K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD IL MAGO (EverWorld 3: Enter The Enchanted, 1999) I PRODIGI DI MERLINO I cavalier...
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K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD IL MAGO (EverWorld 3: Enter The Enchanted, 1999) I PRODIGI DI MERLINO I cavalieri balzarono in piedi, sguainarono le spade con un unico risonante clangore... Merlino se ne stava in disparte e teneva le mani alzate, come in preghiera. Con voce forte, limpida, pronunciò queste parole: «Morte alla vita, vita a chi è morto, alzatevi, animali del bosco, alzatevi, animali del campo, alzatevi, animali del cielo, dimenticate la vostra natura e diventate lupo, per uccidere il lupo.» E in quel momento, il cinghiale selvatico, il maiale zannuto dalle costole scarnificate, dalle interiora già divorate, scalciò... Il cinghiale rotolò sulla schiena, si mise in piedi sui minuscoli zoccoli, saltò giù dalla tavola e caricò Loki. Non fu il solo. Tutte le creature morte, maiali, uccelli, pecore, capre, tornarono di colpo a una forma di vita orrenda. Pelle abbrustolita che crepitava, ossa annerite che cozzavano tra loro, orbite vuote che fissavano... si alzarono dai vassoi sulle poche ossa scricchiolanti e caricarono il dio nordico... Noi eravamo raggelati. La fuga, interrotta. Come potevo correre? Come potevo muovermi? C'era lì un vecchio che aveva appena riportato in vita animali morti... CAPITOLO I Ero lontana da casa. Mai essere umano lo fu così tanto. Non ero in un luogo lontano. Ero in un luogo a parte, un luogo disgiunto dalla realtà, isolato. Ero a Everworld. Qui bisognava dimenticare la normalità. La normalità non esisteva più. La normalità apparteneva al mondo reale. C'era la magia, qui. Non magia tipo: "Ah, com'era magica la luce della luna!". Magia nel senso che le cose non sempre erano legate tra loro da un rapporto logico di causa ed effetto. La magia che nega ogni conoscenza
umana, che invalida diecimila anni di sapere umano. La forza di gravità in genere funzionava, a Everworld, ma non sempre. Impossibile, naturalmente, una cosa del genere nel nostro mondo reale. La gravità non è qualcosa che si accende o si spegne, a piacere. Se lo fosse, non sarebbe gravità. Se la gravità potesse andare e venire, salire e scendere come la marea, allora potrebbero volare anche quelle cose che, secondo ragione, non possono assolutamente volare. Come un drago, per esempio. È impossibile sollevare qualcosa di così pesante, di così massiccio come il corpo di un drago. Tutta quella pelle squamosa, tutti quei muscoli, tutte quelle ossa massicce. E comunque non con delle ali di pelle stile pterodattilo. Ali che non erano nemmeno un decimo di quello che avrebbero dovuto essere, nemmeno un centesimo di quello che sarebbe servito a sollevare nell'aria questa creatura, questo mostro che andava contro ogni logica. Un elefante con le ali. Dumbo, ma non così carino. E che sputava fuoco. Poteva del fuoco ardere nel corpo di una creatura vivente? Assurdo. Ridicolo. Fuoco dentro a che cosa? Nel ventre? Nell'intestino? Nel fegato? Fiamme che si sprigionavano dalla carne viva, dalla bocca del mostro. E tutto questo avrebbe dovuto essere reale? Tutto questo succedeva veramente? Il fuoco ha bisogno di aria per bruciare. Dov'era l'aria nel ventre del drago? Come facevo a capirci qualcosa, davanti a una creatura grossa come un elefante che sputava fiumi di fuoco svolazzando nell'aria? Restai immobile, come se avessi messo radici, sì, come se le dita dei piedi fossero penetrate nella terra in cerca di acqua e ora non riuscissi più a muovermi perché i piedi erano ancorati alla terra stessa, o a quello che sembrava la terra, in questo luogo orrendo e terribile. Scappare? Come potevo scappare da un drago che piegava alberi enormi con il vento delle sue ali impossibili e dava fuoco agli arbusti secchi nella notte? Potevo solo restare a guardare. Un miracolo, ecco cos'era. Un drago. «Diavolo, April, scappa!» mi urlò Jalil. Era fuori di sé, lui che resta sempre impassibile: gli occhi dilatati, la bocca distorta in una smorfia indecifrabile, mezzo ghigno, mezzo grido. Solo Jalil si preoccupava di me. E nemmeno troppo. David e Christopher erano ipnotizzati, stregati. Altra magia. Senna era andata da loro, li aveva toccati, aveva detto qualcosa e loro si erano persi.
Stavano là con le loro patetiche spade sguainate, in uno sciocco atto di sfida, e mulinavano quelle loro armi impotenti contro l'assassino venuto dal cielo. Jalil mi afferrò, mi spinse, mi tirò. I miei piedi si mossero, mancarono l'appoggio, incespicarono. Mi rialzai e finalmente mi misi a correre. Ma non andai lontano. Dovevo fermarmi, dovevo vedere. «Tornatene dal tuo padrone, Merlino! Digli che io non gli appartengo!» gridò Senna. La sua voce era un gridolino lieve, lontano, un suono quasi cancellato dalla potenza del rumore, del vento che ululava, dei gemiti potenti delle ali di pelle, del crepitio del sottobosco che bruciava. Il drago disegnava cerchi lenti e stretti sulla radura, come un tornado vivente. Volava come un uccello predatore, un'aquila dalla pelle verde e gialla, con artigli che avrebbero potuto portare via un bambino, un uomo, un cavallo... che cosa non avrebbero potuto portare via, se la gravità non significava più nulla? Io e Jalil ci acquattammo tra la vegetazione, per nulla protetti dagli alberi piegati, dall'erba battuta, dalla terra che si alzava in piccoli vortici. Ma il drago non si curava di noi. Guardava Senna. "Prendila! Portatela via!" gridai dentro di me. "È il suo incubo, questo. Non il mio, razza di mostro." Mi coprii le orecchie con le mani. Vidi che Jalil muoveva la bocca, ma non udii le sue parole. Il drago disegnava cerchi sempre più bassi, sempre più bassi. Gli artigli protesi, pronti a prendere o a straziare. Allontanai le mani dalle orecchie e cercai Jalil. Qualcosa di solido a cui aggrapparmi. Jalil, il profeta della ragione. David vibrò un colpo verso l'alto, ma mancò il ventre del drago per un soffio. Poi fu la volta di Christopher: stoccate, fendenti, attacchi a vuoto. Un balletto patetico. Due bambini di cinque anni che giocavano con le spade di legno. «Fatevi da parte, mortali» disse il drago. La sua voce, un rombo profondo che fece vibrare la terra. «Non sono stato chiamato per voi, ma per la strega.» Jalil scosse la testa incredulo, la faccia stagliata in chiaroscuro nella luce del fuoco del drago. Finalmente aveva capito che la razionalità e la logica non esistevano più. «Ha parlato!» esclamò.
David e Christopher saltellavano su e giù come due marionette appese ai loro fili. Attaccavano, mancavano il colpo, cadevano, balzavano in piedi, come se fosse tutto un gioco, una gara per vedere chi di loro avrebbe meglio adempiuto alla volontà di Senna. All'improvviso il drago si posò a terra. Senna fece un balzo, piombò addosso a Christopher e finirono per cadere a terra tutti e due. Il drago, quasi gentilmente, calò un'ala su David, schiacciandolo sull'erba, poi fece scattare la testa in avanti, su Senna. Mancò il bersaglio. Intanto Christopher, sotto di lei, cercava goffamente di rimettersi in piedi. Il drago attaccò di nuovo, Senna si girò, riuscì ad afferrare Christopher e se ne fece scudo. Adesso regnava la quiete. Strano, dopo il vento sollevato dal drago. Il silenzio era quasi assoluto, se non fosse stato per le grida di David: «Senna! Senna!» Da un punto imprecisato giunse un rumore di zoccoli. Il drago aveva un corno tozzo sul muso. Infilò il corno tra Christopher e Senna e scalzò via da lei un Christopher urlante e bellicoso. Senna rimase a terra, ansimante, inerme. Un nitrito spaventato. Un cavallo? «Fermo!» gridò una voce, vicina. Mi voltai, e Jalil con me. Quattro uomini a cavallo di imponenti destrieri. Quattro uomini coperti da capo a piedi da armature rilucenti. Spade enormi nel fodero, lance posate sul collo dei cavalli protetti da corazza. «Non vi intromettete, signori» tuonò il drago. «È Merlino in persona che mi ha chiamato qui.» Uno dei cavalieri si tolse l'elmo. Lunghi capelli neri gli si sparsero sulle spalle. Due occhi che dovevano essere azzurri abbracciarono la scena, cogliendone ogni dettaglio. «Onoro Merlino perché è un mago potente» disse il cavaliere. «Ma tu sei un grande mentitore, drago. E anche se dicessi il vero, Merlino non è il mio padrone. Tu ed io abbiamo le nostre questioni d'onore da affrontare.» Il drago esitò. Senna era inerme davanti a lui. David fuori combattimento. Quanto a Christopher, lo aveva appena buttato da parte come se niente fosse ed era finito contro un olmo, un bambolotto accartocciato su se stesso, le giunture tutte sfasciate. «Non è questo il luogo né il momento» disse il drago. «Io sono al servizio di Merlino il Magnifico.»
Il cavaliere spronò il suo cavallo e avanzò di qualche passo. Solo allora sembrò accorgersi di me. Sembrò stupito dalla presenza mia e di Jalil. Avanzò al passo finché non mi fu accanto. «Non vi avevo visto, milady. Vi prego di perdonarmi per non avervi rivolto i miei rispetti come si conviene. Spero di poter fare ammenda della mia mancanza non appena avrò ucciso questo drago malvagio.» Il drago ruggì, ma il suo era un grido di frustrazione più che di autentica minaccia. «Un'altra volta, Galahad» gli disse. Agitò le ali e si levò da terra, in lente spirali verso l'alto. All'improvviso sembrò fermarsi e, giratosi, piombò a tradimento contro i quattro cavalieri. Galahad si chinò appena in tempo e il drago gli passò rasente sopra la testa. Fu la sua coda da serpente a colpirmi sulla nuca e a mandarmi a sbattere proprio contro il cavallo di Galahad. Un pugno guantato di ferro si chiuse frettolosamente sulla mia maglietta, mentre il drago volava via nella notte. Il mondo girava, vorticava, si rabbuiava. Mi cedettero le ginocchia, ma il cavaliere mi sostenne senza sforzo. Vidi lisci capelli neri. Occhi grigio acciaio, non azzurri. Un viso... un viso... «Salve» dissi. «Io sono April.» Poi il mondo diventò nero. Non fu una dissolvenza. Fu uno stacco brusco, un radicale cambio di scena. «April?» Sbattei le palpebre. A scuola. A lezione di teatro. Tutti gli occhi su di me, alcuni annoiati, molti in attesa. «April?» mi fece l'insegnante. «Ti serve la battuta?» «La battuta?» ripetei piano. «No. No» Mi riscossi. Perduti i sensi a Everworld, ero tornata all'improvviso. Di nuovo nel mondo reale. Di nuovo nella vita reale. Prendevo il testimone da... da me stessa. La lezione. Una lettura drammatizzata. Io e Jerry Bell. Io ero Ofelia, lui Amleto. Non era il primo dei miei ritorni, improvvisi, sconcertanti, a una vita che continuava a scorrere senza di me nella realtà, nel mondo "normale". Non era il primo dei miei passaggi. Era solo il primo di cui quasi mi dispiaceva.
CAPITOLO II Da qualche tempo il mio mondo era diventato molto strano. Un minuto, la vita era la solita vita. Gli amici, la famiglia, la scuola, la chiesa, lo spettacolo che stavo provando. Il minuto dopo, era paura e violenza, nell'assenza più anarchica di qualsiasi legge, comprese le leggi fondamentali della fisica. Ho conosciuto la magia, nella mia vita. La magia che ti arriva come premio inatteso dalle cose vere, reali. L'applauso del pubblico è magico. Un bacio può essere magico. O anche no. Vedere per la prima volta la bambina appena nata di mia cugina è stata un'esperienza magica. Questa è la magia del mondo reale. Questa è la mia magia. Ma ero cresciuta con Senna. Io e lei ci dividiamo lo stesso papà. Lui si era diviso fra due donne: mia madre e la madre di Senna. Senna è entrata nella nostra famiglia da piccola. Io avevo quattro anni e, per quanto ricordi, noi due siamo sempre state trattate alla pari da mia madre. Nonostante il fatto che lei fosse la figlia dell'amante di mio padre. Su questa faccenda mi avevano mentito, naturalmente. Mi avevano detto che Senna era sempre stata la mia sorellina, solo che era arrivata in un modo diverso. Avevano distorto la mia realtà, avevano cercato di farmi credere che quello che sapevo era sbagliato. Tutto, pur di non dire la verità. Più tardi avevo capito da sola. Le persone sono deboli, commettono errori, fa parte della vita. E io avevo cercato di accettarla, questa persona nuova, questa ragazzina strana della mia stessa età. Ma Senna non voleva essere accettata. Non voleva niente, da me. Era completa in se stessa. E per lei, anche se non ero mai riuscita a capire come, anche se non avevo mai affrontato di petto la questione, il mondo era diverso. Fu allora che iniziai a sospettare che anche nel nostro mondo, anche nel mondo reale, ci fossero vari gradi di realtà. Non la magia assoluta di Everworld, tipo "buttiamo pure Newton e Galileo giù dalla finestra", ma fratture minuscole nella struttura della realtà. Accenni, barlumi di stranezze, tutti in qualche modo provocati o prodotti da Senna. Crescevamo insieme nelle stanze che condividevamo, nella casa che condividevamo, ma Senna era diversa da me. Diversa da tutti quelli che conoscevo. Eravamo diventate due fazioni, due partiti politici, due opposte visioni del mondo, Senna ed io. Lei era il "partito delle stranezze". E io? Io volevo fare l'attrice. Una stranezza di altro tipo, forse, ma che tuttavia ve-
niva dal bisogno di rappresentare la verità. O forse era semplicemente quello che dicevo a me stessa. Forse, come tanti aspiranti attori e attori già arrivati, volevo solo sfuggire a una vita che percepivo come noiosa. Noiosa, in confronto a quella della creatura affascinante, esotica, che viveva nella stanza dall'altra parte del bagno in comune. Lei cresceva, io crescevo, ma non crescevamo insieme, io e la mia sorellastra. E tuttavia, quella mattina umida e grigia, giù al lago, c'ero anch'io, attirata, trasportata, sospinta, costretta, forse solo curiosa, ma c'ero anch'io. Io, David, Jalil, Christopher. Convocati. Chiamati. Era questa la sensazione. Come spiegare, altrimenti, il fatto che eravamo tutti là, tutti in un luogo in cui mai saremmo capitati, se non fosse stato per lei? Saremmo potuti restare a guardare, quando il lupo Fenrir, il mostruoso figlio di Loki, aveva infranto la barriera tra Everworld e il mondo reale e aveva trascinato via Senna. Saremmo potuti restare a guardare. E invece ci eravamo messi a correre. A correre nella direzione sbagliata, sembrerebbe adesso. Ci eravamo messi a correre verso di lei. Allora sembrava che fosse per salvarla, con David in testa, naturalmente, a gridare "Senna! Senna!", con la mente che sfornava quelle visioni di eroismo che formano tanta parte della sua difficile personalità. Ci eravamo messi a correre, verso un lupo grande come un autobus, verso Senna, verso un universo che non poteva esistere in alcun modo, se non fosse stato che, di fatto, esisteva davvero. Non sappiamo esattamente che cosa sia Everworld. Sappiamo che è un universo costruito dagli antichi dei in fuga dalla Terra. Sappiamo che da poco altri immortali di origine aliena hanno trovato modo di arrivarci. Sappiamo che una di queste divinità aliene è Ka Anor, dio degli Hetwan. Sappiamo che Ka Anor spaventa a morte gli dei ufficiali. Li spaventa come niente li ha mai spaventati. E sappiamo che noi quattro ci troviamo in questo manicomio: io insieme a David, Jalil, Christopher. Sappiamo che Senna è la ragione per cui siamo qui. Il che, però, non spiega niente. Nessuno di noi sa. Nessuno di noi capisce. David non elabora teorie, naturalmente. Non funzionerebbe, con lui. Lui vorrebbe che lo vedessimo come una specie di uomo d'azione, diretto, determinato. È l'immagine che ha di sé. Quello che si sforza di essere. Ma le sue ferite e le sue cicatrici sono tutte ben visibili, sotto gli occhi di tutti, o
almeno di tutte le ragazze, di tutte le donne. David è convinto che nessuno veda le sue insicurezze, che nessuno veda le sue incertezze. Crede che, se continuerà a parlare da duro, a digrignare i denti, a buttarsi contro ogni nuovo pericolo, riuscirà a darcela a bere e dimenticheremo le sue debolezze. Crede che dimenticheremo i suoi momenti di paura, come quando è crollato davanti a Loki, quelle dimostrazioni di fragilità che gli rodono dentro in ogni momento di quiete. È quello che lo rende comico e affascinante e anche un po' straordinario, tutto insieme. Christopher? Christopher cerca sempre di convincersi che la vita è tutta una grande sit-com. Il mondo è troppo complicato per lui. Non che non sia intelligente, lo è. Ma ha bisogno che il mondo abbia un suo senso logico, che rientri in uno schema preciso, che sia prevedibile. Vuole che il grande pendolo si muova in un arco limitato, non troppo lontano. E quando non è così, lui prende il mondo e lo costringe a tornare al suo posto, lo organizza con il senso dell'umorismo e una mentalità ristretta. Taglia le estremità dell'arco. Qualcosa è troppo triste? E lui lo elimina con una battuta. Qualcuno gli è arrivato troppo vicino al cuore? E lui lo allontana con una frecciata cattiva e gratuita. Risultato assicurato. Jalil, invece, ne elabora moltissime, di teorie. Jalil fa poco altro. E, tra tutti noi, per me è il più oscuro. E il più interessante. Jalil non crede ad altro che a una realtà dimostrabile in laboratorio, riconducibile a una formula scientifica e ripetibile in un altro laboratorio. Così dice, e io gli credo. Ho per lui il rispetto che talvolta i credenti hanno per i non credenti. Non è una persona dalla fede tiepida, mezzo dentro e mezzo fuori, uno che si copre le spalle, uno che si adegua a un sistema di fede a cui non crede. Jalil pensa prima per sé, sempre. Così almeno dice lui, ma in questo caso non gli credo completamente. E a lui che mi rivolgo istintivamente se ho bisogno di aiuto. Tutti abbiamo qualche tipo di rapporto con Senna. David è la sua ultima conquista. Christopher l'innamorato respinto. Io la sua sorellastra. E Jalil? Nessuno lo sa. Nessuno, tranne Jalil e Senna. David ama Everworld, Christopher vuole uscirne e Jalil parla di universi paralleli e, be'... anche questa è una spiegazione buona come un'altra, immagino. Non che spieghi granché, però. Quando Jalil parla di universi paralleli, mi immagino due bolle di sapone che fluttuano nell'aria. Una contiene tutto quello che sappiamo essere reale. L'altra contiene una serie di leggi e verità e realtà a parte.
Ti addormenti di là, a Everworld, perdi coscienza, ed eccoti di nuovo nel mondo reale. Sembra essere questo il meccanismo: stare svegli, coscienti, ci tiene di là. Ma saperlo, o perlomeno essere convinta di saperlo, non mi spiega come posso evitare di tornare a Everworld, come posso aggrapparmi al mio mondo e restarci. E io ci voglio restare. CAPITOLO III Finii di leggere la scena per la classe. Non fu certo la migliore delle mie performance, ma ero un po' distratta. Distratta dal fatto che io, o una mia versione, una mia gemella; era appena sfuggita a un drago grazie a Galahad. Sir Galahad, immagino che dovrei dire. Sir Laurence Olivier, Sir Anthony Hopkins, Sir Galahad. Già. E adesso ero qui. In classe, con l'orologio sopra la porta, il caro, vecchio orologio, che faceva muovere il tempo sempre nella stessa direzione, che segnava con il suo tic-tac i minuti che scorrevano via. Ero sempre stata qui, naturalmente. Qui, ma anche là. Era uno dei paradossi di questa vita assurda. Sapevi quando i due "te stesso" si ricongiungevano nel mondo reale, perché ricevevi questi flash improvvisi: l'altro te stesso sta per diventare un sacrificio umano, o cibo per draghi, o preda di qualche alieno. Suonò la campanella. «Sei stata grande, sei veramente riuscita a dare vita al personaggio» mi disse la mia amica Magdalena, mentre uscivamo insieme nel corridoio. Sospirai. «Magda, sei molto dolce, ma se hai intenzione di diventare un'attrice devi prima imparare a mentire.» Questa era la mia vita. Questa ero io. "Non lasciarti condizionare, April. Non permettere che Everworld si impadronisca di tutta la tua vita. Tu, la vera April, sei questa qui. Chi se ne importa di quello che sta facendo l'altra April, o di quello che le stanno facendo? Quella è lei. Non sei tu." «Un'attrice? Ehi, voglio fare la regista, io. Ma, detto tra noi, tesoro, in effetti mi sembri un po' via di testa. E credo anche di sapere perché. È per via del cibo vegetariano. Senti, mi dispiace tanto, so che non sono affari
miei, ma qualche volta credo proprio che dovresti mangiare un po' di carne.» Sbatté allusivamente le ciglia. «Pensa a Mario, per esempio. Quello sì che è un bel pezzo di carne, bella mia.» Risi. La mia risata sembrava falsa. La sua faccia, falsa. La stanza, il corridoio, i ragazzi assiepati in giro, chi a camminare senza fretta, chi a correre alla prossima lezione. Tutto falso. Ero divisa tra due vite parallele. Avevo tutti i ricordi della mia vita di qua, e tutti i ricordi della mia vita di là. Ricordavo che Mario mi aveva chiesto di uscire, la sera prima. E ricordavo che Galahad mi aveva preso per la maglietta solo qualche istante prima. Entrambi reali. Entrambi interessanti. Mario era uno del gruppo di teatro. E in effetti era uno "giusto". E Magda aveva ragione: era scuro di carnagione e di capelli, sguardo profondo, petto liscio e labbra carnose. Il fratello minore di Antonio Banderas. «Ha dei brutti denti» dissi. Arrivammo al mio armadietto. Uscii dal fiume in piena di studenti indaffarati e mi afferrai alla mia sponda di metallo. «Se li può far rimettere a posto. Tutti a Hollywood si sono fatti rimettere a posto i denti. Brad Pitt aveva dei denti orrendi. Brad Pitt aveva dei denti da Medioevo.» La combinazione della serratura. La sapevo ancora? Com'era possibile? Come potevo ricordare ancora qualcosa di così futile, quando avevo la testa piena del fuoco del drago? «Adesso dimmi come diavolo fai a sapere anche dei denti di Brad Pitt» le chiesi. Rifare gli stessi gesti. Dire la cosa giusta. Come in una commedia in cartellone da tanto tempo, con le stesse battute da ripetere per la millesima volta. Magda ignorò la domanda, non trovandola pertinente. «Se tu non vuoi Mario, me lo prendo io. Non sono schizzinosa. Mi prendo volentieri i tuoi scarti. Me lo prendo, e quando l'avrò spremuto per bene, non lo vorrai più riavere indietro.» Composi i numeri della serratura. Dodici. Sei. Ventisette. Erano ancora impressi nel mio cervello. «Che cosa sai di Sir Galahad?» Mi guardò senza capire. «È il soprannome di qualcuno?» «No, voglio dire il vero Galahad.» «Non c'è nessun vero Galahad» disse Magda. «È solo una storia. Re Ar-
tù e poi Camelot e tutto il resto. Anche se, in realtà, Galahad ha una sua storia a sé. Sai, la ricerca del Santo Graal. Doveva essere lui il cavaliere perfetto.» Magda fa di tutto per apparire come una ragazza di facili costumi, una dura, una con il pelo sullo stomaco. In realtà, o almeno in una parte della sua realtà, è una mente davvero sopraffina che spreca tutta la sua intelligenza in volgari doppi sensi. Ma se poi le chiedi qualcosa di oscuro, scopri che lei sa molte più cose di quante ci si potrebbe aspettare da una ragazza che ha regolarmente l'ombelico di fuori per poter esibire il giro di filo spinato che si è fatta tatuare in cintura. «Galahad? È un mito.» «Già» dissi. «Ma se vuoi dirmi che stai cercando un uomo d'acciaio con una grande lancia...» Presi il mio libro di chimica nuovo. Quello vecchio era venuto con me, dall'altra parte. Lo avevamo scambiato con i Coo-Hatch, una razza aliena di esperti di metallurgia con la fissazione dell'acciaio. «Che mi dici dei draghi?» Magda chiuse l'anta del mio armadietto e mi lanciò un'occhiata seria. «April, che ti succede?» Feci scattare la serratura. Mi aggrappai alla manopola numerata e fissai la superficie liscia dell'anta. A lei avrei potuto dirlo. A lei sì. Avrei potuto dirle: "Magda, sono divisa in due, vivo una vita qui e gran parte di un'altra vita in un universo parallelo". Lei avrebbe annuito, avrebbe finto di credermi e lentamente ma inesorabilmente si sarebbe allontanata, avrebbe creato una distanza tra di noi, non avrebbe più avuto tempo per me, avrebbe avuto altro da fare: "Mi dispiace, ma ero già d'accordo di uscire con Tyra, no, non credo di essere dell'umore giusto per fare shopping...". E si sarebbe diffusa la voce. "April? È matta da legare." La malattia mentale rappresenta il limite dell'amicizia. Racconto tutto alle mie amiche. Tutti i sogni, i dispiaceri, le cotte, le fantasie. Racconto loro delle cose che rivelano tutto di me, cose che non sopporterei di sapere in bocca ad estranei. Parlo di tutto con loro, ma non di Senna, non della nostra infanzia insieme. Di tutto il resto sì, di tutto quello che appartiene alla mia vita reale, sì. Elspeth, Jennifer, Tyra, Alison, Becka, Suela, Magda, loro mi conoscono, come io conosco loro, in misure
diverse. Le mie amiche sono quasi tutte del gruppo di teatro. Recitiamo insieme, andiamo a lezione insieme. Tutti quegli esercizi assurdi, tipo "immagina di essere un albero", li abbiamo fatti insieme. Quando dovevamo fare la parte di una persona spaventata, o felice, o ferita, o disperata, quando dovevamo immaginarci nel ruolo di madri, o di vecchie, o di prostitute, o di manager, o di principesse danesi impazzite per la perdita della persona amata, quando dovevamo scavare nel profondo e tirar fuori un'emozione allo stato puro, riuscivamo a farlo perché eravamo noi. Perché ci fidavamo l'una dell'altra e ci incoraggiavamo a vicenda. Cos'ero io, senza le mie amiche? Qualcosa ero, e certamente non sarei sparita se fossi stata da sola. Ma non mi era mai capitato... «April, qualunque cosa sia, a me lo puoi dire... sono io, sono Magda. Dai, sputa il rospo, ti sentirai meglio, poi.» Le feci un sorriso forzato. «Stavo solo pensando a quanto dovrei fare felice Mario sabato sera.» CAPITOLO IV La scuola, le prove. Stavamo preparando un musical, Rent. La prima era tra una settimana, e io facevo la parte di Mimì. Mimì è una tossica sieropositiva. Non è esattamente uno di quei personaggi in cui mi riconosco. E il modo di cantare... Dovevo trovare una rabbia profonda, una disperazione cieca che non aveva mai fatto parte di me. E poi, c'era l'appuntamento. Con Mario. Sarebbe venuto a prendermi alle otto. Saremmo andati a vedere La dolce vita di Fellini, in un cinema che dava sempre vecchi film. Poi ci saremmo fermati da qualche parte per un caffè, forse uno spuntino. Avremmo parlato. Del film, di Rent, della recitazione, io gli avrei detto che volevo andare a New York a vedere Kevin Spacey in Arriva l'uomo del ghiaccio di Eugene O'Neill, e Mario mi avrebbe raccontato di quella volta che aveva conosciuto John Malkovich, quando era venuto a Chicago come regista di teatro. Poi saremmo tornati a casa sul lungolago, e lui avrebbe recitato la parte dell'uomo vissuto, e io avrei fatto l'oca giuliva, pur tentando a mia volta di fare la donna vissuta, e poi sarebbe arrivato il grande momento, il grande bacio... "Perché mai dovrei prendermi la briga di andare, se so già tutto, scena per scena?" mi rimproverai. "Non è vero che lo so. Potrebbe anche non an-
dare così." Fissai l'armadio. Conteneva tre tipi di vestiti: quelli che mi facevano sembrare grassa, quelli che mi facevano sembrare disperata; e quelli che sarebbero piaciuti a mio padre. Prima il guardaroba. Poi il trucco. E poi sulla scena, a recitare le battute preparate con cura. "È stato stupefacente. È proprio nato per quel ruolo!" Oppure: "Ho sempre avuto l'impressione che la gente sottovaluti Susan Sarandon". Oppure: "No, io, non so, be'... Nicole Kidman in Eyes Wide Shut? Mmm... io, mmm... immagino che sarei in grado di recitare una parte come quella". Da vergognarsi. «Piantala, April» dissi alla mia faccia truccata a metà riflessa nello specchio. «Piantala. È un ragazzo simpatico. Ha talento. È passionale. Piantala e goditi la serata.» L'orologio segnava le 7.49. Undici minuti, se era puntuale. Undici lunghi minuti. Di più, se era in ritardo. Mi misi il lucidalabbra. Ogni momento è buono. In qualsiasi momento potrei riaprire gli occhi dall'altra parte e scoprire... che cosa? Non potevo permettere che succedesse. Non potevo permettere che la mia vita venisse distrutta dalla consapevolezza di avere una seconda vita completamente diversa. Adesso mi stavo arrabbiando. Dov'era andato a finire? Erano le otto. Anzi no, le 8.01. Era in ritardo. In qualsiasi momento io, una parte di me, avrebbe potuto passare all'improvviso dall'altra parte. Ma io sarei comunque rimasta anche da questa parte. Metà di me sarebbe uscita con Mario. Forse l'altra metà era già là, se n'era già andata. Come facevo a saperlo, se lei, io, l'altra, non tornava con un altro aggiornamento? "Oh, ciao, April, com'è andata con Mario? Ah sì? Be'... prova a dire quello che abbiamo combinato io e Galahad..." Pura follia! Mi sedetti sullo sgabello davanti all'armadio. E rimasi lì, nella mia tenuta non troppo casual, a fissarmi le dita dei piedi, nudi e freddi sul pavimento di legno. Qui. Là. Era troppo. Una vita sola era abbastanza. Non ne volevo due. «Vattene e lasciami in pace» bisbigliai. L'orologio segnava le 8.07. Mi sentii sola. L'altra April se n'era andata? Impossibile saperlo.
Un toc-toc discreto alla porta. «April? È arrivato il tuo amico.» Mia mamma. Ancora con il "tono del lutto". Eravamo in lutto per la scomparsa di Senna. Erano passate settimane, nel mondo reale. La versione ufficiale della storia, il mito a cui tutti fingevamo di credere, era che Senna era sempre stata una ragazza indipendente, che se n'era andata via per conto suo, senza dubbio in cerca della sua vera madre. Eravamo tutti molto preoccupati. Mia madre. Mio padre. Facce lunghe, voci basse, occhi mesti, passi strascicati. Molto preoccupati. Mio padre accendeva la tele su Friends come per dire: "Forza, tiriamoci un po' su". Ultimamente, da un paio di giorni, eravamo passati alla fase due: "Siamo sicuri che sta bene, è sempre stata capace di badare a se stessa". Dopotutto, la polizia non aveva trovato cadaveri. Non aveva ripescato il corpo di Senna in qualche canale. E, francamente, eravamo tutti pronti a passare oltre, stanchi dell'impegno tedioso di recitare la parte dei tristi e depressi. Sognavo di sedermi a tavola e dire: "E finiamola una buona volta con tutte queste storie... Mamma, papà, ci sentiamo tutti più sollevati ora che lei se n'è andata. E poi, io so esattamente dov'è". Ma non era come da copione. Come da copione, mia madre doveva dire, e disse; «Tesoro, credo che sarebbe meglio se ricominciassi a divertirti un po'. Senna vorrebbe che tutti noi continuassimo la nostra vita di sempre.» Le strinsi la mano. Lei strinse la mia. Ci scambiammo un sorriso velato dal sentimento comune della perdita. Uscii con Mario. Ci guardammo il film. Parlammo. Io presi un caffè e un panino vegetariano, con la pasta di ceci. Parlammo un altro po', quindi tornammo a casa. Mario allungò le mani un paio di volte ma lo fermai. Non so nemmeno io il perché. Per metà della mia vita ero all'inferno, e per l'altra metà cercavo ancora di essere una brava ragazza. Mi sforzai di memorizzare tutti i particolari, perché Magda e Elspeth, Jennifer e Alison, Becka e Tyra e Suela avrebbero preteso ogni dettaglio, fino all'ultima parola, all'ultima sensazione, all'ultimo pensiero privato. Ero a casa intorno a mezzanotte. Qualche momento dopo, mentre entravo sotto l'acqua bollente della doccia, mi ritrovai dall'altra parte. CAPITOLO V
Un letto, un baldacchino su quattro massicce colonne scure, di legno di quercia. Sotto, un soffice materasso di piumino d'oca; sopra, niente lenzuola, solo una specie di piumone e un copriletto marrone scuro con qualche sbiadita traccia di oro. C'era il fuoco acceso in un enorme camino di pietra, più braci che fiamme. Odore di salsedine. Eravamo vicini al mare. Erano onde quelle che sentivo? Onde che si infrangevano sulle rocce? O era solo un'eco, la distorsione di un altro suono? Le pareti erano di pietra... granito, immagino. Il pavimento era di pietra, ma reso più soffice da un tappeto di giunchi sparpagliati e... meraviglia! petali di fiori. Be', carino, questo. Alla parete era appeso un arazzo sbiadito. Credo che raffigurasse un tizio in armatura inginocchiato davanti a una donna vestita di bianco. Impossibile dirlo con certezza, con i colori così slavati. C'era una sola finestra, alta e stretta, che finiva con un arco a sesto acuto, qualcosa di simile a quello che si potrebbe vedere in una cattedrale gotica. Era giorno. L'azzurro intenso del cielo riempiva il riquadro della finestra. Ma la luce del mattino, almeno così mi sembrava, non poteva molto contro l'oscurità dell'interno. Riusciva a malapena a tingere di grigio il nero degli alti angoli della stanza, sei metri più in su. Ero senza scarpe! Buttai via le coperte, uno scatto improvviso, convulso. Un sospiro di sollievo. Avevo ancora i miei vestiti addosso. Una mise alquanto singolare, composta da quello che indossavo giù al lago, più tutti gli accessori di varia natura ereditati dai Vichinghi e dagli Aztechi. Cercai di rallentare il cuore che batteva a mille, in preda al panico. Sarei mai riuscita ad abituarmi a questi passaggi improvvisi? Cercai di convincermi che in fondo la situazione non poteva essere così grama: ero in un letto di piume, con i miei vestiti addosso. Saltai giù dal letto e quasi feci un capitombolo, colta alla sprovvista dall'inattesa altezza da terra. Sul pavimento c'erano le mie scarpe da ginnastica. Me le infilai e le allacciai rapidamente. In quel momento scoppiò il mal di testa. Pulsava, pulsava, ma diminuiva se chiudevo gli occhi e mi massaggiavo le tempie. Erano gli ultimi strascichi di un mal di testa ben più grave. Mi toccai la nuca, dove la coda del drago mi aveva colpito. C'era un bernoccolo grande come un tuorlo d'uovo all'occhio di bue.
"Okay, hai i tuoi vestiti, hai le tue scarpe, e là c'è il tuo zaino. Va bene così, April. È meglio di molti altri risvegli a Everworld." Ero da sola, di questo ero abbastanza sicura. Dov'erano David, Christopher e Jalil? Presi lo zaino, cercai gli analgesici e mandai giù due compresse senz'acqua. Andai alla porta. C'era freddo nella stanza, nonostante il fuoco. Mi ci vollero un paio di secondi per capire come funzionava la maniglia. Non c'era un pomolo. Solo una specie di saliscendi di ferro. Lo sollevai e, sobbalzando al cigolio, tirai la porta verso di me. Un corridoio alto e stretto. Pareti di pietra, pavimento di pietra. «C'è qualcuno?» Nessuna risposta. Una parte di me si stava chiedendo se non ci fosse per caso un telefono accanto al letto. Avrei potuto chiamare la reception: "Salve, non so il numero della mia stanza, ma potreste mandarmi su del caffè e dei toast? E anche del roast-beef al sangue medio ben cotto e stracotto... e due uova molto sode... o meglio, tre uova sode... E otto fette di torta di mele... e due uova molto sode... o meglio, tre uova sode... Avete uova in camicia? Be'... dategli una vestaglia, sennò prendono freddo...". Un vecchio film dei Fratelli Marx, forse del 1935 o giù di lì. Una pessima battuta. Ma era il 1935. Chi avrebbe risposto, qui, se avessi chiamato la reception? Forse un troll. Forse Loki. No, Loki no: sarei già morta. "Piantala, April, stai farneticando. Stai parlando da sola. È la paura." Mi avviai cautamente lungo il corridoio. A destra o a sinistra? Nessun rumore che mi potesse guidare. Ma a destra il corridoio svaniva nel buio, mentre a sinistra era tagliato da una di quelle finestre alte a sesto acuto. «Va' verso la luce, April» mi sussurrai. Scivolai silenziosamente lungo il corridoio, scavalcando inconsciamente le fughe tra una pietra e l'altra. Dicono che calpestarle porti male. E non mi serviva altra sfortuna. Una porta, identica alla mia. Mi ci appoggiai con l'orecchio. «C'è qualcuno?» Mi ero alzata troppo presto? No, dovevo essere rimasta priva di sensi per molto tempo. Una commozione cerebrale? Queste cose passavano e basta, o si era formato da qualche parte un grosso grumo di sangue che aspettava solo il momento buono per mettersi in movimento e farmi morire? Morire di ictus. Certo, non la causa di morte più probabile, a Everworld. C'erano tanti altri modi, molto più spettacolari, per morire.
Bussai alla porta. Niente. Mi girai, con l'intenzione di guardare fuori dalia finestra. In quel momento sentii un cigolio. Mi voltai e vidi David, in pantaloni, senza scarpe e senza maglietta. «Prestino, direi» commentò. Si sfregò l'occhio sinistro con il dorso della mano e poi faticò a riaprirlo. «Tutto okay?» mi chiese. "Non guardargli il torace!" «David, dove siamo?» «Nel castello di Galahad. O in uno dei suoi castelli. Credo che ne abbia più d'uno.» «Quindi siamo... che cosa siamo? Voglio dire, siamo prigionieri? O siamo ospiti?» "Non guardargli il torace, ho detto. È volgare. È il genere di cose che fanno i maschi." David sollevò le sopracciglia. «Sì. Tutt'e due, immagino.» «Gli altri stanno bene?» «Sì. O meglio, Jalil sì. Christopher si è ubriacato ieri sera al banchetto. Ha fatto a gara con Sir Perceval. Credo che sia nella sua stanza a vomitare. Christopher, voglio dire. E la tua testa? Il medico di Galahad voleva applicarti delle sanguisughe sul collo e sulla faccia. L'ho convinto a non farlo. Spero di non essere stato troppo invadente...» Rabbrividii. «No, no. Ti autorizzo a fermare chiunque voglia mettermi addosso delle sanguisughe, in qualsiasi momento. Oh santo cielo! E adesso... e adesso che facciamo?» David lanciò un'occhiata alle sue spalle, poi abbassò la voce in un sussurro. «Dobbiamo scappare di qui. Sta arrivando Merlino.» Mi misi a ridere e me ne pentii immediatamente per la fitta di dolore che mi esplose nella testa. «Ecco una frase che non si sente dire molto spesso: "Sta arrivando Merlino".» David non rise. Gli si rabbuiarono gli occhi. Sembrò incerto. Assente. Poi vidi la mano che gli scivolava sulla spalla nuda e gli accarezzava il petto. Lei fece capolino dietro di lui, la faccia quasi appoggiata alla sua spalla. Senna.
CAPITOLO VI «Ma bene!» esclamai. «È bello rivederti» mi disse Senna. Uscì dall'ombra, alle spalle di David. Non sapevo cosa dire. Il "Ma bene!" aveva praticamente esaurito tutte le mie risorse. Avevamo seguito Senna a Everworld e da allora non avevamo fatto altro che inseguirla, in un modo o nell'altro. A inseguirla senza sapere veramente perché, senza sapere nemmeno chi o che cosa stavamo inseguendo. Alla fine l'avevamo trovata, o lei aveva trovato noi. Giusto il tempo di eludere le precise domande di Jalil, e poi il drago ci aveva attaccati. Ma poi trovai qualcosa da dire: «David, forse potrebbero darti un'altra stanza. Una stanza senza serpenti.» Senna se ne uscì con quella sua risata beffarda. Poi fece gli occhi sinceri. Come attrice è proprio brava, molto più di me, temo. «April, sei furiosa perché non capisci che cosa sta succedendo.» «Hai ragione. Non capisco» ammisi. «Quindi, perché non me lo spieghi tu?» «Io conosco solo una parte di tutta la storia» mi disse. «Ma quello che so è così... così incredibile, così potente...» Credo di aver alzato gli occhi al cielo. Non volutamente. È la mia reazione automatica quando sento raccontare qualche fesseria: «Va tutto bene» intervenne David, con tono rassicurante. «Non preoccuparti, è solo perché non capisci.» «A te ha già spiegato tutto, David?» Di nuovo il sopracciglio alzato, l'espressione confusa nei suoi occhi scuri. «David sa che quello che sto facendo è importante e che ho bisogno del suo appoggio» mi spiegò Senna con grande serietà. Ma poi scorsi il sogghigno strafottente che si celava dietro la superficie. Non un granché come attrice, ripensandoci. «Dove sono Jalil e Christopher?» chiesi. «Forse loro sono ancora degli uomini.» Voleva essere un insulto. Voleva far imbestialire David, dargli una scossa. Senna sembrava esercitare un misterioso potere su di lui. Era un potere davvero così forte, così inattaccabile?
Gli occhi di David si strinsero. «Non cercare di provocarlo» mi disse Senna. «Non cercare di provocarmi» ripeté subito David. Mi venne un forte senso di nausea. E anche una gran rabbia. Era il suo burattino. E lei riusciva a manovrarlo, con una facilità incredibile. «Credo che andrò a salutare gli altri» dissi. Mi girai avviandomi lungo il corridoio. Sentii Senna muoversi. La sentii che mi chiamava. «Non metterti contro di me, April. Tu pensi che io sia cattiva, che sia malvagia, ma ti sbagli. I veri cattivi sono qui. E io sto facendo tutto quello che posso per resistere. Non voglio piacerti per forza, ma a questo almeno dovresti credere. Vi ho salvato la vita. Perché l'avrei fatto se avessi voluto farvi del male?» Bella obiezione. Aveva parlato con sincerità, con sentimento. Un bel discorsetto. Sembrava provato e riprovato. Mi fermai. «Perché ci hai salvati? Perché hai bisogno di noi. Vuoi usarci. È per questo che ci troviamo qui. Perché hai bisogno di noi per qualcosa.» Indossava una specie di camicia da notte di seta con le maniche ampie, una scollatura molto larga che le lasciava scoperte le spalle e profondi spacchi laterali che le permettevano di mostrare le gambe. Una cosetta che, per puro caso, Sir Galahad teneva nell'armadio? Ma dove l'aveva trovata, una cosa del genere? Sbattei gli occhi e la guardai di nuovo. La scollatura si era alzata. No. Impossibile. E il tessuto era più opaco. Scrollai la testa. Che strano. La mente mi giocava strani scherzi. Allargò le braccia. «Io sono la vittima, qui, April. Sono quella che è stata rapita da Fenrir, portata via. Sono quella che accanto a quel turpe assassino di Huitzilopoctli faceva solo da comparsa. Sono quella che il drago mercenario di Merlino ha cercato di uccidere.» Tornai indietro, principalmente per dimostrarle che non avevo paura di lei. «Come hai fatto a sfuggire a Fenrir?» «Io... non gli sono sfuggita. Cioè, non l'ho voluto io. E successo che...» «Vuoi che ti creda, Senna? Allora inizia a dire la verità.» «La verità è pericolosa per voi. Meno sapete, meglio è. Sto cercando di tenervi in vita, tutti quanti.» Sbattei gli occhi. Era questa la verità? Aveva ragione?
Mi si avvicinò, fece per prendermi la mano, pochi centimetri e mi avrebbe toccata. Forse aveva ragione, forse ero solo una sciocca paranoica. In effetti, non aveva mai fatto niente di male, che io sapessi. Stavo saltando alle conclusioni e... «Non farti toccare!» urlò Christopher. Ritirai la mano di scatto. «È così che fa.» Era dietro di me. Si avvicinò. Mi girai un attimo. C'era anche Jalil. «Sei ancora geloso, Christopher?» lo derise Senna. «Solo perché questa notte ho scelto David per riscaldarmi, e non te?» «Puoi scommetterci che sono geloso. Gelosissimo» ammise Christopher. «Ma questo non cambia quello che sei.» Senna si allontanò da David. Andò all'alta finestra, guardò fuori recitando la parte della persona afflitta da mille pensieri, poi volse gli occhi su di noi. Era l'immagine perfetta della fanciulla abbandonata, della povera bambina smarrita, della dolce creatura di certe foto di moda, stile "qualcuno si prenda cura di me, sono tanto fragile". Capelli biondi e lisci, occhioni grigi e afflitti, labbra carnose. L'unica cosa che le mancava per essere la perfetta ragazza-immagine era lo sguardo stupido e vuoto delle modelle. Bisogna dargliene merito: gli occhi di Senna erano vivaci, penetranti, intensi, brillanti. Famelici. «Niente mani» disse, tenendole alte. «Niente magia. Contenti?» David non sembrava contento. Sembrava a disagio. Sperduto. Un cagnolino cui il padrone avesse ordinato "Resta lì!" e poi se ne fosse andato via da solo. «Okay, siete tutti sottosopra, perché siete finiti qui. Ce l'avete tutti con me perché pensate che abbia in mente qualcosa. Avete ragione, ho in mente qualcosa» disse. «E che cosa?» chiese ragionevolmente Jalil. «Ci saranno dei grandi cambiamenti. Veri cataclismi. L'antico ordine verrà sovvertito, sorgerà al suo posto un ordine nuovo. Il dio degli Hetwan, Ka Anor, è una rivoluzione, un terrore. Io posso cambiare il corso delle cose. Non le posso impedire, ma posso fare in modo che siano buone, invece che cattive. Mi dispiace tanto se non vi piacciono i miei metodi, ma io faccio quello che devo fare.» Per un secondo vacillai.
Poi Jalil, con il suo tono di voce secco, tipo "con-me-non-attacca", commentò: «Non c'è male: un paragrafo intero per non dire assolutamente niente.» «Qualunque cosa io dica, tu la prendi con ostilità e sospetto» gli disse Senna, con tristezza. «E va bene. Presto arriverà Merlino. E Galahad gli darà ciò che vuole: me. Ma poi, come pensate di riuscire a tornarvene a casa?» «Tu puoi farci tornare a casa?» le chiese bruscamente Christopher. «Io, e nessun altro» confermò Senna. «Volete tornarvene a casa, tornarvene alla vita di prima? In modo permanente, voglio dire, senza vagare avanti e indietro come spiriti infelici? Io posso farlo. Ma non se Merlino mi avrà.» Questo era un argomento degno della massima considerazione. Queste parole avevano il timbro della verità. Senna ci aveva trascinato con sé a Everworld. Forse poteva anche riportarci a casa. «Lascia andare David» le dissi. Senna sembrò sorpresa. «Oooh, lo vuoi per te, April?» Alzò le spalle. «Un gusto eccellente. È un ragazzo molto dolce, sotto sotto.» «Non è per questo. Lascialo andare e basta. Dobbiamo riflettere su quello che ci hai detto. E lui è uno di noi.» «Anch'io sono una di voi.» «Lascialo andare.» Le labbra carnose, un po' imbronciate si sollevarono. Un animale che mostra i denti. Poi sospirò, e quel sospiro conteneva una minaccia inespressa: "Noi due ce la vediamo più tardi". «È tutto vostro.» David si sfregò gli occhi come se gli avessero scattato un flash in faccia. Quando allontanò le mani dagli occhi, aveva uno sguardo diffidente. E anche un po' imbarazzato. Si guardò in giro, come se si stesse chiedendo dove fosse finita la sua maglietta. Senna mi puntò il dito. «Ma ricordati una cosa, April: se muoio io, tu non te ne andrai mai più di qui.» Bella, come ultima battuta. Rovinata, purtroppo, dal modo in cui si bloccò, pietrificata, la testa piegata di lato, come ad ascoltare delle voci nella sua testa. Il volto, già bianco, diventò ancora più pallido. Un'emozione ve-
ra, forse l'unica vera emozione che riuscisse a provare, le si dipinse in faccia. La paura. «No» sussurrò. «È qui.» «Chi?» chiese Jalil. In quell'istante, la porta in fondo al buio corridoio si spalancò. Una fila di uomini, bardati con elmi, lunghe picche e spade alla cintura, marciò verso di noi. Un ufficiale incedeva impettito alla loro testa, ma era agitato, teso. E non a causa nostra. Qualcosa era andato storto. Qualcosa di molto brutto stava succedendo. Venne a fermarsi poco distante da noi, gli occhi fissi su Senna, guardinghi. Fece un inchino senza mai perderla di vista. «Il mio signore mi comanda di riferirvi che egli sarebbe onorato dalla vostra presenza nella sala grande.» «Allora, immagino che Merlino sia qui, eh?» gli chiese Christopher. «Grandioso!» «Il mago, sì» rispose il capitano delle guardie. «E il dio.» CAPITOLO VII Mi vennero dati degli abiti per il banchetto. Una veste lunga, tipo tunica. Scollatura profonda, quadrata, tutta sbagliata per le spalline del mio reggiseno. Maniche ampie. In verità, mi preoccupavo che Senna potesse avere un vestito più bello del mio. Stupido preoccuparsi di una cosa del genere, in una situazione simile, con un'ancella tesa, spaventata, che mi aggiustava le spalle e la scollatura. Ma ti vengono in mente strane cose nei momenti più improbabili. Lo considerai un buon segno. Segno che il mio cervello restava aggrappato alla normalità, a dispetto di tutto. Mi infilai lo zaino sulle spalle. L'ancella non gradì, ma non protestò più di tanto. Più che altro continuava a borbottare sottovoce di questo dio che sarebbe venuto al banchetto, e di quello che ne sarebbe venuto fuori, niente di buono, senza dubbio, mormorava. Ci ritrovammo qualche minuto dopo, nel corridoio. I ragazzi indossavano quello con cui erano arrivati: un'accozzaglia male assortita di abiti normali e pelli vichinghe. Solo Senna ed io eravamo state vestite a festa. E, come temevo, lei era più bella di me. Tutto ciò mi provocò una punta d'inquietudine. Che tipo di castello go-
vernava questo Galahad? Teneva abiti da donna negli armadi? Cos'altro avremmo trovato? Un letto rotondo, specchi sul soffitto, film vietati ai minori? Ma non era questa la mia preoccupazione maggiore. Il capitano delle guardie aveva detto che avremmo cenato con un dio. E finora, gli dei che avevo incontrato non mi avevano certamente fatto venir voglia di incontrarne altri. «Un po' presto per il pranzo, e un po' tardi per la colazione» Christopher borbottò. «Che ore saranno? Le dieci? Le dieci e mezzo?» «Brunch, una via di mezzo tra breakfast e lunch» dissi io. «Immagino che, quando un dio si presenta alla porta e dice "Ho fame", si mangi, a prescindere dall'ora» osservò Jalil. «E poi, non hanno esattamente degli orologi, in questo posto.» David era tranquillo e silenzioso. La cosa mi disturbava. Era ancora sotto il controllo di Senna? O era di nuovo se stesso? Lanciai un'occhiata a Senna, al suo profilo. Labbra strette, viso tirato. Aveva paura. Bene, questa almeno era una cosa positiva. Forse. A meno che non ci avesse detto la verità e non avessimo davvero bisogno di lei per fuggire da Everworld. Seguimmo il capitano, affiancati dalle sue guardie. I soldati si tenevano a debita distanza da Senna, lasciavano un vuoto intorno a lei, ma allo stesso tempo la attorniavano. Gli stivali pesanti risuonavano sulla pietra. Le nostre scarpe da ginnastica erano silenziose. Indossavo un abito lungo con le scarpe da ginnastica. Come una casalinga di un sobborgo americano che trascina i figli al supermercato dopo essersi infilata l'ultima cosa pulita che le è rimasta. Marciavamo, nel vero senso della parola, perché è impossibile camminare circondati da uomini che marciano senza mettersi a marciare. Passammo davanti a una finestra che incorniciava una vista di straordinaria bellezza: le onde grigioverdi che si frangevano schiumando contro le rocce, l'oceano, il cielo azzurro. Così bella che avevo il cuore diviso tra un senso di ottimismo ("Cosa mai può andare storto, con un sole così splendente e delle onde così spumeggianti?" pensai) e la cupa sensazione che quella sarebbe stata l'ultima cosa bella che avrei visto. Entrammo a passo di marcia nella sala grande del castello. Granito dappertutto. Non mancava certo la pietra, da queste parti. Pareti, pavimenti, soffitto a volta, tutto di pietra. La sentivi incombere, sembrava togliere l'aria. Le pareti erano state dipinte di color ocra ed erano tappezza-
te di arazzi simili a quello che c'era nella mia stanza. Ma non serviva a molto. Questo salone non sarebbe mai stato caldo è accogliente. C'era un caminetto così imponente che sarei stata contenta di avere una cabina armadio grande la metà. Il fuoco si sprigionava da quello che doveva essere stato il tronco di un albero. Ma il calore non arrivava nemmeno alla massiccia tavola centrale. Faceva freddo nella stanza. Niente di cui stupirsi, visto che eravamo in mezzo a una montagna di pietre e senza vetri alle finestre. Tre cani si aggiravano per la sala, irrequieti, già pregustando il cibo. Non avevo alcun desiderio di coccolarli. Lungo le pareti, ai lati del caminetto, stavano allineati numerosi servitori. Al centro della stanza, tre tavole. La tavola alta, come quella dell'Ultima cena di Leonardo, e due tavole più piccole, disposte ad angolo retto rispetto alla tavola alta. Tutte erano apparecchiate con tovaglie bianche, scodelle d'acqua, una ciotolina d'argento che sembrava contenere sale, coltelli, cucchiai e calici di diverso grado di magnificenza. Alcuni erano coperti d'oro, tempestati di pietre che sembravano rubini e smeraldi, e probabilmente erano rubini e smeraldi, altri evidentemente meno preziosi, finché si arrivava a rudimentali scodelle intagliate nel legno. Dovevo continuare a ripetermi che questo non era un allestimento di scena. Era tutto reale. O, quantomeno, reale come poteva esserlo Everworld. Anche le sedie erano scompagnate, e si andava dalle tre imponenti della tavola alta, stile trono, a bassi sgabelli tipo bar, che sembravano sbozzati nel legno con dei coltellini da burro. Non c'era il minimo tentativo di creare uguaglianza. C'erano la lista A, la lista B e il popolino. O forse Galahad, come tutti i padroni di casa, non aveva altre sedie "buone". Gli sgabelli erano l'equivalente dei seggiolini pieghevoli che si tirano fuori dalla cantina quando arrivano più ospiti del previsto. «Immagino che quello là in fondo sia il posto per noi» osservò Christopher indicando un gruppo di piatti e sedie particolarmente dozzinali. Non eravamo soli nella stanza. Una decina di uomini, quasi tutti barbuti, con i capelli sulle spalle o, in qualche caso, tagliati corti, tutti adorni di almeno un gioiello, un anello o una spilla o un pendente di qualche specie, gironzolavano e parlavano tra loro a bassa voce lanciando lunghe occhiate di traverso.
Le occhiate di traverso erano tutte per Senna. Non erano sguardi cordiali. Le espressioni variavano dal timoroso al lascivo al pensieroso. Erano persone determinate, sicure di sé. Uno in particolare era piuttosto affascinante, carino, direi. Altri erano più vecchi e più rudi. «Percy, amico mio!» vociò Christopher. Uno dei cavalieri gli fece un cenno con la testa, ma si tenne a debita distanza. Eravamo con la strega. «Quello sì che la sa reggere, la birra» ci informò Christopher. «Vedi quello più bello? Sai chi è? Sir Gawain. E quello è Sir Kay e quell'altro è Sir Gareth.» Scosse la testa, in segno di ammirazione. «Troppo forti.» Sembrava che questi nomi dovessero suonarmi familiari, e invece no. Christopher si comportava come se mi avesse appena indicato il cast di una famosissima sit-com. «Ci sediamo?» chiesi. Christopher scosse la testa. «L'abbiamo fatto la prima sera qui al castello. Uno spuntino leggero, ma da bere alla grande. Bisogna aspettare che arrivino quelli importanti. Galahad entra per ultimo. È casa sua. Solo allora ci possiamo sedere. Beviamo. Mangiamo. Buttiamo roba sul pavimento. Parliamo di donne e ridiamo a crepapelle. Ti piacerà. Tipo la caffetteria della scuola in prima superiore.» Jalil rifece le presentazioni in tono più pacato, ovviamente altrettanto impressionato di Christopher. «Questi cavalieri sono Sir Perceval, Sir Kay, Sir Gawain...» Finalmente mi si accese una lampadina nel cervello. «Ma che cosa sono, i cavalieri della Tavola Rotonda?» «Esattamente» confermò Jalil. «I cavalieri della Tavola Rotonda. I ragazzi di Re Artù.» «E che ci fanno a Everworld? Loro non sono immortali. Non sono divinità.» «Ehi, servirà pure qualcuno che salvi le fanciulle e uccida i draghi...» intervenne Christopher. Jalil soffocò un sorriso. «Perché non lo chiedi a loro, April? La mia unica speranza è che finalmente potremo avere delle risposte. Mangiamo con Merlino, Galahad, i cavalieri della Tavola Rotonda e un dio misterioso. Dovremmo quantomeno riuscire a farci un'idea più precisa.» «Sono leggende, non divinità» rifletté Christopher, riprendendo la mia obiezione. «Ma allora, se anche le leggende sono qui, incontrerò Michael
Jordan prima o poi?» David se ne stava zitto e tranquillo, sprofondato in se stesso. Senna se ne stava in disparte, fissava il fuoco, si difendeva dalla occhiate dure di cui eravamo oggetto. Sembrava nervosa, in attesa di qualcosa. Spaventata da qualcosa. Personalmente, io ero divisa tra due sentimenti, paura e qualcosa di molto più primordiale, fame. Stavo morendo di fame. Stavo morendo di fame e non avevo niente di preciso di cui aver paura. Per ora. Una grande porta in fondo alla sala si spalancò. Ed ecco entrare il vecchio con i capelli e la barba che un tempo erano stati biondi. Indossava una veste, blu scuro, ma non quelle assurde ciabattine a punta che ci si aspetterebbe di vedere ai piedi di un assurdo mago da libro. Portava stivali incrostati di fango con i calzoni infilati dentro, anch'essi sporchi di fango e ancora bagnati. Aveva una spada al fianco. Merlino. Lo avevamo già incontrato, brevemente, nel tempio di Huitzilopoctli. Altre cose ci erano parse più importanti, allora. Avrei dovuto chiedere a Magda di lui. O cercare in qualche libro. Qualcosa. Questi uomini erano tutti dei miti, delle leggende. Ma erano abbastanza reali, qui e ora. Reali, e con armi reali. I cavalieri gli fecero un cenno con il capo, con eccessiva disinvoltura, per dimostrare che lo rispettavano ma non lo temevano. O così credevano loro. La paura traspariva dal modo in cui facevano largo al vecchio, e arretravano di mezzo passo senza rendersene conto. È una cosa che si impara studiando recitazione. Si osservano i messaggi non verbali. È quello che dà profondità a un'interpretazione. I cavalieri sembravano tutti disinvolti. Ma dietro alle parole facili e al tono cordiale vedevi facce contratte, corpi piegati di qualche grado per proteggere gli organi vitali, un inconsapevole ritrarsi. Merlino li preoccupava. Con una sola occhiata il vecchio colse tutto questo. Divertimento sotto le sopracciglia cespugliose. Poi guardò verso di noi. Senna fece un respiro lento e profondo e si girò verso di lui. «Non credo che ci conosciamo» gli disse. «Il mio nome è Senna Wales.» Protese la mano per stringerla a Merlino. La bocca del mago si contrasse in un fugace sorriso. Fece un passo avanti e le prese la mano. La tenne nella sua. Delicatamente, senza stringere. Senza minacciare. Come un anziano signore galante prenderebbe la mano
di una giovane donna. Gli occhi di Senna si abbassarono, le palpebre quasi chiuse. Merlino la guardava dritto. Il momento fu interminabile. Poi, con il respiro affannoso, Senna si staccò da lui. «Non sprecare i tuoi trucchetti con me, incantatrice» le disse Merlino. «Io facevo incantesimi già mille anni prima che tu nascessi.» Senna tremava. Si guardava la mano come se si fosse trasformata in un serpente. E magari era vero, almeno ai suoi occhi. «Un punto per Merlino» commentò Christopher. «E fanno tre a zero per lui.» Il gruppo dei cavalieri si mosse. Stava entrando qualcun altro nella sala. E questa volta i cavalieri non cercarono nemmeno di nascondere la paura. Mi alzai in punta di piedi per vedere. Era Galahad. Bello, ammisi a me stessa, davvero bellissimo, anche senza armatura. Poi Sir Kay si spostò un po' a sinistra e vidi la persona che aveva a fianco. Mi si fermò il cuore. Letteralmente. Bum. Bum. Bum. Pausa. Silenzio. Qualche secondo e il sangue tornò a scorrere, gli occhi si dilatarono, lo stomaco si contrasse. Loki. Loki. Il dio nordico del male e della distruzione. Ci aveva tenuti prigionieri, a penzolare con le catene ai polsi dalle mura esterne del suo castello. Ci aveva condannato a morte, per mano dei suoi troll. O così aveva creduto. Era bello, stranamente. Capelli biondi e lucidi, zigomi alti, denti perfetti. Avrebbe potuto essere un modello. Avrebbe potuto essere una star del cinema. Portava una tunica verde con una cintura incastonata di gioielli, i gioielli di tutta una gioielleria. Portava gambali di pelle scamosciata e stivali alti di vitello. Un Vichingo appena uscito da una boutique d'alta moda. Abiti a pennello, di perfetta fattura, perfettamente lavati e stirati, e una faccia non da meno. Sembrava scolpito nel marmo, impeccabile, senza età. «Bene bene. E adesso siamo proprio nei guai» sussurrò David. «Loki» disse Senna, ma senza traccia di stupore o di sorpresa. «Sì» disse Merlino. «Loki ci ha onorati della sua presenza. Sarà sicuramente un pranzo molto interessante.» Si guardò in giro, ma non più con a-
ria divertita: guardò i cavalieri, mi parve, uno per uno. E con un tono di voce molto più basso disse, quasi tra sé: «Chissà quanti di loro vivranno abbastanza da riuscire a vedere un'altra alba che sorge.» CAPITOLO VIII «Ci hanno incastrati!» sibilò David mentre la sua mano scattava verso la spada di Merlino. Merlino sghignazzò, riscotendosi dal suo umor nero. «Vuoi sguainare una spada nella dimora di Galahad? Ah ah ah! Ecco, sciocco, prendi pure la mia. La riavrò molto presto.» «Stai calmo, David» gli dissi, brusca. «Cerca di non farti ammazzare per colpa di Senna.» «Cibo!» ordinò a gran voce Galahad, incurante di noi. I servitori accorsero, portando grandi vassoi ricolmi di carne. Maiali interi, quarti di bue, grosse fette di montone, un cervo con tanto di corna, montagne di quaglie, di polli e altri volatili di piccola taglia che per forma e dimensione mi ricordavano i piccioni. Enormi pagnotte di pane croccante. Pane. Dieci tipi diversi di carne. Non una verdura in vista. «Ah, cameriere, la signora, qui, gradirebbe un'insalatina verde con aceto balsamico» sussurrò Christopher al mio orecchio. «E non avreste per caso del tofu?» Scherzava, a due passi da Loki. Loki, che aveva ordinato di farci ammazzare. I presenti sciamarono ai tavoli. Tutti sembravano sapere dove prendere posto. Tutti, tranne noi. I cavalieri si lasciarono cadere pesantemente vicino a Galahad, Merlino e Loki, che avevano i posti d'onore. Non erano affatto contenti di essere vicini a Loki. Nessuno era contento che Loki fosse qui. Questo sembrava divertire il dio, che mandava sorrisi compiaciuti a destra e a manca. Noi occupammo delle piccole seggiole a una delle tavole laterali. Mi vennero in mente i pranzi in famiglia per il Ringraziamento, quando noi bambini dovevamo sedere alla tavola dei piccoli. Con la differenza che, qui, il servitore che si avvicinò riempì con del vino rosso la mia umile tazza di legno. E con la differenza che, qui, i posti dove si sarebbero seduti i miei nonni erano occupati da un cavaliere della Tavola Rotonda, un mago e il dio nordico del male.
Ero contenta di essere lontana da loro. Tra me e Loki c'era un certo numero di uomini dall'aspetto pericoloso. Sicuramente non era abbastanza, ma sempre meglio che stare spalla a spalla con lui. Avrei senz'altro preferito essere a casa mia, nel mio mondo, lontano dalla creatura bella e malvagia che sedeva sorridendo a tutti con arroganza, come lo zio arricchito ai parenti poveri. Merlino sedeva alla sinistra di Galahad. Loki alla sua destra, al posto d'onore. Guardai Senna. Non potevo farne a meno. Lei apparteneva a tutto questo. Noi no. Io no. Come facevo a sapere cosa fare, come muovermi, o addirittura cosa temere? Ma Senna sembrava preoccupata almeno quanto me. Più di me. Una minuscola vena le pulsava sotto la pelle trasparente della tempia. I muscoli della mascella si contraevano ritmicamente. La gola inghiottiva polvere. "Me ne devo ricordare" mi dissi, improvvisando una lezione di teatro "se reciterò una scena in cui devo esprimere un misto di paura e confusione, unite al desiderio spasmodico di riprendere un minimo di autocontrollo". Galahad e Loki, il cavaliere e il dio, erano uno studio artistico sulla bellezza maschile. Entrambi erano splendidi. Avrebbero potuto essere fratelli. Nel mondo reale avrei pensato che erano gay, troppo perfetti, troppo curati nei minimi dettagli, i denti, i capelli, le unghie delle mani. Ma a parte la bellezza, non avevano nient'altro in comune. Galahad era calmo e sicuro di sé. Parlava sempre a bassa voce, se si esclude quell'ordine urlato di servire il cibo. Teneva spesso gli occhi bassi, non perché fosse triste, ma perché era attento e pensoso. Sorrideva, ma non per deridere, solo per accogliere. Sedeva dritto sulla sedia, le braccia aperte sulla tavola, invitanti. Si metteva alla pari dei suoi ospiti, almeno con il linguaggio del corpo. Quando parlava, guardava negli occhi la persona alla quale si rivolgeva, ascoltava attentamente, annuiva in segno di approvazione. E tuttavia in lui non c'era nulla di passivo, non si sforzava di rendersi gradito agli altri. Non era indifferente ai loro sentimenti, ma non aveva alcun dubbio sul proprio ruolo, su quello che rappresentava. Riempiva completamente il suo spazio e quasi sembrava irradiare verso l'esterno, un sole al centro dei pianeti orbitanti intorno a lui. Mi chiesi quanti anni avesse. Avrebbe potuto avere vent'anni. Forse me-
no. Una matricola all'università. Impossibile, naturalmente. La sua età, l'età della sua faccia, dei suoi tratti, non era reale. E tuttavia, a mettergli addosso un paio di jeans sdruciti e un maglione largo, e in mano un libro di poesia, a metterlo in una libreria o in una caffetteria, avrebbe potuto chiedermi di uscire con lui. Loki era tutta un'altra cosa. Irrequieto, quasi schizzato, gli occhi dardeggianti, la bocca che si piegava in fugaci sorrisetti a ogni pensiero maligno che gli passava per la mente. Era un dio, momentaneamente ridotto a proporzioni quasi umane, forse due metri di altezza. Era più alto di chiunque altro, più grande, più potente, e tuttavia, per qualche strano e indefinibile motivo, sembrava più piccolo rispetto a Galahad, che pure non arrivava al metro e ottanta. Avresti potuto fargli qualsiasi cosa, vestirlo in giacca e cravatta, in tuta da ginnastica, con l'uniforme della polizia, con la tonaca di un prete, e avresti comunque sentito il desiderio di stare lontano da lui: cambiare posto nello scompartimento del treno, metterti in coda in una fila diversa dalla sua, andare in un'altra direzione. «Mi devo scusare per questo povero cibo alla buona» gli disse Galahad. «Avrei fatto preparare un banchetto forse più degno di un dio, se avessi saputo che ci avresti onorato della tua presenza.» «Non preoccuparti» disse Loki. «Sono un dio semplice.» Vidi la faccia di Christopher illuminarsi, sicuramente aveva pronta una delle sue battute. Grazie al cielo, ci ripensò. Il cibo cominciò a girare. La conversazione si animò. I cavalieri parlavano con Galahad, lui parlava con loro. Noi, sostanzialmente, venivamo ignorati. «Se non altro oggi ha una taglia quasi normale» disse Christopher, indicando Loki con un cenno del capo. Senna prese la mano di David. Io mi alzai, spostai la sedia e mi misi a sedere in mezzo a loro due. Questo produsse un lieve cenno di assenso da parte di Merlino. «Dobbiamo scappare» mi sibilò Senna. David diede un'occhiata rapida e attenta alla stanza. «Quella finestra» sussurrò. «Potremmo saltare.» «Vai, vai, furbone» Christopher gli disse. «Quello là seduto è solo Galahad. E se anche riuscissi a schivarlo, ti troveresti addosso Loki e Merlino. Sei un insetto, qui, amico. Non ce n'è uno in questa stanza che non potreb-
be schiacciarti e ridurti in polpette.» David guardò Senna in cerca di consiglio. «Sì, buona idea, questa, chiedi a lei! Ha fatto tutto così bene, finora.» La carne girava sulle tavole, i piatti si riempivano, i bicchieri si colmavano e tutti ci davano dentro di buona lena, con i coltelli che rimandavano i bagliori del fuoco e le bocche aperte, che masticavano, masticavano, masticavano. Tutti, tranne me e Senna. Galahad si piegò in avanti e mi guardò preoccupato. «Milady non si sente bene?» «Cosa?» squittii. «Chi? Io? Ah... intendete perché... be'... ecco, a dire il vero io non mangio carne. Di solito.» I cavalieri restarono un po' sconcertati da questa mia balbettante dichiarazione. Solo Galahad non si stupì. «Non avete che da comandare» disse semplicemente «e, se è cosa che si può trovare in qualunque angolo delle mie terre, sarà vostra.» Mi sorrise. Gli sorrisi. Okay, sì, lo ammetto, tutto d'un tratto mi scioglievo come un pupazzo di neve al sole. Ma aveva un sorriso... due occhi... «Non ti ha chiesto di sposarlo, di andare a vivere con lui in una villa in stile vittoriano e fare tre bambini» mi disse ironicamente Christopher, a voce abbastanza alta da farsi sentire da mezza tavolata. «Mmm... il cibo. Oh! Non preoccupatevi per questo, signore... Voglio dire, non sono una vegetariana radicale, mangio uova e formaggio, per esempio. Insomma per me è più una questione di violenza sugli animali...» Sono molto disinvolta quando formulo dei pensieri, ma quando li devo esprimere a parole... «Ma bene, fagli pure una lezione sulla filosofia vegetariana» cominciò a mugugnare Christopher. «Poi, magari, potresti spiegargli anche...» Gli diedi un calcio negli stinchi facendogli andare di traverso un pezzo di prosciutto. «Formaggio! Uova!» urlò Galahad. Christopher tossì, diventò paonazzo, e finalmente sputò il boccone, con l'aiuto di una sonora manata sulla schiena da parte di Jalil, e intanto le uova e i formaggi iniziarono ad arrivare. Erano uova di uccello, sode. Il pane era molto buono. Il formaggio era molto simile all'emmenthal. «Il montone è eccellente» disse Loki. «Ne abbiamo troppo poco nel mio paese. Devo fare in modo che il mio popolo industrioso e adorante importi
più ovini.» Improvvisamente il volume delle conversazioni, che si erano fatte piuttosto chiassose, si abbassò. Le sedie si spostarono. Gli uomini appoggiarono bene i piedi, pronti a muoversi rapidamente. Era come nei vecchi film western, quando il cattivo entrava nel saloon oppure offriva da bere all'eroe buono. E tu sai già che quello avrebbe rifiutato. E sai già che il cattivo attaccherà briga. E tutti gli avventori intanto stanno pensando: "Come faccio a schivare le pallottole?". Le parole di Loki sembravano del tutto innocue. Affabili, persino. Ma in questa stanza piena di uomini violenti, era stato mandato un segnale, ed essi l'avevano riconosciuto immediatamente. La violenza, mai troppo lontana, fu all'improvviso molto vicina. CAPITOLO IX «Sarò felice di ordinare al mio amministratore di organizzare una spedizione per mare di pecore da monta» gli disse Galahad, con il suo garbato sorriso. «Grazie, grazie, sei molto gentile» disse Loki. «E... odio approfittare ancora della tua cortesia, ma gradirei molto riavere al contempo anche la mia strega.» Le ultime conversazioni morirono. Le parole iniziate restarono a mezzo. Tutti gli occhi si fissarono su Galahad. «La strega non è mia, in modo che io possa consegnartela, Grande Loki» gli disse con calma Galahad, ficcandosi in bocca un pezzo di maiale grosso come un pugno. «Eppure è seduta alla tua tavola.» «È mia ospite.» I modi cortesi di Loki stavano finendo. «La tua ospite è una mia proprietà, Sir Galahad.» Merlino sputò un nervetto e tracannò un lungo sorso di vino. «Sono curioso, Grande Loki» disse. «Ma come intendi servirti della strega?» Loki rispose con un sorriso forzato. «Quello che faccio con ciò che è di mia proprietà è affar mio, mago.» Merlino annuì. «Nel castello di Galahad, ogni questione è affar suo.» «Non provocarmi, vecchio impiccione» ruggì Loki iniziando a gonfiarsi,
a crescere: non tanto, appena un po'... giusto un venti per cento in più rispetto a prima. L'allegro banchettare rallentò. Tutti i cavalieri sapevano esattamente dov'era l'elsa delle loro spade, sapevano esattamente quanti decimi di secondo sarebbero occorsi per raggiungerla, impugnarla, sguainare la lama, colpire. Galahad alzò un dito, un lieve segnale per i suoi cavalieri: "Aspettate". David fissava un coltello da portata che spuntava dalla testa di un cinghiale selvatico cotto al forno. «Forse dovremmo chiedere alla strega che cosa preferisce fare lei» disse con calma Merlino, completamente indifferente all'esibizione di Loki. «Se lei desidera venire con te, Grande Loki...» Il pugno gigantesco di Loki calò con forza sul tavolo, facendo saltare i piatti. La carne morta tremò. Le coppe traboccarono. Sir Gawain imprecò, allungò un braccio e afferrò un servitore, per farsi riempire di nuovo il bicchiere. «Questa è la mia dimora, Grande Loki» disse Galahad, pacatamente. «E tu sei mio ospite.» Loki balzò in piedi, diventando ancora più grande e minaccioso. «La strega è mia! Mia! Sono stato io a prenderla, a farle attraversare la barriera tra i due mondi. È mia, per diritto di conquista.» «Tu intendi usarla per distruggere il nostro mondo» gli disse Merlino. «Questo fa di lei una questione che ci riguarda tutti.» «Distruggere?» gridò Loki. «Distruggere? Pezzo d'asino, Everworld è già distrutto. Pensi che riuscirai a tener testa a Ka Anor, quando arriverà? Thor non c'è più. È andato a combattere contro Ka Anor e da allora non si è più visto. Credi di poter fermare la creatura che si è mangiata Thor e che ha sputato via il suo martello?» All'improvviso la posa da vecchio, stanco della vita, che aveva Merlino sparì. Strinse il pugno e fissò con durezza il dio che incombeva su di lui. «Ti avevo avvertito, Loki. Ti avevo avvertito che avremmo potuto farcela solo se fossimo rimasti uniti. Se tutti gli dei, se tutti i loro poteri si fossero uniti, insieme avremmo potuto...» «Uniti? Il tuo grande sogno, Merlino, un mondo di unità e di pace, sotto un'unica guida. Ci hai già provato una volta. E dov'è finito Artù, adesso? È morto. Morto per tua stessa negligenza. E tuttavia continui a predicare la tua solita, trita visione: Everworld unito, tutti per uno, per combattere contro Ka Anor. Ma io non seguo nessuno. Io non obbedisco a nessuno. Io so-
no un dio!» «È l'unico modo!» gridò Merlino. «Ka Anor li divora... gli dei, vi ucciderà tutti, uno per uno, e gli Hetwan stermineranno tutti i popoli liberi, e quella sarà la fine di Everworld. Insieme, abbiamo una possibilità. Vichinghi e Greci, Maia e Aztechi ed Egizi, Celti e Britanni e Africani e, sì, quelli come i Coo-Hatch che si uniranno a noi. Tutti uniti, potremmo...» «No. C'è un altro modo» esclamò Loki puntando il dito su Senna. «Così come siamo venuti a Everworld, possiamo tornarcene al Vecchio Mondo. I mille anni della profezia sono quasi trascorsi. Lasciamo Everworld a Ka Anor. Lasciamolo agli invasori alieni. Noi possiamo fuggire. Possiamo fuggire, tramite lei! Non sono avido, Merlino. Potrai venire anche tu. Tutti gli dei saranno i benvenuti.» Allargò le braccia come un uomo che è stato frainteso e chiede di essere ascoltato. «I figli di Zeus saranno i benvenuti; Quetzalcoatl e Huitzilopoctli; Iside e Osiride; e tutti gli immortali, tutti benvenuti, tutte le ruggini dimenticate. Anche i tediosi adoratori di alberi come te potranno venire, Merlino. Un mondo migliore di questo. Il Vecchio Mondo. Datemi solo la strega e ce ne andremo tutti da Everworld, e sigilleremo la porta dietro di noi.» Galahad alzò gli occhi verso Loki, divenuto un gigante alto tre, quattro metri. «La strega è mia ospite, Grande Loki. E Merlino vanta dei diritti su di lei. Questa non è una decisione che prenderò avventatamente. E non mi lascerò condizionare dalle tue minacce.» Loki si piegò per portare la faccia enorme, i denti scoperti in un ringhio feroce, davanti a quella di Galahad. «Dicono che tu sia il cavaliere perfetto. Ma io sono un dio. Non opporti a me. I miei poteri sono molto grandi.» «Sei molto lontano da casa tua, Loki» gli ricordò Merlino. «Le cose si mettono male, molto male» sussurrò David. «Sta per scoppiare un inferno, qui. Avranno troppo da fare per badare a noi. Quando iniziano le danze, ce la filiamo.» Non sapevo se l'idea venisse da Senna o da lui, ma, comunque fosse, David aveva proprio ragione. Loki sorrise a Merlino. Concentrò tutta la sua malevola attenzione sul vecchio. E poi, all'improvviso, alzò il braccio, colpì Galahad con un manrovescio e lo mandò per terra a gambe all'aria. CAPITOLO X
I cavalieri balzarono in piedi, sguainarono le spade con un unico risonante clangore. David si gettò sul coltello e lo strappò via dal maiale. «Andiamo!» Galahad rotolò, si pulì il sangue dalla bocca, si rialzò in piedi, sguainò la spada, tutto in un solo fluido movimento. All'improvviso era un uomo diverso. Il sorriso era sparito. Gli occhi pensosi ora erano feroci, selvaggi, esaltati. Loki rise, con l'arroganza di chi è convinto di avere già vinto. Merlino se ne stava in disparte e teneva le mani alzate, come in preghiera. Con voce forte, limpida, pronunciò queste parole: «Morte alla vita, vita a chi è morto, alzatevi, animali del bosco, alzatevi, animali del campo, alzatevi, animali del cielo, dimenticate la vostra natura e diventate lupo, per uccidere il lupo.» E in quel momento, il cinghiale selvatico, il maiale zannuto dalle costole scarnificate, dalle interiora già divorate, scalciò. Il cinghiale rotolò sulla schiena, si mise in piedi sui minuscoli zoccoli, saltò giù dalla tavola e caricò Loki. Non fu il solo. Tutte le creature morte, maiali, uccelli, pecore, capre, tornarono di colpo a una forma di vita orrenda. Pelle abbrustolita che crepitava, ossa annerite che cozzavano tra loro, orbite vuote che fissavano... si alzarono, si alzarono dai vassoi sulle poche ossa scricchiolanti e caricarono il dio nordico. Un cervo, sbudellato, le ossa delle zampe scarnificate, le corna incrinate e bruciacchiate dal fuoco, balzò giù dalla tavola, su zampe che erano ossa e brandelli di carne. Tutte queste orrende creature caricarono Loki, lo assalirono, lo attaccarono, gli volarono sulla faccia, lo costrinsero a colpire all'impazzata, a scacciarli via, e ogni volta tornavano all'attacco. Noi eravamo raggelati. La fuga, interrotta. Come potevo correre? Come potevo muovermi? C'era lì un vecchio che aveva appena riportato in vita degli animali morti! Ma Loki era ben lontano dalla sconfitta. Anche se le bestie continuavano ad attaccarlo, a morderlo, a graffiarlo, a incornarlo, a beccarlo sugli occhi, egli combatteva. Con un unico, poderoso pugno buttò a terra Gawain e Kay. Galahad gli si avventò contro, la spada sollevata, ma Loki bloccò la la-
ma con la mano nuda. Dalla mano del dio colò sangue nero che, colando, gelava, e nel momento in cui colpiva il pavimento tintinnava come ghiaccio a cubetti. Ma la lama non tagliò in due la mano di Loki. Il dio ruggì di dolore e alzò la spada, con Galahad appeso. Galahad si aggrappò con forza all'elsa, dondolò avanti e indietro per acquistare slancio e con i piedi colpì violentemente Loki sul petto. Il dio vacillò sotto tutti questi assalti. La mano sinistra agguantava gli animali e li schiacciava, uno per uno, li spezzava, li stritolava, finché dalla carne croccante non gocciolava il grasso sul pavimento. Con la destra teneva sospeso Galahad, aggrappato alla sua spada, inerme. Il sangue di Loki gocciolava sul viso di Galahad rivolto verso l'alto, e il dolore era lancinante. Perceval spinse la spada nella coscia di Loki, facendolo urlare di rabbia e di dolore. Merlino osservava, preoccupato, ma non ancora domo. «Albero tagliato, albero invecchiato, cresci ancora al comando di Merlino. Ora.» I tavoli, semplici assi di legno grezzo, si animarono. Una scena terribile. Come nei documentari sulla natura, vedemmo ramoscelli spuntare e germogliare, strappando le tovaglie. Si schiusero fresche foglioline verdi, i rami crebbero a velocità incredibile protendendosi verso Loki, gli si legarono alle gambe, lo imprigionarono in un groviglio di quercia viva. Tutti gli altri cavalieri, ripresisi dallo shock iniziale, entrarono in azione con le loro spade contro Loki, attenti a evitare Galahad. Loki diede uno scossone alla spada di Sir Galahad costringendo il cavaliere a mollare la presa, mulinò la spada come un giocattolo, e tale infatti sembrava nella sua mano enorme; poi conficcò la lama in petto a Perceval, inchiodandolo al pavimento di pietra, come una rana da laboratorio pronta per la dissezione. Il sangue sprizzò, Perceval gridò per l'atroce dolore, Galahad per l'orrore. David uscì dal suo stato di trance. «Ora! Andiamo!» Prese Senna per un braccio e la spinse via. Lei si girò un'ultima volta a guardare la scena, affascinata. Jalil sembrava sul punto di vomitare, Christopher era vicino all'isteria. Corremmo verso la porta mentre Loki urlava, rabbioso: «Ti ucciderò, mago!»
E la sua voce fece tremare il pavimento di granito sotto i nostri piedi. Raggiungemmo la porta, lasciando finalmente la battaglia alle nostre spalle. C'erano degli armigeri di guardia, paralizzati, ipnotizzati. Ma uno di loro ebbe la presenza di spirito di abbassare la lancia per bloccarci la strada. «La strega resta!» disse. David si mosse con rapidità, si avvicinò all'uomo, sotto il raggio d'azione della lancia, e gli puntò alla gola la lama sporca del suo coltello. «Noi ce ne andiamo.» «Io obbedisco solo a Sir Galahad, al mio signore.» Senna gli toccò la mano, stretta intorno alla lancia, e vi premette sopra la sua. «Questa è una lotta tra maghi e dei» gli disse «non è affar tuo.» La guardia sbatté gli occhi. «Non è affar mio.» David lo spinse da parte e spalancò la porta. Eravamo fuori. CAPITOLO XI Via a gambe levate lungo il corridoio. Incrociammo numerosi uomini che correvano verso di noi, stivali pesanti, spade sguainate, armature sferraglianti. Correvano, spaventati, ma correvano verso la battaglia, in aiuto del loro signore. Subito dietro i servitori, carichi delle armature e delle armi dei rispettivi cavalieri. Come se ci fosse stato tempo per la vestizione. Come se ci fosse stato tempo per qualcos'altro che non fosse morire. Li lasciammo passare, corremmo ancora un po'. Non era la nostra battaglia. Non era un nostro problema. Non era nemmeno la nostra vita, il nostro universo. Da qualche altra parte io, la vera April, ero in classe o a casa o in macchina e facevo cose normali. Le mie cose, del mio mondo. Là non scappavo in preda al terrore dalle immagini di maiali mezzi mangiati e di pecore con i denti spezzati dal fuoco che mordevano un dio sanguinante ghiaccio nero. «Dove andiamo?» chiese Christopher. «Basta che sia fuori dal castello» disse David. «A me sta bene» replicò Christopher. Una forte esplosione mi fece cadere sulle ginocchia. Sentii un forte dolore. Le orecchie mi fischiarono. Cercai di rialzarmi, confusa. Mi guardai intorno. Tutti a terra, tutti che cercavano di rialzarsi.
Il vestito si era strappato. Notai quel particolare assolutamente irrilevante. Il ginocchio sanguinava. Era da quando avevo quattro anni che non mi sbucciavo le ginocchia. Ero caduta dalla bici e avevo pianto. Papà mi aveva consolata. Un altro universo, non qui. Mi rialzai: tremavo, ma stavo in piedi. Corremmo ancora. Difficile correre, il vestito mi impicciava. Un corridoio. Un altro corridoio. Scale. Giù, sempre più giù. Il vestito infagottato tra le mani per correre meglio. Le mani impicciate, meno equilibrio. Dov'era l'uscita, in questo posto? «A sinistra!» urlò Jalil. «Come fai a saperlo?» gli chiese David. «Gira a sinistra e basta.» A sinistra. Un altro corridoio, una porta sulla destra, profilata dalla luce del giorno. «Di qua!» urlò Jalil. La porta era chiusa a chiave. David la scosse, Christopher la scosse, la prese a calci, imprecò. Vedevamo la luce del sole e volevamo essere fuori, all'aria aperta. «Ehi! Excalibur!» esclamò Christopher. Per un attimo nessuno capì. Poi Jalil schioccò le dita: «Il coltellino!» Eravamo incappati in un gruppo di Coo-Hatch e avevamo scambiato un libro di chimica con una lama nuova per il minuscolo coltellino svizzero di Jalil. Una lama in acciaio Coo-Hatch. "Excalibur" la chiamava Christopher, per ridere. Jalil aprì la lama, con lentezza, con esagerata attenzione. L'acciaio CooHatch taglia qualsiasi cosa. «I cardini» dissi. Due massicci cardini di ferro. Una lama comune non li avrebbe nemmeno graffiati. Ma Excalibur li tagliò come se fossero fatti di burro. «Attenti!» La porta cadde verso l'interno. Luce! E via di corsa. Ci trovammo in una corte: cavalli nervosi e agitati in un recinto, armigeri con gli occhi fissi sul mastio del castello, un'imponente torre quadrata che dominava tutta la corte. La cima della torre era sparita, esplosa. Le macerie erano ovunque. La battaglia si era spostata. E Loki era cresciuto ancora. Adesso era alto forse quattro o cinque metri, più del doppio dell'altezza di un uomo. Era ferito,
sanguinante, piaghe nere sulle braccia. E la faccia crudele da divo del cinema. Ma non era morto. Ma poi, era possibile ucciderlo? Galahad era in equilibrio precario su un muro crollato, a un passo da un salto di trenta metri. In piedi, senza armatura, la spada impugnata con entrambe le mani, il cavaliere combatteva strenuamente contro il mostro torreggiante. Sanguinava. Il suo sangue era rosso. I capelli neri ondeggiavano al vento. Le braccia muscolose erano tese e sudate, mentre combatteva contro un nemico infaticabile. Merlino non si vedeva, ma guardando meglio vidi un corpo, un corpo che un tempo era stato Sir Perceval, scagliarsi nella mischia, la spada mulinante in aria. Anche Sir Kay combatteva, sebbene già morto. Muoveva la spada con una mano e con l'altra si teneva la testa sotto il braccio. La testa mozzata gridava senza produrre suono, la bocca spalancata. Ero di gelo, come il sangue di Loki. I cavalieri morti avevano rimpiazzato gli animali morti. Opera di Merlino. Christopher guardò Senna, scoprendo i denti in segno di sommo disprezzo. «E tu credevi di poter stregare il tipo che sa fare tutto questo?» Senna tremava. Forse era solo furiosa. Ma sentivo, volevo sentire, che aveva appena ricevuto una bella lezione sulla sua debolezza. Una dimostrazione sul significato di "potenza" a Everworld. CAPITOLO XII David puntò il dito verso le mura. «La porta del castello» gridò. «Da quella parte. Di là, usciamo di là!» Forse era ancora sotto l'influsso magico di Senna, forse non potevo fidarmi di lui, ma aveva un modo tutto suo di restare concentrato su quello che era più importante. Afferrò Senna e la trascinò via dallo strano spettacolo di quella lotta. «A piedi?» gridai. «Dovremmo prendere i cavalli.» «Non c'è tempo» replicò David. «Guadagniamo tempo adesso, ma lo perdiamo dopo» obiettai, con il fiato corto. «Prendiamo i cavalli. O ci prenderanno loro.» David esitò. Senna mi guardò dritto in faccia.
«Io non vado a cavallo.» «Be'... provaci. Ti insegno io.» «David» disse lei, toccandogli la mano «io non vado a cavallo. Nessun cavallo mi porterà mai in groppa.» E all'improvviso mi ritrovai molto lontana da lì, nel tempo e nello spazio. Avevo dieci anni. I miei genitori avevano ceduto alle mie insistenze e mi avevano portato a lezione di equitazione. Era venuta anche Senna. La prima volta a cavallo, per entrambe. Per me, fu la cosa più facile, più naturale del mondo. Ma per Senna... «Mi dispiace, gente» si era scusato lo stalliere. «Non ho mai visto niente del genere. Neanche la vecchia Mary Belle sembra voler fare avvicinare vostra figlia. E Mary Belle è la cavalla più buona che abbia mai avuto.» Fissai Senna. Lei mi restituì lo sguardo, in atto di sfida. «Che cosa vuol dire "Nessun cavallo mi porterà mai in groppa"?» le chiese Jalil. «Puoi salire su un cavallo, oppure andare a piedi.» «Cerchiamole una scopa, magari sa volare» commentò Christopher. «Sta dicendo la verità. Scordiamoci dei cavalli» dissi. «Scordiamoci di Senna, invece» ribatté Jalil. «Lei dice di essere l'unica via che abbiamo per tornare a casa. Ci serve» ragionai. «Ogni parola che le esce dalla bocca è una bugia» osservò Christopher. «Volete rischiare? Volete lasciarla a Loki?» Fu allora che vidi Galahad cadere. Il pugno di Loki colpì il braccio con cui teneva la spada e gli fece perdere l'equilibrio. Galahad, sbilanciato indietro, mulinò le braccia nel vuoto, il piede sinistro poggiò sul niente. E precipitò. «Addio, perfetto cavaliere» esclamò Loki. Galahad stava precipitando. Ma poi iniziò a rallentare. Cadeva sempre più lentamente. Si girò a mezz'aria e si preparò ad atterrare delicatamente sui piedi. Merlino, naturalmente. Ma ora Galahad era fuori combattimento. Erano rimasti il mago e il dio, l'uno contro l'altro. «Al diavolo i cavalli, il nostro tempo è scaduto» disse Jalil, e si diresse verso la porta del castello. Uscimmo. Attraversammo il ponte levatoio sul fossato. Il castello era stato costruito a picco sul mare. Declivi erbosi di un verde intenso scendevano verso le scogliere che si rompevano in cumuli di rocce
frastagliate. Nessuna via di fuga, da quella parte. Niente navi, niente porto, solo il mare grigio e ribollente. Dall'altra parte c'era una manciata di casupole, costruzioni a un piano, semplici ma dall'aria accogliente, fatte di fango e legno, con i tetti di paglia. Oltre il villaggio c'erano campi di frumento e granturco, le spighe e le pannocchie mature ondeggiavano nella brezza della tarda mattinata. Oltre i campi, il muro scuro della foresta. Attraversammo di corsa il ponte levatoio, il fossato, attraversammo il piccolo villaggio, indifferenti agli sguardi stupiti, sordi alle domande nervose. Di corsa, come se la nostra vita dipendesse solo dalla nostra velocità. Non c'era una strada, non esattamente, solo un viottolo, con i solchi lasciati dalle ruote dei carri che si tuffavano nei campi in direzione della foresta. «Via dal sentiero! Via dal sentiero!» ordinò David. Tagliai a destra, entrai nel campo, corsi a nascondermi tra le alte pannocchie di granturco. Correvo negli angusti corridoi tra i filari, a passetti veloci e ravvicinati, le spalle strette per passare meglio. I gomiti urtavano le pannocchie, le foglie vigorose mi sbattevano in faccia. Un'altra forte esplosione riecheggiò dal castello alle nostre spalle. Mi fermai, mi voltai, c'era ancora, alto e incombente, pietra grigia e annerita tra le barbe del granturco. Mi rimisi a correre. Dov'erano gli altri? Li stavo perdendo. «David! Jalil! Christopher!» «Siamo qui!» gridò Jalil. Qui dove? La voce veniva dalla mia destra. Uscii dal filare ed entrai in quello accanto. Guardai a destra, a sinistra. Nessuno. Passai al filare successivo. Niente. Ansimavo, respiravo a fatica l'aria umida, pregna di un odore putrescente. Il ginocchio sbucciato mi bruciava. Avevo piccoli tagli sulle mani e sulle braccia, a causa delle foglie. Lividi sui gomiti e sugli avambracci. Mi veniva da piangere. «Jalil? Jalil? Christopher? David?» Nessuna risposta. Rumori di piedi, di corse, ma nella direzione opposta. Poi, un movimento molto più vicino. Passai al filare successivo. Un troll. Era di schiena. Come se da una delle grandi pietre che formavano il ca-
stello fossero spuntate tozze braccia e tozze gambe. Da dietro non si vedeva nemmeno la testa da rinoceronte protesa in avanti. Sembrava una cosa senza testa. Cercai di non respirare. Ma i polmoni reclamavano aria. Ordinai al cuore di rallentare ma... Si girò. Il naso lungo e grosso annusò l'aria. Gli occhietti da porco cercarono. Mi misero a fuoco. Gli uscì un grugnito e si mosse verso di me. Mi rifugiai incespicando nel filare precedente, corsi in direzione degli altri suoni che avevo sentito ma, no, impossibile, ero troppo debole a confronto del mostro. Io le dovevo spingere via, le piante, il troll le schiacciava senza fatica. "I troll di Loki" pensai. Oddio, Loki aveva fatto circondare il castello. Non aveva nessuna intenzione di perdere. Aveva già ordinato la nostra morte, una volta, e ora non mi restava che correre più veloce di questa bestia, cinque volte più pesante di me. Figuriamoci... stanca com'ero! "Devo scappare! No, pensare! Non c'è tempo! Che idiota, devo scappare e basta." Il troll non era veloce, ma non era nemmeno stanco. E se ce n'era uno, ce ne dovevano essere anche altri. Dov'era David? E che cosa avrebbe potuto fare con il suo stupido coltellaccio contro un troll? Sentivo i tonfi delle enormi zampe, pesanti, svelte. Non perdeva terreno. Dovevo seminarlo. "Devo confonderlo... i troll non sono molto svegli, sono stupidi. Devo riuscire a confonderlo." Cambiai filare, a sinistra. Cambiai filare, a destra. E all'improvviso, niente più granturco. Niente più filari! Ero ai bordi di un campo di erba alta e scura, forse frumento. Era alta quasi quanto me, ma non di più. Non abbastanza da nascondermi. Lo zaino. Che cosa avevo nello zaino? Gran parte delle nostre patetiche ricchezze "terrene". Le chiavi. Erano quelle? I troll le sentivano tintinnare? Mi fermai. Boccheggiavo. Inghiottii l'aria con un singhiozzo. Armeggiai con la chiusura dello zaino. Presi le chiavi e le scagliai lontano. "Segui il rumore, stupido essere. Inseguì il rumore." Poi vidi l'orologio. L'orologio di Jalil. Il cinturino era rotto e storto. Il vetro era scheggiato e si era staccato dalla cassa, ma fondamentalmente era intatto. Potevo usarlo per appiccare un fuoco? Ridicolo. Non avrebbe mai funzionato.
Il granturco non si sarebbe mai incendiato. E il frumento? Presi una manciata di erba secca e la strappai con la forza del terrore. Mi acquattai. Tremavo. Dovevo tenere ferma la mano. Il sole picchiava. Picchiava sul vetro dell'orologio. «Bisogna concentrare i raggi in un punto» sussurrai, combattendo per non diventare isterica. Mossi il vetro, più su, più giù, spostamenti millimetrici. Il sottile filo di luce si fece più nitido. Lo tenni fisso sopra un filo d'erba. Niente. Il troll sbucò dal granturco, sei metri più in là. Girò il testone verso di me. Teneva una' spada nella mano a tre dita. Ne vidi un altro. Poi un terzo. Mi cadde il vetro dell'orologio dalle dita paralizzate. Mi avevano preso. Non potevo più fuggire. Caddi in ginocchio. Il palmo della mano si posò sul vetro. Tenevo ancora stretta la manciata di frumento. L'unica, piccola speranza era continuare a provare. Non ce n'erano altre, di speranze. Singhiozzavo e tenevo alto quello stupido vetro, pregando e scongiurando allo stesso tempo. Imprecavo e chiedevo aiuto a Dio nelle stesse frasi sconnesse. Un filo di fumo. Soffia. Non troppo forte. Soffia. I troll mi erano addosso, alti su di me, china sull'erba. Mi fissavano con i loro occhietti vacui, stupidi. Fissavano quella ragazza troppo ottusa per scappare. E finalmente, la fiamma. "Ancora erba. Soffia." Assurdo. I troll avrebbero potuto spegnerla con un respiro, con una pedata, con un'occhiataccia. Ma non lo fecero. La fiamma crebbe. I troll rimasero a bocca aperta. Gli occhi fissi, ma non su di me, questa volta. Fissavano il fuoco, paralizzati. Ed ecco che avevo una torcia, una manciata di erba in fiamme. La feci girare intorno, a semicerchio. Altra erba prese fuoco. I troll fecero un passo indietro. Mi alzai in piedi, tremando in ogni muscolo del mio corpo. «Proprio così, ragazzi, ho il fuoco. Ne volete un po'?» Proprio allora si alzò la brezza e, per fortuna mia, per una fortuna benedetta, alimentò le fiamme verso i troll. «Fuoco!» gridò uno di loro.
CAPITOLO XIII Il fuoco si sviluppò rapidamente, troppo rapidamente. Ma innalzò un muro di fiamme e fumo tra me e i troll. Scappai dall'incendio, dai troll, il vetro dell'orologio ancora caldo in una mano e un pugno di erba secca nell'altra. Potevo solo sperare che gli altri fossero lontani dalle fiamme. «Voglio andare a casa» dissi, quasi piangendo. «Devo debuttare con Rent. Faccio Mimì, io. Ho degli amici, una famiglia, i miei insegnanti. Non appartengo a tutto questo, non sono David, non voglio fare l'eroe, fatemi uscire da questo incubo.» Non c'era nessuno ad ascoltarmi. Avevo solo bisogno di parlare, di sentire il suono della mia voce, appena un sussurro tremante. Adesso il fuoco era alto, crepitava, scoppiettava, avanzando rapido verso il castello. Io correvo in direzione del bosco. Dovevo uscire dal campo, questo era sicuro. Arrivai agli alberi, mi appoggiai a un tronco, chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. Proprio allora sentii tre dita di pietra chiudersi intorno al mio polso. Il troll sbucò fuori da dietro l'albero. Ce n'era un'altra mezza dozzina. «È questa la strega?» chiese uno. Quello che mi aveva preso si chinò verso di me e mi annusò. «Non è la strega. Questa ha i capelli rossi.» «Il Grande Loki dice: "Portatemi la strega". Questa non è la strega.» «No» confermò un altro. Quello che doveva essere il capo si fece avanti tutto tronfio, pieno di boria. «Questa è per noi.» Spinse via quello che mi aveva catturato e mi afferrò per la vita. «È mia» disse. Lo colpii. Come dare un pugno al muro di una banca. Mi restituì uno schiaffo a mano aperta, che fece esplodere ovunque luci e stelline e fuochi artificiali. Mi si schiarì la vista solo molto lentamente. Avevo ancora gli occhi pieni di luccichii quando vidi la lancia entrare nell'occhio destro del troll. Si materializzò sopra la mia spalla: una lancia, legno bianco, la punta conficcata nel cervello del troll. La testa orribile cominciò a diventare pietra a mano a mano che la vita, quell'orrenda parodia di vita, gli sfuggiva. Spinsi indietro. Le braccia del troll, quasi di pietra, si spostarono appena
da permettermi di scivolare giù e rotolare via. Gli altri troll urlarono e attaccarono. Anch'io urlai, in preda al panico, perché ero faccia a faccia con l'orrore e non avevo alcuna risposta razionale. Galahad calò la spada. La testa di un troll cadde come un macigno. Un'altra venne spaccata in due. Una terza trafitta. Quattro su sette, morti in pochi secondi. Una velocità impossibile. Una precisione impossibile. La spada non sbagliava mai, nemmeno di un millimetro. Ogni movimento era fluido, economico, come ripetuto migliaia di volte, così naturale che avrebbe potuto far parte di una coreografia. I troll rimasti si diedero alla fuga. Galahad tirò le briglie del cavallo e scivolò giù dalla sella. Mi sollevò a mezzo, in una posa classica da romanzo sentimental-popolare d'amore e di morte, guastata dal fatto che io sanguinavo, ero tutta ammaccata e singhiozzavo. «Siete ferita?» mi chiese. «No» riuscii a dire. «Tutto a posto.» Mi sorrise. «Avete arrostito diversi troll nel campo di grano. Di regola le belle fanciulle rimangono indifese fino a quando non vengono opportunamente salvate.» «Io... mi dispiace. Vengo da fuori.» «Mmm, è una bella ventata di novità. Ho salvato molte fanciulle. Ma una sterminatrice di troll, mai.» «E gli altri? Sono...? E Loki?» «I vostri amici, e la strega, sono tutti insieme. Siamo tutti insieme, dovrei dire, compreso Merlino il Magnifico. Tutti insieme e tutti in fuga. Loki ha il mio castello, ora, e dobbiamo far buon viso a cattivo gioco, viste le circostanze. Credo di conoscere il luogo dove Merlino condurrà gli altri.» «Oh. Sentite, riesco a camminare, adesso» dissi. «Dovremmo sbrigarci. Andiamocene di qui.» «Ah, ma voi dovete salire sul mio destriero» mi disse. «Posso accettare una bella fanciulla che stermina i troll, ma non posso permettere che una bella fanciulla rifiuti di dividere la sella con me.» Galahad mi sollevò con estrema facilità, come se pesassi grammi invece di chili, e con la stessa facilità saltò in groppa al cavallo, con me in braccio. Non sono mai stata tanto grata a un essere umano in vita mia. Deglutii e ricacciai indietro le lacrime di sollievo. E uno strano angolino
del cervello, ancora operativo, pensò: "Dividere la sella? Ecco una frase che nemmeno Magda ha mai sentito". CAPITOLO XIV Non andammo lontano. Non abbastanza, per i miei gusti. Qualche centinaio di chilometri avrebbero potuto essere una giusta distanza da porre tra me e Loki. O magari un universo intero. Ma Galahad avanzava in una foresta che si faceva sempre più alta, sempre più cupa. Il sottobosco adesso era a macchie più o meno fitte di vegetazione. Provai a mettermi a cavalcioni, come farebbe una qualsiasi persona normale, ma Galahad si oppose. Ragion per cui mi dovetti sedere all'amazzone. Non era esattamente una posizione confortevole, tenuto conto che eravamo in due su una sella rudimentale. Uno potrebbe pensare che fosse romantico stare incollati addosso al perfetto cavaliere. E forse in seguito, un giorno, quando il ricordo preciso sarà svanito e sarà rimasto soltanto il mio mito privato, forse allora lo penserò anch'io. Ma in quel momento, in quel luogo, era la realtà, erano i dettagli, quelli minimi e quelli rilevanti, ad occuparmi la mente. I cavalli ti fanno sobbalzare. E sobbalzare, con tutto il peso del corpo su una natica appoggiata alla coscia di un uomo e con l'altra natica più o meno sospesa in aria, così che ogni singolo passo del cavallo si ripercuote sull'osso sacro e lungo tutta la colonna vertebrale, be'... è un gran bel gioco finché dura poco. Per non parlare poi della vescica. E poi c'era anche il fatto che Galahad, pur essendo l'uomo più bello che avessi mai visto, puzzava. Non potevo biasimarlo. Veniva direttamente da un corpo a corpo con Loki, cui erano seguiti altri combattimenti con i troll. Aveva ben diritto di essere sudato. Probabilmente puzzavo anch'io, ma il fatto è che la mia puzza non la sentivo, e invece sentivo benissimo la sua. E questi erano i dettagli minimi. Il dettaglio più rilevante era la paura. Parlammo, ma non molto. «Vi ringrazio per avermi salvato la vita.» «È mio dovere. Ed è un piacere.» «Mi dispiace per il castello...» «Mi rammarico di averlo perduto. Ma ho altri castelli. È il contado che soffrirà di più.» «Già. Immagino di sì.»
Non avevamo molto in comune. Lui possedeva un contado, io avevo una compagnia. Ma mi aveva appena salvato la vita, e volevo che continuasse a salvarmela finché non fossi stata al sicuro. «Dunque, vediamo. Avete ancora il Santo Graal?» gli chiesi. «Non l'avete venduto, vero?» «Il Graal appartiene al Vecchio Mondo» mi rispose, con tristezza. «E... cioè, voi conoscevate Re Artù? Com'era?» «Era un re.» Non mi chiese nulla di me. La vita, anche a Everworld, non era un romanzo d'amore. Credo che gli autori di certe storie romantiche immaginino che essere salvati sia come una forte scossa, una specie di brivido che ti fa precipitare in uno stato di desiderio incontrollabile. E invece eccomi qua, sola soletta con un uomo di una bellezza sconvolgente, e che per giunta mi aveva appena salvato la vita. Un cavaliere, niente meno. E io non sentivo altro che una profonda stanchezza. La paura ti sfinisce. La paura vera, non la paura artificiale che ti procuri buttandoti con il paracadute o provando a fare un po' di bungee jumping. È facile vedere la differenza tra la paura vera e quella finta: se appena ti viene la voglia di urlare "Uau!", non è paura vera. La paura vera ti fa venire voglia di implorare, di scongiurare, di supplicare: "Ti prego lasciami vivere, ti prego, ti prego, ti prego, lasciami vivere". Ti fa perdere il controllo dei muscoli, della mente. Ti fa venire i conati di vomito. Ti fa sentire un'estrema stanchezza. E intanto cavalcavamo nel bosco. Io in braccio a lui, e lui che scrutava alberi e cespugli, senza dubbio chiedendosi come avrebbe fatto a combattere con me in braccio. Dopo un po', il mio cervello farneticante, febbricitante, si fissò su un problema molto semplice: "Come faccio a dire a una leggenda che mi scappa la pipì?". Mentre valutavo l'idea di provare con qualcosa in perfetto stile shakespeariano, tipo: "Di grazia, mio signore, necessità per me si pone di appartarmi immantinente laggiù tra quei cespugli, o il ginocchio vostro tanto amabile, porria inzupparsi", arrivammo a destinazione. Da un po' di tempo stavamo salendo lungo il fianco di una collina, dalla pendenza sempre più marcata. La salita ci aveva portato appena sopra le cime degli alberi. Potevo spaziare con lo sguardo su chilometri di foresta. Molto lontano, dove il verde s'interrompeva sulla riva del mare, si innalzavano le rovine fumanti del castello.
Arrivammo in cima alla lunga e ripida salita. Il cavallo superò d'un balzo un muretto basso e cadente ed entrammo al passo in un accampamento dove si stava erigendo un'ampia tenda rigata e si stavano accendendo grandi fuochi. I miei amici erano lì. Anche Senna. E Gawain e Gareth, che correvano frenetici di qua e di là, urlando ordini ai venti o trenta armigeri che facevano tutto il lavoro. Quando li vidi mi tornò in mente l'immagine di Sir Kay e Sir Perceval. Morti, ma ancora a combattere. Sperai che almeno avessero avuto un funerale decente. Altri uomini, chi con la livrea di Galahad, chi al servizio di altri cavalieri, erano disposti lungo il perimetro dell'accampamento e sorvegliavano la foresta che ci circondava. L'accampamento era in una specie di conca oblunga e poco profonda. Come la ciotola di un cane, o un vulcano in miniatura, aveva i fianchi che scendevano, all'interno e all'esterno, da un ciglio slabbrato, diroccato. Pensai che fossero le rovine di qualcosa. Di una torre, costruita sulla cima di una bassa collina in mezzo alla foresta. Ma ciò che restava di quelle mura era coperto di muschi, felci e licheni, e rimaneva soltanto un profilo vago ed evocativo delle pietre. Merlino arrivò contemporaneamente a noi, ma da una direzione diversa. Sembrava uno appena uscito dalla chemioterapia. Vecchio. Malato. Fragile. Quasi cadde da cavallo e si aggrappò barcollando alle braccia di un robusto soldato che lo trascinò fin sotto la tenda. Christopher fu il primo a vedermi. «April! Tutto okay?» mi gridò, con un tono di vera apprensione. «O sei un po' più che okay?» aggiunse con fare ammiccante, cambiando subito registro. Balzai giù dal cavallo. «Grazie per il passaggio, signor... anzi, Sir Galahad.» Mi fece un cenno distratto con il capo, già tutto concentrato su Merlino. Preoccupato. Probabilmente era tanto contento di lasciarmi andare quanto lo ero io di andarmene. Si sfregava la gamba dove ero stata appollaiata per tutto il tragitto. «Allora? Il perfetto cavaliere è stato perfetto anche in tutto il resto?» «Christopher, dobbiamo assolutamente trovarti una ragazza.» «Due.» Alzò due dita. «Una per universo, grazie.» Arrivarono anche Jalil e David. Senna se ne rimase in disparte. A me
stava bene. Non avevo energie sufficienti, per lei. «Ti abbiamo persa» mi disse David. «Ti ho persa. Mi dispiace.» «Non è certo compito tuo farmi da balia, David.» Alzò le spalle. «Già. E comunque sia, mi dispiace.» Indicai Senna con il mento, curiosa nonostante tutto. «Cosa succede laggiù?» David aveva la faccia colpevole. O imbarazzata. «Credo che sia, come dire, non so... come stordita, forse.» «Sta pensando che non è stata all'altezza. Credeva di poter recitare una parte anche lei» disse Jalil. «Si è appena fatta in vena una piccola dose di realtà.» David scosse la testa. «Avete capito male. Tutto questo non è colpa sua. Forse cerca di controllare troppo le persone. Ha paura. Ma sta tentando di prendere in pugno tutta questa schifezza e di farla funzionare.» «Ha parlato l'uomo che dorme con lei» commentò secco Christopher. «Guarda che non è successo niente. Voglio dire, non credo.» Sembrava confuso, come se stesse frugando nella memoria, alla ricerca di un ricordo che smarriva subito, non appena l'aveva trovato. «Era come se... Credevo che stessimo per... ma poi... non so.» Mi pareva quasi di vederla, la battuta cinica che stava pensando Christopher, già pronto a spararla in tono caustico. Mi intromisi. «Lei può farle, queste cose. Non ti fa credere a quello che vedi con i tuoi occhi, oppure ti fa credere a cose che non sono mai successe.» Gli occhi di Jalil si strinsero. «Uno di questi giorni, magari quando questo qui, il "portavoce" di Senna, non c'è, devi dirci che cosa...» David esplose. Si girò, mise la faccia a un centimetro da quella di Jalil, si drizzò più che poté senza alzarsi in punta di piedi. «Se hai dei problemi con me, Jalil, me li devi dire in faccia, senza insinuare cose...» «In faccia te li dico, David, in faccia. Ho dei problemi con te!» urlò Jalil, senza arretrare. «Non mi fido più di te. È abbastanza diretto per i tuoi gusti?» «La tua fata fattucchiera ha fatto di te un fantoccio» disse Christopher, ridacchiando al suo gioco di parole. «Non puoi passare la notte con lei, fa-
re la sua marionetta, e poi venirci a strisciare intorno come se fossimo tutti grandi amici.» David sembrava pronto ad aggredire Jalil. Ma adesso c'era anche Christopher. Mi lanciò un'occhiata, aspettandosi che intervenissi io. Be'..., io ero stufa di tutti e tre. Stufa di andare in giro come un vigile del fuoco a spegnere incendi. «Ammazzatevi pure, non me ne importa niente» borbottai. «Sei stanca» disse David. Come se mi volesse giustificare. Fece un respiro profondo e fece mostra di reprimere la propria ira. «Senna è una di noi. Del nostro mondo. Del nostro universo. Della nostra scuola. Che cosa volete ancora, voialtri?» «Voialtri» fece eco Christopher, sottolineando l'espressione. «Non è del mio universo» disse Jalil. «Nel mio universo, le persone non controllano la mente degli altri. Nel mio universo, la gente non fa quello che ha detto April, non ti fa credere a cose che non esistono e non credere a cose che esistono.» «A meno che non si tratti di pubblicità» aggiunse Christopher. «Ci sta mentendo, David» gli dissi. «Ci sta usando. Non so come, lo ammetto, ma lo fa. Lo sta facendo anche adesso, in questo preciso momento, o sta pensando a come fare.» Cercò ancora di fare l'arrabbiato. Ma eravamo in tre contro di lui. E contro Senna. Lui si vedeva come il nostro capo e noi lo avevamo appena spodestato. «Sentite, se vogliamo andarcene da Everworld, lei ci può aiutare.» Jalil sbuffò, beffardo. «Non trattarmi come se fossi una sottospecie di idiota, David. Tu non vuoi andartene da Everworld. Tu vuoi essere Galahad, amico. Tu vuoi avere un castello e dei ragazzi che lavorano per te, vuoi andare in giro ad ammazzare draghi, vuoi tornare a casa la sera e trovare Senna stile Mia moglie è una strega che ti fa apparire per magia una bella costata e della birra fresca. Ma chi mi credi, un cretino qualsiasi, che non vede quello che fai, che non sa quello che sei?» David non si prese la briga di replicare. «Tu Jalil odi Senna perché è diversa da te. Sai, c'è della gente a cui tu non piaci per niente perché sei nero, o a cui non piaccio io perché...» «Ma finiscila» Christopher lo interruppe. «Adesso Senna farebbe parte della minoranza oppressa delle streghe? Dobbiamo essere comprensivi con lei perché è una povera strega? Ma hai bevuto?»
«Io non la odio» replicò Jalil con più calma. «Ma non mi fido di lei. Neanche tu ti fideresti, David, se non ti avesse in pugno.» «Sai che ti dico, Jalil? Vattene al diavolo. E anche tu, Christopher. Non sapete niente di niente, voi.» David se ne andò come una furia. Tornò da Senna. Si misero a parlare tra di loro, troppo lontani perché li sentissimo. David ci voltava le spalle. E Senna guardava me, da dietro le spalle di David. Sospirammo tutti e tre contemporaneamente. «Grandioso. Ora siamo rimasti solo noi tre» disse Jalil. «Un amico in meno, un potenziale nemico in più. Sempre meglio.» «Non credo che sia David il nostro problema principale» disse Christopher. «Loki non ci lascerà andar via così. Guardate Galahad e Gawain e Gareth...» e indicò con il capo i tre cavalieri. Gruppi di soldati arrivavano all'accampamento alla spicciolata. I cavalieri li radunavano e poi li rimandavano nella foresta, in direzioni diverse. Il perimetro di sentinelle intorno alle mura crollate era più esiguo: gli uomini venivano mandati in giro a cercare i cattivi. Vidi Galahad gettare uno sguardo preoccupato alla tenda di Merlino. «Perché Loki non ci è già saltato addosso?» si chiese Jalil. «È stanco» dissi senza pensare. «Come Merlino. Sono tutti e due stanchi dopo la battaglia.» «Cosa vorresti dire? Che la magia li sfinisce?» Jalil alzò un sopracciglio. «Interessante. Ma perché dovrebbe sfinirli? Voglio dire, la magia è magia, giusto? Dovremmo forse credere che brucia calorie? Questo la renderebbe qualcosa di fisico, di reale. Non magia, solo qualcosa che sembra tale, se non la si comprende.» La risposta di Christopher fu sarcastica. «Ehi... sai cosa facciamo? Mettiamo su un bel gruppo di discussione, un seminario sulla magia... E tutti espongono le loro teorie. Nominiamo un moderatore, fissiamo la pausa per il pranzo. E confrontiamo le nostre idee...» «Non dirmi che hai fame» lo ripresi. «Hai visto che cosa ha combinato il tuo ultimo pranzo, no?» «Eh già... si è alzato in piedi e ha morso Loki nel didietro. Ma ho ancora fame. E poi, dubito che ci sarà tempo per mangiare quando Loki e i Bruttoni faranno irruzione qui dentro. Chi fa la guerra fa la fame.» «Non dovremmo essere qui a fare la guerra, dovremmo essere fuori di qui» disse Jalil sottovoce.
«A casa. Nel mondo reale» concordai amaramente. «Già, peccato che non sia così. Abbiamo Loki che sta per arrivare e Merlino che sembra un ubriaco appena uscito da una tre giorni all'Oktoberfest, e Senna e David che giocano a Mia moglie è una strega. Qualcuno mi dia una spiegazione logica.» Guardai le chiome degli alberi, oltre le chiome, verso il cielo. Si stava facendo buio. Presto sarebbe calata la notte. Ero scappata per così tanto tempo? Avevo cavalcato in braccio a Galahad per così tanto tempo? Il giorno sembrava corto. Ma forse anche quello ubbidiva al volere di Loki. «Come mai fa già buio?» chiesi. Jalil scosse la testa come se anche lui si fosse posto il problema. «Come mai fa già buio?» mi fece eco. «E come mai clima e vegetazione sono da vecchia Inghilterra, quando non siamo nemmeno a due giorni di cammino dalle terre degli Aztechi? E come mai qui tutti parlano la nostra lingua, compresi i Vichinghi e gli alieni? E come mai degli animali morti si alzano in piedi e cominciano ad azzannare dei tipi che possono diventare tre metri più alti ogni volta che schioccano le dita? Vuoi un elenco di "come mai"? Ho una lista lunga un chilometro.» Christopher si intromise. «Come mai nessuno dice "Che scarpe strane hai, amico" oppure "Ehi, che ci fa un ragazzo nero in Inghilterra nel Medioevo?" o anche "Esattamente, che relazione c'è fra tre ragazzi e una bellezza dai capelli rossi?".» Mi fece l'occhiolino. «A proposito, mi piace la spallina del reggiseno a vista. È tutto un programma. Wonderbra?» Ero troppo stanca per prendermi la briga di mandarlo a quel paese. Troppo stanca, come se fosse davvero passata una giornata intera, come se il tempo non fosse compresso. Che ore saranno state nel mondo reale? Che giorno era? Se solo fossi riuscita a dormire... a tornare me stessa! Avrei chiamato Becka. Lei era una di larghe vedute. Credeva a qualsiasi cosa, purché non fosse troppo spaventosa. Le avrei detto della cavalcata con Galahad. «Che pasticcio!» dissi, o forse lo pensai soltanto. Avevo creduto che tutto quello che dovevamo fare fosse ritrovare Senna e che poi avremmo potuto tornarcene a casa. Ora l'avevamo trovata, ma eravamo ancora in trappola. In trappola e divisi. Avevamo perso David. Non era perfetto come capo, ma di noi era quello che più si avvicinava all'idea di capo. Jalil e Chistopher non avrebbero seguito me, né l'uno avrebbe seguito l'altro.
Cercai di sforzare la mente a trovare un senso a tutto questo. Salvare Senna, oppure perdere forse l'unica via di fuga verso il mondo reale. Ma, se Loki aveva ragione, Senna era una specie di "porta" non solo per noi, ma anche per molti altri. Loki voleva scappare da Everworld tanto quanto me. E una volta che quella porta si fosse riaperta, chi altri sarebbe passato? Quali altri orrori? Ero stata sui gradini della grande piramide di Nuova Tenochtitlàn. Avevo visto gli uomini da sacrificare salire quelle scale fino all'altare di Huitzilopoctli. Avevo visto i loro cuori strappati, i loro corpi rotolare giù dalle scale, il loro sangue scorrere... Loki. Huitzilopoctli. Quanti altri forsennati immortali avrebbero invaso il nostro mondo, se Senna fosse rimasta in vita? Senna mi guardò proprio in quel momento. I nostri occhi si incrociarono. Sapeva quello che stavo pensando? Sapeva che stavo soppesando il valore della sua vita, che mi stavo chiedendo che cosa fosse peggio, se una Senna viva, o una Senna morta? CAPITOLO XV Galahad si avvicinava a grandi passi. Scacciai dalla testa l'immagine di Huitzilopoctli seduto in cima all'Empire State Building mentre uno stuolo di yuppie veniva portato su da lui con un ascensore ad alta velocità per placare la sua sete di sangue. Ero imbarazzata dal mio desiderio impulsivo, ma volevo che Galahad venisse da me e mi dicesse cosa fare. Qualcuno doveva avere il comando. Qualcuno doveva prendere le decisioni. Giusto? Uno spettacolo deve avere un regista. David adocchiò Galahad e tornò da noi, seguito a distanza di sicurezza da Senna. «Le forze di Loki attaccheranno con il calar delle tenebre» annunciò Galahad. Mi guardò. «Mi dispiace che vi troviate invischiata in tutto questo, milady.» Scosse il capo. «Non avrei dovuto scacciare il drago. Avrei dovuto lasciare che Merlino prendesse la strega allora, perché è certo che ora molti uomini buoni dovranno morire per proteggerla da Loki.» «Lasciate andare Senna» disse David d'impulso. «Dateci una spada e del cibo, e noi ce ne andremo per conto nostro, ci arrangeremo da soli.» «La strega non potrà mai essere libera» disse Galahad. «Se la battaglia volgerà contro di noi, Merlino ha ordinato che venga uccisa. È una cosa terribile da pensare. Ma ho finito di mettere in discussione la saggezza di Merlino. Sir Perceval, che mi è stato amico per tutti questi secoli, è morto.
E anche Kay, che mai mi fu amico, ma fu indubbiamente un compagno coraggioso. Ed altri ancora. E tutto perché io non seppi vedere più in là del mio odio per il drago.» Era la prima volta che vedevo sul suo volto tristezza o profonda preoccupazione. Forse mostrarsi spaventati non era contemplato dal codice cavalleresco. Ma non è cosa da tutti i giorni perdere un amico che hai avuto al fianco per centinaia di anni. Galahad guardò dritto verso Senna. «Non ho piacere nell'ordinare la vostra morte. Non ucciderei mai una donna, nemmeno una strega. Ma i miei arcieri eseguiranno quest'ordine, pur di non permettere a Loki di prendervi e di portare a termine i suoi piani terribili.» Senna prese istintivamente il braccio di David e si avvicinò a lui. «Chiunque voglia Senna, dovrà passare sul mio corpo» esclamò David. Galahad annuì. «Voi siete stregato, signore, riconosco bene i segni. Lei vorrebbe fare di voi il suo paladino per mandarvi a combattere contro di me.» «Combatterò contro di voi, se dovrò farlo» riconobbe David. «Ho combattuto centinaia... di più, forse migliaia di battaglie, spada contro spada, lancia contro lancia. E tuttavia sono ancora qui» mormorò Galahad facendo un leggero inchino. Una minaccia pulita, efficace. Niente smargiassate. Solo la semplice constatazione che molti avevano cercato di ucciderlo e che ciononostante lui era ancora vivo. David provò a fare lo sguardo da duro, ma lasciò perdere, quando tutto quello che ebbe da Galahad fu un atteggiamento di rispettosa pazienza. «Avete salvato April. Siamo in debito con voi» disse solo, e se ne tornò da Senna. «Vi sentirete sollevato adesso, eh?» fece Christopher a Galahad. «David che ve la lascia passare così... Pfiuu!» Anche se Galahad colse la battuta ai danni di David, non lo diede a vedere. «Affrontiamo la battaglia contro un esercito più numeroso. Combattiamo perché è nostro dovere opporci al male, e perché le immonde creature di Loki, se lasciate libere di aggirarsi in queste terre, terrorizzerebbero fattorie e pacifici villaggi. Sarei lieto di avervi come compagni d'arme. Abbiamo bisogno di tutti gli uomini forti. Ma siete liberi, tranne la strega, di andarvene per la vostra strada» disse il cavaliere «se questa è la vostra
scelta. Non vi ingannerò: Loki può vincere. Merlino è indebolito, le sue forze prosciugate. E senza di lui non abbiamo alcuna magia, solo le nostre lame. Egli ha chiamato i draghi, ma essi sentiranno la sua voce, ora? E quale drago verrà, là dove si trova il figlio di Lancillotto?» Scosse il capo. «Potrei aver firmato la condanna di tutti noi. Ho combattuto contro i draghi così a lungo... quale altra impresa rimaneva? Cos'altro avrei potuto fare in questi anni, in questi lunghi, lunghi anni?» «Eravate figlio di Lancillotto?» gli chiese Christopher. Galahad sembrò confuso. «Voi parlate come se io già fossi dipartito. Avete avuto una visione?» Christopher sembrò imbarazzato. Un sentimento nuovo per lui, forse. «No, amico. No. È solo che... sapete com'è, per noi voi siete storia. Cioè, siete esistito moltissimo tempo fa.» Galahad scrutò il volto di Christopher, aumentando il suo imbarazzo. Poi, lentamente, con esitazione, chiese: «Ero reale? Nel vostro mondo, nel Vecchio Mondo? Ero più di una leggenda, più di una favola? Ero un uomo?» «Non... non lo so, davvero» ammise Christopher. «I miei ricordi... solo pochi frammenti. Ricordo mia madre, Lady Elaine. E ricordo la spada nella roccia.» Scosse la testa. «No, non la spada di Artù, un'altra spada. Ricordo quando presi posto alla Tavola Rotonda, sul Seggio Periglioso, che avrebbe dato la morte a chiunque non fosse il predestinato. Ricordo la mia ricerca del Graal, anche se persino in questo sono confuso, perché Gawain ricorda la medesima ricerca, come se due uomini diversi avessero compiuto la stessa impresa. Ma ci sono tanti, tanti vuoti. Tanti tasselli mancanti. Forse un tempo li conoscevo e in tutti questi secoli, troppo lunghi, li ho semplicemente dimenticati.» «Sono sicura che voi eravate reale» dissi. «Sono sicura che voi siete reale.» Galahad annuì e abbassò gli occhi. «È diritto di ogni dama adulare ed essere adulata.» Poi raddrizzò le spalle e si scrollò di dosso la cappa di tristezza. «Andatevene ora, se lo desiderate, andate verso est, rapidamente, e forse sfuggirete ai troll di Loki e ai loro lupi.» E con queste parole Sir Galahad si girò e se ne andò. Fu immediatamente circondato dai suoi armigeri, che attendevano pronti gli ordini da eseguire.
CAPITOLO XVI «Bella scelta» commentò Christopher amaramente. «O restiamo qui a farci cancellare dalla faccia della terra oppure ce ne andiamo nella foresta e speriamo che magari, in qualche modo, i troll non ci trovino.» «Non ce ne possiamo andare» dissi io con fermezza. «Se ce ne andiamo, perdiamo Senna. Ed è solo lei che può farci tornare a casa.» «E tu ci credi?» mi chiese Jalil. «Non lo so!» praticamente gridai, al colmo della frustrazione. «Non so niente.» Jalil ci pensò su, poi annuì. «Dobbiamo presumere che sia vero. Per ora. Finché non riuscirò a dimostrarlo o a smentirlo.» «Forse più tardi, in laboratorio, professore» gli disse Christopher. «Potremmo sottoporre a un test soggetti all'oscuro di tutto. E potremmo scrivere una bella relazione per fine semestre. Ma insomma... siete sicuri che sia proprio Senna la chiave di volta, qui? Non credo. Senna non conta niente. E Galahad si chiede se è reale? È anche troppo reale, per me.» «Si sta facendo buio» osservò Jalil. «Già.» Guardai David e Senna. Senna, soprattutto. I due erano vicini a uno dei fuochi più piccoli che erano stati accesi contro l'avanzare della notte. Senna stava bevendo qualcosa di caldo, il vapore le saliva sul volto. «Se vogliamo Senna viva, e non ce ne vogliamo andare per conto nostro, dobbiamo vincere questa battaglia» osservai. «Meglio se siamo tutti uniti.» Mi diressi con determinazione verso la mia sorellastra. Balenò un lieve sorriso, gli occhi saettarono verso di me, insolenti, irati. Mi piazzai davanti a lei, una posa un po' melodrammatica, con le mani sui fianchi. «Ci sarà una battaglia. Galahad non è esattamente fiducioso. Dobbiamo restare uniti.» «Hai deciso di credere in me» mi disse Senna. «Credere in te? In te? No. Credo nel Dio in cui ho sempre creduto e, pensa un po', non sei tu, Senna. Ma forse tu conosci il modo per farci tornare a casa, quindi forse è meglio se rimaniamo uniti. Ma ho detto "forse", Senna. Forse mi importa se vivi o se muori, o forse no, quindi non tirare troppo la corda, ho avuto una giornata difficile.» Guardai deliberatamente verso i due arcieri che Galahad aveva messo di
guardia. Non distoglievano mai gli occhi da Senna. Senna si alzò. Allargò le braccia. «Vieni più vicino, April» sussurrò. La luce del fuoco rendeva di bronzo la sua pelle chiara. Gli occhi grigi brillavano da pozze nere e profonde. Il mio momento di spavalderia era passato, finito. «No.» «Hai paura? Di me?» "Sì. Ho sempre avuto paura di te. Sin da quando..." «No» mentii. «Certo che no.» «Vuoi la risposta ai tuoi "forse", April, o hai paura della verità?» Avevo freddo. Faceva freddo? Si era alzato il vento? Avrei voluto stringermi le braccia intorno al corpo, ma non lo feci. «Non andarle vicino: vuole stregarti» mi avvertì Christopher. «Io sono la strada per tornare a casa, April. E tu vuoi tanto tornare a casa.» Mi sentivo strana. Mi sentivo... strana. Le cose ai margini del mio campo visivo sembravano confondersi. Oscurarsi. Solo lei sembrava toccata dalla luce della legna ardente. «Tu vuoi tornare a casa.» «Che cosa stai facendo?» Avevo la lingua spessa. Mi sentivo confusa. «Non preoccuparti, April» mi derise. «Non ti sto facendo un incantesimo. Stai percependo la barriera, ecco tutto. Stai percependo il limite estremo. Per me è sempre così.» Vicino. Più vicino. Stava succedendo qualcosa. Stava succedendo qualcosa a Senna. Il suo vestito stava diventando trasparente. Come se il tessuto fosse di velo. Riuscivo a vederle chiaramente il corpo. Scossi la testa, distolsi lo sguardo, lo posai su Christopher. Christopher stava guardando me. Non vedeva quello che vedevo io. I miei occhi furono attratti nuovamente da Senna, ed ora non era più il vestito ad essere trasparente, era la sua carne. Le vedevo le costole, ben delineate, come illuminate da dietro. Il cuore che pulsava, il sangue spinto ritmicamente nelle arterie. Una radiografia vivente, spettrale, immateriale. Il mio cuore... il suo. Pulsava. Pulsava. Anche le costole, il cuore, le vene erano trasparenti ora, come se fossero di vetro. Poi, anche i profili del vetro svanirono e furono sostituiti da una
strana luce, cortine che si aprivano... Stavo volando. Fluttuando. Senza peso, attratta verso di lei, incapace di resistere, la forza di volontà sparita, la mente annebbiata, corpo, gambe e braccia lontanissimi. Fluttuavo verso le cortine che si aprivano. Verso la luce. Non la luce che mi attendevo, non una luce celestiale, paradisiaca, non un bagliore che mi riempisse di speranza. Una luce forte, molto forte. Piatta. Con una sfumatura azzurrina. Allungai le mani. Mani protese verso la luce. Poi sentii un odore. Fiori? No. Non esattamente. Non così vero, non così fresco. Sapone. Anche la testa oltrepassò il varco, entrò nella luce. Vidi delle piastrelle bianche, un lavabo, un water. Una luce violenta, abbagliante. Il mio bagno. Nel mondo reale, a casa mia. Vidi lo specchio. La mia immagine riflessa. Una testa e due mani che sbucavano dal nulla. Urlai. Senna rise, la sua risata era dentro di me. Caddi all'indietro, vacillai, colpii qualcosa di cedevole. Sentii delle braccia che mi prendevano, urlai di nuovo, combattei contro quelle braccia, cieca di paura. «Sono io, sono io, calma, va tutto bene.» Christopher. Le sue braccia. Mi tirò su. Maldestro, a dir poco. Mi allontanai da lui e mi accorsi che avevo la faccia in un bagno di sudore, i capelli incollati sulla fronte. Senna era di nuovo Senna. Tutta intera. Opaca. Solida. «E questo è per il "forse"» disse. «Arrivano!» gridò una voce. E dalla foresta, dal buio, ci giunsero le grida ruggenti dei troll. CAPITOLO XVII «Sei sparita nel suo corpo» mi disse Jalil, secco. «La parte superiore del tuo corpo si è come fusa in lei. E il busto, le gambe, il didietro, ti sono rimasti di fuori.» Aveva un tono strano. Per forza!
«Ero nel mio bagno» gli spiegai con una voce lontanissima, la voce di qualcun altro. «Ero a casa mia. Come se fluttuassi fuori dalla doccia.» «È da là» disse David indicando con il capo oltre l'accampamento. «È da là che verranno. Da quella direzione.» Era molto teso, pronto a lanciarsi nella mischia. Le mani cercavano armi che non aveva. Evitava di guardare Senna. Vidi tutto quanto, sin troppo chiaramente. «Andiamo con ordine. Punto primo: restare vivi» disse Christopher. Mi girava tutto. Irreale. Il fuoco, le facce, gli alberi neri sopra di noi. Il rumore del ferro e dell'acciaio che cozzavano poco lontano, gli armigeri che correvano, i cavalli che nitrivano nervosamente. Era la realtà, ma la realtà come la si percepisce con quaranta di febbre, quando le cose sono sì reali, ma hanno un alone luminoso intorno. Reali, ma non come dovrebbero essere, non proprio giuste. Ero passata attraverso il corpo di Senna. Da un universo all'altro. Dall'accampamento al bianco fluorescente delle mattonelle di una realtà totalmente diversa. E adesso rieccomi qui, con il pericolo che mi correva incontro, con la morte vicinissima, e tutto quello che riuscivo a pensare era che avevo sentito l'odore del sapone, avevo sentito il suo profumo, avevo quasi toccato con mano la realtà pulita, solida, pacata che avevo sempre conosciuto. La verità invece era amara. Era vero. Senna era la strada che ci avrebbe riportati a casa. Senna aveva il potere assoluto, adesso. Il controllo assoluto. Tutto dipendeva da lei. Eppure non sembrava potente. Sembrava braccata. Continuava a sobbalzare, a ritrarsi davanti al clamore della battaglia. Questa era una lotta per avere il controllo su di lei. Loki contro Merlino. Comunque andasse, lei avrebbe perso. "Stai percependo il limite estremo" aveva detto. "Per me è sempre così." «Guardate l'accampamento» disse irato David. «Niente trincee, niente parapetti, nessun tipo di difesa. Non avrebbero dovuto distribuirsi in modo più omogeneo, questi ragazzi? Dovrebbero esserci delle truppe di riserva, pronte a intervenire dove il nemico attacca. Galahad sarà anche il perfetto cavaliere, ma come generale fa schifo. Siamo delle prede troppo facili. Potrebbero invadere l'accampamento.» «E allora smettila di piagnucolare e vedi di fare qualcosa, generale» scattò Senna, spazientita. Per David fu come uno schiaffo in faccia.
«Proteggimi. Fermali. Vai! Vai! Hai giurato che mi avresti salvato.» «Ma io... è troppo tardi per...» Guardò me, come se io lo potessi aiutare. Poi gli si accese una luce negli occhi. «Jalil. Dammi Excalibur.» «Cosa?» «Il coltellino. Quello stupido coltellino.» Jalil lo pescò dalla tasca. Venne un ruggito selvaggio dalla battaglia invisibile. Voci umane in trionfo. Forse sarebbe andato tutto per il verso giusto. Forse Galahad e Gawain li stavano respingendo. Forse eravamo salvi. «Se riescono a sfondare la linea di difesa, entreranno da quella parte» disse David. «Prima Galahad e i suoi ragazzi, in ritirata, poi i troll. Dal pendio.» Corse alle rovine e saltò in cima alle pietre verdi di muschio. «Vedete? Be'... non si vede granché con questo buio, ma di là e di là il terreno è più alto, e scende proprio in questa direzione. Li incanalerà da questa parte. Dobbiamo dividerli.» «E come?» «Con gli alberi. Abbattiamo degli alberi.» «Andiamo!» fece Jalil. «Se vogliamo bloccar loro la strada dobbiamo farlo più in basso.» «Non dobbiamo bloccar loro la strada» spiegò David. «Potremmo anche farlo, ma loro ci sono abituati. Sanno come superare gli ostacoli. Scavalcherebbero gli alberi, o li sposterebbero. Non possiamo fermarli. Dobbiamo dividerli. Ucciderli. Ucciderne più di quanti non possano permettersi di perdere. Gli alberi non li faremo cadere di traverso sulla strada, li faremo cadere nel senso di marcia.» Ci mostrò con le mani. «La battaglia è nel punto A, noi siamo il punto B. Facciamo cadere gli alberi lungo la linea AB. I troll vengono in questa direzione, come il traffico sull'autostrada. E noi li dividiamo. Come ai caselli. Li mettiamo in fila. I rami sono tutti intrecciati, li rallenteranno. E i nostri saranno sui tronchi e li colpiranno dall'alto.» Partì subito all'attacco, con alle calcagna Jalil e Christopher. Io restai indietro per parlare con Senna. Le afferrai un braccio, poi lo lasciai andare. Avevo paura di toccarla. Paura di quello che era. «Se ci stai tenendo nascosto qualcosa, Senna, se stai giocando con le loro vite, ascoltami bene: ci sono cose più importanti, per me, che tornare a casa.» Pronunciata la mia piccola, debole minaccia, un'ultima fiacca battuta prima di uscire di scena, me ne andai a raggiungere gli altri.
L'acciaio Coo-Hatch tagliava facilmente la corteccia. Ma la lama era lunga meno di cinque centimetri e il primo albero aveva un diametro di quasi un metro. Ci volle un'eternità. E i ruggiti di vittoria degli uomini, intanto, lasciavano sempre più spazio alle grida dei troll, unite agli agghiaccianti ululati dei lupi. Avevo l'orribile sensazione che, imbrogliati i troll già una volta, non avrei avuto una seconda occasione. Avevo sfidato la legge delle probabilità. E la legge delle probabilità non me l'avrebbe permesso di nuovo. «Eccolo» urlò David. «Sta cadendo!» L'albero si piegò, strappando quello che restava del tronco, acquistò velocità e precipitò nel buio, e infine cadde con un tonfo sordo, un crepitare di rami spezzati, un frusciare di foglie. «Okay, adesso quello» disse David, e via di corsa. Era sfibrante. Avanti e indietro con la lama, affetta, affetta, affetta. Aprire una ferita nell'albero vivo. Una ferita piccola, poi più grande, un lavoro che progrediva piano e logorava i nervi. Quando uno era stanco subentrava un altro. David camminava avanti e indietro sul ciglio del basso pendio, sorvegliava la zona come meglio poteva, nell'oscurità quasi completa. Guardava su verso l'accampamento, giù verso il fragore della battaglia. Faceva fresco, ma non abbastanza da impedire al sudore di formasi e scorrere in rivoli gelidi lungo la schiena, le tempie, il petto. I troll. Che cosa avrebbero fatto? Che cosa avrebbero fatto, a me? Quando il troll mi aveva preso il braccio, con quelle dita di pietra, quando avevo sentito quella forza irresistibile e compreso la mia debolezza, la mia... Che cosa avrebbero fatto? Il cozzare delle spade si fece più vicino. Grida di dolore, di uomini e di troll, la musica della follia. I lupi, sempre più numerosi. Così vicine, quelle voci ululanti, ciniche, così vicini, quei ringhi, quegli urli. Partecipavano all'azione? O erano solo attenti spettatori, che già pregustavano il loro festino? Noi non avevamo armi. Giocavamo a fare i taglialegna nel buio, in attesa che quei mostri sbozzati nella pietra sbucassero dal nulla per farci a pezzettini. Dov'era Galahad? Dov'era Merlino? Un altro albero cadde. Non proprio come volevamo noi, ma formò ugualmente un canale largo poco più di quattro metri. Un terzo albero e un secondo canale, questo largo sette, otto metri all'e-
stremità più lontana, via via più stretto in direzione dell'accampamento. I canali erano ingombri di rami intricati tra loro, di arbusti sradicati, di altri alberi ancora in piedi. Un percorso a ostacoli la cui complessità non saltava subito agli occhi. Sentii grida così vicine che avrebbero potuto essere quelle dei miei tre amici. L'oscurità era quasi assoluta. Un quarto albero cadde. Eravamo senza fiato, ma almeno facevamo qualcosa. «Ascoltatemi. Tutti dalla parte opposta. Prendetevi un albero. E quando arrivano, guidateli.» David era quasi piegato in due, senza fiato. «Io devo tornare all'accampamento. Devo tornare.» A cercare Senna, senza dubbio. Non potevo nemmeno essere in collera con lui. In fondo, se avevamo una minima speranza, era merito suo. Mi misi a correre su un tronco. Scivolai. Attenta! Se cadevo, se mi rompevo una gamba, se mi slogavo una caviglia, la battaglia mi avrebbe travolto. I troll mi avrebbero trovata. Impossibile cancellare dalla mente tutti gli orrori. La maledizione di una fervida immaginazione. Che cosa facevano i troll alle donne che catturavano? Che cosa facevano i lupi a chiunque capitasse loro a tiro? All'età di dieci anni avevo partecipato a una vendita di torte per beneficenza. Raccoglievamo fondi per finanziare un progetto che mirava a riportare i lupi nel parco di Yellowstone. Forse avrei potuto dirglielo, ai lupi. Vidi dei deboli bagliori nell'oscurità. Armature. Spade. Combattevano tutti alla cieca. I troll ci vedevano nel buio? Certo che ci vedevano: in tutte le storie, i troll vivono sotto i ponti. Follia! Non esisteva niente di simile ai troll. Non esisteva niente di simile a Loki, nessuna divinità pazza furiosa che bramava sangue umano. Mi spinsi più avanti che potei, in mezzo ai rami che mi entravano negli occhi e mi graffiavano le braccia nude. Era come salire su un albero senza tener conto della forza di gravità. Mi aggrappai con un braccio a un ramo che avrebbe dovuto essere orizzontale. Mi ci appoggiai, chiusi gli occhi, ah, poter dormire, se solo avessi potuto dormire, andarmene via. Più vicino. Spade che cozzavano. Grugniti esausti. Singhiozzi di dolore, di frustrazione. E poi, eccolo. Galahad. I capelli corvini erano tutti incollati, le spalle curve, ma la sua spada volava, avanti, indietro, come se il cavaliere fosse appena entrato in campo. Quattro troll lo incalzavano da vicino, roteando le spade e le clave massicce, lo attaccavano, lo assalivano con violenza, con tutta la forza bru-
ta della violenza pura. Sarebbe dovuto cadere. Ma non cadde. Un passo dopo l'altro lo costringevano ad arretrare. I suoi uomini formavano una linea alla sua destra e alla sua sinistra. Una linea sottile, una linea breve, e i troll premevano, cercavano di aggirarli, di prenderli alle spalle, di isolarli e finire il massacro. «Signor Galahad!» urlai. «Galahad! Ci sono degli alberi alle vostre spalle. Li abbiamo tagliati noi. Venite da questa parte. Continuate a retrocedere.» Dei passi. Stivali sulla corteccia dell'albero. Alle mie spalle. No! Mi voltai. Scivolai, mi afferrai a un altro ramo e mi tenni aggrappata, in equilibrio precario. Non era un troll. Era uno degli uomini di Galahad, uno dei soldati rimasti nell'accampamento. Li aveva portati David. «Perdonatemi, milady» mi disse senza tanti giri di parole. Incoccò una freccia sull'arco, tese la corda, scagliò. La freccia passò proprio sopra la spalla di Galahad e andò a conficcarsi dritta nel collo di un troll. Finalmente Galahad capì ciò che stava succedendo. «Indietro!» gridò. «Indietro!» I cavalieri e i loro uomini arretrarono negli stretti canali formati dagli alberi. E i troll, senza guida, senza un generale, li seguirono. I tronchi erano fitti di arcieri, che scagliavano una freccia dopo l'altra nella massa compressa, immobilizzata, dei troll. Ancora una volta, furono le voci umane a levarsi in un grido di trionfo. Ma erano molte meno di prima. Molte meno. Corsi via. Senza armi non ero di alcuna utilità, un inciampo tra i piedi. Corsi via, sentendomi una vigliacca. CAPITOLO XVIII Merlino era ancora nella tenda. Vi venne portato anche Galahad, pallido per il molto sangue versato. Lo seguii. David, Jalil e Christopher vennero con me. David non era tornato da Senna. Impossibile sapere se la sua fosse stata una scelta deliberata o una pura casualità. Non vedevo la mia sorellastra dall'inizio della battaglia degli alberi. Non volevo vederla. Non cercavo più di capirla. Ora sapevo. Lei era qualcosa di diverso da me. Di più grande di me.
Galahad era su un pagliericcio disteso per terra. Gawain gli si inginocchiò accanto. Anche Merlino era in ginocchio, pestava qualcosa in un mortaio con un pestello. Galahad venne spogliato da un servo. Aveva più ferite di quante riuscissi a contarne. Ma la più grave era uno squarcio sulla pancia, proprio sotto l'ombelico. Qualcuno gli aveva avvolto un panno sporco intorno alla cintola, ma il panno era già zuppo, e il sangue stava formando una pozza per terra. «Non sprecare il tuo tempo con me» disse Galahad a Gawain. «Gli uomini hanno bisogno di te.» «Il nemico si è ritirato» gli disse Gawain, asciugando il sudore dalla fronte dell'amico con un fazzoletto. «Non attaccheranno più prima dell'arrivo di Loki.» «E quando Loki arriverà, nemmeno Gawain sarà in grado di fermarlo» mormorò Merlino. Galahad prese la mano del mago. «Temo di aver distrutto tutti i tuoi piani, Merlino. Se solo avessi lasciato che il drago...» Si interruppe, preso da un forte tremito, provocato dal dolore e dall'abbondante perdita di sangue. «Fermate l'emorragia» dissi. «Morirà, se non fermate l'emorragia.» Galahad cercò di mettermi a fuoco, ma il suo sguardo non mi trovò. «La Morte è già appollaiata sulla mia spalla. Ho vissuto una vita lunga, molto lunga. Più lunga di...» Di nuovo quel tremore, che lo scosse dalla testa ai piedi. «State a sentire, non è ancora morto. Fermate l'emorragia» dissi. «Siete stata brava, milady, avete combattuto valorosamente» grugnì Merlino «come pure i vostri amici. Sto preparando una pozione che lenirà le sue sofferenze. Ma nessun potere può salvare questo nobile cavaliere, ormai. Il suo sangue lo ha abbandonato.» «Be'... potreste almeno provare» saltò su Jalil. «Cucite almeno la ferita!» «Una trasfusione» dissi. «Potremmo... ci servirebbe un ago cavo. Due aghi. E un tubicino di qualche tipo.» Merlino era tutto concentrato sul viso di Sir Galahad, da cui puliva via con aria assente la polvere, e tuttavia alzò gli occhi verso di noi. Uno sguardo pieno di interesse. In mezzo a tutta quella follia, Merlino si lasciava ancora affascinare da qualcosa di nuovo. «Che cos'è questa "trasfusione"?» «Si prende il sangue da una persona, una persona sana, e si mette in una
persona che ne ha perso troppo. Ma servono due aghi cavi. Non badateci. Mi dispiace.» Aveva ragione lui, molto probabilmente. Merlino aveva visto molte ferite. E il sangue era ovunque. Ovunque, tranne che nel corpo di Galahad. «Le penne» esclamò Jalil. «Le penne nello zaino. Tirale fuori.» Mi sfilai lo zaino, senza avere la più pallida idea di quello che avesse in mente Jalil. Tirai fuori le penne e gliele diedi. Una era a scatto. L'altra era una penna a sfera normale. Jalil estrasse la cartuccia. Un tubo di plastica cavo. La tenne in alto, perché potessi vederla bene. «Impossibile» disse Christopher. «Possibile» replicai. «Io ho il gruppo 0. Sono un donatore universale. Dobbiamo bollire la cartuccia, far uscire l'inchiostro. E ci servono degli stracci bolliti per pulire le ferite.» «Al lavoro» disse Jalil e partì di corsa. Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a Galahad. Non so esattamente cosa credevo di fare. Avevo le conoscenze mediche dell'uomo della strada. Non molte. Anche se forse erano molte, a confronto dell'uomo medio di Everworld. «Datemi un ago e del filo.» «So cucire una ferita, ragazza» disse Merlino. «Lavatevi le mani. In... nel vino. L'alcol servirà a qualcosa.» Mi guardò con durezza, infastidito, immagino, da questa ragazzetta che impartiva ordini a destra e a manca. Ma era anche incuriosito. E forse intuiva che non mi stavo inventando le cose di sana pianta. La curiosità ebbe la meglio. Si lavò accuratamente le mani in un rivolo di vino rosso versato da Sir Gareth. «David, apri l'analgesico. Qualcuno porti da bere a Galahad, no, no, non vino, accidenti, portate dell'acqua.» «Meglio il vino» mi interruppe David. «Chissà quanto è pulita quest'acqua.» «Okay, proviamo con quattro compresse» dissi. Me le feci scivolare sul palmo della mano, che poi premetti sulle labbra di Sir Galahad. La faccia gli bruciava. Febbre alta. Be'... l'analgesico sarebbe servito contro la febbre. E forse avrebbe fatto qualcosa anche contro il dolore. Era magico per i crampi allo stomaco. Certo, però, che i crampi allo stomaco non sono come una ferita di trenta centimetri sulla pancia. «E.R. Medici in prima linea» disse sottovoce Christopher. E poi aggiunse: «Dimmi se posso fare qualcosa.»
«Cerca un po' di luce. Non si vede niente qui dentro.» Merlino iniziò a togliere la fasciatura. «Christopher e David, lavatevi» ordinai con decisione. «Qual è la ragione per cui ci si lavano le mani?» chiese Merlino. Mi ero quasi scordata di lui. Mi stava fissando da sotto le sopracciglia cespugliose, per metà sospettoso, per metà affascinato, ago e filo in mano, pronto. «Si eliminano i batteri.» Già, bella spiegazione. «Le malattie e le infezioni sono causate tutte dai batteri. Sono animaletti minuscoli, così piccoli che non si possono vedere. Si devono lavare via dalla ferita e da tutto quello che tocca la ferita. Come le mani.» Afferrai una bottiglia di vino e mi lavai le mani. Probabilmente non c'era abbastanza alcol in quel vino per disinfettare, ma male non avrebbe fatto. Jalil tornò di corsa. Teneva in mano la cannuccia della biro, pulita. «Okay. Ecco quello che facciamo. Jalil, passami uno straccio. Christopher? David? Dovete premere con il palmo delle mani.» «Ma sul sangue?» chiese David, spaventato. «No, sulle orecchie, David. È ovvio, sulla ferita. Dovete premere per rallentare l'emorragia, mentre Merlino lo ricuce. Non ha senso fare una trasfusione se poi il sangue se ne esce subito. Avanti, fate come vi dico. E fatelo! Okay. Come va, signor Galahad?» «Sopporto tutto ciò per poter tornare in battaglia» mi disse. «Ma non posso sopportare di parlare a una donna in una situazione tanto imbarazzante.» «Una situazione... oh, per favore! Questo è il minore dei vostri problemi.» Mi fece sorridere. Più preoccupato del pudore che della vita. «Idiota. Se le donne fossero così, nessuna farebbe più figli.» «Non credo che dovresti dare dell'idiota al paziente» osservò Jalil. «Oh, mio Dio. L'ho detto ad alta voce? Mi dispiace. Veramente. Okay, pronti? Iniziamo. No, un po' più a sinistra, David, sulla ferita, sul taglio.» La pressione ridusse l'emorragia. O era così, oppure Galahad stava finendo il sangue. Non sembrava che fossero state recise delle arterie importanti. Era un sanguinamento lento e costante, più che un fiotto vero e proprio. Merlino iniziò a cucire. Lo faceva con mano esperta e con destrezza, con l'abilità di chi l'ha già fatto molte altre volte. Almeno lui sapeva quello che faceva. Mille volte più di me. «Dall'arteria alla vena» disse Jalil.
«Come?» «Dobbiamo infilare l'ago a te in un'arteria e a lui in una vena. Giusto? Vogliamo che la pressione spinga il sangue fuori da te e dentro di lui.» «Come fai a saperlo?» «Saperlo? Saperlo? Non so niente, io. Mi sembra che abbia un senso logico, ecco tutto. No, no, aspetta. Da vena a vena. Non tocchiamo le arterie.» «Scusa, ma come si fa a distinguerle?» chiese Christopher. Buona domanda. Presi uno straccio fumante, scottava ancora, e mi lavai bene il braccio, sulla piega del gomito. «Mi serve un laccio emostatico. Incredibile, ma sto pescando le mie conoscenze mediche da Rent. Mimì è una tossica. Se te lo stringi al braccio, le vene diventano più visibili.» David si tolse la cintura e me la legò stretta al braccio. Feci un paio di respiri profondi. Non restava altro da fare, ora, che infilare un tubicino di plastica (la cannuccia di una biro!) nel mio braccio. «Jalil?» lo pregai. «Oh santo cielo!» Si inginocchiò al mio fianco. «Okay. Okay. April, non ti muovere.» Con la punta del coltellino toccò appena la vena pulsante sul mio braccio. «Aaaah!» Il sangue gli schizzò in faccia. Fece un salto indietro. Premetti l'indice sul taglio minuscolo. Il laccio aveva rallentato il flusso del sangue, ma non l'aveva fermato. «Okay, sono tranquillo» disse Jalil. «Meno male che c'è qualcuno di tranquillo» scherzò Christopher. «Infila la cannuccia. Qui lo tengo io» dissi, con tono calmo. «Come estrarre il petrolio, ragazzi. E questo è il nostro pozzo petrolifero.» «E sbrigati!» scattai. Jalil infilò un'estremità della cannuccia sotto il mio dito, nella vena o nell'arteria o in qualunque cosa fosse. Uno spruzzo sottile di sangue uscì dalla parte opposta. Jalil la tappò con il pollice. La cannuccia mi dava fastidio. Non era tanto un dolore, quanto piuttosto l'orrenda sensazione che ci fosse qualcosa di molto, molto sbagliato. Merlino aveva quasi finito. Alzava gli occhi ad ogni punto che cuciva, assolutamente affascinato.
Mi mossi con esagerata cautela e con Jalil che mi faceva da ombra e mi misi a sedere accanto a Galahad. David aveva già stretto il suo braccio con un laccio. «Okay, amico, probabilmente non sarà la tua più grande ferita, ma resta fermo» disse Jalil al cavaliere. Trovò quella che tutti sperammo fosse una vena. Ora eravamo uniti da una cannuccia, io e Galahad. Il mio sangue stava per entrare nel suo corpo. «Prima slego il laccio a Galahad» disse David. E poi: «Okay, adesso il tuo.» Il sangue sprizzò dal forellino, tutto intorno alla cannuccia. Ma entrò anche nella cannuccia. Sei dita di tre persone diverse tamponarono la falla. E ora la trasfusione era in atto. «Avrò il sangue di una donna nelle vene, nel cuore» si lamentò Galahad. «Non sarò più un uomo.» «Sì, più o meno funziona così» gli risposi. «Avrai il sangue di una donna e ti cadrà il pisello.» Sembrò molto preoccupato della mia affermazione. Anche Merlino. «È uno scherzo» spiegò Jalil. «Il sangue è sangue, non importa se di un maschio o di una femmina, di un bianco o di un nero. È suddiviso in vari tipi, ma non secondo il criterio che credete voi.» «Per quanto tempo andiamo avanti?» chiese Christopher. «Mmm... vediamo, il diametro della cannuccia, la velocità del flusso...» iniziò Jalil, ma poi rinunciò. «Facciamo finché non mi sento troppo debole» dissi. Restammo in quella posizione, doloranti, tesi, per un'ora intera. Merlino non si mosse mai, non distolse mai l'attenzione. Stava assistendo a un miracolo. Meglio ancora: stava assistendo a qualcosa che lui stesso, un giorno, avrebbe potuto ripetere. Poi, finalmente, Jalil prese l'iniziativa. «Okay, dovrebbe bastare, che ne dite?» disse. Mi sfilarla cannuccia. Mi bendai il braccio con degli stracci appena bolliti. Poi mi alzai in piedi, feci un respiro profondo, sentii il sangue scorrermi via dalla testa, lasciai cadere a terra il libro dei canti e gridai: «Maledizione, non ne posso più!» CAPITOLO XIX
Il sacerdote sgranò gli occhi. Circa centosettantacinque persone sgranarono gli occhi. Tutto il coro sgranò gli occhi. «Scusate» sussurrai desiderando tanto sprofondare. Poi aggiunsi: «Scusate tanto.» I miei genitori avevano l'espressione dolente di chi è determinato a non notare qualcosa che è impossibile ignorare. Un paio di vecchie fecero: «Ssssssh!» Ero in chiesa. A messa. Mi guardai il braccio. Niente ferite. Niente tagli. Niente sangue secco sulla pelle. Fortuna che non avevo gridato qualcosa di peggio. Il sacerdote stava arrossendo. Era giovane. Probabilmente pensava che fosse un commento su di lui. Una stroncatura netta dal banco in quinta fila. Dovevo essere svenuta. Il sangue perduto, lo sfinimento. Ma ero tornata nel mio mondo. Con le mie amiche sedute accanto a me. I miei genitori. La croce. Il banco di legno, duro, scomodo, da "resta sveglio e prega". "Fa' che duri..." pregai. "Fa' che i troll non arrivino mentre sto dormendo, che non siano le loro facce la prima cosa che vedrò al mio risveglio." Ed eccomi dall'altra parte, con Merlino in persona che mi teneva uno straccio fresco sulla fronte. «Siete svenuta» mi disse. «Già. Io...» Mi guardai intorno: Galahad era disteso sul pagliericcio alla mia sinistra. Era svenuto, o addormentato. Non si muoveva, ma respirava pesantemente. «Quando siete caduta, il vostro spirito vi ha abbandonata. Vi ho creduta morta. Poi vi ho sentito il polso e ho capito che la vita era ancora in voi.» Mi misi a sedere. Ma lui mi spinse giù di nuovo. «Non sono un granché come medico, ma capisco quando c'è bisogno di riposo» mi disse con gentilezza. La faccia di Jalil entrò dall'alto nel mio campo visivo. «Tutto okay?» «Sì, sì. Ho fatto un salto in chiesa. Ho svegliato tutti, sta' sicuro.» Annuì. «Gawain dice che sta per ricominciare daccapo. David e Christopher sono già sul campo. Hanno bisogno di chiunque sappia usare una spada. Sto andando anch'io. Volevo solo vedere se stavi bene, prima.» Gli presi la mano, e questo lo imbarazzò tantissimo. Teneva la mia come se volesse posarla da qualche parte e non sapesse
bene dove. «Jalil, voi ragazzi non dovreste... voglio dire, state attenti.» «Non c'è niente di cui preoccuparsi» mi disse con un cupo umorismo. «Solo un dio della distruzione fuori dai gangheri e qualche centinaio di troll in una foresta nel cuore della notte.» «Dobbiamo dargli Senna» dissi all'improvviso. «È l'unico modo. Lasciate che Loki se la prenda.» Guardai Merlino: tutta la simpatia che c'era nei suoi occhi sfumò. Non aveva alcuna intenzione di cedere Senna a Loki. E con mia grande sorpresa, nemmeno Jalil. «Gli diamo Senna, e poi? Ci ritroviamo tutti questi fenomeni da baraccone nel nostro mondo?» «Sì» insistetti. «Il nostro mondo ha avuto a che fare con ogni genere di assassini psicopatici. Loki sarà solo uno tra i tanti.» «Dici? Magari hai anche ragione. Ma ci sono troppe menti vulnerabili, superstiziose, nel nostro mondo» rifletté Jalil. Si riferiva anche a me, pensai, oltre che a tutti gli altri. Sapevo in quali valori credeva Jalil, o meglio, in quali non credeva. «La gente si beve qualsiasi cosa» continuò. «Questi simpatici tipetti iniziano a scendere nei sobborghi di Chicago, e quanto tempo credi che ci voglia prima che abbiano un milione di seguaci a testa, tutti a gridare che la fine del mondo è vicina, tutti pronti a farla succedere? O prima che Huitzilopoctli si metta a fare sacrifici umani nei campi di prigionia, o cose del genere? Viviamo in un'età superstiziosa, April. La gente ha la testa piena di farfalle.» Dall'esterno ci giunse il suono di molte grida. Intrepide grida di guerra. «Non preoccuparti» mi disse Jalil lanciando un rapido sguardo a Galahad, ancora svenuto, e un altro sguardo, più penetrante, a Merlino. «Abbiamo ancora Gawain.» Lasciò andare la mia mano, si girò e uscì dalla tenda con passo veloce. «Voi non potete fare niente?» chiesi a Merlino. Il vecchio sospirò. «Forse. Tra poco. Non ancora. Ho chiamato aiuto, ma potrebbe non arrivare in tempo, o potrebbe non arrivare affatto. I draghi non amano Galahad. Ne ha uccisi così tanti in tutti questi secoli. Se fosse morto... ma è ancora vivo.» Guardai la faccia giovane e pallida del perfetto cavaliere. «Avete detto "secoli". Ma quanti anni ha? Sembra giovane.» «Il suo aspetto non cambierà mai. Ma egli giunse a Everworld molte
centinaia di anni fa. Quando la barriera non era ancora così forte. Lui con gli altri. E con me. Giungemmo insieme. Eravamo, dopotutto, creature del mito e della leggenda. Quando gli dei crearono Everworld portarono con sé tutte le creature toccate dalla magia. Alcune sono qui sin dall'inizio. Altre arrivarono col tempo.» Mi rimisi a sedere. E questa volta mi lasciò fare senza opporsi. «Io non appartengo a questo mondo» dissi. «Nessuno di noi.» «No. Voi siete stati portati qui per un evento fortuito. Eravate legati alla strega. È stata lei a chiamarvi, ben sapendo che cosa sarebbe potuto succedere. E lo sconvolgimento creato da Fenrir per ordine di Loki vi ha trascinati sin qui.» «Non completamente» gli dissi. «Quando ci addormentiamo, ci ritroviamo nel nostro mondo. C'è un'altra me stessa di là, la vera me stessa. Io. Quello che è. L'altra me stessa è dall'altra parte e vive la mia vita. E quando perdiamo conoscenza qui, siamo là. È successo anche adesso.» Merlino annuì, come se tutto questo fosse sì interessante, ma non certo la cosa più strana che avesse mai udito. «Ho sentito il vostro spirito che vi lasciava. E questo spiegherebbe tutto.» Poi sorrise. «Darei non so che cosa per vedere il vostro mondo.» «Il nostro mondo?» Quasi mi misi a ridere. «Non saprei. È diverso. Non c'è molta magia, là. Non il vostro tipo di magia, comunque.» «Parlatemene. Che cosa è cambiato dai tempi di Artù, di Lancillotto, di Galahad? E di Merlino?» «Tutto.» Era una domanda troppo vasta. Che cosa non era cambiato? La gente, forse. «Abbiamo le automobili... che sono delle specie di carri, solo che vanno senza cavalli. Treni. Aerei. Gli aerei sono delle macchine volanti. Internet. Libri.» Scossi la testa. Che cosa potevo dirgli? Era pura follia. Il nemico stava arrivando, i miei amici forse stavano andando incontro alla morte, tutta la mia vita era una follia, e io avrei dovuto cercare di riassumere gli ultimi mille anni della storia dell'umanità come in un quiz televisivo. «Avete scoperto il segreto per mutare il piombo in oro?» «Come dite?» «Il piombo in oro. Avete scoperto il grande segreto? Avete trovato finalmente la Pietra Filosofale?» Zoccoli al galoppo. Gli uomini se ne andavano ad affrontare i troll che avanzavano. David, Christopher e Jalil erano con loro. Mi sentivo come un disertore. Era la mia battaglia tanto quanto la loro. Il fatto che fossi una ra-
gazza non poteva giustificarmi. Cercai di rimettermi in piedi. Merlino mi trattenne. «No. Il vostro braccio non ha forza sufficiente per abbattere un troll con una spada.» «Non cominciamo con le solite storie del sesso debole e del sesso forte. Ci posso almeno provare.» Uscii, con passo incerto, nella notte ed ebbi subito un mancamento, un capogiro. "È già una fortuna che riesca a camminai re" pensai. Vidi i cavalli, vidi uomini lasciare l'accampamento a piedi. Non potevo raggiungerli. Ma dovevo fare qualcosa. Vidi Senna, in piedi accanto al fuoco tra le sue due guardie. Corsi barcollando verso di lei. «Tu dovresti avere dei poteri, qualcosa. Non puoi fare niente?» «Per esempio stregare Loki? Mi dispiace. È un po' fuori dalla mia portata.» «Se perdono, Loki ti avrà.» Alzò gli occhi al cielo. «Sai, credo di aver già formulato questo pensiero, April. Sì, sono quasi sicura che questo esatto pensiero mi sia già passato per la testa. E se vincono, Merlino mi rinchiuderà in una torre da qualche parte, finché non morirò di vecchiaia. Ehi... sono o non sono la star della serata?» Un improvviso ruggire di voci ci fece sobbalzare. Troppo vicine. La battaglia: invisibile, ma a portata di orecchio. Questa volta gli alberi abbattuti non avrebbero confuso i troll, che avrebbero respinto Gawain e gli altri. E a quel punto, con la spina dorsale della nostra difesa spezzata, sarebbe arrivato Loki. "Ecco che cosa sta aspettando Merlino." Lo capii solo allora. Risparmiava le forze per Loki. Ma questo non avrebbe aiutato i miei amici. «Ma perché ci hai trascinati qui?!» le chiesi amaramente. Senna ci pensò su. Poi rispose. «Questo è un mondo pericoloso. Sapevo troppo poco. Sapevo solo che stava per succedere. E non...» Scosse la testa e distolse lo sguardo. Ma non prima che vedessi la tristezza dipinta sul suo viso. «Non... che cosa?» la incalzai. «Non volevo essere da sola. Patetico. E poi avevo bisogno di un paladino.»
«David?» «È tutto quello che sono riuscita a trovare all'ultimo momento.» Mi fece imbestialire, il modo in cui lo disse. Forse David non era esattamente come Galahad, ma stava rischiando la vita per lei, per me. Per il mondo. Tutto quello che era riuscita a trovare all'ultimo momento? «Come pensavi che sarebbe stato, qui?» le chiesi. «Quanto sapevi? Sapevi che stavi per andare in un posto pieno di draghi e di troll? Sapevi di Loki?» «Io e te non siamo amiche, April. Non startene lì a odiarmi e a cercare allo stesso tempo di scucirmi delle informazioni, okay?» Avrei potuto prenderla a schiaffi. Ma non potevo sapere che cosa mi avrebbe fatto lei in cambio. Altre grida improvvise. Sobbalzammo entrambe. Troppo vicine. E subito dopo spuntarono le prime teste oltre il ciglio della radura. Teste umane. Vidi Sir Garetti. Vidi anche Christopher. «Su il sipario. Ultimo atto» mi disse Senna. «E tu farai la parte della fanciulla che intrattiene i troll... vero April?» Gli uomini si ritiravano, correndo. Loro e altri dieci, quindici armigeri scavalcarono il basso muro, si girarono e si prepararono ad affrontare i loro inseguitori. Altri uomini. Poi Jalil e David, quasi insieme. David inciampò e cadde, più per stanchezza che per altro, mi parve. Gli ci volle un po' prima di rimettersi in piedi. Ma poi si unì agli altri sotto quei miseri bastioni. Gawain fu l'ultimo a saltare di qua dal muro in rovina. Un istante dopo, ecco i troll stagliarsi al di sopra della nostra patetica linea di difesa. «Devo andare» dissi. CAPITOLO XX Non avevo armi. Che importava? Qualcuno sarebbe caduto, qualcuno sarebbe morto e mi avrebbe lasciato una spada. Ma che cosa stavo dicendo? Una spada? Che cosa ne sapevo, io, di spade? Che cosa ne sapevo, io, di combattimenti, di uccisioni? Di morire ero capace. Tutti ne sono capaci. Ma di uccidere? Sarei stata capace di uccidere? Anche solo un troll, che non aveva niente di umano? Avevo forse altra scelta? Non ero una fragile fanciulla indifesa in un
film dell'orrore degli anni Cinquanta. Non ero Fay Wray che gridava e gridava, stretta nella mano di King Kong. Credevo fermamente nella parità dei diritti. Credevo che fosse giusto che combattessero anche le donne. Credevo fermamente in tutte le teorie femministe in cui dovevo credere. Ma avevo paura. "Anche loro hanno paura" mi dissi. "Anche David e Christopher e Jalil." Nemmeno gli uomini volevano morire. Ma pensavano di non avere altra scelta. Loro dovevano combattere. Erano stati cresciuti sin dalla nascita con l'idea implicita che per loro, un giorno, sarebbe potuto arrivare il momento di andare alla guerra. Ma per me, per le donne, non era così. Non avevo mai giocato con i videogiochi, con le battaglie virtuali, non mi erano mai passate per la testa queste fantasie, facendo zapping non avevo mai sentito la voglia di fermarmi su ogni scena di guerra. «Allora? Parti per la guerra?» mi derise Senna. Non mi ero mossa. Ero ancora lì, ferma, con i troll che arrancavano sul pendio, addosso ai nostri uomini spaventati, feriti, urlanti, ansimanti. Fra poco la nostra linea di difesa sarebbe crollata. Fra poco i troll sarebbero stati qui, avrebbero distrutto ogni cosa, avrebbero respinto gli uomini, si sarebbero riversati su di noi. E io? Che cosa avrei fatto, io? Me ne sarei rimasta lì a urlare "Salvatemi, salvatemi", quando ormai non ci sarebbe stato più nessuno di vivo, per venirmi a salvare? Iniziai a camminare. Le ginocchia bloccate. Rigide. Costrinsi il mio corpo a muoversi e poi vidi, come da molto lontano, che il movimento era diventato automatico. Più avanti. Più vicino. Non ero più nemmeno cosciente del movimento, la scelta era stata fatta, non si poteva tornare indietro. Un ruggito di trionfo ed ecco che la testa di Sir Gareth gli si staccò dal collo. Rotolò. Una pallina da golf sul green. Una palla da basket uscita dal campo. Avrei dovuto raccoglierla e ributtarla indietro, sarebbe stata una cosa gentile da fare, raccoglierla e ributtarla indietro, così i ragazzi avrebbero potuto riprendere il gioco e... Uno degli armigeri barcollò verso di me, correndo come se avesse qualcosa da consegnarmi. Corse, poi crollò a terra. Morto, per una ferita invisibile. Morto, e basta. La sua spada rimase sull'erba. La raccolsi. La maniglia, no com'è che la chiamano... ah già, l'elsa, era umida, umida di sangue. Pelle liscia legata da una specie di corda, per una presa migliore. Era pesante. Un chilo, un chilo e mezzo, due? Anche di
più, forse. La linea di difesa si ruppe. David arretrava, ora isolato da Gawain. La linea di difesa si ruppe e i troll entrarono nell'accampamento correndo verso di me. David menò un fendente. Un troll cadde. Troppi altri lo rimpiazzarono, e tutti correvano, correvano verso di me, contro di me. Contro di me. Una ragazza indifesa. Appena il tempo di scappare e incespicare e gridare "Salvatemi!". Ma non riuscivo a muovere un solo muscolo. I piedi, la spada, nulla. Restai là, pietrificata, la spada con la punta verso il basso. Paralizzata. E il troll alla testa degli invasori esitò. Rallentò. Si fermò, a tre metri da me, fissandomi, incerto. Il tempo si arrestò. Mi annusò, come un animale selvatico, sospettoso. E io lo guardai fisso, ogni emozione troppo lontana per sfiorarmi. Udii un fruscio alle mie spalle. Vidi gli occhietti porcini del troll spostarsi dietro di me. «Oh, bene» disse Galahad con brio. «La battaglia non è ancora finita.» Questo ruppe l'incanto. Mi voltai, guardai e... sì, era lui. Pallido ma ben saldo. Il torso nudo era un pasticcio di ferite aperte e di sangue secco. I punti di sutura sotto la cintola, in stile Frankenstein, formavano come un ghigno orrendo. In quello strano silenzio, Galahad disse: «Milady, non mi intrometterò, se siete determinata a insozzare la vostra spada con il sangue di questo troll. Se però non lo siete, vi prego di concedere a me l'onore di ucciderlo per voi.» Io non dissi niente. I troll erano a bocca aperta. A quel punto Christopher urlò: «Galahad!» Diede una gomitata a David e David ripeté il suo grido. «Galahad!» Ad uno ad uno, poi a due, a tre, i malconci armigeri iniziarono a ripetere il suo nome. «Galahad! Galahad!» I troll tremarono e gli uomini tornarono all'attacco, al grido sempre rinnovato di "Galahad! Galahad!". Il perfetto cavaliere osservava la scena appoggiato alla sua spada e annuiva in segno di approvazione, come se niente di quanto accadeva richiedesse per ora il suo intervento.
Non poteva fare di più. C'erano volute tutte le sue forze per uscire dalla tenda e inscenare quella manifestazione di coraggio. I troll arretrarono, abbandonarono l'accampamento, si ritirarono oltre il muro. Ma gli uomini non ebbero la forza di inseguirli. Molti crollarono a terra, ansimando, gemendo, chiedendo a qualcuno, a chiunque, dell'acqua. Andai da Galahad. «Non dovreste essere alzato» gli dissi. «E voi non dovreste ergervi tutta sola davanti a un assalto nemico» replicò. Scossi la testa. «Non è esattamente così. Ero paralizzata. Non riuscivo più a muovermi.» Mi resi conto che il mio comportamento doveva essere sembrato quello di un eroe coraggioso. Salda come una roccia, sola e impavida davanti al nemico, con una spada in prestito, pronta a tutto. Ma non era esattamente la verità. «Temevo che l'avere il vostro sangue nelle vene mi avrebbe privato della mia virilità» mi confessò Galahad con un'ombra di sorriso. «Ora capisco che ciò può solo rendermi più valoroso.» Non sapevo cosa rispondere. Non era il tipo di complimenti che ci si sente fare spesso. Non mi capita tutti i giorni che mi si presenti un perfetto cavaliere e mi faccia dei complimenti sul mio sangue. «Oh...» dissi. «Grazie.» Mi ero sbagliata. Qualche volta la paura ti mette davvero addosso una smania strana, una specie di libidine. Forse mi stavo abituando alla paura. Forse c'erano tipi diversi di paura. Forse ero già oltre il concetto di paura, o forse stavo solo perdendo il senno. Comunque una parte di me desiderava con tutte le sue forze che lui mi issasse sul suo cavallo e mi portasse via in qualche castello lontano, o almeno in un Holiday Inn. Lui era una bellezza. Di più, era un uomo. Era un uomo che altri uomini riconoscevano tale. Sir Gawain aveva gridato il suo nome con lo stesso entusiasmo degli altri. E c'ero io, l'unica donna che non fosse una strega nel raggio di miglia e miglia. E con ogni probabilità stavamo per morire entrambi. Lui sarebbe morto, e con lui i miei amici, e anch'io sarei morta senza nemmeno ricevere un bacio da lui, e mi sembrava uno spreco davvero inaccettabile. Ma come si fa a spostare delicatamente la conversazione da "bel massacro di troll, oggi!" a "baciami prima che ci ammazzino"? Senna sarebbe stata capace di...
Dov'era Senna? Come in risposta alla mia domanda, una voce tonante, ormai familiare, una voce che fece piegare gli alberi come sotto un vento di maestrale, ruggì: «Sono venuto a riprendere la mia strega!» CAPITOLO XXI Gli uomini si rimisero in piedi faticosamente. David, Jalil e Christopher vennero alla svelta da me e Galahad. Jalil aveva un brutto taglio sotto un occhio. Una ferita bianca di carne e rossa di sangue. «Dov'è? Dov'è?» David volle sapere da Sir Galahad. Galahad si guardò intorno, incerto quanto me. Nessuna traccia di Senna. «Dov'è?» ripeté David, stravolto. «Loki sta arrivando. Sta arrivando!» Qualcosa di grande avanzava poco lontano, ancora invisibile per noi: schiacciava gli arbusti, scostava gli alberi, faceva tremare la terra sotto il peso di ogni suo passo. King Kong. Uguale. Mi venne da pensare, con quella porzione di cervello che ancora conservava una certa capacità di raziocinio e di osservazione, che Loki era un esperto di teatro. Stava amplificando la paura. Il panico. Usava la suspense come arma. Come un bravo regista. «Non lo so» ammise Galahad, impensierito. Chiamò gli uomini che aveva messo di guardia a Senna. «Che ne è della strega?» Sembrarono confusi. Come se la domanda fosse leggermente imbarazzante, posta da Galahad. «Mio signore, avete mandato voi l'ordine che venisse liberata.» «Mandato l'ordine?!» scattò. «Chi vi ha dato l'ambasciata?» Fu subito chiaro dai loro sguardi vacui che nessuno dei due ricordava esattamente di aver ricevuto un messaggio. Senna aveva creato la suggestione. «Siete stati stregati» disse Galahad. «Andate. Raggiungete gli altri.» Ora erano i troll a ripetere un nome, eco bestiale delle nostre voci. «Loki! Loki!» «Se n'è andata» disse Christopher, acido. «Bella sorpresa.» «Almeno possiamo fermare questa stupida battaglia» ragionai. «Loki vuole lei e basta. E noi gli diciamo come stanno le cose e la facciamo finita.»
«E secondo te lui ci crederebbe?» «Crederà a Galahad» osservai. «Meglio libera, che nelle mani di Loki» fu il commento di Galahad. David annuì. «Dobbiamo distrarre Loki, farlo combattere, altrimenti manderà i suoi troll a cercarla.» Galahad scosse lentamente la testa. «Stiamo pagando un prezzo terribile per il mio antico odio contro i draghi. A quest'ora la strega avrebbe potuto essere già al sicuro, custodita da Merlino, lontano da qui, in qualche luogo incantato che solo lui conosce.» Jalil si toccò la ferita vicino all'occhio. Sobbalzò al dolore e alla sensazione insolita della carne viva. «Sapete, Sir Galahad, avreste semplicemente potuto uccidere Senna. Avreste risolto i problemi di tutti in un colpo solo. Tranne i nostri, naturalmente. E fine della storia.» «L'avrei fatto, se tutto il resto non avesse funzionato.» «Jalil ha ragione, amico, perché aspettare che tutto il resto non funzionasse? Avreste potuto ordinare a uno dei vostri ragazzi di farla fuori.» Galahad aveva la faccia di chi è convinto di aver frainteso. «Ma senz'altro non potete immaginare che uno dei cavalieri di Artù, un cavaliere della Tavola Rotonda, il figlio di Lancillotto, possa togliere la vita a una donna! Io vivo secondo il codice, signore. Secondo il codice.» «Già. Intanto, però, il vecchio Percy è morto, e anche Kay, e un sacco di altri ragazzi» osservò Christopher. «Non doveva succedere.» Galahad rise, quasi desolato. «Io sono una creatura del mito e della leggenda, signore. Sono quello che devo essere, reale o non reale, uomo o... o pura immaginazione. Io sono un cavaliere. Onesto e' coraggioso. Nemico dei draghi, difensore delle donne, uomo d'onore. Sono quello che devo essere. Niente di più, niente di meno.» Ci stavamo perdendo in chiacchiere. Come persone sdraiate sulle rotaie che sentono il treno arrivare e fanno come se niente fosse. O come dei poveri pazzi. La morte si stava avvicinando e noi stavamo lì a discutere su quello che sarebbe stato meglio fare. Osservavo il viso pieno di giovinezza di Galahad, un viso che aveva vissuto mille anni, e vidi i suoi occhi fissarsi su un punto alle mie spalle, sulla massa sempre più grande del dio venuto a ucciderci. «Loki» annunciò Galahad.
Mi girai, con la paura che rallentava ogni movimento. Compariva un po' per volta, a mano a mano che saliva su per la collina. Sorrideva. Era felice. Stava facendo quello che più gli piaceva fare, immagino. Già pregustava la vittoria. Avrebbe preso la sua strega e poi sarebbe fuggito lontano da Ka Anor e da Everworld, sarebbe entrato nel mondo reale. La sua era una lotta per la vita. Non si sarebbe lasciato intimidire. Sempre più grande, già incombeva su di noi. Alzò un piede, scavalcò il muro in rovina e riappoggiò lo stivale con una tale forza da farci sobbalzare tutti quanti, come tanti insetti su una pelle di tamburo. «Bene, bene. Salute... Galahad, salute, Gawain. Mi avevano detto che eri mortalmente ferito, Galahad. Un'esagerazione, a quanto vedo.» Osservò più da vicino. «Non troppo un'esagerazione. Dunque, vediamo. Dammi la mia strega e ti lascerò tornare alle tue ridicole nobili imprese. Ci sarà sicuramente qualche fanciulla in difficoltà da qualche parte.» «Debbo rifiutare, Grande Loki» gli disse Galahad con un rispettoso cenno del capo. «Allora ti ucciderò.» «Ciò è possibile.» Loki si abbassò, chiuse la mano alla base di un alberello alto quasi quanto lui e lo sradicò. La terra rimase attaccata alle radici. Lo scosse, fece piovere terra tutto intorno, e ce lo scaraventò addosso. Galahad vibrò un colpo di spada verso l'alto e tagliò in due l'alberello. Le due metà ci volarono sopra la testa, senza nemmeno sfiorarci. Ma quello fu l'ultimo dei colpi inferti dal cavaliere. Lo sforzo improvviso strappò una mezza dozzina dei punti che gli chiudevano la ferita sul ventre. Galahad crollò a terra, la spada ancora in pugno, l'altra mano stretta al ventre. Mi inginocchiai accanto a lui. Cercai di tenergli chiusa la ferita. Loki avanzò di tre passi. Pesanti, impazienti. Se non altro, non era diventato più grande. Era ancora il doppio dell'altezza di un uomo. Ma era carico di un'energia quasi palpabile, ed era perfettamente integro, illeso, tutte le ferite sanate e dimenticate. Gawain lanciò un grido e lo attaccò. Poi David si piegò e afferrò la spada di Galahad. «Con il vostro permesso, signore?» chiese cortesemente. «Fintantoché colpirete il nemico» gli disse Galahad stringendo i denti. Gawain girò su se stesso e vibrò un fendente tenendo la spada di lato, un colpo che avrebbe dovuto trapassare da parte a parte la gamba di Loki. E
invece la spada colpì, tagliò, versò sangue nero e di ghiaccio e si incastrò. Gawain la strattonò, ma non riuscì più a liberarla. David alzò la spada di Galahad sopra la testa, a mo' di pugnale, e corse incontro a Loki urlando. Loki lo spazzò via con una violenta manata, che lo fece ruzzolare per almeno sei metri e lo mandò poi a finire dentro la tenda. «A me!» gridò Loki, e le voci dei troll gli risposero con un boato. Erano tanti. Troppi. Eccoli apparire, la testa e le spalle per prime, eccoli scavalcare il muro, tutti insieme, una valanga di pietre animate, di orrende statue viventi. La manciata dei nostri uomini arretrò quasi senza combattere. Non c'era speranza. Qualcuno scappò. Anzi, molti scapparono. Ci passavano accanto correndo, quasi travolgendoci nel panico che li accecava. L'ondata delle creature brute dalle mani di pietra avanzava con passo pesante. Mi rimanevano alcuni secondi di vita. Tutta la mia esistenza mi passava davanti agli occhi? Sì, no. Immagini sconnesse, il frammento di un sogno, il tutto intriso nel profondo malessere che dà la paura. Stavo per morire. «Milady» mi disse Galahad. Mi stava porgendo qualcosa. Un coltello. Un pugnale. L'impugnatura rivolta verso di me. Pensava forse che avrei fermato i troll? Pensava forse che avrei fermato Loki? No. Oddio, no. Era per me. Per me, perché lo usassi su me stessa. CAPITOLO XXII Presi il coltello. Ma il mio braccio non riuscì a reggerne il peso. Non ne aveva più la forza. Non avevo più forze. Il braccio mi cadeva, il pugnale penzolava tra le dita. Tutto finito. Che cosa sarebbe successo? Com'era la morte? Poi una voce forte iniziò a recitare. Un suono ritmico. «Antiche pietre, ossa spezzate, guarite e crescete, antiche pietre. Torre del mago, fiore che sboccia, antiche pietre, ancora la voce ascoltate di chi vi è signore.» Una seconda ondata di troll stava cominciando a scavalcare il muro. Non ci riuscirono mai. Il muro iniziò a crescere. Gridarono di paura, mentre il muro si innalzava sotto il loro corpo. Tutto intorno, sull'ovale di pietra, le mura crescevano, spingevano verso
l'alto da sotto l'erba, le muffe, il muschio, i licheni. Pietra bianca, nuova, austera nel buio, dorata nella luce riflessa del fuoco. La torre tra le cui rovine ci eravamo accampati tornava ad innalzarsi. Ed ecco Merlino, in piedi, illuminato da una luce interiore, le mani sollevate in alto, gli occhi dilatati, fissi su cose che nessun altro vedeva. Come trasfigurato, recitava, ripeteva le parole dell'incantesimo. Le pietre crescevano. Una sull'altra, come se un gigante invisibile le stesse disponendo a una velocità impossibile. Le mura ci circondarono, dieci metri di altezza. Ma troppo tardi. Decine di troll rimasero intrappolati all'interno, insieme a noi. E insieme a Loki. Galahad a terra, Gawain disarmato, gli armigeri nel panico, troppo pochi rispetto ai troll. Troppo tardi, Merlino, troppo tardi. «Ti avevo avvertito, Loki, che eri lontano da casa tua» esclamò Merlino. «Costruii questa torre settecento anni fa. Da allora ha ceduto alla rovina del tempo, e tuttavia ubbidisce ancora ai miei comandi.» Sembrava sicuro di sé, ma mi accorsi che la magia aveva prosciugato tutte le sue forze, fino all'ultima goccia. Cadde in ginocchio, le braccia gli crollarono, la voce gli venne meno. «Ottimo, Merlino, davvero molto impressionante» riconobbe Loki. «Ma non abbastanza.» Non sapevo che fare. Merlino mi guardò, guardò proprio me, gli occhi tristi, stremati, sconfitti. Le sue labbra formarono un'unica muta parola: "Porta". Mi guardai intorno. Non c'erano porte sui muri della torre. L'unica via d'uscita era verso l'alto. Guardai impotente il mago e scossi la testa. Sembrò infastidito, nonostante tutto. Mosse appena la testa, verso la tenda. No, dietro la tenda. Merlino ci aveva lasciato un'uscita di sicurezza. Ma certo. Loki era grande due volte un uomo. La porta avrebbe permesso a noi di uscire, ma lui sarebbe rimasto bloccato, almeno per un po'. «Christopher. Jalil. State pronti.» «Per cosa?» volle sapere Christopher. «Quando dico "via", seguitemi. Voi Sir Galahad, venite con noi.» «Non possiamo scappare, ci prenderà subito» osservò aspramente Christopher. «C'è solo da vedere quanto ci metterà a capire. Lo sai, no?» «Va bene, allora tu resta e arrenditi» scattai. «Noi ce ne andiamo.» Loki si piegò e si sfilò la spada di Gawain dalla gamba. La brandì come un coltello e si diresse verso Merlino. Tutto stava succedendo contempo-
raneamente. L'assalto dei troll contro gli armigeri rimasti, un massacro. Merlino in ritirata. La risata di Loki. Una voce spaventata, singhiozzante, la mia. Merlino aveva fallito. Noi non eravamo in salvo, e ora Merlino stesso stava disperatamente cercando di difendersi dai ripetuti attacchi di Loki, il gatto che gioca con il topo. Il vento si alzò all'improvviso, agitandomi i capelli, i vestiti. Creato da chissà quale peculiarità della torre aperta, o forse opera di Loki? Vorticava nello spazio chiuso della torre come un tornado. Sempre più veloce, sempre più caldo... «Laggiù!» urlò David, a faccia in su, indicando qualcosa con il braccio teso. Guardai su. Un drago! Stava piombando su di noi, volava in cerchi sempre più stretti intorno alla torre, il vento prodotto dalle sue ali era sempre più caldo. Loki esitò, incerto su come reagire a questo nuovo elemento. E poi... il drago alitò. Il fuoco si sprigionò dalle sue fauci. Si riversò nell'aria. Un torrente rosso e arancio, potente come il getto di un idrante. Fece ribollire l'aria. Colpì Loki in pieno sulla faccia rivolta verso l'alto, lo inzuppò di napalm, lo trasformò in una torcia vivente, urlante, una colonna di fuoco che barcollava ciecamente dentro la torre. «Adesso» gridò Merlino. «Scappate. Salvate Galahad, andate.» «Non ora, mio buon mago» disse Gawain. «Rimarrò un altro poco.» Presi Jalil per mano, lo tirai per portarlo vicino a Galahad. «Aiutami» lo pregai. Noi lo afferrammo da sotto le braccia, mentre Christopher gli prese una gamba. Iniziammo a correre, come potevamo, con un uomo da trascinarci appresso. La tenda prese fuoco. Presto! David ci raggiunse, prese l'altra gamba. Presto! Galahad protestava debolmente, io avevo le orecchie piene delle grida di Loki e del fuoco esplosivo del drago e del vento da tornado. Una porta. La varcai per prima, camminando all'indietro. Poi passò Galahad, a fatica. Lontani dal pericolo, lontani dal calore, giù da una scaletta tortuosa, giù dove il bosco nero premeva. Un bosco che forse brulicava di troll. David lasciò cadere la gamba di Galahad e si parò davanti a noi, la spada
sguainata, sollevata in alto. Un troll. «La sai una cosa?» lo apostrofò David. «Ne ho abbastanza di voi.» E gli corse addosso. Il troll arretrò, non voleva combattere. Perché? Udii le urla laceranti di Loki. Grida a volume sovrumano. Grida di dolore e di rabbia, non di paura. Ma certo. Anche il troll le udiva. Il troll vedeva le fiamme feroci alzarsi dalla torre crepitando. Il suo signore e padrone questa volta si era cacciato in qualche guaio serio. Continuammo a correre, o meglio, ad arrancare. «Fermi. Fermi. Ho bisogno di una pausa» esclamai. Lasciammo cadere Galahad, non proprio delicatamente. «E adesso?» chiese Christopher. «Loki è spacciato?» «No» rantolò Galahad. «Loki può essere ferito, indebolito, ma non può essere ucciso da un mortale, uomo o bestia che sia.» «Sembrava a un buon punto di cottura però là dentro, nel barbecue» Christopher osservò. «Disperdetevi nella foresta. Scappate.» «Stiamo cercando di salvarvi la pelle, Sir Galahad» disse David. «Cercate di collaborare un po'.» «No. Trovate la strega. Tenetela lontana da Loki. Tenetela lontana da Ka Anor. Avete fatto tutto ciò che potevate, anche di più.» Cercai di controllargli la ferita sul ventre, ma era troppo buio. La cercai a tastoni. Galahad mi prese la mano e la allontanò. «Sono stato ferito molte volte, milady. Sopravviverò.» «Noi non vi abbandoneremo qui in mezzo al niente.» «Non potete viaggiare, con me. Oggi abbiamo subito una terribile sconfitta. Merlino, se vive ancora, resterà debole per settimane, per mesi. Voi dovete...» Le sue parole si dispersero nel rumore del vento che crebbe e calò su di noi dal cielo. Il drago piombò giù come un uccello da preda, gli artigli protesi, pronti a ghermire Galahad. «Ehi, lascialo stare!» urlai al mostro. «È ferito!» Il drago toccò terra con leggerezza, quasi con delicatezza, sul ciglio del sentiero. Il fuoco gli gocciolava dalla bocca, illuminando i miei amici e Galahad di arancio e nero, colori da festa di Halloween.
«Ferito? Davvero?» si meravigliò il drago, con la sua voce da basso profondo. «Sì, ferito, ma non ancora morto.» «No, non ancora morto» confermai. Il drago brontolò tra sé, pensoso, divertito. Il suo muso di serpente si contorse in una smorfia che avrebbe potuto essere un sorriso. I gialli occhi da gatto erano famelici, trionfanti. «Galahad alla mia mercé, finalmente. Ferito troppo gravemente per alzare anche solo un braccio contro di me.» «Lascialo andare» lo pregai. «Siete dalla stessa parte. Merlino e Galahad sono amici.» «I nemici dei miei nemici sono miei amici» disse Jalil. «Questo vale anche per gli amici. Gli amici dei miei amici sono miei amici.» Il drago rise, sinceramente divertito. «Amico? Merlino non è amico mio. Quali sciocchezze avete raccontato a questi poveri stolti del Vecchio Mondo, Galahad?» «Datemi la spada» sussurrò Galahad a David senza sprecare parole. Poi, con quanta voce riuscì a trovare, con un grido rauco esclamò: «Il drago combatte per l'oro, come tutti quelli della sua specie.» «Sì, per l'oro. E per cos'altro? Per l'onore? Per le leggi della cavalleria? Verrò pagato, per questa notte di lavoro. Una ricompensa da re, gioielli, oro, argento, diamanti, rubini. Verrò pagato profumatamente per aver dato a quel pallone gonfiato di Loki una bella lezione di umiltà. Ma Loki non è mio nemico.» Il drago si avvicinò a Galahad un po' camminando, un po' strisciando. Il fuoco gli colava dalle fauci, a pochi centimetri dalla faccia del cavaliere, rivolta verso di lui. «Addio, Galahad, uccisore di draghi.» «La spada!» gridò Galahad, disperatamente. «La mia spada! Lasciatemi morire con la spada in pugno.» David accorse e gli mise in mano la spada. Galahad arrancò per rimettersi in piedi. Corsi ad aiutarlo. «Non puoi farlo. È debole, è ferito» dicevo al drago. «Non può nemmeno difendersi. È da codardi. Se vuoi lottare contro di lui, aspetta almeno che...» Galahad mi chiuse la bocca con la mano. «Zitta, milady. La mia storia è arrivata al suo epilogo. Finalmente, la mia storia è finita. Ma la vostra no.» Mi spinse via, con forza, gemendo per il dolore provocatogli dallo sfor-
zo. Mi spinse via e caddi lunga distesa. Il drago alitò. CAPITOLO XXIII Cercammo di dargli una sepoltura decente. Non c'era molto tempo: temevamo i troll e Loki. Ma non potevamo abbandonarlo sul ciglio del sentiero. Fu facile spostarlo. Quando si spensero le fiamme, ciò che restava era molto leggero. Provammo a scavargli una fossa, ma non avevamo attrezzi, tranne la spada di Galahad. Allora raccogliemmo tutte le pietre che riuscimmo a trovare e le accatastammo sulle sue spoglie, fino a ricoprirlo quasi interamente. Aveva vissuto per secoli. Ed ora era morto, sul ciglio di una strada. Un mucchietto di pietre. «Dovremmo seppellirlo con la sua spada» osservò Christopher. «Già. Dovremmo» David concordò. «Ma è l'unica arma che abbiamo.» «Gli ci vuole una croce» mi impuntai. Jalil usò Excalibur per incidere delle tacche su alcuni rami. E Galahad ebbe la sua croce. Quando fu pronta, gli altri guardarono tutti verso di me, in attesa. Eravamo tutti stanchissimi. Tesi. Come sopraffatti dai ricordi. «Non so le parole, non so che dire» dissi. «Cantagli una canzone, allora» propose Christopher. «Non ne conosco» gli risposi. «Che cosa si canta a un funerale? Le messe che so sono tutte per coro.» Gemetti di frustrazione. David era ansioso di andare, e aveva ragione. Poi mi venne in mente. Non era perfetta come canzone. Non era qualcosa in latino, come avrebbe dovuto essere. Ma forse poteva andare. Era una canzone di Rent. «Okay» dissi, proprio mentre David e Jalil stavano per alzare i tacchi. Feci un paio di respiri profondi. Avevo la voce rauca. Cantai piuttosto male, di sicuro non ero all'altezza di un assolo. Ma era pur sempre qualcosa. E lui meritava qualcosa. Così cantai Without You, "Senza di te". «Finito» dissi piangendo. «Non è esattamente come dovrebbe essere, vero? Lo conoscevamo appena. E noi non moriremo perché lui è morto. Lo conoscevamo appena. E allora, perché... è solo perché era bello e buono e coraggioso? Perché mi fa così male il fatto che se ne sia andato?» «Era una leggenda» disse David. «Non lo conoscevamo, ma sapevamo che cosa rappresentava. Era il bene che lotta contro il male. Era il forte che
difende il debole. Era coraggioso quando la fortuna gli era avversa. Che altro dovrebbe essere un uomo? Che altro dovrebbe fare?» «"Era un uomo come non ne vedrò più l'eguale". Shakespeare, mi pare» disse Jalil. «Sì» confermai. «Non ricordo in quale tragedia.» David si inginocchiò accanto alla tomba. Tenne alta la spada sopra le pietre. «Cercherò di essere degno della tua spada.» Scossi la testa, meravigliata. Tutte le volte che credevo di averlo capito, David mi sorprendeva. Ma immagino che succeda così con tutti. Non riesci mai a conoscere veramente nessuno, mai fino in fondo. «Mettiamoci in moto» disse David. E nonostante tutto quello che era successo con Senna, noi lo seguimmo. Camminammo per tutta la notte. Ero troppo stanca anche per sentire la stanchezza. Le mie gambe si muovevano. Solo quello sapevo, che le mie gambe continuavano a muoversi. Trovammo un ruscello minuscolo e bevemmo fino a scoppiare. Poi proseguimmo seguendone il corso. Non avevamo idea di dove fossimo diretti, naturalmente, nessuna idea. Volevamo solo lasciarci alle spalle tutto quanto, Loki, i suoi troll, Merlino, Galahad. Camminammo finché io non inciampai su una radice e non riuscii più a rialzarmi. Non volevo essere io quella debole, la "femminuccia" del gruppo. Ma non ce la facevo proprio più. «Fermiamoci qui» decise David per tutti. Jalil e Christopher crollarono a terra accanto a me. Era freddo e umido e io avevo addosso solo un vestito e poco altro. Mi distesi sulla schiena a guardare gli alberi e mi resi conto che si riusciva a vederne il profilo, il che significava che stava per fare giorno. Sentivo l'umidità filtrare dal tessuto leggero e non me ne importava niente. Volevo dormire. Mi sistemai lo zaino sotto la testa a mo' di cuscino. «Se qualcuno osa svegliarmi, io lo... io gli... qualcosa gli faccio» li avvisai. «Ci vediamo dall'altra parte» disse Christopher. Ma il sonno non venne. Non subito. Avevo freddo e cominciai a tremare. Iniziò a cadere una pioggerellina leggera, poco più che rugiada. Mi misi a sedere sullo zaino e piansi, la faccia tra le mani. Cosa stava succedendo? Perché la mia vita era così? Perché non poteva continuare come era sempre stata?
La pioggia si fermò. Il sole si alzò oltre le chiome degli alberi. Mi rassegnai al fatto che non avrei mai più dormito. E mi ritrovai a casa mia. CAPITOLO XXIV Era domenica pomeriggio. La stessa domenica che mi aveva visto urlare in chiesa. Impossibile trovare una logica nella sincronizzazione del tempo tra il mondo reale ed Everworld. Sembrava procedere a sbalzi, in avanti, indietro, a volte più veloce, altre più lento. Nel mondo reale mi ritrovai nella libreria del centro, Barnes and Nobles. Ero al piano di sopra, a un tavolo vicino al settore di mitologia. Ero davanti a un libro aperto, ne avevo altri impilati accanto. Leggevo di Sir Galahad. Era già da un'ora che leggevo. La me stessa del mondo reale ricevette gli aggiornamenti dalla me stessa di Everworld. Galahad morto. Merlino chissà. Loki? Presumibilmente ancora in cerca di Senna, sgattaiolata via dall'accampamento mentre gli altri combattevano per salvarla dalle grinfie di Loki. Mi sentii imbarazzata per l'emozione che avevo provato alla morte di Galahad. Contenta di essere ancora viva. Contenta anche che Senna fosse ancora viva. I ricordi si fusero insieme, formando la memoria di un'unica persona. Il ricordo di aver letto la storia di Galahad, il ricordo di aver assistito al suo ultimo capitolo. Perché stavo leggendo di lui? Everworld non avrebbe dovuto interessare alla April reale. Che se la sbrigasse l'altra April. Non avrei permesso che Everworld filtrasse nella mia vita, che intaccasse la mia vita vera. Eppure, eccomi qui a leggere di Galahad. «L'avevo detto, io, che ti avremmo trovata qui» esclamò Jalil. E mi si sedette accanto, insieme a David e Christopher. David prese una sedia da un tavolo vicino. Mi sembravano strani. Erano vestiti come la gente normale. Anch'io, se è per questo. Eravamo caldi, ben vestiti, asciutti, e non c'erano tagli sotto l'occhio di Jalil. Facce e capelli puliti, denti lavati. Mi sembravano strani. «Siamo tutti qui?» chiese Christopher. «Io sono qui già da un po'. Sono io, questa» gli dissi, un po' seccamente. Poi mi ammorbidii. «Sì, ho appena avuto un aggiornamento.» Jalil diede un colpetto al libro. «Che ti dice?»
Alzai le spalle. «Adesso so perché lui e Gawain avevano gli stessi ricordi della ricerca del Santo Graal. La storia in origine aveva Gawain come protagonista. Ma in seguito Gawain venne considerato come una figura più pagana, e così la storia venne riscritta con Galahad nel ruolo dell'eroe.» «E non è mai esistito un vero Galahad?» chiese Christopher. «Non lo so. Non lo sa nessuno. Forse erano tutti reali, o parzialmente reali. O forse "reale" non significa quello che crediamo noi. Non lo so proprio. Non so più molto di niente, ormai.» Richiusi il libro. «E adesso?» chiese Christopher. Nessuno rispose. «E adesso?» insistette. «Dai, dobbiamo pensare a cosa fare. Non possiamo continuare a camminare nella foresta. Non possiamo continuare a cadere in un pasticcio dopo l'altro. Prima o poi la fortuna ci abbandonerà. Ci serve un piano.» «Qualche idea?» gli chiese Jalil. «La mia idea è questa» rispose allora Christopher. «Troviamo Senna e la convinciamo a rispedirci indietro. Permanentemente. Semplice. Tu, David, puoi restare là. So che ti piace. Io, personalmente, sono più propenso a uscirne. Ehi, è stato bello stare con i Vichinghi, rischiare di farsi strappare il cuore dagli Aztechi, giocare a nascondino con Loki, ma la festa è finita.» «Ma non sappiamo dov'è Senna» osservò Jalil. «Okay, e allora troviamola» intervenne Christopher. «È proprio questo il punto. Ci serve un piano, un obiettivo. Il nostro obiettivo è lei. È lei l'unico modo per fermare tutto questo. La troviamo, la teniamo alla larga da Loki e addio Everworld. È l'unico modo, amico.» «E la gente? La gente di Everworld?» intervenni io. Mi guardarono tutti con grande stupore. Anch'io ero stupita di me stessa. «Come dici?» mi fece Jalil. «Senti, sarà anche stupido, ma il punto è questo: Galahad era una brava persona. Anche Gawain lo è. E forse anche Merlino. Insomma... Everworld non è fatto solo di divinità psicopatiche, di cannibali, di troll...» Restai in silenzio mentre passava una ragazza che conoscevo. «Quelle sono persone reali. Laggiù, perlomeno, sono reali. E alcune di loro sono brave persone.» «E allora?» mi fece Jalil. «E allora forse questo cambia un poco le cose» gli dissi.
«Non cambia proprio niente» affermò Christopher, categorico. «Sentimi bene: non cambia assolutamente niente.» «Okay» dissi. «Cosa facciamo dopo che abbiamo costretto Senna a farci uscire?» «Ci procuriamo un po' di birra e festeggiamo, e poi continuiamo a vivere la nostra vita» mi rispose Christopher. «Con Senna ancora di là? Ancora a Everworld? Una porta ancora aperta per Loki o Huitzilopoctli?» «Ah, no. No, no, no» Christopher muoveva l'indice a destra e a sinistra. «No, no, no.» David, invece, sorrideva. «Hai ragione. Noi passiamo attraverso la porta, e poi la lasciamo aperta? Questo vuol dire che non fuggiremo da Everworld: Everworld ci seguirà fin qua. Avremo il Grande Huitzi che si aggira per la città a strappare cuori, draghi allo stato brado, Loki...» Annuii, odiando quello che mi passava per la testa. Ma non riuscivo a non pensarlo. «Ci sono delle brave persone laggiù. Forse Merlino ha ragione. I buoni potrebbero allearsi tra loro, fare in modo che i cattivi almeno non li ostacolino. Potrebbero fermare Ka Anor. Il che significa che quelli come Loki non cercherebbero più di scappare.» Jalil mi guardava serio, gli occhi sbarrati. «Quindi quello che dovremmo fare è risolvere tutti i problemi di Everworld e togliere di mezzo Ka Anor, che tra parentesi è così cattivo che Loki è mezzo morto di paura. E poi ce ne torniamo a casa nostra, ci diamo una bella pacca sulle spalle e viviamo tutti felici e contenti. È così?» David annuì. «Sì. È esattamente così.» Christopher si piegò sul tavolo, la voce bassa e intensa. «Abbiamo una spada, uno zaino con delle cianfrusaglie patetiche, non sappiamo dove siamo, non sappiamo niente, nemmeno quanto è lungo un giorno o come è fatto il territorio o... ma siete diventati matti? Siete fuori di testa?» «Christopher, siamo là comunque, okay? Anche a me non piace per niente, anch'io vorrei tanto che non fosse successo, ma siamo là. Senna è la nostra unica via di ritorno, ma è anche una porta che chiunque altro potrebbe varcare per distruggere il nostro mondo. Non c'è altra via d'uscita.
Non nel vero senso della parola. Quindi dobbiamo cambiare il mondo. Dobbiamo cambiare Everworld.» Christopher disse qualcosa di molto volgare. David rise soddisfatto e diede una manata sul tavolo. Jalil guardò il libro, poi guardò me. «La trasfusione. Deve essere stata in entrambi i sensi, eh?» Ci separammo. Nessuno aveva voglia di parlare. Nessuno era contento di me, tranne David, ma la sua soddisfazione non faceva che deprimermi. Ognuno andò per la sua strada. Io a casa mia, dai miei. Avevamo organizzato una grigliata in cortile, sul retro, e avevamo invitato alcuni vicini. Mangiai verdure alla piastra. Mi telefonò Mario. Fissammo un appuntamento per il week-end. Feci un po' di compiti. Poi provai alcuni numeri di Rent allo specchio. E quando cercai di cantare Without You scoppiai a piangere. Rimasi alzata fino a tardi a guardare la TV. E quando finalmente andai a dormire, sapevo perfettamente che mi sarei risvegliata, calda e riposata, nella mia stanza. E che mi sarei risvegliata, bagnata e infelice e spaventata, in un luogo che non poteva esistere. E che invece esisteva. FINE