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K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD IL REGNO DEI FOLLETTI (EverWorld 5: Discover The Destroyer, 2000) IL PATTO CON IL DRAGO «Nidhoggr» sussurrai. Nessuna risposta. Iniziai ad arrampicarmi sulla gigantesca montagna d'oro. E finalmente si accorse di me. La testa enorme si sollevò, mi sovrastava. Un rivolo di quindici litri di napalm gli gocciolava dalle fauci e scendeva nell'oro, fondendolo. «Umano» disse il drago. «Non vedo la mia pietra, né la mia lancia, né la mia spada, né il mio calderone.» «No» risposi, parlando più forte che potevo. «Non hai un bell'aspetto.» «No.» «Ti restano solo poche ore, umano. La pietra che hai dentro il petto è impaziente di bruciarti.» Annuii. «Sì. Lo so. Ma so anche come puoi fare per riavere i tuoi oggetti.» Il drago mi guardò. «Sei venuto a cercare di convincermi a cadere nella trappola che i folletti mi hanno teso?» «No. So della trappola. Se la intendono con il nemico, con gli Hetwan. C'entra anche questo, in parte.» L'enorme occhio che mi stava davanti si dilatò per la sorpresa. «I folletti vogliono il tuo tesoro. Gli Hetwan vogliono invadere il regno degli Inferi, e non vogliono dover combattere contro di te per farlo.» Nidhoggr annuì appena. Era come vedere il dirigibile della Goodyear che dondolava nell'aria. «Gli Hetwan. Ka Anor. Lui ha dei progetti su Hel.» «Il piano è questo. Io credo che gli Hetwan abbiano aiutato quei nanerottoli a costruire un'arma potentissima, capace di ucciderti non appena ti presenterai nei cieli del Regno dei Folletti.» «Raccontami di quest'arma» rombò Nidhoggr.
«No. Prima io e te dobbiamo fare un patto.» CAPITOLO I Mi avevano preso la spada. La spada di Sir Galahad. La mia spada. Mia. Christopher, Jalil, April, avevano voluto che la cedessi, che la consegnassi ad April. Perché? Perché c'era Senna. Perché non si fidavano di me, dicevano, non potevano contare su di me finché c'era lei in giro. Ma quante volte mi ero fatto in quattro per loro, per noi? Quante volte ero stato in prima linea, non da solo, certo, ma davanti a tutti, là dove il pericolo premeva più da vicino? Quante volte ero stato pronto a dare la vita, a fare quello che dovevo fare? E adesso? Messo da parte senza tanti complimenti, liquidato con un mezzo sorriso e un'occhiataccia storta. David non è in grado di gestire Senna. David ci tiene troppo, ragazzi. David è suo, è in suo potere, è il ragazzo di Senna, il burattino di Senna. Stregato. Era così. Lo sapevo, ma proprio perché lo sapevo potevo oppormi a lei, resisterle, anche quando si avvicinava e mi toccava e io sentivo il potere che fluiva da lei, il potere che talvolta era così freddo e imperioso e talvolta così caldo, così giusto, così... Le resistevo. Sì, sì, lei aveva il potere. Sì, avrebbe potuto controllarmi. Ma io ero un uomo libero, libero di dire sì o no, libero di giocare le mie carte come volevo. Senna era bella, era bella, ma c'era di più. Nel mondo reale avrei dato una decina di definizioni diverse per spiegare, o, meglio, per giustificare questo "di più". Avrei detto che era seducente, che era affascinante, che scatenava in me una strana alchimia. Ma qui, a Everworld, in questo universo dove le leggi erano tutte diverse, dove niente era come avrebbe dovuto essere e tuttavia manteneva una sua logica, qui io sapevo dare un nome a quel potere su di me. Magia. Lei aveva la magia. Sì, Senna la strega aveva il potere, ma io ero comunque un uomo libero. Ero ancora David Levin. Questo Senna non l'avrebbe mai potuto cambiare. E ora che la morte ci soffiava sul collo, ora, con la morte così certa, imminente, ineluttabile, ora i miei amici mi restituivano la spada. Era tornata in mio possesso. Quando Nidhoggr aveva sollevato dalla
montagna d'oro la testa dieci volte più grossa di quella di un tirannosauro, April me l'aveva resa senza una parola. Era di nuovo in mano mia. Stringevo quell'elsa che ad altri avrebbe bruciato la mano, la stringevo forte, la lama puntata verso il basso, verso una ricchezza tale da superare ogni immaginazione. Avevo cercato di uccidere un drago una volta. E avevo fallito. Fallito in modo così totale che il drago aveva appena notato la mia presenza. Quel drago che non ero riuscito a uccidere avrebbe potuto essere il cucciolo di Nidhoggr. L'idea di dare addosso a questo mostro grande come una balenottera azzurra e coperto da un'armatura di diamanti era una pessima trovata. Ero una zanzarina, e la spada di Galahad il mio pungiglione. Se Nidhoggr avesse deciso di restare fermo, immobile, passivo, di darmi tutto il tempo che mi poteva servire, forse, e dico forse, sarei riuscito, alla fine di una lunga giornata di lavoro massacrante, ad aprirmi un varco fino a uno dei suoi organi vitali. Se Nidhoggr fosse stato in coma, forse sarei riuscito a ucciderlo. Ma così? Vigile e all'erta com'era? Così no. Eppure adesso avevo la spada. E con la spada, anche la responsabilità, la richiesta inespressa di fare qualcosa. "Vai, David. Siamo finiti, ormai, quindi, fa' ancora l'eroe. Muori tu per primo." Mi faceva una rabbia! Ero pieno di risentimento. Adesso! Adesso che non c'era assolutamente niente che io o chiunque altro potessimo fare. Adesso che la spada aveva la stessa utilità di una forchetta da dessert. Adesso, tutto d'un tratto, la spada era di nuovo mia. "Fa' qualcosa, David. Abbiamo di nuovo fiducia in te. Ecco qua: riprenditi la spada, va' da Godzilla e cerca di prenderlo a calci nel didietro." Ma c'erano un paio di fatti che mitigavano il mio risentimento. Primo, la sconvolgente consapevolezza che la nostra vita era interamente nelle mani, anzi negli artigli, di Nidhoggr. E secondo, il fatto che eravamo in cima a una montagna di tesori così grande, che per contarli tutti avrei dovuto sapere cosa viene dopo i triliardi. Stavamo per essere sacrificati su un altare che valeva più di molte delle nazioni più ricche del mondo. E questa cosa, che ci capitava proprio al termine della nostra fuga dalla temibile Hel, dea mezza viva e mezza morta, e dal suo delizioso fratello, il Serpente del Midgard, era così strana da togliere un po' di fuoco al mio risentimento del tutto personale. Nidhoggr era stato derubato. Quattro oggetti erano stati prelevati dal suo
tesoro. Mancavano all'appello una pietra, una lancia, una spada e un calderone. Erano speciali. Magici. E tuttavia una parte di me, una qualche eco della voce di mio nonno, fanatico socialista vecchio stampo, si sentiva indignata. Insomma... di quante ricchezze avrà mai bisogno, un drago? Ed eccoci qui, noi cinque, su una mesa alta tre piani e lunga un isolato, su un altopiano di oro, diamanti, smeraldi, rubini, corone, scettri, armature, spade e un intero assortimento di straordinarie chincaglierie. Eccoci qui, cinque ragazzi di Chicago ammutoliti, a fissare un drago così grande che si sarebbe potuto inghiottire l'intero stadio da baseball della nostra città con lo stesso numero di morsi che servirebbero a me per mangiare un hot dog. Eccoci qui, a sentirlo piangere di rabbia e accusare gli gnomi. Erano stati gli gnomi che avevano rubato i quattro oggetti e che erano scappati nel Regno dei Folletti. E fu allora che mi offrii volontario per riportarglieli. Le alternative non erano delle migliori: Nidhoggr avrebbe potuto mangiarci, oppure Nidhoggr avrebbe potuto incenerirci. Oppure potevamo fare un patto. «Che diavolo stai dicendo?» mi apostrofò Christopher. «Gli gnomi? E noi dovremmo andare a riprendere dagli gnomi la zuppiera magica di questo qui? Ma cosa sei? Fuori di testa? Non potremmo invece metterci a dormire in un angolino tranquillo?» Guardai Christopher. Aspettai finché non mi restituì lo sguardo. «Christopher, gli gnomi sono molto piccoli. Questo drago è molto grande.» Christopher sbatté le palpebre. «Questo è un buon argomento» mi concesse. «Io... io credevo che gli gnomi facessero scarpe» disse April. «Assurdità del Vecchio Mondo» tuonò Nidhoggr con un basso brontolio che quasi mi fece sanguinare le orecchie. «Ai vecchi tempi folletti e affini erano tutti sotto sorveglianza. Li controllavano i druidi. I feniani limitavano i loro poteri. E naturalmente anche i grandi dei tenevano a freno le loro malignità. Ah, ai vecchi tempi nessuno della genia degli gnomi e dei folletti avrebbe osato rubare qualcosa a Nidhoggr! Il Daghdha non l'avrebbe mai permesso! Ma i tempi sono cambiati. I folletti e gli gnomi, oggi...» «Il Daghdha?» ripeté April, e guardò Jalil, che rispose con un'alzata di spalle. «E chi è il Daghdha?» «Il grande dio padre dei Celti, ignoranti e blasfemi!» ruggì il drago producendo una folata di vento tale che avrebbe spinto una barca a vela fino alle Hawaii.
«E dov'è questo Daghdha? Forse potrebbe riportarti lui il tuo tesoro.» Nidhoggr sembrò un pelino imbarazzato alla domanda. L'iride dell'occhio a noi più vicino, alta come un uomo, si strinse un po'. «I beni trafugati appartenevano proprio a lui. Essi sono... mi sono giunti dopo che il Daghdha è stato divorato da Ka Anor.» «Ah-ah» disse Christopher. «Questo spiega tutto. "Andiam, andiam, andiamo a lavorar..." Il Regno dei Folletti ci aspetta. Nessun problema. Te la riprendiamo noi, la tua roba.» «Nidhoggr non è uno sciocco» disse il drago. «Voi dite che mi riporterete ciò che mi appartiene di diritto. Ma io pretendo qualcosa di molto più vincolante della vostra parola.» «Ti potrei lasciare il mio zaino» suggerì April. Nidhoggr sorrise, e i suoi denti si stagliarono sul magma rosso, sul napalm che gli bruciava nella gola. «Io avrei un'idea migliore.» All'improvviso, dal terreno sotto ai nostri piedi, dalla montagna di oro, emersero quattro figure. Tipo troll, gambe e braccia tarchiate, ma più piccoli. O forse sembravano soltanto più piccoli, con Nidhoggr sullo sfondo? Ognuno di loro teneva fra le mani tozze, a tre dita, un rubino scintillante, rosso sangue. Ciascun rubino era grande come un pugno. Di più. Grande come un cuore umano. I troll tendevano le braccia, e sembravano porgere i rubini, come offerte. «Ci vuoi pagare?» chiese stupito Jalil. Nidhoggr rise. Lo scroscio della sua risata divenne una forza fisica che mi risucchiò l'aria dai polmoni. E poi, sotto i nostri occhi atterriti e affascinati, i quattro rubini iniziarono a pulsare. A pulsare. A pulsare. E nello stesso istante sentii nel petto un improvviso silenzio. Una quiete, un'assenza che nessun uomo che l'abbia provata è poi vissuto abbastanza da poterla raccontare. Il mio cuore, il mio cuore vivo, pulsante, era nelle mani di uno dei troll di Nidhoggr. E in petto avevo un rubino. «Le pietre vi daranno vita per sei giorni» disse Nidhoggr. «Ritornate entro sei giorni con il mio tesoro e riavrete i vostri cuori.» «Sei giorni? Non c'è modo di... voglio dire, che succede se ci servono più di sei giorni?» gli chiese April. Si premeva una mano sul petto, cercava, ma non trovava nulla. «Fra sei giorni i rubini che avete in petto bruceranno del fuoco di Ni-
dhoggr. Servitemi bene, e vivrete. Mancate all'impegno, e morirete.» Quattro rubini scambiati con quattro cuori. Solo quello di Senna non venne toccato. Mi chiesi perché. Ma sapevo che la risposta mi avrebbe terrorizzato. «Andate. Riportatemi ciò che è mio.» CAPITOLO II «Be'... io avrei da fare una domanda: perché il Crostone Gigante non si va a riprendere da solo la sua roba?» intervenne poi Christopher. «Voglio dire, chi è che si metterebbe a discutere con lui? Metti un match King Kong contro Nidhoggr: finirebbe di sicuro con il Crostone che fa la danza della vittoria al ventesimo secondo del primo round. E lui non riesce ad affrontare un branco di gnomi?» Era una buona domanda e lo dissi. Questo diede coraggio a Christopher. «E senti quest'altra buona domanda: come dovremmo fare, noi, a trovare questo Regno dei Folletti o quello che è?» «Già. Due buone domande» osservai. «Ma in questo preciso momento forse è più importante mettere la maggiore distanza possibile tra noi e Nidhoggr, il Serpente del Midgard e Hel.» Avevamo una missione. Ero io il responsabile. Nessuno si fidava di me, non con Senna che mi camminava accanto silenziosa, ma ero comunque io il responsabile. «E un'altra cosa: c'è nessuno qui che si chiama Rambo? O Superman?» Ci trovavamo in un tunnel. Era ripido, in salita. Camminavamo da più di un'ora, ormai, e chissà quanto era ancora lontana la superficie. E poi, chissà che superficie avremmo trovato. Avevo una pietra, un rubino, nel petto. Dove prima c'era il cuore. E tra sei giorni avrebbe preso fuoco e mi avrebbe ucciso. Avevamo sete, avevamo fame, eravamo sfiniti. Avevamo la testa (o, almeno, io avevo la testa) piena dei ricordi recenti di indicibili orrori. Ma mi sentivo stranamente ottimista. Finalmente un lavoro concreto. Finalmente un obiettivo, un'urgenza, un'ambizione che ci univa, che semplificava le cose. Riportare a Nidhoggr il suo tesoro, oppure morire. Entro sei giorni. E potevo scommettere che l'antico drago non ci avrebbe concesso proroghe. «È troppo grosso» disse Jalil. «È sempre stato in quel buco, sul fondo di quel cratere o quello che è, e negli anni è diventato sempre più grosso.»
«E allora?» chiese Christopher. «E allora deve essere per questo che non può andare lui a caccia degli gnomi» spiegò Jalil. «Ha le ali, amico. Può volare. Uscire dall'alto e volare via.» «Mi verrebbe da dire che è impossibile» disse Jalil. «Ma ho imparato la lezione sulle cose che sono o non sono possibili, qui. Eppure deve esserci un motivo per cui Nidhoggr non può andare a cercare gli gnomi, altrimenti ci andrebbe lui, invece di mandare noi. E gli gnomi dovevano sapere che lui non li avrebbe inseguiti, altrimenti, quale gnomo sano di mente gli avrebbe fregato qualcosa? E quanto fuori di testa sono io, che mi metto a parlare della salute mentale degli gnomi?» Io aspettavo. Aspettavo che Christopher facesse la domanda successiva. La terza, ovvia domanda. Invece fu April a farla. «Siamo in cinque. Quattro rubini per quattro cuori» osservò, guardando la sorellastra, ma Senna tenne gli occhi fissi davanti a sé. Christopher si mise in mezzo. «E dai, April. Lo sai che Senna è senza cuore.» Senna non disse niente. La sua faccia non lasciava trapelare nulla. «Senna? Ehi, dico a lei, signora strega!» Christopher la stava provocando, cercava di farle perdere il controllo. E di farlo perdere anche a me. Cercava una scusa per pretendere che cedessi di nuovo la spada. Cercava la prova che ero un burattino nelle mani di Senna. «Ehi, dico, donna fattucchiera, ce l'hai un cuore? Così, per pura curiosità. È come una domanda di anatomia, davvero.» Silenzio. Indifferenza. La mente di Senna era lontana, molto lontana. Aveva un modo tutto suo di vedere e capire le cose. Aveva motivazioni sue. Forse vedeva più lontano di noi. O forse si concentrava soltanto sui suoi piani. Avrei voluto credere che fosse mia. Avrei voluto credere di aver capito tutto. Avrei tanto voluto credere che ci fosse veramente qualcosa tra di noi. Ma non sono cieco, non sono scemo del tutto. Io la volevo. E anche lei mi voleva, ma soltanto per usarmi. C'è una bella differenza. Per lei avevo lo stesso valore di un martello per un falegname. Meglio cambiare argomento. «Jalil, tu che hai preso appunti, che hai disegnato delle mappe... hai idea di dove possa sbucare questo tunnel?» Jalil scoppiò in una risata amara.
«Potrebbe sbucare nelle segrete di Loki, per quel che ne so. O nel didietro di Fenrir. Come si fa a tracciare una mappa di qualcosa che non ha nessuna struttura logica? Ci vogliono ventiquattro ore di viaggio sul mare per spostarsi dalle gelide terre dei Vichinghi a quelle torride degli Aztechi. E poi con una passeggiata arriviamo a quella che potrebbe tranquillamente essere una campagna inglese. E in un paio di giorni di cammino eccoci da Hel, dove precipitiamo in un baratro profondissimo e atterriamo con appena qualche graffio... e tu mi chiedi se ho una mappa?» Camminammo, in silenzio, per un po'. Christopher sembrava svuotato. Ogni tanto gli capita di avere di questi momenti grigi, in cui finalmente se ne sta con la bocca chiusa. Ma è una cosa abbastanza normale. Era April che mi preoccupava. Non conosco il rapporto tra April e Senna, ma comunque sia, non mi piace per niente. Jalil e Senna non si piacciono. Christopher tratta Senna con lo stesso tono di derisione mascherata da umorismo che usa con tutti noi. Ma April odia Senna. E l'odio non è un'emozione frequente o spontanea per April. Hanno lo stesso padre, April e Senna. Questo papà, immagino, aveva avuto una storia con la mamma di Senna. Poi la madre aveva fatto fagotto e il padre si era fatto avanti e si era preso la responsabilità di crescere Senna. E l'aveva portata a casa sua. Senna e April erano diventate sorelle da un giorno all'altro. Forse è solo questo. Forse è solo una specie di rivalità tra sorelle. Non sono uno strizzacervelli, io. Non sono tanto bravo in questo genere di cose. Le motivazioni delle persone, la loro parte più profonda, più oscura... non ci arrivo, fin lì. In genere non ci arrivo. O magari ci arrivo una settimana dopo tutti gli altri. «Mi pare di vedere le stelle» disse April. «Là in fondo.» Aguzzai la vista. Il tunnel aveva una specie di luce di sfondo, debole e rossastra. Ovviamente non aveva alcun senso. Questa luce sembrava essere lì e basta. Perché? Perché sì. Era questa la mia risposta a tutti i misteri di Everworld. Perché? Perché sì. Avanti. Era Jalil quello ossessionato dai perché e dai percome. Forse un giorno avrebbe scritto una guida turistica di Everworld: "Il castello di Galahad? Vale davvero la pena di visitarlo. Si consiglia invece di evitare il Club Med di Hel". Strizzai gli occhi, cercando di escludere il più possibile questa luce di sfondo. Stelle? Forse.
Inspirai profondamente dal naso. Un odore, sì. Forse fiori? Forse era un profumo. Di April, magari. No, che idiozia. April non aveva visto molta acqua e sapone ultimamente, come tutti noi, del resto. «Sento odore di fiori.» «Io sento il tuo odore» Christopher grugnì. «Però vedo le stelle. È notte. Deve essere notte. E come mai? Non era giorno quando guardavamo su dalla montagna d'oro del Crostone Gigante?» «Benvenuto a Everworld» gli rispose Jalil. Era decisamente un cielo notturno quello che si intravedeva alla fine del tunnel. Erano decisamente stelle. E adesso una fetta di luna. Per poco non scoppiai a piangere. La luna. Il cielo. Dopo tanto tempo sotto terra. «Ehi, voi» sussurrai. «Non sapevo se vi avrei rivisto ancora.» April fece un grosso sospiro di sollievo. «Non so se ve l'ho già accennato, ma non mi sto divertendo molto qui sotto. Muoviamoci, prima che ci dicano che era solo un brutto scherzo.» Stanchi com'eravamo, accelerammo il passo. April si mise in spalla lo zaino, io mi allacciai la spada al fianco. Anche Senna si mise a camminare più rapidamente. Non era uno scherzo. Ora vedevo la luna fare capolino tra i rami degli alberi. Le stelle tremolavano. L'aria era gravida di un profumo che riconobbi: il profumo di quando ero bambino e andavo a casa del nonno, sulla costa orientale, nel Maryland. Caprifoglio. Normalmente avrei detto un generico "fiori", ma questo era un profumo cui sapevo dare un nome. Il tunnel finì. Sguainai la spada e uscii per primo, davanti agli altri. Nessuno si era offerto di andare in avanscoperta, osservai. Uscii brandendo la spada, non propriamente impaurito, non dopo tutto quello che avevamo dovuto passare. Non mi aspettavo di vedere niente che potesse spaventarmi più di Hel. Stavo sotto un cielo notturno. Come le stelle di casa mia? Non sapevo: non sono un astronomo. Ero ai margini di un bosco. Gli alberi non erano alti come quelli della foresta che avevamo attraversato per arrivare nel regno di Hel. Questi alberi sembravano, anche nell'oscurità, meno tetri. Quello strano inarticolato istinto che mi avrebbe fatto rizzare i capelli non veniva sollecitato. Dietro l'ingresso del tunnel il terreno saliva dolcemente verso una bassa collina. Mi misi in ascolto. Non sentii nulla, se non la brezza tra gli alberi. Forse
un accenno di acqua scrosciante, ma non ne ero sicuro. Comunque non era più il regno degli Inferi di Hel, non era più la stanza del tesoro di Nidhoggr: erano cieli aperti e brezze lievi e fronde che stormivano e dolci profumi di fiori. Non riuscii a frenarmi. Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Non riuscii a frenarmi. Troppi orrori ancora nella testa, troppa paura ancora nel cuore, troppa adrenalina ancora in circolo, troppe immagini nella memoria, immagini iperrealistiche, riprese dal vivo in technicolor, proiettate su un maxischermo. Troppe. Come avrei potuto trovare spazio per altri ricordi? Cos'altro poteva stare accanto a quelle scene di orrore? Feci un paio di respiri profondi. Mi asciugai le lacrime. "Dimentica tutto, David. Cerca di dimenticare tutto. Fa' come se avessi già dimenticato tutto." «Venite.» Anche Jalil era uscito. Se ne stava fermo, proprio accanto a me. «Chissà se questa luna è reale. E le stelle, e tutto il resto.» «Direi che sono abbastanza reali, amico. O almeno sembrano tali.» «Sai, una volta, nell'antichità, la gente credeva che il cielo fosse una grande scodella rovesciata. Sotto la scodella, durante il giorno, il sole faceva il suo tragitto. Di notte la luce dei cieli penetrava attraverso minuscoli fori nella scodella. Erano le stelle. Dei forellini in una scodella rovesciata.» «Ah sì?» «Sì.» «E sai qual è la fregatura? Che qui potrebbe anche essere vero.» Poi, con un tono completamente diverso aggiunse: «Se sapessi come fare, amico, taglierei via tutto quanto, tutto quello che abbiamo visto nel regno degli Inferi, me lo taglierei via dal cervello. Diavolo, se è bella questa luna!» Fu allora che udimmo il grido. CAPITOLO III «Io non ho sentito niente» disse subito Christopher alle mie spalle. «Qualcuno ha gridato» spiegai, senza capire che, ovviamente, l'aveva sentito anche lui. «Sembrava una ragazza.» «Già... Be', qui c'è sempre qualcuno che grida in media ogni dodici secondi, ragazzi, e di solito quel qualcuno sono io.» «Devo andare a vedere» dissi.
«No, veramente tu non devi andare a vedere» obiettò Christopher. «Potrebbe essere pericoloso, David» intervenne Senna. Mi sorprese sentire la sua voce. Era rimasta in silenzio per molto tempo. «E tu hai già abbastanza guai.» Sentii gli altri trattenere il fiato. Aspettavano per vedere che cosa sarebbe successo. Forse pensavano che sarei scattato sull'attenti, rispondendo "Signorsì, signore!". Di nuovo quel grido. Più vicino. Decisamente di una donna. Sembrava giovane. Spaventata. «Voi potete aspettare qui» dissi. «Torno subito.» Questo creava un bel dilemma per loro. Volevano che io non ascoltassi Senna. Ma questa volta erano d'accordo con lei. Almeno, Christopher e Jalil lo erano. «Vengo con te» disse April. Iniziammo a scendere l'ultimo tratto della collina, verso il bosco che ora non sembrava più tanto accogliente. Era stupido, una parte di me lo sapeva bene. Ma non era ancora venuto il giorno in cui non avrei risposto a un grido di aiuto. Rividi in un flash gli uomini, file e file di uomini, le migliaia di uomini sepolti in questo preciso momento fino al collo, il cranio usato come acciottolato nel mondo mostruoso di Hel. Anche loro avevano gridato aiuto. Stavano ancora gridando aiuto. Noi avevamo camminato su quelle teste, avevamo urtato e graffiato i laceri scalpi, ci eravamo impigliati con i piedi nei loro capelli. E io non ero corso a salvarli. Mi fermai. Eravamo tra i primi alberi del bosco. Profumavano meravigliosamente. Dilaniato dal senso di colpa. Quegli uomini. Quei poveretti. "Salva chi puoi, David" mi dissi. "Fa' quello che puoi. Non potevi uccidere Hel, non potevi cambiarla, non potevi salvare le sue vittime. Fa' quello che puoi. Sii uomo, quando ci riesci" ironizzai. "Sii uomo, se la posta in gioco non è troppo alta, se i rischi non sono troppo grandi. È la storia della tua vita, vero, David?" Sentii un calpestio rapido. Forse zoccoli, ma non di cavalli: non erano così pesanti. Forse non eravamo molto al sicuro. Il pericolo non sempre si preannuncia con il gusto di Hel per il sensazionalismo o la pura forza fisica di Nidhoggr. Sentii un suono meno misterioso: gli altri, che ci stavano raggiungendo. Sorrisi.
"Non vi fidate di me, ma non riuscite a starmi lontano, vero? Va bene, va bene..." «Ahaaaaaaaii!» Il grido era praticamente accanto a noi. Girai su me stesso. Non vidi niente. Anzi no, qualcosa c'era stato. Un baleno, una scia luminescente e verde. E poi... sì, zoccoli! Ecco il primo, immagini fuggevoli di cosce pelose e muscolose nella luce incerta della luna. Un cavallo? Piccolo, per essere un cavallo, e basso. Troppo piccolo. Strinsi la spada. Amico o nemico? Sparito. Veloce. Troppo veloce, troppo agile per essere un cavallo. Si muoveva quasi come un cervo. E c'era qualcosa che non andava, qualcosa che mi aveva lasciato solo una vaga impressione sulle retine ingannate dalla notte. Qualcosa di stonato. «Possibile che non riusciamo a stare dieci minuti senza stranezze?» Christopher sussurrò. Un lampo verde, velocissimo: una giovane donna. Poi un animale più grande balzò da dietro un albero, a una trentina di metri da noi. Un altro si avvicinò da destra. I due convergevano sulla luce verde. E ora anche un terzo. La donna verde, il guizzo di luce, mandò un grido. Erano tre contro uno. Non era difficile capire da che parte stare. Ci furono delle risate. Risate come di ragazzi ubriachi a una festa della birra. La donna verde si scagliò a razzo verso di noi e si fermò di botto, così di botto che la brusca decelerazione avrebbe potuto farle perdere i sensi. Si fermò, cauta, tesa, quasi vibrante di energia. Era in mezzo a noi, ci usava come scudo. Si nascondeva dietro di noi. Era decisamente tutta verde. Non verdina, verdissima. Si vedeva il colore perché emanava luce, come la candela di una lanterna di carta. Come se dentro fosse al neon. Riluceva del verde di una fogliolina di primavera. La pelle, la faccia. I capelli erano di un verde più scuro, come quella stessa fogliolina a fine estate. Gli occhi, non riuscii a vederglieli subito, perché erano mobilissimi, ma quando si fermarono per un microsecondo, vidi che erano gialli. Giallo girasole. Non era nuda. Ma quello che aveva addosso la copriva solo in modo simbolico. Era alta circa un metro e venti, ma era decisamente adulta, non una ragazzina.
Tra rombo di zoccoli e schizzi di sudore, due creature frenarono slittando davanti a noi. «Ma che dia...» Erano un po' più piccoli di me, alti come un uomo di bassa statura. A guardare solo il busto muscoloso, il petto un po' prominente, erano uomini. Uomini dalle braccia troppo esili rispetto al torace, dalle spalle strette. Petto e spalle erano pelosi. La testa non era esattamente umana, anche se per forma e dimensioni avrebbe potuto essere quella di un uomo. Ma le orecchie erano a punta, allungate e pelose. L'attaccatura dei capelli era bassa sulla fronte, c'erano appena un paio di centimetri tra le sopracciglia e i capelli. Gli occhi non avevano sclera. La bocca era piena di denti larghi e piatti, come se qualcuno avesse spostato davanti tutti i molari. Avevano la barba, a ciuffetti sulle guance, più ricca sul mento. Ma niente di tutto questo era una vera stranezza. La vera stranezza era che dalla cintola in giù avevano il corpo, la coda e le zampe di un animale. Cervo? Cavallo? No, non proprio. No, come di caprone, piuttosto. Di un grande caprone. Uno era color mastice, l'altro quasi nero. Centauri? Stavo cercando la parola giusta. No, i centauri erano mezzi cavalli. E poi avevano quattro zampe. Queste cose si muovevano su due sole zampe posteriori dotate di zoccoli. «Jalil?» sussurrai. «Mi cogli impreparato, amico» rispose, scuotendo la testa. «Satiri» disse April. «Come nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.» «Saturi? Come gli acidi grassi?» «Satiri. I-R-I.» I satiri sorridevano. Uno di loro sollevò un otre fatto di pelle animale e lasciò cadere con precisione un fiotto di vino rosso nella bocca rivolta verso l'alto. Entrambi barcollavano un poco. Forse dipendeva da un problema di bilanciamento di quei corpi sgraziati sui due zoccoli. Più probabilmente era l'effetto del vino. «Fatevi da parte, mortali, e lasciateci in pace! Vogliamo il nostro premio!» esclamò il terzo satiro, farfugliando come uno studente ubriaco che cercasse di convincere i genitori di essere sobrio. Era quello che ci si era avvicinato silenziosamente alle spalle. «La ninfa è nostra, quindi siate così gentili da farvi da parte. Anche se, quando noi avremo finito... e prima o poi finiremo anche noi... ah-ah-ah-ah... potrete tenervela voi, in cambio di
questa vostra luminosa fanciulla dai capelli rossi.» La creatura color mastice davanti a noi lanciò ad April uno sguardo lascivo e le strizzò l'occhio. «Vino!» tuonò all'improvviso il suo compare dalla pelliccia nera. Rovesciò indietro la testa e aspettò che il suo compagno strizzasse un getto di vino rosso verso la sua bocca. Mastice sbagliò la mira diverse volte e il vino inondò la faccia del satiro nero. «E adesso scappate, mortali» esclamò il satiro alle mie spalle. «Sciò! Sciò! La ninfa è nostra per diritto di conquista e voi del resto avete già due bellezze tutte per voi. Via di corsa, prima che vi prendiamo anche quelle, ah-ah-ah. Ah, che notte sarebbe, eh? Eh, fratelli?» «Che notte! Che notte!» «Si scriverebbero poemi, si reciterebbero commedie... ah-ah-ah, i giochi sfrenati dei satiri! Venite con me, bellezze, ne ho abbastanza per soddisfare tutte e due!» Mi voltai. Questo satiro era un po' più grande. Il suo pelo era color sabbia. «Io ho un'idea migliore: voi ragazzi ve ne andate via, e ci lasciate qui la... come si chiama... la ninfa.» Sabbia sbatté le palpebre. Nella mano sinistra teneva un vaso di terracotta. Se lo portò alle labbra e bevve una lunga sorsata. «Abbiamo inseguito questa ninfa per tutta la notte. E la caccia ci ha acceso i sensi!» disse ridendo. «Non accettiamo rifiuti, mortale. Sta' bene attento.» Mi faceva segno di no con il dito, continuando a ridere. «Nemmeno tu sei proprio male. E io forse sono così ubriaco da non badare troppo a chi mi farà compagnia questa notte, se una ninfa, una donna, o uno sciocco ragazzo, ah-ah-ah-ah! Girati un po', mortale, fammi vedere se posso prendere te invece della ninfa! Ah-ah-ah!» Non avrebbe dovuto darmi fastidio, era solo una battuta sciocca, da ubriachi. Roba da ragazzini. Non avrebbe dovuto far montare l'adrenalina e far tendere i miei muscoli. Non avrebbe dovuto. E invece sì. Aspettai finché i tre satiri non smisero di ridere. Aspettai. Li guardai. Poi dissi: «Adesso con questa spada io vi infilzo il cuore.» CAPITOLO IV Sabbia sbatté di nuovo le palpebre. Bevve un altro sorso. Mi fissò atten-
tamente. «Tu non sei di queste parti, eh? È questo il problema? Non sai che un satiro può tenersi tutte le ninfe che riesce a prendere?» Guardai la ninfa. Era bella da togliere il fiato. A parte il colore. Gli occhi dorati, luminosi, facevano paura, facevano accapponare la pelle. «Tu vuoi andare con questa gente?» le chiesi. «È evidente che non vuole andare con loro» esplose April. «Ti pare che voglia essere stuprata da una banda di satiri nel bosco? Ma che razza di domande fai?» Aprii la bocca per rispondere, ma non mi venne in mente niente e la richiusi. Affiorarono invece alla memoria ricordi e sogni che mi fecero scoppiare la rabbia nelle vene, il bisogno fisico di attaccare. Non era per difendere la ninfa. Lo sapevo. Stavo solo cercando un'occasione: l'ago della bilancia oscillava tra l'autocontrollo e l'attacco. Mi serviva una scusa. Ma anche April aveva voglia di dire qualcosa. Fece un passo verso il capo dei satiri, quello color sabbia. «Noi siamo appena sfuggiti a Hel. Conosci Hel? La dea nordica degli Inferi? Ecco, noi siamo appena usciti dal suo delizioso parco giochi, quindi se voi tre imbecilli ubriachi pensate di spaventarci, be' vi sbagliate di grosso.» I tre satiri si guardarono l'un l'altro, scrollarono le spalle. Sembravano indecisi su cosa fare o cosa dire a questo punto. «E in più, questa signorina è una strega» contribuì Christopher, indicando Senna con il pollice. «Può fare l'abracadabra a tutti e tre.» «Abracadabra?» ripeté il satiro nero. Christopher annuì solennemente. «Esatto. La strega vi fa l'abracadabra e... come dire... non avrete mai più... diciamo... alcun interesse per le ninfe. Zero. Kaputt. E finisce che non siete più satiri. Finisce che diventate come... come dei monaci... non so se mi spiego.» Sabbia fece qualche passo verso Senna per guardarla più da vicino. Tre paia di occhi di satiro, annebbiati, ubriachi, si posarono gravemente su di lei. «L'abracadabra» intonò Christopher solennemente. «L'ha fatto anche a me. Da allora io corro per i boschi, bello e brillo, adocchio una ninfa, e cosa succede? Mi addormento!» Seguì un lungo silenzio. Occhiatacce a Senna. Occhiate di compatimento
dirette a Christopher. «Questa ninfa è una vecchiaccia orrenda» disse Sabbia. «A me non interessa più. Venite, fratelli, andiamocene. Lasciamo questa ninfa ad altri dai gusti meno raffinati.» I satiri arretrarono cautamente finché non furono ben lontani tra gli alberi, poi si girarono e se la diedero a gambe, veloci quasi come la ninfa stessa. April rise. «Niente male, Christopher.» Lui alzò le spalle. «È come hai detto tu una volta: questa gente si beve ogni genere di balle.» «Attento, David!» strillò April. Mi girai, colpii alla cieca con la spada tesa in orizzontale, e centrai il satiro che ci stava caricando all'altezza della vita. La spada di Galahad era affilata. Non proprio come l'acciaio Coo-Hatch, ma pur sempre affilata. Il satiro stava arrivando veloce, troppo veloce anche per rallentare. E la lama lo penetrò, tagliandolo di netto. Sentii l'impatto, la resistenza della materia, poi la lama all'improvviso libera. La metà superiore del satiro cadde, precipitò a terra con un tonfo sordo. La metà inferiore continuò la sua corsa. Niente spruzzi di sangue. Niente urla di dolore. La ninfa lanciò un gridolino, se fosse di orrore o di piacere, non avrei saputo dire. «Mi hai tagliato le gambe!» gridò oltraggiato il satiro color sabbia. «Ti ha tagliato ben più delle gambe» osservò uno dei suoi compari. «Ti ha affettato a metà!» «E non statevene lì come due allocchi! Correte ad acchiappare le mie gambe!» Ero allibito. Il mio primo pensiero fu che il satiro stesse morendo lentamente. Ma i due satiri illesi sembravano più sconcertati che allarmati. E nel frattempo la metà inferiore di Sabbia continuava a correre. Andò a sbattere contro un albero, cadde, si rialzò con qualche difficoltà. Per forza: senza mani. Quando cadde riuscii a vedere quello che aveva dentro: niente sangue, niente viscere, niente che assomigliasse agli organi interni umani. Solo una cosa concava che poteva essere una sezione dello stomaco.
Era come se il satiro fosse solo uno schizzo. Come se nessuno avesse curato i dettagli. Un diagramma usato per dimostrare l'efficacia di un digestivo. I due satiri interi partirono all'inseguimento della metà inferiore di Sabbia, senza mai perdermi d'occhio. «Volevo solo divertirmi un po', fare un po' di baldoria!» si lamentava Sabbia. «E come potrò fare baldoria, ora che ho perso la mia metà migliore?» Allucinante. Guardai il satiro e pulii la spada sui pantaloni. Lui non se ne accorse neppure. Per lui ero assolutamente irrilevante. Non gliene importava nulla. Rimisi la spada nel fodero. CAPITOLO V «Andiamo» dissi. Jalil fissava la scena come ammaliato. Dovetti scrollarlo per le spalle. Iniziammo a camminare, girandoci spesso indietro a guardare quella comica scena, con i satiri che cercavano di ricongiungere le due metà del loro capo, quella inferiore in fuga e quella superiore che non la smetteva di compiangersi. L'ultima cosa che udimmo fu la voce di Sabbia che chiedeva un'altra bottiglia e poi si lamentava pietosamente perché il vino che beveva gli usciva direttamente da sotto. Guardai la ninfa, poi, imbarazzato, distolsi lo sguardo. Era affascinante. Era come incontrare un alieno, o qualcosa del genere. Ma, davvero, era impossibile guardarla senza restare ad ammirarla a occhi sgranati. Christopher non si faceva di questi scrupoli. La fissava apertamente, con un'espressione mista di curiosità, incredulità e sincero apprezzamento. April provò a offrirle un braccio perché si appoggiasse, ma la ninfa non sembrò accorgersene. «Sei libera di andare» le dissi. Sembravo proprio un poliziotto che rilascia un sospetto. «I satiri potrebbero attaccarci di nuovo» osservò Jalil. Stava cercando di guardare ovunque, pur di evitare la piccola donna verde. «Già, deve restare con noi almeno per un po'» disse Christopher cercando invano di reprimere un sorrisino compiaciuto.
April sospirò, soffiando fuori l'aria dai denti stretti. Era un sospiro carico di commenti severi su noi maschi. «Come ti chiami?» chiese April alla ninfa. «Puoi dirci il tuo nome?» Nessuna risposta. «Chiedile se ha delle sorelle. Mi piacerebbe vedere tutta la serie: quella blu, quella rossa, quella viola. Una confezione da sei. C'è anche in arancione?» «Christopher, chiudi il becco» lo apostrofò April. «È sperduta, spaventata, abbandonata a se stessa... possibile che a nessuno di voi importi niente?» April si chinò così da avere il viso all'altezza degli occhi strani e adorabili della ninfa. «Puoi dirmi il tuo nome?» «Idalia.» Aveva una voce stupefacente. O forse non era la voce in sé, ma il modo in cui la usava. Come se cantasse le parole. Mi accorsi che stavo sorridendo. Tutti stavamo sorridendo. Persino le labbra di Senna si piegarono lievemente. «Tu sei una ninfa, eh?» dissi. Mi guardò e batté le ciglia. «Che altro vuoi che sia? L'hanno detto anche i satiri!» esclamò April, che si era autonominata portavoce e paladina della ninfa: una buona idea, probabilmente. «Qual è la definizione esatta di ninfa?» chiese Jalil. Christopher rise. «Oh, io direi: verde, circa un metro e venti di altezza, corpo da...» «Okay, dacci un taglio» l'interruppe seccamente April. «E dai, rilassati, April» Christopher ribatté. «Non vogliamo provarci con lei: è alta appena un metro e venti! Insomma, voglio dire, sembra una di ventun'anni, ma è alta come una bambina. Che cosa mi credi? Non posso più fare neanche una battuta innocente? E poi è più vecchia di noi!» La ninfa fece una risatina. Il suono era quello di un ruscello che gorgoglia su un letto di rocce. Non è una metafora: era esattamente quel suono. «Mio buon signore, amico mortale, io vivo da quando esiste Everworld, anzi da prima. Un tempo servivo la dea Iride. E la vorrei ancora servire. Ma questa è un'altra storia.» Christopher annuì. «Okay, ha più di un migliaio di anni, il che, per quanto mi riguarda, si-
gnifica che probabilmente ha l'età per accettare una battuta. E per bere alcolici al bar.» «Be', piacere di conoscerti, Idalia» dissi io. Non mi sembrava adeguato e mi corressi: «Piacere di conoscerla, signora.» «Il piacere è tutto mio» disse Idalia. «Ti va bene se ti lasciamo qui? Voglio dire, credi che i satiri se ne siano andati?» «I satiri se ne sono andati di sicuro. Mi hanno già dimenticata da un pezzo e saranno già tornati a dare la caccia alle ombre, più ubriachi che mai.» «Ottimo. Allora, immagino che ci vedremo in giro. Noi abbiamo una missione...» «Siete alla ricerca di qualcosa?» «Esattamente. Dobbiamo trovare il Regno dei Folletti.» Idalia piegò la testa di lato e ci scrutò con curiosità. Era proprio come se fosse fatta interamente di vetro verde trasparente. Era come guardare il sole attraverso una fogliolina di primavera. Ti pareva proprio di poter vedere anche all'interno del suo corpo, ma ovviamente non era così. Forse, come i satiri, anche lei non aveva niente dentro. «Conoscete la strada che porta al Regno dei Folletti?» ci chiese. Fu Jalil a rispondere per tutti. «Ti sembrerà strano, ma la risposta è no. Anzi, ti saremmo grati se potessi aiutarci in qualche modo.» «Avevamo giusto intenzione di chiedere al prossimo distributore...» Christopher aggiunse. La ninfa batté le mani. «Allora vi mostro io la strada.» «Non devi sentirti obbligata» le disse Jalil. La ninfa mi sorrise. Era un sorriso vecchio di mille anni. Era il sorriso che le donne fanno da molto più di mille anni. Poi il sorriso vacillò. Lanciò un'occhiata a Senna. Nervosa, come se avesse visto qualcosa che non le piaceva. Si mosse d'improvviso. Un guizzo verde ed eccola accanto a Jalil. Gli sorrise. Jalil rispose al sorriso. Si riprese. Incontrò di nuovo i suoi occhi e le sorrise di nuovo. Jalil è alto. Idalia era bassa. A me arrivava quasi alle spalle. A Jalil arrivava al petto. Lui cercava in qualche modo di chinarsi, di piegare le ginocchia, di accartocciarsi in un modo che indubbiamente pensava impercettibile, per portarsi al suo livello.
«Io posso mostrarti la strada che porta al Regno dei Folletti» disse Idalia a Jalil. «Abbiamo bisogno di una guida» commentò lui. Guardò me e si accigliò. «Be'... è vero!» «Sì, sì...» fece April, scettica. Idalia posò la manina sul petto di Jalil. «In segno di gratitudine per l'eroismo che avete dimostrato salvandomi, io sarò...» Si fermò di botto. Il sorriso seducente e scherzoso era sparito. «Dov'è il tuo cuore?» Jalil sembrava aver perso la parola. Poi si riscosse, capì quello che la ninfa Idalia gli stava dicendo. «Oh, ce l'ha Nidhoggr, il grande drago.» Idalia annuì, non mostrò sorpresa né scetticismo, come se Jalil le avesse detto che aveva lasciato la macchina in garage. Poi Idalia sorrise di nuovo, alzò la testa per guardare Jalil con gli occhioni adoranti. «Quando riavrai il tuo cuore, forse permetterai a Idalia di prenderlo in prestito... almeno... per una notte?» Christopher scoppiò in una sonora risata. «Sì, sì, April, hai proprio ragione! È una fanciulla sperduta, spaventata e abbandonata. Ma se vuoi proteggere qualcuno, è meglio che tu ti prenda cura del povero Jalil!» CAPITOLO VI Camminavamo sotto un cielo che lentamente si rischiarava. Era una bella passeggiata. Non c'era sentiero, ma non serviva. Gli alberi erano distanziati tra loro quel tanto che bastava perché i loro rami si toccassero senza però intrecciarsi. C'erano pochi cespugli, niente spine, niente ostacoli, tranne qualche raro corso d'acqua che non richiedeva niente di più faticoso di un saltello. E la cosa grandiosa era che adesso, finalmente, avevamo l'acqua. Finalmente c'era abbastanza da bere. Avevamo ancora fame, ma non eravamo più deboli e fiacchi. E stavamo mettendo dei bei chilometri tra noi e Hel, tra noi e il Serpente del Midgard, detto anche Jormungand, tra noi e Nidhoggr. Mancavano meno di sei giorni al momento in cui saremmo bruciati come fiammiferi, ma nemmeno questo sembrava troppo orribile, mentre seguivamo Idalia in un paesaggio che si rivelava ancora più pacifico e beni-
gno con il sorgere del sole. Naturalmente, seguire Idalia non era esattamente quello che si potrebbe immaginare. La ninfa sembrava assolutamente incapace di muoversi al ritmo lento da mucca al pascolo di noi umani. Si dileguava in un lampo, stava via per un'ora, poi tornava a razzo, un guizzo verde, si fermava, flirtava con Jalil, si assicurava che fossimo ancora nella direzione giusta e poi spariva di nuovo. «Veloce, la ragazza!» disse Christopher. «Jalil, amico mio, mi sa che potresti avere fortuna con lei. Potrebbero essere i due secondi e mezzo più belli della tua vita.» Cercai di non sorridere. Poi vidi April che soffocava una risata. «Finiscila, Christopher» borbottò Jalil. Ma naturalmente, ora che Christopher lo aveva in pugno, non aveva certo intenzione di lasciarselo scappare. «Mi preoccupano i vostri figli, sai? È difficile crescere con due culture, senza sapere bene se sei afro-americano oppure... verde-americano...» «Peccato che Idalia non sia attratta da te, Christopher» ribatté subito Jalil. «I vostri figli sarebbero la combinazione perfetta tra il suo minuscolo corpo e il tuo minuscolo cervello.» «Ahiii! Sei crudele, Jalil, ma io non me la prendo, sai. So che è perché sei preoccupato. Preoccupato per il grande momento: "Mamma, papà, vorrei presentarvi la mia ragazza. Sì, mamma, è verde! Sì, papà, lo so che è alta appena un metro e venti! Perché non potete semplicemente essere carini con lei? Perché dovete essere sempre così ipercritici?".» «David, prestami la spada, solo per un minuto.» «La vita matrimoniale? Una meraviglia. Ti pulirà la casa in meno di cinque secondi.» «Che cosa ti fa pensare che Idalia voglia restarsene a casa a fare le pulizie?» esclamò April. «Magari si troverà un lavoro. Lavorerà fuori casa.» «Forse sa scrivere a macchina. Magari cinque, seimila parole al minuto» suggerì Christopher. «No, io la vedrei bene nella vendita al dettaglio, in qualche grande magazzino. O in una profumeria.» «Adesso la spada mi serve per due minuti» disse Jalil. «La sapete una cosa?» intervenni io. «Scherzi a parte, sono contento di avere a che fare con gente più piccola di noi. Ninfe e gnomi devono per forza essere meglio dei vari Loki e Huitzilopoctli e Fenrir e Hel e Nidhoggr...» «Non esserne così sicuro» disse Senna.
Ormai ero abituato all'idea che Senna non parlasse. Ero quasi riuscito a togliermela di mente. «Hai qualcosa da dire, Senna?» le chiese Jalil in tono teso e misurato. «Sai qualcosa su gnomi e folletti?» le chiesi. «Se è così, devi dircelo.» Per un po' andò avanti senza rispondere. «Everworld è un posto pericoloso, David» disse finalmente. «Secondo te come fa questa gente così piccola, gnomi e folletti, a sopravvivere in un posto pieno di divinità e mostri giganteschi?» Inciampai. Ripresi l'equilibrio. Notai che Christopher, April e Jalil avevano smesso di prendersi in giro. «Come fanno i deboli a difendersi dai forti?» chiese ancora Senna. «Non so... restando insieme, immagino, restando uniti.» Senna non alzò gli occhi al cielo, non esattamente. Ci fu solo una piega fugace e cinica delle sue labbra. «Quante Idalie dovresti unire per sconfiggere una come Hel? Quanti folletti per spaventare Nidhoggr?» «Troppi» ammisi. «Non ci possono essere tanti folletti.» Aspettai, aspettammo tutti, ma Senna non aggiunse altro. Idalia tornò indietro, si allontanò, tornò di nuovo. E mentre camminavamo tra boschi dorati e prati cosparsi di fiori, riflettevo e mi preoccupavo. Forse Nidhoggr sapeva volare. Forse Nidhoggr avrebbe potuto inseguire gli gnomi da solo. Forse Nidhoggr aveva paura. Ma cosa mai poteva spaventare uno come Nidhoggr? Questi tetri pensieri sparirono nel momento in cui mi resi conto di sentire un rumore di zoccoli. Mi girai di scatto, la spada sguainata. La metà inferiore di Sabbia ci superò di corsa. CAPITOLO VII Ci fermammo a riposare quando il sole era già alto e brillante su un prato fiorito. Era questo il posto più bello che avessi mai visto? O era così bello solo perché teneva lontano il ricordo del volto mostruoso di Hel? In un caso o nell'altro, era stupendo. E dava l'idea di essere sicuro. Era difficile immaginare che potesse esistere qualcosa di malvagio in un luogo così ricco di spighe di lavanda, punteggiato di fiori gialli e rossi. «Dobbiamo dormire» dissi. «Io ci sto» convenne Jalil. La metà inferiore del satiro incrociò di nuovo il nostro cammino. Andò a
sbattere contro un albero, cadde, si rialzò. «Non è poi troppo strano» commentò Jalil. «Faccio io il primo turno di guardia» dissi. Ci lasciammo cadere a terra lì dove eravamo. Ci lasciammo cadere tra l'erba alta fino alle caviglie, all'ombra di un boschetto isolato di peschi, accanto a un ruscello. Staccammo tutte le pesche a portata di mano. Erano rosee, mature, dolci. Perfette. «Questo posto sembra una cartolina» commentò April. «Ci mancavano solo le pesche biologiche.» «Era ora di fare una tregua» aggiunse Christopher. «Mancano solo delle lenzuola pulite...» Non riuscì nemmeno a finire il pensiero, che già dormiva. Con un boccone di pesca ancora in bocca. Repressi uno sbadiglio. Quand'era l'ultima volta che avevamo dormito? Quanto tempo era passato? Giorni? Come potevo esserne sicuro, dopo tutto quel tempo trascorso sotto terra? E comunque non importava. Adesso avremmo dormito. Uno dopo l'altro, i ragazzi iniziarono a respirare più lentamente, con regolarità. Qualcuno russava. Senna era distesa di fianco, tranquilla, a occhi chiusi. Era un sollievo vedere che dormiva. Era umana anche lei, dopotutto. Un raggio di sole le batteva sulla pelle chiara. Aggrottò la fronte e si girò dall'altra parte, lasciandomi solo la nuca da guardare. Volevo parlarle, Volevo chiederle molte cose. Volevo sentire le sue risposte. O forse volevo semplicemente sentirmi dare le risposte che avrei voluto sentire. Molto tempo prima che tutto questo iniziasse, forse neanche molto tempo fa, insomma, quella volta, avevo creduto di essere innamorato di Senna Wales. Quella volta, lei era venuta a fare un giro in macchina con me, aveva parlato con me, aveva riso con me. Mi aveva baciato. Aveva acceso un fuoco dentro di me e aveva lasciato che mi bruciasse. Quella volta, lei era una ragazza diversa da tutte quelle che avevo incontrato, diversa, ma in un modo che non sapevo definire né spiegare. Era diversa e basta. Quella volta, io l'avevo desiderata. Adesso tutti i sentimenti che provavo per lei erano sospetti. Senna non era più una ragazza. Era l'oggetto del desiderio di molti, ma nessuno di loro voleva il suo amore. Senna era un segreto, un pericolo, una forza. E aveva il potere di far sì che io la desiderassi, che avessi bisogno di lei, che credessi in lei. Poteva comprarsi la mia fedeltà con la moneta corrente di Everworld: la magia.
Come facevo, adesso, a sapere che cosa era reale? Come facevo a sapere quali erano le mie verità, se lei, semplicemente toccandomi, poteva arrivare fin dentro di me e controllarmi come voleva? Forse sarebbe stato meglio chiedere a lei tutte queste cose. Forse. Ma adesso mi girava le spalle e Jalil, April, Christopher e la creatura verde uscita da un libro di mitologia mi erano d'impaccio. Avevamo poco tempo per arrivare in un luogo dove non eravamo mai stati, recuperare il bottino di Nidhoggr e riportarglielo. Forse saremmo riusciti a costringere gli gnomi a darci quello che volevamo. O forse no. Avevamo una spada. Un coltellino. E una strega. Mi chiesi se al momento opportuno Senna sarebbe stata un'arma che avrei potuto usare. «Sono entrati in un altro mondo» disse Idalia, sfrecciando e fermandosi accanto a me. Sembrava sorpresa, perplessa. «Sì. Ci succede sempre. Non sappiamo perché. Per qualche ragione ogni volta che ci addormentiamo ritorniamo alla nostra vita nel mondo reale. C'è un altro David, là. E fa le sue solite cose. Va a scuola, va al lavoro, bighellona in giro. Più tardi, quando mi metterò a dormire, ci tornerò anch'io.» E Senna dove andava, quando dormiva? Tornava anche lei nel mondo reale? La ninfa rise e riscosse Christopher quel tanto che bastava per fargli sputare la pesca. Fu un sollievo per me. Altrimenti avrei dovuto tirargliela fuori di bocca con le mie mani, per evitare che si soffocasse. «Tu lo chiami "il mondo reale"» fece Idalia. «Perché? Questo non è altrettanto reale?» Alzai le spalle. Mi sentivo un po' a disagio a parlare con Idalia. Era come andare in una spiaggia per nudisti e cercare di parlare di calcio con il primo tipo da spiaggia che ti capita a tiro. Non mi sentivo attratto da Idalia. Ero più che altro imbarazzato. «Immagino che Everworld sia reale tanto quanto il nostro mondo. Ma loro sentono di appartenere più a quello che a questo.» «Anche il mio Jalil?» Non mi sfuggì il "mio". Decisi di lasciar correre. Idalia era furba: stava facendo in modo che almeno uno di noi fosse dalla sua parte. Non sapeva se poteva fidarsi di noi. Ma se voleva lusingare Jalil, se voleva sedurlo, nessun problema per me. Anzi, pieno di rancore com'ero, una parte di me ne godeva. Finalmente non ero più l'unico guardato con sospetto perché aveva una storia con
qualcuno. Guardai la schiena di Senna. Una storia? Era questo che c'era tra me e Senna? La parola mi sembrava ridicola. «Eh sì» risposi dopo un po'. «Credo che Jalil pensi che il suo mondo sia più il mondo rea... il Vecchio Mondo.» «E tu invece no?» Strinsi le spalle. «Prendo quello che c'è. Cerco di affrontare la realtà, capisci, di prenderla così come viene.» «Povero mortale!» Idalia rise di nuovo. Ed era già sparita, un guizzo verde. Così rapida che l'erba dov'era passata non fece in tempo a rialzarsi prima che lei si dileguasse. Tirai un sospiro di sollievo. La ninfa era un'incognita. Non mi servivano incognite proprio adesso. I dati noti erano già abbastanza problematici. Premetti la mano sul cuore. Niente pulsazioni. Niente. Mi tastai il polso. Lì il ritmo familiare continuava. Mi toccai il collo. Il sangue continuava a pompare nelle arterie. Mi toccai di nuovo il cuore. Niente. Silenzio assoluto. Troppo strano. Nessun uomo, nessuna donna aveva mai sentito questa assenza continuando a vivere. Troppo strano. Troppo... Ero in macchina. La capote alzata. Pioveva. Pioveva a dirotto, sembrava che qualcuno buttasse acqua contro il parabrezza con l'idrante. Sulla pelle bianca e consunta del sedile accanto c'era la busta di carta con la cinghia nuova per l'aspirapolvere e due confezioni di sacchetti. La radio dava praticamente solo scariche. «No!» Sterzai. Mi ripresi. Evitai il traffico che veniva dalla parte opposta. Sheridan Road era una strada a due corsie a doppio senso di marcia: a ogni curva le macchine rischiavano di venirti addosso. «Maledizione» imprecai, e picchiai il volante con entrambe le mani. Mi ero addormentato. Mi ero addormentato senza svegliare nessuno per fare il secondo turno. Eravamo tutti là, addormentati su un prato, senza nessuno di guardia. Poteva capitarci qualsiasi cosa. E le possibilità a Everworld erano infinite. Mi ero addormentato durante il turno di guardia. In guerra avrei potuto essere fucilato per questo.
Provai la fastidiosa sensazione ormai familiare delle due metà di me stesso che si fondevano. Jalil l'aveva definito "Ultime Notizie dalla CNN". Ed era esattamente così: un'improvvisa ondata di notizie flash con cui il David del mondo reale, il David che guidava la macchina e che era stato a comprare la cinghia dell'aspirapolvere per la mamma, si aggiornava su tutto quello che era capitato all'altro David. E viceversa. Era passato molto tempo dall'ultimo aggiornamento. I ricordi mi irruppero nella mente senza filtri. Il ricordo del viso di Hel, quel viso morto a metà e divorato dai vermi. Il terrore estremo, agghiacciante. E la passione incontrollabile, il bisogno, il desiderio, ogni volta che ci mostrava l'altra metà del volto. Immagini di uomini sepolti. Immagini di uomini costretti a una nonmorte eterna sotto lastre di pietra, sepolti vivi per sempre. Immagini di... Stavo per vomitare. Dovevo fermarmi. Sulla strada principale non si poteva, così diressi la vecchia Buick sul vialetto di una villa di un qualche riccone. Mi fermai. Mi aggrappai al volante. Mi tremavano le mani. Tremavo tutto. Aprii la portiera, mi sporsi fuori, appena in tempo. Evitai per un soffio di rovinare irreparabilmente la macchina. Vomitai sul vialetto, con la pioggia che mi batteva sulla testa, sul collo, sulle spalle. Con la pioggia che diluiva e lavava via tutto. Mi rimisi a sedere. Mi passai le mani sui capelli, per asciugare un po' d'acqua. E lì, con un ombrello viola, c'era una donna di mezza età, dalla figura tozza, tarchiata. Due occhi scuri in un viso duro. Capelli sale e pepe tirati indietro. Era la cameriera della grande casa in fondo al vialetto. Sicuramente era la cameriera. La gente che vive in una villa da cinque milioni di dollari con vista sul lago non si vestiva così, e non aveva questo aspetto. «Mi dispiace» dissi. «Vieni.» Aveva un accento strano che non riuscii a identificare. Con la mano libera mi indicava la casa. «Vieni dentro.» Scossi la testa. «No, grazie. Adesso sto bene. Deve essere qualcosa che ho mangiato.» Lei mi fissava, non distoglieva gli occhi, non mi mollava. «Tu porti messaggio.» «No, no, signora, probabilmente è un altro quello che aspetta. Non ho nessun messaggio. Passavo di qua per caso e mi sono sentito male, e lei sa com'è sulla Sheridan, non è che uno possa accostare sul marciapiede...»
Si avvicinò. Volevo chiudere la portiera perché la pioggia scendeva dalla capote sul tappetino e al mio tappetino, o quel che ne restava, non serviva altra muffa. Ma adesso la donna bloccava la portiera. Inaspettatamente mi toccò. Posò la mano sulla mia, la sua mano calda e asciutta sulla mia, fredda e bagnata, appoggiata al finestrino mezzo abbassato. Non la toglieva e che potevo fare, io? Avevo appena vomitato sul suo vialetto, non potevo dirle di lasciarmi in pace. I suoi occhi neri si chiusero. Poi si aprirono, si spalancarono. Sorpresa. Paura. Ma alla fine la sua espressione si fissò sulla preoccupazione. Forse pietà. «I neri sono vicini» disse. Sentii un brivido freddo corrermi lungo la spina dorsale. I neri. Assurdo. Una coincidenza. Era una messicana, o forse una polacca superstiziosa o chissà che altro. Le cameriere dei ricchi erano tutte messicane o polacche. «La porta è aperta?» aggiunse poi. Raggelai. «Che cosa?» «Bisogna chiudere» disse. «Bisogna chiudere porta.» Si girò e si avviò dondolando verso la casa. La pioggia riprese a scrosciare con rinnovato vigore e lei scomparve dalla mia vista. Feci retromarcia lungo il vialetto. Superai il portone di legno. Risi di una risata nervosa. Il portone. La porta. Ma certo. C'era una porta ed era aperta. Ecco che cosa voleva dire la donna. La porta della proprietà era aperta. Niente a che vedere con Senna. "Ti prende male, amico. Stai iniziando a dare i numeri." CAPITOLO VIII Dall'altra parte, a Everworld, stavo dormendo. Mi ero addormentato e non potevo fare niente per svegliarmi, per svegliare l'altro me stesso. L'unica possibilità era continuare per la mia strada. Continuare a fare le solite cose, come se la mia testa non fosse piena dei ricordi di una vita che non stavo realmente vivendo. Non potevo fare altro che aspettare il prossimo aggiornamento. Non potevo fare nient'altro io, il David del mondo reale. Aspettare per sapere cos'era successo, aspettare che l'altro David si svegliasse, vivesse la sua giornata e si addormentasse di nuovo.
Se si svegliava. Se era ancora vivo. Li avevo piantati in asso tutti quanti. Avevo fallito. Mi ero addormentato durante il mio turno e magari adesso saremmo morti tutti per colpa mia. L'avrei mai saputo? Che cosa sarebbe successo a me, se l'altro David fosse morto? Che cosa sarebbe successo a lui se io fossi morto? Se io mi fossi scontrato con un camion, il David di Everworld sarebbe morto oppure avrebbe continuato a vivere e, nel sonno, avrebbe semplicemente sognato? Arrivai a casa. Mi bagnai come un pulcino correndo dentro per portare a mia madre i sacchetti e la cinghia per l'aspirapolvere. Mi chiese di montare la cinghia. Lo feci in un lampo. Dovevo uscire di lì, dovevo muovermi. Non sapevo dove andare, ma dovevo andare comunque. Dovevo trovare gli altri. Chiamai April. Non era in casa. Chiamai Jalil. Non era in casa. Era sabato pomeriggio, logico che fossero fuori. Infine chiamai Christopher. Sua madre mi disse che era in punizione. Era tornato dopo il coprifuoco la notte prima. Forse c'entravo anch'io, mi disse, nel qual caso, se fossi rimasto ancora fuori fino a tardi con Christopher, avrei forse dovuto ricordargli di rientrare entro mezzanotte. Non a mezzanotte e dieci, non a mezzanotte e mezzo e sicuramente non all'una e mezzo di mattina, quando suo padre stava già chiamando tutti gli ospedali della città per cercarlo. Feci la voce solenne e le garantii che assolutamente no, non ero stato fuori, in giro con Christopher. Doveva essere uscito con qualche altro amico. Ma... non avrei potuto parlargli solo per un minuto? Avevo bisogno di sapere quando dovevamo consegnare la ricerca di chimica. «Bella trovata» disse, e riappese. Presi la macchina e andai al Boston Market. L'auto di Jalil era nel parcheggio. Lo trovai dietro al bancone, nel negozio quasi vuoto. «Quelle patate arrosto sembrano un po' rancide» attaccai. «Allora ordina il purè» rispose. Jalil non è uno che possa sembrare felice con il grembiule e il nome sulla targhetta. «Serve del pollo?» mi chiese. Mi chinai sul bancone. Lui arretrò di qualche centimetro. «Mi sono addormentato, amico.» «Ah sì?» «Voglio dire... non ho svegliato nessuno per fare il secondo turno. Mi sono addormentato all'improvviso. Siamo tutti là sull'erba, allo scoperto, e non c'è nessuno che faccia la guardia.»
«E io che dovrei farci?» «Niente, amico, sto solo controllando. Cioè, magari nel frattempo ti eri svegliato tu e avevi iniziato il turno, no? O Christopher magari si era svegliato per conto suo e tu l'avevi sostituito...» «Non credo proprio.» Il capo di Jalil, una specie di superdonna piccola e rotondetta, si avvicinò e iniziò a trafficare con il cibo esposto. «Jalil, ci serve un altro vassoio di patate arrosto.» «Te lo dicevo che stavano andando a male» gli dissi. «Me ne occupo io» rispose Jalil al suo capo. «Senti, David, facciamo finta che questa conversazione non sia mai esistita, okay? Non c'è niente che né tu né io possiamo fare laggiù. Quindi, nel frattempo, che ne dici di tenere nascosto anche ad April e a Christopher che ne hai combinata un'altra delle tue? Lo sai, no? Il tuo grado di credibilità non è particolarmente alto, in questo momento.» Mi fece male. «Che vorresti dire? Di che parli?» «Non fare finta di non capire, David. Lo sai benissimo di che cosa sto parlando.» «Ehi, non mi sembra che a te dispiaccia avere la piccola come-sichiama, la ninfa Idalia, appiccicata addosso.» «Non dimenticarti delle patate arrosto» ripeté il capo in tono di rimprovero. «Lascia perdere, amico. Che analogia ci sarebbe secondo te?» disse Jalil. «È bella da guardare. Ma la cosa finisce lì. Quello che le interessa è sdebitarsi con noi per averla salvata e poi sganciarsi e andarsene a fare qualunque cosa facciano di solito le ninfe. Forse pensa che anche a noi venga voglia di fare i satiri con lei e vuole usarmi per controllare te e Christopher.» C'era da ammirare Jalil per il cervello che aveva. Vista così, non si poteva dire che ci fosse molto coinvolgimento emotivo. «Lo so che anche Senna mi sta usando» dissi. «Ma che differenza c'è? Riesco a gestirla.» Jalil scosse la testa. «Nessuno di noi riesce a gestire Senna. Tu credi quello che vuoi, io so quello che so. David, per lei è tutta una questione di potere. Ci ha venduti a Hel perché le andava bene così. In questo momento le va bene lasciarci andare per la nostra strada. Ma potrebbe anche cambiare. E quando cambierà, be'... si vedrà, no?»
«Va' a prendere le patate» lo apostrofai, per scherzo. «Sto cercando di aiutarti a venirne fuori, amico. Io sono in grado di tenere distinto da tutto il resto il fatto che sei esausto oltre ogni limite e che per questo ti sei messo a dormire. Io sono in grado di farlo. Ma che mi dici di Christopher? Non sono sicuro che anche lui la vedrebbe così. Potrebbe pensare che è tutta opera di Senna. Se ci troveremo di nuovo nei guai fino al collo, e succederà, dobbiamo sapere tutti da che parte ti schiererai.» «Farò la cosa giusta, intelligentone. Farò la cosa giusta. Fate presto, voi, a presentarmi il conto quando c'è qualche pericolo.» Jalil annuì. «È vero. Hai ragione. Ma la sai una cosa, David? Noi non abbiamo il culto del capo. Non ci stiamo a seguirlo finché non ci ha fatti ammazzare tutti.» Sorrise cinicamente. «Sei tu il nostro eroe, David, ma fino al primo passo falso.» Me ne andai. Salii in macchina e sgommai uscendo dal parcheggio. Sgommai proprio come fanno quegli sbruffoni imbecilli che detesto. Mi ero lasciato abbindolare da Senna. Era vero. E poi mi ero addormentato. Era vero. E poi c'era la brutta storia del primo incontro con Loki. Quello che era successo allora ce l'avevo impresso nella mente a caratteri di fuoco. Stavo combinando un pasticcio. Perdevo colpi. Tic-tac, tic-tac e poi il rubino sarebbe diventato di fuoco e mi avrebbe aperto un buco nel petto. E io? Io mi addormentavo, combinavo un pasticcio, perdevo colpi. E poi? Mi sentii soffocare dal panico. Guardai l'orologio. Ero di turno al lavoro. Dovevo andare avanti con la solita vita, era questa la cosa più strana. Non potevo semplicemente mandare tutto al diavolo perché in un altro universo ero una persona differente. Dovevo comunque andare a lavorare, segnare le ore, contare le mance magre, mettere da parte la paga per il college e per un nuovo motorino d'avviamento per quella bestia della Buick. Arrivai da Starbucks, parcheggiai, saltai fuori dalla macchina, mi lisciai i capelli bagnati perché avessero almeno una parvenza di ordine. Due colleghi si stavano fumando una sigaretta alla fine del turno nel vicolo tra Starbucks e la lavanderia a secco. «Come butta, amico?» mi disse uno. «Vita da schifo» borbottai, pensieroso. «Già sentita.» Passai le mie quattro ore a preparare caffè espressi e caffè macchiati,
cercando di erigere un muro tra me e i ricordi, tra me e la paura, tra me e la tensione: corri, corri, corri, o muori. Mi ero addormentato e nessuno si fidava di me. Mi ero innamorato di una ragazza che mi aveva sconvolto la vita. Feci un altro espresso, preparai dell'altra schiuma di latte, e cercai di non pensare alle accuse, dure e meritate, se avessi fallito. Dopo il lavoro me ne tornai subito a casa. Il David del mondo reale era stanco, perché il David del mondo reale era rimasto sveglio fino a tardi la sera prima per cercare di rimettersi in pari con i compiti. Mi infilai nel letto. Lenzuola pulite, fresche di bucato. Gente, che sensazione! Il cuscino. La coperta. La bottiglia d'acqua sul comodino. Dormivo, in due universi. Ed ero sveglio in un terzo. CAPITOLO IX Il rifugio, oh... no, no, di nuovo il rifugio. File di ragazzini profondamente addormentati sulle cuccette di legno, sotto gli striscioni che hanno preparato loro stessi per celebrare la superiorità della loro squadra sopra tutte le altre, nel canottaggio e nel tagliar legna. Pronunciate anche le ultime battute volgari; sfumate anche le ultime prese in giro; dichiarate tutte le bonarie minacce di terribili punizioni corporali pronte per essere inflitte il giorno dopo. I ragazzini dormono. Tutti tranne uno. La porta si apre, aria fresca, aria frizzante che porta con sé l'odore del sudore, del dentifricio, della cioccolata. La giacca a vento bianca. È la giacca a vento di coloro che hanno il potere, dei capigruppo, degli educatori. È la giacca a vento di Donny. E i ragazzini dormono, tutti tranne uno, tutti tranne uno che stringe gli occhi e finge di dormire, e pensa che forse funzionerà, forse il sonno sarà una difesa. Difesa? Da cosa? Non lo sa. Non sa che parole usare per dirlo. È impossibile dirlo. Non fa parte del suo vocabolario, è un'esperienza per cui non ha parole, una sofferenza senza un nome. "Grida, ragazzo, grida!" dico. "Non restartene lì sdraiato, passivo, non fingere di dormire. Sei stupido? Sei un codardo? Magari te lo meriti." Io non lo posso salvare. Glielo dico, in silenzio, gli dico quello che deve fare, e so che lui mi sente, so che mi sente, ma che non lo farà. Perché non
reagisce? Perché non si difende? Ho il cuore che batte all'impazzata. Dovrei fare qualcosa. Dovrei essere coraggioso. Dovrei andare da qualcuno, dirlo a qualcuno, e non restare a piangere in silenzio con gli occhi stretti stretti, indifeso. Povero ragazzo! Io non faccio niente. Povero ragazzo! CAPITOLO X Il sole era forte, come in pieno giorno, bruciava rosso attraverso le palpebre chiuse. Strizzai gli occhi, mi schermai la faccia con una mano, mi guardai intorno. Il cuore era silenzioso. Nulla si muoveva nel petto. Il sogno era finito. Il sogno dell'altro me stesso. Ma i suoi sogni, i suoi incubi erano anche i miei, e del resto i miei pericoli erano anche i suoi. Il ricordo metteva tutto in comune, ci rendeva una persona sola. April addormentata. Christopher addormentato. Senna seduta con la schiena rivolta verso di noi, forse addormentata, forse sveglia. Jalil era in piedi, poco lontano. La ninfa era con lui. Nella luce del sole la sua pelle sembrava meno trasparente. Mi alzai. Mi avvicinai alla strana coppia cercando di fare finta di niente. Avvicinandomi notai che la pelle di Idalia era coperta da un motivo a foglie. Come delle minuscole foglie di quercia intrecciate. La fissai. L'effetto era quello di un body aderentissimo di foglie. Se non altro era un po' meno indecente. «È il sole» mi spiegò Jalil. «Non le piace la luce forte del sole.» Avrei anche potuto fare qualche commento sulla fotosintesi, ma non era il caso. «Allora?» dissi. «Allora, tu mi hai svegliato per il secondo turno, poi io mi sono confuso, per sbaglio ho svegliato di nuovo te e poi tu hai svegliato me. Abbiamo fatto la guardia io e te, solo io e te.» «È questa la versione dei fatti?» «È questa.» Non avevo niente da aggiungere. Jalil avrebbe mentito per salvarmi la faccia. Anzi no, mi correggo: avrebbe mentito perché gli ero utile, perché ero utile al gruppo nel suo insieme. E Jalil è sempre molto attento al proprio interesse. Intanto, mi aveva in pugno. O meglio, aveva in pugno una parte di me. «E in cambio che cosa vuoi?» gli chiesi bruscamente.
Un guizzo negli occhi, imperscrutabili. Poi sorrise. Sollevò il mento e disse: «Non preoccuparti. Verrà il momento in cui sarò io a chiederti un favore.» Non era divertente. E non mi incantava. Jalil lo diceva come se fosse una battuta, ma sapevamo entrambi che lui parlava sul serio. «Vuoi vedere una cosa?» disse Jalil. «Guarda là in fondo. In quel varco tra il verde degli alberi.» Mi riparai gli occhi dalla luce e guardai nella direzione che mi indicava. Eravamo su un grande prato, bello come in una cartolina, circondati su tre lati da una foresta di alberi decidui. Il terreno era dolcemente ondulato, quel tanto che bastava per dare risalto alle sporadiche macchie di lavanda o di papaveri o di girasoli. Ma due di queste ondulazioni si incontravano e formavano una specie di piega che scendeva da uno spiazzo aperto tra gli alberi. E là in fondo, facilmente visibile nella luce smagliante del sole, c'era un carro trainato da due buoi. Era massiccio, di legno, carico, sembrava, di qualche tipo di prodotto agricolo. «Giù!» scattai e tirai Jalil con me. «Rilassati. Va avanti così da stamattina. È una strada. Carri, carretti, carrettini. Ne passano ogni due o tre minuti. Vanno in entrambe le direzioni. Se non è un carro o qualcosa del genere, è bestiame: mucche, maiali, pecore. Avanzano da destra a sinistra, in genere.» Mi rialzai in piedi, cauto. Troppo tardi, ormai, per preoccuparsi di essere visti. «Vanno nella nostra stessa direzione.» «Idalia? Come l'hai chiamata quella strada?» «Alcuni la chiamano la Strada della Valle. Altri la Strada dei Folletti, oppure il Sentiero di Oberon. Qualcuno la chiama Via Romana.» «Perché non siamo anche noi su quella strada?» chiesi. Idalia rise. «Io non ci posso andare! Non è sicura per quelle della mia specie.» «Ma porta al Regno dei Folletti? Qual è il nome del posto dove siamo diretti?» «Sì, porta al Regno dei Folletti» confermò Idalia. «Lei non può allontanarsi dai boschi» spiegò Jalil. «È una ninfa dei boschi. Abbiamo parlato un po'. Lei non può lasciare i boschi, a meno che non sia in compagnia della sua dea, Iride. Dea greca di qualcosa.» «Dea dell'arcobaleno» precisò Idalia.
«Appunto. Dea dell'arcobaleno. E in più, una specie di messaggera.» «E perché Idalia non è con questa Iride?» «La ninfa è stata bandita.» «Ah sì? E perché?» «È meglio che glielo dica tu, Idalia» disse Jalil. Lei guardò altrove, fingendosi molto interessata al mezzo satiro che correva senza meta in un prato di vivaci fiori di campo gialli. «Oh, perché ho amato un mortale.» Guardai Jalil alzando un sopracciglio. Lui finse di non notarlo. «Ed è una cosa riprovevole?» Idalia rise. «Per me no. Per nessuna ninfa è riprovevole, ovviamente. Non ci sono maschi nella nostra specie. Chi dovremmo amare, se non gli uomini mortali? I nani sono orrendi e poi pensano solo al lavoro. E gli elfi? I maschi sono bellissimi, ma anche le loro donne sono bellissime. Una ninfa non la noterebbero nemmeno. E i folletti, invece, non gradiscono quelle della mia specie.» Annuii, come se tutto questo fosse perfettamente sensato. Annuire in questo modo non era affatto nuovo per me. «È così ingiusto!» si imbronciò Idalia. «Noi non dobbiamo amare i mortali, ma non abbiamo nessun altro da amare. E invece va tutto bene se è uno dei grandi dei, Zeus o Afrodite, o anche quel vecchiaccio di Efesto, a prendersi un amante mortale. Ci sono semidei dappertutto. Chi è Eracle, se non il frutto dell'unione tra una mortale e un immortale?» A questo punto ci voleva una risposta. «Non saprei.» «Se uno dei grandi dei se la spassa con qualche bel mortale, va benissimo... ma se è una povera ninfa invece a divertirsi un po', allora non va più bene.» «Quindi in pratica è successo che tu ti sei innamorata di un mortale e Iride ti ha licenziata per questo. È così?» Idalia annuì. «È tutto così ingiusto!» «Be'... sì, capisco l'ingiustizia, per certi versi, sì...» «Ogni volta le dico che mi dispiace, ogni volta le chiedo "Che cosa devo fare?". Ma ogni volta che mi coglie in flagrante, devo starmene alla larga, nei boschi, finché non si placa la sua ira.» «E ti è già successo altre volte di essere licenziata da Iride?» chiese Jalil.
Idalia rise. «Oh... sì. Centinaia di volte. Tanti mortali riesco a nasconderglieli, ma alla fine mi becca sempre con questo o con quello.» «Spiegalo a David come l'hai spiegato a me» le disse Jalil. «Ti ha beccata centinaia di volte. Ma in genere riesci a farla franca, giusto? E allora, quanti mortali hai amato?» Idalia rise con la sua risata argentina, come un ruscello gorgogliante. «Non li ho mai contati. Chi ci riuscirebbe a contarli tutti? Ce ne sono così tanti. Passerei tutto il tempo a riempirmi la testa di numeri!» «Il che ti fa sentire molto speciale, eh, Jalil?» commentai. Lui rise. «È il loro mestiere, amico. Dopo il lavoro, ho letto qualcosa sulle ninfe, prima di svegliarmi. Ce ne sono di tutti i tipi: Driadi, Amadriadi, Naiadi, Nereidi, Oreadi. Sono divinità minori. Donne giovani e bellissime legate a qualche dio delle alte sfere oppure abitanti dei boschi, dell'oceano e via dicendo. Praticamente tutto quello che fanno è innamorarsi degli umani e farsi inseguire dai satiri.» «Tutto qui?» Jalil scosse il capo, disgustato. «Non sono esseri evoluti, capisci? Sono state create. Inventate. Costruite dagli dei, che immagino non si siano mai chiesti veramente che cosa dovessero fare le ninfe, oltre a essere belle e di facili costumi. Non si sono evolute per adattarsi a un ecosistema. Sono fondamentalmente "decorazioni d'interni": come dei dipinti che gli dei appendono in giro per l'Olimpo soltanto per abbellire il posto.» «Benvenuto a Everworld» commentai. «Quell'angolino mi sembra un po' vuoto. Ho trovato! Mettiamoci due o tre ninfe. Verdi, direi, in tinta con il divano.» Era infastidito. Forse per la consapevolezza che l'inaspettato interesse di Idalia nei suoi confronti aveva tutta la sincerità della voce registrata del servizio automatico di informazioni, quando ti augura una buona giornata. O forse per l'ingiustizia di queste creature dalle fattezze umane che non avevano alcuno scopo concreto, né la speranza di avere uno scopo nella vita. Conoscendo Jalil, probabilmente era per la seconda delle ipotesi. «Senti questa. Idalia? Quanto fa due più due?» Idalia sbatté le ciglia. «Ho due alberi. Aggiungo altri due alberi. Quanti alberi ho in tutto?» «Dove sono questi alberi?»
«Ha una carriera davanti a sé... È sexy ma in un modo decisamente insolito e non sa fare due più due. È perfetta!» osservò Christopher. Chissà da quanto tempo era sveglio e ci stava ascoltando. Non da molto, però: non sarebbe stato capace di trattenere così a lungo qualche suo commento pungente. Si alzò in piedi. Vidi che anche April si muoveva. «Ehi, c'è una strada laggiù.» «Già. Porta al Regno dei Folletti» spiegai. «Se prendiamo quella arriviamo prima che non andando per i campi, e noi abbiamo una certa fretta. Volevo farvi dormire, ma non abbiamo altro tempo da perdere. Idalia, però, dice che lei non può venire da quella parte.» Erano questi i fatti, più o meno. Mi pareva che dovesse spettare a Jalil trarre la logica conclusione. «Idalia» disse Jalil «noi dobbiamo viaggiare in fretta. Abbiamo solo sei giorni, anzi cinque, adesso. Dobbiamo seguire la strada.» «Ma io non posso viaggiare su quella strada.» «Sì, lo sappiamo» le disse. Idalia gli sorrise, con quel suo sorriso verde e vacuo. «Quello che sto cercando di dirti è che noi dobbiamo andare, e tu devi tornare nella foresta.» «Ma io amo Jalil!» Senna sospirò, poi si alzò in piedi e venne verso di noi. «Tornatene da Iride. La sua ira si è placata. Corri da lei, è impaziente.» Ci fu un gridolino e un guizzo verde. E Idalia era già sparita. «Avresti potuto perdere delle ore a cercare di spiegarle» disse Senna. «E tu non hai ore da perdere. E comunque non avrebbe mai capito.» «È stato un colpo basso, Senna» le disse April. «Sorellina, tu dormivi, così ti sei persa le informazioni essenziali: Idalia è un automa. Seduce i mortali, scappa quando i satiri la inseguono, e basta. L'emozione, in lei, non è che una reazione automatica, programmata.» «Perché non posso incontrare anch'io una ragazza così?» si chiese Christopher. «Ah, l'amore di Idalia è programmato?» replicò April. «Nel senso che non è uno strumento che lei usa per i suoi fini? Non è un'illusione che crea con la magia?» «Senna ha ragione» disse Jalil, che voleva impedire un possibile scontro tra April e Senna. «Per lei noi non siamo nemmeno esistiti veramente. Quello che esiste veramente è qui dentro.»
Si toccò il petto. Non parlava del cuore. Parlava della pietra rossa. CAPITOLO XI Ci avviammo di buon passo verso la strada. Controllai la spada nel fodero. Impossibile sapere a cosa stavamo andando incontro. Ma il tempo era poco. «Se qualcuno ce lo chiede, siamo menestrelli e andiamo a intrattenere i folletti» dissi. Era la nostra copertura. Con i Vichinghi avevamo avuto un successo strepitoso. Anche in un buco di paesino senza nome nel cuore della foresta. Hel, invece, non si era divertita molto. Forse avremmo avuto più fortuna con i folletti. Scendemmo verso la strada cercando di avere un'aria il più possibile innocente. Allo stesso tempo, però, volevamo mandare un messaggio del tipo "state lontani da noi". È un gioco di equilibri ed equilibrismi, Everworld. Una parte di me sperava nello scontro. Uno scontro che avrei potuto vincere, però. Jalil mi aveva coperto. Non aveva fatto una piega quando avevo mentito agli altri. Ma adesso mi sentivo un ciarlatano. «Pecore in arrivo» annunciò Jalil. «Sbrighiamoci.» «E perché ci dovremmo sbrigare?» gli chiese Christopher. «Preferisci camminare davanti alle pecore o dietro alle pecore?» «Ah! Ho capito!» Accelerammo il passo e ci mettemmo in strada a una quindicina di metri dalla prima pecora. Più o meno alla stessa distanza, davanti a noi, avanzava un grande carro trainato da buoi carico di quelle che potevano essere barbabietole. La strada era di sassi e terra battuta. Come una strada di campagna degli Stati Uniti del Sud. Sul ciglio, erba impolverata. Ogni tanto, piccoli gruppi di alberi ombrosi offrivano un temporaneo sollievo dal sole. Un ruscello dal letto stretto e profondo scorreva serpeggiando vicino al ciglio della strada. Le rive erano coperte di canne ed erbe palustri. Per un po' non vedemmo altro che le pecore alle nostre spalle e il carro davanti a noi. E poco anche di questi. Jalil, con la sua fretta di evitare gli escrementi delle pecore, aveva trascurato un dato sostanziale: prima di loro, un sacco di altre greggi erano già transitate su questa strada. Tenevamo sempre gli occhi a terra, cercando di evitare almeno i mucchi più grossi. Ai
piedi avevo l'unico paio di scarpe da ginnastica disponibili a Everworld. Se fossero diventate importabili, mi sarebbero toccati dei gambali legati da stringhe, a essere fortunati. Gradualmente raggiungemmo il carro di barbabietole. Ma proprio mentre cercavamo di sorpassarlo, fummo bloccati dal traffico proveniente dalla direzione opposta: una fila di nani, una buona dozzina, con sacchi enormi sulla schiena. Il peso dei sacchi avrebbe schiacciato un essere umano. I nani sudavano profusamente e facevano fatica, ma non sentii un solo lamento mentre ci passavano accanto. Era la seconda volta che vedevo dei nani. La prima era stata nella cittàharem di Hel. Erano creature taciturne. Un pelo più alte di Idalia, in effetti, ma grossi tanto quanto erano alti. Sembravano sbozzati dal tronco di una quercia. Nonostante il caldo e il carico, portavano tutti una cotta di maglia di ferro lunga fino alle ginocchia e un'arma: chi una spada corta, chi un'ascia, chi una mazza chiodata. I nani non sembravano minimamente badare a noi. Decidemmo a nostra volta di non mostrare il minimo interesse verso di loro. Avevo l'impressione che i nani preferissero essere lasciati in pace. Avevo anche l'impressione che chi li avesse infastiditi se ne sarebbe molto dispiaciuto. Camminammo per altre due ore, a ritmo il più possibile sostenuto. Le pesche erano servite a qualcosa, ma non a molto. Eravamo a secco di cibo da un paio di giorni. Di acqua ce n'era in abbondanza, ma per quanto riguardava il cibo, la situazione si stava facendo critica. Stavo giusto pensando di tornare al carro di barbabietole che avevamo superato per vedere di comprarne qualcuna. Non avevo idea di come fossero le barbabietole crude, non sapevo nemmeno se si potessero mangiare, crude. Ma più cresceva la fame, più si allargavano le mie vedute. Il paesaggio si faceva sempre più bello. All'inizio era già piacevole: colline ondulate, strisce alberate interrotte da prati colmi di fiori. Ma ora stava superando il limite cui la natura può arrivare senza aiuti dall'esterno. Stavamo attraversando delle terre che somigliavano sempre più a un giardino ben curato. Adesso i cigli della strada erano segnati da un muretto basso di pietra. Gli alberi ombrosi erano allineati su entrambi i lati della strada, distanziati l'uno dall'altro quel tanto che bastava per lasciare spazio a rigogliosi cespugli di ortensie, a gigli arancione, a roseti carichi di grandi rose carnose, bianche, rosa e rosse. L'erba era rasata, rifilata, verde e fresca come quella di un campo da
golf. «Ehi, credo che qui ci viva mio nonno» disse Christopher. «È esattamente come il suo club giù in Florida. Meno umido, qui. E meno gente che guida con la freccia a sinistra perennemente accesa.» L'unica cosa che guastava la perfezione leccata e artificiale del paesaggio era la vista delle gambe del satiro che correvano di qua e di là. «Gente, ma cosa gli succede, a quello?» si chiese Christopher. «Deve sentire una certa simpatia per noi. Forse una specie di attrazione» ipotizzò Jalil. «È senza occhi» osservò April. «Come diavolo fa a seguirci? È senza testa. È senza niente!» «Sai, secondo me, su una scala dei misteri, il come faccia a seguirci è forse meno misterioso del semplice fatto che riesca ancora a muoversi» rifletté Jalil. «Jalil, sai essere così profondo quando vuoi!» disse Christopher. «Quando fai così, sento anch'io un'attrazione per te.» La strada curvava intorno a un salice piangente così grande che sembrava più un boschetto che un singolo albero. Dopo la curva ci trovammo davanti a un varco, come la porta di una città. Era molto bello. Uno slanciato arco di rose si elevava sopra la strada. Era alto appena quel tanto che bastava per far passare, forse con qualche difficoltà, il carro di barbabietole, quando ci avrebbe raggiunto. L'arco, chiuso da un cancello, era sostenuto su entrambi i lati della strada da massicce mura di pietra. Le mura si estendevano per una trentina di metri circa a destra e a sinistra e finivano con una torre circolare di pietra, alta grossomodo sette metri, centimetro più, centimetro meno. Altre rose adornavano la cima delle mura. «Carino con tutte queste rose» commentò April. «È un po' quello che ci si potrebbe aspettare come ingresso al Regno dei Folletti, eh?» «Non guardare le rose» dissi io. «Guarda le spine. Prova un po' a scavalcare quel muro... è peggio del filo spinato. E guarda dopo le torri: altri cespugli di fiori diversi. Scommetto che hanno le spine anche quelli. E lo vedi il terreno? Vedi come si innalza rapidamente? Metti che qualcuno voglia evitare di passare per il cancello: si dovrà arrampicare su una ripida collina e poi dovrà passare in mezzo ai cespugli pieni di spine, e per tutto il tempo sarà sorvegliato a vista dall'una o dall'altra delle torri.» Ci avvicinammo al cancello con cautela, ma senza fare la faccia colpevole o intimorita. Avevo ancora ben impressa nella mente l'osservazione di
Senna: questi popoli minuscoli riuscivano comunque a sopravvivere in una terra di giganti. E anche se l'avessi dimenticata, questa porta d'accesso, bella ma efficace, me l'avrebbe fatta subito ricordare. Una persona di bassa statura oziava accanto alla porta, dondolandosi sulle gambe posteriori di una sedia. Fumava una lunga pipa. Portava un berretto rosso brillante, una tunica verde acceso e delle babbucce morbide con la punta in su. Aveva approssimativamente le stesse dimensioni di un nano, ma la corporatura era più vicina alle proporzioni umane. Le gambe erano forse un po' troppo corte rispetto al corpo, ma a parte questo, avrebbe potuto essere un bambino di sette anni con la faccia grinzosa e bonaria di un vecchio. Non appena ci vide, levò in alto il berretto in segno di saluto. Sorrise senza togliersi la pipa di bocca. Ci strizzò l'occhio, azzurro. «Sembra uscito da una fiaba» si meravigliò April. «La mia bisnonna, pace all'anima sua, veniva dall'Irlanda, e raccontava sempre storie di gnomi e spiritelli. Gli gnomi erano esattamente come lui! Identici. È proprio l'immagine che avevo in mente quando ero piccola.» «Buon pomeriggio a voi, brava gente» esclamò lo gnomo. «E, damigelle, la vostra beltà fa impallidire le rose più belle del nostro roseto. Questa è la verità, senz'ombra di dubbio.» «Salve» risposi. «Stiamo cercando il Regno dei Folletti. Immagino che siamo arrivati, eh?» Era difficile sentirsi molto preoccupati, date le circostanze. «Arrivati siete, ebbene sì, siete arrivati. Ci avete trovati, ebbene sì. Come possiamo aiutarvi, bravo giovine?» «Be'... siamo menestrelli itineranti. Stiamo cercando un posto per fare il nostro spettacolo.» Lo gnomo sorrise. «Menestrelli siete... Ah sì, interessante... Menestrelli. Avete per caso notato, camminando per la strada, dico, avete per caso notato che, di tanto in tanto, passavate accanto, forse persino passavate in mezzo, a grandi mucchi di letame fumante?» Annuii, sorridendo. Non potevo evitarlo. Era in gamba, quel tipo. E io non sono certamente uno che usa spesso l'espressione "in gamba". «L'avete notato, dunque?» Lo gnomo ricambiò il mio sorriso. Ma improvvisamente il suo sorriso svanì. «Allora saprete anche quello che penso della frottola che siete menestrelli. È un gran mucchio di letame fumante.»
CAPITOLO XII L'omino si accomodò sulla sedia e tirò una boccata dalla pipa. «Sta parlando di cacca di mucca?» disse Christopher. «Di mucca, se volete. Ma va benissimo anche quella di cavallo, di porco, di pecora, di bue, di toro o di capra. Se voi siete menestrelli, io sono la Fata Turchina.» «Be'... pensala come vuoi» gli dissi. «Noi, comunque, vorremmo passare.» «Ah sì? Così voi vorreste passare, eh? E che mi dite della tassa d'ingresso?» «La tassa d'ingresso?» Lanciai un'occhiata alle mie spalle e vidi che il carro di barbabietole si stava avvicinando lentamente. Era stupido preoccuparsi di una cosa del genere, ma non volevo bloccare la fila. «Già, già, la tassa d'ingresso. Chi pensate che paghi per tutte le delizie che vedete intorno a voi, eh? Chi pensate che mi paghi per restarmene seduto qui tutto il giorno a recitare la parte? Con tanto di berretto rosso brillante e tunica e babbucce a punta? Ma credete che sia tutto gratis? Pensate che me ne stia qui seduto a soffocare nel fumo di questa pipa dannata, vestito come uno gnomo del Vecchio Mondo per il mio bene? E poi che diavolaccio è quella cosa?» Si alzò e indicò il mezzo satiro. La metà inferiore di Sabbia era appena andata a sbattere contro il muro alla nostra destra. «Che cos'è quella cosa impazzita?» volle sapere. «Vi segue, ma non ha occhi, e nemmeno una faccia dove piazzare gli occhi, e nemmeno una testa, o il collo dove piantare la testa.» Avevo la gola secca. Non stava andando secondo i nostri piani. Aveva liquidato in quattro e quattr'otto la nostra copertura. E aveva definitivamente abbandonato la messinscena dello gnomo allegro. Fu April a rispondere per noi. «È la metà di sotto di un satiro.» Lo gnomo sobbalzò visibilmente. Fissò April. Fissò me. «La metà di sotto di un satiro? E che ci fate con la metà di sotto di un satiro?» Iniziai a rispondere ma Christopher si intromise con destrezza. «Ti piace? Forse ci possiamo mettere d'accordo.» Gli occhi azzurri dello gnomo ebbero un guizzo da commerciante di auto
usate. «Ho visto mezzi satiri migliori di questo.» «Impossibile» disse Christopher con fermezza. «Questo è un mezzo satiro di prima categoria.» Lo gnomo si morse il labbro inferiore e borbottò tra sé. «Non so dove tenerlo. Potrei sistemarlo nel ripostiglio per un po', forse, ma continuerebbe a sbattere contro i muri e mi terrebbe sveglio tutta la notte. Dovrei rivenderlo quanto prima.» «Ti diamo il mezzo satiro in cambio della tassa d'ingresso» disse Christopher. «Affare fatto» accettò lo gnomo. Sembrava ancora un po' incerto, come se stesse ancora pensando al posto dove sistemare quelle instancabili zampe di capra. «Non deve mangiare tanto, vero?» «Allora, possiamo entrare?» chiese Jalil. «Siete diretti in città o solo al mercato?» «In città» dissi senza alcun preciso motivo. «Possiamo andare, adesso?» «Per potere, potete, ma come farete a pagare la tassa per entrare in città, io proprio non so.» Era tornato alla sua messinscena. «Buon viaggio a voi, brava gente, belle fanciulle, e la benedizione del popolo tutto dei folletti scenda sul vostro grazioso capino.» Poi, mentre passavamo la porta, lo sentimmo gridare con un tono completamente diverso: «Sergente! Mandi un paio dei suoi uomini ad acchiappare il mio mezzo satiro. Non più di due, non pago gli extra!» C'era una guardiola subito dopo il cancello. Due folletti sfrecciarono via. Si muovevano rapidi, anche se non a rotta di collo come Idalia. Avevano tuniche di pelle e stretti elmi d'acciaio. Erano armati di archi e frecce e piccole spade. Le loro armi non erano grosse. Sembravano giocattoli da bambini. Facevano ridere, quasi. Ma ricordai a me stesso di non sottovalutare mai questa gente. Non erano certo dei roseti a tenere a bada Nidhoggr. All'interno, i prati erano ancora più curati. Ogni cespuglio era perfettamente potato e modellato. Non si vedeva un filo d'erba ingiallito. Non un'aiuola incolta, non un albero malato. La strada era lastricata di mattoncini giallastri disposti a spina di pesce. «Mattoni gialli» osservò Christopher. «E dai, Christopher, lascia perdere!» ribattei. «Ma di che parli?»
«Fai anche finta di non capire?» «Ma credi che mi abbasserei a fare qualche ovvia battuta alla Mago di Oz in un momento come questo? È quasi offensivo, davvero. Ma che cosa pensi? Che farò la vocetta da Munchkin e dirò: "La strada della Città di Smeraldo è lastricata di mattoni gialli"?» «Mi era venuto in mente.» «Be', mi sottovaluti.» «Scusa.» «Allora, Senna. Devi sentirti a casa, qui, eh? Dove le tieni le Scimmie Alate?» Christopher rise, molto divertito dalla propria battuta. A sorpresa, sua e anche mia, Senna rispose. «Era il mio film preferito, da piccola.» «Probabilmente eri l'unica bambina che credeva che l'eroina fosse la Strega Malvagia dell'Ovest.» «Erano i colori. Era quello che mi piaceva. All'inizio il film è tutto in bianco e nero. Grigio, in realtà. Poi arriva il ciclone, e lei si sveglia a Oz. E all'improvviso è tutto a colori.» Senna lanciò un'occhiata fredda, di traverso, alla sorellastra. «Certi, quando lo vedono, si sentono come Toto, il cagnolino di Dorothy, entusiasti, sempre pronti a partire in quarta. Altri invece si sentono più come Dorothy. Arrivano in un mondo nuovo e fantastico e non smettono mai di rimpiangere il Kansas.» April rise. La frecciatina era arrivata a segno, ma non le aveva fatto male come Senna aveva sperato. «Ah, adesso capisco. Dunque, dovremmo esserti riconoscenti per tutto questo? Non avevo capito che lo facevi per farci piacere. Non avevo capito che volevi solo che ci divertissimo. Sai, pensavo che ci avessi trascinato in questo tuo psicodramma per poterci usare ogni volta che ti faceva comodo. Per distrarre Loki e rallentare la sua azione, per esempio. Per combattere contro i draghi al posto tuo. Per venderci alla tua amichetta Hel...» «Chiudi il becco, gallina» l'aggredì Senna con una voce che tagliava come un coltello. Ci fermammo tutti. Il sangue abbandonò la faccia di April. Le tremava il labbro inferiore, ma non come se stesse per scoppiare a piangere. Aveva i denti scoperti, gli occhi stretti. Non avevo mai visto April perdere le staffe. Non così. Istintivamente, arretrai di qualche passo.
La faccia di Senna mostrava solo disprezzo e freddezza. Non aveva affatto paura di April. Si avvicinò minacciosamente a sua sorella, le si avvicinò come se stesse per sommergerla di parole. «Tu ci sei stata per poche ore. Io ci sono rimasta per giorni» disse Senna con voce bassa e roca. «Mi ha appesa laggiù, mi ha legata a un palo, a guardare dentro il pozzo, sorellina, a guardare tutti quegli uomini appesi nel vuoto, centinaia, migliaia di uomini, che urlavano notte e giorno, piangevano, si lamentavano, imploravano.» April non riuscì a dire niente, rimase a guardarla, con la rabbia che scivolava via, rimpiazzata dallo stupore, dall'incapacità di comprendere. «Ero là quando trascinavano giù quelli nuovi, ed era allora il momento peggiore» proseguì Senna. «Quelli nuovi, che se la fanno ancora addosso per la paura davanti all'orrore di Hel. E poi le sue creature li trascinano nel pozzo, lungo le spire del serpente, e loro vedono che cosa li aspetta. Vedono i cadaveri che si muovono ancora. Vedono i vivi, poco più che scheletri, coperti da ragnatele polverose che hanno impiegato secoli a formarsi. Vedono tutto questo e chiamano la mamma, April! Gridano: "Mamma! Mamma! Mamma! Aiutami!". Per ore, ore. E gridano, gridano e...» «Smettila!» urlò Christopher. «Smettila subito! Smettila!» «È tutto così facile, così chiaro, per te, April, non è vero? È sempre stato così. I buoni e i cattivi. I buoni vanno in cielo, i cattivi bruciano all'inferno. Non è così, April? Non è questa la formula? E io che cosa sono, April? Sono cattiva? Sicuramente non pensi che sono buona. E quando ero appesa là, piangevo, sì, piangevo, gridavo, imploravo. Volevo morire. E non facevo che pensare alla mia tronfia sorellastra, perché sapevo che per lei io meritavo tutto questo.» Senna ansimava, tremava. Il sudore le imperlava la fronte. Avrei voluto tenerla, stringerla tra le braccia. Ma lei era lontana. Intoccabile. Esaltata. Christopher si teneva la testa tra le mani, la stringeva come per spremerne via tutti i ricordi. Era spaventosa la facilità con cui tornavano in superficie. Quando si sarebbero affievoliti, quando avrebbero perso il loro potere? Mai. Nessun espediente sarebbe mai servito a lavare la mia memoria. Piano piano allentai i pugni. Mi costrinsi a fare un respiro profondo. Ovvio che anche Senna fosse terrorizzata. Avrei dovuto capirlo. Era umana anche lei, dopotutto. Non era un mostro. Era come noi, diversa, ma sempre una di noi. «Bel lavoro, Senna» disse Jalil.
Non potevo credere alle mie orecchie. Lo guardai. Sì, lui non era affatto scosso. Stava muovendo lentamente la testa con un fare di ironica ammirazione. «Proprio un bel lavoro, Senna» ripeté. «Un tempismo perfetto, proprio quando nessuno di noi se lo aspetta. Un esordio perfetto. Prima ti prepari il terreno con i dolci ricordi d'infanzia del mago di Oz, e poi... arriva la mazzata. O forse dovrei dire il colpo di grazia?» Senna scosse la testa, troppo esausta, troppo turbata per replicare, per difendersi. «Lasciala in pace, Jalil, non sai neanche di che cosa stai parlando» intervenni io. «Hai dato la prima mazzata dipingendo April come la povera scimunita che non riusciva a capire quanto fosse bello stare in questo mondo in technicolor. E poi hai dato il colpo di grazia con le tue storie strappalacrime. Hai fatto apparire April come un'imbecille insensibile e tronfia, e tu? Tu sei la povera, sventurata Senna che ha David come suo unico paladino.» «Maledizione, Jalil, finiscila!» urlai. Lui fece un sorriso cattivo. «Perfetto, non è vero? Vedi? Stava filando tutto troppo liscio. Adesso April è stata demonizzata, David è tornato nel suo ruolo di pupazzo di Senna, io faccio la figura di quello dal cuore di ghiaccio e Christopher è stato punito per aver fatto soffrire la strega. È così brava che dovrebbe insegnare questa tecnica nei corsi di perfezionamento.» Era l'ombra di un sorriso che vedevo sulle labbra di Senna? No, certo che no. Erano vere, le lacrime nei suoi occhi. Era una di noi, in fin dei conti. Eppure, mentre istintivamente premevo la mano sul petto silenzioso, una voce petulante mi ricordava che i rubini erano quattro. Non cinque. CAPITOLO XIII Troppo bello. Era questo che continuavo a pensare. Troppo perfetto, troppo ordinato, troppo curato. I mattoni gialli erano persino stati puliti dallo sporco degli animali. Brillavano, ancora umidi dopo l'ultimo lavaggio. Il Regno dei Folletti. Sembrava proprio il mondo delle favole. Sembrava il paradiso di un giardiniere. Non c'erano cinque o sei tipi diversi di fiori,
ce n'erano a centinaia. Alti, bassi, esili, carnosi, rossi, gialli, arancio, verdi, bianchi, rosa, viola, persino blu. Mi venivano in mente i Giardini Botanici di Chicago. Ci eravamo stati in gita in prima superiore. In effetti, le uniche figure sporche, stracciate, malridotte, erano i viaggiatori sulla strada, che andavano e venivano. E noi eravamo ridotti male come tutti gli altri. Diventavo sempre più consapevole del fatto che eravamo luridi e puzzavamo come un gregge di pecore. Non c'era un centimetro del mio corpo che fosse pulito. Non c'era da molto tempo prima del nostro giro turistico nel mondo di Hel. Puzzavo di sudore vecchio, del sudore della paura. Non parlava nessuno da quando c'era stata quella scena madre. Ed era cambiato anche l'ordine di marcia, adesso. April e Jalil erano vicini. Christopher davanti a tutti, come se cercasse di distanziarci, come se cercasse di non notare la nostra presenza, per non ricordare. Io e Senna. Io e Senna, in silenzio, non abbastanza vicini da poter essere considerati vicini, non abbastanza lontani tra di noi perché gli altri non potessero vedere che eravamo insieme. Ero un dannato idiota. E la cosa peggiore era che sapevo di esserlo. La strega non aveva avuto una sola parola gentile per me. Niente ringraziamenti. Niente "David, grazie per avermi difeso". Avrebbe potuto sorridermi. Avrebbe potuto avvicinarsi a me, toccarmi una mano, avrebbe potuto... ma non l'aveva fatto. Non ne aveva alcun bisogno, diceva la parte più cinica di me. Lei già mi possedeva. E sapeva di avermi in pugno. Se il leader ero io, stavo facendo proprio un lavoro da schifo. Il gruppo si era spaccato, era diviso. E io ero solo uno dei frammenti. Sembravamo incapaci di lavorare insieme. Ciascuno di noi costituiva una unità a sé stante, nessuno di noi era parte di una squadra. Arrivammo in cima a una collinetta e vedemmo che davanti a noi la via si biforcava. Una strada a sinistra, una a destra. Impossibile vedere dove andavano a finire, perché il bivio si trovava in fondo a una valle alberata. «Un segnale stradale» Christopher esclamò, puntando il dito. «C'è un vero segnale stradale. Al diavolo, gente, io me ne resto qui nel Regno dei Folletti: questi sono i primi ad avere il buon senso di mettere un segnale stradale.» «Che cosa dice?» chiesi. «Dice... incredibile! "Da questa parte, la città" con una freccia che punta
a sinistra e "Da quella parte, il mercato" con una freccia che indica a destra.» Si fermò e sorrise. «La città è a tre miglia, gente. E il mercato è a mezzo miglio. Miglia, capite? Hanno scritto le distanze in miglia. Amo questa gente. Hanno i segnali stradali, tengono tutto pulito, commerciano. Sono pronto a prendere la cittadinanza.» «Il mercato è più vicino» osservò Jalil. «Visto? L'ho sempre detto che eri un genio, Jalil» replicò Christopher. «Tre miglia contro mezzo miglio.» «Volevo dire che abbiamo bisogno di cibo. Magari potremmo trovare dei vestiti puliti. Potremmo farci il bagno. Se il mercato è da una parte e la città dall'altra, forse significa che non troveremo niente in città. Sto solo facendo delle ipotesi. E poi, tutti gli altri vanno verso il mercato. Guardate.» Aveva ragione. Il flusso lento di pedoni, carri e pecore stava imboccando in massa la strada del mercato. «Io ho detto a quel tipo che eravamo diretti in città. Mi sembrava più adatto per la nostra solita copertura, per la storia dei menestrelli.» «Comunque non ci ha creduto» disse April. «Jalil ha ragione. Forse è meglio fare un salto al centro commerciale.» «Lo mettiamo ai voti oppure c'è David che rifà la solita scena del Mosè?» chiese Christopher. «Ehi, Senna, che cosa sta per dire David?» Mi morsi le labbra per non sparargli la prima cattiveria che mi venisse in mente. Poi, con tutta la calma che riuscii a trovare dissi: «Io sono d'accordo con Jalil e April.» Senna, grazie a Dio, non disse niente. Al bivio girammo a destra. Avvistammo il mercato molto prima di arrivarci. Era, per usare un eufemismo, diverso dal paesaggio fastidiosamente perfetto e ordinato che ci eravamo ormai abituati a vedere nel Regno dei Folletti. «È il mercato delle pulci più grande che abbia mai visto» commentò Christopher. Si estendeva per acri e acri di terra. Metti un chilometro e mezzo per un chilometro e mezzo di superficie, disposto però in forma vagamente circolare. Al centro c'era uno spazio aperto, una specie di piazza, una rotonda, da cui si irradiavano strade in tutte le direzioni. Queste strade, lastricate, erano collegate tra loro da una rete irregolare di vicoli di terra battuta. In ogni riquadro, in ogni triangolo di terra che si formava tra i vicoli sorgevano le costruzioni più varie: da chioschi addossati gli uni agli altri e coperti
da tende a righe rosse o verdi o gialle fino a negozi veri e propri a un piano, e qua e là qualche edificio veramente grande, a due, tre piani, con la facciata ornata di cornici rococò e il tetto ricoperto di tegole azzurre. In genere i negozi più scadenti erano situati ai margini del mercato, quelli grandi verso il centro. Dava l'impressione di un modello in scala di una città, con i "grattacieli" che segnavano il "centro economico e commerciale". A cercare qualche altro criterio logistico, in genere sembrava che le bestie, pecore, mucche, porci e cavalli, venissero tenute in quello che si poteva considerare il quadrante nordorientale. La strada su cui camminavamo portava verso il mercato. Un'altra strada portava fuori da lì, presumibilmente verso l'invisibile città. Nel mercato, strade e vicoli erano gremiti di persone. A quella distanza era difficile definire con certezza che tipo di gente fosse, ma anche da lì si vedeva che ce n'era una grande varietà, per tutti i gusti. Il carro di barbabietole stava di nuovo guadagnando terreno, perciò ci incamminammo di buon passo. Mi sentivo un po' meglio. Tutti ci sentivamo un po' meglio. Difficile immaginare che potesse succedere qualcosa di veramente terribile in un mercato all'aperto. Con nostro sollievo, non trovammo nessun guardiano che ci chiedesse una tassa d'ingresso per entrare al mercato. Passammo in mezzo a un gruppo di nani che contrattavano con un paio di Coo-Hatch e ci inoltrammo per la strada principale. Il sole del tardo pomeriggio era caldo, ma non violento. Le ombre erano allungate e fresche. Stavamo passando accanto a una ricca fila di cibi pronti e di bevande. Più che logico, ovviamente: la gente appena arrivata da un lungo viaggio avrebbe voluto mangiare e bere qualcosa. Noi, per esempio, sì. «C'è un piccolo problema» mi disse Christopher. «Non abbiamo soldi.» «Io ne ho» osservò Jalil. «Ho ancora gli spiccioli che avevo in tasca quando siamo arrivati qui.» Tirò fuori i soldi dalle tasche, insieme a un po' di sabbia e uno scarafaggio morto. «E quello cos'è? Una merenda?» «Undici dollari di carta, un quarto di dollaro, una monetina da dieci cent e cinque da un cent» contò Jalil. «Ma dubitò che la valuta americana valga molto, da queste parti.» «Potevamo intascarci qualcosina quando eravamo sulla montagna del te-
soro di Nidhoggr.» «Ah, sì... quella sarebbe stata una buona idea!» commentò April con insolito sarcasmo. «Perché lui, secondo te, non se ne accorge quando qualcuno gli porta via qualcosa. E perché allora siamo finiti a fare questo stupido viaggio? Perché lui rivuole una pignatta che ha perduto.» «Io avrei un suggerimento» disse Senna a bassa voce. «Che ne direste di stare un po' attenti a quello che dite? Siamo in un posto pubblico.» Mi guardai in giro, improvvisamente consapevole del fatto che aveva ragione. Sembrava che nessuno fosse a portata di voce, né che avesse origliato, ma chi poteva dirlo con certezza? Nidhoggr non era un nome facilmente confondibile con qualcos'altro. Eravamo in missione, una missione probabilmente pericolosa, e io avevo già fatto un errore. Montai su tutte le furie e me la presi con Christopher e April. «Voi due, statevene zitti e buoni» dissi con più veemenza di quanta non volessi. «Jalil, proviamo a comprare del cibo.» Jalil annuì. Si guardò intorno e scelse un chiosco che vendeva qualcosa di simile a dei panini con il wurstel. Il venditore era umano. E questo ci sembrava un buon inizio. «Ricordatevi la mostarda» ci gridò dietro Christopher. «Che cosa prendete?» chiese il venditore, con il tono di un qualsiasi cassiere di fast food del mondo reale. «Be', vorremmo cinque... di quelli.» Jalil indicò i panini. «Quanto mi date?» «Undici dollari e quaranta centesimi.» Il venditore era un omone, con enormi braccia pelose da Braccio di Ferro, i capelli lisciati indietro e una bocca piena di denti che sembravano piantati a casaccio. Prese la banconota da un dollaro e le due da cinque, prelevandole con la punta delle dita dalla mano di Jalil. Le osservò da vicino, le girò una per una per esaminare il retro. «Chi è questo qui?» «È George Washington. Quell'altro è Abraham Lincoln.» Il venditore li respinse. «Potete provare a piazzarli dagli scribi di via Poseidone. Qui non valgono niente.» «E le monete?» L'uomo schioccò le labbra.
«Anche uno stupido vedrebbe subito che quello non è argento buono. E quelle sono di rame. Un tortino di carne per tutte.» Chiamai Christopher e ci frugammo nelle tasche in cerca di altri spiccioli. Tirammo fuori altri cinque quarti di dollaro, un nichelino e quattro cent. Pochi secondi dopo eravamo tutti concentrati sull'arduo problema di come dividere tre tortini di carne tra cinque persone. «Un po' di mostarda, un po' di salsa, un cetriolino, qualche cipolla, magari dei peperoncini, e sarebbe già qualcosa» commentò Christopher finendo il suo mezzo tortino più una microfetta. «E patatine fritte e CocaCola.» «Già... se poi ci metti anche una bella insalatona e un buon succo di pomodoro, sarebbe veramente stupendo» aggiunse April. «Vuoi dirmi che stai davvero sognando cibo vegetariano?» le chiesi, cercando di scherzare per farmi perdonare il tono che avevo usato prima con lei. «Ebbene sì, almeno quando non sogno di non vedere te per una lunga, magnifica settimana.» «Io ho ancora fame» Christopher annunciò. «Abbiamo conservato lo zaino di April con tutto quel che c'è dentro. Il libro di poesie, il bloc-notes, le penne, la matita, il lettore CD, i suoi orrendi CD, qualche mazzo di chiavi, una tessera della benzina e infine una scheda telefonica.» «E le pastiglie per il mal di testa» aggiunse April. «Ci serve un posto dove dormire, dell'altro cibo, dei vestiti» riepilogò Jalil. «E qui siamo in un clima di sfrenato capitalismo. Forse potremmo barattare un po' della nostra merce, ma forse sarebbe meglio pensare più sul lungo termine.» «Abbiamo cinque giorni» gli ricordai. «Anzi tre giorni e mezzo, tenendo conto del tempo che ci serve per tornare da... dal Crostone Gigante. Non ci stiamo trasferendo qui.» Ma Christopher era interessato. «A che pensi, amico? Ci mettiamo in affari qui?» Jalil gli lanciò la sua tipica occhiata di traverso e fece il suo solito sorrisino. «Sappiamo un sacco di cose che loro non sanno. Questa gente è ferma intorno al primo millennio dopo Cristo. Noi siamo alle soglie del terzo.» «Dai, andiamo» dissi, non avendo niente di meglio da dire. Non sapevo che pesci pigliare, ed era una cosa che potevo ammettere a me stesso, ma non ero disposto ad ammettere davanti agli altri. Una pietra,
una spada, una lancia e un calderone. Era questo che stavamo cercando. Ed erano qui, da qualche parte, nel Regno dei Folletti. Ma il Regno dei Folletti non era il castello della Bella Addormentata di Disney World: era molto, molto grande, e riuscire a trovare i nostri quattro oggetti anche solo in questo enorme, infinito mercato all'aperto sembrava un'impresa impossibile. Ci sarebbero voluti degli anni. Sempre che chi li aveva non li tenesse ben nascosti. Un momento. No! Certo che no! I folletti non li avrebbero mai tenuti nascosti. Jalil aveva ragione: erano capitalisti. «Andiamo!» ripetei con più sicurezza. «E dove diavolo andiamo?» «Al centro del mercato. Prima che tramonti il sole.» CAPITOLO XIV Passammo davanti a fabbri. Davanti a macellai. Davanti a vasai. Davanti a gioiellieri. Cordai. Orafi. Tessitori. Ciabattini. Armaioli. Soffiatori di vetro. Bottai, carpentieri, tappezzieri, chiavaioli, conciatori, erboristi, chiaroveggenti, fornai, birrai e altri venditori, pochi in verità, che sfuggivano a qualsiasi tipo di definizione sensata. Se avessimo avuto abbastanza soldi, avremmo potuto acquistare puledri di unicorno, uova di araba fenice, filtri d'amore, serpenti volanti, cavalli a otto zampe tutti discendenti dal vero Sleipnir, il cavallo fatato di Odino. Vidi almeno tre martelli di Thor "autentici". Avremmo potuto, se l'avessimo voluto, pagare delle prostitute o comprare degli schiavi. Vedemmo giocolieri, mimi, equilibristi sulla fune, mangiatori di spade, mangiatori di fuoco, lottatori che affrontavano orsi, pitoni, o troll. Avremmo potuto comprarci di tutto per cena, dalle pannocchie abbrustolite, al formaggio, al pollo. Qualunque cosa esistesse a Everworld, secondo me qui c'era. E anche qualunque creatura che vivesse a Everworld, qui c'era. Nani, uomini, elfi, troll, divinità minori, una dozzina di tipi diversi di esseri di piccola statura, animali parlanti, giganti, Coo-Hatch e almeno altre tre specie di alieni. E tutti a comprare, vendere, barattare, minacciare, lusingare, contrattare, ridere, scambiarsi strette di mano, baciarsi sulle guance, stringersi le braccia, sputarsi sui palmi delle mani. E ovunque, folletti dalle linde tuniche blu scuro si muovevano tra i chioschi armati soltanto di taccuini rilegati in pelle su cui prendevano accurati
appunti. «Sono le Guardie di Finanza dei folletti, gente» disse Jalil. «Si prendono uno di tutto.» Altri folletti, inferiori di numero e vestiti di nero, si aggiravano lentamente per i vicoli, da soli o in coppia. Non importava che fossero alti un metro e venti, o che avessero le gambe ossute avvolte in una calzamaglia gialla, o che le loro armi fossero minispade o corti archi di osso e pelle: erano poliziotti. Finalmente arrivammo al centro del dedalo. C'erano dei balconi che bordavano gli alti edifici per tutta la loro lunghezza, e da questi balconi si svolgevano gli scambi: erano soprattutto folletti, ora, che gridavano agli elfi o agli uomini o ai nani o agli alieni giù in strada. Era questo il centro nevralgico. Qui gli scambi erano meno tangibili. Qui si trattavano grosse partite, migliaia di sacchi di grano o centinaia di capi di bestiame. Si compravano e vendevano azioni e titoli di credito, si giocava sui prezzi. «Questo è il primo posto di Everworld in cui forse potrei essere felice» esclamò Christopher. «Guardate. Tutto questo è reale. Questi sono soldi. Questi sono affari. Accidenti, questa è l'America.» «Non rilassarti troppo» lo avvertii. Vidi un carro vuoto parcheggiato. Ci saltai sopra, misi le mani davanti alla bocca per amplificare la voce e gridai: «Siamo qui per la pietra, la spada, la lancia e il calderone del Daghdha. Siamo disposti a pagare e...» I folletti dalla tunica nera comparvero dal nulla, movendosi a una velocità assolutamente inconcepibile. Non erano grandi. Ma quando qualcosa di non grande ti colpisce a una velocità abbastanza alta, allora è grande quanto basta. Mi ritrovai giù dal carro, per terra, con la testa che rimbombava per la botta e senza fiato nei polmoni, prima ancora di rendermi conto di quello che era successo. Avevo tre esili frecce incoccate su tre archi tesi a meno di trenta centimetri dal cuore. Pensai alla faccia che avrebbero fatto: io non ce l'avevo più, il cuore... Ma c'erano altre sei punte di freccia pronte a trafiggermi gli occhi, lo stomaco e altre cosette. Cautamente, attentamente, lentamente, girai la testa. Gli altri erano ancora in piedi. Ma anche loro, come me, erano a un pelo dal diventare dei puntaspilli. Un folletto in abiti color cuoio e cappello verde mi stava sopra, mi
guardava con calma dall'alto, fumando la pipa. Teneva in mano un lungo bastone da passeggio che terminava con un grosso pomolo d'oro massiccio. «Cercavo solo di fare degli affari» dissi con rispetto. «Non c'è posto migliore in tutto Everworld. È questo il posto giusto per gli affari» disse lui, annuendo. «Ma è il posto sbagliato per andare in giro a dire cose che è meglio tacere.» «Io... Mi dispiace, ma io... Forse potrei spiegare...» «No» disse lui. «Non puoi.» Vibrò un colpo con il pomolo d'oro. Feci appena in tempo a registrare il movimento, il guizzo. Poi, più nulla. CAPITOLO XV Passai un'ora di tensione in classe a fare un tema, poi d'improvviso eccomi di ritorno. Di ritorno in un bel guaio. Ero seduto su una sedia che sarebbe stata perfetta in un'aula di scuola materna. Ero piegato in avanti, la testa tra le ginocchia. Sollevai il capo di scatto, sentii un'onda di vertigine e di nausea. Misi a fuoco la stanza che girava. Vidi un trono su una pedana. I troni non ci avevano mai portato niente di buono: anche Loki e Hel avevano un trono. Huitzilopoctli aveva qualcosa di molto simile. I troni portavano guai. Volsi lo sguardo a destra e a sinistra. Gli altri quattro erano seduti su sedie come la mia. Tutti in sé. Tutti con la faccia da funerale. La mia spada era sparita. Almeno una decina di folletti vestiti di nero stavano sull'attenti. Sembravano tipi duri, capaci. O almeno, per quanto potessero sembrare duri dall'alto del loro metro e venti. Sul trono sedeva un piccoletto, uno gnomo, direi, visto che somigliava al tipo della dogana. Aveva un'alta corona d'oro tempestata di pietre preziose. In mano teneva uno scettro d'oro, altrettanto tempestato di diamanti, rubini e smeraldi. Non c'era bisogno di un suggeritore per capire che era il re. Un re molto ricco. Le pareti, il soffitto, il pavimento, i mobili... era come se il tesoro di Nidhoggr fosse esploso e avesse sparato ovunque schegge d'oro, d'argento e diamanti. Accanto al re dei folletti, su un trono un po' più piccolo, c'era la regina.
Non era una ninfa, né una fanciulla degli elfi. Era semplicemente una donna di mezza età, ancora piacente, piccolissima, dagli occhi pungenti e una piega astiosa sulla bocca. Tutto questo era già abbastanza brutto. Ma in un angolo della sala, isolata, si trovava una creatura diversa da qualsiasi cosa sia mai entrata nell'inconscio collettivo dell'Homo sapiens. Era più alto dei folletti ma di corporatura altrettanto esile. Gli occhi erano quelli di una mosca mostruosamente grande. Aveva ali ripiegate sulla schiena. La bocca era contornata da tre braccine snodate che non smettevano mai di muoversi, cercando cibo invisibile nell'aria. «Hetwan!» esclamai allora, al colmo della sorpresa. Avevamo già visto questo Hetwan, o un altro simile, alla corte di Loki. Gli Hetwan erano gli alleati di Ka Anor. E Ka Anor non significava niente di buono per nessuno. La verità mi colpì come un'illuminazione improvvisa. «È tutto un complotto!» «Ottimo, David» commentò Jalil con un misto di approvazione e sarcasmo rabbioso, furioso. «È questo il vostro capo?» chiese il re dei folletti. Era idiota, ma mi sentii gratificato. Gli altri dovevano avermi identificato come il capo. Patetico. Ancor più patetico non appena mi resi conto che il re era arrivato a questa conclusione in base al fatto che ero l'unico a portare una spada. La vidi, la mia spada, appoggiata a una porta laterale. Mi parve di vedere anche un soldato folletto che si fasciava una mano ustionata. La spada di Galahad bruciava chiunque la toccasse senza il permesso del suo proprietario. Buono a sapersi che era ancora a portata di mano. Ma sono una persona realista. Avrei potuto sconfiggere un troll con un rapido fendente, ma a confronto di questi folletti ero peggio di una lumaca. Mi sarei ritrovato infilzato da tutte le frecce di tutte le faretre presenti in sala, e con i folletti già fuori a fumarsi una sigaretta, prima ancora di riuscire ad arrivare alla spada. Il capitano, quello che mi aveva colpito con il bastone dal pomolo d'oro, dovette leggermi il pensiero in faccia. Alzò un dito, lo spostò a destra e a sinistra e mosse le labbra formando la parola "No". «Sono io il capo» dissi al re. «Mi chiamo David Levin.» «Sei una spia.»
«No, vostro onore. Cioè voglio dire, vostra altezza.» Udii il suono del metallo che colpisce il legno. Non avevo visto l'arciere muoversi. Non avevo visto nulla, ma avevo una freccia infilzata in un lembo dei pantaloni e infissa nel legno di una gamba della sedia. Smisi di respirare. «Tu sei una spia» ripeté il re. «La spia di Nidhoggr.» «Non sono la spia di Nidhoggr. Sono...» Un'altra freccia comparve mezzo centimetro più a sinistra della prima. Ci volle qualche secondo prima che il dolore raggiungesse il cervello. Solo un'abrasione, una ferita superficiale. Ma il messaggio era chiarissimo: questi folletti mi avrebbero potuto scuoiare vivo, se l'avessero voluto. Ecco la prova di quanto erano veloci, di quanto erano bravi. E di quanto io fossi grosso, goffo e lento. Sudavo. Il sudore mi stava entrando negli occhi. «Tu sei...» iniziò a dire il re. Avrei dovuto tenere il becco chiuso, o meglio ancora dargli ragione. «Maledizione! Non puoi continuare a piantarmi frecce addosso tutto il giorno! Siamo stati mandati da Nidhoggr, sì, è vero, ma non siamo spie.» «Lui vuole dire che non siamo delle spie» si inserì Jalil delicatamente «perché siamo dei ladri.» Il re sembrava pronto a ordinare una raffica di frecce da piantarmi negli occhi. Ma la regina gli posò una mano sulla gamba. «Vero» disse. Il re sembrò sorpreso, ma non scettico. La regina si piegò verso di noi e chiese: «Il drago vi ha mandati a rubare i tesori del Daghdha? Non a vedere dove si trovano, e basta?» «Non ci ha ordinato di fare rapporto. Ci ha ordinato solo di riprendere la roba. Quattro cose. Poi eravamo d'accordo che gliele avremmo riportate.» Lo Hetwan ci fissava, senza battere ciglio, senza alcuna emozione, per quanto si capiva. Se ci aveva riconosciuto, non lo dava a vedere. Forse tutti gli umani erano uguali, per lui. O più probabilmente questo era un altro Hetwan. Il problema non era tanto se ci riconosceva o meno, ma se sapeva o meno chi e che cosa era Senna. Il potere degli Hetwan aveva aiutato Loki a far attraversare a Senna la barriera tra i due universi. Senna, la "porta", doveva essere proprietà degli Hetwan. Loki aveva pensato di fare il doppio
gioco e di tenere Senna tutta per sé. Se avessimo consegnato Senna allo Hetwan, probabilmente ci avrebbero lasciati andare, liberi. Lo sapevo. Jalil quasi certamente lo sapeva anche lui. April? Forse. Avrebbe venduto la sua sorellastra? No, April non avrebbe permesso che si aprisse la "porta" tra i due mondi e che gli orrori di Everworld si riversassero nel suo prezioso mondo reale. Ma Christopher sì. E io non glielo potevo permettere. «Era una trappola, vero?» chiesi. «Avete mandato una banda a derubare Nidhoggr. Volevate che venisse lui a riprendersi le sue cose.» «Volevano che Nidhoggr venisse a riprendersi le sue cose?» strillò Christopher. «Nessuno vorrebbe che Nidhoggr venisse a riprendersi niente! Ma l'avete mai visto, voialtri?» La regina quasi scoppiò a ridere. Suo marito sembrava pieno di vergogna. Evidentemente era stata un'idea sua. Una cosa che mi sarebbe potuta tornare utile. Se mai fossi vissuto abbastanza a lungo da poterne approfittare. «Quanto si è impegnato a pagarvi, Nidhoggr, per venire a rubare da noi?» ci chiese il re. Decisi di provare a dire la verità. «Si è preso i nostri cuori. Li ha sostituiti con... con dei rubini. Tra qualche giorno i rubini prenderanno fuoco e ci uccideranno. A meno che non gli riportiamo la pietra, la spada, la lancia e il calderone del Daghdha.» La regina questa volta rise davvero. «Può riprendersi il calderone, per quel che me ne importa. Il calderone magico che non smette mai di dare cibo... E nessuno che si avvicini al calderone se ne allontanerà affamato... non importa quante volte, quante persone... Il calderone che è sempre colmo...» Abbassò la voce in un sussurro cospiratorio. «Quello che nessuno dice è che il cibo che il calderone offre con tanta abbondanza è una vera schifezza.» «Mancava un po' di sale» borbottò il marito. «Mancava un po' di sale? Non era cibo da dar da mangiare agli uomini, figuriamoci a un folletto o a uno gnomo che si rispetti. Cavoli bolliti e carne di manzo mezza marcia! Lo usiamo per i porci, e i porci migliori rifiutano di mangiarlo!» «Cavoli e manzo?» chiese Christopher. «Cibo irlandese...» mormorò April. «Dunque» riepilogò la regina. «Nidhoggr non è così sciocco da non fiutare la trappola che gli hai teso. E non si lancia all'inseguimento dei ladri
solo per finire infilzato come un quarto di bue.» Il re si rivolse con riluttanza allo Hetwan. «A quanto pare abbiamo fallito.» «Sì» confermò lo Hetwan. «Ka Anor non ne sarà contento.» «Siamo tutta gente ragionevole, qui» disse il re, aprendo le braccia con gesto di supplica. «Abbiamo fatto del nostro meglio. Ci perdiamo tutti, perdiamo tutti allo stesso modo.» «Ka Anor non tollera perdite e fallimenti» replicò lo Hetwan. «È tutta colpa di questi stolti umani» si difese il re. «Li farò uccidere immediatamente.» Successe tutto troppo in fretta perché potessi intervenire, dire una parola, bloccare la situazione. Il re alzò una mano. Il capitano fece un cenno ai suoi uomini. Pochi secondi e... «No! Abbiamo la strega. Abbiamo la "porta" per il Vecchio Mondo. Loro non te lo direbbero mai, preferirebbero morire. Ma è la strega che Ka Anor sta cercando, è la "porta".» Le parole erano state pronunciate prima ancora che riuscissi a pensare o a gridare "alt". E comunque sarei stato troppo sbalordito per reagire prontamente. Non era stato Christopher a parlare. Era stata Senna. Era in piedi, la mano protesa, il dito puntato verso April. «È lei! È lei la strega che Loki ha portato dal Vecchio Mondo.» CAPITOLO XVI Seguì un silenzio stupito, incredulo. «Quanto sarebbe disposto a pagare, Ka Anor, per questa strega?» chiese Senna alla regina. Troppo rapida. Era stata perfetta. Perfetta. Aveva colto il momento giusto, aveva detto le parole giuste, nel modo giusto. Avremmo potuto sostenere per giorni e per notti che April non era la strega. Senna ci aveva già additati come suoi protettori. Eravamo sospetti. Senna, l'informatore, invece no. E la cosa peggiore era la consapevolezza di non poter denunciare a nostra volta Senna. Di non poter ritorcere l'accusa contro di lei. Non poteva-
mo consegnare a Ka Anor la vera "porta". «La ragazza ha posto un quesito interessante» disse la regina allo Hetwan strascicando le parole. «Quanto sarebbe disposto a pagare, Ka Anor?» «La strega appartiene a Ka Anor di diritto» iniziò lo Hetwan. La regina lo interruppe con un suono sgarbato. «Questo è il Regno dei Folletti, Hetwan. Noi non moriamo di paura ogni volta che si fa il nome del tuo padrone. Ka Anor mangia gli dei, non i mortali. E noi siamo mortali, nel bene e nel male. Ragion per cui ci resta da contendere solo con gli schiavi di Ka Anor. E come farà Ka Anor a dar da mangiare a tutti voi Hetwan, senza il nostro grande mercato?» Lo Hetwan non mostrò alcuna reazione. Non replicò. «La strega è in vendita» annunciò la regina con una risata compiaciuta. «Dubito che Ka Anor possa pagare l'equivalente del tesoro di Nidhoggr, ma credo comunque che pagherà bene. Molto, molto bene.» «Mi occorreranno alcuni giorni per andare da Ka Anor e avere la sua risposta» disse lo Hetwan. La regina lo liquidò con un gesto vago della mano. «Prenditi tutto il tempo che vuoi. Noi terremo la strega al sicuro per te.» «David!» mi pregò April. «Non preoccuparti. Ti tireremo fuori di qui» le sussurrai. «Non possiamo dare a questa gente quello che vogliono.» I suoi occhi brillarono di astio. Rivolto a me? A Senna? Forse adesso non vedeva più nessuna differenza tra di noi. Sapeva di essere in trappola. Sapeva che avevo ragione. Speravo che sapesse anche che le avevo detto la verità, che l'avremmo veramente tirata fuori di lì. «Portate la strega nelle segrete, triplicate la guardia, giorno e notte» comandò il re, cercando di farsi valere. «Per quel che riguarda questi altri...» Lanciò un'occhiata alla moglie. «La ragazza ha acquistato la loro libertà. Per ora. Ma voi giovani del Vecchio Mondo tenete a mente che non potete lasciare il nostro regno. Se ci provate, noi ordineremo la vostra morte.» E rivolta al capitano dei folletti disse: «Restituitegli ciò che gli appartiene e levateli di torno. Puzzano.» April venne portata via. Se non altro, i soldati erano gentili con lei. Forse perché temevano i poteri che le attribuivano. Forse perché temevano di danneggiare una proprietà della regina. Dei folletti soldati ci portarono fuori dalla stanza, ci portarono letteralmente, con ogni probabilità impazienti per la nostra lentezza. Ci spinsero
fuori, ci tirarono dietro lo zaino di April e la mia spada e chiusero con forza la porta del palazzo. All'improvviso ci ritrovammo soli, noi quattro. L'assenza di April si sentiva in misura più forte della presenza di tutti noi. Eravamo davanti alla porta, forse più piccola del previsto, di un castello insolito e impressionante, fatto non di massicci blocchi di pietra, ma di mattoni ricoperti d'oro che formavano un motivo sinuoso. O forse erano mattoni d'oro massiccio. I folletti non avevano le strabilianti ricchezze del drago Nidhoggr, ma non andavano certo alla mensa dei poveri. Non eravamo più al mercato. Questa doveva essere la città. Strade strette, muri alti, tutto perfettamente pulito, sterile addirittura. Eravamo gli unici umani in una strada popolata da folletti rapidi e indaffarati. Ero all'erta, un po' mi aspettavo che Jalil o Christopher aggredissero Senna. Ma fu contro di me che Jalil si scagliò. «È sufficiente come prova, David? Pensi di riuscire, adesso, a capire che cosa ha in mente Senna?» «Tempo qualche secondo, ed eravate tutti morti» disse Senna con calma. «E invece siete ancora vivi. E liberi. Questo grazie a me.» Jalil rifiutò di guardarla. Tenne gli occhi furiosi fissi su di me. «Ha ragione lei, sai? Ha assolutamente ragione. Ma non è questo il punto, vero, David? La vedi adesso la verità su di lei? Quando le ha fatto comodo, ci ha venduti tutti a Hel. E quando le ha fatto comodo, ha venduto April.» Vero. Ma necessario. Per quanto odiassi doverlo ammettere, Senna ci aveva salvati, mentre io stavo ancora lì a fantasticare su come riprendere la mia spada. Eppure... la facilità con cui Senna aveva fatto la scelta di consegnare April... non potevo certo ignorarla. Non potevo fingere che il suo gesto non mi avesse fatto torcere le budella. Se solo avessi potuto parlare con Senna! Più tardi. Adesso avevo altri problemi. «Che cosa vuoi da me, Jalil?» lo apostrofai. «Vuoi che la uccida? È così?» «Sicuramente risolveremmo un sacco di problemi» disse Christopher. Sguainai la spada dal fodero e la offrii a Christopher. «Tieni. Fallo tu.» «Al diavolo, David. Lei è la tua...» «E tu, Jalil? Tieni. Ecco la spada. Forza, uccidila.» Per un lungo, terribile momento pensai che Jalil avrebbe potuto farlo.
Ma poi il suo sguardo vacillò, distolse gli occhi. «Ne ho fin sopra i capelli di questo schifo di storia.» Avevo la voce roca. «Tutte le volte che vi fa comodo mi mandate avanti e mi dite: "Vai David, pensaci tu".» «Come ho già detto, David, non siamo disposti ad affondare con il Titanic solo perché tu non riesci a vedere l'iceberg.» «Sai che ti dico, Jalil? Portala tu la spada. Fa' tu quello che bisogna fare. Volete che il capo lo faccia io, ma quando siamo nei guai fino al collo, ve la prendete con me. È una cosa che funziona a doppio senso, gente, a doppio senso. Se volete un capo, allora lo dovete anche seguire. Almeno un poco. Non ho mai avuto la pretesa di essere perfetto. Non vi ho mai mentito, non vi ho mai detto: "Seguitemi, perché so quello che sto facendo". Non lo so quello che sto facendo. Sono nell'occhio del ciclone, e voi siete seduti lì, tutti tronfi, e mi dite: "Ehi, amico, vedi di non combinare guai".» «Okay, calma, adesso, abbassa i toni» disse Christopher. «Ci stanno guardando.» La strada era quasi vuota. Ma lì vicino alcuni folletti vestiti di nero stavano seguendo con un certo interesse il nostro litigio. Si stava facendo buio in fretta, e il Regno dei Folletti non era il genere di posto dove tollerano la gente che urla per le strade. Abbassai la voce. Non era facile. Ero nero di rabbia. Soprattutto perché ero cosciente del mio fallimento. April prigioniera. In procinto di essere venduta a Ka Anor. Sorvegliata da ometti che non potevo nemmeno pensare di sfidare. Non avevamo armi che potessero incutere timore ai folletti. Niente. Non avevamo alcun potere. Era per questo che la regina ci aveva lasciati liberi. Quei folletti erano convinti di poter incastrare Nidhoggr, se fossero riusciti ad attirarlo fin qui, e probabilmente era vero, perché non erano degli sprovveduti. Ma se potevano incastrare Nidhoggr, se anche il vecchio drago l'aveva capito, che possibilità potevamo mai avere, noi? In petto avevo una pietra che fra poco avrebbe preso fuoco e mi avrebbe ucciso. A meno che non fossi riuscito a derubare i folletti e a scappare. Solo che adesso, ciliegina sulla torta, dovevo anche salvare April, tra una cosa e l'altra. «Che diavolo facciamo?» chiesi, a nessuno in particolare. «Che cosa facciamo?» «Questi nanerottoli avevano intenzione di incastrare il Crostone Gigante, ragazzi» disse Christopher, dando voce ai miei pensieri. «Stavano vera-
mente cercando di attirarlo sin qui.» Jalil sospirò, abbandonando la sua ira. Per ora, almeno. «La mia ipotesi è che si trattasse di un doppio patto: i folletti incastrano Nidhoggr, lo attirano allo scoperto. Poi gli Hetwan lo uccidono. Devono avere delle armi di qualche tipo. I folletti si prendono il suo tesoro, che è l'unica cosa che interessa loro, e Ka Anor si prepara la strada libera per invadere il mondo degli Inferi.» «Commercianti, gente» Christopher esclamò in tono di apprezzamento. «Non c'è partita con questi folletti. Correrebbero dei rischi anche per un dollaro.» «Controllano e tassano quello che probabilmente è il mercato generale di Everworld. Una specie di Borsa di New York fusa con il centro commerciale più grande del mondo» disse Jalil. «Chissà se è un punto debole...» «Che cosa?» «I soldi. Sono dei piccoli, avidi furfanti. Se riuscissimo... Cioè, cosa non farebbe, questa gente, per denaro?» «Che cosa vorresti fare?» ironizzai. «Corrompere della gente che vive in un castello d'oro? Ma andiamo! O vorresti ricomprarti la merce di Nidhoggr?» «Sì, forse» disse Jalil. «Forse è esattamente questo. L'avidità è così. Niente è mai abbastanza. Anche il troppo non basta.» «E che cosa abbiamo da scambiare con loro?» Jalil alzò le spalle. «Avanti, tira fuori l'idea, Jalil» lo pungolò Christopher. «È da un po' che ti tengo d'occhio. Là al mercato ti è venuta un'idea. Ho sentito le rotelline del tuo cervello che giravano.» Jalil alzò di nuovo le spalle. «Al mercato ho visto del rame. In fogli e in lingotti. Anche del filo di rame. Non in grande quantità, ma in effetti non ne servirebbe molto.» «Per fare cosa?» domandai. Jalil mi lanciò una delle sue occhiate di traverso. «Per accalappiare i folletti.» Esitai. Non era il mio piano. Io non avevo alcun piano. Era il piano di Jalil. Ma non era questo il punto, non esattamente. Il punto era uscire dalla fossa che ci eravamo scavati con le nostre mani. Ogni idea era buona. Guardai Senna. «Tu ci puoi aiutare?» «E come? Usando la mia magia per fare in modo che la regina ci liberi?»
Scosse la testa. «Ne dubito. In un faccia a faccia, forse. Ma è troppo sorvegliata. E poi, le donne...» Alzò le spalle. «Suo marito, il re, lui sì che riuscirei a lavorarmelo, se riuscissi ad avvicinarmi. Ma è la regina quella che comanda.» Ci pensai su. «Ci serve un investitore. Uno che abbia del capitale da rischiare. E ci serve protezione. Che cosa abbiamo da vendere? Telefoni? A che cosa stai pensando esattamente, Jalil?» «Al telegrafo. Sarebbe la cosa più facile. C'è solo da mettere un interruttore per interrompere il passaggio della corrente. Un paio di magneti. Un po' di filo di rame. E una fonte di energia.» Scosse la testa. «Ma di che cosa sto parlando, gente? Questi non ce l'hanno, l'elettricità.» «Possiamo farla noi l'elettricità» dissi. «Possiamo, giusto?» «Certo. Un fiume, un ruscello, quello che è. Una ruota idraulica. Mi servirebbe del filo di rame, mi servirebbero dei falegnami esperti, dei fabbri esperti...» «Che bisogno hanno i folletti di un telegrafo?» chiese Christopher. «Veloci come sono...» «Non sono più veloci dell'elettricità.» «Il mercato!» scoppiai a ridere. Forse questa dopotutto era un'idea mia, almeno in parte. «Quelli con i soldi che comprano e vendono al centro del mercato! Che cosa comprano e che cosa vendono? Lezione di economia: comprano e vendono beni. Andiamo! Al mercato!» «Ehi, non so tu, ma io sono distrutto!» si lamentò Christopher. Ma Jalil aveva gli occhi che brillavano. Tutta la rabbia che c'era stata tra di noi era passata, dimenticata. C'era un tono di ammirazione nella sua voce. «Oh... santo cielo!» sussurrò. «Signor Jones? Io sono il signor Dow. Piacere di conoscerla.» «Ma di che diavolo state parlando, voi due?» ci chiese Christopher. Ma ormai parlava solo con la nostra schiena, perché io e Jalil eravamo già partiti. Se Christopher ci seguiva, tanto meglio. Se Senna ci seguiva, tanto meglio anche quello. Ma per la prima volta, da prima ancora di arrivare alla città di Hel, sentivo che avevo un'idea. CAPITOLO XVII
Dovemmo camminare un bel po' per arrivare al mercato e il mio ottimismo era svanito molto prima che giungessimo a destinazione. È un effetto della notte. Il buio divora l'ottimismo. A metà strada ci fermammo a riposare su un'altura più o meno equidistante dal mercato e dalla città. Era stata predisposta come punto di ristoro. C'erano un gabinetto lindo e pulito, un paio di panchine e degli alberi frondosi strategicamente posizionati, la cui ombra, data l'ora, risultava del tutto irrilevante per noi. Stranamente, però, c'era una siepe molto alta che impediva la vista del castello e della città. Vedevamo il mercato, con le luci che si spegnevano una dopo l'altra. Ma era impossibile vedere la città. Non so perché ma questo particolare mi dava proprio fastidio. C'era qualcosa di troppo disneyano nel Regno dei Folletti. Troppo controllato. Sguainai la spada e squarciai la siepe. Puro vandalismo, ecco cos'era. Rabbia trasformata in azione idiota. «Bella mossa. Facci mettere dentro per danneggiamento del verde pubblico» disse Christopher uscendo dal gabinetto. Lo ignorai. Ficcai la testa nella siepe, nello squarcio che avevo aperto. Se non volevano farmi vedere la città, peggio per loro: era un motivo in più per guardarla. Era una vista stupefacente. Le torri d'oro della città rilucevano debolmente al chiarore della luna. C'erano le luci accese nel mastio del castello. Senza dubbio la regina dei folletti stava coprendo di insulti il re, per il suo piano di catturare Nidhoggr andato miseramente in fumo. «Non dovremmo andare avanti?» disse Jalil alle mie spalle. «Sì, hai ragione.» Mi allontanai dalla siepe, cercai di risistemare al loro posto i rami spezzati per coprire il danno che avevo fatto. Mi sentivo deluso. Era strano, ma avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di importante da vedere. Era un istinto il mio, forse. Ma avevo proprio la sensazione che mi fosse sfuggito qualcosa. Guardai di nuovo. La città. Torri, tutte rotonde. Torri più grandi, dorate, con i tetti merlati. Torri più piccole, raggruppate nel centro della città, ciascuna con i tetti a punta. Scossi la testa, pieno di meraviglia e di puritana disapprovazione: avrei giurato che i tetti a punta fossero coperti di diamanti. Arrivammo al mercato. Era tardi, stavano chiudendo. Scambiammo il nostro assortimento di chiavi per una cena fuori orario a base di manzo
stufato. Il proprietario stava per buttarlo via. Probabilmente quegli strani pezzi di metallo erano meglio di niente. Poi trovammo un piccolo spiazzo libero sotto la tenda di un chiosco apparentemente abbandonato e ci mettemmo a dormire. Feci io il primo turno di guardia. Rimasi sveglio, questa volta. Jalil cercò di addormentarsi prima possibile, esaltato un po' per la prospettiva di diventare un ricco magnate e un po' per l'ansia di passare di là, a fare qualche ricerca nel mondo reale. E invece Christopher già dormiva. «Potrei fare anch'io un turno di guardia» propose Senna. Era appoggiata a uno dei pali che sorreggevano la logora tenda. «No» risposi, secco. Silenzio. «Lei sta bene» disse dopo un po'. «Avranno cura di lei finché non tornerà lo Hetwan. Ci sarà una trattativa, probabilmente ci vorranno dei giorni. Le daranno da mangiare, la terranno al coperto. Avrà un letto dove dormire.» Non avevo niente da dire. Mi sistemai i vestiti per stare più comodo che potevo. La temperatura stava scendendo rapidamente, ora che il sole era tramontato. «Cos'è meglio secondo te, David, fare una cosa dannosa con le intenzioni migliori oppure fare la cosa migliore, indipendentemente dalle motivazioni?» «Ricordo quando ti ho baciata» le dissi. «Ricordo la sensazione che ho provato. Nonostante tutto quello che è successo, nonostante tutte le cose orribili che ho nella mente, ricordo ogni particolare.» «Me lo ricordo anch'io» disse lei. «Un milione di anni fa. Un milione di chilometri fa.» Eravamo seduti l'uno di fronte all'altra, lei con le gambe raccolte, io a gambe incrociate. Un brezza fredda le scompigliava i capelli, le soffiava delle ciocche dorate davanti agli occhi grigi. Tremai. Per il freddo. Per la stanchezza. Per il ricordo. «Siediti qui» mi disse. «Siediti vicino a me, David.» Sentii il bisogno che avevo di lei. Del suo calore. Della sua dolcezza. Avevo freddo, dentro e fuori. Ero triste e solo. La carica dei grandi progetti era svanita quando Jalil si era addormentato. Adesso mi era rimasta solo la consapevolezza di aver perso uno dei nostri, di aver perso April. Di non avere più la fiducia degli altri. Di non essere riuscito a trovare il modo per uscirne tutti sani e salvi.
Iniziai a muovermi verso Senna. Mi piegai in avanti e strisciai da lei camminando a quattro zampe. Strisciavo da lei carponi ben sapendo che non c'era verità in tutto ciò, che non ci sarebbe mai stato amore, ma strisciavo comunque da lei perché ero debole e lei era forte e io volevo che fosse così. Lei mi accolse, mi fece sedere accanto a sé, lasciò che mi appoggiassi alla sua spalla, che la mia guancia sfiorasse la sua, che bevessi il suo respiro, che vibrassi della forza che veniva da lei, che chiudessi gli occhi e la immaginassi in un mondo diverso. Sapevo quello che stava facendo. Sapevo che mi stava legando a sé ancor più strettamente. Sentivo la spietatezza della sua volontà, non ne avevo mai dubitato, non mi ero mai lasciato ingannare, non avevo creduto, neanche per un solo attimo, che nutrisse un sentimento vero per me, eppure, eppure... Sapevo che dovevo scegliere. Potevo appartenere a me stesso. O a lei. Mi spinse via. Voleva dormire. Io non mi opposi. Faceva tutto parte del piano. Voleva che sentissi il freddo improvviso, l'assenza, il vuoto. Voleva che sentissi quanto ero solo senza di lei. Lo sentivo, eccome! Ma con gli occhi della mente vedevo le torri della città. CAPITOLO XVIII Alle prime luci dell'alba ci mettemmo sulle tracce della nostra preda. Non fu difficile. I folletti non avevano problemi a ostentare la propria ricchezza. I più poveri erano al servizio dei più ricchi, con tanto di uniforme: blu per gli esattori delle tasse, nere per i poliziotti, rosse per i commercianti che lavoravano direttamente per i reali. I folletti ricchi amavano recitare la parte adeguatamente abbigliati. Abiti fantasmagorici rossi e porpora, verdi e arancio, piume ovunque, bordi di pelliccia, pesanti catene d'oro, anelli con diamanti giganteschi. Volevamo qualcuno con i soldi. Qualcuno abbastanza giovane da volerne fare ancora. Lo trovammo al lavoro al centro del mercato: dava ordini ai suoi tre uomini facendo segni silenziosi con le mani e i tre giovani, gridando, compravano greggi, legno, rame. Non appena ci accorgemmo del suo interesse per il rame, capimmo che
il nostro uomo era lui. Mi avvicinai. Mi ignorò. Mi misi davanti a lui, impedendogli di vedere i suoi ragazzi. «Gentilmente, si sposti di lato.» «Cinque secondi del tuo tempo.» Inarcò un sopracciglio. «A che scopo?» «Allo scopo di farti più ricco del re.» Si mise a ridere. Tornò serio. Mi guardò attentamente. «Sei un matto o sei uno scemo?» «Cinque secondi del tuo tempo, e lo deciderai da te.» «Che cosa vuoi?» «Voglio solo metterti questa pallina nell'orecchio.» Gli mostrai un auricolare. «Non vorrai farmi qualche magia... spero!» mi disse. «Niente magia. Molto meglio della magia: tecnologia.» Fece un cenno con la testa e un tipo che non avevo notato prima si avvicinò a noi di corsa. «Questo mio dipendente terrà la lama della spada sulla tua gola. Se è uno scherzo di qualche genere, ti staccherà la testa dal collo.» «Più che giusto» dissi. Comparve la spada. La lama a un millimetro dalla mia giugulare. «Mettiti questo nell'orecchio, così, come faccio io. Vedi?» Il folletto prese l'auricolare. Se lo mise nell'orecchio. E sentì un suono che non si era mai udito prima di allora in tutto il regno: Johann Sebastian Bach. Sobbalzò per la sorpresa, poi si rese conto di quello che aveva fatto e bloccò la mano del suo uomo un mezzo secondo prima che la mia testa rotolasse giù per la collina. Sempre tenendogli la mano, rimase fermo ad ascoltare. Gli porsi l'altro auricolare e ascoltò in stereofonia. E sgranò gli occhi. E restò a bocca aperta. E la faccia gli si illuminò come se un raggio di sole fosse disceso dal cielo a investirlo di luce. Alla fine si tolse gli auricolari e guardò con cupidigia al lettore di CD che tenevo in mano. «Quanto vuoi per questo?» Scossi la testa. «Non è in vendita. E poi, funzionerà forse altre quattro ore prima di mo-
rire per sempre. Era solo per conquistare la tua attenzione. Solo per convincerti ad ascoltare la nostra proposta.» «Ti ascolto.» Jalil si fece avanti, con Christopher e Senna poco lontano. «Abbiamo uno strumento tecnologico» spiegò Jalil. «Può comunicare più rapidamente di quanto possa correre il più rapido dei vostri folletti. Può mandare delle informazioni a centinaia di chilometri di distanza, istantaneamente.» Il folletto aveva un'espressione vuota. Christopher si intromise. «Signor Folletto, quello che vogliamo dire è questo: allora, tu compri o vendi delle pecore, giusto? Compri un gregge di pecore a un dollaro e le vendi a un dollaro e dieci. Questo perché prevedi che in futuro ci saranno altre pecore, giusto? Arriveranno qui al mercato e verranno vendute più o meno allo stesso prezzo. Ma cosa succederebbe se tu sapessi che non arriveranno altre pecore per una settimana, o per un mese? Se tu lo sapessi, allora potresti chiedere di più per le tue pecore, giusto? È la legge della domanda e dell'offerta. Molte pecore uguale pecore meno care. Poche pecore uguale pecore più care.» Il folletto ci pensò su un momento. «Sì, è vero.» «Dunque, se tu sapessi per certo di avere l'unico gregge di pecore nel raggio di cento chilometri, diavolo, potresti venderle a un prezzo molto più alto. Ho ragione?» «E come potrei sapere che accadrà una cosa del genere?» «Si chiama telegrafo. Ed è solo l'inizio, fratello, perché, vedi, lo stesso strumento tecnologico potrebbe avvisarti se sta per arrivare il maltempo, o potrebbe dirti se c'è un esercito nemico che avanza. Lo potresti usare per mandare messaggi ai tuoi uomini lontani.» Ci volle un'altra mezz'ora per illustrargli l'intero progetto. E per convincere il folletto, che di nome faceva Ambrigar, che il lettore di CD non era la cosa che faceva succedere tutto questo. Ma nemmeno allora riusciva a cogliere la grandiosità dell'affare che gli stavamo proponendo. «Sì, questo mi darebbe un grande vantaggio nei miei commerci. Se sapessi cose che altri non sanno, potrei...» Christopher l'interruppe. «Amico, Ambrigar, anche gli altri lo sapranno. Tutti lo sapranno. Voglio dire, tutti vorranno sapere come sta andando il raccolto in un certo posto, o
se c'è siccità in un altro, o quanti carri di barbabietole stanno arrivando dalla strada. E tutti vorranno poter comunicare con il fratello lontano, o con il cugino o con un loro dipendente che sta in un'altra città, giusto? Tutti vorranno avere lo stesso potere che hai tu.» «Sì, ma... poi come...» «Li farai pagare. Il re vuole mandare un messaggio a un altro re? Gli fai pagare cinquanta centesimi. Un fornaio vuole ordinare della farina speciale da un paese lontano? Gli fai pagare cinquanta centesimi. Una bella fanciulla vuole mandare una lettera al suo innamorato? Le fai pagare cinquanta centesimi.» Christopher sorrise. «È così che si fanno i soldi, amico...» «Tutti quelli che vogliono usare il mio filo magico...» «Li fai pagare cinquanta centesimi.» «Per tutti gli dei!» sussurrò il folletto. «Per gli dei, ma soprattutto per le tue tasche, vecchio mio!» Allora, e solo allora, gli dicemmo il nostro prezzo. Se ne andò a grandi passi. Per almeno un'ora pensammo di avere perso. Poi Ambrigar tornò. «Mostratemi questo filo magico. Fatelo funzionare. Dimostratemi la sua magia.» Jalil annuì. «Ci servono dei falegnami, del legno, una piccola quantità di ferro o di acciaio, un fabbro, un orafo, e molto filo di rame.» «Filo di rame? Quello che usano le donne per adornarsi le orecchie?» «Il capitalismo» esclamò Christopher con un'allegra risata «è una gran bella cosa.» CAPITOLO XIX Ispezionammo il percorso che avremmo seguito: circa mezzo chilometro, da un punto a monte di un ruscello che scendeva abbastanza rapido più o meno parallelamente alla strada principale, fino alla parte più vicina del mercato. Lì Ambrigar possedeva una piccola bottega di fabbro. Ambrigar possedeva un sacco di altre cose, scoprimmo. Ma, come aveva detto Jalil, anche il troppo non era mai abbastanza. Ambrigar adesso aveva visioni di ricchezza. Ambrigar sentiva il profumo dei soldi. Fabbri? E lui aveva i fabbri. Orafi? Nessun problema. Filo di rame, lingotti di acciaio, legname... nessunissimo problema. Ci promise qualsiasi
cosa ci servisse. Jalil dirigeva la baracca: aveva una qualche vaga idea di quello che stava facendo, il che era meglio del niente che sapevo io. Jalil era su di giri. Abbozzava schemi e faceva calcoli, scribacchiando con un pezzo di gesso su tavole di legno e angoli di pergamena. «Folletti!» saltò su Jalil a un certo punto. «Tutti gli operai devono essere folletti. Accelereranno i lavori. Gli umani non vanno bene. Portatemi dei folletti!» Ambrigar protestò. I folletti costavano di più. Ma Christopher si lavorava Ambrigar, lo incitava, lo spronava, gliela sapeva vendere bene. E Ambrigar acconsentì a prendere i folletti. A un certo punto chiamai Jalil, quasi lo dovetti scuotere perché alzasse gli occhi dallo schema che stava disegnando. «Che c'è?» mi chiese bruscamente. «Ce la facciamo? Tic-tac, tic-tac. Riusciamo a farcela in tempo?» Aveva una luce esaltata negli occhi. «Sì, ce la facciamo. Forse. Forse e se tutto va per il verso giusto e se tu non mi fai perdere altro tempo.» «Posso fare qualcosa?» «Come? No. Si! Va' al mercato, trovami qualcosa di isolante che possiamo usare per tenere il filo. Come... mmm... non so, qualcosa fatto di coccio, o di porcellana, forse. Vetro. Deve avere un buco per farci passare il filo e poi deve poter stare attaccato a un palo di legno. Ce ne servono...» Sfogliò un paio di pagine coperte di numeri. «Ce ne servono quindici, minimo. Meglio il doppio se puoi. Vai!» Mi spinse via. Non lo fece con rabbia: era solo strafatto di adrenalina. Eravamo al terzo dei sei giorni che avevamo. Jalil doveva costruire una ruota idraulica per generare corrente. Doveva far correre un filo elettrico per mezzo chilometro su pali che dovevano ancora essere tagliati e lavorati. Doveva tirar fuori un paio di tasti telegrafici dai materiali che poteva avere a disposizione. Doveva fare tutto questo e fare in modo che restasse il tempo di pagare un riscatto per April, comprare tutta la merce del Daghdha e tornare da Nidhoggr, prima che i rubini che avevamo in petto si trasformassero in vulcani in miniatura. Sempre supponendo che il riscatto fosse sufficiente. Supponendo che saremmo riusciti in qualche modo a fare un'offerta maggiore di quella di Ka Anor, con i soldi di Ambrigar. Supponendo.
La probabilità inespressa ma molto concreta era di non essere in grado di fare un'offerta maggiore di quella di Ka Anor. E questo era il vero problema. Riscattare le carabattole di Nidhoggr, salvarci la vita? Sì, questo sì, forse. Ma April? Nella nostra mente eravamo già arrivati tutti su questo punto spinoso. Sapevamo già, capite? Subdolamente tutti i nostri sforzi si erano concentrati sul salvare la nostra pelle, non quella di April. Ma non doveva andare così. Mi aggirai per il mercato cercando non sapevo che cosa, mentre uno degli uomini di Ambrigar mi seguiva come un'ombra, pronto a pagare in contanti qualsiasi cosa avessi trovato. E così avremmo riportato i giocattoli del Daghdha a Nidhoggr. Forse. E lui ci avrebbe ridato i nostri cuori. Forse. E April... l'avrebbero trascinata al cospetto di Ka Anor, che avrebbe preteso da lei ciò che per lei era assolutamente impossibile fare. E il sesto giorno il rubino che le era rimasto nel petto sarebbe diventato di fuoco. Vidi un carro che sembrava lo stesso carro di barbabietole che aveva fatto la strada con noi fino alle porte del Regno dei Folletti. Era carico di merci di vario tipo. Principalmente alte pile di tappeti arrotolati. Sembrava che il carrettiere avesse fretta di ripartire. Più in là vidi un armaiolo. C'erano diversi vassoi allineati sopra un tavolo. «Punte di freccia» dissi. «Sì, ma quelle forse non sono le migliori» replicò l'armaiolo. «Sono le più economiche, di porcellana, vanno bene per cacciare grossi animali, che potrebbero scappare via con le punte di bronzo, che sono più costose. Ma osservate bene l'ingegnosa posizione di questo forellino che consente di fissare saldamente la punta all'asticciola della freccia, con questo minuscolo chiodino che per vostra fortuna mi capita di vendere.» «Ottimo. Ne prendo trenta.» «Trenta! Allora forse il signore gradirebbe vedere le mie serie di punte di freccia in bronzo?» «No, trenta di queste e basta, grazie. Questo signore le... Ah-ah-ah! Ma certo!» Che illuminazione! L'esultanza mi fece battere le mani. «Ecco perché hanno messo la siepe. Le torri, accidenti!» «Prego?» «Niente. Me le incarti.»
Sperai che il mio scoppio di entusiasmo fosse passato inosservato. Il mio accompagnatore, l'uomo di Ambrigar, non sembrava interessato. Nessun'altro sembrava interessato. L'armaiolo voleva vendermi le sue punte di freccia e tanto gli bastava. Tornai da Jalil più in fretta che potei. Stranamente, stava cercando di dormire sotto una tenda che era stata piantata vicino al cantiere sul fiume. «Devo andare di là, nel mondo reale, devo controllare degli schemi di questa roba» disse. «Christopher mi sveglierà dopo due ore di sonno.» «Potresti passare di là e trovarti in classe.» «Me la caverò. Ho paura invece di dormire anche di là e di non essere capace di svegliarmi.» «Senti, credo che ci serva un piano B.» «Grazie per la fiducia.» «Jalil, sii sincero: se ti dicessi che ho un piano B valido mi diresti veramente che non ne abbiamo alcun bisogno?» Scosse la testa. «No. Ci sono troppe cose che potrebbero andare storte nel piano A. Potrebbe andare storto tutto quanto. Allora, raccontami questo piano B.» «Portare qui Nidhoggr» dissi. «Bel piano. Speriamo che funzioni il piano A.» «Senti, Nidhoggr sospettava che i folletti volessero tendergli una trappola, giusto? Immaginava che se fosse volato fin qui a cercare le sue cose i folletti avrebbero trovato il modo di abbatterlo e poi gli avrebbero preso il resto della sua fortuna. Giusto?» «Fin qui, sì. Sto ancora aspettando la parte in cui tu convinci il Crostone Gigante a volare fin qui.» «Nidhoggr aveva ragione» dissi abbassando la voce a un sussurro. «I folletti gli volevano tendere un agguato. Ho visto quelle torri strette in città, anche nel palazzo. Non si vedono dalle vie della città: le mura del castello sono troppo alte per quell'angolazione. Ma dalla strada dove ci siamo fermati e dove io ho cercato di tagliare il cespuglio? Da lì si vedono bene. Per questo i folletti hanno piantato quella grande siepe: per impedire alla gente di vederle.» «Non ho molto tempo, David» disse Jalil, battendo nervosamente l'indice su un invisibile orologio. «Le torri sono frecce. Frecce enormi. Grandi abbastanza da abbattere Nidhoggr. Non so che cosa useranno per scagliarle, ma sono frecce. E sono tante. Nidhoggr viene a cercare sul palazzo, sulla città. Loro lanciano le
torri, ammazzano Nidhoggr e... voilà! I folletti possono mettere le mani su tutto il suo tesoro e gli Hetwan non hanno più da guardarsi alle spalle se invadono il mondo degli Inferi.» Jalil non mi disse che era una fesseria. Il che mi preoccupò. Probabilmente speravo che mi mostrasse tutti i punti deboli della mia teoria. Il piano B non sarebbe stato una passeggiata. «Okay, allora che cosa fai?» disse soltanto Jalil. «Svicolo via, torno da lui e gli dico: "Senti, amico, rivuoi la tua roba? Io so come puoi fare per entrare e uscire dallo spazio aereo dei folletti senza rischiare nulla. So come puoi fare per terrorizzare i folletti e costringerli a restituirti la tua roba. Solo una cosa: anche noi vogliamo farci restituire una certa cosa".» «April.» «Il gruppo resta compatto.» Jalil annuì e sbadigliò. «Ti porti Senna?» «Sì. Sono responsabile io di lei.» Jalil rise. «È la tua condanna, David: tu ti senti sempre responsabile di tutto.» CAPITOLO XX Tornai al chiosco abbandonato che avevamo eletto a nostro domicilio non ufficiale. Ambrigar aveva mandato dei tappeti da stendere per terra, dei cuscini e altre cosette di prima necessità. Senna era fuori, parlava con un uomo che portava un grembiule di pelle. Gli teneva una mano sul braccio. Lui aveva un mezzo sorriso idiota e blaterava beato. «Salutalo» le dissi, secco. Ero geloso? No. Sapevo che Senna stava solo usando con quell'uomo il suo potere speciale. Stava stabilendo il contatto fisico grazie al quale riusciva ad abbassare le difese e le inibizioni del poveraccio. L'aveva fatto anche con me. Non era gelosia, la mia. Era imbarazzo. L'imbarazzo di vedere la mia stessa debolezza sul viso di quello sconosciuto. Era come rivedersi ubriachi in videocassetta. Senna mi seguì nel chiosco abbastanza docilmente. «Dobbiamo uscire dal Regno dei Folletti» annunciai. «Davvero?»
«Sì. E tu devi venire con me. Lei mi fissò con i suoi occhi grigi.» «A me piace, qui. Merlino non può toccarmi, qui, e nemmeno Loki. Sto imparando un sacco di cose su questo "mondo dentro a un altro mondo". Questo mercato è di importanza vitale per tutti e proprio per questo viene trattato come territorio neutrale. Gli dei non lo toccano. I maghi famosi, o le streghe, vengono seguiti a vista dal momento in cui arrivano e, diversamente da me, Merlino è molto noto. Posso stare qui e imparare tutto quello che devo sapere per... per poter seguire la mia strada. Posso fare delle alleanze. Posso raccogliere delle forze militari. È quanto di più vicino alla civiltà si possa trovare a Everworld. Posso diventare più forte, qui. Quanto basta per andarmene. Ma non ora.» «Potrai tornare quando avrò finito» le dissi. Aggrottò lievemente la fronte. Mi fissò, con aria confusa, come se non riuscisse a capirmi bene. «Io non vado via, David. E nemmeno tu. Ho bisogno di te. Ho bisogno di tutti quanti voi, ora lo capisco. Qui tu e Jalil potete fare i miliardi. E io avrò bisogno di molti soldi per...» «Che cosa ti fa pensare che saremo disposti ad aiutarti? Magari io. Magari tu pensi di avermi in pugno. Ma Jalil non farà mai quello che vuoi tu.» «Io penso che lo farà.» «E sai che lo farò anch'io, eh? Sai che farò qualsiasi cosa mi dirai di fare.» «Tu mi ami» mi disse semplicemente. «Io voglio tirar fuori April.» «Scordati di April. L'abbiamo persa.» «Forse hai ragione» dissi. Scattai con il braccio destro, dal basso verso l'alto, il pugno chiuso. Colpii Senna sotto il mento. La testa ebbe uno scatto improvviso. Per un attimo Senna vacillò, gli occhi impazziti, le pupille vitree, poi le ginocchia le cedettero. La presi mentre cadeva. «Ti amo» le sussurrai. «Forse è vero che tu mi hai in pugno. Ma voglio tirar fuori tutti da questa storia, e vivi. Te compresa.» La distesi per terra, le legai le mani dietro la schiena, le legai le caviglie. Le ficcai in bocca un fagotto di tela e le girai un'altra striscia di tela intorno alla testa in modo da tenere ferma quella che aveva in bocca. La trascinai nella posizione giusta e la arrotolai lentamente, attentamente, in un tappeto. Legai il tappeto. Controllai che le arrivasse aria.
Poi me la issai in spalla e partii alla ricerca del carro di barbabietole che avevo visto poco prima. Senna era piuttosto leggera, e anche il tappeto, ma insieme pesavano una tonnellata. Quando finalmente arrivai al carro, ero in un bagno di sudore. Il carro si stava già muovendo. Feci una corsa, ansimando, rantolando, sbuffando. Mi afferrai alla sponda del carro e buttai Senna a bordo. Non delicatamente. Non avevo tempo per la delicatezza. Mi aggrappai al legno grezzo e mi arrampicai goffamente, finendo sopra Senna, che era ancora svenuta. Impossibile che il carrettiere ci vedesse. Ma erano i folletti quelli che mi preoccupavano. Le tuniche nere, in particolare. Se mi scoprivano, era finita. «Non posso controllare anche questo» mi dissi. Sistemai Senna su una pila di tappeti e iniziai a strisciare a mo' di verme tra il suo tappeto e gli altri. Ben presto la temperatura si fece bollente. Soffocavo. Stavo da cani. Ma in compenso nessuno ci fermò. E non avevo notato che perquisissero i carri che uscivano dall'arco di rose. Mezz'ora più tardi sentii che Senna iniziava a muoversi. «Di' una sola parola e finiamo tutti e due in galera, o peggio» le sussurrai. Lei restò in silenzio. In silenzio per ore di caldo africano, finché non fummo ben lontani dai confini del Regno dei Folletti. Solo allora strisciai fuori dalla montagna di tappeti. Guardai indietro. Sì, eravamo lontani dal Regno dei Folletti. C'era un altro carro, forse a duecento passi di distanza. Dubitavo che quel carrettiere si sarebbe dato pensiero per noi. Tirai giù Senna e la slegai. Era fradicia di sudore, i capelli tutti incollati, i vestiti appiccicati al corpo. Era pallida, tranne per l'ematoma sorprendentemente scuro sotto il mento. «Scusa» le dissi. «Non mi piace prendere a pugni nessuno. Figuriamoci una donna. Scusa ancora.» La Senna fredda e padrona della situazione era sparita. Gli occhi grigi erano due fessure. Le labbra carnose erano tese, le scoprivano i denti, come un lupo ringhiante. «Scusa!?» sibilò. «Noo. No, tu sei contento di te stesso, David. Non sei affatto pentito. Ma ti pentirai.» Barcollava. Anch'io. Ma scese dal carro da sola. Inciampò e cadde nel
fango. Saltai giù anch'io e feci per aiutarla a rialzarsi. Mi avvicinai. Lei mi prese la mano. La ritrassi di scatto. Non potevo permetterle di stabilire un contatto fisico. Mi allontanai. Lei mi seguì, giù dalla strada, in un boschetto di alberi ombrosi. Tremava di rabbia. Aveva la faccia sporca di terra, polvere e sudore. «Mi tradisci?» mi chiese, con una voce strana, piena di follia, di furia, la faccia di un'assassina un momento prima di vibrare il colpo. «Non voglio tradire te. Ma non voglio tradire nemmeno April.» Scoppiò in una valanga di oscenità, vomitandomi addosso fiumi di parole, gli occhi fuori dalle orbite, la faccia rossa, una furia, una violenta tempesta dei peggiori insulti immaginabili. Mi girai e mi misi a camminare. Niente che non avessi già sentito. Le parole le conoscevo tutte, ma quella furia incontrollata, berciante, non somigliava a nulla che avessi visto prima. «Torna qui!» ruggì. «Non credo proprio, Senna.» Continuai a camminare. Ma adesso gli alberi non erano più screziati dal sole della tarda mattinata. Era buio, il buio di una nube di tempesta. Esitai. Buio. Quasi come se fosse notte. E gli alberi... tra gli alberi, un rifugio fatto di tronchi. Un colpo al cuore. Un rifugio? Quel rifugio? Qui? No, impossibile. Ma c'era la bandiera che penzolava, appesa accanto alla porta. C'era il numero del rifugio. Il numero del campeggio. No, no, no. Impossibile. Che cosa... che cosa... Cercai di fermarmi, ma non potevo. Adesso le gambe mi si muovevano da sole, più veloci, quasi di corsa, sì, di corsa. Correvo con le gambe molli, di gomma, verso il rifugio. Tutti addormentati. Tutti addormentati tranne quello stupido ragazzino nella sua cuccetta. Ero davanti alla porta. All'improvviso ero già lì. Era aperta. Guardai dentro, vidi la sua schiena, la schiena dell'educatore, dell'adulto con la giacca a vento bianca. Camminava in punta di piedi. Si muoveva silenzioso tra le file di ragazzini che russavano, respiravano pesantemente, dormivano. Verso l'unico, l'unico ragazzino che era ancora sveglio. Lui cercava di dormire, si sforzava veramente. "No" dissi. "Lascialo stare." Ma lui andava verso il ragazzo. Il ragazzino. Quello rammollito, debole, vigliacco, quello che non si ribellava, che non sapeva difendersi.
Dovevo fare qualcosa. Dovevo assolutamente fermare Donny, dovevo gridare, prendere un bastone, prendere qualcosa di pesante e sbatterglielo su quella testa maledetta, dovevo ucciderlo, dovevo fermarlo, fermarlo, fermarlo! "Alzati, pappamolle, alzati, rammollito, codardo schifoso, alzati e combatti, io non ti posso aiutare, non ti posso aiutare, posso solo stare a guardare, non posso fare nient'altro, solo aspettare e stare a guardare e piangere e piangere, brutto moccioso codardo." Avrei potuto gridare "Lascialo stare!". Avrei potuto farlo, no? Perché non lo facevo? Perché? «Perché sei un debole, David» sussurrò una voce. La voce di Senna. «È per questo che ha scelto te, perché sei un debole.» «Lui, lui era un debole. Lui, il ragazzino, il ragazzino era un debole, è così. Non sapeva nemmeno...» La voce rise. «Possibile che tu sia così cieco? Che ti inganni così? Guardalo in faccia, David.» "No, no, no." «Lo vedi quel bambino che piange? Lo vedi come si rannicchia? Lo vedi in faccia, David? Chi è, David? Chi è che vedi? Chi è quel moccioso pappamolle?» «Aaaahhhh!» Corsi fuori dal rifugio, gridando, gridando: «Basta! Basta! Basta!» Lo colpii, lo picchiai, lo tempestai di pugni, lo graffiai, e non colpii altro che aria. Il rifugio era sparito. Ero sotto agli alberi screziati dal sole della tarda mattinata. Avevo i pugni scorticati, graffiati, per tutti i colpi che avevo dato ai tronchi. Silenzio. Solo il dolce fruscio delle foglie. Ero solo. Senna non si vedeva da nessuna parte. Ma naturalmente avrebbe potuto essere ovunque. Avrebbe potuto essere uno degli alberi. Aveva questo potere, lo sapevo. Il potere di confondere la mente degli uomini e di apparire sotto qualsiasi forma. Quel potere e, lo scoprivo ora, il potere di vedere i miei sogni. E nei miei sogni, la verità. Ero come morto. Il cuore... Ero morto, vero? Ero morto e mi muovevo come se fossi vivo. Facevo l'eroe, e non gliene fregava niente a nessuno.
CAPITOLO XXI È strano... Siamo liberi, facciamo delle scelte, soppesiamo le cose nella mente, consideriamo con attenzione ogni singolo dettaglio, usiamo tutti gli strumenti della logica e della cultura. E poi, alla fine, quello che facciamo è in genere quello che ci troviamo costretti a fare. E allora pensi: "Perché rompersi tanto la testa?". Ma ti rompi tanto la testa proprio perché sei un animale pensante, ecco perché. Perché sei un computer al DNA che lavora su un programma che si chiama "Infanzia 1.0". Aggiorniamo il programma, ma le modifiche sono sempre solo marginali. Hai il cervello che hai, l'intelligenza, i talenti, i punti di forza e le debolezze che hai, dal momento in cui ti tirano fuori dalla scatola e buttano nel cestino l'imballaggio di polistirolo. Ma provi tutte le paure che hai accumulato lungo la strada. I terrori di quando avevi quattro anni, o sei, oppure otto, non vengono mai superati: vengono solo coperti sotto altri strati. La paura che avevo provato pochissimo tempo fa, una paura che avrebbe dovuto essere molto più grande perché quello che era accaduto era stato orribile oltre ogni dire, non riduceva l'impatto dei ricordi impressi nella mente molti anni prima. E così per tutta la vita, immagino. C'è una mia parente che dice che ancora adesso a settembre le viene la depressione, perché un angolino della sua mente le ricorda che sta per ricominciare la scuola. È la mia prozia. Ha sessantasette anni ed è ancora persa dietro al primo giorno di scuola, una cosa di più di cinquant'anni fa. È triste, in un certo modo, perché i piaceri della vita invecchiano e passano presto. Il David adolescente non ha più il sussulto che aveva il David di sei anni davanti a un sacchetto di caramelle frizzanti. Il David che sono diventato ora non si esalta più al ricordo del giorno in cui scese con i pattini dalla rampa di un parcheggio, tanti anni fa. I piaceri sbiadiscono, invecchiano, vengono scalzati dalle mode più recenti. La paura, il senso di colpa, tutta questa roba, invece, si conserva perfettamente. Forse è per questo che la gente si infuria così tanto quando qualcuno fa qualcosa di male a un bambino. Fai del male a un bambino, e lui soffrirà per sempre. Forse un adulto se ne può liberare. Forse. Ma un bambino... il male che gli hai fatto lo trasformerà, lo plasmerà, diventerà parte del suo programma di elaborazione dati. Senza possibilità di modificare niente.
Non so. Non so molto. E mi pare di sapere sempre meno. Di questo passo, quando avrò vent'anni non saprò più niente di niente. Ma ero così. Non avevo altra scelta, immagino. Non so, forse erano tutte fesserie e mi stavo solo compatendo. Ma, tirate le somme, mi asciugai gli occhi, mi liberai la fronte dai capelli unti e sporchi e ripresi a camminare lungo la strada perché, qualunque cosa fossi, chiunque fossi, per quanto inguaiato fossi, non avevo nessuna intenzione di abbandonare April. Forse era una scena programmata dentro di me sin dall'inizio, o forse nasceva da un terrore profondamente sepolto, forse a un qualche livello ero davvero patetico come pensava Senna. Forse ero tutto una finzione. Faceva lo stesso. Non me ne importava niente, adesso. Sarei tornato da quel drago maledetto e poi avrei tirato fuori April, e tutto il resto poteva anche andare al diavolo. Una cosa buona c'era: per ora, almeno, non avevo più paura. Tirai al massimo. Camminai più veloce che potei. Bevvi da qualsiasi fonte d'acqua trovassi per la strada. Mangiai i frutti degli alberi e le cipolle selvatiche. Avevo ancora tempo, ma non volevo sprecarlo. Forse Nidhoggr sarebbe venuto, o forse no. Se non mi avesse ammazzato subito, volevo avere la possibilità di tornare nel Regno dei Folletti per cercare di fare qualcosa con gli altri. Aiutare Jalil. Organizzare un assalto al castello del re, destinato a fallire. Non sapevo... sapevo solo che non avevo nessuna intenzione di gettare la spugna, comunque andasse con il Crostone Gigante. Avevo un sacco di tempo per pensare. Se cammini per i prati, per i campi, tra gli alberi, da solo, senza nessuno con cui parlare, ti resta per forza un sacco di tempo per pensare. Anche perché finora tutto quello che avevo fatto era stato far fronte alle situazioni, reagire, trattare, combattere. Cominciavo a stancarmi. Adesso dovevo iniziare a pensare sul lungo termine. Pensare agli altri. Pensare a Senna. A quella che avrebbe potuto diventare una lunga permanenza in quel manicomio che era Everworld. Solo che era difficile fare progetti, quando la prima delle cose che dovevano succedere era una visita di cortesia a Nidhoggr. Era notte quando arrivai nel luogo in cui avevamo incontrato Idalia e i satiri. Il che significava che non ero lontano dal tunnel che portava alla tana di Nidhoggr. E, poco più in là, al regno di Hel. Non era la mia meta turistica preferita. E in più ero a pezzi. Non ero in condizioni di scendere negli Inferi. Volevo vedere il sole brillare nel cielo prima di addentrarmi in quel regno di tenebre. Forse era una cosa sciocca,
ma non avevo nessuna intenzione di passare dal buio della notte al buio dell'inferno. Iniziai a strappare dalle fronde basse i ramoscelli più teneri. Ammonticchiai insieme foglie e ramoscelli. Non erano esattamente come lenzuola fresche di bucato, ma le foglie sono sempre meglio della terra fredda e dura. Mi avrebbero isolato un poco e avrebbero impedito all'umidità di penetrarmi nei vestiti. Fin qui, tutto bene. Ma era impossibile dormire e fare la guardia contemporaneamente. Avrei dovuto rischiare. Forse avrei potuto accendere un fuoco, e questo magari avrebbe spaventato un animale selvatico, ma non avrebbe fatto altro che attirare un satiro o qualsiasi altro essere. Mi addormentai e sopportai una mezza giornata di scuola. A pranzo parlai con April. Stava bene, mi disse, l'altra April. Stava bene, ma era spaventata, e sola, e nera di rabbia. Le dissi che ci stavamo dando da fare, io e Jalil e Christopher. Forse saperlo l'avrebbe fatta stare meglio. Quando mi risvegliai a Everworld tremavo, ero scosso dai brividi, battevo i denti. C'era così tanto freddo? Non mi pareva... Eppure tremavo in modo incontrollabile. Febbre, ecco cos'era. Avevo un febbrone da cavallo. E l'aspirina più comoda era in un altro universo. Stavo male, malissimo. Troppo male per riuscire a pensare. Sentii brontolare le budella. Mi allontanai a quattro zampe dal mio giaciglio di fortuna. Non potevo farla nel letto, fin lì ci arrivavo. Mi allontanai un poco, armeggiai con la cintura... Un attimo dopo ero nel mondo reale, sveglio. Nel parco. I bambini giocavano su un elaborato castello di legno. Camminavo nella luce del sole. No, correvo, senza camicia, era una giornata calda, giocavo a baseball. E poi di nuovo nel buio. I brividi erano passati. Adesso sentivo solo la vampa. Bruciavo tanto che avrei voluto togliermi tutti i vestiti, ma non era una buona idea. Cercai a tastoni la spada. Sì, ce l'avevo ancora. Di nuovo dall'altra parte. Sveglissimo, sano, normale. Nel mondo reale. Il David del mondo reale capiva bene quello che stava succedendo. Il David di Everworld era malato, delirava, entrava e usciva dal sonno, passava e ripassava la barriera tra i due universi. Ero preoccupato per me e per lui, per il David che aveva la dissenteria e vomitava l'anima. Sarebbe potuto arrivare chiunque, chiunque avrebbe potuto farmi tutto quello che gli passava per la testa. Ero completamente indifeso. Debole come un neonato.
Cercai Jalil. Non aveva avuto altri aggiornamenti. Il Jalil di Everworld stava lavorando non-stop. Dissi al Jalil del mondo reale di dire all'altro se stesso che il David di Everworld stava male. Che non contassero su di me. Alberi cupi. Una faccia china a guardarmi. Senna? Senna con i grandi occhi grigi pieni di apprensione? No. Un'allucinazione. Un sogno. Un desiderio. Tutto quanto insieme. Il me stesso del mondo reale era distrutto. C'era da impazzire! Aggiornamenti ogni mezz'ora. Andava avanti così da due giorni, ormai. Quanto tempo poteva essere passato a Everworld? Da quanto tempo stavo male? Maledizione, dovevo alzarmi, andare avanti. Tic-tac. Il cuore, no, il rubino che avevo in petto si sarebbe trasformato in fuoco di drago, mi avrebbe bruciato vivo da dentro. E che cosa sarebbe successo a me, al David del mondo reale? Forse ci avrebbe uccisi entrambi. Impossibile saperlo. O forse significava fuggire finalmente da Everworld. Fuggire da quel mondo folle di dei e miti e alieni. Ed essere imprigionato per sempre nel mondo reale. Come sarebbe stata la mia vita, poi? Come avrei fatto a fare le solite cose, la scuola, le verifiche, il college, i lavori, la vita, la vita già stanca che mi aspettava? Everworld. Conati di vomito. Più niente da vomitare. Più niente dentro. Pioggia, pioggia forte, fango dappertutto. Io, disteso sulla schiena, la bocca aperta, a cercare di spegnere la sete ardente con una goccia, una goccia, un'altra goccia di pioggia. Un'ora dopo l'altra. Pioggia sulla faccia, sul petto, dappertutto, pioggia negli occhi, nelle orecchie. Una goccia, un'altra goccia, nella bocca impastata di terra. Il mondo reale. Mio padre si trovava in città, era venuto a trovarmi. Eravamo sulla barca di alcuni suoi amici della marina, sul lago Michigan. Stavamo prendendo il largo per ammirare tutta Chicago stagliata contro il cielo. Conversavo con mio padre come se niente fosse e intanto digerivo l'ultimo aggiornamento da Everworld, e temevo il successivo. Sudavo anche se non faceva caldo, una reazione di solidarietà per le sofferenze dell'altro David. "So che stai male, ma, maledizione, alzati. Alzati! Muoviti, o potrebbe essere la fine." Jalil: alla fine sarebbe dipeso tutto da lui. Lui ci avrebbe salvati dal fuoco di Nidhoggr. Forse. Ma non avrebbe salvato April, lo sapevamo tutti, in fondo al cuore. Potevamo usare il telegrafo di Jalil per comprarci i giocattoli di Nidhoggr, ma April? Lei sarebbe finita da Ka Anor.
Guardai mio padre. Era ancora un uomo della marina, anche se era in pensione ormai da tanto tempo. Era ancora un uomo della marina. Un capitano non abbandona mai i suoi uomini. Come aveva detto lo gnomo, papà: "Letame. Un gran mucchio di letame fumante". CAPITOLO XXII Ero sveglio, mi trascinavo per terra, con il sole che mi picchiava sulla testa tra i rami degli alberi. Ero sveglio? Sì, adesso sì, ma avevo iniziato a muovermi mentre ancora dormivo. Aveva ormai smesso di piovere. Adesso il sole seccava il fango, e io strisciavo per terra. Un momento... dov'erano i miei vestiti? Avevo solo i pantaloncini da ginnastica, quelli che portavo all'inizio, quando avevamo attraversato la barriera con Fenrir. Me li ero tolti quando avevo la febbre? Sì certo, ma li avevo gettati poco lontano. E le scarpe. Una scarpa sola. No, ecco anche l'altra, ce l'avevo in mano. Rividi nella mente immagini di satiri che ridevano. Immagini di Senna, preoccupata. Rapide immagini di April con le pastiglie di analgesico in mano. Tutto falso, naturalmente. O in gran parte, forse. Strisciai sotto l'ombra degli alberi. La spada? Eccola. Me la allacciai con le dita intorpidite. Mi ci volle un'eternità e... accidenti se pesava! Mi trascinavo e mi fermavo. Mi trascinavo e mi fermavo. Che sete avevo! E fame. Morivo di fame. Un buon segno, no? Il sole intanto era sparito. Mi addormentai di nuovo. Quando finalmente mi risvegliai a Everworld ero cosciente. Ero in me. In uno dei due me, se non altro. Mi alzai in piedi, tremando, vacillando, fui lì lì per cadere. Mi appoggiai alla parete del tunnel. «Spero che sia quello giusto» mi dissi. Vacillai, inciampai, caddi così tante volte che smisi di preoccuparmi delle ginocchia sbucciate. Avevo freddo di nuovo. La febbre era passata ma il tunnel era fresco. Mi addormentai almeno altre due volte. Il David del mondo reale stava perdendo la pazienza. Io e lui eravamo spaventati. Io e lui ci sentivamo impotenti, incapaci di cambiare le cose. Io e lui eravamo in ansia per me. Io e lui nella vita eravamo distratti dall'arrivo dell'ultimo aggiornamento. Ultime notizie, poi un'altra strana allucinazione, seguita da altre due ore di
inciampi e cadute a ripetizione. E, ciliegina sulla torta, gli incontri con April, sempre più disperata. «No, gente, non va bene. Siamo proprio nei guai» continuava a dire Christopher, insistentemente. E intanto, mentre andavo avanti, mentre mi addentravo nel regno degli Inferi, non era il muso di Nidhoggr che mi si profilava davanti minaccioso, come un incubo ad occhi aperti. Era Hel. Nidhoggr al massimo mi avrebbe ammazzato. Hel avrebbe potuto farmi molto di peggio. Nonostante tutto, stavo riprendendo le forze. La fame era spaventosa. La sete l'avevo un po' smorzata leccando la condensa sulle pareti del tunnel. Ricordai l'ammonimento di Senna a proposito di Persefone. Di come fosse stata rapita, portata negli Inferi e, poiché laggiù aveva mangiato del cibo, destinata a tornarvi in eterno per una parte dell'anno. Gran bella storia. Vera, forse. Non me ne importava. Avrei bevuto anche dalle mani di Hel. Giù, sempre più giù. Scendevo, mi avvicinavo a lei. Mi avvicinavo al drago. Per sempre. Non ce l'avrei mai fatta. Jalil sì che ce l'avrebbe fatta. Era stato tutto inutile. Un momento... dov'erano Christopher e Jalil? Avrebbero dovuto essere già qui, con i magici talismani del Daghdha. Ma il tunnel era vuoto. Cosa aveva detto Christopher, l'ultima volta che l'avevo visto, dall'altra parte, nel mondo "normale"? Qualcosa aveva detto... il mio cervello era nel caos. Come se qualcuno ci avesse organizzato un party di ubriaconi scatenati. «Sto scendendo nel tunnel sbagliato, ecco perché non c'è nessuno» borbottai. E poi una svolta ed ecco apparire una stanza che conteneva più oro di quanto Fort Knox ne avesse mai visto, più tutti i gioielli e le pietre preziose del mondo. «Nidhoggr» sussurrai. Nessuna risposta. Iniziai ad arrampicarmi sulla gigantesca montagna d'oro. E finalmente si accorse di me. La testa enorme si sollevò, mi sovrastava. Un rivolo di quindici litri di napalm gli gocciolava dalle fauci e scendeva nell'oro, fondendolo. «Umano» disse il drago. «Non vedo la mia pietra, né la mia lancia, né la mia spada, né il mio calderone.» «No» risposi, parlando più forte che potevo. «Non hai un bell'aspetto.»
«No.» «Ti restano solo poche ore, umano. La pietra che hai dentro il petto è impaziente di bruciarti.» Annuii. «Sì. Lo so. Ma so anche come puoi fare per riavere i tuoi oggetti.» Il drago mi guardò. «Sei venuto a cercare di convincermi a cadere nella trappola che i folletti mi hanno teso?» «No. So della trappola. Se la intendono con il nemico, con gli Hetwan. C'entra anche questo, in parte.» L'enorme occhio che mi stava davanti si dilatò per la sorpresa. «I folletti vogliono il tuo tesoro. Gli Hetwan vogliono invadere il regno degli Inferi, e non vogliono dover combattere contro di te per farlo.» Nidhoggr annuì appena. Era come vedere il dirigibile della Goodyear che dondolava nell'aria. «Gli Hetwan. Ka Anor. Lui ha dei progetti su Hel.» «Il piano è questo. Io credo che gli Hetwan abbiano aiutato quei nanerottoli a costruire un'arma potentissima, capace di ucciderti non appena ti presenterai nei cieli del Regno dei Folletti.» «Raccontami di quest'arma» rombò Nidhoggr. «No. Prima io e te dobbiamo fare un patto.» «Il patto è che ti lascio vivere!» ruggì il drago con una voce così potente che mi fece cadere sulla schiena. Ci misi un po' a tirarmi su. «Il patto è che tu liberi la mia amica dalle segrete del castello del re dei folletti.» Nidhoggr aggrottò la fronte. «La rossa o la strega?» «La rossa.» Annuì di nuovo con la testa-dirigibile. «Una buona scelta. Le streghe portano solo guai. Hanno il cuore duro. Avrei dovuto usare un diamante da mettere al posto di un cuore come il suo.» Mi venne quasi da ridere. Nidhoggr aveva risparmiato Senna per tirchieria. «Tu tiri fuori April, la rossa, voglio dire. Io e i miei amici ci riprendiamo il nostro cuore. Io ti dico come fare per spaventare a morte i folletti e riprenderti i tuoi oggetti. Senza rischi per te.»
Il drago ci pensò su per un po'. «Ti do la mia parola. Che mi possano cadere tutte le squame.» «Va bene. Ma devi fare un giuramento che non infrangerai. Giura sul tuo tesoro. Che tu possa perdere tutto il tuo tesoro.» «Giuro sul mio tesoro.» Barcollai, ancora incerto sulle gambe. Mi ripresi prima di precipitare dalla vetta della montagna d'oro. «Hanno delle frecce gigantesche, camuffate da torri. Con la punta di diamante. Probabilmente non le avresti mai notate. Sono proprio al centro del palazzo.» «Se non posso volare sopra il palazzo, come faccio a riavere i miei tesori?» «Scordatelo, il palazzo. Il palazzo, la città, non sono niente. Non è questo che i folletti hanno paura di perdere. Sono mercanti, mio grande amico.» CAPITOLO XXIII Il drago decise che stavo dicendo la verità. Non so, forse aveva un suo sistema per sapere se mentivo, così come sapeva che Senna era una strega. O forse era un'altra cosa, che tutti avevamo già notato: il cinismo era piuttosto debole a Everworld. Era uno dei nostri pochissimi vantaggi. Il grande drago mi ordinò di arrampicarmi sulla sua testa. Gli dissi che avevo bisogno di cibo. Due troll-maggiordomo, tempestivamente apparsi, mi porsero una fetta di pane e un pezzo di formaggio. Poi i due mostri mi portarono su dall'erta china della mascella incrostata di diamanti di Nidhoggr. Nidhoggr adesso aveva fretta. I folletti gli avevano fatto fare la figura del fesso e il drago non era diventato così grosso e così ricco facendosi menare per il naso dal primo nanerottolo che passava di lì. Ed era ansioso di dimostrarlo a tutti. Mi appollaiai dietro il parabrezza formato dal suo sopracciglio sinistro, una parete ricurva di pelle squamosa visibile solo negli spazi lasciati liberi dai diamanti, dagli smeraldi e dai rubini. Il drago spiegò ali su cui c'era spazio per parecchi campi da calcio. Le ali, almeno quelle, non erano coperte di pietre preziose, assomigliavano a quelle degli pterodattili, primitive, con la pelle tesa tra nervature robuste. Grandi com'erano, risultavano pur sempre troppo piccole per sollevare
questo gigante. O meglio, troppo piccole nell'universo dove ero cresciuto. Nidhoggr puntò il muso verso l'apertura del tunnel, quello da cui ero venuto io, e alitò. Un'eruzione vulcanica di magma inondò il tunnel. Mi acquattai, cercando di difendermi dal calore. Ma sentii comunque l'odore dei capelli strinati. «Questo servirà a proteggere il mio tesoro mentre sono via» disse Nidhoggr. E poi, con quelle ali allo stesso tempo vastissime e minuscole, spiccò il volo. Dritto verso l'alto. Una balenottera azzurra in volo verticale con qualche semplice colpo d'ala, con quelle ali che in una buona giornata forse, e dico forse, sarebbero riuscite a sollevare la mia decappottabile. Su, sempre più su, non velocissimi, ma pur sempre veloci, considerato il fatto che niente di questo volo sembrava possibile. Su, sempre più su lungo l'interminabile cratere, su verso la luce del mattino. Sbucammo dal cono di un vulcano cadente, mezzo sbriciolato. Su, nel cielo, e ora Nidhoggr muoveva la coda uncinata avanti e indietro, come un girino mostruoso. Le ali giganti, la coda gigante spingevano nell'aria il mostro favoloso luccicante di diamanti. Non riuscivo a vedere giù perpendicolarmente, per via della curva della testa di Nidhoggr. Non riuscivo a vedere l'effetto che faceva questa apparizione alle creature che sentivano su di sé il freddo improvviso della sua ombra. Ma me lo potevo immaginare. Umani, elfi, nani, satiri, ninfe, folletti o alieni, avrei scommesso che nessuno, alzando gli occhi, si sentisse al sicuro. E nemmeno Loki o Hel o Huitzilopoctli sarebbero restati indifferenti, secondo me. Mangiai il pane e il formaggio e subito mi sentii meglio, mi tornarono le forze. C'era qualcosa di magico nel pane, o era semplicemente l'effetto delle calorie, finalmente un po' di benzina per far funzionare gli ingranaggi? Dopo un'ora arrivammo ai confini del Regno dei Folletti. Lo gnomo così maldisposto verso i menestrelli non avrebbe riscosso alcuna tassa d'ingresso da noi. «Ricordati: resta alla larga dal palazzo. Vola sopra il mercato. È quello il loro tallone di Achille. È quello che non possono rischiare di perdere.» Il drago fece una leggera correzione di rotta. Mi arrampicai con cautela sul sopracciglio e mi appollaiai pericolosamente sopra la piega della palpebra. Ora riuscivo a vedere giù quasi direttamente, di lato almeno. Quando il drago abbassò la testa, mi aggrappai a degli spuntoni di diamante e riuscii
a vedere chiaramente il mercato. Tutti gli scambi erano stati interrotti. Uomini, nani, elfi, folletti, tutti stavano scappando. Prima da una parte, poi dall'altra. Avanti e indietro. Un panico senza senso. Il drago volava in cerchio, a non più di sei metri dagli edifici più alti. Il vento che sollevava al suo passaggio strappava le tende dei chioschi, faceva rotolare le merci su e giù per le strade, rovesciava i venditori in preda al panico. «Mandate a chiamare il re e la regina» ruggì Nidhoggr. «E i miei amici» gridai io, con una vocetta appena percettibile. «E portate la rossa dalle segrete del castello» aggiunse Nidhoggr. Ci fu un guizzo di folletti che partirono a tutta birra alla volta della città. Inutile, ovviamente, perché gli uomini sulle torri del castello avevano di sicuro già avvistato il drago. E la sua voce si sarebbe sentita ovunque, nel raggio di duecento chilometri. «Le vedi quelle torri, laggiù?» urlai, mezzo assordato. «Le vedo» confermò Nidhoggr. «Volevano abbattere il grande Nidhoggr. Hai rispettato i patti e hai detto il vero. Anche Nidhoggr rispetterà la sua parte del patto.» Volavamo in cerchio, sempre a distanza di sicurezza dal palazzo. Nidhoggr ingannava il tempo incenerendo i greggi di pecore. Quando avvistammo delle carrozze uscire di gran carriera dalla città, il drago discese al centro del mercato, fracassando diversi edifici e schiacciando decine di chioschi. La carrozza, trainata da otto cavalli a otto zampe e scortata forse da un centinaio di folletti guerrieri, tutti coperti da armature ed equipaggiati di archi e spade, si fermò a un centinaio di metri dalla punta del nasone di Nidhoggr. Era un inutile sfoggio di forza. Nidhoggr avrebbe potuto starnutire e trasformare l'intero battaglione in pezzi di carbone per il caminetto. Il re scese dalla carrozza. Nervoso. Dietro di lui, lo Hetwan. Mi si gelò il sangue nelle vene. Lo Hetwan aveva già preso April? «Grande Nidhoggr, ci onori della tua presenza» iniziò il re, tutto pieno di finta gentilezza, con la sincerità fasulla tipica del politicante. Nidhoggr parlò. «Voglio la pietra. La lancia. La spada. Il calderone.» Il re assunse un'espressione teatralmente perplessa. «Mi dispiace, ma non capisco.» Nidhoggr girò appena la testa e alitò. Un soffio lieve, leggero.
Il magma si riversò dalla sua bocca, un fuoco rosso e nero, fumante, che fece tremare l'aria. Il magma scese, si addentrò in una strada laterale. Gli edifici su entrambi i lati presero fuoco all'istante. Il napalm divorava le costruzioni dal basso, le disintegrava. Il drago tornò a guardare il re. «Brucerò questo mercato. Brucerò anche te. E... resisterò... alla tentazione di volare sul palazzo, così non potrai assassinarmi, re dei folletti.» Lo Hetwan non fece una piega. Il re dei folletti invece sì. «Abbiamo... mmm... abbiamo da poco appreso che ti sono stati sottratti certi oggetti, grande Nidhoggr. Noi non sapevamo nulla del crimine, ma abbiamo da poco arrestato i responsabili. Ci sono ladri dappertutto, di questi tempi.» «Sì. In molti bei palazzi» commentò acido il drago. Il re fece freneticamente cenno con la mano alle sue spalle. Avanzò un carro, sobbalzando. Dei folletti sollevarono un telo ed ecco apparire una pietra, non un granché al vederla, grande forse come un barilotto da birra, e poi una lancia, una spada e una vecchia pentola tutta ammaccata piena fino all'orlo di brodaglia marrone. «Ecco ciò che ti appartiene» disse il re. «Grazie, grande sovrano.» «I miei amici!» gridai. Il re sembrò accorgersi di me solo allora. «Voglio i miei amici. April. Christopher. Jalil. Li voglio.» Gli occhi del re si spostarono da me al drago, poi di nuovo a me. «Puoi senz'altro avere i due maschi. Ma la femmina strega, be'... lo Hetwan ha già trattato il suo acquisto e abbiamo trovato un accordo sul prezzo. Un prezzo onestissimo, se posso dirlo, e dato che abbiamo trovato un accordo anche sulle condizioni...» Finì con un'alzata di spalle. Feci per replicare qualcosa, ma Nidhoggr sapeva bene qual era il patto. Che altro si potrebbe dire di questo vecchio mostro? Era un drago di parola. «Lo Hetwan ti ha pagato tanto quanto vale questo mercato?» rombò il drago. «Temo... temo di non capire.» A quel punto la regina scese precipitosamente dalla carrozza. Si avvicinò al re a grandi passi, guardò in faccia il drago; poi si girò di nuovo verso il re, sul viso un misto di rabbia e di sprezzante compatimento della serie "te l'avevo detto, io".
«Consegna la ragazza al drago, pezzo d'asino, o il drago ti brucerà. E quel che è peggio, molto peggio, brucerà il mercato.» «No» intervenne lo Hetwan, facendosi avanti con aria di sfida. La regina prese il re per un braccio e lo tirò indietro. Con un cenno del capo ordinò ai soldati di ritirarsi. Lo Hetwan rimase solo. «La strega appartiene al mio signore, Ka Anor» disse lo Hetwan. Nidhoggr rise. E poi liberò quelli che potevano essere forse trecento litri di napalm. La lingua di fuoco si snodò sul terreno e avvolse le gambe dello Hetwan. Gli Hetwan non gridano di dolore, immagino. Ma gli sfrigolii, gli scricchiolii, gli scoppiettii che fece mentre scendeva lentamente tra le fiamme, sciogliendosi, squagliandosi come la Strega Malvagia del Mago di Oz, furono comunque orribili. Le tre mandibole mobili dell'alieno continuarono per tutto il tempo a cercare cibo. Fino all'ultimo, fino a quando non rimase che la testa dell'alieno. «Dovresti imparare a riconoscere meglio le streghe» disse Nidhoggr. «Solo uno stupido compra una strega che non è neanche una strega.» Gli occhi dello Hetwan esplosero, come i pop-corn. Pochi secondi dopo la testa dell'alieno si spaccò per il calore interno. CAPITOLO XXIV Ci venne dato un salvacondotto fino al confine più lontano del Regno dei Folletti. Qui la porta era formata da alberi massicci, non da roseti. Ma c'era uno gnomo molto simile all'altro, seduto su uno sgabello, a fumare la pipa e a fare scena. Ci augurò una splendida giornata. In cinque eravamo entrati nel Regno dei Folletti dalla parte opposta. Adesso ne uscivamo in quattro. Avevo promesso di non lasciare indietro nessuno. Ma Senna mancava all'appello. Senna, però, non era mai stata veramente parte del nostro gruppo. Parte di me, quello sì, senza dubbio. Forse lo sarebbe sempre rimasta. E avrei ancora cercato di ritrovarla, di salvarla dal suo vero nemico: da se stessa. «Allora, il telegrafo non ha funzionato?» chiesi a Jalil mentre lasciavamo il Regno dei Folletti. «Oh, sì che ha funzionato. Ambrigar diventerà un folletto ricchissimo. E ci ha pagati sull'unghia, come nei patti. E avevamo anche raggiunto un accordo per ricomprare la roba di Nidhoggr. L'affare era fatto. Solo che non
volevano darci April. Per niente al mondo.» «Perché non avete riportato a Nidhoggr le sue cose?» volli sapere. Jalil alzò le spalle. «Senti, noi saremmo sopravvissuti, ma avremmo perso April. Se lo Hetwan le avesse messo le mani addosso, avrebbe fatto una brutta fine. E poi abbiamo pensato, cioè, Christopher ha pensato, che il tuo piano B non avrebbe funzionato se avessimo riportato a Nidhoggr la sua roba.» «Non avremmo avuto niente da scambiare» confermò Christopher. «Nidhoggr rivoleva le sue cose e basta. Se volevamo che il piano B funzionasse, lui non doveva averle subito.» Mi ci vollero un paio di minuti per digerire tutto. C'era una logica in tutto questo, mi pareva. «Hanno rischiato tutto per salvare me» disse April. «Tutti avete rischiato. Come farò a continuare a pensare che siete tre idioti, se poi mi date delle dimostrazioni di coraggio come questa?» Scoppiammo a ridere. La prima risata da un sacco di tempo. «Be'... non abbiamo rischiato poi tanto» disse Christopher. «Ci fidavamo ciecamente del generale. Sapevamo che ce l'avrebbe fatta.» «Sì, sì.» «Ma certo! Per un paio d'ore, quando abbiamo deciso di lasciare la mossa vincente a David, io e Jalil eravamo piuttosto fiduciosi. Poi, dall'altra parte, scopriamo che sta male, che delira, che sta vomitando l'anima. A quel punto, diventiamo un po' meno fiduciosi. E arrivati alla notte scorsa, con me che mi rotolavo e mi rigiravo e aspettavo che il mio cuoricino diventasse una bomba nucleare, mi sembra in effetti di ricordare che siano state pronunciate delle parole piuttosto dure...» Jalil annuì. «Sì, mi sembra di ricordare una frase: "Quel patetico eroe fallito se ne starà da qualche parte a vomitare e a fare porcherie con la strega, e non gliene importa niente se noi intanto finiamo fritti". Questo, quando ancora avevamo un po' di speranza. Poi siamo diventati più cattivi.» «E che fine ha fatto Senna?» mi chiese April. «Non lo so.» Non mi credette. Nessuno di loro mi credette. Ci scommetterei. Ma le mie quotazioni erano piuttosto alte in quel momento. Ero l'eroe di tutti. Fino al prossimo passo falso. O fino a che Senna non sarebbe ricomparsa nella mia vita. «E così, avete fatto il telegrafo per i folletti, e non abbiamo guadagnato
niente» commentai. «Be'... in termini di denaro. Però siamo vivi. Il cuore è tornato a fare pum-pum. Forse, finché riusciamo a sopravvivere, faremmo meglio a chiudere il becco e a stare contenti così.» Ci fu un silenzio. Un lungo silenzio. Un silenzio pieno di attese. Guardai Christopher, guardai Jalil. Avevano entrambi un sorrisone stampato sulla faccia. «Be'?» Jalil si mise al passo con April e infilò una mano nello zaino. La ritirò piena di diamanti. Non esattamente impressionanti, se paragonati al ricordo della montagna di Nidhoggr. Ma sempre meglio degli spiccioli e delle banconote stropicciate che avevamo. «Diavolo!» «Già. Siamo ricchi. C'è solo un piccolo problema: che il mercato è da quella parte. E non credo che saremmo i benvenuti, laggiù. Credo che là non apprezzino molto le nostre compagnie: streghe e draghi giganti e tutto il resto...» Si stava facendo buio. Il Regno dei Folletti era ormai lontano. Mentre scendeva la sera il paesaggio cambiava. Ma c'era una completa oscurità quando ci fermammo a dormire. Troppo buio per notare che gli alberi, le erbe, i fiori che avevamo intorno non erano, e non erano mai stati, parte dell'umana esperienza. Vivemmo qualche momento di pace vera. È difficile trascorrere un minuto di tranquillità a Everworld. Ma forse è difficile ovunque. Guardai la luna in cielo. La nostra luna? Un ragionevole facsimile? O un'illusione creata dalla magia? Era una luna. E tanto mi bastava. Era bianca. Splendeva sopra di noi. E mi dava un senso di pace. Finché non vidi le ombre che attraversavano la sua faccia luminosa. Jalil non era lontano. Guardava in alto anche lui, come me. «Jalil, li vedi...» sussurrai. «Sì. Li vedo» rispose. «Li vedo.» Due ordinate colonne di figure scure che avrebbero potuto essere dei pipistrelli giganti. Avrebbero potuto, in un universo diverso da questo. Ma queste erano creature dai brillanti occhi da insetto, dalle ali di garza e dalla strana bocca continuamente alla ricerca di cibo. Erano i servi glaciali, mortali, del mangiatore di dei. Sopra le nostre teste, davanti e dietro di noi, volavano le legioni degli Hetwan. Ci eravamo diretti a cuor leggero verso un pericolo che faceva
tremare e scappare anche i più terribili degli immortali. Eravamo entrati nella terra di Ka Anor. FINE