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ALAN FURST IL REGNO DELLE OMBRE (Kingdom Of Shadows, 2000) «Questa nazione ha già pagato per i suoi peccati, passati e futuri.» Inno nazionale ungherese
Nel giardino della baronessa Frei Il 10 marzo 1938 il treno della notte da Budapest arrivò alla Gare du Nord poco dopo le quattro del mattino. C'era stato maltempo nella valle della Ruhr e per tutta la Piccardia e le fiancate dei wagon-lits luccicavano di pioggia. Alla stazione di Vienna un mattone era stato lanciato contro il finestrino di uno scompartimento di prima classe, lasciando una stella smerigliata sul vetro. Più tardi, quello stesso giorno, per alcuni passeggeri erano sorte difficoltà alla frontiera, e per questo il treno era in ritardo al suo arrivo a Parigi.
Nicholas Morath, in viaggio con un passaporto diplomatico ungherese, percorse rapidamente la banchina e si diresse verso l'area dei taxi davanti alla stazione. Il conducente della prima auto lo guardò per un istante, quindi piegò bruscamente il suo «Paris-Midi» e si drizzò a sedere al volante. Morath gettò la borsa ai piedi del sedile posteriore e salì a bordo. «Avenue de la Bourdonnais» disse. «Numero otto.» "Straniero" pensò il conducente. "Aristocratico." Avviò il taxi e si lanciò verso il VII Arrondissement. Morath abbassò leggermente il finestrino e lasciò che l'aria pungente della città gli sferzasse il volto. Numero otto, Avenue de la Bourdonnais. Una gelida fortezza haut bourgeois di blocchi di pietra color nocciola, fiancheggiata dalle legazioni di piccoli paesi. Coloro che vi abitavano erano chiaramente individui che potevano vivere ovunque, ragion per cui vivevano lì. Morath aprì il cancello con una grossa chiave, attraversò il cortile e usò una seconda chiave per l'ingresso dell'edificio. «Bonsoir, Séléne» disse. Il pastore belga nero apparteneva al portiere e faceva la guardia durante la notte. Un'ombra nel buio, si avvicinò alla sua mano per farsi carezzare, poi tornò a coricarsi sulle piastrelle con un sospiro. "Séléne" pensò lui "la dea della luna." L'appartamento di Cara era all'ultimo piano. Morath entrò e i suoi passi echeggiarono sul parquet del lungo corridoio. La porta della camera da letto era aperta e il bagliore di un lampione stradale illuminava una bottiglia di champagne e due bicchieri sulla toeletta; una candela sulla cassapanca di palissandro si era consumata fino a ridursi a una chiazza di cera dorata. «Nicky?» «Sì.» «Che ore sono?» «Le quattro e mezzo.» «Il tuo telegramma diceva mezzanotte.» Cara si drizzò a sedere e si liberò delle trapunte con un calcio. Si era addormentata nel suo costume d'amore, quella che chiamava la sua «petite chemisette», di seta nera e molto corta, con una delicata filigrana di pizzo sulla parte superiore. Si sporse in avanti e se la sfilò dalla testa; il suo petto era attraversato dal segno rosso della cucitura sulla quale si era addormentata. Scosse i capelli all'indietro e gli sorrise. «Ebbene?» Quando lui non rispose, soggiunse: «Stappiamo lo champagne, giusto?». "Oh, no" pensò lui. Ma non lo disse. Lei aveva ventisei anni, lui quarantaquattro. Prese lo champagne dalla toeletta, strinse il tappo e ruotò lenta-
mente la bottiglia fino a farne uscire l'aria con un sibilo. Riempì un bicchiere, lo offrì a Cara e se ne versò un altro. «A noi due, Nicky» disse lei. Era terribile, acquoso e dolce; il caviste di Rue St. Dominique l'aveva imbrogliata in modo spudorato. Lui posò il bicchiere sul tappeto, si avvicinò all'armadio a muro e cominciò a spogliarsi. «È stato molto brutto?» Scrollò le spalle. Si era recato in una proprietà di famiglia in Slovacchia, dove il cocchiere di suo zio stava morendo. Dopo due giorni, era spirato. «L'Austria era un incubo» disse. «Sì, l'hanno detto alla radio.» Appese l'abito a una gruccia, affastellò la camicia e la biancheria e le infilò nella cesta. «Nazisti per le strade di Vienna» riprese. «Una marea di individui urlanti che sventolavano bandiere e picchiavano ebrei.» «Come in Germania.» «Peggio.» Prese un asciugamano pulito da uno scaffale dell'armadio. «Sono sempre stati così amabili.» Fece per andare in bagno. «Nicky?» «Sì.» «Siediti un minuto qui con me, poi potrai farti un bagno.» Si sedette sul bordo del letto. Cara si girò su un fianco, sollevò le ginocchia fino al mento, trasse un respiro profondo ed espirò molto lentamente, lieta di riaverlo finalmente a casa, nella paziente attesa che quello che gli stava mostrando facesse il suo effetto. "E va bene." Caridad Valentina Maria Westendorf (la nonna) de Parra (la madre) y Dionello. In tutto il suo metro e cinquantotto di altezza. Proveniente da una delle famiglie più abbienti di Buenos Aires. Sulla parete sopra il letto era appeso un suo nudo che Pablo Picasso aveva disegnato a carboncino in un atelier di Montparnasse nel 1934, incorniciato da una ventina di centimetri di scintillante lamina d'oro. Fuori, il lampione si era spento. Attraverso una tenda sottile si scorgeva l'estatica luce grigia di un mattino di pioggia a Parigi. Morath giaceva nell'acqua ormai tiepida della vasca da bagno, fumando una Chesterfield e scuotendone di tanto in tanto la cenere in un portasapone di madreperla. "Cara, amore mio." Piccola, perfetta, viziosa, sfuggente. «Una lunga, lunga notte» gli aveva detto. Si era appisolata, svegliandosi
bruscamente al suono delle auto di passaggio. «Come film proibiti, Nicky, le mie fantasie, belle e brutte, ma in ognuna c'eri tu. "Non viene" ho pensato: mi soddisferò da sola e sprofonderò nel sonno.» Ma non l'aveva fatto; diceva di non averlo fatto. Brutte fantasie? Su di lui? Le aveva chiesto spiegazioni, ma lei si era limitata a ridere. Uno schiavista, forse? Oppure quello sporcaccione del vecchio zio Gaston, che guardava lascivo dalla sua poltrona indiscreta? O forse una scena da de Sade: «E ora verrete condotta nelle stanze private dell'abate». E per contro, che cosa? Le «belle» fantasie erano ancora più difficili da immaginare. Il Re Malinconico? «Fino a stanotte non avevo alcuna ragione per vivere.» Errol Flynn? Cary Grant? L'Ussaro Ungherese? L'idea lo fece ridere perché lo era stato veramente, ma non si era trattato di un'operetta. Tenente di cavalleria dell'esercito austro-ungarico, aveva combattuto contro i cosacchi di Brusilov nelle paludi della Polessia, nel 1915 sul fronte orientale. Alle porte di Lutsk, di Kovel e di Tarnopol. Poteva ancora sentire l'odore dei granai in fiamme. Morath posò il piede sul rubinetto dorato e fissò la pelle raggrinzita rosa e bianca che risaliva dalla caviglia al ginocchio. Erano stati i frammenti di artiglieria a ridurla così - un proiettile vagante che aveva sollevato una fontana di fango dalla strada di un villaggio senza nome. Prima di perdere i sensi, Nicholas era riuscito a finire il suo cavallo. Si era risvegliato in una stazione di pronto soccorso, sovrastato da due ufficiali medici, un austriaco e un polacco, coperti da grembiuli di pelle intrisi di sangue. «Bisogna amputare» aveva detto uno dei due. «Non sono d'accordo» aveva replicato l'altro. Fiancheggiavano i due lati di un tavolaccio di assi di legno nella cucina di una fattoria, e discutevano mentre Morath guardava la coperta grigia diventare marrone. La tempesta che l'aveva seguito attraverso l'Europa aveva raggiunto Parigi; si udiva la pioggia tambureggiare sul tetto. Cara entrò con passo pesante nel bagno, immerse un dito nell'acqua e si accigliò. «Come fai a sopportarla?» domandò. Entrò nella vasca e si sedette di fronte a lui, appoggiò la schiena sulla porcellana e aprì l'acqua calda al massimo. Lui le offrì la Chesterfield e lei ne prese un'elaborata boccata - in realtà non fumava soffiando un teatrale getto di fumo come se fosse Marlene Dietrich. «Mi sono svegliata» disse. «Non riuscivo a riprendere sonno.» «Che cosa c'è?» Scosse il capo.
Si erano dedicati a lungo e con trasporto - era quello che facevano meglio - all'amore notturno e mattutino, e quando lui era uscito dalla stanza Cara dormiva profondamente, la bocca aperta, il respiro sonoro e rauco. Non russava, poiché a sentir lei non lo faceva mai. Alla luce del bagno bianco Morath vide che i suoi occhi erano lucidi e le labbra serrate - "ritratto di donna che non piange". Che cosa aveva? A volte le donne si sentivano semplicemente tristi. O forse era qualcosa che lui aveva detto, o fatto, o non fatto. Il mondo stava precipitando all'inferno, forse era questo. Cristo, sperava che non lo fosse. Carezzò la pelle delle gambe di Cara nel punto in cui si intrecciavano alle sue; non c'era niente da dire, e Morath sapeva che in quella circostanza era meglio non cercare di parlare. Quel pomeriggio la pioggia diminuì di intensità. Parigi era un po' triste sotto l'acquerugiola pomeridiana ma abituata al maltempo primaverile e desiderosa delle avventure della sera. Il conte Janos Polanyi - per l'esattezza von Polanyi de Nemeszvar, ma al di là dei segnaposti alle cene diplomatiche il suo nome non appariva mai in quel modo - non aspettava più la sera per le sue avventure. Aveva ormai superato da tempo la sessantina, e il cinq-à-sept affaire soddisfaceva il ritmo del suo desiderio. Era un uomo grosso e pesante con folti capelli bianchi, quasi gialli alla luce artificiale, che indossava abiti blu fatti su misura da sarti londinesi e odorava di Bay Rhum, usato generosamente varie volte al giorno, di fumo di sigaro e del borgogna che sorseggiava a pranzo. Si sedette nel suo ufficio presso la legazione ungherese, accartocciò un cablogramma e lo gettò nel cestino della carta straccia. Ora, pensò, stava veramente per succedere. "Un tuffo all'inferno." Quello autentico, con morte e fiamme. Controllò l'ora, si allontanò dalla scrivania e si sedette in una poltrona di pelle, dominato dagli immensi ritratti appesi in alto sulle pareti: un paio di re degli Arpadi, Geza II e Béla IV, l'eroico generale Hunyadi accanto al figlio, Mattia Corvino, con il classico corvo. Tutti grondavano pellicce ed erano corazzati di ferro lucente, con lunghe spade e baffi ricurvi, affiancati da nobili cani di razze ormai estinte da tempo. I ritratti proseguivano nell'atrio fuori dell'ufficio, e ce ne sarebbero stati altri se le pareti fossero state più spaziose. Una storia lunga e sanguinosa e un'infinità di pittori. Le cinque e venti. Lei era in lieve ritardo, come sempre, di quel poco che bastava ad alimentare la sua aspettativa. Con le tende chiuse la stanza era
quasi buia, illuminata soltanto da una piccola lampada e dal fuoco nel camino. Aveva bisogno di un altro ceppo? No, erano sufficienti, e Polanyi non voleva attendere che l'uomo delle pulizie salisse le tre rampe di scale. Proprio mentre i suoi occhi cominciavano a chiudersi, vi fu un delicato colpo alla porta seguito dalla comparsa di Mimi Moux - la chanteuse Mimi Moux, come riportavano le cronache mondane dei giornali. Senza età, cinguettante come un canarino, con occhi enormi e rossetto carminio - un volto teatrale - fece irruzione nel suo ufficio, lo baciò su entrambe le guance e in qualche modo riuscì a toccarlo, Polanyi non riuscì a capire come, contemporaneamente in sedici punti diversi del corpo. Parlando e ridendo senza sosta - potevi inserirti nella conversazione oppure no, non aveva importanza - appese il suo Chanel da pomeriggio nello sgabuzzino e svolazzò per la stanza con la sua biancheria intima costosa e piacevolmente eccitante. «Metti Mendelssohn, cara, ti dispiace?» Le braccia incrociate sul petto in una parodia del pudore, balzellò fino a uno scrittoio su cui campeggiava un Victrola e, senza smettere di parlare «Puoi immaginare, eccoci lì tutti vestiti per l'opera, è stato semplicemente insopportabile, no? Naturalmente, non si possono fare certe cose senza saperlo, o almeno così pensavamo. Anche se...» - posò sul giradischi il Primo Concerto per Violino, abbassò la puntina, tornò alla poltrona di pelle e si raggomitolò nell'ampio grembo del conte Polanyi. In seguito, proprio al momento giusto - fra tutte le loro poco apprezzate virtù, si disse il conte, i francesi possedevano il tempismo più perfetto di tutta Europa - si inginocchiò di fronte alla poltrona, gli sbottonò la patta con una mano e smise finalmente di parlare. Polanyi la guardò, il disco terminò, la puntina prese a sibilare su un solco vuoto. Aveva passato la vita, pensò il conte, a dare piacere alle donne; ora era arrivato il momento in cui loro avrebbero dato piacere a lui. Più tardi, quando Mimi Moux se ne fu andata, il cuoco della legazione bussò lievemente alla porta ed entrò con un vassoio fumante. «Un piccolo spuntino, vostra eccellenza» disse. Un brodo di due galline, con piccoli gnocchetti e panna, e una bottiglia di un Echézeaux del 1924. Quando ebbe finito, Polanyi si rilassò sulla poltrona e liberò un sospiro di profonda soddisfazione. Ora, notò, la sua patta era chiusa ma la cintura e i bottoni dei pantaloni erano slacciati. "Altrettanto piacevole" si disse. "O migliore?" Il caffè Le Caprice si nascondeva nelle ombre eterne di Rue de Beaujo-
lais, più vicolo che via, celato fra i giardini del Palais-Royal e la Bibliothèque Nationale. Suo zio, Morath l'aveva capito ormai da tempo, non lo invitava quasi mai alla legazione, preferendo incontrarlo in improbabili caffè o, a volte, a casa di amici. «Accontentami, Nicholas» diceva «mi fa evadere dalla mia vita per un'ora.» A Morath piaceva il Le Caprice, affollato e sudicio e caldo. Le pareti, tinteggiate di giallo nel Diciannovesimo secolo, avevano assunto un intenso color ambra grazie a un centinaio d'anni di fumo di sigaretta. Poco dopo le tre del pomeriggio la folla dell'ora di pranzo cominciò a diradarsi e i clienti regolari rientrarono e ripresero i loro tavoli. "Gli studiosi pazzi" si disse Morath, quelli che passavano le loro esistenze nella Bibliothèque. Erano trionfalmente trascurati. Vecchi maglioni e giacche sformate avevano rimpiazzato le toghe macchiate e i copricapi conici degli alchimisti medievali, ma gli uomini erano gli stessi. Nicholas non riusciva mai a entrare in quel posto senza ricordare ciò che Hyacinthe, il cameriere, aveva detto della sua clientela: «Dio non voglia che un giorno ci arrivino». Morath era rimasto perplesso. «Arrivino a cosa?» Hyacinthe era sembrato sorpreso, quasi offeso. «Ma a quello, monsieur» aveva risposto. Morath prese posto a un tavolo liberato da un gruppo di agenti di cambio che erano giunti a piedi dalla Bourse, si accese una sigaretta, ordinò un Gentiane e si mise comodo in attesa di suo zio. A un tratto, gli occupanti del tavolo accanto smisero di discutere, sprofondarono nel silenzio e presero a fissare la strada. Una lussuosissima Opel Admiral si era fermata davanti al Le Caprice. L'autista teneva aperta la portiera posteriore, da cui emersero un uomo alto con l'uniforme nera delle SS, un altro uomo con un impermeabile e lo zio Janos, il quale parlava e gesticolava mentre gli altri due lo ascoltavano avidamente, con mezzi sorrisi di aspettativa sui volti. Il conte Polanyi tese un dito e aggrottò teatralmente la fronte offrendo quella che era evidentemente una battuta finale. I tre uomini scoppiarono a ridere, a malapena udibili all'interno del caffè, e l'SS diede una pacca sulle spalle a Polanyi - "buona questa!". Si salutarono, si diedero la mano e il civile e l'SS tornarono alla Opel. "Ecco qualcosa di nuovo" pensò Morath. Era raro vedere SS in uniforme a Parigi. In Germania erano ovunque, naturalmente, e molto presenti nei cinegiornali, intente a marciare, salutare e gettare libri nei falò. Suo zio entrò nel caffè e impiegò un istante per vederlo. Qualcuno al tavolo accanto fece un'osservazione, uno degli amici ridacchiò. Morath si al-
zò, abbracciò suo zio e ricambiò i suoi saluti; come di consueto, in pubblico parlavano francese. Il conte Polanyi si tolse cappello, guanti, sciarpa e soprabito e li accatastò sulla sedia libera. «Mmm, è piaciuta» disse «quella dei due uomini d'affari rumeni.» «Non l'ho mai sentita.» «S'incontrano per strada a Bucarest. Gheorgiu regge una valigia. "Dove stai andando?" domanda Petrescu. "A Cernauti" risponde l'amico. "Bugiardo!" strilla Petrescu. "Dici che vai a Cernauti per farmi credere che stai andando a Jassy, ma io ho corrotto il tuo fattorino e so che vai a Cernauti!"» Morath scoppiò a ridere. «Conosci von Schleben?» «Qual era?» «Quello con l'impermeabile.» Arrivò Hyacinthe e Polanyi ordinò un Ricard. «Non credo» rispose Morath. Non ne era completamente sicuro. Era un uomo alto, con capelli chiari e sbiaditi un po' più lunghi del normale e un volto che rivelava un non so che di malizioso; aveva il sorrisetto furbo del buontempone. Alquanto attraente, avrebbe potuto interpretare il ruolo del corteggiatore - non quello che vince, ma quello che perde - in una commedia inglese da salotto. Morath era sicuro di averlo già visto da qualche parte. «Chi è?» «Lavora in diplomazia. Non è una cattiva persona, in fin dei conti. Un giorno o l'altro te lo presenterò.» Il Ricard venne servito e Morath ordinò un altro Gentiane. «Non ho pranzato» disse suo zio. «Non nel vero senso della parola. Hyacinthe?» «Monsieur?» «Oggi che cosa servite a pranzo?» «Têle de veau.» «Com'è?» «Non male.» «Penso che ne ordinerò una porzione. Nicholas?» Morath scosse il capo. Posò un piccolo oggetto sul tavolo. Aveva le dimensioni di una mano ed era avvolto in un vecchissimo brandello di mussola ingiallita, forse tagliato molto tempo prima da una tenda. Nicholas spiegò il tessuto rivelando una croce d'argento su un nastro scolorito nero e oro, i colori dell'Impero austro-ungarico. «Te la manda lui.» Polanyi sospirò. «Sandor» disse, come se il cocchiere lo potesse udire.
Prese la medaglia e se la posò sul palmo della mano. «Una croce al valore. Sai, Nicholas, ne sono onorato, ma questo è un oggetto prezioso.» Morath annuì. «L'ho offerto alla figlia, con le tue più sentite condoglianze, ma non ha voluto saperne.» «No. Naturalmente.» «A quando risale?» Polanyi rifletté per qualche istante. «Alla fine degli anni Ottanta, per quanto posso capire. Una rivolta serba giù nel Banato. Sandor era sergente del reggimento radunato a Poszony. Allora si chiamava Presburgo.» «Adesso Bratislava.» «La stessa, prima che la dessero agli slovacchi. Comunque, Sandor ne parlava di tanto in tanto. I serbi gli diedero del filo da torcere; alcuni villaggi dovettero essere dati alle fiamme. Avevano cecchini appostati nelle caverne sulle colline. La compagnia di Sandor fu impegnata per una settimana, e lui ottenne la croce.» «Voleva che l'avessi tu.» Polanyi fece cenno di capire. «È rimasto qualcosa, lassù?» «Non molto. Dopo lo spostamento del confine hanno smantellato la casa. Le maniglie delle porte, le finestre, i pavimenti migliori, i mattoni del caminetto, tutte le tubature che sono riusciti a estrarre dalle pareti. Il bestiame è scomparso, naturalmente. Sono rimasti alcuni dei vigneti. E gli alberi da frutta più vecchi.» «Nem, nem, soha» disse Polanyi. No, no, mai: il rifiuto ungherese di Trianon, il trattato che aveva sottratto due terzi del territorio e dei suoi abitanti dopo la disfatta dell'esercito austro-ungarico nella Grande Guerra. C'era più di una sfumatura di ironia nella voce di Polanyi, una scrollata di spalle, "tutto quello che sappiamo fare è lamentarci", ma non era tutto lì. In un certo senso, complesso e possibilmente oscuro, diceva sul serio. «Un giorno, forse, tornerà.» Il gruppo al tavolo accanto aveva prestato attenzione. Un ometto pugnace e quasi calvo allargò le narici, facendo aleggiare il tanfo del suo bugigattolo ammuffito sopra i loro aperitivi. «Revanchiste» esclamò. Non lo disse a loro, non esattamente, né ai suoi amici; forse l'epiteto era diretto al mondo intero. Morath e Polanyi lo guardarono. «Fascisti ungheresi revanscisti e irredentisti» intendeva dire, ribollendo di indignazione da Fronte Popolare. Ma Morath e Polanyi non lo erano; appartenevano alla Nazione Ungherese, com'era chiamata la nobiltà, erano magiari membri di famiglie che risa-
livano a un migliaio di anni prima, ed erano pronti, con l'ausilio di una gamba di sedia e di una bottiglia di vino, a mettere in fuga l'intera clientela dal locale di Rue de Beaujolais. Quando il gruppo al tavolo accanto ebbe ostentatamente ripreso a farsi gli affari propri, Polanyi ripiegò con cura il tessuto sulla medaglia e se la infilò nella tasca interna della giacca. «Ci ha impiegato molto a morire» disse Morath. «Non ha sofferto e non era triste; aveva semplicemente un animo tenace, non se ne voleva andare.» Assaggiando il vitello, Polanyi emise un lieve, dolce grugnito di piacere. «Inoltre» soggiunse Nicholas «voleva che ti dicessi una cosa.» Polanyi inarcò le sopracciglia. «Riguardava la morte di suo nonno che, a quanto ricordava, aveva novantacinque anni e si era spento in quello stesso letto. La famiglia sapeva che era arrivato il suo momento, e gli si era raccolta attorno. All'improvviso, il vecchio si era agitato e aveva cominciato a parlare. Sandor aveva dovuto chinarsi per udirlo. "Ricordati" aveva bisbigliato il nonno "vivere è come leccare il miele..." L'aveva ripetuto tre o quattro volte, e il nipote aveva capito che c'era dell'altro. Alla fine ce l'aveva fatta: "... leccare il miele da una spina".» Polanyi sorrise, riconoscendo la storiella. «Sono passati venticinque anni dall'ultima volta che l'ho visto» disse. «Quando ha smesso di essere l'Ungheria non ho più voluto averci a che fare; sapevo che sarebbe stata distrutta.» Bevve un sorso di vino, poi un altro. «Ne vuoi anche tu, Nicholas? Ti faccio portare un bicchiere.» «No, grazie.» «Non ci sono più voluto tornare» disse Polanyi. «Un segno di debolezza. E io lo sapevo.» Scrollò le spalle, perdonandosi. «Non te ne faceva una colpa.» «No, ha capito. La sua famiglia era presente?» «In forze. Figlie, un figlio, nipoti, il fratello.» «Ferenc.» «Sì, Ferenc. Avevano girato tutti gli specchi. Una vecchia - era immensa, piangeva, rideva, mi ha cotto un uovo - non smetteva un istante di parlarne. Quando l'anima se ne va, non deve mai vedersi allo specchio. Perché se lo facesse, diceva, potrebbe gradire ciò che vede e tornare di continuo.» «Non credo che la mia lo farebbe. Hanno messo fuori la tinozza piena d'acqua?»
«Accanto alla porta. Perché la morte ci lavasse la sua falce. Altrimenti sarebbe stata costretta ad andare fino al ruscello, e qualcun altro in quella casa sarebbe morto entro l'anno.» Polanyi mangiò con grazia un pezzo di pane che aveva immerso nel sugo. Quando alzò gli occhi, il cameriere stava passando accanto al tavolo. «Hyacinthe, s'il vous plaît, un bicchiere per mio nipote. E già che c'è, ci porti un'altra caraffa.» Dopo pranzo passeggiarono nei giardini del Palais-Royal. Un pomeriggio buio, un crepuscolo perpetuo; Polanyi e Morath avanzavano lentamente, come due fantasmi drappeggiati nei soprabiti, oltre i rami grigi del parterre invernale. Polanyi voleva notizie dell'Austria; sapeva che unità della Wehrmacht erano posizionate sui confini, pronte a marciare nel paese per reprimere le «sommosse» organizzate dai nazisti austriaci. «Se Hitler ottiene il suo Anschluss, in Europa sarà la guerra» disse. «Il viaggio è stato un incubo» raccontò Morath. Un incubo che era cominciato con un'assurdità: una rissa nel corridoio della prima classe fra due venditori di armoniche tedeschi. «Immaginati la scena: due omaccioni corpulenti e baffuti che si strillavano insulti e si colpivano facendo mulinare i pugni bianchi. Quando siamo finalmente riusciti a dividerli, erano paonazzi. Li abbiamo fatti sedere, abbiamo dato loro un po' d'acqua. Temevamo che uno dei due crollasse a terra morto e che il controllore fermasse il treno e chiamasse la polizia. Nessuno, nessuno su quel vagone voleva una cosa del genere.» «La rissa era cominciata a Bucarest, senza dubbio» disse Polanyi. La Romania, spiegò, era stata costretta a vendere alla Germania i suoi raccolti di frumento, e il ministero delle Finanze del Reich si era rifiutato di pagare in marchi. Avrebbe barattato, ed esclusivamente con aspirina, macchine fotografiche Leica e armoniche. «Be', quello è stato solo l'inizio» riprese Morath. «Eravamo ancora nell'Ungheria occidentale.» Mentre il treno era fermo alla stazione di Vienna, un uomo all'incirca della sua età, pallido e tremante, gli si era seduto davanti. Quando la famiglia che occupava il resto dello scompartimento si era spostata nel vagone ristorante, avevano cominciato a parlare. L'uomo era un ebreo viennese, un ostetrico. Aveva detto a Morath che le comunità ebraiche austriache erano state falcidiate nel giro di un giorno e una notte. Era stata una cosa improvvisa e caotica, non come a Berlino.
Col che intendeva, Morath lo sapeva, un certo stile nella persecuzione, il lavorio lento e meticoloso dei funzionari statali. Schreibtischtäters, li chiamava, assassini da scrivania. Le bande si erano scatenate per le vie della città, condotte dalle SS e dalle SA austriache, trascinando gli ebrei fuori dei loro appartamenti - additati dai custodi degli stabili - e costringendoli a cancellare dai muri gli slogan a sostegno di Schuschnigg, il cancelliere eletto nel plebiscito che Hitler si era rifiutato di autorizzare. Nel ricco sobborgo ebraico di Wàhring avevano fatto indossare le pellicce alle donne, obbligandole a lavare le strade a quattro zampe, mettendosi a cavalcioni sopra di loro e orinando sulle loro teste. Morath aveva cominciato a preoccuparsi: il poveraccio stava crollando davanti ai suoi occhi. Voleva una sigaretta? No, non fumava. Forse un brandy? Nicholas si era offerto di andarglielo a prendere nel vagone ristorante. L'uomo aveva scosso la testa: che senso c'era? «Siamo tutti finiti» aveva detto. Ottocento anni di vita ebraica soppressi in una notte. All'ospedale, un'ora prima che fuggisse, una donna aveva preso in braccio il suo neonato e si era lanciata dalla finestra dell'ultimo piano. Altri pazienti erano scesi dai loro letti ed erano fuggiti in strada. Un giovane interno raccontava di aver visto un uomo al banco di un bar, la sera prima, estrarre di tasca un rasoio e tagliarsi la gola. «Non c'è stato alcun avvertimento?» aveva domandato Morath. «Antisemiti nei pubblici uffici» aveva risposto l'uomo. «Ma non vendi casa per una cosa simile. Un mese fa, più o meno, alcuni hanno lasciato il paese.» Naturalmente c'erano quelli, aveva aggiunto, che se n'erano andati nel 1933, quando Hitler era giunto al potere. Nel Mein Kampf aveva scritto che intendeva unire l'Austria e la Germania. Ein Volk, ein Reich, ein Führer! Ma leggere il futuro politico era come leggere Nostradamus. Grazie a Dio, alla fine di aprile lui aveva messo moglie e figli su un battello a vapore per Budapest. «È stato suo fratello. È venuto a casa nostra e ha detto, ha insistito che dovevamo partire. C'è stata una discussione, mia moglie in lacrime, risentimenti. Alla fine ero così infuriato che gli ho lasciato fare quello che voleva.» «Ma lei è rimasto» aveva osservato Morath. «Avevo le mie pazienti.» Erano rimasti in silenzio per un istante. Fuori, giovani con le svastiche sulle bandiere correvano lungo la banchina gridando uno slogan rimato, i volti folli di eccitazione.
Polanyi e Morath si sedettero su una panchina dei giardini. Sembrava un luogo molto tranquillo. Qualche passero impegnato sulle briciole di una baguette, una ragazzina con un soprabito dal colletto di velluto che cercava di giocare con un cerchio e una bacchetta sotto gli occhi di una bambinaia. «Ad Amstetten» raccontò Morath «appena fuori della stazione, si erano appostati a un incrocio per lanciare sassi contro il treno. Potevamo vedere i poliziotti che se ne stavano lì a braccia incrociate; erano venuti ad assistere. Ridevano, era una specie di scherzo. Più che altro, l'intera faccenda aveva una terribile stranezza. Ricordo di aver pensato che lo desideravano da tempo. Sotto tutto il sentimento e lo Schlag c'era questo.» «La loro preziosa Wut» disse Polanyi. «Conosci il termine.» «Rabbia.» «Sì, di un tipo particolare. L'accesso improvviso di rabbia che nasce dalla disperazione. I tedeschi credono che giaccia nel profondo del loro carattere; soffrono in silenzio e alla fine esplodono. Ascolta i discorsi di Hitler: è un continuo "quanto a lungo dobbiamo ancora sopportare...", di qualsiasi cosa si tratti. Non riesce a lasciar perdere.» Polanyi esitò un istante. «E ora, con l'Anschluss, avremo il piacere della loro compagnia sul nostro confine.» «Succederà qualcosa?» «A noi?» «Sì.» «Ne dubito. Horthy verrà convocato da Hitler, si profonderà in inchini e accetterà qualsiasi cosa. Come sai, è un uomo di buone maniere. Naturalmente ciò che faremo in realtà non sarà esattamente quello che avremo accettato di fare, ma alla resa dei conti, ciò malgrado, non avremo mantenuto la nostra innocenza. È impossibile. E per questo pagheremo.» Per qualche istante guardarono i passanti sui vialetti di ghiaia. «Questi giardini saranno deliziosi in primavera» soggiunse infine Polanyi. «La città intera.» «Presto, spero.» Annuì. «Sai» disse «i francesi fanno le guerre, ma il loro paese e la loro Parigi non vengono mai distrutti. Ti sei mai chiesto come facciano?» «Sono furbi.» «Sì. E sono anche coraggiosi. Addirittura incoscienti. Ma non è così, alla fin fine, che salvano quello che amano. Lo salvano strisciando.» "L'11 marzo" si disse Nicholas. Troppo freddo per starsene seduti ai
giardini, l'aria umida e pungente come se fosse stata raffreddata nella terra fradicia. Quando cominciò a piovigginare, Morath e Polanyi si alzarono e presero a passeggiare sotto i portici, passando davanti a un famoso modista, a un negozio di bambole pregiate, a un commerciante di monete rare. «E il dottore viennese?» domandò Polanyi. «Ha raggiunto Parigi molto prima della mezzanotte. Anche se ha avuto qualche problema alla frontiera tedesca. Hanno cercato di rimandarlo a Vienna, c'erano delle irregolarità nei documenti. Una data. Gli sono rimasto accanto durante tutta la squallida vicenda. E alla fine non sono riuscito a tenermene fuori.» «Che cos'hai fatto, Nicholas?» Morath si strinse nelle spalle. «Li ho guardati in un certo modo. Ho detto loro certe cose.» «E ha funzionato.» «Questa volta.» 4 aprile 1938. Théâtre des Catacombes, ore nove e venti di sera. «Se lo conosco? Certo che lo conosco. Sua moglie fa l'amore con mia moglie ogni giovedì pomeriggio.» «Davvero? E dove?» «Nella stanza della domestica.» Frasi non pronunciate sul palco - "magari lo fossero state" pensò Morath - ma udite di sfuggita nell'atrio durante l'intervallo. Facendosi largo tra la folla, Nicholas e la sua compagna attiravano sguardi educati e furtivi. Una coppia che faceva sensazione. Il volto di Cara non era la sua parte migliore, era sfumato e insignificante, difficile da ricordare. I suoi tratti più notevoli erano i lunghi capelli color miele dorato, i magnifici foulard e il modo in cui riusciva a farsi desiderare. Per una serata di teatro d'avanguardia aveva aggiunto una gonna da zingara con gli appropriati orecchini a cerchio e un paio di stivali di pelle morbida con la parte superiore dei gambali ripiegata su se stessa. Morath sembrava più alto di quello che era. Aveva capelli neri folti e spessi pettinati all'indietro, una certa tensione negli occhi, «verdi» sul passaporto ma molto prossimi al nero, e tutta quella tenebrosità lo faceva sembrare pallido, un decadente fin-de-siècle. Un giorno, da Fouquet, aveva conosciuto un produttore cinematografico, presentatogli da un comune amico. «Di solito faccio film di gangster» gli aveva detto questi con un sor-
riso. «Oppure di intrighi, capisce.» Ma al momento stava per cominciare la produzione di un'epica in costume. Un ampio cast, una nuova versione di Taras Bul'ba. Morath aveva mai recitato? Avrebbe potuto fare la parte di «un condottiero». «Magari di un khan» aveva aggiunto l'amico del produttore, un ometto pelle e ossa che somigliava a Trotzkij. Ma si sbagliavano. Morath si trovava da diciotto anni a Parigi; la vita da rifugiato politico, con la sua invitante riservatezza, e l'immersione nella città, tutta passione, piacere e cattiva filosofia, avevano mutato il suo aspetto. Il risultato era che piaceva ancora di più alle donne, e che la gente in strada non si faceva problemi a chiedergli indicazioni. Eppure, ciò che aveva visto il produttore era rimasto, da qualche parte appena sotto la superficie. Anni dopo, verso la fine di una breve storia d'amore, una donna francese gli aveva detto: «Guarda guarda, non sei affatto crudele». Gli era sembrata leggermente delusa. Atto II. Una stanza in Purgatorio, il giorno dopo. Morath spostò il proprio peso nell'inutile tentativo di mettersi comodo sulla diabolica sedia. Accavallò le gambe, si sporse dall'altra parte. Cara gli strinse il braccio come a dire «smettila». Le file di sedie, fissate a una struttura di legno, erano formate da dodici posti. Dove le aveva trovate Montrouchet? si chiese Morath. Provenivano senza dubbio da qualche defunta istituzione. Una prigione? Una scuola per bambini difficili? Sul palcoscenico, i Sette Vizi Capitali stavano tormentando un malinconico Uomo Qualunque. Una povera anima seduta su uno sgabello con addosso un sudario grigio. «Ahh, ma ti sei addormentato al suo funerale.» La non più giovane benintenzionata era probabilmente l'Accidia, ma Morath si era sbagliato già due o tre volte quando aveva cercato di seguire la commedia. Avevano contorni sfuggenti, i Vizi. Colpa del commediografo oppure di Satana, Morath non ne era sicuro. La Superbia gli sembrava rabbiosa, e la Bramosia rubava la scena all'Invidia alla minima occasione. D'altra parte si chiamava Bramosia. L'Ingordigia, dal canto suo, non era malaccio. Un giovane grassottello, giunto a Parigi dalla provincia per una carriera nel teatro o nel cinema. Il problema era che il commediografo non gli aveva dato molto da fare. Cosa poteva dire al povero, defunto Uomo Qualunque? Mangiavi troppo! Ma faceva del suo meglio con il materiale che gli era stato fornito; forse un eminente regista o produttore sarebbe venuto a vedere lo spettacolo, non si poteva mai sapere.
Ma si sapeva. Morath abbassò gli occhi sul programma di sala che teneva in grembo, l'unica distrazione concessa dalla nebbia bianca che avanzava dal palco. La quarta di copertina era occupata dalla pubblicità. Il critico del «Flambeau Rouge», la Fiaccola Rossa, aveva trovato la commedia «Provocatoria!». Appena sotto, uno stralcio di Lamont Higson del «Paris Herald»: «Il Théâtre des Catacombes è l'unico teatro parigino che ha di recente rappresentato Racine e Corneille in costume adamitico». Seguiva un elenco di finanziatori, fra cui una certa Mademoiselle Cara Dionello. E perché no? si chiese Morath. Se non altro alcune di quelle povere bestie che in Argentina arrancavano sulla rampa del macello avevano donato alla vita qualcosa di più del semplice roast-beef. Il teatro si trovava nel cuore del V Arrondissement. In origine le intenzioni erano che Montrouchet mettesse in scena i suoi spettacoli nelle vere catacombe, ma le autorità municipali avevano reagito con misteriosa freddezza all'idea che degli attori sgambettassero negli umidi ossari sotto la stazione della metropolitana di Denfert-Rochereau. Alla fine aveva dovuto accontentarsi di un murale nell'atrio: mucchi di teschi e femori bianco biacca che risaltavano violentemente su un fondo nero. «Come? Hai dimenticato? Quella sera in riva al fiume?» Morath tornò dal mondo dei sogni e si ritrovò a guardare la Lussuria, una scelta classica, forse diciassette anni, che sussurrava le sue battute strisciando sul ventre attraverso il palcoscenico. Cara gli strinse nuovamente il braccio, questa volta con delicatezza. Quella notte Morath non dormì in Avenue de la Bourdonnais. Fece ritorno nel suo appartamento in Rue D'artois, e il mattino seguente uscì di buon'ora per prendere l'espresso del nord per Anversa. Era un treno serio; i controllori erano bruschi e scrupolosi, i posti occupati da soldati del commercio in marcia lungo l'antica via degli affari. Oltre allo sferragliare delle ruote sulle rotaie, l'unico suono nello scompartimento era il fruscio della carta di giornale quando una pagina appena voltata del «Figaro» veniva sistemata con uno scatto. A Vienna, lesse Morath, l'Anschluss stava per essere formalizzato da un plebiscito - l'elettore austriaco ormai consapevole che l'alternativa allo Ja era farsi sfondare i denti. Era l'opera di Dio, avrebbe spiegato Hitler il 9 aprile in un discorso. Esiste un ordinamento superiore e noi non siamo che i suoi agenti.
Quando, il 9 marzo, Herr Schuschnigg ha violato l'accordo, in quell'istante ho sentito che la Provvidenza mi chiamava. E ciò che a quel punto si è verificato nel giro di tre giorni può essere concepibile soltanto come l'adempimento dei desideri e della volontà della Provvidenza. Ora io ringrazio Colui che mi ha concesso di tornare nella mia terra natia perché la guidi nel Reich germanico! E che domani ogni tedesco riconosca l'ora e la sua importanza e s'inchini umilmente al cospetto dell'Onnipotente, che in poche settimane ci ha elargito un miracolo. E così l'Austria aveva cessato di esistere. E l'Onnipotente, non contento della Sua opera, aveva deciso che lo stordito Doktor Schuschnigg venisse incarcerato e sorvegliato dalla Gestapo in una stanzetta al quinto piano dell'hotel Metropole. Per il momento, Nicholas non poteva sopportare altro. Posò il giornale e spostò lo sguardo fuori del finestrino, sulle terre fiamminghe dissodate. L'immagine riflessa sul vetro era quella di Morath il dirigente: bell'abito scuro, cravatta sobria, camicia perfetta. Stava andando al nord per vedere Monsieur Antoine Hooryckx, meglio conosciuto nel mondo degli affari come «Hooryckx, il Re del Sapone di Anversa». Nel 1928, Nicholas Morath era diventato coproprietario dell'Agence Courtmain, una piccola e ragionevolmente prosperosa agenzia pubblicitaria. Era stato un imprevisto, straordinario regalo dello zio Janos. Morath era stato convocato a pranzo su uno dei battelli-ristorante e, mentre scivolava lentamente sotto i ponti della Senna, era stato informato della sua nuova posizione. «Alla fine sarà tutto tuo» aveva detto lo zio Janos «tanto vale che impari a occupartene fin da subito.» La moglie e i figli di Polanyi avrebbero avuto di che vivere, Morath lo sapeva, ma la vera ricchezza, le migliaia di chilometri di campi di frumento nella Puszta completi di villaggi e contadini, la piccola miniera di bauxite e l'ampio portafoglio di titoli delle ferrovie canadesi, sarebbe stata sua, insieme al titolo nobiliare, alla morte di suo zio. Ma Morath non aveva fretta, non era il tipo che sfidava il nonno a chi arriva prima in cima alle scale. Polanyi sarebbe vissuto a lungo, e al nipote andava bene. L'aspetto conveniente era che, con una rendita regolare, se il conte Polanyi aveva bisogno dell'aiuto di Nicholas, lui era disponibile. Nel frattempo, la parte dei profitti che spettava a Nicholas gli pagava gli aperitivi, le amanti e un appartamento leggermente trasandato a un indirizzo ra-
gionevolmente buono. L'Agence Courtmain aveva un indirizzo molto buono, ma in quanto agenzia pubblicitaria doveva prima di tutto pubblicizzare il proprio successo. Cosa che faceva, insieme a una varietà di avvocati, agenti di cambio e banchieri libanesi, pagando un affitto assurdamente alto per un ufficio in uno stabile sull'Avenue Matignon. Con ogni probabilità appartenente, secondo la teoria di Courtmain - il titolo della société anonyme non dava alcuna indicazione in merito - «a un contadino dell'Auvergne con il cappello pieno di merda di capra». Seduto davanti a Morath, Courtmain abbassò il giornale e controllò l'ora. «Puntuale?» domandò Nicholas. Courtmain annuì. Come Morath, era molto elegante. Emile Courtmain non aveva superato di molto la quarantina. Aveva capelli bianchi, labbra sottili, occhi grigi e una personalità fredda e distante che quasi tutti trovavano magnetica. Sorrideva di rado, ti fissava apertamente e diceva poco. Era brillante oppure stupido, nessuno lo sapeva, e non sembrava particolarmente importante. Che genere di vita facesse dopo le sette di sera era un completo mistero. Uno dei copywriter sosteneva che una volta rimasto solo in ufficio, Courtmain si appendesse nell'armadio e aspettasse la luce del giorno. «Non andremo allo stabilimento, vero?» domandò Morath. «No.» Nicholas ne fu sollevato. Il Re del Sapone li aveva portati nel suo stabilimento un anno prima, tanto per sincerarsi che non scordassero chi erano loro, chi era lui e che cosa faceva girare il mondo. E loro non l'avevano scordato. Enormi vasche pullulanti di grassi animali, mucchi di ossa sgretolate, paioli di liscivia che bollivano dolcemente sulla fiamma bassa. L'ultima corsa per molti dei cavalli da tiro del Belgio settentrionale. «Datevi una bella strigliata al didietro con quella!» aveva gridato Hooryckx emergendo come un diavolo industriale da una nube di vapore giallo. Arrivarono puntuali ad Anversa e salirono su un taxi davanti alla stazione. Courtmain diede una serie di complicate indicazioni al conducente; gli uffici di Hooryckx si trovavano alla fine di una strada tortuosa ai margini della zona portuale, alcuni locali in un edificio elegante ma cadente. «Il mondo mi informa che sono un uomo ricco» diceva Hooryckx. «E poi si prende tutto quello che possiedo.» Sul sedile posteriore del taxi, Courtmain frugò nella sua cartella e ne e-
strasse una bottiglietta di un'acqua di colonia chiamata Zouave, dalla cui etichetta occhieggiava imperioso un soldato dai baffi feroci. Ne svitò il tappo, se ne spruzzò qualche goccia sul volto e la passò a Morath. «Ahh» esclamò mentre il greve profumo si spandeva nell'aria «il miglior bordello di Istanbul.» Hooryckx era lieto di vederli. «I ragazzi di Parigi!» Aveva un ventre enorme e la capigliatura di un personaggio dei cartoni animati che infila il dito nella presa elettrica. Courtmain estrasse un disegno a colori dalla cartella. Ammiccando, Hooryckx disse alla segretaria di convocare il responsabile della pubblicità. «Il marito di mia figlia» spiegò. Il genero arrivò qualche minuto dopo; Courtmain posò il disegno su un tavolo e tutti vi si raccolsero attorno. In un cielo blu reale, due cigni bianchi volavano sopra la scritta DEUX CYGNES... Era qualcosa di nuovo. Nel 1937, le loro inserzioni sui periodici avevano illustrato un'attraente mamma in grembiule che mostrava alla piccola figlia una saponetta Deux Cygnes. «Bene» disse Hooryckx. «Che cosa significano i puntini?» «Due cigni...» rispose Courtmain, lasciando che la sua voce si spegnesse. «Nessuna parola potrebbe spiegare la delicatezza, la bellezza del momento.» «Non dovrebbero nuotare?» obiettò Hooryckx. Courtmain affondò la mano nella cartella e ne sfilò la versione con i cigni nell'acqua. La direttrice del reparto copywriter l'aveva avvertito che sarebbe successo. I cigni increspavano l'acqua di uno stagno scivolando davanti a una macchia di canne. Hooryckx strinse le labbra. «Mi piacciono in volo» disse il genero. «Più chic, no?» «Che ne dice?» domandò Hooryckx a Morath. «Viene venduto alle donne» rispose Morath. «E allora?» «È quello che provano quando lo usano.» Hooryckx spostò lo sguardo da un'immagine all'altra. «Certo» disse «a volte i cigni volano.» Dopo un istante, Morath annuì. "Certo." Courtmain presentò un'altra versione. Due cigni in volo in un cielo color acquamarina. «Puh» fece Hooryckx. Courtmain fece sparire l'immagine.
Il genero suggerì una nuvola, una presenza sottile, poco più di una coloritura nell'azzurro. Courtmain ci rifletté. «Molto costoso» decretò. «Ma è un'ottima idea, Louis» disse Hooryckx. «Riesco a vederla.» Tamburellò con le dita sulla scrivania. «È bello che volino, ma mi manca la curva del collo.» «Possiamo provarci» disse Courtmain. Hooryckx fissò l'immagine per qualche altro secondo. «No, meglio così.» Dopo pranzo, Courtmain andò a visitare un futuro cliente e Morath si diresse verso il quartiere commerciale del centro e un negozio chiamato Homme du Monde, Uomo di Mondo, la cui vetrina era occupata da affabili manichini in smoking. Faceva troppo caldo nel negozio, dove una commessa era inginocchiata a terra con la bocca piena di spilli e stava prendendo le misure a un cliente per un paio di pantaloni da sera. «Madame Golsztahn?» chiese Morath. «Un istante, monsieur.» Una tenda sul retro del negozio si scostò e Madame Golsztahn fece capolino. «Sì?» «Sono venuto da Parigi stamattina.» «Oh, è lei» disse. «Venga.» Dietro la tenda, un uomo stava stirando dei pantaloni, premendo un pedale che produceva un sibilo e uno sbuffo di vapore. Madame Golsztahn condusse Morath in fondo a una lunga schiera di smoking e marsine appesi, dove campeggiava una malconcia scrivania dai cassetti colmi di ricevute. Non si erano mai visti prima, ma Morath sapeva chi era. Quand'era più giovane, a Budapest, era stata famosa per le sue storie d'amore, il soggetto di poesie pubblicate su piccole riviste e la causa di due o tre scandali nonché, si diceva, di un suicidio dal Ponte Elisabetta. Standole accanto, Morath poteva percepirlo. Un volto in rovina e capelli di un vistoso rosso mattone su un corpo da ballerina fasciato da un maglione e da una gonna neri e stretti. "Come la corrente di un fiume." Gli rivolse un sorriso tagliente, capendo perfettamente che non gli sarebbe dispiaciuto; poi si scostò i capelli dalla fronte. Una radio trasmetteva della musica, forse Schumann, violini, qualcosa di singolarmente melenso, e a intervalli di pochi secondi si udiva il sibilo del ferro da stiro a vapore. «Bene» disse lei prima che accadesse davvero qualcosa. «Dovremmo andare in un caffè?» «Qui sarebbe meglio.»
Si sedettero fianco a fianco alla scrivania; lei si accese una sigaretta e la tenne fra le labbra, socchiudendo gli occhi contro il fumo. Prese una delle ricevute, la girò e l'appiattì con le mani. Morath vide lettere e numeri, alcuni dei quali cerchiati. «Codice mnemonico» disse lei. «Ora tutto ciò che devo fare è decifrarlo. Allora» soggiunse infine. «L'amico di suo zio a Budapest, a cui ci riferiremo come a "un ufficiale di polizia", riferisce che "al 10 marzo, le testimonianze indicano un'intensa attività in tutti i settori della comunità nyilás".» Neelosh; la voce della donna era tenacemente neutrale. Significava le Croci Frecciate, puri fascisti hitleriani; l'EME, specializzata in attentati dinamitardi contro le donne ebree; il Kereszteny Kurzus, il Corso Cristiano che significava ben più che «cristiano», e varie altre organizzazioni grandi e piccole. «"Il 5 marzo"» riprese la Golsztahn «"un incendio in un deposito dell'Ottavo Distretto di Csikago."» Chicago, nel senso di fabbriche e gangster. «"Gli ispettori di polizia sono stati chiamati sul luogo quando è stata trovata una scorta clandestina di fucili e pistole."» Tossì, coprendosi la bocca con il dorso della mano, e posò la sigaretta fra una serie di segni scuri sul bordo della scrivania. «"Un membro delle Croci Frecciate, di professione ebanista, trattenuto per deturpazione di beni pubblici, è stato trovato in possesso del numero telefonico di casa dell'attaché tedesco per l'economia. Un informatore della polizia ucciso il 6 di marzo a Szeged. Otto giovani, membri dell'associazione studentesca Turul, sono stati osservati mentre sorvegliavano la caserma dell'esercito ad Arad. Il camion di una ditta di traslochi, parcheggiato in un vicolo nei pressi della stazione ferroviaria meridionale, è stato perquisito dalla polizia in seguito a una segnalazione ricevuta dalla moglie abbandonata del camionista. È stata trovata una mitragliatrice pesante Berthier, con ottantacinque strisce di munizioni."» «Dovrò prendere appunti» disse Morath. Gli occhi della Golsztahn incontrarono i suoi. «Non andrà da nessuna parte, vero?» Esitò. «A est?» Nicholas scosse il capo. «Solo a Parigi, stasera.» Lei gli porse una ricevuta vuota. «Usi il retro. L'ufficiale di polizia fa notare che "un rapporto su questi eventi è stato inoltrato nel solito modo all'ufficio del colonnello Sombor presso la legazione ungherese di Parigi".» «Un minuto» disse Morath. C'era quasi arrivato. Alla legazione, Sombor
aveva qualcosa a che fare con la sicurezza; lo stesso nome del capo della polizia segreta, preso da quello di una cittadina dell'Ungheria meridionale. Di solito ciò indicava ungheresi di discendenza germanica, sassone. Quando sollevò lo sguardo, la Golsztahn riprese. «"Un informatore delle Croci Frecciate riferisce che numerosi dei suoi colleghi si stanno preparando ad allontanare le famiglie dalla città durante la prima settimana di maggio. E..."» Studiò attentamente la parte superiore della ricevuta. «Cosa?» soggiunse. Poi: «Ah. "Nella loro stanza presso l'hotel Gellert, due noti agenti del servizio di sicurezza tedesco, l'SD, tenevano fotografie delle planimetrie della stazione di polizia del Distretto dell'Acqua e del Palazzo di Giustizia." L'ufficiale di polizia riferisce infine che all'incirca tre dozzine di ulteriori esempi suggeriscono un'azione politica nel prossimo futuro.» Sul treno della sera per Parigi regnava il silenzio. Courtmain lavorava, prendendo appunti su un blocco, e Morath leggeva il giornale. Gli articoli di prima pagina tendevano a focalizzarsi sull'Austria e sull'Anschluss. L'inglese Churchill, un membro dell'opposizione Tory, veniva citato da un opinionista politico sulla pagina degli editoriali, riferendosi a un discorso tenuto in parlamento alla fine di febbraio: «L'Austria è stata resa schiava, e non sappiamo se anche la Cecoslovacchia subirà un destino simile». "Be', qualcuno lo subirà." Morath toccò la ricevuta in tasca. La Golsztahn aveva bruciato le sue in una tazzina da caffè, spargendo poi le ceneri con l'estremità posteriore di una matita. Fra tutte le città, forse quella che Otto Adler amava di più era Parigi. Vi era arrivato nell'inverno del 1937, e aveva installato la sua vita - una moglie, quattro figli, due gatti e un ufficio editoriale - in una grande, vecchia casa piena di spifferi in Saint-Germain-en-Laye da dove, affacciandosi alla finestra del suo studio, poteva godere la vista di chilometri di tetti parigini. "Parigi: la migliore idea che il genere umano abbia mai avuto." «Chi la dura la vince!» diceva sua moglie. Otto Adler era cresciuto a Königsberg, la capitale della Prussia orientale, nella comunità baltica tedesca. Dall'università di Berlino era tornato marxista e aveva trascorso il decennio dai trenta ai quarant'anni diventando socialdemocratico, giornalista e indigente. «Quando sei così povero» diceva «l'unica cosa che ti resta è
fondare una rivista.» E così era nata «Die Aussicht», La Visione, che nel ristretto mondo volksdeutsch di Königsberg non si era rivelata troppo popolare. «Questo pittore fallito di cartoline illustrate di Linz distruggerà la cultura tedesca» aveva scritto di Hitler nel 1933. Due finestre sfondate come risultato, aveva imprecato sua moglie dal macellaio, e presto un grande, vecchio appartamento pieno di spifferi a Vienna. A Vienna, Otto Adler si era trovato molto meglio. «Otto, caro, credo che tu sia nato per essere un viennese» aveva osservato sua moglie. Otto aveva un volto rotondo, glabro e roseo e un sorriso radioso; augurava al mondo ogni bene, era una di quelle persone generose che possono essere benevole e infuriate nello stesso momento, e per di più ridere di se stesse. In qualche modo aveva continuato a pubblicare la sua rivista. «Probabilmente dovremmo chiamarla "Il Bue" per come arranca con qualsiasi tempaccio.» E col passare del tempo, un po' di denaro viennese - proveniente da banchieri progressisti, uomini d'affari ebrei, dirigenti sindacali - aveva cominciato ad arrivargli. Grazie all'accresciuta credibilità de «Die Aussicht», Adler era riuscito a ottenere un articolo da una delle divinità della cultura letteraria tedesca, Karl Kraus, il feroce, brillante scrittore satirico i cui discepoli lettori, studenti - erano noti come Krausianer. Nel 1937, «Die Aussicht» aveva pubblicato un breve reportage di una giornalista italiana, la moglie di un diplomatico, che aveva partecipato a una delle famigerate cene di Hermann Göring a Schorfheide, uno dei suoi rifugi di caccia. La tipica festicciola nazista, con la minestra e il pesce ma, prima che venisse servito il piatto forte, Göring si era alzato da tavola ed era rientrato con una camicia di pelle non conciata e una pelliccia d'orso sulle spalle, un costume da guerriero delle antiche tribù teutoniche. Naturalmente, ciò non gli era bastato. Göring era armato di lancia e conduceva per la stanza una coppia di pelosi bisonti incatenati fra gli strepiti degli ospiti. Ma non era ancora sufficiente. L'intrattenimento si era concluso con l'accoppiamento dei bisonti. «Una festa da ricordare» concludeva «Die Aussicht». I figli di Adler erano stati espulsi da scuola, una svastica era stata tracciata con il gesso sulla porta di casa, la domestica si era licenziata, i vicini avevano smesso di dire «Grüss Gott». Era una grande, vecchia casa piena di spifferi quella che avevano trovato a Ginevra. Ma nessuno, laggiù, era particolarmente felice. Quello che il Volksdeutsche e gli austriaci facevano con i militanti del partito, gli svizzeri lo facevano con i funzionari. In realtà nessuno si pronunciava sulla rivista; nella Svizzera democratica Adler poteva apparentemente pubblicare
tutto ciò che voleva, ma la vita era una ragnatela di norme e regole che controllavano i permessi di spedizione, il soggiorno degli stranieri e, pensava Adler, l'aria stessa che si respirava. Era sceso un discreto silenzio attorno al tavolo da pranzo quando Adler aveva informato la famiglia che avrebbe dovuto trasferirsi. «Un'avventura necessaria» aveva detto sorridendo radioso. Sotto il tavolo, sua moglie gli aveva posato una mano sul ginocchio. E così, nel dicembre del '37, Parigi Saint-Germain-en-Laye si era rivelata un classico della geografia dell'esilio, un venerabile rifugio di principi indesiderati in molte terre. C'era una grandiosa promenade in cui si poteva passeggiare per ore, perfetta per una riflessione agrodolce sulla corona, il castello o la patria perduti. Adler aveva trovato un tipografo bendisposto, aveva stabilito contatti nella comunità dei rifugiati politici liberali di lingua tedesca e si era rimesso al lavoro demolendo fascisti e bolscevichi. Era il destino del socialdemocratico, e chi era quell'uomo con l'impermeabile accanto al chiosco dei giornali? Nel frattempo, Adler si era innamorato dei giardini pubblici parigini. «Qual è il pazzo che prende un treno per andare al parco?» Quello che riempie la sua valigia di libri: Schnitzler, Weininger, Mann, magari von Hoffmansthal, due penne e un panino al formaggio, si siede nel Jardin du Luxembourg e osserva i giochi della luce screziata dei platani sul vialetto di ghiaia. Pochi centesimi al vecchio drago che faceva la guardia alle sedie e potevi trascorrere il pomeriggio in un quadro. Sulle prime vi si recava con il bel tempo, poi sotto una lieve pioggerella. Era diventata la sua abitudine. Con il passare dei mesi, mentre la primavera del 1938 avanzava verso ciò che l'estate aveva in serbo, Otto Adler, intento a scarabocchiare un nuovo editoriale con la stilografica o, per un istante, a sonnecchiare, si trovava quasi sempre al parco. Il biglietto della baronessa Frei invitava il «mio carissimo Nicholas» a casa sua alle cinque del pomeriggio del 16 aprile. Morath andò in taxi fino alla fermata della metropolitana di Sèvres-Babylone e da lì proseguì a piedi fino alla Rue de Villon. Sepolta in un labirinto di strettì vicoli che intersecavano il confine fra il VI e il VII Arrondissement, era, come tutti i paradisi, maledettamente difficile da trovare. I taxisti sfogliavano le loro guide stradali e partivano per la Rue François Villon, dedicata al poeta ladro medievale e situata in un lontano quartiere arrivati nel quale sia conducente che cliente capivano immediatamente di aver sbagliato qualcosa. All'unica vera Rue de Villon
si accedeva soltanto attraverso un vicolo coperto da una volta - l'Impasse Villon - una galleria in penombra perpetua che chiedeva all'automobilista coraggioso di sfidare la fortuna. A volte ci si riusciva, a seconda del modello e dell'anno di produzione dell'auto, ed era sempre una questione di centimetri, anche se non sembrava mai che ce la si potesse fare. Il vicolo non offriva alcuna indicazione su ciò che si celava al di là; il passante casuale tendeva a fare esattamente quello, a passare, mentre il turista sicuro di sé scrutava provocatoriamente nella galleria per poi allontanarsi. Sull'altro lato, tuttavia, la luce si riversava dal paradiso su una schiera di case del Diciassettesimo secolo, protetta da una palizzata di ferro battuto, che terminava contro il muro di un giardino: dal 3 al 9 di Rue de Villon, in una sequenza la cui logica era nota soltanto a Dio e al postino. Di sera, la minuscola stradina era illuminata da lampioni a gas vittoriani che trasformavano in morbide ombre gli intrichi di un rampicante in cima al muro del giardino. Questo apparteneva al numero 3 - una vaga traccia del numero si poteva distinguere su un portone di metallo arrugginito largo quanto una carrozza - di proprietà della baronessa Lillian Frei. La baronessa non conosceva i suoi vicini, e loro non conoscevano lei. Una domestica aprì la porta e condusse Morath in giardino. Seduta al tavolo, la baronessa levò la guancia per farsi baciare. «Carissimo» disse. «Sono così felice di vederti.» Nicholas si sentì riscaldare il cuore; sorrise come un bambino di cinque anni e la baciò con gioia. Lillian Frei poteva avere una sessantina d'anni. Era china in avanti da una vita, il lato ingobbito della sua schiena ben più alto della spalla. Aveva scintillanti occhi azzurri, capelli soffici e bianchi come la neve e una radiosità solare. Al momento, come sempre, era circondata da un branco di cani viszla che Morath non era in grado di distinguere fra loro ma che, come la baronessa amava raccontare ai suoi ospiti, appartenevano a un'ampia, capricciosa, arrogante famiglia che viveva un'infinita epica romantica nel giardino e nella casa. Korto, destinato a Fina, amava Malya, la figlia che aveva avuto con l'amorosa e compianta Moselda. Naturalmente, per l'integrità della stirpe i due non potevano «stare insieme» e così, quand'era in calore, la squisita Malya veniva mandata a vivere in cucina mentre il povero Korto giaceva sulla ghiaia del giardino con il muso sulle zampe anteriori oppure si sollevava su quelle posteriori, spiando con sguardo miope dalle finestre e latrando finché la domestica non gli tirava addosso uno straccio. Ora stavano imperversando attorno alle gambe di Morath, che si chinò e
carezzò la pelle serica dei loro fianchi. «Sì» disse la baronessa «è il vostro amico Nicholas.» I viszla erano veloci. Morath ricevette un bacio umido sull'occhio senza vederlo arrivare. «Korto!» «No, no. Sono lusingato.» Il cane pestò le zampe anteriori sul terreno. «Che c'è, Korto, vuoi andare a caccia?» Morath gli arruffò il pelo del collo, facendolo mugolare di piacere. «Nella foresta?» Korto prese a sgambettare di traverso, come a dire: «Rincorrimi». «Un orso? Ti piacerebbe?» «Non scapperebbe mai» disse la baronessa. «Non è vero?» soggiunse rivolta al cane. Korto scodinzolò. Morath si rialzò e raggiunse la baronessa al tavolo. «Puro coraggio» disse lei. «E gli ultimi cinque minuti della sua vita sarebbero i più belli.» La domestica si avvicinò spingendo un carrello dalla superficie di vetro con una ruota cigolante. Posò un vassoio di pasticcini sul tavolo, versò una tazza di tè e la sistemò accanto a Morath. Impugnando le pinzette d'argento, la baronessa passò in rassegna le paste. «Vediamo...» Un rotolo soffice ripiegato su se stesso e ripieno di noci e uvette. La crosta leggermente zuccherata era ancora calda. «Allora?» «Come da Ruszwurm. Meglio.» Per quella menzogna, un benigno cenno del capo della baronessa. Sotto il tavolo, un gran numero di cani. «Dovete aspettare, cari» disse Madame Frei. Il suo sorriso era tollerante, infinitamente gentile. Nel corso di una visita a metà mattinata, Morath aveva contato venti fette di pane tostato e imburrato sul vassoio della colazione. «La settimana scorsa ero a Budapest» soggiunse lei. «Com'era?» «Tesa, direi, sotto la solita confusione. Ho visto tua madre e tua sorella.» «Come stanno?» «Bene. La figlia maggiore di Teresa potrebbe andare a scuola in Svizzera.» «Forse è la cosa migliore.» «Forse. Ti salutano. Scriverai?»
«Lo farò.» «Tua madre mi ha detto che Eva Zameny ha lasciato il marito.» Molto tempo prima, lei e Morath erano stati fidanzati. «Mi dispiace.» L'espressione della baronessa indicava che a lei non dispiaceva affatto. «Meglio così. Suo marito era un tipo spregevole. E giocava d'azzardo.» Un campanello - il tipo che viene azionato tirando una corda - suonò in casa. «Questo sarà tuo zio.» C'erano altri invitati. Le donne portavano cappelli velati, boleri e i vestiti a pois bianchi e neri che andavano per la maggiore in primavera. Ex cittadini del Regno austro-ungarico, gli invitati parlavano il dialetto austriaco con fiorettature alto tedesche, l'ungherese e il francese, passando senza sforzo alcuno da una lingua all'altra quando soltanto un'espressione molto particolare avrebbe potuto esprimere ciò che intendevano dire. Gli uomini avevano barbe e capelli ben curati e usavano acqua di colonia di qualità. Due di loro ostentavano decorazioni, uno un nastro nero e oro sotto una medaglia con la sigla Ku.K - Kaiserlich und Königlich, il segno austroungarico, Imperiale e Reale - l'altro un riconoscimento per aver combattuto nel conflitto russo-polacco del 1920. Un gruppo raffinato, educato e attento: difficile capire chi fosse ricco e chi no. Morath e Polanyi si trovavano accanto a un grande bosso in un angolo del muro di cinta, con tazze e piattini in mano. «Cristo, avrei voglia di bere qualcosa» disse Polanyi. «Più tardi potremmo andare da qualche parte.» «Temo di non potere. Ho un cocktail con i Finn e una cena con il ministro degli Esteri venezuelano, Flores, su nel XVI Arrondissement.» Morath annuì comprensivo. «No, non Flores.» Polanyi serrò le labbra, irritato dal lapsus. «Montemayor, avrei dovuto dire. Flores è finito.» «Notizie da casa?» «Nulla di buono. È come hai descritto tu negli appunti che hai preso ad Anversa. E peggio.» «Un'altra Austria?» «Non esattamente. Non siamo ein Volk, un popolo. Ma le pressioni aumentano. Sarete nostri alleati, altrimenti...» Sospirò e scosse il capo. «Il vero incubo arriva adesso, Nicholas, quello in cui il mostro viene verso di te ma tu non puoi scappare, sei immobilizzato. Penso sempre di più che
questa gente, quest'aggressione tedesca, prima o poi ci finirà. Gli austriaci ci hanno trascinati in guerra nel 1914; forse un giorno qualcuno mi spiegherà di preciso perché abbiamo dovuto farlo. E adesso si ricomincia. Nel giro di un giorno o due, i giornali annunceranno che l'Ungheria si è pronunciata a favore dell'Anschluss. In cambio, Hitler garantirà le nostre frontiere, do ut des, molto semplice.» «E tu ci credi?» «No.» Bevve un sorso di tè. «Mi correggo: "forse". Hitler è intimidito da Horthy, perché Horthy è tutto ciò che Hitler ha sempre desiderato essere. Vecchia nobiltà, aiutante di campo di Francesco Giuseppe, eroe di guerra, giocatore di polo, sposato con la crema della società. Ed entrambi dipingono. In realtà, Horthy ha resistito più a lungo di qualsiasi altro leader europeo. Conterà pure qualcosa, giusto?» Il volto di Polanyi mostrava esattamente quanto contasse. «Sicché questi disordini... verranno affrontati?» «Non sarà facile, e forse non muoveranno un dito. Ci troviamo di fronte a un'insurrezione. Fuori i conservatori, dentro i fascisti, e i progressisti au poteau.» La parola d'ordine del 1789: a morte! Morath era sorpreso. A Budapest, quando i membri delle Croci Frecciate indossavano le loro uniformi nere e si pavoneggiavano per le vie della città, la polizia li costringeva a spogliarsi e li rispediva a casa in mutande. «E la polizia? E l'esercito?» «Incerti.» «E allora?» «Se Darányi intende continuare a fare il premier, dovrà concedere qualcosa. In caso contrario scorrerà del sangue. E così, al momento ci ritroviamo a trattare. E saremo costretti, fra le altre cose, a fare dei favori.» «A chi?» «A persone importanti.» Morath se lo sentiva, e Polanyi senza dubbio voleva che lui lo sentisse. Posò la tazza e il piattino su un tavolo, infilò la mano in tasca, prese una sigaretta da una scatola di tartaruga e l'accese con un accendino d'argento. Le ultime sere d'aprile, ma nessun segno della primavera. Il maltempo imperversava sulla scalinata della metropolitana, vento e pioggia e nebbia con una punta di fumo industriale. Morath si tenne chiuso il soprabito e avanzò rasente gli edifici. Percorse una strada buia, poi un'altra, svoltò deciso a sinistra e vide un neon azzurro lampeggiante, BALALAIKA. Il por-
tiere cosacco, con una giubba di pelle di pecora e due baffi feroci, si affacciò sul vano dell'ingresso reggendo in mano un ombrello nero giunto alle ultime ore di vita nella serata ventosa. Bofonchiò buonasera con un accento russo marcato e melodrammatico. «Benvenuto al Balalaika, signore, lo spettacolo sta per cominciare.» All'interno, aria viziata; le sigarette brillavano nel buio. Sfarzose pareti rosse e una splendida guardarobiera. Morath le diede una mancia generosa e si tenne il cappotto. Anche lì gli uomini sfoggiavano le loro decorazioni. Il maître, alto più di un metro e ottanta, con una fascia a tracolla e un paio di stivaloni, aveva una medaglia di bronzo appuntata sulla casacca, guadagnata come mercenario e membro della guardia del palazzo di re Zog d'Albania. Morath andò al banco e si sedette all'estremità più lontana. Da quella posizione intravedeva il palcoscenico. Il trio gitano suonava in preda a un'agonia sentimentale, una danzatrice in pantaloni trasparenti e canottiera mostrava esattamente, sotto i riflettori azzurri, quello a cui il suo amante infedele stava rinunciando, mentre il suo compagno se ne stava in disparte, le mani giunte in un gesto di infruttuosa bramosia, e una lampadina rossa nascosta sotto i vestiti si accendeva e si spegneva a ritmo di musica. Morath ordinò una vodka polacca e quando arrivò offrì al barista una sigaretta e gliela accese. Era un uomo basso e tarchiato con occhi sottili profondamente segnati sugli angoli, forse dalle risate o dalle occhiate gettate in lontananza. Sotto la giacca rossa indossava una camicia lavata così spesso che aveva assunto la sfumatura pastello di un colore sconosciuto. «Lei è Boris?» domandò Morath. «Di quando in quando.» «Bene, Boris, io ho un amico...» Una nuvoletta d'ironia aleggiava sopra la frase, e il barista mostrò il suo apprezzamento con un sorriso. «Era nei pasticci, e ha chiesto aiuto a lei.» «Quando?» «L'anno scorso, più o meno in questo periodo. La sua ragazza aveva bisogno di un dottore.» Il barista scrollò le spalle. Migliaia di avventori, migliaia di storie. «Non posso dire di ricordarlo.» Morath lo capiva, una cattiva memoria era una buona idea. «Ora si tratta di un altro amico. Di un problema diverso.» «Sì?» «Un problema di passaporto.»
Il barista passò il suo straccio sul banco di zinco, poi si fermò e diede una bella occhiata a Morath. «Lei da dove viene, se non sono indiscreto?» «Budapest.» «Rifugiato politico?» «Non esattamente. Sono arrivato dopo la guerra. Lavoro qui.» «È stato in guerra?» «Sì.» «Dove?» «In Galizia. Per un certo periodo su in Volinia...» «E poi di nuovo in Galizia.» Il barista rise terminando la frase. «Oh sì» soggiunse. «Quel merdaio.» «C'era anche lei?» «Mmm. Probabilmente ci siamo sparati a vicenda. Poi, nell'autunno del '17, il mio reggimento se n'è andato. Un'altra vodka?» «Sì, grazie.» Il liquore trasparente raggiunse esattamente l'orlo del bicchiere. «Mi fa compagnia?» Il barista si versò una vodka e sollevò il bicchiere. «Alla cattiva mira, suppongo.» La bevve alla russa, con stile, ma scolandola fino all'ultima goccia. Gli avventori del locale si facevano sempre più audaci e dai tavolini provenivano battiti di mani sempre più sonori, alcuni accompagnati da grida ritmate. Il ballerino, accosciato sul palco con le braccia incrociate sul petto, scalciava a tempo di musica. «Passaporti» riprese il barista, improvvisamente cupo. «Si può finire nei pasticci, scherzando con quel genere di cose. Se ti prendono, qui ti mettono al fresco. Continuano a girarne, naturalmente, soprattutto fra i rifugiati, gli ebrei e gli esuli politici. Una volta che vieni cacciato dalla Germania, se non hai un visto non sei in regola da nessuna parte. Ci vuole tempo e denaro, non puoi permetterti di avere fretta. Ma ce l'hai; con il fiato della Gestapo sul collo, devi farcela a qualsiasi costo. E così fuggi clandestinamente. Ora sei un "apolide". Vai in Cecoslovacchia, o in Svizzera, ti nascondi per una settimana se conosci la pensione giusta, ma poi ti prendono e ti spediscono oltre il confine austriaco. Dopo una settimana o due di prigione, le guardie doganali ti riportano al di là della frontiera, di notte, in mezzo ai campi, e la storia ricomincia daccapo. Qui è un po' meglio. Se riesci a tenerti fuori dei guai ai flics non interessa più di tanto, a meno che non provi a lavorare.» Scosse lentamente il capo con aria afflitta.
«Come ce l'ha fatta?» «Passaporto Nansen. Abbiamo avuto fortuna. Eravamo la prima ondata, e così abbiamo ottenuto i passaporti della Società delle Nazioni, i permessi di lavoro, gli impieghi che i francesi non volevano. Era il 1920 o giù di lì. La Rivoluzione è finita, la guerra civile si sta esaurendo, ma ecco che un bel giorno arriva la Ceka: "Abbiamo saputo che eri amico di Ivanov". Sicché è ora di scappare. Poi, quando i ragazzi di Mussolini si sono messi al lavoro, sono arrivati gli italiani. Hanno avuto fortuna più o meno come noi; eri professore di fisica teorica, adesso sei un vero cameriere. Grazie a Dio sei un cameriere. Perché dal '33 cominciano ad arrivare i tedeschi. Hanno il passaporto, per la maggior parte, ma non il permesso di lavoro. Fanno gli ambulanti, aprono le loro valigette di aghi e fili lungo i viali, vendono ai turisti, fanno la fame, mendicano, se ne stanno seduti negli uffici delle organizzazioni di rifugiati. Lo stesso fanno gli spagnoli in fuga da Franco, e adesso abbiamo gli austriaci. Nessun documento, nessun permesso di lavoro, neanche un soldo.» «Questo amico, Boris, può pagare.» Il barista lo sapeva fin dall'inizio. «Lei è un investigatore, giusto?» domandò dopo qualche istante. «Con questo accento?» «Be', forse lo è e forse non lo è. In ogni caso, non sono io il suo uomo. Deve andare dove ci sono i rifugiati, al Café Madine, al Grosse Marie, in posti simili.» «Una domanda personale?» «Sono un libro aperto.» «Lei perché è fuggito?» «Perché mi rincorrevano» rispose rimettendosi a ridere. Morath attese. «Ero un poeta. E, a voler essere sinceri, anche un criminale. Non ho mai saputo se quando sono venuti a cercarmi ce l'avessero con l'uno o con l'altro.» Il Café Madine si trovava nell'XI Arrondissement, a breve distanza da Place de la République, fra un macellaio che vendeva carne halal agli arabi e carne kosher agli ebrei e un laboratorio di riparazioni di strumenti musicali chiamato Szczwerna. Al Madine era facile, forse troppo facile, prendere contatti. Morath si presentò nel tardo pomeriggio, andò al banco, ordinò una birra e cominciò a osservare il quartiere pullulante di vita. Un uomo
cercò di vendergli un anello e Nicholas lo esaminò; era venuto per comprare: che gli mostrassero un venditore. Una piccola pietra rossa incastonata nell'oro, Università di Heidelberg, 1922. «Quanto?» «Ne vale all'incirca trecento.» «Ci penserò. A dire il vero, sono qui perché un mio amico a Parigi ha perso il passaporto.» «Si rivolga alla Préfecture.» Un'occhiata da parte di Morath, "Se soltanto si potesse". «Oppure?» «Oppure niente.» Di ritorno il giorno dopo. Le dieci del mattino, deserto, silenzioso. Un raggio di sole, un gatto addormentato, il patron con gli occhiali sulla punta del naso. Preparò con calma il café au lait di Morath: bollì il latte senza far affiorare la panna, fece un caffè forte e mandò suo figlio dal panettiere a prendere del pane fresco per una tartine. Il contatto era un vecchietto dalla scorza dura che un tempo aveva fatto il mercante di legna in Ucraina, anche se questo Morath non aveva modo di saperlo. Si sfiorò il cappello e invitò Nicholas al suo tavolo. «Lei è il tizio con i problemi di passaporto?» «Un amico.» «Certo.» «Com'è il mercato, di questi tempi?» «Favorevole a chi vende, ovviamente.» «Ha bisogno di qualcosa di autentico.» «Qualcosa di autentico.» Forse, in una situazione diversa, l'avrebbe trovato abbastanza divertente da riderci sopra. Morath credeva di aver capito. Confini, documenti, nazioni: cose inventate, menzogne di politici. «Per quanto è possibile.» «Un uomo che compra il meglio.» Morath annuì. «Duemilacinquecento franchi. Forse una cifra del genere la spaventa.» «No. Per qualcosa di valido, si paga.» «Molto ragionevole, questo gentiluomo.» Il vecchio si rivolgeva a un amico invisibile. Poi disse a Morath dove andare e quando. Due giorni dopo, un venerdì pomeriggio al Louvre. Morath dovette impegnarsi per trovare la sala giusta; salire le scale qui per scenderle lì, oltrepassare il bottino di Napoleone in Egitto, superare salette di minuscoli, mi-
steriosi oggetti romani, girare un angolo e percorrere un infinito corridoio pieno di ritratti di eruditi inglesi. Finalmente, la sala con il quadro di Ingres. Un nudo luminoso, una donna seduta, la sua schiena curva e delicata. Un uomo si alzò da una panca lungo il muro, sorrise e allargò le mani in segno di benvenuto. Sapeva chi era Morath, probabilmente l'aveva osservato bene al caffè. Un gentiluomo di bell'aspetto, corpulento, con il pizzetto e un completo di tweed. Qualcosa di simile, si disse Nicholas, al proprietario di un'affermata galleria d'arte. Sembrava avere un collega, in piedi sul lato opposto della sala e intento a fissare un dipinto con le mani giunte dietro la schiena. Morath li vide scambiarsi un'occhiata. Bianco come il gesso, quel secondo uomo, come se fosse privo di una barba che aveva sempre avuto. Portava una lobbia nera sistemata ad angolo retto sul cranio rasato. L'uomo che somigliava a un mercante d'arte si sedette accanto a Morath sulla panca di legno. «Mi dicono che sta cercando un documento della migliore qualità» esordì. Parlava francese come un tedesco istruito. «È così.» «Apparterrà a un morto.» «Va bene.» «Lo sta acquistando dalla famiglia del defunto, naturalmente, che chiede duemilacinquecento franchi. Per il nostro lavoro, il cambio di identità, sono altri mille franchi. Siamo d'accordo?» «Sì.» Il mercante d'arte aprì un giornale, rivelando il resoconto di un incontro di polo al Bois de Boulogne e un passaporto in una cartella di cartoncino. «La famiglia desidera vendere immediatamente. Il passaporto è rumeno, ed è valido ancora per diciassette mesi.» Il volto sulla fotografia formato tessera era quello di un uomo di mezz'età, formale, soddisfatto di sé, con due baffi scuri attentamente curati. Appena sotto, il nome: Andreas Panea. «La pagherò subito, se vuole.» «Metà subito. L'altra metà quando le consegneremo il prodotto finito. La sua foto andrà al posto di quella del defunto, la scritta in rilievo sulla foto viene fornita dal tecnico. Le descrizioni fisiche vengono eliminate e sostituite con le sue. L'unica cosa che non può essere cambiata è il luogo di nascita, che è sul timbro. Sicché il titolare del documento avrà questo nome, sarà di nazionalità rumena e sarà nato a Cluj.» «Che cosa gli è capitato?» Il mercante d'arte fissò Morath per un istante. "Perché vuole saperlo?"
«Niente di drammatico» rispose quindi. E un attimo dopo: «Non gli importava più di vivere. È alquanto comune». «Ecco la fotografia» disse Nicholas. Il mercante d'arte rimase leggermente sorpreso. Non era Morath. Un uomo sulla ventina, un volto duro e ossuto reso ancora più severo da un paio di occhiali con la montatura in acciaio e dai capelli resi scialbi dal taglio e appiattiti dalla spazzola. Uno studente, forse. Nella migliore delle ipotesi. Promosso dai suoi professori, che avesse frequentato le lezioni oppure no. Il mercante d'arte girò la foto. Un timbro sul retro riportava il nome del laboratorio fotografico, in serbo-croato, e la parola ZAGABRIA. Il mercante d'arte fece un cenno all'amico, che si unì a loro sulla panca, prese la fotografia e la studiò per un lungo minuto, poi disse qualcosa in yiddish. Normalmente Morath, che parlava bene il tedesco, ne avrebbe colto il senso, ma quelle erano parole in gergo, pronunciate rapidamente e in tono sarcastico. Il mercante d'arte annuì e quasi sorrise. «Il titolare può lavorare?» domandò Morath. «In Romania, non qui. Qui potrebbe fare domanda, ma...» «E se venisse fatto un controllo presso le autorità rumene?» «Perché dovrebbe?» Morath non rispose. L'uomo con la lobbia estrasse di tasca un mozzicone di matita e fece una domanda, di nuovo in yiddish. «Vuole sapere quant'è alto e quanto pesa.» Morath gli comunicò i dati: esile, più basso della media. «Occhi?» «Grigi. Capelli biondi.» «Segni particolari?» «Nessuno.» «Professione?» «Studente.» La fotografia venne riposta. Il mercante d'arte girò la pagina del giornale a rivelare una busta. «La porti nel gabinetto in fondo al corridoio. Vi infili millesettecentocinquanta franchi, si metta il giornale sottobraccio ed esca dal museo. Usi l'uscita di Rue de l'amiral De Coligny. Si fermi sul primo gradino e aspetti qualche minuto. Poi, domani a mezzogiorno, ci ritorni. Vedrà una persona che riconoscerà, la seguirà e lo scambio verrà effettuato in un luogo in cui potrà dare una bella occhiata a ciò che sta acquistando.»
Morath fece come gli avevano detto. Mise i franchi nella busta, poi attese all'ingresso. Dieci minuti dopo, una donna agitò la mano in segno di saluto e gli si avvicinò con un sorriso, trotterellando sulla scalinata del museo. Era benvestita, portava orecchini di perle e guanti bianchi. Lo baciò delicatamente sulla guancia, gli sfilò il giornale da sotto il braccio e si allontanò a bordo di un taxi in attesa. La sera prima della partenza. Era diventata una sorta di tradizione per Nicky e Cara, una serata da Kamasutra. Addio mio amore, qualcosa da ricordare. Se ne stavano seduti in camera a lume di candela e scolavano una bottiglia di vino. Cara indossava biancheria intima nera, Morath una vestaglia. A volte ascoltavano dischi - Nicholas ne possedeva di due tipi, Ellington e Lee Wiley - o les beeg bands alla radio. Una sera erano andati a Pigalle, dove Cara aveva aspettato nel taxi mentre Morath. acquistava dei libri illustrati. Poi erano tornati di gran fretta in Avenue de la Bourdonnais e avevano guardato le fotografie. Coppie virate seppia, terzetti, quartetti, donne massicce dai fianchi larghi e dai sorrisi dolci, il libro stampato a Sofia. Cara lo provocava, a volte, con i suoi racconti della Scuola Conventuale. Aveva trascorso tre anni in un luogo simile, in una grandiosa tenuta alle porte di Buenos Aires. «Era esattamente come puoi immaginare, Nicky» diceva, ansimando leggermente e sgranando gli occhi. «Tutte queste fanciulle, bellezze di ogni tipo. Brune. Bionde. Appassionate, timide, alcune così ingenue da non sapere nulla, nemmeno cosa toccare. E di notte erano chiuse tutte insieme. Prova a immaginare!» Lui lo faceva. Ma più prossimi alla verità, sospettava, erano i ricordi diurni di «mani fredde e piedi puzzolenti» e delle diaboliche suore che le costringevano a imparare, fra le altre cose, il francese. Era l'unica lingua che lei e Morath avevano in comune, ma Cara non poteva perdonare. «Dio, come ci terrorizzavano» raccontava. Batteva le mani - come apparentemente faceva la suora insegnante - e cantilenava: «Traduction, les jeunes filles!». Il giorno successivo si trovavano a fronteggiare un impenetrabile orrore, un mostro della grammatica, con soli cinque minuti per tradurlo. «Ricordo un giorno» gli aveva raccontato Cara «chi era? Sorella Modeste. Scrisse sulla lavagna: E SE NON SI FOSSERO MAI INCONTRATI, LAGGIÙ?» Era scoppiata a ridere, rammentando quel momento. «Panico! Se joindre, un verbo omicida. In spagnolo è molto più semplice. E la mia
amica Elena, dopo che la sorella ebbe scritto la risposta, si sporse verso il mio banco e bisbigliò: "Quanto sono lieta di sapere come si dice!".» Morath versò l'ultimo goccio di vino; Cara scolò il suo bicchiere, lo posò sul pavimento e si attorcigliò intorno a lui. Nicholas la baciò, allungò la mano e le slacciò il reggiseno; lei scrollò le spalle e lo gettò su una sedia. Qualche istante dopo, lui agganciò con un dito l'elastico delle sue mutandine e gliele abbassò, lentamente e con grazia, finché lei si mise sulla punta dei piedi per consentirgli di toglierle. Poi, per qualche istante, giacquero immobili. Lei gli prese la mano e se la posò sul petto impedendogli di muoversi, come se ciò fosse sufficiente e non ci fosse bisogno di andare oltre. Morath si chiese cosa sarebbe stato bello fare, aggirandosi mentalmente fra il repertorio. Anche lei stava pensando a quello? O a qualcos'altro? Lui mi ama? Morath aprì gli occhi e vide che stava sorridendo. Cose piacevoli a cui pensare la mattina, alla deriva nel gelo del mondo. Cara non si era svegliata quand'era uscito; dormiva a bocca aperta, una mano intrappolata sotto il guanciale. In qualche modo, guardandola, lui capiva che la sera prima aveva fatto l'amore. Si stava quasi appisolando mentre il treno lasciava le strade deserte e attraversava le campagne. Le sue tette, il suo sedere che lo guardavano dal basso, dall'alto, mentre scopavano. Lei sussurrava qualcosa fra sé. Lui non riusciva mai a capire veramente cosa dicesse. Era un treno molto lento, ed era partito all'alba. Arrancava verso est come se in realtà non ci volesse arrivare. Avrebbe attraversato Metz e Saarbrùcken e avrebbe proseguito per Wùrzburg, dove i passeggeri avrebbero potuto cambiare per Praga con coincidenze per Brno, Košice e Uzgorod. La Francia orientale, una stagione sperduta, né inverno né primavera. Il cielo era basso e greve, il vento più freddo di quanto avrebbe dovuto essere, il treno sferragliava senza sosta attraverso campi sterili e infestati dalle erbacce. Un tempo era stata una campagna gradevole, piccole fattorie e villaggi. Poi era arrivato il 1914 e la guerra l'aveva trasformata in fango grigio. Non sarebbe mai veramente guarita, dicevano. Qualche anno prima, quando la neve si era sciolta, un contadino era incappato in quella che un tempo, evi-
dentemente, era stata una trincea, in cui una squadra di soldati francesi diretta in battaglia era stata improvvisamente sepolta dall'esplosione di un enorme proiettile d'artiglieria. Anni dopo, al disgelo primaverile, il contadino aveva visto una dozzina di punte di baionetta spuntare dalla terra, ancora nell'ordine di marcia. Morath si accese una sigaretta e riprese a leggere La terra dei Chazari di Nicholas Bartha, pubblicato in ungherese nel 1901. Il capofamiglia adulto non deve essere disturbato nei suoi affari privati. Che cos'è un ruteno al suo confronto? Soltanto un contadino. La stagione di caccia dura due settimane. Per questo passatempo, settantamila ruteni sono condannati a fare la fame dall'esercito dei pubblici funzionari. I cervi e i cinghiali distruggono il frumento, le patate e il trifoglio del ruteno (tutto il raccolto del suo minuscolo mezzo acro di terra). L'intero lavoro di un anno è rovinato. L'uomo semina e i cervi della tenuta mietono. È facile dire che il contadino dovrebbe protestare. Ma dove e con chi? Coloro che detengono il potere, lui li vede sempre insieme. Il capo del villaggio, il vicesceriffo, lo sceriffo, il giudice distrettuale, l'ufficiale delle tasse, il guardaboschi, il castaido e il fattore, sono tutti uomini con la medesima formazione, con i medesimi svaghi sociali e con i medesimi valori. Da chi potrebbe sperare di ottenere giustizia? Quando Morath aveva saputo che si sarebbe recato in Rutenia, aveva preso in prestito il libro dall'enorme biblioteca della baronessa Frei, acquistata dal barone dalle istituzioni ungheresi che dopo il 1918 si erano ritrovate entro i confini di altri paesi. «Salvati dalle fiamme» diceva. Nicholas sorrise al ricordo del barone. Un uomo basso e grasso con i favoriti che Morath non aveva mai davvero capito quanto avesse guadagnato con i suoi «intrighi». Per il suo sedicesimo compleanno, il barone l'aveva portato a fare una «passeggiata educativa» al casinò di Montecarlo. Gli aveva regalato un paio di gemelli di diamanti e una bionda cadaverica. Seduto accanto al barone al tavolo del chemin de fer, Morath l'aveva visto compilare, alle quattro del mattino, un assegno con un allarmante numero di zeri. Pallido ma sorridente, il barone si era alzato, si era acceso un sigaro, gli aveva ammiccato e si era allontanato verso la scalinata di mar-
mo. Dieci minuti dopo, un fonctionnaire in abito scuro si era avvicinato titubante a Morath, si era schiarito la gola e aveva annunciato: «Il barone Frei è uscito in giardino». Nicholas aveva esitato, poi si era alzato ed era uscito nel parco del casinò, dove il barone era stato sorpreso a orinare su un rosaio. Dieci anni dopo sarebbe morto di una malattia tropicale contratta nelle giungle del Brasile, dov'era andato ad acquistare diamanti per uso industriale. Morath alzò gli occhi sulla rete portabagagli sopra il sedile, sincerandosi della presenza della sua borsa di pelle. All'interno, il passaporto che aveva ricevuto al Louvre, cucito nella fodera di una giacca di lana. Pavlo era il nome con cui Polanyi chiamava il destinatario, un uomo che diceva di non conoscere. "Lo studente." Che si era ritrovato nella città di Uzgorod e non era in grado di uscirne. «Un favore per un amico» aveva detto Polanyi. A metà pomeriggio, il treno rallentò per passare i ponti sulla Mosella ed entrare nella stazione di Metz, i cui edifici erano anneriti dalla fuliggine degli stabilimenti. La maggior parte dei compagni di viaggio di Morath scese; in quel momento non erano in molti ad avventurarsi in Germania. Nicholas fece due passi sulla banchina e comprò un giornale. All'alba il treno si fermò alla frontiera francese. Nessun problema per Morath, ufficialmente un résident francese. Due ore dopo, il convoglio varcò la frontiera a Saarbrücken. L'ufficiale che bussò alla porta dello scompartimento di Nicholas fu lieto di vedere il passaporto ungherese. «Benvenuto nel Reich» disse. «So che la sua visita la soddisferà.» Morath lo ringraziò educatamente, poi cercò di coricarsi. La stazione doganale era illuminata da proiettori di un bianco accecante: filo di ferro teso fra montanti, ufficiali, sentinelle, mitragliatrici, cani. Questo è per voi, diceva, e Morath non gradiva. Gli ricordava un modo di dire ungherese: «Un uomo non dovrebbe mai entrare volontariamente in una stanza o in un paese la cui porta non si possa aprire dall'interno». A un certo punto venne raggiunto da due ufficiali delle SS e trascorse la serata a bere cognac e a parlare della vecchia Europa, della nuova Germania e di come portarsi a letto le ungheresi. I due giovani ufficiali - intellettuali politici che avevano fatto l'università a Ulm - si divertirono un mondo. Chiacchierarono e risero, si pulirono gli occhiali, si ubriacarono e si addormentarono. Morath fu sollevato quando arrivarono a Wùrzburg, dove trascorse la notte nell'albergo delle ferrovie e ripartì per Praga il mattino successivo.
La polizia di frontiera ceca fu meno lieta di vederlo. L'Ungheria gestiva reti spionistiche in diverse città, e i cechi lo sapevano. «Quanto a lungo» gli domandò la guardia doganale «prevede di fermarsi in Cecoslovacchia?» «Qualche giorno.» «Scopo del suo viaggio?» «Acquistare terreni boschivi, se possibile, per conto di un gruppo di investitori parigini.» «Terreni boschivi.» «In Rutenia, signore.» «Ah, naturalmente. Ed è diretto a...?» «Uzgorod.» La guardia assentì, picchiettando con la punta di una matita sul passaporto di Morath. «Le concederò un visto di una settimana. Se ha bisogno di prolungarlo, la prego di rivolgersi alla prefettura di Uzgorod.» Mangiò un terribile Blutwurst nella carrozza ristorante, terminò la lettura del Bartha e riuscì a comprare una copia di «EST», l'edizione della sera giunta da Budapest, al bar della stazione di Brno. La scena politica si stava evidentemente surriscaldando. Due membri del parlamento erano venuti alle mani. A una manifestazione operaia nel Decimo Distretto erano stati lanciati dei mattoni e arrestati dei dimostranti. «Al Direttore. Come possiamo permettere che queste donnicciole progressiste governino le nostre vite?» Un editoriale invocava «forza, decisione, fermezza di propositi. Il mondo sta cambiando, l'Ungheria deve cambiare con lui». Un caffè nei pressi dell'università era bruciato. IN DECINE DI MIGLIAIA APPLAUDONO HITLER A REGENSBURG. Con fotografia, in prima pagina. "Stanno arrivando" pensò Morath. Fuori del finestrino, uno strano paesaggio rurale. Colline basse, foreste di pini. Fiumi improvvisi in piena primaverile, il rumore della locomotiva che cresceva attraversando una gola. Alla stazione della cittadina di Zvolen, il treno si trovava a metà strada fra Varsavia a nord e Budapest a sud. Prossima fermata Kosice, città di frontiera prima del 1918. Sulla banchina donne con cesti di paglia, le teste coperte da fazzoletti neri. Il treno risalì campi chiazzati di neve, giunse a un villaggio con chiese dai tetti a cupola verde acido. Nella foschia del tardo pomeriggio, Morath poteva scorgere i Carpazi all'orizzonte. Un'ora dopo scese a Uzgorod.
Il capostazione gli disse che in Via Krolevska c'era un posto in cui avrebbe potuto pernottare. Si rivelò un edificio di mattoni gialli con un'insegna che diceva HOTEL. Il proprietario aveva un occhio bianco, un sudicio panciotto di seta e uno yarmulke di maglia. «La nostra camera migliore» disse. «La più bella.» Morath si sedette sul materasso di paglia, staccò l'impuntura della fodera della giacca di lana e ne sfilò il passaporto. "Andreas Panea." Nel tardo pomeriggio andò a piedi all'ufficio postale. Gli impiegati delle poste ceche indossavano uniformi azzurre. Su una busta aveva scritto MALKO, FERMOPOSTA, UZGOROD. All'interno un biglietto privo di significato (una sorella era stata poco bene, ma ora stava meglio). Il vero messaggio era l'indirizzo del mittente. Lo stesso di «Malko», ma con un nome diverso. Ora, aspettare. Disteso sul letto, Morath fissava fuori della finestra appannata. La stanza migliore aveva una strana angolazione: il basso soffitto di assi di legno, imbiancato molto tempo prima, si allungava in una direzione e poi nell'altra. Quando Morath si alzava, il soffitto gli arrivava a pochi centimetri dalla testa. In strada, il suono regolare degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli. La Rutenia. Oppure, affettuosamente, la Piccola Russia. Oppure, tecnicamente, l'Ucraina subcarpatica. Un bocconcino slavo rosicchiato dai re ungheresi medievali, e da allora una terra perduta nell'angolo nordorientale del paese. Poi, dopo la Grande Guerra, in una rara occasione in cui l'idealismo americano aveva lavorato in stretta collaborazione con la diplomazia francese - in quella che il conte Polanyi definiva una «spaventosa convergenza» - era stata appiccicata alla Slovacchia e consegnata ai cechi. Da qualche parte, immaginava Morath, in una stanzetta del ministero della Cultura un burocrate moravo era al lavoro su una canzone. «Vecchia allegra Rutenia/Terra che amiamo così tanto.» A cena, il proprietario dell'albergo e sua moglie gli servirono piedino di vitello in gelatina, grano saraceno con funghi, formaggio bianco con scalogno e frittelle con marmellata di ribes. Sul tavolo di assi di legno campeggiava una bottiglia di acquavite di ciliegie. Il proprietario si sfregava nervoso le mani. «Molto buono» disse Morath, fingendo di pulirsi la bocca con il tovagliolo - di sicuro un tempo era stato un tovagliolo - e scostando la sedia dal tavolo. Il complimento era sincero, tuttavia, e il proprietario se ne accorse.
«Un altro blini, signore? Ahh, Pannkuchen? Crêpe? Blintz?» «No, grazie.» Morath pagò la cena e rientrò in camera. Coricato al buio, poteva percepire la campagna. Annessa all'albergo c'era una stalla, e a volte i cavalli nitrivano e si muovevano nei loro box. L'aroma, letame e paglia marcia, saliva fino alla sua stanza. Alla fine di aprile faceva ancora freddo. Morath si avvolse nella logora coperta e cercò di dormire. Fuori, in Via Krolevska, qualcuno si stava ubriacando in una taverna. Dapprima vi furono dei canti, poi una discussione e infine la rissa. Poi la polizia, e una donna che piangeva e implorava mentre il suo compagno veniva trascinato via. Due giorni dopo, una lettera all'ufficio postale. Un indirizzo alla periferia di Uzgorod. Morath dovette prendere un droshky. Percorse strade di terra battuta fiancheggiate da case di tronchi d'albero a un piano, ciascuna con una sola finestra e un tetto di paglia. Quando bussò alla porta, venne ad aprire una donna. Era scura, con capelli neri e ricci, portava un rossetto cremisi e un vestito sottile e aderente. Forse una rumena, si disse Morath, o una zingara. Gli fece una domanda in una lingua che lui non riconobbe. Nicholas provò con il tedesco. «C'è Pavlo?» Lei lo aspettava, Morath se ne accorse; ora che era arrivato era curiosa, lo studiava attentamente. Morath udì sbattere una porta all'interno della casa, poi la voce di un uomo. La donna si fece da parte e Pavlo giunse all'ingresso. Era uno di quegli individui che somigliano molto alle loro fotografie. «Lei è quello che viene da Parigi?» La domanda venne formulata in tedesco. Non un buon tedesco, ma funzionale. «Sì.» «Se la sono presa comoda, a farla arrivare.» «Ah sì? Be', ora ci sono.» Gli occhi di Pavlo perlustrarono la strada. «Forse è meglio che entri.» La stanza era stipata di mobili, grosse poltrone e divani ricoperti di una varietà di fantasie e tessuti, gran parte dei quali rossi, alcuni di ottima qualità, altri no. Morath contò cinque specchi diversi sui muri. La donna si rivolse sottovoce a Pavlo e gettò un'occhiata a Morath, poi uscì dalla stanza e chiuse la porta. «Sta preparando la valigia» disse Pavlo. «Viene con noi?» «Lei crede di sì.» Morath non mostrò alcuna reazione.
Pavlo lo prese come un segno di disapprovazione. «La provi lei» disse con una punta di asprezza «la vita senza passaporto.» Una pausa, poi: «Ha del denaro per me?». Morath esitò. Forse qualcuno avrebbe dovuto fornire del denaro a Pavlo, ma quel qualcuno non era lui. «Posso darle qualcosa» disse «fino al nostro arrivo a Parigi.» Non era la risposta che Pavlo avrebbe voluto sentire, ma non poteva certo discutere. Aveva forse qualche anno in più di quelli che gli aveva dato Morath, intorno ai ventotto. Indossava un abito blu macchiato, una cravatta vistosa e scarpe consumate dall'uso. Morath contò mille franchi. «Questi dovrebbero far fronte alle sue spese» disse. Avrebbero fatto ben più di quello, ma Pavlo non sembrò notarlo. Si mise ottocento franchi in tasca e si guardò intorno nella stanza. Sotto un luccicante vaso acquamarina pieno di tulipani di raso c'era un centrino di carta. Pavlo vi infilò i duecento franchi in modo che i bordi fossero appena visibili. «Ecco il passaporto» disse Morath. Pavlo lo squadrò con attenzione, reggendolo alla luce, studiando la fotografia con gli occhi socchiusi e facendo passare un dito sulle lettere in rilievo lungo il bordo. «Perché rumeno?» domandò. «È quello che sono riuscito a trovare.» «Ah. Ma io non lo parlo. Sono croato.» «Non sarà un problema. Passeremo dal confine ungherese. A Michal'an. Ha un altro passaporto? Non penso che dovremo preoccuparcene, ma...» «No. Me ne sono dovuto sbarazzare.» Pavlo uscì dalla stanza. Morath lo sentì rivolgersi alla donna. Quando ricomparve, portava una cartella da lavoro. Dietro di lui, la donna reggeva una dozzinale valigia con entrambe le mani. Si era messa un cappello e un soprabito con uno spelacchiato bavero di pelliccia. Pavlo le sussurrò qualcosa e la baciò sulla fronte. Lei guardò Nicholas con espressione sospettosa ma piena di speranza e si sedette sul divano, la valigia fra le gambe. «Usciamo per un'oretta» disse Pavlo a Morath. «Torneremo.» Morath non voleva essere coinvolto. Pavlo chiuse la porta. Giunto in strada, fece un gran sorriso e alzò gli occhi al cielo. Camminarono a lungo prima di trovare un droshky. Morath diede indi-
cazioni al cocchiere e, arrivati all'albergo, Pavlo attese in camera mentre Nicholas andava a parlare con il proprietario, chino su un registro contabile in un minuscolo ufficio dietro la cucina. «Conosce un autista con una macchina?» chiese contando le corone ceche con cui pagare l'uomo. «Il più presto possibile; farò in modo che ne valga la pena.» Il proprietario rifletté. «Siete diretti a una certa distanza da qui?» s'informò con delicatezza. Intendeva dire «al confine». «Sì.» «Come lei sa, abbiamo la fortuna di avere molti vicini.» Morath annuì. Ungheria, Polonia, Romania e l'Ucraina sovietica. «Noi andiamo in Ungheria.» Il proprietario rifletté. «A dire il vero, conosco qualcuno. È un polacco, un tipo riservato. Proprio quello che desidera, eh?» «Il più presto possibile» ripeté Morath. «Aspetteremo in camera, se per lei non è un problema.» Non sapeva chi stava cercando Pavlo né perché, ma le stazioni ferroviarie erano sempre sorvegliate. Da Uzgorod era meglio andarsene alla chetichella. L'autista arrivò nel tardo pomeriggio, disse di chiamarsi Mierczak e diede a Morath una mano dura come l'acciaio temperato. Nicholas percepì un forte amore per la vita domestica. «Sono il meccanico del mulino da grano» disse Mierczak. «Ma faccio anche altri lavoretti. Sa com'è.» Era un uomo senza età, con un'attaccatura alta dei capelli, un sorriso gioviale e una giacca inglese da caccia pied-de-poul giunta chissà come e quando a quelle latitudini. Morath tradì la sua autentica sorpresa nel vedere l'auto. Se chiudevi un occhio non sembrava molto diversa dalle Ford europee degli anni Trenta, ma un secondo sguardo ti faceva capire che non era affatto una Ford e un terzo che non era un bel niente. Aveva perduto, per esempio, il suo colore. Ciò che restava era un'indistinta sfumatura ferrosa, che diventava più chiara o più scura a seconda della parte che si osservava. Mierczak rise, scuotendo la portiera di destra fino ad aprirla. «Gran bella macchina» disse. «Non è un problema, vero?» «No» rispose Morath. Prese posto sulla coperta da cavallo che molto tempo prima aveva rimpiazzato i rivestimenti dei sedili. Pavlo si sedette dietro. L'auto si avviò senza problemi e si allontanò dall'albergo. «A dire il vero» spiegò Mierczak «non è mia. Be', lo è in parte. È il taxi
di Mukachevo; il più delle volte lo tiene il cugino di mia moglie che lo guida quando non lavora al negozio.» «Che cos'è?» «Che cos'è?» ripeté Mierczak. «In parte è una Tatra, costruita a Nesselsdorf. Dopo la guerra, quando è diventata una città cecoslovacca. Tipo Due, l'hanno chiamata. Che nome, eh? Ma l'ha deciso la casa. Poi è bruciata. La macchina, dico. Anche se, ora che ci penso, è bruciata anche la fabbrica, ma più tardi. Poi è diventata una Wartburg. A quei tempi avevamo un'officina meccanica a Mukachevo, e qualcuno dopo la guerra aveva abbandonato una Wartburg in un fosso, così è rinata nella Tatra. Ma - al momento non ci avevamo pensato - era una vecchia Wartburg. Non riuscivamo a trovare i pezzi di ricambio. Non li facevano più, o non ce li mandavano, o chissà cosa. E così è diventata una Skoda.» Premette il pedale della frizione e diede gas. «Vedete? Skoda, come la mitragliatrice.» L'auto aveva percorso la parte acciottolata di Uzgorod ed era giunta sulla terra battuta. «Signori» soggiunse Mierczak. «A sentire il locandiere stiamo andando in Ungheria. Ma vi devo chiedere se avevate in mente una destinazione particolare. O forse è soltanto "Ungheria". Se è così capisco perfettamente, credetemi.» «Possiamo andare a Michal'an?» «Sì, possiamo. Di regola, è un posto tranquillo.» Morath attese. «Ma...?» «Ma Záhony è ancora più tranquillo.» «A Záhony, allora.» Mierczak assentì. Qualche minuto dopo svoltò bruscamente in una strada di campagna e scalò in seconda. Sembrò che avesse colpito una vasca da bagno con una sbarra di ferro. Per qualche tempo sobbalzarono a una trentina di chilometri orari, finché dovettero rallentare per superare un carro trainato da un cavallo. «Com'è la situazione laggiù?» «A Záhony?» «Sì.» «La solita. Una piccola dogana. Una guardia, se è sveglia. Non c'è traffico, praticamente. Di questi tempi, la maggior parte della gente resta al suo posto.» «Immagino che da lì potremo salire su un treno. Per Debrecen, suppongo, dove potremo prendere l'espresso.» Pavlo sferrò un calcio allo schienale del sedile. Sulle prime, Morath non
riuscì a capacitarsi che l'avesse fatto. Fu quasi sul punto di voltarsi e dire qualcosa, ma non lo fece. «Sono sicuro che da Záhony c'è un treno» rispose Mierczak. Procedevano verso sud nelle ultime luci del giorno, mentre il pomeriggio si scoloriva in un lungo, languido crepuscolo. Guardando fuori del finestrino, Morath ebbe l'improvvisa sensazione di essere a casa, di sapere dove si trovava. Il cielo era invaso da lacerti di nubi tinti di rosso dal tramonto sulle colline pedemontane dei Carpazi, e dalla stradina si allungavano i campi deserti i cui confini erano segnati da filari di pioppi e betulle. Il terreno diventava una prateria incolta sulla quale l'erba invernale sibilava e ondeggiava al vento della sera. Era un paesaggio bellissimo e sperduto. "Queste valli beate e intrise di sangue" si disse Morath. Un minuscolo villaggio, poi un altro. Era sceso il buio, le nubi coprivano la luna e una nebbiolina primaverile sorgeva dai fiumi. A metà di una curva lunga e pigra videro il ponte sul Tisza e la stazione doganale di Záhony. «Fermo!» gridò Pavlo. Mierczak calò il piede sul freno mentre Pavlo si sporgeva oltre il sedile, premeva un tasto e spegneva i fari. «La cagna» disse con voce contratta dalla rabbia. Ansimava, e Morath udiva il suo respiro. In lontananza si scorgevano due camion color cachi, i cui fari illuminavano la nebbia che saliva dal fiume e numerose sagome in movimento, forse soldati. Nell'auto c'era un gran silenzio mentre il motore sferragliava e nell'aria aleggiava un forte odore di benzina. «Come fa a essere sicuro che è stata lei?» chiese Morath. Pavlo non rispose. «Forse sono lì per caso» disse Mierczak. «No» fece Pavlo. Per qualche istante osservarono i camion e i soldati. «È colpa mia. Sapevo cosa fare, ma non l'ho fatto.» Morath pensò che la cosa migliore fosse proseguire verso sud fino a Berezhevo, prendere una stanza per un giorno o due e poi entrare in treno in Ungheria. O forse, ancora meglio, andare a ovest nella regione slovacca lontani dalla Rutenia, terra di troppi confini - e prendere il treno da lì. «Credete che abbiano visto i nostri fari?» domandò Mierczak. Deglutì una volta, poi un'altra. «Faccia manovra e riparta» disse Pavlo. Mierczak esitò. Non aveva fatto niente di male, ma se fosse fuggito le cose sarebbero cambiate.
«Subito» insistette Pavlo. Con riluttanza, Mierczak inserì la retromarcia e girò l'auto. Fece qualche centinaio di metri a fari spenti, poi li riaccese. Pavlo controllò dal lunotto posteriore finché la stazione doganale scomparve dietro la curva. «Non si muovono» disse. «Quanto dista Berezhevo?» chiese Morath. «Forse la cosa migliore a questo punto è prendere il treno.» «Un'ora. Un po' di più con il buio.» «Non ci salgo, su un treno» disse Pavlo. «Se i documenti non funzionano, sei in trappola.» "Resta qui, allora." «Non c'è altro modo di varcare il confine?» domandò Pavlo. Mierczak ci rifletté. «C'è un ponte pedonale alle porte di Vezlovo. A volte viene usato di notte.» «Da chi?» «Da certe famiglie, per evitare le tasse d'importazione. Soprattutto sigarette e vodka.» Pavlo lo fissò, non credendo alle proprie orecchie. «E allora perché non ci ha portati subito lì?» «Non glielo abbiamo chiesto» rispose Morath. Malgrado l'aria fresca della sera, Pavlo stava sudando. Nicholas Morath ne sentiva l'odore. «Dovrete attraversare una foresta» osservò Mierczak. Morath sospirò. Non era sicuro di cosa voleva fare. «Se non altro possiamo darci un'occhiata» disse. "Forse i camion erano lì per caso." Indossava un maglione, una giacca di tweed e pantaloni di flanella; era vestito per un albergo di campagna e un treno. Ora sarebbe stato costretto a strisciare nei boschi. Proseguirono in auto per un'ora. La luna sorse nel cielo. Sulla strada non c'erano altre macchine. La terra, campi e prati, era scura e deserta. Finalmente giunsero a un villaggio, una dozzina di case di tronchi d'albero sul ciglio della strada, finestre illuminate da lumi a petrolio. Qualche stalla e granaio. I cani abbaiarono al loro passaggio. «Non è molto lontano» disse Mierczak, scrutando la notte con gli occhi socchiusi. I fari dell'auto producevano un bagliore opaco e ambrato. Quando la campagna divenne foresta, Mierczak fermò l'auto, scese e proseguì a piedi. Un minuto dopo ricomparve. Aveva ripreso a sorridere. «Credete pure nei miracoli» disse. «L'ho trovato.» Abbandonarono l'auto, Morath con una borsa a tracolla, Pavlo con la sua
cartella, e cominciarono a camminare. Il silenzio era immenso, rotto soltanto dal vento e dal suono dei loro passi sulla strada sterrata. «È laggiù» annunciò Mierczak. Morath guardò e vide un sentiero nel sottobosco compreso fra due faggi torreggianti. «Un chilometro circa» spiegò Mierczak. «Sentirete il fiume.» Morath aprì il portafogli e cominciò a contare banconote da cento corone. «Lei è molto generoso» disse Mierczak. «Sarebbe disposto ad aspettare qui?» gli chiese Morath. «Una quarantina di minuti. Per ogni evenienza.» Mierczak annuì. «Buona fortuna, signori» disse, chiaramente sollevato. Non si era reso conto della situazione in cui si stava cacciando, e il denaro in tasca provava che aveva avuto ragione ad avere paura. Agitò la mano salutandoli mentre si addentravano nella foresta, lieto che se ne stessero andando. Mierczak aveva ragione, si disse Morath. Fin quasi dall'istante in cui penetrarono nella foresta poterono udire il fiume, nascosto ma non lontano. I rami spogli degli alberi gocciolavano, e sotto i loro passi il terreno era soffice e spugnoso. Camminarono per quello che sembrò un bel pezzo, e finalmente intravidero il Tisza. Il fiume era largo un centinaio di metri e in piena primaverile, denso e grigio nel buio, con pennacchi di schiuma bianca nei punti in cui la corrente si frangeva su una roccia o un ceppo. «E il ponte dov'è?» domandò Pavlo. "Questo fantomatico ponte." Morath fece un cenno con il capo indicando davanti a loro. Proseguirono per altri dieci minuti, quindi Nicholas si sedette su una radice secca ai piedi di un albero, offrì a Pavlo una sigaretta e se ne accese un'altra. Balto, si chiamavano; le aveva comprate a Uzgorod. «Vive da molto a Parigi?» domandò Pavlo. «Sì, da molto.» «Si vede.» Morath aspirò una boccata dalla sua sigaretta. «A quanto pare ha scordato come vanno le cose da queste parti.» «Tranquillo» rispose. «Presto saremo in Ungheria. Troveremo una taverna e qualcosa da mangiare.» Pavlo rise. «Non crederà che il polacco abbia aspettato, vero?» Morath consultò l'orologio. «È laggiù.»
Pavlo gli scoccò un'occhiata dolente. «Non ci resterà a lungo. Da un momento all'altro tornerà a casa da sua moglie. E sulla strada si fermerà a fare due chiacchiere con la polizia.» «Si calmi» disse Morath. «Da queste parti c'è una sola cosa che conta. E si chiama denaro.» Morath scrollò le spalle. Pavlo si alzò. «Torno subito» disse. «Cosa sta facendo?» «Pochi minuti» soggiunse da sopra la spalla. "Cristo!" Nicholas udì i suoi passi lungo il sentiero da cui erano venuti, poi il silenzio. Forse se n'era andato, nel vero senso della parola. Oppure voleva controllare Mierczak, cosa che non aveva alcun senso. "Be', per qualcuno dovrà valere qualcosa." Quando Morath era piccolo, sua madre andava a messa ogni giorno. Gli diceva spesso che tutti gli uomini erano buoni, ma che alcuni di loro avevano semplicemente smarrito la retta via. Morath fissava le cime degli alberi. La luna andava e veniva, una pallida fetta fra le nubi. Era tempo che non si trovava in una foresta. Questa era antica, probabilmente parte di una vasta proprietà. Il principe Esterhàzy possedeva trecentomila acri in Ungheria, con undicimila abitanti in diciassette villaggi. Non era così strano, da quelle parti. Il programma del nobiluomo che possedeva quei terreni era senza dubbio che i nipoti abbattessero gli alberi dal legno duro e dalla crescita lenta, soprattutto querce e faggi. In quel momento gli sovvenne che in realtà non aveva mentito all'ufficiale doganale ceco. Gli aveva detto di essere venuto per vedere dei boschi; ebbene, ora li stava vedendo. In lontananza udì due colpi, e un attimo dopo un terzo. «Bene, dovremmo muoverci» si limitò a dire Pavlo al suo ritorno. Quello che andava fatto era fatto, perché parlarne? Ripresero a camminare in silenzio e qualche minuto dopo videro il ponte. Una vecchia costruzione stretta e malferma; a circa tre metri dalla passerella, l'acqua creava profondi mulinelli attorno ai piloni. Mentre Morath lo osservava, il ponte si mosse. L'estremità più lontana si stagliava netta nel cielo - un frammento spezzato del corrimano che si allungava verso la riva ungherese del fiume. Alla luce della luna si potevano distinguere le sagome annerite del legno, dove la sezione che era stata incendiata - o fatta esplodere, o qualsiasi altra cosa vi avessero combinato - era crollata in acqua.
Morath era già talmente nauseato da ciò che aveva fatto Pavlo che non gliene importava. L'aveva visto fare in guerra, una dozzina di volte o forse più, e sempre provocava le stesse parole, mai pronunciate ad alta voce. «Inutile» era quella più importante, il resto non contava mai molto. Inutile, inutile. Come se al mondo potesse succedere qualsiasi cosa a patto che qualcuno, da qualche parte, riuscisse a vederne il senso. Una beffa alquanto lugubre, aveva pensato ai tempi. Le colonne di cavalleria che attraversavano i villaggi fumanti della Galizia mentre un ufficiale si ripeteva «inutile». «Avranno un sistema per superarlo» disse Pavlo. «Come?» «Quelli che di notte fanno la spola attraverso il confine. Avranno un sistema.» Probabilmente aveva ragione. Un'imbarcazione, un altro ponte, qualcosa. Avanzarono lentamente verso l'argine, ed erano giunti a pochi metri di distanza quando udirono la voce. Un ordine. In russo, o forse in ucraino. Morath non parlava quella lingua, ma ciò malgrado l'inflessione era chiara e fece per alzarsi. Pavlo lo afferrò per la spalla e lo costrinse a riabbassarsi fra le canne che costeggiavano la riva del fiume. «Non lo faccia» bisbigliò. La voce riprese, scimmiottando un tono cortese e lusinghiero. "Non faremmo male a una mosca." Pavlo si picchiettò l'indice sulle labbra. Morath indicò un punto alle loro spalle, la relativa sicurezza della foresta. Pavlo rifletté e annuì. Quando cominciarono a strisciare all'indietro, qualcuno sparò un colpo verso di loro. Una scintilla gialla fra gli alberi, uno scoppio che si allungò sull'acqua. Poi un grido in russo, premurosamente seguito da una traduzione ungherese sulle corde di «vaffanculo, in piedi» e da una risatina. Pavlo afferrò un sasso e lo tirò. Risposero almeno due fucili. Poi il silenzio, seguito dal rumore di qualcuno che si lanciava nel sottobosco, uno schianto, una bestemmia e un roco muggito che poteva sembrare una risata. Morath non capì da dove fosse uscita - dalla cartella? - ma una grossa rivoltella color acciaio apparve nella mano di Pavlo, che sparò un colpo in direzione del fracasso. Questo non era divertente. Questo era irragionevolmente sgarbato. Qualcuno gridò loro qualcosa, e Morath e Pavlo si appiattirono a terra mentre una scarica sibilava sopra le canne. Morath fece segno al compagno di star
fermo. Pavlo annuì. Dal buio, una sfida - «venite fuori e combattete, vigliacchi». Seguita da uno scambio di grida fra due, quindi tre voci. Tutte ubriache, crudeli e arrabbiatissime. Ma finì tutto lì. Lo sparo di Pavlo era stata una dichiarazione eloquente, aveva alterato lo stato delle cose: spiacenti, per stanotte nessuna strage gratuita. Vi fu una lunga mezz'ora di strepiti, spari e quelli che Morath immaginava fossero insulti intollerabili. Lui e Pavlo riuscirono tuttavia a sopportarli, e quando la banda se ne andò furono abbastanza furbi da aspettare l'indispensabile quarto d'ora per lo sparo finale del bandito rispedito indietro a rovinare i festeggiamenti per la vittoria. Le quattro e quaranta del mattino. La luce grigio perla. Il momento migliore per vedere senza farsi vedere. Morath, fradicio e infreddolito, udiva gli uccelli cantare sulla riva ungherese del fiume. Lui e Pavlo ne avevano risalito il corso per un'ora, inzuppati dalla nebbia fitta, alla ricerca di una barca o di un altro ponte; non avevano trovato niente ed erano tornati al punto di partenza. «Qualunque mezzo usino, l'hanno nascosto» sentenziò Pavlo. Morath ne convenne. E quello non era il mattino giusto perché due stranieri facessero ingresso in un villaggio isolato. La polizia ceca avrebbe mostrato interesse per l'omicidio di un taxista polacco, e i banditi ucraini sarebbero stati più che curiosi di scoprire chi li aveva presi a rivoltellate durante la notte. «Sa nuotare?» domandò. Molto lentamente, Pavlo scosse la testa. Morath era un ottimo nuotatore, e non sarebbe stata la prima volta che si tuffava in un fiume in piena. L'aveva fatto da ragazzo, con amici coraggiosi. Si lanciava nella corrente primaverile reggendo un ceppo, lasciandosi trasportare a valle finché riusciva a raggiungere la riva opposta. Ma in quel periodo dell'anno avevi soltanto quindici minuti di tempo. Aveva visto anche quello durante la guerra, nello Bzura e nel Dniester. Dapprima una smorfia di sofferenza per il gelo, poi un sorriso ebete, infine la morte. Morath avrebbe corso il rischio; il problema era cosa fare con Pavlo. Ciò che provava non aveva importanza; doveva portarlo dall'altra parte. "Strano, però: un bel po' di folklore su questo argomento." Un'infinita schiera di volpi e galletti e rane e tigri e preti e rabbini. Un fiume da attraversare: per quale ragione era sempre il più furbo quello che non sapeva nuotare? E lì non c'erano ceppi. Forse avrebbero potuto staccare un pezzo del corrimano bruciato, ma l'avrebbero saputo soltanto quando fossero giunti alla fine del ponte. Morath decise di abbandonare la sua borsa. Gli dispiaceva
perdere la copia del Bartha, ma avrebbe trovato il modo di rimpiazzarla. Per il resto, addio rasoio e calze e camicia. Potevano prendersela gli ucraini. Pavlo, dal canto suo, si slacciò la cintura e la fece passare nella maniglia della cartella. «Si metta il passaporto in bocca» disse Morath. «E i soldi?» «Il denaro si asciuga.» Morath strisciò bocconi sul ponte. Poteva udire l'acqua che scorreva rapida tre metri più in basso, poteva percepirla - l'aria umida e fredda che si alzava dalla corrente. Non si guardò indietro; Pavlo avrebbe trovato il coraggio di farlo oppure no. Strisciando sulle assi consumate dalle intemperie si rese conto che la sezione bruciata era molto più ampia di quanto sembrasse dalla riva. Odorava di fuoco spento, e il maglione di lambswool che Morath aveva acquistato in un negozio di Rue de la Paix - «Non quel verde, Nicky, questo verde» - era incrostato di fango e ora anche lurido di carbone. Molto prima di raggiungere l'estremità del ponte, Morath si fermò. I piloni erano bruciati, almeno in parte, lasciando stecchi neri a reggere il peso. Nicholas si rese conto che sarebbe entrato nel fiume un po' prima del previsto. Il ponte tremava e ondeggiava a ogni suo movimento; fece segno a Pavlo di restare dove si trovava e avanzò da solo. Raggiunse un punto critico, vi si aggrappò e cominciò a sentire che stava sudando nell'aria gelida. Sarebbe stato meglio tuffarsi lì? No, era una lunga traversata fino all'altra sponda. Attese che il ponte smettesse di traballare, si aggrappò con le dita al bordo dell'asse successiva e si tirò in avanti. Aspettò, tese le mani, tirò e strisciò. Posando il volto sul legno vide una coppia di aironi bianchi sul fiume che lo sorvolava sbattendo le ali. Quando giunse alla fine - o il più vicino possibile; al di là di un certo punto il legno era talmente carbonizzato che non avrebbe retto un gatto dovette concedersi un minuto per riprendere fiato. Fece cenno a Pavlo di seguirlo. Mentre lo aspettava, udì delle voci. Si voltò e vide due donne, vestite con gonne e foulard neri, che lo fissavano dalla riva del fiume. Quando Pavlo arrivò studiarono la riva opposta, distante una quarantina di metri abbondanti. Nella luce crescente del giorno, l'acqua era tinta di marrone dalla terra strappata ai torrenti di montagna. Disteso bocconi accanto a Morath, Pavlo era pallido come gesso. «Si tolga la cravatta» gli disse Morath. Pavlo esitò, quindi si slacciò il nodo con riluttanza. «Io entro per primo, lei mi segue. Stringa l'estremità della cravatta, io la
trainerò. Lei faccia del suo meglio. Scalci con i piedi, remi con il braccio libero. Ce la faremo.» Pavlo annuì. Morath abbassò gli occhi sull'acqua tre metri più in basso, scura e vorticosa. La riva opposta sembrava lontanissima, ma se non altro l'argine era basso. «Aspetti un attimo» disse Pavlo. «Sì?» Ma non c'era niente da dire; semplicemente, non voleva entrare in acqua. «Ce la faremo» disse Morath. Decise di provare a raggiungere il pilone successivo, qualcosa a cui reggersi mentre persuadeva Pavlo a tuffarsi. Si trascinò in avanti, sentì che le assi sotto di lui tremavano e si muovevano. Imprecò, udì una trave spezzarsi, si ritrovò su un fianco e precipitò. Lottò contro il vuoto, poi colpì la superficie del fiume con un urto che lo tramortì. Non era il gelo dell'acqua, a quello era preparato. Era la roccia. Liscia e scura, una sessantina di centimetri sotto la superficie. Si ritrovò a quattro zampe; non provava ancora dolore ma poteva sentirlo arrivare mentre il fiume gli ribolliva attorno. "Un guado nascosto." Il trucco più vecchio del mondo. Pavlo lo raggiunse strisciando, con la cravatta in mano, il passaporto fra i denti, gli occhiali storti e una risata sul volto. Camminarono fino a Záhony, seguendo dapprima il corso del fiume, poi una carraia che attraversava i boschi e diventava una vera e propria strada. Impiegarono l'intera mattinata, ma non se ne curarono. Pavlo era lieto di non essere annegato, e i suoi soldi non erano troppo fradici. Staccò le banconote appiccicate, austriache, ceche e francesi, soffiò delicatamente su re e santi assortiti e infine le ripose nella cartella. Morath si era fatto male al polso e al ginocchio, ma non gravemente come aveva temuto, e aveva un livido accanto all'occhio sinistro. Molto probabilmente un'asse di cui non si era nemmeno accorto. Col passare del tempo il sole alto nel cielo fece scintillare il fiume. Incontrarono un taglialegna, un vagabondo e due ragazzi a pesca dei piccoli storioni che guizzavano nel Tisza. Nicholas si rivolse a loro in ungherese. «Avete avuto fortuna?» Qualcosa, sì, non male. Non sembravano particolarmente sorpresi nel veder sbucare dalla foresta due uomini dai vestiti infangati. È quello che succede quando vivi su una frontiera, si disse Morath. A Záhony trovarono un ristorante, mangiarono involtini di verza con ri-
pieno di salsiccia e uova al burro e quel pomeriggio presero il treno. Pavlo si addormentò, Morath prese a fissare la pianura ungherese fuori del finestrino. Ebbene, aveva mantenuto la parola. Aveva promesso a Polanyi che avrebbe riportato a Parigi quel chissachi. Pavlo. Di certo uno pseudonimo, nom de guerre, nome in codice, sostituzione di persona. Qualcosa. Diceva di essere croato e questo, pensò Morath, poteva essere vero. Forse un ustascia. Il che significava terrorista in alcuni circoli e patriota in altri. La Croazia, che per secoli era stata una provincia dell'Ungheria nonché il suo accesso al mare - era così che Miklós Horthy era diventato l'ammiraglio Horthy - aveva prodotto un bel po' di storia politica da quando, nel 1918, era diventata parte di un regno inventato, la Jugoslavia. Il fondatore degli ustascia, Ante Pavelic, era diventato celebre per essersi voltato verso un avversario politico alla camera dei deputati croata e avergli sparato al cuore. Sei mesi dopo era ricomparso dal suo nascondiglio, era entrato nell'atrio del parlamento armato di fucile e aveva fatto altre due vittime. Sotto la protezione di Mussolini, Pavelic si era trasferito in una villa a Torino, da dove guidava la linea politica della sua organizzazione: più di quaranta disastri ferroviari in dieci anni, un'infinità di edifici fatti esplodere, di granate lanciate nei caffè pieni di soldati, cinquemila funzionari croati e serbi uccisi. Il denaro proveniva da Mussolini, gli assassini dalla VMRO, l'Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone il cui quartier generale si trovava in Bulgaria. Erano stati gli agenti della VMRO ad assassinare re Alessandro di Jugoslavia nel 1934 a Marsiglia. Erano stati addestrati in Ungheria che, nel rispetto di un'alleanza con l'Italia, forniva anche istruttori militari e documenti falsi. Documenti emessi molto spesso a nome di Edvard Beneš, l'odiato presidente della Cecoslovacchia. C'era all'opera un certo senso dell'umorismo, pensò Nicholas. «Balkanique, balkanique», si diceva in francese di un magnaccia che schiaffeggiava una baldracca o di tre ragazzini che ne picchiavano un quarto, insomma di qualsiasi atto barbarico o brutale. Nel sedile di fronte a quello di Morath, Pavlo dormiva stringendo protettivamente la sua cartella fra le braccia. Le formalità alla frontiera austriaca, grazie al cielo, non si protrassero troppo a lungo. Ad Andreas Panea, il rumeno, fu riservata quella particolare, dissimulata villania dell'Europa centrale; si doveva praticamente essere austriaci per rendersi conto di essere stati insultati. Tutti gli altri ci impiegavano un giorno o due, e a quel punto avevano già lasciato il paese.
Un lungo viaggio in treno, pensò Morath; era ansioso di tornare alla vita che si era costruito a Parigi. Pianure ungheresi, valli austriache, foreste tedesche e finalmente campi francesi, e il sole sorse nel suo cuore. Entro sera il treno stava sbuffando attraverso l'Île de France, campi di frumento e poco altro; poi il controllore - che era tutti i controllori francesi, grosso e tarchiato con due baffi neri - annunciò l'ultima fermata con un accenno di cantilena nella voce. Pavlo si fece attento, fissando fuori del finestrino mentre il treno rallentava attraversando i villaggi alle porte della città. «Mai stato a Parigi?» domandò Morath. «No.» Il 10 maggio 1938, il treno della sera da Budapest entrò nella Gare du Nord poco dopo la mezzanotte. Per l'Europa era nel complesso una serata tranquilla, nuvolosa e calda per quella stagione, pioggia prevista intorno all'alba. Nicholas Morath, in viaggio con un passaporto diplomatico ungherese, scese lentamente dalla carrozza di prima classe e si diresse verso la fermata dei taxi davanti alla stazione. Lasciando la banchina si voltò come per dire qualcosa a un compagno di viaggio ma, guardandosi alle spalle, scoprì che questi, chiunque egli fosse, era scomparso tra la folla. La prostituta di von Schleben Il bar del Balalaika alle tre e mezzo, l'atmosfera stanca e polverosa di un locale notturno in un pomeriggio primaverile. Sul palco c'erano due donne e un uomo, ballerini vestiti con indumenti neri e aderenti e tormentati da un minuscolo russo con un pince-nez e le mani sui fianchi, travolto da tutta la disperazione del mondo. Chiuse gli occhi e si premette le labbra, un uomo che aveva ragione su tutto fin dalla nascita. «Saltare come uno zingaro» spiegò «significa saltare come uno zingaro.» Silenzio. Tutti e tre lo fissavano. Lui dimostrò cosa intendeva, lanciando un «Ah!» e allargando le braccia. Protese la faccia verso di loro. «Voi amate la vita!» Boris Balki era appoggiato sui gomiti, il mozzicone di una matita spuntata dietro l'orecchio, un giornale francese con un cruciverba completato a metà aperto sul banco. Alzò gli occhi su Morath e chiese: «Ça va?». Nicholas si sedette su uno sgabello. «Non male.» «Cosa posso servirle?» «Una birra.» «Va bene la Pelforth?»
Morath disse di sì. «Mi fa compagnia?» Balki prese le bottiglie da sotto il banco, ne aprì una e versò la birra tenendo il bicchiere obliquo. Morath bevve. Balki riempì il suo bicchiere, studiò il cruciverba, voltò pagina e diede un'occhiata ai titoli. «Perché continuo a comprare questo giornalaccio non lo so proprio.» Era uno dei settimanali parigini più pruriginosi: pettegolezzi sessuali, vignette spinte, foto di pallide ballerine di fila, pagine di notiziari sulle corse di Auteuil e Longchamps. Con grande vergogna e orrore di Morath, il suo nome era comparso su quelle pagine. L'anno prima di conoscere Cara usciva con una stella del cinema di seconda grandezza e l'avevano chiamato «il playboy ungherese Nicky Morath». Non c'era stato né un duello né una causa, ma lui aveva preso in considerazione entrambi. Balki rise. «Dove vanno a scovarle, certe cose? "Al momento ci sono ventisette Hitler chiusi nei manicomi di Berlino."» «Ne manca uno.» Balki voltò pagina, bevve un sorso di birra, lesse per qualche istante. «Dica, lei è ungherese, vero?» «Sì.» «Allora, che succede con questa nuova legge? Non vedete l'ora di diventare come la Germania, è così?» L'ultima settimana di maggio, il parlamento ungherese aveva approvato una legge che riduceva la quota di personale ebraico nelle aziende private al venti per cento della forza lavoro. «Una vergogna» soggiunse Balki. Morath annuì. «Il governo doveva fare qualcosa, qualcosa di simbolico, o i nazisti ungheresi avrebbero messo in scena un colpo di stato.» Balki continuò a leggere. «Chi è il conte Bethlen?» «Un conservatore. Un avversario dell'estrema destra.» Morath non menzionò la nota definizione di Bethlen, secondo cui l'antisemita è «colui che detesta gli ebrei più del necessario». «Il suo partito si è opposto alla legge. Insieme ai conservatori liberali e ai socialdemocratici. Il "Fronte Ombra", lo chiamano qui.» «La legge è un simbolo, niente più» disse Morath. «Horthy ha nominato un nuovo primo ministro, Imredy, per far passare leggi che tengano tranquilli i fanatici, in caso contrario...» Dal palco, un disco di violini zingareschi. Una delle ballerine, una bionda rossiccia, sollevò la testa in una posa altezzosa, tese una mano verso
l'alto e fece schioccare le dita. «Sì» gridò il piccolo russo. «Brava, Rivka, questo sì che è zigane!» Assunse un tono di voce rauco e intenso. «Quale uomo oserà farmi sua?» Osservando la ballerina, Morath si rese conto di quanto si stesse sforzando. «E gli ebrei?» domandò Balki alzando la voce per sovrastare la musica. «Loro che ne pensano?» «Non gradiscono. Ma vedono che cosa sta succedendo in Europa e sono in grado di consultare una carta geografica. Il paese deve trovare il modo di sopravvivere.» Disgustato, Balki tornò al cruciverba e si tolse la matita da dietro l'orecchio. «Politica» disse. Poi: «Una bacca selvatica?». Morath ci rifletté. «Forse fraise de bois?» Balki contò le caselle. «Troppo lungo» decretò. Nicholas scrollò le spalle. «E lei? Che ne pensa?» domandò Balki. Aveva ripreso a parlare della nuova legge. «Sono contrario, naturalmente. Ma una cosa la sappiamo tutti: se le Croci Frecciate andassero al potere, allora sì che diventeremmo come la Germania. Ci sarebbe un altro Terrore Bianco, come nel 1919. Impiccherebbero i progressisti, la destra tradizionale e in più gli ebrei. Mi creda, sarebbe come Vienna, soltanto peggio.» Esitò un istante. «Lei è ebreo, Boris?» «A volte me lo chiedo» disse Balki. Non era una risposta che Morath si aspettava. «Sono cresciuto in un orfanotrofio, a Odessa. Mi avevano trovato con il nome BORIS appuntato a una coperta. "Balki" - è il nome che mi hanno dato - significa fossato. Certo, a Odessa quasi tutti sono qualcosa. Ebrei, greci, tartari. Gli ucraini credono che si trovi in Ucraina, ma la gente di Odessa sa come stanno veramente le cose.» Morath sorrise; la città era famosa per la sua eccentricità. Rammentava di aver letto nel 1920, quando elementi di diversi eserciti europei avevano cercato di intervenire nella guerra civile, che il confine fra il settore francese e quello greco era segnato da una schiera di sedie da cucina. «Sono praticamente cresciuto nelle bande» riprese Balki. «Ero uno Zakovitsa. A undici anni, un membro della banda di Zakovits. Controllavamo i mercati del pollame della Moldavanka. Era principalmente una banda ebraica. Eravamo armati di coltelli e facevamo ciò che dovevamo fare. Ma per la prima volta nella mia vita avevo cibo a sufficienza.» «E poi?»
«Be', alla fine è arrivata la Ceka. E da quel momento è stata lei l'unica banda in città. Ho cercato di mettere la testa a posto, ma sa com'è. È stato Zakovits a salvarmi la vita. Una notte mi ha tirato giù dal letto, mi ha accompagnato al porto e mi ha messo su un mercantile in servizio sul Mar Nero.» Sospirò. «A volte mi manca, per terribile che fosse.» Bevvero le loro birre, Balki concentrato sul cruciverba, Morath sulle prove del balletto. «È un mondo difficile» disse Nicholas. «Prenda il caso di questo mio amico.» Balki alzò gli occhi. «Sempre in difficoltà, i suoi amici.» «È vero. Ma bisogna cercare di aiutarli, se si può.» Balki attese. «Questo mio amico deve fare affari con i tedeschi.» «Se lo scordi.» «Se conoscesse l'intera storia sarebbe comprensivo, mi creda.» Fece una pausa, ma Balki mantenne il silenzio. «Lei ha perduto il suo paese, Boris. Sa che cosa significa. Noi stiamo cercando di non perdere il nostro. È come ha appena detto, facciamo ciò che dobbiamo. Non farò il canard offrendole dei soldi, ma in questa storia qualcuno ci può guadagnare. Non posso credere che lei si rifiuti di dargliene l'occasione. Se non altro, ascolti l'offerta.» Balki si addolcì. Tutti coloro che conosceva avevano bisogno di soldi. C'erano donne a Boulogne, dove vivevano i rifugiati politici russi, che diventavano cieche a furia di ricamare a cottimo per le case di moda. Ammise la propria impotenza con un gesto della mano. Je m'en fous, me ne frego, comunque vadano le cose. «È la solita vecchia storia» soggiunse Morath. «Ufficiale tedesco a Parigi cerca ragazza.» Balki era offeso. «Qualcuno le ha detto che sono un pappone?» Morath scosse il capo. «Mi dica» riprese Balki. «Lei chi è?» "Lei cos'è?" avrebbe voluto dire. «Nicholas Morath, lavoro in pubblicità a Parigi. Mi può trovare sull'elenco telefonico.» Balki terminò la sua birra. «E va bene» si arrese, più a un destino che credeva segnato che a Morath. «Qual è il resto della storia?» «Più o meno quello che ho detto.» «Monsieur Morath - Nicholas, se non le dispiace - siamo a Parigi. Se ti vuoi scopare un cammello, ti basta dare una piccola mancia al custode del-
lo zoo. Tutto quello che vuoi fare, qualsiasi buco a cui riesci a pensare e anche alcuni a cui non riesci, lo trovi a Pigalle o a Clichy. Per denaro, qualsiasi cosa.» «Sì, lo so. Ma si ricordi di cos'è successo a Blomberg e Fritsch.» Due generali di cui Hitler si era sbarazzato, uno accusato di avere una relazione omosessuale, l'altro sposato con una donna che si diceva fosse stata una prostituta. «Questo ufficiale non può essere visto con un'amante. Non lo conosco personalmente, Boris, ma il mio amico mi dice che ha una moglie gelosa. Provengono entrambi da famiglie all'antica di cattolici bavaresi. Potrebbe essere la sua rovina. Ma si trova a Parigi, e la città è ovunque, lo circonda, in ogni caffè, in ogni strada. E così ha una voglia matta di procurarsi qualcosa, una liaison. Ma dev'essere una faccenda discreta. Per la donna, per la donna che non ne parlerà con nessuno, che capirà cosa c'è in ballo senza che le venga detto troppo e che lo renderà felice, è prevista una sistemazione mensile. Cinquemila franchi al mese. E se saranno tutti soddisfatti, col passare del tempo aumenteranno.» Era una cifra notevole. Un'insegnante guadagnava duemilacinquecento franchi al mese. Morath vide che il volto di Balki mutava. Non era più Balki il barista. Era Balki il Zakovitsa. «Io non tocco il denaro.» «No.» «Allora è un forse» disse. «Mi ci lasci pensare.» Juan-les-Pins, 11 giugno. I suoi seni, pallidi alla luce della luna. Era notte fonda, e Cara e la sua amica Francesca, tenendosi per mano e ridendo, sorgevano nude dal mare, scintillanti d'acqua. Morath era seduto sulla sabbia con i pantaloni arrotolati fino a metà polpaccio e i piedi scalzi. «Mio Dio» disse Simon qualcosa, un avvocato inglese seduto accanto a lui, sgomento al cospetto dell'opera del Signore che risaliva di corsa la spiaggia verso di loro. Ci andavano ogni anno in quel periodo, prima che arrivasse la massa. A quello che chiamavano «Juan», dove stavano in riva al mare, in una casa alta color albicocca dalle persiane verdi; nel piccolo villaggio in cui si poteva comprare un sampietro dai pescatori quando i pescherecci rientravano a mezzogiorno. Il gruppo di Cara. Montrouchet del Théâtre des Catacombes, accompagnato dall'Accidia. Una bella donna, ingegnosamente desiderabile. Mon-
trouchet la chiamava con il suo vero nome, ma per Morath era e sarebbe sempre stata l'Accidia. Stavano alla Pensione Trudi, nella pineta sopra il villaggio. Francesca era di Buenos Aires come Cara e viveva a Londra. Poi c'era Mona, conosciuta come Moni, una scultrice canadese, e la donna con cui viveva, Marlene, che creava gioielli. Shublin, un ebreo polacco che dipingeva fiamme, Frieda, che scriveva piccoli romanzi, e Bernhard, che firmava poesie sulla Spagna. E altri, una moltitudine cangiante, amici di amici o misteriosi sconosciuti, che affittavano capanne sotto i pini o prendevano stanzette a buon mercato all'Hotel du Mer o dormivano sotto le stelle. Morath amava la Cara di Juan-les-Pins, dove l'aria calda la eccitava all'eccesso. «Stanotte faremo molto tardi» diceva «questo pomeriggio dobbiamo riposare.» Un bagno nell'acqua sulfurea e tiepida che scendeva lentamente nella vasca chiazzata di ruggine, poi l'amore sudato e ispirato sulle lenzuola ruvide. Giacevano sonnacchiosi sotto la finestra aperta, respirando la resina di pino nel vento del pomeriggio. Al crepuscolo le cicale cominciavano a frinire e proseguivano fino all'alba. A volte prendevano un taxi fino al ristorante sulla strada panoramica moyenne sopra Villefranche, dove ti servivano zuppiere di tapenade all'aglio e frittelle di farina di ceci e infine, quando ormai eri in pace con il mondo e incapace di ingurgitare un altro boccone, la cena. Troppo orgoglioso e magiaro per portare i sandali, Morath correva in mare a mezzogiorno, bruciandosi i piedi sui ciottoli roventi e poi tenendosi a galla mentre fissava l'orizzonte piatto. Restava in acqua a lungo, inebetito come un sasso, felice come non era mai stato, mentre Cara e Francesca e i loro amici si stendevano sui teli, luccicanti di olio di cocco, e parlavano. «Le otto e mezzo a Juan-les-Pins, le nove e mezzo a Praga.» Lo si sentiva dire al Bar Basque, dove la gente andava a bere rum bianco nel tardo pomeriggio. Dunque l'ombra era presente, più scura certi giorni, più chiara altri, e se non avevi voglia di prenderne le misure da solo, i giornali lo facevano per te. Andando al negozio del villaggio per un «Nice Matin» e un «Le Figaro», Morath si unì agli altri drogati e proseguì per il caffè. Il sole delle nove del mattino era già rovente, e lo spazio sotto l'ombrellone del caffè era fresco e segreto. «Secondo Herr Hitler» lesse «i cechi sono come ciclisti: piegano il busto, ma sotto non smettono mai di scalciare.» In giugno era quello il luogo nuovo, il luogo alla moda per l'inizio della guerra:
la Cecoslovacchia. Il Volksdeutsche delle vecchie Provincie austriache, la Boemia e la Moravia - la regione dei Sudeti - pretendeva l'unificazione con il Reich. E gli «incidenti», gli incendi, gli assassinii, le manifestazioni avevano ormai preso l'abbrivio. Morath voltò pagina. La Spagna era ormai quasi finita, bisognava cercarla a pagina tre. La Falange avrebbe vinto, era solo questione di tempo. Al largo della costa, i mercantili inglesi che rifornivano i porti repubblicani venivano affondati dai caccia italiani decollati dalle basi di Majorca. «Le Figaro» riportava una vignetta inglese. Il colonnello Blimp diceva: «Perdio, signore, è ora di dire a Franco che se affonda altre cento navi inglesi ci ritireremo del tutto dal Mediterraneo!". Morath spostò lo sguardo sul mare, su una vela bianca in lontananza. La battaglia infuriava settanta chilometri a nord di Valencia, a meno di una giornata d'automobile dal caffè dov'era seduto. Shublin era andato in Spagna per combattere, ma l'NKVD l'aveva espulso. «In che tempi viviamo» disse una sera al Bar Basque. «È il dominio degli invertebrati.» Era sulla trentina, con capelli biondi e ricci, il naso rotto, dita chiazzate dal tabacco e tracce di vernice a olio sotto le unghie. «E re Adolf siederà sul trono dell'Europa.» «I francesi lo annienteranno.» Bernhard era tedesco. Aveva partecipato a una manifestazione comunista a Parigi e ora non poteva più rientrare in patria. «Tuttavia» disse Simon l'avvocato. Gli altri lo guardarono, ma lui non aveva intenzione di tenere un discorso. Un sorriso triste e nient'altro. Il tavolo era sul bordo della pista da ballo, generosamente cosparsa di sabbia e aghi di pino. Il vento che li aveva portati soffiava dal mare, diffondendo un odore di molo durante la bassa marea e facendo fluttuare le tovaglie. Il complessino terminò di suonare Le Tango du Chat e attaccò Begin the Beguine. Bernhard si rivolse a Moni. «Tu hai mai ballato questa Beguine?» «Oh sì.» «Davvero?» chiese Marlene. «Sì.» «E quando?» «Quando tu non c'eri.» «Ah sì? E quando?»
«Balla con me, Nicky» disse l'Accidia afferrandolo per un braccio. Si lanciarono in qualcosa di simile a un fox-trot, e il complesso - LOS HERMANOS, recitava la scritta in corsivo sulla grancassa - rallentò il tempo per aiutarli. L'Accidia gli si plasmò addosso, pesante e soffice. «Resti sveglio fino a tardi, quando sei qui?» «A volte.» «Io sì. La sera Montrouchet beve, e poi dorme come un sasso.» Ballarono per qualche istante. «Sei fortunato ad avere Cara» soggiunse lei. «Mmm.» «Dev'essere eccitante, per te. Voglio dire, lei è così, lo sento.» «Sì?» «A volte penso a voi due, nella vostra stanza.» Fece una risata. «Sono terribile, vero?» «Non direi.» «Be', se lo sono non m'importa. Puoi perfino riferirle quello che ti ho detto.» Più tardi, a letto, Cara appoggiò la schiena al muro, scintillante di sudore fra i seni e sullo stomaco. Aspirò una boccata dalla Chesterfield di Morath e soffiò una lunga striscia di fumo. «Sei felice, Nicky?» «Non si vede?» «Veramente?» «Sì, veramente.» Fuori, lo scrosciare delle onde sulla spiaggia. Un flusso, un silenzio e poi lo schianto. La luna calante era bassa, indistinta e dorata nell'angolo inferiore della finestra, dove non sarebbe rimasta per molto. Facendo attenzione a non svegliare Cara, Morath tese la mano verso l'orologio su una sedia accanto al letto. Le quattro meno dieci. "Dormi." «Il sonno che ravvia la matassa scompigliata dell'affanno.» Be', ci sarebbe stato un bel po' da ravviare. Cara aveva capito qualcosa, ma non ci si poteva fare nulla. Era condannato a vivere con una certa pesantezza d'animo; non disperazione, ma il peso stancante di allontanarla. Ciò gli era costato una moglie, molto tempo prima, un fidanzamento che non era mai giunto al matrimonio, e da allora aveva fatto finire molte relazioni. Se fai l'amore con una donna è meglio che ciò ti renda felice, altrimenti... Forse era stata la guerra. Al suo ritorno non era più lo stesso, era consa-
pevole di ciò che gli uomini sono in grado di farsi a vicenda. Sarebbe stato meglio non saperlo, se lo ignoravi vivevi un'esistenza diversa. Aveva letto il libro di Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, tre o quattro volte. E certi passi ancora e poi ancora. Ora se torneremo indietro saremo esausti, spezzati, bruciati, sradicati e senza speranza. Non saremo più in grado di trovare la via... Che vengano i mesi e gli anni, non mi portano nulla, non possono portarmi nulla. Sono così solo e senza speranza che posso affrontarli senza paura. Un libro tedesco. Morath si era fatto un'ottima idea di ciò su cui Hitler stava facendo leva nei cuori dei reduci tedeschi. Ma non riguardava soltanto la Germania. Tutti loro, inglesi, francesi, russi, tedeschi, ungheresi e il resto, erano stati gettati nella macina. Alcuni erano morti, alcuni erano morti dentro. Chi, si domandò, era sopravvissuto? Ma chi mai sopravviveva? Morath non lo sapeva. Il punto era alzarsi la mattina. Per vedere cosa sarebbe accaduto, di buono o di cattivo, una scommessa sul rosso o sul nero. Ma anche in questo caso, soleva dire un suo amico, probabilmente era positivo il fatto che non ci si potesse suicidare semplicemente contando fino a dieci e dicendo «ora». Scivolò fuori del letto silenziosamente, si infilò un paio di pantaloni di cotone, scese al pianterreno, aprì la porta e si fermò sulla soglia. Un'onda argentata si gonfiò, rotolò e svanì. Qualcuno rise sulla spiaggia, qualche ubriaco senza pensieri. Socchiudendo gli occhi, Morath riusciva a scorgere a malapena il bagliore di un fuoco morente e alcune sagome nella penombra. Un grido sussurrato, un'altra risata. Parigi, 15 giugno. Otto Adler si sistemò su una sedia nel Jardin du Luxembourg oltre la vasca circolare in cui i bambini portavano le loro barchette a vela. Intrecciò le mani dietro la nuca e studiò le nubi, bianche e torreggiami, nette sullo sfondo di un cielo perfetto. Forse un temporale nel tardo pomeriggio, si disse. Faceva abbastanza caldo per quella stagione, e Adler sarebbe stato lieto del suo arrivo se non fosse stato per quei pochi centimetri che sarebbe stato costretto a coprire per rifugiarsi nel caffè in Rue de Médicis. Non si poteva permettere pochi centimetri. Quella sarebbe stata la sua prima vera estate in Francia; l'avrebbe trovato
povero e sognante, innamorato degli angoli bui e incantevoli, di vicoli e chiese, infatuato della metà delle donne che vedeva, depresso, divertito e impaziente di pranzare. In breve, un parigino. «Die Aussicht», come tutte le riviste politiche, non era né viva né morta. Il numero di gennaio, uscito in marzo, aveva riportato un articolo del professor Bordeleone dell'università di Torino, Alcune annotazioni sulla tradizione dell'estetica fascista. Non aveva l'elevata profondità che i suoi lettori si aspettavano, ma possedeva una sua portata epica: andava indietro alla Roma imperiale e arrivava a passo di marcia fino all'architettura del Diciannovesimo secolo e a D'Annunzio. Un uomo dolce e guizzante, Bordeleone, ora professore emerito all'università di Torino dopo una notte di interrogatori e olio di ricino alla locale stazione di polizia. Ma grazie a Dio la signora Bordeleone era ricca, e sarebbero sopravvissuti. Per il numero invernale, Adler nutriva ambizioni grandiose. Aveva ricevuto una lettera da un vecchio amico di Königsberg, il dottor Pfeffer, ora rifugiato politico in Svizzera. Il dottor Pfeffer aveva preso parte a una conferenza a Basilea, e dopo la discussione, bevendo un caffè, l'oratore aveva accennato al fatto che Thomas Mann, lui stesso rifugiato politico dal 1936, stava pensando di pubblicare un breve saggio. Per Mann ciò poteva significare ottanta pagine, ma ad Adler non importava. Il suo stampatore giù a Saclay era - finora, quanto meno - un idealista per quanto riguardava i crediti e le fatture scadute, e poi, insomma, si trattava di Thomas Mann. «Mi sono chiesto ad alta voce, con tatto» aveva scritto Pfeffer «se vi fosse una qualche indicazione tematica, ma lui si è limitato a tossicchiare e a distogliere lo sguardo. Chiederesti a Zeus cos'ha mangiato a colazione?» Rammentando la lettera, Adler sorrise. Naturalmente l'argomento non aveva alcuna importanza. Pur di avere quel nome su «Die Aussicht» gli avrebbe pubblicato la lista per la lavanderia. Slacciò la fibbia della sua cartella e sbirciò all'interno: una raccolta delle commedie di Schnitzler, un blocco di carta economica - quella buona restava nella sua scrivania a Saint-Germain-en-Laye -, «Le Figaro» del giorno prima raccolto, a suo modo di vedere salvato, sul treno che l'aveva portato a Parigi, e un panino al formaggio avvolto nella carta marrone. «Ah, mais oui, monsieur, le fromage de campagne!» La proprietaria della locale latteria aveva capito subito che lui era squattrinato, ma da vera francese nutriva una piccola passione per gli intellettuali trasandati e gli aveva venduto quello che definiva, con un curioso miscuglio di orgoglio e crudeltà, «formaggio di campagna». Anonimo, giallo, semplice ed economico. Ma
che Dio la benedica comunque, pensò Adler, per tenerci in vita. Estrasse il blocco dalla cartella, rovistò fino a trovare una matita e cominciò a scrivere. «Mein Herr Doktor Mann.» Poteva fare di meglio con le formule di cortesia? Ci doveva provare? Accantonò il pensiero e passò alla strategia. «Mein Herr Doktor Mann, so che lei, avendo una moglie e quattro figli da sfamare e le mutande bucate, vorrà pubblicare un importante saggio sulla mia piccola rivista.» Ora, come dirlo senza dirlo? «Forse non conosciutissima, ma letta in ambienti importanti.» Puah. «Il più serio e indipendente dei periodici dei rifugiati politici.» Molle. «Fa cacare sotto Hitler!» Ora sì che andava bene. "E se avesse veramente detto una cosa simile?" si chiese in un istante di follia. Il suo sguardo vagò dal blocco di fogli al verde scuro dei castagni sul lato opposto della vasca. Quella mattina di giugno non c'erano bambini, naturalmente: stavano soffrendo al chiuso di un'aula scolastica. Una persona gli si stava avvicinando dal parco. Un giovane, chiaramente non al lavoro, forse tristemente disoccupato. Adler tornò ad abbassare gli occhi sul blocco finché l'uomo si fermò accanto alla sua sedia. «Pardon, monsieur» disse. «Mi può dire che ore sono?» Adler infilò la mano sotto la giacca e ne estrasse un orologio da tasca d'argento fissato a una catenella. La lancetta dei minuti era ferma esattamente sulle quattro. «Sono soltanto...» disse. Monsieur Coupin era un uomo anziano che viveva con una pensione da ferroviere e andava al parco a leggere il giornale e a guardare le ragazze. Fece il suo racconto ai flics davanti al Jardin du Luxembourg, quindi agli investigatori della Préfecture, a un inviato di «Paris Soir», a due uomini del ministero degli Interni e infine a un altro giornalista che lo incontrò nel suo caffè di zona, gli offrì un pastis e poi un altro, parve il più informato di tutti sul fattaccio e gli fece un gran numero di domande a cui lui non sapeva rispondere. Raccontò a tutti più o meno la stessa storia. L'uomo seduto al di là dello stagno, l'uomo con l'abito blu e gli occhiali dalla montatura in acciaio che gli si era avvicinato, le pistolettate. Uno sparo e un coup de grâce. Non aveva visto il primo sparo, l'aveva sentito. «Uno scoppio secco, come quello di un petardo.» Il suono aveva attirato la sua attenzione. «L'uomo ha fatto cadere l'orologio ed è balzato in piedi, come se fosse stato insultato. Ha barcollato per un istante, poi è caduto in avanti, tirandosi
dietro la sedia. Ha mosso un piede, poi più nulla. L'uomo col vestito blu si è chinato sopra di lui, ha preso la mira e ha sparato un altro colpo. Poi si è allontanato.» Monsieur Coupin non aveva gridato, non l'aveva rincorso, non aveva fatto niente. Era rimasto lì fermo, immobile. «Perché non potevo credere a quello che avevo visto» spiegò. E aveva dubitato ulteriormente di se stesso quando l'assassino si era allontanato camminando. «Senza fretta. Come... come se non avesse fatto nulla.» C'erano stati altri testimoni. Uno descrisse un uomo con un soprabito, un altro disse che erano in due, un terzo parlò di un'accesa discussione fra l'assassino e la vittima. Ma quasi tutti erano più distanti di Monsieur Coupin dalla sparatoria. L'eccezione era una coppietta, un uomo e una donna che passeggiavano sottobraccio su un sentiero di ghiaia. Gli investigatori tennero d'occhio il parco per diversi giorni ma la coppietta non ricomparve, e malgrado un appello pubblicato dai giornali non si presentarono alla Préfecture. «Straordinario» disse il conte Polanyi. Si riferiva a una cialda soffice a forma di cono su cui era posata una pallina di gelato alla vaniglia. «Lo si può mangiare camminando.» Morath aveva incontrato suo zio allo zoo, dove un glacier accanto al ristorante offriva gelato e cialda. Faceva molto caldo; Polanyi indossava un abito di seta e un cappello di paglia. Oltrepassarono un lama e un cammello, l'odore degli animali intenso sotto il sole del pomeriggio. «Leggi i giornali, Nicholas, quando sei laggiù?» Morath rispose di sì. «I giornali di Parigi?» «A volte "Le Figaro", quando ce l'hanno.» Polanyi si fermò un istante e prese un cauto assaggio di gelato, reggendo il suo fazzoletto da tasca sotto la cialda in modo che non sgocciolasse sulle scarpe. «Molte novità politiche, mentre eri via» disse. «Soprattutto in Cecoslovacchia.» «Ho letto qualcosa.» «Sembrava il 1914 - gli eventi che sorprendono i politici. Ecco com'è andata: Hitler ha portato dieci divisioni sul confine ceco. In piena notte. Ma l'hanno scoperto. I cechi si sono mobilitati - a differenza degli austriaci, che sono rimasti seduti ad aspettare che accadesse - e i diplomatici francesi e inglesi a Berlino hanno dato fuori di matto. "Questo significa guer-
ra!" Alla fine si è ritirato.» «Per il momento.» «È vero, non ci rinuncerà, perché detesta i cechi. Li chiama "una miserabile razza di pigmei privi di cultura". Dunque troverà il modo. E ci attirerà dalla sua parte, se potrà. Noi e i polacchi. Per come presenterà la questione, saremo soltanto tre paesi che risolvono questioni territoriali con un quarto.» «Le solite cose.» «Già.» «Be', dov'ero io nessuno aveva dubbi circa il futuro. Sta arrivando la guerra, moriremo tutti, non ci resta che stanotte...» Polanyi aggrottò la fronte. «Mi sembra una grave indulgenza, questo modo di vedere le cose.» Si fermò un istante, prese un altro assaggio di gelato. «A proposito, sei riuscito a trovare una compagna per il mio amico?» «Non ancora.» «Già che ci sei, mi viene in mente che i due piccioncini avranno bisogno di un nido d'amore. Molto appartato, naturalmente, e discreto.» Morath rifletté. «Dovrà essere intestato a qualcun altro» disse Polanyi. «A me?» «No. Perché non chiedi al tuo amico Szubl?» «Szubl e Mitten.» Polanyi rise. «Sì.» I due condividevano una stanza, e le difficoltà della vita da rifugiati politici, da quando se ne aveva memoria. «Glielo chiederò» disse Morath. Passeggiarono per qualche minuto, attraversando lo zoo ed entrando nei giardini. Potevano udire i fischi dei treni dalla Gare d'Austerlitz. Polanyi terminò il suo gelato. «Mi sono chiesto spesso» disse Morath «che fine abbia fatto l'uomo che ho portato a Parigi.» Polanyi si strinse nelle spalle. «Per quanto mi riguarda, mi faccio un dovere di non sapere cose simili.» Morath scrisse un biglietto a Szubl e Mitten, invitandoli a pranzo. Un ristorante lionese, dove un grand déjeuner ti avrebbe fatto andare avanti per settimane. Quei due erano famosi per la loro povertà. Qualche anno prima girava voce che soltanto uno dei due potesse uscire la sera poiché condividevano un unico abito nero cenere. Morath arrivò in anticipo, ma Wolfi Szubl lo stava già aspettando. Un
uomo corpulento sulla cinquantina, con un volto lungo e lugubre, occhi cerchiati di rosso e una schiena ingobbita dagli anni trascorsi a trasportare scatole di busti femminili in ogni singola città della Mitteleuropa. Szubl era un miscuglio di nazionalità (non diceva mai esattamente quali). Herbert Mitten era un ebreo della Transilvania, nato a Cluj quando ancora apparteneva all'Ungheria. I loro documenti, e le loro esistenze, erano come foglie morte del vecchio impero, soffiate per anni su e giù per le strade di una dozzina di città. Finché, nel 1930, un'anima buona si era mossa a pietà e aveva firmato due permessi di residenza a Parigi. Morath ordinò gli aperitivi e chiacchierò con Szubl finché Mitten fece ritorno dai servizi con il volto arrossato e lucente. "Buon Dio" si disse Nicholas "non si sarà rasato?" «Ah, Morath» esordì porgendogli una mano molle e un radioso sorriso da teatrante. Mitten era un attore professionista, e aveva recitato in otto lingue nei film di cinque paesi facendo sempre lo stesso personaggio, esemplificato nel modo più efficace dalla sua più recente interpretazione di Mr Pickwick in una versione ungherese del Circolo Pickwick. Mitten aveva l'aspetto di una vignetta del Diciannovesimo secolo, ampio nel mezzo e sottile alle estremità, con capelli che gli spiccavano dal cranio come la parrucca di un pagliaccio. Ordinarono il pranzo. Abbondante. Era un ristorante per famiglie - spesse zuppiere di porcellana e pesanti vassoi. Su di essi salsicce, alcune sott'olio, fette di patate fritte nel burro, grossi polli arrosto, insalate con haricots blancs e insalate con lardelli di pancetta affumicata. Formaggio Mont d'Or. E fragole. Morath riusciva a malapena a intravedere la tovaglia. Non badò a spese per il vino - il borgogna del '26 - suscitando i sorrisi e gli inchini del rubizzo patron. Dopo pranzo passeggiarono per le buie, strette stradine che dalla parte posteriore del V Arrondissement portavano al fiume. «Un appartamento» disse Morath «per un amore clandestino.» Szubl ci rifletté. «Un amante che non vuole prendere in affitto un suo appartamento.» «Molto romantico» osservò Mitten. «Molto clandestino, in ogni caso» disse Szubl. «Chi sono, persone importanti?» domandò Mitten. «Caute» rispose Morath. «E ricche.» «Ah.» Attesero. «Duemila dollari al mese per il nido d'amore» disse Morath. «Cinquecento per voi. Uno di voi due firma il contratto d'affitto. Se c'è bi-
sogno di una domestica, sarà lui ad assumerla. Il portiere conoscerà soltanto lui, l'amico degli amanti.» Szubl fece una risata. «Dobbiamo crederci, in cambio dei cinquecento?» «Nicholas» disse Mitten «quelli come noi non la fanno franca quando spiano.» «Non si tratta di spiare.» «Veniamo messi al muro.» Morath scosse il capo. «Sicché, a Dio piacendo, è soltanto una rapina in banca.» «Relazione amorosa» disse Morath. «Seicento» disse Mitten. «E va bene. Seicento. Vi darò il denaro per gli arredi.» «Arredi!» «Ma che relazione è mai questa?» Con grande sorpresa di Morath, si rivelarono bravi. Molto bravi. Chissà come, nel giro di una settimana riuscirono a scovare una selezione di nidi d'amore. Cominciarono portandolo in quella che veniva chiamata Via delle Signore, la zona dell'Avenue Foch, dove splendide ragazze si crogiolavano su divani di piume dietro vetrine decorate di rosa e oro. Nell'appartamento che gli fecero visitare, l'affaire più recente doveva evidentemente essersi concluso in modo brusco, lasciando una scatoletta aperta di caviale e un limone ammuffito nel piccolo frigorifero. La sistemazione successiva era un'ampia stanza, già alloggio della servitù, nel sottotetto di un hôtel particulier nel IV Arrondissement, dove non andava mai nessuno. «Sei piani di scale» osservò Mitten. «Ma molto appartato.» E per una vera relazione amorosa, pensò Morath, non certo la scelta peggiore. Un quartiere tranquillo, passato di moda dal 1788, e strade deserte. Subito dopo presero un taxi per Saint-Germain des Prés, con destinazione l'atelier di un pittore in Rue Guénégaud, con la vista su un grazioso angolo azzurro di Senna da una delle finestre. «Lui dipinge, lei fa da modella» disse Szubl. «E all'improvviso, un pomeriggio, Fragonard!» Morath era colpito. «È perfetto.» «Per un parigino, non ne sono tanto sicuro. Ma se gli amanti sono stranieri, be', come vedi non potrebbero chiedere di meglio.» «Très chic» disse Szubl.
«E il padrone di casa è in prigione.» L'ultimo appartamento era, ovviamente, una proposta suggerita con finta noncuranza. Forse un favore a un amico: un altro Szubl, un altro Mitten, che galleggiava squattrinato nel mare gallico. Due locali scarsi ai piedi del IX Arrondissement, nei pressi della stazione del metrò di Chaussée d'Antin, a metà di Rue de Mogador, la trasversale dietro i grandi magazzini Galeries Lafayette. Le strade erano piene di gente, chi faceva acquisti alle Galeries e chi vi lavorava. A Natale, i bambini venivano portati a vedere il Père Noël meccanico in vetrina. L'appartamento era al terzo piano di una casa popolare la cui facciata era annerita dalla fuliggine e dalla sporcizia. All'interno pareti marroni, una cucina con due fuochi, il gabinetto in corridoio, flosce tendine di rete ingiallite dagli anni, un tavolo coperto da una tela cerata verde, un divano e un letto stretto con una pagina di calendario ungherese fissata al muro sopra il guanciale - Messe a Esztergom. «Ebbene, Morath, eccolo qui!» «La semplice vista di questo letto ti procura un'erezione, non è vero?» «Ma biche, ma douce, quella coperta militare! Quel cappotto arrotolato a mo' di cuscino! È il nostro momento! Spogliati, se ne hai il coraggio!» «Chi è il vostro amico?» «Laszlo.» «Bel nome ungherese.» «Bell'uomo ungherese.» «Ringraziatelo da parte mia. Vi darò qualcosa per offrirgli la cena.» «Allora è il primo? Il boudoir rosa?» «Oppure l'atelier. Ci devo pensare.» Uscirono dall'appartamento e scesero le scale. Morath fece per dirigersi verso la strada, ma Mitten lo prese per il gomito. «Andiamo dall'altra parte.» Nicholas lo seguì attraverso una porta sul lato opposto dell'atrio, uno stretto cortile perennemente all'ombra, un'altra porta e un corridoio in cui numerosi uomini e donne parlottavano e fumavano. «Dove diavolo siamo?» «Nelle Galeries. Ma non è la parte che vede il pubblico. Ci vengono a fumare i commessi. A volte viene usata per le consegne.» Giunsero davanti a un'altra porta. Szubl l'aprì e si ritrovarono al pianterreno del grande magazzino, in mezzo a una folla di gente benvestita carica
di pacchetti. «Hai bisogno di qualcosa?» chiese Szubl. «Magari una cravatta?» «Salaud!» Morath stava sorridendo. «Laszlo ne vuole duemilacinquecento.» Balki lo chiamò una settimana dopo. «Forse le interessa conoscere una mia amica.» Morath rispose di sì. «Domani, allora. Al grande caffè in Rue de Rivoli, vicino al metrò del Palais-Royal. Intorno alle quattro. Lei indosserà dei fiori. La riconoscerà.» «Alle quattro.» «Si chiama Silvana.» «Grazie, Boris» disse Morath. «Di niente» rispose Boris in tono freddo. «Quando vuole.» Il caffè era un terreno eccezionalmente neutrale: turisti, poeti, ladri, chiunque ci poteva andare. In una rovente giornata di luglio, Silvana indossava un vestito scuro con un minuscolo mazzolino di fiori appuntato sul risvolto. Schiena dritta, ginocchia giunte, gambe accostate di lato, faccia scolpita nella pietra. Morath aveva ottime maniere; nemmeno una volta nella sua vita era rimasto seduto quando una donna arrivava a un tavolo. E aveva un gran cuore; la gente tendeva a capirlo fin dal primo istante. Ciò nonostante, non fu un incontro facile. Era lieto di conoscerla, le disse, e proseguì per un po' su quella falsariga, la sua voce sommessa e controllata e molto più comunicativa delle parole che pronunciava. So quanto può essere difficile la vita. Facciamo tutti del nostro meglio. Non c'è niente di cui avere paura. Silvana non era priva di attrattive - fu questa la prima frase che gli venne in mente nel vederla. Trentacinque anni o giù di lì, con capelli color ottone che le scendevano flosci ai lati del volto, labbra generose e una pelle olivastra e leggermente oleosa. Non particolarmente affascinante, ma il tipo della bellezza imbronciata. Seni pronunciati e molto sfacciati nel maglioncino aderente, vita sottile, fianchi non troppo larghi. Originaria di qualche angolo del Mediterraneo, immaginava. Marsigliese? Forse greca, o italiana. "Ma fredda" si disse. Von Schleben avrebbe davvero fatto l'amore con lei? Lui, da parte sua, non l'avrebbe fatto, ma era impossibile sapere cosa gradisse la gente a letto.
«Bene» disse. «Un aperitivo? Un Cinzano le va bene? Con glaçons: lo berremo come gli americani.» Lei prese una tozza Gauloise Bleue scuotendo il pacchetto e ne picchiettò l'estremità sull'unghia del pollice. Morath accese un fiammifero, lei mise la mano a coppa sopra il dorso della sua e poi spense la fiamma con un soffio. «Grazie» disse. Aspirò una boccata impaziente, poi tossì. Arrivarono gli aperitivi, ma senza ghiaccio. Spostando lo sguardo oltre la spalla di Silvana, Morath notò per caso che un uomo piccolo e azzimato seduto a un tavolino d'angolo la stava guardando. Aveva radi capelli appiattiti sul capo e portava una farfalla che lo faceva somigliare -Nicholas dovette frugare nella propria memoria - al comico americano Buster Keaton. Incrociò il suo sguardo per un istante, poi riprese a leggere la sua rivista. «Il mio amico è tedesco» disse Morath. «Un gentiluomo. Un nobile.» Silvana annuì. «Sì. Balki me l'ha detto.» «Vorrebbe che lei lo incontrasse a cena, domani sera al Pré Catalan. Alle otto e mezzo. Naturalmente manderà la sua auto a prenderla.» «D'accordo. Sono all'hotel di Rue Georgette, a Montparnasse.» Esitò. «Saremo soltanto noi due?» «No. Una grande tavolata, credo.» «E dove ha detto?» «Al Pré Catalan. Nel Bois de Boulogne. Molto fin de siècle. Champagne, danze fino all'alba.» Silvana era divertita. «Oh» esclamò. Morath le spiegò di Szubl e Mitten, dell'appartamento, del denaro. Silvana sembrava vagamente distante, mentre guardava il fumo che si levava dalla brace della sigaretta. Bevvero un altro Cinzano. Silvana gli rivelò di essere rumena, di Sinaia. Era venuta a Parigi nell'inverno del '36 con «un uomo che si guadagnava da vivere giocando a carte». Lui si era cacciato in qualche pasticcio ed era sparito. «Immagino sia morto» disse, e poi sorrise. «Certo, con lui non si sa mai.» Un amico le aveva trovato un impiego in un negozio, una confiserie, ma non era durato. Poi, quando ormai era messa male, era stata assunta come guardarobiera al Balalaika. Scosse mestamente il capo. «Quelle catastrophe.» Rise, soffiando uno sbuffo di Gauloise. «Non ero capace, e la colpa è ricaduta sul povero Boris.» Era il tardo pomeriggio, fresco e buio sotto le arcate che coprivano Rue de Rivoli. Il caffè era affollato e chiassoso. Un musicista di strada si fermò e prese a suonare la concertina. «Credo che andrò» disse Silvana. Si alza-
rono e si diedero la mano, poi lei sganciò una bicicletta incatenata al lampione sull'angolo, vi montò sopra, rivolse un cenno di saluto a Morath e si allontanò pedalando nel traffico. Morath ordinò uno scotch. Arrivò una vecchietta che vendeva giornali. Nicholas comprò il «Paris Soir» per vedere cosa proiettavano al cinema; avrebbe trascorso la serata da solo. I titoli erano grossi e neri: L'IMPEGNO DI DIFENDERE LA CECOSLOVACCHIA È «INCONTESTABILE E SACRO», DICHIARA IL GOVERNO. L'uomo che somigliava a Buster Keaton se ne andò dal caffè scoccandogli un'occhiata. Per un attimo Morath credette che gli avesse rivolto un cenno del capo. Ma se era quello il caso era stato impercettibile, o molto più probabilmente uno scherzo della sua immaginazione. Juillet, Juillet. Il sole martellava la città e il tanfo delle macellerie aleggiava come fumo nell'aria torpida. Morath si rifugiò all'Agence Courtmain, e non per la prima volta. In fuga dall'estate, in fuga dallo zio Janos e dalla sua politica, in fuga da Cara, preda recente della smania di vacanza. Il sacro mois d'Août si stava avvicinando; si andava in campagna oppure ci si nascondeva nel proprio appartamento senza rispondere al telefono. A impensierire Cara era un dubbio: dovevano andare in Normandia dalla baronessa Frei oppure nel Sussex dalla sua amica Francesca e dal suo compagno? Non era la stessa cosa, neanche lontanamente, e si dovevano pur fare gli acquisti adeguati. All'Agence Courtmain avevano grossi ventilatori neri che smuovevano il caldo, e a volte la brezza dal fiume risaliva l'Avenue Matignon e penetrava dalla finestra. Morath era seduto con Courtmain e la responsabile dei copywriter nell'ufficio di quest'ultima, intento a fissare un barattolo di cacao. «Hanno piantagioni in Costa d'Oro» disse la responsabile dei copywriter. Si chiamava Mary Day, di madre francese e padre irlandese. Aveva quasi l'età di Morath, e non si era mai sposata. Un pettegolezzo diceva che fosse religiosa, un'ex suora, un altro ipotizzava che arrotondasse le sue entrate scrivendo romanzi erotici sotto pseudonimo. Morath chiese notizie dei proprietari. «È una grande famiglia della provincia di Bordeaux. Noi trattiamo con il direttore generale.» «Parigino?»
«Coloniale» disse Courtmain. «Un pied-noir con favoriti curati dal barbiere.» Il barattolo aveva un'etichetta rossa con la scritta CASTIGNAC in stampatello nero sul lato superiore. In basso diceva CACAO FIN. Morath aprì il coperchio di metallo, sfiorò la polvere con un dito e lo leccò. Amaro, ma non sgradevole. Ci riprovò. «A quanto pare è molto puro» disse Mary Day. «Venduto ai chocolatiers di Parigi, Torino e Vienna.» «Da noi che cosa vogliono?» «Che vendiamo più cacao» disse Courtmain. «Be', nuovo materiale» spiegò Mary Day. «Manifesti per le panetterie e gli empori. E a questo punto, con l'esaurirsi della guerra civile, vogliono vendere anche in Spagna.» «Agli spagnoli piace la cioccolata?» Si sporse in avanti per dire «naturalmente», ma poi si rese conto che non lo sapeva. «Ne vanno matti» disse Courtmain. "Almeno in questa agenzia." Morath sollevò il barattolo alla luce della finestra. Fuori il cielo era bianco e i piccioni tubavano su un cornicione. «L'etichetta non è male.» Aveva soltanto una cornice di foglie d'edera intrecciate. Courtmain rise. «È la perfezione» decretò. «Fra una decina d'anni gliela rivenderemo.» Mary Day estrasse alcuni fogli di carta patinata da una cartella e li appuntò alla parete. «Gli daremo un Cassandre» disse. A.M. Cassandre aveva creato l'immagine della popolare campagna in tre pannelli «DUBO/DUBON/DUBONNET». «Il nostro Cassandre» precisò Courtmain. Le immagini erano sontuose e suggerivano i tropici. Sfondi in ocra rinascimentali e gialli di cromo, con figure - soprattutto tigri e palme - in una gamma di rossi Venezia. «Elegante» disse Morath, colpito. Courtmain era d'accordo. «Peccato per il nome» osservò. Formò un'etichetta nell'aria con pollice e indice. «PALMIER» suggerì, intendendo «palma». «CACAO FIN.» «TIGRE?» propose Morath. Mary Day fece un sorriso malizioso. «TIGRESSE» disse. Courtmain annuì. Prese un gessetto da una tazza sulla scrivania e si avvicinò ai disegni. «Questo è il nome» decretò. «Con questo albero.» La
palma s'incurvava dolcemente, con tre fronde sulla cima. «E questa tigre.» Una visione frontale. L'animale era accovacciato, e rivelava l'ampio petto bianco. Morath era eccitato. «Credete che l'approveranno?» «Mai e poi mai.» Era da Cara quando il telefono squillò, alle tre e mezzo del mattino. Rotolò giù dal letto e riuscì a sollevare il ricevitore dalla forcella. «Sì?» «Sono Wolfi.» Szubl stava quasi bisbigliando. «Che cosa c'è?» «Corri all'appartamento. Ci sono grossi problemi.» «Ci vado subito» disse Morath, e riagganciò. "Come vestirsi?" «Nicky?» Si era già messo la camicia e stava cercando di annodare la cravatta. «Devo uscire.» «Adesso?» «Sì.» «Che cosa succede?» «Un amico nei guai.» Dopo un silenzio: «Oh». Si abbottonò i pantaloni, indossò una giacca con una scrollata di spalle, infilò a viva forza i piedi nelle scarpe e si lisciò i capelli all'indietro con le mani. «Quale amico?» Ora la nota era nella voce di Cara. «Un ungherese, Cara. Non lo conosci.» L'istante successivo era fuori della porta. Le strade erano deserte. S'incamminò a passi rapidi verso la stazione del metrò di Pont de l'Alma. I treni erano fermi già da tre ore, ma c'era un taxi in attesa accanto alla fermata. «Rue de Mogador» disse Morath al conducente. «Dietro l'angolo delle Galeries.» L'uscio che dava sulla strada era stato lasciato aperto. Morath si fermò ai piedi delle scale e scrutò nel buio. Passarono trenta secondi senza che accadesse nulla; poi, quando posò il piede sul primo gradino, udì lo scatto di una porta che si chiudeva sopra di lui. Cercando di non fare rumore, attese qualche altro istante, quindi cominciò a salire. Giunto al pianerottolo del primo piano si fermò. «Szubl?» Lo disse a
bassa voce ma non sussurrando, per farsi udire al piano superiore. Nessuna risposta. Trattenne il fiato. Credette di sentire un lieve russare, un cigolio, un altro. Normale, per un edificio alle quattro del mattino. Riprese a salire lentamente, fermandosi un istante su ogni gradino. Giunto a metà strada, toccò qualcosa di appiccicoso sul muro. E quello cos'era? Troppo buio per vederci, imprecò, e si pulì le dita sui pantaloni. Al secondo piano proseguì fino alla fine del corridoio e si fermò davanti alla porta. L'odore non era forte - non ancora - ma Morath aveva combattuto in guerra e sapeva esattamente di che si trattava. "La donna." Si sentì mancare il cuore. Sapeva che sarebbe successo. In qualche modo, misteriosamente, lo sapeva. E l'avrebbe fatta pagare a chiunque fosse il responsabile. Von Schleben, qualcun altro, non importava. Il sangue gli stava salendo alla testa; si disse di calmarsi. "O forse Szubl." No, perché avrebbe dovuto prendersi la briga di farlo? Posò il dito indice sulla porta e fece pressione. La porta si aprì. Vide il divano, il letto, un armadio che non ricordava. Sentì odore di vernice mescolato all'altro, ora più intenso, e il tanfo agrodolce di bruciato provocato da uno sparo in uno spazio ristretto. Quando entrò, vide il tavolo coperto dalla tela cerata. A un'estremità c'era un uomo seduto su una sedia; aveva le gambe divaricate, la testa rovesciata quasi del tutto all'indietro, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Morath accese un fiammifero. Stivali e calzoni di un ufficiale tedesco. L'uomo indossava camicia bianca e bretelle, e la sua giacca era accuratamente appesa allo schienale della sedia e bloccata dalla testa. Un volto grigio, gonfio, un occhio aperto e uno chiuso. L'espressione - Morath l'aveva già vista - era di dolore mescolato a gretta irritazione. Il foro sulla tempia era piccolo; il sangue secco era marrone sul volto e lungo il braccio. Morath s'inginocchiò; la Walther era caduta sul pavimento sotto la mano. Sul tavolo, il portafogli. Un biglietto? No, non ne vedeva. Il fiammifero cominciava a bruciargli le dita. Morath lo spense e ne accese un altro. Aprì il portafogli: una fotografia di moglie e figli ormai cresciuti, vari documenti d'identità della Wehrmacht. Ecco a voi l'Oberst - il colonnello - Albert Stieffen, aggregato allo stato maggiore tedesco presso la caserma di Stalheim, che era venuto a Parigi e si era sparato nel cucinino del nido d'amore di von Schleben. Un colpo sommesso alla porta. Morath lanciò un'occhiata alla pistola,
ma la lasciò al suo posto. «Sì?» Szubl entrò nella stanza. Era sudato, paonazzo in volto. «Cristo» imprecò. «Dov'eri?» «Alla Gare St-Lazare. Ti ho telefonato, poi mi sono fermato sull'altro lato della strada e ti ho guardato entrare.» «Cos'è successo?» Szubl allargò le braccia. "Lo sa Dio." «Ha telefonato un uomo, saranno state le due e mezzo del mattino. Ha detto di venire a sistemare le cose.» «"Sistemare le cose."» «Sì. Un tedesco. Parlava in tedesco.» «Nel senso che era successo qui, quindi era un problema nostro.» «Qualcosa del genere.» Rimasero per qualche istante in silenzio. Szubl scosse la testa con gesto lento e ponderoso. Morath tirò un sospiro esasperato, si passò le dita fra i capelli, imprecò in ungherese - qualcosa che aveva a che fare con il fato, la merda di maiale e il sangue dei santi - e si accese una sigaretta. «E va bene» disse infine, più a se stesso che a Szubl. «A questo punto deve scomparire.» Szubl aveva l'aria triste. «Costerà caro.» Morath rise e scacciò il problema con un gesto della mano. «Di questo non ti devi preoccupare» disse. «Davvero? Be', allora sei fortunato. Ho un amico.» «Flic? Impresario di pompe funebri?» «Meglio. Impiegato al Grand Hôtel.» «Chi è?» «Uno dei nostri. È arrivato da Debrecen molto tempo fa. Era in un campo francese per prigionieri di guerra nel 1917 e in qualche modo è riuscito a entrare in ospedale. Per farla breve, ha sposato un'infermiera. Poi, dopo la guerra, si è stabilito a Parigi e ha cominciato a lavorare negli alberghi. Bene, circa un anno fa mi racconta una storia. A quanto sembra, c'era questo famoso direttore d'orchestra che occupava la suite di lusso. Una notte, saranno state le due del mattino, il telefono dell'accettazione comincia a suonare. È il maestro, ed è agitatissimo. Il mio amico accorre nella suite: il tizio aveva un marinaio in camera, ed era morto.» «Imbarazzante.» «Molto. In ogni caso, la questione è stata risolta.» Morath rifletté. «Torna a St-Lazare» disse quindi. «E chiama il tuo ami-
co.» Szubl si voltò e fece per andarsene. «Mi dispiace di averti messo in questo guaio, Wolfi. È Polanyi, e le sue...» Szubl scrollò le spalle e si sistemò il cappello. «Non prendertela con tuo zio per i suoi intrighi, Nicholas. È come prendersela con una volpe perché ha ucciso una gallina.» Da Morath, un sorriso acidulo. Szubl non aveva tutti i torti. "Anche se" si disse "di solito con una volpe non ci si limita a prendersela." Le scale scricchiolarono sotto i passi di Szubl, e Morath si affacciò alla finestra. L'alba era grigia e umida, e Szubl arrancava con il capo chino e le spalle curve. L'impiegato d'albergo era alto e attraente, fascinoso, con un paio di baffi da cavalleria. Arrivò alle cinque e mezzo, vestito con un'uniforme rossa dai bottoni dorati. «Ci sentiamo meglio?» chiese al cadavere. «Duemila franchi» propose Nicholas. «D'accordo?» «Quando la questione sarà conclusa potrebbero essere di più, ma conto su Wolfi.» Per un attimo fissò l'ufficiale morto. «Il nostro amico è ubriaco» disse a Morath. «Ci caricheremo le sue braccia sulle spalle e lo porteremo giù. Le chiederei di cantare, ma qualcosa mi dice che non lo farebbe. In ogni caso, c'è un taxi che aspetta davanti all'ingresso. Il conducente è al corrente della situazione. Metteremo il nostro amico sul sedile posteriore, io salirò accanto al taxista e la cosa finirà lì. La giacca, la pistola, il portafogli, troverà lei il modo di sbarazzarsene. Fossi al posto suo, brucerei i documenti.» Alla fine Morath e il portiere dovettero trasportare Stieffen da basso; la pantomima si svolse soltanto dal portone al taxi, ma ce la fecero a malapena. Un'auto blu - in seguito, Morath pensò che fosse una grossa Peugeot accostò al marciapiede di fronte a lui. Il finestrino posteriore si abbassò lentamente e l'ometto con il farfallino lo fissò. «Grazie» disse. Il finestrino si richiuse mentre l'auto ripartiva seguendo il taxi. Morath li guardò allontanarsi, poi rientrò nell'appartamento dove Szubl, in mutande, lavava il pavimento fischiettando un'aria mozartiana. Polanyi si era superato, pensò Morath, scegliendo il luogo dell'appuntamento. Un piccolo, oscuro bistrò nel quartiere conosciuto come la grande
truanderie, il quartiere dei ladri, sepolto nel labirinto di stradine attorno a Montorgueil. A Morath faceva tornare in mente un'affermazione di Emile Courtmain: «L'essenza del pranzo è nella scelta del ristorante. Tutto il resto, il cibo, le bevande, la conversazione, non significa molto». Polanyi se ne stava lì seduto, dolente e bistrattato dagli dei. «Non ti chiederò scusa» esordì. «Sai chi era? Il colonnello Stieffen?» «Non ne ho idea. E non ho idea del perché sia accaduto. Avrà a che fare con l'onore, Nicholas; se dovessi scommettere, punterei proprio su quello. Posa il portafogli sul tavolo, intendendo "questo è ciò che ero" e si spara in un appartamento segreto, intendendo "qui è dove ho fallito".» «Fallito in cosa?» Polanyi scosse il capo. Erano seduti a uno dei tre tavolini del locale. «Ragazzi» gridò la grassona dietro al banco «fatemi sapere quando siete pronti per un altro.» «Lo faremo» rispose Polanyi. «Chi è l'uomo con il farfallino?» «Si chiama dottor Lapp.» «Dottor Lapp?» «È un nome. Di sicuro ce ne sono altri. È un ufficiale dell'Abwehr.» «Bene, questo spiega tutto. Sono diventato una spia tedesca. Dobbiamo restare qui a pranzo?» Polanyi bevve un sorso di vino. Sembrava, si disse Morath, un uomo diretto al lavoro. «Si sbarazzeranno di lui, Nicholas. È pericoloso che te lo dica, e pericoloso che tu lo sappia, ma quel colonnello Stieffen ha aperto una porta e ora sono costretto, contro ogni buon senso, credimi, a coinvolgerti.» «Sbarazzarsi di chi?» «Dì Hitler.» Nessuna risposta. «Se falliranno ci sarà la guerra, e a confronto l'ultima sembrerà un tè. Il fatto è che se non mi avessi chiamato tu, l'avrei fatto io. Credo sia giunto il momento che pensi seriamente a far uscire tua madre e tua sorella dall'Ungheria.» Aveva una sua vita, la guerra, come un immenso pettegolezzo che serpeggiava fra i giornali, i caffè e i mercati. Ma in qualche modo, nelle parole di Polanyi diventava reale, e Morath per la prima volta vi credette. Polanyi si sporse in avanti abbassando la voce. «Hitler sistemerà le cose,
come la mette lui, con i cechi. La Wehrmacht invaderà, probabilmente in autunno: il momento classico, quando i campi sono stati mietuti e gli abitanti delle campagne diventano soldati. La Russia si è impegnata a difendere la Cecoslovacchia se lo farà anche la Francia. I russi marceranno attraverso la Polonia, con o senza il permesso dei polacchi, ma in ogni caso ci invaderanno. Sai cosa significa... la cavalleria mongola, la Ceka e tutto il resto. La Francia e l'Inghilterra invaderanno la Germania attraverso il Belgio; non è diverso dal 1914. Considerata la struttura dei trattati e le alleanze in Europa, è precisamente ciò che accadrà. La Germania bombarderà le città, cinquantamila vittime a notte. A meno che non usi il fosgene, nel qual caso saranno di più. La Gran Bretagna bloccherà i porti, l'Europa centrale morirà di fame. Le fiamme e la fame proseguiranno finché l'Armata Rossa varcherà il confine tedesco e annienterà il Reich. Ma si fermerà lì? "Dio vive in Francia", come amano dire i tedeschi, e forse Stalin vorrà andare a trovarlo.» Morath cercò le contraddizioni nel quadro, ma non ne trovò. «È questo che mi preoccupa e che dovrebbe preoccupare anche te, ma significa poco per l'OKW, l'Oberkommando der Wehrmacht, lo stato maggiore dell'esercito. Quegli uomini - i rilevatori, gli esperti di logistica, i servizi segreti - sono sempre stati accusati dai comandanti sul campo di pensare troppo, ma stavolta hanno ragione. Se Hitler attacca la Cecoslovacchia, il che è facile per la Germania, visto che grazie all'Anschluss circonda i cechi su tre fronti, l'Inghilterra, la Francia e la Russia entreranno in guerra. La Germania verrà distrutta. Ma ancora più importante per l'OKW, l'esercito verrà distrutto. Tutto ciò per cui hanno lavorato dal momento in cui l'inchiostro si è asciugato sui trattati del 1919 verrà fatto a pezzi. Tutto. Non possono permettere che ciò accada. E sanno, con Hitler protetto dalle SS, che soltanto l'esercito ha la forza di rimuoverlo.» Morath rifletté per qualche istante. «In un certo senso» disse «è la cosa migliore che potrebbe succedere.» «Sì, sempre che succeda.» «Che cosa potrebbe andare storto?» «La Russia combatterà soltanto se lo farà anche la Francia. La Francia e l'Inghilterra lo faranno solo se la Germania invaderà e i cechi resisteranno. Hitler può essere rimosso soltanto se comincerà una guerra che non può vincere.» «Ma i cechi combatteranno?» «Hanno trentacinque divisioni, circa tre milioni e mezzo di uomini e una
linea difensiva di fortificazioni lungo il confine dei Sudeti. Si dice che sia solida quanto la linea Maginot. E naturalmente la Boemia e la Moravia sono circoscritte dai monti Šumava. Per i carri armati tedeschi i passi, specialmente se fortificati e difesi, saranno difficili. E così, alcuni esponenti dell'OKW si stanno mettendo in contatto con gli inglesi e i francesi, esortandoli a resistere, a non fare concessioni a Hitler, costringendolo a combattere per ottenere ciò che vuole. A quel punto sarà l'OKW a occuparsi di lui.» «"Mettendo in contatto", hai detto.» Polanyi sorrise. «Sai come succede, Nicholas, non si tratta di un eroe solitario che attraversa strisciando il deserto nel tentativo di salvare il mondo. Sono diversi individui, diversi approcci, diversi metodi. Collegamenti. Rapporti. E quando l'OKW ha bisogno di un luogo riservato in cui parlare, lontano da Berlino, lontano dalla Gestapo, ha un appartamento in Rue de Mogador, dove quel birbante di von Schleben incontra la sua amante rumena. Chissà, potrebbe anche essere il luogo per un incontro con un collega straniero venuto da Londra in giornata.» «Una sistemazione fornita dai loro amici ungheresi.» «Sì, perché no?» «Lo stesso vale per l'uomo che abbiamo fatto arrivare a Parigi.» «Anche lui per von Schleben. Ha diversi interessi, molti progetti.» «Per esempio...» Polanyi scrollò le spalle. «Non me l'ha spiegato, Nicholas, e io non ho insistito.» «E il colonnello Stieffen?» La giostra era tornata al punto di partenza. Morath poteva aver vinto l'anello di ottone, ma non ne era sicuro. «Chiedilo al dottor Lapp» disse Polanyi. «Se credi di doverlo sapere.» Morath fissò perplesso suo zio. «Se ti capitasse di rivederlo, intendevo.» Il sabato mattina, Cara e Nicky andavano a cavalcare al Bois de Boulogne, sullo Chemin des Vieux Chênes o attorno al Lac Inférieur. Montavano grossi castrati bai, il cui sudore, nel caldo estivo, formava una schiuma bianca sopra i garretti. Cavalcavano bene, entrambi originari di paesi in cui andare a cavallo era una componente dell'esistenza, come il matrimonio o la religione. A volte Morath trovava le piste un po' troppo facili - aveva sfondato al galoppo postazioni di mitraglieri e saltato ostacoli di filo spinato - ma la
sensazione di cavalcare gli dava una pace che non riusciva a trovare in nessun altro modo. Rivolgevano cenni di saluto alle altre coppie, eleganti nei loro calzoni alla cavallerizza e nei loro stivali fatti a mano, e trottavano a un'andatura rigida e sostenuta all'ombra delle querce. «Ho ricevuto una lettera di Francesca» gli disse Cara. «Dice che la casa nel Sussex è deliziosa ma piccola.» «Se preferisci qualcosa di grandioso, andremo dalla baronessa.» «È quello che vorresti, vero Nicky?» «Be'» disse Morath. In realtà non gliene importava nulla, ma finse per farle piacere. «Forse la Normandia è meglio. La sera fa fresco, e mi piace nuotare nel mare.» «Bene. Le scriverò oggi pomeriggio. Potremo vedere Francesca quando verrà in autunno. Per il guardaroba.» Boris Balki lo chiamò e gli chiese di passare dal locale notturno. Il Balalaika era chiuso per le ferie d'agosto, i tavoli coperti da vecchie lenzuola. Non c'era birra, e così Balki stappò una bottiglia di vino. «Non se ne accorgeranno» disse. Poi: «Immagino che partirà presto». «Fra qualche giorno. La grande migrazione.» «Dove va?» «In Normandia. Appena fuori Deauville.» «Dev'essere bello.» «Non c'è male.» «Mi piace, la pausa. Dobbiamo tinteggiare e sistemare il locale, ma se non altro non devo raccontare barzellette.» Infilò la mano in tasca, spiegò un foglio di carta economica coperto di minuscoli caratteri cirillici. «È di un amico, da Budapest. Mi scrive da Via Matyas.» «Non c'è molto, da quelle parti. La prigione.» La risposta di Balki fu un mesto sorriso. «Oh.» «È un vecchio amico di Odessa. Ho pensato che forse, se qualcuno conosceva qualcuno...» «Matyas è il peggio - a Budapest, quanto meno.» «Lo dice anche lui, per quanto debba essere cauto a causa della censura.» «Ci resterà a lungo?» «Quaranta mesi.»
«Quanto basta. Cos'ha fatto?» «Obbligazioni.» «Ungheresi?» «Russe. Obbligazioni ferroviarie. Del 1916.» «E qualcuno le ha comprate?» Balki annuì, quindi scoppiò a ridere suo malgrado. «Povero Rashkow. È uno scricciolo. "Guardami" diceva sempre. "Se cercassi di rapinare qualcuno, mi chiuderebbe in un cassetto." E così vende cose. A volte gioielli, a volte quadri, perfino manoscritti. Tolstoj! Il suo romanzo incompiuto! Ma negli ultimi tempi erano obbligazioni ferroviarie.» Risero entrambi. «Capisce perché gli voglio bene» disse Balki. «Non valgono niente, vero?» «Be', risponderebbe Rashkow, non adesso. Ma pensi al futuro. "Io vendo speranza" diceva sempre. "Speranza nel domani. Pensa a quanto è importante, la speranza nel domani."» «Non sono sicuro di poterla aiutare» disse Morath. «Be', ci proverà.» Il "dopo tutto, io per lei ci ho provato" rimase inespresso ma non difficile da udire. «Naturalmente.» «Prima di partire?» «Anche se non ce la facessi, non aspetterei fino a settembre. Ci sono i telefoni, a Deauville.» «Semyon Rashkow.» Balki sollevò la lettera alla luce e strizzò gli occhi. Morath si rese conto che aveva bisogno di occhiali. «Numero 3352-18.» «Per pura curiosità, chi aveva scritto il romanzo incompiuto di Tolstoj?» Balki fece un gran sorriso. «Non era male, Morath. Davvero, non lo era.» L'ultimo posto in cui avrebbe voluto essere, nell'ufficio del colonnello Sombor all'ultimo piano della legazione ungherese. Sombor sedeva eretto al suo posto, immerso nella lettura di un dossier, usando una matita per guidare i propri occhi lungo le righe dattiloscritte. Morath fissava fuori della finestra aperta. In giardino, un uomo delle pulizie, un vecchietto con un'uniforme e un berretto con visiera grigi, stava rastrellando la ghiaia. Il suono nel cortile silenzioso era penetrante. Doveva aiutarlo, sentiva di doverlo fare. Balki non era un affabile barista, Balki era lui stesso, Morath, nel paese sbagliato e nell'anno sbagliato,
costretto a vivere l'esistenza sbagliata. Un uomo che detestava doversi mostrare riconoscente per un lavoro che odiava. Nicholas aveva dapprima provato con suo zio, aveva saputo che non era a Parigi e aveva rintracciato Sombor nel suo ufficio. «Ma certo, venga domattina.» Sombor era l'uomo giusto, e così Morath era andato a trovarlo pur sapendo perfettamente che era un errore. Sombor aveva un titolo, qualcosa di innocuo; ma lavorava per la polizia segreta, e lo sapevano tutti. Presso la legazione c'era una spia ufficiale, il maggiore Fekaj, l'addetto militare, e poi c'era Sombor. «Non ci vediamo abbastanza» protestò chiudendo la cartella. Morath aveva difficoltà a guardarlo. Era uno di quegli individui la cui capigliatura sembra un cappello - un cappello lucido e nero - e con le sue sopracciglia marcate e oblique pareva un tenore truccato da diavolo in un'opera comica. «Mio zio mi tiene occupato.» Sombor rese omaggio alla posizione di Polanyi con un cortese cenno del capo. Morath di sicuro si augurò che lo fosse davvero. «Già, ci credo» disse Sombor. «E poi, questa magnifica città. E le sue opportunità.» «Già.» Sombor si sfiorò le labbra con la lingua, si sporse in avanti e abbassò la voce. «Gliene siamo grati, naturalmente.» Pronunciata da un uomo che era stato costretto, nel 1937, a staccare dalla parete del suo ufficio un ritratto di Gyula Gömbös - a cui molti attribuivano l'invenzione della filosofia hideriana - non era necessariamente la frase che Morathaveva voglia di udire. «Gentile da parte sua.» "Grati di cosa?" «Non è il genere di cosa che si possa tollerare» disse Sombor. Morath annuì. Cosa diavolo aveva raccontato Polanyi a quell'uomo? E perché? Per il proprio bene? Per quello di Morath? Per qualche altra ragione? Ciò che Nicholas sapeva era che, per quanto fosse in suo potere, quella conversazione non sarebbe mai stata franca e aperta. «Una persona che mi ha fatto, che ci ha fatto un favore» Morath sorrise, e Sombor lo imitò «ha a sua volta bisogno di un favore.» «Favori...» «D'altra parte, che cosa si può fare?» «Già.» Una sfida del silenzio. Sombor vi mise fine. «Esattamente, di che favore stiamo parlando?»
«Un vecchio amico. Rinchiuso a Matyas.» «Per?» «Vendita di obbligazioni prive di valore.» «Beszivargok?» Infiltrato. E cioè, per Sombor e altri, ebreo. Morath ci rifletté. Rashkow? «Non credo» rispose. «Non a giudicare dal nome.» «Che è?» «Rashkow.» Sombor prese un blocchetto di carta bianca, svitò il cappuccio della sua penna e scrisse con cura il nome sul foglio. Il «mese in campagna» acquistava sempre più slancio e le preparazioni in Avenue de la Bourdonnais procedevano febbrili. Alla baronessa era stato scritto, quindi telefonato, infine telefonato di nuovo. La MG di Cara era stata lavata, lucidata e rifornita d'acqua, olio e benzina, i sedili strofinati con sapone per il cuoio, il cruscotto di noce pulito fino a farlo brillare. Il cestino per i picnic era stato ordinato da Pantagruel, poi da Delbard e infine da Fauchon. A Morath piaceva la lingua in gelatina? No? Perché no? Il minuscolo tavolino pieghevole era stato acquistato, riportato al negozio e rimpiazzato da una coperta verde da cavallo e poi da una coperta di lana sottile, marrone con una striscia grigia, che poteva anche servire da telo da spiaggia. Cara aveva riportato a casa un costume da bagno piccolo così, poi piccolo così e infine piccolo così; e all'ultimo era saltata una cucitura quando Morath gliel'aveva strappato di dosso. E doveva essere lieta, pensò lui, che non mostrasse le impronte dei suoi denti; che lo riportasse così da Mademoiselle Ninette in Rue Saint-Honoré. Sabato mattina Morath aveva una lunga lista di commissioni, accuratamente conservata per sfuggire alla preparazione dei bagagli di Cara. Passò da Courtmain, alla banca, dal tabaccaio e in libreria, dove acquistò La valle degli assassini di Freya Stark e Addio alle armi di Hemingway, entrambi in traduzione francese. Aveva già un romanzo di Gyula Krudy. Krudy era essenzialmente il Proust ungherese - «L'autunno e Budapest erano nati dalla stessa madre» - e a Morath era sempre piaciuto. In realtà, le case della baronessa erano piene di libri, e Nicholas già sapeva che si sarebbe innamorato di qualche esotico capolavoro perduto senza nemmeno sfogliare i volumi che aveva portato. Quando fece ritorno in Avenue de la Bourdonnais, scoprì che vi si era abbattuta una tormenta di indumenti intimi, scarpe e carta velina rosa. Sul
tavolo in cucina c'era un vaso con una dozzina di rose gialle. «Non sono per te, vero Nicky?» «No.» «Lo immaginavo.» «C'è un biglietto?» «Sì, ma è in ungherese. Non riesco a leggerlo.» Morath ci riusciva. Una sola parola scritta con inchiostro nero sul biglietto di un fiorista: SPIACENTE. Erano le tre e mezzo quando il telefono di Cara squillò e una voce maschile chiese a Nicholas molto educatamente se gli sarebbe stato di gran disturbo raggiungere il giornalaio accanto alla stazione del metrò di Pont de l'Alma. «Vado a prendere il giornale» disse Morath a Cara. «Cosa? Adesso? Per l'amor del cielo, Nicky...» «Torno fra un minuto.» Il dottor Lapp era a bordo di una Mercedes nera. Il suo abito era blu, il suo cravattino verde, il suo volto triste come quello di Buster Keaton. In realtà non c'era niente di cui discutere, disse. Era un privilegio, non un sacrificio. Ciò malgrado, Morath era profondamente dispiaciuto. Forse, se fosse stato in grado di dire qualcosa, di spiegare, non si sarebbe sentito così male. «Messieurs et Mesdames.» Il controllore aveva aperto la porta dello scompartimento, e il martellare ritmico delle ruote sulle rotaie si fece improvvisamente più sonoro. Morath si posò il libro di Freya Stark sulle ginocchia. Il controllore reggeva in mano la lista dei passeggeri di prima classe. «'Sieurs et 'dames, il vagone ristorante aprirà fra trenta minuti, potete prenotare per il primo o il secondo turno.» Fece il giro dello scompartimento: uomo d'affari, donna di mezz'età, madre e ragazzino - forse inglesi - e infine Morath. «Secondo turno, per favore» disse Nicholas. «A che nome?» «Monsieur Morath.» «Molto bene, signore.» «Può dirmi a che ora è previsto l'arrivo a Praga?»
«L'orario dice alle quattro e trenta, monsieur, ma naturalmente, di questi tempi...» 2 agosto 1938. Marienbad, Cecoslovacchia. Alle sei e venti di sera, Morath scese la scalinata di marmo e attraversò l'atrio. I grand hotel nelle località termali si somigliavano tutti, e l'hotel Europa non era diverso: chilometri di corridoi, lampadari, mogano ovunque. Tappeti logori e logora rispettabilità, i primi ritessuti, la seconda una presenza lieve ma palpabile nell'aria, come l'odore delle cucine. Due donne gli sorrisero dalle poltrone di pelle; vedova e figlia nubile, ipotizzò Morath, giunte a Marienbad a caccia di marito. Morath era all'Europa soltanto da una notte e un giorno e avevano già civettato con lui un paio di volte. Erano attraenti e ben in carne. "Ottimi appetiti" si disse "di tutti i generi." Non era strano, a quelle latitudini. I cechi credevano che la vita dovesse loro una certa dose di piacere; abbracciavano di buon grado le virtù protestanti, ma con lo stesso entusiasmo si abbracciavano fra loro. Se non fosse giunta una proposta di matrimonio, rotolarsi in un cigolante letto d'albergo poteva anche non essere la cosa peggiore al mondo, tanto per la madre quanto per la figlia. Morath uscì su un elegante sentiero illuminato da lampade a gas. In lontananza c'erano delle fontane, sagome scure nella luce morente. Camminò a lungo, consultando l'orologio a intervalli di qualche minuto. Una volta, trascinato a Évian-les-Bains da colei che aveva preceduto Cara, aveva provato il trattamento: impacchettato nel fango da ridenti fanciulle e sciacquato da una donna severa con una retina per capelli. Medicina vittoriana. Erotismo vittoriano? Qualcosa di vittoriano. Giunse al limitare della cittadina, da cui una fitta, nera foresta di pini risaliva il versante di una collina sopra la strada. Più in basso sfavillavano le lampade a gas. C'erano diverse orchestrine al lavoro, e quando il vento soffiava nella direzione giusta si potevano udire i violini. Era molto romantico. Attraverso gli alberi s'intravedeva il trenino giocattolo che risaliva sbuffando la montagna fino alla stazione di Mariánské Lázně. Marienbad ai tempi del Regno austro-ungarico. Difficile pensarla in qualsiasi altro modo. Il vento cambiò, i violini lontani giunsero fino a lui. Insieme a un vago odore di artiglieria. Ora erano le sette e dieci di sera. C'erano candele sui tavoli della sala da tè di Via Otava. Morath studiò il menu montato in una cornice di ottone su
un leggio accanto alla porta. All'interno del locale, un ufficiale dell'esercito ceco lo guardò per un istante e poi si alzò dalla sedia, lasciando un pasticcino sul piatto. Per mettersi in piedi si aiutò con un bastone, un bell'oggetto, notò Morath, con la punta di ottone e l'impugnatura di avorio. Non aveva molti anni più di Nicholas, con un volto da soldato e una barba perfettamente regolata, bionda grigia e rossa. Si strinsero la mano in strada. «Colonnello Novotny» disse l'ufficiale con un cenno del capo a metà fra un saluto e un inchino. «Morath.» Uno scambio di convenevoli. Siamo come due funzionari provinciali, si disse Nicholas, ai tempi sonnacchiosi dell'impero. Novotny aveva un'automobile militare: la Opel meno costosa di tutte, qualcosa di simile a un taxi parigino, color verde oliva. «Saliremo verso Kreslice» annunciò. «A una quarantina di chilometri da qui.» Morath aprì la portiera destra. Sul sedile c'era una pistola automatica in una fondina con cinturone di cuoio. «Oh, la metta pure per terra» disse Novotny. «Siamo nei Sudeti, è meglio avere qualcosa in macchina.» Percorsero strade di montagna sempre più buie a mano a mano che salivano, i fasci dei fari pullulanti di falene. Novotny strizzava gli occhi, e al di là del parabrezza lo stretto sentiero sterrato serpeggiava e scompariva nella notte. In due occasioni dovettero sistemare dei rami sotto le ruote, e quando attraversavano i ponti sui torrenti montani - costruiti per i carri trainati dai buoi - Morath scendeva dall'auto e la precedeva con una torcia. Oltrepassarono una sola abitazione, la baracca di un taglialegna. Sulla cresta della montagna qualcosa si allontanò di corsa da loro; ne udirono la fragorosa avanzata nel sottobosco. «Un giorno mi sono portato dietro il mio cane» disse Novotny. «È completamente impazzito. Ha cominciato a correre avanti e indietro sul sedile, raspando con le unghie sui finestrini.» «Di che razza è?» «Pointer.» «Ne ho avuti anch'io. Non vedevano l'ora di mettersi al lavoro.» «Come il mio. Piangeva perché non lo lasciavo scendere dall'auto. Quassù ho visto orsi, cervi, cinghiali. I contadini dicono che ci siano anche linci, che uccidono le loro bestie.» Novotny rallentò a passo d'uomo e superò con cautela un tornante. Morath poteva udire un corso d'acqua molto più a valle. «Un peccato, in realtà» soggiunse il colonnello. «Quando cominceremo a combattere da queste
partì, be', lei sa che fine fa la selvaggina.» «Già. Nel '15 ero sui Carpazi.» «Naturalmente, è proprio qui che li vogliamo incontrare.» «In montagna?» «Sì. In maggio abbiamo osservato la loro mobilitazione. Molto istruttivo. Carri armati, camion, motociclette. Grosse cisterne di carburante. Non è un segreto, quello che vogliono fare, basta leggere il libro di Guderian e quello di Rommel. È tutto motorizzato, è proprio questa la lama dell'ascia. Dopo la prima ondata, naturalmente, hanno cavalli e avantreni come tutti gli altri. Sicché la logica sarebbe quella di spingerli sulle montagne o farli penetrare nelle valli.» «E colpirli d'infilata.» «Sì. Con i mortai d'ordinanza. E le mitragliatrici sui versanti delle colline.» «Quando comincerà?» «In autunno. Se li fermiamo per due mesi, poi comincia a nevicare.» Davanti a loro, la strada era segnata dai solchi dei carri. Quando si fece più ripida, Novotny scalò in una prima lamentosa. «Con chi era, l'ultima volta?» «Ussari. Sedicesimo Corpo, Seconda Armata.» «Magiari.» «Sì.» «Io ero nel Settimo. Nei primi tempi con Pflanzer, dopo con Baltin.» «Giù in Moldavia.» «All'inizio. Poi, visto che sono un artigliere, mi hanno mandato nella Polonia russa. A Lemberg e Przemyśl.» «Le fortificazioni.» «Ventotto mesi» disse Novotny. «Le abbiamo perse, poi ce le siamo riprese.» Morath non aveva mai combattuto a fianco dei cechi. L'esercito austriaco parlava dieci lingue - ceco, slovacco, croato, serbo, sloveno, ruteno, polacco, italiano, ungherese e tedesco - ed era di norma diviso in reggimenti basati sulle diverse nazionalità. Ma la storia dei soldati che difendevano le fortificazioni era ben nota. Per ben due volte erano stati circondati e isolati, ma i centocinquantamila uomini nei fortini e nei bunker avevano resistito per mesi, mentre i morti russi si accumulavano sotto i loro cannoni. Erano le nove passate da un pezzo quando raggiunsero la caserma di
Kreslice, una serie di costruzioni lunghe e basse in stile imperiale, costruite con l'arenaria color miele tanto amata dagli architetti di Francesco Giuseppe. «Forse possiamo mangiare qualcosa» disse speranzoso Novotny. Ma nella mensa ufficiali era addirittura stato organizzato un banchetto per Morath. Arrosto d'oca, cavolo rosso all'aceto, birra prodotta in una piccola fabbrica di Pilsen. A capotavola sedeva un tenente generale. «All'amicizia fra i nostri paesi!» «All'amicizia!» Molti degli ufficiali erano barbuti, come si usava fra gli artiglieri, e diversi avevano combattuto sul fronte orientale nel 1914. Morath vide le medaglie. Il più decorato di tutti era il generale: basso, tarchiato e collerico. E alquanto ubriaco, pensò Nicholas, con un volto rubizzo e una voce fragorosa. «Leggere i maledetti giornali diventa sempre più difficile» proclamò. «Quest'inverno ci amavano alla follia, specialmente i francesi. Cecoslovacchia, la nuova speranza! La democrazia liberale, un esempio per l'Europa! Masaryk e Beneš, gli statisti del futuro! Ma poi è successo qualcosa. In luglio, credo che fosse, alla camera dei Lord Halifax ha parlato di "dedizione poco pratica a una causa superiore". "Oh cazzo" ci siamo detti "adesso guarda un po' che succede!"» «E il minuetto continua» disse Novotny. Il generale bevve una lunga sorsata di birra e si pulì la bocca con un tovagliolo di lino. «E naturalmente lo incoraggia. Il Reichsführer. L'esercito è l'unica cosa che gli sia mai piaciuta, ma si è stancato di vederlo marciare. Adesso vuole vederlo combattere. Ma sta venendo nel quartiere sbagliato.» «Perché voi reagirete.» «Gli daremo un bel calcio in quel suo sedere austriaco, ecco cosa faremo. Questa Wehrmacht, abbiamo filmati delle sue manovre, è fatta per avanzare sulle pianure europee. Sono i polacchi che dovrebbero preoccuparsi, e i russi. Quaggiù, noi combatteremo sulle montagne. Come gli svizzeri, come gli spagnoli. Ci può sconfiggere, è più potente di noi e questo non lo possiamo cambiare, ma dovrà impiegare tutte le sue forze. E a quel punto lascerà la linea Sigfrido completamente sguarnita, e i francesi potranno invaderla con un battaglione di camerieri.» «Sempre che ne abbiano il coraggio.» Dalla tavolata si levò qualche risata. Al generale brillavano gli occhi. Come il cane di Novotny, non vedeva l'ora di mettere le zampe sulla selvaggina. «Già, se ne hanno il coraggio; gli è successo qualcosa.» Esitò per un istante, quindi si sporse verso Mo-
rath. «E l'Ungheria? È tutta pianura, come la Polonia. Non avete nemmeno un fiume.» «Lo sa Dio» disse Morath. «Non abbiamo neppure un esercito. Per il momento contiamo sul fatto che siamo più intelligenti di loro.» «Più intelligenti» ripeté il generale. Ci rifletté; non gli sembrava un granché. «Di tutti loro?» «Hitler ha eliminato gli uomini più brillanti o li ha fatti fuggire dal paese. Per il momento è tutto ciò che abbiamo.» «Che Dio vi protegga, allora» disse il generale. Gli diedero una stanza tutta sua sopra le stalle - sotto di lui, i cavalli erano nervosi - un letto rigido e una bottìglia di acquavite alla prugna. Se non altro, si disse Morath, non gli avevano mandato «la figlia dello stalliere». Bevve un goccio di acquavite, ma non riusciva a prendere sonno. Erano i tuoni a tenerlo sveglio, provenienti da un temporale che non faceva mai piovere ma non si allontanava. Morath guardava periodicamente fuori della finestra, ma il cielo era pieno di stelle. Poi si rese conto che i cechi lavoravano di notte. Poteva sentire le vibrazioni nel pavimento. Dinamite, non tuoni; le esplosioni percorrevano avanti e indietro le alte vallate. Erano i genieri a tenerlo sveglio, intenti a far saltare le pareti delle loro montagne e a costruire fortificazioni. Le due e mezzo. Le tre. Invece di dormire, Morath fumava. Fin da quando era arrivato alla caserma, aveva percepito una corrente sotterranea e familiare. "Insieme viviamo, insieme moriamo e a nessuno importa che vada in un modo o nell'altro." Era qualcosa che non provava da molto tempo. Non che gli piacesse, ma pensarci lo teneva sveglio. Subito dopo l'alba erano di nuovo sulle strade di montagna, stavolta a bordo di un'auto blindata, accompagnati dal generale e da un civile pallido e molliccio in abito scuro, alquanto sinistro, con occhiali dalle lenti scurite e ben poco da dire. "Una spia" si disse Morath. Quanto meno, una spia cinematografica. La strada era stata creata da poco, strappata alla foresta dalle spianatrici e dagli esplosivi e pavimentata con tronchi d'albero nelle depressioni. Ti spezzava la schiena, ma evitava che la macchina si spegnesse. Per peggiorare le cose, l'auto blindata sembrava avere delle sbarre d'acciaio come ammortizzatori. «Meglio tenere la bocca chiusa» disse Novotny. «Senza offesa» soggiunse.
Morath non vide la fortificazione finché non vi furono giunti quasi sopra: pareti di cemento spezzate dalle fenditure per le armi e scavate nel fianco della montagna, e fortini indipendenti nascosti nella distesa del terreno. «Si vedono e non si vedono» disse il generale, chiaramente orgoglioso dell'opera. Morath era colpito, e lo fece vedere. La spia sorrise, soddisfatta della sua reazione. All'interno, un netto odore di cemento fresco e terra umida. «Sulla linea Maginot hanno gli ascensori» disse Novotny mentre scendevano infinite rampe di scale. «Ascensori per gli uomini. Ma qui lo possono usare soltanto le munizioni.» Morath vide che un pozzo era stato scavato nella roccia e dotato di una piattaforma di acciaio che poteva essere manovrata elettricamente o a mano. Il tedesco della spia era atroce. «Così tante fortificazioni saltano in aria per le loro munizioni. Non deve succedere.» Novotny venne raggiunto dal gruppo di ufficiali di guardia. Mentre percorrevano un lungo corridoio, il generale alzò una mano perché Morath si staccasse dal gruppo. «Che ne dice del mio geniere?» «Chi è?» «Un esperto di fortificazioni, ma artista è un termine migliore. Viene dalla Savoia. Laggiù costruiscono queste cose fin dal Rinascimento - la tradizione di Leonardo e tutto il resto.» «È italiano?» Il generale allargò le mani. «Passaporto francese e cultura italiana, anche se lui direbbe savoiardo, ed ebreo di nascita.» La Savoia, una regione montuosa tra la Francia e l'Italia, era riuscita a mantenere l'indipendenza fino al 1860. «Hanno sempre permesso agli ebrei di fare carriera nell'esercito» spiegò il generale. «Lui era un maggiore. Adesso lavora per me.» In fondo a un locale di cemento con un soffitto di un metro e ottanta di altezza, una feritoia per cannone si affacciava su una valle alberata. Gli ufficiali cechi si tennero in disparte, le mani giunte dietro la schiena, mentre il generale, la spia e Morath si avvicinavano all'apertura. «Trovi un fiume» disse la spia. Ci volle un po' di tempo. Un pallido cielo estivo, poi una cresta fitta d'alberi, quindi il fianco verdeggiante di una montagna e la stretta valle che portava al pendio su cui era stata costruita la fortificazione. Finalmente, Morath scorse un nastro blu che serpeggiava fra i pini. «L'ha visto?»
«Sì.» «Tenga.» La spia gli consegnò un batuffolo di cotone grosso come un pugno. Due soldati avvicinarono alla feritoia un cannone da montagna da 105 millimetri e inserirono un proiettile nella culatta. Morath strappò dei pezzi di cotone dal batuffolo, si tappò le orecchie e se le coprì con le mani. Tutti lo imitarono. La bocca del generale formò una parola: «Pronto?». Nicholas annuì e il pavimento tremò mentre una lingua di fuoco fuoriuscì dalla bocca del cannone. Malgrado il cotone, l'esplosione fu assordante. A fondovalle, un bagliore e un pennacchio di fumo grigio sporco. Nel fiume, si disse Morath malgrado non avesse visto cadere il proiettile. Altri cannoni cominciarono a sparare, alcuni dal livello inferiore, altri dai fortini, e sbuffi di fumo risalirono il versante della montagna. Il generale porse un binocolo a Morath. Ora poteva vedere fontane di terra di una decina di metri di altezza, alberi sradicati dal terreno o troncati in due. C'era una stradina che conduceva al fiume. Mentre osservava, una nube arancione di proiettili traccianti attraversò il suo raggio visivo e sollevò una tempesta di terra dalla strada. La spia si indicò le orecchie e Morath si tolse il cotone. La stanza ronzava ancora per lo scoppio. «Visto?» chiese la spia. «Sì.» «Tutte le linee di fuoco s'intersecano, e le fortificazioni si coprono a vicenda. Qualsiasi tentativo di attacco improvviso costerebbe molto caro.» Infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse alcuni fogli di carta e una matita appuntita. «Prego» disse. «Faccia del suo meglio.» «Non posso darle le cianografie, naturalmente, ma non è un problema se fa qualche schizzo» disse quindi il generale. La spia sorrise. «Mio padre amava insegnare il disegno spionistico. "È terribile" diceva.» Lo lasciarono lavorare. Rimase il solo Novotny. «Bene, ora ha conosciuto il nostro esperto.» «Sembra un tipo un po' strano.» «Sì, è molto strano. Ma è un genio. Architetto, matematico, esperto di artiglieria. E conosce anche la geologia e la scienza dell'estrazione mineraria.» Novotny scosse il capo. «Probabile che ne sappia anche di più, è che noi non l'abbiamo scoperto.» Morath disegnò. Non era molto bravo. Si sforzava di illustrare il modo in cui la fortificazione e le sue postazioni indipendenti di artiglieria anda-
vano a incastrarsi nel fianco della montagna. Si rese conto che sarebbero state difficili da bombardare. Perfino uno Stuka sarebbe stato costretto a puntarle direttamente, esponendosi al fuoco delle mitragliatrici non appena avesse superato la cresta della montagna. «Disegni questo locale» disse Novotny. «E non dimentichi l'ascensore per le munizioni.» La sua giornata era appena cominciata. Lo condussero alle altre fortificazioni. In una di queste, affacciata su una strada asfaltata che da Dresda procedeva verso sud, la spia afferrò un legnetto e tracciò dei semicerchi per dimostrare la sovrapposizione dei campi di tiro. Morath strisciò nelle postazioni per due uomini, prese la mira con mitragliatrici puntate su campi di grano mietuti, vide trappole in cui far sprofondare i carri armati e trappole anticarro formate da pali di cemento chiamati «denti di drago», avvolti in abbondanti spire di filo spinato. Scrutò attraverso canocchiali montati su fucili Steyr e sparò con una ZGB 33, la mitragliatrice ceca prodotta a Brno - usata come modello per la Bren inglese, Brno/Enfield - assassinando otto guanciali di piume in procinto di attaccare dall'estremità più lontana di un campo di frumento. «Ottima mira» disse Novotny. Morath inserì il caricatore ricurvo con un sonoro scatto metallico. «Quando racconterà della sua gita in montagna» disse Novotny «non dimentichi di dire che l'Europa starebbe molto meglio se Adolf non avesse il controllo delle officine meccaniche ceche.» Morath assentì. «Naturalmente» rispose «se si dovesse arrivare a quel punto, immagino che i lavoratori del luogo sarebbero... inclini all'errore.» Ma Novotny non ricambiò il suo sorriso da cospiratore. «Che resti fra noi» disse «se quelli che sostengono di essere nostri alleati ci tradissero, potremmo non essere così pronti a offrire le nostre vite per loro. Sono faccende sanguinose, Morath. Ci sono sempre interrogatori e rappresaglie, si può formare un movimento di resistenza soltanto quando alla gente non importa più nulla della propria vita.» Quella sera Novotny lo riaccompagnò all'hotel Europa. Un delizioso crepuscolo estivo, stormi di rondini che si tuffavano e risalivano nel cielo sopra gli alberghi. Nell'atrio, madre e figlia gli sorrisero con più calore del solito. Chi l'avrebbe saputo? Su un divano di pelle, un uomo con un paio di favoriti e un costume da alpinista stava leggendo il «Volkischer Beobachter». LA POLIZIA CECA BRUCIA FATTORIE NEI SUDETI, recitava
il titolo. DECINE DI FERITI. Animali confiscati. Cani uccisi a pistolettate. Tre giovani donne scomparse. Il dottor Lapp, con una paglietta dalla tesa piatta calata sul capo alla sbarazzina, lo aspettava nella sua stanza, facendosi aria con il menu del servizio in camera. «Non l'ho sentita bussare» disse Morath. «A dire il vero l'ho fatto» replicò il dottor Lapp in tono leggermente divertito. «Naturalmente sarei lieto di porgerle le mie scuse, se lo desidera.» «Non si disturbi.» Il dottor Lapp prese a fissare fuori della finestra. I lampioni stradali erano accesi, le coppiette passeggiavano nell'aria di montagna. «Sa, non li posso tollerare, questi cechi.» Morath appese la sua giacca e cominciò a slacciarsi la cravatta. Non voleva che scoppiasse la guerra in Europa, ma in quel momento si sarebbe fatto un bagno. «Non hanno cultura» soggiunse il dottor Lapp. «Loro pensano di averla.» «Che cosa, Smetana? Forse a lei piace Dvořák. Buon Dio!» Morath si sfilò la cravatta, l'appese a un gancio, si sedette sul bordo del letto e si accese una Chesterfield. «Dovrei dirle» proseguì il dottor Lapp «che ho visto il conte Polanyi, non molto tempo fa, e che le manda i suoi saluti. Ha detto che aveva preso in considerazione una vacanza in Gran Bretagna. È vero?» «Sì.» Annuì. «Può ancora andarci?» Nicholas pensò a Cara. «Forse sì, forse no» rispose. «Capisco. Be', se potesse dovrebbe farlo.» «Ci proverò» disse Morath. «Si stanno infiacchendo, gli inglesi. Il «Times» di Londra di stamattina ha scritto che i cechi dovrebbero garantire l'"autodeterminazione" ai tedeschi dei Sudeti, "anche se ciò dovesse significare la loro secessione dalla Cecoslovacchia". Immagino che l'opinione provenga dal gabinetto di Chamberlain. Sappiamo che qualche settimana fa ha incontrato dei corrispondenti americani a un pranzo da Lady Astor e ha detto loro che la Gran Bretagna pensava che i Sudeti avrebbero dovuto essere ceduti alla Germania. Nell'interesse della pace mondiale, si capisce. Il suo vero problema è che non si fida dei francesi, non si fida dei russi e teme, politicamente, la possibilità che l'Inghilterra debba combattere da sola.»
«Non si fida dei francesi?» La risata del dottor Lapp fu secca, sommessa e breve. Era quasi sceso il buio. Rimasero a lungo in silenzio. Finalmente, il dottor Lapp si alzò. «C'è una cosa a cui voglio che dia un'occhiata» disse. «Gliela farò avere domani, se non le dispiace.» Richiuse silenziosamente la porta dietro di sé. Nicholas lasciò la stanza nel buio. Entrò in bagno e fece scorrere l'acqua. Sotto il rubinetto c'era una chiazza di un verde brillante. "Fa bene alla salute, se ci credi" pensò. L'acqua scendeva lentamente, e Morath attese paziente ascoltando i tuoni lontani. Aveva prenotato una telefonata a Parigi per il primo mattino, ma la centralinista chiamò la sua stanza con un'ora di ritardo. «C'è un tale traffico, signore» si scusò. «Straordinario, per agosto.» A Parigi, una voce molto elegante rispose: «Buongiorno, Cartier». Polanyi amava dire che il grande difetto dei poeti era che non cantavano mai il potere del denaro nelle relazioni fra uomini e donne. «E così siamo abbandonati alla mercé dei cinici baristi, romanzieri o zie lubriche.» Divertente quando lo diceva, ma non così spassoso nella vita reale. Morath non si piaceva per aver fatto quella telefonata, ma non riusciva a trovare altra soluzione. L'alternativa erano dei fiori, e i fiori non bastavano. Si ritrovò a raccontare quasi tutto alla commessa. «Capisco» disse lei. Rifletté un istante, quindi aggiunse: «Abbiamo appena creato un nuovo modello, un braccialetto, che potrebbe essere ciò che ci vuole per la signora. Leggermente esotico - smeraldi incastonati nell'argento e onice nero ma molto personale. Una cosa diversa dal solito. Pensa che le piacerebbe?». «Sì.» «Sarebbe la prima ad averlo a Parigi, è un nuovo stile, per noi. Questo le piacerebbe?» Lui sapeva di sì. La commessa gli spiegò che la misura era facilmente modificabile, e che pertanto il braccialetto poteva essere inviato direttamente da Carrier alla residenza della signora. «E infine, monsieur...» Ora c'era una nota diversa nella sua voce: per un istante gli stava parlando dal profondo del cuore. «Il biglietto.» «Scriva soltanto "Con amore, Nicky".» Più tardi, Morath riuscì a mettersi in contatto con un dirigente del Crédit Lyonnais. Un assegno circolare sarebbe stato inviato a Carrier quello stes-
so pomeriggio. Novotny si presentò alle undici e insieme lavorarono quasi tutto il giorno, passando gran parte del tempo in viaggio verso est lungo i confini settentrionali della Moravia e della Boemia. Altre fortificazioni, altro filo spinato, altra artiglieria puntata verso la Germania. «Che ne sarà di tutto questo» domandò Morath «se ai Sudeti verrà concessa l'indipendenza?» Novotny rise. «Passerà a Hitler» rispose. «Con belle strade pianeggianti che portano dritte a Praga. Più o meno cento chilometri, un paio d'ore.» All'imbrunire stavano tornando verso ovest, diretti alla caserma di Kreslice e a una cena del reggimento, una cena d'addio a cui avrebbe partecipato il generale. «Potrebbe tenere un discorso» disse Novotny. Fece una pausa, scrutando nel buio per trovare la strada. Superarono sferragliando la cresta di una montagna, dopodiché Novotny fece lavorare i freni lungo la ripida discesa sul versante opposto. «Děčin» disse; un ammasso di luci fra gli alberi. Era un'ultima dimostrazione, si disse Morath, del fatto che le forze ceche potevano spostarsi a est e a ovest senza tornare sulle strade nelle valli. Avevano migliorato i vecchi sentieri fra i villaggi, usati principalmente per le vacche e le capre. Nei fasci dei fari poteva vedere i punti in cui le buche erano state riempite di ghiaia e pressate. «E poi, dopo il discorso del generale...» disse Novotny. «Sì?» Oh no, avrebbe rifiutato. «Forse vorrebbe considerare...?» Morath rimase accecato. Un'esplosione di luce gialla e poi il buio, con l'abbacinante immagine residua di una stella fiammeggiante. Si premette le mani sugli occhi, ma la stella non si spense. Qualcosa aveva bruciato l'aria davanti al suo volto e aveva proseguito con un sibilo in mezzo agli alberi. Novotny gridò qualcosa, apparentemente in ceco. Nicholas non lo capì. Aprì la portiera e tese la mano verso Novotny, che sembrava pietrificato al volante. Mentre le sue dita afferravano la manica vi furono due colpi secchi di metallo su metallo, seguiti da un altro proiettile tracciante, stavolta al di là del parabrezza. Morath poteva udire la mitragliatrice che sparava disciplinate raffiche di cinque colpi. Quando sentì odore di benzina tirò con tutte le sue forze, trascinando Novotny attraverso il sedile e facendolo uscire dal lato destro dell'auto. Appiattito sul terreno, si strofinò gli occhi mentre la stella cominciava a svanire. «Ci vede?» Novotny aveva ripreso a parlare in tedesco.
«Non molto.» Dal muso dell'auto provenne lo scoppio sonoro di un proiettile che colpiva il blocco motore, seguito dall'odore pungente del vapore che si levava dal radiatore. «Cristo» imprecò Morath. Cominciò ad allontanarsi strisciando dalla strada, trascinandosi dietro Novotny. Penetrò a fatica in un intrico di rami e rampicanti, e una spina gli graffiò la fronte. Cominciava a distinguere sagome grigie che si trasformavano gradualmente in alberi e foresta. Trasse un respiro profondo. Una retina bruciata significava cecità per il resto della vita, Morath lo sapeva. «Lei come sta?» domandò. «Meglio.» Novotny si tastò l'attaccatura dei capelli con il dito indice. «Mi ha letteralmente ustionato» disse. Il mitragliere si stava accanendo sull'auto. Cosparse di fori smerigliati il finestrino, poi fece esplodere le gomme. Morath udì degli spari in lontananza e vide una luce arancione tremolare su una nube sopra la città. «È l'invasione?» domandò. Novotny sbuffò con disprezzo. «Sono i tedeschi oppressi dei Sudeti» disse. «Che chiedono giustizia e uguaglianza.» Morath si mise in ginocchio. «A Děčin saremo più al sicuro.» «Non posso» disse Novotny. «Senza il mio bastone.» Moradi strisciò fino all'auto, aprì la portiera posteriore, si appiattì sul sedile e recuperò bastone e pistola. Novotny fu lieto di riaverli. Si alzò barcollando, strinse il calcio della pistola, aprì il lembo della fondina con i denti e si fece scivolare il cinturone sopra la spalla liberando l'arma. «E adesso che vengano pure» disse ridendo di se stesso e dell'assurdità della situazione. Attraversarono i boschi, Novotny zoppicando e ansimando ma tenendo testa a Morath. Per come andarono le cose, fu una fortuna che indossasse l'uniforme. Quando giunsero a Děčin, per poco non vennero falciati da un miliziano sedicenne che era armato di pistola mitragliatrice. Diretti alla stazione di polizia proseguirono per i vicoli, i cui muri erano bucherellati e scrostati dai proiettili. «Sapevo che c'erano dei problemi da queste parti» disse Nicholas. «Marce e incidenti, lo si vede nei cinegiornali. Ma niente di tutto questo.» Da Novotny, un sorriso acido. «Sono unità commando, armate e addestrate dalle SS. I cinegiornali non ne parlano.» Il vicolo terminava su una strada laterale; Morath e Novotny si accovac-
ciarono al limitare di un muro di stucco. Alla loro sinistra, sul versante opposto di un ampio viale, la scuola della cittadina era in fiamme, ed esplosioni di scintille rosse si levavano nella notte. Le fiamme illuminavano due corpi, i volti premuti sull'angolo fra la strada e il marciapiede. Uno di loro aveva un piede scalzo. «Vada avanti lei» disse Morath. C'era un tocco di nobiltà nella sua offerta: «Attraversare la strada per primo» era un sacro assioma in battaglia. Gli artiglieri nemici vedevano il primo e sparavano al secondo. «Grazie lo stesso» rispose Novotny. «Andremo insieme.» Ciò nonostante Morath prese il lato rivolto verso il fuoco nemico, ma giunto a metà strada esaurì le riserve di spacconeria, afferrò Novotny per i fianchi e insieme galopparono verso un riparo - una corsa a tre gambe - ridendo come matti mentre i proiettili cantavano attorno a loro. Impiegarono venti minuti per raggiungere la stazione di polizia, dove una bandiera ceca a brandelli penzolava floscia sopra le finestre sbarrate. «Poveretta» disse il capo della polizia di Děčin. «Questi stronzi continuano a spararle.» Una strana scena alla stazione. Poliziotti, alcuni dei quali fuori servizio al momento dell'attacco - uno di loro sparava dalla finestra con un tovagliolo ancora infilato nella cintura - qualche soldato e alcuni cittadini. In un angolo, disteso su una scrivania, intento a premersi una compressa di garza su una sanguinolenta ferita alla testa, c'era un uomo alto e magro con una camicia dal colletto alto, una giacca a coda di rondine e un paio di occhiali con una lente incrinata. «Il nostro insegnante di latino» spiegò il capo della polizia. «L'hanno picchiato. Hanno fatto irruzione nella scuola, hanno cominciato a lanciare i libri di testo in ceco in mezzo alla strada e a dargli fuoco, si sono messi a cantare e hanno incendiato la scuola. Poi hanno marciato per il quartiere intonando "Istruite i nostri figli in tedesco", mentre un operatore filmava tutto dal tettuccio di una macchina. Noi non abbiamo fatto niente. Abbiamo degli ordini precisi, non rispondere alle provocazioni. E così siamo rimasti lì a sorridere senza farci coinvolgere, abbiamo chiamato l'infermiera per medicare il professore di latino e tutto stava filando a meraviglia. Ma naturalmente loro hanno l'ordine di provocarci a tutti i costi, e così hanno sparato a un poliziotto. Lui ha risposto al fuoco, c'è stato un fuggi fuggi generale e adesso eccoci qui.» «Avete avvertito l'esercito via radio?» chiese Novotny. Il poliziotto annuì. «Stanno arrivando. Con gli autoblindo. Ma hanno
quattro o cinque di queste situazioni di cui occuparsi, e così potrebbe passare del tempo.» «Avete armi per noi» disse Morath. Non era una domanda. Prima che il capo della polizia fosse in grado di rispondere, Novotny gli rivolse una rapida frase in ceco. Più tardi, mentre raggiungevano la zona sicura della cittadina, gli diede una spiegazione. «Mi dispiace» disse. «Ma mi ucciderebbero, se lasciassi che le succeda qualcosa.» Ma la zona sicura della città non era poi così sicura. In fondo a una strada serpeggiante incontrarono il carro e il cavallo del lattaio, il quale giaceva bocconi sui ciottoli con la testa coperta dalla parte posteriore della giacca. Il cavallo, pazientemente fermo con il suo carico di latte e il paraocchi, si voltò e li guardò passare. Il capo della polizia aveva spiegato loro come raggiungere una mostruosità a tre piani di mattoni, forse la casa più grandiosa di Děčin, su un ampio viale ombreggiato dai tigli. L'edificio era sorvegliato da due poliziotti con elmetti alla francese e fucili. Morath e Novotny seguirono uno dei due in uno stipatissimo salotto all'ultimo piano, le cui pareti erano affollate da ritratti a olio di individui molto grassi vestiti con abiti decisamente costosi. Mentre Morath e Novotny vi si accomodavano, un funzionario locale giunse sbuffando dalle scale con in mano due registri, seguito a ruota da un impiegato e un segretario con altri due volumi. Continuando ad ansimare si arrestò di botto, fece un inchino educato, ruotò sui tacchi e si allontanò di gran carriera. «Il signor sindaco» spiegò il poliziotto. «I tedeschi provano di continuo a dar fuoco al municipio, e così lui porta qui i registri delle tasse.» «Provano di continuo?» Annuì con aria truce. «È la terza volta da marzo.» Morath si affacciò alla finestra del salotto e osservò Děčin. A sentire il poliziotto, le unità tedesche avevano preso possesso di diversi edifici - garage e piccoli laboratori nella parte settentrionale della città - e della stazione ferroviaria. Nicholas li scorse in un paio di punti mentre cambiavano posizione: sagome informi con berretti con visiera e giubbotti che correvano chini lungo i muri. A un certo punto vide chiaramente un mitragliere e il suo aiutante sorpresi per un attimo dal bagliore di un lampione stradale: uno trasportava una mitragliatrice Maxim, l'altro il treppiede e le strisce di munizioni. Sgattaiolarono nel buio, scomparendo fra gli uffici deserti e il lato opposto del viale.
Mezzanotte. Il crepitio delle armi da fuoco s'intensificò. Poi le luci in città si spensero, e qualche minuto dopo giunse una chiamata via radio e Novotny e il poliziotto di grado superiore tornarono alla stazione. L'altro agente salì all'ultimo piano, si tolse l'elmetto e si sedette su un divano. Era giovane, si accorse Morath; non doveva aver superato di molto i vent'anni. «Gli autoblindo dovrebbero arrivare presto» annunciò. Morath fissò la strada. La si scorgeva a malapena; la notte calda e nebbiosa era oscurata dal fumo degli edifici in fiamme. Gli spari lontani diminuirono d'intensità e poi smisero del tutto, rimpiazzati da un pesante silenzio. Morath controllò l'ora. Le due e venti. Cara stava probabilmente dormendo nell'Avenue de la Bourdonnais, a meno che non fosse uscita. Il braccialetto doveva esserle arrivato quel pomeriggio. Strano, come sembrava tutto lontano. "Non così lontano." Rammentò i bar sulla spiaggia mediterranea, il fragore delle onde, la gente che diceva: «Le otto e mezzo a Juan-les-Pins, le nove e mezzo a Praga». Un rumore cupo e distante, che si trasformò nel rombo di grossi motori. Il poliziotto balzò in piedi. Era apertamente sollevato; Morath non si era reso conto di quanto fosse spaventato. «Ora vedremo» disse, passandosi la mano su un ciuffo ribelle color frumento. «Ora vedremo.» Due degli autoblindo avanzarono lentamente lungo il viale, procedendo a non più di una quindicina di chilometri orari. Uno si staccò e si diresse verso la zona settentrionale della città, l'altro rimase in mezzo alla strada facendo ruotare lentamente la torretta mentre l'artigliere cercava il suo bersaglio. Qualcuno - un qualcuno non troppo intelligente, pensò Morath - aprì il fuoco. La risposta fu una cannonata, una fiammata e un boato irregolare che rotolò sulle strade deserte. «Idiota.» «Un cecchino» disse il poliziotto. «Cercano di centrare il foro di puntamento della torretta.» Stavano entrambi in piedi davanti alla finestra. Mentre l'autoblindo avanzava, vi fu un secondo sparo. «L'ha visto?» chiese il poliziotto. Nicholas scosse il capo. «A volte si riesce a vederli.» Ora era eccitato e parlava con un bisbiglio sonoro. S'inginocchiò alla finestra, posò il fucile sul davanzale e prese la mira. L'autoblindo scomparve. Dall'altro lato della città uno scontro serio, con cannoni e mitragliatrici. Sporgendosi dalla finestra, Morath credette di
scorgere le fiammate delle bocche da fuoco. Qualcosa esplose, un autoblindo passò a gran velocità diretto verso la battaglia. E qualcosa si era incendiato. Molto lentamente i profili degli edifici diventarono più netti, sfiorati dalla luce arancione. Al piano inferiore, in cucina, la radio emise una rabbiosa scarica statica. «Scheisse» imprecò sottovoce il poliziotto mentre correva a rispondere. Le quattro del mattino. Il poliziotto stava russando sul divano mentre Morath. faceva la guardia. L'agente si era scusato per la sua stanchezza. «Abbiamo passato due giorni in strada» aveva detto. «Combattendo con i manganelli e gli scudi.» Nicholas fumava per stare sveglio, badando bene a tenersi lontano dalla finestra quando accendeva un fiammifero e coprendo la brace della sigaretta con la mano. A un certo punto, con sua grande sorpresa, un treno merci attraversò la cittadina. Lo udì arrivare da molto lontano. Non si fermò; gli sbuffi lenti della locomotiva proseguirono da est a ovest, e Morath rimase in ascolto finché il suono si spense in lontananza. Una sagoma. Morath si destò del tutto, spense la sigaretta sul pavimento, prese il fucile dall'angolo e lo posò sul davanzale. Era lì? Non gli sembrava. Uno spettro, un fantasma. "Gli stessi fantasmi che vedevamo in Galizia." Fino all'alba. Ma no. Non questa volta. Una figura in ginocchio, rasente il muro di un edificio sul lato opposto del viale, perfettamente immobile. Si alzò, fece qualche metro di corsa e si fermò di nuovo. Reggeva qualcosa in mano, si disse Morath. Tastò l'otturatore del fucile per sincerarsi che fosse in posizione, quindi lasciò che il dito si posasse delicatamente sul grilletto. Quando socchiuse gli occhi sul mirino perse di vista la figura finché tornò a muoversi. La seguì con il fucile mentre si alzava, correva e si inginocchiava. Si alzava, correva e si inginocchiava. Si alzava, correva. Morath la seguì, premette il grilletto. Il poliziotto lanciò un grido e rotolò giù dal divano. «Che succede?» chiese senza fiato. «Sono arrivati?» Morath scrollò le spalle. «Avevo visto qualcosa.» «Dove?» Il poliziotto gli si inginocchiò accanto. Morath guardò, ma non vide nulla. Ma era lì un'ora dopo, nella luce grigia, quando attraversarono il viale. «Una staffetta» disse il poliziotto. «Per rifornire il cecchino.»
Forse. Poco più di un ragazzo, era stato sbalzato all'indietro, era caduto nell'ingresso di uno scantinato ed era morto lì, a metà scalinata, le braccia spalancate per arrestare la caduta, un panino avvolto nella carta di giornale lasciato cadere sul marciapiede. All'alba tornarono alla stazione di polizia, ma questa non esisteva più. Restavano soltanto un involucro carbonizzato, travi annerite e fumo che si levava dall'interno. Un angolo dell'edificio era stato abbattuto - una granata, si disse Morath, o una bomba fatta in casa. Non c'era modo di saperlo, poiché non era rimasto nessuno. Nicholas si trattenne sul posto, parlando con i vigili del fuoco che si aggiravano alla ricerca di qualcosa da fare. Poi arrivò un capitano dell'esercito e lo riaccompagnò all'albergo. «Non è morto soltanto Novotny» disse. «Abbiamo perduto altri tre uomini, erano accorsi in bicicletta da un osservatorio quando hanno sentito la chiamata radio. E il capo della polizia, diversi agenti e miliziani. Alla fine hanno fatto uscire gli ubriachi dalle celle e li hanno armati di fucili.» Scosse il capo, infuriato e disgustato. «Qualcuno ha detto che hanno cercato di arrendersi quando l'edificio è andato in fiamme, ma che i tedeschi non gliel'hanno concesso.» Rimase in silenzio per qualche istante. «Non lo so, potrebbe non essere vero» soggiunse quindi. «O forse non ha importanza.» Nell'atrio dell'Europa c'era un mazzo di gladioli in un vaso d'argento su un tavolo. Rientrato in camera, Morath dormì un'ora, ma poi non riuscì più a chiudere occhio. Ordinò caffè e panini, lasciò quasi tutto sul vassoio e chiamò la stazione ferroviaria. «Certo che partono» gli dissero. Mentre riagganciava la cornetta udì bussare alla porta. «Asciugamani puliti, signore.» Aprì e il dottor Lapp si sedette in poltrona. «Allora, dove sono i miei asciugamani?» «Sa, una volta lo feci davvero. Ai vecchi tempi. Avevo l'uniforme da cameriera e spingevo il carrello.» «Avrà provocato... almeno un sorriso.» «No, in realtà. L'uomo che aprì la porta era cinereo.» Morath cominciò a preparare i bagagli, ripiegando mutande e calze nella valigia. «A proposito» soggiunse il dottor Lapp. «Ha conosciuto le due donne che stavano sedute nell'atrio?» «Non esattamente.» «Ah no? Non ne ha, ehm, approfittato?»
Un'occhiata di traverso. "Le ho detto di no." «La ragione per cui glielo chiedo è che ieri sera sono state arrestate. Proprio in questa stanza, guarda caso. Le hanno condotte via in manette.» Morath si fermò di colpo, reggendo in mano una coppia di spazzole d'argento. «Chi erano?» «Tedesche dei Sudeti. Molto probabilmente lavoravano per il Sicherheitsdienst, l'SD, il servizio segreto delle SS. La cosa ha causato un certo clamore al pianterreno. "A Marienbad! Insomma!" Ma le due signore non ci hanno fatto molto caso, ridevano e scherzavano. I cechi non possono fare altro che trattenerle una notte alla stazione di polizia, ed è già tanto.» Morath infilò le spazzole nelle due tasche di un astuccio di pelle, poi ne chiuse la cerniera. Il dottor Lapp si infilò la mano in tasca. «Già che sta preparando i bagagli.» Gli porse una bustina di cellofan, un quadrato di un paio di centimetri. All'interno c'era un negativo ritagliato da una pellicola. Morath lo sollevò alla luce e vide un documento dattiloscritto in tedesco. "Una condanna a morte." Aveva infilato i suoi disegni sulle fortificazioni di montagna in una busta marroncina e l'aveva fatta scivolare lungo il fianco della valigia. Pensava di potersela cavare, anche se fosse stato perquisito. Avrebbe potuto dire che era una proprietà in vendita, o gli schizzi per un rifugio di montagna. Ma non con quel negativo. «Che cos'è?» «Un promemoria su carta intestata dell'Oberkommando der Wehrmacht. Dal generale Ludwig Beck, che ha appena dato le dimissioni dal comando dell'OKW, al suo superiore, il generale von Brauchitsch, il comandante in capo dell'esercito tedesco. Dice che Hitler "deve rinunciare all'intenzione di risolvere la questione ceca con la forza". A dire il vero di persona ha detto molte altre cose, come sbarazzarsi della Gestapo e dei capi del partito nazista e restituire la Germania "alla rettitudine e alla semplicità". Poi, in segno di protesta, ha dato le dimissioni. E le opinioni del suo successore, il generale Halder, sono ancora più ferme di quelle di Beck.» «Mi chiederanno come l'ho ottenuto.» Il dottor Lapp annuì. «L'Abwehr, il servizio segreto militare, fa parte dell'OKW. Frequentiamo le stesse riunioni, e la sera le stesse cene.» Accavallò le gambe, picchiettò con un dito sul tacco della scarpa e gli scoccò un'occhiata che diceva: "Naturalmente sa dove metterlo". Si sporse sul tavolo, prese il coltellino da burro dell'hotel Europa dal vassoio, lo resse alla luce esaminandone la lama e infine lo porse a Morath. Questi si tolse la
scarpa e si mise al lavoro sul tacco. Era molto stanco e stufo del mondo intero, e dovette sforzarsi di essere paziente e diligente. Sollevò un angolo del tacco e vi inserì il negativo. Non funzionava; poteva vedere lo spazio a occhio nudo e lo percepiva camminando. Il dottor Lapp si strinse nelle spalle. «Improvvisazione» disse lasciando che la sua voce si spegnesse in un sospiro. «Non so con chi riuscirà a parlare, Herr Morath, ma più sarà influente meglio sarà. Stiamo aprendo tutte le linee di comunicazione che possiamo, una di sicuro funzionerà.» A giudicare dal tono della sua voce non ci credeva; sembrava stesse cercando di convincersi che due più due facevano cinque. «Tutto quello che chiediamo agli inglesi è che non facciano nulla.» Alzò gli occhi su Nicholas. «È pretendere troppo?» Morath controllò l'ora, si accese una sigaretta e si sedette per aspettare il momento di andare alla stazione. L'albergo era silenzioso; voci smorzate in corridoio, il suono di un aspirapolvere. «Il mio povero paese» disse il dottor Lapp. Rovistò nel taschino interno della giacca, ne estrasse un paio di occhiali in una custodia di pelle e quindi una scatoletta di metallo. «Forse è meglio che prenda questa.» Morath l'aprì e vi trovò una spilla d'oro a forma di svastica. Se l'appuntò al taschino sul petto e andò a specchiarsi in bagno. «La usi quando arriva al confine tedesco» disse il dottor Lapp posando la mano sulla maniglia della porta. «Ma si ricordi di toglierla prima di entrare in Francia.» «Le due donne» disse Morath. «Erano qui apposta per me?» Il dottor Lapp scosse lentamente la testa con espressione triste. «Lo sa Dio» rispose. «Io no di certo.» 17 agosto. Bromley-on-Ware, Sussex. Morath si fermò all'imboccatura del vialetto di ghiaia mentre il taxi si allontanava sferragliando lungo la via. L'amico di Francesca, Simon l'avvocato, gli andò incontro con un sorriso attraverso il prato. Portava pantaloncini corti e sandali, una camicia bianca con i polsini arrotolati, una giacca gettata sulle spalle, una pipa fra i denti e un giornale sottobraccio. Dietro di lui, una casa di mattoni dai numerosi comignoli, un cielo azzurro, una nuvola bianca. Simon gli prese la borsa con una mano e il braccio con l'altra, disse in inglese: «Sono così lieto che tu sia venuto, Nicholas» e poi passò al francese.
C'era una terrazza: donne in abiti a pois, uomini con capelli bianchi e bicchieri di scotch. Un abbraccio da Cara, arrivata qualche giorno prima di lui, e qualche parolina all'orecchio. Non l'aveva esattamente perdonato, ma era un sollievo riaverlo sano e salvo. E a Morath bastò qualche minuto per capire che si stava divertendo. «Piacere, Bromley.» "Dunque è il suo villaggio, e il suo castello, e i suoi contadini." «Buongiorno, Mr Bromley.» «No, eh eh, Bramble!» «Mr Bramble?» «No, no. Bram-well. Già. Mmm.» Le natiche nude di Cara erano bluastre alla luce della luna del Sussex. «Troppo rumore!» bisbigliò. «Il letto cigola, non posso farci niente.» «Méchant! Non possiamo fare tutto questo chiasso. Ecco, sdraiati sulla schiena.» La riva del fiume era oltre un pascolo. «Attento alle cacche» lo avvertì Simon. Si sedettero su una panchina accanto a un enorme salice, dove il sole scintillava sull'acqua sbucando dall'ombra dell'albero. «Ho un vecchio amico» disse Morath. «Quando ha saputo che sarei venuto in Inghilterra per le vacanze, mi ha chiesto di portare alcuni documenti.» «Oh?» Simon aveva immaginato che le «chiacchiere in privato» riguardassero Cara, le donne, quel genere di cose. «Documenti?» «Documenti confidenziali.» «Oh.» L'avvocato aveva una zazzera di capelli castani che si scostò dalla fronte. «Allora sei una spia, Nicholas?» «No. Soltanto uno a cui non piace Hitler» rispose Morath. «A cui non piacciono gli Hitler.» Disse a Simon delle difese ceche sulle montagne e del promemoria del generale Beck. «Il mio amico crede» spiegò «che Hitler non possa essere rovesciato a meno che non fallisca. Se il vostro governo resisterà, lui fallirà. In un modo o nell'altro.» Simon ci rifletté per un minuto. «È difficile, capisci, perché ci sono due schieramenti. Come sempre in politica, a dire il vero. Da un lato, la parte che vuole consegnare i Sudeti a Hitler, c'è Nevile Henderson, l'ambasciatore in Germania. Molto favorevole ai tedeschi - favorevole ai nazisti,
si dice - e profondamente anti-ceco. Ma Chamberlain gli dà retta. Nell'altro schieramento c'è gente come Vansittart, il consigliere del ministro degli Esteri, che starebbe più dalla parte di Churchill. Sicché la domanda è questa: a chi ci rivolgiamo? Per me, capisci, Vansittart è l'eroe e Henderson il cattivo.» Un homme néfaste, lo definì Simon. Un uomo che fa del male. «D'altra parte» proseguì «se trovassi un amico che può parlarne a Vansittart, non finiresti semplicemente per predicare ai convertiti?» Morath credeva che Simon avesse poco meno di trent'anni, ma a volte gli sembrava molto più giovane e sciocco. In quel momento, tuttavia, gli parve a un tratto più vecchio, molto più vecchio. Simon fissava l'acqua lenta del fiume. «Allora» soggiunse. «Che fare?» Nicholas non lo sapeva. La serenità della campagna - del paese stesso era come l'aria primaverile; faceva sembrare il continente e i suoi intrighi stupidi, brutali e distanti. Alla fine, Simon si mise al telefono e scambiò due parole con l'amico di un amico. Il quale passò a bere qualcosa quella sera stessa. Lasciati soli sulla terrazza con lo spaniel di famiglia, procedettero incespicando in una combinazione fra l'indeciso inglese di Morath e il francese accademico dell'amico dell'amico. Ciò malgrado, ce la fecero. Nicholas spiegò i sistemi di difesa, consegnò il promemoria e riferì il messaggio del dottor Lapp con tutta l'energia che possedeva. Andò decisamente meglio il giorno dopo, quando l'amico dell'amico - gran bell'abito, gradi militari - si portò dietro uno gnomo sorridente che parlava ungherese, l'ungherese di Budapest. «Un amico a Parigi ci farebbe comodo» gli dissero. Morath declinò l'offerta con un sorriso. Dopo quell'inizio non furono esattamente scortesi. Curiosi. Come mai era coinvolto in quella faccenda? Era semplicemente un agente del VK-VI, il servizio segreto ungherese? Aveva incontrato dei tedeschi? Ma non erano fatti loro, perciò Morath non rispose e alla fine venne salvato dalla madre di Simon, che uscì sulla terrazza e parlò e rise e civettò con loro finché se ne andarono. Agosto del 1938, tutti lo chiamavano «l'estate prima della guerra». Di sera le radio gracchiavano e le cicale stridevano. I cechi si erano mobilitati, la flotta britannica aveva iniziato le operazioni, Beneš aveva offerto a Henlein e ai tedeschi dei Sudeti tutto ciò a cui entrambi erano stati in grado di pensare, cominciando dalla completa autonomia e procedendo da lì. Ma non era sufficiente. In Inghilterra venivano distribuite le maschere antigas
e nei parchi di Londra venivano scavate trincee per gli attacchi aerei. «Ma che ne sarà di lei, Nicholas?» gli domandò a pranzo la madre di Simon. Morath ci aveva pensato. Più di quanto avrebbe voluto. Immaginava che sarebbe stato richiamato in servizio, con l'ordine di presentarsi alla caserma del suo reggimento di Budapest fra grassocci agenti di cambio e avvocati stempiati, e di combattere a fianco della Wehrmacht. Una notte scoprì Cara con il braccialetto di Carrier al polso, distesa bocconi sul copriletto, il volto in lacrime affondato nel guanciale. «Dirò a mio padre di vendere una delle estancias» sussurrò «per comprarmi una villa a Lugano.» All'aperitivo del giorno dopo venne attaccato - era l'unica espressione che calzava - da un vicino in uniforme da ufficiale dell'esercito, inferocito e paonazzo. Aveva un accento totalmente incomprensibile - le sue parole scomparivano in un paio di folti baffi neri - e Morath indietreggiò senza sapere cosa fare. Fu Simon a salvarlo, portandolo via perché doveva assolutamente conoscere lo zio di Perth. In quella casa nel Sussex furono terribilmente, quasi violentemente gentili con lui. Un pomeriggio piovoso, mentre tutti giocavano a bridge, Morath e Cara andarono a rovistare in una cassapanca e vi trovarono un puzzle ormai sbiadito. Rappresentava «La disfatta dell'Invincibile Armata». A proposito, il 26 agosto la radio riferì la visita dell'ammiraglio Horthy nel Reich, precisamente a Kiel, apparentemente in qualità di ultimo comandante della marina austro-ungarica, per varare una nuova nave da guerra tedesca, la Prinz Eugen, e per intrattenere, disse la BBC, «un colloquio privato con il cancelliere Hitler». Nessuno nel salotto guardò Morath; tutti gli occhi trovarono qualcosa di infinitamente più interessante. Ciò che la BBC non disse lo disse il conte Polanyi tre settimane dopo, quando si videro a Parigi. L'intera faccenda era una messa in scena perché Hitler potesse dire a Horthy quanto segue: «Se volete partecipare al banchetto, dovete aiutare a prepararlo». Ci vollero due macchine per accompagnarli alla stazione. Alla loro partenza, le donne di servizio e il giardiniere si fermarono sulla soglia di casa. Il 31 di agosto si rivelò, naturalmente, una giornata diabolicamente perfetta. Il cielo azzurro chiaro, le nubi dai profili cesellati come illustrazioni di un libro per bambini, il piccolo treno di un'epoca passata. Simon gli strinse la mano e disse: «Speriamo che tutto vada per il meglio, giusto?». Nicholas annuì. Cara si asciugò gli occhi con un fazzoletto e si aggrappò a Fran-
cesca mentre il treno entrava in stazione. E la madre di Simon prese le mani di Morath nelle sue. Aveva tranquilli occhi grigi, e gli rivolse un lungo sguardo. «Sono così felice che sia venuto» disse. «E vogliamo che torni, Nicholas. Ci proverà, non è vero?» Lui glielo promise, tenendola per mano. Il treno della sera per Budapest Parigi quel settembre era tesa e tormentata, sull'orlo della guerra, più tetra di come Morath l'avesse mai vista. Il retour, il ritorno alla vita quotidiana dopo le vacanze d'agosto, era solitamente un bel momento per la città, ma non quell'autunno. I parigini fecero ritorno in ufficio, alle cene, alle storie d'amore, ma Hitler sbraitava da ogni giornalaio togliendo loro ogni gusto per tutto ciò. «Che vengano pure a sganciare le loro bombe, sono stanco di aspettare» disse il cameriere del caffè da cui Morath passava ogni mattina. Non potevano sopportarla, l'idea di un'altra guerra; in realtà non si erano mai ripresi dall'ultima. L'uomo che era rientrato dalle trincee e aveva fatto l'amore con sua moglie il giorno della fine della guerra, nel 1918, ora aveva un figlio di diciannove anni, l'età giusta per l'esercito. Il 6 settembre i giornali si domandarono se la questione dei Sudeti valesse davvero una guerra mondiale. Il giorno dopo, un editoriale del «Times» di Londra appoggiò la scissione. In Germania, il raduno annuale del partito nazista a Norimberga cominciò il 6 e sarebbe terminato il 12, con sfilate alla luce delle fiaccole, vergini ginnaste e il gran finale, un discorso nella colossale Sala dei Cinquantamila in cui il Fùhrer prometteva di rivelare che cosa aveva in mente per i cechi. Il 10, la radio parigina riportò la dichiarazione di Roosevelt che era «sbagliato al cento per cento» dare per scontato che gli Stati Uniti si sarebbero uniti all'Inghilterra e alla Francia in una guerra per la Cecoslovacchia. L'11, il proprietario della cartoleria di Rue de Richelieu mostrò a Morath il vecchio fucile Lebel che aveva conservato dalla Grande Guerra. «Ecco la mia risposta» disse. Che risposta era? Il suicidio? L'uccisione di un turista tedesco? Il tiro a segno contro la Wehrmacht? «Ci ha messi nella posizione che più gli fa comodo» disse Polanyi a pranzo sul Quai de la Tournelle. «Hai visto il cinegiornale sull'arrivo di Horthy alla stazione di Kiel?» Morath non l'aveva visto. «Mi si intravede
appena sopra la spalla del conte Csáky.» Spiegò che all'Ungheria era stata offerta la restituzione dei territori contesi se avesse accettato di marciare sulla Slovacchia quando Hitler avesse attaccato i cechi. «Horthy ha declinato l'offerta. Sulla base del fatto che abbiamo a malapena un esercito, che possiede pochissime armi e munizioni.» Polanyi proseguì riferendogli le osservazioni di Hitler sul banchetto e sulla cucina. Stavano mangiando blanquette de veau sulla terrazza di un ristorante normanno. Polanyi attese che due giovani si allontanassero a passi rapidi. «E così, naturalmente» riprese «alcune unità sono state richiamate in servizio. Ma ho fatto sì che tu non fossi tra loro.» Intinse una forchettata di patate fritte in un piattino di maionese, quindi fece una pausa e soggiunse: «Spero di aver fatto la cosa giusta». Morath non si prese la briga di rispondere. «Perché sprecare la vita in caserma?» fece Polanyi. «E poi ho bisogno di te.» Alle otto e mezzo del mattino del 14 settembre - Chamberlain era andato in volo a Berchtesgaden per parlare con Hitler - il telefono squillò nell'appartamento di Morath. Era Cara, con una voce che lui non le aveva mai sentito usare. «Spero che verrai a dirmi addio» disse. «Che cosa...?» cominciò a rispondere lui, ma Cara riagganciò. Venti minuti dopo era da lei. Trovò la porta aperta ed entrò. Due uomini in camice nero stavano piegando i vestiti di Cara nei cassettoni di un enorme baule, la cui sezione adibita ad armadio era già stipata di vestiti su piccole grucce. Un terzo uomo, più grosso degli altri due, li osservava in piedi con le braccia incrociate sul petto. Un autista o una guardia del corpo, valutò Morath, con un volto scuro e grave e una giacca senza colletto. Quando Nicholas entrò nella stanza, fece un mezzo passo verso di lui e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Cara era seduta sul bordo del letto e reggeva sulle ginocchia il nudo di Picasso nella sua cornice dorata. «Monsieur Morath» disse in tono torpido e piatto «mi permetta di presentarle mio padre, il Señor Dionello.» Un ometto basso si alzò dalla sedia della camera da letto. Aveva baffi sale e pepe e portava un abito doppiopetto a righe bianche e nere e un cappello nero stile Borsalino. «Señor» disse, sfiorandosi il cappello e stringendogli la mano. Morath si rese subito conto che era tutt'altro che lieto di fare la conoscenza dell'amante di sua figlia, quarantaquattrenne, ungherese e parigino, ma che avrebbe evitato di fare scenate se lui avesse fatto lo stes-
so. Morath cercò di incrociare lo sguardo di Cara: "Cosa vuoi che faccia?". La famiglia era la famiglia, ma non avrebbe permesso che venisse rapita contro la sua volontà. Cara scosse il capo e chiuse gli occhi. Fu un gesto sottile, un piccolo, fragile cenno di resa, ma gli disse ciò che lui voleva sapere. Si sentì mancare il cuore: l'aveva perduta. Il Señor Dionello le si rivolse in un rapido spagnolo, con un tono tutt'altro che sgarbato. «È la guerra, Nicky» disse Cara. «Mio padre esprime il suo rammarico, ma dice che mia madre e mia nonna hanno il terrore che mi succeda qualcosa.» Mentre Cara parlava, il Señor Dionello rivolse un sorriso dolente a Morath; nella sua espressione c'era la preghiera che capisse, che non lo costringesse a usare il suo potere o il suo denaro per ottenere ciò che voleva. «Mio padre alloggia al Meurice. Dovrò stare con lui per qualche giorno, fino alla partenza della nave.» Morath gli rivolse un cenno del capo, sforzandosi di essere il più gentile possibile. Il Señor Dionello riprese a parlare e gli sorrise. «Mio padre sarebbe lieto se tu volessi cenare con noi in albergo» disse Cara. Esitò, quindi aggiunse: «È molto, per lui». Morath declinò l'invito. Cara tradusse, poi disse: «Un momentito, por favor». Quando uscirono nell'atrio, il Señor Dionello trattenne la guardia del corpo con un piccolo cenno. Cara strinse la camicia di Nicholas fra le dita e prese a singhiozzare in silenzio, affondandogli il volto nel petto. Poi lo spinse via, si asciugò le lacrime con la mano, fece due passi verso la porta, lo guardò un'ultima volta e rientrò nell'appartamento. Il 21 settembre, Chamberlain ci riprovò. Si recò in volo a Bad Godesberg e offrì a Hitler quello che lui sosteneva di volere. I Sudeti, con l'approvazione francese e inglese, sarebbero diventati un possedimento tedesco. Ma il Fùhrer non funzionava nel modo che immaginava Chamberlain. Non appena otteneva ciò che voleva, pretendeva qualcos'altro. Adesso era l'occupazione militare entro il 1° ottobre. Altrimenti, guerra.
E così, il 29 settembre, Chamberlain tornò in Germania, questa volta a Monaco, e acconsentì all'occupazione. L'esercito cecoslovacco abbandonò le fortificazioni e si ritirò dalle montagne. 18 ottobre. Morath fissava fuori del finestrino del treno mentre un minuscolo villaggio sfilava lungo le rotaie. Si chiamava Szentovar? Forse. O forse Szentovar era un altro? Cento chilometri e cent'anni di distanza da Budapest, luoghi in cui i contadini strofinavano ancora l'aglio sulle porte delle stalle per impedire che i vampiri mungessero le vacche durante la notte. Sulla strada, un carro di zingari. Il conducente alzò gli occhi incontrando lo sguardo di Morath dietro al finestrino. Pingue, con tre menti e due occhi intelligenti, forse un prímás, un capoclan. Reggendo mollemente le redini in mano, si voltò e disse qualcosa alle donne sul carro alle sue spalle. Morath non riuscì a vedere i loro volti, soltanto i rossi e i gialli degli indumenti mentre il treno si allontanava sferragliando. Ottobre era un mese morto, si disse. I brutali sviluppi politici si dispiegavano sui giornali. I francesi si rilassavano, congratulandosi con se stessi per aver fatto la cosa giusta, la cosa intelligente, una volta tanto nelle loro vite di sognatori. Morath fumava troppo e guardava fuori della finestra quando si svegliava al mattino. Il suo cuore spezzato l'aveva sorpreso. Si era sempre detto che la relazione con Cara era una cosa di passaggio che si era fermata. Ma adesso che se n'era andata sentiva la mancanza di ciò che aveva dato per scontato, e provava dispiacere per ciò che lei aveva perso. «Quando vivevo a Parigi» avrebbe detto ai suoi amici a Buenos Aires. Il conte Polanyi non gradiva il suo malumore, e glielo disse apertamente. «Tutti siamo stati disarcionati» osservò. «La cosa da fare è rimettersi in sella.» Vedendo che non funzionava, si mise d'impegno. «Non è il momento giusto per autocompatirsi. Hai bisogno di qualcosa da fare? Torna a Budapest e salva la vita a tua madre.» Keletì Pályaudvar. La stazione orientale in cui, trattandosi dell'Ungheria, tutti i treni importanti arrivavano dall'ovest. In strada c'erano taxi, ma Morath decise di camminare: nel tardo pomeriggio di un giorno autunnale, che altro si poteva fare? È il tuo olfatto a dirti che sei a casa, pensò. Caffè bruciato e polvere di carbone, tabacco turco e frutta marcia, acqua di lillà dei barbieri, tombini e pietra umida, pollo alla griglia. E altri odori, sconosciu-
ti, non immaginati. Un respiro profondo, un altro; Morath inspirava la sua infanzia, il suo paese, il ritorno dell'esule. Camminò a lungo per i vicoli acciottolati, diretto più o meno dalla parte opposta della città, verso una villa sulle colline del Terzo Distretto, sul versante del Danubio in cui si trovava Buda. Si attardò, fermandosi a guardare le vetrine. Come sempre in quel momento della giornata una malinconia, un ozio pensoso calava sulla città, e Morath rallentò per adeguarsi al suo ritmo. Alle cinque e mezzo, quando il sole illuminò le finestre di un casamento in Viale Zazinczy tìngendole d'oro, prese il tram numero 7 che attraversava il Ponte delle Catene e andò a casa. Non parlarono nel vero senso della parola fino al mattino successivo. Nel salotto i tappeti non erano stati ancora rimessi dopo l'estate, e quando sua madre parlava si levava una lieve eco. Sedeva perfettamente composta su un'esile sedia davanti alle porte-finestre, una sagoma nella luce del giardino. Era come sempre magra e bella, con capelli color ghiaccio incastonati nell'acciaio e una carnagione pallida che faceva capolino dalla scollatura a V del vestito di seta. «Vedi mai Lillian Frei?» domandò. «Di tanto in tanto. Chiede sempre di te.» «Mi manca. Indossa ancora i vestiti di de Pinna?» «Chi?» «Un negozio sulla Fifth Avenue, a New York.» Morath sollevò educatamente le spalle; non ne aveva idea. «In ogni caso, dalle un bacio da parte mia.» Morath bevve un sorso di caffè. «Vuoi un pasticcino, Nicholas? Posso mandare Malya da Gundel.» «No, grazie.» «Pane e burro, allora?» «Davvero, basta il caffè.» «Oh, Nicholas, quanto sei parigino. Sicuro?» Morath sorrise. Non era mai stato capace di mangiare alcunché prima di mezzogiorno. «Quanto tempo è passato, anyuci, dall'ultima volta che hai visto Parigi?» L'aveva chiamata «madre», come lei preferiva. Non era mai stata «mamma». Sua madre sospirò. «Oh, moltissimo» rispose. «Tuo padre era ancora vivo, la guerra era appena finita. Il '19, può essere?» «Sì.»
«È cambiata? Alcuni dicono di sì.» «Ci sono più automobili. Insegne luminose. Ristoranti dozzinali sui boulevard. Alcuni dicono che non è più come una volta.» «Qui è tutto uguale.» «Anyuci?» «Sì?» «Janos Polanyi crede che, data la situazione in Germania, tu e forse anche Teresa dovreste considerare, dovreste trovare un posto...» Quando sorrideva, sua madre era ancora incredibilmente bella. «Non sei venuto fin qui per questo, spero. Ferenc Molnár si è trasferito a New York. Abita al Plaza e dicono che stia malissimo.» Una lunga occhiata fra madre e figlio. «Non lascerò casa mia, Nicholas.» "E come potevi non saperlo?" Nel pomeriggio andarono al cinema. Una commedia inglese degli anni Venti doppiata in ungherese. Una nave da crociera, locali notturni dai pavimenti scintillanti, un tipo spregevole di nome Randy, un eroe dai capelli lisci chiamato Tony, una bionda con tirabaci che era l'oggetto del contendere e si chiamava Veronica, nome che in ungherese suonava molto strano. La madre di Morath si divertì un mondo. Gettandole un'occhiata di traverso, lui si accorse che gli occhi le brillavano come quelli di una bambina. Rideva a ogni battuta, sgranocchiando caramelle da un sacchetto. Durante una sequenza musicale nel locale notturno, canticchiò seguendo la musica. Akon mikor, Lambeth utódon Bár melyek este, bár melyek napon, Úgy találánd hogy my mind is Sétalják a Lambeth Walk. Ó! Minden kis Lambeth leány Az ö kis, Lambeth parjäval Úgy találnád hogy ök Sétalják a Lambeth Walk. Ó! Dopo il film andarono alla sala da tè dell'hotel Gellert e ordinarono miele di acacia e panna montata su un dolce tostato. Le tre e mezzo del mattino. Nei vasti giardini dai cancelli di ferro del quartiere delle ville qualcuno teneva degli usignoli. A parte questi, Morath
poteva udire il vento fra le foglie autunnali, il cigolio di un'imposta, la fontana di un vicino, il rombo lontano di un tuono, forse a nord, sulle montagne. Ciò malgrado gli era difficile dormire. Disteso sul suo letto, leggeva Freya Stark. Era la terza volta che lo cominciava, un libro di viaggi, avventure nelle selvagge valli montane della Persia. Aveva sempre fatto tardi in quella casa, figlio di suo padre. A volte lo udiva camminare avanti e indietro in salotto. Spesso ascoltava dischi col Victrola mentre lavorava in ufficio, infilando francobolli in bustine di pergamina con un paio di pinzette d'argento. I Morath non erano ricchi, ma suo padre non aveva mai lavorato per denaro. Era stato uno dei grandi filatelici d'Ungheria, preparatissimo sugli esemplari dell'Europa del Diciannovesimo secolo e sui coloniali. Nicholas immaginava che suo padre operasse sui mercati internazionali e forse avesse guadagnato in quel modo. D'altra parte, prima della guerra nessuno aveva bisogno di lavorare. Quanto meno, nessuno di loro conoscenza. Ma dopo Trianon era cambiato tutto. Le famiglie avevano perso le rendite dei terreni in campagna. Ciò malgrado, molte di loro se la cavavano; avevano semplicemente imparato a improvvisare. Era diventato di moda uscirsene con frasi come: «Se solo mi potessi permettere di vivere nel modo in cui vivo». Poi, un giorno del giugno 1919, i comunisti uccisero suo padre. Negli spasmi di caos politico che avevano seguito la fine della guerra era sorta una Repubblica Sovietica d'Ungheria, un governo nato dalla disperazione nazionale talmente illuso da convincersi che Lenin e l'Armata Rossa li avrebbero salvati dai loro nemici, i serbi e i rumeni. Il Soviet era capeggiato da un giornalista ungherese di nome Béla Kun che durante la guerra, arruolato nell'esercito austro-ungarico, aveva disertato ed era passato con i russi. Kun, il suo scagnozzo Szamuelly e quarantacinque commissari esercitarono il loro dominio per centotrentatré giorni, disseminando il terrore in tutta l'Ungheria. Furono cacciati dal paese - oltre confine e poi alla Lubianka - dalle truppe rumene, che occuparono Budapest, vagarono senza meta per le campagne e trascorsero le giornate saccheggiando qua e là finché vennero respinte da un esercito ungherese agli ordini di Miklós Horthy. La controrivoluzione diede vita al Terrore Bianco, che sparò, bruciò e impiccò da un capo all'altro dell'Ungheria prestando particolare attenzione agli ebrei, poiché gli ebrei erano bolscevichi (o banchieri) e Kun e un buon numero dei suoi compagni erano ebrei.
Fu una delle bande erranti di Kun a uccidere il padre di Morath. Era andato a passare il fine settimana nella casa di campagna sulle colline ai piedi dei Carpazi. I miliziani comunisti fecero irruzione in cortile al crepuscolo, pretesero i gioielli per le masse oppresse, spaccarono il naso al fattore, gettarono il padre di Morath in una mangiatoia e presero tre album di francobolli - dei commemorativi lussemburghesi del 1910 -, tutto il denaro che riuscirono a trovare, diverse camicie e un lampadario. Rincorsero le giovani domestiche nel bosco ma non riuscirono a raggiungerle, e in un angolo della cucina appiccarono un fuoco che bucò la parete della dispensa e si spense. Il padre di Morath si asciugò, tranquillizzò le domestiche, posò un cucchiaio freddo sul naso di Tibor per fermare l'emorragia, si versò un bicchiere di acquavite di prugna, si sedette nella sua poltrona preferita e, reggendo delicatamente in mano gli occhiali con le stanghette ripiegate, morì. Morath andò a cena a casa di sua sorella. Una nuova villa, anch'essa nel Terzo Distretto, ma nel quartiere conosciuto come la Collina della Rosa e diventato elegante di recente. Teresa, con un vestito scollato e stivali di feltro rosso decorati di minuscoli specchietti - "oh, Cara" - lo accolse con un abbraccio sensuale e un ardente bacio sulle labbra. «Sono così felice di vederti, Nicholas. Davvero.» Non lasciò la presa finché una domestica non entrò nella stanza. Non era una novità. Teresa aveva tre anni più di lui. Quando lui aveva nove anni e lei dodici le piaceva pettinarlo, scivolava nel suo letto durante i temporali violenti, capiva sempre quand'era malinconico e lo trattava con dolcezza. «Teresa» disse lui. «Il mio unico amore.» Risero entrambi. Morath si guardò intorno. C'erano troppi mobili in casa Duchazy, troppo costosi e troppo nuovi. Come sua sorella avesse potuto sposare quell'idiota di Duchazy non lo sapeva. Avevano quattro figli, fra cui un Nicholas decenne, l'immagine perfetta di quell'idiota di Duchazy. Ma Teresa l'aveva sposato, e le sue preoccupazioni economiche erano da tempo finite. La famiglia Duchazy possedeva mulini da grano: trent'anni prima, a Budapest esistevano più mulini da grano che in qualsiasi altra città al mondo. La madre di Morath, a cui Duchazy piaceva ancora meno che a lui, in privato si riferiva al genero come al «mugnaio». Non il tipico mugnaio. Raggiunse Nicholas a grandi passi e lo abbracciò, un uomo nerboruto dalla postura scomodamente rigida, dai baffetti sottili e
dagli strani occhi verde pallido. Allora, com'era Parigi? Ancora in pubblicità? Ancora scapolo? Che vita! I bambini vennero portati fuori, esibiti e rimessi via. Duchazy versò gli scotch e fece accendere il fuoco. La conversazione vagò qua e là. I Duchazy non erano esattamente nyilás, ma ci andavano vicini. Teresa lo ammonì con uno sguardo, e più di una volta, quando Morath si avventurava in territori delicati. Giunto alla fine del secondo scotch, Duchazy aveva messo un altro ceppo sul fuoco, che scoppiettava allegro in un nuovo caminetto di piastrelle gialle. «Janos Polanyi pensa che nostra madre dovrebbe lasciare Budapest» disse Nicholas. «Per quale ragione?» Duchazy era infastidito. «La guerra» rispose Morath. Teresa scrollò le spalle. «Non accetterà.» «Potrebbe farlo, se foste voi a suggerirglielo.» «Ma noi non lo faremo» disse Duchazy. «Siamo patrioti. E a parte questo, credo che le cose proseguiranno a lungo su questa falsariga.» Intendeva la diplomazia, le dimostrazioni, gli scontri di piazza: il genere di cose che avevano visto nei Sudeti. «Hitler intende dominare i Balcani» proseguì. «Qualcuno finirà per farlo, tanto vale che sia lui. E vuole che la situazione resti tranquilla in Ungheria e a sud - il granaio e i campi petroliferi. Non penso che gli inglesi oseranno sfidarlo, ma se succedesse avrà bisogno di frumento e petrolio. In ogni caso, se saremo furbi resteremo nelle sue buone grazie, perché i confini cominceranno a spostarsi.» «Hanno già cominciato» disse Teresa. Era vero. L'Ungheria, avendo appoggiato l'occupazione dei Sudeti, doveva essere ricompensata con la restituzione di parte dei suoi territori settentrionali, specialmente nella bassa Slovacchia, dove la popolazione era magiara all'ottantacinque per cento. «Il fratello di Laszlo sta combattendo in Rutenia» soggiunse Teresa. Morath era perplesso, e Duchazy le scoccò un'occhiata che significava «sei stata indiscreta». «Davvero?» fece Nicholas. Duchazy scrollò le spalle. «Qui non esistono segreti.» Intendeva, pensò Morath, in quella casa, a Budapest, nel paese stesso. «In Rutenia?» «Vicino a Uzgorod. Ci stiamo scontrando con i polacchi. Loro hanno gli irregolari, su al nord, noi la Rongyos Garda.» La Guardia Irregolare. «E cosa sarebbe?»
«Uomini delle Croci Frecciate, ragazzi di strada e compagnia bella, condotti da alcuni ufficiali dell'esercito in abiti civili. Combattono contro la Sich, la milizia ucraina. Quando gli ungheresi del luogo chiederanno di mettere fine alla situazione di instabilità, manderemo l'esercito regolare. Dopo tutto un tempo quelle terre facevano parte dell'Ungheria, perché dovrebbero appartenere ai cechi?» "Sciacalli" pensò Morath. Ora che la preda era caduta, ne avrebbero sbranato un pezzo. «Il mondo sta cambiando» soggiunse Duchazy. Gli brillavano gli occhi. «Era ora.» La cena fu eccezionale. Carpa in salsa piccante con cipolle, cavoli ripieni di carne trita di maiale e un médoc dei vigneti Duchazy nei pressi di Eger. Dopo cena, Teresa li lasciò e Morath e Duchazy si sedettero accanto al fuoco. Accesero i sigari e per qualche minuto fumarono in un socievole silenzio. «C'è una cosa che volevo chiederti» disse Duchazy. «Sì?» «Alcuni di noi si sono uniti per sostenere Szálasi. Posso aggiungere il tuo nome per un contributo?» Szálasi era uno dei capi delle Croci Frecciate. «Grazie per avermelo chiesto, ma per il momento no» rispose Morath. «Mmm. Be', avevo promesso a qualcuno che te l'avrei chiesto.» «Non c'è problema.» «Vedi mai il colonnello Sombor, alla legazione?» «Non ci vado quasi mai.» «Oh. Ha chiesto di te. Credevo foste amici.» Martedì. Nel tardo pomeriggio Morath prese un tram per il quartiere Kobanya, dove i muri delle fabbriche torreggiavano sui binari lungo entrambi i lati della strada. La sera portava una foschia fumosa, e una lieve pioggerella screziava la superficie del fiume. Una giovane donna era seduta davanti a lui. Possedeva la liquida radiosità di certe ragazze ungheresi, e capelli lunghi che le si sparsero sul volto quando il tram imboccò una curva. Lei se li scostò con una mano e rivolse un'occhiata a Morath. Il tram si fermò davanti a una fabbrica di birra e la ragazza scese insieme a una folla di lavoratori. Alcuni la conoscevano e la chiamarono per nome, e uno di loro le offrì la mano per aiutarla a scendere dall'alto gradino. Il macello si trovava alla fermata successiva, dove un'insegna di metallo
fissata ai mattoni diceva GERSOVICZY. Quando Morath scese dal tram, l'aria odorava di ammoniaca e gli fece lacrimare gli occhi. L'ingresso che conduceva all'ufficio era lontano, dopo le banchine di carico le cui porte aperte lasciavano intravedere le carcasse rosse appese ai ganci e i macellai con i grembiuli di pelle. Uno di loro aveva posato nella segatura la mazza dalla testa di ferro appiattita su entrambi i lati e stava fumando una sigaretta. «L'ufficio?» «Di sopra. Prosegua finché vede il fiume.» Nell'ufficio dei fratelli Gersoviczy c'era una scrivania con un telefono e un'addizionatrice, una vecchissima cassaforte in un angolo e un attaccapanni a stelo dietro la porta. I fratelli lo stavano aspettando. Indossavano lobbie nere, abiti pesanti e cravatte argentate, e avevano i lunghi riccioli e le barbe degli ebrei ortodossi. Appeso al muro c'era un calendario ebraico con la figura di un rabbino intento a soffiare in un corno di caprone. Sul lato superiore si leggeva, in ungherese: «I fratelli Gersoviczy vi augurano un felice e prospero anno nuovo». Una finestra annerita dalla fuliggine si affacciava sul fiume. Su una collina sopra la riva opposta brillavano alcune luci. I fratelli, fumando sigarette, scrutarono Morath nella penombra dell'ufficio non illuminato. «Lei è Morath uhr?» Aveva usato la forma tradizionale, Morath Signore. «Sì. Il nipote del conte Polanyi.» «Si sieda, la prego. Mi dispiace, non possiamo offrirle nulla.» Nicholas e il fratello maggiore, la cui barba era striata d'argento, presero posto su due sedie girevoli di legno; il fratello minore si sistemò sul bordo della scrivania. «Io sono Szimon Gersoviczy» disse. «E questo è Herschel.» Il fratello maggiore gli rivolse un rigido cenno del capo. Szimon parlava un ungherese fortemente accentato. «Siamo polacchi» spiegò. «Siamo arrivati da Tarnopol vent'anni fa. Poi siamo venuti quaggiù. Metà della Galizia si è spostata da queste parti, un secolo fa. Noi siamo venuti per la stessa ragione, per sfuggire ai pogrom, per avere qualche opportunità. E ci è andata bene. Siamo rimasti e abbiamo magiarizzato il nostro nome. Un tempo era semplicemente Gersovicz.» Il fratello maggiore terminò la sigaretta e la spense in un posacenere di latta. «Suo zio ci ha chiesto aiuto, in settembre. Non so se gliel'ha detto.» «No.» «Be', l'ha fatto. Tramite nostro cognato a Parigi. Ci ha chiesto se volevamo aiutarlo, aiutare il paese. Aveva intuito l'infausto presagio, come si
dice.» Esitò un istante. Fuori, lo scoppiettio di un rimorchiatore a motore che trainava una schiera di chiatte verso nord. «Noi non chiediamo niente» riprese Szimon «ma adesso Polanyi sa, e lei anche, e così...» Si avvicinò alla cassaforte e cominciò a comporre la combinazione. Poi sollevò le maniglie e aprì le porte. Herschel si sporse verso Morath. Emanava un forte odore di sudore, cipolle e sigarette. «I nostri fondi sono in pengo» disse. «Forse, se la comunità fosse più coinvolta, potremmo raccoglierli in un'altra moneta. Ma il conte ha voluto che la cosa restasse riservata, e così si tratta soltanto di pochi individui. Szimon e io, la nostra famiglia e un paio d'altre persone, ma principalmente noi.» Szimon cominciò ad accatastare i pengo sulla scrivania, mazzette da cinquanta banconote fissate su un angolo. Sollevò un'estremità delle mazzette, si umettò il pollice e contò in yiddish facendo scorrere i biglietti. Herschel rise. «Per qualche ragione» disse «è difficile farlo in ungherese.» Morath scosse il capo. «Nessuno avrebbe mai creduto che si arrivasse a questo.» «Mi perdoni, signore, ma si arriva sempre a questo.» «Zvei hundrit toizend» disse Szimon. «Come lo chiamerete?» «Non lo so. Il Comitato per l'Ungheria Libera o qualcosa del genere.» «A Parigi?» «O a Londra. Se il paese è occupato, il luogo migliore è il più vicino. Il più vicino e il più sicuro.» «Allora, che ne dite di New York?» «Dio non voglia.» Szimon terminò di contare e pareggiò le mazzette picchiettandone i bordi sulla scrivania. «Quattrocentomila pengo» disse. «Più o meno lo stesso in franchi francesi. O, nel caso Dio voglia, ottantamila dollari.» «Mi dica una cosa» riprese Herschel. «Pensa che il paese verrà occupato? Alcuni consigliano di vendere e andarsene.» «E perdere tutto» disse Szimon. Fece scivolare il denaro sulla scrivania banconote da mille pengo, più larghe di quelle francesi, con incisioni nere e rosse di san Istvan su un lato e di un castello sull'altro. Morath aprì una valigetta, vi posò le mazzette sul fondo e le coprì con Freya Stark. «Non abbiamo elastici?» chiese Herschel.
Nicholas tirò le cinghie e le fissò. Poi strinse la mano, molto formalmente, a ognuno dei fratelli. «Vada con Dio» disse Herschel. Quella sera Morath vide Wolfi Szubl all'Arizona, un Nachtlokal nel vicolo Szint Josef sull'Isola Margherita. Szubl indossava un abito azzurro pallido e una cravatta a fiori e profumava di eliotropio. «Non si sa mai» spiegò a Nicholas. «Wolfi» disse Morath stringendogli la mano. «C'è qualcosa per tutti» replicò Szubl. Lo condusse a un tavolo su una piattaforma accanto alla parete, poi premette un tasto che li rialzò di tre metri. «Qui va bene.» Gridarono per ordinare da bere a un cameriere, vodka polacca che giunse su un vassoio meccanico. L'orchestra indossava smoking bianchi e suonava canzoni di Cole Porter per una pista da ballo affollatissima, che a volte scompariva nel seminterrato in un coro di strilli e risate. Una ragazza nuda fluttuò accanto a loro appesa a un'imbracatura, con una massa di capelli scuri fluenti. La sua posa era artistica, una mano posata con noncuranza sul cavo appeso al soffitto. «Ahh» fece Szubl. «Ti piace?» Sorrise; a chi non piaceva? «Perché "Arizona"?» domandò Morath. «La coppia a cui appartiene ha ricevuto un'eredità inaspettata, una fortuna, da uno zio di Vienna. Ha deciso di costruire un locale notturno sull'Isola Margherita. Quando ha ricevuto il telegramma si trovava in Arizona, e così...» «No! Davvero?» Szubl annuì. «Sì. A Tucson.» Arrivarono i drink. La ragazza passò di nuovo, diretta dalla parte opposta. «Vedi? Ci ignora» disse Szubl. «Passava semplicemente di qui, nuda e appesa a un filo. Non trarre conclusioni affrettate.» Szubl levò il bicchiere. «Al Comitato per l'Ungheria Libera.» «Che possa non nascere mai.» A Morath piaceva la vodka polacca, vodka di patate. Aveva un retrogusto che non era riuscito mai a individuare fino in fondo. «Allora, come te
la sei cavata?» «Non male. Dal Salon Kitty, in Via Szinyei, duecentocinquantamila pengo. La maggior parte da Madame Kitty, ma ha voluto farci sapere che tre delle ragazze hanno contribuito. Poi, dal nipote del compianto ministro delle Finanze, altri centocinquantamila.» «Tutto qui? Suo zio avrebbe rubato la lana a una pecora.» «Troppo tardi, Nicholas. Il casinò se ne è preso la maggior parte; quell'uomo è un candidato per la barca.» I cittadini di Budapest avevano un debole per il suicidio, e così le autorità municipali tenevano una barca ormeggiata sotto il Ponte Ferenc Josef. Un barcaiolo attendeva armato di pertica, pronto a recuperare chi si gettava prima che affogasse. «E tu?» chiese Szubl. «Quattrocentomila dai fratelli Gersoviczy. Domani vado a Kolozsvár.» «A sparare agli animali?» «Cristo, non ci avevo pensato.» «Io devo vedere Voyschinkowsky.» «"Il Leone della Borsa". Vive a Parigi, che cosa ci fa qui?» «Nostalgia.» «Cameriere!» «Signore?» «Altre due, per favore.» Una rossa corpulenta si avvicinò fluttuando. Mandò loro un bacio, si infilò le mani fra i seni, li fece ballonzolare e inarcò un sopracciglio. «Lascia che te la regali, Wolfi. Stasera offro io.» Bevvero la loro vodka e ne ordinarono altre due. La pista da ballo ricomparve. Il direttore d'orchestra aveva lucenti capelli neri e baffetti sottili e sorrideva come un santo agitando la bacchetta. «"When you begin-n-n-n, the beguine."» Szubl trasse un respiro profondo e sospirò. «Sai» disse «quello che mi piace veramente fare è guardare le donne nude.» «Davvero?» «No, Nicholas, non prendermi in giro, parlo sul serio. Voglio dire, non c'è nient'altro che mi piaccia. Se avessi potuto cominciare a quattordici anni e renderla l'occupazione della mia vita, senza fare nient'altro giorno e notte, non avrei avuto alcuna ragione di disturbare il mondo in altro modo. Ma naturalmente non me l'hanno permesso. E così adesso occupo spazio sui treni, faccio squillare i telefoni, getto bucce d'arancia nei cestini dei ri-
fiuti, faccio comprare busti alle donne, chiedo il resto, e non finisce mai. E quel che è peggio, è una bella giornata, sei felice e tranquillo, scendi in strada ed eccomi lì! Davvero, non finisce mai. E non finirà finché non occuperò lo spazio nel cimitero che hai voluto per tua madre.» L'orchestra suonò Le Tango du Chat. Morath ricordava la canzone dal bar sulla spiaggia di Juan-les-Pins. «Facciamo così» disse a Szubl. «Andiamo da Kitty in Via Szinyei. Ordiniamo una sfilata nel salottino, ogni singola ragazza della casa. Una sfida a chiapparello. No, aspetta, a nascondino!» «Nicholas. Lo sai, sei un romantico.» Più tardi Morath andò in bagno, incontrò un vecchio amico e chiacchierò per qualche minuto. Quando uscì, la rossa era seduta in grembo a Szubl, e giocherellava ridendo con la sua cravatta. La voce di Wolfi scese fluttuando dalla piattaforma. «Buonanotte, Nicholas. Buonanotte.» Alla stazione ferroviaria di Kolozsvár, un mattino freddo e radioso. Sul treno c'erano altri due ungheresi che scesero con lui. Cacciatori, con i fucili sottobraccio. Il capotreno sulla banchina gli augurò buona giornata in ungherese mentre lui lasciava il convoglio. E le due donne che passavano lo straccio sul pavimento della sala d'attesa della stazione scherzavano in ungherese e di fatto ridevano in ungherese. Un mondo gradevole e magiaro, che per caso si trovava in Romania. Un tempo Kolozsvár, ora Cluj. Nem, nem, soha. La visita alla tenuta del principe Hrubal si era rivelata diabolicamente complicata da organizzare. Aveva richiesto, alla resa dei conti, numerose assurde telefonate, tre telegrammi - uno dei quali era finito inspiegabilmente in Galles -, un messaggio verbale portato al castello dalla figlia del guardiacaccia e l'intervento personale del sindaco del villaggio. Ma alla fine si era avverata. Il capostalliere del principe Hrubal lo stava aspettando nella strada davanti alla stazione, in sella a un castrato baio e con in mano le redini di una puledra color cioccolato dalla coda mozzata. Era il modo migliore per arrivarci, Morath lo sapeva. Potevi provare a percorrere la strada in automobile ma avresti perso più tempo a scavare che a guidare, e il viaggio in carrozza ti avrebbe appiattito i denti a furia di colpi. Le alternative erano andare a piedi o a cavallo, e il cavallo era più rapido. Morath montò in sella e sistemò la valigetta sottobraccio. A Budapest si era premurato di mettersi gli stivali.
«Bacio le mani, eccellenza» disse lo stalliere. «Buongiorno anche a te» rispose Morath, e partirono. La strada buona di Cluj conduceva alla pessima strada fuori Cluj e quindi a una via lastricata molto tempo prima, su ordine di un ignoto sognatore-burocrate, e presto dimenticata. Si trovavano nella Transilvania del nord, una regione montagnosa e sperduta in cui per generazioni i nobili ungheresi avevano regnato sui servi della gleba rumeni. Di tanto in tanto scoppiavano violente jacqueries, sommosse contadine, e i saccheggi e gli incendi proseguivano fino all'arrivo dell'esercito con i cappi appesi alle selle. Gli alberi c'erano già. Ora, quanto meno per il momento, la situazione era tranquilla. Molto tranquilla. Nella campagna, le rovine di un castello spezzavano la cresta di una montagna; il resto era soltanto foresta, a volte interrotta da una radura. Il paesaggio riportò Morath ai tempi della guerra. Loro non erano stati diversi da qualunque altro esercito che aveva percorso quelle strade nelle mattine d'autunno. Ricordava banchi di foschia autunnale rimasti imprigionati sul filo spinato, il suono del vento nelle stoppie dei campi di segale, il cigolio dei finimenti, i corvi che vorticavano nel cielo e ridevano di loro. A volte vedevano le oche che migravano a sud, altre volte, quando pioveva all'alba, le udivano soltanto. Gli zoccoli di mille cavalli risuonavano sulle strade lastricate; il loro arrivo era tutt'altro che un segreto, e i fucilieri li aspettavano. Un giorno un sergente, un croato, stava regolando una staffa all'ombra di una quercia. L'aria aveva tradito uno schianto, un ufficiale aveva gridato. Il sergente si era portato una mano sull'occhio, come se stesse consultando una tabella oculistica. Il cavallo si era impennato, si era allontanato al galoppo lungo la strada e si era messo a brucare. Il principe Hrubal possedeva foreste e montagne. Un servitore aprì la porta a Morath e lo condusse nell'ampio atrio. Teste di cervi alle pareti e racchette da tennis nell'angolo. Il principe si presentò subito dopo. «Benvenuto a casa mia» disse. Aveva due occhi spietati, neri, insondabili e crudeli, la testa rasata, baffi alla turca incurvati verso il basso, il soprannome «Jack» guadagnato durante i suoi due anni a Cornell, una predilezione per le modelle italiane e una passione quasi maniacale per la carità. Il suo contabile riusciva a malapena a tenere il conto: fabbriche di scope per i ciechi, orfanotrofi, case di riposo per suore anziane, e di recen-
te riparazioni dei tetti degli antichi monasteri. «Questo potrebbe fare al caso mio, Nicholas» disse posando un grosso braccio sulle spalle di Morath. «Ho dovuto vendere le mie concessioni di zucchero a Chicago. Ma la vita contemplativa dev'essere vissuta, giusto? Se non da te e da me, da qualcuno, non credi? Non possiamo avere dei monaci bagnati.» La baronessa Frei aveva detto a Morath che la vita del principe era la storia di un aristocratico di sangue che cercava di diventare un aristocratico del cuore. «Hrubal è un po' matto» aveva osservato. «E resta da vedere se la sua ricchezza potrà accontentare la sua follia. Ma qualsiasi cosa succeda sono competizioni eccitanti da seguire, non trovi? Pover'uomo. Trenta generazioni di antenati brutali e sanguinosi come non mai, abituati ad arrostire i ribelli su troni di ferro e Dio sa cos'altro, e soltanto un'esistenza per redimersi.» Il principe condusse Morath fuori del castello. «Stavamo spostando qualche bosso» disse. Indossava stivali alti, pantaloni da lavoro di velluto e una giubba da contadino, e aveva un paio di guanti di cuoio infilati nella tasca posteriore. In fondo al prato, due braccianti lo aspettavano appoggiati sui badili. «E Janos Polanyi» soggiunse Hrubal. «È in buona forma?» «Sempre intento a tramare qualcosa.» Hrubal rise. «Il Re di Spade, è la sua carta dei tarocchi. Un condottiero, un uomo potente, ma oscuro e reticente. I suoi sudditi prosperano, ma rimpiangono di averlo conosciuto.» Fece un'altra risata affettuosa e diede un colpetto sulla spalla di Morath. «Non ti ha ancora ammazzato, a quanto vedo. Ma non temere, Nicky, lo farà, lo farà.» Cena per dodici. Cervo delle foreste di Hrubal, trota del suo torrente, salsa del suo ribes e dei suoi fichi, insalata tradizionale - lattuga condita con lardo e paprika - e borgogna, Sangue di toro, proveniente dai suoi vigneti. Cenarono nella piccola sala da pranzo dalle pareti foderate di raso rosso, che cedeva qua e là in pieghe malinconiche ed era abbondantemente macchiato di champagne, cera e sangue. «Ma rende autentico il locale» disse Hrubal. «L'ultima volta che è bruciato era il 1810. Un periodo lungo, da queste parti.» La cena venne consumata alla luce di duecento candele. Morath sentiva il sudore colargli lungo i fianchi. Era seduto vicino al capotavola, fra Annalisa, l'amichetta romana del principe, pallida come uno spettro, con mani lunghe e bianche, vista di re-
cente sul numero di aprile di «Vogue», e la fidanzata del corrispondente della Reuters da Bucarest, Miss Bonington. «La situazione è diventata terribile» disse a Morath. «Hitler è già abbastanza nocivo, ma le sue progenie locali sono ancora peggio.» «La Guardia di Ferro.» «Sono ovunque. Con sacchettini di terra attorno al collo. Terra sacra, capite.» «Venite a Roma» intervenne Annalisa. «E guardateli marciare, i nostri fascisti. Ometti grassottelli convinti che sia arrivato il loro momento.» «Cosa dovremmo fare?» domandò Miss Bonington con una vocetta stridula. «Votare?» Annalisa fece guizzare una mano nell'aria. «Essere peggio di loro, suppongo, è questa la tragedia. Hanno creato un mondo dozzinale, guasto, vuoto, e ora dobbiamo avere il piacere di viverci.» «Be', personalmente non immaginavo...» «Basta» disse piano Annalisa. «Hrubal ci sta guardando: parlare di politica mentre si mangia è contro le regole.» Miss Bonington rise. «E allora di che si parla?» «D'amore. Di poesia. Di Venezia.» «Che uomo amabile.» Tutti e tre si voltarono verso il principe seduto a capotavola. «Mi piaceva, la vita laggiù» disse Hrubal. «Il sabato pomeriggio, la grande partita. È così che la chiamavano: la grande partita! Da parte mia, be', ero il loro campione di sciabola, che altro, e soltanto le nostre ragazze venivano ad assistere agli incontri. Ma a vedere il calcio ci andavamo tutti. Avevo una tromba gigante per incitarli.» «Una tromba gigante?» «Maledizione. Qualcuno...» «Un megafono, credo» suggerì il corrispondente della Reuters. «Proprio così! Grazie, erano anni che cercavo di ricordarmene.» Un servitore si avvicinò al tavolo e sussurrò qualcosa all'orecchio di Hrubal. «Sì, molto bene» disse lui. Era arrivato il quartetto d'archi. Venne accompagnato in sala da pranzo e i servitori andarono a prendere altre sedie. I quattro uomini sorrisero e salutarono con un cenno del capo, lisciandosi i capelli bagnati di pioggia e asciugando le custodie degli strumenti con i fazzoletti. Quando tutti si furono ritirati nelle loro stanze, Morath seguì Hrubal in
un ufficio in cima alla torretta in rovina, dove il principe aprì una scatola di ferro e ne estrasse alcune mazzette di sbiaditi scellini austriaci. «Sono molto vecchi» disse. «Non so mai che farmene.» Mentre il denaro veniva messo nella valigetta, Morath convertì gli scellini in pengo. Seicentomila, più o meno. «Di' al conte Janos» disse Hrubal «che se ne ha bisogno ce ne sono ancora. O per qualsiasi altra evenienza, Nicholas, hai capito?» Più tardi, quella notte, Morath udì bussare delicatamente alla porta e la aprì. "Dopo il cervo delle foreste del principe Hrubal e la trota del suo torrente, una servetta della sua cucina." Non dissero nemmeno una parola. Lei lo fissò con occhi gravi e scuri, e quando lui ebbe richiuso la porta accese la candela accanto al letto e si sfilò la camicia da notte dalla testa. Aveva un accenno di baffi e un corpo voluttuoso, e portava calze rosse di lana lavorate ai ferri che le arrivavano a metà coscia. Mattinata deliziosa, pensò Morath cavalcando sul tappeto di foglie marroni della foresta. La puledra attraversò cautamente un ampio corso d'acqua - pochi centimetri di corrente rapida e argentea - e scese lungo una serie di cornici rocciose. Nicholas teneva le redini molli, lasciando che fosse lei a scegliere il percorso. Era stato un vecchio cavalleggero magiaro a insegnargli che un cavallo può andare ovunque possa andare un uomo senza usare le mani. Morath bilanciava il proprio peso, reggeva la valigetta sulla sella e diede un piccolo strattone di rimprovero quando la puledra vide qualcosa che avrebbe desiderato per colazione. «Buona creanza» bisbigliò. Parlava ungherese? Per forza, era una cavalla transilvana. Davanti a lui, il capostalliere di Hrubal montava il suo castrato baio. Nicholas si fermò un istante e fece un fischio leggero; lo stalliere si girò a metà sulla sella per guardarlo. Morath credeva di aver udito altri cavalli non lontani, ma quando si mise in ascolto non sentì più nulla. Raggiunse lo stalliere e chiese la sua opinione. «No, eccellenza» rispose questi. «Siamo soli, credo.» «Cacciatori, forse.» Lo stalliere tese le orecchie, ma poi scosse il capo. Si rimisero in marcia. Morath guardò un banco di nebbia fluttuare oltre il versante di una montagna. Controllò l'ora: le dodici appena passate. Lo stalliere portava un cestino da picnic colmo di birra e panini. Morath aveva fame, ma decise di cavalcare per un'altra ora. Nella foresta, da qualche parte sopra di lui sul dolce pendio, un cavallo
nitrì e si fermò all'improvviso, come se qualcuno gli avesse posato una mano sul muso. Morath tornò ad affiancarsi allo stalliere. «Questo l'avrai sentito.» «No, eccellenza, non ho sentito niente.» Nicholas lo fissò. Aveva un volto aguzzo, con barba e capelli corti, e c'era qualcosa nella sua voce, sottile ma presente, che suggeriva una sfida: "Ho scelto di non sentire". «Sei armato?» Lo stalliere infilò la mano sotto la camicia, ne estrasse una grossa rivoltella e la ripose. Morath la voleva. «Sei capace di usarla?» chiese. «Sì, eccellenza.» «Posso vederla un momento?» «Mi perdoni, eccellenza, ma devo rifiutare.» Morath sentì l'ondata di calore sul volto. Stava per essere assassinato per il suo denaro, e ciò lo infuriava. Diede un colpo di redini e affondò i tacchi nei fianchi della cavalla, che partì al galoppo giù dal pendio facendo bisbigliare le foglie secche sotto gli zoccoli. Morath si guardò alle spalle e vide che lo stalliere lo stava seguendo e che il suo castrato teneva facilmente l'andatura. Non scorgendo alcuna traccia della rivoltella, riportò la puledra al passo. «Puoi andare» gridò allo stalliere. «Proseguirò da solo.» La galoppata gli aveva fatto venire il fiatone. «Non posso, eccellenza.» "Perché non mi spari e la fai finita?" Morath lasciò che la puledra proseguisse verso valle. Qualcosa lo fece voltare di nuovo, e fra gli alberi spogli scorse un cavallo e un cavaliere, poi un altro più a monte. Quando capirono di essere stati avvistati si portarono al riparo, ma senza mostrare una gran fretta. Morath pensò di gettare via la valigetta, ma a quel punto sapeva che non aveva importanza. «Chi sono i tuoi amici?» gridò allo stalliere in tono quasi beffardo, ma questi non rispose. Pochi minuti dopo giunse sulla strada. Era stata costruita ai tempi degli antichi romani, e i blocchi di pietra erano ormai incavati e incrinati da secoli di carri e cavalli. Nicholas svoltò in direzione di Kolozsvár. Alzando gli occhi verso la foresta intravide gli altri cavalieri che procedevano al passo. Appena dietro di lui c'era lo stalliere sul castrato. Quando udì l'automobile scoppiettare e ticchettare si fermò e carezzò la puledra sul fianco ansimante. Era un animale dolce, e aveva fatto del suo
meglio; sperava che non le avrebbero sparato. Fu una vecchia Citroën a sbucare da un boschetto di betulle sul lato della strada. Le portiere e i parafanghi erano sporchi di melma, e una striscia marrone attraversava il parabrezza nel punto in cui il conducente aveva cercato di eliminare la polvere con l'unico tergicristallo. L'auto si fermò con un sonoro cigolio di freni e ne scesero due uomini grossi e tozzi. Portavano cappelli di paglia, abiti scuri e luride camicie bianche abbottonate fino al collo. "Siguranta" si disse Morath. La polizia segreta rumena. Era ovvio che lo stavano aspettando. «Smonti» disse l'autista in un pessimo ungherese. Morath ci impiegò più di quanto gradissero. Il passeggero slacciò la giacca mostrandogli l'impugnatura di una pistola automatica in una fondina ascellare. «Se ha bisogno di farsi sparare, saremo lieti di accontentarla» avvertì. «Magari è una questione d'onore o qualcosa del genere.» «Non si disturbi» rispose Morath. Smontò dalla puledra e la prese per le briglie. Il conducente si avvicinò e afferrò la valigetta. Qualcosa nel suo aspetto innervosì la puledra, che agitò la testa e pestò le zampe sui blocchi di pietra della strada. L'uomo slacciò le fibbie della borsa e diede un'occhiata al contenuto, quindi si rivolse allo stalliere: «Puoi tornare a casa, Vilmos. Riporta il suo cavallo». «Sì, eccellenza» rispose lo stalliere. Era terrorizzato. «E tieni la bocca chiusa.» Morath lo guardò penetrare nella foresta conducendo la puledra per le redini. Gli agenti della Siguranta gli legarono i polsi con della corda e lo spinsero sul sedile posteriore dell'auto, poi accompagnarono con qualche battuta i gemiti sempre più fievoli del motorino d'avviamento finché il motore si accese. Si dissero qualcos'altro; Morath non conosceva il rumeno ma capì la parola «Bistriţa», una cittadina a nord di Kolozsvár. Mentre l'auto sobbalzava sulla strada, il passeggero aprì la valigetta e divise gli indumenti intimi e gli articoli da rasatura di Nicholas. I due agenti discussero brevemente sulla camicia di ricambio, ma l'autista si arrese quasi subito. A quel punto, l'altro uomo si voltò sul sedile e fissò Morath. Non si radeva da giorni, la peluria sul suo volto era nera e grigia. Si sporse oltre lo schienale e lo schiaffeggiò. Poi lo fece di nuovo, con più forza. L'autista rise, e il passeggero si allungò di lato fino a guardarsi nello specchietto retrovisore e si sistemò la tesa del cappello. Morath non provò dolore al volto ma ai polsi, con cui aveva cercato di
spezzare la corda quando l'agente della Siguranta l'aveva colpito. Più tardi riuscì a dare un'occhiata di sottecchi e vide che stava sanguinando. Bistriţa aveva fatto parte dell'Impero ottomano fino al 1878, e non era cambiata in molto. Strade polverose e alberi di lime, edifici rivestiti di stucco giallo e verde pallido, tetti a scaglie di pesce sulle case migliori. Le croci cattoliche erano state montate sulle cupole di quelle che un tempo erano moschee; in strada le donne tenevano gli occhi bassi, e lo stesso facevano gli uomini. La Citroën accostò davanti alla stazione di polizia e i due agenti trascinarono fuori Morath per il gomito e lo fecero entrare a calci nell'edificio. Lui si fece un dovere di non cadere. Poi lo malmenarono su una rampa di scale in discesa, lungo un corridoio e fino alla porta di una cella. Quando gli tagliarono la corda attorno ai polsi, il coltello gli lacerò il retro della giacca. Uno dei due fece una battuta, l'altro ridacchiò. Gli svuotarono le tasche, gli presero gli stivali e le calze, la giacca e la cravatta, lo gettarono nella cella, sbatterono la porta di ferro e fecero scattare il chiavistello. Buio pesto nella cella, nessuna finestra, e i muri emanavano aria fredda. C'erano un materasso di paglia, un secchio e un paio di vecchi supporti arrugginiti fissati alle pareti. Usati per le catene, nel 1540, oppure la sera prima. Gli portarono un'aringa sotto sale, che lui si guardò bene dal mangiare - gli avrebbe fatto venire una sete tremenda -, un pezzo di pane e una tazzina d'acqua. Poteva udire qualcuno che camminava avanti e indietro nel locale direttamente sopra il suo. Heidelberg. Case in legno e muratura, il ponte sul Neckar. Quando studiava alla Eotvos vi si erano recati per le lezioni di Schollwagen su Aristofane. Nonché - era la fine di febbraio - per cambiare aria. In una Weinstube, Frieda. Capelli ricci, fianchi larghi, una meravigliosa risata. Riusciva a sentirla. Una storia d'amore durata due giorni e lontana nel tempo, ma ne ricordava ogni singolo minuto e di tanto in tanto gli piaceva rievocarla. Perché Frieda gradiva fare l'amore in tutti i modi possibili, e rabbrividiva per l'eccitazione. Lui aveva diciannove anni, e pensava che le donne facessero certe cose per farti un favore, forse, quando ti amavano, il giorno del tuo compleanno, oppure quando pagavi un prezzo speciale alle prostitute. Sopra di lui risuonò un tonfo. Un sacco di farina gettato sul pavimento. Cara non aveva un interesse particolare per le choses affreuses. Le avrebbe
fatte; avrebbe fatto di tutto per essere sofisticata e chic, era quello che la eccitava. L'aveva fatto con Francesca? Le piaceva provocarlo dicendogli di sì, perché sapeva che la cosa lo interessava. Un altro sacco di farina. Questo lanciò un grido nel colpire il pavimento. «Vaffanculo» disse. Aveva pensato di rivedere Eva Zameny a Budapest, la sua vecchia fidanzata che aveva lasciato il marito. Gesù, era talmente bella. Nessun altro paese produceva donne così. Con Eva non c'era molto da ricordare oltre a baci appassionati nel vestibolo di casa sua. Una volta le aveva sbottonato la camicetta. Lei gli aveva detto che un tempo desiderava diventare suora. Andava a messa due volte al giorno perché le dava una grande pace, e nient'altro ci riusciva. Sposato con Eva, due figli, tre, quattro. Sarebbe diventato un avvocato, avrebbe trascorso le sue giornate fra testamenti e contratti. Il venerdì sera cena a casa di sua madre, la domenica pranzo da quella di Eva. Avrebbero fatto l'amore il sabato sera sotto un piumino nell'inverno ungherese. Una baita estiva sul lago Balaton. Lui avrebbe avuto il suo caffè, il club per soli uomini, il sarto. Perché non aveva vissuto in quel modo? Sul serio, perché? Se l'avesse fatto, non si sarebbe ritrovato in una prigione rumena. Chi l'aveva tradito? si chiese. E avrebbe avuto - per grazia divina - l'occasione di regolare i conti? Era stato qualcuno a casa di Hrubal? Duchazy? "Smettila." Ecco Frieda: capelli ricci, fianchi larghi, dolce risata. «Una sfortuna, Monsieur Morath. Per lei e per noi. Dio solo sa come potremo risolvere la questione. Che cosa le è venuto in mente, per l'amor del cielo?» Anche questo è della Siguranta, si disse Nicholas, ma molto più importante. Rasato, impomatato e con un francese impostato. Posò i gomiti sul tavolo e giunse le dita a campanile. Morath era tecnicamente colpevole di alcuni crimini, disse, ma a chi importava veramente? Non certo a lui. Ciò malgrado, che cosa diavolo stava facendo con tutto quel denaro? Giocava alla politica delle minoranze ungheresi? In Romania? «Non poteva ammazzare qualcuno? Rapinare una banca? Bruciare una chiesa? No. Doveva proprio complicarmi la vita un sabato mattina, quando dovrei giocare a golf con mio suocero.» Sì, erano in Romania, douce décadence, Byzance après Byzance, era tutto fin troppo vero. Eppu-
re esistevano delle leggi. Morath annuì: lo sapeva. Ma quale legge, di preciso, aveva infranto? Sopraffatto, il funzionario della Siguranta non sapeva quasi cosa dire: troppe, troppo poche, vecchie, nuove, e alcune che stiamo creando proprio adesso. «Parliamo di Parigi. Ho dato ordine di portarle un caffè e una brioche.» Controllò l'ora. «Sono andati al caffè sull'altro lato della piazza.» In questo invidiava davvero Morath, tanto valeva ammetterlo. Un uomo della sua classe e con le sue conoscenze che godeva dei piaceri di quella deliziosa città. Avrebbe potuto conoscere, era inutile negarlo, le persone più stimolanti. Generali francesi, rifugiati politici russi, diplomatici. Conosceva Monsieur X, Herr Y, Señor Z? E il colonnello Pincopallino presso l'ambasciata inglese? Non lo conosceva? Be', davvero, avrebbe dovuto. Si diceva fosse un tipo molto simpatico. Nicholas gli rispose di no. No? E perché no? Morath era certamente il tipo di gentiluomo che avrebbe potuto conoscere chi voleva. Che cosa poteva essere? Oh, era una questione di soldi? Non per essere indiscreto, ma i conti si accumulavano. Individui irritanti mandavano lettere irritanti. Essere debitori poteva diventare un'occupazione a tempo pieno. "L'hobby di un'intera esistenza." Ma questo Nicholas lo pensò soltanto. Il funzionario gli disse che la vita non doveva essere per forza così dura. Lui stesso, per esempio, aveva amici a Parigi, uomini d'affari alla costante ricerca dei consigli di una persona come Morath. «E per loro, mi creda, il denaro non è un problema.» Un poliziotto portò un vassoio con due tazze, una caffettiera di zinco e una grossa brioche. Morath ne staccò un pezzo; era giallo e dolce. «Scommetto che a casa la mangia ogni mattina» disse il funzionario. Morath sorrise. «Sto viaggiando, come lei sa, con un passaporto diplomatico ungherese.» Il funzionario annuì, spazzandosi via una briciola dal risvolto della giacca. «Vorranno sapere che ne è stato di me.» «Senza dubbio. Ci invieranno una comunicazione. E noi manderemo una risposta. Poi loro ne manderanno un'altra, e così via. Un processo lento, la diplomazia. Alquanto prolisso.» Morath rifletté. «Comunque, i miei amici si preoccuperanno. E vorranno contribuire.» Il funzionario lo fissò, mettendo bene in chiaro che aveva un caratterac-
cio violento. Morath gli aveva offerto una mazzetta, e la cosa non gli era piaciuta. «Siamo stati molto gentili con lei, sa.» "Finora." «Grazie del caffè» disse Nicholas. Il funzionario tornò a farsi affabile. «Il piacere è mio» rispose. «Non abbiamo fretta di rinchiuderla. Vent'anni in una prigione rumena non le farebbero alcun bene. E non ci aiuterebbero. Molto meglio farle superare il confine a Oradea. Addio, buona fortuna e chi s'è visto s'è visto. Ma dipende da lei.» Morath fece cenno di aver capito. «Forse ci devo riflettere.» «Deve fare ciò che è meglio per lei» rispose il funzionario. «Io sarò di ritorno domani.» Nel locale sopra di lui, i passi non si fermavano mai. Fuori, un temporale. Morath udì il tuono e il martellare della pioggia. Una lenta infiltrazione d'acqua coprì il pavimento, salì di un paio di centimetri e si fermò. Disteso sul materasso di paglia, Nicholas fissava il soffitto. "Non mi hanno ucciso per rubarmi il denaro." Per i gorilla della Siguranta che l'avevano arrestato era una fortuna, una vita sulla riviera francese. Ma quella era la Romania, «bacia la mano che non puoi mordere», e i due avevano fatto ciò che gli era stato ordinato. Dormì a sprazzi. Fu svegliato dal freddo e dai brutti sogni, che continuarono a perseguitarlo anche da sveglio. Il mattino dopo lo condussero in una stanza all'ultimo piano, molto probabilmente l'ufficio del capo della polizia di Bistriţa. C'era un calendario appeso al muro, panorami di Constaţa sulla costa del Mar Nero. Una fotografia incorniciata sulla scrivania, una donna sorridente con capelli e occhi scuri. E sulla parete campeggiava un ritratto ufficiale di re Carol, nell'uniforme bianca dell'esercito completa di fascia e medaglie. Dalla finestra, Morath poteva osservare le scene di vita nella piazza. Alle bancarelle del mercato le donne compravano il pane, reggendo borse a rete colme di verdure. Di fronte alla fontana c'era un musicista di strada ungherese. Un grassone alquanto comico che cantava come un tenore, allargando le braccia. Una vecchia canzone dei Nachtlokale di Budapest: Aspettami, ti prego aspettami, anche quando le notti sono lunghe, mia dolce, mia unica colomba,
ti prego aspettami. Quando qualcuno gettava una moneta nel malconcio cappello posato a terra davanti a lui, il cantante sorrideva con un educato cenno del capo riuscendo chissà come a non perdere nemmeno una battuta. Fu il colonnello Sombor a entrare nell'ufficio richiudendosi la porta alle spalle. Sombor, con i lucenti capelli neri simili a un berretto e le sopracciglia oblique, vestito con un elegante abito verde e una cravatta con il disegno di una corona d'oro. Taciturno e serissimo, salutò Morath e scosse il capo, come a dire: «e adesso guardi che cosa ci ha combinato». Prese posto sulla sedia girevole dietro la scrivania del capo della polizia e Nicholas si sedette sul lato opposto. «Sono giunto in volo non appena l'ho saputo» disse Sombor. «Sta bene?» Morath era sporco, non rasato e scalzo. «Come vede.» «Ma non le hanno fatto nulla.» «No.» Sombor estrasse un pacchetto di Chesterfield dalla tasca, lo posò sulla scrivania e vi mise sopra una scatola di fiammiferi. Morath strappò il cellofan, prese una sigaretta e l'accese, soffiando un lungo, riconoscente sbuffo di fumo. «Mi racconti com'è andata.» «Ero a Budapest. Sono venuto in Romania a trovare un amico, e mi hanno arrestato.» «La polizia?» «La Siguranta.» Sombor era scuro in volto. «La farò uscire nel giro di un giorno o due, non si preoccupi.» «Lo apprezzerei molto» rispose Morath. Sombor sorrise. «Non possiamo permettere che ai nostri amici succedano certe cose. Ha idea di quello che volessero?» «Non esattamente.» Si guardò intorno per un istante, quindi si alzò, andò alla finestra e prese a fissare la strada. «Le volevo parlare» soggiunse. Morath attese. «Questo mio lavoro» disse Sombor «sembra diventare ogni giorno più difficile.» Tornò a voltarsi verso Nicholas. «L'Europa sta cambiando. È un mondo nuovo, noi ne facciamo parte, che lo vogliamo o meno, e possiamo vincere o perdere a seconda di come giochiamo le nostre carte. I cechi, per
esempio, hanno perso. Si sono fidati delle persone sbagliate. Ne converrà, immagino.» «Sì.» «Ascolti, Morath, devo essere franco con lei. So chi è e come la pensa Kossuth, le libertà civili, la democrazia e tutto quel comodo idealismo da Fronte Ombra. Forse non sono d'accordo, ma non importa. Conosce il vecchio detto: "Lascia che sia il cavallo a badare alla politica, ha la testa più grossa". Giusto?» «Giusto.» «Devo vedere il mondo da un punto di vista pratico, non ho il tempo di fare il filosofo. Ora, nutro il più profondo rispetto per il conte Polanyi, è un realista anche lui, forse più di quanto lei sappia. Fa ciò che deve fare, e lei l'ha aiutato in questo. Quello che voglio dire è che lei non è una verginella.» Sombor attese una risposta. «E allora?» domandò Morath in tono sommesso. «Come io sono venuto ad aiutarla, mi piacerebbe che lei aiutasse me. Che aiutasse il suo paese. Confido che questo non vada contro i suoi principi.» «Niente affatto.» «Dovrà sporcarsi le mani, amico mio. Se non oggi domani, che le piaccia o meno. Mi creda, è arrivato il momento.» «E se dicessi di no?» Sombor si strinse nelle spalle. «Dovremo accettare la sua decisione.» Non era finita lì. Morath giaceva sul pagliericcio bagnato e fissava nel buio. Fuori un camion passò con un rombo e fece un lento giro della piazza. Qualche minuto dopo tornò, si fermò brevemente davanti alla stazione di polizia, quindi ripartì. Sombor si era dilungato. Quel poco di luce che c'era nei suoi occhi si era spento come una candela, ma la sua voce non era mai cambiata. "Farla uscire potrebbe non essere tanto facile. Ma non si preoccupi. Faremo del nostro meglio. La prigione di Iasi. La prigione di Sinaia. Costretto a stare in piedi per settantadue ore sfiorando il muro con il naso." A cena gli portarono un'altra aringa sotto sale. Morath ne staccò un pezzettino, giusto per sentirne il sapore. Mangiò il pane, bevve il tè freddo. Quando l'avevano rimesso in cella gli avevano sequestrato le sigarette e i
fiammiferi. «Sono giunto in volo non appena l'ho saputo.» Detto con sufficiente noncuranza. La legazione di Parigi possedeva due aeroplani Fiesler Storch, venduti dai tedeschi all'Ungheria dopo lunghe, penose trattative e Dio solo sapeva quali favori. «Sono più importante di quanto lei creda» intendeva dire. Dispongo l'uso dell'aeroplano della legazione. Quando Sombor si era alzato per andarsene, Morath aveva detto: «Informerà dell'accaduto il conte Polanyi». «Naturalmente.» Polanyi non l'avrebbe mai saputo. Nacht und Nebel, espressione di Adolf Hitler: notte e nebbia. Un uomo usciva di casa al mattino e non se ne sapeva più nulla. Morath ce la metteva tutta - "pensa soltanto alla prossima ora" - ma sentiva la disperazione sorgergli nel cuore e non riusciva a scacciarla. Petöfi, il poeta nazionale ungherese, diceva che i cani erano sempre accuditi e i lupi facevano la fame, ma soltanto i lupi erano liberi. Sicché la libertà era lì, in quella cella o in quelle che sarebbero seguite. Vennero all'alba. La porta si aprì e due guardie lo presero sottobraccio, lo trascinarono di corsa lungo il corridoio e per la lunga scalinata. Si era appena fatto giorno, ma perfino quel grigiore soffuso gli ferì gli occhi. Gli restituirono gli stivali, gli incatenarono i polsi e le caviglie e lo fecero uscire strisciando i piedi verso un camion in attesa. A bordo c'erano altri due prigionieri, uno zingaro e un uomo che sembrava un russo, alto, con capelli bianchi rasati e lacrime blu tatuate agli angoli degli occhi. Soltanto le donne che spazzavano la strada lo videro partire. Esitarono un istante, posando a terra le scope di cannicci marroni. "Poveri ragazzi. Che Dio vi aiuti." Morath non l'avrebbe mai dimenticato. Il camion sobbalzava sui ciottoli. Lo zingaro attirò lo sguardo di Morath e fiutò l'aria. Erano passati davanti a una panetteria. Non fu un tragitto lungo, forse una quindicina di minuti. Si ritrovarono in una stazione da cui i treni, Morath lo capiva benissimo, partivano per città come Iasi o Sinaia. Tre uomini in catene e sei poliziotti. Era una scena che valeva la pena di osservare quando il tuo treno si fermava a Bistriţa. I passeggeri abbassarono la parte superiore dei finestrini per godersi lo spettacolo. Un commesso viaggiatore, a giudicare dall'aspetto, che sbucciava un'arancia gettandone la buccia sulla banchina. Una donna con un tocco il cui velo le copriva gli occhi, le mani bianche posate sul bordo del finestrino. Altri volti, pallidi
alla luce del primo mattino. Un uomo fece una battuta, il suo amico rise. Una bambina guardava Morath sgranando gli occhi, sapendo di avere il permesso di fissarlo. Un uomo con un soprabito dal collo di velluto, severo ed elegante, rivolse un cenno del capo a Nicholas come se lo conoscesse. Poi, il caos. Chi erano? Per alcuni istanti vissuti al rallentatore, la domanda attraversò la mente di Morath. Erano sbucati dal nulla. Si muovevano troppo rapidamente per poterli contare, urlavano in... era russo? Polacco? Il poliziotto accanto a lui venne colpito. Morath udì l'impatto seguito da un grido, poi lo vide barcollare via cercando a tentoni la fondina. Un uomo con un berretto floscio sbucò da una nube di vapore liberata dalla locomotiva. Era un mattino freddo e tutto era coperto di brina; si era avvolto una sciarpa attorno alla gola, infilandone le estremità nella giacca e sollevando il colletto. Studiò attentamente Morath per quella che gli parve un'eternità, quindi spostò la doppietta leggermente di lato e sparò entrambi i colpi in canna. Diversi passeggeri trasalirono; a Nicholas il suono parve limpido come quello di una campana. Il prigioniero russo sapeva. Forse troppo, rifletté Morath in seguito. Si distese sulla banchina e si coprì la testa con le mani incatenate. Un ergastolano, forse, tristemente consapevole che tutto quel bailamme non era stato scatenato per lui, poiché i suoi dei non erano così potenti. Lo zingaro lanciò un grido a un uomo con un fazzoletto legato sul volto e protese i polsi. Liberami! Ma l'uomo lo spinse via. Lo zingaro rischiò di cadere e poi cercò di scappare a piccoli passi, facendo strisciare la catena sull'asfalto. Nella sparatoria, per poco non si scordarono di Morath. Se ne stava da solo in mezzo al fuoco. Un detective, o quanto meno un uomo in borghese armato di rivoltella, lo superò di corsa e poi si voltò verso di lui con un'espressione ansiosa e incerta dipinta sul volto. Bisognava fare la cosa giusta. Esitò, fece per sollevare la pistola, chiuse gli occhi, si morse il labbro e si sedette. Ora sapeva che cosa fare, ma era troppo tardi. La pistola si mosse soltanto di pochi centimetri, uno squarcio rosso gli si aprì sulla fronte e il suo corpo si afflosciò lentamente. Pochi metri più in là, il capotreno era seduto con la schiena appoggiata a una ruota del carro per il carbone. Nei suoi occhi un'espressione che Morath conosceva. Stava morendo. Un'auto nera avanzò molto lentamente sulla banchina. Al volante c'era un ragazzino di non più di tredici anni, le mani esangui serrate sul volante, il volto corrugato per la concentrazione. Fermò la macchina mentre l'uomo con il berretto floscio afferrava un altro uomo per il colletto della giacca e lo trascinava davanti alla portiera posteriore. Aprì la portiera e lo gettò sul
sedile. In mezzo alle grida e agli spari, Morath non riusciva a credere che potesse esistere un individuo così forte. «Muoviti, idiota!» Le parole pronunciate in un tedesco dall'accento slavo talmente marcato che Nicholas impiegò un momento a capirle. L'uomo gli strinse il braccio come una tenaglia di acciaio. Un naso aquilino, un volto scuro, una sigaretta spenta fra le labbra. «Al camion, sì?» disse. «Sì?» Morath s'incamminò il più in fretta possibile. Dietro di lui, dal treno, un grido in ungherese. Una donna imprecava furiosa, strillando, dicendo a quei bruti, a quei demoni di smetterla di insudiciare il mondo e di andare a bruciare all'inferno. L'uomo accanto a Nicholas perse la pazienza - la cantilena delle sirene si faceva sempre più vicina - e lo trascinò verso il camion. L'autista tese le braccia e lo aiutò a salire, Morath si sdraiò sul sedile di destra e poi si drizzò a sedere. L'autista era un vecchio con la barba e una cicatrice che gli attraversava le labbra. Premette con cautela il pedale del gas; il motore aumentò di giri e poi tornò al minimo. «Molto bene» disse. «Ungherese?» Scosse il capo. «Imparato in guerra.» Schiacciò la frizione mentre l'uomo con il berretto floscio correva verso il camion e agitava violentemente la doppietta. "Andate. Muovetevi." «Sì, sì» disse l'autista, questa volta in russo. Spostò in avanti la leva del cambio, e dopo un istante il camion partì. Scoccò un'occhiata interrogativa a Morath, che annuì. Si allontanarono lentamente, imboccando la strada dietro la stazione. Un'auto della polizia era ferma all'angolo con il motore acceso ed entrambe le portiere aperte. Nicholas udì il treno uscire dalla stazione; il macchinista si era finalmente ripreso. Una berlina nera li superò a tutta velocità, rientrò davanti a loro con un gran stridio di ruote e rallentò. Una mano fuoriuscì dal finestrino dell'autista e li incitò. La berlina accelerò, fece una svolta secca all'incrocio successivo e scomparve. Presto si lasciarono dietro Bistriţa; la strada si restrinse, divenne sterrata, passò serpeggiando davanti a fattorie e villaggi in rovina e si arrampicò nelle foreste transilvane. Al tramonto, malgrado il ferro freddo attorno ai polsi e alle caviglie, Morath si addormentò. Quando si svegliò era sceso il buio. Fuori del finestrino, un campo dipinto di brina e luce lunare. Il vecchio era chino sul volante, e strizzava gli occhi per scorgere la strada. «Dove siamo?» domandò Nicholas.
L'autista rispose con un'eloquente scrollata di spalle. Prese un pezzo di carta marrone dal cruscotto e lo porse a Morath. Una trama incrociata di righe tracciate con una matita dalla punta arrotondata, con annotazioni in cirillico lungo il margine. «Allora, dove siamo?» Morath dovette ridere. Il vecchio si unì a lui. Forse avrebbero trovato la strada, forse no; così andava la vita. Il camion arrancava su una lunga collina; le ruote slittavano sui solchi ghiacciati e il vecchio continuava a cambiare marcia. «Come trattore» disse. In lontananza, Morath scorse un debole bagliore che compariva e scompariva fra gli alberi. Qualche minuto dopo vide che si trattava di una bassa costruzione di pietra alla confluenza di due antiche strade. Le finestre erano illuminate da lampade a petrolio. Una locanda, un'insegna di legno appesa a due catenelle sopra la porta. Il vecchio si aprì in un sorriso di trionfo, lasciò che il camion si fermasse nel cortile di ciottoli e suonò il clacson. Ciò causò la comparsa di due mastini latranti e galoppanti nel fascio dei fari e di un locandiere con un grembiule di pelle e una torcia fiammeggiante in mano. «Siete i benvenuti in questa casa» disse in un ungherese formale. Un uomo lento, rotondo e gioviale. Accompagnò Morath nella stalla, infilò la torcia in un supporto e spezzò le catene con martello e scalpello. Mentre lavorava, la sua espressione divenne dolente. «Come mio nonno» spiegò riposizionando la catena sull'incudine. «E anche il suo.» Quando ebbe finito condusse Nicholas in cucina, lo fece sedere davanti al fuoco e gli servì un abbondante bicchiere di brandy e una grossa fetta di polenta fritta. Dopo mangiato, Morath venne fatto accomodare in una stanza adiacente, dove si addormentò come un sasso. Al suo risveglio il camion era scomparso. Il locandiere gli diede una vecchia giacca e un berretto con la visiera. Più tardi, quel mattino, seduto su un carro accanto a un contadino, Morath penetrò in territorio ungherese attraverso un campo di fieno. Novembre a Parigi gli era sempre piaciuto. Pioveva, ma i bistrò erano caldi, la Senna scura, le luci dorate, gli amori stagionali ancora nuovi. Il novembre del 1938 cominciò abbastanza bene, tutta Parigi in estasi per non essere stata costretta a entrare in guerra. Ma poi arrivò il 9, la Kristallnacht, e nelle tonnellate luccicanti di vetri sfondati agli ebrei si poteva decifrare, più chiaramente di quanto tutti gradissero, ciò che stava per arriva-
re. Eppure, non stava arrivando qui. Se anche Hitler e Stalin dovessero sbranarsi a vicenda - era il pensiero di quella settimana - noi andremo in Normandia per il fine settimana. Morath prese appuntamento con suo zio in un ristorantino di cuisine grand-mère a Clichy. Aveva trascorso dieci giorni a Budapest a raccogliere denaro, ascoltando le disavventure del povero Szubl con la rossa del locale notturno. Poi avevano nascosto i contanti in un violoncello e avevano preso l'espresso della notte per Parigi. Per il momento, Morath era un uomo con in tasca due milioni abbondanti di pengo. Gli fu subito ovvio che il conte Polanyi aveva già dato inizio al suo pranzo. Nel tentativo di prendere posto sbatté contro il tavolo accanto, rischiando di provocare un incidente con la minestra e guadagnandosi l'occhiataccia della grand-mère. «A quanto pare, oggi gli dei ce l'hanno con me» disse in un refolo di vapori di cognac. Non erano gli dei. Le borse sotto i suoi occhi si erano gonfiate in modo allarmante e si erano fatte più scure. Polanyi scrutò il menù sulla lavagna. «Andouillette» ordinò. «Ho saputo che sei stato via» disse Morath. «Sì, sono di nuovo un uomo con una casa in campagna, o quel che ne rimane.» Il 2 novembre, la Commissione di Vienna - ovvero Hitler - aveva omaggiato l'Ungheria, in cambio dell'appoggio alla Germania durante la crisi nei Sudeti, dei distrettì magiari della Cecoslovacchia meridionale. Trentunomila chilometri quadrati, un milione di abitanti e un nuovo confine che da Pozsony-Bratislava procedeva a est fino alla Rutenia. Il cameriere arrivò con una caraffa di vino e un piatto di lumache. «Zio Janos?» «Sì?» «Tu che cosa sai di quello che mi è successo laggiù in Romania?» Dall'espressione di Polanyi, era chiaro che non ne voleva parlare. «Hai avuto delle difficoltà. Sono state risolte.» «Tutto qui?» «Nicholas, non essere seccato con me. Fondamentalmente hai avuto fortuna. Se fossi partito due settimane prima, forse saresti stato perduto.» «Ma in qualche modo sei venuto a saperlo.» Polanyi scrollò le spalle. «Sapevi anche che si è presentato Sombor? Alla stazione di polizia di Bistriţa?» Suo zio inarcò un sopracciglio, trafisse una lumaca al terzo tentativo e la
mangiò, sgocciolando burro all'aglio sul tavolo. «Mmm? E cosa voleva?» «Me.» «Ti ha ottenuto?» «No.» «E allora qual è il problema?» «Forse il problema è Sombor.» «Sombor è Sombor.» «Si è comportato come se fosse il padrone del mondo.» «Lo è.» «È lui il responsabile di quello che mi è successo?» «Questa sì che è un'idea interessante. E se lo fosse, che cosa faresti?» «Tu che cosa suggeriresti?» «Di ucciderlo.» «Dici sul serio?» «Uccidilo, Nicholas, oppure non rovinarmi il pranzo. Delle due l'una.» Morath si versò un bicchiere di vino e si accese una Chesterfield. «E quelli che mi hanno liberato?» «Très cher, Nicholas.» «Chi devo ringraziare?» «Qualcuno mi doveva un favore. Ora glielo devo io.» «Russo? Tedesco?» «Eschimese! Mio caro nipote, se intendi fare il curioso e il difficile su questa storia...» «Perdonami. Te ne sono grato, naturalmente.» «Posso avere l'ultima lumaca? Me ne sei grato fino a questo punto?» «Come minimo.» Polanyi infilzò la lumaca con la minuscola forchetta e aggrottò la fronte estraendola dal guscio. All'improvviso, per un istante, sembrò molto triste. «Sono soltanto un ungherese vecchio e grasso, Nicholas. Non posso salvare il mondo. Mi piacerebbe, ma non posso.» Alla fine di novembre, stringendosi il soprabito sul petto, Morath si affrettava per le strade del Marais diretto al Café Madine. Gli sembrò congelato nel tempo. Vuoto come in precedenza nella fredda luce del mattino, il gatto addormentato sul banco, il patron con i suoi occhiali sulla punta del naso. Morath sospettava che questi si ricordasse di lui. Ordinò un café au lait, e quando venne servito si scaldò le mani sopra la tazza. «Sono già stato qui» disse al patron. «Lo scorso marzo, credo.»
L'uomo gli scoccò un'occhiata. "Davvero?" «Ho parlato con un vecchio. Non ne ricordo il nome, non credo me l'abbia detto. Un mio amico aveva dei problemi con il passaporto.» Il proprietario annuì. Sì, erano cose che ogni tanto accadevano. «È possibile. Qualcuno di simile frequentava questo locale, di tanto in tanto.» «Ma non più.» «Deportato» disse il proprietario. «Quest'estate. Ha avuto un problemino con la polizia. Ma per lui il problemino è diventato un problemone, e l'hanno rispedito a Vienna. Cosa gli sia successo dopo, non posso dirlo.» «Mi dispiace» disse Morath. «Dispiace anche a lui, senza dubbio.» Nicholas abbassò gli occhi, percepì l'altezza del muro fra lui e il patron e capì che non c'era più niente da dire. «Aveva un amico. Un uomo con il pizzetto. Alquanto istruito, mi è sembrato. Ci siamo incontrati al Louvre.» «Al Louvre.» «Sì.» Il patron prese ad asciugare un bicchiere con uno straccio, lo sollevò alla luce e lo ripose sullo scaffale. «Freddo, oggi» disse. «E stasera nevicherà.» «Lei crede?» «Lo si sente nell'aria.» «Forse ha ragione.» Cominciò a passare lo straccio sul banco, sollevando la tazza di Morath, prendendo in braccio il gatto e posandolo delicatamente a terra. «Devi lasciarmi pulire, Sascha» disse. Nicholas attese sorseggiando il suo caffè. Una donna con un neonato avvolto in una coperta passò davanti al locale. «È tranquillo, qui» disse Morath. «Molto gradevole.» «Dovrebbe venirci più spesso, allora.» Il patron gli rivolse un sorriso tagliente. «Lo farò. Magari domani stesso.» «Ci saremo. A Dio piacendo.» Ci volle mezz'ora, il mattino dopo. Poi una donna - la donna che aveva ritirato il denaro e, Morath se ne ricordava, l'aveva baciato sui gradini del Louvre - si presentò al caffè. «La vedrà» disse a Morath. «Provi domani alle quattro e un quarto alla stazione del metrò di Jussieu. Se lui non ci sarà, riprovi il giorno dopo alle tre e un quarto. Se non funzionerà, dovrà trovare un altro sistema.»
Al primo tentativo, l'uomo non c'era. La stazione era affollata, e se qualcuno lo stava osservando per assicurarsi che non vi fossero detective, Morath non se ne accorse. Il secondo giorno attese tre quarti d'ora e poi rinunciò. Stava salendo le scale che portavano in strada quando l'uomo gli si affiancò. Meno corpulento di quanto Morath rammentasse, aveva ancora il pizzo e l'abito di tweed, e qualcosa in lui suggeriva un'affinità con il mondo della cultura commerciale. Il mercante d'arte. Era accompagnato, come in passato, da un uomo con un volto bianco e ossuto e un cappello calato ad angolo retto sul cranio rasato. «Prendiamo un taxi» disse il mercante d'arte. «Fa troppo freddo per camminare.» Salirono tutti e tre sul retro di un taxi che aspettava con il motore acceso davanti al marciapiede. «Ci porti al Ritz» disse il mercante d'arte. Il taxista fece una risata. Percorse lentamente Rue Jussieu e svoltò in Rue Cuvier. «Dunque» disse il mercante d'arte. «I suoi amici hanno ancora dei problemi con i loro documenti.» «Questa volta no» rispose Morath. «Oh? E allora di che si tratta?» «Vorrei conoscere qualcuno che commercia in diamanti.» «Vuole vendere?» «Acquistare.» «Qualcosa per la sua amata.» «Esattamente. In una scatola di velluto.» Il taxista imboccò la salita di Rue Monge. Dal cielo greve cadeva qualche goccia di pioggia; i passanti in strada aprivano gli ombrelli. «Un acquisto sostanzioso» aggiunse Morath. «La cosa migliore sarebbe un esperto del settore.» «E discreto.» «Molto. Ma la prego di capire, non c'è nulla di criminale. Vogliamo soltanto riservatezza.» Il mercante d'arte annuì. «Non il gioielliere del quartiere.» «No.» «Dev'essere a Parigi?» Morath rifletté. «Europa occidentale.» «Allora è semplice. Per quanto ci riguarda, significherà una corsa in taxi e forse domani un viaggio in treno. Diciamo cinquemila franchi?»
Morath infilò la mano nella tasca interna, contò il denaro in banconote da cento franchi e rimise via il resto. «Una cosa gliela devo dire. Il mercato clandestino dei diamanti non è florido. Se avesse acquistato un anno fa ad Amsterdam e domani andasse a vendere in Costa Rica, rimarrebbe profondamente deluso. Se crede che mille carati valgano mille carati, come la moneta di un paese normale, e che tutto quello che le resta da fare sia ricavare il nascondiglio nel tacco della scarpa, si sbaglia. La gente pensa che sia così, ma non lo è. Da quando c'è Hitler, il mercato delle pietre preziose è un ottimo modo per perdere la camicia. F'shtai?» «Capito» rispose Morath. «Ascolti, vuole acquistare un Vermeer?» Morath proruppe in una risata; era stata un'uscita inaspettata. «No? Un Hals, allora, uno dei piccoli. Ci sta in valigia. Ed è autentico. Garantisco io. Lei non sa chi sono, e preferirei che non lo sapesse mai, ma io so di cosa parlo.» «Lei dice sul serio. Sta parlando degli originali.» «Sì.» «Ha bisogno di un uomo ricco.» «No, non questa settimana.» Morath fece un sorriso dispiaciuto. L'uomo bianco come il gesso si tolse il cappello e si passò la mano sul capo. Poi disse, in tedesco: «Fermati. È un uomo retto». «È vero?» domandò il mercante d'arte. «È un uomo retto, lei?» Interpretò il silenzio di Morath come riluttanza. «Ah, non vuole approfittare di un fuggiasco.» Il conducente rise. «Che Dio non voglia, ma se mai dovrà fuggire per sopravvivere, allora capirà. A quel punto, il valore non avrà più importanza. Quello che dirà sarà: "Ecco il quadro, mi dia i soldi, grazie e addio". Quando i suoi programmi di vita non andranno più in là del pomeriggio, capirà.» Per qualche istante, nel taxi scese il silenzio. Poi il mercante d'arte diede un colpetto sul ginocchio di Morath. «Mi perdoni. Quello di cui lei ha bisogno è un nome. E il cognome è Shabet. È una famiglia chassidica di Anversa che vive nel quartiere dei diamanti. Ci sono fratelli, figli e compagnia bella, ma fare affari con vino di loro è come fare affari con tutti.» «Ci si può fidare?» «Ciecamente. Io ho affidato loro la mia vita, ed eccomi qui.» Il mercante
d'arte compitò il nome, poi soggiunse: «Dovrò garantire per lei, naturalmente. Come la devo chiamare?». «André.» «Bene. Mi conceda dieci giorni, perché devo mandarci qualcuno. Non è un affare da condursi al telefono. E per ogni evenienza, io e lei abbiamo bisogno di un segnale di conferma. Torni al Madine fra dieci giorni esatti. Se vede la donna, è tutto a posto.» Morath lo ringraziò. Si strinsero la mano. L'uomo bianco gesso si sfiorò il cappello. «Buona fortuna, signore» disse in tedesco. L'auto accostò al marciapiede davanti a una charcuterie, sulla soglia della quale una statua di latta di un maiale invitava la clientela a entrare con un gesto dello zampetto. «Voilà le Ritz!» annunciò il taxista. Emile Courtmain si rilassò sulla sedia girevole, intrecciò le mani dietro la nuca e prese a fissare l'Avenue Matignon. «Quando ci pensi all'inizio, sembra facile. Ma poi ci cominci a lavorare, e diventa difficile.» Sparsi per l'ufficio c'erano quaranta acquerelli, appesi ai muri, sistemati sulle sedie. "Vita francese." Coppiette di contadini nei campi, sulle soglie delle fattorie, sedute sui carri. Come Millet, forse, un Millet benevolo e ottimista. Papas e mamans parigini durante la passeggiata domenicale, accanto a una giostra o all'Are de Triomphe. Due innamorati su un ponte sulla Senna che si tenevano per mano, lei con un bouquet, lui con un completo da corteggiamento - "affrontando il futuro". Un soldato di ritorno dal fronte seduto al tavolo della cucina mentre la sua brava mogliettina gli poneva davanti una zuppiera. Quello non era male, pensò Morath. «Troppo delicati» disse Courtmain. «Il ministero vorrà qualcosa di più pugnace.» «Niente testo?» «Una parola o due. Mary ci raggiungerà fra un minuto. Qualcosa come "In un mondo pericoloso, la Francia resta forte". L'intenzione è debellare il disfattismo, specialmente dopo quanto è successo a Monaco.» «Da esporre dove?» «Nei soliti posti. Nel metrò, nei chioschi, alle poste.» «Difficile debellare il disfattismo in un ufficio postale francese.» Morath si sedette davanti a Courtmain. Mary Day bussò leggermente sullo stipite della porta aperta. «Ciao, Nicholas» disse. Accostò una sedia alla scrivania, si accese una Gitane e porse un foglio a Courtmain. «"La Francia vincerà"» lesse lui. Poi, rivolto a Morath: «Non è una crea-
zione della povera Mary». Si aprì in un sorriso affettuoso. Come tutte le persone intelligenti, Mary Day aveva orrore delle frasi stupide. «È l'omino del ministero degli Interni» spiegò. «Ha "avuto un'idea".» «Spero che paghino.» Courtmain fece una smorfia. "Non molto." «La pubblicità va alla guerra, non si poteva dire di no.» Mary Day si fece restituire il foglio da Courtmain. «"La Francia per sempre."» «Bon Dieu» esclamò Courtmain. «"La nostra Francia."» «Perché non semplicemente "La Francia"?» propose Morath. «Sì» disse Mary Day. «Il "Vive" è sottinteso. È stato il mio primo tentativo. Non è piaciuto.» «Troppo sottile» osservò Courtmain. Guardò l'orologio. «Devo essere alla RCA alle cinque» disse. Aprì la sua valigetta assicurandosi di avere ciò che gli sarebbe servito, poi si aggiustò il nodo della cravatta. «Ti vedrò domani?» chiese a Nicholas. «Verso le dieci» rispose Morath. «Bene» fece Courtmain. Gli piaceva avere Morath in ufficio, e voleva che lui lo sapesse. Salutò entrambi e uscì, lasciando Morath da solo con Mary. Lui finse di osservare gli acquerelli e cercò di trovare qualcosa di arguto da dire. Lei lo guardò di sfuggita, poi rilesse i suoi appunti. Era figlia di un ufficiale irlandese della marina reale e dell'artista francese Marie D'Aumonville, una combinazione straordinaria, se lo si chiedeva a Morath o a chiunque altro. Una lieve spruzzata di efelidi sul dorso del naso; capelli castani lunghi e fluenti e supplichevoli occhi castani. Era piatta, divertita, maliziosa, distratta, maldestra. «Mary è un tipo» Courtmain aveva detto a Morath. A sedici anni, sospettava, i ragazzi le morivano dietro ma erano troppo intimoriti per invitarla al cinema. Morath sentì che Mary si era accorta che la stava fissando e si voltò verso la finestra. Un attimo dopo lei alzò gli occhi e disse: «Be', immagino che dovremmo metterci al lavoro». Morath assentì. «Poi mi offrirai da bere» soggiunse lei raccogliendo i suoi fogli. «Vero?» Morath la fissò: diceva sul serio? «Con piacere» rispose, rifugiandosi nella formalità. «Alle sette?»
Il sorriso di Mary era dolente, come sempre. «Non sei costretto, Nicholas.» Lo stava solo provocando. «Voglio farlo» disse lui. «Da Fouquet, se ti va.» «Be'» rispose lei «sarebbe bello. O magari al caffè dietro l'angolo.» «Fouquet» annunciò Morath. «Perché no?» Una comica scrollata di spalle - "non so perché no". «Alle sette» disse Mary, leggermente sbigottita da ciò che aveva fatto. Camminavano in fretta tra la folla risalendo gli Champs-Elysées, qualche fiocco di neve nell'aria della sera. Lei procedeva a grandi passi, le spalle curve, le mani infilate nelle tasche di quello che Morath trovava un soprabito molto strano, un tre quarti di lana bruno-rossiccia con grossi bottoni ricoperti di tessuto marrone. Fouquet era affollato e chiassoso, pullulante di vita, e dovettero attendere che si liberasse un tavolo. Mary Day si strofinò le mani per scaldarsi. Morath diede dieci franchi a un cameriere, che trovò loro un minuscolo tavolino in un angolo. «Che cosa bevi?» domandò Morath. Lei ci pensò. «Garçon, champagne!» Un gran sorriso. «Un vermouth, magari. Martini rosso.» Morath ordinò un Gentiane, Mary Day cambiò idea e decise di prendere la stessa cosa. «Mi piace, è che non mi ricordo mai di ordinarlo.» Passò un lungo momento a osservare la gente attorno a loro - il teatro serale parigino - e a giudicare dall'espressione del suo volto si divertì un mondo. «Ai vecchi tempi scrissi un articolo su questo posto, un pezzo per il "Paris Herald". Ristoranti con salette private: che cosa succede veramente?» «Che cosa?» «Balzac. Ma non quanto gradiresti pensare. Il più delle volte sono anniversari. Compleanni. Prime comunioni.» «Lavoravi per l'"Herald"?» «Collaboratrice esterna. Scrivevo di tutto, a patto che mi pagassero.» «Tipo...?» «Festa del vino ad Anjou! Ministro degli Esteri turco festeggiato dai Lumpington!» «Non così facile.» «Neanche difficile. Più che altro c'è bisogno di molta tenacia.» «Qualcuno in ufficio ha detto che scrivevi libri.» Mary fece la voce del duro da film di gangster americano. «Allora l'hai
scoperto, eh?» «Sì, sei una romanziera.» «Oh, una specie, forse. Libri spinti, ma pagano l'affitto. Mi ero stancata delle feste del vino ad Anjou, che tu ci creda o no, e qualcuno mi ha presentato questo editore inglese con un ufficio in Place Vendôme. L'uomo più gentile del mondo. Un ebreo, credo, di Birmingham. Era nel settore tessile, è venuto in Francia a combattere, ha scoperto "Parii" e non ha più potuto sopportare l'idea di tornare a casa. Così si è messo a pubblicare libri. Alcuni sono famosi, in certi ambienti, ma la maggior parte ha copertine volanti marroncine, non so se mi spiego. Un mio amico li chiama "libri che si leggono con una mano sola".» Morath rise. «I migliori non sono male. Ce n'è uno che s'intitola Tropico del cancro.» «A dire il vero, penso che la donna con cui vivevo l'abbia letto.» «Alquanto piccante.» «Era fatta così.» «Allora forse ha letto Suzette. O il seguito, Suzette va in barca.» «Li hai scritti tu?» «D.E. Cameron, dice la copertina.» «Come sono?» «"Lei fece scivolare le bretelle dalle spalle candide e lasciò scendere la sottoveste fino alla vita. Il bel tenente..."» «Sì? Che cosa fece?» Mary Day rise e scosse i capelli all'indietro. «Non molto. Il soggetto è più che altro la biancheria intima.» Arrivarono i Gentiane, con un piatto di mandorle salate. Ne bevvero altri due. Poi altri due. Lei gli sfiorò la mano con la punta delle dita. Un'ora dopo ne avevano abbastanza di Fouquet, e lo abbandonarono per andare a cena. Provarono da Lucas Carton, ma era complet e loro non avevano prenotato. Vagarono per Rue Marbeuf, trovarono un posticino che emanava un buon profumo e mangiarono minestra, omelette e formaggio Saint Marcellin. Si scambiarono pettegolezzi sull'agenzia. «Di tanto in tanto devo viaggiare» disse Morath «ma mi piace il tempo che passo in ufficio, mi piace quello che facciamo, i clienti, quello che cercano di vendere.» «Può assumere il controllo della tua vita.»
«Non è poi così terribile.» Mary spezzò una fetta di pane a metà e vi mise sopra alcune briciole di Saint Marcellin. «Non vorrei essere indiscreta, ma hai detto "la donna con cui vivevo". Non c'è più?» «Se n'è andata, è dovuta partire. Suo padre è venuto a prenderla da Buenos Aires. Credeva che a questo punto saremmo stati in guerra.» Mangiò il pane e formaggio. «Ti manca?» Morath impiegò un istante a rispondere. «Certo che mi manca, insieme ci divertivamo.» «A volte è la cosa più importante.» Nicholas assentì. «Un anno fa ho perso il mio compagno. Forse Courtmain te l'ha detto.» «No, parliamo quasi soltanto di lavoro.» «È stato molto triste. Vivevamo insieme da tre anni. Non ci saremmo mai sposati, non era quel genere di cosa. Ma eravamo innamorati, la maggior parte del tempo. Era un musicista, un chitarrista, veniva da una cittadina vicina a Chartres. Formazione classica, ma ha cominciato a suonare nei jazz club di Montparnasse e si è innamorato della vita notturna. Beveva troppo, fumava oppio con gli amici, non andava mai a dormire prima che sorgesse il sole. Finché, un giorno, l'hanno trovato morto in mezzo alla strada.» «Oppio?» Mary allargò le braccia: "Chi lo sa?". «Mi dispiace» disse Morath. Mary aveva gli occhi lucidi; se li asciugò con il tovagliolo. Non dissero nulla sul taxi diretto verso l'appartamento di lei. Abitava in Rue Guisarde, una strada tranquilla in fondo al VI Arrondissement. Morath girò intorno al taxi, le aprì la portiera e l'aiutò a scendere. In piedi sulla soglia, lei sollevò il volto per il bacio della buonanotte sulla guancia, ma questo divenne qualcosa di più, poi molto di più, e proseguì a lungo. Fu molto dolce, le sue labbra secche e morbide, la sua pelle calda sotto la mano di lui. Morath attese nel vano della porta finché vide accendersi la luce di casa sua, poi si allontanò sulla strada con il cuore che gli martellava nel petto. Era molto lontano da casa, ma aveva voglia di camminare. "Troppo bello per essere vero" si disse. Perché alla luce del giorno, quelle cose si tra-
sformavano in cenere. Una folie, avrebbero detto i francesi, un errore del cuore. Da quando era rientrato a Parigi era molto a terra. I giorni di Bistriţa, la cella, la stazione ferroviaria non lo lasciavano in pace. La notte si svegliava e ci pensava. E così aveva cercato rifugio e distrazione all'Agence Courtmain. E poi, un idillio sul luogo di lavoro. Erano tutti mezzi innamorati di Mary Day, perché non lui? Le strade erano fredde e buie, e il vento sul Pont Royal era sferzante. Sul boulevard, un taxi libero. Morath vi salì. Tornare all'appartamento? «Rue de Richelieu» disse al conducente. Ma il mattino dopo, alla luce del giorno, lei indossava un abito nero con i bottoni sul davanti e una cintura che lo stringeva in vita, un vestito che la mostrava in un certo modo, e quando i loro sguardi s'incontrarono per la prima volta, lui capì. Per questo la lettera che quella sera lo attendeva nella sua casella lo riportò bruscamente con i piedi per terra. Préfecture de Police, Quai du Marché Neuf, Paris Iier. Sulla lettera standardizzata il Monsieur era stampato, mentre il Morath, Nicholas era scritto a inchiostro. Lo si pregava di presentarsi alla salle 24 della Préfecture il giorno 8 Dicembre, fra le ore 9 et 12 du matin. Veulliez agréer, Monsieur, l'expression de nos sentiments distingués. Succedeva, di tanto in tanto. Una convocazione in Préfecture, un fatto della vita per qualsiasi straniero, un fronte freddo nel clima burocratico della città. Morath detestava andare in quel luogo: il linoleum consumato e le pareti verdi, l'atmosfera cupa, i volti dei convocati, ognuno con la sua speciale combinazione di noia e terrore. La stanza 24. Non era la sua solita, la cara vecchia stanza 38, dove venivano ricevuti i residenti stranieri con vaghi collegamenti diplomatici. Che cosa significava? si chiese indossando il suo migliore abito blu. Significava un ispettore serio con un volto duro e squadrato e un portamento militare. Molto formale, molto corretto e molto pericoloso. Chiese di vedere i suoi documenti, prese appunti su un modulo. Domandò se vi fossero stati dei cambiamenti nella sua situation: residenza, professione, stato civile. Volle sapere se di recente fosse stato in Romania. Morath avvertì il ghiaccio sottile. Sì, alla fine di ottobre. Dove, esattamente, in Romania? Nel distretto di Cluj.
E? Nient' altro. E prego, a quale scopo? Un impegno mondano. Non per... affari? Non, monsieur l'inspecteur. Molto bene, sarebbe stato così gentile da attendere nella réception? Morath si sedette, mentre la parte forense del suo cervello ribolliva. Venti minuti. Trenta. "Bastardi." Poi l'ispettore ricomparve con i suoi documenti in mano. Grazie, signore, non ci sono altre domande. Per il momento. Un lungo istante, poi: «Vos papiers, monsieur». Polanyi aveva l'aspetto di chi non ha dormito. Nell'udire il racconto del nipote roteò gli occhi. "Signore, perché proprio a me?" Si videro quello stesso pomeriggio, nell'ufficio di un elegante negozio di Rue de la Paix che vendeva accessori da uomo. Polanyi si rivolse in ungherese al proprietario, squisitamente abbigliato e fresco di barbiere. «Possiamo usare il suo ufficio, Kovacs uhr, per qualche istante?» L'uomo annuì con aria ansiosa, torcendosi le mani. Nei suoi occhi c'era una scintilla di paura che a Morath non piacque. «Non credo che andranno fino in fondo» disse Polanyi. «Possono estradarmi in Romania?» «Possono, naturalmente, ma non lo faranno. Un processo, i giornali, non è ciò che vogliono. Ti darei due consigli: primo, non ti preoccupare; secondo, non andare in Romania.» Morath spense la sigaretta nel posacenere. «Naturalmente saprai che i rapporti tra Francia e Romania sono sempre stati importanti per entrambi i governi. Certe società francesi hanno concessioni presso i campi petroliferi di Ploieşti. Dunque devi fare attenzione.» Polanyi esitò un istante. «Già che ci siamo» soggiunse quindi «devo farti una domanda. Ho ricevuto una lettera di Hrubal. Mi chiede di farmi dire che ne è stato di Vilmos, il suo capostalliere, il quale non è mai rientrato dopo averti accompagnato alla stazione di Cluj.» «È ovvio che l'hanno ucciso.» «Davvero? Forse è soltanto scappato.» «È possibile. Hrubal sa che il suo denaro è scomparso?»
«No. E non lo saprà mai. Mi sono dovuto rivolgere a Voyschinkowsky, il quale, senza nulla che somigliasse a una vera e propria spiegazione, ha accettato di risarcire la perdita. E così il contributo del principe Hrubal al comitato nazionale verrà fatto a suo nome.» Morath sospirò. «Cristo, non finisce mai.» «Sono i tempi in cui viviamo, Nicholas. Una magra consolazione, lo so, ma in passato c'è stato di peggio. In ogni caso, non voglio che tu perda il sonno per questa storia. Finché ci sarò io a proteggerti, sarai ragionevolmente al sicuro.» Per seguire le istruzioni del mercante d'arte, quella mattina Morath doveva andare al Café Madine, ma prima di tutto passò dall'ufficio, che trovò silenzioso e deserto - era arrivato troppo presto. Poi, all'improvviso, un turbine d'attività. Mary Day con un apprendista copywriter, Mary Day con l'artista Léon, Mary Day che parlava a Courtmain attraverso la porta aperta del suo ufficio. Vestita con un maglione bianco e angelico, lo guardò di sfuggita mentre gli passava accanto con la fretta di chi aveva veramente qualcosa da fare. Morath batté in ritirata nel proprio ufficio, controllò l'ora, uscì, rientrò. Finalmente Mary era sola alla sua scrivania; si reggeva la testa fra le mani studiando cinque parole scritte a macchina su un foglio di carta gialla. «Mary» le disse. Lei alzò gli occhi. «Ciao» rispose. "Dov'eri finito?" «Ieri sera ho cercato di chiamarti. Non sono riuscito a trovare il tuo numero.» «Oh, è una lunga storia» disse. «L'appartamento è in realtà...» Si guardò intorno. Gente dappertutto. «Maledizione, ho finito le matite.» Si alzò di scatto e lui la seguì nel ripostiglio del materiale, un grosso armadio a muro. Si richiuse la porta alle spalle. «Eccolo» disse lei scrivendo il proprio numero. «Voglio vederti.» Lei gli porse il foglietto, poi lo baciò. Lui la prese fra le braccia, la strinse per un istante, aspirò il suo profumo. «Domani sera?» chiese lei. Morath fece un calcolo. «Alle dieci, penso.» «C'è un caffè all'angolo di Rue Guisarde» disse Mary. Gli posò la mano sulla guancia, poi prese una manciata di matite. «Non possiamo farci sorprendere nel ripostìglio del materiale» soggiunse ridendo. Lui seguì con lo sguardo l'ondeggiare della sua gonna in corridoio; Mary
entrò nell'ufficio contabile, guardandosi alle spalle mentre chiudeva la porta. Al Café Madine, Morath andò al banco e bevve il suo solito caffelatte. Venti minuti dopo - qualcuno, decise, lo stava osservando da qualche parte - arrivò la donna. Lo ignorò, si sedette a un tavolino accanto al muro e si mise a leggere la sua copia di «Le Temps». Anversa, dunque. Morath andò a trovare Boris Balki al locale notturno. «Ancora attivo?» disse Balki versando due vodke polacche. «Suppongo di sì» rispose Morath. «Be', dovrei ringraziarla.» Balki levò il bicchiere in un brindisi silenzioso e bevve la vodka. «Il mio amico Rashkow è uscito di prigione. Gli hanno portato i suoi vestiti nel mezzo della notte, l'hanno accompagnato al cancello posteriore, gli hanno dato un bel calcio nel sedere e gli hanno detto di non farsi più vedere.» «Sono lieto di esserle stato d'aiuto.» «Povero piccolo Rashkow» fece Balki. «Devo andare ad Anversa» disse Morath. «Speravo che venisse con me.» «Anversa.» «Avremo bisogno di una macchina.» All'alba, Morath pestò i piedi sull'asfalto per scaldarsi e si strinse il soprabito sul petto mentre aspettava nella nebbia bianca accanto alla stazione del metrò del Palais-Royal. Una splendida automobile, si disse. Si avvicinava molto lentamente lungo Rue Saint-Honoré, una Peugeot 201 vecchia di dieci anni, dipinta di verde scuro e scintillante di cera e attenzioni. Si diressero a nord, seguendo processioni di camion, e giunsero a Saint Denis. Morath guidò Balki attraverso un labirinto di strade serpeggianti fino a un giardino dietro una chiesa dove, mettendosi d'impegno sui chiavistelli riluttanti, smontarono il sedile posteriore. «La prego, Morath» disse Balki. «Non faccia danni. È la vita di qualcuno, questa macchina.» Indossava un rigido abito marrone, una camicia bianca senza cravatta e un berretto con la visiera: un barista nel suo giorno di riposo. Morath aprì la valigetta e infilò le voluminose mazzette di pengo sotto le molle del sedile. Balki era torvo in volto, e nel vedere tutto quel denaro scosse il capo. La Route 2 si dirigeva a nord-est di Parigi e attraversava Soissons e La-
on con indicazioni per Cambrai e Amiens, la pianura incolta nella quale avevano sempre combattuto i tedeschi. Nei villaggi il fumo sorgeva dai comignoli, le donne aprivano le imposte, guardavano il cielo e arieggiavano i guanciali e le coperte. C'erano ragazzini che andavano a scuola accompagnati dai loro cani trotterellanti, commessi che sollevavano le saracinesche di metallo dei loro negozi, lattai che posavano bottiglie sulle soglie delle case. Fuori della cittadina francese di Bettignies, la polizia belga alla stazione doganale era troppo occupata a fumare appoggiando la schiena al casotto per degnare di un'occhiata la Peugeot. «La prima metà è fatta» disse Balki in tono sollevato. «No, finisce qui» spiegò Morath mentre il casotto scompariva nel retrovisore. «Una volta arrivati ad Anversa, saremo due turisti. Probabilmente avrei dovuto prendere il treno.» Balki scrollò le spalle. «Non si sa mai.» Abbandonarono la strada, proseguirono nei campi e rimisero il denaro nella valigetta. A Bruxelles il traffico era lento. Si fermarono a mangiare anguilla e frites in un bar della periferia, quindi proseguirono lungo il corso della Schelda fino ad Anversa. In lontananza udirono la sirena da nebbia di una nave mercantile che entrava in porto. La zona dei diamanti era in Via van Eykelai, in un quartiere di lusso accanto a un parco triangolare. «Proseguo a piedi» disse Morath. Balki accostò, tradendo una smorfia quando una gomma strisciò contro il marciapiede. «Shabet? Due bancarelle più in là» gli dissero. Aveva trovato il mercato dei diamanti in Pelikanstraat - lunghi tavoli di rigattieri con i laboratori dei tagliatori al piano superiore. Lo Shabet che individuò era sulla trentina, stempiato e preoccupato. «Forse è meglio che parli con mio zio» disse. Morath attese accanto al tavolo mentre questi faceva una telefonata, e dieci minuti dopo arrivò lo zio. «Andiamo nel mio ufficio» disse. Si trovava sempre in Via van Eykelai, al secondo piano di un imponente edificio di pietra, ed era magnifico. Tappeti persiani, una vasta libreria piena di vecchi volumi, una scrivania decorata con una guarnizione di tela verde. Il vecchio Shabet si sedette alla scrivania. «Allora, come posso aiutarla?» «Un conoscente di Parigi mi ha dato il suo nome.»
«Parigi. Oh, lei è Monsieur André?» «È il nome che gli ho chiesto di usare.» Shabet lo soppesò con lo sguardo. Era sulla sessantina, pensò Morath, aveva lineamenti fini e capelli argentati e portava uno yarmulke di seta bianca sulla nuca. Un uomo agiato, ricco e sicuro di ciò che sapeva del mondo. «I tempi in cui viviamo» disse, perdonando a Morath il suo piccolo inganno. «Il suo amico di Parigi mi ha mandato qualcuno. Quello che le interessa, credo, è un investimento.» «Più o meno. Il denaro è in pengo ungheresi, circa due milioni.» «Lei non dia importanza alla forma o alla qualità, sono valutazioni che lascerà a noi. Una semplice questione di conversione.» «In diamanti.» Shabet giunse le mani sulla scrivania e premette i pollici uno contro l'altro. «Le pietre sono disponibili, naturalmente.» Sapeva che non era così facile. «E una volta in nostro possesso, vorremmo che vengano vendute.» «Da noi?» «Dai vostri soci, o forse famigliari, di New York. E che il denaro venga versato su un conto in America.» «Ah.» «E se, per evitare le spese di spedizione, la ditta di New York dovesse usare le sue scorte, pietre di uguale valore, la cosa non ci riguarderebbe.» «Credo che lei abbia in mente una lettera. Da noi a loro, con la contabilità risolta in famiglia, giusto?» Morath annuì e porse a Shabet un foglio di carta da lettera color crema. L'uomo estrasse un pince-nez dal taschino e se lo sistemò sul naso. «"United Chemical Supply"» lesse. «"Mr J.S. Horvath, tesoriere." Presso la Chase National Bank, filiale di Park Avenue.» Posò il foglio sulla scrivania e rimise il pince-nez nel taschino. «Monsieur André? Di che genere di denaro si tratta?» «Donazioni.» «Per attività spionistiche?» «No.» «Per quale scopo, allora?» «Creare certi fondi. A cui attingere in caso di emergenza nazionale.» «Sto facendo affari con il governo ungherese?» «No. Il denaro proviene da donatori privati. Non è denaro fascista, non è stato espropriato, estorto o rubato. La provenienza politica di questi soldi è
quello che i giornali chiamano il Fronte Ombra. E cioè liberali, legittimisti, ebrei, intellettuali.» Shabet non era affatto contento; aggrottò la fronte, l'espressione di un uomo che forse vorrebbe dire di no ma non può. «Sono molti soldi, signore.» «Chiediamo soltanto quest'unico trasferimento.» Shabet gettò un'occhiata alla finestra, attraversata da qualche fiocco di neve. «Be', è un sistema molto antico.» «Medievale.» Annuì. «E vi fidate di noi. Non ci sarà alcuna ricevuta, niente del genere.» «La vostra, mi sembra, è un'impresa molto solida.» «Direi proprio di sì, Monsieur André. Direi proprio che lo sia. Dal 1550.» Riprese il foglio di carta dalla scrivania, lo piegò in due e lo fece scivolare nel cassetto. «Un tempo» disse «le avrei forse suggerito di rivolgersi altrove. Ma adesso...» Non era necessario concludere la frase, e Shabet non se ne prese il disturbo. «Bene» soggiunse. «Ha con sé il denaro?» Quando cercarono di uscire da Anversa era ormai sceso il crepuscolo. Avevano una cartina stradale, apparentemente tracciata da un intrepido anarchico belga, e discutevano mentre la Peugeot serpeggiava nelle stradine. Morath colpiva la cartina con l'indice dicendo a Balki dove si trovavano, Balki consultava i cartelli stradali e diceva a Morath dove non si trovavano. I tergicristalli stridevano spostando la neve fradicia da una parte all'altra del parabrezza appannato. In una via era scoppiato un incendio, e ci volle un'eternità per fare marcia indietro. Svoltarono nella strada successiva dietro il carro di un robivecchi, poi ne provarono un'altra che portava alla statua di un re e a un vicolo cieco. «Merde» imprecò Balki, invertendo la marcia e imboccando la successiva a sinistra. Per qualche ragione, Morath la trovava vagamente familiare: c'era già stato. Poi vide il perché: il negozio Homme du Monde, in cui Madame Golsztahn noleggiava smoking. Ma in vetrina non c'era alcun manichino. Soltanto un cartello scritto a mano: FERME. «Che cosa c'è?» chiese Balki. Morath non rispose.
Forse alla guardia doganale belga non importava chi andava e veniva, ma agli ispettori francesi sì. «L'orologio, monsieur. È nuovo?» «Comprato a Parigi» disse Balki. Nel casotto della dogana faceva caldo; una stufa di ghisa avvampava in un angolo e nell'aria aleggiava l'odore di lana bagnata dei mantelli degli ispettori. "Un russo? E un ungherese? Con permessi di residenza? E di lavoro? L'ungherese con un passaporto diplomatico? A bordo di un'automobile in prestito?" Allora, che genere di affare li aveva portati a varcare il confine durante una tormenta di neve? "Forse daremo un'occhiata nel bagagliaio. La chiave, monsieur, se non le dispiace." Morath cominciò a fare calcoli. Per trovarsi alle dieci al caffè di Rue Guisarde, avrebbe dovuto lasciarsi dietro quell'inferno un'ora prima. Fuori, un camionista suonò il clacson. Cominciò a formarsi una coda mentre uno degli ispettori cercava di chiamare al telefono la Préfetture di Parigi. Morath poteva udire la voce dell'operatrice discutere con l'ispettore, che coprì la cornetta con una mano e si rivolse al suo superiore: «Dice che a Lille c'è una lista d'attesa». «Le nostre chiamate non passano da Lille, almeno lei dovrebbe saperlo!» Morath e Balki si scambiarono un'occhiata. Ma qualche minuto dopo l'ispettore capo si stancò di loro e li fece passare con un gesto imperioso della mano. Se insistevano a essere stranieri, di sicuro non era colpa sua. Neve sulla Route 2. La Peugeot avanzava a passo d'uomo dietro una vecchia camionette Citroën con il nome di una drogheria di Soissons dipinto sullo sportello posteriore. Balki imprecò e cercò di superarla; le gomme slittarono, la Peugeot cominciò a sbandare, Balki calò il piede sul freno e Morath vide il volto bianco e furioso del conducente della camionette scivolargli accanto; la Peugeot fece un testacoda ed entrò in un campo, sobbalzando sui solchi coperti dalla neve. Si fermò a poche decine di centimetri da un grande platano, il cui tronco era sfregiato dalle imprudenze di altri automobilisti. In piedi sotto la neve cadente, Balki e Morath osservarono la Peugeot. La ruota posteriore destra era a terra. Mezzanotte meno dieci: Rue Guisarde era bianca e silenziosa nel sussurro della neve, le luci del caffè un bagliore ambrato in fondo alla strada. Morath la vide subito, l'ultima cliente rimasta, triste e abbandonata, china
su un libro e una tazza di caffè ormai vuota. Le si sedette davanti. «Perdonami» disse. «Oh, non importa.» «Un incubo, il viaggio. Abbiamo dovuto cambiare una gomma.» Le prese le mani nelle sue. «Sei fradicio» disse lei. «E gelato.» «Forse dovresti andare a casa. Non è stata davvero una bella serata.» Ma lui non voleva andare a casa. «Oppure potresti venire da me. Ad asciugarti i capelli, se non altro.» Morath si alzò. Si tolse alcuni franchi di tasca e li posò sul tavolo per il caffè. Un appartamento molto piccolo, un monolocale con un letto in una nicchia e un bagno. Morath si tolse il soprabito e Mary lo appese accanto al termosifone. Poi mise la sua giacca nell'armadio e le sue scarpe su un foglio di giornale. Si sedettero su un vecchio, elaborato divano, un orrore vittoriano, il genere di mobile che, dopo aver fatto cinque piani di scale, non sarebbe più andato da nessuna parte. «Caro vecchio affare» disse Mary in tono affettuoso, lisciando con la mano il cuscino di velluto marrone. «Svolge spesso un ruolo nei romanzi di D.E. Cameron.» «Un campo di battaglia.» «Già.» Una risata. «A dire il vero, ho avuto fortuna a trovare questo posto» soggiunse. «Non sono l'inquilina ufficiale, per questo il mio nome non è sull'elenco. È di una certa Moni.» «Moni?» «Be', credo che il suo nome ufficiale sia Mona, ma se ti chiami Mona, immagino che l'unico nomignolo sia Moni.» «Piccola e scura di capelli? Una a cui piace provocare?» «Proprio lei. È un'artista del Québec, abita con la sua compagna vicino alla Bastiglia. Dove l'hai conosciuta?» «A Juan-les-Pins. Era nel gruppo degli amici di Cara.» «Oh. Be', per me è stata un dono del cielo. Quando Jean-Marie morì, giurai che sarei rimasta in quell'appartamento, ma non ce l'ho fatta. Qui d'estate mi manca il frigorifero, ma ho una piastra elettrica e vedo anche St. Sulpice.» «È tranquillo.»
«Perso fra le stelle.» Mary prese una bottiglia di vino dal davanzale della finestra, la stappò e versò un bicchiere per lui e uno per sé. Morath si accese una sigaretta e lei gli allungò un posacenere. «È portoghese» disse. Lui lo assaggiò. «Molto buono.» «Non male, direi.» «Per niente.» «Mi piace.» «Mmm.» «Garrafeira, si chiama.» "Cristo, quant'è lungo questo divano." «Che cosa stavi leggendo al caffè?» «Babel'.» «In francese?» «In inglese. Mio padre era irlandese, ma ho dovuto impararlo a scuola. Mia madre era francese, vivevamo a Parigi e in casa parlavamo francese.» «Sicché ufficialmente sei francese.» «Irlandese. In Irlanda ci sono stata soltanto due volte, ma quando ho compiuto diciott'anni ho dovuto scegliere. Entrambi i miei genitori desideravano che fossi irlandese; credo fosse una cosa che mia madre voleva per mio padre. Chi se ne importa, in ogni caso. Cittadina del mondo, giusto?» «Lo sei?» «No, sono francese, il mio cuore è francese. Non posso farci niente. Il mio editore pensava che scrivessi in inglese, ma gli ho mentito. Scrivo in francese e poi traduco.» Morath si avvicinò alla finestra e prese a fissare la neve che fluttuava oltre i lampioni. Fu la mossa decisiva. Mary Day attraversò la stanza e si addossò a lui. Morath le prese la mano. «Ti è piaciuta, l'Irlanda?» La sua voce era dolce. «Era bellissima» disse lei. Fu un sollievo togliersi il pensiero della prima volta, perché Dio solo sapeva che cosa poteva andare storto. La seconda volta andò molto meglio. Mary aveva un corpo lungo e armonioso, serico e snello. Sulle prime fu un po' timida, poi non più. Il letto era stretto, non proprio adatto a due persone, ma non se ne accorsero poiché lei dormì fra le sue braccia tutta la notte.
La vigilia di Natale. Una tradizione di vecchia data, il ricevimento natalizio della baronessa Frei. In taxi, Mary Day era nervosa; era una festa sulla quale non c'era stata una vera e propria discussione. Lui doveva andarci e non voleva lasciarla sola la vigilia di Natale. «Per te sarà qualcosa di nuovo» le aveva detto. «Una serata ungherese.» «Con chi parlerò?» «Mary, ma douce, non esistono ungheresi che parlano soltanto ungherese. Gli invitati parleranno francese, forse inglese. E se, Dio non voglia, ti viene presentato qualcuno e scoprite che non riuscite a scambiarvi una sola parola comprensibile, che problema c'è? Un sorriso dispiaciuto e via verso il buffet.» Alla fine era andata. Con un abito nero e vagamente strano, come tutto ciò che indossava. Ma la sua bellezza era perfino più straziante del solito. Rimase naturalmente incantata dall'Impasse Villon e dalla casa. E dal servitore che s'inchinò quando arrivarono alla porta e guizzò via con i loro soprabiti. «Nicholas?» sussurrò. «Sì?» «Quello era un servo in livrea, Nicholas.» Si guardò intorno. Le candele, l'argenteria, il presepe secolare sopra il caminetto, gli uomini, le donne. In una stanza lontana, un quartetto d'archi. La baronessa Frei era lieta di vederlo accompagnato, ed evidentemente approvava la sua scelta. «Deve venirmi a trovare qualche volta, quando possiamo parlare» disse a Mary Day, che rimase aggrappata al braccio di Nicholas soltanto dieci minuti, prima che un barone la portasse via. Morath, bicchiere di champagne in mano, si ritrovò a conversare con un uomo presentatogli come Bolthos, un funzionario della legazione ungherese. Molto raffinato, spruzzato di grigio sulle tempie, sembrava, pensò Morath, il ritratto a olio di un diplomatico del 1910. Bolthos voleva parlare di politica. «Hitler è infuriato con loro» disse dei rumeni. «Călinescu, il ministro degli Interni, si è sbarazzato in fretta della Guardia di Ferro. Con l'approvazione del re, naturalmente. Hanno sparato a Codreanu e a quattordici dei suoi luogotenenti. "Uccisi mentre tentavano la fuga", come dice l'adagio.» «Forse potremmo imparare qualcosa da loro.» «Era un messaggio, credo. Tieni il tuo miserabile ciarpame fuori del nostro paese, Adolf.» Morath assentì. «Se ci alleassimo con la Polonia, la Romania e magari
anche con i serbi e lo affrontassimo, forse potremmo farcela.» «Già, l'Intermarium. Sono d'accordo con lei, specialmente se i francesi ci dessero una mano.» Due settimane prima, i francesi avevano firmato un trattato di amicizia con i tedeschi, una riconferma di Monaco. «Ma lo farebbero?» disse Morath. Bolthos bevve un sorso di champagne. «All'ultimo minuto, forse, quando noi avremmo ormai perduto la speranza. I francesi impiegano molto tempo a fare la cosa giusta.» «I polacchi non accetteranno mai Monaco» osservò Morath. «No, combatteranno.» «E Horthy?» «Svicolerà, come sempre. Ma alla resa dei conti potrebbe non bastare. E noi finiremmo nel calderone.» Li raggiunse la bellissima moglie di Bolthos, tutta capelli di platino e orecchini di diamanti. «Spero di non avervi sorpreso a parlare di politica» disse con finto cipiglio. «È Natale, caro, non è il momento per un duello.» «A vostra disposizione, signore.» Morath batté i tacchi e s'inchinò. «Ecco, hai visto?» disse Madame Bolthos. «Adesso dovrai alzarti all'alba, e ti sta bene.» «Presto!» esclamò una giovane donna. «C'è Kolovitzky!» «Dove?» «Nella sala da ballo,» Morath la seguì attraverso la folla. «La conosco?» La donna lo guardò da sopra la spalla e rise. Nella sala da ballo, il celebre violoncellista Béla Kolovitzky sorrideva dal palco al gruppo sempre più folto di ascoltatori. I suoi colleghi del quartetto d'archi si unirono al pubblico. Kolovitzky sistemò un fazzoletto fra il collo e la spalla e strinse a sé un violino. Dopo la fama e il successo a Budapest, nel 1933 era andato a Hollywood. «"Il volo del calabrone"!» suggerì qualcuno, chiaramente per scherzo. Kolovitzky suonò un belato stridente, quindi abbassò gli occhi a terra. «Qualcos'altro?» Poi cominciò a suonare: una melodia lenta, profonda, romantica, vagamente familiare. «È tratta da Enchanted Holiday» disse. La musica si fece più triste. «Ora Hedy Lamarr alza gli occhi sulla nave a vapore.» Malinconica. «Vede Charles Boyer davanti al parapetto... lui la
sta cercando... fra la folla... lei fa per alzare la mano... arriva a metà strada... l'abbassa di nuovo... no, non potranno mai stare insieme... la nave lancia il suo segnale.» Imitò il suono con il violino. «Charles Boyer sta perdendo la testa... dov'è finita?» «Che cos'è questo brano?» domandò una donna. «Mi sembra di conoscerlo.» Kolovitzky scrollò le spalle. «Una cosa a metà strada fra Čajkovskij e Brahms, Brahmskij, lo chiamiamo.» Cominciò a parlare inglese con un comico accento ungherese. «Def ezzere cozì dolze, ro-man-tico, zentimentale. Cozì bello che fa pianzere Sam Goldwyn... e fa diventare ricco Kolovitzky.» Morath vagò per la festa alla ricerca di Mary Day. La trovò in biblioteca, accanto al caminetto acceso. Era seduta sul bordo di un divano, tenendo il segno in un libro con il pollice e ascoltando assorta un minuscolo gentiluomo dai capelli bianchi sprofondato in una poltrona di pelle con la mano posata su un bastone dall'impugnatura d'argento a forma di testa di caprone. Ai piedi di Mary giaceva supino uno dei viszla, ridotto in uno stato di estatica semincoscienza dalle sue incessanti carezze. «E da quella collina» disse il gentiluomo canuto «si vede il tempio di Pallade Atena.» Morath era seduto su una sedia lunga e sottile accanto a una portafinestra, intento a mangiare la torta da un piatto tenuto in bilico su un ginocchio. La baronessa Frei era seduta accanto a lui, la schiena curva nell'abito da sera di seta, il volto come sempre luminoso. "La si potrebbe definire" pensò Morath "la donna più bella d'Europa." «E tua madre, Nicholas, che cos'ha detto?» «Che non se ne andrà.» «Le scriverò» decretò decisa la baronessa. «Lo faccia, la prego» disse lui. «Ma dubito che cambierà idea.» «Ostinata! È sempre stata così.» «Prima che me ne andassi, ha detto che potrebbe vivere con i tedeschi, ma che se il paese venisse occupato dai russi avrei dovuto trovare il modo di farla uscire. "A quel punto" ha detto "verrò a Parigi".» Ritrovò Mary e la portò fuori nel giardino d'inverno; le foglie morte ricoprivano le sedie e i tavoli di ferro battuto, e i gambi spogli delle rose si arrampicavano attraverso il graticcio. L'aria gelida rendeva il cielo nero e
le stelle bianche e lucenti. Quando Mary cominciò a tremare, Morath si portò dietro di lei e la strinse a sé. «Ti amo, Nicholas» disse lei. Intermarium 11 marzo 1939. Amen. Il mondo nel caos, metà degli eserciti d'Europa mobilitati, diplomatici in continuo movimento che spuntavano qua e là come le scimmiette di latta dei tiri a segno. "Molto simili" pensò Morath "alle scimmiette di latta dei tiri a segno." Mentre attraversava il Pont Royal diretto a pranzo, in ritardo ma senza fretta, si fermò e si sporse dal parapetto di pietra. Il fiume scorreva gonfio e deciso, il suo colore simile ad ardesia lucente, la superficie agitata dal vento di marzo e dalle correnti primaverili. Nel cielo a occidente, nuvole bianche avanzavano dai porti sulla Manica. "Gli ultimi giorni del segno dei Pesci" si disse Morath: sogni e misteri, l'equinozio fra dieci giorni. Quando pioveva nel mezzo della notte, si svegliavano e facevano l'amore. Consultò l'orologio. Polanyi lo stava probabilmente aspettando, c'era modo di evitarlo? Da lì la Senna scorreva verso nord, verso Rouen, la Normandia, il mare. "Fuga." No, pranzo. Mezz'ora dopo, la Brasserie Heininger. Una scalinata di marmo bianco portava a un locale di divanetti sfarzosi, amorini dipinti, cordoni dorati sui drappeggi. Camerieri con favoriti correvano avanti e indietro reggendo vassoi d'argento pieni di langoustes rosa. Morath tirò un respiro di sollievo. Non più Prévert, «la bellezza delle cose sinistre», il conte von Polanyi de Nemeszvar era apparentemente risorto dagli inferi, tentato dal cibo sontuoso e da una lista dei vini rilegata in pelle. Lo zio lo salutò in un ungherese formale e si alzò per stringergli la mano. «Scusami per il ritardo.» Una bottiglia di Echézeaux campeggiava aperta sul tavolo, e un cameriere si avvicinò rapido e riempì un bicchiere. Morath ne bevve un piccolo sorso e fissò il pannello di specchio sopra il divanetto. Polanyi seguì il suo sguardo. «Non girarti subito, ma dietro di te c'è un foro di proiettile» disse Nicholas. «Sì. Il famigerato Tavolo Quattordici. Questo posto ha una sua storia.»
«Davvero?» «Due anni fa, credo. Il capocameriere venne assassinato mentre se ne stava seduto nel bagno delle signore.» «Be', non farà più certe cose.» «A colpi di mitragliatrice, si racconta. Aveva a che fare con la politica bulgara.» «Oh. E in sua memoria...» «Sì. E si dice anche che una specie di spia-amante inglese tenesse corte proprio qui.» «A questo tavolo.» «Già.» Il cameriere tornò, e Polanyi ordinò cozze e choucroute royale. «Perché "royale"?» domandò Morath. «I crauti vengono cotti nello champagne invece che nella birra.» «Riesci a sentire il sapore di champagne? Nei crauti?» «Un'illusione. Ma l'idea è suggestiva.» Morath ordinò suprêmes de volatile, petto di pollo alla panna, il piatto più semplice che riuscì a trovare. «Hai saputo che cosa hanno combinato al ministero dell'Aeronautica francese?» chiese Polanyi. «Cos'altro?» «Be', prima di tutto hanno appaltato la produzione dei caccia a un mobiliere.» «Il cognato di qualcuno.» «Probabilmente. Poi hanno deciso di conservare i loro documenti segreti in un impianto di collaudo fuori Parigi. Li hanno chiusi in una galleria aerodinamica in disuso. Solo che hanno dimenticato di avvertire i tecnici, i quali hanno avviato l'impianto spargendo i documenti per tutta la zona.» Morath scosse il capo; c'era stato un tempo in cui il racconto sarebbe risultato divertente. «Se non stanno attenti, si ritroveranno Adolf all'Eliseo.» «Non in questa vita» disse Polanyi scolando il bicchiere di vino e tornando a riempirlo. «Pensiamo che Adolf stia per commettere un errore.» «E sarebbe?» «La Polonia. Negli ultimi tempi ha cominciato a sbraitare su Danzica "È tedesca, è sempre stata tedesca e sarà sempre tedesca". La sua stazione radio ripete ai tedeschi della città: "Tenete una lista dei vostri nemici, presto l'esercito tedesco vi aiuterà a punirli". E così, quello che deve verificarsi a questo punto è un patto fra i polacchi, i rumeni e noi; gli jugoslavi pos-
sono unirsi, se vogliono. Il cosiddetto Intermarium, le terre fra il mar Baltico e l'Adriatico. Insieme siamo forti. La Polonia ha l'esercito terrestre più numeroso d'Europa, e noi possiamo negare a Hitler il frumento e il petrolio rumeni. Se riuscissimo a farlo desistere, costringendolo a mettere le carte in tavola, sarebbe la sua fine.» Polanyi vide che Morath era scettico. «Lo so, lo so» soggiunse. «Odi antichi, dispute territoriali e tutto il resto. Ma se non facciamo qualcosa, faremo la fine dei cechi.» Il cameriere servì il pranzo annunciando i piatti a mano a mano che li posava sul tavolo. «E Horthy che cosa ne pensa?» «Ci appoggia. Forse conosci i retroscena degli sviluppi politici di febbraio, forse no. Ufficialmente, Imredy si è dimesso e il conte Teleki è diventato primo ministro. In realtà, Horthy aveva saputo che un giornale di Budapest stava per pubblicare le prove, ottenute in Cecoslovacchia, che il dottor Béla Imredy, il fanatico antisemita, è in realtà ebreo. O quantomeno ha un bisnonno ebreo. Dunque Imredy non si è buttato, è stato spinto. E quando si è dimesso, Horthy ha deciso di rimpiazzarlo con Teleki, un geografo di fama internazionale e un liberale. Il che significa che Horthy appoggia almeno in parte l'opposizione agli obiettivi tedeschi come il mezzo migliore per tenere l'Ungheria fuori da un'altra guerra.» «Contro la Gran Bretagna e la Francia. E prima o poi l'America. Quella la vinceremmo di sicuro.» «Hai dimenticato la Russia» disse Polanyi. «Com'è il tuo pollo?» «Molto buono.» Esitò un istante, usando un coltello per ammonticchiare qualche crauto sul suo wurstel e aggiungervi un tocco di senape. «I polacchi non ti dispiacciono, vero Nicholas?» «Niente affatto.» «Deliziose campagne. E i monti, i Tatra, sublimi. Specialmente in questo periodo dell'anno.» «Così dicono.» «Nicholas!» «Sì.» «Possibile che tu non ci sia mai stato? Sui maestosi Tatra?» Un messaggio sulla sua scrivania all'Agence Courtmain gli chiedeva di dare un'occhiata alla cartella del Betravix, un ricostituente per i nervi a ba-
se di barbabietola. Vi trovò una cartolina di uno Zeus dallo sguardo allucinato, la barba gonfiata di traverso da una nube temporalesca sopra la sua testa, sul punto di stuprare un'Era nuda e straordinariamente rosea che teneva per un piede. Sul retro della cartolina, il disegno a matita rossa di un cuore trafitto da un punto esclamativo. Andò in riunione con Courtmain, e quando rientrò nel suo ufficio trovò un altro messaggio, scarabocchiato su un pezzetto di carta: HA TELEFONATO IL TUO AMICO ILYA. M. Raggiunse l'ufficio di Mary in fondo al corridoio, un cubicolo dalle pareti di vetro accanto a una finestra. «Mi è piaciuta, la tua cartolina» disse. «È quello che succede quando si prende il Betravix?» «Fossi in te non lo proverei.» Il sole del tardo pomeriggio le illuminava di striscio i capelli. «Hai visto il messaggio telefonico?» «Sì. Chi è Ilya?» «Un amico, ha detto. Vuole vederti.» Mary sfogliò una pila di appunti sulla scrivania. «Per un aperitivo. Al caffè di Rue de Maubeuge, davanti alla Gare du Nord. Alle sei e un quarto.» "Ilya?" «Sicura che fosse per me?» Annuì. «Mi ha chiesto se "potevo dirlo a Nicholas".» «Non c'è un altro Nicholas?» Ci pensò. «Non in questo ufficio. Sembrava gentile, molto calmo. Con un accento russo.» «Chissà.» «Ci andrai?» Morath esitò. Russi sconosciuti, incontri nei caffè della stazione. «Perché ha chiamato te?» «Non lo so, amore mio.» Mary spostò lo sguardo sulla soglia dell'ufficio alle sue spalle. «È pronto?» Morath si voltò e vide Léon con il disegno di una donna con una stola di pelliccia. «Posso tornare più tardi, se siete occupati» disse Léon. «No, abbiamo finito» rispose Nicholas. Per il resto del giorno non fece che pensarci. Non riusciva a smettere. Fu sul punto di chiamare Polanyi, ma non lo fece. Alla fine decise di tenersene alla larga. Uscì dall'ufficio alle cinque e mezzo, rimase qualche istante sull'Avenue Matignon e infine fermò un taxi con l'intenzione di tornare a casa. «Monsieur?» chiese il conducente. «La Gare du Nord.» Je m'en fous, chi se ne importa.
Si sedette al caffè, un giornale ancora vergine accanto alla tazza, fissando la gente a mano a mano che entrava nel locale. Aveva a che fare con il mercante di diamanti di Anversa? Qualcuno che conosceva Balki? Oppure un amico di un amico - "chiama Morath quando arrivi a Parigi". Qualcuno che voleva vendergli un'assicurazione, forse, o un agente di borsa, o un rifugiato politico che aveva bisogno di un lavoro. Un cliente russo? Che voleva fare pubblicità al suo... negozio di scarpe? Qualsiasi cosa, in realtà, tranne quello che sapeva sarebbe stato. Attese fino alle sette, poi prese un taxi per l'appartamento di Mary Day. Bevvero un bicchiere di vino, fecero l'amore, uscirono a mangiare bistecca e patatine fritte, tornarono a casa a piedi, si accoccolarono insieme sotto le coperte. Ma lui si svegliò alle tre e mezzo, e di nuovo alle cinque. Quando l'indomani mattina il telefono suonò nel suo ufficio, attese tre squilli prima di rispondere. «Le mie scuse, Monsieur Morath. Spero che mi perdonerà.» Una voce melodiosa, con un forte accento. «Ma lei chi è?» «Solo Ilya. Domani mattina sarò al mercato all'aperto di Maubert.» «E la cosa riguarda...?» «Grazie.» In sottofondo, una voce: «Un café allongé». Una radio accesa, una sedia che raschiava sul pavimento di piastrelle, poi la comunicazione s'interruppe. Un grande mercato, il martedì e il sabato in Place Maubert. Merluzzo e pesce spada su letti di ghiaccio tritato. Cavoli, patate, rape, porri, cipolle. Rosmarino e lavanda essiccati. Noci e nocciole. Un paio di sanguinolenti rognoni di maiale avvolti in un foglio di giornale. Morath lo vide, in attesa in un androne. "Uno spettro." Lo fissò per un istante, ricevette un cenno del capo in risposta. S'incamminarono fra le bancarelle, esalando vapore nell'aria gelida. «La conosco?» domandò Morath. «No» rispose Uva. «Ma io conosco lei.» Quell'uomo aveva qualcosa di sottilmente malfatto, pensò Morath; forse un torso troppo lungo rispetto alle gambe, o due braccia troppo corte. Una calvizie incipiente, capelli tagliati talmente corti che sulle prime sembrava avere una fronte molto alta. Un volto placido, pallido e cereo, che rendeva ancora più neri i baffi folti. E il suo portamento aveva qualcosa del dottore o dell'avvocato, dell'uomo che si era addestrato, per motivi professionali, a
non tradire emozioni. Indossava un vecchio, triste soprabito verde oliva, forse lo scarto di qualche esercito, così lurido e consunto che la sua identità era stata da tempo cancellata. «Ci siamo forse incontrati da qualche parte?» gli chiese Morath. «Non esattamente. La conosco grazie al suo dossier a Mosca. Il genere di informazioni raccolte dai servizi segreti. Sono probabilmente più complete di quanto potrebbe aspettarsi. Chi conosce, quanto guadagna. Opinioni politiche, famiglia, le solite cose. Potevo scegliere fra centinaia di persone, a Parigi. Di varie nazionalità e condizioni. Alla fine ho scelto lei.» Proseguirono in silenzio per qualche istante. «Sono in fuga, naturalmente. Dovevo essere fucilato nel corso della purga alla direzione degli Esteri. I miei amici erano stati arrestati ed erano scomparsi, com'è normale da quelle parti. Io mi trovavo in... posso dire in Europa. E quando sono stato richiamato a Mosca - per ricevere una medaglia, hanno detto - sapevo esattamente di che medaglia si trattava, nove grammi, e sapevo esattamente che cosa mi aspettava prima del proiettile. E così sono fuggito e sono venuto a nascondermi a Parigi. Per sette mesi sono rimasto in una stanza. Credo di averla abbandonata soltanto tre volte in tutto quel periodo.» «E come ha vissuto?» Ilya si strinse nelle spalle. «Nel solito modo. Con il poco denaro che avevo mi sono comprato una pentola, un fornello ad alcol e un grosso sacco di avena. Con l'acqua che andavo a prendere in fondo al corridoio potevo bollire l'avena e preparare la kása. Aggiungendoci un po' di lardo si può sopravvivere. Io ce l'ho fatta.» «E da me che cosa vuole?» «Aiuto.» Un poliziotto li incrociò, stringendosi il mantello al petto per ripararsi dal freddo. Morath evitò il suo sguardo. «Ci sono cose che si devono sapere» riprese Ilya. «Forse lei mi può aiutare.» «La staranno cercando, ovviamente.» «In lungo e in largo. E mi troveranno.» «È consigliabile che si faccia vedere in giro?» «No.» Passarono davanti a una panetteria. «Un momento» disse Morath. Entrò nel negozio e ne riemerse con un bâtard. Ne staccò un pezzo e diede il resto a Ilya. Nicholas masticò a lungo il pane. La sua bocca era molto secca, e faceva
fatica a deglutire. «L'ho messa in pericolo, lo so» disse Ilya. «E la sua amica. Di questo le devo chiedere scusa.» «Ne sapeva abbastanza da chiamarla nel suo ufficio?» «Vi ho seguiti, monsieur. Non è così difficile.» «No, suppongo di no.» «Se ne può andare, naturalmente. Non la importunerei più.» «Sì, lo so.» «Ma non lo fa.» Morath non rispose. Ilya sorrise. «Bene» disse. Nicholas infilò la mano in tasca e gli porse tutto il denaro che aveva. «La ringrazio della sua gentilezza» disse Ilya. «E per il resto, a Dio piacendo, la prego di tener presente che non ho molto tempo.» Quella sera Morath portò Mary Day al cinema; un film di gangster, guarda caso, detective all'inseguimento di un bel rapinatore lungo i vicoli battuti dalla pioggia. Un nobile selvaggio, la sua anima oscura era stata redenta dall'amore nel primo tempo, ma i flics questo non lo sapevano. Il foulard bianco che stringeva in mano mentre moriva in una pozzanghera sotto un lampione apparteneva a lei, alla cara, buona, bellissima Dany dal maglioncino aderente. Non c'è giustizia, a questo mondo. Un singhiozzo nascosto da parte di Mary Day fu tutto ciò che ottenne. Quando cominciò il cinegiornale - crollo di una miniera di carbone a Lille, Hitler che sbraitava a Regensburg - se ne andarono. Rientrati in Rue Guisarde, rimasero distesi a letto nel buio. «Hai poi trovato il tuo russo?» «Stamattina. Al mercato di Maubert.» «E...?» «Un fuggitivo.» «Oh?» Nelle sue braccia gli sembrava leggera, fragile. «Che cosa voleva?» «Un aiuto.» «E tu lo aiuterai?» Rimase in silenzio per un istante, poi disse: «Potrei». Non ne voleva parlare, e le fece scivolare la mano sul ventre per cambiare argomento. «Visto che succede quando prendo il mio Betravix?»
Lei ridacchiò. «L'ho visto sul serio. Una settimana dopo la mia assunzione, credo. Tu eri da qualche parte - ovunque tu vada - e questo strano piccoletto si presenta con il suo ricostituente. "Per i nervi" dice. "E per accrescere il vigore." Courtmain era ansioso di prendere il lavoro. Ci siamo seduti nel suo ufficio con la bottiglietta verde sulla scrivania e un cucchiaio che aveva trovato chissà dove. Ho svitato il tappo e ho dato un'annusata. Courtmain mi ha guardata con aria interrogativa ma io non ho detto niente, ero arrivata da pochi giorni, avevo paura di commettere un errore. Be', Courtmain non ha paura di nulla: se n'è versato un cucchiaio e l'ha mandato giù. Poi è impallidito e si è lanciato di corsa in corridoio.» «Betravix, ti fa correre.» «La sua faccia.» Il ricordo la fece sbuffare. Le idi di marzo. Il 15, la fanteria motorizzata tedesca, motociclette, semicingolati e autoblindo, entrò a Praga durante una violenta bufera di neve. L'esercito ceco non oppose resistenza, le forze aeree restarono a terra. Per tutto il giorno le colonne della Wehrmacht serpeggiarono per la città, dirette verso il confine slovacco. Il mattino seguente, Hitler parlò a una folla di Volksdeutsche dal balcone del castello di Hradcany. Nei giorni successivi vi furono cinquemila arresti in Cecoslovacchia, e centinaia di suicidi. Due settimane prima, l'Ungheria aveva aderito al patto anti-Comintern fra Germania, Italia e Giappone lanciando simultaneamente una severa repressione degli elementi fascisti del paese. "Ci opporremo ai bolscevichi" sembrava dire l'iniziativa "e possiamo firmare tutti i documenti che vogliamo, ma non verremo mai sottomessi da surrogati dei nazisti." Sotto una certa luce, una luce oscura e tormentata, aveva un suo senso. Ebbe ancora più senso quando, il 14, l'Honved, l'esercito reale ungherese, varcò il confine a passo di marcia e invase la Rutenia. Lentamente, penosamente, i vecchi territori stavano rientrando. A Parigi, l'intensa nevicata di Praga era diventata pioggia. Le notizie animavano le strade. Sotto ombrelli neri e lucenti la gente si raccoglieva davanti ai chioschi in cui venivano esposti i titoloni. TRADIMENTO. Morath lo percepiva nell'aria. Come se la bestia, chiusa in cantina ai tempi di Monaco, avesse abbattuto la porta e stesse facendo a pezzi la porcellana. La telefonista dell'agenzia rispondeva al telefono asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Un rassegnato Courtmain mostrò a Morath una lista di giovani dell'ufficio che probabilmente sarebbero stati mobilitati. Come si
poteva andare avanti senza di loro? Nei corridoi, conversazioni bisbigliate in toni pressanti. Ma quando Morath uscì dall'ufficio a mezzogiorno, non bisbigliava nessuno. Nelle strade, al caffè, in banca e da qualsiasi altra parte era merde e ancora merde. E merdeux, un beau merdier, emmerdé ed emmerdeur. I parigini avevano molti modi per dirlo, e li usavano tutti. Il giornale di Morath, violentemente pessimista circa il futuro, rammentava ai suoi lettori ciò che aveva risposto Churchill ai discorsi di Chamberlain sulla «pace onorevole» ai tempi di Monaco: «Vi è stata offerta la scelta fra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra». Il 28 marzo, Madrid cedette alle armate di Franco e la repubblica spagnola si arrese. Seduta sul bordo del letto nella sua camicia da notte di flanella, Mary Day ascoltava la voce alla radio. «Sai, avevo un amico» disse sull'orlo delle lacrime. «Un inglese. Alto e sciocco, cieco come una talpa, Edwin Pennington. Edwin Pennington, che ha scritto Annabelle sorpresa e La scuola di Miss Lovett. Un bel giorno è partito ed è morto in Andalusia.» Quel mattino, in ufficio, un petit bleu per Morath, un telegramma arrivato con il sistema di tubi pneumatici usato dalle poste parigine. Un messaggio semplice: NOTRE DAME DE LORETTE, 13,30. La chiesa di Notre Dame de Lorette si trovava nel malmesso IX Arrondissement; le prostitute del quartiere erano chiamate Lorettes. Nelle strade attorno alla chiesa, Ilya non avrebbe dato particolarmente nell'occhio. L'istinto di Morath gli diceva di non andare. Si rilassò sulla sedia, fissò il telegramma, fumò una sigaretta e uscì dall'ufficio all'una. La chiesa era buia e frequentata, a quell'ora del giorno, soprattutto da donne anziane. "Vedove di guerra" pensò Morath; vestite di nero, in anticipo sulla messa delle due. Trovò l'angolo più buio, verso il retro, lontano dalle finestre di vetri colorati. Ilya comparve quasi subito. Era teso, della punta di spacconeria che aveva ostentato al mercato di Maubert non c'era più traccia. Si sedette, poi trasse un respiro profondo ed espirò, come se fosse arrivato di corsa. «Bene» disse sottovoce «è venuto.» «Ha visto cosa sta succedendo a Praga» aggiunse «e la prossima sarà la Polonia. Non c'è bisogno che glielo dica io. Ma quello che non si sa è che la direttiva è scritta, il piano di guerra è preparato. Ha un nome, Fall Weiss, Piano Bianco, e una data, un giorno qualsiasi dopo il 1° settembre.» Morath ripeté nome e data. «Io posso provare» riprese Ilya, smarrendo il suo francese per l'eccita-
zione. «Con documenti.» Esitò un istante, poi disse: «Questo è ottimo lavoro di Čeka, ma deve arrivare molto in alto. Altrimenti, guerra. Non c'è modo di impedirla. Mi può aiutare?». «Ci posso provare.» Fissò Morath negli occhi per capire se stava dicendo la verità. «È quello che spero.» Aveva un grande carisma, si disse Morath. Una forza indubbia, malgrado ora fosse malconcio, affamato e spaventato. «C'è una persona a cui mi posso rivolgere» proseguì Nicholas. "Se è tutto ciò che posso ottenere, lo accetto" diceva l'espressione di Uva. «I polacchi sono al centro della questione» disse. «E sono difficili, impossibili. Fra i cinque uomini della giunta che governa il paese, soltanto Beck e Smigly-Rydz contano qualcosa - Beck per la politica estera, Smigly-Rydz per l'esercito - ma sono creature di Pilsudski. Alla sua morte, nel 1935, hanno ereditato il paese, e hanno fatto le stesse esperienze. Hanno combattuto per l'indipendenza nel 1914, e l'hanno ottenuta. Poi nel 1920 hanno sconfitto i russi alle porte di Varsavia, e adesso non vogliono avere a che fare con loro. Troppe guerre, negli ultimi cent'anni. Troppo sangue versato. Fra le nazioni, si arriva al punto in cui è troppo tardi. Tra la Russia e la Polonia è così. Ora, loro credono di poter sconfiggere la Germania. Il retroterra di Józef Beck è nei servizi clandestini. È stato espulso dalla Francia nel 1923 quando fungeva da addetto militare polacco, sospettato di fare la spia per i tedeschi. Dunque ciò che sa della Russia e della Germania proviene dall'oscuro mondo delle spie, dove di solito circola la verità. «Quello che vogliono i polacchi è un'alleanza con la Francia e l'Inghilterra. Logico, a prima vista. Ma l'Inghilterra come può aiutarli? Con le navi, come a Gallipoli? Ridicolo. L'unico paese che oggi può aiutare la Polonia è la Russia, provi a guardare una carta geografica. E Stalin vuole le stesse cose dei polacchi, un'alleanza con l'Inghilterra, per le medesime ragioni, tenere lontani i lupi di Hitler. Ma gli inglesi disprezzano, temono, odiano i russi, ci considerano comunisti e assassini senza Dio. È vero, ma è anche vero, ancora più vero, che siamo l'unico paese che può formare, con la Polonia, un fronte orientale contro la Wehrmacht. «Chamberlain e Halifax non gradiscono l'idea, e più di un indizio dimostra che ciò che vogliono è che Hitler si scontri con Stalin. Credono che Stalin non lo sappia? Davvero? Dunque la realtà è questa: se Stalin non riuscirà a firmare un patto con gli inglesi, lo farà con la Germania. Non avrà altra scelta.»
Morath non rispose, cercando di assorbire ciò che aveva udito. La messa delle due era cominciata, officiata da un prete giovane. Morath aveva immaginato di sentire racconti di crimini sanguinosi, di carestie e purghe. Ilya non era l'unico disertore dei servizi segreti russi; c'era un generale del GRU, Krivitsky, che aveva scritto un bestseller in America. Aveva dato per scontato che Ilya cercasse protezione e rifugio in cambio delle prove che Stalin programmava di dominare il mondo. «Ci crede?» domandò Ilya. «Sì.» Più o meno, da un certo punto di vista. «Il suo amico, può interpellare gli inglesi?» «Direi di sì. E i documenti?» «Quando accetterà, li avrà.» «Di che si tratta?» «Annotazioni di incontri al Cremlino. Rapporti dell'NKVD, copie di comunicazioni tedesche.» «La posso contattare?» Ilya sorrise e scosse lentamente il capo. «Di quanto tempo ha bisogno?» «Una settimana, forse.» «D'accordo.» Si alzò. «Vado io per primo, lei potrà uscire fra qualche minuto. È più sicuro, in questo modo.» S'incamminò verso l'uscita. Morath restò al suo posto. Controllò l'ora, seguì le frasi in latino del prete. Ci era cresciuto, ma quando era tornato dalla guerra aveva smesso di andare in chiesa. Alla fine si alzò e si diresse lentamente verso il portone. Ilva era in piedi appena dentro l'ingresso, e fissava la pioggia battente. Nicholas gli si fermò accanto. «Cosa fa, resta qui?» Ilya indicò la strada con un cenno del capo. «Una macchina.» Davanti alla chiesa c'era una Renault con un uomo sul sedile di destra. «Per me, forse» soggiunse. «Usciremo insieme.» «No.» «Dalla porta laterale, allora.» Lo guardò. Tengono d'occhio soltanto un'uscita? Per poco non rise. «In trappola» disse. «Torni dov'eravamo prima, verrò a prenderla.» Esitò, poi si allontanò. Morath era furioso. "Morire sotto la pioggia un martedì pomeriggio!" Uscì in strada e si mise alla ricerca di un taxi. Percorse Rue le Peletier,
quindi Rue Drouot. All'angolo, un taxi libero si fermò davanti a un piccolo albergo. Mentre correva, Nicholas vide un gentiluomo corpulento uscire dall'atrio dell'hotel con una donna sottobraccio. Aprirono le portiere nello stesso istante e si guardarono attraverso il sedile posteriore. «Mi perdoni, amico mio» disse l'uomo «ma ho telefonato per questo taxi.» Offrì la sua mano alla donna e l'aiutò a salire a bordo. Morath restò lì in piedi, il viso gocciolante di pioggia. «Monsieur!» esclamò la donna indicando il lato opposto della strada. «Che fortuna!» Un taxi libero era fermo nel traffico; Morath ringraziò la donna e lo chiamò con un cenno. Salì a bordo e disse al conducente dove andare. «Ho un amico che mi aspetta» spiegò. Nella chiesa trovò Ilya e lo condusse in fretta all'uscita. Il taxi aspettava con il motore acceso ai piedi della scalinata, e la Renault era scomparsa. «Presto» disse Morath. Ilya esitò. «Andiamo» lo incalzò. Ilya non si mosse; sembrava pietrificato, ipnotizzato. «Non la uccideranno certo qui.» «Oh sì.» Morath lo guardò. Capì che era qualcosa che conosceva, che aveva visto. Forse che aveva fatto. Dal taxi provenne una strombazzata impaziente. Prese Ilya per un braccio. «Ora» disse. Vincendo il vecchio istinto di abbassarsi e correre, scesero rapidamente i gradini. Giunto a bordo del taxi, Ilya diede un indirizzo al conducente e mentre questi partiva si voltò e guardò fuori dal lunotto posteriore. «Ha riconosciuto qualcuno?» s'informò Morath. «Non questa volta. Una volta in passato, forse. E un'altra volta di sicuro.» Per lunghi minuti il taxi avanzò a passo d'uomo dietro un autobus la cui piattaforma posteriore era sovraccarica di gente. «Si fermi qui!» gridò all'improvviso Ilya. Balzò giù dal taxi e scese correndo le scale di una stazione del metrò. Chaussée d'Antin, lesse Morath, un'affollata correspondance in cui i passeggeri potevano passare da una linea all'altra. Il conducente lo guardò allontanarsi, quindi si fece ruotare il dito indice sulla tempia, «matto» nel linguaggio gestuale dei taxisti. Si voltò verso Nicholas e gli scoccò un'occhiata stizzita. «E adesso?» «Avenue Matignon. Appena dopo il viale.» Era un lungo tragitto da Chaussée d'Antin, specialmente sotto la pioggia.
Portare i clienti da un luogo all'altro era fondamentalmente un'imposizione; questa, chiaramente, era l'opinione del taxista. Sospirò, inserì violentemente la marcia e partì facendo girare le gomme a vuoto. «Che cos'ha il suo amico?» domandò. «Scappa da sua moglie.» «Pfuff!» "Meglio a lui che a me." «Ha visto i giornali?» soggiunse qualche minuto dopo. «Non oggi.» «Perfino il vecchio J'aime Berlin si è messo a rimproverare Hitler.» Usò con gusto il gioco di parole parigino sul nome di Chamberlain. «Che cosa è successo?» «Un discorso. "Forse Adolf vuole dominare il mondo".» «Forse è vero.» Si voltò a guardare Morath. «Che porti il suo esercito in Polonia; la cosa finirà lì.» «Ti proibisco di rivederlo» disse Polanyi. Erano seduti in un caffè nei pressi della legazione. «Una parte di me, in ogni caso, vorrebbe proibirtelo.» Morath era divertito. «Sembri il tipico padre di una commedia.» «Già, suppongo di sì. Tu ci credi, Nicholas?» «Sì e no.» «Devo ammetterlo, tutto ciò che dice è vero. Ma quello che mi preoccupa è che sia stato mandato da qualcuno di Via Dzerzhinsky. Dopo tutto, chiunque può comprare un soprabito.» «Ha qualche importanza?» Polanyi ammise che forse non ne aveva. Se i diplomatici non erano in grado di convincere gli inglesi, forse ci sarebbe riuscito un disertore. «Questi giochi» commentò. «Diplomatico ungherese in contatto con agente russo.» «Ha detto di avere documenti che lo provano.» «Sì, documenti. Come i soprabiti. Hai modo di rimetterti in contatto con lui?» «No.» «Naturalmente.» Rifletté un istante. «D'accordo, ne parlerò con qualcuno. Ma se la faccenda va a monte, in qualche modo che al momento non riusciamo a prevedere, non dare la colpa a me.» «Perché dovrei?»
«La prossima volta che ti chiama, se ti chiama, lo incontrerò io. Ma per l'amor di Dio non dirglielo, prendi l'appuntamento e lascia che al resto pensi io.» Si sporse in avanti e abbassò la voce. «Qualsiasi cosa succeda a questo punto, dobbiamo stare attenti a non fare nulla che comprometta il primo ministro. Teleki è la nostra unica via d'uscita da questo pastìccio. Quel piccoletto è un cavaliere, Nicholas, un eroe. La settimana scorsa a Budapest ha pagato dei ragazzini perché strofinassero dell'aglio sulle porte del ministero degli Esteri e appendessero un cartello che diceva: ALLA LARGA, VAMPIRI TEDESCHI.» «Amen» disse Morath. «Ma come potrebbe essere danneggiato dal contatto con un disertore?» «Non lo saprò finché non sarà troppo tardi, Nicholas. Ormai è così che vanno le cose. Triste ma vero.» Triste ma vera, l'ultimo giorno di marzo, fu per Morath un'altra lettera della Préfecture. Ancora una volta la stanza 24, e prima dell'appuntamento sei giorni per preoccuparsene. Immaginava che i rumeni non l'avrebbero lasciato in pace, ma si sbagliava. Lo fecero aspettare tre quarti d'ora fuori dell'ufficio dell'ispettore. Mossa calcolata, si disse, ma sentiva comunque che stava funzionando. L'ispettore non era cambiato; se ne stava seduto sull'attenti, con un volto squadrato e predatorio, freddo come il ghiaccio. «Ci perdoni se la disturbiamo di nuovo» disse. «Stiamo cercando di chiarire alcune cose.» Morath attese paziente. L'ispettore aveva tutto il tempo che voleva. Lesse lentamente una pagina del suo incartamento. «Monsieur Morath. Ha mai sentito parlare, per caso, di un uomo chiamato Andreas Panea?» Il nome sul passaporto che aveva ottenuto per Pavlo. Morath attese un istante, cercando di calmarsi. «Panea?» «Sì. Un nome rumeno.» Perché lui? Perché adesso? «Non credo di conoscerlo» rispose. L'ispettore segnò un appunto sul margine. «La prego di esserne certo, monsieur. Ci pensi, se vuole.» «Mi dispiace» disse Morath. Educatamente. L'ispettore riprese a leggere. Qualunque fosse il contenuto di quel dossier, era sostanzioso. «E il dottor Otto Adler? È un nome che le è noto?» Finalmente in grado di dire la verità, Morath provò sollievo. «Di nuovo»
rispose «è una persona che non conosco.» L'ispettore annotò la sua risposta. «Il dottor Otto Adler pubblicava una rivista politica, una rivista socialista. Era un rifugiato politico tedesco, arrivato in Francia nell'inverno del 1937, e aveva creato un ufficio editoriale a casa sua, a Saint-Germain-en-Laye. In giugno è stato assassinato. Gli hanno sparato nel Jardin du Luxembourg. Un assassinio politico, senza dubbio; sono difficili da risolvere, ma noi ci vantiamo di provarci. L'omicidio è pur sempre omicidio, Monsieur Morath, anche in tempi di... turbolenze politiche.» L'ispettore capì di averlo punto sul vivo, o così Nicholas credette. «Ancora una volta» disse in tono dispiaciuto «temo di non poterla aiutare.» L'ispettore parve accettare la sua risposta. Chiuse la cartella. «Forse proverà a ricordare, monsieur. Con comodo. Potrebbe tornarle in mente qualcosa.» Qualcosa gli era già tornato in mente. «Se così fosse» soggiunse l'ispettore «potrà sempre mettersi in contatto con me presso questo ufficio.» Gli porse il suo biglietto da visita, Morath lo guardò e se lo mise in tasca. L'ispettore si chiamava Villiers. Chiamò Polanyi dal caffè sulla riva opposta della Senna, il primo telefono pubblico che s'incontra usciti dalla Préfecture. Viveva alle spalle del suo vicino, pensò Morath infilando un jeton nella feritoia. I rifugiati erano facili da riconoscere: una coppia che festeggiava con un vino che non si poteva permettere, un uomo barbuto con la testa fra le mani. «Questo pomeriggio il conte Polanyi non è disponibile» rispose una voce alla legazione. Morath riagganciò; una donna stava aspettando di poter usare il telefono. Polanyi non si sarebbe mai rifiutato di parlargli, giusto? Andò all'Agence Courtmain, ma non riuscì a restarci. Vide Mary Day, di sfuggita. «Tutto bene?» gli domandò lei. Morath andò in bagno e si guardò allo specchio. Che cosa aveva visto? Era forse un po' pallido, niente di più. Ma la differenza fra Cara a ventisei anni e Mary Day a quaranta, si disse, era che la seconda capiva ciò che il mondo faceva agli individui. E a quanto sembrava aveva percepito che aveva fatto qualcosa anche a lui. Quella sera non ne parlò, ma gli fece un gran bene. Nicholas non riusciva a dire esattamente in che modo. Lo toccò più del solito, forse era quello. Sapeva che lui stava male, ma non gli chiese perché. Andarono a letto e alla fine lui si addormentò; ma si svegliò ben prima dell'alba, scivolò fuori del letto il più silenziosamente possibile e si portò davanti alla finestra os-
servando la notte che passava. "Non puoi farci nulla, ormai." Passò dal suo appartamento soltanto a mezzogiorno del giorno dopo e trovò la lettera ad attenderlo. Consegnata a mano, priva di francobollo. Un ritaglio dal numero del 9 marzo del quotidiano della comunità tedesca di Sofia. Morath immaginava che la notizia, in qualche versione, fosse finita anche sui giornali bulgari, ma che l'anonimo mittente sapesse che lui leggeva il tedesco. Un certo Stefan Gujac, diceva l'articolo, un croato, si era apparentemente impiccato nella sua cella della prigione di Sofia. Gujac, che usava un passaporto falso intestato a un cittadino rumeno deceduto, tale Andreas Panea, era sospettato dai servizi di sicurezza di numerosi paesi balcanici di aver preso parte a più di una dozzina di assassinii politici. Nato a Zagabria, Gujac aveva aderito all'organizzazione fascista degli ustascia, aveva subito diversi arresti in Croazia - per sedizione e violenze - e aveva scontato tre mesi di detenzione per una rapina in una banca di Trieste. Al momento del suo arresto a Sofia, era ricercato dalle autorità di Salonicco per un attentato dinamitardo in un caffè in cui avevano perso la vita sette persone - fra cui E.X. Patridas, funzionario del ministero degli Interni - e altre venti erano rimaste ferite. Inoltre, la polizia di Parigi aveva espresso l'intenzione di interrogare Gujac in relazione all'assassinio di un rifugiato politico tedesco, editore di una rivista politica. L'arresto di Gujac a Sofia era stato la conseguenza del tentato assassinio, sventato dal pronto intervento di un sergente di polizia, di un diplomatico turco che alloggiava al Grand Hotel. Gujac era stato interrogato dalla polizia bulgara, la quale sospettava che il complotto per eliminare il diplomatico fosse stato organizzato dalla Zveno, l'organizzazione terroristica con base in Macedonia. Gujac, ventotto anni, si era impiccato ricavando un cappio dai suoi indumenti intimi. Le autorità di Sofia avevano dichiarato che il suicidio era ancora oggetto d'indagine. Polanyi accettò di incontrarlo più tardi nel pomeriggio, al caffè nei pressi della legazione ungherese. Gli lesse la verità in volto non appena lo vide entrare. «Nicholas?» esordì. Morath non perse tempo. Gli riferì l'interrogatorio alla Préfetture, poi fece scivolare il ritaglio di giornale sul tavolo. «Non lo sapevo» disse Polanyi.
Un sorriso amaro da parte di Morath. «Quando è successo, non ne avevo idea. Qualunque cosa tu voglia credere, è la verità. L'ho scoperto dopo, ma a quel punto i giochi erano fatti e dirtelo non aveva alcun senso. Perché avrei dovuto? Che cosa avrei ottenuto?» «Non è colpa tua, è così?» «Sì, è così. Era una faccenda di von Schleben. Non capisci che cosa sta succedendo in Germania, il modo in cui funziona il potere. È un traffico, Nicholas, un commercio di vite e denaro e favori. Gli uomini d'onore sono scomparsi. Per la maggior parte in pensione, se non assassinati o fatti fuggire dal paese. Von Schleben sopporta. È la sua natura. Lui sopporta, e io tratto con lui. Devo negoziare con qualcuno, e così lo faccio con lui. E a quel punto tocca a me trafficare.» «Un'intesa reciproca.» Il tono di Morath era freddo. «Sì. Mi assumo un impegno e lo porto a termine. Sono un banchiere, Nicholas. A volte sono un banchiere che causa dolore, e con questo?» «E così, riluttante ma debitore, hai organizzato quell'assassinio.» «No. È stato von Schleben. Forse si è trattato di un favore, un debito che doveva saldare, non lo so. Forse l'accordo era semplicemente che portasse quel... quell'essere a Parigi. Non so chi gli abbia fornito le istruzioni una volta qui. Non so chi l'abbia pagato. Qualcuno nelle SS, comincia da lì e troverai il colpevole. Anche se immagino ti renderai conto che sarà lui a trovarti molto prima.» Polanyi esitò un istante. «Vedi» aggiunse quindi «certe volte von Schleben è un re, altre volte è solo un pedone. Come me, Nicholas. Come te.» «E quello che ho fatto in Cecoslovacchia? Di chi è stata l'idea?» «Ancora una volta di von Schleben. Dalla parte opposta, in quel caso.» Un cameriere servì loro il caffè, ma le tazze restarono intatte. «Mi dispiace, Nicholas, e la Préfecture mi preoccupa molto più di quello che qualcuno ha combinato l'anno scorso, perché ciò che è fatto è fatto.» «Per l'ultima volta.» «E poi addio e buona fortuna. L'augurerei anche a me stesso, Nicholas, ma non posso abbandonare il mio paese, ed è di questo che si tratta. Non possiamo prendere il paese e appiccicarlo alla Norvegia. Siamo dove siamo, e tutto il resto viene di conseguenza.» «Chi mi ha messo la Préfecture alle calcagna?» «Lo stesso individuo che ti ha mandato il ritaglio di giornale. Sombor, in entrambi i casi.»
«Lo sai?» «Non lo sai mai. Lo presupponi.» «Per ottenere cosa?» «Te. E per danneggiare me, che vede come un rivale. È la verità; lui è nelle mani delle Croci Frecciate, io decisamente no. Si tratta di un intrigo politico ungherese.» «Ma perché mandarmi il ritaglio?» «"Sei ancora in tempo", vuol dire. Finora, la Préfecture sa soltanto questo. Vuoi che racconti anche il resto? È questo che ti sta chiedendo.» «Devo fare qualcosa» disse Morath. «Andarmene, forse.» «Potrebbe essere necessario. Per il momento, lascia che me ne occupi io.» «Perché?» «È il minimo che possa fare per ripagarti.» «Perché non lasci che se ne occupi von Schleben?» «Potrei. Ma sei preparato a fare ciò che ti chiederà in cambio?» «Sei sicuro che lo chiederebbe?» «Assolutamente. Dopo tutto, sei già in debito con lui.» «Lo sono? E come?» «Giusto perché non lo dimentichi, quando eri prigioniero della Siguranta in Romania è stato lui a salvarti la vita.» Polanyi tese il braccio sul tavolo e gli prese la mano nella sua. «Perdonami, Nicholas. Perdono, perdono. Cerca di perdonare il mondo per essere quello che è. Chissà, magari la settimana prossima Hitler morirà stecchito e noi usciremo a cena tutti insieme.» «E offrirai tu.» «E offrirò io.» In aprile la grisaille, il grigiore, si posò come sempre su Parigi. Edifici grigi, cieli grigi, pioggia e foschia nelle lunghe serate. Shublin l'artista gli aveva detto, una sera a Juan-les-Pins, che in primavera i negozi di articoli per le belle arti non riuscivano a tenere in magazzino il colore chiamato grigio di Payne. Alla città non dispiaceva il proprio grigio, tutto quel sole e quella luce di fine inverno erano troppo allegri per i suoi gusti. Per Morath la vita si adagiò in una sorta di pace pensierosa; il suo sogno di una «vita normale» non era così gradevole nella realtà come gli piaceva immaginare. Mary Day iniziò un nuovo romanzo: Suzette e Suzette va in barca sarebbero stati se-
guiti da Suzette al mare. Una nave da crociera, con la bussola sabotata da un concorrente malvagio, vagava sperduta per i Tropici. Ci sarebbe stato un capitano licenzioso, un bel marinaio di nome Jack, un miliardario americano e l'untuoso direttore dell'orchestra di bordo, tutti intenti a tramare, in un modo o nell'altro, per guadagnarsi la visione dei seni succulenti e del roseo posteriore di Suzette. Mary Day vi lavorava un'ora o due ogni sera, con una ticchettante macchina per scrivere, indossando un ampio maglione di lana con le maniche alzate sui polsi sottili. Morath levava gli occhi dal suo libro, vedeva il suo volto contorto in strane smorfie, le labbra premute per la concentrazione, e faceva di tutto per conquistarsi una sua occhiata, che arrivava facilmente quando Mary finiva di scrivere. Alla radio, il mondo scivolava pigramente verso il sangue e le fiamme. L'Inghilterra e la Francia annunciarono che avrebbero difeso la Polonia se questa fosse stata attaccata. «Non c'è alcuna possibilità di mantenere un fronte orientale contro l'aggressione nazista senza l'aiuto attivo della Russia» dichiarò Churchill. «Se ci facciamo coinvolgere senza l'aiuto dell'Unione Sovietica, finiamo in trappola» disse un oratore alla camera dei comuni. Morath osservava le persone che leggevano il giornale nei caffè. Scrollavano le spalle e voltavano pagina, e lui faceva lo stesso. Sembrava che tutto stesse succedendo in una terra lontana e irreale, in cui i ministri arrivavano alle stazioni ferroviarie e i mostri vagavano nella notte. In qualche angolo della città, Morath lo sapeva, Ilya si nascondeva in una minuscola stanza, o forse era già stato picchiato a morte alla Lubianka. I castagni fiorirono, i fiori bianchi si appiccicarono sulle strade bagnate, il capitano sbirciò attraverso il buco della serratura di Suzette mentre lei si spazzolava i lunghi capelli biondi. Léon, l'artista dell'Agence Courtmain, andò a Roma a trovare la sua fidanzata e tornò con un volto pieno di lividi e una mano fratturata. Lucinda, il viszla più dolce della baronessa Frei, diede alla luce una cucciolata, e Morath e Mary Day andarono in Rue de Villon a mangiare Sachertorte e osservare i nuovi arrivati in un cesto di vimini decorato con passamaneria color argento. Adolf Hitler festeggiò il suo cinquantesimo compleanno. Cedendo alle pressioni tedesche, l'Ungheria abbandonò la Società delle Nazioni. Morath andò in un negozio di Rue de la Paix e regalò a Mary Day una sciarpa di seta, cerchi e turbini d'oro su un fondo rosso Venezia. Wolfi Szubl telefonò in preda a una profonda agitazione, e così Morath lasciò l'ufficio per raggiugere un piccolo, buio appartamento nel profondo del XIV Arrondissement, in una strada in cui Le-
nin aveva vissuto in esilio. L'appartamento odorava di farina bollita ed era invaso dai corsetti. Viola e verde lime, rosa pallido e rosa, bianchi e neri. Una grossa valigia da campionario giaceva aperta sul letto sfatto. «Perdona il disordine» disse Szubl. «Sto facendo l'inventario.» «Mitten è qui?» «Mitten! Mitten è diventato ricco. Sta girando a Strasburgo.» «Buon per lui.» «Non male. I peccati del dottor Braunschweig.» «Che sarebbero...» «Omicidi. Herbert viene pugnalato a morte entro i primi dieci minuti, non è una gran parte. Con un ferro da calza. Ma la paga è buona.» Szubl prese un foglio di carta gialla scritto a macchina e fece scorrere il dito sulla pagina. «Nicholas, c'è un bustino su quel radiatore. Puoi controllare l'etichetta?» «Questo?» Era color argento, con bottoni sul retro e fibbie per le giarrettiere sul lato inferiore. Cercando l'etichetta, Morath credette di sentire un profumo di talco alla lavanda. «Marie Louise» disse. Szubl fece un segno sulla lista. «Le donne li indossano? I modelli?» «Di quando in quando. Prove riservate.» Prese a contare una montagnetta di guaine sul bordo del letto. «Ho appena saputo che vogliono promuovermi» disse. «Congratulazioni.» «Disastro.» «Perché?» «La ditta è di Francoforte. Dovrei vivere in Germania.» «Allora rifiuta.» «E il figlio - il padre è diventato troppo vecchio e il figlio ha preso le redini. "Un nuovo giorno" dice. "Sangue nuovo in sede." Ma lui posso affrontarlo. È per questa che ti ho chiamato.» Estrasse un foglio ripiegato dalla tasca e lo porse a Morath. Una lettera della Préfecture con cui si convocava SZUBL, WOLFGANG nella famosa stanza 24. «Perché mi è arrivata?» domandò. «Un'indagine, ma non sanno niente. Proveranno comunque a metterti paura.» «Non è necessario che ci provino. Che cosa devo dire?»
«Non so, non c'ero, non lo conosco. Non tentare di far colpo su di loro e non metterti a parlare per riempire i silenzi. Resta seduto.» Szubl aggrottò la fronte, reggendo in mano una guaina rosa. «Sapevo che sarebbe accaduto.» «Coraggio, Wolfi.» «Non voglio finire a spaccare pietre.» «Non succederà. Per questa volta dovrai presentarti all'appuntamento, perché ti hanno mandato la lettera ed è ufficiale. Ma non insisteranno. Va bene?» Szubl annuì, poco persuaso e spaventato. Morath chiamò Polanyi e lo mise al corrente. Il conte Janos Polanyi era seduto nel suo ufficio presso la legazione ungherese. Era tranquillo; ogni tanto il suono di un telefono o il ticchettìo di una macchina per scrivere, ma la stanza aveva un suo speciale silenzio, e le tende alle alte finestre tenevano fuori il maltempo e la città. Polanyi abbassò gli occhi su una catasta di cablogrammi sulla sua scrivania, poi la scostò. Nulla di nuovo, o quanto meno nulla di buono. Si versò un bicchierino di brandy di albicocca e lo bevve. Chiuse gli occhi per un istante e si ripeté chi era e da dove veniva. "Cavalieri nell'erba alta, fuochi di bivacco sulla radura." Sogni inutili, si disse, stupidaggini romantiche; eppure erano ancora lì, da qualche parte, e si facevano udire nel profondo. O almeno gli piaceva pensare che lo fossero. Nella sua mente? No, nel suo cuore. "Pessima scienza, ma ottima metafisica." E questo, pensò, riassumeva più o meno ciò che lui era sempre stato. Il conte Janos Polanyi aveva due rubriche telefoniche personali, rilegate in pelle verde. Una grossa, che restava nel suo ufficio, e una piccola, che lo seguiva ovunque andasse. In quel momento aprì quella piccola e compose il numero di una donna di sua conoscenza che viveva in grande stile in un appartamento del Palais-Royal. "Bianca e bella" era l'immagine che Polanyi aveva di lei "come la neve." Mentre il telefono squillava controllò l'ora. Le quattro e venticinque del pomeriggio. Lei rispose come sempre dopo molti squilli, o meglio si degnò di rispondere, a giudicare dal tono di voce. Seguì un'intricata conversazione. Ambigua, e gradevolmente tortuosa. Riguardava certe amiche di lei, alcune più giovani, altre più esperte. Alcune alquanto estroverse, altre timide. Alcune mangiavano con gusto, altre erano magre. Così varie, le persone oggigiorno. Bionde. Brune. Da terre straniere o dal XVI Arrondisse-
ment. E ognuna con la sua specifica definizione di piacere. Miracoloso, questo nostro mondo! Una era severa, incline alla collera. Un'altra era giocosa, non si faceva alcun problema finché se ne poteva ridere. Alla fine giunsero a un accordo. Un'ora. Un prezzo. "Prima il dovere, poi il piacere." Un modo di dire detestabile. Polanyi sospirò, alzò gli occhi sugli enormi ritratti appesi alla parete, i re degli Arpadi e i loro segugi, bevve un altro sorso di brandy e poi un altro. "Il condottiero magiaro si prepara alla battaglia." Si prese gioco di sé, una vecchia abitudine; ma lo facevano tutti, era un istinto della coscienza nazionale l'ironia, il paradosso, il vedere il mondo alla rovescia, provando divertimento per cose che non avrebbero dovuto essere divertenti. Polanyi aveva sempre creduto che fosse probabilmente quella la ragione per cui i tedeschi non erano mai andati matti per gli ungheresi. Era stato l'arciduca austriaco Francesco Ferdinando a dire: «Venire in Europa è stato un gesto di cattivo gusto da parte di questi signori». Ma loro c'erano, che i loro vicini lo gradissero o no. Polanyi consultò di nuovo il suo orologio. Poteva rimandare l'inevitabile di qualche altro minuto. Il suo piacere serale non sarebbe arrivato prima delle sei; l'aveva rinviato di un'ora rispetto al solito. "A proposito di piacere, prima il dovere." Si concesse un istante e imprecò allegramente con varie maledizioni ungheresi. Davvero, perché doveva farlo? Perché quell'essere di Sombor doveva essere calato a capofitto sulla sua vita? Eppure l'aveva fatto. Povero Nicholas, non se lo meritava. Tutto quello che voleva erano i suoi artisti e attori e poeti; nel 1918 aveva creduto di aver combattuto abbastanza. E aveva combattuto bene, Polanyi lo sapeva: era scritto nella storia del reggimento. Un eroe, suo nipote, e un ottimo ufficiale, gelosissimo delle vite dei suoi uomini. Polanyi ripose la bottiglia di brandy nell'ultimo cassetto. Si alzò, si sistemò la cravatta e uscì dall'ufficio, richiudendo con cura la porta. Percorse il corridoio, superò un vaso di fiori freschi su un tavolo davanti a uno specchio. Salutò Bolthos, che passò di gran fretta con la busta di un corriere sottobraccio, e risalì una rampa della scalinata di marmo. Il piano superiore era più attivo e rumoroso. L'addetto commerciale nel primo ufficio, poi quello economico, poi Sombor. Polanyi bussò due volte e aprì la porta. Il colonnello alzò gli occhi al suo ingresso. «Eccellenza» disse. Era intento a scrivere qualcosa, appunti che sarebbero stati battuti a macchina in forma di rapporto. «Colonnello Sombor» disse Polanyi. «Una parola.»
«Sì, eccellenza. Un istante.» Era pura scortesia, e lo sapevano entrambi. Sombor avrebbe dovuto alzarsi, rivolgergli un educato saluto e cercare di soddisfare la volontà del suo superiore. Fu come se avesse detto che gli affari della sicurezza di stato avevano la precedenza. Ora e per sempre. Polanyi poteva pure aspettare in piedi. Cosa che fece per un po'. La penna stilografica d'oro di Sombor grattava sulla carta. "Come un topo di campagna nel granaio." Prendeva appunti eterni, quell'uomo dai capelli di pelle e dalle orecchie aguzze. "Dove ho messo il forcone?" Ma Polanyi non aveva un forcone. Sombor percepì qualcosa. «Sono sicuro che è una questione di grande importanza, eccellenza. Intendo riservarle tutta la mia attenzione.» «La prego» disse Polanyi, riuscendo a malapena a controllare il tono di voce. «Devo informarla che certe informazioni confidenziali concernenti il mio ufficio sono state rese note alla Préfecture di Parigi.» «Capisco. Ne è sicuro?» «Sì. Può essere stato fatto direttamente oppure tramite un informatore.» «Increscioso. Il mio ufficio se ne interesserà di sicuro, eccellenza. Non appena sarà possibile.» Polanyi abbassò la voce. «Vi metta fine» disse. «Be', di sicuro ci proverò. Mi chiedo se sarebbe disposto a presentarmi un rapporto.» «Un rapporto?» «Proprio così.» Polanyi si avvicinò al bordo della scrivania. Sombor alzò gli occhi su di lui, quindi riprese a scrivere. Polanyi sfilò una piccola pistola d'argento dalla cintura e gli sparò in mezzo al cranio. Sombor balzò in piedi come una furia, lo sguardo fiammeggiante di indignazione, ignaro che una grossa goccia di sangue si era staccata dall'attaccatura dei capelli e gli stava colando sulla fronte. «Cane!» gridò. Fece un balzo in aria, si prese la testa fra le mani, ruotò su se stesso e crollò all'indietro sulla sedia. Lanciò un grido, divenne bluastro e morì. Polanyi estrasse il fazzoletto bianco dal taschino, pulì il calcio della pistola e la gettò a terra. Dal corridoio, un rumore di passi precipitosi. La polizia arrivò quasi immediatamente, gli investigatori mezz'ora dopo. L'ispettore interrogò Polanyi nel suo ufficio. Più di cinquant'anni, valutò il
conte, basso e tarchiato, con piccoli baffi e occhi scuri. Si sedette davanti alla scrivania di Polanyi e prese appunti su un taccuino. «Che lei sappia, il colonnello Sombor era depresso?» «Niente affatto. Ma lo vedevo soltanto per lavoro, e di rado.» «Può descrivermi, monsieur, che cosa è successo di preciso?» «Sono andato nel suo ufficio per parlare di alcune cose che riguardavano la legazione, niente di terribilmente urgente; in realtà mi stavo recando dall'addetto commerciale quando ho deciso di passare da lui. Abbiamo parlato per un minuto o due. Poi, quando mi ero già voltato per andarmene, ho sentito uno sparo. Sono accorso per assisterlo, ma è morto quasi sul colpo.» «Monsieur» disse l'ispettore. Gli stava chiaramente sfuggendo qualcosa. «Le ultime parole che ha detto, per caso le ricorda?» «Mi ha salutato. Prima di farlo, ha chiesto un rapporto scritto su ciò di cui avevamo discusso.» «E cioè?» «Riguardava un... un problema di sicurezza interna.» «Capisco. Sicché le si è rivolto in toni normali, lei si è girato per uscire dall'ufficio e a quel punto l'uomo ha allungato completamente il braccio... è soltanto una supposizione, in attesa del rapporto del medico legale, ma la natura della ferita suggerisce, ehm, una certa distanza. Ha allungato completamente il braccio, come dicevo, e si è sparato un colpo in mezzo al cranio?» Stava per scoppiare a ridere, come lo stesso Polanyi. «A quanto pare» disse Polanyi. Non sarebbe mai riuscito a reggere lo sguardo dell'investigatore. L'ispettore si schiarì la gola. «E perché avrebbe fatto una cosa simile?» chiese dopo un istante. Non era esattamente una domanda da poliziotto. «Lo sa Dio.» «Non la considera...» Cercò la parola giusta. «Bizzarra?» «Bizzarra» convenne Polalyi. «Senza dubbio.» Vi furono altre domande, tutte secondo le regole, l'argomento venne sviscerato una seconda e poi una terza volta, ma il resto dell'interrogatorio si svolse senza alcun metodo, mentre la verità aleggiava nell'aria senza essere stata formulata chiaramente. "Bene, portatemi in galera." "No, questi intrighi politici non fanno per noi. Très balkanique, come si dice."
E al diavolo tutto quanto. L'ispettore chiuse il taccuino, ripose la penna, raggiunse la porta e si sistemò la tesa del cappello. Si fermò sulla soglia e disse: «Era della polizia segreta, naturalmente». «Sì.» «Un cattivo soggetto?» «Quanto basta.» «Le mie condoglianze.» Polanyi fece in modo che Morath lo sapesse subito. Una telefonata dalla legazione. «Il colonnello Sombor ha tragicamente deciso di porre fine alla sua vita. Vorrebbe contribuire al fondo per i tributi floreali?» La fine di aprile. Tarda sera in Rue Guisarde; la flessuosa Suzette si stava ritirando per la notte. I passeggeri, leggermente irrequieti dopo giorni di vagabondaggio in alto mare, avevano avuto l'ispirazione di organizzare un ballo dedicato al re Nettuno. Ancora più ispirato si era dimostrato Jack, il bel marinaio, che era stato così gentile da reggere la scala mentre Suzette vi si arrampicava per sistemare le decorazioni nella sala da ballo. «Niente mutande?» domandò Morath. «Se le era scordate.» Dei colpi alla porta annunciarono Moni. Aveva un'aria molto mesta, e chiese se poteva passare la notte sul divano. Mary Day tirò fuori il vino portoghese e Moni versò qualche lacrima. «È colpa mia» spiegò. «Me ne sono andata sbattendo la porta nel bel mezzo di una discussione, e Marlene l'ha chiusa a chiave e non mi fa più rientrare.» «Be', sei la benvenuta» disse Mary. «Solo per stanotte. Domani sarà tutto perdonato.» Moni bevve un sorso di vino e si accese una Gauloise. «Gelosia» soggiunse. «Perché faccio certe cose?» Morath venne spedito a comprare dell'altro vino, e quando rientrò Moni era al telefono. «Si è offerta di andare in albergo» gli disse sottovoce Mary Day. «Ma io le ho chiesto di restare.» «A me non dà fastidio. Ma forse lei preferirebbe l'albergo.» «Soldi, Nicholas» disse Mary. «Nessuno di noi ne ha. Davvero, per la maggior parte della gente è così.» Moni riagganciò la cornetta. «Ebbene, il divano è il mio destino.» La conversazione vagò qua e là - la povera Cara a Buenos Aires, i problemi di Montrouchet al Théâtre des Catacombes, Juan-les-Pins - e poi si
fermò sulla guerra. «Che cosa farai, Nicholas, se scoppierà?» Morath si strinse nelle spalle. «Dovrò tornare in Ungheria, suppongo. Nell'esercito.» «E Mary?» «Civile al seguito delle truppe» disse lei. «Lui combatterebbe, io cucinerei lo stufato.» Moni sorrise, ma Mary incrociò lo sguardo di Nicholas. «No, sul serio» insistette Moni. «Fuggireste, voi due?» «Non lo so» rispose Morath. «Parigi verrebbe bombardata. Fatta a pezzi.» «È quello che dicono tutti. Noi andiamo a Tangeri, è questo il programma. Altrimenti, l'amaro destino. Si ritorna a Montreal.» Mary rise. «Nicholas in djellaba.» Bevvero entrambe le bottiglie che Morath aveva comprato e, molto dopo la mezzanotte, Moni e Mary si addormentarono di traverso sul letto e il divano toccò a Morath. Vi giacque a lungo nel buio fumoso, domandandosi che ne sarebbe stato di loro. Potevano fuggire da qualche parte? Dove? A Budapest, forse, oppure a New York. A Lugano? No. Calma piatta in riva a un lago freddo, dopo un mese sarebbe finito tutto. "È una storia d'amore parigina, non sopporterà un trapianto." Non avrebbero potuto vivere in nessun altro luogo, non insieme. "Resteremo a Parigi, allora." Un'altra settimana, un altro mese, qualsiasi cosa fosse successa, e poi la morte in guerra. Il mattino dopo aveva una terribile emicrania. Quando uscì dall'appartamento e imboccò Rue Mabillon verso il fiume, Ilya sbucò dal vano di un portone e gli si affiancò. Aveva sostituito il cappotto verde con una giacca di velluto più o meno nelle medesime condizioni del soprabito. «Il suo amico mi vuole incontrare?» domandò in tono pressante. «Sì.» «È cambiato tutto, glielo dica. Litvinov è finito; è un segnale per Hitler che Stalin vuole trattare.» Litvinov era il ministro degli Esteri sovietico. «Lo capisce?» Non attese una risposta. «Litvinov è un intellettuale ebreo, un bolscevico della vecchia guardia. Per questo negoziato, Stalin fornirà ai nazisti un referente più gradito. Forse Molotov.» «Se vuole vedere il mio amico, mi deve dire dove e quando.» «Domani sera alle dieci e mezzo. Alla fermata del metrò di Parmentier.»
Una stazione deserta nell'XI Arrondissement. «E se non potesse venire?» Morath intendeva dire "non volesse", e Ilya lo sapeva. «Vorrà dire che non verrà. E io mi rimetterò in contatto oppure no.» Con rapidi movimenti si voltò, si allontanò e scomparve. Per un po', Nicholas pensò di lasciar perdere. D'un tratto, Ilya sapeva certe cose. Come aveva fatto? Non certo nascondendosi in una stanza con la sola compagnia di un sacco di avena. Poteva essere stato catturato? Essere sceso a patti con la NKVD? Ma Polanyi gli aveva detto di lasciar fare a lui. Non era uno stupido, non si sarebbe presentato indifeso a un appuntamento come quello. "Devi lasciare che sia lui a decidere" si disse Morath. Perché se l'informazione era vera, significava che Hitler non doveva più preoccuparsi di trecento divisioni russe, e ciò voleva dire guerra in Polonia. Questa volta gli inglesi e i francesi sarebbero stati costretti a combattere, e ciò significava guerra in Europa. Non appena giunse all'Agence Courtmain, Morath chiamò la legazione. «Una truffa» disse Polanyi. «Ci stanno usando, non capisco esattamente perché, ma è così.» Erano seduti sul sedile posteriore di una Mercedes Grosser di un nero lucente. Bolthos occupava quello anteriore accanto all'autista. Il sesto giorno di maggio, salubre e radioso sotto un cielo spazzato dal vento. Costeggiavano la Senna, uscendo dalla città dalla Porte de Bercy e proseguendo verso sud, diretti al villaggio di Thiais. «Ci sei andato da solo?» domandò Morath. Polanyi rise. «Una strana serata alla fermata del metrò di Parmentier: uomini corpulenti che leggevano giornali ungheresi.» «E i documenti?» «Stasera. Poi adieu al compagno Ilya.» «Forse ormai non ha più importanza.» Litvinov aveva dato le dimissioni due giorni prima. «No, dobbiamo fare qualcosa. Svegliare gli inglesi, per la diplomazia non è troppo tardi. Direi che la Polonia è un progetto autunnale, dopo la mietitura e prima delle piogge.» L'auto attraversava lentamente il villaggio di Alfortville, dove alcune sale da ballo si affacciavano fianco a fianco sul lungofiume. I parigini le frequentavano d'estate, bevendo e ballando fino all'alba. «Pover'anima» disse Polanyi. «Forse veniva a bere in questi posti.» «Non erano molti i posti in cui non bevesse» osservò Bolthos.
Si stavano recando al funerale del romanziere Joseph Roth, morto di delirium tremens all'età di quarantaquattro anni. A condividere il sedile posteriore con Polanyi e Morath c'era una grossa, elaborata corona funebre di rose color crema con un nastro nero di seta, omaggio della legazione ungherese. «Allora» disse Morath «il fatto che sia un fuggitivo è un inganno.» «Molto probabile. Permette a quelli che l'hanno mandato di negare la sua esistenza, forse è questa la ragione. O forse è soltanto un minuetto in stile sovietico: il sotterfugio nasconde l'inganno e chissà cos'altro. Un'ipotesi che mi viene in mente è che sia agli ordini di una fazione moscovita, individui come Litvinov che non vogliono trattare con Hitler.» «Farai attenzione, quando lo rivedrai.» «Oh sì. Puoi star certo che il servizio segreto nazista vorrà nascondere agli inglesi qualsiasi voce su un negoziato Hitler-Stalin. Non gradirebbe sapere che stiamo passando certi documenti agli amici inglesi di Parigi.» Esitò, quindi soggiunse: «Sarò contento quando questa storia sarà finita, in qualunque modo vada». Sembrava stanco di tutto, pensò Morath. Sombor, i russi, Dio solo sapeva cos'altro. Standogli accanto si sentiva un forte aroma di Bay Rhum, il profumo del potere e di una vita agiata e confortevole. Polanyi controllò l'ora. «È alle due» disse all'autista. «Arriveremo in tempo, eccellenza.» Per educazione, l'autista accelerò leggermente. «Hai letto i suoi romanzi, Nicholas?» «La marcia di Radetzky più di una volta. Hotel Savoy. Fuga senza fine.» «Ecco, questo la dice lunga. Un epitaffio.» Roth era fuggito dalla Germania nel 1933, scrivendo a un amico che «da una casa in fiamme si deve scappare». «Un funerale cattolico?» domandò Morath. «Sì. È nato in uno shtetl della Galizia, ma si è stancato di essere un ebreo. Amava la monarchia, Francesco Giuseppe, l'Austria-Ungheria.» Polanyi scosse il capo. «Triste, Nicholas, triste. Odiava la vita da rifugiato politico, e quando ha visto la guerra all'orizzonte ha bevuto fino ad ammazzarsi.» Venti minuti dopo arrivarono a Thiais e l'autista parcheggiò in strada davanti alla chiesa. Una piccola folla formata principalmente da rifugiati politici, laceri e consunti ma ripuliti al meglio delle loro possibilità. Prima che cominciasse la messa, due uomini vestiti con abiti scuri e decorazioni
portarono una corona funebre in chiesa. «Ah, i legittimisti» disse Polanyi. La corona era attraversata da una fascia nera e gialla, i colori del Regno austro-ungarico, e dal nome OTTO, capo della dinastia degli Absburgo ed erede di un impero scomparso. A Morath venne in mente che stava assistendo al momento finale della vita dell'Austria-Ungheria. Nel cimitero della chiesa il prete fu rapido; parlò di Friedl, la moglie di Roth ricoverata in un ospedale psichiatrico di Vienna, del servizio militare di Joseph in Galizia durante la guerra, dei suoi romanzi e dei suoi scritti giornalistici, del suo amore per la chiesa e la monarchia. "Tutti noi abbiamo sopravvalutato il mondo" pensò Morath. La frase, scritta a un amico dopo che Roth era fuggito a Parigi, era stata riportata in un necrologio sul giornale del mattino. Dopo che la bara venne calata nella fossa, Nicholas prese una manciata di terra e la sparse sul coperchio di pino. «Riposa in pace» disse. I convenuti si trattennero in silenzio mentre i becchini cominciavano a riempire la fossa di terra. Alcuni dei rifugiati politici piangevano. Il sole del pomeriggio illuminava la lapide, un quadrato di marmo bianco con la scritta: Joseph Roth Poeta austriaco Morto in esilio a Parigi. Il pomeriggio del 9 maggio, Morath era all'Agence Courtmain quando gli venne consegnato un messaggio telefonico: «Si prega di chiamare il maggiore Fekaj alla legazione ungherese». Si sentì mancare il cuore. Rientrando da Thiais, Polanyi gli aveva detto che Fekaj aveva preso il posto di Sombor, e che il suo sostituto sarebbe arrivato da Budapest entro la settimana. Morath si infilò il foglietto in tasca e si recò a una riunione nell'ufficio di Courtmain. Un'altra campagna affissioni, una parata, un corteo con cui il governo si preparava a festeggiare in luglio il centocinquantesimo anniversario della Rivoluzione del 1789. Dopo la riunione, Courtmain e Morath offrirono un chiassoso pranzo al primo piano del Lapérouse a un gruppo di dipendenti dell'agenzia, la loro risposta alla più recente caduta del morale nazionale. Quando fece finalmente ritorno in Avenue Matignon, Nicholas sapeva di dover fare quella telefonata. L'alternativa era rimuginarci sopra per il resto della giornata.
La voce di Fekaj era piatta e fredda. Era un uomo incolore, preciso, formale e riservato. «L'ho chiamata per informarla, signore, che siamo seriamente preoccupati per sua eccellenza il conte Polanyi.» «Sì?» E adesso che c'era? «Da due giorni non si presenta alla legazione e non risponde al suo telefono di casa. Vorremmo sapere se per caso ha avuto contatti con lui.» «No, non dopo il 6.» «Che lei sappia, aveva in programma di recarsi all'estero?» «Non credo. Forse sta male.» «Abbiamo chiamato gli ospedali cittadini. Non risulta ricoverato.» «Siete andati nel suo appartamento?» «Stamattina il portiere ci ha lasciati entrare. Era tutto in ordine, non c'era alcun segno... che fosse successo qualcosa di brutto. La domestica ha dichiarato che il suo letto era intatto da due notti.» Fekaj si schiarì la gola. «Le dispiacerebbe dirci, signore, se a volte sua eccellenza passa la notte altrove? Con una donna?» «Se lo fa non me lo dice. I dettagli della sua vita privata li tiene per sé. Avete informato la polizia?» «Sì.» Morath dovette sedersi alla scrivania. Si accese una sigaretta. «Maggiore Fekaj» disse «non so come aiutarvi.» «Possiamo capire.» Fekaj esitò, poi soggiunse: «Ci rendiamo conto che certi aspetti del lavoro del conte Polanyi dovevano restare... inosservati. Per ragioni di stato. Ma se dovesse mettersi in contatto con lei, confidiamo che ci farà almeno sapere che è al sicuro». "Vuol dire vivo." «Lo farò» rispose Morath. «Grazie. Naturalmente la informeremo se avremo altre notizie.» Nicholas rimase con il ricevitore in mano, senza badare al silenzio formatosi dopo che Fekaj aveva riagganciato. "Scomparso." Chiamò Bolthos nel suo ufficio, ma questi non voleva parlare al telefono della legazione e gli diede appuntamento per quella sera in un caffè affollato. «Ho parlato con Fekaj» disse Morath. «Ma non avevo niente da dirgli.» Bolthos sembrava stravolto. «È difficile» disse. «Impossibile. A causa delle nostre delicate posizioni politiche, siamo condannati a condurre indagini separate. Ufficialmente ne sono responsabili i nyilás, ma il lavoro
dev'essere svolto dagli amici di Polanyi. Fekaj e i suoi alleati non ci mettono mano.» «Dove crede che sia finito?» Una gentile scrollata di spalle. «Rapito.» «Ucciso?» «Quando sarà il momento.» Dopo un istante domandò: «Non si getterebbe da un ponte, vero?». «No, non lui.» «Nicholas, deve dirmi che cosa stava facendo.» Morath esitò, ma non aveva scelta. «Martedì 6 avrebbe dovuto incontrare un uomo che sosteneva di essere un disertore dei servizi speciali sovietici, cosa a cui Polanyi non credeva. A sentir lui, l'uomo non era fuggito ma era stato inviato in missione. Anche in questo caso, però, aveva informazioni che Polanyi reputava importanti - la destituzione di Litvinov, un negoziato fra Stalin e Hitler. E così l'ha incontrato, e ha accettato un secondo appuntamento, quello conclusivo. Documenti in cambio di denaro, sospetto. «Ma se state pensando ai suoi nemici non potete fermarvi qui. Dovete prendere in considerazione i colleghi di Sombor, sicuramente insospettiti da ciò che è accaduto alla legazione e capaci di tutto. E non potete ignorare il fatto che Polanyi era in contatto con i tedeschi, diplomatici, spie, ufficiali dello stato maggiore della Wehrmacht. E aveva anche qualcosa in ballo con i polacchi e forse con i rumeni e i serbi, un potenziale fronte unito contro Hitler.» Bolthos fece un sorriso acido. «Ma nessuna amante respinta, ne è sicuro.» Rimasero seduti in silenzio mentre la vita del caffè vorticava attorno a loro. Una donna al tavolo accanto leggeva con una lorgnette mentre il suo bassotto sonnecchiava sotto una sedia. «Certo, il suo lavoro era questo» disse Bolthos. «Sì, lo era.» Morath si udì usare il passato. «Lei crede che sia morto.» «Spero di no, ma sarebbe sempre meglio di una cella a Mosca o a Berlino.» Bolthos estrasse di tasca un minuscolo taccuino. «Questo incontro, mi può dire dove si sarebbe dovuto tenere?» «Non lo so. Il primo è stato alla stazione del metrò di Parmentier. Ma quando ha avuto a che fare con me, quell'uomo è sempre stato attento a cambiare luogo e orario. In un certo senso, il secondo incontro dovrebbe essersi svolto da qualsiasi parte tranne che in quella stazione.»
«A meno che Polanyi non abbia insistito.» Bolthos sfogliò le pagine del taccuino. «Ho interpellato le mie fonti alla polizia di Parigi. Martedì 6 un uomo è stato ucciso a colpi di pistola nei pressi della stazione del metrò di Parmentier. La segnalazione era sepolta fra le rapine e gli incidenti domestici, ma aveva un elemento che ha attirato la mia attenzione. La vittima era un cittadino francese nato in Slovacchia. Aveva fatto parte della Legione Straniera, ma era stato congedato per il suo impegno politico. Ha strisciato in un androne ed è morto in Rue Saint-Maur, più o meno a un minuto di distanza dal metrò.» «Un'ombra» disse Morath. «La guardia del corpo di Polanyi: è questo che pensa? O forse il suo assassino. Oppure entrambi, perché no? O più probabilmente un signor nessuno, coinvolto in un intrigo politico nella sera sbagliata, o ucciso per una moneta da dieci franchi.» Bolthos richiuse il taccuino. «Dobbiamo provarci» obiettò. Intendeva dire che aveva fatto del suo meglio. «Sì, lo so» disse Morath. Temetni Tudunk, un sentimento magiaro, complesso e ironico: come seppellire le persone, ecco una cosa che sappiamo fare. Fu Wolfi Szubl a pronunciare le parole, in un locale notturno ungherese nello scantinato di uno strano piccolo hotel nel XVII Arrondissement. Szubl e Mitten, la baronessa Frei accompagnata da un produttore cinematografico francese, Bolthos con sua moglie e il cugino di lei, Voyschinkowsky e Lady Angela Hope, Szabo l'artista, la graziosa Madame Kareny e diversi altri randagi e aristocratici che avevano attraversato la complicata esistenza di Janos Polanyi. Non era un funerale - non c'era alcuna sepoltura, da cui il tono ironico dell'uscita di Szubl - e neppure una commemorazione, ma soltanto una serata per ricordare un amico. «Un amico difficile» disse Voyschinkowsky asciugandosi l'angolo dell'occhio con l'indice. C'erano candele, un'orchestrina zigana, vassoi di pollo con paprika e crema, vino e brandy alla frutta e sì - venne detto più di una volta - quella serata a Polanyi sarebbe piaciuta. Durante una delle canzoni più commoventi, una donna pallida e sottile dall'aria supremamente e totalmente parigina, che si diceva fosse una ruffiana e vivesse nel Palais-Royal, si portò davanti all'orchestrina e danzò con uno scialle. Seduto accanto a Mary, Morath traduceva di tanto in tanto qualche frase in ungherese. Brindarono a Polanyi, «ovunque sia stasera», intendendo il paradiso o
l'inferno. «O magari Palm Beach» disse Herbert Mitten. «Immagino non ci sia niente di male nel pensarlo, se ti va.» Il conto venne consegnato a Morath alle due del mattino sopra un vassoio d'argento, con un solenne inchino da parte del patron. Voyschinkowsky, ostacolato nel suo tentativo di pagarlo, insistette poi per accompagnare a casa Nicholas e Mary con la sua Hispano-Suiza con autista. «Dobbiamo provarci.» Bolthos l'aveva detto per conto di entrambi. Il che, per Morath, significava seguire un filo ovvio ma difficile, in realtà l'unico di cui era al corrente, in quello che doveva essere un vasto groviglio di misteriosi collegamenti. Il pomeriggio seguente andò al Balalaika e bevve una vodka con Boris Balki. «Un peccato» decretò Balki bevendo "in memoria di Polanyi". «A ripensarci, era probabilmente inevitabile.» «Sì, prima o poi. Uomini simili hanno i giorni contati.» «I responsabili» disse Morath «si trovano probabilmente a Mosca.» Una certa delicatezza impedì a Balki di esprimersi in merito, ma la sua reazione - guardarsi intorno per controllare se qualcuno ascoltava - risultò chiara a Nicholas. «Fossi in lei, non proverei nemmeno a interpellarli» suggerì il barista. «Be', se credessi che possa servire a qualcosa...» «Una volta che è fatta è fatta» disse Balki. «Il destino è il destino, gli slavi lo sanno bene.» «Mi stavo domandando...» fece Morath. «Che cosa sta facendo Silvana?» «La bella vita.» Balki era chiaramente lieto di abbandonare l'argomento Mosca. «Così ho sentito dire.» «Voglio parlare con von Schleben.» «Be'...» «Può farlo?» «Silvana sì. Il resto dipende da lei.» Poi, l'ultima settimana di maggio, Morath ricevette una lettera su una lussuosa carta color crema nella quale un certo Auguste Thien lo convocava presso lo studio legale Thien di Ginevra per «risolvere le questioni riguardanti l'eredità del conte Janos von Polanyi de Nemeszvar». Prese il treno da Parigi, guardò sfilare le campagne verdi e dorate della Borgogna,
pernottò in un silenzioso albergo di Ginevra e il mattino dopo si presentò allo studio legale affacciato sul lago. L'avvocato Thien, quando Morath venne accompagnato nel suo ufficio da un membro giovane dello studio, si rivelò un vecchio mucchietto d'ossa tenuto insieme soltanto da un rigido completo color ferro. Aveva folti capelli argentei, ondulati e separati nel mezzo da una riga, e pelle simile a pergamena. «Eccellenza» disse tendendogli la mano. «Desidera un caffè? O qualcosa di più forte?» Morath accettò il caffè, che causò la ricomparsa del giovane con un servizio Sèvres dagli innumerevoli pezzi su un immenso vassoio. Fu lo stesso Thien a versare il caffè, respirando sonoramente per lo sforzo. «Ecco fatto» decretò quando Nicholas reggeva finalmente in mano la tazza. Sulla scrivania, una scatola di metallo simile a una cassetta di sicurezza bancaria. «Questi documenti costituiscono una parte significativa dell'eredità Polanyi de Nemeszvar» spiegò Thien «la quale, conformemente alle mie istruzioni, nella sostanza passa a lei. Vi sono disposizioni per i familiari ancora in vita del conte Polanyi, disposizioni molto generose, ma da oggi la maggior parte dei beni è sua. Compreso naturalmente il titolo, che passa al membro più anziano della stirpe in linea maschile, in questo caso il figlio della sorella del conte Polanyi, sua madre. Pertanto, prima di passare ad argomenti più tecnici, è mio privilegio salutarla, pur in questa triste occasione, come Nicholas, conte Morath.» Si alzò lentamente e girò intorno alla scrivania per stringergli la mano. «Forse sono incompetente in materia legale» obiettò Morath quando fu tornato a sedersi «ma che io sappia non esiste alcun certificato di morte.» «No, non esiste.» Una nube attraversò il volto di Thien. «Ma le nostre istruzioni non prevedono la necessità di un certificato. Lei dovrebbe sapere che alcune persone, nello stabilire la distribuzione finale dei loro beni, possono presupporre qualsiasi condizione desiderino. È, quanto meno qui in Svizzera, interamente a loro discrezione. Abbiamo ricevuto una lettera della Préfecture di Parigi, un'attestation che certifica in modo che noi riteniamo sufficiente la condizione di disperso del testante. Questa infelice eventualità era in realtà prevista. E questo studio, mi conceda, è noto per lo scrupoloso rispetto delle volontà dei suoi clienti, qualsiasi conseguenza esse comportino. Ha forse sentito parlare di Loulou, l'elefante del circo? No? Ebbene, Loulou vive ora in magnifico ritiro in una fattoria nei pressi di Coimbra, in conformità ai desideri del defunto Señor Alvares, ex proprie-
tario del Circo Alvares. Nel suo ultimo testamento, egli non ha dimenticato il suo fedele artista. E allo stesso modo l'elefante, se così si può dire, non dimenticherà mai il Señor Alvares. E questo studio legale, conte Morath, non dimenticherà mai l'elefante.» L'avvocato Thien sorrise soddisfatto, estrasse dal cassetto una grossa chiave, aprì la scatola di metallo e cominciò a porgere a Nicholas vari atti e certificati. Morath scoprì di essere molto ricco. In via generica lo sapeva, dai titoli ferroviari canadesi ai terreni in Ungheria, ma questa era la realtà. «In più» disse Thien «esistono certi conti particolari presso le banche di questa città che ora giungeranno in suo possesso. Il mio associato la guiderà nella compilazione dei moduli. Può scegliere di far amministrare questi fondi da un istituto di sua scelta, oppure mantenerli dove sono, a suo nome, con istruzioni di pagamento a sua discrezione. Sono molte novità da assorbire in un singolo incontro, conte Morath. C'è qualche punto su cui desidera un chiarimento?» «Non credo.» «Allora, con il suo permesso, aggiungerò questo.» Thien prese un foglio di carta da lettera dal cassetto e lesse ad alta voce: «La dipartita di un uomo dal suo mondo consueto può essere inevitabile, ma il suo spirito continua a vivere nelle azioni di coloro che restano, nei ricordi di chi ha lasciato, degli amici e dei familiari le cui esistenze potranno riflettere le lezioni da lui imparate, e ciò diventerà la sua più vera eredità». Fece una pausa, poi aggiunse: «Penso che dovrebbe trovare conforto in queste parole, eccellenza». «Certamente è così» rispose Morath, pensando: "Bastardo, sei vivo". Al suo ritorno a Parigi vi fu naturalmente una festa per l'ascensione al titolo, a cui guarda caso si presentarono soltanto il conte e la presunta contessa. Quest'ultima fece arrivare dalla pâtisserie all'angolo una magnifica torta, in cima alla quale, consultando la moglie del pasticciere e un dizionario, era stata tracciata con la glassa azzurra una frase di congratulazioni in ungherese. Diceva qualcosa come «Felicitazioni, signor conte», ma tenuto conto della difficoltà della lingua era accettabile. In più - sfumature di Suzette! - Mary aveva appeso stelle filanti alle pareti dell'appartamento, anche se, a differenza del bel marinaio Jack, Morath non era presente a reggere la scala. Ciò malgrado vide molto più di quanto Jack avrebbe mai
visto, e ottenne perfino di leccare la glassa dai capezzoli della contessa. I festeggiamenti proseguirono a letto. Alle tre si affacciarono alla finestra e videro la luna velata dalla foschia. Sul lato opposto di Rue Guisarde, un uomo in canottiera si appoggiava al davanzale fumando la pipa. Un'ora dopo s'alzò un venticello primaverile profumato di campi. Decisero che all'alba sarebbero andati alla Closerie de Lilas a bere champagne, ma poi Mary si addormentò con i capelli appiccicati sulla fronte e la bocca aperta, immersa in un sonno così pacifico che Morath non ebbe il cuore di svegliarla. Andarono al cinema, la sera dopo, in uno degli sfarzosi teatri Gaumont accanto al Grand Hôtel. "La più graziosa delle sciocchezze" pensò Morath. Un'ossessione francese, la passione che si srotola nell'intrigo romantico, e tutti attraenti e benvestiti. La sua amata Mary, pratica come non mai sotto così tanti aspetti, si arrese completamente. Seduto accanto a lei, Nicholas poteva sentire il suo cuore battere per un abbraccio rubato. Ma mentre uscivano, nell'atrio tutto lampadari e amorini, sentì un giovane dire alla sua ragazza: «Tout Paris potrà anche scopare fino a diventare cianotica, ma non riuscirà a fermare Hitler». Questo era l'umore della città in quel giugno. Tesa ma elastica, lottava per riprendersi dai cataclismi - l'Austria, Monaco, Praga - e cercava di rientrare nella normalità. Ma i nazisti non la lasciavano in pace. Adesso c'era Danzica, con i polacchi che tanto le davano quanto le prendevano. Ogni mattina le notizie attendevano sui giornali: agenti doganali uccisi, uffici postali bruciati, bandiere calate e calpestate. In Ungheria, nel frattempo, non c'erano sommosse né incendi, ma la stessa guerra politica che si rifiutava di spegnersi. In maggio il parlamento aveva approvato nuove leggi antisemite e quando Morath venne invitato da Voyschinkowsky a contribuire a un fondo per gli ebrei che lasciavano il paese, compilò un assegno che fece sobbalzare perfino il Leone della Borsa. Nel vedere la cifra, Voyschinkowsky inarcò le sopracciglia. «Be', Nicholas, è terribilmente generoso da parte sua. È sicuro di voler fare tanto?» Lo era. Aveva ricevuto una lettera di sua sorella. La vita a Budapest, scriveva Teresa, era «guastata, rovinata». Un continuo parlare di guerra e di suicidio, un incidente durante una rappresentazione di Der Rosenkavalier. «Nicholas, perfino all'opera.» Duchazy stava tramando «Dio solo sapeva che cosa». Intrighi, complotti. «Martedì scorso, il telefono ha squillato due volte dopo la mezzanotte.»
Morath portò Mary dalla baronessa Frei per un tè pomeridiano, il festeggiamento ufficiale dell'arrivo dell'estate in giardino. Le stelle dello spettacolo erano due rose che coprivano le mura di mattoni attorno al terrazzo: Madame Alfred Carrière, fiori bianchi con una sfumatura di rosa pallido «Una perfetta noisette» spiegò la baronessa a Mary «piantata dal barone con le sue stesse mani nel 1911» - e Gioire de Dijon, giallo pallido con toni albicocca. La baronessa teneva corte in una sedia da giardino di ferro battuto, rimproverando i viszla che si agitavano per procurarsi bocconcini proibiti fra gli ospiti e chiamando i suoi amici accanto a sé. Seduta al suo fianco c'era una donna americana di nome Blanche. Era la moglie del violoncellista Kolovitzky, aveva capelli biondo brillante e sopracciglia nere, una pelle abbronzata da una vita passata ai bordi delle piscine di Hollywood e un petto imponente su un corpo che avrebbe dovuto essere rubensiano ma che era stato costretto a nutrirsi a base di pompelmi e pane tostato. «Nicholas caro» lo chiamò la baronessa. «Vieni a parlare con noi.» Mentre le si avvicinava vide Bolthos fra gli invitati e rispose alla sua occhiata con un cenno amichevole del capo. Per un istante fu tentato di riferirgli i suoi sospetti, ma ci ripensò immediatamente. "Silenzio" si disse. Baciò Lillian Frei su entrambe le guance. «Nicholas, conosci Blanche? La moglie di Béla?» «Kolovitzky, non Lugosi» precisò la donna con una risata. Morath rise educatamente insieme a lei mentre le stringeva la mano. Perché era così divertente? «Ci siamo incontrati alla festa di Natale» disse. «Lieto di rivederla.» «Stava al Crillon» disse la baronessa Frei. «Ma io l'ho fatta venire qui.» La moglie di Kolovitzky cominciò a parlargli in inglese, e Nicholas cercò di seguire meglio che poteva. La baronessa notò la sua confusione e prese a tradurre in ungherese, stringendo la mano destra di Blanche nella sua sinistra e muovendole entrambe su e giù per dare risalto a ciò che diceva. Si trattava, Morath lo capì subito, di un brutto caso, potenzialmente fatale, di attaccamento al denaro. Alla morte di una zia di Johannesburg, il violoncellista che componeva colonne sonore per Hollywood aveva ereditato due condomini a Vienna. «Niente di speciale, ma solidi. Rispettabili.» I suoi amici, il suo avvocato e sua moglie avevano riso dell'assurda idea che Kolovitzky tornasse in Austria per reclamare l'eredità. Kolovitzky aveva riso insieme a loro, poi era andato in volo a Parigi e aveva preso il
treno per Vienna. «Da bambino era povero» disse Blanche. «E così per lui il denaro non è mai sufficiente. Gira per casa spegnendo tutte le luci.» Esitò, pescò un fazzoletto dalla borsetta e si asciugò gli occhi. «Mi scusi» disse. «È arrivato a Vienna tre settimane fa, ed è ancora lì. Non lo lasciano più uscire.» «Qualcuno l'ha incoraggiato ad andarci?» «Ha visto? Lui lo sa» disse Blanche alla baronessa. «Un farabutto, un avvocato di Vienna. "Non si preoccupi" gli ha scritto. "Lei è americano, non ci saranno problemi".» «È cittadino americano?» «È uno straniero con il permesso di residenza. Ho ricevuto una sua lettera al Crillon. Credeva che dopo aver lasciato loro gli edifici - quell'avvocato è in combutta con i nazisti, ecco cosa sta succedendo - l'avrebbero lasciato partire. Ma forse non è così semplice.» La baronessa si arrestò sulla parola «combutta», e Blanche spiegò: «Voglio dire che sono tutti d'accordo». «Si è rivolto all'ambasciata americana?» «Ci ha provato. Ma non si interessano degli ebrei. Torni in luglio, gli hanno risposto.» «Dove si trova, a Vienna?» Blanche aprì la borsetta e ne estrasse una lettera su carta sottile ripiegata più volte. «Qui dice...» Cercò gli occhiali e li inforcò. «Qui dice allo Schoenhof. Non so perché... era al Graben, che gli era sempre piaciuto.» Continuò a leggere. «Ecco» proseguì «"Per motivi fiscali" dice "ho intestato gli edifici a Herr Kreml." È l'avvocato. "Ma mi informano che potrebbero essere necessari altri versamenti." Poi dice: "Spero soltanto che la cosa sia accettabile, ma ti prego di parlare con Mr R.L. Stevenson alla banca per vedere che cosa si può fare". Anche questo è strano, perché che io sappia non esiste alcun Mr Stevenson.» «Non lo lasceranno mai uscire» disse la baronessa. «Posso avere la lettera?» chiese Nicholas. Blanche gliela porse e lui se la mise in tasca. «Dovrei mandargli dei soldi?» Morath ci rifletté. «Gli scriva chiedendogli di quanto ha bisogno e quando tornerà. Poi dica, o gli faccia capire, che è infastidita dal modo in cui si caccia sempre nei pasticci. Perché non impara a rispettare le regole? Il senso del messaggio è che siete disposti a pagare, ma che lo scambio deve
funzionare e che in seguito dirà che è stata tutta colpa sua. I nazisti sono suscettibili nei riguardi dell'America, non vogliono articoli sui giornali.» «Nicholas» disse la baronessa. «Si può fare qualcosa?» Morath annuì. «Forse. Mi ci faccia pensare.» La baronessa Frei alzò su di lui i suoi occhi azzurri come un cielo autunnale. Blanche cominciò a ringraziarlo, e aveva già detto fin troppo e stava per parlare di soldi quando la baronessa intervenne. «Lo sa, cara, lo sa» disse in tono gentile. «Ha un gran cuore, il conte Nicholas.» Visti da un palco privato delle tribune coperte, i prati dell'ippodromo di Longchamps risplendevano come velluto verde. I colori dei fantini scintillavano al sole, scarlatti e ori e blu reali. Silvana picchiettò con la punta della matita su un programma delle corse. «Coup de Tonnerre?» disse. Fulmine. «Era quello con la criniera bionda? Horst, ti ricordi?» «Credo di sì» rispose von Schleben consultando il programma. «Il fantino è Pierre Lavard, gli lasciano vincere una corsa al giorno.» Continuò a leggere. «O magari Bai Masqué. A lei chi piace, Morath?» Silvana lo guardò speranzosa. Indossava un abito di seta stampata e una collana di perle, e i suoi capelli erano acconciati in modo costoso. «Coup de Tonnerre» rispose Morath. «L'ultima volta che ha corso è arrivato terzo. La quotazione è interessante.» Von Schleben diede a Silvana qualche centinaio di franchi. «Pensaci tu, d'accordo?» Anche Nicholas le affidò la sua puntata. «Mettiamo alla prova il presentimento del conte Morath.» Quando Silvana si fu allontanata verso lo sportello delle scommesse, soggiunse: «Mi dispiace per suo zio. Insieme ci siamo divertiti, ma è la vita». «Lei non ha saputo niente? Dopo il fatto?» «No, no» disse. «Scomparso nel nulla.» Mentre i cavalli venivano condotti sulla linea di partenza, vi furono i soliti inconvenienti: l'assistente di un mossiere dovette balzare via per evitare di essere colpito dai calci degli animali. «C'è un avvocato a Vienna con cui vorrei mettermi in contatto» disse Morath. «Gerhard Kreml.» «Kreml» ripeté von Schleben. «Non credo di conoscerlo. Che cosa le interessa?»
«Chi è, che cosa fa. Credo che abbia conoscenze nel partito austriaco.» «Vedrò che posso fare» disse von Schleben. Gli porse un biglietto da visita. «Mi chiami all'inizio della prossima settimana, se non mi avrà ancora sentito. Usi il secondo numero, quello più in basso.» La corsa cominciò, i cavalli si lanciarono al galoppo in un gruppo compatto. Von Schleben si portò agli occhi il binocolo da teatro di madreperla e seguì la corsa. «Stringi, idiota» disse. Gli zoccoli dei cavalli tambureggiavano sull'erba. Giunti a metà percorso, i fantini cominciarono a usare i frustini. «Ach Scheisse!» esclamò von Schleben abbassando il binocolo. «Questo Kreml» riprese Morath «ha un cliente a Vienna, un amico di un'amica, che sembra avere qualche problema con le tasse. Ha delle difficoltà a uscire dal paese.» «Ebreo?» «Sì. Un musicista ungherese residente in California.» «Se paga le tasse, non dovrebbero esserci problemi. Certo, ci sono situazioni speciali. E se ci sono irregolarità, il fisco austriaco può essere diabolicamente lento.» «Devo dirle di chi si tratta?» «No, lasci stare. Prima mi faccia scoprire con chi avete a che fare. A Vienna ogni cosa è... un po' più complicata.» Vennero annunciati i vincenti della corsa. «Peccato» commentò von Schleben. «Magari la prossima volta avremo più fortuna.» «Vorrei sperarlo.» «A proposito, alla legazione c'è un certo Bolthos. È un suo amico?» «Sì. Un conoscente, quanto meno.» «Ho cercato di mettermi in contatto con lui, ma è difficile. Molto occupato, immagino.» «Potrei farla chiamare da lui.» «Davvero?» «Glielo chiederò.» «Lo apprezzerei molto. Abbiamo degli interessi comuni, qua e là.» Silvana fece ritorno. Morath vide che si era ritoccata il rossetto. «Tolgo il disturbo» disse. «Mi farò sentire» promise von Schleben. «E ancora una volta, mi dispiace per suo zio. Dobbiamo solo sperare.» Scalzo, la cravatta allentata, una sigaretta in una mano e un bicchiere di vino accanto a sé, Morath si coricò sul divano di velluto marrone e lesse e
rilesse la lettera di Kolovitzky. Mary, un asciugamano avvolto attorno al corpo e uno sulla testa, lo raggiunse uscendo dal bagno, ancora calda, e si sedette al suo fianco. «Chi è R.L. Stevenson?» domandò Nicholas. «Mi arrendo, chi è?» «È in questa lettera. L'ha scritta Kolovitzky, quello che ha suonato il violino alla festa di Natale della baronessa. È riuscito a farsi intrappolare a Vienna, e gli hanno concesso di scrivere a sua moglie - una sola volta, credo, non ce ne sarà un'altra - per vedere se riescono a ottenere ancora qualcosa prima di gettarlo in un canale.» «Nicholas!» «Mi dispiace, ma è così.» «Il nome è nella lettera?» «È un codice. Credo che stia cercando di dire qualcosa a sua moglie.» «Ah, allora è lo scrittore.» «Quale scrittore?» «Robert Louis Stevenson.» «E chi è?» «Scriveva romanzi di avventura. Di enorme successo. Mio padre li aveva tutti, li leggeva da ragazzo.» «Per esempio?» «L'isola del tesoro.» Mary si srotolò l'asciugamano dalla testa e cominciò ad asciugarsi i capelli. «Non ne hai mai sentito parlare?» «No.» «Il pirata Long John Silver, con una gamba di legno e un pappagallo sulla spalla. "Fermi là, compagni!" È la storia di un mozzo e di un tesoro sepolto.» «Non so» rifletté Morath. «Che altro?» «Il signore di Ballantrae?» «Che cosa racconta?» Mary si strinse nelle spalle. «Mai letto. Ah, c'è anche Il ragazzo rapito.» «È lui.» «Le sta dicendo che è stato rapito?» «Tenuto in ostaggio.» Le otto e mezzo di sera. Il Balalaika era affollato, fumoso e chiassoso, i violini zigani gemevano, gli avventori ridevano e gridavano in russo, l'uomo seduto al banco accanto a Morath beveva piangendo in silenzio. Balki
gli rivolse un'occhiata e scosse il capo. «Kabatskaya melankholia» disse con labbra tirate per la disapprovazione. «Che cosa significa?» «È un'espressione russa: malinconia da taverna.» Morath lo osservò preparare un Diabolo, una generosa porzione di granatina in un bicchiere colmo di limonata. Il barista consultò l'orologio. «Il mio cambio dovrebbe essere già qui.» Arrivò qualche minuto dopo, e Balki si diresse insieme a Morath verso un bistrò in Place de Clichy. Prima, durante un momento di calma, Nicholas gli aveva illustrato nei dettagli la lettera di Kolovitzky e insieme avevano parlato di strategia, studiando il piano che non poteva fallire e pensando al da farsi nel caso in cui fosse fallito. Nel bistrò, Balki salutò il proprietario in russo e gli chiese il permesso di usare il telefono. «Forse dovremmo andare alla stazione» suggerì Morath. «Si risparmi il viaggio. Metà dei russi bianchi di Parigi usa questo telefono. Mercenari, bombaroli, gente che cerca di riportare lo zar sul trono, vengono tutti qui.» «Lo zar è morto, Boris.» Balki rise. «Certo che è morto. E allora?» Morath si fece passare il centralino internazionale e ottenne quasi immediatamente il collegamento con Vienna. Il telefono squillò a lungo, poi una voce maschile rispose: «Hotel Schoenhof». «Buonasera. Herr Kolovitzky, per favore.» La linea emise un sibilo. «Attenda» disse l'uomo. Attese. «Sì?» disse una voce diversa, brusca e sospettosa. «Che vuole da Kolovitzky?» «Voglio solo parlargli.» «Al momento è occupato, non può venire al telefono. Chi parla?» «Mr Stevenson. Mi trovo a Parigi, ma potrei venire a Vienna la prossima settimana.» «Gli dirò che ha telefonato» disse l'uomo, e riagganciò. Morath chiamò von Schleben dall'Agence Courtmain. Una segretaria gli disse che non era disponibile, ma qualche minuto dopo lui richiamò. «Ho le informazioni che voleva» esordì. «Gerhard Kreml è un avvocatucolo da strapazzo, fondamentalmente corrotto. Prima dell'Anschluss tirava a malapena la carretta, ma da allora sta andando a gonfie vele.»
«Dove lavora?» «Ha un ufficio, un monolocale sulla Singerstrasse. Ma non è lui il suo problema, il suo problema è un ufficiale delle SS austriache, lo Sturmbannführer Kammer. Lui e Kreml hanno messo in piedi un intrallazzo arrestando ebrei a cui è ancora possibile rubare qualcosa. Sospetto che il suo amico sia stato attirato a Vienna, e devo anche dirle che le sue probabilità di uscirne non sono buone.» «Non può farci niente?» «Non credo che lo lasceranno andare. Se fosse successo in Germania, forse avrei potuto aiutarla. Vuole che ci provi? Dovranno avere qualcosa in cambio, naturalmente, e anche in quel caso non esiste garanzia...» «E se pagassimo?» «È quello che farei. Ma deve capire, trattare con Kammer significa trattare con un bandito. Non permetterà a nessuno di penetrare nel suo territorio e prendere ciò che gli appartiene.» Morath lo ringraziò e riappese. «Liebchen.» Wolfi Szubl lo disse dolcemente, con gratitudine. Frau Trudi si girò con le spalle al muro, gli rivolse un sorriso lascivo e attraversò la stanza, facendo ondeggiare i fianchi e tremare l'immenso posteriore e le ampie cosce. Quando raggiunse l'estremità opposta della stanza tornò a voltarsi, si chinò verso di lui, scrollò le spalle e disse: «Allora, che cosa vedi?». «Il paradiso» rispose Wolfi. «E il mio sconto?» «Un grosso sconto, Liebchen.» «Sì?» Il volto della donna irradiava piacere. "Perfino i suoi capelli sono grassi" pensò Szubl. Una criniera ricciuta e ramata che lei si era ravviata dopo essersi infilata il corsetto e che quando sfilava per lui sobbalzava gloriosamente come tutto il resto. «Li prendo tutti, Wolfi. I Madame Pompadour. Le mie signore andranno in estasi.» «E non soltanto le tue signore. Che cosa vedo laggiù? Ti è caduto qualcosa?» «Davvero? Cielo.» Le mani sui fianchi, Frau Trudi avanzò come una modella su una passerella, proiettando una spalla in avanti a ogni passo, tenendo il mento sollevato e increspando la bocca in un broncio elegante. «Due dozzine? Al sessanta per cento di sconto?»
«Mi leggi nel pensiero.» Giunta davanti alla parete, si piegò in avanti e rimase in posa. «Non vedo niente.» Szubl si alzò dalla sedia, si portò dietro di lei e cominciò a slacciare i bottoncini del corsetto. Quando ebbe finito, lei corse verso il letto a piccoli passi e si coricò bocconi reggendosi il mento con le mani. Szubl cominciò a slacciarsi la cravatta. «Wolfi» disse lei con dolcezza. «Non passa giorno che non ti pensi.» Szubl si sfilò le mutande e le fece roteare con un dito. L'appartamento era sopra il suo negozio, Frau Trudi, sulla Prinzstrasse accanto a un panificio, e il profumo dei pasticcini nel forno saliva dalla finestra aperta. A Vienna era una giornata tiepida; il terribile föhn una volta tanto non soffiava, il canarino di Frau Trudi cinguettava nella sua gabbia e tutto era sereno e tranquillo. Era ormai sceso il crepuscolo, e potevano udire la campanella della porta del negozio sotto di loro ogni volta che i clienti entravano e uscivano. Frau Trudi, rosea e sudata dopo l'amore, si strinse a lui. «Ti piace qui, Wolfi? Con me?» «A chi non piacerebbe?» «Potresti fermarti un po', se volessi.» Wolfi sospirò. Se solo avesse potuto. «Mi chiedo se conosci qualcuno che ha bisogno di guadagnare qualcosa. Magari una delle tue signore ha il marito disoccupato.» «Che cosa dovrebbe fare?» «Non molto. Prestare il suo passaporto a un mio amico per una settimana o giù di lì.» Lei si sollevò su un gomito e lo guardò dall'alto in basso. «Wolfi, sei nei pasticci?» «Non si tratta di me. Il mio amico offre cinquecento dollari americani per il prestito. E così ho pensato, be', magari Trudi conosce qualcuno.» La guardò. Gli parve di udire un campanello di cassa mentre lei convertiva i dollari in scellini. «Forse» disse Trudi. «Una donna che conosco, a suo marito farebbero comodo.» «Quanti anni ha?» «Il marito?» Si strinse nelle spalle. «Quarantacinque, credo. Ha sempre dei problemi. Lei mi chiede dei prestiti, ogni tanto.» «È possibile farlo stasera?»
«Immagino di sì.» «Ti darò subito il denaro, Liebchen, e passerò domani per il passaporto.» 28 giugno. Una bella giornata di sole, ma nemmeno un raggio si posava sulla baita. Tre piani, trenta stanze, un atrio grandioso; il tutto immerso in una tetraggine muffita. Morath e Balki avevano noleggiato un'auto a Bratislava e si erano addentrati fra le colline boscose a nord del Danubio. Erano nella Slovacchia storica - territorio ungherese dal 1938 - e soltanto a pochi chilometri dal confine austriaco. Balki si guardò intorno con una sorta di scoraggiato sgomento: trofei di caccia su ogni parete, i loro occhi vitrei scintillanti alla luce della foresta. Si sedette con fare indeciso sul cuscino di pelle di un'enorme poltrona di legno con scene di caccia intagliate nello schienale alto. «Dove si sedevano i giganti» disse. «L'idea era questa.» "Il vecchio impero vive ancora" pensò Morath. Uno degli aristocratici prediletti dalla baronessa Frei aveva accettato di prestargli la baita. «È così riservata» aveva commentato ammiccando. E lo era davvero. Si trovava nei Piccoli Carpazi, in una fitta foresta di pini, accanto a un torrente che serpeggiava fuori della finestra e a una pittoresca cascata che schiumava bianca su un affioramento di rocce scure. Balki si aggirò per l'atrio guardando i terribili dipinti. Vergini siciliane sorprese mentre riempivano anfore sulle rive dei ruscelli, giovani zingare armate di tamburelli, un Napoleone dispeptico con la mano posata su un cannone. In fondo al locale, fra le teste imbalsamate di un orso e di un cinghiale zannuto, Balki si fermò davanti alla bacheca delle armi da fuoco e picchiettò con le dita sul calcio ingrassato di una carabina. «Non giocheremo con questi, vero?» «No.» «Niente cowboy e indiani?» Morath scosse enfaticamente la testa. C'era perfino un telefono. O qualcosa di simile; era facile immaginare l'arciduca Francesco Ferdinando mentre chiamava il suo tassidermista. Una scatola di legno sulla parete della cucina, il ricevitore collegato con un cavo e al centro dell'apparecchio un corno nero in cui parlare. "O gridare, più probabilmente." Morath sollevò il ricevitore dalla forcella, udì qualche crepitio e riagganciò. Consultò il suo orologio. Balki si tolse il berretto da operaio e lo appese su un palco di corna. «Se
vuole vengo anch'io, Morath.» Era puro eroismo, un russo che entrava in Austria. «Resti a guardia del castello» rispose Nicholas. «È già abbastanza che abbia preso dei giorni di ferie per questa faccenda, non c'è bisogno che si faccia anche arrestare.» Controllò di nuovo l'ora. «Bene, proviamo.» Si accese una sigaretta, accostò il ricevitore all'orecchio e diede qualche colpetto alla forcella. Attraverso i crepitii elettrici, gli giunse la voce ungherese di una centralinista. «Vorrei prenotare una chiamata in Austria» disse Morath. «Posso collegarla subito, signore.» «A Vienna, il numero è 4025.» Nicholas udì il segnale a due toni. Poi: «Studio di Herr Kreml». «Herr Kreml è in ufficio?» «Potrei sapere chi parla?» «Mr Stevenson.» «Attenda, prego.» Kreml giunse immediatamente in linea. Una voce melliflua, sicura di sé, untuosa. Gli disse che era stato molto gentile a chiamare. Morath s'informò sullo stato di salute di Kolovitzky. «In ottime condizioni!» Be', forse un po', come dire, oppresso dai suoi problemi con il fisco, ma a questo si poteva ovviare quanto prima. «Sono in contatto con Madame Kolovitzky, qui a Parigi» disse Morath. «Se le questioni burocratiche potranno essere risolte, un assegno circolare verrà inviato immediatamente.» Kreml tergiversò per qualche altro istante in stile avvocatesco, quindi formulò una cifra. «Nella vostra valuta americana, Herr Stevenson, credo si aggiri intorno ai diecimila dollari.» «I Kolovitzky sono pronti a farvi fronte, Herr Kreml.» «Ne sono molto lieto» disse l'avvocato. «E fra circa un mese, quando il versamento verrà registrato dalle nostre banche, Herr Kolovitzky sarà in grado di lasciare l'Austria con la coscienza pulita.» «Un mese, Herr Kreml?» «Come minimo, per come vanno le cose quaggiù.» L'unico modo di accelerare la pratica, disse l'avvocato, sarebbe stato usare una disposizione alquanto oscura del sistema fiscale che riguardava i pagamenti in contanti. «Ciò risolverebbe le cose immediatamente, capisce.» Morath capiva. «Forse è il modo migliore» disse. Be', dipendeva dai Kolovitzky, giusto? «Herr Stevenson, voglio farle i complimenti per il suo ottimo tedesco. Per un americano...»
«A dire il vero, Herr Kreml, sono nato a Budapest. Il mio vero nome è Istvanagy. Dopo essere emigrato in California l'ho cambiato in Stevenson.» "Ah! Naturalmente!" «Ne parlerò con Madame Kolovitzky, Herr Kreml, ma può star sicuro che riceverà un pagamento in contanti entro la fine della settimana.» Kreml fu molto lieto di udirlo. Proseguirono a conversare per qualche minuto. Il tempo, la California, Vienna. Poi fecero per salutarsi. «Ah sì» disse Morath «c'è un'ultima cosa. Gradirei molto scambiare due parole con Herr Kolovitzky.» «Naturalmente. Ha il numero dell'hotel Schoenhof?» «Ho provato a chiamarlo, ma a quanto sembra è sempre occupato.» «Davvero? Non mi sorprende. Un uomo amabile, Herr Kolovitzky, stringe nuove amicizie ovunque vada. Immagino che faccia avanti e indietro di continuo, che si diverta, che frequenti le pasticcerie. Ha lasciato un messaggio?» «Sì.» «E allora qual è il problema? La richiamerà non appena ne avrà l'occasione. Fra l'altro, Herr Stevenson, le linee telefoniche fra qui e Parigi possono creare qualche problema.» «Sarà probabilmente per questo.» «Ora la devo salutare, Herr Stevenson, ma spero di risentirla presto.» «Può starne certo.» «Arrivederci, Herr Stevenson.» «Arrivederci, Herr Kreml.» Il mattino dopo si recarono in macchina a Bratislava, dove Morath intendeva prendere il treno per Vienna; ma non fu possibile. Caos alla Stazione Centrale, una folla di passeggeri lasciati a piedi, tutte le panchine occupate, gente seduta sulle valigie in Viale Jaskovy. «È la linea per Zilina» spiegò il bigliettaio. Tutti i treni passeggeri erano stati cancellati per dare la precedenza ai vagoni merci che trasportavano i carri armati e l'artiglieria della Wehrmacht e procedevano verso est in un flusso ininterrotto. Morath e Balki si fermarono sulla banchina a guardare, circondati da una folla silenziosa. Due locomotive trainavano quaranta vagoni, su cui i lunghi cannoni spuntavano da sotto i teloni. Venti minuti dopo giunse un convoglio di cavalli, seguito da un treno per il trasporto delle truppe. I soldati salutavano affacciati ai finestrini, sotto i quali campeggiava una scritta tracciata
con il gesso: ANDIAMO IN POLONIA A DARLE AGLI EBREI. La cittadina di Zilina si trovava a una quindicina di chilometri dalla frontiera polacca. Avrebbe avuto un ospedale, un albergo per lo stato maggiore, un sistema telefonico. Guardando il treno, Morath si sentì mancare il cuore; era la speranza che si allontanava. Poteva essere pura e semplice intimidazione, si disse, una finta, ma sapeva come stavano le cose in realtà. Era il primo stadio di un'invasione. Quelle erano le divisioni che avrebbero attaccato dalla Slovacchia, riversandosi in Polonia dai passi nei Carpazi. Morath e Balki passeggiarono per Bratislava, bevvero una birra in un caffè e attesero. A Nicholas la città rammentava la Vienna del '38 - le vetrine sfondate dei negozi di proprietà degli ebrei, la scritta EBREO VATTENE! dipinta sui muri delle case. I politici slovacchi odiavano i cechi, e avevano chiesto protezione a Hitler per poi scoprire che non gradivano farsi proteggere. Ma ormai era troppo tardi. Qua e là qualcuno aveva scritto PRO TENTO KRAT, per il momento, sui pali del telefono, ma era soltanto una smargiassata e non ingannava nessuno. Di ritorno al ristorante della stazione, Morath si sedette con la valigia fra i piedi e diecimila dollari in scellini austriaci stipati all'interno. Chiese a un cameriere se il ponte sul Danubio fosse aperto - nel caso avesse deciso di usare la macchina - ma questi scosse la testa con aria torva. «No, non lo può usare» rispose. «Lo stanno attraversando da giorni.» «C'è modo di entrare in Austria?» «Forse alle cinque lasceranno passare un treno, ma dovrà trovarsi sul marciapiede e sarà molto... affollato. Capisce?» Morath disse di sì. «Sarà in grado di uscirne?» domandò Balki quando il cameriere se ne andò. «Probabilmente.» Annuì. «Morath?» «Sì?» «Non si farà ammazzare, vero?» «Non credo.» Aveva due ore di attesa, e usò un telefono della stazione per chiamare Parigi. Dovette attendere venti minuti, ma alla fine riuscì a mettersi in contatto con l'Agence Courtmain. La centralinista, dopo diversi tentativi, rintracciò Mary in riunione nell'ufficio di Courtmain. «Nicholas!» esclamò lei. «Dove sei?» Non sapeva con esattezza cosa stesse facendo. «Affari di famiglia» le aveva detto Morath, ma lei aveva
capito che c'era sotto qualcos'altro. «A Bratislava.» «Bratislava. Com'è il tempo?» «Soleggiato. Volevo dirti che mi manchi.» «Anche tu, Nicholas» rispose dopo un istante. «Quando torni?» «Presto, fra qualche giorno, se tutto va bene.» «Ma sarà così, vero? Andrà tutto bene?» «Credo di sì, non ti devi preoccupare. Ho pensato di chiamarti per dirti che ti amo.» «Lo so.» «Temo di dover riagganciare, ci sono altri che devono usare il telefono.» «D'accordo. Ciao.» «Pochi giorni.» «Il fine settimana.» «Oh sì, di sicuro.» «Bene, ci vediamo allora.» «Ciao, Mary.» Il cameriere aveva ragione circa il treno. Entrò lentamente in stazione dopo le sei e mezzo, stipato di passeggeri. Morath vi salì a viva forza, sorridendo e scusandosi, creandosi un piccolo spazio sulla piattaforma dell'ultimo vagone e restando aggrappato a un sostegno di metallo per l'intero tragitto fino a Vienna. Chiamò Szubl al suo albergo e si incontrarono in un caffè, i cui proprietari fumavano leggendo il giornale e conversando educatamente. Una città in cui tutti erano tristi e sorridevano e non ci si poteva fare niente - a Morath aveva sempre fatto quell'impressione, e quella sera dell'estate del 1939 era peggio che mai. «Ho quello che vuoi» annunciò Szubl allungandogli un passaporto sotto il tavolo. Morath guardò la fotografia. Un ometto rabbioso lo fissava torvo; baffi, occhiali, "non c'è mai niente che vada per il verso giusto". «Puoi modificarlo?» chiese Szubl. «Sì. Più o meno. Ho preso una foto da un documento che aveva sua moglie e la posso incollare. Ma con un po' di fortuna non ne avrò bisogno.» «Ti hanno controllato la valigia, alla dogana?» «Sì. Ho detto loro a cosa serviva il denaro, poi hanno ispezionato tutto il resto. Ma erano dei normali ispettori doganali, non SS o compagnia bella.» «Ho sfilato le stecche da un corsetto. Le vuoi ancora?»
«Sì.» Szubl gli porse una lunga busta dell'albergo. Morath se la mise in tasca. «Quando te ne vai?» «Domani. Entro mezzogiorno.» «Assicurati di riuscire a partire, Wolfi.» «Lo farò. E il passaporto?» «Di' alla tua amica che l'hai smarrito. Più soldi per Herr X, che può sempre richiederne un altro.» Szubl annuì e si alzò. «Ci vediamo a Parigi, allora.» Si strinsero la mano e Morath lo guardò allontanarsi, lento e pesante anche senza la valigia del campionario, un giornale ripiegato sottobraccio. «Farebbe un giro della Mauerplatz?» «Se vuole.» Il taxista era un vecchietto con un paio di baffi da cavalleggero. Le sue decorazioni di guerra erano appuntate sulla visiera parasole. «Un viaggio sentimentale» spiegò Morath. «Ah, naturalmente.» Una piazzola di ciottoli, passanti nell'aria tiepida della sera, vecchi tìgli che proiettavano le ombre del fogliame alla luce dei lampioni. Morath abbassò il finestrino e il taxista fece un lento giro della piazza. «Una signora e io alloggiavamo qui, qualche anno fa.» «Allo Schoenhof?» «Sì. È sempre lo stesso vecchio posto?» «Penso di sì. Vuole dare un'occhiata? Per me non è un problema.» «No. Volevo soltanto rivederlo.» «Bene, la porto in Landstrasse?» «Sì. All'Imperial.» «Viene spesso a Vienna?» «Ogni tanto.» «Diversa, quest'anno.» «Davvero?» «Sì. Tranquilla, grazie a Dio. Prima non avevamo che problemi.» Le otto e un quarto. Decise di fare un ultimo tentativo, e chiamò da un telefono nell'atrio dell'albergo. «Hotel Schoenhof.» «Buonasera. Sono il Doktor Heber, mi passi la camera di Herr Kolovitzky, per favore.»
«Spiacente. Herr Kolovitzky non c'è.» «Non è in camera?» «No. Buonanotte, Herr Doktor.» «È una questione urgente, dovrà riferirgli il mio messaggio. Si è sottoposto a qualche esame nella mia clinica qui a Währing, e deve tornare al più presto.» «Va bene, glielo dirò.» «Grazie. Ora vorrebbe essere così gentile da passarmi il direttore?» «Sono io il direttore.» «E lei sarebbe?» «Il direttore. Buonanotte, Herr Doktor.» Il mattino seguente Morath acquistò una valigetta, vi mise il denaro e il suo passaporto, spiegò all'impiegato della reception che sarebbe stato assente per una settimana, pagò la stanza fino al martedì successivo e fece chiudere la valigetta nella cassaforte dell'albergo. Il mercante d'arte di Parigi gli aveva procurato un nuovo passaporto, francese, questa volta. Tornò in camera, svolse un'ultima, attenta ispezione della sua valigia e non vi trovò niente di strano. Poi prese un taxi per la Nordbahnhof, bevve un caffè al bar della stazione, uscì di nuovo e fermò un altro taxi. «L'hotel Schoenhof» disse al conducente. Nell'atrio, soltanto uomini. C'era qualcosa di vagamente impacciato nel modo in cui vestivano, come se fossero abituati all'uniforme militare. "SS in borghese." Nessuno faceva il saluto militare né batteva i tacchi, ma Morath lo percepiva, dal loro taglio di capelli, dalla loro postura, dal modo in cui lo guardavano. L'uomo al banco non era uno di loro. Il proprietario, immaginò Nicholas. Sulla cinquantina, molliccio e spaventato. Resse lo sguardo di Morath un attimo più del necessario. "Se ne vada, lei non c'entra." «Una stanza, per piacere» disse Morath. Uno dei giovani si avvicinò dall'atrio con aria noncurante e si appoggiò al banco. Quando Nicholas lo guardò, ricevette un amichevole cenno di risposta. Niente di offensivo, si era avvicinato per scoprire chi lui fosse e che cosa volesse. Nessun rancore. «Singola o doppia?» domandò il proprietario. «Singola. Sulla piazza, se l'avete.» Fece mostra di controllare il registro. «Molto bene. Per quante notti, prego?»
«Due.» «Il suo nome?» «Lebrun.» Morath gli porse il passaporto. «Desidera la mezza pensione?» «Sì, grazie.» «La cena è servita in sala da pranzo. Alle sette precise.» Il proprietario staccò una chiave da un gancio numerato in una bacheca alle sue spalle. C'era qualcosa di strano, in quella bacheca. Sulla prima fila di ganci non c'era alcuna chiave. «Quattro zero tre» disse. «Vuole che il facchino le porti la valigia in camera?» La sua mano si fermò sopra un campanello. «Ce la faccio da solo» rispose Morath. Salì i quattro piani di scale dalla moquette vecchia e logora. Un semplice albergo per viaggiatori di commercio, si disse. Come ce n'erano a centinaia a Vienna, a Berlino, a Parigi, ovunque si andasse. Trovò la 403 e aprì la porta. Una fantasia di stelle alpine sulle tende flosce e sulla sovraccoperta di un misero lettino. Pareti verde pallido, una vecchia moquette e nemmeno un rumore. "Molto silenzioso, questo albergo." Decise di fare una passeggiata e lasciare che dessero un'occhiata alla sua valigia. Consegnò la chiave al proprietario e uscì sulla Mauerplatz. Davanti al giornalaio guardò i titoli. LA POLONIA MINACCIA DI BOMBARDARE DANZICA! Acquistò una rivista sportiva, giovani che giocavano a pallavolo sulla spiaggia. "Un quartiere elegante" pensò. Solidi condomini di mattoni, donne che spingevano carrozzine, una linea tranviaria, una scuola da cui si udivano i bambini cantare, un droghiere sorridente sulla soglia del suo negozio, un ometto somigliante a una faina seduto al volante di una Opel malconcia. Di ritorno allo Schoenhof, Morath ritirò la chiave e salì al quinto piano. In corridoio, un omaccione dalla faccia rubizza era seduto su una sedia appoggiata all'indietro sul muro. Non appena lo vide balzò in piedi. «Che cosa vuole?» «Sono alla 403.» «Ha sbagliato piano.» «Oh. Che cosa c'è quassù?» «Riservato» disse l'uomo. «Se ne vada.» Morath chiese scusa e si allontanò a passi rapidi. "Molto vicino" si disse. Dieci stanze al quinto piano, e Kolovitzky era prigioniero in una di esse.
Le tre del mattino. Nicholas giaceva nel buio della stanza. Di tanto in tanto, un alito di brezza dalla Mauerplatz muoveva le tende. Per il resto, silenzio. Dopo cena era passato un musicista ambulante dalla piazza, suonando la fisarmonica e cantando. Poi Morath aveva ascoltato la radio sul comodino, Liszt e Schubert, fino a mezzanotte, quando la stazione radio nazionale cessava le trasmissioni. Non del tutto: trasmettevano il ticchettio di un metronomo fino all'alba. "Per rassicurare la gente" si diceva. Morath fissava il soffitto. Era disteso da tre ore con niente da fare se non aspettare, e aveva pensato a quasi tutto quello a cui poteva pensare. La sua vita. Mary Day. La guerra. Lo zio Janos. Polanyi gli mancava, era sorprendente quanto. Echézeaux e Bay Rhum. L'amabile disprezzo che provava per il mondo in cui era costretto a vivere. E il suo scherzetto finale. "Ecco, provaci tu." Pensò agli altri ospiti dell'albergo, quelli veri, non gli uomini delle SS. Era stato alquanto facile riconoscerli in sala da pranzo, mentre cercavano di mangiare l'orrida cena. Lui aveva più che altro spostato gli spaghetti da una parte all'altra del piatto, tenuto d'occhio il cameriere e osservato come funzionava il pianterreno. Per quanto riguardava gli ospiti, immaginava che se la sarebbero cavata. Lo sperava. Da una chiesa, da qualche parte nel quartiere, giunse il rintocco solitario della mezz'ora. Morath sospirò e posò le gambe a terra. Si mise la giacca e si strinse il nodo della cravatta. Poi estrasse le stecche dalla busta che gli aveva dato Szubl. Celluloide. Un composto di fulmicotone solubile e canfora. Trasse un profondo respiro e ruotò lentamente la manopola della porta; rimase all'ascolto per una ventina di secondi, poi uscì in corridoio. Scese le scale lentamente, un gradino alla volta. Qualcuno che tossiva al terzo piano, una luce sotto una porta al secondo. Giunto a pochi passi dal fondo delle scale - l'area della reception - si fermò e scrutò nel buio. Doveva esserci un uomo di guardia. Dove? Finalmente distinse parte di una sagoma sopra lo schienale di un divano, e udì il debole respiro che indicava un sonno leggero. Aggirò con cautela il montante della ringhiera ai piedi delle scale, entrò in sala da pranzo e quindi nel corridoio in cui il cameriere andava e veniva durante la cena. Finalmente, la cucina. Accese un fiammifero, si guardò intorno e lo spense. C'era un lampione nel vicolo, non lontano dalle finestre, e proiettava una luce sufficiente a fargli vedere ciò che stava facendo. Trovò i lavandini, grosse, pesanti vasche di zinco, si inginocchiò sul pavimento e fe-
ce scorrere le dita sul cemento. Trovò il pozzetto d'intercettazione per i grassi, capì che aprire il coperchio sarebbe stato un problema e abbandonò l'idea. Provò con i fornelli, e qui trovò ciò di cui aveva bisogno. In un armadietto accanto allo sportello del forno, una grossa latta un tempo piena di lardo veniva usata come contenitore per i grassi versati dalle padelle. Era sorprendentemente pesante, una decina di chili di grasso giallo e rancido, quasi del tutto rappreso, con un paio di centimetri di olio in superficie. "Salsicce, burro, pancetta" pensò Morath. "Oca arrosto." Si guardò intorno, vide sopra i fornelli un anello di ferro a cui venivano appesi gli utensili, ne staccò con cautela un gigantesco mestolo e raccolse una cucchiaiata abbondante di grasso. Ne prese una manciata e ne cosparse il banco di legno. Lo spalmò sui muri, sui telai delle finestre e sulle ante degli armadietti. Poi sistemò la latta orizzontalmente in un angolo, vi immerse le stecche del corsetto fino a metà della loro lunghezza, accese un fiammifero e lo lanciò. La celluloide prese immediatamente fuoco con un bagliore bianco e rovente; poi il grasso si accese scoppiettando e un rivolo di fuoco liquido attraversò il pavimento e cominciò a risalire la parete. Pochi istanti più tardi, il soffitto cominciò ad annerirsi. Ora doveva aspettare. Trovò il ripostiglio delle scope accanto all'ingresso della cucina, vi entrò e richiuse la porta. Scoprì che ci stava a malapena. Contò undici scope. Cosa diavolo se ne facevano di tante scope? Si ammonì di stare calmo, ma il crepitio proveniente dalla cucina e l'odore del fuoco gli davano le palpitazioni. Cercò di contare fino a centoventi, come aveva programmato, ma non ci arrivò mai. Non intendeva morire in un ripostiglio viennese per le scope. Spalancò la porta e si lanciò in corridoio attraverso una nebbia di fumo oleoso. Udì il grido della guardia nell'atrio, poi un altro. Cristo, erano in due. «Al fuoco!» urlò salendo di corsa le scale. Udì porte che si aprivano, gente che correva. Secondo piano. Terzo piano. Ora doveva contare sul fatto che gli uomini delle SS austriache si dessero il cambio come tutti gli altri. Giunto a metà della rampa fra il quarto e il quinto piano, cominciò a gridare: «Polizia! Polizia!». Un uomo dalla testa rotonda in maniche di camicia si precipitò di corsa lungo il corridoio con una Luger in mano. «Che cosa succede?» «Apra queste porte! L'albergo è in fiamme.»
«Cosa?» Arretrò di un passo. Apra le porte? «Si sbrighi. Ha le chiavi? Me le dia. Ora vada, di corsa, per l'amor di Dio!» «Devo...» Morath il poliziotto non aveva tempo da perdere. Lo afferrò per la camicia e lo trascinò di corsa in fondo al corridoio. «Vada a svegliare i suoi ufficiali. Subito! Non c'è tempo da perdere.» Quella frase, per chissà quale ragione, ottenne il suo scopo. L'uomo infilò la Luger nella fondina ascellare e si lanciò giù per le scale gridando: «Al fuoco!». Nicholas cominciò ad aprire le porte - i numeri delle stanze, grazie al cielo, erano sulle chiavi. La prima era vuota. Nella seconda c'era un uomo delle SS, che si drizzò a sedere sul letto e fissò Morath in preda al terrore. «Cosa? Che succede?» «L'albergo è in fiamme. Le conviene uscire.» «Oh.» Sollevato dal fatto che era soltanto un incendio. Che cosa aveva pensato? Il fumo era arrivato in corridoio. L'uomo delle SS lo superò trotterellando. Indossava un pigiama a righe e reggeva una pistola mitragliatrice per la cinghia. Morath trovò un'altra camera vuota, e finalmente, in quella successiva, Kolovitzky nell'atto di aprire la finestra. «Non così» gli disse. «Venga con me.» Kolovitzky si voltò. Non era lo stesso uomo che aveva suonato il violino alla festa della baronessa; quest'uomo era vecchio, stanco e impaurito, e indossava un paio di bretelle sopra una camicia lurida. Studiò Morath in volto - stavano giocandogli un altro scherzo, uno che non avevano ancora sperimentato su di lui? «Sono qui per lei» lo rassicurò Nicholas. «Ho incendiato io l'albergo.» Kolovitzky capì. «Blanche» disse. «Hanno altri prigionieri?» «Ce n'erano altri due, ma sono andati via ieri.» Udirono le sirene e corsero via, tossendo e coprendosi la bocca con le mani, scendendo le scale attraverso il fumo sempre più denso. La strada di fronte allo Schoenhof era nella confusione più assoluta. Autopompe, vigili del fuoco che trascinavano gli idranti nell'albergo, poliziotti, gruppi di curiosi, un uomo che indossava soltanto una coperta, due don-
ne in accappatoio. Nicholas condusse Kolovitzky attraverso la Mauerplatz, quindi in una strada laterale. Mentre si avvicinavano, il conducente della Opel malconcia avviò il motore. Kolovitzky salì sul sedile posteriore, Morath su quello davanti. «Salve, Rashkow» disse. «Chi è?» domandò quel mattino Kolovitzky guardando Rashkow che innaffiava un albero sul bordo della strada. «Viene da Odessa» spiegò Morath. Il «povero piccolo Rashkow», come lo chiamava Balki, che aveva venduto titoli ferroviari zaristi e il romanzo incompiuto di Tolstoj ed era finito in una prigione ungherese. Nicholas si era rivolto a Sombor per farlo uscire di galera. «Con quella faccia» disse Kolovitzky «dovrebbe venire a Hollywood.» Rashkow seguiva le strade sterrate delle campagne austriache. Una giornata di luglio, con il verde acceso dei germogli delle barbabietole e delle patate che percorreva i campi ondulati. Soltanto una sessantina di chilometri per il confine ungherese a Bratislava. O Presburgo, a seconda delle preferenze, oppure Poszony. Sul sedile posteriore, Kolovitzky fissava il passaporto austriaco con la sua fotografia. «Pensa che mi stiano cercando?» «Sì.» Si fermarono molto prima del ponte sul Danubio, a Petrzalka, un tempo stazione doganale ceca, ora parte del Protettorato Slovacco. Abbandonarono l'auto, si rifugiarono in una camera in affitto sopra un caffè e indossarono abiti scuri. Quando ridiscesero, una Mercedes Grosser con targa diplomatica ungherese li stava aspettando. Al volante c'era l'autista di uno dei colleghi di Bolthos a Budapest. Alla frontiera c'era uno sciame di SS austriache che fumavano, ridevano e si pavoneggiavano nei loro stivaloni alti e lucidi. Ma l'autista li ignorò. Rallentò fino a fermarsi davanti alla dogana e allungò i quattro passaporti fuori dal finestrino. La guardia doganale si portò un dito alla visiera del berretto, lanciò una rapida occhiata all'interno dell'auto e glieli riconsegnò. «Bentornato a casa» disse l'autista a Kolovitzky mentre attraversavano il fiume verso la riva ungherese. Il violoncellista piangeva. Una cena di mezzanotte in Rue Guisarde. Mary Day sapeva che i treni in transito dalla Germania erano in ritardo, e l'aveva programmata. Portò in tavola un piatto di prosciutto, un'insalata e
una baguette. «E questa l'hanno consegnata ieri» disse prendendo una bottiglia di vino dall'armadietto e un cavaturaccioli dal cassetto. «L'avrai ordinata per telefono» soggiunse. «Gentile da parte tua, pensare a noi due nel bel mezzo di... qualunque cosa fosse.» Un Echézeaux del 1922. «È quello che volevi?» «Sì» rispose lui sorridendo. «Sei proprio in gamba, Nicholas» disse lei. «Davvero, lo sei.» FINE