falsa ossia come possibile) e nell'aver introdotto su questa base i connettivi logici, in particolare l'implicazione materiale, come funzioni di verità ancora considerate estensionalmente. L'eco di questi problemi si ritrova nelle due opere citate che segnano la nascita- o la rinascita- della logica modale contemporanea, e cioè il Survry di Lewis e la Symbolic logic di Lewis e Langford. Il bersaglio polemico diretto di Lewis non era però tanto il «dogma» della bivalenza, quanto l'implicazione materiale di Russell; egli infatti si propone di «sviluppare un calcolo proposizionale che non è ristretto a relazioni estensionali o materiali... ed è basato su una relazione di implicazione che non ha queste proprietà peculiari». Le «proprietà peculiari» alle quali allude Lewis sono i cosiddetti paradossi dell'implicazione materiale che si ricavano direttamente dalla sua stessa definizione e possono esprimersi dicendo che una proposizione vera è implicata da qualunque proposizione [P~ (q~ p)] o che una proposizione falsa implica qualunque proposizione [-,p~ (p,-+ q)] o, ancora, èhe di due qualunque enunciati p e q uno implica sempre l'altro o viceversa. Inoltre, se con Lewis si definisce «P è consistente con q» come «p non implica la falsità di q» [-,(P~-, q)] e «q è indipendente da p» come «p non implica q» [-,(P~ q)], allora in termini di implicazione materiale due (o un numero finito di) proposizioni qualunque (in particolare: un sistema di assiomi per il calcolo proposizionale) non possono
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mai essere contemporaneamente consistenti e indipendenti. (Si noti che ciò significa che se si interpretasse la relazione di implicazione materiale come relazione di deducibilità, non avrebbe senso richiedere contemporaneamente l'indipendenza e la consistenza degli assiomi.) Ora, secondo Lewis, ciò deriva dall'aver limitato lo studio della logica al momento estensionale trascurando le relazioni intensionali (ossia di contenuto) fra le proposizioni, sicché « è particolarmente desiderabile che la logica delle proposizioni sia sviluppata in modo tale che venga incluso il significato usuale di " implica ", che è intensionale ». Egli vuol quindi sviluppare un calcolo basato su un significato di « implica » in modo tale che «"p implica q" sia sinonimo con "q è deducibile da p"». Orbene, Lewis si propone appunto, col suo calcolo, di essere aderente al significato usuale di « implica » che includa fra le sue proprietà la relazione di consistenza come sopra definita. Ora secondo Lewis q è deducibile da p non quando «P___, q» è vera bensì quando essa è necessariamente vera ossia quando è una tautologia del sistema, o ancora quando è impossibile che sia falsa. Il sistema della deducibilità introdotto da Lewis era quindi destinato a essere anche un sistema delle modalità logiche. In esso, in luogo dell'implicazione materiale compare la relazione di deducibilità sotto forma di una «implicazione stretta» rappresentata dal simbolo « ~ » e che in termini di implicazione materiale può definirsi come segue
p
~q =
---,
o (p 1\ ---,q)
ossia
o(p___,q)
(dove il segno O sta per « possibile » e il segno D per « necessario »). La teoria dell'implicazione materiale si ricava come sottosistema del sistema dell'implicazione stretta, senza che sia possibile identificare le due relazioni in quanto mentre è possibile dimostrare (p ~q) ~(p ____,q) non è invece derivabile come teorema l'affermazione inversa (p ____,q) ~(p ~q). Lo stesso vale per gli altri quattro sistemi, via via deduttivamente più forti, che Lewis costruisce sulla base del primo aggiungendo come assiomi enunciati che, per quanto plausibili intuitivamente, non sono derivabili nel sistema iniziale. Se, con Lewis, identifichiamo con Sr il sistema di base in cui vengono canonizzati «gli stretti principi dell'inferenza deduttiva», gli altri sistemi (Sz-S5) si presentano come specificazioni ottenute dal sistema originale mediante la postulazione di ulteriori proprietà della relazione d'implicazione. Queste proprietà non risultano dalla pura nozione di inferenza deduttiva, ma riflettono situazioni generali che possono presentarsi in casi specifici. Abbiamo così la tavola seguente, in cui si dà il sistema Sr e vengono schematizzati i rapporti tra i vari sistemi: Assiomi di Sr I. (p 1\ q) ~(q 1\ p) z. (P/\ q) ~p 3· P ~(P/\ P)
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((p 1\ q) 1\ r) ---?. (p 1\ (q 1\ r)) ((p ---?. q) 1\ (q ---?. r)) ---?.(p ---?. r) 6. (p 1\ (p -?, q)) -?, q l Naturalmente al sistema sono associate delle regole che possono ad esempio essere: una regola di sostituzione (del tutto analoga a quella data nel caso del calcolo classico); una regola di sostituzione di equivalenti stretti (sostituendo a una sottoformula di un teorema una formula ad essa strettamente equivalente si ottiene ancora un teorema); una regola di aggiunzione (se due formule sono teoremi anche la loro congiunzione è un teorema); una regola di separazione del tutto analoga a quella classica (riferita però qui, ovviamente, all'implicazione stretta). Si ha allora Sr _____. Sz (= Sr + O(P/\ q)---?. OP) Sz _____. S3 ( = Sr +(p ---?.q) ---?. ( 0 P ---?. 0 q)) S3 _____. S4 ( = Sr + 0 0 p ---?. 0 p) S4 _____. S5 (= Sr +O p---?. D O p) dove la freccia indica che il sistema a destra è deduttivamente più forte di quello a sinistra e il simbolo « + » sta a indicare che il sistema in questione si ottiene da Sr con l'aggiunta degli assiomi indicati. Fatto importante, i sistemi sono distinti e gli assiomi « supplementari » risultano quindi indipendenti dal sistema base, cosicché rappresentano, come nell'intenzione, genuine specificazioni ulteriori delle proprietà della relazione di implicazione; che tipo di specificazioni in particolare non è immediato vedere considerando solamente gli assiomi. Il loro significato semantico non è chiaro intuitivamente e questo spiega come Lewis (e il suo allievo William Thutwill Parry cui si deve la prima analisi dettagliata dei mutui rapporti fra i sistemi) fosse costretto, per ottenere le menzionate dimostrazioni di indipendenza, a ricorrere all'uso di «tavole di verità» con più di due valori di verità (matrici) per i singoli connettivi, costruite ad hoc, caso per caso. L'esigenza dei singoli assiomi aggiuntivi era così frutto, più che di considerazioni semantiche sistematiche, di analisi di carattere tutto sommato « sperimentale ». Il problema di un'analisi semantica completa dei sistemi modali Sr-S5 rimarrà l'ostacolo più grave alla diffusione delle idee di Lewis e la ragione principale di una loro « subordinazione »alla nascente logica polivalente. Ancora la logica modale è infatti la motivazione diretta e più immediata da cui prende le mosse Jan Lukasiewicz ( 1878-1956) per l'introduzione delle logiche polivalenti, la cui prima apparizione risale a una brevissima memoria (una pagina) da lui presentata nel 1920, Sulla logica trivalente. In questa occasione egli motiva la cosa in termini generali, in quanto ritiene che la logica trivalente che ivi presenta abbia soprattutto impor4· 5.
I Gli altri connettivi devono pensarsi introdotti per definizione a partire da ---, , (\ e O come segue (ex V ~) = ---, (---, ex l\ ---, ~); (ex --s ~)
=
---,
l\ (~
O
(ex l\ ---, ~) O ex = ---,
---s ex);
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ex == ~ ex.
O ---,
=
(ex
---s
~) l\
La logica-nel ventesimo secolo (r)
tanza teoretica come invito a costruire un sistema di logica non aristotelica (pi tardi preferirà suggerire il nome non crisippea). « Se questo nuovo sistema c logica abbia importanza pratica, » prosegue, « si vedrà solo quando i fenomer logici, in particolare quelli delle scienze deduttive, saranno esaminati più a fond e quando le conseguenze della filosofia indeterministica, che è il substrato scier: tifico della nuova logica, potranno essere confrontate con i dati empirici. Successivamente restringe queste motivazioni in termini più precisi, affermand, ad esempio che « il sistema di logica trivalente deve la sua origine a certe ricerch da me condotte sulle cosiddette proposizioni modali e sulle nozioni di possibi lità e necessità strettamente connesse ad esse », fino ad affermare decisamente « ... come fondatore dei sistemi di logica proposizionale polivalenti affermo eh teoricamente questi sistemi non sono stati sviluppati sulla base del convenzio nalismo o relativismo, ma sono emersi da ricerche logiche relative alle proposi zioni modali e ai concetti annessi di possibilità e necessità ». 1 Lukasiewicz prende quindi le mosse dalla considerazione delle proposi zioni modali « È possibile che p», che egli simbolizza con Mp, « Non è passi bile che p» (NMp) «È possibile che non p» (MNp) e «Non è possibile eh non p» (ossia è necessario che p, NMNp). 2 Ora egli nota tre proposizioni mo dali direttamente derivate da principi classici della modalità 3 altamente plau sibili da un punto di vista intuitivo, e che tuttavia portano, se interpretate clas sicamente, a risultati « spiacevoli » o addirittura a contraddizioni. Tali proposi zioni sono: I. Se non è possibile che p, allora non p:--, p-+-, p [CNMpNp] II. Se si suppone che non p, allora (sotto questa ipotesi) non è possibil che p: --,P-+--, p [CNpNMp] III. Per qualche p: è possibile che p ed è possibile che non p: 3 p (p l /\ ~, oc +-> ~, Luk~ siewicz scriveva rispettivamente N<X, Koc~ A<X~, Coc~, Eoc~. E ad esempio una formul quale (<X->,~)->(-, y+->a) viene resa in not~ zione polacca come CCocN~ENya. Per cc modità del lettore noi renderemo le formule nell nostra abituale notazione, indicando semmai ancJ. la notazione polacca. 3 Ad esempio, Ab oportere ad esse vah consequentia; A esse ad posse vale t consequentia; c per contrapposizione da quest'ultima, Ab no posse ad non esse va/et consequentia.
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l teoremi II e III hanno conseguenze « non piacevoli »; ad esempio dal secondo si può ricavare «se è possibile p allora p» (se è possibile che il paziente muoia allora muore), dal III si può derivare un teorema secondo il quale ogni proposizione è possibile (con risultati del tipo « è possibile che 2 sia primo » e «è possibile che 2 non sia primo»). Ma si giunge addirittura a contraddizione considerando congiuntamente le proposizioni II e III. Infatti, utilizzando le conseguenze prima dette dei due teoremi si ha per separazione
0P-7P OP -·-----
p
ossia si ottiene semplicemente p; ogni proposizione risulterebbe così essere un teorema il che come sappiamo è un possibile modo per esprimere la contraddizione di un sistema proposizionale. Ora queste leggi conducono a contraddizione solo se sono interpretate in un sistema di logica classica ove si assuma la bivalenza delle proposizioni, ove cioè si assuma che una proposizione possa avere come valore soltanto il V ero o il Falso. Lukasiewicz introduce allora una logica trivalente e sulla base della definizione O p = --,p---+ p [M p = CNpp] (dovuta all'allora suo allievo Alfred Tarski) riesce a far vedere che « tutti i tradizionali teoremi della logica proposizionale modale possono essere stabilitì senza contraddizione nel calcolo proposizionale trivalente ». Va notato però che in questo modo, differentemente da Lewis e dai suoi sistemi SI -S 5, la logica modale veniva a presentarsi come un sottosistema di quella classica e quindi non come una sua generalizzazione. Se così Lukasiewicz riusciva a dare un'analisi semantica precisa della nozione di sistema modale, era solo a patto di una rinuncia; proprio quella rinuncia che Lewis non era disposto a fare e che lo spingeva a ritenere che l'approccio polivalente di Lukasiewicz non fosse in grado di fornire una risposta soddisfacente al problema della caratterizzazione generale della nozione di inferenza deduttiva. Sarà solo molto più tardi, verso il 1959, che ottenendo una semantica adeguata la logica modale riuscirà a svincolarsi dalle limitazioni che la logica polivalente le imponeva, e a presentarsi in modo autonomo. Va tuttavia considerato il fatto che- come si è visto- l'orizzonte nel quale si pone Lukasiewicz è estremamente vasto, legato com'è, in fondo, al problema del determinismo e del libero arbitrio; e la costruzione di queste nuove logiche polivalenti gli sembra offrire una soluzione a quella « costrizione razionale » cui è sottoposta la scienza fondata « sulla logica aristotelica». « Questa nuova logica,» afferma infatti Lukasiewicz, «introducendo il concetto di possibilità oggettiva, distrugge il vecchio concetto di scienza basata sulla necessità. I fenomeni possibili non hanno cause, per quanto essi stessi possano essere l'inizio di una catena causale. L'atto di un individuo creativo può essere libero e al tempo 268
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stesso influenzare il corso del mondo. La possibilità di costruire sistemi logici diversi mostra che la logica non è ristretta alla riproduzione dei fatti ma è un libero prodotto dell'uomo come un'opera d'arte. La coercizione logica si dissolve proprio alla sua sorgente. » A parte comunque questo riferimento filosofico per così dire « tradizionale », Lukasiewicz e tutta una schiera di collaboratori - fra i quali vanno ricordati almeno Adolf Lindenbaum (1904-1941), Alfred Tarski (n. 1902) e Mordchaj Wajsberg (1905-1941)- generalizza e sistematizza fra il 1920 e il 1930 i risultati sulle logiche polivalenti, che vengono fra l'altro presentati in un articolo del 1930, a firma di Tarski e Lukasiewicz, dal titolo Untersuchungen iiber den Aussagenkalkiil (Ricerche sul calcolo proposizionale). Qui vengono considerate logiche Ln a un numero finito qualunque o infinito numera bile di valori (ossia per n uguale a un numero naturale qualunque o n = ~ 0), dando formule generali per le tavole di verità dei connettivi di implicazione e negazione. Ma al di là di questi risultati relativi alle logiche polivalenti (che abbiamo richiamato per chiudere in certo qual modo il discorso) quello che è caratteristico di questo articolo è l'impostazione di tipo metamatematico, o meglio metalogico, che riflette l'indirizzo di ricerche di un decennio della cosiddetta scuola polacca 1 orientate verso lo studio globale « della più semplice disciplina deduttiva, il calcolo proposizionale ». r Si dovrebbe in realtà parlare di due scuole logiche polacche, con caratteristiche e tendenze assai diverse fra loro, e che fanno capo rispettivamente e originariamente alle università di Cracovia e a quella di Leopoli (le uniche università polacche sotto la dominazione asburgica). La matrice della scuola di Cracovia è nettamente scientifica (matematica) e sembra doversi far risalire all'attività di Jan Sleszynski e quindi del fisico Stanislaw Zaremba, dei quali fu allievo quel Leon Chwistek di cui si è già ampiamente parlato, a proposito della sua proposta di « revisione » della teoria ramificata dei Principia, con la sostituzione ad essa della teoria semplice dei tipi. Allievi di Chwistek furono W. Hepter e J. Herzberg (massacrati, come molti altri studiosi polacchi dell'epoca, dai nazisti) che diedero a loro volta notevolissimi contributi a quello che John Myhill (n. 1923) chiama« il più importante tentativo mai compiuto per stabilire la non contraddittorietà della matematica». La scuola di Leopoli viceversa (che verrà poi detta di Leopoli-Varsavia perché alcuni dei suoi maggiori rappresentanti si trasferiranno appunto a Varsavia) ha matrice nettamente filosofica e può farsi risalire all'attività di Kasimierz Twardowski (r886-1938) il quale, pur non essendo professionalmente un logico, a partire dal 1895 preparò col suo insegnamento «la base per lo sviluppo futuro in senso logico, abituando i suoi numerosi allievi all'uso del metodo
scientifico in filosofia, istillando nelle loro menti un grande rispetto per il pensiero chiaro e per la precisione espressiva e in generale fecondando il pensiero filosofico coi risultati di un abito intellettuale scientifico» (Jordan). Dal 1906 si affianca a Twardowski il giovane allievo Lukasiewicz che già nel 1910 pubblica l'articolo Il principio di non contraddizione in Aristotele, impostato secondo lo stile delle moderne ricerche di logica, malgrado il vero e proprio inizio delle ricerche sistematiche in questa direzione vada posto, secondo Zbigniew A. Jordan, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e abbia come sua prima fase uno studio approfondito dei Principia mathematica: nel 1927 Zygmund Zawirski pubblica in Il rapporto fra logica e matematica alla luce delle ricerche moderne un riassunto del manifesto logicista. Fra gli allievi di Lukasiewicz della prima generazione vanno ricordati almeno Tadeusz Kotarbinski (n. r886) e Kazimierz Ajdukiewicz (r89o-r963). Nel 1912 giunge a Leopoli Stanislaw Lesniewski (18861939) che qui si accosta alla problematica della logica moderna. Nel 1915 Lukasiewicz si trasferisce a Varsavia dove viene raggiunto, dopo la seconda guerra mondiale, da Le8niewski. I due diventano gli ispiratori indiscussi della scuola logica di Varsavia, alla quale appartengono appunto, fra gli altri, Tarski (che diventa docente nel 1926) e quindi Lindenbaum, Wajsberg ecc.
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Questa tendenza alla considerazione metamatematica delle teorie nasce in Lukasiewicz e per motivi filosofici precisi; con l'apporto dei suoi collaboratori, in particolare di Tarski, formatosi in un mondo matematico in cui campeggia Waclaw Sierpinski e che «ha assorbito sino in fondo quell'atteggiamento insiemistico infinitario che caratterizza quell'ambiente e si esprime nei " Fundamenta mathematicae ", il discorso tende ben presto ad allargarsi» (Casari). Nell'ambito cioè della costituzione di una « metascienza » generalizzata, ossia non più limitata alla logica proposizionale e con il massimo impiego di metodi insiemistici infinitari, questo indirizzo troverà negli anni trenta il suo naturale sbocco nella sistemazione della semantica tarskiana (si veda il paragrafo Iv), e, quindi, negli anni cinquanta, nella teoria dei modelli (si veda il paragrafo v). z) Le critiche al sistema di Zermelo. Proposte alternative Nel paragrafo 11.2 abbiamo presentato in modo informale il sistema assiomatico con cui Zermelo riteneva di poter ricostruire la teoria cantoriana degli insiemi evitando nel contempo le antinomie. Avevamo anche accennato a quelle che erano state le considerazioni di Zermelo sulla consistenza e sull'indipendenza del proprio sistema di assiomi. Vogliamo ora riferire sui risultati del complesso e assiduo lavoro di rielaborazione critica del sistema zermeliano che ha luogo in modo decisivo proprio nel decennio che stiamo qui considerando. Va detto subito che nulla di più di quanto affermato da Zermelo si ottiene relativamente alla coerenza del sistema: anche nell'ambito delle rinnovate riflessioni dei vari autori di questo periodo non si ricostruiscono cioè nel sistema le note antinomie, ma non si guadagna in alcun senso un qualche contributo alla certezza della sua supposta coerenza. Non molto significativi anche i risultati riguardanti l'indipendenza: Fraenkel dimostra nel 1922, nell'articolo Zu den Grundlagen der Cantor-Zermeloschen Mengenlehre (Sui fondamenti della teoria degli insiemi di Cantor-Zermelo) che l'assioma zermeliano degli insiemi elementari può essere «ridotto» nel senso che basta postulare l'esistenza dell'insieme coppia fx, yJ per gli elementi x ey distinti in quanto poi da questa assunzione, assieme con gli assiomi di isolamento, di potenza e di estensionalità, si può derivare l'esistenza dell'insieme vuoto e dell'insieme unità fx} per ogni elemento x. Contributi significativi vengono invece dati alla struttura stessa della teoria soprattutto ad opera di Skolem, Fraenkel e von Neumann sulla base di precise critiche che ora vedremo; quest'ultimo inoltre presenta una versione alternativa che funge da punto di partenza per tutto un nuovo modo di vedere la teoria degli insiemi, e che negli anni trenta troverà eco soprattutto in Bernays e Godel. Le critiche alla edificazione della teoria così come l'aveva presentata Zermelo sono sostanzialmente di due tipi: I) da un lato vengono messe in evidenza lacune di tipo metodologicofilosofico riguardanti il concetto imprecisato di « proprietà definita » (che come
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La logica nel ventesimo secolo (I)
si ricorderà interveniva nell'assioma di isolamento di Zermelo) e la piattaforma antologica assunta da Zermelo stesso come riferimento generale della propria teoria; 2) d'altro lato sono evidenziate certe «debolezze» riscontrate nel sistema zermeliano che si concretizzano in due aspetti tra loro in certo senso opposti: da una parte infatti il sistema di Zermelo non permette di assicurare l'esistenza di determinati assiomi che si dimostrano indispensabili per una ricostruzione quanto più possibile completa della teoria di Cantar; dall'altra, viceversa, esso non consente di escludere l'esistenza di altri insiemi per così dire altamente indesiderabili, ancora in riferimento al modello intuitivo cantoriano. Cominciamo dal primo tipo di obiezioni. Il concetto di « proprietà definita », si ricorderà, era stato introdotto da Zermelo per eliminare quelle antinomie che (come vedremo nelle prossime pagine; ma si ricordi il paragrafo r) oggi chiamiamo, seguendo Ramsey, linguistiche (mentre per evitare le antinomie logiche era sufficiente la « relativizzazione »della comprensione). È chiaro che la stessa vaghezza del concetto non permetteva una esaustiva ispezione di tutte le eventuali proprietà allo scopo di determinare se esse fossero o meno « definite ». Si imponeva quindi una precisazione del concetto di « proprietà definita » e tale chiarificazione e precisazione venne intrapresa da Skolem e da Fraenkel indipendentemente l'uno dall'altro nei primissimi anni del venti. La soluzione di Fraenkel viene presentata brevemente nell'articolo del I922 Der Begriff « definit » und die Unabhangigkeit des Auswahlaxioms (Il concetto «definito» e l'indipendenza dell'assioma di scelta) e più estesamente nell'articolo Untersuchttngen iiber die Grundlagen der Mengenlehre (Ricerche sui fondamenti della teoria degli insiemi) del I 92 5. Il suo metodo, che consiste nel precisare il concetto di definitezza attraverso un particolare impiego della nozione di funzione, è alquanto complicato e non è stato mantenuto nell'uso; il metodo invece che poi è stato universalmente accettato risale a Skolem, che lo presenta in un importantissimo articolo del I 922: 1 Einige I Questo articolo di Skolem è in effetti estremamente ricco di profonde osservazioni e sulla problematica della teoria degli insiemi in particolare e sul metodo assiomatico in generale. In esso infatti Skolem discute i seguenti 8 punti: I) istituendo una teoria assiomatica degli insiemi Zermelo si fonda sul concetto di dominio, il che comporta inevitabilmente una certa circolarità; z) la questione della « proprietà definita » di cui si riferisce nel testo; 3) il fatto che in ogni assiomatizzazione della teoria degli insiemi le nozioni insiemistiche assumono in modo inevitabile un carattere ?i relatività (Skolem considera questo il punto più Interessante del suo lavoro - è infatti la prima enunciazione del cosiddetto « relativismo » di Skolem - e lo fonda sul teorema di Lowenheim del quale, come già detto, parleremo nel paragrafo IV); 4) il fatto che il sistema di Zermelo non è sufficiente ad assicurare una soddisfacente fon-
dazione per la teoria cantoriana, il che porta all'enunciazione dell'assioma di rimpiazzamento visto nel testo; 5) il problema delle definizioni non predicative in rapporto alla questione della dimostrazione di consistenza degli assiomi della teoria degli insiemi; 6) il problema della non univoca determinazione del dominio B da parte degli assiomi di Zermelo (anche questo punto è assai importante perché sulla base delle argomentazioni in esso condotte, Skolem avanza in nota la congettura che sia impossibile decidere certe proposizioni, in particolare quella esprimente l'ipotesi (ristretta) del continuo cantoriana); 7) la necessità dell'impiego dell'induzione matematica per «l'indagine logica di sistemi di assiomi dati astrattamente » in particolare relativamente alla loro coerenza (è in questa occasione che Skolem sostiene l'insufficienza delle argomentazioni di Hilbert contro le obiezioni di Poincaré); 8) il
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La logica nel ventesimo secolo (1)
Bemerkungen zur axiomatischen Begriindung der )IJ.engenlehre (Alcune osservazioni sulla fondazione assiomatica della teoria degli insiemi). Il metodo di Skolem è estremamente semplice e lineare e interviene intrinsecamente, per così dire, nella natura stessa della difficoltà che con l'introduzione del concetto di «proprietà definita» Zermelo voleva evitare. Esso consiste essenzialmente nel pensare precisato il linguaggio logico e specifico della teoria degli insiemi e nell'assumere quindi che siano linguisticamente proprietà definite certe particolari espressioni costruibili per mezzo di tale linguaggio. Più precisamente, Skolem immagina la teoria degli insiemi formalizzata in un linguaggio predicativo del primo ordine con identità, le cui costanti (operazioni) logiche siano r) la congiunzione indicata con giustapposizione, 2) la disgiunzione indicata con V ; 3) la negazione, indicata con --,; 4) la quantificazione universale, indicata con V; 5) la quantificazione esistenziale indicata con 3 1 e che abbia come costanti descrittive il solo simbolo E ; allora «per proposizione definita intendiamo ora un'espressione finita costruita da proposizioni elementari della forma a E b e a = b per mezzo delle cinque operazioni menzionate », in altri termini, una qualunque formula del linguaggio precisato come sopra. Si noti che inserito così nel linguaggio l'assioma di isolamento, questi cessa di essere un assioma per diventare uno schema di assiomi, vale a dire una prescrizione metalinguistica in virtù della quale una infinità di espressioni - e precisamente tutte quelle aventi le caratteristiche strutturali descritte dallo schema- vengono dichiarate assiomi. La seconda obiezione del primo tipo viene sollevata da Fraenkel nel primo degli articoli del 1922 sopra menzionati. Dice Fraenkel che « ... tra le" cose" del " dominio B '' dalle quali traggono la loro esistenza gli insiemi in virtù degli assiomi, possono trovarsene anche di origine non matematica ·o addirittura di origine non concettuale. Tale caratteristica è inutile dal punto di vista dell'edificazione della matematica e almeno da questo punto di vista, va quindi riguardata come in soddisfacente». Fraenkel cioè rimprovera a Zermelo l'eccessiva liberalità con cui ritiene che sia nello spirito cantoriano l'ammettere «cose qualunque » come entità di partenza dalle quali dovrebbero poi costituirsi gli insiemi grazie agli assiomi. Ora Fraenkel osserva che l'unica caratteristica che da un punto di vista logico va richiesta alle entità fondamentali è quella di essere costituite in modo tale da non ammettere elementi, ossia chè nessun'altra entità del dominio sia loro elemento. D'altra parte l'insieme vuoto gode proprio di questa senso dell'assunzione del principio di scelta fra gli assiomi, che lo porta a giustificare quei matematici che eventualmente non lo accettano, sulla base del fatto che la maggior parte dei matematici desidera in fin dei conti che la loro scienza « tratti con operazioni di calcolo effettuabili e non consista di operazioni formali su oggetti chiamati così o cosà ». Skolem sostiene insomma un atteggiamento costruttivo vicino a quello intuizionista.
Molto interessante è infine la conclusione cui Skolem giunge e cioè che non si debba pensare che il metodo assiomatico abbia quelle caratteristiche di assolutezza che molti sembrano accordargli e in particolare che in nessun caso « gli assiomi della teoria degli insiemi costituiscono la fondazione ideale per la matematica ». I Si noti che Skolem impiegava ancora, in questo articolo, la notazione di Schroder.
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La logica nel ventesimo secolo (r)
carattenstlca e quindi Fraenkel propone che l'unica « sostanza» elementare ammessa a livello iniziale sia esattamente l 'insieme vuoto. Ciò viene ottenuto formalmente enunciando l'assioma di estensionalità, che come si :ricorderà Zermelo limitava a insiemi, in modo tale che valga per ogni elemento del dominio. Ne risulta immediatamente che due «cose» qualunque prive di elementi vengono a coincidere fra loro e in particolare ognuna di queste cose coinciderà appunto con l'insieme vuoto. Per quanto :riguarda le obiezioni del secondo tipo, dirette cioè contro i limiti di :ricostruibilità della teoria di Canto:r nel quadro ze:rmeliano, esse si concretavano sostanzialmente nelle seguenti osservazioni. Da una parte nel sistema di Ze:rmelo non era dimostrabile l'esistenza di un insieme quale il seguente M
=
{I, f!J(l), f!J(f!J (l)),
fJJ
(f/J (f/J (!))), ... }
il cui primo elemento I è un insieme infinito la cui esistenza è assicurata dall'assioma dell'infinito e ogni elemento successivo è l'insieme potenza del precedente. Si noti che ognuno degli elementi di M esiste in virtù dell'assioma dell'insieme potenza: quello di cui non si :riesce a dimostrare l'esistenza è proprio M nel suo complesso, considerato come insieme (è abbastanza agevole infatti concludere in 3 dall'esistenza dell'insieme M all'esistenza della classe totale). Sotto opportune ipotesi questa situazione comporta per così dire l'impossibilità di considerare cardinali sufficientemente grandi e desiderabili ovviamente in una teoria del transfinito che voglia essere una :riproduzione fedele della teoria cantoriana. Pe:r rimediare questa deficienza Skolem propose, nell'articolo del '22 sopra citato, il cosiddetto assioma di ritnpiazzamento (o di regolarità o di sostituzione) che da allora è divenuto un'assunzione canonica nella teoria degli insiemi. Tale assioma afferma nella sua sostanza che se si ha un insieme a e una funzione f definita su a, allora esiste un insieme a' di tutti e soli i valori di f per argomenti tratti da a; o in altri termini, se il dominio di una funzione è un insieme tale è anche il suo codominio. Nello stesso periodo Fraenkel in almeno tre articoli: Uber die Zermelosche Begriindung der Mengenlehre (Sulla fondazione zermeliana della teoria degli insiemi, I 92 I), Axiomatische Begriindung der transftniten Kardinalzahlen I (Fondazione assiomatica dei numeri cardinali transftniti, l, I922) e nell'articolo del I922 citato a pag. 270, proponeva una soluzione analoga a quella di Skolem. L'altra obiezione del secondo tipo riguardava come accennato il fatto che nella teoria di Zermelo non e:ra postulata, è vero, ma neppure era esclusa l'esistenza di insiemi cosiddetti straordinari, segnalati pe:r la prima volta da Dimitry Mirimanoff nel I9I7 in Les antinomies de Russe!! et de Burali-Forti et le problème fondamenta! de la théorie des ensembles (Le antinomie di Russe!! e di Burali-Forti e il problema fondamentale della teoria degli insiemi), caratterizzati dal contenere una catena discendente infinita o un ciclo di insiemi legati dalla :relazione di apparte-
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nenza. Se a è uno di tali insiemi si avrà ad esempio che esistono infiniti insiemi a1 , a 2 , .. • tali che
Per superare tale difficoltà, dopo vari infruttuosi tentativi di Fraenkel, legati al problema più generale della categoricità della teoria degli insiemi, nel 1928, in Ober die Deftnition durch transftnite Induktion und verwandte Fragen der allgemeinen Mengenlehre (Sulla definizione per induzione transftnita e questioni connesse della teoria generale degli insiemi) e in Die Axiomatisierung der Mengenlehre (L'assiomatizzazione della teoria degli insiemi), von Neumann propose di aggiungere un assioma, detto assioma di fondazione (o anche principio di restrizione, o assioma del regresso infinito escluso) il quale postula che ogni insieme non vuoto a contiene un elemento d che non ha con a alcun elemento comune. Si vede facilmente che questo esclude il regresso infinito di cui sopra e comporta quindi che i nostri insiemi sono tutti costruiti a partire da elementi base (insieme vuoto o Urelement o altro) mediante applicazione delle operazioni esplicitamente previste dagli assiomi. La « somma » di tutte queste precisazioni, prima fra tutte il riferimento di Skolem al linguaggio del primo ordine, faceva così emergere un ben determinato sistema assiomatico per la teoria degli insiemi, sistema che, almeno fino alla comparsa dei lavori di von Neumann, sarebbe rimasto il punto di riferimento costante per le ricerche nel ramo (e che comunque costituisce ancor oggi uno dei riferimenti standard in teoria degli insiemi). È quindi opportuno per comodità del lettore concludere questo excursus con una presentazione della versione formalizzata di un tale sistema, che indicheremo con la siglia 33'6 (in omaggio ai principali protagonisti della sua costituzione; si noti tuttavia che è ormai invalsa nell'uso la denominazione «sistema 33' » che inspiegabilmente trascura di ricordare gli apporti decisivi di Skolem). Supponiamo di aver stabilito un linguaggio del primo ordine in modo tale che le espressioni che ora daremo (esclusi ovviamente i due schemi presenti nell'elencazione e per i quali valgono le osservazioni precedentemente fatte) risultino formule di quel linguaggio 33'6 I (Assioma di estensionalità)
'l!z (zExf--+ zEy)---+ x= y 33'6z (Assioma dell'insieme-coppia) ---, x= y---+ ::lz 'l! w (wEzf--+ w= x v u; = y) 3 3'6 3 (Assioma dell'insieme-riunione) ::JyyEx---+ ::lz 'l!w (wEz+---> ::Ju (wEu 1\ uEx)) 33'64 (Assioma dell'insieme-potenza) ::Jy 'l!z (zEyf--+ 'lfw (wEz---+ wEx)). 33'65 (Schema d'assiomi di isolamento) 274
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Ogni espressione della forma: 3y Vz (ZEY~ ZEX 1\ 1X(z)) è un assioma purché IX non contenga libera la variabile y. 3666 (AssiotJla di scelta) Vy Vz ((yEx 1\ zEx 1\ ---,y = z)~(3wwEy ;, ---, ::Jw (wEy 1\ wEz)))~3u3y(yEx~3wVv(v = w~vEul\ vEy)).
3667
(Assioma dell'infinito)
3z(Vx(---,3yyEx->xEz)l\ VxVy((xEzl\ Vw(wEy~w= x))~_yEz)).
3668
(Schema d'assiomi di rimpiazzamento) Ogni espressione della forma
\:j_y Vz Vw (IX (.y, z) 1\ IX (y, w)~ z = w)~ ~ 3u Vz (zEu~ 3y (yEx 1\ IX (y, z))) è un assioma purché IX non contenga libere x e u. 3669 (Assioma di fondazione) ~)'v E x~ 3z (zEx 1\ V w (wEz~---, WEX) Vogliamo ora occuparci dell'altra tipica impostazione della teoria assiomatica degli insiemi che nasce in questo periodo ad opera del già tanto citato von Neumann, il quale negli anni venti dedica alla questione almeno sei fondamentali lavori. In uno di questi, del I 92 5, E in e Axiomatisierung der Mengenlehre (Una assiomatizzazione della teoria de,r;li insiemi) egli presenta un nuovo modo di assiomatizzare la teoria che ha notevoli caratteristiche di naturalezza perché evita l'introduzione di alcune condizioni necessarie per il sistema di Zermelo ma tuttavia altamente non intuitive, prima fra tutte il fatto che nella teoria di Zermelo, pena il ricadere nelle contraddizioni, non esiste la classe totale. Von Neumann ottiene questo risultato avendo come sfondo la convinzione che le antinomie non traggano origine dall'assumere l'esistenza di un insieme in corrispondenza ad ogni proprietà, come appunto richiesto dall'assioma di comprensione, bensì dal fatto che tale insieme venga sostanzializzato, che gli si attribuiscano cioè quelle caratteristiche che possono essere riassunte semplicemente dicendo che l'insieme in questione può essere oggetto di predicazione, ossia può figurare come elemento di altre classi, molteplicità, insiemi. Ne viene allora che si potrà ammettere senz'altro l'esistenza di una molteplicità in corrispondenza a ogni proprietà ma che occorrerà successivamente aver cura che non tutte queste molteplicità possano a loro volta essere elementi di altre molteplicità; in termini tecnici più precisi, occorrerà fare una netta e rigorosa distinzione fra quelli che oggi vengono chiamati insiemi e quelle che invece vengono chiamate classi: allora ogni insieme è una classe, ma non tutte le classi sono insiemi.! Nei terr Si noti che così facendo von Neumann riprende sostanzialmente la distinzione cantoriana
fra molteplicità consistenti (insiemi) e molteplicità inconsistenti (classi).
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La logica nel ventesimo secolo (r)
mini che abbiamo sopra impiegato dovrebbe venir naturale esprimere la cosa dicendo che mentre tutti gli insiemi possono essere argomenti di predicazione, ciò non vale per le classi; in termini più generali, esistono delle «cose» che non sono « argomenti ». Si comprende quindi come von Neumann conduca la sua assiomatizzazione in termini di funzioni piuttosto che di insiemi: la prima nozione è infatti abbastanza ampia da includere la seconda; più precisamente si tratta di due concetti del tutto equivalenti, dal momento che una funzione può essere riguardata come un insieme di coppie ordinate, e gli insiemi come funzioni particolari (funzioni caratteristiche) ossia come quelle funzioni che possono assumere due e solo due valori distinti. Afferma von Neumann: «La ragione per cui ci discostiamo dal modo usuale di procedere è che ogni assiomatizzazione della teoria degli insiemi usa la nozione di funzione (assioma di isolamento, assioma di rimpiazzamento ... ) e così è formalmente più semplice basare la nozione di insieme su quella di funzione che non viceversa. » Precisata questa terminologia, von Neumann prende le mosse dalla considerazione di due domini distinti, quello delle funzioni e quello degli argomenti, e si chiede immediatamente: quali funzioni sono nello stesso tempo argomenti? Osservando che qui « funzione » e « argomento » vanno intesi in senso puramente formale, ossia senza che venga loro attribuito uno specifico significato, si può pensare di considerare astrattamente « cose di tipo I » e « cose di tipo II» e chiedersi allora: quali cose sono di tipo I-n? (è chiaro che se ad esempio per « cose di tipo I » intendiamo « argomenti » e per « cose di tipo n » intendiamo « funzioni » porsi la domanda precedente significherà appunto chiedersi: quali funzioni sono anche argomenti? e quindi, per quanto già detto, quali classi sono anche insiemi?) Per rispondere, con von Neumann, a questa fondamentale domanda, fissiamo arbitrariamente un argomento A e conveniamo che una funzione è anche un argomento quando, per così dire « non lo è troppo spesso » ossia quando non si comporta in modo tale da assumere «per troppi argotllenti » un valore diverso da quello prefissato A. Poiché, prosegue von Neumann «un insieme sarà definito come una funzione che può assumere solo due valori, uno dei quali è A, questo è un adattamento ragionevole del punto di vista di Zermelo ». È chiaro che il discorso di von Neumann non fa sostanzialmente che riprodurre, nella nuova terminologia, la constatazione che in un qualche senso (pena cioè il sorgere di antinomie) non possono esistere insietlli «troppo grandi» («funzioni troppo ampie» nella sua terminologia). L'essenziale novità di questa sistemazione è tuttavia duplice: I) esistono cotllunque « cose » troppo grandi (saranno appunto le classi); z) si riesce a « dare una misura » a questo vago concetto di «troppo grande». Un tipico oggetto di questo genere è infatti, ad esempio, la classe totale; orbene von Neumann postula l'esistenza della classe di tutti
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La logica nel ventesimo secolo (I)
gli insiemi 1 e stabilisce con un altro assioma che condizione necessaria e sufficiente affinché una classe non sia un insieme (una funzione non sia argomento, o una cosa di tipo II non sia anche di tipo r, non sia cioè di tipo I-II) è che essa sia rappresentabile sulla classe totale. In termini più usuali, per riassumere, la nostra teoria parla di due tipi di molteplicità: gli insiemi e le classi proprie (o semplicemente classi); ogni insieme è una classe ma non viceversa: una classe è un insieme se e solo se non è rappresentabile sulla classe totale; o ancora una molteplicità è una classe propria se e solo se è equipotente con la classe totale. Sarebbe assai interessante, ma ci sembra fuori luogo in questa sede, discutere e presentare nei particolari il sistema assiomatico di von Neumann; ci limiteremo quindi ad alcune considerazioni generali. Von Neumann costituisce la propria teoria fondandola su sei gruppi di assiomi: I. Assiomi introduttivi (4 assiomi); II. Assiomi aritmetici di costruzione (7 assiomi); III. Assiomi logici di costruzione (3 assiomi); IV. Assiomi delle cose di tipo I-II (z assiomi); V. Assiomi dell'infinito (3 assiomi); VI. Assiomi di «categoricità» (4 assiomi). Il gruppo di assiomi di gran lunga più « potente » e caratteristico del sistema vonneumanniano è il IV; l'assioma IV.r afferma appunto l'esistenza della classe di tutti gli insiemi, mentre il IV.z dà la «misura» di cui sopra si parlava ed è di potenza veramente eccezionale: da esso si possono derivare l'assioma di isolamento, l'assioma di rimpiazzamento e il teorema del buon ordinamento. È lecito dunque, a proposito di un assioma così potente, chiedersi come appunto fa von Neumann se esso non sia eventualmente causa di antinomie. Von Neumann fa vedere che così non è con una serie di considerazioni troppo complesse per essere qui riportate. Va detto tuttavia che centrale in questa dimostrazione è la costruzione di una funzione 1/J, detta appunto 1/J di von Neumann, la quale è così definita sugli ordinali, assumendo come valori insiemi
7/J(o)=0 1/J (a. + r) = 1/J (lim r~-y) = Y EB~ EA) B 7· \t A 3B \tx \ty Vz (<x, rappresenta la coppia ordinata dei due oggetti x e y, ordinata nel senso che in generale < x, y > #
# < y, x>. Inoltre Un (A) che può leggersi come « la classe A è univoca », esprime la caratteristica «funzionale» di una classe di coppie (relazione) ossia significa che se nella classe A sono contenute due coppie ordinate< x,y > e < w, y > aventi la prima componente diversa e la seconda uguale, allora deve risultare x = w.
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La logica nel ventesimo secolo (I)
Alludiamo a Frank Plumpton Ramsey che, come dicevamo, muove una critica « interna » al logicismo ossia, come dichiara esplicitamente nel saggio The Joundations of ntathematics (l fondamenti della matematica) del 192 5, si propone di «fornire un'esposizione soddisfacente dei fondamenti della matematica secondo il metodo generale di Frege, Whitehead e Russell. Seguendo questi autori io sostengo che la matematica è parte della logica, ed appartengo così a quella che si potrebbe chiamare la scuola logicista in contrapposizione alla scuola formalista e a quella intuizionista ». Oltre che per il suo tentativo di riportare il logicismo all'attenzione degli studiosi, Ramsey è quindi interessante anche per la valutazione che egli dà della situazione delle ricerche sui fondamenti di questo decennio. Quando ad esempio riconosce che il logicismo è in declino, è esplicito: « Ho quindi preso i Principia mathematica come base per la discussione e per una revisione; e credo di aver scoperto come, usando l'opera di Ludwig Wittgenstein, li si possa liberare dalle gravi obiezioni che li hanno fatti respingere dalla maggioranza delle autorità tedesche in materia, che hanno abbandonato l 'approccio russelliano ai problemi della logica. » La matematica pura, sostiene Ramsey, può essere riguardata dal punto di vista delle sue idee o concetti o dal punto di vista delle sue proposizioni. Distinzione essenziale dal momento che la grande maggioranza degli studiosi «hanno concentrato l'attenzione sulla spiegazione dell'una o dell'altra di queste categorie supponendo erroneamente che alla soddisfacente spiegazione dell'una sarebbe immediatamente seguita quella dell'altra». Così i formalisti (Hilbert e la sua scuola) hanno concentrato la loro attenzione sulle proposizioni della matematica col risultato di trame una teoria « disperatamente inadeguata »: i concetti della matematica infatti possono essere chiariti proprio dal fatto che essi « si presentano al di fuori della matematica, nelle proposizioni della vita quotidiana »; da parte loro gli intuizionisti sostengono una teoria che comporta «dichiaratamente la rinuncia a molti dei più fruttuosi metodi dell'analisi moderna, per l 'unica ragione, mi sembra, che tali metodi mancano di conformarsi ai loro pregiudizi privati. » 1 Veniamo ora all'intervento di Ramsey sulla sistemazione dei Principia. I logicisti si sono concentrati sull'analisi dei concetti della matematica e li hanno ricondotti alla logica; ne hanno dedotto che le proposizioni matematiche sono quelle proposizioni vere in cui compaiono solo concetti matematici o logici, giusta la definizione russelliana dei Principi della matematica. Ma la questione non è ancora risolta, a parere di Ramsey, perché Russell è «ancora ben lontano da un'adeguata concezione della natura della logica simbolica a cui era stata ridotta la matematica ». Ora, contrariamente a Russell che riteneva caratteristica delle I Per inciso, questo giudizio pesantemente ironico, se non sprezzante, sugli intuizionisti, mostra bene, da una parte, l'incomprensione che in quel periodo regnava verso di loro; ma mette
anche in evidenza, dall'altra, come fosse ormai necessario rendere «confrontabili>> metodi e risultati di questa scuola con quelli delle altre.
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propos1z1oni matematiche semplicemente la « completa generalità » ossia ne dava per così dire una caratterizzazione' in termini di contenuto che veniva riportato a una « forma » assunta come intuitivamente data, Ramsey viceversa ritiene che il contenuto delle proposizioni matematiche « deve essere completamente generalizzato e la loro forma deve essere tautologica » dove si vede chiaramente l'intervento del pensiero di Wittgenstein. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: « i formalisti trascuravano completamente il contenuto e rendevano la matematica senza significato, i logicisti trascuravano la forma e facevano consistere la matematica in qualunque generalizzazione vera; solo tenendo conto di entrambi i punti di vista e considerando la matematica come composta di generalizzazioni tautologiche noi possiamo ottenere una teoria adeguata ». Ramsey ritiene, rafforzando se possibile la tesi di Wittgenstein, che la matematica consista di tautologie. Se per matematica intendiamo la trascrizione che di essa si fa nei Principia, allora si tratterà di far vedere che le stesse proposizioni fondamentali dei Principia sono tautologie, dal momento che le regole di deduzione ammesse conducono da tautologie a tautologie. La difficoltà è data, come è ovvio, da una parte dall'assioma di riducibilità, che risulta chiaramente essere una proposizione contingente, ossia né una tautologia né una contraddizione; ma anche le altre assunzioni esistenziali prospettano difficoltà che a parere di Ramsey non sono però intrinseche e dipendono piuttosto dal modo di trattare alcuni concetti fondamentali nello sviluppo dei Principia. Ramsey affronta quindi questo problema avendo come mira quella di ridurre un calcolo estensionale come quello di Russell e Whitehead a un calcolo di funzioni di verità. Quali sono allora i difetti che egli ravvisa nei Principia e che vuole evitare grazie alla teoria della tautologia? Essenzialmente i tre seguenti. I) La teoria dei Principia non consente di considerare tutte le classi infinite poiché pretende che ogni classe sia definita da una funzione proposizionale, sicché non possiamo occuparci di classi (o insiemi) infinite, se ne esistono, che non siano definibili o definite da funzioni proposizionali. D'altra parte, osserva Ramsey, anche se non possiamo definirle, è chiaro che a queste classi « indefinibili » si fa necessariamente riferimento in locuzioni quali « per ogni classe » o « esiste una classe tale che » ossia in espressioni quantificate rispetto a simboli di classe. Potremmo certo convenire di limitare il nostro universo del discorso in modo da escludere le classi « indefinibili »; ma così facendo altereremmo in modo essenziale il senso delle locuzioni precedenti. D'altra parte è chiaro che non sarebbe corretto, pena la distruzione della « apriorità e necessità che sono l'essenza della logica», limitarsi a considerare solo classi definibili. Il primo grave difetto dei Principia è proprio quello di non aver considerato la possibilità che esistano classi indefinibili, contravvenendo così, tra l'altro, all'atteggiamento estensionale della· matematica moderna. L'errore consiste « nel dare una definizione di classe che si applica solo alle classi definibili, di modo 281
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che tutte le proposizioni matematiche su alcune o tutte le classi vengono interpretate in modo scorretto». A questo primo errore è direttamente legato il problema relativo all'assioma moltiplicativo; esso infatti «se rettamente interpretato è una tautologia, ma frainteso al modo dei Principia mathematica diventa una proposizione empirica significante che non vi è ragione di supporre vera ». z) Il secondo difetto dei Principia è il mancato superamento delle antinomie. Abbiamo già descritto come Russell pensasse di superarle tramite la teoria ramificata dei tipi e abbiamo già notato come in effetti quest'ultima consista di due parti che possiamo chiamare la tipizzazione vera e propria e la ramificazione (ordini). Ora, osserva Ramsey, «queste due parti vennero unificate perché erano entrambe dedotte, in modo alquanto approssimativo, dal 'principio del circolo vizioso'». La soluzione che Ramsey propone consiste nel considerare le antinomie distinte in due gruppi. Il gruppo A comprende l'antinomia di Russell, di Burali-Forti, di Cantor ecc. fino alla n. 5, mentre il gruppo B contiene l'antinomia del mentitore, l'antinomia di Richard, ecc., secondo l'elencazione che delle antinomie abbiamo tàtto nel paragrafo rr. r. La distinzione tra i due gruppi avviene sulla base dei seguenti criteri. Le antinomie del gruppo A (che oggi vengono dette, dopo Ramsey, antinomie logiche) sono tali che «se non si prendessero provvedimenti contro di esse si presenterebbero negli stessi sistemi logici o matematici». In esse, si ·noti, intervengono solo concetti logici o matematici e il loro presentarsi significa appunto che ci deve essere « qualcosa di sbagliato» nella logica o nella matematica che noi adottiamo. Le antinomie del gruppo B, viceversa, « non sono puramente logiche e non possono venir enunciate in soli termini logici; poiché tutte contengono qualche riferimento al pensiero, al linguaggio o al simbolismo che non sono termini formali, ma empirici ». l È implicita nel discorso di Ramsey quella distinzione linguaggio fmetalinguaggio oggi generalmente accettata come elemento fondamentale di chiarificazione nella costruzione dei sistemi formali. La ramificazione dei tipi, dalla quale come sappiamo dipende l'assunzione dell'assioma di riducibilità russelliano, potrà cioè essere evitata come parte del sistema, ossia apparterrà alla sfera tJJetalinguistica del sistema stesso, nel quale verrà invece mantenuta la tipizzazione semplice. 3) Il terzo grave difetto che Ramsey riscontra nei Principia è connesso con la definizione di identità. Russell ~ come abbiamo notato - faceva dipendere essenzialmente questa definizione dall'assioma di riducibilità, in quanto assumeva per definizione che due « cose » sono identiche se e solo se hanno in comune le proprietà predicative (dal che poi l'assioma garantiva l'estendibilità a tutte le proprietà). Ora Ramsey ritiene che questa dipendenza non esista e che r È a questo punto che Ramsey accredita a Peano l'aver riconosciuto questa distinzione. Ne
abbiamo parlato, come il lettore ricorderà, alla fine del paragrafo rr.4.
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La logica nel ventesimo secolo (1)
il vero difetto di questa definizione sia analogo a quello già riscontrato per le classi al punto r): si tratta cioè di una interpretazione scorretta dell'identità «in quanto non si definisce il significato per cui il simbolo dell'identità viene effettivamente usato»; e come il primo difetto aveva un'immediata influenza sull'assioma moltiplicativo, questo relativo all'identità riguarda direttamente l'assioma dell'infinito. Vediamo ora brevemente come Ramsey ritiene di poter superare queste difficoltà presentate dai Principia per poter ancora sostenere la possibilità di realizzare il programma logicista. Il punto centrale della sua revisione consiste in una nuova definizione di funzione predicativa (che non va confusa con quella di Russell, che in questo contesto Ramsey chiama elementare). Ramsey parte dalla considerazione che l'essere una proposizione elementare o no (ossia predicativa o no nel senso di Russell) non è una caratteristica reale della proposizione stessa, bensì del suo modo di espressione, vale a dire una stessa proposizione può essere espressa sia come proposizione elementare che come proposizione non elementare. Spostato così l'accento sul momento linguistico-simbolico, si tratta di assegnare per le funzioni di funzioni un campo di simboli che « non è fissato oggettivamente ma dipende dai nostri metodi di costruire simboli ». Per definire questo campo di simboli si può seguire il metodo di Russell, che Ramsey chiama soggettivo, ossia si può definire il campo delle funzioni che possono essere costruite in un certo modo (ad esempio con il semplice uso di un particolare connettivo) oppure si può usare quello che Ramsey chiama il metodo oggettivo e che fa suo; questo secondo modo consiste grosso modo nel trattare le funzioni di funzioni esattamente come si trattano le funzioni di individui; in altri termini Ramsey propone di determinare i simboli che possono essere posti ad argomento di una funzione di funzione « non secondo il metodo della loro costruzione, ma secondo il loro significato ». Con queste premesse, Ramsey introduce il concetto di funzione predicativa intendendo con ciò « una funzione che è una qualsiasi funzione di verità di argomenti che, finiti o infiniti in numero, sono tutti o funzioni atomiche di individui o proposizioni» (corsivo nostro). Si noti che questa definizione dipende in modo essenziale dal concetto di funzione di verità di un numero infinito di argomenti e quindi comprende in modo proprio le funzioni dei Principia che come si ricorderà potevano riguardarne solo un numero finito. È proprio qui che c'è il salto fra il metodo «costruttivo» dei Principia e il metodo «dei significati» di Ramsey. Ramsey mostra che questa sua nozione di funzione predicativa da un lato permette di tener conto di ogni funzione (anche cioè di quelle che non possiamo effettivamente esprimere data la finitezza dei nostri mezzi linguistici) e d'altro lato non porta a contraddizioni. Ciò premesso Ramsey giunge a una gerarchia per tipi e ordini delle funzioni, dove, come al solito, i tipi riguardano gli argomenti mentre, indipendentemente dal tipo, l'ordine riguarda i valori, ma sotto-
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La logica nel ventesimo secolo (1)
linea« l'essenziale distinzione fra ordine e tipo: il tipo di una funzione è una sua caratteristica reale che dipende dagli argomenti che la funzione può assumere; ma l'ordine di una proposizione o di una funzione non è una caratteristica reale, bensì quella che Peano chiama una pseudofunzione ».A questo punto si dimostra in modo molto simile a quello dei Principia che vengono evitate anche le contraddizioni del gruppo B; ma l'apparente analogia non deve ingannare perché, ribadisce Ramsey, «per me le proposizioni iri se stesse non hanno ordine; sono solo differenti funzioni di verità di proposizioni atomiche - una totalità definita che dipende solo da quante proposizioni atomiche ci sono. Gli ordini e le totalità illegittime intervengono solo con i simboli che usiamo per simbolizzare i fatti in modi variamente complicati ». Col che viene messo in evidenza in che senso il gruppo B di contraddizioni dipenda essenzialmente dalla componente linguistica. Abbiamo sopra accennato all'esistenza di precisi rapporti, secondo Ramsey, di queste tre lacune dei Principia con quelli che sono gli assiomi « critici » della sistemazione di Russell e Whitehead e cioè con l'assioma di riducibilità, l'assioma moltiplicativo e l'assioma dell'infinito rispettivamente. Nella nuova visione di Ramsey la prima difficoltà viene eliminata nel modo più radicale perché la sua introduzione delle funzioni predicative e in estensione rende semplicemente superfluo l'assioma di riducibilità, eliminando come fa dal contesto interno del sistema la ramificazione per ordini che viene a essere una sovrastruttura esterna alla costruzione stessa. Concependo le classi nel suo senso Ramsey mostra come l'assioma moltiplicativo diventi una tautologia, mentre l'accettazione dell'assioma dell'infinito viene a dipendere dal fatto che, nella interpretazione di Ramsey, esso viene ora a esprimere semplicemente che esiste un numero infinito di individui e non, come in Russell e Whitehead, che esiste un numero infinito di individui distinguibili. Grazie all'interpretazione mutuata da Wittgenstein ne risulta che l'assioma stesso o è una tautologia o una contraddizione. In altri termini noi «non possiamo dire nulla» per quanto riguarda il numero degli individui che esistono perché ogniqualvolta tentiamo di farlo scriviamo o una tautologia o una contraddizione. Noi possiamo fare solo asserzioni numeriche su universi limitati, non su tutto l'universo della logica. Dopo questa sommaria presentazione del tentativo effettuato da Ramsey per il recupero della posizione logicista, è opportuno concludere con qualche osservazione, relativa allo stato generale della ricerca sui fondamenti di questo periodo, e quindi al rapporto delle varie scuole fra loro. Almeno in un primo momento Ramsey ritiene ovviamente corretta la tesi logicista, ove su di essa si intervenga con le vedute di Wittgenstein per quanto riguarda quella che abbiamo chiamato la tesi dell'estensionalità. Da una parte infatti egli non riesce a capacitarsi del rifiuto intuizionista del terzo escluso (né nella forma radicale e diretta di Brouwer, né in quella più mediata, ma a suo parere altrettanto mutilan-
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La logica nel ventesimo secolo (r)
te per la matematica, che ne dà Weyl). Né ammette- su base wittgensteiniana - l'eliminazione delle proposizioni generali ed esistenziali operata da Weyl e alla quale si associa Hilbert. La concezione intuizionista che esse non siano affatto proposizioni e che quindi abbisognino di un substrato costruttivo, o quella formalista secondo la quale in queste proposizioni vanno individuati gli « elementi ideali » della nostra espressione linguistica della matematica non lo soddisfano; ad esse oppone la tesi di Russell (corroborata però dalla visione di Wittgenstein) secondo la quale tutte le proposizioni esprimono accordo o disaccordo con possibilità di verità di proposizioni atomiche, o in altri termini, sono funzioni di verità di proposizioni atomiche. Da questo punto di vista, dal momento che una proposizione universale o esistenziale esprime solo il fatto che una almeno, o tutte, le proposizioni considerate siano vere, non ha alcun valore o alcun peso la circostanza che questo insieme di proposizioni sia finito o infinito. Tuttavia, e in particolare disc;utendo lo status dell'assioma dell'infinito, Ramsey conclude con una nota di pessimismo. A suo parere il problema è posto in questi termini: una giustificazione logica della matematica pura è assai problema ti ca perché « ... Brouwer e Weyl dicono che ciò non è possibile e Hilbert propone di giustificarla come un gioco condotto sulla carta, con segni privi di significato»; d'altra parte ritiene che il suo stesso tentativo di ricostruirt' la teoria di Whitehead e Russell « ... superi molte difficoltà, ma ... è impossibile considerarlo come del tutto soddisfacente ». E questa accennata insoddisfazione si trasforma in un graduale allontanamento dalla posizione logicista. Nel I 929 con l'articolo Mathematics, foundations of (Matematica, fondamenti della) scritto per la q-esima edizione dell'Enciclopedia britannica si può notare un suo ulteriore avvicinamento al finitismo hilbertiano. Va del resto notato che già nell'articolo On a problem of formallogic (Su un problema di logica formale) del 1928 egli aveva preso in considerazione un tipico problema dell'indirizzo formalistico, il problema della decisione del quale aveva risolto un caso particolare facendo ricorso a un risultato assai profondo, oggi noto appunto come teorema di Ramsey, che interviene in numerosi e importanti campi della ricerca contemporanea. 1 r Una formulazione del teorema di Ramsey può essere data come segue. Dato un insieme A, indichiamo con P 2 (A) l'insieme di tutti i sottoinsiemi di A che contengono esattamente due elementi (coppie non ordinate). Allora il teorema afferma che data una scomposizione di P 2 (A) in due insiemi M e N, P 2 (A) = M U N, se A è infinito (il caso finito non offre alcuna difficoltà) è sempre possibile trovare un sottoinsieme infinito Ao diA talecheP2(A 0 )s; MoP2(A0 ) s; N. Ramsey in effetti ne dimostra una versione generalizzata nel senso che assume un numero finito qualsiasi di insiemi « scomponenti » A e i sottoinsiemi di A da lui considerati possono avere qualunque cardi-
nalità finita purché prefissata (considera cioè P n(A) per n finito prefissato qualunque). Come si nota il teorema è una generalizzazione del famoso teorema dei cassetti di Dirichlet, secondo il quale se un insieme viene scomposto in un numero finito di insiemi A 1 , A 2 , ••• An , ossia A = A 1 U A 2 U ... U An , allora almeno uno degli Ai è infinito. Malgrado l'apparente semplicità, il teorema di Ramsey richiede per la sua dimostrazione il ricorso all'assioma di scelta. Oltre all'applicazione indicata da Ramsey stesso, il teorema ne ha di recente ottenute numerose altre in particolare nell'ambito della teoria dei modelli. Inoltre le generalizzazioni del teorema a cardinalità partico-
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La logica-nel ventesimo secolo (1)
4) Hilbert e la scuola formalista Vogliamo ora riferire brevemente (tenendo ovviamente conto di quanto detto nel paragrafo r) su quell'indirizzo che negli anni venti sembra senza dubbio primeggiare, e che sembra avere le migliori credenziali per risolvere definitivamente il problema dei fondamenti della matematica. Alludiamo alla corrente formalista (anche se formalisti contemporanei, ad esempio Haskell B. Curry (n. I9oo), propongono di chiamarla, più precisamente, hilbertismo) e il primo nome che qui si presenta naturale è ovviamente quello di David Hilbert, di cui abbiamo già visto le prime prese di posizione. In particolare si ricorderà la polemica con Poincaré, originata dalla memoria hilbertiana del I904, a proposito del principio di induzione. Dopo un lungo periodo di silenzio in questo campo, Hilbert riprende la questione dei fondamenti a partire dal I 9 I 7 con Axiomatische Denken (Il pensiero assiomatico), una conferenza tenuta a Zurigo, e in tutta una serie di conferenze e scritti viene precisando sempte più durante questo periodo quelli che sono i tratti fondamentali e caratteristici della sua scuola. Ricordiamo fra gli altri :Neubegriindung der lv!athematik (erste Mitteilung) (Nuova fondazione della matematica, prima comunicazione, da una conferenza a Copenhagen-Amburgo, I922), Die logischen Grundlagen der Mathematik (I fondamenti logici della matetJJatica, I923, da una conferenza a Lipsia del I922), Uber das Unendliche (Sull'infinito, I926, da una conferenza a Miinster del I925), Die Grundlagen der MathetJJatik (l fondatJJenti della tJJatetJJatica, I927, da una conferenza ad Amburgo), ProbletJJe der Grundlegung der MathetJJatik (ProbletJJi della fo11dazione della tJJatetJJatica, I928, da una conferenza a Bologna) e dello stesso anno, in collaborazione con Ackermann, i Grundziige, di cui si è parlato, ove veniva codificata la struttura dei calcoli logici ancor oggi corrente. Particolarmente importante la conferenza sull'infinito, nella quale si ha forse la più completa enunciazione della teoria hilbertiana, come pure il susseguente articolo del I927, a sfondo più polemico nei riguardi degli intuizionisti. Oltre alla versione organica della logica dei Grundziige, Hilbert ha già in preparazione verso la fine del decennio quella che sarà l'esposizione cardinale della Beweistheorie, che si concretizza nei due volumi delle Grundlagen der Mathematik (FondatJJenti della tJJatematica), scritti in collaborazione con Bernays e che vedranno la luce nel decennio successivo, nel I934 e I939 rispettivamente. Oltre ai diretti collaboratori di Hilbert già ricordati, è obbligo menzionare in questo contesto autori come Weyl e Skolem- che hanno nella loro produzione o nel loro atteggiamento di fondo vari punti di contatto con la posizione hilbertiana. Una soddisfacente esplicazione del problema dei fondamenti della maternalari sono alla base della moderna teoria delle partizioni (transfinite) sviluppata in special modo, a partire dagli anni cinquanta, da Pau! Erdos, P. Rado e altri, e che tuttora presenta interessantissimi problemi sia dal punto di vista strettamente matematico, sia da quello fondazionale. Nel contesto della generalizzazione del teorema a cardi-
nali qualunque, si sono definiti i cosiddetti « cardinali di Ramsey » che hanno particolare importanza nello studio degli assiomi forti dell'infinito (si trova ad esempio che ogni cardinale misurabile è un cardinale di Ramsey, ma che il primo cardinale di Ramsev non è misurabile; si veda il · paragrafo v). ·
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La logica nel ventesimo secolo (x)
tica passa necessariamente, a parere di Hilbert, attraverso l'analisi e la chiarificazione di quello che è il concetto cardine, la nozione critica in tutto lo sviluppo della matematica: l'infinito. L'Analisi lo aveva solo apparentemente eliminato dalla sua problematica specifica, dopo che da essa erano state bandite le vaghe idee connesse con la nozione di infinitesimale; tuttavia l'infinito rientra ancora nella formulazione delle proposizioni matematiche (in particolare -della stessa Analisi) ogniqualvolta si hanno espressioni che fanno riferimento a tutti i numeri reali o si afferma che esistono numeri reali che godono di date proprietà. Se chiamiamo allora problema dell'infinito quello che appunto consiste nella chiarificazione ed eliminazione di questo concetto dalla matematica, vediamo che tale problema, malgrado gli sforzi degli analisti dell'Ottocento, permane ancora aperto alla critica moderna. Fine della ricerca di Hilbert 1 è quello di far vedere come è altrettanto apparente, è solo una fafon de parler, l'infinito nel senso delle totalità infinite. Anche la via di soluzione del problema è indicata dal processo di rigorizzazione dell'Analisi: come allora si era riusciti a ridurre a operazioni col finito le operazioni con gli infinitesimali, così oggi « i modi di inferenza che
impiegano l'infinito devono in generale essere sostituiti con processi finiti che danno precisamente lo stesso risultato » (corsivo nostro). È questo il proposito della teoria di Hilbert, che si pone così, a suo parere, come naturale continuazione dell'opera di Weierstrass. È, come ognuno vede, l'enunciazione del programma o comunque dell'esigenza finitista che caratterizza appunto il formalismo hilbertiano. Il · massimo tribunale posto a giudicare la correttezza dei nostri comportamenti deduttivi è l'assenza di contraddizione: pena lo scadere in una vuota metafisica, è necessario concedere, secondo Hilbert, che una volta che una nozione sia stata introdotta e non porti a contraddizione tale nozione è fermamente stabilita e acquisita per la matematica. E ciò comporta che « una chiarificazione definitiva della natura dell'infinito è divenuta necessaria, non semplicemente per l'interesse particolare delle singole scienze, ma piuttosto per l'onore dell'intelletto umano stesso». Malgrado scienze naturali quale la fisica, o matematiche come la geometria, portino alla conclusione probabile che la realtà è finita, tuttavia ciò non toglie che « l'infinito abbia un posto ben giustificato nel nostro pensiero » e quindi assuma tutto l'aspetto di un concetto indispensabile. Esempi illuminanti in questo senso sono dati dall'algebra, dalla geometria proiettiva e in particolare dall'Analisi che, a ben guardare, è null'altro che «una sinfonia dell'infinito». Ma la teoria che ci permette di penetrare più a fondo il significato della nozione di infinito è senza dubbio la teoria cantoriana degli insiemi, e in particolare la teoria cantodana dei numeri transfiniti. Hilbert accetta ovviamente la distinzione infinito attuale /infinito potenziale e, con Cantar, ritiene che solo col primo abbiamo a che fare col «vero» infinito. Ma il presentarsi delle antinomie impone l'elaborazione di una nuova teoria, nella fattispecie ovviamente la Beweistheorie, che I
E non solo, in particolare, del discorso Su/l'infìnilo, ma della concezione globale di Hilbert.
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superi le difficoltà (abbiamo già accennato alle obiezioni di Hilbert verso le altre soluzioni). Le motivazioni e i criteri sulla base dei quali egli ha istituito la propria teoria sono duplici: I) è necessario indagare con cura i modi di costituire concetti e i metodi di inferenza fruttuosi; 2) è necessario rendere le inferenze quanto più affidabili (« sicure ») è possibile. Ora, tutto ciò si può ottenere solo a patto di riuscire veramente a chiarire la nozione di infinito. Hilbert accetta quindi un primo principio direttivo, secondo il quale, in accordo con Kant, egli sostiene che « la matematica dispone di un contenuto certamente indipendente da ogni logica e non si può quindi assicurarle una fondazione con i soli mezzi della logica». Abbiamo già visto che con la teoria della dimostrazione si trasforma ogni proposizione matematica in una formula che può essere esibita concretamente; e ciò che in questo procedimento va assunto come dato « sono certo oggetti extralogici che sono intuitivamente presenti come esperienza immediata antecedente a ogni pensiero »; sicché nella teoria della dimostrazione « gli assiomi e le proposizioni dimostrabili ... sono copie dei pensieri che costituiscono la matematica ordinaria come sviluppata sino a oggi». Orbene, se l'inferenza logica deve dare affidamento, deve essere possibile « osservare questi oggetti completamente in tutte le loro parti, e il fatto che essi accorrano, e che essi differiscano l'uno dall'altro e che si susseguano, o siano concatenati, è immediatamente dato in modo intuitivo, assieme agli oggetti, come qualcosa che né può essere ridotta a qualcos'altro, né richiede tale riduzione. Questa è la posizione filosofica fondamentale} il requisito per la matematica e} in generale} per ogni pensiero} comunicazione} comprensione scientifici» (corsivo nostro). Certo la teoria dei numeri può essere sviluppata solo sulla base di considerazioni contenutistiche, ma è altrettanto certo che questo non esaurisce la matematica. Tuttavia si può pensare di ridurre la matematica tutta ad altrettanta sicurezza attenendosi al « modo finitista » di pensare. E ciò si ottiene definitivamente con un secondo principio, in base al quale gli oggetti che consideriamo non hanno in sé alcun significato anche se ovviamente sono posti come significanti qualcosa. Essi servoao solo a comunicare asserzioni. Prendiamo ad esempio il celebre teorema di Euclide che afferma che fra p, intero primo, e p! + I esiste certamente un numero primo. Tale teorema è finitista perché la sua enunciazione può essere evidentemente tradotta nella disgiunzione finita «p + I è primo, oppure p+ 2 è primo, ... , oppure p! + I è primo ». Orbene si fa paradossalmente un « salto » nel transfinito dando una formulazione meno forte di questo teorema, dicendo ad esempio semplicemente: esiste un numero primo maggiore di p; in questo caso infatti la disgiunzione precedente si trasforma in 288
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una disgiunzione con un numero infinito di termini. Dal punto di vista finitista quindi un'espressione esistenziale della forma 3xPx non è ammissibile; analogamente ci immettiamo nel transfinito negando una proposizione universale, e quindi, dal punto di vista finitista, questa non è un'operazione lecita: nel transfinito non valgono le leggi della logica aristotelica. Ora Hilbert vuole conservare quello che è l'usuale procedere matematico, nel quale appunto si fanno ordinariamente affermazioni esistenziali e si negano proposizioni universali; e vuole allora risolvere le difficoltà sopra prospettate proprio ricordando di essere un matematico. Sicché analogamente alla procedura usata in altre parti della matematica, 1 egli propone di riconoscere, accanto alle proposizioni finitarie, delle proposizioni ideali per «mantenere le regole dell'ordinaria logica aristotelica, formalmente semplici ». La matematica diventa cioè « un inventario di formule, in primo luogo formule alle quali corrispondono le comunicazioni contenutistiche delle proposizioni finitarie (quindi, in massima parte, uguaglianze e disuguaglianze numeriche) e in secondo luogo altre formule che in se stesse non significano niente e che sono gli oggetti ideali della nostra teoria». Già il diverso atteggiamento nei riguardi della portata e dell'importanza della logica classica segna una netta differenziazione con l'atteggiamento intuizionista; in particolare, afferma Hilbert, il terzo escluso «è conseguenza dell'assioma logico sull'e [si veda più avanti] e non ha mai causato il minimo errore »: privare il matematico di questo principio sarebbe come togliere il telescopio all'astronomo. Ma ancora, all'affermazione di Brouwer, il quale « dichiara (proprio come Kronecker) che le proposizioni esistenziali sono in sé prive di significato a meno che esse non contengano anche la costruzione dell'oggetto di cui si asserisce l'esistenza; ... il loro impiego, per lui, fa degenerare la matematica in un gioco», corrisponde una chiarissima enunciazione del significato profondo del formalismo hilbertiano: « il valore delle dimostrazioni puramente esistenziali consiste precisamente nel fatto che loro tramite si possono eliminare costruzioni individuali e molte costruzioni differenti sono sussunte sotto un'idea fondamentale, cosicché risulta chiaramente solo ciò che è essenziale alla dimostrazione; brevità ed economia di pensiero sono la raison d' étre delle dimostrazioni d'esistenza». Si noti che Hilbert parte dalla constatazione che già la matematica elementare contiene due tipi di formule, le reali e le ideali, e da ciò giunge alla concezione delle formule come proposizioni ideali; da una parte il terzo escluso interviene in procedimenti non accettabili dal punto di vista finitista: infatti ad esempio non si può, da questo punto di vista, accettare l'alternativa che una formula generale o è soddisfatta da ogni numero oppure esiste un numero che non la r Ad esempio in algebra, con l'introduzione dei cosiddetti « numeri ideali » o in geo-
metria proiettiva, con l'introduzione dei cosiddetti «elementi impropri» o all'infinito.
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soddisfa, perché ciò equivarrebbe a negare un'asserzione generale. D'altra parte Hilbert, come si è appena visto, non vuole rinunciare alla logica classica e ciò gli viene appunto consentito dall'introduzione delle proposizioni ideali con l'unica condizione di noncontraddittorietà. È la presenza delle proposizioni ideali che comporta la necessità di formalizzare anche le operazioni logiche e la nozione stessa di dimostrazione. È qui di grande importanza il fatto che sia già stato sviluppato un calcolo logico, le cui formule sono a loro volta proposizioni ideali ossia anch'esse vanno private del loro contenuto (significato) originario. Quindi segni logici e matematici, il cui riferimento contenutistico è rimpiazzato dalla pura e asettica manipolazione combinatoria. Questa è la transizione dall'intuitivo al formale che ora resta compiuta definitivamente da una parte dagli assiomi e dall'altra dal calcolo logico (cioè per quanto riguarda il contenuto da una parte e la deduzione dall'altra). Si giunge quindi in modo naturale alla formalizzazione della stessa nozione di dimostrazione, di cui si dà una caratterizzazione ancora oggi corrente e cioè: una dimostrazione è null'altro che una successione finita di espressioni del nostro linguaggio tali che ognuna di esse o sia un assioma o sia ottenuta da espressioni precedenti, sulla base di regole di deduzione formalmente esplicitate. Hilbert può quindi dire che nella sua teoria «l'inferenza contenutistica viene rimpiazzata dalla manipolazione di segni secondo le regole; in questo modo il metodo assiomatico raggiunge quel grado di affidabilità e di perfezione che esso deve possedere se deve divenire lo strumento fondamentale di tutte le ricerche teoretiche ». Per quanto di particolare riguarda l'aritmetica egli assume come assiomi quelli del calcolo proposizionale oltre agli assiomi predicativi che, regolando l'uso dei quantificatori, vengono quindi riguardati come assiomi transfiniti (ideali); a questi si aggiungono ovviamente gli assiomi specifici dell'aritmetica, ad esempio, gli assiomi di Peano. Si osservi che già nel I 92 ~ Hilbert fa notare che gli assiomi transfiniti (i due assiomi predicativi che abbiamo dato nel paragrafo n r. I.) sono entrambi derivabili da un singolo assioma d (a)--+ d (e (d)), 1 dove e è la funzione transfinita di scelta, cioè una funzione che fra tutti gli eventuali individui che soddisfano d, ne sceglie uno. Ora l'impiego degli elementi ideali è soggetto come dicevamo a una sola condizione, quella della coerenza (non contraddittorietà) nel senso che la loro aggiunzione al vecchio dominio non deve comportare contraddizioni. Ma a questo punto la cosa ha un significato ben preciso. Infatti dal principio di contraddizione che Hilbert assume nella forma {d--+ (f!81\---, f!8)}--+---, d si ricava la formula (d--+---, d)--+ f!8, vale a dire, sulla base della regola di separazione: se nella teoria è derivabile una contraddizione, ossia una espressione della forma d 1\---, d per una qualche d, allora è possibile derivare nella teoria qualunque r Questo assioma, dice Hilbert, «contiene il nucleo di uno dei più controversi assiomi della
letteratura matematica, ossia l'assioma di scelta».
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formula 81, ad esempio la formula I =1- I. Dimostrare allora la coerenza del sistema significherà mostrare che I =1- I non è una formula dimostrabile. È chiaro che nel caso particolare dell'aritmetica è necessario ricorrere a una dimostrazione diretta di questo tipo, non essendo ulteriormente possibile applicare il metodo di «scaricare» la questione verso l'aritmetica stessa, metodo che tanti servigi aveva reso per altre teorie (geometria, fisica, ecc.). La Beweistheorie non è solo importante per la matematica, ma, ritiene Hilbert, per problemi generali di carattere fondazionale: « come esempio del modo con cui si possono trattare le questioni fondazionali, voglio scegliere la tesi che ogni problema può essere risolto ... Infatti, in matematica non esistono ignorabimus. Ora la mia teoria della dimostrazione non può specificare un metodo generale per risolvere ogni problema matematico; un tale metodo non esiste. Ma la dimostrazione che l'assunzione della risolubilità di ogni problema matematico è consistente rientra nel] 'ambito della nostra teoria. » Questa ipotizzata possibilità di risolvere tutti i problemi matematici, nella quale è facile vedere da parte intuizionista un ulteriore asserzione equivalente del principio del terzo escluso, sarà un altro punto di insormontabile attrito tra le due posizioni, come presto vedremo. Ma per terminare questa presentazione delle idee di fondo di Hilbert per quanto riguarda la sua teoria della dimostrazione, vogliamo ricordare come a partire da concezioni che riecheggiano chiaramente (con la mediazione kantiana) le problematiche booleane relative alle «leggi del pensiero» particolarmente evidenti ad esempio quando Hilbert afferma che « l'idea fondamentale della ... teoria della dimostrazione è null'altro che descrivere l'attività del nostro intelletto, di fare un protocollo delle regole secondo le quali procede effettivamente il nostro pensiero »; a partire dicevamo da concezioni di questo tipo, Hilbert si ritiene in questo periodo già in condizione di poter anticipare quella che sarà la « soluzione finale » delle ricerche sui fondamenti: « la matematica è una scienza senza ipotesi. Per provarlo non ho bisogno di dio, come fa Kronecker, o dell'assunzione di una speciale capacità del nostro intelletto relativa al principio di induzione matematica come fa Poincaré, o dell'intuizione originaria di Brouwer o, infine, come fanno Russell e Whitehead, degli assiomi dell'infinito, di riducibilità, o di completezza, che in effetti sono assunzioni contenutistiche che non possono essere giustificate con una dimostrazione di consistenza. » Per quanto riguarda le acquisizioni specifiche della Beweistheorie, è Ackermann che sfrutta in particolare la teoria dell'operatore r:: e ritien~ di aver dimostrato per suo mezzo in Begriindung des tertium non datur mittels den Hilbertschen Theorie der Widerspruchfreiheit (Fondazione del tertium non datur per mezzo della teoria hilbertiana della noncontraddittorietà, 1927) la coerenza dell'Analisi; successivamente si accorge di aver commesso un errore nella dimostrazione e il risultato viene ridimensionato nello stesso anno da von Neumann nell'articolo Zum Hilbertschen Beweistheorie (Per la teoria della dimostrazione di Hilbert), nel quale
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dà una dimostrazione di noncontraddittorietà per un sistema ristretto, ossia l'aritmetica senza induzione, o meglio con l'induzione limitata a proprietà particolari, la cui espressione linguistica non contenga quantificatori (proprietà, in altri termini, che non si riferiscono alla totalità dei numeri naturali). Già sulla base di questi risultati parziali, come si è più volte accennato, i formalisti - ma sostanzialmente il mondo matematico in generale - pur con le dovute cautele nutrivano serie speranze (peraltro motivate) per l'esito finale della loro impresa, come mostrano chiaramente le seguenti parole di von Neumann, scritte nel 1930: «Malgrado la consistenza della matematica classica non sia ancora stata dimostrata, una tale dimostrazione è stata trovata per un sistema matematico alquanto più ristretto, che è strettamente correlato a un sistema che Weyl aveva proposto prima della concezione del sistema intuizionista, ma più ristretto della matematica classica. Così il sistema di Hilbert ha superato il primo test di efficacia: è stata stabilita con metodi finitari costruttivi la validità di un sistema matematico non finitario, non puramente costruttivo. Se qualcuno riuscirà ad estendere questa garanzia al sistema più impegnativo e importante della matematica classica, potrà dirlo solo il futuro. » Una posizione in certo senso intermedia tra Hilbert e Brouwer, e che conviene qui richiamare, assume Hermann Weyl, che già nel 1918 in Das Kontinuum, kritische Untersuchungen iiber die Grundlagen der Ana!Jsis (Il continuo. Ricerche critiche sui fondamenti dell'Analisi) si era decisamente pronunciato per una « restrizione » dell'Analisi, avendo riconosciuto insuperabile la difficoltà legata alla predicatività; qualificava infatti l'analisi impredicativa (nella quale cioè siano ammessi procedimenti o definizioni impredicative) come « una casa costruita sulla sabbia» in un sorta di «paradiso dei logici». Weyl è convinto che il fondamento ultimo del pensiero matematico sia «la rappresentazione dell'iterazione, della successione dei numeri naturali » e identificata l'eccellenza della matematica stessa nel fatto « che in quasi tutti i suoi teoremi ciò che è per sua natura infinito viene ricondotto a una decisione finita», ribadisce che «questa infinità dei problemi matematici riposa però sul fatto che la successione dei numeri naturali e il concetto di esistenza che ad essa si riferisce ne costituiscono la base ». Come si vede, una posizione decisamente orientata verso il neointuizionismo brouweriano, che tuttavia si sviluppa in modo assai originale, con la creazione di due sistemi di Analisi predicativa che non è possibile qui descrivere compiutamente. Ci limitiamo a osservare che intuitivamente questi due sistemi 1 vengono edificati a partire da un « dominio operativo » costituito da un certo numero di categorie fondamentali di enti, per i quali sono date determinate proprietà e determinate relazioni primitive. A partire da questi dati si costituisce la teoria tramite: un processo logico « che consiste nel generare, a partire da un dato stock r Il primo dei quali è « sostanzialmente equivalente alla teoria ramificata dei tipi senza
assioma di riducibilità e l'altro assai più debole» (Casari). ·
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iniziale di proprietà e relazioni primitive che si riferiscono agli enti di determinate categorie iniziali, tutta una gamma di nuove proprietà e relazioni riferite agli stessi enti » (Casari); e un processo matematico attraverso il quale « si può passare - a partire da un certo insieme di proprietà e relazioni, riferite a certi enti - alla costituzione di nuove entità ideali» (Casari). Nel 1927 tuttavia in Diskussionbemerkungen zu dem zweiten Hilbertschen Vortrag [1927] iiber die Grundlagen der Mathematik (Commenti sulla seconda conferenza di Hilbert sui fondamenti della matematica) assume una posizione più mediata nel senso che pur difendendo Brouwer da alcune critiche di Hilbert, egli mette in evidenza nel contempo la portata e il significato dell'approccio hilbertiano. In particolare, 1) si oppone ad Hilbert (in favore dell'intuizionismo, ma sostanzialmente di Poincaré) sulla questione della giustificazione dell'induzione matematica; non stima cioè soddisfacente la risposta di Hilbert a Poincaré, malgrado veda parecchi punti di convergenza fra i due; 2) concorda con Brouwer nel concepire la matematica come costituita da « proposizioni reali >> e ritiene che egli abbia visto per primo « esattamente e in tutta la sua portata come in effetti ci si era ovunque allontanati dai limiti del pensiero contenutistico»; 3) concorda tuttavia con Hilbert nell'ammettere la possibilità di trattare con proposizioni ideali tramite le quali la matematica va al di là « di stati di cose intuitivamente accertabili». Ci sembra infine che le seguenti parole conclusive di Weyl ben rispecchino e l'atteggiamento generale del periodo e la sua propria posizione: « Se le vedute di Hilbert prevarranno sull'intuizionismo, come sembra in effetti debba avvenire, allora vedo in ciò un difetto decisivo dell'attitudine filosofica della fenomenologia, che così si dimostra insufficiente per la comprensione della scienza creativa anche nell'area della conoscenza che è la più primaria e la più aperta all'evidenza, la matematica.» Per finire, non si può passare sotto silenzio l'attività, in questo contesto, del norvegese Thoralf Skolem. Abbiamo già incontrato questo pensatore, che opera sostanzialmente isolato, nel paragrafo m.2, a proposito della teoria degli insiemi; e abbiamo già avvertito che lo incontreremo ancora nei prossimi paragrafi. Qui vogliamo brevemente considerarlo da due punti di vista: uno - sostanzialmente già toccato - riguarda la sua specifica e operativa tendenza alla «rottura» della grande logica; l'altro invece è collegato più strettamente al finitismo hilbertiano (e a successive ricerche specifiche) attraverso le idee da lui avanzate nell'articolo Begrundung der elementaren Aritmethik durch die rekurrierende Denkweise ohne Anwendung scheinbarer Veriindlichen mit unendlichen Ausdehnungsbereich (Fondazione dell'aritmetica elementare per mezzo del modo ricorsivo di pensare, senza l'impiego di variabili apparenti varianti su domini infiniti), pubblicato nel 1923, ma scritto per sua esplicita dichiarazione già nel 1919, «dopo aver studiato l'opera di Russell e Whitehead » ossia i Principia. In questo articolo Skolem presenta un nuovo possibile modo di sviluppare
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l'aritmetica eliminando in certo senso alla radice la nozione stessa che produceva i paradossi ed era responsabile della complessità della teoria ramificata dei tipi intesa ad evitarli: la nozione di totalità (attuale) infinita, o, linguisticamente, l'impiego dei quantificatori illimitati per variabili individuali. Ecco come lo stesso Skolem presenta il suo piano di lavoro: «Se consideriamo i teoremi generali dell'aritmetica come asserzioni funzionali e assumiamo come base il modo ricorsivo di pensare, allora questa scienza può essere fondata in modo rigoroso senza l'uso delle nozioni 'sempre' [tutti] e 'qualche volta' [almeno uno] ... si può assicurare una fondazione logica per l'aritmetica senza l'uso di variabili logiche apparenti. In verità sarà spesso vantaggioso introdurre variabili apparenti, ma richiederemo che queste variabili varino solo su domini finiti, e per mezzo di definizioni ricorsive saremo allora sempre in grado di evitare l'uso di tali variabili. » Naturalmente l'impiego delle sole variabili libere o «reali» come le abbiamo a suo tempo chiamate (o di variabili apparenti vincolate da quantificatori limitati) diminuisce di molto la « potenza espressiva » del linguaggio impiegato (che noi possiamo assumere essere un linguaggio elementare per l'aritmetica): ad esempio si può esprimere e dimostrare che esistono infiniti numeri primi servendoci del teorema di Euclide ricordato qualche pagina addietro perché esso afferma per ogni numero primo dato l'esistenza di almeno un altro numero primo entro limiti numerici precisati; ma non potremo ad esempio esprimere che esistono infinite coppie di primi gemelli (ad esempio, (5,7), (II,13) ecc. ossia primi della forma (p, p z)). Orbene Skolem tenta di ridurre questa limitazione impiegando schemi ricorsivi per l'introduzione di nuove funzioni o relazioni e impiegando nelle dimostrazioni l'induzione matematica come, regola, ossia ammettendo conclusioni della forma P(x) ogniqualvolta si siano verificate le premesse P( o) e P(x) ~ P(x').l Appunto questo è ciò che Skolem chiama il « modo ricorsivo di pensare » ed il sistema basato su questi principi è grosso modo quello che oggi noi diciamo aritmetica ricorsiva primitiva. La verificabilità e costruttività intrinseca del metodo portano Skolem (e lui stesso lo. dichiara, anche se ribadisce l'indipendenza) assai vicino all 'intuizionismo; in effetti tuttavia l'aritmetica primitiva ricorsiva è ancor più ristretta dell'aritmetica intuizionista e il suo accentuato carattere finitista la porta più precisamente nell'ambito di una concezione hilbertiana. E Hilbert e Bernays che nel 1 volume della loro Grundlagen danno un'ampia esposizione delle idee di Skolem, riconoscono che il contesto appropt:iato per la formalizzazione del discorso metamatematico (in altri termini, il discorso contenutistico e «sicuro») è proprio l'aritmetica ricorsiva primitiva di Skolem.
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1 Un esempio di definizione ricorsiva è quello di somma dato dalle equazioni x + o = x; (x + y') = (x + .Yl'· Ancora, la relazione « < » fra numeri naturali viene di solito definita come segue: x > f,: a questa «spiegazione» o a sue numerose varianti tutte comunque riunite sotto la lknominazione di teoria classica o corrispondentistica della verità, che Tarski si ispira. In quest'ordine di idee, data una specifica proposizione, ad esempio «la calcite è un minerale », possiamo pensare di esprimere tali condizioni dicendo semplicemente: l'enunciato «la calcite è un minerale» è vero se e solo se la calcite è un minerale. Si notino due cose: a) ha senso fare una distinzione fra proposizioni vere o false solo quando le proposizioni stesse convoglino una certa informazione su un certo ambito di realtà (qualunque esso sia) sicché il concetto di verità che noi stabiliamo è in effetti una relazione fra fatti linguistici (enunciati) c domini a cui essi si riferiscono; b) nella condizione relativa alla calcite può sembrare di aver espresso un puro e semplice .truismo, qualcosa come « Socrate è Socrate » o un qualunque altro esempio del principio di identità. Che le cose non stiano così, ed è essenziale comprenderlo, è dimostrato dal fatto che nell'equivalenza sopra scritta a sinistra del «se e solo se» compare un enunciato fra virgolette, a destra un enunciato. Per chiarire il significato della cosa, immaginiamo di dare un nome, ad esempio P, all'enunciato «la calcite è un minerale». Allora l'equivalenza di cui sopra verrebbe scritta: l'enunciato P è z;ero se e solo se la calcite è un minerale, che non dà più luogo ad alcuna ambiguità, perché a sinistra dell'equivalenza appare il nome di un enunciato, mentre a destra appare l'emmciato stesso.2 Orbene, se realizziamo chiaramente questa differenza e ci convinciamo dunque che una eventuale definizione come la precedente sarebbe « sensata», non vuota, potrebbe solo restarci il dubbio circa una sua sostanziale r Si noti a questo proposito che Tarski cerca appunto di specificare le condizioni sotto le quali una proposizione possa essere considerata vera e non dei criteri di verità che permettano in un qualunque modo di stabilire o di decidere se di fatto la proposizione in questione è vera. Dirà Tarski nel 1969: «Qualunque cosa possa attenersi dalla costruzione di una definizione adeguata del concetto di verità per un linguaggio scientifico, una cosa è certa: la definizione non porta con sé un criterio pratico per decidere se una particolare proposizione di tale linguaggio sia vera o falsa (e in vero questo non è affatto il suo scopo) ... Alcuni filosofi ed epistemologi sono propensi a rifiutare ogni definizione che non for-
nisca un criterio per decidere, per ciascun oggetto particolare assegnato, se esso cada o no sotto il concetto definito. Nella metodologia delle scienze empiriche tale tendenza è rappresentata dall'operazionismo ed è condivisa anche da quei filosofi della matematica che appartengono alla scuola costruttivista; in ambedue i casi, tuttavia, solo una piccola minoranza di pensatori è di questa opinione.» 2 Si noti che se riprovassimo ora a formulare la condizione, si avrebbe l'enunciato P è vero se e solo se P; si otterrebbe allora addirittura un non senso dal punto di vista grammaticale (infatti dopo il « se e solo se » deve figurare un enunciato, non il nome di un enunciato).
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« banalità». Ma da llucsto dubbio ci liberiamo subito con le seguenti considerazioni. Se potessimo scrivere un'equivalenza come la precedente (che diremo equivalenza di tipo T, da Tarski) per ogni enunciato del linguaggio naturale, avremmo evidentemente risolto il nostro problema; d 'altra parte non tutti gli enunciati del linguaggio naturale hanno la forma semplice, atomica, come quello sopra esemplificato. A partire da enunciati di questo tipo n:)i ne formiamo di assai più complessi servendoci ad esempio dei connettivi. Allora, c qui sta la non banalità della cosa: a) dovremmo poter scrivere un'equivalenza come la precedente per ogni enunciato naturale atomico; ma tutto lascia pensare che il numero di tali enunciati sia infinito, il che di fatto rende impossibile già questo primo passo; b) ma concediamo pure di avere in qualche modo superato questa difficoltà: dovremmo allora dare delle « regole » per inferire, dalla verità di enunciati atomici, la verità di enunciati composti mediante i connettivi, il che presuppone che si sappia analizzare compiutamente ogni enunciato composto in termini dei rispettivi enunciati atomici componenti, o che si sappiano esplicitare tutte le regole in base alle quali noi operiamo tali composizioni. In altri termini, vista l 'infinità dell'insieme degli enunciati e la possibilità di considerare enunciati sempre più complessi, noi penseremmo di stabilire delle condizioni di verità per gli enunciati atomici e quindi, sulla base della costruzione stessa degli enunciati composti, di inferire le condizioni di verità per questi ultimi a partire da quelle dei singoli componenti elementari. Orbene, se tentiamo di applicare in questo senso un procedimento rigoroso al linguaggio ordinario ci imbattiamo in difficoltà pressoché insormontabili per la stessa natura imprecisa delle regole grammaticali e sintattiche di formazione degli enunciati (imprecisa, si intende, almeno da un punto di vista logico-matematico). Ma un'altra ben più grave difficoltà si oppone a questo procedimento. Abbiamo già più volte ricordato, fra le antinomie che derivano da una confusione fra linguaggio e metalinguaggio, quella del menti t ore; anche nella costruzione di Tarski come già in quella di Godei, questa antinomia gioca un ruolo deisivo, pur se in certo senso di segno opposto. Nel linguaggio comune ovviamente si hanno proposizioni che parlano di altre proposizioni (ad esempio «la proposizione con cui comincia questo capoverso è breve ») e in particolare che parlano di se stesse (ad esempio: «Questa proposizione è composta di sette parole, » che è una proposizione vera). Fra molte altre tuttavia abbiamo in particolare anche una proposizione che afferma la falsità di se stessa: « Questa proposizione è falsa. » Già sappiamo che tale proposizione conduce ad un'antinomia e tale antinomia può essere evitata solo mediante una rigorosa distinzione tra linguaggio e metalinguaggio: distinzione evidentemente impossibile nel complesso del linguaggio naturale. Sono questi i motivi principali che spinsero Tarski a costituire la sua defi-
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nizione per linguaggi formalizzati i quali offrono appunto almeno due vantaggi: 1) sono totalmente dominabili da un punto di vista sintattico; 2) permettono la rigorosa separazione di livelli che abbiamo riconosciuto necessaria per superare le antinomie. È allora opportuno vedere come Tarski affronta e risolve il problema per i linguaggi formalizzati. Per comodità noi ci riferiremo a un linguaggio predicativo del primo ordine, tenendo presente che si tratterà, nella sostanza, di dare una definizione di verità che per così dire comprenda come casi particolari tutte le equivalenze di forma T riferite alle formule chiuse del nostro linguaggio; e che tale definizione dovrà far sì che a ognuna di tali formule spetti almeno uno e al massimo uno dei due valori di verità Vero o Falso.! Occorre ancora tuttavia fare una precisazione. Noi vogliamo definire la verità per enunciati, vale a dire per formule chiuse del nostro linguaggio formalizzato. Ora per le formule chiuse ci troviamo di fronte a una difficoltà analoga a quella constatata per il linguaggio naturale: le formule chiuse « composte » non sono formate a partire da formule chiuse « semplici » bensì, genericamente, da formule; allora noi non possiamo stabilire univocamente i passi di formazione per formule chiuse, mentre ovviamente ciò è possibile, per la loro stessa costruzione, per le formule in generale. Tarski allora pensa di sfruttare questa dominabilità strutturale dell'insieme delle formule definendo dapprima il concetto di soddisjacibilità per formule in generale, dal quale poi ricava il concetto di verità per formule chiuse. Dato allora un linguaggio L del primo ordine (che per comodità supponiamo abbia i soli connettivi di negazione é: disgiunzione e il solo quantificatore esistenziale), una interpretazione I di L sarà ora una coppia costituita da un dominio (non vuoto) D e da una funzione g che associa a ogni costante (individuale, predicativa o funzionale) di L una ben determinata entità del (o sul) dominio (rispettivamente: un individuo, una relazione fra individui, una operazione fra individui). Per quanto riguarda le variabili individuali esse saranno intese variare su D, cioè ad esse (a differenza che alle costanti individuali) g non assegna alcun individuo fissato del dominio. Data ora una interpretazione /, consideriamo tutte le successioni infinite di individui del dominio D 2 e indichiamo una generica di tali successioni con s; r In altri termini, la definizione deve essere tale da permettere di derivare da essa tutte le equivalenze di tipo T e principi quali quello di non contraddizione (non possono essere entrambe vere due proposizioni una delle quali sia la negazione dell'altra) e del terzo escluso (due proposizioni siffatte non possono essere entrambe false). 2 Questa, che può sembrare una grossa complicazione, si rivela in effetti una enorme semplificazione; si tenga sempre conto del fatto che in tutto questo discorso la difficoltà è proprio quella di adeguare rigorosamente concetti che abbiamo visto essere ampiamente usati si può
dire «da sempre» in senso intuitivo. Va da sé che la complicazione è solo apparente nel senso che si riesce a dimostrare facilmente che la soddisfacibilità di una data formula F dipende, in una data interpretazione, non da tutti gli infiniti individui di una successione, ma solo da quelli (e sono certamente in numero finito) che «corrispondono » alle variabili libere contenute in F. Si osservi infine che, dal momento che il dominio D è per ipotesi non vuoto, esiste sempre almeno una successione infinita di elementi di D. Nel caso banale che D contenga un solo individuo a, tale successione sarà proprio s= (a, a, a, ... ).
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per ognuna di queste successioni si fissa in un qualche modo (ad esempio, definendo una funzione in corrispondenza ad ogni successione) l'associazione delle variabili agli individui della successione: ad esempio si può fare in modo di associare all'i-esima variabile Xi l'i-esimo individuo della successione considerata. Ciò posto, si tratta di definire il senso della frase: « la successione s soddisfa la formula d nell'interpretazione data». La definizione avviene ovviamente per induzione sfruttando il modo di costruzione delle formule. Inizieremo quindi con le formule atomiche, che avranno in generale, come sappiamo, la forma Pik (x1, x2, ... , xk)· Diremo allora che la successione s soddisfa la formula Pik (x1, ... , xk) se, essendo P la relazione su D che, nella interpretazione l, .~ ha assegnato alla costante predicativa Pik, e b1, b2, ... , bk gli individui della successione s associati alle variabili X1, x 2, ... , xk, gli individui in questione stanno nella relazione P (ossia, in termini intuiti vi, se la proposizione P b1 b2 ... h è vera). Induttivamente, poi diremo che s soddisfa -----,d se e solo se s non soddisfa d; e che s soddisfa .sY' V f1l se e solo se o s soddisfa d o s soddisfa f!l. Per quanto riguarda i quantificatori (ci limitiamo, come detto, all'esistenziale) diremo che la successione s soddisfa la formula ::lxi d se e solo se esiste una successione s' che differisce da sal più per l'i-esimo posto (e si noti che s è in particolare una tale successione) e s' soddisfa d.l A questo punto giungiamo alla desiderata definizione perché diremo che una formula d è vera in una data interpretazione I= se tutte le successioni soddisfano d (falsa se nessuna la soddisfa). E diremo infine che una formula d è logicamente vera o valida se, comunque si scelga l'interpretazione, d risulta vera. Si osservi ancora che le nozioni qui definite sono proprio le intuitive e normali nozioni che ognuno di noi ha certamente « chiare »; la difficoltà sta 1 Ribadiamo che quello delle successioni è un mero espediente tecnico di sistematizzazione (e infatti la definizione si può dare anche in modo diverso; noi ci siamo attenuti a questo per restare aderenti quanto più possibile al discorso di Tarski). La sostanza della questione sta nel fatto che con questo metodo si possono in qualche modo «dominare» gli individui . del dominio D in modo tale da recuperare poi le intuitive accezioni semantiche. Supponiamo ad esempio di considerare la teoria \jl (si veda il paragrafo m. r) e, in essa, la semplice formula atomica .# = = P 2 r xr x2. Sia I = una interpretazione con D = N = {o, r, 2, 3, ... } e g(P 2 1) = la relazione~ definita su N. Consideriamo ad esempio la successione s = (7, 9, 21, r, 5, ... ). Per quanto stabilito, a xr corrisponderà 7, a x2 corrisponderà 9· Sicché avremo che .w diverrà sotto questa interpretazione 7 ~ 9, ossia s soddisfa la formula in questione sotto l'interpretazione data. Mantenendo la stessa interpretazione e la stessa .w, la successione s' = (rz, 3, 5, 14, ... ) non soddisfa la
formula data perché 4uesta ora risulta « tradotta » in 1 2 ~ 3. In altri termini, .w sarà soddisfatta in I da tutte e sole quelle successioni il cui primo elemento è minore o uguale al secondo elemento; in definitiva da tutte quelle coppie di numeri (a, b) con a ~ b. E la definizione è posta in modo tale che la soddisfacibilità di una formula da parte di una successione s in una data interpretazione I dipenda in effetti soltanto dalle variabili libere che essa contiene, ossia dai particolari valori che si danno a quelle variabili nell'interpretazione. Ne viene che in particolare la soddisfacibilità di una formula chiusa F non dipende dalla particolare successione scelta (in una data interpretazione) nel senso che o ogni successione soddisfa F o nessuna successione la soddisfa: per formule chiuse cioè soddisfacibilità e verità (in una data interpretazione) coincidono; il che, ancora, rende il fatto intuitivo che una proposizione (corrispettivo semantico intuitivo di una formula chiusa) è vera o falsa.
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nel darne una definizione rigorosa e matematicamente usufruibile e dominabile. Ad esempio, la nozione di modello di una teoria ::r (di un insieme di proposizioni /') acquista ora un preciso significato: diremo che un 'interpretazione I è modello di una teoria ::r (dell'insieme I') se e solo se tutti gli assiomi di ;:r (tutti gli elementi di /') sono veri in /. Non solo, ma diviene allora chiaro in che senso preciso si parli di strutture come possibili modelli di teorie. In particolare, si è ora in grado di precisare la vaga nozione di conseguenza logica di cui il concetto di derivabilità logica- che aveva già da tempo trovato (in particolare, abbiamo visto, con Hilbert) una sistemazione ineccepibile e soddisfacente- si poteva considerare come corrispettivo sintattico. Ora infatti diremo che una formula ~ è conseguenza logica di una formula d (o, in generale, di un insieme di formule T) se e solo se in ogni interpretazione, ogni successione che soddisfa d (o che soddisfa simultaneamente tutte le formule di F) soddisfa anche ~. Potrebbe ora sembrare che, dal momento che la definizione di verità (o di soddisfacibilità) per una teoria avviene nel metalinguaggio della teoria stessa, impiegando l'aritmetizzazione di Godel si possano mettere le cose in modo tale che - come le nozioni sintattiche possono essere riportate senza contraddizioni nella teoria - lo stesso avvenga per le nozioni semantiche; orbene, questo non succede e anzi, un famoso teorema di Tarski afferma che non è possibile definire in una teoria la nozione di verità per la teoria stessa senza cadere in contraddizione: ciò significa, altrimenti detto, che per poter definire le nozioni semantiche non solo dobbiamo porci nel metalinguaggio, ma quest'ultimo deve essere essenzialmente più ricco del linguaggio oggetto; in particolare deve far uso di un'ampia porzione di teoria degli insiemi. Se chiamiamo sintatticamente chiuse le teorie che possono esprimere la propria sintassi, e semanticamente chiuse le teorie che possono esprimere la propria semantica, i risultati di Godel e Tarski ci dicono da una parte che è possibile avere teorie noncontraddittorie sintatticamente chiuse (le quali però risultano, come abbiamo visto, (sintatticamente) incomplete e in particolare non riescono a dominare un'importantissima proprietà sintattica, quella della noncontraddittorietà); dall'altra che è impossibile, pena il presentarsi dell'antinomia del mentitore, avere teorie semanticamente chiuse. Detto in altro modo: noi sappiamo che, via aritmetizzazione, possiamo assegnare a ogni formula (in particolare a ogni formula chiusa) di una data teoria un numero, precisamente il numero di Godei di quella formula; possiamo allora considerare l'insieme C 1 dei numeri di Godel dei teoremi della teoria e l'insieme T1 dei numeri di Godel delle proposizioni vere della stessa teoria. Il discorso precedente può allora riassumersi dicendo che i due insiemi C1 e T1 non coincidono e questo proprio perché mentre C1 è« rappresentabile »nella teoria, tale non è T1. Si noti che, come nel caso del teorema di Godei, questa situazione si presenta per qualunque teoria « sufficientemente potente >>. È questa una ulteriore conferma (ora stabilita con discorso rigoroso da entrambi i punti di vista, sintattico e 32.8
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semantico) dell'impossibilità in generale di rispecchiare adeguatamente, a livello sintattico, il momento semantico; dell'impossibilità cioè- presupposta in modo fondamentale ed essenziale dal programma hilbertiano- che la nozione (semantica) di verità venga in foto sostituita da quella (sintattica) di dimostrabilità. Questa impossibilità di traduzione aritmetica è d'altra parte la conferma del carattere irrimediabilmente infinitario delle nozioni semantiche che quindi debbono essere « trattate » in teorie particolarmente potenti, quale appunto la teoria degli insiemi. In questa prospettiva la definizione di verità data da Tarski acquista un significato centrale nel progetto di edificazione di una « metamatematica » (o metodologia delle scienze deduttive, come Tarski la chiama) che si pone come alternativa a quella finitista hilbertiana. Questo non solo a livello programmatico, ma più concretamente a livello storico. Come vedremo in seguito, le ricerche di Tarski aprirono la via ad un'analisi delle teorie che se pure - date le assunzioni forti di cui necessita - non poteva immediatamente aspirare ad un ruolo fondante, ha tuttavia un grande interesse matematico diretto e, sia pure indirettamente, anche fondazionale. È nella definizione tarskiana infatti che si innestano quelle indagini sulla semantica e la teoria dei modelli che costituiscono oggi uno dei punti di contatto più rilevanti fra pratica matematica e ricerca logica. Un ultimo cenno ancora al problema della semantica del linguaggio naturale. In certo senso si può tranquillamente affermare che il linguaggio naturale, il più potente mezzo ~uistico di espressione di cui disponiamo, è semanticamente chiuso; da ciò deriva per il teorema di Tarski l 'impossibilità di una definizione non contraddittoria del concetto di verità per il linguaggio stesso. Abbiamo detto « in un certo senso » perché al linguaggio naturale non si possono applicare direttamente e senza problemi le conclusioni di Tarski proprio perché non si tratta di un linguaggio « formalizzato ». Tarski tuttavia affermava appunto l'impossibilità di stabilire una rigorosa semantica (teoria del significato) per il linguaggio naturale, sostenendo che quanto era possibile fare era al massimo questo: considerare linguaggi formalizzati che si discostassero « il meno possibile » dal linguaggio naturale e a questi linguaggi di approssimazione applicare la teoria sopra esposta. Si noti in particolare che un grosso ostacolo a tale applicazione nel caso del linguaggio naturale è costituito dalla componente intensionale propria a certi termini e contesti di questo linguaggio, non presente ovviamente nei linguaggi formalizzati da noi considerati, che sono costruiti e interpretati in modo rigorosamente estensionale. Come ricorderemo tuttavia più avanti (paragrafo v) in tempi recenti, la linguistica, avendo a disposizione semantiche più «articolate» di quella di Tarski, che sono state originate dalla necessità di fornire una controparte interpretativa soddisfacente per i linguaggi m o dali (o intuizionistici) ha affrontato globalmente anche questo problema, seguendo quella che appunto viene detta la « linea di Tarski ». Si noti ancora che anche nel caso
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di queste nuove semantiche (cui accenneremo nel paragrafo v) la sistemazione di Tarski resta come sfondo generale, come momento di motivazione, e si ritrova comunque come caso particolare.
3) La «formalizzazione» della logica e della matematica intuizioniste Dopo quanto già detto in proposito nel paragrafo III.4, presentiamo la sistemazione di Heyting e i principali concetti della matematica intuizionista. Sappiamo già che Brouwer non ammetteva la formalizzazione e l'assiomatizzazione proprio per ribadire l'indipendenza della matematica intuizionista dalla logica e dal linguaggio formale; sicché, come dice John M yhill, c'è da chiedersi se parlare di « formalizzazione » dell 'intuizionismo non sia una contradictio in adiecto. Il fatto che Heyting intraprendesse questo compito non deve però far credere che egli avesse in proposito idee diverse da quelle di Brouwer, e non deve creare il fraintendimento di una diversa e mutata concezione intuizionista a riguardo. Abbiamo messo in luce in paragrafi precedenti qual è il senso e il significato che ebbe in generale questa operazione di « formalizzazione ». Nel 1930, accingendosi a presentare il suo sistema, Heyting infatti ribadisce ancora che « la matematica intuizionista è un processo mentale e ogni linguaggio, incluso quello formalistico, è solo un ausilio per la comunicazione. È impossibile in linea di principio costruire un sistema di formule equivalente alla matematica intuizionista, poiché le possibilità di pensare non possono essere ridotte a un numero finito di regole costruite anticipatamente »; anche se questa separazione fra linguaggio e matematica non va intesa in senso assoluto come risulta dalle seguenti parole del 1946 : « L 'intuizionista... non cerca il rigore nel linguaggio ma nello stesso pensiero matematico. Nello stesso tempo mi sembra contraddire la realtà supporre che la matematica intuizionista nella sua forma pura consista solo di costruzioni nel pensiero del singolo matematico, costruzioni che esistono indipendentemente l'una dall'altra e fra le quali il linguaggio pone una connessione molto tenue ... L'intuizionista usa quindi il linguaggio ordinario come il linguaggio simbolico in quanto ausilio alla memoria. Dobbiamo guardarci dall'immagine fittizia del matematico con la memoria perfetta che potrebbe lavorare senza l'aiuto del linguaggio. Nella ricerca matematica concreta il linguaggio è coinvolto in modo essenziale fin dall'inizio; la matematica come ci si presenta, convertita in espressioni linguistiche, non è preceduta da una fase completamente staccata dal linguaggio, ma è preceduta da una fase nella quale il ruolo del linguaggio è molto meno importante che nella comunicazione.» Ancora un'osservazione per quanto riguarda in particolare la concezione di Heyting circa il metodo assiomatico, al quale egli ascrive due differenti funzioni: una funzione creativa, ad esempio nella teoria classica degli insiemi dove per così dire assicura l'esistenza di oggetti non garantita da alcuna costruzione; e una funzione descrittiva che si esplica nel suo impiego come sistemazione ed abbreviazione. In que-
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st'ultima accezione l'impiego del metodo assiomatico è legittimo anche nella matematica intuizionista. Anche se oggi sono correnti altri sistemi più «trasparenti» per la logica intuizionista (e del resto ne vedremo uno noi stessi nelle prossime pagine) preferiamo dare il sistema logico originale di Heyting come presentato in Die forma/et/ Regeln der intuitionistischen Logik (Le regole formali della logica intuizionista, 1930) (e successivamente dell'aritmetica in Die formalen Regeln der intuitionistiscben lv.fathematik, n, m, (Le regole formali della matematica intttizionista, r 9 30)). Per la logica proposizionale Heyting propone i seguenti schemi di assioma, con l'unica regola di separazione:
Hr:
Hz: H3: H4: H5:
H6: H7: HS: H9: Hro: HII:
d --'; (d 1\ .sd) (d 1\ PlJ) --'; ( fJ 1\ d)
(d--'; PJ) -+((d 1\ ~--'; (PJ 1\ "6')) ((d--'; PJ) 1\ ( fJ--'; "6')) -+(d--'; "6') fJ --'; (d --'; fJ?J) (d 1\ (d--'; PJ)) --'; fJ?J d -+(dV PJ) (dV PJ) -+(fJ?JV d) ((d-+ "6')/\ (fJ-+ "6'))-+((dV fJ?J)-+ -----,d ~(d --'; fJ?J) ((d--'; fJ?J) --';(d--';-----, fJ?J)) --';-----,d
~
Per la logica predicativa, oltre agli schemi Hr-Hu, Heyting aggiunge i due schemi di assioma Hrz: Hr3:
'v'xd-+d(x/y) d(x/y)-+3xd(x)
e le regole
d --'; fJ?J (x /y) f - d-+ 'v'x fJ (x) f-
e
ff-
d (x /y) -+ fJ?J 3x d (x)__, fJ?J
sottoposte alle solite restrizioni sulle variabili. Naturalmente occorre fare attenzione a non interpretare « classicamente » i connettivi e gli operatori logici che figurano nelle espressioni precedenti; sappiamo già ad esempio delle differenze nell'interpretazione della negazione, dei quantificatori e conviene anche osservare che un punto delicato è quello dell'interpretazione del connettivo di implicazione, dal momento che, intuizionisticamente, un'espressione quale p-+ q non ha alcun significato quando non si conoscano già i «valori» di p e q. Di interpretazioni dei connettivi intuizionisti ne sono state date parecchie, e vogliamo qui ricordare le due principali, in ter-
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mini di costruzioni e di problemi. A proposito comunque dell'interpretazione degli operatori logici, conviene premettere un'osservazione generale di John Myhill secondo il quale «per comprendere l'intuizionismo è necessario aver ben chiaro fin dall'inizio che il processo di spiegare una nozione logica intuizionistica è diverso dallo stesso processo relativo a una nozione classica. Quest'ultima viene spiegata fornendo delle condizioni di verità per le proposizioni nelle quali essa interviene... la prima dando delle condizioni di asseribilità ... » I Inizialmente Heyting in Sur la logique intuitionniste (Sulla logica intuizionista) del 1930 e nel già ricordato La fondazione intuizionista della matematica, propone di interpretare una proposizione p come «l'intenzione di una costruzione matematica che deve soddisfare a condizioni determinate. La dimostrazione di una proposizione consiste allora nella realizzazione della costruzione che essa richiede: p--+ q rappresenta allora l'intenzione di una costruzione che, da ogni dimostrazione per p, conduce a una dimostrazione per q». In generale comunque, «una funzione logica è un metodo che trasforma ogni data asserzione in un'altra asserzione. La negazione è una tale funzione, il cui significato è stato descritto molto accuratamente da Becker, in accordo con Husserl. Secondo lui, la negazione è qualcosa che ha carattere positivo, precisamente l'intenzione di una contraddizione connessa con l'intenzione originale». E ancora «p V q rappresenta l'intenzione che è soddisfatta se e solo se almeno una delle due intenzioni p e q è soddisfatta. La formula che esprime la legge del terzo escluso è p V -,p. Per una data asserzione p, questa legge può essere asserita se e solo se o è stato dimostrato p o p è stato ridotto a una contraddizione. Quindi una dimostrazione per la legge del terzo escluso dovrebbe consistere in un metodo che permette, data una qualunque asserzione, o di dimostrarla o di dimostrare la sua negazione». Questa prima interpretazione comporta una distinzione fra l'asserzione «p» e l'asserzione «p è stato dimostrato», cui Heyting dedica alcune considerazioni nei due articoli sopra citati. Successivamente però egli abbandona questa interpretazione sostituendola con la considerazione delle formule logiche come esprimenti semplicemente costruzioni, col che ovviamente scompare la distinzione precedente, in quanto ora una proposizione p può essere asserita se e solo se si è in grado di realizzare la costruzione che essa esprime. Un'altra interpretazione viene suggerita nel 1932 da Kolmogorov in Zur I Assai chiarificatrice ci sembra anche la seguente immagine, sempre riportata da Myhill, che la accredita a Hao Wang: «Nel linguaggio di Wang ... l'intuizionismo è una matematica del conoscere e la matematica classica è una matematica dell'essere. L'immagine è: in entrambe le concezioni il matematico ha di fronte un blocco di sassi (proposizioni) che è occupato a dividere in vere e false, sicché in ogni momento si hanno tre blocchi chiamati" note-come-vere"," note-come-
false", "(finora)-incognite ". La differenza è che nella concezione classica, ma non in quella intuizionista, i sassi del terzo blocco sono tutti contrassegnati con V [vero] o F [falso] prima ancora della scelta, nozione questa che l'intuizionismo riguarda come teologica. Questa differenza concerne non solo il contenuto dell'intuizionismo, ma [anche] il modo col quale noi chiarifichiamo i suoi concetti. »
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Deutung der intuitionistischen Logik (Per l'interpretazione della logica intuizionista) ave una proposizione viene intesa come esprimente un problema, sicché il calcolo ora diviene un calcolo di problemi.l Considerando le due interpretazioni sopra esposte, si possono così riassumere l'interpretazione dei connettivi e le condi?.ioni di asseribilità (f-) di una proposizione. Con d(x) si intenda una proprietà di cui gli enti di un certo tipo possono godere, rispettivamente un problema sensato per enti di un certo tipo. Avremo allora:
d
f-d
Heyting -------------.. esprime una proposiziOne d una costruzione (matematica) -è stata eseguita la costruzione espressa da d
Kolmogorov una proposizione d esprime un problema matematico è stato risolto il problema espresso da d
-------
f---,d
supposta eseguita la costruzione espressa da d si può effettivamente costruire una contraddizio ne
supposto risolto il problema espresso da d si può effettivamente ottenere una contraddizio ne
f-dl\f!l
è stata eseguita tanto la costruzio ne espressa da d quanto quella espressa da /}#
è stato risolto tanto il problema espresso da d quanto quello espresso da fJI
f-dV f!l
è stata eseguita la costruzione espressa da d oppure quella espressa da fJI
è stato risolto il problema espresso da d oppure quello espresso da fJI
f-d~f!l
si sa eseguire effettivamente la costruzione espressa da fJI ogniqualvolta si sa eseguire la costruzione espressa da d
si sa effettivamente riportare la soluzione del problema espresso da fJI a quella del problema d
3xd(x)
si sa effettivamente indicare un individuo che gode della proprietà d(x)
si sa effettivamente risolvere il problema d(x) per un dato individuo x
Vxd(x)
per ogni particolare elemento x si può far vedere che gode di d
si può risolvere il problema .91 per ogni particolare elemento dato
r Nel 1936 S. Jaskowski in Recherches sur le .rystème de la logique intuitionniste (Ricerche sul sistema
della logica intuizionista) dimostra un teorema che
riporta la dimostrabilità di nna formula intui-
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Si noti che contrariamente all'interpretazione classica dei connettivi (come funzioni di verità) e dei quantificatori (come funzioni da insiemi di valori di verità a valori di verità) con queste interpretazioni essi non sono intcrdefinibili ossia sono, come sappiamo, indipendenti. Combinando le interpretazioni per la negazione e la disgiunzione si vede subito che il terzo escluso non vale, in quanto esso verrebbe a significare o l'effettuabilità di ogni costruzione o equivalentemente la risolubilità effettiva di ogni problema matematico. Ora, dice Heyting, « affermare questo principio senza che esista un metodo generale di risoluzione per i problemi matematici non può essere giustificato se non riferendosi alla convinzione che la soluzione, se incognita, debba ciononostante essere definita in qualche modo; ma ciò significherebbe porre alla base delle considerazioni matematiche un principio filosofico, il che abbiamo riconosciuto ... come inaccettabile ». Analogamente le interpretazioni sopra date non consentono di accettare nella logica intuizionista l'implicazione-, ----,p---+ p (mentre evidentemente vale il viceversa p---+----, ----,p), sicché intuizionisticamente, a differenza di quanto avviene nella logica classica, non si ha l'equivalenza tra una proposizione e la sua doppia negazione. Interessante anche è notare che Brouwer ha dimostrato la validità intuizionista della negazione della negazione del terzo escluso, ossia la formula ----,-l (PV ---,p) che è equivalente a ---,(,p + - l ,p), il che esprime il principio brouweriano dell'assurdità dell'assurdità del principio del terzo escluso. In altri termini questo principio non ha intuizionisticamente (come invece avviene nel caso classico) validità universale, ma non viene universalmente refutato. Volendolo esprimere in altro modo, non si può dare un problema dimostrabilmente insolubile: « quando ci si limiti ai problemi costruttivi, » dice Heyting, « non se ne può dare uno che sia dimostrabilmente insolubile, ma l'ipotesi che tutti problemi siano risolubili si dimostra ingiustificata ». Dal punto di vista della sistemazione formale, l'aritmetica intu1z1onista è basata su tutti gli assiomi logici e sugli usuali assiomi di Peano (abbiamo già visto che intuizionisticamente questi ultimi erano tutti - salvo l'induzione che diveniva un facile teorema - proposizioni evidenti). Dopo la pubblicazione dei lavori di Heyting vengono dimostrati alcuni importanti teoremi sui rapporti fra logica e aritmetica classiche e intuizioniste. Per quanto riguarda la logica, è chiaro intanto che tutte le formule accettate dagli intuizionisti sono valide classicamente, quindi il calcolo logico intuizionista è certamente contenuto propriamente in quello classico. Un primo interessantissimo risultato viene ottenuto nel r 9 33 da Go del in Zur intuitionistischen Arithmetik und Zahlentheorie (Sull'aritmetica e la teoria dei numeri intuizioniste). Egli vi dimostra zionista proposizionale alla sua validità in opportune matrici; nel 1938 Tarski in Der Aussagenkalkii! und die T opo!ogie (Il calcolo proposizionale e la topologia) impiega questo teorema per dare un'interpretazione topologica del calcolo proposizio-
nale intuizionista che formalmente si può riportare a una enunciazione su matrici e che permette di ricavare per questa interpretazione un teorema di completezza per tale calcolo.
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intanto che il calcolo proposizionale classico (CPC) è un sottosistema del calcolo proposizionale intuizionista (CPI); risultato che, assieme al precedente, sembrerebbe poter far concludere per la coincidenza dei due sistemi. Le cose naturalmente non stanno così: nella (ovvia) dimostrazione CPI c CPC si lasciano inalterati i connettivi, sicché la traduzione delle formule intuizioniste in quelle classiche è identica: se d vale intuizionisticamente, allora d' vale anche classicamente. È chiaro tuttavia che questa traduzione non è per così dire «fedele» (dal punto di vista intuizionista) proprio per le diverse interpretazioni che nei due casi ricevono i connettivi. L'implicazione inversa, CPCc CPI dimostrata da Godei è invece fedele in questo senso, cioè rappresenta la logica classica su quella intuizionista traducendo opportunamente le formule valide della prima in formule valide della seconda mediante una « traduzione » delle stesse che non « tocca » i significati classici dei connettivi, pure interpretandoli correttamente dal punto di vista intuizionista. Sicché ora, data una formula d' in CPC, Godei le associa una formula d'* (in generale diversa da d') valida in CPI. Il passaggio avviene traducendo le nozioni classiche ---,p, p ~ q, p V q, p 1\ q nelle corrispondenti nozioni intuizioniste -,p, ---,(p 1\ ---, q), ---, (---,p 1\ ---, q), p 1\ q.l Si può estendere ii risultato al calcolo dei predicati traducendo il quantificatore esistenziale 3x in ---,V x---, (lasciando invariato l'universale). Ora Godei dimostra che la stessa relazione vale fra l'aritmetica di Peano basata sulla logica classica (Godei si riferisce a una variante di un sistema dato da Herbrand nel 193 1) e quella basata sulla logica intuizionista: anche in questo caso si possono interpretare le nozioni classiche in termini di nozioni intuizioniste in modo che « tutti gli assiomi classici diventino proposizioni dimostrabili anche per l'intuizionismo »; e anche ora si tratta di associare opportunamente ad ogni formula classica s# la sua traduzione d'*, in modo tale che se d'è dimostrabile nell'aritmetica classica, d'* sia dimostrabile nell'aritmetica di Heyting. 2 Non ci fermeremo qui sulla definizione di tale «traduzione» o interpretazione e ci limitiamo a riportare le parole conclusive dell'articolo, veramente illuminanti. « La dimostrazione qui effettuata, » afferma Go del, « mostra che l' aritmetica e la teoria dei numeri intuizioniste sono solo apparentemente più ristrette delle versioni classiche, e in effetti le contengono (impiegando un'interpretazione alquanto deviante). r Ad esempio, la tautologia classica sd =
=p---> (q-> p) diventerebbe .W*=--, (p 1\--,--, (q/\
1\--, p)) e .W* risulta ora valida intuizionisticamente; se si= pV--, p ossia il terzo escluso, si avrà .w* =--, (--,p/\--,--, p) c così via. Si comprende meglio il senso di tutto il discorso se si pensa che la traduzione identica (da CPI a CPC) non può essere intuizionisticamente adeguata dal momento che l'interpretazione intuizionista dei connettivi richiede ad esempio una distinzione fra le due formule p c ---, ---, p che invece risultano, come sappiamo, classicamente equivalenti. F.
chiaro allora come avendo viceversa a disposizione questa analisi più « sottile » si possa operare in modo fedele il passaggio inverso. 2 Questo risultato dà evidentemente una dimostrazione di consistenza intuizionistica per l 'aritmetica «classica >> di Peano. « È notevole,>> osserva Mostowski, « che questa dimostrazione risulti essere così semplice mentre non esistono dimostrazioni di consistenza strettamente finitiste. Quindi l'aritmetica di Peano basata sulla logica intuizionista contiene molti elementi non finitistici. >>
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La ragione di ciò sta nel fatto che la proibizione intuizionista di negare proposizioni universali per formare proposizioni puramente esistenziali viene resa inoperante ammettendo l'applicazione del predicato di assurdità alle proposizioni universali, il che formalmente conduce esattamente alle stesse proposizioni come sono asserite nella matematica classica. L 'intuizionismo sembrerebbe risultare una genuina restrizione solo per l'analisi o la teoria degli insiemi e queste restrizioni sono il risultato non della negazione del tertium non datur, ma piuttosto della proibizione di concetti impredicativi. Le considerazioni precedenti danno ovviamente una dimostrazione di consistenza per l'aritmetica e la teoria dei numeri classica. Tuttavia questa dimostrazione è certamente non " finitaria" nel senso dato da Herbrand seguendo Hilbert. » Per finire, vediamo quelli che sono i principali concetti dell'Analisi intuizionista; a questo proposito sarà purtroppo impossibile andare sostanzialmente al di là di brevi cenni, a causa della complessità delle esplicazioni tecniche che sarebbero necessarie per un discorso anche solo leggermente più articolato. Ribadiamo comunque che tutta l'attività di Brouwer, che dal 1918 in poi, in una serie iii?pressionante di lavori, viene costruendo una « teoria intuizionistica degli insiemi» e su di questa basa la ricostruzione della topologia e dell'analisi intuizioniste, tutta questa attività dicevamo non si pone lo scopo di ricostruire la matematica intuizicrnista come parte della matematica classica, bensì come la matematica, l'unica possibile per chi accetti l'atteggiamento intuizionista, il solod 'altra parte - che offra garanzie di costruttività ed effettività. Noi daremo appunto i concetti « insiemistici » fondamentali e la « spiegazione » che su questa base Brouwer dà del continuo; allo scopo ci riferiremo a tre lavori di Brouwer: Intuitionistische Mengenlehre (Teoria degli insiemi intuizionista, 1919), Zur Begriindung der intuitionistischen Mathematik (Sulla fondazione della matematica intuizionista, 1, n, m, 1925-26) e Uber Definitionbereich der Funktionen (Sul dominio di definizione delle funzioni, 1927), ma soprattutto alla limpida esposizione di Heyting; in Intuitionism; an introduction (Intuizionismo. Un'introduzione, na ed., 1966). La teoria intuizionista del continuo è basata sulla nozione di « insieme » di Brouwer; l la quale a sua volta si spezza per così dire in due: da una parte si può pensare di definire un insieme dando un metodo di generazione per i suoi elementi, dall'altra si può dare invece una proprietà caratteristica degli elementi stessi. Il primo caso viene realizzato nella matematica intuizionista definendo il concetto di spiegamento; il secondo definendo il concetto di specie. Il primo di questi concetti, in particolare, precisa a livello di matematica intuizionista il concetto classico di successione, euristicamente sostituito da Brouwer con quello di successione infinitamente proseguibile (sip) o successione di libera scelta, «i cui termini r In un primo momento Brouwer considera il continuo come dato direttamente e immediatamente dall'intuizione del tempo. In seguito intro-
duce la nozione di successione di scelta di cui si riferisce nel testo.
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La:.l?gica nel ventesimo secolo (I)
vengono scelti più o meno liberamente da entità matematiche precedentemente ottenute ».1
Uno spiegamento M è ora definito da due leggi:
I) la legge di spiegamento
S.~~-~,
che regola la scelta di numeri naturali, e
2) la legge complementare CM che assegna una successione di entità matematiche a ogni sip di numeri naturali generata secondo SM. Più in particolare, una legge di spiegamento SM è una regola S che divide le sequenze (successioni finite) di numeri naturali in ammissibili e non ammissibili come segue:
a) S specifica per ogni dato numero naturale k se esso è ammissibile o no; b) Se a0 , a1, ... , an è una sequenza ammissibile, allora S specifica se a0 , a1, ... , an, k (k numero naturale) è ammissibile o no, e in modo tale che per ogni data sequenza a0 , a1, ... , an si può trovare almeno un k tale che a0 , a1, ... , an, k
è ammissibile. A questo punto la legge complementare C M assegna una data entità matematica a ogni successione finita ottenuta tramite SM. 2 Del concetto di specie Brouwer dà a più riprese diverse definizioni: in particolare nel I 92 5 in Zur Begriindung der intuitionistischen .iWathematik, I (Per la fondazione della matematica intuizionista, 1) ove distingue specie di vari ordini; e ancora, ad esempio nel I95 3, in Points and spaces (Punti e spazi) dove più in generale definisce le specie come « proprietà che si possono supporre godute da entità matematiche precedentemente acquisite e soddisfano la condizione che se esse valgono per una certa entità matematica, esse valgono anche per tutte le entità matematiche che sono state definite come uguali ad essa ». Più semplicemente per questa seconda nozione intuizionista di « insieme » si può assumere con Heyting « una proprietà che si può supporre goduta da enti matematici ». Prima di giungere al corrispettivo intuizionista del concetto classico di continuo, dobbiamo introdurre ancora il concetto di « generatore di numero reale ». Questo viene definito a partire dal concetto di successione fondamentale (si ricordi il paragrafo I La nozione di successione di libera scelta non è tuttavia mai stata chiarita in modo esauriePte da Brouwer. Anzi vedremo che le più moderne ricerche sulla matematica intuizionista sono in parte dirette proprio al chiarimento della non univoca determinazione di tale concetto. z Consideriamo ad esempio il seguente spiegamento (che prendiamo da Casari): I) SM: a) come termine ao è ammesso il solo numero I
b) se la sequenza ao, a1, ... , an è ammissibile, allora è anche ammissibile la sequenza ao, a1, ... , an, an+l, purché si prenda come an+ 1o Zan o zan +I. Si avrebbe allora, come esempio di sequenza ammissibile: 1, z, 5, IO ecc.
z) CM: alla sequenza ao, ... , an ammissibile in conformità con 1) si associa il numero razionale
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2 n+l
La logica nel ventesimo secolo (I)
n del capitolo xn del volume sesto) di numeri razionali; come si ricorderà, una successione (an) di numeri razionali viene detta fondamentale (o di Cauchy, o convergente) se per ogni numero naturale k è possibile trovare un numero naturale n = n(k) tale che per ogni numero naturale p valga lan+p- ani < I jk. Orbene un generatore di numero reale è null'altro che una successione fondamentale (an) di numeri razionali: naturalmente con l'ovvia ed essenziale condizione che sia effettivamente possibile mostrare che (an) è una tale successione, vale a dire che quel « è possibile trovare ... » che abbiamo sopra scritto in corsivo vada inteso non solo come esistenza di n ma come possibilità effettiva di trovare tale numero. Tralasciamo qui di introdurre le relazioni e le operazioni fra generatori di numero reale, peraltro interessantissime perché assai più «raffinate» di quelle classiche; ci limitiamo a ricordare che è ovviamente possibile considerare successioni di generatori di numeri reali e se (an) è una di tali successioni, si dice che essa converge al limite {J se e solo se per ogni naturale k è possibile trovare un numero naturale n tale che per ogni naturale p
lfl- an+pl
r)-> ((PV q)-> (PV r)). Con i concisi chiarimenti che faremo seguire il lettore dovrebbe essere in grado di « ricostruire » le regole applicate. L
2.
3· 4· 5. 6. 7· 8.
9·
[q-> r] q-->r [q] q [q-> r, q] r [q-> r, q] PV r [p] p (p] pv r [PV q] PV q [q->r,pV q] PV r [q-> r] (PV q) -+(pV r)
Ass. Ass. E---+-, I, 2 IV, 3 Ass. IV, 5 Ass. EV, 4, 6, 7 I->, 8
IO.
(-j
(q->r)-> I->,9 ->((pV q) ->(PV r))
Nelle righe 1, 2, 5 sono state introdotte delle assunzioni, il che è indicato con un Ass. a destra delle righe corrispondenti. Nella riga 3, ad esempio, è stata applicata la regola di eliminazione di --> alle (formule delle) righe 1, 2. La «meno ricostruibile » delle regole sopra applicate è forse la EV. Essa avviene con questo elementare ragionamento: se entrambi i corni p, q di un dilemma (p V q, riga 7) permettono di derivare (eventualmente con altre assunzioni) una stessa formula (nel nostro caso, p V r, righe 6, rispettivamente, 4) allora possiamo eliminare il dilemma stesso affermando la formula così ottenuta (riga 8).
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(m= o) che si riducono alla formula---, (d1 /\ d
2 /\ ••• /\ dk), vale a dire l'antecedente vuoto significa una assunzione vera, il conseguente vuoto una conclusione falsa. Può anche aversi una sequenza vuota che scriveremo ad esempio « r- » e che è equivalente a una contraddizione (da una premessa vera si è ottenuta una conclusione falsa). Gli unici «assiomi» ammessi da Gentzen sono sequenze del tipo dr- d. La differenza fra i calcoli LJ e LK sta ora in questo che, restando comuni a entrambi gli schemi inferenziali cui ora accenneremo, nelle derivazioni in L J sono ammesse solo sequenze il cui conseguente sia costituito da una sola formula. Aggiungendo tale limitazione, e salvo esplicito avviso in contrario, quanto ora diremo genericamente sui calcoli L varrà tanto per LJ quanto per LK. Per stabilire ora un calcolo L delle sequenze, si dovranno dare, come per i calcoli N, delle regole per l'introduzione e l'eliminazione dei connettivi logici (il che si può ridurre, come ci si convince facilmente, alla sola introduzione dell'operatore in questione nell'antecedente o nel conseguente di una sequenza); ma saranno anche necessarie regole che riguardano soltanto la « struttura » di una sequenza, nel senso che permettono ad esempio di scambiare Pordine delle formule nell'antecedente o nel conseguente, o che permettono di evitare la ripetizione di formule ecc. Gentzen distingue infatti per i calcoli L gli schemi di inferenza operativa che regolano appunto la manipolazione degli operatori, dagli schemi di inferenza strutturale che invece consentono interventi del secondo tipo sulle sequenze. Diamo qualche esempio per i primi (le lettere maiuscole greche indicano successioni finite di formule, separate da virgole, eventualmente vuote);
I) Introduzione di V nell'antecedente
nel conseguente
f!J, /'r- g d, /'r- g J'r--8 dV f!J,
/'r- @,d l'r-dVf!J
2) Introduziflne di -----, nell'antecedente
l'r- @,d rr- e, f!JV d
nel conseguente
d, /'r- g
/'r- @,d ---,d, /'r- g
rr- e, ---,d
Per quanto riguarda gli schemi strutturali, oltre a quelli sopra ricordati informalmente, vogliamo esplicitarne uno che è decisamente centrale in tutto lo sviluppo del discorso di Gentzen. Si tratta dello schema di cesura (tedesco, Schnitt; inglese, cut), che si può porre sotto la forma:
!'r-d, 8
r,
d, LIr-A LIr-e, A
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e che si può leggere come segue: se in una derivazione figura una sequenza come quella in alto a sinistra (I) e quindi una come quella in alto a destra (z) che hanno in comune la formula d, ma una nel conseguente e l'altra nell'antecedente, allora si può passare a una sequenza che ha come antecedente tutte le formule comprese nell'antecedente di (I) e di (z) meno la formula d e analogamente per il conseguente: in altri termini si può eliminare, tagliare (lo Schnitt originale) la formula d in questione. Si noti che fra tutti gli schemi strutturali questo è l'unico che permette di eliminare completamente da una derivazione una formula (nel nostro caso d; la formula così eliminata viene detta formula di cesura). Ora i risultati cui prima si accennava relativi ai calcoli L sono appunto riferiti a questo schema. Il primo di essi, noto come Hauptsatz (teorema principale) di Gentzen, afferma che ogni derivazione nei calcoli L di una sequenza I' 1--- e può essere trasformata in una derivazione della stessa sequenza nella quale non figurino cesure; in altri termini l' Hauptsatz afferma che tale schema è superfluo .l Allora dalla proprietà prima ricordata della cesura discende subito che dal momento che da una derivazione senza cesure non si può più eliminare alcuna formula, le formule di tutte le sequenze che intervengono nella derivazione di una sequenza. data dovranno in qualche modo figurare in quest'ultima. È questo infatti un immediato corollario dell' Hauptsatz, noto come proprietà o teorema della sottojòrmula (Tei[formelsatz): ogni derivazione nei calcoli L di una sequenza I' 1--- e può essere trasformata in una analoga derivazione della stessa sequenza, tale che ogni formula occorrente in qualche sequenza della derivazione è sottoformula di almeno una formula di I' 1--- e. Esprimendoci intuitivamente, è sempre possibile derivare una sequenza senza ricorrere a formule « estranee » alla sequenza stessa: in un certo senso quindi la derivazione ha « memoria». Conviene ricordare qualche altra conseguenza immediata dello Hauptsatz: banalmente ne deriva la consistenza della logica predicativa classica e intuizionista. Allo scopo infatti basta far vedere che non è derivabile la sequenza vuota « 1--- »; ma ciò è immediato dal momento che l'unico modo di «far sparire» formule da una derivazione è quello di applicare la cesura, il che è appunto evitabile grazie al teorema principale di Gentzen. lllteriori conseguenze: una procedura di decisione per la logica proposizionale intuizionista e una nuova dimostrazione della non derivabilità della legge del terzo escluso nella logica intuizionista. 2 1 Data l'evidente analogia della regola di cesura con il modus ponens, questo risultato ne richiama uno del tutto analogo ottenuto, come si ricorderà, da Herbrand. Gentzen in effetti vede il collegamento in questione, ma per una errata valutazione del risultato di Herbrand ritiene di aver dimostrato un teorema assai più generale. In effetti, per quanto riguarda la logica classica i due teoremi sono sostanzialmente equivalenti .. Il vantaggio tuttavia di quello ottenuto nella forma di Gentzen è che esso è applicabile (oltre che, ovvia-
mente, come abbiamo visto, alla logica intuizionista) anche a molti altri sistemi non classici, ai quali invece non può essere esteso il teorema di Herbrand. Si veda comunque anche la successiva nota. 2 Per la sola logica classica, ossia per il solo LK, l' Hauptsatz può essere rafforzato nel cosiddetto verschiirfter Haupt,-atz, secondo il quale la derivazione di una sequenza r, - A le cui formule siano tutte in forma normale prenessa può venir trasformata in una derivazione della stessa
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L 'introduzione dei calcoli L e in particolare la dimostrazione dell' Hauptsatz permettono a Gentzen di affrontare e risolvere il problema centrale di tutta la Beweistheorie: la dimostrazione della consistenza dell'aritmetica, che egli propone solo un anno dopo le Ricerche, in Die Widerspruchfreiheit der reinen Zahlentheorie (La noncontraddittorietà della teoria dei numeri pura, I936), e ripropone modificata dopo qualche anno in Neue Fassung des Widerspruchfreiheitsbeweises fur die reine Zahlentheorie (Nuova versione della dimostrazione di noncontraddittorietà per la teoria dei numeri pura, I938); importante anche, in questa connessione, l'articolo Beweisbarkeit und Unberweisbarkeit von Anfangsfallen der transftniten Induktion in der reinen Zahlentheorie (Dimostrabilità e non dimostrabilità di forme ristrette dell'induzione iransfinita nella teoria dei numeri pura, I943)· Non è qui possibile entrare nei particolari della dimostrazione di Gentzen. Ci limiteremo ad accennare molto in generale all'idea centrale di tale dimostrazione: Gentzen associa ad ogni dimostrazione formale un numero ordinale transfinito a < so , dove so = w w ro w ww Quindi fa vedere che, o ve esistesse una dimostrazione di una formula contraddittoria, ad esempio della formula I =? I, di numero, poniamo, {3 si avrebbe anche una dimostrazione di I =? I cui sarebbe associato un numero ordinale y < {3 (intuitivamente: si avrebbe una dimostrazione «meno complessa» di I =? I); ne segue che l'esistenza di una contraddizione contravverrebbe al principio di induzione transfinita (fino a so) o, in termini meno esatti, si potrebbe già svolgere nel « finito ». È ovvio che il metodo al quale si appella Gentzen per dare la sua dimostrazione di consistenza trascende in qualche senso (come minimo appunto per il teorema di Godei) quanto è « formalizzabile » nell'aritmetica, ossia va al di là dell'ambito « finitista » in senso hilbertiano.l Ma, afferma Gentzen, «se si deve
+
sequenza, che gode delle seguenti proprietà: 1) non contiene cesure; 2) contiene una sequenza «mediana» tale che 2.1) né tale sequenza né la sua derivazione contengono quantificatori e 2.2) nel resto della derivazione vengono impiegati soltanto schemi di inferenza strutturale e schemi relativi ai quantificatori. In altri termini, la sequenza mediana divide per così dire la derivazione in due parti, una puramente logico-proposizionale, l'altra puramente logico-predicativa (si noti, in collegamento al teorema di Herbrand, che la sequenza mediana corrisponde appunto alla formula di Herbrand). Questa forma rafforzata dell' Hauptsatz viene sfruttata da Gentzen, sempre nelle Ricerche, per dare una nuova dimostrazione della consistenza dell'aritmetica senza induzione (come si ricorderà per l'aritmetica senza induzione o con l'induzione limitata a formule di tipo particolare altre dimostrazioni erano state date da Ackermann e von Neumann nel 1927, da Herbrand nel 1 9 32 ; e un teorema generale al riguardo viene dato da Bernays nel 1936). Tuttavia, come lo stesso Gentzen conclude, «l'aritmetica senza
+
+ ...
induzione completa è ... di scarso significato pratico, perché l'induzione completa è costantemente richiesta nella teoria dei numeri. Finora peraltro non è stata dimostrata la consistenza dell'aritmetica con induzione completa». È appunto quest'ultimo l'importante ulteriore risultato raggiunto da Gentzen nell'anno successivo. 1 Si consideri il principio di induzione matematica posto nella forma (cui in particolare si dà il nome di induzione completa) (1)
Vy {Vx(x la formula che esprime l'induzione su -< di tipo e 0 ). Per finire, riassumiamo in termini leggermente diversi l 'accenno dato nel testo all'andamento della dimostrazione. Supponiamo allora di avere ottenuto una derivazione di una contraddizione; riduciamo tale derivazione in modo effettivo, costruttivo, a una derivazione che abhia la stessa conclusione ma numero ordina le minore. Questa procedura termina dopo un numero finito di passi e quindi si ottiene una dimostrazione di una contraddizione, non più riducibile, non solo, ma ora ispeziona bile nel finito; e si può far vedere che è così impossibile dedurre una contraddizione.
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non fu immediatamente compreso, sicché non costituì subito un contributo al programma hilbertiano come concepito originariamente; tuttavia, come dice Solomon Feferman, « le limitazioni teoriche imposte a quel programma dal teorema di Godei avrebbero condotto a considerare una estensione del programma di Hilbert nella quale la richiesta che tutti i ragionamenti della teoria della dimostrazione fossero finitisti sarebbe stata indebolita richiedendo che tutti questi ragionamenti fossero costruttivi ». E ciò spiega il grande impatto che i metodi e i risultati di Gentzen hanno avuto e continuano ad avere nelle ricerche attuali di teoria della dimostrazione) Dagli intuizionisti invece Gentzen si discosta perché, !ungi dal rifiutare come prive di senso le proposizioni matematiche transfinite (ideali in senso hilbertiano) ritiene necessario tentare di dar loro un «senso finitista » (anche se nella sua accezione allargata) evitando così mutilazioni catastrofiche della matematica: «La maggior parte della mia dimostrazione di consistenza, » afferma Gentzen, « ... consiste proprio nell'ascrivere un senso ftnitista a proposizioni attualiste, e precisamente: per ogni proposizione arbitraria, nella misura in cui è dimostrabile, può essere enunciata ... una regola di riduzione, e ciò rappresenta il senso finitista della proposizione stessa e questo senso si acquisisce proprio per mezzo della prova di consistenza. » A mo' di conclusione, riportiamo le parole con cui Andrzej Mostowski valuta congiuntamente i risultati di Herbrand e Gentzen, accomunandoli ovviamente nella concezione finitista: «Esistono indubbiamente due opposte tendenze nello studio dei fondamenti della matematica: l 'infinitistica o insiemistica e la finitistica o aritmetica. Le scoperte originali di Herbrand e di Gentzen appartengono ovviamente alla seconda di queste tendenze, ma la ricerca successiva I È opportuno anticipare già a questo punto altre proposte successive al lavoro di Gentzen, avanzate per risolvere il problema della consistenza dell'aritmetica e di sistemi più forti (Analisi). Va detto intanto che Hilbert-Bernays nel 1939 non solo sembrano ammettere l'estensione di Gentzen dei loro metodi, ma anzi sembrano ritenere che estendendo ulteriormente tali metodi si possa giungere a una dimostrazione della consistenza dell'Analisi. In effetti tali estensioni si sono avute e sono state finora sostanzialmente di due tipi. Da una parte Gaisi Takeuti nel 1953 ha proposto un calcolo logico generale (del tipo dei calcoli di Gentzen ma per la teoria dei tipi con variabili predicative di ordine superiore) e ha congetturato che per tali calcoli valga ancora un ac.alogo dell' Hauptsatz. Se tale congettura si fosse rivelata esatta e fosse stata suscettibile di dimostrazione costruttiva, ne sarebbe seguita una dimostrazione di consistenza dell'Analisi. La congettura di Takeuti è stata in effetti dimostrata di recente (r 967) ma in modo non costruttivo. L'altro aspetto delle estensioni riguarda in modo naturale la defi-
nizione costruttiva di ordinali maggiori di co e tal i che con l'induzione spinta fino ad essi si possa dimostrare la consistenza di varie teorie materr.atiche; ricordiamo in questo campo i lavori e: i risultati di Ackermann (1951), Kurt Schutte (r96o), Takeuti (1956). Sorvolando su altri tentativi in questa direzione, vogliamo invece ricordare una proposta avanzata da Godei nel 1958 in Vber eine bisher noch nicht beniitzte Enveiterung des ftniten Standpunktes (Su un ampliamento finora non ancora utilizzato del punto di vista ftnitista ), in cui egli introduce un sistema formale per funzionali primitivi ricorsivi di tipo finito, ove per funzionale si intende una funzione i cui valori e argomenti possono essere altre funzioni. Con una traduzione nell'aritmetica intuizionista, Godei ottiene una dimostrazione di consistenza per l'aritmetica classica. Si noti che esiste una precisa relazione fra il metodo di Gentzen e quello di Godei: per dimostrare l'esistenza dei funzionali definiti nel sistema di Godei occorre, come ha fatto vedere Georg Kreisel nel 1959, impiegare l'induzione fino a co.
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che si è fondata su questi risultati ha tratto molte idee dalla prima. L'influenza dell'approccio insiemistico è chiaramente riscontrabile nel teorema di consistenza di Bernays l nel quale le nozioni semantiche sono volutamente imitate in termini finitisti. Possiamo dire che i metodi di Herbrand e di Gentzen ci permettono di rendere finitisti certi casi particolari di costruzioni insiemistiche. » Può aggiungersi che nell'ultimo decennio le due tendenze si sono sempre più influenzate a vicenda.
5) La precisazione del concetto di « effettivo ». Teoria della ricorsività Non occorre spendere molte parole per introdurre quest'ultimo argomento con cui concluderemo la panoramica delle vicende della ricerca logica negli anni trenta: abbiamo avuto più volte occasione, nelle pagine precedenti, di fare entrare naturalmente nel nostro discorso il riferimento a procedure effettive intese in senso ovviamente vago e intuitivo. Sostanzialmente tali riferimenti avvenivano in questi termini: ritenevamo di possedere una « procedura effettiva » ogniqualvolta di fronte a un problema (una certa classe di problemi) eravamo in grado di dare un « algoritmo » che permettesse di risolvere quel problema (ogni problema di quella certa classe). Al termine di algoritmo si associa di solito intuitivamente l'idea di un complesso di istruzioni tali che: a) siano precisamente determinate sì da non consentire situazioni di dubbio nel corso dell'esecuzione, e inoltre « universalmente» comprensibili nel senso che chiunque possa applicarle una volta presane conoscenza; in altri termini un algoritmo deve essere «deterministico» e essenzialmente «meccanico»; b) siano abbastanza generali da potersi applicare a ogni problema di una data classe; c) applicate a certi« dati» forniscono criteri per determinare quando la soluzione è raggiunta, e questo avvenga dopo un numero finito di passi. Nel caso la soluzione non venga raggiunta, le istruzioni possono dar luogo a un processo che prosegue indefinitamente. Esempi a tutti noti di procedure di questo tipo sono l'algoritmo euclideo per la ricerca del massimo comune divisore fra due numeri naturali; o il semplicissimo algoritmo col quale stabilire se un qualunque numero naturale dato è primo o no; l'algoritmo (tavole di verità) mediante il quale stabilire se una data formula proposizionale è o no una tautologia (che risolve il problema della decisione per la logica proposizionale); ecc. Abbiamo tuttavia ricordato altri problemi (che abbiamo lasciato aperti) per i quali non conosciamo un algoritmo in grado di offrirei una soluzione, ad esempio il problema della decisione per la 1 Si tratta della dimostrazione data da Bernays nel 1936 (vedi la nota 2 a pag. 346) e poi riportata nel secondo volume (1939) dei Fondamenti della matematica di Hilbert-Bernays. In essa Bernays dimostra che data una teoria i cui assiomi posti in forma prenessa abbiano prefisso del tipo
'> di computazione da parte di un soggetto umano più che sulla nozione di computazione (funzioni ricorsive) o di programma (algoritmi), è senz'altro il più convincente e immediatamente afferrabile a livello intuitivo (mal-
grado le innegabili complessità « meccaniche » che esso comporta). Per questo, più che altre precisazioni, è stato il metodo che ha favorito l'identificazione delle funzioni ricorsive con quelle intuitivamente computabili. Si ricordi del resto l'accenno fatto da Godei in proposito, da noi riportato alla nota I a pag. p6.
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di vista una funzione sarà computabile se esiste una macchina di Turing che h computa nel senso precedente. Inoltre dovrebbe risultare agevole comprendere che ogni macchina di Turing può èssere individuata mediante il suo numero di GOdei, che si ottiene semplicemente applicando la tecnica dell'aritmetizzazione all'insieme di quadruple che caratterizza una data macchina. Discorso analogo può farsi ovviamente per gli algoritmi di Markov, tramite opportuna godelizzazione delle relative istruzioni. Infine facciamo un cenno al lavoro di Post, Recursive!J enumerabile sets oj positive integers and their decision problem (Insiemi ricorsivamente enumerabili di interi positivi e il loro problema della decisione, 1944), dove viene sviluppato un metodo relativo alla teoria degli insiemi ricorsivamente enumerabili indipendente dalla teoria delle funzioni ricorsive; l l'aggancio con l'approccio «funzionale» è dato dai teoremi - dimostrati da Post - che in forma intuitiva abbiamo già dato e cioè: la funzione caratteristica j M di un insieme M è computabile se e solo se .M e il suo complemento M sono entrambi ricorsivamente enumerabili e una funzione j è computabile se e solo se l'insieme delle coppie <x,j(x)> è ricorsivamente enumerabile. Ma, domanda naturale: esistono insiemi ricorsi vamente enumerabili ma non ricorsi vi? La risposta, come vedremo più ampiamente in seguito, è positiva (come avevano dimostrato indipendentemente Church, Rosser e Kleene nel 1936) e costituisce uno dci risultati centrali di questa prima fase della ricerca sulla ricorsività: Post ha il merito di iniziare un'indagine accurata di tali insiemi. Egli dimostra che due insiemi qualunque non ricorsivi ma ricorsivamente enumerabili non sono necessariamente equivalenti dal punto di vista della decidibilità nel senso che il problema della decisione dell'uno coincida con quello per l'altro a meno di inessenziali cambi di nomi per i loro elementi. Egli lasciava tuttavia aperto il problema circa il tipo di « similarità » che poteva eventualmente porsi fra insiemi non ricorsivi ma ricorsivamente enumerabili. Allo scopo Post (riprendendo un'idea di Kleene del 1943) definisce la nozione di ricorsività relativa: un insieme A si dice ricorsivo in un insieme B quando la funzione caratteristica fA del primo risulta ricorsiva supposto che, ogniqualvolta sia necessario alla computazione di .f1 , si possa disporre di valori della funzione caratteristica j 8 del secondo (nella terminologia di Turing la /B funge qui da oracolo). Egli pone quindi il problema (detto di Post) seguente: dato un qualunque insieme A non ricorsivo e ricorsivar Come già accennato quindi l'approccio di Post (che si basa sull'introduzione di particolari sistemi formali detti sistemi canonici) più che sull'idea di funzione computabile si fonda sull'idea di insieme generabile in modo effettivo. All'origine di questo approccio sta un'analisi del concetto generale di sistema formale come procedura sistematica per generare oggetti complessi, i teoremi, che sono parole formulate entro un dato
alfabeto. In questo senso quello di Post è un tentativo più « logico » che matematico in un doppio senso: da una parte costituisce un ripensamento dell'idea di sistema formale (Hilbert), dall'altra un tentativo estremamente audace di afferrare direttamente il concetto base della matematica costruttiva: il concetto di insieme potenzialmente infinito generato per approssimazioni successive (si pensi a Gentzen).
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mente enumera:bile, ogni altro insieme B ricorsivamente enumerabile è ricorsivo in A? Il senso del problema era dato dal fatto che al tempo di Post non si conoscevano controesempi a questo comportamento sicché si trattava di stabilire se tale relazione fra due insiemi A e B come sopra avesse luogo necessariamente. Questo problema rimarrà aperto fino al 1956 e noi lo riprenderemo più avanti, parlando dei cosiddetti gradi di irresolubilità. Vogliamo ora accennare ad alcune questioni centrali cui danno luogo tutte queste varie proposte di adeguazione del concetto intuitivo di computabilità effettiva. Innanzitutto un risultato fondamentale cui sono pervenuti vari autori ad esempio Kleene, Church, Turing, Rosser - afferma che le varie definizioni in termini di funzioni ricorsive, o di funzioni « rappresentabili » in un dato sistema (Godel e Church) o di algoritmi (Markov), o di macchina di Turing, o infine di sistemi canonici (Post) - sono tutte equivalenti, ossia individuano la stessa classe di funzioni. È questo uno degli argomenti fondamentali che depongono a favore della cosiddetta tesi di Church (che questo autore avanza esplicitamente nel primo degli articoli del 1936 sopra citati) secondo la quale, accettato come è ovvio che ogni funzione ricorsiva è computabile, vale anche l'inverso ossia ogni funzione (intuitivamente) effettivamente computabile è ricorsiva: in altri termini, le funzioni computabili sono tutte e sole le funzioni ricorsive.l Tutte le formulazioni del concetto di funzione ricorsiva da noi date facevano riferimento a un qualche tipo di sistema formale. Basandosi su questo fatto, nel 1936 Kleene riuscì, ricorrendo a una aritmetizzazione della sintassi ,del tutto analoga a quella usata da Godel nella dimostrazione del suo teorema di incompletezza, ad assegnare ad ogni funzione ricorsiva un numero naturale (il suo indice) e quindi a definire un predicato ricorsivo primitivo Tn+ 2 e, xr, ... , Xn ,y, a (n 2) posti (predicato di Kleene) che traduceva aritmeticamente la relazione matematica seguente: y è una computazione del valore della funzione ~
+
1 Si noti che l'affermazione della coincidenza della classe delle funzioni ricorsive con la classe delle funzioni effettivamente computabili viene chiamata tesi o ipotesi (e non, ad esempio, teorema) di Church, perché si tratta di una congettura che afferma la coincidenza (estensionale) di due concetti, l'uno dei quali (quello di funzione ricorsiva) precisato rigorosamente a livello formale, l'altro (quello di funzione effettivamente computabile) dato solo intuitivamente e in accezione assai vaga. La tesi di Church non è quindi suscettibile di dimostrazione rigorosa: si possono solo portare argomenti pro o contro di essa. Attualmente la tesi è sostanzialmente accettata dalla maggioranza dei logici e dei matematici anche se di recente ( r 9 59) si sono sollevate precise obiezioni contro di essa in particolare da parte di Rosza Peter (che ritiene la classe delle funzioni ricorsive troppo ampia per essere ade-
guata) e da parte di Laszlo Kalmar (che, viceversa, ritiene tale classe troppo ristretta per comprendere tutte le funzioni effettivamente calcolate). Contro queste obiezioni ha risposto fra gli altri Elliott Mendelson (1963). Lo sviluppo più interessante a questo proposito è tuttavia un altro e si basa non sul confronto tra la nozione di funzione ricorsiva con quella di funzione computabile, ma piuttosto con quella di funzione costruttiva nel senso intuizionista. Quest'ultima nozione ammette una precisazione formale nell'ambito dell'Analisi intuizionista e quindi la tesi di Church può essere tradotta formalmente in uno specifico enunciato che afferma l 'identità fra funzioni costruttive e funzioni ricorsive. Si apre quindi il problema della consistenza della tesi di Church così intesa con le varie ricostruzioni dell'Analisi intuizionista. Lavori in questo senso sono dovuti recentemente a Myhill e Georg Kreisel.
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La logica nel ventesimo secolo (x)
con indice e (ossia della e-esima funzione ricorsiva) per gli argomenti x 1 , ... , xn.l Supponiamo ora con Kleene di considerare la « più piccola » di tali computazioni, applichiamo cioè l'operatore ft al predicato così definito; avremo allora ftY Tn+Z e, X1, ••• , Xn,Y· A questo punto Kleene definisce una funzione U ricorsiva primitiva a un argomento (funzione di Kleene) e dimostra che per ogni funzione ricorsivaf(xb ... , Xn) vale l'equazione (*)
f(xb ... , Xn)
=
U(ftY Tn+Z e, X1, ... , Xn,y)
ossia la funzione, applicata alla più piccola computazione come sopra detto, fornisce il valore di tale computazione. L'espressione precedente è una formulazione del cosiddetto teorema di forma normale di Kleene, secondo il quale ogni funzione ricorsiva può essere espressa nella forma (*) per un opportuno e. Questo teorema ha un'importanza fondamentale in quanto ci permette di caratterizzare l'insieme delle funzioni ricorsive mediante una semplice relazione aritmetica o meglio ci dà un metodo universale per computare ogni funzione ricorsiva. D'altra parte ha una grande importanza perché mette in rilievo due fatti: I) il sostanziale riferimento non costruttivo a una totalità infinita (quella dei numeri naturali) implicito in tutte le caratterizzazioni da noi presentate per le funzioni ricorsive; ciò è messo in evidenza dal ricorso all'operatore di minimalizzazione illimitata nel teorema di forma normale, che sostanzialmente significa che per caratterizzare una qualunque funzione ricorsiva è necessario un riferimento non costruttivo di tipo esistenziale alla totalità delle computazioni.2 z) La proprietà di una funzione di essere ricorsiva non comporta di necessità l'essere definita per ogni argomento, ma piuttosto l'essere computabile su ogni argomento per il quale è definita. Anche in questo caso è l'operatore ft che pone in luce questa situazione. Infatti l'applicazione di questo operatore ci porta ad un valore solo nel caso che sia soddisfatta la condizione di normalità vista sopra. Da queste considerazioni viene allora naturale introdurre la più ampia classe delle funzioni parziali ricorsive (f. p.r.) vale a dire funzioni ricorsive che si pensano definite non su tutto N ma su sottoinsiemi di N; è subito chiaro che tale classe comprende quella delle funzioni ricorsive (che in questo contesto vengono anche I Come ognuno vede, questo predicato traduce cioè a livello formale quella enumerazione delle funzioni ricorsive di cui abbiamo già parlato a proposito della « diagonalizzazione ». 2 Questo ineliminabile ricorso a un quantificatore esistenziale cui non è possibile assegnare un significato costruttivo senza già presupporre quella precisazione del concetto di funzione computabile che tramite esso si intende chiarire, ha portato gli intuizionisti, in particolare Heyting nel 1960, a rigettare l'identificazione proposta
dalla tesi di Church, nel senso che gli intuizionisti ritengono quello di funzione computabile un concetto primitivo e quindi rifiutano come circolare ogni tentativo di una sua precisazione rigorosa. Ribadiamo quindi che la teoria della ricorsività costituisce un tentativo della precisazione del concetto di effettivo all'interno della matematica classica ossia, se ci si permette il gioco di parole, non pretende di presentarsi come una chiarificazione effettiva dell'effettivo.
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dette totali) ma non è compresa in essa. La situazione viene chiarita assai efficacemente dalla considerazione della funzione universale F(n, x): per la classe delle funzioni ricorsive totali, esiste una tale funzione che « diagonalizzata » porta immediatamente a contraddizione se pensata a sua volta come ricorsiva totale. Nel caso invece della f. p.r., esiste ancora un F(n, x); ma ora quando « diagonalizzando » si considera F(m, m) non si giunge a contraddizione proprio perché non è possibile stabilire se tale funzione è o no definita per l'argomento m. Per dirla in modo diverso, la classe della f.p.r. coincide con la classe delle funzioni che sono computabili per tutti gli argomenti per i quali sono definite, ma che non sono necessariamente definite per tutti gli argomenti. Questo fatto spiega come sia stato possibile dare una definizione delle funzioni ricorsive che ci permettesse di generarle in modo effettivo: è l'ammissione di funzioni parziali che, bloccando per così dire la « diagonalizzazione », ha reso possibile la definizione. Si pone però naturalmente la domanda: è possibile determinare in modo effettivo se una funzione ricorsi va è parziale o totale? Orbene la risposta è negativa (ossia questo problema non è decidibile) ed è questo un ulteriore risultato centrale della teoria della ricorsività di questo periodo. Questo risultato, ottenuto ancora da Kleene nel 1936, si traduce immediatamente nel fatto, di cui ci è già nota l'importanza per la teoria, che esistono insiemi ricorsivamente enumerabili ma non ricorsivi, e questo dà senso al tipo d'approccio sviluppato da Post e alle sue indagini circa la riducibilità degli insiemi cui abbiamo prima accennato. Il passaggio dal risultato di indecidibilità alla esistenza di insiemi ricorsivamente enumerabili non ricorsivi è reso possibile da un importante collegamento che si può stabilire tra forma dei predicati ed insiemi che determinano: un predicato ricorsi v o n-ari o R determina come sappiamo un insieme ricorsivo; un predicato ricorsivo R cui sia applicato un quantificatore esistenziale illimitato, e quindi della forma 3yR, determina un insieme ricorsivamente enumerabile. Un insieme sarà allora ricorsivamente enumerabile ma non ricorsivo quando sarà definito facendo ricorso in modo essenziale ad una quantificazione esistenziale: è questo il caso appunto dell'insieme degli indici delle funzioni ricorsive totali, come si può vedere considerando il predicato di Kleene. In questo contesto il teorema di Post, sopra ricordato, ammette la seguente formulazione: un insieme è ricorsivo se e solo se si può definire mediante la quantificazione esistenziale o la quantificazione universale di un predicato ricorsivo. Viene naturale allora una disposizione di questo tipo:
3xRxr, ... ,
Xn,X
VxRxr, ... ,
Xn,X
doveR è genericamente un predicato ricorsivo a n posti (n ~ 1, finito). In questo modo si può « misurare » il grado di effettività di un predicato (di un insieme,
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di una funzione) e sorge spontanea l'idea di proseguire questa descrizione considerando prefissi via via più complessi ossia sempre meno «effettivi» (vale a dire con più numerosi riferimenti alla totalità dei numeri naturali). Come mostra un ulteriore, importantissimo, risultato di Kleene (1943) la cosa è possibile, ossia si può stabilire una gerarchia (detta gerarchia aritmetica)
R
3xR X1,
••• , Xn,X
Vy 3xR Xt,
VxR Xt,
••• , Xn,X
3y VxR x~, ... ,
••• , Xn,
x,y
3V3R ...
x,y
V3VR ...
Xt, •.. , Xn Xn,
dove R è un attributo numerico ricorsivo. « Si può stabilire » va inteso nel senso che ad ogni passo della gerarchia si individuano attributi non riducibili a nessuno di quelli ottenuti in passi precedenti; e quindi l'estensione non è banale. Si usa indicare con notazione unitaria col simbolo II~ (n> O} la classe degli insiemi descritti da predicati il cui prefisso inizia con un quantificatore universale e contiene n- I alternanze di quantificatori; ad esempio II~ sarà la classe degli insiemi esprimibili da predicati della forma V3V R (si noti che più quantificatori dello stesso tipo immediatamente susseguentisi l'un l'altro si possono contrarre in' un unico quantificatore di quel tipo: così ad esempio VVV3 si può contrarre in V3). Il prefisso IIg (come l'analogo Eg che ora introdurremo) indica assenza di quantificatori. Viceversa si indica con E~ l'analoga classe degli insiemi esprimibili da predicati il cui prefisso inizia con un esistenziale. In questa notazione compatta la gerarchia assume quindi la seguente forma
dove le frecce indicano l'inclusione propria. Tale gerarchia gode di notevoli proprietà. Intanto, come già sopra accennato, essa non è banale, vale a dire, in conformità al teorema di gerarchia di Kleene (1943), per ogni n esiste un insieme A tale che A EII~+l (E E~ +l) ma A i II~ né A E E~ +l (A i E~ né a II~+l)· Ancora, in generale la riunione Il~ U 2,'~ è contenuta in modo proprio nella intersezione 17~+1 n E~+1; l'unica eccezione è data da LJg = 178 = rg = 17~ n L~ il. che è un altro modo di esprimeré il fatto che un insieme A è ricorsiv o quando tanto A quanto il suo complemento A sono ricorsivamente enumerabili. Come ultimo risultato significativo in questo contesto vogliamo ricordare il teorema di enumerazione di Kleene (1943) che dà una sorta di rappresentazione unitaria per tutti gli insiemi della gerarchia aritmetica ricorrendo al predicato T di Kleene sopra definito. Risultati analoghi, come hanno dimostrato Kleene e Post, valgono anche per la nozione di ricorsività relativa.
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Conviene, per compattezza di discorso, accennare già ora agli ulteriori sviluppi della teoria della ricorsività anche se cronologicamente posteriori al periodo qui considerato (si riferiscono infatti, sostanzialmente, agli anni quaranta e cinquanta). Gli sviluppi di cui parliamo si concentrano su un problema comune: quello di saggiare la possibilità di ulteriori classificazioni per gli attributi (predicati, funzioni, insiemi) lungo le linee indicate rispettivamente da Kleene (con la costruzione della gerarchia aritmetica) e da Post (con i gradi di irresolubilità). Per quanto riguarda il primo aspetto si è pensato in modo naturale di estendere la gerarchia aritmetica considerando la classe degli attributi numerici definibili tramite predicati che ammettessero la quantificazione illimitata non solo (come nel caso della gerarchia aritmetica) sulle variabili individuali, ma anche sulle variabili funzionali (o per insiemi; passando cioè a un linguaggio del secondo ordine). Anche in questo caso la classificazione in base alla forma della definizione linguistica riflette una « misura » del grado di effettività: la classe degli attributi così ottenuti viene detta degli attributi analitici e Kleene nel 19 5 5 ha mostrato che anche in questo caso può attenersi una gerarchia (detta appunto analitica) nel senso che tutti questi attributi si possono porre in una delle forme
Axh ... , o,
In
3f'l!x R
'llg 3f'l!x R ...
'llf3x R
3g 'llf3x R ...
Xn
forma abbreviata LJIo
L'l l
L'~ ...
IJi
II~
...
dove A è un predicato (attributo) aritmetico e R è ricorsivo. Questa gerarchia i cui element~ vengono indicati con L'~, rispettivamente II! gode delle stesse proprietà viste per la gerarchia aritmetica ma con una importante eccezione: LI~ -=f. L'~ n il~, vale a dire gli attributi numerici non sono la parte comune agli analitici del primo gradino della gerarchia. Agli elementi di tale intersezione si dà il nome di attributi iperaritmetici: es~i possono intuitivamente essere considerati come una sorta di « limite » cui tendono gli aritmetici nel passaggio agli analitici. La teoria della ricorsività veniva quindi a ricollegarsi direttamente con quelle indagini che a partire dalla scuola degli analisti francesi, erano state compiute nel tentativo di colmare l'abisso tra il «dato immediatamente», il «manipolabile », l'« effettivo », e il transfinito cantoriano. Le gerarchie aritmetica e analitica presentano infatti notevoli analogi.: (e differenze significative) con quelle studiate in particolare da Borel, Lebesgue e quindi potentemente sviluppate da Michel Souslin e Nicolai Lusin degli insiemi proiettivi e analitici.
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Una volta che abbiamo introdotto la nozione di ricorsività relativa si può pensare ad un altro tipo di gerarchizzazione sulla base dei già nominati gradi (di irresolubilità): si dice che il grado di una funzione parziale f ricorsi va in g è minore o uguale al grado di g, gr (f) ~ gr (g). Il grado di una funzione f è quindi definito estensionalmente come l'insieme di tutte le funzioni g che soddisfano tanto gr (f) ~ gr (g) quanto gr (g) ~ gr (f). Ne viene che i gradi possono essere ordinati formando una struttura che si riconosce essere un semireticolo superiore nel senso che dati due qualunque gradi a e f3 esiste sempre un grado y tale che a ~ y e f3 ~ y. Come hanno dimostrato Kleene e Post nel 1954 non vale la stessa proprietà « verso il basso » ossia non esiste in generale, dati due gradi a e {3, un massimo grado y per il quale a ~ y e f3 ~ y. I gradi formano un insieme di cardinalità uguale a quella del continuo (~ 1 , accettando l'ipotesi del continuo) e nel r 960 Schoenfield ha dimostrato che esiste un insieme di gradi che ha cardinalità ~ 1 e i cui elementi sono fra loro inconfrontabili . .Il grado più basso, indicato con o, è evidentemente quello delle funzioni ricorsive. Gradi superiori si possono trovare tramite le funzioni definibili aritmeticamente (Kleene, 1943); il grado immediatamente successivo a o, indicato con o', è costituito dalle funzioni caratteristiche di insiemi ricorsivamente enumerabili, e si dimostra che o i= o'; per quanto detto sopra si possono naturalmente definire (sempre con l'operazione' detta di jump) gradi di ordine transfini~o. Quello che a suo tempo abbiamo chiamato problema di Post viene tradotto ora nella domanda: esistono insiemi r.e. di grado diverso? ossia hanno tutti questi insiemi grado o'? Il problema venne risolto indipendentemente solo nel 1956 da Richard M. Friedberg in Two recursive!J enumerable sets of incomparable degrees of unsolvability (solution of Post's problem 1944) (Due insiemi ricorsivamente enumerabi!i con ,gradi di irresolubilità non confrontabili (soluzione del problema di Post 1944) e da A. A. Mucnik in Risposta negativa al problema di riducibilità degli algoritmi; entrambi questi autori costruiscono due insiemi nessuno dei quali è ricorsivo nell'altro; è in questo contesto che essi introducono il cosiddetto metodo di priorità che si è rivelato estremamente utile in successive ricerche. Gerarchie e gradi non costituiscono l'unico tipo di articolazione del problema generale della classificazione di funzioni e di insiemi in base alla loro effettività. Altre nozioni - sulle quali non ci soffermeremo - quelle di insieme creativo, immune, coesivo, ecc. sono state introdotte; quello che ci preme sottolineare è che nei due esempi da noi citati (gradi e gerarchie) la teoria della ricorsività ha trovato i suoi approfondimenti più sostanziali portando alla creazione di metodi, quale appunto ad esempio quello di priorità, di notevole profondità e interesse anche in contesti più ampi. Le gerarchie e i gradi sono d'altra parte un esempio tipico di una tendenza generale degli sviluppi della teoria della ricorsività, quella cioè di raffinare il concetto apparentemente monolitico di effettivo analizzandone diversi aspetti e
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sfumature. Questo tipo di atteggiamento ha portato attorno agli anni fra il '5 5 e il '58 al tentativo di definire il concetto di effettività non più per funzioni su numeri naturali, ma per « oggetti » di tipo superiore quali i funzionali, vale a dire funzioni definite su funzioni e con valori numerici o funzionali (rispettivamente Kleene, Godei; si veda anche la nota 1 a pag. 349· Lungo questa strada di progressiva generalizzazione si è giunti in tempi recenti al tentativo di definire la nozione di effettività su segmenti più ampi della struttura ordinale (recursione sui cosiddetti ordinali ammissibili di Saul Kripke) e su strutture arbitrarie (superando cioè la vincolante relativa a N). L'obiettivo finale è una teoria astratta della computazione o dell'effettività di cui teoria delle funzioni ricorsive, teoria dei funzionali, ed eventuali altre estensioni, costituiscano diverse realizzazioni. Linee conduttrici di queste generalizzazioni sono due concetti di cui costantemente si fa uso in ogni tentativo di chiarire il concetto di effettivo: quello generale di definibilità e quello più specifico, ma non per questo più dominabile, di finito. In questo modo nei lavori recenti di Georg Kreisel e G. E. Sacks, Yannis Moschovakis, Wagner e Strong, ed infine Richard Merritt Montague si assiste a tutta una serie di tentativi di collegare la teoria dell'effettivo a questi concetti più generali, tentativi che portano a stabilire rapporti sempre più stretti con altri rami della ricerca logica, dalla teoria dei modelli alla teoria degli insiemi. Partita quindi come tentativo locale di precisare il concetto di effettivo, la teoria della ricorsività dagli anni quaranta in poi si rivelava così un potente strumento per l'analisi e la classificazione in generale dei concetti astratti fondamentali. V· DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE. SGUARDO SU ALCUNI SVILUPPI DELLA RICERCA ODIERNA
Nel nostro schema generale avevamo riconosciuto che la ricerca logica, dopo che nei primi trent'anni del secolo si era mossa sostanzialmente articolandosi in programmi (scuole), aveva subito proprio negli anni trenta- e in virtù di tutta una serie di risultati che abbiamo sopra descritto - una radicale trasformazione, indirizzandosi verso l'approfondimento di specifici temi, pur se di portata generale, che erano appunto scaturiti dalle stesse indagini programmatiche. Avevamo anche avvertito però che questo non significava impegnarsi in una «pratica senza principi », ma rappresentava piuttosto il tentativo di saggiare sul terreno concreto delle applicazioni e delle analisi particolari la potenza degli strumenti e degli approcci precedentemente elaborati. Proprio per questo ci era sembrato opportuno, e anzi necessario, soffermarci ad analizzare abbastanza dettagliatamente il passaggio dalle concezioni « preformali » a quelle « formali », tentando di metterne in luce le motivazioni generali da una parte e gli specifici strumenti di concettualizzazione dall'altra; convinti come siamo- e lo abbiamo più volte affermato - che la comprensione di tali concetti cardine sia essenziale per poter
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penetrare quella che è l'attuale situazione della ricerca, anche nella sua espressione più propriamente «tecnica». Volendo ora parlare degli sviluppi più recenti delle indagini logiche, non sarà più possibile attenersi ad un'analoga procedura: nel contesto infatti di principi direttivi generali, informatori di tutta la ricerca, sono state escogitate tecniche di indagine estremamente raffinate e complesse e il rapporto con la concreta pratica matematica è divenuto ormai così stretto, che per seguire puntualmente tali sviluppi sarebbe necessario chiarire preliminarmente un bagaglio di nozioni che richiederebbe, da solo, un trattato, e assai voluminoso. In questo paragrafo quindi illustreremo alcuni temi fondamentali della ricerca logica odierna in modo per così dire più « globale». Abbiamo parlato sopra di strumenti e di approcci; svilupperemo allora il nostro discorso tentando soprattutto di mettere in luce la « continuità » di questi approcci, accennando agli strumenti solo nella loro portata generale e nei loro mutui rapporti. Si potrà così apprezzare - lo speriamo - la profondità dei legami che anche nella accentuata specializzazione della ricerca posteriore agli anni trenta sussistono fra campi di indagine apparentemente del tutto eterogenei. Le grandi scuole fino agli anni trenta avevano tematizzato una contrapposizione di fondo fra costruttivo e non costruttivo, fra intensionale ed estensionale, che si manifestava a due distinti livelli: individuazione di teorie fondanti (matematica costruttiva e intuizionista da una parte, teoria degli insiemi dall'altra) e metodi di analisi della struttura delle teorie; questo secondo aspetto si era polarizzato a sua volta lungo due diverse direttrici, emerse e giustificate proprio dai risultati degli anni trenta (Godel, Tarski): quella sintattica (teoria della dimostrazione) e quella semantica (sulla base della nozione di modello). Sullo sfondo, almeno in modo implicito, ma sempre presente, un problema generale relativo al linguaggio e alla natura della formalizzazione in quanto tale (più che alla natura stessa dei contenuti). In che termini i risultati « limitativi», in particolare quelli di tipo « negativo » (Skolem, Godel, Tarski) riguardano la concezione stessa degli oggetti descritti e definiti e non piuttosto gli stessi strumenti linguistici di espressione? Su che basi si confrontano le diverse concezioni: la loro « canonizzazione » a livello formalizzato (linguistico) è sufficiente a discriminarle? In effetti due tipi ç:li deficienze si possono individuare a questo riguardo. Da un lato il linguaggio, la formalizzazione, è carente a livello per così dire « grammaticale »: i linguaggi usati non consentono di esprimere compiutamente le strutture desiderate, eliminando realizzazioni spurie; al di là della stessa intenzione del ricercatore, il linguaggio, proprio in quanto non sufficientemente espressivo, « descrive più cose » di quanto non vorremmo o, detto altrimenti, descrive in modo «confuso» quello che vorremmo. D'altro lato - e qui potremmo parlare di limitazioni « positive » (Lewis, logiche non classiche in generale)- il linguaggio è invece carente proprio a livello «logico», ossia non rende
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legami contenutistici fra proposizioni; gli sfugge tutta una serie di rapporti intensionali che possono viceversa essere considerati - e di fatto abbiamo visto lo sono in molti modi - come il « genuino » contenuto da esprimere e « formalizzare». Ne deriva un duplice e in certo senso contrapposto intervento sul linguaggio: da una parte un suo potenziamento nella linea classica tradizionale (nuovi operatori di quantificazione, linguaggi infinitari, ecc.); dall'altra un suo « affinamento » in particolare per quanto riguarda il tipo di significato che si vuole attribuire alle costanti logiche (nuove e più articolate proposte di semantiche). Pur nella diversa collocazione di queste deficienze linguistiche, si ritrova tuttavia un esplicito rimando comune (anche se inteso e concepito in modo di principio radicalmente diverso) a un momento interpretativo, semantico, di tipo dunque extralinguistico. Per iniziare questo panorama finale conviene allora prendere le mosse proprio dal tentativo portato avanti negli anni quaranta-cinquanta di rendere sistematico l'approccio all'analisi delle teorie basato sul concetto di verità: alludiamo alla costituzione della cosiddetta teoria dei modelli, sulla quale dovremo trattenerci più a lungo che su altri temi, data appunto la sua centralità. Come già si è detto nel paragrafo m. 3, la definizione tarskiana di verità, ponendo le basi della semantica dei linguaggi formalizzati ed introducendo l'esigenza di modelli infinitari nella metamatematica, apriva la strada ad un nuovo modo di vedere lo studio delle teorie, un modo che instaurava legami più diretti tra la concreta pratica matematica e l'analisi logica. Era in questo spirito che la metodologia delle scienze deduttive propugnata da Tarski attorno agli anni trenta si proponeva lo studio delle teorie formalizzate come oggetti astratti, considerate alla stregua di strutture algebriche o topologiche e dava inizio all'esame delle loro proprietà, sia sintattiche che semantiche, senza porsi preclusioni programmatiche sui metodi dimostrativi. Con questo si realizzava una rottura esplicita con l'idea hilbertiana di metamatematica concepita come studio, in base a metodi rigidamente finitisti, delle pure proprietà sintattiche, per dare l'avvio ad un'analisi «matematica» delle teorie, analisi che trovava la sua localizzazione più naturale non più entro una matematica ristretta quale quella finitista, ma all'interno della più generale teoria degli insiemi. In tal modo lo studio delle teorie formalizzate veniva a costituire, assieme all'algebra e alla topologia generale, una delle articolazioni di quella matematica astratta e « infinitaria » che proprio negli anni trenta, attraverso l'impiego sistematico dei più potenti strumenti insiemistici (assioma di scelta, ipotesi di misurabilità, del continuo ecc.), andava dando ad algebra e topologia una nuova forma, conferendo loro una generalità sino ad allora mai vista. Se sulle prime, come testimoniano i lavori di Lindenbaum, Mostowski e Tarski stesso sull'algebrizzazione della logica, il rapporto fu sostanzialmente unidirezionale, risolvendosi nel tentativo (largamente riuscito) di applicare metodi
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algebrici e topologici allo studio delle teorie formalizzate, ben presto esso si capovolse, aprendo prospettive inaspettate.l La semantica tarskiana offriva la possibilità di compiere il passaggio inverso, l'applicazione, cioè, di concetti e metodi metamatematici alla risoluzione di problemi algebrici e topologici. È dal tentativo di sviluppare appieno questa possibilità e di analizzarne le modalità che ha avuto origine la moderna teoria dei modelli nel suo duplice aspetto di studio delle teorie formalizzate in rapporto ai relativi modelli e di applicazione di concetti metamatematici a specifici problemi algebrici o topologici. Alla base di questo rapporto sta un fatto che abbiamo già avuto occasione di sottolineare. Le realizzazioni, i possibili modelli delle teorie formalizzate che sono al centro dell'indagine logica sono riconducibili a strutture, algebre o sistemi relazionali, dello stesso genere dei gruppi, anelli, campi, spazi topologici ecc., oggetti di studio di algebra e topologia. In entrambi i casi si tratta di insiemi su cui sono definite relazioni e funzioni le cui proprietà definitorie sono fissate per via assiomatica. La differenza fra approccio algebrico e logico sta nell'enfa,si che viene posta sui due aspetti che concorrono alla definizione delle strutture; l'algebrista ne sottolinea l'aspetto insiemistico e si concentra quindi sull'indagine delle possibili operazioni che su di esse si possono definire (prodotti diretti, immagini omomorfe, passaggio alle sottostrutture, ecc.); il logico invece privilegia l'altro aspetto, il carattere assiomatico della caratterizzazione delle relazioni e funzioni che definiscono le strutture e si concentra quindi sullo studio delle teorie formalizzate. L'obiettivo di fondo della teoria dei modelli è quello di mediare questi due momenti, più precisamente quello di analizzare i rapporti tra la forma linguistica dei sistemi d'assiomi e le proprietà insiemistiche dei modelli (ed è in questo senso che ci si riallaccia e si estende la semantica come intesa precedentemente). In queI In senso lato ciò può essere inteso come connessioni fra algebra e logica che sono venute sempre più instaurandosi dopo il teorema di completezza, come abbiamo già accennato, e oggi in particolare n eli' ambito della teoria dei modelli. In senso stretto viene inteso come « trattamento algebrico » della logica e in questo senso si riallaccia direttamente, è ovvio, ai lavori stessi di Boole. Questi aveva mostrato sostanzialmente che la logica proposizionale poteva essere adeguatamente rispecchiata da quella struttura algebrica oggi nota appunto come algebra di Boole: tramite opportune « traduzioni » dei concetti logici fondamentali in concetti algebrici è cioè possibile ritrovare come risultati relativi a proprietà della struttura algebrica in questione le « traduzioni » di analoghi risultati e proprietà logiche. Noi eviteremo di accennare qui a tali traduzioni, anche per il semplicissimo caso della logica proposizionale, perché allo scopo dovremmo illustrare alcuni ulteriori (anche se elementari) concetti algebrici
che appesantirebbero inutilmente la trattazione. Risultato centrale di questo contesto il teorema di rappresentazione dimostrato nel I936 da Marshall Stone in base al quale ogni algebra astratta di Boole si rappresenta concretamente su un'algebra di insiemi. Una ricerca di strutture algebriche adeguate a logiche più potenti, classiche e non classiche, in particolare la logica dei predicati del primo ordine classica, ha portato ali 'individuazione di certe classi particolari di algebre, precisamente le algebre po!iadiche introdotte da Pau! R. Halmos fra il I 95 4 e il 19 59 e le algebre cilindriche introdotte da Henkin e Tarski attorno al 1950. Tali strutture algebriche, in particolare le seconde, hanno rivelato un interesse matematico intrinseco tanto da meritare un approfondimento autonomo da questo punto di vista: nel I 971 è stato pubblicato un primo volume Cylindric algebras (Algebre cilindriche) di Leon Henkin, James Donald Monk e Alfred Tarski.
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sto modo si raggiungono due scopi: da una parte si può sfruttare tutto quanto si sa sulle strutture e le operazioni su di esse definite nello studio delle teorie formalizzate, dall'altra risulta possibile affrontare problemi algebrici ricorrendo allo studio d~lle .teorie formalizzate che determinano le varie classi di strutture: in generale, alle proprietà dei linguaggi. I due aspetti si completano a vicenda, scambiandosi mutuamente strumenti e problemi. L'algebra offre al logico metodi di costruzione di strutture per affrontare lo studio delle teorie e simultaneamente stimola alla elaborazione di strumenti linguistici sempre più adeguati ai problemi algebrici; la logica offre all'algebrista informazioni sulle proprietà dei sistemi assiomatici e stimola alla definizione di metodi per la costruzione di strutture che meglio riflettano i fatti riguardanti la loro caratterizzazione linguistica. La stessa ragion d'essere della teoria dei modelli porta a un intrecciarsi continuo delle due impostazioni, così che è difficile porre una netta linea di demarcazione anche solo a livello di metodi; procedimenti costruttivi e non si innestano gli uni negli altri senza soluzione di continuità e le restrizioni finitiste (retaggio della concezione hilbertiana della metamatematica) lasciano sempre più il posto all'impiego sistematico di principi insiemistici altamente non costruttivi quali l'assioma di scelta, l'ipotesi del continuo, ecc. Si realizza così in pieno quell'ideale della metamatematica come studio globale delle proprietà delle teorie formalizzate di cui la semantica e la metodologia delle scienze deduttive tarskiane erano state le avvisaglie. Non è un caso, quindi, che il primo affermarsi della teoria dei modelli coincida con l'estensione del concetto stesso di linguaggio formalizzato e con la parallela generalizzazione dei teoremi semantici fondamentali, di compattezza e di Lowenheim-Skolem, nel tentativo di farne strumenti adeguati alle applicazioni algebriche e allo studio dei modelli. Nella loro naturalezza queste estensioni avevano un carattere decisamente rivoluzionario in quanto segnavano un abbandono senza possibilità di recupero delle restrizioni finitiste di tradizione hilbertiana ed aprivano la strada all'applicazione di concetti e metodi esplicitamente infinitari.l È in due articoli del logico sovietico Anatolij Malcev, rispettivamente del 1936 e del 1941, che questo passaggio viene effettuato nella sua forma più netta; con questi lavori Malcev forniva simultaneamente gli strumenti centrali ed i primi esempi significativi di un'applicazione della metamatematica all'algebra, strumenti ed esempi che per lungo tempo sarebbero rimasti paradigmatici ed ispiratori. La prima innovazione introdotta, come già si è detto, riguarda la nozione stessa di linguaggio formalizzato. Sino ad allora, in conformità al punto di vista hilbertiano, un linguaggio L del primo ordine era considerato determinato oltre I Naturalmente, c'è da tener presente l'altro tipo di superamento di tali limiti che abbiamo visto muoversi sulla linea di Gentzen in un contesto che si può dire di mediazione fra sintassi e seman-
tica, anche se è stato tuttavia sviluppato in termini della teoria della dimostrazione. Va osservato comunque che questo tentativo rimaneva pur sempre nell'ambito del costruttivo.
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che dalle ordinarie costanti logiche, connettivi e quantificatori, da una famiglia
numerabile di costanti extralogiche, classificate in costanti individuali, predicative e funzionali. Questo affinché la collezione delle formule e degli enunciati risultasse decidibile e quindi suscettibile di studio entro la matematica finitaria. Questa condizione vincolante risulta però non solo arbitraria da un punto di vista astratto, ma addirittura inaccettabile una volta che si voglia, data una qualsiasi struttura Wl, descriverla « il più adeguatamente possibile » a livello linguistico. Per far questo occorre possedere nomi per ogni individuo di Wl così da poter dire per ognuno di essi quali proprietà (espresse nel linguaggio) siano vere o no. Le costanti individuali di un linguaggio, però, possono essere al più numerabili e quindi una simile « descrizione » risulta impossibile per strutture arbitrarie, la cui definizione non implica affatto restrizioni di cardinalità. È sulla base di queste considerazioni che Malcev introduce linguaggi del primo ordine con un numero arbitrario di costanti extralogiche e ne analizza le proprietà semantiche fondamentali, giungendo così a stabilire quel principio di localizzazione che costituisce ancor oggi uno degli strumenti fondamentali della teoria dei modelli. Il principio, per la cui dimostrazione è essenziale l'uso dell'assioma di scelta, è una generalizzazione del teorema di compattezza di Godei e afferma che, dato un insieme K di enunciati del primo ordine, avente cardinalità arbitraria, esso ha un modello se e solo se ogni suo sottoinsieme finito ha un modello. In questo modo è possibile ricondurre l'esistenza di modelli per insiemi infiniti arbitrari all'esistenza di modelli per insiemi finiti. Poggiandosi su questo principio, Malcev riusciva a dimostrare in modo estremamente elegante ed uniforme un numero notevole di teoremi sui gruppi infiniti e mettendone in luce l'aspetto comune e la dipendenza dal principio di localizzazione mostrava, per usare le sue stesse parole, come « essi non fossero specificatamente algebrici ma potessero essere ottenuti come conseguenze immediate di enunciati generali della logica matematica ». In termini netti e precisi, veniva così formulato e realizzato uno degli obiettivi centrali della moderna teoria dei modelli. Il metodo seguito da Malcev è estremamente diretto e costituisce un paradigma che ha trovato un numero incredibile di applicazioni; l'idea di fondo è quella di ricondurre l'esistenza di strutture aventi date proprietà algebriche alla esistenza di modelli per dati insiemi di enunciati. Il problema diviene quindi quello di trovare per ogni proprietà algebrica un insieme di enunciati del primo ordine che la « rifletta », in altri termini tale che una struttura sia modello dell'insieme se e solo se gode della proprietà in questione; in tal caso diremo che la proprietà è elementare. Una volta fatto questo, il principio di localizzazione da criterio per l'esistenza di modelli si trasforma in criterio per l'esistenza di strutture con le proprietà volute. Visti in quest'ottica, numerosi teoremi algebrici si rivelano immediate conseguenze del principio di localizzazione. È questo che Malcev mostra nel caso dei teoremi locali sui gruppi (che noi abbiamo ricor-
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dato nel paragrafo III.z), teoremi che affermano che un gruppo ha una data proprietà P se e solo se ogni suo sottogruppo finitamente generato la ha. Se la proprietà P è elementare, la cosa diviene infatti immediata seguendo il metodo di Malcev. Dato un gruppo ffi, indichiamo con D(ffi) quello che oggi, seguendo una terminologia introdotta nel 1950 da Abraham Robinson, viene detto diagramma di (f) ossia l'insieme di tutte le formule atomiche o negazioni di atomiche vere in ffi e contenenti, oltre a un simbolo che denota l'operazione del gruppo e al simbolo d'identità, nomi per ogni elemento di ffi. Consideriamo allora l'insieme di enunciati K che, per ipotesi, «riflette» la proprietà P. Sia quindi K' = = K U D(ffi) U Kry,, dove con Kry, indichiamo l'insieme di assiomi per la teoria dei gruppi, che sappiamo essere formulabile al primo ordine. È chiaro che ogni modello di K', in quanto modello di D(~- Tutte queste difficoltà non sono casuali; esse dipendono proprio pall'impostazione comune che rimanda ad una nozione di costruzione che o è troppo restrittiva (Kleene: identificazione del costruttivo col ricorsi v o) oppure risulta troppo indeterminata (Kreisel) proprio perché non può fondarsi su una precisa teoria del costruttivo che è appunto l'obiettivo finale della matematica intuizionista nel suo complesso; questo è un altro dei problemi riguardanti la precisazione dei concetti base dell'intuizionismo cui in questi anni sono stati dedicati numerosi lavori (in particolare da Nicholas Goodman e Hans Lauchli). È ponendosi più decisamente in una prospettiva classica che è stato possibile invece dare una sistemazione soddisfacente alla semantica per la logica intuizionista; questo si deve in particolare a Saul Kripke che nel I965, nell'ambito di un'analisi generale di un'ampia famiglia di linguaggi non classici, quelli intensionali, risolse il problema prendendo lo spunto dalle logiche modali già precedentemente analizzate nel I 9 59· La cosa non deve stupire se si pensa alla traducibilità della logica intuizionista in quella modale (S4 di Lewis) posta in luce da Go del nel I 9 33. Dato il ruolo centrale che questa semantica ha nelle ricerche odierne dei sistemi di logiche intensionali, è opportuno soffermarci brevemente sull'idea di fondo della sistemazione di Kripke. Partendo da una nozione di intensione introdotta da Carnap nel I947, Kripke vede negli operatori modali delle funzioni che si applicano non già all'estensione di un enunciato (il suo valore di verità) bensì alla sua intensione; quest'ultima viene riguardata come una funzione che associa, in corrispondenza a diverse circostanze, a diversi « mondi possibili », diverse estensioni, diversi valori di verità. Discostandosi da Carnap, però, Kripke non vede l'insieme dei mondi possibili come determinato una volta per tutte dall'insieme di tutte le descrizioni consistenti di stati possibili; ma considera più astrattamente i mondi possibili come indici scelti in un insieme prefissato. Consideriamo quindi un insieme I di mondi possibili; una in tensione di un enunciato sarà una funzione (f) da I all'insieme dei valori di verità {o, I}. Assegnata all'enunciato d l'intensione j, è quindi determinato l'insieme dei mondi in cui esso è vera e quello dei mondi in cui esso è falsa. Che cosa significherà affermare che l'enunciato d è necessario? In prima istanza si può dire che la necessità di d coincide con la sua verità in ogni mondo possibile. Questa nozione però risulta troppo grossolana e ammette una importante precisazione: i mondi possibili non sono tutti compossibili, nel senso che dato un mondo i E I, solo alcuni degli altri elementi di I sono «accessibili» da i, cioè sono possibili dal punto di vista di i. Ciò posto, per assegnare ad ogni enunciato una intensione occorrerà non solo specificare l'insieme I dei mondi possibili, ma anche una relazione binaria R fra di essi che intenderemo come relazione di accessibilità; iRj andrà cioè letto: il mondo j è accessibile dal mondo i, o in altre parole j è un mondo possibile per i; chiameremo quindi struttura modello ogni coppia deJ tipo . Un enunciato allora sarà necessario nel mondo i
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quando risulterà vero in ogni mondo j accessibile da i. Il grande interesse di questa analisi sta nel fatto che permette di dare una sistemazione unitaria ad un'enorme varietà di nozioni di intensione e di necessità. Imponendo infatti proprietà particolari (riflessività e jo simmetria e jo transitività, ecc.) alla relazione R è possibile stringere più da vicino le diverse idee di necessità che abbiamo intuitivamente. Così se intendiamo la necessità come verità in ogni istante, interpreteremo I come l'insieme degli istanti ed R come la relazione di (pre)ordine (ossia riflessiva e transitiva) che sussiste fra istanti di tempo. Non deve stupire quindi che partendo da questa idea sia possibile ottenere delle semantiche intuitive ed estremamente duttili per i sistemi modali presentati da Lewis e altri, nel senso che alle diverse nozioni di necessità canonizzate nei vari sistemi SI-S5 corrispondono diverse proprietà della relazione R: ad esempio, al sistema S4 corrisponde la relazione R di preordine, al sistema S 5 una relazione R di equivalenza (ossia riflessiva simmetrica e transitiva). Leggermente più complicata risulta la situazione per i sistemi SI -S 3 ; in questi casi infatti occorre introdurre un 'ulteriore distinzione tra mondi normali, tali cioè che posseggano almeno un mondo a loro accessibile (in particolare se stessi), e sistemi non normali per cui questa evenienza non si verifica (in termini di relazione R: un mondo è certamente normale se R è riflessiva). L'analisi di Kripke ha portato ad una svolta decisiva nello sviluppo delle logiche intensionali nel senso che ha permesso di offrire uno strumento unificante in grado di mettere in luce relazioni per l'innanzi insospettate, fra tutti i diversi sistemi noti e portando addirittura alla creazione di nuovi sistemi. È difficile sopravvalutare il significato di questo risultato se si pensa che uno degli ostacoli centrali alla pacifica accettazione delle logiche modali (e in generale intensionali) è sempre stato la mancanza di una semantica chiara e sufficientemente articolata da permettere di ottenere risultati di completezza che il vecchio metodo delle matrici non era in grado di offrire. In questi anni si è assistito così ad un poderoso sviluppo delle ricerche in questo campo; alla individuazione di strutture modello (le coppie sopra introdotte) in grado di fornire interpretazioni rispetto alle quali i vari sistemi conosciuti fossero completi, ha fatto seguito l'applicazione del concetto di si~temi di indici con relazione di accessibilità all'analisi di altre nozioni di carattere intensionale le cui connessioni con la nozione di modalità logica erano sino ad allora rimaste nel vago. Alludiamo ai vari sistemi di logica deontica (nei quali compaiono operatori modali del tipo «è permesso», «è obbligatorio», ecc.), di logica epistemica (operatori «è noto che», «si crede che», ecc.) di logica esistenziale (nella quale i normali operatori di quantificazione vengono trattati come «modalità») la cui connessione, presentata in una ripartizione unitaria da Georg von Wright già nel I95 I, viene così giustificata a posteriori. Dal punto di vista filosofico il contributo più notevole dell'analisi di Kripke
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sta forse nell'aver permesso di « riscattare » la logica modale dalle accuse di « essenzialismo » aristotelico che già dalla fine degli anni quaranta Quine le aveva ripetutamente lanciato. Le critiche di Quine colpivano quei tentativi che, a partire dai lavori di Ruth Barcan Marcus del I 946, erano stati condotti per estendere , .la logica modale enunciativa ad una predicativa del primo ordine. In tali sistemi infatti comparivano tesi del tipo di assiomi che garantiscano l'esistenza di cardinali (che possono essere definiti come particolari ordinali) « abbastanza grandi » da assicurare e «fissare più da vicino» l'esistenza dell'interpretazione intesa degli assiomi. Questi assiomi aggiuntivi vengono detti assiomi forti dell'in.ftnito. Ciò spiega l'interesse di queste ricerche, anche se i risultati sinora raggiunti sembrano non dare speranze di decidere per questa via l'ipotesi del continuo.1 Se tutti questi risultati concorrono in un modo significativo a « mettere in crisi » il metodo assiomatico, o meglio a ridimensionarlo da toccasana universale, come da taluni viene ancor oggi presentato, a strumento centrale della ricerca che abbisogna tuttavia di perfezionamento e forse superamenti decisivi, vogliamo per finire fare un'osservazione più generale che dovrebbe chiarire come mai oggi si assiste a una ripresa del discorso più strettamente « filosofico » a proposito della ricerca sui fondamenti. Il fatto è che dimostrare una contraddizione di una teoria - come era successo agli inizi del secolo - è in qualche modo (pur tenendo presenti le parole di Gentzen) indice di « qualcosa di sbagliato » che va ricercato su linee tutto sommato abbastanza determinate. Giungere invece, come Cohen e molti altri dopo di lui hanno fatto, a un risultato di indipendenza, vuol dire che sono proprio i nostri assiomi che si rivelano insufficienti a dominare « fatti » anche molto elementari delle nostre teorie; e che quindi è necessaria una ricerca più approfondita, più sottile, di nuovi principi, nella quale non ci si può limitare a considerazioni «tecniche» strettamente interne ai sistemi assiomatici stessi, ma si deve necessariamente allargare la visuale a un ripensamento più generale della portata e dei suggerimenti dei risultati acquisiti; ·in altri termini occorre proprio rivedere la concettualizzazione stessa immediatamente legata al momento in.tuitivo, concreto, dal quale attingiamo concetti fondamentali. E qui ritorna il tema centrale di tutto il nostro discorso: è ben vero che uno può aggiungere teorema a teorema senza curarsi d'altro; o che al contrario si può disquisire sui risultati senza approfondire le loro motivazioni e le metodocome « per tutti gli insiemi fino al rango r », dove r è appunto un ordinale .limite opportuno. Vale a dire, è bene ribadirlo, si ottengono modelli della teoria degÌi insiemi già considerando opportuni segmenti della struttura cumulativa dei tipi. Espresso intuitivamente è proprio questo il contenuto di un teorema dimostrato da Scott (1963) e Bruno Scarpellini (1966) noto anche come teorema di riflessione per la teoria degli insiemi. Nello stesso ordine di idee nel 1960 Azriel Levy aveva elaborato dei principi cosiddetti di riflessione mediante i quali è possibile formulare vari assiomi forti dell'infinito di cui si riferisce nel testo. x In questo contesto risulta naturale stabilire una classificazione dei grandi cardinali costituendo una « scala » di grandezza. Dei cardinali fino ad oggi noti e classificati come detto, l'esistenza di alcuni risulta compatibile con l'ipotesi
di costruibilità V= L mentre quella di altri risulta non compatibile con tale ipotesi. Fra i primi vogliamo ricordare i cardinali fortemente inaccessibili (che stanno anche alla base della classificazione), i cardinali di Mahlo ecc. Fra i secondi i cardinali di Ramsey, i cardinali misurabili, i cardinali estensibili (che sono «i più grandi» cardinali oggi noti) ecc. Si osservi che si conoscono grandi cardinali dei quali tuttavia non si è ancora riusciti a determinare con esattezza la posizione nella classificazione; ricordiamo ad esempio i cosiddetti cardinali fortemente compatti che sono senz'altro « maggiori » dei misurabili e « minori » dei supercompatti, senza che però si sappiano localizzare con esattezza fra questi due estremi. Ricordiamo infine che alcuni di questi cardinali hanno importanti applicazioni anche nella teoria dei modelli.
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logie che li hanno generati. Ma è solo mediante una compenetrazione operativa di questi due atteggiamenti che la scienza effettivamente progredisce; non che qui si voglia sostenere che ogni ricercatore deve essere una sorta di «genio» che abbracci in un sol sguardo e con familiarità assoluta ricerche specialistiche assai spinte e riflessioni su di esse talora altrettanto difficoltose e profonde. Si vuole tuttavia sostenere qualcosa che forse è ancor più difficile da ottenere: che il lavorare in un campo specifico non può né deve assolutamente costituire un alibi per chiusure mentali artificiose, accademiche e controproducenti. 1
1 Abbiamo più volte avvettito che il nostro panorama oltre ad aver richiesto, data la particolare natura dell'argomento trattato, semplificazioni e approssimazioni talora anche notevoli, non pretende certamente di aver esaurito ogni aspetto della ricerca logica moderna. Desidero tuttavia far notare che mancanze e lacune sarebbero indubbiamente state ben più gravi se non fossi stato confortato nel mio lavoro da contatti e discussioni frequenti con diversi colleghi e amici. Voglio qui ringraziare in primo luogo e in modo del tutto particolare il prof. Silvio Bozzi per la sua
concreta, fratetna e competente collaborazione; ma anche ricordare con gratitudine la dottoressa Donatella Cagnoni, il dott. Claudio Pizzi, il dott. Ugo Volli, il dott. Edoardo Ballo, il prof. Gabriele Lolli, l'ing. Giulio Rodinò, nonché i professori Ettore Casari e Maria Luisa Dalla Chiara Scabia che con discussioni e suggetimenti hanno in occasioni divetse contribuito alla chiarificazione di alcuni argomenti. Un ringraziamento particolare infine alla signora Giulia Maldifassi che con enorme pazienza e competenza si è sobbarcata l'onere di approntare il dattiloscritto.
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CAPITOLO SESTO
Problemi ftlosoftci della matematica e della fisica odierne
I ·CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
È oggi universalmente riconosciuto che lo sviluppo della matematica e della fisica ha assunto nell'ultimo mezzo secolo un ritmo sempre più rapido, per cui si è enormemente accresciuto il loro peso specifico in quasi tutti i settori della vita moderna: la fisica ha pressoché assorbito in sé i capitoli più avanzati della chimica e ha assunto un'importanza fondamentale anche per la biologia, continuando ad essere nel contempo la colonna portante di gran parte dell'ingegneria; la matematica ha trovato applicazioni sempre più estese, non solo nell'ambito delle ricerche fisiche, chimiche e di ingegneria, ma anche in campi che per l'innanzi parevano assai lontani da essa, come la biologia, l'economia e la linguistica. Non esiste invece altrettanta unanimità nella valutazione dell'incidenza culturale oggi spettante alle due discipline in esame. Ed infatti, mentre un gruppo di studiosi ritiene che nelle ultime fasi del loro sviluppo siano emerse parecchie questioni di notevolissimo significato filosofico, altri sono invece del parere che, proprio per effetto dei loro ultimi progressi, la matematica e la fisica abbiano finito per estraniarsi in misura crescente dal vero e proprio campo della cultura, assumendo un aspetto sempre più tecnico e specialistico. È inutile dire che noi condividiamo la prima tesi interpretativa, non la seconda. Non ci nascondiamo però che questa è così profondamente radicata nell'animo di molti studiosi, da imporci la massima cura per tentare di provarne l'inconsistenza. Il primo indispensabile accorgimento che dovremo usare a questo scopo sarà quello di mantenere tutte le nostre considerazioni su di un piano puramente discorsivo, evitando di introdurvi quei tecnicismi che sogliano suscitare le maggiori ostilità. La cosa, del resto, ci sembra possibile, proprio perché riteniamo che le recenti « rivoluzioni » prodottesi nella matematica e nella fisica vi abbiano fatto affiorare parecchie questioni di fondo, il cui significato va molto al di là del loro mero aspetto tecnico. Si tratta di saperlo enucleare senza perdere, insieme con i particolari tecnici, anche il rigore filosofico dei concetti. A questo punto occorre far presente, in via preliminare, che entro la prospettiva in cui ci siamo posti, esiste oggi una profonda differenza tra le due scienze in
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esame, pur tanto collegate tra loro fin dai tempi di Galileo. Ed infatti, per quanto riguarda la matematica, i problemi « filosofici » sono soprattutto emersi in connessione ai dibattiti - sorti fin da tempi remoti ma fortemente accentuatisi nel XIX secolo intorno ai suoi fondamenti (cioè intorno alla natura delle entità numeriche e geometriche, intorno al concetto di infinito, alla giustificazione degli assiomi ecc.). Invece, per quanto riguarda la fisica, tali problemi sono stati prevalentemente suggeriti dalle radicali innovazioni prodottesi all'inizio del nostro secolo: innovazioni che fanno sostanzialmente capo alla teoria della relatività e alle ricerche intorno alla struttura dell'atomo. Pertanto, mentre esiste una sorta di continuità fra i dibattiti odierni di filosofia della matematica e quelli del secolo scorso, esiste invece un'autentica frattura tra i problemi « filosofici» sollevati dalla fisica odierna e quelli che emergevano dalla fisica classica (ottocentesca). Stando così le cose, è chiaro che la filosofia della matematica va trattata ancora oggi, come in passato, in strettissima connessione con le indagini di logica; se invero essa ha subito negli ultimi decenni una notevolissima svolta, è soprattutto per effetto delle nuove raffinatissime tecniche ideate dai logici. Ne segue, per quanto ci riguarda più da vicino, che anche l'esposizione dei più recenti sviluppi della filosofia della matematica doveva venire collocata, come di fatto è accaduto, nei due capitoli, il v del presente volume e il 111 del prossimo, espressamente dedicati a un'esposizione approfondita delle ricerche logiche dall'inizio del secolo a oggi. Qui è parso tuttavia opportuno aggiungere, a quanto ivi esposto, alcune considerazioni che riguardano la matematica nel suo complesso, e che, più precisamente, mirano a porre in luce talune nuove prospettive in essa affermatesi come diretta conseguenza del fecondo lavoro eseguito dai logici-matematici della fine dell'Ottocento, soprattutto per quanto riguarda l'assiomatizzazione delle teorie. È chiaro che questo compito avrebbe potuto venire eseguito prendendo in esame, una dopo l'altra, le singole discipline in cui la nostra scienza si è venuta attualmente articolando. Abbiamo tuttavia scelto un'altra strada, sia perché tale esame avrebbe necessariamente richiesto di scendere in particolari tecnici che - come già accennammo - ci siamo proposti di evitare, sia perché avrebbe di necessità occupato uno spazio troppo ampio non essendovi oggi nel complesso delle discipline matematiche, come invece vi è nella fisica, un gruppo di argomenti incontestabilmente superiori agli altri dal punto di vista del significato filosofico. Ci limiteremo pertanto a porre in rilievo quelle che ci sembrano le caratteristiche strutturali più idonee a differenziare, nella sua globalità, la matematica del Novecento, pura e applicata, da quella «classica» senza soffermarci a delineare, nemmeno per sommi capi, i recenti progressi conseguiti dalle singole teorie. Siamo convinti che una trattazione così impostata possa servire, meglio di una più analitica, a dare una prima sommaria idea circa il tipo di riflessioni che la nuova matematica suggerisce a ogni persona culturalmente impegnata.
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Poiché la questione si pone in termini nettamente diversi per la fisica, occorrerà articolare in modo del tutto differente i paragrafi ad essa dedicati. Neppure a proposito della fisica potremo proporci, come è ovvio, di fornire un quadro completo del suo sviluppo nell'ultimo mezzo secolo. Crediamo tuttavia utile, tenuto conto che alle interpretazioni della teoria della relatività venne già dedicato il capitolo xv del volume sesto, premettere qualche breve cenno storico alle principali tappe che hanno contrassegnato il progresso della fisica quantistica dopo il I92o, perché è proprio intorno a questa, e in particolare ad alcune sue tappe, che si sono accese parecchie fra le più vivaci e interessanti discussioni filosofiche (il suo sviluppo fino a tale data era già stato rapidamente delineato nel capitolo xm del volume sesto). Dopo il paragrafo VI, dedicato a questo sguardo storico (evidentemente superfluo per i lettori forniti di qualche competenza sull'argomento), potremo così affrontare - in maniera più specifica - i gravi problemi metodologici e gnoseologici sollevati dalla nascita della vera e propria meccanica quantistica verso il I 92 5. Ancora una volta la preoccupazione di essere capiti anche dai non specialisti ci vieterà di scendere in particolari tecnici che pur sarebbero senza dubbio utili alla chiarificazione di tali problemi. Riteniamo tuttavia che questo non ci impedirà di puntualizzarne certi significativi aspetti, che possono servire a dissolvere qualcuno dei maggiori equivoci sorti in proposito. Per ora basti far presente che i vivacissimi dibattiti accesisi intorno ai principi della meccanica quantistica, se ebbero senza dubbio il merito di diffondere in larghi strati un nuovo interesse per la fisica, ebbero anche, però, l'effetto di suscitare nei confronti di tale disciplina non poche (e non sempre infondate) diffidenze per le troppo affrettate conclusioni filosofiche che alcuni dei suoi massimi cultori si ritennero in diritto di ricavare dalle proprie scoperte. Per le interessantissime applicazioni della matematica, come pure della fisica quantistica, alle più recenti indagini biologiche, rinviamo al capitolo n del volume nono. Agli sviluppi dei dibattiti sulla meccanica quantistica in URSS, entro il quadro del materialismo dialettico, verrà dedicato ampio spazio nel capitolo v del sopracitato volume. II ·IL METODO ASSIOMATICO IN MATEMATICA
Come già sappiamo, una delle maggiori innovazioni introdotte in matematica alla fine dell'Ottocento (con l'esplicito intento di adeguarla alle più raffinate esigenze di rigore avanzate in quegli anni dai logici) è stata la riformulazione delle sue varie teorie in forma rigorosamente assiomatica. Una breve ricapitolazione dei caratteri di tale innovazione potrà aprirci la via a comprendere il significato profondo della svolta cui essa ha dato luogo. I) Assiomatizzare una teoria significa anzitutto precisare col massimo scru-
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polo - dando l'elenco completo delle sue proposizioni primitive- le relazioni fra gli enti della teoria enunciate da tali proposizioni: nessun teorema potrà introdurre altre relazioni non riducibili a queste. z) Gli enti di cui la teoria parla dovranno considerarsi «implicitamente definiti » dai suoi assiomi, il che significa che essa non potrà tenere conto di altre eventuali proprietà di tali enti, non incluse negli assiomi. 3) Una teoria assiomatizzata prescinde nel modo più completo dal contenuto, empirico o non, usualmente connesso ai suoi termini e prescinde quindi da qualsiasi giustificazione « intuitiva » che potrebbe venire addotta - sulla base di tale contenuto - a sostegno di questo o quell'assioma. Viene quindi meno ogni possibilità di attribuirle un qualche grado di evidenza: essa non è altro che un sistema ipotetico-deduttivo avente il compito di esplicitare le conseguenze ricavabili dagli assiomi. Questi possono venire respinti solo nel caso che, fra le conseguenze da essi derivate, ve ne siano alcune fra loro contraddittorie. Senza scendere qui in ulteriori particolari, 1 ci limiteremo a ricordare che il metodo in esame venne anzitutto applicato (negli ultimi anni dell'Ottocento, come già si è detto) all'aritmetica e alla geometria elementare, soprattutto ad opera di Peano e di Hilbert. Il successo da essi ottenuto fu così grande, che dopo poco tempo si cominciò ad applicare un analogo trattamento anche ai capitoli della matematica di più recente creazione. A conferma di ciò basti far presente che già nel 1908 Ernst Zermelo esponeva la sua famosa assiomatizzazione della teoria degli insiemi e due anni più tardi, nel 1910, Ernst Steinitz delineava una prima soddisfacente assiomatizzazione della cosiddetta « algebra astratta». Fra le altre discipline rielaborate poco più tardi col nuovo metodo meritano particolare menzione: la topologia, al cui prodigioso sviluppo - su rigorosa base assiomatica contribuirono eminenti studiosi di pressoché tutti i paesi (il tedesco Felix Hausdorff, il francese Maurice Fréchet, il polacco Stefan Banach, lo svizzero Heinz Hopf, il sovietico Pavel Sergeevic Aleksandrov ecc.); l'analisi funzionale per la quale ricordiamo, oltre al testé menzionato Banach, il sovietico Izrail Moiseevic Gel'fand, l'americano Marshall H. Stone, l'americano di origine ungherese Johann von Neumann; Ia geometria algebrica, legata ai nomi dell'americano di origine polacca Oscar Zariski (che fu allievo di Enriques a Roma), dei francesi Henri Cartan e André Weil, dell'apolide Aiexandre Grothendieck; la teoria della misura nella cui trattazione assiomatica si distinse in modo speciale Ia scuola matematica polacca; il calcolo delle probabilità che subì un'autentica svolta per l'assiomatizzazione fattane nel 1933 dal sovietico Andrej Kolmogorov. r Uno sviluppo assai importante dell'assiomatizzazione delle teorie è costituito dalla loro « formalizzazione ». Rinviando il lettore a quanto detto in proposito nel capitolo v, basti ricapitolare le differenze tra l'una e l'altra: mentre per assiomatizzare una teoria è necessario e sufficiente precisarne con scrupolo le proposizioni primitive
(da considerarsi come« definizioni implicite» degli enti della teoria), per formalizzarla occorre qualcosa di più, cioè determinare la potenza espressiva del linguaggio in cui essa è formulata e le regole logiche in base a cui verranno· condotte le dimostrazioni.
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Questo rapido e mirabile sviluppo ha fatto sorgere la convinzione che fosse possibile tentare una presentazione assiomatica di tutte le branche fondamentali della matematica, gerarchicamente disposte le une rispetto alle altre. Tale tentativo è stato compiuto da un gruppo di valenti studiosi francesi, riuniti sotto l'unico nome di Nicolas Bourbaki, che iniziò nel 1939 la pubblicazione, protrattasi fino ai nostri tempi, di una fitta serie di fascicoli e volumi dedicata appunto alla realizzazione dell'anzidetto programma (il primo fascicolo esponeva la teoria degli insiemi). Negli ultimi anni però, mentre si sono avute numerose dedizioni di fascicoli già precedentemente pubblicati, è invece diminuito, almeno in percentuale, il numero dei fascicoli integralmente nuovi e - cosa particolarmente significativa- questi non sono più usciti nell'ordine gerarchico che aveva caratterizzato l'inizio della serie, onde qualcuno comincia a parlare di «crisi del bourbakismo ». Giustificato o no che sia l'accenno a questa crisi, è incontestabile che quasi tutti i matematici del nostro secolo hanno finito per abbracciare il nuovo metodo nell'esposizione del proprio settore di studio. Sorge quindi spontanea la domanda: quali sono i motivi di fondo che li hanno indotti a un tipo di trattazione così poco naturale (perché niente affatto intuitiv-a)? Riteniamo opportuno menzionarne quattro che ci sembrano particolarmente significativi: a) la separazione che il metodo assiomatico suggerisce fra le ricerche «a monte » e quelle « a valle » dei sistemi di assiomi, tutte parimenti interessanti ma che richiedono competenze specifiche tra loro ben distinte, anche se talvolta riunite nella medesima persona; b) la grande generalità che esso è in grado di fornire alle teorie, proprio perché le libera da ogni preoccupazione circa l'evidenza dei loro assiomi e circa la natura degli enti trattati; c) la capacità che ne ricaviamo di percepire con perfetta chiarezza tutti i legami che connettono una proposizione con l'altra entro la teoria assiomatizzata (in particolare di individuare la radice nascosta di certi teoremi a prima vista sconcertanti); d) i mezzi che tale metodo pone a nostra disposizione per determinare con estrema precisione i rapporti fra le varie teorie, scoprendo per esempio che due di esse, nate per « parlare » di enti del tutto diversi, sono in realtà coincidenti, o che l'una è soltanto una particolarizzazione dell'altra. Sono state proprio le scoperte di questo tipo a far comprendere ai matematici del nostro secolo che il vero oggetto della loro scienza non è costituito dai particolari enti (punti, numeri, funzioni ecc.) di cui si occupano i singoli rami della matematica, ma è invece costituito dai sistemi di relazioni da cui tali enti risultano fra loro collegati. Trattasi di una svolta ricca di implicanze filosofiche, come mostreremo nel prossimo paragrafo. Prima, però, sarà opportuno sgombrare il campo da due accuse frequente-
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mente sollevate contro l'assiomatizzazione delle teorie: l'accusa che essa non favorisca l'inventività del matematico, riuscendo soltanto a presentare in forma più soddisfacente concetti e risultati dei quali era già effettivamente in possesso; e l'accusa che finisca per privare la matematica di ogni contatto con la realtà empirica. Alla prima si può agevolmente rispondere, che l'esatta precisazione degli assiomi è stata proprio ciò che ha permesso un consapevole intervento su di essi onde modificare questo o quel punto di una teoria, «inventando» con ciò nuove teorie non raggiungibili per via meramente intuitiva. Né va dimenticato, che il fatto stesso di trovarsi di fronte a una molteplicità di assiomatizzazioni ha educato il matematico a distinguere fra quelle significative e stimolanti e quelle meramente artificiose. Per quanto riguarda la seconda accusa, basterà osservare che, assiomatizzando una teoria, si amplia, e non si restringe, il suo contatto con l'esperienza: dopo tale operazione infatti, essa risulterà applicabile non più ai soli enti che ne avevano suggerito la primitiva elaborazione, ma ad ogni sistema di enti fra i quali valgono le relazioni fissate dagli assiomi, nulla importando che, oltre a ciò, essi godano o non godano di altre proprietà originariamente ritenute intuitive ma di fatto estranee alla teoria. Riservandoci di prendere in esame nel paragrafo v gli effettivi vantaggi che proprio l'assiomatizzazione ha fornito alla matematica applicata, consentendole di introdurre metodi per l'innanzi ignoti, vogliamo ancora aggiungere qualche considerazione - di ordine per così dire filosofico - sul problema se la generalità di una teoria risulti o no compatibile con la sua efficacia conoscitiva. A proposito di ciò, va ricordato che la tesi della incompatibilità venne già discussa e confutata, fin dal secolo scorso, dal grande matematico e fisico Bernhard Riemann, di cui si parlò a lungo nel volume quarto. Alla fine della sua celebre memoria (più volte menzionata in tale volume) sulle prime e più astratte ipotesi che stanno alla base della geometria, egli si chiedeva: « Quale utilità potranno avere le ricerche che partono da concetti tanto generali? » Ed ecco la risposta che immediatamente dava: le ricerche in questione hanno l'indiscutibile vantaggio di evitare che il « progresso della conoscenza » venga impedito dalle « vedute troppo ristrette » trasmesseci dagli stadi precedenti della ricerca, cioè dai « pregiudizi tradizionali». Aggiungeva poi- in un frammento direttamente rivolto alla teoria della conoscenza (Erkenntnistheoretisches) e costituente, in certo senso, una integrazione della memoria anzidetta - che tali « pregiudizi » non derivano « da una speciale disposizione dell'animo antecedente a tutta l'esperienza», ma «ci vengono trasmessi inavvertitamente mediante il linguaggio ». Solo una critica radicale di questo - ne concludeva -potrà consentirci di eliminare il diaframma che si frappone tra le nostre teorie e l'esperienza: il distacco della scienza dal patrimonio linguistico del sapere comune (immediatamente intuitivo) non costituirà dunque una diminuzione delle sue capacità conoscitive ma un notevolissimo incremento di esse. Ecco le chiare parole da lui scritte sull'argomento: è solo
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procedendo per la via della « generalità crescente » dei concetti e dei principi, che « la nostra concezione della natura diviene a poco a poco più completa e più esatta », e può divenirlo perché « contemporaneamente si allontana sempre di più dalla superficie delle apparenze». Ci sembra assai significativo che anche Lenin, pur senza conoscere Riemann, abbia sostenuto una tesi pressoché identica, così formulandola nei Quaderni: «Per il fatto di salire dal concreto all'astratto, il pensiero non si allontana dalla verità ma le si approssima... Tutte le astrazioni scientifiche (che siano corrette, da prendersi sul serio e non insensate) riflettono la natura più profondamente più fedelmente, più compiutamente. » III· CONSEGUENZE FILOSOFICHE DELL'ASSIOMATIZZAZIONE DELLA MATEMATICA MODERNA
Per dare un'idea delle notevoli implicanze filosofiche connesse alla svolta cui abbiamo poco sopra accennato, verificatasi in seguito all'introduzione del metodo assiomatico, converrà prendere le mosse da un gravissimo problema prospettato con vera passione da Hilbert nella famosa relazione da lui letta al secondo congresso internazionale di matematica tenuto a Parigi nel I 900 (il titolo della relazione era Mathematische Probleme [Problemi matematici]): accadrà prima o poi - egli si chiedeva - anche alla matematica ciò che è accaduto a parecchie altre scienze, e cioè di frantumarsi in tanti rami indipendenti, i cui studiosi non saranno più in grado di intendersi l'un l'altro? La risposta che Hilbert diede a questo interrogativo era nettissima: la matematica non potrà mai correre questo pericolo, perché «a mio giudizio» essa costituisce « un tutto indivisibile, un organismo la cui capacità di vita è condizionata dalla connessione delle sue parti». Il lettore, che ha seguito i dibattiti da noi esposti nei volumi precedenti, ricorderà certamente l'importanza filosofica che abbiamo riconosciuto agli sforzi (di Comte, di Helmholtz, di Engels ecc.) diretti alla riconquista dell'unità del sapere posta in crisi dal moltiplicarsi delle ricerche specialistiche. Ma che senso potrebbero avere questi sforzi, se già la stessa prima scienza della classificazione comtiana dovesse perdere il carattere di organismo unitario? È chiaro che, visto in questa prospettiva, il quesito drammaticamente sollevato da Hilbert non può non rivelare un significato che va assai oltre i confini della pura matematica. E altrettanto dovrà ripetersi, corn:'è ovvio, per la ferma risposta da lui data a tale quesito. Il fatto grave è, però, che questa risposta non risultava fondata, in Hilbert, su null'altro che la sua fede personale (non senza motivo egli la faceva precedere dalle esplicite parole «a mio giudizio»). Orbene, il metodo assiomatico ha avuto l'incomparabile merito di dare alla tesi unitaria hilbertiana una base ben più solida che non quella costituita dal giudizio personale di un singolo· studioso, fosse
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pure uno studioso unanimamente riconosciuto come il più grande matematico della sua epoca. L'assiomatizzazione delle branche fondamentali della matematica, operata dai bourbakisti, ha infatti permesso di constatare senza difficoltà: 1) che ciascuna di esse consiste essenzialmente nello studio di talune strutture, ove per struttura si intende un insieme di elementi (di natura non specificata) tra i quali sono fissate certe relazioni che soddisfano a taluni ben determinati assiomi (i cosiddetti assiomi della struttura) 1 ; z) che le relazioni a cui si fa riferimento nella definizione di tali strutture, pur potendo essere assai varie, rientrano tutte in tre classi fondamentali (cosicché si hanno tre soli« grandi tipi» di strutture: algebriche, di ordine, e topologiche). Naturalmente «è possibilissimo che lo sviluppo ulteriore delle matematiche aumenti il numero delle strutture fondamentali, rivelando la fecondità di nuovi assiomi o di nuove combinazioni di assiomi, e si può dare anticipatamente per scontato che da queste invenzioni di strutture si ricaveranno progressi decisivi, a giudicare dai progressi che ci hanno apportato le strutture attualmente note; d'altra parte queste ultime non sono in alcun modo degli edifici compiuti, e sarebbe assai sorprendente che tutto il succo dei loro principi fosse fin d'ora esaurito » (Bourbaki). Una cosa appare comunque certa: che le teorie, le quali studiano strutture di un medesimo tipo, risultano fra loro strettamente connesse, onde lo sviluppo dell'una finisce per gettare immediatamente luce sui problemi dell'altra. Si può pertanto concludere che la matematica del xx secolo, disponendo delle « potenti leve » ad essa fornite dallo studio dei grandi tipi di strutture, è ormai in grado di dominare« con un solo colpo d'occhio immensi domini unificati dall'assiomatica, ove in passato sembrava regnare il più informe caos » (Bourbaki). Con ciò la matematica non ha ovviamente cessato di presentarsi come un albero fornito di più rami; ma di ciascuno di essi noi scorgiamo con chiarezza i lineamenti, prima nascosti da un impenetrabile viluppo di foglie. E scorgiamo con altrettanta chiarezza il tronco dal quale traggono origine, nonché le precise connessioni che questo tronco stabilisce tra un ramo e l'altro. L'alone di mistero da cui tali connessioni sembravano avvolte scompare completamente, lasciando emergere un ordine profondo, che ci spiega perché la matematica costituisca davvero - come aveva intuito Hilbert - un « tutto inscindibile ». Il suo carattere unitario viene in tal modo ricuperato su di un nuovo piano, che era sempre sfuggito a chi si rinserrava nella particolarità delle singole teorie, incapace di guardare al di là della « natura » dei loro elementi . Un ulteriore passo lungo la via poco sopra delineata è stato recentemente 1 Studiare una struttura significherà, in accordo con quanto si è detto nel paragrafo precedente, ricavare tutte le conseguenze logiche dei
suoi assiomi, prescindendo da ogni altra ipotesi sugli elementi considerati.
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compiuto dalla cosiddetta« teoria delle categorie »,1 che introduce- come verrà dettagliatamente spiegato nella terza parte del capitolo III del volume nono la nozione generàlissima di « categoria », tendente ad abbracciare in sé tutte le strutture di una medesima specie (per le quali era già emersa l'importanza fondamentale dei « morfismi » che intercorrono tra insiemi muniti, appunto, di strutture della stessa specie). Come esempi di categorie ricordiamo quella degli insiemi, quella dei gruppi algebrici, quella degli spazi topologici ecc. Studiando in modo sistematico le proprietà delle singole categorie e i rapporti fra determinate categorie (per esempio fra una categoria e la sua « duale ») la nuova teoria è riuscita ad enucleare dei generi di connessione per l'innanzi inafferrabili e, sulla base di essi, a porre in luce sempre più profondi motivi per affermare con piena consapevolezza il carattere organico del grande e complesso albero della matematica. Una semplice riflessione su quanto testé accennato, può ora aiutarci a dissolvere un grave equivoco sorto da tempo intorno all'assiomatizzazione delle teorie matematiche: l'equivoco secondo cui tale assiomatizzazione dimostrerebbe il loro carattere meramente convenzionale. È certo che in un primo momento la scoperta che le teorie matematiche sono sistemi ipotetico-deduttivi, le cui ipotesi basilari (cioè gli assiomi) risultano prive del carattere intuitivo ad esse tradizionalmente attribuito, poté suscitare a buon diritto l'impressione che tali sistemi non fossero altro se non pure convenzioni. Ciò dipese dall'aver trascurato che essi non erano affatto sistemi arbitrari, ma sistemi elaborati col preciso intento di enunciare in forma più rigorosa teorie già note da secoli, e che in particolare lo sganciamento dei loro assiomi da ogni contenuto intuitivo costituiva proprio la condizione indispensabile per raggiungere il livello di altissimo rigore necessario per il loro ulteriore sviluppo. In un momento successivo cominciarono a sorgere seri dubbi sulla presunta « mera convenzionalità » delle teorie matematiche assiomatizzate, quando ci si accorse che esse non servivano soltanto a presentare in forma logicamente più limpida le vecchie teorie « intuitive », ma conducevano pure a comprendere con maggiore chiarezza il senso di concetti sui quali la semplice intuizione non aveva mai saputo dire nulla di preciso; tipico il caso dei concetti di « continuità » di una curva, di « dimensione » di uno spazio, di « grado di infinità » ecc. Orbene il recupero poco sopra accennato dell'unità (o per lo meno delf'organicità) della matematica- recupero ottenuto per l'appunto attraverso il metodo assiomatico - ci fornisce a nostro parere un ulteriore, validissimo argomento I La teoria delle categorie si è sviluppata solo a partire dal 195 5-56, e qualcuno si è chiesto perché abbia tardato tanto ad attirare l'interesse dei matematici. Ecco la risposta, peraltro un po' vaga, fornita a tale quesito da Saunders Mac Lane: « Personalmente ritengo che il clima delle opinioni matematiche nel decennio 1946-5 5 non fosse favorevole ad un ulteriore sviluppo con-
cettuale. L'indagine su concetti tanto generali quanto quelli della teoria delle categorie era fortemente scoraggiata, forse perché si aveva la sensazione che lo schema fornito dalle strutture di Bourbaki producesse una generalità sufficiente. » Da tale data, come osserva ancora Mac Lane, essa venne usata con particolare profitto in topologia, nell'algebra omologica e nella geometria algebrica.
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contro l'interpretazione convenzionalistica di tale scienza, cioè proprio contro l'interpretazione che in un primo tempo era parsa derivare dalla sua rielaborazione in forma assiomatica. Trattasi del seguente argomento: se le teorie matematiche fossero delle mere convenzioni, dei puri giochi, sarebbe impossibile riscontrarvi quelle « connessioni profonde » che fanno, della loro riunione, un tutto organico e non un caotico aggregato. È stata - come abbiamo detto - l'impostazione astratta, moderna, di tali teorie a farci scoprire queste connessioni, esistenti al di là delle « differenze di contenuto», per l'innanzi ritenute fondamentali e insormontabili. Dobbiamo dunque riconoscere proprio all'anzidetta impostazione il merito di averci fatto comprendere con chiarezza che il grande edificio della matematica (edificio che cresce - lo si voglia o no - lungo linee di sviluppo saldamente coordinate fra loro) non è, nel suo complesso, qualcosa di meramente convenzionale, ma di « oggettivo », ossia di indipendente dalla pura attività soggettiva del matematico. Una volta raggiunta questa conclusione, ci ritroviamo come è ovvio di fronte all'antico problema, schiettamente filosofico, di stabilire quale sia effettivamente il tipo di obiettività spettante alla matematica. Esso presenta due aspetti ben distinti l'uno dall'altro: il primo concerne l'obiettività da riconoscersi alle entità primitive (numeri, insiemi, punti ecc.) delle singole teorie matematiche; il secondo invece l'obiettività da riconoscersi al complesso organico di tali teorie. Quello rientra nel problema « classico » dei fondamenti e perciò riguarda essenzialmente la logica, per cui è specificamente trattato nel capitolo v; questo rientra in una questione più generale di carattere prettamente gnoseologico: possiede o non possiede la matematica un qualche valore conoscitivo? I realisti ingenui ritenevano di poterle dare una risposta positiva, in quanto ammettevano che ogni singolo assioma riflettesse in sé una ben determinata proprietà del reale. Ma la piena consapevolezza, fornitaci dai moderni sviluppi dell'assiomatica, della non assolutezza degli assiomi di una qualunque teoria matematica, esclude la possibilità di accogliere - allo stato attuale della scienza l'anzidetta ammissione. Il problema dovrà dunque venire impostato in modo del tutto diverso, non facendo più riferimento alle singole proposizioni di questa o quella teoria, ma all'edificio matematico nella sua interezza. Ebbene, se noi poniamo in g_uesti nuovi termini la questione, ci sembra innegabile che il realismo possa venire sostenuto con argomenti ben più validi. Questi si riassumono nella seguente domanda: su quali basi riterremo lecito negare all'edificio matematico ogni valore conoscitivo (cioè ogni «presa» sulla realtà) quando siamo costretti a constatare giorno per giorno che esso costituisce il più potente strumento di cui dispongono le « scienze reali », cioè le scienze rivolte - per loro stessa natura - a cogliere tale realtà? Nei secoli scorsi si era creduto che fosse soltanto la fisica a doversi valere, per attuare i propri compiti, dei concetti e delle proposizioni matematiche; e anzi 4II
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si era creduto che essa dovesse rivolgersi, a questo scopo, ad una teoria matematica in certo senso « privilegiata » (come tale era stata considerata in un primo tempo la geometria, poi - dal Settecento in avanti - l'analisi infinitesimale). Oggi noi sappiamo invece che le cose non stanno così: non è infatti la sola fisica a dover fare ricorso alla matematica, e non esiste una teoria matematica privilegiata da utilizzarsi - essa sola - nelle scienze cosiddette empiriche. Resta però il fatto che senza la matematica, cioè senza la straordinaria ricchezza e varietà di teorie che essa pone a nostra disposizione, pressocché nessuna di queste scienze avrebbe raggiunto il suo livello attuale. Qualcuno osserverà forse, a questo punto, che il qualificare la matematica come « strumento » significa in ultima istanza sostenere che essa è soltanto una costruzione soggettiva, e nulla più. Noi rispondiamo, però, che il parlare di strumento non significa affatto parlare di un mero prodotto della nostra mente. Se infatti lo strumento si rivela efficace, è la prassi stessa a dimostrare che esso deve possedere una base reale. Non neghiamo che si tratti di un problema assai arduo e sottile. Ma, a ben riflettere su di esso, ci si accorge subito che non è altro se non la riformulazione moderna di un problema già affrontato (e a nostro parere avviato a seria conclusione) da Engels e da Lenin: quello di riuscire a concepire un contatto con la realtà che dia un valore obiettivo al complesso delle nostre teorie (in via di perenne trasformazione) e non pretenda, nel contempo, di fornire ad alcuna di esse un carattere di assolutezza. IV · SOLLECITAZIONI CHE PROVENGONO ALLA MATEMATICA DALLE ALTRE SCIENZE
Il rapporto fra la matematica e le altre scienze non si riduce - come taluno potrebbe supporre - a un puro « dare » da parte della prima e un puro « ricevere » da parte delle seconde. È invece un rapporto di vivissimo interscambio, che potrebbe assai opportunamente venire gualificato come dialettico. Il fatto a prima vista sorprendente è, poi, che questo interscambio non solo non ha subito alcuna diminuzione per effetto della nuova impostazione (generale, astratta, assiomatica) della matematica del xx secolo, ma semmai è stato da essa incrementato. Fin quando la matematica era stata interpretata come un sistema di « verità assolute », ricavate da assiomi indiscutibili perché evidenti, essa aveva per così dire intrattenuto dei rapporti particolarmente stretti con l'esperienza quotidiana, perché questa sola pareva in grado di fornire un carattere intuitivo ai suoi contenuti e un carattere apodittico alle sue proposizioni primitive. Anche durante tale fase, però, alcuni concetti fondamentali delle sue teorie, e proprio delle più avanzate, erano stati tratti non direttamente dall'esperienza quotidiana, ma dalle nozioni (semi-intuitive) via via elaborate dalle altre scienze (e dalle tecnologie ad
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esse collegate). Si pensi per esempio al concetto di derivata inizialmente suggerito, sia pure in forma tutt'altro che chiara, dalla nozione semi-intuitiva di velocità istantanea, elaborata dai meccanici del Seicento; oppure al concetto di campo, ricavato da una nozione semi-empirica che Faraday aveva introdotto per fornire una comoda descrizione dei risultati raggiunti nelle sue accurate e geniali sperimentazioni. Orbene, per la matematica del nostro secolo è accaduto che il primo tipo di legami, quelli con l'esperienza quotidiana, si è ovviamente rivelato impossibile a causa del carattere astratto assunto dalle sue teorie. Invece il secondo tipo di legami, quelli con l'esperienza mediata dalle altre scienze e dalla tecnologia, non solo non si è interrotto ma - come testé accennammo - si è in certo senso approfondito e ampliato. Basti ricordare, a titolo di esempio, che uno dei rami più avanzati dell'analisi infinitesimale moderna, la cosiddetta teoria delle «distribuzioni», ha tratto per l'appunto origine dalla riflessione su di un tipo di algoritmi - non ortodossi da un punto di vista classico - che gli elettrotecnici avevano introdotto con successo all'inizio del secolo e con altrettanto successo era stato usato verso il 1930 dal grande fisico Dirac (sul quale ritorneremo nel paragrafo vr). Anche in questo caso però, è fuori dubbio che il metodo assiomatico ha compiuto una funzione di fondamentale importanza. Esso servì infatti di validissimo sprone alla costruzione di teorie rigorose molto generali, capaci di dare un assetto soddisfacente alle nuove nozioni (suggerite dai non-matematici) sulla base di sistemi di assiomi non artificiosi eppure nettamente diversi da quelli fin allora accettati. È ovvio che una tale costruzione non sarebbe stata possibile se si fosse continuato ad attribuire ai vecchi assiomi un valore di verità assolute ed evidenti. L'interscambio fra matematica e « scienze empiriche» (nel senso moderno del termine, cioè fisica, biologia, economia ecc.), emerge con particolare chiarezza dall'esame dei tentativi compiuti per estendere il metodo assiomatico dall'ambito delle teorie matematiche pure a quello delle teorie elaborate da tali scienze, in particolare dalla fisica. Lo scopo di questi tentativi era manifestamente quello di portare ordine entro alcune complesse costruzioni che, per essere state elaborate in varie fasi parallelamente al progressivo arricchirsi dei dati empirici, possedevano una struttura logica molto incerta e talvolta perfino equivoca. Tipico è il caso della termodinamica che- come si vide nel volume quinto- aveva indubbiamente realizzato lungo il corso dell'Ottocento straordinari progressi (da cui era emersa l'eccezionale importanza della nuova disciplina), ma che era ben lungi, all'inizio del Novecento, dall'avere raggiunto un assetto rigoroso ove almeno risultassero chiaramente distinti i concetti primitivi da quelli derivati. Fu proprio questo il motivo che indusse il matematico e fisico tedesco (di origine greca) Constantin Carathéodory a proporne, nel I 909, una assiomatizzazione capace di ovviare a
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questi difetti. Oggi sono state riscontrate in tale assiomatizzazione varie imprecisioni, onde si è cercato di sostituirla con altre notevolmente più perfette; essa aveva comunque aperto una strada nuova alla fisica- e in generale alle teorie empiriche - che doveva accrescere di molto la « padronanza » di esse (come l'assiomatizzazione delle teorie mat~matiche aveva accresciuto di molto la capacità dei matematici di afferrare e dominare le loro più riposte articolazioni). Va notato che un altro scopo dell'estensione del metodo assiomatico alle teorie elaborate dalle scienze empiriche era anche quello di separare tali teorie dai modelli meccanici ideati per la loro interpretazione « intuitiva » e che talvolta sembravano costituire con esse un tutto inscindibile; basti pensare, per il caso della termodinamica, al modello cinetico, che certamente si era rivelato molto utile al suo sviluppo ma aveva nel contempo dato luogo a innumerevoli discussioni. Da questo punto di vista l'assiomatizzazione delle teorie empiriche può venire considerata come un'ulteriore tappa sulla via aperta da Fourier nella prima metà dell'Ottocento (via cui si è fatto cenno nel capitolo xvr del volume quarto). Dall'inizio del secolo a oggi i tentativi di assiomatizzare l'una o l'altra teoria empirica sono stati parecchi, particolarmente rivolti a quelle teorie ove la complessità degli argomenti trattati aveva creato situazioni di vero e proprio caos (rendendo difficile distinguere le proposizioni effettivamente verificabili nell'esperienza da quelle non direttamente verificabili). Ci limiteremo a ricordare: le assiomatizzazioni della meccanica quantistica elaborate da Paul Adrian Dirac e da Johann von Neumann a partire dal I927; l'assiomatizzazione della biologia tentata da J oseph Henry W oodger nel decennio I 9 5o-6o; l'assiomatizzazione dell'economia compiuta da G. Debreu, David Gale e altri fra il I954 e il I96o; quella della teoria della misurazione - a cui hanno lavorato, dal I 96o in avanti, J. Pfanzagl e B. Ellis - essenzialmente rivolta a precisare la struttura dei concetti tassonomici, comparativi e metrici. Ebbene, sono state proprio tutte queste ricerche a fornire alcuni preziosi suggerimenti alla matematica pura, in quanto le hanno fatto comprendere il vivissimo interesse di certi problemi, particolarmente delicati, che emergevano per l'appunto dagli anzidetti tentativi di assiomatizzazione. I n altre parole: si scoprì nell'espletamento stesso di tali tentativi, che essi non avrebbero potuto venire condotti a termine senza un forte arricchimento degli strumenti concettuali fin allora usati per assiomatizzare le teorie matematiche (assai meno complesse di parecchie teorie empiriche). Si apersero così, ai «matematici puri», nuovi campi di indagine a proposito dei quali non è facile dire se, e quando, sarebbero stati affrontati senza tali suggerimenti. Abbiamo voluto sottolineare questo ininterrotto scambio di suggerimenti e di aiuti fra indagini matematiche e indagini non matematiche, perché esso pone in evidenza la profonda unità oggi riscontrabile nell'ambito delle ricerche scientifiche. È un'unità che ci dimostra quanto sia infondata la pretesa di separare net-
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tamente il problema del valore conoscitivo della matematica da quello del valore conoscitivo della scienza in generale. V
· IL POTENZIAMENTO DELLA MATEMATICA APPLICATA
Pur essendoci proposti di fornire nulla più che una caratterizzazione molto schematica della matematica del nostro secolo nei suoi aspetti di maggior rilievo filosofico, il quadro che ne abbiamo tracciato risulterebbe troppo incompleto se non aggiungessimo qualche considerazione, sia pure estremamente sommaria, sull'importante capitolo di essa che suo] venire denominato « matematica applicata». Ritroveremo anche qui una nuova conferma dell'enorme peso avuto - nello sviluppo della nostra scienza - dall'introduzione, e sistematica adozione, del metodo assiomatico. Cerchiamo innanzitutto di spiegare in che cosa consista, in ultima istanza, la profonda svolta recentemente subita dalla matematica applicata. Mentre fino a qualche tempo addietro essa pareva non avere altro compito che quello di far rientrare i fenomeni via via presi in esame nel quadro concettuale delle teorie « classiche », cioè delle teorie già facenti parte del patrimonio più sicuro della matematica (intesa in senso lato, come includente in sé la meccanica, la teoria dell'elasticità, e in generale tutta la fisica-matematica ottocentesca), oggi tale preoccupazione può dirsi sostanzialmente caduta. Il fatto nuovo è, in altri termini, questo: se i fenomeni presi in esame suggeriscono nozioni e principi diversi da quelli classici, la matematica applicata non ha più alcuna difficoltà ad accogliere questi suggerimenti. È ovvio che il nuovo atteggiamento, di incalcolabile fecondità, è stato reso possibile dalla consapevolezza di poter manovrare gli strumenti matematici con una libertà per l'innanzi del tutto sconosciuta. Ed è ovvio che proprio qui si giustifica quanto abbiamo poco sopra accennato circa il peso avuto, anche nello sviluppo della matematica applicata, dall'introduzione (nella matematica pura) del metodo assiomatico. È stata essa infatti, ed essa sola, a procurare la piena consapevolezza che le teorie matematiche non costituiscono alcunché di assoluto, ma sono essenzialmente « manovrabili » in conformità alle sempre nuove esigenze della ricerca. Siamo ora in grado di illustrare il radicale mutamento di orizzonte in tal modo prodottosi, facendo riferimento a un gruppo di problemi che hanno oggi assunto una specialissima importanza. Intendiamo riferirei ai problemi concernenti l'ideazione di « modelli » atti a rappresentare ben determinati « sistemi reali » (nel senso attribuito dai tecnici a questa espressione) nonché a prevedere il loro decorso. Che cosa hanno di nuovo questi modelli rispetto a quelli meccanici comunemente usati dalla fisica-matematica dell'Ottocento? Un semplice sguardo ai me-
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todi matematici cui essi fanno ricorso ci permette di dare al quesito una risposta chiara e inequivocabile: i metodi usati dalla matematica applicata odierna vengono attinti da un « serbatoio » molto più vasto di quello costituito dalla « matematica classica » (vastità procurata proprio, come abbiamo precedentemente chiarito, dall'adozione del metodo assiomatico). Il metodo più nuovo, che ha dimostrato una maggior fecondità, è stato il ricorso al discontinuo. È sulla base di esso che la matematica applicata odierna non solleva più alcuna difficoltà di principio contro l'impiego sistematico di funzioni discontinue, mentre fino a poco tempo addietro sembrava inconcepibile l'idea di impiegare altre funzioni fuorché quelle continue e derivabili (oggetto specifico dell'analisi classica). Ciò ha permesso di sostituire alle equazioni differenziali alle derivate parziali, usualmente adoperate dai grandi meccanici del Sette e Ottocento per tradurre i problemi fisici in termini matematici, le equazioni alle differenze finite che si prestano molto meglio al calcolo effettivo dei risultati. 1 Ed è ancora il ricorso al discontinuo che ha condotto gli odierni studiosi di matematica applicata a introdurre una nuova operazione, ben presto rivelatasi di grande utilità: la cosiddetta « discretizzazione » della regione interessata dal « sistema reale » in esame, consistente nel decomporre tale regione in un insieme discreto di « elementi », connessi tra loro da opportune relazioni topologiche. A ben guardare le cose, l'idea-guida che sta a fondamento di tutta questa nuova impostazione è la seguente: il matematico non può « imporre » ai fenomeni studiati il modello più confacente al suo gusto estetico, ma deve adeguare il modello ai fenomeni, seguendo l'esempio dell'ingegnere che ha il preciso compito di operare su oggetti concreti, non su meri concetti. Se questi oggetti richiedono di venire trattati in un certo modo, perché mai dovremmo invece trattarli in un altro? In una situazione siffatta, ciò che la matematica è in grado - essa sola di fornire, è una straordinaria ricchezza di strumenti concettuali per la trattazione dei più diversi problemi. Come scrive molto bene Johann von Neumann « uno dei più importanti contributi della matematica al nostro pensiero è che essa ha dimostrato un'enorme flessibilità nella formazione dei concetti, un grado di flessibilità a cui è difficilissimo pervenire in modo non-matematico ». I vantaggi che si ricavano dalla svolta testé accennata sono essenzialmente di due ordini: 1) i nuovi metodi (che fanno ricorso sistematico al discontinuo) permettono di costruire modelli che risultano idonei a rappresentare anche dei « sistemi reali » appartenenti a settori fenomenici molto lontani da quelli studiati fino a poco tempo addietro dalla matematica applicata. Si è giunti così a « simulare » non solo dei processi fisici e chimici, ma pure dei processi tecnologici (le cui operaI Le equazioni alle differenze finite erano già state fatte oggetto di seri studi fin dal secolo scorso, e, nei primi anni del nostro, erano apparse alcune soddisfacenti trattazioni di esse; ma l'interesse
per tale argomento risulta enormemente cresciuto dopo la seconda guerra mondiale, come è anche dimostrato dal moltiplicarsi delle pubblicazioni in proposito.
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zioni non costituiscono ovviamente un tutto continuo), dei processi economici, organizzativi ecc.l z) le procedure matematiche adoperate dai nuovi metodi si prestano, per la loro natura prettamente numerica, a che i calcoli da esse indicati vengano eseguiti per via meccanica. Si tratterà di compiere, per condurli a termine, un insieme anche assai ampio - ma comunque finito - di operazioni, e occorrerà all'uopo disporre di macchine calcolatrici di grande capacità; ma si otterranno alla fine risultati numerici precisi che potranno venire controllati sperimentalmente. Risulterà così possibile verificare, senza ambiguità, se il modello ideato era o non era atto a rappresentare il sistema in esame. Merita di venire notato che l'esigenza di questa verifica sperimentale non costituisce di per sé qualcosa di completamente nuovo; essa infatti era già sostanzialmente presente nei grandi fisici-matematici dell'inizio de1l'Ottocento (Lapiace, Fourier, Polsson ecc.) i quali erano convinti di poter ricavare, dai loro modelli dei « sistemi reali », ben precisi valori da mettere al confronto con i dati empirici. Fu solo più tardi che ci si accorse che ciò era impossibile, per le difficoltà insite nel tipo di equazioni usate per rappresentare matematicamente i fenomePi. Allora e solo allora si pensò che i modelli non potevano avere tale compito, e ci si accontentò di pretendere che essi rendessero « più evidente », « più intuitiva » l'immagine dei processi naturali. Considerata da questo punto di vista, la matematica applicata odierna costituisce dunque, in un certo senso, un ritorno al passato. Il fatto, comunque, che il matematico applicato odierno cerchi di impostare i propri problemi in modo del tutto simile a quello dell'ingegnere, avendo cura, più di ogni altra cosa, di ideare modelli veramente idonei a un effettivo controllo pratico, presenta a nostro parere anche un intrinseco interesse di ordine metodologico generale. Ci offre invero un'ulteriore conferma della tesi, cui abbiamo già più volte fatto cenno, che la tendenza affermatasi nella matematica moderna a costruire teorie sempre meno condizionate da preoccupazioni di evidenza, non l'ha affatto condotta ad estraniarsi dalla realtà empirica. Al contrario, è stata proprio la rinuncia a conseguire verità evidenti (presunte assolute) ciò che le ha permesso di stabilire un nuovo tipo di contatto con tale realtà. Naturalmente non sarebbe stato possibile giungere a modelli forniti della verificabilità testé accennata, se nel contempo il progresso tecnico non avesse di I Ricordiamo che i modelli matematici oggi utilizzati nell'economia si possono suddividere in due categorie: modelli matematici aggregati che danno luogo alla cosiddetta macroteoria e modelli matematici disaggregati che danno luogo alla cosiddetta microteoria (o ve si cerca di tenere conto del comportamento dei singoli individui per capire il funzionamento interno di un sistema economico sia dal punto di vista statico sia da quello dinamico). Merita una particolare menzione il frequente ricorso - nell'elaborazione di taluni mo-
delli, per esempio di quelli aggregati cui si è testé fatto cenno - a metodi statistici, che hanno rivelato negli ultimi tempi una funzionalità sorprendente. Il fatto degno di nota è che vi si prescinde in modo completo dalle discussioni « filosofiche >> intorno ai fondamenti del calcolo delle probabilità, cioè dalle discussioni (per le quali rinviamo a quanto detto negli ultimi paragrafi del capitolo IX del volume settimo) che si svolgono «a monte » del sistema di assiomi su cui tale calcolo si regge.
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fatto realizzato la costruzione di calcolatori capaci di compiere in tempi brevissimi un enorme numero di operazioni aritmetiche. Sarebbe però inesatto far consistere la svolta dell'odierna matematica applicata nel solo fatto che oggi si fabbricano tali calcolatori (di potenza via via crescente). Questo è senza dubbio un fattore di estrema importanza, anzi in certo senso decisivo: non è tuttavia l'unico, in quanto - come è ben noto - neanche la macchina calcolatrice più perfetta risulta in grado di funzionare se non le viene assegnato un ben determinato programma (programma che potrà essere tanto più complesso, quanto maggiore è la cosiddetta« memoria» della macchina). Accanto ad esso deve dunque esservi un altro fattore, di natura completamente diversa; tale secondo fattore è costituito dall'« équipe di analisti» che formula il programma da assegnare al calcolatore e che costruisce il modello del sistema cui questo viene applicato (applicazione la quale richiederà, inoltre, che siano raccolti con la massima precisione i dati da sottoporre all'elaborazione del calcolatore). Oggi si parla molto di calcolatori elettronici e si cerca di far credere che sia possibile attribuir loro delle capacità pressoché miracolistiche. L'intento mistificatorio di questa propaganda è evidente: si vuole che la gente attenda pazientemente dall'impiego di tali macchine la risoluzione dei propri problemi, anziché sforzarsi di conseguirla attraverso la lotta. Si pretende in particolare che i calcolatori - una volta raggiunto un adeguato sviluppo tecnico - possano compiere da soli l'intero processo della ricerca scientifica: la tesi, ovviamente assurda, mira allo scopo di presentare tale ricerca come « neutrale », sottraendola così ad ogni impegno civile e culturale. Si crea volutamente un mito con cui far tacere le esigenze della ragione: mito tanto più insidioso in quanto apparentemente sorretto da una delle maggiori conquiste dell'umanità, il progresso scientifico-tecnico. Opporsi decisamente a questa mitizzazione non significa affatto, come è chiaro, disconoscere il peso rilevante che l'uso dei calcolatori ha già assunto fin da oggi, e quello ancora maggiore che potrà assumere in futuro quale strumento prezioso per lo sviluppo delle nostre conoscenze e per la progettazione razionale delle nostre azioni. Ciò non deve farci dimenticare tuttavia che è l'uomo ad avere costruito i calcolatori per operare in una certa situazione storica, e che pertanto è il modo con cui egli li adopera in tale situazione a determinare il contributo che essi daranno al progresso della civiltà. Per quanto riguarda le nuove possibilità che essi forniscono ai nostri processi conoscitivi ci resta da aggiungere una sola osservazione di un certo rilievo filosofico : l'osservazione che l 'uso sistematico dei calcolatori ha reso' sempre più manifesto, in tali processi, il carattere di interrogazioni estremamente complesse (interrogazioni che vengono sì avviate dal ricercatore, ma la cui ulteriore precisazione - cioè la precisazione dei risultati da sottoporre al controllo dei fattinon è più opera sua, bensì del calcolatore). È una complessità di cui il filosofo della nostra epoca deve tenere seriamente conto, perché ci porta ad escludere che 418
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proprio chi si è limitato ad avviare l'interrogazione, possa avere determinato, egli stesso, la risposta che riceverà. E se non è lui ad averla determinata, tanto ci basta a concludere, in accordo con la gnoseologia di Lenin, che tale risposta deve provenire da una realtà irriducibile al soggetto conoscente. VI
· UNO SGUARDO ALLO SVILUPPO DELLA FISICA QUANTISTICA
Si è sottolineato nel capitolo xm del volume sesto la gravità della situazione in cui venne a trovarsi la fisica all'inizio del Novecento, quando ci si rese conto che alcuni fenomeni luminosi recentemente scoperti risultavano spiegabili in modo limpido e coerente sulla base di una concezione « corpuscolare » della luce (ammettendo cioè che questa fosse costituita da fasci di fotoni), mentre rimanevano del tutto inspiegabili entro il quadro della teoria ondulatoria, che pur era da tempo considerata una delle più sicure conquiste della fisica (tante erano le prove in suo favore, ricavate dall'accuratissimo studio dei fenomeni di interferenza, rifrazione, diffrazione ecc.). Questa dualità onda-corpuscolo concernente la « natura » della luce non poteva non apparire quale un vero e proprio scandalo. Ma lo scandalo doveva diventare ancora maggiore quando Louis de Broglie (n. 1892)- in tre famose memorie presentate all'Académie des sciences nel 1923, e rielaborate nella tesi di dottorato dell'anno successivo- avanzò l'audace ipotesi che il dualismo anzidetto dovesse applicarsi anche al comportamento di particelle, quali l'elettrone e il protone, universalmente riconosciute come «materiali» in quanto fornite di una ben determinata massa. Era la nascita della cosiddetta « meccanica ondulatoria », cioè di una concezione completamente nuova che, per descrivere i fenomeni verificantisi nel mondo subatomico, associava tra loro due tipi di nozioni sempre ritenute, fino allora, del tutto eterogenee l'una all'altra: la nozione di particella materiale e quella di campo di onde. Il legame fra esse stabilito dalla nuova meccanica consiste in ciò, che la frequenza delle onde dipende dalla massa della particella nonché dalla velocità della luce nel vuoto e dalla famosa costante di Planck. Come scrive lo stesso de Broglie: « Tutte le particelle materiali hanno le loro onde associate, e l'insieme delle proprietà non può venire esattamente descritto che con i procedimenti della meccanica ondulatoria. » Per questa geniale innovazione, che suggerirà in breve tempo significativi esperimenti da cui verrà ampiamente confermata, a Louis de Broglie verrà conferito, nel I 929, il premio No bel per la fisica. Partendo dall'ipotesi ora accennata e seguendo i procedimenti della nuova meccanica, l'eminente fisico francese riusciva in particolare a dimostrare che le sole orbite possibili degli elettroni rotanti intorno al nucleo dovevano essere quelle « stazionarie » del modello atomico di Bohr; la dimostrazione era condotta sulla base dell'analogia fra le vibrazioni associate all'elettrone e le vibrazioni elastiche che si producono in una corda di violino nel momento in cui la si fa vibra-
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re: come nel caso del violino la lunghezza della corda deve risultare un multiplo intero della lunghezza dell'onda elastica, così, nel caso delle vibrazioni associate all'elettrone in moto, la lunghezza dell'orbita deve essere un multiplo intero della lunghezza dell'onda associata all'elettrone che percorre tale orbita. Due anni più tardi, e cioè nel 1926, l'austriaco Erwin Schrodinger ( 1887-1961) riusciva a dare una nuova formulazione, più soddisfacente dal punto di vista matematico, delle idee di de Broglie, pervenendo a scrivere una celebre equazione (oggi nota appunto come« equazione di Schrodinger »)cui deve soddisfare la cosiddetta «funzione d'onda» se vogliamo che i valori da essa via via assunti rappresentino il moto di un elettrone nello spazio libero (tale funzione d'onda, solitamente indicata con il simbolo ~,serve a caratterizzare lo stato fisico dell'elettrone che si trova nel punto individuato dalle coordinate spaziali di cui ~ è funzione). Va subito detto però che l'interpretazione fisica di questa ~ ha dato luogo a parecchie difficoltà, generate dalla sua stessa forma matematica (cioè derivanti, in ultima istanza, dal fatto che i valori assunti da ~ non sono numeri reali ma complessi); si è dimostrato infatti che, diversamente dalle solite funzioni d'onda essa non denota la vibrazione di alcun mezzo fisico. È stato Max Born (1882-1970), seguito da Bohr, a proporne una interpretazione probabilistica, nel senso che la probabilità di trovare un elettrone in un intorno, di misura unitaria, del punto ove viene calcolata la ~ sarebbe proporzionale al quadrato del modulo di ~ (quadrato che, come è ben noto, risulta un numero reale). Gli argomenti addotti da Schrodinger per giustificare la propria equazione erano, per verità, in parte intuitivi e in parte addirittura inesatti; il fatto è però che essa si rivelava in grado di fornire una descrizione mirabilmente corretta dei fenomeni. Portava invero a risultati identici a quelli delle teorie di Bohr in tutti i casi in cui questi erano in accordo con le osservazioni, e nei casi invece in cui ciò non accadeva riusciva a correggerli ristabilendo un pieno accordo con l'esperienza. Si può pertanto dire che la meccanica ondulatoria, nell'assetto datole da Schrodinger, si rivelava pienamente degna di entrare nel patrimonio più sicuro della scienza. A Schrodinger verrà assegnato il premio Nobel per la fisica, nel 1933. Pochi mesi prima che egli pubblicasse i risultati cui abbiamo testé accennato, era però accaduto un fatto molto singolare: Werner Heisenberg (1901-76), un giovane fisico tedesco che era stato allievo di Arnold Sommerfeld (1868-195 1) a Monaco e poi si era educato alle idee della scuola di Copenaghen, aveva sviluppato- ancora nel 1925 -le linee di un altro tipo di meccanica, basata su considerazioni radicalmente diverse da quelle di Schrodinger, ma capace di spiegare altrettanto bene tutti i fenomeni spiegati dalla meccanica ondulatoria. Per costruire il nuovo efficacissimo strumento (cioè la cosiddetta «meccanica quantistica »), Heisenberg aveva preso le mosse dal « principio di corrispondenza» di Bohr (secondo cui la teoria dei quanti contiene come caso limite la meccanica classica), 420
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cercando di svilupparlo in un sistema di precisi enunciati, atti a formare - come egli stesso scrive - « uno schema matematico coerente e completo >>. Per raggiungere questo scopo ebbe poi la geniale idea di far ricorso al calcolo delle matrici, che gli permetteva di descrivere le radiazioni emesse dagli atomi prescindendo in modo completo dal concetto di traiettoria dell'elettrone. La fecondità della meccanica quantistica si rivelò subito eccezionale, ond' essa non tardò a suscitare il più vivo interesse di tutti i ricercatori impegnati negli studi di microfisica. A Heisenberg verrà assegnato il premio Nobel nel 1932. Sorse però, immediatamente, un nuovo problema: quali erano in realtà i rapporti fra le due nuove meccaniche, visto che esse - pur muovendo da punti di vista tanto diversi - portavano costantemente ai medesimi risultati? Fu proprio Schrodinger a risolverlo nel medesimo 1926, dimostrando la loro sostanziale identità. L'importanza di questo sorprendente risultato non tardò a venire percepita da tutti, confermando la convinzione generale che la nascita della meccanica ondulatoria e della meccanica quantistica segnava veramente una tappa fondamentale nella storia della fisica. Come scrive Heisenberg « la feconda riunione di questi due differenti ordini di idee fisiche permise di arrivare a uno straordinario ampliamento e arricchimento del formalismo quantistico. >> In effetti il nuovo formalismo, così ampliato e arricchito, si rivelò in grado di portare - nel giro di pochi anni - a risultati del massimo interesse sia in campo teorico sia in campo sperimentale. Il successo della « meccanica quantistica » (nome ormai usato per indicare il complesso edificio costituito dalla meccanica di Schrodinger e da quella di Heisenberg) era pienamente assicurato. Nell'ambito teorico- e, se vogliamo, in certo senso filosofico- il risultato più notevole fu costituito dal famoso principio di indeterminazione inizialmente enunciato da Heisenberg in stretta connessione alle proprietà formali del calcolo delle matrici (in quanto derivabile dal fatto che, entro tale calcolo, la moltiplicazione non gode in generale della proprietà commutativa). A questo punto occorre aggiungere, però, che Heisenberg non si accontentò di questa giustificazione formale, ma tentò subito di trovarne anche una fondazione intuitiva (di carattere non più matematico ma fisico), basata sull'analisi della nozione stessa di misurazione. Il suo tentativo venne ripreso e approfondito da Bohr che, in occasione del congresso internazionale di fisica tenuto a Como nel 1927, lesse una relazione volta a dimostrare che il principio di Heisenberg doveva venire inquadrato in un altro ancora più generale da lui chiamato « principio di complementarità». L'interesse suscitato dalla relazione di Bohr fu enorme, tanto che parecchi studiosi, fisici e non solo fisici, giunsero a scorgervi l'inizio di una nuova era del pensiero scientifico-filosofico. Citeremo a conferma di ciò due significativi brani, il primo di Wolfgang Pauli (1900-58), il secondo dello stesso Heisenberg: «Fu proprio Bohr a dare una semplice e corretta deduzione del principio di indeterminazione ... Con una profonda discussione di numerosi esperimenti ideali, Bohr mostrò che 421
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il contenuto fisico essenziale delle nuove teorie è caratterizzato dal principio di complementarità» (Pauli). « Dobbiamo a Bohr l'analisi più chiara dei fondamenti teorici della meccanica quantistica; egli si è servito in particolare del concetto di complementarità per svolgere l'analisi della meccanica quantistica. Già le relazioni di indeterminazione danno un esempio del fatto che nella meccanica quantistica la conoscenza precisa di una variabile può escludere la conoscenza precisa di un'altra variabile. Questa relazione di complementarità fra aspetti diversi dello stesso processo fisico risulta ora effettivamente caratteristica di tutto il tipo di struttura della meccanica quantistica » (Heisenberg). Data l'eccezionale importanza dei principi di indeterminazione e di complementarità, e dati i numerosi equivoci cui a nostro parere hanno dato luogo, non intendiamo insistere ulteriormente su di essi in questo paragrafo, che vuoi fornire soltanto un primo sguardo orientativo sullo sviluppo della meccanica quantistica. Dedicheremo invece espressamente ad essi i prossimi quattro paragrafi per. enuclearne l'effettiva portata concettuale e per discutere con una certa ampiezza le considerazioni metodologiche su cui vengono solitamente basati. Pochi anni dopo la grande svolta del 192.5-2.7 venne compiuto, sulla via da essa aperta, un ulteriore passo di grande rilievo scientifico ad opera dell'inglese Paul Adrien Dirac (n. 1902.) che era giunto a questo genere di studi partendo dall'ingegneria elettrotecnica (anche a lui verrà assegnato il premio Nobel per la fisica nel 1933). In una memoria del 1930 egli introdusse una nuova equazione che, a differenza di quella di Schrodinger, era applicabile anche a elettroni di velocità prossima a quella della luce (soddisfacendo a tutte le condizioni relativistiche) e riusciva inoltre a giustificare l'ipotesi - avanzata nel 192.5 dai fisici americani George Eugene Uhlenbeck e Samuel Abraham Goudsmit- che l'elettrone fosse dotato di « spin », cioè assimilabile a una sferetta elettrizzata ruotante intorno a un suo diametro. Proprio per il fatto di unificare la teoria della relatività con la meccanica dei quanti, l'equazione di Dirac conduceva a una singolarissima conclusione: che devono esistere anche elettroni forniti di carica positiva (o « positoni »). Il risultato fu accolto, sul momento, con grande scetticismo, ma già nel I 9 32. l'americano Carl David Anderson riusciva a confermare sperimentalmente tale esistenza, dimostrando inoltre che le nuove particelle possedevano effettivamente il comportamento previsto da Dirac. La scoperta del positone, cioè della prima « antiparticella » venuta a conoscenza dei fisici, aprirà la via a un nuovo e fecondo settore di ricerche: lo studio sistematico delle antiparticelle comincerà a venire perseguito, verso la metà del secolo, in via prevalentemente teorica con l'estensione dell'equazione di Dirac (onde renderla applicabile a tutte le particelle elementari), e si sposterà poi sul piano sperimentale, appena si sarà appreso a costruire strumenti di potenza sufficiente a verificare la loro effettiva esistenza. Il nome di « antiparticella », generalizzato in quello di « antimateria », provocò per un certo tempo qualche con42.2. www.scribd.com/Baruhk
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fusione, in ispecie fra i non fisici; ogni equivoco poté tuttavia venire facilmente dissolto, appena si comprese che il prefisso « anti » era stato soltanto introdotto per evidenziare il seguente fatto (di natura p rettamente sperimentale): quando una particella entra in contatto con la propria antiparticella, esse si annichilano liberando energia (secondo ben note leggi della fisica quantistica). Per completare il breve quadro storico, che ci eravamo proposti di fornire ai non specialisti prima di addentrarci nell'argomento specifico del capitolo (cioè nell'analisi del significato filosofico delle nuove scoperte), dovremo ancora aggiungere qualche rapidissima notizia su tre temi che assunsero un rilievo scientifico di primo piano entro lo sviluppo della fisica dei quanti. Il primo tema è costituito dalla cosiddetta «meccanica statistica quantistica », che trae origine dalle ricerche eseguite già dalla fisica classica sul comportamento « globale » dei sistemi composti da un grandissimo numero di particelle. Fin dall'Ottocento si era compreso che tale comportamento, pur non potendo venire esattamente determinato seguendo il moto di ogni singola particella, può tuttavia venire studiato in media con opportuni metodi statistici; nulla, quindi, di più naturale che tentare ora di applicare questi metodi anche alle particelle scopeye dalla fisica dei quanti. La vera novità della meccanica statistica quantistica rispetto a quella classica emerse, però, quando ci si accorse che le formule di distribuzione applicate con successo dai fisici ottocenteschi non conservavano la loro validità se applicate alle particelle che obbediscono alle leggi della meccanica quantistica. Fu allora necessario apportarvi alcune profonde modificazioni sostanzialmente dovute al fatto che nella teoria quantistica le particelle tra loro identiche vanno considerate come indistinguibili, il che comporta una limitazione al numero degli stati « distinti » del sistema. Tali modificazioni vennero operate in due sensi tra loro notevolmente diversi, a seconda che le particelle componenti il sistema risultavano dotate di spin intero o semi-intero (misurato in unità --
~'
ave h è la costante di Planck). La
27t
statistica idonea al primo caso è associata ai nomi del fisico indiano Satyendra Nath Bo se (n. I 894) che fu il primo a idearla nel I 924, e di Einstein; quella idonea al secondo è invece associata ai nomi di Enrico Fermi (I90I-54), che la ideò nel I 926 e di Dirac. Le particelle componenti i sistemi che sono regolati dalla statistica di Base-Einstein vengono solitamente chiamati «bosoni», mentre quelle componenti i sistemi regolati dalla statistica di Fermi-Dirac vengono chiamati «fermioni ». Merita di venire ricordato che i fermioni obbediscono al « principio di esclusione » scoperto da Pauli nel I 924, il quale afferma che due particelle elementari non possono mai trovarsi nel medesimo stato quantico, ave per definire tale stato si tenga anche conto dello spin delle particelle. L'affiancamento della meccanica statistica testé accennata alla meccanica quantistica ha aperto la strada a studi approfonditi intorno alla struttura intrin-
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seca delle sostanze composte da più atomi. Sono sorte così, in tempi recenti, alcune nuove discipline di grande importanza sia teorica sia pratica: la cosiddetta fisica delle molecole, quella dei fluidi e quella dello stato solido. Il secondo déi tre temi anzidetti è costituito dall'estensione della meccanica quantistica allo studio della costituzione del nucleo. Il primo notevole successo in questa direzione risale al 1928, quando l'americano George Gamow riuscì a spiegare il passaggio delle particelle ot attraverso la barriera di potenziale dei nuclei pesanti. Le ricerche intorno al nucleo e alle reazioni nucleari si moltiplicarono in modo sorprendente a partire dal 1930; esse condussero alla scoperta, in via sperimentale, di un singolare tipo di radiazione elettricamente neutra e molto penetrante. Nel 1932 il fisico inglese James Chadwick riuscì a provare che tale radiazione è costituita da particelle neutre di una massa all'incirca eguale a quella del protone (esse vennero chiamate « neutroni ») : particelle che assumeranno un ruolo primario nelle teorie concernenti la costituzione del nucleo. Nel 1934 Fermi scoprì che, bombardando con neutroni i nuclei di taluni elementi, si producono fenomeni di radioattività artificiale, e inoltre - cosa questa assai singolare - che tale effetto risulta particolarmente notevole quando il bombardamento viene eseguito con neutroni «lenti». Per le scoperte testé accennate venne assegnato il premio Nobel per la fisica a Chadwick nel 193 5 e a Fermi nel 1938. Si apriva così alla fisica dei quanti una nuova direttrice di ricerche, essenzialmente rivolte a problemi applicativi. Come è ben noto, la loro importanza pratica fu enorme; esse non sollevarono però nuove questioni filosofiche, per lo meno di carattere teoretico (ne sollevarono invece molte di carattere etico, per le applicazioni ricevute nella costruzione di esplosivi fomiti di una potenza fino allora pressoché impensabile). Il terzo dei temi sopra accennati riguarda lo studio dei cosiddetti « raggi cosmici». Le prime ricerche (1909-12) intorno a queste singolari radiazioni- inizialmente chiamate « raggi di altitudine » - valsero a provame la stretta somiglianza con i raggi emessi dalle sostanze radioattive e suggerirono l'ipotesi che provenissero da regioni extraterrestri. Tali ricerche, interrotte dallo scoppio della prima guerra mondiale, vennero riprese in forma sistematica nel 1922; nel 1927 fu coniato il nome di « raggi cosmici » dal fisico americano Robert Andrews Millikan. Nel 1928 il sovietico Dmitrij Vladimirovic Skobel'tsyn riuscì per primo a fotografare alcune traiettorie dei nuovi raggi; poco dopo l'italiano Bruno Rossi caratterizzava i principali gruppi di corpuscoli che li costituiscono. Altre importanti osservazioni vennero compi~te verso il 1930 dall'italiano Giuseppe Occhialini e dall'inglese Patrick Blackett. Tutti questi risultati portarono alla conclusione che i raggi cosmici sono costituiti da particelle ad alta energia, proprio perciò particolarmente utili nella sperimentazione. Fu per l'appunto servendosi di essi, cioè studiando le esplosioni di atomi provocate da raggi cosmici, che - come già ricordammo- risultò possibile provare sperimentalmente nel 1932 l'ef-
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fettiva esistenza del positone, prevista per via teorica da Dirac, e che qualche anno più tardi, nel 1936-37, si riuscì a provare l'effettiva esistenza dei mesoni, prevista per via teorica nel r 9 35 dal giapponese Hideki Yukawa, cui verrà assegnato il premio Nobcl nel 1949 (i mesoni sono particelle elementari con una massa, a riposo, intermedia fra quelle dell'elettrone e del protone e con carica elettrica, positiva o negativa, eguale in valore assoluto a quella dell'elettrone). Ulteriori studi permettevano intanto di stabilire l'esistenza di due tipi nettamente distinti di raggi cosmici: quelli « primari » di origine extraterrestre, e quelli « secondari » provocati dalla collisione tra le particelle dei raggi primari e gli atomi dell'atmosfera terrestre. Menzioniamo questa distinzione, per poter fare presente che lo studio dei raggi cosmici primari (reso possibile dalla fisica dei quanti) ha aperto una via del tutto nuova all'indagine dei fenomeni che hanno luogo nelle parti più remote del cielo. La meccanica quantistica ha così rivelato una inattesa fecondità anche per l'indagine di un tipo di problemi apparentemente pressoché agli antipodi di quelli che avevano dato origine alla sua nascita. Non è il caso di sottolineare quanto le numerosissime scoperte cui abbiamo rapidamente fatto cenno abbiano contribuito a rendere enormemente più ricco e complesso il quadro dei « componenti ultimi » della materia delineato dai fisici del principio del Novecento, quadro che in quegli anni era già parso costituire qualcosa di profondamente rivoluzionario rispetto alle concezioni della fisica classica. Basti, a riprova di dò, tenere presente il notevolissimo passo compiuto dall'iniziale riconoscimento di due soli tipi di tali « componenti ultimi» (cioè il protone e l'elettrone) alla successiva individuazione del positone, del neutrone, del mesone ecc. Ebbene le ricerche più avanzate - per lo meno entro questo campo di indagini - sembrano proprio dirette, oggi, alla scoperta di sempre nuovi tipi di «particelle elementari» (scoperta resa possibile dalla costruzione di acceleratori via via più potenti), nonché alla loro classificazione e alla determinazione delle loro proprietà fondamentali (è il settore in cui si inserisce la recente invalidazione del «principio di parità»). Lungo questa via si stanno attualmente compiendo numerosi progressi di natura sperimentale, di incontestabile interesse scientifico. Essi non sembrano però accompagnati da progressi altrettanto consistenti sul versante dell'elaborazione concettuale, come risulta confermato dal fatto che non esiste, al presente, una teoria generale davvero compiuta ed organica delle particelle elementari. È quindi ben comprensibile come un serio studioso quale Gamow abbia potuto affermare che « la teoria è giunta a una fase praticamente stazionaria ». Cercheremo di mostrare nei prossimi paragrafi che anche gli interessantissimi dibattiti metodologici, cui la nascita della meccanica quantistica aveva dato luogo, sembrano attraversare un analogo periodo di stasi. Non è escluso che questa stasi possa favorire un fecondo approfondimento del loro effettivo significato filosofico.
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VII
· IL SIGNIFICATO FILOSOFICO ATTRIBUITO AL PRINCIPIO DI INDETERMIN AZIONE
Si è accennato nel paragrafo precedente alla eccezionale importanza dei due principi di indeterminazione e di complementarità e all'esistenza di numerosi equivoci circa la loro interpretazione. Data la complessità dell'argomento, crediamo opportuno iniziarne la discussione con una breve esposizione delle principali conseguenze « filosofiche » che si ritennero implicate dal principio di indeterminazione. Il lettore potrebbe trovare la formulazione di questo principio su qualunque manuale moderno di fisica. Può essere tuttavia utile, per sua comodità, trascriverne qui l'enunciato. Esso afferma che: se eseguiamo la misura dell'impulso p di una « particella materiale » o di un fotone, e nel contempo intendiamo fissarne la posizione, se cioè vogliamo simultaneamente determinare sia le componenti del suo impulso p secondo i tre assi coordinati (px, py, Pz) sia le coordinate (x, y, z) del punto ove la particella (o il fotone) si trova, allora accadrà che l'imprecisione con cui è determinata una qualsiasi di tali componenti (per esempio t:J.px) e l'imprecisione con cui è determinata la corrispondente coordinata (f:J.x) non potranno venire fatte tendere entrambe a zero, poiché il loro prodotto deve mantenersi maggiore o eguale a una certa quantità finita, dipendente dalla costante di Planck h. In altri tetmini: h f:J. Px · f:J.x :::,.. - 47t
fj.
py . !:J.y :::,.. -h47t
!:J.Pz · t:J.z:::,.. -
h 47t
Ciò comporta che, se facciamo per esempio diminuire t:J.px (ossia aumentiamo la precisione della misura di P x), allora crescerà !:J.x (ossia diminuirà la precisione della misura di x). Il principio in esame afferma, inoltre, che un'analoga situazione si produce quando vogliamo determinare l'istante t in cui una « particella materiale » o un fotone passa in un determinato punto e insieme vogliamo determinare l'energia w che essa (o esso) possiede in tale punto; anche in questo caso infatti si avrà una diseguaglianza analoga alle precedenti, cioè fj.
h w . !:J.t :::,.. - -47t
il che comporta ovviamente che, se facciamo per esempio diminuire !:J.w (ossia aumentiamo la precisione della misura dell'energia w), allora crescerà !:J.t (ossia diminuirà la precisione della misura di t).
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Le conseguenze filosofiche da esso solitamente ricavate sono principalmente due: esse concernono la nozione di « oggetto fisico » e quella di causalità. La meccanica classica postulava che un oggetto fisico debba in ogni istante possedere una ben determinata posizione e una ben determinata velocità (e quindi un ben determinato impulso). Orbene è evidente che una qualsiasi entità, per esempio un elettrone, a cui risulti applicabile il principio di indeterminazione, non può possedere in ogni istante una ben determinata posizione e una ben determinata velocità (o per lo meno sembra ovvio dire che non le possiede in quanto per principio esse non sono misurabili). Stando così le cose, sarà lecito o non sarà lecito qualificare tale entità (nel caso specifico, tale elettrone) come un oggetto fisico? Ciò che osta a questa qualificazione è, ancora una volta, la presunzione di poter automaticamente trasferire al mondo studiato dalla microfisica le proprietà che sono senza dubbio valide per il mondo studiato dalla macrofisica. « Sebbene, » scrive Born, « nell'esperienza quotidiana noi possiamo attribuire ai corpi delle posizioni e delle velocità determinate, non vi è ragione di ammettere la medesima cosa per dimensioni al disotto dei limiti di tale esperienza. » Non vi è dubbio che l'abbandono di questa presunzione abbia un peso che va molto al di là dell'ambito meramente scientifico. Esige infatti una modificazione radicale della nozione tradizionale di « oggetto fisico », cioè la rinuncia a considerare come caratteristiche della « sostanza », che starebbe alla base di esso, quelle proprietà geometrico-cinematiche che la scienza seicentesca aveva considerato come « primarie », ossia come proprietà autentiche del reale. Born, che non fu soltanto uno dei maggiori fisici della prima metà del nostro secolo ma anche uno dei più acuti indagatori del significato filosofico della nuova meccanica, sostiene che in fisica si può parlare di « realtà » solo in quanto ci si riferisca a degli « invarianti osservazionali ». «Da questo punto di vista, » egli scrive, « io sostengo che le particelle sono reali, in quanto rappresentano delle invarianti di osservazione. Noi crediamo nell'esistenza dell'elettrone perché esso possiede una determinata carica e, una determinata massa m e un determinato spin s; ciò significa che, qualunque siano le circostanze e le condizioni sperimentali in cui si osservi un effetto che la teoria attribuisce alla presenza di elettroni, si troveranno per queste grandezze e, m, s gli stessi valori numerici. » Invece « la posizione e la velocità non sono invarianti dell'osservazione»; il che non significa tuttavia che risulti illecito usare la posizione e la velocità come attributi degli oggetti fisici, purché sia ben chiaro che il loro valore dipende per principio dalle condizioni di volta in volta imposte agli esperimenti con cui intendiamo misurarle. La seconda importante conseguenza di ordine filosofico solitamente ricavata dal principio di indeterminazione è strettamente collegata alla trasformazione, cui ora si è fatto cenno, della nozione di oggetto fisico. Un famoso brano di Laplace, che riportammo nel volume quarto, afferma
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che, se in un dato istante si conoscessero tutte le forze da cui è animata la natura e le rispettive posizioni degli esseri che la compongono, risulterebbe possibile, con opportune elaborazioni matematiche, abbracciare « nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più leggero». L'ipotesi, che vi si assume come ovvia, è che sia effettivamente possibile, almeno in linea di principio, conoscere con esattezza le posizioni di tutte le particelle dell'universo nonché le forze da cui esse sono animate (e quindi le velocità con cui si muovono le une rispetto alle altre). Orbene è ovvio che, se dobbiamo rinunciare, per il principio di indeterminazione, a considerare la posizione e la velocità come attributi oggettivi della particella, non avrà più senso supporre che esse siano conoscibili con l'esattezza di cui parla Laplace. E perciò non avrà più senso cercare una formula generalissima in cui possano venire abbracciati tutti i movimenti «dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più leggero». Occorrerà quindi rinunciare al tipo di determinismo teorizzato da Laplace, il che comporterebbe, secondo taluni fisici e filosofi della fisica, una vera e propria rinuncia al concetto di causalità. « La causalità si applica soltanto, » scrive Dirac, « a un sistema che è lasciato indisturbato. Se un sistema è piccolo, non possiamo osservado senza seriamente perturbarlo e quindi non possiamo aspettarci di trovare alcuna connessione fra i risultati della nostra osservazione. » Il noto filosofo della scienza Friedrich Waismann dichiara, ancora più esplicitamente, che «la caduta della causalità è un'immediata conseguenza del principio di indeterminazione ». Questo principio rende infatti impossibile descrivere con esattezza istante per istante il decorso dei fenomeni; ma «se l'idea di una ininterrotta descrizione deve essere abbandonata, anche il principio di causalità non può più essere conservato: perché tale principio è nella scienza vincolato alla possibilità di simile descrizione. Se non è più possibile una descrizione continua, lo stesso fondamento del principio causale svanisce; in effetti, tale principio richiede la possibilità di una descrizione continua come condizione necessaria: il crollo dell'una comporta il crollo dell'altro». Discuteremo nelle prossime pagine fino a che punto le « conseguenze filosofiche » testé accennate del principio di indeterminazione risultino oggi accettabili. Qui importava soltanto porre in chiaro il « legame logico » fra questo e quelle, che è stato visto (ed esplicitamente dichiarato) dagli autori presi in considerazione. VIII
· LA BASE METODOLOGICA DEI PRINCIPI DI INDETERMINAZIONE E DI COMPLEMENTARITA
Come abbiamo accennato nel paragrafo VI, Heisenberg, pur avendo inizialmente formulato il principio di indeterminazione con esplicito riferimento ad una caratteristica proprietà del calcolo delle matrici (la non commutatività del
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prodotto), comprese subito la necessità di dargli una base fisicamente più significativa. Questa venne da lui ricavata a partire da alcune sottilissime considerazioni metodologiche sui procedimenti di misura. La via più agevole per dare un'idea di tali considerazioni consiste, a nostro parere, nel prendere ancora una volta le mosse dal brano di Laplace già citato nel paragrafo precedente. Il postulato in esso implicito era, come osservammo, che risulti possibile per principio conoscere istante per istante la posizione e la velocità di un qualsiasi atomo, comunque leggero. « Ma, » si domanda Boro nel tentativo appunto di spiegare le considerazioni metodologiche di Heisenberg sui procedimenti di misura, « è davvero possibile ritenere valido un tale assioma? » La risposta che egli dà a questo quesito è decisamente negativa: « L'ipotesi dell'osservabilità assoluta, che costituisce la radice dei concetti classici, mi sembra esistere soltanto nella fantasia, come un postulato che nella realtà non può essere soddisfatto. » E la ragione che gli impedisce di essere soddisfatto va cercata in ultima istanza nella natura discontinua (a granuli) dell'energia; nell'impossibilità, cioè, di usare, nella misurazione delle grandezze relative all'« atomo più leggero » di cui parlava Laplace, un tipo di strumenti che richiedano una quantità di energia da ritenersi legittimamente trascurabile nei confronti di quella dell'oggetto cui si rivolge la misura (ciò che accade invece, con opportune precauzioni, quando misuriamo le grandezze relative a un oggetto macroscopico). È «la finitezza del quanto d'azione», spiega Pauli, ciò che «esclude la possibilità di conoscere con precisione i singoli processi quantici »,ponendo così i fisici « di fronte alla situazione seguente: è impossibile tenere conto tramite correzioni determinate di tutto l'effetto del dispositivo di misura sull'oggetto studiato». Senza fermarci a descrivere i numerosi « esperimenti mentali » che Heisenberg e i suoi seguaci hanno addotto a prova di quanto ora detto, preferiamo invece sottolineare le conseguenze che ne hanno tratto circa la possibilità di operare una autentica distinzione fra strumento di osservazione e sistema osservato. Tali autori non negano, ovviamente, che questa distinzione continui a valere anche nella fisica quantistica; ciò che, secondo essi, si dissolve è la presunzione - tacitamente accolta dalla fisica classica - che la distinzione in esame costituisca qualcosa di ben determinato. In altre parole: l'affermazione che il risultato del processo misurativo dipenda fino a un ben preciso punto dal sistema osservato e solo da quel punto in poi dipenda dallo strumento di misura, sarebbe del tutto insostenibile; non potrebbe cioè venire giustificata se non in base a considerazioni di opportunità. Scrive ancora Pauli: « La posizione di questa separazione [fra sistema osservato e strumento di osservazione] è, a differenza della sua esistenza, entro certi limiti arbitraria. » « Non è possibile,» ribadisce lo stesso Heisenberg, «decidere, se non arbitrariamente, quali oggetti vadano considerati come parte del sistema osservato e quali invece come parte dell'apparato di osservazione ».1 r Il corsivo è nostro.
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Quando cerchiamo di precisare la velocità di una particella subatomica, gli strumenti di misura interverrebbero dunque in modo così determinante sul fenomeno, da rendere impossibile attribuire (se non con un atto arbitrario) alla perticella in esame una posizione precisa; e viceversa. È proprio l'inseparabilità fra sistema osservato e strumento di osservazione a produrre - secondo i nostri autori - questo stato di cose. Ed è ancora essa a far sì che il medesimo fenomeno ci appaia ora come particella e ora invece come onda; questo presentarsi sotto due forme tanto diverse dipende infatti, sempre a giudizio dei nostri autori, dal tipo di apparecchiature con cui cerchiamo di osservarlo. Tanto è vero che non ci appare mai nel contempo come particella e come onda; si dimostra infatti, analizzando le apparecchiature usate nei due casi, che esse si escludono l'una con l'altra. La nozione di complementarità introdotta da Bohr non ha fatto altro che generalizzare quanto detto da Heisenberg a proposito della velocità e della posizione. Due attributi vengono da lui chiamati « fra loro complementari » quando la nostra intuizione, derivata dall'esperienza ordinaria, esigerebbe che li usassimo entrambi per una descrizione completa dell'oggetto studiato, mentre un'analisi rigorosa dei processi adoperati per l'effettiva assegnazione di tali attributi ci insegna che la determinazione precisa dell'uno esclude quella dell'altro. Bohr ritenne di avere trovato vari esempi di attributi complementari anche al di fuori della fisica, per esempio in biologia (ma su tale argomento si tornerà nel capitolo n del volume nono. Ciò renderebbe più plausibile la situazione apparentemente paradossale enunciata dal principio di indeterminazione, in quanto riuscirebbe ad inserirla, come caso particolare, in una classe molto più generale. A confermare il vero e proprio entusiasmo che il principio di complementarità suscitò - verso il I93o - fra i fisici, basti ricordare che uno studioso del valore di Enrico Persico ritenne di poter!o qualificare (nel I 9 33) come « una vera scoperta logica, non meno importante di quella del sillogismo, e suscettibile di applicazioni nei campi più diversi». La sua importanza consisterebbe essenzialmente nel fatto che- mentre « due proposizioni sono contraddittorie quando, se l'una è vera, è falsa l'altra» - due proposizioni sono invece complementari quando« se l'una è vera (o falsa), l'altra è priva di senso». Abbiamo voluto riportare quest'ultima citazione, non solo perché in se stessa molto chiarificatrice, ma anche perché idonea a porre in luce il rapporto esistente tra l'impostazione metodo logica sostenuta dai fisici richiamantisi a Bohr e a Heisenberg, e una delle tesi più caratteristiche dei filosofi neo-positivisti. Come sappiamo, questa tesi consiste nell'affermazione che i cosiddetti «problemi insolubili» della filosofia e della scienza non sono altro che domande «vuote di senso», cioè domande a cui non si può rispondere se non con frasi né vere né false. È proprio il rapporto testé accennato il principale motivo cui si fece appello, da parte di molti filosofi e scienziati, per affermare (come ricordammo nel capitolo I
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del volume settimo) che il neo-positivismo costituirebbe una conseguenza diretta delle nuove concezioni emerse in fisica dopo la grande svolta da essa subita con la nascita della meccanica quantistica. Ma il nesso tra il neo-positivismo e le considerazioni metodologiche addotte da Heisenberg e da Bohr a sostegno dei loro principi non si esaurisce tutto qui; esso può anche venire cercato nell'impostazione sostanzialmente fenomenistica che sta alla base di tali considerazioni. Ne è una prova il fatto che i due fisici anzidetti e i loro seguaci identificano in ultima istanza l'attribuibilità alle cosiddette particelle di questa o quella proprietà (per esempio della proprietà di possedere un impulso) con la possibilità di misurare la proprietà in questione (nell'esempio citato, di misurare l 'impulso); o ve il carattere fenomenistico di questa posizione consiste nel fatto che i procedimenti di misura appartengono interamente, come è ovvio, al mondo dei fenomeni ossia non rinviano a nulla che stia al di là dei dati osservativi. V a però osservato che negli ultimi anni della sua vita, e particolarmente dopo il celebre dibattito iniziato nel 1957 con il fisico sovietico Vladimir A. Fok (dibattito di cui si parlerà ampiamente nel capitolo v del volume nono), Bohr apportò talune precisazioni alla formulazione del suo principio sl da togliere pressoché ogni fondamento all'interpretazione neo-positivistica di esso. Un esame approfondito del problema, recentemente intrapreso da alcuni giovani storici della fisica, sembra del resto confermare che le implicazioni fenomenistico-soggettivistiche di cui sopra sono, a rigore, estranee al più autentico e generale significato del principio di complementarità.
IX · CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA PRESUNTA «DIMOSTRAZIONE» DEI PRINCIPI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Nessuno può mettere in dubbio che le analisi metodologiche, schematicamente riferite nel paragrafo precedente, abbiano avuto una notevolissima importanza nella recente storia della fisica, anche se oggi sembrano aver perso una parte del loro originario interesse. In primo luogo tali analisi hanno dato un contributo di grande rilievo al rinnovamento generale della metodologia della fisica, richiamando ai cultori di questa scienza una verità che i matematici avevano già compreso da tempo: cioè che una scrupolosa riflessione critica sui contenuti concettuali e sulle procedure dimostrative delle teorie scientifiche non rappresenta soltanto una « curiosità filosofica », ma un momento essenziale della stessa ricerca scientifica. Molto significative sono da questo punto di vista, seppure forse troppo ottimistiche, le seguenti parole pronunciate dal fisico Enrico Persico in una limpida conferenza da lui tenuta, nel 1947, presso il centro studi metodologici di Torino: «L'analisi critica dei fondamenti della scienza è entrata definitivamente nel metodo 431
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scientifico, così come vi è entrat~ definitivamente l'esperienza all'epoca di Galileo ».1 In secondo luogo esse hanno avuto un'importanza specifica nei riguardi dello sviluppo della fisica dei quanti, perché hanno posto in luce gli errori di fondo che vengono compiuti quando si pretende trasferire al mondo della microfisica le medesime categorie che usiamo con successo per descrivere il mondo macroscopico. La denuncia di tali errori può attualmente apparire un merito di scarso rilievo, tanto ci siamo abituati a considerare impossibile il trasferimento anzidetto; ma ciò dimostra soltanto che i risultati ottenuti dalle sottili analisi di Bohr, di Heisenberg e dei loro collaboratori sono ormai entrati a far parte del patrimonio scientifico della nostra epoca, il che è la migliore dimostrazione del loro incontestabile peso. In realtà la battaglia combattuta per giungere a questo traguardo fu tutt'altro che facile; essa segnò la definitiva sconfitta del meccanicismo ottocentesco. Una volta compiuto questo doveroso riconoscimento, occorre aggiungere, però, che le interpretazioni delle analisi metodologiche testé accennate, parzialmente fornite dai loro stessi autori, furono spesso non poco fuorvianti; e non solo da un punto di vista filosofico, come cercheremo di spiegare nel prossimo· paragrafo, ma proprio da un punto di vista rigorosamente metodologico. Il fatto è che tali autori vollero presentarle come vere e proprie « dimostrazioni » (di carattere operativo) dei principi di indeterminazione e di complementarità, cosicché, se la loro pretesa fosse fondata, questi principi risulterebbero forniti di una propria specifica validità, indipendentemente dal posto - senza dubbio di primaria importanza- che occupano entro la meccanica quantistica. Di qui la tendenza, riscontrabile in vari fisici, a considerarle come « verità assolute », in netto contrasto con quella visione critica della scientificità che sembra costituire una delle maggiori conquiste del pensiero moderno. Per verità già Heisenberg sembra essersi reso conto del fatto che la vera prova della validità del principio di indeterminazione non risiede tanto nella giustificazione operativa di esso, da lui medesimo ideata nel 1926-27, quanto nel gran numero di conferme che la meccanica quantistica (basata appunto su tale principio) ha ottenuto nel corso delle successive ricerche. Ecco infatti ciò che egli scrisse in proposito: « La teoria dei quanti trae la sua forza persuasiva non già dal fatto che siano stati provati tutti i metodi per misurare la posizione e la velocità di un elettrone senza mai riuscire ad evitare le relazioni di indeterminazione, ma dal fatto che i risultati sperimentati da Compton, Geiger e Bothe [oggi noi potremmo aggiungerne tanti altri!] costituiscono delle prove così evidenti della necessità di servirsi delle nuove possibilità di pensiero create dalla teoria dei quanti, che la rinuncia alle questioni della fisica classica non ci appare più come una rinuncia. » r Il corsivo è nostro.
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In lui, però, l'idea qui abbozzata- che la forza persuasiva della nuova fisica debba venire ricavata più· dalla teoria q_uantistica nella sua globalità che non dal principio di indeterminazione singolarmente considerato - occupa una posizione soltanto marginale. Essa diventa invece l'idea centr~le in alcune delle opere più moderne di metodologia della scienza. Tale è il caso per esempio dell'opera The structure of science (La struttura della scienza, 1961) di Ernst Nagel, ove si sostiene - in riferimento a una qualsiasi teoria scientifica - che non ha senso tentar di dimostrarne ad uno ad uno i singoli assiomi, i quali tra l'altro sono per lo più formulati in modo da sottrarsi ad ogni controllo diretto dei fatti; la verifica della teoria dovrà invece consistere in un confronto- il più largo possibile- dell'insieme di tutte le proposizioni derivabili dai suoi assiomi con i dati fornitici dall' esperienza. Ecco ora le interessanti conseguenze che Nagel ricava da questa impostazione metodologica generale, per quanto riguarda il caso specifico dei principi della meccanica quantistica e in particolare del principio di Heisenberg: è certamente lecito affermare entro il quadro di tale meccanica, che gli elettroni (o le altre particelle) debbano subire «quando interagiscono con strumenti di misura» delle alterazioni « incontro Ilabili e imprevedibili »; ciò deriva infatti dalle relazioni di indeterminazione che figurano tra gli assiomi della teoria. È invece del tutto ingiustificato sostenere che tali alterazioni « costituiscano la prova » delle relazioni anzidette. Possiamo aggiungere che la presunzione di fornire una prova preliminare di questo o quell'assioma, significa privilegiarlo rispetto agli altri, cioè ammettere che esso possegga un ben preciso significato anche se considerato indipendentemente dai restanti assiomi; ipotesi questa, che contrasta in modo palese con la concezione assiomatica moderna, illustrata nei primi paragrafi del presente capitolo a proposito delle teorie matematiche. Né va dimenticato il fatto che, mentre la « dimostrazione » di un principio isolatamente considerato sembra assumere necessariamente un carattere di assolutezza (come già abbiamo poco sopra rilevato), la «dimostrazione»- o meglio la « verifica » - di una teoria è qualcosa di molto più articolato, che presenta sempre un manifesto carattere di relatività se non altro per la struttura complessa della teoria e per I 'impossibilità pratica di estendere la verifica a tutte le sue conseguenze. È del resto ben noto che, se qualcuna di queste conseguenze non trova piena conferma nei fatti, risulta non di rado possibile conservare in piedi - per Io meno nelle sue grandi linee - la teoria in questione, limitandosi ad apportarvi qualche integrazione o correzione parziale. È interessante notare che molti di quegli stessi epistemologi, che ancora oggi incentrano sul principio di indeterminazione la loro analisi dei fondamenti filosofici della fisica, evitano di fare ricorso, per giustificarlo, alle « dimostrazioni » operative di esso che erano d'uso alcuni decenni fa. Si limitano invece a sottoli433
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neare che l'abbandono di tale principio richiederebbe una modifica radicale dell'intera fisica. Scrive per esempio Carnap: «La limitazione fissata dal principio di indeterminazione ... è una legge fondamentale che rimarrà valida finché le leggi della teoria dei quanti manterranno la loro forma attuale. Con questo non si deve intendere che le leggi accettate dalla fisica non possano venire cambiate o che il principio di indeterminazione di Heisenberg non possa mai essere abbandonato. Ritengo, tuttavia, giusto affermare che per rinnovare queste caratteristiche sarebbe necessario un cambiamento rivoluzionario nelle strutture fondamentali dell'attuale fisica. » 1 In sintesi, l'unica prova, che anche Carnap ammette, del principio in esame è costituita per un lato dalla posizione di grande rilievo che esso occupa entro il complesso edificio della fisica moderna, e per l'altro dalla ampiezza dei dati che finora hanno verificato e continuano a verificare la solidità di questo edificio. Giunti a questo punto delle nostre considerazioni critiche, ci resta ora da far presente l'esistenza di una netta differenza fra lo status del principio di indeterminazione e quello del principio di complementarità. Quanto al primo, sappiamo infatti - dalle stesse parole testé citate di Nagel - che esso occupa una posizione ben determinata entro l'edificio della meccanica quantistica, cosicché siamo in pieno diritto di farlo partecipe della validità globale (sia pure relativa) che questa dottrina ha acquisito dalle numerosissime conferme riscontrate nei fatti. Assai diversa è invece la questione per il secondo, che suoi venire inteso in due accezioni per nulla coincidenti fra loro: una, strettamente fisica, lo colloca esso pure in una posizione ben determinata entro l'edificio della meccanica quantistica (come assioma da cui possiamo derivare il principio di indeterminazione); ed una invece, più generale, lo presenta come regola applicabile alla totalità delle ricerche scientifiche (fisiche e non solo fisiche). Orbene è chiaro che, se lo intendiamo nell'accezione strettamente fisica, potremo ripetere anche per il principio di complementarità tutto quanto abbiamo testé asserito per il principio di indeterminazionc; ma se lo intendiamo nell'accezione più generale, ciò diventerà del tutto impossibile perché in tal caso esso non figurerà più come semplice assioma della meccanica quantistica, bensì come principio che, analogamente ai principi logici, dovrebbe stare a monte di tutte le ricerche scientifiche. Non senza motivo Enrico Persico- favorevole a interr Il brano testé citato di Carnap così prosegue: « Alcuni fisici contemporanei sono convinti (come lo era Einstein) che questa caratteristica della meccanica quantistica moderna sia discutibile e possa in futuro essere eliminata. È possibile, ma il cambiamento sarebbe radicale. Per il momento nessuno riesce a vedere in che modo sia possibile eliminare il principio di indeterminazione. » Queste parole, che ne richiamano altre analoghe scritte da Born in un'amichevole discussione con Einstein (cui si fa cenno nel paragrafo m del
capitolo xv del volume sesto), esprimono senz'altro uno stato d'animo ben comprensibile; non vogliono però, ovviamente, costituire alcuna profezia per il futuro. Anche nel primo Ottocento nessuno riusciva a vedere in che modo sarebbe stato possibile eliminare il determinismo laplaciano, eppure i fisici furono costretti, nel giro di alcuni decenni, ad abbandonarlo su imposizione -per così dire- dell'esperienza. E anche tale abbandono richiese, come sappiamo, un mutamento radicale di gran parte della scienza della natura.
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pretare il principio di complementarità nella seconda delle accezioni testé riferite - giunge a vedere in esso « una vera scoperta logica », come già abbiamo ricordato nel paragrafo precedente. Né vi è da stupire che gli studiosi sovietici - favorevoli essi pure a questa interpretazione - abbiano potuto collegare (nel modo che verrà chiarito nel capitolo v del volume nono) la complementarità alla dialettica. Certo è, comunque, che - nella sua accezione più ampia - il principio di Bohr si presenta non tanto come una proposizione scientiflca quanto come una tesi fllosoflca generale: tesi fllosoflca sulle implicazioni della quale il suo stesso autore non ebbe sempre delle idee molto precise, come dimostrano i sostanziali mutamenti di prospettiva da lui accolti in seguito al dibattito con Fok cui si accennò alla fine del paragrafo precedente. È proprio in questa situazione alquanto confusa, creatasi intorno al principio di complementarità, che va cercato il motivo per cui numerosi scienziati mostrarono nei suoi confronti una perplessità che oggi sembra forse ingiustiflcata. Tipico è il caso di Schrodinger, che si riflutò sostanzialmente di prenderlo in seria considerazione. « Devo confessare, » egli scrive, « che non lo comprendo. Per me si tratta di una mera evasione. Non di una evasione volontaria. Infatti si flnisce per ammettere il fatto che abbiamo due teorie, due immagini della materia le quali non si accordano, sicché dobbiamo fare uso talvolta dell'una talvolta dell'altra. Un tempo, settanta o più anni fa, quando si veriflcava un fatto consimile, si concludeva che la ricerca non era ancora flnita, perché si riteneva assolutamente impossibile far uso di due concetti differenti a proposito di un fenomeno o della costituzione di un corpo. Ora si è inventata la parola "complementarità", e ciò mi sembra voler giustiflcare l'uso di due concetti differenti, come se non fosse necessario trovare un concetto unico, un'immagine completa comprensibile. La parola "complementarità '' mi fa pensare alla frase di Goethe: " Perché, proprio dove mancano i concetti, si presenta al momento giusto una parola."» X · CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA FILOSOFIA USUALMENTE CONNESSA ALLA MECCANICA QUANTISTICA
Abbiamo detto nel paragrafo vn che una delle più notevoli «conseguenze fllosoflche » solitamente ricavate dai principi della meccanica quantistica (sia dal principio di indeterminazione, sia, come è ovvio, da quello di complementarità che sta« a monte» di esso) è costituita dall'abbandono del principio di causalità. Prima di iniziare l'analisi di tale «conseguenza», occorrerà aggiungere che essa suol venire direttamente collegata alla famosa funzione ~ di Schrodinger. Già ricordammo infatti, nel paragrafo VI, che, se non ci si accontenta di assumere questa ~ come un puro simbolo matematico ma le si vuole anche attribuire un signiflcato flsico, occorre darne una interpretazione probabilistica, ammettendo 435
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che il quadrato del modulo di y; risulti proporzionale alla probabilità di trovare la particella considerata, ad esempio l'elettrone, in una certa zona spaziale (un intorno, di misura unitaria, del punto ove si calcola il valore della funzione stessa). Ciò deriva, in ultima istanza, dall'ipotesi di de Broglie che ad ogni particella risulti associata una certa onda la cui frequenza dipende dalla massa della particella, dalla velocità della luce nel vuoto e dalla costante di Planck. Orbene, quanto ora detto ci pone di fronte al seguente quesito: quale senso possiamo attribuire alla probabilità in esame? Se ci troviamo di fronte a un grande numero di elettroni (ci riferiamo per semplicità a questo tipo di particelle, ma potremmo ripetere le stesse considerazioni per un altro tipo qualsiasi), la probabilità può venire intesa in senso statistico - cioè come frequenza limite - e allora essa avrà senz'altro un ben preciso significato fisico, rappresentando la percentuale di elettroni che si trovano nella zona spaziale considerata. Ma che potrà invece significare se vogliamo riferir la a un solo elettrone (come siamo costretti a fare in tal uni casi, ad esempio quando studiamo la disintegrazione di un atomo)? È difficile negare che, in casi siffatti, il parlare di probabilità di un singolo evento significa ammettere che il decorso di tale evento risulta essenzialmente indeterminato; e si potrebbe dimostrare che ciò è per l'appunto connesso al principio di indeterminazione di Heisenberg. Che simile ammissione sia incompatibile con il determinismo di Laplace, è cosa ovvia. Ma siamo veramente in diritto di concluderne che essa risulta incompatibile con il principio di causalità, anche inteso in una accezione più generale? Proprio qui si annidano i problemi che hanno dato luogo ai piu vivaci dibattiti filosofici. Taluni autori giunsero, come è ben noto, a sostenere che - se il moto dell' elettrone non è determinato - ciò significa che questa particella gode di una vera e propria « libertà », analoga alla libertà riscontrabile nelle azioni umane. Ma si tratta, ovviamente, di un grossolano equivoco, dovuto alla confusione tra i due concetti di « fenomeno non inquadrabile nel determinismo laplaciano » e « azione libera». Essendo ben decisi a non perdere tempo in questioni così manifestamente equivoche, intendiamo subito passare ai due nodi fondamentali su cui si sono accentrati i dibattiti: I) è ancora possibile sostenere che i microfenomeni sono causalmente connessi fra loro, quando si è dovuto rinunciare ad inquadrarli nel determinismo laplaciano? z) è lecito ricavare, dalla constatata impossibilità di cogliere un legame deterministico fra tali fenomeni, che la nostra conoscenza di essi resta incompleta? cioè che ci si trova qui di fronte ad una barriera per principio insormontabile? La prima domanda non fa che mettere in luce la difficoltà di liberarci dal patrimonio concettuale trasmessoci dalla fisica meccanicistica classica. Se il lettore si prende la cura di rileggere i brani di Dirac e di Waismann citati alla fine del
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paragrafo vrr, non avrà certo difficoltà a convincersi che l'argomento principe, in base a cui tali due autori negavano la possibilità di parlare - nella nuova situazione scoperta dalla meccanica quantistica - di nesso causale tra microfenomeni, era la constatazione del venir meno in tale situazione dell'ipotesi, essenziale per il meccanicismo classico, che i fenomeni risultino ininterrottamente descrivibili (è l'ipotesi su cui si fonda la postulazione che, muovendosi, una particella debba percorrere una ben determinata traiettoria). Ma se noi ci liberiamo dall'idea che la microparticella sia analoga alle particelle di cui parla la macrofisica, se cioè la consideriamo come qualcosa di radicalmente diverso (non più come una particella bensì come una «particella-onda»), la presunzione che essa debba risultare ininterrottamente descrivibile (e quindi debba percorrere una vera e propria traiettoria nel senso classico del termine) si rivela vuota di senso. Stando così le cose, negare che ai microfenomeni sia applicabile la « causalità laplaciana » (essenzialmente basata sul postulato che le particelle si muovono lungo ben precise traiettorie) diventa palesemente una ovvietà. Ma ciò non significa affatto negare che nell'ambito dei microfenomeni continui ad esistere un nesso, che collega uno stato qualsiasi di tali microfenomeni agli stati che l'hanno preceduto. Si tratterà di una dipendenza di tipo diverso da quella considerata dalla meccanica classica, ma pur sempre di una dipendenza; tant'è vero che, se prendiamo in esame un insieme di moltissime particelle, la funzione \fi (soddisfacente all'equazione di Schrodinger) ci permette di prevedere perfettamente- come è ben noto - il succedersi degli stati di tale insieme a partire da uno stato di esso. Taluno potrà forse obiettarci che il parlare, come d'uso in una situazione sul tipo di quella testé accennata, di « causalità probabilistica » non può renderei del tutto soddisfatti, perché non possediamo alcuna idea intuiti va ( « chiara e distinta » direbbe un cartesiano!) di tale nuovo tipo di causalità. Ma su che cosa si fonda, se non su una base psicologica del tutto soggettiva, questa esigenza di intuibilità? L'essenziale non è, a nostro parere, attribuire a questo nuovo tipo di causalità l'una o l'altra qualificazione bensì riconoscere che si tratta di un nesso molto più ricco e articolato di quello meccanicistico. Se si è soliti qualificarlo come « nesso probabilistico », ciò risulta senza dubbio giustificato dal largo uso che si fa, in riferimento ad esso, del calcolo delle probabilità e dai successi sperimentali che questo uso permette di conseguire; sarebbe però inesatto ritenere che l'attributo anzidetto possegga il medesimo significato nella fisica classica e in quella quantistica. Nella prima infatti si ricorre al calcolo delle probabilità, in relazione a fenomeni che coinvolgono un gran numero di particelle, soprattutto per ragioni di comodo, restando però inteso che almeno in via di principio risulterebbe possibile farne a meno, qualora ci si procurasse una conoscenza completa intorno ai moti delle singole particelle; nella seconda invece proprio questo è impossibile (per il principio di indeterminazione), e quindi l'attributo « probabilistico »non denota più uno stato soggettivo di incompletezza di informazione, ma un nuovo più 437
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complesso tipo di connessione fisica che non rientra nel quadro concèttuale cui ci ha abituati la scienza classica. Risulta ovvio a questo punto, che il materialista dialettico - il quale si rifiuta, per principio, di ridurre tutto il divenire della natura a mere trasformazioni di carattere meccanico (si ricordi in proposito quanto abbiamo detto nel capitolo xv del volume quinto, parlando della dialettica engelsiana) - avrà assai meno difficoltà dei seguaci di altri indirizzi di pensiero a concepire il nuovo tipo di nesso causale. Neanch'egli, comunque, potrà accontentarsi di qualificarlo con un aggettivo o con l'altro, ma dovrà sforzarsi di precisare via via maggiormente il significato reale di tale nesso (precisazione che gli potrà venire fornita proprio dallo sviluppo della fisica quantistica, in tutti i suoi aspetti teorici e sperimentali, non da una semplice «analisi operativa» dei singoli principi su cui essa si fonda). Possiamo passare ora a prendere in rapido esame la seconda delle due domande poco sopra formulate. È ovvio che, se noi identifichiamo la conoscenza di un fenomeno con la sua spiegazione in termini meccanici, dovremo concluderne che, là ove non risulti inquadrabile nella « causalità laplaciana », esso dovrà dirsi non completamente conosciuto. È un argomento già invocato da Du Bois-Reymond nella seconda metà dell'Ottocento, per sostenere che la scienza trova innanzi a sé degli enigmi insolubili; ma già si è chiarito nel volume sesto (capitolo VI) che si tratta di un argomento del tutto inaccettabile. Nulla ci garantisce infatti che l'unica spiegazione scientifica dei fenomeni sia proprio la spiegazione meccanicistica. Si tratta ancora una volta di un tranello che ci viene teso dalla tradizione ottocentesca della fisica, di cui continuiamo ad essere vittime malgrado le profonde critiche sollevate contro di essa da Mach e da Engels. E le prime vittime ne furono proprio quei materialisti (che amavano chiamarsi « dialettici » senza esserlo in realtà), i quali sostennero pervicacemente che solo la fisica classica sarebbe compatibile con la filosofia materialistica. Considerazioni analoghe possono venir ripetute a proposito delle limitazioni di cui parlano i principi di Heisenberg e di Bohr. È infatti evidente che si tratta soltanto di limitazioni concernenti la « descrizione classica » dei fenomeni, limitazioni però non trasformabili se non con il ricorso alla metafisica in barriere assolute per qualsiasi tipo di descrizione. In realtà essi hanno inferto un colpo decisivo alla fisica classica, ma non al principio- fondamentale per la scienzadella illimitata conoscibilità della natura. Non ci dicono altro, infatti, se non che le categorie usate dalla fisica meccanicistica per descrivere (e quindi conoscere) i processi naturali hanno una applicazione limitata; costituiscono pertanto un invito (anzi un ordine perentorio) a modificare tali categorie, non a interrompere i nostri sforzi diretti ad approfondire la conoscenza di questi processi. E così li hanno, in realtà, interpretati gli stessi scienziati più moderni, che si sono valsi proprio della meccanica quantistica per proseguire e perfezionare ininterrottamente le
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proprie indagini. Se i due principi anzidetti vengono considerati isolatamente dal grande edificio su di essi costruito, possono effettivamente trarre in inganno il filosofo della scienza; ma l'inganno cessa non appena li si consideri nel quadro complessivo della teoria quantistica, che ha dato mille prove di saper aprire le nostre indagini, non di sbarrarle entro confini prestabiliti. Siamo finalmente in grado di chiarire il problema, che ha fatto versare fiumi di inchiostro, concernente il carattere idealistico o realistico della nuova fisica. Quanto abbiamo riferito all'inizio del paragrafo vn circa le trasformazioni che la meccanica quantistica impone alla nozione tradizionale di « oggetto fisico » è, ovviamente, ineccepibile. Essa ha dimostrato infatti, in modo che non può venire contestato, l'infondatezza della pretesa di trasferire automaticamente ai microoggetti le caratteristiche che siamo soliti attribuire agli oggetti dell'esperienza quotidiana (che sono, d'altra parte, i soli oggetti studiati dalla fisica classica). Ma un conto è accogliere queste trasformazioni, e un altro, ben diverso, è sostenere che esse ci costringerebbero ad abbandonare la concezione realistica, rinunciando a vedere nella fisica una scienza capace di farci conoscere (sia pure in modo relativo) un essere indipendente dal soggetto che conosce. È stato più volte sostenuto che l'impossibilità di operare una netta distinzione fra strumento di osservazione e sistema osservato (impossibilità che sta alla base della meccanica quantistica) imprimerebbe alla nuova fisica un carattere prettamente idealistico. Ma le cose non stanno affatto cosi. Tale impossibilità non ci dice invero che lo strumento di osservazione crei il sistema osservato; ci dice soltanto che questo sistema rivela proprietà diverse (ora corpuscolari e ora invece ondulatorie) a seconda che venga osservato con un tipo o con un altro tipo di strumenti. Ci dice, in altri termini, che la realtà indagata dalla fisica è in grado di fornirci risposte diverse a seconda dei diversi mezzi di osservazione che usiamo per registrare le sue proprietà; ma non che queste risposte provengano da noi. Il realismo metafisica aveva in effetti sostenuto che noi riusciremmo a cogliere le proprietà dell'oggetto nella loro assolutezza, onde potremmo raggiungere una conoscenza completa e totale di esso. Ma il realismo moderno (si ricordi in proposito quanto abbiamo spiegato, esponendo nel capitolo rv del volume settimo il pensiero di Lenin) non sostiene affatto questa tesi; afferma, al contrario, che le nostre conoscenze sono sempre relative, e proprio perciò integrabili. Dal suo punto di vista non vi è quindi alcuna difficoltà né ad ammettere che le proprietà da noi riscontrate nella realtà siano relative al metodo con cui la osserviamo, né ad ammettere che un qualsiasi mezzo da noi usato per osservarla non sia in grado di farci cogliere simultaneamente tutte le proprietà da essa possedute. La tesi centrale del realismo moderno è un'altra: è che la conoscenza scientifica ci pone innanzi a risultati che non dipendono per intero dal soggetto conoscente, ossia che rivelano l'esistenza di una realtà irriducibile a quella di tale soggetto.
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Orbene la fisica quantistica non risulta affatto diversa, da questo punto di vista, dalla fisica classica. Al contrario, proprio perché ci fa scoprire nel sistema osservato un comportamento assai lontano da quello che ci saremmo attesi in base agli schemi tradizionali della scienza, proprio perché - in altri termini ci costringe a mutare le categorie precedentemente usate per rappresentare gli oggetti fisici (pena il disaccordo più completo fra previsioni teoriche e verifiche sperimentali), essa dimostra che la conoscenza scientifica non è esclusivamente un prodotto umano. Il fatto, poi, che tale fisica ci abbia permesso di conseguire un dominio effettivo sui processi naturali enormemente superiore a quello fornitoci dalla fisica classica, dimostra in modo incontestabile che le conoscenze raggiunte per suo mezzo costituiscono una nuova, notevolissima, approssimazione della realtà. Negare questa maggiore approssimazione sarebbe ridicolo; ammetterla significa dare atto, con Lenin, che la scienza è veramente in grado - nel suo laborioso sviluppo - di farci passare da conoscenze « relative, transitorie, approssimate » ad altre « più complete, più precise ». In conclusione, è il progresso stesso constatabile nel trapasso dalla fisica classica a quella quantistica, a dimostrarci che la natura non costituisce affatto un enigma inconoscibile, ma una realtà che può venire da noi sempre meglio conosciuta, purché non si pretenda di rinserrarla entro schemi « intuitivi » precostituiti (ossia entro quadri concettuali che una pigra tradizione è solita presentarci come « evidenti »), ma si sia francamente disposti a modificare le nostre categorie scientifiche in base ai dettami stessi dell'esperienza.
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CAPITOLO SETTIMO
Nuovi aspetti della cosmologia DI UGO GIACOMINI
I ·LA RINASCITA ODIERNA DELLA COSMOLOGIA
A partire dal I9I7 la cosmologia è tornata ad essere oggetto di numerosi studi, che si concludono con la formulazione di nuovi modelli di universo. Si definisce «cosmologia» la scienza che studia la forma dell'universo e le leggi di questo, ed è distinta dalla « cosmogonia », scienza delle origini dell'universo, anche se molti modelli cosmologici comportano delle tesi sull'origine dell'universo. Il fiorire moderno degli studi cosmologici ha inizio nel I 9 I 7 con la memoria, Kosmologische Betrachtungen zur allgemeine Relativitiitstheorie (Ricerche cosmologiche sulla teoria della relatività generale), presentata da Einstein all'accademia delle scienze di Berlino. In questa memoria, servendosi della teoria della relatività generale, Einstein descriveva l'universo come un insieme di materia diffusa in maniera omogenea, raggruppata in galassie, e sottoposta a certe leggi particolari. Da allora molti astronomi e matematici hanno proposto altri « modelli », anche assai diversi da quello di Einstein. Bisogna qui sottolineare che, dalla fine del Settecento, la cosmologia era trascurata e che, in genere, la si considerava come una scienza «metafisica», con tutte le connotazioni negative che venivano date a questa parola nell'età posi tivista. La rinascita della cosmologia si può spiegare con l'estendersi del metodo scientifico a questioni che sembravano prive di senso entro una mentalità scientista di tipo ottocentesco; infatti la cosmologia veniva confusa con la filosofia della natura intesa in senso romantico, e questa confusione si è protratta fino alla metà dell'Ottocento. Dobbiamo oggi constatare l'esistenza di molti studi concernenti questa disciplina: si potrà concludere, dopo un esame particolareggiato di questi studi, o che essi non hanno senso o che lo hanno ed avanzano problemi filosofici nuovi. Pur lasciando aperto, per il momento, il problema del significato di questi 441
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studi, notiamo subito che la loro valutazione è del massimo interesse per chiunque voglia farsi un'idea del ragionamento scientifico moderno. II · BREVE RICHIAMO AI PRINCIPALI MODELLI COSMOLOGICI DEL PASSATO
Com'è noto, l'esistenza di una speculazione cosmologica non è propria dell'età moderna: vi furono già nel passato vari periodi in cui si posero i problemi dell'origine e delle leggi dell'universo. Per comodità del lettore, che può farsi un'idea più approfondita sui modelli d'universo leggendo le parti ad essi dedicate nelle sezioni precedenti, riassumiamo brevemente i principali modelli cosmologici del passato. Nei miti babilonesi ed assiri troviamo espressa un'idea assai simile a quella che compare poi nella Bibbia: l'universo ha avuto origine da una creazione divina, in un certo periodo di tempo. La sua forma era paragonata a quella di una vasta camera, il cui soffitto era il cielo e il pavimento la terra. In questo modello, come- Jn quelli egiziani, l'universo ha una direzione verso l'alto e una verso il basso, ed ha senso in esso parlare di destra e di sinistra perché queste direzioni vengono considerate privilegiate e valide ovunque. Il centro di questo universo è la regione babilonese o egiziana, a seconda del creatore del modello. Vi è dunque non solo una forte accentuazione dell'antropocentrismo, ma ha addirittura senso concepire questo universo come una replica della terra, con direzioni preferenziali come « alto » e « basso ». Dal v al m secolo a.C. i greci elaborarono un modello di universo a sfere concentriche, al cui centro era posta la terra. Il modello geocentrico rappresentò, nell'età antica, il tipo normale di universo, benché alcuni scienziati eterodossi, come Aristarco, abbiano opposto un modello eliocentrico a quello prevalentemente accettato. Ricordiamo, oltre al geocentrismo, anche un altro carattere del modello cosmologico greco, dovuto ad Aristotele: questo modello che inizialmente era stato proposto da astronomi come Eudosso quale modello prevalentemente matematico, per la previsione del moto dei pianeti, fu da Aristotele sostanzializzato ed inserito in una concezione generale del mondo fisico. Così le sfere eudossiane, che erano modelli matematici, furono pensate da Aristotele come sfere di materia purissima sulle quali stavano « incastonati » i pianeti. Notiamo che, nei confronti del sistema babilonese, quello greco non prevede più un centro dell'universo identificabile sulla superficie della terra: ora è tutta la terra il centro del sistema, con un'evidente diminuzione di importanza del motivo antropocentrico. Vi sono dunque due posizioni importanti nella cosmologia antica: una derivata dall'astronomia e connessa ai metodi di misurazione, l'altra invece, 442
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quella aristotelica, che fa della cosmologia una parte della filosofia della natura e che, a volte, usa dei risultati astronomici solo come conferma di idee raggiunte per via aprioristica. Il passaggio dalla concezione classica a quella rinascimentale nella cosmologia è stato giustamente definito come passaggio dal mondo chiuso all'universo infinito. Ricordiamo che uno dei .maggiori contributi di Copernico, oltre alla creazione di un modello eliocentrico, che ancora una volta ci indica l'abbandono dell'antropocentrismo quale linea fondamentale della storia della cosmologia, è la teoria del moto dei pianeti che anticipa in parte quella di Keplero. Anche l'opera di Leonard Digges (I p o-58) vuole essere inclusa nella storia della moderna cosmologia perché rappresenta per la prima volta le stelle come entità primarie dell'universo, allontanando l'attenzione dell'astronomo dal sole e dai pianeti. Egli prendendo come base il modello eliocentrico di Copernico, afferma che le nuove idee astronomiche consentono di considerare l'universo come composto da infinite stelle. Questa affermazione è importante perché mostra la possibilità, in termini di astronomia copernicana, di rovesciare un aspetto tipico della cosmologia classica qual era la credenza che l'universo fosse spazialmente limitato dalla sfera delle stelle fisse. Newton non elaborò un modello cosmologico, ma fornì un grande strumento di spiegazione con le sue ricerche matematiche e con la teoria della gravitazione universale. Toccò a Laplace compiere l'analisi dei problemi meccanici necessari- come egli stesso scrive- ad « offrire una soluzione completa del grande problema matematico presentato dal sistema solare e portare la teoria a coincidere così esattamente con l'osservazione, che le equazioni empiriche non avrebbero più trovato posto nelle tavole astronomiche». Anche William Herschel (1738-18zz), astronomo reale inglese, che fu il più grande osservatore del secolo, arrivando a supporre l'esistenza di galassie, ossia di vastissimi raggruppamenti di stelle (che egli però riteneva interni alla via lattea), portò senza dubbio un grande contributo concettuale alla cosmologia. Pur non elaborando nessuna spiegazione sistematica del mondo galattico, cercò di applicare la meccanica newtoniana alle galassie, preparando le basi per altri sviluppi cosmologici. La tendenza dell'astronomia moderna è stata quella di abbandonare l'idea di un centro nel mondo, di perfezionare l'apparato matematico e i mezzi di osservazione, senza per altro sostituire al modello aristotelico un altro modello di universo. Ciò si vede soprattutto nel secolo scorso, in cui non vi furono teorie cosmologiche generalmente accettate, ma un accumularsi di risultati che forniranno utile materia di discussione, quando, dopo il 1917, le teorie cosmologiche cercheranno la loro conferma nelle osservazioni.
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III · LA CONNESSIONE FRA TECNICHE OSSERVATIVE E MODELLI COSMOLOGICI
Gli sviluppi della cosmologia sono sempre connessi con le osservazioni astronomiche. Questa verità è particolarmente chiara per chi studia la storia dell'astronomia del XIX secolo e nota la grande differenza fra questo tipo di studi e quello dei secoli precedenti. Possiamo ben dire che nel secolo scorso ha avuto luogo una seconda rivoluzione copernicana che ha soppiantato il sole come centro del mondo, prima a favore della nostra via lattea (considerata come la maggiore fra tutte le galassie) e poi a favore di un'eliminazione del concetto di centro dell'universo. Ma vi è di più: soltanto nel secolo scorso l'invasione delle tecniche fisicochimiche in campo astronomico trasforma le conoscenze astronomiche da pura osservazione in sperimentazione da laboratorio. Accanto all'astronomia matematica si stabilisce una nuova concezione della disciplina astronomica, quella fisico-sperimentale. Uno dei punti principali di questa rivoluzione consiste nell'introduzione della fotografia per opera di Fizeau nel I 84I, che voleva studiare con questo mezzo le macchie solari. Dal I 8 84 i fratelli Paul e Prosper Henry iniziano la fotografia stellare combinando un apparecchio fotografico con un telescopio che segue meccanicamente il corso delle stelle. Il numero delle stelle a noi note cresce così enormemente, perché l'apparecchio fotografico si rivela assai più sensibile, in una lunga esposizione, dell'occhio umano. Nascono le carte fotografiche del cielo, nelle quali vengono registrate fino a trenta milioni di stelle. Perciò l'astronomia divenne una scienza nuova rispetto a prima: fu possibile fotografare oggetti stellari posti a grande distanza dalla terra, e le stelle a luminosità variabile, di cui divenne possibile determinare la natura di stelle doppie. La seconda applicazione della fisica all'astronomia si ebbe nella spettroscopia, basata sull'analisi spettrale introdotta in forma sistematica da Kirchhoff nel I859· Gli spettri di un metallo portato a incandescenza si rivelano dotati di particolari caratteri che si ritrovano negli spettri di tutti i corpi che posseggono quel metallo. L'applicazione di questo principio al sole e alle stelle consentì un notevole successo all'astronomia stellare: furono infatti determinate tre categorie di stelle, quelle bianche, quelle gialle e quelle rosse. Rivelatosi il sole come una stella di seconda categoria, l'importanza che aveva detenuta per secoli nell'economia dei modelli cosmologici diminuì di molto, finendo per apparire una stella di grandezza mediocre e non più qualcosa di eccezionale nell'universo. La possibilità data dalla spettroscopia all'astronomia di classificare le stelle
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in pochi gruppi fondamentali, aprì poi la via all'applicazione dell'idea evoluzionistica alle stelle. I vari gruppi di stelle apparvero come gruppi di stelle in diversi momenti della loro esistenza. In linea di massima sembra che la temperatura delle stelle diminuisca regolarmente nei gruppi successivi della scala evolutiva. Questo tipo di risultati, in cui si vede applicare agli astri un'ipotesi scientifica nata sulla terra per spiegare il legame fra le specie animali, è importante anche perché ha in sé il germe di future considerazioni cosmologiche; in questi studi anche la singola stella è considerata un caso particolare di una legge generale, valida per tutte le stelle. Vedremo che lo stesso accadrà, nel xx secolo, anche per le galassie. La più importante applicazione della spettroscopia fu senza dubbio quella che consentì di misurare le distanze delle stelle con metodi ben più efficaci di quelli ottici e trigonometrici, in uso fino a quel momento. Nel 1916 Walter Sydney Adams (1876-1956) in America ammise che, sapendo con i vecchi metodi le distanze dalla terra di due stelle dello stesso tipo spettrale, si può calcolare la magnitudine assoluta (ossia la misura della lucentezza di una stella vista da un punto fisso distante convenzionalmente 32,6 anni luce da ogni corpo celeste) di tali stelle. Supponendo che le distanze delle due stelle e le loro magnitudini siano di ordine assai diverso, si dovrebbe ritrovare l'effetto di queste diversità anche nei loro spettri. Poiché tale supposizione si rivelò esatta, Adams riuscì a calcolare da allora in poi le distanze di qualunque oggetto partendo dall'esame del suo spettro, senza bisogno di usare altri metodi. Altrettanta importanza ebbe la spettroscopia nel ricercare i diametri delle stelle, le masse, i volumi. Nella prima metà del nostro secolo, sempre attraverso questi metodi fisici, è stato possibile determinare che il nostro universo va ben più in là del sistema solare, essendo formato da tutte le stelle osservabili sia ad occhio nudo. sia fotograficamente o con i radio-telescopi. Fin dal tempo di William Herschel si è supposto che le stelle siano raggruppate nella via lattea come si è accennato nel paragrafo n. Si riteneva che il sole fosse in posizione privilegiata entro questo sistema di stelle. La dimensione della galassia e la posizione del sole hanno dato luogo a numerosi studi, tra cui quelli di Carl Charlier (186z-1934) nel 1914 e di Harlow Shapley (n. 1885) nel 1919, i quali hanno concluso che il sole si trova in una posizione laterale entro la nostra via lattea, e non già al centro, come veniva supposto da un'ultima difesa antropocentrica. Vi è di più: nel nostro secolo la scoperta di nuove tecniche per produrre degli specchi sferici ha aperto la corsa ai grandi telescopi, conclusasi nel I 949 con la creazione del telescopio di Monte Palomar; l'impiego di orologi a quarzo, iniziato nell'osservatorio di Greenwich, ha permesso delle misurazioni del tempo sempre più accurate. 445
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Infine, tra i più reèenti mezzi al servizio dell'astronomia ricordiamo i ricevitori di onde-radio, o radiotelescopi, che captano i segnali emessi dai corpi celesti. Tutto questo insieme di nuovi apparecchi ha consentito il superamento della stessa ipotesi galattica, poiché i nuovi strumenti sono in grado di captare segnali di oggetti posti oltre i limiti calcolati per la galassia. Le nebulose extragalattiche, studiate da Lord William Parsons (I 8oo-67) e poi da Edwin Powell Hubble (1889-195 3), sono state dapprima ritenute come oggetti facenti parte della nostra galassia; solo più tardi si è capito che esse erano al di là dei confini della via lattea, e che questa deve esser considerata una galassia uguale alle altre sotto tutti gli aspetti. Lo spettro di queste galassie rivela delle righe spostate verso il rosso, e questo per una legge, dovuta a Christian Doppler (1803-53), è indice di un loro allontanamento dall'osservatore. I risultati dell'astronomia moderna consentono allo studioso di rilevare il rapporto assai importante che passa tra i mezzi tecnici e le considerazioni teoriche. È bensì vero che il legame tra modelli cosmologici e dati dell'osservazione si può scorgere anche per le epoche passate, perché ogni modello corrisponde all'interpretazione di certi dati osservativi, ma è altrettanto vero che nell'età moderna questo legame si è fatto anche più stretto, al punto che non ha più senso parlare di universo al di fuori di quelle osservazioni e quei risultati che vengono ottenuci con gli strumenti moderni. Tutti questi nuovi sviluppi avevano reso l'astronomia del XIX secolo una realtà profondamente diversa da quella del secolo precedente: assai più ricca e piena di ipotesi nuove. Eppure l'astronomia dell'Ottocento non diventa mai cosmologica, ossia tutte queste novità astronomiche, anche se esorbitano dai limiti dell'astronomia rinascimentale e settecentesca, non vengono spiegate come caratteri di un tutto unitario: il cosmo. Possiamo individuare due cause di questo mancato sviluppo della cosmologia: in primo luogo il fatto che, nell'Ottocento, era ancora molto importante quel tipo di studi prevalentemente filosofici, che vanno sotto il nome di filosofia della natura, e i sospetti degli scienziati verso questa disciplina li rendevano molto cauti verso una concezione generale del cosmo non garantita da prove sperimentali; in secondo luogo il fatto che il secolo scorso è stato un periodo di raccolta di dati e di evidenze scientifiche che non rientravano nell'ambito di una mentalità come quella che, nel Settecento, aveva fornito l'ultima grande struttura matematica in cui far rientrare i fatti sperimentali. È interessante osservare che solo nella seconda metà dell'Ottocento, con l'opera di Parsons, fu possibile stabilire l'esistenza di galassie esterne alla via lattea e attribuire ad esse il nome di nebulose extragalattiche. Pochi anni dopo, nel 1914 Henry Norris Russell (1877-1957) mostrò che una stella passava attraverso processi evolutivi di nascita e sparizione, collegati con
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AMMASSO DI
DISTANZA IN ANNI-LUCE
SPOSTAMENTO VERSO IL ROSSO
43.000.000
1200 KM/SEC
VIRGO
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Rapporto tra lo spostamento verso il rosso (espresso come velocità) e la distanza nelle nebulose extragalattiche. La coppia di righe scure H e K si sposta sempre più verso destra (rosso) per le galassie più deboli, più piccole e più lontane: fotografie dell'Osservatorio di Hale.
cadute della temperatura. Nel I924 Arthur Stanley Eddington (I882-I944) calcolò che se una stella è gassosa la sua radiazione totale dipende dalla massa più che dal diametro, perché, se si contrae, la sua area esposta decresce in modo tale da bilanciare la temperatura accresciuta. Tutte queste nuove teorie furono rese possibili dai nuovi metodi con cui, verso il I 9 I 4, si poterono stimare le distanze di stelle troppo distanti per il metodo della parallasse. Molte delle stelle di luminosità regolarmente variabile appartengono al tipo di stelle doppie, che periodicamente si eclissano l'una con l'altra; ma ciò non è vero per un certo tipo di stelle, le cefeidi, perché il conside447
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rade in tal modo darebbe una errata funzione del rapporto fra tempo e luminosità. Esse invece, quando le loro distanze sono conosciute, mostrano una precisa relazione tra la lucentezza assoluta e il loro periodo di variazione. Questo consentì di usarle come elementi per la misurazione di distanze molto grandi, e il metodo della luminosità variabile sostituì quello delle parallasse. Con tali metodi fu possibile, verso il I 9 I 8, stimare la grandezza della forma della nostra galassia, che è in lento moto rotatorio probabilmente sotto l'azione dei corpi circostanti, alcuni dei quali danno segno di essere lontani 108 anni-luce. IV · LA COSMOLOGIA RELATIVISTICA E I SUOI PRINCIPALI MODELLI DI UNIVERSO
Come già si disse, il I 9 I 7 segna la data di inizio della moderna cosmologia perché in quell'anno Einstein, presentando la sua memoria all'accademia delle scienze di Berlino, riaprì il problema della forma del mondo fisico e propose per esso una soluzione. La memoria era un insieme di ipotesi sulla natura della gravitazione e sulla distribuzione della materia nello spazio. Come il lettore può vedere nel capitolo XIV del volume sesto, uno dei principali risultati della teoria della relatività generale è l'ident~tà fra massa inerziale e massa gravitazionale di un corpo. Questa identità elimina l'idea di una forza gravitazionale e riduce la gravitazione a un particolare movimento del corpo entro uno spazio delimitato da masse di materia. L'idea risaliva a Mach, ma Einstein l'aveva sviluppata servendosi di un'accurata indagine dei concetti di spazio e di tempo. La memoria parte dal presupposto che la materia nello spazio sia uniformemente distribuita, e questa assunzione è molto distante da quella tipica del XIX secolo secondo cui i corpi sono necessariamente gruppi di materia. Inoltre si suppone che non esistano « forze » in senso newtoniano, ma che le particelle di cui è composta la materia si muovano liberamente lungo certe direzioni spaziali. Nella concezione di Hugo von Seeliger (I 849- I 924), celebre astronomo di tendenza newtoniana, l'universo era un'isola di materia in uno spazio infinito. Questa concezione urta contro certe difficoltà insormontabili nell'ambito della fisica newtoniana perché tutta la materia tenderebbe a concentrarsi in un 'unica massa. Nel modello di Einstein questa difficoltà invece è superata. Infatti quando lo spazio viene supposto curvo la distribuzione uniforme della materia non implica la presenza infinita di materia né la sua tendenza a riunirsi in un'unica massa. Il modello di Einstein aveva ino.ltre come caratteristiche l'isotropia e l'omogeneità; con la prima si intende che lo spazio entro cui è posta la materia è uni-
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forme in tutte le direzioni e con la seconda che in volumi uguali di questo spazio le quantità di materia sono costanti. Bisogna ora vedere quali sono i punti salienti di questo modello, oltre ai due già citati. La semplificazione estrema del modello nei confronti del mondo reale consiste in questo: le galassie, che vengono considerate nell'astronomia i più ampi raggruppamenti di stelle, nell'ambito del modello einsteiniano sono considerate come i minimi costituenti dell'universo. Questa arditissima semplificazione discende dall'ipotesi fondamentale di Einstein che la distribuzione della materia sia costante e con densità tendente verso lo zero. In pratica creando un modello di universo, come Einstein stesso ebbe a dire, si compie una operazione simile a quella del cartografo che disegna un mappamondo e trascura nel modello molte delle fattezze dell'originale. Non compaiono sul mappamondo le altezze delle montagne, i mari non sono fatti d'acqua, e così via. Anche il :risultato dell'operazione del cosmologo è un modello altamente astratto, in cui è però possibile, servendosi di opportune interpretazioni, ritrovare tutti gli elementi che compaiono nell'originale e le principali relazioni che intercorrono tra essi. Altro punto importante è l'uso di un insieme di coordinate non euclidee per descrivere il moto e la posizione delle particelle. Come mai Einstein ha scelto questo tipo di descrizione matematica? Chi legge il capitolo dedicato allo scienziato, vedrà che egli aveva frequentato a Zurigo nel 189 5 i corsi di Hermann Minkowsky, che per primo aveva elaborato un modello matematico dello spazio a quattro dimensioni, cercando di darne un'interpretazione fisica. È importante in modo particolare l'uso dei tensori, che permettono, con un simbolismo matematico assai conciso, di esprimere il moto di un punto entro un sistema di coordinate qualsiasi. La geometrizzazione della fisica compiva così un importante passo avanti; questo simbolismo verrà poi mantenuto da tutti i cosmologi successivi, tranne alcuni che tenteranno di costruire dei modelli newtoniani. L'origine di queste geometrie non euclidee è stata spiegata nei volumi terzo e quarto; il fatto che bisogna qui sottolineare è che esse vengono usate con un significato fisico. Il modello di Einstein ha perciò consentito di eliminare alcune delle domande tradizionali che venivano poste ad ogni tipo di modello di universo newtoniano. Così, per esempio, non ha più senso chiedersi cosa c'è« fuori» dell'universo, perché con il particolare tipo di geometria non euclidea usata, quella riemanniana, esso deve essere considerato finito ma illimitato. La distinzione così introdotta tra finitezza della massa materiale dell'universo e sua infinità di distribuzione vanifica il problema del «dentro» e del «fuori» dell'universo in
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quanto in qualunque direzione si muova un corpo nell'universo, esso tornerà, qualunque sia il suo percorso, al punto di partenza. Tuttavia Einstein non affermò che la geometria dello spazio dell'universo fosse ovunque ellittica; piuttosto sottolineò che il nostro universo si comporta analogamente a una superficie liquida mossa, che si presenta come piana in un luogo e in un altro irregolarmente curva. Ciò vuol dire che la geometria euclidea può valere per ristrette porzioni di spazio. Un carattere particolare di questo modello è la staticità. Si intende con questo che nel modello di Einstein non avvengono variazioni nel corso del tempo, se non a livello locale. La staticità è l'indifferenza dei moti della materia a livello locale nell'insieme del modello cosmologico. Con l'ipotesi che i movimenti delle galassie o delle stelle siano trascurabili nell'economia del modello cosmologico si semplificano notevolmente le equazioni richieste per formulare lo stato di equilibrio del cosmo. Tuttavia è innegabile che vi sia movimento non solo delle stelle, ma anche delle galassie e questo fatto rende il modello einsteiniano nulla piu che una prima approssimazione nella rappresentazione dei fenomeni astronomico-galattici. La negazione della staticità, introdotta nel modello di Willem de Sitter (I87z-1934), segnerà un grande passo avanti nella cosmologia moderna. La peculiare caratteristica del modello di Einstein, ossia la staticità, fu messa in discussione quando, nel 19z5, l'astronomo Hubble scoprì lo spostamento verso il rosso delle righe negli spettri delle galassie. Questo fenomeno, interpretato con la teoria di Doppler, sembra dipendere dalla distanza delle galassie, perché quanto più esse sono lontane, tanto più grande è lo spostamento degli spettri e tanto più la loro « velocità di fuga » da un osservatore posto sulla terra sembra maggiore. Se consideriamo l'universo di Einstein, vediamo che l'idea di isotropia e di omogeneità di quest'universo stabile non lascia posto per l'interpretazione dello spostamento verso il rosso; quindi il modello di Einstein non serve e deve esser sostituito da un modello non più statico ma dinamico. Due mesi dopo la pubblicazione della memoria di Einstein, de Sitter ne metteva in discussione il valore mostrando che la costante cosmologica introdotta da Einstein non valeva nel caso in cui si fosse supposto che la struttura spaziale dell'universo fosse vuota. Per ovviare a questo inconveniente (d'altronde spiegabile in base al fatto che la teoria di Einstein era solo una prima approssimazione alla descrizione dell'universo) de Sitter criticava l'idea einsteiniana di sfericità dello spazio (sfericità a quattro dimensioni). De Sitter sottolineava il fatto che la quantità di materia supposta presente da Einstein era enormemente superiore ai dati sperimentali. Egli presentava le le sue critiche come una possibile soluzione alternativa a quella di Einstein; ma da esse risultava una maggiore coerenza fra assiomi matematici e assiomi fisici che non dalle Kosmologische Betrachtungen (Considerazioni sulla cosmologia). 450
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Soprattutto, Einstein aveva costruito un modello di universo sul presupposto che la materia fosse staticamente in riposo. Nel modello di de Sitter, per quanto ciò non risultasse subito chiaro, era contenuta l'idea di movimento dello spaziotempo. Successivamente i due scienziati collaborarono per creare un nuovo modello che tenesse conto delle obiezioni di de Sitter, ma salvasse il principale esposto di Einstein, ossia il legame fra materia presente in certe regioni di spazio e curvatura spazio-temporale di quelle regioni. L'idea principale contenuta nel modello di de Sitter era quella di espansione continua, secondo la quale l'universo non è affatto statico, ma si «muove» nello spazio-tempo, comprendendo regioni sempre più vaste di questo. L'idea è importante perché segna l'apertura del discorso cosmologico verso il pt_oblema della conservazione dell'energia, che tante discussioni aveva suscitato nel xrx secolo. In che modo l'universo passa da uno spazio-tempo più ristretto ad uno più vasto? Donde viene l'energia per questo movimento? V ed remo poi, discutendo la cosmologia « nuova », che questi problemi possono trovare risposta solo a prezzo di grandi modificazioni metodologiche nel discorso cosmologico. Va a de Sitter il merito di aver proposto un modello in cui il problema del movimento dell'universo è messo al centro dell'interesse scientifico. Un tentativo assai diverso da quello Einstein-de Sitter fu quello compiuto dall'astronomo e matematico inglese Eddington. Possiamo chiamare
'"'Wt">, e possono essere comprese perché sono soggettivamente dotate di senso. Essa si basa sul paradigma: scelta dei mezzi per i fini da conseguire; l'azione umana è di conseguenza finalizzata. Si badi che solo l'azione dell'uomo è orientata teleologicamente, non la sociologia che non si pone mai un fine eticopratico ma solo quello della comprensione, nello stesso modo che nella ricerca del senso soggettivamente inteso non ricerca mai il senso giusto o eticamente corretto perché è una disciplina empirica e non dogmatica. La sociologia come ogni scienza tende all'evidenza, ma l'evidenza non prova ancora nulla della validità empirica della connessione; la validità di una interpre532 www.scribd.com/Baruhk
Weber e gli indirizzi della sociologia contemporanea
tazione, anche se fondata sull'esperienza o sulla capacità di « nv1vere », deve essere controllata con i consueti mezzi dell'imputazione causale. La maggiore evidenza è data dall'interpretazione dell'agire come di un agire razionale rispetto allo scopo, ma non è questo il fine particolare che persegue la sociologia. La determinazione del comportamento razionale rispetto allo scopo serve alla costruzione del tipo ideale necessario per intendere l'agire reale. Questo è influenzato da elementi irrazionali di ogni specie che sono considerati deviazioni rispetto a ciò che sarebbe avvenuto se il comportamento fosse stato rigorosamente razionale. Ciò vuol dire che per Weber l'impianto della sociologia è di tipo razionalistico, mentre non lo è l'agire umano, che risulta costellato da motivazioni le quali sfuggono spesso a ogni forma di razionalità. Per la costruzione di qualsiasi casistica sociologica occorre partire dal tipo puro. La sociologia prende anche in considerazione processi e situazioni sprovvisti di senso, come fenomeni dipendenti da processi organici della vita, dati biologici o eventi naturali che sfuggono alla comprensione. La considerazione sociologica li assume come «dati» di fatto e li tiene in conto nella misura in cui influenzano il senso soggettivamente inteso dell'azione sociale. In sostanza l'azione sociale dell'uomo che è l'oggetto specifico della riflessione sociologica è quell'azione sociale orientata in base all'esistenza di altri individui che possono essere singoli e noti, o molteplicità indeterminata di persone ignote. L'agire cioè è sociale quando prende in considerazione l'esistenza di terze persone: ad esempio, « il denaro designa un bene di scambio che, nello scambio, l'agente accetta perché orienta il suo agire in base all'aspettativa che numerosi altri individui, ma ignoti e indeterminati, siano pronti a prenderlo da parte loro in scambio nel futuro ». Tra i concetti sociologici fondamentali espressi da Weber troviamo le due componenti basilari per la creazione di qualsiasi tipologia sociologica e delle varie formazioni sociali: ci riferiamo più specificatamente: I) ai fondamenti determinanti dell'agire sociale, z) al concetto di relazione sociale. I) Posto che il comportamento sociale si sviluppa in un rapporto di mezzi e fini l'agire sociale può essere determinato: a) in modo razionale rispetto allo scopo b) in modo razionale rispetto al valore c) affettivamente d) tradizionalmente z) Per relazione sociale si deve intendere, secondo Weber, «un comportamento di più individui instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso, e orientato in conformità ». La definizione di ogni concetto successivo risulta sempre dalla interrelazione di questi elementi unitamente ai concetti di lotta e di potenza, elementi essenziali del processo storico, secondo la visione del mondo weberiana; lotta e potenza sono sempre forme di relazione sociale basate sulla volontà di afferma533 www.scribd.com/Baruhk
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zione del proprio volere di fronte all'opposizione di uno o più individui. È importante sottolineare ancora una volta che le definizioni di Weber corrispondono a tipi puri, cioè ad estremi astratti non riscontrabili o riscontrabili con difficoltà allo stato puro nella realtà che risulta sempre dalla combinazione dei vari elementi. Le classificazioni di uniformità di fatto riscontrabili nell'agire sociale, e cioè l'uso e il costume, sono viste come derivate o da un agire tradizionale (la consuetudine) o da un agire razionale (un costume è tale perché è frutto di un orientamento razionale in vista di determinate aspettative). L'agire sociale risulta condizionato nella realtà da ordinamenti la cui legittimità è garantita dall'interno in modo razionale rispetto al valore o in modo affettivo o su basi religiose, o può essere garantita dall'esterno, cioè da aspettative specifiche di conseguenze esterne. A questo secondo caso appartengono la convenzione (la cui garanzia di legittimità risiede nel fatto che, violando la convenzione, il soggetto agente può andare incontro a una disapprovazione generale) e il diritto (la cui validità è garantita dall'esterno mediante la possibilità di una coercizione). Così la relazione sociale può essere definita comunità o associazione a seconda che si riferisca a un agire sociale che poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) o su una identità o legame di interessi motivati razionalmente (rispetto al valore o rispetto allo scopo). La puntigliosa chiarezza con cui Weber definisce i concetti sociologici è perseguita come uno dei fini della sociologia; si tratta cioè di creare concetti univoci che permettano la comprensione generalizzata della portata delle singole affermazioni in modo da poter essere capiti da tutti, i referenti che stanno alla base di ogni designazione sociologica di qualsiasi fenomeno. Quando Weber definisce lo stato come «un'impresa istituzionale di carattere politico nella quale- e nella misura in cui- l'apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell'attuazione degli ordinamenti » e la chiesa come « un'impresa istituzionale di carattere ierocratico nella quale-e nella misura in cui-l'apparato amministrativo avanza la pretesa di monopolio della coercizione ierocratica legittima », egli ha precedentemente stabilito il concetto di gruppo sociale, di ordinamento e la differenziazione tra gruppo politico e gruppo ierocratico. L'analisi del potere e delle sue varie forme rappresenta il nucleo di una delle sezioni più importanti nell'ambito delle sociologie specifiche. L'esercizio del potere su una pluralità di persone richiede infatti normalmente un apparato amministrativo; il modo con cui si configura l'apparato amministrativo e le caratteristiche di chi fa parte di questo apparato hanno dato vita storicamente alle varie forme di organizzazioni sociali. In questo modo Weber dà vita, nella sociologia del potere, al concetto di ceto, che è una forma di attribuzione di potere visto come « onore sociale » e differenziazione di competenze, distinto dal concetto di classe che si basa su di 534
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un possesso a carattere specificamente economico. In essa Weber mette in risalto una delle componenti tipiche del capitalismo contemporaneo, e cioè l'apparato amministrativo-burocratico con divisione di competenze e attribuzioni ispirate ad un massimo di razionalizzazione appunto dell'apparato amministrativo. Nella parte riguardante la detenzione del potere economico, Weber classifica i vari tipi di capitalismo (forme di capitalismo sono per lui riscontrabili in ogni epoca storica e in ogni parte del mondo, ma il capitalismo considerato come organizzazione razionale del lavoro è fenomeno esclusivo della moderna società occidentale), e questa classificazione permette di valutare l'originalità del capitalismo occidentale moderno. Tuttavia nella sociologia del potere il concetto più originale, legato storicamente alla formulazione che di esso ha dato Weber, è indubbiamente quello di « potere carismatico » riconoscibile per la presenza della figura del « carisma ». Il potere presuppone per Weber «la possibilità di trovare obbedienza presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto », esso si può basare su motivi affettivi o razionali rispetto al valore, l'esperienza dimostra però « che ogni potere cerca piuttosto di suscitare e coltivare la fede nella propria legittimità ;,>. La validità di questa legittimità può essere di carattere razionale, tradizionale o carismatico. La validità della legittimità di un potere ha carattere carismatico quando « poggia sulla dedizione al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa». L'esistenza, dunque, del potere carismatico è legata alla presenza di una persona che sia dotata di una qualità ritenuta straordinaria che « viene considerata come dotata di forze e proprietà soprannaturali o sovrumane, o almeno eccezionali in modo specifico, non accessibili agli altri, oppure come inviata da Dio o come rivestita di un valore esemplare e, di conseguenza, come duce». I suoi dominati si qualificano di conseguenza come seguaci. Occorre sottolineare che per Weber il capo carismatico non è l'ideazione di un tipo psicologico, bensì una forma di potere di cui possono anche essere prese in esame le componenti soggettive psicologiche ma che è oggetto di riflessione sociologica nella misura in cui condiziona un agire sociale dotato di senso. Il potere carismatico riveste carattere straordinario e, considerato nel suo tipo puro, rappresenta l'opposto delle forme di potere razionale nel senso che manca assolutamente di regole. Il suo apparire è spesso legato a forme di cambiamento rivoluzionario e all'avverarsi di condizioni straordinarie. Questa eccezionalità condiziona di conseguenza ogni aspetto del potere carismatico; l'apparato amministrativo ad esempio non è selezionato in base a criteri razionali o tradizionali (sia nel senso di un corpo di funzionari dotati di preparazione specialistica o scelto in base all'appartenenza ad un ceto), ma riveste anch'esso qualità carismatiche: « al profeta corrispondono i discepoli; al condottiero il seguito; al duce gli uomini di fiducia». Il carisma puro è specificamente estraneo all'economia 53 5
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e i capi carismatici, nella misura in cui cercano mezzi materiali per il sostegno della loro potenza, non si adeguano a una economia di carattere razionale o ordinaria. Il potere carismatico assume spesso carattere provvisorio per l'impossibilità di trasferire ad un successore qualità che sono attribuite alla persona, di conseguenza il problema del «successore}) è un problema che spesso trasforma il senso del potere carismatico nella pratica quotidiana. Come abbiamo già detto la creazione di un potere carismatico è sempre frutto di situazioni straordinarie rispetto alla normalità dell'agire quotidiano. Ne consegue che il potere carismatico è labile e quindi nella pratica quotidiana se ne riscontra sempre una trasformazione. In effetti alla sua trasformazione contribuiscono due elementi, il desiderio da parte del detentore del potere di trasformarlo da transitorio a permanente e il problema della successione. Queste due condizioni obbligano molto spesso a ricercare la legittimazione del potere in forme di validità meno la)Jili di quelle carismatiche, si fa ricorso cioè a quella forma di validità più lontana all'origine dal potere carismatico che è la validità della tradizione. Viene in tal modo a cessare il carattere straordinario del carisma e si ricerca una regolamentazione che legittimi in modo permanente l'autorità ottenuta mediante potere carismatico: le monarchie ad esempio hanno sempre una origine di tipo carismatico ma si trasformano in istituzioni di carattere tradizionale. La successione di un'autorità carismatica avviene sia creando la fede nell'ereditarietà degli attributi carismatici sia ricorrendo a plebisciti popolari che riconfermino i successori di questa autorità. In genere i dominati scelgono all'interno di quel gruppo di fedeli al capo carismatico che testimoniano una continuità di quell'agire. Esempi di potere carismatico sono riscontrabili nella religione, nella guerra, nel potere politico, di cui un esempio è la monarchia. Per Weber anche nelle moderne democrazie sono riscontrabili estremi di caratteristiche carismatiche: la designazione per suffragio popolare del capo dello stato ne è un tipico esempio, anche se è regolamentata e istituzionalizzata e trae origine dal principio del mandato di rappresentanza tra eletto ed elettori, che rende l'eletto esecutore del mandato degli elettori. In effetti il mandato imperativo del rappresentante può essere realizzato elettivamente solo in modo incompleto. A questa stregua possono emergere le condizioni di potere di carattere carismatico, che sono già indubbiamente presenti nei meccanismi di selezione dei partiti per la designazione dei candidati. Nell'area quindi delle moderne democrazie occidentali, che sono frutto della crescente razionalizzazione di ogni settore tipica del capitalismo, permangono elementi che non sempre possono essere ricondotti almeno in senso soggettivo ad un agire razionale. In effetti per Weber la democrazia moderna, proprio perché si rivolge alla massa dei cittadini non sempre qualificati e preparati, si colora spesso di forme demagogiche sia facendo leva su aspirazioni irrazionali, sia prospettando fini di fatto irrealizzabili. È quindi nel senso della sfiducia verso un agire razionale ed una visione pessimistica della preparazione della classe borghese
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e proletaria in Germania che Weber si pronuncia nell'attività politica in senso favorevole ad attribuzione di maggiori poteri al presidente del Reich e a una guida in senso carismatico per la nascente democrazia tedesca. La sua scelta non vuol essere una scelta a favore di un'autorità di carattere totalitario ma a favore di una forma di potere considerata come più adeguata realisticamente alle condizioni della società tedesca e come tale più razionale. Le restanti parti di Economia e società che affrontano differenti campi della sociologia sono dominate soprattutto, come abbiamo già detto, dal tema della razionalizzazione come elemento caratterizzante la società occidentale moderna qualificata dall'esistenza del capitalismo, e, nella sociologia della religione (che doveva poi diventare uno studio comparato delle religioni), dal significato causale che l'etica protestante assume nei confronti del capitalismo moderno, etica affermatasi in occidente con le caratteristiche peculiari che abbiamo già analizzato, non rintracciabili nelle altre religioni. VI· VALUTAZIONI CONCLUSIVE
Il pensiero di Max Weber, come abbiamo già detto, sanziona una svolta nel campo della sociologia. Un certo trionfalismo che permeava gli inizi della sociologia positivista, la quale si sforzava di considerare i mali sociali della società ottocentesca risolvibili mediante l'impostazione razionale del dominio borghese e del progresso della scienza e della tecnica, non ha più ragione di essere. L'istituzionalizzazione e la generalizzazione progressiva del potere borghese avevano messo in luce che i mali sociali erano connessi all'affermazione del capitalismo e che, l ungi dal risolversi, si acuivano; inoltre era sorto nel proletariato un atteggiamento combattivo e organizzato teso al rovesciamento stesso della borghesia. Per questo diveniva illusoria una sociologia che risolvesse i mali sociali; e di contro si affermava l'esigenza di reinterpretare il capitalismo non come sistema di rapporti di produzione e quindi oggetto della lotta di classe, ma come prodotto di forze storiche ascrivibili allo sviluppo della tecnica, all'affermazione di determinate ideologie. Il fine di questa operazione era evidente: una concezione siffatta permetteva di considerare i mali sociali non come portato specifico dell'organizzazione capitalista del lavoro e della società ma come conseguenza dello stesso sviluppo storico in senso astratto e generale, che rendeva utopistiche e irrealizzabili alternative liberatorie. Coerentemente con questi nuovi compiti la sociologia si inserisce in una prospettiva filosofica ovviamente distante da qualsiasi forma di materialismo e dialettica storica; essa si separa dalla matrice positivista che la qualificava come una forma di filosofia della storia, e si limita alla ricerca di nessi causali, fornisce modelli astratti di comportamento, limita il suo campo di indagine ai comportamenti sociali soggettivamente intesi, non ricerca più leggi di sviluppo storico, 537
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si fraziona nei diversi settori della vita associativa, dando vita a discipline sociologiche specifiche. Weber non si limita però a esporre dei principi o ad analizzare particolari settori della vita sociale, come molti altri sociologi della sua epoca, ma deriva questi contenuti da una fondazione sistematica della sociologia come scienza; ma la formulazione delle categorie sociologiche e l'analisi del capitalismo di Weber sono chiaramente ispirate al tipo di interpretazione sopra accennato. Non a caso, infatti, egli privilegia tra le cause del capitalismo l'etica protestante, sottolineando che lo spirito del capitalismo nasce dal rifiuto della tradizione, elemento questo che trova terreno favorevole nell'etica calvinista, e considera gli aspetti economici del capitalismo moderno come la divisione del lavoro, la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, l'alienazione, sotto il profilo dell'organizzazione razionale e tecnica del lavoro. Di formazione kantiana (il ritorno a Kant è, come si è visto, una delle caratteristiche del dibattito culturale in quel momento storico in Germania), egli si pone dal punto di vista dei fondamenti logici dei processi conoscitivi nel campo della scienza. La legittimazione quindi della sociologia come « scienza » può avvenire solo attraverso il chiarimento dell'apparato concettuale cui fa riferimento: la realtà per W eber è inconoscibile nella sua complessità; il compito della scienza non può essere dunque quello di svelare l'oggettività del reale, bensì quello di ordinare concettualmente un materiale empirico nella prospettiva, più limitata ma più realistica, di determinare alcuni nessi causali presenti nella realtà ma non onnicomprensivi della realtà stessa. Sotto questo profilo l'oggettività conoscitiva propria della scienza sociale risiede nel metodo e negli strumenti di analisi. Qualsiasi categoria gnoseologica da usare nel campo delle scienze storico-sociali può essere elaborata solo valutando la peculiarità dei processi conoscitivi dell'indagine storico-sociale. Ed è proprio questa peculiarità e cioè il riferimento ai valori e il fine specifico dell'indagine storica, cioè la spiegazione dell'individualità, che non consentono la ricerca di « leggi » nel campo della realtà storica. I fondamenti logico-conoscitivi nel campo storico postulano sempre una certa unilateralità condizionata dal punto di vista da cui si pone lo scienziato e dal riferimento ai valori connaturato alla specificità del campo di indagine: ne consegue che per Weber ogni affermazione se pur verificata con strumenti scientifici è sempre relativa. Al suo tentativo di ancorare l'oggettività conoscitiva ad un metodo razionalistico (poiché per Weber la scienza si ispira a principi razionali sia quando si applica ai fatti naturali sia quando prende come oggetto del suo studio i fatti storici) fa riscontro un'interpretazione soggettivistica della storia. Weber avverte la necessità di un momento teorico chiarificatore della ricerca empirica e ritiene di trovarlo nella formazione di modelli costruiti su basi razionali che permettono, nel confronto con la realtà, una verifica più valida dell'imputazione causale in senso individuale storico; in realtà, si tratta
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di un'operazione che snatura il significato stesso della storia. I modelli che Weber costruisce si basano su elementi empirici che, astratti dal contesto che li ha generati o almeno ricercati al fine di un'astrazione e non di una sintesi, applicati alla realtà storica fanno di questa realtà una somma di avvenimenti suscettibili di accostamenti analogici, poiché il relativismo soggettivistico di Weber tende a dimostrare l'impossibilità di una filosofia della storia. In sostanza ci sembra che l'impostazione che Weber dà al problema della scienza e l'esaltazione metodologica in senso razionalista non siano sufficienti a legittimare la verità delle sue affermazioni come la suggestiva analisi dello spirito del capitalismo o la felice creazione di alcuni modelli non possono dare validità alla sua dottrina. Questi sono comunque gli aspetti dell'opera di Weber che hanno maggiormente influenzato il corso successivo della sociologia: la legittimazione della scientificità della ricerca su basi puramente metodologiche, la focalizzazione sull'azione dell'uomo soggettivamente intesa, la pretesa avalutatività dei risultati, la continua creazione di modelli astratti dal contesto storico. VII • LA SOCIOLOGIA DOPO WEBER
L'opera di Weber costituisce il più compiuto tentativo, sia per ampiezza di problematica filosofica che per ricchezza di contenuti analitici, di dare una nuova e più adeguata fondazione teorica alla sociologia del suo tempo; essa mantiene ancora alcuni elementi tipici della cultura positivista, principalmente la rigorosità nel metodo e il principio dell'imputazione causale, ma essi sono ormai disancorati da una prospettiva di ingegneria sociale e sono lontani dalla atmosfera ottimistica ed entusiastica tardo-ottocentesca che non trova più riscontro nelle mutate condizioni politiche e sociali dell'Europa. Il suo tentativo non ebbe però notevoli e importanti sviluppi sia in Germania che in altri paesi europei, proprio a causa delle condizioni generali politiche e culturali dell'Europa di quel tempo nel quale la lotta politica assunse tale asprezza da non lasciare spazio a indagini organiche sulla sociologia e la sua storia. Lo sviluppo della sociologia trova invece un terreno più favorevole in America; qui però vengono lasciati sullo sfondo i grandi temi che si riscontrano nell'opera di Comte e di Weber- principalmente la formulazione delle leggi dello sviluppo storico e la fondazione logica della sociologia come scienza- e la ricerca si sposta su un terreno riduttivo. L'indagine teorica si pone sul terreno della comprensione immediata della realtà e l'indagine empirica si moltiplica affinando e creando nuovi strumenti metodologici di analisi; la grande tradizione europea viene vista quasi esclusivamente sotto il profilo dei modelli di interpretazione o della metodologia. Più specificatamente si dà per scontata la legittimità di una scienza sociologica e si sposta l'interesse sui contenuti dei suoi risultati e dei suoi metodi. Il notevole sviluppo della sociologia in America trova una ragion d'essere
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nel fatto che si inserisce in un contesto sociale e culturale favorevole a una problematica di tipo sociologico. La società americana è infatti una società in rapido sviluppo, gravida di problemi sociali e senza una tradizione filosofica che possa condizionare in senso problematico l'affermazione di una« scienza» sociologica; la mancanza poi di una definizione precisa, l'ampiezza delle possibilità di applicazione, la generalità dei presupposti permettono alla società americana di modellare la sociologia secondo i suoi bisogni e la sua ideologia. Le origini della sociologia in America (ricordiamo tra gli altri i nomi di W. G. Sumner, 1840-1910 e di L. Frank Ward, 1841-1926) si ricollegano al positivismo. È soprattutto l'opera di Spencer ad avere la maggiore influenza. L'idea di progresso, la visione scientista che lascia tuttavia ampio spazio a motivi metafisica-religiosi, l'esaltazione dell'iniziativa individuale e della società industriale sono i temi spenceriani che si riscontrano in quasi tutti i sociologi amt:ricani di questo periodo. Comte trova invece un minor consenso proprio per l'impostazione di carattere filosofico che ha la sua dottrina; è significativo che di Comte venga accolta principalmente l'idea dell'organizzazione della società intorno al consenso generale. Il dibattito sociologico si svolge sui tàttori condizionanti il progresso e cioè se l'apporto dell'uomo nei confronti di un'evoluzione naturale (la teoria di Darwin è molto nota) sia determinante o secondario rispetto a un processo spontaneo che seleziona i migliori nella lotta naturale per la sopravvivenza. I fattori culturali che influiscono sulle strutture sociali e i fattori biologici sono visti alla luce di un rapporto di condizionamento reciproco, di conseguenza viene attribuita una scala di priorità a seconda che venga posto l'accento su uno o l'altro degli aspetti nella considerazione dello sviluppo della società. In ogni caso non si pongono in discussione le strutture esistenti ma una maggiore o minore cooperazione alloro sviluppo. A questa impostazione iniziale di carattere generale segue, soprattutto per influenza del pragmatismo, un orientamento che sposta la ricerca sociologica verso prospettive di carattere empirico e particolaristico: la sociologia americana si pone di fronte ai problemi caratteristici della società industriale capitalista e si fraziona nelle sociologie specifiche che hanno come campo settori specializzati dell'organizzazione sociale. Nel contempo si affinano tecniche e metodi di indagini e si forma una terminologia specifica che diventa in breve copiosa e spesso farraginosa; termini come stratificazione, adattamento, integrazione, ruolo, status ecc., diventano di uso corrente. L'affermazione parallela di discipline affini alla sociologia come la psicologia, l'antropologia, l'etnologia, dà vita ad uno scambio di categorie, di vocaboli, di strumenti. L'analisi dello sviluppo della sociologia americana con una trattazione analitica anche solo delle principali scuole richiederebbe un discorso che esula dagli scopi prefissi. Qui ci richiameremo a quelle che sono a nostro avviso le direttrici fondamentali della sociologia contemporanea in America e che trovano riscontro nelle stesse origini della sociologia statunitense.
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Essa può dividersi in tre principali orientamenti. Una prospettiva reazionaria-conservatrice appunta il suo interesse sul problema dell'ordine, dell'adattamento e quindi della coesione sociale e del consenso; essa assume carattere chiaramente apologetico nei confronti dell'establishment e assegna alla sociologia un compito manipolatorio ai fini del potere (il più famoso esponente di questo indirizzo è indubbiamente Talcott Parsons). Una prospettiva riformistica assegna invece alla sociologia compiti di miglioramento sociale; essa si pone in una prospettiva di mutamento e si propone di conseguenza l'analisi della società in termini di conflitto (significativi esponenti di questa corrente sono Ernest W. Burgess e Robert E. Park e la scuola di Chicago, e Lewis A. Coser). Infine un indirizzo radicale critica l'impostazione della società americana e propone una sociologia contraria al mantenimento dello status quo, e le assegna il compito di essere uno strumento per una presa di coscienza in senso critico (Thorstein V eblen può essere considerato il primo significativo rappresentante di questo orientamento che ha trovato, in tempi più recenti, un sostenitore acuto e brillante in C. Wright Milis). Questa classificazione semplifica, forse eccessivamente, il complesso quadro della sociologia americana in quanto non considera le pur notevoli differenziazioni che esistono all'interno degli stessi indirizzi e il fatto che parecchie dottrine presentano un carattere ambiguo e non .::hiaramente precisabile; ci sembra tuttavia che sostanzialmente ogni corrente possa essere in ultima analisi collegata all'una e all'altra delle prospettive indicate, anche se il riferimento deve essere inteso solo come indicazione della tendenza di fondo prevalente. Tra le teorie su cui si basano quei sociologi che pongono il consenso come cardine della problematica sociologica, la più nota è indubbiamente quella che si richiama al funzionalismo. Il funzionalismo sociologico, che si ispira per molti aspetti, e anche per l'uso della categoria stessa di funzione, all'antropologia sociale e in particolare all'opera di B. Malinowski e di A. Radcliffe-Brown, è una teoria antievoluzionista ed essenzialmente antistorica che concepisce l'analisi dei fenomeni sociali in termini di sistemi e funzioni. Esso trova il miglior interprete in Talcott Parsons (n. 19oz). L'ambizione di Parsons è quella di dare alla sociologia, giunta a uno stato sufficiente di maturità, una compiuta e sistematica elaborazione concettuale che fornisca anche indicazioni per la ricerca empirica. La tortuosa, oscura e ingiustificatamente complessa esposizione della sua teoria è espressa più compiutamente e organicamente nel suo libro The social .ryste.m (Il sistema sociale, 195 1). Parsons pone come base del suo discorso il problema dell'« ordine» necessario per garantire l'equilibrio all'interno di un sistema. Egli affronta questo problema dal punto di vista dell'azione sociale: «Lo schema di riferimento riguarda l'orientamento di uno o più soggetti agenti - che sono nel caso fondamentale degli individui, organismi biologici - in vista di una situazione che include altri soggetti agenti. Essendo relativo alle unità d'azione e di 541
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interazim1e, lo schema è uno schema re/azionale » (Parsons è chiaramente influenzato dalle teorie weberiane, ma mentre l'attenzione di Weber era accentrata sull'azione sociale che genera e condiziona gli ordinamenti sociali, Parsons considera l'agire sociale solo in funzione della stabilità sociale; cioè una volta affermata l'esistenza di un sistema sociale occorre vedere come l'azione sociale soggettivamente intesa si adegua ad esso). Il carattere funzionalistico di un sistema comporta che esso abbia carattere normativa o gerarchico. Il funzionamento di un sistema sociale presuppone che le parti lo accettino interiorizzandolo attraverso la mediazione della cultura che è un sistema simbolico. « Un sistema sociale consiste pertanto di una pluralità di soggetti individuali interagenti tra di loro - in una situazione che presenta per lo meno un aspetto fisico o ambientale - i quali sono spinti dalla tendenza alla "ottimizzazione della gratificazione" e la cui relazione con le rispettive situa.:zioni, inclusive di ogni altra situazione, è definita e mediata nei termini di un sistema di simboli culturalmente intesi. » Il sistema esercita proprio per il suo carattere normativa un controllo sociale e deve essere così saldamente strutturato da reagire nei confronti dei comportamenti devianti e dei conflitti in modo da poter riassorbirli, proprio perché la garanzia del sistema sta nella sua continuità. In questo sistema sociale il singolo è visto come il detentore di un determinato status-ruolo, cui corrispondono determinate aspettative controllate dal sistema normativa a cui il singolo aderisce proprio in quanto detentore di un certo ruolo. Lo status-ruolo è dunque un'unità del sistema sociale ed essendo il sistema sociale un sistema di interazione, i suoi componenti agiscono e interagiscono come titolari e detentori di status-ruolo. Parsons riconosce la possibilità dei mutamenti sociali, ma poiché è impossibile ritrovare le cause del loro accadere egli non li prende in considerazione e non elabora categorie di analisi per il mutamento sociale soprattutto nella sicurezza che la socializzazione nel sistema americano agisce in forma condizionante e in modo sufficientemente tranquillizzante. Parsons deriva molte categorie dai sociologi europei (l'azione sociale da Weber, il concetto di anomia da Durkheim) ma snaturandone in buona parte i significati e riducendoli a modelli comportamentistici. La teoria vacua e astratta di Parsons ha un carattere squisitamente apologetico, ed è in fondo un caso limite della stessa sociologia americana, ma dimostra come una cultura antistorica riduzionista è incapace di afferrare una problematica teorica con strumenti adeguati. I sociologi del conflitto si rifanno soprattutto a Georg Simmel (I 8 58- I 9 I 8) che usò della categoria di conflitto come forma di socializzazione. Citeremo brevemente Ernest W. Burgess (n. I886) e Robert E. Park (x864-I944) che fecero parte della scuola di Chicago costituitasi all'interno del dipartimento di sociologia di Chicago fondato nel I 892 e diretto alle origini da A. Small. Alla scuola
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di Chicago risale la teoria ecologica, cioè quella teoria che si propone lo studio della relazione tra l'uomo e l'ambiente naturale. Sotto questo profilo vennero condotti studi e ricerche empiriche sulla città; ricorderemo The Go/d coast and the slum (La costa d'oro e lo slum, 1929), studio, condotto da W. Zorbaugh, di una fascia della città di Chicago che comprendeva una gamma vastissima di aree di insediamento tra loro molto differenziate (dai quartieri residenziali agli slums). Già la scelta dell'oggetto della ricerca testimonia l'interesse per una problemadca sociale di tipo riformistico che assegna al conflitto una funzione socialmente rilevante. Lewis A. Coser (I 9 I 8- I 9 58), di cui ricorderemo The function of social conjlict (La funzione del conflitto sociale, I956) in opposizione a Parsons e alla corrente sociologica predominante che considera il conflitto come « antifunzionale e disgregatore », rivendica le funzioni positive del conflitto sociale, e oppone una visione dinamica della società ad una funzione di tipo statico, per ciò stesso improduttiva e tesa alla conservazione. Coser si riallaccia alla funzione riformista delle origini della sociologia e prospetta un ritorno alle categorie della « tradizione classica» tra cui appunto annovera la categoria fondamentale di conflitto tratta da Simmel. . L'int<snto riformistico condiziona in modo determinante questa corrente sociologica, che non riesce a sollevarsi al di là della formulazione di categorie per ricerche empiriche rivolte alla messa in luce e alla soluzione di problemi sociali. Essa manca di una visione storica e dell'inquadramento di questi stessi problemi in categorie più ampie di natura filosofica e non dà fondamento strutturale ai problemi sociali che in fondo si propone di risolvere in modo limitato e in una prospettiva di razionalizzazione dello sviluppo della società industriale capitalista. La corrente radicale è indubbiamente la più interessante ed è quella che ha più influenzato gli sviluppi recenti della critica alla sociologia nonché le rivolte studentesche che in America hanno visto in primo piano appunto gli studenti di sociologia. Questi critici della società americana tendono a ricollegare la sociologia alla grande tradizione europea; si oppongono infatti sia ad una concezione empirica della sociologia e cioè ad i.m'accumulazione di dati acriticamente assunti come base per l'interpretazione, la valutazione e l'analisi della società contemporanea, sia ad una teorizzazione astratta di tipo apologetico che concepisca la società come un sistema che si regge sull'affermazione dell'ordine sociale e assegni come fine ultimo della società l'adattamento in senso totale. Essi non si propongono intenti di tipo riformistico ma richiamandosi ad una funzione operativa cercano le basi per una sociologia che assolva ad una funzione conoscitiva realistica e critica dei rapporti di potere che condizionano la società americana e che evolva quindi verso una posizione più chiaramente politica, non acquiescente nei confronti del sistema costituito. Il tentativo è dunque quello di rielaborare categorie 543
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sociologiche di interpretazione della società che sottintendano sempre una valutazione globale, un principio, un presupposto di fondo. Essi rivalutano quindi il momento teorico che deve essere ispiratore sia della ricerca sul campo sia della considerazione generale della società. È nei grandi sistemi europei ottocenteschi che essi ritrovano modelli e schemi di più vasto respiro che si oppongono a una visione empirica dei problemi. Il richiamo all'Ottocento europeo passa attraverso autori come Spencer, Weber e anche Marx, benché la teoria marxista sia recepita soprattutto in termini ideologici e quindi sociologici, poiché, osservano, i contenuti non si adattano alla realtà del « capitalismo avanzato ». Il richiamo esplicito di Wright Milis, all'interno della tradizione americana, è a Thorstein Veblen (1857-1929) la cui acuta analisi e presa di posizione nei confronti della società industriale presuppone una critica totale in senso radicale. Veblen fu un economista prima che un sociologo e per questo i suoi interessi si accentrano principalmente sui fenomeni economici; la sua attenzione si volge verso la società industriale contemporanea in cui vede una contrapposizione, per quanto concerne l'organizzazione sociale ed economica, tra uomini di affari e tecnici. I tecnici si occupano dell'organizzazione produttiva dell'impresa, mentre gli uomini di affari del commercio e della finanza. I primi sono produttivi, i secondi parassiti; gli uni rappresentano l'istinto di efficienza che cerca di realizzare nel lavoro la razionalità, gli altri l'istinto predatorio che porta alla guerra e allo sfruttamento. Veblen si pronuncia a favore dei tecnici, i quali, liberati dall'elemento parassitario dell'organizzazione sociale ed economica, potranno attuare un nuovo tipo di società nel quale ad una più equa e razionale organizzazione del lavoro corrisponda la possibilità di impiegare il tempo libero in attività salutari e costruttive. Su questa interpretazione si basa il più famoso libro di Veblen, The theory oj leisure class (La teoria della classe agiata, 1889). Lfl. classe agiata, per Veblen, è nata con la proprietà; in ogni tempo infatti è esistita una classe che ha posseduto ricchezze superiori ai propri bisogni e l'impiego di tale surplus non è mai stato indirizzato a fini socialmente utili ma verso investimenti inutili che conferissero prestigio sociale. La classe agiata, essendo una classe parassitaria e avendo quindi una sempre maggior quantità di tempo libero da impiegare in attività che conferiscono prestigio sociale, ha dato vita ad un nuovo codice di comportamento: essa vive all'insegna del consumo superfluo, dello « sciupio vistoso » e tende ad esibire i termini del suo prestigio allo scopo di differenziarsi dalle altre classi. Quest'atteggiamento ha generato l'istinto di emulazione che si è generalizzato ed è una delle fonti del malcontento attuale; si è venuto affermando un criterio di valutazione basato sulla quantità di denaro posseduta e non sulle qualità morali. Questo principio di emulazione tende a condizionare in senso negativo ogni aspetto della vita sociale che è rivolta verso l'esterno per trovare una conferma agli occhi degli altri del proprio prestigio sociale. La concezione di Veblen è indubbiamente una concezione di tipo mora544
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lista e la sua critica non supera mai in fondo una critica di costume; essa tuttavia coglie con sufficiente acutezza alcuni aspetti della società americana, è profondamente polemica nei confronti delle istituzioni e colloca in una prospettiva storica le sue affermazioni. Il richiamo di C. Wright Mills (1916-1962) a Veblen e alla tradizione classica presenta caratteristiche e significato differente da quello comune agli altri sociologi. Ricollegarsi alla tradizione classica vuol dire per Mills reinserire la sociologia in una prospettiva storica, esplicitare quelle teorie che sono necessariamente presupposte a qualsiasi affermazione anche di carattere empirico, vuol dire esprimere una valutazione della società in contrapposizione ad una pretesa avalutatività della scienza che è in effetti legittimazione e accettazione del potere costituito. Ma il valore del richiamo non consiste solo in questo; alla tradizione classica per Wright Mills si riallacciano i temi essenziali su cui si basa la realtà dell'organizzazione sociale come il problema del potere, della situazione di classe, cioè tutti quei fenomeni non marginali ma essenziali per la descrizione e comprensione della società moderna. Nella prefazione al libro lmages of man (Immagini dell'uomo, 196o), che è una raccolta antologica curata da Wright Mills di autori della « tradizione classica », egli ripropone la lettura di questi autori perché « la loro opera rappresenta il meglio della sociologia dell'ultimo periodo del secolo scorso e del primo di questo secolo ed assume una diretta rilevanza rispetto a ciò che vi è di meglio nel lavoro attuale». Nel presentare questi autori Wright Mills pone in rilievo la crisi susseguita all'impostazione weberiana della sociologia definendola crisi del liberalismo classico, e la accomuna anche ad una crisi del marxismo classico: « La crisi morale di questa tradizione umanistica, rispecchiata nella sociologia, coincide con la ritirata della nostra generazione di scienziati sociali sul terreno del fatto puro. » Queste affermazioni ci sembrano molto importanti sia per gli elementi positivi che contengono, sia anche per i limiti che palesano. La rivendicazione del bisogno per la sociologia di un apparato teorico e di un contesto storico si accompagna infatti ad un limitato concetto della teoria, che viene ridotta a puro e semplice «modello». Non a caso egli accomuna autori come Marx ed Engels a Durkheim e Lippmann, sociologo americano noto soprattutto per il suo libro The public opinion (L'opinione pubblica, 1922), e non a caso include nel suo libro Spencer e non Comte. Il compito della sociologia viene meglio definito da Wright Mills nel suo libro The sociological imagination (L'immaginazione sociologica, 1959): «L'immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell'esperienza quotidiana, gli individui si formino un'idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l'ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psi545
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cologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici.» Perché dunque la sociologia scopra la sua vera vocazione occorre che l'indagine sociale inserisca i fatti in un contesto storico e valuti i problemi non come frutto di difficoltà personali d'ambiente, ma situi all'interno della loro reale origine «i problemi pubblici di struttura sociale», e si allontani da una «falsa coscienza» per avvicinarsi ad una più adeguata coscienza politica: il compito della sociologia è dunque formativo, pedagogico oltre che conoscitivo. Mentre definisce la vera vocazione della sociologia, Wright Mills combatte con molta efficacia ed acutezza le due tendenze della sociologia americana: « La Grande Teorizzazione », come ironicamente chiama la teoria dell'azione sociale di Parsons, e l'empirismo astratto di cui vede un rappresentante significativo in P. Lazarsfeld, uno dei ricercatori empirici più fecondi e acritici della sociologia americana. L'empirismo astratto è caratterizzato da una « inibizione metodologica » che lo porta a concepire la società americana come un insieme di variabili correlate con equazioni matematiche; alla complessità di modelli corrisponde un vuoto assoluto di contenuti tale da giustificare la qualifica, contraddittoria nei suoi termini, di « empirismo !\Stratto ». Conseguente alla sua impostazione, Wright Mills indirizza le sue ricerche empiriche verso il problema del potere. The power élite (L'élite del potere, 1956) e la classe media White collars (Colletti bianchi, 195 1) sono due opere felici: nella prima Milis esamina chi sono gli effettivi detentori del potere in America, e nella seconda le caratteristiche di quella classe media che è il frutto del capitalismo . avanzato. Con l'élite del potere Mills vuole colpire il concetto stesso di democrazia americana: la democrazia presuppone infatti un potere diffuso, l'autogoverno, le decisioni collettive; al contrario i detentori del potere in America sono una sparuta élite che domina sul resto della nazione attraverso l'insediamento di suoi membri nei posti chiave dell'organizzazione sociale capitalista, cioè nell'organizzazione militare, economica e politica della nazione. Essa si serve di un apparato di propaganda e di mezzi di manipolazione delle masse per mantenere il proprio potere. Con il termine « colletti bianchi» egli designa la classe media americana che è formata da lavoratori dipendenti improduttivi. Wright Mills si richiama a categorie mutuate da Weber e da Marx; considera la classe media come oggettivamente antagonista alla classe dirigente e insieme contraddistinta da caratteristiche di ceto che la condizionano verso un'indifferenza politica. I white collars sono il prodotto di una società a capitalismo avanzato; tra di essi primeggiano i burocrati e tutti coloro che sono, per retribuzione e per collocazione sociale, al disopra della classe operaia ma insieme ben lontani dai poteri decisionali e dalle retribuzioni delle classi dirigenti. Wright Mills è uno degli autori più vivi e più interessanti della sociologia
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americana anche se a nostro avviso rimane all'interno di una valutazione puramente sociologica della società e quindi si pone in una prospettiva di fatto empirica e soggettiva. Ma non si può prescindere nel formulare questo giudizio dalla considerazione che all'interno della sociologia americana egli rappresenta una delle esigenze più qualificate e più dense di prospettive. La sociologia americana domina dunque la scena fino alla seconda guerra mondiale. Alla fine della seconda guerra mondiale in Europa si assiste ad una rinascita della sociologia che, lungi però dal riallacciarsi ai temi della «tradizione classica », mutua il linguaggio della sociologia americana in un discorso accentrato su ricerche empiriche, modelli e formazione di categorie descrittive. Un discorso a parte merita la Scuola di Francoforte che nasce nell'ambito dell'Institut fiir Sozialforschung di Francoforte nei primi anni del decennio 1930-40. I temi principali della « sociologia critica » di Francoforte vengono dibattuti soprattutto nella rivista dell'Istituto, la « Zeitschrift fiir Sozialforschung », diretta da M. Horkheimer dal 1932 al 1941. I più importanti esponenti della scuola sono, oltre ad Horkheimer, T. Adorno, J. Habermas e H. Marcuse, il quale però sviluppa il suo pensiero soprattutto in America e finisce con l'essere criticato come soggettivista e romantico anche dalla stessa Scuola di Francoforte. La Scuola di Francoforte cerca di trovare i fondamenti della sociologia critica nell'hegelismo e soprattutto nel marxismo, da cui mutua l'apparato categoriale cercando di renderlo più aderente allo sviluppo del capitalismo. La società tecnologica e industriale, frutto del potere del capitalismo borghese, è al centro delle analisi dei suoi teorici. Essi si dichiarano contrari al positivismo acquiescente nei confronti del potere e apologetico nel suo vano empirismo; la sociologia positivista vede il progresso nel senso di una ingegneria sociale; essi le contrappongono una sociologia critica le cui categorie di giudizio e la cui forma di conoscenza devono essere al servizio di un rovesciamento della situazione sociale. Ciò può essere attuato attraverso un più stretto rapporto tra teoria e prassi nella forma dell'acquisizione di un'autocoscienza o vera coscienza di sé che liberi gli individui dalla manipolazione ideologica di cui sono oggetto e che li condiziona nel senso di una falsa coscienza. La dialettica assume quindi rilievo nella negazione e nella sua applicazione alla prassi. Il rifiuto della società contemporanea, il rifiuto del progresso, tecnologicamente inteso, che porta alla schiavizzazione dell'uomo, il rifiuto della falsa razionalità, sono i temi dominanti di questa scuola che svolge la sua analisi dando rilievo all'autoritarismo che domina nella società in forma così generalizzata da essere accolto anche dalle classi subalterne mercè la manipolazione ideologica. Essi si richiamano alle categorie di totalità, di falsa coscienza, di alienazione. Le categorie marxiste sono interpretate prevalentemente non sulla base dei rapporti di produzione, ma alla luce dei rapporti sociali attraverso la mediazione dell'acquisizione di coscienza. È ovvio che viene dato rilievo in questa scuola al giovane Marx, a Hegel, a Luckacs, e viene 547
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valorizzato Freud come teorico dell'antiautoritarismo in senso psicologico. Nel rapporto tra le classi e nel rovesciamento del potere borghese viene ad acquistare primaria importanza la figura dell'intellettuale fornito di strumenti per arrivare alla liberazione dalla falsa coscienza; con l'intellettuale si identifica anche lo studente che diventa esso stesso motore di un processo rivoluzionario. Inutile osservare che queste affermazioni hanno molto influenzato le lotte studentesche. La tematica della scuola è ben più ricca ed argomentata di quanto noi qui riportiamo. Questo tentativo psicologizzante ed irrazionalista (anche se i suoi teorici si richiamano all'uso vero della ragione in contrapposizione all'uso razionale di una irrazionalità di fondo della società contemporanea) d sembra però da rifiutare nelle sue premesse filosofiche di carattere idealistico e per ciò stesso antimaterialistico. VIII • LA SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA
Il discorso precedente è stato volutamente contenuto entro l'ambito limitato dei presupposti generali e delle prospettive di fondo degli aspetti più significativi della ricerca sodologica contemporanea. Ci sembra però opportuno svolgere una trattazione un poco più analitica di quella sociologia speciale che ha un'attinenza specifica con il carattere della presente opera. Ci riferiamo alla cosiddetta sodologia della conoscenza. Infatti la sociologia del sapere, rivolgendo la sua attenzione verso quegli aspetti generali dell'attività conoscitiva umana, deve porsi il problema di una sua collocazione rispetto alla ricerca filosofica. La dottrina della sociologia della conoscenza, secondo i suoi sostenitori, ha matrici lontane e derivazioni varie, ma per i suoi elementi essenziali viene fatta risalire, per un verso alla dottrina marxista, e per l'altro allo stesso Max Weber e soprattutto a Scheler. Il principale teorico della disciplina viene comunemente considerato Karl Mannheim, che è appunto il primo studioso che, nell'opera Ideology and utopia (Ideologia e utopia, 1936) e in altri saggi, abbia cercato di esporne in modo abbastanza elaborato i fondamenti e le prospettive. La sociologia del sapere viene definita in questi termini: « Come teoria essa cerca di analizzare la relazione tra la conoscenza e l'esistenza; come ricerca storica-sodologica, essa si sforza di rintracciare le forme che tale rapporto ha assunto nello sviluppo intellettuale dell'umanità.» L'impostazione generale è chiaramente antiteoreticistica: viene dato quindi grande rilievo a quegli elementi emozionali, pratici, per lo più inconsapevoli che guidano gli individui nell'assunzione di determinate concezioni teoriche. Questi atteggiamenti sono il riflesso di situazioni sociali chiaramente enucleabili e hanno una tale influenza da condizionare la scelta e il carattere stesso delle prospettive teoriche. L'ambiguità dell'assunto generale è evi-
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dente nel fatto che si dà rilievo preminente a moventi istintivi che non sono facilmente suscettibili di una connotazione precisa ed univoca. Si è costretti perciò a far ricorso a categorie equivoche come quella della comprensione simpatetica, fondate sulla situazione esistenziale dell'individuo. Così, l'etica delle primitive comunità cristiane, spiegata come risentimento delle classi oppresse, non potrebbe essere intesa da un « osservatore che non sia autenticamente interessato alle origini sociali della morale prevalente nel periodo in cui egli stesso vive, che prescinda, nello studiare i problemi della vita sociale, dalla tensione fra le varie classi e che non abbia altresì scoperto l'aspetto positivo del risentimento nella sua esperienza personale, non sarà mai in grado di capire quella fase dell'etica cristiana. È proprio nella misura in cui egli partecipa, simpateticamente o antagonisticamente, alla lotta che gli strati più umili sostengono per la loro evoluzione, nella misura in cui valuta il risentimento in un senso positivo o negativo, che egli diviene consapevole del significato dinamico della tensione e del rancore sociale ». Si ha qui la generalizzazione astratta di una mera categoria psicologica che viene fatta rivivere nella concreta personalità dell'individuo. Il momento esistenziale individuale è però la reazione alla più ampia istanza collettiva in cui ogni individuo viene a trovarsi. L'individuo è cioè collegato nelle sue azioni e nel suo pensiero al gruppo in cui opera, di cui riflette le aspirazioni, le finalità, le prospettive; la realtà sociale emerge quindi come la caratterizzazione fondamentale di tutta l'attività dell'uomo. Ne consegue che il sapere si configura quasi sempre come manifestazione di parte, sezionale, espressione di gruppi sociali particolari; la distorsione, la faziosità, più o meno consapevole, è la caratteristica essenziale di ogni concezione generale del sapere o di più speciali articolazioni di esse. Secondo Mannheim e gli altri teorici della sociologia della conoscenza, ciò costituisce la teoria dell'ideologia, dalla quale la sociologia del sapere tende a differenziarsi. Mentre, infatti, la teoria dell'ideologia, sviluppatasi soprattutto nell'ambito del marxismo, si propone principalmente un compito demistificatorio, quello cioè di denunciare gli inganni e le falsificazioni teoriche che nascono da concreti interessi di parte, « la sociologia del sapere invece non si occupa delle menzogne che nascono da un deliberato sforzo di ingannare, quanto dei differenti modi in cui la realtà si rivela al soggetto in conseguenza della sua diversa posizione sociale ». Ciò comporta uno sforzo di generalizzazione capace di arrivare ad una concezione totale dell'ideologia, in cui si ha una visione liberata dalla concezione assoluta della verità e si considera la propria stessa posizione intellettuale come condizionata. La sociologia del sapere considera essenziale il superamento della teoria dell'ideologia e si configura come una teoria generale della determinazione sociale. Essa sottolinea infatti che la determinazione sociale è una componente necessaria del conoscere (la realtà viene cioè sempre conosciuta secondo un particolare angolo di visuale, in quanto non può esistere un pensiero avulso dal contesto sociale che 549
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lo limita e lo condiziona). In generale afferma che non si può avere una corretta interpretazione dello sviluppo del pensiero se non vengono sottolineati i concreti nessi con l'esistenza e le implicazioni sociali di esso. Ma il principio della determinazione sociale del pensiero non rimane un presupposto generale; viene usato direttamente dai sociologi della conoscenza per l'indagine. Diventa allora, ed è ovvio che lo sia, una categoria vuota. Sulla base di tale assunto si può solo giungere all'affermazione astratta (valida per tutte le società e per tutti i periodi) che ogni pensiero, in misura più o meno vasta, ha una matrice esistenziale inconscia radicata nel gruppo sociale in cui si trova l'individuo che lo esprime. Al di là di ciò non è possibile andare. È evidente quindi che i tentativi di esplicazione analitica siano formulati sulla base delle più disparate asserzioni che hanno tutte un fondamento tipico-: l'analogia. Ciò può essere chiaramente rilevato da alcuni esempi. Si afferma che le società stabili sono caratterizzate da un pensiero unitario, e che è « l'intensificarsi della mobilità sociale a distruggere l'illusione, dominante nelle società statiche, secondo cui ogni cosa può mutare, ma il pensiero rimane eternamente lo stesso». Si rileva l'esistenza di una mobilità orizzontale, in cui si avverte che esistono modi di pensare in paesi differenti che vengono considerati curiosità, errori, eresie dal gruppo nazionale in cui la tradizione resta forte; e di una mobilità verticale, caratterizzata da un rapido movimento dei diversi strati sociali che porta a rompere le concezioni unitarie tradizionali e a rendere le persone incerte e scettiche. Si elabora uno schema per determinare il pensiero della classe borghese nella Francia del Settecento in confronto a quella aristocratica: si afferma che la classe inferiore pone l'accento sul divenire (in quanto classe in ascesa) piuttosto che sull'essere (atteggiamento tipico della classe superiore); ha la tendenza a guardare avanti (prospettivismo) invece che indietro (retrospettivismo); ha una concezione meccanicistica e non teleologica, un modo di pensare dialettico rivolto alla ricerca delle contraddizioni e non alla individuazione di identità e di armonie, ecc. Si osserva che esistono nella società tendenze rivolte verso la comunità e verso l'associazione e si portano esemplificazioni relative alla visione cattolica e calvinista della vita. I cattolici hanno così una tendenza ad una visione organica del mondo, considerano la società un a priori rispetto all'individuo, vedono la comunità come portatrice di tutta la verità, sono portati all'emotivismo e al misticismo, ritengono via ideale alla verità la contemplazione nel chiostro (Maria prima di Marta), mentre i calvinisti hanno una tendenza ad una visione atomistica del mondo, ritengono che la società sia un a posteriori rispetto all'individuo, propugnano il razionalismo, e credono che la via ideale alla verità sia l'osservazione all'interno del mondo (Marta prima di Maria). (Questi due schemi si trovano nell'opera di W. Stark, The sociology of knowledge [Sociologia della conoscenza, 195 8]; il primo è derivato da Scheler.) 5 50
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La concettualizzazione proposta dalla sociologia della conoscenza non è solo generica; porta anche a palesi deformazioni. Si veda per esempio la contrapposizione categoriale tra ideologia e utopia che dà il titolo all'opera di Mannheim. Le ideologie vengono descritte come quelle «convinzioni e quelle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. In talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice ». Sono considerate utopie invece quelle « concezioni dei gruppi subordinati, così fortemente impegnati nella distribuzione e nella trasformazione di una determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare ». Si tratta quindi di concezioni incapaci di una diagnosi corretta della società presente e che non si occupano affatto di ciò che realmente esiste. È facile osservare l'inconsistenza di tali asserzioni. I gruppi conservatori devono in effetti avere una effettiva e reale comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere; tale comprensione è necessaria per conservare il dominio e quando essa manca, o è insufficiente, il potere viene perduto. Del pari, ogni pensiero veramente rivoluzionario deve dare una diagnosi corretta di tutta la società, deve cioè dare una effettiva esplicazione dei fatti esistenti per poterli cambiare; altrimenti resterebbe appunto una utopia nel senso usuale del termine, che non è quello che gli dà Mannheim. La descrizione delle varie mentalità utopiche, da quella millenaristica (chiliastica), a quella liberale, conservatrice, socialistica-comunistica, rimane astratta e ambigua. Questa indeterminatezza categoriale si palesa ulteriormente se si paragona la posizione di Mannheim con la prospettiva del marxismo di cui la sociologia della conoscenza vuole essere il superamento e l'allargamento. In effetti, nel marxismo, il rapporto tra pensiero e realtà sociale è ancorato ad una concezione generale della storia e della società che si serve di un apparato concettuale preciso ed efficace. L'evoluzione della società viene vista essenzialmente sotto l'angolo di visuale dei rapporti di produzione economica e degli antagonismi di classe che ne emergono. Se l'ideologia è l'espressione sovrastrutturale con cui una determinata classe cerca di mantenere o di conquistare il potere ed è una visione particolare della realtà, è pur vero che le varie ideologie si muovono con un andamento progressivo verso una sempre più ampia e completa appropriazione della realtà, in quanto anche sono il riflesso di classi sociali sempre più generali. Nella sociologia della conoscenza invece si parla più genericamente e indeterminatamente di gruppi sociali e la classe è soltanto il gruppo sociale più importante, accanto ad altri come le generazioni, i ceti, le sette, i gruppi di lavoro ecc. L'ideologia, nel senso che le danno i sociologi della conoscenza, non dipende da strut-
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ture reali oggettive, ma è un elemento della struttura mentale dell'uomo che è portata ad accogliere nel processo conoscitivo istanze collettive: presenta una matrice di impronta soggettivistica. Questi elementi soggettivistici sono chiaramente evidenziati e sviluppati da uno dei più recenti teorici della sociologia della conoscenza, Werner Stark, il quale si propone di dare un fondamento filosofico generale di stampo kantiano alla prospettiva della sociologia della conoscenza. La teoria della determinazione sociale del pensiero si fonda, secondo Stark, su una tendenza profonda dello spirito umano. Ogni apprensione relativa a materie sociali è filtrata da una valutazione che precede e non segue l'atto dell'apprensione. Si tratta di «un a priori sociale, altrettanto vero e fondamentale, agli effetti del processo della conoscenza sociale, quanto lo era quello di Kant· per il processo della conoscenza formale e fisica». Un fatto storico, come la battaglia di Maratona o quella di Sedan si presenta come una congerie indefinita di atti e di singoli avvenimenti che di per sé non hanno senso: il significato è fornito dal pensiero umano che vede le cose e le vede come un insieme. « Il dare una struttura alla conoscenza dipende da un principio di selezione e da un principio d'ordine, e questi vanno cercati entrambi esclusivamente in ciò che abbiamo chiamato lo schema davanti all'occhio dello studioso di storia, l'a priori della sua mente, in breve, il suo sistema fondamentale di valori. » Il tentativo di fondazione gnoseologica è abbastanza approssimativo, come approssimativo e improprio è il riferimento a Kant, ma sufficiente però ad indicare come la sociologia della conoscenza possa naturalmente sfociare in un ambito dichiaratamente idealistico. Date queste premesse, volte a considerare la realtà sempre dal punto di vista del soggetto, il problema di fondo in cui viene a dibattersi la sociologia della conoscenza è quello di come salvaguardare un livello obiettivo ài verità. Criticata la tesi che propugna un criterio di verità assoluto, per non cadere nel relativismo, Mannheim designa la propria concezione con l'ambiguo termine di relazionismo. Esso significa che « tutti gli elementi di una data cultura si richiamano reciprocamente e derivano il proprio significato da questa interrelazione ». Infatti, « una considerazione critica delle molteplici concezioni dell'essere che si presentano, spesso in contrasto fra di loro, deve condurre ad una prospettiva comprensiva capace di accogliere le concezioni divergenti, e di superare i limiti impliciti nei punti di vista particolari »: tale è appunto il relazionismo, con il quale tutta la realtà sociale viene risolta in una rete di relazioni statiche. Tale ambiguità categoriale porta a non impostare correttamente il problema del rapporto conoscenza-realtà. Significativa è a questo proposito la considerazione della conoscenza scientifica. In genere i sostenitori della sociologia della conoscenza escludono dal condizionamento sociale le proposizioni concernenti le scienze esatte le quali
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rivestirebbero un valore che trascende la determinazione esistenziale. Questa asserzione è basata sull'assunto di considerare in modo contrapposto la realtà naturale statica e la realtà sociale dinamica, con la conseguente distinzione tra il pensiero tecnico-scientifico, il quale completa un sistema sempre lo stesso in periodi successivi, e il pensiero relativo alle scienze filosofiche e storico-sociali, il quale cambia continuamente i centri di sistemazione dei fatti in quanto ogni epoca presenta propri e diversi valori; si giunge perfino a distinguere le vere e proprie asserzioni scientifiche non condizionate, da quelle asserzioni di natura filosofica e metafisica non vere, soggette invece al principio del condizionamento sociale. Non è necessario mostrare al lettore di quest'opera l'erroneità di una simile concezione della verità scientifica; vogliamo solo sottolineare che essa è un aspetto di una più generale concezione della verità erronea. È la mancanza di una corretta visione dello sviluppo dell'uomo e della sua storia che conduce la sociologia della conoscenza ad una teoria sostanzialmente empiristica. Quando si sostiene che « il compito specifico della storia sociologica del pensiero diviene quello di ricercare, senza alcun riguardo per i pregiudizi dei partiti, tutti i fattori della concreta situazione sociale che possono influenzare il pensiero », non ci si accorge che una tale indagine non ha senso filosofico, cioè reale e storico. Questo può sorgere solo da una concezione dello sviluppo storico ancorata ad una nozione di progresso che sia insieme antologico e categoriale, che veda il sempre più ampio disvelarsi della realtà naturale ed umana come una conseguenza del continuo potenziamento delle nostre categorie interpretative. I singoli momenti dell'evoluzione sono legati fra di loro da un vincolo necessario e si muovono verso una sempre più compiuta appropriazione della realtà naturale ed umana; è il movimento dal punto di vista dell'oggetto che deve guidare la ricerca. « Il nostro scopo, » dice Mannheim, « resta non tanto quello di adeguare un tipo di conoscenza che dovrebbe costituire "la verità in sé", quanto piuttosto di comprendere come l'uomo risolva i suoi problemi conoscitivi, legato com'è, in siffatta attività, alla posizione che occupa nella società. Se noi raccomandiamo una concezione comprensiva di ciò che ancora non si lascia sintetizzare in un sistema, lo facciamo ritenendo che tale sforzo rappresenti la possibilità migliore nella nostra presente situazione e perché, agendo così, pensiamo (come sempre avviene nel caso della storia) di promuovere i necessari passi preparatori alla sintesi futura. » Quel che importa quindi è solo il rapporto tra conoscenza e modalità sociale; l'oggetto conoscitivo è posto in un ipotetico futuro. La ricerca è sempre volta a verificare un fatto costante, la presenza di elementi sociali, emozionali, irrazionali nell'atto conoscitivo. La sistemazione, e con ciò la valutazione dell'oggetto conoscitivo, viene rimandata. Si perde perciò il senso dei fini conoscitivi. In realtà, ciò che la sociologia della conoscenza non vede, è che c'è sempre un'appropriazione vera e progressiva della verità, e c'è in ogni periodo storico
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un solo modo di approccio vero, quello che costituisce un potenziamento delle categorie conoscitive del tempo (o un loro superamento) e un'effettiva conquista conoscitiva della realtà naturale e storica. La verità, se si vuole, è sempre partigiana; tende però a non esserlo in quanto si muove sempre in una prospettiva assoluta; un'asserzione che non si muova in questa direzione non è vera.
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'CAPITOLO SECONDO Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea
Scritti di W.H. KILPATRICK: The dutch schools oJ Netherland and colonia! New York, NewYork I912; The Montessori {ystem examined, New York I914; Froebel's Kindergarten principles criticai()' examinated, New York I9I6; The project method. The use Jor purposejul act in education process, New York I9I8 (trad. it. in Il metodo dei progetti, di L. Borghi, con testi di W.H. KILPATRICK, Firenze I95 2); Dangers and difficulties oj the prr!fect method, New York I92I; Method and curriculum, in« Journal of education method », aprile-maggio I9zz; Disciplining children, in « Journal of education method », giugno I922; How shall we select the subject-matter oj the elementary school curriculum, in « ] ournal of education method », settembre I924; Education Jor a changing civilization, New York I926; Source books in the philosoplij oJ education, New Y ork I 926; Thinking in èhildhood and youth, in « Religious education », febbraio I928; Our educational task, New York I93o; Social factors influencing educational method in 19 ;o, in « Journal of educational sociology », I I aprile I 9 3 I ; The relation oj philosoplry to scientiftc research, in « Educational research », 2 settembre I 9 3 I ; A defence of philosoplij oJ education, in « Harvard teachers record », I novembre I 9 3 I ; Education and the social crisis, New Y ork I 9 32; The educationalJrontier, a cura di W.H. KILPATRICK, New York I933; Educational ideals and the profit motive, in« Social frontier », novembre I934; A reconstrued theory of the educative process, in « Teachers college record », New Y ork I 9 3 5 ; Public education as a source jor public improvement, in « School and society », aprile I 9 3 5 ; Foundation oj method, New Y ork I 9 3 5 ; A social philosoplry oj progressive education, New York I93 5; Remaking the curriculum, New York I 9 36; The teacher' s piace in the social !ife oj today, in « School and society », luglio I 9 37; Living and learning, in« Educational trends »,ottobre I937; The teacher and society, New Y ork I 9 37; Democracy and respect Jor porsonality, in « Progressive education », febbraio I939; Group ed!fcationjor democra~y, New York I94o; The nature oj the human nature, in « Religious education », gennaio-marzo I 940; 5 elfhood and civilization, New Y ork I 94 I ; lntercultural attitudes in the making, New York I947; The learningprocess, New York I949; Modern education, New York I949; Philosoplry of education, New York I951 (trad. it., Firenze I969);Dew~y's influence on education, in The philosop~y of]. Dewry, a cura di P.A. ScHILPP, New York I95 I; The education of man. Aphorism, New York I95 1. Studi su Kilpatrick: L. BoRGHI, fohn Dewry e il pensiero pedagogico contemporaneo
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Bibliografia affective chez l'enfant, Bruxelles I927 (trad. it., Firenze I95 5; contiene anche due altri scritti: Osservazioni, esperienze e inchieste sullo sviluppo delle attitudini infantili, dal volume Etudes de psychogénèse, Bruxelles I932, e Il trattamento e l'educazione dei fanciulli irregolari, Bruxelles I925); DECROLY e BuYSE, Introduction à la pédagogie quantitative, in Documents pédotechniques, Bruxelles I 929; La fonction de globalisation et l' enseignement, Bruxelles I 929 (trad. it., Firenze I95 3). Costituiscono un'integrazione essenziale del quadro della pedagogia di Decroly: G. GALLIEN, L. LrBors-FoNTEYNE, A. CLARET, Initiation à la méthode Decroly, Bruxelles I946 (trad. it., Programmi e metodi della scuola Decroly, Torino I959); R. DoTTRENS, E. MARGAIRAZ, L'apprentissage de la lecture parla méthode globale, Neuchatel I95 I (trad. it., Torino I959); Louis DALHEM, Contribution à la méthode Decroly, Bruxelles I96o (trad. it., Firenze I964). Su Decroly: P. CIPRIANI, Il metodo Decroly, Firenze I95 3; F. DE BARTOLOMEIS, Ovide Decroly, Firenze I95 3; G. SANTOMAURO, Ovide Decro(y, Brescia I964; C. ANGELONE, Il messaggio educativo di Ovidio Decroly, Napoli I97I. C.W. WASHBURNE, The philosophy of the Winnetka curriculum, Boomongton I926; Les écoles renouvelées de Winnetka, in « Pour l'ère nouvelle »,novembre I93 I; A4Justing the school to the chi/d, New York I932; A living philosophy of the education, New York I940 (trad. it.,Firenze I957); What is progressive education?,New York I952 (trad.it., Firenze I95 3); The world's good, New York I95 4 (trad. i t., Firenze I965); The education of teachers in the United States (trad. i t., Firenze I95 8); Winnetka, un esperimento pedagogico, Firenze I96o. Scritti pedagogici di impostazione psicoanalitica: M. KLEIN, Infantile anxiety situations rejlected e A work of art and the creative impulse, Londra I929; In., The psycho-analysis of children, Londra I932 (trad. it., Firenze I969); S. IsAACS, The children we teach, Londra I932 (trad. it., I ragazzi dai sette agli undici anni, Firenze I952); In., Intellectual growth in young children, Londra I933 (trad. it., Lo sviluppo intellettuale dei bambini al di sotto degli otto anni, Firenze I96I); In., Social developement in young children, Londra I934 (trad. it., Firenze I967); H. HARTMANN, Ich-Prychologie und Anpassungsproblem, Lipsia-Vienna I939 (n ed.); In., The prychoanalytic study of the chi/d, a cura di ANNA FREUD, H. HARTMANN, E. KRrs, E.A. SPITZ e altri, 8 voli., New York I945-I953; In., Ego prychology and the problem of adaptation, New York I95 8 (trad. it., Torino I966). A. FREUD, Le traitement prychoana{ytique des enfants, Parigi I95 I; In., The ego and the mechanisn; of defence, Londra I966; In., Normalità e patologia del bambino, Milano I969. ]. BAWBLY, Soins maternels et santé mentale, I952 (trad. it., Firenze I957); AuTORI VARI, a cura di MÉLANIE KLEIN, PAULA HEIMANN, RoGER MoNEY-KYRLE, New directions in prycho-analysis, Londra I95 5 (trad. it., Nuove vie della psicoanalisi. Il significato del conflitto infantile nello schema del comportamento dell'adulto, Milano I 966); B.H. BArSER (a cura di), Psycotherapy of the adolescent, New York 1957 (trad. it., Torino 1969); A. NEILL, Summerhill, a radica! approach to chi/d rearing, New York I96o (trad. it., Milano I97o); ]. DoLLARD, L.W. DooB, N.E. MrLLER, O.H. MowRER, R. SEARS, Frustration and aggression, New Haven-Londra I963 (trad. it., Firenze I967); E.H. ERIKSON, Childhood and society (n ed.), New York I<j63 (trad. it., Roma I966); G. LAPASSADE, L'entrée dans la vie. Essai sur l'inachèvement de l'homme, Parigi I963 (trad. it., Il mito dell'adulto, Bologna I97I); J.M. JossELYN, Psychosocial developement of children, New York, s.d. (trad. it., Firenze I965); s. FREUD, Psicoanalisi infantile (trad. it. di quattro saggi: del
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CAPITOLO TERZO La filosofia italiana contemporanea
I-II. In questa bibliografia non riportiamo le opere degli autori, avendo già segnalato gli scritti più significativi nei singoli paragrafi. Inoltre fra i molti testi sui singoli autori sono stati scelti solo i più importanti o aggiornati, a cui si rinvia per le ulteriori indicazioni bibliografiche. A. MAROS DELL'ORo, Il pensiero scientifico in Italia ( I9JO-I96o), Cremona I963. Rassegne e bibliografie: P. FILIASI-CARCANO, Rassegna di filosofia della scienza, in «Rassegna di filosofia», I, I95 2; V. SoMENZI e P. FILIASI-CARCANO, Scritti italiani di filosofia della scienza, in «Rivista critica di storia della filosofia», 6, I95 3; P. SELVAGGI, Cinquant'anni di filosofia della scienza in Italia, in « Atti » del!' Accademia delle scienze di Torino, 88, I954; V. SoMENZI, Scritti italiani di filosofia della scienza, in« Rivista critica di storia della filosofia», 6, I954; In., l fondamenti filosofi'ci della meccanica quantistica, in «Rivista critica di storia della filosofia», I, I95 5; A. CARUGO, Sui rapporti tra progresso tecnico e pensiero scientifico, in « Studi storici », 4, I 960; F. BARONE, Alcuni sviluppi nella filosofia della scienza, in «Cultura e scuola», 7, I963; S. CARAMELLA, La filosofia della scienza in Italia nel decennio I9J6-I96J, in «Cultura e scuola», 17, I966; F. BARONE, Studi italiani sulla filosofia negli Stati Uniti dal I94J ad Olf_gi, in « Cultura e scuola», 28, I968. Su G. Peano: AuTORI VARI, In memoria di G. Peano, Cuneo I95 5 (con contributi di B. LEVI, B. SEGRE, F. BARONE, L. GEYMONAT, e altri, raccolti da U. Terracini). Su F. Enriques: AuTORI V ARI, Commemorazione di F. Enriques, in «Atti» del!' Accademia delle scienze di Torino, vol. I05, I97I, pp. 767-803; V. CAPPELLETTI, F. Enriques (187I-I946) nel centenario, in « Veltro », I97I, pp. 573-582; L. LoMBARDO-RADICE, Battaglie, sconfitta e vittoria di F. Enriques, in« Scientia », I97I, pp. I83-I88; L. GEYMONAT, F. Enriques e la storia della scienza, in «Atti» del Convegno internazionale su F. Enriques, organizzato dall'Accademia dei Lincei, Roma I972, di AuTORI VARI; M. CASTELLANA, Enriques e Bachelard: due epistemologie razionalistiche, in « Protagora >>, 85-86, I973, pp. 49-65. Su A. Pastore: A. ALIOTTA, La teoria dei modelli meccanici, in« La cultura filosofica», 6, I 907; Autopresentazione in AuTORI V ARI, Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. SciACCA (n ed.), Milano I946; G. BoNTADINI, Caratteri della filosofia contemporanea, cit. Su A. Aliotta: Autopresentazione in Filosofi italiani contemporanei, d t.; AuTORI VARI, Lo sperimentalismo di A. Aliotta, Napoli I95 I; N. ABBAGNANO, A. Aliotta ( I88II966), in «Rivista di filosofia», 4, I964; P. PALLA VICINI, Il pensiero di A. Aliotta, Napoli I968; c. CARBONARA, A. Aliotta e la reazione idealistica contro la scienza, in ((Logas », I, I 970. m. Sulla situazione politica e la cultura degli anni Trenta, segnaliamo questi scritti: R. DE GRADA, Il movimento di corrente, Milano I95 3; N. BoBBIO, Cultura e costume fra il 'JJ e il '40, in «Terzo programma», 2, I962, pp. 280-292; M. VALSECCHI, Gli artisti di corrente, Milano I963; G. LuTI, Letteratura del ventennio fascista, Firenze I972; U. SILVA, Ideologia e arte del fascismo, Milano I973; AuTORI VARI, Fascismo e società italiana, a cura di G. QuAZZA, Torino I973; A. FoLIN (a cura di), So/aria. Letteratura. Campo di Marte,
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Bibliografia v. Su A. Banfi: Autopresentazionc in AuTORI V ARI, Filosofi italiani contemporanei,
cit.; La mia prospettiva filosofica, cit.; J_a filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, cit. Inoltre indichiamo le seguenti opere: E. PAci, Pensiero, esistenza e valore, Milano-Messina I94o; G.M. BERTIN, Banfi, Padova I943; B.L. PASQUETTO, Il pensiero di A. Banfi, in «Rivista di filosofia neoscolastica », I946; A. VASA, La problematica di razionalismo critico e pragmatismo sociale in A. Banfi e nella sua scuola, in « Rivista di storia della filosofia», I948; AuTORI VARI,in «Aut Aut», gennaio-marzo I958(dedicato aBanfi,conampia bibliografia; contributi di R. CANTONI, G.M. BERTIN, D. FoRMAGGIO, L. RoGNONI, E. PACI, L. ANCESCHI, P. Rossi, G.D. NERI, F. PAPI); G.M. BERTIN, L'idea di ragione e il pensiero etico-pedagogico di A. Banfi, Roma I96I; F. PAPI, Il pensiero di A. Banfi, Milano I96I (lo studio più completo con ampia bibliografia); C. CoRDIF., Appunti bibliografici su A. Banfi nel decennio della morte ( 1957-67), in « Paideia », 4, I 967; AuTORI V ARI, Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo, « Atti » del Convegno di studi banfiani, Firenze I 969, 5 I 8 pp. (trentasei fra relazioni e interventi; sono aggiunte centoquindici voci alla bibliografia di F. Papi, a cura di C. CoRmÉ); A. TRIONE, Esteticità e filosofia dell'arte in A. Banfi, in « Logos », I, I969; A. CAMOZZI, Storicismo marxiano e problemi della cultura in A. Banfi, in «Studi urbinati », n. I, I972, pp. I78-I9o; C. CoRDIÉ, A. Banfi agli inizi della carriera universitaria ( 19 JO-JJ), in « Ricerche pedagogiche», 2 5, I 972, pp. 32-39; L. RosSI, Situazione dell'estetica in Banfi, in« Il V erri», 3, I973, pp. I20-I44· VI-VII. Sui caratteri generali del periodo, con particolare attenzione ai limiti della Costituente, segnalo i primi due studi: AuTORI V ARI, La ricerca filosofica nella coscienza delle nuove generazioni, Bologna I 9 57; L. GEYMONAT, Filosofia e filosofia della scienza, Milano I96o; L. GEYMONAT-P. FILIASI-CARCANO-A. Guzzo, Sapere scientifico e sapere filosofico, Firenze I 96 I ; AuTORI V ARI, La filosofia di fronte alle scienze, Bari I 962; E. FROLA, Scritti metodologici, introd. di L. GEYMONAT, Torino I964; A. PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Milano I 964; G. SEMERARI, Il neo illuminismo filosofico italiano, in Esperienze del pensiero moderno, Urbino I969, pp. 273-293; D. NovAcco (a cura di), La Ia legislatura del parlamento della repubblica, Palermo I97I; E. GARIN, A. Banfi e Studi filosofici, in Intellettuali italiani del xx secolo, cit., pp. 24I-264; A. GAMBINO, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, Bari I975; G. CAROCCI, Storia d'Italia dall'Unità ad ogf!,i, Milano I 97 5 ; AuTORI V ARI, 19 45-197 J. Italia. Fascismo-antifascismo-resistenza-rinnovamento, Milano I975; S.J. WooLF (a cura di), Italia 194]-JO. La Ricostruzione, Bari I975· Sul « Politecnico » ci sono due antologie: La polemica Vittorini- Togliatti e la linea culturale del PC! nel 1945-47, testi con interventi di AuTORI VARI, Milano I974 (con appunti bibliografici di guida), e Il« Politecnico», a cura di M. FoRTI e S. P AUT ASSO, Milano I 97 5 (con essenziale bibliografia). Inoltre, F. FoRTINI, l dieci inverni. Contributo ad un discorso socialista, Milano I 9 57; A. Gumucci, Dallo zdanovismo allo strutturalismo, Milano I 967; G. ScALI A, Critica, letteratura, ideolo,f!,Ìa, Padova I 968; M. ZANCAN, Il « Politecnico» settimanale (settembre 194;-aprile 1946), in« La rassegna della letteratura italiana», 2-3, I 972, pp. 4I 2-430; S. PICCONE-STELLA, Intellettuali e capitale nella società italiana del do-· poguerra, Bari I972; F. FoRTINI, «Il Politecnico», un discorso aperto, in «Libri nuovi», VIII, I, I97D (intervista). Su «Società» e« Il Contemporaneo»: A. LEONE DE CASTRIS (a cura di), Critica politica e ideologia letteraria. Dall'estetica del realismo alla scienza sociale 1945-1970, Bari I973; E. CoLORNI, Scritti, introd. di N. BoBBIO, Firenze I975 (con completa bibliografia di e sull'autore).
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Bibliografia
V. FoA, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in « Rivista di storia contemporanea», 4, 1973, pp. 433-45 5; M. LEGNANI, Restaurazione padrona/e e lotta politica in Italia 19 45-19 48: ipotesi di lavoro e dibattito storiografico, in «Rivista di storia contemporanea», r, 1974, pp. 1-27; C. PAVONE, Sulla continuità dello stato nell'Italia I94J-4J, in «Rivista di storia contemporanea», 2, 1974, pp. 172-205; S. MERLI, Fronte antifascista e politica di classe, Bari 1975· vm. Sull'esistenzialismo italiano: E. GARIN-E. PACI-P. PRINI, Bilancio della fenomenologia e dell'esistenzialismo, Padova r 960; A. SANTUCCI, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1967. La bibliografia generale più completa è quella di V.A. BELLEZZA, Studi italiani sull'esistenzialismo, in AuTORI VARI, L'esistenzialismo, in «Archivio di filosofia», 1946, pp. 163-217. Inoltre A. NEGRI, Studi italiani sull'esistenzialismo dal 1945 ad opgi, in «Cultura e scuola», 30, 1969. Su N. Abbagnano, si veda il volume curato da B. MAroRCA, Bibliografia degli scritti di e su N. Abbagnano (I92J-I97J), Torino 1974, 222 pp. Segnaliamo questi scritti: M. DAL PRA, Il pragmatismo assiolotJco di N. Abbagnano, in « Rivista di storia della filosofia», 3-4, 1948; G. MORPURGO TAGLIABUE, La struttura del trascendentale, Milano 1951; A. PALA: Antimetajìsica e metafisica del positivismo logico, in «Annali» della facoltà di lettere e filosofia, magistero dell'Università di Cagliari, 195 5; G. GIANNINI, L'esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, Brescia I 9 56; G. LADRILLE, À propos de l' existentialisme de N. Abbagnano, in « Salesianum », r 9 57; A.M. SrMONA, La notion de liberté dans l' existentialisme positif de N. Abbagnano, Friburgo r 962; V.N. PASQUA, Il nuovo illuminismo di Abbagnano, in ((Filosofia e vita», 4, 1968; s. TRAVAGLIA, La nozione di possibilità nel pensiero di N. Abbagnano, Padova 1969; A. DENTONE, La possibilità in N. Abbagnano, Milano 1971; A. QuARTA, Esistenza, scienza, società nella filosofia di N. Abbagnano, in « Protagora-Saggio », 5, 197 r. Su P. Prini: G. DALMosso, Fenomenologia ed ontologia in Prini, in« Rivista di filosofia neoscolastica », 1968. Su P. Chiodi: G. GAMBANO e F. REMOTTI (a cura di), Bibliografia st1 e di P. Chiodi, in « Rivista di filosofia », 4, 1970. Su A. Massolo: AuTORI VARI, Studi in onore di A. Masso/o, in «Studi urbinati », 2 voli., 1967. Su A. Vedaldi: S. PoLACCO, Profilo di A. Veda/di, in « Rivista di filosofia», 4, 1961, pp. 429-460 (con bibliografia). rx. Sullo spiritualismo e il neotomismo italiani segnaliamo i seguenti scritti di carattere generale: G. VAN RIET, L'épistémologie thomiste. Recherches sur le problème de la connaissance dans l'école thomiste contemporaine, Lovanio 1946; N. INCARDONA, Problematica interna dello spiritualismo cristiano, Milano 195 2; F.P. ALESSIO, Studi sul neospiritualismo, Milano 19 53; C. FABRO, Nuove interpretazioni del tomismo, in « Rassegna di filosofia », 3, 195 3; In., Tomismo e pensiero moderno, in« Rassegna di filosofia», 4, 195 3; F. BATTAGLIA, M orale e storia della prospettiva spiritualistica, Bologna 19 54; E. Dr CASTRO, Rasse/!,na di .rtudi sul concetto di persona (pubblicazioni italiane postbelliche), in « Rassegna di filosofia », 1954; M.T. ANTONELLr-V. MATHIEu-V. SAINATI, Il neospiritualismo italiano: Carlini, Guzzo, Sciacca, in «Giornale di metafisica», 195 5; G. BoNTADINI, Spiritualismo cristiano e metafisica classica, in « Giornale critico della filosofia italiana », 19 55 ; N. LICCIARDELLO, Teoria dello spiritualismo integrale, Padova 19 55; G. CAMPANINI, Il problema del valore nello
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Bibliografia
spiritualismo italiano contemporaneo, in « Giornale di metafisica», I962.; GARAJA, Critica dello pseudo-razionalismo neotomistico, in « Voprosy filosofii », I 966; R. SPINAZZI, Prospettive del tomismo dopo il Concilio, in «Responsabilità del sapere», 82., I967; C. DoLLO, Momenti e problemi dello spiritualismo (Varisco, Carabellese, Carlini, La Senne), Padova I967; P.P. 0TTONELLO, Sullo spiritualismo cristiano italiano dal dopoguerra ad OJ!,gi ( 19461972}, in« Cultura e scuola», I972., pp. 82.-92.; A. NEGRI, «Filosofia attuale e filosofia cattolica in Italia. Appunti sulla cosiddetta destra attualista», in Studi in onore di G. Bontadini, Milano I975· Scritti su alcuni autori, nell'ordine: E. CERIOLI, Il problema della personalità umana e della personalità divina nello spiritualismo trascendentale di A. Carlini, Milano I937; L. PAREYSON, Preesistenzialismo di A. Carlini, in Studi sull'esistenzialismo, Firenze I943, pp. 2.93-432.; G. DELLA VoLPE, Lo spiritualismo italiano contemporaneo. 1. La filosofia di A. Carlini, Messina I949; G. GALLI, Sul pensiero di A. Carlini e altri studi, Torino I95o; G. MrcHELETTI, A. Carlini: la trascendmtalità esistenziale, in« Filosofia», I97o; S. ALBERIGI, Originalità storica e limiti speculativi nel pmsiero di A. Carlini rispetto alle istanze spiritualistiche, in« Rivista rosminiana », I97I, pp. 2.II-2.I7; G. RIGHI, A. Carlini nella critica italiana, in« Giornale di metafisica», I973, pp. 337-362.. G. MARCHELLO, F. Battaglia, Torino I953; P. PIOVANI, Sulla prospettiva filosofica di E.P. Lamanna, Torino I96z.; AuTORI VARI, L. Lazzarini, Torino I963. AuTORI VARI, Studi sul pensiero di M.F. Sciacca, Milano I959; P.P. 0TTONELLO (a cura di), Bibliografia di M.F. Sciacca, Milano I969; AuTORI V ARI, La filosofia dell'integralità: M. F. Sciacca, in «Atti» del IV Congresso regionale di filosofia, z. voli., Messina I973· AuTORI VARI, A. Guzzo, Torino I954; P. FruAsr-CARCANO, L'evoluzione della scienza e la concezione della natura nel pensiero di A. Guzzo, in « Giornale critico della filosofia italiana », I 9 58, pp. 5I o- 540; A. Dr LAsCIA, L'antropologia filosofica di A. Guzzo, in« Rivista rosminiana », I96o, pp. I2.4-I37 e I78I95. M. GENTILE, L. Stejànini, in « Studia patavina », I956, pp. 36I-3 74; AuTORI V ARI, Scritti in onore di L. Stefanini, Padova I96o; A. RrGOBELLO, Struttura e significato, Padova I971. D. FoRMAGGIO, I problemi dell'estetica in L. Parryson, in Studi di estetica, 1962., pp. I2.5-143; G. SANTINELLO, Estetica della forma, Padova 1962.; L. BARILLI, Per un'estetica mondana, Bologna 1964. M. GENTILE, L'itinerario filosofico di U. Padovani, in« Bollettino filosofico », 8, 1968; A.M. MoscHETTI, L'itinerario ascetico di U.A. Padovani, in « Atti e memorie» dell'Accademia patavina di scienze, lettere ed arti, vol. LXXXII, 1969-70, pp. 143-I66. R. V. CRISTALDI, Profilo della critica bontadiniana, in« Teoresi », I973, pp. 79-I2.5; AuTORI V ARI, Studi in onore di G. Bontadini, Milano I975, 2. voli. (con completa bibliografia di e sull'autore, pp. 543-599). AuTORI VARI, Scritti in onore di C. Giacon, Padova I972. (con bibliografia completa); E. CLERICI, Monsignor F. 0/giati: l'apologeta e il polemista, Milano I972.. G. GrACON, Il movimento di Gallarate. I dieci convegni dai194J aii9J4, Padova I955; A. BABOLIN, Il movimento di Gallarate. I dieci convegni dal I9JJ al I96J, Bologna I966. x. La bibliografia degli Scritti italiani su Husserl è segnalata da M. Cucchi, in « Aut Aut», 54, I959, PP· 43 I-4H· Su E. Paci: Autopresentazione in La mia prospettiva estetica, cit. e La filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, cit.; P. CARUSO, Fenomenologia e dialettica platonica in Paci, in« Il V erri», I96o, pp. 78-9I; E. GARULLI, La phénomenologie de Husserl vue parE. Paci, in« Revue de métaphisique et de morale», I96z.; G. SEMERARI, Da Schelling a Merleau-
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Bibliografia Ponty, Bologna I962, pp. 234-246; P. SALvuccr, SaJzgi, Urbino I963, pp. r85-2I8; F. RrvERSO, La ftlosofta OJ!gi, Roma I97I. Su G.M. Bertin: G. FRANCIONr, Il problematicismo pedagogico del Bertin nell'educazione alla socialità, in« I problemi della pedagogia», I967, pp. 37I-38o. Su Anceschi: L. MARINO, in «Rivista di filosofia», I968, pp. 99-IOI. Su Formaggio: G. ScARAMUZZA, Il senso dell'arte, in AuTORI VARI, Logica e semantica ed altri satJ!.i, Padova I975, pp. 89-97. Su R. Cantoni: Autopresentazione in La ftlosofta contemporanea in Italia, cit. xr. F. Rossi-LANDI e V. SoMENZr, La ftlosofta della scienza in Italia, in La ftlosofta contemporanea in Italia, cit., pp. 407-432; A. PASQUINELLI, La ftlosofta analitica in Italia, ibid., pp. 209-23 5; N. BoBBIO, Empirismo e scienze sociali in Italia, in «Atti» del xxrv Congresso naz.le di filosofia, vol. r. Relazioni introduttive, Roma I973, pp. II-32 e Per un bilancio dell'empirismo, ibid., vol. n, tomo 1. Comunicazioni, Roma I974, pp. 3 I 5-324. Su G. Preti: La discussione su Praxis ed empirismo in« Passato e presente», annata I95 8; C. LuPORINI, Marxisn1o, neopositivismo e altre cose, in «Il contemporaneo», Io, I95 9, pp. 3-22; G. MoRRA, Ilproblema morale nel neopositivismo, Manduria I962; E. MrGLIORINI, Il pensiero axiologico di G. Preti da « Praxis ed empirismo» a «Retorica e logica», in « Atti» del xxrv Congresso naz.le di filosofia, cit., vol. n, tomo I, pp. I8-25; F. ALESSIO-M. DAL PRA-E. GARIN, Ricordo di G. Preti, in «Rivista critica di storia della filosofia», 4, I974, pp. 432-447· Su L. Geymonat: V. CAPPELLETTI, La critica del positivismo nell'opera di L. Geymonat, in «La nuova critica», 4, I95 5; ]. Wu CHANG-TEH, Dal neopositivismo allo storicismo scientifìco, l'evoluzione ftlosojìca di L. Geymonat, Roma I97o; F. NuzzAcr, Il neorazionalismo di L. G~ymonat, in« Il Protagora-Saggio », vr, I972. R. AMENDOLAGINE, Il pensiero di P. Filiasi-Carcano, Roma I961. xn-xm. N. MATTEUCCI, La cultura italiana e il marxisllJO dal 1945 al 19 J I, in «Rivista di filosofia», I, I953; N. LoDA, La divergenza odierna sul marxismo (I9JO-I9J2),in «Rassegna di filosofia», I954; F. FERGNANI, Discussioni italiane sul marxismo, in« Rivista di filosofia», I 962; A. NEGRI, Gli studi italiani su Marx dal 1945 ad O/!J!,Ì, in «Cultura e scuola», 22, I967; L. GRUPPI, Note sulla politica cultumle del partito del dopoguerra, in «Critica marxista. Quaderni», 5, I 972; AuTORI V ARr, Il marxisn1o italiano degli anni sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Roma I972; F. CASSANO, Marxismo e ftlosofta in Italia ( I9JS-I97T), Bari I973; G. VACCA (a cura di), Politica e teoria nel marxismo italiano I9J9-I969, Bari I974 (n ed.). Su C. Luporini: D. CANTIMORI, Studi di storia, Torino I959, pp. 399-407; A. MAsSOLo, Logica hegeliana e .filosofia contemporanea, Firenze I962, pp. 143-I67; S. TrMrANARO, Classicismo e il!utninismo nell'Ottocento italiano, Pisa I965; P. SALVUCCI, SaJ!,!!,Ì ftlosoftci, Urbino I965; S. LANouccr, in« Belfagor », 2, I975, pp. 235-239. Su Della Volpe: Autopresentazione in La ftlosofta contemporanea in Italia, cit.; G. PRESTIPINO, L'arte e la dialettica in Lukdcs e G. Della Volpe, Messina 196I; M. Rossi, G. Della Volpe. Dalla gnoseologia critica alla logica storica, in « Critica marxista », 4-5, I968; N. MERKER, Per una valutazione di G. Della Volpe teorico del marxismo, in «Rivista critica di storia della filosofia», 1970, pp. 315-317; G. VAccA, Scienza, stato e critica di classe. G. Della Volpe e il marxismo, Bari I97o; G. PRESTIPINO, La scuola di Della Volpe: ftlosofta e concezione dello stato, in« Critica marxista », 4, 1971, pp. 49-69.
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Bibliografia Su Macchioro: P. BARuccr, Considerazioni a proposito di una «Storia del pensiero economico», in «Rivista int. di scienze sociali», 2-3, 197I; F. BoTTA, in «Rinascita», 17 settembre 1971.
CAPITOLO QUARTO
Biologia e filosofia Per i problemi teorico-scientifici, metodologici e filosofici che interessano la biologia del '9oo molto importante è la Bibliographia Biotheoretica, pubblicata in molti volumi dal 1925 da Leiden (E.J. Brill editore). Panorami sui vari settori in B. DAwAs, A hundred year.rOJ blology, Londra 19 52; ANONIMI, A century of progress in natura/ sciences, Californ. A. Se., San Francisco, I95 5; A. PoRTMANN, Biologia e Antropologia, in «I Propilei », Grande storia universale, vol. IX, Milano I966. Scritti di carattere generale sui problemi filosofici e metodologici della biologia: E. v. HARTMANN, Das Problem des Lebens, Berlino I9o6; J. ScHULTZ, Die Philosophie des Organischen, in« Jahrbuch der Philosophie », I9I3; J. ScHAXEL, Grundziige der theorienbildung in der Biologie, Jena 19I9; E. RIGNANO, Che cos'è la vita, Bologna I926; J.H. WooDGER, Biologica/ principles, Londra I929; J. NEEDHAM, The sceptical biologist, Londra I929; E.S. RussELL, The interpretatiot1 of development and heredity, Oxford I93o; L. HoGBEN, The nature of living matter, Londra I93o; H. DRIESCH e H. WoLTERECK (a cura di), Das Lebensproblem, Lipsia I93 I; L. VON BERTALANFFY, Theoretische Biologie, Berlino 1932; M. PRENANT, Biologie et marxisme, Parigi I934; W. Mc DouGALL, The riddle of /ife, Londra I938; M. CANELLA, Orientamenti della biologia moderna, Bologna I939; R. S. LrLLIE, Generai biology and philosopf[y of organism, Chicago I945; TH. BALLAUFF, Das Problem des Lebendigen, Bonn I949; E. MAY, Elementi di filosofia della scienza, Milano I95 I; G. CANGUILHELM, La connaissance de la vie, Parigi I95Z; L. VON BERTALANFFY, Problems of /ife, Londra I95 2; E. CALLOT, Philosophie biologique, Parigi I957; E. CAsSIRER, Storia della filosofia, vol. IV, Torino I95 8; M. BECKNER, The biologica/ wtry of thought, New York I959; G. BLANDINO, Problemi e dottrine di biologia teorica, Torino I96o (con bibliografia); AuTORI VARI, La vie et l'évolution, in« Recherches internationales à la lumière du marxisme », I96I; C.H. WADDINGTON, The nature of /ife, Londra I96I; G.G. SIMPSON, This view of /ife, New York I963; P.B. MEDAWAR, L'immaginazione scientifica, Bari I968; E. NAGEL, La struttura della scienza, Milano I968; J.G. GoODFIELD, Theories and f[ypothesis in biology, in « Boston studies in the philosophy of science »,vol. v, Dordrecht I969; W.J. VAN DER STEEN, The relation of biology to pf[ysics and chemistry - An evaluation of some recent issues in the philosopf[y of science, in « Acta Biotheoretica », I 970 (con bibliografia); E. UNGERER, Fondamenti teorici delle scienze biologiche, Milano I972 (con bibliografia molto estesa). Sul meccanicismo biologico si veda: O. HERTWIG, Zeit-und Streitfragen der Biologie: Priiformation oder Epigenese?, Jena 1894; Io., Mechanik und Biologie, Jena I897; W. Roux, Die Entwicklungsmechanik, Lipsia I905; P. JENSEN, Organische Zweckmassigkeit, Jena I907; J. ScHULTZ, Die Maschinentheorie des Lebens, Gottingen 1909 (n ed., Lipsia I929); S. LEouc, Théorie pf[ysico chimique de la vie, Parigi I91o; O. LEHMANN, Die neue Welt der fliissigen Kristalle, Lipsia I 9 I I; W. Roux, Ueber kausale und konditionale Weltanschauung,
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Bibliografia
Lipsia I9I3; L.J. HENDERSON, Mechanism from the standpoint of p~ysica! science, in « Philosophical review », I 9 I 8; F. LE DANTEC, La « mécanique » de la vie, Parigi I 924; H. PRZIBRAM, Die anorganische Grenzgebiete der Biologie, Berlino I926. Altri scritti di M. VERVORN: Scienza naturale, Milano I905; L'ipotesi del Biogeno, Milano I905. Altro scritto di J. LOEB: Fisiologia comparata del cervello e psicologia comparata, Palermo I907. Su quest'autore: D. FLEMING, Introduzione a J. Loeb, The mechanistic conception of !ife, Cambridge, Mass., I 964. Ampia bibliografia sul problema dell'origine della vita in A.I. 0PARIN, L'origine della vita sulla terra, Torino I956, e in J.D. BERNAL, The origin of !ife, Londra I967. Sulle critiche e discussioni relative al vitalismo: G. WoLF, Mechanismus und Vita!ismus, Lipsia I 902; PH. FRANK, Mechanismus und Vita!ismus, in « Ostwaldt Annalen », I9o8; O. ZuR STRASSEN, Zur Wider!egung des Vita!ismus, in « Archiv fiir Entwicklungsmechanik », I9o8; A. O. LoVEJOY, The meaning of Driesch and the meaning of vita!ism, in « Science », I9o9, I9I I, I9I2; W.E. RrTTER, The controversy between materia!ism and vita!ism, in « Science », I9I r; W.T. MARVIN, Mechanism versus vita!ism, in « Philosophical review », I9I8; M. HARTMANN, Biologie und Phi!osophie, Berlino I925; G. WoLF, Leben und Erkennen, Monaco I933; L.R. WHEELER, Vita!ism its history and va!idity, Londra I939· Si ricorda di H.S. ]ENNINGS, Doctrines held as vitalism, in « Yhe american naturalist », I913, e Mechanism and vitalism, in« Philosophical review », 19I8. Sull'antimeccanicismo e sugli indirizzi dell'organicismo, olismo ed emergentismo specialmente nei paesi anglosassoni: L. I. HENDERSON, The fitness of the environment, New York I913; W.E. RrTTER, The unity oforganism, Boston I9I9; W.M. WHEELER, Emergent evo!ution, Londra I927; W. Mc DouGALL, Modern materialism and emergent evolution, Londra I929 (trad. it., Verona I947); W.E. RrTTER, J.S. HALDANE, E.S. RussELL, J. NEEDHAM e altri, Historical and contemporary relationship of physical and biologica! sciences, in « Archeion », I932; W.E. AGAR, Whitehead's philosopf(y of organism, in « Quarterly review ofbiology », I936; Io., The concept ofpurpose in bio!ogy, ibid., I938; T. GREENWOOD, Le principe de l'évo!ution émergente, in « Sigma », I948; D.C. PHILIPS, Organicism in the late nineteenth and ear!y twenteenth centuries, in « J ournal of history of ideas », I 97 r. Si ricorda di J.S. HALDANE: Life and mechanism, in « Mind », 1884; Mechanism, !ife and personality, Londra I913; The new P~J'Siology, Londra I9I9; The philosophical basis of biology, Londra I93 r. Su quest'autore, W. Mc DouGALL, The philosophy of].S. Ha/dane, in « Philosophy », I936. Ricordiamo fra i moltissimi scritti di A. MEYER (Abich), ldeen und Ideale der biologischen Erkenntniss, Lipsia I934, e L'idée du ho!isme, in « Scientia », I93 5. Inoltre di J.C. SMuTs-J.S. HALDANE, The nature of /ife, in« Reports of the British Association », Cape Town I929. Degli scritti di C. L. MoRGAN riportiamo: Emergent evo!ution, Londra I923; Naturalisme et vie, in « Scientia », I925; The emergence of novel(y, Londra I933· Fra quelli di E.S. RussELL: Vita!ism, in «Scientia», I9II; The question ojvitalism, ibid., I924; Finalità nelle attività organiche, Firenze I950. Sull'indeterminismo fisico e la biologia: E. MAY, Zur Frage der Uberwindung des Vitalismus, in « Zeitschrift fiir die gesamte Naturwissenschaft », I 9 38; F. MoNDELLA, Sui rapporti fra fisica quantistica e principi generali della biologia, in « Il pensiero », I 9 57. Degli scritti di R. S. LrLLIE riferiamo: The nature of vitalistic dilemma, in « The journal of philosophy », I926, e Pf(ysical indeterminism and vitalaction, in « Science », 1927. Fra gli scritti di P. JoRDAN, Die Pf(ysik und das Geheùnniss des Lebens, Braunschweig 1941. Sulle filosofie biologiche in Germania: K. GoLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus,
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Bibliografia
Haag I934; H. ANDRÉ, A. MOLLER e E. DACQUÉ, Deutsche Naturanschauung als Deutung des Lebendigen, Monaco I 9 3 5 ; inoltre H. ANDRÉ, Urbild und Ursache in der Biologie, Monaco I93 I; O. FEYERABEND, Das organologische Weltbild, Berlino I933; H. CoNRAD MARTIUS, Die « Seele >> der Pjlanzen, Breslau I934; R. WOLTERECK, Ontologie des Lebendigen, Stoccarda I 940. Degli scritti di R. H. FRANCÉ ricordiamo: Bios Die Gesetze der Welt, Monaco I92L Di quelli di K. GoEBEL, Organographie der Pjlanzen, Jena I928; di A. NAEF, Idealistische Morphologie und Philogenetik, Jena I9I9; di W. TROLL, Gesta/t und Urbild, Lipsia I941. Studi sugli autori trattati: M. ScHRÒTER, Edgar Dacqué, Leben und Werk, Monaco I946; F. MoNDELLA, Introduzione a J. VON UEXKULL, Ambiente e comportamento, Milano I 967. Sul problema della totalità e dell'organizzazione biologica: E. UNGERER, Die Teleologie Kants und ihre Bedeutung fiir die Logik der Biologie, Berlino I922; W. KòHLER, Zum Problem der Regulation, in« Archiv fiir Entwicklungsmechanik », I927; J. ScHAXEL, Das biologische Individuum, in« Erkenntniss », I93o; In., Das Weltbild der Gegenwart, Jena I932; In., Kritische Uebersicht der Theorien der ontogenetische Determination, Leiden I942. Di L. VON BERTALANFFY: The modern theories of development, Oxford I933; Il sistema uomo, Milano I97I; Teoria generale dei sistemi, Milano I97I (con ampia bibliografia). Su quest'autore A. BENDMANN, L. v. Bertalanffy Auffassung des Lebens, Jena I967. Su J. Woodger si veda J.R. GREGGe F.T.C. HARRIS (a cura di), Form and strategy in science, Dordrecht I964. Su organicismo e materialismo dialettico: J. NEEDHAM, Thoughts on the problem of biologica! organisation, in« Scientia », I932; In., Time the refreshing river, Londra I943; In., A biologist's view of Whitehead's philosop~y, in « The philosophy of A.N. Whitehead », a cura di P.A. ScHLIPP, New York I95 1. Di J.B.S. HALDANE si veda: Dialectical account of evolution, in « Science & Society », I937; Biology and marxism, « Modern Quarterly », I948; Science and !ife, Londra I968. Su quest'autore: K.R. DRONAMRAJU (a cura di), Ha/dane and modern biology, Baltimora I 968; R. W. CLARK, JBS: The !ife and work of Ha/dane, New York I969 (con una bibliografia quasi completa degli scritti). Sulla questione Lysenko si veda: J.S. HuxLEY, La genetica sovietica e la scienza, Milano I952; D. JoRAVSKY, The Lysenko affair, Cambridge, Mass., I97o; Z.A. MEDVEDEV, L'ascesa e la caduta di Lysenko, Milano I97L Sulla genetica: L.C. DuNN, A short history of genetics, New York I965; A.H. STURTEVANT, A history of genetics, New York I966; C. STERN, The continuiry of genetics, in « Daedalus », I97o; F. ]ACOB, La logica del vivente, Torino I97I; G. MoNTALENTr, Introduzione alla genetica, Torino I971 (con ampia e accurata bibliografia anche storica). Sul problema dell'evoluzione: Y. DELAGE e M. GoLDSMITH, Les théories de l'évolution, Parigi I927; G. BRUNELLI, Le teorie sull'origine e l'evoluzione della vita, Bologna I93 3; A. F. SHULL, Evolution, Londra I936; P. OsTOYA, Les théories de l'évolution, Parigi I95 I; G.G. SrMPSON, Il significato dell'evoluzione, Milano I 9 54; L. CuÉNOT, Teilhard de Chardin, !es grandes époques de son évolution, Parigi I95 8; TH. DoBZHANSKY, L'evo!ttzione della specie umana, Torino I965; J.S. HuxLEY, Evoluzione, la sintesi moderna, Roma I966; E. MAYR, L'evoluzione delle specie animali, Torino I970. In queste ultime tre opere bibliografia molto ampia.
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CAPITOLO QUINTO
La logica nel ventesimo secolo ( 1) Dato il carattere di quest'opera, ci sembra possibile dare una bibliografia relativamente « succinta», tenuto anche conto del fatto che una rassegna esauriente o anche soltanto ragionevolmente estesa, secondo i normali canoni bibliografici, ci porterebbe sostanzialmente alla compilazione di un volumetto. Adotteremo quindi i criteri seguenti: per la produzione fino al r 9 3 5 rimanderemo a un repertorio completo pubblicato da Church nel 1936-38; per la ricerca successiva segnaleremo alcune bibliografie esistenti, specificamente dedicate a un argomento o generali (almeno per un certo periodo). Premetteremo l'indicazione di alcune storie della logica e di alcuni manuali; successivamente, per il periodo coperto dalla bibliografia di Church, elencheremo alcune antologie apparse di recente, che rendono più agevole il reperimento del materiale. Per il periodo post-godeliano, invece, ci limiteremo a indicare le maggiori riviste esclusivamente dedicate alla logica, o che comunque siano rilevanti per questa disciplina, e alcune collane librarie che abbiano gli stessi requisiti. Quindi citeremo esplicitamente alcuni volumi di interesse generale e infine, suddividendole in base agli argomenti principali (teoria della ricorsività, semantica e teoria dei modelli, ecc.), daremo succinte informazioni sui manuali e le opere più rilevanti relativi a quell'argomento. Si noti che in generale tutte le opere citate contengono ampie bibliografie. Nella presente edizione le modifiche riguardano solo le eventuali traduzioni italiane di testi già citati nella prima e l'aggiunta di due volumi. Cominciamo allora con l'indicare alcune storie della logica. F. BARONE, Logica fortnale e trascendentale: I. Da Leibniz a Kant, II. L'algebra della logica, Torino 1957; E. CARRUCCIO, Matematica e logica nella storia e nel pensiero contemporaneo, Torino 195 8; D.D. RuNES, Dizionario di filosofia, Milano r 96 3; TADEUSZ KoTARBINSKI, Leçons sur l' histoire de la logique, Parigi 1964; N.I. STYAZHKIN, History of mathematical logic from Leibniz to Peano, Cambridge, Mass., 1964; A. DrMITRIU, /storia logicii, Bucarest 1969; R. FEYS e F.B. FrTCH, Dictionary of D'mbols of mathematicallogic, Amsterdam 1969; I.M. BocHENSKI, A history of formallogic (rr ed.), New York 197o; W. e M. KNEALE, Storia della logica, Torino 1972. Veniamo ora ai manuali: A. CHURCH, Introduction to mathematicallogic, vol. I, Princeton 1956; A. PASQUINELLI, Introduzione alla logica simbolica, Torino 1957; R. CARNAP, Introduction to symbolic logic and its applications, New York 1958; E. CASARI, Lineamenti di logica matematica, Milano 1959; W.V.O. QurNE, Manuale di logica, Milano 196o; E.W. BETH, I fondamenti logici della matematica, Milano 1963; E. AGAZZI, La logica simbolica, Brescia 1964; C. MANGIONE, Elementi di logica matematica, Torino 1965; J.R. SHOENFIELD, Mathematicallogic, Londra 1967 (ne è prevista entro il 1976 una traduzione italiana presso l'editore Boringhieri, Torino); J.W. RoBBIN, Mathematical logic. A first course, New York 1969; A. TARSKI, Introduzione alla logica, Milano 1969; R. RoGERS, Mathematicallogic and formalized theories, Amsterdam 1971; E. MENDELSON, Introduzione alla logica matematica, Torino 1972; M. L. DALLA CHIARA ScABIA, Logica, Milano 1974. La bibliografia di CHURCH cui si è accennato è l'ormai classica A bibliography of symbolic logic, in « The journal of symbolic logic »(questa rivista verrà d'ora in poi ab-
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Bibliografia
breviata in JSL), vol. I, n. 4, dicembre I936, con le successive Additions and corrections to « A bibliography of symbolic logic » pubblicate nella stessa rivista, vol. m, n. 4, dicembre I 9 38 (si noti che Church intende presentare « una bibliografia completa della logica simbolica per il periodo I 666- I 9 3 5 incluso »). Come detto, per il periodo coperto dalla rassegna di Church ci 1imiteremo a segnalare alcune antologie comparse di recente, relative a più autori o a· un singolo autore (e che in generale contengono, a loro volta, repertori bibliografici più maneggevoli); Cominciamo con alcune opere di riferimento generale: J EAN v AN HEIJENOOR T, From Frege to Gode!. A source book in mathematicallogic, I8J9-I9.JI, Cambridge, Mass., I967, che contiene le traduzioni inglesi dei principali scritti del periodo indicato tra cui scritti di FREGE, RussELL, RICHARD, ZERMELO, SKOLEM, HILBERT, BRouwER, HERBRAND, Go nEL ecc.; questo volume contiene inoltre una bibliografia pressoché completa degli autori considerati. In generale per la scuola polacca si può vedere S. McCALL (a cura di), Polish logic I920-I9)9, Oxford I967. Molto utile l'antologia di P. BENACERRAF e H. PuTNAM (a cura di), Philosoply of mathematics, New Jersey I964; traduzione di buona parte degli articoli ivi contenuti si trova in C. CELLUCCI (a cura di), La filosofia della matematica, Bari I 967, cui il curatore premette una interessante e aggiornata introduzione. Per RussELL citiamo Introduzione alla filosofia matematica, Milano I 962; l principi della matematica (n ed.), Milano I963; R.C. MARSH (a cura di), Logic and knowledge, Londra I956, di cui una traduzione italiana molto parziale è Logica e conoscenza, Milano I96I; alcu-'!i articoli non inseriti nella precedente traduzione il lettore potrà trovare in A. PASQUINELLI (a cura di), Il neoempirismo, Torino I969 e M.A. BONFANTINI (a cura di), B. RusSELL, Linguagg,io e realtà, Bari I 970; segnaliamo ancora La « teoria delle descrizioni» di Russell, in G.E. MooRE, Saggi filosofici, Milano I970. Per quanto riguarda PEANO ci limitiamo aricordare i tre volumi delle Opere scelte, a cura di U. CASSINA, Roma I957-59 e il Formulario matematico, riproduzione in facsimile dell'edizione originale, Roma I 960; su Peano segnaliamo A. TERRACINI (a cura di), In memoria di Giuseppe Peano, Cuneo I95 5, contenente studi di B. LEVI, G. Ascou, B. SEGRE, F. BARONE, L. GEYMONAT, T. BoGGIO, U. CASSINA, E. CARRUCCIO. Particolarmente significativo L. GEYMONAT, Peano e le sorti della logica in Italia, in « Bollettino dell 'uMI », serie m, anno XIV, n. I, marzo I 9 59, come pure dello stesso autore, per uno sguardo generale sul primo periodo da noi considerato, Storia e filosofia dell'unalisi infinitesimale, Torino I947· Per quanto riguarda PorNCARÉ segnaliamo le traduzioni italiane: Poincaré, Firenze 1949, che contiene una selezione di scritti curata da FRANCESCO SEVERI; La scienza e l'ipotesi, Firenze 1950; Il valore della scienza, Firenze I952 (n ed.). Per l'immediata prosecuzione del logicismo: L. CHWISTEK, The limits of science, Londra I948; R. CARNAP, Sintassi logica de/linguaggio, Milano 1961; F.P. RAMSEY, l fondamenti della matematica e altri scritti di logica, Milano I964. Su HILBERT e il formalismo: D. HILBERT, Gesammelte Abhandlungen, 3 voli., Berlino I935; ]. VON NEUMANN, Collected papers, vol. I, New York I96I; D. HILBERT e P. BERNAYS, Grundlagen der Mathematik, 2 voli. (n ed.), Berlino I968-7o; A.C. LEISENRING, Mathematicallogic and Hilbert' s e-simbol, Londra I 969; H. HERMES, Term logic with choice operator, Berlino I970; D. HILBERT, l fondamenti della geometria, Milano I 970; B. DREBEN, P. ANDREWS e S. ANDERAA, False lemmas in Herbrand, in « Bulletin of the american mathematical society » (BAMS), 69, I963, pp. 699-706; H. WEYL, Filosofia della matematica e delle scienze naturali, Torino I967; ]. VAN HEIJENOORT (a cura di), jacques Herbrand,
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Bibliografia
Écrits logiques, Parigi I 968; M.E. SZABO (a cura di), The collected papers of Gerhard Gentzen, Amsterdam I970. Estremamente interessante J.E. FENSTAD (a cura di), Selected works in logic by Thoralf Skolem, Osio I970, preceduto da una esauriente introduzione di H. W ANG. Altrettanto interessante E. C. LusCHEI, The logica/ systems of Lefniewski, Amsterdam I 962.; come pure L. BARKOWSKI (a cura di), fan Lukasiewicz selected works, Amsterdam I 970. Opera di respiro generale particolarmente indicata anche per il lettore non specialista, E. AGAZZI, Introduzione ai problemi dell'assiomatica, Milano I96I, che contiene in appendice la traduzione italiana della memoria di Godei del I93 I; volumetto divulgativo sulla stessa è quello di E. NAGEL e J.R. NEWMAN, La prova di GOdei, Torino I96I; sempre sullo stesso argomento particolarmente notevole il volumetto di A. MosTOWSKI, S entences undecidable in formalized arithmetik (An exposition of the theory of Kurt GOdei), Amsterdam I 964; un panorama generale offre invece J. LADRIÈRE, Les limitations internes des formalismes. Étude sur la signiftcation du théorème de GOdei et des théorèmes apparentés, Lovanio 1957. Un'antologia dei lavori fondamentali per la teoria della ricorsività nella sua prima fase è M. DAVIS (a cura di), The undecidable. Basic papers on undecidable propositions, unsolvable problems and computable function, New York I 96 5, che citeremo in seguito con (un); per una prima introduzione sull'argomento il lettore potrà consultare E. CASARI, Computabilità e ricorsività. Problemi di logica matematica, Milano I959· Per quanto riguarda i lavori di Tarski del primo periodo è preziosa l'antologia curata da J.H. WoonGER, Logic, semantics, metamathematics. Papers from 1923 to 1938 ~y Alfred Tarski, Oxford I956; la traduzione italiana della fondamentale memoria tarskiana sul concetto di verità ivi contenuta il lettore italiano potrà trovare in F. RIVETTI BARBÒ, L'antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo (da Peirce a Tarski), Milano I96I; un'ulteriore esposizione della propria semantica dà TARSKI in un articolo in L. LINSKY (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano I969. Un panorama storico sulla teoria degli insiemi è dato in A.A. FRAENKEL e Y. BAR HILLEL, Foundations of set theor:_y, Amsterdam I95 8; una buona esposizione elementare il lettore potrà trovare in T. SKOLEM, Abstract set theory, Notre Dame I 962.; alcuni punti particolari sono discussi in A. A. FRAENKEL, Teoria degli insiemi e logica, Roma I97o; una visione d'assieme assai interessante e ampia è quella presentata da W.S. HATCHER, Fondamenti della matematica, Torino I973· Estremamente interessanti per l'ampiezza e la profondità delle questioni fondamentaliste trattate sono i due volumi: E. CASARI, Questioni di filosofia della matematica, Milano I 964 e M. L. DALLA CHIARA ScABIA, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari, Milano I968. Segnaliamo infine due ottimi articoli aggiornatissimi l'uno di tipo generale l'altro più specifico: C. CELLUCCI, Concezioni di insiemi, in «Rivista di filosofia», LII, n. z, 197I e G. LoLLI, La teoria degli insiemi prezermeliana e l'assioma di rimpiazzamento, ibid., n. 3, I97I. Anche per quanto riguarda il periodo post-godeliano cominceremo intanto col segnalare un primo panorama generale in A. MosTOWSKI, The present state of investigations on the foundations of mathematics, Varsavia 195 5 e quindi, dello stesso autore, Thirry years of foundational studies. Lectures on the development of mathematical logic and the study of the foundations of mathematics in 1930-1964, Oxford 1966. Questo secondo volume, che richiameremo all'occorrenza con la sigla (MI), contiene sedici lezioni su praticamente tutti i campi della ricerca logico-matematica odierna ed è corredato da una dettagliata bibliografia relativa al periodo nominato nel titolo. Immediatamente accessibile al lettore italiano e anch'esso con ampia rassegna bibliografica, L. GEYMONAT, La metamatematica 573
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Bibliografia
dopo Hilbert, in« Atti del vn congresso dell'UMI »,Roma I965. Una recente visione d'insieme, per molti versi accessibile anche al lettore non specialista, è data da R. KLIBANSKI (a cura di), La philosophie contemporaine. Chroniques, I, II, III, Firenze I968; in particolare il primo dei tre volumi, che porta il titolo Logique et fondements des mathématiques offre un panorama storico-critico dello stato attuale della ricerca in ogni campo della logica con oltre trenta articoli firmati da alcuni fra i più prestigiosi studiosi del momento; ancora, ognuno di questi articoli è corredato di una bibliografia talora anche assai ampia e aggiornata. Veniamo ora ad indicare le riviste e le collezioni librarie di sicuro riferimento per le pubblicazioni di logica. Come si è già accennato sono oggi sempre più diffuse le pubblicazioni su questo argomento tanto a livello di articoli quanto di volumi. Ci limiteremo quindi a dare un'indicazione di alcune di esse particolarmente importanti e specifiche. Per le riviste: « Journal of symbolic logic » (JSL); « Annals of mathematical logic » (AML); « Zeitschrift fiir mathematische Logik und Grundlagen der Mathematik » (ZMLGM); « Fundamenta mathematicae » (FM); « Theoria » (r); « Studia logica» (sL); e la serie degli « Acta Philosophica Fennica » (APF). Per quanto riguarda le collane, il primo posto spetta di diritto alla serie « Studies in logic and the foundations of mathematics » della North Holland di Amsterdam che ha ormai pubblicato circa 70 volumi esclusivamente dedicati a temi logici; si può dire che questa collana- a parte l'ovvia maggior immediatezza offerta dalle riviste - dia il « polso » della situazione della ricerca logica attuale; assai interessante anche la serie Sinthese Library della D. Reidel di Dordrecht; della Springer di Berlino vanno ricordate le serie: « Die Grundlehren der mathematischen Wissenschaften in Einzeldarstellungen » (in essa compaiono ad esempio i classici di Hilbert-Ackermann, HilbertBernays, Schtitte ecc.); « Ergebnisse der Mathematik und ihrer Grenzgebiete », e la recente « Lecture notes in mathematics ». Altre collane da ricordare sono quella universitaria della V an Nostrand di Princeton e gli « Annals of mathematics studies » sempre di Princeton; della Gauthier-Villars di Parigi la « Collection de logique mathématique ». Fra le italiane ricordiamo la collana di filosofia della scienza di Feltrinelli a Milano e la recente serie di logica matematica dell'editore Boringhieri a Torino. Veniamo ora come detto a dare brevissime indicazioni sugli argomenti principali trattati nel corso del capitolo. Per la teoria della ricorsività, oltre ai già citati (un) e CASARI, indichiamo come manuali: M. DAVIS, Computabiliry and unsolvabiliry, New York I 9 58; s.e. KLEENE, Introduction to metamathematics, Amsterdam I 9 59; A. A. MARKOV, Theory of algorithms, Gerusalemme I962; H. RoGERS ]R., Theory of recursive functions and ejfective computabiliry, New York 1967 (ne è prevista una traduzione per la serie di Boringhieri); dello stesso autore un ottimo articolo panoramico, The present theory of Turing machine computabiliry, in J. HINTIKKA (a cura di), The philosophy of mathematics, Londra 1969; J.R. SHOENFIELD, Degrees of unsolvabiliry, Amsterdam I97I; H. HERMES, Enumerabilità, decidibilità, computabilità, Torino 1975; come riferimenti generali anche per recenti sviluppi si "9"edano vari articoli in J .C.E. DEKKER (a cura di), Recursive function theory, Providence, 1962; J.N. CROSSLEY e M.A.E. (a cura di), Formai ~stems and recursive functions, Amsterdam 1965; J.N. CROSSLEY (a cura di), Sets, models and recursion th1ory, Amsterdam I967; R.O. GANDY e C.N.E. YATES, Logic colloquium '69, Amsterdam I971. 574
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Bibliografia
Per la teoria dei modelli si vedano come manuali G. KREISEL e J .L. KRIVINE,
Elements of mathematicallogic (mode/ theor_y), Amsterdam I967; G. GRATZER, Universal algebra, Princeton I968; J .L. BELL e A. B. SLOMSON, Models and ultraproducts. An introduction, Amsterdam I 969; A. RoBINSON, Introduzione alla teoria dei modelli e alla metamatematica dell'algebra, Torino I974· Interessante riferimento storico è A.I. MALCEV, Collected papers, Amsterdam I97I, mentre il riferimento generale obbligato è W. AnmsoN e altri (a cura di), The theory of models, Amsterdam I965, estremamente utile anche perché contiene una bibliografia completa sull'argomento. Per l'algebra della logica L. HENKIN, La structure algébrique des théories mathématiques, Parigi I956; P.R. HALMOS, Algebraic logic, New York I962; H. RASIOWA e R. SIKORSKI, The mathematics of metamathematics, Varsavia 1963; L. HENKIN, J.D. MoNK e A. TARSKI, Cylindric algebras, Amsterdam I97L Per i linguaggi infinitari si veda C. R. KARP, Languages with expressions of infinite length, Amsterdam I 964; J. BARWISE (a cura di), The sintax and semantics of inftnitary languages, Berlino I968; H.J. KEISLER, Mode/ theory for inftnitary logic, Amsterdam 1971. Per l'analisi non standard si veda A. ROBINSON, Non-standard ana(ysis, Amsterdam I966; W. LuxEMBURG (a cura di), Applications of models theory to algebra analysis and probabiliry, New York I 969; M. MACHOVER e J. HIRSCHFELD, Lectures on non-standard ana(ysis, Berlino I969. Per quanto riguarda la teoria della dimostrazione si vedano in generale K. ScHUTTE,
Beweistheorie, Berlino 196o; G. KREISEL, A survry of proof theory, I, in JSL, 33, I968, pp. 3ZI-388; A survry of proof theory, II, in J.E. FENSTAD (a cura di), Proceedings of the second scandinavian logic rymposium, Amsterdam I97I, pp. I09-I7o; nello stesso volume si veda D. PRAWITZ, Ideas and results in proof theory, pp. 23 5-307; utile anche la lettura di G. KREISEL, Il programma di Hilbert, in CELLUCCI, cit.; si veda anche l'articolo di A. KINO in KLIBANSKI, cit.; per le applicazioni dei metodi di Gentzen ai linguaggi infinitari si vedano in particolare l'articolo di W. W. T AlT in J. BARWISE (a cura di), cit., pp. 204-236 e l'articolo di FEFERMAN in M.H. LèiB (a cura di), Proceedings of the summer school in logic, Leeds 1~67, Berlino I968, pp. I-Io8. Utile volume di riferimento generale per la teoria della dimostrazione e per l'tntuizionismo che sarà appunto il nostro prossimo argomento, è J. MYHILL, A. KINO e R.E. VESLEY (a cura di), Intuitionism and proof theory, Amsterdam I970. Accessibile riferimento d'obbligo sull'intuizionismo è A. HEYTING, Intuitionism. An introduction, Amsterdam I 972 (m ed.); quale riferimento generale si può indicare A. HEYTING (a cura di), Constructiviry in mathematics, Amsterdam I959; ci limitiamo ora a ricordare G. KREISEL, Mathematicallogic, in L.A. SAATY, Lectures on modern mathematics, New York I965; s.e. KLEENE e R.E. WESLEY, The foundation of intuitionistic mathematics, Amsterdam I965; M. C. FITTING, Intuitionistic logic, mode/ theory and forcing, Amsterdam I 969; A. TROELSTRA, Principles of intuitionism, Berlino I 969; P. MARTIN-LèiF, Notes on constructive mathematics, Stoccolma 197o; D. ScoTT, Constructive truth, in Symposium on automatic demonstration, Berlino 1970. Per gli aspetti della ricerca logica cui ci siamo limitati ad accennare nel capitolo, daremo anche qui dei riferimenti molto generali, rimandando per un panorama complessivo dei vari argomenti al già citato KLIBANSKI. Come ulteriori volumi generali qui ricordiamo il CROSSLEY e DuMMETT già citato (in particolare per gli articoli di KRIPKE, del quale ri\:ordiamo anche, in questo contesto, l'articolo nel fascicolo del I963 degli APF, Moda/ and matry valued logics, che è un utile riferimento per tutte le logiche non classiche). Come volumi generali ricordiamo inoltre J.W. DAvls e altri (a cura di), Philosophical
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Bibliografia
logics, Dordrecht I969; K. LAMBERT (a cura di), Philosophical problems in logic, Dordrecht I97o; per le logiche modali in particolare sono utili G.H. VON WRIGHT, An esscry in modallogic, Amsterdam I95 I; R. FEYS, Modallogics, Lovanio I965; G. E. HuGHES e M.J. CRESSWELL, Introduzione alla logica moda/e, Milano I973· Per quanto riguarda la teoria degli insiemi cominciamo intanto a citare alcuni manuali: P. BERNAYS e A.A. FRAENKEL, Axiomatic set theory, Amsterdam I968; K. KuRATOWSKI e A. MosTOWSKI, Set theory, Amsterdam I968; A.A. FRAENKEL, Abstract set theory, Amsterdam I968; J.L. KRIVINE, Théorie axiomatique des ensembles,Parigi I969; P.R. HALMOS, Teoria elementare degli insiemi, Milano I97o; J.D. MoNK, Introduzione alla teoria degli insiemi, Torino I972; A. ABIAN, La teoria degli insiemi e l'aritmetica transftnita, Milano I972; ci limitiamo ora a ricordare: K. GonEL, The consistenry of the axiom of choice and of the generalized continuum-lypothesis with the axioms of set theory, Princeton I 940; A. MosTOWSKI, Constructible" sets with applications, Amsterdam I969; P.J. CoHEN, La teoria degli insiemi e l'ipotesi del continuo, con appendice di G. LOLLI, Milano I973, fra lo sterminato numero di pubblicazioni dedicate alla teoria degli insiemi; come pure indichiamo fra i moltissimi volumi generali soltanto i seguenti: Y. BAR HILLEL (a cura di), Mathematicallogic and foundations of set theory, Amsterdam I97o; T.J. JECH, Lectures in set theory, Berlino I97I; D. ScoTT (a cura di), Axiomatic set theory, vol. I, Providence I97I, vol. n, a cura di T.J. ]ECH, id., I974· Come utile riferimento generale ricordiamo ancora al lettore italiano i volumi sopra citati di CASARI e DALLA CHIARA ScABIA, nonché i due articoli di LoLLI e CELLUCCI anch'essi già citati.
CAPITOLO SESTO
Problemi ftlosoftci della matematica e della fisica odierne Sui problemi di carattere generale della matematica si veda: S. EILENBERG-N. STEENROD, Foundation of algebraic topology, Princeton 195 2; H. CARTAN-S. EILENBERG, Homological algebra, Princeton I956; G. DEBREU, Axiomatic theory of value, New York I959; A. GROTHENDIECK-J. DIEUDONNÉ, Eléments de géométrie algébrique, Parigi I96o;. J. DIEUDONNÉ, Foundations of modern ana!Jsis, New York I96o (ed. frane., Parigi I965); F. LE LIONNAIS (a cura di), Les grands courants de la pensée mathématique, Parigi I962, con interventi e contributi di autori diversi, fra i quali segnaliamo: N. BouRBAKI, L'architecture des mathématiques (pp. 3 5-47); A. LAUTMAN, Symétrie et disrymétrie en mathématiques et en plysique (pp. 54-65); M. FRECHET, De l'espace à trois dimensions aux espaces abstraits (pp. I2I-I29); J. DIEUDONNÉ, David Hilbert (pp. 29I-297); A. WEIL, L'avenir des mathématiques (pp. 307-320); L. DE BROGLIE, Le role des mathématiques dans le développement de la pfysique moderne (pp. 398-4I2); J. DmuDONNÉ, Les méthodes axiomatiques moderneset /es fondements des mathématiques (pp. 543-5 55). Vanno inoltre segnalati, fra gli studi più recenti: S. MACLANE, The influence of M.H. Stone on the origins of the cathegory theory, in « Functional analysis and related fields », a cura di F.E. BROWDER, Berlino I968; H. NIKAIDO, Convex structures and economie theory, New York I968. Sulla personalità di Hilbert e la sua scuola si veda: C. REID, Hilbert, with an appreciation of Hilbert's mathematical work lry H. Wryl, Berlino-New York I97o. Non abbiamo citato la serie di fasci-
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Bibliografia
coli e volumi del BouRBAKI: tali fascicoli e volumi sono pubblicati da Hermann (Parigi) a partire dal I939· Riguardo all'assiomatizzazione, fra le opere di carattere generale vanno citate le seguenti, che affrontano anche alcuni problemi connessi con l'assiomatizzazione delle teorie empiriche: P. SuPPES, Introduction to logic, Princeton, N.J. I957; R. CARNAP, Introduction to {Jmbolic logic and its applications, New York I95 8; E. KYBURG ]R., Philosophy of science. A formai approach, New York I968. In particolare sull'assiomatizzazione della matematica si veda: J.R. SHOENFIELD, Mathematicallogic, Reading, Mass., I967; A.A. FRAENKEL-Y. BAR-HILLEL, Foundations of set theory, Amsterdam 1969. Per i rapporti tra la matematica moderna e il materialismo dialettico si veda l'articolo su questo argomento, pubblicato in occasione del centenario di Lenin da B.V. GNEDENKO, in « Uspehi mat. nauk », vol. xxv, n. z, I97o (trad. inglese in « Russian math. surveys »). Per informazioni sulla storia della fisica del Novecento si veda: L. RosENFELD, La première phase de l'évolution de la théorie des quanta,« Osiris », 1936; M. VON LAUE, History of physics, Academica Press 1950; P.G. BERGMANN, Basic theories of physics: heat and quanta, Prentice-Hall I95 I, Dover I962; M. HESSE, Forces and ftelds, Nelson and Sons I961. In particolare, di alcuni aspetti della storia della meccanica statistica si occupa C. TRUESDELL, Esstrys in the history of mechanics, Springer-Verlag I968. Tra i saggi e gli articoli dedicati alla storia della fisica quantistica, vanno citati: N. BoHR, Die Entstehung der Quantenmechanik, in Werner Heisenberg und die Physic unserer Zeit, Braunschweig I96I; F. HUND, Gottingen, Kopenhagen, Leipzig und Riickblick, ibid.; CHEN NrNG YANG, Elementary particles, a short history of some discoveries in atomic physics, Princeton I 96 I (trad. it. Torino 1964); M. ]AMMER, The conceptual development of quantum mechanics, New York 1966; F. HUND, in« Physics today », I966; Y.G. DoRFMAN, Rozdenie kvantovqj mekhaniki (L'origine della meccanica quantistica), in« Filosofskie voprosy kvantovoj fisiki » (Problemi filosofici della fisica quantistica), Mosca I97o. Vastissima e ricca è la letteratura dedicata all'esame dei problemi connessi con il sorgere della meccanica quantistica. Ci limiteremo a segnalare i contributi essenziali, distinguendoli per autore e disponendo gli autori in ordine alfabetico. Di D. BoHM si veda: « Phys. rev. » 195 I; A suggested interpretation of quantum theory in terms of « hidden variables », in « Phys. rev. » I 9 5z; Causaliry and chance in modern physics, Londra I957· Tra le opere di N. BOHR segnaliamo: Atomic theory and the description of nature, Cambridge I934; Sur la méthode de correspondance dans la théorie de l'électron, « Structure et propriétés des noyaux atomiques. Rapports et discussions du septième conseil de physique, tenu à Bruxelles du zz au 29 octobre I933 »,Parigi I934; Quantum mechanics and physical realiry, in« Nature», I93 5; C an quantum-mechanical description of physical realiry be considered complete?, in« Phys. rev. », 193 5; Biology and atomic physics, in« Congressi di fisica, radiologia e biologia sperimentale, Bologna, 1937 »,Bologna I938; The causaliry problem in atomic physics, in« Conference on new theories in physics », Varsavia 1938, Parigi I939; On the notions of causaliry and complementariry, in « Dialectica », 1948; Some generai comments on the present situation in atomic physics, in Les particules élémentaires. « Rapports et discussions du 8e conseil de physique Solvay tenu à Bruxelles», Parigi I95o; Quantum physics and phiiosophy (Causaliry and complementariry), in Philosophy in the mid-ce11tury. A 577
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Bibliografia survey, Firenze I 9 58; Discussione con Einstein sui problemi filosofici della fisica atomica, in A/bert Einstein scienziato e filosofo, Torino I 9 58 (citato nella bibliografia del capitolo xv del volume sesto); Quantum pf?ysics and biology, in Symposia of the sociery for experimental biology, n. I4; Models and analogues in biology, Cambridge I96o; Foreword in theoretical pf?ysics in the twentieth century. A memoria/ volume to Wolfgang Pauli, New York I96o; Teoria dell'atomo e conoscenza umana, Torino I 96 I (citato nella bibliografia del capitolo xv del volume sesto); Pf?ysical modefs and living organisms, in A {)'mposium on light and /ife, Baltimora I96o, I96I; Die Entstehung der Quantenmechanik, in Werner Heisenberg und die Pl!Jsik unserer Zeit, cit.; The So/va} meetings and the development of quantum pf?ysics. Address at the r2th Solv~y meeting, in La théorie quantique des champs. Institut international de physique Solvay. Douzième conseil de physique tenu à Bruxelles du 9 au I4 october I96I, New York I96z; Light and l~fe revisited, « ICSU rev. », I963; Essqys I9J8-rg62 on atomic pf?ysics and human knowledge, New York I963. Tra i lavori di M. BoRN vanno segnalati: Moderne Pf?ysik, Berlino I933; Natura/ philosopf?y of cause and chance, Oxford I949 (trad. it. Torino I96z); Pf?ysik und Metapf?ysik, « Naturwissenschaftliche Rundschau » I955; Experiment and theory in pf?ysics, New York I956 (pubblicato in italiano ne Il potere della fisica, Torino I96z); Pf?ysics in my generation. A selection of papers, Londra-New York I95 6; Atomic pf?ysics, Londra I95 7 (trad. i t. Torino I968); Pf?ysik in Wandel meiner Zeit, Braunschweig I958 (trad. it. Firenze I96I); The restless universe, New York-Dover I958 (trad. it. Milano I96o); Riflessioni d'un uomo di scienza europeo, in Discussione sulla fisica moderna (trad. it. di quattro conferenze organizzate dalle « Rencontres internationales de Genève », I95 z-I95 8, Torino I959); Symbol und Wirklichkeit, in « Physikalische BHitter », I964. Di L. DE BROGLIE si veda: Introduction à l'étude de la mécanique ondulatoire, Parigi I93o; La pf?ysique nouvelle et /es quanta, Parigi I936 (trad. it. Torino I938); Ondes, corpuscules, mécanique ondulatoire, Parigi I945 (trad. it. Milano I95 I); Pf?ysique et micropf?ysique, Parigi I 947; La pf?ysique quantique restera-I-elle indéterministe ?, Parigi I 9 53 ; Nouvelles perspectives en micropf?ysique, Parigi I956; La théorie de la mesure en mécanique ondulatoire, Parigi I 9 57; Sur /es sentiers de la science; Parigi I 960 (trad. i t. Torino I96z); The current interpretation of wave mechanics: a criticai stut!J, Amsterdam I 964. Va inoltre segnalato: L. DE ERoGLIE, J.L. ANDRADE e SILVA, La réinterprétation de la mécanique ondulatoire, tomo I: Principes généraux, Parigi I97I (questo volume contiene anche una schematica bibliografia e un sommario degli sviluppi storici della meccanica quantistica a partire dal I 92 3). Di DIRAC si veda: The principles of quantum mechanics, Oxford I958 (I ed. I93o), trad. it. Torino I959· Tra le opere di EINSTEIN che affrontano problemi riguardanti la fisica atomica, segnaliamo: Mein Weltbild, Amsterdam I934 (Ì:rad. it. Come io vedo il mondo, Milano I95o); A. EINSTEIN-B. PoDOLSKY-N. RoSEN, Can quantum-mechanical description of pf?ysical realiry be considered complete?, in « Phys. rev. », I93 5; Pf?ysik und Realitiit, in « Journal Franklin Institute », I936 (la traduzione italiana di tale articolo compare nel volume Idee e opinioni, Milano I957); Elementare Ueberlegungen zur Interpretation der Quantenmechanik, in Scientific papers presented to Max Born, New York I95 3; Einleitende Bemerkungen iiber Grundbegriffe der Quantenmechanik, in Louis de Broglie pf?ysicien et penseur, Parigi I 9 53 ; Replica alle osservazioni dei vari autori, in Alberi Einstein scienziato e filosofo, cit. Tra le opere di W. HEISENBERG ricordiamo: Die pf?ysikalischen Prinzipien der Quan-
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Bibliografia
tentheorie, Lipsia I930 (trad. it. Torino I948); Wandlungen in den Grundlagen der Naturwissenschaft, Lipsia I935 (raccolta di conferenze tenute a partire dal I932; trad. it. Torino I 96o); The development of the interpretation of the quantum theory, in Niels Bohr and the development of physics, Londra I95 5; Physics and philosophy, Londra I95 8; La scoperta di Planck e i problemi filosofici della fisica atomica, in Discussione con Einstein sui problemi filosofici della fisica atomica, cit.; Der Tei! und das Ganze, Monaco I 969; Gesprache iiber das Verhiiltnis von Naturwissenschaft und Religion, in« Physikalische Blatter », I97o. Di W. PAULI va ricordato: Die allgemeinen Prinzipien der Wellenmechanik, in« Handbuch der Physik », Berlino I933· Va inoltre segnalata la raccolta Aufsiitze und Vortriige iiber Physik und Erkenntnistheorie (I933-I958), curata dallo stesso autore nel I958 (trad. it. Fisica e conoscenza, Torino I964). Di E. PERSICO si veda: Aspetti logici di questioni filosofiche, in« Atti dell'vrn congresso nazionale di filosofia», Roma I934; Fondamenti della meccanica atomica, Bologna I936; Fisica atomica e linguaggio, in« Analysis », I946; Analisi del determinismo fisico, in AuTORI V ARI, Fondamenti logici della scienza, Torino I947· Di MAx PLANCK segnaliamo: La conoscenza del mondo fisico (raccolta di saggi vari pubblicati dal I9o8 al I93o), Torino I956; Autobiografia scientifica e ultimi saggi (raccolta in cui figurano la Wissenschaftliche Selbstbiographie, pubblicata postuma, e altri saggi apparsi nel periodo I936-I94I). Di H. REICHENBACH si veda: I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, Torino I954 e La nascita della filosofia scientifica, Bologna I96I (in particolare i capitoli x e xi), citati nella bibliografia del capitolo IX del volume settimo. Di L. RosENFELD ricordiamo: L'évolution de l' idée de causalité (discorso inaugurale all'università di Utrecht) I942; L'évidence de la complémentarité, in Louis de Broglie physicien et penseur, Parigi I95 3· Tra i lavori di E. ScHRODINGER rammentiamo: Ueber die Unanwendbarkeit der Geometrie in Kleinen, in « Naturwissenschaften », I934; What is !ife? The physical aspect of the living celi, Cambridge I 944 (basato su un ciclo di conferenze tenute sotto gli auspici dell'Istituto del Trinity College di Dublino nel febbraio I943; trad. it. Firenze I947); Science and humanism. Physics in our time (raccolta di quattro conferenze tenute all'University College di Dublino nel 1950), Cambridge I95I (trad. it. Firenze I953); The meaning of wave mechanics, in Louis de Broglie physicien et penseur, Parigi I95 3; Science theory and man, Londra I957; Mind and matter, Cambridge ·I95 8; L'immagine attuale della materia, in Discussione sulla fisica moderna, cit.; The fundamentals of wave mechanics in A treasury of world science, New York 1962; L'immagine del mondo (raccolta di quindici saggi apparsi in periodi vari), Torino I963. Di J.P. VIGIER si veda: Structure des micro-objets dans l'interprétation causale de la théorie des quanta, Parigi I 9 56; À propos de la théorie du comportement des micro-objets individuels, in « Recherches internationales », I 9 57; Les nouvelles particules et la révolution de la microphysique, in« La nouvelle critique », 195 8; Théorie des niveaux et dialectique de la nature, in «La pensée », I96I; Hidden parameters associated with possible interna! motions of elementary particles, in Quantum theory and realiry, Berlino I967; Possible interna! subquantum motions of quantum mechanics, in Physics, logic and history, New York I97o. Tra i lavori di C.F. VON WEIZSACKER segnaliamo: Zum Weltbild der Physik, Zurigo I95I; Le monde vupar laphysique, Parigi 1956. 579
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Bibliografia
Per un più completo panorama della situazione creatasi in fisica in seguito all'apparizione della meccanica quantistica, si veda inoltre: P. JoROAN, Anschau/iche Quantentheorie, Berlino I936; E. CASSIRER, Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik, Goteborg I936 (trad. i t. Firenze I97I); P. ]OROAN, On the process of measurement in quantum mechanics, « Phil. of science », I949; A. LANOÉ, Ouantum mechanics, Cambridge I95 I; R.P. FEYNMAN, The concept of probabi!ity in quantum mechanics, in « Proceedings of the second Berkeley simposium on mathematical statistics and probability », Berkeley I95 I; E. CoTTON, Une importante contribution à la /utte contre l'indéterminisme en physique, in «La pensée », I95 3; G. LuoWIG, Die Grund/agen der Quantenmechanik, Berlino I954; A. LANOÉ, Foundation of quantum theory, New Haven I95 5; F. HALBWACHS, Une tentative pour édifier une microphysique matéria/iste, in «La pensée », I95 5; Io., Matéria/isme et physique quantique, in« La nouvelle critique », I956; W. HEITLER, Il distacco dal pensiero classico nella fisica moderna, in A/bert Einstein scienziato e filosofo, cit.; A. CROMBIE (a cura di), Turning points in physics, Amsterdam I959 (trad. it. Torino I96I), contenente saggi di R.]. BLIN-STOYLE, D. TER HAAR, K. MENOELSSOHN, G. TEMPLE, F. WAISMANN, D.H. WILKINSON; M. BuNGE, Causa!ity, the piace of the causa/ principle in modern science, Cambridge, Mass., I959 (trad. it. Torino I97o); A. LANOÉ, From dua/ism to unity in quantum mechanics, Cambridge I96o; Io., New foundations of quantum mechanics, Cambridge I965; F. BosiO, Heisenberg e l'orizzonte filosofico della scienza, in «Aut Aut», n. 85, I965 (fascicolo interamente dedicato ai problemi della scienza); M. BuNGE (a cura di), Delaware seminars in phi/osophy of science, Berlino I 967; Io., Quantum theor:y and reality, Berlino I 967; K. PoPPER, The /ogic of scientific discovery, Londra I968 (rifacimento del volume tedesco Logik der Forschung, Vienna I93 5; trad. it. Torino I97o); E. AGAZZI, Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano I969; A. LANOÉ, The non-quanta/ foundations of quantum mechanics, in Physics, /ogic and history, cit., New York I970. In particolare per una più approfondita valutazione del pensiero e dell'opera di Bohr si veda: W. HEISENBERG, Nie/s Bohr zum fiinfzigsten Geburtstag am 1· Oktober I9jJ, in « Naturwiss. », I 9 3 5 ; ]. BoHME, Nie/s Bohr zu seinem JO Geburtstag, in « Z. phys. und chem. Unterr. », I936; W. PAULI, Nie/s Bohr on bis both birthday, in« Rev. mod. phys. », I945; C.F. WEIZSACKER, Niels Bohr. Der Schopfer des Atommodels, in « Forscher und Wissenschaftler im heutigen Europa», Amburgo I95 5; Io., Niels Bohr and the development of physics. Esscrys dedicated to Nie/s Bohr on the occasion of bis seventieth birthdtry, Londra I95 5; G. GAMOW, Der )unge Niels Bohr, in« Phys. BI.», I96o; F. BLOCH, Reminiscences of Nie/s Bohr, in « Physics today », 1963; L. DE BROGLIE, La vie et l'oeuvre de Niels Bohr, in« Ann. phys. », I963;]. CocKCROFT, Niels Henrik David Bohr, in« Biographical memoirs of fellows of the Royal Society », I963; ]. FRANCK, Niels Bohr Person/ichkeit, in « Naturwiss. », I963; G. GAMOW, Niels Bohr, the man who explained the atom, in « Science digest », 1963; G. HERTZ, Niels Bohr, in « Jahrbuch Dtsch. Akad. Wiss. », I963; H. HoRTZ, Niels Bahrein hervorragender Naturwissenschaftler und Humanist, in « Math. Phys. Schule », I963; P. ]oROAN, Gedenken an Nie/s Bohr, in « Phys. BI.», 1963; ].R. NIELSEN, Memories of Nie/s Bohr, in « Physics today », I963; R. PEIERLS, An appreciation of Nie/s Bohr, in « Proc. phys. soc.», I963; L. RosENFELO, Niels Bohr (7 oct. r88J-I8 nov. I962). Niels Bohr's publications, in « Nucl. phys. », 1963; Io., Niels Bohr' s contribution to epistemology, in « Physics today », I963; S. RosENTHAL, Niels Bohr ai JJ/ork, in « Nucl. phys. », I963; P. RoussEAU, Nie/s Bohr ou l'age héroi"que de
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Bibliografia
l'atome, in « Revue de Paris », I963; V.F. WEISSKOPF, Niels Bohr, a memoria! tribute, in « Physics today », I963; J.A. WHEELER, Niels Bohr and nuclear physics, in « Physics today », I963; In., Niels Bohr. His !ife and work as seen by bis friends and collegues, Amsterdam I967; R. MooRE, Niels Bohr, the man and the scientist, Londra I967. Sull'assiomatizzazione della meccanica quantistica si veda: J. VON NEUMANN, Mathematische Grundlagen der Quantenmechanik, Berlino I 9 32.; I D., On an algebraic generalization of the quantum mechanical formalism, in « Matematiceskij sbornik », I936; G. B1RKHOFFJ. VON NEUMANN, The /ogic of quantum mechanics, in « Annals of mathematics », 1936; E. SEGAL, Postulates for genera! quantum mechanics, in « Annals of mathematics », I 94 7; G. W. MACKEY, Mathematicalfoundations of quantum mechanics, New York I963; C. P1RON, Axiomatique quantique, in « Helvetica physica acta», I964; R.V. KADISON, Transformation of states in operator theory and c!Jnamics, in « Topology », I965; M. GuEN1N, Axiomatic Joundations of quantum theories, in « Journal of mathematical physics », I966; S. GunDER, Coordina/es and momentum observables in axiomatic quantum mechanics, in « Journal of mathematical physics », I 967; J. GuNSON, On the algebraic structure of quantum mechanics, in « Communications on mathematical physics », I967; G. LUDWIG, Attempt of an c.xiomatic foundation of quantum mechanics and more genera! theories, in « Communications on mathematical physics », I967; G. DAHN, Attempt of an axiomatic foundation of quantum mechanics and more genera! theories, in« Communications on mathematical physics », I968; J. ]AUCH, Foundations of quantum mechanics, Reading, Mass., I968; G. LunwiG, Attempt of an axiomatic foundation of quantum mechonics and more generai theories, in « Communications on mathematical physics », 1968; R.]. PLYMEN, A modification of Piron's axioms, in « Helvetica physica Acta», I968; In., C*-algebras and Mackry's axioms, in « Communications on mathematical physics », I968; V. S. VARADARAJAN, Geometr_y of quantum theory, Princeton, N.J., I968; P. STOLZ, Attempt of an axiomatic Joundation of quantum mechanics and more genera! theories, in « Communications on mathematical physics », I969. Ai rapporti fra strutture sociali e sviluppo della scienza hanno dedicato una particolare attenzione, negli anni cinquanta, alcune riviste legate al partito comunista francese. In particolare, si veda: G. VASSAILS, C/aude Bernard et la prétendue neutralité philosophique de la science, in «La pensée », I95 I; J. KANAPA, Les joueurs de jlute et lo nation, in «La nouvelle critique », I95 I;]. DESANTI, La science, la /utte des classes et l'esprit de parti, in« La nouvelle critique », I95 I; F. FER, Pourrissement de la scienct bourgeoise, in« La nouvelle critique », I95 I; L. CASANOVA, A propos de la science, in «La nouvelle critique », I95 I; G. V ASSAILS, Les monopoles ftnanciers américains contre la science franraise, in «La pensée », I95 2.;]. DESANT1, La science et la lutte idéologique, in «La nouvelle critique », I95 z; CHEN-Po-TA, Discours aux scientifiques, in « La nouvelle critique », I95 3; G. VASSAILS, Progrès des sciences de la nature et progrès social, in «La pensée », I 9 53; F. CoHEN, Le pouvoir soviétique et la science, in «La nouvelle critique », I95 3; E. ScHATZMAN, Réjlexions sur l'avenir de la science, in « La pensée », I 9 58. Sui rapporti fra scienza della natura, industria e organizzazione della ricerca vanno inoltre segnalati: J. NEEDHAM e J.S. DAVIES, Science in Soviet Russia, Londra 1942.; P.M. S. BLACKETT, Military and politica/ consequences of atomic energy, Londra I948 (trad. it. Torino 1949); J.S. ALLEN, Atomic imperialism, New York 1952.; G. PIEL, Science in the cause oj man, New York I95 5; C. SNow, Science andgovernment, Londra I963; G. BERLINGUER,
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Bibliografia
Politica della scienza, Roma I 970; AuTORI V ARI, La scienza nella società capitalistica, a cura della Soc. it. di fisica, Bari I971; In., Scienziati e tecnologi contemporanei, vol. m, Milano I975; In., Contributi alla storia della meccanica quantistica, a cura della Domus Galilaeana, Pisa I 976. V edasi inoltre la bibliografia del capitolo n del volume nono.
CAPITOLO SETTIMO Nuovi aspetti della cosmologia
Per la cosmologia pre-greca, greca e su Aristotele, l'età medievale e rinascimentale, si rimanda anche alla bibliografia sulla cosmologia apparsa in precedenti volumi. Qui ricordiamo solo: Exposition du .rystème du monde par le marquis de Laplace, Parigi I796 (trad. it. in LAPLACE, Opera, a cura di O. PESENTI CAMBURSANO, Torino 1967); J.L.E. DREYER, A history of planetary .rystem from Thales to Keplero, Cambridge I905 (trad. it. Milano 1970); F.R. JoHNSON, Astronomica! thought in Renaissance England, Baltimora I937; F.M. CoNFORn, Principium sapientiae, Cambridge I952; S. SAMBURSKY, The pf?ysical world of the Greeks, Londra 1956 (trad. it. Milano I959); A. KOYRÉ, From the closed world to the infinite universe, I957 (trad. it. Milano I969); G. ABETTI, La cosmologia scientifica, in «Storia delle scienze», Utet, Torino I96z; M.A. HASKIN, W. Herschel and the construction of heavens, Londra 1963; N.R. HANSON, Constellations and cotijectures, Boston I973· Per l'astronomia si veda: G. CECCHINI, Il cielo, z voli., Utet, Torino I95z; F. HoYLE, Frontiers of astronomy, Heinemann, Londra I95 5 (trad. it. Milano I95 8); G. ABETTI, Stelle e pianeti, Torino 1956; B.J. BoK, The astronomer's universe, Londra 1958; R.H. BAKER, Astronomy, New York I959; L. RasiNO, Fisica delle stelle, New York 1959; O. STRUVE, Elementar:_y astronomy, New York I959; A.I. 0PARIN e A. FESENKOV, Universo. La vita nel cosmo, Roma I96I; M. HACK, L'universo, pianeti, stelle e galassie, Milano I963. Per la radio astronomia si veda: A.C.B. LovELL e J.A. CLEGG, Radio astronomy, Londra 1952; J.L. PAWSEY e R.N. BRACEWELL, Radio astronomy, Oxford I955; R. CouTREZ, Radioastronomie, in« Monographies de l'observatoire royal de Belgique », Bruxelles 1956; J. PFEIFFER, The changing universe, New York 1956; R.H. BROWN e A.C.B. LovELL, The exploration of space lry radio, Londra 1957; R.D. DAVIES e H.P. PALMER, Radio studies ofthe universe, Londra 1959, New York 1959; A.C.B. LOVELL, The exploration of outer space, Londra I96z (trad. it. Milano I964). Per il sistema solare si veda: G. BRUHAT e E. ScHATZMAN, Les planètes, Parigi 1952; F.G. WATSON, Between the planets, Cambridge 1956; F.L. WHIPPLE, Earth, moon and planets, New York 1958. Per la galassia e le galassie si veda: E. HuBBLE, The realm of nebulae, New York 1936 (n ed. I958); H. SHAPLEY, Galaxies, Filadelfia I947; P. CounERC, L'univers, Parigi I95 5; B.J. BoK e P.F. BoK, The milky wqy, Cambridge I957; H. SHAPLEY, The inner metagalaxy, Londra I957; G. ABETTI e M. HAcK, Nebulose e universi isole, Torino I959; N. CALnER, Violent universe, Londra 1969.
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Bibliografia
Per un'idea diretta sull'astronomia moderna, vedi: H. SHAPLEY, Source book in astronomy, Harvard University Press 196o. Per le premesse teoriche della cosmologia moderna sono articoli fondamentali: C.V.L. CHARLIER, due articoli in« Arkiv for Matematik Astronomi och Fysik »,vol. IV, n. 24, 1908, e n. 22, I922; A. EINSTEIN, Kosmologische Betrachtungen zur allgemeinen Relativitiitstheorie, in « Sitzungsberichte der preussischen Akademie der Wissenschaften », 19 I 7; W. PAULI, Relativitiitstheorie, in Encyclopadie der mathematischen Wissenschaften, Lipsia e Berlino I92I; A.S. EnmNGTON, The expanding universe, in « Proceedings of the physical society », I 9 32; W. DE SITTER, On the expanding universe, in « Proceedings Koninklyke Akademie van Wetenschappen te Amsterdam», n. j, I932; In., The astronomica! aspect of the theory of relativity, in « University of California publications in mathematics », Berkeley 1933; In., On the expanding universe and the time scale, in « Monthly notices of royal astronomica! society », I933; H.P. RoBERTSON, Relativistic cosmo/o!'), in « Review of modern physics », I933; W.H. McCREA e E.A. MILNE, un saggio in « Quarterly journal of mathematics », I934; E.A. MILNE, un articolo in « Quarterly journal of mathematics »,vol. v, I934; R.C. ToLMAN, Relativity, thermoc!Jnamics, and cosmo/o!'), Oxford 1934; E. HuBBLE, The rea/m of the nebulae, Londra, Oxford University Press, I936; In., Observational approach to cosmology, Oxford I937; O. HECKMANN, Theorien der Kosmologie, Berlino 1942; G.C. McVITTIE, Cosmologica/ theory, Londra 1957. Per la cosmologia moderna: a) articoli: M.K. MuNITZ, Scientiftc method in cosmo/o!'), in« Philosophy of science », I95 2; E.M. e G.R. BuRBIDGE, W.H. FowLER e F. HoYLE, Syntesis of the elements in stars, in « Reviews of modern physics », I957; T. GoLn, The arrow of time, in La structure et l'évolution de l'univers, Bruxelles I95 8; C. BRANS e R.H. DICKE, Mach's principle and a relativistic theory of gravitation, in « Physical review », I24, I961; A. SANnAGE, The ability of the 200- inches telescope to discriminate between selected world-models, in « The astrophysical journal », I961; A. LICHNEROWICZ e Y. FouRESBRUHAT, Problèmes mathématiques en relativité, in « Recent developments in generai relativity », Varsavia 1962; O. HECKMANN, Review of modern cosmo/o!'), in« I.c.s.u. »,vol. v, Amsterdam I963; AuTORI VARI, Cosmologica/ models, Lisbona 1964; U. GIACOMINI, Indagine critica sulla scientificità della cosmologia moderna, in «Atti dell'accademia delle scienze», Torino 1964; A. GI.Ao, On the theory of cosmologica/ models, in Cosmologica/ models, cit.; P. JoRnAN, Four lectures about problems of cosmo/o!'), in Cosmologica/ models, cit.; J.V. NARLIKAR, The direction oftime, in« Philosophy of science », I965; J. PACHNER, An oscillating ùotropic universe without singularity, in « Monthly notices of the royal astronomica! society », I965; A. SANnAGE, The existence of a new major constituent of the universe. The quasi-stellar galaxies, in « The astrophysical journal », I965; YA.B. ZELnOV1CH, Survey of modern cosmolog), in « Advances in astronomy and astrophysics », I965; L. DE BROGLIE, Sur le déplacement des raies émises par un objet astronomique, in «C. R. de l'académie des sciences », I966; F. HoYLE e J.V. NARLIKAR, On the ef!ects of the non-conservation of barions in cosmo/o!'), in« Proceedings of the royal society », 1966; In., A radica/ departure from the stea4J-state cosmo/o!'), in « Proceedings of the royal society », 1966; O. KLEIN, Instead of cosmolog), in« Nature», 211, I966; AuTORI VARI, Atti del convegno sulla cosmologia, tenuto presso l'Università di Padova nel settembre I964 (pubblicazioni per il IV centenario della nascita di Galileo), Firenze 1969; b) volumi: P. CounERC, L'expansion de l'univers, Parigi I95 I; G. GAMOW, The crf'tlHon ~( universe, New York 1952; M.K. MuNITZ,
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Bibliografia
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La psicologia scientifica contemporanea Per quel che riguarda la storia della psicologia e la psicologia sperimentale in generale si vedano: R. ZAzzo, Psychologues et p~chologies d'Amérique, Parigi I942; E.G. BoRING, Sensation and perception in the history of experimental p~chology, New York I942; G. BERGMANN e K. W. SPENCE, The logic ofp~chopf?ysical measurement, in « Psychological review », I944, pp. I-24; E.G. BoRING, H.S. LANGFELD e H.P. WELD, Foundations of ps_ychology, New York I948; W. DENNIS, Readings in the history of p~chology, New York 1948; G. MuRPHIE, Historical introduction to modern p~chology, New York I949; E. G. BoRING, A history of experimental p~chology, New York I 9 5o; H. HELSON (a cura di), Theoretical foundations of psychology, New York I 9 5o; K. LORENZ, The comparative method in stu4Jing innate behavior patterns, in « Symposia of the society for experimental psychology », IV, I95o, pp. zzi-268; J.C. FLUGEL, A hundredyears of p~chology, Londra I95I; H.E. GARRETT, Great experiments in p~chology, New York I95 I; M.H. MARX, P~chological theory, New York I95 I; S.S. STEVENS (a cura di), Handbook of experimental p~chology, New York I95I; E.G. BoRING e altri (a cura di), A history ofps_ychology in autobiograpf?y, Worcester, Mass., I 9 52; A. BRUNSWICK, The conceptual framework ofp~chology, in « International encyclopedia of unified science », Chicago I95 2; C.E. Oscoon, Method and theory in experimental ps_ychology, New York I95 3; C. W. BROWN e E.E. GHISELLI, Scientiftc method in ps_ychology, New York I95 5; G. ZuNINI, Scuole di psicologia moderna, Brescia I95 5; V. LAZZERONI, Le origini della psicologia contemporanea, Firenze I 9 56; E. BRUNSWICK,
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Bibliografia
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Bibliografia
Piaget' s contributions in relation to other theories of children' s thinking, 14, Items I 96o, pp. 2 5-30; W. KESSEN e C. KuHLMAN (a cura di), Thought in the young cbild, in « Monographs of social research in child development », 27, n. 2, I962; J.H. FLAVELL, Developmental psychology of Jean Piaget, Princeton I963; G. PETTER, Lo sviluppo mentale nelle ricerche di Jean Piaget, Firenze I966; H. AEBLI, Rilievi sullo sviluppo mentale del bambino, Firenze I 968; W.R. LooFT e W.H. BARTZ, Animism revised, in « Psychological bulletin », 7I, I969, pp. I-I9; H. GINSBURG e S. 0PPER, Introduction to Piaget's theory of intellectual development, Englewood Cliffs I969; M. NASSEFAT, La psychologie et l'épistémologie de Jean Piaget, in « Bulletin de psychologie », 23, I969-70, pp. I77-I88; D. ELKIND, Children and adolescents: interpretative essqys on the work of Jean Piaget, New York I97o; D.M.G. HYDE, Piaget and conceptual development, New York 1970.
CAPITOLO NONO
Weber e gli indirizzi della sociologia contemporanea In generale sulla sociologia e sulla sua storia, si vedano i seguenti lavori: E. BoGARDUS, A bistory of social thought, Los Angeles I 922; L. VON WIESE, Soziologie; Geschichte und Hauptprobleme, Berlino I926; T. PARSONS, The structure of social action, New York I937 (n ed. I949, trad. it. Bologna I962); H.E. BARNEs-H. BECKER, Social tbought from !ore to science, 2 voli., Boston I938; C. ANTONT, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze I940 (n ed. I951); H.E. BARN~s e altri, Contemporary social tbeory, New York 194o; Twentietb century sociology, a cura di G. GuRVITCH e W.E. MooRE, New York I946; H.E. BARNES, An introduction to the bistory of sociology, Chicago 1948; G. GuRVITCH, La vocation actuelle de la sociologie, Parigi I 9 5o (n ed. I 96 3, trad. i t. Bologna I 96 5); G. BouTHOUL, Histoire de la sociologie, Parigi I95o (trad. it. Roma 1966); Modern sociological tbeory in continuiry and change, a cura di H. BECKER e A. BosKOFF, New York I957; Die Lehre von der Gesellscbaft, a cura di G. EISERMANN, Stoccarda I95 8; D. MARTINDALE, T be nature and rypes of sociological theory, Boston I96o (trad. i t. Bologna 1968); ]. MADGE, Tbe origins of scientiftc sociology, New York I962 (trad. it. Bologna I966); R. ARON, Les étapes de la pensée sociologique, Parigi I967; F. JoNAS, Geschichte der Soziologie, Amburgo 1968 (trad. it. Bari I97o). Si hanno numerose raccolte di scritti di MAx WEBER: Gesammelte Aujsatze zur Religionssoziologie, 3 voli., Tubinga I92o-21 (nuova ed. I947); Gesammelte politiscbe Schriften, a cura di MARIANNE WEBER, Monaco I921 (n ed., a cura di J.F. WINCKELMANN, Tubinga I958); Gesammelte Aufsatze zur Wissenscbaftslehre, a cura di MARIANNE WEBER, Tubinga I922 (n ed., a cura di J.F. WINCKELMANN, I95J, m ed. I968); Wirtscbaftsgescbichte, a cura di S. HELLMANN e M. PALYI, Monaco I923 (n ed. I924; III ed., a cura di J.F. WINCKELMANN, Tubinga I958); Gesammelte Aujsatze zur Soziologie und Sozia!politik, a cura di MARIANNE WEBER, Tubinga 1924; Gesammelte Aujsatze zur Sozial and Wirtschaftsgeschicbte, Tubinga I924;]ugendbrieje, I8JJ-I89J, a cura di MARIANNE WEBER, Tubinga 1936; Recbtssoziologie, a cura di J.F. WINCKELMANN, Tubinga I96o. Le principali opere di MAx WEBER sono tradotte in italiano: L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, traduzione di P. Burresi, introduzione di E. SESTAN, III ed. Firenze
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Bibliografia
I965; l/lavoro intellettuale come professione, traduzione di A. Giolitti, introduzione di D. CANTIMORI, Torino I948 (n ed. I965); Il metodo delle scienze storico sociali, a cura di P. Rossi, Torino I95 8; Economia e società, a cura di P. Rossi, Milano I96I (n ed. I968); Storia agraria romana dal punto di vista del diritto pubblico e privato, Milano I9o7; a cura di E. SERENI, Milano I967. Sono inoltre tradotti gli Scritti politici, a cura di P. MANGANARO, con un saggio introduttivo di A. BRUNO, Catania I97o. Sulla vita e sull'opera di Max Weber si vedano i seguenti studi: P. HONIGSHEIM, Max Weber als Soziologe, in« Kolner Vierteljahrshefte fiir Sozialwissenschaften », I92I; H. 0PPENHEIMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung mit besonderer Berucksichtigung von Max Weber, Tubinga I925; R. WrLBRANDT, Kritisches zur Webers Soziologie, in « Kolner Vierteljahrshefte fiir Sozialwissenschaften », I926; M. WEBER, Max Weber. Ein Lebensbild, Tubinga I926; H.J. GRAB, Der Begriff des Rationalen in der Soziologie Max Webers. Ein Beitrag zu dem Problem der philosophischen Grundlegung der Sozialwissenschaft, Karlsruhe I927; B. PFISTER, Die Entwicklung zum Ideal-Typus. Bine methodologische Untersuchung uber das Verhiiltnis von Theorie und Geschichte bei Menger, Schmoller und Mux Weber, Tubinga I928; M. HALBWACHS, Economistes et historiens: Max Weber, un homme, une oeuvre, in « Annales d'histoire économique et sociale», I929; E. FECHNER, Der Begriff des kapitalistischen Geistes bei So mbart und Weber, in « W eltwirtschaftliches Archiv », I 929; S. LANDSHUT, Max Webers geistesgeschichtliche Bedeutung, in « Neue Jahrbiicher fiir Wissenschaft und Jugendbildung », I93 I; K. LòwrTH, Max Weber und Karl Marx, in « Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », I932 (trad. it. in Critica dell'esistenza storica, Napoli I967); H.M. RoBERTSON, Aspects f!f the rise of economie individualism. A criticism of Max Weber and his school, New York 1933; A. METTLER, Max Weber und die philosophische Problematik in unserer Zeit, Zurigo 1934; A. VoN ScHELTING, Max Webers Wissenschaftslehre, Tubinga I934; M. WEINRE1CH, Max Weber, l'homme et le savant, Parigi 1938; C. ANTONI, La logica del tipo ideale di Max Weber,in «Studi germanici», I938 (anche in Dallo storicismo alla sociologia, Firenze I94o); J.P. MAYER, Max Weber and the german politics, Londra I944 (n ed. 1956); A. BERTOL1NO, W. Sombart e Max Weber nel dissolvimento della scuola storica tedesca del pensiero economico, Firenze I944; E. FrsCHOFF, The protestant ethic and the spirit if capitalism, in « Social research », I944; R. BENDIX, Max Weber's interpretation if conduci and history, in « American journal of sociology », I946; E. BAUMGARTEN, Die Bedeutung Max Webers fur die Gegenwart, in « Die Sammlung », 1950; P. HoNrGSHEIM, Max Weber. His religious and ethical background and development, in« Church history », I95o; D. HENRICH, Die Einheit der Wissenschaftslehre Max Webers, Tubinga I952; J.F. WrNCKELMANN, Legitimitat und Legalitat in Max Webers Herrschaftssoziologie, Tubinga I952; E. ToPrTSCH e W. WEBER, Das Werturteilsproblem seit Max Weber, in « Zeitschrift fiir Nationalokonomie », I 9 52; P. Rossr, La sociologia di Max Weber, in« Quaderni di sociologia », I954; J.F. WINCKELMANN, Die Herrschafstkategorien der politischen Soziologie und die Legitimitat der Demokratie, in « Archiv fiir Rechts-und Sozialphilosophie », 1956; Io., Gesellschaft und Staat in der verstehenden Soziologie Max Webers, Berlino 1957; J. FREUND, La sociologie de Max Weber, Parigi I 9 58 (n ed. I 966, trad. i t. Milano I 968); W. MoMMSEN, Max Weber und die deutsche Politik, I890-I920, Tubinga I959; F.H. TENBRUCK, Die Genesis der Methodologie Max Webers, in« Kolner Zeitschrift fiir Soziologie und Sozialpsychologie », I959; E. RoTHA. GONTHER-R. BENDIX, Max Webers Einj!uss auf die amerikanische Soziologie, ibid.; R.
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Bibliografia BENDIX, Max Weber. An inte/lectual portrait, New York I96o; G. KoLKO, Max Weber on America: theory and evidence, in « History and theory », I96I; J. DIECKMANN, Max Webers Begriff des « modernen okzidentalen Rationalismus », Colonia I96I; H. LuBBE, Die Freiheit der Theorie. Max Weber iiber Wissenschajt als Beruf, in « Archiv fiir Rechts-und Sozialphilosophie », I962; W. WEGENER, Die Quellen der Wissenschaftsauffassung Max Webers und die Problematik der Werturteilsfreiheit der Nationa!Okonomie, Berlino I 962; E. NoLTE, Max Weber von dem Faschismus, in« Der Staat », I963; W.J. MoMMSEN, Zum Begriff der « plebiszitiiren Fuhrerdemokratie » bei Max Weber, in « Kolner Zeitschrift fiir Soziologie und Sozialpsychologie », I963; E. BAUMGARTEN, Max Weber. Werk und Person, Tubinga I964; W. MoMMSEN, Universalgeschichtliches und politisches Denken bei Max Weber, in « Historische Zeitschrift », I 96 5 ; AuTORI V ARI, Max Weber und die oziologie heute, Tubinga I 96 5 (trad. i t. Milano I 967); « American sociological review », I965 e « Revue internationale cles sciences sociales », I965 (articoli vari su Weber); K. LoEWENSTEIN, Max Webers staatspolitische Auffammgen in der Sicht unserer Zeit, Francoforte I965; F. FERRAROTTI, Max Weber e il destino della ragione, Bari I965; G. ABRAMOWSKI, Das Geschichtsbild Max Webers, Stoccarda I 966; J .A. PRADES, La sociologie de la religion chez Max Weber. Essai d' analyse et de critique de la méthode, Lovanio I 966; L. CAVALLI, Max Weber: religione e società, Bologna I 968; A. CAv ALLI, La fondazione del metodo sociologico in Max Weber e Werner Sombart, Pavia I969; N.M. DE FEo, Introduzione a Weber, Bari I97o; «Rassegna italiana di sociologia », I97o (articoli vari in occasione del cinquantenario della morte). Di TALCOTT PARSONS, oltre alla Struttura dell'azione sociale, sono tradotti in italiano i seguenti scritti: Società e dittatura, a cura di A. P ASQUINELLI, Bologna I 9 56; Il sistema sociale, a cura di L. GALLINO, Milano I965. Su Parsons: L. CAVALLI, Il problema dell'ordine e del cambiamento sociale nel pensiero di T. Parsons, in «Quaderni di scienze sociali», I963; C.N. APOSTLE, Parsonian sociology, in « Sociology and soda! research », I967; M. H. LEsSNOFF, Parson's rystem problems, in« Sociological review », I968; L. SKLAIR, Thefate ofthe «jtmctional requisites »in parsonian sociology, in« British journal of sociology », r97o; R.R. BLAIN, A critique of Parsons' four function pradigm, in « Sociological quarterly », I97o. La Teoria della classe agiata di THORNSTEIN VEBLEN è stata tradotta in italiano, a cura di F. FERRAROTTI, Torino I949 (ristampa Milano 1969). Un'ampia raccolta di opere è stata edita a Torino, a cura di F. DE DoMENICO e F. FERRAROTTI, nel I969. I principali studi su Veblen sono i seguenti: W. jAFFÉ, Les théories économiques et sociales de T. Veblen: contribution à l'histoire des doctrines économiques aux États-Unis, Parigi I924; R. V. TEGGART, T. Veblen, Berkeley I932; J. DoRFMAN, The «satire» of T. Veblen' s « Theory of the leisure class », in « Politica! science quarterly », I 9 32; K.L. ANDERSON, The uniry of Veblen's theoretical rystem, in « Quarterly journal of ethics », I933; J. DoRFMAN, T. Veblen and his America, New York 1935; J.A. HoBSON, Veblen, Londra I936; T.W. ADORNO, Veblen's attack on culture. Remarcks occasioned lry the theory of the leisure class, in « Studies in philosophy and soda! science », I94I; A.K. DAvrs, Sociological elements in Veblen' s economie theory, in « Jo urna! of politica! economy », I 94 5 ; M.S. DAuGERT, The philosophy of T. Veblen, NewYork I95o; F. FERRAROTTI, La filosofia di T. Veblen, in « Rivista di filosofia », I 9 5o; D. RIESMAN, T. Veblen, a criticai interpretation, New York-Londra I95 3; B. RoSENBERG, The values of Veblen. A criticai appraisal, Washington I956 « Monthly review », I957 (numero dedicato a T. Veblen);
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Bibliografia
L.E. DOBRIANSKY, Veblenism, a new critique, Washington 1957; A.K. DAvrs, T. Veblen recon.ridered, in « Science an d society », 19 57; AuTORI V ARI, T. Veblen: a criticai reapprai.ra/, a cura di D.F. Dowo, volume collettaneo in occasione del centenario della nascita di Veblen, Ithaca-New York 1958; M. VIANELLO, T. Veblen, Milano 1961; T.C. MAYBERRY, T. Veblen on human nature, in « The american journal of economics and sociology », 1969; L. DEL GRosso DESTRIERI, Indu.rtria e affari nel pen.riero di T. Veblen, in « Studi di sociologia », 1970. Per una bibliografia delle opere di C. Wright Milis rimandiamo all'appendice dell'edizione italiana di C. WRIGHT MILLS, Sociologia e cono.rcenza, Milano 1971, a cura di I.L. HoRowrTz. Le principali opere di C. WRIGHT MrLLS sono state tradotte in italiano: L'élite del potere, Milano 1959; Le cau.re della terza guerra mondiale, Milano 1959; L'immaginazione .rociologica, Milano 1962; Lettere cubane, Milano 1962; Colletti bianchi: la cla.r.re media americana, Torino 1966; Sociologia e pragmatismo, Milano 1968; I marxisti, Milano 1969; Politica e potere, Milano 1970. Ricordiamo inoltre l'antologia di classici della sociologia, curata da C. WRIGHT MILLS, Immagini dell'uomo, Milano 1962 e il libro scritto in collaborazione con H. GERTH, Carattere e .rtruttura .rociale, Torino 1969. Sull'opera di Wright Milis si veda: H. APTHEKER, The world of C. Wright Mi/l.r, New York 196o; G.B. SHARK, Mi/l.r and Weber: formalism and the ana(ysis of social structure, in« Science and society», 196o; D.F. Dowo, T. Veb/en and C. Wright Milis, in The new Sociolog;y, a cura di I.L. HoROWITZ, New York 1964; P.C. Luoz, Ein Rebel der amerikanischen Soziologie (C. Wright Milis), in « Merkur », 1965; J.A. SrGLER, The politica/ philosophy of C. Wright Milis, in « Science and society », 1966; G. MARSIGLIA, Classe e potere nell'opera di C. Wright Milis, in «Rassegna italiana di sociologia », 1969; Io., L'immaginazione .rociologica di C. Wright Milis, Bologna 197o; F. CAsSANO, Autocritica della sociologia contemporanea, Weber, Milis, Habermas, Bari 1971; G. AMENDOLA, Metodo sociologico e ideologia. C. Wright Milis, Bari 1971. La città di R. PARK, E. BuRGEss, R. MACKENZIE, e Le funzioni del conflitto sociale di L. CosER sono tradotti in italiano (Milano 1967). Sulla scuola di Francoforte si veda: A. ScHMIDT e G.E. RuscONI, La scuola di Francoforte, Bari 1972. Per quanto concerne la sociologia della conoscenza, oltre agli scritti di Max Weber, Max Scheler, Georg Lukacs, si vedano i seguenti studi più specifici: W. JERUSALEM, Die Soziologie des Erkennens, in «Die Zukunft», 1909; P. ANDREI, Die soziologische Auffassung der Erkenntnis, Lipsia 1923; AuTORI VARI, Versuche zu einer Soziologie des Wissens, a cura di M. ScHELER, Monaco-Lipsia 1924; K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn 1929 (xv ed. Francoforte 1965, ed. ingl. ampliata Londra 1936, trad. it. Bologna 1957, n ed. 1965); A. DEMPF, Wissenssoziologische Untersuchungen des uberganges vom Mittelalter zur Neuzeit, in « Archiv fiir angewandte Soziologie », I 9 3 I ; E. GRUNW ALD, Das Problem einer Soziologie des Wissens, Vienna-Lipsia 1934; P. SoROKIN, Social and cultura/ 4Jnamics, 4 voli., New York 1937-41; F. ZNANIECKI, The social role of the man of knowledge, New York 194o; C. WRIGHT MILLS, Methodical consequences of the sociolog;y of knowledge, in « American journal of sociology », 194o; A. CHILD, The problem of imputation in the sociolog;y of knowledge; the theoretical possibility of the sociolog;y of knowledge, in « Ethics », 1940-41; G.L. DEGRÉ, The sociolog;y of knowledge and the problem of truth, in « Journal of the history of ideas », 1941; A. CHILD, The existential determination of thought; the pro-
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Bibliografia
b!em of imputation resolved; the problem of truth in the sociology of knowledge, in « Ethics », I94I-42, I943-44, I947-48; J. MAQUET, Sociologie de la connaissance, Lovanio I949; K. MANNHEIM, Essays on the sociology of knowledge, Londra I 9 5z; H.]. LIEBER, Wissen und Gesellschajt, Tubinga I952; T. GEIGER, Ideologie und Wahrheit; eine soziologische Kritik des Denkens, Stoccarda-Vienna I95 3; F. ADLER, A quantitative stutfy in sociology of knowledge, in « American sociological review », I954; W. STARK, Sociology of knowledge, Londra I958 (trad. it. Milano I963, n ed. I967); I.L. HoROWITZ, Philosophy, science and the sociology of knowledge, Springfield I 96 I ; A. Izzo, S ociologia della conoscenza, Roma I 966; D. MARTIN, The sociology of knowledge and the nature of social knowledge, in « British journal of sociology », I968; N. ELIAS, Sociology of knowledge. New perspectives, in « Sociology », I97I.
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INDICE DEI NOMI I numeri in ror1ivo rimandano alla bibliografia
Abbagnano, Nicola, 63, 73, 74, 76, 82-85, 97, III, J6J Ackermann, Wilhelm, 215, 245 n., 256, 258, 291, 349 n. Adams, Walter Sydney, 445 Adler, Victor, 24, 26 Ajdukiewicz, Kazimierz, 269 n. Alexander, Samuel, 137 Alfieri, Vittorio Enzo, 6o Aliotta, Antonio, 55, 83, 92, J6I Allmayer, Vito Fazio, 59 Anastasi, Anna, 42 Anceschi, Luciano, 70, So, 95, J67
Anderson, Cari David, 422 Antoni, Carlo, 6o Arangio-Ruiz, Vladimiro,
59,
J62
Ardigò, Roberto, 52, 62 Aristotele, 86, 88, 108, 263 Arsen'iev, Aleksandr M., 19 Asor Rosa, 6o Attisani, Adelchi, 6o Auerbach, Felix, 142 Austin, John Langshaw, IOI, I02 Baade, Walter, 454 Bachelard, Gaston, 54, 56, 81 Badaloni, Nicola, IIO-III Bai re, René, I 99 n. Banfi, Antonio, 50, 63, 65-70, 73, 76, 78, So, 82, 92, 99, Io4, J64 Baratone, Adelchi, 62, 64, J6J Bariè, Giovanni Emanuele, 62, . 63, 64-65, J6J Barone, Francesco, 92, 96 n. Barth, Karl, 82 Bateson, William, 182 Battaglia, Felice, 89, J6J Bauer, Bruno, 75 Bellone, Enrico, u6 Beltrami, Eugenio, 52 Bernays, Pau!, 215, 26o n., 278, 349 n., 350 Bertalanffy, Ludwig von, I 57165, J68
Bertin, Giovanni Maria, 70, So, 96, J67 Bianchi-Bandinelli, Ranuccio, 79 Blackett, Patrick, 424 Bionde!, Maurice, 92 Blonskij (Blonsky) Pavel Petrovic, 34, 493-494 Bobbio, Norberto, 73, 74, 76, 81, IOI, 102-103, III, J6J Bohr, Niels, 55, 421, 430-431 Bondi, Hermann, 454, 184 Bonfantini, M., 75 Bontadini, Gustavo, 86, 91, 92 Bore!, Émile, I 99 n. Boro, Max, 420, 427, 429 Bose Satyendra Nath, 423 Bottai, Giuseppe, 76 Boubly, John, 25 Bourbaki, Nicolas, 406, 409, J76 Boveri, Theodor, 184 Bradley, Francis Herbert, I 3I, 2I9 Brentano, Franz, 92 Bridgman, Percy, 465-466 Broglie, Louis de, 419, JSJ Brouwer, Luitzen Egbertus Jan, 199-202, 246-248, 295-301, 336338, J72 Bruner, Jerome S., 46, 47 Burali-Forti, Cesare, 197, 225, 250, 25 3 Burgess, Ernest W., 54I, 542, J9I
Biitschli, Otto, 123-124 Buzano, P., 74 Buzzati-Traverso, Adriano, 74 Bykov, Konstantin, 501
Carabellese, Pantaleo, 62, 63-64, J6J
Caramella, Santino, 89 Carathéodory, Constantin, 413 Carbone, D.A., 81 Carella, D., 76 Carlini, Armando, 88 Carnap, Rudolf, II3, 255, 302304, 434 Cartesio (René Descartes), 97 Cassirer, Ernst, 56, 99 Castellana, Mario, 54 Castelli Gattinara di Zubiena, Enrico, 82, 89 Cattaneo, Carlo, 51, 77, 101, 110 Ceccato, Silvio, So Cerroni, Umberto, 109 Cesarini-Sforza, Widar, 59 Chadwick, James, 424 Charlier, Cari, 445, JSJ Chiocchetti, Emilio, 90 Chiodi, Pietro, 85, J6J Church, Alonzo, 356, 36o n., 361 n., J7I-JJ2 Chwistek, Leon, 208, 209, 269 n. Ciardo, Manlio, 6o Claparède, Édouard, 39 Codegone, C., 74 Codignola, Ernesto, 59 Cohen, ]. Pau!, 395-400, 176 Colletti, Lucio, 109, I II Colorni, Eugenio, 81 Conte, Amedeo G., 101 Cornu, Auguste, So Coser, Lewis A., 541, 543 Couturat, Louis, 53, 220, 243 Croce, Benedetto, 53, 57-62, 64, 71, 76, 95, III, 113, 250-253 Curie!, Eugenio, 66, 70, 77, 78 Curry, Haskell B., 286, 356 n.
Calamandrei, F., 77 Calogero, Guido, 58, J62 Campo, Mariano, 91 Cantoni, Remo, 70, So, 96, J67 Dacqué, Edgar, 146-147 Cantor, Georg, I96, 197, 198, Dal Pra, Mario, 74, SI, III D'Ambrosie, 75 225, 356 n. Decroly, Ovide, 14-15, 38, JJ8Capograssi, Giuseppe, 89 Capone Braga, Gaetano, 89 JJ9
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Indice dei nomi Dedekind, Julius Wilhelm Richard, I97, I9S De Finetti, Bruno, 74 Della Volpe, Galvano, 63, 76, So, Io4, I07-I09, I I 3, J67 Del Pane, Luigi, I04 De Ruggiero, Guido, 6o, 92, J62 De Sarlo, Francesco, 6 I, S9, 92,
Galli, Gallo, S9 Gamow, George, 424, J84 Gangale, Giuseppe, 66 Garin, Eugenio, 74, J6J Gemelli, Agostino, SI, 90 Gentile, Giovanni, 55-57, 6I, 62, 7I, 76, II3 Gentile, Giovannino, 55 Gentile, Marino, SS J6J Descartes, René, -+ Cartesio Gentzen, Gerhard, 339-350 De Vreis, Hugo, ISI-IS2 Giacon, Carlo, SS, 9I Gioberti, Vincenzo, 92 Dewey, John, S3, S5 Gioia, Melchiorre, I I o Diano, Carlo, 95 Digges, Leonard, 443 Godei, Kurt, 27S, 305, 31 I-323, Dilthey, Wilhelm, 519-52I pS, 334-335, 340, 34I n., Dingler, Hugo, Ioi, IjS 349 n., 354, 356, J72-J7J, !76 Dirac, Pau! Adrien, 422, 423, Goebel, Karl, I47 Goethe, Johann Wolfgang, I47 !78 Goudsmit, Samuel Abraham, 42-2 Dollard, John, 4SS Doppler, Christian, 446 Gramsci, Antonio, 69, 79, I04, 110, III Driesch, Hans, 12S-I29 Granata, G., 75 Eddington, Arthur Stanley, S3, Grasselli, Giulio, S2 Grassi, Ernesto, S2 447, 45I, 466, J8J Gratton, Livio, So Einstein, Albert, 55 Engels, Friedrich, IIo, III, II2 Guastella, Cosmo, 62, J6J Enriques, Federigo, 52-54, 72, Guthrie, Edwin Ray, 4S4-4S5 Guye, Charles-Eugène, I42 96, II3, Jbr Erikson, Erik, 27 Guzzo, Augusto, S9, 92 Fachini, Giuseppe, So Fermi, Enrico, 423, 424 Ferrari, Giulio Cesare, 92 Ferrarotti, F., 74 Ferrata, Giansiro, 77 Ferretti, Gino Giuseppe, 59 Fichte, Johann Gottlieb, 92 Filiasi Carcano, P., 96 n., Io3, J66
Fiorani, Eleonora, I I I-I I2 Fiore, V., 75 Fisher, Ronald A., IS9 Flora, Francesco, 6o, J62 Formaggio, Dino, 70, So, 95, J67
Fortini, Franco, 77, !64 Fraenkel, Abraham A., 2I2, 270273, !73 Franchini, Raffaello, 6o Franz, Shepard Ivory, 475 Frege, Friedrich Gottlob, I95, I9S Freinet, Célestin, I 5 Freud, Anna, 25, !!9 Friedberg, Richard M., 365 Friedmann, Alexandr, 452 Frola, E., 74 Fromm, Erich, 47-4S Fubini, Mario, 6o, J62 Galilei, Galileo, 93, IoS
Hull, Clark Leonard, 4S0-4S2, !87
Hume, David, IOS Hunter, Walter Samuel, 473-474 Hurwitz, Adolf, I95 Husserl, Edmund, 6S, 69, 92, 93, 99 Hutchins, Robert Maynard, 45 Hylla, Erich, 44 Jaskowski, Stanislaw, 333 n., 34I n. Jaspers, Karl, S4, 90 Jennings, Herbert Spencer, 12S Johansen, Wilhelm Ludwig, IS2IS3, IS7 Jordan, Pascual, I43-I44 Jordan, Zbigniew A., 269 n.
Kant, Immanuel, 50, 62-65, 67, 69, S6, I05, Io6, IOS Keynes, John Maynard, I IO Kierkegaard, Soren Aabye, S6 Kilpatrick, William Heard, 2I-24, p, 4I, !!7-!!8 Kleene, Stephen Cole, 356, 357 n., 360-366, !74 Klein, Mélanie, 25, !!9 Kohler, Wolfgang, I56-I57 Kolmogorov, Andrej NikolaeHadamard, Jacques, I95 vic, 295, 3oo-3oi, 332-3.33 Haeckel, Ernst, I47 Konig, Julius, I96, 2II, 234 Haldane, John Burdon Sander- Kornilov, Konstantin, 494-496 Kotarbinski, Tadeuzs, 269 n., J7I son, I77-I79, IS9, !70 Haldane, John Scott, I3I-I35, Kreisel, Georg, 366, 3So, !7! I66-I67, !69 Kripke, Saul, 3S7-3S9, 39I Hardy, G.H., IS9 Kronecker, Leopold, 231-232 Hartmann, Eduard von, J68 Labriola, Antonio, 6S, 104 Hartmann, Heinz, 42-43 Hausdorff, Felix, 2 I I Lamanna, Eustachio Paolo, S9 Langford, Cooper Harold, 262 Hebb, Donald 0., 477-479 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Lashley, Karl S., 475-476 Lasson, 65 54, 69, S5, Io6, IoS, I09 Heidegger, Martin, S4 La Via, Vincenzo, S2, S9 Heisenberg, Werner, 420-422, Lazzerini, Renato, S9 Lebesgue, Henri Léon, I99 n., 42S-43I, 432, !79 Henkin, Leon, 3I7 n. 244 n. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 6I, Hepter, W., 269 n. Herbrand, Jacques, po-31 I, 34664, IOS Lemaltre, Georges, 4 52 347 Lenin (Vladimir Il'ic Ul'janov), Herzberg, ]., 269 n. III, II2, II5, II6 Hessen, Sergej, 17-I9, JJ8 Heyting, Arend, 202, 299 n., Leonetti, Alfonso, So 30I, 302, 330-334, 335, 36I n. Leonetti, Francesco, 79 Hilbert, David, 54, 2I2-2I6, 230- Leontiev, Aleksej Nikolaevic, I9, 234, 245, 256, 25S, 260 n., 496, 49S, !87 262, 2S6, 294, 299, 30I, 339, Lesniewski, Stanislaw, 269 n. Levi, Adolfo, 62, J6J 340, 350 n., 4oS, J72 Holt, Edwin Bissell, 474 Lewin, Kurt, 503-507 Lewis, Clarence Irving, 254, 262, Hoyle, Fred, 455 Hubble, Edwin Powell, 446 264-266
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Indice dei nomi Lillie, Ralph S., I43 Lindembaum, Adolf, z69 Loeb, Jacques, IZ4-IZ7 Lombardi, Franco, 58-59, J62 Lombardo-Radice, Giuseppe, 59 Lowenheim, Leopold, 307-309, 313 Lukacs, So, Io8 Lukasiewicz, Jan, z66-z7o Luporini, Cesare, 63, 76, 79, 82, 86, I04-I07, I IO, J07 Luria, Aleksandr, 496, 498 Macchioro, Aurelio, Io9-I Io, Jo8 Mac Lane, Saunders, 4Io n. Maffi, Bruno, I IO Malcev, Anatolij lvanovic, 313 Malinowski, Bronislaw, 54I Mannheim, Karl, 548-5 53 Mao Tsetung, 69, 76 Markov, Andrej Andreevic, 357, 359 Markuschevic, Aleksej Ivanovic, I9 Marshall, A., I IO Martinetti, Piero, 65, 68, 76, 9I Marx, Karl, 33-34, 86, Ioo, I05Io8, I IO Masnovo, Amato, 9I Massolo, Arturo, 63, 79, 82, 86-87, JoJ Maturi, Sebastiano, 89 Mc Crea, W.H., 454 Mc Dougall, William, I 38 Mendel, Gregor, 18o-I8I Merker, Nicolao, Io9 Meyer-Abich, Adolf, I 34 Meyerson, Émile Azriel, 56 Michelstaedter, Carlo, 59 Miegge, G., 82 Mila, Massimo, 6o Miller, Neal, 488, 489 Millikan, Robert Andrews, 424 Milne, Edward Arthur, 452 Mirimanoff, Dimitri, 273 Mondolfo, Rodolfo, 68, I03-I04 Montague, Richard Merritt, 366 Morgan, ConwayLloyd, I37, J09 Morgan, Thomas H un t, I 24, I84-I85 Morpurgo Tagliabue, Guido, 95 Morris, Charles, IOI Moschovakis, Yannis Nicholas, 366 Mostowski, Andrzej, 395, J1J, !70
Mowrer, Hobart, 488, 489-490 Mucnik, A.A., 365 Miiller, Hermann Joseph, I85 Mussolini, Benito, 71 Myhill, John, z69 n., 332 n.
Nagel, Ernest, 433 Radcliffe-Brown, A., 54I Needham, Joseph, I74-I77, J68, Ragghianti, Carlo Ludovico, 6o Raggiunti, Renzo, 96 !70 Neumann, John von, 275-279, Ragionieri, Ernesto, I I z Ramsey, Frank Plumpton, 207, 29I, 292, 302, 303, 4I4 Newton, lsaac, Io6 208, 2II, 255, 280-285, 304, Nicod, Jean, 257 !72 Nietzsche, Friedrich, I45 Ranzoli, Cesare, 6I-6z, J6J Ravazzoli, Paoio, So Nuvoli, P., 74 Reichenbach, Hans, 56 Reid, Thomas, 88 Occhialini, Giuseppe, 424 Olgiati, Francesco, 90 Rensi, Giuseppe, 6z, JoJ Restaino, Franco, Ioi Omodeo, Adolfo, 6o, 75 Ostwald, Wilhelm, I25-126 Richard, Jules, 196, I97, 245 Ottaviano, C., 8I Rickert, Heinrich, po, 5ZI Riehl, 65 Paci, Enzo, 63, 70, 73, 76, So, Riemann, Bernhard, 407-408 Ritter, W.E., I4o 85, 92-95, Io7, J66 Padoa, Alessandro, 250 Robinson, Rafael Mitchel, 278 Padovani, Umberto, 88, 9I Rognoni, Luigi, 70, 95 Rosmini Serbati, Antonio, 88, 92 Paggi, M., 75 Rosser, J. Barkley, 3I6 n. Pandolfi, Vito, 77 Pannunzio, M., 75 Rossi, Bruno, 424 Papi, Fulvio, 70 Rossi, Mario Manlio, 62, 63, 65, Papini, Giovanni, 52 92, Io9, JoJ Parente, Alfredo, 6o Rossi, Paolo, 74 Pareto, Vilfredo, I Io Rossi, Pietro, 74, 85 Rossi-Landi, Ferruccio, 73, 74, Pareyson, Luigi, 82, 90, JOO Ioi-Ioz, J07 Park, Robert E., 54I, 542, J9I Roux, Wilhelm, I zz Parkhurst, Helen, 39 Parri, Ferruccio, 66 Rubinstein, Sergej, 499-500 Russell, Bertrand Arthur William, Parsons, Talcott, 54I-542, J90 Parsons, William, 446 53, 54, II3, I94-I96, I97, ZOO, Pasca!, Blaise, 88 ZOZ-2I2, 2I8-230, 243, 246, 28o-z85 Pastore, Annibale, 55, 92, JOI Pauli, Wolfgang, 42I-4zz, 429, Russell, Edward Stuart, I37-I41, I85, J09 !79, J80, J8J Peano, Giuseppe, 52, 53, 54, 55, Russell, Henry Norris, 446 92, 235, 236, 243 n., 246, 250, Russo, Luigi, 6o Ryle, Gilbert, IOI 251-253, JOI, !72 Pelloux, Luigi, 9I Sacks, Gerald E., 366 Persico, E., 74 Peter, Rosza, 355 Saitta, Giuseppe, 59 Petruzzellis, Nicola, 89 Salvatorelli, Luigi, 75 Piaget, Jean, I6, 4I, 507-5 I 2, Sartre, Jean-Paul, I07 Scarpelli, Uberto, IOI, I02, I03 !88 Piovesan, Renzo, IOI, Ioz Schaxel, Julius, I 53-I 54 Scheler, Max, 146, J9I Planck, Max, !79 P late, Ludwig, I 86 Schlick, Moritz, 56, 97 Platone, 86, 88, I08 Schoenfield, Joseph R., 365, J7I, Poincaré, Henri, 53, I98, I99!74 zoi, 223 n., 237, 238 n., 243- Schèinfinkel, Moses, 356 n. Schopenhauer, Arthur, I45 246 Post, Emi! Leon, 254, 256-258, Schrèidinger, Erwin, 420, 435, 357, 359, 363, 364, 365 !79 Preti, Giulio, 63, 70, 73, 78, So, Schultz, Julius, 127-128 Schutte, Kurt, 349 n. 9I, 97, 98-IOI, J07 Prior, Arthur Norman, 39I, 392 Sciacca, Michele Federico, 82, 88 Sears, Robert, 488 Quine, Willard van Orman, II3, Seeliger, Hugo von, 448 Semerari, Giuseppe, 96 2IO
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Indice dei nomi Shapley, Harlow, 445 Sheffer, Henry Maurice, 257 Sherrington, Charles Scott, 47G Simmel, Georg, G5, 542 Sitter, Wilhelm de, 450-452 Skatkin, Mikhail Nikolaievic, 34 Skinner, Burrhus Frederick, 4S24S4, J86, J87 Skobel'tsyn, Dmitrij Vladimirovic, 424 Skolem, Thoralf, 212, 245 n., 255, 271-274, 293-295, 307-309, 313 S!eszynski, Jan, 2G9 n. Smirnov, Anatolij A., 19 Smuts, J an Christian, r 35- r 37 Solari, Gioele, 102 Somenzi, Vittorio, So, J67 Sommerfeld, Arnold, 420 Spencer, Herbert, G2 Spengler, Oswald, r 59 Spirito, Ugo, 57, J6z Spitz, René, 25 Spranger, G5 Stark, Werner, 550, 552 Stefanini, Luigi, S9-90, 92 Steiner, Albe, 77 Sukhodolski, Bogdan, 29 Sumner, W.G., 540 Sutton, Walter S., rS4
Teofrasto, 2G3 Terracini, Umberto, So Timpanaro, Sebastiano, r r 2 Togliatti, Palmiro, 75 Tolman, Edward Chace, 4S5-4SS Tresso, Pietro, So Trinchero, Mario, S5 Troilo, Erminio, G2, J6J Troll, Wilhelm, r4S Turing, A. Mathison, 357, 35S, 359 Twardowski, Kasimierz, 2G9 n. Uexkiill, Jacob von, 14S-152, J70 Uhlenbeck, George Eugene, 422 Ungerer, Emi!, 154-15G, J68 Vaccarino, Giuseppe, So Vailati, Giovanni, p, 54, 73, 92 ror, 113, 250 Vanni-Rovighi, Sofia, 92 Varisco, Bernardino, Gr, S9, J6J Veblen, Thorstein, 541, 544-545,
Washburne, Carleton W., rS, 32, 39> 40, 41, !!9 Weber, Max, 513, 5rG-539, J88J90
Weinberg, W., rS9 Weiss, Albert Pau!, 473 Weismann, August, I20-I2I, !22, 139, rS5 Weyl, Hermann, 225, 245 n., 292-293> J72 Whitehead, A. North, 92, 140, 1G7, 202, 221-222, 230 n., 2So2S5 Widmar, B., 75 Windelband, Wilhelm, po, pr Wittgenstein, Ludwig, ror, 209, 279 Wolf, Gustav, roS Woodger, Joseph Henry, 1G5173, J10 Wright, Georg Henryk von, J76 Wright Milis, Charles, 541, 545547, J9I
J90-J9I
Vedaldi, Armando, S7, J6J Verworn, Max, r2r-r23 Viano, Carlo Augusto, 74, S5 Vidoni, Ferdinando, rr2 Vigotsky, Leo, 49G-49S Vittorini, Elio, 77-7S, J64 Volpicelli, Arnaldo, 59 Volpicelli, Luigi, 59
Taine, Hyppolite, G2 Takeuti, Gaisi, 349 n. Tarozzi, Giuseppe, G2, J6J Wajsberg, Mordchaj, 2G9 Tarski, Alfred, 2G9, 317 n., 323- Wang, Hao, 332 n. Ward, L. Frank, 540 330, JJI, JlJ
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Yukawa, Hideki, 425 Zawboni, Giuseppe, 91 Zankow, Leonid Vladimirovic, 20 Zawirski, Zygmund, 2G9 n. Zeremba, Stanislaw, 2G9 n. Zermelo, Ernst, 200, 211, 212, 234-242, 270-273 Zevi, Bruno, Go Zorbaugh, W., 543 Zwicky, Fritz, 453
INDICE DELLE CI'I'AZIONI CRI'I'ICHE
Abbagnano, Nicola -su Kant 63 - sulla filosofia 83-84 - sull'esistenzialismo 84 - sulla ragione 97 Asor Rosa -su Croce 6o Badaloni, Nicola - su Gramsci I I I Banfi, Antonio - su Carabellese 63 - sulla crisi di cultura nei primi due decenni del sec. xx 66 - sulla filosofia e sulla storia 67-69 - su Mao Tsetung 69 - sul marxismo 69 - sulla rivista « Studi filosofici » So - sui filosofi marxisti I04 Beker, Raymond de - su A. Adler 26 Bertoni Jovine, Dina - sulla pedagogia 29 Bobbio, Norberto - sulla figura dell'intellettuale
pedagogo 73 Borghi, Lamberto - sulla pedagogia 4 5
-
sul marxismo Io5, I07 su Kant I05-I06
Manacorda, Mario Alighiero - sulla pedagogia marxiana 33 Mazzetti, Roberto - sui problemi della pedagogia Della Volpe, Galvano 45 - sul principio strutturale della Merker, Nicolao nuova logica materialistica - su Della Volpe I09 I08-I09 Paci, Enzo Ferretti, Bruno - sull'esistenza 85 - sui problemi della pedagogia - sulla crisi della cultura euro46 pea 93-94 Persico, Enrico Haldane, John Scott - sulla fisica odierna 430, 43I- sull'affermazione dell'uomo 432, 434-435 nel mondo moderno I o Preti, Giulio- su Gentile 9I Labriola, Antonio - sulla necessità di una analisi Santoni Rugiu, Antonio di classe I07 - sulla pedagogia contemporaLeonetti, Francesco nea 12 Spirito, Ugo - su Vittorini 79 Luporini, Cesare ,...- su scienza e filosofia 57 - sull'attività della ragione 86
Curie!, Eugenio - sul Risorgimento 70
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INDICE GENERALE
SEZIONE DECIMA
Problemi e dibattiti filosofici e scientifici CAPITOLO PRIMO
Nota introduttiva CAPITOLO SECONDO
Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea DI RENATO TISATO
9
r Società democratica in cammino e « rivoluzione copernicana». r 3 II L'educazione in rapporto all'attività cognitiva e all'apprendimento. 20 III Educazione e formazione morale.
30 38 44
rv Educazione e formazione sociale. v Il problema dell'individualizzazione. vr La critica alla scuola progressiva nel campo borghese.
CAPITOLO TERZO
La filosofia italiana contemporanea DI LUDOVICO GEYMONAT E MARIO QUARANTA
50 51 56 59 65 70 75
r Struttura del capitolo. Difficoltà nei rapporti tra scienza e filosofia durante i primi decenni del secolo. III Sintomi di crisi all'interno dell'attualismo. rv Altri indirizzi idealistici. v Antonio Banfi. vr Profondo rinnovamento della problematica filosofica. VII Le nuove riviste filosofiche dell'immeII
82. 87 92 96 !03 II2.
diato dopoguerra. vrn L'esistenzialismo. rx Lo spiritualismo cristiano e la neoscolastica. x La fenomenologia. xr Il neoempirismo e la filosofia analitica. XII Il marxismo. XIII Scienza e filosofia. Rinascita del materialismo dialettico.
CAPITOLO QUARTO
Biologia e filosofia DI FELICE MONDELLA
II 8 II 9
r Premessa. Il meccanicismo biologico: difficoltà e contraddizioni. 128 III Alcune obiezioni al vitalismo. r 29 rv Critiche al meccanicismo e autonomia della biologia. r 31 v Organicismo, olismo ed emergentismo nei paesi anglosassoni. 141 vr Indeterminismo fisico e autonomia della vita. 144 VII Irrazionalismo e visioni biologiche del II
r 53 r 73 179 r86 191
mondo in Germania. Dal problema della totalità e della forma alle teorie dell'organizzazione biologica. rx Dall'organicismo al materialismo dialettico. x La genetica e la struttura materiale del «gene». xr La genetica e la nuova teoria dell'evoluzione. XII Conclusione. VIII
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Indice generale CAPITOLO QUINTO
La logica nel ventesimo secolo ( r) DI CORRADO MANGIONE I94 2I7
I La crisi II I primi
dei fondamenti. venti anni del secolo ventesimo. Gli anni venti.
254
III
305 366
Gli anni trenta. v Dopo la seconda guerra mondiale. Sguardo su alcuni sviluppi della ricerca odierna. IV
CAPITOLO SESTO
Problemi filosofici della matematica e della fisica odierne 402 404 408 4I2 4I5 4I9
I Considerazioni preliminari. II Il metodo assiomatico in
VII Il significato filosofico attribuito al principio di indeterminazione. 428 VIII La base metodologica dei principi di indeterminazione e di complementarità. 43I Ix Considerazioni critiche sulla presunta « dimostrazione >> dei principi della meccanica quantistica. 43 5 x Considerazioni critiche sulla filosofia usualmente connessa alla meccanica quantistica. 426
matematica. III Conseguenze filosofiche dell'assiomatizzazione della matematica moderna. IV Sollecitazioni che provengono alla matematica dalle altre scienze. v Il potenziamento della matematica applicata. VI Uno sguardo allo sviluppo della fisica quantistica.
CAPITOLO SETTIMO
Nuovi aspetti della cosmologia DI UGO GIACOMINI 44I 442 444 448
4 53
La rinascita odierna della cosmologia. II Breve richiamo ai principali modelli cosmologici del passato. III La connessione tra tecniche osservative e modelli cosmologici. IV La cosmologia relativistica e i suoi principali modelli di universo. v La nuova cosmologia e i modelli dell'universo in stato stazionario. I
457 460
464
467
VI La rivoluzione cosmologica e le nuove idee di materia dopo il I966. VII Differenze tra la cosmologia e le altre scienze. Il concetto di « modello di universo». VIII I rapporti fra cosmologia e astronomia: obiezioni contro la scientificità della cosmologia. IX Cosmologia e filosofia oggi.
CAPITOLO OTTAVO
La psicologia scientifica contemporanea DI FRANCA MEOTTI 47I 473 475 479
Considerazioni introduttive. II Il primo behaviorismo. III Alcune ricerche neurofisiologiche nell'ambito del behaviorismo. IV Il neo-behaviorismo e le teorie dell'apprendimento. I
490 492 503 507
v Considerazioni generali sul neo-behaviorismo. VI La psicologia sovietica dopo Pavlov. VII Kurt Lewin. VIII Jean Piaget.
CAPITOLO NONO
Weber e gli indirizzi della sociologia contemporanea DI PINA MADAMI
5 I3 p6 5I9 526
555
593 597
Considerazioni preliminari. Vita di Max Weber. III L'oggettività nelle scienze storico-sociali. IV L'etica protestante e lo spirito del capitalismo.
I II
529 v La sociologia di Weber. 53 7 VI Valutazioni conclusive. 539 vn La sociologia dopo Weber. 548 VIII La sociologia della conoscenza.
Bibliografia INDICE DEI NOMI INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE
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