K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD SULLE RIVE DEL NILO (EverWorld 9: Inside The Illusion, 2000) RIUNIONE DI FAMIGLI...
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K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD SULLE RIVE DEL NILO (EverWorld 9: Inside The Illusion, 2000) RIUNIONE DI FAMIGLIA Merope e le altre Amazzoni armate di arco ci accompagnarono a una stanzetta in fondo al cortile. E fu lì... che parlai a mia madre per la prima volta dopo dieci anni. «E così sei venuta» esordì lei. «Non avevo molta altra scelta.» «Sì, lo so. Le trame di Loki non sono passate inosservate. Ma sei riuscita a sfuggirgli. Sono sicura che è stata una bella impresa. Loki è molto pericoloso, molto intelligente... per essere un dio.» A questo punto la conversazione si arenò. Era tutto qui? Dovevamo starcene in piedi, imbarazzate, in una stanzetta muffita, come due sconosciute che imbastiscono una conversazione frammentaria mentre aspettano l'autobus? «Come te la sei passata, Senda?» «Mi chiamo Senna adesso» la corressi. Lei aggrottò la fronte. «Senna? È il nome di una pianta usata in medicina, per lo più come lassativo.» «Già. Per fortuna i ragazzi a scuola non perdono molto tempo a spulciare i dizionari.» Lei abbassò gli occhi. «Come te la sei passata?» «Come me la sono passata? In questi ultimi dieci anni, da quando mi hai scaricata? Come me la sono passata, l'unica della mia specie, imprigionata in un mondo pieno di idioti ciechi, sordi e muti? Bene, mamma.' Benissimo. E tu, come te la sei passata?!» CAPITOLO I Avevo sette anni quando mia madre mi disse che sarebbe andata via. Ricordo che le luci del treno erano troppo forti, era impossibile vedere
fuori dal finestrino. Il vagone sobbalzava e dondolava. Un uomo dormiva, il mento sul petto, e respirando fischiava. Un'infermiera si era tolta una scarpa bianca e si massaggiava il piede. Eravamo sedute sui duri sedili di plastica, io e mia madre. Lei era nervosa, molto tesa, e si vedeva bene. Osservava troppo attentamente gli altri passeggeri. Mi parlava sussurrando, tenendo le labbra vicine al mio orecchio. Mi faceva un po' di solletico. «So che non capisci, Senda. Non puoi capire veramente, non ora almeno. Ma se ti tengo con me, tesoro, se restiamo insieme, avremo dei guai. Ci sono delle persone cattive che potrebbero... non voglio spaventarti, zuccherino, non voglio che ti preoccupi. Devi solo fidarti della tua mammina. Un giorno capirai.» Mi posò la mano sulla guancia, mi carezzò la faccia e i capelli. E mi baciò sulla tempia. «Dove vai?» le chiesi. Non avevo idea, naturalmente. Ero troppo piccola. Non avevo idea che quella sarebbe stata l'ultima volta che vedevo mia madre. «La mamma deve andare molto lontano, in un posto molto diverso. La mamma deve partire. Le dispiace tanto. Mi dispiace tanto, non avrei mai dovuto... ma un giorno, forse, anche tu te ne andrai, Senda. Forse. Ma io spero di no, davvero. Spero che troverai il modo di stare bene qui, di essere normale. Oh, tesoro!» Continuava a parlare, un flusso ininterrotto, ripetitivo, tortuoso, che riempiva il tempo e lo spazio di parole che non significavano niente per me. Osservai l'altra gente sul treno. Nessuno aveva l'aura. Nessuno di loro brillava della pallida luce che vedevo intorno a mia madre. Nessuno di loro era come noi. Non c'era mai stato nessuno come noi. Eravamo solo noi due, lo sapevo, l'avevo sempre saputo, sembrava. Solo noi eravamo così. Una minoranza: in due. Quella sera incontrai mio padre per la prima volta. Avevo la mia valigetta e lo zainetto di Barbie con dentro i miei pochi giocattoli, i vestiti, qualche libro. Uscimmo dalla stazione ed entrammo in un canyon di palazzi straordinariamente alti. Sapevo come si chiamava questa parte della città: il "centro". Era tardi, c'era buio. Le strade non erano vuote, le strade di Chicago non sono mai completamente vuote, ma c'era una sensazione di vuoto, di spopolamento.
I taxi gialli ci passavano accanto silenziosi, con la luce del "libero" accesa. Le limousine sollevavano spruzzi passando sulle pozzanghere della pioggia recente. Ogni tanto un autobus arrancava sbuffando e lasciando dietro di sé odore di nafta. I pedoni erano pochi. Camminavano in fretta con la faccia nascosta nel bavero del cappotto o dietro una sciarpa. C'era freddo, un freddo umido. Dall'altra parte della strada, un ristorante italiano, con uno sgargiante tendone bianco, rosso e verde. Una copisteria, aperta e troppo illuminata, ma vuota, tranne un ragazzo dai capelli lunghi davanti a un'imponente fotocopiatrice, gli occhi vitrei, la testa che dondolava al ritmo di una musica che non sentivo. Guardai in alto. I palazzi non finivano più, sparivano nell'oscurità del cielo. Le luci della strada facevano sparire le stelle, la luna era invisibile. «Andiamo» mi disse mia madre, e attraversammo con il verde. Mi teneva per mano, lei portava la valigetta e io lo zaino di Barbie. Non mi piaceva quello zaino, non mi piaceva la Barbie, ma era mio, e averlo con me mi dava una certa sicurezza. Entrammo da una pesante porta a vetri in un atrio, illuminato da una luce soffusa, che sembrava un mausoleo, tutto granito e alluminio satinato e faretti incassati. Un custode alzò gli occhi, sorpreso di vedere lì due come noi. «Dobbiamo vedere Tom O'Brien» gli disse mia madre. Il custode fece una telefonata. Entrammo in ascensore e salimmo di molti piani. A ogni piano l'ascensore sobbalzava lievemente. Nessuna di noi disse una sola parola. C'era della musica. Nessun altro salì. Arrivate al nostro piano, ci trovammo in un altro atrio, questa volta con moquette per terra e legno di noce alle pareti. Anche qui le luci erano basse. Sentii qualcuno che pigiava sulla tastiera di un computer. Vidi un uomo con la camicia bianca in fondo a un corridoio. Parlava con qualcuno che stava dentro un ufficio. Sembrava elettrizzato. Dalla parte opposta si avvicinò un uomo alto. Mi sembrava vecchissimo. Aveva i capelli grigi sulle tempie, gli occhi preoccupati, le rughe sulla fronte. Ma lo sguardo era tenero, quando si posò su di me. «Anica, che ci fai qui?» chiese a mia madre. «Non ho altra scelta, Tom. Questa è tua figlia. Io non posso più tenerla. Se la tenessi con me, saremmo in pericolo entrambe. Tu non hai idea... non ti puoi neanche immaginare...» Lui girò la testa e, allontanandosi con mia madre, mi disse:
«Resta qui. Non muoverti.» La fece entrare in un ufficio e chiuse la porta. Mi avvicinai e origliai. Mi accovacciai e appoggiai l'orecchio al prezioso legno di noce satinato. «... matta? Non puoi arrivare qui come se niente fosse e mollarmi una bambina. Io ho già una famiglia. Ho una moglie e una figlia mia.» «Avevi una moglie anche quando stavi con me» ribatté lei con voce pungente. «Sì, e sbagliavo, e se avessi saputo che avevi avuto una bambina, ti avrei aiutato in qualche modo. Ma tu sei sparita. Non me l'hai mai detto. Hai...» «Non c'è tempo adesso per questi discorsi» lo interruppe stancamente mia madre. «Su, prendimi la mano.» Riuscivo a sentirla anche dietro la porta, l'aura. Era così che la chiamavo, "aura", era così che mia madre mi aveva insegnato a chiamarla. Una luce che veniva dal nulla, una luce che gli altri non potevano vedere. Sentii che raccoglieva l'aura dentro di sé, la concentrava, la convogliava, la usava. Passò anche attraverso di me, quell'aura: eravamo una cosa sola e inseparabile, io e mia madre, unite dall'aura. Ci fu una pausa. Poi di nuovo la voce di mia madre, più dolce, tranquillizzante. «Adesso va meglio, vero? Sei un uomo buono, Tom. Vuoi fare ciò che è giusto. Vuoi prenderti le tue responsabilità.» Nessuna risposta, all'inizio. Poi, una voce vaga, turbata. «Sì. Certo.» «Tu mi ami ancora.» «Sì.» Non una squillante dichiarazione, piuttosto una riluttante confessione. «La prenderai con te. Per amor mio.» «Ma...» «La mia volontà è la tua volontà, Tom. I miei bisogni, i tuoi bisogni. Tutte le tue preoccupazioni non hanno senso. Andrà tutto bene. Va tutto bene. Prenderai con te la bambina, la crescerai, la proteggerai, la terrai al sicuro, con ogni mezzo.» «Sì» disse lui. La sua voce era simile al borbottare di un sonnambulo. «Bene. Ricordatelo.» Poi, con un tono diverso, più pratico, aggiunse: «Non preoccuparti, Tom, non la dovrai tenere a lungo. Le grandi potenze la troveranno, o sarà lei a trovare loro.» «Anica, non capisco...»
«No, ma lei capirà. Non ora. Un giorno. Adesso ci sta ascoltando. È dietro la porta, sento che è qui.» Mi allontanai di scatto, la faccia in fiamme. Ma poi decisi di tornare ad ascoltare. Che male c'era? Mia madre mi stava abbandonando. Che cosa poteva farmi di peggio? Ma adesso parlava con me, attraverso la porta, come se mi vedesse, come se sentisse le mie domande amare e inespresse. «Tu sei grande e pericolosa, Senda. Ti ho chiamata Senda, il sentiero. Che tu possa non diventarlo mai. Se restassimo insieme, noi due, nello stesso posto... sarebbe troppo pericoloso, e io sono troppo debole, Senda, bambina mia innocente. Ma potrebbe venire il giorno... dio non voglia! Ma se quel giorno venisse, Senda, cercami dalla madre Iside.» «Come hai detto che si chiama?» le chiese mio padre. «Senda. La mia bella bambina. Senda, il sentiero.» «Senna?» ripeté lui, perdendo nella piatta pronuncia nordamericana il suono dolce della "d" spagnola. E da quel giorno, fui Senna. Fui sua figlia. Ma seppi sempre di essere diversa. Mia madre non uscì mai da quell'ufficio. Sentii un'esclamazione di sorpresa di mio padre. Sentii una terribile ondata di potere, l'aura, allo stato puro. E pochi secondi dopo, uscì mio padre, bianco come un fantasma, tremante. Guardai dentro. Mia madre era sparita. CAPITOLO II «Ehi, strega» mi chiamò Christopher, alzando la voce in modo che tutti lo potessero sentire. «Ehi, strega, sei sicura che non puoi farmi apparire una confezione da sei di buona birra tedesca? Insomma, riesci a spostare un fiume intero, e non sai farmi apparire un po' di birra fresca? Mi va bene anche in lattina. Non dico che debba essere in bottiglia.» Lo ignorai. Di norma, li ignoro tutti quanti. Loro mi odiano. Mi danno la colpa di tutto. Mi temono. Ma non me ne importa niente. Quello che mi importa è che si comportino esattamente come voglio io. Gli esseri umani non sono pedine su una scacchiera, hanno pur sempre il libero arbitrio (fino a un certo punto), ma un buon giocatore di scacchi riesce comunque a usarli a suo vantaggio. In effetti, giocare con le persone è più difficile che giocare con gli scacchi. O forse dovrei dire che richiede delle abilità diverse. Un campione di
scacchi deve essere in grado di prevedere le mosse sue e del suo avversario, sei o sette mosse avanti. Ma questo è impossibile con le persone, naturalmente. Le persone sono pedoni o torri o alfieri che talvolta possono fare delle mosse impossibili. I pezzi degli scacchi non lo fanno. Il cavallo non può decidere di punto in bianco di spostarsi due caselle avanti o tre indietro. Per giocare con le persone non serve tanto l'abilità di prevedere molte mosse, quanto piuttosto l'abilità di adattarsi in fretta, di tenere d'occhio più obiettivi contemporaneamente, e di essere pronti a tener conto nei propri calcoli del libero arbitrio degli uomini. «Birra tedesca?» commentò April, giusto per fare conversazione e per darmi fastidio. «Non avrei mai creduto che fossi un tipo da birra di importazione, Christopher.» «Be', non rifiuterei una bella birra nostrana. Stavo solo pensando... ehi, se la Strega Malvagia del Lago Michigan può farlo, perché non puntare al meglio sul mercato?» Fino ad ora, qui a Everworld, ero riuscita a sfuggire dalle grinfie di Loki, a sfuggire a Merlino, a indebolire Huitzilopoctli, che a sua volta aveva indebolito Ka Anor. Certo, c'erano stati anche dei fallimenti. Non ero riuscita a usare Hel ai miei fini. Avevo fatto il passo più lungo della gamba. Hel non è altro che un essere bestiale e furioso. Avrei dovuto capirlo. Peggio ancora, avevo perso il controllo su David. Non tutto, però: lui mi avrebbe sempre desiderata, mi avrebbe sempre amata, avrebbe sempre dovuto combattere l'impulso di pensare prima ai bisogni e ai desideri miei. Ma quella cretina di Atena... «La birra irlandese» continuò April. «Quella sì che è birra. Birra scura, al malto, credo.» Be', sbagliando s'impara. Si sbaglia, si impara e si diventa più forti. Lo sentivo. Ero ogni giorno più forte. Ogni giorno la forza che percorreva Everworld come l'elettricità in un cavo dell'alta tensione era più facile per me da raggiungere, da toccare, da manipolare. Vedevo ovunque le linee di potere, le sentivo, le assorbivo dentro di me. Le usavo. Più che usarle, mi nutrivo di loro. La gente normale non avrebbe mai conosciuto questo piacere. Non avrebbe mai saputo quanto fosse vuota la vita senza l'aura. Anch'io ne avevo visto solo una piccola parte, ai tempi del mio lungo esilio nel mondo reale. Lì l'aura è solo un rivolo sottile che trasuda dalla linea di frattura tra i due universi. Lì l'aura mi sfiorava, e io la sfioravo, ma era una luce debole e misera, che bastava appena a non farmi
gelare l'anima, senza riuscire mai a riscaldarmi. Qui... ah, qui c'era la sorgente. Prima ero come un pianeta lontano, ero come Nettuno, come Plutone che dalle tenebre cosmiche si sforzava di intravedere una stella lontanissima. Qui invece ero inondata dalla luce tropicale di quel sole. La luce era ovunque. La luce era in me. Non più un flebile bagliore, ma una fornace. Potevo far apparire sei lattine di birra? No. Far esistere ciò che fino a un attimo prima non esisteva? Certo che no, nemmeno la maggior parte degli dei riescono a fare una cosa del genere. E io non sono una divinità, sono solo una mortale dotata di abilità non comuni. E tuttavia avevo dato fondo a tutti i miei poteri e avevo spostato il corso di un fiume. Il ricordo mi colmò, mi attraversò come una scossa, la sensazione del potere era più eccitante di qualsiasi fantasia. Fui percorsa dai brividi, un formicolio sulla pelle. Avrei potuto gridare per il piacere che mi dava tutta quella magia, tutta quella luce che mi fluiva dentro, che mi attraversava. «Guardate» disse David. «Vedete anche voi qualcosa che luccica là in fondo? Che sia un fiume?» «Spero di sì» esclamò Christopher. «Sono a corto anche di sudore.» Ci fermammo in cima a un'altura arruffata. Loro si schermarono gli occhi con la mano nella luce abbagliante del sole, per cercare di mettere a fuoco. Io li chiusi, gli occhi, e vidi meglio di tutti quanti loro. Oh, sì, era un fiume. Un fiume che vibrava di energia. Era "il" fiume. «Sembra un fiume, quelli sono chiaramente degli alberi, una specie di valle» commentò Jalil. «Anche se, con tutto questo calore, l'acqua potrebbe essere solo un'illusione ottica, un miraggio.» «Non ce lo sai dire con certezza, Spock?» lo prese in giro Christopher. «Spock, noi contiamo solo su di te.» «È il Nilo» annunciai con quieta soddisfazione. «Essa parla!» «Sei sicura?» volle sapere David. «Seguendo il fiume verso valle arriveremo in Egitto» dissi. Sì, presto saremmo arrivati in Egitto. Mia madre si sarebbe sorpresa vedendomi? Probabilmente no. Sapeva già, o almeno sospettava, che questo momento sarebbe giunto. Avrebbe avuto paura? Questo era il problema. Avevo detto ad Atena che mia madre era più potente di me. Era vero? Era prematuro volerlo verificare adesso? Non avevo scelta, dovevo fidarmi del mio istinto. E della mia esperien-
za. Ero diventata un'esperta in fatto di grandi potenze. Avevo imparato, a mie spese, a non provocare gli dei. Sapevo bene che Merlino era tuttora più forte di me. Quel vecchio era una potenza, sì, lo sapevo, ma l'avrei visto bruciare e consumarsi. Ma mia madre? Che cosa poteva aver imparato al servizio di Iside? Soffocai il crescente nervosismo, allontanai la mente dalla paura. Era troppo tardi, ormai, per tornare indietro. Non era mia intenzione arrivare in Egitto così presto, ma si era presentata l'occasione e, da buona giocatrice di scacchi quale sono, l'avevo dovuta cogliere al volo. Se non altro, era servito a uscire dall'Olimpo. C'era ancora molta strada da fare per arrivare al fiume. Almeno altre quattro ore sulla sabbia infuocata, con ben pochi ripari dal sole cocente. E con troppo poca acqua. Ma io non mi potevo lamentare, non potevo mostrare la minima debolezza. Loro dovevano continuare a pensare che fossi quasi invulnerabile. Loro sì potevano lamentarsi e piagnucolare, io no. Ero sfinita, mi trascinavo a fatica, avevo gli occhi appannati quando finalmente arrivammo alla cintura verde che bordava entrambe le rive del fiume e rendeva la bassa valle quasi un paradiso. Adesso finalmente avevamo l'ombra delle ondeggianti palme da datteri, degli aranci. Niente acqua, ma le arance erano mature e noi le cogliemmo, le spaccammo in due e dentro c'era la polpa sanguigna ricca di succo dolce e appiccicoso. «Sono buone da morire» esclamò Jalil. «Niente pesticidi, niente ormoni, biologiche al cento per cento, maturate sull'albero» commentò April con soddisfazione. «Sì... però cerchiamo di non concentrarci solo sul cibo» borbottò David. Lontano dagli spazi aperti, circondato da alberi ben distanziati, David era diventato più cauto. Aveva un vero istinto militare, quel ragazzo. Sapeva che tra gli alberi poteva nascondersi il nemico. Mise la mano sulla spada di Galahad e non disse praticamente più nulla. Rimase in costante all'erta. Avevo scelto bene, con lui. Era una vittima delle sue insicurezze maschili, prigioniero del classico mito maschile: l'onore, il sacrificio, il dovere. Utilissimo. Ce l'avevo ancora all'amo. Ma era sulla sua natura più profonda che contavo. David si odiava. Si odiava per non aver saputo, da bambino, resistere alle molestie di un adulto. Non si sarebbe mai perdonato. Avrebbe preteso da se stesso prove sempre più grandi di essere un uomo, un uomo con la U maiuscola. Non si sarebbe mai sentito soddisfatto.
E non mi si sarebbe mai rivoltato contro per davvero, non mi avrebbe mai abbandonata davvero. Non poteva. Doveva essere l'eroe, o morire cercando di esserlo. La mia mezza sorella, April, iniziò a cantare. Un allegro motivetto senza dubbio di qualche cantante famoso. Ad April piace cantare. È una ragazza superficiale, appariscente. Vuole fare l'attrice e magari riuscirà a realizzare questo suo misero obiettivo. Questo, e nient'altro. Era lei la figlia in casa di mio padre, la sola e unica figlia, la figlia adorata, tutta vispa e carina, con il faccino dolce, i capelli rossi, i vestitini firmati, la figlia amatissima. E poi ero arrivata io, con il mio zainetto di Barbie e i miei vestiti bohémien. Antipatia a prima vista. Non mi è mai piaciuta. Nei suoi giorni migliori mi divertiva. Nei suoi giorni peggiori trovavo intollerabili quella sua religiosità convinta e ipocrita, quella sua comoda normalità. Christopher, con l'effetto rivitalizzante delle arance, cominciò di nuovo a parlare a vanvera, un bambinone troppo cresciuto con un eccesso di zuccheri nel sangue. «Ehi, forse non siamo in Egitto. Forse siamo in Florida. Date un'occhiata se ci sono dei vecchi in giro. Se qualcuno vede un campo da golf con tutti i giocatori dai novanta in su, vuol dire che abbiamo già passato l'Egitto e siamo finiti a Lauderdale, Florida.» Inizialmente, avevo scelto Christopher per i suoi difetti. Avrebbe distratto David, avrebbe costituito un elemento di fastidio che avrebbe impedito al gruppo di saldarsi bene. Un fissato senza peso specifico, un alcolizzato, un codardo egoista. Ma Christopher stava maturando, e provocava meno dissenso di quello che speravo. Un vero peccato. Meglio riconsiderare l'idea della birra. Forse avrei potuto affogare nell'alcol questo nuovo Christopher, rinato e migliorato. Al momento, sembrava che stesse nascendo una certa amicizia tra Christopher e Jalil. A riprova dell'imprevedibilità delle pedine umane nel gioco degli scacchi. Jalil era stato una vera delusione, molto più di Christopher. Pensavo di averlo in pugno. Ma il potere che avevo su di lui era solo un bluff, adesso, e lui lo sapeva. Jalil è un ragazzo molto intelligente, ma ha il cervello bacato. Disturbo ossessivo-compulsivo: Jalil sì lava continuamente le mani, è una persona di una precisione paranoica, governata da impulsi irrazionali e incontrollabili, lo specchio distorto del suo freddo razionalismo. È uno che resta al
lavandino a lavarsi le mani fino a spaccarsi la pelle, fino a sanguinare, piangendo, singhiozzando, incapace di resistere. Ma per qualche ragione che non comprendevo, il disturbo compulsivo era assente nel Jalil di Everworld. E questo indeboliva il mio potere di controllo su di lui. Questo, e il fatto che Jalil pecca di caparbietà. Non è facile imbrogliarlo o intimidirlo. Avevo calcolato male. L'avevo sottovalutato. Era una pedina difficile. Io avevo scelto David per fare il soldato, Christopher per fare il pagliaccio, April per fare la conciliatrice. E avevo scelto Jalil per fare lo scienziato. Perché il mio regno non sarebbe mai stato sicuro se prima non fossi riuscita a mettere le mani sul "software", come lo chiamava Jalil. Adoravo l'aura, ne avevo bisogno. Ne ero colma. Ma non ero una mistica come mia madre. Non mi bastava lasciare che fosse, lasciare che le cose seguissero il loro corso. Ero figlia del ventunesimo secolo, non una sopravvissuta dal Medioevo come lei. Non volevo oscuri rituali, volevo avere il controllo, dovevo capire il software, scoprire i codici, dovevo essere in grado di riscriverli. E Jalil avrebbe continuato a cercarli fino alla morte. Non può fare diversamente, proprio come David. Tanto mi bastava da Jalil, ma adesso stava diventando pericoloso. L'aveva dimostrato nel nostro viaggio attraverso l'Africa. Aveva cercato di usarmi, mi aveva usato e aveva addirittura costretto David ad aiutarlo. Repressi un fremito, strinsi i denti per non gridare. Quel bastardo tutto compiaciuto mi aveva usato! Adesso non mi bastava più mettere Jalil in imbarazzo, manipolarlo. Mi aveva usato. L'avrei fatto piangere e gridare per questo. Avrei assistito alla sua agonia ridendo. Non ne avrei goduto, questo no. Non sono una sadica. Ma io avevo un destino. Non avrei permesso a nessuno di mettermi i bastoni tra le ruote, era più che evidente. Avrebbe dovuto capirlo anche Jalil. Pensava che avessi resistito al tentativo di Loki di usarmi, al tentativo di Merlino di usarmi, al tentativo di tutti di trasformarmi nel loro cancelletto girevole privato, di trasformarmi in un oggetto, di privarmi del controllo, del potere... pensava veramente che mi sarei lasciata usare da lui senza fargliela pagare cara, senza fargli implorare pietà, senza farlo urlare fino a non avere più voce? Avrei potuto farlo anche adesso. Avevo spostato il corso di un fiume. Potevo farlo anche adesso, giusto? Lo guardai, gli fissai la nuca, era davanti a me, guardai la sua figura al-
lampanata muoversi nella luce del sole che filtrava a chiazze tra le foglie, lo guardai divorare un'arancia spaccata in due, e pensai: "Ti uccido adesso, Jalil?". Pregustai il momento. Sentii il brivido di piacere quasi carnale che mi pervadeva ogni volta che usavo il grande potere. No... no. E se avessi provato e avessi fallito? Cosa sarebbe successo se avessi fallito? Perché non si lavava le mani, qui? Dov'era finita la sua debolezza? Era un effetto collaterale del passaggio da un universo all'altro? O era protetto? Ah, questo era il dilemma. Era questo che fermava la mia mano. C'era qualcuno di potente, un dio, che aveva visto il mio piano e che aveva fatto solo i cambiamenti minimi che bastavano a indebolirmi? Ero io stessa una pedina sulla scacchiera di qualcun altro? CAPITOLO III Arrivammo al fiume senza incidenti. Una bella conquista, a Everworld, dove nessuna innocente passeggiata è priva di pericoli mortali. Il fiume era ampio, lento, quasi indolente. Troppo largo, troppo lento. Naturalmente, il fiume che vedevo io era diverso da quello che vedevano gli altri. Gli altri vedevano dell'acqua qualsiasi, opaca, torbida di limo. Io vedevo l'aura luminosa dell'incantesimo, avevo la sensazione di qualcosa di vibrante, come la corda pizzicata di un violino. Eppure, da vicino, c'era qualcosa che non andava. Percepivo una frustrazione di propositi. Un'anomalia, un risentimento, energia imbrigliata e controllata, energia che voleva essere liberata. C'era qualcosa di sbagliato. Mi venne quasi da dirlo a David. Lo guardai. Lui non se n'era accorto. I suoi sensi non andavano oltre i limiti comuni agli esseri umani. Anche lui vedeva solo la luce visibile e non capiva niente di magia. Jalil invece notò quello che era sfuggito a me e anche a David: i fatti nudi e crudi. «Guardate il livello dell'acqua. Guardate quegli alberi.» Un boschetto di palme spuntava dall'acqua. Guardando a monte lungo la riva del fiume, ne vidi degli altri. Gli alberi erano stati chiaramente sommersi da una piena del fiume. Il Nilo era uscito dagli argini. «È normale» proseguì Jalil. «Il Nilo inonda la valle ogni anno. Deve succedere, capite, così le acque depositano il limo e via dicendo. Ma questa non mi sembra una piena normale. Guardate, quegli alberi stanno marcendo. Si vede proprio che stanno morendo. Il che significa che l'acqua è a
questi livelli da troppo tempo. Le piene dovrebbero durare un paio di settimane, direi. Guardate, guardate quelle canne di palude: ce ne sono di tutti i tipi. Non ci dovrebbero essere, se l'acqua avesse inondato la valle da poco tempo e se stesse recedendo.» «Ve lo dico io, questo ragazzo non si è mai addormentato nemmeno una volta durante una lezione» disse Christopher, indicando Jalil come se fosse un fenomeno da baraccone. «Jalil, posso farti una domanda? Quando navighi in internet in biblioteca, tu fai veramente ricerca, vero? Tu non scarichi le fotografie delle ragazze nude, vero? Hai dei seri problemi, ragazzo mio.» «Che cosa avranno poi queste ragazze...» borbottò April. Jalil si strinse nelle spalle. «Be', in fondo, che cosa so?» disse con falsa umiltà. «Non sono né un geologo né un botanico.» «Puzza» osservò April. «Puzza di marcio. Come di pesci morti.» «Andiamo avanti seguendo il fiume, immagino» disse David in tono interrogativo, rivolgendosi a me. «Sì.» Mi scrutò attentamente, cercando di penetrare nei miei pensieri. Ma non è la sua specialità. Non poteva far altro che guardarmi con i suoi occhioni innocenti e sperare di farmi pena. Mi fece pena. «Io starei attenta» gli dissi. «C'è qualcosa che non va.» «Ah, essa ha parlato di nuovo!» mi stuzzicò Christopher. «Essa ha emesso un'altra profezia. Tutto qui quello che sai fare con i tuoi poteri magici, Senna? Qui c'è qualcosa che non va ogni tre passi, in questo manicomio pubblico a cielo aperto. Uau, grazie per la dritta.» Lo ignorai. Non c'era altro da fare. Cominciare un botta e risposta non avrebbe fatto altro che sminuirmi e non sarebbe servito ad attenuare la loro ostilità. «Beviamo un po', riempiamo gli otri, ci riposiamo per una mezz'ora e poi ci rimettiamo in marcia» propose David, ma sembrava più un ordine che una proposta. Jalil stava guardando nella direzione da dove eravamo venuti. «Immagino che i Coo-Hatch...» David gli chiuse la bocca con un'occhiata. Jalil annuì impercettibilmente. Era seccato. David l'aveva zittito e l'aveva fatto senza tante gentilezze. Stava succedendo qualcosa. O era già successa. Qualcosa che riguardava David e Jalil e i Coo-Hatch.
«Ci hanno già salvato una volta» disse David, con tono fintamente normale. «Immagino che lo faranno ancora, se possono. È bello avere dei rinforzi, ma sarebbe ancora meglio sapere quanti sono. Non riesco mai a vederli chiaramente. Non vedo mai più di uno dei Campanellini e forse un paio di Groucho.» Resistetti all'impulso di alzare gli occhi al cielo. I Coo-Hatch erano una specie aliena. Gli adulti sembravano strani uccelli senza ali, piegati a forma di C. Avevano una strana andatura strascicata che i miei compagni insistevano a definire una camminata alla Groucho Marx. I bambini erano molto più piccoli, velocissimi, e guizzavano via con un'improvvisa accelerazione. Di qui "Campanellino". I Coo-Hatch ci stavano seguendo, nella speranza che raggiungessimo vivi mia madre. I Coo-Hatch erano stati trascinati a Everworld dalle loro divinità. Dopo un secolo di solitudine e abbandono, passato a girovagare sulla faccia di Everworld in piccole bande nomadi, ora volevano tornarsene a casa. E volevano che fossi io a farli tornare, che aprissi la "porta" tra il loro universo e questo. Ero una ragazza molto desiderata. Ero quasi lusingata. Avevo convinto Atena, e di conseguenza anche i Coo-Hatch, che non avevo il potere per farlo, perché l'universo dei Coo-Hatch era diverso dal mio. Avevo convinto la dea della saggezza che mia madre, invece, avrebbe potuto farlo. Lei avrebbe potuto liberare i Coo-Hatch, e i Coo-Hatch avrebbero ricompensato Atena sospendendo la loro collaborazione con gli Hetwan. Il che, non a caso, tornava tutto a mio vantaggio. I Coo-Hatch erano un pericolo per Atena perché avevano imparato a costruire le armi da fuoco. Ed erano un pericolo per me per la stessa ragione. La magia non può battere la tecnologia... questo dovevo tenerlo ben presente. Ma adesso David e Jalil avevano un segreto. Non un segreto terribile e oscuro, immaginavo, ma qualcosa c'era. Qualcosa che riguardava i CooHatch. Ingranaggi che ruotano dentro ad altri ingranaggi. Everworld è un posto da politicanti, ma è interessante. Non si lotta per salvare la propria poltrona, qui. Si lotta per salvarsi la pelle. È un grosso polpettone di intrighi, colpi bassi, assassini, terrorismi. Mi scappò da ridere, ed April mi guardò con sospetto. «Un sogno a occhi aperti?» mi chiese. «Un ricordo» risposi. «Ricordavo il giorno in cui venni a vivere con voi.
Tu eri così calorosa e accogliente. Un bel soldatino che cercava di fare buon viso a cattivo gioco. Mi prestasti uno dei tuoi animaletti di peluche per fare la nanna. E io tutte le sere mi addormentavo piangendo, abbracciata a quell'orsetto panda.» Per circa tre secondi April se la bevette. Il suo sguardo severo vacillò, confuso. La linea dura della bocca si addolcì. Poi... uno, due, tre... ricordò. «Era un tigrotto. Non era un panda.» Scoppiai a ridere, ripagata dal rossore che le infiammò le guance. Era una buona idea quella di tormentarli ciascuno con un pungolo diverso ogni tanto, giusto per tenerli sbilanciati. Adesso April avrebbe passato la prossima ora a friggere e ribollire. Il rancore non è un'arma potente: prosciuga chi lo prova, disturba i pensieri, altera le prospettive. Fa dimenticare gli obiettivi principali. April all'inizio non voleva altro che tornarsene a quello che si ostinava a chiamare il mondo reale. Ma adesso era finita anche lei nella ragnatela di Everworld. In parte grazie anche all'incessante rancore che nutriva per me. Era così facile, a volte. Ci lavammo nel fiume. April si spostò un po' più a valle, io un po' più a monte. I ragazzi restarono nel mezzo. Io ero nascosta da alcuni cespugli di bacche. Non riconobbi il frutto, ma ero abbastanza sicura di poter neutralizzare gran parte dei veleni. Corsi il rischio e ne mangiai una. Era deliziosa. Mi riempii la bocca golosamente. Avevo fame, ma mangiare pochissimo faceva parte dell'aura di mistero di cui mi circondavo. Un piccolo dettaglio della mia campagna intimidatoria. Mi svestii e mi addentrai nel fiume. Oh, sì, c'era davvero qualcosa che non andava. Lo sentivo chiaramente, adesso che ero a contatto diretto con l'acqua, adesso che il suo tepore mi bagnava le pelle. Frustrazione. Le acque erano piene di frustrazione. Sentivo il loro disagio, come avrei sentito l'imbarazzo di un balbuziente che non riesce a spiccicare parola. Le acque cercavano senza riuscirci di fare quello che era stato loro comandato di fare. Ma c'era anche qualcos'altro... qualcosa di più personale. Un'impressione di ostilità. Non dal fiume. Da qualcun altro... C'era un pericolo! Non vidi altro che un'increspatura. Feci un balzo indietro, persi l'equilibrio, roteai le braccia, caddi, finii sott'acqua. Le mascelle del coccodrillo si chiusero di scatto, mancando la presa per un soffio. Quelle mascelle, che avrebbero potuto spaccare il cranio di un uomo con la facilità con cui una mano riesce a spappolare un kiwi maturo, si serrarono così vicine alla mia
testa che sentii l'alito putrido della bestia. Scalciai, i piedi affondarono nel fango, nuotai indietro, spinsi via l'acqua con movimenti frenetici delle braccia, e il mostro si sollevò, il muso grigioverde sormontato da due occhi gialli e assassini. La bocca era rosea e carnosa, bordata da un'infinità di denti aguzzi infissi nelle gonfie gengive. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo ad alzarmi, l'acqua mi si opponeva, il fango mi legava le gambe e le braccia, adesso avevo anche una mano sprofondata nel fango, come nelle sabbie mobili. Il coccodrillo non avrebbe sbagliato di nuovo la mira, non questa volta. Ma io avevo il potere, giusto? Comandai al fango di liberarmi. Comandai alle acque di spazzare via il mostro. Niente, niente tranne una flebile risata di derisione, quasi impercettibile all'udito. Il potere non veniva, non mi raggiungeva. Ero perduta! Tutto l'universo convergeva come al rallentatore in questo unico luogo, in questo unico punto, tutta la realtà crollava in questo unico evento. Mi vidi la gamba sinistra tra le fauci del mostro. Il mio polpaccio miseramente sottile, segnato dalle troppe camminate su terreni troppo impervi, era lì, in bella vista, indifeso, tra file di denti affilati come un rasoio. Il coccodrillo aspettava, con le fauci spalancate, che tentassi di scappare. Come se volesse giocare. Io il topo, e lui il gatto. Restai immobile. Restituii lo sguardo alla creatura. Inerme, come un mortale qualsiasi. Potevo morire proprio qui, proprio adesso, di una morte orribile e sanguinosa. E adesso ce n'erano dappertutto, frustavano l'acqua melmosa e la facevano schiumare, almeno una decina di coccodrilli, tutti intorno a me con le fauci spalancate, tutti ad aspettare, mentre la paura mi faceva scoppiare il cuore. Aspettavano un segnale. Poi avrebbero richiuso le potenti mascelle tutti insieme, e io sarei finita a pezzi, smembrata. I brandelli sanguinolenti di Senna Wales avrebbero riempito la pancia a una decina di mostri. Il mio sangue avrebbe macchiato le acque del Nilo, avrebbe portato un messaggio a mia madre: non aveva più da temermi. CAPITOLO IV Sentii delle voci. Erano gli altri che accorrevano, David in testa. Tutti sopra di me, a guardarmi come babbuini stupefatti.
Ero proprio un bello spettacolo. Lì distesa, nuda, infangata, terrorizzata, pronta per essere divorata da un esercito di coccodrilli. «Fermi!» esclamò David. «Nessuno si muova.» Almeno aveva capito che non doveva attaccare, che non poteva essere più veloce di una mascella che si chiude. Non aveva altre risorse. Poteva solo peggiorare le cose. Per tutti i demoni degli inferi, quanto lo odiai in quel momento! E odiai Jalil ed April che gongolavano nel vedermi così inerme. Sì, gongolavano, sì, dentro di sé ridevano, morivano dal ridere, ridevano di me, anche se lo nascondevano dietro una maschera di stupore e orrore. «Che diavolo è questa storia!?» esclamò Christopher con voce terrorizzata. «Senna, non muoverti» gridò April. Stupida gallina. Come se non l'avessi già capito da sola. Come se non sapessi già di essere in pericolo. «Non sembra esattamente un episodio naturale e abituale nella vita di un coccodrillo» osservò Jalil. «Ci deve essere lo zampino di un dio.» «Noi serviamo Sobek, il nostro signore» disse uno dei coccodrilli. «Coccodrilli parlanti» fece Christopher. «Naturale. Perché non dovrebbero esserci dei coccodrilli parlanti?» «Chiudete il becco, stupidi idioti» mi infuriai. Sentivo un centinaio di denti che premevano sulle gambe, le braccia, la schiena, le cosce, il collo. Una mossa sbagliata, uno scatto nervoso, e la pelle si sarebbe strappata e il sangue sarebbe uscito. Avevo la testa dentro una bocca che avrebbe potuto chiudersi con tanta forza che gli occhi mi sarebbero saltati fuori dalle orbite, il cervello... «Ehi, ho un'idea» ribatté Christopher. «Andiamo tutti a farci una passeggiata. Che i coccodrilli si godano il loro spuntino di coscette di pollo.» Cercai di riprendere il controllo. Ero a pochi secondi dalla morte. La sentivo, la morte, con le sue mille facce che mi si affollavano intorno. Sentivo su di me il fiato caldo dei demoni che salivano dalla terra, dall'acqua, che mi sbirciavano dai loro immondi regni sotterranei. Dovevo ignorare tutto questo. Dovevo concentrarmi sul pericolo vero. Questo dio Sobek era la chiave di tutto, era evidente, ma che cos'era? Conoscevo il nome solo di una manciata di divinità egizie. Erano fluide per loro natura. Si fondevano l'una nell'altra, senza personalità o attributi fissi. Era impossibile conoscerle tutte. «Sobek, signore grande e glorioso» gridai, cercando di non far sentire il
pianto nella voce. Non poteva finire così. Questo doveva diventare il mio universo. Everworld era mio. Non poteva finire così. «Sobek, signore grande e glorioso, ascolta la mia supplica» ripetei. «No, no, no» borbottò una voce profonda e irata. Il suono saliva borbogliando dal basso, dall'acqua, e diventava un gorgoglio soffocato. «Questa non è la forma corretta per l'implorazione. Non posso rispondere a un appello che è tutto sbagliato nella forma.» «Ma che diavolo...» si stupì David. «Con quali parole mi devo rivolgere a te?» chiesi al dio invisibile. Vedevo solo una palma malata, affogata nelle acque del fiume. L'albero, il cielo, e la curva della mascella superiore del coccodrillo. Non potevo guardarmi intorno, non potevo muovermi. Il fiato puzzolente e carnivoro della bestia mi dava quasi la nausea. «Io sono Sobek, dio dei coccodrilli del Nilo, detto il Furioso, figlio di Seth e della sua consorte Neith, detta la nutrice dei coccodrilli.» Cercai di mettere in moto il cervello paralizzato. Che cosa voleva? «Sobek, dio degli alligatori del...» «No, no, no! Alligatori?» Il dio scattò con impazienza. «Come puoi chiedere la mia misericordia, se non sai nemmeno rivolgerti a me nella forma più consona!» «Io non...» iniziai a dire, disperata, ma mi mancò la voce. «Sobek...» intervenne Jalil «dio dei coccodrilli del Nilo, detto il Furioso, figlio di Seth e della sua consorte Neith, detta la nutrice dei coccodrilli.» «Sì, mortale» rispose la voce, ora tutta calma e ragionevolezza. Sentii incresparsi le acque e lentamente il dio comparve alla mia vista. Aveva il corpo di un uomo, nudo dalla vita in su. O di un dio, visto che era alto più di due metri. Ma la testa era quella di un coccodrillo. Intorno al collo aveva un ampio collare molto particolare, un disco adornato da corna di ariete e da un intreccio di coccodrilli d'oro. I coccodrillini d'oro erano vivi. Si dimenavano, si aggrovigliavano, si rincorrevano. «Grande Sobek, dio dei coccodrilli del Nilo, detto il Furioso, figlio di Seth e della sua consorte Neith, detta la nutrice dei coccodrilli, noi, stranieri in questa terra, ignoranti delle forme consone, ti chiediamo umilmente di liberare questa persona» disse Jalil. «Se proprio vuoi» Christopher aggiunse a mezza voce. «Altrimenti...» Sobek aprì la bocca di coccodrillo, una bocca che avrebbe potuto spezzare in due uno qualsiasi dei coccodrilli che a loro volta avrebbero potuto
spezzare me in due in qualsiasi momento. «Ella è una strega» disse. «Ha reso immondo questo fiume con il tocco delle sue carni impure. I miei figli divoreranno le sue carni e frantumeranno le sue ossa.» Strinsi involontariamente i pugni. Non era possibile. Ero intrappolata, umiliata, e adesso Jalil implorava pietà per me. «Sono sicuro che è molto dispiaciuta» proseguì Jalil. «Sono sicuro che non sapeva quello che faceva. Sono sicuro che farebbe qualsiasi cosa pur di riparare al danno che ha fatto. Puoi trovare nel tuo cuore, o Sobek dio dei coccodrilli del Nilo, detto il Furioso, figlio di Seth e della sua consorte Neith, detta la nutrice dei coccodrilli, un po' di pietà da riversare su di lei?» «Liberami, e io...» iniziai. Le fauci dei coccodrilli si chiusero, premettero i denti superiori contro la mia carne, spinsero il peso del mio corpo contro i denti inferiori, e si fermarono, si fermarono a un millimetro dal traforarmi la pelle con centinaia di denti aguzzi. «Personalmente, io chiuderei il becco e lascerei parlare l'avvocato» mi consigliò Christopher. L'avrei strangolato. Gli avrei strappato quella linguaccia insolente dalla bocca. La battaglia tra la rabbia e il terrore che infuriava dentro di me quasi mi faceva perdere i sensi. Non riuscivo a trovare l'aura. Era il dio Sobek a tenermela lontana, a tenere il potere appena fuori dalla mia portata. «Siamo in viaggio per incontrare la madre di questa strega. È una sacerdotessa di Iside» spiegò David, aggiungendo con un attimo di ritardo tutti i titoli di Sobek. «Una sacerdotessa di Iside?» ripeté pensieroso Sobek. E mentre lui ci pensava su, le bocche dei coccodrilli lentamente, molto lentamente, si aprirono. Le mascelle superiori tornarono a un angolo di quasi novanta gradi. «Ahimè, Iside è molto lontana, e non può venire qui, e io non posso andare da lei» si lamentò Sobek. «La diga che trattiene queste acque, la creazione infernale di quegli immondi mortali cercatori d'oro, mi blocca la via delle acque.» «La diga?» si meravigliò David. E in quel momento si udì un rumore di lame che fendevano l'aria. Un movimento indistinto, troppo veloce da potersi vedere. Una vaga impressione visiva di dischi satinati color rame. E sette colpi quasi simultanei, come sette coltelli da cucina su un arrosto.
Lame Coo-Hatch in azione. Le mascelle superiori dei coccodrilli caddero, tagliate di netto, con la massima precisione. Caddero così, semplicemente, qualcuna in avanti, sulla mia pelle che rabbrividiva, qualcuna in acqua, sollevando spruzzi. I coccodrilli si dimenarono spasmodicamente, cercarono comunque di mordere, cercarono di farmi a pezzi, ma erano come pinze spaccate in due. Il sangue dei rettili mi bagnò le gambe e le braccia, mi inzuppò lo stomaco e le cosce. Gridai, incapace di controllarmi, gridai ancora, vedendomi già morta. Ma i demoni ghignanti si stavano ritirando, delusi, tornavano a svanire nelle profondità della terra. E i coccodrilli mutilati si dibattevano inutilmente, tutta la loro potenza svanita in un attimo. Sobek, oltraggiato, urlò una minaccia. Le lame l'avevano evitato, avevano colpito soltanto i suoi coccodrilli, con sovrannaturale precisione. «I miei figli!» ruggì il dio dei coccodrilli, le fauci di rettile spalancate. David entrò nell'acqua sollevando alti spruzzi, infilzò la spada con tutte le sue forze in uno dei coccodrilli che gli bloccava la strada. Scavalcò la creatura morente e mi afferrò senza tanta delicatezza, mi tirò via da loro, mi attrasse a sé, mi raccolse in una bracciata e mi buttò a riva, mi trascinò sul fango e sulle rocce e mi lasciò lì, grondante e scomposta. Poi si erse sopra di me, fradicio, i blue jeans strappati che mi gocciolavano addosso, si erse sopra di me, a spada tratta, pronto a uccidere per proteggermi. Tutto era successo in non più di un minuto. Forse meno. Ma ogni frenetico dettaglio era inciso a fuoco nella mia mente, e bruciava. Oh, se bruciava! Ero stata salvata. Inerme, ero stata tratta in salvo da David, dai CooHatch, da Jalil. «Tieni» mi disse April. Aveva raccolto i miei vestiti e me li gettò addosso. «Guardate che cosa avete fatto ai miei coccodrilli! I miei figli!» gridò Sobek al colmo della disperazione. Poi, con petulanza: «Tutto ciò non è corretto. Niente di tutto questo era mai stato fatto prima. Tutto ciò è nuovo.» Gli animali si contorcevano, si dimenavano, persi, confusi, destinati ormai alla morte per fame. Raccattai i miei vestiti, seduta nella mia pozza di fango. Me li infilai. Maledissi il mondo intero, maledissi tutto e tutti. Non badavo nemmeno al dolore di una decina di graffi profondi. Il sangue colava da innumerevoli piccole ferite su tutta la schiena.
Voltai le spalle al fiume e guardai. Là, sull'altura, c'erano tre Coo-Hatch adulti accompagnati da uno dei piccoli svolazzanti. Le lame volanti erano tornate ai legittimi proprietari ed erano già appese alle loro cintole, già ripulite dal sangue dei coccodrilli. Ci fissavano con i loro occhi blu in campo rosso scuro. David fece loro un cenno con la mano. Loro annuirono e si ritirarono. Jalil giocava ancora a fare l'avvocato con Sobek. Ma un avvocato il cui cliente al momento non correva più alcun pericolo immediato. «Sai che ti dico, Sobek? Al diavolo i tuoi coccodrilli da compagnia. Se vuoi un risarcimento, se ne può parlare. Ma a parte quello, noi vogliamo solo andarcene per la nostra strada.» Ora tutta l'altezzosità di Sobek era sparita. La sua faccia di coccodrillo si aprì in un sorriso cattivo. «Posso chiamare a me dieci volte dieci coccodrilli. Posso riempire queste acque, posso ricoprire queste terre di coccodrilli!» «Sì, e i nostri amici là dietro, te li faranno tutti a fette» ribatté David. «Su, chiama i tuoi cocchi. Ho un po' di fame... potremmo provare a sentire se sono buoni da mangiare.» Sobek fu preso alla sprovvista. Allarmato e, più ancora, attonito all'idea nuova di ricevere una minaccia da parte di alcuni semplici mortali. «Noi andiamo in Egitto» David annunciò. «Vogliamo incontrare sua madre. Fine della storia. Se vuoi combattere, ci possiamo organizzare.» «Naturalmente» aggiunse Jalil con il tono del paciere «preferiremmo essere in pace con te. Noi non siamo in cerca di guai. Il fatto è che sarebbe molto più facile per noi spostarci sul fiume, invece di fare tutta La strada a piedi.» Sobek sibilò, proprio come un rettile. «Non potete superare la diga. Il fiume non vi porterà.» «Ah sì? E noi la facciamo saltare. Un bel salto mortale e, oplà, il gioco è fatto» disse Christopher, convinto di far ridere. Sobek non lo trovò divertente. Ma i malevoli occhi gialli si strinsero in due fessure. «Far saltare la diga? Liberare le acque? Fatelo, e Sobek dimenticherà subito la sua ira terribile.» «Ehi, non ci stavamo proponendo come volontari» protestò Christopher. Ma io avevo colto uno spiraglio. Un'opportunità. Pur nel baratro dell'umiliazione, nel momento peggiore, avevo saputo intravedere le possibilità. Restava sempre da risolvere la questione di come entrare in Egitto e spe-
rare di sopravvivere alla sua rigida struttura sacerdotale, a tutti i suoi assurdi rituali. Sopravvivere nell'eventualità di trovarsi davanti all'ostilità di, una sacerdotessa vicina a Iside. Un modo c'era: entrare in Egitto da salvatori. Sobek alzò al cielo gli occhi di coccodrillo. «A lungo ho atteso qui, senza avere notizia dai miei fratelli e dalle mie sorelle della città. Anni e anni, sempre in attesa, come mi era stato comandato. È questo il mio posto. Questi i miei figli. Sono stato condannato all'esilio per dodici volte dodici anni per aver commesso il crimine di uccidere Horus.» Il muso di coccodrillo si abbassò tristemente. «Fui ingannato da Seth. Ma l'ira di Iside fu grande. Venni condannato all'isolamento. Nessun sacerdote mi avrebbe servito, non avrei partecipato a nessun rituale. Non avrei ricevuto sacrifici. Per dodici volte dodici anni ho rispettato la sentenza. Ma quegli anni sono passati da molto tempo, ormai, e ancora non giunge la chiamata di Iside.» Dagli occhi assassini sgorgarono abbondanti lacrime. Mi rialzai in piedi, scostandomi i capelli dalla faccia. «Noi libereremo il Nilo» annunciai. «Se non lo faremo ci potrai offrire in pasto ai tuoi figli.» «Ma neanche morto!» esclamò Jalil. Ma Sobek, come in genere tutti gli dei, sentì solo quello che voleva sentire. Avevamo un patto. CAPITOLO V Sobek fece apparire un'imbarcazione a vela, completa di equipaggio. Sbucò dal nulla scivolando sull'acqua e si avvicinò a riva dolcemente. Era una strana imbarcazione, con la prua e la poppa molto ricurve. Ricordava in qualche modo le corna delle mucche. Le due estremità erano decorate, dipinte nei toni del rosso e del verde, con motivi astratti. In tutto sarà stata lunga forse nove metri. «È un sambuco, credo» disse David aggrottando la fronte. «Vela latina. Primitivo. Guardate la vela. Guardate l'albero. Oppure è una via di mezzo tra un sambuco e una galera, con tutti quegli scalmi per i remi. Non resisterebbe cinque minuti in mare aperto.» L'albero maestro era in realtà formato da tre pali legati insieme in alto. Una lunga antenna reggeva una vela ripiegata. Non c'era vento. C'erano invece quattordici uomini a torso nudo e bruciati dal sole intenti
a remare, sette per lato. Un quindicesimo stava in piedi su una piattaforma a poppa e manovrava la lunga barra del timone. Un riparo curvo e inclinato fatto di canne copriva un terzo dello scafo dalla parte opposta e dava ombra. Sotto quell'ombra c'erano molti cuscini e barili intorno a un tavolino basso. Sobek era sparito. Aveva portato con sé i coccodrilli mutilati. Ma l'acqua intorno al sambuco non era ferma. Era increspata dalla presenza di malcelati coccodrilli. Potevano essere un centinaio, appena sotto la superficie, una presenza non visibile, ma non certo trascurabile. L'uomo alla barra del timone ci guardò nervosamente. Con ogni probabilità sapeva di essere stato messo a nostra disposizione dal dio dei coccodrilli. «Perderemo i Coo-Hatch» si crucciò David. «È impossibile che riescano a starci dietro. Forse dovremo chieder loro di salire con noi.» «No! Se restano indietro, tanto meglio» disse Jalil. «Che stai dicendo, Jalil? Ci hanno già salvato due volte» osservò Christopher. Jalil scosse la testa. «No, ci hanno salvato in Africa. Qui hanno salvato Senna e basta. Senti... io son loro riconoscente, credimi. Ero disperato su quell'albero, con i demoni e il fuoco. Ma mi dà l'impressione che non abbiano bene il controllo della situazione. Giusto adesso avrebbero potuto farci ammazzare tutti quanti. Come facevano a sapere che Sobek non ci avrebbe tolti direttamente di mezzo? Non sto dicendo che non hanno cercato di fare la cosa migliore. Sto solo dicendo che sono imprevedibili.» «Chi non è imprevedibile da queste parti?» intervenne April. «Avremmo potuto arrivare allo stesso accordo con Sobek senza fare a fette i suoi "figli"» insistette Jalil. «Se credete davvero che se lo scordi, qualunque cosa riusciamo a fare per lui, secondo me siete matti. Lui aspetterà che tiriamo giù la diga e poi ci ucciderà. E si divertirà un sacco.» «Come fai a esserne così sicuro?» gli chiese David. «Lui è il dio dei coccodrilli. I coccodrilli si mangiano anche i loro piccoli. E noi ci siamo inguaiati con un dio che ha gli attributi del coccodrillo.» David mi guardò, aspettando da me una risposta. Io guardai fisso avanti. Che cosa avrei dovuto dire? "Sì, Jalil ha ragione"? «Okay, prendiamo il sambuco. Forse i Coo-Hatch riusciranno a starci dietro, o forse no.» Salì lui per primo e si diresse dritto verso l'uomo alla barra del timone. L'Egizio si mise sull'attenti. «Quanto è lontana la diga?»
«Una giornata di viaggio, mio signore. A meno che non spiri la brezza e si possa alzare la vela.» «Quindi dovremmo arrivare domani pomeriggio? Nell'ipotesi che dobbiamo remare fin là?» L'uomo annuì cautamente. «Non male. Avete cibo a bordo?» «Sì, mio signore. Cibo povero, ma buon pane e miele e datteri e crema e vino e...» «Okay, okay, va bene, è abbastanza. Come ti chiami?» «Sechnaf, mio signore.» «Okay, Sechnaf, mettiamoci in moto. Ma una cosa: non portarci in vista della diga di giorno quando c'è luce. Mi capisci? Non devono vederci arrivare.» «Se ci vedranno, strappami pure gli occhi e dalli in pasto alle aquile.» David represse un sorriso. «Sì, be', cerchiamo solo di stare attenti.» Mi trovai un posticino sotto la tenda. I cuscini erano un po' umidi e muffiti, ma erano un paradiso rispetto a quello che ci capitava di solito. Gli altri si sistemarono troppo vicino, ma lasciarono comunque un po' di spazio vuoto tra me e loro. La barca si allontanò verso il centro del fiume lasciandosi la riva alle spalle. Vidi uno dei Coo-Hatch adulti che ci osservava. Non ci salutò, noi neppure. Jalil aveva ragione, naturalmente. I Coo-Hatch mi avevano salvato, è vero, ma ero contenta che non fossero più tra i piedi. Non avrebbero mai permesso la minima deviazione dalla nostra missione. Avrebbero potuto interferire in modi per me incontrollabili. Cibo e vino vennero presi d'assalto. Naturalmente David non beve mai alcol. Ma gli altri tre sì e ci si misero di gusto, lamentandosi di continuo del sapore pastoso. Anch'io ne bevvi un bicchiere. E cercai di capire come aveva fatto Sobek a escludermi dal potere senza la minima fatica. Che cosa avevano di tanto speciale gli dei, da poter manipolare il potere con tanta facilità? E che cos'erano gli dei? Era questa una delle domande cui speravo Jalil avrebbe risposto per me. Che cos'erano? Una razza particolare? Un ramo collaterale dell'Homo sapiens? Una razza aliena? Che cos'erano, esattamente? Si accoppiavano con gli umani. Significava che erano umani? In teoria era questa una delle definizioni fondamentali del concetto di specie: la
possibilità di riprodursi solo con altri esemplari della stessa specie. Non ero abituata a sentirmi così priva di potere. E detestavo la cosa. Io ero una via di mezzo, né umana né divina. Avevo dei poteri, ma non a sufficienza, se un'arrogante divinità fluviale minore me li poteva tenere lontani con la stessa facilità con cui una persona chiude a chiave una porta. Sentivo gli occhi di Christopher puntati su di me. Il suo cervello stava lavorando, stava cercando il modo migliore di stuzzicarmi. Sentiva di possedere un vantaggio su di me, adesso. Mi aveva vista nuda, indifesa, spaventata. «Sapete? Ho sentito dire che la carne di coccodrillo si può mangiare» iniziò. «Dicono che sia simile al pollo. Naturalmente, è probabile che i coccodrilli dicano lo stesso delle persone, vero, Senna?» Mangiai un dattero. Christopher bevve la terza coppa di vino. La trangugiò in un unico sorso. «Però, mi chiedevo...» continuò. «Insomma, sappiamo tutti che hai il sangue strano, giusto? Voglio dire, il tuo sangue uccide le piante... l'erba. Avvelena tutte le cose viventi. È così, no? Insomma, era questo il nocciolo della questione in Africa, quando tu eri svenuta, impotente, e Jalil ti portava su quell'albero per versarvi il tuo sangue e farlo morire.» Si soffermò sulla parola "impotente". La assaporò. Mio malgrado, non riuscii a spegnere il fuoco che ora mi ardeva dentro. Il ricordo di quello che aveva fatto Jalil... il fatto che per ben due volte nel giro di pochi giorni mi ero trovata "impotente". Senza poteri. Mi immaginavo la scena: sostenuta da Jalil e Thorolf, priva di sensi, portata sull'albero. Mi vedevo impotente nelle fauci dei coccodrilli, esclusa dall'aura, cieca e patetica come una persona qualsiasi. Christopher aveva visto entrambe queste scene, e così pure April e naturalmente Jalil. Anche David, ma su David potevo contare. In genere. «Quindi, forse li avresti uccisi tu quei poveri cocchi. Forse bevendo il tuo sangue sarebbero morti tutti tra gli spasimi.» Alzai le ginocchia al petto e le abbracciai, come una bambina vulnerabile. Ma facendolo, infilai una mano sotto i vestiti e strizzai uno dei tanti segni appena rimarginati lasciatimi dai denti dei coccodrilli. Strizzai forte finché non sentii l'umido denso del sangue. Sorrisi a Christopher e agii di scatto. In un attimo fui davanti a lui e gli mostrai la mano. Due delle dita erano bagnate di sangue, il mio sangue. Lasciai che guardasse, lasciai che guardassero tutti, senza capire, poi immersi le due dita nel vino. Scrollai qualche goccia di vino dalla mano e ri-
si. «Perché non lo bevi e lo scopri da solo?» lo sfidai. «Basta così» intervenne David. «Avanti, Christopher, bevi» insistetti. E feci di più. Raccolsi in me il potere. Chiamai a raccolta il potere del Nilo che scorreva sotto di noi. Adesso che non c'erano più dei a fermarmi, attirai il potere dentro di me, lo concentrai, mi feci una lente, lo convogliai, lo puntai su Christopher. Lo puntai sul suo desiderio, era questo il modo. Impossibile costringere una persona a fare quello che non voleva fare. Ma potevo prendere un desiderio che già esisteva e ingigantirlo. Questo sì che lo potevo fare. «Bevi, Christopher» sussurrai. E la coppa si alzò lentamente verso le sue labbra. La sua faccia era una smorfia di dolore, di sofferenza. Come quella di un bambino ingiustamente punito. Voleva quel vino. Voleva tutto il vino. Voleva bere fino a stordirsi la mente, fino a cadere, a vomitare. Lo sentivo, dentro di lui, sentivo l'ubriacone dentro di lui, l'alcolizzato che aspettava solo di sbocciare. E con il desiderio dell'alcol, ecco comparire un secondo desiderio. Il desiderio di me. Io e lui eravamo stati insieme una volta. Prima che lo sostituissi con David. Christopher diceva che non gliene importava niente, ma non aveva mai accettato il mio rifiuto. Lui voleva me, una parte di me, una parte qualsiasi. Voleva che io scegliessi lui al posto di David. «Bevi» gli ripetei ancora muovendo solo le labbra. Ma adesso sentivo la stanchezza, lo sfinimento della magia. Usare il potere mi prosciuga sempre le forze. Attirarlo dentro di me dal fiume magico mi aveva prosciugato le forze. Ma non potevo darlo a vedere. "Insisti, Senna, insisti di più." E di colpo ecco Christopher che tracannava il vino e David, sorpreso, che gli saltava addosso cercando di allontanare la coppa. Troppo tardi. Christopher, tremante, ripose la coppa. Fece una risata debole, spaventata. Aveva il fiato grosso. Le punte delle dita erano bianche da quanto aveva stretto la coppa. Sorrisi, magnanima, come per dire: "Vedi? Non c'è niente di cui preoccuparsi". Dovetti usare ogni minimo rimasuglio delle mie forze per non crollare lì su due piedi. Mi ero spinta troppo oltre. Avevo osato troppo. E adesso mi girava la testa, il cervello era vicino al deliquio, mi mancava l'aria, gli oc-
chi erano annebbiati... "No, no, non svenire. No. Apri gli occhi. Apri gli occhi." Riuscii a resistere al tracollo, mi tenni in piedi, controllai l'espressione del viso. Inciampai mentre riprendevo il mio posto, ma quello era niente, non se ne sarebbe accorto nessuno. Nessuno, tranne Jalil. Mi guardava con i suoi occhi da lucertola. Sapeva quello che avevo fatto a Christopher e mi temeva per questo. Ma aveva visto anche la mia debolezza e aggiunse anche questo dettaglio a tutti i dati che teneva archiviati nel cervello. "Stupida" mi dissi. Avevo dimostrato a Jalil che potevo spingere Christopher a fare ciò che volevo. E gli avevo dimostrato che farlo mi aveva prosciugato le forze. Guardai altrove, fingendo di non notare che mi stava osservando. Guardai altrove e sentii gli occhi appannarsi, confondersi. Ero stanca e mi faceva male la gamba, dove l'avevo fatta sanguinare. Per qualche ragione qui a Everworld non riuscivo ad avere controllo su Jalil. Non riuscivo a toccare il nervo scoperto, il punto debole del suo cervello, come avevo appena fatto con Christopher. Era protetto, Jalil? No, assurdo. Era un caso fortuito. Un qualche strano caso. Il cervello che aveva qui a Everworld non era una copia esatta del cervello che aveva nel mondo reale. Doveva essere così. Be'... forse non avrei potuto raggiungerlo, qui, per ora. Ma c'era più di un universo abitato da Jalil e da me. Se non riuscivo a punire questo Jalil, avrei punito l'altro. CAPITOLO VI Dopo un paio d'ore di navigazione gli altri iniziarono ad addormentarsi. Vedevo il loro spirito che li abbandonava e veniva risucchiato dall'altra parte della barriera tra i due universi. Li sentivo passare dall'altra parte, perché, in un certo modo, passavano attraverso di me. Solo David rimase sveglio, a fare il primo turno di guardia. Aveva lo sguardo fisso nell'oscurità che si infittiva, cercava di immaginare a che cosa stavamo andando incontro. Si chiedeva che cosa avrebbe potuto fare. Sempre a preoccuparsi, sempre a chiedersi se sarebbe stato forte abbastanza, veloce abbastanza, uomo abbastanza, abbastanza abbastanza da vincere la prossima battaglia. Chiusi gli occhi anch'io, ma io non avevo bisogno di dormire per poter
passare dall'altra parte. Il mio corpo era a Everworld per intero. Non mi ero divisa in due entità gemellari, non c'era una Senna del mondo reale e una Senna di Everworld, a differenza degli altri. Ma esistevo in entrambi i mondi. La mia anima viveva in entrambi gli universi. Uno scherzo di natura. Un'imperfezione. Un difetto in quelli che dovevano essere sistemi perfetti e distinti. Potevo passare dall'altra parte in qualsiasi momento. Era facile come lasciarsi andare. Facile come stare in piedi sul parapetto di un palazzo e fare un passo nel vuoto. Ma faceva paura, ancora adesso, dopo tante volte. Tanta paura che cercavo di evitarlo. Faceva paura perché il vuoto non era vuoto. C'era qualcuno, qualcosa, che mi vedeva mentre attraversavo. Sentivo l'intelligenza. L'attenzione. L'interesse. Mi guardava tutte le volte. Mi riconosceva. Io non l'avevo mai visto, o vista. Non avevo mai visto niente passando dall'altra parte, non c'era luce, solo l'aura, eppure ero consapevole di quella presenza. Il sambuco, il ponte, la vela adesso aperta, l'equipaggio, tutto svanì. La scena tridimensionale intorno a me, con tutte le sue sfumature di luce e ombra, tutti i dettagli, tutti i suoni, importanti e non, tutto si appiattì, divenne un'immagine su un pezzo di pellicola trasparente. Vedevo ancora tutto, ma ora sembrava esistere solo in due dimensioni. Era piatto, lunghezza e larghezza, ma niente profondità. Come se mettendolo di taglio potesse scomparire del tutto. Sotto il sambuco vidi Sobek, la testa di coccodrillo e il corpo di uomo, che nuotava con due giganteschi coccodrilli al fianco come guardia d'onore. Ci seguiva, ci osservava, aspettava. Sul sambuco che galleggiava sopra il dio rilucente, David si mosse e cambiò posizione, i rematori continuarono a remare, il timoniere urinò nell'acqua. Ma tutto era trasparente. L'acqua gorgogliava sul fianco del sambuco, i remi tagliavano le onde crestate, il legno scricchiolava, un uccello acquatico gridò al sole al tramonto. Ma tutto questo non era che il grattare di una puntina impolverata su un vecchio disco in vinile, una debole registrazione. Attraversai le due dimensioni di questa immagine e l'immagine mi si avvolse intorno come una bolla di sapone intorno a un dito. L'attraversai e iniziai a cadere nel buio, un buio illuminato solo dalla consapevolezza della presenza dell'osservatore. Molto lontano, migliaia di miliardi di chilometri, e tuttavia a portata di
mano, una bidimensionalità diversa, la membrana ben distesa di una realtà diversa. Anche là era notte. Vidi le facce addormentate nell'ombra. Stanze buie e strade dall'illuminazione spettrale e auto di pattuglia. Tutto connesso da fili, tutto al proprio posto, tutto in una scatola ben sigillata. Ovunque la benzina alimentava i motori, gli ingranaggi giravano, l'acqua correva nelle tubature e si accumulava nelle cisterne, l'elettricità scattava, il flusso dei dati correva, le onde si distorcevano nell'aria. Ma da nessuna parte, la corda vibrante del violino della magia. Da nessuna parte, l'aura. Mi era tutto così alieno, adesso. Adesso che ne ero lontana, adesso che avevo visto un mondo dove l'aura meravigliosa era ovunque. Questo era un mondo affamato dove mai avrei trovato un pasto. Non era più mio, non lo era mai stato, in verità. Non era la mia casa. Non era la mia gente. Mi librai sulla piatta membrana di questa realtà, al di sopra, al di sotto, di lato; la direzione non aveva significato. La rasentai come un uccello sfiora la superficie di un lago calmo, scuro e silenzioso. Cercavo un punto dove entrare, un posto dove andare, un corpo che mi accogliesse. Avrei potuto proiettare me stessa in questo universo, proiettare l'immagine del mio corpo, ma era troppo estenuante. Significava tenere aperta la "porta" tra i due universi, lasciar fluire i poteri di Everworld. E più la tenevo aperta, più intelligenze avrebbero percepito la mia presenza. Non l'osservatore nel vuoto, ma le intelligenze più piccole di Everworld. Quando tenevo aperta la "porta" sentivo gli occhi di Loki che mi cercavano. Sapevo che Merlino sentiva l'interferenza. Era come aprire la porta di un ristorante in una notte gelida. Dentro, tutti gli avventori, comodamente seduti al calduccio, sentono il freddo, chi più e chi meno, ma tutti sanno che è stata aperta una porta. No, non dovevo aprire la "porta". Molto più facile trovare una mente che mi accogliesse. Una mente che faticava ad afferrare tutto quello che gli abitanti del mondo reale davano per scontato. Le vedevo, quelle menti, quelle facce; le sentivo, come un'ape sente un fiore, o un vampiro sente il sangue caldo. Le mie prede erano i pazzi, i deliranti, le menti distorte e lese. Erano loro che usavo. Vidi l'uomo che cercavo. La mente distorta e ripiegata su se stessa, un buco nero che alterava la realtà che gli si presentava davanti. Un vortice lento nella realtà. Spinsi contro la membrana, la sentii avvolgersi intorno a me, ed entrai nello spazio occupato da questa creatura.
Di colpo ero lì. E il mondo che mi circondava ebbe una profondità, ebbe suoni, odori e gusti e consistenze diverse. Ero tornata. «Andiamo a farci un giro» dissi. Una voce nella testa di un pazzo. Lui aprì gli occhi. Stava dormendo nel dormitorio dell'Esercito della Salvezza. Centocinquanta chili stretti in una branda troppo piccola, residuato militare, a malapena avvolti in una coperta, anch'essa un residuato militare. «Tu non sei reale» sibilò. «Va' via. Subito. Non darmi fastidio. Va' via subito, le ho prese, le medicine.» «Non puoi disfarti di me così facilmente» gli dissi. Era una voce così piccola che non avrebbe mai fatto muovere una persona sana. Ma avrebbe fatto muovere quest'anima persa. «Sono della CIA. Tu sai che possiamo controllare la tua mente. Avresti dovuto mettere il cappello di carta stagnola. È l'unico modo di fermarci. Alzati, Billy Ciccione. Abbiamo dei posti dove andare, della gente da vedere.» Camminammo nelle strade buie. Non era tardi, ma la città chiudeva presto i battenti. Gli studenti del college qui erano della specie più seria e studiosa. C'erano pochi locali, nessun club. Studenti seri e cittadini seri. Una città noiosa. Una città sicura. Fino a otto isolati dal lago ci abitavano solo professionisti, il tipo di persone che ogni giorno vanno a lavorare in città, in treno, in macchina o, in più di un caso, in limousine. Era una comunità tranquilla, indefessa lavoratrice, consumatrice di latte, proprietaria di berline di marca tedesca o svedese. Avvocati, medici, consulenti finanziari, broker, agenti immobiliari, uomini d'affari. La zona intorno al lago Michigan era suddivisa in base alla classe sociale. Avere la vista sul lago significava essere ricchi. Avere la vista sul lago guardando giù da una traversa significava essere benestanti. Vivere dall'altra parte dei binari significava essere un colletto blu, uno che voleva passare dalla parte di quelli con la vista sul lago. L'Esercito della Salvezza era, imprevedibilmente, ad appena dieci minuti a piedi dalle grandi residenze da un milione di dollari tutte ben recintate e sbarrate. Divideva l'isolato con un centro di salute mentale, un centro di accoglienza per i malati di mente. Billy Ciccione aveva vissuto in entrambi i posti. Tirava avanti abbordando gli uomini d'affari e le signore a passeggio che attraversavano il parco per andare alla stazione. Aveva una voce
stranamente gentile e sembrava un bambino gigante. Chiedeva qualche spicciolo e lodava il Signore se riceveva qualcosa. Poi li seguiva borbottando della CIA, degli alieni, del governo che cercava di controllarlo. Ero cresciuta anch'io in questa città, dopo che mia madre mi aveva mollato a mio padre e alla sua amorevole famiglia. La nostra casa non dava direttamente sul lago, ma eravamo abbastanza vicini da intravederne un angolo, dietro un'altra casa. Avevo odiato quella casa fin dall'inizio. E avevo imparato a odiare anche la città. I ricchi erano tutti snob e ottusi. I quasi ricchi erano altrettanto ottusi e ancora più snob. I ragazzi della classe operaia soffrivano di un doppio complesso di inferiorità: non vivevano né sulla riva del lago né nei quartieri "in" del centro di Chicago. Perché mi aveva abbandonato lì? Perché, se sapeva che cos'ero? Lei aveva visto il mondo... non c'era nessun altro posto per me, un posto migliore, un posto dove avrei potuto crescere con almeno una possibilità di trovare una strada più adatta a me? Chicago era il cuore e l'anima della prospera America dell'alba del ventunesimo secolo. Né il luogo né l'epoca più adatti a una strega. In epoche passate forse avrei rischiato di finire annegata o impiccata o bruciata viva, ma sicuramente mi sarei annoiata di meno. Billy Ciccione camminava per le strade facendo uno strano suono basso e lamentoso. Aveva freddo. Era una notte ventosa d'autunno e il suo cappotto era troppo stretto per riuscire ad abbottonarsi. Passammo davanti a una delle chiese ridicolmente numerose che sono la principale caratteristica architettonica della città. Nel centro storico c'è una chiesa, grande e orrenda, a ogni angolo di strada. Guardai l'alto campanile, un'ombra grigia contro un cielo notturno coperto di nubi. La chiesa della mia famiglia. Lì avevo trascorso alcune delle mie ore più belle. La quiete forzata, il rituale, l'aspettativa di una magia mi avevano sempre attratto. Amavo la liturgia, la preghiera corale, l'inginocchiarsi e il rialzarsi in piedi, il canto. Mi sedevo e mi smarrivo nel rito, abbandonavo tutti i pensieri che mi potevano distrarre e nella meditazione trovavo quello strano potere che avevo dentro di me. Fu in quella chiesa che divenni consapevole delle mie potenzialità. All'inizio era solo un gioco, uno scherzetto che potevo fare senza che nessuno se ne accorgesse. Restavo immobile, seduta al mio posto, e inducevo un uomo della fila davanti a grattarsi l'orecchio o una donna a siste-
marsi i capelli. Piccoli trucchi mentali. Più facili, perché la gente in chiesa era immersa nella meditazione, come me. D'istinto capii che era una cosa da tenere per me. Capivo di essere diversa. Capivo che mia madre aveva avuto paura di me e questa triste verità mi rendeva più forte. Ma ero anche molto ignorante. Non sapevo a chi rivolgermi per capire, non sapevo a chi chiedere che cos'ero, perché ero diversa. Che cosa potevo fare? Rivolgermi alla mia matrigna? Allo psicologo della scuola? Al prete? "Padre, sento uno strano potere dentro di me. È come se il tessuto del mondo fosse in qualche modo rivoltato. Come se ci fosse un buco nella mia mente, ma non un vuoto, Padre: una pienezza. Si apre una porta e vedo uno spettacolo rutilante di luci, forme e figure e colori. Le tre dimensioni diventano quattro, poi sei, poi dodici. E quando concentro la mente, quando libero la mente e la svuoto di tutti i pensieri e allo stesso tempo la affilo come una lama, Padre, riesco ad attrarre tutte quelle forme e quei colori dentro di me, e con la mia mente riesco a penetrare, pungolare, toccare, come se fossero un'altra mano, una mano invisibile le cui dita possono toccare le menti." Avrei potuto chiedere aiuto. Ma non volevo un aiuto che facesse smettere tutto questo. Volevo un aiuto che lo potenziasse. Volevo sapere fin dove potevo arrivare. Volevo sapere come avere più resistenza, come vincere la stanchezza debilitante. Se avessi posto a qualcuno tutte queste domande, e tutte le altre che avevo, sarei finita come Billy Ciccione. Non si bruciavano i "diversi", non in questo luogo, non in questa epoca. Niente folle armate di torce e forconi al grido di "Al rogo la strega!". Niente di tutto questo, solo un uomo in camice bianco con una manciata di pillole. Il potere della tecnologia. La magia nera della scienza. L'unico altro luogo interessante della città, per me, sin da quando avevo sette anni, era proprio il centro di salute mentale, con i pazzi seduti fuori nel cortiletto grigio a fumare una sigaretta dietro l'altra mentre infuriava la battaglia tra i farmaci che dovevano prendere e le voci che sentivano dentro. Non mi ero mai sentita una di loro. Ma qualche volta mi chiedevo se riuscissero a cogliere almeno uno sprazzo di quello che solo io sembravo capace di vedere con chiarezza. Mi piacevano i pazzi. Mi era piaciuto Jalil per la sua follia. Ma quella iniziale simpatia non mi avrebbe impedito di ferirlo ora. Mi fermai in mezzo alla strada, immersa nel buio, davanti alla casa di Ja-
lil. Qualunque cosa o qualunque essere lo proteggesse da me a Everworld qui non avrebbe potuto difenderlo. CAPITOLO VII Dopo un po' riattraversai la barriera e tornai a essere interamente presente a Everworld. David adesso dormiva e Jalil stava facendo il turno di guardia. Era a prua, vicino alla candela schermata che costituiva l'unica nostra fonte di luce. La vela era stata alzata. Bastava la brezza a sospingerci e la maggior parte dei vogatori dormiva sui banchi. Volevo stuzzicare Jalil. Volevo chiedergli se si era divertito nel mondo reale. Volevo chiedergli se lavarsi le mani sette volte gli fosse bastato, o se magari avesse dovuto lavarsele sette volte sette, per mettere a tacere la voce folle che gli rimbombava nella testa. Ma non sarebbe stata una mossa intelligente. Billy Ciccione era rimasto nel giardino di Jalil a gridare finché la polizia non era venuta a portarselo via. Aveva gridato che la CIA voleva che si tagliasse quelle sue sporche manacce. L'aveva gridato all'infinito. La CIA voleva che si tagliasse le mani, erano troppo sporche, lui non voleva, non costringetemi a farlo, ma quelle voci continuavano a ripeterglielo. Sapevo che Jalil l'aveva sentito. L'avevo visto dietro la finestra della sua camera. Avevo visto lo sguardo terrorizzato, gli occhi spiritati. Ehi... Jalil, hai visto uno specchio di te stesso, là fuori, non è vero? Hai visto la tua stessa debolezza moltiplicata fino alla pazzia furiosa... E ti ha dato fastidio, vero, Jalil? E adesso non mi vedi più nella tua mente, vero, Jalil? Non hai più davanti l'immagine di Senna debole e indifesa nelle fauci dei coccodrilli. Non assapori più il piacere del trionfo che provasti quando mi issasti su quell'albero, svenuta. No, Jalil, adesso la tua mente è piena di quella voce urlante, piena da scoppiare dell'amaro ricordo della tua reazione compulsiva. Ti sei lavato le mani fino a farle sanguinare, vero, Jalil? Le sfregavi e piangevi e ti vedevi per quell'essere debole, squilibrato e penoso che sei. Sentii un piacere fisico, un'ondata intensa di frementi sensazioni, il godimento della rabbia sfogata, del torto vendicato. Chiusi gli occhi e l'assaporai, lo trattenni dentro di me. Il potere... quanto l'amavo! Mi colmava e mi appagava. Potevo manovrare Jalil. Potevo manovrarli tutti. L'insicurezza di David,
il rancore di April, i vizi di Christopher: tutto questo mi rendeva più forte. Eppure non riuscivo a battere nemmeno una divinità minore egizia. Questo pensiero mi fece rabbuiare. Ero sfuggita a Loki, ma Hel mi aveva sconfitto facilmente, e sapevo che anche Atena avrebbe potuto farlo con la stessa facilità. E adesso ci si metteva anche questo misero dio dei coccodrilli, che ancora ci seguiva, ci sorvegliava, aspettava... ma aspettava cosa? Come avrei trovato la forza per resistergli? Non sarei mai stata la "porta" per Loki. Non sarei mai stata schiava di Ka Anor. Ma quanto ancora potevo resistere con la manipolazione, l'inganno e una manciata di trucchi da nulla? Fra quanto tempo il mio esercito segreto e inaspettato, i miei alleati nell'ombra, avrebbero potuto intervenire? Avevo ancora bisogno di Jalil. Mi bruciava, ma era così. Jalil voleva entrare nel software di Everworld. "Software" era la sua definizione, la sua idea, limitata ma probabilmente piuttosto precisa, di Everworld. I grandi e sommi dei, Odino e Zeus e poi il Daghdha e Quetzalcoatl e Amon-Ra e gli altri dei padri, le grandi potenze, avevano creato Everworld. Ne avevano scritto loro le leggi e le avevano codificate nella magia. Jalil lo chiamava "software". Per me erano magie e incantesimi. Ma non c'era una vera differenza. David, Christopher, April, nessuno di loro si curava di spiare tra le fessure del pavimento per scoprire che cosa ci fosse sotto. Jalil invece sì. Lui sì. Certo: lui voleva comprendere per avere il controllo. David si mosse, si svegliò, disturbando i miei sogni a occhi aperti. Andò da Jalil e si mise a parlottare con lui sottovoce, non abbastanza, però, da essere coperto dai suoni dolci e cullanti dell'acqua e del sambuco. «Stiamo procedendo bene» sbadigliò David. «È tanto che andiamo avanti in questo modo?» «Dal mio turno di guardia, dopo quello di Christopher» confermò Jalil. «E lui diceva che il vento si era alzato da un'ora.» «Impossibile che i Coo-Hatch riescano a starci dietro. Speriamo che non pensino che li abbiamo imbrogliati.» «Non credo. Siamo stati equi. Tu li hai... pagati in anticipo... per il secondo salvataggio, per il salvataggio di Senna. Gli hai dato l'idea dell'anima rigata nei cannoni. Diavolo! Sono loro in debito con noi.» David si guardò alle spalle, ricordandosi di colpo che qualcuno li poteva sentire. «Meglio che vada a parlare a... com'è che si chiama?» «Sechnaf» gli venne in aiuto Jalil.
«Proprio lui.» David mi passò accanto, si avvicinò al timoniere. «Sechnaf, come siamo con i tempi? Mi sembra che siamo sui nove o dieci nodi.» «Non capisco, mio signore» rispose l'Egizio, sconcertato dal concetto di "nodo". «Ci muoviamo rapidamente. Arriveremo alla diga prima che sorga il sole. Se il mio signore lo comanda, potremmo nasconderci nella foce di un tributario, tra i canneti, fino a quando non tornerà la notte.» David ci pensò su. «Se aspettiamo, rischiamo di essere scoperti. D'altro canto però, non possiamo attaccare se non sappiamo niente di niente. Quanto è lontano il nascondiglio dalla diga vera e propria?» «Una mezza mattina ai remi, con le acque ferme.» David sospirò. «Il che per me non significa un bel niente, tranne che la diga non è troppo lontana. Grazie, Sechnaf. Porta il sambuco nel tributario. Ehi...» Schioccò le dita. «Non c'è modo di sgraffignare una o due delle barchette più piccole che ho visto in giro? Quegli affarini a remi, che sembrano fatti di bambù...» «Devi solo ordinare, mio signore.» «Bene. Allora fallo. Ne voglio almeno una. La voglio fornita di acqua e di pane.» Venne da me e mi si accovacciò accanto. Lo guardai, incuriosita. «Mi porto Jalil e vado a fare una ricognizione fino alla diga» annunciò. «Tu vieni con noi.» «Io?» Ero sorpresa. «Non posso portarmi tutti, e non posso lasciarti qui con Christopher e April. Stai diventando un sassolino nella scarpa sempre più fastidioso, Senna. Non posso fidarmi di te e farmi promettere che non farai esplodere April, o ubriacare Christopher. E poi, il gioco delle trasformazioni che sai fare tu potrebbe tornarci utile.» «Non sono uno dei tuoi soldati, David.» «Ah sì? Be'... sei tu quella che ha promesso a Sobek che avremmo buttato giù la sua brava diga. Credi di poter prendere degli impegni e poi restartene seduta a guardare mentre il lavoro sporco lo facciamo noi?» C'era ben poco che potessi obiettare. «Sarò felice di venire con voi.» «Bene. Ottimo. A noi due servirà un po' di quell'unto che usano per lubrificare gli scalmi. Abbiamo la pelle troppo bianca, ci dobbiamo impia-
stricciare un po'. Va' avanti, intanto. Io devo parlare con Jalil.» Ci volle un'altra ora prima che il sambuco scivolasse nella bocca soffocata dai canneti di un piccolo corso d'acqua. Quando ci arrivammo, erano tutti svegli e io avevo la faccia tutta impiastricciata di unto. Christopher moriva dalla voglia di fare una delle sue battutacce, ma per il momento i suoi angioletti buoni lo tenevano a freno. «Okay, funziona così» spiegò David. «Noi tre andiamo in avanscoperta. Scendiamo sul fiume con la barchetta a remi e cerchiamo di dare un'occhiata a quello che succede. Poi torniamo qui. April? Christopher? Questo sambuco non si muove di qui finché noi non siamo tornati, è chiaro? Se Sechnaf cerca di partire, convincetelo voi a non farlo. Convincetelo con qualsiasi mezzo.» Fece un gesto che Christopher e April ma nessun altro a Everworld avrebbe capito: si puntò l'indice alla tempia e piegò il pollice. Christopher rise. «Caro mio, se avessimo un paio di quelle, tutto questo universo girerebbe per noi.» CAPITOLO VII David balzò con piede sicuro sulla barchetta ondeggiante e malferma. Lui e Jalil mi aiutarono a scendere. Poi arrivò Jalil, goffo e sgraziato, salvato da David un attimo prima che cadesse fuoribordo. David prese i remi. Jalil si offrì di aiutarlo, ma David sapeva quello che faceva, Jalil invece no. E poi, a David piace il lavoro fisico pesante. Ci staccammo dal sambuco e subito la corrente ci afferrò e ci portò via. La notte ingoiò il sambuco con April e Christopher e restammo soli. O così pareva. David remava. Io rimasi al mio posto, in silenzio. Scivolai tra i due universi, quel tanto che bastava per distaccarmi da questo corpo, quel tanto che bastava a capire se Sobek era ancora con noi. Il dio coccodrillo vigilava sempre, gli occhi sopra il pelo dell'acqua fangosa. «Jalil, che cosa ne sai tu delle dighe?» mormorò David. «Che cosa ne so delle dighe? Cosa ti viene in mente? Non so niente delle dighe, io.» David grugnì, manovrò i remi per tenere la barchetta dove la corrente era più rapida. «Neanch'io. Impareremo, immagino.»
Non c'erano luci sulle rive del fiume, solo le ombre delle palme ondeggianti che nascondevano a tratti irregolari lo stupefacente schieramento di stelle. La luna non si era ancora alzata e non si vedeva nulla al di là della punta della barca. Quasi nemmeno quella. Ma avevo la sensazione che ci stessimo muovendo rapidamente. La brezza che ci soffiava nella schiena era compensata dall'equivalente velocità della barca. «Sssssh!» sibilò David e sollevò i remi dall'acqua. Mi misi in ascolto. Sì, dei suoni. Suoni non controllati. Canti. Voci roche, basse. Un coro alla buona composto interamente di bassi e baritoni. David spostò la barca dove la corrente era meno forte e ci lasciammo scivolare avanti, in silenzio, trattenendo il respiro. Ed ecco apparire all'improvviso una fila di torce baluginanti, vivide e brucianti ai nostri occhi ormai abituati a vedere alla luce delle stelle. Le torce sembravano galleggiare sull'acqua, un cordone teso da una riva all'altra. Sbattei le palpebre e guardai con attenzione e finalmente intravidi il profilo della diga: grandi tronchi e traverse massicce. E figure umane che si spostavano tra le pozze di luce. David ci parlò, muovendo solo le labbra. «Ci fermiamo qui. Silenzio perfetto.» Avanzammo ancora un poco portati dalla corrente, quando all'improvviso un groviglio di rami mi si impigliò tra i capelli. Soffocai l'impulso di strillare. Altri cespugli, mi abbassai, e la barca si fermò a riva. Un secondo dopo David era già fuori, quasi senza sollevare spruzzi. Tirò la barca su quella che sembrava una spiaggetta bassa. Impossibile a dirsi. L'oscurità era quasi completa. L'oscurità di un mondo prima dell'elettricità. Non riuscivamo più a distinguere la diga, ma vedevamo ancora il bagliore delle torce tra gli alberi. «Andiamo» sussurrò David, quasi senza emettere suono. «State vicini. Camminate bassi. Non inciampate. Se inciampate non fate rumore.» Io camminavo dietro a David, Jalil era dietro di me. Restavamo molto vicini l'uno all'altro. Sembrava sin troppo facile separarsi dagli altri e perdersi nel buio. Come avremmo fatto poi a ritrovare la barca? La diga ci era sembrata vicina, ma ci volle mezz'ora di cammino, a guado nell'acqua tiepida, sguazzando nella sabbia bagnata, lottando contro le erbacce che ci frustavano, prima di riuscire a rivederla. Ero sporca, bagnata, distrutta. Rami invisibili, ostacoli invisibili mi avevano graffiato la faccia, le braccia, le gambe. Avevo le palme delle mani tutte scorticate a furia di cadere.
C'era una casa. Una casa normalissima con le pareti di pietra e il tetto piatto. Doveva essere una fattoria, una volta, prima che la diga venisse costruita. Adesso l'acqua arrivava a metà finestra. Un uomo, un pesce, un coccodrillo avrebbero potuto entrare e uscire facilmente a nuoto, passando direttamente dalle finestre. Dal tetto si riusciva a vedere una buona parte della diga. Si vedeva sin troppo bene. Eravamo troppo vicini. La diga era alta. Si ergeva per almeno una decina di metri dall'acqua sul lato a monte del fiume. Impossibile vedere la parte a valle, indovinare di quanto si sarebbe abbassato il fiume una volta rientrato nel suo letto. C'erano due massicce guardiole di pietra alle opposte estremità della diga, una anche troppo vicina a noi e piuttosto inquietante. Se fosse spuntata la luna, saremmo stati facilmente visibili. Da questa posizione, sarei probabilmente riuscita a gettare una pietra nella finestra della guardiola, da dove stavo. I canti che avevamo sentito venivano proprio da lì. Le voci cantavano di un grande guerriero che aveva abbattuto un drago e preso il suo oro. Mi chiesi se c'era qualcosa di vero. Li avevo visti, i draghi. Era difficile derubarli, e più difficile ancora ucciderli. C'erano delle guardie di pattuglia sulla diga, marciavano con passo pesante su un lungo e stretto camminamento. Non riuscivo a vedere le facce o i dettagli, ma non c'era dubbio: erano più bassi degli uomini, e più grossi. Sembravano sbozzati da un cubo perfetto, grossi quasi quanto erano alti. Le asce che tenevano in mano mandavano bagliori. La luce delle torce faceva scintillare le cotte di maglia. David mi lanciò un'occhiata interrogativa. Ma Jalil rispose prima di me. «Nani» sussurrò. «Ti ricordi la città harem di Hel?» David sembrò confuso. Non era il solo. Che cosa ci facevano dei nani, qui? Questo era il sacro Nilo. Questo era l'Egitto. I nani facevano parte della mitologia europea. E come potevano dei nani difendere una diga sfidando gli dei dell'Egitto? David guardò ancora un poco, prendendo mentalmente appunti. Alla fine annuì. «Okay.» Iniziammo a scendere dal tetto. Io persi l'equilibrio, un pezzo di mattone marcito nell'acqua mi scivolò via da sotto il piede e cadde rumorosamente nell'acqua. David mi afferrò, mi sollevò, e scivolò in acqua. Jalil era appena dietro
di noi. Immediatamente qualcuno diede l'allarme. «Chi va là? Amici o nemici? Fatevi subito riconoscere» gridò una voce dura. E un attimo dopo: «Nemici alla porta! Nemici alla porta!» Vennero accese altre torce, il doppio, il triplo di prima. I nani nella guardiola corsero sulla diga. Ma altri scesero sulla terraferma. Quattro di loro si avvicinarono correndo. Sentii il cozzare delle armi. Noi eravamo nell'acqua fino alla vita, impossibile correre più veloci di loro. Non senza far rumore, non senza essere visti. E adesso, con un perfetto tempismo, una falce di luna iniziò a spuntare da dietro una nuvola. David mi attirò a sé, mi premette la bocca sull'orecchio e sibilò: «Se hai qualche trucco, questo è il momento di usarlo.» Poi prese Jalil per la maglietta e lo tirò giù. Si accovacciarono nell'acqua, tenendo fuori solo la testa. Li sentii fare dei respiri profondi e tremanti. Si stavano preparando. Sapevo che sott'acqua David stava sguainando la spada. I nani si avvicinavano rapidamente tra i cespugli e le canne di palude, passi pesanti, voci alterate, grugniti, minacce e maledizioni. Anch'io feci dei respiri profondi e con il fiato espulsi la parte conscia di me, la mente razionale e logica. Lasciai scorrere via i miei pensieri e mi aprii al potere. E poi, d'un tratto, eccoli lì, quattro creature tozze e dall'aria pericolosa, barbe arruffate, asce impugnate. David e Jalil si immersero e sparirono. I nani sgranarono gli occhi, ammutoliti, immobili, le asce penzoloni, dimenticate. «La Dama» sussurrò uno di loro, l'aspra voce reverente. «La Dama! In cosa possiamo servirti?» «Sì, la Dama» ripeté un terzo, scettico. «A patto che non sia opera di magia.» Non potevo permettere che lo scetticismo facesse presa su di loro. «Sono io, la vostra Dama. Ditemi che cosa desiderate, onorevoli nani. Perché avete costruito questa magnifica diga?» Questa piacque loro davvero. Si gonfiarono di orgoglio. «Ci si può ricavare molto oro, mia Dama. Il fiume porta con sé polveri d'oro nei sedimenti. Noi raccogliamo l'acqua nella chiusa per estrarre quell'oro.» «Deve essere una dura fatica, miei nani, così lontani dalle vostre case» dissi con voce afflitta. «Mi addolora vedere i miei...» I miei cosa? Mi stavo
inventando tutto. I miei cosa? Come dovevo chiamarli? «Mi addolora veder faticare i miei fedeli servitori tanto lontano dalle loro case.» «È così» confermò uno. «Ma l'oro è dove vuole essere, mia Dama, e noi dobbiamo seguire la vena dove ci conduce.» E tutti annuirono assennatamente. «Domattina, alle prime luci dell'alba, io vi mostrerò una vena d'oro più ricca di qualunque altra sia mai stata vista dai tempi dei vostri padri. Un luogo dove pepite grosse come i vostri pugni sono in superficie e aspettano solo di essere raccolte! Ne riempirete interi carri!» Anche questa piacque ai nani. Le quattro facce barbute si illuminarono. Erano facce dure, consunte, segnate dalle intemperie, sfregiate, ma erano diventate le facce di quattro bambini seduti sulle ginocchia di Babbo Natale. «Oro?» sussurrò uno di loro, come se la parola fosse di per sé magica. Si guardò il pugno per farsi un'idea delle pepite che avevo promesso. «In cambio voi costruirete per me un tempio, lì, esattamente dove siete ora!» «Quanto... quanto lo vuoi grande il tempio? Quanto ricco?» "Avidi e pure taccagni" pensai. Ma fortunatamente anche molto creduloni. Il cinismo è cosa rara a Everworld. Il dubbio è inusuale in un luogo dove gli dei non solo esistono ma si mostrano ai loro popoli con regolarità. «Andate!» ordinai indicando la diga. «Andate e preparatevi a diventare ricchi oltre ogni vostra più sfrenata fantasia! Andate, adesso! Ma non dimenticate il tempio, o perderete tutto.» Andarono. Si girarono a guardare, ma andarono, con passo sempre più veloce, vicini, dandosi grosse manate sulla schiena. Erano spaventati, nervosi, insicuri, ma la visione dell'oro era troppo forte per poterla ignorare. David e Jalil emersero dall'acqua, sforzandosi di riprendere fiato senza far rumore. Ci allontanammo rapidamente, in perfetto silenzio. Se i nani avessero sentito la Dama sguazzare nell'acqua, avrebbero capito il trucco. Come l'avrebbero capito se uno di loro, più curioso e più furbo, fosse tornato indietro a cercare di nuovo la visione dorata della Dama e avesse trovato me, una ragazza gocciolante come un cane bagnato. Mezz'ora dopo eravamo di nuovo sul fiume con David che vogava con forza controcorrente, tenendosi nell'acqua calma vicino alla riva opposta. «Che cosa hai fatto?» mi chiese Jalil. «Una piccola magia» gli risposi. «So quanto ami la magia, Jalil.»
«Ma che cosa hai fatto? Che cosa hanno visto?» Mi strinsi nelle spalle. Avevo freddo ed ero stanca. «Hanno visto una donna bellissima e splendente di luce, con gli orecchini doro, collane d'oro e una fascia dorata intorno alla vita.» «Conosci così bene la mitologia dei nani?» Risi. «In tutte le mitologie c'è una qualche versione della donna bellissima che sorge dalle acque. Qualche volta ce n'è più d'una. Era quasi sicuro che anche i nani ne avessero una. E ho immaginato che la loro dama delle acque avesse a che fare con l'oro.» David si meravigliò. «Allora è stato davvero tutto un bluff? Hai semplicemente tirato a indovinare...» «Un po' più di quello» spiegai. «La gente è piuttosto prevedibile, sai? I loro dei sono forti, saggi o malvagi, uomini ingannevoli e donne virginee e bellissime. In genere. Non sempre, ma in genere sì. Con qualche variante.» «Già... be', ci hai salvato la pelle» ammise David. Aspettai il ringraziamento di Jalil, ma non arrivò. Si rivolse invece a David. «Allora? Hai pensato a qualche modo intelligente per buttare giù la diga?» «Sì.» «Davvero?» «Credo di sì. Se al vecchio Sobek non dispiace perdere il suo bel sambuco.» CAPITOLO IX Il sole era rovente quando finalmente tornammo al sambuco. David e Jalil avevano fatto a turno ai remi e più volte avevamo dovuto avvicinarci a riva e ormeggiare perché riprendessero fiato. Quando finalmente doppiammo l'ansa ed entrammo nella foce del tributario, trovammo April di vedetta, visibilmente in ansia. Salimmo a bordo e David annunciò: «Mi metto a dormire per un paio di ore, poi vi dico. Nel frattempo, Sechnaf, voglio che tiri in secca il sambuco laggiù e che ordini alla tua ciurma di iniziare a raccogliere tutte le canne secche, tutte le fronde secche di palma, tutto quello che possa bruciare. Riempite il sambuco. Lasciate giu-
sto lo spazio necessario per manovrare i remi.» «Che abbiamo intenzione di fare, ammiraglio?» si informò Christopher. «Qualcosa che ho letto in un libro. Una nave incendiaria.» Alzò una mano per fermare qualsiasi altro quesito. «Basta con le domande, adesso. Sono distrutto.» E con queste parole si lasciò cadere su alcuni cuscini in un angolo in ombra e nel giro di pochi minuti stava già russando. Lo sentii passare attraverso di me mentre tornava nel mondo reale. «Nave incendiaria?» Christopher ripeté. «È una parola che si spiega da sé, mi pare. Vado ad aspettare sulla riva.» Sechnaf prese a impartire ordini ai suoi uomini. Accettava l'autorità di David. Forse aveva istruzioni direttamente da Sobek. Ma era anche vero che David aveva preso l'abitudine di sparare ordini e di aspettarsi di essere obbedito. Era una specie di magia naturale. Più uno dà ordini e viene obbedito, più facilmente dà altri ordini. Gli uomini sono dei pecoroni e adorano essere guidati. Avevo scelto bene con David. Anzi, aveva fatto meglio di quel che speravo. E anche se non era più interamente sotto il mio controllo, finiva sempre per fare quello che volevo io. E tanto mi bastava. Eppure, sarebbe venuto il momento in cui avrei dovuto fargli abbassare la cresta, e non di poco. Quando un pedone arriva ad attraversare tutta la scacchiera può anche diventare regina. Forse questo non era un titolo che David avrebbe saputo apprezzare, ma il concetto era chiaro: c'era un unico capo nel nostro gruppo, ed ero io. Mi sedetti sui cuscini e bevvi una ciotola di idromele allungato con l'acqua. Mi piaceva, adesso, questa bevanda. Era miele fermentato, troppo dolce, troppo forte, ma con una generosa aggiunta d'acqua diventava piuttosto innocuo. Lasciai vagare la mente, ignorando l'andirivieni degli Egizi che caricavano sul sambuco fasci d'erba, fronde e rami secchi. Mentre lavoravano ripetevano una specie di cantilena, un canto ripetitivo, meditativo, in lode a vari dei. Come sarebbe stato rivedere mia madre? Che cosa le avrei detto? Che cosa avrebbe risposto lei? Che tipo di commedia avrebbe preparato? Che scena avremmo recitato insieme? La figliola prodiga? La figlia vendicativa e malvagia? Una cosa era sicura: avrei dovuto stare molto attenta. Lei era sicuramente forte, oppure non sarebbe stata qui a Everworld. Quella sera, nell'ufficio
di mio padre, era passata da questa parte. Aveva distorto la realtà, aveva aperto la "porta" di Everworld e si era lasciata alle spalle soltanto me e mio padre, pallido e tremante. Peggio ancora, era una sacerdotessa di Iside. Avevo studiato Iside. Avevo letto tutto quello che avevo trovato su di lei. Era chiamata "grande nella magia". Come tutte le divinità egizie, il suo ruolo era cambiato nel tempo, in base ai bisogni della società. Dea madre, maga, moglie del proprio fratello, Osiride. Osiride era stato ucciso da Seth, dio del caos, una specie di Loki egizio. Pur essendo morto, Osiride era sceso a governare nel regno dei morti e, in virtù della grande magia di Iside, era persino riuscito a ingravidarla. E Iside aveva avuto un figlio dal marito-fratello morto. Il suo nome era Horus. Era il dio del cielo e degli uccelli da preda. O lo era stato. Se Sobek diceva il vero, anche Horus adesso era morto. E Iside era furiosa con Sobek da più di un secolo. Ma niente di tutto questo serviva a chiarire che cosa avrei trovato quando finalmente avrei rivisto mia madre. Gli dei egizi non erano come quelli greci. I Greci scrivevano storie con una sensibilità occidentale. Magari erano strani, ma i miti greci potevano essere capiti secondo una logica lineare, da A a B e da B a C. Gli Egizi erano meno diretti. Ogni divinità aveva una decina di facce, una decina di forme, una decina di attributi, spesso stranamente discordanti tra loro. O almeno, era questa la storia che avevamo decifrato da un millennio di geroglifici. La verità? L'avremmo scoperta presto. Ero esaltata da tutte le possibilità che si potevano aprire. Anche in ansia. Forse spaventata. Una parte di me, una parte troppo grande di me, voleva andare da quella vecchia strega e gridare: "Mamma, perché? Perché mi hai abbandonata? Perché mi hai abbandonata in un mondo dove non avevo nessuna speranza di inserirmi? Perché mi hai abbandonata con un padre che aveva paura di me, con una matrigna che detestava ciò che rappresentavo e con una sorella il cui rancore sarebbe stato una fiamma ardente per tutti gli anni della mia infanzia? Perché?". Be'... non l'avrei mai fatto. Non le avrei mai dato questa soddisfazione. Me l'ero cavata da sola. Ero sfuggita al mondo reale, con un po' di aiuto involontario da parte di Loki e di suo figlio Fenrir. E adesso, mamma, adesso la tua bambina sta per diventare una vera potenza, e tutto questo da sola.
Sì, la piccola Senda è il sentiero, okay. È il sentiero che lei sola userà. Chiusi gli occhi e assaporai le possibilità. Mi vidi in un tempio tutto mio, in cima a una montagna, in alto nel cielo limpido, in alto tra le nuvole. Vidi gli dei della Grecia, così umiliati da non poter far altro che prestarmi i loro poteri affinché li usassi ai miei fini. Vidi il mostro Ka Anor sterminato, il suo orrendo alveare raso al suolo. Vidi Merlino intrappolato in una prigione senza via di fuga, a ribollire nell'impotenza, a chiedere in ginocchio di essere ricevuto in udienza. E Loki? Loki sarebbe stato al mio servizio, un utile strumento nelle mie mani. Avrei tenuto tutte le redini del potere vero, avrei messo gli dei l'uno contro l'altro, li avrei tenuti in bilico, li avrei ingannati, li avrei usati come loro usavano i semplici mortali. Mi vedevano come una strega. Una "porta". Una mutante, uno scherzo di natura che viveva in due universi contemporaneamente. Per gli dei io ero uno strumento oppure un ostacolo. Ma non mi temevano, non ancora. Non mi temevano perché non capivano. Non vedevano la cosa più importante. Certo che non capivano, come avrebbero potuto? Quando avevano abbandonato il vecchio mondo, gli uomini giravano ancora con le spade e le aste appuntite. Come potevano immaginare quanto erano rimasti indietro? Ma Jalil avrebbe potuto capirlo, e l'avrebbe capito, se solo avesse aperto la mente. April aveva un lettore CD nello zaino. Le batterie funzionavano ancora. Il minuscolo laser leggeva ancora gli invisibili codici impressi sul CD, la musica usciva ancora. Se un CD... Non ci hai ancora pensato, vero, Jalil? Non ti è ancora venuto in mente, vero? Tu che sei così intelligente e perspicace, pensi davvero che io porterei tutti i mostri di Everworld nel mondo reale? A che scopo, sciocco e tronfio che non sei altro? Che cosa ci guadagnerei? Ah, Jalil, proprio tu che sei così intelligente, ti sei lasciato sfuggire il dato cruciale: una porta si apre in entrambe le direzioni. Risi allegramente tra me. Oh, sì, era tutto a portata di mano. Dovevo soltanto restare viva abbastanza a lungo per prepararmi il terreno. E poi, sarebbe toccato a Jalil. E poi a mia madre. E poi a mia sorella. E poi a tutti gli altri. Tutti. CAPITOLO X
Quando calò la notte, i vogatori riportarono il sambuco sul fiume. David spiegò che cosa c'era da fare. «La diga è interamente fatta di legno ed è rivestita da una specie di catrame perché il legno non marcisca. Ho notato che tutte le luci, le torce, sporgono sull'acqua. Il che significa che i nani temono il fuoco. Ed è un bene per noi.» «Ma potrà bruciare solo fino al livello dell'acqua» obiettò Jalil. «Io spero che sarà sufficiente» rispose David. «La mia idea, o comunque la speranza, è che la struttura si indebolisca tanto da crollare.» «Ma questo non provocherà una gigantesca inondazione, quando tutta l'acqua verrà liberata?» osservò April. «Sì» annuì David. April rise, incredula. «E lo facciamo lo stesso? Potrebbero morire delle persone.» David mi lanciò un'occhiata, come se fosse colpa mia o almeno sperando che offrissi io una giustificazione. Fu Christopher invece a rispondere. «Senti, o facciamo così o finiamo in mezzo ai coccodrilli fino al collo. L'abbiamo promesso a Sobek. E poi, questi nani sono stranieri, giusto? Sono venuti qui e hanno tirato su la diga. Gli Egizi non erano d'accordo, sta' sicura.» David cercò di tornare a considerazioni di tipo più pratico. «Dobbiamo puntare il sambuco verso l'apertura di deflusso dell'acqua in eccesso. Dovrebbe bastare la corrente, ma...» «No. Un momento!» l'interruppe April. «Ehi, se siamo venuti in Egitto è solo perché abbiamo dato ai Coo-Hatch le conoscenze per fabbricare la polvere da sparo. Non l'abbiamo ancora imparata la lezione? Non abbiamo già combinato abbastanza guai andandocene in giro a ficcare il naso negli affari degli altri?» Adesso toccava a me. «L'Egitto vive grazie al Nilo e alle sue piene che fertilizzano la terra. Questa diga invece blocca le piene. È molto probabile che più a valle la gente stia morendo di fame. Lo stiamo salvando, l'Egitto, non lo stiamo danneggiando.» «Tu non lo sai. Tu non lo puoi sapere, Senna» ribatté. «È stata tutta un'idea tua, comunque, non è vero? Quindi, ancora una volta, siamo qui a obbedire agli ordini di Senna, a fare il lavoro sporco per lei. Possibile che non lo vediate anche voi?»
«I nani stanno derubando gli Egizi del loro oro e come se non bastasse li riducono anche alla fame» dissi con voce pacata. «Siamo dalla parte degli angeli, qui.» April mi rispose con sarcasmo. «Ogni volta che tu sei dalla parte degli angeli, gli angeli devono cambiare parte.» Ma non fece altre obiezioni. Per quel giorno si era guadagnata la sua stelletta d'oro. E poi le andava quanto a me di diventare cibo per coccodrilli. Ci calammo dal sambuco sulle barche a remi. Tre barchette, appena sufficienti a portare noi e tutto l'equipaggio. David rimase a bordo e prese il timone dalle mani di Sechnaf. Un piccolo fuoco ardeva in un vaso di terracotta traforato. Il sambuco era carico di erba secca. L'albero e la vela erano stati inzuppati di olio infiammabile. «Hai intenzione di scendere, vero?» gridò Jalil a David. «No, voglio affondare con la nave» rispose David con raro sarcasmo. «Guarda che è capace di farlo, sai?» borbottò Christopher. Scivolammo lungo il fiume, lenti come la corrente. Nessuno remava, tenevamo solo la rotta. Eravamo uno strano corteo regale sullo stesso tratto di fiume che avevo da poco percorso con David e Jalil. Silenziosi, se non per il rumore del legno e dell'acqua. Doppiammo un'ansa e vedemmo la fila delle torce. Ci avvicinammo ancora. Nessun segnale da David. Più vicini. Abbastanza da intravedere ombre vaghe alla luce delle torce. Lenti, lenti, sempre più vicini. Un grido nella notte. «Una barca! Allarme, allarme, una barca! Nemici alle porte! Nemici alle porte!» Più torce, adesso, e il clangore dei foderi che urtavano contro la cotta di maglia che copriva le gambe. I nani si riversarono sulla diga da entrambe le guardiole. Si schierarono per la battaglia, aspettandosi chiaramente un attacco. Le lame delle asce mandavano bagliori. Si riuscivano quasi a vedere le facce. David legò una fune intorno al remo del timone per bloccarlo. Poi diede un calcio al vaso di terracotta. Il vaso roteò, seminando scintille, gocce di olio in fiamme che caddero sulla paglia, sulle fronde, sui rami, sulle canne. Il fuoco non divampò subito. All'inizio erano solo pochi guizzi qua e là, nemmeno direttamente visibili a noi che eravamo più in basso, sulle barche a remi.
Una folata di vento e d'improvviso, come una cosa viva, come la capocchia di un fiammifero, il fuoco divampò, guizzò in alto, ruggì, si alimentò nel vento. Salì vorticando lungo l'albero maestro, spargendo ovunque piogge di scintille. David si tuffò subito in acqua. I nani gridarono, sgomenti, ora consapevoli di essere totalmente indifesi, di avere armi del tutto inefficaci. Il sambuco, un falò straordinariamente alto e sfolgorante di luce, avanzava inesorabile verso la diga. I nani per un po' esitarono, rimasero ai loro posti, poi di colpo si diedero alla fuga, tutti insieme. Si scagliarono verso la riva nell'attimo in cui la montagna di fiamme si schiantava contro la diga, cozzava, rotolava, schiacciata contro lo sfioratore dalla forza della corrente. Le rive del fiume, le guardiole, gli alberi... tutto era dipinto di giallo e arancio. I nani scappavano, entravano e uscivano dalle ombre tremule, scappavano nei boschi. Adesso tutta la diga bruciava. Le fiamme si svilupparono verso sinistra lungo la struttura di legno, alimentate dalla brezza. Il fuoco crepitava, scoppiettava, ruggiva, risucchiando il vento nel vuoto d'aria che creava. Le punte sfrangiate delle fiamme si alzavano fino a trenta metri. Sentivo il calore sulla faccia, mi bruciavano le guance, mi chiesi se i capelli stessero per prendere fuoco. Era come stare vicini a una stella, a un inferno circondato dalle tenebre. Sechnaf, un rematore dell'equipaggio e Christopher erano in barca con me. Sbucò David, bagnato fradicio, sputando acqua fangosa. Si issò sulla barchetta con un po' d'aiuto da parte di Christopher. Si lisciò i capelli per togliere l'acqua e ammirò la sua opera. «Brucerà per un po'» osservò. «Sarà meglio portarci a riva. Tutti all'erta. Se incrociamo dei nani, di sicuro non saranno contenti di vederci.» Le nostre tre barchette cambiarono direzione e iniziarono a risalire la corrente, allontanandosi dall'inferno che avevamo creato. Approdammo su una riva fangosa vicino a un boschetto di palme moribonde. La diga non era più direttamente visibile, ma il bagliore delle fiamme illuminava la notte. «Che razza di falò!» commentò allora Christopher. «E adesso, generale Sherman?» Jalil gli lanciò un'occhiataccia. Il cognome di Jalil è Sherman. «Il generale Sherman, amico» precisò Christopher. «Quello che bruciò Atlanta... Non l'hai mai visto, Via col vento?» «Adesso stiamo a vedere che cosa succede» ribatté David. «Nessuno
dorma. Stiamo tutti pronti a combattere. Tenete d'occhio i boschi.» "E l'acqua" pensai io, ma non dissi niente. Avevamo fatto quello che Sobek voleva. Ma questo non significava che non ci avrebbe uccisi. Forse non stanotte. No, sicuramente non stanotte, non finché non fosse stato sicuro del successo dell'impresa. Mentre David faceva il primo turno di guardia, mi lasciai scivolare nel vuoto, lo attraversai e tornai nel mondo reale. David non era l'unico generale. Anch'io avevo i miei soldati da comandare. CAPITOLO XI Era una fatica sfibrante. Dovevo proiettare il mio corpo fisico nel mondo reale, o almeno un'illusione del mio corpo fisico. E in questo caso, non l'immagine familiare della mia vera persona: mi serviva un'immagine modificata, un'immagine che avevo inventato qualche settimana prima proprio per questo scopo. Richiedeva uno sforzo estremo. E uno sforzo ancora più grande per creare le meraviglie e i miracoli che pretendevano i miei soldati. Si riunivano in una stanzetta nel retrobottega di un negozio di magliette dalle vetrine sporche vicino a Rogers Park. La zona era quella più periferica, a nord di Chicago. Un miscuglio di nazionalità e religioni, immigrati di tutti i tipi. Un quartiere operaio fatto di caseggiati di mattoni con i condizionatori arrugginiti alle finestre e piccole case dalla struttura di legno con i cortili ordinati. Le strade erano illuminate dalle luci al neon di cambiavalute, fast food, stazioni di servizio selfservice. La stanza non era che quattro pareti nude, un'unica finestra ad altezza d'uomo, chiusa con del cartone nero, per terra una moquette macchiata e sei file di seggiole pieghevoli. I miei soldati mi avevano costruito una specie di altare. Una pietosa piattaforma alta quindici centimetri dipinta di nero su cui stava una grande cassa camuffata da un drappo di feltro rosso. Sulla parete bianca e nuda dietro questo altare c'era un poster. Mostrava due ellissi, separate ma unite insieme da una muscolosa figura maschile che teneva un'ellisse in ciascuna mano. Il tutto dipinto in oro su uno sfondo verde scuro. La figura maschile ero io. Non proprio "io", naturalmente; ma il mio aspetto naturale non corrispondeva all'immagine più adatta allo scopo. Mi
servivano degli uomini che mi seguissero, mi servivano degli assassini, mi serviva il giusto mix di pecoroni creduli e psicopatici determinati. E per questo tipo di persone mi serviva una divinità maschile, non femminile. Volai sulla stanza, non vista, invisibile, volai sull'immagine bidimensionale della stanza, una proiezione trasparente sulla superficie della bolla del mondo reale. Vidi nelle loro menti, nelle loro tenebre, nel loro vuoto. Diciotto. Quattro in più rispetto all'ultima volta. Bene. Sfiorai i nuovi proseliti, scivolai a pochi millimetri dalla loro mente, toccai il campo elettrico che faceva scattare le sinapsi del loro cervello grigio-rosa. Pecoroni. Nient'altro che pecore. Mi andava benissimo. Proprio delle pecore mi servivano. Le pecore erano degli ottimi servitori, e non avrebbero costituito alcun pericolo per me. E poi, ce n'erano ancora. Scivolai sull'universo e trovai la mente che ardeva, rossa, nella mia immaginazione. La sentii, sentii la rabbia distorta dentro di essa. Sentii il risentimento, il fallimento, l'assenza di speranza, il vuoto. Eccone uno pericoloso. Uno psicopatico vero. Era già venuto due volte ed era tornato per la terza volta. Era giovane, ma tanto meglio: sarebbe stato più feroce ma anche più facile da controllare. "Tu credi in me, Keith?" pensai tra me e me. "Mi hai accettato come l'unica via per realizzarti nella vita? Hai abbandonato quegli sciocchi con le loro ridicole ideologie? Sei pronto ad accettare il fatto che la magia, e solo la magia, potrà salvarti dalla vita che ora sei destinato a vivere?" Chiamai a raccolta tutti i miei poteri. Richiamai il potere da Everworld, lo portai attraverso il vuoto, ne accumulai cento volte di più di quello che mi poteva servire, perché tanto andava perso nel passaggio. Ero già stanca, ma non potevo mostrarlo. Formai l'immagine del dio che avevo inventato: viso duro e severo, capelli grigio acciaio dal taglio militare. Mostrai solo la testa e le spalle e le spalle erano drappeggiate di pieghe di un bianco abbacinante. Ero un dio, un generale, un padre, un leader, un pazzo geniale, perché naturalmente loro volevano un pazzo. Concentrai tutto il mio potere e scivolai nel mondo reale. Un'esclamazione di sorpresa da ogni bocca. Tutti gli occhi fissi su di me. Il polso accelerato. Brillai sopra le loro facce rivolte verso l'alto. Non potevano credere ai propri occhi, ma volevano crederci. Keith si girò, come sempre, in cerca del trucco, in cerca del proiettore. Voleva tanto credere, aveva bisogno di credere, ma gli stavo chiedendo di
rinunciare a ciò in cui già credeva, ed era difficile. Parlai con voce dura e autoritaria. «Siete venuti, come vi avevo ordinato.» Concessi loro un lieve cenno del capo, niente di più, niente gratitudine, perché questo era solo il loro dovere, così era stato loro ordinato. «Ci siamo riuniti e aspettiamo i tuoi ordini, Eccelso» disse con voce chioccia e servile un uomo di nome Dawkins, il mio gran sacerdote. «A rapporto» ordinai seccamente. Si irrigidì, un dilettante che cercava di scimmiottare le pose di un militare di professione. «Signorsì, Eccelso. Il tuo sacro arsenale è stato arricchito di dodici armi interamente automatiche, due casse di granate a mano e...» Fece una pausa per creare suspense e si gonfiò d'orgoglio. «... anche quattro lanciagranate.» Annuii. «Ben fatto, soldati. Ben fatto. E vedo quattro nuovi guerrieri qui con voi. Ma ce ne servono ancora. Solo quando avremo cento uomini bene armati, tutti giurati alla nostra causa, solo allora potremo passare alla fase successiva e dare inizio all'imponente impresa che ci attende.» «Che...?» si lasciò sfuggire di bocca uno dei nuovi senza pensarci. Apparve confuso e vergognoso, intimorito dalla sua stessa temerarietà. «Vuoi sapere che cos'è questa imponente impresa?» gli chiesi, digrignando dei denti che non esistevano, poi facendo un sorriso cattivo. «Ve lo voglio mostrare, soldati, ve lo voglio mostrare.» Feci una pausa per raccogliere le energie, come un sollevatore di pesi che si prepara ad alzare un bilanciere caricato all'impossibile. Aprii la "porta", solo uno spiraglio, solo una fessura, ma ciò che queste povere creature sentirono e videro e percepirono fu un'esplosione, un'invasione di immagini che, senza bisogno di passare dagli occhi e dagli orecchi, eruppe a tre dimensioni direttamente nelle loro menti. Videro il castello di Loki e la luccicante città di Huitzilopoctli e Nidhoggr in cima alla sua montagna d'oro. Videro Fenrir e il Serpente del Midgard e Galahad in armatura. Videro l'Olimpo e tutti i suoi dei. Videro Ka Anor e le sue orde di Hetwan. E videro l'oro e i palazzi e i castelli e i troni. Restarono tutti senza fiato. Gridarono. Sentirono la realtà di tutto ciò che vedevano, seppero che era tutto vero, troppo intenso per non essere vero. E mentre guardavano a bocca aperta, incantati, gonfi di cupidigia e di se-
te di potere, annunciai: «Tutto questo sarà nostro! Apparterrà a noi! Noi marceremo su questo mondo con la forza del nostro mondo, lo invaderemo e lo sottometteremo. Ciascuno di voi un re! E io, il vostro dio!» «Che cosa comandi, Eccelso?» mi disse Dawkins praticamente con un singhiozzo. «È giunta l'ora. Dovete preparavi accuratamente. Ma dovete portare altre armi. Armi più potenti per abbattere le mura di arditi castelli!» Dawkins aggrottò la fronte. «Vuoi dire dei pezzi di artiglieria, Eccelso? Dei mortai?» Volevo dire pezzi d'artiglieria? La terminologia tecnica non era il mio forte. Avrei dovuto informarmi meglio. Avrei dovuto fare delle ricerche. Correvo ancora il rischio di rovinare tutto, se solo fossi apparsa ai loro occhi meno che onnisciente. Ma Keith mi salvò senza saperlo. Era ansioso di mettersi in mostra. Ansioso di avere il mio amore, capite? «L'arsenale della National Guard» esclamò. «Loro hanno mortai e proiettili d'artiglieria e tutto il resto. E io conosco un tipo...» «E allora fatelo!» comandai, con la testa che mi girava per l'estenuazione. «Fatelo, prima che io ritorni!» Sparii, crollai, ricaddi in me stessa, affondai, fluttuando, appena consapevole, e tornai a Everworld. Tornai nel corpo fragile della ragazza inginocchiata nell'oscurità sulle rive del Nilo. Mi sfuggì un flebile lamento e caddi a terra, riversa. E lì restai, incurante del fatto che gli altri mi vedessero. Ero svuotata. Non mi rimaneva nemmeno una briciola di energia. Ero immobile. Come da molto lontano sentii un fragore prolungato, un boato, e vidi scemare la luce infernale. «La diga è andata» commentò David. Sorrisi, soddisfatta. Saremmo entrati in Egitto da eroi. E dall'altra parte, nel mondo reale, il mio piccolo esercito stava crescendo. Jalil mi guardò, non esattamente con benevolenza, ma con curiosità. «Tutto okay?» mi chiese. «Sto bene» riuscii a sussurrare. Sto bene, Jalil. Entreremo in Egitto da eroi. E il mio esercito sta crescendo. Fra non molto, Jalil, ti accorgerai di quanto sei stato sciocco. La "porta" si apre in entrambe le direzioni, sai? Portare i mostri di Everworld nel mondo reale? Certo che no. Che cosa
ci potrei guadagnare? Ma portare qui i mostri del mondo reale, con i loro strumenti di morte e di distruzione? Il lettore CD è passato da questa parte della barriera e continua a funzionare. Se può un lettore CD, perché non un'arma da fuoco? E, come osservava David il generale, una battaglia tra spade e fucili finirebbe molto in fretta. Come mi sarei fatta chiamare, una volta al potere? Regina? Dea? C'era tempo per preoccuparsi di questi dettagli. CAPITOLO XII La mattina seguente ci separammo dagli uomini di Sechnaf, che ripresero la strada di casa. Trovammo le nostre barche lontano dall'acqua, all'asciutto. Il livello del fiume era calato precipitosamente e dovemmo trascinarle per un centinaio di metri nella melma vischiosa prima di raggiungere il Nilo. Il fiume adesso era soddisfatto, non era più frustrato, lo sentivo. Il fiume finalmente poteva svolgere il suo compito naturale, poteva scorrere come doveva dalle sorgenti fino al mare. «Non dovrebbe darci una scorta il nostro Sobek?» chiese Christopher. «In fin dei conti, gli abbiamo liberato il fiume, no?» «Non credo che gli dei siano molto bravi in fatto di gratitudine» disse Jalil. «Riteniamoci soddisfatti che non abbia cercato di ammazzarci giusto per dispetto.» Usammo solo due delle imbarcazioni. Una per Christopher ed April e un'altra per me, David e Jalil. La nostra era davanti, ma proseguivamo vicini, ogni tanto affiancati. Ben presto raggiungemmo quel che restava della diga. Era crollata al centro, un ampio squarcio frastagliato in cui il fiume si gonfiava, precipitava, ribolliva trionfante. Le pareti della diga si estendevano su entrambe le rive, su quella che adesso era terra emersa. Le guardiole di pietra erano ancora intatte, ma erano vuote, abbandonate. «Non guardare» disse David bruscamente e indicò altrove, cercando di distogliere la mia attenzione. Ma era impossibile non vedere il corpo del nano. Era impalato su una trave di legno spezzata che sporgeva dalle rovine. Il corpo era bruciato e annerito. Impossibile sapere se era morto prima di bruciare. Mi irrigidii, in attesa di una battutaccia di Christopher. Qualcosa a pro-
posito delle streghe come me che finivano bruciate su un rogo. Invece, niente. Era uno spettacolo raccapricciante. E non era finita. I nani avevano costruito diversi canali per setacciare l'oro. Erano tutti a pezzi. Anche gli edifici: caserme, forse, e magazzini. Tutto distrutto, sventrato, schiacciato, disperso nel paesaggio umido e melmoso, come tanta immondizia. C'erano corpi qua e là: nani, alcuni con la cotta di maglia, altri con lunghe camicie da notte, come se fossero morti nel sonno. Il fiume formava un'ansa a sinistra intorno a un promontorio nudo e roccioso. Le rocce si ergevano per cinque o sei metri sopra di noi. E su quelle rocce, in alto, un nano solitario, vivo, con la barba incrostata di fango, che piangeva. Sbatté le palpebre per metterci a fuoco. Si asciugò le lacrime e agitò un pugno contro di noi. «Vi credete dei fieri conquistatori?» ci urlò. «Esultate fin che potete. I nani non dimenticano. Tutti i nani di Everworld sapranno della vostra ignobile impresa. Non addentratevi mai tra le montagne, assassini di nani. Sarete schiavi nelle più oscure profondità delle nostre miniere e morirete senza vedere la luce!» Nessuno gli rispose. David si rifiutò di guardarlo e noi lo imitammo. Fingemmo di non averlo visto né sentito. Solo quando fummo ormai ben lontani, Christopher parlò. «Grande! Ci serviva proprio dell'altra gente che cercasse di ammazzarci.» «Non avevamo altra scelta» commentò Jalil, cercando di convincere prima di tutti se stesso. «Sobek avrebbe potuto attaccarci. Forse i CooHatch l'avrebbero fermato, ma forse no. E poi, quanti coccodrilli avrà? Sono veloci, sapete? I coccodrilli. Si muovono con sorprendente rapidità sulla terraferma.» «È tutto finito» disse David secco. Mi chiesi se Sobek ci avesse seguito oltre lo squarcio nella diga. Era ancora lì, sotto il pelo dell'acqua? Ero troppo sfinita per controllare usando i miei poteri. Ero spremuta come un limone, svuotata. «Ma sì, dimentichiamo tutto» disse April trasudando acidità. «Uccidiamo un po' di gente, ma scordiamocelo pure. Ma insomma, che stiamo facendo? Questo posto... Non possiamo permetterci di...» La frase le svanì sulle labbra, non riusciva nemmeno a trovare le parole per esprimere i suoi patetici sentimenti. Ma Jalil doveva puntualizzare.
«Dobbiamo raggiungere l'Egitto, dobbiamo aiutare i Coo-Hatch. Se non lo facciamo, loro daranno man forte agli Hetwan, gli Hetwan conquisteranno l'Olimpo, e poi sarà solo una questione di tempo e Ka Anor l'avrà vinta. E quando avrà tutto Everworld, invaderà il mondo reale. Dobbiamo fare di tutto per vincere. O succederà qualcosa di molto peggio.» «Che pensiero originale, Jalil» ironizzai. «Chissà se qualcuno ha già usato prima questo tipo di razionalizzazione. Dobbiamo uccidere per fermare le uccisioni. Dobbiamo essere infami per fermare l'infamia. Già, chissà se qualcuno ha già pensato a questa retorica spiegazione.» Jalil non rispose ma affondò i remi in acqua perdendo il ritmo e intralciando David. «Tutto questo è divertente per te, Senna, non è vero?» intervenne April. «È tutto uno scherzo. Tu non hai idea di che cosa sia la coscienza. Ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per te è solo un grosso scherzo.» Era ora di passare al contrattacco. «Ah sì? Io almeno ho un piano, April. Potrei consegnarmi a Loki e permettergli di entrare nel mondo reale. Sarebbe la cosa più facile da fare. Ma resisto, non ti pare? Resisto e progetto un Everworld migliore, un Everworld che non sia più una minaccia per il mondo reale.» «Forse dovresti renderci partecipi del tuo piano, uno di questi giorni» mi provocò Christopher. «Perché, per quanto ne so, il tuo piano sembra quello di fregare tutti quelli che incontri, di rovinare tutto e tutti, di mettere tutti l'uno contro l'altro finché non resterai solo tu. Ma forse mi sfuggono le sfumature.» Nascosi un sorriso. "No" pensai "ci hai azzeccato in pieno". E di colpo mi sentii proprio bene. Tutto avrebbe funzionato alla perfezione. Me lo sentivo. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Anni? Mesi? Non importava. Lo sapevo. Aveva già funzionato, per me, prima d'ora. Dopotutto, Everworld non era il primo luogo in cui venivo da straniera, da emarginata, da intrusa detestata. La prima volta ero entrata in un mondo strano e sconosciuto, a bordo di una limousine, seduta con la cintura allacciata accanto all'uomo scosso e nervoso che era mio padre. Era la prima volta che salivo su una limousine. L'autista aveva sollevato il vetro divisore in modo che mio padre potesse parlare liberamente. Ma mio padre aveva ben poco da dire. Si rosicchiava l'unghia del pollice e
guardava dal finestrino oscurato i pallidi lampioni della strada, mentre filavamo verso la zona nord di Chicago. Era un uomo in trappola. Lo capivo anche allora. Sapevo che aveva paura. E questo mi rassicurava. Anch'io avevo paura. Ma se avevamo paura tutti e due, allora lui non era più forte di me. Decisi di non avere più paura. Se non avessi avuto paura sarei stata più forte. Lo intuivo. O forse era qualcosa che mia madre mi aveva insegnato, non so. Quello che sapevo era che la mia vita era cambiata per sempre. Mia madre se n'era andata. Il nostro mondo di appartamenti illuminati dalle candele, di strani visitatori, di irregolari frequenze a scuola, di continui traslochi era passato. Finito. Carezzando la pelle nera dei sedili della limousine era questo che capivo. Mio padre usò il telefono della macchina per avvisare a casa. Aveva pensato bene alle parole. Non poteva dire troppo, non poteva dire troppo poco. E doveva stare attento a quello che diceva davanti a me. Dopotutto, ero solo una bambina. «Tesoro, è successo qualcosa. No, no, non mi sono fatto niente. È che... porto a casa qualcuno con me. Si chiama Senna. È una bambina.» Un lungo respiro. «Tesoro, è mia e... lo so, lo so e mi dispiace tanto. Ma è solo una bambina e...» Sentii che dall'altra parte avevano riagganciato. La sua faccia si contrasse e riagganciò anche lui. Arrivammo dieci minuti dopo e mio padre, sapendo che stava per sollevare un vespaio, divenne all'improvviso molto sollecito con me. Forse pensava che avrei potuto essere la sua unica alleata. La faccia della mia matrigna era gelida. Avrei potuto frantumarla in mille pezzi con un martello, sembrava di vetro. Mi guardò, non era arrabbiata con me, ma era comunque arrabbiata, livida, addolorata. C'era una bambina della mia età a metà scala, in pigiama, con una bambola di pezza in braccio. La mia matrigna si rivolse a lei. «April, questa bambina dorme qui stanotte. Io e papà dobbiamo parlare. Per favore, portala di sopra e mostrale la stanza degli ospiti. Fallo per me, amore, fa' la brava bambina.» «Si chiama Senna» disse mio padre. «Non me ne importa niente!» esplose la donna. La bambina mi guardò con aria dubbiosa. Aveva due occhi enormi e una
cascata di capelli rossi. Era terribilmente gentile e beneducata. Mi aiutò a portare su le mie cose. «Qui c'è la camera degli ospiti.» Aprì una porta. Dentro faceva freddo. Il riscaldamento era chiuso. Accese una lampada sul comodino. Era una stanza uscita da una rivista di arredamento. Diversa da qualsiasi cosa avessi visto nella mia breve esperienza di vita. La trapunta era in tinta con le tendine, che a loro volta riprendevano un motivo della carta da parati. «Chi sei?» chiesi alla bambina. «Io sono April. E tu come ti chiami?» Ci pensai un attimo. Io mi chiamavo Senda. Ma mio padre mi aveva chiamato Senna. Senda significava "sentiero". Mia madre aveva sempre avuto un debole per le lingue straniere. Era così che si guadagnava da vivere in questo mondo, faceva la traduttrice. Anzi, ora che ci penso, sembrava capace di capire qualsiasi cosa dicessero le persone, qualunque lingua parlassero. «Mi chiamo Senna Wales» risposi. E poi, per cancellarle quell'espressione compiaciuta e compassionevole dal suo faccino, aggiunsi: «È così che mi chiama mio papà.» «Dov'è tuo papà?» «È quell'uomo che c'è di sotto.» I suoi occhi si rabbuiarono. «Quello è il mio papà.» «Non più» le dissi. «Adesso è mio. Tu puoi tenere lei.» In quel momento ci arrivò il suono di grida dal piano di sotto. Una voce femminile alta e stridula che copriva una voce maschile più dolce, contrita. «Puoi far finta che sia ancora tuo papà se vuoi» dissi ad April. «Ma io e te sappiamo che non è vero.» Dopo tutti questi anni il ricordo mi dava ancora un brivido di piacere. Ero stata furba. O se non altro avevo avuto un buon istinto. C'erano due vie che avrei potuto seguire: cercare di ambientarmi, di assimilarmi, di entrare a far parte della famiglia, di essere una brava bambina a scuola e a casa... ma non mi sarei mai sentita a casa mia. Oppure avrei potuto dominarli prendendoli alla sprovvista, manipolandoli, sorprendendoli, disturbandoli. Potevo essere un elemento finto della loro Grande Famiglia Felice, oppure potevo crearmi una vita mia e vivere senza nessuno che mi controllasse.
Non mi avrebbero mai amata, nessuno mi avrebbe mai amata, anche mia madre mi aveva abbandonata. La mia stessa madre non... Bene, meglio che mi temessero, allora. CAPITOLO XIII Remammo, poi ci lasciammo trasportare dalla corrente, poi remammo ancora. Avevamo fame e sete, ma non potevamo bere l'acqua del fiume che trasportava i cadaveri dei nani morti. Su entrambe le rive del fiume erano ben visibili le conseguenze provocate dalla diga: campi di grano bruciato dal sole, alberi rinsecchiti, buoi macilenti, uomini, donne e bambini smagriti. La carestia, o quasi. Ma adesso sorridevano tutti: gli sguardi miopi e i grandi sorrisi sdentati dei vecchi, i sorrisi incerti tra la paura e la speranza delle madri, i sorrisi inconsapevoli dei bambini. Si raccoglievano sulla riva del fiume per salutarci, per gridarci grazie. Eravamo le prime persone dopo tanto, tanto tempo che arrivavano da monte, e portavamo con noi il fiume. Questa gente aveva visto le macerie della diga passare con la corrente, probabilmente avevano visto i corpi. Sapevano che eravamo stati noi ad aprire la strada al fiume e ci accoglievano come degli eroi. Un uomo entrò nell'acqua tra gli spruzzi e ci porse un otre di vino che tutti, pieni di gratitudine, ci passammo, tranne David. Un altro uomo avanzò nell'acqua fino al petto per donarci una manciata di datteri. Forse l'ultimo suo cibo. April non piagnucolava più per la morte dei nani. Adesso vedeva l'altra faccia della medaglia e, tipico suo, si lasciò sopraffare dall'emozione. I nani erano sempre morti, tanto quanto prima, ma adesso tutta questa gente ne era felice, e quindi... Il fiume si snodava tra terre desolate e piccoli villaggi di fango. La gente aveva pochissimo, ma donava generosamente quel poco che aveva. Nel pomeriggio avevamo tutti i datteri, i fichi, le albicocche, il pane e lo yogurt che avremmo potuto mangiare. Tutto il vino e tutta l'acqua che avremmo potuto bere. E fronde di palma per ripararci dal sole. Ci offrirono persino uno schiavo. «Siamo delle star...» Christopher esclamò. «Potremmo approfittarne come vogliamo.» «Forse dovremmo cominciare a cercare un posto dove passare la notte»
osservò David. «Ancora un paio d'ore e sarà buio, e non possiamo restare sul fiume con il buio. Magari al prossimo villaggio, se ne vediamo uno. Questa gente non sembra del tipo che crea problemi.» Doppiammo un'ansa del fiume, uscimmo dall'ombra di un promontorio e di colpo ce le trovammo proprio davanti agli occhi, immense e maestose. «Non ci posso credere!» esclamò con una risata incredula Christopher. «Le piramidi! Guardate un po' che roba!» La piramide era il modello di tutte le piramidi di tutte le enciclopedie mai scritte, ma senza il peso delle devastazioni dei secoli. Era alta, liscia, perfetta nelle proporzioni. Sembrava appena finita. Ciascuno dei milioni di blocchi di pietra era preciso e ben squadrato, sembrava tagliato con un rasoio. E, a differenza dell'immagine moderna delle piramidi del mondo reale, questa non si ergeva da una distesa di sabbia. No, era circondata da giardini ben disposti e irrigati, ancora più sorprendenti a confronto della povertà e della desolazione che avevamo appena visto. Ci volle un'ora per arrivare alla piramide e superarla. Era più lontana di quanto avessimo immaginato, un'illusione ottica. Ed era gigantesca. Restammo nella sua ombra per dieci minuti buoni. «Okay, dobbiamo stare sempre all'erta, mi raccomando» ci ricordò David. «Non sappiamo che cosa ci aspetta, quindi, meglio non rilassarsi troppo.» Per ribadire l'idea si assicurò di avere la spada nel fodero. «Come? Credi che le mummie ci attaccheranno, che ci inseguiranno a nuoto?» lo prese in giro Christopher. «Le frecce, Christopher. Hai presente l'arco e la freccia? Dalla piramide o da qualsiasi altro punto elevato sulla riva del fiume. Chiunque veda un arco, dia l'allarme e tutti giù sul fondo.» «Tutti a fondo?» «Sul fondo» precisò inutilmente David. Continuammo a remare e finalmente uscimmo dal cono d'ombra della piramide. Il fiume ci sospinse tra due enormi sfingi di pietra, una su ciascuna sponda. Erano entrambe dipinte: labbra rosse, trucco pesante agli occhi, di un azzurro volgare, con un copricapo a righe turchesi. Erano allo stesso tempo intimorenti, solenni e comiche. Naturalmente Christopher non ci risparmiò i suoi commenti. «Senna» disse David, dopo che avemmo superato anche le sfingi «hai
qualche idea su come trattare con questa gente... con gli Egizi?» Mi strinsi nelle spalle. «Non proprio. Cerchiamo solo di non scontrarci con loro.» Che altro dovevo dire? «L'ultima volta che sono passato dall'altra parte ho fatto un po' di ricerche» intervenne Jalil. «Questa gente è fissata con i rituali. Non vedono una linea di separazione tra la religione, il rituale e la vita quotidiana: è la stessa minestra per loro. Cuocere il pane è un rituale religioso per quel che li riguarda e tutte le volte lo fanno esattamente nello stesso modo. Il loro obiettivo nella vita è conservare le cose così come stanno, un anno dopo l'altro, senza che mutino mai. A confronto, i più conservatori che abbiate mai conosciuto vi sembreranno dei festaioli esagerati. Se per mille anni non cambia assolutamente niente nella loro vita, per questa gente è perfetto.» «Grande. Sarà proprio un bel divertimento» commentò Christopher, sarcastico. «Ma gli Egizi non fanno sacrifici umani, vero?» «No. Sacrificano animali. E il faraone è un dio e non gli puoi parlare, non lo puoi guardare e non lo puoi toccare. Se gli piaci ti consentirà di baciare il pavimento. Se non gli piaci... se non gli piaci, sei morto. Niente domande.» «Non siamo qui per parlare del più e del meno con il faraone» precisò David. «Siamo qui per trovare la madre di Senna. Punto e basta.» Christopher rise. «Non ci avevo pensato! Questa situazione ti deve rendere nervosetto, eh, Mosè? Gli Egizi e gli Ebrei? Una lunga storia! Senti un po': se ci troviamo nei guai, andrai tu dal faraone, farai la voce biblica e gli dirai: "Lascia partire il mio popolo!". Ah, e naturalmente ti serviranno delle rane. E delle cavallette. E altre piaghe.» April rise. «Semmai gli infliggeremo la piaga di Christopher. Se il faraone ci fa delle storie, noi gli mandiamo Christopher a recitargli a memoria tutti gli episodi di Happy Days.» Dopo le sfingi, le alte sponde del fiume diventarono argini di pietra alti almeno tre metri. Alcune scale di venti o trenta gradini, scendevano dalle sponde elevate fin dentro l'acqua o fino a delle piattaforme di legno galleggianti. Il numero delle barche, tutte di piccole dimensioni, di colpo aumentò esponenzialmente. A monte il fiume era stato bloccato, ma qui eravamo più vicini al mare e il traffico aveva continuato a muoversi in quella direzione.
Eppure anche qui era facile notare i danni provocati dalla distruzione della diga. Parecchie imbarcazioni erano state sfasciate dall'ondata improvvisa, ridotte a mucchi di stuzzicadenti. Erano sempre più evidenti le profonde differenze che esistevano tra la riva destra e la riva sinistra del fiume. Sulla riva sinistra sorgevano edifici dall'aspetto poco pretenzioso che avrebbero potuto essere magazzini e, ormeggiate ai moli, vi erano imbarcazioni piuttosto grandi. Anche alcune di queste navi erano state distrutte dall'improvviso innalzamento del livello del fiume: infatti molti alberi maestri erano spezzati in due e una di queste navi aveva addirittura un buco di un metro di diametro su una fiancata. Ma in generale la riva sinistra sembrava un posto piacevole e allegro. Lavoratori a torso nudo con un gonnellino succinto scaricavano balle di tessuto, altri trasportavano carichi pesantissimi bilanciandoseli sulla schiena cotta dal sole e lavoravano cantando e ridendo. Dietro i magazzini vidi qualche traccia di edifici più piccoli, forse abitazioni o negozi. Sulle strade c'era molta gente indaffarata, ma non frenetica. Si muovevano senza fretta, alcuni tiravano carretti, alcuni spingevano carriole, molti portavano carichi in bilico sulla testa. Gli uomini indossavano corti gonnellini o una semplice tunica; le donne avevano vesti tagliate alla buona, qualche volta strette in vita da una cintura. Il lino bianco era il tessuto predominante, ma c'erano qua e là macchie di colore di tessuti acquistati altrove, sciarpe rosse e blu indaco, persino qualche raro vestito azzurro o verde erba. C'erano anche muli e bestiame sulle strade, di tanto in tanto un cavallo, c'erano cani che abbaiavano, bambini che gridavano con vocette acute... La riva sinistra brulicava di vita. La riva destra invece era tutta un'altra storia. Qui c'erano banchine più grandi, più elaborate, adorne di statue, ma queste banchine erano perlopiù vuote, senza barche e senza navi. La riva destra ospitava numerose massicce strutture di pietra che potevano essere soltanto templi e palazzi. C'erano porticati spioventi dieci volte più alti di un uomo, decorati da dipinti raffiguranti divinità maschili e femminili; c'erano fortini con i muri merlati; e statue imponenti di dei seduti, con le mani sulle ginocchia, la barba ben acconciata, la faccia dipinta a colori vivaci. La riva sinistra era costruita su scala umana. La riva destra rimpiccioliva gli uomini, li umiliava, li schiacciava con le sue dimensioni e con la mole
delle pietre, milioni di pietre l'una sull'altra. Ben poco si muoveva sulla riva destra. E i movimenti che c'erano erano lenti, deliberati. Lunghe file di uomini a torso nudo, coperti da un gonnellino di lino bianco. Donne con lunghe tuniche. Tutti con la parrucca nera, o con la testa rasata e un lungo ciuffo di capelli sul cocuzzolo del capo. Queste persone, lente, consapevoli di ogni movimento, indifferenti, avevano l'inconfondibile aspetto di sacerdoti e sacerdotesse. La riva destra. Era qui che l'avrei trovata. Era qui che doveva vivere una sacerdotessa di Iside. «Direi che la riva sinistra è per la gente e la riva destra è per gli dei» disse April. «Stiamo sulla sinistra.» «Stiamo cercando il tempio di Iside» le ricordai. «È lì che troveremo mia madre.» Cercavo di sembrare calma, ma non lo ero affatto. Era un incontro che avevo immaginato sin troppo spesso. Quante volte negli ultimi dieci anni mi ero ripetuta mentalmente la scena? Le ingenue fantasie di una bambina solitaria di sette anni con il tempo si erano evolute: le parole, le scene, le azioni e le reazioni, tutto era stato scritto e riscritto migliaia di volte. Il copione era stato perfezionato, ma mai concluso. Raramente era passato un giorno intero, o meglio, una notte, senza che immaginassi quel momento nella mia fantasia. E adesso mancavano forse solo pochi minuti prima che la rivedessi. Pochi minuti prima che... che cosa? Sarebbe dipeso tutto da lei, all'inizio. Sul lungo termine avrei deciso io, ma il tono di quel primo incontro, quello sarebbe dipeso solo da lei. Se era ancora viva. Se era ancora qui... Feci un respiro profondo, lento. "Devo mantenere il controllo" mi dissi. "Tenere pronti i poteri, la mente sgombra e vigile. Non farmi distrarre. Non lasciare spazio alle emozioni." «Senna ha ragione» intervenne David. «Dobbiamo entrare e uscire da questo posto il più velocemente possibile. Quindi, andiamo dritti dalla signora Wales, le diciamo come stanno le cose e, se lei sta al gioco, togliamo subito il disturbo. Non mi piace per niente la riva destra.» Più avanti, sempre sulla riva destra, c'era un basso molo di pietra raggiungibile da tre diverse scale. C'erano alcune figure, ma era difficile distinguerle bene in mezzo a tutte quelle statue, agli alberi maestri, alle sartie delle imbarcazioni che si frapponevano alla vista. Ma vidi i tenui riflessi dorati della luce del sole sul bronzo. Erano soldati. Guardie.
«Guardate là» indicò David. «Credo che ci stiano già aspettando.» «A me pare che siano militari» osservò Jalil. «Già. E se cercassimo di filarcela, probabilmente non ne sarebbero molto contenti. Meglio fermarci come se non avessimo niente da nascondere.» E infatti, a mano a mano che ci avvicinavamo alla riva, divenne chiaro che erano proprio soldati, soldati che accorrevano sulla piattaforma, che si affrettavano a formare file ordinate. Quaranta, forse cinquanta, forse di più. Indossavano gonnellini bianchi, simili a kilt, e nient'altro. Niente camicie, niente scarpe. Erano armati di lance dalla punta di rame e scudi che sembravano fatti di legno e cuoio. Alcuni avevano un arco e una faretra decorata. «Non sembrano troppo dei duri» considerò Jalil a mezza voce. «Sì, però sono in tanti» rispose David. «Questi non sembrano dei duri» intervenne April «ma quelle invece sì.» «Chi?» April indicò verso l'alto. «Quelle là.» CAPITOLO XIV Erano in tre, in cima all'alto muro di protezione, rivolte verso i soldati sul pontile. Tre donne. Alte almeno un metro e ottanta. In armatura: corsaletto in acciaio decorato d'oro e d'argento, elmi dai lunghi pennacchi, bracciali di ferro borchiati ai polsi, massicci cinturoni decorati da stemmi grossi come le fibbie delle cinture dei camionisti texani. Al fianco avevano una spada lunga, simile a quelle che avevamo visto usare dai Vichinghi. Dall'altra parte avevano un lungo coltello. Un coltello più corto spuntava dal bordo dei consunti stivali di pelle alti fino al ginocchio. Avevano tutte un grande arco in spalla e una faretra piena di frecce. La mano sinistra era coperta da una specie di mezzo guanto di maglia di ferro, con una fila di artigli affilati che sporgeva dal dorso della mano. E per finire avevano anche una frusta arrotolata. Erano donne guerriere. Donne dure, muscolose, sfregiate, ringhianti. Avevano l'atteggiamento e il modo di fare sicuro dei conquistatori, la postura altera dei capi naturali. Una di loro sollevò un'anfora, se la portò alla bocca e bevve a garganella, facendosi gocciolare il vino dal mento; quand'ebbe finito di bere, si riempì di nuovo la bocca di vino, ma questa
volta lo soffiò a spruzzo sui soldati, che trasalirono ma non. reagirono. Scoppiò a ridere e risero anche le sue amiche, dandole manate sulle spalle. «Sono Egizie anche quelle?» mi chiese David, incredulo. «Non so che cosa sono» ammisi. Ero preoccupata. Questo era uno sviluppo imprevisto. Per usare un eufemismo. «A me pare di aver letto qualcosa su quelle pollastrelle» disse Christopher sottovoce. «Forse su Play Boy.» Non ci avevo fatto caso, ma quelle donne avevano un'altra caratteristica in comune: dietro i ghigni, le cicatrici, le armi, le armature, erano tutte e tre bellissime. «Siamo sul Pianeta delle Donne» disse Christopher. «Accidenti... se l'avessi saputo, mi sarei dato una sistemata.» «Pensi davvero che quelle gentili signorine vogliano sentire le tue battute?» sibilò David. «Da' un'occhiata agli Egizi, amico mio. Se la stanno facendo sotto. E hanno delle lance con la punta di rame...» «Sì, rame, e allora?» «Le lance delle signorine hanno la punta d'acciaio. L'acciaio sta al rame come un blocco di marmo sta al formaggio da spalmare. Ci sono quaranta uomini su questa piattaforma che si lasciano maltrattare da quelle tre. Forse non è proprio il momento per le tue fantasie erotiche.» Come a ribadire il concetto, in quell'istante un ufficiale egizio passò accanto alle tre donne in armatura. Era vestito di lino bianchissimo e portava un magnifico copricapo. Era seguito da una mezza dozzina di giovani con la testa rasata e un ciuffo di capelli neri di lato. L'uomo con il copricapo era chiaramente uno importante. Ma quando passò con il suo seguito, una delle donne sciolse la frusta, la fece roteare sopra la testa e colpì. L'uomo fece un salto e mandò un gemito di dolore, tutta la dignità perduta. Le tre donne scoppiarono in una fragorosa risata. Ma le loro risa non arrivavano mai agli occhi, che erano stretti, concentrati, puntati proprio su di noi. Stavano dando spettacolo a nostro esclusivo beneficio. Giusto per farci sapere chi comandava. L'ufficiale si ricompose come meglio poté e venne ad accoglierci mentre ormeggiavamo le barche. David fece per saltare sul pontile, ma l'espressione scandalizzata sulla faccia dell'ufficiale o del sacerdote o di quello che era lo bloccò.
«Io sono l'umile voce del grande re Ankhahut, il dodicesimo che reca questo nome. Io sono venuto a darvi il benvenuto nella Città del Sole.» «Molto lieto di...» «Vi do il benvenuto nel nome di Ra, il creatore, Khnum-Ra, Amon-Ra, Harakhti-Ra, Meren-Ra, Menthu-Ra...» Per cinque minuti buoni restammo fermi e immobili, non volendo offendere nessuno, mentre l'uomo snocciolava nomi e attributi di vari Ra. Cinque interminabili minuti, e lui era chiaramente ancora all'inizio del suo elenco. «Ma quanti dei hanno?» Christopher sussurrò a Jalil. «A questa velocità? Probabilmente ne hanno ancora per parecchie ore.» David mi lanciò uno sguardo disperato. Aspettava che fossi io a suggerire la mossa da fare. Ma intervennero le donne guerriere e ci risparmiarono la fatica. Una di loro scese con passo altero sulla piattaforma e si aprì la strada a spintoni tra i soldati che ancora non reagivano. «Venite» ci disse. «Questo scimunito andrà avanti così per un'eternità. Ra di qua e Ra di là... Ra è un mezzo cadavere coperto di ragnatele seduto in un buco polveroso a miagolare come un gattino.» Si allungò, afferrò David e un po' lo tirò e un po' lo sollevò sulla terraferma. Gli lanciò un'occhiata, piantandogli la faccia davanti alla sua. «Dunque, sareste voi quelli che stamattina hanno fatto fare un bel bagno ai nani! Be'... avete fatto un sacco di danni, questo è sicuro, ma è stata un'impresa militare clamorosa. Per un uomo. Io sono Merope. La principessa Merope» aggiunse, come a sfidare chiunque a negarlo. «Andiamo. Vi porto a vedere il capo.» «Il faraone?» chiese April. Merope esplose in una risata cattiva. «Il faraone? Quell'anemico sbavante sposo di sua sorella? No, mia cara innocente, andiamo da Piccolo Fiore Leggiadro, la regina di tutte le Amazzoni. È lei che regna in Egitto.» «Amazzoni?» sillabò Christopher muovendo solo le labbra. E in quel preciso momento udimmo un grido e un tuffo. Uno dei soldati aveva tentato la fuga. Aveva rotto le righe, era corso al fiume e si era buttato in acqua. E adesso nuotava, senza stile, da incapace, si agitava e si dibatteva nell'acqua fangosa. Sulla riva opposta si radunarono alcune persone. Se lo indicavano a vicenda. Alcuni lanciavano grida di incitamento. Altri sembravano raccogliere scommesse.
Il soldato era già in mezzo al fiume quando Merope prese l'arco. Senza nessuna fretta. «Non c'è gusto se non si aspetta che arrivi almeno a metà strada» spiegò. Ma all'improvviso il soldato gridò, sorpreso, terrorizzato. L'acqua intorno a lui ribollì, e lui gridò ancora, disperatamente. Merope e le Amazzoni si rabbuiarono. Pochi secondi dopo era tutto finito. I coccodrilli avevano fatto il loro lavoro. «Questo servirà a scoraggiare gli altri» commentò una delle Amazzoni delusa. Contemporaneamente Merope tese l'arco e scagliò una freccia. La freccia disegnò una curva sopra l'acqua e andò a conficcarsi dritta nella coscia di un uomo, uno di quelli che più avevano incitato il soldato fuggitivo. Le Amazzoni scoppiarono a ridere e gridarono minacce verso la riva opposta, mentre l'uomo ferito veniva soccorso dagli amici che lo spostarono (e si spostarono) rapidamente fuori tiro. «Bene, venite con me» ordinò Merope. «Fine dello spettacolo.» Mentre salivamo le scale che portavano al livello della strada, mi girai a guardare e vidi l'ufficiale. Stava ancora blaterando. Non si era mai fermato, non aveva avuto un attimo di esitazione. Stava ancora recitando i nomi di tutti gli dei che ci davano il benvenuto. Parlava allo spazio vuoto dove eravamo stati fino a poco prima. E i suoi accoliti e i soldati erano tutti sull'attenti, senza espressione, apparentemente indifferenti al fatto che noi non eravamo più lì, indifferenti persino all'orribile fine del loro compagno. Il rituale andava osservato. CAPITOLO XV Entrammo nella città con Merope e le sue due amiche passando sotto un imponente portale di pietra. Loro camminavano con fare sicuro davanti a noi, apparentemente senza il minimo timore che scappassimo o sparissimo all'improvviso. Edifici massicci, colonne coperte di geroglifici e ritratti stilizzati di dei si alzavano su entrambi i lati della strada polverosa. Lo stile era diverso da quello greco. I Greci avevano raggiunto una certa raffinatezza, anche nelle strutture maggiori. Questi templi, invece, sembravano fatti con le pietre più grandi che si potessero trovare, disposte ordinatamente l'una sull'altra a formare lastroni massicci. Era un'espressione di dimensioni, non di grazia;
di peso, non di alte ambizioni. Non c'erano negozi né botteghe. Non c'erano cavalli o muli e nemmeno cammelli per le strade. Nessuna delle attività che invece fiorivano sulla riva sinistra del Nilo. Non c'era nemmeno nessuno che camminasse per le strade, tranne qualche rara fila di sacerdoti o sacerdotesse che passavano a testa bassa, sicuramente concentrati su qualche indispensabile rituale. Alcuni sacerdoti portavano strani copricapo, altri avevano la testa rasata, altri ancora avevano delle maschere che coprivano tutta la testa e raffiguravano lupi o cani. Avevano una gonna a portafoglio, tipo kilt, sempre di lino bianco, qualche volta una specie di colletto decorato. Le sacerdotesse indossavano tuniche di lino bianco, quasi trasparenti nella luce obliqua del sole. Avevano tutte acconciature nere alla Cleopatra, qualche volta trattenute da fasce d'oro. Camminavano in file di cinque o dieci persone, con incensieri d'oro fumiganti. L'odore dolciastro dell'incenso mi dava i conati ogni volta che mi investiva. Mia madre invece aveva sempre amato gli incensi. Per lunghi tratti di strada però non c'era nessuno. Solo il vuoto. Il silenzio. Silenzio che veniva amplificato dalla massa schiacciante di pietre dipinte. «Ma che cos'è? Il pianeta degli zombie?» si meravigliò April. «Questo posto mi dà i brividi. Non c'è il minimo rumore.» «Guardate! Dei gatti!» esclamò Jalil. «Là, vicino a quella porta.» Almeno una decina di gatti stavano pigramente sdraiati su una lastra di pietra riscaldata dal sole accanto a una porta dalla quale, volendo, sarebbe potuto passare anche un dinosauro. «Ehi, guardate! Ce ne sono degli altri.» April ce li indicò. «E anche là. Santo cielo. Ci sono gatti dappertutto.» Era facile non notarli all'inizio, all'ombra di quei muri di pietra alti come grattacieli. Ma adesso che li avevamo scoperti, sembrava che ce ne fossero dappertutto. «Nessuno ha mai visto Gli uccelli di Alfred Hitchcock? Tutti quei gabbiani che danno di matto e cominciano ad ammazzare la gente?» chiese Christopher, nervoso. «Questi gatti mi sembrano cattivi...» April rise. «Non esistono gatti cattivi. Gli antichi Egizi non li consideravano come delle divinità? Ehi, micio... micio-micio-micio...» «Ehi, Christopher» osservò Jalil «dovresti stare attento a quello che dici. Magari sanno parlare!»
«Benvenuto a Everworld...» esclamò Christopher. April si avvicinò a un gruppo di gatti all'ombra di un leone di pietra. Poi si bloccò, atterrita, e si lasciò sfuggire un grido che fece girare di scatto le Amazzoni, le spade in pugno. Merope era pronta a rispondere a qualsiasi assalto e David fu subito con lei. Ma poi la donna scoppiò a ridere. «Ah! Quello!» Rimise la spada nel fodero e scosse la testa con un'aria di divertito disprezzo. April tornò da noi, scossa, bianca come un lenzuolo, torcendosi le mani. «Che cosa hai visto?» le chiese David che ancora non aveva capito se l'allarme era rientrato. «I gatti. Stavano... c'è una persona morta. E i gatti la stanno... mangiando...» «Non resta molto altro da mangiare» spiegò Merope filosoficamente. «Il Nilo è bloccato, i campi sono mezzi spogli e i ribelli sulla riva sinistra non mandano molto cibo da questa parte. Figli di cani senza madre e senza dio.» «Ma non potete lasciare che un morto per la strada se lo mangino i gatti!» strillò April. Merope scrollò le spalle. «È stata una sua scelta. Era il padre dei due gemelli maschi di Oriana.» Oriana, l'Amazzone bionda, annuì. «Non è stata una gran perdita, e quando è venuto il suo momento, ha scelto di nutrire i gatti. Lo fanno in molti. Naturalmente, adesso i gatti hanno imparato ad apprezzarne il gusto.» Scosse la testa, desolata. «Per fortuna non cacciano in branco, quei mostriciattoli, o non resterebbe vivo nessuno.» Ci rimettemmo in marcia, ma adesso i ragazzi tenevano d'occhio nervosamente tutti i gatti che vedevamo. Come se fosse quello il problema. Come se dovessimo temere un'invasione di gatti. L'Egitto era morto. Almeno questa parte della città, la riva destra. Era morto, mummificato. E governavano le Amazzoni. Fin qui, tutto chiaro. Quello che non era affatto chiaro era che cosa significasse tutto questo per me. Mi chiesi se mia madre fosse ancora qui. Poteva essere ancora qui? Fare tutta questa strada e poi... E io che per tutti quegli anni avevo sempre tenuto a mente le sue parole... "Cercami dalla madre Iside".
"Cercami dalla madre Iside." Per tanto tempo non avevo nemmeno capito che cosa significassero queste parole. Poi un giorno, avevo più o meno tredici anni, mi trovai al centro commerciale. Mi capitò di notare un ragazzo, quasi un adulto a dire la verità, perché avrà avuto diciassette o diciotto anni. Lui mi guardò, mi fissò a lungo finché non sentii i suoi occhi su di me. Non arrossii, non mi girai dall'altra parte, ma ricambiai il suo sguardo. Per un lungo momento ci guardammo negli occhi a una distanza di sette o otto metri, senza badare alla gente che passava tra me e lui. Era bello, immagino. Ma non era questo che mi attirava. Quel ragazzo aveva l'aura. Poi si girò lentamente ed entrò in un negozio di souvenir. E io lo seguii. Aveva l'aura. Non l'avevo più vista da quando mia madre se n'era andata. L'avevo percepita, sapevo che era dentro di me, ma non l'avevo mai più vista fino a quel momento, e dentro di me sapevo che non era successo per caso. Lui si muoveva con sicurezza. Evidentemente sapeva che l'avrei seguito. Mi tenni a distanza. Non capivo bene le regole del suo gioco. Camminò rasente al muro, passò davanti a diversi negozi, alla fine si fermò davanti a una vetrina illuminata che esponeva oggetti in foglia d'oro. Lui si fermò e mi fermai anch'io. Guardò a lungo, ma non riuscivo a vedere che cosa. Poi si spostò. Mi avvicinai alla teca e mi fermai dove si era fermato lui e guardai quello che aveva guardato lui. E la vidi: era una figura di gesso in foglia d'oro e smalto, con grandi ali d'oro spiegate. Su un cartoncino accanto c'era scritto: "Iside". Il ragazzo con l'aura era sparito. E non l'avevo mai più rivisto. Per un po' mi chiesi se mia madre se ne fosse semplicemente andata in Egitto, nell'Egitto moderno. Ma sapevo che non era così. Mia madre era altrove, in un luogo strano e impossibile da raggiungere. Ed era con la dea alata. Adesso ero qui, nella terra dove avrebbero dovuto regnare Ra e Iside e gli altri dei. Osservai una fila di sacerdotesse passare strascicando i piedi, gli occhi persi nel vuoto, avvolte in una nuvola puzzolente di incenso. Pregavano camminando, scandivano parole, ripetevano frasi che avevano detto un milione di volte. Non ci guardarono nemmeno. Possibile che mia madre fosse ancora viva in questo mausoleo? Per tutti
i poteri del mondo, chi poteva dirsi vivo in questa terra di morte in vita? CAPITOLO XVI Piccolo Fiore Leggiadro non era seduta sul trono quando entrammo. In verità, stava facendo l'ultima cosa che ci saremmo mai aspettati che facesse. Stava cantando davanti a un gruppo di Amazzoni ammirate, mollemente ma rispettosamente adagiate intorno alla loro sovrana, che con voce piuttosto gradevole cantava a squarciagola una canzone che riconoscemmo tutti immediatamente. Era di Aretha Franklin! Si interruppe quando ci vide e ci lanciò uno sguardo di fuoco. Merope fece un passo indietro quando si accorse di quell'espressione assassina. «Chiedo scusa, Altezza! Non lo sapevo...» mormorò Merope, confusa. «Non c'erano le guardie alla porta, non...» Piccolo Fiore Leggiadro interruppe bruscamente le spiegazioni con un gesto impaziente della mano. «Non importa. Non avevo il tono giusto. Non stavo rendendo giustizia alla dea Aretha. Che cosa sono queste creature?» Piccolo Fiore Leggiadro non corrispondeva esattamente al suo nome e nemmeno all'idea che si poteva avere di un'Amazzone. Tanto per cominciare non era greca. Nemmeno mediterranea. Forse cinese, forse giapponese, forse coreana, ma con in più un misto di tratti africani e caucasici. Era alta, come tutte le Amazzoni. Sottile, molto carina, strana. Occhi azzurri, la pelle del colore della criniera di un leone, i capelli dritti, folti e corvini. Aveva un magnifico corsaletto coperto da un intricato gioco di spirali e volute d'oro e d'argento. Era stretto in cintura ma si apriva a V formando alle due estremità delle zampe d'aquila in acciaio luccicante che sembravano proteggerle le spalle senza impedirle i movimenti. Alla cintura aveva una spada ricurva, una scimitarra dall'elsa meravigliosamente tempestata di pietre preziose custodita in un fodero costellato di minuscoli rubini. Anche lei aveva una frusta. E un piccola elica in acciaio con lame ricurve che avevo già visto in passato. Le gambe muscolose erano racchiuse in stivali al ginocchio di morbida pelle fulva. C'era una mezzaluna di piccoli ami d'acciaio che sporgeva dalla punta degli stivali. Si muoveva con la grazia e l'agilità di un'atleta o di una ballerina classica, sempre perfettamente bilanciata, sempre in controllo di ogni grammo del suo corpo snello. La immaginai come un leopardo, un predatore sinuo-
so, bellissimo e pericoloso. «Un misto di atleta e di modella» commentò Christopher a bassa voce; non abbastanza bassa, però. L'elica era già in volo prima ancora che i miei occhi percepissero il movimento della sua mano. Ma anche allora fu appena un'increspatura, una lieve interferenza nella calma impressionante del suo corpo. L'elica volò. Christopher gridò di dolore e si portò una mano alla guancia. L'elica tornò verso la regina che la afferrò senza nemmeno guardarla. Un'elica rotante in acciaio Coo-Hatch. Una linea rossa si disegnò sulla guancia di Christopher. Un graffio superficiale. «Non ti preoccupare, ragazzone. Non resterà nessuna cicatrice» disse la regina. «Ma vedrai che non ti scorderai di questo: un uomo non mi può rivolgere la parola se non espressamente interrogato. Una mia piccola regoletta.» Christopher annuì, in silenzio. «Vedi? Te lo sei ricordato» osservò in tono gentile. Gli diede un buffetto sulla guancia sana e un pizzicotto. «Bravo ragazzo. Merope, giustifica la tua interruzione.» «Sì, Altezza. Questi sono coloro che hanno distrutto la diga dei nani. Sono arrivati in barca. Li abbiamo portati subito qui. Non mi ero accorta che Sua Altezza stava cantando.» «Acqua passata» concesse la regina, sorridendo tra sé, divertita dalla goffa sincerità di Merope. «Dunque. Siete voi.» Ci osservò attentamente, a uno a uno. «Tu saresti il guerriero? Fammi un po' vedere la tua spada» chiese a David. David non è uno sciocco. Sguainò la spada lentamente, cautamente, usando solo due dita, e le porse l'elsa. Piccolo Fiore Leggiadro scoppiò a ridere e le Amazzoni si unirono a lei. «Sei saggio, tu.» Soppesò la spada e vibrò una serie di colpi in aria, sopra la testa, in basso, un otto a velocità impossibile. La lama si fermò a un capello dal collo di David. David però non batté ciglio. «E non sei codardo» ammise con riluttanza. «È una spada molto bella. Perfettamente bilanciata. Anche l'acciaio è di ottima qualità. Direi... del Vecchio Mondo. Inglese, forse gallese. Fatta al modo degli antichi druidi, sicuramente incantata. Una spada molto antica.» Scrutò David socchiu-
dendo gli occhi. «Non è tua.» «Ora è mia» spiegò David. «Era la spada di Galahad.» «Mio padre?» strillò dunque una voce addolorata. Era una delle Amazzoni. Una bionda dalla pelle olivastra con due occhi chiarissimi e inquietanti. «La spada di Galahad?» ripeté Piccolo Fiore Leggiadro. «Ah, lui sì che era un grande uomo. Quasi una donna. Mi addolora la sua dipartita. Un drago, immagino...» «Sì» confermò David. «Fu gravemente ferito mentre lottava contro Loki e un esercito di troll. Alla fine non poté tenere testa al drago che lo ha ucciso.» Piccolo Fiore Leggiadro gli riconsegnò la spada. «Ti consento di tenerla» disse con noncuranza «ma avrai capito che se la muovi anche solo di un centimetro dal fodero sei morto, no?» David annuì e rimise la spada nel fodero. «La tua spada ha una forma molto strana» osservò lui, e poi trasalì, rendendosi conto di averle rivolto la parola senza essere stato interrogato. Piccolo Fiore Leggiadro avvampò, digrignò i denti, poi si placò. «Anch'essa è un modello del Vecchio Mondo» spiegò. «Acciaio di Damasco. Una spada con questa forma si chiama scimitarra. È più efficace a distanza ravvicinata, è più facile da sguainare stando a cavallo. Ha parecchi vantaggi.» Notai che David puntava gli occhi sull'elica di acciaio Coo-Hatch. La regina seguì il suo sguardo. «Ah, allora riconosci quest'arma?» «Conosciamo i Coo-Hatch.» «Una razza un po' musona, ma come fabbri non hanno paragoni! Se avessimo un centinaio di lame Coo-Hatch potremmo dominare tutto Everworld, non soltanto tutto l'Egitto.» La considerazione provocò risate e un vocio di apprezzamenti da parte del pubblico ammirato. Piccolo Fiore Leggiadro le ignorò completamente e mi guardò con durezza. «Che cosa sei tu?» «Una donna» risposi. Un accenno di sorriso. «No...» replicò indicando April. «Lei è una donna: mi teme. E questi sono uomini: mi temono. Tu invece non mi temi. Eppure non hai armi con te,
non sei forte, non sei veloce. Dunque, perché non mi temi?» Era una domanda retorica a cui non risposi. «Sei una strega» concluse Piccolo Fiore Leggiadro. Continuai a tacere, ma mi preparai. Raccolsi il potere dentro di me, lo tenni pronto. Se si fosse mossa avrei colpito. Rimasi ferma, decisa, sicura, pronta. Piccolo Fiore Leggiadro rise, divertita. Non era una risata finta, la sua, e questo mi preoccupò. Avrebbe dovuto essere preoccupata, ma non lo era. Sentii il primo sottile brivido di paura. «Questa vorrebbe essere una regina» commentò Piccolo Fiore Leggiadro. «Ha sete di potere. Così fragile, così debole. Deve confidare molto nei suoi poteri.» Continuai a tacere. Che cosa potevo dire? Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata la cosa sbagliata. «Andiamo a mangiare!» esclamò Piccolo Fiore Leggiadro di punto in bianco. «. Sento che mi sta tornando la voce. Mangiamo e beviamo e io canterò alla dea Aretha.» Dove poteva aver conosciuto Aretha Franklin, la regina delle Amazzoni? Potevo indovinare la risposta. Era uno dei ricordi che avevo di mia madre. Mia madre era la classica figlia dei fiori, una hippy mancata. Era troppo giovane, non aveva potuto vivere gli Anni Sessanta. Ma adorava i vestitoni a fiori, le collane, le candele. E le sue amiche, quando ne aveva, erano della stessa pasta. Donne che pensavano di diventare streghe inventandosi una specie di nuova religione. La chiamavano Wicca. Era abbastanza innocua, non c'è dubbio. Queste donne venivano a casa nostra e cantavano e recitavano e parlavano della "dea Aretha". A quell'ora io già dormivo, in teoria almeno. Ma non sono mai stata una gran dormigliona. E così restavo sveglia nella mia "stanza", che non era altro che una nicchia del soggiorno che di notte veniva separata dal resto della stanza da una tenda, in realtà una tovaglia con stampe indiane, fatta scorrere su una corda tesa. Intravedevo qualcosa attraverso il tessuto, riuscivo a distinguere il bagliore delle candele, le facce felici e accese. E naturalmente sentivo quello che dicevano, le poesie, i canti, le preghiere. E l'odore dell'incenso, dell'erba, del vino. Vedevo che mia madre aveva l'aura e le altre no. Sapevo che anche lei sapeva che quelle donne non erano come noi. Non erano degli scherzi di
natura, erano delle persone normali. E quello che eravamo noi due non aveva niente a che vedere con i canti o l'incenso o le preghiere. Ma suppongo che mia madre si sentisse sola. Suppongo che avesse bisogno di amici. È un bisogno tipico delle persone, a quanto sembra. Io restavo sdraiata, le coperte tirate su fino al petto, girata su un fianco, la testa appoggiata a un braccio, e ascoltavo e guardavo attraverso la tovaglia. Era come guardare un film su un canale sintonizzato male. Con l'avanzare della notte, queste donne diventavano sempre più fatte, sempre più brille. E a quel punto i canti solenni venivano rimpiazzati da musiche meno pie. Le donne mettevano su un disco e cantavano insieme. A volte addirittura si alzavano in piedi e si mettevano a ballare. Sulla canzone di Aretha. Sì, mia madre era ancora viva. CAPITOLO XVII Piccolo Fiore Leggiadro aprì il corteo, uscimmo dalla sala del trono e attraversammo uno spazio di cui non riuscii a capire la funzione, dato che sembrava contenere soltanto colonne panciute interamente ricoperte da storie per immagini di varie divinità, dipinte a colori vivaci. Dopo un po' uscimmo da questo labirinto di colonne, con le Amazzoni che ridevano e scherzavano allegramente. Passammo sotto un imponente portale squadrato e tra altri colonnati e finalmente sbucammo in un cortile aperto. Adesso era notte fonda. Il cielo era gremito di stelle. Altre colonne. Di nuovo al coperto, e in una stanza stretta, piuttosto lunga, scura e tetra. Anche qui le pareti erano coperte di disegni. All'estremità opposta della stanza vidi una piattaforma di pietra. C'era un'aria di antichità, un odore di muffa, un odore funereo. Ma se la stanza era piena di ragnatele, non me ne accorsi. Scrutavo davanti a me, cercando di capire che cosa ci fosse in fondo alla stanza, su quella piattaforma. Una dozzina di sacerdotesse erano in piedi, ordinatamente in fila, davanti all'altare di pietra. Recitavano qualcosa, con un mormorio basso in cui era impossibile distinguere le parole. Flebili lampade a olio illuminavano la creatura che riposava in cima alla piattaforma. La luce ambrata e spenta si rifletteva sulle sue ali d'oro ripiegate. Iside. Una statua? Un idolo? Non si muoveva. Ma era veramente troppo realistica per poter essere solo una statua.
«Eccolo, l'Egitto» annunciò Piccolo Fiore Leggiadro con una risata piena di disprezzo. «Guardatela: la grande Iside. Una dea. Coperta di polvere. Sta lì seduta un giorno dopo l'altro, un anno dopo l'altro. Che cosa fa? Niente. Niente di niente. Ascolta le preghiere e le salmodie, assiste agli incessanti rituali. Guarda, ecco quello che fa, la vecchia Iside.» Questo discorsetto sembrava fatto a mio esclusivo beneficio. Se Piccolo Fiore Leggiadro aveva in mente di sconvolgermi, c'era riuscita. Questa era Iside. Non una statua, ma la dea vera. Il suo viso era ancora bellissimo, immutato. Più esotico, più affascinante della faccia di gesso che avevo visto nel negozio di souvenir, ma quasi altrettanto priva di vita. Le sacerdotesse continuarono con il loro rituale, ignorandoci, dandoci le spalle, incuranti di tutto, tranne che del rituale. «Venite fino in Egitto per trovare che cosa, eh?» mi chiese la regina delle Amazzoni. «Di che cosa venite in cerca? Di Ra? Di Osiride? Di Iside? Be'... sono tutti qui. Ancora tutti vivi, ancora divini, ancora in possesso di tutti i loro poteri, eppure è Piccolo Fiore Leggiadro a regnare sull'Egitto. Non ci sono più dei in Egitto» proseguì Piccolo Fiore Leggiadro con un tono di compiaciuta condiscendenza. «Di certo non qui in città. Alcune delle divinità minori più remote sono ancora vive e vegete, è vero. Ma qui sono io la regina.» «Lo vedo» dissi. Piccolo Fiore Leggiadro fece un grande sorriso e aggiunse: «Vieni, strega, vieni con me.» Pensai che stesse parlando con me. Sembrava logico. Ma una delle sacerdotesse fece un passo indietro, quindi uscì dalla fila e infine si girò. Quella faccia... più vecchia, smagrita, familiare, eppure estranea. Una faccia che aspettavo di vedere e che nonostante tutto, nonostante tutte le aspettative, mi lasciava stranamente indifferente. Non corsi da mia madre. Né lei corse da me. La guardai. Lei mi guardò. Non riuscivo a capire i suoi sentimenti, non riuscivo a intuire quali emozioni si nascondessero dietro la sua maschera, e sapevo che anche per lei era lo stesso, con me. «È tua madre?» mi chiese April. Aveva la voce tremante. Era più scombussolata di me. Piccolo Fiore Leggiadro spostò lo sguardo dalla mia faccia alla sua. Gli occhi stretti si fecero ancora più stretti. «Me ne sarei dovuta accorgere. La madre. La figlia. Ma sì, certo!» E adesso, finalmente, Piccolo Fiore Leggiadro era preoccupata, e capivo
il perché. Prima non temeva la mia magia perché aveva mia madre che vegliava su di lei. Mia madre era la sua guardia del corpo contro i poteri delle streghe. Ma adesso la regina delle Amazzoni intravedeva la possibilità che la sua protettrice potesse in realtà essere mia alleata. Con voce piana comandò: «Devera, Merope, Aiyana, Eirica, agli archi, presto.» Le quattro Amazzoni chiamate in causa presero l'arco e incoccarono la freccia in men che non si dica. «Se vi parrà che vacilli, se qui si fa della magia, uccidete le due streghe. Non esitate e non aspettate il mio ordine: le streghe potrebbero impedire alla mia lingua di parlare. Finché resteranno in mia presenza non riponete mai le vostre frecce, nemmeno se sarò io stessa a comandarvelo.» Piccolo Fiore Leggiadro fece un sorriso duro e mi disse: «Tu e tua madre forse avrete dei grandi poteri, mia piccola strega, ma una freccia ben diretta fermerà anche il tuo cuore.» Piccolo Fiore Leggiadro fece un lieve cenno del capo verso Merope e tutte e quattro le frecce vennero scagliate. Trasalii. Non contro di noi, non contro di me. Le quattro frecce volarono all'unisono e si conficcarono, tutte e quattro, nell'occhio sinistro di Iside. Per la prima volta ci fu un'esitazione nel mormorio della preghiera. Iside non si mosse neppure. Le frecce rimasero per un attimo nel suo occhio, poi si dissolsero e scomparvero. Le quattro Amazzoni avevano già incoccato una nuova freccia e ora tenevano l'arco puntato contro me e mia madre. Piccolo Fiore Leggiadro batté le mani, un gesto pratico che voleva dire "proseguiamo". «Be'... volevo avere tutti con me per una nottata di buon cibo, buon vino e canti sacri, ma sono sicura che una madre e una figlia avranno un sacco di cose da raccontarsi dopo tanto tempo. Merope, prendi con te le tue guerriere e scorta queste streghe nella stanza laterale. Fa' buona guardia. Se tentano di scappare, uccidile. Gli altri, invece... tutti con me per un buon barbecue!» La regina, le guerriere e i miei compagni si rimisero in marcia. David mi inviò una domanda silenziosa e io annuii, liberandolo dal dovere di proteggermi. Sarei stata al sicuro. Quanto loro, comunque. Merope e le altre Amazzoni armate di arco ci accompagnarono a una stanzetta in fondo al cortile. E fu lì, in mezzo a montagne di vestiti di lino e grandi giare d'olio che parlai a mia madre per la prima volta dopo dieci
anni. «E così sei venuta» esordì lei. «Non avevo molta altra scelta.» «Sì, lo so. Le trame di Loki non sono passate inosservate. Ma sei riuscita a sfuggirgli. Sono sicura che è stata una bella impresa. Loki è molto pericoloso, molto intelligente... per essere un dio.» A questo punto la conversazione si arenò. Era tutto qui? Dovevamo starcene in piedi, imbarazzate, in una stanzetta muffita, come due sconosciute che imbastiscono una conversazione frammentaria mentre aspettano l'autobus? «Come te la sei passata, Senda?» «Mi chiamo Senna adesso» la corressi. Lei aggrottò la fronte. «Senna? È il nome di una pianta usata in medicina, per lo più come lassativo.» «Già. Per fortuna i ragazzi a scuola non perdono molto tempo a spulciare i dizionari.» Lei abbassò gli occhi. «Come te la sei passata?» «Come me la sono passata? In questi ultimi dieci anni, da quando mi hai scaricata? Come me la sono passata, l'unica della mia specie, imprigionata in un mondo pieno di idioti ciechi, sordi e muti? Bene, mamma. Benissimo. E tu, come te la sei passata?!» Lei strinse le spalle, guardò dietro di sé, tornò ad abbassare gli occhi sul pavimento. «Non è stato esattamente come me l'aspettavo» disse mestamente. Mi venne da ridere. Era assurdo. Come si faceva a parlare? Che cosa avremmo dovuto fare? Discutere degli ultimi dieci anni della mia e della sua vita? «Sei venuta a cercarmi» riprese lei, dopo un po'. «Mi fa piacere.» «Non è come pensi» ribattei. Non sapevo quanto dirle. Ero confusa. Tutte le mie belle messinscene erano finite fuori dalla finestra, adesso, completamente dimenticate. Il cervello era un ammasso confuso di pezzi sconnessi: piani, schemi, risentimenti, desideri. Non avrebbe almeno dovuto cercare di abbracciarmi, di buttarmi le braccia al collo? Alzò gli occhi, guardò nei miei per la prima volta. Non ci somigliavamo, checché ne dicesse Piccolo Fiore Leggiadro. Gli occhi, forse, erano uguali.
Ma i suoi capelli erano scuri, la pelle olivastra. Era più bassa di me. «Non sapevo che altro fare» mi disse con la voce spezzata. «Sentivo la presenza di potenze che mi osservavano, che mi cercavano. La sentivo dall'altra parte della barriera e sapevo che stavano cercando degli esseri umani risonanti da usare per sorvegliarmi. Quello che ti è capitato... Fenrir, Loki... sarebbe potuto capitare a me. Mi avrebbero trascinata dall'altra parte e mi avrebbero usata come "porta".» «E così te la sei filata e hai lasciato me come esca» l'accusai. «No! Noi due insieme non avremmo fatto altro che attirarli su di noi. Sapevo che il posto migliore dove nascondersi era qui, a Everworld, anche se allora non sapevo che. cosa fosse, né come si chiamasse. Pensai: se mi vogliono trovare nel mondo reale, io li frego, passo dall'altra parte e mi nascondo proprio sotto il loro naso.» «Per l'appunto, proprio quello che dicevo: mi hai piantato in asso, mi hai mollata nel mondo reale. Senza sapere niente, senza nessuno cui poter chiedere... che diavolo dovevo fare, io?» Strinse di nuovo le spalle, l'espressione vuota. «Pensavo... pensavo che forse non ti avrebbero trovata.» Scossi la testa. «Che cosa? Che cosa vorrebbe dire?» «Avevo paura, Senda. Avevo paura. Li sentivo e... che cosa dovevo fare? Non... non me la passavo molto bene, sai? Riuscivo a malapena a campare. Quegli appartamenti orribili. Le traduzioni, quando riuscivo a trovare un lavoro e, lo sai com'è, un qualsiasi lavoro regolare significava stare in un ufficio. Ero arrivata a predire la sorte alle fiere e... lo sai, gli uomini... ero persa, ero... avevo paura» concluse con poca efficacia. «E allora sei scappata, è così?» continuai io. Non ero neppure arrabbiata. «Appartamenti schifosi? Lavori schifosi? Sei scappata perché non ce la facevi. A sopportare la vita, o a sopportare me. E così mi hai scaricata in una zona residenziale e sei svanita nel nulla.» L'espressione sul suo volto era addolorata. Autocommiserazione. «Non sono mai riuscita ad adattarmi. Non avevo un posto mio in quel mondo. Ma pensavo che tu, con Tom e sua moglie forse, capisci... una scuola normale, le vacanze con la famiglia, tutto il resto. Immagino che avrai una macchina tua... Tom è sempre stato generoso e ha un buon tenore di vita.» Avrei voluto urlare. Era una follia. Era incredibile, assurdo. Tutta la storia della mia vita si riduceva al fatto che lei non riusciva a guadagnare ab-
bastanza soldi? Era questo? Con tutte le balle che aveva raccontato a mio padre, voleva solo filarsela così non avrebbe dovuto cercarsi un lavoro? Feci un respiro profondo, cercai di rallentare i pensieri che mi vorticavano nella testa. Mi premetti le mani sulle tempie. Ero stata un fastidio per lei, ecco la verità. Oh sì, e tutto il resto... sì, aveva sentito la pressione delle potenze che cercavano una "porta", ma quella era più una scusa che una spiegazione. Aveva avuto paura di Loki, di tutti quegli dei predatori, ma non era questa la verità, era solo una patina dorata sulla verità. La verità era che mia madre era una perdente, una disadattata, una donna egoista che cercava una vita più facile. «E io... io che avevo paura di te...» ammisi, ridendo della mia stupidità. «Mi ero costruita tutta una storia nella testa dove tu eri... eri una donna grandiosa, una strega potente, eri... Non sapevo che cosa aspettarmi. Nella mia mente ti vedevo come una grande sacerdotessa al servizio di una dea potente. E invece? Iside non è altro che... un ceppo! E questo posto è un cimitero dove scorrazzano le Amazzoni.» Mia madre sembrò ferita. «Iside era grande, un tempo. È solo che questi dei sono molto vecchi, sai? Molto più vecchi dei Greci o dei Romani o degli Aztechi. Mille anni prima che Zeus nascesse, Iside veniva già adorata. E il popolo, il suo popolo... il rituale è diventato fine a se stesso. Gli dei qui si sono ritirati sempre di più nell'osservanza del rito, nei rituali, nei cerimoniali. Il popolo e i loro dei, insieme, non hanno fatto che precipitare sempre più in basso, come in una spirale. E il faraone... dovresti vederlo: ha ventinove anni e ragiona come un bambino di quattro. Ha ancora il pannolino. Matrimoni tra consanguinei, generazioni di matrimoni tra consanguinei. Gli ultimi dodici faraoni avevano tutti gravi ritardi mentali, gravi deformazioni. È una civiltà che si è ripiegata su se stessa, che è crollata sulle fondamenta, che si è rivolta all'interno. Il potere che restava veniva esercitato dal visir. E il visir ha mandato emissari in tutto Everworld, a cercare aiuto, a chiedere ad altri dei di venire ad assumere il controllo, a ordinare di porre fine ai rituali. I sacerdoti, pensava, avrebbero ascoltato l'ordine di un dio. Ma nessuno è mai venuto in nostro aiuto. E invece c'è stata la ribellione del popolo sulla riva sinistra, e poi i nani hanno costruito la diga sul Nilo e la città è stata ridotta alla fame. E infine sono arrivate le Amazzoni. Stanno saccheggiando sistematicamente tutta questa civiltà, prelevano l'oro e l'argento anche dalle tombe, portano via tutto ciò che ha valore.» «Dunque adesso sei al servizio delle Amazzoni» osservai. «Preghi Iside
e ripeti tutta la trafila, ma di fatto lavori per Piccolo Fiore Leggiadro.» Mia madre mi afferrò per un braccio. «Lei mi tirerà fuori di qui. Mi tirerà fuori da questo purgatorio, da questo mausoleo. E tu non azzardarti a rovinare tutto. Hai capito? Non azzardarti a rovinarmi tutto!» Le staccai le dita dal mio braccio. Aveva uno sguardo ferino, da animale in gabbia, intrappolato, terrorizzato alla prospettiva di perdere l'unica occasione di fuga. «Sei patetica» sibilai. Lei batté le palpebre. Poi fece un passo indietro. «So di non essere stata una buona madre per te, Senda. Ma...» «Sono Senna!» le gridai, così forte che per poco le Amazzoni non scoccarono le loro frecce. «È questo il nome con cui sono vissuta, è questo il nome che porto. Tu mi hai piantata in asso come si molla uno al primo appuntamento. E adesso, dopo tutto questo tempo, non fai altro che lamentarti. Ci sei sempre solo tu, tu, tu, tu!» Era confusa, incapace di afferrare bene quello che le stavo dicendo. Così lontana dal sentimento materno, da riuscire solo a guardarmi con curiosità, un po' anche con timore, senza capire che cosa esattamente mi turbasse tanto. Feci un respiro profondo. Ne feci tanti. Il cuore mi batteva così forte che mi sembrava di non riuscire più a respirare, mi pareva che le pareti mi si chiudessero addosso. Avrei voluto picchiarla, graffiarla, qualsiasi cosa, pur di farle capire che cosa sentivo io, di farle capire quanto male mi aveva fatto. Inutile. Non gliene importava niente. Non gliene era mai importato niente. Bene. Niente più sensi di colpa. Ero sola, e mi piaceva così. Ero sola, e lei avrebbe capito che cosa ero diventata, avrebbe capito chi ero veramente. Adesso, non anni fa, quando ero solo una bambina in lacrime e sperduta senza la sua mamma, no, tutto questo era morto e sepolto ormai. Da tanto tempo. Adesso ero io, ero Senna Wales, e anche Piccolo Fiore Leggiadro mi avrebbe ubbidito, non viceversa. Ero... Mia madre mi asciugò le lacrime dagli occhi con le dita. Le allontanai la mano con violenza. «È troppo tardi. Troppo tardi.» Lei abbassò gli occhi, piena di autocommiserazione, addolorata. Era lei
la parte lesa. «Sei venuta fin qui per ferirmi?» mi chiese con voce compassionevole. «No. Sono venuta fin qui per usarti.» Perfetta. Sparai la battuta con freddezza e precisione. «Mi serve una "porta". I Coo-Hatch vogliono andarsene da Everworld e tu, mamma, li farai uscire.» CAPITOLO XVIII Tornai dagli altri. Piccolo Fiore Leggiadro cantava Material Girl di Madonna, mentre le sue Amazzoni sedevano a gambe incrociate sul pavimento o su piccoli sgabelli e si dondolavano a ritmo di musica, apparentemente rapite. Anche Christopher era rapito, ma per altre ragioni. Era tutto rosso in faccia dallo sforzo di non lasciarsi sfuggire tutte quelle belle battute che gli venivano in mente. Sarebbe scoppiato se non fosse riuscito a dire qualcosa sull'amazzone selvaggia che cantava le canzoni di Madonna alle sue cortigiane. April sembrava godersi lo spettacolo. A Everworld April stava in compagnia di tre ragazzi e di una sorellastra che detestava. April è un animale sociale, una che fa gruppo. Nel mondo reale viveva in un bozzolo di amiche e ammiratori che dicevano tutti le stesse cose e credevano tutti nelle stesse cose, e reagivano tutti allo stesso modo davanti alle stesse cose. Questa gallina si sentiva veramente a suo agio in mezzo alle Amazzoni, come se non fossero altro che una nuova compagnia di amiche che l'avesse accolta nel gruppo. Jalil osservava tutto. Naturalmente. Gli occhi socchiusi scrutavano i geroglifici vagamente illuminati. Come sempre, cercava di capire. David era teso. Vedevo la tensione nei muscoli della schiena e nel collo, nel modo in cui stava seduto, pronto a saltar su e sguainare la spada. Come se avesse anche solo una possibilità di sopravvivere a uno scontro con le Amazzoni. Andai a sedermi con loro, scusandomi come una che arriva tardi al cinema. Mi misi tra April e David. «Com'è andata?» mi chiese April, tenendo un occhio su Piccolo Fiore Leggiadro, pronta ad applaudire. «Be', posso dire che ho capito molte cose» risposi. Quella gallina ebbe il coraggio di posarmi una mano consolatrice sul braccio. Mi dedicò uno dei suoi sguardi consolatori. Stupefacente.
Mi chinai verso di lei e le sussurrai all'orecchio: «Uccidono i neonati maschi. Questo lo sai, vero? Le Amazzoni. Si fanno mettere incinte, poi se è una bambina resta viva, se è una bella bambina forte diventa una di loro. Le più deboli le vendono come schiave. E i maschi? Li abbandonano nella foresta o sulle montagne o nel deserto. Goditi pure lo spettacolo.» Il suo sguardo pieno d'orrore mi gratificò. Ero d'umore pessimo, ero pericolosa, lo ammetto. E cancellare l'espressione compassionevole e sdolcinata dalla faccia di April mi fece sentire un po' meglio. «Che cosa ha detto tua madre?» mi chiese David, muovendo solo metà della bocca. «Non lo vuole fare.» «Perché?» Risi. «Perché è una donnetta egoista e spaventata, ecco perché.» Poi, davanti alla sua espressione sorpresa, aggiunsi: «Se aprirà la "porta", Loki lo verrà a sapere. Verrà qui. Lui e forse anche altri. Forse anche Ka Anor.» David ci pensò su. Poi, sorpreso, disse: «Ma tu questo lo sapevi già, non è vero?» Non risposi nulla. Applaudii Piccolo Fiore Leggiadro, che si lanciò in un'altra interpretazione. «Potrebbero esserci dei problemi» dissi a David. «Di che genere?» La sua bocca era stretta, gli occhi cattivi. «Potrebbe dire a Piccolo Fiore Leggiadro perché siamo qui. Le Amazzoni stanno svuotando l'Egitto di tutto quello che si può rubare. Sono furbe, le Amazzoni. Pericolosissime. Sono diventate i ladri professionisti di Everworld. Derubano i più deboli, e nessuno è più debole degli Egizi.» Lui annuì appena. «Pensi che tua madre ti tradirebbe?» «Adesso è legata alle Amazzoni. Vuole uscire di qui. Vuole andarsene. Loro possono usarla come sacerdotessa per questa nuova religione che ha inventato apposta per loro. Possono usarla anche per i suoi poteri. Spesso sono generose con le altre donne.» «E con gli uomini?» Sorrisi. «Bicchierini di carta.» «Come?» «Li usano e poi li gettano.»
Un applauso fragoroso e lo spettacolo finì. Piccolo Fiore Leggiadro accettò i complimenti delle seguaci e ammiratrici. La regina delle Amazzoni, soddisfatta e compiaciuta, si avvicinò fendendo la folla che si disperdeva dopo il concerto. Venne dritta da noi. Dritta da April. Puntò il pollice su Christopher. «È tuo?» Christopher, sorpreso, guardando April, scosse la testa. «No» rispose lei. «Mmm, questo qui è mio...» e appoggiò un braccio sulle spalle di Jalil, più sorpreso che mai. «Me lo dovrai prestare una volta o l'altra» disse la regina con occhi lascivi. Poi prese Christopher per mano e, tra le roche grida di incitamento delle sue guerriere, se lo portò fuori dalla stanza, senza per altro incontrare la minima resistenza da parte sua. Merope condusse anche noi fuori dal tempio, in una strada buia e abbandonata, verso una casa sorvegliata da guardie. Ci vennero assegnate delle stanze, ci venne dato del cibo e persino un po' di privacy. Ma ci vennero mostrate anche le quattro Amazzoni annoiate che avrebbero fatto la guardia fuori dalla porta. «Siete nostri ospiti onorati» disse Merope con un ghigno indisponente. «Avete liberato il Nilo e distrutto la diga dei nani. Siete ospiti davvero onorati. E Sua Altezza sarebbe molto delusa se ve ne doveste andare. Sua Altezza non tollera molto le delusioni, come potrebbe scoprire il vostro amico biondino.» Rise, risero le altre, e noi capimmo il messaggio. Se avessimo messo piede fuori da quella casa, saremmo morti. «Allora? Siamo nei guai fino a che livello?» chiese Jalil non appena ci lasciarono soli. «Fino al collo, direi» ammise David. «La madre di Senna non lo vuole fare. Peggio ancora, noi pensavamo che la madre di Senna avesse degli agganci con gli dei locali, che ci potesse fornire una copertura. E invece pare che lavori per Piccolo Fiore Leggiadro.» «Anche Christopher, al momento» disse Jalil, caustico. «Qualcuno ha un'idea brillante?» disse David. «Perché magari ci farebbe comodo. Le Amazzoni sono in gamba. Si vede da come si comportano e da come manipolano le armi. Sono loro che comandano, qui.» «Mmm» fece Jalil, annuendo. «Un caso perfetto. Da una parte una civiltà che si ripiega su se stessa, favorisce i matrimoni tra consanguinei, cerca
di raggiungere la stasi, esclude qualsiasi cosa nuova o straniera. Dall'altra parte un'altra civiltà che al contrario favorisce le unioni con altre razze, fa suo tutto quello che può dal punto di vista tecnologico, viaggia, si muove da un posto all'altro e da tutti prende il meglio e lo incorpora nella propria cultura. Per esempio, guardate come le Amazzoni hanno adottato la religione di Aretha, o come la volete chiamare. Non sono certo io il tipo da apprezzare le religioni, ma, gente, dovendo proprio scegliere tra una serie di rituali da ripetere all'infinito ogni giorno e della musica decente da cantare in compagnia di un buon bicchiere di vino...» «Piccolo Fiore Leggiadro ha un'arma Coo-Hatch» continuò David, annuendo. «E acciaio di buona qualità. Gli Egizi hanno rame e ottone. Il livello di addestramento è chiaramente diverso. E anche la formazione culturale.» «Oh, smettetela, tutti e due» intervenne April. «Non riuscite più a vedere le cose come stanno. Comincia a pensare, David. Con la testa, tanto per cambiare. Quelle ammazzano i bambini. Rubano. E quante sono? Non più di trenta o quaranta in tutta la città. Questa è una grande città e loro sono solo qualche dozzina e sono arroganti e strafottenti.» «Sono meglio armate, meglio addestrate di noi, e sono in netta maggioranza, almeno sei a uno» osservò David. «E comunque, hanno tutti i diritti di essere arroganti. Guarda quello che hanno fatto qui: hanno conquistato un'intera nazione. Sono come... come si chiama quello spagnolo che ha annientato gli Incas del Vecchio Mondo con duecento uomini...?» «Uccideranno Christopher» disse April. «Non lo possiamo sapere» osservò Jalil. «Non sono vedove nere o mantidi religiose: non li uccidono subito, i maschi con cui si accoppiano.» «È vero?» mi chiese David. Scossi la testa. «Si tratta di riproduzione» spiegai stancamente. «Piccolo Fiore Leggiadro ritiene che Christopher possa andare molto bene per procreare. Aspetterà di vedere se è incinta... prima di ucciderlo.» «Che fanciulle deliziose» borbottò Jalil. Poi mi guardò. «Sembra che dipenda tutto da te, vero, Senna? Non possiamo affrontare le Amazzoni faccia a faccia. In più loro hanno Christopher e non possiamo lasciarlo qui. E poi ci serve comunque tua madre per aiutare i Coo-Hatch. E solo tu puoi tirarci fuori di qui.» David ed April mi fissarono con sguardo significativo. «Sì, posso usare le mie capacità per uscire da questo edificio» dissi. «Ma
non posso far cambiare idea a mia madre, e non saprei proprio come sconfiggere le Amazzoni.» «Sobek» disse Jalil. Lo fissai senza parlare. Non me l'aspettavo. Come faceva Jalil a sapere di Sobek? «È ancora là fuori, vero?» continuò. «Nel fiume. Ed è vivo e vegeto, lui, a differenza di Iside e degli altri. L'avevano costretto a rinunciare ai suoi sacerdoti, l'avevano tagliato fuori. E alla fine della giostra è l'unico ancora "in funzione".» «Già» ammisi. «Sì, Sobek è là fuori. Non so perché, né che cosa sta aspettando. Forse si aspetta che Iside si tolga di dosso le ragnatele e lo inviti a entrare. Ma anche se riuscissi ad andare da lui, che cosa dovrei chiedergli di fare?» David e Jalil si guardarono a vicenda, come sperando che fosse l'altro ad avere la risposta. Fu David a parlare. «Okay. Vogliamo tua madre viva e in mano nostra. E vogliamo uscire vivi di qui anche noi. Sono questi i nostri obiettivi. Dobbiamo mirare a cose semplici. Senna, va' da Sobek, se puoi. Digli che cosa stanno combinando le Amazzoni in Egitto. Cerca di fare un patto per noi e per tua madre. Nel momento in cui Sobek arriva, se arriva, noi corriamo al fiume. Ci sono ancora le barche. Ci buttiamo sul fiume e ce la filiamo in Grecia.» «E Christopher?» chiese April. «Nessuno resta indietro» dichiarò subito David. «Se la situazione precipita, lei lo mollerà e verrà di corsa. Uno di noi...» «Me ne occupo io» intervenne April. «Le Amazzoni non si aspetteranno certo guai da me.» Scoppiai a ridere. «Tu? Tu vorresti affrontare Piccolo Fiore Leggiadro? Con che cosa? Con lo zaino?» «No, con la voce» rispose April. «Io so delle canzoni che tua madre non può averle insegnato.» David annuì, come se la cosa fosse perfettamente sensata. Poi si rivolse a me. «Senna, se riuscirai a tirarci fuori di qui, vedrai che cominceremo a vederti sotto un'altra luce.» Incredibile. Come se la sua opinione o l'opinione della gallina o l'opinione di quello schifoso bastardo di Jalil contassero qualcosa per me. Come se mi dovessi giustificare ai loro occhi.
Soffocai la risata, tenendo un sorriso derisorio stampato sulla faccia. «Farò del mio meglio» risposi parodiando la sua sincerità. Niente di quello che potevano dire o pensare mi importava. Però, gliel'avrei fatta vedere io. Certo che gliel'avrei fatta vedere! CAPITOLO XIX Cambiare forma è relativamente facile a Everworld. È faticoso, come lo è tutta la magia, e richiede concentrazione ed energia, ma non è niente a confronto dello sforzo necessario per modificare un pensiero o spostare un oggetto. Lo facevo sin da bambina. La prima volta avevo circa otto anni. Ero con la mia "nuova famiglia" da un anno. Eravamo tutti molto allegri. Tutti molto amichevoli. Grondavamo amore da tutti i pori. Ero proprio come April. Tranne il fatto che non era assolutamente vero, ovvio. Non era così nella mia mente, né nella mente di nessun altro. La mia mamma nuova di zecca e il mio papà recitavano una bella commedia, ma April era dentro, e io ero fuori. La mia matrigna le leggeva le favole la sera, prima che si addormentasse. A me no. La scusa era che con lei l'avevano sempre fatto. Era un rituale. E poi, non sembrava che desiderassi farmi leggere le favole da lei. E così si sedevano vicine vicine nella cameretta di April, con soltanto l'abat-jour acceso, tutte avvolte nel loro piumino. Una magnifica scenetta familiare. E leggevano un capitolo di qualche cosa. Alice nel paese delle Meraviglie... Piccole donne... Lo Hobbit... Fu proprio mentre leggevano Lo Hobbit, e io ascoltavo dalla porta del bagno con la luce spenta, rannicchiata come una ladra che teme di essere scoperta, i piedi sulle piastrelle fredde, quella mia stupida coperta stretta tra le mani, ad ascoltare, fu allora che, per la prima volta, mi lasciai catturare da un libro. Piccole donne era stato insipido, Incompreso, peggio ancora. Ma Lo Hobbit in qualche modo mi entrò dentro. Una notte dopo l'altra, rimasi ad ascoltare come mai avevo fatto prima di allora. Bilbo, i nani, i goblin. Gollum. Mi identificavo con Gollum, in qualche modo. La prima bambina al mondo a pensare che fosse Gollum l'eroe, triste, solo, disperato, escluso e abbandonato com'era. Era una specie a parte, questo Gollum. Una specie a sé. Nel bagno c'era un bidoncino in acciaio per i rifiuti, proprio vicino a do-
ve stavo seduta io. E una lama di luce che filtrava da sotto la porta. Pensando a Gollum, riuscivo a raffigurarmelo perfettamente, la vita che faceva, la grotta umida e buia... Mi cadde lo sguardo sul bidoncino. Sulla mia immagine piegata e distorta. Mi alzai di scatto. Lo specchio! Dovevo vedere se era vero... non poteva essere vero. Accesi la luce. No, ero io. Era la mia faccia quella che mi ricambiava lo sguardo dallo specchio. Eppure... un momento, un momento, pensa a Gollum, ricorda le parole, ricorda le sensazioni e... oh! Impossibile! Mi toccai la faccia grigia e livida con le lunghe dita rugose. Possibile. Ero Gollum. Il Gollum che avevo immaginato io, in ogni caso. Più tardi, dopo che April, dato il bacio della buonanotte a sua madre e spenta la luce, si era messa a dormire con i bei riccioli rossi sparsi sul morbido cuscino, entrai nella sua stanza. Mi concentrai di nuovo e raccolsi intorno a me l'aura. «Svegliati, tesssoro mio» dissi. «È realtà? Gollum... Gollum... O è solo un sogno, tesssoro mio?» Un ricordo che custodirò sempre con piacere. I grandi occhi verdi e innocenti che si aprivano piano. Il grido che trapassò tutte le pareti della casa. Il grido che non voleva più cessare. Ci volle più di un'ora a tutti e due i suoi genitori per rimetterla a dormire. Il rovescio della medaglia fu che dovetti leggermi il resto dello Hobbit per conto mio. Le letture serali di April passarono a qualcosa di più sicuro. Ma le sue notti non sarebbero più state del tutto sicure. Qualche settimana dopo le si presentò la Regina di Cuori, in cerca di teste da tagliare. Mi ci vollero anni per perfezionare quest'arte. Anni, prima di riuscire a fare quello che ora facevo con tanta facilità. Aprii la porta della casa. Merope, assonnata, di pessimo umore, si girò a guardare. E vide un topo sgattaiolare via nella notte. «Non ci piacciono i topi» spiegò Jalil, e richiuse la porta dietro di sé. Appena giunsi abbastanza distante perché Merope non potesse più vedermi, abbandonai quel travestimento illusorio e ne adottai un altro: una città piena di gatti non è un buon posto per un topo. Adesso ero mia madre. Mi piaceva, la cosa. Era noto a tutte che era intima di Piccolo Fiore Leggiadro. Nessuno le avrebbe dato fastidio. Camminai per le strade dove regnava un silenzio di morte, passai davanti ai templi avvolti dalle tenebre. Una città fantasma. Camminai verso il
fiume. Non c'era nessuno sul pontile. Non una guardia di sentinella, nessuno. Tre imbarcazioni, due più grandi e una più piccola, dondolavano dolcemente sull'acqua. Tornai al mio aspetto normale, mi chinai e infilai il dito nell'acqua che lambiva le lastre di pietra. Ripetei la noiosa formula di invocazione di Sobek e aggiunsi: «Umilmente chiedo udienza. Ho utili informazioni per te.» Non dovetti aspettare a lungo. Una testa di coccodrillo, troppo grande per esser vera, troppo stilizzata per essere un prodotto della natura, emerse dalle acque nere come l'inchiostro. «La strega» sibilò. «Sì, la strega. Io ho mantenuto la mia promessa: la diga è distrutta. Il Nilo è tornato a scorrere liberamente.» «Ma la grande Iside ancora non mi chiama» si lamentò il dio. «Non oso abbandonare il fiume se prima non so per certo che la sua ira si è placata.» «Non preoccuparti di Iside. Iside è morta. O quasi. Sono tutti morti... ma non morti del tutto. I tuoi dei non governano più questa città, Sobek. Donne straniere hanno preso il potere mentre gli dei tuoi amici se ne stavano a guardare. E queste donne straniere ora stanno svuotando la città di tutto il suo oro, stanno spogliando questa terra di tutto ciò che ha.» «Che menzogne sono queste?» «Tocca a te, se vuoi, riprendere la tua città. Tocca a te risvegliare gli dei... A meno che, naturalmente, tu non preferisca lasciarli dormire. Nel qual caso diventeresti tu l'unico dio dell'Egitto.» «L'unico... Sobek, l'unico...» È una cosa meravigliosa, la sete di potere, su cui si può sempre far leva. Sobek era un dio minore, una specie di divinità locale. Come il governatore del Delaware oppure del Nebraska, immagino. E adesso gli veniva offerta la Casa Bianca. «Le Amazzoni regnano su questa città e su questa terra» insistetti. «Sono donne guerriere, temibili e forti. Insozzano i templi, si portano via tutto! Non resterà niente per te, Sobek. Niente.» «Non può accadere!» «E allora le devi fermare. Uccidi le Amazzoni, Sobek. Tu sei un dio. Potresti essere un grande dio, l'unico di tutto l'Egitto.» «Che cosa devo fare?» sussurrò, i gialli occhi di rettile dilatati, brillanti. «Raduna tutti i tuoi figli» gli spiegai. «Riprenditi ciò che è tuo di diritto. Ma lascia stare i miei compagni, solo questo ti chiedo. Ce ne andremo da
questo posto e ti lasceremo regnare come vorrai.» Non rispose. Non era necessario. Mi voltai, con il cervello che lavorava febbrilmente. Come sfruttare al meglio questa occasione? Come usare al meglio il panico che fra poco avrebbe pervaso questa città moribonda? Che cosa fare di mia madre? Era questo il problema. Girai un angolo e rimasi di sasso. Eccola lì. Mia madre. In mezzo alla strada... Come faceva a sapere che sarei stata qui? Che cosa stava facendo? Qualcosa... Lo vedevo. Qualcosa. Una trappola? C'erano le donne arciere di Piccolo Fiore Leggiadro in attesa con la freccia incoccata e l'arco teso? Ero già morta prima ancora di rendermene conto? «Mamma?» chiesi, tremante, incerta. «Senda. Io... voglio fare quello che è meglio per tutti.» «Che cosa hai fatto?» «So di non essere stata una buona madre. È troppo tardi per questo. Però ci ho provato, lo sai? Ci ho provato. Ma devo pensare al bene di tutti noi, capisci?» «Che cosa vuoi, mamma? Di che parli?» «Finché tu resti libera, loro non si fermeranno, non cederanno mai. E tu lo sai. Loki... Ka Anor... Non deve succedere, scombinerebbe tutte le carte. Finché tu resti libera...» «Che diavolo hai fatto?» gridai. Fu allora che lo sentii. Fu come se qualcuno avesse acceso un faro dietro di me, la luce calda, l'aura, il suo potere vibrante. Il modo sicuro, facile e determinato con cui attirava a sé il potere... Lo sentii prima ancora di vederlo, prima che il suo nome si affacciasse alla soglia della mia coscienza. «Merlino» sussurrai. CAPITOLO XX Merlino. Mia madre mi aveva venduta a Merlino. Lo aveva chiamato qui, e adesso ero sola, ad affrontare uno come me, ma con mille volte più esperienza di me. Restai immobile. Non sapevo che fare, non riuscivo nemmeno... non avrei mai pensato... Merlino. Avrei voluto aggredirlo, ma naturalmente avrei perso io, avrei voluto scappare, ma no, ero sola, gli altri erano tutti sotto chiave. Rimasi lì a fissare mia madre: vidi il suo senso di colpa, vidi il fuggevo-
le brivido di piacere, la consapevolezza di avermi in pugno. Era dispiaciuta, era contenta, era ansiosa, era sollevata, era trionfante. Questo soprattutto mi fece male: lei era trionfante. Mi stava consegnando a Merlino, così come mi aveva consegnato a mio padre: "Ehi, prenditela tu, mi sta fra i piedi, mi complica la vita, toglimela di torno, portatela via, imprigionala in una vita che non sarà mai capace di sopportare, una vita che...". Avevo la gola serrata. Oh, per tutti gli dei, no, le lacrime no. Non potevo piangere. Non potevo ridurre la faccia a un'orribile maschera di dolore. Non potevo cadere a pezzi qui. «Vieni, Senna Wales» mi disse Merlino. C'era compassione nella sua voce. Certo, perché no? Poteva permettersela, la compassione. Aveva vinto lui. «Dove andiamo?» sussurrai. «In un posto sicuro» spiegò. «Sarai al sicuro. Avrai tutto ciò che vorrai.» «Difficile» commentai amaramente. Solo allora mi girai ad affrontarlo, contenta se non altro di non dover più guardare quel misto di soddisfazione e autocommiserazione sulla faccia di mia madre. Merlino era un uomo di media statura, forse un po' più basso della media, con una gigantesca barba grigio-bianca e un volto solcato da rughe profonde. Occhi azzurri e limpidi, penetranti, da predatore. Aveva una veste blu scuro schizzata di fango e in questa particolare occasione aveva anche un logoro cappello a cencio. A parte il cappello, era la perfetta immagine del mago. Il mago sul quale sono stati modellati tutti i maghi del mondo. «Sei stata brava ad arrivare sin qui» mi disse. «Ma è uno stolto il mortale che si mette a giocare con gli dei.» «Anche tu giochi con gli dei» osservai. Il vecchio sorrise. «Li ho inventati io questi giochi. Vieni con me. Sono venuto in questo luogo sulla groppa di un drago di mia conoscenza, che ora ci porterà entrambi lontano da qui.» «Andrà tutto bene, tesoro» mi disse mia madre. «È per il bene di tutti.» Poi... una voce nuova. «Ehi, che succede qui? Non ci credo! Merlino!? Ma che ci fai qui?» Christopher! Non so che cosa mago Merlino pensasse che Christopher avrebbe fatto;
non so che cosa pensasse mia madre. Io sapevo che non avrebbe fatto niente. Sapevo che avrebbe ghignato soddisfatto e avrebbe augurato a Merlino tutto il bene possibile. Ma il punto era che nessuno dei due lo sapeva. «Christopher! Uccidi mia madre!» «No!» esclamò lei. E in quel momento richiamai dentro di me ogni grammo di potere che riuscii a trovare e raggiunsi Christopher, gli toccai la mente con una mano invisibile e lui sobbalzò. Niente di più, un sussulto, una reazione involontaria, uno spasmo che fece fremere il suo corpo. Merlino scattò al contrattacco. Levò una mano ossuta e sentii l'ondata di potere emanare da lui. La sua aura lo faceva rilucere come mai nessun mortale. Era molto più intensa di quella di mia madre. Molto più intensa anche della mia. E tuttavia ebbi la mia chance, per quanto piccola. «Amazzoni! Amazzoni! Il consorte della vostra regina sta per essere ucciso! Amazzoni!» Vidi stupore e confusione dipinti sulla faccia di Merlino. Lui non lo sapeva. Mia madre non glielo aveva detto, e il vecchio non sapeva che ora erano le Amazzoni a regnare sull'Egitto. «Piccolo Fiore Leggiadro!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola. «La tua strega ti ha tradito!» Christopher restava congelato dall'incantesimo del mago, ma Merlino ancora non si rendeva conto che stava sprecando i suoi poteri. Non sapeva che Christopher era innocuo. Lo teneva fermo come una statua mentre io continuavo a gridare nella notte e la mia voce riecheggiava nelle grandi strade sepolcrali. Sentii spalancarsi una porta. Un bagliore di torce. Grida femminili. Un clangore di armi. A quel punto, scappai. Merlino mi fu addosso in un lampo: riusciva a muoversi molto più velocemente di qualsiasi altro vecchio della sua età. Mi raggiunse, mi afferrò, mi fece voltare verso di sé. Già dimentico di Christopher. Anche mia madre correva, correva a cercare Piccolo Fiore Leggiadro per giustificarsi, per spiegare che pasticcio aveva combinato. Merope arrivò di corsa, senza fiato, la spada sguainata, subito seguita da altre due Amazzoni. «Che succede qui?» chiese imperiosa. Puntai il dito contro Merlino. «Questo vecchio ha cercato di uccidere il consorte della vostra regina e
di stuprare me.» «Ha fatto questo?» ruggì Merope. «Allora manderò la sua carcassa all'Ade.» Merlino mi lasciò andare. Ora non c'era più traccia di compassione sulla sua faccia. Diresse le sue energie contro Merope e la gelò a metà movimento, pronta a calare la spada sulla testa del mago. «Sei un grande mago, vecchio. Quanti riesci a tenerne fermi, senza mollare me?» ringhiai. Mi girai. Non mi teneva più il braccio con quelle dita che sembravano tenaglie d'acciaio, ma non riuscivo comunque ad allontanarmi. Avevo i piedi incollati alla polvere. La magia di Merlino bloccò anche le altre due Amazzoni quando gli si scagliarono contro. Eravamo tutti pietrificati. «Ma che diavolo sta succedendo qui?» chiese Christopher. «Christopher, prendigli la spada, non ti può fermare» gli ordinai. «Non credo proprio» Christopher disse, ma era troppo tardi: Merlino aveva già reagito e Christopher era di nuovo immobilizzato. Era giunto il momento di mettere alla prova la mia forza contro quella del mago. La chiamai a raccolta, tutta quella che avevo, e cercai di muovere un passo. Ma il mio piede non si voleva spostare di un millimetro. Il mago mi teneva ancora in pugno, ci teneva immobili in cinque con la sola forza della sua magia. «Hai ancora molto da imparare, Senna» mi disse. E con una voce diversa, non un grido, ma una voce che voleva farsi sentire anche da altre orecchie, esclamò: «Vieni Grymhaldrad. Vieni da Merlino e adempì la tua parte dell'accordo.» Il drago. Stava chiamando il drago. Altri passi, altre persone che accorrevano. Presto sarebbe arrivata altra gente, forse i miei compagni, forse Piccolo Fiore Leggiadro in persona. Ma se fosse arrivato prima il drago, Merlino mi avrebbe portata via dalla città e io non avrei più avuto speranza. Dovevo trovare una via d'uscita. Mi serviva tempo. Solo qualche minuto, non tanto, era questione di minuti, ma adesso, da qualche parte, non lontano, il drago si stava alzando in volo. E io ancora non riuscivo a muovermi, non riuscivo a spostarmi di un millimetro. Rumore di passi, stivali che picchiavano sulla terra. «Che cosa hai fatto al mio cucciolotto?» strillò Piccolo Fiore Leggiadro. «Liberalo subito!»
Il "cucciolotto" mi sconcertò per un istante. Non c'entrava niente, non aveva alcun senso. Christopher sembrò imbarazzato. Piccolo Fiore Leggiadro avanzò con passo deciso verso di lui, gli afferrò un braccio e lo tirò verso di sé. Christopher si muoveva come il Boscaiolo di Latta del Mago di Oz. Non riusciva a controllare i movimenti. «Ti ho detto di lasciarlo andare, mago» fremette la regina. «Questi sono affari di magia, Piccolo Fiore Leggiadro. Non è una tua battaglia» la avvertì Merlino. «Amazzoni, agli archi!» ordinò Piccolo Fiore Leggiadro. Dodici Amazzoni impiegarono mezzo secondo per incoccare la freccia e tendere l'arco. Dodici frecce si puntarono al cuore di Merlino. «Lascialo andare, vecchio impiccione. Questa è la mia terra adesso. E queste sono le mie guerriere, e lui è il mio cucciolotto.» Il mago stava combattendo una battaglia persa, e lo sapeva. Ma in quel momento, con una folata di vento che pareva un tornado, un drago passò in volo sopra il tetto del tempio di Iside e planò a bassa quota su di noi. Caddero tutto intorno gocce di fuoco liquido, da un litro ciascuna. «Porto con me la strega!» gridò il mago per farsi udire sopra il boato del vento e il ruggito del drago. «Oppure Grymhaldrad combatterà al mio fianco. Quante delle tue guerriere potranno sopravvivere a una battaglia con un drago? Sarà una battaglia che non porterà beneficio a nessuno. Una battaglia in cui molti periranno e molte ricchezze andranno perdute.» Se Piccolo Fiore Leggiadro fosse stata una Vichinga, questo sarebbe stato un invito irresistibile al massacro. Ma le Amazzoni non erano Vichinghe. Le Amazzoni non ambivano a una morte gloriosa in battaglia: ambivano ai guadagni, al potere, alla vita. Mi accorsi subito che la loro regina era pronta a trattare. A quel punto avrei perso. Ma notai anche un'altra cosa: Merlino era stanco. Mossi un piede, appena un centimetro, appena un poco. Mossi gli occhi, individuai la porta buia più vicina, calcolai il tempo che avrei impiegato. Ero una giocatrice di scacchi. Ma ero anche la mia regina. Era la mia vita che rischiavo sulla scacchiera. Se mi fossi mossa... Merlino avrebbe concentrato i suoi poteri su di me... E avrebbe liberato Merope? E Merope avrebbe colpito? E come avrebbe reagito Piccolo Fiore Leggiadro? E il drago... Troppe pedine, troppe mosse possibili, troppe varianti. No. Un momento. Una mossa c'era. La mossa vincente. Cercai di domare il cuore che mi martellava in petto, cercai di liberare la
mente dal tumulto delle emozioni. Mi costrinsi a concentrarmi, a imporre a tutto il potere che c'era in me di emergere, appuntirsi, indurirsi, affilarsi e poi... Puntai ogni grammo di forza su Piccolo Fiore Leggiadro. Non per farla muovere, non, per farla obbedire, ma solo per farla gridare di dolore, piegata in due con le mani strette allo stomaco. «Aaaaah!» Dodici frecce vennero scoccate. Dodici frecce si fermarono a mezz'aria e restarono sospese, frementi. In quell'istante scappai. Corsi con le ali ai piedi. Tutta la magia, tutti gli incantamenti si riducevano a questo, a correre e sperare. Su dai gradini, andai a sbattere contro una colonna in ombra... che botta! Ero tutta frastornata, ma ripresi a correre. Arrivai ad una porta, tentai di aprirla ma non si mosse. In quel momento un lampo di fuoco, il fiato incandescente del drago, rischiarò la notte. Ma non mi serviva il fuoco, solo la luce. Vidi la pietra che teneva bloccato il battente. La feci scivolare via, afferrai la maniglia e aprii proprio mentre Merlino saliva di corsa i gradini alle mie spalle. Spinsi la porta sbattendogliela in tacciai C'era un lucchetto? Doveva esserci! Una sbarra, un palo da far scorrere e... sì, era chiusa! "Okay, Senna, respira... respira. Ma non sarà la porta a fermarlo, non per molto. Devi farlo ora. Sono così stanca, così stanca. Scordatelo! Non sei stanca. Se sei stanca adesso finirai i tuoi giorni nella gabbia di Merlino." Non ero più stanca. Il mio corpo era qui, intrappolato, incapace di sfuggire, ma avevo altre risorse. "Passa dall'altra parte, Senna. Non puoi far uscire il tuo corpo, ma la tua mente ti potrà salvare, i tuoi poteri ti potranno salvare. Tu sei la 'porta', Senna, passa subito dall'altra parte." E di colpo mi resi conto di non essere sola. Seduto su un trono di pietra c'era un dio. Aveva il corpo di un uomo e la testa d'ariete, con grandi corna d'oro avvitate su se stesse. Non c'erano sacerdoti né accoliti. Almeno, non ce n'erano di vivi. Davanti all'altare c'era un mucchio di stracci logori che bene o male coprivano alcuni cadaveri disseccati. Il dio stesso, chiunque fosse, era coperto di polvere e ragnatele. "Non guardare. Non ci pensare. Non è un problema tuo." Calmai la mente febbricitante. Raccolsi in me i poteri e sciolsi il legame che mi univa al corpo fisico. Mi levai in alto, uscii. Vidi attraverso le pare-
ti, vidi la bolla di Everworld che si allargava sotto di me. Merlino era davanti alla porta del tempio. Stava cercando di aprirla con la sua magia, ma era protetta dall'incantesimo del dio polveroso. Merlino stava chiamando il drago. L'avrebbero bruciata nel giro di qualche minuto. Non c'era tempo da perdere. Volai dentro al vuoto, priva del corpo. L'osservatore mi vide. L'osservatore notò la mia paura, la mia disperazione. Lui-Lei-Esso mi vide, ma rimase a me invisibile. Non era un mio problema, non nell'immediato. Adesso il mio problema era trovare qualcuno, e in fretta! Sorvolai la membrana del mondo reale, vidi attraverso le lenti offuscate e distorte di quella realtà. Dov'erano i miei seguaci? Qui, là, da nessuna parte. Non si erano riuniti, certo che no. Non li avrei mai trovati! Troppe menti, troppe possibilità, potevano essere ovunque, un groviglio, una massa vorticante di menti e di corpi e da nessuna parte qualcuno dei miei uomini da individuare e da raggiungere. Mi serviva... mi serviva... Eccolo! Sì, lui. Quello nuovo. "Sta' pronta, Senna. Sta' pronta, Senda il sentiero, la 'porta', il punto di congiunzione degli universi. Ti giochi tutto qui, in questo momento." Rilucevo nell'aura, rilucevo come mai prima. Al diavolo i poteri di Merlino, al diavolo tutti gli dei, io avevo un potere diverso che loro neanche si immaginavano. Formai l'immagine dell'uomo, l'immagine dell'Eccelso, il dio che avevo inventato per gli sciocchi come Keith. Keith era seduto nella sua stanza, una camera piccina, angusta, troppo calda e troppo scura. Un letto sul pavimento, una scrivania con un computer, lo schermo illuminato. Keith era collegato a Internet, era seduto alla scrivania e pigiava furiosamente sui tasti. Una chat room di qualche tipo. Alle pareti, un poster con una svastica e la bandiera dei Confederati, fissati con le puntine da disegno sulla carta da parati sbiadita. Una pila di riviste sul body-building, con immagini di uomini e donne abbronzati, lustri d'olio e gonfi di muscoli. Un armadietto militare chiuso con un lucchetto. Apparvi nell'aria alle sue spalle. Lui si girò di scatto, gli occhi dilatati, e balzò involontariamente verso l'armadietto. «Che dia...» «Sei pronto, Keith? Sei pronto a rispondere alla chiamata?» gli chiesi muovendo una bocca immaginaria, creando l'illusione del suono, una voce profonda, echeggiante, insistente. «Come hai fatto a entrare?»
«Chiamami Eccelso, quando ti rivolgi a me!» ruggii. Questo idiota mi stava facendo perdere tempo, e io non avevo tempo, il mio corpo era intrappolato in un tempio in attesa che l'immonda bestia mercenaria e affamata d'oro di Merlino lo stanasse con il fuoco. Keith batté le palpebre. Annuì lievemente. Si guardò intorno, imbarazzato per quello che vedevo. «Che cosa vuoi...» pausa «... Eccelso?» «Te, Keith. Te. E tutte le armi che hai in quell'armadietto.» Restò immobile. In guardia. Impaurito. Insicuro. Tentato. «Ora o mai più» gli dissi, cercando di nascondere la disperazione. «Ora o mai più. Vuoi essere alla mia destra? Preferisci restare in questa stanza squallida per sempre, o vuoi seguire il tuo destino? Vuoi afferrare il tuo destino con tutte e due le mani?» Esitava. Quanto tempo mi restava prima che l'alito di fuoco del drago si aprisse un varco? Keith si inginocchiò e compose la combinazione dell'armadietto. Aprì l'anta. Quante armi? Almeno tre, e poi scatole di munizioni e lunghi caricatori grigi. Keith si infilò munizioni e caricatori nelle tasche, nella camicia, nella cintura. Due armi da fuoco, una pistola e qualcosa di più terribile. Era quasi troppo pesante per lui, ma il peso non era un problema, per me. Rivolsi l'attenzione verso l'interno, precipitai dentro me stessa. Attrassi il corpo nella mente, la mente nel corpo, mi unificai, mi concentrai in un unico punto. April la "porta". In un istante la "porta" si aprì. Era aperta. E io ero un tunnel tra due universi, il mio corpo era cavo, la mia mente vedeva, sentiva nello stesso istante entrambi i mondi, e altri mondi ancora. Fantastico! Una carica incredibile! La scossa di un lancio vertiginoso con il bungee-jumping, il brivido di un rally tra auto che sfrecciano a tutta velocità. Avrei voluto gridare, lasciarmi andare, perdere il controllo. Era la mente, il corpo, il potere, la vendetta, il trionfo... tutto insieme. Ero nella stanza di Keith e nel tempio, e non erano più due luoghi distinti, ma uno solo. La bandiera dei Confederati era appesa alla parete del tempio del polveroso dio ariete. Lo schermo di un computer investiva di luce azzurrina le ossa scomposte dei suoi sacerdoti. Ma ero anche nello spazio senza dimensione tra i due universi. Sentii gli occhi dell'osservatore su di me, ma... anche tanti altri occhi. Gli dei mi a-
vevano sentita, avevano percepito la mia presenza, alcuni solo vagamente, alcuni sentivano solo una lieve interferenza, ma altri puntarono gli occhi su di me in un lampo e in un lampo seppero esattamente ciò che era successo. Sentii la furia malevola di Loki, la sorpresa di Ka Anor, sentii altri dei senza nome: tutti mi guardavano, tutti sapevano che la "porta" era aperta, che il muro tra i due universi era diventato una porta aperta. La chiusi di scatto, ricaddi a Everworld ed eccomi di nuovo nel mio corpo tremante, una ragazza dalla faccia magra, esausta, inginocchiata accanto a una porta che nel buio riluceva di giallo e di rosso. Il calore era quello di un altoforno. Ancora un secondo e la porta si sarebbe sciolta in una pozzanghera oppure sarebbe esplosa tra le fiamme. Keith aveva gli occhi sbarrati, guardava senza capire. Mi alzai in piedi e lo afferrai per un braccio. Adesso ero nei miei panni, non ero più una divinità maschile. «È per me che lavori» gli dissi seccamente. «Vuoi il potere? Io te lo darò. Vuoi vivere? Io ti salverò. Io, e nessun altro.» «Ma chi diavolo sei, tu?» mi chiese. «C'è un drago dall'altra parte di quella porta. Sarà qui fra un attimo. Uccidilo. E uccidi il vecchio che è con lui.» E in quel momento la porta si sciolse. La pietra si era trasformata in magma. Si liquefece e si allargò in una pozzanghera. Le fiamme cessarono. In mezzo al fumo e alle braci, la testa arrogante del drago con il napalm che gli colava dalla bocca si infilò dentro la stanza. La bestia vide Keith e vide me. «Bene, Maestro Merlino» disse «ci sarà un sovrapprezzo per la porta bruciata. Le porte incantate sono davvero molto dure da bruciare.» Appoggiai la mano sulla spalla di Keith, lo toccai, raggiunsi la sua mente feroce e assassina e lo spronai quel tanto che doveva essere spronato. Il mitra esplose una raffica di colpi. Il rumore fu assordante. I bossoli di ottone rimbalzarono sul pavimento di pietra. I proiettili spaccarono la testa del drago. Quanti, non so. Fu tutto troppo veloce, troppo improvviso. Sentii la forte vibrazione del rinculo. Il drago sembrò sorpreso. Ferito. Come se i suoi sentimenti fossero stati feriti, come se... Si accasciò di colpo. Come una marionetta cui vengano tagliati i fili. La testa gigantesca si schiantò semplicemente sul pavimento. Il fuoco liquido nelle sue fauci si sparse intorno. Keith saltò di lato per scansarlo, io arretrai velocemente.
«Il vecchio» sibilai. «Dov'è il vecchio? Prendi il vecchio! Vai!» Ma Keith non mi sentì neppure. Esplose in uno stridulo grido di trionfo e si mise a saltellare davanti al drago morto. «L'ho ucciso! L'ho ucciso! Hai visto? L'ho ucciso! Boom!» Era quasi isterico, senza controllo. Il dio ariete forse si mosse lievemente, ma Keith sentì il rumore. Si girò di scatto, puntò l'arma e sparò di nuovo. Scavalcai il drago, scappai dal tempio. Keith era un folle, avrebbe sparato a qualsiasi cosa si muovesse. Il prossimo bersaglio avrei potuto essere io. Dovevo correre il rischio e uscire dal tempio. Dov'era Merlino? Fuori, la follia. Pura follia. Un brulicante fiume di coccodrilli aveva invaso la strada, rettili sinuosi, scattanti, serpeggianti, a centinaia. Le Amazzoni si erano arrampicate sui monumenti di pietra, si erano sparpagliate, tempestavano i coccodrilli di una pioggia incessante di frecce. Ogni colpo andava a segno. I coccodrilli morivano ma i loro fratelli avanzavano imperterriti camminando sui loro corpi. Mi bloccai, con gli occhi sbarrati, incapaci di afferrare tutta la scena. Era più orribile di qualsiasi cosa avessi mai visto dopo il regno sotterraneo di Hel. Un massacro indescrivibile. I coccodrilli erano come un popolo in rivolta. Proprio davanti a me cinque o sei di loro stavano facendo a pezzi il corpo di un sacerdote. Le Amazzoni mantenevano un fuoco costante, uccidevano e uccidevano, ma non riuscivano nemmeno a rallentare l'invasione. Dov'era Merlino? Dov'erano gli altri? E mia madre? Non vedevo nessuno. Solo coccodrilli che salivano dalle gradinate, che cercavano di isolare e circondare le Amazzoni. Il tempio di Iside! Se gli altri erano ancora in giro, se mia madre era ancora in giro, dovevano essere lì. Ma come arrivarci? Come attraversare una strada brulicante di assassini? Dietro di me, dall'interno del tempio, arrivò il suono smorzato di colpi di arma da fuoco. Che cosa si era messo in mente di fare adesso quel viscido verme? Dovevo andare via. Merlino, Keith, i coccodrilli, le Amazzoni... pericoli da tutte le parti. Ma ecco arrivare Sobek. Era diventato enorme. Avanzava lungo la strada, sei metri di altezza, fino alla spaventosa testa stilizzata di coccodrillo. Sembrava un dinosauro in un incubo. Camminava sulla schiena dei suoi figli, incurante di loro. Si diresse ver-
so il manipolo di Amazzoni a lui più vicino. C'era anche Piccolo Fiore Leggiadro in mezzo a loro. «Lasciate perdere i coccodrilli!» strillò. Le Amazzoni spostarono la mira e iniziarono a riversare sul dio una pioggia di frecce. Tre, sette, quindici frecce spuntarono dalla testa di coccodrillo. Sobek rise e le spazzò via con un movimento della mano. «E voi osate attaccare un dio?» tuonò, imperioso. Piccolo Fiore Leggiadro non batté ciglio. Fece per prendere la lama rotante dei Coo-Hatch, una lama che avrebbe tagliato qualsiasi cosa. Huiztilopoctli era stato ferito da un martello incantato. E Sobek poteva essere ferito da una lama Coo-Hatch? Gli dei erano immortali, non invulnerabili. Una sola possibilità. «Sobek!» gridai. «Attento! Ha una lama incantata!» Piccolo Fiore Leggiadro mi trapassò con uno sguardo assassino ma lanciò subito la lama Coo-Hatch. Troppo tardi. Sobek si spostò di lato, la lama lo superò senza toccarlo e poi tornò indietro come un boomerang da Piccolo Fiore Leggiadro. Ma lei non era già più lì a recuperarla. Sobek aveva spalancato le fauci e si era scagliato contro la regina delle Amazzoni. La sollevò dal piedistallo, la scosse come un cane farebbe con un topolino e poi la gettò ai suoi coccodrilli. Le Amazzoni restarono ai loro posti. Ma sapevano che era il momento di ritirarsi. L'Egitto non apparteneva più a loro. Si misero in formazione, a quadrato, e arretrarono verso la più vicina porta aperta. Non avevano più frecce. Combattevano contro i coccodrilli con le spade e i pugnali. Sobek rimase a guardare la scena per un po', soddisfatto. Poi volse gli occhi gialli e malevoli su di me. «Ho fatto bene a risparmiarti. Qual è il tuo desiderio?» «Devo raggiungere il tempio di Iside.» «E così sarà.» Mi sollevò e mi appoggiò sulla sua spalla. Avanzò lungo il viale, portandomi con sé, al di sopra della carneficina, e mi depositò sana e salva sui gradini del tempio di Iside. «L'Egitto è mio» dichiarò Sobek. «Tu e i tuoi compagni ve ne andrete da questa città prima che il sole raggiunga il suo punto più alto domani. In caso contrario anche voi morirete. Così ha parlato Sobek, signore di tutto l'Egitto!» «Non ci troverai più qui» dissi. Mi trascinai sui gradini, distrutta, e crollai tra le braccia di David. Lui era lì ad aspettarmi, la spada sguainata, la faccia cupa. Mi portò dentro al tempio senza tanta delicatezza e Christopher sbarrò la
porta dietro di noi. Il silenzio improvviso fu impressionante. Le grida, i sibili, i ruggiti... tutto questo era rimasto fuori. «Merlino» chiesi senza fiato. «È qui?» «No. Christopher ci ha detto che era qui. Ci ha detto che tua madre ti ha tradita.» Annuii. Dovevo pensare, dovevo raccogliere le idee. Dovevo riprendere il controllo. Ma ero svuotata. Pesta e confusa. Niente era andato secondo i piani. Niente aveva più senso. Ovunque erano follia, tradimento, violenza. «Piccolo Fiore Leggiadro è morta» riuscii a dire. «Le Amazzoni sono spacciate. Sobek ha il controllo della città. E noi abbiamo tempo fino a domani a mezzogiorno.» «Non ti preoccupare, scapperemo via da questo inferno a gambe levate» disse April. Aveva la faccia rigata di lacrime, sporca. No, non sporca: insanguinata. «È morta?» chiese Christopher. Per un minuto non riuscii a capire di chi parlasse. «Piccolo Fiore Leggiadro? Sì, te l'ho detto: è morta.» «Era una tipa a posto.» «Era un'assassina, imbecille» l'aggredii. «Alla fine ti avrebbe ucciso.» Ma che stava dicendo questo scemo? Eravamo circondati da coccodrilli che si davano da fare ad ammazzare selvaggiamente qualsiasi cosa si muovesse e lui era triste per Piccolo Fiore Leggiadro? «Abbiamo con noi tua madre» mi informò David. La notizia mi diede nuova energia. «Dove?» ringhiai. «Mostrami dov'è.» Mi rialzai in piedi, mi allontanai i capelli dalla faccia e feci per cercarla. David mi fermò, mi trattenne con una mano. Gliel'avrei fatta mangiare, quella mano, se solo ne avessi avuto la forza ma, visto come stavano le cose, non potei far altro che strillare. «Mi ha venduto a Merlino! Mi ha tradito di nuovo. Di nuovo! Io la distruggo!» David annuì. «Lo sa.» Vidi Jalil per la prima volta, si avvicinò a noi uscendo dall'oscurità. «Ha paura di te. Non sa quello che le farai. E noi abbiamo fatto un patto.» «Un patto?» ripetei stupidamente. «Sì, un patto. Lei si occuperà dei Coo-Hatch. Diventerà la "porta" per lo-
ro e li aiuterà a fuggire da qui. Ma in cambio vuole qualcosa.» «La vita?» gracchiai. «Il perdono» disse Jalil. Risi. Risi e pensai che non sarei più riuscita a smettere di ridere. Che cosa voleva? Il perdono? «Vuoi dire che vuole sapere se può sentirsi al sicuro da me» lo corressi. David annuì. «Sì. È questo il patto. Penserà lei ai Coo-Hatch, quando sarà al sicuro, cioè. Ci vorrà un po' di tempo. Ma quando sarà lontano da qui e avrà trovato un posto sicuro per sé, darà una mano ai Coo-Hatch. Ma non lo farà se dovrà continuare a guardarsi le spalle per paura che arrivi tu.» «Sa di non essere stata una buona madre» disse Jalil. «Lo sa e le dispiace tanto. Le dispiace per tutto... Forse è stata debole, forse avevi ragione tu, tutte le cose che hai detto. Ma lei non voleva...» singhiozzò Jalil. David non batté ciglio. Scossi la testa, incerta se ridere o piangere. Jalil che singhiozzava? Vero... Mia madre, la trasformista. Che cosa avrei dovuto fare? Mi aveva già abbandonato una volta e poi come se niente fosse mi aveva consegnato a Merlino. Che cosa avrei dovuto fare? «Tu mi sottovaluti» dissi a voce bassa a Jalil-che-non-era-Jalil. «Potevi stare con me. E invece sei andata da Iside, sei andata da Piccolo Fiore Leggiadro, sei andata da Merlino. E in tutto questo tempo, mamma, in tutto questo tempo, ero io quella che avrebbe potuto salvarti. Everworld sarà mio, mamma. Mio.» «Ti prego... io non... ti prego...» balbettò Jalil. «Nonostante tutto, sono sempre tua madre.» L'immagine di Jalil iniziò a sciogliersi, a contrarsi, a scivolare nell'immagine di una donna che non avevo mai conosciuto veramente, un milione di anni fa. Vidi adesso il vero Jalil in un angolo, nella penombra. «No. Non cambiare, mamma. Ecco le mie condizioni: tu puoi fuggire da questa città, se sai come fare. E se ti prenderai cura dei Coo-Hatch e rispetterai la tua parte dell'accordo, non dovrai temere nulla da me. Ma non voglio più vedere la tua faccia.» «Potrei ancora fare qualcosa per te» tentò lei. «Potrei ancora insegnarti delle cose, mostrarti come...» Le voltai le spalle, lentamente, deliberatamente. Mi girai. La lasciai lì ad
implorare inutilmente. Avrebbe dovuto avere un sapore dolce. Avrebbe dovuto essere un momento perfetto. Avrebbe dovuto essere la vendetta per quella bambina che notte dopo notte si era chiesta perché sua madre l'avesse... Avrebbe dovuto avere un sapore dolce. Invece mi sentivo svuotata. Come se mi avessero strappato le budella. Be'... ero stanca, era per questo. Ero stanca. È estenuante essere Senna la strega. FINE