Wilbur Smith
Figli Del Nilo Warlock © 2001
Al mio nuovo amore, Mokhiniso, spirito di Gengis Khan e di Omar Khayyam rei...
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Wilbur Smith
Figli Del Nilo Warlock © 2001
Al mio nuovo amore, Mokhiniso, spirito di Gengis Khan e di Omar Khayyam reincarnato in una luna lucente come una perla perfetta COME un serpente che distende sinuoso le sue spire, una fila di carri da combattimento correva lungo la pista tortuosa, scendendo verso il fondovalle. Il ragazzo, aggrappato alla sponda anteriore del carro di testa, alzò gli occhi sulle pareti di roccia che sembravano serrarsi su di loro in una morsa. La pietra scabra era crivellata di fori d'accesso alle tombe antiche, fitte come le celle di un'arnia. Quei pozzi di tenebre lo fissavano come gli occhi implacabili di una legione di jinn. Il principe Nefer Memnone rabbrividì e, con un furtivo segno di scongiuro della mano sinistra, distolse lo sguardo. Lanciando un'occhiata alle proprie spalle, lungo la colonna, vide che Taita si trovava sul carro immediatamente dietro il suo e, circondato da vortici di polvere, lo stava osservando. Il vecchio e il suo carro erano coperti da un velo di polvere chiara, ma un raggio di sole, l'unico che riuscisse a penetrare in quella valle stretta e profonda, scintillò sulle particelle di mica e colpì Taita, facendolo brillare come se fosse l'incarnazione di un dio. Nefer abbassò la testa di scatto, provando un senso di vergogna, quasi di colpa, al pensiero che il vecchio si fosse accorto di quel fuggevole timore superstizioso. Nessun principe della casa di Tamose avrebbe mostrato una simile debolezza, soprattutto se, come lui, si fosse trovato alle soglie della virilità. D'altronde Taita lo conosceva meglio di chiunque altro, perché era il suo tutore fin dall'infanzia e gli era stato più vicino dei genitori o dei fratelli. L'espressione di Taita sembrava distaccata, eppure, anche a quella distanza, i suoi occhi sembravano penetrare sino in fondo all'animo di Nefer, vedere tutto e comprendere Wilbur Smith
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tutto. Nefer tornò a guardare in avanti, ergendosi in tutta la sua altezza al fianco del padre, che tirò le redini, incitando i cavalli con uno schiocco della lunga frusta. E d'un tratto la valle si allargò di fronte a loro, formando il grande anfiteatro che accoglieva le rovine della città di Gallala. Nel vedere per la prima volta quel famoso campo di battaglia, Nefer venne quasi travolto dall'emozione. Taita aveva combattuto in quel luogo, a fianco del semidio Tanus Harrab, colui che aveva annientato le forze oscure incombenti sul loro stesso Paese, l'Egitto. Tutto ciò era avvenuto oltre sessant'anni prima, ma Taita aveva raccontato la battaglia a Nefer in ogni minimo dettaglio, e il suo racconto era stato così vivido che il giovane aveva avuto l'impressione di trovarsi lì, di essere stato spettatore di quel giorno fatale. Il padre di Nefer, il dio e Faraone Tamose, eseguì la manovra per condurre il carro a ridosso della porta ormai in rovina, poi tirò le redini per fermare i cavalli. Alle sue spalle, cento carri, l'uno dopo l'altro, eseguirono la stessa manovra, tutti alla perfezione, e i conducenti scesero a frotte per abbeverare i cavalli. Quando il Faraone parlò, lo strato di polvere che si era formato sulle guance prese a sgretolarsi, facendogli cadere una cascatella di sabbia sul petto. «Dobbiamo ripartire prima che il sole sfiori la cima delle colline», esclamò, rivolto al Gran Leone d'Egitto, il nobile Naja, comandante dell'esercito e suo compagno prediletto. «Desidero attraversare di notte le dune che ci separano da El Gabar.» Poi il Faraone Tamose guardò Nefer. La corona azzurra di guerra, costellata di pagliuzze di mica, scintillava sulla sua testa e gli occhi iniettati di sangue erano segnati agli angoli da minuscoli grumi di terriccio umido di lacrime quando disse al figlio: «È da qui che ti lascerò proseguire con Taita». Nefer aprì la bocca come per protestare, ma già sapeva che ogni tentativo di opporsi sarebbe stato inutile. Lo squadrone doveva proseguire per affrontare il nemico. Il piano di battaglia del Faraone Tamose era stato tracciato: le truppe avrebbero descritto un cerchio in direzione sud, superando le Grandi Dune e passando tra i laghi amari di natron per sorprendere il nemico alle spalle. Poi avrebbero aperto un varco proprio al centro dello schieramento avversario: attraverso quel varco si sarebbero riversate le truppe egizie, ammassate in attesa sulla riva del Nilo, di fronte ad Abnub. Tamose avrebbe così riunito i due eserciti e, prima che il nemico potesse riprendersi dal colpo subito, avrebbe proseguito oltre Tell Wilbur Smith
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el Daba per conquistare la fortezza nemica di Avaris. Era un piano brillante e audace che, se fosse riuscito, avrebbe posto fine alla guerra con gli hyksos che infuriava già da due generazioni. A Nefer avevano insegnato che due erano i motivi della sua esistenza sulla terra, il combattimento e la gloria; eppure, sebbene avesse già quattordici anni, non gli era stato ancora consentito di dar prova del suo valore. Desiderava con tutta l'anima cavalcare incontro alla vittoria e all'immortalità a fianco del padre, ma, prima ancora che le proteste potessero uscirgli di bocca, il Faraone gli chiese: «Qual è il primo dovere di un guerriero?» Nefer abbassò gli occhi. «E' l'obbedienza, maestà», mormorò, con riluttanza. «Non dimenticarlo mai.» Il Faraone annuì e distolse lo sguardo. Il ragazzo si sentì disprezzato e respinto. Aveva gli occhi che bruciavano e il labbro superiore che gli tremava, ma lo sguardo di Taita lo spinse a ricomporsi. Allora sbatté le palpebre e, dopo aver bevuto dall'otre appeso alla sponda laterale del carro, si rivolse al vecchio mago, scuotendo con aria spavalda i riccioli incrostati di polvere. «Mostrami il monumento, Tata», gli ordinò. Quella coppia singolare passò attraverso la folla di carri, uomini e cavalli che si ammassava nell'angusta strada della città in rovina. Venti soldati, nudi per sopportare meglio il caldo torrido, si erano calati nei profondi pozzi scavati nel terreno, formando una catena di secchi per portare in superficie l'acqua, scarsa e amara. Un tempo, quei pozzi erano stati tanto generosi da alimentare la vita di una città ricca e popolosa, situata sulla strada commerciale tra il Nilo e il mar Rosso. Poi, alcuni secoli prima, un terremoto aveva sconvolto la falda acquifera, bloccando la corrente sotterranea, e la città di Gallala era morta di sete. Ormai l'acqua era appena sufficiente a placare la sete di duecento cavalli e riempire gli otri prima che i pozzi si prosciugassero. Taita condusse Nefer attraverso i vicoli, passando davanti a templi e palazzi ormai abitati soltanto da lucertole e scorpioni, fino a raggiungere la piazza centrale. Al centro sorgeva il monumento eretto in onore del nobile Tanus e del suo trionfo sulle schiere di banditi che avevano quasi messo in ginocchio la nazione più ricca e potente della terra. Il monumento era una bizzarra piramide di teschi umani, saldati insieme e protetti da alcune lastre di roccia rossa. Mille e più teschi fissavano sogghignando il ragazzo, mentre lui leggeva a voce alta l'iscrizione sul portico di pietra. Wilbur Smith
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LE NOSTRE TESTE RECISE RAMMENTANO LA BATTAGLIA AVVENUTA IN QUESTO LUOGO, DOVE SIAMO PERITI SOTTO LA SPADA DI TANUS HARRAB. GRAZIE ALLE IMPRESE DI QUEL NOBILE GLORIOSO, POSSANO LE GENERAZIONI FUTURE COMPRENDERE LA GLORIA DEGLI DEI E IL POTERE DEI GIUSTI. COSÌ FU DECRETATO NEL QUATTORDICESIMO ANNO DI REGNO DEL DIVINO FARAONE MAMOSE Accovacciato all'ombra del monumento, Taita osservò il principe che girava intorno al singolare monumento, soffermandosi a intervalli di pochi passi, coi pugni piantati sui fianchi, per studiarlo da tutte le angolazioni. Sebbene l'espressione di Taita fosse distaccata, i suoi occhi erano pieni di affetto. Il suo amore per Nefer veniva da lontano, sgorgava dalla vita di altre due persone. Anzitutto da quella di Lostris, regina d'Egitto. Taita era un eunuco, ma era stato castrato dopo la pubertà, e quindi sapeva bene che cosa voleva dire amare una donna. A causa della mutilazione subita, però, l'amore di Taita era puro, e lui lo aveva riversato interamente su Lostris, la nonna di Nefer. Si trattava di un amore così totale che, persino in quel momento, a vent'anni dalla morte di Lostris, la regina costituiva ancora il centro dell'esistenza di Taita. L'altra persona era il nobile Tanus Harrab, l'uomo in onore del quale era stato eretto quel monumento. Per Taita era stato più di un fratello. Ormai Lostris e Tanus erano morti, ma il loro sangue era unito nelle vene del ragazzo. Da quell'unione illecita di tanto tempo prima era infatti nato il bambino che, crescendo, era diventato il Faraone Tamose, e ora guidava lo squadrone di carri che li aveva portati fin lì: il padre del principe Nefer. «Tata, fammi vedere dove hai catturato il capo di quei banditi.» La voce di Nefer era incrinata dall'eccitazione e dalle avvisaglie della pubertà. «E' stato qui, vero?» Il ragazzo corse verso il muro diroccato sul lato meridionale della piazza. «Raccontami di nuovo la storia.» «No, è successo qui. Da questa parte.» Taita si alzò, avviandosi con le gambe lunghe da cicogna verso il muro orientale e levando lo sguardo verso la sommità diroccata. «Il bandito si chiamava Shufti, ed era guercio e brutto come il dio Seth. Cercava di sfuggire al combattimento Wilbur Smith
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arrampicandosi su quel muro, lassù...» Si chinò a raccogliere tra le rovine un mezzo mattone di fango, cotto nella fornace, e all'improvviso lo lanciò oltre la sommità del muro imponente. «Gli spaccai il cranio e lo trascinai giù con un colpo solo.» Sebbene Nefer conoscesse per esperienza la forza del mago e sapesse che la sua capacità di resistenza era leggendaria, rimase sbalordito da quel lancio. È vecchio come le montagne, più vecchio di mia nonna, giacché l'ha allevata come ha fatto con me, rifletté, meravigliato. Si dice che abbia assistito a duecento inondazioni del Nilo e abbia costruito le piramidi con le sue stesse mani. Poi, a voce alta, domandò: «Gli hai staccato la testa, Tata, e l'hai messa su quella pila laggiù?» E indicò il macabro monumento. «Conosci bene questa storia... Devo avertela raccontata almeno cento volte», si schermì Taita. Ma il ragazzo sapeva che quella riluttanza, in apparenza dettata dalla modestia, non era sincera. «Racconta di nuovo!» gli ordinò allora. E Taita si sedette su un blocco di pietra, mentre il ragazzo si accovacciava ai suoi piedi, felice di ascoltare per l'ennesima volta quel racconto e bevendo avidamente le parole dell'eunuco finché i corni d'ariete dello squadrone non lanciarono un richiamo, con uno squillo che s'infranse in echi sempre più fiochi lungo le pareti di roccia nera. «Il Faraone ci chiama», disse Taita, alzandosi per ricondurre il ragazzo oltre la porta. Fuori delle mura c'era un gran trambusto: lo squadrone si stava preparando al percorso che lo attendeva in mezzo alle dune. Gli otri erano nuovamente gonfi d'acqua, mentre i soldati controllavano e stringevano le cinghie degli equipaggi prima di risalire sui carri. Quando i due uscirono dalla porta della città in rovina, il Faraone Tamose guardò al di sopra dei suoi uomini e, con un cenno, chiamò Taita. Insieme, i due si allontanarono per non farsi sentire dagli ufficiali. Il nobile Naja si mosse per raggiungerli, ma Taita sussurrò una parola all'orecchio del Faraone e Tamose si voltò, congedando il comandante dell'esercito con poche, brusche parole. Il nobile arrossì, mortificato, poi lanciò a Taita un'occhiata feroce e pungente come una freccia da guerra. «Hai offeso Naja. Un giorno potrei non essere abbastanza vicino da riuscire a proteggerti», mormorò il Faraone all'eunuco. «Non possiamo fidarci di nessuno», borbottò Taita. «Almeno finché non avremo schiacciato la testa al serpente del tradimento che serra le sue spire intorno alle colonne del tuo palazzo. Finché non tornerai da questa Wilbur Smith
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campagna al nord, soltanto noi due dobbiamo sapere dove porterò il principe.» «E neanche Naja dovrà saperlo?» Il Faraone scoppiò a ridere, come per liquidare le ansie del vecchio. Naja per lui era come un fratello: avevano percorso insieme la Via Rossa. «Neanche Naja», ribadì Taita. I suoi sospetti si andavano facendo sempre più concreti, ma non aveva ancora raccolto tutte le prove di cui aveva bisogno per convincere Tamose. «Il principe sa per quale motivo vi addentrerete nella desolazione del deserto?» domandò il Faraone. «Sa soltanto che andremo a completare la sua istruzione e a catturare il falco sacro.» «Ah, mio buon Taita!» esclamò il Faraone. «Tu sei sempre stato molto misterioso, eppure mai bugiardo. Non c'è altro da dire, visto che abbiamo già detto tutto. Ora va', e possa Horus stendere le sue ali su te e Nefer.» «Guardati le spalle, maestà, perché, in questi giorni, i nemici sono dietro di te, oltre che di fronte.» Il Faraone posò la mano sul braccio del mago, stringendo con forza. Sotto le sue dita, il braccio era sottile, ma duro e vigoroso come un ramo secco di acacia. Poi Tamose tornò verso Nefer, che lo attendeva accanto alle ruote del carro reale. Il ragazzo aveva l'aria offesa di un cucciolo al quale è stata negata la possibilità di giocare. «Divina maestà», disse, «nello squadrone ci sono uomini più giovani di me...» Fece un ultimo, disperato tentativo per convincere il padre che era suo dovere accompagnare i carri. Il Faraone naturalmente sapeva che il ragazzo aveva ragione. Meren, nipote dell'illustre generale Kratas, era nato tre giorni dopo Nefer, eppure già cavalcava insieme col padre, come portatore di lancia in uno dei carri della retroguardia. «Quando mi consentirai di venire in battaglia con te, padre?» «Forse quando avrai percorso la Via Rossa. A quel punto, nemmeno io potrò impedirtelo.» Era una promessa vana, e lo sapevano entrambi. Percorrere la Via Rossa era la prova di abilità più ardua che si potesse affrontare coi cavalli e con le armi, e pochi guerrieri l'avevano superata. Si trattava di una prova durissima, che fiaccava, sfiniva e a volte uccideva persino un uomo nel fiore degli anni e addestrato alla perfezione. Quel giorno era molto lontano Wilbur Smith
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per Nefer. Poi l'espressione temibile del Faraone si raddolcì. Serrò il braccio del figlio nell'unico segno di affetto che poteva permettersi davanti alle truppe. «Ora ti ordino di andare con Taita nel deserto per catturare il falco sacro e dimostrare così che nelle tue vene scorre sangue reale e che avrai il diritto di portare, un giorno, la corona doppia.» Nefer e il vecchio rimasero immobili presso le mura diroccate di Gallala, osservando la colonna che sfilava davanti a loro. La guidava il Faraone, con le redini avvolte intorno ai polsi e proteso all'indietro per resistere alla spinta dei cavalli: era a torso nudo, col gonnellino di lino che schioccava al vento intorno alle gambe muscolose e, sul capo, la corona azzurra di guerra che lo rendeva simile a un dio. Subito dietro di lui veniva il nobile Naja, col grande arco ricurvo appeso alla spalla. Aveva un portamento fiero e orgoglioso ed era alto e bello quasi quanto il Faraone. Inoltre era uno dei guerrieri più temibili dell'intero Egitto: quel nome, Naja, gli era stato infatti conferito come titolo d'onore, giacché così si chiamava il cobra che campeggiava sull'ureo, la corona reale. Il Faraone Tamose gli aveva dato quel titolo il giorno stesso in cui avevano superato insieme la prova della Via Rossa. Naja non si degnò di lanciare neanche un'occhiata in direzione di Nefer. Il carro del Faraone era già sparito nella bocca della gola oscura prima che l'ultimo veicolo della colonna passasse oltre il punto in cui era fermo il giovane principe. Meren, suo amico e compagno di tante avventure proibite dell'infanzia, gli rivolse una risata di scherno e un gesto osceno, poi, gridando per farsi sentire al di sopra del cigolio e del frastuono delle ruote, gli disse: «Ti porterò la testa di Apepi come giocattolo!» Mentre l'amico si allontanava, sfrecciando sul carro, Nefer ebbe un moto di stizza. Apepi era il re degli hyksos, e lui, Nefer, non aveva bisogno di giocattoli; era un uomo, ormai, anche se il padre si rifiutava di riconoscerlo. Taita e il ragazzo rimasero in silenzio a lungo dopo che il carro di Meren fu scomparso e la polvere si fu posata. Poi l'eunuco si voltò per tornare verso il punto in cui erano legati i cavalli. Strinse la sopraccinghia intorno al petto della sua cavalcatura, poi sollevò le gonne e salì col movimento agile di un uomo assai più giovane. Una volta in groppa alla giumenta, parve diventare tutt'uno con l'animale. Nefer rammentò la leggenda Wilbur Smith
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secondo la quale era stato proprio lui, Taita, il primo egizio a padroneggiare le arti equestri. E infatti portava ancora il titolo di Maestro dei Mille Carri, che gli era stato concesso insieme con l'Oro del Valore da due Faraoni, in due regni diversi. Senza dubbio era uno dei pochi uomini che osassero cavalcare. La maggior parte degli egizi aborriva quella pratica, considerandola poco dignitosa, se non oscena, per non parlare poi dei rischi che comportava. Nefer non si faceva tanti scrupoli e, mentre saliva con un balzo in groppa al suo puledro preferito, Guardastella, sentì che il malumore cominciava a svanire. Quando ebbero raggiunto la cima delle colline che sovrastavano la città in rovina era quasi tornato se stesso, vivace come al solito. Lanciò un'ultima occhiata di rimpianto al minuscolo pennacchio di polvere sollevato all'orizzonte settentrionale dalla marcia dello squadrone, poi voltò risolutamente le spalle. «Dove andiamo, Tata?» domandò. «Hai promesso di dirmelo, una volta in viaggio.» Taita era sempre stato misterioso e reticente, eppure mai tanto quanto si era mostrato a proposito della meta di quel viaggio. «Andiamo a Gebel Nagara», gli rispose. Nefer non aveva mai sentito quel nome prima di allora, e lo ripeté a bassa voce, come se fosse magico, incantato. Si sentì percorrere da un brivido di eccitazione e d'ansia e fissò il deserto che si stendeva davanti a lui. Una miriade di colline aspre e frastagliate si protendeva verso l'orizzonte azzurrino, velato dalla calura e dalla distanza. I colori di quelle rocce nude, luminose come il cristallo, lasciavano sbalorditi, svariando dal blu cupo delle nubi temporalesche a quel particolare giallo che spicca sul piumaggio degli uccelli e al rosso intenso delle carni ferite. Il caldo le faceva fremere e danzare, rendendole simili a miraggi. Taita fece scorrere lo sguardo all'intorno con un empito di nostalgia, come se tornasse a casa. Proprio lì, in quella zona selvaggia, si era ritirato dopo la morte della diletta regina Lostris. All'inizio aveva cercato unicamente la solitudine, rintanandosi proprio come avrebbe fatto un animale ferito. Ma il passare del tempo e l'attenuarsi del dolore lo avevano spinto ad approfondire i misteri del grande dio Horus, a percorrerne la strada. Si era rifugiato nel deserto quand'era medico e chirurgo, maestro nelle scienze note agli uomini. Ma lì, da solo, in quella landa desolata, aveva scoperto la chiave per aprire le porte dello spirito e della mente, porte oltre le quali ben pochi uomini osavano spingersi. Vi era andato da Wilbur Smith
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uomo, e ne era tornato da servo del grande dio Horus, da adepto di misteri strani e arcani, quasi impossibili anche soltanto da immaginare. E aveva deciso di tornare nel mondo degli uomini solo quando la regina Lostris gli aveva fatto visita in sogno, mentre lui dormiva nella sua caverna di Gebel Nagara. Era ridiventata una fanciulla di quindici anni, fresca e ancora intatta, una rosa del deserto in boccio, coi petali cosparsi di rugiada. Persino nel sonno Taita si era sentito gonfiare il cuore d'amore, al punto che quell'emozione minacciava di squarciargli il petto. «Caro Taita», aveva sussurrato Lostris, sfiorandogli la guancia per ridestarlo, «tu sei stato uno dei due uomini che ho amato nella mia vita. Ora Tanus è con me, tuttavia, prima che anche tu possa raggiungermi, c'è ancora un incarico che devo ordinarti di portare a termine. Non mi hai mai deluso e so che non mi deluderai neanche stavolta, vero, Taita?» «Sono ai tuoi ordini, padrona.» La sua stessa voce echeggiò in modo strano. «A Tebe, la mia città dalle cento porte, stanotte è nato un bambino. È il figlio di mio figlio e lo chiameranno Nefer, che significa 'puro e perfetto nel corpo e nello spirito'. È mio desiderio che porti il mio sangue e quello di Tanus sul trono dell'Alto Egitto. Eppure grandi pericoli già si addensano sul capo di quel neonato. Senza il tuo aiuto non potrà riuscire nelle sue imprese. Soltanto tu potrai proteggerlo e guidarlo. Questi anni che hai trascorso in solitudine nel deserto, le arti e le conoscenze che hai acquisito serviranno unicamente a quello scopo. Raggiungi Nefer. Va', ora, presto, e rimani con lui finché non avrai portato a termine il tuo compito. Poi vieni da me, caro Taita. Ti aspetterò, e allora ti sarà restituita anche la tua povera virilità mutilata. Sarai integro e completo, di nuovo al mio fianco, con la tua mano nella mia. Non deludermi, Taita.» «Mai!» aveva gridato lui in sogno. «Finché eri in vita non l'ho mai fatto, e non lo farò certo ora che sei morta.» «Lo so.» Lostris gli aveva rivolto quel sorriso dolce che lo ossessionava ancora, e la sua immagine era svanita, dissolvendosi nella notte del deserto. Taita si era svegliato col viso rigato di lacrime e aveva raccolto i pochi oggetti che possedeva. Si era fermato all'entrata della caverna soltanto per orientarsi in base alle stelle, guardando l'astro luminoso della dea. Settanta giorni dopo la morte della regina, la notte stessa in cui era stato completato il lungo rito dell'imbalsamazione, quella stella era apparsa all'improvviso nel cielo: una grande stella rossa che splendeva là dove Wilbur Smith
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prima non c'era nulla. Su di essa, Taita aveva pronunciato il suo giuramento di obbedienza. Poi si era incamminato nel deserto, verso occidente, in direzione del Nilo e della città di Tebe, la splendida Tebe dalle cento porte. Tutto ciò era accaduto quattordici anni prima e, in quel momento, Taita guardava quei luoghi silenziosi con la consapevolezza che soltanto lì i suoi poteri potevano dispiegarsi in tutta la loro pienezza, consentendogli di assolvere l'incarico che Lostris gli aveva affidato. Soltanto così avrebbe potuto trasmettere almeno una parte di quella forza al principe, perché sapeva che i poteri oscuri contro i quali lo aveva messo in guardia la regina si stavano addensando intorno a loro. «Vieni!» disse al ragazzo. «Andiamo a catturare il tuo falco sacro.» La terza notte dopo la partenza da Gallala, quando la costellazione degli Onagri raggiunse lo zenit nel cielo settentrionale, il Faraone ordinò ai soldati di fermarsi per abbeverare i cavalli e consumare un rapido pasto a base di carne seccata al sole, datteri e gallette di dhurra. Poi richiamò gli uomini perché salissero di nuovo sui carri. Ormai non si poteva più far ricorso ai segnali coi corni d'ariete, giacché erano già entrati nel territorio che veniva pattugliato spesso dai carri degli hyksos. Tutti ripresero il cammino, procedendo al trotto. Mentre avanzavano, il paesaggio cambiò bruscamente. Erano infatti usciti dalle terre aride, tornando alle pendici delle colline che sorgevano nella valle del fiume. Ai loro piedi, scura e lontana al chiaro di luna, scorgevano la striscia di fitta vegetazione che contrassegnava il corso del grande Nilo. Avevano dunque completato l'ampio circuito che aveva permesso loro di aggirare Abnub, e si trovavano alle spalle del nucleo principale delle forze di Apepi, disposto sul fiume. Al confronto degli hyksos, il drappello egizio era davvero esiguo, ma vantava i migliori conducenti di carri dell'esercito di Tamose, e quindi i migliori al mondo. Inoltre poteva contare sul vantaggio della sorpresa. Quando il Faraone aveva proposto quella strategia, annunciando che avrebbe guidato di persona la spedizione, il consiglio di guerra si era opposto con tutta la veemenza che poteva manifestare contro la parola di un dio. Persino il vecchio Kratas, che era stato il guerriero più crudele di tutti gli eserciti d'Egitto, si era ribellato a quel piano. «In nome dello scroto fetido e putrefatto di Seth, non ti ho cambiato i pannolini sporchi per farti Wilbur Smith
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finire tra le braccia di Apepi!» aveva urlato, rivolgendosi al Faraone con un linguaggio che soltanto a lui era consentito usare. «Manda un altro», aveva poi aggiunto, strappandosi la folta barba bianca in segno di sconforto. «Puoi guidare l'irruzione attraverso le colonne nemiche, se ti diverte, ma non voglio che tu ti perda nel deserto e ti faccia divorare dagli spettri e dai jinn. Tu sei l'Egitto. Se Apepi cattura te, cattura tutti noi.» Di tutti i componenti del consiglio, soltanto Naja aveva appoggiato Tamose: del resto, aveva riflettuto il Faraone, Naja gli era sempre stato leale e fedele... Avevano ormai superato il deserto e si trovavano già alle spalle del nemico. All'alba dell'indomani avrebbero lanciato la carica intesa a spezzare in due l'esercito di Apepi, consentendo così ad altri cinque squadroni del Faraone - mille carri in tutto - di raggiungerli attraverso quel varco. A Tamose pareva già di sentire il gusto di miele della vittoria. Prima del prossimo plenilunio avrebbe cenato ad Avaris, nei saloni del palazzo di Apepi. In quel momento, i regni dell'Alto e del Basso Egitto, separati da quasi due secoli, sarebbero stati uniti e Tamose, ormai dominatore anche sul regno del nord - fino ad allora nelle mani di un usurpatore egizio o di un invasore straniero -, avrebbe portato a pieno titolo la corona doppia, con l'approvazione di tutti gli dei. L'aria notturna gli soffiava sul volto, tanto fresca da intorpidire le guance. Il suo portatore di lancia si accovacciò dietro la sponda anteriore del carro, per ripararsi. Gli unici suoni erano il crepitio delle ruote dei carri sul terreno, il lieve tintinnio delle lance nel fodero e, ogni tanto, l'ammonimento sommesso: «Attenzione! Buca!» che veniva passato lungo la colonna. Quando, all'improvviso, si aprì davanti a loro l'ampio uadi di Gebel Wadun, il Faraone arrestò la squadra di carri. Lo uadi, il letto di un fiume in secca, formava una strada liscia e ampia che li avrebbe portati fino alla pianura alluvionale del fiume. Tamose gettò le redini al suo portatore di lancia e scese a terra con un balzo. Si stirò, per sciogliere le giunture irrigidite e doloranti, e, senza neanche voltare la testa, riconobbe il suono del carro di Naja che si avvicinava. Sentì un ordine impartito a bassa voce, le ruote che cigolavano, poi i passi leggeri e sicuri di Naja. «Da qui in poi il rischio di essere scoperti sarà maggiore», disse il comandante dell'esercito non appena fu dietro il Faraone. «Guarda laggiù.» Tendendo il braccio lungo e muscoloso, indicò un punto oltre la spalla di Wilbur Smith
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Tamose. Là dove lo uadi sboccava nella pianura, ai loro piedi, si scorgeva una luce, il lieve bagliore giallo di una lampada a olio. «Quello è il villaggio di El Wadun. È là che le nostre spie ci aspettano per guidarci oltre le sentinelle hyksos. Io ti precederò fino al punto stabilito per l'incontro, così da assicurarmi che la via sia libera. Aspettami qui, maestà. Tornerò subito.» «Vengo con te.» «No, ti prego. Potrebbe esserci un traditore, Mem», ribatté Naja, chiamando il Faraone col nome che aveva portato da bambino. «Tu sei l'Egitto. Sei troppo prezioso per rischiare la vita.» Il Faraone si voltò per guardare quel viso amato, asciutto e attraente. La bocca di Naja si aprì in un sorriso e i denti parvero scintillare alla luce delle stelle. Tamose gli sfiorò la spalla con un gesto leggero di fiducia e di affetto e lo esortò: «Va' in fretta, e ritorna altrettanto in fretta». Naja si portò la mano al cuore prima di tornare di corsa verso il suo carro. Poi, mentre superava il punto in cui si era fermato il sovrano, salutò di nuovo Tamose e questi sorrise, ricambiando il saluto e seguendo con lo sguardo l'amico che scendeva lungo il fianco dello uadi. Quando arrivò sul fondo duro e sabbioso, Naja sferzò i cavalli, che sfrecciarono verso il villaggio di El Wadun. Lasciando una traccia scura sulle sabbie d'argento, il carro scomparve oltre la prima curva dello uadi. Allora il Faraone tornò verso la colonna in attesa e cominciò a parlare sottovoce ai soldati, chiamandone molti per nome, ridendo piano con loro, incoraggiandoli e rassicurandoli. Non c'era da stupirsi se lo amavano, e lo seguivano così volentieri ovunque li guidasse. Il nobile Naja proseguì con prudenza, tenendosi sulla riva destra dello uadi e lanciando, di tanto in tanto, un'occhiata verso la sommità delle colline. Infine vide quello che cercava: una torre di pietra, lievemente inclinata e spazzata dal vento, che si stagliava contro il cielo. Si lasciò sfuggire un grugnito di soddisfazione. Poco più avanti raggiunse il punto in cui, dal fondo dello uadi, si staccava un sentiero appena tracciato, che risaliva tortuoso il ripido pendio fino ai piedi dell'antica torre di guardia. Con un cenno brusco al portatore di lancia, scese dal carro, sistemandosi in spalla il pesante arco della cavalleria. Poi staccò dalla balaustra del carro il recipiente d'argilla che conteneva i tizzoni ardenti e si avviò lungo il sentiero. Era così ben nascosto che, se non avesse conosciuto a memoria Wilbur Smith
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ogni svolta e ogni deviazione del cammino, si sarebbe perso una decina di volte. Finalmente si ritrovò sul bastione superiore della torre, costruita molti secoli prima e ormai semidiroccata. Non si avvicinò all'orlo, perché la parete scendeva a picco verso la valle. Cercò invece la fascina di legna secca che aveva nascosto in una nicchia del muro e la trascinò all'aperto. Costruì in fretta una minuscola piramide di ramoscelli, poi soffiò sui pezzi di carbone custoditi nel recipiente d'argilla e, quando cominciarono a ravvivarsi, sparse sui carboni una manciata di erba secca, che prese fuoco. Il piccolo faro di segnalazione era così acceso. Naja non tentò affatto di nascondersi, anzi si mise in vista, in modo che chiunque guardasse dal basso potesse vederlo stagliarsi contro le fiamme, in cima alla torre. Non appena i ramoscelli furono consumati, le fiamme si spensero, e Naja si sedette ad aspettare nelle tenebre. Improvvisamente sentì un sassolino cadere sul sentiero di pietra sotto le mura e lanciò un fischio acuto. Il segnale fu ricambiato e lui si alzò. Allentò la lama di bronzo della spada a forma di falce che portava nel fodero e incoccò una freccia sull'arco. Pochi istanti dopo, una voce aspra gli rivolse la parola nella lingua degli hyksos. Lui rispose nella stessa lingua e, sulla rampa di pietra, risuonarono i passi di almeno due uomini. Neppure il Faraone sapeva che la madre di Naja era stata una hyksos. Nei decenni dell'occupazione, gli invasori avevano adottato molte abitudini degli egizi. Con una gran quantità di donne tra cui scegliere, molti hyksos avevano preso mogli egizie e, nel corso delle generazioni, il sangue si era mescolato. Sul baluardo c'era un uomo alto, che indossava un elmo di bronzo aderente al cranio e portava, legati alla folta barba, vari nastri multicolori. Gli hyksos amavano i colori vivaci. Spalancò le braccia. «Che il favore di Seueth scenda su di te, cugino!» esclamò con voce roca, mentre Naja avanzava per abbracciarlo. «E possa scendere anche su di te, cugino Trok», replicò Naja. «Ma dobbiamo fare in fretta: abbiamo poco tempo», aggiunse subito, indicando le prime dita di luce dell'alba che accarezzavano il cielo a oriente con la delicatezza di un amante. «Hai ragione, cugino.» Il generale degli hyksos si sciolse dall'abbraccio, voltandosi per prendere un involto di lino dalle mani del luogotenente fermo alle sue spalle. Lo porse a Naja, che, dopo aver ravvivato il fuoco, lo Wilbur Smith
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aprì, ispezionando alla luce delle fiamme la faretra che vi era contenuta. Era ricavata da un legno leggero e resistente, ricoperto di cuoio lavorato con finezza e cucito con maestria: un oggetto degno di un alto ufficiale. Naja l'aprì, facendo ruotare il cappuccio che la chiudeva, e ne estrasse una delle frecce, rigirandone tra le dita l'asta per controllarne l'equilibrio e la simmetria. Le frecce degli hyksos erano inconfondibili. Le piume dell'impennatura erano tinte coi colori vivaci della compagnia degli arcieri, mentre l'asta era marchiata a fuoco col suo sigillo personale. Anche se il primo colpo non fosse stato letale, la punta di selce era seghettata e unita allo stelo in modo tale che, se un chirurgo tentava di estrarre la freccia dalle carni della vittima, l'estremità si staccava, restando conficcata nella ferita, dove s'infettava, causando un'agonia lunga e dolorosa. La selce era molto più resistente del bronzo, per cui non s'inclinava né si schiacciava neanche se colpiva un osso. Naja fece scivolare nuovamente la freccia nella faretra, richiudendola. Non aveva voluto correre il rischio di portare con sé sul carro armi tanto singolari; se fossero state scoperte in mezzo al suo armamentario da un servo o dal portatore di lancia, questi si sarebbero ricordati della loro presenza, e sarebbe stato difficile giustificarla. «C'è ancora molto da discutere.» Si accovacciò, facendo segno a Trok d'imitarlo, e i due confabularono per qualche tempo. Alla fine, Naja si alzò. «Per ora basta. Sappiamo entrambi che cosa dobbiamo fare. È arrivato finalmente il momento di agire.» «Che gli dei arridano alla nostra impresa.» Trok e Naja si abbracciarono di nuovo, poi, senza neppure una parola di commiato, Naja si allontanò e scese con agilità dalla torre, imboccando il sentiero che scendeva dalla collina. Prima di arrivare in fondo al pendio, però, trovò un luogo in cui nascondere la faretra: una nicchia formatasi allorché la roccia era stata spaccata dalle radici di un albero spinoso. Sopra la faretra sistemò una pietra che aveva più o meno le dimensioni di una testa di cavallo. I rami superiori dell'albero, contorti, formavano una croce perfettamente riconoscibile sullo sfondo del cielo notturno. Avrebbe ritrovato quel luogo senza difficoltà. Infine ridiscese il sentiero fino al punto in cui era fermo il carro, in fondo allo uadi. Wilbur Smith
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Il Faraone Tamose vide tornare il carro e, dal modo impetuoso in cui Naja lo guidava, capì che c'era qualcosa di nuovo. Con un cenno, ordinò agli uomini di salire sui carri e di attendere con le armi pronte, preparati ad affrontare qualsiasi eventualità. Il carro di Naja risalì fragorosamente il sentiero dal fondo dello uadi e, nel preciso momento in cui raggiunse il Faraone, il suo conducente balzò a terra. «Che c'è?» domandò Tamose. «Un dono degli dei», esclamò Naja, non riuscendo a nascondere l'eccitazione che gli faceva tremare la voce. «Hanno lasciato Apepi indifeso in nostro potere.» «Com'è possibile?» «Le spie mi hanno condotto verso il luogo in cui è accampato il re nemico, a breve distanza dal punto in cui ci troviamo adesso. Le sue tende si trovano poco oltre la prima linea di colline, laggiù.» Puntò all'indietro la spada sguainata. «Come puoi essere certo che si tratti di Apepi?» Anche Tamose riusciva a stento a controllare l'eccitazione. «L'ho visto bene in faccia, alla luce del fuoco da campo: il grande naso a becco, la barba striata d'argento che scintillava alle fiamme... Un uomo di alta statura come lui è inconfondibile. Domina tutti quelli che gli stanno intorno e porta sulla testa la corona con l'avvoltoio.» «Quali forze ha con sé?» domandò il Faraone. «Con l'arroganza che gli è propria, si circonda di una guardia che conta meno di cinquanta uomini. Li ho contati. Sono mezzi addormentati, con le lance accatastate. Non nutre il minimo sospetto, tanto che i fuochi di guardia brillano vivaci. Una rapida carica nel buio e lo avremo in pugno.» «Portami dove si trova Apepi», ordinò Tamose, balzando sul carro. Naja li guidò, e le morbide sabbie argentee dello uadi attutirono il suono delle ruote, cosicché lo squadrone superò l'ultima curva in un silenzio spettrale. Allora Naja alzò la mano serrata a pugno per ordinare di fermarsi. Il Faraone gli si affiancò, proteso in avanti per parlargli. «Dove si trova il campo di Apepi?» «Oltre la sommità delle colline. Ho lasciato di guardia le spie.» Naja indicò il sentiero che saliva verso la torre di guardia. «Dalla parte opposta Wilbur Smith
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c'è un'oasi nascosta, con un pozzo d'acqua dolce e un boschetto di palme da datteri. Le sue tende sono piantate in mezzo agli alberi.» «Porteremo con noi una piccola pattuglia per sorvegliare il campo. Soltanto allora potremo pianificare l'attacco.» Naja, che aveva previsto quell'ordine, con pochi comandi bruschi scelse una pattuglia di cinque soldati, legati a lui da un giuramento di sangue: gli appartenevano anima e corpo, e lui ne era ben consapevole. «Rivestite di stoffa il fodero delle spade in modo che non faccia rumore», ordinò. «Non dovete farvi sentire.» Poi, con la spada ricurva stretta nella mano sinistra, si avviò sul sentiero, seguito dal Faraone. Salirono in fretta, finché Naja non vide i rami incrociati dell'albero spinoso profilarsi contro il cielo. Allora si fermò di colpo, alzando la destra per imporre il silenzio. «Che cosa c'è?» sussurrò Tamose alle sue spalle. «Mi è sembrato di sentire alcune voci sulla cima... Voci che parlano nella lingua degli hyksos», rispose Naja. «Aspetta qui, maestà, mentre sgombero il sentiero davanti a noi.» Il Faraone e i cinque soldati si misero al riparo, accovacciandosi di lato al sentiero, mentre il nobile Naja proseguiva con andatura furtiva. Aggirò un macigno e la sua figura snella scomparve alla vista. Il tempo passava lentamente e Tamose cominciava a spazientirsi. Stava per sorgere l'alba: ben presto il re degli hyksos avrebbe lasciato il campo, allontanandosi e uscendo dalla loro portata. Balzò in piedi con ansia non appena gli giunse un fischio sommesso. Era l'abile imitazione del richiamo mattutino di un usignolo. Il Faraone brandì la leggendaria spada azzurra. «La via è Ubera», mormorò. «Venite, seguitemi.» Ripresero a salire, e Tamose raggiunse il masso che sbarrava la strada. Vi girò intorno, poi si fermò bruscamente, trovandosi di fronte il nobile Naja, ad appena venti passi di distanza. Erano soli, nascosti dal masso alla vista degli uomini che lo seguivano. L'arco di Naja era teso, con la freccia puntata contro il petto nudo del Faraone. Prima ancora che Tamose potesse muoversi, nella sua mente si delineò, con nettezza assoluta, la verità: era quello il tradimento odioso che Taita, coi suoi poteri di chiaroveggente, aveva fiutato nell'aria. La luce era ormai sufficiente per consentirgli di distinguere i tratti di quel nemico che aveva amato come un amico. La corda dell'arco, tesa contro le labbra di Naja, le torceva in un ghigno spaventoso; gli occhi Wilbur Smith
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color miele erano feroci come quelli del leopardo, mentre fissava il Faraone. L'impennatura della freccia era fatta di piume rosse e verdi, mentre la punta era di selce, affilata come una lama di rasoio alla maniera degli hyksos, fatta per penetrare attraverso il bronzo di un elmo e di una corazza nemica. Possa tu vivere per sempre! Naja formulò quelle parole dentro di sé, come una maledizione, mentre scoccava la freccia, che volò via dall'arco con un ronzio sordo. Sembrava che si muovesse lentamente, come un insetto velenoso. Le piume facevano roteare l'asta, che compì un giro completo mentre superava i venti passi che separavano i due uomini. Sebbene avesse una vista acuta e gli altri sensi affinati dal pericolo mortale in cui si trovava, il Faraone reagì con estrema lentezza: la lentezza di un incubo. Non riuscì quindi a evitare la freccia, che lo colpì al centro del torace, là dove il cuore batteva nella gabbia delle costole. Lo colpì col suono di un masso che piomba nel letto del Nilo ricoperto di limo. L'asta penetrò nel torace per metà della lunghezza. E la violenza dell'impatto fece roteare Tamose su se stesso, scagliandolo contro la roccia rossa del macigno che sbarrava la strada. Per qualche istante, il Faraone si aggrappò a quella superficie scabra, artigliandola con le dita. La punta di selce lo aveva trafitto, trapassandolo da parte a parte. Le piume impregnate di sangue sporgevano dal cordone di muscoli che correva sulla destra della spina dorsale. La spada azzurra gli cadde di mano e dalla bocca aperta gli sfuggì un grido sommesso, soffocato da un fiotto di sangue rosso vivo che sgorgava dai polmoni. A mano a mano che le gambe cedevano sotto il peso del corpo, il Faraone cominciò a scivolare sulle ginocchia, lasciando graffi leggeri con le unghie sulla roccia rossa. Naja scattò in avanti, lanciando un grido selvaggio: «Imboscata! Attenti!» E passò un braccio intorno alle spalle di Tamose, al di sotto della freccia sporgente. Poi, sostenendo il re agonizzante, gridò di nuovo: «Guardie! A me!» Due robusti soldati apparvero subito oltre la roccia, rispondendo al suo richiamo. Videro subito che il Faraone era stato colpito e notarono il fascio di piume alla base della freccia. «Hyksos!» gridò uno di loro, mentre prendevano il Faraone dalle braccia di Naja, e lo trascinavano al riparo della roccia. «Riportate il Faraone sul carro, mentre io tengo a bada il nemico», ordinò Naja. Si girò su se stesso, estraendo un'altra freccia dalla faretra per Wilbur Smith
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scagliarla verso la sommità del sentiero e la cima deserta, lanciando un grido di sfida. Poi rispose a se stesso con un altro grido di sfida soffocato, in lingua hyksos. Infine raccolse la spada azzurra che Tamose aveva lasciato cadere e tornò lungo il sentiero per raggiungere il gruppetto di soldati che stava portando il re verso i carri in attesa nello uadi. «Era una trappola», spiegò in tono concitato. «La cima della collina brulica di nemici. Dobbiamo portare in salvo il Faraone.» Ma, dal modo in cui la testa di Tamose ciondolava sulle spalle, capì che ormai non c'era più nulla da fare, e il suo petto si gonfiò di trionfo. Poi la corona azzurra di guerra cadde dalla fronte del sovrano, rimbalzando sul sentiero e Naja la raccolse mentre correva oltre, lottando contro la tentazione di posarla sulla propria testa. Pazienza. Il tempo non è ancora maturo per questo, si rimproverò in silenzio. Ma l'Egitto è già mio, con tutte le sue corone, lo sfarzo e il potere. Ora l'Egitto sono io. Sono diventato parte della divinità. Tenne stretta la corona sotto il braccio, con un gesto protettivo, mentre gridava: «Presto! Il nemico c'insegue da vicino! Fate presto! Il re non deve cadere nelle loro mani!» Le truppe in basso avevano sentito le grida nel silenzio dell'alba, e un medico si trovava già in attesa vicino alla ruota del carro del Faraone. Era stato addestrato da Taita e, sebbene gli mancassero i poteri magici del vecchio, era un medico abile e avrebbe potuto tamponare anche una ferita terribile come quella che squarciava il petto del Faraone. Il nobile Naja, tuttavia, non intendeva correre il rischio di vedere Tamose ritornare dall'aldilà, così ordinò bruscamente al medico di allontanarsi. «Il nemico ci è già addosso, ora non c'è tempo per le tue stregonerie. Dobbiamo riportare il Faraone al sicuro dietro le nostre linee, prima che ci raggiungano.» Sollevò con delicatezza il re dalle braccia degli uomini che lo trasportavano, per deporlo sul fondo del proprio carro, poi estrasse l'asta della freccia che sporgeva dal petto del re e la tenne sollevata, in modo che tutti gli uomini potessero vederla bene. «Questo strumento malefico ha colpito il Faraone, nostro dio e nostro re. Possa Seth dannare il porco hyksos che l'ha lanciata, e possa egli bruciare tra le fiamme eterne per mille anni.» I suoi uomini assentirono, lanciando un grido di guerra. Naja avvolse con cura la freccia in un panno di lino, sistemandola nel contenitore addossato alla sponda laterale del carro. Doveva consegnarla al consiglio di guerra, a Tebe, perché confermasse il suo rapporto sulla morte di Tamose. Wilbur Smith
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«Un brav'uomo qui, per sostenere il Faraone», chiamò. «E trattatelo con grande precauzione...» Mentre il portatore di lancia del Faraone si faceva avanti, Naja sganciò la cintura che Tamose portava alla vita per sorreggere la spada azzurra, sistemandola con cura nel proprio contenitore delle armi. Il portatore di lancia balzò sul carro, cullando la testa di Tamose, ma il sangue continuava a sgorgare gorgogliando dall'angolo della bocca, mentre il carro percorreva un cerchio e ripartiva per tornare, a tutta velocità, lungo il letto asciutto del fiume, col resto dello squadrone che faticava a stargli dietro. Per quanto fosse sorretto dalle braccia forti del suo portatore di lancia, il corpo inerte del Faraone subiva scosse brutali. Rivolto in avanti, in modo che nessuno potesse vedere la sua espressione, Naja rise piano, e il suono di quella risata venne coperto dallo stridore delle ruote e dagli schianti del telaio contro i sassi che lui non faceva il minimo sforzo per evitare. Lasciato lo uadi, proseguirono di gran carriera verso le dune e i laghi di natron. Era giorno pieno e il sole di un biancore abbagliante aveva già raggiunto il centro del cielo, quando Naja permise alla colonna di fermarsi e al medico di avvicinarsi per esaminare il re. Ma non c'era bisogno di possedere doti straordinarie per decretare che lo spirito del Faraone aveva lasciato da tempo il corpo per cominciare il viaggio verso l'aldilà. «Il Faraone è morto!» annunciò il medico a bassa voce, rialzandosi con le mani coperte di sangue fino ai polsi. Un grido terribile di lutto si levò in testa alla colonna, percorrendola poi per tutta la sua lunghezza. Naja lasciò i soldati liberi di esprimere il loro dolore, poi mandò a chiamare i comandanti delle truppe. «Lo Stato è privo di una guida», annunciò loro. «L'Egitto è in grave pericolo. Dieci dei carri più veloci devono riportare in tutta fretta il corpo del Faraone a Tebe. Devo guidarli io, perché può darsi che il consiglio voglia affidarmi il compito di reggente per conto del principe Nefer.» Stava gettando i primi semi del suo dominio e, dall'espressione di rispetto dei comandanti, capì che quei semi avevano messo radici quasi subito. Allora, assumendo un'espressione grave, intonata alle tragiche circostanze che li avevano travolti, proseguì: «Il medico deve avvolgere il cadavere del re nelle bende prima che io possa riportarlo a casa, al tempio dove si svolgeranno i riti funebri, ma, nel frattempo, dobbiamo trovare il principe Nefer per informarlo della morte del padre e della sua Wilbur Smith
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successione. Questo è il problema più urgente dello Stato e del mio compito di reggente». Aveva già assunto quel titolo con disinvoltura, e nessuno lo contestò né s'insospettì. Naja svolse un rotolo di papiro, con la mappa del territorio da Tebe fino a Menfi, e la distese sulla sponda anteriore del carro, esaminandola con attenzione. «Dovete dividervi per esplorare il Paese in cerca del principe. Credo che il Faraone lo abbia inviato nel deserto insieme con l'eunuco perché compisse i riti della virilità, quindi concentreremo la nostra ricerca qui, da Gallala, dove lo abbiamo visto per l'ultima volta, verso il sud e l'est.» Con l'occhio abile del comandante di eserciti, Naja delimitò l'area della ricerca e ordinò di disporre sul territorio una rete di carri con l'incarico d'individuare il principe. Lo squadrone tornò a Gallala sotto la guida del nobile Naja, seguito dal carro che trasportava il corpo parzialmente imbalsamato del Faraone. In riva al lago di natron, Waifra, il chirurgo, aveva praticato sul cadavere del re il tradizionale taglio sul fianco sinistro, attraverso il quale aveva rimosso le viscere e gli organi interni. Il contenuto dello stomaco e dell'intestino era stato lavato nell'acqua viscosa e salmastra del lago, poi tutti gli organi erano stati immersi nei cristalli bianchi di natron, raccolti sulle rive del lago, e chiusi negli otri di argilla che si usavano per il vino. Anche l'interno del cadavere era stato cosparso di sali di natron, dopodiché il corpo era stato avvolto in fasce di Uno inumidite e immerse nei sali. Una volta raggiunta Tebe, Tamose sarebbe stato trasportato nel tempio funebre e affidato ai sacerdoti e agli imbalsamatori per i settanta giorni rituali di preparazione alla sepoltura. Paventando che la notizia della morte del re giungesse a Tebe prima di lui, Naja s'irritava per ogni minuto perso nel corso del viaggio. Eppure, arrivato alla porta di Gallala, perse altro tempo prezioso per dare istruzioni ai comandanti delle truppe che dovevano intraprendere le ricerche del principe. «Controllate tutte le strade dirette a oriente. L'eunuco è un vecchio abile e scaltro. Avrà coperto le sue tracce, ma voi dovete scovarlo», ordinò agli uomini. «Ci sono alcuni villaggi nelle oasi di Satam e Lakara. Interrogate la popolazione. Vi autorizzo a usare la frusta e i ferri roventi per assicurarvi che non nascondano nulla. Frugate in tutti i luoghi segreti del deserto. Trovate il principe e l'eunuco. Se mi deluderete, lo farete a vostro Wilbur Smith
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rischio e pericolo.» Quando finalmente i comandanti ebbero riempito d'acqua gli otri e furono pronti a guidare le loro divisioni nel deserto, Naja impartì l'ordine finale. Dal tono della voce e dal balenio degli occhi feroci, tutti compresero che quello era l'ordine più importante in assoluto: disobbedire avrebbe significato la morte. «Trovate il principe Nefer e portatelo a me. Non dovete consegnarlo ad altri che a me.» Alle compagnie di carri da combattimento erano stati aggregati alcuni esploratori nubiani, schiavi neri delle terre del sud, abilissimi nell'arte di seguire le tracce di uomini e animali. E furono quegli esploratori che si avviarono al trotto, precedendo i carri che si allargavano a ventaglio sulla sabbia del deserto. Il nobile Naja perse altri minuti preziosi per seguirli con gli occhi. La sua esultanza, infatti, era venata di disagio. Sapeva che il vecchio eunuco, Taita, era un adepto dei misteri e aveva virtù straordinarie. Se c'è un uomo che può fermarmi, ora, è soltanto lui, rifletté. Vorrei poterli cercare di persona, l'eunuco e il moccioso, anziché mandare i miei emissari a battersi contro le trappole e le arti insidiose dello stregone. Ma il destino mi chiama a Tebe, e non oso attendere oltre. Tornò di corsa verso il carro, afferrando le redini. «Avanti!» Col pugno serrato ordinò di avanzare. «In marcia, verso Tebe!» Spronarono i cavalli con tanta foga che, quando discesero il ripido versante delle colline orientali per raggiungere l'ampia pianura alluvionale del fiume, la schiuma si era asciugata sui fianchi ansimanti delle bestie, che avevano gli occhi arrossati e stravolti. Naja aveva ritirato un'intera compagnia di guardie Phat dall'esercito accampato davanti ad Abnub, dando a intendere al Faraone che quelle sarebbero state le riserve strategiche da lanciare nel varco per impedire una riscossa degli hyksos, in caso l'attacco fosse fallito. In realtà, la guardia Phat era la sua divisione speciale, guidata da comandanti legati a lui da un giuramento. Allontanandosi da Abnub avevano obbedito ai suoi ordini segreti e dunque lo attendevano all'oasi di Boss, che distava soltanto due leghe da Tebe. I picchetti di guardia videro la polvere dei carri che si avvicinavano e si prepararono ad affrontarli. Il comandante, Asmor, e i suoi ufficiali andarono incontro al nobile Naja armati di tutto punto e seguiti dalle legioni in armi. «Nobile Asmor!» gridò Naja dal carro. «Ho una notizia terribile da Wilbur Smith
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annunciare al consiglio di Tebe. Il Faraone è stato ucciso da una freccia hyksos.» «Nobile Naja, sono pronto a eseguire i tuoi ordini.» «L'Egitto è come un bimbo senza padre.» Naja fermò il carro di fronte alla fila di uomini piumati e scintillanti e alzò la voce in modo che arrivasse anche ai soldati sul fondo. «Il principe Nefer è ancora un bambino, non è pronto a regnare. L'Egitto ha un disperato bisogno di un reggente che lo guidi, per evitare che gli hyksos approfittino del suo sgomento.» Facendo una pausa, lanciò un'occhiata significativa al colonnello Asmor, che alzò leggermente il mento in segno di riconoscimento della fiducia che Naja riponeva in lui. Gli era stata promessa una ricompensa che superava ogni suo desiderio. Naja alzò la voce finché essa non si trasformò in un grido. «Se il Faraone cade in battaglia, l'esercito ha il diritto di nominare per acclamazione un reggente sul campo.» Poi tacque, restando con un pugno chiuso sul petto e la lancia stretta nell'altra mano. Asmor fece un passo in avanti, voltandosi a guardare le file di guardie armate per la battaglia prima di togliersi l'elmo con un gesto teatrale, scoprendo il viso scuro e severo. Una cicatrice chiara, lasciata da un colpo di spada, gli torceva il naso di lato, e la testa calva era coperta da una parrucca di crini di cavallo intrecciati. Puntando verso il cielo la spada sguainata, gridò con voce tonante, addestrata a superare il frastuono della battaglia: «Nobile Naja! Gloria al reggente dell'Egitto! Gloria al nobile Naja!» Seguì un lungo istante di silenzio attonito, poi la legione eruppe in un boato, simile a quello di un branco di leoni a caccia. «Gloria al nobile Naja, reggente dell'Egitto!» Gli applausi e il ruggito durarono finché il nobile Naja non alzò di nuovo il pugno e, nel silenzio che seguì, si udì chiaramente la sua voce: «Mi fate un grande onore! Accetto la carica che mi conferite». «Bak-her!» gridarono i soldati, battendo sugli scudi con la spada e la lancia e provocando un'eco che si frantumò in un tuono lontano sulle colline della valle. In mezzo a quel frastuono, Naja convocò Asmor. «Disponi sentinelle su tutte le strade. Nessuno dovrà andarsene di qui prima di me. Non una parola di tutto questo deve arrivare a Tebe prima di me.»
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Il viaggio da Gallala aveva richiesto tre giorni di tragitto a ritmo sostenuto. I cavalli erano sfiniti e persino Naja si sentiva esausto, tuttavia si concesse soltanto un'ora di riposo per lavarsi di dosso la polvere del viaggio e cambiare abito. Poi, col volto rasato e i capelli cosparsi di unguento e ben pettinati, salì sul carro cerimoniale che Asmor gli aveva preparato e che era in attesa davanti all'ingresso della tenda. L'oro in foglia che decorava la parte anteriore del carro scintillava alla luce del sole. Naja indossava un gonnellino di lino bianco, con un pettorale d'oro e di pietre semipreziose sul torso nudo e muscoloso. Al fianco portava la leggendaria spada azzurra col fodero d'oro che aveva sottratto al cadavere del Faraone. La lama, affilatissima, era ricavata da un metallo straordinario, più pesante e duro del bronzo: in tutto l'Egitto non ne esisteva un'altra uguale. Un tempo era appartenuta al nobile Tanus Harrab, che l'aveva lasciata in eredità al Faraone. Di tutto il suo abbigliamento, però, il particolare più significativo era quello meno vistoso. Sul braccio destro, fissato con una semplice fascia d'oro sopra il gomito, c'era il Sigillo del Falco Azzurro, che Naja aveva tolto, come la spada, al corpo esanime di Tamose. Come reggente dell'Egitto, aveva infatti diritto di portare quel segno inconfondibile del potere regale. La sua guardia del corpo si schierò intorno a lui, mentre la legione al gran completo si metteva in moto alle sue spalle. Seguito da cinquemila uomini, il nuovo reggente dell'Egitto marciò su Tebe. Asmor gli faceva da portatore di lancia. Era giovane per comandare una legione intera, tuttavia aveva già dato prova di sé in battaglia contro gli hyksos ed era, per Naja, un compagno fraterno. Entrambi avevano sangue hyksos nelle vene. C'era stato un tempo in cui Asmor aveva creduto che il comando di una legione fosse il vertice di tutte le sue ambizioni, ma, essendo ormai giunto alla vetta e vedendosi insignito di un ufficio importante, di un potere quasi senza limiti, non osava neppure pensare a quale sarebbe stata la meta successiva: forse l'elevazione ai ranghi più alti della nobiltà? Non c'era nulla che non fosse disposto a fare: nessuna azione, per lui, era troppo vile o spietata, se affrettava l'ascesa del suo patrono, il nobile Naja, al trono d'Egitto. «Che cosa può ostacolarci, ora, mio vecchio compagno?» Si sarebbe detto che Naja gli leggesse nel pensiero, tanto quella domanda era appropriata. Wilbur Smith
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«I Fiori Gialli hanno eliminato dalla tua strada tutti i principi della casa di Tamose, tutti tranne uno», rispose Asmor, indicando con la lancia le acque del Nilo, grigie e cariche di limo, che scorrevano in direzione delle colline a occidente. «Giacciono laggiù nelle loro tombe, nella Valle dei Nobili.» Tre anni prima, l'epidemia dei Fiori Gialli si era abbattuta sui due regni. La malattia prendeva il nome dalle terribili eruzioni cutanee di colore giallo che coprivano il volto e il corpo degli ammalati, i quali soccombevano alla febbre ardente scatenata dal morbo. Non rispettava nessuno, scegliendo le sue vittime in ogni livello sociale, senza risparmiare né egizi né hyksos, né uomini né donne né bambini, né contadini né principi; li aveva falciati come campi di dhurra nella stagione della mietitura. Ben otto principesse e sei principi della casa di Tamose erano morti: di tutti i figli del Faraone, si erano salvati soltanto due femmine e il principe Nefer Memnone. Era come se gli dei avessero deciso di sgombrare il percorso verso il trono d'Egitto per il nobile Naja. C'era chi giurava che anche Nefer e le sue sorelle sarebbero morti, se non fosse stato per le magie operate dal vecchissimo mago Taita. I tre fanciulli portavano ancora minuscole cicatrici sulla parte superiore del braccio sinistro, là dove lui aveva praticato un taglio, infondendo nel loro sangue il suo magico incantesimo contro i Fiori Gialli. Naja si accigliò. Anche in quel momento di trionfo non smetteva di pensare agli strani poteri del mago. Quell'eunuco aveva scoperto il segreto della vita, era un fatto innegabile. Era vissuto così a lungo che nessuno conosceva la sua vera età, anche se qualcuno sosteneva che avesse cent'anni, e altri addirittura duecento. Eppure camminava ancora, correva e guidava il carro come un uomo nel fiore degli anni; nessuno era più abile di lui nelle discussioni, nessuno lo superava in sapienza. Di certo gli dei lo amavano, e gli avevano concesso il segreto della vita eterna. Una volta diventato Faraone, sarebbe stata quella l'unica cosa che mancava a Naja: la vita eterna. Sarebbe riuscito a estorcerne il segreto a Taita, il mago? Prima però doveva catturarlo e portarlo alla corte insieme col principe Nefer, ma senza fargli del male. Era troppo prezioso. I carri che Naja aveva mandato nel deserto orientale gli avrebbero riportato un trono, sotto forma del principe Nefer, e la vita eterna, nella persona dell'eunuco Taita. Wilbur Smith
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Asmor interruppe le sue riflessioni. «Noi della fedele guardia Phat siamo le uniche truppe a sud di Abnub. Il resto dell'esercito è schierato contro gli hyksos, a nord. Tebe è difesa da una manciata di ragazzi e di vecchi invalidi. Non ci sono ostacoli che possano sbarrarci la strada, reggente.» Qualunque timore che le legioni in armi si vedessero negare l'accesso alla città si rivelò infondato. Non appena le sentinelle riconobbero lo stendardo azzurro, le porte si spalancarono e i cittadini si riversarono fuori per correre incontro ai soldati, reggendo fronde di palma e ghirlande di ninfee. In città si era infatti sparsa la voce che il nobile Naja portava l'annuncio di una grande vittoria su Apepi, re degli hyksos. Ma le grida gioiose di benvenuto cedettero ben presto il posto a selvagge grida di lutto, quando i cittadini videro il cadavere del re disteso a bordo del secondo carro e udirono le grida dei due conducenti di testa: «Il Faraone è morto! È stato ucciso dagli hyksos! Possa egli vivere per sempre!» La folla ululante seguì il carro che trasportava il cadavere del Faraone al tempio funebre, intasando le strade e, nella confusione, nessuno parve notare che il gruppo capeggiato da Asmor aveva sopraffatto le guardie di sentinella alle porte principali, affrettandosi a disporre picchetti a tutti gli angoli e in tutte le piazze. Il carro che portava il corpo di Tamose aveva attirato la folla. Il resto della città, di solito brulicante di persone, era semideserto, e Naja guidò al galoppo la sua squadra di carri attraverso le strade strette e tortuose fino al palazzo sul fiume. Sapeva che tutti i membri del consiglio, apprendendo la terribile notizia, si sarebbero affrettati a raggiungere la sala dell'assemblea. Lasciati i carri all'entrata dei giardini, Asmor e i cinquanta uomini della guardia del corpo si schierarono intorno a Naja: attraversarono il cortile interno marciando in formazione serrata tra gli stagni del giardino d'acqua, pieni di giacinti e pesci che giungevano fin lì dal fiume, scintillanti come gioielli sotto la superficie dell'acqua limpida. L'arrivo di quel gruppo di uomini armati colse alla sprovvista i quattro membri del consiglio che avevano raggiunto la sala prima degli altri. Dalla porta, che non era sorvegliata, Naja li scrutò. Menset e Tal erano vecchi e ormai avevano perso i loro poteri, un tempo temibili; Cinka era sempre stato debole e incerto. Quindi c'era un unico uomo in quella sala col quale doveva confrontarsi. Kratas era il più vecchio di tutti loro, ma era vecchio come può esserlo Wilbur Smith
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un vulcano indomabile. Aveva le vesti in disordine ed era chiaro che si era appena alzato dal letto, ma non vi era andato certo per dormire. Si diceva che fosse ancora in grado di tenere occupate le due giovani mogli e tutte le sue cinque concubine. Naja non ne dubitava, perché la fama delle sue imprese di soldato e di amatore era leggendaria. Le macchie ancora fresche di umidità sul gonnellino di lino bianco che indossava e la dolce fragranza della sensualità femminile che lo circondava erano evidenti anche dal punto in cui si trovava Naja. Le cicatrici che Kratas aveva sulle braccia e sul torace scoperto erano la testimonianza delle cento battaglie combattute e vinte nel corso degli anni. Il vecchio non si curava più nemmeno di portare le numerose catene dell'Oro del Valore e dell'Oro della Lode alle quali aveva diritto. Del resto, quella massa di metallo prezioso lo avrebbe appesantito come il basto di un bue. «Nobili signori», esclamò Naja, salutando i membri del consiglio, «vengo a portarvi un annuncio luttuoso.» Entrò a lunghe falcate nella sala, mentre Menset e Tal si ritraevano, fissandolo come due conigli che osservano l'avanzare sinuoso del cobra. «Il Faraone è morto. È stato abbattuto da una freccia hyksos mentre assaltava la fortezza nemica sopra El Wadun.» I membri del consiglio lo fissarono in silenzio, tutti tranne Kratas, che fu il primo a riprendersi dallo sbalordimento della notizia. Il suo dolore era uguagliato soltanto dalla collera. Si alzò con lentezza ponderata, lanciando uno sguardo di fuoco a Naja e alla sua guardia del corpo, come un vecchio bufalo maschio sorpreso da un branco di leoni ancora giovani mentre si rotola nel fango. «Con quale impudenza osi portare al braccio il Sigillo del Falco? Naja, figlio di Timlat, uscito dal ventre di una sgualdrina hyksos, non sei degno di rotolarti nella polvere sotto i piedi dell'uomo al quale hai sottratto quel talismano! La spada che porti alla cintola è stata impugnata da mani ben più nobili delle tue.» La cupola calva della testa di Kratas era diventata violacea e i lineamenti rudi del vecchio fremevano d'indignazione. Naja fu colto alla sprovvista. Come poteva sapere, quel vecchio mostro, che sua madre aveva sangue hyksos nelle vene? Era un segreto ben custodito. Quell'uomo, rifletté Naja, era l'unico, a parte Taita, con forza e capacità sufficienti a strappargli di mano la corona doppia. Suo malgrado, indietreggiò. «Io sono il reggente per conto del principe reale Nefer. Porto di diritto il Sigillo del Falco Azzurro», rispose. Wilbur Smith
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«No!» tuonò Kratas. «Tu non ne hai il diritto. Soltanto uomini grandi e nobili hanno il diritto di portare il Sigillo del Falco. Il Faraone Tamose lo aveva. Il nobile Tanus Harrab lo aveva, e prima di loro una dinastia di re possenti. Tu, subdolo arrivista, non hai questo diritto.» «Sono stato acclamato dalle legioni sul campo e sono il reggente per conto del principe Nefer.» Kratas gli si avvicinò, attraversando la sala a lunghe falcate. «Tu non sei un soldato. Sei stato sconfitto a Lastra e a Siva dai tuoi parenti sciacalli, gli hyksos. Non sei uno statista, né un filosofo. Se hai ottenuto qualche privilegio è stato solo per la mancanza di giudizio del Faraone. L'ho messo in guardia contro di te almeno cento volte.» «Indietro, vecchio idiota!» lo ammonì Naja. «Io faccio le veci del Faraone. Se mi tocchi, offendi la corona e la dignità dell'Egitto.» «Ti strapperò di dosso il sigillo e la spada», sibilò Kratas. «E, una volta finito, potrei anche concedermi il piacere di fustigarti.» Alla destra di Naja, Asmor sussurrò: «La pena per il delitto di lesa maestà è la morte». Naja colse al volo l'occasione che gli si offriva. Sollevando il mento, guardò gli occhi ancora vivaci del vecchio. «Sei un sacco pieno di vento e di escrementi», lo sfidò. «Il tuo tempo ormai è passato, Kratas, idiota balbettante. Non azzardarti a toccare il reggente dell'Egitto neanche con un dito.» Quell'insulto mandò su tutte le furie Kratas, che si lasciò sfuggire un ruggito e, con rapidità e forza sorprendenti per un uomo della sua età, afferrò Naja e lo sollevò, cercando di strappargli dal braccio il Sigillo del Falco. «Tu non sei degno...» Senza neanche girarsi, Naja, che aveva previsto quell'aggressione, si rivolse ad Asmor, pronto a un passo da lui, con la spada a forma di falce già sguainata nella destra. «Colpisci!» gli ordinò sottovoce. «E colpisci a fondo!» Asmor si spostò di lato, squarciando il fianco di Kratas al di sopra della cintura. Il colpo della sua mano allenata fu preciso e potente. La lama di bronzo penetrò, silenziosa, con la facilità di un ago che trapassa un lembo di seta, affondando sino all'impugnatura. Poi Asmor torse la spada nelle carni per allargare la ferita. Kratas s'irrigidì, spalancò gli occhi e poi allentò la presa, lasciando ricadere a terra Naja. Asmor allora estrasse la lama, che uscì a fatica, Wilbur Smith
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trattenuta dal risucchio delle carni. Il bronzo lucente era macchiato di sangue scuro e un rivolo rosso corse sul gonnellino di lino bianco di Kratas. Asmor colpì ancora, stavolta più in alto, puntando la lama verso la gabbia toracica. Il vecchio corrugò la fronte e scosse la grossa testa leonina, come se fosse seccato da qualche bazzecola puerile, poi si voltò, dirigendosi verso la porta della sala. Asmor lo rincorse, colpendolo ancora alla schiena, ma Kratas continuò ad avanzare. «Mio signore, aiutami a uccidere questo cane», disse Asmor, e Naja sguainò la spada azzurra, raggiungendolo. Quando inferse il colpo, la lama penetrò più in profondità del bronzo. Kratas, barcollando, varcò la soglia della sala e uscì in cortile, mentre il sangue sprizzava ormai da una mezza dozzina di ferite. Alle sue spalle, gli altri membri del consiglio gridavano: «Assassinio! Risparmiate il nobile Kratas!» Ma Asmor gridò con pari energia: «Traditore! Ha osato aggredire il reggente dell'Egitto!» E colpì di nuovo, cercando di raggiungerlo al cuore. Kratas si aggrappò al bordo in rilievo che circondava la vasca dei pesci, nel tentativo di trovare un appiglio, ma, con le mani scivolose di sangue, non riuscì a fare presa sul marmo levigato. Accasciandosi sull'argine basso, scomparve sott'acqua con un tonfo pesante. I due uomini armati si fermarono, appoggiandosi al muro per riprendere fiato, mentre le acque venivano arrossate dal sangue del vecchio. Poi, all'improvviso, la testa calva sbucò dalle acque dello stagno e Kratas tirò un respiro gorgogliante. «In nome di tutti gli dei, questo bastardo non vuole saperne di morire!» La voce di Asmor era carica di stupore e di esasperazione. Naja superò con un balzo il bordo della vasca, entrando nell'acqua fino alla cintola e dominando il corpo pesante che galleggiava. Posando un piede sulla gola di Kratas, spinse la testa sotto la superficie: ma Kratas si dibatté e sussultò sotto di lui, mentre le acque s'intorbidivano ancora di più per via del sangue e del limo fluviale smosso. Naja cercava di gravare con tutto il suo peso sul corpo del vecchio per tenerlo sott'acqua. «È come cavalcare un ippopotamo», esclamò, ridendo. Asmor e i soldati lo raggiunsero e si affollarono intorno allo stagno, ridendo fragorosamente e lanciando grida di scherno: «Bevi per l'ultima volta, Kratas, vecchio bastardo!» «Ti presenterai a Seth lavato e profumato come un neonato. Neppure il dio ti riconoscerà.» Wilbur Smith
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I movimenti dell'uomo divennero sempre più deboli. Una scia di bolle salì in superficie, dopodiché Kratas rimase immobile. Mentre Naja raggiungeva a guado il bordo dello stagno per uscire dall'acqua, il corpo di Kratas risalì lentamente in superficie, galleggiando a faccia in giù. «Ripescatelo!» ordinò Naja. «Non fatelo imbalsamare, ma tagliate il corpo a pezzi e seppellitelo nella Valle dello Sciacallo insieme con gli altri banditi, gli stupratori e i traditori, senza lasciare segni di riconoscimento sulla tomba.» Questo significava, per Kratas, la condanna a vagare nelle tenebre per l'eternità. Grondando acqua dalla cintola in giù, Naja rientrò nella sala del consiglio. Ormai erano arrivati anche gli altri consiglieri. Erano stati testimoni della sorte di Kratas, quindi si rannicchiarono, pallidi e scossi, sulle panche, fissando Naja con terrore quando egli, brandendo la spada azzurra, li apostrofò: «Miei nobili signori, la morte ha già punito il tradimento e la lesa maestà. Qualcuno di voi intende discutere la giustizia di questa esecuzione?» Li guardò, l'uno dopo l'altro, e tutti abbassarono gli occhi, perché le guardie Phat erano schierate lungo le pareti della sala e, scomparso Kratas, non c'era nessuno che impartisse ordini. «Mio nobile Menset», esclamò allora Naja, rivolgendosi al capo dell'assemblea, «sostieni la mia azione nel giustiziare il traditore Kratas?» Per un lungo istante, si ebbe l'impressione che Menset volesse sfidarlo, ma poi il vecchio sospirò, abbassando gli occhi sulle mani che teneva in grembo. «La punizione è stata giusta», mormorò. «Il consiglio approva le azioni del nobile Naja.» «Il consiglio ratifica anche la nomina del nobile Naja a reggente dell'Egitto?» Naja rivolse la domanda a bassa voce, ma riuscì comunque a farsi sentire in ogni angolo della sala, nella quale regnavano terrore e silenzio. Menset alzò la testa per guardare gli altri membri del consiglio, tuttavia nessuno di loro osò incontrare il suo sguardo. «Tutti i membri dell'assemblea riconoscono il nuovo reggente dell'Egitto.» Finalmente Menset guardò negli occhi Naja, ma il suo volto, di solito gioviale, appariva incupito, carico di un disprezzo tale da far presagire che, prima del plenilunio successivo, lo avrebbero trovato morto nel suo letto. Per il momento, Naja si limitò ad annuire. «Accetto il dovere e la pesante responsabilità che mi avete imposto.» Rinfoderò la spada e salì sul palco del trono. «Come primo compito Wilbur Smith
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ufficiale nella mia veste di reggente, desidero descrivere al consiglio la morte valorosa del divino Faraone Tamose.» Fece una pausa significativa, poi dedicò un'ora intera a riferire la sua versione della campagna fatale e dell'attacco sulle alture di El Wadun. «Così è caduto uno dei sovrani più valorosi d'Egitto. Le sue ultime parole mentre lo trasportavo giù dalla collina sono state: 'Proteggi il mio unico figlio; veglia su mio figlio Nefer finché non sarà grande abbastanza da portare la corona doppia. Prendi sotto le tue ali le mie figliolette, e bada che nessuno faccia loro del male'.» Il nobile Naja non si sforzava troppo di nascondere la terribile sofferenza, e ci volle qualche istante perché riuscisse a dominare le emozioni e ad aggiungere, in tono fermo: «Non deluderò le aspettative del dio che è stato mio amico e mio Faraone. Ho già inviato i carri nel deserto alla ricerca del principe Nefer per riportarlo a Tebe. Non appena arriverà, lo metteremo sul trono, e gli porremo tra le mani il flagello e lo scettro». Quelle parole furono accolte dal primo mormorio di approvazione che si levasse dai consiglieri. Naja proseguì in tono grave: «Ora mandate a chiamare le principesse e fatele portare subito qui, nella sala». Poco dopo, le due principesse entrarono, esitanti. Heseret, la maggiore, teneva per mano la sorellina Merykara, che fino a poco prima stava giocando a nascondino con le amiche. Era ancora congestionata dallo sforzo, col corpo snello imperlato di sudore. Era evidente che non aveva ancora raggiunto la piena femminilità: infatti aveva le gambe lunghe come un puledro e il torace piatto come un ragazzo. Portava i lunghi capelli neri raccolti in una treccia laterale che le pendeva sulla spalla sinistra, e il perizoma di lino era così minuscolo da lasciare scoperta la parte inferiore delle piccole natiche rotonde. Aggrappata alla mano della sorella maggiore, rivolse un timido sorriso a quella formidabile assemblea di uomini potenti. Heseret aveva già visto la prima luna rossa, e quindi indossava le vesti di lino e la parrucca delle donne in età da marito. Persino i vecchi la guardarono con avidità, perché aveva ereditato la favolosa bellezza della nonna, la regina Lostris. La pelle era candida come il latte, le braccia e le gambe apparivano levigate e ben tornite e i seni nudi sembravano lune celestiali. L'espressione era serena, ma gli angoli della bocca erano sollevati in un sorriso scaltro e negli enormi occhi verde scuro brillavano lampi di malizia. «Venite avanti, miei piccoli tesori», disse loro Naja. Wilbur Smith
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Soltanto allora le due giovanette riconobbero l'uomo che era l'amico prediletto del padre. Allora sorrisero, avvicinandosi con aria fiduciosa. Lui si alzò dal trono, scendendo dal palco per avvicinarsi e posare le mani sulle loro spalle, con una voce e un'espressione drammatiche. «Ora dovete essere coraggiose, e ricordare che siete principesse di sangue reale, perché devo darvi una notizia dolorosa: il Faraone vostro padre è morto.» Per un lungo istante, le due principesse non riuscirono a capire, poi Heseret si lasciò sfuggire il gemito alto e acuto del lutto, subito imitata da Merykara. Naja le circondò con le braccia, conducendole ai piedi del trono, dove caddero in ginocchio, stringendosi l'una all'altra e piangendo in modo inconsolabile. «L'angoscia delle principesse reali appare evidente agli occhi di tutti», disse Naja all'assemblea. «La fiducia e l'incarico che il Faraone mi ha affidato sono altrettanto chiari. Come ho preso sotto la mia protezione il principe Nefer Memnone, così ora prendo sotto la mia protezione le due principesse, Heseret e Merykara.» «E così tiene in pugno tutta la covata reale», bisbigliò Tal al suo vicino. «Per quanto il principe Nefer si trovi nel deserto, e sebbene possa sembrare forte e valoroso, ho l'impressione che sia già destinato alla morte. Il nuovo reggente dell'Egitto ha messo bene in chiaro in quale modo intende governare.» Nefer era seduto all'ombra della parete di roccia che dominava Gebel Nagara. Da quando il sole si era affacciato al di sopra dei monti che cingevano il lato opposto della valle, non si era mai mosso. Dapprima lo sforzo di rimanere immobile gli aveva irritato le giunture e causato un formicolio in tutto il corpo, come se file d'insetti velenosi gli strisciassero sopra e dentro la pelle; Nefer però sapeva che Taita lo stava osservando, e così a poco a poco aveva sottomesso alla forza di volontà il corpo restio, superando le sue piccole esigenze egoistiche. E ormai si trovava in uno stato di consapevolezza acuta, con tutti i sensi affinati e in sintonia col deserto che lo circondava. Era così aperto a ogni percezione da riuscire a fiutare l'odore dell'acqua che sgorgava dalla sorgente nascosta nella fenditura della roccia che solcava la parete. Secreta dalla fonte con la lentezza di una lacrima, gocciolava in un bacino di roccia non più grande del cavo delle mani unite, Wilbur Smith
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dal quale traboccava poi nel bacino inferiore, verde di alghe viscide, e di lì scorreva in basso prima di scomparire per sempre nelle sabbie rossastre in fondo alla valle. Eppure quanta vita riusciva ad alimentare, quel minuscolo rivolo d'acqua! Farfalle e scarabei, serpenti e lucertole, la piccola gazzella piena di grazia che danzava come uno sbuffo di polvere color zafferano sulle pianure tremolanti per la calura, i piccioni screziati con la gorgiera di piume color vino che facevano il nido sulle cenge alla sommità delle pareti di roccia, tutti venivano a bere laggiù. Era per via di quelle preziose pozze d'acqua che Taita lo aveva condotto fin lì ad aspettare il falco sacro. Avevano cominciato a preparare la rete il giorno stesso dell'arrivo a Gebel Nagara. Taita aveva acquistato la seta da un mercante di Tebe, e quel solo rocchetto di filo era costato quanto uno stallone superbo, perché era giunto da una terra remota, a oriente del fiume Indo, con un viaggio che aveva richiesto anni e anni. Taita aveva mostrato a Nefer in che modo si doveva intessere la rete con quel filo sottile, creando una trama più resistente dei fili spessi del lino o dei lacci di cuoio, ma quasi invisibile all'occhio. Quando la rete era stata pronta, Taita aveva insistito perché fosse il ragazzo a catturare gli animali che dovevano servire da esca. «È il tuo dio, e devi prenderlo da solo», gli aveva spiegato. «Soltanto così la tua rivendicazione sarà giustificata agli occhi del grande dio Horus.» E così, sotto la luce abbagliante che inondava il fondovalle, Nefer e Taita avevano studiato il percorso che risaliva lungo la parete rocciosa. Al calar della sera, Taita si era seduto accanto al piccolo fuoco, acceso alla base della roccia, per intonare con voce sommessa i suoi incantesimi, gettando a intervalli una manciata di erbe sul fuoco. Quando una sottile falce di luna si era levata a mitigare il buio totale della mezzanotte, Nefer aveva intrapreso la rischiosa scalata fino alla cengia dove si posavano i piccioni. Aveva catturato due di quei grandi uccelli frementi mentre erano ancora confusi e disorientati dall'oscurità e dall'incantesimo che Taita aveva gettato su di loro, riportandoli a valle dentro la sacca di cuoio che portava sulle spalle. Seguendo le istruzioni di Taita, aveva strappato le piume da un'ala di ciascun piccione, in modo che non potessero più volare. Poi, insieme, avevano scelto un punto vicino alla base della parete e alla sorgente, ma abbastanza allo scoperto perché i piccioni da richiamo fossero ben visibili dal cielo. Wilbur Smith
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Avevano quindi legato i due uccelli per la zampa, usando un crine di cavallo passato intorno a un cavicchio di legno conficcato nel terreno compatto. Poi avevano steso su di loro la rete impalpabile, tenendola sollevata con steli secchi di erba degli elefanti, steli che avrebbero ceduto, spezzandosi, sotto il peso del falco sacro. «Tendi la rete con delicatezza», gli aveva insegnato Taita. «Non dev'essere troppo tesa, ma neanche troppo lenta. Va disposta in modo tale che il falco s'impigli nelle maglie col becco e con gli artigli, e che non possa dibattersi e lottare, procurandosi ferite prima che riusciamo a liberarlo.» Quando tutto era stato pronto in modo soddisfacente per Taita, era cominciata la lunga attesa. Ben presto i piccioni si erano abituati alla cattività, cominciando a beccare avidamente i chicchi di dhurra che Nefer sparpagliava davanti a loro, dopodiché si pavoneggiavano al sole, cospargendosi di polvere e scrollandosi soddisfatti sotto la rete di seta. I giorni si susseguivano tutti uguali, sotto il sole cocente. E i due uomini continuavano ad aspettare. Quando calava il fresco della sera, mettevano al riparo i piccioni, ripiegavano la rete e andavano a caccia per procurarsi il cibo. Taita scalava la parete rocciosa, sedendosi a gambe incrociate sul ciglio del precipizio per scrutare la lunga valle, mentre Nefer attendeva in basso, pronto all'agguato, mai nello stesso punto, in modo che le prede fossero colte di sorpresa se venivano ad abbeverarsi alla sorgente. Dal suo punto di osservazione, Taita lanciava un sortilegio che quasi sempre riusciva ad attirare una delicata gazzella. E Nefer era lì, pronto, con la freccia già incoccata e l'arco teso. Così, ogni sera, arrostivano carne di gazzella sul fuoco acceso all'ingresso della caverna. Quella grotta era stata il rifugio di Taita durante gli anni successivi alla morte di Lostris, quand'era vissuto come un eremita. Era la sede del suo potere. Pur essendo un novizio, ancora incapace di comprendere le doti mistiche del vecchio, Nefer non aveva dubbi sulla loro esistenza, perché ne riceveva la dimostrazione ogni giorno. Solo dopo aver trascorso molti giorni a Gebel Nagara il ragazzo intuì che non erano venuti lì unicamente per catturare il falco sacro: quello non era che un aspetto dell'addestramento e dell'istruzione che Taita gli aveva impartito fin dalla sua prima infanzia. Anche le lunghe ore di appostamento vicino ai richiami costituivano una lezione: Taita gli stava Wilbur Smith
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insegnando a controllare il proprio corpo e la propria natura; voleva indicargli come aprire le porte della mente, come guardare dentro di sé, come ascoltare il silenzio per udire bisbigli ai quali gli altri erano sordi. Una volta compreso ciò, Nefer era divenuto più ricettivo alla saggezza di Taita e agli insegnamenti che il mago aveva da impartirgli. I due restavano seduti nel deserto buio, sotto le stelle che compivano evoluzioni nel cielo, eterne ma effimere come le correnti dell'oceano, e Taita gli spiegava prodigi che parevano inspiegabili, ma che invece si potevano percepire estendendo la mente. Nefer intuiva di trovarsi appena ai margini di quella conoscenza, di essere ancora avvolto nell'ombra, ma sentiva anche crescere dentro di sé l'ansia di sapere di più. Una mattina, uscendo dalla caverna nel grigiore che precedeva l'alba, vide un crocchio di figure scure e silenziose, accovacciate nel deserto oltre la sorgente di Gebel Nagara. Andò a informare Taita, che si limitò a commentare: «È tutta la notte che aspettano». Poi si gettò sulle spalle uno scialle di lana e uscì. Quando riconobbero la figura scarna di Taita alla luce fioca dell'alba, le figure proruppero in gemiti supplichevoli. Erano gli abitanti del deserto, venuti a portargli alcuni bimbi, piccole creature colpite dai Fiori Gialli, con la febbre alta e il corpo straziato dalle piaghe terribili della malattia. Si accamparono intorno al pozzo e, per vari giorni, Taita li assistette. Nessuno dei bambini morì e, dopo dieci giorni, la tribù gli portò in dono sale, pelli conciate e dhurra, lasciandoli all'ingresso della caverna prima di dileguarsi nel deserto. Ma dopo di loro ne vennero altri, che soffrivano di malattie e di ferite inflitte dagli uomini e dalle bestie. Taita accoglieva tutti, senza respingere nessuno. Lavorando al suo fianco, Nefer imparò molto. Tuttavia, per quanto ci fossero beduini malati e sofferenti da curare, o cibo da procacciarsi, o istruzioni e addestramento da impartire, ogni mattina sistemavano i richiami sotto la rete di seta, disponendosi all'attesa. Forse erano caduti sotto l'influsso rasserenante di Taita, ma in ogni caso i piccioni, un tempo selvatici, erano divenuti docili e obbedienti come galline. Si lasciavano maneggiare senza paura, emettendo un tubare sommesso, mentre venivano assicurati con la zampa ai cavicchi, dopodiché si accovacciavano, soddisfatti, gonfiando il piumaggio. La mattina del ventesimo giorno dal loro arrivo, Nefer occupò la sua solita posizione sulla sommità della parete, al di sopra dei piccioni. Come Wilbur Smith
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sempre, anche senza vederlo direttamente, era ben consapevole della presenza di Taita. Il vecchio teneva gli occhi chiusi e sembrava sonnecchiare al sole, come i piccioni. Aveva la pelle solcata da una rete di rughe sottili e punteggiata da chiazze di vecchiaia; pareva tanto delicata da rischiare di lacerarsi con la stessa facilità della carta finissima di papiro. Il viso era del tutto privo di peli, senza tracce di barba o sopracciglia; persino le ciglia erano sottili e incolori come il cristallo. Nefer aveva sentito dire dal padre che era stata la castrazione a rendere il viso di Taita così glabro, ma era convinto che la longevità dell'eunuco, la sua forza e la sua irrefrenabile energia vitale fossero imputabili a ragioni più misteriose. In contrasto col resto del suo aspetto, però, i capelli di Taita erano folti e vigorosi come quelli di una donna giovane e sana, anche se avevano il colore dell'argento lucente. L'eunuco ne andava fiero e li curava molto, lavandoli spesso e portandoli raccolti in una folta treccia che gli scendeva sulla schiena. Nonostante la saggezza e l'età avanzata, il vecchio mago non era immune dalla vanità. Quella caratteristica, però, non faceva che accrescere l'affetto di Nefer per lui, al punto che il giovane avvertiva quel sentimento con un'intensità quasi dolorosa; avrebbe voluto che esistesse un modo per esprimerlo, ma del resto sapeva che Taita lo capiva, giacché sapeva tutto. Tese furtivamente la mano per sfiorargli il braccio mentre dormiva, ma gli occhi del vecchio si aprirono all'istante, lucidi e coscienti. Nefer sapeva che non stava dormendo affatto, ma aveva concentrato tutti i suoi poteri per attirare il falco sacro verso i richiami, e capì che, in qualche modo, i suoi pensieri vaganti e il suo movimento avevano compromesso il risultato degli sforzi del vecchio. Taita non disse nulla, ma Nefer intuì chiaramente la sua disapprovazione. Mortificato, si ricompose, riportando sotto controllo la mente e il corpo come gli aveva insegnato Taita: era come superare una soglia segreta per entrare nel luogo del potere. Il tempo passò in fretta. Il sole raggiunse lo zenit, restando sospeso nel cielo, in apparenza a lungo. D'un tratto, Nefer si sentì invadere da una straordinaria sensazione di preveggenza. Era come se fosse sospeso al di sopra del mondo, come il sole di mezzogiorno, e vedesse tutto ciò che avveniva sotto di lui. Vedeva Taita e se stesso appostati vicino al pozzo di Gebel Nagara e il deserto che si stendeva tutt'intorno a loro; vedeva il fiume che cingeva il deserto come una possente barriera, segnando i confini dell'Egitto stesso. Vedeva le città e i Wilbur Smith
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regni, le terre divise sotto la corona doppia; vedeva i grandi eserciti schierati, le trame dei malvagi e le lotte e i sacrifici dei giusti. In quel momento fu così acutamente consapevole del proprio destino che quella sensazione rischiò quasi di sopraffare e schiacciare il suo coraggio. In quello stesso istante seppe che il falco sacro sarebbe venuto quel giorno, perché lui finalmente era pronto ad accoglierlo. «È qui!» Le parole erano così chiare che Nefer si convinse che Taita aveva parlato. Subito dopo, però, si accorse che le labbra del mago erano rimaste serrate. Gli aveva posto quel pensiero nella mente, in un modo misterioso che Nefer non riusciva né a intuire né a spiegare. Non aveva dubbi che fosse così, ma, un istante dopo, ne ebbe la conferma dal fremito terrorizzato dei piccioni, presaghi della minaccia che incombeva su di loro. Nefer non diede segno di aver udito e compreso. Non volse la testa e non sollevò gli occhi al cielo. Non osava guardare in alto per non allarmare l'uccello o incorrere nella collera di Taita, ma era all'erta con ogni fibra del suo essere. Il falco reale era una creatura così rara che pochissimi uomini lo avevano visto allo stato selvaggio. Già da mille anni i cacciatori di tutti i Faraoni lo inseguivano, lo intrappolavano e lo catturavano con le reti e, per popolare gli allevamenti reali, sottraevano persino dal nido i piccoli ancora implumi. Il possesso di quegli uccelli era la prova che il Faraone aveva l'approvazione del dio Horus per regnare sull'Egitto. Il falco era l'animale associato al dio, che infatti veniva rappresentato con la testa di falco nelle statue e nelle immagini dipinte. Il Faraone stesso era un dio e quindi poteva catturare, possedere e cacciare il falco, ma chiunque altro lo facesse incorreva nella pena di morte. Ormai il falco era lì, era nelle sue mani. Nefer aveva quasi l'impressione che Taita lo avesse evocato dal cielo. Si sentiva il cuore stretto in una morsa soffocante di eccitazione, e rimase senza fiato, come se il petto stesse per scoppiargli. Eppure ancora non osava alzare la testa verso il cielo. Poi udì il falco. Il suo richiamo era un lamento fioco, che rischiava di perdersi nell'immensità del cielo e del deserto, eppure eccitava Nefer fino nell'intimo del suo essere, come se il dio avesse parlato direttamente a lui. Pochi istanti dopo, il falco lanciò un altro grido, proprio sopra di lui, con un tono più acuto e selvaggio. Wilbur Smith
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Ormai i piccioni sembravano impazziti di terrore e spiccavano balzi frenetici per liberarsi dai lacci che li assicuravano ai cavicchi, sbattendo le ali con tanta violenza che le piume si staccavano e il vortice d'aria sollevava una nube di polvere chiara intorno a loro. Poi Nefer sentì il falco cominciare la discesa verso i richiami, col vento che cantava tra le sue ali con una nota sempre più acuta. Ormai poteva alzare la testa, perché tutta l'attenzione del falco era concentrata sulla preda. Guardando in alto, lo vide scendere in picchiata sullo sfondo azzurro del cielo del deserto, così abbacinante da far dolere gli occhi. Era una creatura dalla bellezza divina. Le ali erano ripiegate all'indietro, come lame chiuse per metà nel fodero, mentre la testa era protesa in avanti. La forza e la potenza che si sprigionavano da quella creatura strapparono un gemito a Nefer. Aveva visto altri falchi negli allevamenti della reggia paterna; mai prima d'ora, però, li aveva ammirati in tutta la loro grazia e maestà selvaggia. Mentre scendeva verso di lui, come per incanto, il falco sembrò ingigantire e i suoi colori divennero più intensi. Il becco adunco era di uno splendido giallo carico, con la punta aguzza e nera come l'ossidiana. Gli occhi spietati erano d'oro, con un segno nero a forma di lacrima all'angolo interno; la gola color crema era screziata di scuro, le ali erano color ruggine e nero. Quella creatura alata era così perfetta che Nefer non poté dubitare che fosse un'incarnazione del dio. Lo desiderava con un'intensità che non avrebbe mai creduto di poter provare. Si fece forza per il momento dell'impatto, quando il falco avrebbe urtato contro la rete di seta, restando intrappolato nelle sue pieghe, e sentì Taita al suo fianco fare altrettanto. Si sarebbero slanciati insieme. Poi accadde qualcosa che sembrava impossibile. Il falco era tutto preso dalla discesa, con una velocità di picchiata tale che nulla avrebbe potuto fermarlo se non l'impatto violento col soffice corpo piumato dei piccioni. Non poteva che andare sino in fondo. Eppure, contro ogni previsione, rinunciò alla preda. Le ali cambiarono profilo e, per un istante, la resistenza dell'aria minacciò di lacerare le penne remiganti nel punto di attacco. L'aria sprigionò un suono stridulo contro le piume allargate, e il falco cambiò direzione, risalendo di colpo e sfruttando la forza d'inerzia per descrivere un arco nel cielo. Pochi secondi dopo era già un puntino nero sullo sfondo azzurro. Il suo richiamo risuonò ancora una volta nell'aria, distante e lamentoso, prima di svanire. «Ha rifiutato!» sussurrò Nefer, incredulo. «Ma perché, Tata, perché?» Wilbur Smith
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«Non spetta a noi sondare le vie del dio.» Sebbene fosse rimasto immobile per tante ore, Taita si alzò con un movimento agile e sciolto da atleta ben allenato. «Tornerà?» domandò Nefer. «Era mio, l'ho sentito nel cuore. Era mio. Deve tornare.» «Fa parte della divinità», replicò Taita sottovoce. «Non rientra nell'ordine naturale delle cose.» «Ma perché ha rifiutato? Ci dev'essere una ragione», insistette Nefer. Senza ribattere, Taita andò a liberare i piccioni. Ormai le piume delle ali erano cresciute nuovamente, ma, anche quando liberò le zampe, i piccioni non tentarono affatto di fuggire: anzi uno di loro gli svolazzò sulla spalla. Con delicatezza, Taita lo prese, lanciandolo verso l'alto. Soltanto allora il piccione volò verso la parete di roccia per posarsi sulla sommità della cengia. Taita seguì con gli occhi il suo volo, prima di voltarsi per rientrare nella caverna. Nefer lo seguì lentamente: si sentiva il cuore e le gambe pesanti come il piombo per la delusione. Nella penombra della caverna, il vecchio sedette sulla cengia di pietra sotto la parete di fondo, proteso in avanti per attizzare il fuoco fumoso alimentato da rami spinosi e sterco di cavallo finché non si levarono le fiamme. Nefer, oppresso da un presagio, prese posto di fronte a lui, come al solito. Rimasero a lungo in silenzio, ma il ragazzo si astenne dal fare domande, anche se la delusione per la perdita del falco era un tormento intenso, come se avesse posto una mano tra le fiamme. Sapeva che Taita avrebbe parlato soltanto quando fosse stato pronto. Infine il vecchio sospirò, dicendo sottovoce, quasi con tristezza: «Dovrò ricorrere ai Labirinti di AmmonRa». Nefer rimase sbigottito. Non se lo aspettava, perché, in tutto il tempo che avevano trascorso insieme, aveva visto il vecchio ricorrere a quella divinazione soltanto due volte. Sapeva che la trance autoindotta necessaria per percorrere i Labirinti era simile a una piccola morte e lasciava il mago svuotato ed esausto. Taita ricorreva a quel temibile viaggio nel soprannaturale soltanto se non gli restava altra via da percorrere. Rimase in silenzio, osservando con rispetto venato di timore Taita che eseguiva il rituale di preparazione ai Labirinti. Per prima cosa macinò le erbe col pestello nel mortaio di alabastro scolpito, misurando le dosi in un recipiente di terracotta, dove poi versò, dal paiolo di rame, un po' di acqua Wilbur Smith
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bollente. La nube di vapore che si sprigionò era così pungente da far lacrimare gli occhi di Nefer. Mentre la mistura si raffreddava lentamente, Taita prese il sacchetto di cuoio che conteneva i Labirinti dal nascondiglio in fondo alla caverna. Accovacciato vicino al fuoco, fece scivolare in una mano i dischi d'avorio, sfregandoli delicatamente mentre intonava l'incantesimo ad Ammon-Ra. I Labirinti comprendevano dieci dischi d'avorio, che Taita aveva inciso con le sue mani. Dieci era il numero mistico del potere supremo: ogni incisione rappresentava uno dei dieci simboli del potere, ed era un'opera d'arte in miniatura. Mentre cantava, Taita accarezzava i dischi, che tintinnavano tra le sue mani. Tra un verso e l'altro dell'invocazione, soffiava sui dischi d'avorio per infondervi la propria forza vitale. Quando ebbero assorbito il calore del suo corpo, li passò a Nefer. «Tienili in mano e alita su di essi», gli ordinò e, mentre il ragazzo obbediva, Taita prese a oscillare al ritmo dei versi magici che recitava. A poco a poco i suoi occhi parvero coprirsi di un velo vitreo, mentre si ritirava nei recessi segreti della sua mente. Era già sprofondato nella trance quando Nefer dispose i Labirinti davanti a lui, divisi in due pile. Poi, con un dito, saggiò la temperatura dell'infuso nel recipiente di terracotta, come gli aveva insegnato Taita e, quando si fu raffreddato abbastanza da non scottare la bocca, s'inginocchiò davanti al vecchio per porgergli il recipiente con entrambe le mani. Taita lo bevve fino all'ultima goccia. Al riverbero delle fiamme, il suo viso divenne bianco come la calce della cava di Assuan. Il canto continuò ancora a lungo, ma si ridusse gradualmente a un mormorio, prima di spegnersi nel silenzio. L'unico suono che si udiva, mentre Taita si arrendeva alla droga e alla trance, era il suo respiro roco. Scivolò sul pavimento della caverna, raggomitolandosi accanto al fuoco come un gatto addormentato. Nefer lo coprì con lo scialle di lana, restando al suo fianco finché Taita non cominciò a torcersi e a gemere, col viso che grondava sudore. Gli occhi si aprirono, roteando nelle orbite fino a mostrare soltanto il bianco, che spiccava nell'ombra fitta della caverna. Nefer sapeva che ormai non c'era nulla che potesse fare. Taita si era spinto lontano nel suo viaggio tra le ombre, troppo lontano perché lui potesse raggiungerlo; inoltre non riusciva a sopportare oltre la terribile angoscia e l'intensa sofferenza che i Labirinti infliggevano al mago. Si alzò Wilbur Smith
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per andare a prendere l'arco e la faretra in fondo alla caverna, curvandosi per uscire all'aperto. Oltre le colline, il sole era basso e giallo nella foschia polverosa. Salì sulle dune a ponente e, quando raggiunse la sommità per guardare verso le valli, avvertì con tanta intensità la delusione per la perdita del falco, l'ansia per Taita in preda al tormento della divinazione e l'angoscia per quello che avrebbe potuto scoprire nella trance, che si sentì assalire dall'impulso di correre, di fuggire come se fosse inseguito da un temibile predatore. Scese a lunghi balzi il pendio della duna, con la sabbia che precipitava come una cascata sotto i suoi piedi, sibilando. Sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime, che presero poi a scorrergli sulle guance sotto le folate di vento, e corse finché il sudore non gli colò dai fianchi e il petto cominciò ad ansimare, mentre il sole sfiorava l'orizzonte. Infine tornò verso Gebel Nagara, percorrendo l'ultimo tratto nel buio della notte. Taita era ancora rannicchiato sotto lo scialle, accanto al fuoco, ma ora dormiva più serenamente. Nefer si stese accanto a lui, e di lì a poco scivolò a sua volta nel sonno, tormentato da sogni e ossessionato da incubi. Quando si destò, l'alba splendeva all'ingresso della caverna e Taita era seduto accanto al fuoco, intento ad arrostire sulla brace carne di gazzella. Appariva ancora pallido e sofferente. Infilzò un pezzo di carne sulla punta del pugnale di bronzo per offrirlo a Nefer e il ragazzo, assalito all'improvviso da una fame vorace, si sedette per addentare la carne, spolpandola fino all'osso. Parlò soltanto dopo aver divorato la terza porzione di carne tenera e gustosa. «Che cos'hai visto, Tata?» chiese al vecchio. «Perché il falco ha rifiutato la preda?» «Era oscuro», rispose Taita. Nefer capì che il presagio era stato nefasto e che il mago cercava, in qualche modo, di proteggerlo da quella realtà. Continuarono a mangiare in silenzio, ma ormai non riusciva più a gustare il cibo, e infine disse sottovoce: «Hai liberato i richiami. E ora come faremo a tendere la rete, domani?» «Il falco sacro non verrà più a Gebel Nagara», rispose Taita. «Allora non sarò mai Faraone al posto di mio padre?» domandò Nefer. La profonda sofferenza nella sua voce indusse il vecchio saggio a mitigare la risposta. «Dovremo andare a catturarlo nel nido.» «Ma non sappiamo dove si trova il nido del falco sacro.» Nefer aveva smesso di mangiare e lo fissava con aria supplichevole. «Io so dov'è», mormorò Taita. «Mi è stato rivelato nei Labirinti. Però devi mangiare per tenerti in forze. Partiremo domani, prima dell'alba, e il Wilbur Smith
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viaggio fino al prossimo luogo di sosta sarà lungo.» «Nel nido ci saranno i piccoli?» «Sì. I falchi hanno figliato, e i piccoli sono quasi pronti a volare. Troveremo laggiù il tuo falco.» E aggiunse dentro di sé: oppure il dio ci rivelerà altri misteri. Nel buio fitto che precedeva l'alba, caricarono sui cavalli gli otri di cuoio pieni d'acqua e le sacche, poi salirono in sella. Era Taita a guidare la marcia, costeggiando la parete rocciosa per imboccare la facile pista che risaliva le colline. Quando il sole fu alto nel cielo, si erano già lasciati alle spalle da tempo Gebel Nagara. Scrutando l'orizzonte, Nefer sussultò di sorpresa, perché davanti a loro si scorgeva il profilo delle montagne, azzurrine sullo sfondo blu del cielo, ancora così lontane da apparire inconsistenti ed eteree: un miraggio fatto di nebbia e d'aria, anziché di terra e roccia. Improvvisamente Nefer fu assalito dalla sensazione di avere già visto tutto quello. Per un istante, non seppe come spiegarselo, poi gli tornò alla mente e, alzando un dito, mormorò: «Quella montagna... È lassù che andiamo, vero, Tata?» Aveva parlato con tale sicurezza che il vecchio si girò a guardarlo. «Come fai a saperlo?» «L'ho sognata, ieri notte.» Taita distolse il volto, per evitare che il ragazzo vedesse la sua espressione. Finalmente gli occhi della sua mente cominciano ad aprirsi, come i fiori del deserto che sbocciano all'alba, pensò. Sta imparando a scrutare oltre la cortina scura che ci nasconde il futuro... Siano lodati i cento nomi di Horus. Non tutto è stato vano. E provò un intimo senso di soddisfazione. «È là che stiamo andando, lo so», ripeté Nefer con estrema sicurezza. «Sì», convenne infine Taita. «Stiamo andando a Bir Umm Masara.» Prima che arrivassero le ore più calde del giorno, raggiunsero un gruppo di acacie spinose dall'aria stenta che crescevano in fondo a un dirupo, attingendo acqua con le radici da una sorgente sotterranea. Dopo aver scaricato i cavalli e averli abbeverati, Nefer aveva controllato il boschetto e, in breve tempo, aveva scoperto le tracce di altri passaggi. Tutto eccitato, chiamò Taita per mostrargli i segni delle ruote lasciati da una piccola compagnia di carri - dieci in tutto, secondo i suoi calcoli -, le ceneri del fuoco acceso per cucinare e la terra schiacciata là dove gli uomini si erano Wilbur Smith
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stesi a dormire, lasciando i cavalli legati alle acacie vicine. «Hyksos?» chiese in tono ansioso. Gli escrementi dei cavalli sembravano ancora freschi; aprendo uno dei grumi con un bastoncello, Nefer si convinse che risalivano a pochi giorni prima, giacché erano secchi all'esterno, ma ancora umidi all'interno. «Nostri», ribatté Taita scuotendo la testa, perché aveva riconosciuto le tracce dei carri. Dopotutto era stato lui a progettare, molti decenni prima, le ruote dotate di raggi. Si chinò a raccogliere una minuscola rosetta di bronzo caduta dalla sponda di un carro, e rimasta sepolta per metà nel terriccio. «Una delle nostre compagnie di cavalleria leggera, probabilmente della guardia Phat, al comando del nobile Naja.» «Che cosa ci fanno quaggiù, così lontano dalle linee nemiche?» chiese Nefer, perplesso, e Taita alzò le spalle, allontanandosi per mascherare il disagio. Abbreviò la pausa di riposo, riprendendo la marcia mentre il sole era ancora alto. A poco a poco, il profilo di Bir Umm Masara si delineò, dando l'impressione di riempire per metà il cielo davanti a loro. Riuscirono gradualmente a distinguere le incisioni e le scarnificazioni lasciate sulla roccia da gole, abissi e pareti che scendevano a precipizio. Quando raggiunsero la sommità della prima serie di colline, Taita trattenne il cavallo e si voltò per guardare indietro. La sua attenzione fu colpita da un movimento lontano, che lo costrinse ad alzare la mano per ombreggiare gli occhi. A molte leghe di distanza, nel deserto, scorse un minuscolo pennacchio di polvere chiara. Osservandolo, vide che si spostava in direzione orientale, verso il mar Rosso: poteva essere il segno del passaggio di un branco di orici, oppure di una colonna di carri da combattimento... Non lo fece notare a Nefer; del resto, il ragazzo era così preso dalla caccia al falco reale che non riusciva a distogliere lo sguardo dal profilo delle montagne davanti a loro. Taita piantò i talloni nei fianchi del cavallo per affiancarlo. Quella sera, quando si accamparono a metà del pendio di Bir Umm Masara, Taita disse sottovoce: «Stasera non accenderemo il fuoco». «Ma fa tanto freddo», protestò Nefer. «E qui siamo tanto esposti che un fuoco si vedrebbe a dieci leghe, nel deserto.» «Ci sono nemici, laggiù?» L'espressione di Nefer cambiò, mentre scrutava trepidante il paesaggio sempre più cupo. «Banditi? Beduini in Wilbur Smith
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cerca di carovane da depredare?» «Ci sono sempre nemici», tagliò corto Taita. «Meglio il freddo che la morte.» Dopo mezzanotte, il vento gelido svegliò Nefer e probabilmente anche il suo puledro, Guardastella, che cominciò a pestare il terreno e a nitrire piano. Allora il ragazzo si liberò dalla coperta di pelle di pecora per andare a tranquillizzarlo. Trovò Taita già sveglio, seduto poco lontano. «Guarda!» disse l'eunuco, puntando il dito verso la pianura, dove scintillava in lontananza un bagliore luminoso. «Un fuoco da campo.» «Potrebbe essere una delle nostre compagnie, quella che ha lasciato le tracce di ieri.» «Può darsi...» riconobbe Taita. «Ma potrebbe anche essere qualcun altro.» Dopo una lunga pausa di riflessione, Nefer disse: «Ho dormito abbastanza, e poi fa troppo freddo. È meglio risalire in sella e riprendere il cammino. L'alba non ci deve sorprendere qui, sul fianco nudo della montagna». Caricarono i cavalli e, al chiaro di luna, trovarono un sentiero tracciato dalle capre selvatiche. Superarono così il versante orientale di Bir Umm Masara, cosicché, quando la luce cominciò ad aumentare, erano già lontani dalla visuale di qualunque osservatore di guardia nell'accampamento lontano. Il carro di Ammon-Ra, il dio-sole, si slanciò allo scoperto a oriente, e la montagna si ammantò di una soffusa luce dorata. Le gole erano ancora scure di ombre, rese più cupe dal contrasto, e, più in basso, il deserto era immenso e desolato. Nefer rovesciò la testa all'indietro per gridare, esultante: «Guarda! Oh, guarda!» Indicava un punto oltre la cima rocciosa e Taita, seguendo la direzione del suo sguardo, scorse due puntini scuri che roteavano, descrivendo un ampio cerchio nel cielo. La luce del sole ne investì uno, che splendette per un istante come una stella cadente. «Falchi reali», mormorò Taita sorridendo. «Una coppia.» Scaricarono i cavalli, trovando un punto da cui osservare i falchi che volavano in cerchio. Anche a quella distanza apparivano regali e maestosi, belli in modo quasi indicibile. D'un tratto, il più piccolo dei due, il maschio, ruppe lo schema del volo e puntò verso l'alto controvento, col battito pacato delle ali che assumeva improvvisamente un'intensità feroce. Wilbur Smith
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«Ha avvistato la preda», gridò Nefer, con l'eccitazione e la gioia del vero falconiere. «Guardalo, adesso.» Quando cominciò, la picchiata fu così rapida che distogliere lo sguardo anche solo per un attimo avrebbe significato lasciarsi sfuggire il momento culminante. Il maschio piombò dal cielo come un giavellotto. C'era un piccione isolato che si aggirava, ignaro, lungo la base della parete rocciosa. Nefer colse il momento in cui il grasso piccione si accorse del pericolo e tentò di sfuggire al falco che gli piombava addosso: si slanciò con tanta foga verso la salvezza, rappresentata dalla roccia, che, nella frenesia della fuga, rotolò sul dorso, lasciando per un attimo il ventre allo scoperto. Il falco lo squarciò con gli artigli di entrambe le zampe, e il piccione parve dissolversi in una nuvoletta di fumo ocra e azzurrino. Le piume si sparsero nell'aria, lasciando una scia nel vento mattutino, e il falco risalì in cielo, serrando gli artigli nel ventre della preda, per tuffarsi poi nella gola rocciosa. Il minuscolo assassino si posò con la sua vittima sul pendio ricoperto di ghiaia, a breve distanza dal punto in cui si trovava Nefer. Il tonfo sordo che produsse atterrando echeggiò sulla parete di roccia, risuonando nella gola. A quel punto, Nefer ballava per l'eccitazione, e persino Taita, che era sempre stato un appassionato della caccia col falco, gridò: «Bak-her!» Il falco completò il rito dell'uccisione coprendo la preda: allargando le ali dal disegno splendido sul corpo del piccione ormai morto, lo coprì per proclamare i suoi diritti sulla preda catturata. Con una serie di spirali aggraziate, la femmina scese a raggiungerlo, posandosi sulla roccia vicino al compagno. Il maschio ripiegò le ali per lasciarle la possibilità di dividere con lui la preda, e insieme smembrarono e divorarono il piccione, dilaniandolo col becco affilato come un rasoio e facendo una pausa tra una beccata e l'altra per sollevare la testa e fulminare Nefer con quegli occhi feroci, mentre inghiottivano i frammenti sanguinolenti di carne, ossa e piume. Erano perfettamente consapevoli della presenza degli uomini e dei cavalli, ma li tolleravano, a patto che mantenessero le distanze. Poi, quando del piccione non rimasero altro che una macchia di sangue sulla roccia e poche penne sparse, e il ventre di solito snello dei falchi fu gonfio di cibo, la coppia si lanciò di nuovo in volo e, battendo le ali, si levò verso la parete di roccia. «Seguili!» Taita sollevò l'orlo della veste per arrampicarsi sul terreno Wilbur Smith
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insidioso del ghiaione. «Non devi perderli.» Nefer, più veloce e più agile, corse lungo il fianco della montagna, sorvegliando i falchi che si alzavano in volo. Al di sotto della vetta la montagna si spaccava, formando due guglie, possenti pinnacoli di pietra scura, temibili a vedersi anche dal basso. Il giovane e Taita osservarono i falchi che s'innalzavano al di sopra di quel possente monumento naturale, finché Nefer non scoprì dov'erano diretti: nel punto in cui la roccia sporgeva in fuori, cioè a metà della torre di roccia orientale. Nella parete c'era una fenditura nella quale era incuneata una piattaforma di rami e ramoscelli secchi. «Il nido!» gridò Nefer, eccitato. «C'è il nido!» Rimasero immobili, con la testa rovesciata all'indietro, osservando i falchi che si posavano sull'orlo del nido, cominciando a rigurgitare le carni del piccione. Poi si udì un altro suono fioco, portato dal vento che sfiorava sussurrando la parete rocciosa: era il coro di strida moleste dei piccoli che pretendevano di essere sfamati. Da quell'angolazione, neanche Taita riusciva a scorgere i piccoli di falco, e Nefer saltellava in preda alla frustrazione. «Se scalassimo la cima occidentale, laggiù», disse, puntando il dito, «potremmo guardare nel nido.» «Prima aiutami coi cavalli», ordinò Taita, e, dopo averli impastoiati, i due li lasciarono pascolare tra gli steli radi dell'erba di montagna, alimentati dalla rugiada trasportata dalla brezza che spirava dal lontano mar Rosso. La scalata della cima occidentale richiese il resto della mattinata, ma, per quanto Taita scegliesse senza esitare la via più facile per aggirare la vetta, il precipizio ai loro piedi spingeva talvolta Nefer a trattenere bruscamente il fiato e a distogliere lo sguardo. Sbucarono infine su una cengia stretta poco al di sotto della cima, restando accovacciati lì qualche istante, per riprendersi e ammirare la grandiosità della terra e del mare lontano. Sembrava che l'intera creazione fosse distesa ai loro piedi e il vento gemeva, tendendo la veste pieghettata di Nefer e arruffando i suoi capelli ricci. «Dov'è il nido?» domandò. Persino in quella posizione elevata e precaria, sulla vetta del mondo, la sua mente era concentrata su un unico obiettivo. «Vieni!» Taita si alzò, spostandosi lateralmente sulla cengia, con la punta dei sandali che sporgeva sul precipizio. Una volta superato lo Wilbur Smith
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spigolo della parete, videro la cima orientale che entrava a poco a poco nella loro visuale. Guardarono oltre lo spazio che li separava dalla roccia: si trovavano a cento cubiti appena, ma erano divisi da un abisso così profondo che Nefer si sentì assalire dalle vertigini. Su quel lato del precipizio, potevano guardare dall'alto il nido, anche se la femmina, appollaiata sull'orlo della cengia, ne nascondeva il contenuto. Voltando il capo, l'uccello fissò con uno sguardo implacabile i due uomini che superavano lo spigolo della parete, poi arruffò le penne sul dorso, come un leone infuriato che solleva la criniera in segno di minaccia. Quindi emise un richiamo selvaggio e si lanciò nell'abisso, restando quasi immobile mentre si librava nell'aria e li osservava con uno sguardo intenso. La femmina era così vicina che i due scorgevano chiaramente ogni singola piuma delle ali. Il movimento aveva messo allo scoperto l'interno della fenditura che conteneva il nido. C'era un paio di piccoli rannicchiati nella coppa di ramoscelli e rami, rivestita di piume e lanugine di capre selvatiche. Avevano già il piumaggio completo, e sembravano grandi quasi quanto la madre. Quando Nefer li fissò con rispetto, uno di loro si alzò, spiegando le ali, poi cominciò a batterle freneticamente. «È bellissimo», gemette Nefer con bramosia. «È la creatura più bella che abbia mai visto.» «Si prepara al momento del volo», gli spiegò sottovoce Taita. «Vedi com'è diventato forte? Tra pochi giorni se ne andrà.» «Salirò a prenderli oggi stesso», si ripromise Nefer, e fece per tornare indietro lungo la cengia, ma Taita, posandogli una mano sulla spalla, lo fermò. «Non è un'impresa da prendere alla leggera. Dobbiamo dedicare un po' di tempo a progettare con cura la scalata. Vieni a sederti accanto a me.» Nefer obbedì, e Taita prese a illustrargli le caratteristiche della roccia di fronte a loro. «Sotto il nido, la roccia è levigata come il vetro. Per un tratto di cinquanta cubiti, lassù, non ci sono appigli per le mani, né ripiani sui quali poggiare i piedi.» Il ragazzo distolse lo sguardo dal piccolo di falco per scrutare in basso. Si sentì torcere lo stomaco, ma s'impose d'ignorare quella reazione. Era come aveva detto Taita: neppure un coniglio di roccia - quelle creature pelose dal passo sicuro, simili a conigli selvatici, che scorrazzavano nei luoghi elevati - sarebbe riuscito a trovare un appiglio su quella parete. Wilbur Smith
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«Come posso arrivare al nido, Tata? Voglio quei piccoli, li desidero tanto.» «Guarda più su», gli suggerì l'altro, puntando il dito. «Vedi come la fenditura prosegue verso l'alto, arrivando alla sommità della parete?» Nefer annuì, restando senza parole mentre fissava il rischioso percorso che Taita gli stava indicando. «Troveremo un modo per raggiungere la vetta al di sopra del nido, portando con noi un'imbracatura fatta di corda, poi ti calerò dall'alto nella fenditura. Se punterai i piedi nudi e i pugni serrati contro le pareti laterali, riuscirai a tenerti in equilibrio, mentre io ti sorreggerò dall'alto con la corda.» Nefer non riusciva ancora a parlare, tanto era sopraffatto dall'orrore suscitato dallo stratagemma suggerito da Taita. Nessun essere vivente poteva compiere quella scalata e sopravvivere, quello era certo. Taita intuì quello che provava il giovane, e non insistette per avere una risposta. «Io penso...» Nefer esordì con voce incerta, poi tacque, fissando la coppia di giovani uccelli nel nido. Sapeva che quello era il suo destino: uno di loro era il suo falco sacro, e quello era l'unico modo per conquistare la corona dei suoi antenati. Rinunciare avrebbe significato rinnegare tutto ciò per cui gli dei lo avevano prescelto. Doveva andare. Taita captò il momento in cui il ragazzo al suo fianco si risolse ad accettare il compito che lo attendeva, diventando uomo, e gioì dentro di sé, perché decideva anche del suo destino. «Tenterò», rispose Nefer semplicemente, alzandosi. «Scendiamo a prepararci.» Il giorno dopo, il cielo era ancora buio quando lasciarono il loro accampamento per cominciare l'ascesa. Chissà come, Taita riusciva a trovare appigli che neppure gli occhi giovani e acuti di Nefer potevano distinguere. Ciascuno di loro portava un pesante rotolo di corda, ottenuta intrecciando fili di lino e crini di cavallo, che in genere veniva usata per legare i cavalli. Avevano preso con loro anche uno degli otri d'acqua: Taita sapeva che, in cima al pinnacolo di roccia, il caldo sarebbe stato torrido, una volta che il sole avesse raggiunto lo zenit. Quando arrivarono al lato opposto del pinnacolo orientale, la luce era aumentata e riuscirono a scorgere la parete sopra di loro. Taita dedicò un'ora a esaminare la via per l'ascesa, prima di dichiararsi soddisfatto. «In Wilbur Smith
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nome del grande Horus, l'onnipotente, cominciamo», ordinò, facendo il segno che alludeva all'occhio ferito del dio. Poi guidò Nefer nel punto che aveva scelto per cominciare la salita. «Vado io per primo», disse al ragazzo, annodandosi intorno alla vita un capo della corda. «Molla la corda a mano a mano che procedo. Guarda come faccio e poi, quando ti chiamo, legati e seguimi. Se scivolerai, ti sosterrò io.» Nefer cominciò ad arrampicarsi con cautela, seguendo la via aperta da Taita. Era serio in volto, con le nocche sbiancate dalla tensione mentre si aggrappava a ogni appiglio. Taita mormorava incoraggiamenti dall'alto, e la fiducia del giovane crebbe a ogni movimento. Giunto al fianco del vecchio, gli rivolse un largo sorriso. «È stato facile.» «Diventerà più difficile», gli garantì Taita in tono asciutto, guidandolo verso il successivo tratto di roccia. Stavolta Nefer lo seguì senza fatica, con l'agilità di una scimmia, chiacchierando allegro ed eccitato. Si trovarono così ai piedi di un camino scavato nella parete rocciosa, che a breve distanza dalla vetta si restringeva, sino a diventare una fessura. «Questo percorso assomiglia alla discesa che dovrai fare per prendere il nido, quando saremo arrivati in cima. Guarda come si fa a incuneare mani e piedi nella fenditura.» Taita avanzò nel camino, salendo lentamente, ma senza soste. Quando il camino si restrinse, lui proseguì con disinvoltura, come se salisse una scala. Le gonne gli fluttuavano intorno alle vecchie gambe ossute e, sotto gli strati di lino, Nefer poteva risalire con lo sguardo fino alla cicatrice grottesca rimasta nel punto in cui era stato privato della virilità. L'aveva già vista altre volte, tanto da abituarsi a quella spaventosa mutilazione, che non lo atterriva più. Taita lo chiamò dall'alto e stavolta Nefer parve danzare sulla roccia, assumendo con naturalezza il ritmo dell'ascesa. E perché mai non dovrebbe essere così? pensò Taita, cercando di contenere il proprio orgoglio entro limiti ragionevoli. Nelle sue vene scorre il sangue di guerrieri e grandi atleti. Poi sorrise, e i suoi occhi scintillarono come se anche lui fosse di nuovo giovane. E poi ci sono io a fargli da maestro... si disse. È naturale che si dimostri eccellente in tutto. Il sole era ancora a metà del suo cammino nel cielo, quando finalmente si trovarono insieme sulla sommità della vetta orientale. «Qui faremo una breve sosta.» Taita depose l'otre di cuoio pieno d'acqua che portava in spalla, prima di lasciarsi cadere al suolo. Wilbur Smith
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«Io non sono stanco», protestò Nefer. «Riposeremo lo stesso.» Taita gli passò l'otre, osservandolo mentre beveva una dozzina di sorsate. «La discesa verso il nido sarà più difficile», lo ammonì, quando Nefer si fermò a riprendere fiato. «Non ci sarà nessuno a indicarti la strada, e c'è un punto in cui non potrai vedere nemmeno i tuoi piedi, perché la parete di roccia rientra bruscamente verso l'interno.» «Andrà tutto bene, Tata.» «Se gli dei lo consentiranno», convenne l'altro prima di voltare la testa, come per ammirare la magnificenza delle montagne, del mare e del deserto che si dispiegava ai loro piedi, ma, in realtà, per evitare che il ragazzo vedesse le sue labbra muoversi in una preghiera sommessa: «Spiega le tue ali su di lui, possente Horus, perché questi è colui che hai prescelto. Concedigli la tua grazia, mia signora Lostris, che sei diventata dea, perché questo è il frutto del tuo grembo e il sangue del tuo sangue. Allontana la mano da lui, sudicio Seth, e non toccarlo, poiché non puoi prevalere su coloro che proteggono questo ragazzo». Sospirò, meditando sull'opportunità di sfidare così il dio dell'oscurità e del caos, e allora raddolcì l'ammonimento con una piccola adulazione: «Risparmialo, mio buon Seth, e sacrificherò un bue in tuo onore nel tempio di Abido, la prima volta che passerò da quelle parti». Infine si alzò. «È ora di tentare.» Precedendo Nefer, lo guidò sulla vetta e si fermò sull'orlo del precipizio, fissando il loro accampamento e i cavalli al pascolo, che, dall'alto della parete, apparivano minuscoli come topolini. La femmina del falco volava in alto, descrivendo un cerchio al di sopra della gola. Taita pensò che nel suo comportamento c'era qualcosa di singolare, specie quando la sentì lanciare un grido strano e desolato, che prima di allora non aveva mai udito da un falco reale. Inoltre, per quanto scrutasse il cielo, non vide traccia del suo compagno. Poi abbassò gli occhi oltre l'abisso, verso la vetta principale della montagna e la cengia che avevano raggiunto il giorno prima. Questo gli permise di orientarsi, perché la sporgenza della parete di roccia ai suoi piedi nascondeva il nido alla sua vista. Spostandosi lentamente di lato sull'orlo del precipizio, trovò l'inizio della fenditura, che riconobbe subito: era la stessa che, prolungandosi in basso, si allargava sino a formare la spaccatura della parete dove i falchi avevano fatto il nido. Raccolse un ciottolo e lo lasciò cadere nel vuoto. Il ciottolo rimbalzò lungo la parete, tintinnando, poi sparì. Taita sperava che allarmasse il Wilbur Smith
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maschio, inducendolo ad allontanarsi dal nido: ciò avrebbe consentito a lui e a Nefer d'individuarne la posizione esatta. Ma non ci fu nessuna reazione da parte del falco. La femmina continuava a volare in cerchio da sola, lanciando quelle strane strida disperate. Allora Taita chiamò Nefer, gli legò intorno alla vita l'estremità della corda, poi controllò con cura il nodo e, un palmo alla volta, fece scorrere la fune tra le dita, in cerca di segni di logorio o sfilacciature. «Avrai la sacca della sella per portare con te i piccoli», gli spiegò, controllando il nodo col quale Nefer se l'era fissata a tracolla, in modo che non gli intralciasse i movimenti durante la discesa. «Smettila di preoccuparti tanto, Tata. Mio padre dice che a volte sembri una vecchia.» «Tuo padre dovrebbe dimostrarmi maggiore rispetto. Gli ho pulito il sedere quand'era un lattante piagnucoloso, proprio come ho fatto con te», ribatté piccato Taita, prima di ricontrollare il nodo alla cintola del ragazzo, cercando così di rimandare il momento fatale. Ma, quando si avvicinò all'orlo del precipizio, con le spalle rivolte all'abisso, Nefer non mostrò il minimo segno di esitazione. «Sei pronto?» Il ragazzo guardò indietro, sorridendo con un lampo dei denti bianchi e degli occhi scintillanti color verde cupo. Quegli occhi rammentarono con intensità a Taita la regina Lostris e, con una fitta dolorosa, lo indussero a pensare che Nefer sembrava ancora più attraente di suo padre alla stessa età. «Non possiamo restare qui tutto il giorno», esclamò il ragazzo, ripetendo una delle espressioni favorite del padre e scimmiottando alla perfezione l'atteggiamento del sovrano. Taita si sedette, dimenandosi leggermente sul terreno in modo da incuneare i piedi nella fessura, proteso all'indietro per fare forza contro la corda che gli passava sulla spalla. Rivolse un cenno di assenso a Nefer, e il sorriso spavaldo scomparve dal volto del ragazzo mentre questi si calava oltre il bordo della roccia, e lui faceva scorrere la corda. Nefer raggiunse il tratto di parete sporgente e dovette restare sospeso con le mani, contraendo il viso in una smorfia, mentre lasciava penzolare le gambe oltre la sporgenza, in cerca di un appiglio. Tastando la fessura con le dita dei piedi, v'infilò un piede nudo, torcendo la caviglia per rinsaldare la presa, poi si lasciò andare, scivolando. Lanciò un'occhiata in alto, verso Taita, tentando di sorridere, ma gli riuscì soltanto un ghigno Wilbur Smith
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sofferente. Poi scomparve, oscillando oltre la sporgenza. Prima di riuscire a trovare un altro appiglio, sentì il piede scivolare nella fessura e prese a ruotare su se stesso, appena sorretto dalla corda. Se avesse perso la presa, si sarebbe ritrovato a girare come una trottola, sospeso nel vuoto senza poter fare nulla. Dubitava che il vecchio avesse la forza di farlo risalire a braccia, tirando la corda. Si aggrappò alla fenditura nella roccia, agganciandosi alla sporgenza con la forza della disperazione, e le dita ressero. Con l'altra mano si protese verso l'appiglio successivo. Aveva superato il tetto di roccia, ma il cuore gli batteva all'impazzata e aveva il fiato in gola. «Stai bene?» La voce di Taita gli giunse dall'alto. «Benissimo!» riuscì a rispondere, ansimando. Guardando in basso, tra le ginocchia, scorse la fenditura nella roccia allargarsi per formare il camino che sovrastava il nido. Cominciava ad avvertire la stanchezza nelle braccia, che già tremavano. Protese la gamba destra, trovando un altro appiglio. Taita aveva ragione: scendere era più difficile che arrampicarsi. Quando spostò in basso la mano destra, si avvide che la nocca era già sbucciata e lasciava sulla roccia una piccola macchia di sangue. Calandosi con estrema lentezza, raggiunse il punto in cui la fenditura si allargava, formando quella principale, ma fu costretto di nuovo a sporgersi oltre il bordo della roccia per trovare un appiglio nascosto. Il giorno prima, discutendone con Taita, seduto insieme con lui dalla parte opposta del precipizio, quel passaggio gli era sembrato così facile! In quel momento, invece, aveva i piedi penzoloni oltre l'orlo e aveva l'impressione che l'abisso lo risucchiasse, come la bocca gigantesca di un mostro. Con un gemito, rimase appeso alle mani, immobilizzandosi a poco a poco sulla parete di roccia come se fosse congelato dal freddo. Ormai aveva paura e le ultime stille di coraggio evaporarono sotto le torride folate di vento che lo investivano, minacciando di strapparlo dalla parete di roccia. Quando guardò in basso, le lacrime, scorrendo sulle sue guance, si mescolarono al sudore. Il vuoto sembrava attirarlo, chiamandolo a sé con artigli di terrore e torcendogli le viscere. «Muoviti!» gli intimò dall'alto la voce di Taita, fioca ma pressante. «Devi continuare a muoverti.» Con uno sforzo enorme, Nefer si accinse a fare un altro tentativo, tastando la roccia sotto di sé con le dita dei piedi nudi, e finalmente trovò Wilbur Smith
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una cengia che sembrava abbastanza grande da offrirgli una presa. Si abbassò lentamente, coi muscoli delle braccia indolenziti e tremanti per la fatica, ma d'un tratto il piede scivolò sul ripiano di roccia, e le braccia si rivelarono troppo stanche per sostenere il suo peso. Precipitò, lanciando un grido. Cadde soltanto per una distanza pari a due braccia, poi la corda prese a segargli dolorosamente le carni, serrandosi sotto le costole sino a lasciarlo senza fiato, e lui risalì un pochino, penzolando nel vuoto, sorretto soltanto dalla corda e dal vecchio in cima alla parete. «Nefer, riesci a sentirmi?» La voce di Taita era arrochita dallo sforzo di sorreggerlo, e lui riuscì a rispondere soltanto con un uggiolio da cucciolo. «Devi trovare un appiglio, non puoi restare così sospeso.» La voce del vecchio lo rassicurò e Nefer, battendo le palpebre per respingere le lacrime, vide la parete di roccia a pochi palmi dal suo viso. «Trova una presa!» gli gridò Taita, pungolandolo, e Nefer si accorse di essere sospeso proprio di fronte alla fenditura. L'apertura era abbastanza ampia da accoglierlo, la cengia in declivio sufficientemente larga da consentirgli di posarvi i piedi, se solo fosse riuscito a raggiungerla. Allungando una mano tremante, sfiorò la parete con la punta delle dita e cominciò a dondolarsi per raggiungerla. Ebbe l'impressione che trascorresse un'eternità, punteggiata da faticosi tentativi e sforzi logoranti, ma alla fine riuscì a raggiungere l'apertura e a posare i piedi nudi sulla cengia, accovacciandosi nell'apertura. S'incuneò tra le pareti, ansimando nello sforzo di riprendere fiato. In alto, Taita sentì allentarsi la pressione sulla corda e gli gridò altri incoraggiamenti. «Bak-her, Nefer, bak-her! Dove sei?» «Sono nella fenditura, al di sopra del nido.» «Che cosa riesci a vedere?» Taita voleva che il ragazzo si concentrasse su qualcos'altro, in modo da non indugiare nel pensiero del terribile vuoto che aveva sotto di sé. Col dorso della mano, Nefer si asciugò il sudore che gli colava negli occhi, sbirciando in basso. «Vedo l'orlo del nido.» «Quanto dista?» «E' vicino.» «Ce la fai a raggiungerlo?» «Tenterò.» Nefer spinse la schiena arcuata contro la parte superiore di quella fenditura stretta, spostandosi lentamente in basso, sul fondo in Wilbur Smith
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pendenza. Sotto di sé, distingueva i ramoscelli secchi che sporgevano dal ripiano del nido. Scendendo, a poco a poco cominciò ad avere una visuale più ampia del nido. Quando chiamò di nuovo Taita, la sua voce era più forte ed eccitata. «Riesco a vedere il maschio. È ancora nel nido.» «Che cosa fa?» gridò Taita di rimando. «È accovacciato, pare che stia dormendo.» La voce di Nefer era perplessa. «Riesco a scorgere soltanto il dorso.» Il maschio era immobile, adagiato sul lato più alto del nido irregolare, ma Nefer si chiedeva come potesse dormire col trambusto che c'era sopra di lui. Nell'eccitazione di avere il falco tanto vicino e il nido quasi a portata di mano, dimenticò il proprio timore. Si mosse più in fretta, con maggiore sicurezza, a mano a mano che il fondo della fenditura di roccia diventava pianeggiante e lo spazio in alto gli consentiva di rimanere in piedi. «Ora posso vedere la testa.» Il maschio teneva le ali spiegate, come se coprisse una preda. È bellissimo, pensò Nefer. E io sono tanto vicino che posso quasi toccarlo, eppure non mostra ancora nessuna paura... Di colpo si rese conto che poteva afferrare con le mani nude il falco immerso nel sonno. Si fece forza per prepararsi all'attacco, incuneando la spalla nella fenditura e trovando una posizione stabile per i piedi nudi, poi si protese verso l'uccello, ma si fermò di colpo, con la mano sospesa sopra quella magnifica creatura. Sulle piume rossicce del dorso, lucenti come rubini levigati, c'erano alcune gocce minuscole di sangue che scintillavano al sole. Travolto dall'angoscia, Nefer comprese che il falco era morto. Si sentì invadere da una terribile sensazione di perdita, come se qualcosa che per lui aveva un grande valore gli fosse stato sottratto per sempre. Quel falco reale era il simbolo di un dio e di un re. La carogna del falco parve trasformarsi sotto i suoi occhi nel cadavere del Faraone stesso. Nefer si sentì serrare la gola, e ritrasse la mano di scatto. Fece appena in tempo, perché si udì un lieve suono raschiante, seguito da un sibilo esplosivo, e poi qualcosa di enorme, nero e lucente saettò nel punto in cui, un istante prima, c'era la sua mano, abbattendosi sui ramoscelli secchi con tanta violenza che tutto il nido tremò. Nefer si ritrasse per quanto gli consentiva lo spazio angusto, fissando la creatura orribile che oscillava sinuosamente davanti a lui. Gli sembrava di Wilbur Smith
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vedere tutto ingigantito, più nitido del solito, mentre il tempo scorreva con la terribile lentezza degli incubi. Vide i piccoli che giacevano morti, rannicchiati nell'incavo del nido oltre il corpo del maschio: intorno a loro si avvolgevano le spire lucenti di un gigantesco cobra nero, con la testa eretta. Il cappuccio, nel cui interno si scorgeva un disegno bianco e nero, era allargato. La lingua viscida saettava tra le labbra sottili, tese in un ghigno; gli occhi erano di un nero insondabile, ciascuno con una stella di luce riflessa al centro, e tenevano inchiodato Nefer, come per ipnotizzarlo. Tentò di lanciare un avvertimento a Taita, ma dalla bocca non gli uscì nessun suono. Non riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi terribili del cobra. La testa oscillava leggermente, ma le spire massicce che riempivano fino all'orlo il nido del falco pulsavano in modo regolare e ogni scaglia levigata luccicava come un gioiello, raschiando contro i ramoscelli del nido. Ogni spira era grossa quanto il braccio di Nefer e si muoveva lentamente, avvolgendosi su se stessa. Il cobra spostò la testa all'indietro, spalancando la bocca al punto che Nefer riuscì a scorgere la membrana chiara che rivestiva l'interno della gola, e le zanne quasi trasparenti si drizzarono nelle morbide pieghe delle fauci. Sulla punta di ciascuno di quegli aghi era sospesa una goccia minuscola di veleno incolore. Poi la testa saettò in avanti, mentre il cobra si avventava verso il viso di Nefer. Lui lanciò un grido, spostandosi di lato per evitare l'attacco e, così facendo, perse l'equilibrio, ruzzolando all'indietro. Anche se era preparato ad affrontare qualunque sbalzo di tensione della corda, quando il peso di Nefer gravò tutto sulla fune, anche Taita rischiò di perdere l'equilibrio. Un tratto della corda gli passò veloce tra le dita, bruciando le carni, ma lui resistette. Udiva il ragazzo lanciare grida incoerenti dal basso e lo sentiva oscillare, appeso alla corda. Nefer dondolò in fuori, poi, sempre oscillando, tornò verso il nido del falco. Il cobra si era ripreso dal tentativo fallito, ed era di nuovo eretto, pronto a colpire ancora. Teneva lo sguardo fisso sul ragazzo appeso alla corda, e voltò la testa per fronteggiarlo, emettendo un sibilo aspro. Nefer gridò ancora, scalciando freneticamente contro il serpente mentre tornava verso di lui, quasi volando. Taita udì il terrore racchiuso in quel grido e fece forza sulla corda per tirarlo su, finché non sentì i vecchi Wilbur Smith
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muscoli crepitare per la tensione. Il cobra si avventò istintivamente verso gli occhi di Nefer non appena lui arrivò alla sua portata, ma, in quell'istante, Taita ritirò un tratto di corda, allontanando il ragazzo. Le mascelle spalancate del serpente gli sfiorarono l'orecchio, poi il corpo pesante del rettile si abbatté sulla sua spalla con la stessa violenza della sferza di un carrettiere, e Nefer lanciò un altro grido, sapendo di avere ricevuto un morso fatale. Oscillando di nuovo lontano dalla parete, abbassò gli occhi sul punto della spalla in cui il serpente aveva affondato i denti, e vide il veleno giallo chiaro sparso sulle pieghe di cuoio spesso della sacca che aveva portato con sé per riporvi i piccoli del falco. Con un impeto selvaggio di sollievo, si sfilò la sacca dalla spalla e, oscillando come un pendolo verso il ripiano di roccia sul quale il cobra stava ancora immobile e minaccioso, la tenne sollevata come uno scudo davanti a sé. Non appena fu di nuovo alla sua portata, il serpente colpì ancora, ma Nefer ricevette il colpo sul cuoio spesso della sacca, e i denti del cobra rimasero impigliati nel cuoio in cui erano affondati. Quando Nefer tornò indietro, il cobra fu trascinato nel vuoto con lui: si staccò dal nido del falco, formando una palla fremente di spire e scaglie lucenti che si dibatteva contro le gambe di Nefer, sferzandolo con la coda pesante, sibilando in modo agghiacciante e spargendo, dalle fauci spalancate, nubi di veleno che colavano sulla sacca. Il suo peso era tale che tutto il corpo del ragazzo era squassato dai suoi contorcimenti. Quasi senza riflettere, Nefer scagliò lontano la sacca, coi denti del cobra ancora affondati nel cuoio. La sacca e il serpente precipitarono insieme, col corpo sinuoso del rettile che ancora si attorceva, si avvolgeva e sferrava violenti colpi di frusta. I sibili penetranti che lanciava si attutirono a mano a mano che si allontanava dalla parete di roccia: agli occhi di Nefer, la caduta parve interminabile, ma infine il serpente urtò contro le rocce ai piedi della vetta. L'impatto col suolo non lo uccise né lo stordì: il rettile continuò a contorcersi, rotolando lungo il pendio ghiaioso e rimbalzando sulle rocce come un'enorme palla nera, finché non scomparve tra i massi grigiastri. Attraverso la cortina di terrore che gli annebbiava la mente, Nefer sentì la voce di Taita, roca per lo sforzo e l'ansia. «Parlami! Puoi sentirmi?» «Sono qui, Tata.» La voce di Nefer era debole e tremula. «Ora ti sollevo.» Wilbur Smith
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Lentamente, uno strappo alla volta, Nefer si sentì sollevare e, nonostante l'angoscia, non poté fare a meno di stupirsi della forza del vecchio. Quando la parete fu alla sua portata, riuscì ad alleviare la fatica del mago, e l'ascesa divenne più rapida. Infine si aggrappò con la punta delle dita al tetto sporgente di roccia e, con immenso sollievo, vide Taita che lo fissava dalla vetta, col volto simile a quello di una sfinge, solcato da rughe profonde scavate dallo sforzo esercitato per issare la corda. Con uno strappo finale, Nefer riuscì a superare il ciglio del precipizio, cadendo tra le braccia di Taita, dove rimase a lungo, affannato e singhiozzante, senza riuscire a parlare in modo coerente. Taita lo strinse a sé, tremando anche lui per l'emozione e la stanchezza. A poco a poco i due si calmarono, riprendendo fiato, e il vecchio accostò l'otre dell'acqua alle labbra di Nefer, che bevve avidamente, rischiando quasi di soffocare, e poi bevve ancora. Soltanto allora riuscì a guardare negli occhi Taita, ma con un'espressione così avvilita che l'altro se lo strinse di nuovo al petto. «È stato orribile.» Le parole di Nefer si udivano a stento. «Era nel nido. Ha ucciso i falchi, tutti quanti. Oh, Tata, era terribile.» «Che cos'era?» chiese il vecchio in tono pacato. «Ha ucciso i piccoli, e anche il falco maschio.» «Piano, ragazzo. Bevi ancora un po'.» Gli porse l'otre. Nefer bevve con tanta avidità che fu assalito da un accesso di tosse. Ma, non appena fu in grado di parlare di nuovo, sussurrò, ansimando: «Ha tentato di uccidere anche me. Era enorme, e così nero!» «Che cos'era? Dimmelo con chiarezza.» «Era un cobra, un enorme cobra nero. Si trovava nel nido, ad aspettarmi. Aveva ucciso i piccoli e il maschio col suo morso letale e, non appena mi ha visto, ha tentato di aggredirmi. Non avrei mai creduto che un cobra potesse diventare così grande.» «Ti ha colpito?» chiese Taita, assalito da un terrore improvviso. Si alzò, costrinse Nefer a fare altrettanto e poi cominciò a esaminare il ragazzo. «No, Tata. Ho usato la borsa di cuoio come scudo, così non è riuscito a...» disse Nefer, ma Taita lo zittì, spogliandolo completamente e costringendolo a rimanere immobile mentre esaminava tutto il corpo in cerca di tracce dei denti del serpente. Nefer aveva una nocca sbucciata e le ginocchia graffiate, ma, a parte quello, il suo corpo giovane e forte era segnato soltanto dal cartiglio del Faraone, tatuato sulla pelle morbida all'interno della coscia. Era stato Taita in persona a eseguire il tatuaggio, e Wilbur Smith
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quel minuscolo capolavoro avrebbe avvalorato per sempre il diritto di Nefer a portare la corona doppia. «Sia lodato il grande dio che ti ha protetto», mormorò Taita. «Con l'apparizione del cobra, Horus ti ha inviato un avvertimento che preannuncia eventi terribili, minacce e portenti.» Il suo viso era grave, sofferente. «Quello non era un vero serpente.» «Ma sì, Tata, l'ho visto da vicino. Era enorme, però era un serpente autentico.» «Allora come ha fatto a raggiungere il nido? I cobra non possono volare, e non esiste altro modo per scalare la parete di roccia.» Nefer lo fissò, inorridito. «Ha ucciso il mio falco sacro», ripeté con un filo di voce. «E il maschio del falco reale, il corrispettivo del Faraone», convenne Taita in tono cupo, con la pena ancora visibile negli occhi. «Ecco la rivelazione dei misteri. Nella visione ne avevo intravisto soltanto le ombre, ma ora esse sono confermate da ciò che ti è accaduto oggi. Questo è un fenomeno al di fuori dell'ordine naturale.» «Spiegami, Tata», insistette Nefer. Taita gli rese la veste. «Dobbiamo scendere da questa montagna, sottrarci ai grandi pericoli che c'insidiano, prima che si possa pensare agli auspici.» Guardò il cielo, come se fosse immerso in profonde riflessioni, poi abbassò gli occhi su Nefer. «Vestiti», fu tutto ciò che gli disse. Non appena fu pronto, Taita lo ricondusse al versante opposto della cima, dove iniziarono la discesa. Ormai la via era stata aperta e i due procedevano in fretta; inoltre, in ogni movimento di Taita, affiorava un senso di urgenza che si rivelò contagioso. Ritrovarono i cavalli là dove li avevano lasciati, tuttavia, prima di montare in sella, Nefer disse: «Il punto in cui il cobra è caduto sulle rocce è poco distante da qui». E indicò la sommità del ghiaione, ai piedi della parete sulla quale era ancora visibile il nido del falco. «Andiamo a cercarne i resti. Forse, trovandoli, potresti operare qualche incantesimo per distruggere i suoi poteri...» «Sarebbe tempo sprecato e, a questo punto, il tempo è prezioso. Non ci saranno resti.» Taita risalì in groppa alla sua giumenta. «Monta, Nefer. Il cobra è tornato nel regno delle ombre dal quale era venuto.» Nefer rabbrividì di timore superstizioso, poi salì in groppa al suo puledro. Nessuno dei due parlò fino a quando non si trovarono tra le colline a est, dunque lontani dalle pendici dei monti. Nefer sapeva bene Wilbur Smith
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che, quando Taita era di quell'umore, rivolgergli la parola era fiato sprecato; ciò nonostante spinse il cavallo in modo da affiancarlo. «Tata, questa non è la strada per tornare a Gebel Nagara», disse in tono rispettoso. «Non torniamo laggiù.» «Perché no?» «I beduini sanno che siamo stati alla sorgente, e lo diranno a quelli che ci stanno cercando.» Nefer non capiva. «Chi è che ci sta cercando?» Il vecchio voltò la testa e lanciò al ragazzo uno sguardo così compassionevole e straziato da farlo ammutolire. «Te lo spiegherò quando saremo lontani da questa montagna maledetta, in un luogo sicuro.» Proseguì il viaggio, evitando la cresta delle colline, dove sarebbero stati visibili sullo sfondo dell'orizzonte, per scegliere un percorso tortuoso tra gole e valli, sempre puntando a oriente, lontano dall'Egitto e dal Nilo: a oriente, verso il mare. Il sole volgeva al tramonto, quando Taita tirò le redini della giumenta e disse: «La strada carovaniera si trova oltre la prossima fila di colline. Dobbiamo attraversarla, ma potrebbero esserci dei nemici in agguato, laggiù». Lasciarono i cavalli impastoiati in uno uadi nascosto, con qualche manciata di tritello di dhurra nel sacco di cuoio appeso al muso per tenerli tranquilli, poi salirono cautamente in cima alle colline, trovando un punto d'osservazione dietro un affioramento di scisto violaceo, da cui potevano tenere d'occhio la strada carovaniera ai loro piedi. «Resteremo qui finché non farà buio», spiegò Taita. «Poi attraverseremo la pista.» «Non capisco quello che stai facendo, Tata. Per quale motivo andiamo a oriente? Perché non torniamo a Tebe, per metterci sotto la protezione del Faraone mio padre?» L'altro si lasciò sfuggire un sospiro, chiudendo per un istante gli occhi. Come dirglielo? Non posso tenerglielo nascosto ancora a lungo. Eppure è ancora un bambino, e dovrei proteggerlo... Fu come se Nefer gli leggesse nel pensiero, perché posò la mano sul braccio di Taita mormorando: «Oggi, sulla montagna, ho dimostrato di essere un uomo. Trattami come tale». Il vecchio annuì. «È vero, lo hai dimostrato.» Prima di proseguire il Wilbur Smith
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discorso, lanciò un'altra occhiata furtiva alla pista battuta che correva ai piedi della collina, abbassando di scatto la testa. «Arriva qualcuno!» sibilò. Nefer si appiattì al suolo dietro l'affioramento di scisto, e insieme spiarono il rapido avvicinarsi della colonna di polvere lungo la strada carovaniera che veniva da occidente. Ormai la valle era immersa nell'ombra, mentre il cielo era screziato dalle splendide sfumature di porpora del tramonto. «Si muovono in fretta. Non sono mercanti, quelli, sono carri da combattimento», disse Nefer. «Sì, ora li vedo.» I suoi occhi giovani e acuti avevano individuato la forma del carro di testa, coi cavalli appaiati davanti al conducente. «Non sono hyksos», aggiunse, quando le sagome acquistarono consistenza, avvicinandosi. «Sono dei nostri. Un gruppo di dieci carri. Sì! Vedi lo stendardo sul primo carro?» La bandierina fissata alla lunga asta di canna flessibile garriva al vento al di sopra della nube di polvere. «Una compagnia di guardie Phat! Siamo salvi, Tata!» Balzò in piedi, agitando le mani. «Qui!» gridò. «Qui, azzurri! Sono qui! Sono il principe Nefer!» Taita allungò una mano ossuta e lo buttò a terra con violenza. «Giù, piccolo idiota! Quelli sono i servi del cobra.» Lanciò un'altra rapida occhiata oltre la sommità, e si accorse che il conducente del carro di testa doveva aver avvistato la sagoma del ragazzo che si stagliava all'orizzonte, perché aveva spinto i cavalli al piccolo galoppo e avanzava rapidamente verso di loro. «Vieni», disse Taita a Nefer. «Presto! Non devono prenderci.» Trascinando giù il ragazzo dalla cresta dell'altura, cominciò la discesa. Dopo una breve resistenza iniziale, Nefer fu contagiato dall'urgenza di Taita e cominciò a correre, saltando da una roccia all'altra. Eppure non riuscì a raggiungere il vecchio, che pareva volare sulle lunghe gambe ossute, con la chioma d'argento che ondeggiava, e che infatti arrivò per primo ai cavalli, balzando in groppa alla giumenta. «Non capisco perché dobbiamo fuggire dalla nostra gente», protestò Nefer, ansimando. «Che cosa sta succedendo, Tata?» «Monta in sella! Ora non c'è tempo per parlare, dobbiamo andarcene.» Mentre uscivano al galoppo dall'imboccatura dello uadi, Nefer lanciò all'indietro un'occhiata carica di rimpianto. Il carro di testa superò la sommità dell'altura, e il conducente lanciò un grido, ma la distanza e il rombo delle ruote attutirono la sua voce. Wilbur Smith
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Poco prima, Taita aveva attraversato una zona di rocce vulcaniche attraverso le quali nessun carro poteva passare. Puntò da quella parte, coi cavalli perfettamente appaiati. «Se riusciamo a raggiungere quelle rocce, durante la notte potremo seminarli. Ormai resta solo un barlume di luce.» Taita alzò gli occhi verso l'ultimo riverbero del sole, che era già tramontato oltre le colline. «Un solo cavaliere riesce sempre a distanziare un carro», sentenziò Nefer, con una sicurezza che in realtà non provava. Tuttavia, quando si voltò, scoprì che era vero: si stavano allontanando dal gruppo di carri che procedevano sussultando sulla pista. Prima che Nefer e Taita raggiungessero il tratto di terreno scosceso, i carri erano rimasti così indietro da risultare quasi nascosti dalla polvere che sollevavano e dalla penombra azzurrina del crepuscolo. Quando infine arrivarono ai margini del deserto di sassi, dovettero ridurre l'andatura a un trotto prudente, ma il terreno era così pericoloso e la luce così fioca che ben presto furono costretti a proseguire al passo. Sfruttando l'ultimo, tenue riverbero di luce, Taita si voltò e scorse la sagoma scura del carro di testa dello squadrone fermarsi al limite di quel terreno proibitivo. Riconobbe la voce del conducente che li chiamava, anche se le sue parole giungevano fioche. «Principe Nefer, perché fuggi? Non devi temerci. Siamo le guardie Phat, venute a scortarti fino a casa, a Tebe.» Nefer accennò a girare il cavallo. «Quello è Hilto. Conosco bene la sua voce. È un brav'uomo, e mi sta chiamando per nome.» Hilto era un guerriero famoso, che poteva fregiarsi dell'Oro del Valore, ma Taita, in tono severo, ordinò a Nefer di proseguire. «Non lasciarti ingannare! Non devi fidarti di nessuno.» Nefer, docile, proseguì sul terreno accidentato e, a poco a poco, le grida alle loro spalle tacquero, inghiottite dal silenzio del deserto. Prima che riuscissero ad avanzare ancora, l'oscurità li costrinse a smontare, procedendo a piedi per superare i punti difficili dove il sentiero tortuoso si restringeva e i pilastri aguzzi di pietra nera potevano azzoppare un cavallo avventato o fracassare le ruote di qualsiasi veicolo che tentasse di seguirli. Alla fine dovettero fermarsi per abbeverare i cavalli e farli riposare. Si sedettero vicini e Taita, col pugnale, affettò una forma di pane di dhurra, che mangiarono, parlando sottovoce. «Parlami della tua visione, Tata. Di quello che hai visto davvero quando Wilbur Smith
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hai evocato i Labirinti di Ammon-Ra.» «Te l'ho detto, erano immersi nell'ombra.» «So che non è vero», ribatté Nefer, scuotendo la testa. «Lo hai detto per proteggermi.» Rabbrividì per il gelo della notte, ma anche per il senso di terrore che lo accompagnava da quando gli era apparsa quella visione del male, lassù, nel nido del falco. «Hai visto qualcosa di terribile, lo so. È per questo che siamo costretti a fuggire. Devi dirmi tutto ciò che hai visto. Devo comprendere quello che ci sta accadendo.» «Sì, hai ragione», ammise infine Taita. «È ora che tu sappia.» Allungando un braccio sottile, attirò a sé Nefer sotto lo scialle. Il ragazzo fu sorpreso dal calore che emanava dal corpo fragile del vecchio. Taita parve raccogliere i pensieri, poi finalmente parlò. «Nella mia visione c'era un grande albero che cresceva sulle rive del padre Nilo. Era un albero possente, carico di fiori azzurri come giacinti, e su di esso era posata la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto. Alla sua ombra si riparava l'intera popolazione dell'Egitto: uomini e donne, bambini e vecchi, mercanti, contadini, scribi, sacerdoti e guerrieri. L'albero offriva protezione a tutti, e tutti prosperavano ed erano felici.» «È una buona visione.» Impaziente, Nefer ne tradusse il significato come gli aveva insegnato Taita: «L'albero dev'essere il Faraone mio padre. Il colore della casa di Tamose è l'azzurro, e mio padre porta la corona doppia». «È così che ho interpretato anch'io la visione.» «E poi che cos'hai visto, Tata?» «Ho visto un serpente che, avanzando nelle acque fangose del fiume, nuotava verso l'albero. Era un serpente grande e forte.» «Un cobra?» intuì Nefer, parlando con un filo di voce. «Sì», confermò Taita. «Era un grande cobra, che usciva strisciando dal Nilo e si arrampicava sull'albero, attorcigliandosi intorno al tronco e ai rami finché non sembrava diventare parte dell'albero stesso, sostenendolo e dandogli forza.» «Questo non lo capisco», sussurrò Nefer. «Poi il cobra si è drizzato sopra i rami più alti dell'albero e d'un tratto ha colpito, affondando le zanne nel tronco.» «Oh, dolce Horus!» mormorò Nefer con un brivido. «Era lo stesso serpente che ha tentato di mordere me, non credi?» Senza attendere la risposta, aggiunse in fretta: «E poi, che altro hai visto, Tata?» Wilbur Smith
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«Ho visto l'albero deperire e cadere al suolo, schiantandosi. Ho visto il cobra ancora drizzato in segno di trionfo, ma ora portava sulla testa crudele la corona doppia. Dall'albero ormai morto sono spuntati germogli verdi; tuttavia, non appena apparivano, il serpente li colpiva, e anch'essi morivano avvelenati.» Nefer rimase in silenzio. Per quanto il significato della visione apparisse evidente, non era ancora in grado di dare la sua interpretazione. «E tutti i germogli dell'albero sono stati distrutti?» domandò infine. «Ce n'era uno che cresceva in segreto, sotto la superficie della terra, in attesa di diventare forte. Poi è uscito allo scoperto sotto forma di tralcio possente, e si è avviluppato al cobra, attaccandolo. Per quanto il cobra lo colpisse con tutte le sue forze e il suo veleno, è riuscito a sopravvivere, ad avere una vita propria.» «Qual è stato l'esito della lotta, Tata? Quale dei due ha trionfato? Quale portava la corona doppia, alla fine?» «Non ho visto la fine della lotta, perché era circondata dal fumo e dalla polvere della guerra.» Nefer rimase in silenzio così a lungo che Taita lo credette addormentato, ma poi il suo corpo cominciò a tremare e lui si rese conto che piangeva. Alla fine parlò di nuovo, con una sicurezza agghiacciante. «Il Faraone è morto. Mio padre è morto, ecco il messaggio della tua visione. L'albero avvelenato è il Faraone. Era lo stesso messaggio che abbiamo avuto al nido del falco. Il falco ucciso era il Faraone. Mio padre è morto, ucciso dal cobra.» Taita non riuscì a rispondergli. Non poté fare altro che serrare ancor più la presa intorno alle sue spalle, cercando d'infondergli forza e conforto. «E io sono il germoglio verde dell'albero», riprese Nefer. «Tu lo hai visto. Sai che il cobra è in attesa di distruggere anche me, come ha fatto con mio padre. È per questo che non hai voluto che i soldati mi riportassero a Tebe. Sai che il cobra mi attende laggiù.» «Hai ragione, Nefer. Non potremo tornare a Tebe finché non sarai forte abbastanza per difenderti. Dobbiamo fuggire anche dall'Egitto. A oriente ci sono terre e sovrani potenti. E' mia intenzione rivolgermi a loro e cercare laggiù un alleato che ci aiuti a distruggere il cobra.» «Ma chi è il cobra? Non hai scorto il suo volto, nella visione?» «Sappiamo che è vicino al trono di tuo padre, perché nella visione era intrecciato all'albero e gli forniva sostegno.» Fece una pausa, poi, quasi Wilbur Smith
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avesse preso una decisione, aggiunse: «Il nome del cobra è Naja». Nefer lo fissò, scuotendo la testa. «Naja!» sussurrò. «Naja! Ora capisco perché non possiamo tornare a Tebe.» Dopo qualche istante di silenzio, aggiunse: «Vagando nelle terre a oriente ci ridurremo a essere due mendicanti». «La visione mi ha mostrato che crescerai e che diventerai forte. Dobbiamo riporre la nostra fiducia nei Labirinti di Ammonita.» Nonostante il dolore, Nefer alla fine si addormentò, ma Taita lo svegliò prima dell'alba, quando il cielo era ancora buio. Risalirono in sella, proseguendo verso est, lasciandosi alle spalle le rocce e il terreno accidentato. D'un tratto, a Nefer parve di avvertire l'odore della salsedine nel vento dell'alba. «Nel porto di Seged troveremo una nave che ci porterà fino alla terra degli hurriti.» Taita sembrava leggergli nel pensiero. «Sargon, il sovrano che regna su Babilonia e Assiria, i due potenti regni compresi tra il Tigri e l'Eufrate, è un satrapo di tuo padre. È vincolato a lui da un trattato di alleanza contro gli hyksos e tutti i nostri nemici comuni. Io credo che Sargon rispetterà quel trattato, perché è un uomo d'onore. Dobbiamo confidare in lui perché ci accolga e sostenga la tua rivendicazione al trono dell'Egitto unito.» Davanti a loro il sole si levò col bagliore accecante di una fornace e, una volta in cima al pendio successivo, videro ai loro piedi il mare, lucido come uno scudo di bronzo da guerra appena forgiato. Taita valutò la distanza e commentò: «Raggiungeremo la costa prima del tramonto». Poi, socchiudendo gli occhi, si voltò, restando comunque in sella. E s'irrigidì subito, vedendo non una, bensì quattro colonne distinte di polvere gialla che s'innalzavano sulla pianura alle loro spalle. «Ancora Hilto», esclamò. «Avrei dovuto saperlo che un veterano come lui non si sarebbe dato per vinto così facilmente.» Con un balzo, si mise in piedi sul dorso del cavallo per ottenere una visuale migliore: un vecchio trucco da cavallerizzo. «Durante la notte deve aver fatto il giro del terreno roccioso, e ora ha disposto i carri in linea, formando un cerchio molto ampio, per trovare le nostre tracce. Non c'è bisogno di un indovino per capire che siamo diretti a oriente, verso la costa.» Si affrettò a guardarsi intorno, alla ricerca di un posto che offrisse riparo. Anche se la pianura rocciosa che stavano attraversando sembrava priva di qualunque rifugio, scorse una piega del terreno che avrebbe potuto Wilbur Smith
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nasconderli, se fossero riusciti a raggiungerla in tempo. «Smonta!» ordinò a Nefer. «Dobbiamo restare il più possibile vicino al terreno, senza alzare polvere, se non vogliamo essere avvistati.» Dentro di sé, si rimproverò per non avere preso maggiori precauzioni durante la notte. Mentre deviava per condurre i cavalli verso la piega del terreno, si preoccupò di evitare i tratti di terreno molle, restando sul fondo roccioso, in modo da non lasciare impronte; tuttavia, quando raggiunse il tratto riparato, scoprì che non era profondo abbastanza per nascondere un cavallo. Nefer guardò indietro con ansia. La colonna di polvere più vicina distava meno di mezza lega e si avvicinava in fretta. Le altre si stavano allargando, disponendosi in un ampio semicerchio. «Qui non ci sono posti per nascondersi. Ormai è troppo tardi per fuggire. Ci hanno già circondato.» Taita scivolò a terra dal dorso della sua giumenta, parlandole con dolcezza e chinandosi per accarezzarne le zampe anteriori. La giumenta batté gli zoccoli sul terreno, sbuffando, ma quando lui insistette si abbassò, sia pure di malavoglia, e si stese sul fianco, continuando a sbuffare piano, in segno di protesta, ma quasi rassegnata. Taita si tolse la cintura, usandola per bendare gli occhi dell'animale perché non tentasse di alzarsi. Poi si avvicinò al puledro di Nefer, ripetendo lo stesso trucco. Quando i cavalli furono stesi a terra, ordinò in tono brusco al ragazzo: «Stenditi vicino alla testa del cavallo e tienilo giù, se cerca di alzarsi». Nefer rise per la prima volta da quando aveva saputo della morte del padre. L'abilità di Taita con gli animali non mancava mai d'incantarlo. «Ma come hai fatto a convincerlo, Tata?» «Se parli loro in modo che ti capiscano, faranno tutto ciò che dici. Ora stenditi vicino a lui e tienilo calmo.» Entrambi si stesero dietro i cavalli, osservando le colonne di polvere che avanzavano nella pianura, circondandoli. «Su questo terreno sassoso non potranno individuare le nostre tracce, vero, Tata?» disse Nefer in tono speranzoso. Il vecchio grugnì. Stava osservando l'approssimarsi del carro più vicino a loro. L'onda della calura lo faceva sembrare privo di consistenza, ondulato e distorto come un'immagine filtrata da un velo d'acqua. Avanzava lentamente, deviando da una parte all'altra, come se cercasse una traccia. D'un tratto, però, cominciò ad avanzare con maggiore Wilbur Smith
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determinazione e velocità, e Taita capì che il conducente del carro aveva individuato la loro pista e la stava seguendo. Il carro continuò ad avanzare finché Taita e Nefer non riuscirono a distinguere chiaramente gli uomini a bordo. Erano protesi oltre la sponda anteriore del carro per esaminare il terreno. All'improvviso, Taita mormorò in tono sconsolato: «Per l'alito immondo di Seth, hanno con loro un esploratore nubiano». Il nero alto sembrava ancora più alto grazie al suo copricapo di piume d'airone. Balzò improvvisamente a terra dal veicolo in movimento e cominciò a correre, precedendo i cavalli. Ormai si trovava a cinquecento cubiti dal punto in cui erano distesi. «Sono nel punto in cui abbiamo deviato», sussurrò Taita. «Che Horus nasconda la nostra pista a quel selvaggio...» Si diceva che gli esploratori nubiani riuscissero a seguire persino la pista lasciata da una rondine che volava nel cielo. Con un cenno perentorio, il nubiano fece arrestare il carro. Aveva perso le tracce nel punto in cui i fuggiaschi avevano deviato sul terreno sassoso. Quasi piegato in due, esaminò il terreno spoglio. A quella distanza sembrava un uccello scriba, in cerca di serpenti e roditori. «Non puoi gettare un incantesimo che ci nasconda, Tata?» bisbigliò Nefer, a disagio. Spesso Taita aveva operato quella magia per loro, quando andavano a caccia di gazzelle sulle pianure prive di ripari, e il più delle volte era riuscito ad attirare quei piccoli animali aggraziati a un tiro di freccia, senza che si accorgessero della presenza dei cacciatori. Taita non replicò, ma, quando Nefer gli lanciò un'occhiata, si accorse che il vecchio aveva già in mano il suo talismano più potente, una stella d'oro a cinque punte di fattura straordinariamente raffinata. Sapeva che, dentro quella stella, vi era sigillata una ciocca di capelli che Taita aveva tagliato di nascosto dalla chioma della regina Lostris, mentre lei giaceva sul tavolo degli imbalsamatori. La stella era l'amuleto di Lostris e Taita se la portò alle labbra, recitando in silenzio il Canto per nascondersi agli occhi di un nemico. Laggiù, nella pianura, il nubiano si raddrizzò e, con aria decisa, volse lo sguardo proprio nella loro direzione. «Ha scoperto la deviazione nelle nostre tracce», disse Nefer. Il carro si accodò al nubiano che si stava incamminando verso di loro sul terreno roccioso. Wilbur Smith
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«Conosco bene quel demone», mormorò Taita. «Si chiama Bay, ed è uno sciamano della tribù usbak.» Nefer rimase a guardare, trepidante, mentre il carro e l'esploratore avanzavano con andatura regolare. Il conducente del carro era in piedi e senza dubbio poteva vederli dall'alto, ma non dava segno di averli individuati. Quando si avvicinarono ancora, Nefer riconobbe il conducente: era Hilto. Ne scorse addirittura la cicatrice bianca - ricordo di uno scontro sulla sua guancia destra. Per un istante, Hilto fissò Nefer con occhi penetranti, da falco, poi il suo sguardo scivolò lontano. «Non muoverti», disse la voce di Taita, tenue come la brezza che soffiava sulla pianura assolata. Bay, il nubiano, era ormai così vicino che Nefer riusciva a distinguere tutti i ciondoli della collana che penzolavano sull'ampio torace nudo. Bay si fermò di colpo e il suo viso, coperto di cicatrici rituali, si raggrinzì in una smorfia orribile. Voltò lentamente la testa per indagare tutt'intorno, come un cane da caccia che sente l'usta della selvaggina. «Fermo!» bisbigliò Taita. «Percepisce la nostra presenza.» Bay avanzò lentamente di qualche passo, poi si fermò di nuovo, alzando la mano, e il carro si fermò dietro di lui. I cavalli erano irrequieti e nervosi. Hilto sfiorò la piastra anteriore del carro con l'asta della lancia che teneva in mano, e quel lieve suono raschiante sembrò ingigantito dal silenzio. Il nubiano fissò Nefer direttamente negli occhi. Il ragazzo cercò di sostenere quello sguardo cupo e implacabile senza battere le palpebre, ma i suoi occhi presero a lacrimare per lo sforzo. Bay alzò una mano, stringendo uno dei talismani che pendevano dalla collana, e Nefer riconobbe l'osso dello sterno di un leone divoratore di uomini. Anche Taita aveva uno di quegli ossi nel suo armamentario di talismani e oggetti magici. Bay cominciò a cantare piano, con una voce profonda e melodiosa, poi batté un piede nudo sul terreno compatto e sputò in direzione di Nefer. «Sta penetrando oltre la mia barriera», osservò Taita con voce atona. Di colpo, Bay sogghignò, indicandoli con l'osso di leone che teneva stretto nel pugno. Alle sue spalle, Hilto lanciò un grido di stupore, fissando il punto in cui, all'improvviso, era apparso quel gruppetto di uomini e cavalli, distesi sul terreno aperto. Si trovava ad appena cento cubiti da lui. «Principe Nefer! Sono già trenta giorni che ti cerchiamo. Grazie al Wilbur Smith
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grande Horus e a Osiride, finalmente ti abbiamo trovato.» Nefer si alzò con un sospiro, e Hilto si avvicinò col carro, ne scese e posò un ginocchio a terra davanti a lui. Si tolse poi l'elmo di bronzo, gridando con voce tonante, abituata a lanciare ordini sul campo di battaglia: «Il Faraone Tamose è morto! Lode al Faraone Nefer Seti. Possa egli vivere per sempre». Seti era il nome divino del principe, uno dei cinque nomi di potere che gli erano stati assegnati alla nascita, molto tempo prima che la sua salita al trono fosse certa. Nessuno poteva usare quel nome divino fino al momento in cui veniva proclamato Faraone. «Faraone! Toro possente! Siamo venuti per portarti alla Città Santa, affinché tu possa essere esaltato a Tebe nella tua immagine divina, come Horus d'Oro.» «E se io decidessi di non venire con te, comandante Hilto?» chiese Nefer. Hilto assunse un'espressione turbata. «Con tutto l'affetto e la lealtà che ti devo, Faraone, il reggente dell'Egitto ha impartito l'ordine che tu sia condotto a Tebe. E io devo obbedire a quell'ordine, anche a rischio di dispiacerti.» Nefer lanciò un'occhiata in tralice a Taita, chiedendogli in un sussurro: «Che cosa devo fare?» «Dobbiamo andare con loro.» Così intrapresero il viaggio di ritorno a Tebe con la scorta di cinquanta carri da combattimento guidati dal nobile Hilto. La colonna, obbedendo a ordini rigorosi, si diresse prima di tutto verso l'oasi di Boss. Cavalieri veloci erano stati inviati a Tebe per preannunciare il loro arrivo, e il nobile Naja, reggente dell'Egitto, era uscito dalla città per raggiungere l'oasi e andare incontro al giovane Faraone Nefer Seti. Al quinto giorno di viaggio, lo squadrone di carri, impolverati e malridotti dai mesi trascorsi nel deserto, entrò al trotto nell'oasi. Non appena giunsero all'ombra del folto gruppo di palme, una divisione completa di guardie Phat si schierò per accoglierli. I soldati avevano rinfoderato le armi e tenevano in mano una fronda di palma, che agitavano cantando un inno al loro sovrano. Seti, toro possente, Wilbur Smith
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beniamino della verità, prediletto dalle due signore, Nekhbet e Wadjet. Serpente fiero, grande di potenza, Horus d'Oro, che fa vivere i cuori, Signore del carice e dell'ape, Seti, figlio di Ra, dio-sole, che vive per sempre, in eterno. Nefer era ritto sul carro di testa, affiancato da Hilto e Taita. Indossava abiti laceri e impolverati, e la folta chioma era incrostata di polvere, mentre il viso e le braccia apparivano scuriti dal sole. Hilto guidò il carro per il lungo viale formato da due schiere di soldati, e Nefer sorrise con aria timida agli uomini che riconosceva tra le file, e che lo acclamavano. Avevano amato suo padre, e ora amavano lui. Al centro dell'oasi, accanto al pozzo, sorgeva un gruppo di tende multicolori. Di fronte alla tenda reale, il nobile Naja, circondato da un gruppo di cortigiani, nobili e sacerdoti, attendeva di ricevere il re, irradiando il potere e la grazia della reggenza, lucente e bello, adorno d'oro e di pietre preziose, profumato di unguenti dolci e lozioni fragranti. Ai suoi lati c'erano Heseret e Merykara, le principesse della casa reale di Tamose, col volto perlaceo per il trucco e gli occhi enormi enfatizzati dal kohl. Persino i capezzoli dei seni scoperti erano stati truccati col belletto rosso, così da sembrare ciliegie mature. Le parrucche di crine di cavallo erano però troppo grandi per quelle testoline graziose e i vestiti erano così appesantiti da perle e fili d'oro da farle apparire rigide come bambole di legno. Quando Hilto arrestò il carro davanti a lui, il nobile Naja si fece avanti per deporre a terra il ragazzo sporco. Nefer non aveva avuto occasione di fare un bagno da quando aveva lasciato Gebel Nagara, e puzzava come un caprone. «Come reggente ti saluto, Faraone. Sono il tuo servo e il tuo fedele compagno. Possa tu vivere mille anni.» Intonò quel canto in modo che gli uomini delle file più vicine potessero udire ogni parola. Poi condusse Nefer per mano verso il palco del consiglio, scolpito nel prezioso legno nero che proveniva dal cuore del continente e intarsiato d'avorio e madreperla. Lo collocò sul trono, poi s'inginocchiò per baciare i piedi graffiati e sudici di Nefer senza tradire il minimo segno di ripugnanza, sebbene le unghie dei piedi fossero spezzate e incrostate di sudiciume. Wilbur Smith
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Quindi si alzò e fece alzare anche Nefer, strappandogli di dosso la veste logora per mettere allo scoperto il tatuaggio sulla coscia, quello col cartiglio del Faraone. Poi fece girare lentamente il ragazzo su se stesso, in modo che tutti i presenti potessero vederlo bene. «Salve, Faraone Seti, dio e figlio degli dei. Osserva il tuo segno. Guardate questo segno: tutti i popoli del mondo tremano di fronte al potere del sovrano. Inchinatevi alla potenza del Faraone.» Un grido si levò dai soldati e dai cortigiani intorno al palco: «Salve, o Faraone! Possa egli vivere per sempre nella potenza e nella maestà!» Naja sospinse in avanti le principesse, che s'inginocchiarono davanti al fratello per pronunciare il giuramento di fedeltà. Le loro voci erano quasi impercettibili, finché Merykara, la minore, incapace di trattenersi, non balzò sul palco, in un turbine di gonne ingioiellate, e si precipitò verso il fratello, strillando: «Nefer! Mi sei mancato tanto. Credevo che fossi morto...» Lui ricambiò goffamente l'abbraccio, poi la sorella si ritrasse e, con una risatina, bisbigliò: «Puzzi terribilmente...» Il nobile Naja fece segno a una delle ancelle di portare via la bambina, dopodiché, uno alla volta, tutti i potenti signori dell'Egitto, preceduti dai membri del consiglio reale, si fecero avanti per prestare giuramento di fedeltà. Ci fu un unico momento di disagio, quando il Faraone, osservando l'assemblea, domandò con voce limpida e penetrante: «Dov'è mio zio, il buon Kratas? Lui dovrebbe essere il primo ad accogliermi». Tal mormorò una spiegazione conciliante: «Il nobile Kratas non poteva partecipare. A tempo debito tutto verrà spiegato a vostra maestà». Tal, vecchio e debole, era ormai alla guida del consiglio di Stato ed era diventato una creatura di Naja. La cerimonia ebbe termine quando il nobile Naja batté le mani. «Il Faraone ha appena compiuto un lungo viaggio. Deve riposarsi, prima di guidare la processione verso la città.» Prese per mano Nefer con un gesto autoritario, conducendolo nella tenda reale, così grande da poter ospitare un intero corpo di guardia. Là erano in attesa il responsabile del guardaroba, i profumieri e i parrucchieri, il custode del tesoro reale, i valletti, la massaggiatrice e le ancelle addette al bagno. Taita, ben deciso a restare a fianco del ragazzo, tentò d'insinuarsi nel gruppo di cortigiani senza farsi notare, ma la corporatura alta e snella e la chioma d'argento lo rendevano inconfondibile; inoltre la reputazione di cui Wilbur Smith
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godeva era tale per cui non poteva davvero sperare di passare inosservato in nessun angolo del Paese. Quasi subito gli si parò davanti uno degli ufficiali della guardia. «Salve, nobile Taita. Possano gli dei arriderti sempre.» Sebbene il Faraone Tamose lo avesse elevato alla nobiltà lo stesso giorno in cui aveva apposto il sigillo all'atto che lo rendeva libero, Taita si sentiva ancora a disagio nel sentirsi apostrofare con quel titolo. «Il reggente dell'Egitto ti ha mandato a chiamare», spiegò l'ufficiale, guardando con disprezzo l'abbigliamento sudicio del mago e i sandali vecchi e impolverati che portava ai piedi. «Ma non è bene che ti presenti con questo abbigliamento. Il nobile Naja detesta gli odori molesti e gli abiti non lavati.» La tenda del nobile Naja era più grande e più lussuosa di quella del Faraone, e lui sedeva su un trono di avorio e d'ebano decorato con le rappresentazioni di tutti i grandi dei egizi in oro e in argento, un metallo ancora più raro e prezioso. Il pavimento di sabbia era coperto da tappeti di lana, provenienti dal Paese degli hurriti, intessuti di colori splendidi, tra i quali il verde luminoso che simboleggiava i campi verdeggianti sulle rive del Nilo. Dopo l'elevazione allo stato di reggente, Naja aveva adottato il verde come colore della sua casa. Era convinto che gli aromi gradevoli attirassero gli dei, quindi bruciava l'incenso nei contenitori d'argento sospesi alle catene che pendevano dal palo centrale della tenda e aveva disposto vasetti pieni di profumi sul tavolo basso di fronte al trono. Il reggente si era tolto la parrucca e uno schiavo gli teneva sospeso un cono di cera profumata sulla testa rasata. A mano a mano che si scioglieva, la cera scendeva sulle guance e sul collo, rinfrescandolo e rasserenandolo. L'interno della tenda profumava come un giardino. Persino i cortigiani, gli ambasciatori e i postulanti che sedevano di fronte al trono erano stati convinti - o costretti - a fare il bagno e a profumarsi prima di essere ammessi alla presenza del reggente. Anche Taita, quindi, aveva seguito il consiglio dell'ufficiale. Aveva i capelli lavati e pettinati che scendevano sulle spalle in una cascata d'argento, e il suo abito di lino era stato lavato fino a diventare di un bianco purissimo. All'ingresso della tenda s'inginocchiò, in segno di omaggio, e, nel rialzarsi, sentì intorno a sé un brusio di commenti e congetture. Gli ambasciatori stranieri lo fissarono incuriositi, e udì pronunciare a bassa voce il suo nome. Anche i guerrieri e Wilbur Smith
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i sacerdoti lo salutarono con un cenno, scambiandosi commenti. «È il mago.» «È Taita, l'adepto dei Labirinti.» «È Taita, l'occhio ferito di Horus.» Il nobile Naja alzò la testa dal papiro che stava scorrendo e sorrise rivolto all'estremità opposta della tenda. Era davvero un uomo attraente, col volto dai lineamenti ben cesellati e le labbra sensuali. Il naso era stretto e dritto, gli occhi apparivano luminosi e intelligenti. Il torace nudo non mostrava neanche un filo di grasso, le braccia erano snelle e muscolose. Taita squadrò in fretta le file di uomini che sedevano più vicino al trono. Nel breve tempo trascorso dalla morte del Faraone Tamose, c'era già stata una ridistribuzione dei poteri e dei favori tra nobili e cortigiani. Mancavano molti volti familiari, mentre altri erano usciti dall'ombra, passando dall'oscurità al sole della benevolenza del reggente. E, tra questi, c'era Asmor, comandante delle guardie Phat. «Vieni avanti, nobile Taita.» Naja aveva una voce bassa e gradevole. L'eunuco si avvicinò al trono e alle file di cortigiani che si aprirono per lasciarlo passare. Il reggente gli sorrise. «Sappi che occupi un posto molto elevato nel nostro favore. Hai assolto con grande merito il compito che il Faraone Tamose ti aveva imposto, impartendo al principe Nefer Memnone un'istruzione e un addestramento impareggiabili.» Taita era stupito dal calore di quel saluto, ma non lo lasciò trasparire. «Ora che il principe è diventato il Faraone Seti, avrà ancora più bisogno della tua guida.» «Possa egli vivere per sempre», rispose Taita, e l'assemblea fece eco alle sue parole. «Possa egli vivere per sempre!» «Prendi posto qui, all'ombra del mio trono», disse il nobile Naja con un ampio cenno della mano. «Anch'io avrò molto bisogno della tua esperienza e saggezza, quando si tratterà di mettere ordine negli affari del Faraone.» «Il reggente del re mi rende più onore di quanto io non meriti.» Taita lo guardò con un'espressione mite e benevola. Non permettere che il tuo nemico segreto conosca l'intensità della tua avversione, rammentò a se stesso. Quindi accettò il posto che gli veniva offerto, rifiutando però il cuscino di seta e sedendosi sul tappeto di lana, con la schiena dritta e le spalle ben erette. Gli affari della reggenza prosperavano. In quel momento, si stavano spartendo le proprietà del generale Kratas: poiché era stato condannato per Wilbur Smith
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alto tradimento, tutto ciò che possedeva era stato confiscato dalla corona. «Dal traditore Kratas, al tempio di Hapi e ai sacerdoti dei misteri», disse Naja, leggendo dal papiro. «Tutte le sue terre e le costruzioni sulla riva orientale del fiume tra Dendera e Abnub.» Ascoltando, Taita pianse in silenzio il vecchio amico, ma senza permettere che neppure un'ombra di dolore apparisse sul suo volto. Durante il lungo viaggio dal deserto Hilto gli aveva riferito della morte di Kratas, aggiungendo: «Tutti gli uomini, anche i nobili e i giusti, camminano in punta di piedi alla presenza del nuovo reggente dell'Egitto. È morto anche Menset, che era alla guida del consiglio di Stato. È mancato nel sonno, ma c'è chi dice che qualcuno lo abbia aiutato a cominciare il viaggio verso l'oltretomba. Cinka è morto, giustiziato per alto tradimento, sebbene non avesse più la forza neanche di tradire la vecchia moglie, e le sue proprietà sono state confiscate dal reggente. Ormai sono più di cinquanta, a tenere compagnia al buon Kratas nell'aldilà. E i membri del nuovo consiglio sono tutti al servizio di Naja». Kratas era l'ultimo legame di Taita con l'epoca in cui Tanus, Lostris e lui erano giovani: Taita gli aveva voluto bene. «Dal traditore Kratas, al reggente dell'Egitto, tutto il carico di dhurra custodito a suo nome nei granai di Athribis», continuò a leggere il reggente. Equivaleva al carico di cinquanta chiatte, calcolò Taita, perché Kratas era stato abile nell'investire le sue ricchezze nel traffico di granaglie. Il nobile Naja si era accaparrato una generosa ricompensa per il gravoso compito di assassinare il Faraone. «Questo deposito verrà usato per il bene comune.» Così veniva nobilitata l'espropriazione: Taita, sempre impassibile, si domandò chi sarebbe stato a decidere quale fosse il bene comune. I sacerdoti e gli scribi erano affaccendati a registrare la divisione sulle tavolette d'argilla destinate a essere depositate negli archivi del tempio. Guardando e ascoltando, Taita tenne ben nascoste la collera e la pena in fondo al cuore. «Ora passiamo a un'altra questione importante per la corona», disse infine il nobile Naja, quando tutti gli eredi di Kratas furono privati della loro eredità e lui si ritrovò più ricco di tre lakh d'oro. «Prendiamo in considerazione il benessere e la condizione delle principesse reali, Heseret e Merykara. Mi sono consultato coi membri del consiglio di Stato, e tutti si sono detti concordi sul fatto che, per il loro bene, io debba prendere in Wilbur Smith
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moglie le due principesse. In quanto mie consorti, verranno a trovarsi sotto la mia piena protezione. La dea Iside è la patrona di entrambe le fanciulle di sangue reale, quindi ho incaricato le sacerdotesse della dea di consultare gli auspici, ed esse hanno accertato che questi matrimoni sono approvati dalla dea. Pertanto la cerimonia delle nozze avrà luogo nel tempio di Iside a Luxor, il giorno del primo plenilunio successivo alla sepoltura del Faraone Tamose e all'incoronazione del suo erede, il principe Nefer Seti.» Taita rimase immobile, col volto impassibile, ma tutt'intorno a lui si sollevò un'ondata di mormorii. Le conseguenze politiche di un doppio matrimonio di quel genere avevano un peso straordinario. Tutti i presenti compresero che, con quelle nozze, il nobile Naja era deciso a diventare membro della casa reale di Tamose, e quindi prossimo nella linea di successione. Taita si sentì gelare le ossa, come se avesse appena udito la condanna a morte del Faraone Nefer Seti proclamata a gran voce dalla Torre Bianca nel centro di Tebe. Mancavano soltanto dodici giorni a compiere i settanta richiesti per l'imbalsamazione del Faraone defunto. Subito dopo la sepoltura di Tamose nella Valle dei Re, sulla riva occidentale del Nilo, si sarebbero celebrati l'incoronazione del successore e il matrimonio delle figlie superstiti. E poi il cobra colpirà ancora. Taita ne era più che sicuro. A riscuoterlo dalle riflessioni sui pericoli che si addensavano intorno al principe fu un gran trambusto che si levò nell'assemblea. Senza che lui se ne fosse accorto, il reggente aveva appena dichiarato conclusa l'udienza e si stava alzando per ritirarsi, passando attraverso una cortina alle spalle del trono. Allora Taita si alzò per andarsene. Con un sorriso e un inchino cortese, Asmor si fece avanti. «Il nobile Naja, reggente dell'Egitto, ti chiede di non uscire. T'invita a un'udienza privata.» Asmor era ormai comandante delle guardie del corpo del reggente, col rango di Migliore dei Diecimila. In pochissimo tempo era diventato un uomo potente. Rifiutare la convocazione era inutile, oltre che impossibile, e Taita annuì. «Sono al servizio del Faraone e del suo reggente. Possano entrambi vivere mille anni.» Asmor lo condusse sul retro della tenda, tenendo sollevata la cortina per lasciarlo passare. Taita si ritrovò all'esterno, nel bosco di palme, e l'altro lo guidò, attraverso gli alberi, verso un'altra tenda, assai più piccola e isolata. Wilbur Smith
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Tutt'intorno a quel padiglione c'era una dozzina di guardie, poiché quello era un luogo destinato a riunioni segrete, al quale nessuno poteva avvicinarsi senza essere convocato dal reggente. A un ordine di Asmor, le guardie si fecero da parte, e il comandante invitò Taita ad avanzare nell'interno in penombra. Naja alzò la testa dal bacile di bronzo nel quale si stava lavando le mani. «Sei il benvenuto, mago.» Sorrise con calore, indicando la pila di cuscini al centro del pavimento coperto di tappeti. Mentre Taita si sedeva, il reggente fece un cenno ad Asmor, che andò a mettersi di guardia all'apertura della tenda, sguainando la spada a falce. Nella tenda non c'era nessun altro, ed era impossibile che qualcuno origliasse la conversazione. Naja, che si era tolto i gioielli e le insegne della carica, si mostrò affabile e cordiale mentre prendeva posto su uno dei cuscini di fronte a Taita, indicando i dolci e le bevande alla frutta contenute nelle coppe d'oro disposte in mezzo a loro. «Prego, serviti pure.» L'istinto avrebbe spinto Taita a rifiutare, ma quello sarebbe stato interpretato come segno di ostilità, e avrebbe rivelato a Naja che si trovava davanti a un nemico. Fino a quel momento, nulla lo aveva messo in sospetto: non poteva sapere che Taita conosceva le sue intenzioni nei confronti del nuovo Faraone, o che era al corrente dei crimini commessi dal reggente nonché delle sue ambizioni. Allora, chinando la testa in segno di ringraziamento, Taita scelse la coppa d'oro più lontana dalla sua mano, poi attese che Naja prendesse l'altra coppa. Il reggente la prese e bevve senza esitare. Taita si portò la coppa alle labbra, sorseggiando la bevanda e tenendola in bocca prima d'inghiottire. C'era chi si vantava di possedere veleni che non avevano sapore e non si potevano scoprire, ma lui aveva studiato tutti gli elementi corrosivi, e neppure il sapore acido della frutta sarebbe riuscito a mascherarli alla sua sensibilità. La bevanda comunque era del tutto naturale, e la bevve con piacere. «Grazie per la fiducia», disse Naja in tono grave. Taita capì che non si riferiva al gesto di accettare il rinfresco. «Io sono il servitore del re, e quindi del suo reggente», replicò. «Sei una persona di valore inestimabile per la corona», ribatté Naja. «Hai servito fedelmente tre Faraoni, e tutti e tre si sono affidati al tuo consiglio senza metterlo in discussione.» «Tu sopravvaluti il mio valore, mio signore. Io sono un uomo vecchio e Wilbur Smith
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debole.» Naja sorrise. «Vecchio? Sì, è vero, sei vecchio. Ho sentito dire che avresti più di duecento anni.» Taita chinò la testa, senza confermare né smentire. «Ma debole? No! Sei vecchio e imponente come una montagna. Tutti sanno che la tua saggezza è sconfinata. Possiedi persino il segreto della vita eterna!» L'adulazione era evidente e sfacciata, e Taita cercò d'indagarne i motivi e i significati riposti. Naja rimase in silenzio, guardandolo con aria di attesa. Quale risposta si aspettava di ricevere? Il mago lo guardò negli occhi, affinando la mente, tentando di captare i pensieri dell'altro. Erano fuggevoli ed evanescenti come le sagome saettanti dei pipistrelli nel cielo che s'incupiva al tramonto. Infine catturò per intero uno dei pensieri, e improvvisamente capì che cosa voleva da lui. Quella consapevolezza gli conferì potere, e la strada si aprì davanti a lui come le porte di una città conquistata. «Da mille anni, tutti i re e gli uomini colti cercano il segreto della vita eterna», mormorò. «Forse un uomo lo ha già trovato?» Naja si protese in avanti, impaziente, puntando i gomiti sulle ginocchia. «Mio signore, le tue domande sono troppo profonde per un vecchio come me. Duecento anni non sono la vita eterna.» Taita allargò le mani in un gesto di umiltà, ma distolse lo sguardo, consentendo a Naja di leggere, in quella mezza smentita, esattamente quello che voleva. Cioè la corona doppia dell'Egitto e la vita eterna. Taita sorrise dentro di sé, pur mantenendo un'espressione solenne. I desideri del reggente sono pochi e semplici, pensò. Naja si raddrizzò. «Di questi argomenti seri parleremo un'altra volta.» Nei suoi occhi color miele scintillava una luce di trionfo. «Ora c'è un'altra domanda che vorrei farti. Sarebbe un modo per dimostrarmi che la buona opinione che ho di te è pienamente giustificata... Inoltre troveresti la mia gratitudine senza limiti.» È sgusciante come un'anguilla, pensò Taita. E dire che un tempo lo ritenevo soltanto un abile soldato. È riuscito a tenere celata la luce della sua lampada a tutti noi. «Se è nei miei poteri, non c'è nulla che io possa negare al reggente del Faraone», rispose. «Tu sei un adepto dei Labirinti di Ammon-Ra», disse Naja, con un tono che non ammetteva dinieghi. Ancora una volta, Taita riuscì a scorgere ciò che si annidava nei recessi Wilbur Smith
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oscuri dell'ambizione di quell'uomo. Non vuole soltanto la corona e la vita eterna, ma anche la rivelazione del suo futuro, commentò dentro di sé, poi annuì con umiltà. «Mio nobile Naja, ho studiato i misteri per tutta la vita, e forse qualcosa ho appreso.» «Per tutta la tua lunghissima vita», ribatté Naja con enfasi. «E hai appreso molto.» Taita chinò la testa, restando in silenzio. Come ho potuto pensare che volesse uccidermi? si domandò. Mi proteggerà a prezzo della sua stessa vita, in virtù di quello che crede in mio possesso: il segreto dell'immortalità. «Taita, prediletto degli dei e dei re, desidero che tu consulti per me i Labirinti di Ammon-Ra.» «Mio signore, non ho mai interrogato i Labirinti per qualcuno che non fosse regina o Faraone, o comunque fosse destinato a sedere sul trono dell'Egitto.» «È possibile che sia una persona del genere a chiedertelo, ora», rispose il nobile Naja, caricando d'intenzione il tono della voce. Il grande Horus me lo ha consegnato, e ora lo tengo in pugno, pensò Taita, mentre rispondeva: «M'inchino ai desideri del reggente». «Interrogherai i Labirinti per me oggi stesso. Sono estremamente ansioso di conoscere il volere degli dei.» Il viso di Naja era animato da eccitazione e da avidità. «Nessun uomo può avventurarsi nei Labirinti alla leggera», replicò Taita, prendendo tempo. «Comporta grandi pericoli non soltanto per me, ma anche per colui che richiede la divinazione. Ci vorrà del tempo per preparare il viaggio nel futuro.» «Quanto tempo?» La delusione di Naja era evidente. Taita serrò le mani sulla fronte, fingendo di riflettere. Lasciamogli annusare l'esca per un po', pensò. Questo lo renderà anche più ansioso d'ingoiare l'amo. Infine alzò la testa. «Fino al primo giorno della festa del Toro di Api.» La mattina dopo, quando uscì dalla grande tenda, il Faraone Seti era completamente trasformato rispetto al ragazzino sporco e maleodorante che era entrato nell'oasi di Boss il giorno prima. Con orgoglio regale e veemenza tali da lasciare sconcertato il suo seguito, aveva resistito ai tentativi dei barbieri di rasargli la testa. Al Wilbur Smith
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contrario, si era fatto lavare e pettinare i capelli scuri e ricci, fino a quando non avevano raggiunto una lucentezza che, sotto i raggi del primo sole, si arricchiva di sfumature rossastre. Sui capelli portava l'ureo, il cerchio d'oro con le effigi affiancate di Nekhbet, la dea-avvoltoio, e di Naja, il cobra, i simboli dei due regni, con un occhio blu e uno rosso. Sul mento portava la barba posticcia che era l'insegna della regalità. Il trucco era stato applicato con arte per esaltare la sua bellezza, al punto che la folla in attesa davanti alla tenda levò un sospiro di sincera ammirazione e rispetto, gettandosi a terra per adorarlo. Le unghie finte erano d'oro martellato, e ai piedi indossava sandali d'oro. Sul petto aveva uno dei gioielli più preziosi della corona d'Egitto, il medaglione del pettorale di Tamose, un ritratto di Horus, il dio-falco, tempestato di pietre preziose. Camminava con un passo sicuro per essere così giovane, portando incrociati sul petto il flagello e lo scettro a uncino. Teneva lo sguardo fisso in avanti con aria solenne, almeno finché non scorse con la coda dell'occhio Taita in prima fila tra la folla, e allora roteò gli occhi, accennando una smorfia beffarda di rassegnazione. Il nobile Naja, avvolto in una nuvola di profumo, camminava un passo dietro di lui, scintillante di gioielli, e con un atteggiamento di consapevole superiorità. Sul fianco gli pendeva la spada azzurra, e al braccio destro portava il Sigillo del Falco. Subito dopo venivano le principesse. Sul loro capo spiccavano le piume d'oro della dea Iside, mentre, alle dita delle mani e dei piedi, avevano numerosi anelli d'oro. Tuttavia non indossavano più le gonne rigide del giorno precedente, bensì lunghi abiti che le coprivano dal collo alle caviglie, sebbene il lino fosse così sottile da apparire trasparente, simile alla caligine che aleggiava sul fiume all'alba. Quell'abbigliamento rivelava come il corpo di Merykara fosse ancora acerbo, mentre quello di Heseret appariva già modellato in curve voluttuose: attraverso le pieghe diafane del vestito si potevano scorgere le punte rosee dei seni e, alla base del ventre, il triangolo scuro della femminilità. Il Faraone salì sul carro cerimoniale, prendendo posto sul trono sopraelevato. Il nobile Naja rimase in piedi alla sua destra, mentre le principesse si sedettero ai suoi piedi. Le compagnie dei sacerdoti di tutti i cinquanta templi di Tebe si avviarono davanti a loro, traendo note melodiose dalla lira, battendo il tamburo, agitando il sistro, suonando il corno, cantando e gemendo per lodare e supplicare gli dei. Wilbur Smith
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Subito dopo, si dispose la guardia del corpo di Asmor, seguita dallo squadrone di carri di Hilto, tutti lustrati di fresco e ornati di stendardi e fiori. I cavalli erano stati spazzolati sino a far risplendere il manto come un metallo prezioso, e alle criniere erano stati intrecciati alcuni nastri. I torelli ai quali era aggiogato il carro reale apparivano tutti di un candore immacolato, col dorso massiccio e gibboso decorato da mazzolini di gigli e giacinti d'acqua. Le corna larghe e persino gli zoccoli erano ricoperti d'oro in foglia. I conducenti erano schiavi nubiani nudi, col corpo perfettamente depilato in modo da mettere in risalto le misure dei genitali. Con la pelle unta d'olio dalla testa ai piedi, scintillavano al sole, neri come l'occhio di Seth, in splendido contrasto col manto bianchissimo dei torelli. Pungolarono l'equipaggio del carro, e i torelli presero ad avanzare in mezzo a un turbine di polvere, seguiti da mille guerrieri delle guardie Phat che intonavano a una sola voce l'inno di lode. Il popolo di Tebe aveva aperto i cancelli principali della città per accogliere il corteo, assiepandosi sulla sommità delle mura. A partire da una lega di distanza, avevano ricoperto la superficie polverosa della strada con fronde di palma, paglia e fiori. Tutte le mura, le torri e gli edifici di Tebe erano di mattoni seccati al sole, poiché i blocchi di pietra erano riservati alla costruzione delle tombe e dei templi. Giacché nella valle del Nilo non pioveva quasi mai, quelle costruzioni non si deterioravano, ed erano state tutte imbiancate di fresco e adornate di bandiere azzurro cielo, il colore della casa reale di Tamose. La processione varcò le porte della città mentre la folla danzava, cantava e piangeva di gioia, affollando le strade strette al punto che il passo del carro reale sembrava quello di una tartaruga gigante. Di fronte a ogni tempio che sorgeva lungo la strada il carro reale si fermava con un sussulto poderoso, e il Faraone scendeva con solenne dignità per compiere sacrifici al dio che vi dimorava. Era già tardo pomeriggio quando giunsero alle banchine sul fiume, dove la chiatta reale attendeva di trasportare il seguito del re al palazzo di Memnone, sulla riva occidentale. Una volta salito a bordo il corteo, duecento rematori affondarono nell'acqua le pagaie, che si alzavano e si abbassavano all'unisono al ritmo del tamburo, umide e scintillanti come le ali di una gigantesca egretta. Circondati da una flotta di navi, feluche e altre piccole imbarcazioni, attraversarono il fiume alla luce del tramonto. Wilbur Smith
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Ma i compiti che il Faraone doveva assolvere nel primo giorno di regno non erano ancora finiti. Quando raggiunsero la riva occidentale, un altro carro regale lo portò, attraverso la folla, sino al tempio funebre del padre, il Faraone Tamose. Era buio quando imboccarono la strada rialzata, rischiarata ai lati da due file di falò. Il popolino aveva festeggiato tutto il giorno, grazie alla birra e al vino che il tesoro regale aveva distribuito con generosità. Dalla folla si alzò un rombo assordante quando il Faraone smontò dal carro di fronte al tempio di Tamose per salire la scala fiancheggiata da statue di granito del padre e del suo dio protettore Horus, in tutte le cento fogge divine che poteva assumere: Horus sotto forma del piccolo Arpocrate, coi riccioli e con un dito in bocca, che succhiava il latte dal petto di Iside; Horus accovacciato su un fiore di loto; Horus con la testa di falco; Horus sotto forma di disco solare alato... Sembrava che il re e il dio fossero divenuti una sola cosa. Il nobile Naja e i sacerdoti condussero il giovane Faraone oltre l'alto cancello di legno fino alla Sala del Cordoglio, il luogo sacro in cui si trovava la mummia di Tamose, distesa sulla lastra d'imbalsamazione fatta di diorite nera. In un sacrario separato, posto nella parete laterale e sorvegliato da una statua nera di Anubi, il dio-sciacallo della mummificazione, erano custoditi i canopi di alabastro perlaceo che contenevano le viscere del re, il cuore e i polmoni. In un secondo sacrario, lungo la parete di fronte, era disposto il sarcofago rivestito d'oro massiccio pronto per ricevere il corpo del re. Il coperchio d'oro del sarcofago era un ritratto di Tamose e sembrava così realistico che Nefer si sentì trafiggere dal dolore. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma lui le ricacciò indietro, battendo le palpebre. Poi seguì i sacerdoti verso il corpo del padre, disteso al centro della sala. Il nobile Naja prese posto dall'altra parte della lastra di diorite, di fronte a Nefer e al Gran Sacerdote che stava vicino alla testa del re defunto. Quando tutto fu pronto per il rito dell'«apertura della bocca», due sacerdoti scostarono il telo di lino che copriva il cadavere, e Nefer si ritrasse involontariamente nel vedere il padre. Durante le settimane successive alla morte, mentre Nefer e Taita si trovavano nel deserto, gli imbalsamatori avevano lavorato sul corpo del re. Anzitutto avevano infilato un lungo ferro ricurvo in una narice e, senza lasciare segni visibili, avevano estratto la poltiglia giallastra del cervello. Poi avevano asportato le pupille, che erano soggette a un rapido Wilbur Smith
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deterioramento, provvedendo a riempire le cavità delle orbite e del cranio con sali di natron ed erbe aromatiche. Quindi avevano immerso il corpo in un bagno di sali di natron fortemente concentrati, lasciando scoperta soltanto la testa, e ve lo avevano lasciato per trenta giorni, cambiando ogni giorno i fluidi dall'elevato contenuto alcalino. In questo modo i grassi si erano dissolti e l'epidermide si era consumata, lasciando intatti soltanto la pelle e i peli della testa. Quando finalmente il corpo era stato estratto dal bagno di natron, lo avevano disteso sulla lastra di diorite e ricoperto di unguenti e tinture ricavate dalle erbe. La cavità del ventre era stata riempita con cuscinetti di lino impregnati di resine e cera. La ferita lasciata nel petto dalla freccia era stata ricucita, collocandovi sopra amuleti d'oro e pietre preziose. La freccia con l'impennatura e l'asta spezzata che aveva ucciso il re era stata rimossa dal corpo del Faraone dalle mani degli imbalsamatori e, dopo che il consiglio di Stato l'aveva esaminata, era stata sigillata in una cassetta d'oro che sarebbe stata sepolta insieme col re, come potente talismano per proteggerlo da ogni male che potesse colpirlo nel suo viaggio ultraterreno. Poi, nei rimanenti quaranta giorni necessari al processo d'imbalsamazione, il corpo era rimasto ad asciugare, esposto al vento caldo del deserto che entrava dalle porte spalancate. Una volta secco come legna da ardere, era stato avvolto nelle bende, strisce di lino avvolte intorno al corpo per formare un disegno intricato, mentre i sacerdoti pronunciavano gli incantesimi rivolti agli dei. Sotto le bende erano stati disposti altri talismani preziosi e amuleti. Ogni strato di bende era stato dipinto con resine che, asciugandosi, diventavano dure e lucide. Soltanto la testa era rimasta scoperta e poi, per la settimana precedente al rito dell'«apertura della bocca», quattro degli artigiani più abili nel trucco - che appartenevano alla corporazione degli imbalsamatori - avevano riportato i lineamenti del re a una bellezza quasi naturale, usando cera e cosmetici. Gli occhi del re erano stati sostituiti con riproduzioni perfette in cristallo di rocca e ossidiana. Il bianco era trasparente, mentre il colore dell'iride e della pupilla rispecchiava con assoluta fedeltà quello naturale. Le orbite di vetro sembravano dotate di vita e intelligenza, tanto che Nefer le guardò con rispetto, quasi aspettandosi che le palpebre battessero e le pupille del padre si dilatassero nel riconoscerlo. Le labbra erano state modellate e dipinte di rosso al punto che sembravano aprirsi in un sorriso, e la pelle Wilbur Smith
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appariva calda e vellutata, come se sotto vi scorresse ancora il sangue. I capelli scuri e ricci erano stati lavati e acconciati nel modo che Nefer ricordava così bene. E mentre Nefer fissava il volto del padre, il nobile Naja, il Gran Sacerdote e il coro intonarono l'incantesimo destinato a impedire che il Faraone morisse per la seconda volta. Egli è l'immagine riflessa e non lo specchio. Egli è la musica e non la lira. Egli è la pietra e non lo scalpello. Egli vivrà per sempre. Il Gran Sacerdote si affiancò a Nefer, mettendogli in mano il cucchiaio d'oro. Nefer era stato istruito a eseguire il rituale, ma la mano gli tremò mentre posava il cucchiaio sulle labbra del padre e recitava la formula di rito: «Io apro le tue labbra affinché tu abbia il potere di parlare ancora una volta». Poi toccò il naso del padre col cucchiaio, recitando: «Io apro le tue narici affinché tu possa respirare ancora una volta». Sfiorò l'uno dopo l'altro gli occhi splendidi. «Io apro i tuoi occhi affinché tu possa contemplare ancora una volta lo splendore di questo mondo e lo splendore del mondo a venire.» Quando tutto fu compiuto, il seguito reale rimase in attesa, mentre gli imbalsamatori avvolgevano la testa nelle bende, dipingendola con resine aromatiche. Infine deposero la maschera d'oro sul volto, che parve risplendere di vita ancora una volta. Contrariamente all'usanza, per il Faraone Tamose era stata preparata un'unica maschera funebre, e anche il sarcofago d'oro era uno soltanto. Suo padre era sceso nella tomba coperto da sette maschere e sette sarcofagi, uno dentro l'altro, ognuno più grande e più ricco del precedente. Per tutta la notte, Nefer rimase accanto al sarcofago d'oro, pregando e bruciando incenso, supplicando gli dei di accogliere il padre e di farlo sedere al centro del loro consesso. All'alba uscì coi sacerdoti sul terrazzo del tempio, là dove lo attendeva il capo dei falconieri del re, che teneva un falco reale sul pugno guantato. «Nefertem!» disse Nefer, sussurrando il nome del falco. «'Fiore di loto.'» Prendendo lo splendido rapace dalle mani del falconiere, lo tenne alto sul pugno, in modo che il popolo riunito ai piedi della terrazza potesse Wilbur Smith
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vederlo chiaramente. Intorno alla caviglia destra il falco portava una catenella d'oro con una targhetta sulla quale era inciso il cartiglio reale di suo padre. «Questo è il falco sacro del Faraone Tamose Marnose. È lo spirito di mio padre.» Fece una pausa per ritrovare l'autocontrollo, perché era sull'orlo del pianto, poi aggiunse: «Io rendo la libertà allo spirito di mio padre». Fece scivolare il cappuccio di cuoio dalla testa del falco, e gli occhi fieri scintillarono alla luce dell'alba, mentre l'uccello arruffava le penne. Nefer sciolse i geti di cuoio che portava alla zampa e il falco allargò le ali. «Vola, spirito divino!» gridò il ragazzo. «Vola alto per me e per mio padre!» Lanciò il falco, che trovò subito la corrente del vento e s'innalzò. Per due volte descrisse un cerchio nel cielo, poi, con uno strido selvaggio, si lanciò verso il Nilo. «Il dio vola verso ovest!» gridò il Gran Sacerdote. Tutti i membri della congregazione riunita sui gradini del tempio sapevano che quello era un presagio estremamente sfavorevole. Il principe era così esausto, fisicamente ed emotivamente, che, mentre guardava il falco volare via, barcollò, rischiando di svenire. Taita lo sorresse con prontezza e lo guidò lontano dalla folla. Raggiunta la camera da letto nel palazzo di Memnone, Taita preparò a Nefer una pozione e s'inginocchiò accanto a lui per offrirgliela. Il giovane ne bevve una lunga sorsata, poi domandò: «Come mai mio padre ha soltanto una piccola bara, quando tu stesso mi hai detto che il nonno è stato sepolto in sette sarcofagi d'oro massiccio e ci sono voluti venti buoi robusti per trainare il suo carro funebre?» «Sì, tuo nonno ha avuto il funerale più ricco che si conosca in tutta la storia del Paese, e ha portato con sé nell'aldilà una gran quantità di beni, Nefer», ammise Taita. «Ma quelle sette bare sono costate trenta lakh d'oro puro e hanno ridotto quasi sul lastrico la nazione.» Nefer guardò pensieroso il fondo della coppa, prima di bere le ultime gocce della pozione. «Mio padre merita un funerale altrettanto ricco, perché era un uomo potente.» «Tuo nonno pensava molto alla vita nell'oltretomba», gli spiegò con pazienza Taita. «Tuo padre invece pensava molto al popolo e al benessere dell'Egitto.» Il ragazzo rifletté per qualche istante, poi sospirò, stendendosi sul Wilbur Smith
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materasso di pelle di pecora e chiudendo gli occhi. Quindi li riaprì. «Sono fiero di mio padre», disse con semplicità. Taita gli posò la mano sulla fronte in un gesto benaugurante. «E io so che un giorno tuo padre avrà motivo di essere fiero di te, Nefer.» Taita non aveva avuto bisogno del cattivo presagio del volo a occidente di Nefertem per capire che stava per aprirsi uno dei periodi più terribili nella lunga storia dell'Egitto. Quando lasciò la camera da letto del principe per inoltrarsi nel deserto, alzò gli occhi al cielo e gli parve che le stelle fossero rimaste immobili nel loro percorso e tutti gli antichi dei si fossero ritirati, abbandonando l'intera popolazione di quel grande Paese proprio nell'ora più gravida di pericoli. «Grande Horus», pregò allora, «in questo momento abbiamo bisogno della tua guida. Tu tieni tra le mani Ta-meri, questa terra preziosa. Non fartela sfuggire, lasciandola finire in pezzi come un cristallo. Non voltarci le spalle, ora che siamo in agonia. Aiutami, possente falco. Dammi istruzioni. Rendi manifesti i tuoi desideri, in modo che io possa compiere il tuo volere.» Sempre pregando, salì sulle colline ai margini del grande deserto, e i colpi leggeri del suo lungo bastone sulle rocce allarmarono uno sciacallo, inducendolo a fuggire lungo il pendio illuminato dalla luna. Quando fu certo di non essere più osservato, Taita s'incamminò in direzione parallela al fiume, accelerando il passo. «Horus, tu sai bene che siamo in equilibrio tra guerra e sconfitta. Il Faraone Tamose è stato abbattuto, e non c'è un guerriero che possa guidarci. Apepi e i suoi hyksos al nord sono diventati così potenti da essere quasi invincibili. Raccolgono le forze contro di noi, e noi non saremo in grado di resistere. La corona doppia dei due regni è insidiata dal verme del tradimento e non potrà sopravvivere alla nuova tirannia. Apri i miei occhi, o dio possente, e mostrami la strada per trionfare sulle orde degli hyksos invasori a nord e sul veleno che inquina il nostro sangue.» Per un giorno intero, Taita continuò a camminare tra le colline sassose e i luoghi silenziosi, pregando e cercando di scoprire una via per procedere. A tarda sera si diresse di nuovo verso il fiume, arrivando infine alla meta. Avrebbe potuto raggiungerla direttamente, a bordo di una feluca, ma troppi occhi avrebbero seguito il suo passaggio. Inoltre quel tempo trascorso da solo nel deserto gli era stato di gran conforto. Wilbur Smith
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Nell'oscurità profonda della notte, mentre quasi tutti gli uomini dormivano, raggiunse il tempio di Bes, in riva al fiume. Una torcia ormai sul punto di spegnersi ardeva nella nicchia sopra la porta, illuminando la statua del dio di guardia all'entrata. Bes era il dio nano e deforme dell'ebbrezza e della giovialità, con la lingua che pendeva tra le labbra socchiuse nel torpore indotto dall'ubriachezza. E infatti, nella luce ondeggiante della torcia, sembrò rivolgere un sorriso sghembo a Taita che gli passava accanto. Uno degli accoliti del tempio era sveglio, in attesa di ricevere il mago. Lo guidò verso una cella di pietra nei sotterranei, dove lo attendevano, posati su un tavolo, un orcio di pietra pieno di latte di capra, un piatto di pane di dhurra e miele ancora nel favo, posati sul tavolo. Gli accoliti sapevano bene che una delle debolezze del mago era il miele ricavato dal polline dei fiori di mimosa. «Ci sono tre uomini che attendono il tuo arrivo, mio signore», gli disse il giovane sacerdote. «Fai entrare per primo Bastet», ordinò Taita. Bastet era il capo degli scribi del nomarca di Menfi, e una delle più preziose fonti d'informazioni per Taita. Non era ricco, e doveva sostenere il peso di due mogli graziose e spendaccione, oltre a una nidiata di mocciosi. Taita aveva salvato i suoi figli nel periodo in cui la piaga dei Fiori Gialli devastava l'Egitto. Pur avendo un ruolo secondario, Bastet sedeva accanto al seggio del potere e usava bene le sue orecchie e la sua memoria eccezionale. Aveva molto da riferire a Taita su quello che era accaduto nel nomo di Menfi dopo l'ascesa al trono del nuovo reggente, e ricevette il pagamento con sincera gratitudine. «Una tua parola di protezione sarebbe stata sufficiente, potente mago.» «I bambini non ingrassano con le parole», ribatté Taita, congedandolo. Subito dopo, fu la volta di Obos, Gran Sacerdote del tempio di Horus a Tebe. Doveva la nomina a Taita, che aveva interceduto in suo favore presso Tamose. Quasi tutti i nobili si recavano al tempio di Horus per rendergli omaggio e compiere sacrifici, e tutti si confidavano col Gran Sacerdote. Il terzo uomo che doveva fare rapporto a Taita era Nolro, segretario dell'esercito del nord. Era un eunuco anche lui e, tra coloro che avevano subito quella terribile mutilazione, esisteva un forte legame di solidarietà. Fin dalla sua gioventù, allorché si era trovato a dirigere gli affari di Stato Wilbur Smith
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restando nell'ombra del trono, Taita si era reso conto dell'assoluta necessità di avere informazioni esaurienti sulle quali basare le sue decisioni. Per il resto della notte, e per gran parte del giorno seguente, ascoltò quegli uomini, interrogandoli con attenzione, in modo che, quando fosse stato pronto a tornare al palazzo di Memnone, sarebbe stato al corrente di tutti gli avvenimenti importanti, delle correnti significative che si agitavano sotto la superficie e dei gorghi politici che si erano creati mentre lui era lontano, nel deserto di Gebel Nagara. Soltanto poco prima di sera si rimise in cammino per tornare verso il palazzo, percorrendo la via diretta lungo la riva del fiume. I contadini che rientravano dal lavoro nei campi lo riconobbero, gli rivolsero il segno che augurava buona fortuna e lunga vita e gridarono: «Prega Horus per noi, mago!» poiché sapevano tutti che era un devoto del dio. Molti di loro gli portarono piccoli doni, e un aratore lo chiamò a dividere con lui la cena di frittelle di dhurra e locuste arrostite, accompagnate da latte tiepido di capra appena munto. Al calar della notte, Taita ringraziò il contadino ospitale e si congedò, lasciandolo seduto accanto al fuoco. Poi si affrettò a riprendere il cammino nell'oscurità, ansioso di non perdere la cerimonia della levata del re. Tuttavia era già l'alba quando raggiunse il palazzo. Ebbe appena il tempo di fare il bagno e cambiarsi prima di raggiungere la camera da letto del Faraone. Sulla porta, però, si trovò la strada sbarrata da due guardie, che, al suo apparire, incrociarono le lance. Taita rimase sbalordito. Un fatto simile non era mai accaduto prima, perché lui era il tutore del re, nominato quattordici anni prima dal Faraone Tamose. Lanciò un'occhiata piena di collera al capo delle guardie, che abbassò gli occhi, ma non cedette. «Non intendo offenderti, potente mago. È per ordine esplicito del comandante della guardia del corpo, Asmor. Nessuno può essere ammesso alla presenza del sovrano senza l'approvazione del reggente.» L'ufficiale fu irremovibile, così Taita si allontanò, attraversando la terrazza a lunghe falcate per raggiungere Naja, che stava facendo colazione in mezzo a una piccola cerchia di favoriti e adulatori. «Nobile Naja, sai bene che è stato il padre dell'attuale Faraone a nominarmi suo tutore e mentore. Ho avuto il diritto di avvicinarlo a qualunque ora del giorno e della notte.» Wilbur Smith
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«Questo accadeva molti anni fa, mio buon mago», replicò Naja in tono tranquillo, accettando un chicco d'uva sbucciato dallo schiavo che stava in piedi dietro il suo sgabello e glielo metteva in bocca. «Allora era giusto, ma ora il Faraone Seti non è più un bambino e non ha più bisogno di una bambinaia.» Il tono era distratto, ma non per questo l'insulto risultò meno sarcastico. «Io sono il reggente, e in futuro si rivolgerà a me per ottenere consigli e guida.» «Riconosco il tuo diritto e dovere nei confronti del re, ma tenermi lontano da Nefer non è necessario, oltre a essere crudele.» Taita avrebbe voluto protestare oltre, ma Naja lo ridusse al silenzio con un cenno autoritario. «La sicurezza del re viene prima di ogni altra cosa», ribatté. Poi si alzò, per indicare che il pasto e il colloquio erano finiti. Le sue guardie del corpo lo circondarono, costringendo Taita a indietreggiare. Seguì con gli occhi il corteo di Naja, che si avviava attraverso il cortile per raggiungere la sala del consiglio, ma, invece d'imitarlo, si sedette sul bordo di una delle vasche per i pesci a meditare su quel nuovo sviluppo degli avvenimenti. Naja aveva isolato Nefer, ormai prigioniero nel suo stesso palazzo. Al momento giusto, il Faraone sarebbe stato solo, circondato soltanto da nemici. Cercò di escogitare un sistema per proteggerlo. Ancora una volta prese in considerazione l'idea di fuggire dall'Egitto, di rapire Nefer per portarlo oltre il deserto e metterlo sotto la protezione di una potenza straniera finché non fosse diventato adulto e abbastanza forte per reclamare quello che gli spettava di diritto. Tuttavia era certo che Naja gli aveva sbarrato non solo la porta dell'appartamento reale, ma anche ogni via di fuga da Tebe e dall'Egitto. Non esisteva una soluzione facile, a quanto pareva, e, dopo un'ora di profonde riflessioni, Taita si alzò con un sospiro. Le guardie che sorvegliavano la porta della sala del consiglio si scostarono per farlo passare e lui percorse il corridoio di centro per occupare il suo posto abituale, sulla prima panca. Nefer era seduto sul palco, vicino al reggente. Portava l'hedjet, la corona bianca simbolo dell'Alto Egitto, e aveva un'aria pallida e nervosa. Per un istante, Taita ebbe paura che fosse oggetto di un lento avvelenamento, ma non percepì un'aura di morte intorno al ragazzo. Si concentrò per inviargli una corrente di forza e di coraggio, ma Nefer gli lanciò un'occhiata gelida Wilbur Smith
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e accusatrice, quasi per punirlo di essere mancato alla cerimonia mattutina. Allora Taita dedicò la sua attenzione alle discussioni in corso. Si stavano prendendo in esame gli ultimi rapporti dal fronte settentrionale, dove il re Apepi aveva riconquistato Abnub dopo un assedio durato tre anni. Quella sventurata città aveva cambiato di mano otto volte dopo la prima invasione degli hyksos, avvenuta durante il regno del Faraone Marnose, padre putativo di Tamose. Se Tamose non fosse stato stroncato dalla freccia degli hyksos, forse la sua audace strategia avrebbe impedito quel tragico rovescio militare. Invece di prepararsi per il prossimo attacco degli hyksos contro Tebe, forse le armate egizie sarebbero state lanciate verso la capitale nemica, Avaris... Taita si accorse che il consiglio era diviso in due fazioni in netto contrasto su ogni aspetto della crisi. Cercavano qualcuno cui attribuire la colpa della recente sconfitta, anche se era evidente agli occhi di tutti che la morte del Faraone ne era stata la causa principale, perché aveva lasciato l'esercito senza testa e senza cuore. E Apepi si era prontamente avvantaggiato di quella mancanza. Ascoltando le discussioni, Taita si convinse più che mai che quella guerra era come un ascesso nel corpo dell'Egitto stesso. Esasperato, si alzò e, in silenzio, lasciò il consiglio. Non c'era nulla che potesse fare, restando lì: si stavano ancora azzuffando per decidere a chi affidare il comando dell'esercito del nord per sostituire il defunto Faraone Tamose. «Ora che se n'è andato lui, non c'è nessuno dei nostri comandanti che sia all'altezza di Apepi, né Asmor né Teron né lo stesso Naja», mormorò Taita, allontanandosi. «Dopo sessant'anni di guerra, il Paese e l'esercito sono dissanguati. Dobbiamo avere il tempo per recuperare le forze e dare la possibilità a un grande comandante di emergere dai ranghi dell'esercito.» Pensava a Nefer, ma sarebbero trascorsi anni prima che il ragazzo fosse in grado di assumere il ruolo che il destino gli riservava, come Taita sapeva dallo studio dei Labirinti di Ammon-Ra. «Devo concedergli il tempo necessario e tenerlo al sicuro finché non sarà pronto...» Si diresse verso il gineceo del palazzo. Essendo un eunuco, poteva varcare anche le porte che agli altri uomini erano sbarrate. Erano passati tre giorni da quando le principesse avevano saputo che tra poco sarebbero andate spose, e Taita sapeva che sarebbe dovuto andare a trovarle già da tempo. Dovevano essere confuse e turbate, bisognose del suo conforto e del suo consiglio. Wilbur Smith
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Quando entrò nel cortile, Merykara fu la prima a vederlo. Balzò subito in piedi, piantando in asso la sacerdotessa di Iside, che le stava impartendo una lezione con la tavoletta per scrivere e la spatola, per corrergli incontro coi riccioli che le saltellavano sulle spalle. Gli cinse la vita, abbracciandolo con tutte le sue forze. «Oh, Taita, dove sei stato? Sono tanti giorni che ti cerco...» Alzò la testa per guardarlo e lui si accorse che aveva pianto: gli occhi erano orlati di rosso e segnati da occhiaie scure. E, in quel momento, ricominciò a piangere, con le spalle scosse dai singhiozzi. Taita la prese in braccio, tenendola stretta finché non si fu calmata un po'. «Che c'è, scimmietta? Che cosa ti ha reso così infelice?» «Il nobile Naja mi porterà in un posto segreto e mi farà cose orribili. Mi metterà dentro qualcosa di enorme e aguzzo, che farà soffrire e sanguinare.» «Chi te lo ha detto?» Taita stentava a dominare la collera. «Magara e Saak», singhiozzò Merykara. «Oh, Taita, non puoi impedirgli di farmi queste cose? Ti prego, oh, ti prego.» Taita avrebbe dovuto capire subito che il terrore di Merykara era stato causato dalle due schiave nubiane. Di solito parlavano di mostri e spettri, ma, in quel caso, avevano trovato un altro espediente per tormentare le fanciulle che erano loro affidate. Taita giurò con aria truce di punire le due piccole chiacchierone come meritavano, poi si dedicò a calmare i timori della principessa, ma dovette ricorrere a tutto il tatto e la gentilezza di cui era capace, perché Merykara era terrorizzata. La condusse verso un angolo tranquillo del giardino e, non appena fu seduto, lei gli si arrampicò sulle ginocchia, appoggiandogli la guancia contro il petto. Naturalmente i suoi timori erano infondati. Anche dopo il matrimonio era contrario alla natura, alla legge e alle usanze che Naja si accostasse al suo letto prima che Merykara avesse visto la prima luna rossa e, a quel momento, mancava ancora qualche anno. Finalmente Taita riuscì a tranquillizzarla, poi la guidò verso le scuderie reali per farle ammirare e accarezzare il puledrino nato quella mattina. Quando Merykara riprese a sorridere e chiacchierare, Taita la riportò nell'harem, facendo qualche piccolo gioco di prestigio per divertirla: intingendo il dito in una brocca, trasformò l'acqua del Nilo in una deliziosa bevanda alla frutta, che bevvero insieme, poi lanciò in aria un sasso che si trasformò in un canarino, volando in cima a un albero di fico. Lassù l'uccellino continuò a saltellare e cinguettare, mentre la bambina ballava e Wilbur Smith
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strillava di gioia ai piedi dell'albero. Taita la lasciò per andare in cerca delle due schiave, Magara e Saak, e le rimproverò con tanta violenza che ben presto le due si abbracciarono, piangendo disperate. Lui sapeva che in quei casi era sempre Magara a prendere l'iniziativa, quindi le tirò fuori dell'orecchio uno scorpione vivo e lo tenne vicinissimo al suo viso, provocando nella piccola schiava un tale parossismo di terrore che lei se la fece addosso per la paura. Soddisfatto, Taita andò in cerca di Heseret. Come aveva previsto, era scesa in riva al fiume con la sua lira e, quando lo vide, gli rivolse un sorriso mesto, continuando a suonare. Si sedette accanto a lei, sul pendio erboso sotto i rami del salice che scendevano fino a terra. La melodia che Heseret stava suonando era stata la preferita della nonna, Lostris. Ed era stato proprio Taita a insegnargliela. Il mio cuore freme come una quaglia ferita quando vedo il viso del mio diletto. Le mie guance fioriscono come il cielo all'aurora di fronte al sole del suo sorriso. La sua voce era dolce e intonata, al punto che Taita si sentì gli occhi pieni di lacrime: era come ascoltare di nuovo Lostris. Si unì al canto con una voce ancora limpida e ferma, senza il tremolio della vecchiaia. Sul fiume, i rematori di una nave di passaggio sollevarono i remi per ascoltare con espressione rapita, mentre la corrente trascinava l'imbarcazione. Quando la canzone finì, Heseret posò la lira, voltandosi verso di lui. «Caro Taita, sono così felice che tu sia venuto...» «Mi spiace di averti fatto aspettare, luna di tutte le mie notti.» Lei accennò un sorriso perché quel vezzeggiativo le piaceva molto. «Quale servigio desideri da me?» «Devi andare dal nobile Naja e presentargli le mie scuse più sincere, ma dirgli che non posso sposarlo.» Somigliava davvero tanto alla nonna. Proprio quando aveva l'età di Heseret, anche Lostris gli aveva affidato un compito impossibile con la stessa sicurezza, la medesima fiducia assoluta nella sua capacità di compierlo. La ragazza lo fissò con gli enormi occhi verdi. «Vedi, ho già promesso a Meren che sarei diventata sua moglie.» Meren era il nipote di Kratas, amico d'infanzia del principe Nefer. Wilbur Smith
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Taita aveva notato che Meren guardava spesso Heseret con occhi adoranti, ma non aveva mai sospettato che lei ricambiasse i suoi sentimenti. Si chiese fino a che punto i due si fossero spinti per consumare la loro passione, ma poi accantonò quell'idea. «Heseret, ti ho già spiegato tante volte che tu non sei una ragazza come le altre», le disse con un sospiro. «Sei una principessa reale, e il tuo matrimonio non può dipendere da un'infatuazione giovanile: è un atto che ha gravi conseguenze politiche.» «Tu non capisci, Taita», ribatté Heseret a bassa voce, ma con la pacata ostinazione che lui temeva. «Io amo Meren, lo amo fin da quand'ero bambina. Voglio sposare lui, non il nobile Naja.» «Ma io non posso contraddire il reggente...» Però lei scosse la testa, sorridendo. «Tu sei così saggio, Taita. Escogiterai certamente qualcosa, come fai sempre», mormorò. E lui ebbe l'impressione che gli si spezzasse il cuore. «Nobile Taita, rifiuto di discutere il tuo diritto di accesso al Faraone e il mio imminente matrimonio con le principesse reali. Ho già preso una decisione su entrambe le questioni.» Per sottolineare che l'argomento era chiuso, Naja riportò la sua attenzione al rotolo che teneva aperto davanti a sé. Passò un lasso di tempo sufficiente perché uno stormo di oche selvatiche si levasse dalla palude sulla riva orientale, attraversando le acque grigie del Nilo con pesanti battiti delle ali e sorvolasse il parco del palazzo in cui i due si trovavano. Infine Taita distolse gli occhi dal cielo e si alzò per congedarsi. Mentre s'inchinava al reggente e cominciava a indietreggiare, Naja alzò gli occhi su di lui. «Non ti ho ancora dato il permesso di andartene.» «Mio signore, credevo che non avessi più bisogno di me.» «Al contrario, ho bisogno di te con estrema urgenza.» Gli lanciò un'occhiata collerica, facendogli cenno di sedersi di nuovo. «Stai mettendo a dura prova la mia mitezza e il mio favore. So che eri abituato a consultare i Labirinti per il Faraone Tamose ogni volta che lui te lo chiedeva. Perché con me rimandi tanto a lungo? In qualità di reggente di questo Paese, non intendo ammettere ulteriori rinvii. Te lo chiedo non nel mio interesse, ma per la sopravvivenza stessa della nostra nazione in questa guerra col nord. Ho bisogno della guida di tutti gli dei, e tu sei l'unico che può fornirmela.» Naja si alzò con un movimento così brusco che il tavolo di fronte a lui si rovesciò: rotoli di papiro, pennelli e Wilbur Smith
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inchiostro caddero sulle piastrelle di terracotta. Lui non ci badò, ma la sua voce crebbe di volume fino a diventare un grido. «Io ti ordino, con tutta l'autorità del Sigillo del Falco...» tuonò, toccando l'amuleto che portava al braccio destro, «... ti ordino di percorrere i Labirinti di Ammon-Ra per mio conto!» Taita chinò la testa in un gesto teatrale di rassegnazione. Erano settimane che si preparava a quell'ultimatum, e aveva rimandato soltanto per prolungare al massimo il periodo di tregua durante il quale Nefer sarebbe stato relativamente al sicuro dalle ambizioni del reggente. Continuava a ritenere che il nobile Naja non avrebbe fatto mosse decisive nei suoi confronti finché non avesse ottenuto la sanzione dei Labirinti. «Il plenilunio è il periodo più propizio per i Labirinti», gli disse infine. «Ho già completato i preparativi.» Naja si lasciò cadere di nuovo sui cuscini. «Lo farai qui, nel mio alloggio.» «No, reggente, non è l'ideale.» Taita sapeva che, se voleva assicurarsi un ascendente su Naja, doveva tenerlo sempre sul chi vive. «Più saremo vicini all'influenza degli dei, più precise saranno le predizioni. Ho preso accordi coi sacerdoti del tempio di Osiride, a Busiris. È là che consulterò i Labirinti, a mezzanotte del plenilunio. Celebrerò il mistero nel santuario più interno del tempio, dove si conserva la spina dorsale del dio smembrato dal fratello Seth, la colonna djed, che esalterà la forza delle nostre deliberazioni.» La voce di Taita era carica di significati arcani. «Nel santuario ci saremo soltanto tu e io. Nessun altro mortale deve udire quello che gli dei hanno da dirti. Una delle compagnie di Asmor sorveglierà gli accessi al santuario.» Naja, che era un fedele di Osiride, assunse un'espressione solenne. Come Taita aveva previsto, era rimasto colpito dall'ora e dal luogo prescelti. «Sarà fatto come dici», mormorò. Il viaggio verso Busiris a bordo della nave reale richiese due giorni, con la compagnia di Asmor che li seguiva a bordo di altre quattro navi. Approdarono sulla spiaggia gialla sotto le mura del tempio, dove i sacerdoti aspettavano di accogliere Naja con canti e offerte di gomma arabica e mirra. Il fatto che il reggente apprezzasse le sostanze profumate era già noto in tutto il Paese. Furono condotti negli alloggi preparati per loro. Mentre Naja faceva il bagno e si profumava, ristorandosi, Taita visitò il santuario in compagnia Wilbur Smith
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del Gran Sacerdote e compì sacrifici in onore del grande dio Osiride. Subito dopo, seguendo i discreti suggerimenti di Taita, il Gran Sacerdote si ritirò, lasciandolo ai preparativi per quella sera. Il nobile Naja non aveva mai presenziato alla cerimonia dei Labirinti, e del resto ben pochi lo avevano fatto. Taita voleva organizzare per lui uno spettacolo impressionante, ma non aveva la minima intenzione di sottoporsi alla prova estenuante del rituale autentico. Dopo il tramonto, il Gran Sacerdote offrì un banchetto al reggente, facendo servire in suo onore il celebre vino dei vigneti che circondavano il tempio. Era stato a Busiris che il grande dio Osiride aveva introdotto l'uva in Egitto. Quando il vino raffinato ebbe addolcito il reggente e il resto della compagnia, i sacerdoti misero in scena una serie di rappresentazioni imperniate sulla vita del grande dio. Ognuna raffigurava Osiride con un colore diverso: bianco come le bende di una mummia; nero per indicare il regno dei morti; rosso come il dio della giustizia. Comunque reggeva sempre lo scettro e il flagello, in segno di sovranità, e teneva i piedi uniti come quelli di un cadavere. Nella scena finale, aveva il viso dipinto di verde per simboleggiare l'aspetto vegetale e, come i grani di dhurra, che simboleggiavano la vita e l'esistenza materiale, veniva sepolto nella terra, simbolo della morte. Nel buio del mondo sotterraneo avrebbe germogliato, proprio come i semi di dhurra, per sbucare di nuovo alla luce del giorno nel ciclo glorioso della vita eterna. Mentre venivano eseguite quelle pantomime, il Gran Sacerdote recitava i nomi del potere assegnati al dio: «Occhio della notte», «Creatura benigna eterna», «Figlio di Jeb» e «Wennefer, perfetto nella maestà». Poi, in mezzo al fumo degli incensieri, al rullo del tamburo e al suono del sistro, i sacerdoti intonarono il poema epico della lotta tra bene e male. La leggenda narrava che Seth, invidioso del fratello buono, aveva rinchiuso Osiride in una cassa, gettandola poi nel Nilo per farlo annegare. Quando il suo corpo era stato riportato a riva dalle acque del fiume, Seth lo aveva tagliato a pezzi, sparpagliando per l'Egitto le varie parti, e lì a Busiris aveva seppellito la colonna djed, la spina dorsale. Iside, la sorellasposa di Osiride, aveva cercato e ritrovato tutte le parti del corpo, rimettendole insieme. Aveva poi tentato ogni cosa per farlo tornare in vita, trasformandosi addirittura in falco e battendo le ah sopra Osiride nel tentativo d'infondergli il respiro della vita. Molto prima di mezzanotte il reggente dell'Egitto aveva già consumato Wilbur Smith
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un'intera bottiglia di quel vino potente e si sentiva irrequieto e suggestionabile; inoltre le rappresentazioni dei sacerdoti, in un certo senso, avevano esaltato le sue superstizioni religiose. Quando il raggio argenteo della luna piena penetrò attraverso l'apertura praticata, con estrema precisione, nel tetto del tempio, spostandosi poi in modo impercettibile verso la porta chiusa del santuario, il Gran Sacerdote diede il segnale, e tutti gli altri sacerdoti si alzarono e uscirono in processione, lasciando soli il nobile Naja e Taita. A poco a poco il canto dei sacerdoti che si allontanavano si spense, lasciando il posto a un silenzio greve. Taita prese per mano il reggente, guidandolo attraverso il tempio illuminato dalla luna fino alla porta del santuario interno. Non appena vi furono vicini, la grande porta di bronzo si aprì da sé e il nobile Naja sussultò, mentre la sua mano tremava in quella di Taita. Si sarebbe ritirato, se il mago non lo avesse guidato oltre. Il santuario era illuminato da quattro bracieri, uno in ogni angolo della piccola cella di pietra. Al centro del pavimento ricoperto di piastrelle c'era uno sgabello basso, verso il quale Taita portò Naja, facendogli cenno di sedersi. Mentre il reggente obbediva, la porta si chiuse alle loro spalle, e lui si guardò intorno, spaventato. Si sarebbe alzato per allontanarsi, ma Taita gli posò una mano sulla spalla per trattenerlo. «Qualunque cosa tu veda e oda, non muoverti. Non parlare. Se ci tieni alla vita, non fare niente e non dire niente.» Poi si diresse con passo solenne verso la statua del dio. Alzò le mani e improvvisamente, tra le sue dita, comparve un calice d'oro. Tenendolo per lo stelo, Taita lo protese verso l'alto, invocando Osiride perché ne consacrasse il contenuto, poi portò il calice a Naja, invitandolo a bere. Il liquido viscoso, simile per consistenza al miele, aveva un sapore di petali di rose e funghi. Taita batté le mani, e il calice svanì nell'aria. Il mago si mise allora di fronte a Naja e allargò le braccia, incominciando a muoversi secondo un rituale mistico. D'un tratto nelle sue mani apparvero alcuni dischi di avorio: i Labirinti di Ammon-Ra. Almeno quelli, Naja li riconobbe, grazie ai racconti fantasiosi che gli erano stati fatti sul rituale. Taita lo invitò a coprire con le mani i dischi d'avorio, recitando un'invocazione ad Ammon-Ra e alla schiera degli dei. Maestoso nella luce e nel fuoco, focoso nella divina maestà, avvicinati e accogli le nostre preghiere. Wilbur Smith
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Naja si dimenò sullo sgabello, sentendo i dischi dei Labirinti diventare caldi come il fuoco nelle sue mani, e fu con sollievo che li restituì a Taita. Sudava a profusione, mentre osservava il vecchio mago che li portava verso la parte opposta del tempio, disponendoli ai piedi della gigantesca statua di Osiride. E là il mago s'inginocchiò, curvo sui Labirinti. Per qualche istante non si udì nessun suono all'interno della cella, se non il sibilo delle fiamme, non si vide nessun movimento tranne quello delle ombre proiettate dalla luce tremolante dei bracieri, che danzava sulle pareti di pietra. Poi, all'improvviso, un grido terribile, disumano, risuonò nel santuario. Fu come se il dio si fosse appropriato nuovamente delle parti vitali strappate al suo corpo dal fratello malvagio. Naja si lasciò sfuggire un gemito sommesso, coprendosi la testa con lo scialle. Tornò a regnare il silenzio, ma d'un tratto le fiamme dei brarieri si levarono sino al soffitto, passando dal giallo a sfumature di verde, viola, cremisi e azzurro, e dalle fiamme si sprigionarono grandi nubi di fumo che riempirono il locale. Naja tossì, soffocato dal fumo. Aveva l'impressione di non riuscire a respirare e gli girava la testa. Sentiva il suono del suo stesso respiro echeggiargli nella testa. Taita si girò lentamente a guardarlo e Naja rabbrividì di orrore, perché il mago si era trasformato. Il suo volto era illuminato da una luce verde, come quello del dio risorto. Dalla bocca aperta gli usciva una schiuma verdastra che colava sul petto, mentre gli occhi erano orbite cieche da cui sprizzavano raggi d'argento. Senza muovere i piedi, scivolò verso il luogo in cui sedeva Naja, mentre dalla sua bocca schiumante uscivano le voci di un'orda selvaggia di demoni e jinn, un coro terribile di grida, gemiti, sibili, grugniti, conati di vomito e risate folli. Il nobile Naja tentò di alzarsi, ma era come se i suoni e il fumo gli avessero invaso il cervello. Venne sopraffatto dall'oscurità. Le gambe cedettero e si accasciò in avanti, cadendo dallo sgabello, in deliquio. Quando il reggente dell'Egitto riprese i sensi, il sole era alto e scintillava sulle acque del fiume. Si ritrovò disteso sul giaciglio di seta posto sul ponte di poppa della barca reale, sotto la tenda gialla che lo proteggeva dal sole. Si guardò intorno con occhi annebbiati, e scorse le vele delle navi di scorta bianche come ali di egretta sullo sfondo del verde lussureggiante Wilbur Smith
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delle rive del fiume. Il sole pareva accecarlo. Chiuse di nuovo gli occhi. Aveva una sete incredibile, gli pareva di aver inghiottito una manciata di ghiaia e la testa gli martellava come se tutti i demoni della sua visione vi fossero intrappolati dentro. Rabbrividì con un gemito, poi vomitò nel secchio che uno schiavo gli porgeva. Taita accorse al suo fianco, gli tenne sollevata la testa e gli fece inghiottire una sorsata di una bevanda miracolosa che attenuò all'istante il pulsare della testa, concedendo libero sfogo ai gas intrappolati nel ventre gonfio e lasciandoli eruttare dall'orifizio posteriore con folate di aria maleodorante. Quando si fu ripreso abbastanza da parlare, sussurrò: «Dimmi tutto, Taita. Non ricordo niente. Che cos'hanno rivelato i Labirinti?» Prima di rispondere, Taita allontanò tutti i membri dell'equipaggio e gli schiavi in modo che non potessero sentire. Poi s'inginocchiò accanto a Naja. Il reggente gli posò sul braccio una mano tremante, sussurrando: «Non ricordo niente dopo...» Esitò, mentre i terrori della notte prima tornavano ad assalirlo, e fu scosso da un brivido. «Siamo quasi arrivati a Sebennytos, maestà», gli disse Taita. «Saremo di ritorno a Tebe prima di notte.» «Che cos'è successo?» insistette Naja, scrollando il braccio di Taita. «Che cosa ti hanno rivelato i Labirinti?» «Grandi portenti, maestà.» La voce di Taita tremava di emozione. «Portenti?» L'interesse di Naja si accese e lui si sforzò di stare seduto. «Perché mi chiami così? Io non sono il Faraone.» «Fa parte di ciò che è stato rivelato.» «Dimmelo, dimmi tutto.» «Non ricordi come il tetto del tempio si è aperto, simile ai petali del fiore di loto, e la grande strada è scesa verso di noi dal cielo notturno?» Naja scosse la testa, poi annuì con aria incerta. «Sì, mi pare di ricordare. La strada non era forse una scala dorata?» «Vedi che ricordi», lo elogiò Taita. «Siamo saliti sulla scala dorata.» Naja lo guardò per ottenere conferma. «E siamo stati trasportati sul dorso di due leoni alati...» gli suggerì Taita. «Sì, rammento i leoni, ma tutto quello che viene dopo è ombra e incertezza.» «Questi misteri ottundono la mente e offuscano gli occhi che non vi Wilbur Smith
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sono abituati. Persino io, che sono un adepto del settimo e ultimo grado, sono rimasto turbato dall'esperienza che abbiamo condiviso», gli spiegò Taita con gentilezza. «Ma non disperare, perché gli dei mi hanno ordinato di spiegarteli.» «Parla, buon mago, e non risparmiarmi i dettagli.» «Sul dorso dei leoni alati siamo saliti attraverso l'oceano scuro, superando i picchi delle montagne bianche, e tutti i regni della terra e del cielo erano dispiegati sotto di noi.» «Sì, vai avanti!» lo spronò Naja. «Infine siamo giunti nella cittadella dove dimorano gli dei. Le fondamenta giungevano fino agli abissi del mondo dell'aldilà, mentre le colonne sostenevano il cielo e tutte le stelle. Ammon-Ra ci è apparso in tutto il suo splendore, e tutti gli altri dei erano seduti su troni d'argento e oro, di fuoco, di cristallo e di zaffiro.» Naja lo guardò, battendo le palpebre; gli risultava ancora difficile mettere a fuoco le cose. «Sì, ora che me lo dici, lo rammento. I troni di zaffiri e diamanti...» Il disperato bisogno di credere in quelle parole ardeva in lui come un fuoco. «E poi il dio ha parlato?» azzardò. «Mi ha parlato, vero?» «Sì. Con voce tonante come il crollo di una montagna, il grande dio Osiride ha detto: 'Diletto Naja, sei sempre stato fedele nella tua devozione verso di me e sarai ricompensato'.» «Qual era il significato di queste parole? Lo ha spiegato, Taita?» L'altro annuì con aria solenne. «Sì, maestà.» «Hai usato di nuovo quel titolo. Spiegami perché.» «Sia fatto come tu vuoi, maestà. Ti ripeterò tutto, parola per parola. Il grande Osiride si è mostrato in tutta la sua terribile gloria, sollevandoti dal dorso del leone alato per collocarti accanto a sé sul trono di fuoco e d'oro. Ti ha toccato la bocca e il cuore, e ti ha salutato col titolo di fratello divino.» «Mi ha chiamato 'fratello divino'? Che cosa intendeva?» Taita represse un fremito d'irritazione. Naja era sempre stato un uomo intelligente, acuto e percettivo; di solito non c'era bisogno di spiegargli ogni cosa per filo e per segno. Era chiaro che gli effetti del fungo magico che Taita gli aveva somministrato la sera prima e delle esalazioni drogate dei bracieri non si erano ancora dissipati. Forse ci sarebbero voluti giorni prima che riuscisse a riflettere di nuovo lucidamente. Dovrò calcare la Wilbur Smith
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mano, decise il mago. «Sono rimasto perplesso anch'io nell'udire le sue parole. Il significato non mi era chiaro, ma poi il grande dio ha parlato di nuovo: 'Ti accolgo nel consesso del cielo, fratello divino'.» Il viso di Naja s'illuminò, assumendo un'espressione orgogliosa e trionfante. «Mi stava forse deificando, Taita? Di certo il significato non può essere che questo.» «Se mai ci fosse stato un dubbio, è stato dissipato immediatamente. Infatti Osiride ha preso la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto e te l'ha posta sulla testa, pronunciando queste parole: 'Salve, fratello divino! Salve, futuro Faraone'.» Naja era rimasto in silenzio, ma lo fissava con occhi scintillanti. Dopo una lunga pausa, il vecchio proseguì: «Con l'incoronazione, la tua deificazione è divenuta manifesta. Mi sono inginocchiato di fronte a te e ti ho adorato insieme con gli altri dei». Naja non fece il minimo sforzo per mascherare le emozioni che provava. Si sentiva in estasi, era vulnerabile come dopo un orgasmo. Taita approfittò di quel momento. «Poi Osiride ha aggiunto: 'In questi prodigi, la tua guida sarà il mago Taita, poiché egli è un adepto di tutti i misteri e maestro dei Labirinti. Segui fedelmente le sue istruzioni, e tutte le ricompense che ti ho promesso saranno tue'.» Tacque, spiando la reazione di Naja. Forse sono stato troppo esplicito, pensò. Invece il reggente parve accettare quella condizione senza difficoltà. «Che altro, Taita? Che altro ha detto il grande dio?» «A te nient'altro, mio signore, ma a quel punto si è rivolto direttamente a me. Le sue parole mi hanno colpito fin nel profondo dell'animo, perché mi ha imposto un pesante fardello. Queste sono le sue esatte parole, incise a fuoco nel mio cuore: 'Taita, maestro dei Labirinti, d'ora in poi non avrai altro amore né lealtà né dovere. Tu sei il servo del mio fratello divino, Naja. La tua unica preoccupazione dev'essere aiutarlo a compiere il suo destino. Non cesserai di farlo finché non vedrai la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto posata sul suo capo'.» «'Non avrai altro amore né lealtà'», ripeté Naja a bassa voce. Pareva che si fosse già liberato di gran parte degli effetti negativi della prova subita. Stava riacquistando le forze e nei suoi occhi color miele tornava a scintillare la luce dell'astuzia. «E hai accettato l'incarico che il grande Osiride ti ha affidato, mago? Rispondi in modo franco e leale: sei il mio uomo, adesso, o intendi rinnegare la parola del grande padre?» Wilbur Smith
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«Come potrei negare qualcosa al grande dio?» replicò Taita con semplicità, chinando la testa fino a sfiorare le assi del ponte. Poi prese tra le mani il piede destro di Naja e vi posò la fronte. «Accetto l'incarico che gli dei mi hanno affidato. Sono il tuo uomo, divina maestà. Appartengo a te, testa, cuore e animo.» «E gli altri tuoi doveri? Che ne è del giuramento di fedeltà che hai pronunciato verso il Faraone Nefer Seti al momento della nascita?» «Maestà, il grande dio Osiride mi ha assolto da tutti gli impegni precedenti. Ora nessun giuramento conta per me, a parte quello che ora faccio a te.» Naja lo fece alzare, fissandolo negli occhi in cerca di tracce d'inganno o di malizia. Taita ricambiò lo sguardo con serenità. Sentiva i dubbi, le speranze e i sospetti del reggente brulicare come un cesto pieno di topi vivi in attesa di essere portati ai falchi del re. Il desiderio è padre dell'azione, pensò Taita. Vorrà credere, perché desidera che sia così. Osservò gli occhi color miele e vide i dubbi svanire lentamente. «Ti credo», disse Naja, abbracciandolo. «Quando porterò la corona doppia, tu riceverai ricompense superiori alle tue aspettative. Superiori a ciò che puoi anche solo immaginare...» Nei giorni seguenti, Naja lo tenne sempre accanto a sé, e Taita sfruttò quella nuova posizione di fiducia per modificare alcune delle intenzioni inespresse del reggente. Su invito di Naja, studiò di nuovo gli auspici, sacrificando una pecora per esaminarne le viscere e lasciando libero un falco dell'allevamento reale per osservarne l'andamento in volo. In base a questi elementi fu in grado di stabilire che il dio non avrebbe approvato il matrimonio di Naja con le principesse sinché non fosse cominciata almeno la successiva inondazione del Nilo, altrimenti l'esito dell'inondazione sarebbe stato senz'altro negativo: e quello era un disastro che neppure Naja poteva permettersi. La vita stessa dell'Egitto dipendeva dall'inondazione del grande fiume. Con quella profezia, Taita aveva rinviato il pericolo per Nefer, oltre a stornare la sofferenza dalle due principesse. Naja protestò e sollevò obiezioni, ma, dopo quella terribile notte a Busiris, trovava quasi impossibile resistere alle predizioni di Taita. In questo senso fu reso più docile anche dalle notizie negative che giungevano dal fronte di guerra a nord. Per suo ordine, e contro il Wilbur Smith
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consiglio di Taita, gli egizi avevano lanciato un disperato contrattacco per tentare di riconquistare Abnub, e avevano fallito, perdendo trecento carri e quasi un reggimento di fanteria nei terribili combattimenti che avevano avuto luogo intorno alla città. Apepi sembrava ormai deciso a infliggere un colpo mortale alle truppe avversarie demoralizzate e indebolite, dirigendosi verso Tebe a capo di un grande esercito. Non era certo il momento adatto per un matrimonio: persino Naja fu costretto ad ammetterlo. Così la sicurezza di Nefer fu garantita ancora per qualche tempo. C'era già un flusso costante di profughi che, da Tebe, fuggivano via terra e lungo il fiume in direzione del sud. Il numero delle carovane in arrivo da oriente diminuì in modo allarmante, perché i mercanti rimanevano in attesa di vedere l'esito dell'imminente offensiva degli hyksos. Tutte le scorte si ridussero ben presto al minimo, mentre i prezzi salirono alle stelle. «L'unico modo per evitare una sconfitta terribile per mano di Apepi è negoziare una tregua», suggerì Taita al reggente. Stava per aggiungere che la tregua non doveva assolutamente tramutarsi in una resa: dovevano semplicemente approfittare di quella pausa per rafforzare le loro posizioni militari. Comunque Naja non gli lasciò il tempo di esporre le sue idee. «Lo credo anch'io, mago», si affrettò a replicare. «Più volte ho tentato di convincere il mio diletto amico, il Faraone Tamose, della saggezza di questa linea di condotta, ma lui non ha mai voluto darmi ascolto.» «Abbiamo bisogno di tempo...» riprese Taita. Ma il reggente lo interruppe con un cenno imperioso, riducendolo al silenzio. «Ma certo, hai ragione», commentò. Pareva eccitato da quell'inatteso appoggio. Aveva tentato senza successo di convincere i membri del consiglio ad accettare la pace con gli hyksos, ma nessuno lo aveva sostenuto. Persino il leale Asmor aveva rischiato d'incorrere nella sua ira, giurando che preferiva gettarsi sulla spada piuttosto che arrendersi ad Apepi. Scoprire che l'onore fioriva anche su un terreno così improbabile era stata una rivelazione che lo aveva indotto a più miti consigli. Inoltre quella particolare circostanza gli aveva fatto capire che anche il reggente aveva dei limiti in ciò che poteva imporre ai consiglieri di Stato. La pace con gli hyksos costituiva la pietra angolare della visione di Naja, che mirava a vedere i due regni riuniti sotto un unico Faraone. Wilbur Smith
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Soltanto un Faraone che fosse in parte egizio e in parte hyksos poteva sperare di riuscire in un'impresa del genere, e lui ormai sapeva, con assoluta, cristallina chiarezza, che era proprio quello il traguardo che gli dei, attraverso i Labirinti, gli avevano promesso. In tono grave, proseguì: «Avrei dovuto saperlo che tu, Taita, eri il solo che non si sarebbe lasciato accecare dai pregiudizi. Tutti gli altri non fanno che gridare: 'No alla resa!' oppure: 'Meglio la morte che il disonore! '» Scosse la testa. «Tu e io ci rendiamo conto che, se qualcosa non si può conquistare con la forza delle armi, forse si può raggiungere in modo più pacifico. Dopo sessant'anni trascorsi nella valle del Nilo, gli hyksos ormai si stanno avvicinando molto a noi egizi. Sono stati sedotti dai nostri dei, dalla nostra filosofia e dalle nostre donne. Il loro sangue selvaggio è stato ammansito e ingentilito dal nostro, le loro usanze sfrenate sono state mitigate dai nostri modi nobili.» La reazione del reggente a quel consiglio era stata così entusiastica che Taita, sul momento, ne rimase assai sconcertato. Poi intuì che quell'atteggiamento nascondeva qualcosa. Per guadagnare tempo, in modo da poter riflettere e intuire le vere intenzioni di Naja, assentì, mormorando: «Le tue sono parole di saggezza. Come possiamo sperare di ottenere questa tregua, nobile reggente?» «So che anche tra gli hyksos ci sono molti che condividono questi nostri sentimenti», si precipitò a spiegare Naja. «Basterebbe poco per ottenere che si unissero a noi, e allora potremmo portare pace e unità nei due regni.» I veli cominciavano a squarciarsi. Taita rammentò all'improvviso un sospetto che, una volta, aveva sentito esprimere, ma che all'epoca aveva respinto. «Chi sono questi simpatizzanti hyksos?» domandò. «Occupano una posizione elevata? Sono per caso vicini ad Apepi?» «Sono nobili, certo, e uno di loro siede addirittura nel consiglio di guerra di Apepi.» Naja sembrava pronto a diffondersi sull'argomento, ma poi, con uno sforzo evidente, si trattenne. Ma per Taita quelle parole erano più che sufficienti. Le voci - fino a quel momento piuttosto vaghe - sui contatti che Naja aveva avuto con gli hyksos in passato erano dunque attendibili. Dunque, se quei contatti c'erano stati, allora anche il resto tornava. Restò colpito ancora una volta dall'ampiezza delle ambizioni del reggente. «Sarà possibile incontrare questi nobili e parlare con loro?» s'informò con cautela. Wilbur Smith
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«Sì», confermò Naja. «Potremmo raggiungerli nel giro di pochi giorni.» Per Taita le implicazioni di quella semplice affermazione erano enormi: il reggente dell'Egitto aveva alleati segreti tra le file del suo nemico tradizionale. Quali altri segreti nascondeva? Fin dove si era spinto con le sue dita avide? Taita sentì correre un brivido lungo la spina dorsale. E questo sarebbe l'amico amorevole che era al fianco del Faraone quand'è stato colpito! pensò, con una fitta al cuore. Questo è l'unico testimone della morte del Faraone! Questa creatura dall'ambizione sconfinata e dalle mire crudeli ammette di essere amico intimo e confidente dei nobili hyksos, ed è stata proprio una freccia hyksos a uccidere il Faraone. Fin dove arriva il complotto? Si guardò bene dal far trapelare dal proprio volto quelle riflessioni, limitandosi ad annuire con aria pensierosa. A quel punto, Naja si premurò di aggiungere: «Sono certo che è possibile raggiungere un accordo con gli hyksos, e prevedere una coreggenza tra Apepi e me, con un consiglio di Stato riunito. Tuttavia poi sarà necessaria la tua influenza per indurre i nostri consiglieri a ratificarlo. Forse potresti consultare di nuovo i Labirinti, e rendere noto il volere degli dei...» Dunque Naja gli stava suggerendo di porre in atto una falsa divinazione. Aveva forse il sospetto che a Busiris fosse accaduto qualcosa del genere? Taita pensava di no, ma doveva soffocare quell'idea sul nascere. Assunse un'espressione severa. «In qualunque faccenda riguardi i Labirinti, citare invano il nome o la parola del dio Ammon-Ra, o travisare il suo oracolo, significherebbe attirare su di sé una punizione terribile.» Naja fu pronto a ritrattare. «Non intendevo suggerire una simile empietà... Però, attraverso i Labirinti, gli dei mi hanno già dato la loro sanzione.» Taita si lasciò sfuggire un grugnito. «Prima dobbiamo stabilire se questo trattato è fattibile. Apepi potrebbe essere convinto che la sua posizione militare sia inattaccabile e rifiutare d'incontrarci. Nonostante le proposte di pace da parte nostra, potrebbe decidere di proseguire la guerra a oltranza.» «Non credo che questo accadrà. Ti darò i nomi dei nostri alleati dall'altra parte. Devi avvicinarli in segreto, Taita. Tu sei noto e rispettato anche tra gli hyksos, e io ti darò un talismano per dimostrare che agisci con il mio benestare. Sei l'emissario migliore della nostra causa. A te daranno ascolto.» Wilbur Smith
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Taita rimase immobile a lungo, assorto nei suoi pensieri. Tentava di capire se era possibile ricavare qualche altro vantaggio per Nefer e le principesse da quella situazione, ma non riusciva a trovarne. Qualunque cosa accadesse, Nefer si sarebbe trovato in pericolo di vita. Se voleva assicurare la sopravvivenza al principe, c'era un'unica via praticabile: far uscire Nefer dall'Egitto mentre Naja era ancora al potere. Sarebbe stato possibile farlo in quella occasione? Naja gli stava offrendo un salvacondotto per la frontiera. Poteva sfruttarlo per portare Nefer con sé? Non gli ci volle molto tempo per rendersi conto che si sarebbe trattato di un'azione troppo rischiosa. Per ordine di Naja, inoltre, i suoi contatti col Faraone adolescente erano ancora alquanto limitati. Non aveva mai il permesso di rimanere solo con lui, non poteva neanche sedergli accanto nelle sedute del consiglio, né scambiare con lui anche i messaggi più innocenti. L'unica occasione in cui gli era stato concesso di avvicinarlo, nelle ultime settimane, era stata quando Nefer aveva accusato un'infezione alla gola. Taita era potuto entrare nella camera per assisterlo, ma, anche in quell'occasione, Naja e Asmor erano presenti e osservavano tutto ciò che accadeva, ascoltando ogni parola che veniva pronunciata. A causa del male che lo aveva colpito, Nefer riusciva a parlare soltanto in un bisbiglio, ma non aveva mai distolto lo sguardo dal viso di Taita e, al momento della separazione, si era aggrappato alla sua mano per trattenerlo. Tutto ciò era accaduto quasi dieci giorni prima. Alcuni tutori erano stati incaricati da Naja di sostituire Taita, e Asmor aveva messo a disposizione vari istruttori scelti tra le Guardie Azzurre perché Nefer continuasse a esercitarsi nell'arte di cavalcare e guidare il carro, nel combattimento con la spada e nel tiro con l'arco. Nessuno dei vecchi compagni poteva fargli visita, neppure il suo amico più intimo, Meren, al quale era stato esplicitamente ordinato di tenersi alla larga dall'alloggio del Faraone. Se avesse fatto un tentativo per portare via Nefer, e se quel tentativo fosse fallito, non soltanto avrebbe perso la fiducia di Naja, ma avrebbe anche esposto il Faraone a un pericolo terribile. No, quella sortita oltre le linee, per raggiungere il territorio degli hyksos, poteva essere utile unicamente in vista di un accordo che salvaguardasse il giovane sovrano, o quantomeno non lo mettesse in pericolo di vita. «È mio dovere, un dovere che mi è stato affidato dagli dei, aiutarti in ogni modo. Intraprenderò questa missione», disse Taita. «Qual è la via più Wilbur Smith
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sicura per passare attraverso le linee hyksos? Tu dici che sono ben noto tra loro, e che sarò riconosciuto.» Era evidente che Naja aveva previsto la domanda. «Devi usare la vecchia strada dei carri, che attraversa le dune e passa lungo lo uadi di Gebel Wadun. I miei amici dall'altra parte terranno sotto sorveglianza la strada.» Taita annuì. «Quella è la strada lungo la quale ha trovato la morte il Faraone Tamose. Io non mi sono mai spinto oltre Gallala. Avrò bisogno di una guida che mi mostri il resto del percorso.» «Ti manderò il mio portatore di lancia e uno squadrone di Guardie Azzurre per aiutarti a superare il confine», promise Naja. «Ma la strada è lunga e difficile. Devi partire subito. Anche un giorno può essere decisivo. Anche un'ora può esserlo...» Taita aveva guidato il carro lungo tutta la strada dalla città abbandonata di Gallala a Gebel Wadun, concedendosi soltanto quattro soste. Avevano coperto il percorso impiegando mezza giornata in meno rispetto a Naja e Tamose, e per giunta affaticando di meno gli animali. I soldati a bordo dei nove carri che lo seguivano erano intimoriti dalla fama del mago. Sapevano che poteva essere considerato il padre del corpo di cavalleria del Faraone, poiché era stato il primo, in Egitto, a costruire un carro e ad aggiogarvi i cavalli. La sua corsa da Tebe a Elefantina per portare la notizia della vittoria riportata dal Faraone Tamose sugli hyksos era entrata ormai nella leggenda e in quel momento, seguendo il suo carro tra le dune, i soldati scoprivano che quella leggenda era fondata. La resistenza del vecchio era impressionante, la sua capacità di concentrazione non conosceva incrinature. Le mani gentili ma ferme che stringevano le redini non si stancavano mai: per ore e ore riusciva a blandire i cavalli per indurli a dare il meglio. Aveva impressionato tutti gli uomini dello squadrone, e soprattutto quello che viaggiava accanto a lui, a bordo del carro. Gil, il portatore di lancia di Naja, era un uomo dal volto cotto dal sole e segnato da una fitta rete di rughe. Era leggero di corporatura, il che costituiva un vantaggio per un conducente di carri, ma dotato anche di una notevole forza di resistenza nonché di un buon carattere. Del resto, se era stato prescelto per il carro del comandante doveva necessariamente essere uno dei migliori. Wilbur Smith
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Dato che la luna era in fase calante e la stagione era torrida, avevano viaggiato di notte, per godere della frescura. All'alba si fermarono a riposare. Dopo aver abbeverato i cavalli, Gil si avvicinò a Taita, seduto su un masso che sovrastava lo uadi di Gebel Wadun, per offrirgli l'orcio di terracotta pieno d'acqua. Taita bevve una lunga sorsata dal beccuccio, mandando giù senza tradire la minima ripugnanza l'acqua amara che avevano portato da Gallala. Era la prima bevanda che prendeva da quando si erano fermati per l'ultima sosta, a mezzanotte. Questo vecchio demonio è resistente come un predone beduino, pensò Gil con ammirazione, accovacciandosi a rispettosa distanza in attesa di qualunque ordine che Taita potesse impartire. «Dov'è il punto in cui è stato colpito il Faraone?» gli chiese infine il mago. Gil si schermò gli occhi per difendersi dal riverbero del sole nascente, indicando lo uadi nel punto in cui il letto del fiume in secca sboccava nella pianura. «Laggiù, mio signore. Vicino a quella fila distante di colline.» La prima volta che Taita aveva interrogato Gil era stato durante il consiglio, quando il portatore di lancia aveva testimoniato sulle circostanze relative alla morte del Faraone. Il consiglio aveva convocato tutti coloro che potevano essere al corrente della vicenda perché testimoniassero, e Taita ricordava che il resoconto di Gil era stato coerente e credibile. Non si era lasciato impressionare dallo sfarzo del consiglio e dei suoi illustri componenti, ma aveva parlato chiaro, da quel soldato semplice e onesto che era. Quando gli era stata mostrata, aveva riconosciuto senza esitazioni la freccia hyksos che aveva colpito il Faraone Tamose: l'asta era divisa in due parti, perché il nobile Naja l'aveva spezzata per alleviare il dolore della ferita. Quella era stata la prima volta che si erano incontrati. Dopo la partenza da Tebe avevano scambiato qualche parola un paio di volte, ma prima di allora non c'era stata l'occasione per fare una vera conversazione. «Ci sono altri uomini che erano con te quel giorno?» chiese Taita. «Soltanto Samos, ma, quando siamo stati attaccati, lui ci aspettava coi carri nello uadi», rispose Gil. «Voglio che m'indichi il punto esatto e mi accompagni sul campo di battaglia», gli disse Taita. Gil scrollò le spalle. «Non c'è stata nessuna battaglia, solo una scaramuccia. Ci sarà ben poco da vedere, perché è un posto arido. Wilbur Smith
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Comunque sarà fatto come il potente mago comanda.» I soldati risalirono sui carri, scendendo in fila lungo il ripido versante dello uadi. Non pioveva da cento anni, e neppure il vento del deserto era riuscito a cancellare le tracce dei carri del Faraone, ancora incise profondamente nel terreno e facili da leggere. Quando arrivarono in fondo allo uadi, Taita continuò a seguirle, facendo passare le proprie ruote nei solchi profondi che avevano lasciato. Rimasero all'erta, nel timore di un'imboscata degli hyksos, sorvegliando tutt'e due le rive dello uadi, ma, anche se la roccia spoglia danzava nella calura, simile a un miraggio, non videro nessuna traccia del nemico. «Ecco la torre di guardia.» Gil puntò il dito in avanti, e Taita scorse il profilo irregolare che pendeva, come ubriaco, sullo sfondo azzurro del cielo sereno. Superarono un'altra curva nel letto del fiume. Persino a duecento passi di distanza Taita scorse, sulla sabbia soffice che copriva il fondo dello uadi, la zona fitta di tracce confuse dove i carri dello squadrone di Tamose si erano fermati per invertire la direzione, e molti uomini erano scesi prima di risalire a bordo. Taita segnalò al suo piccolo drappello di rallentare, dopodiché proseguirono a passo d'uomo. «È qui che il Faraone è smontato, e noi siamo andati avanti col nobile Naja per ispezionare il campo di Apepi», spiegò Gil, indicando un punto oltre la sponda del carro. Taita si fermò, ordinando agli altri di fare altrettanto. «Aspettatemi qui», disse all'ufficiale che comandava il carro successivo, poi si girò verso Gil. «Vieni con me. Fammi vedere il campo di battaglia.» Gil lo precedette lungo il sentiero ripido. Da principio camminava lentamente, per deferenza verso il vecchio, ma ben presto si accorse che Taita gli teneva testa senza sforzo e accelerò l'andatura. La pendenza aumentava e la superficie diventava sempre più irregolare a mano a mano che salivano. Persino Gil ansimava, quando raggiunsero finalmente la massa di macigni, ammonticchiati a metà del pendio, che quasi sbarravano il sentiero. «Io mi sono fermato qui», mormorò. «Allora è qui che è caduto il Faraone.» Taita si guardò intorno, osservando il pendio della collina, ripido ma aperto allo sguardo. «Dov'erano nascoste le truppe degli hyksos? Da quale direzione è partita la freccia fatale?» «Non so dirtelo, signore.» Gil scosse la testa. «Il resto degli uomini e io Wilbur Smith
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abbiamo ricevuto l'ordine di aspettare qui, mentre il nobile Naja avanzava oltre quei massi.» «Dov'era il Faraone? È andato avanti anche lui con Naja?» «No, non subito. Il sovrano ha aspettato insieme con noi. Il nobile Naja ha sentito un rumore più avanti. È andato a controllare, ed è scomparso alla nostra vista.» «Non capisco... Allora quand'è che siete stati attaccati?» «Noi aspettavamo qui, e mi sono accorto che il Faraone cominciava a spazientirsi. Poco dopo, il nobile Naja ha fischiato, da un punto oltre le rocce. Il Faraone è scattato in piedi. 'Venite, seguitemi', ci ha detto, incamminandosi verso il sentiero.» «Eravate vicini?» «No, io ero verso il fondo della fila.» «Hai visto che cos'è successo subito dopo?» «Il Faraone è scomparso dietro le rocce. Poi si sono sentite alcune grida e il rumore di un combattimento. Ho sentito voci di hyksos, frecce e lance che colpivano le rocce. Sono corso in avanti, ma il sentiero era affollato dagli uomini che cercavano di superare i massi per raggiungere il luogo del combattimento.» Gil corse per mostrargli il punto in cui il sentiero si restringeva, girando intorno al masso più alto. «Sono riuscito ad arrivare soltanto fin qui. Poi il nobile Naja ha gridato che il Faraone era stato colpito. Gli uomini intorno a me hanno incominciato ad agitarsi e, d'un tratto, hanno trascinato il re giù per il sentiero, verso il punto in cui mi trovavo. Penso che ormai fosse già morto.» «Quanto erano vicini gli hyksos? Quanti erano? Si trattava di soldati di cavalleria o di fanteria? Hai riconosciuto le insegne delle compagnie?» domandò Taita. Tutti gli hyksos portavano insegne caratteristiche, che le truppe egizie avevano imparato a conoscere bene. «Erano molto vicini», rispose Gil. «Ed erano in tanti. Almeno uno squadrone.» «Di quale corpo?» insistette Taita. «Sei riuscito a distinguere le piume?» Per la prima volta, Gil assunse un'espressione incerta e un po' vergognosa. «Mio signore, non ho visto i nemici coi miei occhi. Erano dietro le rocce lassù, capisci?» «Allora come fai a sapere quanti erano?» Taita lo fissò, aggrottando la fronte. Wilbur Smith
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«Il nobile Naja gridava...» mormorò Gil, poi s'interruppe, abbassando gli occhi. «Qualcuno degli altri ha visto i nemici, a parte Naja?» «Non lo so, onorevole mago. Vedi, il nobile Naja ci ha ordinato di tornare indietro lungo il sentiero, verso i carri. Ci siamo accorti che il Faraone era ferito a morte, anzi forse già morto, e ci siamo persi d'animo tutti.» «Dopo, però, devi averne discusso coi tuoi compagni. Nessuno di loro ha detto di aver ingaggiato battaglia con un nemico? Di aver colpito uno degli hyksos con una freccia o la lancia?» Gil scosse la testa con aria dubbiosa. «Non ricordo. No, credo di no.» «A parte il Faraone, ci sono stati altri feriti?» «No, nessuno.» «Perché non lo hai riferito al consiglio? Perché non hai detto che non avete visto i nemici coi vostri occhi?» Taita era furioso. «Il nobile Naja ci ha dato istruzioni precise, ordinandoci di rispondere in modo semplice, senza far perdere tempo al consiglio con vuote vanterie e lunghi resoconti della parte che avevamo avito nel combattimento.» Gil curvò le spalle, con aria imbarazzata. «Immagino che nessuno di noi volesse ammettere che siamo scappati senza combattere.» «Non prendertela, Gil. Hai semplicemente eseguito gli ordini», gli disse Taita in tono più cordiale. «Ora sali su quelle rocce lassù e tieni gli occhi bene aperti. Siamo ancora nel cuore del territorio degli hyksos. Non ti farò aspettare a lungo.» Procedette lentamente, aggirando il macigno che bloccava il sentiero. Poi si soffermò a osservare il terreno davanti a sé. Da quel punto riusciva appena a distinguere la sommità della torre di guardia in rovina. Il sentiero saliva in quella direzione, descrivendo una serie di curve a tornante, prima di sparire oltre la cresta della collina. Il pendio era piuttosto aperto, senza ripari che potessero nascondere i soldati hyksos in agguato; c'erano soltanto alcuni affioramenti di roccia e qualche albero spinoso, riarso dal sole, sparso qua e là. Taita rammentò che la morte del Faraone era avvenuta di notte: eppure qualcosa continuava a turbarlo. Avvertiva una sensazione negativa, come se fosse spiato da una forza potente e maligna. Quella sensazione aumentò al punto che lui rimase immobile sotto il sole, chiudendo gli occhi. Aprì le vie della mente e dell'animo, diventando una spugna secca, pronta ad assorbire ogni influenza che provenisse Wilbur Smith
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dall'aria intorno a lui. E quasi subito la sensazione crebbe d'intensità. C'era qualcosa di terribile, in quel luogo, ma il punto focale della presenza maligna si sprigionava da un luogo non lontano da lui, proprio di fronte. Aprì gli occhi, avviandosi in quella direzione. Non si vedeva niente, nient'altro che roccia arroventata dal sole e alberi spinosi, ma Taita sentiva nell'aria torrida l'odore del male, un odore lieve ma rancido, come l'alito di un avvoltoio intento a divorare la carogna di un animale selvatico. Si fermò ad annusare l'aria come un cane da caccia, e avvertì un odore di polvere, asciutto ma pulito. Per lui, quella era la prova che quell'odore elusivo non rientrava nelle leggi della natura. Stava percependo l'eco flebile di un male che era stato perpetrato in quel luogo, ma, quando tentò d'individuarla, essa si dileguò. Fece un passo in avanti, poi un altro ancora, e l'odore nauseante aleggiò di nuovo intorno a lui. Un altro passo. Quella volta l'odore fu accompagnato da una sensazione di grande sofferenza, come se Taita avesse perduto qualcosa d'inestimabile, qualcosa che non avrebbe mai potuto rimpiazzare. Dovette farsi forza per avanzare di un altro passo sul sentiero sassoso e, in quell'istante, qualcosa lo investì con forza tale da svuotargli i polmoni di tutta l'aria. Lanciò un grido straziato e cadde in ginocchio, con le mani strette sul petto, incapace di respirare. Si sentiva dilaniato da un dolore spaventoso, il dolore della morte, e lottò per respingerlo, come se fosse un serpente che gli aveva avvolto le spire intorno al corpo. Poi riuscì a gettarsi all'indietro sul sentiero, e il dolore svanì all'istante. Gil, che lo aveva sentito gridare, arrivò di corsa lungo il sentiero e lo afferrò di peso, rimettendolo in piedi. «Che cosa c'è?» disse ansimando. «Che cosa ti fa soffrire, mio signore?» Taita lo respinse. «Vattene! Lasciami! Se resti qui, sei in pericolo. Questa non è opera di uomini, bensì di dei e demoni. Va'! Aspettami ai piedi della collina.» Gil esitò, poi vide lo sguardo di quegli occhi scintillanti e si ritrasse, come se si trovasse di fronte a uno spettro. «Va'!» ripeté Taita, con una voce che Gil si augurò di non sentire mai più. Dopodiché il portatore di lancia fuggì. Per molto tempo, dopo che Gil si fu allontanato, Taita si sforzò di ritrovare il controllo del corpo e della mente, perché gli consentissero di sfidare le forze schierate contro di lui. Infilando la mano nel piccolo sacchetto di cuoio che portava appeso alla cintura, ne estrasse la stella di Wilbur Smith
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Lostris, la strinse nella mano destra e riprese ad avanzare. Quando raggiunse quel punto esatto sul sentiero, il dolore lo colpì ancora una volta, con intensità anche maggiore, come se una freccia dalla punta di selce gli si fosse conficcata nel petto. Riuscì a stento a trattenere un grido, indietreggiando sotto l'effetto del colpo. Non appena si allontanò, il dolore svanì, com'era accaduto la prima volta. Ansimando, fissò il terreno sassoso, che a prima vista sembrava del tutto uguale a ogni altro punto del sentiero accidentato già percorso. Poi comparve ai suoi piedi una piccola ombra eterea e, sotto i suoi occhi, quell'ombra cambiò, trasformandosi in una pozza lucente di un cupo colore scarlatto. Allora Taita cadde lentamente in ginocchio. «Il sangue sgorgato dal cuore di un re e di un dio», sussurrò. «Qui! È in questo punto esatto che è morto il Faraone Tamose.» Si fece forza, recitando con voce sommessa ma ferma l'invocazione a Horus, un incantesimo così potente che soltanto un adepto del settimo grado osava pronunciare. Giunto alla settima ripetizione, udì un fruscio di ali invisibili che smuovevano l'aria del deserto intorno a lui. «Il dio è qui», sussurrò ancora, ricominciando a pregare. Pregava per il Faraone e l'amico, supplicando Horus di dare sollievo alla sua sofferenza e liberarlo dalla tortura. «Consentigli di allontanarsi da questo luogo di terrore», disse, rivolto al dio. «Dev'essere stato un omicidio, se la sua anima è intrappolata qui.» Pregando, compiva i segni necessari per esorcizzare il male e, sotto i suoi occhi, la pozza di sangue cominciò a ritirarsi, come se fosse inghiottita dalla terra arida. Quando anche l'ultima goccia fu scomparsa, Taita udì un suono sommesso e indistinto, simile al grido di un neonato che si sveglia all'improvviso. E finalmente si sentì alleggerito dal peso terribile della perdita e della sofferenza che lo aveva oppresso. Alzandosi, provò un grande senso di sollievo e poté avanzare verso il luogo in cui prima era apparsa la pozza di sangue. Persino quando i suoi piedi calzati di sandali furono saldamente piantati in quel punto fatale, non provò il minimo dolore: il senso di benessere rimase intatto. «Va' in pace, amico mio e mio re. Possa tu vivere in eterno», recitò a voce alta, facendo il segno per augurare lunga vita e felicità. Si voltò, e stava per ridiscendere il pendio della collina verso i carri in attesa quando qualcosa lo trattenne, costringendolo a fermarsi. Alzò la testa per fiutare di nuovo l'aria. Sì, sentiva ancora aleggiare quell'odore Wilbur Smith
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maligno, sebbene si trattasse soltanto di una vaga traccia. Risalì con cautela il pendio, superando il punto in cui era morto il Faraone, poi proseguì. A ogni passo, il lezzo terribile del male diventava più intenso, finché non gli serrò la gola, provocandogli un conato di vomito. Ancora una volta si rese conto che quello era un fenomeno estraneo all'ordine naturale delle cose. Proseguì per una ventina di passi, poi l'odore cominciò a svanire. Allora si fermò, tornando indietro, e subito l'odore ridivenne più intenso. Continuò a spostarsi avanti e indietro fino a raggiungere il punto in cui l'odore aveva la massima forza, poi si allontanò dal sentiero e lo sentì ancora di più: era quasi soffocante. Si trovava sotto i rami contorti di un albero spinoso che cresceva vicino al sentiero. Alzando gli occhi, vide che i rami avevano una forma singolare, come se fossero stati intrecciati da mano umana per formare una croce ben riconoscibile, che spiccava contro l'azzurro del cielo. Allora abbassò gli occhi, e la sua attenzione fu attirata da una roccia delle dimensioni e della forma di una testa di cavallo. Era stata spostata da poco, prima di essere riportata nella posizione originale. Taita la sollevò dalla depressione in cui si trovava, e scoprì che nascondeva una piccola nicchia, scavata tra le radici dell'albero spinoso. Posando a terra la roccia, sbirciò in fondo alla nicchia. Là dentro c'era qualcosa. Allungò la mano con cautela, perché quello era il tipo di nascondiglio che poteva ospitare un serpente o uno scorpione. Ne estrasse invece un oggetto intagliato e decorato con eccezionale maestria, e dovette fissarlo per qualche istante prima di rendersi conto che si trattava di una faretra piena di frecce. Quanto alle sue origini, non c'era possibilità di sbagliarsi, perché la fattura era nello stile degli hyksos e l'immagine impressa sulla copertura di cuoio era quella di Seueth, il dio della guerra dalle fattezze di coccodrillo venerato dai guerrieri hyksos. Taita tolse il coperchio della faretra e scoprì che conteneva cinque frecce da guerra, con l'impennatura verde e rossa. Ne estrasse una, e il suo cuore cominciò a battere all'impazzata. Non c'erano dubbi: aveva esaminato con attenzione l'originale, spezzato e incrostato di sangue, che Naja aveva presentato al consiglio. La freccia che aveva tra le mani era identica a quella che aveva ucciso Tamose. Tenendo la freccia sollevata alla luce, scrutò con attenzione il simbolo impresso sull'asta dipinta: era una testa di leopardo stilizzata, che teneva tra le mascelle la lettera ieratica T. Era lo stesso simbolo che aveva visto Wilbur Smith
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sulla freccia responsabile della morte del Faraone. Questa era la sua gemella. Taita la girò e rigirò tra le mani, come se cercasse di estrarne fino all'ultima stilla d'informazione, poi l'accostò al naso, fiutandola. Si sentiva soltanto l'odore del legno, della vernice e delle piume. Il fetore che lo aveva guidato fino al nascondiglio era svanito. Perché mai l'assassino del Faraone avrebbe dovuto nascondere la faretra? Dopo il combattimento gli hyksos erano rimasti padroni del campo e avrebbero avuto tutto il tempo necessario per recuperare le armi. Questo è un oggetto bellissimo, di grande valore. Nessun guerriero lo abbandonerebbe, a meno che non vi fosse costretto, pensò Taita. Continuò a frugare il pendio della collina per un'ora, ma senza trovare altri oggetti interessanti e senza sentire di nuovo quell'odore soprannaturale di putrefazione e di male. Quando scese verso il punto in cui i carri lo aspettavano, nello uadi, portava con sé la faretra, nascosta sotto la veste. Attesero, nascosti nello uadi, fino al calar della notte, e soltanto allora, dopo aver lubrificato il mozzo delle ruote con grasso di montone per evitare che cigolasse, e ricoperto accuratamente con foderi di cuoio gli zoccoli dei cavalli e tutte le armi libere e gli oggetti che potessero fare rumore, per impedire che tradissero la loro presenza, si addentrarono nel territorio degli hyksos sotto la guida di Gil. Era evidente che il portatore di lancia conosceva bene la zona, e Taita, pur senza fare commenti, si chiese quante altre volte avesse percorso quella strada col suo padrone, e quanti altri incontri ci fossero stati coi nemici. Ormai erano scesi nella pianura alluvionale del Nilo. Per due volte dovettero allontanarsi dalla strada e attendere, mentre gruppi di uomini armati, nel buio, passavano accanto al loro nascondiglio. Dopo mezzanotte, raggiunsero il tempio in rovina di qualche dio ormai dimenticato, un tempio ipogeo scavato nel fianco di una bassa collina di argilla. La cavità era abbastanza grande da offrire riparo all'intero squadrone, vetture, cavalli e uomini. Fu subito evidente che era stato già usato a quello scopo: alcune lampade e un'anfora d'olio erano nascoste dietro l'altare semidistrutto, mentre, nella cella del tempio, erano accatastate balle di foraggio per i cavalli. Tolsero i finimenti ai cavalli e li sfamarono, poi i soldati mangiarono a Wilbur Smith
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loro volta, si stesero sui pagliericci e ben presto cominciarono a russare. Nel frattempo, Gil si era cambiato, indossando le vesti anonime di un contadino. «Non posso usare un cavallo», spiegò a Taita, «perché attirerebbe troppo l'attenzione. A piedi ci vorrà mezza giornata per arrivare al campo di Bubasti. Non sarò di ritorno prima di domani sera.» E scivolò fuori della caverna, dileguandosi nella notte. Il buon Gil non è un sempliciotto come potrebbe sembrare, pensò Taita, mentre si metteva tranquillo ad aspettare che gli alleati del nobile Naja rispondessero al messaggio portato loro dal soldato. Non appena si fece giorno, mise di guardia una sentinella in cima alla collina, nel punto in cui sbucava in superficie il pozzo di ventilazione del tempio sotterraneo. Poco prima di mezzogiorno un fischio sommesso lungo il condotto li ammonì del pericolo, e Taita si arrampicò fino in cima per raggiungere la sentinella. Da oriente, una carovana di asini carichi si dirigeva direttamente verso l'ingresso del tempio, e lui intuì che erano quei mercanti a usarlo come caravanserraglio improvvisato; erano stati senz'altro loro a lasciare la riserva di foraggio. Scese di corsa la collina, tenendosi lontano dalla vista della carovana in arrivo, e, in mezzo alla strada, sistemò alcuni ciottoli di quarzo bianco disposti secondo un disegno particolare, recitando al contempo tre versetti tratti dal Libro assiro della Montagna del Male. Poi si ritirò, aspettando l'arrivo della carovana. L'asino di testa precedeva il resto della colonna di circa cinquanta cubiti. Era chiaro che l'animale sapeva dell'esistenza del tempio e delle delizie che conteneva, perché non aveva bisogno d'incoraggiamenti da parte del conducente, ma procedeva al trotto. Quando però raggiunse il mucchietto di pietre di quarzo bianco sul sentiero, il piccolo animale scartò con tanta violenza che il basto gli scivolò sotto il ventre, restando sospeso. L'asino prima s'impennò, poi partì al galoppo, dirigendosi verso i campi, lontano dal tempio, con gli zoccoli che parevano volare in tutte le direzioni. Il suo roco ragliare contagiò il resto degli animali della colonna, che ben presto cominciarono a impuntarsi e resistere alle redini, sferrando calci ai conducenti e correndo in cerchio come se fossero attaccati da uno sciame di api. I conducenti della carovana impiegarono metà del pomeriggio per catturare i fuggiaschi, calmare gli animali terrorizzati e riportarli nuovamente sulla strada del tempio. Stavolta la carovana era preceduta Wilbur Smith
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dalla figura corpulenta del capo carovana, vestito in modo sfarzoso, che trascinava dietro di sé l'asino riluttante, tenendolo per la briglia. Tuttavia, quando vide le pietre al centro della pista, si fermò. La colonna si affollò alle sue spalle e gli altri conducenti, facendo ampi gesti con le braccia, vennero avanti per tenere una riunione improvvisata nel bel mezzo della strada. Le loro voci alterate arrivarono fino a Taita, nascosto tra gli ulivi sul pendio della collina. Alla fine, il capo carovana, lasciando indietro gli altri, avanzò. I suoi passi erano audaci e sicuri, ma ben presto rallentarono, facendosi incerti. Alla fine l'uomo si fermò, avvilito, studiando da lontano il disegno formato dalle pietre di quarzo. Poi sputò verso le pietre, tirandosi subito indietro, neanche si aspettasse che ricambiassero l'insulto. Infine fece il segno di scongiuro contro il malocchio prima di allontanarsi in tutta fretta per raggiungere i compagni, gridando e gesticolando per ordinare loro di tornare indietro. Non ci volle molto per convincerli. In breve tempo, l'intera carovana si ritirò, riportandosi lungo la strada da cui era venuta. Allora Taita scese la collina, sparpagliando le pietre sul margine della strada e lasciando disperdere gli influssi che racchiudevano: i visitatori che lui attendeva dovevano trovare aperta la strada. Arrivarono mentre si approssimava il breve crepuscolo estivo: venti uomini armati che cavalcavano a tutta velocità. Erano guidati da Gil, in sella a uno stallone evidentemente preso in prestito. Superarono le pietre sparpagliate fino a raggiungere l'ingresso del tempio, dove smontarono con un gran tintinnio di armi. Il capo era un uomo alto, con le spalle larghe, le sopracciglia folte e corrucciate e il naso carnoso e adunco. I folti baffi neri erano così lunghi da ricadergli sul petto, e portava nastri colorati intrecciati alla barba. «Tu sei lo stregone, sì?» domandò con un forte accento. Taita non ritenne opportuno fargli capire che parlava hyksos come uno di loro, quindi rispose con modestia nella propria lingua, guardandosi bene dal confermare o dallo smentire i poteri magici che possedeva. «Mi chiamo Taita e sono un servo del grande dio Horus. Invoco il suo favore su di te. Vedo che sei un uomo potente, ma non conosco il tuo nome.» «Il mio nome è Trok, capo supremo del clan del Leopardo e comandante dell'esercito del nord del re Apepi. Hai un pegno per me, stregone?» Taita aprì la mano destra per mostrargli una minuscola scheggia di porcellana smaltata di azzurro, la metà superiore di una piccola statua Wilbur Smith
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votiva del dio Seueth. Trok la esaminò, poi estrasse un altro frammento di ceramica dal sacchetto che portava legato alla cintura, facendo combaciare i due pezzi. Gli orli frastagliati corrispondevano alla perfezione. Si lasciò sfuggire un grugnito soddisfatto e disse: «Vieni con me, stregone». Trok si allontanò nell'oscurità sempre più fitta, accompagnato da Taita. In silenzio salirono il pendio della collina, sedendosi poi l'uno di fronte all'altro alla luce delle stelle. Il soldato hyksos tenne fra le ginocchia il fodero della spada, con la mano posata sull'elsa della pesante arma a forma di falce. Di certo lo faceva più per abitudine che per diffidenza, pensò Taita, ben consapevole, tuttavia, che quello era un uomo da tenere d'occhio. «Tu mi porti notizie del sud», disse Trok. Era una affermazione, non una domanda. «Mio signore, hai saputo della morte del Faraone Tamose?» «Sì, sappiamo della morte del pretendente tebano grazie ai prigionieri che sono stati catturati quando abbiamo conquistato la città di Abnub.» Trok stava bene attento a non riconoscere né con le parole né col tono l'autorità del Faraone egizio. Per gli hyksos, l'unico sovrano dei due regni era Apepi. «Abbiamo sentito anche dire che un bambino aspira al trono dell'Alto Egitto.» «Il Faraone Nefer Seti ha soltanto quattordici anni», confermò Taita, mettendo altrettanta cura nell'insistere sul titolo di Faraone quando parlava di lui. «Gli manca qualche anno per raggiungere la maggiore età e, nel frattempo, il nobile Naja funge da reggente.» Trok si protese in avanti, rivelando un interesse tanto improvviso quanto intenso. Taita sorrise dentro di sé. Se neppure la notizia di quel fatto così eclatante era giunta agli hyksos, allora le loro spie erano davvero inette... Poi rammentò che, poco prima della morte del re, il Faraone Tamose e lui stesso si erano impegnati in una lotta senza quartiere contro le spie e gli informatori presenti a Tebe: ne avevano scovato e arrestato più di cinquanta, giustiziandoli poi tutti, dopo averli sottoposti a un interrogatorio e averli torturati. Taita provò una cupa soddisfazione al pensiero di essere riuscito a interrompere il flusso d'informazioni che arrivava al nemico. «Quindi vieni da noi in base all'autorità del reggente del sud...» borbottò Trok e poi, con una strana aria di trionfo, chiese: «Qual è il messaggio che porti da parte di Naja?» «Il nobile Naja desidera che io presenti la proposta direttamente ad Wilbur Smith
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Apepi», disse Taita, prendendo tempo. Non voleva fornire a Trok neanche una sola informazione in più di quanto non fosse strettamente necessario. L'altro si adombrò subito. «Naja è mio cugino», ribatté in tono gelido. «Di certo vuole che io ascolti fino all'ultima parola il messaggio che ha mandato.» Taita esercitava un tale controllo sulle proprie emozioni che riuscì a non tradire la sorpresa, anche se, da parte di Trok, quella era una grave indiscrezione. Tutti i sospetti di Taita sui precedenti del reggente erano confermati, ma la sua voce rimase misurata mentre replicava: «Sì, mio signore, lo so. Tuttavia, quello che devo dire ad Apepi è di tale importanza...» «Tu mi sottovaluti, stregone. Godo della completa fiducia del tuo reggente.» La voce di Trok era arrochita dall'esasperazione. «So benissimo che sei venuto a offrire ad Apepi una tregua e a negoziare con lui una pace duratura.» «Non posso dirti altro, mio signore.» Questo Trok può ben essere un guerriero, ma certo non è un cospiratore, pensò Taita, senza lasciar trapelare i suoi pensieri né dalla voce né dai modi. «Posso rivolgere il messaggio soltanto al capo dei pastori, Apepi.» Era quello il titolo riservato al sovrano hyksos nell'Alto Egitto. «Puoi portarmi da lui?» «Come preferisci, stregone. Tieni pure la bocca chiusa, se vuoi. Anche se non vedo a che scopo.» Trok si alzò, furioso. «Il re Apepi è a Bubasti. Andremo subito laggiù.» Chiusi in un silenzio gelido, tornarono verso il tempio sotterraneo, dove Taita chiamò a sé Gil e il comandante delle guardie del corpo. «Avete svolto bene il vostro compito», disse loro, «ma ora dovete tornare a Tebe con la stessa segretezza con cui siete venuti.» «Non tornerai con noi?» gli chiese con ansia Gil, che evidentemente si sentiva responsabile dell'incolumità del vecchio. «No», rispose Taita, scuotendo la testa. «Io rimango qui. Quando farai rapporto al reggente, digli che sono andato a incontrare Apepi.» Alla luce fioca delle lampade a olio, i cavalli vennero aggiogati ai carri e in breve tempo furono pronti a partire. Gil prese dal carro la sella di cuoio di Taita e gliela consegnò, prima di salutarlo con rispetto. «È stato un grande onore viaggiare con te, mio signore. Quand'ero bambino, mio padre mi ha raccontato molte delle tue avventure. Ha cavalcato con le tue truppe ad Assyut. Era al comando dell'ala sinistra.» «Come si chiamava?» chiese Wilbur Smith
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Taita. «Lasro, mio signore.» «Ah, sì», confermò Taita con un cenno del capo. «Lo ricordo bene. Ha perso l'occhio sinistro in quella battaglia.» Gil lo fissò con aria di rispetto e di meraviglia. «È accaduto quarant'anni fa, e tu lo ricordi ancora.» «Trentasette», lo corresse Taita. «Va' in pace, giovane Gil. Ieri sera ho tracciato il tuo oroscopo. Godrai di una lunga vita e otterrai grandi onori.» Rimasto senza parole per l'orgoglio e la soddisfazione, il portatore di lancia tirò le redini per allontanarsi nella notte. Ormai anche le truppe del nobile Trok erano salite in sella, pronte a partire. Avevano assegnato a Taita lo stesso cavallo sul quale Gil era tornato al tempio. Taita gli gettò sul dorso la sacca, prima di salire in sella con un balzo: sapeva bene che gli hyksos non condividevano le remore degli egizi riguardo al cavalcare. Così uscirono dalla caverna puntando a occidente, nella direzione opposta a quella presa dalla colonna di carri. Taita cavalcava al centro del gruppo di hyksos armati, preceduti da Trok, che non lo invitò ad affiancarglisi. Da quando il mago si era rifiutato di trasmettergli direttamente il messaggio di Naja, si mostrava altero e sprezzante. Taita era ben contento di essere ignorato, perché aveva molto su cui riflettere. In particolare la rivelazione che Naja era di sangue misto schiudeva un'infinità di prospettive interessanti. Proseguirono per tutta la notte, sempre diretti a occidente, verso il fiume e la base principale del nemico, a Bubasti. Anche se era ancora notte, incontrarono sempre più movimento: c'erano lunghe file di carretti e carri di rifornimento, tutti carichi di provviste militari, che viaggiavano nella stessa direzione. E, di ritorno verso Avaris e Menfi, c'erano altrettanti carri vuoti. A mano a mano che si avvicinavano al fiume, Taita poté identificare le truppe hyksos accampate intorno a Bubasti. Era un campo costellato di luci tremolanti che si estendeva per molte leghe lungo la riva del fiume in entrambe le direzioni: un enorme agglomerato di uomini e animali, pressoché invisibili nell'oscurità. Nulla, sulla terra, somiglia all'odore di un esercito accampato, e quell'odore divenne sempre più intenso mentre si avvicinavano, fino a rischiare di soffocarli. Era un misto di molti odori diversi, dal puzzo acre delle schiere di cavalli, del letame e del fumo dei fuochi alimentati con gli Wilbur Smith
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escrementi degli animali, al sentore del cuoio e del grano intaccato dalla muffa. E poi c'era il fetore prodotto dagli uomini, che cucinavano e distillavano birra, dai corpi non lavati e dalle ferite infette, dai rifiuti e dal sudiciume sparso, dalle viscere degli animali, dalle latrine. Su tutto, però, dominava il lezzo dei cadaveri rimasti insepolti. Mentre analizzava quella miscela soffocante di odori, Taita afferrò nell'aria un'altra sfumatura malsana. Gli parve di riconoscerla, ma fu soltanto quando uno dei malati, barcollando, si fece incontro al suo cavallo, costringendolo a tirare bruscamente le redini, che vide le chiazze rosa sul volto pallido dell'uomo. Allora ne ebbe la certezza, e capì per quale motivo Apepi non aveva potuto sfruttare la vittoria ottenuta ad Abnub, perché non aveva ancora mandato i carri a sud, verso Tebe, dove l'esercito egizio era ormai allo sbando, alla mercé del nemico. Spinse il cavallo per affiancarlo a quello di Trok e gli chiese, sottovoce: «Mio signore, da quanto tempo l'epidemia ha colpito le vostre truppe?» Trok tirò le redini in modo così improvviso che il cavallo danzò, descrivendo un cerchio sotto di lui. «Chi te lo ha detto, stregone?» domandò. «Forse questa dannata malattia è frutto di uno dei tuoi incantesimi? Sei stato tu ad attirare sul nostro capo la pestilenza?» Spronò rabbiosamente il cavallo per allontanarsi, senza attendere una risposta. Taita lo seguì a distanza di sicurezza, ma premurandosi di osservare ogni dettaglio di quello che accadeva intorno a lui. A quell'ora, la luce cominciava ad aumentare, anche se il sole appariva fiacco e velato oltre la fitta coltre di nebbia e fumo di legna che avvolgeva la terra e oscurava il cielo dell'alba. Quella luce conferiva alla scena un aspetto spettrale, facendola sembrare una visione dell'aldilà. Uomini e animali diventavano figure cupe, come di demoni, e il fango della recente inondazione appariva nero e vischioso sotto gli zoccoli dei cavalli. Superarono il primo dei carri diretti alla sepoltura. Gli uomini che circondavano Taita sollevarono il mantello per coprirsi la bocca e il naso contro l'odore e gli umori maligni che trasudavano dal mucchio di corpi nudi e gonfi ammucchiati sul retro del carro. Trok spronò il cavallo per superare in fretta il carro, ma dietro ce n'erano molti altri, e quasi bloccavano il passaggio. Più avanti superarono uno dei campi destinati alla cremazione, dove molti carri stavano scaricando il loro macabro contenuto. In quella regione la legna da ardere scarseggiava e le fiamme non erano abbastanza intense Wilbur Smith
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da consumare quei mucchi di corpi. Le fiamme tremolavano e si affievolivano, a mano a mano che il grasso trasudava dalle carni in decomposizione, inviando verso il cielo nuvole untuose di fumo nero che rivestivano di uno strato oleoso la bocca e la gola dei vivi che lo respiravano. Quanti dei morti sono vittime della peste e quanti degli scontri col nostro esercito? si chiedeva Taita. La pestilenza era una sorta di spettro che marciava al passo con qualunque esercito. Apepi era accampato da molti anni a Bubasti, e il sito brulicava di ratti, avvoltoi e marabù, tutti animali che si cibavano di carogne. I suoi uomini si affollavano, in mezzo a quel sudiciume, coi corpi infestati da pulci e pidocchi, mangiando cibo marcio e bevendo l'acqua dei canali d'irrigazione in cui tracimavano fosse comuni e letamai. Erano le condizioni ideali per far prosperare la pestilenza. Più vicino a Bubasti, gli accampamenti divennero ancora più numerosi: un mare di tende, capanne e tuguri sorti a ridosso delle mura e dei fossati che circondavano la guarnigione. Le più fortunate tra le vittime della peste stavano sotto tettoie di fronde di palma, una ben misera protezione dal sole torrido della mattina. Gli altri giacevano nel fango dei campi, in balia della sete e degli elementi. I morti si mescolavano ai morenti; i soldati rimasti feriti in combattimento giacevano accanto a quelli devastati dalla dissenteria. Anche se il suo istinto era quello di guarire, Taita non intendeva fare nulla per soccorrerli. Era il loro stesso numero a condannarli: com'era possibile aiutare tanti uomini? Quello che più contava, erano nemici del suo Egitto, e per lui era chiaro che quella pestilenza era una punizione degli dei. Se pure avesse guarito anche un solo hyksos, sarebbe stato un uomo in più in grado di marciare contro Tebe per mettere a ferro e fuoco la città che gli era cara. Entrando nella fortezza, scoprì che, all'interno delle mura, la situazione non era migliore. Le vittime della peste giacevano nel punto in cui erano state colpite dalla malattia, mentre topi e cani randagi dilaniavano i loro corpi, persino di quelli ancora vivi, ma troppo deboli per difendersi. Il quartier generale di Apepi era l'edificio principale di Bubasti, un vasto palazzo di mattoni e paglia che sorgeva al centro della città. Alla porta, gli stallieri presero in consegna i loro cavalli, ma uno di loro s'incaricò di portare le sacche di Taita. Il nobile Trok lo condusse attraverso i cortili e le Wilbur Smith
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sale buie, oscurate dalle imposte chiuse, dove incenso e sandalo bruciavano nei bracieri di bronzo, mascherando l'odore della pestilenza che aleggiava dalla città e dagli accampamenti circostanti, ma rendendo quasi insopportabile l'aria torrida con le loro fiamme languenti. Anche lì, nel quartier generale del re, i gemiti delle vittime risuonavano da una sala all'altra, e figure rannicchiate giacevano negli angoli scuri. Le sentinelle sbarrarono il passo al gruppo davanti a una porta di bronzo che si apriva nei recessi più profondi dell'edificio, ma, non appena riconobbero la figura curva di Trok, si fecero da parte, lasciandoli passare. Evidentemente quello era l'alloggio privato di Apepi. Le pareti erano decorate con splendidi tappeti e i mobili erano di legno prezioso, avorio e madreperla, in gran parte frutto di razzie nei palazzi e nei templi dell'Egitto. Trok guidò Taita in un'anticamera piccola, ma arredata lussuosamente, e lo lasciò da solo. Alcune schiave gli portarono una bevanda alla frutta in una brocca e un piatto di datteri maturi e melograni. Taita bevve qualche sorso e mangiò soltanto una piccola parte della frutta. Era sempre stato frugale. L'attesa fu lunga. Un raggio di sole che passava attraverso l'unica finestra posta in alto nel muro si spostò lentamente sulla parete opposta, misurando il passaggio del tempo. Disteso su uno dei tappeti, Taita usò le sacche come cuscino, sonnecchiando, ma senza mai scivolare in un sonno profondo e svegliandosi all'istante a ogni rumore. Ogni tanto udiva il suono lontano di donne che piangevano, e i lamenti acuti del lutto che provenivano da un punto oltre le mura massicce. Infine udì uno scalpiccio di passi pesanti lungo il corridoio esterno e le cortine che chiudevano la porta furono scostate. Sulla soglia comparve una figura massiccia. Indossava soltanto un gonnellino di lino scarlatto, con la cintura formata da una catena d'oro. Il torace era coperto da una fitta peluria ruvida. Ai piedi portava sandali pesanti e le gambe erano coperte da gambali di cuoio rigido e levigato, ma non aveva con sé né la spada né altre armi. Le braccia e le gambe erano massicce come le colonne di un tempio e il corpo era costellato di cicatrici per le ferite riportate in battaglia, alcune bianche e seriche, ormai vecchie, altre, più recenti, ancora violacee e infiammate. Anche la barba e la folta capigliatura erano brizzolate, ma senza i nastri o le trecce tipici degli hyksos. Non erano né unte d'olio né pettinate, anzi apparivano in gran disordine. Gli occhi scuri Wilbur Smith
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mandavano lampi d'inquietudine e le labbra tumide sotto il grande naso a becco erano contratte in una smorfia di sofferenza. «Tu sei Taita, il medico.» La sua voce era potente, ma priva di accento, perché era nato ad Avaris e aveva adottato in gran parte la cultura e il modo di vivere degli egizi. Taita lo conosceva bene: per lui Apepi era l'invasore, un uomo rozzo e sanguinario, nemico mortale del suo Paese e del suo Faraone. Dovette esercitare tutto il proprio autocontrollo per mantenere un'espressione neutra e una voce calma mentre rispondeva: «Sì, sono Taita». «Ho sentito parlare delle tue arti», proseguì Apepi. «Ora ne ho bisogno. Vieni con me.» Taita si mise in spalla le sacche prima di uscire con Apepi nel portico esterno. Il nobile Trok li aspettava con una scorta di uomini armati, che circondarono Taita mentre seguiva il re degli hyksos all'interno del palazzo. A mano a mano che procedevano, il suono dei pianti divenne più forte. A un tratto, Apepi scostò le pesanti tende che coprivano la soglia di un'altra stanza, prendendo il mago per il braccio e spingendolo in avanti. Nella stanza c'era un folto gruppo di sacerdoti del tempio di Iside ad Avaris. Taita arricciò le labbra, riconoscendoli dal copricapo di piume di egretta. Cantavano e scuotevano il sistro, curvi sopra un braciere, acceso in un angolo della stanza, sul quale erano disposte alcune pinze per cauterizzare, ormai incandescenti. La sua rivalità con quei ciarlatani risaliva a due generazioni addietro. A parte i guaritori, c'era una ventina di persone riunite intorno al capezzale al centro della stanza: cortigiani e ufficiali, scribi e funzionari, tutti con un'espressione solenne e funerea. Le donne stavano quasi tutte in ginocchio sul pavimento, gemendo e lamentandosi. Una sola cercava di assistere il ragazzo disteso sul letto. Non sembrava molto più vecchia del suo paziente: probabilmente aveva solo tredici o quattordici anni. Gli tergeva il sudore con una spugna impregnata di acqua calda profumata attinta da un catino di rame. Bastò un'unica occhiata a Taita per vedere che si trattava di una ragazza di straordinaria bellezza, dal viso intelligente e risoluto. La sua ansia per il paziente era evidente, l'espressione affettuosa, mentre le mani si muovevano con agilità e competenza. Il mago rivolse la sua attenzione al ragazzo. Il corpo nudo era altrettanto bello, ma devastato dalla pestilenza. La pelle appariva chiazzata dai segni Wilbur Smith
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caratteristici del male e coperta di goccioline di sudore. Sul petto spiccavano le cicatrici rosse e infiammate nei punti in cui era stato salassato e cauterizzato dai sacerdoti di Iside. Taita si accorse subito che il giovane si trovava nello stadio finale della malattia: i capelli scuri, impregnati di sudore, gli pendevano sugli occhi, infossati nelle orbite violacee, aperti e lucenti di febbre, ma ormai incapaci di vedere. «Questo è Khyan, il mio figlio minore», spiegò Apepi mentre si avvicinava al letto, guardando il ragazzo con un'espressione di angoscia impotente. «E la peste si porterà via anche lui, se non riesci a salvarlo tu, mago.» Khyan gemette, rotolandosi sul fianco con le ginocchia raccolte verso il petto, squassato dalla sofferenza. Dalle natiche smagrite sprizzò un getto di feci liquide, miste a sangue vivo, che finì sulle lenzuola già sporche. La ragazza che lo assisteva lo ripulì subito con una salvietta, poi asciugò le lenzuola senza tradire il minimo ribrezzo. Mentre i sacerdoti nell'angolo intensificavano i canti, il Gran Sacerdote prese una delle pinze ardenti dal braciere, avvicinandosi al letto. Taita si fece avanti, sbarrandogli la strada col lungo bastone. «Fuori!» sibilò. «Tu e i tuoi macellai avete già fatto abbastanza danni, qui.» «Devo bruciare il corpo per scacciare la febbre», protestò il Gran Sacerdote. «Fuori!» ripeté Taita con espressione cupa, e poi, rivolto agli altri che affollavano la stanza: «Fuori, tutti fuori». «Ti conosco bene, Taita. Sei un uomo blasfemo, amico dei demoni e degli spiriti maligni.» Il Gran Sacerdote non si lasciò intimorire, brandendo con aria minacciosa lo strumento di bronzo incandescente. «Non temo la tua magia. Qui non hai nessuna autorità. Il principe è affidato a me.» Il mago indietreggiò, lanciando il bastone sui piedi di un sacerdote, che lanciò un grido e arretrò di scatto quando la verga di legno tambootie cominciò a serpeggiare, sibilando e avanzando verso di lui sul pavimento di piastrelle. All'improvviso drizzò la testa, la lingua biforcuta saettante attraverso le labbra tese in un ghigno, mentre gli occhi lucenti scintillavano come perline nere. Tutti i presenti si precipitarono verso la porta. In preda al panico, cortigiani, sacerdoti, soldati e funzionari si fecero largo, graffiando e lavorando di gomiti tra la folla per essere i primi a uscire. Wilbur Smith
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Nella fretta, il Gran Sacerdote rovesciò un braciere e poi lanciò un grido, danzando a piedi nudi sui carboni ardenti. In pochi secondi la stanza rimase vuota, a parte Apepi, che non si era mosso, e la ragazza al capezzale del malato. Taita si chinò a raccogliere per la coda il serpente che si divincolava e, all'istante, esso ridivenne dritto, rigido e ligneo. Poi puntò il bastone verso la ragazza accanto al letto. «Chi sei?» le domandò. «Io sono Mintaka, e questo è mio fratello.» Posò la mano con aria protettiva sulla testa del giovane sofferente, poi alzò il mento con aria di sfida. «Fa' quello che vuoi, mago, ma io non lo lascerò.» Eppure aveva le labbra tremanti e gli occhi scuri ingigantiti dal terrore. Era chiaro che aveva paura della sua reputazione e del serpente trasformato in bastone che Taita le puntava contro. «Non ho paura di te», gli disse tuttavia, aggirando il letto fino a trovarsi di fronte al mago. «Bene», disse brusco Taita. «Così mi sarai più utile. Quando ha bevuto per l'ultima volta, il ragazzo?» Lei impiegò un momento per riprendersi, poi mormorò: «Non beve da questa mattina...» «Come fanno quei ciarlatani a non vedere che sta morendo di sete, oltre che per la malattia? Ha perso quasi tutti i liquidi del corpo, a furia di sudare ed evacuare.» Si lasciò sfuggire un grugnito, raccogliendo la brocca di rame vicino al letto e annusandone il contenuto. «Questa è inquinata dal veleno dei sacerdoti e dagli umori dell'epidemia.» La scagliò contro la parete. «Va' nelle cucine a prendere un'altra brocca, ma controlla che sia pulita. Riempila d'acqua attinta al pozzo, non al fiume. Presto, ragazza mia.» Mentre lei si allontanava di corsa, Taita aprì il sacco che portava con sé. Mintaka tornò quasi subito con una brocca piena d'acqua fino all'orlo, e il mago preparò una pozione a base di erbe, mettendola a scaldare su un braciere. «Aiutami a fargliela bere», ordinò poi alla ragazza, quando la pozione fu pronta. Le mostrò in che modo sostenere la testa del fratello e accarezzargli la gola, mentre lui faceva gocciolare l'acqua nella bocca del ragazzo. Ben presto Khyan riuscì a deglutire spontaneamente. «Che cosa posso fare per aiutarti?» chiese il re. «Mio signore, qui non c'è niente da fare per te. Sei più abile nel distruggere che nel risanare.» Taita lo congedò senza neanche distogliere lo sguardo dal paziente. Ci fu un lungo silenzio, seguito dallo scalpiccio dei sandali di Apepi, tempestati di borchie di Wilbur Smith
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bronzo, che uscivano dalla camera. Mintaka si liberò ben presto dal terrore che provava nei confronti del mago, rivelandosi un'assistente sveglia e volenterosa. Sembrava in grado di anticipare i desideri di Taita, costringendo il fratello a bere mentre il mago preparava sul braciere un'altra coppa di medicina, ricorrendo di nuovo al contenuto della sua borsa. In due riuscirono a fargliela bere senza perderne una goccia. Poi Mintaka lo aiutò a stendere un linimento sulle ustioni che coprivano il petto del fratello e infine i due riuscirono ad avvolgere Khyan nelle lenzuola di lino e a inzupparle con l'acqua del pozzo per far calare la temperatura del corpo che ardeva di febbre. Quando Mintaka si sedette accanto a lui per riposare un poco, Taita le prese la mano, voltandola col palmo in su. Esaminò i gonfiori rossi all'interno del polso, ma la ragazza tentò di ritrarre la mano. «Queste non sono le macchie della peste», spiegò con imbarazzo. «Sono soltanto morsi di pulci. Tutto il palazzo brulica di pulci.» «Dove ci sono le pulci, non può mancare la peste», le spiegò Taita. «Togliti la tunica.» Lei si alzò senza esitare, lasciandola cadere intorno alle caviglie. Il suo corpo di vergine, per quanto snello, era forte e atletico. I seni apparivano in boccio, coi capezzoli che sporgevano, simili a more non ancora mature; inoltre, tra le gambe lunghe e ben modellate, si annidava un triangolo di peli scuri e soffici. Una pulce spiccò un balzo dal ventre chiaro, e Taita la catturò al volo con abilità, schiacciandola tra le dita. L'insetto aveva lasciato una catena di puntini rosei intorno all'ombelico ben disegnato. «Voltati», ordinò a Mintaka, e lei obbedì docilmente. Un altro di quegli odiosi insetti le correva sul dorso, diretto verso l'incavo profondo tra le natiche sode e rotonde. Taita prese la pulce tra le dita, schiacciando la lucente corazza nera, da cui sprizzò una goccia di sangue. «Tu sarai la mia prossima paziente, se non ti liberi di queste piccole compagne», borbottò, prima di mandarla a prendere una bacinella d'acqua in cucina. Poi fece bollire sul braciere i fiori violacei e secchi della pianta di piretro, lavandola da capo a piedi col liquido così ottenuto e schiacciando altre quattro o cinque pulci che tentavano di sfuggire a quella doccia pungente saltando via dalla pelle bagnata. Quindi Mintaka sedette al suo fianco, aspettando che il corpo le si asciugasse, e i due conversarono senza imbarazzo mentre esaminavano i Wilbur Smith
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suoi abiti, eliminando le ultime pulci, insieme con le uova che avevano deposto nelle cuciture e nella pieghettatura. Stavano rapidamente diventando amici. Prima di sera, Khyan evacuò ancora una volta, ma in misura moderata, e senza perdere sangue. Taita annusò le feci, notando che l'odore malsano degli umori della malattia si era attenuato. Preparò allora una pozione di erbe più forte e, con l'aiuto della ragazza, costrinse Khyan a bere un'altra brocca d'acqua attinta al pozzo. La mattina dopo, la febbre era calata e il giovane paziente riposava meglio. Finalmente urinò, e Taita dichiarò che era buon segno, anche se l'urina era di un colore giallo scuro e aveva un odore acre; un'ora dopo, si liberò di un'acqua di colore più chiaro e meno maleodorante. «Guarda, mio signore», esclamò Mintaka, accarezzando il fratello sulla guancia. «Le chiazze rosse cominciano a sbiadire, e la pelle sembra più fresca.» «Tu possiedi il raro dono di un tocco risanatore», le disse Taita, sorridendo. «Però non dimenticare la brocca dell'acqua. È vuota.» Lei corse via verso la cucina del palazzo, tornando quasi subito con una brocca piena fino all'orlo. Mentre dava da bere al malato, cominciò a cantare. Era una ninna-nanna hyksos, e Taita fu deliziato dalla dolcezza e dalla tonalità limpida della sua voce. Ascolta il vento che soffia nell'erba, piccolo caro, dormi, dormi, dormi. Ascolta il suono del fiume, mio bambino, sogna, sogna, sogna. Taita studiò il viso della ragazza. Era un po' troppo largo, com'era tipico degli hyksos, e aveva gli zigomi eccessivamente sporgenti. La bocca era grande, le labbra tumide e il naso forte. Non uno dei suoi lineamenti era perfetto, di per sé, eppure tutti insieme formavano un equilibrio mirabile, e il collo appariva lungo e aggraziato. Gli occhi erano davvero splendidi, sotto le sopracciglia nere e arcuate, l'espressione era viva e intelligente. È una bellezza diversa, pensò, ma pur sempre bellezza. «Guarda!» esclamò d'un tratto Mintaka, ridendo. «È sveglio.» Khyan aveva aperto gli occhi e la fissava. «Sei tornato tra noi, Wilbur Smith
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bestiolina», lo salutò la sorella. Quando Mintaka rideva, la luce della lampada faceva scintillare i denti bianchi e squadrati. «Eravamo così preoccupati! Non devi farlo mai più.» Abbracciò il fratello, per nascondere le lacrime di gioia e di sollievo che le facevano risplendere gli occhi. Guardando oltre i due, abbracciati sul letto, Taita scorse la figura massiccia di Apepi, fermo sulla soglia. Non sapeva da quanto tempo fosse lì: il re gli rivolse un cenno senza sorridere, poi voltò le spalle e si allontanò. Prima di sera, con l'aiuto della sorella, Khyan riuscì a mettersi seduto e bevve la ciotola di minestra che lei gli accostava alle labbra. Due giorni dopo, l'eruzione cutanea era scomparsa. Apepi veniva a trovarlo tre o quattro volte al giorno. Khyan era ancora troppo debole per alzarsi, ma, non appena vedeva comparire il padre, si sfiorava il cuore e le labbra con le dita, in un gesto di rispetto. Il quinto giorno si alzò barcollando dal letto per tentare di prostrarsi davanti al padre, ma Apepi glielo impedì, spingendolo indietro sui cuscini. Anche se i suoi sentimenti per il ragazzo erano evidenti, Apepi non aveva molto da dire e se ne andò quasi subito. Tuttavia, una volta giunto sulla soglia, si voltò a guardare Taita e, con un cenno brusco del capo, gli ordinò di seguirlo. Si trovavano in cima alla torre più alta del palazzo. Avevano dovuto salire duecento scalini per arrivare fin lassù, da dove si poteva osservare il corso del fiume sino alla fortezza conquistata di Abnub, che sorgeva dieci leghe più a monte. Tebe distava meno di cento leghe. Apepi aveva ordinato alle sentinelle di scendere, lasciandoli soli in quel luogo elevato, per evitare che qualcuno li spiasse oppure origliasse i loro discorsi. Rimase immobile, contemplando il grande fiume grigio che scorreva verso sud. Era in completo assetto di guerra, coi gambali e il pettorale di cuoio rigido, la cintura della spada tempestata di rosette d'oro e la barba intrecciata di nastri rossi. Sulla testa, posata sui fitti riccioli grigi, portava l'ureo d'oro, la corona con l'avvoltoio e il cobra. Taita si sentì invadere dalla collera nel vedere che quell'invasore e razziatore si considerava Faraone di tutto l'Egitto e indossava le sacre insegne regali, ma riuscì a mantenere un'espressione impassibile. Anzi affinò i poteri della sua mente per afferrare i pensieri di Apepi. Erano intricati come una ragnatela, così profondi e tortuosi che persino Taita non riusciva a Wilbur Smith
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distinguerli chiaramente, sebbene intuisse la forza interiore che rendeva il re degli hyksos un avversario così temibile. «Almeno qualcosa di quello che dicono di te è vero, mago», disse il re, interrompendo il lungo silenzio. «Sei un medico di grande abilità.» Taita non replicò. «Puoi operare un incantesimo per guarire l'epidemia nel mio esercito come hai fatto con mio figlio?» gli chiese Apepi. «Ti pagherei un lakh d'oro. Tanto oro quanto possono trasportarne dieci cavalli robusti.» L'altro sorrise con aria imbarazzata. «Mio signore, se fossi capace di un incantesimo del genere, potrei anche far scaturire dal nulla cento lakh, senza prendermi la briga di curare i tuoi banditi.» Apepi voltò la testa, ricambiando il suo sorriso, ma senza ombra di umorismo o di benevolenza. «Quanti anni hai, mago? Trok sostiene che ne hai più di duecento. È vero?» Lui non diede segno di averlo sentito, e Apepi insistette: «Qual è il tuo prezzo, stregone? Se non è l'oro, che cosa posso offrirti?» Era una domanda retorica, e infatti lui non attese la risposta, ma si allontanò per raggiungere il parapetto della torre che guardava a nord, restando poi immobile, coi pugni piantati sui fianchi. Guardava dall'alto l'accampamento del suo esercito e, più oltre, i campi dove venivano cremati i cadaveri. I roghi ardevano ancora, e il fumo si spandeva sulle acque verdi del fiume e sul deserto della riva opposta. «Tu hai riportato una vittoria, mio signore», gli disse Taita a bassa voce. «Ma non puoi fare altro che contemplare le pire funebri dei tuoi uomini. Il Faraone riuscirà a rafforzare e radunare le sue forze prima che l'epidemia si estingua e i tuoi soldati siano di nuovo pronti a combattere.» Apepi scrollò la testa con aria contrariata, come un leone che cerca di scacciare un nugolo di mosche. «La tua insolenza m'irrita, mago.» «No, mio signore, non sono io a irritarti. Sono la verità e la logica.» «Nefer Seti è un bambino. L'ho sconfitto una volta, e posso farlo ancora.» «Il fatto decisivo è che il suo esercito non è falcidiato dall'epidemia. Le tue spie ti avranno riferito che il Faraone ha cinque divisioni ad Assuan e altre due ad Assyut. Sono già sul fiume e si dirigono verso nord, con la corrente. Saranno qui prima della luna nuova.» Apepi si lasciò sfuggire un ringhio sommesso, senza rispondere. Taita proseguì: «Sessant'anni di guerra hanno dissanguato entrambi i regni. Vuoi Wilbur Smith
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trasmettere ai tuoi discendenti la stessa eredità di Salitis, tuo padre, e cioè sessant'anni di carneficine? È questo che i tuoi figli erediteranno da te?» Apepi si girò, fissandolo con aria corrucciata. «Non esagerare, vecchio. Non insultare mio padre, il divino Salitis.» Dopo un lungo silenzio, carico di disapprovazione, Apepi riprese il discorso. «Quanto tempo ti occorre per predisporre un colloquio con il cosiddetto reggente dell'Alto Egitto, con questo Naja?» «Se mi concederai un salvacondotto per superare le tue linee e una nave veloce che mi trasporti, posso arrivare a Tebe in tre giorni. Il ritorno, seguendo la corrente, sarà ancora più veloce.» «Ti farò accompagnare da Trok, perché ti aiuti a superare tutte le difficoltà. Puoi dire a Naja che lo incontrerò presso il tempio di Hathor, a Perra, sulla riva occidentale, oltre Abnub. Lo conosci?» «Lo conosco bene, mio signore.» «Là potremo parlare», mormorò Apepi. «Però digli di non aspettarsi troppe concessioni da me. Io sono il vincitore e lui lo sconfitto. Ora puoi andare.» Taita rimase immobile. «Puoi andare, mago.» Apepi lo congedò per la seconda volta. «Il Faraone Nefer Seti è quasi coetaneo di tua figlia Mintaka», disse Taita, ostinato. «Forse vorrai portarla con te a Perra.» «A che scopo?» Il re lo fissò con aria sospettosa. «Un'alleanza tra la tua dinastia e quella dei Faraoni Tamose potrebbe suggellare una pace duratura tra i due regni.» Apepi si sfregò i nastri intrecciati alla barba per mascherare il sorriso. «Per Seueth, sei abile negli intrighi quanto nel mescolare le pozioni, stregone. Ora vattene, prima che perda la pazienza.» Il tempio di Hathor era stato scavato nel fianco roccioso della collina che sovrastava il fiume durante il regno del Faraone Antef Sehertawy, centinaia di anni prima, ma da allora ogni Faraone vi aveva aggiunto qualcosa. Le sacerdotesse costituivano una congregazione ricca e potente che era riuscita a sopravvivere, in un modo o nell'altro, alle lunghe guerre civili tra i due regni e a prosperare anche nei momenti più difficili. Vestite con l'abito giallo del loro ordine, erano riunite nel cortile del tempio, tra le due imponenti statue della dea. Una di esse rappresentava Hathor come una vacca pezzata dalle corna d'oro, mentre l'altra era la sua Wilbur Smith
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manifestazione umana, una donna alta e bella che portava sulla testa la corona di corna col disco solare d'oro. Le sacerdotesse intonarono un canto, scuotendo i sistri, mentre il seguito del Faraone Nefer Seti cominciava a sfilare nel cortile dall'ala orientale e i cortigiani del re Apepi entravano dal colonnato occidentale. L'ordine di arrivo alla conferenza di pace era stato oggetto di accanite discussioni, al punto che i negoziati avevano rischiato di fallire prima ancora di cominciare. Chi arrivava per primo avrebbe goduto di una posizione di maggior potere, e quindi l'altro avrebbe dato l'impressione di essere il supplice che invocava la pace. Nessuno dei due era ovviamente disposto a rinunciare a quel vantaggio. Era stato Taita a suggerire l'espediente di un arrivo contemporaneo, oltre a risolvere con tatto la questione, altrettanto esasperante, delle insegne che i due sovrani avrebbero portato. Tutti e due avrebbero rinunciato alla corona doppia: Apepi avrebbe portato la corona rossa del Basso Egitto, deshret, mentre Nefer Seti si sarebbe limitato a portare la corona bianca dell'Alto Egitto, hedjet. Il seguito dei due sovrani si affollò nell'ampio cortile, schierandosi per formare due gruppi che si fronteggiavano con aria truce. Li separavano appena pochi passi, eppure l'amarezza e l'odio accumulati in sessant'anni di lotte formavano una barriera potente. Il silenzio ostile fu infranto da una reboante fanfara di corni d'ariete e dal suono tonante dei gong di bronzo. Era il segnale per i due cortei, che, a quel punto, potevano uscire dalle ali opposte del tempio. Il nobile Naja e il Faraone Nefer Seti avanzarono con aria solenne, prendendo posto su troni dalla spalliera alta, mentre le due principesse, Heseret e Merykara, li seguivano docilmente. Prima di sedersi, però, si prostrarono ai piedi del trono di Naja, poiché erano le sue spose promesse. Le due ragazze erano truccate in modo così pesante da mostrare un volto inespressivo come quello della statua di Hathor, alla cui ombra si accomodarono. Contemporaneamente la famiglia reale degli hyksos uscì dall'ala opposta del tempio. La guidava Apepi, che, imponente e fiero nella sua tenuta da battaglia, fulminò con lo sguardo il giovanissimo Faraone all'altro capo del cortile. Lo seguivano otto dei suoi figli; soltanto Khyan, il minore, non si era ripreso a sufficienza dalla malattia per compiere il viaggio a monte del fiume. Come il padre, anche i figli erano armati e indossavano l'armatura, Wilbur Smith
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cosicché avanzarono fino al loro posto pavoneggiandosi con spavalderia. Sono uno schieramento formidabile di banditi assetati di sangue, pensò Taita, osservandoli dal punto in cui si trovava, vicino al trono di Nefer. Apepi aveva portato con sé soltanto una delle sue numerose figlie. Come una rosa del deserto in mezzo a un folto di cactus spinosi, il contrasto coi fratelli faceva risaltare ancora di più la bellezza di Mintaka. Nella folla di fronte a lei, la fanciulla scorse la figura alta e snella di Taita, e il suo volto fu illuminato da un sorriso così radioso che, per un istante, si ebbe l'impressione che il sole splendesse attraverso le tende disposte sopra il cortile. Nessuno degli egizi l'aveva mai vista prima di allora e, tra le file degli uomini, corse un brusio sommesso di ammirazione. Non erano preparati a uno spettacolo del genere. La tradizione voleva che tutte le donne hyksos fossero massicce come i loro uomini e brutte il doppio. Il Faraone Nefer Seti si protese leggermente in avanti e, nonostante la solennità dell'occasione, si stuzzicò il lobo dell'orecchio sotto la corona bianca. Era un'abitudine che Taita aveva cercato di fargli perdere, quindi Nefer vi ricadeva soltanto quand'era estremamente interessato a qualcosa oppure era turbato. Il vecchio tutore non lo vedeva da due mesi, perché Naja li aveva tenuti separati anche dopo il ritorno di Taita dal quartier generale di Apepi a Bubasti; eppure il mago aveva una tale familiarità col ragazzo, era tanto in sintonia con la sua mente, che riusciva ancora a leggere facilmente nei suoi pensieri. Intuì che era in preda a un fremito di eccitazione e di esultanza, come se avesse appena visto una gazzella muoversi alla portata della sua freccia, o stesse per montare un puledro non ancora domato, o avesse lanciato un falco contro un airone e attendesse di vederlo scendere in picchiata. Taita non lo aveva mai visto reagire così alla presenza di un'esponente del sesso opposto. Nefer aveva sempre guardato con regale disprezzo tutte le donne, comprese le sorelle. Tuttavia era passato meno di un anno da quando aveva dovuto affrontare le acque tumultuose della pubertà e, per la maggior parte di quel periodo, era rimasto isolato nel deserto di Gebel Nagara, dove non c'era nulla che potesse attirare la sua attenzione come stava facendo Mintaka. Taita era molto soddisfatto di quello che era riuscito a ottenere con un minimo sforzo. Se Nefer avesse concepito una violenta avversione per la ragazza hyksos, tutti i suoi piani sarebbero stati vanificati, e il pericolo nel quale si trovavano sarebbe aumentato. Se fosse invece riuscito a farli Wilbur Smith
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sposare, Nefer sarebbe divenuto il genero di Apepi, entrando quindi sotto la sua protezione, e persino Naja ci avrebbe pensato due volte prima di offendere un uomo così potente e pericoloso. Senza saperlo, Mintaka poteva salvare Nefer dalle macchinazioni e dalle ambizioni di Naja; o almeno, quella era l'intenzione di Taita nel favorire l'unione. Nel breve periodo che avevano trascorso insieme, curando e assistendo il fratello di lei, Mintaka e Taita avevano fatto amicizia. E infatti lui annuì in modo quasi impercettibile, ricambiando il suo sorriso. Lo sguardo della fanciulla si spinse più avanti, fissandosi con interesse sulle nobili donne egizie sedute di fronte a lei; ne aveva sentito parlare, ma quelle erano le prime che vedeva. Individuò subito Heseret e, con la sicurezza dell'istinto femminile, riconobbe una giovane attraente come lei, e una possibile rivale in futuro. L'altra reagì esattamente allo stesso modo, cosicché le due ragazze si scambiarono un rapido sguardo ostile e altezzoso. Poi Mintaka alzò gli occhi verso la figura imponente del nobile Naja, fissandolo come affascinata. Era davvero una visione splendida e, soprattutto, appariva straordinariamente diverso dal padre e dai fratelli di lei. Risplendeva d'oro e di pietre preziose ed era abbigliato con un gonnellino dal candore abbagliante. Sebbene fossero lontani, lei poteva sentire il suo profumo, forte come se provenisse da un campo di fiori selvatici. Il viso del reggente era stato trasformato dal trucco in una maschera, con la pelle luminosa e gli occhi delineati ed esaltati dal kohl, eppure lei intuì che quella era la bellezza fatale di un serpente o di un insetto velenoso. Fu scossa da un brivido, e volse lo sguardo verso la figura seduta sul trono accanto al reggente. Il Faraone Nefer Seti la fissava con tale intensità che lei trattenne il respiro. Aveva gli occhi verdi: quello fu il primo particolare che la colpì. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma scoprì che le riusciva impossibile, e si ritrovò ad arrossire. Cercò tuttavia di esaminare quel sovrano con la barba posticcia e l'atteggiamento orgoglioso e ieratico e, sulle prime, ne rimase vagamente perplessa. Poi, d'un tratto, il Faraone le rivolse un sorriso pieno di calore e di complicità: il suo viso divenne di colpo infantile e attraente. Mintaka, senza sapere perché, sentì che il proprio respiro accelerava e arrossì ancora di più. Allora distolse gli occhi con uno sforzo, fingendo si studiare con grande attenzione la statua di vacca che raffigurava la dea Hathor. Wilbur Smith
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Ci volle qualche tempo perché riuscisse a controllarsi di nuovo, e ormai il nobile Naja, il reggente dell'Alto Egitto, stava già parlando. Accoglieva Apepi con parole misurate, definendolo con diplomazia re degli hyksos, ma evitando ogni allusione alle sue pretese sull'Egitto. Mintaka pendeva dalle sue labbra, consapevole dello sguardo di Nefer fisso su di lei, ma decisa a non ricambiarlo. La voce del nobile Naja era sonora e monotona, e infine lei non riuscì più a resistere. Scoccò una rapida occhiata in tralice a Nefer, decisa a distogliere subito lo sguardo, ma scoprì che gli occhi del Faraone erano ancora fissi su di lei e scintillavano di una risata silenziosa che l'affascinò. Mintaka non era certo timida, ma, in quel momento, il suo sorriso fu cauto ed esitante. Si accorse di avere di nuovo le guance in fiamme. Abbassando gli occhi, fissò le mani che teneva in grembo, torcendosi le dita, prima di accorgersi che si stava comportando in modo goffo. Allora smise, irritata con Nefer per averla messa in un tale stato di agitazione. È soltanto un damerino egizio, e uno qualsiasi dei miei fratelli è più uomo di lui, e attraente almeno il doppio. Sta solo cercando di farmi sembrare un'idiota, fissandomi con tanta boria. Non ho nessuna intenzione di guardarlo di nuovo. Voglio ignorarlo del tutto, decise, e la sua risolutezza durò finché il nobile Naja non smise di parlare e suo padre si alzò per rispondergli. Allora lanciò a Nefer un'altra rapida occhiata sotto le ciglia folte e scure. Lui stava fissando Apepi, ma, nell'istante in cui lo sguardo di Mintaka gli sfiorò il viso, i suoi occhi puntarono subito su di lei. La principessa tentò di assumere un'espressione severa, tuttavia, non appena lui le sorrise, le sue labbra fremettero, quasi in risposta. È bello almeno quanto alcuni dei miei fratelli, ammise lei con se stessa, poi gli scoccò un'altra rapida occhiata. O forse quanto uno qualsiasi di loro. Abbassò di nuovo lo sguardo sulle ginocchia, riflettendo. Lo sbirciò ancora. Forse ancora più bello di qualcuno di loro, persino di Ruga... Ebbe subito l'impressione di aver tradito il fratello maggiore e si affrettò a correggere la sua opinione.... però in modo diverso, naturalmente. Guardò Ruga, con la barba adorna di nastri e la fronte cupa: era il ritratto del guerriero. Sì, Ruga è davvero un bell'uomo, pensò, orgogliosa. Di fronte a lei, Taita sembrava ignorarla, e invece non perdeva neppure una sfumatura di quel furtivo scambio di occhiate tra lei e Nefer. D'altronde non era l'unica cosa che attirasse la sua attenzione. Il nobile Wilbur Smith
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Trok, cugino di Naja, si trovava vicino al trono di Apepi, alle sue spalle, a poca distanza da Mintaka. Teneva le braccia incrociate sul petto, coi polsi adorni di bracciali d'oro massiccio. Su una spalla portava un arco pesante, ricurvo; sull'altra una faretra ricoperta d'oro in foglia. Al collo aveva le catene d'oro che erano segni del valore e della lode che gli erano stati riconosciuti. Gli hyksos avevano adottato le onorificenze militari e le decorazioni degli egizi, insieme con le loro usanze. Trok stava fissando Mintaka con un'espressione indecifrabile. Ci fu un altro rapido scambio di occhiate tra Mintaka e Nefer, che Trok seguì con un'espressione cupa e intenta. In quello sguardo, Taita lesse collera e gelosia: era come se la nube torrida e opprimente del khamsin, la terribile tempesta di sabbia del deserto, si stesse addensando all'orizzonte. Questo non lo avevo previsto, rifletté. L'interesse di Trok per Mintaka è amoroso o politico? La desidera, oppure la vede semplicemente come un mezzo per raggiungere il potere? In ogni caso è un fattore pericoloso, un altro di cui tenere conto. I discorsi di apertura si stavano concludendo, senza che fosse stato detto qualcosa di significativo: i negoziati per la tregua sarebbero cominciati soltanto il giorno dopo, nel corso della riunione segreta. Le due parti si stavano alzando dai rispettivi troni, scambiandosi inchini e saluti e, mentre le due corti si ritiravano, i gong ricominciarono a suonare insieme coi corni d'ariete. Taita sbirciò ancora una volta il gruppo degli hyksos. Apepi e i suoi figli varcarono la soglia fiancheggiata dagli alti pilastri di granito sormontati dalle teste gemelle di vacca della dea. Con un ultimo sguardo all'indietro, Mintaka seguì fratelli e sorelle. Il nobile Trok la scortò, voltandosi anche lui per scoccare un'altra occhiata al Faraone Nefer Seti, prima di avviarsi tra i cancelli per seguire gli altri. Con quel movimento fece tintinnare le frecce nella faretra che portava in spalla, e la loro impennatura colorata attirò l'attenzione di Taita. A differenza della normale faretra da guerra di cuoio, dotata di coperchio per impedire alle frecce di riversarsi all'esterno, quella cerimoniale era coperta d'oro in foglia e aveva l'estremità superiore aperta, per cui la parte finale delle frecce sporgeva al di sopra della spalla. Le piume che le ornavano erano verdi e rosse e ridestarono nella memoria di Taita un ricordo terribile. Trok si allontanò, varcando la soglia, mentre il mago continuava a fissarlo.
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Taita tornò nell'edificio annesso al tempio, nella cella di pietra che gli era stata assegnata come alloggio per l'intera durata della conferenza di pace. Bevve qualche sorsata d'acqua, perché il caldo nel cortile era stato torrido, poi si avvicinò alla finestra che si apriva nel muro massiccio di pietra. Sul davanzale saltellava, cinguettando, un gruppo di uccellini dai colori vivaci, tessitori e cince, che si posavano sul lastricato del terrazzo sottostante. Mentre offriva loro qualche granello di dhurra, attirandoli in modo che si posassero sulle sue spalle o becchettassero dalle sue mani, Taita ripensò agli avvenimenti di quella mattina, cominciando a collegare le impressioni che aveva raccolto durante la cerimonia. Dimenticò ben presto il divertimento e il piacere per l'intesa che si era creata tra Mintaka e Nefer quando passò a riflettere su Trok, meditando sui rapporti di quell'uomo con la principessa hyksos e sulle complicazioni che potevano derivarne, soprattutto se lui, Taita, avesse tentato di portare a compimento i suoi piani per la giovane coppia. Le sue riflessioni vennero interrotte da un'ombra furtiva che avanzava lungo il bordo della terrazza. Era uno dei gatti del tempio, macilento, pieno di cicatrici e chiazze di rogna, che faceva la posta agli uccellini intenti a saltellare sulle lastre di pietra, beccando i granelli di dhurra. Gli occhi chiari di Taita si restrinsero fino a diventare due fessure mentre lui si concentrava sul gatto. Il vecchio maschio si fermò, guardandosi intorno con diffidenza, poi all'improvviso inarcò la schiena e tutti i peli del corpo gli si rizzarono, mentre fissava un punto sul lastricato davanti a sé, dove non c'era nulla di visibile. Il gatto lanciò un miagolio stridulo e si girò di scatto su se stesso, sfrecciando lungo la terrazza finché non raggiunse una delle palme e si arrampicò, rapido come un fulmine, sul tronco per raggiungere la chioma di fronde, dove rimase sospeso in precario equilibrio. Taita lanciò un'altra manciata di dhurra agli uccellini, riprendendo il filo dei suoi pensieri. Anche durante il lungo viaggio che avevano compiuto insieme, Trok aveva tenuto ben chiusa la faretra da guerra, e lui non aveva mai avuto l'occasione di confrontare una delle sue frecce con quelle che aveva trovato sul luogo in cui era stato ucciso il Faraone. Non poteva sapere con precisione quanti altri ufficiali hyksos usassero frecce con l'impennatura rossa e verde, ma probabilmente erano molti, anche se ognuno aveva il proprio simbolo. C'era un solo modo per collegare Trok alla morte del Faraone Tamose e, attraverso di lui, coinvolgere il cugino Naja: rubare una Wilbur Smith
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delle frecce. Taita si chiese come fare per riuscirci senza destare sospetti. Fu distratto ancora una volta dai suoi pensieri quando udì alcune voci nel corridoio davanti alla porta della sua cella. Una era giovane e chiara, e lui la riconobbe subito, mentre le altre, che pregavano e protestavano, erano più rudi. «Il nobile Asmor ha impartito ordini precisi...» «Non sono forse io il Faraone? Non avete il dovere di obbedirmi? Desidero far visita al mago, e voi non oserete impedirmelo. Fatevi da parte.» La voce di Nefer era forte e autorevole. Il timbro incerto della pubertà era svanito: ormai parlava col tono di un uomo adulto. Il giovane falco comincia ad allargare le ali e a mostrare gli artigli, pensò Taita, voltando le spalle alla finestra e sfregando le mani per liberarsi dei granelli di dhurra così da poter salutare il suo re. Nefer scostò con un gesto brusco la tenda che chiudeva la soglia, entrando nella cella. Le due guardie del corpo armate lo seguirono, impotenti, sbarrando l'accesso alle sue spalle, ma Nefer li ignorò, affrontando Taita coi pugni piantati sui fianchi. «Taita, sono molto seccato con te.» «Ne sono turbato e afflitto», rispose Taita con un profondo inchino. «In che modo ti ho offeso?» «Mi stai evitando. Ogni volta che ti mando a chiamare, mi rispondono che sei partito per compiere una missione segreta tra gli hyksos o sei tornato nel deserto... oppure qualche altra fandonia del genere.» Nefer parlava con espressione accigliata per mascherare la gioia di ritrovarsi insieme col vecchio. «Poi all'improvviso salti fuori, come se non fossi mai andato via, ma continui a ignorarmi. Durante la cerimonia non hai neanche guardato nella mia direzione. Dove sei stato?» «Maestà, in giro ci sono orecchie lunghe.» Taita lanciò un'occhiata alle guardie in attesa. Nefer si girò verso di loro. «Vi ho ordinato più di una volta di allontanarvi», disse in tono irato. «Se non ve ne andate immediatamente, vi farò strangolare tutti e due.» Con aria affranta, i soldati indietreggiarono verso il corridoio, oltre la tenda. Ma Taita sentiva ancora i bisbigli che si scambiavano e il tintinnare delle loro armi. Allora fece un cenno col capo verso la finestra, mormorando: «Ho un barchino ormeggiato al molo. Sua maestà gradirebbe andare a pesca?» E, senza attendere la risposta, sollevò l'orlo della veste Wilbur Smith
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per scavalcare il davanzale. Poi si voltò a guardare Nefer, e il ragazzo, ormai non più in collera, sorrise felice, raggiungendolo. Taita si lasciò cadere sul terrazzo sottostante, imitato da Nefer, che si muoveva con agilità. Come bimbi fuggiti al controllo dei genitori, attraversarono furtivamente il terrazzo, passando tra le palme da datteri per raggiungere il fiume. Le guardie che si trovavano sul molo non avevano evidentemente ricevuto nessun ordine riguardo alle possibilità di movimento del giovane Faraone. E infatti si limitarono a salutarlo facendosi poi rispettosamente da parte mentre i due salivano sul barchino da pesca. Prendendo un remo a testa, si allontanarono dalla riva. Taita si addentrò in uno degli stretti passaggi che si aprivano tra le file di piante di papiro che oscillavano al vento e, pochi minuti dopo, si ritrovarono soli sulle acque della palude, invisibili dalle rive in quel labirinto di vie fluviali segrete. «Dove sei stato, Taita?» Nefer abbandonò l'atteggiamento regale. «Mi sei mancato tanto.» «Ti spiegherò ogni cosa», gli assicurò l'altro. «Ma prima devi raccontarmi tutto quello che ti è successo.» Trovarono un approdo tranquillo in una minuscola laguna circondata dai papiri, e Nefer riferì tutto ciò che gli era successo dall'ultima volta che aveva potuto parlare in privato col suo tutore. Per ordine di Naja, era stato rinchiuso in una prigione dorata, senza poter vedere nessuno dei vecchi amici, Meren compreso, o le sorelle. Le sue uniche distrazioni erano lo studio dei papiri presi in prestito dalla biblioteca del palazzo e le esercitazioni alla guida del carro e all'uso delle armi, sotto la guida dell'anziano guerriero Hilto. «Naja non mi permette neppure di andare a caccia col falco o a pesca senza che Asmor mi faccia da balia», si lamentò, amareggiato. Non sapeva neppure che Taita avrebbe partecipato alla cerimonia nel cortile del tempio: credeva infatti che si trovasse a Gebel Nagara. Così, alla prima occasione, mentre Naja e Asmor erano chiusi in consiglio con Apepi, Trok e gli altri signori della guerra hyksos, intenti a concordare la tregua, si era imposto alle guardie per uscire dall'alloggio in cui era confinato e far visita a Taita. «La vita è così monotona senza di te! Penso che potrei morire di noia. Naja deve permetterci di tornare insieme. Dovresti lanciargli un incantesimo.» Wilbur Smith
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«È un'idea da prendere in considerazione», replicò Taita, eludendo con abilità il suggerimento. «Ora però abbiamo poco tempo. Non appena scoprirà che siamo scomparsi dal tempio, Naja manderà tutto l'esercito a cercarci... Devo raccontarti le mie novità.» Rapidamente, per sommi capi, spiegò a Nefer quello che era accaduto dopo il loro ultimo incontro. Illustrò quali rapporti esistevano tra Naja e Trok e descrisse la visita sul luogo della morte del Faraone Tamose nonché la scoperta che aveva fatto. Nefer lo ascoltò senza interrompere, ma, quando Taita gli parlò della morte del padre, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Distolse lo sguardo, tossì e si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Adesso puoi capire in quale pericolo ti trovi», gli disse il vecchio. «Sono ormai certo che Naja ha avuto una parte determinante nell'assassinio del Faraone tuo padre e, più ci avvicineremo alla possibilità di provare questo suo ruolo, maggiore diventerà il pericolo.» «Un giorno vendicherò mio padre», giurò Nefer, con voce fredda e dura. «E io ti aiuterò a farlo», promise Taita. «Per ora, comunque, dobbiamo proteggerti dalla malvagità di Naja.» «Come pensi di farlo, Taita? Possiamo fuggire dall'Egitto come avevamo progettato?» «No.» Il vecchio scosse la testa. «Naturalmente ci ho pensato, ma Naja ci tiene prigionieri qui troppo saldamente. Se tentassimo di raggiungere di nuovo la frontiera, avremmo mille carri alle calcagna.» «Che possiamo fare, allora? Sei in pericolo anche tu.» «No, ho convinto Naja che, senza il mio aiuto, non potrà riuscire.» Descrisse la falsa cerimonia divinatoria al tempio di Bes, e spiegò come Naja fosse convinto che lui potesse trasmettergli il segreto della vita eterna. Nefer sorrise dell'astuzia del mago. «Allora, qual è il tuo piano?» «Dobbiamo attendere il momento giusto per fuggire oppure per liberare il mondo dalla maligna presenza di Naja. Nel frattempo ti proteggerò meglio che posso.» «E come farai?» «Naja mi ha mandato da Apepi per organizzare questa conferenza di pace...» «Sì, so che sei andato ad Avaris. Me lo hanno spiegato quando ho chiesto di vederti.» «Non ad Avaris, bensì al quartier generale dell'esercito di Apepi, a Wilbur Smith
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Bubasti. Quando il re degli hyksos ha accettato d'incontrare Naja, sono riuscito a convincerlo che dovrebbero suggellare il trattato con un matrimonio fra sua figlia e te. Quando sarai sotto la protezione del re degli hyksos, Naja si accorgerà di avere in mano un coltello spuntato. Non potrebbe correre il rischio di far ripiombare il Paese nella guerra civile, violando il trattato.» «Apepi vuole darmi in moglie la figlia?» Nefer lo fissò, stupito. «Quella col vestito rosso che ho visto stamattina durante la cerimonia?» «Sì. Mintaka. Si chiama così.» «So come si chiama», ribatté Nefer con veemenza. «Porta il nome di una stella minuscola nella cintura della costellazione del Cacciatore.» «Già, è lei.» Taita annuì. «Mintaka, quella ragazza brutta, col naso grosso e la bocca strana.» «Non è brutta!» Nefer lo aggredì, saltando in piedi a rischio di rovesciare il barchino e finire nel fango della laguna. «È la più bella...» Poi vide l'espressione sul viso del vecchio tutore e si calmò. «Voglio dire... è molto attraente», aggiunse con un sorriso contrito. «Mi prendi sempre alla sprovvista. Comunque devi ammettere che è bellissima, Taita.» «Se ti piacciono i nasi grossi e le bocche strane.» Nefer raccolse un pesce morto dal fondo del barchino per lanciarglielo addosso, ma Taita lo schivò. «Quando potrò parlarle?» chiese il ragazzo, cercando di far credere che quella richiesta non avesse importanza. «Parla la nostra lingua, vero?» «Bene quanto te», gli assicurò Taita. «Allora, quando potrò vederla? Puoi organizzare un incontro?» Taita aveva previsto quella richiesta. «Potresti invitare la principessa e il suo seguito a una partita di caccia qui, nelle paludi, magari seguita da un banchetto all'aperto.» «Manderò Asmor a invitarla questo pomeriggio stesso», decise Nefer. «Lui consulterebbe prima il reggente, e Naja comprenderebbe subito il pericolo», obiettò Taita, scuotendo la testa. «Non lo permetterebbe mai e, una volta messo in guardia, farebbe tutto ciò che è in suo potere per impedire il vostro incontro.» «Allora che cosa facciamo?» Nefer sembrava inquieto. «Andrò io stesso da lei», promise Taita. In quel momento si udirono grida fioche provenire da varie direzioni nelle paludi di papiro e lo Wilbur Smith
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scroscio di alcuni remi. «Asmor ha scoperto che sei scomparso e ha sguinzagliato i suoi cani per ritrovarti», osservò. «Ciò dimostra quanto sarà difficile sfuggirgli. Ora ascoltami bene: abbiamo poco tempo prima che ci separino di nuovo.» Parlarono in fretta, prendendo accordi per scambiarsi messaggi in caso di emergenza e formulare altri piani, ma, nel frattempo, le grida e gli scrosci diventavano sempre più intensi, avvicinandosi. Pochi minuti dopo, una nave leggera da combattimento carica di uomini armati superò la fragile barriera di papiri, sospinta in avanti da venti remi. Dal ponte di comando si levò un grido: «Ecco il Faraone! Puntate sul barchino!» Gli hyksos avevano creato un campo di addestramento nella pianura alluvionale che sovrastava la palude di papiri sul fiume. Quando Taita scese dal tempio, due battaglioni delle guardie di Apepi si stavano esercitando sotto il cielo sereno reso quasi bianco da un sole implacabile. Duecento uomini armati di tutto punto procedevano attraverso la palude in una corsa a staffetta, immersi nel fango sino alla cintola, mentre, nella pianura, squadroni di carri eseguivano complicate evoluzioni, passando da formazioni in colonna per quattro a una fila per uno e poi disponendosi in linea orizzontale. Nella corsa, le ruote sollevavano turbini di polvere, le punte delle lance riflettevano la luce del sole e gli stendardi dai colori vivaci danzavano al vento. Taita si fermò a guardare, restando per qualche tempo al riparo, una fila di cinquanta arcieri che si esercitava al tiro con una fila di bersagli posti a cento cubiti di distanza, lanciando ciascuno una sequenza di cinque frecce in rapida successione. Alla fine di una serie, gli uomini correvano verso i bersagli di paglia, a forma di uomo, recuperavano le frecce e le lanciavano di nuovo contro la fila successiva di bersagli, distante altri duecento cubiti. La sferza degli istruttori si abbatteva con violenza sulla schiena di chiunque fosse troppo lento ad attraversare il terreno aperto, oppure mancasse il bersaglio, e le borchie di bronzo sulle cinghie di cuoio lasciavano chiazze di sangue, trapassando il tessuto di Uno delle tuniche. Dopo qualche tempo, Taita riprese a camminare. Al suo passaggio, le coppie di soldati armati di lancia, che si stavano esercitando negli assalti e nelle parate regolamentari, lanciando grida stentoree, s'interrompevano, restando in silenzio. Lo seguivano con uno sguardo rispettoso, perché la sua reputazione era temibile. Soltanto dopo il suo passaggio riprendevano Wilbur Smith
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a esercitarsi. In fondo al campo, sul breve tratto di terreno erboso che costeggiava la palude, c'era un carro solo, che eseguiva un percorso complesso, in mezzo a una serie di cippi e di bersagli. Era un carro leggero, da esploratore, con le ruote a raggi e l'abitacolo di canne intrecciate, molto veloce e abbastanza maneggevole perché due uomini potessero sollevarlo in modo da superare un ostacolo. Era tirato da una pariglia di splendide giumente baie che appartenevano all'allevamento personale del re Apepi. I loro zoccoli sollevavano zolle di terriccio nel descrivere la stretta curva intorno ai cippi all'estremità del percorso prima di tornare indietro al galoppo, trainando il carro leggero che sussultava e sobbalzava. Alla guida di quel carro c'era il nobile Trok. Proteso in avanti, con le redini avvolte intorno ai polsi, spronava i cavalli, lanciando grida selvagge, mentre la barba ornata da nastri colorati e i baffi svolazzavano. Taita fu costretto a riconoscere la perizia di Trok: anche a quella velocità, riusciva a tenere perfettamente sotto controllo i cavalli, correndo in linea retta da un cippo all'altro e offrendo all'arciere che si trovava al suo fianco le migliori opportunità di colpire i bersagli disposti lungo il passaggio. Taita, appoggiandosi al bastone, si mise a osservare proprio l'arciere, riconoscendolo all'istante. In effetti era impossibile sbagliarsi: quella figurina snella ed eretta, dal portamento regale, poteva appartenere soltanto a Mintaka. La ragazza indossava una gonna pieghettata di colore scarlatto che lasciava scoperte le ginocchia, coi lacci dei sandali intrecciati intorno ai polpacci ben torniti. Portava una protezione di cuoio sul polso sinistro e una corazza di cuoio rigido modellata sulla forma dei seni piccoli e rotondi. Il cuoio era destinato a proteggere i delicati capezzoli dalla sferzata della corda dell'arco, ogni volta che si scagliava la freccia contro un bersaglio. Anche Mintaka riconobbe Taita e lo salutò, facendo ondeggiare l'arco sopra la testa. I capelli scuri, coperti da una reticella, sobbalzavano sulle spalle a ogni scossone del carro. Non portava trucco, ma il vento e l'esercizio fisico le avevano colorito le guance, esaltando lo scintillio degli occhi. Taita non poteva neanche immaginare Heseret che saliva su un carro da guerra per fare da portatore di lancia, ma sapeva bene che l'atteggiamento degli hyksos nei confronti delle donne era ben diverso rispetto a quello della sua gente. Wilbur Smith
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«Che Hathor ti sorrida, mago!» Mintaka scoppiò in una risata, mentre Trok arrestava il carro davanti a Taita, sbandando per la velocità. Il mago sapeva che la ragazza aveva adottato come patrona la benigna dea egizia, preferendola a una delle mostruose divinità hyksos. «Possa Horus amarti per sempre, principessa Mintaka», ribatté Taita, ricambiando l'augurio. Il fatto che le accordasse quel titolo, sebbene non riconoscesse il padre come re, era un segno del suo affetto. Lei balzò a terra in una nuvola di polvere, correndo ad abbracciarlo e sollevandosi in punta di piedi per gettargli le braccia al collo. Così facendo, lo colpì alle costole con l'estremità dura della corazza e, accorgendosi della sua smorfia, fece un passo indietro. «Ho appena messo a segno cinque centri», si vantò. «Le tue abilità guerresche sono superate soltanto dalla tua bellezza», replicò lui, sorridendo. «Tu non mi credi», ribatté Mintaka in tono di sfida. «Pensi che non sappia tirare con l'arco solo perché sono una ragazza!» Senza attendere una smentita, corse di nuovo verso il carro, saltando a bordo. «Lancia i cavalli, Trok», ordinò. «Un altro giro, a tutta velocità.» Trok scrollò le redini ed eseguì una curva così netta che la ruota interna del carro rimase ferma, poi, non appena sulla linea di partenza, gridò: «Ah! Ah!» e sfrecciarono via lungo il percorso. I bersagli erano fissati in cima a pali situati all'altezza dell'occhio dell'arciere. Erano ricavati da blocchi di legno scolpiti a forma di testa umana. E ogni testa rappresentava la caricatura di un guerriero egizio, con tanto di elmo e insegne della divisione. L'effetto era davvero grottesco, anche a causa dei lineamenti dipinti che sembravano deformare il viso. Non c'è dubbio: gli artisti hyksos hanno proprio una scarsa opinione di noi, pensò Taita con malizia. Mintaka estrasse una freccia dal contenitore fissato alla sponda del carro, incoccandola e tendendo la corda. Prese la mira, con l'impennatura di un giallo vivo che sfiorava le labbra serrate, come in un bacio. Trok guidò il carro verso il primo bersaglio, tentando di offrirle una mira perfetta, ma il terreno era irregolare e, per quanto flettesse le ginocchia per assorbire i sobbalzi, Mintaka non poteva evitare di sussultare. Quando il bersaglio le passò accanto, Mintaka lanciò la freccia, e Taita si accorse di trattenere il fiato; ma non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché quella ragazza maneggiava l'arco leggero con disinvoltura perfetta. Wilbur Smith
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La freccia colpì il bersaglio nell'occhio sinistro e vi rimase conficcata, con l'impennatura gialla che splendeva al sole. «Bak-her!» plaudì Taita, e lei scoppiò a ridere, mentre il carro proseguiva la corsa. Lanciò ancora due frecce, mettendone a segno una nella fronte e l'altra nella bocca del bersaglio. Erano tiri eccellenti anche per un veterano, per non parlare di una ragazzina. Trok voltò il carro, girando intorno al cippo più lontano, poi tornarono indietro. I cavalli tenevano le orecchie abbassate, con le criniere al vento. Mintaka tirò un'altra freccia, centrando di nuovo il bersaglio proprio sulla punta del grosso naso. Per Horus! si disse Taita, sorpreso. Tira come un jinn! L'ultimo bersaglio le si parò davanti e Mintaka si bilanciò con grazia, le guance arrossate e i denti bianchi e scintillanti. Scoccò la freccia, che volò in alto, mancando la testa del bersaglio di un soffio. «Trok, goffo bestione! Sei finito dritto in quella buca proprio mentre tiravo!» lo rimproverò. Poi balzò a terra dal carro ancora in movimento, fulminando con gli occhi il guidatore. «Lo hai fatto di proposito, per mettermi in ridicolo davanti al mago!» «Altezza, sono mortificato per la mia incompetenza.» Il potente Trok era in imbarazzo come un bambino di fronte a quell'accesso di collera. Fu in quel momento che Taita comprese la vera natura del sentimento che Trok provava per Mintaka: si trattava proprio di amore, come del resto aveva sospettato. «Non ti concedo il perdono. Non ti concederò più il privilegio di guidare il mio carro. Mai più.» Taita non l'aveva mai vista mostrare un piglio così deciso e questo, insieme con l'esibizione di abilità nel tiro con l'arco, la fece salire ancor più nella sua stima. Questa è una moglie adatta per chiunque, anche per un Faraone della dinastia di Tamose, decise, facendo bene attenzione a non mostrarsi divertito per evitare che Mintaka sfogasse la sua ira su di lui. Tuttavia non avrebbe dovuto preoccuparsi perché, non appena si girò verso di lui, il sorriso tornò a sbocciare sulle labbra della ragazza. «Quattro centri su cinque sono sufficienti anche per un guerriero sulla Via Rossa, altezza», le assicurò Taita. «Inoltre quella era davvero una buca insidiosa.» «Devi avere sete, Taita. Io ne ho di sicuro.» Lo prese per mano con un gesto spontaneo, guidandolo in riva al fiume, dove le sue ancelle avevano Wilbur Smith
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steso un tappeto di lana, disponendovi sopra vassoi di dolciumi e brocche per le bevande. «Ci sono tante cose che devo chiederti, Taita», gli disse, mentre si sedeva su una pelle di pecora, vicino a lui. «Non ti vedo da quando hai lasciato Bubasti.» «Come sta tuo fratello Khyan?» chiese Taita per eludere le sue domande. «È tornato il solito», rispose lei, ridendo. «Anzi forse è anche più cattivo di prima. Mio padre gli ha ordinato di raggiungerci qui non appena si sarà ripreso del tutto. Vuole tutta la sua famiglia intorno a sé, quando sarà firmata la tregua.» Continuarono a parlare di varie cose, ma Mintaka sembrava distratta. Taita rimase in attesa che la ragazza si decidesse ad affrontare l'argomento cruciale. Invece Mintaka lo sorprese, rivolgendosi d'improvviso a Trok, che si aggirava nei dintorni con l'aria di un cane bastonato. «Ora puoi lasciarci, mio signore», gli disse in tono freddo. «Domattina verrai ancora sul mio carro, principessa?» le chiese Trok in tono supplichevole. «Probabilmente domani avrò altro da fare.» «Allora dopodomani?» Persino i baffi davano l'impressione di afflosciarsi in modo pietoso. «Portami l'arco e la faretra, prima di andartene», ordinò lei, ignorando la domanda, e lui obbedì con l'umiltà di un servitore, posandole accanto le armi. «Addio, mio signore», lo congedò Mintaka, tornando a rivolgersi al mago. Trok indugiò ancora per qualche minuto, poi si allontanò, avvilito, per risalire sul carro. Mentre se ne andava, Taita mormorò: «Da quanto tempo Trok è innamorato di te?» Lei parve sorpresa, poi rise. «Trok innamorato di me? Ma è ridicolo! Trok è vecchio quanto le piramidi di Giza. Deve avere quasi trent'anni, ha tre mogli e solo Hathor sa quante concubine!» Taita prese una delle frecce dalla faretra splendidamente decorata, ispezionandola con aria distratta. L'impennatura era gialla e azzurra, e lui sfiorò il minuscolo sigillo inciso sull'asta. «Le tre stelle della cintura del Cacciatore... di cui Mintaka è la più luminosa», osservò. «Il giallo e l'azzurro sono i miei colori preferiti», confermò lei con un Wilbur Smith
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cenno. «Le mie frecce sono tutte opera di Grippa, l'artigiano più famoso di Avaris. Tutte le frecce realizzate da lui sono perfettamente dritte e bilanciate, in modo da raggiungere il bersaglio. La decorazione e il sigillo sono vere opere d'arte. Guarda come ha inciso e dipinto la mia stella.» Taita rigirò tra le dita la freccia, ammirandola a lungo, prima di riporla nella faretra. «Qual è il sigillo sulla freccia di Trok?» chiese in tono distratto. Lei rispose con un gesto irritato. «Non lo so. Per quel che me ne importa, probabilmente è un cinghiale selvatico, oppure un bue. Ne ho abbastanza di Trok, per oggi e per molti giorni a venire.» Prese una brocca e versò un po' di liquido nella coppa del mago. «So quanto ti piace il miele...» Aveva cambiato argomento, e Taita attese che fosse lei a scegliere quello successivo. «Dunque, ho alcune questioni delicate da discutere con te», ammise lei timidamente. Colse un fiore selvatico dal prato sul quale erano seduti, cominciando a intrecciarlo in una ghirlanda, sempre senza guardarlo; ma le guance, che avevano perso il rossore dell'esercizio fisico, si colorirono di nuovo. «Il Faraone Nefer Seti ha quattordici anni e cinque mesi, quasi un anno più di te. È nato sotto il segno dello Stambecco, che si accorda bene col tuo, il Gatto.» Taita l'aveva anticipata, e lei lo guardò, sbalordita. «Come facevi a sapere che cosa volevo chiederti?» Poi batté le mani. «Ma certo! Tu sei un mago.» «A proposito del Faraone, sono venuto per consegnarti un messaggio da parte di sua maestà», le disse Taita. Ottenne subito tutta la sua attenzione. «Un messaggio? Sa che esisto?» «Lo sa benissimo.» Taita bevve un sorso dalla coppa. «Ci vuole ancora un po' di miele...» E ne versò dell'altro, prima di mescolare. «Non farmi sospirare, mago», scattò lei. «Riferiscimi il messaggio.» «Il Faraone invita te e il tuo seguito a una battuta di caccia alle anatre nelle paludi, domani all'alba, seguita da un banchetto sull'isola della Piccola Colomba.» Il cielo all'alba aveva assunto il colore incandescente di una lama appena estratta dai carboni della fucina. La sommità delle piante di papiro formava un fregio nero, disegnato in controluce. A quell'ora, appena prima del levar Wilbur Smith
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del sole, non c'era un alito di vento che le facesse oscillare, né un suono che turbasse il silenzio. I due barchini impegnati nella battuta di caccia erano ormeggiati alle estremità opposte di una piccola laguna, addossati alla parete di canne che circondava le acque aperte, separati da meno di cinquanta cubiti. I battitori reali avevano piegato gli steli alti del papiro in modo da formare una tettoia che riparava i cacciatori. La superficie immobile della laguna rifletteva il cielo come uno specchio di bronzo levigato. La luce era appena sufficiente per consentire a Nefer di distinguere la figurina aggraziata di Mintaka, seduta a bordo dell'altra imbarcazione con l'arco sulle ginocchia, immobile come una statuetta della dea Hathor. Qualunque altra ragazza di sua conoscenza, in particolare le sorelle Heseret e Merykara, non avrebbero fatto altro che saltellare come canarini sul posatoio, cinguettando a voce alta. Rievocò il loro breve incontro di quella mattina. Era ancora buio, senza che il minimo barlume di aurora offuscasse lo splendore della panoplia di stelle sospesa sul mondo: gli astri apparivano così turgidi e luminosi che gli sembrava di poterli cogliere allungando la mano, come fichi maturi dall'albero. Mintaka aveva disceso il sentiero che veniva dal tempio, preceduta dai portatori di torcia, che illuminavano il cammino, e seguita dalle ancelle. Aveva in testa un cappuccio di lana per ripararsi dal freddo del fiume; quindi, per quanto lui si sforzasse di aguzzare lo sguardo, il suo volto restava in ombra. «Possa il Faraone vivere mille anni.» Erano le prime parole che le sentiva pronunciare. La sua voce era più dolce della musica di qualunque liuto. Era come se dita incorporee gli accarezzassero la nuca, e stentò a ritrovare la voce. «Possa Hathor sorriderti per l'eternità.» Aveva consultato Taita per sapere quale forma di saluto impiegare, e aveva fatto le prove fino a imparare a memoria quelle parole. Gli parve di vedere scintillare i suoi denti mentre lei sorrideva all'ombra del cappuccio, e si sentì incoraggiato ad aggiungere qualcosa che non gli aveva suggerito Taita. Fu come un'ispirazione improvvisa. Indicò il cielo stellato. «Guarda! Ecco la tua stella.» Lei alzò la testa per guardare la costellazione del Cacciatore e il riflesso delle stelle le rischiarò il viso, cosicché la vide per la prima volta da quando aveva imboccato il sentiero. Trattenne il fiato per qualche istante. Mintaka aveva un'espressione solenne, e lui pensò che non aveva mai visto niente di più incantevole. Wilbur Smith
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«Gli dei l'hanno messa lassù apposta per te.» Quel complimento gli salì alle labbra senza che sapesse come. Subito lei s'illuminò in volto, diventando ancora più bella. «Il Faraone è tanto galante quanto garbato.» Gli rivolse un lieve inchino - forse un po' beffardo -, poi salì sul barchino in attesa, mentre i battitori del re sospingevano l'imbarcazione verso la palude. Nefer ripeté quelle parole tra sé, come una preghiera: «Il Faraone è tanto galante quanto garbato». Nella palude, un airone si alzò in volo ad ali spiegate e, come se quello fosse un segnale, l'aria sembrò riempirsi di fruscii. Nefer aveva quasi dimenticato il motivo di quella spedizione sull'acqua, e ciò dava la misura del suo turbamento, poiché aveva una passione straordinaria per la caccia. Distolse gli occhi dalla figura aggraziata nell'imbarcazione all'altro capo della laguna per tendere la mano verso i bastoncini da lancio. Aveva deciso di usare i bastoncini anziché l'arco, perché era certo che lei non avesse la forza né l'abilità di maneggiare armi più pesanti, e questo gli avrebbe assicurato un netto vantaggio. Quando veniva lanciato con abilità, il bastoncino, roteando su se stesso, percorreva un arco molto più ampio di una freccia; il suo peso, inoltre, dava maggiori garanzie di abbattere un'anatra rispetto a una freccia con la punta smussata, che poteva essere deviata dal fitto piumaggio dell'uccello acquatico. Nefer era insomma deciso a impressionare Mintaka con la sua abilità di cacciatore. Il primo stormo di anatre si levò in volo, restando basso sulle acque, al chiarore dell'aurora. Erano bianche e nere, con le piume lucenti, e ciascuna aveva una sporgenza caratteristica sulla parte superiore del becco. Il capo dello stormo deviò, guidando le altre anatre fuori della portata dei cacciatori, ma, in quel momento, gli uccelli da richiamo cominciarono a lanciare il loro verso seducente. Erano anatre catturate e addomesticate, che i battitori del Faraone avevano disposto sulle acque aperte della laguna, trattenendole con un filo passato intorno alle zampe e ancorato a una pietra sul fondo fangoso. Le anatre selvatiche tornarono indietro descrivendo un cerchio ampio prima di cominciare ad abbassarsi, posandosi una alla volta sulle acque libere, vicino agli uccelli da richiamo. Tennero le ali ferme, librandosi nell'aria e perdendo quota rapidamente, proprio al di sopra del barchino di Nefer. Il Faraone calcolò accuratamente i tempi. Si alzò con l'arma pronta al lancio, aspettò che l'anatra di testa allargasse le ali per scendere e lanciò Wilbur Smith
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il bastoncino, facendolo roteare su se stesso. L'anatra vide arrivare il proiettile e abbassò un'ala per evitarlo. Per qualche istante si ebbe l'impressione che potesse riuscirci, poi si sentì un tonfo sordo e l'anatra cominciò a cadere, trascinandosi dietro un'ala spezzata. Finì nella laguna con uno scroscio, ma si riprese quasi subito, tuffandosi sott'acqua. «Presto! Prendetela!» gridò Nefer. Quattro piccoli schiavi nudi erano in attesa nell'acqua. Tenevano fuori soltanto la testa, aggrappati alla fiancata del barchino con le dita intorpidite, battendo i denti per il freddo. Due di loro s'immersero per recuperare l'anatra caduta, ma Nefer sapeva che era inutile. L'anatra, ferita soltanto a un'ala, poteva restare sott'acqua e sottrarsi senza troppe difficoltà a coloro che cercavano di catturarla. Questa è perduta, pensò con amarezza. E, prima che fosse pronto a lanciare il secondo bastoncino, lo stormo di anatre aveva già deviato verso l'altro capo della laguna, direttamente sul barchino di Mintaka. Restavano ancora a bassa quota, a differenza di certi uccelli che si sarebbero alzati quasi in verticale, tuttavia erano molto veloci, con le ali a forma di lama che fischiavano nell'aria. Nefer aveva quasi trascurato la presenza della cacciatrice sull'altra barca: a quell'altezza, e a quella velocità, i bersagli erano troppo difficili per chiunque non fosse un arciere estremamente abile. Eppure, in quel preciso istante, due frecce in rapida successione saettarono verso lo stormo di anatre. Il suono del duplice impatto si ripercosse, nitido, sulle acque della laguna. Subito dopo, due anatre caddero dal cielo con le ali abbandonate e la testa ciondolante: erano state ferite nello stesso istante, morendo sul colpo. Finirono in acqua e galleggiarono sulla superficie, immobili. I ragazzi le raggiunsero facilmente a nuoto e, stringendole tra i denti, le riportarono fino al barchino di Mintaka. «Due tiri fortunati», commentò Nefer. Taita, a prua del barchino, aggiunse senza sorridere: «Due anatre sfortunate». Ormai il cielo sembrava pieno di anatre, che si alzavano in volo, formando nubi scure, mentre i primi raggi del sole colpivano le acque. Gli stormi erano così fitti che, da lontano, si aveva l'impressione che i canneti in fiamme sprigionassero nubi di fumo scuro. Nefer aveva ordinato che venti navi leggere e altrettante barche, più piccole, pattugliassero le acque aperte nel raggio di tre leghe dal tempio di Hathor, in modo da dare la caccia a tutti gli uccelli che si fossero posati Wilbur Smith
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sulle acque. Le moltitudini alate non accennavano a diradarsi. In volo non c'erano soltanto una dozzina di varietà di anatre e oche, ma ibis, aironi, egrette, pellicani e altri volatili, che s'incrociavano dall'alto del cielo fino alle cime ondeggianti dei papiri, roteando in schiere scure e compatte o volando basse in formazioni ad angolo acuto con rapidi battiti d'ali, lanciando squittii, versi e lamenti di ogni sorta. A intervalli, in quella cacofonia aerea, risuonava il trillo di una risata argentina, alternato a squittii di gioia infantile: erano le ancelle di Mintaka che la incoraggiavano. L'arco leggero che la ragazza imbracciava era ideale per quel compito, rapido da puntare e non troppo faticoso da tendere. Non usava le tradizionali frecce a punta smussata, ma altre, speciali, con la parte finale di metallo acuminato, forgiate apposta per lei da Grippa, il celebre artigiano hyksos, cosicché la punta, sottile come un ago, penetrava nel fitto piumaggio delle anatre, conficcandosi in profondità. Senza che i due si scambiassero una sola parola, lei aveva compreso che Nefer intendeva trasformare la caccia in un gesto di omaggio, e voleva dimostrargli che il proprio istinto competitivo era pari al suo. Nefer era rimasto scosso dal fallimento iniziale, e soprattutto dall'inattesa abilità di Mintaka con l'arco, quindi, invece di concentrarsi sul proprio compito, si lasciava distrarre da quello che avveniva nell'altra barca. Ogni volta che guardava in quella direzione aveva l'impressione che piovessero dal cielo anatre colpite a morte, e questo contribuì a fargli perdere la testa. Gli venne meno la capacità di valutazione, e cominciò a lanciare il bastoncino o troppo presto o troppo tardi. E, per tentare di compensare l'errore, si tese, cominciando a torcere il braccio nel lancio, anziché usare tutta la spinta del corpo. Il braccio destro si stancò in fretta, così, istintivamente, lui accorciò l'arco del movimento, piegando il gomito e rischiando di lussarsi il polso. In genere, il ragazzo metteva a segno sei tiri su dieci; in quell'occasione, invece, mancava il bersaglio più della metà delle volte, e la sua frustrazione s'ingigantiva. Molte delle prede che colpiva, inoltre, erano soltanto stordite o mutilate, e riuscivano a sfuggire ai piccoli schiavi immergendosi nella laguna per raggiungere il folto dei papiri, dove restavano sott'acqua, protette dall'intrico di radici e di steli. Per contrasto, le grida di esultanza che si levavano dall'altro barchino continuavano quasi senza interruzione. Wilbur Smith
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Disperato, Nefer abbandonò i bastoncini ricurvi per ricorrere al pesante arco da guerra, ma era troppo tardi: il braccio destro era affaticato dagli sforzi compiuti fino a quel momento, per cui gli riusciva difficile tendere l'arco. Le sue frecce arrivavano in ritardo sugli uccelli più veloci e in anticipo su quelli più lenti. Taita lo osservava annaspare, ormai incapace di sottrarsi a quella trappola che si era preparato da solo. Una piccola umiliazione non gli farà male, si disse. Con pochi consigli avrebbe potuto correggere gli errori di Nefer, visto che, quasi cinquant'anni prima, aveva scritto i manuali classici non soltanto sulla guida del carro da combattimento e sulle tattiche militari, ma anche sul tiro con l'arco. Una volta tanto, però, la sua simpatia non andava tutta al ragazzo, e sorrise dentro di sé quando vide Nefer mancare di nuovo il bersaglio, mentre Mintaka abbatteva due uccelli dello stesso stormo che passavano sulla sua testa. Fu allora che uno degli schiavi di Mintaka attraversò a nuoto la laguna, si aggrappò alla fiancata del barchino di Nefer e disse: «Sua altezza reale, la principessa Mintaka, spera che il potente Faraone possa godere di giorni allietati dalla fragranza del gelsomino e di notti stellate in cui risuona il canto dell'usignolo. Tuttavia il suo barchino sta per affondare sotto il peso della preda, e lei è ansiosa di sedersi al banchetto che doveva cominciare qualche ora fa». Una manifestazione di spirito intempestiva, pensò Taita, dispiaciuto per Nefer. Furioso per quella impertinenza, Nefer sibilò: «Schiavo, puoi rendere grazie al dio delle scimmie o dei cani randagi che adori, qualunque esso sia, per il fatto che sono un uomo misericordioso, altrimenti ti taglierei con le mie mani quella brutta testa e la manderei alla tua padrona in risposta a questa battuta». Era il momento per Taita d'intervenire in tono conciliante: «Il Faraone si scusa per la sua distrazione, ma si divertiva tanto che non ha badato al trascorrere del tempo. Riferisci per favore alla tua padrona che ci dirigeremo subito al banchetto». Nefer lo fulminò con lo sguardo, ma ripose l'arco senza contestare quella decisione. Le due piccole imbarcazioni tornarono verso l'isola affiancate, cosicché fu facile confrontare le pile di anatre sul fondo di ciascuna. Nessuno a bordo parlava, ma tutti erano ben consapevoli dei risultati di quella caccia. Wilbur Smith
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«Maestà», esclamò Mintaka rivolta a Nefer, «devo ringraziarti per questa mattinata davvero entusiasmante. Non ricordo di essermi mai divertita tanto.» La voce era argentina, il sorriso angelico. «Sei troppo gentile e generosa», rispose Nefer senza sorridere, con un gesto regale di noncuranza. «A me non è sembrato granché.» Voltandosi per metà, fissò con aria pensierosa l'orizzonte di (canne e d'acqua. Mintaka non si lasciò impressionare da quell'atteggiamento scontroso, e si rivolse alle ancelle, dicendo: «Su, intoniamo in onore del Faraone alcune strofe della Scimmia e l'asino». Una delle ancelle le porse il liuto, e lei suonò l'accordo iniziale prima di attaccare quella filastrocca infantile, mentre le schiave si univano al canto nel ritornello, che prevedeva stridule imitazioni di versi animali, e fu inevitabilmente accompagnato da esplosioni d'ilarità. Le labbra di Nefer fremettero e stavano quasi per schiudersi in un sorriso, ma l'atteggiamento di dignità offesa che il giovane aveva assunto non si poteva certo abbandonare con disinvoltura. Taita si accorse che Nefer moriva dalla voglia di unirsi al canto, ma ancora una volta si era cacciato in trappola da solo. Il primo amore è una tale gioia... pensò Taita con un moto di simpatia, e, tra l'entusiasmo delle ragazze a bordo dell'altra barca, improvvisò una nuova versione di quello che la scimmia diceva all'asino, molto più spiritosa di tutte le precedenti. Le fanciulle squittirono nuovamente di gioia, battendo le mani, mentre Nefer si sentì ancora più escluso e reagì con un broncio ostentato. Cantavano ancora quando raggiunsero l'approdo sull'isola. In quel punto, la riva era stata scavata, creando un pendio ripido sotto il quale si stendeva un tratto di fango nero e vischioso. I barcaioli saltarono a terra, sprofondando fino al ginocchio, e tennero fermo il primo barchino mentre gli schiavi trasportavano a braccia la principessa e le sue ancelle fino al terreno asciutto sulla sommità della riva. Una volta che le ragazze furono a terra, anche il barchino del Faraone accostò, e gli schiavi si prepararono a trasportare di peso Nefer, ma lui li respinse con un gesto imperioso. Per quel giorno aveva già subito umiliazioni sufficienti, e non intendeva infliggere altre ferite al suo orgoglio aggrappandosi a un paio di schiavi seminudi e bagnati. Si alzò in piedi agilmente, restando in equilibrio sullo specchio di poppa, e tutti lo guardarono con rispetto, perché offriva uno spettacolo di rara bellezza. Wilbur Smith
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Mintaka tentò di non lasciar trasparire le sue emozioni, ma si convinse ancora di più che Nefer era il giovane più bello che avesse mai visto, snello e agile, col corpo adolescente che cominciava ad assumere i contorni rudi della virilità. Persino la sua espressione imbronciata e altezzosa le sembrava affascinante. È fatto della stoffa degli eroi e dei grandi Faraoni, pensò con slancio. Vorrei non averlo irritato tanto. Sono stata poco cortese, ma, prima che finisca il giorno, lo farò ridere di nuovo, Hathor mi è testimone. Nefer spiccò un balzo per superare il varco che separava il barchino dalla terraferma, come un giovane leopardo che si slancia da un ramo di acacia, atterrando con grazia sulla sommità della riva, a poca distanza da Mintaka, poi rimase immobile, consapevole del fatto che tutti tenevano gli occhi puntati su di lui. Poi la riva gli franò sotto i piedi. Il tratto di argilla asciutta e friabile sul quale si trovava si sgretolò. Per un attimo, il giovane si tenne in equilibrio, mulinando le braccia, poi cadde all'indietro nella palude. Tutti lo fissarono, inorriditi di fronte allo spettacolo del Faraone immerso fino alla cintola nel fango nero e vischioso del Nilo, con un'espressione sbalordita sul volto. Per alcuni lunghissimi istanti nessuno parlò né si mosse. Poi Mintaka scoppiò a ridere. Non avrebbe voluto farlo, ma la tentazione era troppo forte e, una volta cominciato, non riuscì più a fermarsi. Era una risata allegra e contagiosa, alla quale nessuna delle ancelle seppe resistere. Scoppiarono in una serie di risatine e strilli allegri che fecero perdere il controllo ai battitori e ai barcaioli. Persino Taita si unì a loro, ridacchiando in modo irrefrenabile. Nefer diede l'impressione di essere sul punto di scoppiare in lacrime, ma poi la collera repressa così a lungo esplose. Afferrata una manciata di fango nero, la scagliò verso la principessa che rideva. L'umiliazione subita conferì forza al braccio e migliorò la mira, senza contare che Mintaka era così presa da quell'accesso di riso convulso che non pensò neppure di spostarsi o di schivare il colpo. Il fango la colse in pieno viso. La risata si spense e lei fissò Nefer con gli occhi spalancati, enormi nella maschera di fango nero che le colava dal viso. Ora toccava a lui ridere. Sempre seduto nel fango della palude, rovesciò la testa all'indietro e, con una risata beffarda, diede sfogo alla frustrazione e all'umiliazione. E giacché quando il Faraone rideva, tutti dovevano ridere Wilbur Smith
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con lui, gli schiavi, i barcaioli e i battitori raddoppiarono le grida e gli schiamazzi divertiti. Mintaka si riprese in fretta e, senza preavviso, si lanciò all'attacco, piombando addosso a Nefer con tutto il suo peso e cogliendolo alla sprovvista, tanto che il ragazzo non riuscì neanche a riprendere fiato prima di trovarsela seduta sulla testa. Si dibatté sotto la superficie, tentando di fare presa sul fondo fangoso, ma il peso di Mintaka lo teneva inchiodato, e lei gli aveva stretto le braccia intorno al collo. Nefer tentò di liberarsi, però Mintaka era agile e, col corpo coperto da un velo di fango, gli sgusciava tra le mani come un'anguilla. Con uno sforzo enorme, Nefer la sollevò quanto bastava per mettere la testa fuori e prendere fiato, poi lei lo schiacciò di nuovo. Riuscì a rovesciarla sotto di sé, ma era pressoché impossibile tenerla ferma, giacché si divincolava e scalciava con forza sorprendente. La tunica le era risalita fino alla cintola, lasciando scoperte le gambe lisce, e Mintaka riuscì ad agganciare il corpo di Nefer con una gamba, restandogli aggrappata. Ormai si trovavano a faccia a faccia, e lui sentiva il calore del corpo di lei oltre la patina vischiosa di fango. Tra i loro volti imbrattati non c'era che una spanna: Nefer aveva addirittura i capelli di lei negli occhi e si accorse con sorpresa che, sotto la maschera di fango, Mintaka stava sorridendo. Le sorrise a sua volta, poi scoppiarono a ridere nello stesso istante, sebbene nessuno dei due volesse ammettere la sconfitta. Lui era a torso nudo, e la veste di lei era così impalpabile e fradicia da sembrare inesistente. Mintaka teneva ancora le gambe nude strette intorno al corpo di Nefer, e lui protese una mano verso il basso per liberarsi di quella presa tenace. Così, involontariamente, la sua mano destra si chiuse su una natica soda e rotonda che si dimenava con grande energia. Allora lui si accorse che una sensazione strana e piacevole si stava diffondendo in tutto il suo corpo, e perse ogni interesse alla lotta. Si accontentò di tenerla stretta, lasciando che si dibattesse, mentre lui assaporava quella sensazione nuova e straordinaria. Di colpo, Mintaka smise di ridere, facendo a sua volta una scoperta incredibile. Tra i loro due corpi era spuntata una protuberanza che, fino a pochi istanti prima, non esisteva. Era così grande ed elastica che non avrebbe potuto ignorarne la presenza, se ci fosse stata. Spinse in fuori il bacino per metterne alla prova la natura, ma, a ogni spinta, diventava più Wilbur Smith
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dura e più grande. Si trattava di un fenomeno al di fuori della sua esperienza, tanto che la ragazza si sentì indotta a ripetere il movimento, per pura curiosità. Si accorse a malapena che lui aveva smesso di lottare per liberarsi dalla sua stretta, e le teneva il braccio sinistro intorno al corpo, mentre la mano destra era serrata intorno alla sua natica. Anzi, quando spostò di nuovo il bacino in avanti per esaminare quella sporgenza, lui imitò il movimento, spingendosi contro di lei e attirandola più vicino. La protuberanza si mosse, premendo contro di lei come se fosse un animaletto dotato di vita propria. Non aveva mai immaginato la sensazione che la invase in quel momento. D'un tratto quella creatura misteriosa assunse un'importanza di gran lunga superiore a qualunque altra: tutto il suo essere fu pervaso da un calore piacevole, come in un sogno. Senza rendersene conto, allungò una mano per tenerla stretta, per catturarla, come se fosse un gattino o un cucciolo. Fu allora che rammentò, con una scossa simile a un colpo allo stomaco, le storie assurde che le avevano raccontato le schiave su quella cosa, e sull'uso che ne facevano gli uomini. Più di una volta glielo avevano descritto con dettagli sorprendenti. Fino a quel momento aveva liquidato le descrizioni come frutto di fantasia, perché non avevano nulla a che vedere con le piccole appendici penzolanti che i fratelli minori avevano in quella zona. Ricordava soprattutto quello che le aveva detto Saak, la schiava numida: «Non sprecherai più preghiere a Hathor, una volta che avrai visto il dio con un solo occhio quand'è in collera». Si tirò indietro, liberandosi dalla stretta di Nefer e sedendosi sul fango per fissarlo, costernata. Anche Nefer si mise a sedere faticosamente, ricambiando il suo sguardo con aria divertita. Ansimavano entrambi come se avessero appena disputato una gara di corsa. Le risate e gli strilli provenienti dall'alto della riva si spensero lentamente, mentre gli spettatori cominciavano a intuire che era accaduto qualcosa di disdicevole, e il silenzio divenne imbarazzante. Taita si affrettò a mascherare quel momento di disagio: «Maestà, se continuerai a nuotare, offrirai una bella colazione a qualche coccodrillo di passaggio». Nefer si alzò di scatto, raggiungendo Mintaka, ancora seduta nel fango, e la rimise in piedi con delicatezza, come se fosse una fragile statuetta di Wilbur Smith
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vetro hurrita. Gocciolando fango e acqua del Nilo, coi capelli grondanti che le spiovevano sul viso e sulle spalle, la principessa fu condotta dalle ancelle verso una pozza di acque chiare, schermata dalle canne. Quando ricomparve, qualche tempo dopo, non recava nessuna traccia di limo o di fanghiglia. Le ancelle avevano portato con loro un cambio d'abito, quindi Mintaka splendeva in tutto il suo fulgore, con un abito asciutto ricamato di seta e perle di fiume, le braccia ricoperte di braccialetti d'oro e una collana di turchesi e vetro colorato al collo. I capelli, benché umidi, erano pettinati e intrecciati con arte. Nefer si affrettò ad andarle incontro, guidandola verso un gigantesco albero di kigelia sotto il quale era stato disposto un banchetto. Da principio i due giovani si mostrarono timidi e riservati, ancora intimoriti dall'esperienza che avevano vissuto insieme, ma ben presto la loro naturale allegria prevalse, e si unirono alle risate e alla conversazione, anche se i loro occhi continuavano a incontrarsi e quasi tutte le parole che pronunciavano erano rivolte all'altro. Mintaka, che adorava gli enigmi, lo sfidò a una gara, resa più difficile per Nefer dal fatto che gli illustrava gli indizi nella lingua hyksos. «Ho un solo occhio e il naso appuntito. Trafiggo la mia vittima, ma senza far scorrere sangue. Che cosa sono?» «Questo è facile!» Nefer rise trionfante. «Sei un ago da cucito», e Mintaka alzò le mani, arrendendosi. «Penitenza!» esclamarono le ancelle. «Il Faraone ha indovinato. Penitenza!» «Una canzone!» decise Nefer. «Ma non La scimmia. Per oggi ne ho abbastanza.» «Eseguirò Il canto del Nilo», rispose Mintaka, e, dopo che ebbe finito, lui la pregò di cantarne un'altra. «Soltanto se mi aiuterai, maestà», fu la replica della ragazza. Nefer aveva una robusta voce da tenore, ma, ogni volta che stonava, lei mascherava i suoi errori, facendolo apparire molto più bravo di quanto non fosse. Naturalmente Nefer aveva portato con sé la tavola e le pedine per giocare a bao. Glielo aveva insegnato Taita, ed era diventato un esperto. Quando si stancò di cantare, propose a Mintaka di fare una partita. «Dovrai essere paziente con me, perché sono una novellina», lo avvertì Wilbur Smith
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lei, mentre il ragazzo disponeva la scacchiera. Il bao era un gioco egizio, e Nefer era certo di batterla. «Non prendertela troppo», la consolò. «Ti farò da maestro.» Taita sorrise, perché Mintaka e lui avevano trascorso alcune ore giocando a bao nel palazzo di Bubasti, mentre assistevano il fratello minore della giovane. In meno di diciotto mosse, le pedine rosse della principessa hyksos dominavano il castello occidentale, minacciando il centro. «Ho fatto bene?» chiese lei in tono soave. Nefer fu salvato da un grido proveniente dalla sponda del fiume: alzando gli occhi, vide una nave coi colori del reggente che si avvicinava veloce lungo il canale. «Che peccato, proprio quando la partita cominciava a diventare interessante!» Cominciò a riporre la scacchiera con alacrità. «Non possiamo nasconderci?» chiese Mintaka. Nefer scosse la testa. «Ci hanno già visti.» Si aspettava quella visita fin dall'inizio della mattina. Prima o poi il reggente sarebbe stato informato di quell'uscita clandestina, e avrebbe mandato Asmor in cerca del suo indisciplinato protetto. La nave puntò verso la riva, nei pressi del punto in cui erano seduti, e Asmor scese a terra con un balzo, raggiungendo a lunghe falcate l'albero sotto il quale la comitiva aveva consumato il banchetto. «Il reggente è molto seccato per la tua assenza», esordì. «T'invita a tornare subito al tempio, dove urgenti questioni di Stato richiedono la tua attenzione.» «E io, nobile Asmor, sono molto irritato dai tuoi modi scortesi», ribatté Nefer, cercando di salvare almeno in parte la sua dignità. «Non sono né uno stalliere né un servo, per essere apostrofato in questo modo. Inoltre non hai mostrato il dovuto rispetto alla principessa Mintaka.» Tuttavia, per quanti sforzi facesse, non c'era modo di mascherare il fatto che veniva trattato come un bambino irrequieto che aveva commesso una marachella. Cercò comunque di fare buon viso a cattivo gioco, invitando Mintaka a tornare indietro con lui a bordo del suo barchino, mentre le ancelle l'avrebbero seguita con l'altro. Taita rimase a prua, offrendo loro la prima occasione di conversare in privato. Non sapendo bene che cosa aspettarsi da lei, Nefer restò sorpreso quando, anziché intrattenere cortesi convenevoli, Mintaka si lanciò subito in una discussione sulle probabilità di successo della conferenza di pace tra le due parti in causa. Lo colpì con l'acume delle sue opinioni politiche e la forza delle sue convinzioni. «Se Wilbur Smith
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solo noi donne avessimo la possibilità di governare il mondo, non ci sarebbe stata neanche una guerra», concluse la ragazza, riassumendo il suo punto di vista, e lui non poté fare a meno di raccogliere la sfida. Continuarono a discutere animatamente per tutto il viaggio di ritorno fino al tempio. Il tragitto fu troppo breve per i gusti di Nefer, che, una volta arrivato all'approdo, prese per mano Mintaka e le sussurrò: «Mi piacerebbe rivederti». «Piacerebbe anche a me», ammise lei, senza sottrarre la mano. «Presto», insistette lui. «Abbastanza presto.» Mintaka sorrise, ritirando la mano con gentilezza, e lui si sentì stranamente deluso mentre la guardava allontanarsi in direzione del tempio. «Mio signore, tu eri presente alla divinazione dei Labirinti di AmmonRa. Sai quale terribile compito gli dei mi abbiano affidato. Sai che non posso eludere i loro desideri espliciti, e quindi sono impegnato ad agire nel tuo interesse. Avevo i miei buoni motivi per assistere il ragazzo in quella che, dopotutto, è stata solo una scappatella innocente.» Naja non si lasciò ammansire facilmente. Era ancora furioso perché Nefer era sfuggito alla sorveglianza di Asmor per trascorrere la mattinata nelle paludi insieme con la principessa hyksos. «Come posso crederlo, dal momento che hai aiutato Nefer? Anzi, in realtà, sei stato proprio tu a istigare questa follia...» «Mio signore, devi comprendere come sia essenziale per la nostra impresa che io continui ad avere la piena fiducia del giovane Faraone. Dando l'impressione di eludere i tuoi ordini e la tua autorità, il ragazzo sarebbe indotto a credere che sono ancora dalla sua parte. In questo modo il difficile compito che mi è stato imposto dai Labirinti sarà più facile da realizzare.» Taita continuò a respingere con diplomazia le accuse del reggente, finché lui non smise di sbraitare, limitandosi a grugnire, amareggiato: «Non deve accadere mai più, mago. Naturalmente confido nella tua lealtà: saresti un idiota a opporti agli ordini espliciti degli dei. Tuttavia, ogni volta che lascerà il suo alloggio, Nefer dovrà essere accompagnato da Asmor e da una scorta dei suoi uomini. Non posso correre il rischio che scompaia». «Mio signore, come procedono i negoziati col capo dei pastori? C'è qualcosa che posso fare per contribuire a un esito positivo in questo Wilbur Smith
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campo?» Taita sviò con accortezza il discorso, e Naja lo assecondò. «Apepi è sofferente. Questa mattina è stato colpito da un accesso di tosse così forte che ha sputato sangue ed è stato costretto a lasciare la sala. Se non può partecipare di persona, non consente a nessun altro di parlare per lui, neppure al nobile Trok, che di solito gode della sua fiducia. Soltanto gli dei sanno quanto tempo ci vorrà prima che quel bestione prenda di nuovo parte alla conferenza. Forse saremo costretti a sprecare giorni o addirittura settimane.» «Di che cosa soffre Apepi?» chiese Taita. «Non lo so.» Naja s'interruppe, colpito da un'idea. «Come ho fatto a non pensarci prima? Tu, con la tua abilità, sarai in grado di curare qualunque malanno lo affligga. Va' subito da lui, mago, e fa' del tuo meglio.» Avvicinandosi all'appartamento del re, Taita sentì Apepi fin dall'altro lato del cortile. Sembrava un leone dalla criniera nera caduto in trappola, e i suoi ruggiti aumentarono d'intensità proprio mentre il mago entrava nella stanza. Varcando la soglia, Taita rischiò di essere travolto da tre sacerdoti di Osiride che fuggivano, terrorizzati, e schivò di misura un pesante catino di bronzo lanciato dal re degli hyksos, che giaceva nudo al centro della stanza, su un groviglio di pellicce e coltri in disordine. «Dove sei stato, mago?» ruggì Apepi non appena vide Taita. «Ho mandato Trok a cercarti prima dell'alba. Perché vieni solo adesso, in pieno pomeriggio, a salvarmi da quei sacerdoti infernali, coi loro veleni puzzolenti e le loro pinze arroventate?» «Non ho neppure visto Trok», spiegò Taita. «Sono venuto appena il mio signore, Naja, mi ha detto che eri indisposto.» «Indisposto? Io non sono indisposto, mago. Sono in punto di morte.» «Fammi vedere che cosa si può fare per salvarti.» Apepi si girò sul ventre peloso, e Taita vide il gonfiore grottesco e violaceo che aveva sul dorso, grande quanto due pugni del re accostati. Non appena lo sfiorò delicatamente, Apepi lanciò un altro grido tonante, coprendosi di un velo di sudore. «Piano, Taita. Sei maldestro come tutti i sacerdoti egizi messi insieme.» «Come si è sviluppato?» chiese Taita, indietreggiando. «Che cos'hai sentito?» «È cominciato con un dolore intenso nel petto», spiegò Apepi, sfiorandosi il torace. «Poi ho preso a tossire, e il dolore è diventato più forte. Ho sentito qualcosa muoversi qui dentro, poi ho avuto l'impressione Wilbur Smith
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che si spostasse verso la schiena, ed ecco che è spuntato questo gonfiore.» Allungò una mano verso la spalla per toccarlo, e gemette di nuovo. Prima di proseguire l'esame, Taita gli somministrò una pozione ricavata dallo shepenn rosso, il fiore del sonno. Era una pozione così forte da mettere fuori combattimento un cucciolo di elefante, ma Apepi rimase lucido, benché avesse lo sguardo sfocato e la voce impastata. Taita palpò di nuovo il gonfiore, e il re gemette, ma senza protestare oltre. «C'è un corpo estraneo conficcato nelle tue carni, mio signore», sentenziò infine Taita. «Questa per me non è una grande sorpresa, mago. Ci sono uomini malvagi, per lo più egizi, che mi conficcano corpi estranei nelle carni da quando ho smesso di poppare il latte della balia.» «Direi che è una punta di freccia o una lama, ma non c'è nessun foro di entrata», rifletté a voce alta il mago. «Usa gli occhi, amico. Ne ho dappertutto, di fori.» In effetti il corpo irsuto del re era costellato di vecchie ferite ricevute in combattimento. «Dovrò incidere», lo avvertì Taita. «Fallo, mago, e smettila di frignare», ringhiò Apepi. Mentre Taita sceglieva un bisturi di bronzo dalla cassetta degli strumenti, il sovrano raccolse dal pavimento la cintura di cuoio spesso, piegandola in due prima di stringerla tra i denti per prepararsi ad affrontare il coltello. «Venite qui!» gridò Taita, rivolto alle guardie sulla porta. «Venite a tenere fermo il re.» «Fuori, idioti!» tuonò Apepi. «Non ho bisogno che qualcuno mi tenga fermo.» Taita lo studiò dall'alto, per calcolare l'angolazione e la profondità del taglio, quindi eseguì rapidamente un'incisione profonda. Apepi si lasciò sfuggire un lamento, ma non si mosse. Quindi il mago si tirò indietro, mentre un getto di sangue scuro e pus denso e giallo sgorgava dalla ferita e la stanza si riempiva di un odore nauseabondo. Posando il bisturi, infilò l'indice nell'incisione. Il sangue scorreva gorgogliando dalla ferita, ma, sul fondo, Taita sentì qualcosa di duro e acuminato. Allora prese il forcipe d'avorio che aveva tenuto a portata di mano e sondò l'apertura finché non incontrò con la punta un ostacolo. Apepi aveva smesso di gridare e giaceva immobile, a parte qualche fremito involontario dei muscoli della schiena. Respirava dal naso, Wilbur Smith
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grufolando come un maiale. Al terzo tentativo, Taita riuscì ad afferrare l'oggetto col forcipe, tirando finché non lo sentì cedere. Finalmente uscì, insieme con un getto di pus, e Taita lo tenne sollevato alla luce della finestra. «Una punta di freccia», annunciò, «ed è qui da parecchio tempo. Mi sorprende che non ti abbia dato fastidio già da qualche anno...» Apepi sputò la cintura e si mise a sedere, ridacchiando con voce un po' incerta. «Per Seueth, riconosco quel grazioso gingillo. Uno dei tuoi banditi me l'ha cacciato in corpo ad Abnub, dieci anni fa. A quel tempo i miei chirurghi dissero che era troppo vicino al cuore per raggiungerlo, così l'hanno lasciato dov'era, e da allora me lo sono portato dentro.» Prendendo quel triangolo di selce acuminato dalle dita insanguinate di Taita, lo guardò con una sorta di orgoglio possessivo. «Mi sento come una madre col suo primogenito. La farò trasformare in un talismano da portare al collo, appeso a una collana d'oro. Potresti farci sopra un incantesimo, in modo che respinga altri proiettili... Che ne dici, mago?» «Sono certo che si rivelerà estremamente efficace, mio signore.» Taita gli riempì la bocca di vino caldo e miele che aveva preparato in una coppa; poi usò una siringa di bronzo per lavare il pus e il sangue dalla ferita. «Che spreco di buon vino», esclamò Apepi, sollevando la coppa con entrambe le mani e vuotandone il contenuto, prima di scagliarla contro la parete opposta, ruttando. «Ora, come ricompensa per i tuoi servigi, ti racconterò una storiella divertente, mago. Una storiella che si riferisce alla nostra ultima conversazione in cima alla torre di Bubasti.» «Ascolterò con estrema attenzione ogni tua parola, mio signore.» Taita si chinò su di lui, cominciando a bendare la ferita con strisce di lino, e mormorando nel frattempo l'incantesimo per la guarigione delle ferite: «Io ti lego, creatura di Seth... Ti chiudo la bocca rossa, creatura immonda...» Apepi lo interruppe bruscamente. «Trok ha offerto un lakh d'oro come prezzo per sposare Mintaka.» Taita rimase immobile, lasciando la benda avvolta solo a metà intorno al massiccio torace di Apepi. «E tu che cos'hai risposto, maestà?» Era così turbato che il titolo gli sfuggì di bocca prima che potesse trattenersi. Si trattava di uno sviluppo pericoloso e imprevisto. «Gli ho detto che il prezzo era di cinque lakh», spiegò Apepi sogghignando. «Quel cane è così invaghito della mia cagnetta che non ci vede più, ma, Wilbur Smith
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nonostante il bottino che mi ha rubato in tutti questi anni, non riuscirà mai a mettere insieme cinque lakh.» Si lasciò sfuggire un altro rutto. «Non preoccuparti, mago, Mintaka è troppo preziosa per sprecarla con uno come Trok, quando posso usarla per incatenare il tuo piccolo Faraone al mio regno.» Alzandosi, sollevò un braccio muscoloso, tentando di sbirciare al di sotto verso la schiena bendata: pareva un vecchio gallo con la testa sotto l'ala. «Mi hai trasformato in una mummia prima del tempo!» commentò, ridendo. «Eppure mi sembra un lavoro ben fatto. Va' ad avvertire il tuo reggente che sono pronto ad affrontare un'altra zaffata del suo profumo. Lo incontrerò di nuovo nella sala delle conferenze tra un'ora.» Naja fu ammansito dal successo ottenuto da Taita e dal messaggio di Apepi. Qualunque sospetto potesse aver nutrito in passato si era ormai dissolto. «Ho messo alle strette quel vecchio furfante di Apepi», si vantò il reggente. «Sta per fare concessioni maggiori di quanto pensi, ed è per questo che sono andato su tutte le furie quando ha interrotto la riunione per andarsene a letto.» Era tanto soddisfatto di sé che non riusciva a restare seduto. Balzò in piedi, cominciando a camminare avanti e indietro sul pavimento di pietra. «Come sta, mago? Gli hai somministrato qualche pozione che possa offuscargli la mente?» «Gli ho ficcato in gola una dose capace di stendere un bufalo», gli assicurò Taita. Naja sorrise. Dirigendosi verso la cassetta dei cosmetici, si spruzzò nel cavo della mano il profumo contenuto in una fiala di vetro verde, frizionandosi poi la nuca. «Bene, vedrò di sfruttare sino in fondo questo vantaggio.» Si avviò verso la porta, poi parve esitare. «Vieni con me», ordinò a Taita. «Prima che abbia concluso le trattative con Apepi, i tuoi poteri potrebbero farmi comodo.» Indurre il re degli hyksos a stipulare il trattato non era però un'impresa facile come Naja aveva dato a intendere. Apepi non risentiva affatto né della ferita né della pozione che gli era stata somministrata, e continuò a inveire, gridare e battere i pugni sul tavolo molto tempo dopo che il guardiano del tempio aveva annunciato lo scadere della mezzanotte. Nessuno dei compromessi offerti dal reggente gli sembrava accettabile e persino Taita apparve sfinito dalla sua intransigenza. Naja aggiornò la seduta e, al canto del gallo, si ritirò barcollando per andare a letto. Wilbur Smith
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Il giorno dopo, quando si riunirono nuovamente a mezzogiorno, Apepi non si mostrò più docile, anzi i negoziati divennero ancora più tempestosi. Taita ricorse a tutta la sua influenza per calmarlo, ma Apepi si lasciò indurre a più miti pretese solo con estenuante lentezza. Quindi soltanto al quinto giorno di trattative fu possibile dare inizio alla stesura del trattato, che gli scribi trascrissero sulle tavolette d'argilla tanto in scrittura ieratica quanto in geroglifici, traducendo il testo nella lingua degli hyksos e degli egizi. Il lavoro proseguì fino a tarda notte. Fino a quel momento, Naja aveva escluso dalle sedute il Faraone Nefer Seti, tenendolo occupato con incarichi privi d'importanza, lezioni coi tutori ed esercitazioni militari, oppure incontri con ambasciatori e delegazioni di mercanti e sacerdoti, tutti in cerca di concessioni o donativi. Alla fine, però, Nefer si era ribellato, e Naja lo aveva mandato a caccia col falco insieme coi figli minori di Apepi. Quelle battute di caccia non erano un passatempo tra i più gradevoli; già il primo giorno era scoppiata un'accesa disputa sulla preda, che per poco non era sfociata in una rissa. Il secondo giorno, dietro suggerimento di Taita, la principessa Mintaka si era unita alla battuta di caccia per mettere pace tra le due fazioni. Anche i fratelli maggiori nutrivano un notevole rispetto per la ragazza e si rimettevano a lei, mentre in ogni altra occasione avrebbero sguainato le armi, lanciandosi sul gruppo degli egizi per fare una strage. Allo stesso modo, quando Mintaka si trovava al suo fianco nel carro da caccia, Nefer sentiva assopirsi gli istinti bellicosi e badava poco al comportamento minaccioso e arrogante dei rozzi fratelli della principessa, godendosi lo spirito e l'erudizione della ragazza, per non parlare della sua vicinanza fisica. Nello spazio ristretto del carro accadeva spesso che venissero scaraventati l'uno contro l'altra per via del terreno accidentato; allora Mintaka si aggrappava a lui e continuava a tenerlo stretto anche quando il pericolo era passato. Allorché Nefer tornò al tempio dopo la prima spedizione di caccia, mandò a chiamare Taita; in apparenza voleva descrivere gli svaghi della giornata, ma in realtà era assai distratto e non mostrò un grande entusiasmo neppure quando il vecchio tutore gli chiese come si era comportato il suo falco preferito. Poi, all'improvviso, osservò, con aria trasognata: «Non ti stupisce, Taita, il fatto che le ragazze siano tanto morbide e calde?» La mattina del sesto giorno gli scribi avevano completato il lavoro e le Wilbur Smith
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cinquanta tavolette del trattato erano pronte. Allora finalmente Naja invitò il Faraone a partecipare alla cerimonia, che vedeva schierati anche i figli di Apepi, Mintaka compresa. Ancora una volta il cortile del tempio fu invaso da una schiera sfavillante di nobili e personaggi di sangue reale, mentre l'araldo del Faraone cominciava a leggere con voce stentorea il testo del trattato. Nefer era tutto preso dal contenuto delle clausole. Mintaka e lui ne avevano discusso a fondo durante i giorni trascorsi insieme, e si scambiavano occhiate significative ogni volta che credevano di aver individuato un difetto o una svista nei termini del patto. Comunque si trattava di poche eccezioni, e Nefer era sicuro di riconoscere l'influenza indiretta di Taita in molti aspetti di quel lungo documento. Venne il momento di applicare i sigilli. Accompagnato dal suono dei corni d'ariete, Nefer impresse il suo cartiglio sull'argilla umida, imitato da Apepi. Tuttavia il giovane s'irritò alquanto nel vedere che il re degli hyksos aveva adottato il cartiglio sacro dei Faraoni egizi. Sotto gli occhi di Naja, al quale il trucco pesante conferiva un'espressione enigmatica, i nuovi co-regnanti si abbracciarono. Apepi strinse la figura snella di Nefer in un abbraccio che quasi lo stritolò, e i presenti proruppero in grida sonore: «Bak-her! Bak-her!» mentre gli uomini battevano le armi contro gli scudi o picchiavano la parte inferiore di lance e aste contro il pavimento di pietra. Nefer si sentì quasi sopraffare dai pesanti effluvi del corpo di Apepi. Una delle usanze egizie che gli hyksos non avevano adottato era la cura dell'igiene personale. Il ragazzo si consolò col pensiero che, se lui trovava quell'odore ripugnante, Naja avrebbe subito un autentico colpo nel momento in cui il re gli avesse manifestato il suo affetto. Tentò di liberarsi con delicatezza dall'abbraccio del nuovo Faraone co-regnante, ma Apepi gli sorrise con aria paterna, posandogli una mano pelosa sulla spalla, prima di girarsi verso il cortile affollato. «Cittadini di questa terra possente, che oggi è nuovamente riunita, desidero esprimervi il mio senso del dovere e il mio affetto. In pegno di questi sentimenti, offro la mano di mia figlia, la principessa Mintaka, al Faraone Nefer Seti, che è il co-regnante dell'Egitto unito. Il Faraone Nefer Seti, che divide con me la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto, diventerà mio figlio, cosicché i suoi figli saranno i miei nipoti!» Nel cortile regnò un lungo istante di silenzio assoluto, mentre Wilbur Smith
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l'assemblea recepiva la portata di quell'annuncio sorprendente: poi tutti esplosero in esclamazioni ancora più entusiaste. Il tamburellare delle armi e il battito dei sandali sul pavimento raggiunsero livelli assordanti. Il Faraone Nefer Seti aveva sul viso un'espressione che in qualunque altro mortale sarebbe stata definita un sorrisetto ebete. Teneva lo sguardo fisso su Mintaka, immobile all'altro capo del cortile, con una mano sulla bocca, come per impedirsi di strillare, e guardava il padre a occhi spalancati. Rossa in viso, volse con timidezza lo sguardo verso Nefer. I due si fissarono come se nel cortile affollato non ci fosse nessun altro. Taita, seduto ai piedi del trono del Faraone, osservava la scena. Si rese conto che Apepi aveva scelto il momento dell'annuncio con abilità magistrale. Ormai nessuno poteva opporsi al matrimonio: né Naja né Trok né altri. Naja, nonostante il trucco pesante, appariva chiaramente in preda a una profonda costernazione. Si rendeva conto di trovarsi in una situazione critica: se Nefer avesse sposato la principessa, sarebbe uscito dal suo raggio d'azione, e, in quel caso, la corona doppia sarebbe stata sottratta a lui, al reggente. Dovette sentire su di sé lo sguardo che gli stava rivolgendo Taita, perché lanciò un'occhiata nella sua direzione. Per un istante, il mago vide la sua anima, e fu come se avesse guardato in un pozzo arido pieno di cobra vivi, quei cobra di cui il reggente portava il nome. Poi Naja abbassò un velo sugli occhi feroci, sorridendo con calma e assentendo, mentre Taita sapeva che in realtà stava riflettendo furiosamente; quei pensieri, tuttavia, erano così fulminei e complessi che non riusciva a seguirli. Voltando la testa, cercò la figura massiccia del nobile Trok tra le file degli hyksos schierati di fronte a lui. Trok non tentava nemmeno di mascherare ciò che provava: era in preda a un'ira furibonda. Si aveva l'impressione che la sua barba fremesse sul viso gonfio. Aprì la bocca come per lanciare un insulto o una protesta, poi la richiuse, posando una mano sull'elsa della spada. Le nocche sbiancarono per la pressione della stretta. Taita pensò addirittura che volesse sguainare la spada e attraversare di slancio il cortile per abbatterla sulla figura snella di Nefer. Invece, con uno sforzo enorme, riuscì a dominarsi, si lisciò la barba prima e poi si voltò di scatto, abbandonando il cortile. Il trambusto era tale che quasi nessuno si accorse della sua uscita, tranne Apepi, che lo guardò con un sorriso cinico. Quando Trok scomparve dietro le alte colonne di granito del tempio di Wilbur Smith
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Hathor, il re degli hyksos tolse la mano dalla spalla di Nefer per dirigersi verso il trono di Naja, sollevò senza sforzo il reggente dai cuscini e lo abbracciò con energia ancora maggiore di quanto non avesse fatto col Faraone. Poi, accostandogli le labbra all'orecchio, sussurrò: «Ora basta coi trucchetti egizi, mio caro fiorellino odoroso, altrimenti te li ficco nel culo fin dove riesco ad arrivare col braccio». Lasciò quindi ricadere Naja sui cuscini, andando a occupare il trono preparato per lui al suo fianco. Naja impallidì e accostò al naso un tampone di lino imbevuto di profumo per avere il tempo di riprendersi. Nel cortile risuonavano ondate su ondate di applausi. Non appena accennavano a spegnersi, Apepi batteva le mani enormi sui braccioli del trono per incoraggiare nuove manifestazioni di entusiasmo, e gli applausi ricominciavano da capo. Il nuovo Faraone si divertiva enormemente, e continuò sinché non furono tutti esausti. Con la corona deshret del Basso Egitto sulla testa, era lui a dominare la scena. Al suo fianco Nefer, nonostante l'autorità conferitagli dall'alta corona hedjet, sembrava quasi un bambino. Infine, dopo un ultimo scroscio di applausi, Naja si alzò, sollevando le braccia. Nel cortile cadde il silenzio. «Si avanzi la vergine sacra!» Condotta in processione dalle sue accolite, la Gran Sacerdotessa del tempio uscì dal battente scolpito del portale per avanzare verso i due troni. Davanti a lei, due sacerdotesse portavano le corone pshent del regno doppio. Mentre il coro del tempio intonava lodi alla dea, la vecchia venerabile tolse dal capo dei co-regnanti le corone semplici per sostituirle con quelle doppie, suggellando in modo simbolico la riunificazione dell'Egitto. Quindi pronunciò con voce tremante la formula di consacrazione dei due Faraoni e del nuovo regno, prima di ritirarsi nei recessi del tempio. Seguì una breve pausa d'incertezza, perché, nella lunga storia dell'Egitto, quella era la prima volta che si celebrava una cerimonia di riunificazione, e non esisteva un protocollo consolidato da seguire. Naja fu pronto a cogliere quell'opportunità, alzandosi ancora una volta per mettersi di fronte ad Apepi. «In questo giorno fausto e lieto», disse, «non ci rallegriamo soltanto dell'unione tra i due regni, ma anche del fidanzamento tra il Faraone Nefer Seti e la bella principessa Mintaka. Pertanto, sia reso noto nei due regni che le nozze avverranno in questo stesso tempio il giorno in cui il Faraone Nefer Seti raggiungerà la Wilbur Smith
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maggiore età, o adempirà una delle condizioni che ratificano il suo diritto alla corona, e potrà governare di pieno diritto senza la protezione e il consiglio di un reggente.» Apepi si accigliò e Nefer accennò un gesto di delusione, ma ormai era tardi. L'annuncio era stato dato in forma solenne di fronte a tutta l'assemblea e Naja, in veste di reggente, parlava con l'autorità che gli era conferita da entrambi i regnanti. A meno che Nefer non catturasse il falco sacro o riuscisse a percorrere la Via Rossa, suggellando così il proprio diritto al trono, Naja era riuscito a rinviare di alcuni anni la celebrazione del matrimonio. Che colpo da maestro! pensò Taita con amarezza, costretto ad ammirare l'acume politico di Naja, che era riuscito a stornare il disastro che lo minacciava grazie a una rapida riflessione e a un intervento tempestivo. Avendo ormai sbilanciato l'opposizione, Naja rincarò la dose. «Per continuare su una nota altrettanto felice, invito il Faraone Apepi e il Faraone Nefer Seti alla celebrazione delle mie nozze con le principesse Heseret e Merykara. Questa cerimonia avrà luogo tra dieci giorni, il primo giorno della festa per l'ascesa di Iside al tempio, nella città di Tebe.» E così, di qui a dieci giorni, il nobile Naja entrerà a far parte della famiglia reale di Tamose, diventando il primo in linea di successione dopo il Faraone Nefer Seti, pensò Taita, rabbuiandosi. Se ancora ce ne fosse bisogno, ormai abbiamo la conferma del fatto che il cobra nel nido del falco reale, sulle rocce di Bir Umm Masara, era proprio Naja. In base al trattato di Hathor, il trono di Apepi sarebbe rimasto ad Avaris e quello di Nefer Seti a Tebe. Ciascuno dei due avrebbe governato il suo regno, ma due volte l'anno, all'inizio e alla fine dell'inondazione del Nilo, i due sovrani avrebbero tenuto un'assise reale a Menfi, nella quale sarebbero state discusse tutte le questioni che riguardavano entrambi i regni, decretate le nuove leggi e prese in esame le cause legali. Tuttavia, prima che i due Faraoni si separassero per occupare ciascuno il proprio seggio nelle rispettive capitali, Apepi avrebbe risalito il fiume, col suo seguito e in compagnia di Nefer Seti, per recarsi a Tebe, dove avrebbe presenziato alle duplici nozze del nobile Naja. Imbarcare al contempo i due cortei sul molo sottostante il tempio fu un'impresa che richiese una mattinata intera. Persino Taita, che si era mescolato alla folla di barcaioli e scaricatori, schiavi e passeggeri importanti, rimase stupito per le montagne di bagagli e armamentari che si Wilbur Smith
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erano ammucchiate sulla riva, in attesa di essere caricate sulle chiatte, sulle feluche e sulle navi. A ciò si aggiungeva il fatto che le truppe di Tebe e di Avaris, anziché percorrere la lunga strada accidentata che costeggiava il Nilo, avevano preferito smontare i carri per trasportarli insieme coi cavalli a bordo delle chiatte, e questo non contribuiva certo a diminuire la confusione che regnava sulla sponda del fiume. Una volta tanto, Taita non era al centro dell'attenzione: c'era lavoro sufficiente a tenere tutti occupati. Di tanto in tanto, un uomo alzava gli occhi da quello che stava facendo, lo riconosceva e chiedeva la sua protezione, oppure una donna gli portava un bambino malato da curare. Comunque il mago riuscì a poco a poco a spostarsi lungo la riva, curiosando, in cerca dei carri e dell'equipaggiamento dei soldati del nobile Trok. Li riconobbe dagli stendardi verdi e rossi e, avvicinandosi, scorse la figura inconfondibile del nobile hyksos, circondato dai suoi uomini. Avvicinandosi, lo vide in piedi su una pila di attrezzature e di armi, intento ad apostrofare il suo portatore di lancia: «Babbuino scervellato, in che razza di modo hai riposto la mia roba? Quello laggiù è il mio arco preferito, che è rimasto senza protezione. Sicuramente qualche idiota ci farà passare sopra i cavalli!» Il suo umore non era migliorato affatto dal giorno prima: si allontanò lungo il molo, sferzando con la frusta tutti gli sfortunati che si trovavano sulla sua strada. Taita lo vide fermarsi a parlare con un altro dei suoi uomini, prima di avviarsi sul sentiero che saliva verso il tempio. Non appena fu scomparso alla vista, Taita si avvicinò al portatore di lancia. Il soldato indossava soltanto il perizoma e i sandali e, mentre si chinava su una delle casse che contenevano l'equipaggiamento di Trok per trasportarla verso la chiatta in attesa, il vecchio vide sulla sua schiena nuda la tipica eruzione cutanea di forma circolare causata dalla tricofizia. Il soldato consegnò la cassa a un battelliere a bordo della chiatta prima di tornare indietro. Fu allora che notò Taita e si sfiorò il petto col pugno serrato, in un saluto rispettoso. «Vieni qui, soldato», gli disse Taita. «Da quanto tempo hai quel prurito alla schiena?» L'uomo torse istintivamente il braccio all'indietro per grattarsi tra le scapole, con tanta forza da graffiare la pelle a sangue. «Questa maledizione mi tormenta da quando abbiamo conquistato Abnub. Dev'essere un regalo di una di quelle sporche sgualdrine egizie.» Wilbur Smith
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S'interruppe con aria colpevole. Taita aveva capito che si riferiva a una delle donne che aveva violentato durante l'assalto alla città. «Perdonami, mago. Ora siamo alleati e apparteniamo alla stessa nazione...» «È per questo che curerò la tua malattia, soldato. Sali al tempio e chiedi in cucina che ti diano un vasetto di lardo, poi portalo qui. Ti preparerò un unguento», gli promise Taita. Poi, mentre il portatore di lancia si allontanava in fretta, sedette sulla pila di bagagli e armi di Trok, vedendo anzitutto che c'erano tre archi da guerra, e che le accuse di Trok erano infondate, perché tutti gli archi avevano la corda allentata ed erano avvolti con cura nella protezione di cuoio. Ma la scelta di Taita di sedersi proprio su quelle casse non era stata casuale: aveva infatti notato che la cassa in cima portava il simbolo di Grippa, l'artigiano di Avaris celebre per le bellissime frecce che realizzava per tutti gli alti ufficiali dell'esercito hyksos. Taita ricordava di averne parlato con Mintaka. Estraendo furtivamente il suo piccolo pugnale dal fodero sotto la veste, tagliò la cordicella che assicurava il coperchio e lo sollevò. Le frecce erano protette da uno strato di paglia secca, sotto il quale erano disposte a strati alternati in direzioni opposte, da un lato la punta di selce e dall'altro le piume vivaci, verdi e rosse. Taita ne prese una, rigirandola tra le dita. Gli balzò subito agli occhi il sigillo stilizzato, la testa di leopardo che stringeva tra le mascelle la lettera ieratica T. La freccia era identica a quelle della faretra che aveva portato via dal luogo della morte di Tamose e poi nascosto in un posto sicuro. Era l'ultimo filo di quella trama di tradimento e slealtà: un filo che univa in modo inestricabile Naja e Trok in un complotto sanguinoso. Fece scivolare tra le pieghe della veste la freccia incriminante, richiudendo la cassetta. Riuscì a legare nuovamente la cordicella, dopodiché attese il ritorno del portatore di lancia e lo medicò. Il vecchio soldato fu prodigo nel rendere lode a Taita per le sue cure, e si azzardò a chiedere un altro favore. «Uno dei miei amici soffre del morbo egizio, mago. Che cosa si può fare?» Aveva sempre divertito Taita il fatto che gli hyksos chiamassero la sifilide «morbo egizio» e, dall'altra parte, gli egizi ricambiassero il complimento. Si sarebbe detto che nessuno ne fosse contagiato, ma tutti avevano qualche amico che ne soffriva. La cerimonia nuziale e i festeggiamenti per l'unione del nobile Naja con le due principesse della casa di Tamose furono i più sontuosi mai visti. Wilbur Smith
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Secondo Taita, superarono in splendore anche quelli organizzati per il Faraone Tamose o per il padre Marnose, entrambi figli divini di Ra, che potessero vivere in eterno. Ai cittadini di Tebe, Naja fece distribuire cinquecento bovini scelti, due chiatte cariche di dhurra proveniente dai depositi statali e cinquecento giare di terracotta piene di birra della migliore qualità. I festeggiamenti si prolungarono per una settimana, ma neppure le bocche affamate di Tebe erano in grado di divorare simili quantità di cibo in così poco tempo. Gli avanzi di dhurra e di carne, che venne affumicata per poterla conservare, furono sufficienti a sfamare la città per mesi. Per la birra, la faccenda era diversa: se la scolarono tutta nella prima settimana. La cerimonia nuziale fu celebrata nel tempio di Iside alla presenza dei due Faraoni, di seicento sacerdoti e di quattromila invitati. All'ingresso nel tempio, ogni invitato ricevette un gioiello commemorativo, fatto d'avorio, ametista, corallo o qualche altra sostanza preziosa, col proprio nome inciso sotto quelli del reggente e delle spose. Le due fanciulle giunsero al tempio a bordo di uno dei carri di Stato, trainato dai sacri buoi bianchi col dorso gibboso, guidati da schiavi nubiani nudi. La strada era cosparsa di fronde di palma e fiori, e il carro che precedeva quello nuziale era carico di anelli d'argento e di rame che furono gettati alla folla in delirio assiepata lungo il percorso. L'entusiasmo popolare doveva non poco alla generosa elargizione di birra decisa dal nobile Naja. Le spose indossavano abiti di lino candido e finissimo, sottile come una garza, e la piccola Merykara temeva di svenire sotto il peso dell'oro e dei gioielli ammassati sul suo corpo ancora infantile. Le lacrime avevano inciso solchi nel trucco eseguito col kohl e con l'antimonio. Heseret le stringeva forte la mano, tentando di consolarla. Quando raggiunsero il tempio, scesero dall'imponente carro di Stato e furono accolte dai due Faraoni. Guidando la piccola Merykara, Nefer le bisbigliò all'orecchio: «Non piangere, micina. Nessuno ti farà del male. Prima che venga l'ora di andare a letto, tornerai nelle stanze dei bambini». Per manifestare la sua protesta per le nozze delle sorelle, Nefer aveva tentato di sottrarsi al dovere di accompagnare la sorellina nel santuario interno, ma Taita lo aveva indotto a riflettere. «Non possiamo impedire le nozze, anche se sai bene quanto ci abbiamo provato. Naja è fermamente deciso. Quindi sarebbe crudele da parte tua non essere presente per Wilbur Smith
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confortarla in questo che lei vede come il momento peggiore della sua ancor breve vita.» Sia pure a malincuore, Nefer si era lasciato convincere. Alle spalle di Apepi, incedeva Heseret, bellissima nella veste candida come la neve e scintillante di gioielli. Già da alcuni mesi era venuta a patti col destino che gli dei le avevano assegnato. Lo sgomento e l'orrore iniziale avevano ceduto lentamente il posto alla curiosità e a un'ansia sottile. Il nobile Naja era un uomo straordinariamente attraente, e tutte le bambinaie, le ancelle e le compagne di giochi avevano parlato di lui discutendo con avidità ogni dettaglio, mettendo in risalto le sue doti più evidenti e, tra mille risolini ansimanti, facendo congetture salaci sui suoi attributi nascosti. Forse proprio in seguito a quelle discussioni, Heseret aveva vissuto di recente l'esperienza di alcuni sogni conturbanti. In uno di essi correva nuda attraverso un giardino lussureggiante in riva al fiume, inseguita dal reggente. Voltandosi a guardarlo, si accorgeva che era nudo anche lui, ma aveva forma umana soltanto fino alla cintola; dalla vita in giù era un cavallo, identico allo stallone preferito di Nefer, Guardastella. Spesso, quando Guardastella stava con le giumente, Heseret lo aveva visto nella stessa sorprendente condizione in cui si trovava il reggente nel sogno, e si era sempre sentita stranamente interessata a quella vista. Tuttavia, quando il reggente l'aveva raggiunta e aveva proteso una mano ingioiellata per afferrarla, il sogno si era interrotto bruscamente, e lei si era ritrovata seduta sul letto. Senza rendersi conto di quello che faceva, aveva allungato la mano per toccarsi, scoprendo, nel ritirarla, che le dita erano umide e vischiose. Ne era rimasta così turbata che, per quanto tentasse, non era riuscita a riaddormentarsi per riprendere il sogno dal punto in cui si era interrotto. Avrebbe voluto sapere come si concludeva quell'esperienza affascinante. Il giorno seguente si era sentita irrequieta e irritabile, sfogando il suo malumore su tutti coloro che le stavano intorno. Da quel momento l'interesse infantile che aveva provato per Meren aveva cominciato a svanire. Ormai lo vedeva di rado: dopo la morte del nonno del giovane per mano del nobile Naja, le sue sorti erano in declino, e la famiglia era caduta in disgrazia. Heseret aveva capito che si trattava di un ragazzo povero, di un soldato qualsiasi, senza onori né prospettive. Invece il nobile Naja aveva un rango sociale quasi pari al suo e un patrimonio di gran lunga superiore. In quel momento, Heseret, con Apepi al suo fianco, camminava nella Wilbur Smith
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lunga galleria fiancheggiata da colonne che conduceva al santuario interno del tempio. Là il nobile Naja attendeva il corteo delle spose, e, sebbene fosse circondato da cortigiani e dignitari vestiti con splendidi abiti e magnifiche uniformi, Heseret aveva occhi soltanto per lui, anche se cercava di mantenere un contegno umile e pieno di dignità. Naja portava un copricapo adorno di piume di struzzo per emulare il dio Osiride, tanto che dominava dall'alto persino Asmor e il nobile Trok, che lo affiancavano. Avvicinandosi, Heseret percepì il suo profumo, una miscela di essenze di fiori che provenivano da una terra oltre l'Indo e contenevano anche la preziosa ambra grigia, che si trovava soltanto in riva al mare - e anche lì assai di rado -, ed era considerata un dono degli dei che regnavano sugli abissi marini. Quell'aroma la eccitò, per cui prese senza esitare la mano che Naja le porgeva, guardando quegli affascinanti occhi color miele. Quando Naja tese l'altra mano a Merykara, lei scoppiò in singhiozzi e continuò a farlo, a intervalli irregolari, durante tutta la lunga cerimonia, mentre Nefer cercava di consolarla. Infine il nobile Naja infranse le giare piene di acqua del Nilo per indicare il momento culminante della cerimonia, e la folla rimase a bocca aperta per lo stupore: le acque del grande fiume, in riva al quale sorgeva il tempio, erano diventate di un azzurro intenso. Oltre la prima curva del Nilo, Naja aveva fatto disporre una fila di chiatte che andava da una sponda all'altra e, a un segnale lanciato dal tetto del tempio, ciascuna di esse aveva scaricato nell'acqua numerose giare di tintura azzurra. L'effetto era tale da mozzare il fiato, perché l'azzurro era il colore della dinastia di Tamose. In questo modo Naja proclamava al mondo intero la sua entrata nella famiglia del Faraone. Taita, che assisteva dal tetto del recinto occidentale, vide il fiume cambiare colore e fu scosso dal brivido di una premonizione. Per un istante, gli parve che il sole si oscurasse e che le acque azzurre assumessero il colore del sangue; tuttavia, alzando la testa verso il sole, non vide neanche una nuvola, neanche uno stormo di uccelli di passaggio che ne offuscassero i raggi. Poi, abbassando di nuovo lo sguardo, vide che le acque erano tornate di un azzurro intenso. Ora Naja è di sangue reale, e Nefer è privo anche di quella protezione, pensò amaramente. Io sono l'unico scudo di cui dispone, ma sono un uomo solo, e per giunta vecchio. I miei poteri saranno sufficienti per stornare il Wilbur Smith
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cobra dal giovane falco? Infondimi la tua forza, divino Horus. Tu sei stato il mio scudo e la mia lancia per tutti questi anni. Non abbandonarmi proprio ora, o dio possente. Il nobile Naja e le due spose ripercorsero il viale sacro, sorvegliato da file di leoni di granito, che portava all'ingresso del palazzo. Lì smontarono dal carro per dirigersi in corteo verso la sala del banchetto, attraversando i giardini. Quasi tutti gli invitati li avevano preceduti e stavano già assaggiando il vino ricavato dalle vigne del tempio di Osiride. Quando il corteo nuziale entrò, il chiasso era assordante. Nefer teneva per mano le giovani spose, una per parte. Il terzetto avanzò con dignità in mezzo alla folla, ispezionando per qualche istante le montagne di doni accumulati al centro della sala, doni tutti adeguati a un'occasione tanto solenne. Apepi aveva inviato un carro coperto d'oro in foglia, così brillante che persino nella sala in penombra era difficile fissarlo direttamente. Da Babilonia, il re Sargon aveva mandato cento schiavi, ognuno dei quali portava una cassetta in legno di sandalo piena di gioielli, pietre preziose o vasellame d'oro. Gli schiavi s'inginocchiarono davanti al reggente per offrirgli il loro carico, e Naja li sfiorò l'uno dopo l'altro in segno di accettazione. Il Faraone Nefer Seti, accogliendo il suggerimento di Naja, aveva donato al cognato acquisito cinque preziose tenute in riva al fiume. Gli scribi avevano calcolato che il loro valore era superiore a quello di tre lakh d'oro puro. Quando il trio di sposi si sedette, i cuochi del palazzo presentarono a loro e agli ospiti un banchetto che comprendeva quaranta portate diverse, servite da mille schiavi. C'erano zanne di elefante, lingue di bufalo e filetti di capra di montagna della Nubia, carne di cinghiale e di facocero, di gazzella e di stambecco nubiano, di lucertola e di pitone, di coccodrillo e d'ippopotamo, di manzo e di montone. Fu servito ogni genere di pesce del Nilo, dal pesce gatto, coi lunghi baffi e la carne ricca di grasso giallo, al pesce persico dalle carni bianche e all'abramide. Dal mare settentrionale provenivano le portate di tonno, squalo e cernia, i gamberi e i granchi, trasportati da navi veloci che avevano risalito il delta del Nilo. Tra i volatili erano compresi il cigno muto e tre varietà di oche, numerose altre di anatre, più allodole, ottarde, pernici e quaglie, che erano state arrostite, cucinate al forno o alla griglia, marinate nel vino o nel miele selvatico, oppure farcite con erbe e spezie provenienti dalle terre a oriente. Il fumo Wilbur Smith
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aromatico dei fuochi e l'odore del cibo che cuoceva deliziavano le folle di mendicanti e cittadini che si assiepavano alle porte del palazzo, lungo la riva opposta o a bordo delle feluche sul fiume, tutti protesi per cogliere almeno qualche immagine della festa. Per intrattenere gli ospiti erano stati ingaggiati musici e giocolieri, acrobati e ammaestratori di animali. Un animale esotico, un enorme orso bruno, impazzito per il frastuono, riuscì a spezzare la catena e a fuggire; un gruppo di nobili hyksos, capitanati dal nobile Trok, gli diede la caccia nel parco, lanciando grida stridule, e infine uccise l'animale, che si era rifugiato in riva al fiume. Il re Apepi fu solleticato dalla flessuosità e dall'agilità atletica di due acrobate assire e, sollevandole di peso, una per parte, le portò via dalla sala, urlanti e scalcianti, fino al suo alloggio nel palazzo reale. Al suo ritorno, confidò a Taita: «Una delle due, quella graziosa coi lunghi ricci, era un ragazzo. Quando ho scoperto quello che aveva tra le gambe, sono rimasto così sorpreso che per poco non me lo lasciavo scappare». Scoppiò in una risata fragorosa. «Per fortuna non l'ho fatto, perché era di gran lunga il bocconcino più succulento.» Al calar della sera, quasi tutti gli ospiti erano così ubriachi o così pieni di cibo da riuscire a stento a reggersi in piedi. Fu allora che il nobile Naja e le sue spose si ritirarono. Non appena furono nel loro appartamento privato, Naja mandò a chiamare le bambinaie perché portassero Merykara nelle sue stanze. «Trattatela con delicatezza», raccomandò. «La povera piccola dorme in piedi.» Poi prese per mano Heseret e la condusse nel suo sontuoso appartamento, che si affacciava sul fiume. Le acque scure del Nilo erano tempestate di pagliuzze dorate, riflesse dalle stelle. Non appena entrarono nella stanza, le ancelle di Heseret l'accompagnarono dietro il paravento di canne per spogliarla della veste nuziale e dei gioielli. Il letto nuziale era coperto da una pelle di pecora bianchissima. Il nobile Naja la esaminò con attenzione e, quando fu sicuro che era perfetta, uscì sul terrazzo per respirare profondamente l'aria fresca del fiume. Uno schiavo gli servì una coppa di vino speziato, che lui bevve con gusto: era la prima che si concedeva in tutta la serata. Naja sapeva che uno dei segreti essenziali per la sopravvivenza era mantenere la lucidità coi nemici. Aveva osservato tutti gli altri ospiti bere fino a ridursi in uno stato pietoso. Wilbur Smith
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Persino Trok, nel quale riponeva tanta fiducia, aveva ceduto ai più bassi istinti. L'ultima volta che Naja lo aveva visto, stava vomitando in un catino sorretto da una graziosa schiava nubiana; non appena finito, Trok si era asciugato le labbra sulla gonna della schiava, poi gliel'aveva sollevata sopra la testa e aveva spinto la ragazza a terra, sull'erba, montandola da dietro. La natura schifiltosa di Naja era rimasta assai urtata da quello spettacolo. Rientrò nella stanza mentre due schiavi stavano arrivando con un pesante calderone pieno di acqua calda, nella quale galleggiavano fiori di loto. Naja posò la coppa di vino per fare il bagno. Uno degli schiavi lo asciugò e l'altro gli diede una veste bianca pulita. Il reggente li congedò prima di avvicinarsi di nuovo al letto, sul quale si stese, allungando le membra snelle ed eleganti, e appoggiando il capo rasato sul poggiatesta d'avorio con intagli in oro. Dall'estremità opposta della stanza gli giunsero un fruscio di abiti e una serie di bisbigli femminili. A un certo punto, riconobbe la risatina di Heseret, e quel suono lo eccitò. Appoggiandosi su un gomito, si protese verso il paravento di canne intrecciate, nel quale si aprivano varchi abbastanza ampi da fargli intravedere squarci invitanti di pelle chiara e vellutata. Il potere e le ambizioni politiche erano le ragioni principali di quel matrimonio, ma non le uniche. Pur essendo un soldato professionista e un avventuriero per inclinazione, Naja aveva anche una natura molto sensuale, ed erano anni che, senza farsi notare, teneva d'occhio Heseret. Il suo interesse era aumentato a ogni stadio del percorso verso la femminilità: dai primi anni dell'infanzia all'adolescenza, piena di goffaggine, e poi a quel periodo esasperante in cui i boccioli dei seni si erano inturgiditi e il grasso infantile era scomparso, regalando a Heseret un corpo delicato e pieno di grazia. Persino il suo odore era cambiato: ogni volta che gli era vicina, Naja percepiva il lieve odore muschiato della sua femminilità, e andava in estasi. Un giorno, andando a caccia col falco lungo il fiume, si era imbattuto in lei mentre, insieme con due amiche, coglieva fiori di loto per intrecciare ghirlande. Heseret aveva alzato gli occhi verso la sommità della riva, per guardarlo, con le vesti umide che aderivano alle gambe in modo tale che la pelle risplendeva attraverso il lino sottile. Poi lei si era scostata i capelli dal viso, con un gesto innocente che tuttavia racchiudeva una forte carica Wilbur Smith
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erotica. Anche se la sua espressione era rimasta seria e innocente, nello sguardo si era accesa una scintilla maliziosa che lo aveva affascinato. Quella sensazione non era durata che pochi istanti, fino a quando lei, richiamando le amiche, non era tornata sguazzando a riva per raggiungere di corsa il palazzo. Naja aveva ammirato le lunghe gambe bagnate che luccicavano e le natiche rotonde che ondeggiavano sotto la veste di lino, e d'un tratto il respiro gli era diventato affannoso. A quel ricordo, si sentì fremere i lombi. Non vedeva l'ora che lei uscisse dal paravento e, contemporaneamente, provava il desiderio perverso di rinviare quel momento per poterne assaporare appieno l'attesa. Infine il momento tanto sospirato arrivò. Due delle ancelle condussero Heseret oltre il paravento e si allontanarono in silenzio, lasciandola sola al centro della stanza. La camicia da notte la copriva dal collo alle caviglie ed era fatta di una seta rara e preziosa che veniva dalle terre a oriente, color crema, così impalpabile che sembrava fluttuare sul suo corpo come la caligine sul fiume, muovendosi a ogni respiro. Nell'angolo alle sue spalle si trovava una lampada a olio, posta su un tripode, e la morbida luce gialla traspariva attraverso la seta, mettendo in rilievo le curve dei fianchi e delle spalle e facendole splendere come avorio levigato. Heseret aveva i piedi e le mani tinti con l'henné. Il viso era stato ripulito dal trucco, cosicché il sangue giovane le coloriva delicatamente le guance, mentre le labbra tremavano come se fosse sul punto di piangere. Se ne stava a testa bassa, con un atteggiamento infantile e accattivante al contempo, guardandolo di sotto in su tra le ciglia abbassate. Lui si sentì ribollire il sangue, scorgendovi quella stessa scintilla maliziosa che lo aveva incuriosito e affascinato. «Gira su te stessa», le disse in tono gentile. Ma aveva la gola arida come se avesse succhiato la polpa di un loto ancora verde. Lei gli obbedì, però con un movimento lento, come in sogno, facendo ondeggiare i fianchi, mentre il ventre traluceva dalla seta diafana e le natiche dondolavano, rotonde e lucenti. Le ciocche di capelli lucidi oscillavano al ritmo dei suoi movimenti. «Sei bellissima.» La voce gli si spezzò in gola. Gli angoli delle labbra di Heseret si sollevarono in un'ombra di sorriso, e lei le umettò con la punta della lingua rosea come quella di un gattino. «Sono lieta che il reggente mi giudichi bella.» Naja si alzò per andarle incontro, prendendole la mano, che era asciutta Wilbur Smith
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e morbida. La condusse verso il letto, e lei lo seguì senza esitare, inginocchiandosi sulla candida pelle di pecora e chinando il capo in modo che i capelli le scivolarono sul viso, nascondendolo come un velo. Lui rimase in piedi, e si protese in avanti sino a sfiorarle i capelli con le labbra. Heseret trasudava la fragranza inafferrabile di una donna giovane e sana nel pieno dell'eccitazione fisica. Mentre lei alzava la testa per guardarlo attraverso la cortina scura, Naja le accarezzò i capelli, poi li divise per prenderle il mento e costringerla a sollevare il viso, con lentezza estrema, voluttuosa. «Hai gli stessi occhi di Ikona», sussurrò lei. Ikona era il leopardo addomesticato di Naja, una bestia che l'aveva sempre spaventata e affascinata al contempo. E, in quell'istante, erano proprio quelle le emozioni che provava. Naja era snello e sinuoso come il grande felino, e aveva uno sguardo altrettanto implacabile. Col suo istinto femminile, Heseret avvertiva la crudeltà spietata di quelle due creature, una crudeltà che evocava in lei sensazioni mai sperimentate prima di allora. «Anche tu sei bello», mormorò. Era vero: in quel momento le pareva di avere di fronte la creatura più bella del mondo intero. Lui la baciò, e la sua bocca la sorprese. Aveva il sapore di un frutto maturo che lei non aveva mai mangiato prima di allora. Schiuse le labbra per assaporarlo. La lingua di lui ne approfittò per guizzare nella sua, fulminea come quella di un serpente, ma questo non la disgustò. Chiuse gli occhi, sfiorandola a sua volta con la propria lingua. Poi Naja le mise una mano sulla nuca, premendo la bocca sulla sua con veemenza. Lei era così presa dal bacio che, quando l'altra mano di Naja si chiuse sul suo seno, quel gesto la colse del tutto impreparata. Spalancò gli occhi, ansimando e tentando di ritrarsi, ma lui la teneva stretta, e ora l'accarezzava con un tocco gentile ma abile, che placava i suoi timori. Le stuzzicò il capezzolo e la sensazione che la pervase si ripercosse lungo le braccia, fino alla punta delle dita. E provò un'acuta delusione quando lui allontanò la mano, mettendola in piedi sulla pelle di pecora, coi seni all'altezza del suo volto. Con un unico movimento le tolse la tunica di seta, lasciandola ricadere sul pavimento. Poi, quando le succhiò il capezzolo turgido, lei lanciò un grido. Al contempo, lui insinuò la mano tra le sue cosce, stringendo il soffice nido di peli scuri. Heseret non aveva la minima intenzione di opporre resistenza, anzi si arrese completamente. Ascoltando le confidenze delle schiave aveva Wilbur Smith
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temuto che potesse farle del male, invece le sue mani, per quanto rapide e forti, erano anche gentili. Pareva che conoscesse il suo corpo meglio di lei, e vi giocava con tanta abilità che la ragazza si sentiva sprofondare, sempre più in fretta, in quel mare di sensazioni nuove. Ne riemerse soltanto quando aprì improvvisamente gli occhi e scoprì che anche la sua veste era sparita, e lui le stava di fronte, nudo. Si rammentò del sogno in cui aveva la stessa appendice dello stallone, Guardastella. Abbassò gli occhi, trepidante, ma non era affatto come nel sogno: era rosea e liscia, eppure dura come osso, perfetta e nitida nella forma come la colonna di un tempio. I suoi timori svanirono, e lei si arrese ancora una volta alle mani e alla bocca di Naja. Ci fu solo un attimo di dolore bruciante, ma molto tempo dopo, e comunque fuggevole, rimpiazzato quasi subito da una sensazione insolita e meravigliosa di pienezza. Ancora più tardi, lo sentì lanciare un grido sopra di lei, e quel suono fece scattare qualcosa nel suo corpo, trasformando il piacere quasi intollerabile in una sorta di dolore, e allora lo strinse con tutta la forza che aveva nelle braccia e nelle gambe, lanciando un grido anche lei. Nel corso di quella notte incantata, e fin troppo breve, lui la indusse ancora due volte a gridare in preda a quella stessa frenesia di piacere e, quando l'alba s'insinuò nella stanza con la sua luce rosa e argento, lei era ancora immobile tra le sue braccia. Aveva l'impressione che la vita fosse defluita dal suo corpo, che le ossa fossero diventate molli e flessibili come argilla di fiume, e provava un lieve indolenzimento al ventre, che assaporava come un piacere. Naja scivolò via dalle sue braccia, e lei ebbe appena la forza di protestare: «Non andartene. Oh, ti prego, non andare, mio signore. Mio splendido signore». «Solo per poco», sussurrò lui di rimando, sfilando delicatamente la pelle di pecora dal letto. Lei vide le macchie sul candore del vello, il sangue rosso vivo. Aveva provato solo un istante di sofferenza nel perdere la verginità. Lui portò il vello sul terrazzo e, attraverso la porta, lei lo vide esporlo dal muro del parapetto. Dal basso giunse attutito il suono degli applausi dei cittadini, in attesa che venisse esibita quella prova della sua verginità. Non si curava affatto dell'approvazione di quelle orde di contadini, ma ammirò il dorso nudo del marito e si sentì fremere d'amore per lui fino al ventre indolenzito. Quando tornò da lei, gli tese le braccia. Wilbur Smith
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«Sei magnifico», sussurrò, addormentandosi tra le sue braccia. Molto tempo dopo, si svegliò lentamente, scoprendo che tutto il suo essere era pervaso da una leggerezza e da una sensazione di gioia che non aveva mai conosciuto prima di allora. Sulle prime non capì quale fosse la fonte di quel benessere, poi sentì, accanto a sé, il corpo caldo e muscoloso del marito: anche lui si stava ridestando. Aprendo gli occhi, scoprì che la guardava con quegli strani occhi color miele, sorridendole. «Che splendida regina saresti», le disse a bassa voce. Era sincero. Durante la notte aveva scoperto in lei qualità di cui prima non aveva neanche sospettato l'esistenza. Intuiva di aver trovato una donna i cui desideri e istinti erano in perfetta sintonia coi suoi. «E che splendido Faraone saresti tu per l'Egitto.» Lei gli sorrise di rimando, stiracchiandosi in modo voluttuoso. Poi rise dolcemente, allungando la mano per sfiorargli la guancia. «Ma questo potrebbe non accadere mai.» Smise di colpo di sorridere, per aggiungere in tono serio: «Oppure sì?» «C'è un unico ostacolo sulla nostra strada», rispose lui. Non dovette aggiungere altro, perché ciò che vide affiorare negli occhi di lei lo convinse che la sua sposa aveva capito benissimo l'allusione. «Tu sei il pugnale, e io sarò il fodero», mormorò Heseret. «Qualunque cosa tu mi chieda, non ti deluderò mai, mio signore.» Lui le posò un dito sulle labbra, infiammate dai suoi baci. «Vedo bene che tra noi non c'è bisogno di molte parole, perché i nostri cuori battono all'unisono.» Il seguito del re Apepi prolungò di quasi un mese il suo soggiorno a Tebe dopo le nozze. Erano tutti ospiti del Faraone Nefer Seti e del reggente, e venivano intrattenuti con sfarzo regale. Taita li incoraggiò a rimanere, perché era certo che Naja non avrebbe preso iniziative contro Nefer finché Apepi e sua figlia si trovavano a Tebe. Gli ospiti del re trascorrevano le loro giornate dedicandosi alla caccia, con o senza il falco, alla visita dei numerosi templi che sorgevano sulle rive del fiume in onore di tutti gli dei egizi, o ai tornei tra le varie divisioni del regno del nord e del sud. Si organizzavano competizioni coi carri, gare di tiro con l'arco e di corsa. Si tenevano persino gare di nuoto, nelle quali i campioni prescelti attraversavano il Nilo, ricevendo in premio una statuetta d'oro di Horus. Wilbur Smith
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Addentrandosi nel deserto, andavano a caccia di gazzelle e orici a bordo di carri veloci, oppure cacciavano le grandi ottarde coi veloci falchi Saker, giacché non c'erano più falchi reali negli allevamenti del palazzo: erano stati liberati tutti durante i riti funebri del padre di Nefer. In riva al fiume gli ospiti andavano in cerca di aironi e anatre, o infilzavano con la lancia gli enormi pesci-gatto nelle acque basse delle secche. Braccavano il «cavallo di fiume», il possente ippopotamo, dal ponte delle navi della flotta militare, mentre Nefer fungeva da nocchiero a bordo della sua nave personale, chiamata L'occhio di Horus. La principessa Mintaka era al suo fianco e strillava eccitata quando i bestioni emergevano in superficie col dorso irto di lance e le acque si arrossavano del loro sangue. In quei giorni Mintaka era spesso al fianco di Nefer. Viaggiava sul suo carro quando andavano a caccia e gli porgeva la lancia se affiancavano un orice lanciato al galoppo. Quando battevano i canneti a caccia di aironi, portava sul braccio il suo falco. Durante le soste delle battute di caccia nel deserto, sedeva al suo fianco per offrirgli i bocconi migliori. Sceglieva per lui i chicchi d'uva più dolci, sbucciandoli con le lunghe dita affusolate per metterglieli poi in bocca. Ogni sera a palazzo si tenevano banchetti, e anche allora lei sedeva alla sua sinistra, il posto tradizionale della donna, in modo da non intralciare la mano dell'uomo che doveva impugnare la spada. Lo faceva ridere con le sue facezie, ed era imbattibile nelle pantomime e nelle imitazioni: sapeva scimmiottare alla perfezione Heseret, che, da quand'era sposata, inseriva spesso nei suoi discorsi la frase: «mio marito, il reggente dell'Egitto...» pronunciandola con studiata affettazione. Per quanto tentassero, però, Nefer e Mintaka non riuscivano mai a rimanere soli. A questo provvedevano Naja e Apepi. Il ragazzo si rivolse a Taita per chiedergli aiuto, ma neppure lui riuscì a organizzare un incontro segreto. Non gli passò neanche per la testa che Taita non si fosse sforzato troppo per riuscirci, o che fosse altrettanto deciso degli altri a preservare la loro innocenza. Molto tempo prima aveva coperto la tresca fra Tanus e la sua diletta Lostris, e le conseguenze continuavano a ripercuotersi sul Paese a distanza di anni. Quando Nefer e Mintaka giocavano a bao, avevano sempre un pubblico di schiave e cortigiani e, nei dintorni, si aggirava l'onnipresente Asmor. Nefer aveva imparato bene la lezione, e non sottovalutava più l'abilità di Mintaka, anzi giocava con la stessa attenzione che riservava alle partite con Taita. Imparò a riconoscere i punti di forza e Wilbur Smith
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le poche debolezze della sua avversaria: Mintaka, per esempio, tendeva a essere troppo protettiva nei confronti del proprio castello e talvolta, se veniva incalzata a sufficienza in quel settore, lasciava aperto un varco sulle ali. Ben due volte Nefer sfruttò questa scoperta per abbattere le sue difese, ma la terza volta si accorse in ritardo che lei aveva previsto la sua tattica e gli aveva teso una trappola. Quando ormai aveva già esposto il castello occidentale, lei si avventò con una falange in quel varco e, vedendolo costretto a capitolare, scoppiò in una risata così deliziosa che lui riuscì quasi a perdonarla. I loro scontri divennero sempre più accaniti, assumendo proporzioni epiche, tanto che persino Taita restava a osservarli per ore, e ogni tanto annuiva in segno di approvazione, o si lasciava sfuggire uno di quei lievi sorrisi che racchiudevano la saggezza di secoli. Il loro amore così evidente si rifletteva su tutti coloro che li circondavano: ovunque andassero, regnavano sorrisi e risate. Quando il carro di Nefer passava sfrecciando per le vie di Tebe con Mintaka a bordo che impugnava la lancia, i capelli scuri sciolti al vento come un vessillo, le donne uscivano di casa e gli uomini smettevano di lavorare per gridare loro saluti e auguri. Persino Naja sorrideva con aria benigna, e nessuno avrebbe potuto intuire che era furioso perché l'attenzione del popolo veniva distolta dalle sue nozze e dalle sue spose regali. Il nobile Trok era l'unico a ostentare sempre un'espressione truce sia nelle battute di caccia sia durante i banchetti in campagna o a palazzo. Il tempo che passavano insieme correva troppo veloce. «Ci sono sempre tante persone intorno a noi», sussurrò Nefer mentre giocavano a bao. «Desidero ardentemente restare solo con te, fosse anche per pochi minuti. Ci restano soltanto tre giorni, prima che tu debba tornare ad Avaris con tuo padre. Potrebbero passare mesi, persino anni, prima che potessimo incontrarci di nuovo, e ci sono tante cose che vorrei dirti! Ma non posso farlo con tutti questi occhi e queste orecchie puntati verso di noi come frecce pronte a scoccare.» Mintaka annuì, prima di allungare una mano per muovere una pedina che lui, nella foga del discorso, aveva trascurato. Abbassando gli occhi, Nefer si rese conto che il suo castello occidentale era ormai soggetto a un attacco su due fronti. La sua costernazione fu inutile. Tre mosse più tardi, lei aveva già spezzato il suo fronte. Il giovane tirò in lungo ancora per qualche minuto quella battaglia perduta, ma le sue truppe erano in rotta e l'esito finale era inevitabile. «Mi hai colto di sorpresa mentre ero distratto Wilbur Smith
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da altri pensieri», brontolò. «Tipicamente femminile.» «Maestà, non pretendo di essere altro che una donna.» Usava quel titolo con un'ironia tagliente come il pugnale tempestato di gemme che portava alla cintura. Poi si protese in avanti per sussurrare: «Se restassi sola con te, prometteresti di rispettare la mia castità?» «Giuro sull'occhio ferito del grande dio Horus che mai, finché avrò vita, ti procurerò disonore», dichiarò lui con serietà. Mintaka sorrise. «I miei fratelli non ne saranno troppo entusiasti. Non vedono l'ora di avere una scusa per tagliarti la gola.» Puntò su di lui gli splendidi occhi scuri. «Comunque, se dovessero fallire il colpo alla gola, potrebbero accontentarsi di qualche altra... parte.» L'occasione si presentò il giorno dopo. Uno dei battitori reali scese dalle colline che sovrastavano il villaggio di Dabba per riferire che, dal deserto a oriente, era giunto un leone, il quale, durante la notte, aveva razziato i recinti del bestiame. Aveva superato con un balzo lo steccato, uccidendo otto bestie terrorizzate. All'alba, un'orda di abitanti del villaggio, brandendo torce ardenti, soffiando nei corni, suonando i tamburi e lanciando urla selvagge, era riuscita a scacciarlo. «Quand'è successo?» chiese Naja. «Tre notti fa, nobile reggente.» L'uomo era prostrato davanti al trono. «Ho risalito il fiume appena possibile, ma la corrente era forte e i venti si sono dimostrati volubili.» «E del leone che ne è stato?» domandò Apepi, impaziente. «È tornato tra le colline, ma ho mandato sulle sue tracce due dei miei schiavi nubiani più abili nel fiutare la pista.» «Qualcuno lo ha visto? Che dimensioni ha? E' maschio o femmina?» «Gli abitanti del villaggio dicono che è un maschio molto grande, con una folta criniera nera.» Da quasi sessant'anni non si aveva notizia di leoni che si avventurassero nelle terre lungo il fiume. Erano una preda riservata al re, e avevano subito la caccia spietata d'innumerevoli Faraoni, non soltanto per i danni che infliggevano al bestiame dei contadini locali, ma anche perché rappresentavano il trofeo più prestigioso che un sovrano potesse esibire. Durante il lungo e difficile periodo delle guerre con gli hyksos, i Faraoni di entrambi i regni erano troppo occupati per dare la caccia ai leoni, senza contare che i cadaveri abbandonati sui campi di battaglia avevano assicurato ai branchi una fonte di cibo sempre disponibile. Negli ultimi Wilbur Smith
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decenni i branchi erano aumentati e il numero dei leoni era cresciuto a dismisura, insieme con la loro audacia. «Farò caricare subito i carri sulle barche», decise Apepi. «Date le condizioni del fiume, potremo raggiungere Dabba domattina presto.» Sorrise compiaciuto, picchiando il pugno sul palmo calloso della mano destra. «Per Seueth, quanto mi piacerebbe tentare di abbattere quel vecchio leone con la criniera nera. Da quando ho smesso di sterminare egizi, non riesco più a trovare un modo per passare il tempo.» Nel sentire quella battuta, Naja si accigliò. «Maestà, la tua partenza per Avaris è prevista per dopodomani.» «Hai ragione, reggente. Tuttavia gran parte dei nostri bagagli è già stata caricata a bordo e la flotta è pronta a partire. Inoltre Dabba si trova sulla strada di casa. Posso permettermi di rinviare la partenza di un paio di giorni per unirmi alla caccia.» Naja esitò. Non era appassionato di caccia al punto di trascurare i numerosi affari di Stato che richiedevano la sua attenzione. Aveva atteso con impazienza la partenza di Apepi, la cui volgare e chiassosa presenza a Tebe aveva perso da tempo ogni attrattiva ai suoi occhi. C'erano in corso altri progetti che lui poteva completare soltanto dopo la partenza del Faraone hyksos. D'altronde, però, non poteva permettere ad Apepi di andarsene a caccia da solo nell'Alto Egitto. Oltre a essere scortese, sarebbe stato inopportuno dal punto di vista politico lasciarlo libero di scorrazzare nel regno meridionale come se avesse il diritto di farlo. «Maestà», intervenne Nefer, prima che Naja riuscisse a formulare un rifiuto accettabile, «ci uniremo alla caccia col massimo piacere.» Aveva intravisto una splendida occasione di svago, perché non aveva mai avuto occasione d'inseguire un leone a bordo del suo carro e di mettere alla prova il proprio coraggio; ma cento volte più importante di quella sfida era la possibilità di rinviare la temuta partenza di Mintaka. Quella circostanza propizia poteva persino fornire loro l'occasione che finora avevano cercato invano per trascorrere qualche tempo insieme da soli. Anticipando l'opposizione di Naja, Nefer si rivolse al battitore, che era ancora prostrato al suolo, con la fronte sul pavimento di piastrelle, e gli disse: «Ben fatto, buon uomo. Sarai ricompensato con un anello d'oro per il disturbo. Torna subito a Dabba con la feluca più veloce della nostra flotta e preparati ad accoglierci. Daremo la caccia a questa bestia con tutto l'armamentario opportuno». Wilbur Smith
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L'unico motivo di rammarico per Nefer fu che Taita non potesse accompagnarlo nella sua prima caccia al leone per dargli consigli e suggerimenti: infatti il vecchio era andato nel deserto per una delle sue periodiche spedizioni misteriose, e nessuno sapeva quando sarebbe tornato. Il giorno dopo, di buon'ora, la spedizione di caccia sbarcò sulla riva del fiume ai piedi del villaggio di Dabba. Fu necessario scaricare venti carri, coi relativi cavalli, dal piccolo convoglio di chiatte e di navi. Nel frattempo, i portatori di lancia affilarono le lame, sistemarono la corda degli archi da caccia e controllarono che le frecce fossero dritte e ben bilanciate. Mentre i cavalli venivano abbeverati e strigliati, i cacciatori consumarono la robusta colazione preparata dagli abitanti del villaggio. L'atmosfera che regnava nel gruppo era effervescente, e Apepi mandò a chiamare il cercatore di tracce, ormai tornato dalle colline. «È un grosso leone, il più grande che abbia mai visto a oriente del fiume», disse l'uomo, accrescendo l'eccitazione dei cacciatori. «Lo hai visto coi tuoi occhi o hai soltanto letto le sue tracce?» gli domandò Nefer. «L'ho visto chiaramente, ma solo in lontananza. È alto come un cavallo e cammina col passo dignitoso di un sovrano. La sua criniera ondeggia al vento come un mannello di spighe di dhurra.» «In nome di Seth, quest'uomo è un poeta», commentò Naja con un sogghigno. «Attieniti ai fatti e lascia stare le belle parole, servo.» Il cacciatore si sfiorò il cuore col pugno per mostrare la propria contrizione, poi continuò a raccontare in tono più pacato. «Ieri si era rintanato in uno uadi boscoso a due leghe da qui, ma, al calar della sera, si è allontanato per andare a caccia. Ormai sono passati quattro giorni dall'ultima volta che si è nutrito, quindi è affamato e di nuovo in cerca di preda. Durante la notte ha tentato di abbattere un orice, ma quello si è liberato scalciando ed è riuscito a fuggire.» «E oggi dove speri di trovarlo?» domandò Nefer, in tono più gentile di Naja. «Se è andato a caccia, sarà assetato, oltre che affamato. Dove potrebbe andare a bere?» Il cacciatore lo guardò con rispetto, non soltanto per il suo rango regale, ma anche per la conoscenza degli animali selvatici che dimostrava di avere. «Dopo il tentativo di abbattere l'orice, si è addentrato in un terreno Wilbur Smith
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sassoso dove non sono più riuscito a leggere le sue tracce.» Apepi accennò un gesto irritato, e l'uomo si affrettò ad aggiungere: «Ma immagino che questa mattina avrà bevuto in una piccola oasi, un luogo ignoto a tutti, tranne che ai beduini». «Quanto ci vuole per raggiungerla?» chiese Nefer, e l'uomo accennò un movimento ad arco, indicando il percorso del sole corrispondente a circa tre ore. «Allora non c'è tempo da perdere», ribatté Nefer con un sorriso, prima di voltarsi per gridare al comandante dei carri: «Quanto manca ancora, soldato?» «È tutto pronto, maestà.» «Lancia il segnale di salire a bordo», ordinò, e subito risuonarono i corni, mentre i cacciatori si affrettavano a raggiungere i carri in attesa. Mintaka si avviò al fianco di Nefer. In quelle circostanze gettavano al vento ogni dignità regale, ed erano semplicemente un ragazzo e una ragazza in procinto di vivere un'avventura emozionante. Ma il nobile Trok provvide subito a infrangere la loro illusione. Rivolto al re Apepi, esclamò, proprio mentre balzava nel suo carro raccogliendo le redini: «Maestà, non è saggio lasciare che la principessa vada a caccia in compagnia di un ragazzo inesperto. La preda di oggi non è una gazzella». Nefer si fermò di colpo, fissando Trok con aria offesa. Mintaka gli posò una mano sul braccio nudo. «Non provocarlo. È un lottatore temibile, con un pessimo carattere, e, se lo sfiderai, neppure il rango potrà proteggerti dalla sua ira.» «L'onore non mi consente d'ignorare un insulto del genere», replicò Nefer, liberandosi bruscamente dalla stretta. «Ti prego, tesoro, fallo per me. Ignora l'offesa.» Era la prima volta che si rivolgeva a lui usando un vezzeggiativo del genere, e lo fece di proposito, ben sapendo quale effetto avrebbe avuto su di lui: stava già imparando a domare il suo umore irascibile con l'istinto amorevole di una donna molto più matura di quanto facessero supporre l'età e l'esperienza. Nefer dimenticò all'istante Trok e l'offesa al suo onore. «Come mi hai chiamato?» domandò con voce roca. «Non sei sordo, mio caro.» Lui batté le palpebre nel sentire quel nuovo vezzeggiativo. «Hai sentito benissimo.» E gli sorrise. Nel silenzio, Apepi gridò con voce stentorea: «Non temere, Trok. Mando mia figlia col Faraone perché si prenda cura di lui. Sarà Wilbur Smith
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perfettamente al sicuro». Con una risata scrosciante, diede uno strattone alle redini e, mentre i suoi cavalli balzavano in avanti, aggiunse: «Abbiamo perso metà della mattinata restando qui. Che si dia inizio alla caccia!» Nefer guidò il suo carro in modo che si accodasse a quello di Apepi, tagliando la strada ai cavalli del nobile Trok. Passando, gli lanciò un'occhiata gelida e un avvertimento: «Sei stato impudente. Sta' pur certo che non finisce qui. Ne riparleremo, nobile Trok». «Temo che ora ti sia nemico», mormorò Mintaka. «Trok ha una pessima reputazione e un carattere ancora peggiore.» Guidata dal battitore del re, che montava un cavallo piccolo e irsuto ma resistente, la colonna dei cacciatori salì verso le colline spoglie e sassose. Procedevano al trotto per non affaticare i cavalli, lasciandoli liberi di riprendere fiato dopo ogni tratto ripido. In meno di un'ora raggiunsero uno dei cercatori di tracce nubiani che li attendeva in cima a una collina, e l'uomo scese di corsa a fare rapporto al battitore. Si scambiarono poche parole con aria seria, poi il battitore tornò indietro al trotto per riferire le novità alla spedizione reale. «I nubiani hanno perlustrato le colline senza ritrovare la pista. Sono certi che andrà a bere alla pozza d'acqua, ma, non volendo disturbare il leone, hanno aspettato che noi li raggiungessimo.» «Guidaci verso l'acqua», ordinò Apepi, riprendendo il cammino. Poco prima di mezzogiorno, scesero in una valle poco profonda. Non erano lontani dal fiume, eppure avevano già l'impressione di trovarsi nel cuore del deserto, tanto quella regione era arida e proibitiva. Il battitore trottava al fianco di Apepi, al quale disse: «La pozza d'acqua è in cima alla valle. Probabilmente l'animale sta riposando nei paraggi». L'anziano guerriero prese naturalmente il comando della spedizione, e Nefer non glielo contese. «Ci divideremo in tre gruppi per circondare l'oasi. Se la preda romperà l'accerchiamento, lo avremo in pugno. Nobile reggente, a te toccherà l'ala sinistra. Faraone Nefer Seti, tu occupa il centro, mentre io coprirò il fianco destro.» Brandì il pesante arco da guerra, tenendolo sopra la testa. «Chi farà scorrere il primo sangue si aggiudicherà il trofeo.» Erano tutti esperti nella guida dei carri, e la nuova formazione si dispose rapidamente e senza intoppi, gettando un'ampia rete intorno alla pozza d'acqua che fungeva da abbeveratoio. Nefer teneva l'arco in spalla e le redini lente, anziché avvolte intorno ai polsi, in modo da poterle lasciare Wilbur Smith
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all'istante, per avere le mani libere di tendere l'arco. Mintaka gli si strinse al fianco, tenendo la lancia pronta. Nel corso delle settimane precedenti avevano perfezionato quel cambio di arma, e lui sapeva di poter contare su di lei perché gli mettesse in mano la lancia al momento giusto. Si avvicinarono all'oasi procedendo a passo d'uomo e accorciando rapidamente le distanze. I cavalli avvertivano la tensione dei conducenti, e forse avevano già fiutato l'usta del leone, perché chinavano la testa in avanti e roteavano gli occhi, sbuffando e scalpitando nervosamente. La fila di carri si strinse a poco a poco intorno a quella macchia di cespugli bassi e di erba rigogliosa che mascherava la pozza d'acqua. Quando l'accerchiamento fu completo, Apepi alzò la mano per segnalare l'alt. Il battitore del re scese per proseguire a piedi, tenendo per la cavezza la sua cavalcatura, mentre si avvicinava con cautela alla rada copertura di vegetazione. «Se il leone fosse qui, a quest'ora lo avremmo visto senz'altro, dato che è così grande.» La voce di Mintaka tremava, e Nefer l'amò ancora di più per aver lasciato trapelare un accenno del terrore che di certo stava provando. «Un leone può appiattirsi fino a diventare parte del terreno, al punto che puoi passargli tanto vicino da toccarlo senza neanche sospettare la sua presenza», le spiegò. Il battitore avanzava di pochi passi alla volta, fermandosi per tendere l'orecchio e frugare in ogni cespuglio e in ogni ciuffo d'erba lussureggiante che incontrava sul suo cammino. Giunto ai margini della boscaglia, si chinò a raccogliere una manciata di sassolini, cominciando a lanciarli sistematicamente in ogni possibile nascondiglio. «Che cosa sta facendo?» bisbigliò Mintaka. «Il leone ringhia, prima di caricare. Lui sta cercando di provocarlo, per indurlo a rivelare il suo nascondiglio.» Il silenzio era rotto soltanto dal lieve tonfo dei sassolini, dallo sbuffare nervoso dei cavalli e dallo scalpiccio dei loro zoccoli. Tutti i cacciatori tenevano la freccia già incoccata sull'arco, pronti a scagliarla in qualunque momento. D'un tratto, in mezzo all'erba, si udirono un verso d'animale e un trepestio. Gli archi si sollevarono all'istante e i portatori di lancia tesero le armi, ma, subito dopo, tutti si rilassarono, con un'espressione leggermente imbarazzata. Si trattava infatti soltanto di un uccello martello, che si levò in volo, planando sulla valle in direzione del fiume. Il battitore impiegò qualche istante a riacquistare la calma, poi Wilbur Smith
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ricominciò a addentrarsi nel folto della vegetazione, fino a raggiungere l'abbeveratoio. L'acqua salmastra trasudava dalla falda sottostante con lentezza torpida, una goccia alla volta, e riempiva un bacino poco profondo nel terreno roccioso, appena sufficiente a soddisfare la sete di un grande predatore come un leone. Il battitore posò un ginocchio a terra per osservare l'orlo del bacino in cerca di tracce, poi scosse la testa e si rialzò. Tornò indietro più in fretta, risalendo finalmente in groppa al suo cavallino per accostarsi di nuovo al carro di Apepi. Gli altri cacciatori si avvicinarono per ascoltare le sue parole, ma l'uomo era mortificato. «Maestà, ho commesso un errore di giudizio», spiegò ad Apepi. «Il leone non è venuto da questa parte.» «E adesso?» Apepi non tentò neppure di mascherare il disappunto e l'irritazione. «Questo era il luogo più promettente in cui cercare, ma ce ne sono altri. Dal punto in cui è stato avvistato, la volta scorsa, può aver attraversato la valle, oppure potrebbe essere nei dintorni, ma attendere l'oscurità per abbeverarsi. Ci sono altri ripari, laggiù...» Indicò le pendici sassose alle loro spalle. «E poi?» lo incalzò Apepi. «C'è un altro abbeveratoio, nella valle vicina, ma laggiù sono accampati dei beduini che potrebbero averlo indotto ad allontanarsi. E ce n'è un altro ancora, un piccolo affioramento d'acqua, ai piedi di quelle colline a occidente.» Indicò una linea bassa di alture violacee che si scorgeva all'orizzonte. «Il leone potrebbe essere in uno qualsiasi di quei luoghi... oppure in nessuno di essi», ammise l'uomo. «Inoltre potrebbe essere tornato indietro e trovarsi adesso ai margini della pianura, dove l'acqua abbonda. Forse è stato attirato dall'odore del bestiame e delle capre, oltre che dalla sete.» «Insomma non hai la minima idea di dove sia nascosto, vero?» concluse il nobile Naja. «Tanto vale rinunciare alla caccia e tornare alle barche.» «No!» esclamò Nefer. «Abbiamo appena cominciato. Perché darci per vinti così presto?» «Il ragazzo ha ragione», disse Apepi. «Dobbiamo continuare, ma il terreno da coprire è vasto.» Dopo qualche istante di riflessione, decise. «Dovremo dividerci, per esaminare ogni area separatamente.» Lanciò un'occhiata a Naja. «Nobile reggente, tu porterai la tua squadra all'accampamento dei beduini: se hanno visto la preda, ti daranno Wilbur Smith
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indicazioni. Io mi dirigerò verso l'affioramento d'acqua ai piedi delle colline.» Si rivolse a Trok. «Tu porterai tre carri in fondo alla valle, e uno dei cercatori di tracce verrà con te alla ricerca di qualche segnale.» Ad Asmor ordinò: «Prendi altri tre carri e torna a Dabba, passando lungo i margini della pianura, nel caso che sia tornato nel luogo dove ha ucciso l'ultima volta». Infine guardò Nefer. «Faraone, tu procederai nella direzione opposta, a nord, verso Achmim.» Nefer si rese conto che gli veniva assegnato il terreno meno promettente, ma non protestò, perché quel nuovo piano offriva a lui e a Mintaka la prima occasione di allontanarsi dalla sorveglianza diretta dei loro guardiani. Naja, Asmor e Trok venivano inviati in altre direzioni. Aspettò che qualcuno lo facesse notare, ma erano tutti così presi dalla caccia che nessuno parve rendersi conto del significato di quella mossa. Nessuno, tranne Naja. Guardò con ostilità Nefer, forse soppesando la possibilità di opporsi agli ordini di Apepi; alla fine, però, dovette capire che sarebbe stata una mossa poco saggia, senza contare che il deserto costituiva un deterrente efficace quanto Asmor: non c'era nessun luogo nel quale Nefer potesse fuggire e, se avesse portato con sé Mintaka in qualche folle avventura, si sarebbe ritrovato alle calcagna l'intero esercito di entrambi i regni, come uno sciame di api inferocite. Naja distolse lo sguardo, mentre Apepi proseguiva, indicando un punto di raccolta, e impartiva gli ordini finali. I corni d'ariete lanciarono il segnale di salire a bordo e mettersi in marcia, e le cinque colonne uscirono dalla valle sul terreno pianeggiante, prima di dividersi in squadre separate e di partire in direzioni divergenti. Mentre l'ultima delle altre squadre scompariva tra le colline brulle, Mintaka si avvicinò ancora di più a Nefer, mormorando: «Finalmente Hathor ci ha mostrato la sua misericordia». «Io credo che sia stato Horus a concederci la sua benevolenza», replicò lui con un sorriso. «Comunque accetterò di buon grado questa grazia, da chiunque provenga.» Della squadra di Nefer facevano parte altri due carri, al comando del vecchio Hilto, il soldato che aveva raggiunto Taita e il ragazzo allorché avevano tentato di fuggire dall'Egitto. Aveva servito agli ordini del Faraone suo padre e gli era leale fino alla morte: Nefer sapeva di potersi fidare di lui senza riserve. Wilbur Smith
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Nefer li guidò ad andatura sostenuta, deciso a sfruttare al massimo le ore di luce che restavano e, in meno di un'ora, si aprì dinanzi a loro l'immenso panorama della pianura fluviale. Tirò le redini per fermarsi un istante ad ammirarlo: il fiume sembrava uno smeraldo incastonato nel verde sontuoso dei campi e delle piantagioni. «Com'è bello», mormorò Mintaka, in tono quasi trasognato. «Anche quando saremo sposati, dovremo ricordare sempre che è questa terra a possedere noi, e non viceversa.» A volte Nefer dimenticava che Mintaka era nata ad Avaris e, proprio come lui, aveva dei diritti su quella terra. Si sentì gonfiare il cuore d'orgoglio al pensiero che l'amava quanto lui, e condivideva il suo senso del dovere verso il proprio Paese. «Non lo dimenticherò mai, finché sarai al mio fianco.» La ragazza sollevò il viso verso di lui, con le labbra socchiuse. Lui sentì la dolcezza del suo alito, e la tentazione di chinarsi a baciare quelle labbra divenne quasi irresistibile; poi sentì su di sé lo sguardo di Hilto e degli altri uomini e, con la coda dell'occhio, li vide sorridere maliziosamente. Allora si scostò, lanciando a Hilto un'occhiata gelida e dicendogli, in un tono che aveva mentalmente provato e riprovato fin da quando avevano lasciato il resto della spedizione: «Comandante, se il leone è qui, probabilmente sarà da qualche parte sul pendio delle colline ai nostri piedi». Indicò la zona con un ampio gesto del braccio. «Desidero che i carri si dispongano in linea, in modo che il fianco sinistro venga a trovarsi all'estremità della pianura, e noi quassù, in cima alle colline. Ci dirigeremo a nord.» Fece un gesto vago, e Hilto assunse un'espressione perplessa, grattandosi la cicatrice sulla guancia. «È un fronte vasto, maestà. La distanza da qui al fondovalle dev'essere di quasi mezza lega. Ci saranno momenti in cui ci perderemo di vista.» Nefer comprese che era contrario al suo istinto di militare estendere troppo la linea del fronte, e si affrettò ad ammansirlo. «Se dovessimo restare separati, ci ricongiungeremo sulla terza altura di fronte a noi, ai piedi di quella collinetta laggiù, che può costituire un buon punto di riferimento.» Indicò un ammasso roccioso dalla forma caratteristica che si trovava circa quattro leghe più avanti. «Se qualcuno dovesse tardare a raggiungere il punto d'incontro, gli altri dovranno attendere finché il sole non sarà in quella posizione, prima di tornare indietro a cercare il carro mancante.» Wilbur Smith
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In quel modo si era concesso qualche ora di margine prima che cominciassero a cercare Mintaka e lui. Ma Hilto esitava ancora. «Chiedo venia, maestà, ma il nobile Naja mi ha affidato espressamente l'incarico...» Nefer lo interruppe con un tono brusco e un'espressione gelida. «Ne devo dedurre che discuti gli ordini del tuo Faraone?» «Giammai, maestà!» Hilto era scosso da quell'accusa. «Allora fa' il tuo dovere, soldato.» Hilto lo salutò con profondo rispetto, poi si affrettò a tornare verso il suo carro, lanciando ordini imperiosi agli uomini. Quando lo squadrone si allontanò lungo il pendio, in una formazione a ventaglio, Mintaka diede di gomito a Nefer, sorridendo, e, imitando alla perfezione il tono altezzoso del ragazzo, ripeté: «'Fa' il tuo dovere, soldato!'» E scoppiò a ridere. «Ti prego di non guardarmi mai in quel modo e di non usare mai quel tono con me, maestà. Sono certa che morirei di paura.» «Abbiamo poco tempo», replicò lui. «Dobbiamo sfruttarlo al massimo, e trovare un posto dove poter stare soli.» Girò il carro, tornando indietro, oltre la linea dell'orizzonte, in modo che non fossero più visibili dalla valle o dai carri che procedevano sul pendio. Mentre proseguivano al trotto cominciarono a guardarsi intorno con impazienza. «Guarda, laggiù!» esclamò Mintaka, indicando un punto sulla destra. C'era un boschetto di alberi spinosi, seminascosto da una piega del terreno, cosicché si vedevano soltanto le cime verdi. Quando Nefer puntò in quella direzione, scoprirono una gola stretta, scavata nel corso dei millenni dal vento e dalle intemperie, oltre che dai rari temporali. Doveva esistere una vena d'acqua sotterranea, perché gli alberi erano rigogliosi. Il fogliame folto offriva riparo e discrezione nella calura meridiana. Nefer spinse il carro lungo il pendio, verso l'ombra degli alberi, e, non appena si fermò, Mintaka scese a terra con un balzo. «Libera i cavalli e lasciali riposare», suggerì lei. Nefer esitò, poi scosse la testa. Sarebbe stato contrario all'addestramento che aveva ricevuto: in una posizione isolata e inospitale come quella, doveva lasciare il carro pronto per ogni evenienza, che si trattasse di un allarme o di uno spostamento improvviso. Balzò a terra per riempire il secchio, attingendo all'otre dell'acqua per abbeverare i cavalli. Mintaka si precipitò ad aiutarlo e i due lavorarono a fianco a fianco in silenzio. Il momento tanto sospirato era finalmente giunto, ma Nefer e Mintaka Wilbur Smith
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scoprirono di sentirsi timidi e impacciati. D'un tratto si voltarono l'uno verso l'altra, nello stesso istante, e parlarono all'unisono. «Volevo dirti...» disse Nefer. E Mintaka: «Penso che dovremmo...» S'interruppero per ridere timidamente, restando vicini all'ombra degli alberi. Mintaka arrossì, abbassando gli occhi, e Nefer accarezzò la testa del suo stallone. «Che cosa volevi dire?» chiese poi. «Nulla... Niente d'importante.» Lei scosse la testa e lui si accorse che arrossiva. Gli piaceva tanto vedere quel rossore che fioriva sulle sue gote. Mintaka continuava a non guardarlo, mentre parlava con una voce tanto sommessa che si udiva appena, chiedendogli: «E tu, che cosa volevi dire?» «Quando penso che tra pochi giorni dovrai partire, mi sembra che mi abbiano tagliato il braccio destro, e vorrei morire.» «Oh, Nefer!» Lei lo guardò con gli occhi enormi e liquidi che rispecchiavano il tumulto e l'estasi del primo amore. «Ti amo, ti amo tanto.» Si gettarono l'uno nelle braccia dell'altra, con tanta foga che i loro denti si scontrarono. Il labbro inferiore di Nefer rimase preso nel mezzo, e dal taglio sgorgò una goccia di sangue. L'abbraccio era goffo e inesperto, impacciato e frenetico, ma suscitò in entrambi emozioni sfrenate e incontrollabili. Si strinsero, gemendo per la violenza di quelle sensazioni nuove. Anche se era già schiacciata contro di lui, Nefer tentò di stringerla ancora di più, mentre lei gli si aggrappava come per fondere i loro corpi in una sola massa, come avrebbe fatto un vasaio con l'argilla. Mintaka si sollevò in punta di piedi per infilare le dita tra i folti riccioli carichi di polvere, mormorando: «Oh, oh!» «Non voglio perderti», disse lui, interrompendo il bacio. «Non voglio perderti mai più.» «Neanch'io, mai, mai!» rispose lei, ansimando, e si baciarono di nuovo, se possibile con maggiore foga di prima. Da quel momento in poi fu come se vagassero nei regni inesplorati della mente e del corpo. Correvano insieme su un carro sfuggito al loro controllo, trascinato soltanto dai cavalli ribelli dell'amore e del desiderio. Sempre restando stretti, si lasciarono cadere sulla sabbia soffice e bianca dello uadi, avvinghiati come nemici. I loro occhi allucinati parevano diventati ciechi, il respiro era spezzato e irregolare. Il lino della veste di Mintaka si sbriciolò tra le mani di Nefer come un foglio di papiro, Wilbur Smith
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lasciandogli insinuare la mano nell'apertura. Lei gemette come se fosse in agonia, ma schiuse le gambe, diventando docile e flessibile. Nessuno dei due aveva idea di come sarebbe finita. Nefer non desiderava altro che sentire la pelle vellutata di lei contro la propria, senza ostacoli che separassero le loro carni. Era un'esigenza profonda, dalla quale pareva che dipendesse la sua stessa vita. Si strappò di dosso la veste, poi si strinsero l'uno all'altra, totalmente assorti nella sensazione estatica dei loro due corpi caldi e giovani che si fondevano. Senza rendersene conto, Nefer cominciò a muoversi, oscillando in modo ritmico contro di lei, che assecondava i suoi movimenti come se fosse a bordo di un carro lanciato a tutta velocità su un terreno irregolare. D'improvviso, Mintaka sentì qualcosa di duro che premeva imperiosamente contro di lei, e provò l'impulso quasi irresistibile di rispondere colpo su colpo, di aiutarlo a infrangere le difese, di accoglierlo nel suo nido morbido e segreto. Poi si sentì riportare bruscamente alla realtà e scalciò, inarcando il dorso e lottando con rinnovata energia, come una gazzella nelle fauci di un ghepardo. Si sottrasse con violenza al bacio per gridare: «No, Nefer! Lo hai promesso! Hai giurato sull'occhio ferito di Horus!» Lui si allontanò di scatto, come se avesse ricevuto in pieno un colpo della frusta usata per guidare i carri. La fissò con gli occhi sbarrati, quasi terrorizzato. La sua voce era roca e ansimante come se avesse corso per un lungo tratto. «Mintaka, amore, tesoro mio. Non so che cosa mi è successo. È stata una follia. Non volevo...» Accennò un gesto disperato. «Preferirei morire piuttosto che violare il giuramento e disonorarti.» Mintaka aveva il respiro così affannoso che non poté rispondere subito. Distolse lo sguardo dal corpo nudo di lui, mentre Nefer continuava, in tono supplichevole: «Ti prego, non odiarmi. Non sapevo che cosa facevo». «Non ti odio, Nefer. Non potrei mai odiarti.» L'angoscia di Nefer era insopportabile, tanto che avrebbe voluto - gettarsi di nuovo tra le sue braccia per consolarlo, ma ora sapeva quanto poteva essere pericoloso. Si aggrappò alla ruota del carro per alzarsi. «E' colpa tanto mia quanto tua. Non avrei dovuto permettere che accadesse.» Le tremavano le gambe, mentre tentava di ravviarsi i capelli, scostandoli dal viso con entrambe le mani. Lui si alzò a sua volta con aria colpevole, fece un passo verso di lei, ma poi, vedendola indietreggiare, si fermò subito. «Ti ho strappato la veste!» Wilbur Smith
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mormorò. «L'ho fatto senza volerlo.» Abbassando gli occhi, lei si accorse di essere seminuda. Si affrettò ad accostare i lembi strappati, allontanandosi ancora di più. «Devi vestirti», mormorò poi, fissandolo suo malgrado. Era così bello che sentì riaffiorare il desiderio, e s'impose di guardare altrove. Lui si chinò in fretta per raccogliere il gonnellino che aveva lasciato cadere a terra e allacciarsi la cintura alla vita. Rimasero immobili, in un silenzio colpevole e imbarazzato. Mintaka cercava disperatamente qualche parola capace di distrarre entrambi da quel momento terribile. Le venne in aiuto il suo corpo, perché si accorse di avere la vescica piena in modo insopportabile. «Devo andare!» «No», la supplicò Nefer. «Non era nelle mie intenzioni. Perdonami, non si ripeterà più. Resta con me. Non lasciarmi.» Lei sorrise, ancora scossa. «No, non capisci. Resterò via solo per poco.» Fece un gesto inequivocabile con le mani che tenevano chiusa la gonna strappata. «Non ci metterò molto.» Il sollievo di Nefer fu quasi patetico. «Oh, capisco. Terrò pronto il carro.» Si diresse verso i cavalli, mentre lei si allontanava, addentrandosi nel boschetto di alberi spinosi. Il leone la spiò attraverso gli alberi, mentre si avvicinava al punto dov'era in agguato, e appiattì le orecchie contro il cranio, schiacciandosi ancor più sul terreno sassoso. Era vecchio, ormai aveva superato da tempo l'età dello splendore. Nel folto pelame della criniera si scorgevano alcuni fili grigi; un tempo il dorso era stato lucente, con una lieve sfumatura bluastra, ma ormai era leggermente brinato dalla vecchiaia. I denti erano logori e macchiati, senza contare che una delle lunghe zanne si era spezzata vicino alla gengiva. Anche se poteva ancora abbattere un torello adulto e ucciderlo con un solo colpo di una delle zampe enormi, gli artigli erano così fragili e smussati che gli riusciva difficile catturare una preda più agile. La notte precedente si era lasciato sfuggire un orice, e ormai la fame era diventata un dolore insistente e ottuso che gli covava nel ventre. Osservava la creatura umana con gli occhi gialli, il labbro superiore sollevato in un ringhio silenzioso. Quand'era cucciolo, la madre gli aveva insegnato a nutrirsi delle carni dei morti abbandonati sui campi di battaglia, e quindi non provava la ripugnanza istintiva di altri carnivori per Wilbur Smith
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il gusto della carne umana. Nel corso degli anni aveva ucciso e divorato qualunque genere di preda gli si presentasse, quindi la creatura che gli veniva incontro attraverso i cespugli della boscaglia era per lui una preda naturale. Mintaka si fermò a una cinquantina di passi dal punto in cui si trovava la belva, guardandosi intorno. Durante la caccia, l'istinto suggeriva al leone di evitare lo sguardo diretto della preda, quindi abbassò la testa verso il terreno, socchiudendo gli occhi. Quello non era il momento di attaccare, perciò mantenne la coda rigida e bassa. La ragazza si fermò dietro il tronco di uno degli alberi, accovacciandosi per liberare la vescica. Il leone arricciò il muso in pieghe profonde, fiutando l'odore acre dell'urina, che ridestò il suo interesse. Mintaka si alzò, lasciando ricadere la gonna sulle cosce, e si allontanò dal leone per tornare verso il punto in cui l'attendeva Nefer. Il leone cominciò a sferzare il terreno con la coda, avanti e indietro, nel preludio all'attacco. Alzò la testa, battendosi i fianchi con la coda che terminava in un ciuffo nero. Mintaka udì il fruscio ritmico e il tonfo della coda e si fermò, voltandosi a guardare, perplessa. In quel momento si trovò davanti gli occhi gialli della bestia e urlò, con un timbro acuto che colpì al cuore Nefer. Girandosi di scatto, lui afferrò al volo la situazione: la ragazza e la bestia accovacciata di fronte a lei. «Non fuggire!» gridò. Sapeva che, se lei avesse cominciato a correre, avrebbe scatenato il riflesso felino della caccia nel leone. «Arrivo!» Afferrò l'arco e la faretra fissati alla sponda del carro e corse verso di lei, incoccando una freccia. «Non correre!» ripeté, disperato, ma in quel momento il leone ruggì. Era un suono terribile, che parve vibrare nelle ossa di Mintaka, facendole tremare il terreno sotto i piedi. Lei non riuscì a dominare il terrore che la sopraffaceva: si girò di scatto e corse alla cieca verso Nefer, singhiozzando a ogni passo. La criniera del leone si sollevò all'istante, formando come un'aureola scura intorno alla testa, e l'animale si lanciò alla carica, sfrecciando tra gli alberi con la velocità di un lampo bruno. La raggiunse con grande facilità, come se lei fosse immobile, radicata al suolo. Nefer si fermò di colpo, lasciando cadere la faretra per avere le mani libere, e tese la corda dell'arco. L'impennatura della freccia gli sfiorò le Wilbur Smith
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labbra, mentre prendeva la mira, puntando al petto massiccio e ansimante del leone. Anche se la distanza era ridotta, si trattava di un tiro difficile. La bestia arrivava in direzione trasversale, quindi l'angolazione era essenziale, e Mintaka si trovava proprio sulla linea di tiro. Inoltre lui sapeva che una semplice ferita non sarebbe bastata a salvarla. Doveva mettere a segno la freccia negli organi vitali della bestia, per riuscire a bloccarla e offrire a lei la possibilità di fuggire, ma non c'era il tempo di fare calcoli precisi, perché il leone le era quasi addosso. Arrivava lanciando grugniti a ogni balzo, mentre ciottoli e zolle di fango schizzavano sotto l'impatto delle grosse zampe. Gli occhi gialli erano davvero terribili. Nefer aggiustò il tiro per precederlo leggermente, calcolando un margine pari alla larghezza di una mano per la deviazione della freccia durante il volo, poi gridò con tutte le sue forze: «Mintaka, giù! Lascia campo libero alla freccia!» Durante le settimane che avevano trascorso insieme a caccia si era creato tra loro un accordo reciproco, e lei aveva imparato ad avere fiducia in lui. Nonostante il terrore, Nefer riuscì a farsi sentire. E lei obbedì senza esitare. Rinunciando alla fuga, si gettò a terra, schiacciandosi sul terreno sassoso quasi sotto le fauci del leone lanciato all'attacco. Nello stesso istante in cui lei si lasciò cadere, Nefer scoccò la freccia che, ai suoi occhi atterriti, si spostò nello spazio che la separava dal bersaglio con la lentezza sonnolenta di un predatore ormai sazio. Quando passò oltre il punto in cui giaceva Mintaka, cominciava già ad abbassarsi: un'arma minuscola, lenta e inefficace contro un animale così massiccio. Poi raggiunse il bersaglio. Nefer si aspettava quasi che l'asta sottile si spezzasse con uno schiocco, spazzata via con disprezzo dall'animale che grugniva e correva. Proprio mentre il leone spalancava la bocca, mostrando la schiera di zanne irregolari e macchiate, la punta di selce scomparve nel fitto strato di peli scuri che gli coprivano il petto. L'impatto non produsse nessun suono, ma l'asta sottile e dritta della freccia scivolò nel pelame, cosicché rimasero all'esterno soltanto un breve tratto dell'asta e le piume di colore vivace dell'impennatura. Nefer pensò di averlo colpito al cuore. E la bestia, assalita da una potente convulsione, spiccò un balzo, mentre il suo grugnito si trasformava in una serie di ruggiti continui che scrollarono le foglie secche, facendole cadere dai rami spinosi. Poi il leone girò su se stesso, percuotendosi il Wilbur Smith
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petto e masticando la punta sporgente della freccia. Mintaka giaceva quasi sotto le sue zampe, che si dibattevano furiosamente. «Allontanati da lui!» gridò Nefer. «Scappa!» Si chinò per prendere un'altra freccia dalla faretra ai suoi piedi e prese a correre, incoccandola mentre si avvicinava. Mintaka balzò in piedi. Si era ripresa quanto bastava per non ostacolargli la mira correndo verso di lui in cerca di protezione; si rifugiò invece dietro il tronco dell'albero più vicino, ma quel movimento fu sufficiente per attirare di nuovo su di lei l'attenzione del leone ferito. Ormai in preda alla sofferenza e al furore, anziché alla fame, si scagliò contro di lei. Gli artigli curvi e gialli strapparono una striscia di corteccia umida dal tronco dietro il quale Mintaka era rannicchiata. «Vieni! Io sono qui! Vieni da me!» gridò Nefer in tono selvaggio, tentando di distrarre il leone. L'animale volse nella sua direzione la testa enorme dalla criniera ispida, e Nefer tirò, con un gesto disperato; ma gli tremavano le braccia, e la mira era stata frettolosa e approssimativa. La punta di selce della freccia raggiunse la bestia in un punto che non era vitale, affondando nel ventre. Il leone, avvertendo la puntura, prese a tossire e lasciò perdere Mintaka per scagliarsi contro Nefer. Per quanto la bestia fosse ferita a morte e cominciasse già a rallentare, Nefer non riuscì a schivare quel nuovo attacco. Aveva scagliato l'ultima freccia e la faretra era sul terreno, lontana dalla sua portata. Si abbassò per estrarre il pugnale dal fodero che portava alla cintola. Era un'arma ridicola contro quel leone inferocito: la lama di bronzo era infatti troppo corta per penetrare fino al cuore. Però Nefer aveva sentito dire dai battitori di corte che a volte era possibile scampare miracolosamente alla morte anche in una situazione così disperata. Quando il leone spiccò l'ultimo balzo, il giovane ricadde all'indietro, senza tentare di resistere al peso e all'impeto dell'animale. Rimase disteso a terra tra le sue zampe anteriori, mentre il leone spalancava le fauci e gettava la testa all'indietro, preparandosi a schiacciargli il cranio con le zanne terribili. Aveva un alito nauseabondo, che sapeva di carne marcia e tombe scoperte, tanto che Nefer si sentì assalire da un conato di vomito. Poi si fece forza, ficcando la mano destra armata di pugnale in fondo alle mascelle aperte, e il leone le chiuse istintivamente. Nefer teneva saldamente in pugno l'arma, con la lama rivolta in alto, e, quando le mascelle del leone si chiusero, la punta di bronzo penetrò nel Wilbur Smith
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palato. Il ragazzo allora ritirò la mano di scatto prima che le zanne potessero spezzargli le ossa del polso, e le fauci del leone rimasero bloccate in posizione aperta dal pugnale. L'animale cercò di strapparsi la lama di bocca con le zampe anteriori, sguainando gli artigli. Nefer intanto si divincolava sotto il corpo poderoso, cercando di sfuggire ai colpi degli artigli, ma la veste che portava si squarciò, e lui sentì quegli uncini d'osso lacerargli le carni. Capì di non poter resistere ancora a lungo. Senza quasi rendersene conto, gridò al leone che lo sovrastava: «Lasciami, sudicia creatura! Vattene! Vattene!» Il leone continuava a ruggire, e il sangue che scorreva dal palato ferito, mescolato alla saliva ardente, sprizzò fuori in una nuvola color cremisi che ricadde sul viso di Nefer. Le grida del giovane riscossero Mintaka, ma, quando la ragazza fece capolino dal tronco dell'albero spinoso, si trovò davanti uno spettacolo orribile: Nefer ricoperto di sangue e schiacciato sotto la mole del leone. Convinta che la bestia lo stesse maciullando, lei dimenticò ogni timore per se stessa. L'arco di Nefer era rimasto intrappolato sotto il suo corpo e senza di esso la faretra piena di frecce era inutile. Scattando sul terreno aperto, Mintaka corse verso il carro. Le grida e i ruggiti alle sue spalle la pungolavano, spingendola a correre così veloce che temeva di sentirsi scoppiare il cuore. I cavalli, rimasti poco lontano, erano terrorizzati dall'odore della bestia e dai suoi ruggiti. S'impennavano e scuotevano la testa, scalciando per liberarsi dalle tirelle. Sarebbero fuggiti già da tempo, se Nefer non avesse assicurato il fermo della ruota, cosicché potevano soltanto girare in cerchio. Mintaka corse a perdifiato, schivando gli zoccoli scalpitanti per saltare a bordo del carro. Poi afferrò le redini allentate, chiamando per nome i cavalli: «Forza, Guardastella! Tieni duro, Maglio!» Più di una volta, nelle loro spedizioni di caccia, Nefer le aveva permesso di guidare il carro, quindi i cavalli riconobbero la sua voce e il suo tocco sulle redini. Riuscì ben presto a riportarli sotto controllo, ma a lei pareva che fosse trascorsa un'eternità, perché nel frattempo continuava a sentire le grida di Nefer e i ruggiti assordanti del leone. Non appena riuscì a controllare di nuovo la pariglia, si protese oltre il fianco del carro per togliere il freno. Poi guidò i cavalli in una brusca svolta a sinistra, sferzandoli in avanti, verso il leone e la sua vittima. Maglio s'impuntò, ma Guardastella le obbedì. Lei afferrò la frusta, che Wilbur Smith
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Nefer non aveva mai usato su di loro, e assestò sui fianchi lucenti di Maglio un colpo che lasciò un solco in rilievo spesso come il suo pollice. «Via!» gridò. «Forza, Maglio, accidenti a te!» Stupito, Maglio balzò in avanti, e i cavalli puntarono a tutta velocità verso il leone. L'attenzione del predatore era rivolta alla vittima che gridava e si dibatteva tra le sue zampe, quindi non alzò neanche la testa quando il carro gli piombò addosso. Mintaka lasciò cadere la frusta, raccogliendo la lunga lancia sistemata nel contenitore delle armi. L'aveva portata per Nefer durante le loro ore di caccia, quindi ora la sentiva leggera e familiare nella mano destra. Guidando i cavalli con le redini strette nella sinistra, si protese oltre la sponda laterale, sollevando la lancia. Quando gli passò accanto, il leone era accovacciato, con la testa bassa e la nuca scoperta. Il punto esatto di congiunzione tra la spina dorsale e il cranio era coperto dal folto cespuglio nero della criniera, eppure lei riuscì a individuarlo e vi conficcò la lancia con tutta la forza conferitale dalla paura e dall'amore per Nefer. La mano che spingeva la lancia aveva anche dalla sua l'impeto del carro lanciato a tutta velocità. Con grande stupore di Mintaka, la lama penetrò facilmente, conficcandosi nella pelle spessa e affondando nella nuca dell'animale. Sentì il leggero scatto nel polso quando la punta della lancia trovò la giuntura tra le vertebre e proseguì, recidendo il midollo spinale. Quando il carro proseguì la corsa, l'asta della lancia le sfuggì di mano, ma il leone si accasciò sul corpo di Nefer. Non fremette neppure una volta: era morto sul colpo. Ci vollero almeno cinquanta cubiti per arrestare la corsa sfrenata dei due cavalli. Mintaka li riportò indietro e li costrinse a tornare nel punto in cui Nefer giaceva sotto l'enorme carogna del leone. Ed ebbe addirittura la presenza di spirito d'inserire il freno della ruota prima di balzare a terra. Era evidente che le ferite di Nefer erano gravi. A giudicare dal sangue di cui era coperto, lei pensò che poteva addirittura essere morto. Cadde in ginocchio accanto a lui. «Nefer, parlami. Puoi sentirmi?» Con suo immenso sollievo, lui girò la testa verso di lei e aprì gli occhi. «Sei tornata», mormorò. «Bak-her, Mintaka, bak-her!» «Ora te lo tolgo di dosso.» Accorgendosi che l'enorme peso dell'animale morto gli toglieva il respiro, balzò in piedi, cercando di afferrarlo per la testa. «La coda», bisbigliò Nefer, sofferente, col viso ridotto a una maschera di Wilbur Smith
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sangue. «Fallo rotolare tirandolo per la coda.» Lei fu pronta a obbedirgli, e afferrò la lunga coda che terminava con un ciuffo, tirando con tutte le sue forze. A poco a poco i quarti posteriori della bestia cominciarono a spostarsi e tutto il corpo ricadde di lato, liberando Nefer. Mintaka s'inginocchiò accanto a lui, mettendolo a sedere, ma il ragazzo barcollò come ubriaco e fu costretto ad aggrapparsi a lei. «Che Hathor mi aiuti!» pregò la giovane. «Sei ferito gravemente... C'è tanto sangue...» «Non è tutto mio», proruppe lui, ma dalla coscia destra, nel punto in cui gli artigli del leone avevano lacerato un vaso sanguigno, si levò uno zampillo scarlatto. Taita lo aveva istruito a lungo nella cura delle ferite di guerra, e lui premette il pollice sulla lacerazione, schiacciandola finché il getto di sangue non si ridusse. «Va' a prendere l'otre dell'acqua», le ordinò, e Mintaka corse verso il carro. Lo sostenne mentre beveva avidamente, poi con tenerezza gli lavò dal viso il sangue e lo sporco, scoprendo, con enorme sollievo, che non era ferito. Tuttavia, quando ispezionò le altre ferite, fece fatica a nascondere l'angoscia, accorgendosi di quanto fossero gravi. «Il pagliericcio che uso di notte è sul carro.» Nefer parlava con voce sempre più fioca. Lei glielo portò, e il ragazzo la pregò di svolgere il rotolo, dove trovò anche il necessario per cucire, un ago e un filo di seta. Le mostrò come legare il vaso sanguigno che gettava sangue. Era un lavoro che le riusciva facile, e Mintaka non mostrò né esitazioni né remore. Le sue mani si coprirono di sangue fino ai polsi, mentre con dita agili faceva passare un filo intorno all'arteria aperta e chiudeva le lacerazioni più profonde con rapidi tocchi dell'ago. Sempre seguendo le sue istruzioni, utilizzò alcune strisce strappate dalla veste lacerata per fasciare le ferite. Era un intervento rozzo e approssimativo, ma sufficiente ad arrestare l'emorragia. «Per ora è tutto quello che possiamo fare. Devo aiutarti a salire sul carro per portarti dove un chirurgo farà il resto. Oh, se solo ci fosse Taita.» Corse verso Guardastella, prendendolo per le briglie in modo da condurre il carro nel punto in cui giaceva Nefer, appoggiato su un gomito a fissare con intensità la grossa massa del leone che giaceva accanto a lui. «Il mio primo leone», mormorò con malinconia. «Se non lo scuoiamo subito, il trofeo si rovinerà. I peli cadranno.» Wilbur Smith
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Nell'impeto della terribile ansia che provava per lui, Mintaka perse la calma. «Questa è la più grossa idiozia che io abbia mai sentito. Rischieresti la vita per un pezzo di pelliccia puzzolente?» Furiosa, lo aiutò a rimettersi in piedi. Per sollevarlo fu necessario uno sforzo colossale. Lui si appoggiò a Mintaka con tutto il suo peso; zoppicando, raggiunse il carro e si lasciò cadere sul fondo. Lei usò la pelle di pecora del suo giaciglio per sistemarlo nella posizione più comoda possibile, poi salì a sua volta, restando immobile, con le redini tra le mani. «Da che parte?» gli domandò. «A quest'ora il resto della squadra sarà lontano, nella valle, e andrà troppo veloce perché possiamo raggiungerlo. Inoltre è lanciato nella direzione sbagliata», le disse Nefer. «Gli altri cacciatori sono sparsi qua e là nel deserto. Potremmo cercarli tutto il giorno senza trovare nessuno.» «Dobbiamo tornare verso la flotta, che è all'ancora a Dabba. Sulle navi c'è un chirurgo.» Era l'unica conclusione realistica, e lui non poté che annuire. Mintaka mise i cavalli al passo per uscire dal boschetto e ritornare verso sud. «Per raggiungere Dabba ci vogliono tre ore e più», gli fece notare. «No, se tagliamo l'ansa del fiume», replicò Nefer. «Così potremo abbreviare il percorso di almeno quattro leghe.» Mintaka esitò, guardando a oriente, verso il deserto che lui voleva farle attraversare. «Potrei smarrire la strada», mormorò, spaventata. «Ti guiderò io», insistette Nefer, confidando nelle istruzioni che Taita gli aveva impartito, viaggiando nel deserto. Lei ordinò ai cavalli di girare a sinistra, prendendo mentalmente nota della presenza di una collinetta di scisto azzurrino nella direzione che Nefer le aveva indicato. Quand'erano forti e in piena salute, godevano entrambi del movimento del carro che sobbalzava sul terreno irregolare, bilanciando il rollio con le gambe giovani e agili. Ma in quel momento, anche se teneva i cavalli al passo o al trotto, l'impatto con ogni sasso e ogni gobba del percorso si ripercuoteva sul corpo dilaniato di Nefer. Lui sudava, facendo smorfie di dolore, ma tentava di mascherare la sofferenza e il disagio che provava per evitare che Mintaka se ne accorgesse. Tuttavia, col passare delle ore, le ferite s'irrigidirono e il tormento divenne intollerabile. Dopo un impatto particolarmente violento, lanciò un gemito e scivolò nell'incoscienza. Wilbur Smith
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Mintaka arrestò subito la pariglia, tentando di rianimarlo. Dopo aver inzuppato nell'acqua un tampone di lino, lo spremette per fargli cadere tra le labbra alcune gocce, poi gli tamponò il viso pallido e sudato. Tentò di bendare di nuovo le ferite, ma scoprì che lo squarcio sulla coscia aveva ripreso a sanguinare. Allora fece di tutto per stagnare il sangue, ma riuscì soltanto a ridurre l'emorragia. «Ti riprenderai, mio caro», gli disse con una fiducia che non sentiva. Poi lo abbracciò dolcemente, dandogli un bacio sulla fronte prima di riprendere le redini. Un'ora dopo diede a Nefer e ai cavalli l'ultima acqua che restava. Lei non bevve affatto. Poi si alzò il più possibile sul carro per guardarsi intorno, scrutando le colline di ghiaia e di scisto che danzavano, oscillando nel miraggio prodotto dalla calura. Sapeva di essersi smarrita. Mi sono spinta troppo a oriente? si domandò, cercando di fissare il sole per calcolarne l'angolazione. Ai suoi piedi, Nefer si agitò, gemendo, e lei abbassò gli occhi, sorridendo con aria coraggiosa. «Ormai non manca molto, tesoro. Oltre la prossima collina dovremmo vedere il fiume.» Sistemò meglio la pelle di pecora presa dal suo giaciglio sotto la testa di Nefer, poi si alzò, raccolse le redini e si fece forza. All'improvviso si accorse di quanto fosse esausta: tutti i muscoli del corpo le dolevano, mentre gli occhi erano infiammati e arrossati dal riverbero del sole e dalla polvere. Dovette farsi forza per riprendere a guidare il carro. Ben presto anche i cavalli cominciarono a mostrare segni di stanchezza. Avevano smesso di sudare, e sul loro dorso si formò uno strato di polvere bianca. Quando tentò di spingerli al trotto, non reagirono, e allora lei scese per prendere tra le mani la testa dello stallone e condurli al passo. Ormai barcollava anche lei, ma alla fine, in fondo a una valle sabbiosa, trovò le tracce di un carro e si sentì risollevata. «Sono diretti a oriente», mormorò con le labbra che cominciavano a gonfiarsi e a screpolarsi. «Ci condurranno di nuovo al fiume.» Continuò a muoversi, seguendo i solchi delle ruote, ma qualche tempo dopo si fermò all'improvviso, confusa, scoprendo le proprie impronte vicino alle tracce. Impiegò qualche tempo per rendersi conto che doveva aver camminato in circolo: seguiva le sue stesse tracce. Allora fu sopraffatta dalla disperazione e si accasciò in ginocchio, impotente e smarrita, sussurrando a Nefer: «Mi dispiace, tesoro. Ti ho deluso». Ma il ragazzo non poteva rispondere: era svenuto. Accarezzandogli i capelli incrostati di sangue, li scostò dal viso. Poi alzò la Wilbur Smith
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testa verso la sommità della bassa collina che sorgeva a oriente e batté le palpebre. Scrollò la testa per schiarirsi la vista, distolse lo sguardo per far riposare gli occhi che bruciavano, poi tornò a guardare in quella direzione. Sentì di nuovo lo spirito risollevarsi, ma ancora non poteva credere che quanto vedeva fosse realtà e non un'illusione. In cima alle colline, sopra di loro, c'era una figura scarna che si stagliava sulla linea dell'orizzonte, appoggiata a un lungo bastone. I capelli d'argento splendevano come una nuvola e la brezza ardente del deserto faceva sventolare la veste sulle gambe sottili come quelle di un airone. «Oh, per Hathor e per tutte le dee, non è possibile.» Accanto a lei, Nefer aprì gli occhi. «Taita è vicino», mormorò. «Lo sento vicino.» «Sì, Taita è qui.» Lei parlava con un filo di voce, tenendosi le mani sulla gola per la sorpresa. «Ma come ha fatto a sapere dove poteva trovarci?» «Lui sa. Taita sa», rispose Nefer, chiudendo gli occhi e ricadendo nell'incoscienza. Il vecchio scese a lunghe falcate il pendio per raggiungerli, e Mintaka si alzò per andargli incontro, a passi incerti. Ben presto sentì svanire la fatica e cominciò a salutarlo, agitando le mani e gridando, quasi in delirio per la gioia. Taita guidò il carro lungo il pendio scosceso, dirigendosi verso il fiume e il villaggio di Dabba. I cavalli risposero al suo tocco, procedendo a un'andatura tranquilla che risparmiava le scosse peggiori al ragazzo ferito sul carro. Grazie a chissà quale istinto, pareva che sapesse di quali medicine e fasciature avrebbe avuto bisogno Nefer, e le aveva portate con sé. Dopo aver cambiato le bende al ragazzo, aveva condotto i cavalli verso una sorgente d'acqua nascosta nei pressi, dove l'acqua amara aveva rianimato gli animali. Poi aveva fatto salire di nuovo Mintaka sul carro, puntando senza esitare in direzione di Dabba e del fiume. Mintaka, che viaggiava al suo fianco, lo aveva pregato, quasi in lacrime, di spiegarle come aveva fatto a sapere che avevano bisogno di lui e dove li avrebbe trovati. Taita si era limitato a sorridere con dolcezza, gridando ai cavalli: «Piano, ora, Maglio! Calma, Guardastella!» Nefer, disteso sul fondo, era immerso nel sonno profondo indotto dalla droga ricavata dallo shepenn rosso, e le ferite erano state medicate, pulite e fasciate con bende di lino. Un tramonto rosso si stava smorzando sul Nilo come un fuoco morente Wilbur Smith
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nella boscaglia. Le imbarcazioni della flotta erano all'ancora sul fiume, simili a giocattoli nella luce sempre più fioca del crepuscolo. Apepi e Naja vennero loro incontro dal villaggio di Dabba. Il reggente era molto agitato, e Apepi cominciò a sgridare la figlia non appena lei fu alla portata della sua voce tonante: «Dove sei stata, sciocca ragazzina? Mezzo esercito ti sta cercando!» L'agitazione del nobile Naja si placò non appena fu abbastanza vicino per vedere Nefer bendato e svenuto sul fondo del carro. E il reggente divenne quasi allegro allorché Taita gli spiegò fino a che punto fossero gravi le ferite del Faraone. Semisvenuto, Nefer fu trasportato in riva al fiume su una lettiga e issato delicatamente a bordo di una delle navi da un gruppo di battellieri. «Voglio che il Faraone sia trasportato a Tebe il più presto possibile», disse Taita a Naja, «anche se questo significa viaggiare di notte. Esiste il concreto pericolo di un'infezione. Accade, se si viene feriti da un leone... E come se le zanne e gli artigli fossero immersi in un veleno molto efficace.» «Puoi ordinare alle navi di salpare subito», rispose Naja di fronte alla compagnia riunita, ma poi prese per il braccio Taita, tirandolo in disparte lungo la riva del fiume perché nessuno potesse ascoltare i loro discorsi. «Ricorda sempre, mago, il compito che ti è stato affidato dagli dei. In questa situazione imprevista scorgo chiaramente l'intervento divino. Se il Faraone dovesse morire in seguito alle ferite, nessuno nei due regni potrebbe interpretarlo come un evento innaturale.» Non aggiunse altro, fissando Taita con uno sguardo penetrante. «Il volere degli dei prevarrà su ogni altra considerazione», convenne Taita, in tono tranquillo ma enigmatico. Naja lesse nella sua risposta quello che voleva sentire. «Siamo d'accordo, Taita. Ripongo la mia fiducia in te. Va' in pace. Ti seguirò a Tebe dopo che avremo provveduto ad Apepi.» Il modo in cui era formulata quell'ultima osservazione colpì il mago, perché gli parve insolita, ma lui era troppo turbato per riflettervi. Naja accennò un sorriso misterioso, e aggiunse: «Chissà, forse al nostro prossimo incontro ci scambieremo notizie di grande importanza». Affrettandosi a salire a bordo della nave, Taita entrò nella piccola cabina sul ponte dove giaceva Nefer, e trovò Mintaka in ginocchio vicino alla lettiga, in lacrime. «Che c'è, mia cara?» le chiese in tono gentile. «Sei stata coraggiosa Wilbur Smith
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come una leonessa. Ti sei battuta col coraggio di un guerriero della guardia reale. Come puoi scioglierti in lacrime proprio adesso?» «Mio padre ha deciso di riportarmi ad Avaris domattina, mentre dovrei restare con Nefer. Sono la sua promessa sposa, e lui ha bisogno di me. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra.» Alzò gli occhi per guardarlo e lui ebbe un moto di compassione: quella fanciulla era davvero esausta tanto fisicamente quanto emotivamente. Lei gli afferrò le mani. «Oh, mago! Non vuoi andare da mio padre a chiedergli di lasciarmi tornare a Tebe per aiutarti a curare Nefer? A te mio padre darà ascolto.» Invece Apepi rispose con una risata sarcastica, quando Taita tentò di persuaderlo. «E dovrei mettere il mio agnellino nel recinto di Naja?» Scosse la testa, divertito. «Ho tanta fiducia in Naja quanta ne avrei in uno scorpione. Chi può sapere quali trucchi tenterebbe, se gli lasciassi questa moneta con cui mercanteggiare? Quanto al tuo giovane cucciolo, Nefer, s'infilerebbe sotto le sue gonne come il falco piomba su una gallinella, ammesso che non si sia già spinto su quella strada.» Rise di nuovo. «Non voglio che il valore di mia figlia venga svalutato. No, mago, Mintaka torna sotto le mie ali, e resterà ad Avaris fino al giorno delle nozze. E nessuno dei tuoi incantesimi mi farà cambiare idea su questo punto.» In preda alla malinconia, Mintaka andò a prendere congedo da Nefer. Lui era cosciente solo a metà, indebolito dal sangue che aveva perso, ma, quando lei lo baciò, aprì gli occhi. Gli parlò sottovoce, riconfermandogli il suo amore, mentre Nefer la guardava negli occhi. Prima di alzarsi per andarsene, lei prese il medaglione d'oro che portava appeso al collo. «Questo contiene una ciocca dei miei capelli. È la mia anima, e la dono a te.» Gli mise il medaglione tra le mani, e lui lo strinse tra le dita. Così Mintaka rimase sola in riva al Nilo, mentre la nave veloce che portava via Nefer e Taita affrontava la corrente. Con venti rematori per lato e un ricciolo bianco di schiuma sotto la prua, navigava sul fiume controcorrente, in direzione di Tebe. Mintaka non salutò con la mano la figura alta di Taita sulla poppa, ma lo seguì con uno sguardo smarrito. La mattina dopo Apepi e il reggente, il nobile Naja, tennero una riunione finale a bordo della chiatta reale degli hyksos. Erano presenti tutti i nove figli maschi del re, e Mintaka era seduta accanto al padre. Apepi la teneva sotto stretta sorveglianza fin dalla sera prima, quand'era partita la nave che Wilbur Smith
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trasportava il Faraone Nefer Seti. Sapeva per esperienza che la figlia era troppo volitiva perché lui potesse fidarsi del suo giudizio, del suo senso del dovere filiale e della sua obbedienza. La cerimonia di congedo si svolse sul ponte della nave di Apepi, con attestazioni di reciproca fiducia e devozione alla causa della pace. «Possa durare mille anni!» intonò Naja, consegnando ad Apepi l'Oro dell'Eternità, un'onorificenza creata proprio per quella fausta occasione. «Mille volte mille», replicò Apepi con altrettanta gravità, mentre il reggente gli sistemava sulle spalle la catena dell'onorificenza, tempestata di gemme preziose e pietre dure. Si abbracciarono con affetto fraterno, prima che Naja tornasse verso la sua nave a bordo di una barca a remi. Quando le due flotte si separarono, una per tornare a Tebe e l'altra per discendere la corrente, percorrendo centinaia di leghe verso Menfi e Avaris, gli equipaggi si salutarono con reciproci applausi. Ghirlande e corone intrecciate di fronde di palma e fiori furono lanciate da un'imbarcazione verso l'altra, costellando la superficie del grande fiume. Il viaggio del re Apepi non aveva un tale carattere di urgenza da costringere la flotta a proseguire la navigazione anche nell'oscurità di una notte senza luna, così, per quella sera, gettarono l'ancora a Balasfura, di fronte al tempio di Hapi, il dio ermafrodito del Nilo. Il re e la sua famiglia sbarcarono per sacrificare un bue candido sull'altare del santuario. Il Gran Sacerdote sventrò la bestia che muggiva, estraendo le viscere mentre essa era ancora viva per interpretare gli auspici che riguardavano il re. Scoprì atterrito che il ventre dell'animale era infestato di vermi bianchi, che si riversarono sul pavimento del tempio formando una massa fremente. Con prontezza, tentò di nascondere al re quel fenomeno disgustoso, gettandovi sopra il mantello e cominciando a inventare qualche frottola, ma Apepi lo scostò con un gesto brusco, trovandosi di fronte a quello spettacolo orribile. Rimase anche lui visibilmente scosso e, una volta tanto, abbandonò in silenzio il tempio per scendere verso la riva del fiume, dove Trok e gli ufficiali al suo comando avevano organizzato un banchetto per intrattenerlo. Persino i galletti sacri del tempio, di colore nero, si rifiutarono di beccare le viscere infette dell'animale sacrificato. I sacerdoti gettarono quella massa disgustosa sul fuoco del tempio, ma, invece di ridurle in cenere, quelle fiamme che ardevano ininterrottamente fin dai tempi antichi si spensero. Gli auspici non potevano essere peggiori, ma il Gran Wilbur Smith
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Sacerdote ordinò di seppellire le viscere dell'animale sacrificato e di riaccendere il fuoco. «Non ho mai visto un presagio così infausto», confidò ai suoi accoliti. «Un segno del genere da parte del dio Hapi può far presagire soltanto qualche evento terribile, come la guerra o la morte del Faraone. Dovremo pregare tutta la notte perché il Faraone Nefer Seti guarisca dalle ferite riportate.» In riva al fiume, il nobile Trok aveva fatto montare alcune tende adorne di cortine rosso vivo, giallo e verde per ricevere la famiglia reale. Buoi interi arrostivano sulle fosse piene di brace ardente, mentre anfore dei vini più scelti venivano tenute in fresco nelle acque del fiume. Gli schiavi risalirono barcollando la riva sotto il peso delle anfore, a mano a mano che venivano vuotate dalla compagnia e Apepi tuonava di portarne altre. L'umore tetro del re migliorava a ogni coppa, e ben presto incoraggiò i figli a cantare in coro con lui le marce salaci in uso nel suo esercito. Alcune erano tanto scurrili che Mintaka addusse come pretesto la stanchezza e il mal di testa per ritirarsi insieme con le sue ancelle a bordo della chiatta reale, ancorata al largo. Tentò di portare con sé il fratello minore, Khyan, ma Apepi si oppose. Ormai il buon vino l'aveva aiutato a gettarsi alle spalle i presentimenti funesti suscitati dalla divinazione nel tempio. «Lascia il ragazzo dov'è. Bisogna che impari ad apprezzare la buona musica.» In uno slancio di affetto, abbracciò il ragazzo, accostandogli alle labbra la coppa. «Bevi un sorso. Ti farà cantare ancora meglio, principino.» Khyan adorava il padre, e quella pubblica manifestazione di attaccamento suscitò in lui un empito di orgoglio e adorazione. Finalmente il padre lo trattava come un uomo e un guerriero: anche se provava la tentazione di vomitare, riuscì a vuotare la coppa, e la compagnia, guidata dal nobile Trok, lo applaudì come se avesse appena ucciso in battaglia il suo primo nemico. Mintaka esitò. Provava un senso quasi materno di protezione per il fratello minore, ma si rese conto che il padre non avrebbe sentito ragioni. Con tutta la dignità che le riuscì di conservare, guidò le ancelle fino alla riva del fiume e, tra le grida ironiche ed ebbre della compagnia, salì a bordo della chiatta. Rimase distesa sul suo giaciglio ad ascoltare i suoni del banchetto. Tentò di dormire, ma Nefer era sempre in cima ai suoi pensieri. Il senso di perdita che aveva tenuto a bada per tutto il giorno e l'ansia per le ferite Wilbur Smith
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dell'amato tornarono a sopraffarla e, per quanto tentasse d'impedirselo, fu assalita dalle lacrime e dovette soffocare i singhiozzi nel cuscino. Infine scivolò in un sonno nero e senza sogni, da cui si svegliò a fatica. Aveva bevuto soltanto qualche sorso di vino, ma si sentiva come drogata, con la testa dolorante. Si domandò che cosa l'avesse ridestata, poi sentì alcune voci stridule e la chiatta oscillò sotto di lei, mentre un gruppo di uomini saliva a bordo. Si udirono risa e voci di ubriachi, e passi pesanti sul ponte sopra di lei. A giudicare dai commenti, sembrava che il padre e i fratelli venissero trasportati di peso a bordo. Non era insolito che gli uomini della sua famiglia bevessero fino a ridursi in quelle condizioni, ma lei era preoccupata per il piccolo Khyan. Si alzò a fatica dal letto e cominciò a vestirsi, sentendosi stranamente intorpidita e confusa, poi, barcollando, salì sul ponte. La prima persona che vide fu il nobile Trok: stava impartendo istruzioni agli uomini che trasportavano il padre. Ce ne volevano sei per sostenere la sua mole enorme e inerte. I suoi fratelli maggiori non erano in condizioni migliori. Lei provò un impeto di collera e di vergogna. Poi vide Khyan trasportato a braccia da un barcaiolo e corse verso di lui. Ecco, hanno ridotto in questo stato anche Khyan, pensò con amarezza. Non avranno pace finché non avranno trasformato pure lui in un beone. Diede istruzioni al barcaiolo di portare il ragazzino sottocoperta, nella cabina del padre, dove lo spogliò e lo costrinse a bere una tisana di erbe per rianimarlo. Quella pozione era una panacea che Taita aveva preparato per lei, e parve fare effetto. Finalmente Khyan mormorò qualcosa, aprendo gli occhi, poi ricadde in un sonno profondo ma naturale. Spero che impari la lezione, si disse Mintaka. Non poteva fare altro che lasciarlo dormire. Inoltre si sentiva intorpidita anche lei, con un mal di testa insopportabile. Tornò nella sua cabina e, senza neanche spogliarsi, si lasciò cadere sul materasso, scivolando quasi subito nel sonno. La volta successiva, quando si svegliò, ebbe l'impressione di avere un incubo, perché udì delle grida e si sentì soffocare da nubi di fumo denso che le bruciavano la gola. Ancor prima di capire bene che cosa stava accadendo, si sentì sollevare di peso dal letto, avvolgere in una coperta di pelliccia e trasportare sul ponte. Cercò di lottare, ma era inerme come un bambino nella presa di un gigante. Sul ponte, la notte senza luna era rischiarata da fiamme danzanti che uscivano ruggendo dal boccaporto di prua della chiatta reale, rimasto Wilbur Smith
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aperto, e salivano verso gli alberi e il sartiame in un torrente di luce color arancio. Non aveva mai visto bruciare una nave di legno, e l'intensità delle fiamme l'atterrì. Non poté fissarla a lungo, comunque, perché si sentì trasportare rapidamente attraverso il ponte e calare oltre la murata, a bordo di una feluca in attesa. Recuperò di colpo la lucidità, e cominciò a dibattersi, e a gridare: «Mio padre! I miei fratelli! Khyan! Dove sono?» La feluca si spinse al largo nella corrente, e lei dovette lottare con tutte le sue forze per liberarsi dalle braccia che la tenevano inchiodata, togliendole il respiro. Riuscì a torcere la testa quanto bastava per vedere il volto dell'uomo che la teneva ferma. «Trok!» Rimase indignata dalla sua presunzione, dal modo in cui la teneva stretta ignorando le sue grida. «Lasciami andare! Te lo ordino!» Lui non rispose. La teneva immobilizzata con facilità, fissando la nave in fiamme con un'espressione calma e distaccata. «Torna indietro!» gli ordinò. «La mia famiglia! Torna indietro a prenderli!» L'unica reazione di Trok fu lanciare un ordine ai rematori: «Fuori i remi!» Gli uomini sollevarono i remi dall'acqua, lasciando oscillare la feluca in balia della corrente. L'equipaggio osservava, affascinato, la massa della nave avvolta dalle fiamme. Si udivano le grida strazianti lanciate dai passeggeri rimasti intrappolati sottocoperta. D'un tratto una parte del ponte di poppa crollò, sollevando una colonna di fiamme e scintille. Le cime di ormeggio bruciarono e la nave girò lentamente su se stessa, trascinata dalla corrente, scendendo a valle. «Ti prego!» disse Mintaka, cambiando tono. «Ti prego, nobile Trok, è la mia famiglia! Non puoi lasciarli bruciare vivi!» Ormai le grida dall'interno della chiglia si stavano spegnendo, sostituite dal basso rumoreggiare delle fiamme. Le lacrime scorrevano sulle guance di Mintaka, ma lei, serrata nella stretta di Trok, era del tutto impotente. Di colpo il portello principale sul ponte in fiamme si spalancò, e gli uomini della feluca ansimarono inorriditi nel vederne uscire una figura umana. Le braccia del nobile Trok si strinsero intorno a Mintaka al punto che lei si sentì quasi stritolare le costole. «Non è possibile!» esclamò Trok con voce stridula. In mezzo al fiume e alle fiamme, Apepi sembrava un'apparizione dell'oltretomba. Nudo e coperto di peli, col grande ventre sporgente, si Wilbur Smith
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diresse barcollando verso la fiancata della chiatta, tenendo tra le braccia il corpo del figlio minore, a bocca spalancata, ansimando in cerca d'aria in quel mare di fiamme. «Il mostro è difficile da uccidere.» La collera di Trok era venata di paura. Persino nello stato di angoscia in cui si trovava, Mintaka intuì il significato delle sue parole. «Sei stato tu, Trok!» sussurrò. «Sei stato tu a fare questo!» Trok ignorò l'accusa. I peli sul corpo di Apepi furono inceneriti dalle fiamme e sparirono in una vampata, lasciandolo per un istante nudo e annerito dal fumo. Poi la pelle cominciò a coprirsi di vesciche, gonfiandosi prima di staccarsi a brandelli. La barba e i capelli presero fuoco, trasformandolo in una torcia umana. Non si muoveva più, ma rimase a gambe divaricate sul ponte, sollevando Khyan. Il ragazzo era ustionato come lui, e si vedeva la carne viva nei punti in cui la pelle era bruciata. Forse Apepi intendeva scagliarlo oltre la murata della nave, nelle acque del fiume, per sottrarlo al fuoco, ma le forze lo tradirono e rimase immobile, come un colosso con la testa in fiamme, incapace di fare appello alle sue ultime riserve di energia per lanciare il figlio in salvo nelle acque del Nilo. Mintaka non riusciva a muoversi, ammutolita per l'orrore di quello spettacolo. Le parve che durasse un'eternità, poi all'improvviso il ponte cedette sotto i piedi di Apepi. Il sovrano e il figlio scomparvero nel ventre della nave in mezzo a una colonna di fiamme, scintille e fumo. «È finita.» La voce di Trok era distaccata, inespressiva. Lasciò andare Mintaka in modo così brusco che lei cadde sul fondo della feluca. Poi guardò l'equipaggio inorridito. «Portatemi alla nave», ordinò. «Sei stato tu a fare questo alla mia famiglia», ripeté Mintaka, distesa ai suoi piedi. «La pagherai, te lo giuro. Te la farò pagare.» Ma si sentiva anchilosata e dolente, come se fosse stata sferzata con un gatto a nove code. Il padre, quella figura imponente che aveva dominato la sua esistenza, quell'uomo che lei aveva un po' odiato e molto amato, era morto. Tutta la sua famiglia era scomparsa: tutti i nove fratelli, persino il piccolo Khyan, che per lei era stato più un figlio che un fratello. Lo aveva visto bruciare vivo, e sapeva che l'orrore di quello spettacolo l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. La feluca accostò alla nave del nobile Trok e lei non protestò quando la raccolse, come se fosse una bambola, per portarla a bordo, depositandola Wilbur Smith
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nella cabina principale, dove la sistemò sul pagliericcio con insolita gentilezza. «Le tue ancelle sono sane e salve. Le manderò da te», le disse, e uscì. Mintaka sentì che il chiavistello veniva spostato per sbarrare la porta, poi udì il suono dei passi che salivano la scaletta e passavano sul ponte sopra di lei. «Allora sono prigioniera?» sussurrò, ma anche quel particolare le sembrava di scarsa importanza, alla luce di ciò che aveva appena visto. Affondò il viso nei cuscini, impregnati del sudore rancido di Trok, e pianse tutte le sue lacrime prima di scivolare nel sonno. Il relitto in fiamme della chiatta reale di Apepi andò alla deriva sul fiume, verso la riva opposta, dove sorgeva il tempio di Hapi. All'alba, il fumo si levò nell'aria immobile, contaminata dal lezzo delle carni bruciate. Quando Mintaka si svegliò, l'odore era penetrato anche nella cabina, scatenando la sua nausea. E quel fumo sembrava fungere anche da richiamo, perché, subito dopo il sorgere del sole, la flotta del nobile Naja, superando la svolta del fiume, sopraggiunse sul luogo dell'incendio. Le ancelle portarono la notizia a Mintaka. «Il reggente è arrivato in pompa magna», le riferirono, eccitate. «Era partito appena ieri per tornare a Tebe. Non è strano che sia riuscito ad arrivare qui così presto, mentre dovrebbe trovarsi venti leghe più a monte?» «Sì, è terribilmente strano», riconobbe Mintaka con aria truce. «Devo vestirmi e prepararmi alle nuove atrocità che mi attendono.» I suoi bagagli erano andati perduti nelle fiamme che avevano divorato la chiatta reale, ma le ancelle presero in prestito alcuni vestiti dalle altre nobili dame della flotta. Le lavarono i capelli e li arricciarono, poi la vestirono con una semplice tunica di lino, una cintura d'oro e sandali dorati. Prima di mezzogiorno una scorta armata salì a bordo della nave, e lei la seguì sul ponte. I suoi occhi si fissarono anzitutto sulle assi annerite della chiatta reale, arenata lungo la riva opposta e carbonizzata fino alla linea di galleggiamento. Non avevano neanche tentato di recuperare i corpi dal relitto, che sarebbe diventato la pira funebre della sua famiglia. La tradizione hyksos richiedeva la cremazione, non l'imbalsamazione e gli elaborati procedimenti e cerimoniali dei funerali egizi. Mintaka sapeva che il padre avrebbe approvato quel modo di andarsene, e questo le diede un po' di conforto. Poi pensò a Khyan e distolse lo Wilbur Smith
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sguardo. Trattenne a fatica le lacrime, scendendo nella feluca che la condusse a riva, ai piedi del tempio di Hapi. Il nobile Naja era in attesa con tutto il suo seguito per accoglierla, ma lei rimase pallida e distaccata quando lui l'abbracciò. «Questo è un momento doloroso per tutti noi, principessa», le disse. «Tuo padre, il re Apepi, era un potente guerriero e un grande uomo di Stato. Tenuto conto del recente trattato tra i due regni e della fusione dell'Egitto in una sola unità sacra e storica, lascia un vuoto pericoloso che, per il bene di tutti, dev'essere colmato immediatamente.» Prendendola per mano, la guidò verso il padiglione che, la sera precedente, era stato il teatro dei festeggiamenti, ma dove quel giorno erano riuniti in solenne assemblea molti nobili e funzionari dei due regni. In prima fila vide Trok: indossava tutte le sue insegne militari, con la spada appesa a una cintura tempestata d'oro e l'arco da guerra in spalla. Dietro di lui erano schierati, in file serrate, i suoi ufficiali, tutti con un'espressione truce e gli occhi gelidi e minacciosi, nonostante i nastri vivaci intrecciati alla barba. La fissarono senza sorridere. In quel preciso istante, Mintaka si rese conto che lei era l'ultima rappresentante della dinastia di Apepi, ormai abbandonata e priva di protezione. Si domandò a chi si sarebbe appoggiata, sulla lealtà di chi avrebbe potuto fare affidamento. Cercò nella folla un volto familiare e amico. C'erano tutti, i consiglieri e gli amici del padre, i suoi generali e i compagni sul campo di battaglia. Poi vide che distoglievano lo sguardo: nessuno le sorrideva oppure osava fissarla negli occhi. Non si era mai sentita così sola in tutta la sua vita. Il reggente dell'Egitto la condusse verso uno sgabello coperto da un cuscino su un lato del padiglione. Quando si sedette, Naja e i suoi formarono uno schermo intorno a lei, nascondendola alla vista. Era certa che quella fosse una scelta deliberata. Il nobile Naja aprì l'assemblea con un lamento per la tragica fine del re Apepi e dei suoi figli, poi si lanciò in un elogio del Faraone defunto. Rievocò gli innumerevoli trofei militari e le imprese di statista, culminate nella partecipazione al trattato di Hathor, che aveva riportato la pace tra due regni dilaniati da decenni di guerre intestine. «Senza il re Apepi, o senza un Faraone forte che possa guidare la politica del Basso Egitto e governare in accordo col Faraone Nefer Seti e il suo reggente di Tebe, il trattato di Hathor è in pericolo. È inconcepibile un Wilbur Smith
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ritorno agli orrori e alle guerre degli ultimi sessant'anni.» Trok batté il fodero della spada contro i gambali di bronzo, gridando: «Bak-her! Bak-her!» L'applauso fu ripreso e imitato da tutti i comandanti dell'esercito alle sue spalle, e gradualmente si estese a tutta l'assemblea fino a creare un rombo assordante. Naja lo lasciò proseguire per qualche minuto prima di alzare le braccia. Quando tornò a regnare il silenzio, riprese: «Date le tragiche circostanze della sua morte, il re Apepi non lascia nessun erede maschio al trono». Non citò neppure di sfuggita Mintaka. «Trattandosi di una situazione densa di rischi, ho consultato i consiglieri anziani e i governatori dei nomi di entrambi i regni, e la scelta del nuovo Faraone è stata unanime. Tutti hanno chiesto all'unisono che sia il nobile Trok di Menfi a prendere le redini del potere e a guidare la nazione secondo la nobile tradizione instaurata dal re Apepi.» Il silenzio che seguì quell'annuncio fu profondo e prolungato. I presenti si scambiarono occhiate stupite, e soltanto allora si accorsero che, mentre erano intenti ad ascoltare il discorso del nobile Naja, due divisioni dell'esercito del nord, comandate da Trok e a lui fedeli, erano uscite in silenzio dal folto delle palme, circondando l'assemblea. I soldati tenevano la spada nel fodero, ma avevano la mano guantata già sull'elsa. Sarebbe bastato un istante per estrarre le lame di bronzo. Tutti rimasero costernati. Mintaka approfittò di quel momento, alzandosi di scatto dallo sgabello dov'era stata relegata e gridando: «Miei nobili signori, leali cittadini dell'Egitto...» Non poté continuare. Quattro dei guerrieri hyksos più alti si affollarono intorno a lei, nascondendola. Battevano le spade sguainate contro lo scudo, gridando in coro: «Lunga vita al Faraone Trok Uruk». Il grido fu ripreso dal resto delle truppe. Nel frastuono gioioso che seguì, mani forti sollevarono Mintaka, trascinandola via, in mezzo alla folla. Lei si dibatté inutilmente, urlando, ma la sua voce venne soffocata dalla tempesta di applausi. Una volta sul fiume, non poté fare altro che dimenarsi tra le braccia degli uomini che la tenevano prigioniera, cercando di guardare indietro. Al di sopra della folla, scorse il nobile Naja che posava la corona sulla testa del nuovo Faraone. Poi fu trascinata lungo la riva, sino alla feluca in attesa, e riportata nella cabina a bordo della nave del nobile Trok, dove fu chiusa a chiave, sotto sorveglianza. Wilbur Smith
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Mintaka rimase con le ancelle nella piccola cabina sovraffollata, in attesa di apprendere quale sarebbe stato il suo destino, una volta che il nuovo Faraone fosse salito a bordo. Le ragazze erano atterrite e confuse quanto lei, tuttavia Mintaka cercò di confortarle. Quando si furono calmate un po', le invitò a dedicarsi ai loro giochi preferiti. Ma ben presto si stancarono, così chiese un fiuto. Il suo era andato perduto sulla chiatta del padre, ma riuscirono a prenderne uno in prestito da una guardia. Mintaka organizzò una gara, invitando ognuna delle ancelle a danzare nello spazio ristretto della piccola cabina. Allorché sentirono il nuovo Faraone tornare a bordo, stavano ridendo e applaudendo. Le ragazze ammutolirono, ma lei le spinse a continuare e, in poco tempo, fecero chiasso come prima. Mintaka non si unì alla loro allegria. In precedenza aveva esplorato con attenzione l'ambiente nel quale si trovava. Adiacente alla cabina principale ce n'era una molto più piccola, poco più che un ripostiglio, che serviva da latrina: conteneva un grosso vaso di ceramica col coperchio e, accanto, una brocca d'acqua per le abluzioni. La paratia che la divideva dalla cabina attigua era sottile e fragile, perché i costruttori della barca si erano preoccupati di non appesantire troppo l'imbarcazione. Mintaka era già stata a bordo di quella nave in epoche più felici, quando lei e il padre erano ospiti del nobile Trok, e sapeva che, dalla parte opposta della paratia, si trovava la cabina principale. Sgattaiolò nel piccolo spazio e, al di sopra del chiasso prodotto dalle sue ancelle, sentì alcune voci maschili provenire dalla parte opposta. Riconobbe la voce limpida e imperiosa di Naja e le risposte brusche di Trok. Appoggiò con attenzione l'orecchio alle assi della paratia, e subito le voci divennero più chiare e le parole più distinte. Naja stava congedando le guardie che li avevano accompagnati a bordo. Mintaka le sentì allontanarsi, poi ci fu un lungo silenzio, al punto che si convinse che Naja fosse solo nella cabina. Sentì il gorgoglio del vino versato in una coppa, poi la voce di Naja, carica di sarcasmo. «Maestà, non ti sei già ristorato abbastanza?» Udì la risata inconfondibile di Trok e, dalla sua voce impastata, capì che aveva già bevuto, quando rispose alla provocazione dell'altro: «Suvvia, cugino, non essere così severo. Bevi qualcosa con me. Brindiamo al risultato di tutti i nostri sforzi. Brinda alla corona che porto sulla testa, e a quella che ben presto coronerà la tua». Il tono di Naja si raddolcì un po'. «Un anno fa, quando abbiamo Wilbur Smith
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cominciato a progettare tutto questo, sembrava un piano così impossibile, così lontano dalla realtà. Allora eravamo disprezzati e negletti, lontani dal trono quanto la luna lo è dal sole. E invece ora siamo qui, due Faraoni che tengono in mano le sorti dell'Egitto.» «E due Faraoni ci hanno già preceduti», convenne Trok. «Tamose con la tua freccia nel cuore e Apepi, quel grosso porco, fritto nel suo stesso lardo con tutti i suoi porcelli.» Scoppiò a ridere in tono trionfante. «Per favore, non così forte. Sei indiscreto, anche se siamo soli», lo rimproverò bonariamente Naja. «Sarebbe meglio se non ripetessimo mai queste parole. Lasciamo che i nostri piccoli segreti finiscano con Tamose nella sua tomba, nella Valle dei Re, e con Apepi in fondo al fiume.» «Forza!» insistette Trok. «Brinda con me a tutto quello che abbiamo realizzato.» «A quello che abbiamo realizzato!» ripeté Naja. «Ma anche a quello che deve ancora venire.» «Oggi l'Egitto, e domani i tesori e le ricchezze dell'Assiria, di Babilonia e del resto del mondo. Ormai nulla può ostacolarci.» Mintaka sentì Trok bere rumorosamente, poi udì uno schianto contro la paratia all'altezza del suo orecchio. Restò così sorpresa da balzare indietro, poi si rese conto che Trok aveva scaraventato la coppa vuota contro il pannello, facendola a pezzi. «Rimane un unico dettaglio da definire», riprese Trok, dopo un rutto sonoro. «Il cucciolo di Tamose ha ancora la corona sulla testa.» Mentre ascoltava, Mintaka era in preda a un turbine di emozioni che la trascinavano in mille direzioni diverse, al punto di stordirla. Aveva ascoltato inorridita i due discutere dell'omicidio di suo padre e dei suoi fratelli, e del Faraone Tamose, ma non era preparata a quello che stavano per dire di Nefer. «Non per molto, ormai», ribatté Naja. «E anche quello sarà sistemato, quando tornerò a Tebe. È già tutto organizzato.» Mintaka si tappò la bocca con le mani per non gridare. Stavano per uccidere Nefer con la stessa freddezza con cui avevano ucciso gli altri. Ebbe l'impressione che il suo cuore si rimpicciolisse, e si sentì disperatamente impotente. Era prigioniera, senza amici. Tentò di escogitare un modo per inviare un avvertimento a Nefer. Le sembrava di rendersi conto solo in quel momento di quanto profondo fosse l'amore che la legava a lui. Avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere per salvarlo. Wilbur Smith
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«È un peccato che il leone non abbia completato il lavoro per te invece di fargli soltanto qualche graffio», osservò Trok. «La belva ha interpretato il suo ruolo alla perfezione. A Nefer basta soltanto una piccola spinta... e poi gli offrirò un funerale ancora più splendido di quello che ho offerto al padre.» «Sei sempre stato un uomo generoso.» Trok si abbandonò a una risata ebete. «Visto che stiamo parlando del moccioso di Tamose, parliamo anche di quello che resta della covata di Apepi», suggerì Naja con voce melliflua. «Non avevamo convenuto che la piccola principessa dovesse bruciare insieme con gli altri?» «Ho cambiato idea.» Trok assunse un tono risentito. Mintaka lo sentì riempire un'altra coppa di vino. «È pericoloso lasciare in giro il seme di Apepi», lo ammonì Naja. «Negli anni a venire, Mintaka potrebbe facilmente diventare un punto di riferimento, una bandiera per i ribelli. Devi liberarti di lei, cugino, e anche presto.» «Perché non hai fatto lo stesso con le figlie di Tamose? Come mai sono ancora vive?» lo sfidò Trok, sulla difensiva. «Le ho sposate», gli fece notare Naja. «Inoltre Heseret è pazza di me. Fa qualunque cosa le chiedo. Condividiamo le stesse ambizioni. È ansiosa quanto me di vedere sepolto il fratello Nefer e desidera la corona quasi quanto il mio scettro reale.» «Ebbene, sono certo che anche Mintaka farà lo stesso, allorché sentirà la mia ape ronzare nel suo piccolo e roseo fiore di loto», dichiarò Trok. Mintaka si sentì accapponare la pelle, ricadendo in un vortice di emozioni. Era così atterrita dal quadro evocato dalla vanagloria di Trok che per poco non si lasciò sfuggire l'osservazione successiva di Naja. «E così ti tiene per i testicoli, cugino», commentò Naja, in tono tutt'altro che divertito. «È troppo sfrenata e ribelle per i miei gusti, ma ti auguro di ricavarne piacere. Comunque sta' attento, Trok: quella ragazza ha un lato selvaggio, e potrebbe richiedere un polso più fermo di quanto tu non creda.» «La sposerò subito e la metterò incinta altrettanto presto», gli assicurò Trok. «Così diventerà più trattabile. Ma sono troppi anni che mi ha acceso un fuoco dentro, e non potrò spegnerlo se non immergendomi nel suo succo dolce e fresco.» Wilbur Smith
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«Dovresti usare più la testa che la verga, cugino.» La voce di Naja era rassegnata. «Speriamo almeno di non dover rimpiangere questa tua passione.» Mintaka sentì il ponte cigolare sotto i suoi piedi mentre il reggente si alzava. «Possano gli dei amarti e proteggerti, cugino», si congedò Naja. «Abbiamo entrambi questioni serie da risolvere. Domani dovremo separarci, ma incontriamoci come previsto a Menfi, alla fine dell'inondazione del Nilo.» Per il resto del viaggio, da Balasfura a valle del fiume, Mintaka rimase confinata a bordo della nave di Trok. Durante la navigazione poteva salire sul ponte, ma, quando gettavano l'ancora, o l'imbarcazione era all'ormeggio, veniva rinchiusa nella cabina. Questo avveniva spesso, perché Trok scendeva a terra a ogni tempio che incontravano lungo la strada, per celebrare sacrifici e rendere grazie al dio o alla dea per la sua elevazione al trono dell'Egitto. E, anche se nessun altro lo sapeva, Trok comunicava anche agli dei che ben presto li avrebbe raggiunti nel consesso divino, come loro pari. A parte quelle restrizioni, Trok non risparmiò sforzi per ingraziarsi Mintaka, compensando con la perseveranza quello che gli mancava in tatto. Le offriva ogni giorno almeno un regalo meraviglioso: una volta si trattò di una coppia di stalloni bianchi, che lei cedette al capitano della nave; un'altra di un carro incrostato d'oro e di gioielli, che suo padre aveva sottratto al re della Libia. Mintaka lo donò al comandante delle guardie di palazzo, che era stato uno dei fedeli di Apepi. Un'altra volta ancora si trattò di una pezza di seta splendida che proveniva dalle terre a oriente, e poi vi fu una cassetta d'argento piena di gemme, che lei distribuì tra le ancelle. Quando furono adorne di quei gioielli, Mintaka le fece sfilare davanti a Trok. «Questi gioielli volgari fanno una certa figura indosso alle schiave, ma sono inadatti a una principessa», commentò in tono sprezzante. Il nuovo Faraone non si lasciò scoraggiare, e allorché superarono Assyut, nel Basso Egitto, le indicò una tenuta fertile e rigogliosa che si stendeva per quasi una lega lungo la riva orientale. «Ora è tua, altezza, un dono per te da parte mia. Ecco l'atto di proprietà.» Glielo consegnò con un gesto studiato e un sogghigno soddisfatto. Quel giorno stesso lei mandò a chiamare gli scribi e fece stendere un documento per liberare tutti gli schiavi legati alla tenuta, e un secondo atto Wilbur Smith
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per trasferire la proprietà del terreno alle sacerdotesse del tempio di Hathor a Menfi. Quando Mintaka cercava di scrollarsi di dosso il dolore e la malinconia, distraendosi con le ancelle sul ponte di poppa grazie alla danza e al canto, al bao e agli enigmi, Trok tentava di unirsi al divertimento. Invitò due delle ragazze a danzare con lui Il volo delle tre rondini, poi si rivolse a Mintaka. «Proponi un indovinello, principessa», la pregò. «Che cos'è che puzza come un bufalo, sembra un bufalo e quando danza con le gazzelle lo fa con tutta la grazia di un bufalo?» chiese lei con voce soave. Le ragazze ridacchiarono, mentre Trok si accigliò, rosso in viso. «Perdonami, altezza, questo è troppo oscuro per me», replicò, allontanandosi per raggiungere gli ufficiali. Il giorno dopo aveva già perdonato l'insulto, anche se non lo aveva dimenticato. Gettata l'ancora nel villaggio di Samalut, ordinò a un gruppo di attori, acrobati e musici di salire a bordo della nave per intrattenere Mintaka. Uno dei maghi era un uomo attraente, dalla conversazione spiritosa; purtroppo il suo repertorio di trucchi era vecchio e l'esecuzione mancava di finezza. Eppure, non appena Mintaka aveva appreso che la compagnia intendeva approfittare della pace assicurata dal trattato di Hathor per andare a Tebe, dove sperava di esibirsi alla corte del Faraone del regno meridionale, si mostrò affascinata dalle loro esibizioni, in particolare da quella del mago, che si chiamava Laso. Dopo lo spettacolo, lo invitò a farle compagnia per gustare un rinfresco a base di datteri al miele. Poi fece segno al mago di sedersi sui cuscini ai suoi piedi, e lui riuscì ben presto a superare il timore reverenziale che provava nei suoi confronti, raccontandole alcune storielle delle quali lei rise allegramente. Poi, approfittando delle chiacchiere e delle risate delle ancelle, pregò Laso di trasmettere, non appena giunto a Tebe, un messaggio al celebre mago Taita. Quasi sopraffatto dalla generosità della principessa, Laso accettò subito. Dopo avergli fatto comprendere la segretezza e la delicatezza del suo compito, Mintaka gli fece scivolare in mano un piccolo rotolo di papiro, che lui nascose sotto la veste. Quando vide i musici scendere a terra, lei provò una grande ondata di sollievo, perché da tempo cercava un sistema per trasmettere un avvertimento a Taita e Nefer. Il papiro conteneva la sua dichiarazione d'amore a quest'ultimo, oltre a un monito sulle intenzioni omicide di Naja: lo avvertiva che non poteva più fidarsi della sorella Heseret, perché si era Wilbur Smith
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alleata coi suoi nemici; continuava narrando le vere circostanze della morte del padre e dei fratelli, e infine spiegava come Trok progettasse di prenderla in moglie, sebbene lei fosse promessa a Nefer, e pregava il Faraone d'intervenire con tutta la sua autorità per impedirlo. Calcolò che gli artisti itineranti avrebbero impiegato almeno dieci giorni per raggiungere Tebe, e si prostrò nel tempio per invocare Hathor, nella speranza che l'avvertimento non arrivasse troppo tardi. Quella notte dormì meglio di quanto avesse mai fatto dopo i terribili avvenimenti di Balasfura. La mattina dopo era quasi allegra, e le ancelle osservarono che sembrava più bella del solito. Trok insistette perché lo raggiungesse sul ponte, dove i suoi cuochi avevano preparato uno splendido banchetto. C'erano altri venti invitati: Trok si sedette vicino a Mintaka, ma lei decise che non si sarebbe lasciata umiliare da quell'imposizione. Lo ignorò volutamente, ricorrendo a tutto il suo fascino e il suo spirito per incantare gli ufficiali dell'esercito che formavano il resto della compagnia. Alla fine del pasto, Trok batté le mani per ottenere l'attenzione di tutti e fu ricompensato da un silenzio ossequioso. «Ho un regalo da offrire alla principessa Mintaka.» «Oh, no!» Mintaka alzò le spalle. «E che dovrei farne?» «Credo che sua maestà lo troverà più di suo gusto di qualsiasi altro dei miei modesti omaggi.» Trok gongolava, al punto che lei cominciò a sentirsi a disagio. «La tua generosità è mal riposta, mio signore», ribatté. Non intendeva rivolgersi a lui con nessun altro dei suoi numerosi titoli regali. «Migliaia di sudditi muoiono di fame, vittime della guerra e dell'epidemia, e hanno più bisogno di me del tuo aiuto.» «Questo è un dono speciale, che solo tu puoi apprezzare», le assicurò. Lei alzò le spalle, rassegnata. «Sono soltanto una dei tuoi leali sudditi», disse, senza fare il minimo sforzo per nascondere il sarcasmo. «Se insisti, lungi da me l'intenzione di negarti qualcosa.» Trok batté di nuovo le mani e due guardie scesero sul ponte, portando un grosso sacco di cuoio non conciato da cui emanava un odore forte e sgradevole. Alcune delle ancelle lanciarono esclamazioni di disgusto, però Mintaka rimase impassibile, mentre i due soldati si fermavano di fronte a lei. Trok li guardò, e i due allentarono il laccio che chiudeva l'imboccatura Wilbur Smith
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del sacco, rovesciandone il contenuto sul ponte. Le ancelle lanciarono grida di orrore, e persino alcuni degli uomini si alzarono di scatto, sbottando in esclamazioni disgustate. La testa umana recisa rotolò sulle assi del ponte fino ai piedi di Mintaka, restando a fissarla con gli occhi spalancati. I lunghi riccioli scuri erano irrigiditi dal sangue nero coagulato. «Laso!» Mintaka sussurrò il nome del mago al quale aveva affidato il suo messaggio per Tebe. «Ah, rammenti il suo nome.» Trok sorrise. «I suoi trucchi devono averti colpito, almeno quanto hanno colpito me.» Nel caldo estivo, la testa aveva già cominciato a decomporsi, emanando un odore pungente. Le mosche si affollarono sulle pupille aperte. Mintaka si sentì assalire da un conato di vomito e deglutì a fatica. Notò che, tra le labbra purpuree di Laso, sporgeva un lembo di papiro. «Ah, a quanto pare il suo ultimo trucco era il più divertente.» Trok si protese per togliergli di bocca il papiro macchiato di sangue. Lo tenne in modo che Mintaka potesse accertarsi che era proprio il suo sigillo a chiudere il messaggio, poi lasciò cadere il papiro sul braciere acceso, dove stava cuocendo la carne. Il rotolo di papiro bruciò rapidamente e ben presto rimase soltanto un mucchietto di polvere grigia. Con un gesto, Trok ordinò che la testa fosse portata via. Uno dei soldati la raccolse per i capelli, gettandola di nuovo nel sacco prima di portarla via. Gli invitati rimasero a lungo in silenzio, scossi da quello spettacolo, mentre una delle ancelle non smetteva di singhiozzare. «Altezza reale, il tuo divino padre doveva avere qualche premonizione del destino che lo attendeva», le disse Trok in tono grave. Mintaka era troppo turbata per rispondere. «Prima della sua tragica morte volle parlarmi per affidarti alla mia tutela. Io gli ho prestato giuramento, accettando questo incarico sacro. Non dovrai mai rivolgerti a nessun altro per ottenere protezione. Sarò io, il Faraone Trok Uruk, a proteggerti.» Le sollevò la testa china con la mano destra, mentre nell'altra teneva un altro rotolo di papiro. «Questo è il mio proclama reale col quale si annulla il fidanzamento della principessa Mintaka della casa di Apepi col Faraone Nefer Seti della casa di Tamose. Inoltre contiene il proclama delle nozze tra la principessa Mintaka e il Faraone Trok Uruk. Il proclama è stato ratificato col sigillo del nobile Naja, che lo accetta e lo conferma a nome del Faraone Nefer Wilbur Smith
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Seti.» Porse il rotolo a uno dei suoi funzionari, con un ordine brusco: «Devi realizzare cento copie di questo proclama e farle affiggere in tutte le città di tutti i nomi dell'Egitto». Poi, con entrambe le mani, mise in piedi Mintaka. «Non resterai sola ancora per molto. Tu e io saremo marito e moglie prima che sorga la luna di Osiride.» Tre giorni dopo, il Faraone Trok Uruk raggiunse Avaris, la capitale militare del Basso Egitto, e si dedicò con energia infaticabile a risolvere personalmente gli affari di Stato, appropriandosi di tutte le insegne del potere. Il popolo fu assalito da un delirio di gioia nell'apprendere la notizia del trattato di Hathor, che schiudeva una prospettiva di pace e prosperità per gli anni a venire. Fu quindi accolta con stupore e smarrimento la notizia che uno dei primi atti del nuovo Faraone riguardava un notevole rafforzamento dei ranghi dell'esercito. Fu subito chiaro che Trok era deciso a raddoppiare le dimensioni delle divisioni di fanteria e a costruire altri duemila carri da combattimento. La gente comune e i nobili si chiesero dove Trok si aspettasse di trovare un nuovo nemico, ora che l'Egitto era di nuovo unito e in pace. Sottrarre i lavoratori ai campi e ai pascoli per arruolarli nell'esercito era infatti una mossa destinata a provocare un brusco aumento dei prezzi al mercato e probabilmente una carestia. Inoltre le spese per i nuovi carri, le armi e l'equipaggiamento militare richiedevano un aumento delle tasse. E di lì a poco si cominciò a mormorare che Apepi, nonostante il suo temperamento bellicoso, le tasse e il disprezzo che mostrava nei confronti degli dei, non era stato un sovrano così cattivo com'era giudicato quand'era in vita. Nel giro di poche settimane, Trok ordinò che si desse inizio ai lavori per ampliare e rinnovare il palazzo di Avaris, nel quale intendeva trasferirsi con la futura sposa, la principessa Mintaka. Gli architetti calcolarono che quei lavori sarebbero costati più di due lakh d'oro. I mormorii aumentarono. Pur consapevole dello scontento che aumentava nel Paese, Trok decise di proclamare la propria elevazione nel consesso degli dei. Entro una settimana sarebbe cominciata la costruzione del suo tempio nel luogo prescelto, a fianco del magnifico tempio di Seueth ad Avaris. Trok era deciso a fare in modo che il suo tempio superasse in splendore quello del Wilbur Smith
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fratello divino, e gli architetti calcolarono che il completamento del tempio avrebbe richiesto come minimo cinquemila operai, cinque anni di lavoro e altri due lakh d'oro. La rivolta scoppiò nel delta, dove una compagnia di soldati, rimasti senza paga per oltre un anno, assassinò gli ufficiali, marciando su Avaris e invitando la popolazione a sollevarsi e unirsi a loro contro il tiranno. Trok e trecento carri andarono loro incontro nei pressi di Manashi e li annientarono al primo assalto. Il Faraone evirò e impalò cinquecento ribelli, arrivando così a creare una macabra foresta che fiancheggiava per un tratto di mezza lega la strada principale intorno al villaggio di Manashi. I capi della rivolta furono legati dietro i carri e trascinati fino ad Avaris. «Così potranno esporre i loro motivi di lagnanza», dichiarò Trok con un sogghigno. Ovviamente nessuno dei prigionieri sopravvisse a quel viaggio: quando arrivarono ad Avaris era difficile persino riconoscere in loro degli esseri umani, dato che lo sfregamento con il terreno accidentato aveva levato loro la pelle e buona parte delle carni. Lungo la strada, per una ventina di leghe, giacevano brandelli di carne e frammenti di osso, su cui si gettarono i cani randagi, gli sciacalli e i corvi. Qualche centinaio di ribelli riuscì a sfuggire al massacro, scomparendo nel deserto. Trok non si preoccupò d'inseguirli oltre i confini orientali, ritenendo che quella meschina questione gli avesse già rubato troppo tempo, costringendolo a rinviare le nozze di alcuni mesi. Tornò quindi ad Avaris, sfiancando tre pariglie di cavalli per l'impazienza. Durante la sua assenza, Mintaka aveva tentato per ben due volte d'inviare un messaggio a Taita, a Tebe. Il primo messaggero era stato uno degli eunuchi del suo harem, un nero gentile che conosceva da quand'era nata. Tra gli eunuchi di entrambi i regni esisteva un legame speciale, che trascendeva le differenze di razza o di nazionalità. Anche negli anni in cui i due regni erano separati, Soth - questo era il suo nome - aveva onorato quel legame speciale con Taita ed era stato suo amico e confidente. Tuttavia le spie di Trok erano onnipresenti e infaticabili. Soth non aveva mai raggiunto Assyut ed era stato riportato ad Avaris moribondo, in un sacco di cuoio. Era morto con la testa immersa in un calderone di acqua bollente e il suo teschio, sbiancato e levigato, con le orbite riempite di lapislazzuli, era stato offerto a Mintaka come dono speciale del Faraone Trok. Wilbur Smith
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Dopo quell'episodio, Mintaka non aveva avuto animo di reclutare un altro messaggero, temendo di condannarlo a una morte terribile. Tuttavia una delle sue ancelle libiche, Thana, ben consapevole di quanto fosse profondo l'amore della sua padrona, si era offerta volontaria per portare il messaggio. Non era troppo graziosa, perché aveva gli occhi strabici e il naso grosso, però era leale, affettuosa e sincera. Dietro suo suggerimento, Mintaka l'aveva venduta a un mercante che, il giorno seguente, doveva partire per Tebe. Lui l'aveva portata con sé, ma, tre giorni dopo, Thana si trovava di nuovo ad Avaris, legata per i polsi e le caviglie alla sponda di un carro delle guardie di confine. Trok si occupò di lei al ritorno da Manashi, condannandola a «morire d'amore»: fu consegnata alla divisione che aveva guidato la carica contro i ribelli. Oltre quattrocento uomini si presero il loro piacere con lei, finché, al tramonto del terzo giorno, Thana morì di emorragia. Mintaka la pianse per tre giorni ininterrottamente. Il matrimonio del Faraone Trok Uruk e della principessa Mintaka Apepi fu celebrato secondo l'antica tradizione hyksos, che aveva origini millenarie e si era consolidata mille leghe a oriente di Avaris, sull'immensa steppa priva di alberi che si stendeva oltre i monti dell'Assiria, il luogo da cui i loro antenati erano partiti alla conquista dell'Egitto. All'alba del giorno delle nozze, un gruppo di duecento parenti che appartenevano al clan della principessa Mintaka fece irruzione nell'appartamento reale dov'era tenuta prigioniera dopo il suo ritorno ad Avaris. Non incontrarono la minima resistenza da parte delle guardie, che si aspettavano l'incursione. Quella folla scomposta portò via Mintaka, cavalcando verso oriente in formazione serrata, con la principessa al centro, lanciando grida di sfida e brandendo mazze e bastoni. Durante i festeggiamenti, infatti, erano proibite le armi da taglio. Quando la comitiva della sposa ebbe raggiunto un certo vantaggio, lo sposo si mise a sua volta alla testa di un gruppo del suo clan, il Leopardo, lanciandosi all'inseguimento. I fuggiaschi non avevano mostrato la minima urgenza, anzi, non appena gli inseguitori li raggiunsero, si voltarono indietro, lanciandosi allegramente nella mischia. Anche se non erano consentite spade e pugnali, non furono poche le fratture e le contusioni. Neppure lo sposo riuscì a cavarsela senza tagli e lividi, ma, alla fine, reclamò la sua preda. Riuscì a catturare Mintaka, passandole un braccio Wilbur Smith
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intorno alla vita e issandola a bordo del suo carro. La resistenza di Mintaka era tutt'altro che fittizia, visto che la giovane riuscì a scavare con le unghie un graffio profondo sulla guancia destra di Trok, mancando di poco l'occhio e sciupando la meravigliosa tunica multicolore dell'uomo col sangue che fece sprizzare. «Ti darà molti figli guerrieri!» gridarono i sostenitori dello sposo, ammirando la ferocia della resistenza di Mintaka. Sorridendo entusiasta per lo spirito bellicoso della sposa, Trok la riportò trionfante nel proprio tempio, dove i sacerdoti del suo nuovo ordine, appena nominati, erano in attesa di compiere i riti conclusivi. Il tempio era ancora all'inizio dei lavori, e comprendeva soltanto lo scavo per le fondamenta e alti cumuli di blocchi di pietra, ma questo non sminuì affatto il piacere degli invitati. Né smorzò l'entusiasmo dello sposo, mentre si preparava alle nozze sotto una tettoia di canne intrecciate e il Gran Sacerdote gli conduceva Mintaka, legandola a lui con una fune. Al culmine della cerimonia, Trok tagliò la gola del suo cavallo da guerra preferito, uno splendido stallone sauro, indicando così che attribuiva maggior valore alla sposa rispetto a tutti i suoi possedimenti più preziosi. L'animale cadde a terra, scalciando e perdendo sangue dalla carotide squarciata, e i presenti lanciarono grida di entusiasmo, issando la coppia a bordo del carro decorato di fiori. Trok tornò a palazzo stringendo saldamente il braccio della sposa, per non correre il rischio che fuggisse una seconda volta. Lungo la strada erano disposti gli uomini dell'esercito, che si affollarono intorno al carro, lanciando amuleti e talismani. Altri offrivano a Trok coppe di vino, che lui tracannava, rovesciandone gran parte sulla tunica, dove si mescolava al sangue perduto dalla ferita al volto. Quando arrivarono a palazzo, Trok era bagnato di sangue e di vino rosso, sudato e impolverato per la corsa e la lotta per recuperare la sposa, esaltato dal vino e dal desiderio. Fendendo la folla, portò Mintaka nel loro nuovo alloggio, e le guardie alla porta respinsero gli invitati con le spade sguainate. Tuttavia gli ospiti non si allontanarono: invece circondarono il palazzo, cantando incoraggiamenti allo sposo e consigli lascivi alla sposa. Una volta in camera da letto, Trok scaraventò Mintaka sulla pelle di pecora bianca che copriva il materasso, usando entrambe le mani per togliersi la cintura della spada, tentando affannosamente di slacciare la Wilbur Smith
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fibbia e imprecando perché non voleva saperne di aprirsi. Lei si rialzò di scatto, come una lepre sorpresa nella sua tana da un furetto, e si precipitò verso la porta che dava sul terrazzo, tentando di aprirla, ma scoprì che era stata sbarrata dall'esterno per ordine di Trok. Disperata, tentò allora di aprire un pannello con le unghie, ma i battenti erano solidi e spessi, tanto che non tremarono neppure di fronte al suo assalto. Alle sue spalle, Trok si era finalmente liberato della cintura, lasciando cadere con gran fracasso il fodero della spada sul pavimento. Poi si avvicinò alla giovane. «Lotta quanto vuoi, bella mia», le disse con la voce impastata dall'ubriachezza. «La mia verga diventa di fuoco, quando cominci a scalciare e gridare.» Le passò un braccio intorno alla vita, allungando l'altra mano per stringere uno dei seni. «Che frutto maturo e succoso, per Seueth!» Serrò con forza le dita, callose per via del lungo maneggio della spada e delle redini del carro. Il dolore trafisse Mintaka come una lancia, spingendola a gridare e dibattersi nel tentativo di graffiargli di nuovo la faccia. Stavolta, però, lui l'afferrò per il polso. «Non farai due volte quel trucchetto», ringhiò, sollevandola di peso e riportandola sul letto. «Scimmione!» gridò lei. «Puzzi come un babbuino, sudicio animale.» «Per le mie orecchie questa è una dolce canzone d'amore, piccola mia. Il mio cuore e la mia verga si gonfiano, quando sento che mi desideri tanto.» La scaraventò di nuovo sul letto, e stavolta la immobilizzò, schiacciandola con un braccio muscoloso ed enorme. Teneva il viso a una spanna dal suo, solleticandole con la barba le guance e alitandole in faccia l'odore rancido del vino. Lei distolse il viso, ma lui rise, infilando un dito nello scollo della veste di seta e strappandola fin sotto la vita. Mise i seni allo scoperto, strizzandoli con tanta violenza da lasciare sulle carni tenere i segni rossi delle dita. Poi le pizzicò i capezzoli, tirandoli finché non assunsero un colore scuro, e le passò la mano destra sul ventre, prima ficcando per gioco un dito nell'incavo dell'ombelico e poi tentando d'infilargliela tra le cosce. Mintaka serrò le gambe, accavallandole. Di colpo lui si raddrizzò, montando a cavalcioni del suo corpo e gravandole addosso con tutto il peso, in modo che non potesse dibattersi. Si strappò di dosso la tunica, restando nudo. Il suo corpo, addestrato alla guerra e alla caccia, era forte e muscoloso: sebbene avesse la vista offuscata dalle lacrime, Mintaka intravide le spalle ampie e i muscoli sporgenti, le membra solide e vigorose come i rami di un cedro del Libano. Wilbur Smith
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Sempre continuando a tenerla inchiodata al letto, Trok si contorse in modo da schiacciarla col ventre, e i peli ispidi del torace le graffiarono i seni. Con terrore crescente, lei sentì la pressione del pene massiccio. Non doveva battersi soltanto per salvare la dignità e l'innocenza, ma per la sua stessa vita. Tentò di mordergli il viso, ma i denti piccoli e aguzzi restavano impigliati nella barba. Gli graffiò la schiena, e sentì lembi di pelle staccarsi sotto le sue unghie, ma lui restava indifferente. Stava tentando di forzarla ad aprire le gambe con un ginocchio, ma lei le teneva accavallate, e tutti i muscoli del suo corpo erano irrigiditi in un tale blocco di terrore e repulsione da renderlo impenetrabile, come una statua di granito della dea. Erano entrambi sudati, ma Trok grondava letteralmente per lo sforzo, al punto che il membro enorme scivolò sul ventre di lei, premendo con insistenza nel punto di congiunzione tra le cosce. D'improvviso si sollevò col torso e le sferrò un colpo violento al viso, come un manrovescio, che le fece stridere i denti, schiacciando le labbra e il naso. Si sentì scorrere in gola il sangue, mentre la vista si oscurava. «Apri le gambe, sgualdrina!» ringhiò lui, ansimando. «Apri quella piccola fessura rovente e lasciami entrare.» Spingeva il bacino in avanti con assalti violenti, e lei sentiva scivolare su di sé quell'appendice ripugnante. Nonostante il dolore e l'oscurità provocati dal colpo, riuscì a negargli l'ingresso, ma sapeva di non poter resistere ancora per molto. Trok era troppo forte e pesante. Hathor, aiutami! pregò, chiudendo gli occhi. Dolce dea, non permettere che accada! Poi lo udì gemere e spalancò gli occhi. Aveva il viso gonfio e paonazzo, congestionato dallo sforzo. Lo sentì inarcare il dorso e lanciare un gemito, con gli occhi aperti, ciechi e iniettati di sangue, la bocca aperta in una smorfia orribile. Mintaka non capiva che cosa stava accadendo. Per qualche istante pensò che la dea avesse esaudito la sua preghiera, trafiggendogli il cuore con un dardo divino; poi sentì un liquido tiepido sprizzarle sul ventre. Tentò di contorcersi per evitarlo, ma Trok era troppo pesante. Quel getto disgustoso cessò. Di colpo lui gemette ancora, accasciandosi sopra di lei. Rimase immobile, e lei non osò muoversi, per non incitarlo a ulteriori sforzi. Rimasero distesi a lungo, finché non cominciarono a echeggiare nella stanza silenziosa le grida lascive della folla in attesa fuori delle mura del Wilbur Smith
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palazzo. Trok si riscosse, guardandola. «Mi hai coperto di vergogna, piccola sgualdrina. Mi hai fatto versare invano il mio seme.» Prima che lei riuscisse a raccapezzarsi, l'afferrò per la nuca, spingendola a faccia in giù sul vello bianco. «Non temere. Se non posso avere il sangue del tuo vasetto di miele, dovrò accontentarmi di quello del tuo naso.» Facendola rotolare di lato, ispezionò con truce soddisfazione la macchia scarlatta lasciata dal suo viso sanguinante sulla candida pelle di pecora. Poi balzò in piedi e si diresse, nudo come un verme, verso le imposte, aprendole con un calcio e fracassandole rumorosamente. Poi scomparve all'esterno, alla luce del sole. Con un lembo del lenzuolo, Mintaka si ripulì da quel liquido vischioso che si stava coagulando sul suo ventre liscio come l'avorio. I segni violacei che le aveva lasciato sui seni e sulle gambe trasformarono la paura in collera furiosa. La cintura della spada era rimasta sul pavimento, dove lui l'aveva lasciata. Senza fare rumore, lei scese dal letto ed estrasse dal fodero la lama di bronzo lucente, poi si avvicinò furtiva alla porta della terrazza, appiattendosi contro lo stipite. Fuori, Trok raccoglieva l'applauso della folla, sventolando la pelle macchiata perché tutti potessero vederla. «Le è piaciuto!» gridò in risposta a qualche commento. «Quando ho finito con lei, era bagnata e aperta come le paludi del delta, e calda come il deserto!» Mintaka serrò la presa sull'elsa della spada pesante, facendosi forza. «Addio, amici miei», gridò Trok. «Torno dentro, per dare un altro morso a quel frutto succoso.» Si udì il risucchio prodotto dai piedi nudi sulle piastrelle mentre l'uomo tornava indietro, poi la sua ombra si proiettò sulla soglia. Mintaka tirò indietro la spada con entrambe le mani, puntandola in avanti, all'altezza del ventre. Quando lui entrò nella stanza, s'irrigidì per sferrargli un colpo con tutte le sue forze, mirando a un punto a metà tra l'ombelico e il folto cespuglio nero da cui pendevano i genitali massicci. Una volta, tanto tempo prima, andando a caccia col padre, lo aveva visto mirare a un mostruoso maschio di leopardo, ignaro della presenza del cacciatore. Il felino era stato messo sull'avviso dal ronzio della corda dell'arco ed era balzato di lato prima che la freccia raggiungesse il Wilbur Smith
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bersaglio. Trok possedeva lo stesso istinto ferino di sopravvivenza, che gli permetteva di fiutare il pericolo e di schivarlo. La spada era ancora a mezz'aria, quando lui scansò la punta acuminata di bronzo. Gli passò a meno di un dito dal ventre peloso, senza incidere la pelle o far scorrere una goccia di sangue. Poi Trok serrò i polsi di Mintaka in una delle mani enormi, stringendo finché lei non sentì scricchiolare le ossa del polso e dovette lasciar cadere l'arma sul pavimento. Trok rideva, mentre trascinava la ragazza attraverso la stanza, ma il suo era un riso agghiacciante. La gettò di nuovo sul letto gualcito e impregnato di sudore. «Ora sei mia moglie», le disse, guardandola dall'alto. «Appartieni a me, come una giumenta o una cagna. Devi imparare a obbedirmi e a rispettarmi.» Lei rimase bocconi, col viso affondato nel lenzuolo sporco, rifiutandosi di guardarlo. Lui raccolse il fodero della spada, rimasto accanto al letto. «Questa lezione di obbedienza è per il tuo bene. Un po' di dolore adesso risparmierà a entrambi molte sofferenze in futuro.» Soppesò il fodero nella mano destra. Era di cuoio levigato, legato da bande d'oro e tempestato di rosette metalliche. Lui lo calò sulla parte posteriore delle gambe nude di Mintaka, sferzando le carni bianche e lasciando un solco nel quale risaltava in rilievo il disegno delle rosette, impresso in rosso sulla pelle. Lei fu colta alla sprovvista e, suo malgrado, gridò forte. Trok rise del suo dolore, sollevando di nuovo il fodero. Lei tentò di rotolare lontano, ma il colpo successivo la raggiunse al braccio destro, che teneva sollevato, e quello seguente alla spalla. Mintaka smise di gridare, tentando di nascondergli l'angoscia che provava, e s'impose di reagire con un sorriso crudele, sputandogli in faccia. Questo lo mandò su tutte le furie, spingendolo a colpire con maggiore crudeltà. La fece cadere dal letto, inseguendola mentre strisciava sul pavimento. La colpì sul dorso e, quando lei si arrotolò a palla per sfuggirgli, la sferzò sulla schiena, sulle spalle e sulle natiche. Mentre la colpiva a ritmo costante, le parlava, punteggiando il suo discorso di esclamazioni ogni volta che sferrava un colpo. «Non alzerai più la mano su di me!... Ha!... La prossima volta che verrò da te... Ha!... ti comporterai da moglie amorevole... Ha!... Oppure ti farò tenere ferma da quattro dei miei uomini... Ha!... mentre ti monto... Ha!... e quando avrò finito... Ha!... ti picchierò ancora... Ha!... come adesso... Ha!» Wilbur Smith
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Lei digrignò i denti per non gridare, mentre i colpi si susseguivano. A un certo punto, però, non ebbe più la forza di reagire. Per fortuna, lui si allontanò, ansimando per la fatica. S'infilò la tunica macchiata e impolverata, si allacciò la cintura alla vita e infilò la spada nel fodero macchiato del sangue di Mintaka, avviandosi a lunghe falcate verso la porta della stanza. Poi si voltò a guardarla. «Ricordati una cosa, moglie: le mie giumente, o riesco a domarle, oppure, per Seueth, muoiono sotto di me.» E uscì. Mintaka alzò lentamente la testa per seguirlo con lo sguardo. Non poteva parlare, ma si riempì la bocca di saliva e sputò verso la porta. Lo sputo finì sulle piastrelle, striato dal sangue che le usciva dalla bocca gonfia. La luna di Iside era già tramontata da tempo quando le croste caddero dalle ferite di Mintaka e i lividi sulla pelle liscia e vellutata sbiadirono, trasformandosi in lievi chiazze di un giallo verdognolo. Per fortuna, o forse deliberatamente, Trok non le aveva spezzato i denti né fratturato le ossa né lasciato cicatrici sul viso. Dopo quella terribile notte di nozze l'aveva lasciata in pace. Trascorreva la maggior parte del suo tempo al sud, impegnato nelle campagne militari e, anche se tornava per brevi periodi ad Avaris, la evitava. Forse era disgustato dal suo aspetto, segnato dalle percosse, oppure si vergognava di non essere riuscito a consumare il matrimonio. Mintaka non si soffermò a riflettere troppo sul motivo di quella lontananza, ma si rallegrò di essere libera per qualche tempo dalle sue attenzioni brutali. Nelle regioni meridionali del regno era scoppiata un'altra violenta sommossa, che Trok aveva domato con crudele ferocia, piombando sugli insorti e massacrando tutti coloro che gli si opponevano, confiscando le loro proprietà e vendendo in schiavitù i loro familiari. Il nobile Naja aveva inviato due compagnie per assisterlo in quelle operazioni contro i ribelli, appoggiando il Faraone suo cugino e ovviamente dividendo con lui il bottino. Mintaka sapeva che Trok era tornato in trionfo ad Avaris già da tre giorni, ma non lo aveva ancora visto. Ne rese grazie alla dea, ma la gratitudine era prematura. Al quarto giorno le giunse una convocazione: doveva presenziare a una seduta straordinaria del consiglio di Stato. Si trattava di una questione così urgente che le fu concessa soltanto un'ora per prepararsi. Il messaggio l'ammoniva che, se avesse deciso d'ignorare la Wilbur Smith
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convocazione, Trok avrebbe mandato le sue guardie del corpo per trascinarla nella sala dell'assemblea. Non aveva alternative. Era la prima volta che Mintaka compariva in pubblico dopo le nozze. Grazie al trucco, applicato con cura dalle ancelle, era bella come sempre quando prese posto sul trono della regina, poco più in basso di quello del Faraone, nella sala del palazzo destinata alle sedute del consiglio e arredata a nuovo con grande sfarzo. Tentò di mantenere un'espressione distaccata, astraendosi dai lavori del consiglio, ma il suo atteggiamento di riserva si dissolse nel riconoscere l'araldo reale che entrò, andando a prostrarsi davanti ai troni gemelli. Allora si protese in avanti con interesse. Trok salutò il messaggero, invitandolo ad alzarsi per riferire al consiglio le notizie che portava. L'uomo obbedì e Mintaka si accorse che era in preda a un'emozione profonda: dovette schiarirsi la gola più volte prima di riuscire a pronunciare qualche parola e, quando alla fine ci riuscì, parlò con voce così tremante che lei, da principio, non riuscì a capire che cosa stava dicendo. Sentiva le parole, ma non riusciva ad accettarle. «Sacra maestà, Faraone Trok Uruk, regina Mintaka Apepi Uruk, nobili membri del consiglio di Stato, cittadini di Avaris, fratelli e compatrioti dell'Egitto riunito, vi porto notizie terribili dal regno del sud. Preferirei dovermi battere da solo contro cento nemici in battaglia, piuttosto che darvi questo annuncio.» Fece una pausa per schiarirsi di nuovo la gola, poi la sua voce si levò, più forte e limpida. «Sono venuto fin qui da Tebe viaggiando a bordo di una nave veloce. Viaggiando giorno e notte, e fermandomi soltanto per cambiare i rematori, ho impiegato dodici giorni per raggiungere Avaris.» Si fermò di nuovo, allargando le braccia in un gesto di disperazione. Riprese: «Il mese scorso, alla vigilia della festa di Hapi, il giovane Faraone Nefer Seti, che tutti abbiamo amato, e nel quale abbiamo riposto tanta fiducia e speranza, è morto in seguito alle gravi ferite ricevute a Dabba, mentre dava la caccia a un leone che razziava il bestiame». Si udì un coro di sospiri di disperazione. Uno dei consiglieri si coprì gli occhi, cominciando a piangere sommessamente. Nel silenzio generale, l'araldo proseguì: «Il reggente dell'Alto Egitto, il nobile Naja, che appartiene per matrimonio alla famiglia reale di Tamose ed è il primo nella linea di successione, è stato innalzato al trono al posto del Faraone defunto. Egli purifica la terra col nome di Kiafan, vive per l'eternità col nome di Naja, incute soggezione a tutto il mondo col nome di Faraone Naja Kiafan». Wilbur Smith
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La sala si riempì di un clamore assordante, che esprimeva insieme il lutto per il Faraone defunto e la gioia per il successore. In mezzo a quel tumulto, Mintaka continuò a fissare il messaggero. Sotto il trucco era diventata pallida come il gesso, e i suoi occhi non avrebbero avuto bisogno del kohl per apparire enormi. Vacillò sullo sgabello, perché il mondo parve oscurarsi intorno a lei. Anche se aveva sentito tramare e complottare la morte di Nefer, si era convinta che non sarebbe mai accaduta. Aveva creduto che, anche senza i suoi ammonimenti, Nefer, con l'aiuto di Taita, sarebbe riuscito in qualche modo a sfuggire alla ragnatela maligna intessuta da Naja e Trok. Il marito la fissava con un sorriso subdolo e trionfante, e lei capì che godeva del suo dolore. Ma non aveva più importanza: Nefer se n'era andato e, con lui, si erano dissolte ogni volontà e ogni ragione per resistere e continuare a vivere. Alzandosi dal trono, uscì dalla sala come una sonnambula. Si aspettava che il marito ordinasse di riportarla indietro, invece non fu così. Nella costernazione e nel lutto generale, pochi ospiti si accorsero della sua uscita, e quelli che la notarono sapevano della sua terribile sofferenza. Ricordavano che un tempo era stata promessa in sposa al Faraone defunto, quindi perdonarono quell'infrazione al decoro e al protocollo. Mintaka rimase segregata nella sua stanza per tre giorni e tre notti, senza mangiare, bevendo soltanto un po' di vino mescolato con acqua. Ordinò a tutti di lasciarla sola, anche alle sue ancelle. Non volle vedere nessuno, neanche il medico che Trok le aveva mandato. Il quarto giorno mandò a chiamare la Gran Sacerdotessa del tempio di Hathor. Rimasero sole per tutta la mattina, e la vecchia, uscendo dal palazzo, si coprì la testa rasata con lo scialle bianco, in segno di lutto. Il giorno dopo la sacerdotessa tornò, in compagnia di due accolite che portavano una grossa cesta di fronde di palma intrecciate. Le due accolite posarono il cesto davanti a Mintaka, poi si coprirono il capo e si ritirarono. La sacerdotessa s'inginocchiò accanto alla ragazza, chiedendole a bassa voce: «Sei certa di voler percorrere la via della dea, figlia mia?» «Non ho più un motivo per vivere», rispose Mintaka con semplicità. Il giorno prima, la sacerdotessa aveva cercato per ore di dissuaderla, e fece un ultimo tentativo. «Sei ancora giovane...» Mintaka tese verso di lei la mano sottile. «Madre, non ho vissuto a lungo, ma, in questo breve tempo, ho sperimentato più dolore di quanto la Wilbur Smith
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maggior parte degli esseri umani conosca in tutta una lunga esistenza.» La sacerdotessa chinò la testa, dicendo: «Preghiamo la dea». Mintaka chiuse gli occhi, mentre lei continuava: «Signora benevola, possente dea del cielo, patrona della musica e dell'amore, tu, che tutto vedi e tutto puoi, ascolta le preghiere delle tue figlie amorevoli». Qualcosa si mosse nella cesta davanti a loro, mentre si udiva un lieve fruscio, simile alla brezza del fiume tra gli steli di papiro. Mintaka avvertì un senso di gelo, e capì che erano le avvisaglie del gelo della morte. Ascoltava la preghiera, ma i suoi pensieri erano con Nefer. Ricordava intensamente le ore trascorse insieme, rivedeva la sua immagine come se fosse ancora vivo, rievocando il suo sorriso e il modo in cui teneva la testa in equilibrio perfetto sul collo forte e dritto. Si domandò quale tappa avesse raggiunto, nel terribile viaggio attraverso il mondo dell'aldilà, e pregò per la sua salvezza. Pregò anche per potersi riunire in fretta a lui. Ti seguirò presto, cuore mio, gli promise. «La tua diletta figlia, Mintaka, moglie del divino Faraone Trok Uruk, ti chiede la grazia che hai promesso a coloro che in questo mondo hanno sofferto troppo. Consentile d'incontrare il tuo messaggero oscuro e di trovare grazie a lui la pace nel tuo seno, possente Hathor.» La sacerdotessa completò la preghiera, restando in attesa. Il passo successivo toccava a Mintaka. Lei aprì gli occhi, osservando la cesta come se la vedesse per la prima volta, poi tese lentamente le mani per sollevare il coperchio. L'interno era scuro, ma dentro s'intuiva un movimento, un lieve snodarsi di spire languide, uno scintillio nero che somigliava a olio versato sull'acqua in un pozzo profondo. La ragazza si protese in avanti per sbirciare all'interno e, a poco a poco, una testa coperta di scaglie si drizzò sotto i suoi occhi. A mano a mano che emergeva alla luce, il cappuccio si allargò, fino a diventare ampio come un ventaglio da donna, decorato da un disegno nero e avorio. Gli occhi erano lucenti come perline di vetro, le labbra sottili apparivano tese in un ghigno sardonico e la lingua nera e sottile saettava, fiutando l'aria e la fanciulla seduta di fronte a lui. Immobili, continuarono a fissarsi, la fanciulla e il cobra, finché i battiti lenti del cuore di Mintaka non presero ad accelerare. Una volta il serpente oscillò all'indietro, quasi per prepararsi a colpire, poi si drizzò di nuovo, delicatamente, come un fiore letale dal lungo stelo. «Come mai non vuole compiere il suo lavoro?» chiese Mintaka, con le Wilbur Smith
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labbra così vicine a quelle del cobra che i due, la donna e l'animale, avrebbero potuto scambiarsi un bacio. Tese la mano, e il serpente volse la testa per osservare le sue dita che si avvicinavano. Mintaka non mostrava la minima paura. Accarezzò delicatamente la parte posteriore del cappuccio del cobra, ma il serpente, invece di attaccarla, si volse per metà, quasi fosse un gatto che offriva la testa alle sue carezze. «Fa' in modo che compia la sua missione», disse Mintaka, pregando la sacerdotessa, ma la vecchia scosse la testa, perplessa. «Non ho mai visto una cosa del genere prima d'ora», sussurrò. «Devi colpire il messaggero con la mano. Questo lo indurrà senz'altro a consegnare il dono della dea.» Mintaka tirò indietro la mano, col palmo aperto e con le dita allargate. Mirò alla testa schiacciata del serpente e stava per colpirlo, quando sussultò, sorpresa, abbassando la mano. Perplessa, si guardò intorno nella camera buia, scrutando gli angoli in ombra, poi fissò la sacerdotessa. «Hai parlato di nuovo?» chiese. «Non ho detto niente.» La ragazza alzò di nuovo la mano, ma, in quel momento, la voce risuonò più vicina e nitida. La riconobbe e si sentì assalire da un brivido di paura superstiziosa. «Taita?» sussurrò, guardandosi intorno. Si aspettava di vederlo in piedi nella sua stanza, ma la camera era vuota, a parte loro due, inginocchiate davanti alla cesta. «Sì!» mormorò poi, quasi in risposta a una domanda o a un ordine. Rimase in ascolto nel silenzio, annuendo due volte, poi ripeté a bassa voce: «Sì! Oh, sì!» La sacerdotessa non udiva nulla, ma capì che era in atto qualche intervento misterioso, e dunque non fu sorpresa quando il cobra scivolò lentamente sul fondo della cesta. Richiuse il coperchio e si alzò. «Perdonami, madre», le disse Mintaka con dolcezza, «ma non percorrerò la via della dea. Ho ancora molto da fare, in questo mondo.» La sacerdotessa raccolse la cesta, replicando: «Possa la dea darti il suo favore e concederti la vita eterna». Poi indietreggiò fino alla porta della stanza, lasciando Mintaka seduta nella penombra. Sembrava intenta ad ascoltare una voce che la vecchia non poteva udire. Taita riportò Nefer da Tebe a Dabba immerso nel sonno profondo dello shepenn rosso. Non appena la nave che li trasportava fu ormeggiata al Wilbur Smith
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molo di pietra ai piedi del palazzo, Taita fece trasportare il giovane a terra su una lettiga, riparata da spesse cortine che lo nascondevano agli occhi del popolo. Sarebbe stato poco saggio che tutti, in città, capissero quanto erano critiche le condizioni del Faraone. A volte, in passato, era accaduto che la morte di un sovrano facesse piombare la città e lo Stato intero nella disperazione, scatenando speculazioni dannose per il commercio, sommosse, saccheggi e il sovvertimento di tutte le usanze e le convenzioni sociali. Quando Nefer fu al sicuro negli appartamenti reali, Taita riuscì a lavorare su di lui in condizioni di tranquillità e d'isolamento. Il suo primo pensiero fu esaminare ancora una volta le terribili lacerazioni che squarciavano la parte anteriore delle gambe e dell'addome del ragazzo, per valutare se ci fosse stato un peggioramento nelle sue condizioni. Il suo timore più grande riguardava l'eventualità di una perforazione degli intestini. Se il loro contenuto si fosse riversato nella cavità dello stomaco, tutte le sue arti mediche sarebbero infatti servite a ben poco. Dopo aver asportato le bende, sondò delicatamente le ferite, annusando gli umori che ne sgorgavano, e, non scoprendo tracce di contaminazione, fu molto sollevato. Cercò di ripulire gli squarci più profondi con una miscela di aceto e spezie orientali, poi li richiuse con una cucitura eseguita con filo di minugia e bendò le ferite con tutta la sua abilità, sfiorandole con l'amuleto d'oro di Lostris e raccomandando il nipote alla dea a ogni giro della fascia di lino. Nei giorni seguenti, ridusse a poco a poco il dosaggio dello shepenn rosso e ne fu ricompensato quando Nefer riprese i sensi e gli sorrise. «Taita, sapevo che eri con me.» Poi si guardò intorno, ancora ottenebrato dalla droga. «Dov'è Mintaka?» Taita gli rivelò che non si trovava lì, e la delusione di Nefer fu quasi palpabile; del resto era troppo debole per mascherarla. Il vecchio cercò di consolarlo, spiegandogli che la separazione era solo temporanea, che ben presto sarebbe stato abbastanza bene da viaggiare verso il nord per visitare Avaris. «Troveremo una buona scusa perché Naja ti consenta di fare questo viaggio», gli assicurò. Per qualche tempo, la convalescenza di Nefer fu incoraggiante. Il giorno seguente era già seduto sul letto e consumava un pasto sostanzioso a base di pane di dhurra e minestra di ceci. Il giorno successivo ancora fece qualche passo, appoggiandosi alle stampelle che Taita aveva intagliato nel Wilbur Smith
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legno per lui, e chiese di mangiare un po' di carne. Per evitare un riscaldamento del sangue, Taita gli proibì di mangiare carni rosse, permettendogli soltanto pesce e pollame. Il terzo giorno Merykara andò a trovare il fratello e rimase molto a lungo con lui, rallegrandolo con le sue risate allegre e il suo chiacchiericcio infantile. Quando Nefer chiese di Heseret e volle sapere come mai non era venuta anche lei, Merykara gli rispose in modo evasivo, invitandolo a giocare un'altra partita di bao. E lui aprì di proposito il castello centrale per lasciarla vincere. Fu nel corso del quarto giorno che a Tebe giunse la terribile notizia della tragedia di Balasfura. I primi rapporti riferivano che Apepi e tutta la sua famiglia, compresa Mintaka, erano periti tra le fiamme. Nefer peggiorò all'istante, ricadendo nella prostrazione. Taita dovette somministrargli un'altra dose di shepenn rosso; poi, nel giro di poche ore, le ferite alla gamba s'infettarono. Nei giorni seguenti continuò a peggiorare, e ben presto fu in punto di morte. Taita restò seduto al suo fianco, osservandolo mentre si dibatteva in preda al delirio e le linee livide della cancrena correvano come fiumi di fuoco sulle gambe fino al ventre. Finalmente giunse dal Basso Egitto la notizia che Mintaka era sopravvissuta alla tragedia che aveva distrutto il resto della famiglia. Quando gli sussurrò all'orecchio quella splendida notizia, Taita ebbe l'impressione che Nefer fosse in grado di capire e reagire. Il giorno dopo era debole, ma lucido, e tentò di convincere il mago che si sentiva abbastanza in forze per compiere il lungo viaggio e stare a fianco di Mintaka, per consolarla del suo lutto. Taita riuscì a dissuaderlo, ma gli promise che, non appena si fosse ripreso, avrebbe sfruttato tutta la sua influenza per convincere il nobile Naja a dargli il permesso di partire. Con quella meta da raggiungere, Nefer si riprese ancora una volta. Il mago lo vide domare le febbri e gli umori maligni nel sangue grazie alla pura forza di volontà. Il nobile Naja tornò dal nord e, poche ore dopo, Heseret andò a trovare Nefer, per la prima volta da quand'era stato aggredito dal leone. Gli portò in dono alcuni dolci, un vasetto di miele selvatico e una splendida tavola per giocare a bao, fatta di agata, con le pedine di avorio intagliato e corallo nero. Fu dolce, straordinariamente gentile e sollecita nei confronti delle sue sofferenze, e si scusò per averlo trascurato. «Il mio diletto consorte, il reggente dell'Alto Egitto, l'illustre nobile Wilbur Smith
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Naja, è stato lontano per tutte queste settimane», spiegò, «e io languivo in attesa del suo ritorno, al punto che non sarei stata di buona compagnia per una persona malata come te. Ho avuto paura che la mia infelicità potesse contagiarti, mio caro Nefer.» Si trattenne un'ora, cantando per lui e raccontandogli pettegolezzi sulla corte, quasi tutti scandalosi. Alla fine si congedò, spiegando: «Mio marito, il reggente dell'Alto Egitto, non gradisce che resti lontana da lui così a lungo. Siamo così innamorati, Nefer. È un uomo meraviglioso, pieno di attenzioni e devoto a te e all'Egitto. Devi imparare a fidarti completamente di lui, come faccio io». Si alzò, e poi, quasi per un ripensamento, aggiunse in tono frivolo: «Sarai sollevato di apprendere che il Faraone Trok Uruk e il mio diletto consorte, il reggente dell'Alto Egitto, hanno convenuto per motivi di Stato di annullare il tuo fidanzamento con quella piccola rozza hyksos, Mintaka. Ero così dispiaciuta per te, quando ho saputo che ti veniva imposto un matrimonio così disdicevole. Mio marito, il reggente dell'Alto Egitto, era contrario fin dall'inizio, come me, del resto». Una volta che Heseret se ne fu andata, Nefer si accasciò sui cuscini, a occhi chiusi, e Taita, che sopraggiunse a visitarlo poco dopo, rimase sconcertato dalla sua ricaduta. Togliendo le bende, scoprì che l'infezione si era rinfocolata, e il pus maleodorante che usciva dalla ferita più profonda era denso e giallo. Quella notte lo vegliò, ricorrendo a tutta la sua abilità e ai suoi poteri per disperdere le ombre del male che si addensavano intorno al giovane Faraone. All'alba, Nefer era in coma. Taita era davvero allarmato dalle sue condizioni, che non si potevano giustificare unicamente con la sofferenza del ragazzo. All'improvviso fu riscosso da un gran trambusto alla porta. Indignato, stava per invocare il silenzio, quando sentì la voce imperiosa del nobile Naja, che ordinava alle guardie di farsi da parte. Il reggente entrò nella camera e, senza neanche salutare il mago, si chinò sulla figura immobile di Nefer, fissandone il volto pallido e tirato. Dopo un lungo istante, si raddrizzò, facendo segno a Taita di seguirlo sul terrazzo. Quando Taita uscì, Naja stava guardando il fiume. Sulla riva opposta, uno squadrone di carri si esercitava in evoluzioni, cambiando formazione al galoppo. Stranamente, dopo la firma del trattato di Hathor, non si facevano che preparativi di guerra. «Desideravi parlarmi, mio signore?» chiese Taita. Naja si girò verso di lui. «Mi hai deluso, vecchio», ribatté con aria cupa, Wilbur Smith
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e l'altro chinò la testa senza rispondere. «Avevo sperato che la mia strada verso il destino che mi è stato predetto dagli dei fosse ormai Ubera da ogni impedimento.» Fissò Taita con durezza. «Eppure si direbbe che, invece di lasciare che quella strada seguisse il suo corso, tu abbia fatto tutto ciò che è in tuo potere per disseminarla di ostacoli.» «È tutta una finzione. Ho dovuto fare mostra di assistere il mio paziente, mentre in realtà curavo i tuoi interessi. Come puoi vedere anche tu, il Faraone è sospeso sull'orlo dell'abisso.» Taita fece un gesto verso la camera del malato. «Senza dubbio puoi percepire le ombre che s'infittiscono intorno a lui. Mio signore, abbiamo quasi raggiunto la meta. Entro pochi giorni la via sarà spianata per te.» Naja non si lasciò convincere. «Sto per esaurire la pazienza», lo ammonì, allontanandosi a lunghe falcate per rientrare e passando attraverso la camera senza degnare di uno sguardo la forma immobile sul letto. Quel giorno, le condizioni di Nefer fluttuarono tra il coma profondo e vari accessi di delirio. Quando apparve chiaro che la gamba lo faceva soffrire, Taita tolse le bende di lino e scoprì che tutta la coscia era enormemente gonfia: i punti che tenevano chiusa la ferita erano tesi e affondavano nelle carni violacee, ardenti di febbre. Il mago sapeva che non poteva azzardarsi a muovere il ragazzo finché la sua vita era appesa a un filo. Tutti i piani che aveva preparato con cura nelle settimane precedenti non potevano essere attuati, a meno che non prendesse una misura drastica. Intervenire ancora sulla ferita mentre Nefer era in quelle condizioni significava rischiare un avvelenamento del sangue che poteva essergli fatale, ma non gli restava altra scelta. Preparò gli strumenti, immergendo tutta la gamba in una soluzione di aceto, poi costrinse Nefer a bere un'altra dose massiccia di shepenn rosso e, mentre aspettava che la droga facesse effetto, pregò Horus e la dea Lostris affinché gli concedessero la loro protezione. Poi afferrò il bisturi e tagliò uno dei punti che tenevano accostati i lembi della ferita. Rimase sorpreso dalla facilità con la quale le carni si aprirono, lasciando sgorgare un fiotto di pus giallo. Usò un cucchiaio d'oro per ripulire la ferita e, quando sentì il metallo colpire un ostacolo resistente in fondo allo squarcio, v'inserì il forcipe d'avorio per afferrare l'oggetto. Alla fine riuscì a liberarlo dalle carni di Nefer, lo portò alla luce per osservarlo, e scoprì che si trattava di una scheggia irregolare dell'artiglio del leone, lunga circa Wilbur Smith
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la metà di un mignolo, che doveva essersi spezzata mentre la bestia colpiva Nefer. Inserì un tubicino d'oro nella ferita per consentire il drenaggio, poi la bendò di nuovo. A sera, la ripresa di Nefer appariva miracolosa. La mattina dopo, il ragazzo era molto debole, ma la febbre era calata. Taita gli somministrò un tonico, posando sulla gamba il talismano di Lostris. A mezzogiorno, mentre sedeva al suo capezzale, raccogliendo le forze per decidersi, sentì raschiare leggermente sulle imposte. Quando le aprì di uno spiraglio, Merykara sgattaiolò nella stanza. Era sconvolta e si vedeva che aveva pianto. Si gettò ai piedi di Taita, stringendogli le gambe. «Loro mi hanno proibito di venire qui», sussurrò, e non ci fu bisogno di spiegare chi fossero «loro». «Per fortuna conosco gli uomini di guardia sul terrazzo, che mi hanno lasciato passare.» «Piano, piccola mia.» Taita le accarezzò i capelli. «Non devi agitarti tanto.» «Taita, stanno per ucciderlo.» «Chi?» «Tutti e due.» Merykara riprese a singhiozzare, balbettando spiegazioni incoerenti. «Pensavano che dormissi, o non capissi di che cosa stavano discutendo. Non hanno mai pronunciato il suo nome, ma ho capito che parlavano di Nefer.» «Che cos'hanno detto?» «Che ti manderanno a chiamare. Non appena lascerai solo Nefer, dicono che non ci vorrà molto... E' così orribile, Taita! Nostra sorella, e quell'uomo disgustoso, quel mostro!» «Quando?» Taita la scrollò leggermente per indurla a dominarsi. «Presto, molto presto», rispose Merykara con voce più salda. «Hanno detto in che modo, principessa?» «Usando Noom, il chirurgo di Babilonia. Naja dice che spingerà un ago sottile attraverso una narice di Nefer, fino al cervello. Non ci saranno né sangue né altri segni.» Taita conosceva bene Noom. In passato si erano scontrati nella biblioteca di Tebe, discutendo sul trattamento più corretto per le fratture. Noom si era allontanato, furioso per la sconfitta subita grazie all'eloquenza e all'esperienza di Taita, e da allora era molto geloso della sua fama e dei suoi poteri di mago: era un rivale, un acerrimo nemico. «Gli dei ti ricompenseranno, Merykara, per aver avuto il coraggio di Wilbur Smith
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venire ad avvertirci. Ma ora devi andare, prima che scoprano che sei stata qui. Se hanno sospetti su di te, ti riserveranno lo stesso trattamento che progettano d'infliggere a Nefer.» Quando lei se ne fu andata, Taita restò seduto per qualche tempo a raccogliere i pensieri, riesaminando i suoi piani. Da solo non poteva farcela, e avrebbe dovuto affidarsi ad altri, ma aveva scelto i migliori e i più fidati. Erano pronti ad agire, e attendevano soltanto una parola da lui. Non poteva più rimandare. Ordinò agli schiavi di portare un po' di acqua calda e lavò con cura Nefer dalla testa ai piedi prima di fasciare di nuovo le ferite, applicando una striscia di pelle d'agnello sullo squarcio nella coscia, che continuava a trasudare umori. Poi ammonì le guardie di non far passare nessuno e sbarrò tutte le entrate alla stanza. Dopo aver pregato a lungo, gettò dell'incenso sul braciere e, quando vide levarsi un fumo azzurrino e aromatico, recitò un antico e potente incantesimo rivolto ad Anubi, dio della morte e dei cimiteri. Soltanto allora si dedicò a preparare l'elisir di Anubi. Prese una lampada a olio mai usata in precedenza e scaldò la miscela sul braciere finché non raggiunse la stessa temperatura del sangue, poi la portò verso il letto sul quale Nefer dormiva tranquillo. Gli voltò la testa di lato, con delicatezza, e applicò il beccuccio della lampada all'orecchio. Versò l'elisir nell'orecchio, facendo cadere a una a una le gocce viscide e pesanti e asciugando con cura l'eccesso, sempre attento a evitare che toccassero la pelle. Quindi infilò nell'orecchio di Nefer una pallottolina di lana, spingendola in fondo al passaggio sinché non fu sicuro che nessuno potesse scoprirla se non con un esame molto attento. Vuotò quello che restava dell'elisir sul braciere, dove avvampò, sollevando uno sbuffo di vapore acre, poi riempì la lampada di olio e accese lo stoppino, sistemandola con le altre in un angolo della stanza. Tornato verso il letto, si accovacciò vicino al capezzale per osservare il petto di Nefer che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro. Ogni inspirazione era più lenta della precedente, e gli intervalli divennero sempre più lunghi, finché il respiro non cessò del tutto. Taita posò due dita sulla gola di Nefer, sotto l'orecchio, per sentire il pulsare lento e deliberato della forza vitale dentro di lui. A poco a poco anche quello svanì, Wilbur Smith
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lasciando dietro di sé appena un fremito lieve, simile al frullo dell'ala di un insetto minuscolo, che soltanto la sua abilità ed esperienza erano in grado di scoprire. Con le dita della mano sinistra confrontò i battiti nel proprio collo con quelli di Nefer. Alla fine giunse a contare trecento dei suoi battiti contro uno soltanto, e quasi impercettibile, nel collo di Nefer. Allora chiuse delicatamente gli occhi del ragazzo, posandogli un amuleto sulle palpebre come si usava fare nella preparazione dei cadaveri. Legò una striscia di lino sopra di essi e un'altra sotto la mascella, per impedire che la bocca si aprisse. Lavorava in fretta, perché ogni minuto in cui Nefer restava sotto l'influsso dell'elisir rappresentava un rischio. E infine si diresse alla porta, togliendo la sbarra che la sprangava. «Mandate a chiamare il reggente dell'Alto Egitto. Deve venire immediatamente per apprendere una terribile notizia che riguarda il Faraone.» Il nobile Naja arrivò con sorprendente alacrità, accompagnato dalla principessa Heseret e seguito da una folla di persone, tra le quali il nobile Asmor, il medico assiro Noom e gran parte dei membri del consiglio. Naja ordinò agli altri di attendere nel corridoio fuori dell'alloggio reale, mentre Heseret e lui entravano nella stanza, dove Taita si alzò per accoglierli. Heseret piangeva ostentatamente, coprendosi gli occhi con uno scialle di lino ricamato. Naja guardò il corpo bendato che giaceva rigido sul letto, poi fissò Taita con uno sguardo interrogativo. Il vecchio annuì di rimando, e Naja mascherò la scintilla di trionfo negli occhi, inginocchiandosi vicino al letto. Quando posò la mano sul petto di Nefer, sentì che il calore stava defluendo lentamente, rimpiazzato da un gelo che si estendeva sempre più, e intonò una preghiera a Horus, divino patrono del Faraone defunto. Rialzandosi, strinse il braccio di Taita in una presa tenace. «Consolati, mago, hai fatto tutto quello che potevamo chiederti. Non ti mancheranno le ricompense.» Batté le mani e, quando le guardie si affrettarono a entrare, ordinò: «Convocate i membri del consiglio». Entrarono nella stanza, sfilando in processione e disponendosi su tre file intorno al letto. «Che si faccia avanti il buon Noom», ordinò Naja. «Desidero che confermi l'annuncio della morte del Faraone dato dal mago.» Le file di dignitari si aprirono per consentire al medico assiro di Wilbur Smith
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avvicinarsi al letto. I capelli lunghi, arricciati con le pinze roventi, gli scendevano sulle spalle, e anche la barba era arricciata secondo la moda babilonese. La sua veste, ricamata con simboli di strani dei e disegni magici, era tanto lunga da sfiorare il pavimento. S'inginocchiò vicino al capezzale, cominciando a esaminare il corpo. Annusò le labbra di Nefer con l'enorme naso a becco, dalle cui narici sporgevano ciuffi di peli neri. Poi accostò l'orecchio al petto del Faraone, auscultandolo per un tempo pari a cento battiti del cuore ansioso di Taita, che aveva riposto molta fiducia nell'inettitudine di quel medico. Noom prese quindi un lungo spillo d'argento dall'orlo della veste, aprendo la mano inerte di Nefer e conficcandone profondamente la punta sotto l'unghia, in attesa di una reazione muscolare o del formarsi di una goccia di sangue. Infine si rialzò lentamente, e a Taita parve di scorgere una traccia di profonda delusione nel labbro arricciato e nell'espressione lugubre del medico, quando scosse la testa. Indubbiamente gli avevano promesso ricompense enormi perché usasse quello spillo d'argento in tutt'altro modo, pensò Taita. «Il Faraone è morto», annunciò Noom, e tutti coloro che circondavano il letto fecero il gesto di scongiuro contro il malocchio e l'ira degli dei. Il nobile Naja rovesciò la testa all'indietro per dare il via ai lamenti funebri, e Heseret, in piedi alle sue spalle, riprese quel grido con la sua bella voce sonora. Taita dovette mascherare l'impazienza, mentre aspettava che tutti sfilassero vicino al letto di morte del Faraone prima di lasciare la camera. Quando rimasero soltanto Naja e Heseret, Noom e i nomarchi dell'Alto Egitto, si fece di nuovo avanti. «Nobile Naja, ti chiedo una grazia. Tu sai che sono stato il tutore e il servo del Faraone Nefer Seti fin dalla sua nascita. Gli devo rispetto e obbedienza anche nella morte. Ti chiedo di concedermi un favore. Vuoi consentirmi di trasportare personalmente il suo corpo nella Sala del Cordoglio e compiere l'incisione necessaria per rimuovere il cuore e le viscere? Lo considero il più grande onore che tu possa concedermi.» Il nobile Naja rifletté per qualche istante prima di annuire. «Ti sei guadagnato questo onore. Ti affido il compito di trasportare il sacro corpo del Faraone nel tempio funerario e di dare inizio al processo d'imbalsamazione praticando l'incisione.» Wilbur Smith
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Hilto, che era in attesa nel corpo di guardia, alle porte del palazzo, accorse subito alla convocazione di Taita, portando con sé lo sciamano nubiano, Bay, e quattro dei suoi uomini più fidati. Uno di loro era Meren, amico e compagno d'infanzia di Nefer, che ormai era diventato un bel giovane, alfiere delle guardie, alto di statura e con lo sguardo limpido. Taita aveva richiesto lui in particolare per affidargli quel compito. Portavano a braccia la lunga cesta nella quale gli imbalsamatori erano soliti trasportare i cadaveri fino al tempio funebre. La cesta vuota appariva più pesante di quanto ci si potesse aspettare. Taita li introdusse nella camera ardente, bisbigliando a Hilto: «Presto, adesso! Ogni secondo è prezioso». Aveva già avvolto Nefer in un lungo lenzuolo bianco, col volto coperto da una piega del telo di lino. I portatori deposero la cesta vicino al letto e, con gesti pieni di reverenza, vi trasferirono Nefer. Taita infilò alcuni cuscini intorno al corpo per proteggerlo durante il viaggio, poi abbassò il coperchio e annuì. «Al tempio», ordinò. «Tutto è pronto.» Affidò la sua borsa a Meren, percorrendo in fretta insieme con lui i corridoi e i cortili del palazzo, seguito da un coro di gemiti e lamenti. Le guardie abbassarono la punta delle armi, inginocchiandosi al passaggio del Faraone defunto. Le donne si coprirono il volto, lanciando strida lugubri. Tutte le lampade erano state spente e i fuochi in cucina erano stati coperti, in modo che, dai comignoli, non si levasse neanche un filo di fumo. Nel cortile d'ingresso era già in attesa una squadra di carri di Hilto, coi cavalli aggiogati. I portatori sistemarono la lunga cassa a bordo del carro di testa, fissandola con cinghie di cuoio. Meren sistemò sul fondo la borsa di cuoio con gli strumenti di Taita e il vecchio salì, prendendo in mano le redini. I corni d'ariete intonarono un inno funebre, e la colonna uscì dalle porte del palazzo a passo d'uomo. La notizia della morte del Faraone, che si era sparsa nella città come un'epidemia, aveva spinto i cittadini ad affollarsi intorno alle porte, piangendo e ululando al passaggio della colonna. La folla era schierata ai lati della via che portava al fiume. Le donne, lanciando grida lugubri, gettavano sulla cesta i sacri fiori di loto. Taita incitò i cavalli, spronandoli prima al trotto, poi al piccolo galoppo, attanagliato dall'ansia di far arrivare al più presto la cesta nel santuario. Il tempio del padre di Nefer non era stato ancora demolito, anche se il Wilbur Smith
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Faraone Tamose era stato già trasportato da alcuni mesi nella sua tomba, tra le colline desolate a occidente della città. Per Nefer non ne era stato ancora costruito uno, perché era così giovane che le sue aspettative di vita erano lunghissime. Quella fine prematura non lasciava altre possibilità che usare l'edificio costruito per il padre. Le alte mura e il portico del tempio di granito rosa sorgevano su una bassa altura che sovrastava le acque verdi del fiume. Convocati in tutta fretta, i sacerdoti, con la testa rasata di fresco e unta di olio, erano già in attesa di accogliere la colonna di carri. I tamburi e i sistri scandivano un ritmo lento, mentre Taita imboccava l'ampio viale in salita, fermando il carro ai piedi della scala che saliva verso la Sala del Cordoglio. Hilto e i suoi guerrieri sollevarono la cesta, salendo la scala con quel fardello in equilibrio sulle spalle, e i sacerdoti si accodarono, intonando un canto funebre. Di fronte ai battenti di legno della porta della sala, i portatori si fermarono e Taita si voltò a guardare i sacerdoti. «In nome della grazia e dell'autorità del reggente dell'Egitto, io, Taita, sono stato incaricato di prelevare le viscere del Faraone.» Fissò il Gran Sacerdote con uno sguardo ipnotico. «Tutti gli altri dovranno attendere mentre io adempirò a questo compito sacro.» Tra i sacerdoti di Anubi si sparse un brusio costernato, poiché si trattava di un fatto contrario alla tradizione e alla loro autorità, ma Taita sostenne con fermezza lo sguardo del Gran Sacerdote, alzando lentamente la mano destra, nella quale stringeva il talismano di Lostris. Il sacerdote conosceva, grazie alla sua temibile reputazione, il potere di quell'oggetto. «Sia fatto come il reggente dell'Egitto ha decretato», dichiarò, arrendendosi. «Noi pregheremo all'esterno, mentre il mago compirà il suo dovere.» Taita condusse Hilto e i portatori oltre la soglia, e gli uomini deposero solennemente la cesta sul pavimento accanto alla lastra di diorite nera, al centro della Sala del Cordoglio. Il mago lanciò un'occhiata a Hilto, e l'anziano comandante dai capelli brizzolati si diresse verso la porta con grande dignità, chiudendola in faccia ai sacerdoti riuniti. Poi si affrettò a tornare da Taita. Insieme aprirono la cesta e sollevarono il corpo di Nefer, avvolto nel lenzuolo, deponendolo sulla lastra di pietra nera. Il mago scostò il lembo di tessuto che copriva il volto di Nefer, pallido e bellissimo come una statua d'avorio del dio Horus da giovane. Gli girò delicatamente il capo di lato, rivolgendo un cenno a Bay, che gli posò vicino la borsa con gli strumenti e l'aprì. Taita scelse il forcipe d'avorio, Wilbur Smith
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inserendone con precauzione le punte nell'orecchio di Nefer per estrarre la pallottolina di lana. Poi si riempì la bocca col liquido color rubino preso da un'ampolla di vetro e, mediante un tubicino d'oro, lo versò nell'orecchio di Nefer, per liberare il timpano dai residui dell'elisir di Anubi. Quando guardò in fondo al passaggio, vide, con sollievo, che non c'era nessuna infiammazione. Subito dopo, introdusse nell'orecchio un linimento, provvedendo a richiuderlo con un altro tampone di lana. Intanto Bay aveva preso l'antidoto all'elisir, contenuto in un'altra fiala. Quando tolse il tappo, nell'aria si diffuse un odore acuto di canfora e di zolfo. Hilto li aiutò a mettere seduto Nefer, mentre Taita gli faceva bere tutto il contenuto della fiala. Meren e gli altri erano rimasti a guardare, senza capire. D'un tratto Nefer fu scosso da un colpo di tosse violento e loro, assaliti da un terrore superstizioso, balzarono all'indietro, allontanandosi dalla lastra e facendo segni di scongiuro. Il mago massaggiò il petto nudo di Nefer, che tossì di nuovo, vomitando un po' di bile gialla. Mentre Taita continuava a lavorare, tutto assorto nel compito di rianimare il giovane, Hilto ordinò ai suoi uomini d'inginocchiarsi e pronunciare un giuramento sacro: avrebbero dovuto mantenere il più assoluto segreto su tutto quello che stavano vedendo. Pallidi e scossi, i soldati giurarono di non rivelare nulla, a costo della vita. Taita accostò l'orecchio al petto di Nefer, auscultandolo per qualche minuto prima di annuire. Poi riprese a massaggiarlo e si fermò di nuovo ad auscultare. Fece un segno a Bay, che prese dalla borsa una treccia di erbe secche, accostandone l'estremità a una delle lampade del tempio prima di metterla sotto il naso di Nefer. Il ragazzo starnutì e tentò di voltare la testa. Finalmente soddisfatto, Taita lo riavvolse nel sudario di lino, facendo un altro segnale a Bay e Hilto. In tre, si diressero verso la cesta, e gli altri guardarono a bocca aperta Taita quando egli sollevò il doppio fondo ben celato, portando allo scoperto un cadavere disposto nello scomparto sottostante. Anche quel corpo era avvolto in un sudario di lino bianco. «Avanti!» ordinò Hilto. «Tiratelo fuori!» Sotto gli occhi acuti di Taita e seguendo le severe istruzioni di Hilto, gli uomini scambiarono i due corpi, deponendo Nefer nello scomparto nascosto in fondo alla cesta, ma senza chiudere il doppio fondo. Bay si accovacciò vicino alla cesta per tenere d'occhio Nefer e controllare le sue Wilbur Smith
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condizioni, mentre gli altri depositavano sulla lastra di diorite il corpo dello sconosciuto. Taita scostò il sudario, rivelando il corpo di un giovane che aveva la stessa età e la medesima costituzione fisica di Nefer, oltre agli stessi capelli scuri e folti. Il compito di procurarsi il cadavere era toccato a Hilto; del resto, nelle condizioni in cui versava il Paese in quel periodo, non era stato troppo difficile. L'epidemia imperversava ancora nelle regioni più povere ai confini del nomo di Tebe e, ogni sera, si raccoglievano nelle strade e nei vicoli della città i corpi delle vittime di omicidi o banditi. Hilto aveva preso in esame tutte quelle possibili fonti, ma alla fine aveva trovato il sostituto del giovane Faraone in circostanze così ideali che era impossibile considerarle una pura coincidenza. I responsabili della sicurezza cittadina avevano colto in flagrante quel ragazzo nell'atto di tagliare la borsa di uno dei più influenti mercanti di grano di Tebe, e i magistrati non avevano avuto esitazioni a condannarlo a morte per strangolamento. Il ragazzo condannato era tanto simile a Nefer per corporatura e colorito che lo si sarebbe potuto scambiare per suo fratello; per giunta era sano e robusto, a differenza delle vittime dell'inedia o dell'epidemia. Hilto aveva parlato col comandante delle guardie cittadine che era stato incaricato dell'esecuzione e, durante quel colloquio cordiale, tre anelli d'oro avevano trovato la via della borsa di quel brav'uomo. Era stato convenuto che lo strangolamento avrebbe subito un rinvio fino a che Hilto non avesse dato l'ordine di eseguirlo, e sarebbe stato compiuto infliggendo alla vittima il minimo dei danni, compatibilmente con l'abilità del carnefice. Il prigioniero era stato giustiziato quella mattina, e infatti il suo corpo non era ancora freddo. I canopi erano disposti nel piccolo santuario in fondo alla sala. Taita ordinò a Meren di prenderli e di aprirli, preparandoli a ricevere il contenuto. Nel frattempo, Taita rovesciò il corpo di lato, praticando una profonda incisione lungo il lato sinistro. Non c'era tempo per le finezze, così infilò la mano nell'apertura per estrarne le viscere, poi, lavorando con entrambe le mani, affondò il bisturi all'interno del cadavere. Per prima cosa incise il diaframma per raggiungere la cavità toracica, poi insinuò una mano oltre i polmoni, il fegato e la milza, per recidere la trachea al di sopra del punto di congiunzione coi polmoni. Infine girò il corpo, mettendolo in posizione prona, e ordinando a Meren di divaricare le natiche, mentre lui, con pochi colpi sicuri di bisturi, liberava i muscoli Wilbur Smith
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dello sfintere anale. Ormai tutto il contenuto del torace e dell'addome era privo di legamenti, e Taita poté rovesciarlo in una sola volta sulla lastra di diorite. Meren impallidì, vacillando e portandosi una mano alla bocca. «Non sul pavimento! Nel catino!» ordinò brusco Taita. Meren aveva combattuto contro i ribelli del nord agli ordini del Faraone Trok, aveva ucciso ed era rimasto impassibile di fronte al carnaio del campo di battaglia, eppure corse come un lampo verso il catino di pietra nell'angolo, vomitando rumorosamente. Con le braccia insanguinate fino ai gomiti, Taita cominciò a separare il fegato, i polmoni, lo stomaco e l'intestino. Fatto questo, portò l'intestino e lo stomaco verso il catino nel quale Meren aveva vomitato, vi fece scorrere sopra dell'acqua e li depositò nelle rispettive giare. Poi riempì ogni giara coi sali di natron e ne sigillò il coperchio, prima di lavarsi le mani e le braccia nei bacili di bronzo che erano stati riempiti d'acqua a quello scopo. Lanciò un'occhiata interrogativa a Bay, che annuì con la testa rasata e scarificata, poi, rassicurato sulle condizioni di Nefer, si dedicò a richiudere l'incisione addominale, che ricucì, lavorando con fretta controllata. Quindi bendò la testa in modo da nascondere del tutto i lineamenti del volto. Fatto questo, Hilto e lui trasferirono il corpo nella grande vasca piena di sali di natron, calandolo nella miscela fortemente alcalina e lasciando scoperta soltanto la testa bendata. Il cadavere doveva restare immerso, con la testa bendata, per sessanta giorni, alla fine dei quali i sacerdoti avrebbero tolto le bende e scoperto la sostituzione. Ma a quel punto Taita e Nefer sarebbero stati già lontani. Ci volle ancora qualche tempo per sciacquare la lastra coi secchi di cuoio pieni d'acqua e riporre gli strumenti prima di allontanarsi. Il mago s'inginocchiò vicino alla cesta nella quale riposava Nefer, posandogli una mano sul torace nudo per sentire il calore della pelle e controllare la respirazione, che era lenta e regolare. Sollevando una palpebra, osservò la reazione della pupilla alla luce, poi, soddisfatto, si alzò, facendo segno a Hilto e Bay di chiudere il doppio fondo. Una volta fatto questo, stavano per rimettere il coperchio sulla cesta, quando Taita li fermò, ordinando: «Lasciatela aperta. I sacerdoti devono vedere che è vuota». I portatori sollevarono la cesta tenendola per le maniglie, e Taita li precedette, dirigendosi verso la porta. Hilto aprì i battenti e i sacerdoti riuniti allungarono il collo per sbirciare; ma degnarono appena di un'occhiata la cesta vuota che veniva condotta fuori, precipitandosi invece Wilbur Smith
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nella sala, con fretta quasi indecente, neanche volessero riaffermare quelle loro prerogative che Taita aveva usurpato. Tra l'indifferenza della folla che si era riunita all'esterno del tempio, gli uomini di Taita caricarono la cesta sul carro di testa, tornando in città nella stessa formazione di prima. Quando entrarono dalla porta principale, trovarono semideserte le stradine della città. Il popolo era affluito verso il tempio funerario, a pregare per il giovane Faraone, oppure si era affrettato a raggiungere il palazzo in attesa dell'annuncio del successore, anche se non c'erano dubbi su chi sarebbe stato il prossimo Faraone dell'Alto Egitto. Hilto ricondusse il carro nelle caserme della guardia, presso la porta orientale, e, attraverso un ingresso sul retro, la cesta fu trasportata nel suo alloggio privato, dove tutto era pronto per accogliere Nefer. Lo estrassero dallo scomparto sul fondo e Taita, con l'assistenza di Bay, si rimise al lavoro per riportarlo alla piena coscienza. Poche ore dopo, stava già abbastanza bene da mangiare un po' di pane di dhurra e bere qualche goccia di latte di giumenta caldo, misto a miele. Finalmente Taita giudicò che fosse sicuro lasciare per qualche tempo il ragazzo alle cure di Bay, e si avviò per le vie strette e deserte. D'un tratto udì il fragore di un coro esultante e, giunto nei dintorni del palazzo, si ritrovò circondato da una folla di cittadini che festeggiavano l'ascesa al trono del nuovo Faraone. «Vita eterna a sua maestà, il divino Faraone Naja Kiafan!» urlavano con fervore patriottico, passandosi di mano in mano la brocca del vino. La folla era così fitta che Taita fu costretto a lasciare il carro a Meren per proseguire a piedi. All'ingresso del palazzo le guardie lo riconobbero e usarono l'estremità delle lance per aprirgli un varco tra la calca. Una volta entrato, il mago si affrettò a raggiungere il salone principale, dove trovò un'altra folla di personaggi ossequiosi. Tutti gli ufficiali, i cortigiani e i dignitari di Stato erano in attesa di prestare giuramento di lealtà e fedeltà al nuovo Faraone. Taita dovette ricorrere al suo sguardo inquietante per indurre quella massa compatta a fargli largo, arrivando così davanti al gabinetto privato del Faraone Naja Kiafan, in cui si trovavano il neoeletto sovrano e la regina. L'attesa di Taita fu breve: poco dopo fu ammesso alla presenza dei sovrani. Scoprì sbigottito che Naja portava già sulla testa la corona doppia e teneva incrociati sul petto il flagello e lo scettro a uncino. La regina Wilbur Smith
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Heseret, al suo fianco, sembrava sbocciata come una rosa del deserto alla carezza della pioggia. Era più bella di quanto Taita l'avesse mai vista, pallida e serena sotto il trucco, con gli occhi resi enormi dal kohl applicato con abilità. Vedendo entrare Taita, Naja congedò tutti i presenti, cosicché rimasero soltanto in tre. Questo, di per sé, era già un segno di grande favore, ma Naja depose addirittura il flagello e lo scettro per andare ad abbracciarlo. «Non avrei mai dovuto dubitare di te, mago», gli disse con voce ancora più sonora e autorevole di prima. «Ti sei guadagnato la mia gratitudine.» Si sfilò dalla mano destra uno splendido anello d'oro con rubini, infilandolo all'indice della mano destra di Taita. «Questo non è che un piccolo segno del mio favore.» Il mago si domandò come mai gli avesse messo tra le mani un talismano così potente: soltanto una ciocca dei suoi capelli o i ritagli delle sue unghie avrebbero costituito un pegno più efficace. Heseret si fece avanti per baciarlo. «Carissimo Taita, tu sei sempre stato fedele alla mia famiglia. Avrai oro, terre e un'influenza maggiore di quanto tu abbia mai desiderato.» Dopo tanti anni, mi conosce davvero poco, rifletté amaramente il mago. «La tua generosità è superata soltanto dalla tua bellezza», le rispose, mentre lei si lasciava sfuggire una risatina sciocca. Poi Taita tornò a rivolgersi a Naja. «Ho fatto ciò che gli dei mi chiedevano, maestà, però mi è costato molto. Non è stata un'impresa facile, né di poco conto, andare contro il mio senso del dovere e i dettami del mio cuore. Tu sai che amavo Nefer. Ora devo a te lo stesso dovere e affetto, ma ho bisogno di piangere per qualche tempo Nefer e rappacificarmi con la sua ombra.» «Sarebbe davvero strano se non provassi questi sentimenti per il Faraone defunto», ammise Naja. «Che cosa desideri da me, mago? Non devi dire che una parola.» «Maestà, ti chiedo il permesso di ritirarmi nel deserto per restare qualche tempo in solitudine.» «Quanto tempo?» chiese Naja. Taita comprese che era allarmato al pensiero di perdere il segreto della vita eterna che credeva davvero fosse nelle sue mani. «Non troppo, maestà», gli assicurò. Naja rifletté, perché non era uomo da prendere decisioni affrettate. Alla fine sospirò, dirigendosi verso il tavolo basso ingombro di fogli di papiro. Scrisse in fretta un salvacondotto, sigillandolo poi col cartiglio imperiale: Wilbur Smith
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era evidente che aveva fatto incidere da tempo il sigillo, in vista della successione. Mentre attendeva che l'inchiostro si asciugasse, disse a Taita: «Puoi restare lontano fino all'inizio della prossima inondazione del Nilo, ma poi devi tornare da me. Questo salvacondotto ti consentirà di viaggiare in lungo e in largo, procurandoti tutti i viveri e l'equipaggiamento di cui avrai bisogno nei magazzini reali di tutto il mio regno». Taita si prosternò ai suoi piedi in segno di gratitudine, ma Naja lo sollevò, con un altro atto straordinario di generosità. «Va' pure, mago, però torna da noi nel giorno fissato per ricevere le ricompense che hai ampiamente meritato.» Stringendo in pugno il rotolo di papiro, Taita arretrò verso la porta, rivolgendo all'indirizzo del sovrano ampi segni benauguranti. Partirono da Tebe nelle prime ore del giorno seguente, quando la città era ancora addormentata e persino le guardie della porta orientale sbadigliavano, con le palpebre appesantite dal sonno. Nefer era steso sul retro di un carro per le merci, trainato da un equipaggio di quattro cavalli. Le bestie da soma erano state scelte da Hilto con cura estrema, perché erano forti e sane, ma senza avere nulla di eccezionale che potesse suscitare invidie o commenti. Il carro trasportava le provviste essenziali e l'equipaggiamento di cui potevano avere bisogno una volta lasciata la valle del fiume. Hilto era travestito da contadino facoltoso, Meren si faceva passare per suo figlio e Bay per uno schiavo. Nefer era disteso sul fondo del carro sopra un pagliericcio, riparato da uno schermo di cuoio conciato. Ormai era perfettamente lucido e in grado di capire tutto quello che Taita doveva dirgli. Nonostante il salvacondotto regale, il capo delle guardie fu scrupoloso. Non riconoscendo Taita sotto il cappuccio, salì sul retro del carro per ispezionarne il contenuto, ma, quando scostò lo schermo di cuoio e Nefer lo guardò col volto pallido e scavato, costellato dalle inconfondibili eruzioni scarlatte dell'epidemia, imitate alla perfezione dal mago, si lasciò sfuggire un'esclamazione inorridita e balzò giù dal carro, ripetendo con tale frenesia i gesti di scongiuro che la lampada gli cadde di mano, infrangendosi ai suoi piedi. «Vattene!» gridò furioso a Hilto, che guidava il carro. «Porta via dalla città questo sudicio impestato.» Nei giorni di viaggio necessari per attraversare la pianura in riva al fiume e raggiungere le colline che segnavano il confine tra le terre Wilbur Smith
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coltivate e il deserto, vennero fermati altre due volte da pattuglie militari, ma ogni volta il rotolo del Faraone e la vista del malato consentirono loro di riprendere il viaggio senza ulteriori ritardi. Dall'atteggiamento delle pattuglie appariva evidente che a Tebe nessuno aveva ancora scoperto lo scambio di cadaveri, e quindi non era stato lanciato l'allarme. Taita si sentì comunque sollevato quando salirono sulle colline per raggiungere il deserto e seguire l'antica strada carovaniera che procedeva verso il mar Rosso. Ormai Nefer poteva alzarsi dal suo giaciglio e, per brevi tratti, procedere a fianco del carro, sia pure zoppicando. Da principio era chiaro che, nonostante le sue smentite, la gamba lo faceva soffrire, ma ben presto fu in grado di camminare con maggiore facilità e più a lungo. Presso l'antica città in rovina di Gallala si fermarono a riposare tre giorni. Riempirono d'acqua gli otri di cuoio, attingendo alla povera sorgente salmastra, e lasciarono ai cavalli il tempo di riprendersi dalle fatiche della strada sassosa e impervia. Bay e Taita controllarono i garretti e gli zoccoli degli animali e, non appena videro che erano abbastanza in forze per riprendere il viaggio, deviarono dalla strada nota. Approfittando della frescura notturna, imboccarono il sentiero noto soltanto a Taita per raggiungere Gebel Nagara. Bay e Hilto rimasero in retroguardia, cancellando ogni traccia del loro passaggio. Raggiunsero la caverna nel cuore di una notte stellata. Nella minuscola pozza che trasudava dal sottosuolo non c'era acqua sufficiente per dissetare tanti uomini e cavalli, quindi, una volta scaricato il carro, Hilto e Bay tornarono indietro, lasciando soltanto Meren al servizio di Taita e Nefer. Hilto si era congedato dall'esercito col pretesto della cattiva salute, quindi era libero di tornare a ogni plenilunio, in compagnia di Bay, per portare provviste, medicine e notizie da Tebe. Il primo mese a Gebel Nagara trascorse in fretta. Nell'aria pura e asciutta del deserto le ferite di Nefer si rimarginarono senza altri problemi, e ben presto il giovane fu in grado di avventurarsi zoppicando nel deserto per andare a caccia con Meren. Stanavano le lepri del deserto, abbattendole coi bastoncini da lancio, oppure Taita si sedeva sul dirupo sopra la sorgente, evocando un incantesimo per nascondere i cacciatori e attirare branchi di gazzelle alla portata delle loro frecce. Alla fine del mese, Hilto ritornò da Tebe in compagnia di Bay. Portarono la notizia che il sotterfugio di Taita non era stato ancora Wilbur Smith
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scoperto e il Faraone Naja Kiafan, insieme con tutto il popolo, era tuttora convinto che il cadavere di Nefer fosse a bagno nel natron e chiuso nella sala del tempio. Portarono anche la notizia delle sommosse nel Basso Egitto e della terribile rappresaglia del Faraone Trok a Manashi. L'irrequietezza serpeggiava anche nell'Alto Egitto, dove Naja, come Trok, aveva aumentato le tasse e ordinato un ulteriore rafforzamento dell'esercito. «Il popolo è furioso per questo aumento delle truppe proprio adesso che nel Paese regna la pace», riferì Hilto. «Sono convinto che ben presto l'insurrezione armata si estenderà anche all'Alto Egitto, dove Naja l'accoglierà con clemenza pari a quella di Trok. Coloro che hanno plaudito all'ascesa al trono di questi due Faraoni avranno presto di che pentirsi.» «Quali altre novità ci porti dal Basso Egitto?» chiese Nefer con ansia. Hilto si lanciò in un lungo rapporto a base di notizie commerciali, descrivendo la visita del messo speciale degli assiri alla corte del Faraone Trok. Nefer lo ascoltò sino in fondo, poi domandò, spazientito: «Che notizie ci sono della principessa Mintaka?» Hilto parve perplesso. «Nessuna, che io sappia. Credo che si trovi ancora ad Avaris, ma non lo so con certezza.» Nell'ultima tappa del viaggio, Hilto aveva avvistato le tracce di un grande branco di orici, e chiese a Taita il permesso di seguirli per cacciarne qualcuno. La carne secca delle loro provviste stava per finire, quindi Taita accettò senz'altro, aggiungendo però che Nefer non era ancora abbastanza forte per unirsi alla spedizione di caccia. Stranamente, quel divieto non afflisse troppo il ragazzo, che invece suggerì al mago di unirsi alla spedizione di caccia e usare i suoi poteri per trovare la preda e nascondere i cacciatori al momento dell'agguato finale. Non appena rimase solo nella caverna, Nefer aprì la cassetta in legno di cedro piena di rotoli di papiro nuovi e materiale per scrivere che Hilto aveva portato con sé, e cominciò a comporre una lettera per Mintaka. Sapeva con certezza che ormai la notizia della sua morte doveva essere giunta ad Avaris. Ricordava la terribile sofferenza che aveva provato quando aveva appreso la falsa notizia della morte di Mintaka insieme con la sua famiglia, a Balasfura, e avrebbe voluto risparmiarle quella sofferenza. Inoltre voleva spiegarle che erano stati Naja e Trok ad annullare il loro fidanzamento, ma, per quanto riguardava lui, Nefer, l'amava ancor più di quanto sperasse nella vita eterna, e non avrebbe avuto Wilbur Smith
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pace finché lei non fosse diventata sua moglie. Tutto questo doveva essere espresso in un linguaggio che soltanto Mintaka potesse capire. Così, se il rotolo fosse finito nelle mani sbagliate, sarebbe stato privo di significato per chiunque. Nel preambolo la definiva «Prima Stella», per ricordarle quella volta in cui avevano parlato dell'origine del suo nome e lei gli aveva detto: «Ho ricevuto il nome della terza stella nella cintura del Cacciatore celeste». E lui aveva replicato: «No, non la terza. La prima di tutto il firmamento». Poiché era sempre stato abile nell'arte della scrittura, tracciò con grande cura i simboli della grafia ieratica, firmandosi «L'idiota di Dabba», nella certezza che lei avrebbe riconosciuto l'allusione al suo grossolano errore di comportamento quand'erano rimasti soli nel deserto. Quella sera, quando i cacciatori furono tornati e tutti li festeggiarono, divorando carne fresca di orice, Nefer attese l'occasione propizia per parlare con Hilto in privato, e la trovò allorché Taita si allontanò dal cerchio riunito intorno al fuoco da campo per avventurarsi da solo nel deserto notturno. Hilto aveva portato con sé da Tebe, tra le altre provviste, parecchie giare di birra: Taita ne aveva bevuto solo un paio di coppe, ma uno dei pochi segni che tradivano la sua età era la frequenza con la quale doveva svuotare la vescica. Non appena fu lontano, Nefer si protese verso Hilto per bisbigliare: «Ho un incarico speciale da affidarti». «Ne sarò molto onorato, maestà.» Nefer gli consegnò il minuscolo rotolo di papiro. «Custodiscilo a costo della vita», gli ordinò e, quando Hilto lo ebbe nascosto su di sé, gli spiegò che doveva consegnarlo alla principessa Mintaka, ad Avaris. Concluse con un'ultima raccomandazione: «Non dirlo a nessuno, neanche al mago. Che il tuo sia un giuramento sacro!» Hilto e Bay lasciarono Gebel Nagara al tramonto della sera seguente, quando l'aria cominciò a rinfrescare. Pronunciarono il solenne giuramento di obbedienza a Nefer e chiesero a Taita la sua protezione e un talismano che li difendesse, prima di avventurarsi nel deserto sotto il cielo stellato. I cavalli risalirono faticosamente il primo pendio delle colline sabbiose, avanzando nell'intrico di rocce inargentate dalla luna, che sembravano crepitare al freddo della notte. Bay, che precedeva i cavalli, si ritrasse all'improvviso, lanciando Wilbur Smith
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un'esclamazione sorpresa nella sua lingua selvaggia e stringendo l'amuleto con l'osso di leone che portava al collo. Poi indicò la strana figura che era emersa dall'ombra tra le rocce. Hilto si agitò ancora più di lui. «Indietro, ombra maligna», gridò, facendo schioccare la frusta, eseguendo gesti di scongiuro e farfugliando un incantesimo che avrebbe dovuto respingere spettri di ogni genere. «Pace, Hilto!» disse infine l'apparizione. La luna era così luminosa da proiettare una lunga ombra sullo strato compatto di scisto del terreno, facendo risplendere la testa di quella creatura come se fosse argento fuso in un crogiolo. «Sono io, Taita, il mago.» «Non è possibile», esclamò Hilto. «Ho lasciato Taita a Gebel Nagara al tramonto. Ti conosco, tu sei qualche ombra spaventosa dell'aldilà che finge di essere il mago.» Taita avanzò fino ad afferrare il braccio di Hilto che stringeva la frusta. «Senti il calore del mio braccio», gli disse, poi si portò la mano del soldato sul viso. «Tasta la mia faccia, e ascolta la mia voce.» Tuttavia, soltanto dopo che Bay ebbe sfiorato il petto di Taita con l'osso di leone, fiutandogli l'alito per sentire se puzzava di tomba, e dichiarò che era proprio quello che sosteneva di essere, l'anziano guerriero si lasciò convincere, seppure con riluttanza. «Ma come hai fatto ad arrivare qui prima di noi?» domandò. «Questi sono i segreti degli iniziati», gli rispose Bay in tono enigmatico. «È meglio non ripetere la domanda.» «Hilto, tu porti addosso qualcosa che ci mette tutti in pericolo mortale», dichiarò Taita, tagliando corto. «Trasuda odore di morte e confusione.» «Non riesco a immaginare che cosa sia», replicò Hilto, a disagio. «È qualcosa che ti è stato affidato dall'Egitto stesso», insistette il mago. «E tu sai benissimo che cos'è.» «Dall'Egitto stesso?» ripeté Hilto, grattandosi la barba e scuotendo la testa. Taita tese la mano e Hilto sospirò, capitolando senza ulteriori resistenze. Infilando la mano nel sacchetto di cuoio che portava appeso alla cintura, estrasse il minuscolo rotolo di papiro. «Non dire una sola parola di tutto questo», lo ammonì Taita, prendendo il papiro. «A nessuno, neanche al Faraone. Mi senti, Hilto?» «Ti sento, mago.» Stringendo il rotolo nella mano destra, Taita lo fissò intensamente. Pochi Wilbur Smith
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secondi dopo, sul rotolo apparve un minuscolo puntino ardente. Nell'aria notturna si levò un filo di fumo, e d'improvviso il papiro fu avvolto dalle fiamme. Taita lo lasciò bruciare tra le sue dita senza neanche un fremito, nonostante il calore, poi ne sbriciolò le ceneri. «Questa è magia», sussurrò Hilto. «Una sciocchezza», borbottò Bay. «Persino un apprendista potrebbe farlo.» Taita alzò la mano destra in un segno benaugurante. «Possano gli dei proteggervi durante il viaggio», esclamò, seguendo con gli occhi il carro che si allontanava, scomparendo nelle tenebre. Quando Taita si ritrovò nella caverna di Gebel Nagara, scaldandosi al calore del fuocherello le vecchie ossa intirizzite dal gelo del deserto, studiò Nefer che dormiva sotto una pelle di pecora, addossato alla parete di fondo. Non era in collera per il patetico tentativo del ragazzo di batterlo in astuzia. L'età non aveva intaccato la sua umanità, né offuscato il ricordo dei tormenti della passione, quindi simpatizzava col desiderio di Nefer di placare i timori e la sofferenza dell'amata. A questo si aggiungeva il profondo affetto, che quasi sconfinava nell'amore, che aveva concepito lui stesso per Mintaka. Non avrebbe mai rinfacciato a Nefer le possibili conseguenze di quel gesto di compassione, ma gli avrebbe concesso di credere che ben presto Mintaka avrebbe saputo che era ancora vivo. Accovacciandosi vicino a Nefer, ma senza toccarlo, s'insinuò delicatamente nell'intimo del ragazzo. Grazie al fatto che esercitava da tempo quel potere sul ragazzo, vi riuscì senza fatica. Nefer si agitò, gemendo e farfugliando parole senza senso. Nonostante il sonno profondo, il potere di Taita, gettato su di lui come una ragnatela, lo aveva toccato, riportandolo alle soglie della lucidità. Il suo corpo ha già fatto molta strada sull'itinerario che lo porterà alla ripresa completa, rifletté Taita, penetrando ancora più a fondo in lui. Lo spirito è forte, e non ha risentito della difficile prova superata. Non passerà ancora molto, prima che possiamo accingerci alla prossima impresa. Tornò verso il fuoco, gettandovi sopra qualche altro ramo di acacia. Poi tornò a stendersi, non per dormire, poiché alla sua età aveva bisogno Wilbur Smith
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soltanto di poche ore di riposo ogni notte, ma per aprire la mente alle correnti generate dagli eventi, alcuni distanti e altri molto più vicini. Li lasciò scorrere mulinando intorno a sé, come se fosse una roccia nella corrente dell'esistenza. La luna successiva passò più in fretta della precedente, mentre Nefer diventava sempre più forte e irrequieto. Ogni giorno la sua andatura diventava meno claudicante, e alla fine ridiventò normale; ben presto, sfidò Meren a correre dal fondovalle sino alla cima delle colline. Quelle gare divennero un aspetto regolare della loro vita nell'oasi. Da principio Meren vinceva facilmente, ma in poco tempo le cose cambiarono. All'alba del ventesimo giorno dalla partenza di Hilto, iniziarono dall'imboccatura della caverna e volarono sul fondo sassoso della valle restando appaiati, ma, quando attaccarono la salita del pendio sul fianco della duna, Nefer cominciò a distanziare l'amico. Arrivato a metà strada, scattò improvvisamente in avanti con un balzo possente, lasciandosi alle spalle Meren. Giunto in cima alla duna, si voltò a guardarlo dall'alto, ridendo, coi pugni puntati sui fianchi in un gesto di trionfo. Le lunghe ciocche di capelli, agitate dal vento dell'alba, gli scendevano sulle spalle. Il sole sorgeva dietro di lui e i raggi dorati proiettavano un'aureola di luce intorno alla sua testa. Taita aveva assistito alla gara, e stava per rientrare nella caverna, quando un suono insolito nel silenzio del deserto lo indusse a fermarsi. Alzando il viso verso il cielo, vide un puntino scuro che descriveva un cerchio nel cielo azzurro, e sentì vicino a sé la presenza del dio. Quel grido risuonò ancora, fioco e debole, ma penetrante, fino a toccargli il cuore: era il richiamo inconfondibile di un falco reale. Anche Nefer lo udì, dall'alto della duna, e subito si voltò in cerca del falco. Scorgendo quella forma minuscola, tese le mani e, come se quel gesto fosse un ordine, il falco scese in picchiata, diventando sempre più grande alla vista. Il vento sospirò tra le sue ali, mentre puntava direttamente verso Nefer. Se lo avesse colpito a quella velocità, gli avrebbe lacerato le carni e spezzato le ossa, ma Nefer non mostrò la minima paura. E il falco puntò direttamente verso il suo viso, rivolto in alto. All'ultimo momento il falco uscì dalla picchiata, librandosi per un istante sulla testa del ragazzo. Nefer si protese, dando quasi l'impressione di poter Wilbur Smith
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toccare il suo splendido piumaggio. Per un attimo Taita pensò che il falco si sarebbe lasciato catturare, ma poi l'animale accelerò il battito delle ali e s'innalzò di nuovo nel cielo. Lanciando ancora quel grido disperato e bellissimo, sfrecciò via verso il sole, scomparendo nel suo cerchio fiammeggiante. Nell'ultima visita che aveva compiuto a Gebel Nagara, Hilto aveva portato con sé un pesante arco da guerra. Seguendo le istruzioni di Taita, Nefer si esercitava tutti i giorni, rafforzando i muscoli del dorso e delle spalle finché non riuscì a tendere l'arco fino alla sua massima estensione e a prendere la mira senza che le braccia si stancassero e cominciassero a tremare. Poi, a un ordine di Taita, scagliava in alto la freccia, centrando il bersaglio alla distanza di duecento cubiti. Nefer intagliò un bastone, ricavandolo dal legno pesante dell'acacia di un bosco nascosto ai piedi delle colline, poi lo lavorò, levigandolo finché non ottenne un equilibrio perfetto e una lunghezza ideale. Nella frescura dell'alba, Taita e lui lottavano alla maniera tradizionale. Da principio Nefer non s'impegnava a fondo, per rispetto verso l'età di Taita, ma il mago lo colpì a sangue sugli stinchi e gli procurò un bernoccolo sulla testa. Furioso e umiliato, Nefer cominciò ad attaccare sul serio, ma il vecchio era agile e scattante. Balzava fuori della portata del bastone di Nefer, poi sfrecciava in avanti per affibbiargli un colpo doloroso su un gomito o su un ginocchio indifeso. Taita non aveva perso nulla della sua abilità neppure con la lama. Hilto aveva portato loro un intero assortimento di pesanti spade a forma di falce e Taita, quando decise che l'addestramento coi bastoni da combattimento era sufficiente, tirò fuori le spade per istruire Nefer e Meren in tutto il repertorio di tagli, affondi e parate. Li costrinse a ripetere ogni mossa cinquanta volte, per poi ricominciare da capo. Quando dichiarò che era il momento di fare una sosta per la cena, tanto Nefer quanto Meren erano congestionati e sudati come se si fossero immersi in una pozza nelle acque del Nilo, mentre la pelle di Taita era fresca e asciutta. Meren glielo fece notare e lui ribatté, ridacchiando: «L'ultima volta che ho sudato, voi due non eravate ancora nati». Le altre sere, Nefer e Meren si spogliavano e, dopo essersi unti il corpo d'olio, lottavano tra loro, mentre Taita arbitrava gli scontri, gridando consigli e istruzioni. Anche se Meren era più alto di un palmo e più Wilbur Smith
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robusto di spalle e di corporatura, Nefer era dotato di un equilibrio naturale; inoltre Taita gli aveva insegnato a usare il peso dell'avversario contro di lui, quindi in genere i loro incontri di lotta finivano alla pari. Di sera e fino a tarda notte Taita e Nefer sedevano accanto al fuoco discutendo di ogni argomento, dalla medicina alla politica, dalla guerra alla religione. Spesso Taita cominciava con l'esporre una teoria, chiedendo poi a Nefer di scoprire qualche difetto negli assunti e nelle argomentazioni. In quelle lezioni inseriva trappole nascoste e salti logici, che sempre più spesso Nefer riusciva a scoprire, discutendoli poi con accanimento. Poi c'era sempre la tavola del bao, sulla quale meditare nel tentativo di scoprire le leggi e le infinite possibilità implicite nei movimenti e negli schemi delle pedine. «Se tu riuscissi a comprendere tutto quello che c'è da sapere sulle pedine del bao, sapresti tutto quello che c'è da sapere sulla vita», lo ammoniva Taita. «Le sottigliezze e le sfumature di questo gioco affinano la mente, consentendole di accostarsi ai misteri più grandi.» Il mese passò così in fretta che Nefer restò scosso quando, mentre correva nel deserto all'inseguimento di una gazzella ferita a morte, scorse all'improvviso all'orizzonte, distorta dal miraggio, una minuscola nube di polvere gialla, sotto la quale s'intravedeva la sagoma lontana del carro che tornava dalla valle del fiume. Il ragazzo dimenticò all'istante la gazzella alla quale stava dando la caccia per correre incontro a Hilto. Pur essendo abituato alle prodezze atletiche dei suoi uomini, l'anziano guerriero rimase colpito dalla velocità con la quale Nefer coprì la distanza in quel caldo torrido. «Hilto!» gridò da lontano, senza il minimo segno di affanno. «Possano gli dei amarti e garantirti la vita eterna. Che novità ci sono? Quali notizie?» Hilto finse di fraintendere il significato della domanda e, mentre Nefer camminava a fianco del carro, cominciò una lunga descrizione degli avvenimenti politici e sociali nei due regni. «Nel nord è scoppiata un'altra ribellione, e stavolta Trok ha avuto maggiori difficoltà a soffocarla. Ha perso quattrocento uomini in tre giorni di combattimenti accaniti e, per giunta, metà dei ribelli si è sottratta alla sua ira.» «Hilto, sai bene che non è questo che voglio sentire da te.» L'altro indicò Bay con un cenno della testa. «Forse non è il momento di toccare certi argomenti», suggerì con tatto. «Maestà, non sarebbe meglio Wilbur Smith
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parlarne più tardi, in privato?» Nefer fu costretto a tenere a freno l'impazienza. Quella sera, seduti intorno al fuoco nella caverna, fu per lui una sofferenza dover ascoltare Hilto che faceva a Taita un altro lungo e dettagliato rapporto, in cui l'elemento più importante era la scoperta della sostituzione dei corpi, avvenuta allorché i sacerdoti di Anubi avevano liberato dalle bende la testa del cadavere nella Sala del Cordoglio. Il Faraone Naja Kiafan aveva fatto del suo meglio per evitare che quella notizia diventasse di pubblico dominio. Le fondamenta del suo trono sarebbero state minate, se il popolo avesse sospettato che Nefer era ancora vivo. Tuttavia era impossibile tenere segreto un fatto così straordinario quando c'erano tante persone, sacerdoti e cortigiani, che ne erano al corrente. Hilto riferiva che la voce si era sparsa nelle strade e nei mercati della città di Tebe, e anche nelle cittadine e nei villaggi circostanti. In parte per effetto di quella voce, lo scontento si era esteso in entrambi i regni ed era diventato più organizzato. I ribelli si facevano chiamare «Azzurri», perché l'azzurro era il colore della dinastia di Tamose, mentre Naja aveva scelto come colore il verde e Trok il rosso. Inoltre c'erano problemi a oriente. I Faraoni egizi avevano rinviato l'ambasciatore hurrita dal suo sovrano Sargon, re di Babilonia, quel potente regno che si stendeva fra il Tigri e l'Eufrate, chiedendo che il tributo annuale di Sargon fosse aumentato di venti lakh d'oro. Era una somma spaventosa, che Sargon non avrebbe mai accettato di versare. «Questo giustifica l'incremento degli eserciti nei due regni», osservò Taita, non appena Hilto fece una pausa. «Finalmente è chiaro che i due Faraoni desiderano le ricchezze della Mesopotamia e sono decisi a conquistarle. Dopo Babilonia, verrà il turno della Libia e della Caldea. Non avranno pace finché tutto il mondo non sarà sotto il loro dominio.» Hilto parve stupito. «Non ci avevo pensato, ma devi avere ragione.» «Sono astuti come due vecchi babbuini che fanno razzie nei campi in riva al fiume. Sanno che la guerra è un fattore di unificazione e, se marceranno sulla Mesopotamia, il popolo li seguirà compatto, in preda a una frenesia patriottica. L'esercito ama la prospettiva del bottino e della gloria, i mercanti amano la prospettiva dell'aumento del commercio e dei profitti. È uno stratagemma ideale per distrarre il popolo dai motivi di scontento.» «Sì», convenne Hilto, annuendo. «Ora lo capisco.» Wilbur Smith
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«Naturalmente, questo torna a nostro vantaggio», osservò Taita. «Ero alla ricerca di un Paese che potesse offrirci asilo. Se sarà in guerra con Trok e Naja, Sargon ci accoglierà con benevolenza.» «E dovremo lasciare l'Egitto?» ribatté Hilto. «Ora che Naja e Trok sanno che Nefer è ancora vivo, verranno a cercarci», mormorò Taita. «La strada verso oriente è l'unica che sia rimasta ancora aperta. Dovremo avere una base di forza e qualche sostegno nei due regni nonché procurarci alleati potenti. Poi torneremo a reclamare quello che appartiene a Nefer per diritto di nascita». Lo fissarono tutti in silenzio, tentando di assimilare i possibili sviluppi di quella prospettiva. Non avevano mai riflettuto sul futuro, non avevano mai pensato che sarebbero stati costretti a lasciare il loro Paese natio. Fu Nefer a rompere il silenzio. «Non possiamo farlo», dichiarò. «Non posso lasciare l'Egitto.» Taita lanciò un'occhiata agli altri, congedandoli con un cenno. Hilto, Bay e Meren si alzarono docilmente, uscendo in fila dalla caverna. Il mago aveva previsto quella situazione e capì che ci sarebbe voluta tutta la sua abilità per superarla, perché Nefer aveva assunto un'espressione risoluta, dichiarando le sue intenzioni con un tono ostinato che lui conosceva bene. Sapeva che sarebbe stato difficile smuoverlo da quella posizione. Il ragazzo fissava il fuoco, e lui si rese conto che doveva indurlo a rompere spontaneamente il silenzio, perché in questo modo la sua posizione si sarebbe rafforzata. «Avresti dovuto discutere questo progetto con me», disse infine Nefer. «Non sono più un bambino, Taita. Sono un uomo, e sono il Faraone.» «Io ti ho esposto le mie intenzioni», replicò il vecchio con calma. Rimasero in silenzio, fissando le fiamme, e Taita avvertì le prime crepe che cominciavano a incrinare la fermezza di Nefer. Infine il ragazzo parlò di nuovo. «Vedi, c'è Mintaka...» Taita continuò a tacere. Capiva istintivamente che stavano per arrivare a un momento critico dei loro rapporti. Doveva succedere, prima o poi, quindi non si sforzò neppure di evitarlo. «Ho mandato un messaggio a Mintaka», aggiunse Nefer. «Le ho detto che l'amavo, e le ho giurato sulla mia vita e sul mio spirito eterno che non l'avrei abbandonata.» Finalmente Taita parlò. «E sei certo che Mintaka abbia ricevuto questo tuo avventato giuramento che ha messo in pericolo di vita te, lei e tutti Wilbur Smith
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coloro che ti sono vicini?» «Sì, certo. Hilto...» Nefer s'interruppe, e la sua espressione cambiò mentre fissava Taita, al di là del fuoco. Di colpo balzò in piedi, dirigendosi verso l'ingresso della caverna. Non si muoveva più come un ragazzo, ma come un uomo, e un uomo in collera. In quei pochi mesi era cambiato completamente. Taita provò una profonda soddisfazione. Il cammino che li aspettava sarebbe stato difficile, e Nefer avrebbe avuto bisogno di tutta la sua forza e la determinazione che aveva appena trovato in se stesso. «Hilto!» gridò Nefer nell'oscurità. «Vieni!» Forse Hilto colse la novità di quel tono così autorevole nella voce del ragazzo, perché si affrettò ad accorrere, posando un ginocchio a terra di fronte a Nefer. «Maestà?» domandò. «Hai consegnato il messaggio che ti avevo affidato?» Hilto lanciò un'occhiata a Taita, accanto al fuoco. «Non guardare lui», scattò Nefer. «Lo sto chiedendo a te. Rispondimi.» «No, non l'ho consegnato. Vuoi sapere per quale motivo non l'ho fatto?» «Conosco bene la ragione», replicò Nefer in tono sinistro. «Ma ascoltami: se mai in futuro dovessi disobbedirmi volontariamente in qualche occasione, ne pagherai il prezzo per intero.» «Capisco», mormorò Hilto. «Se mai dovessi scegliere di nuovo tra il Faraone e un vecchio ficcanaso, sceglierai il Faraone, è chiaro?» «È chiaro come il sole di mezzogiorno.» Hilto abbassò la testa con aria contrita, ma sorrise sotto i baffi. «Hai eluso le mie domande, Hilto. Dunque, che notizie hai della principessa?» L'altro smise di sorridere, poi aprì la bocca e la richiuse, cercando di trovare il coraggio per dargli quella terribile notizia. «Parla! Hai dimenticato così presto qual è il tuo dovere?» «Maestà, le notizie non ti piaceranno. Sei settimane fa, la principessa Mintaka ha sposato il Faraone Trok Uruk ad Avaris.» Nefer rimase immobile, come se fosse diventato una statua di granito. Per lungo tempo l'unico suono che si udì nella caverna fu il crepitio dei ceppi di acacia tra le fiamme. Poi, senza aggiungere una parola, Nefer passò accanto a Hilto e uscì nel deserto immerso nell'oscurità. Quando tornò, l'alba era una vaga promessa rossa nel cielo a oriente. Wilbur Smith
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Hilto e Meren dormivano avvolti nelle loro pelli, in fondo alla caverna, mentre Taita era seduto nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Per un istante, Nefer pensò che anche il vecchio fosse addormentato, poi vide che alzava la testa e lo guardava con occhi vigili e lucenti al riflesso delle fiamme. «Io avevo torto e tu avevi ragione. Ora ho bisogno di te più che mai, vecchio amico», disse Nefer. «Non mi abbandonerai, vero?» «Non devi neanche chiederlo», rispose Taita sottovoce. «Non posso lasciarla con Trok.» «No.» Nefer tornò a occupare il posto di fronte a Taita, mentre il mago tirava un respiro lento e profondo. La tempesta era passata ed erano ancora insieme. Il giovane scelse un ceppo carbonizzato di legna e lo spinse in mezzo alle fiamme, poi alzò di nuovo gli occhi su Taita. «Tu hai cercato d'insegnarmi a osservare di lontano, con gli occhi della mente», disse. «Non ho mai acquisito quel dono, fino a stanotte. Laggiù, nel buio e nel silenzio infinito, ho cercato di nuovo di guardare in direzione di Mintaka. Stavolta ho visto qualcosa, Taita, ma in modo molto oscuro, e non l'ho capito.» «L'amore per lei ti ha reso sensibile alla sua aura», spiegò il mago. «Che cos'hai visto?» «Ho visto soltanto ombre, ma ho percepito la devastazione prodotta dalla sofferenza e dalla solitudine. Ho sentito una disperazione così insopportabile da farmi desiderare la morte. Sapevo che erano le emozioni di Mintaka, e non le mie.» Taita fissò il fuoco con aria inespressiva, e Nefer aggiunse: «Devi farlo tu per me. C'è qualcosa che non va, ed è terribile. Soltanto tu puoi aiutarla, adesso». «Hai qualcosa che appartiene a Mintaka?» domandò Taita. «Qualche dono, oppure un pegno d'amore che ti abbia dato lei?» Nefer alzò la mano verso la collana che portava, sfiorando il minuscolo medaglione d'oro appeso al centro della catenella. «È l'oggetto più prezioso che possiedo.» Taita tese la mano al di sopra del fuoco. «Dammelo.» Nefer esitò, poi aprì il fermaglio e tenne l'amuleto nel pugno chiuso. «A parte le mie, le sue dita sono state le ultime a toccarlo. Contiene una Wilbur Smith
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ciocca dei suoi capelli.» «Allora è estremamente potente. Contiene la sua essenza. Dammelo, se vuoi che l'aiuti.» Nefer glielo consegnò. «Aspetta qui», proseguì Taita, alzandosi. Benché fosse rimasto seduto con le gambe incrociate per tutte quelle ore di oscurità, non c'era la minima traccia d'impaccio nei suoi movimenti, che erano quelli di un uomo giovane, nel pieno delle forze. Uscì nella luce dell'alba per salire in cima alle dune, poi raccolse la veste intorno alle gambe ossute e si accovacciò sulla sabbia, col viso rivolto verso l'alba. Premette l'amuleto di Mintaka sulla fronte, chiudendo gli occhi, poi cominciò a oscillare leggermente. Il sole salì sull'orizzonte, investendolo coi suoi raggi. L'amuleto che teneva nella mano destra sembrava dotato di vita propria. Taita lo sentì pulsare leggermente al ritmo del suo cuore. Aprì la mente per lasciare che le correnti dell'esistenza vi penetrassero, scorrendo intorno a lui come le acque di un grande fiume. Il suo spirito si liberò dal corpo per librarsi in alto. Come se viaggiasse sulle ali di un uccello gigantesco, vide immagini fuggevoli e confuse di terre e città, foreste, pianure e deserti distanti ai suoi piedi. Vide eserciti in marcia, squadroni che sollevavano nubi temporalesche di polvere gialla in mezzo alla quale scintillavano le lance. Vide le navi in alto mare, squassate dalle onde e dal vento. Vide le città ardere in preda al saccheggio e sentì nella testa strane voci, voci che provenivano dal passato e dal futuro. Vide volti di persone morte da tempo e di altre non ancora nate. Proseguì, spaziando col pensiero, sempre con l'amuleto come guida. Con la voce della mente la chiamava: «Mintaka!» e sentiva l'amuleto diventare sempre più caldo nella sua mano. A poco a poco le immagini svanirono, mentre sentiva la sua voce dolce rispondere: «Sono qui. Chi mi chiama?» «Mintaka, sono io, Taita», rispose lui, ma si accorse che qualcosa di maligno era intervenuto a interrompere il contatto mentale tra loro. Mintaka non c'era più, mentre al suo posto si era insediata una presenza malevola. Concentrò su di essa tutti i suoi poteri, nel tentativo di disperdere le nubi scure. Queste si addensarono, assumendo la forma di un cobra pronto ad attaccare: era lo stesso potere maligno col quale lui e Nefer si erano scontrati nel nido del falco reale a Bir Umm Masara. Dentro di sé lottò contro il cobra, espandendo i suoi poteri per Wilbur Smith
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respingerlo, ma, anziché soccombere, l'immagine del serpente divenne più nitida e minacciosa. Di colpo capì che quella non era una manifestazione fisica, bensì una minaccia diretta e mortale contro Mintaka. Raddoppiò gli sforzi per penetrare oltre quella cortina di male e raggiungerla, ma il dolore e la sofferenza che si frapponevano tra loro costituivano una barriera impenetrabile. Poi, all'improvviso, scorse una mano snella e affusolata tendersi verso il capo ricoperto di squame. Capì che era la mano di Mintaka perché, sull'anello di lapislazzuli che portava all'indice, era inciso il suo cartiglio. Tenne a bada il serpente velenoso con tutta la sua forza vitale, per impedirgli di avventarsi sulla mano di Mintaka che accarezzava il cappuccio allargato. Il cobra si volse a metà, quasi fosse un gatto che offriva la testa alle sue carezze. «Fa' in modo che compia la sua missione», sentì dire dalla voce di Mintaka, e un'altra voce che conosceva rispose: «Non ho mai visto una cosa del genere prima d'ora. Devi colpire il messaggero con la mano. Questo lo indurrà senz'altro a consegnare il dono della dea». Era la voce della Gran Sacerdotessa del tempio di Hathor ad Avaris, e allora Taita comprese: Mintaka, sopraffatta dal dolore, intendeva seguire la via della dea. «Mintaka!» Si sforzò di raggiungerla, e finalmente fu ricompensato. «Taita?» sussurrò lei, e, poiché finalmente era consapevole della sua presenza, la visuale di Taita si allargò, consentendogli di vedere tutto con chiarezza. Mintaka si trovava in una camera da letto con le pareti di pietra, in ginocchio di fronte a una cesta. Al suo fianco c'era la sacerdotessa e, di fronte a lei, il serpente letale, pronto ad attaccare. «Tu non devi seguire questa via», le ordinò Taita. «Non è per te. Gli dei ti hanno preparato un destino diverso. Mi senti?» «Sì!» Mintaka volse la testa verso di lui, come se potesse vedere il suo viso. «Nefer è vivo. Nefer vive, mi senti?» «Sì! Oh, sì!» «Sii forte, Mintaka. Verremo a prenderti. Nefer e io verremo a prenderti.» La sua concentrazione era tale che si conficcò le unghie nel palmo delle mani sino a far scorrere il sangue, ma non riuscì a trattenerla oltre. Wilbur Smith
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Cominciò a scivolare lontano da lui, come un'immagine confusa, ma, prima che scomparisse, lui vide il suo sorriso, un sorriso pieno d'amore e di speranza. «Sii forte!» la incitò. «Sii forte, Mintaka!» L'eco della sua stessa voce gli tornò indietro come se arrivasse da una lunga distanza. Nefer lo attendeva ai piedi delle dune. Quando Taita fu a metà strada, si accorse che era accaduto qualcosa di portentoso. «L'hai vista!» gridò, e la sua non era una domanda. «Che cosa le è successo?» gridò ancora, correndo incontro al mago. «Ha bisogno di noi», gli rispose Taita, posando una mano sulla spalla del ragazzo. Non avrebbe mai potuto rivelargli in quale stato di profonda sofferenza e disperazione avesse trovato Mintaka, né quale destino fosse stata sul punto di scegliere. Nefer non avrebbe potuto sopportarlo: quella scoperta rischiava d'indurlo a compiere un gesto avventato che avrebbe significato la fine per lui e per lei. «Avevi ragione», continuò Taita. «Tutti i miei progetti per andarcene di qui e trovare asilo nelle terre a oriente dovranno essere accantonati. Dobbiamo andare da Mintaka. Gliel'ho promesso.» «Sì!» esclamò Nefer. «Quando possiamo partire per Avaris?» «È una questione molto urgente. Partiremo subito.» Ci vollero quindici giorni di viaggio a tappe forzate per raggiungere la minuscola guarnigione e la stazione di posta di Thane, a una giornata da Avaris, verso sud. Lungo la strada avevano cambiato i cavalli quattro volte. Nelle guarnigioni e negli accampamenti militari che avevano incontrato sul loro cammino, Taita aveva sfruttato l'ordine di requisizione che gli aveva concesso Naja per rimpiazzare gli animali sfiancati e procurarsi nuove provviste. Da quando avevano lasciato Gebel Nagara non facevano che discutere e ridiscutere i loro piani, sapendo di doversi misurare con la potenza del Faraone Trok Uruk. Gli ufficiali delle guarnigioni coi quali avevano parlato calcolavano che Trok avesse ormai a disposizione ventisette compagnie ben addestrate ed equipaggiate, con quasi tremila carri. Per opporsi a un esercito del genere, loro avevano soltanto un vecchio carro per il trasporto delle merci, un carro che mostrava i segni di un lungo e faticoso servizio, con una delle ruote posteriori che aveva la tendenza a Wilbur Smith
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staccarsi nei momenti meno opportuni e le assi tenute insieme con corde e strisce di cuoio. Erano soltanto in quattro: Nefer e Meren, Hilto e Bay. Ma c'era anche Taita. «Il mago vale come minimo ventisette compagnie», fece notare Hilto. «Quindi siamo ad armi pari.» Lui conosceva bene il capitano che comandava la guarnigione di Thane, un vecchio soldato brizzolato e carico di cicatrici che si chiamava Socco. Molto tempo prima avevano percorso insieme la Via Rossa; insieme avevano combattuto, fatto baldoria ed erano andati a donne. Dopo un'ora di ricordi e un boccale di birra acida, Hilto gli porse il rotolo con l'ordine di requisizione, ma Socco lo tenne capovolto, a braccio teso, lanciandogli un'occhiata smaliziata. «Vedi il cartiglio del Faraone?» disse Hilto, sfiorando il sigillo. «Se ti conosco, Hilto, e per Horus ti conosco bene, probabilmente quel bel disegnino lo hai fatto tu stesso.» Socco gli restituì il rotolo. «Allora, che cosa ti serve, vecchio furfante?» Scelsero cavalli freschi nel branco che veniva tenuto di riserva alla guarnigione e che contava parecchie centinaia di capi. Poi Taita esaminò i carri da guerra disposti in fila nel recinto, appena inviati dai fabbricanti di Avaris; ne scelse tre, ai quali fece aggiogare i cavalli. Quando lasciarono Thane, Taita era alla guida del carro per il trasporto delle merci. Meren, Hilto e Nefer guidavano ciascuno un carro da guerra, mentre Bay chiudeva la marcia, conducendo una ventina di cavalli destinati al cambio. Non puntarono direttamente verso Avaris, ma preferirono fare una deviazione a est della città, dove, ai margini del deserto, sorgeva una piccola oasi, usata dai beduini e dalle carovane di mercanti che commerciavano con le terre a oriente. Mentre gli altri scaricavano il foraggio che avevano portato da Thane sul carro, impastoiavano i cavalli e lubrificavano i mozzi delle ruote dei carri nuovi, Taita andò a concludere un baratto col capo della carovana di assiri accampata poco lontano, procurandosi una bracciata di abiti sporchi e sbrindellati, più venti tappeti di lana tessuti nella terra che si stendeva lungo il Mare Esterno. Erano di qualità e di fattura scadenti, ma, per averli, Taita fu costretto a pagare un prezzo sproporzionato. «Quello scimmione assiro è un ladro e un tagliagole», borbottò, mentre caricavano i tappeti sul carro. «A che cosa ci serviranno?» volle sapere Nefer, ma lui finse di non sentire la domanda. Wilbur Smith
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Quella sera, Taita passò sui capelli d'argento un estratto della corteccia di mimosa, cambiando completamente aspetto. Nella fitta oscurità che precedeva l'alba, lasciarono Bay a guardia del branco di cavalli e dei carri nuovi per salire sul vecchio carro malandato per le merci, e, appollaiati su una pila di tappeti polverosi, puntarono a occidente, verso Avaris. Erano vestiti con gli stracci e gli abiti smessi che Taita si era procurato, mentre lui indossava una tunica lunga stretta in vita da una fusciacca, con la parte inferiore del viso avvolta da un velo alla maniera dei cittadini di Ur, i caldei. Coi capelli tinti di scuro, era irriconoscibile. Era sera quando raggiunsero la capitale del regno del nord. Intorno alle mura era sorto un accampamento permanente che contava alcune migliaia di anime, per lo più accattoni, saltimbanchi, mercanti stranieri e furfanti di ogni sorta. Si accamparono in mezzo a loro e la mattina dopo, di buon'ora, lasciarono Meren a guardia del carro per unirsi alla folla che aspettava l'apertura delle porte cittadine, al levar del sole. Una volta superato il posto di guardia, Hilto andò a fare un giro delle taverne e dei bordelli che si aprivano sulle vie strette della città vecchia, dove sperava di trovare qualche vecchio amico e compagno d'armi e apprendere così le ultime notizie. Taita prese con sé Nefer, passando per le vie affollate della città che si stava svegliando, diretto verso le porte del palazzo. Lì si unirono ai mendicanti, ai mercanti e ai supplici che si affollavano all'ingresso, ma Taita non tentò neppure di farsi ricevere a palazzo: trascorse invece la mattina ascoltando le chiacchiere di chi stava intorno e scambiando pettegolezzi con altri sfaccendati. Alla fine il mago attaccò discorso con un mercante di Babilonia, vestito come lui, che si presentò col nome di Nintura. Taita parlava l'accadico come un nativo della Mesopotamia, ed era per questo che aveva scelto un travestimento del genere. I due si divisero un boccale di caffè, preparato coi chicchi rari e costosi importati dall'Etiopia, e Taita ricorse a tutto il suo fascino per accattivarsi Nintura, che bighellonava da dieci giorni intorno al palazzo, in attesa che venisse il suo turno di mostrare le merci alla sposa di Trok. Aveva già pagato l'esorbitante bakshish richiesto dal capo degli eunuchi per essere ammesso alla presenza della consorte, ma prima di lui c'erano molti altri. «Si dice che Trok sia stato trattato crudelmente dalla giovane moglie, che non lo lascia entrare nel suo letto.» Nintura ridacchiò. «È pazzo di lei, come un cervo in calore, ma la moglie tiene le gambe strette e la porta Wilbur Smith
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della stanza da letto è sempre sprangata. Trok cerca di conquistarsi i suoi favori offrendole regali costosi. Dicono che non sappia negarle niente, ma lei compra tutto quello che le viene offerto e poi, in segno di spregio, lo rivende subito per una minima parte del prezzo che Trok ha dovuto pagare, e distribuisce il ricavato tra i poveri della città.» Si assestò una manata sul ginocchio, scoppiando in una risata fragorosa. «Si dice che compri più di una volta gli stessi oggetti, e Trok continua a pagare.» «Dov'è Trok?» chiese Taita. «Sta conducendo una campagna militare nel sud. Lui soffoca le fiamme della rivolta, ma, non appena gira le spalle, quelle si riaccendono.» «A chi devo rivolgermi, per essere ammesso alla presenza di questa regina Mintaka?» «Al capo degli eunuchi del palazzo. Soleth, si chiama, quel grasso cappone.» Evidentemente Nintura non si era reso conto della condizione fisica del suo interlocutore. Taita, che conosceva di fama Soleth, sapeva invece benissimo che apparteneva anche lui alla confraternita segreta degli eunuchi. «Dove posso trovarlo?» domandò. «Soltanto per essere ammesso alla sua presenza dovrai sborsare un anello d'oro», lo avvertì Nintura. Soleth era seduto accanto alla vasca dei fiori di loto, nel suo giardino recintato, e non si alzò quando uno dei custodi dell'harem gli presentò Taita. Gli hyksos avevano ripudiato molte delle loro usanze per adottare quelle degli egizi, al punto che non tenevano più le mogli segregate nell'harem. Gli eunuchi continuavano a esercitare gran parte dei loro antichi poteri sulle donne della corte, ma le loro protette godevano di grande libertà, a patto di avere con sé una scorta adeguata. Avevano la possibilità di camminare all'aperto, di navigare sul fiume a bordo delle loro imbarcazioni da diporto, di ricevere i mercanti per farsi mostrare la merce, oppure di cenare, cantare, danzare e giocare con le amiche. Taita rivolse a Soleth un saluto pieno di dignità, presentandosi sotto un nome fittizio, ma al saluto fece seguire subito il segno di riconoscimento della confraternita, coi mignoli piegati a uncino e accostati tra loro. Soleth batté le palpebre, facendo scorrere lo sguardo sulla figura snella di Taita, che non aveva di certo l'aspetto fisico di un eunuco. Ciò nonostante, lo invitò a prendere posto sui cuscini di fronte a lui. Taita accettò la coppa Wilbur Smith
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offerta da uno schiavo, poi i due parlarono per qualche minuto di argomenti in apparenza banali, ma che in realtà servirono a confermare le credenziali di Taita e le conoscenze che avevano in comune nell'ambito della confraternita. Senza darlo a vedere, Soleth scrutava con attenzione i lineamenti del suo interlocutore, cercando di guardare oltre il velo e i capelli tinti. A poco a poco, una scintilla di comprensione si accese nei suoi occhi, finché non domandò a bassa voce: «Nel corso dei tuoi viaggi non hai per caso incontrato il famoso mago noto nei due regni, e anche altrove, col nome di Taita?» «Lo conosco bene.» «Forse bene come te stesso?» domandò Soleth. «Posso affermare di conoscerlo bene almeno quanto conosco me stesso», confermò Taita, e il viso paffuto di Soleth s'increspò in un sorriso. «Non dire altro. Quale servigio posso renderti? Non hai che da chiedere.» Quella sera, mentre Nefer, Meren e Hilto erano nascosti in mezzo al carico di tappeti, Taita guidò il carro cigolante, con la ruota posteriore che oscillava come sempre, minacciando di staccarsi, verso uno degli ingressi laterali del palazzo, dove una banda di monelli vestiti di stracci si aggirava nel vicolo sudicio e stretto. Taita donò loro un anello di rame perché facessero la guardia al carro, poi bussò alla porta con l'estremità inferiore del bastone. Il battente si spalancò all'istante, ma furono accolti da una fila di lance spianate. L'ingresso dell'harem era sotto stretta sorveglianza: Trok teneva in grande conto la sua cerbiatta. Soleth non era lì ad accoglierli: evidentemente preferiva non sporcarsi le mani. Tuttavia aveva inviato uno dei suoi tirapiedi, un vecchio schiavo nero, per scortare Taita oltre il posto di guardia e fargli da guida. Sebbene Taita fosse munito del rotolo di papiro che gli aveva dato Soleth, il comandante delle guardie pretese di perquisire tutti prima di farli passare, ordinando a Hilto di svolgere i tappeti e punzecchiandone le pieghe con la lancia. Soltanto allora si dichiarò soddisfatto e li lasciò proseguire. Lo schiavo li precedeva con andatura incerta, guidandoli in un labirinto di corridoi angusti. A mano a mano che procedevano, gli ambienti diventavano più grandiosi, finché non dovettero fermarsi davanti a una porta in legno di sandalo scolpita in modo elaborato e sorvegliata da due eunuchi giganteschi. Ci fu uno scambio sommesso di parole tra loro e il Wilbur Smith
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vecchio schiavo, poi le sentinelle si scostarono, lasciandoli entrare in una stanza spaziosa che odorava di fiori, di profumo e della fragranza tentatrice di giovani donne. Oltre quella stanza si apriva una vasta terrazza, da cui provenivano i suoni di un liuto e di voci femminili. Il vecchio schiavo uscì sulla terrazza. «Maestà», disse con voce tremula, «c'è un mercante di Samarcanda che è venuto fin qui carico di bei tappeti di seta.» «Ho visto robaccia sufficiente per un giorno», rispose una voce di donna. Nefer fu così colpito da quel timbro familiare, che gli era tanto caro, da restare senza fiato. «Manda via tutti.» La loro guida fissò Taita con una smorfia, allargando le braccia in un gesto impotente. Nefer lasciò cadere dalla spalla il tappeto arrotolato, che si abbatté con un tonfo sulle lastre di pietra del pavimento, per dirigersi verso l'ingresso della terrazza, fermandosi poi sulla soglia. Era vestito di stracci e portava un telo sporco avvolto intorno alla testa che gli copriva la parte inferiore del viso, lasciando scoperti soltanto gli occhi. Mintaka era seduta sul parapetto della terrazza, con due ancelle ai suoi piedi. Senza neanche guardare nella sua direzione, riprese a cantare. Era la canzone della scimmia e dell'asino, e Nefer ebbe l'impressione che ognuna di quelle parole stupide gli trafiggesse il cuore, mentre studiava la curva dolce della guancia e le ciocche di capelli folti e scuri che scendevano sulle spalle. Poi lei interruppe di colpo il canto, guardandolo con irritazione. «Non restare lì impalato a fissarmi, bruto insolente», scattò. «Prendi la tua merce e vattene.» «Perdonami, maestà», replicò lui, allargando le braccia in un gesto di supplica. «Non sono che un povero idiota di Dabba.» Mintaka lanciò un grido, facendo cadere il liuto, poi si coprì la bocca con le mani. Sulle sue guance apparvero due chiazze scarlatte, mentre fissava gli occhi verdi di Nefer. Lo schiavo nero estrasse il pugnale, avanzando cautamente, pronto ad attaccare il ragazzo, ma Mintaka si riprese subito. «No, lascialo stare.» Alzò la mano destra per conferire maggiore forza al comando. «Lasciaci soli. Voglio parlare con questo idiota.» Lo schiavo, incerto, esitò, col pugnale sguainato che ancora puntava al ventre di Nefer. «Fa' come ti dico», ringhiò Mintaka, come una leonessa. «Vattene!» Wilbur Smith
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Confuso, il vecchio rinfoderò il pugnale e si allontanò. Mintaka fissava ancora Nefer, con gli occhi spalancati. Le sue ancelle non riuscivano a capire che cosa avesse la loro sovrana; capivano soltanto che stava accadendo qualcosa di strano. La tenda che chiudeva l'entrata ricadde alle spalle dello schiavo che si ritirava, mentre Nefer si toglieva il copricapo, rivelando una cascata di capelli ricci. Mintaka gridò di nuovo. «Oh, per la grazia di Hathor, sei tu. Sei proprio tu! Credevo che non saresti mai venuto.» Volò verso di lui e Nefer le corse incontro, stringendola a sé. Si abbracciarono, parlando contemporaneamente e farfugliando parole incoerenti, ciascuno dei due ansioso di rassicurare l'altro sul proprio amore e di spiegare quanto avesse sentito la sua mancanza. Le ancelle si ripresero dallo stupore, cominciando a danzare intorno a loro, battendo le mani e piangendo di gioia e di eccitazione. Allora intervenne Taita e mise a tacere le ragazze con pochi colpi di bastone ben mirati. «Basta con questo stupido squittio. Ancora un po', e farete accorrere qui tutte le sentinelle.» Dopo averle riportate sotto controllo, si rivolse a Hilto e Meren, che, obbedendo alle sue istruzioni, stesero sul pavimento il grande tappeto. «Mintaka, ascoltami!» disse poi. «Per il resto ci sarà tempo in seguito.» Continuando a tenere le braccia intorno al collo di Nefer, lei lo guardò. «Sei stato tu a chiamarmi, vero, Taita? Ho sentito così chiaramente la tua voce. Se non mi avessi fermato, avrei...» «Ti credevo una ragazza intelligente e invece te ne stai qui a chiacchierare quando la posta in gioco è così alta...» tagliò corto Taita. «Per farti uscire dal palazzo dovremo nasconderti nel tappeto. Fa' presto, adesso.» «Ho il tempo di prendere il mio...» «No», ribatté Taita. «Non c'è tempo per nient'altro che non sia obbedirmi.» Lei baciò ancora una volta Nefer, prolungando l'abbraccio, poi corse nella stanza, gettandosi lunga distesa sul tappeto. Guardò le ancelle, che erano rimaste ferme sulla soglia, sbalordite. «Fate tutto quello che vi dice Taita.» «Non puoi lasciarci, padrona», gemette la sua favorita, Tinia. «Senza di te è come se non esistessimo.» «Non sarà per molto. Ti prometto che ti manderò a chiamare, Tinia, ma, Wilbur Smith
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fino a quel momento, sii coraggiosa e non deludermi.» Nefer aiutò Hilto e Meren ad arrotolare il tappeto a disegni rossi su Mintaka, mettendole tra le labbra l'estremità di una lunga canna vuota; l'altra estremità, che sporgeva di due dita dalle pesanti pieghe del tappeto, le avrebbe consentito di respirare. Nel frattempo Taita dava istruzioni alle schiave in lacrime: «Tinia, tu devi andare in camera da letto e sbarrare la porta. Copriti con le coltri, come se fossi la tua padrona. Le altre resteranno qui. Non dovete aprire la porta a nessuno. A chiunque chieda della vostra padrona, dovete rispondere che è costretta a letto dalla malattia della luna e non può vedere nessuno. Capito?» Tinia annuì, col cuore spezzato, non avendo la forza di parlare. «Tira in lungo più che puoi, ma, quando ti scopriranno, e non potrai più fingere, di' pure tutto quello che vogliono sapere. Non cercare di resistere alla tortura. Se tu morissi o restassi invalida non servirebbe a niente, se non a far rimordere la coscienza alla tua padrona.» «Non posso venire con la regina?» proruppe Tinia. «Senza di lei non so vivere.» «Hai sentito la promessa della tua padrona. Non appena sarà al sicuro, ti manderà a chiamare. Ora noi usciamo e tu spranga la porta dietro di noi.» E si avviarono, portando in spalla il tappeto arrotolato. Nel corridoio, trovarono il vecchio schiavo ad attenderli. «Mi dispiace...» disse, senza accorgersi di nulla. «Ho fatto del mio meglio per voi, come mi ha ordinato Soleth. Una volta la regina Mintaka era una fanciulla gentile e felice, ma ora non lo è più. Da quando si è sposata è diventata triste e irascibile...» Invitandoli a seguirlo, li guidò di nuovo nel labirinto dell'harem finché non raggiunsero la porticina laterale, dove si trovarono ancora una volta di fronte al comandante delle guardie. «Srotolate quei tappeti!» ordinò in tono brusco. Taita gli si avvicinò, fissandolo negli occhi. L'espressione ostile dell'ufficiale si dissolse quasi all'istante. «Vedo che ti senti felice e soddisfatto», disse il mago a bassa voce e, sul volto grinzoso dell'uomo, comparve lentamente un sorriso ebete. «Molto felice», ripeté Taita, posando la mano sulla spalla della guardia. «Molto felice», ripeté lui. «Hai già frugato nei tappeti. Certo non vorrai sprecare il tuo tempo prezioso, vero?» «No, non voglio sprecare il mio tempo», dichiarò la guardia, come se Wilbur Smith
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fosse un'idea sua. «Tu vuoi che passiamo.» «Passate!» esclamò l'altro. «Sì, voglio farvi passare.» Si fece da parte, e uno dei suoi uomini alzò la sbarra, facendoli uscire nel vicolo. L'ultima volta che intravidero il comandante, mentre la porta si chiudeva, aveva ancora un sorriso beato sulle labbra. Il carro era rimasto dove lo avevano lasciato, sotto la sorveglianza dei monelli. Caricarono con precauzione il tappeto e Nefer mormorò all'interno del rotolo: «Mintaka, tesoro, stai bene?» «Fa caldo e l'aria è viziata, ma è un piccolo prezzo da pagare per sapere che sei vicino a me.» La sua voce era soffocata, e Nefer introdusse la mano nel tubo formato dal rotolo per sfiorarle la testa. «Sei coraggiosa come una leonessa», le disse. Poi si arrampicò sul carro alle spalle di Taita, mentre il vecchio incitava i cavalli. «Tra poco le porte della città saranno chiuse per la notte», mormorò Taita, facendo schioccare la frusta. «Quando la fuga di Mintaka sarà scoperta, la prima cosa che faranno sarà sigillare le uscite dalla città, perquisire tutti gli edifici e i veicoli e interrogare gli stranieri che si trovano entro le mura.» Imboccarono a tutta velocità l'ampio viale che conduceva alla porta orientale, ma, avvicinandosi, scoprirono che la strada era ingombra di altri carri e carretti, disposti in fila per uscire. Quel giorno si era celebrata una festa religiosa accompagnata da una processione, quindi c'erano molti fedeli e curiosi che tornavano nei villaggi intorno ad Avaris. La fila avanzava con lentezza esasperante. Il sole era già sceso dietro le mura e la luce era ormai fioca, ma c'erano ancora due carri davanti a loro, quando il capitano uscì dal posto di guardia per gridare ai suoi uomini: «Basta così! Il sole è tramontato. Chiudete la porta!» Subito si levò un'ondata di proteste da parte dei viandanti che dovevano ancora uscire. «Io ho una bambina malata e devo portarla a casa.» «Ho già pagato il pedaggio. Lasciatemi passare, altrimenti il carico di pesce andrà a male.» Uno dei carri più piccoli si spinse in avanti di proposito per impedire alle guardie di chiudere i battenti, e scoppiò una piccola rissa, con le guardie che gridavano, distribuendo bastonate, i cittadini indignati che Wilbur Smith
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gridavano a loro volta e i cavalli spaventati che s'impennavano e nitrivano. D'un tratto si udì un altro trambusto all'esterno delle mura. Voci più sonore sopraffecero le proteste di viandanti e guardie. «Fate largo al Faraone! Liberate la strada per il Faraone Trok Uruk!» Il rullo di un tamburo da guerra sottolineò l'urgenza dell'ordine. Le guardie rinunciarono al tentativo di chiudere i battenti, anzi s'intralciarono a vicenda nella fretta di spalancarli di nuovo per consentire il passaggio di una fila di carri da guerra. Sul primo carro sventolava lo stendardo rosso col leopardo. Sul carro troneggiava la figura del Faraone Trok Uruk, con l'elmo di bronzo scintillante e la barba adorna di nastri sospinta dal vento su una spalla, la frusta e le redini strette nelle mani protette dai guanti. Non appena la porta si aprì, Trok lanciò il suo equipaggio, formato da quattro cavalli, in mezzo alla massa di persone e di carri che occupavano la strada, frustando senza discriminazioni chiunque ostacolasse il suo cammino. I suoi uomini lo precedevano correndo a piedi, rovesciando qualunque veicolo sbarrasse loro il passo e trascinandolo di lato, cosicché finirono nelle cunette carichi interi di verdure e di pesce. «Fate largo al Faraone!» gridavano, per sopraffare le urla di chi era rimasto bloccato in mezzo alla confusione. Raggiunto il carro di Taita, i soldati cominciarono a rovesciarlo per liberare la strada al carro di Trok. Il vecchio si drizzò per colpirli con la frusta, ma i suoi colpi caddero su elmi e corazze di bronzo, senza fare danno. I soldati risero, facendo forza tutti insieme e rovesciando il carro. Il tappeto arrotolato scivolò dal pianale, rischiando di essere schiacciato dal veicolo rovesciato. «Aiutatemi!» gridò Nefer, saltando a terra per trattenere il rotolo e attutirne la caduta. Hilto l'afferrò per un'estremità e Bay per l'altra. Mentre il carro si abbatteva sul fianco con uno scricchiolio di legno spezzato, i due riuscirono a mettere in salvo Mintaka, sempre protetta dal rotolo, addossandola al muro dell'edificio più vicino. Il Faraone Trok sospinse a forza il carro in mezzo ai rottami e alle merci sparse a terra, facendo schioccare la frusta sulla testa dei suoi cavalli da guerra e lanciando ordini tonanti: «Colpite! Colpite!» I cavalli, addestrati al combattimento, obbedirono ai suoi ordini, drizzandosi sulle zampe posteriori per colpire con gli zoccoli dai ferri di bronzo chiunque si parasse loro davanti. Nefer vide una vecchia finire proprio sotto gli zoccoli, uno dei quali la colpì in pieno viso. La testa della vecchia si spaccò in due e i denti Wilbur Smith
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volarono via come una raffica di chicchi di grandine, piovendo sul selciato mentre la donna finiva sotto il carro di Trok. Le ruote di bronzo sussultarono, mentre lui passava sul corpo, schiacciandolo, così vicino a Nefer, rannicchiato sul tappeto arrotolato per proteggere Mintaka, che i due si guardarono negli occhi. Gli stracci che indossava e il tessuto avvolto intorno alla testa impedirono a Trok di riconoscerlo; comunque lui, con un gesto di crudeltà distratta, assestò al giovane una frustata sulla spalla. I puntali di metallo della sferza penetrarono nel tessuto, disegnandovi una fila di puntini rossi di sangue. «Fammi largo, contadino!» ringhiò Trok. Nefer si raccolse su se stesso per balzare a bordo del carro e afferrarlo per la barba, trascinandolo a terra. Quello era il bruto che aveva umiliato Mintaka, e l'ira stendeva un velo rosso davanti ai suoi occhi. Taita lo afferrò vigorosamente per il braccio, trattenendolo. «Lascia stare. Porta il tappeto fuori delle mura, idiota, altrimenti resteremo qui, in trappola.» Nefer lottò per liberarsi, ma il vecchio lo scrollò con violenza quasi brutale. «Vuoi perderla di nuovo così presto?» Nefer riprese il controllo di sé, chinandosi per afferrare un'estremità del rotolo, aiutato dagli altri. Portandolo in spalla, corsero verso la porta, ma la squadra di carri era già passata e le guardie stavano chiudendo di nuovo i pesanti battenti di bronzo. Taita li precedette, disperdendo le guardie a colpi di bastone. Quando una di loro levò una mazza sopra la sua testa, Taita si voltò a guardare l'uomo, fissandolo coi suoi occhi ipnotici, e quello si ritrasse come se avesse di fronte un leone divoratore di uomini. Riuscirono a sgusciare nel varco stretto tra i battenti, correndo verso l'accampamento che era sorto sotto le mura della città. Nonostante le grida furiose che li seguivano, fecero perdere le proprie tracce tra le tende di cuoio e le baracche, nella penombra del crepuscolo. Dietro un recinto di capre deposero a terra il loro fardello e svolsero il tappeto. Mintaka, accaldata e scarmigliata, si sedette per terra, sorridendo nel vedere Nefer in ginocchio davanti a sé. Si abbracciarono sotto gli occhi degli altri, ma Taita li riportò alla realtà. «Trok è tornato inaspettatamente», fece notare a Mintaka. «Non passerà molto prima che scopra la tua scomparsa.» La rimise in piedi. «Abbiamo perso il nostro mezzo di trasporto, e ci attende un lungo viaggio. Se non partiamo subito, non riusciremo a raggiungere l'oasi dove abbiamo lasciato i carri se non domani, all'alba.» Mintaka divenne seria. «Sono pronta», replicò. Wilbur Smith
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Taita abbassò gli occhi sui fragili sandali d'oro decorati con borchie di turchesi che aveva ai piedi, e si allontanò tra le baracche, tornando pochi minuti dopo con una vecchia trasandata. Teneva in mano un paio di sandali da contadina, logorati dall'uso ma solidi, e annunciò: «Li ho scambiati coi tuoi». Mintaka si sfilò i deliziosi sandali senza esitare, consegnandoli alla vecchia, che si affrettò ad allontanarsi prima che qualcuno potesse portarglieli via. Poi la ragazza si alzò, dicendo: «Sono pronta. Da che parte si va, mago?» Nefer la prese per mano e seguirono Taita che si addentrava nel deserto. Trok entrò dalla porta del palazzo, tirando le redini dei cavalli, coperti di polvere e di sudore, per arrestare il carro nel cortile che si apriva di fronte al suo splendido appartamento. Due ufficiali della sua cavalleria, entrambi membri del clan del Leopardo e suoi amici personali, lo seguirono, entrando a passi pesanti nella sala del banchetto con un gran fragore di armi e scudi. Gli schiavi avevano preparato un banchetto per festeggiare il ritorno a casa del Faraone, e Trok tracannò una coppa di vino rosso dolce, afferrando un cosciotto lesso di cinghiale. «C'è qualcosa che desidero più del cibo o del vino», esclamò, strizzando l'occhio ai compagni, e gli altri scoppiarono a ridere fragorosamente, dandosi di gomito. Trok sapeva che i suoi problemi coniugali erano di pubblico dominio e che il modo in cui lo trattava la moglie stava minando la sua reputazione. Nonostante le vittorie ottenute sui ribelli del sud e la crudele rappresaglia che aveva inflitto loro, il suo prestigio di uomo ne risentiva, e lui era deciso a capovolgere la situazione quella notte stessa. «C'è cibo in abbondanza, persino per due buoi come voi, e vino sufficiente per affogarci un ippopotamo», esclamò Trok, indicando il tavolo, che scricchiolava sotto il peso dei piatti da portata. «Fate del vostro peggio, ma non aspettatevi che vi raggiunga prima di domani. Ho un campo da arare e una puledra indomabile da piegare alla mia volontà.» Usci dalla sala, spolpando l'osso che aveva in mano e ingoiando bocconi di carne grassa. Due schiavi lo precedevano, correndo con la torcia accesa in mano per illuminargli la strada lungo i corridoi immersi nell'ombra che portavano all'harem. Gli eunuchi di guardia alla porta dell'appartamento di Mintaka lo sentirono arrivare e sguainarono le armi con un gesto elaborato, Wilbur Smith
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incrociandole sul petto in segno di saluto. «Aprite la porta!» ordinò Trok, gettando via l'osso. «Maestà, la porta è sbarrata», disse una delle sentinelle, salutandolo di nuovo con un gesto nervoso. «Per ordine di chi?» domandò Trok furioso. «Per ordine di sua maestà la regina Mintaka.» «Non lo tollero più, in nome di Seueth! Quella piccola arrogante sa benissimo che sono qui», sbraitò Trok, sguainando la spada e bussando alla porta col pomo di bronzo. Non ottenendo risposta, ritentò. Il suono dei colpi echeggiò nei corridoi silenziosi, senza che dalla parte opposta si udissero segni di vita. Allora lui indietreggiò per caricare la porta con la spalla, nell'intento di sfondarla. I battenti tremarono sotto quel colpo d'ariete, ma senza cedere. Trok afferrò una picca dalle mani della guardia più vicina e cominciò a sferrare colpi violenti contro il pannello della porta. Schegge di legno volarono via sotto la lama, finché Trok non riuscì ad aprire un varco sufficiente per infilare il braccio all'interno e spostare il pesante chiavistello che sbarrava la porta. Aprendo la porta con un calcio, irruppe a passo di carica nella stanza. Le ancelle erano tutte rannicchiate contro la parete opposta, terrorizzate. «Dov'è la vostra padrona?» gridò Trok. Le ragazze si lasciarono sfuggire un balbettio incoerente, ma senza riuscire a evitare che i loro occhi corressero verso la porta della camera da letto. Trok si diresse da quella parte, e subito dalle ancelle si levò un grido. «Sta male.» «Non può riceverti.» «È arrivata la sua luna.» Trok scoppiò a ridere. «Ha usato questa scusa troppo spesso.» Martellò di pugni la porta. «Se c'è del sangue, allora sarà meglio che scorra a fiumi, più di quanto ne ho versato sul campo di Manashi. Per Seueth, lo attraverserò a guado, pur di raggiungere le porte della beatitudine.» Prese a sferrare calci contro la porta della camera da letto. «Apri, piccola ribelle! Tuo marito è venuto a mostrarti il suo doveroso rispetto.» Al calcio successivo, il battente si aprì, staccandosi dai cardini di cuoio, e Trok entrò, barcollando per il contraccolpo. Il letto era di ebano, con intarsi in argento e madreperla. La figura femminile che vi era riversa sopra era nascosta sotto le coltri ammucchiate alla rinfusa, da cui sporgeva Wilbur Smith
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soltanto un piedino. Trok lasciò cadere a terra la cintura con la spada, esclamando: «Ti sono mancato, mio piccolo giglio? Hai spasimato al pensiero delle mie braccia amorevoli?» Afferrò il piede nudo per trascinare la ragazza fuori delle coltri. «Su, dolce agnellino mio. Ho un altro regalo per te, tanto lungo e duro che non potrai né venderlo né darlo via.» Poi s'interruppe, fissando a bocca aperta l'ancella che frignava, terrorizzata. «Tinia, sporca sgualdrinella, che cosa ci fai nel letto della tua padrona?» Senza attendere la risposta, la scaraventò sul pavimento e cominciò ad aggirarsi per la stanza, strappando le tende e le tappezzerie. «Dove sei?» Aprì a calci la porta dello stanzino da toeletta. «Vieni fuori! Questo comportamento non ti servirà a niente.» Gli bastò un minuto per accertarsi che Mintaka non era nascosta nell'appartamento. Allora tornò da Tinia, afferrandola per i capelli e trascinandola sul pavimento. «Dov'è?» sibilò, furioso. La prese a calci nel ventre, mentre lei gridava, cercando di rotolare lontano dai suoi sandali di metallo. «Ti batterò finché non parlerai. Strapperò fino l'ultimo lembo di pelle da questo tuo corpo miserabile!» «Non è qui», gridò Tinia. «Se n'è andata!» «Dove?» Trok le sferrò un altro calcio, coi sandali da guerra tempestati di chiodi di bronzo che affondavano nelle carni tenere dell'ancella come lame di coltello. «Dove?» «Non lo so», rispose lei, urlando di dolore. «Sono venuti degli uomini a portarla via.» «Quali uomini?» Nonostante le istruzioni di Taita, la ragazza non voleva tradire la sua padrona adorata. «Erano... sconosciuti. Non li ho mai visti. L'hanno avvolta in un tappeto e l'hanno portata via.» Trok le affibbiò un altro calcio brutale, poi si diresse verso la porta, gridando agli eunuchi: «Trovate Soleth! Conducete subito qui il grassone». Soleth si presentò, tremante di paura, torcendosi le mani lisce e paffute. «Divino Faraone, massimo tra gli dei, gloria dell'Egitto!» Si gettò ai piedi di Trok, che prese lo slancio per sferrargli un calcio col sandalo da guerra. «Chi erano gli uomini che hai lasciato entrare nell'harem?» «Obbedendo ai tuoi ordini, grazioso Faraone, ho fatto entrare tutti i venditori di mercanzie fini, perché le mostrassero alla regina.» «Chi era il venditore di tappeti? Chi era l'ultimo che è entrato in questo alloggio?» Wilbur Smith
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«Il venditore di tappeti?» ripeté Soleth, come per riflettere sulla domanda. Trok gli assestò un altro calcio. «Sì, Soleth: tappeti! Come si chiamava?» «Ora ricordo, il mercante di tappeti di Ur. Ho dimenticato il suo nome.» «Te la rinfresco io, la memoria.» Trok chiamò gli eunuchi di guardia. «Tenetelo fermo sul letto.» Le guardie trascinarono Soleth sul letto disfatto, immobilizzandolo a faccia in giù. Trok raccolse la cintura che si era tolto, sguainando la spada. «Sollevategli le vesti.» Uno degli eunuchi sollevò la veste di Soleth, mettendo allo scoperto le natiche grassocce. «So che metà delle guardie del palazzo è passata di qui», osservò, sfiorandogli l'ano con la punta della spada. «Ma nessuno di loro era duro o affilato come questa spada. Ora dimmi chi era il mercante di tappeti.» «Giuro sul pane e sull'acqua del Nilo che non lo avevo mai visto prima.» «Per te è un vero peccato», commentò Trok, infilandogli nel retto la punta della spada per la lunghezza di un indice. Soleth lanciò un grido acuto e tremolante. «Quella era soltanto la punta», lo ammonì l'altro. «Visto che ti piace tanto, posso infilarti dentro un altro cubito di bronzo, fino alla gola.» «Era Taita», gridò Soleth, che ormai perdeva sangue in abbondanza. «L'ha portata via Taita.» «Taita!» esclamò Trok stupito, ritirando la lama. «Taita, il mago.» Nel suo tono affiorava un terrore superstizioso. Poi rimase in silenzio a lungo. Infine guardò gli eunuchi che tenevano fermo Soleth e mormorò: «Lasciatelo andare». L'eunuco si mise a sedere, gemendo di dolore, e, in seguito al movimento, il gas fuoriuscì dalle sue viscere attraverso lo squarcio, con un lungo peto gorgogliante. «Dove l'ha portata?» Trok ignorò quel suono e l'odore disgustoso che invase la stanza. «Non me lo ha detto.» Soleth raccolse il lenzuolo di lino dal letto, stringendolo tra le gambe per arrestare l'emorragia. Trok sollevò la punta della spada, sfiorandogli una delle mammelle flaccide lasciate scoperte dalla veste. Soleth piagnucolò, lasciandosi sfuggire un altro peto. «Non me lo ha detto, ma abbiamo parlato della terra che si stende tra i due fiumi, il Tigri e Wilbur Smith
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l'Eufrate. Forse è là che intende condurre la regina.» Trok rifletté per qualche istante. Era logico. Ormai Taita doveva essere al corrente della tensione che esisteva nei rapporti tra l'Egitto e i regni orientali, e di certo sapeva che laggiù avrebbe potuto trovare asilo e protezione, ammesso che riuscisse a raggiungere quelle terre. Ma che motivo poteva avere per rapire Mintaka? Non certo per chiedere un riscatto, visto che era ben noto il disprezzo che provava nei confronti dell'oro e delle ricchezze. Non poteva trattarsi neppure di un desiderio carnale. Quell'eunuco non era in grado di provare una passione fisica. C'entrava forse l'amicizia nata tra il vecchio e la fanciulla? Lei gli aveva forse rivolto un appello perché l'aiutasse a fuggire da Avaris e da un matrimonio che le era insopportabile? Di certo l'aveva seguito volontariamente, e forse con piacere. Lo dimostrava il modo in cui le ancelle avevano tentato di coprire la sua fuga, ed era chiaro che non aveva protestato, perché, se lo avesse fatto, le guardie l'avrebbero sentita. Per il momento, comunque, accantonò quelle considerazioni. Il problema principale era organizzare l'inseguimento per catturare lei e il mago prima che raggiungessero le rive del mare nell'intento di passare nei territori legati da un giuramento di fedeltà a Sargon di Babilonia. Sorrise a Soleth. «Spero che i tuoi spasimanti trovino di loro gusto la modifica che ho apportato alla tua porta della gioia. Me ne occuperò di nuovo al mio ritorno. Ci sono iene affamate e avvoltoi da sfamare.» I due ufficiali si trovavano ancora nella sala del banchetto, intenti a rimpinzarsi di cibo e di vino, ma non avevano avuto il tempo sufficiente per bere fino a istupidirsi. «Quanti carri possiamo attrezzare e far partire verso oriente prima di mezzanotte?» chiese loro Trok. I due rimasero sbalorditi, ma erano veterani e reagirono subito, anche perché intuirono l'ira del loro sovrano. Tolma sputò il sorso di vino che stava per inghiottire e balzò in piedi, vacillando appena sulle gambe. «Posso farne partire cinquanta entro due ore», rispose con un rutto. «Voglio che siano cento», pretese Trok. «Ne metterò al tuo comando cento prima di mezzanotte.» Zander balzò in piedi a sua volta, non volendo restare indietro. «E altri cento partiranno prima dell'alba.» Taita li guidò nella notte, rischiarata da una luna quasi piena. La punta Wilbur Smith
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del suo bastone risuonava sul sentiero sassoso, mentre la sua ombra lo precedeva, svolazzando come un mostruoso pipistrello nero. Gli altri dovevano allungare il passo per non perderlo di vista. D'un tratto, Mintaka cominciò a mostrare segni di cedimento. Zoppicava vistosamente e rimaneva sempre più indietro, tanto che Nefer rallentò per restarle a fianco. Non si era aspettato tanta debolezza, in lei: di solito non era da meno dei ragazzi, e nella corsa poteva addirittura batterli. Le mormorò qualche incoraggiamento sottovoce, per non farsi sentire da Taita. Non voleva che il mago notasse quel suo indebolimento, svergognandola agli occhi degli altri. «Ormai non manca molto», le disse, prendendola per mano in modo da guidarla. «Bay terrà i cavalli pronti per noi, e viaggeremo da re per il resto del tragitto fino a Babilonia.» Lei rise, ma la sua era una risata stentata e sofferente. Soltanto allora lui capì che c'era qualcosa che non andava. «C'è qualcosa che ti fa soffrire?» le domandò. «No, niente», rispose Mintaka. «Sono rimasta segregata nel palazzo troppo a lungo, e le mie gambe si sono infiacchite.» Ma Nefer non intendeva accettare quella spiegazione. Afferrandola per il braccio, la costrinse a sedersi su una roccia di fianco al sentiero, sollevò uno dei piedini e le slacciò il sandalo. Quando glielo tolse, si lasciò sfuggire un'esclamazione sbalordita. «Dolce Horus, come hai potuto fare anche un solo passo in queste condizioni?» Il sandalo grezzo e troppo grande per il piede l'aveva ferita; il sangue appariva nero e lucente al chiaro di luna. Nefer sollevò delicatamente l'altro piede per toglierle anche il secondo sandalo e, insieme col cuoio, vennero via lembi di pelle e di carne. «Mi dispiace», sussurrò lei. «Ma non devi preoccuparti. Posso sempre camminare a piedi nudi.» Furioso, lui scagliò tra le rocce le calzature insanguinate. «Avresti dovuto avvertirmi prima.» Si alzò, rimettendola in piedi, poi le rivolse il dorso, preparandosi a sostenere il suo peso. «Passami le braccia intorno al collo e salta su.» Trasportandola in questo modo, riprese il cammino per raggiungere gli altri, che ormai erano poco più che un'ombra scura in movimento sul deserto rischiarato dalla luna. Lei gli teneva la bocca accostata all'orecchio, sussurrandogli parole dolci nel tentativo di distrarlo e incoraggiarlo, mentre lui avanzava a fatica. Gli spiegava quanto avesse sentito la sua mancanza e come, nel momento in Wilbur Smith
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cui aveva saputo della sua presunta morte, avesse deciso di non avere più ragioni per vivere. «Volevo morire, per stare di nuovo con te.» Poi gli parlò della sacerdotessa di Hathor, che le aveva portato il serpente. Nefer rimase inorridito al punto di deporla a terra per rimproverarla con ira. «È stata un'idiozia.» In preda all'agitazione, la scrollò rudemente. «Non pensarlo mai più, qualunque cosa accada in futuro.» «Non puoi sapere quanto ti amo, tesoro mio. Non puoi immaginare la disperazione che ho provato al pensiero che tu non ci fossi più.» «Dobbiamo fare un patto: d'ora in poi dobbiamo vivere l'uno per l'altra, e non pensare alla morte finché non verrà a trovarci senza essere invitata. Devi giurarmelo!» «Te lo giuro. D'ora in poi vivrò soltanto per te», rispose Mintaka, baciandolo per suggellare il patto. Lui la riprese in spalla e proseguirono. Il peso sembrava aumentare a ogni passo. Se la strada era soffice e sabbiosa, Nefer la deponeva a terra e lei gli si appoggiava, per camminare zoppicando coi piedi sbucciati a sangue. Se invece la pista diventava accidentata e sassosa, la riprendeva in spalla, per ricominciare a fatica la marcia. Mintaka gli raccontò che Taita l'aveva vista a distanza e l'aveva salvata dalla tentazione di morire. «È stata la sensazione più straordinaria che abbia mai provato», gli confidò. «Pareva che fosse al mio fianco e mi parlasse con voce forte e chiara. Mi ha detto che eri ancora vivo. Quanto eravate distanti quando mi ha vista dall'alto?» «Eravamo a Gebel Nagara, nel sud, a quindici giorni di viaggio da Avaris.» «Ed è riuscito a coprire una distanza simile?» chiese lei, incredula. «Non esiste confine ai suoi poteri?» Si fermarono per l'ennesima volta a riposare nel buio, e Mintaka si appoggiò alla spalla di Nefer, sussurrando: «C'è una cosa che voglio dirti, riguardo alla mia notte di nozze con Trok...» «No!» esclamò lui con veemenza. «Non voglio sentire. Non credi che mi sia già torturato abbastanza ogni giorno, con questo pensiero?» «Invece devi ascoltarmi, amore mio. Non sono mai diventata sua moglie. Anche se ha tentato di forzarmi, sono riuscita a resistere. Il mio amore per te mi ha dato la forza di negarmi a lui.» «Ho sentito dire che ha esposto sulle mura del palazzo il vello macchiato di rosso.» Il semplice pronunciare quelle parole lo faceva soffrire, e distolse il viso da lei. Wilbur Smith
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«Sì, era il mio sangue», confermò lei, e Nefer s'irrigidì, tentando di liberarsi dal suo abbraccio, ma lei lo tenne fermo. «Ma non era il sangue della mia verginità. Era quello che mi è uscito dal naso e dalla bocca quando mi ha picchiato per costringermi a cedere. Ti giuro in nome dell'amore che provo per la dea, e della speranza di darti un giorno dei figli, che sono ancora vergine, e tale resterò finché non accetterai da me la mia verginità come una prova d'amore.» Lui la prese tra le braccia, baciandola e piangendo di sollievo e di gioia, e lei pianse con lui. Qualche tempo dopo si alzò per riprenderla sulle spalle. Era come se il suo voto gli avesse infuso nuova forza, e proseguirono il cammino con maggiore energia. Era già mezzanotte passata allorché gli altri si accorsero che era successo qualcosa e tornarono indietro a cercarli. Taita fasciò i piedi di Mintaka, dopodiché Hilto e Meren la trasportarono a turno. In questo modo riuscirono ad aumentare l'andatura, ma le stelle cominciavano già a sbiadire e la luce dell'alba si stava intensificando quando raggiunsero l'oasi in cui Bay li attendeva coi cavalli. Erano tutti esausti, ma Taita non li lasciò riposare. Abbeverarono i cavalli per l'ultima volta e riempirono gli otri d'acqua finché non divennero tesi e lucenti, coperti da un velo di umidità. Nel frattempo Taita riempì a metà un secchio con l'acqua del pozzo e, usando un unguento schiumoso, si lavò la tintura dai capelli finché non tornarono a risplendere come una massa d'argento. «Perché perde tempo a lavarsi i capelli in un momento come questo?» si domandò Meren. «Forse questo gli restituisce una parte della forza che ha perduto tingendoli», suggerì Mintaka, e nessuno trovò più da ridire. Quando furono pronti a partire, Taita li costrinse a bere di nuovo dal pozzo, incitandoli a riempirsi il ventre con tutta l'acqua che riuscivano a mandar giù senza vomitare. Mentre obbedivano, lui si consultò sottovoce con Bay. «Lo senti?» Bay annuì con un'espressione torva. «È nell'aria, e lo sento ripercuotersi attraverso le piante dei piedi. Stanno arrivando.» Nonostante l'urgenza del momento e la minaccia del nemico che si avvicinava, Taita colse ancora l'opportunità di medicare i piedi di Mintaka, coprendo di unguento i punti in cui si vedeva la carne viva e fasciandoli Wilbur Smith
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nuovamente. Infine ordinò di salire a bordo dei carri. Prese con sé Meren nel carro di testa come portatore di lancia, mentre Nefer lo seguiva, con Mintaka aggrappata al pannello anteriore per alleggerire il peso che gravava sui piedi. Hilto e Bay chiudevano la marcia a bordo dell'ultimo carro. Il mercante assiro che aveva venduto loro i tappeti stava controllando servi e schiavi mentre caricavano i carri delle merci e gli animali da soma. Quando gli passarono accanto, si voltò a seguirli con lo sguardo, salutando Taita, ma il suo interesse si ridestò nel vedere la ragazza a bordo del secondo carro. Neppure gli abiti impolverati e i capelli in disordine riuscivano a celare la sua bellezza. Li stava ancora fissando allorché superarono l'ultima duna e scomparvero nel deserto, diretti a oriente lungo la strada carovaniera che li avrebbe condotti sulle rive del mar Rosso. Mentre attendeva con impazienza che i suoi squadroni si radunassero davanti alle porte della città, Trok ordinò a Tolma di mandare gli uomini a perquisire l'accampamento di mendicanti e stranieri sotto le mura di Avaris. «Butta all'aria ogni tugurio, e controlla che la regina Mintaka non sia nascosta lì. Cerca Taita il mago. Portami qualunque uomo alto, vecchio e magro che riuscirai a trovare. Lo interrogherò io stesso.» Tra le capanne risuonarono grida e urla laceranti, miste allo schianto delle porte sfondate e delle fragili pareti abbattute dagli uomini di Tolma per eseguire gli ordini. Poco dopo, due soldati tornarono indietro, trascinando una vecchia beduina sudicia verso il punto in cui Trok stava vicino al suo carro. La donna lanciava grida isteriche contro gli uomini, scalciando e dibattendosi tra le loro braccia. «Che cosa c'è, soldato?» domandò Trok, mentre gettavano la donna ai suoi piedi. Un soldato tenne sollevato un paio di fragili sandali d'oro, decorati con borchie di turchesi, che scintillavano alla luce delle torce. «Maestà, nella sua capanna abbiamo trovato questi.» Il viso di Trok si rabbuiò per la collera quando li riconobbe. Sferrò un calcio al ventre della donna. «Dove li hai rubati, sudicia babbuina?» «Non ho mai rubato niente, divino Faraone», rispose lei, piagnucolando. «Me li ha dati lui.» «Chi era lui? Rispondi subito, o ti farò annegare.» «Il vecchio... è stato lui a darmeli.» Wilbur Smith
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«Descrivilo.» «Era alto e ossuto.» «Quanti anni aveva?» «Era vecchio quanto le rocce del deserto. E' stato lui a darmeli.» «C'era una ragazza con lui?» «C'erano tre uomini e una graziosa sgualdrinella vestita di roba fine, con la faccia dipinta e i nastri nei capelli.» Trok la tirò in piedi di scatto, gridando: «Dove sono andati? Da che parte?» Con la mano tremante, la vecchia indicò la strada che portava tra le colline, verso il deserto. «Quando?» chiese Trok. «Da un tempo pari a questo percorso della luna», rispose lei, indicando un arco nel cielo che corrispondeva a quattro o cinque ore. «Quanti cavalli avevano?» ringhiò Trok. «Avevano carri? Carretti per le merci? In che modo viaggiavano?» «Non avevano cavalli. Andavano a piedi, ma in gran fretta.» Trok la spinse lontano da sé, sorridendo a Tolma che gli stava a fianco. «A piedi non andranno lontano. Li prenderemo, non appena riuscirai a far alzare i tuoi poltroni dal loro pagliericcio per salire a bordo dei carri.» Il sole splendeva in mezzo al cielo quando Trok raggiunse la sommità delle colline che sovrastavano l'oasi, alle porte del deserto. Lo seguivano duecento carri, disposti in colonna per quattro. Cinque leghe più indietro procedeva Zander, con altri duecento carri che sollevavano una nube di polvere ben visibile alla luce del sole. Ogni veicolo trasportava due soldati armati fino ai denti ed era carico di otri d'acqua, fasci di giavellotti e frecce di riserva. Ai loro piedi videro il mercante assiro, a capo della sua carovana, risalire il pendio per allontanarsi dal pozzo. Trok gli andò incontro, salutandolo a distanza. «Benvenuto, straniero. Da dove vieni, e qual è la tua attività?» Il mercante guardò quell'esercito agguerrito con una certa trepidazione, non sapendo che cosa aspettarsi né come rispondere. Il saluto cordiale di Trok non significava granché: nel lungo viaggio dalla Mesopotamia aveva incontrato ladri, banditi e signori della guerra. Trok arrestò il carro davanti a lui. «Io sono sua maestà il divino Faraone Trok Uruk. Benvenuto nel Basso Egitto. Non temere, sei sotto la mia Wilbur Smith
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protezione.» Il mercante cadde in ginocchio, rendendogli omaggio. Una volta tanto, Trok si mostrò spazientito da quei segni di rispetto e tagliò corto. «Alzati e rispondi, brav'uomo. Se sarai onesto con me e mi dirai quello che voglio sapere, ti concederò la licenza di commerciare in tutto il mio regno senza pagare tasse, e manderò dieci carri a scortarti fino alla porta di Avaris.» Il mercante si affrettò ad alzarsi per esprimere la sua profonda gratitudine, pur sapendo per esperienza che, di solito, tanta generosità da parte di un sovrano costava cara. Trok lo interruppe. «Sto inseguendo una banda di criminali in fuga. Li hai visti?» «Lungo la strada ho incontrato un gran numero di viandanti», rispose con prudenza l'assiro. «Se la tua divina maestà si degna di descrivere questi furfanti, farò del mio meglio per metterti sulle loro tracce.» «Probabilmente sono cinque o sei e devono essere diretti a oriente. Con loro c'è una giovane donna, ma tutti gli altri sono uomini. Il loro capo è un vecchio furfante, alto e magro. Forse aveva i capelli tinti di nero o di marrone...» Trok non riuscì a continuare, perché l'assiro lo interruppe, tutto eccitato. «Li conosco bene, maestà. Qualche giorno fa il vecchio coi capelli tinti ha acquistato da me tappeti e abiti vecchi. In quel momento la donna non era con lui. Ha lasciato i cavalli e tre carri laggiù nell'oasi, affidati a un nero dalla faccia orribile. Dopo aver caricato gli altri su un vecchio carro per le merci, insieme coi tappeti che gli avevo venduto, ha imboccato la strada rialzata sulla quale siamo adesso, dirigendosi verso Avaris.» Trok sorrise con aria trionfante. «È quello che sto cercando. Lo hai visto da allora? È tornato a prendere i carri?» «Lui e altri tre sono tornati stamattina, a piedi, dalla direzione di Avaris. Con loro si trovava la giovane donna della quale hai parlato. Sembrava ferita, perché la trasportavano di peso.» «Dove sono andati, amico? Da che parte?» chiese Trok con ansia, ma l'assiro non era disposto a farsi mettere fretta. «La donna era giovane. Anche se era ferita e poteva camminare solo a fatica, indossava abiti fini. Si vedeva che era di alto lignaggio e molto bella, con lunghi capelli scuri.» «Basta così. Conosco abbastanza bene la donna anche senza la tua descrizione. Dopo aver lasciato l'oasi, da che parte sono andati?» «Hanno aggiogato i cavalli ai tre carri e sono partiti subito.» Wilbur Smith
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«Da che parte, amico? Quale direzione hanno preso?» «Si sono diretti a oriente lungo la via carovaniera.» L'uomo indicò la pista tortuosa che saliva tra le colline basse verso le dune. «Ma il vecchio non aveva più i capelli tinti. L'ultima volta che l'ho visto, splendevano come una nube nel cielo estivo.» «Quando sono partiti?» «Un'ora dopo il sorgere del sole, maestà.» «In che condizioni erano i cavalli?» «Avevano bevuto e riposato bene. Erano in attesa all'oasi da tre giorni, e loro si sono portati appresso un carico di foraggio. Stamattina, quando sono partiti, avevano gli otri pieni d'acqua del pozzo e sembravano ben provvisti per il lungo viaggio fino al mare.» «Allora hanno soltanto qualche ora di vantaggio», tuonò Trok, esultante. «Bene, amico, ti sei guadagnato la mia gratitudine. I miei scribi ti rilasceranno la licenza di commerciare e il comandante Tolma ti assegnerà una scorta per raggiungere Avaris. Allorché tornerò in città coi fuggiaschi in catene, riceverai un'altra ricompensa. Avrai un buon posto in prima fila alla loro esecuzione. Fino a quel momento ti auguro buon viaggio e grandi profitti nel mio regno.» Voltandogli le spalle, cominciò a impartire ordini a Tolma, che lo seguiva da vicino nel secondo carro della colonna. «Concedi a quest'uomo una licenza commerciale e una scorta per Avaris. Riempi gli otri con l'acqua del pozzo e fa' bere i cavalli a sazietà, ma in fretta, Tolma. Tieniti pronto a ripartire prima di mezzogiorno. Nel frattempo mandami i maghi e i sacerdoti della compagnia.» I soldati condussero i cavalli al pozzo, dividendoli in gruppi di venti. Gli uomini che non erano impegnati con quel lavoro si stesero all'ombra dei carri per riposarsi un poco e consumare un pasto frugale a base di pane di dhurra e carne secca. Trok trovò un tratto in ombra sotto la chioma di un nodoso albero di tamarindo che cresceva vicino al pozzo. I maghi e i sacerdoti si avvicinarono in risposta alla sua convocazione, accovacciandosi intorno a lui. Erano in quattro: due sacerdoti di Seueth, con la testa rasata e la tunica nera, uno sciamano della Nubia, carico di collane e braccialetti di talismani e ossa, più un mago che veniva dalle terre a oriente e si faceva chiamare Ishtar il medo. Ishtar aveva un occhio coperto da una patina biancastra e il viso tatuato con spirali e cerchi di colore viola e rosso. Wilbur Smith
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«L'uomo che cerchiamo è un adepto delle arti occulte», li avvertì Trok, «e sfrutterà tutti i suoi poteri per rendere vani i nostri sforzi. Si dice che sappia gettare l'incantesimo che rende invisibili e possa evocare immagini capaci di turbare le nostre truppe. Per avere ragione dei suoi poteri, dovrete ricorrere ai vostri incantesimi.» «Chi è questo ciarlatano?» chiese Ishtar il medo. «Puoi stare certo che non riuscirà a prevalere contro le nostre forze combinate.» «Si chiama Taita», rispose Trok. Soltanto Ishtar non tradì lo sgomento nell'apprendere l'identità dell'avversario. «Lo conosco solo di fama», commentò, «ma desideravo da tempo misurarmi con lui.» «Operate le vostre magie», ordinò seccamente Trok. I sacerdoti di Seueth si allontanarono di un breve tratto per disporre sulla sabbia i loro oggetti magici, cominciando a cantare sommessamente e a scuotere i sonagli. Il nubiano frugò tra le rocce intorno al pozzo, finché non trovò, sotto un masso, una vipera cornuta dal veleno letale. Le mozzò il capo, lasciando colare il sangue sulla propria testa. Mentre gli scorreva lungo le guance, gocciolando dalla punta del naso, lui saltellava in cerchio come un grosso rospo nero. Alla fine di ogni circolo sputava verso oriente, dove si trovava Taita. Ishtar invece accese un piccolo fuoco vicino al pozzo e si sedette a gambe incrociate, dondolandosi e mormorando una litania rivolta a Marduk, il più potente tra tutti i duemila e dieci dei della Mesopotamia. Una volta che ebbe impartito gli ordini a Tolma, Trok si avvicinò per osservare Ishtar al lavoro. «Che magia è la tua?» chiese quando l'altro si incise una vena del polso e lasciò cadere alcune gocce del proprio sangue sulle fiamme, dove sfrigolarono. «È la magia del fuoco e del sangue. Sto collocando ostacoli e avversità sul cammino di Taita.» Ishtar non alzò la testa. «Sto confondendo e sviando la mente dei suoi seguaci.» Trok rispose con un grugnito scettico, ma dentro di sé era impressionato, anche perché aveva già visto Ishtar al lavoro. Si allontanò di un breve tratto lungo la strada per fissare con ostilità il profilo delle colline a oriente. Non vedeva l'ora di lanciarsi all'inseguimento ed era risentito per quella sosta forzata. D'altronde era un generale troppo esperto per non rendersi conto della necessità assoluta di riposare e abbeverare i cavalli Wilbur Smith
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dopo la lunga corsa notturna. Conosceva bene la natura del terreno che dovevano attraversare. Quand'era un giovane comandante di carri, l'aveva percorso più volte durante il servizio di pattuglia. Aveva attraversato i tratti di scisto che tagliavano garretti e zoccoli dei cavalli come lame di selce e aveva sopportato la calura terribile e la sete delle dune. Tornò nel punto in cui aveva lasciato il carro, ma dovette fermarsi e voltare le spalle quando un'improvvisa tempesta di polvere arrivò turbinando sulla distesa gialla della pianura, vorticando su se stessa e salendo di alcune centinaia di cubiti nell'aria afosa. Il vortice lo avvolse. L'aria era rovente come la vampata di una fornace, tanto che dovette coprirsi il naso e gli occhi con un lembo del cappuccio e respirare attraverso il tessuto per filtrare la sabbia trasportata dall'aria. Il turbine di sabbia passò oltre, allontanandosi sul terreno ardente con la grazia di una danzatrice dell'harem e lasciandolo lì a tossire e asciugarsi gli occhi. Mancava poco a mezzogiorno, e avevano appena finito di abbeverare i cavalli, quando li raggiunse la seconda colonna, che, al comando di Zander, scese lungo il pendio fino al pozzo. I suoi avevano bisogno d'acqua quanto la prima colonna, e l'oasi rischiava di essere troppo affollata. L'acqua era già scarsa e torbida. Sarebbero stati costretti a ricorrere ai preziosi otri, intaccando così le riserve. Trok tenne una breve riunione con Zander e Tolma, spiegando il suo piano d'azione e la formazione che voleva adottare per impedire a Taita di sfuggire alla rete che gli stavano tendendo. «Avvertite i comandanti delle compagnie di tenere gli occhi aperti per non cadere nelle trappole che escogiterà con la sua magia per confonderci», concluse. «Ishtar il medo ha lanciato un incantesimo potente. Ripongo grande fiducia in lui, perché finora non mi ha mai deluso. Se staremo bene in guardia contro i trucchi del mago, otterremo il successo. Dopotutto, come può prevalere contro un simile schieramento?» Con un ampio gesto del braccio indicò la massa di carri, cavalli e truppe scelte. «No! Per l'alito immondo di Seueth, domani a quest'ora trascinerò Taita e Mintaka dietro il mio carro lungo la via del ritorno ad Avaris.» Ordinò alla colonna di testa di mettersi in marcia. In fila per quattro, sgranandosi lungo mezza lega, intrapresero la marcia nel deserto. Davanti a loro, le tracce della preda erano incise chiaramente sul soffice terreno sabbioso. Wilbur Smith
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Taita segnalò di fermarsi ai due carri che lo seguivano. Arrestarono la loro marcia nell'ombra violacea proiettata sulla sabbia da un'alta duna concava, modellata come la curva elegante di una conchiglia gigantesca. I cavalli davano già segni di stanchezza, e chinarono la testa sul petto ansimante per riprendere fiato. Il sudore si era condensato sul manto pieno di polvere, formando uno strato salmastro simile alla brina. Versarono con cura una razione d'acqua dagli otri nei secchi di cuoio, e i cavalli bevvero con avidità. Taita medicò i piedi di Mintaka, sollevato di non trovare tracce d'infezione. Dopo averli fasciati di nuovo, tirò Bay in disparte. «C'è qualcuno che ci spia a distanza», gli disse senza mezzi termini. «Avverto un'influenza maligna che ci sta lentamente circondando.» «L'ho sentita anch'io, e ho cominciato a opporre resistenza, ma è potente.» «Riusciremo a sventarne meglio gli effetti combinando i nostri poteri.» «È agli altri che dovremo prestare attenzione, perché sono più vulnerabili.» «Li avvertirò di stare in guardia.» Taita tornò verso gli altri, che avevano quasi finito di abbeverare i cavalli. «Salite a bordo dei carri e tenetevi pronti a partire», disse a Nefer. «Bay e io andremo a perlustrare il terreno più avanti. Torneremo tra poco.» I due iniziati s'incamminarono, scomparendo oltre la parete di sabbia ricurva della duna, ma, non appena giunti fuori della visuale degli altri, si fermarono. «Sai chi può aver lanciato un incantesimo così potente per conto di Trok?» «Tutte le sue compagnie sono scortate da sacerdoti e maghi, ma il più potente di tutti è Ishtar il medo.» «Ne ho sentito parlare», ammise Taita. «Lavora col fuoco e col sangue. Dobbiamo cercare di ritorcere la sua influenza contro di lui.» Bay accese un fuocherello alimentato da escrementi secchi di cavallo e, quando esso cominciò a bruciare regolarmente, entrambi i maghi si punsero il polpastrello del pollice, versando alcune gocce di sangue sulle fiamme. Uno sbuffo di sangue bruciato si levò nell'aria, e i due si rivolsero in modo da fronteggiare il nemico, poiché sentivano che la sua influenza proveniva dal quadrante occidentale, cioè dalla direzione da cui erano venuti. Wilbur Smith
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Esercitando i propri poteri combinati, si accorsero ben presto che l'influenza maligna cominciava a diminuire d'intensità, e infine si disperdeva come il fumo del fuoco morente. Alla fine del rito, però, mentre coprivano di sabbia quel che restava del fuoco, Bay disse piano: «La sento ancora». «Sì», confermò Taita. «L'abbiamo indebolita, ma è ancora pericolosa, specie per coloro che non hanno imparato a resistere.» «I più giovani saranno più esposti ai suoi effetti», osservò Bay. «I due ragazzi, il Faraone e Meren, e la fanciulla.» Tornarono verso i carri in attesa, ma, prima di salire di nuovo a bordo, Taita si rivolse ai compagni di viaggio. Sapeva che, se avesse accennato alla vera origine della sua ansia, sarebbero entrati in allarme, spaventandosi, quindi si limitò a dire: «Stiamo per entrare nella regione più inospitale e pericolosa della terra delle dune. So che siete tutti stanchi e assetati, sfiniti dalle traversie del viaggio, ma ogni distrazione potrebbe esservi fatale. Tenete d'occhio i cavalli e il terreno davanti a voi. Non lasciatevi turbare o distrarre da suoni strani o spettacoli insoliti, che si tratti di uccelli o di altri animali». Fece una pausa, guardando negli occhi Nefer. «Questo discorso vale soprattutto per te, maestà. Devi stare sempre in guardia.» Nefer annuì, una volta tanto senza discutere. Anche gli altri assunsero un'espressione grave, rendendosi conto che Taita doveva avere un motivo valido per rivolgere loro quell'avvertimento. Mentre avanzavano, procedendo negli avvallamenti tra le dune alte, ebbero l'impressione che il caldo aumentasse a ogni giro delle ruote dei carri. Le pareti di sabbia cedevole che s'innalzavano ai lati mostravano un guazzabuglio di colori vivaci, dal giallo limone all'oro, dal prugna al viola e all'azzurro delle piume di airone, dal rosso della volpe all'ocra del manto dei leoni. A tratti le dune erano venate da striature di talco, simili a un velo di brina, o incise da linee di sabbia nera che somigliava alla fuliggine prodotta da una lampada a olio. Il cielo sopra di loro divenne incandescente, la qualità della luce cambiò, assumendo una tonalità gialla e impalpabile. Le distanze divennero distorte e sconcertanti. Nefer socchiuse gli occhi per proteggersi dal riverbero abbacinante del cielo, che sembrava tanto vicino da poterlo toccare con l'estremità della frusta. Al contempo la forma del carro di Taita, che lo precedeva di cinquanta cubiti appena, sembrava allontanarsi verso un Wilbur Smith
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orizzonte lontano e indistinto. Il calore scottava ogni lembo di pelle esposta, sul viso e sul corpo. Nefer si sentì sopraffare da un terrore indefinito. Non aveva un'origine precisa, eppure lui non riusciva a liberarsene. Quando Mintaka gli si accostò, tremante, afferrando il braccio col quale impugnava la frusta, comprese che lo aveva percepito anche lei. Nell'aria aleggiava il male. Avrebbe voluto chiamare Taita per farsi consigliare e rassicurare, ma aveva la gola chiusa dalla polvere e dal caldo: non riusciva a emettere neppure un suono. D'un tratto sentì Mintaka irrigidirsi al suo fianco e affondargli le dita nei muscoli del braccio con intensità dolorosa. Abbassando gli occhi per guardarla in viso, si accorse che era terrorizzata: con la mano libera, indicava freneticamente la sommità della duna che sembrava incombere su di loro. Qualcosa di scuro e di enorme si staccò dall'alto, cominciando a rotolare verso di loro. Nefer non aveva mai visto nulla di simile. Aveva lo stesso aspetto massiccio e informe di un mostruoso otre per l'acqua, ma era tanto grande da coprire tutto il fianco della duna, tanto grande da inghiottire e schiacciare non soltanto i tre carri sottostanti, ma un'intera compagnia. Mentre rotolava lungo il pendio quasi verticale, acquistò velocità, spostandosi con uno strano movimento ondulatorio, sobbalzando e rimbalzando, e piombando infine su di loro con una rapidità tale da oscurare del tutto il cielo giallo del deserto. Nonostante il caldo, emanava un gelo che li colpì come una mazzata, lasciandoli senza fiato, come se si fossero tuffati nella pozza gelida creata da un torrente di montagna. Anche i cavalli l'avevano visto, e si lanciarono in una corsa folle lontano dalla pista sabbiosa, percorrendo il fondovalle nel tentativo di precedere quell'apparizione terrificante, battendola in velocità. Proprio davanti a loro si trovava un tratto di roccia lavica nera e frastagliata, sulla quale i cavalli stavano per piombare al galoppo. Nefer intuì il pericolo e cercò di farli deviare, ma ormai non rispondevano più al suo controllo. Mentre lottava con le redini, al suo fianco Mintaka urlava di terrore. Ormai certo che stavano per essere raggiunti da quella mostruosità oscura, Nefer lanciò un'occhiata alle sue spalle. Si aspettava di vederla incombere su di sé, perché gli pareva di sentirne sulla nuca l'esalazione gelida. Invece non vide niente. Il pendio della duna era nudo, liscio e silenzioso. Il cielo giallo sopra di loro era chiaro e vuoto. Gli altri due carri Wilbur Smith
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erano fermi ai piedi del pendio, coi cavalli tranquilli e sotto controllo. Taita e gli altri li fissavano, sbigottiti. «Alt!» gridò Nefer alla pariglia imbizzarrita, esercitando tutto il suo peso sulle redini, ma i cavalli non rispondevano. Si lanciarono al galoppo in mezzo alla distesa di roccia lavica, trascinandosi dietro il carro che sussultava e sbandava. «Alt!» gridò ancora. «Fermi, maledizione, fermi!» I cavalli erano impazziti dal terrore, ormai incapaci di fermarsi. Inarcavano il collo per resistere alla tensione delle redini, lanciatissimi, emettendo grugniti a ogni falcata. «Reggiti forte, Mintaka!» gridò Nefer, passandole un braccio intorno alle spalle per proteggerla. «Stiamo per schiantarci.» Le rocce nere erano state erose e modellate dalla sabbia trasportata dal vento fino ad assumere forme strane. Alcune erano grosse quanto la testa di un uomo, altre quanto il loro carro. Nefer riuscì a evitare le prime, ma poi si ritrovarono in uno stretto corridoio tra due dei massi più grandi, un passaggio troppo angusto per il carro. La ruota esterna urtò contro la roccia con uno schianto lacerante, disintegrandosi. I raggi spezzati e i frammenti del cerchione vennero scagliati in aria, mentre l'abitacolo del carro ricadeva sull'assale, trascinando in basso il cavallo corrispondente, che fu proiettato contro il masso vicino. Nefer sentì le zampe anteriori spezzarsi come ramoscelli secchi, mentre Mintaka e lui venivano scaraventati in aria. Finirono sulla sabbia soffice, evitando di stretta misura il masso che aveva abbattuto il cavallo. Quando la loro corsa si arrestò, Nefer stringeva ancora tra le braccia Mintaka. Aveva attutito la sua caduta, e le domandò, senza fiato: «Stai bene? Sei ferita?» «Sì, sto bene», rispose subito lei. «E tu?» Nefer si mise in ginocchio, fissando inorridito i rottami del carro e i cavalli azzoppati. «Mio buon Horus», esclamò, «siamo rovinati!» Il carro era distrutto, senza speranza di poterlo riparare. Uno dei cavalli era spacciato, con le zampe anteriori fratturate. L'altro era ancora aggiogato all'asse del carro, ma aveva una zampa che pendeva dall'articolazione lussata. Nefer si alzò a fatica, aiutando anche Mintaka a risollevarsi, poi si abbracciarono, mentre Taita si accostava col carro ai margini del campo di lava, gettando le redini a Meren prima di scendere. Li raggiunse a lunghe falcate. «Che è successo? Che cos'ha fatto imbizzarrire i cavalli?» Wilbur Smith
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«Non l'avete vista?» chiese Nefer, ancora scosso e frastornato. «Spiegati!» insistette Taita. «Era una cosa scura ed enorme, come una montagna, che rotolava dalla duna verso di noi.» Nefer aveva difficoltà a trovare le parole adatte per descrivere quello che avevano visto. «Era grande quanto il tempio di Hathor», aggiunse Mintaka, accorrendo in suo aiuto. «Era terrificante. Dovete averla vista anche voi.» «No», rispose Taita. «Era un'aberrazione della vostra mente e del vostro sguardo. Qualcosa che vi è stato messo davanti dai nostri nemici.» «Stregoneria?» Nefer era perplesso. «Ma l'hanno vista anche i cavalli!» Taita si allontanò per chiamare Hilto, che si stava avvicinando. «Sopprimi quelle povere bestie», gli ordinò, indicando i cavalli azzoppati. «Aiutalo, Nefer.» Il suo intento era distrarlo dal disastro e dalle sue conseguenze. Col cuore pesante, Nefer sostenne la testa del cavallo abbattuto, accarezzandogli la fronte e coprendogli gli occhi con un lembo di tessuto in modo che non vedesse avvicinarsi la morte. Hilto era un soldato, e aveva già compiuto quel triste dovere su tanti campi di battaglia, sparsi in tutto il Paese. Appoggiò la punta del pugnale dietro l'orecchio del cavallo, conficcandola nel cervello con un colpo solo. L'animale s'irrigidì per un istante, poi fu scosso da un brivido e si accasciò. Quindi fu la volta del secondo cavallo, che, abbattuto all'istante dal pugnale di Hilto, giacque immobile. Taita e Bay rimasero vicini, assistendo a quel penoso atto di misericordia, e Bay commentò a bassa voce: «Il medo è più potente di quanto pensassi. Ha individuato i più vulnerabili tra noi, concentrando su di loro i suoi poteri». «Ci sono altri maghi al servizio di Trok che rafforzano la sua influenza. D'ora in poi dovremo tenere d'occhio anche Hilto e Meren», replicò Taita. «Finché non riuscirò a raccogliere le forze per oppormi a Ishtar, saremo in grave pericolo.» Si allontanò da Bay, perché gli altri si sarebbero preoccupati vedendoli confabulare in segreto: tenere il morale alto era la cosa più importante. «Portate gli otri», ordinò. Uno era scoppiato nell'urto, mentre gli altri due erano pieni solo a metà, ma vennero assicurati ai carri restanti. «D'ora in poi, Meren viaggerà sul carro di Hilto e Bay, mentre io prenderò con me i sovrani.» Wilbur Smith
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Gravati dagli otri dell'acqua e dal peso dei nuovi passeggeri, i carri erano sovraccarichi e i cavalli dovevano sforzarsi per avanzare nel caldo torrido, col sole velato da quella strana atmosfera giallastra. Taita stringeva nella mano destra la stella d'oro, l'amuleto di Lostris, mormorando una cantilena per tenere a bada il male che si addensava intorno a loro. Anche Bay, a bordo del carro che li seguiva, cantava una nenia monotona e ripetitiva. Raggiunsero un tratto di strada dove il vento aveva spazzato via le tracce di altre carovane e viaggiatori. Non c'erano segni da seguire, tranne i piccoli cumuli di pietre posti a intervalli lungo il percorso. Infine anche quelli scomparvero, e loro dovettero proseguire sulla sabbia senza punti di riferimento. Ormai si affidavano soltanto all'esperienza di Taita, alla sua conoscenza del deserto e soprattutto al suo istinto. Infine si ritrovarono su un terreno pianeggiante, compreso tra due file di alte dune. La sabbia in quel punto era liscia e regolare, ma Taita si fermò ai margini del terreno, studiandolo con attenzione. Scendendo dal carro, fece segno a Bay di avvicinarsi; insieme esaminarono quella superficie in apparenza innocua. «Non mi piace affatto», decise Taita. «Dobbiamo cercare una deviazione che ci permetta di aggirare questa pianura. Qui c'è qualcosa...» Bay si spinse in avanti di qualche passo sul terreno solido, annusando l'aria torrida. Sputò due volte, studiando il disegno formato dallo sputo sulla sabbia, poi tornò da Taita. «Io non ci vedo niente di preoccupante. La ricerca di una deviazione potrebbe costarci ore, persino giorni, e i nostri inseguitori non sono lontani, quindi bisogna decidere qual è il rischio maggiore.» «Qui c'è qualcosa», ripeté Taita. «Provo anch'io, come te, l'impulso di passare di qui, ma questa è una sensazione troppo forte e illogica. Questa idea ci è stata inculcata dal medo.» «Potente mago», ribatté Bay scuotendo la testa, «in questo caso non sono d'accordo con te. Dobbiamo correre il rischio di attraversare questa valle, altrimenti Trok potrebbe raggiungerci prima di sera.» Taita lo prese per le spalle, fissandolo negli occhi neri, e vide che erano leggermente sfocati, come se avesse fumato dell'erba bhang. «Il medo è riuscito a penetrare nella tua armatura», sentenziò, posando l'amuleto di Lostris sulla fronte di Bay, che batté le palpebre e spalancò gli occhi. Taita lo vide lottare per liberarsi dall'influenza maligna, ed esercitò la propria Wilbur Smith
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volontà per aiutarlo. Finalmente Bay rabbrividì e il suo sguardo tornò limpido. «Hai ragione», mormorò. «Ishtar mi aveva sovrastato. Questo luogo racchiude un grande pericolo.» Scrutarono in tutta la sua lunghezza quella valle angusta, simile a un fiume di sabbia gialla senza un principio né una fine visibili. L'altro versante non pareva lontano - trecento cubiti di ampiezza nei punti più vicini -, ma poteva anche trovarsi a duecento leghe da loro, con la divisione di Trok nascosta dietro la cresta. «Sud o nord?» domandò Bay. «Non riesco a vedere il modo di aggirarla.» Taita chiuse gli occhi, facendo appello a tutti i suoi poteri, e, all'improvviso, in quel silenzio arcano, si udì un suono. Un grido sommesso e acuto. Tutti alzarono gli occhi, e videro un puntino - un falco reale - che volava in alto nel cielo di un giallo livido. Girò due volte in circolo, poi sfrecciò a sud lungo la valle, scomparendo nella caligine. «A sud», decise Taita. «Seguiremo il volo del falco.» Erano così assorti nelle loro riflessioni, che nessuno dei due si era accorto di Hilto. L'anziano guerriero si era avvicinato col carro, da cui si sporgeva, con Meren, per ascoltare il loro scambio di opinioni, accigliato e spazientito. D'un tratto esclamò: «Basta così! La strada è libera, e non possiamo permetterci ritardi. Se Hilto apre la strada, avrete il coraggio di seguirlo?» Sferzò i cavalli, che balzarono in avanti, sorpresi. Meren fu colto alla sprovvista, tanto che rischiò di essere catapultato all'indietro dal carro, ma si aggrappò a un mancorrente e riuscì a restare a bordo del veicolo lanciato a tutta velocità. «Torna indietro! Sei stregato, non sai quello che fai!» gridò Taita a Hilto. Bay si slanciò per afferrare la bardatura del cavallo sul lato esterno, ma arrivò in ritardo e il carro lo superò, lanciandosi sul terreno pianeggiante. Acquistò velocità, mentre giungevano loro la risata di Hilto e il suo grido: «La strada è aperta, piana e veloce!» Nefer afferrò le redini del carro rimasto fermo, gridando: «Lo fermerò io, oppure lo costringerò a tornare indietro». «No!» Taita si girò verso di lui, alzando disperatamente la mano per ordinargli di fermarsi. «Non avventurarti laggiù, c'è pericolo. Fermo, Wilbur Smith
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Nefer!» Ma lui ignorò le sue grida. Con Mintaka al fianco, sferzò la pariglia di cavalli, facendo cantare le ruote sulla sabbia liscia e dura. Accorciò in fretta le distanze da Hilto. «Oh, mio buon Horus!» gemette Taita. «Guarda le ruote.» Dietro le ruote veloci del carro di Hilto cominciava a sollevarsi una leggera scia di sabbia argentea, che, a poco a poco, sotto i loro occhi inorriditi, si tramutò in un ventaglio di fanghiglia gialla e poi in zolle di fango. I cavalli rallentarono, sprofondando fino al garretto nel terreno molle e facendo schizzare grumi di fango che volavano così in alto da passare sopra la testa di Hilto. Eppure lui non tentò nemmeno di fermarsi o di tornare indietro. Proseguì, addentrandosi sempre più nel pantano. «Le sabbie mobili!» gridò Taita, angosciato. «Questa è opera del medo. Ci ha nascosto la via giusta per attirarci in questa trappola.» I cavalli di Hilto sfondarono lo strato superficiale che nascondeva la palude insidiosa. Quando le ruote sprofondarono, il carro si arrestò con tanta violenza che Hilto e Meren furono proiettati oltre il pannello anteriore. Rotolarono sulla superficie apparentemente intatta, ma, non appena si fermarono e tentarono di alzarsi, il loro corpo si ricoprì di uno strato vischioso di fango giallo, e subito sprofondarono fino alle ginocchia. I cavalli erano prigionieri delle sabbie mobili, da cui ormai emergevano soltanto la testa e i quarti anteriori, ma affondavano sempre più, nonostante gli sforzi disperati per liberarsi. Nefer, sconcertato, reagì con eccessiva lentezza al disastro che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Quando tentò di tornare indietro, era ormai troppo tardi. Nello spazio di dieci cubiti, le ruote affondarono fin sopra il mozzo e i due cavalli rimasero invischiati nel fango. Lui balzò a terra per aiutarli, cercando di liberarli dai finimenti per ricondurli indietro, ma si trovò intrappolato nel fango viscido, sprofondando fino alle ginocchia e poi fino alla cintola. «Non sforzarti di restare in piedi», gli suggerì Mintaka, disperata, «altrimenti t'inghiottirà del tutto. Stenditi e cerca di nuotare.» Si lanciò anche lei a capofitto dal carro che sprofondava, restando distesa sul fango ribollente. «Così, Nefer. Fa' come me.» Lui si riprese subito, stendendosi in posizione orizzontale. Con un goffo movimento di nuoto, come un bambino che impara a reggersi a galla, raggiunse il carro prima che sparisse del tutto. Col pugnale tagliò le Wilbur Smith
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cinghie di cuoio che tenevano al loro posto le assi del fondo e, con ansia disperata, le staccò dall'armatura del carro. Le tavole, più leggere, galleggiarono sulla superficie delle sabbie mobili, mentre il carro pesante scivolò inesorabilmente verso il basso, trascinando con sé i cavalli. In pochi minuti, sulla superficie giallastra e uniforme della pianura rimase soltanto una chiazza di colore più chiaro a contrassegnare la loro tomba. Anche il carro di Hilto era stato risucchiato sul fondo insieme coi cavalli, mentre Hilto e Meren si dibattevano, urlando di terrore, ormai sprofondati nel fango sino alle spalle. Nefer spinse verso Mintaka una delle assi. «Usa questa!» le ordinò, e lei vi salì, strisciando. Lui fece altrettanto con un'altra tavola, che sostenne il suo peso. Trainando dietro di sé altre due assi per mezzo delle cinghie di cuoio cui erano fissate, si spinse nella palude finché non si trovò abbastanza vicino a Hilto e Meren, che riuscirono a loro volta a sottrarsi alla stretta vischiosa del fango. Tutti e quattro cominciarono poi la laboriosa traversata che doveva riportarli da Taita e Bay, rimasti sul terreno solido ad assistere inorriditi alla scena. Taita agitò le braccia, gridando freneticamente: «Siete già a metà strada. Non tornate qui, ma proseguite. Arrivate dalla parte opposta». Nefer intuì subito il senso di quel consiglio. I quattro si diressero dunque verso l'estremità opposta. Fu un tragitto lento e faticoso, perché il fango si aggrappava con tenacia alle braccia e alle gambe, oltre ad appesantire le assi. Mintaka, che era più leggera, procedeva in testa agli altri, e fu la prima a liberarsi dalle grinfie delle sabbie mobili, conquistando il terreno solido. Dopo un certo tempo, anche Nefer, Hilto e Meren la raggiunsero. Esausti, si gettarono a terra ai piedi delle dune orientali. Durante la loro traversata, Taita aveva avuto il tempo di riflettere sulla situazione. Erano divisi in due gruppi, separati da un varco ampio duecento cubiti, avevano perso tutti i cavalli e i carri, le armi e l'equipaggiamento, ma la perdita più grave era quella dei preziosi otri con l'acqua. In quell'istante, Bay gli sfiorò il braccio, sussurrando: «Ascolta!» Era come un sussurro nell'aria, distante, prima impercettibile, poi di colpo più forte, un'eco lontana ripetuta dalle dune che li circondavano. Per quanto fioco, era inconfondibile: il suono di una colonna di carri in marcia. Anche le figure coperte di fango all'altro capo della valle lo udirono e si alzarono, fissando le dune alle loro spalle e ascoltando Trok e i suoi Wilbur Smith
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uomini che si avvicinavano di buon passo. Mintaka allora tornò di corsa verso i margini delle sabbie mobili, dove avevano abbandonato le assi che li avevano sorretti nella traversata. Nefer la seguì con lo sguardo, tentando d'intuire che cosa aveva in mente. Lei raccolse le assi e si avventurò a guado nella palude, immergendosi fino al ginocchio e trascinandosi dietro le assi che teneva per le cinghie di cuoio. Nefer comprese di colpo che cosa stava per fare, ma era troppo tardi per fermarla. Lei si stese su una delle assi e cominciò a nuotare sul fango giallo. Quando lui fu costretto a fermarsi, immerso fino alla cintola, la ragazza era già fuori della sua portata. «Torna indietro!» le gridò. «Vado io.» «Sono più leggera e veloce di te», gridò Mintaka di rimando, e, sebbene lui continuasse a supplicarla, lo ignorò, utilizzando tutto il fiato e l'energia che aveva per spingersi avanti. Il suono dei carri divenne più forte, spronandola a moltiplicare gli sforzi. Nefer, che continuava a seguirla con gli occhi, era combattuto fra il timore per la sicurezza della ragazza e la collera per la sua intransigenza. Ma, sopra ogni altra cosa, si sentiva orgoglioso per il coraggio che Mintaka stava dimostrando. «Ha il cuore di un guerriero e di una regina», mormorò, mentre lei stava per raggiungere l'estremità opposta. Ormai udivano distintamente le voci degli inseguitori, il suono metallico delle ruote e il tintinnio delle armi, ingigantito dall'effetto di risonanza delle dune. Taita infilò il bastone sotto la cintura per avere le mani libere, poi, insieme con Bay, si avventurò tra le sabbie mobili, andando incontro a Mintaka. Ciascuno dei due maghi prese una delle assi di riserva, lanciandosi su quella superficie insidiosa e, insieme, cominciarono a nuotare verso la sponda orientale. Dalle dune alle loro spalle sbucò la testa della colonna di carri degli inseguitori. A bordo del primo veicolo c'era la figura inconfondibile di Trok, e la sua voce tonante ruggì in un grido di trionfo, che echeggiò tra le dune ai lati. «Avanti, carica!» Il gruppo di carri che guidava l'avanzata si lanciò al galoppo, proiettato verso il limite delle sabbie mobili, mentre i tre fuggiaschi annaspavano freneticamente in mezzo a quella distesa di fango giallo. Dietro di loro, le grida dei soldati a bordo dei carri aumentavano di volume. La mole di Trok faceva sprofondare le ruote del suo veicolo più degli Wilbur Smith
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altri e, per quanto i cavalli si tendessero nello sforzo sotto i suoi colpi di frusta, lui rimase indietro nei confronti della prima fila. Gli altri tre carri della fila di testa si lanciarono a capofitto nelle sabbie mobili, e furono risucchiati con la stessa rapidità dei primi. Allora Trok si rese conto del pericolo e riuscì a tenere sotto controllo il suo equipaggio, deviando per allontanarsi dalla massa di fango. Afferrando l'arco corto e ricurvo dalla rastrelliera, balzò a terra. Gli altri carri alle sue spalle interruppero la carica e si fermarono in una massa disordinata. «Agli archi!» gridò Trok. «Lanciate raffiche fitte. Non lasciateli scappare. Abbatteteli!» Gli arcieri corsero in avanti, schierandosi su quattro file ai margini della palude, con la faretra piena sulle spalle e l'arco teso. Mintaka era riuscita ancora una volta a precedere i suoi compagni. Aveva già compiuto metà della traversata, mentre Taita e Bay, per quanto annaspassero freneticamente nel fango, restavano sempre più indietro. Trok camminava dietro le file di arcieri, urlando ordini. «Arcieri, pronti a lanciare!» Centocinquanta uomini incoccarono le frecce. «Arcieri, tendere e prendere la mira!» Sollevando l'arco, lo accostarono al labbro, tendendo la corda e puntando verso il cielo giallo che incombeva su di loro. «Lanciare!» gridò Trok, e gli arcieri fecero partire una salva concentrata di frecce, che s'innalzarono ad arco, formando una nuvola scura. Poi, non appena raggiunto lo zenit della loro traiettoria, ricaddero verso le tre figure minuscole in mezzo alla palude. Sentendole arrivare, Taita si voltò a guardare il cielo. La nube mortale stava per abbattersi su di loro, sibilando come le ali di uno stormo di oche selvatiche. «Nel fango!» gridò allora, angosciato, e tutti e tre scivolarono via dalle assi, restando immersi nel fango denso e lasciando fuori soltanto la testa. Le frecce piovvero su di loro come una grandinata, e una si conficcò in profondità nella tavola sulla quale, fino a pochi istanti prima, si trovava Mintaka. «Avanti!» ordinò subito Taita. Risaliti sulle tavole, ripresero ad avanzare freneticamente, ma riuscirono a coprire soltanto alcuni cubiti. Poi l'aria si riempì di nuovo del ronzio di frecce che cadevano, e loro dovettero cercare di nuovo scampo nel fango giallo. Furono costretti a tuffarsi ancora tre volte, ma ogni volta la mira degli Wilbur Smith
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arcieri risultava meno precisa. Mintaka li distanziò ancor più di prima, e ben presto si ritrovò al di fuori della loro portata. Li seguivano anche le grida di rabbia e frustrazione lanciate da Trok, che incalzava i suoi uomini. Taita lanciò un'occhiata a Bay, con l'enorme testa scarificata che luceva di fango e di sudore. Gli occhi iniettati di sangue sporgevano dalle orbite, e teneva la bocca aperta, scoprendo i denti limati per farli diventare aguzzi come quelli di uno squalo. «Coraggio, Bay!» gli gridò. «Ce l'abbiamo quasi fatta.» Mentre lo diceva, si accorse che quelle parole erano una sfida esplicita agli dei. Sulla riva, alle loro spalle, Trok se li vide sfuggire di mano. I suoi soldati erano abituati a usare gli archi più corti e meno potenti, progettati per lanciare dal carro in corsa, quindi la loro efficacia era limitata a duecento cubiti. Allora si voltò per lanciare un'occhiata irosa al suo portatore di lancia, che teneva fermi i cavalli. «Dammi l'arco da guerra», gli ordinò. Trok era l'unico uomo della compagnia che portasse sul carro l'arco lungo: era stato lui stesso a decidere che, per i soldati, la lunghezza ingombrante di quegli archi non compensava la maggiore potenza e portata di tiro. Tuttavia la forza imponente e la lunghezza delle braccia di Trok facevano sì che lui fosse al di sopra delle limitazioni imposte a uomini meno validi. Il più delle volte usava anche lui l'arco corto e curvo, ma aveva progettato per il suo carro una speciale rastrelliera laterale, fatta per accogliere l'arco più lungo e potente, ma anche più difficile da maneggiare. Il portatore di lancia accorse, mettendogli tra le mani l'arco grande e la faretra contenente le frecce speciali, con la testa di leopardo impressa sull'asta. Trok si fece largo a spallate nella prima fila di arcieri, che gli cedettero il posto, e incoccò una freccia lunga, valutando la distanza a occhi socchiusi. Le teste dei due uomini che nuotavano nel fango sembravano minuscole sfere sulla distesa gialla. I soldati intorno a lui continuavano a lanciare in fretta, ma le loro frecce non arrivavano al bersaglio, ricadendo invece nella palude. Trok calcolò mentalmente l'angolazione di lancio e si mise in posizione, col piede sinistro in avanti. Inspirò a fondo prima di tendere l'arco col braccio sinistro allungato, finché la corda non gli sfiorò la punta del naso adunco. L'arco metteva a dura prova persino la sua forza: i muscoli delle braccia nude spiccarono in rilievo, mentre il viso era stravolto dallo sforzo. Trattenne il fiato, correggendo la mira di una Wilbur Smith
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frazione infinitesimale, poi lasciò andare la corda, e il grande arco si fletté, pulsando tra le sue mani come una creatura viva. La lunga freccia salì tanto in alto da diventare un'immagine sfocata, sovrastando le altre frecce, più corte, e superandole senza sforzo. Poi, raggiunto il culmine della traiettoria, ricadde come un falco in picchiata. Taita, in mezzo al fango, sentì quel suono più acuto e nitido. Alzò la testa, se la vide venire incontro e non ebbe il tempo di lasciarsi scivolare via dalla tavola, e neppure di abbassare la testa per schivarla. Chiuse involontariamente gli occhi, mentre la freccia gli passava sulla testa, così vicina che sentì lo spostamento d'aria provocato dal suo passaggio. Poi udì il tonfo sordo dell'impatto. Aprì gli occhi, ruotando il capo nella direzione del suono. La lunga freccia aveva colpito Bay al centro della schiena nuda, trapassando il corpo e conficcandosi con la punta di selce nell'asse sulla quale era disteso, così da inchiodarlo al legno come un lucente scarabeo nero. Il volto di Bay era a un braccio appena di distanza dal suo. Taita lo guardò in fondo agli occhi, nei quali vide passare in un lampo la sofferenza della morte. Bay aprì la bocca, come per gridare o parlare, ma il fiotto di sangue rosso vivo che gli proruppe dalle labbra soffocò ogni suono. Con un gesto che gli costò un'enorme sofferenza, allungò la mano verso la collana che portava, sciogliendo il laccio, e la porse a Taita come un'offerta: il suo ultimo dono, un talismano preziosissimo che stringeva tra le dita contratte. Taita lo districò dalle dita rigide e si mise al collo il laccio. Sentì allora l'essenza dello sciamano morente che fluiva nel suo corpo, rafforzando i suoi poteri. La testa di Bay ricadde in avanti, ma la freccia impedì che il corpo scivolasse via dalla tavola. Riconoscendo la testa di leopardo impressa sull'asta della freccia, Taita capì chi l'aveva lanciata. Allungando il braccio, posò due dita sulla gola di Bay, e percepì il momento del trapasso. Lo sciamano era morto, e nessuno sforzo da parte sua poteva salvarlo. Lasciandolo indietro, proseguì a nuoto verso Nefer e Mintaka, che gli lanciavano incoraggiamenti dalla riva lontana. Gli caddero intorno altre quattro frecce lunghe, ma nessuna di esse lo sfiorò e, a poco a poco, egli si ritrovò fuori della loro portata. Nefer gli andò incontro, aiutandolo a uscire dal fango denso e vischioso e a rimettersi in piedi. Taita si servì del bastone per raggiungere il terreno Wilbur Smith
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solido, poi si fermò a riprendere fiato, curvo in avanti. Soltanto un minuto dopo si raddrizzò, fissando l'altro capo della distesa di sabbie mobili, là dove c'era Trok, con le braccia penzoloni lungo i fianchi, la rabbia e la frustrazione ben evidenti dal suo atteggiamento. Trok si mise le mani a coppa intorno alla bocca per gridare: «Non credere di essermi sfuggito, mago. Voglio te e rivoglio la mia sgualdrinella, e vi avrò tutti e due. Vi stanerò, non perderò mai le vostre tracce». Mintaka avanzò fin dov'era possibile. Sapeva esattamente dov'era più vulnerabile, e come fare per umiliarlo di fronte ai suoi uomini nel modo più doloroso. «Caro marito, le tue minacce sono vuote e flaccide come i tuoi lombi.» La sua voce forte e melodiosa risuonò nitida tra le dune, e duecento guerrieri hyksos sentirono ogni parola. Ci fu un silenzio turbato, poi dalle loro file si levò il tuono di una risata di scherno. Persino i suoi uomini odiavano Trok e godevano di quella umiliazione. Trok sollevò l'arco e batté i piedi a terra, scosso da una collera tanto violenta quanto impotente. Infine si voltò, ringhiando contro i suoi uomini, che tacquero, vergognandosi della propria temerarietà. Nel silenzio, Trok gridò: «Ishtar! Ishtar, vieni avanti!» Ishtar si trovava al limite delle sabbie mobili, e guardava il gruppetto di persone all'estremità opposta. Aveva il viso coperto da tatuaggi: gli occhi erano circondati da spirali purpuree, e quello avvolto da una patina opaca splendeva come un disco d'argento. Una doppia fila di punti rossi correva sul dorso del naso lungo, mentre sul mento e sulle guance erano impressi disegni simili a felci. I capelli erano irrigiditi con la gommalacca rossa in modo da formare lunghi aculei rigidi. Con un gesto deliberato, si slacciò la lunga veste nera, lasciandola cadere sulla sabbia. Rimase completamente nudo, col dorso e le spalle coperti dalle rosette che contraddistinguono il manto del leopardo. Sul ventre era tatuata un'enorme stella rossa, mentre i peli del pube erano rasati, per mettere in evidenza il pene enorme. Nel prepuzio erano stati praticati alcuni forellini, da cui pendevano minuscoli campanelli d'oro e d'argento. Fissò il mago, e lui si fece avanti per affrontarlo. La distanza che li separava parve ridursi mentre si fissavano a viso aperto. Il membro di Ishtar s'inturgidì, facendo tintinnare i campanelli mentre raggiungeva un'erezione imponente. Il medo protese il bacino in avanti, puntando verso Taita l'estremità rossa, in una sfida diretta che sottolineava Wilbur Smith
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la condizione di eunuco dell'avversario, imponendogli la virilità di Ishtar. Taita allora sollevò il bastone, puntandolo verso l'inguine dell'altro. Rimasero entrambi immobili a lungo, proiettando l'uno contro l'altro tutta la propria forza, come se fosse un giavellotto da lancio. Di colpo Ishtar gemette, eiaculando e spargendo tutto il suo seme sulla sabbia. Il pene si afflosciò, diventando piccolo, grinzoso e insignificante, e lui cadde in ginocchio, affrettandosi a coprire con la veste l'umiliazione subita. Era rimasto sconfitto nel primo scontro diretto col mago, e gli voltò le spalle, tornando verso il punto in cui erano accovacciati i due sacerdoti di Seueth e lo sciamano della Nubia. Entrò a far parte del cerchio formato da loro e i quattro unirono le mani, cominciando a cantare. «Che cosa fanno?» chiese Nefer, innervosito. «Penso che stiano cercando d'indovinare la strada giusta per aggirare le sabbie mobili», sussurrò Mintaka. «Taita li fermerà», disse Nefer, dando prova di una fiducia che non sentiva. D'un tratto Ishtar balzò in piedi, con rinnovata vitalità, per lanciare un grido simile al gracidio di un corvo, indicando un punto a sud della valle di sabbia. «Ha scelto la stessa via che ci aveva rivelato il falco», osservò Taita a voce bassa. «Non siamo ancora al sicuro.» Le compagnie risalirono sui carri agli ordini di Trok. Con Ishtar al suo fianco sul carro di testa, si allontanarono in direzione del sud, seguendo il corso tortuoso del letale fiume di fango. Passando, i soldati lanciarono urla di sfida all'indirizzo del gruppetto smarrito sulla riva opposta. Quando la polvere tornò a posarsi, videro che Trok aveva lasciato un piccolo contingente di cinque carri, dieci uomini in tutto, accampati sotto le dune all'estremità opposta, per tenerli sotto osservazione. Ben presto l'ultimo carro della colonna d'inseguitori scomparve nella foschia gialla della calura, nascosto alla loro vista da una curva nelle pareti laterali della valle. «Prima di sera Trok avrà trovato la via per arrivare dalla nostra parte», predisse Taita. «Che cosa possiamo fare?» chiese Nefer. Taita si girò verso di lui. «Sei tu il Faraone, il Signore dei Diecimila Carri. Devi essere tu a darci ordini, maestà.» Nefer lo fissò, ammutolito da tanta impudenza. Senza dubbio Taita si Wilbur Smith
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prendeva gioco di lui. Poi fissò quegli occhi chiari e vecchissimi, scoprendo che non era affatto così, e sentì la collera montargli in gola col gusto amaro della bile. Stava per protestare, per far notare che avevano perso tutto, i carri e l'acqua, e davanti a loro si stendeva un deserto infuocato, mentre alle loro spalle si avvicinava un esercito pronto a tutto, ma Mintaka gli sfiorò il braccio, calmandolo. Allora Nefer guardò negli occhi Taita ed ebbe un'ispirazione. Espose agli altri il suo piano, e alla fine Hilto annuì, sorridendo, mentre Meren si sfregò le mani, ridacchiando soddisfatto. Mintaka gli si avvicinò, fiera e orgogliosa. Quando impartì gli ordini, Taita assentì. «Questo è il piano di battaglia di un vero Faraone», decretò. La sua voce era atona e inespressiva, ma nei suoi occhi si accese una scintilla di approvazione. Finalmente sapeva che il compito impostogli da Lostris stava per essere assolto. Nefer era quasi pronto a prendersi carico del proprio destino. Avevano percorso non più di poche leghe, quando Ishtar indicò un punto davanti a loro. Trok arrestò la colonna, aguzzando gli occhi in quella strana luce gialla, scrutando il tremolio prodotto dalla calura. La valle delle sabbie mobili si restringeva bruscamente davanti a loro. «Che cos'è?» chiese Trok. Aveva l'impressione che un mostro marino di forma sinuosa nuotasse nel varco, emergendo dal fango giallastro con la cresta dorsale nera e dentellata. «È il nostro ponte», gli spiegò Ishtar. «Una cresta di scisto che affiora nel terreno, congiungendo i due versanti. È qui che potremo attraversare.» Trok mandò due uomini a ispezionare il ponte di scisto. Lo percorsero in fretta, correndo agilmente, e raggiunsero l'estremità opposta coi sandali ancora asciutti. Allora gridarono, facendo un segnale a Trok, che sferzò i cavalli sulle loro tracce. E il resto della colonna lo seguì. Non appena furono al sicuro sul versante opposto, Trok riprese la direzione del nord, seguendo la valle fino al punto in cui avevano visto il gruppetto di fuggiaschi guidati da Taita. Ma non avevano coperto neppure la metà della distanza, quando la caligine che incombeva su di loro si tramutò in una nebbia gialla, un miasma cupo che fece calare la notte prima del tempo. Nel giro di pochi minuti, fu come se la luce del sole si fosse spenta di colpo e l'oscurità profonda costrinse la colonna a fermarsi. Quando i suoi comandanti si radunarono intorno a lui nell'oscurità, in Wilbur Smith
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attesa di ordini, Trok cercò di fare buon viso a cattivo gioco, prendendo la decisione di fermarsi per la notte. «I cavalli sono stanchi», disse. «Abbeverateli e lasciate riposare loro e gli uomini. Ci metteremo in marcia all'alba. Anche il mago non sarà andato lontano, a piedi e senz'acqua. Domani li avremo in pugno prima di mezzogiorno.» Taita liberò dalle bende i piedi di Mintaka e annuì soddisfatto, poi li inumidì con la soluzione fortemente alcalina delle sabbie mobili e li fasciò nuovamente. Vincendo le sue proteste, Nefer la costrinse a calzare i suoi sandali. Erano troppo grandi per lei, ma la fasciatura li faceva aderire meglio. Non avevano niente da portare con loro, né acqua né viveri, né armi né bagaglio, niente, a parte le assi recuperate dai carri affondati nel fango. Sotto gli occhi incuriositi dei soldati hyksos, accampati all'estremità opposta della palude, Nefer guidò il gruppo sul pendio della duna alta, diretto a oriente. Raggiunsero la cima ansimanti, e già tormentati dalla sete. Nefer si voltò a guardare per l'ultima volta il versante opposto. I soldati di Trok avevano staccato i cavalli dai carri e stavano accendendo i fuochi da campo. Nefer rivolse loro un saluto ironico prima di seguire gli altri, scendendo sul fianco opposto della duna. Quando furono nascosti alla vista degli osservatori, si fermarono a riposare. «Ogni sforzo ci costerà caro», li ammonì. «Resteremo senz'acqua ancora per molte ore.» Mentre giacevano sulla sabbia rovente, tesero le orecchie per captare ogni suono di uomini o di carri. Mintaka espresse a voce alta i loro timori. «Pregate tutti gli dei che Trok non trovi un modo per attraversare la palude e ci piombi addosso prima di sera.» Quando si furono ripresi, Nefer li guidò al riparo della duna, in direzione parallela alla valle delle sabbie mobili. Dovevano percorrere solo un breve tratto, ma con quel caldo lo sforzo fisico si faceva sentire. Si fermarono di nuovo a riposare, immersi in quella snervante foschia gialla. Non dovettero attendere molto prima che l'oscurità calasse su di loro, ma la notte non portò un grande miglioramento. Risaliti in cima alla duna, videro sotto di sé i falò accesi dagli uomini sul versante opposto: le fiamme fornivano una luce sufficiente per cogliere la disposizione dell'accampamento hyksos. I carri nemici erano disposti in un quadrato, con la testa dei cavalli legata alle ruote. Vicino ai fuochi c'erano due sentinelle, mentre il resto Wilbur Smith
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degli uomini dormiva al riparo del recinto così formato. «Ci hanno visto allontanarci verso oriente. Non ci resta che sperare che ci credano ancora diretti da quella parte, e che abbiano abbassato la guardia», osservò Nefer, e si lasciò scivolare con gli altri lungo il pendio della duna. Arrivarono così a poche centinaia di cubiti dall'accampamento, una distanza sufficiente per nascondere i loro movimenti e attutire ogni rumore che potevano produrre. Ricorrendo al riverbero delle fiamme per orientarsi e tenendosi sottobraccio per non perdersi nel buio, si spinsero fino al limite delle sabbie mobili, poi lanciarono sulla superficie le tavole di legno in modo da attraversare a nuoto la palude. Ormai erano diventati esperti in quella sorta di esercizio e in poco tempo raggiunsero l'estremità opposta. Restando sempre in contatto fisico, si avvicinarono furtivi all'accampamento, accovacciandosi poco più in là del cerchio di luce proiettato dal fuoco. A parte le due sentinelle, il campo nemico sembrava immerso nel sonno. I cavalli erano silenziosi e l'unico suono che si udiva era il crepitio sommesso del fuoco. D'un tratto, una delle sentinelle si alzò per avvicinarsi al suo compagno, e i due scambiarono qualche parola sottovoce. Nefer si spazientì per quel contrattempo, e stava per chiedere aiuto a Taita, però il mago lo prevenne. Puntò il bastone verso le due figure e, poco dopo, le loro voci divennero strascicate; infine la prima sentinella si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando. Tornò poi lemme lemme verso il suo falò, dove si sedette con la spada sulle ginocchia. Taita tenne il bastone puntato contro di lui e, in breve tempo, la testa dell'uomo ciondolò in avanti, col mento posato sul petto. Dall'altro fuoco proveniva un russare sommesso. Le due sentinelle dormivano profondamente. Nefer sfiorò Hilto e Meren, e i tre sgattaiolarono in avanti, lasciando Taita e Mintaka ai margini del cerchio di luce del campo. Nefer arrivò alle spalle della sentinella più vicina. La spada gli era scivolata dalle ginocchia, cadendo sulla sabbia al suo fianco. Lui la raccolse e, con lo stesso movimento, colpì l'uomo alla tempia col pomo di bronzo dell'elsa. La sentinella si accasciò senza emettere neanche un lamento, restando distesa vicino al fuoco. Con la spada in pugno, Nefer lanciò un'occhiata all'altro fuoco. I due compagni avevano sistemato la seconda sentinella, che giaceva raggomitolata come un cane addormentato, e Hilto gli aveva preso la Wilbur Smith
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spada. I tre corsero in avanti, raggiungendo il carro più vicino, dove trovarono i giavellotti ancora nei contenitori fissati alle sponde laterali. Nefer ne afferrò uno, sentendosi confortato dal peso dell'arma nella mano. Anche Meren si era armato. All'improvviso, però, uno dei cavalli nitrì e scalpitò e Nefer rimase impietrito. Per qualche istante pensò che nessuno li avesse scoperti, ma poi una voce insonnolita si levò dal quadrato di carri. «Noosa, sei tu? Sei sveglio?» Un soldato avanzò barcollando al riverbero del fuoco, ancora semiaddormentato e coperto soltanto dal perizoma. Impugnava una spada. Si fermò di colpo, fissando Nefer a bocca aperta. «E tu chi sei?» La sua voce assunse un tono allarmato. Meren lanciò il giavellotto, che colpì l'uomo in pieno petto. Lui alzò la mano e cadde riverso sulla sabbia. Meren balzò in avanti, raccogliendo la spada che gli era caduta. Allora Nefer, Meren e Hilto, gridando come jinn impazziti, scavalcarono con un balzo gli assali, piombando nel recinto formato dai carri. Le loro grida forsennate avevano seminato il panico tra gli uomini destati bruscamente dal sonno. Alcuni di loro non avevano neanche sguainato le armi, e le spade sottratte ai soldati si alzavano e si abbassavano con un ritmo assassino. Uno solo dei nemici riuscì a ritrovare il sangue freddo per reagire. Era un uomo massiccio, dall'aria brutale, che respinse il loro attacco ruggendo come un leone ferito. Sferrò un colpo violento alla testa di Nefer e, anche se lui riuscì a pararlo, il contraccolpo gli intorpidì il braccio fino alla spalla, facendogli perdere la posizione di guardia. Ormai era disarmato, mentre l'avversario brandiva la spada, mirando alla testa per finirlo. Allora Taita uscì dall'oscurità alle sue spalle e calò con violenza il bastone sulla testa del soldato. Nefer gli sfilò la spada dalle dita inerti prima che cadesse a terra. Il combattimento era finito. I cinque superstiti erano in ginocchio, con le mani sopra la testa, dominati da Hilto e Meren. Mintaka e Taita alimentarono le fiamme dei falò, scoprendo così che tre soldati erano morti e altri due gravemente feriti. Mentre il mago curava i feriti, gli altri usarono le cinghie di riserva dei carri per immobilizzare i prigionieri, legando loro mani e piedi. Soltanto allora si concessero di bere l'acqua degli otri, approfittando altresì del sacco del pane e tagliando fette di carne secca dalle provviste che Wilbur Smith
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trovarono. Quando finirono di mangiare e di bere, la luce del giorno stava diventando più intensa: sarebbe stata un'altra alba di fuoco e il caldo pareva già soffocante. Nefer scelse tre carri, aggiogandovi i cavalli migliori. Alleggerì i veicoli prescelti di tutto l'equipaggiamento superfluo, come i bagagli personali dei soldati e le armi di riserva, poi staccò dai carri i cavalli inutili, sventolando loro una coperta sul muso per incitarli a galoppare liberi nel deserto. A ogni minuto che passava, la luce rossastra di quella strana aurora aumentava d'intensità e i loro gesti diventavano frenetici. Quando furono pronti a partire, Nefer si avvicinò al gruppo di prigionieri legati e disse: «Voi siete egizi come me. Mi addolora profondamente che abbiamo dovuto ferire o uccidere alcuni dei vostri compagni. Non è stato per scelta o per piacere che lo abbiamo fatto, ma solo perché l'usurpatore Trok ci ha costretto ad agire così». Si accovacciò vicino al gigante che per poco non l'aveva ucciso. «Sei un uomo coraggioso. Vorrei che un giorno potessimo combattere a fianco a fianco contro il nemico comune.» Nel movimento, il gonnellino di Nefer si era aperto, e gli occhi del prigioniero caddero sulla muscolatura liscia della coscia destra. Il soldato rimase a bocca aperta. «Il Faraone Nefer Seti è morto. Come mai porti il cartiglio reale?» domandò. Nefer toccò il tatuaggio che Taita gli aveva praticato tanto tempo prima. «Lo porto di diritto, perché sono il Faraone Nefer Seti.» «No! No!» L'uomo era agitato e atterrito, come probabilmente non era mai stato su un campo di battaglia. Mintaka saltò giù dal carro per avvicinarsi, domandando al soldato, in tono cordiale: «Sai chi sono io?» «Maestà, sei la regina Mintaka. Tuo padre era il mio dio e il mio comandante, e lo amavo profondamente, quindi amo e rispetto te.» Mintaka estrasse il pugnale dal fodero, tagliando i lacci che lo immobilizzavano. «Sì», confermò, «sono Mintaka, e questo è il Faraone Nefer Seti, che è il mio promesso sposo. Un giorno torneremo in Egitto per reclamare ciò che è nostro di diritto, e governare in nome della pace e della giustizia.» Mentre Nefer e lei si alzavano, la ragazza aggiunse: «Riferisci questo messaggio ai tuoi compagni d'arme. Annuncia al popolo che siamo vivi e torneremo in Egitto». Wilbur Smith
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L'uomo strisciò sulle ginocchia per baciarle i piedi, poi strisciò anche verso Nefer e prese tra le mani uno dei suoi piedi, collocandolo sulla propria testa. «Sono tuo suddito», dichiarò. «Porterò il tuo messaggio al popolo. Torna presto da noi, divino Faraone.» Gli altri prigionieri si unirono a lui, per proclamare la loro lealtà e il loro amore. «Salute a te, Faraone! Possa tu vivere e governare mille anni!» Nefer e Mintaka salirono sul carro catturato, salutati dalle grida dei prigionieri liberati: «Bak-her! Bak-her!» I tre carri si allontanarono dall'accampamento devastato dalla lotta, ripercorrendo la strada per cui erano venuti. Taita viaggiava da solo, perché era il più forte di fronte alle astuzie del mago Ishtar, e il più abile nello scoprire la vera strada che era stata celata alla loro vista. Nefer e Mintaka lo seguivano da vicino, mentre Hilto e Meren fungevano da retroguardia. Avevano percorso soltanto un breve tratto - sia la valle delle sabbie mobili sia il campo nemico erano ancora in vista -, quando Taita si fermò per guardare indietro. Gli altri due carri seguirono il suo esempio. «Che cosa c'è?» chiese Nefer, ma il mago alzò una mano. Nel silenzio, udirono in lontananza il suono della divisione di Trok che si avvicinava lungo il versante opposto. Poi, all'improvviso, videro la testa della sua colonna sbucare dalle dune lontane. Trok, sul carro di testa, tirò bruscamente le redini, gridando a Ishtar: «Per il sangue e il seme di Seueth, il mago ti ha battuto di nuovo in astuzia. Non avevi previsto che tornassero indietro per impadronirsi dei carri delle nostre sentinelle?» «E tu, come mai non lo avevi previsto?» ribatté fulmineo Ishtar. «Sei tu il grande generale.» Di fronte a tanta insolenza, Trok tirò indietro il braccio per affibbiargli una frustata sul viso tatuato, ma, dopo averlo guardato negli occhi, ci ripensò, abbassando la frusta. «E adesso, Ishtar? Vuoi lasciarli liberi di fuggire?» «Hanno una sola strada a disposizione, e da quella parte sta arrivando Zander con duecento carri. Li tieni di nuovo tra l'incudine e il martello», gli fece notare Ishtar, con aria truce. Il viso di Trok s'illuminò di un sorriso crudele. In preda a un'ira cieca, aveva quasi dimenticato Zander. «Il sole è appena sorto, e hai davanti tutta una lunga giornata per attraversare di nuovo il ponte di scisto e riprendere l'inseguimento», Wilbur Smith
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aggiunse il mago. «Sento il loro odore nelle narici. Getterò la mia rete per intrappolarli e, come un fido segugio, ti condurrò verso la preda.» Trok spronò i cavalli, avventurandosi sulla striscia di terreno solido ai margini della palude, proprio di fronte ai tre carri che procedevano sul versante opposto. Riuscì persino a esibire un ampio sorriso che apparve quasi convincente. «Me la godo più di voi, amici miei. La vendetta è un piatto che va gustato freddo! Per Seueth, lo assaporerò con gioia.» «Bisogna catturare il coniglio, prima di cucinarlo», gridò di rimando Mintaka. «E lo farò. Sta' pur certa che ho ancora qualche sorpresa in serbo per te.» Il sorriso svanì quando i tre carri si rimisero in marcia tra le dune, mentre Mintaka lo salutava allegramente con la mano. Pur sapendo benissimo che lo faceva per provocarlo, quel gesto lo irritò tanto che si sentì salire in gola un fiotto di bile ardente. «Indietro!» gridò ai suoi uomini. «Torniamo al ponte!» Mentre proseguivano, Taita guardava sempre più spesso il cielo, con un'espressione pensierosa, cupa come le nubi sulfuree che incombevano sulla terra. «Non ho mai visto un cielo così», mormorò Hilto quando si fermarono ad abbeverare i cavalli, verso la metà della mattinata. «Gli dei sono in collera.» Era strano il fatto che avessero trovato con tanta facilità la strada giusta. La biforcazione dove avevano imboccato la direzione sbagliata sembrava ben riconoscibile, da lontano. Si sarebbe detto che fosse impossibile non vedere l'alto cumulo di pietre che la contrassegnava; e la strada maestra per il mar Rosso, percorsa da tante carovane commerciali, recava solchi più profondi ed evidenti della pista rudimentale che avevano seguito verso la valle delle sabbie mobili. «Ishtar ci ha accecati», mormorò Nefer, mentre procedevano verso il bivio, «ma stavolta non ci lasceremo ingannare tanto facilmente.» Poi alzò gli occhi al cielo, facendo un gesto di scongiuro. «Purché gli dei ci siano propizi.» Fu Hilto, coi suoi occhi acuti di soldato, a scorgere la nube di polvere in lontananza. Il cielo basso e nuvoloso l'aveva nascosta finché non era giunta a breve distanza da loro. Hilto si affiancò al galoppo al carro di Taita per gridargli: «Mago! Quelli davanti a noi sono carri da guerra, e sono tanti». Wilbur Smith
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Fermarono i cavalli per guardare meglio. La nube di polvere si muoveva sotto i loro occhi. «Quanto distano?» chiese Taita. «Mezza lega... anche meno.» «Pensi che Trok abbia una divisione di rincalzo?» «Sai meglio di me, mago, che questa è una tattica propria degli hyksos. Non ricordi la battaglia di Dammen, e come Apepi ci prese in trappola tra due divisioni?» «Ce la faremo a raggiungere il crocevia prima che ci taglino la strada?» chiese Taita. L'anziano soldato socchiuse gli occhi. «Forse sì, ma sarà una corsa all'ultimo respiro.» Taita si voltò a guardare. «Trok sarà già sulla strada alle nostre spalle», commentò. «Non possiamo tornare indietro e finire tra le sue braccia.» «Lasciare la strada per addentrarsi tra le sabbie significa andare incontro a un disastro sicuro. La nostra pista sarebbe facile da seguire e i cavalli crollerebbero poco dopo il tramonto.» «Non c'è da stupirsi che Trok abbia riso di noi», commentò Mintaka con amarezza. «Siamo di nuovo tra l'incudine e il martello», ammise Meren. «Dobbiamo tentare», decise Nefer. «Bisogna cercare di raggiungere il crocevia e imboccare la strada maestra prima di loro. È la nostra unica possibilità di fuga.» «Allora a tutta velocità, anche a costo di sfiancare i cavalli», concluse Hilto. Si slanciarono in avanti, tutti e tre affiancati. Quando le ruote finivano nei solchi della pista, i carri sobbalzavano e deviavano, ma i cavalli procedevano senza sforzo. E la nube di polvere davanti a loro diventava sempre più minacciosa. Si trovavano ancora a oltre cinquecento cubiti dalla svolta, allorché apparvero i primi carri della divisione, nascosti in parte dalla polvere e dalla sinistra, onnipresente, luce gialla. I carri di Trok si fermarono, come se fossero incerti sull'identità dei tre carri da corsa che stavano sopraggiungendo, poi ripresero improvvisamente lo slancio, puntando direttamente verso i fuggiaschi. Taita tentò di ottenere dai cavalli un ultimo scatto, ma li sentì cedere alla stanchezza. Tennero duro fino all'ultimo momento, ma il nemico ormai caricava a testa bassa. A poco a poco si fece strada in loro la certezza che Wilbur Smith
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non sarebbero riusciti a raggiungere per primi il crocevia. Infine Taita sollevò il pugno chiuso, impartendo l'ordine di fermarsi. «Basta così!» gridò. «Non potremo mai vincere questa gara.» Si fermarono in mezzo alla pista, ansimanti, coi capelli intrisi di sudore. Sotto lo strato di polvere che copriva i loro lineamenti, i conducenti dei carri erano pallidissimi, e nei loro occhi affiorava la disperazione. «Da che parte, Faraone?» gridò Hilto. Cominciavano già a rivolgersi a Nefer per trovare una guida. «Ci resta una sola possibilità, tornare per la strada da cui siamo venuti», replicò Nefer. Poi aggiunse, a voce così bassa che soltanto Mintaka poté udirlo: «... cioè fra le braccia di Trok. Ma almeno questo mi offre un'ultima occasione di pareggiare i conti con lui». Taita annuì, e fu il primo a girare il carro per ricondurli verso le sabbie mobili. Gli altri lo imitarono, seguendo la sua scia. Da principio la polvere nascondeva la massa degli inseguitori, poi una folata di vento torrido la disperse e i fuggiaschi si accorsero che avevano già perso terreno. Continuarono la corsa, ma anche Nefer si era ormai reso conto che i cavalli cominciavano a cedere. L'andatura era pesante e faticosa, avevano le gambe molli e gli zoccoli scartavano spesso di lato. Comprese che la fine era vicina e passò un braccio intorno alla vita di Mintaka. «Ti ho amato fin dal primo momento che ti ho visto, e ti amerò per l'eternità», le mormorò. «Se davvero mi ami, non mi lascerai cadere di nuovo nelle mani di Trok. Sarà questo il modo di provarmi il tuo amore.» Nefer si girò a guardarla, perplesso. «Non capisco», disse. Lei allora sfiorò la spada che aveva sottratto al nemico e che ora portava al fianco. «No!» Fu quasi un grido, mentre la stringeva con tutte le sue forze. «Devi farlo per me, cuore mio. Non puoi restituirmi a Trok. Io non ho il coraggio di farlo da sola, quindi dovrai essere forte per me.» «Non posso», gridò lui. «Sarà rapido e indolore. Nell'altro modo, invece...» Nefer era turbato al punto che rischiò di urtare il carro di Taita allorché quest'ultimo si fermò bruscamente, disponendosi di traverso sulla pista davanti a loro. Il mago indicava un punto all'orizzonte. Trok era lì. Anche da lontano si distingueva la sua figura massiccia, in testa alla colonna che veniva verso di loro. Guardando indietro, videro Wilbur Smith
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l'altra colonna nemica che arrivava altrettanto veloce. «Ancora una battaglia!» Hilto allentò il fodero della spada. «La prima è la peggiore e la seconda lo stesso. L'ultima è la migliore di tutte.» Era una delle massime della Via Rossa, e lui la citò con sincera impazienza. Taita alzò gli occhi verso il cielo color bile, mentre un'altra folata di vento rovente gli arruffava i capelli, come se stesse soffiando su un campo di erba argentea. Mintaka tirò per il braccio Nefer. «Prometti!» sussurrò con gli occhi pieni di lacrime. «Te lo prometto», rispose lui, anche se quelle parole gli bruciavano le labbra e la gola. «E poi ucciderò Trok con le mie mani. Quando avrò fatto ciò, ti seguirò nel viaggio oscuro.» Taita parlò senza alzare la voce, ma riuscendo a farsi sentire da tutti. «Da questa parte. Osservate bene le mie tracce e seguitele senza deviare.» Con loro stupore, guidò i cavalli sulla sabbia molle, allontanandosi ad angolo retto dalla pista per puntare a nord, tra le dune di forma mutevole e prive di punti di riferimento. Nefer si aspettava che sprofondasse subito fino al mozzo delle ruote, invece, chissà come, doveva aver trovato uno strato compatto sotto la superficie molle. Proseguì a un trotto regolare e loro lo seguirono da vicino, pur sapendo che quello era un ultimo, disperato tentativo. Guardando indietro, Nefer scorgeva ancora le nubi di polvere sollevate dalle due divisioni nemiche che convergevano su di loro da oriente e da occidente. Non esisteva la minima probabilità che, raggiungendo il punto nel quale i tre carri avevano lasciato la pista, non lo riconoscessero. A meno che, naturalmente, Taita non riuscisse a gettare un incantesimo su Ishtar per confonderlo, ma quella era un'eventualità remota. Ishtar aveva già dimostrato di non essere troppo vulnerabile, e del resto Trok doveva averli visti deviare coi suoi occhi. Eppure, quando tornò a guardare in avanti, vide che Taita teneva nella mano destra la stella d'oro di Lostris e si era avvolto intorno al polso la collana che gli aveva donato Bay. Invece di guardare gli inseguitori, teneva il viso rivolto verso il cielo minaccioso, con aria assente. La situazione sembrava disperata, ma Nefer sentì accendersi dentro di sé un assurdo barlume di speranza. Comprese che, in qualche modo misterioso, il dono di Bay aveva esaltato i poteri già straordinari del vecchio. «Guarda Taita», sussurrò a Mintaka. «Forse non è ancora arrivata Wilbur Smith
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la fine. Forse ci resta ancora una mossa con le pedine del bao, prima che si decida la partita.» Trok si spinse al galoppo lungo la pista fino a raggiungere il punto in cui aveva visto i tre carri deviare, dirigendosi verso le dune. Le loro tracce erano così nitide sulla sabbia che sembravano impresse da un'unica coppia di ruote. In quel momento, Zander lo raggiunse dalla direzione opposta, a capo della seconda colonna. «Ben fatto!» gridò Trok. «Hai stanato la preda. Ora li teniamo in pugno!» «È stata una bella caccia», ribatté Zander. «Quale formazione vuoi che mantenga?» «Resta sempre nella retroguardia. In colonna per quattro. Seguili.» Trok deviò dalla pista e le due divisioni di carri lo seguirono. Lui guardava in avanti: Taita e la sua minuscola compagnia erano già scomparsi in un canalone stretto tra due pareti di dune alte, dalla sommità violacea. Le valli che le separavano erano oscure, immerse nell'ombra sotto il cielo basso e opprimente. Aveva percorso appena duecento cubiti, quando i carri all'esterno della colonna s'impantanarono nella sabbia molle. Allora capì per quale motivo Taita aveva mantenuto una formazione così serrata: soltanto lungo la linea di centro il terreno era abbastanza compatto da sostenere il peso di un carro. «In fila per uno!» ordinò, cambiando formazione. «Seguite le mie tracce.» Le due divisioni riunite formarono una fila lunga oltre mezza lega, seguendo Trok in un deserto per il quale non esistevano carte né punti di riferimento. I soldati guardavano con crescente trepidazione le imponenti pareti di sabbia e il cielo minaccioso che li sovrastava. Trok non poteva continuare a spingere i cavalli a quell'andatura massacrante, quindi fu costretto a procedere al passo; del resto, a giudicare dalle tracce, anche Taita aveva rallentato. Proseguirono ancora per quasi una lega, poi di colpo il terreno davanti a loro cambiò aspetto e, tra le onde di sabbia molle, si levò un'isola di roccia scura, che sembrava una piccola zattera in mezzo all'oceano delle dune. I lati erano crivellati di cavità, erosi dai venti abrasivi carichi di sabbia che soffiavano da millenni, ma la sommità era aguzza come le zanne di un mostro leggendario. E su quella sommità, minuscola per la distanza, spiccava una figura Wilbur Smith
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inconfondibile, magra e alta, con una folta capigliatura d'argento che scintillava come un elmo nella luce strana e terribile. «È il mago», disse Trok a Ishtar. «Si sono rifugiati tra le rocce. Spero che tentino di combattere lassù.» Poi, rivolto al suonatore di corno, ordinò: «Suona l'attacco». Quando Nefer e Mintaka videro di fronte a loro quell'ammasso di rocce, rimasero sbigottiti. «Secondo te, Taita sapeva che si trovava qui?» domandò Mintaka a Nefer. «Come poteva saperlo?» «Una volta mi hai detto che lui sa tutto.» Nefer rimase senza parole. Per mascherare l'incertezza, guardò indietro e scorse la polvere degli inseguitori ormai vicini che si mescolava al riverbero giallo del cielo coperto. «Non ha importanza. A che cosa può servirci, ormai? Forse potremmo difendere quelle rocce per qualche tempo, ma gli uomini di Trok sono centinaia. Si direbbe che sia la fine.» Toccò l'otre dell'acqua appeso alla sponda del carro vicino a lui. Era quasi vuoto; non restava neppure acqua sufficiente a tenere in vita i cavalli per un altro giorno. «Dobbiamo avere fiducia in Taita», dichiarò Mintaka. Lui rise amaramente. «Si direbbe che il dio ci abbia abbandonato. Chi altri c'è in cui avere fiducia, se non lui?» Proseguirono, coi cavalli ormai al passo. Dietro di loro udirono i suoni fievoli degli inseguitori: le grida dei comandanti che incitavano i soldati a mantenere la fila, il tintinnio dei finimenti e il cigolio lamentoso dei mozzi delle ruote, inariditi dall'aria del deserto. Infine giunsero ai piedi della collina di roccia nera e ocra, che dava l'impressione d'irradiare il calore accumulato durante il giorno con l'intensità di un enorme falò. Non una sola pianta era riuscita a trovare un appiglio per crescervi, ma il vento aveva inciso sulle pareti crepe e fenditure profonde. «Accostate i carri alla parete di roccia», ordinò Taita, e loro obbedirono docilmente. «Ora liberate i cavalli e portateli da questa parte.» Il mago diede l'esempio, conducendo a mano i suoi oltre l'angolo formato dalla parete di roccia, dove si apriva una fenditura profonda con le pareti a spigoli vivi. «Per di qua!» Li fece avanzare il più possibile sul fondo sabbioso della profonda fenditura verticale. «Ora fate stendere i cavalli.» Tutti gli animali della cavalleria erano addestrati a compiere Wilbur Smith
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quell'esercizio. Incitati da loro, s'inginocchiarono e poi, tra grugniti e sbuffi, si stesero sul fianco in fondo alla fenditura. «Così!» ordinò Taita. Aveva preso dal carro uno dei pagliericci arrotolati che i soldati usavano per la notte. Tagliandone alcune strisce, bendò gli occhi degli animali per tenerli tranquilli e docili. Poi conficcò nel terreno molle la punta di un giavellotto, usandolo come ancora per la testa bendata dei cavalli, in modo da impedire loro di rialzarsi. Gli altri seguirono il suo esempio. «Ora portate qui tutta l'acqua che resta. È un peccato che non ce ne sia abbastanza per far bere ancora i cavalli, ma ne avremo bisogno noi fino all'ultima goccia.» Come se conoscesse quel luogo da sempre, Taita li guidò verso una sporgenza poco profonda nella parete rocciosa. Lo spazio al di sotto era così basso che chiunque tentasse di entrarvi doveva mettersi carponi. «Usate la ghiaia e i sassi per costruire un muretto di protezione.» «Una parete zareba?» Nefer sembrava perplesso. «Non possiamo difendere questa posizione. Una volta dentro, non potremmo neppure stare in piedi, per non parlare di usare la spada.» «Non c'è tempo per discutere.» Taita lo fulminò con lo sguardo. «Fa' come ti dico.» Nefer aveva i nervi a fior di pelle, perché temeva per Mintaka ed era sfinito dalle traversie degli ultimi giorni. Ricambiò l'occhiata collerica di Taita, e gli altri osservarono con interesse quella sfida lanciata dal giovane al vecchio. I secondi passarono, poi Nefer comprese di colpo quanto il suo comportamento fosse idiota. Ormai una sola persona poteva salvarli, e quindi si arrese. Chinandosi a raccogliere un grosso frammento di roccia dalla pila di ghiaia, lo portò verso la caverna bassa, barcollando sotto il suo peso. Dopo averlo sistemato, tornò indietro di corsa per prenderne un altro. Gli altri si unirono al lavoro. Persino Mintaka portò la sua parte di frammenti di scisto. Quando finirono di recintare uno spazio ristretto, barricandosi dietro la parete, aveva le mani escoriate e spellate a sangue. «E ora che facciamo?» chiese Nefer in tono rigido, ancora ferito dallo scontro col mago. «Beviamo!» rispose Taita. Nefer riempì un secchio di cuoio con l'acqua dell'otre, porgendola a Mintaka, che bevve qualche sorso prima di passarlo a Taita. Lui scosse la testa. «Bevete, e bevete a sazietà.» Wilbur Smith
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Quando ebbero mandato giù tutta l'acqua che il loro stomaco riusciva a contenere, Nefer si rivolse di nuovo a Taita. «E adesso?» «Aspettate qui», ordinò, prendendo il lungo bastone e cominciando a scalare il pendio frastagliato della collinetta di roccia. «E questa zareba?» gli gridò dietro Nefer. «A che cosa dovrebbe servire?» Taita si fermò su una cengia stretta, poco più in alto, e lo guardò. «Lo saprai quando verrà il momento, maestà.» Poi riprese la scalata. «Da nascondiglio? Da tomba, forse?» gli gridò dietro Nefer in tono sarcastico, ma il mago non rispose, anzi non si voltò neppure. Salì senza concedersi soste per riposare finché non raggiunse la sommità della collinetta, dove si fermò a guardare nella direzione da cui sarebbe arrivato Trok. I compagni di viaggio, barricati nella gola ai piedi dell'altura, lo seguivano con gli occhi, alcuni perplessi, altri speranzosi, uno furibondo. Nefer si riscosse. «Andiamo a prendere i giavellotti e il resto delle armi sui carri. Dobbiamo essere pronti a difenderci.» Si diresse di corsa verso il punto in cui avevano lasciato i veicoli e tornò indietro con un fascio di giavellotti, seguito da Meren e Hilto, altrettanto carichi. «Che cosa fa Taita?» chiese a Mintaka. Lei indicò la cima. «Non si è mosso.» Accatastarono le armi prima di assieparsi all'ingresso di quel riparo rudimentale, con gli occhi fissi di nuovo sul mago, che si stagliava in controluce sul cielo sulfureo e minaccioso. Nessuno parlò, nessuno si mosse, finché non udirono di nuovo quel suono tanto temuto. Volsero la testa per ascoltare il lieve cigolio prodotto dalle ruote dei carri, a centinaia, mescolato a voci di uomini, in certi momenti soffocate dalle dune, in altri, invece, nitide e minacciose. Taita alzò lentamente le braccia verso il cielo. Tutti seguirono i suoi movimenti: nella mano destra stringeva il bastone, nella sinistra l'amuleto di Lostris, mentre al collo portava il dono di Bay. «E ora che cosa fa?» chiese Hilto, in tono pieno di reverenza. Nessuno rispose. Taita restava immobile come se fosse scolpito nella roccia viva. Teneva la testa rovesciata all'indietro, coi capelli d'argento che svolazzavano sulle spalle. Le vesti, rimboccate alla cintola, lasciavano scoperti gli stinchi magri. Sembrava un vecchio uccello posato sulla vetta. Wilbur Smith
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Nel cielo turbinava lentamente una nube greve. La luce era fluttuante: si affievoliva quando il sole nascosto era coperto, mentre aumentava se le nubi si diradavano. Taita continuava a rimanere immobile, col bastone puntato verso il ventre gravido del cielo. Il suono della colonna che si avvicinava divenne ancora più nitido, e d'un tratto si udì in lontananza lo squillo sonoro di un corno d'ariete. «Questo è l'ordine di dare battaglia. Trok ha visto Taita», disse Mintaka a bassa voce. Trok gridò: «Suona l'avanzata!» Ma quel suono guerresco parve quasi inghiottito dal vuoto del deserto e dal cielo basso e collerico. «Aspetta!» esclamò Ishtar il medo, che stava osservando la figura minuscola di Taita, in cima alla collina rocciosa. «Aspetta!» «Che c'è?» «Per ora non riesco a capire...» rispose Ishtar, senza distogliere lo sguardo dal mago. «Ma è qualcosa di pervasivo e potente.» La colonna si arrestò, mentre tutti fissavano intimoriti la figura sulla collina. Un silenzio terribile calò sul deserto. Non si udiva il minimo suono; persino i cavalli erano immobili. Non si sentiva neppure il tintinnio degli equipaggiamenti. Soltanto il cielo si muoveva. Formò un vortice sopra la testa del mago, come una grande ruota di nubi oscure in movimento; poi, lentamente, il centro del vortice si aprì, simile all'unico occhio di un mostro che si destasse. E da quell'occhio celeste scaturì un raggio di sole abbagliante. «L'occhio di Horus!» mormorò Ishtar. «Ha invocato il dio.» Fece un gesto di scongiuro, mentre Trok al suo fianco restava in silenzio, irrigidito da un terrore superstizioso. Il raggio luminoso investì la vetta della collina, illuminando la figura del mago come un lampo accecante. Intorno alla sua testa si formò un'aureola argentea, luminosissima. Taita fece un lento gesto circolare col lungo bastone, e i guerrieri hyksos parvero rattrappirsi come cani randagi sotto la frusta. Le nubi si squarciarono e il cielo divenne limpido. Il sole danzava sulle dune, riflettendosi nei loro occhi abbacinati come una lastra di bronzo levigato. Sollevarono lo scudo o le mani per proteggersi gli occhi da quella strana luminosità, ma senza emettere neanche un lamento. Wilbur Smith
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Taita allora descrisse lentamente un altro cerchio col bastone, e finalmente si udì un suono: sommesso come il sospiro di un amante, sembrava provenire dal cielo stesso. Gli uomini voltarono la testa con aria interrogativa, cercandone la fonte. Il mago ripeté quel gesto e il sospiro divenne un fruscio, un sibilo delicato che proveniva da oriente. Tutti voltarono la testa in quella direzione. E la videro arrivare, sprigionata da quella strana luminosità senza nuvole: era come una parete compatta color ocra, che s'innalzava dalla terra fino alla sommità del cielo. «Il khamsin!» Trok sussurrò quella parola temibile. La parete di sabbia trasportata dall'aria avanzava verso di loro con spaventosa determinazione, ondulando e pulsando come una creatura viva. La sua voce cambiò. Non era più un sussurro, bensì un ululato sempre più intenso: la voce di un demone. «Il khamsin!» La parola fu ripetuta da un carro all'altro. Gli uomini non erano più guerrieri ansiosi di combattere, ma piccole creature terrorizzate di fronte a quella potenza capace di annientare animali ed esseri umani, città e civiltà, e addirittura mondi interi. La colonna di carri ruppe la formazione, mentre i conducenti ordinavano ai cavalli d'invertire il senso di marcia, nel tentativo di fuggire. Non appena lasciarono il sentiero stretto di terreno compatto, la sabbia risucchiò le ruote e gli uomini balzarono a terra, abbandonando i carri coi cavalli ancora attaccati. L'istinto avvertì della minaccia gli animali, che s'impennarono, lanciando nitriti selvaggi e scalciando nel tentativo di liberarsi dalle tirelle per fuggire. Il khamsin, inesorabile, si abbatté su di loro. La sua voce si mutò da ululato in ruggito. Gli uomini cercavano di precederlo, correndo in preda a un panico disperato, ma scivolavano e cadevano nella sabbia molle, rialzandosi a fatica per riprendere la corsa. Voltandosi a guardare, scorsero la tempesta che avanzava ruggendo come un mostro impazzito, rotolando su se stessa come una cortina di sabbia turbinante, color bronzo nei punti in cui la investiva la luce del sole, color ocra là dove la sua stessa massa proiettava una montagna d'ombra. Taita rimase immobile, tendendo le braccia e il bastone, mentre l'esercito ai suoi piedi veniva inghiottito. Vide Trok e Ishtar ancora immobili come due statue al sole, poi, quando il fronte della tempesta li raggiunse, Wilbur Smith
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sparirono come per magia, insieme con tutti gli uomini, i carri e i cavalli, risucchiati dalla massa del khamsin. Allora abbassò le braccia, voltò le spalle al mostro e, senza fretta, si avviò lungo la discesa. Le sue lunghe gambe superavano senza fatica i punti difficili, mentre si appoggiava al bastone per scendere da una cengia all'altra. Nefer e Mintaka lo aspettavano, tenendosi per mano ai piedi della parete di roccia. Lo accolsero con un'espressione perplessa; il tono di Mintaka era sommesso e incredulo quando gli domandò: «Sei stato tu a evocare la tempesta di sabbia?» «Erano già alcuni giorni che si preparava», rispose Taita, con un'espressione neutra e un tono ambiguo. «Avrete notato tutti il caldo e quella fastidiosa foschia gialla, no?» «No», ribatté Nefer. «Non è stata la natura. Sei stato tu. Sapevi e capivi tutto fin dall'inizio. L'hai evocata tu. E dire che dubitavo di te!» «Ora entrate nel riparo», ordinò Taita. «Ci è quasi addosso.» La sua voce andò perduta nella cacofonia urlante del khamsin. Mintaka si mosse, strisciando nella caverna bassa e stretta attraverso il varco rimasto aperto nella parete rudimentale che avevano costruito. Gli altri la seguirono, affollandosi in quello spazio minuscolo. Prima di entrare, Hilto consegnò gli otri dell'acqua quasi vuoti. Alla fine, solo Taita rimase fuori del riparo. Quasi che la tempesta fosse una sua creatura, la osservò, mentre incombeva su di lui, abbattendosi sulla roccia con violenza tale che la collina parve fremere e agitarsi e lui scomparve, come se la sua figura alta fosse stata cancellata. La prima raffica durò solo alcuni secondi, ma, quando passò, Taita era ancora lì, immobile e sereno. Allora la tempesta si addensò, ruggendo come un mostro folle, e, quando si avventò su di loro con tutta la sua terribile potenza, il mago si chinò per entrare anche lui, sedendosi con la schiena appoggiata alla parete interna. «Chiudete», ordinò. Meren e Hilto bloccarono l'entrata coi sassi che avevano tenuto a portata di mano. «Copritevi la testa», disse poi Taita, fasciandosi il viso con un lembo del copricapo di stoffa. «Tenete gli occhi chiusi, altrimenti perderete la vista. E fate attenzione nel respirare con la bocca, altrimenti affogherete nella sabbia.»
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La tempesta era così impetuosa che il fronte travolse il carro di Trok, sollevandolo da terra e facendolo rotolare lontano, mentre i cavalli nitrivano, con la schiena spezzata dai colpi violenti dell'assale. Trok fu sbalzato sulla sabbia. Lottò per rimettersi in piedi, ma la tempesta lo gettò di nuovo a terra. Riuscì a risollevarsi, ricorrendo a tutta la sua forza, ma aveva perso il senso dell'orientamento e, quando riaprì gli occhi, rimase accecato dalla sabbia. Non sapeva da che parte andava, né dove poteva trovare scampo. La tempesta formava un turbine impetuoso, per cui sembrava che provenisse contemporaneamente da tutte le direzioni. Non osava riaprire gli occhi, perché il khamsin gli ululava in faccia, graffiandogli le guance e le labbra con la sabbia abrasiva scagliata dal vento. Riuscì a coprirsi il volto con un lembo del copricapo di stoffa e, in mezzo a quella baraonda di sabbia e vento, cominciò a gridare: «Salvami! Salvami, Ishtar, e sarai ricompensato oltre ogni aspettativa della tua anima avida!» Gli sembrava impossibile che qualcuno potesse sentire le sue grida in quel frastuono assordante. Eppure si sentì prendere per mano da Ishtar, che gliela strinse forte per ammonirlo ad aggrapparsi saldamente a lui. Presero ad avanzare, a tratti sprofondando fino alle ginocchia nella sabbia, che scorreva intorno a loro come acqua. Poi Trok inciampò in un ostacolo e perse il contatto con Ishtar. Quando brancolò freneticamente, in preda al panico, sfiorò l'oggetto che lo aveva fatto cadere, scoprendo che si trattava di un carro abbandonato, rovesciato sul fianco. Chiamò a gran voce Ishtar, barcollando mentre girava in cerchio, e il mago lo afferrò per la barba, trascinandolo in avanti. Era ustionato dalla sabbia, accecato dalla sabbia, soffocato dalla sabbia. Cadde sulle ginocchia, ma Ishtar lo rimise in piedi, strappandogli un ciuffo di peli della barba. Lui tentò di parlare, ma, non appena aprì bocca, la sabbia vi entrò a fiotti, soffocandolo. Capì che stava per morire, che nessun uomo poteva sfuggire a quel mostro orribile che li teneva in pugno. Sembrava interminabile, quel loro viaggio faticoso verso il nulla, quando, all'improvviso, sentì la forza del vento calare. Per un istante pensò che la tempesta li avesse già superati, ma il rombo non era diminuito; al contrario, sembrava aumentare. Procedettero a passi incerti, barcollando e urtandosi come due ubriachi che cerchino di tornare a casa dalla taverna. Comunque l'intensità del vento era scemata. Trok pensò che, in qualche modo, Ishtar fosse riuscito a operare un incantesimo per proteggerli, ma Wilbur Smith
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poi una raffica improvvisa lo sollevò di peso, strappandolo alla presa del mago. Si schiantò contro una parete di roccia con tanta violenza da sentire lo schiocco dell'osso della clavicola che si spezzava. Crollò in ginocchio, aggrappandosi alla roccia come un bambino al seno della madre. Non sapeva come Ishtar fosse riuscito a raggiungere la collina, e del resto non si curava di saperlo. L'unica cosa importante era che la parete di roccia sopra di loro fungeva da frangivento, riparandoli dalla violenza della tempesta. Si accorse che il medo s'inginocchiava vicino a lui, sollevando l'orlo della tunica fino a coprirsi la testa. Poi lo spinse per farlo distendere al riparo della roccia e si stese al suo fianco. Nella minuscola caverna, Nefer strisciò al fianco di Mintaka, prendendola tra le braccia. Tentò di parlarle, per consolarla e incoraggiarla, ma avevano entrambi la testa avvolta nella stoffa e il vento soffocava ogni suono. Lei gli posò la testa sulla spalla e rimasero così, stretti l'uno all'altra. Erano sepolti nell'oscurità ruggente, sordi, ciechi e semisoffocati. Ogni boccata d'aria ardente doveva essere filtrata attraverso il tessuto e aspirata poco alla volta, per impedire che s'insinuasse tra le labbra un fiotto di sabbia fine come talco. Dopo qualche tempo il rombo del vento li assordò, smorzando tutti gli altri sensi. Si prolungava all'infinito, senza concedere tregua. Non avevano modo di valutare il passaggio del tempo, a parte il lievissimo riverbero di luce o di oscurità che filtrava tra le palpebre chiuse. Ad annunciare l'arrivo del giorno c'era solo una lieve aura rosata; quando calava la notte, piombavano nel buio più profondo. Nefer non aveva mai sperimentato un'oscurità così totale e infinita. Se non fosse stato per il corpo di Mintaka stretto al suo, sarebbe impazzito. Di tanto in tanto lei si muoveva contro di lui, rispondendo alla pressione delle sue braccia. Forse lui si addormentò, ma senza sognare, se non forse il rombo del khamsin e l'oscurità. Passato qualche tempo, tentò di muovere le gambe, ma senza riuscirci. In preda a un panico folle, credette di avere perso il controllo del proprio corpo, di essere debole, sull'orlo della morte. Poi ritentò con tutte le sue forze e riuscì a muovere le dita dei piedi. Allora capì di essere intrappolato nella sabbia, che filtrava nel loro rifugio attraverso le fessure nella zareba ed era già arrivata all'altezza della vita. Rischiavano di essere sepolti vivi. Il pensiero di quella morte insidiosa lo riempì di terrore. Con le mani Wilbur Smith
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nude, scostò la sabbia quanto bastava per muovere le gambe, facendo altrettanto per Mintaka. Sentì gli altri lavorare allo stesso modo nella caverna affollata, tentando di respingere la sabbia che s'insinuava come acqua, depositata su di loro dalle fitte nubi di polvere che turbinavano nell'aria. E la tempesta continuava a imperversare. Per due giorni e tre notti il vento non concesse tregua. In quel lasso di tempo, Nefer riuscì a tenere a bada la sabbia solo quanto bastava per muovere la testa e le braccia, mentre la parte inferiore del corpo restava saldamente prigioniera. Non poteva scavare per liberarsi, perché non c'era spazio libero per accumulare la sabbia. Sollevando una mano, incontrò il soffitto di pietra a poche spanne dalla sua testa. Passandovi sopra le dita, scoprì che s'incurvava leggermente, formando una cupola. La loro testa si trovava in quel piccolo spazio libero, mentre la sabbia aveva sigillato l'ingresso della caverna, cosicché non poteva penetrare più, sebbene si sentisse ancora la tempesta infuriare senza posa all'esterno. Attese. A tratti sentiva Mintaka singhiozzare piano al suo fianco e tentava di consolarla con una lieve pressione delle braccia. L'aria intrappolata con loro nel minuscolo spazio per la testa divenne fetida e stantia. Pensava che ben presto non sarebbe bastata più a tenerli in vita, ma ci doveva essere un filo d'aria pura che filtrava attraverso la sabbia, perché erano ancora vivi, anche se ogni respiro era un'impresa. Seppure con enorme fatica, riuscirono a bere l'acqua degli otri, lasciandone solo qualche goccia sul fondo. Poi cominciò la sete. Anche se non potevano muoversi, la sabbia e l'aria ardente facevano evaporare i liquidi del corpo. Nefer sentì la lingua incollarsi a poco a poco al palato. Poi cominciò a gonfiarsi, cosicché il respiro, già difficile, divenne pressoché impossibile, perché quell'enorme spugna arida gli riempiva la bocca. Tra la paura e la sete, aveva perso la nozione del tempo: aveva l'impressione che fosse passata un'eternità. Si riscosse dal torpore che lo invadeva lentamente, rendendosi conto che qualcosa era cambiato. Tentò di capire che cosa fosse, ma aveva la mente offuscata e intorpidita. Mintaka era immobile al suo fianco. La strinse, spaventato, e ottenne in risposta un fremito lievissimo. Era ancora viva. Erano ancora vivi tutti e due, ma sepolti vivi, in grado di muoversi solo a fatica. Wilbur Smith
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Si accorse di ricadere in quel torpore cupo, nei sogni allucinati in cui vedeva soltanto acqua, fresche distese verdi di acqua fluviale, cascate e ruscelli d'acqua. Si riscosse dalle tenebre grazie alla forza di volontà, sforzandosi di tendere le orecchie. Non sentì niente. Era stato questo a ridestarlo. Non si udiva più nulla. Il rombo possente del khamsin aveva ceduto il posto a un silenzio profondo. Il silenzio di una tomba sigillata, pensò, sopraffatto di nuovo dall'orrore. Riprese la lotta per liberarsi dalla sabbia, e riuscì finalmente a spostare il braccio destro. Allungandolo, trovò la testa di Mintaka, protetta dalla stoffa. L'accarezzò e, nel silenzio, sentì la giovane piagnucolare. Tentò di parlare per rassicurarla, ma la lingua gonfia gli impediva di pronunciare anche una sola parola. Allora tese la mano più in là per cercare Hilto, che era seduto dall'altra parte: ma se n'era andato, oppure era lontano dalla portata del suo braccio, perché Nefer non incontrò nessun ostacolo. Dopo un breve riposo si riscosse, tentando di liberare dalla sabbia l'accesso alla caverna, ma non c'era molto spazio in cui spingere quella che spostava. Una manciata alla volta, riuscì a respingerla verso un angolo della loro cella minuscola; ben presto, però, grattando via qualche granello per volta, riuscì a tendere il braccio destro. Era un tentativo disperato, ma sapeva che doveva insistere, altrimenti ogni speranza era perduta. D'un tratto sentì la sabbia scivolare via come una cascata sotto le dita e, anche attraverso le pieghe del tessuto che gli copriva la testa, avvertì un filo di aria pura. Poi captò un lieve barlume di luce che filtrava dalle palpebre chiuse. Cominciò a liberare il viso dal tessuto che lo riparava, con gesti lenti e penosi. La luce diventava sempre più forte, mentre l'aria era un sollievo per la bocca arida e i polmoni doloranti. Quando liberò il viso dal tessuto, socchiuse un occhio e rimase quasi abbacinato. Riuscì a adattare la vista alla luce, e si accorse di aver aperto un varco non più grande del cerchio formato da pollice e indice. Fuori regnava il silenzio. La tempesta era passata. Eccitato da una nuova speranza, tolse il copricapo dalla testa di Mintaka e la sentì respirare l'aria pura. Tentò nuovamente di parlare, ma ancora una volta la voce lo tradì. Cercò di muoversi, di sfuggire alla presa mortale della sabbia, ma aveva ancora il corpo sepolto fino alle ascelle. Con le poche forze che gli restavano, lottò in silenzio per liberarsi, ma lo sforzo lo esaurì, mentre la gola, riarsa dalla sete, gli doleva. Pensò che era Wilbur Smith
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crudele morire lì, con la promessa dell'aria e della luce che sembrava schernirlo attraverso quel minuscolo passaggio. Chiuse gli occhi di nuovo, esausto, arrendendosi. Poi percepì un altro cambiamento nella luce e riaprì un occhio. Incredulo, vide una mano protendersi verso di lui attraverso l'apertura. Una mano vecchissima, con la pelle arida e ricoperta dalle chiazze scure della vecchiaia. «Nefer!» Udì una voce così strana, così roca e alterata che, per un istante, il ragazzo dubitò che fosse quella del mago. «Nefer, puoi sentirmi?» Lui tentò di rispondere, ma senza riuscirci. Allungando la mano, sfiorò le dita di Taita, che subito strinse le sue con forza sorprendente. «Tenete duro. Vi tireremo fuori.» Poi udì altre voci, arrochite e fioche per la sete e lo sforzo, e alcune mani grattarono la sabbia che lo teneva in trappola, riuscendo infine ad afferrarlo e a liberarlo da quella presa soffice e letale. Nefer scivolò attraverso la stretta fenditura come se la collina rocciosa lo mettesse al mondo per la seconda volta. Poi Hilto e Meren si protesero di nuovo all'interno, trascinando Mintaka fuori di quel soffice grembo scuro, portandola alla luce del sole. Gli altri li rimisero in piedi, impedendo loro di cadere, visto che avevano le gambe prive di forze. Nefer si liberò dalle mani di Meren per raggiungere Mintaka e abbracciarla in silenzio. Lei tremava come se fosse in preda alla febbre. Dopo qualche minuto, la scostò da sé, tenendola a braccia tese, per guardarla in volto, terrorizzato e impietosito al contempo. Aveva i capelli bianchi di sabbia e le sopracciglia coperte di polvere. Gli occhi erano infossati nelle orbite violacee, mentre le labbra apparivano nere e gonfie, al punto che, quando la ragazza tentò di parlare, si spaccarono e una goccia di sangue lucente come un rubino le scivolò sul mento. «Acqua», riuscì finalmente a sussurrare Nefer. «Deve bere...» Lasciandosi cadere sulle ginocchia, cominciò freneticamente a scavare nella sabbia che bloccava ancora l'accesso alla caverna. Con l'aiuto di Meren e Hilto portarono allo scoperto un otre dell'acqua, ma, tirandolo fuori, scoprirono che quasi tutta l'acqua rimasta era evaporata o colata via. Ne restava soltanto a sufficienza per qualche sorso a testa. Eppure anche quel poco d'acqua poteva tenerli in vita ancora per un po'. Nefer sentì le forze affluire di nuovo nel suo corpo disidratato, tanto Wilbur Smith
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che, per la prima volta, si guardò intorno. La mattina doveva essere inoltrata, ma lui ignorava quanti giorni fossero rimasti sepolti. Nell'aria immobile aleggiava ancora una foschia di sabbia, fine come polvere d'oro. Si riparò gli occhi con la mano per guardare il deserto, ma non lo riconobbe. Il paesaggio era cambiato completamente: le dune alte erano scomparse, sostituite da altre, di forma e disposizione diverse. C'erano valli dove un tempo c'erano state montagne, e avvallamenti al posto delle colline. Persino i colori apparivano cambiati: i viola cupi e gli azzurri lividi erano stati sostituiti da rossi e gialli dorati. Scosse la testa per lo stupore, guardando Taita. Il mago, appoggiato al bastone, lo fissava coi suoi occhi chiari, vecchissimi, eppure senza età. «Trok...» riuscì a mormorare Nefer. «Dove?» «Sepolto», rispose Taita. Solo in quell'istante, Nefer si accorse che anche il mago era rinsecchito come un ramo di legna da ardere e sperimentava le loro stesse sofferenze. «Acqua...» sussurrò Nefer, sfiorandosi la bocca gonfia e sanguinante. «Vieni», rispose Taita. Nefer prese per mano Mintaka, seguendo lentamente il mago sulle sabbie roventi. Pareva davvero che la sete e la stanchezza avessero imposto il loro tributo anche a Taita, che si muoveva con andatura lenta e rigida. Gli altri si trascinavano dietro di lui, barcollando. Taita dava l'impressione di aggirarsi senza meta tra le nuove valli di sabbia fine che gli scivolava sotto i piedi. Teneva il bastone di fronte a sé, muovendolo in senso circolare. Un paio di volte s'inginocchiò per sfiorare la terra con la fronte. «Che cosa sta facendo?» bisbigliò Mintaka. L'acqua che avevano bevuto non era stata sufficiente a rianimarla, e ricominciava a indebolirsi. «Prega?» Nefer si limitò a scuotere la testa. Non intendeva sprecare le sue misere riserve d'energia parlando senza motivo. Taita proseguì lentamente: il modo in cui muoveva il bastone rammentò a Nefer un rabdomante al lavoro. Ancora una volta il mago s'inginocchiò, accostando il viso al terreno. Stavolta Nefer lo osservò con maggiore attenzione e capì che non stava pregando, bensì fiutava l'aria vicino alla superficie della sabbia. Allora capì che cosa voleva fare. «Cerca i carri della divisione di Trok sepolti Wilbur Smith
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sotto la sabbia», bisbigliò a Mintaka. «Il bastone è la sua verga divinatoria e fiuta la sabbia per captare l'odore della putrefazione.» Taita si alzò a fatica, rivolgendo un cenno a Hilto. «Scavate qui», ordinò. Si affollarono tutti intorno a lui, cominciando a grattare la sabbia con le mani. Non dovettero lavorare molto. A un braccio di profondità incontrarono qualcosa di solido e, raddoppiando gli sforzi, misero in breve allo scoperto il bordo di una ruota di un carro rovesciato su un fianco. Ancora pochi minuti di scavo frenetico, e tirarono fuori un otre per l'acqua, ma lo fissarono disperati perché era scoppiato, forse quando il carro si era ribaltato. Era asciutto e, per quanto lo spremessero con gesti frenetici, non cedette neanche una goccia del prezioso liquido. «Ce ne dev'essere qualche altro», disse Nefer, parlando con le labbra gonfie e screpolate. «Scavate più a fondo.» Artigliarono la sabbia con un'ultima, disperata esplosione di energia. A mano a mano che lo scavo arrivava in profondità, l'odore dei cavalli morti ancora aggiogati ai carri diventava sempre più forte e nauseante. Erano rimasti per troppi giorni esposti al calore. D'improvviso, Nefer sentì qualcosa di morbido e cedevole. Esercitò una lieve pressione, e tutti sentirono il gorgoglio dell'acqua. Allora continuò a scavare nella sabbia molle e, con l'aiuto degli altri, riuscì a disseppellire un otre pieno. Gemevano tutti, piagnucolando di sete, allorché Taita aprì il tappo e versò l'acqua nel secchio di cuoio rimasto vicino all'otre sul fondo della buca. L'acqua era calda come il sangue, ma, quando Taita accostò il secchio alle labbra di Mintaka, lei chiuse gli occhi e bevve, assorta in un'estasi silenziosa. «Non troppa, all'inizio», l'ammonì Taita, togliendole di mano il secchio per passarlo a Nefer. Bevvero tutti a turno, poi toccò di nuovo a Mintaka e il secchio fece un altro giro. Nel frattempo Taita li aveva lasciati per continuare la ricerca. Poco dopo li chiamò per farli scavare di nuovo. Stavolta ebbero fortuna: non solo il carro era sepolto sotto uno strato meno spesso di sabbia, ma c'erano tre otri, e nessuno era danneggiato. «Ora tocca ai cavalli», dichiarò il mago, e tutti si scambiarono un'occhiata colpevole. In preda alla disperazione, si erano dimenticati di loro. Portando gli otri, tornarono faticosamente verso la base della parete Wilbur Smith
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rocciosa. La gola stretta nella quale avevano legato i cavalli doveva essere orientata nella direzione giusta per evitare l'impeto del khamsin. Quando cominciarono a scavare, usando la vanga di legno che avevano trovato in mezzo all'equipaggiamento del carro sepolto, scoprirono quasi subito il primo. Tuttavia il fetore li avvertì di quello che dovevano aspettarsi. L'animale era morto, col ventre gonfio di gas. Lo lasciarono, passando a scavare in cerca del successivo. Furono più fortunati. Era una giumenta, la più volenterosa e robusta dei cavalli che avevano catturato nell'accampamento presso le sabbie mobili. Era viva, sia pure per un soffio. Tagliarono la cavezza che la teneva legata, ma la bestia era troppo debole per alzarsi senza aiuto. Gli uomini dovettero sollevarla di peso e anche allora la bestia continuò a tremare, indebolita dalla sete, barcollando e minacciando di cadere di nuovo; ma bevve avidamente dal secchio che Mintaka le tendeva, e parve migliorare subito. Nel frattempo gli uomini scavavano per trovare gli altri cavalli. Due erano già morti, di sete o asfissiati, ma altri due erano ancora vivi e, non appena ricevettero l'acqua, anche loro reagirono. Lasciando a Mintaka la cura di quelle tre povere bestie, tornarono verso i carri messi allo scoperto in cerca di foraggio, riportando alcuni sacchi di granaglie e un altro otre d'acqua. «Stai facendo un buon lavoro con questi animali», disse Nefer a Mintaka, accarezzando il collo della giumenta, «ma ho paura che siano troppo esausti per tirare ancora un carro.» Lei si ribellò, dichiarando con veemenza: «Li rimetterò in piedi tutti, lo giuro sulla dea. Là fuori, sotto la sabbia, ci devono essere altri sacchi di foraggio e otri d'acqua. Forse dovremo restare qui per molti altri giorni, ma, quando ce ne andremo, saranno queste nobili creature a portarci via». Nefer rise, nonostante le labbra screpolate e coperte di croste. «Ho una gran paura della tua natura appassionata.» «Allora non provocarmi più», lo ammonì lei, «altrimenti ne vedrai altre prove.» Era la prima volta che sorrideva dopo il passaggio del khamsin. «Ora torna ad aiutare gli altri. La nostra riserva d'acqua non sarà mai abbastanza grande.» Lui si allontanò, scendendo verso la sabbia dove Taita continuava il suo lavoro. Non tutti i carri degli hyksos erano coperti da uno strato di sabbia così leggero come i primi: molti sarebbero rimasti sepolti per sempre sotto Wilbur Smith
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le nuove dune create dalla tempesta. Proseguendo la ricerca, si allontanarono sempre più dalla collinetta rocciosa, trovando sotto la sabbia molti cadaveri, col ventre gonfio e circondati dal caratteristico fetore. Ben presto furono lontani da Mintaka, che accudiva i cavalli con lo zelo di uno stalliere. Fu il silenzio a riscuotere Trok, che, tentando di muoversi, si lasciò sfuggire un gemito. La sabbia gli pesava addosso, soffocandolo. Aveva l'impressione che gli schiacciasse le costole, svuotando i polmoni dell'aria che contenevano. Ciò nonostante sapeva che, per caso o a ragion veduta, il punto in cui Ishtar lo aveva guidato per attendere la fine della tempesta era stato una buona scelta. In qualsiasi altro luogo sarebbero rimasti sepolti per sempre, mentre lì era riuscito a stare vicino alla superficie. Nei giorni precedenti, ogni volta che gli strati di sabbia trasportata dal vento si accumulavano sopra di lui sino a formare un peso intollerabile, era riuscito a divincolarsi, liberandosi e lasciando soltanto uno strato sufficiente a proteggerlo dall'impatto abrasivo del khamsin. Si dibatté per raggiungere la luce e l'aria, come un nuotatore che risale dal fondo di una pozza profonda. Mentre nuotava a fatica nella sabbia, la spalla ferita lo tormentava con un dolore bruciante, ma insistette finché la testa non riemerse in superficie, ancora avvolta nelle pieghe di stoffa. Allora si liberò del tessuto, battendo le palpebre per guardarsi intorno nella luce abbagliante. Il vento era calato, ma l'aria scintillava di particelle finissime di sabbia in sospensione. Rimase immobile a riposare per qualche tempo, finché il dolore alla spalla non diminuì, poi respinse lo strato di sabbia che ancora gli copriva la parte inferiore del corpo e tentò di gridare: «Ishtar! Dove sei?» Però quello che gli uscì di bocca fu soltanto un gracidio. Voltando lentamente la testa, vide il medo seduto vicino a lui, con le spalle addossate alla parete verticale di roccia. Sembrava un cadavere appena esumato, morto da alcuni giorni. Poi Ishtar aprì l'unico occhio buono. «Acqua?» La voce di Trok era quasi impercettibile, ma il medo scosse la testa. «E così, siamo scampati alla tempesta di sabbia solo per morire nella stessa tomba», tentò di dire Trok, ma neanche un suono gli uscì dalla gola Wilbur Smith
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e dalla bocca devastate. Rimase disteso ancora per qualche tempo, mentre l'istinto di sopravvivenza si affievoliva, soffocato dal lento sopraggiungere dello sfinimento e della rassegnazione. Sarebbe stato molto più facile chiudere gli occhi e scivolare nel sonno per non svegliarsi mai più. Quel pensiero lo pungolò, spingendolo ad aprire le palpebre incrostate di sabbia che gli graffiava le pupille. «Acqua...» mormorò. «Trovare dell'acqua...» Appoggiandosi alla roccia, riuscì ad alzarsi e rimase immobile, vacillando e stringendosi al petto il braccio inutilizzabile. Ishtar lo seguì, con l'occhio cieco simile a quello di un rettile o di un cadavere. Trok avanzò alla cieca, urtando contro la parete a intervalli di pochi passi e procedendo lungo la base della roccia finché non riuscì a guardare in lontananza il deserto. Le dune erano intatte e perfette, sinuose come il corpo di una donna giovane e bella. Non si vedevano tracce di uomini o di veicoli. Le sue divisioni di carri, le migliori di tutto l'Egitto, erano svanite nel nulla. Tentò di leccarsi le labbra, ma nella bocca arida come il gesso non c'era saliva sufficiente. Sentì le gambe cedergli e comprese che, se fosse caduto, non sarebbe mai più riuscito a rialzarsi. Usando come sostegno la parete di pietra, proseguì barcollando, senza sapere dove andava e senza avere in mente altro che l'idea di andare avanti. Poi sentì alcune voci umane, e capì di avere le allucinazioni. Seguì un altro silenzio. Percorsi pochi passi, si fermò in ascolto. Le voci si fecero sentire di nuovo, stavolta più vicine e nitide. Sentì affluire di nuovo nel suo corpo una forza inattesa, ma, quando tentò di gridare, non gli uscì neanche un suono dalla gola inaridita. Quindi scese di nuovo il silenzio. Le voci erano cessate. Si spinse di nuovo in avanti, poi si fermò di colpo. Una voce di donna, una voce dolce e limpida... Mintaka. Quel nome affiorò in silenzio sulle sue labbra gonfie. Poi un'altra voce, stavolta maschile. Non riuscì a distinguere le parole e a riconoscere chi parlava, ma, se si trovava con Mintaka, allora doveva essere uno dei fuggiaschi che lui stava inseguendo. Un nemico. Trok si guardò intorno. La cintura con la spada era scomparsa, e così pure tutte le sue armi. Era inerme, coperto soltanto da una tunica così carica di sabbia che la trama del tessuto gli irritava la pelle. Girò lo Wilbur Smith
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sguardo intorno in cerca di un'arma, di un bastone o di una pietra, ma non c'era niente. Anche i sassi e la ghiaia erano stati coperti dalla sabbia. Restò immobile, indeciso, ma proprio in quel momento gli giunsero di nuovo le voci. Mintaka e l'uomo si trovavano in una gola tra le rocce. Mentre ancora esitava, udì lo scricchiolo della sabbia sotto i piedi di qualcuno, come se lo sconosciuto, scendendo lungo la gola verso di lui, calpestasse cristalli di sale. Trok si appiattì contro la parete di pietra e un uomo sbucò dall'imboccatura della gola, a venti passi dal suo nascondiglio, per allontanarsi tra le dune con andatura decisa. Quella figura gli era stranamente familiare, eppure non riuscì a riconoscerla finché l'uomo non si girò verso la gola per dire: «Non affaticarti troppo, Mintaka. Hai già dovuto affrontare una dura prova». Poi riprese a camminare. Trok lo seguì con lo sguardo, a bocca aperta. È morto, pensò. No, non può essere lui. Il messaggio di Naja era chiaro... Rifletté sulla possibilità che fosse un jinn o qualche altro spirito maligno che impersonava il giovane Faraone Nefer Seti. Poi, mentre lo guardava avanzare nel deserto, con gli occhi pieni di sabbia, vide che raggiungeva altri tre uomini. Tra loro spiccava la figura inconfondibile del mago, che doveva essere responsabile, in chissà quale modo strano e portentoso, della resurrezione di Nefer Seti. Ma in quel momento lui non aveva né il tempo né il desiderio d'indagare più a fondo. Aveva una sola cosa in mente: l'acqua. Con l'andatura più furtiva di cui era capace, s'insinuò nella gola dove aveva sentito la voce di Mintaka, per sbirciare oltre l'angolo della parete. Sulle prime non la riconobbe: era trasandata come una contadina, coi capelli e la tunica sbrindellata irrigiditi da un velo di sabbia e gli occhi incavati, iniettati di sangue. Stava in ginocchio davanti a un piccolo branco di cavalli, porgendo loro un secchio pieno d'acqua per farli bere. L'acqua era la sola cosa cui Trok pensava, l'unica che riusciva a fiutare, a sentire: l'agognava con tutto il suo corpo. Si diresse barcollando verso Mintaka, che gli voltava le spalle. La sabbia dura coprì il suono dei suoi passi. Non si accorse di lui finché non l'afferrò per il braccio. Allora si girò, lo vide e lanciò un grido. Trok le strappò di mano il secchio, gettandola per terra. Il braccio ferito era inutilizzabile, quindi s'inginocchiò sulle sue reni per immobilizzarla, mentre beveva dal secchio. Tracannò avidamente, a lunghe sorsate, gorgogliando e ruttando, poi bevve ancora. Sotto di lui, Mintaka si divincolava, gridando: «Nefer, Wilbur Smith
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Taita! Aiuto!» Lui si lasciò sfuggire un altro rutto, spingendole il viso nella sabbia per farla tacere, mentre beveva le ultime gocce contenute nel secchio. Poi si guardò intorno, sempre restando accovacciato su di lei come un leone sulla preda. Vide l'otre appoggiato alla parete rocciosa della gola, vicino alla pila di giavellotti e spade. Si alzò in fretta, dirigendosi da quella parte. Mintaka tentò di balzare in piedi, ma lui l'abbatté di nuovo con un calcio. «Non provarci, sgualdrina», gracchiò, afferrandola per i folti capelli carichi di sabbia. Se la trascinò dietro sul terreno fino a raggiungere l'otre, poi fu costretto a lasciarla andare, ma le piantò sulle reni uno dei piedi enormi, coperti dal sandalo corazzato, prima di tendere la mano verso l'otre, stringendolo tra le ginocchia mentre toglieva il tappo di legno. Quindi accostò l'imboccatura alle labbra, lasciandosi scorrere in gola il liquido caldo e salmastro. Pur essendo bocconi, col viso affondato nella sabbia, Mintaka si accorse che Trok era tutto preso dalla brama di bere. Doveva agire prima che riuscisse a soddisfarla e tornasse a dedicare tutta la sua attenzione a lei. Sapeva che aveva subito più umiliazioni di quante potesse sopportarne, e che l'avrebbe uccisa, piuttosto che lasciarsela sfuggire di nuovo. Disperata, allungò la mano verso il fascio di armi ammucchiate contro la parete di roccia. Le sue dita si chiusero sull'asta di un giavellotto. Trok stava ancora bevendo, con la testa rovesciata all'indietro, ma avvertì il suo movimento e cominciò ad abbassare l'otre proprio mentre Mintaka si torceva per puntargli l'arma, corta ma letale, contro il ventre. Tuttavia, il colpo, inferto da una posizione di svantaggio, era privo di forza. Trok vide lampeggiare la punta di bronzo e scattò indietro per evitarla, esclamando: «Piccola sgualdrina infida!» Lasciando cadere l'otre, si avventò su di lei, ma, non appena fu libera dal suo peso, Mintaka si alzò di scatto. Tentò di sgattaiolare via per fuggire dalla gola, verso il deserto, però lui riuscì a bloccarla, afferrandole l'orlo della tunica col lungo braccio. La ragazza allora spiccò un balzo di lato e il tessuto di lino si strappò tra le dita dell'uomo, consentendo a lei di fuggire. In ogni caso, pensò Trok, ormai aveva intrappolato quella serpe infida nella piccola valle tra le rocce. Tentò di raggiungerla, ma lei corse verso la parete, cominciando a scalarla con l'agilità e la prontezza di un gatto. In un lampo, era già lontana dalla sua portata. Saliva così in fretta che lui non poteva sperare di Wilbur Smith
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seguirla. Allora raccolse il giavellotto che lei aveva lasciato cadere, per lanciarglielo contro, ma fu costretto a usare la sinistra e quindi non riuscì a vibrare il colpo con una potenza sufficiente. Mintaka si abbassò per schivare il giavellotto, che le passò sopra la testa, colpendo la roccia davanti al suo viso. Si arrampicò più in fretta, sospinta dalla paura. Trok raggiunse barcollando il punto in cui erano accatastate le armi e afferrò un altro giavellotto, ritentando il colpo. E la mancò di una spanna. L'uomo si lasciò sfuggire un grugnito di furore e frustrazione, afferrando un terzo giavellotto, ma, in quel momento, Mintaka raggiunse un ripiano sulla parete rocciosa e vi si arrampicò, scomparendo alla vista. Rimase lì immobile, schiacciandosi sulla roccia. Lo sentiva sbraitare e imprecare contro di lei e, nonostante l'angoscia, restò nauseata dalle parole oscene che le riversava addosso. Poi un altro giavellotto la sfiorò, sibilando, e finì contro la parete sopra di lei. Ma ricadde sulla cengia e lei lo afferrò prima che potesse precipitare in fondo alla gola. Quindi si affacciò, pronta a ritrarsi subito. Trok guardava verso l'alto con aria incerta, il braccio offeso penzolante lungo il fianco. Quando vide apparire la testa di Mintaka, il suo viso fu stravolto dalla rabbia e dal dolore della ferita. Balzò in avanti, come per raggiungerla. Lei gli mostrò la punta del giavellotto. «Sì, vieni su», sibilò la donna. «Lascia che ti ficchi questo nella grossa pancia da porco che ti ritrovi!» Lui si fermò. Avrebbe dovuto scalare la parete e al contempo difendersi con un solo braccio. L'impresa era pressoché impossibile. Mentre lui esitava, Mintaka riprese a gridare: «Nefer! Taita! Hilto! Aiutatemi!» La sua voce echeggiò sulla parete rocciosa, ripercuotendosi lungo la valle. Trok si guardò intorno, innervosito, come se si aspettasse di vedere arrivare un intero esercito nemico. Poi, improvvisamente, decise; raccolse l'otre e se lo mise in spalla. «Non credere di potermi sfuggire per sempre. Un giorno assaggerò tutte le delizie del tuo corpo e poi ti cederò ai miei soldati come trastullo», le gridò. Tentò quindi di montare la giumenta, ma l'animale era troppo debole per sostenere il suo peso e si accasciò sotto di lui. Allora Trok si rialzò, allontanandosi a piedi lungo la gola. Mintaka temeva che quella ritirata fosse un trucco, quindi non osò scendere dalla sua posizione in cima alla roccia e continuò a gridare: Wilbur Smith
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«Nefer, aiutami!» Gridava ancora quando lui accorse con la spada in pugno, seguito da Hilto e Meren. «Che cosa c'è?» le domandò, mentre lei scivolava dall'alto della parete tra le sue braccia. «Trok!» Mintaka, sentendosi al sicuro, singhiozzava di sollievo. «Trok è vivo. Era qui.» Raccontò in modo affannoso l'accaduto e, prima ancora che avesse finito, Nefer diede ordine agli altri di armarsi e prepararsi a inseguire Trok. Taita, che li aveva raggiunti, rimase con Mintaka, mentre i tre uomini seguivano le impronte di Trok sulla sabbia, muovendosi con la stessa cautela che avrebbero usato per inseguire un leone ferito. Si spostarono lungo la base della roccia fino a raggiungere la fenditura in cui Trok si era riparato dalla furia del khamsin. Nefer esaminò la sabbia sconvolta dalle tracce, interpretando i segni. «Erano in due. Sono stati sepolti dalla tempesta come noi. Si sono liberati scavando. Uno di loro ha aspettato qui.» Raccolse un filo di lana rimasto impigliato nella roccia e lo tenne sollevato alla luce. «Nero.» Era un colore che gli egizi usavano di rado. «Quasi certamente si tratta di Ishtar il medo.» Hilto annuì. «Ishtar aveva la capacità di sopravvivere alla tempesta. Di certo ha salvato Trok, come Taita ha salvato noi.» «Qui...» Nefer si alzò, indicando la traccia. «Portando con sé l'otre, Trok è tornato indietro a cercare Ishtar, e insieme sono andati da questa parte.» Seguirono le impronte per un breve tratto nel deserto. «Si sono incamminati verso occidente, per tornare verso Avaris e il Nilo. Riusciranno mai a raggiungerlo?» commentò Hilto. «No, se lo trovo prima io», rispose Nefer con aria truce, brandendo la lancia che teneva in mano. «Maestà», ribatté Hilto in tono rispettoso ma fermo, «loro hanno l'acqua e un buon vantaggio. Ormai saranno ben lontani da qui. Senza acqua non puoi seguirli.» Nefer esitò. Anche se si rendeva conto che Hilto aveva ragione, lo amareggiava l'idea di lasciar fuggire Trok. Stando a quello che gli aveva detto Mintaka, era ferito, quindi non sarebbe stato un avversario troppo pericoloso, anche se lui stesso era ancora debole. Alla fine si allontanò per raggiungere di corsa la sommità della duna più vicina. Riparandosi gli occhi con la mano, guardò verso occidente, Wilbur Smith
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seguendo la fila d'impronte sulla sabbia intatta, levigata dal vento, e in lontananza, a mezza lega o poco più, scorse due figure minuscole che procedevano con andatura regolare verso ovest. Le seguì con gli occhi finché non scomparvero nel miraggio prodotto dal calore. «Ci sarà un'altra occasione», sussurrò. «Verrò a cercarti, lo giuro sui cento nomi sacri di Horus.» Trovarono e disseppellirono altri sedici carri sepolti dalla sabbia. Con una riserva così abbondante di acqua e di cibo, cavalli e uomini si ripresero in fretta. Inoltre avevano riportato alla luce molti altri soldati di Trok, da cui ricavarono il necessario per vestirsi. Nefer adattò un paio di sandali ai piedi di Mintaka, che erano guariti quasi del tutto. Il decimo giorno furono pronti a partire. I quattro cavalli rimasti non erano abbastanza forti per trainare i carri sulla sabbia poco compatta, quindi Nefer decise di usarli come bestie da soma, caricandoli con tutta l'acqua che riuscivano a trasportare. Al calar della sera, portando i cavalli per la cavezza, si misero in cammino attraverso le dune. Poiché la giumenta non poteva portare in groppa Mintaka e gli otri pieni d'acqua, Nefer adattò una cinghia di cuoio e la fece scorrere intorno alle spalle dell'animale, insistendo perché la ragazza vi si aggrappasse per procedere senza troppa fatica sul terreno cedevole. Il khamsin aveva modificato così profondamente il paesaggio che Taita dovette ricorrere alle stelle per orientarsi. Procedettero ad andatura costante e, prima dell'alba del secondo giorno, raggiunsero la vecchia strada carovaniera. Alcuni tratti erano stati cancellati dal khamsin, ma in breve tempo la luce aumentò, consentendo loro di scorgere i cumuli di pietre che contrassegnavano le biforcazioni. Scoprirono che, dopo la fine della tempesta di sabbia, qualcun altro era passato su quella strada. Due serie d'impronte procedevano verso occidente, puntando cioè in direzione della valle del Nilo e di Avaris. Un paio d'impronte era grande, l'altro più piccolo. Taita e Nefer le esaminarono con attenzione. «Questo è Trok. A parte lui, nessun altro ha i piedi grandi come una chiatta del Nilo. Mintaka aveva ragione: è ferito al fianco destro. Cerca di proteggerlo nel camminare», decretò Taita, interpretando i segni. «Finora, tuttavia, non posso essere sicuro riguardo all'altro. Vediamo se lascia Wilbur Smith
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qualche indizio sulla propria identità.» Seguirono le tracce fino al cumulo di pietre. «Ah, ecco!» Vicino al tumulo, qualcuno aveva disposto di recente alcune pietre in modo da formare un disegno intricato. «Adesso non ci sono dubbi. E Ishtar il medo.» Sparpagliò le pietre con un gesto collerico. «Questa è un'invocazione al terribile Marduk il divoratore.» Taita scagliò una delle pietre più piccole lungo la strada che Trok e Ishtar avevano imboccato. «Se avesse avuto con sé un neonato, Ishtar lo avrebbe sacrificato volentieri. Marduk è assetato di sangue umano.» A quel punto, Nefer fu costretto a prendere una decisione difficile. «Se dobbiamo intraprendere il lungo viaggio verso oriente, avremo bisogno di provviste e d'oro. È meglio non presentarsi alla corte degli assiri come un gruppo di mendicanti.» Taita assentì. «In Egitto ci sono molti uomini potenti che ci darebbero tutto il loro appoggio, a patto che abbiano la certezza che il loro Faraone è ancora vivo.» «Hilto e Meren devono tornare a Tebe», disse Nefer. «Tornerei io stesso, ma ormai tutti staranno cercando Mintaka e me.» Si tolse dal dito uno degli anelli con le insegne regali per porgerlo all'anziano guerriero. «Questo sarà il tuo pegno di riconoscimento. Mostralo ai nostri amici. Devi tornare portando con te uomini e oro, carri e cavalli. Quando andremo dal re Sargon, dobbiamo arrivare in condizioni tali da dimostrargli di quali appoggi godiamo ancora in Egitto.» «Farò come mi ordini, maestà.» «Per noi saranno quasi altrettanto vitali le informazioni che potrai raccogliere. Dobbiamo essere al corrente di ogni azione dei falsi Faraoni.» «Partirò al calar della sera», dichiarò Hilto. Trascorsero la lunga giornata torrida distesi all'ombra di un tendone che avevano recuperato da uno dei carri sepolti nella sabbia, discutendo dei loro progetti. Quando il sole scese verso l'orizzonte e cominciò a perdere calore, la comitiva si divise: Hilto e Meren puntarono di nuovo a occidente, verso Tebe, mentre Taita, Nefer e Mintaka avrebbero proseguito verso oriente. «Vi aspetteremo presso le rovine di Gallala», furono le ultime parole che Nefer rivolse a Hilto. Poi seguirono con gli occhi Meren e lui che imboccavano la strada rialzata scomparendo nell'ombra del crepuscolo. Taita, Mintaka e Nefer percorsero la via carovaniera verso Gallala. Wilbur Smith
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Dodici giorni dopo, quando negli otri era rimasta soltanto qualche goccia d'acqua, raggiunsero le rovine deserte. Il tempo passò, e l'attesa a Gallala sembrava interminabile. Taita trascorreva giorni interi sulle colline che circondavano la città. Nefer e Mintaka lo scorgevano ogni tanto di lontano, mentre si aggirava per le valli e le gole scoscese. Spesso lo vedevano battere sulle rocce col bastone, come se le sondasse. Altre volte si sedeva presso i pozzi quasi asciutti fuori delle mura della città, guardando in fondo al condotto. Una volta Nefer lo interrogò in modo indiretto, e lui diede una risposta evasiva. «Un esercito ha bisogno di acqua», si limitò a dire. «C'è acqua appena sufficiente per noi», gli fece notare Nefer, «figuriamoci per un esercito.» Il mago annuì, e si allontanò di nuovo tra le colline, continuando a picchiettare col bastone sulle rocce. Mintaka predispose alcuni alloggi per loro tra le rovine, e Nefer li coprì con la tenda sbrindellata. Dal momento che era una principessa reale hyksos, non era mai stata costretta a cucinare un pasto o pulire una stanza, e i primi tentativi furono disastrosi. Masticando un boccone carbonizzato, Taita osservò: «Se davvero vogliamo distruggere l'esercito di Trok, il modo più efficace sarebbe mandarti da loro per fare da cuoca». «Visto che sei così abile, forse potresti onorarci con la tua grande perizia culinaria.» «È l'unica soluzione, se non vogliamo morire di fame», riconobbe Taita, prendendo il suo posto presso il focolare. Nefer riprese il suo vecchio ruolo di cacciatore e, dopo il primo giorno trascorso nel deserto, tornò con una giovane gazzella grassoccia e quattro uova giganti di ottarda dal disegno meraviglioso, anche se leggermente rancide. Mintaka annusò la sua parte del piatto preparato con le uova da Taita, poi lo respinse. «E questo sarebbe lo stesso uomo che si è lamentato della mia cucina?» Guardò Nefer, seduto dall'altra parte del fuoco. «Tu sei colpevole quanto lui. La prossima volta verrò con te per assicurarmi che quello che porti sia commestibile.» Allora i due giovani si stesero in uno degli uadi poco profondi che tagliavano le colline e osservarono un branco di gazzelle che brucavano. «Sono davvero belle e aggraziate», sussurrò lei. «Sarò io a colpirle, se tu hai troppi scrupoli», le disse Nefer. «No, non ho detto che non lo avrei fatto.» Il tono di Mintaka era deciso, Wilbur Smith
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e ormai lui la conosceva abbastanza da non mettersi a discutere le sue decisioni. Il maschio che precedeva il branco aveva il dorso di un delicato color cannella e il ventre bianco argenteo come una delle nubi temporalesche che galleggiavano nel cielo all'orizzonte. Le corna levigate, a forma di lira, rilucevano tra le orecchie dritte. L'animale volse la testa sul collo lungo e sinuoso per guardare il suo piccolo branco. Uno dei piccoli cominciò a saltellare, rimbalzando sulle zampe rigide e sfiorando col muso gli zoccoli raggruppati: il comportamento abituale per segnalare un allarme. «Il piccolo si sta solo esercitando. Vuole mettersi in mostra», commentò Nefer, sorridendo. Il maschio perse ogni interesse per quell'esibizione giovanile, riprendendo a dirigersi verso il punto in cui loro due erano in agguato. Sceglieva il percorso migliore sul terreno sassoso con grazia studiata, fermandosi a intervalli di pochi passi per guardarsi intorno cautamente, in guardia contro ogni pericolo. «Non ci ha ancora visti, ma tra poco ci vedrà», mormorò Nefer. «E qui non c'è Taita per trarlo in inganno.» «È fuori della nostra portata», sussurrò lei di rimando. «Cinquanta passi, non di più. Colpiscilo, altrimenti fuggirà da un momento all'altro.» Mintaka attese che il maschio si voltasse di nuovo, poi si mise lentamente in ginocchio per tendere l'arco, uno di quelli corti e ricurvi che avevano recuperato da un carro sepolto nella sabbia. Scoccò la freccia, che salì disegnando un arco delicato nel cielo chiaro del deserto. Con gli enormi occhi scuri, la gazzella aveva captato all'istante il lieve movimento che lei aveva fatto per alzarsi. Si girò a fissarla, pronta a fuggire, e, non appena sentì vibrare la corda dell'arco, balzò in avanti, mentre la freccia era ancora in aria, e si allontanò veloce come un lampo, sollevando minuscole nuvolette di polvere nei punti in cui gli zoccoli sfioravano il terreno. La freccia finì sulle rocce, nel punto in cui fino a pochi istanti prima si trovava l'animale. Mintaka balzò in piedi e scoppiò a ridere, senza tradire il minimo rammarico per il colpo andato a vuoto. «Guarda come corre! Sembra una rondine in volo.» Taita aveva insegnato a Nefer che il vero cacciatore ama e onora la preda, quindi lui ammirava ancora di più Mintaka per la compassione che provava verso le creature cui dava la caccia. Wilbur Smith
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La ragazza si rivolse a lui, continuando a ridere. «Mi spiace, tesoro. Stasera andrai a letto digiuno.» «No, se c'è Taita a occuparsi della cucina. Sarà capace di far apparire dal nulla un banchetto.» Si sfidarono a una gara di corsa per recuperare la freccia sprecata. Mintaka aveva una lunghezza di vantaggio e la raggiunse prima di lui. Quando si chinò a raccoglierla, la tunica corta e sbrindellata che indossava si sollevò, lasciando scoperte le cosce scure e levigate e le natiche perfettamente rotonde, con la pelle chiara e intatta là dove il sole non l'aveva mai sfiorata, morbida come una preziosa seta orientale. Si raddrizzò di scatto, voltandosi così in fretta da cogliere lo sguardo di Nefer. Per quanto fosse giovane e ingenua, il suo istinto femminile era ormai pienamente maturo. Si accorse della passione che quel gesto innocente aveva suscitato in lui, e quella consapevolezza eccitò anche lei. Vedere quanto la desiderava la spinse a desiderarlo a sua volta, con intensità dolorosa. Si sentì sciogliere d'amore per lui, come un favo di miele lasciato esposto al sole di mezzogiorno trabocca di dolcezza vischiosa. Si diresse verso di lui con aria timida, ma Nefer si vergognava profondamente del desiderio carnale che ancora una volta aveva rischiato di sopraffarlo e rammentava la promessa che le aveva fatto. «Preferirei morire piuttosto che violare il giuramento e disonorarti», erano state le sue parole. Quel ricordo lo indusse ad allontanarsi, ma si accorse che le mani gli tremavano e la voce si era fatta roca, quando le disse, senza guardarla: «So dove trovare un altro branco, ma dobbiamo fare in fretta, se vogliamo sorprenderlo prima che faccia buio». Si avviò senza voltarsi, lasciandola sconcertata e delusa. Non c'era nulla che desiderasse al mondo più che sentirsi prendere tra le braccia da Nefer e stringere a sé quel corpo giovane e forte. Si riprese in fretta, seguendolo, mentre tentava di respingere le strane sensazioni che minacciavano di travolgerla, anche se non era facile accantonarle. Raggiunse Nefer, restando indietro di alcuni passi, e cominciò a osservare il suo dorso. Guardava i capelli folti e scuri che ricadevano a riccioli, meravigliandosi di come si fossero irrobustite le sue spalle rispetto alla prima volta che lo aveva visto. Poi si spinse più in basso e si accorse di arrossire, fissando il movimento delle natiche sotto la stoffa sottile del gonnellino. Provava una deliziosa sensazione di vergogna Wilbur Smith
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nell'assaporare quelle emozioni lascive. Giunsero fin troppo presto sull'orlo del lungo uadi che si apriva tra le montagne. Lui si girò a guardarla e per poco non la sorprese mentre osservava il suo corpo. Mintaka alzò gli occhi appena in tempo. «In fondo a quel dirupo ci sono centinaia di tombe antiche. Le ho viste quando mi portò qui mio padre, poco prima di essere...» S'interruppe, rattristato dal ricordo dell'ultimo giorno che aveva passato con Tamose. «Di chi sono?» gli chiese lei, per distoglierlo da quei pensieri tanto dolorosi. «Taita sostiene che risalgono a mille anni fa, ai tempi di Cheope e Chefren, che costruirono le grandi piramidi di Giza.» «Allora devono essere vecchie quasi quanto lui», commentò lei sorridendo, e Nefer scoppiò a ridere. «Sei mai andato a esplorarle?» Lui scosse la testa. «Da quando siamo arrivati qui, ci ho pensato spesso, ma non si è mai presentata l'occasione.» «Perché non lo facciamo adesso?» propose Mintaka. Lui esitò. «Dovremmo portare con noi corde e lampade...» Ma lei stava già scendendo lungo la parete, così fu costretto a seguirla. Arrivati alla base della collina, si accorsero ben presto che quasi tutte le tombe erano irraggiungibili per loro, perché si aprivano nella parte alta della parete di roccia, affacciandosi su un precipizio pauroso. Poco dopo, però, Nefer scovò un'apertura che, almeno in apparenza, era accessibile. Si arrampicarono lungo un tratto di parete che era franato, fino a raggiungere una cengia stretta. Poi si spostarono cautamente di lato lungo il ripiano di roccia. Lui procedeva per primo e, raggiunta l'apertura buia, si chinò a sbirciare dentro. «Naturalmente sarà sorvegliata dagli spiriti dei morti», disse. Tentò di farla sembrare una battuta, ma lei intuì il suo disagio e ne fu contagiata. «Naturalmente!» ripeté lei, ridendo, ma dietro la schiena fece un gesto di scongiuro. «Là dentro c'è un buio pesto», osservò Nefer, pensieroso. «Dovremmo tornare domani, portando una lampada a olio.» Mintaka sbirciò alle sue spalle, dove si apriva un breve passaggio che penetrava nella roccia compatta formando un angolo leggermente in salita. Nonostante i secoli trascorsi da quand'era stato scavato, sulle pareti si vedevano chiaramente alcuni graffiti. «Guarda...» Mintaka ne sfiorò uno. «Questa è l'immagine di una giraffa, Wilbur Smith
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e questo è un uomo.» «Sì», confermò Nefer, sorridendo. «E si tratta anche di un uomo molto disponibile, a quanto sembra. Su questo non ci sono dubbi.» Lei finse di non capire, ma non riuscì a nascondere il sorriso. L'artista primitivo aveva dotato la figura di un membro enorme in erezione. «Qui!» esclamò la giovane, addentrandosi nel passaggio. «Queste sono scritte. Mi domando che cosa vogliano dire.» «Nessuno lo saprà mai», rispose Nefer, superandola. «Quella scrittura antica è ormai perduta da tempo. Dovremmo tornare indietro.» Il pavimento della galleria era coperto da uno strato soffice di sabbia portata dal vento. Poco più avanti, l'interno del corridoio era immerso in un'oscurità sinistra. «Possiamo esplorare ancora un altro tratto», disse Mintaka, ostinata. «Non mi sembra una buona idea.» «Ecco», ribatté lei, spingendolo da parte. «Lasciami passare per prima.» «Aspetta!» Nefer cercò di trattenerla, ma lei scoppiò a ridere, allontanandosi. Allora il ragazzo posò la mano sull'elsa della spada e la seguì, vergognandosi della propria riluttanza. La penombra s'infittiva a ogni passo. A un certo punto, Mintaka si fermò, guardando in avanti con una sensazione di disagio. Lui si chinò a raccogliere una scheggia di selce dal pavimento coperto di sabbia, lanciandola nei recessi scuri del pozzo, oltre la spalla di Mintaka. Il sasso rimbalzò sulle pareti di pietra. «Niente», mormorò lei nel silenzio che seguì, ma, prima che potesse fare un altro passo in avanti, qualcosa si mosse nel buio di fronte a loro. Si udì uno strano fruscio, ingigantito dallo spazio ristretto. Rimasero impietriti, con lo sguardo fisso nel buio. Ci fu uno strillo acuto, seguito improvvisamente da un coro di strida. Il fruscio divenne un rombo e dall'oscurità si sprigionò una nuvola palpitante di sagome che sfrecciavano, lanciando squittii e sfiorando con le ali i loro volti sbalorditi. Mintaka lanciò un grido, girandosi di scatto, e urtò contro Nefer, gettandogli le braccia al collo. Lui l'afferrò e la tenne stretta, tirandola sul pavimento coperto di sabbia. «Pipistrelli!» le spiegò. «Sono soltanto pipistrelli.» «Lo so.» «Non possono farti del male.» «Lo so», ripeté lei in tono più calmo, ma non accennò a togliergli le Wilbur Smith
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braccia dal collo. Lui affondò il viso tra i suoi capelli folti, che sprigionavano una fragranza simile a quella dell'erba appena tagliata. Mintaka si lasciò sfuggire un lieve mormorio di piacere, affondandogli il viso nel collo e muovendosi dolcemente contro di lui. «Mintaka...» disse Nefer, tentando dolcemente di respingerla. «Ricordi? Ti ho promesso che non sarebbe accaduto mai più.» «E io ti sciolgo dalla promessa.» La sua voce era così sommessa da risultare quasi impercettibile. Sollevò il viso verso di lui. Il suo alito era dolce e caldo, le labbra apparivano morbide e turgide, frementi come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. «Desidero essere tua moglie più di qualsiasi cosa abbia mai desiderato in vita mia.» Nefer chinò la testa, coprendole la bocca con la sua. Le labbra di lei erano umide e calde al punto che sembravano scottare. Si sentì sprofondare nel loro calore. Mintaka capì che il suo posto era lì, tra le braccia di Nefer, che, continuando a baciarla, esplorava con la punta delle dita ogni angolo, ogni curva e ogni pianura della sua schiena, seguendo la linea della spina dorsale, simile a un filo di perle che corresse tra due salde catene di muscoli. Le posò una mano sul fianco, sfiorandone la curva come se fosse la forma di un prezioso vaso di ceramica, poi serrò le mani intorno alle natiche, meravigliato dalla loro simmetria ed elasticità. Lei spinse il bacino in avanti per andargli incontro, e Nefer l'attirò a sé con forza, ma sentì subito il membro inturgidirsi e irrigidirsi, e allora tentò d'inarcare il dorso per nasconderlo a Mintaka. Lei si lasciò sfuggire un gemito sommesso di protesta e si mosse contro di lui, gloriandosi di quella prova della sua eccitazione e del suo desiderio. Le passò per la mente il ricordo fuggevole di Trok che sfregava contro di lei quella mostruosa appendice dalle vene bluastre, ma quell'episodio orribile non aveva nulla a che vedere con la bellezza di ciò che stava accadendo, e la memoria lo cancellò senza fatica. Sentì le dita di Nefer scivolare verso la fenditura tra le natiche, e si concentrò tutta su quella sensazione, meravigliandosi di avvertirne l'eco nei capezzoli gonfi e nell'intimo del suo corpo. «Toccami», gli sussurrò sulle labbra. «Sì, toccami! Tienimi stretta. Accarezzami. Amami.» Le sensazioni si fondevano al punto di avviluppare ogni fibra, ogni parte della mente e del corpo. Infine Nefer interruppe il bacio, e lei sentì le sue Wilbur Smith
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labbra solleticarle la spalla nuda. Intuì istintivamente quello che voleva e aprì la parte anteriore della tunica, scoprendo un seno. Glielo offrì, sentendolo pesante, con la punta turgida e indolenzita. Poi affondò le dita tra i riccioli folti della sua nuca, infilandogli il capezzolo tra le labbra e, quando lui cominciò a succhiare come un lattante affamato, provò una specie di spasmo in fondo al ventre. Lo invitò dolcemente a spostarsi da un seno all'altro, e quella sensazione non si attenuò, anzi divenne più intensa. Per quanto stordita dal piacere che provava, si accorse che le dita di Nefer s'insinuavano sotto la tunica, armeggiando col perizoma che lei portava al di sotto. Allora dischiuse le gambe per consentirgli di raggiungerla più facilmente, e, con la mano libera, lo aiutò a sciogliere il nodo che lo chiudeva sul fianco. Il perizoma cadde a terra, e l'aria fresca della tomba le sfiorò il ventre e le natiche. Sentì Nefer accarezzare il folto vello che le copriva il pube, poi insinuare le dita tremanti tra le labbra turgide che sporgevano dalla fessura. Lanciò un grido, quasi di dolore, e, senza neanche rendersene conto, scostò le pieghe del gonnellino di Nefer, per stringere il suo membro. Sorpresa dalle sue dimensioni, lo cinse tra l'indice e il pollice e, sentendolo sussultare nella sua stretta, come se fosse una creatura viva, provò l'impulso di guardarlo. Senza lasciare la presa, respinse leggermente Nefer per poter abbassare lo sguardo. «Sei così bello», sussurrò. «Sei così liscio, così forte...» Poi lo baciò di nuovo e, mentre erano avvinti, ricadde all'indietro, trascinandolo sopra di sé e schiudendo le gambe per accoglierlo. Pure consapevole della sua inesperienza, cominciò a guidarlo, sentendolo scivolare nella piena del suo desiderio mentre lui sondava l'accesso alla parte più intima di lei. Modificando l'angolazione dei fianchi, lo sentì affondare dentro di sé, col ventre schiacciato contro il suo, colmandola fino a darle l'impressione di essere squarciata, mentre esplodeva in un grido di trionfo per quella sensazione. Lui la cavalcava come una puledra selvaggia, e lei gli tenne testa, assecondando la spinta impetuosa del suo bacino, muovendosi insieme con lui sempre più in fretta, finché non capì di avere raggiunto il limite. Poi, incredibilmente, proseguirono ancora, superando quel limite, liberandosi dai vincoli della terra per spingersi ai confini del cielo, e lo sentì esplodere, inondandola di un calore liquido che la spinse ad andargli incontro, fondendo i loro due esseri sino a farne una cosa sola. Le loro voci si Wilbur Smith
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unirono in un unico grido di esultanza. Anche dopo, quand'erano ormai ridiscesi da quelle vette, restarono a lungo abbracciati, mentre il sudore e l'alito dei loro corpi si mescolavano e si raffreddavano, ancora uniti nella carne. «Vorrei che non finisse mai», sussurrò lei alla fine. «Voglio restare così per sempre.» Molto tempo dopo, lui si mise a sedere con languida lentezza, guardando verso l'apertura del passaggio. «Comincia a fare buio», osservò, stupito. «La giornata è trascorsa così in fretta.» Lei si mise in ginocchio, lisciandosi la gonna, e lui sfiorò con un dito le macchie fresche lungo l'orlo. «Il sangue della tua verginità», mormorò con rispetto. «Il mio dono per te», confermò lei. «La prova che amo solo te.» Nefer si protese per strappare dall'orlo della sua veste un frammento tinto di rosso grande quanto l'unghia del mignolo. «Che cosa fai?» gli domandò Mintaka. «Lo terrò per sempre, come ricordo di questo giorno meraviglioso.» Lui aprì il medaglione che portava al collo e ripose quel minuscolo lembo di tessuto insieme con la ciocca di capelli scuri che vi era racchiusa. «Mi ami davvero, Nefer?» chiese lei, guardandolo chiudere il medaglione. «Con ogni goccia del sangue che mi scorre nelle vene. Ti amo più della vita eterna.» Quando entrarono nella stanza dell'antico edificio che avevano restaurato e reso abitabile, Taita era vicino al focolare e stava mescolando il contenuto della pentola posta sul fuoco. Alzò la testa verso Mintaka, ferma sulla soglia, con gli ultimi raggi di luce del giorno alle spalle. La veste, ancora umida nei punti che lei aveva lavato con l'acqua del pozzo prossimo a esaurirsi, le aderiva alle cosce. «Mi dispiace che siamo così in ritardo, Taita», disse con timidezza. «Abbiamo seguito le gazzelle, avventurandoci nel deserto.» Prima di allora non si era mai scusata di un ritardo, quindi Taita li guardò con maggiore attenzione. Nefer le stava accanto, con un'espressione lievemente stordita. Il loro amore emanava un'aura così forte da creare un alone luminoso intorno a loro e Taita aveva l'impressione di sentirne l'odore nell'aria, simile alla fragranza di un fiore Wilbur Smith
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selvatico. Dunque è finalmente accaduto quello che era inevitabile, rifletté. L'unico motivo di stupore è che ci sia voluto tanto tempo... Si lasciò sfuggire un grugnito assente. «Mi sembra chiaro che non le avete raggiunte. Correvano troppo, oppure voi eravate distratti?» Rimasero entrambi immobili, confusi e colpevoli, sapendo di essere trasparenti ai suoi occhi. Taita tornò a dedicarsi alla pentola. «Perlomeno tra noi c'è qualcuno che si occupa del cibo. Sono riuscito a prendere in trappola una coppia di piccioni selvatici. Non dovremo andare a letto digiuni.» I giorni seguenti trascorsero per la coppia in un'atmosfera di gioia luminosa e serena. In presenza di Taita credevano di comportarsi con discrezione, cercando di non guardarsi e sfiorandosi soltanto se erano convinti che lui non li vedesse. Mintaka aveva ricavato una stanza tutta per sé in una cella spoglia che si trovava poco lontano dall'ambiente principale. Ogni sera, Nefer aspettava che Taita russasse sonoramente, poi si alzava e, in punta di piedi, raggiungeva furtivamente il pagliericcio di Mintaka nella stanzetta. Ogni mattina, poi, lei lo svegliava prima dell'alba per rimandarlo al suo giaciglio nel locale principale. Entrambi erano convinti che Taita dormisse ancora. Il terzo giorno, Taita annunciò in tono enigmatico: «Queste stanze devono essere abitate da ratti o altre creature strane, visto che i loro fruscii e i loro versi m'impediscono di dormire». I due parvero scossi e lui proseguì, rassicurandoli: «Ho trovato una sistemazione più tranquilla». Trasferì il suo pagliericcio e i suoi averi in un piccolo edificio in rovina dalla parte opposta della piazza, ed era là che si ritirava ogni sera dopo che avevano cenato insieme. Di giorno, gli innamorati si avventuravano nel deserto, dedicando il tempo a parlare, fare l'amore e progettare mille piani per il futuro, decidendo quando e come avrebbero potuto sposarsi, quanti figli maschi e quante femmine lei avrebbe dato a Nefer e quali nomi avrebbero avuto. Erano così assorti nella reciproca compagnia da dimenticare il mondo che si trovava oltre quegli spazi deserti. Un giorno partirono dalla città in rovina prima dell'alba, portando con loro un rotolo di corda e due lampade a olio, decisi a esplorare meglio le tombe circostanti. Percorrendo un ampio giro, giunsero in cima alla parete di roccia e si sedettero a riprendere fiato, ammirando il magnifico spettacolo dell'alba che sorgeva Wilbur Smith
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sulle colline nascoste, rese azzurrine dalla distanza. «Guarda!» esclamò all'improvviso Mintaka, alzandosi di scatto dalle sue braccia per indicare un punto a occidente, lungo l'antica strada carovaniera che conduceva in Egitto. Nefer si alzò di scatto e, insieme, guardarono la strana carovana che si avvicinava lungo il fondovalle. Erano cinque veicoli malandati, seguiti da una colonna irregolare di uomini. «Devono essere almeno un centinaio», esclamò Mintaka. «Chi potranno mai essere?» «Non lo so», ammise Nefer con aria tetra. «Però voglio che tu torni indietro di corsa ad avvertire Taita del loro arrivo, mentre io vado a spiarli.» Senza fare obiezioni, Mintaka ripartì subito per Gallala, scendendo di corsa sul versante opposto e balzando da una roccia all'altra con l'agilità di uno stambecco. Nefer raccolse la corda e le lampade, poi sistemò la corda dell'arco e controllò le frecce nella faretra prima di spostarsi furtivamente in cima alle colline, restando lontano dal crinale per non farsi vedere. Raggiunse infine un punto dal quale poteva osservare il lento movimento della carovana. Quando la carovana si avvicinò, Nefer vide che i primi due veicoli erano carri da guerra piuttosto malconci, trainati da cavalli macilenti ed esausti. I carri erano fatti per portare due uomini l'uno, ma ognuno ne trasportava quattro o cinque. Dietro di loro, avanzava un corteo di carri per le merci e di carretti in condizioni non certo migliori. Nefer comprese che erano carichi di uomini malati o feriti, accovacciati alla rinfusa o stesi su barelle improvvisate. Dietro i carri procedeva una lunga fila di uomini a piedi, alcuni dei quali zoppicavano, aiutandosi con le grucce o appoggiandosi a un bastone. Altri trasportavano a braccia barelle sulle quali erano stesi altri malati o feriti. «In nome di Horus, sembrano reduci da un campo di battaglia», mormorò il giovane, aguzzando lo sguardo per distinguere i lineamenti degli uomini nel carro di testa. D'improvviso si alzò da dietro la roccia che lo aveva nascosto fino a quel momento, lanciando un grido eccitato. «Meren!» Aveva finalmente riconosciuto la figura alta che teneva le redini del primo carro. Meren fermò i cavalli, facendosi ombra agli occhi per guardare in direzione del sole che sorgeva. Poi gridò anche lui, agitando le braccia nel vederlo all'orizzonte. Nefer scese di corsa il pendio, scivolando e slittando sulla Wilbur Smith
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ghiaia. Raggiunto l'amico, lo abbracciò e i due cominciarono a ridere e parlare contemporaneamente. «Dove sei stato?» «Dove sono Mintaka e Taita?» Poi anche Hilto raggiunse Nefer, salutandolo con rispetto. Alle sue spalle si affollava l'esercito di uomini esausti e feriti. Avevano il volto teso e scavato e, dalle bende sporche, filtravano sangue e pus. Persino gli uomini a bordo dei carri o stesi sulle barelle, troppo esausti per alzarsi, si sollevarono su un gomito per fissare Nefer con rispetto. Valutando in fretta la situazione, lui si accorse che erano guerrieri, ma guerrieri sconfitti in battaglia, fiaccati nel corpo e nello spirito. Dopo i saluti, Hilto si rivolse a loro, gridando: «È proprio come vi ho promesso! Qui di fronte a voi c'è il vero Faraone, Nefer Seti. Il Faraone non è morto! Il Faraone vive!» Rimasero in silenzio, apatici, sofferenti e demoralizzati, fissando Nefer con aria incerta. «Maestà», gli sussurrò Hilto, «per favore, sali su quella roccia, in modo che possano vederti bene.» Nefer salì con un balzo su uno spuntone di roccia, osservandoli con interesse. Gli uomini lo fissavano in silenzio. La maggior parte non aveva mai visto un re in carne e ossa. E anche i pochi che lo avevano intravisto nelle processioni ufficiali lo avevano scorto da lontano, vedendo una figura simile a un idolo, coperto dalla testa ai piedi di vesti e gioielli splendidi, col viso trasformato dal trucco in una maschera bianca, seduto rigidamente sul carro reale trainato dai torelli bianchi. Non potevano collegare quella figura remota, innaturale, a un giovane robusto dall'aria virile e risoluta, col viso abbronzato dal sole e un'espressione viva e sveglia. Non era il Faraone bambino che conoscevano soltanto di fama. Mentre continuavano a fissarlo senza capire, o scambiandosi occhiate dubbiose, un'altra figura comparve davanti ai loro occhi, quasi materializzandosi dall'aria come un jinn al fianco di Nefer, sulla roccia. Quella era una figura che conoscevano bene, tanto di fama quanto di vista. «È Taita, il mago», mormorarono, con rispetto venato di timore superstizioso. «So quanto avete sofferto», disse loro Taita con una voce che arrivava nitida all'orecchio di tutti, anche dei malati e dei feriti sui carri. «So quale prezzo avete dovuto pagare per resistere alla tirannia degli assassini e degli Wilbur Smith
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usurpatori. So che siete venuti qui per scoprire se il vero re è ancora vivo.» Risposero con un mormorio di assenso, e Nefer capì improvvisamente chi erano quegli uomini. Erano alcuni dei superstiti della rivolta contro Naja e Trok. Dove li avesse trovati Hilto era un mistero, ma quegli esseri sofferenti e abbattuti erano stati un tempo soldati, conducenti di carri da guerra e guerrieri. «Questo è l'inizio», mormorò Taita al suo fianco. «Hilto ti ha portato i semi delle tue future truppe. Devi parlare a questi uomini.» Nefer li studiò ancora per un istante, ergendosi davanti a loro, alto e fiero. Poi scelse un uomo tra i ranghi, uno più anziano degli altri, con un tocco di neve tra i capelli. Aveva gli occhi acuti e l'espressione intelligente. Nonostante gli stracci e il corpo smagrito dal digiuno, rivelava il piglio autorevole di un comandante. «Chi sei, soldato? Quali sono il tuo grado e la tua compagnia?» L'uomo alzò la testa, drizzando le spalle smagrite. «Mi chiamo Shabako, Migliore dei Diecimila, adepto della Via Rossa, comandante del corpo centrale della compagnia Mut.» Un autentico leone, pensò Nefer, ma si limitò a dire: «Ti saluto, Shabako». Poi sollevò l'orlo della veste per scoprire il cartiglio tatuato sulla coscia. «Io sono Nefer Seti, il vero Faraone dell'Alto e del Basso Egitto.» Un sospiro e un brusio corsero tra le file quando gli uomini riconobbero il cartiglio reale. Tutti si prostrarono al suolo in atto di obbedienza. «Bak-her, o divino, prediletto dagli dei!» «Noi siamo i tuoi leali sudditi, Faraone! Intercedi per noi presso gli dei.» Mintaka, che aveva accompagnato Taita, si era fermata poco più in basso. Nefer si protese, prendendola per mano e aiutandola a salire sulla roccia al suo fianco. «Vi presento la principessa reale Mintaka, della casa di Apepi. Mintaka sarà la mia regina e la vostra sovrana.» L'accolsero con un'altra salva di acclamazioni. «Hilto e Shabako saranno i vostri comandanti», decretò Nefer. «Per il momento, Gallala sarà la nostra base, finché non torneremo vittoriosi a Tebe e ad Avaris.» Si alzarono, mentre anche i feriti tentavano di sollevarsi dalle barelle per acclamarlo. Le loro voci fioche quasi si persero nel grande silenzio del deserto, ma quel suono riempì Nefer di orgoglio, rinnovando la sua determinazione. Salì sul carro di testa, prendendo le redini dalle mani di Wilbur Smith
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Meren, e condusse quel piccolo esercito raccogliticcio nella sua capitale in rovina. Quando ebbero predisposto gli alloggi tra le rovine, Nefer mandò a chiamare Shabako, Hilto e gli altri ufficiali. Quella prima sera, e per molte altre sere di seguito, rimase sveglio fino a tardi per ascoltare da loro il racconto della rivolta, dei combattimenti e della sconfitta finale inflitta loro dalle truppe riunite dei due Faraoni. Gli descrissero la terribile punizione che Trok e Naja avevano riservato ai ribelli caduti nelle loro grinfie. Per ordine di Nefer, descrissero nei minimi dettagli l'ordine di combattimento del nuovo esercito egizio, insieme coi nomi dei comandanti, le cifre e i nomi delle compagnie e il totale degli uomini, dei carri e dei cavalli che Naja e Trok avevano a disposizione. Tra i fuggiaschi c'erano tre scribi dell'esercito, che Nefer mise subito al lavoro, facendo riportare per iscritto tutti quei dati, con le liste delle guarnigioni e delle fortezze nemiche, impressi su tavolette di argilla. Nel frattempo Taita, con l'assistenza di Mintaka, organizzò un'infermeria per accogliere i feriti e i malati. Hilto aveva portato con sé una dozzina di donne, alcune delle quali erano mogli di ribelli, altre prostitute al seguito dell'esercito. Taita le mise al lavoro come infermiere e cuoche, mentre lui s'impegnava a sistemare ossa fratturate, a estrarre punte di freccia coi suoi cucchiai d'oro, a suturare ferite di spada e in un caso addirittura a trapanare un cranio che aveva ricevuto un colpo con una mazza da combattimento ed era rimasto incrinato, con una profonda depressione. Quando la luce svaniva e lui non poteva più assistere i malati, si univa a Nefer e ai suoi ufficiali che meditavano, osservando le mappe tracciate su pelli d'agnello conciate e progettando piani e schemi tattici alla luce delle lampade a olio. Nefer, pur essendo nominalmente il loro comandante supremo, in realtà era soltanto un apprendista dell'arte della guerra: quei soldati esperti erano i suoi istruttori, che gli impartivano lezioni di valore incalcolabile. Di solito era già mezzanotte passata quando Nefer poteva aggiornare quelle riunioni, allontanandosi per raggiungere Mintaka sul giaciglio di pelle di pecora dove lei lo aspettava in silenzio. Allora facevano l'amore e si scambiavano confidenze sottovoce. Sebbene fossero stanchi entrambi, dopo le fatiche del giorno, spesso l'alba sorgeva sul deserto silenzioso prima che si addormentassero, abbracciati. Wilbur Smith
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A Gallala c'erano in totale meno di centocinquanta persone e cinquanta cavalli, ma, fin dai primi giorni, apparve evidente che i pozzi di acqua amara della città non sarebbero bastati neppure per un numero così ridotto di uomini e animali. Ogni giorno i pozzi si vuotavano e ogni notte impiegavano di più a riempirsi. Anche la qualità dell'acqua cominciò a peggiorare: diventava ogni giorno più amara e salmastra, sinché fu possibile berla soltanto mescolata col latte delle giumente. Furono costretti a razionarla. I cavalli ne risentirono e le giumente persero il latte. Il rivolo d'acqua sotterranea si ridusse ancora di più. Alla fine, Nefer convocò una riunione d'emergenza con tutti i comandanti. Dopo un'ora di discorsi solenni, Hilto riassunse la situazione con aria tetra: «A meno che Horus non faccia un miracolo, i pozzi si prosciugheranno del tutto, e saremo costretti ad abbandonare la città. Dove ci rifugeremo, allora?» Guardarono Nefer, che si rivolse a Taita con aria di aspettativa. «Dove andremo, mago, quando l'acqua si prosciugherà?» gli domandò. Taita aprì gli occhi. Aveva assistito in silenzio al lungo dibattimento, cosicché tutti avevano creduto che sonnecchiasse. «Domani, alle prime luci dell'alba, voglio che tutti gli uomini in grado di camminare e usare una vanga si riuniscano davanti alla porta della città.» «A che scopo?» chiese Nefer, ma il vecchio si limitò a sorridere in modo enigmatico. Nella frescura dell'alba, cinquantasei uomini erano in attesa davanti all'antica porta di Gallala, quando Taita si presentò. Indossava tutte le sue insegne, portava l'amuleto di Lostris e il dono di Bay, insieme con le altre collane, i braccialetti e gli amuleti. Si era lavato i capelli fino a renderli lucenti, prima che Mintaka glieli raccogliesse in una treccia, e impugnava il bastone con la testa di serpente. Nefer, al suo fianco, mascherava la perplessità con un'espressione solenne. Taita guardò gli uomini riuniti. Come aveva ordinato, avevano tutti arnesi per scavare, vanghe e pale di legno o picconi con la punta metallica. Annuì soddisfatto, poi scese i gradini della porta e s'incamminò nella valle. Obbedendo a un ordine di Nefer, gli uomini si misero in spalla gli arnesi per seguire il vecchio, incolonnandosi istintivamente in una formazione militare. Tuttavia la marcia non fu lunga, perché Taita si fermò ai piedi delle colline, levando lo sguardo verso la sommità. Nefer si rammentò che quella era la zona dove il mago aveva trascorso Wilbur Smith
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tanto tempo negli ultimi mesi. Spesso Mintaka e lui lo avevano visto seduto lì, mentre sonnecchiava al sole, con gli occhi socchiusi come una lucertola dalla testa azzurra, o mentre sondava il terreno e tamburellava col bastone tra le rocce. Nefer osservò per la prima volta l'aspetto della roccia in quella sezione delle colline, notando che era diversa. Non solo era friabile, ma nello scisto si erano anche insinuate vene di arenaria grigia, e una faglia profonda correva in diagonale lungo la parete spoglia e riarsa, contornata da strati di colori diversi. Poi notò qualcos'altro. Di recente, qualcuno aveva tracciato segni su alcune delle pietre, geroglifici esoterici dipinti con una pasta bianca, probabilmente ricavata dalla polvere di arenaria mista all'acqua del pozzo. Inoltre c'erano cumuli di pietre disposti sul terreno in modo da formare un disegno. «Nefer, gli uomini si dovrebbero dividere in cinque squadre», gli disse Taita. Quando lui ebbe impartito gli ordini e gli uomini furono pronti, il mago ordinò alla prima squadra di avanzare. «Cominciate a scavare nel fianco della collina per aprire una galleria in questo punto.» Indicò i geroglifici che contrassegnavano l'apertura del pozzo orizzontale che intendeva far scavare. Gli uomini si scambiarono un'occhiata perplessa, ma quando Taita li fissò, incollerito, senza parlare, Shabako intervenne con grande naturalezza. «Avete sentito il mago, no? Ora cominciate a lavorare, e mettetecela tutta!» Era un lavoro faticoso, anche se lo strato inferiore di roccia era fratturato lungo la linea scelta da Taita. Dovevano strappare a forza ogni frammento dalla presa del terreno e poi asportare la terra soffice che c'era dietro. Sollevavano nuvole di polvere, cosicché presto ne furono ricoperti da capo a piedi. Per quanto avessero le mani callose per l'uso della mazza e della spada, cominciarono ad accusare vesciche, tagli ed escoriazioni sul palmo, ma si fasciarono le mani con strisce di lino e proseguirono il lavoro senza protestare. Al sorgere del sole il caldo aumentò rapidamente e Shabako fece uscire dallo scavo la prima squadra, mandando dentro la seconda. A mezzogiorno, quando la calura giunse al culmine, si concessero un'ora di riposo. Taita entrò nella caverna poco profonda che era stata aperta, per ispezionare con attenzione la parete di roccia. Uscì senza fare commenti, e Shabako ordinò di riprendere il lavoro. Proseguirono finché l'oscurità non impedì loro di vedere quello che stavano facendo, poi Shabako li lasciò Wilbur Smith
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liberi di tornare ai piedi della collina per consumare una cena frugale. Le provviste di dhurra diminuivano quasi altrettanto rapidamente dell'acqua del pozzo. Approfittando della frescura, ripresero il lavoro prima dell'alba, ma, al calar della sera, la galleria scavata nel fianco della collina era lunga soltanto venti cubiti. Avevano incontrato uno strato compatto di roccia azzurra e cristallina, sulla quale i picconi con la punta di bronzo non lasciavano segni, e gli uomini cominciavano a brontolare. «Siamo guerrieri o minatori?» borbottò un veterano, guardandosi il palmo delle mani coperto di escoriazioni e vesciche. «Che cosa dovremmo scavare? La nostra tomba?» chiese un altro, mentre si fasciava il profondo taglio sullo stinco prodotto da un piccone maneggiato sbadatamente. «Come possiamo scavare nella roccia compatta?» Un altro ancora si asciugò il sudore che gli colava sugli occhi iniettati di sangue. Taita li spedì in fondo alla valle, dove sorgeva un boschetto di alberi di acacia morti, monumento silenzioso all'acqua che si era prosciugata da tempo. Gli uomini tagliarono i rami secchi, trasportando le fascine fino allo scavo. Seguendo le istruzioni di Taita, accatastarono la legna da ardere sulla roccia cristallina, accendendo un fuoco che lasciarono ardere tutta la notte, alimentandolo a intervalli. La mattina dopo, quando la roccia fu arroventata dal calore, ci vuotarono sopra gli otri riempiti con l'acqua dei pozzi prossimi a esaurirsi. Tra nuvole di fumo sibilante, la roccia s'incrinò, si frantumò ed esplose. Uno degli uomini fu colpito da una scheggia acuminata e perse l'occhio destro. Taita asportò i resti del globo oculare, suturando le palpebre. «Gli dei ci hanno dato due occhi proprio in previsione di un incidente del genere», assicurò al paziente. «Ci vedrai tanto bene con un occhio quanto con due.» Lasciarono raffreddare la roccia prima di asportarla, ridotta a grossi blocchi anneriti, ma alle spalle di quello strato ce n'era un altro, altrettanto solido e impenetrabile. Vi accumularono altre bracciate di legna da ardere e ripeterono quel procedimento difficile e pericoloso, con lo stesso risultato. Avevano guadagnato pochi cubiti, in cambio di giorni e giorni di lavoro massacrante. Persino Nefer era scoraggiato, e lo confidò a Mintaka quella notte, mentre erano abbracciati nel buio. «Ci sono tante cose che non comprendiamo, tesoro», rispose lei, Wilbur Smith
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cullandolo. «Non sappiamo neppure per quale motivo ci fa scavare questa buca. Quando glielo chiedo, mi rivolge una di quelle occhiate che mi fanno infuriare... Pare una vecchia tartaruga. Gli uomini ne hanno abbastanza, e io pure.» Lei ridacchiò. «Una vecchia tartaruga! È meglio che tu non ti faccia sentire, altrimenti potrebbe trasformarti in un rospo, e non mi piacerebbe affatto.» La mattina dopo, di buon'ora, le squadre di uomini stanchi e scontenti risalirono la valle per radunarsi intorno all'imboccatura del tunnel in attesa dell'arrivo del mago. Col suo solito gusto per le scene drammatiche, Taita salì il pendio, mentre i primi raggi del sole si levavano alle sue spalle, circondando la sua capigliatura argentea di un alone di luce. Portava in spalla un rotolo di tela di lino. Nefer e gli altri ufficiali si alzarono per salutarlo, ma lui li ignorò, dando ordine a Shabako di appendere il telo di lino sull'imboccatura del tunnel a mo' di tenda. Quando fu sistemata, entrò da solo nella galleria, mentre il silenzio calava sugli uomini raccolti all'esterno. L'attesa sembrò lunga, ma in realtà durò meno di un'ora, perché il sole si era alzato appena di una spanna sopra l'orizzonte, allorché la tenda di lino fu scostata e Taita si stagliò all'ingresso della caverna. Per caso, o per un calcolo del mago, i raggi del sole penetravano direttamente nella galleria. La parete di fondo era illuminata e le file di uomini si assieparono intorno, pervase da un senso di aspettativa. Si accorsero allora che un'immagine dell'occhio ferito del grande dio Horus era stata dipinta sulla roccia azzurrina. Taita aveva un'espressione rapita, quando intonò l'invocazione all'Horus d'Oro. La folla in attesa cadde in ginocchio e si unì al coro. Horus d'Oro, toro possente! Invincibile nella forza! Dominatore dei nemici! Santo nel sorgere! Occhio ferito dell'universo! Assisti le nostre imprese. Taita si voltò, e, con tutti gli occhi fissi su di lui, rientrò nella galleria, Wilbur Smith
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fermandosi davanti alla parete di roccia grigio-azzurra sul fondo. Vi erano incastonati minuscoli cristalli di feldspato, che scintillarono al sole. «Kydash!» gridò Taita, colpendo la parete col bastone. Gli uomini all'entrata si ritrassero, perché quella era una delle parole magiche. «Mensaar!» Intimoriti, si lasciarono sfuggire un gemito, e lui colpì ancora. «Ncube!» Il mago sferrò il terzo e ultimo colpo prima d'indietreggiare. Non accadde nulla, e Nefer si sentì attanagliare dalla delusione, dopo quel barlume di speranza. Taita rimase immobile, mentre il sole saliva lentamente nel cielo e l'ombra si allungava sulla parete di roccia. D'improvviso, però, Nefer provò un fremito di eccitazione, mentre gli uomini intorno a lui si agitavano, sussurrando. Al centro della parete di roccia, sotto l'occhio dipinto, apparve una macchia scura di umidità. Si allargò gradualmente, lasciando trasudare una goccia di liquido che scintillò alla luce del sole come una minuscola gemma, prima di scorrere lentamente lungo la parete, condensandosi nella polvere del pavimento. Taita si voltò e uscì dalla galleria. Alle sue spalle si udì un suono netto, come quello di un ramo secco che si spezza, e, nella parete, si aprì una fessura sottile che correva dall'alto in basso. L'acqua cominciò a stillare sul fondo, una goccia dopo l'altra, accelerando il ritmo, fino a quando non divenne un tamburellio rapido. Si udì un altro suono, simile a quello del vasellame che si rompe sulle fiamme, e dalla parete si staccò un grumo di roccia. Dall'apertura che si era formata cominciò a trasudare un rivolo torpido di fango giallo, poi, con un rombo, tutta la parete crollò e ne scaturì un fiotto di fango, seguito da un getto di acqua limpida. Raggiungendo l'altezza del ginocchio, invase tutta la galleria, prorompendo dall'apertura prima di riversarsi lungo il fianco della collina, scrosciando e rimbalzando sulle rocce. Gli uomini impolverati lanciarono grida di stupore, di lode e d'incredulità. Meren prese a correre, tuffandosi in quel torrente impetuoso, e si rialzò, tossendo, coi capelli bagnati incollati al viso. Raccolse l'acqua tra le mani e la bevve avidamente. «Dolce!» gridò. «È dolce come il miele.» Gli uomini si spogliarono per tuffarsi nella corrente, sollevando spruzzi, lanciandosi manciate di fango, cercando a vicenda di spingersi con la testa sott'acqua e gridando di gioia. Nefer non resistette a lungo alla tentazione: gettando al vento la sua dignità, si lanciò su Meren, per lottare con lui Wilbur Smith
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sott'acqua. Taita rimase immobile in riva al torrente, guardando quella baraonda con un'espressione benevola, poi si rivolse a Mintaka: «Non pensarci nemmeno». «A che cosa non dovrei pensare?» rispose lei, simulando un'aria innocente. «Sarebbe oltraggioso per una principessa egizia mescolarsi a una marmaglia di soldati nudi.» La prese per mano, conducendola via lungo il pendio, mentre lei si voltava a guardare quella scena di esultanza con aria malinconica. «Come hai fatto, Taita?» gli domandò. «Come hai fatto a far apparire la sorgente? Che specie di magia hai usato?» «La magia del buonsenso e dell'osservazione. L'acqua era lì da secoli, in attesa che scavassimo per raggiungerla.» «Ma allora a che servono le preghiere e le parole magiche? Non hanno avuto effetto?» «A volte gli uomini hanno bisogno d'incoraggiamento.» Lui sorrise, sfiorandosi un lato del naso. «Un pizzico di magia è un tonico sovrano per lo sconforto.» Nei mesi successivi tutti gli uomini furono impegnati nello scavo di un canale che serviva a raccogliere il flusso di acqua dolce lungo il fianco della collina fino ai vecchi pozzi, che divennero così cisterne di raccolta per l'insediamento. Quando furono colmi, Taita andò a esaminare i vecchi campi all'estremità inferiore della valle. Ormai erano ridotti a una distesa desolata di sassi, tuttavia erano ancora visibili i contorni degli antichi canali d'irrigazione. I livelli erano stati calcolati da coloro che un tempo avevano abitato la valle, quindi non ci volle molto per riportarli alla luce e incanalare in quella rete d'irrigazione l'acqua in eccesso. La terra del deserto era fertile, perché la sua ricchezza non era stata dilavata dalle piogge. Il sole ininterrotto e l'abbondanza di acqua produssero un effetto miracoloso. Piantarono i semi che avevano portato con sé dall'Egitto, perché tutti gli egizi erano agricoltori e giardinieri per natura e per tradizione e dedicavano le loro attenzioni alla terra e alle colture. Entro pochi mesi furono in grado di mietere il primo raccolto di dhurra. Poi piantarono campi di foraggio per gli animali, e anche questi prosperarono in misura persino superiore alle loro esigenze. Anche le donne parteciparono al lavoro necessario per tagliare, seccare e Wilbur Smith
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immagazzinare il foraggio, così, entro un anno, ebbero di che sostentare un esercito di cavalieri, anche se, per il momento, non avevano i cavalli. Quasi ogni giorno affluivano in città fuggiaschi che avevano affrontato la traversata del deserto per sottrarsi alla tirannia dei falsi Faraoni. Arrivavano da soli o in piccoli gruppi, esausti, spesso addirittura sull'orlo della morte per la sete e la fame. Le sentinelle di guardia tra le colline li intercettavano, mandandoli da Hilto, che chiedeva loro di giurare fedeltà al Faraone Nefer Seti, poi distribuiva le razioni e, a seconda delle loro capacità, li assegnava alle compagnie di addestramento oppure li metteva al lavoro nei campi o a restaurare gli edifici diroccati della vecchia città in rovina. Quei nuovi elementi non furono comunque le uniche reclute. Si presentò anche una compagnia di disertori dell'esercito dei falsi Faraoni, che arrivò marciando in formazione perfetta, coi giavellotti in pugno, gridando le lodi di Nefer Seti non appena fu in vista delle mura. Poi si unì a loro una squadra di venti carri, guidati dai soldati scelti della compagnia Ankh, agli ordini di un comandante di nome Timus. Giurarono fedeltà al Faraone Nefer Seti, poi Timus annunciò che Naja e Trok erano finalmente pronti a lanciare insieme un'offensiva contro Sargon, re di Babilonia e Assiria. Negli ultimi mesi i due Faraoni avevano radunato la loro forza di tremila carri ad Avaris, e ormai avevano quasi completato i preparativi per attraversare la striscia di terra che univa l'Egitto alle terre orientali, a nord del Grande Lago Amaro e del lago Timsah. Prima avevano inviato una colonna per eliminare le sentinelle babilonesi lungo il confine; poi, una volta sgomberata la strada, avevano inviato decine di migliaia di giare d'acqua a bordo di carri di ogni genere, disponendole presso i depositi collocati nei punti strategici di quella regione arida, giacché le terre che avrebbero incontrato più avanti erano fertili e ben irrigate. Progettavano di percorrere l'istmo col favore del plenilunio, sfruttando la luce della luna e la frescura della notte per superare Ismailia, salire oltre il passo di Khatmia e proseguire oltre Beersheba, raccogliendo al loro passaggio le forze dei satrapi vassalli di Sargon. Nefer e Taita avevano preparato le difese di Gallala per affrontare l'attacco imminente dei falsi Faraoni. Sapevano che ormai la loro presenza in quella città era di dominio pubblico nei due regni e si aspettavano che Naja e Trok li attaccassero prima di lanciarsi nell'avventura in Mesopotamia, quindi la notizia della tregua che veniva loro concessa li Wilbur Smith
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stupì. «Non hanno preso sul serio la minaccia che la nostra posizione vicino al confine rappresenta», esultò Nefer. «Se ci avessero attaccati mentre eravamo ancora così deboli, non avremmo avuto altra scelta che fuggire.» «Forse hanno preso in considerazione questa possibilità», ribatté Taita. «Forse hanno intenzione di conquistare la Mesopotamia per impedirci di ricevere qualunque appoggio da quella terra. In questo modo ci avranno accerchiati. Penso che, da parte loro, sia un errore di calcolo, perché in questo modo ci lasceranno la possibilità di consolidare la nostra posizione almeno per un altro anno.» «Ma possiamo avere la certezza che non si tratti di un diversivo?» si chiese Nefer, riflettendo. «Forse la spedizione a oriente è un pretesto e la loro vera offensiva sarà diretta contro di noi, dopo che ci avranno lasciato cullare in una falsa sensazione di sicurezza.» «C'è sempre questa possibilità. Trok è un bruto, ma Naja è particolarmente scaltro e subdolo. È proprio il tipo di mossa a sorpresa che lui potrebbe tentare.» «Dobbiamo tenere sotto osservazione la spedizione», decise Nefer. «Condurrò al nord un gruppo di esploratori per controllare la strada di Ismailia e accertarmi che l'esercito passi da quella parte.» «Verrò con te», disse subito Taita. «No, mago. Tu sei più utile qui, per mantenere all'erta le difese e accertarti che, se Naja ci piomberà addosso coi suoi tremila carri, il popolo sia pronto a fuggire immediatamente. Inoltre c'è un altro favore che devo chiederti...» Esitò. «Voglio che ti occupi di Mintaka. Credo che sia scontenta di restare qui con le altre donne, e potrebbe tentare qualche iniziativa poco saggia.» Taita sorrise. «La possibilità di un'azione precipitosa da parte della principessa è sempre concreta. Tuttavia so bene qual è il mio primo dovere, quindi verrò con te.» Per quanto Nefer insistesse a lungo e accanitamente, Taita non si lasciò dissuadere e, alla fine, anche lui si sentì segretamente sollevato nel sapere che il vecchio sarebbe stato al suo fianco, come sempre. Nonostante gli ultimi arrivi di truppe fedeli alla loro causa, potevano schierare in campo soltanto trentadue carri, e meno di cento cavalli in grado di trainarli. Ne lasciarono la metà agli ordini di Shabako, per la difesa di Gallala. Portando con loro Hilto e Meren, partirono con sedici Wilbur Smith
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carri da guerra per aggirare la riva orientale del Grande Lago Amaro e intercettare la strada maestra a nord di Ismailia. Era passata da pochi giorni la luna nuova, quindi le notti erano buie e piacevolmente fresche; mantenendo una buona andatura, completarono il viaggio attraverso il deserto, per il quale non esistevano mappe, prima che la luna arrivasse al secondo quarto. All'alba del quindicesimo giorno dopo la partenza da Gallala, erano nascosti sulle colline a est di Ismailia, da cui potevano osservare la città. La strada maestra passava sotto il loro punto di osservazione e l'esercito dei due Faraoni avrebbe dovuto percorrerla. Ismailia era la fortezza che segnava il confine dell'Egitto, e quindi il punto di partenza naturale per la campagna. «Si direbbe che le informazioni siano esatte», esclamò Nefer rivolto a Taita. Si era arrampicato su uno degli alti cedri che sorgevano sul pendio anteriore della collina, da cui poteva vedere un tratto di terreno pari a molte leghe. «Il posto brulica di attività. Ci sono file di cavalli e, fuori delle mura del forte, è sorta un'intera città di tende.» Si fece ombra agli occhi con la mano. «Ci sono nuvole di polvere in arrivo lungo la strada del delta. Pare che siano in marcia tutti i carri dell'Egitto.» Per l'intera mattina, Nefer continuò a riferire al mago quel che vedeva, finché il caldo non fece cessare ogni attività, tanto in città quanto sulle strade circostanti, cedendo il posto a una pigra sonnolenza. Allora scese anche lui dall'albero per mettersi al riparo, in attesa che passassero le ore più calde del giorno. Nel tardo pomeriggio, quando l'aria cominciò a rinfrescare, si riscossero, occupandosi di sfamare e abbeverare i cavalli. Poi Nefer si arrampicò di nuovo sul suo osservatorio. Apparve subito evidente che erano arrivati appena in tempo. La strada verso oriente era un'arteria in cui pulsava la forza vitale di un esercito possente. Le squadre passavano una dopo l'altra dalle porte di Ismailia, ciascuna forte di cinquanta carri e seguita da carri che trasportavano bagagli e foraggio, avanzando lungo la strada che portava al loro nascondiglio. L'avanguardia passò così vicino al punto in cui si trovava Nefer, appollaiato in cima al cedro, che lui riusciva persino a distinguere i singoli individui. Wilbur Smith
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L'esercito scorreva accanto a loro come un fiume interminabile, scintillante dei riflessi delle armi di bronzo, mentre la polvere si sollevava, formando una fitta nube che avviluppava ogni cosa. L'avanguardia era formata da quattro compagnie. Poi, nel corteo di armi e carri, ci fu una pausa. Questo evidentemente serviva a consentire che la polvere si posasse, per alleviare i disagi del corteo regale che la seguiva. Poco dopo, infatti, sopraggiunsero due carri affiancati, entrambi massicci e ricoperti d'oro al punto che ciascuno richiedeva sei cavalli da traino. Nefer si sentì salire in gola un fiotto di bile, riconoscendo gli uomini che li guidavano. Trok conduceva il carro più vicino. Le spalle ampie e la folta barba scura adorna di nastri erano inconfondibili. Aveva un elmo d'oro a forma di arnia, decorato con un pennacchio di soffici piume di struzzo bianche. Portava in spalla il doppio scudo, composto da strati spessi un pollice, così pesante che, si diceva, lui solo in tutto l'esercito poteva imbracciarlo, proprio come il grande arco da guerra nella rastrelliera sulla destra. A bordo dell'altro carro imponente viaggiava il Faraone Naja Kiafan. Come il cobra da cui prendeva il nome, aveva una figura più snella e aggraziata. Indossava un pettorale d'oro e pietre preziose che scintillava al sole rosso, filtrato dalle nuvole di polvere. Aveva in testa la corona azzurra di guerra dell'Egitto e, sul fianco, racchiusa in un fodero di argento ed elettro, adorno di borchie di turchesi e lapislazzuli, la leggendaria spada azzurra che aveva sottratto al padre di Nefer. Stranamente, sebbene non avesse la stazza fisica di Trok, Naja appariva il più temibile dei due. I carri dorati passarono oltre, nascosti dalle nubi di polvere che essi stessi sollevavano, eppure Nefer rimase disteso sul ramo principale del cedro. Il sole era appena sceso sotto l'orizzonte, ma la luce era ancora sufficiente per distinguere la sezione successiva di quel corteo interminabile. Nefer si raddrizzò con rinnovato interesse. Oscillando e sussultando sulla superficie della strada maestra, già segnata da solchi profondi in seguito al passaggio di centinaia di carri, avanzavano due carri leggeri, per la precisione due lettighe, trainate da equipaggi di torelli. Erano così spaziose, con le cortine di seta decorate da stelle e rosette d'oro, che Nefer non ebbe dubbi: i passeggeri dovevano essere donne dell'harem regale. Nefer non poteva immaginare che Trok si portasse appresso in una campagna militare le mogli o le concubine. Wilbur Smith
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Aveva sentito dire che preferiva prendere il suo piacere coi prigionieri delle città nemiche conquistate: si diceva che apprezzasse nella stessa misura ragazzi e ragazze. Quindi, se non appartenevano a Trok, dovevano essere le donne di Naja. Nefer si domandò se quest'ultimo si fosse già stancato di Heseret, prendendosi altre mogli. Poi la cortina del secondo veicolo si aprì e una fanciulla scese con un salto sulla carreggiata polverosa, saltellando a fianco dei torelli. Anche se era cambiata molto dall'ultima volta che l'aveva vista, non era possibile sbagliarsi: quella deliziosa creatura era Merykara, la sua sorella minore. Non portava più i riccioli dell'infanzia: i capelli le arrivavano fino alle spalle ed erano tagliati sulla fronte all'altezza delle sopracciglia, formando una folta frangia dritta. Il taglio dei riccioli era il segno che aveva visto la prima luna rossa. Nefer sentì una fitta al cuore, al pensiero che quella buffa scimmietta non fosse più una bambina; poi gli venne in mente che ormai non c'erano più ostacoli all'unione coniugale tra Naja e Merykara. Aveva sentito dire che Naja era un amante irruento e instancabile e l'idea che violasse la sorellina lo disgustava al punto che sentì in bocca un sapore di pesce marcio. Provò un desiderio irresistibile di parlare con Merykara per sapere se era felice, se c'era qualcosa che poteva fare per migliorare la sua condizione. Accarezzò l'idea di liberarla e riportarla con sé a Gallala, ma sapeva che quei pensieri erano pericolosi e che i suoi compagni avrebbero tentato di dissuaderlo da quei propositi suicidi. Subito dopo i carri leggeri delle donne, vide avanzare quelli che trasportavano le casse col tesoro dei falsi Faraoni. Se avesse attaccato quei veicoli, pensò, gli altri avrebbero capito. Si trattava di carri privi di ornamenti, dipinti di un blu opaco, ma costruiti saldamente e col pianale rinforzato per sostenere il peso del carico. Le ruote coi cerchioni di metallo incidevano profondamente la superficie della carreggiata. Gli sportelli sul retro erano chiusi e assicurati da catene, mentre, ai lati, camminavano uomini armati. Quella era la procedura normale per trasportare il tesoro, senza il quale nessun esercito si metteva in marcia. Nefer sapeva che le casse contenevano lingotti d'oro fusi sotto forma di barre, lingotti piccoli, anelli e grani. Erano tutti destinati a pagare le truppe e conquistare la fedeltà di re e satrapi minori, per fomentare la ribellione tra gli alleati di Babilonia e dell'Assiria e per ricompensare spie e informatori. Nefer si lasciò scivolare lungo il tronco del cedro fino a terra. Taita Wilbur Smith
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sonnecchiava ai suoi piedi, ma aprì gli occhi prima che lui potesse sfiorargli il braccio. «Il tesoro di guerra dei falsi Faraoni», gli sussurrò all'orecchio. «Cioè quanto basta per pagare un esercito o comprare un trono.» Per molte delle notti che seguirono, approfittando del plenilunio, Nefer e il mago spiarono la colonna, spostandosi in direzione parallela ai carri che trasportavano il tesoro e osservando la routine e il comportamento delle guardie. Fin dall'inizio, però, si resero conto che sarebbe stato impossibile impadronirsi dei carri e portare via quella massa di lingotti senza ritrovarsi alle calcagna l'intero esercito. «Alla velocità di cui sono capaci quei buoi, i carri di Naja non ci farebbero coprire neanche una lega, prima di raggiungerci», osservò Nefer in tono mesto. «Dovremmo essere un po' più abili», riconobbe Taita. «L'unico momento in cui potremmo mettere le mani sulle casse sarebbe durante il giorno, quando la colonna si accampa.» «Già, e le guardie?» «Ah...» mormorò Taita. «Le guardie rappresentano un piccolo problema.» Ogni giorno, quando il sole era alto e la calura diventava opprimente, l'esercito si fermava per accamparsi. In genere, i carri con le mogli del Faraone e le casse del tesoro erano collocati in un accampamento separato, a una certa distanza dal grosso dell'esercito. Da principio c'era un gran trambusto: gli animali venivano staccati e abbeverati, si disponevano le sentinelle e s'innalzavano le tende delle donne. Poi si accendevano i fuochi per cucinare il pasto di mezzogiorno, annaffiato dalla birra. Subito dopo, Heseret, Merykara e le ancelle si ritiravano nelle loro tende. Gli uomini che non erano di sentinella si stendevano sotto ripari improvvisati per riposare dopo la lunga notte di viaggio. A poco a poco un silenzio languido calava sull'enorme schieramento di uomini e animali, e il campo scivolava nel sonno. Nefer e Taita lasciarono gli altri appostati in un tratto di rovi fitti in cima alla valle, avvicinandosi furtivamente al campo. Riuscirono ad arrivare a poche centinaia di passi dalle sentinelle e a restare lì per un'ora, confabulando tra loro e cercando di trovare il modo per arrivare alle casse Wilbur Smith
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del tesoro senza farsi scoprire dalle guardie. «Non esiste un modo per distrarle?» chiese Nefer. «Per questo ci servirà un aiuto dall'interno», rispose Taita. «Merykara?» Nefer gli lanciò un'occhiata penetrante. «Merykara», confermò il vecchio mago. «Come possiamo farle arrivare un messaggio?» Nefer sembrava perplesso, ma Taita sorrise, sfiorò l'amuleto di Lostris che portava al collo e chiuse gli occhi. Poco dopo, Nefer pensò che si fosse addormentato. L'età comincia a farsi sentire, pensò, irritato. Stava per svegliarlo, scrollandolo, quando sentì alcune voci provenire dall'accampamento e alzò la testa di scatto. Merykara stava uscendo dalla tenda. Era evidente che aveva dormito, perché il viso appariva segnato dal cuscino. Si stiracchiò, sbadigliando. Indossava soltanto una gonna pieghettata di lino azzurro che le arrivava sotto il ginocchio, mentre la parte superiore del corpo era nuda. Nefer rimase stupito del modo in cui le erano sbocciati i seni, coi capezzoli rosei ed eretti. La ragazza si mise a discutere con la sentinella di guardia alla tenda e la sua voce salì di tono, con accenti imperiosi, cosicché Nefer poté sentire ogni parola. «Non posso dormire, e voglio andare a fare due passi», disse Merykara. La sentinella cercò di dissuaderla, ma lei scosse la testa, facendo danzare i capelli sulle spalle. «No, non intendo lasciarmi scortare da te», replicò. Poi, in risposta alle insistenze dell'uomo, quasi urlò: «Sta' indietro, creatura insolente, altrimenti riferirò il tuo comportamento a mio marito!» La sentinella obbedì suo malgrado, piantando a terra la lancia, ma gridandole dietro in tono ansioso: «Ti prego, maestà, non rimanere lontano troppo a lungo e non avventurarti troppo lontano. Se il Faraone dovesse scoprirlo, la mia miserabile vita non basterebbe a fare ammenda». Ignorandolo, Merykara superò le corde alle quali erano legati i cavalli e uscì dalla zareba di rami spinosi che circondava l'accampamento. Si guardò alle spalle per accertarsi di non essere osservata da nessuna delle sentinelle, poi, come se avesse una missione da compiere, si diresse verso il punto in cui Nefer e Taita erano stesi tra i cespugli. Nefer si avvide che gli occhi verdi della sorella erano assenti e che, sul suo bel visino, c'era un'espressione intenta, come se la ragazza stesse ascoltando una musica che soltanto lei poteva udire. Quando fu abbastanza vicina da poterla toccare, le mormorò: Wilbur Smith
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«Merykara, non aver paura. Sono io, Nefer». Lei sussultò come una sonnambula che si sveglia di colpo, fissandolo. Poi, mentre il suo viso s'illuminava di gioia, la giovane si slanciò in avanti per abbracciarlo. «Ferma!» le ordinò Nefer. «Non rivelare la nostra presenza alle guardie.» Si sentì fiero di lei, perché gli obbedì, fermandosi all'istante. Era sempre stata una bambina intelligente. Si guardò intorno in fretta. «Ero profondamente addormentata», sussurrò con voce tremante, «ma mi sono svegliata di colpo e ho capito che dovevo avventurarmi nel deserto. È stato come se una voce nella mia testa mi chiamasse.» Guardò Taita. «Era la tua voce, mago?» Poi i suoi occhi tornarono verso Nefer. «Caro fratello, non saprai mai quanto mi sei mancato. All'inizio ho creduto che fossi morto e ho partecipato piangendo al tuo corteo funebre, con la testa coperta di cenere. Ecco... Vedi le cicatrici là dove mi sono tagliata le braccia in segno di lutto per te?» «Sono vivo, Merykara, credimi. Quella che vedi non è un'ombra.» «Lo so, Nefer. Ora tutti sanno che hai rapito Mintaka portandola via da Avaris e conducendola poi nel deserto. E io sapevo che, un giorno, saresti venuto a prendere anche me.» Sorrise tra le lacrime. «Sapevo che saresti venuto.» «Sì, ti porteremo via con noi. Ma prima c'è una cosa che devi fare per aiutarci.» «Qualunque cosa per aiutare te e Taita», acconsentì subito lei. Parlando in fretta, il mago le spiegò quello che doveva fare, pregandola poi di ripetere, cosa che lei fece senza commettere errori. «Sei sveglia, piccola mia», le disse Taita. «È esattamente quello che vogliamo da te.» Le porse un pacchettino. «Ecco la polvere. Ricorda, solo quanto basta per coprire la tua unghia in ogni orcio.» «Prima mi dici che sono sveglia e poi mi tratti come una stupida», scattò lei. «Perdonami, maestà.» Taita accennò un gesto di scusa. «E non chiamarmi così. Detesto essere sposata a quel viscido serpente... E ora che so quello che vuole farmi, lo odio ancora di più.» «Non è davvero facile accontentarti, Merykara. Su, torna al campo prima che le guardie vengano a cercarti.» Lei si chinò e diede un rapido bacio sulle labbra a Nefer. «Allora a Wilbur Smith
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domani, fratello caro.» Il giorno dopo, quando venne il momento di riposare, il possente esercito dell'Egitto si accampò ai piedi dell'altopiano che segnava la fine del deserto sabbioso e delle terre aride. Avevano quasi completato la traversata: il giorno dopo, avrebbero superato il passo, entrando nelle regioni più fresche, dove le oasi erano separate da appena una giornata di viaggio, dove crescevano foreste, campi e vigneti, e dove i torrenti di montagna scorrevano tutto l'anno. Anche la scorta delle mogli del Faraone cominciò a predisporre l'accampamento, ma la giovane regina Merykara, di solito dolce e garbata, quel giorno pareva irritabile e prepotente. Volle che la sua tenda fosse innalzata lontano da quella della sorella Heseret, poi insistette perché i carri che trasportavano le casse del tesoro fossero spostati in uno stretto uadi a duecento passi dall'accampamento principale. Invano il comandante della guardia cercò di farle notare che il fondo dello uadi era molle e sabbioso, per cui le ruote dei pesanti veicoli sarebbero sprofondate. «Non m'importa se sprofondano fino a scomparire», ribatté lei. «Sono stanca di guardare quei brutti carri e di sentire i muggiti dei torelli. Fateli sparire dalla mia vista.» Il comandante pensò di fare appello al Faraone Naja Kiafan per avere la conferma di quell'ordine irragionevole impartito dalla moglie più giovane, poi cambiò idea. La colonna si stendeva per quasi quattro leghe: ci sarebbe voluta un'ora di cavalcata al galoppo per raggiungere il Faraone, e il tragitto di ritorno sarebbe stato altrettanto faticoso, anche perché la giornata sembrava ancora più calda delle precedenti. E poi lui aveva una tresca con una delle ancelle di Merykara, una piccola nubiana incantevole, che conosceva più trucchi della scimmia di un saltimbanco. Così fece trasferire i carri in fondo allo uadi e, per tacitare la coscienza, raddoppiò la guardia. Dopo averla avuta vinta, Merykara ridiventò la fanciulla affettuosa che tutti amavano. «Mi dispiace tanto di essere stata insopportabile con te, Moram. Dev'essere colpa di questo caldo terribile che ci snerva tutti», cinguettò, rivolta al comandante delle guardie. «Per rimediare, ti farò portare da Misha cinque orci della birra migliore della mia riserva privata. Ma fa' bene attenzione a dividerla in parti uguali con tutti i tuoi uomini, visto che Wilbur Smith
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ho dato loro tanti fastidi.» Misha, la nubiana statuaria dall'incedere regale e dalle natiche perfette, portò gli orci di birra alla tenda di Moram e gli uomini si misero in fila per ricevere la loro parte, invocando il favore degli dei sulla regina Merykara e brindando alla sua salute col primo sorso della bevanda spumeggiante. Nonostante le promesse fatte a Merykara, la birra era così buona che Moram ne bevve più della sua parte. Non appena furono soli nella sua tenda, poi, si gettò su Misha, che, tra gridolini e moine scherzose, gli concesse finalmente di sollevarle la veste per mettere allo scoperto le natiche. Schizzarono fuori del gonnellino corto, nere e lucenti come antracite appena uscita dalla cava, grandi globi frementi che sfuggivano alla presa delle sue mani avide. Accecato dalla passione, Moram la montò, ma, dopo una dozzina di stoccate, si accasciò lentamente sul pavimento, addormentandosi prima ancora di finire lungo disteso. Misha lo fissò, sbigottita. Non le era mai accaduto nulla di simile. Moram prese addirittura a russare e allora la nubiana balzò di scatto in piedi, si rivestì, affibbiò un calcio furibondo alla figura addormentata e uscì come una furia dalla tenda per tornare dalla sua padrona. Notò che anche la guardia all'ingresso della tenda reale dormiva di un sonno profondo come la morte. «Gli uomini sono tutti maiali», mormorò la piccola ancella nubiana, furiosa, nella sua lingua madre, sferrando un calcio alla sentinella con tutta la forza che aveva nella lunga e ben tornita gamba destra. Nefer guidò un gruppetto di uomini lungo il letto del fiume in secca, tenendosi a ridosso della sponda, dove la sabbia soffice attutiva il rumore dei passi. I quattro carri che contenevano le casse del tesoro erano disposti a fianco a fianco, con le ruote incatenate insieme in modo che eventuali banditi o ladri non potessero trainarli lontano in fretta. C'erano di guardia otto uomini armati, ma erano tutti stesi sulla sabbia soffice come cadaveri in attesa degli imbalsamatori. Taita li esaminò a uno a uno, accostando due dita alla gola per sentire le pulsazioni e scostando le palpebre per esaminare l'occhio. Infine rivolse un cenno di assenso a Nefer, avvicinandosi agli sportelli posteriori del primo carro. Dopo aver estratto un lungo strumento di bronzo dalla sua borsa, si concentrò sulla massiccia serratura, pure di bronzo, che, in breve tempo, si Wilbur Smith
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aprì. Taita scostò i pesanti battenti di metallo, mettendo allo scoperto le quattro cassette bloccate agli anelli infissi nel fondo del carro. Il coperchio di ognuna era sigillato con un panetto di argilla che recava il cartiglio del Faraone Naja Kiafan. Il mago usò la lama del pugnale per togliere i sigilli, lasciandoli cadere nella borsa, in modo che non si notassero tracce di effrazione allorché qualcuno avesse aperto gli sportelli del carro. Quindi usò la punta del pugnale per aprire il fermo del coperchio e lo sollevò. La cassetta era piena di sacchetti di cuoio. Taita ne soppesò uno con la mano, sorridendo. Aprì l'imboccatura del sacchetto e scorse all'interno lo scintillio inconfondibile del metallo prezioso. Mentre lui era occupato, Nefer e Meren avevano scavato una buca poco profonda nella sabbia molle sotto il fondo del carro. Taita passò il sacchetto di cuoio a Nefer, che lo mise in fondo alla buca. In tutto Taita scelse cinquanta dei sacchetti più pesanti contenuti nella prima cassetta, poi richiuse il coperchio e lo sigillò di nuovo usando un pugno di argilla umida che aveva portato con sé. Servendosi dell'anello col rubino che Naja gli aveva donato alla sua partenza da Tebe, impresse sull'argilla il sigillo del cartiglio reale. Poi passò alla cassetta successiva. «Non è abbastanza», brontolò Meren. «Ne stiamo lasciando più della metà per Naja e Trok.» «L'avidità sarebbe la nostra rovina», replicò Taita, forzando il coperchio dell'ultima cassetta. «Così non sapranno che manca qualcosa finché l'ufficiale pagatore non riaprirà le cassette per contare i lingotti, cosa che potrebbe non accadere prima di qualche mese.» Da ogni cassetta a bordo dei quattro carri prelevarono cinquanta sacchetti di cuoio, che seppellirono nella sabbia molle sul fondo dello uadi. Per quanto lavorassero più in fretta che potevano, il sole era già basso nel cielo occidentale quando sigillarono di nuovo l'ultima cassetta e richiusero gli sportelli dell'ultimo carro. Una delle guardie addormentate si agitò, mormorando qualcosa, poi tentò di mettersi a sedere. Taita si avvicinò, posandogli con gentilezza una mano sulla fronte. L'uomo sospirò, tornando a stendersi. Taita gli aprì la bocca per deporre un pizzico di polvere bianca sotto la lingua e l'uomo si tranquillizzò. «Dobbiamo fare presto. Cominciano a riprendersi», disse il mago. Sparsero la sabbia sulle file di sacchetti in fondo alla buca sotto l'ultimo carro, poi smossero la superficie, disseminandola d'impronte per evitare che quel tratto di sabbia liscia si notasse troppo. Wilbur Smith
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«Quanto pensi che abbiamo preso?» chiese Nefer. «Impossibile dirlo, finché non lo avremo pesato», rispose Taita. «Direi comunque che abbiamo almeno tre lakh d'oro.» «Quanto basta per reclutare e armare un esercito.» Effettuarono un'ultima ispezione, rapida ma accurata, dei carri e della zona circostante per controllare di non aver trascurato niente. Poi, lasciando le guardie ancora immerse nel loro sonno drogato, si allontanarono furtivamente dallo uadi. Tornarono alle pendici delle colline sotto l'altopiano, dove avevano lasciato Hilto coi carri. Di lì sorvegliarono il punto in cui avevano sepolto l'oro rubato, senza notare tracce di agitazione o di attività insolita. Forse le guardie, al loro risveglio, si erano sentite troppo in colpa per fare rapporto su quell'infrazione al loro dovere. Poco prima di sera, videro gli equipaggi di torelli trainare i quattro carri fuori del letto sabbioso del fiume in secca, seguendo le lettighe delle donne, mentre l'esercito dei falsi Faraoni riprendeva la marcia notturna. Il passaggio del grande esercito continuò ancora per cinque giorni e cinque notti. Si avvicendarono squadre di carri, compagnie di frombolieri, arcieri e lancieri, seguiti da colonne di schiavi che sarebbero stati usati per i lavori pesanti, cioè per la costruzione di fortificazioni e lo scavo di trincee sotto le mura delle città assediate. Poi fu la volta degli artigiani costruttori di carri e carpentieri, fabbricanti di armature e di frecce -, dietro i quali si accalcava la tipica moltitudine che seguiva ogni esercito, composta da mogli, innamorate e prostitute, insieme coi loro schiavi, servi e figli. Quella massa di gente era poi seguita dai mercanti, coi carri pieni di beni e articoli di lusso di ogni genere possibile e immaginabile, pronti da essere venduti ai soldati allorché questi ultimi si fossero arricchiti col bottino e col saccheggio. Eppure nessuno, neanche un'anima di tutta quella folla, entrò nello uadi dov'era sepolto l'oro, sotto gli occhi degli osservatori appostati sulle colline. Anche se ogni giorno sostavano nei dintorni compagnie e squadroni, nessuno si avvicinò allo uadi per usarlo come latrina o come luogo per l'accampamento. Quando l'ultimo veicolo di quell'esercito imponente passò oltre, salendo attraverso le rocce del passo di Khatmia, e l'ultimo schiavo scomparve, Nefer e Taita non solo avevano la certezza che la diminuzione del peso nelle casse del tesoro non era stata notata dagli ufficiali pagatori, ma Wilbur Smith
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sarebbero stati anche disposti a scommettere che nessuno aveva scoperto il nascondiglio nel letto del fiume. Infine la strada maestra diretta a oriente fu deserta, e loro scesero di notte dalle colline, fermando i carri sulla riva alta dello uadi coi cavalli ancora attaccati, pronti a fuggire all'istante. Nefer e Meren scesero nel letto sabbioso, dove si notavano ancora, al chiaro di luna, le tracce lasciate dai carri del tesoro e dai buoi. Dopo qualche colpo con la vanga di legno, Meren lanciò un fischio di gioia e recuperò il primo sacchetto d'oro. Prelevandoli dalla buca, contarono i sacchetti, per essere certi di non trascurarne neanche uno, poi li trasportarono in riva allo uadi, barcollando sotto il peso, e li accatastarono vicino ai carri in attesa. Ottocento sacchetti di cuoio pieni d'oro formavano una pila impressionante. «È troppo! Non riusciremo mai a portarlo via tutto», borbottò Nefer in tono dubbioso. «Una delle leggi naturali di questo mondo malvagio è che d'oro non ce n'è mai abbastanza», osservò Taita, scuotendo la testa. I carri da guerra leggeri non erano adatti al trasporto, ma loro li caricarono finché l'assale non si abbassò e le assi del fondo cominciarono a cigolare. Eppure non avevano preso neanche la metà dei sacchetti. Incoraggiando i cavalli e guidandoli per le redini, trasportarono sulle colline i carri sovraccarichi, prima di tornare indietro a prendere il resto. Ci vollero altri due viaggi per completare l'opera. Divisero il tesoro in cinque parti uguali e ne seppellirono quattro in nascondigli separati, ben distanti, facendo attenzione a non lasciare tracce. Così, anche se uno di quei tesori fosse stato scoperto, non avrebbero perso tutto. La quinta parte fu caricata su tredici carri che Nefer rimandò a Gallala, sotto il comando di Hilto. Non appena arrivato in città, Hilto doveva tornare indietro con un convoglio di carri pesanti per prelevare quello che restava. Nefer tenne con sé i tre carri rimanenti, che sarebbero stati guidati da lui, Taita e Meren. Le due squadre si salutarono: Hilto diretto a sud col carico; Nefer a oriente col suo piccolo gruppo, sulle orme dell'esercito dei due Faraoni. Nefer viaggiava di giorno, sapendo che in quelle ore l'esercito riposava nell'accampamento e che, alla luce del giorno, era meno probabile imbattersi in qualche sorpresa. Superato il passo, si addentrarono nell'altopiano, dove trovarono acqua Wilbur Smith
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in abbondanza, anche se in gran parte insozzata dalle migliaia di animali e di uomini che li avevano preceduti. I cavalli erano riposati e correvano veloci, trainando i carri leggeri. Superarono centinaia di campi di sosta abbandonati, contrassegnati dalla cenere dei fuochi, dalle tettoie sbilenche, dalle lettiere degli animali e dal sudiciume. C'erano anche alcune tombe, scavate in fretta, a conferma delle tensioni che sempre si agitano in un esercito in marcia. Alcune tombe erano state già violate dalle iene e dagli sciacalli, che avevano trascinato fuori i cadaveri, sbranandoli. «Questa ci servirà», disse Nefer, smontando dal carro per osservare il corpo di una giovane donna, probabilmente una delle prostitute al seguito dell'esercito. Non c'era modo di capire come fosse morta, perché gli avvoltoi avevano quasi completato il lavoro iniziato dalle iene. Il teschio, ormai privo degli occhi e delle labbra, sogghignava coi denti anneriti dal sangue. «Per tutti gli dei!» gridò Meren. «Sei forse uscito di senno? Quel cadavere puzza da far paura.» «Aiutami ad avvolgerlo», ordinò Nefer, ignorando le sue proteste. Tra i rifiuti aveva trovato un telo di lino, così lacero e sudicio che neppure i beduini che raccoglievano gli scarti dell'esercito lo avevano degnato di uno sguardo. In due, sollevarono i resti della donna per avvolgerli con cura nel telo, poi, con grande disgusto di Meren, legarono l'involto sul retro del suo carro. Anche se viaggiavano sotto la nube di polvere fin dall'aurora, era già mattina inoltrata quando raggiunsero la retroguardia dell'esercito. Per quel giorno, la spedizione si era già fermata a riposare e il fumo dei fuochi accesi indicava la posizione di centinaia di piccoli accampamenti separati lungo la strada. Nefer deviò dalla carreggiata, descrivendo un cerchio per evitare il convoglio coi bagagli e tenersi fuori della visuale. Avanzarono con cautela, esplorando il terreno davanti a loro. Alla fine raggiunsero il convoglio coi carri del tesoro e le lettighe alte delle mogli del re, fermo in un uliveto. Era mezzogiorno passato quando Nefer si avvicinò di soppiatto, arrampicandosi su un albero di tamarindo da cui poteva spiare oltre la zareba di rami spinosi che circondava il campo. La tenda della regina Merykara sorgeva a una certa distanza da quella di Heseret, ma le due sorelle erano sedute insieme sotto una tenda di lino, al riparo dal sole, dove piluccavano il sontuoso pasto che le ancelle avevano Wilbur Smith
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portato loro. Nefer non era abbastanza vicino per ascoltare la conversazione. Heseret, seduta di fronte a lui, chiacchierava e rideva allegramente. Era ancora più bella di quanto lui la ricordasse. Anche in quelle circostanze informali si era truccata con cura, in modo da assomigliare il più possibile alla statua di Hathor a Menfi. Era adorna di una splendida serie di gioielli e i folti capelli scuri erano stati unti d'olio e arricciati di fresco. Misha, la schiava nera dal posteriore favoloso, si protese oltre la sua spalla per riempirle il bicchiere di vino. Uno schizzo di vino rosso macchiò il vestito di Heseret sul davanti, e lei balzò in piedi, picchiando Misha sulla testa con un pesante ventaglio fatto d'argento e piume di struzzo. La ragazza cadde in ginocchio, proteggendosi con le mani, ma il sangue cominciò a sgorgare tra le sue dita. Merykara tentò di trattenere la sorella maggiore, ma Heseret continuò a tempestare di colpi la testa di Misha finché l'impugnatura del ventaglio non si spezzò; poi scagliò l'estremità spezzata contro Merykara e si allontanò, gridando minacce e insulti. Merykara aiutò la schiava ad alzarsi, accompagnandola nella sua tenda. Nefer attese con pazienza, nascosto tra i rami del tamarindo. Poco dopo, Misha uscì dalla tenda con la testa bendata e, sempre piangendo, scomparve tra gli alberi. Nefer non si mosse finché Merykara non apparve sulla soglia della tenda. L'ultima volta che si erano parlati, l'aveva avvertita di restare all'erta, in attesa che lui andasse a prenderla. La sorella si guardò intorno, parlando con la guardia che stava di sentinella alla porta della tenda, poi prese ad allontanarsi, dirigendosi senza uno scopo apparente verso i margini del campo. Era chiaro che aveva preso sul serio le istruzioni e perlustrava la campagna circostante aspettandosi di scorgere i suoi liberatori. Era l'unica persona che si muovesse nell'accampamento: gli altri avevano cercato riparo dal sole e dal caldo, e neppure le sentinelle mostravano interesse per lei. Nefer prese da una borsa uno specchietto d'argento levigato, col quale intercettò il riflesso del sole per inviare un raggio sul viso di Merykara. Lei si fermò all'istante, riparandosi gli occhi e guardando nella sua direzione. Lui fece balenare lo specchietto tre volte nel segnale convenuto e, persino a quella distanza, vide il sorriso della sorellina diventare radioso come il raggio di sole riflesso che danzava sul bel viso.
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Nella lettiga sussultante, Merykara era distesa sopra i cuscini e il materasso imbottiti di piume di cigno. Misha se ne stava raggomitolata ai suoi piedi come un cucciolo addormentato, mentre lei era sveglia e vigile. Le cortine erano aperte per lasciar entrare l'aria fresca della notte, permettendole di udire i suoni dell'esercito in marcia: lo scalpitio degli zoccoli, il cigolio dei carri, il muggito dei buoi da soma, le grida dei carrettieri e lo scalpiccio delle guardie che camminavano a fianco della lettiga. D'un tratto ci fu un trambusto più avanti: si udirono il crepitio delle fruste, lo schianto delle ruote sulle rocce, il suono dell'acqua corrente e lo sciaguattio di animali e veicoli. Poi Merykara sentì la voce querula della sorella: «Ehilà, che succede?» «Maestà, stiamo guadando un piccolo torrente. Devo pregarti di smontare dal carro, per evitare che si capovolga. Il nostro primo pensiero è l'incolumità della tua divina persona.» Heseret si lamentò aspramente di quel disagio, e Merykara approfittò del diversivo per sussurrare a Misha le ultime istruzioni. Poi scesero, trovando gli schiavi pronti a guidarle con le lanterne verso la riva del torrente, dove Heseret era già in attesa. «Mi hanno svegliato in pieno sonno», disse a Merykara. «Denuncerò quell'idiota di un capo carovana a mio marito, il Faraone dell'Alto Egitto.» «Sono certa che farlo fustigare sarà di grande beneficio per la tua salute», osservò Merykara con soave ironia. La sorella drizzò la testa, sdegnata, e si allontanò. In quel momento, un usignolo lanciò il suo richiamo, a monte del torrente, e Merykara sussultò. Quand'erano bambini, Nefer aveva tentato d'insegnarle a imitare quella nota bassa e melodiosa, ma lei non c'era mai riuscita. L'usignolo cantò tre volte, però lei sola se ne accorse. Gli altri erano impegnati a trasportare le scomode lettighe e i pesanti carri col tesoro attraverso il letto insidioso del torrente. Le migliaia di veicoli che li avevano preceduti avevano danneggiato l'accesso al guado, trasformando il fondo in una massa di fango. Mezzanotte era già trascorsa quando la traversata fu completata e l'ultimo carro venne trascinato fuori delle acque, con l'accompagnamento di sonori incoraggiamenti ai buoi e schiocchi di frusta sulla riva opposta. Poi il capo carovana ordinò di issare a bordo le portantine per le mogli del re. Una volta raggiunta la sponda opposta, vi fu un altro motivo di Wilbur Smith
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trambusto e confusione, perché uno dei carri con le casse del tesoro aveva perso una ruota e bloccava la carreggiata. Oltre a quell'incidente, gli schiavi che trasportavano la portantina di Heseret avevano lasciato scorrere un po' d'acqua sui piedi della donna, rovinandole i sandali. Heseret insistette per farli punire sul posto, così lo schiocco delle fruste dei sovrintendenti si aggiunse al frastuono, insieme con le grida di dolore degli sventurati. Al di sopra di quel caos, Merykara sentì di nuovo il richiamo dell'usignolo, stavolta da vicino, sullo stesso lato del torrente. «Non tradirmi», raccomandò a Misha. «La mia vita è tua, padrona», rispose la schiava. Lei la baciò. «Me lo hai dimostrato spesso, e non lo dimenticherò mai.» Poi Merykara si allontanò in silenzio nel buio. Soltanto Heseret se ne accorse. «Dove vai?» «Ad annegare gli spiriti cattivi», rispose lei, usando il loro eufemismo infantile. La sorella si strinse nelle spalle e risalì a bordo della lettiga, chiudendo le cortine. Non appena fu nascosta a coloro che passavano sulla strada, Merykara si fermò, lanciando la sua approssimativa versione del richiamo dell'usignolo. Quasi subito, una mano si chiuse saldamente sul suo braccio e il fratello le sussurrò all'orecchio: «Ti prego, smettila, piccola mia, altrimenti spaventerai tutti gli usignoli da qui a Beersheba». Lei si girò di scatto, gettandogli le braccia al collo e abbracciandolo con tutte le sue forze, troppo commossa per parlare. Ma Nefer si sciolse dalla stretta, la prese per mano e la guidò lungo la riva del fiume immersa nell'oscurità. Procedeva in fretta e sembrava che potesse vedere nel buio come un leopardo, perché non inciampava mai e non tradiva esitazioni. Non parlava, se non per avvertirla sottovoce quando sul sentiero c'era una buca o un ostacolo, e lei lo seguì ciecamente. Soltanto dopo aver camminato, almeno la metà della notte, lui si fermò per farla riposare. «Misha sa che cosa deve fare?» le chiese. «Terrà chiuse le cortine della lettiga, dicendo a tutti che dormo e non voglio essere disturbata. Nessuno saprà che sono scomparsa.» «Fino alla sosta di domani», precisò lui. «Abbiamo poco tempo per allontanarci. Sei pronta a proseguire? Dobbiamo riattraversare il fiume in questo punto.» La sollevò di peso senza fatica, trasportandola sulla riva opposta, e lei fu Wilbur Smith
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stupita nell'accorgersi di quanto fosse diventato forte; tra le sue braccia si sentiva come una bambola. La depositò di nuovo a terra e ripresero il cammino. Poco dopo lei lo tirò per il braccio. «Che cos'è questo puzzo terribile?» chiese, assalita da conati di vomito. «Sei tu», le rispose lui. «O meglio qualcuno che prenderà il tuo posto.» Prima che finisse di parlare, due figure circondate dall'oscurità avanzarono sul sentiero alla luce delle stelle, e Merykara si lasciò sfuggire un'esclamazione di terrore. «Sono soltanto Taita e Meren», la rassicurò Nefer. La condussero in un bosco ceduo, al riparo di una fitta vegetazione di rami. Poi Meren aprì lo sportellino della lanterna che teneva in mano. Merykara lanciò un altro grido sommesso, vedendo, alla fioca luce gialla della lanterna, il macabro spettacolo di un corpo steso a terra. Il cadavere era mutilato al punto che era difficile dire persino se fosse di una donna. «Presto, adesso!» le ordinò Nefer. «Dammi tutti i gioielli e i vestiti.» Merykara si spogliò, consegnando tutto a Nefer, e Taita passò alla ragazza un piccolo involto coi vestiti e i sandali di ricambio per sostituire i suoi. Nefer s'inginocchiò vicino al cadavere, mettendo al collo della ragazza morta le collane di Merykara, e infilando sulle dita e sui polsi scheletrici anelli e braccialetti. Non riuscì a vestire il corpo ormai rigido con la tunica e il perizoma di Merykara, perciò li ridusse a brandelli, sporcandoli di terriccio, quindi si punse il pollice con la punta del pugnale per far gocciolare del sangue sulla stoffa sottile. Poco lontano si sentì il coro stridulo di un branco di iene affamate. Merykara rabbrividì. «Hanno fiutato il corpo.» «Lasceranno soltanto prove sufficienti a convincere Naja che sei stata divorata dagli animali selvatici.» Si alzò. «Ora dobbiamo andare.» I carri li aspettavano poco lontano, a monte del fiume. Nefer aveva evitato con cura di lasciare tracce troppo vicine al cadavere della ragazza. Mentre issava la sorella sul carro accanto a sé, guardò il cielo a oriente. «La stella del mattino...» sussurrò. «Tra poco farà giorno. Dobbiamo sfruttare al massimo il periodo di oscurità che ci resta.» Quando l'alba sbocciò come un mazzolino di rose e di mimose nel cielo alle loro spalle, erano già a metà del pendio ai margini dell'altopiano, e ai loro piedi si stendeva il deserto. Wilbur Smith
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Era uno spettacolo così grandioso che fermarono istintivamente i cavalli per osservare, in preda a un timore reverenziale, quell'oceano di sabbia dorata. Tutti, tranne Meren. Con l'aria di un pellegrino che ha viaggiato per mezzo mondo al solo scopo di raggiungere il santuario della dea che adora, fissava Merykara, accanto al fratello sul carro di testa. Durante la lunga corsa notturna l'oscurità gliel'aveva celata, ma ormai il sole del mattino la illuminava in pieno, e lui non faceva che guardarla a occhi sbarrati. La conosceva come la sorellina maliziosa e impertinente del suo migliore amico, ma era la prima volta che la vedeva dopo due anni, e il tempo aveva prodotto in lei un cambiamento miracoloso. Ora ogni movimento che faceva, ogni gesto e ogni espressione erano un prodigio di grazia. Ogni angolo e ogni superficie del suo viso, ogni curva e ogni linea del suo corpo snello erano perfetti. La sua pelle appariva vellutata e chiara come la madreperla, gli occhi erano più verdi e luminosi di qualunque smeraldo, la voce e la risata erano la musica più incantevole che avesse mai sentito. Taita colse la sua espressione e sorrise tra sé. Anche nelle situazioni più terribili, la vita lotta per rinnovarsi, pensò, ma a voce alta disse: «Maestà, non dobbiamo restare qui. I cavalli hanno bisogno d'acqua». Giunti ai piedi delle colline, si allontanarono dalla strada maestra per puntare a sud, verso il Grande Lago Amaro. Proseguirono fino a raggiungere la prima riserva di giare d'acqua che avevano lasciato per il viaggio di ritorno e scoprirono che Hilto era già stato lì. Dalle tracce, compresero che i suoi carri, appesantiti dai lingotti d'oro, si muovevano lentamente: quindi lui non li precedeva di molto. Furono sollevati nello scoprire che non aveva consumato tutta l'acqua, anzi ne aveva lasciate quattro giare intatte. Una quantità sufficiente per sostenere i cavalli fino alla successiva oasi, a Zinalla. Sebbene Merykara fosse vivace e animata se chiacchierava e scherzava con Nefer e Taita, chissà per quale motivo non aveva degnato di attenzione Meren, tranne quando sapeva che era prudente farlo. Anche se non molto tempo prima l'aveva trattata con distacco, Meren si sentiva troppo in soggezione per avvicinarla direttamente, perché quella ragazza era ormai una regina, anche se sposata a un falso Faraone, e ai suoi occhi equivaleva dunque a una dea. Per la centesima volta da quando si erano fermati, si piantò goffamente davanti a lei, mentre la giovane riposava nel fazzoletto d'ombra di un albero di acacia in fiore. Merykara alzò gli occhi e chinò la testa. Lui le Wilbur Smith
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rese atto di omaggio. «Salve, maestà. Sono lieto di vedere che sei sana e salva. Ero terribilmente preoccupato per la tua salvezza.» Lei gli lanciò un'occhiata indagatrice, valutando la statura imponente che aveva raggiunto e la linea vigorosa delle spalle. Notò che i suoi capelli erano diventati lunghi e folti e si accorse per l'ennesima volta di avere il respiro stranamente affannato. «Meren Cambise...» lo salutò in tono severo. «L'ultima volta che ho avuto a che fare con te, hai rotto il mio aquilone preferito. Potrò mai avere fiducia in te?» «Puoi affidarmi la tua stessa vita», rispose lui con fervore. Quando gli animali furono abbeverati e riposati e venne il momento di ripartire, Merykara, con aria distratta, disse al fratello: «I tuoi cavalli hanno dovuto sopportare il mio peso per tutta la notte. Penso che ora dovrei dare loro un po' di sollievo». «E come?» Lui sembrava perplesso. «Viaggerò su un altro carro», replicò lei, dirigendosi verso Meren in attesa. Il giorno dopo raggiunsero l'oasi di Zinalla e trovarono la squadra di Hilto ad aspettarli. Allora Nefer poté ridistribuire equamente il peso di uomini e lingotti tra i quindici carri, e proseguirono il viaggio verso Gallala a un'andatura molto più veloce. Mintaka si trovava sul tetto del tempio di Hathor: con la collaborazione di alcune donne e di un gruppo di uomini anziani, lo stava rendendo abitabile per la dea, in modo da poter riprendere il culto. L'edificio poteva risalire anche a un migliaio di anni prima, non c'era modo di saperlo con certezza, ma gli affreschi erano in perfetto stato di conservazione e richiedevano solo qualche ritocco. Il tetto, invece, era un'altra faccenda. Tuttavia il clima era mite e così costante che i grandi squarci nel soffitto non erano poi importanti. Era necessario soltanto rimuovere le travi marce, che rappresentavano un pericolo mortale per i fedeli. Mintaka si occupava appunto di sovrintendere a quel lavoro. Come le altre donne, indossava abiti semplici e logorati dall'uso e, come loro, aveva la pelle brunita dal sole. La vita a Gallala era così diversa dall'esistenza protetta e soffocante dell'harem di Avaris che lei godeva appieno di quella nuova libertà, oltre che dell'amicizia e della compagnia delle altre donne. Si raddrizzò, stiracchiandosi per dare sollievo alla schiena indolenzita, ma tenendosi agilmente in equilibrio sulla parete alta del tempio. Poi, Wilbur Smith
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riparandosi gli occhi con la mano, guardò i campi verdi di dhurra e la rete di canali d'irrigazione pieni d'acqua scintillante che proveniva dalla sorgente di Taita. Mandrie di bovini e persino un gregge di pecore pascolavano nei recinti, ma c'erano pochissimi cavalli. Come tutti gli altri abitanti di Gallala, lei ne sentiva acutamente la mancanza. Poi, come faceva ogni ora negli ultimi giorni, da quando Nefer l'aveva lasciata, alzò gli occhi per guardare in fondo alla valle, tra le colline brulle in netto contrasto coi campi verdi intorno alla città. Era da quella direzione che lui doveva arrivare. Mintaka scrutò quei profili sfumati dalla distanza senza sperarci troppo, perché negli ultimi tempi era rimasta delusa troppo spesso. D'un tratto socchiuse gli occhi per difenderli dal riverbero e sentì il cuore accelerare i battiti. C'era qualcosa, laggiù, un puntino davvero minuscolo contro l'immensità del cielo, inconsistente e impalpabile come una piuma al vento. Una tempesta di polvere, forse, uno dei tanti vortici creati dall'aria surriscaldata del deserto. Distolse lo sguardo, asciugandosi il sudore che colava dalle folte sopracciglia scure, per far riposare gli occhi. Quando guardò di nuovo, la nuvola di polvere era più vicina e lei si concesse il lusso di sperare. In quel momento sentì un corno d'ariete lanciare un lungo squillo: anche le vedette in cima alle colline avevano scorto la nube. Intorno a lei, tutti smisero di lavorare per guardare nella valle. Dalle strade sottostanti si levarono le grida eccitate dei bambini, mentre gli stallieri correvano verso le stalle e i conducenti dei carri verso i loro veicoli, fermi oltre la piazza del mercato. Tutta la città era in fermento. Mintaka non seppe trattenersi. Scese dall'impalcatura che circondava le pareti esterne del tempio con l'agilità fulminea di una scimmietta sorpresa a rubare in un frutteto. Shabako stava passando col carro nello spiazzo principale, oltre il monumento alla battaglia sostenuta da Tanus, diretto verso la porta della città. «Shabako!» gridò lei, correndo per bloccarlo. Lui deviò dal suo cammino per andarle incontro, trattenendo poi i cavalli per darle la possibilità di saltare a bordo. Insieme proseguirono la corsa, superando la porta e percorrendo la pista segnata da solchi profondi. Più avanti, la nube di polvere si avvicinava a gran velocità. «Saranno loro, Shabako? Dimmi di sì.» «Credo proprio di sì, maestà», gridò lui, per farsi sentire al di sopra del Wilbur Smith
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rumore della corsa. «Allora perché vai così piano?» Dall'altura scendeva un solo veicolo, e Mintaka si aggrappò alla sponda anteriore del carro, tutta protesa nello sforzo di riconoscere il conducente, che era ancora troppo lontano. «Guarda, maestà! Porta lo stendardo azzurro.» Shabako indicò il lembo di tessuto che sventolava in cima alla lunga canna fissata sul carro. «È Nefer! Oh, sia lodata la dea, è lui!» Si strappò dalla testa il copricapo di stoffa che la proteggeva dal sole per sventolarlo, e Nefer sferzò i cavalli, lanciandoli alla carica. «Fammi scendere!» Per dare maggiore enfasi all'ordine, Mintaka batté sulla spalla di Shabako, che trattenne i cavalli, passando al trotto. Lei saltò dal carro in movimento, atterrando in equilibrio sul terreno, poi corse incontro al carro che avanzava, a braccia spalancate. Sopraggiungendo alle sue spalle, Taita pensò che Nefer potesse investirla, nell'ansia di arrivare alla meta, ma, all'ultimo momento, lui deviò e, mentre i cavalli rallentavano, si protese oltre la sponda del carro per afferrarla al volo. Lei si lanciò, fiduciosa, nel cerchio delle sue braccia. Se avesse esitato o si fosse ritratta, sarebbe finita sotto gli zoccoli dell'equipaggio lanciato al galoppo, o forse sarebbe rimasta schiacciata dai cerchioni di metallo delle ruote. Invece Nefer l'afferrò al volo, sollevandola di peso e prendendola tra le braccia mentre lei rideva. Nefer convocò il consiglio nella piazza principale della città antica, facendo un rapporto completo. In un silenzio sbigottito, raccontò nei dettagli il prelievo dei lingotti dalle casse del tesoro. Poi presentò Merykara, spiegando come fosse riuscito a portarla via sotto il naso di Trok e Naja. E tutti gridarono: «Bak-her!» alzandosi per applaudire. Subito dopo, Nefer mandò a chiamare gli scribi, che pesarono l'oro di fronte ai membri del consiglio. Il totale superava abbondantemente mezzo lakh. «Miei signori, questo è soltanto un quinto di ciò che abbiamo preso. Hilto riporterà laggiù un convoglio di carri pesanti per recuperare il resto. Partirà domani, ma avrà bisogno di uomini che vadano con lui.» Tutti gli uomini abili di Gallala sembravano ansiosi di offrirsi volontari, e, quando Shabako e gran parte dei suoi guerrieri più maturi ed esperti si videro respingere, protestarono con veemenza. «Il Faraone vuole tenerci qui a Gallala, a sonnecchiare intorno al focolare come vecchie oziose?» Wilbur Smith
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proruppe Shabako. Nefer sorrise. «Per voi ho in serbo un lavoro più serio. Ma ormai il sole è tramontato e ci aspetta un banchetto per festeggiare la vittoria. Ci riuniremo presto per un consiglio di guerra, ve lo giuro.» Dopo averli rassicurati, aggiornò la seduta. Gli uomini si allontanarono, brontolando, ma il loro umore migliorò dopo che ebbero vuotato i primi orci di birra appena distillata. Nefer aveva ordinato di abbattere due torelli e una dozzina di pecore grasse, e le donne si erano affaccendate a preparare il banchetto. Erano invitati tutti gli abitanti della città, uomini e donne; persino le guarnigioni delle fortezze in cima alle colline e delle torri di guardia ricevettero la loro parte. Come la scoperta della sorgente, la conquista dell'oro era un'impresa che aveva consolidato la comunità. Taita aveva composto un poema eroico per celebrare l'occasione e anche quello, come tutte le sue creazioni, ottenne un successo immediato e travolgente. Quando finì di recitarlo non gli permisero di sedersi, ma continuarono ad acclamarlo e a battere con le coppe sul tavolo finché non ebbe ripetuto tutti i sessanta versi. Alla fine avevano imparato a memoria il poema, per il quale i musici composero all'impronta un accompagnamento musicale, e tutta la compagnia si unì a quella terza e ultima esecuzione. Poi Nefer invitò a prendere la parola tutti coloro che desideravano pronunciare un discorso. Alcuni di quei discorsi furono incoerenti, ma ottennero lo stesso una buona accoglienza; altri invece ebbero un effetto così esilarante o commovente che quasi tutte le donne e molti uomini finirono in lacrime. In quell'atmosfera carica di emozione, Merykara si protese oltre Mintaka per parlare al fratello. Il frastuono era così grande che dovette alzare la voce per farsi sentire. «Regale e divino fratello!» lo apostrofò in tono scherzoso, perché anche lei aveva bevuto dagli orci di birra. «Ho un favore da chiederti.» «Piccola sorella, che ormai non sei più piccola, chiedi quello che vuoi e, se è in mio potere, lo avrai.» «È in tuo potere.» S'interruppe, guardando Meren che era seduto poco più in là. Ma, così facendo, incontrò lo sguardo smanioso del giovane e fu costretta ad abbassare gli occhi, arrossendo poi in modo incantevole. «Tu sai che da bambina sono stata maritata senza il mio consenso... anzi contro la mia volontà», spiegò. «Quel matrimonio non è mai stato consumato. Voglio che tu proclami il mio divorzio da Naja. Voglio che tu mi renda Wilbur Smith
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libera, in modo che possa avere un marito di mia scelta. Questo sarebbe, per me, il dono più prezioso.» «È possibile?» Nefer divenne subito serio, guardando Taita. «È in mio potere dividere un marito dalla moglie agli occhi degli dei?» «Tu sei il Faraone», intervenne la sorella minore, prevenendo la risposta del mago. «Trok ha divorziato da Mintaka e quindi tu puoi farmi divorziare da Naja.» «Trok ha divorziato da Mintaka?» chiese Nefer, in tono così brusco che tutti i presenti tacquero. «Non lo sapevi?» ribatté Merykara. «Perdonami, se te lo rivelo in modo così sventato e privo di tatto. Credevo che una notizia così importante fosse giunta persino qui.» Nefer prese la mano di Mintaka scrollando la testa, troppo emozionato per parlare, mentre la sorella proseguiva: «Oh, sì! Nel giorno consacrato a lui, nel suo nuovo tempio, il Faraone Trok ha sacrificato l'ariete, dichiarando tre volte: 'Io la ripudio'». Merykara batté le mani. «E così, in un lampo, è stato compiuto il... misfatto!» Nefer attirò a sé Mintaka, guardando Taita, in attesa. Il vecchio conosceva la legge meglio di qualsiasi scriba del tempio in Egitto e, in risposta a quella tacita domanda, annuì con aria solenne. A quel punto, Merykara aggiunse: «Naturalmente, subito dopo ha sacrificato un altro ariete, pronunciando una sentenza di morte contro Mintaka per adulterio e sacrilegio nei confronti di un dio». Nefer si voltò a guardare Mintaka, che lo fissò a sua volta: entrambi riflettevano sulle conseguenze di quella rivelazione. A poco a poco, tuttavia, sul volto di Nefer apparve una strana espressione, simile a quella di un condannato a morte che apprende di essere stato graziato. «Tu sei libera, mio unico vero amore», mormorò. «E la tua libertà ha reso libero anche me.» Il giorno dopo, prima dell'alba, quando la città era ancora addormentata per effetto della birra, Nefer andò in cerca di Taita nel suo alloggio. Il vecchio alzò la testa dal rotolo di papiro che stava leggendo alla luce gialla e tremolante di una lampada a olio. «Sei occupato con qualche faccenda importante?» gli domandò il giovane, con strana reticenza. «Lo vedi da te», rispose il vecchio, ma poi, con aria rassegnata, cominciò a riavvolgere il papiro intorno alla bacchetta di legno. Wilbur Smith
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Per qualche tempo Nefer si aggirò senza meta nella stanza, soffermandosi a esaminare alcuni degli oggetti che Taita aveva collezionato da quando si trovavano a Gallala: piume di uccelli multicolori, scheletri di piccoli mammiferi e rettili, pezzi di legno secco o piante dalla forma strana, e altre sostanze contenute in coppe, flaconi o sacchetti ammucchiati sulle panche o stipati negli angoli più remoti. Il mago attese con pazienza che Nefer si decidesse a esporre la ragione di quella visita, anche se già credeva di conoscerla. Nefer raccolse il minuscolo scheletro di un animale, esaminandolo alla luce di una lampada. «Mintaka non è più sposata con Trok», disse, senza alzare la testa. «Per quanto possa essere sordo come una campana, persino io sono riuscito a capirlo.» Nefer rimise a posto lo scheletro, prendendo in mano una statuetta di rame, raffigurante Iside col piccolo Horus attaccato al seno, che Taita aveva ritrovato nel terreno sotto le mura della città, ricoperta da un alto strato di verderame. «Esistono restrizioni al matrimonio di un sovrano in base agli statuti di Chefren?» domandò con aria noncurante. Taita s'infilò un dito nel naso, riflettendo. «Come ogni altra sposa, la moglie di un sovrano dovrebbe essere libera, o vergine o vedova», rispose. «Oppure divorziata dal marito.» «Oppure ripudiata dal marito, o divorziata per decreto del Faraone regnante», confermò Taita. «E prima di essere divinizzato o di sposarsi, il re dovrebbe essere confermato nella sua sovranità.» «Per vedere riconosciuta la sua sovranità, il Faraone deve avere raggiunto la maggiore età, cui io non sono ancora arrivato, o aver catturato il falco sacro, impresa che ho tentato senza riuscirci, oppure essere diventato un adepto della Via Rossa...» Nefer fece una pausa prima di aggiungere: «... cosa che io non sono. Ancora». Sottolineò l'ultima parola e Taita batté le palpebre, ma senza rispondere. Nefer posò l'idolo, guardando Taita con aria determinata. «Ho intenzione di percorrere la Via Rossa.» Il mago lo osservò in silenzio. «Non hai ancora raggiunto la maturità e la forza di un adulto.» «Sono abbastanza adulto e abbastanza forte.» «Chi verrà con te?» «Meren», rispose lui con decisione. Wilbur Smith
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«Ci sono altri uomini più forti ed esperti che potrebbero esserti di maggiore aiuto. Molti sarebbero entusiasti di raccogliere la treccia di un Faraone della dinastia di Tamose.» «L'ho promesso a Meren», replicò Nefer con fermezza. Due cuccioli che inciampano nelle loro stesse zampe per l'entusiasmo e l'inesperienza, pensò Taita, ma disse invece: «A Gallala non esistono cavalli non ancora domati, o almeno nessuno che risponda allo scopo». «Io so dove trovarli. Naja e Trok hanno lasciato incustoditi tutti i branchi che restano in Egitto.» Taita non si curò di fargli notare la fallacia di quella affermazione. I falsi Faraoni avevano lasciato più truppe di veterani a guardia dell'Egitto di quante ne avessero portate con loro nell'avventura in Mesopotamia, ma lui sapeva che Nefer non era disposto ad ascoltare nessun argomento che contrastasse con le sue intenzioni. «Se fallisci, perderai ben altro che i capelli», borbottò. «Perderai tanto prestigio che anche la tua rivendicazione del trono potrebbe fallire.» «Non fallirò», rispose piano Nefer. Taita aveva previsto quella risposta. «E quando intendi tentare la Via Rossa?» «Prima devo procurarmi i cavalli.» Subito dopo la scoperta della sorgente che aveva permesso di usare Gallala come base, Nefer, su consiglio di Taita, aveva istituito nella città un sistema di pulizie. Gli escrementi umani, insieme col letame prodotto dal bestiame e dai cavalli, venivano raccolti da appositi carretti e sparsi nei campi come fertilizzanti, mentre il resto dei rifiuti veniva trasportato verso i depositi in fondo alla valle, che ben presto divennero la sede di una popolazione permanente di corvi e nibbi, avvoltoi e marabù che si nutrivano di rifiuti. I babbuini scendevano dalle colline per nutrirsi di avanzi, imitati da centinaia di sciacalli e cani randagi. Per ordine di Nefer, ogni sera si misero trappole e ogni mattina gli animali catturati vennero portati via in apposite gabbie. Intanto Shabako e i suoi uomini più fidati furono inviati come esploratori e spie nelle città e nei villaggi della valle del Nilo, dove cominciarono a parlare con gli avventori nelle taverne e a interrogare i viandanti che incontravano. Ispezionarono ogni forte e ogni guarnigione, contando le truppe che vedevano entrare, uscire e fare esercitazioni. Quando tornarono, alcune settimane dopo, le loro informazioni erano Wilbur Smith
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precise e dettagliate. Riferirono che i falsi Faraoni, per contrastare ogni minaccia, avevano lasciato nel Paese almeno metà della fanteria, dei lancieri, dei frombolieri e degli arcieri. Le fortezze di confine erano presidiate e sorvegliate e le guarnigioni erano vigili e all'erta. «E le compagnie di rincalzo?» chiese Nefer, quando Shabako ebbe concluso il suo lungo rapporto. «Trok ha portato con sé in Mesopotamia la maggior parte dei carri, lasciando in Egitto meno di due compagnie di riserva. Comunque tutte le officine dell'esercito sono all'opera per costruire altri carri.». «E i cavalli?» «Hanno requisito tutti gli animali sui quali sono riusciti a mettere le loro sporche mani in entrambi i regni. Hanno inviato persino i fornitori dell'esercito in Libia per appropriarsi di tutti quelli che riuscivano a trovare. A quanto pare, i depositi di Thane e Manashi sono al completo. D'altra parte, quegli animali sono quasi tutti giovani e non addestrati. I cavalli già avvezzi al combattimento sono stati portati verso oriente col grosso dell'esercito.» «Thane è molto più vicina al deserto che non Manashi», commentò Nefer, meditabondo. Ricordava che laggiù Taita aveva sfruttato l'ordine di requisizione di Naja per ottenere cavalli freschi e carri da Socco, il vecchio compagno d'armi di Hilto, mentre erano impegnati nel tentativo di liberare Mintaka. Cercò di tornare indietro col pensiero per ricordare la disposizione della guarnigione e del terreno circostante, ma era passato troppo tempo. «Dimmi tutto quello che sai di Thane», disse allora a Shabako. «Socco è ancora il comandante?» «Abbiamo bevuto birra nel bordello locale con un sottufficiale della guarnigione. Mi ha detto che Socco ha fatto un così buon lavoro che Trok lo ha elevato al rango di Migliore dei Diecimila.» Dieci giorni dopo, Nefer e Taita erano seduti sull'erba verde e folta, fingendo di sorvegliare il gregge di capre che brucava intorno a loro. Anche se il terreno intorno alla guarnigione di Thane era ben irrigato e ricco di pascoli, aveva lo svantaggio di essere pianeggiante, senza alberi né rilievi. Non c'erano colline da cui sorvegliare il campo: l'altura più vicina si trovava ai margini del deserto, una lega a oriente. I due indossavano le vesti nere, lacere e polverose dei beduini. Così travestiti, potevano fondersi col paesaggio con la stessa facilità di una Wilbur Smith
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coppia di lepri o di corvi. Ogni tanto si alzavano, sospingendo le capre un po' più vicino alla guarnigione, poi tornavano ad accovacciarsi nella posizione caratteristica dei beduini. Non lontano da loro pascolavano anche i branchi di cavalli di riserva, sorvegliati da uomini armati in uniforme. «Mi sembra che qui ci siano più di duemila animali», calcolò Nefer. «Forse non sono così tanti.» Taita scosse la testa. «Piuttosto millecinquecento, ma sempre più di quanti possiamo controllarne.» Continuarono ad attendere e osservare per tutto quel lungo e pigro pomeriggio. Nei recinti della cavalleria, gli istruttori erano al lavoro per domare gli animali giovani e abituarli a trainare i carri. I loro ordini e gli schiocchi di frusta arrivavano, seppur attutiti dalla distanza, fino a Nefer e Taita. Verso la fine del pomeriggio, i branchi di cavalli furono riportati verso i recinti della cavalleria, dalla parte opposta della fortezza. Li videro da lontano mentre venivano legati e lasciati a riposo per la notte. Poco dopo il tramonto, i due radunarono le capre, riportandole lentamente verso il deserto. Fu allora che un piccolo distaccamento, composto da quattro carri, arrivò a tutta velocità lungo la strada di Avaris. Alla guida del primo c'era un ufficiale corpulento che sfoggiava il pettorale d'argento di Migliore dei Diecimila. Quando si avvicinò, lo riconobbero entrambi. «Per la maledizione di Seth!» mormorò Nefer. «Quello è Socco, il vecchio commilitone di Hilto. Ci riconoscerà?» Chinarono la testa e piegarono le spalle in atto di sottomissione, avviandosi insieme col gregge, ma Socco deviò dalla strada per puntare direttamente su di loro. «Fetidi bastardi!» gridò. «Quante volte devo avvertirvi di tenere lontano dai miei cavalli le vostre sudicie bestiacce cariche di malattie?» Si protese per assestare a Nefer una frustata sulle spalle. La frusta sibilò e schioccò sulle sue carni, scatenando un'ondata di rabbia che lo accecò, ma prima che il giovane trascinasse Socco giù dal carro, Taita fece un gesto che lo inchiodò al suolo. Quel gesto probabilmente ebbe effetto anche su Socco, perché l'ufficiale moderò il tono, riavvolgendo la frusta e aggiungendo: «Se vi sorprendo di nuovo qui, vi taglio le palle e ve le ficco nel culo». Poi, riportando il carro sulla strada, si allontanò al trotto verso il forte. Sei notti più tardi, nell'oscurità della luna nuova, Taita e Nefer tornarono a Thane insieme con tutti gli uomini di Gallala che erano in grado di Wilbur Smith
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cavalcare: quaranta cavalieri vestiti di nero, col viso annerito dalla fuliggine. Ciascuno di loro portava, sulla groppa della propria cavalcatura, un grosso sacco, all'interno del quale c'era qualcosa che fremeva e si divincolava, emettendo uggiolii e lamenti soffocati. Infatti ciascuno conteneva due o tre sciacalli vivi, con le zampe legate e il muso stretto da strisce di fibre di lino. In assoluto silenzio - gli zoccoli dei cavalli erano stati avvolti in protezioni di cuoio -, Nefer li guidò. Aggirarono così il forte sul lato occidentale, mantenendosi alla larga dai recinti della cavalleria per non allarmare le sentinelle. Gli uomini sapevano bene che cosa aspettarsi, perché avevano ripetuto parecchie volte la manovra, quindi procedevano mantenendo la formazione, che disegnava una mezzaluna di cavalieri neri fra Thane e il fiume. Erano disposti a intervalli calcolati in modo che, lungo la fila, si potesse trasmettere facilmente un ordine silenzioso. Nefer si trovava al centro, Meren all'ala sinistra e Shabako sulla destra. Quando Nefer fu soddisfatto della loro posizione, lanciò il richiamo melodioso dell'usignolo, ripetendolo tre volte. Allora, nel buio, vide accendersi una linea rossa di punti luminosi, mentre gli uomini aprivano il coperchio dei recipienti di terracotta che avevano portato con loro e attizzavano il fuoco. Nefer fece altrettanto, poi aprì l'imboccatura di uno dei sacchi, allungando la mano all'interno e prendendo per la collottola una grassa femmina di sciacallo, che si dimenava freneticamente. Si diffuse nell'aria un forte odore di catrame, tanto forte da mascherare l'odore naturale degli animali. La pelliccia e la coda erano state inzuppate di un liquido nero e vischioso, che Taita aveva ricavato da una sorgente naturale nel deserto. Trasudava dal terreno, sgorgando, a detta del mago, da una grande profondità. Era estremamente infiammabile, e lui l'aveva mescolata con un'altra sostanza, una polvere cristallina di colore giallo, che la rendeva ancora più infiammabile. Tutti gli sciacalli catturati erano stati trattati con quella mistura. Nefer tagliò col pugnale il legaccio che stringeva le zampe della femmina di sciacallo e l'animale, sentendo vicina la libertà, cominciò a scalciare e a dibattersi con violenza ancora maggiore. Allora lui accostò il recipiente col fuoco alla coda dell'animale, che prese fuoco. La femmina raddoppiò gli sforzi per fuggire, ma, prima di lasciarla andare, Nefer le insinuò tra le mascelle la punta del pugnale, tagliando la fascia di fibre che Wilbur Smith
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la imbavagliava. La femmina spalancò le mascelle, lanciando un verso stridulo, terrificante. Poi lui la lasciò libera e la piccola creatura fuggì all'impazzata, seminando una scia di fuoco e di scintille, ululando e lanciando versi striduli. Poi Nefer estrasse dal sacco un altro sciacallo. Ovunque, lungo la linea, divampavano nell'oscurità sfere fiammeggianti che sfrecciavano, fumando, nei campi aperti, lanciando terribili ululati. Alcune di quelle creature tormentate tornarono verso la valle del fiume, ma altre puntarono istintivamente verso il loro territorio nel deserto, trovando sulla propria strada la guarnigione di Thane. Così piombarono in gruppo sulle linee della cavalleria. Dopo aver liberato l'ultimo sciacallo urlante, Nefer sguainò la spada, spronando il suo cavallo al galoppo. Inseguiva gli animali in fiamme e i soldati lo affiancavano, lanciando urla demoniache e aggiungendo le loro voci al frastuono assordante. Alcuni degli sciacalli trascinarono la coda in fiamme in mezzo al foraggio secco destinato ai cavalli e allo strame, appiccandovi il fuoco. La scena risultò così rischiarata da una luce tremolante e ultraterrena che faceva apparire mostruosi i cavalieri neri. Davanti a sé, Nefer vide le sentinelle più vicine gettare le armi e fuggire, lanciando grida che rivaleggiavano con quelle delle bestie in fiamme. «Sono jinn!» urlavano gli uomini. «Aiuto! Le legioni oscure di Seth ci assalgono!» «Le orde dell'inferno! Fuggite! Fuggite!» I cavalli, legati alle corde nei recinti della cavalleria, s'impennavano e scalciavano. Ogni volta che veniva sfilato dal terreno un paletto, o che una delle lunghe funi cedeva sotto la tensione, venti cavalli, liberati contemporaneamente, giravano su se stessi, allontanandosi dalla fila di cavalieri urlanti che imperversavano nel campo. Nefer si sporse dalla sella per colpire una delle guardie in fuga, affondandole la spada nelle scapole e lasciandola scivolare lentamente a terra. Poi si diresse verso un gruppo di cavalli terrorizzati, che cercavano di liberarsi da una corda troppo resistente per i loro sforzi. Con un solo colpo di sciabola, recise la corda e ululò, per indurli a raggiungere la schiera in preda al panico. Radunò quindi un altro branco di cavalli che si aggiravano, disorientati, e li spinse lontano dalle linee, verso i campi aperti. Shabako e i suoi uomini cavalcavano insieme con lui, gridando e Wilbur Smith
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sferzando i cavalli, in una marea di uomini e di animali in corsa, compressi in un'unica massa e illuminati solo dalle fiamme della guarnigione alle loro spalle. Gli ultimi sciacalli erano morti e le loro carcasse nere e fumanti rimasero sull'erba, mentre i cavalli si lanciavano al galoppo verso le colline. Shabako emerse dalla notte al fianco di Nefer. «Per il sudore e il seme di Seth!» gridò. «È stato proprio divertente!» Poi si voltò a guardare indietro. «Ancora nessuno che c'insegue... Peccato. Una bella scaramuccia sarebbe stata la conclusione perfetta di una serata come questa.» «Ti prometto che ci saranno altre occasioni di divertirsi», esclamò Nefer, ridendo. «Ma ora dobbiamo radunare il branco prima che i cavalli si sfianchino.» Incitarono le loro cavalcature, spostandosi al galoppo fino a raggiungere la prima fila, poi tagliarono la strada ai cavalli in fuga, costringendoli a passare dal galoppo al trotto e infine al passo, mentre li guidavano verso il deserto e Gallala. All'alba, la lunga fila di cavalli passò in uno stretto varco tra le rocce, avanzando a un'andatura tranquilla sotto la guida di Nefer e Shabako. Meren e un gruppetto di uomini, invece, erano ancora indietro, poiché stavano tentando di radunare i ritardatari. Nefer fissò a occhi socchiusi i primi raggi del sole, poi gridò a Shabako: «Teneteli in movimento, ma tutti uniti. Io vado a vedere se Socco e i suoi uomini ci stanno inseguendo». Tornando indietro, Nefer si fermò a chiamare Meren e altri tre uomini, tutti armati di giavellotto e di spada. Facendo un segnale, li invitò a raggiungerlo al galoppo. «Se ci vengono dietro, dobbiamo cercare di dissuaderli», spiegò, riconducendoli lungo la pista. Poi, in un punto nel quale la gola rocciosa si restringeva, Nefer e Meren lasciarono i loro cavalli affidati ai tre soldati e si arrampicarono sul pendio ripido, costellato di massi. Quando arrivarono in cima, il sole era all'orizzonte, ma non aveva ancora dissipato il freddo della notte, quindi non si era ancora formata la foschia prodotta dalla polvere e dalla calura. Il deserto risplendeva della luminosità tipica dell'alba. Ogni dettaglio delle rocce e delle dune, del dirupo e dell'albero nodoso si stagliava, nitido, e tutto era bello da mozzare il fiato. «Laggiù!» esclamò d'un tratto Nefer. Gli occhi di Meren erano acuti, ma Wilbur Smith
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i suoi lo erano di più. «Sì... Dieci cavalieri.» Meren tentò di nascondere il rammarico di non averli avvistati per primo. «Undici», lo corresse Nefer, e l'altro non obiettò. Invece sorrise di gioia. «Così non saranno solo cinque a testa.» «Li aspetteremo laggiù», spiegò Nefer, indicando un punto nella gola. «Là, dove si restringe. Tu andrai sul versante opposto al mio. Ricorda: non possiamo permettere che la notizia giunga ad Avaris. Non devono restare superstiti.» «Questo mi piace più di tutto», esclamò Meren, ridendo. Si appostarono tra i massi, vicino ai cavalli, con le mani sulle loro narici per impedire che nitrissero, o sbuffassero, facendo scattare la trappola prima del tempo. Al centro del passaggio, Nefer aveva lasciato uno dei sacchi di cuoio che avevano contenuto gli sciacalli e nel quale aveva poi infilato i loro mantelli, ormai inutili nella calura del giorno. Non appena giunsero, dal fondo della gola, il suono degli zoccoli sulle pietre e il rumore di un ciottolo che scivolava, i due alzarono la testa. Nefer guardò il punto in cui si erano nascosti Meren e un altro degli uomini. Alzò la mano sinistra con le dita allargate, in segno di attenzione e silenzio. Il padre gli aveva insegnato che i segnali a mano erano sempre preferibili agli ordini lanciati a voce, specie nel trambusto del combattimento, quando potevano essere soffocati dal frastuono, o nelle situazioni in cui era essenziale agire in assoluta segretezza. Ormai distingueva altri suoni vaghi, esaltati però dal silenzio profondo del deserto: il cigolio dei finimenti e il tintinnio delle frecce nella faretra. Guardò oltre il masso che nascondeva lui e due suoi soldati. Un cespuglio ispido celava il profilo della sua testa. Un cavaliere apparve all'imbocco della gola, arrestando il cavallo non appena vide il sacco in mezzo alla pista. Si guardò intorno con prudenza, mentre il resto dei soldati si assiepava alle sue spalle. Anche sotto l'elmo di pelle di coccodrillo, Nefer riconobbe Socco, e sentì ridestarsi il dolore alla schiena, dove la frusta aveva lasciato un solco sanguinolento. È tempo di restituire il favore, pensò. Socco se la prendeva comoda, da veterano prudente e sospettoso. Infine spinse in avanti il cavallo, al passo, imitato dagli altri. Si fermarono in un gruppo serrato, tutti protesi a guardare il sacco. «Calma, ora», li riscosse Socco, poi, bruscamente, ordinò: «Guardatemi le spalle». Scendendo di sella, si chinò sul sacco e, in Wilbur Smith
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quel momento, Nefer impartì l'ordine con un gesto deciso della mano sinistra. Tutti portavano il laccio del giavellotto avvolto intorno al polso destro e la distanza era ravvicinata. Lanciarono all'unisono: poiché Hilto e Shabako li avevano addestrati alla perfezione, nessuno di loro colpì lo stesso bersaglio di un compagno. Cinque giavellotti ronzarono come api impazzite, conficcandosi là dove nessuna armatura poteva deviarli: tre nella gola e due alla nuca. Cinque uomini caddero da cavallo, finendo tra gli zoccoli degli stalloni. Nefer e i suoi uscirono allo scoperto, galoppando con la spada sguainata e lanciando il loro grido di guerra: «Per Horus e Seti!» I superstiti di quella prima, micidiale raffica di giavellotti si girarono istintivamente per affrontarli, ma non ebbero il tempo di estrarre la spada perché gli aggressori piombarono loro addosso con estrema rapidità. Altri due cavalli di Socco furono colti alla sprovvista e persero l'equilibrio, disarcionando i cavalieri. Nefer individuò l'uomo più vicino che era ancora in sella e lo uccise con un colpo alla gola. Socco ormai aveva sguainato la spada e tentò di colpirlo al ventre, ma lui parò il colpo e il cavallo, impennandosi, colpì il veterano con due zoccoli e lo fece cadere lungo disteso sulla sabbia. Nefer già si apprestava a finirlo, allorché sopraggiunse un altro nemico, che brandiva la spada e lo costrinse a un duello accanito, punteggiato da grida bellicose. Gli uomini di Socco si erano appena ripresi dallo sconcerto iniziale quando Meren uscì allo scoperto, guidando il suo compagno in una carica furiosa e gettandosi nella mischia. Mise a segno un colpo al cuore, lanciando un grido di trionfo, poi cambiò subito inclinazione alla lama per uccidere di nuovo, con un colpo alla gola. La sua vittima scivolò a terra con la testa spiccata dal tronco che fremeva. Socco aveva perso l'elmo e la spada, quindi fu costretto a strisciare disperatamente sulle ginocchia per tentare di recuperare l'arma. Era l'unico ancora in grado di resistere. Nefer si sporse dalla sella, mirando al punto in cui le due parti dell'armatura di pelle di coccodrillo si univano sulle scapole, ma all'ultimo momento non riuscì a infliggere il colpo. Ne attenuò la forza, ruotando il polso per usare di piatto la lama a forma di falce, e colpì Socco sulla testa brizzolata, alle spalle, facendolo cadere di nuovo sulla sabbia. Una volta accertatosi che Meren avesse la situazione sotto controllo, Wilbur Smith
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Nefer scivolò a terra proprio mentre Socco tentava di mettersi a sedere, gemendo e scrollando la testa. Gli schiacciò il petto con un piede, spingendolo indietro, poi gli puntò la spada alla gola. «Arrenditi, Socco, altrimenti manderò la notizia del tuo trapasso a tua madre e a tutti i cento caprai puzzolenti che hanno contribuito a farti venire al mondo.» L'espressione stordita di Socco svanì, cedendo il posto a uno sguardo di sfida. «Lascia che raggiunga la mia spada, cucciolo insolente, e t'insegnerò come si fa ad alzare la zampa.» Stava per aggiungere altri insulti, quando, all'improvviso, la luce bellicosa che aveva negli occhi svanì e lui cominciò a balbettare parole incomprensibili, fissando il cartiglio sulla coscia di Nefer. «Maestà», sussurrò allora. «Perdonami! Colpisci! Prendi la mia vita indegna per punire le mie parole stupide e volgari. Ho sentito dire che eri ancora vivo, ma avevo pianto al tuo funerale e non potevo credere a un simile miracolo.» Nefer sorrise, sollevato. Non voleva uccidere quel simpatico, vecchio furfante che, a detta di Hilto, era anche uno dei migliori addestratori di cavalli di tutto l'Egitto. E Hilto sapeva il fatto suo. «Sei disposto a giurarmi fedeltà come Faraone?» gli domandò con voce severa. «Volentieri, perché tutta la terra ti teme sotto il nome di Nefer Seti, prediletto di tutti gli dei e luce dell'Egitto. Il mio cuore batte solo per te e la mia anima canterà le tue lodi fino all'ora della mia morte.» «Allora, Socco, ti promuovo Maestro dei Mille Carri. E Taita farà bene a difendere il suo titolo di poeta laureato, perché ti sei dimostrato molto eloquente.» «Lascia che ti baci il piede, Faraone», implorò Socco. «Dammi la mano, piuttosto», ribatté Nefer, afferrando la mano callosa dell'altro e rimettendolo in piedi. «Peccato per i tuoi uomini...» mormorò poi, lanciando un'occhiata ai cadaveri. «Se avessero condiviso i tuoi sentimenti di lealtà, non avrebbero dovuto morire.» «Sono morti per mano di un dio», disse Socco. «Non esisté onore più grande. Inoltre forse il mago Taita riuscirà a salvare i pochi che ancora gemono e si muovono.» Tre giorni dopo, quando raggiunsero Gallala, portavano con sé quattrocento cavalli e Socco cavalcava con orgoglio alla destra del nuovo Faraone, con l'elmo posato sulle bende che gli fasciavano la testa ferita. Socco non era soltanto un alto ufficiale dell'esercito dei falsi Faraoni, col Wilbur Smith
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grado di Migliore dei Diecimila, responsabile dell'amministrazione e degli alloggi, ma anche un adepto della Via Rossa. Fu in grado d'indicare a Nefer il numero esatto di tutti i carri da combattimento e da trasporto del nemico, oltre alla loro posizione attuale. Stese a memoria una lista con le cifre relative ai cavalli e ai torelli custoditi nei depositi del delta e all'ultimo inventario delle armi depositate nelle armerie. «Trok e Naja hanno portato con loro nella spedizione a oriente quasi tutti i carri da combattimento utilizzabili. In Egitto ne sono rimasti meno di cinquanta, fra tutti e due i regni. Le officine dell'esercito di Avaris, Tebe e Assuan lavorano giorno e notte, ma tutti i carri che sfornano vengono inviati subito a Beersheba e in Mesopotamia.» «I cavalli ora li abbiamo, grazie all'audace colpo messo a segno dal Faraone a Thane, anche se sono quasi tutti giovani e non addestrati. Tuttavia, senza i carri, ci è impossibile lanciare una campagna militare», osservò Hilto, rabbuiato. «Non possiamo impadronirci di quello che non esiste, e tutto l'oro del tesoro reale non può comprare una sola squadra.» Mentre Nefer e i suoi uomini erano lontani da Gallala per la spedizione alla ricerca dei cavalli, Hilto aveva recuperato l'oro dai nascondigli lungo la strada maestra a oriente. Ormai avevano più di tre lakh di quel prezioso metallo, depositati nelle antiche cisterne sotto la città di Gallala. «Ben presto Trok verrà a sapere dei nostri successi», aggiunse Hilto, «e si renderà conto che siamo diventati una minaccia reale. Non appena conquistata Babilonia, porterà qui una parte del suo esercito per attaccarci. Se anche mandasse solo un centinaio di carri, nelle nostre condizioni attuali non potremmo affrontarli.» Quando tutti ebbero esposto la loro opinione, Nefer si alzò per rivolgersi al consiglio, ma il suo non fu un discorso lungo. «Socco, tu addestra i cavalli per me. Taita e io troveremo i carri.» «Questo, maestà, richiederà un piccolo miracolo», osservò Socco con aria cupa. «Non essere tanto modesto, Maestro dei Mille Carri.» Nefer gli sorrise. «Come possiamo onorare il tuo titolo con un piccolo miracolo? Riponiamo invece la nostra fede in un miracolo grande.» Taita se ne stava immobile, ritto sull'affioramento di roccia nera. Intorno a lui le dune di sabbia si stendevano a perdita d'occhio. Dalla base della roccia, lo osservava almeno un centinaio di uomini, perplessi ma Wilbur Smith
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affascinati. La fama del mago non conosceva limiti, proprio come il deserto nel quale si trovavano. Erano tutti guerrieri giunti a Gallala spontaneamente, abbandonando i falsi Faraoni per prestare giuramento di fedeltà a Nefer Seti. Tuttavia quella lealtà cominciava a incrinarsi, perché si ritrovavano lì senza armi né carri, mentre ogni giorno si moltiplicavano le voci secondo le quali Trok o Naja, o entrambi, si erano messi in marcia per punire la loro diserzione. Il Faraone Nefer Seti era al fianco del mago sul pinnacolo di roccia. I due erano intenti a discutere e, di tanto in tanto, l'uno o l'altro gesticolava, indicando un punto a occidente, dove non si vedeva altro che sabbia, sabbia e ancora sabbia. Attendevano con pazienza, nonostante la calura, senza che nessuno esprimesse scetticismo o incredulità, perché erano tutti soggiogati da Taita. Quando le ombre nell'incavo delle dune s'incupirono, assumendo una tonalità violacea, quella coppia singolare, composta da un giovanissimo sovrano e da un vecchissimo mago, scese dalla guglia di roccia per avanzare tra le dune. Senza una meta apparente, il mago vagabondava, fermandosi ogni tanto per fare strani gesti esoterici col lungo bastone. Poi si rimetteva in marcia, seguito dal Faraone e dagli ufficiali. Al crepuscolo, Taita finalmente piantò il bastone nella sabbia, rivolgendosi a bassa voce al Faraone Nefer Seti. All'improvviso tutti furono eccitati dagli ordini lanciati dagli ufficiali. Venti uomini corsero in avanti, portando gli arnesi da scavo secondo le istruzioni ricevute. Sotto la guida di Hilto e Meren, e sotto gli occhi imperiosi del sovrano e del mago, cominciarono a scavare. Quando la buca raggiunse la profondità delle loro spalle, la sabbia cominciò a scivolare dentro quasi con la stessa rapidità con cui la spalavano: furono costretti a raddoppiare gli sforzi per guadagnare terreno. A poco a poco, la testa degli uomini che scavavano si trovò sotto il livello del terreno circostante, finché, all'improvviso, dal fondo dello scavo, non si levò un grido esultante. Nefer si fece avanti, fermandosi sull'orlo della buca. «Qui sotto c'è qualcosa, divina maestà.» Un uomo, inginocchiato sul fondo dello scavo, alzò la testa, col viso e il corpo incrostati di sudore mescolato a terriccio. «Fammi vedere.» Nefer saltò dentro la buca, scostando l'uomo, e scorse un tratto di mantello ancora coperto di peli, sebbene ormai fosse duro come legno di cedro. Nefer allora guardò in alto, verso Taita. «È il corpo Wilbur Smith
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di un cavallo!» «Di che colore?» chiese lui. «È nero?» «Come facevi a saperlo?» domandò Nefer, benché non fosse realmente sorpreso. «I finimenti portano il cartiglio d'oro del Faraone Trok Uruk?» Taita rispose alla domanda con un'altra domanda. «Portatelo allo scoperto!» ordinò Nefer agli uomini sudati che lo circondavano. «Ma fate piano, per non danneggiarlo.» Lavorarono con grande attenzione, usando le mani nude per spostare la sabbia e, gradualmente, portarono allo scoperto la testa completa di un destriero nero, che aveva sulla fronte il cartiglio di Trok, inciso su un disco d'oro, proprio come aveva previsto Taita. Poi passarono a liberare dalla sabbia il resto del corpo. L'animale si era conservato perfettamente nella sabbia ardente: gli imbalsamatori di Tebe avrebbero faticato a uguagliare i risultati ottenuti dal deserto. Accanto a lui giaceva il suo compagno, un altro stallone. Nefer ricordava di aver visto per l'ultima volta quegli splendidi animali mentre trainavano il carro di Trok sotto la minaccia delle nuvole di polvere del khamsin. Ormai era calata la notte, e gli uomini accesero le lampade a olio, posandole sull'orlo della fossa in modo da poter proseguire il lavoro. I cavalli morti furono staccati e riportati in superficie. I corpi disidratati erano così leggeri che quattro uomini potevano sollevarli senza fatica. Poi recuperarono i finimenti, in perfetto stato di conservazione. Nefer mise subito al lavoro gli stallieri, incaricandoli di ungere il cuoio e lucidare le parti in oro e in bronzo. A quel punto, si dedicarono al carro vero e proprio, lanciando esclamazioni di meraviglia quando la sponda anteriore fu liberata dalla sabbia, perché era coperta d'oro in foglia che scintillava sotto le lampade, sprigionando dardi di luce che ferivano gli occhi. Lance e giavellotti si trovavano ancora nei contenitori laterali, a portata di mano del conducente. Ogni arma era di per sé un capolavoro, con l'impugnatura laminata e la punta di metallo affilata come il bisturi di un chirurgo. Le frecce erano state realizzate dal celebre artigiano Grippa, di Avaris, con le aste dritte e ben bilanciate, l'impennatura tinta di rosso, verde e giallo e il cartiglio reale impresso sull'asta. Il grande arco da guerra di Trok si trovava ancora nella rastrelliera; c'era soltanto da sostituire la corda. Nefer lo fletté tra le mani, chiedendosi se Wilbur Smith
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avrebbe avuto la forza di usarlo in battaglia. Quando tutto il carro fu allo scoperto, passarono alcune funi sotto il telaio per sollevarlo dalla buca. L'oro in foglia era così sottile che non aggiungeva più di due tael al peso complessivo del veicolo; in compenso, il telaio era stato ricavato dal legno scuro e resistente che proveniva dalle foreste pluviali a sud dei confini dell'Egitto. Quel legno era più resistente del bronzo migliore, ma leggero e tenace; lo si poteva tagliare in assi sottili, per risparmiare sul peso senza sacrificare la forza. Ormai era di nuovo giorno e il sole saliva all'orizzonte. Nefer e Taita girarono intorno al carro scintillante, così snello e aggraziato da sembrare già in movimento. L'assale pareva struggersi dal desiderio del contatto con due cavalli orgogliosi. Nefer passò le dita sull'oro della copertura, liscio come la pelle di una bella donna e caldo al tatto. «Sembra una creatura viva», mormorò. «Di certo non è mai stata concepita un'arma da guerra più splendida.» «Cinquant'anni fa ho costruito un carro per Tanus», ribatté Taita, sbuffando e scuotendo la testa. «Avresti dovuto vedere quello! Ora riposa con lui nella sua tomba, nella remota Etiopia.» Nefer nascose un sorriso. Il vecchio non avrebbe mai ammesso di essere secondo a qualcuno. «Allora dovrò accontentarmi di questo carro di qualità inferiore», ribatté in tono serio. «Ora, per completare il mio armamento, mi manca soltanto la spada azzurra che Naja ha rubato a mio padre.» Nel corso delle settimane e dei mesi che seguirono, Taita riuscì a individuare i carri sepolti con tutto il loro armamentario. Squadre di uomini li disseppellivano e li mandavano ai fabbricanti di carri, che avevano installato un'officina al riparo della guglia di roccia, proteggendola dal sole con una tettoia di fronde di palma. Là, cinquanta uomini e quasi cento costruttori di armature lavoravano nelle ore di luce, senza interrompersi nemmeno nelle ore più calde. Gli armaioli levigavano e affilavano spade, giavellotti e lance, fissavano nuovamente le aste, montavano le punte e raddrizzavano sul fuoco basso le frecce che si erano piegate. Gli addetti smontavano tutti i veicoli recuperati dalla sabbia, controllavano i vari pezzi, dipingevano e laccavano il telaio e i pannelli, bilanciavano e lubrificavano le ruote per farle girare alla perfezione. Poi rimettevano insieme i carri e li mandavano a Gallala, carichi delle armi restaurate, per equipaggiare gli uomini che Hilto, Shabako e Socco stavano Wilbur Smith
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addestrando. Molti veicoli erano sepolti così in profondità sotto le dune ardenti che dovettero considerarli perduti per sempre, o almeno fino alla successiva grande tempesta, che avrebbe potuto riportarli allo scoperto; comunque alla fine riuscirono a recuperarne centocinque, sufficienti per equipaggiare cinque squadroni. Quando Nefer varcò la porta di Gallala sul carro reale, Meren era al suo fianco. Mintaka e Merykara, sul frontone del tempio di Hathor, lanciavano petali di oleandro al loro passaggio. «È così bello», osservò Merykara con voce roca. «È così alto e bello.» «È così alto, bello e forte», le fece eco Mintaka. «Sarà il Faraone più grande nella storia dell'Egitto.» «Non parlavo di Nefer», ribatté Merykara. Ormai esisteva un fiorente contrabbando tra la città e l'Egitto, e altre carovane arrivavano regolarmente dal porto di Safaga, sul mare orientale. Dopo la cattura del tesoro di Trok e Naja, Gallala era diventata una città fiorente, e ricca d'oro. I mercanti fiutavano come iene l'odore del metallo giallo, giungendo da ogni dove. Ormai non c'era genere di prima necessità o di lusso che non si potesse ottenere nel suk cittadino, cosicché Mintaka poté procurarsi un carro del miglior vino rosso prodotto dai vigneti del tempio di Osiride, a Busiris, per il banchetto di benvenuto organizzato la sera in cui rientrarono in città i conducenti dei carri. Per ordine suo, i macellai arrostirono allo spiedo dieci buoi interi, più galline e oche a centinaia. La velocità dei nuovi carri consentiva di far arrivare dalla costa pesce fresco e addirittura cesti di aragoste disposte su letti di alghe: quasi tutti i crostacei dalle lunghe antenne erano ancora vivi, quando venivano gettati nell'acqua bollente. I cacciatori che perlustravano il deserto circostante riportavano in città gazzelle, orici, carni e uova di struzzo. Il banchetto si tramutò in una fastosa celebrazione delle imprese compiute e delle piccole vittorie riportate sui falsi Faraoni. Il vino scorreva già a fiumi, allorché Nefer si alzò per dare il benvenuto agli ospiti e annunciare il recupero delle cinque squadre di carri dalla sabbia. «Coi cavalli liberati dalla tirannia di Trok...» A quel punto si levarono urla e scrosci di risate. «... più le armi e i carri che ora abbiamo, potremo difenderci da Trok e Naja. Come ben sapete, ogni giorno che passa vede Wilbur Smith
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nuove reclute unirsi alla bandiera azzurra. Verrà ben presto il momento in cui non ci limiteremo a difenderci, ma andremo a riprenderci quello che ci è stato sottratto e a vendicare i terribili delitti perpetrati da quei due mostri che hanno le mani lorde del sangue di autentici e nobili sovrani. Sono gli assassini del re Apepi, il padre della nobile signora che siede al mio fianco, e hanno ucciso anche mio padre, il Faraone Tamose.» Gli ospiti perplessi rimasero in silenzio, guardandosi a vicenda. Fu Hilto che si alzò per formulare la domanda suggerita dal discorso di Nefer: «Divina maestà, perdona la mia ignoranza, perché sono un uomo semplice, ma non capisco. Tutto il mondo sa che il re Apepi è morto in un incidente, quando la sua chiatta ha preso fuoco mentre era all'ancora a Balasfura. Ora tu addossi la colpa della sua morte ai pretendenti. Com'è possibile?» «C'è qualcuno tra noi che è stato testimone dei veri avvenimenti di quella tragica notte.» Nefer tese una mano per invitare Mintaka ad alzarsi. I presenti l'acclamarono, perché avevano imparato ad amarla per la sua bellezza e il suo spirito. Nefer sollevò una mano e tutti fecero silenzio, ascoltando la giovane donna con estrema attenzione, mentre rievocava l'assassinio del padre e dei fratelli. Mintaka usò parole semplici, rivolgendosi a loro come amici e compagni, ma riuscì a trasmettere l'orrore e la sofferenza che aveva provato e, alla fine, tutti ringhiavano come leoni affamati all'ora del pasto. A quel punto, toccò a Shabako la domanda che si era preparato: «Ma, divino Faraone, tu hai parlato anche della morte di tuo padre, il re Tamose. Com'è stato assassinato, e da chi?» «Per rispondere a questa domanda devo fare appello al mago, il nobile Taita, al quale è impossibile nascondere qualunque segreto, per quanto turpe e odioso.» Taita si alzò e cominciò a parlare con un filo di voce. Eppure ogni sua parola giungeva alle orecchie degli ospiti, anche di quelli più lontani, e il tono sommesso del suo discorso contrastava in modo così stridente con le macabre circostanze descritte che gli uomini rabbrividirono e le donne piansero. Alla fine, Taita tenne sollevata la freccia con le piume rosse, gialle e verdi. «Questo è lo strumento della morte del Faraone Tamose: una freccia che porta il sigillo di Trok, ma è stata lanciata da Naja, l'uomo che il Faraone amava come un fratello, riponendo in lui tutta la sua fiducia.» I presenti lanciarono un grido d'indignazione, e la loro sete di giustizia Wilbur Smith
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parve colmare il cielo stellato sopra Gallala. Taita scagliò la freccia sul fuoco più vicino, ben consapevole che non avrebbe retto a un'ispezione più ravvicinata, giacché non era la stessa freccia che aveva ucciso il Faraone, bensì una di quelle che aveva preso dal carro sepolto. Subito dopo, il mago si sedette e chiuse gli occhi, come per dormire. Nefer lasciò liberi gli ospiti di esprimere i loro sentimenti, poi, una volta ristabilita la calma, fece segno di servire dell'altro vino. Aveva ancora un annuncio da fare e voleva che lo stato d'animo generale fosse più sereno. A poco a poco, tutti tacquero, osservandolo con un atteggiamento di ansiosa anticipazione, accentuato dal buon vino di Busiris: la notte aveva già offerto tante meraviglie che si chiedevano che cosa ci fosse ancora in serbo per loro. «Prima che un re guidi l'esercito contro i nemici di questa terra sacra dei nostri progenitori, dev'essere riconosciuto come sovrano, vero e autentico. Io intendo guidarvi contro gli usurpatori, ma non sono stato ancora riconosciuto ufficialmente come Faraone. Potrò ottenere tale riconoscimento se attenderò di compiere la maggiore età, però quel tempo è ancora lontano, e non sono disposto ad aspettare così a lungo, né i miei nemici mi concederanno questa grazia.» Fece una pausa, mentre gli ospiti lo fissavano, affascinati: era così giovane, eppure così alto ed eretto nella persona, proprio come suo padre. A quel punto, alzò la mano destra e dichiarò: «Di fronte al mio popolo e agli dei, giuro che percorrerò la Via Rossa per dimostrarvi che sono il vostro re». Qualcuno sospirò, scuotendo la testa, mentre altri balzarono in piedi, gridando: «No! Faraone, non vogliamo vederti ucciso», e altri ancora esclamavano: «Bak-her! Se anche dovesse fallire, lo farà da valoroso». Quella notte Mintaka pianse, chiedendogli: «Perché non me lo hai detto prima?» «Perché avresti tentato d'impedirmelo.» «Ma per quale motivo devi farlo?» «Perché lo richiedono i miei dei e il mio dovere.» «Anche a costo di morire?» «Sì, anche a costo di morire.» Lei lo fissò a lungo negli occhi verdi, rendendosi conto che la sua decisione era irrevocabile. Allora lo baciò, mormorando: «Sono fiera di diventare la moglie di un uomo come te».
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Assistiti dal mago, gli astrologi, compresi tra i sacerdoti di Horus, consultarono i calendari per fissare la data della prova della Via Rossa, che si doveva tenere il giorno della luna nuova del dio. Quindi Nefer, come gli aveva fatto notare Taita, aveva poco tempo per prepararsi. Abbandonò tutti gli altri suoi doveri, anche gli affari di Stato e le sedute del consiglio, affidandoli al vecchio mago, per essere libero di dedicare tutte le sue attenzioni a quel compito. Prima di presentarsi a sostenere la prova, il novizio aveva l'obbligo di domare e addestrare da sé i cavalli che lo avrebbero condotto sulla Via Rossa. Nefer doveva scegliere un equipaggio di cavalli nel branco che avevano catturato a Thane, e poi addestrarli a trainare il carro. Gli sarebbe piaciuto chiedere a Socco di aiutarlo nella scelta, perché quell'uomo non era soltanto un celebre esperto di cavalli ma conosceva anche tutti gli animali catturati, a uno a uno. Tuttavia, a Gallala, c'erano solo cinque guerrieri che avevano percorso la Via Rossa, e Socco sarebbe stato uno di quelli incaricati di esaminare Nefer, quindi non poteva assisterlo nella preparazione alla prova. C'era però un'altra persona cui poteva fare appello: l'esperienza e le conoscenze di Taita per quanto riguardava i cavalli erano superiori persino a quelle di Socco. Taita non era un guerriero della Via Rossa, perché la sua imperfezione fisica gli precludeva l'accesso alla confraternita; inoltre aveva vari scrupoli religiosi. Non avrebbe mai abiurato Horus e gli altri dei per giurare fedeltà al misterioso Dio Rosso della guerra, un dio il cui nome era noto soltanto agli adepti. I due trascorsero il primo giorno sul pendio della collina che sovrastava i campi dove pascolavano i cavalli selvaggi. Si sedettero insieme a osservare gli animali, discutendo di quelli che attiravano la loro attenzione. Nefer indicò un bel puledro bianco, ma Taita scosse la testa. «Un cavallo bianco o grigio fa un bell'effetto, però io sono sempre stato diffidente nei loro confronti perché ho constatato che difettano di resistenza e di cuore. Cerchiamoli neri o bai, tutti e due dello stesso colore.» Allora Nefer scelse una giumenta con una stella bianca sulla fronte, però Taita scosse di nuovo la testa. «I beduini sostengono che un segno bianco è il tocco di un demone o di jinn. Non voglio tracce di bianco sugli animali che sceglieremo.» «E tu credi a quello che dicono?» Taita si strinse nelle spalle. «Una stella o una zampa bianca guastano la Wilbur Smith
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simmetria. Tu e il tuo equipaggio dovete avere l'aspetto che ci si attende da un Faraone, quando partirete.» Rimasero sul pendio fino a sera e, la mattina dopo, uscirono di nuovo non appena ci fu luce sufficiente per vedere il sentiero, insieme con Meren e tre stallieri. Cominciarono a selezionare i cavalli, trasferendo nel campo vicino tutti quelli che avevano qualche imperfezione. A mezzogiorno, il branco si era ridotto a ventitré animali, tutti agili e forti, senza cicatrici né difetti né impedimenti nell'andatura. In tutto il branco non c'era un solo pelo bianco. Li lasciarono tranquilli e si sedettero sull'erba a osservarli. «A me piace quel puledro nero», disse Nefer. «È zoppo. Quasi certamente ha lo zoccolo anteriore sinistro incrinato.» «Non zoppica», protestò il ragazzo. «Guarda l'orecchio sinistro, lo scuote a ogni passo. Ordina a Meren di escluderlo.» Poco dopo Nefer notò una giumenta nera. «Ha una bella testa e l'occhio vivace.» «È troppo sensibile. L'occhio è più nervoso che intelligente. Si perderà d'animo in mezzo al frastuono della battaglia. Meren può portarla via.» «Che ne dici di quel puledro nero con la coda e la criniera lunghe?» «La coda maschera il fatto che ha il dorso più corto di quanto sarebbe giusto.» Verso la fine del pomeriggio nel campo restavano soltanto sei cavalli. Come per un tacito patto, finora i due avevano evitato di parlare di un certo puledro. Era ovviamente la loro scelta ideale: un animale splendido, non troppo alto né troppo massiccio, ben proporzionato, con le gambe e il dorso forti. Aveva il collo lungo e una testa nobile. Continuarono a osservarlo per qualche tempo. Alla fine il mago ruppe il silenzio. «Non riesco a trovargli nessun difetto. Ha negli occhi una scintilla che proviene dal fuoco nel suo cuore.» «Lo chiamerò Krus», decise Nefer. «È una parola beduina che significa 'fuoco'.» «Sì, il nome è importante. Non ho mai conosciuto un buon cavallo che avesse un brutto nome. Così sia, se gli dei ci danno ascolto. Krus sarà il cavallo di destra, ma ora ti serve quello di sinistra.» «Un altro puledro...» cominciò Nefer, ma Taita lo interruppe. «No, sulla sinistra ci vuole una giumenta. Un'influenza femminile che Wilbur Smith
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tenga a freno Krus e lo calmi nel pieno del combattimento. Un cuore grande che tiri il carro insieme con lui quando la strada è dura.» «Hai già scelto, vero?» «Anche tu», replicò Taita con un cenno di assenso. «Sappiamo tutti e due chi dovrà essere.» I loro occhi tornarono sulla giumenta che pascolava tranquilla vicino al canale d'irrigazione principale, un po' staccata da Krus e dal resto del branco. Come se sapesse che parlavano di lei, alzò la testa per fissarli, coi grandi occhi luminosi sotto le ciglia folte. «È bellissima», mormorò Nefer. «Mi piacerebbe prenderla senza doverla legare.» Taita rimase in silenzio. Dopo un altro minuto, Nefer disse impulsivamente: «Voglio tentare». Si alzò, chiamando Meren. «Porta fuori gli altri, e lascia soltanto la giumenta baia.» Quando ebbero il campo tutto per sé, Nefer si allontanò dal recinto, avvicinandosi con aria distratta, senza andare direttamente verso di lei, ma procedendo invece in direzione obliqua rispetto alla visuale della giumenta. Non appena l'animale mostrò i primi segni di agitazione, lui si accovacciò sull'erba, in attesa. Lei riprese a pascolare, sempre guardandolo con la coda dell'occhio. Nefer cominciò a cantare piano la canzone della scimmia, e lei alzò la testa, guardandolo di nuovo. Allora il ragazzo tirò fuori un piccolo dolce di dhurra dal sacchetto che portava alla cintura, e glielo offrì senza alzarsi. La giumenta dilatò le narici, sbuffando. «Vieni, mia cara», le mormorò. Lei fece un passo incerto verso di lui, poi si fermò, sollevando la testa. «Tesoro...» sussurrò lui con voce melodiosa. «Mia piccola cara...» Un passo alla volta, la giumenta si avvicinò, poi allungò il collo per annusare il dolce. Spaventata dalla sua stessa audacia, si ritirò di scatto e si allontanò al galoppo, facendo il giro del campo. «Si muove come il vento», gridò Meren. «Dov.» Nefer usò il termine beduino per indicare il vento del nord, il vento lieve e carico di frescura che soffiava nella stagione invernale. «Dov, ecco il suo nome.» Dopo aver dato prova del suo carattere capriccioso, tipicamente femminile, Dov tornò indietro con aria civettuola, avvicinandosi a Nefer dalla parte opposta. Stavolta accettò prontamente l'offerta, sbavando un po' nel masticare il dolcetto. Gli passò sul palmo aperto il muso vellutato, in cerca di briciole, e, non trovandone, allungò il muso verso il sacchetto, Wilbur Smith
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urtandolo con tanta decisione da far cadere il ragazzo all'indietro. Lui si rialzò, pescando nel sacchetto un altro dolce. Mentre lo mangiava, Nefer le sfiorò il collo con l'altra mano. Come se fosse tormentata dalle mosche, lei fece fremere il manto color mogano, ma senza allontanarsi. Aveva una zecca nell'orecchio. Nefer la prese e la schiacciò tra le unghie, facendole annusare i resti insanguinati. La giumenta rabbrividì, disgustata, roteando gli occhi nel sentire quell'odore molesto, ma gli permise di esaminare e accarezzare l'altro orecchio. Quando lui uscì dal campo, lo seguì come un cane fino al recinto, poi appoggiò la testa sullo steccato, salutandolo con un nitrito sommesso. «Muoio di gelosia», commentò Mintaka, che aveva assistito all'incontro dal tetto del tempio. «Ti ama già quasi quanto me.» La mattina dopo, Nefer andò nel campo da solo, mentre Taita e Meren guardavano dal tetto del tempio. Quella era una faccenda che riguardava Nefer e Dov. Nessun altro doveva interferire. Nefer fischiò, avvicinandosi al recinto, e Dov alzò la testa, attraversando il campo al galoppo per andargli incontro. Non appena lo raggiunse, ficcò il muso nel sacchetto. «Sei come una donna», la sgridò Nefer. «T'interessano soltanto i regali che ti porto.» Mentre la giumenta mangiava il dolce, continuò ad accarezzarla e coccolarla, finché non riuscì a passarle un braccio intorno al collo. Poi la fece andare avanti e indietro lungo il recinto, e lei gli si appoggiò contro con la spalla. Nefer le offrì un altro dolce e, mentre la giumenta lo gustava, si spostò lungo il fianco sinistro, accarezzandola e ripetendole quanto era bella. Poi, con un movimento fluido, si sollevò di scatto, montandole in groppa. Lei sussultò, e Nefer si fece forza, preparandosi a essere disarcionato, ma la giumenta rimase immobile, tremante, con le zampe leggermente divaricate. Poi voltò la testa per fissarlo con uno stupore così comico che lui non poté fare a meno di ridere. «Va tutto bene, tesoro. È per questo che sei nata.» Lei batté a terra lo zoccolo anteriore, sbuffando. «Andiamo, non vuoi provare a disarcionarmi? Risolviamo subito la questione.» Lei si protese all'indietro per annusargli un piede, come se non riuscisse a capacitarsi dell'incredibile offesa che lui aveva arrecato alla sua dignità. Rabbrividì e pestò di nuovo il terreno con lo zoccolo, ma rimase ferma. Wilbur Smith
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«Forza, allora proviamo il piccolo galoppo.» Affondò i talloni nei fianchi della giumenta, che sussultò, sorpresa, prima di avviarsi. Costeggiarono lentamente il recinto, poi Nefer la sollecitò di nuovo. Dov si lanciò al trotto, poi al piccolo galoppo. Meren ululava di gioia dal tetto del tempio, e persino gli uomini e le donne che lavoravano nei campi si raddrizzarono per guardare con interesse. «Ora vediamo come ti muovi sul serio.» Nefer le assestò una leggera pacca sul collo, invitandola a correre con una spinta dei fianchi. Dov si allungò e prese il volo, con gli zoccoli delicati che sfioravano appena il terreno, come il vento gentile da cui aveva preso nome. Corse così veloce che il vento irritò gli occhi di Nefer, facendogli volare le lacrime sulle tempie fino a imperlare le folte ciocche di capelli. Corsero più volte intorno al recinto, mentre Mintaka batteva le mani e lanciava esclamazioni di stupore. Taita, al suo fianco, sorrideva con aria distaccata. «Una coppia regale», commentò. «Sarà difficile raggiungerli, sulla Via Rossa.» Tutta la città aveva sentito parlare del colpo di fulmine tra il Faraone e la giumenta. E a Gallala si sparse in fretta la voce che Nefer intendeva domare Krus. Essendo tutti esperti cavalieri, sapevano che sarebbe stata tutta un'altra storia, ed erano in fermento, alla prospettiva del primo tentativo del Faraone di domarlo. Quel giorno, nessuno andò a lavorare nei campi e il lavoro nelle botteghe dei fabbricanti di carri e sulle mura degli edifici da restaurare fu interrotto. Persino l'addestramento delle truppe venne sospeso per un giorno, in modo da consentire ai soldati di assistere al tentativo. Si scatenò quindi un'accesa competizione per accaparrarsi i posti migliori in cima alle mura e sui tetti che sovrastavano il campo ai piedi della sorgente di Horus. Nefer e Meren uscirono dalla porta cittadina tra un coro di applausi ironici e consigli salaci, gridati dall'alto delle mura dai buontemponi mescolati alla folla. Krus si trovava al centro del branco e spiccava tra gli altri animali perché era più alto di una spanna e aveva una testa inconfondibile. I cavalli, che avevano captato lo stato d'animo degli osservatori, sembravano nervosi, mentre i due ragazzi si soffermavano sul cancello del recinto, appendendo allo steccato le corde di fibre di lino. «Proverò prima ad attirarlo con un dolce», disse Nefer, ma Meren scoppiò a ridere. Wilbur Smith
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«Guarda l'occhio. Penso che mangerebbe te, anziché il dolce.» «Comunque voglio provare. Aspetta qui.» Nefer superò il cancello, avvicinandosi lentamente, come aveva fatto con Dov. Krus disdegnò le sue attenzioni, inarcando il lungo collo e roteando gli occhi. Allora Nefer si fermò, lasciandolo tranquillo perché riprendesse a pascolare. Prese dal sacchetto un dolce di dhurra per offrirglielo, ma, quando si fece avanti, Krus scosse la testa, scalciando e allontanandosi furiosamente al galoppo lungo lo steccato. Nefer si lasciò sfuggire una risatina mesta. «Ecco quanto sono apprezzati i miei doni. Non mi renderà la vita facile.» «Guarda come corre», esclamò Meren. «Mio buon Horus, se Dov è il vento del nord, questo è il khamsin.» Krus correva con gli altri cavalli, guidandoli. Nefer e Meren si addentrarono nel campo e, insieme, riuscirono a sospingere con dolcezza il branco in un angolo del robusto steccato. Là i cavalli girarono nervosamente in circolo, sollevando nubi di polvere. Poi partirono nella direzione sbagliata, tornando al galoppo verso l'estremità superiore del campo prima che Nefer riuscisse a sbarrare loro la strada. Per altre due volte il puledro guidò i compagni fuori della trappola, poi Nefer mandò Meren all'estremità opposta del campo per tagliargli la strada, e Krus commise il primo errore. Si lanciò come una furia verso Nefer. Lui scosse il cappio all'estremità della lunga corda di lino che aveva portato con sé, arrotolata sulla spalla, e attese che il puledro passasse nello stretto varco tra lui e i paletti di legno del recinto. Calcolò il momento giusto per tenere sospeso nell'aria il cappio, come un cerchio che roteasse sopra la sua testa, poi, mentre Krus si lanciava al galoppo col collo proteso in fuori, impresse al cappio un movimento fulmineo, facendolo ricadere sulla testa del puledro e scivolare fin sopra la spalla. I giri di corda che erano avvolti intorno al braccio di Nefer si svolsero l'uno dopo l'altro, mentre Krus correva lontano. Nefer si piantò saldamente sul terreno a gambe larghe, tendendosi all'indietro per resistere alla tensione della corda, avvolta una mezza dozzina di volte intorno alla cintola. La corda si tese di scatto, col puledro lanciato al galoppo all'altro capo, e Nefer finì a terra, lungo disteso, con la faccia nell'erba. Il puledro, sentendo la trazione della corda e il peso, fu assalito dal panico e scattò, cosicché Nefer fu trascinato dietro di lui, sussultando e rotolando all'estremità della corda. Wilbur Smith
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La folla sui tetti e sulle mura proruppe in risate e applausi isterici, mentre Mintaka si portava una mano alla bocca per non gridare e Merykara chiudeva gli occhi, voltando la testa. «Non posso guardare!» strillò. Il puledro raggiunse l'estremità del campo e cominciò a correre in direzione parallela allo steccato. La tensione della corda si allentò un poco, e Nefer ne approfittò per rimettersi in piedi. Aveva il ventre e le gambe graffiati e coperti di macchie verdi lasciate dall'erba, ma teneva saldamente la corda avvolta intorno al polso. La fune si tese di nuovo e lui fu proiettato brutalmente in avanti, ma riuscì a rimanere dritto. Sfruttando l'impeto della corsa, seguì Krus, procedendo a lunghe falcate, trascinato dalla trazione della corda. Dopo un giro completo del campo, Krus venne rallentato dall'attrito del peso e Nefer consolidò la presa, affondando nel terreno le suole dei sandali con le borchie di bronzo. Poi, non appena la corsa rallentò, esercitò una forte pressione sulla corda, puntando verso l'esterno e cogliendo di sorpresa il puledro. L'animale incespicò, avvertendo quel cambiamento di direzione e, non appena vi si adattò, Nefer ripeté la manovra dalla parte opposta. Finì per terra ancora due volte, ma ogni volta si rialzò, mettendo sotto pressione il puledro. Nel frattempo, Meren aveva aperto il cancello, sospingendo il resto del branco nel pascolo vicino, poi lo aveva richiuso, in modo che l'uomo e il cavallo avessero il campo tutto per loro. Nefer affondò i piedi nel terreno, voltando la testa del puledro verso lo steccato per costringerlo a contrastare la tensione della corda. Raccogliendo la corda rimasta allentata, corse in avanti. Prima che Krus potesse reagire, aveva già passato tre giri di corda intorno al palo massiccio nell'angolo del recinto, inchiodandolo sul posto. Krus s'impennò e scalciò, scuotendo la testa e roteando gli occhi fino a mostrare il bianco. «Ora ti tengo in pugno», mormorò Nefer, guadagnando terreno lungo la corda, a palmo a palmo, per avvicinarsi al cavallo. Krus si drizzò sulle zampe posteriori per colpire la corda con gli zoccoli, lanciando un nitrito acuto. «Piano, piano. Vuoi ammazzarci tutti e due?» Krus s'impennò di nuovo, sollevando da terra Nefer. Ricadde a quattro zampe e si affrontarono, il puledro scosso da un tremito violento, col dorso e le spalle coperti di sudore, e Nefer in condizioni non certo migliori, con la parte anteriore del corpo coperta di graffi e scottature prodotte Wilbur Smith
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dall'attrito con l'erba e la corda, dalle quali colavano sangue e linfa chiara. Grondava sudore anche lui e aveva il viso stravolto dallo sforzo di trattenere il puledro. Si concessero entrambi una pausa, poi Nefer ricominciò ad avvicinarsi fino a raggiungere la testa del cavallo, passandogli un braccio intorno al collo. Krus s'impennò ancora, sollevandolo in aria, ma Nefer mantenne la presa. Ancora due volte Krus tentò di liberarsi, ma lui teneva duro. Alla fine il puledro rimase immobile, tremando, e, prima che potesse riprendersi, Nefer gli passò un cappio intorno a una zampa posteriore, tirando con forza. Quando Krus tentò nuovamente di scattare, si trovò col muso quasi a ridosso del fianco destro, cosicché poteva girare soltanto su se stesso. Nefer fermò i nodi della corda, per evitare che, scivolando, strangolassero l'animale, poi tornò alla carica. Era esausto al punto che riusciva a stento a reggersi in piedi. Krus tentò di correre via, ma riuscì soltanto a seguire il suo naso in tondo. Continuò a girare più volte su se stesso verso destra, sempre più lentamente, finché non rimase fermo, confuso e impotente, col muso rivolto verso il posteriore. Nefer lo lasciò, trascinandosi dolorante verso il cancello. La mattina dopo, i tetti e le mura erano nuovamente affollati di spettatori, uomini e donne. Nefer uscì dalla porta della città per raggiungere il campo, sforzandosi di non zoppicare. Nonostante gli unguenti preparati da Taita e applicati da Mintaka, le ferite che aveva ricevuto gli dolevano ancora. Krus, dal canto suo, era fermo nello stesso atteggiamento in cui lo aveva lasciato la sera prima, col muso sulla coda. Nefer cominciò a cantare sottovoce, mentre varcava il cancello per entrare nel recinto. Krus non si mosse, ma appiattì le orecchie e scoprì i denti in un ghigno crudele. Il ragazzo si mosse lentamente intorno all'animale, cantando e mormorando, e il puledro si agitò, tentando invano di allontanarsi. Nefer afferrò la corda, regolando con delicatezza i nodi in modo che fosse possibile allentarli e scioglierli con un unico movimento. Poi si spostò con calma sul fianco sinistro, che restava nascosto alla vista dell'animale, accarezzandolo sul dorso e continuando a parlare; poi, con un movimento agile, balzò in sella a Krus. Tutto il corpo del puledro fu scosso da un fremito convulso, poi l'animale rimase impietrito per il Wilbur Smith
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terrore e l'indignazione. Tentò di fuggire, ma la testa bloccata in quella posizione glielo impedì, costringendolo a girare di nuovo goffamente su se stesso. Tentò d'impennarsi, però la corda si tese bruscamente contro il collo. Allora rimase immobile, ma con le orecchie schiacciate all'indietro. Nefer tirò l'estremità del nodo scorrevole, prima quello che bloccava la zampa posteriore, poi quello intorno al collo. La corda ricadde e Krus alzò la testa, inarcando il collo. Per qualche istante non accadde nulla. Poi l'animale capì di essere libero. Allora, come un gabbiano che si lancia in volo, diede l'impressione agli osservatori di alzarsi in aria con le quattro zampe rigide, il muso a contatto con gli zoccoli anteriori. Ricadde a terra e spiccò di nuovo un balzo, dimenando il dorso in modo frenetico e cambiando lato di continuo, mentre Nefer gli restava incollato addosso come una mignatta. Allora Krus prese a scalciare, lanciando calci furiosi al cielo con le zampe posteriori raggruppate, e attraversò il campo da un capo all'altro, compiendo una serie di balzi selvaggi. Quindi si sollevò sulle zampe posteriori e ricadde all'indietro, schiantandosi a terra con un tonfo che arrivò nitido alle orecchie degli spettatori sulle mura, nel tentativo di schiacciare il cavaliere tra il proprio corpo e il terreno. Mintaka gridò, aspettandosi di sentire lo schiocco della spina dorsale che si spezzava, invece Nefer si era liberato con un balzo, atterrando con l'agilità di un gatto e rannicchiandosi accanto al puledro che giaceva supino, scalciando con le quattro zampe in aria. Soltanto un cavallo intelligente e combattivo tenta di uccidere un uomo in questo modo, osservò tra sé Taita, con distacco. Frustrato, Krus si sollevò, facendo leva sulle zampe anteriori, ma, prima che potesse raddrizzarsi sulle quattro zampe, Nefer gli era salito in groppa con un volteggio. Il puledro rimase immobile sotto di lui, tremando e scrollando la testa, poi si lanciò a un galoppo sfrenato. Attraversò tutto il campo, puntando verso lo steccato. Nefer si allungò sul dorso, proteso verso il collo, gridandogli: «Sì! Più veloce che puoi!» Krus si avventò sullo steccato alto senza la minima esitazione, mentre Nefer spostava il peso del corpo per assecondarlo. Spiccarono il salto insieme, con uno slancio possente, veleggiando sopra l'ostacolo e atterrando in perfetto equilibrio. Nefer scoppiò a ridere, esultante, incitandolo con una spinta del bacino. «Forza, vediamo qual è la tua velocità.» Wilbur Smith
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Krus affrontò le pendici delle colline brulle con lo slancio di un orice, scomparendo oltre l'orizzonte, diretto verso il deserto. Gli applausi e il brusio sulle mura si affievolirono, cedendo il posto a un silenzio profondo. «Dobbiamo mandare qualcuno sulle loro tracce», esclamò Mintaka. «Nefer potrebbe essere disarcionato. Potrebbe giacere chissà dove, nel deserto, con la schiena spezzata.» Taita scosse la testa. «Ormai è una questione che riguarda loro due. Nessuno deve intervenire.» Attesero sulle mura e sui tetti mentre il sole raggiungeva lo zenit e cominciava a scendere verso l'orizzonte. Nessuno voleva abbandonare il suo posto, rischiando di lasciarsi sfuggire l'occasione di assistere al momento culminante di quella prova di nervi e di forza tra l'uomo e l'animale. «Si uccideranno a vicenda», esclamò a un certo punto Mintaka, angustiata. «Quel cavallo è un mostro. Se ha fatto del male a Nefer, lo farò uccidere», giurò poco dopo, furiosa. Trascorse un'altra ora, lenta come il gocciolare del miele, poi, lungo la sommità delle mura, corse un fremito di agitazione. Gli uomini balzarono in piedi, fissando la cresta delle colline, mentre il mormorio aumentava lentamente d'intensità, fino a diventare un coro eccitato di grida e risate. All'orizzonte comparve una coppia esausta. Il cavallo procedeva a testa bassa, col manto scuro di sudore e striato di bianco dai sali che vi si erano concentrati. Il suo sfinimento appariva evidente da ogni passo incerto che faceva. Nefer, in sella, era curvo per la stanchezza e, mentre Krus sceglieva il percorso più facile lungo il pendio, tutti videro che il corpo del Faraone era costellato di lividi e abrasioni. Krus giunse finalmente ai piedi delle colline. Era troppo sfinito per saltare di nuovo lo steccato, e si avviò docilmente sulla strada polverosa che conduceva alla porta della città. Mintaka gridò: «Bak-her! Ben fatto, maestà!» Subito il grido fu ripreso e corse da una bocca all'altra, fino a echeggiare sulle colline che sovrastavano la sorgente di Horus. «Bak-her! Bak-her!» In groppa al cavallo, Nefer si raddrizzò, alzando una mano stretta a pugno in un saluto trionfante. Gli applausi raddoppiarono d'intensità. Giunto ai piedi delle mura, diede prova della sua maestria, ordinando a Krus di eseguire una serie di curve, prima da una parte e poi dall'altra. Poi Wilbur Smith
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lo fermò, posandogli una mano sul garrese, e lo fece indietreggiare. Gli ordini erano quasi impercettibili, lievi pressioni delle ginocchia o di un piede, oppure uno spostamento quasi inavvertito del peso, ma il cavallo rispondeva docilmente. «Temevo che avesse fiaccato lo spirito del cavallo», confidò Taita a Mintaka. «Ma Krus è una di quelle rare creature che esigono un polso fermo, anziché la dolcezza. Nefer ha dovuto imporgli la propria superiorità e, che Horus mi sia testimone, non l'ho mai visto fare una cosa in modo così rapido e completo.» Nefer entrò in città, salutando Mintaka, quindi percorse il lungo viale che portava ai recinti della cavalleria. Là impastoiò Krus, mettendogli accanto il secchio di cuoio per farlo bere. Quando il puledro finì di bere a sazietà, gli lavò di dosso la polvere e il sudore condensato, portandolo poi all'esterno per consentirgli di rotolarsi nella sabbia. Gli riempì il sacco del foraggio con tritello di dhurra addolcito col miele e, mentre Krus mangiava avidamente, lo strigliò, lodandolo per il suo coraggio e parlandogli della Via Rossa che avrebbero percorso insieme. Krus lo ascoltava, muovendo le orecchie avanti e indietro. Allorché il sole tramontò all'orizzonte, Nefer preparò un morbido giaciglio di paglia sul pavimento della stalla. Krus l'annusò, mordicchiandone una manciata, e infine, esausto, si stese sul fianco. Nefer si allungò sulla paglia accanto a lui, appoggiando la testa sul collo del cavallo. Si addormentarono insieme, e quella notte Mintaka restò sola. Il giorno dopo, Nefer presentò Krus a Dov. I cavalli girarono l'uno intorno all'altro, annusandosi il muso a vicenda, poi ricominciarono da capo. Quando Krus ficcò il naso sotto la coda di Dov, lei si finse indignata, scalciando, poi corse via, civettuola, seguita da Krus, che si pavoneggiava. Nefer li lasciò pascolare insieme per il resto della giornata e, la mattina dopo, mostrò loro il carro: non era lo splendido carro reale, ma uno più vecchio, logorato dall'uso. Lasciò Krus e Dov liberi di annusare la stanga, consumata e levigata dal contatto coi fianchi di tanti altri cavalli. Quando persero entrambi ogni interesse per un oggetto così banale, Meren portò via il puledro, mentre Nefer guidava Dov verso il passo successivo. Accarezzandola e coccolandola, le sistemò con delicatezza sulle spalle il giogo di cuoio, agganciando le cinghie. Lei si agitò, scontenta, ma gli permise d'imporle quei vincoli ai quali non era abituata. Nefer le salì in Wilbur Smith
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groppa, guidandola per due giri del campo. Quando la riportò indietro, Meren teneva già pronta la stanga: non era attaccata al carro, anche se aveva un anello fissato all'estremità. Nefer vi agganciò i finimenti del cavallo e Dov roteò gli occhi, innervosita nel sentire quel peso lungo il fianco. Voltò la testa per esaminare la stanga, e, una volta soddisfatta la sua curiosità, lui la prese per la testa, guidandola in avanti. Lei sbuffò, recalcitrando quando la stanga la seguì, ma Nefer riuscì a tranquillizzarla. Dopo aver fatto alcuni giri del campo, Dov smise di scartare di lato. Adesso veniva il momento cruciale. Nefer aveva preso in prestito da Hilto la sua vecchia giumenta, un animale dal carattere tranquillo, mettendola sulla destra della pariglia, dove rimase immobile, con aria stolida. Poi aggiogò a sinistra la più giovane. La natura placida della vecchia giumenta rassicurò Dov, che rimase tranquilla. Nefer applicò a entrambe il sacchetto per il foraggio, con una razione di tritello di dhurra. Quando Dov fu rilassata e soddisfatta, fasciò le sue zampe posteriori con strisce di lino, per evitare che, sentendo tutto il peso del carro dietro di sé, si facesse male, cominciando a scalciare. Non avrebbe dovuto preoccuparsi. Non appena la prese per la testa, guidandola in avanti, Dov si avviò senza difficoltà a fianco della vecchia giumenta. Nefer le sfiorò la spalla e lei si appoggiò al giogo, portando la sua parte di peso come una veterana. Lui cominciò a correre, e Dov trotterellò al suo fianco. Poi Nefer balzò a bordo, raccogliendo le redini. Guidò la pariglia in una serie di curve, ciascuna più stretta della precedente, e Dov, sebbene non avesse mai sentito le redini prima di allora, imitò fedelmente la sua compagna di destra. Alla fine del primo giorno, riconosceva già i comandi e rispondeva all'istante, invece di aspettare che la vecchia giumenta le mostrasse come fare. Nefer le fece correre insieme per altri cinque giorni, scoprendo così che Dov imparava davvero in fretta. Con Krus, tutto fu ovviamente diverso. Ci vollero tre giorni prima che riuscisse a impedirgli di scattare non appena sentiva la trazione della stanga. Nefer stava quasi per arrendersi, ma Taita lo incoraggiò a perseverare. «Concedigli ora la tua pazienza, e ti ricompenserà mille volte», gli consigliò. «Ha intelligenza e cuore. Non ne troverai un altro come lui.» Alla fine, Krus si rassegnò a sentire la stanga che scivolava dietro di lui, imitando ogni suo movimento in modo allarmante. Nefer poté aggiogarlo Wilbur Smith
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vicino a Dov, che volse la testa, accarezzando col muso il collo del compagno, come avrebbe fatto una madre col figlio ribelle. Krus si calmò, mangiando la sua razione di dhurra. Quando Nefer li sollecitò ad avanzare, lui cercò di scartare e recalcitrare, ma, non appena il ragazzo gli assestò un colpo secco sul fianco, si calmò, affiancandosi a Dov. Tuttavia continuava a recalcitrare. Un altro colpetto, e puntò anche lui la spalla contro le tirelle, facendo la sua parte di lavoro. Quella sensazione dovette piacergli, perché cominciò a tirare il carro volentieri; l'unico problema era indurlo a fermarsi. Meren spalancò il cancello del recinto, saltando a bordo mentre il carro gli passava davanti. Imboccarono la via carovaniera e si lanciarono tra le colline, sollevando una nube di polvere rossa. Era la strada che nei mesi successivi avrebbero imboccato tutti i giorni, all'alba. Ogni sera, quando tornavano a Gallala, i cavalli correvano più in fretta ed erano più docili, procedendo a spalla a spalla come se fossero un unico animale con due teste e otto zampe. I due giovani guerrieri a bordo del carro erano sempre più resistenti e più forti, bruniti dal sole del deserto. Mintaka comprese che cosa si prova a essere vedova. Nella fortezza di Gallala, erano soltanto cinque i guerrieri della Via Rossa: Hilto, Shabako, Socco, Timus e Toran, sebbene molti altri ci avessero provato, perdendo la treccia nel tentativo. Hilto e Shabako erano adepti del terzo grado dell'ordine, il più alto, fedeli del dio senza nome, il Toro dei Cieli, il dio sumero della guerra. Soltanto gli adepti conoscevano il suo vero nome; agli occhi di tutti gli altri, egli si celava dietro la definizione di «Dio Rosso». Non esistevano né templi né santuari dedicati a lui. Veniva quando due o più dei suoi adepti ne invocavano il nome su un campo che aveva visto morire uomini in combattimento. Gallala era uno di quei luoghi, perché là il nobile Tanus aveva sconfitto i nemici dell'Egitto, costruendo una piramide con le loro teste mozzate nella piazza principale della città. E lo strato di arenaria sotto quella piazza accoglieva un alveare di catacombe segrete, che ne facevano il tempio ideale per il culto del dio senza nome. Dopo mezzanotte, mentre il resto della città dormiva sopra di loro, Hilto condusse un torello bianco, privo di difetti, nella stretta galleria che portava alle catacombe, sacrificandolo sull'altare di pietra che era stato Wilbur Smith
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costruito nei recessi oscuri della cisterna principale. Alla luce tremolante delle torce, il sangue del torello sprizzò sul pavimento, raccogliendosi in una pozza. Allora i cinque guerrieri dell'ordine immersero la spada nel sangue, invocando l'approvazione del dio nascosto sulle loro decisioni e implorandolo di aiutarli a fare una scelta saggia. Poi discussero la prova da imporre al Faraone Nefer Seti e al suo compagno. «Non bisogna fargli concessioni, anche se è il Faraone. Dev'essere messo alla prova con la severità spietata che si riserva a ogni altro novizio», dichiarò Hilto. «Agire diversamente significherebbe arrecare offesa al possente dio della guerra.» Anche in compagnia di altri iniziati, esitava a usare il vero nome del dio. «Significherebbe degradare i guerrieri che hanno percorso la Via Rossa prima di Nefer Seti», riconobbe Shabako. La riunione durò quasi tutta la notte, mentre i due novizi, avvolti nei mantelli di lana, attendevano all'ingresso della galleria che scendeva nelle catacombe. Parlavano poco, perché erano acutamente consapevoli che i cinque guerrieri, nella caverna buia sotto il pavimento sul quale erano seduti, stavano decidendo della loro stessa vita. La luce dell'alba non aveva ancora cancellato il puntino luminoso della stella mattutina dall'orizzonte orientale, quando sopraggiunse Shabako e li convocò dinanzi all'assemblea. Lo seguirono lungo la galleria dal pavimento di pietra. La torcia che teneva in mano splendeva sulle nicchie in cui si trovavano sarcofagi dipinti che contenevano le mummie di uomini e donne morti cinquecento anni prima e anche più. L'aria era fresca e asciutta; sapeva di terra e di funghi, di corruzione e di antichità. I loro passi suscitavano strani echi, e nell'aria aleggiavano fiochi sussurri: forse erano le voci dei trapassati, oppure era il fruscio delle ali dei pipistrelli. Poi fiutarono l'odore del sangue fresco, che calpestarono passando accanto al corpo del torello sacrificato. Infine giunsero nella caverna, illuminata da torce fissate alle pareti e piena di echi, dove li attendevano i guerrieri. «Chi si accosta ai misteri?» esclamò Hilto, col viso nascosto dalle pieghe del mantello. «Io sono Nefer Seti.» «E io Meren Cambise.» «Desiderate tentare la Via Rossa?» Wilbur Smith
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«Sì.» «Siete entrambi uomini secondo natura, integri nella mente e nel corpo?» «Sì.» «Avete ucciso almeno un uomo in un combattimento leale?» «Sì.» «C'è un guerriero che garantisca per te, Nefer Seti?» «Garantisco io», rispose Shabako per lui. «C'è un guerriero che garantisca per te, Meren Cambise?» «Garantisco io», rispose Socco. Una volta completato lo scambio di domande e risposte, Nefer e Meren furono introdotti al primo grado dell'ordine. «Nel sangue del Toro, e nel fuoco della sua potenza, siete accolti dal dio come novizi. Non avete ancora il diritto di sedere in consiglio coi guerrieri consacrati del secondo e terzo ordine, né di rendere il culto dovuto al Dio Rosso, e neanche di apprendere il suo nome segreto. Avete soltanto il diritto di tentare la via che il dio vi propone. Accettate la sfida, sapendo che potrebbe significare la morte?» «Sì.» «Allora sappiate che lungo la via esistono cinque stadi, e il primo di questi è...» L'uno dopo l'altro, gli adepti presero la parola, illustrando le prove che attendevano Nefer e Meren ed esponendo le regole che dovevano rispettare. I cinque stadi erano designati coi nomi di giavellotto, lottatore, arco, carro e spada. I novizi si sentirono venire meno le forze. Alla fine fu Hilto a prendere di nuovo la parola. «Avete udito ciò che il dio ha ordinato. Siete decisi a intraprendere questa impresa?» «Sì.» Risposero con una voce alta in modo innaturale, col tono incrinato da una falsa spavalderia, perché ormai conoscevano la portata della prova che li attendeva. «Allora da questo punto in poi non si torna più indietro», sentenziò Hilto. «La disciplina fondamentale è il carro», aveva spiegato loro Hilto. «Ricordatevi che si tratta di una corsa. Ci saranno dieci carri lanciati al vostro inseguimento. La velocità è tutto. Dovete imparare a ottenere il massimo dai vostri cavalli.» Wilbur Smith
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Lavorarono senza posa. Quando la luna nuova di Osiride era appena una scheggia di bronzo all'orizzonte, Dov e Krus avevano imparato tutto ciò che Nefer e Meren potevano insegnare loro. Correvano all'unisono, con lo stesso passo, consapevoli dell'equilibrio e della stabilità del carro che trainavano, sfruttando il loro peso e la loro forza per mantenere la direzione giusta nelle curve più strette, passando a tempo debito dal galoppo all'immobilità assoluta e rispondendo all'istante anche ai comandi più impercettibili. Mintaka condusse Merykara nel deserto, a bordo del suo carro, per osservarli mentre si addestravano. A mezzogiorno, quando fecero una sosta per abbeverare i cavalli e lasciarli riposare, Mintaka esclamò: «Perfetto! Non c'è proprio nient'altro che possiate insegnare loro, e nient'altro che debbano imparare». Nefer bevve avidamente dalla brocca dell'acqua, poi si forbì le labbra col dorso della mano e alzò la testa verso la sommità delle colline nere. «C'è qualcuno che la pensa diversamente.» Le ragazze si ripararono gli occhi con la mano, seguendo la direzione del suo sguardo, e videro la figura solitaria seduta lassù, così immobile che si sarebbe detto facesse parte della roccia. «Taita...» mormorò Mintaka. «Da quanto tempo sta lì a guardare?» «A volte ho l'impressione che sia lì da sempre.» «C'è ancora qualcosa che può insegnarvi?» domandò lei. «E in tal caso, come mai non lo ha ancora fatto?» «Sta aspettando che glielo chieda.» «Allora va' subito da lui», gli ordinò Mintaka. «Altrimenti lo farò io.» Nefer salì in cima alla collina, sedendosi accanto a Taita. Rimasero in silenzio per qualche tempo, poi il ragazzo mormorò: «Ho ancora bisogno di te, vecchio padre». L'altro non rispose, se non battendo le palpebre come un gufo sorpreso fuori del nido dal sole nascente. Non avrebbe mai avuto un figlio, e nessuno lo aveva mai chiamato «padre» prima di allora. «Tu puoi aiutarmi», proseguì Nefer. «Che cosa devo fare ancora?» Dopo un lungo silenzio, Taita rispose, a voce bassa: «Krus intuisce quando stai per scagliare il giavellotto o scoccare la freccia. In quel momento si alza, rompendo l'andatura con la zampa anteriore destra. Dov se ne accorge e sussulta». Nefer rifletté. «Sì, è vero! Ho notato quell'irregolarità nel loro passo al Wilbur Smith
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momento del lancio.» «Questo può far deviare la tua mira di un pollice.» «Che posso fare?» «Devi insegnare loro la quinta andatura.» «Ne conosco soltanto quattro: passo, trotto, piccolo galoppo e galoppo.» «Ce n'è un'altra. Io la chiamo scivolata, ma bisogna insegnarla ai cavalli. La maggior parte di loro non la impara mai.» «Aiutami a insegnargliela.» Staccarono i cavalli, e Nefer montò in groppa a Dov, spingendola al piccolo galoppo prima di ricondurla da Taita. Il vecchio le fece sollevare lo zoccolo anteriore sinistro, legando un cordoncino di cuoio intorno alla barbetta. Alla cinghia era attaccato un ciottolo di fiume di forma perfettamente rotonda, levigato dall'attrito dell'acqua. Dov abbassò la testa, annusandolo, incuriosita. «Falla girare di nuovo», ordinò Taita. Nefer la incitò, affondandole i talloni dietro la spalla, e lei si avviò. Il sassolino penzolava sul piede dominante, e lei tentò istintivamente di liberarsi di quel fastidio, scuotendo lo zoccolo a ogni passo. Quel movimento modificò tutta la sua andatura. Il dorso non urtava più contro le natiche del cavaliere, e non si avvertiva più quel rollio seguito da uno slancio in avanti. «Scorre sotto di me come l'acqua del fiume!» esclamò Nefer con entusiasmo. «Proprio come il Nilo.» Nel giro di due giorni poté togliere il sassolino appeso allo zoccolo, perché ormai Dov aveva imparato a cambiare andatura, passando dal piccolo galoppo alla scivolata non appena glielo ordinava. La parola d'ordine era: «Nilo». Krus, invece, quando glielo misero sotto il naso per la prima volta, si comportò come se quel ciondolo fosse un cobra velenoso, impennandosi e scalciando con le zampe anteriori. Quando poi lo vide tra le mani di Nefer, roteò gli occhi, assalito da un fremito irrefrenabile. Per tre giorni tra Nefer e lui si svolse un duello di volontà. Poi, all'improvviso, il quarto giorno, scrollò anche lui lo zoccolo destro, scivolando. Il quinto giorno cambiava andatura a comando con la stessa prontezza di Dov. Al decimo giorno, Taita rimase a guardare dalla cima della collina, mentre Nefer si dirigeva al galoppo verso la fila di bersagli. Il giovane impugnava il giavellotto, con la cinghia avvolta intorno al polso. Krus Wilbur Smith
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fissò i cerchi di legno dipinto issati sui treppiedi, agitando nervosamente le orecchie, ma, prima che potesse rompere l'andatura, Nefer gridò: «Nilo!» Dov e Krus cambiarono andatura contemporaneamente, e il carro filò via come una nave da guerra che procede a vele spiegate. Il primo giavellotto di Nefer si conficcò nel cerchio rosso al centro del bersaglio. Taita osservò Nefer incoccare la freccia, tendere l'arco e prendere la mira. Guardava la bandierina gialla fissata all'asta, dietro la fila di bersagli disposti a duecento passi di distanza. La bandierina sventolava e schioccava: si gonfiò, afflosciandosi però allorché la brezza cadde. Nefer lasciò andare la freccia, che s'innalzò, descrivendo una pigra parabola. Raggiunto lo zenit, cominciò a ricadere proprio nel momento in cui la brezza sfiorava di nuovo la guancia di Taita. Anche la freccia sentì l'effetto della brezza, deviando in modo impercettibile. Ricadde verso il bersaglio, ma lo colpì a tre spanne dal centro rosso, sul lato sottovento. «Che Seth vomiti su questo vento infido!» imprecò Nefer. «La freccia leggera ne risente di più», sentenziò Taita, dirigendosi verso il carretto che trasportava gli archi e le frecce di riserva. Tornò verso di lui con un lungo involto chiuso in un fodero di cuoio. «No!» esclamò Nefer, mentre Taita estraeva il grande arco da guerra di Trok. «È troppo grande per me.» «Quand'è stata l'ultima volta che hai tentato di tenderlo?» gli chiese il mago. «Il giorno in cui lo abbiamo riportato alla luce», replicò Nefer. «Dovresti saperlo, visto che c'eri anche tu.» «Da allora sono passati sei mesi», gli fece notare il vecchio, lanciando un'occhiata significativa al torace nudo e alle braccia di Nefer, dove i muscoli irrobustiti spiccavano in rilievo, duri come legno di cedro. Poi gli porse l'arco. Nefer lo prese a malincuore, rigirandolo tra le mani. Si avvide che qualcuno di recente lo aveva rimesso a nuovo, rinsaldandone la parte in legno con un filo sottile di elettro e applicando uno strato di lacca. La corda era nuova, ricavata dai tendini della zampa anteriore di un leone, lavorati e attorcigliati fino a diventare duri e resistenti come il bronzo. Gli salì di nuovo alle labbra un rifiuto e, se non lo pronunciò, fu solo perché Taita lo stava osservando. Impugnato l'arco, lo sollevò senza Wilbur Smith
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incoccare la freccia, cercando di tenderlo. Cedette per una distanza pari a mezzo cubito, poi le braccia di Nefer si bloccarono e, per quanto i muscoli si appiattissero e spiccassero sul petto come cordoni, l'arco rifiutò di muoversi anche di una sola spanna. Nefer diminuì con cautela la tensione e l'arco si raddrizzò. «Ridammelo», disse Taita, tendendo la mano per prendere l'arma. «Tu non hai né la forza né la determinazione per usarlo.» Nefer glielo sottrasse con un gesto brusco, mentre le sue labbra sbiancavano, diventando sottili, e gli occhi gli si accendevano di collera. «Tu non sai tutto, vecchio, anche se pensi il contrario.» Frugando nel carro, prese una freccia lunga dalla faretra che portava il cartiglio di Trok inciso sul cuoio levigato. Come l'arco, era stata recuperata dal carro sepolto sotto la sabbia. Tornò verso la linea di tiro e si rimise in posizione, incoccando la freccia. Il petto si gonfiò, mentre il ragazzo inspirava a fondo. Nefer serrò le mascelle e cominciò a tendere l'arco. Dapprima l'arma cedette lentamente, raggiungendo la linea mediana; poi lui si lasciò sfuggire un grugnito e il respiro gli uscì in un sibilo. Allora i muscoli delle braccia spiccarono, nitidi, in rilievo, e lui riuscì a tenderlo del tutto, baciando la corda come un'amante. Nello stesso momento fece partire la freccia pesante, che balzò in avanti, cantando nel cielo azzurro, raggiunse lo zenit e ricadde, volando alta sopra la fila di bersagli e continuando il suo volo fino a percorrere il doppio della distanza. Poi la punta di selce fece scaturire una pioggia di scintille da una roccia lontana e l'asta si spezzò per la potenza terribile dell'impatto. Nefer seguì il volo della freccia con aria stupita, e Taita mormorò: «Forse hai ragione tu». Il giovane lasciò cadere l'arco e abbracciò il mago. «Tu ne sai abbastanza, vecchio padre. Abbastanza per tutti noi.» Taita condusse Nefer e Meren nel deserto, addentrandosi per tre giorni in quella terra desolata e bellissima. Li guidò verso la valle nascosta dove un liquido nero trasudava in superficie da una fenditura profonda nella roccia. Era la stessa sostanza spessa e vischiosa che avevano usato per appiccare il fuoco alla pelliccia degli sciacalli, durante l'incursione notturna nella fortezza di Thane. Riempirono i recipienti d'argilla che avevano portato con loro, tornando poi nell'officina di Gallala, dove Taita raffinò quel liquido nero facendolo Wilbur Smith
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bollire a fuoco lento, finché non divenne vellutato tra le dita come seta fine. «Lubrifica il mozzo delle ruote in modo migliore e più duraturo del lardo di maiale chiarificato o di altre misture. Vi darà un vantaggio di cinquanta passi su mille, forse la differenza tra il successo e il fallimento, o addirittura tra la vita e la morte.» Nefer aveva intenzione di percorrere la Via Rossa col carro reale, ma Taita gli domandò: «Vuoi correre davvero in un sarcofago d'oro?» «L'oro pesa soltanto due tael. Lo hai verificato tu stesso.» «Quando sarai laggiù, ti sembreranno duecento.» Taita esaminò a uno a uno i centocinque carri esumati dalle sabbie, scegliendone dieci e smontandoli. Pesò la stanga e verificò la resistenza dei giunti nel corpo del carro. Fece girare le ruote sul mozzo, valutando a occhio la minima oscillazione nella rotazione. Infine fece la sua scelta. Modificò il mozzo del veicolo prescelto, in modo che le ruote fossero fissate con un solo perno di bronzo che si poteva togliere con un unico colpo di maglio. Nel rimontare il carro, eliminò la sponda anteriore e i pannelli laterali, per alleggerirlo di tutto il peso superfluo. Senza il sostegno delle assi e dei pannelli, i due guerrieri a bordo avrebbero potuto affidarsi soltanto al loro senso dell'equilibrio e a un tratto di corda fissato al pianale per mantenere la posizione anche sul terreno più accidentato. Infine lubrificò le ruote col grasso nero ricavato dal pozzo nel deserto. Sotto la supervisione di Taita, controllarono attentamente i finimenti di cuoio. Mintaka, Merykara e le loro ancelle rimasero sveglie fino a notte alta per cucirli e ribadire tutte le cuciture. Poi scelsero le armi che avrebbero portato con loro, girando e rigirando i giavellotti e le frecce per scoprire qualunque imperfezione, appendendoli alla speciale livella progettata da Taita e aggiungendo un granello di piombo sull'asta o sulla punta finché non risultarono perfettamente equilibrati. Affilarono la punta, perché si conficcasse saldamente nei bersagli. Risuolarono i sandali, limando le borchie di bronzo per renderle appuntite, e idearono nuove protezioni di cuoio per riparare l'avambraccio dallo schiocco della corda dell'arco e del laccio del giavellotto. Scelsero tre spade a testa, perché spesso le lame di bronzo si spezzavano nella foga del combattimento. Ne affilarono la lama, levigandola con polvere di pietra pomice finché non fu in grado di radere i peli delle braccia. Misero a macerare e attorcigliarono corde di ricambio per l'arco, da Wilbur Smith
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portare intorno alla vita come cinture. A parte l'elmo e il pettorale di cuoio, non avrebbero indossato armatura, per alleggerire il carico di Dov e Krus. Tutto questo lavoro si svolgeva a porte chiuse, in modo che nessun altro fosse al corrente dei preparativi. Ma soprattutto si allenavano e si esercitavano, per aumentare la propria forza e resistenza, oltre che la fiducia dei cavalli. Per Dov e Krus la prova peggiore sarebbe stata il fuoco, quindi accesero alcuni fuochi nel deserto, accumulando fascine di legna e fasci di paglia. Ai cavalli fecero vedere le fiamme e annusare il fumo, poi li bendarono. Anche se da principio Krus recalcitrava e nitriva, terrorizzato, alla fine si lasciò bendare, fidandosi del suo cavaliere, fino ad avvicinarsi alle fiamme crepitanti che gli bruciacchiavano la criniera. Durante quei giorni di attesa, Mintaka e Merykara trascorsero lunghe ore nel tempio di Hathor appena restaurato, celebrando sacrifici per i loro uomini e pregando perché la dea li proteggesse e intervenisse in loro favore. Trentacinque giorni prima che la luna di Horus fosse piena, arrivò a Gallala una strana carovana che veniva dalla costa, dal porto di Safaga. Era guidata da un gigante con un occhio solo e un braccio solo, che si chiamava Aartla. Quando si trovò a tre leghe dalle mura della città, i cinque guerrieri della Via Rossa gli andarono incontro e lo accompagnarono a Gallala con tutti gli onori, perché era un confratello del terzo grado, che aveva percorso la Via Rossa quasi trent'anni prima. Vent'anni prima una freccia gli aveva perforato l'occhio durante la campagna del Faraone Tamose in Libia, e cinque anni prima un nubiano gli aveva reciso un braccio al di sotto del gomito con un colpo d'ascia. Ormai Aartla era un uomo ricco, perché possedeva una compagnia di girovaghi, uomini e donne dotati di talenti e abilità speciali. Una delle donne della sua compagnia era considerata la più forte del mondo. Poteva sollevare in aria due cavalli, uno per mano, staccare coi denti la punta di una bacchetta di bronzo e poi piegarne l'estremità metallica con la presa tenace della sua vagina. Un'altra donna era nota per essere la più bella del mondo, anche se pochi avevano avuto il privilegio di vederla in viso. Veniva da una terra lontana, tanto a nord che in certe stagioni dell'anno i fiumi diventavano di pietra bianca e cessavano di scorrere. Aartla faceva pagare dieci tael d'argento solo per il privilegio di vedere il suo viso senza Wilbur Smith
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veli. Si diceva che avesse i capelli biondi lunghi fino a terra e gli occhi di colore diverso, l'uno dorato e l'altro azzurro. Le tariffe che Aartla imponeva a chi volesse vedere le altre sue attrattive erano in proporzione, e soltanto un uomo ricco poteva gustare tutte le sue delizie. Inoltre Aartla possedeva una schiava nera che mangiava il fuoco, si copriva da capo a piedi con un mantello di scorpioni vivi e si avvolgeva al collo un grande pitone. L'apice della sua esibizione arrivava quando la donna induceva il serpente a strisciare nell'apertura segreta del suo corpo, fino a scomparire tutto nel grembo. Quei prodigi erano tuttavia destinati unicamente a stuzzicare l'appetito del pubblico per le attrazioni principali di Aartla, vale a dire i suoi campioni: una squadra di guerrieri, lottatori e spadaccini che sfidavano tutti coloro che erano disposti ad affrontarli. Aartla offriva una borsa di cento tael d'oro a chiunque riuscisse a sconfiggere uno di loro. I premi messi in palio in quelle sfide erano leggendari e costituivano la vera fonte dell'immensa ricchezza di Aartla. A ogni buon conto, anche se ormai quell'uomo non combatteva più, in fondo al cuore rimaneva ancora un guerriero e un devoto del Dio Rosso. Così, quando gli era giunta voce che un Faraone della dinastia di Tamose si era deciso a percorrere la Via Rossa, aveva attraversato mezzo mondo coi suoi campioni per metterlo alla prova. E amava a tal punto la gara che per quel servigio non si faceva pagare. I suoi confratelli avevano preparato uno dei palazzi antichi della città per ospitare Aartla e i suoi. La sera dopo il suo arrivo, organizzarono un grande banchetto, al quale soltanto Nefer e Meren non furono invitati. «Del resto non avremmo potuto accettare», spiegò Nefer a Mintaka. «Non siamo confratelli dell'ordine. Inoltre sedere a tavola con gli uomini che saranno nostri avversari significherebbe sfidare la convenzione e le tradizioni.» Il giorno dopo il banchetto di benvenuto, i campioni ripresero gli addestramenti, sotto l'occhio vigile di Aartla. Si allenavano nel cortile dell'antico palazzo, e tutti gli estranei erano esclusi. Aartla era troppo astuto per consentire agli scommettitori di valutare la forma e lo stile dei suoi campioni senza far loro pagare oro sonante per quel privilegio. Tuttavia Taita non era uno sconosciuto per lui. Allorché Aartla aveva perso il braccio, era stato lui a curare e suturare il moncherino, salvandolo dalla cancrena gassosa che aveva infettato la ferita e minacciava la vita Wilbur Smith
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stessa di Aartla. Per questo il gigante lo accolse nel cortile dove si svolgevano gli allenamenti, invitandolo a sedere su una pila di cuscini dalla parte dell'occhio buono. La donna più bella del mondo gli servì una bevanda al miele in una coppa d'oro, sorridendogli con gli strani occhi di colore diverso che trasparivano dal velo. Per prima cosa, Aartla fornì a Taita le ultime notizie sulla campagna degli egizi in Mesopotamia, giacché era proprio da quel Paese che lui arrivava. A quanto pareva, il re Sargon, il cui esercito era ormai decimato, aveva cercato rifugio tra le mura della capitale, Babilonia. Non c'erano molti dubbi sull'esito finale dello scontro: ben presto gli eserciti dei falsi Faraoni sarebbero stati liberi di tornare in Egitto per liberarsi della minaccia rappresentata dal piccolo esercito di Gallala. Mentre raccontava tutto ciò, Aartla lanciava a Taita una serie di occhiate significative, a mo' di avvertimenti per un vecchio amico. Seduto sui cuscini e discutendo di vari argomenti, quali la politica, il potere, la guerra, la medicina, la magia e le divinità, Taita sembrava tutto preso dalla conversazione, e non degnava neppure di un'occhiata gli atleti che lottavano e sudavano sotto il sole. Ma, in realtà, i suoi occhi chiari non si lasciavano sfuggire neppure un colpo o una mossa della spada. Coltivare le loro capacità letali era infatti, per quei campioni, una ragione di vita, giacché essi erano devoti del Dio Rosso e, con le loro imprese, lo onoravano. Quella sera, quando tornò nella sua cella, dove lo aspettavano Nefer e Meren, Taita aveva un'aria grave. «Ho osservato i vostri avversari all'opera, e vi avverto che c'è ancora molto lavoro da fare, per noi. E ci restano solo pochi giorni.» «Parla, vecchio padre», lo sollecitò Nefer. «Anzitutto c'è Polios, il lottatore...» cominciò Taita, tratteggiando quindi il carattere e la forza di ogni campione, il suo stile di combattimento e i suoi particolari punti di forza. Poi discusse tutte le debolezze che aveva notato in loro e il modo migliore di sfruttarle. I cinque guerrieri dell'ordine, assistiti da Aartla, cominciarono a definire in concreto le prove. Trascorsero giorni e giorni nel deserto, studiando un ampio circuito che partiva dalla piazza centrale di Gallala per salire sulle colline e nelle terre desolate, ridiscendeva dopo tre leghe nella lunga valle ai piedi della sorgente di Taita e passava nuovamente attraverso la porta Wilbur Smith
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della città per finire nella piazza. Una volta deciso il percorso, inviarono gruppi di uomini a predisporre gli ostacoli lungo la strada. Dieci giorni prima della gara, Hilto e Shabako lessero il proclama indirizzato al popolo della città, descrivendo nei dettagli il percorso e le regole della prova e indicando i campioni che avrebbero affrontato i novizi. «Nella prova di lotta, il Faraone Nefer Seti sarà contrapposto a Polios di Ur.» La folla si lasciò sfuggire un sospiro, perché Polios era un lottatore celebre, soprannominato «Spaccaossa». Di recente, a Damasco, aveva ucciso un uomo, la sua diciassettesima vittima. «Meren Cambise dovrà misurarsi contro Sigassa, che viene dalla Nubia.» Sigassa era quasi altrettanto noto, e veniva soprannominato «Coccodrillo» perché una strana malattia gli rendeva la pelle nera, dura e bitorzoluta come quella dei grandi rettili. «Per la prova della spada, il Faraone Nefer Seti si scontrerà con Khama, di Taurine. «Meren Cambise incontrerà Drossa, dell'Indo.» Quella sera Mintaka e Merykara sacrificarono una pecora bianca alla dea, piangendo mentre imploravano la sua protezione per gli uomini che amavano. Per sette giorni, prima dell'inizio della corsa, i guerrieri operarono varie selezioni per scegliere gli inseguitori. Gli aspiranti a quell'onore non mancavano, poiché chiunque riuscisse a sottrarre la treccia al sovrano poteva aspettarsi l'immortalità. Inoltre, Hilto promise, all'eventuale vincitore, una stele di pietra scolpita, alta cinque cubiti, nel tempio del dio, o della dea, di sua scelta, nonché mille tael d'oro, sufficienti ad acquistare una bella tenuta, quando finalmente fossero tornati in patria. E aggiunse che avrebbe ottenuto, come trofeo, tutte le armi e l'equipaggiamento del novizio che fosse riuscito a eliminare. I cinque guerrieri operarono la scelta finale in base a un processo di eliminazione, e annunciarono i nomi degli inseguitori dalla piattaforma di pietra al centro della piazza. «Hanno selezionato i dieci uomini migliori e più esperti disponibili, concedendo loro di scegliere carri e cavalli. Dovete aspettarvi grandi pericoli», disse Taita ai due novizi, mentre riesaminava la lista. «Prendiamo questo Daimios, per esempio. È comandante di una compagnia di carri, e sa come far rendere al meglio una pariglia di Wilbur Smith
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cavalli.» «Tutto dipenderà dalla partenza», disse Nefer. «E questa la deciderà soltanto il Dio Rosso», replicò Taita. Nelle sette notti precedenti la prova Mintaka si rifiutò di accogliere Nefer nel suo letto. «Il mio amore indebolirebbe la tua risolutezza e prosciugherebbe le tue forze. Ma mi mancherai cento volte più di quanto io mancherò a te», gli mormorò, mentre pettinavano e intrecciavano la lunga criniera di Krus. Il giorno prima della luna piena di Horus, Taita ordinò a tutti di riposare. Dov e Krus pascolarono tranquillamente insieme, nel campo sotto la sorgente. Merykara preparò un cesto di fichi e dolci di dhurra, poi si sedette con Meren vicino alla fonte, osservando i cavalli sul prato verde ai loro piedi. Quando ebbero consumato quel pasto semplice, s'inginocchiò alle spalle di Meren per intrecciargli i capelli, ottenendo un cordone spesso che gli pendeva fino al centro della schiena. «È una treccia così spessa e lucente...» mormorò, affondandovi il viso. «Ha un così buon odore! Non permettere a nessun altro di prenderla, ma riportala a me.» «E come sarò ricompensato, se lo farò?» ribatté Meren, voltandosi con un sorriso. «La ricompensa che ho in serbo per te è tale che non l'hai mai sognata», bisbigliò Merykara, arrossendo. «L'ho sognata», le assicurò lui con fervore. «La sogno ogni notte.» Al mattino, Taita andò a svegliare Nefer, trovandolo addormentato con un braccio di traverso sul viso. Non appena lo sfiorò, il ragazzo si mise a sedere, stiracchiandosi e sbadigliando. Sulla schiena, gli penzolava la lunga treccia di capelli pettinata da Mintaka. Quando guardò Taita, mettendo a fuoco il suo viso, gli occhi di Nefer divennero più duri, come se ricordasse d'un tratto quello che gli riservava la giornata. Mentre lui beveva una coppa di latte acido e mangiava qualche fico, Taita andò alla finestra per guardare il bosco di giovani palme che era stato piantato al di sopra dei pozzi, e vide le fronde più alte ondeggiare alla brezza. Avevano pregato tutti perché la giornata fosse senza vento e quella brezza portava con sé la minaccia del fallimento. Nefer avrebbe dovuto contare su ben altro che il grande arco da guerra, per contrastare quel vento. Wilbur Smith
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Senza confidare a Nefer quelle riflessioni, si voltò per osservare il viale. Il sole non era ancora sorto, ma si aveva l'impressione che metà degli abitanti di Gallala stesse uscendo dalla città. «Sono ansiosi di accaparrarsi i posti migliori lungo il percorso e di seguire la corsa il più a lungo possibile», disse a Nefer. «Soltanto i partecipanti e i giudici possono spostarsi su un carro. Tutti gli altri devono seguire la caccia a piedi. Qualcuno sostiene che è possibile assistere alla gara di giavellotto e alla lotta, prima di tagliare attraverso le colline per assistere da vicino al duello con le spade. Quelli che sono meno agili saliranno in cima al Nido dell'Aquila, per osservare dall'alto la traversata del baratro, e poi torneranno qui per vedere la conclusione.» Nonostante l'esodo in massa dalla città, erano moltissimi gli abitanti che avevano deciso di assistere alla partenza e si affollavano nella piazza centrale. Altri si erano procurati dei posti in alto ed erano affacciati alle mura e alle finestre. Persino a quell'ora antelucana si respirava un'atmosfera festiva e lo stato d'animo era febbrile. Qualcuno degli spettatori sulle mura si era portato la colazione e bersagliava di ossi e avanzi quelli rimasti in basso. Altri proponevano scommesse ad Aartla e ai suoi scribi. Aartla dava Nefer e Meren alla pari per l'attraversamento del baratro, a due contro uno nel duello con la spada e a quattro, invece, per l'esito positivo della corsa. Quando il sole sorse sulle mura, sfilarono i carri dei dieci inseguitori. Si udivano il suono dei gong, il rullo dei tamburi e il tintinnio dei sistri; le donne lanciavano grida di esultanza spargendo fiori e i bambini danzavano tra i carri, ma gli uomini apparivano seri e concentrati, mentre si disponevano lungo la barriera di partenza. Seguì un intervallo carico di aspettativa, poi si levarono gli applausi, sempre più intensi e vicini, finché, in mezzo a un'esplosione di «Bak-her!» il carro dei novizi, spogliato di tutto ciò che era superfluo, entrò nella piazza, passando tra i pilastri corrosi dal tempo che ne contrassegnavano l'ingresso. Dov e Krus erano stati strigliati sino a farne risplendere il manto come metallo levigato ai primi raggi del sole. Avevano la criniera intrecciata con nastri colorati e la coda attorcigliata e ripiegata su se stessa. Nefer e Meren indossavano soltanto l'armatura leggera di cuoio, sul corpo unto di olio in previsione della lotta. Scendendo dal carro, s'inginocchiarono, con le mani strette sull'elsa della spada. Taita si fece Wilbur Smith
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avanti per recitare una preghiera a Horus e al Dio Rosso, invocando la loro protezione. Infine si tolse dal collo un amuleto, facendolo passare sulla testa china di Nefer. Lui guardò l'oggetto che gli pendeva dal collo e avvertì un fremito, come se una strana corrente di potere fluisse da quell'oggetto. Era la stella d'oro di sua nonna, la regina Lostris: un oggetto che nessuno aveva mai sfiorato tranne Taita. Hilto, che indossava la cappa rossa degli iniziati di terzo grado, salì sul palco di pietra al centro della piazza per leggere a voce alta le regole. Alla fine domandò, con voce severa: «Comprendete le regole dell'ordine della Via Rossa e v'impegnate a rispettarle?» «In nome del Dio Rosso, sì!» esclamò Nefer. «Chi taglierà la treccia?» chiese Hilto. Mintaka e Merykara si avvicinarono alle spalle dei guerrieri in ginocchio. Mintaka aveva gli occhi segnati da ombre violacee, perché non aveva dormito tutta la notte, ed entrambe le donne apparivano pallidissime e tese. Nefer e Meren chinarono la testa, e le donne sollevarono la loro treccia, tagliandola con un gesto amorevole. Poi le consegnarono a Hilto, che le fissò alla punta delle aste di canna che svettavano ai lati del carro. Erano quelli i trofei che gli inseguitori dovevano tentare di conquistare, mentre Nefer e Meren avevano il compito di difenderli a costo della vita. «Salite a bordo del vostro carro», ordinò Hilto. I due novizi obbedirono, e Nefer prese in mano le redini. Dov e Krus inarcarono il collo, pestarono il terreno con gli zoccoli e indietreggiarono di un solo giro di ruote. «Che siano introdotti i galli!» ordinò Hilto. Gli addetti entrarono nell'arena circolare di sabbia, ciascuno tenendo sotto il braccio un gallo da combattimento. I bargigli erano stati tagliati, cosicché la testa dei due volatili appariva singolarmente slanciata, simile a quella di un rettile, senza appendici che offrissero all'avversario una possibilità di fare presa. Il sole scintillava sul loro piumaggio con l'iridescenza dell'olio versato sull'acqua. Nella piazza affollata regnava un silenzio teso. Gli addetti s'inginocchiarono l'uno di fronte all'altro al centro dell'arena di sabbia, tenendo fermi i galli, che non avevano speroni artificiali assicurati alle zampe, per evitare che i lunghi artigli di metallo rendessero la fine troppo rapida e scontata; gli speroni naturali, però, erano stati affilati e levigati. «Incitateli!» gridò Hilto. I due uomini li spinsero l'uno verso l'altro, Wilbur Smith
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senza permettere loro di toccarsi. Gli occhi dei due galli scintillavano, crudeli, mentre la testa cominciava a gonfiarsi per la rabbia e la pelle nuda del capo e della gola diventava di un rosso acceso. Sbattevano le ah, tentando di liberarsi dalla presa per avventarsi l'uno sull'altro. Con la spada sguainata, Hilto indicò il tetto in rovina del tempio di Bes, divino patrono di Gallala, che sorgeva all'altro capo della piazza: sul tempio pendeva una bandiera azzurra. «I novizi partiranno non appena i galli saranno liberati. La bandiera verrà abbassata quando uno dei galli resterà ucciso, e soltanto allora comincerà l'inseguimento. Il Dio Rosso, nella sua infinita saggezza, deciderà per quanto tempo dovranno sopravvivere i galli, e quindi quale sarà il vantaggio. Ora tenetevi pronti.» Tutti, persino Nefer e Meren, puntarono gli occhi sui galli da combattimento. Hilto levò la spada. I galli, frementi, erano scarlatti di rabbia. «Via!» gridò Hilto, e gli uomini lasciarono liberi i galli, che volarono sulla sabbia in un frullo di ali multicolori, balzando in alto e sferrando colpi con gli artigli e gli speroni. «Via, Dov! Via, Krus!» gridò Nefer, lanciando i cavalli, che fecero schizzare via ghiaia e polvere con gli zoccoli. Un grido possente si levò dalla folla mentre il carro percorreva un giro della piazza prima di sbucare sul viale. Gli applausi si affievolirono alle loro spalle, quando sfrecciarono oltre la porta, per imboccare la pista che conduceva tra le colline, contrassegnata ogni duecento passi da bandiere di lino bianco che sventolavano fiaccamente nella brezza mattutina del deserto. «Tieni le bandiere sulla destra!» gli rammentò Meren. Se avesse superato una bandiera dal lato sbagliato, i giudici li avrebbero costretti a tornare indietro per ripetere la curva. Mentre guidava senza sforzare troppo i cavalli, lasciandoli procedere al trotto sul ripido pendio, Nefer valutò la velocità della brezza in base al movimento della bandiera e alla polvere, giudicandone la forza e la direzione. Soffiava forte e calda da occidente, abbastanza intensa da sospingere la nube di polvere alle loro spalle. Era il peggior vento possibile, perché avrebbe disidratato i cavalli e inciso sulla portata delle armi al momento di competere col giavellotto e l'arco. Comunque il giovane accantonò quel pensiero per concentrarsi anzitutto sulla salita tra le colline. La pendenza aumentava bruscamente e, al comando di Nefer, i due Wilbur Smith
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conducenti balzarono a terra per correre accanto ai cavalli, alleviandone il carico. Dov e Krus scattarono subito in avanti con tanta energia che loro dovettero aggrapparsi saldamente ai finimenti per restare al passo. Quando arrivarono in cima, Nefer li fece fermare e riposare per un tempo pari a trecento battiti del suo cuore. Voltandosi a guardare le mura della città ai loro piedi, udì un rombo che si gonfiava e si abbassava come il suono della risacca su una scogliera lontana: il suono caratteristico degli spettatori di un combattimento di galli, in cui la folla accoglieva ogni assalto con un boato. La bandiera azzurra sventolava ancora sulla sommità diroccata del tempio di Bes, segno che lo scontro non si era ancora concluso. Distogliendo lo sguardo, osservò il tratto pianeggiante che si stendeva davanti a loro, individuando la fila di bersagli per il giavellotto, cinque in tutto, separati da intervalli di duecento passi. C'era un basso steccato di rami spinosi che correva parallelo ai bersagli, costringendo il carro a rispettare una distanza di almeno cinquanta passi. Nefer balzò a bordo del carro, gridando: «Via!» La pariglia partì di slancio. Lui si voltò di nuovo per guardare la bandiera azzurra e vide che sventolava ancora sul tempio di Bes. Mentre correvano verso la fila di bersagli, si avvolse intorno al polso la cinghia del giavellotto e si concentrò, figurandosi col pensiero il bersaglio, immaginando il volo del giavellotto dalla sua mano al cerchio rosso centrale e ignorando quello giallo all'esterno. Osservò il vento che agitava le bandiere. Individuò Shabako su una piccola altura verso il centro della linea: aveva il compito di esporre una bandierina rossa per ogni centro e una gialla per ogni colpo fallito. Loro avevano soltanto cinque giavellotti e potevano permettersi un solo colpo mancato. Se avessero fallito al primo tentativo, sarebbero dovuti tornare indietro a recuperare i giavellotti lanciati, per ripetere l'esercizio fino a ottenere i quattro centri. Nefer consegnò le redini a Meren, che si accostò allo steccato per consentire all'amico di mirare meglio. Il primo bersaglio si avvicinava in fretta, e Nefer si bilanciò per mantenere l'equilibrio sulle assi del fondo, che sussultavano con violenza. «Nilo!» ordinò. Dov e Krus cambiarono passo all'istante, adottando quella straordinaria andatura scivolata. Il carro si stabilizzò sotto di lui, che poté compensare il movimento, flettendo le gambe, prima di lanciare il Wilbur Smith
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giavellotto. Non ebbe il minimo dubbio, dal momento in cui il giavellotto partì dalla sua mano, con la velocità potenziata dallo schiocco della cinghia. Aveva tenuto conto del vento. L'arma volò per cinquanta passi col vento di lato, conficcandosi nel cuore del cerchio rosso, e, con la coda dell'occhio, Nefer vide Shabako agitare la bandierina rossa per convalidare il colpo riuscito. Afferrò un altro giavellotto dal contenitore, avvolgendosi la cinghia intorno al polso. Provava una fiducia quasi sovrumana: sapeva che i successivi quattro lanci sarebbero andati a segno come il primo. Guardò il secondo bersaglio che si avvicinava e lanciò di nuovo. Un altro colpo perfetto. Non ebbe neanche bisogno di guardare la bandierina. Accanto a lui Meren gridò: «Bak-her!» mentre Nefer si preparava al terzo lancio. Si stavano avvicinando, procedendo a filo del recinto di rami spinosi che correva all'esterno del carro, simile a una chiazza confusa. Nefer si concentrò, facendo scattare il braccio destro nel lancio, e, in quel preciso istante, la ruota sfiorò lo steccato e il carro sterzò con violenza, restando sospeso, sul punto di capovolgersi. I cavalli lo riportarono in equilibrio con l'azione del loro peso combinato, ma il giavellotto era già partito. Con la disperazione nel cuore, Nefer lo vide passare al largo, mancando del tutto il bersaglio. Shabako sventolò la bandierina gialla. «È stata colpa mia», ammise Meren, digrignando i denti. «Ho rasentato troppo lo steccato.» «Ora guida come si deve», scattò Nefer. «Ci servono altri due centri.» Il quarto bersaglio si avvicinò, ma Nefer sentì sotto di sé un'alterazione nel movimento del carro. Krus, sbilanciato dalla collisione con lo steccato, conduceva col piede sbagliato. «Forza, Krus», gridò Meren, tentando di rimetterlo in carreggiata con un tocco delle redini. Allora Dov si appoggiò leggermente al compagno, che sentì il suo ritmo e si adattò al suo passo proprio mentre si avvicinava il quarto bersaglio. Nefer lanciò, e, al suo fianco, Meren esclamò: «Rosso! Un centro perfetto! Ce l'hai fatta». «Non ancora.» Nefer afferrò l'ultimo giavellotto dal contenitore. «Ne manca uno.» Piombarono veloci sull'ultimo bersaglio, tesi come corde dell'arco, coi muscoli rigidi e i nervi contratti. Krus lo avvertì, lo sentì nelle redini che Wilbur Smith
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Meren teneva nella mano destra. Con l'occhio destro vide arrivare il bersaglio, intuì esattamente l'istante in cui Nefer avrebbe lanciato e ricadde istintivamente nella sua vecchia abitudine, rompendo l'andatura. Il carro sussultò e oscillò proprio mentre Nefer lanciava. Anche così, avrebbe potuto fare centro, se non fosse stato per il vento. Lo investì una folata torrida, abbastanza forte da far oscillare le trecce appese all'asta del carro. Il giavellotto era già leggermente fuori centro, ma il vento accentuò l'errore. Si spostò ancor più a destra, mancando il cerchio rosso di sole due dita, e si conficcò, vibrando, nell'anello esterno. Shabako sollevò sopra la testa la bandierina nera, agitandola da una parte all'altra in modo da far svolazzare e schioccare le pieghe del tessuto per segnalare che la prova era fallita. La prima corsa era stata annullata. Dovevano recuperare i giavellotti e ricominciare da capo. Immerso in un silenzio cupo, Nefer strappò le redini dalle mani di Meren, voltando il carro con una curva stretta all'estremità dello steccato di rovi per tornare indietro. Spinse i cavalli al massimo: ormai non pensava più a risparmiare le loro forze. Per quel che ne sapeva, uno dei galli da combattimento poteva essere già morto e dieci carri potevano aver cominciato l'inseguimento. Tornarono indietro in volata lungo la fila di bersagli, passando così vicino che Meren poté strappare i giavellotti dai bersagli imbottiti di paglia senza che il carro dovesse fermarsi del tutto; il quarto, che aveva mancato il bersaglio, era caduto sul terreno, ma, da lontano, Nefer vide che l'impatto col suolo roccioso aveva spezzato in due l'asta. Ormai aveva a disposizione soltanto quattro giavellotti per quattro centri. Un solo errore li avrebbe costretti a restare lì, in due, contro dieci guerrieri scelti: avrebbero dovuto arrendersi o lottare fino alla morte. Coi quattro giavellotti recuperati, raggiunsero la linea di partenza e Nefer fermò il carro, balzando a terra per correre vicino a Krus e accarezzargli la fronte. «Ora fa' del tuo meglio, bello mio. Non deludermi ancora.» Di lontano si udì il suono di un lungo applauso entusiastico, che stavolta non si spense. «Uno dei galli è morto!» esclamò Meren. «La caccia è cominciata.» Nefer sapeva che era vero. Uno dei galli era morto e i cacciatori erano liberi d'inseguirli. Loro avevano perso il vantaggio iniziale. I carri degli inseguitori non dovevano superare la prova dei giavellotti, quindi Wilbur Smith
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sarebbero passati oltre senza neanche rallentare. Loro, invece, anche ammesso che riuscissero a superare la prova facendo quattro centri, dovevano affrontare l'incontro di lotta. Mintaka e Merykara stavano affiancate, lo sguardo fisso sui contendenti. Pur avendo a disposizione due sgabelli, non riuscivano a stare sedute, tanta era la loro ansia mentre seguivano le fasi finali della lotta sanguinosa che si svolgeva nell'arena. I due galli da combattimento erano stati ben scelti, perché le loro forze si equivalevano: veterani di molte epiche lotte, avevano dato prova entrambi di coraggio e resistenza. Avevano le zampe lunghe, ma le cosce compatte e gonfie di muscoli. Erano in grado di conficcare i temibili speroni neri nelle carni dell'avversario fino all'osso. Col collo serpentino e il becco massiccio e acuminato, potevano protendersi in avanti, strappando penne e carni; una volta indebolito l'avversario con le ferite, erano capaci di stringerlo in una presa mortale, inchiodandolo e approfittandone per ferirlo negli organi vitali. Il gallo più anziano aveva le penne color rame e oro, lucenti come il sole all'alba, e la coda simile a una cascata orgogliosa, punteggiata di luci color zaffiro. L'altro era nero, ma di un nero lustro e scintillante, con la testa nuda di un rosso violaceo. Giravano l'uno intorno all'altro. Si erano battuti a lungo, strenuamente, come testimoniavano le piume sparse sulla sabbia e trascinate dalle folate torride del vento dell'ovest. Perdevano sangue entrambi, gocce pesanti che scintillavano sul piumaggio. Le forze li stavano abbandonando - infatti vacillavano leggermente sulle zampe -, ma gli occhi erano fieri e luminosi come all'inizio della lotta. «Ti prego, Hathor adorata, concedi loro la forza di sopravvivere», sussurrava Merykara, aggrappata alla mano di Mintaka. «Fa' che continuino a combattere fino al tramonto.» Sapeva che quell'appello era vano, ma non poté trattenersi. «E proteggi Meren e Nefer...» D'improvviso il gallo nero si sollevò da terra e poi, con un possente colpo d'ali, scattò in avanti con tutt'e due le zampe tese. Il gallo rosso si alzò per affrontarlo, ma ormai era sfinito e la sua reazione mancava di fuoco. Fu lento a sollevare le zampe per parare l'assalto. Si scontrarono in una nuvola di piume, rotolarono insieme e, quando si separarono, il gallo rosso aveva un'ala penzoloni. Ormai la fine era molto vicina. Wilbur Smith
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Merykara singhiozzò forte: «Oh, Hathor, non farlo morire!» Afferrò Mintaka per il braccio e le conficcò le unghie nella carne, lasciando sulla pelle una fila di mezzelune rosse, ma l'altra quasi non se ne accorse. Era impietrita dall'orrore, guardando il gallo rosso che barcollava, esausto, mentre la folla lanciava ululati selvaggi. Il gallo nero, sapendo di aver vinto, si rianimò. Spiccò di nuovo un salto sulle zampe lunghe e forti, allargando le ali scintillanti, poi, ricadendo a terra, colpì il gallo rosso prima che potesse ritrovare l'equilibrio e lo abbatté. Quindi gli sferrò un colpo micidiale di becco all'occhio, strappando un lembo della guancia screziata e serrando la presa. Il gallo rosso ritrovò l'equilibrio, ma quello nero lo attanagliava in una presa mortale. Il gallo rosso si lanciò in una corsa penosa, trascinando con sé l'avversario, mentre Mintaka e Merykara gridavano, in mezzo al frastuono: «Lascialo andare, ombra nera di Seth! Lascialo vivere!» Il gallo rosso trascinò l'altro di peso per un giro completo dell'arena, ma, a ogni passo, appariva sempre più debole, e infine si accasciò proprio sotto di loro, presso la barriera. «È morto!» gridò qualcuno. «La lotta è finita. Lasciate partire gli inseguitori.» «No! È ancora vivo», gridò Mintaka. Il gallo nero mollò la presa, dominando l'avversario dall'alto. Con gli ultimi residui di forza, il gallo rosso si drizzò in piedi e prese a barcollare, trascinando le ali nella sabbia, col sangue che scorreva dallo squarcio nella guancia. Il gallo nero diede l'impressione di valutare la distanza tra loro, poi spiccò di nuovo un balzo, dominando la sua vittima prima di abbattersi sull'avversario, conficcandogli nel corpo entrambi gli speroni e trafiggendolo ai polmoni e al cuore. L'altro gli si accasciò sotto, ricadendo con la schiena all'indietro, il becco spalancato in un grido silenzioso di agonia e le ali scosse da un fremito convulso. Il gallo nero rimase immobile sul corpo dell'avversario, rovesciando la testa per lanciare uno stridulo grido di trionfo che fece rabbrividire gli spettatori, insinuando il gelo lungo la loro spina dorsale. «Il dio si è pronunciato! La lotta è finita.» Hilto sollevò per il collo la carogna lacerata e sanguinante del gallo rosso, e la bandiera sulla torre di Bes fu calata all'istante. Allora si rivolse ai conducenti dei carri, che attendevano, accovacciati dietro le loro pariglie di cavalli. «Siete liberi di percorrere la Via Rossa!» gridò. «Andate incontro alla morte o alla Wilbur Smith
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gloria!» Le lunghe fruste schioccarono, i cavalli gettarono la testa all'indietro, scuotendo la criniera, e i dieci carri percorsero un giro completo della piazza, mentre la folla si allontanava dalle loro ruote, le donne gridando e gli uomini applaudendo. Poi si lanciarono oltre la porta della città, verso le colline, seguendo la fila di bandiere. Nefer dedicò ancora qualche istante ad accarezzare e rassicurare i cavalli, passando loro un braccio intorno al collo e sussurrando parole dolci al loro orecchio. Quindi tornò indietro di corsa, per salire sul carro con un balzo. Fece poi partire gli animali al passo, portandoli gradualmente fino al piccolo galoppo. Soltanto quando corsero perfettamente all'unisono, conducendo insieme, ordinò di cambiare andatura col comando: «Nilo!» Si accostarono senza scosse ai bersagli per il secondo tentativo, e lui passò le redini a Meren, senza ammonirlo, perché sapeva che gli scottava ancora l'errore che aveva compromesso il loro primo tentativo. Mentre si avvolgeva il laccio intorno al polso, Nefer tenne d'occhio le orecchie di Krus, attento al minimo segnale d'incertezza: ma il cavallo le teneva ben erette e proseguiva la corsa senza tentennamenti. Quando arrivarono all'altezza del primo bersaglio, rimase perfettamente in linea e il giavellotto centrò in pieno il cerchio rosso. Il secondo bersaglio si presentò quasi subito, ma il lancio riuscì fluido, con un accenno appena di potenza nello scatto, e la punta si conficcò nel cerchio interno. Meren rimase in silenzio al suo fianco, guidando i cavalli con un tocco delicato che gli scaturiva dall'anima. Il terzo giavellotto scintillò come un raggio di sole, volando nell'aria, e Shabako agitò la bandierina rossa, segnalando un altro centro. Nefer aveva già impugnato l'ultimo giavellotto, con la cinghia di cuoio avvolta saldamente intorno al polso, incitando i cavalli in tono fermo e rassicurante: «Ancora uno. Solo un altro per me!» Krus diede l'impressione di concentrarsi, abbassando il muso sul petto prima di scivolare senza scosse lungo la linea. Lanciando, Nefer capì che avrebbe centrato il rosso in pieno, e gridò l'ordine mentre il giavellotto era ancora in volo. «Ah! Ah! Via!» E i cavalli si slanciarono in avanti, passando dalla scivolata al galoppo con tanta energia che Nefer dovette puntare i piedi sul fondo e aggrapparsi alla corda per non essere sbalzato all'indietro. Shabako sventolò la bandierina rossa, mentre la sua voce si propagava Wilbur Smith
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limpida nell'aria: «Bak-her, maestà! La prova è superata!» Nefer tuttavia sapeva che non avrebbero mai potuto recuperare il terreno perduto: gli inseguitori stavano già arrivando. La fila di bandierine li condusse a nord, descrivendo un ampio cerchio sul ciglio di un profondo abisso dalle pareti perpendicolari e lungo una serie di terrazze naturali dove la terra nuda era di un tenero color pesca, in contrasto con la sua natura aspra e sterile. Sul gradiente del terzo e ultimo terrazzo erano schierati oltre cinquanta degli spettatori più appassionati, giunti fin lì da Gallala. Quando il carro di Nefer salì verso di loro, lo incitarono, dividendosi per farlo passare. La sommità della terrazza naturale era piatta e uniforme: al centro dello spazio aperto erano in attesa i lottatori, ciascuno nel suo cerchio di pietre dipinte di bianco. Nefer puntò in quella direzione, seguito dalla folla che applaudiva e rideva per l'eccitazione. Poco prima di raggiungere i cerchi di pietre, arrestò i cavalli, e due stallieri, che erano già pronti ad attenderlo, corsero a prendere le redini. «Fate in modo che bevano soltanto un secchio a testa», ordinò, balzando a terra. Quello era il primo punto del percorso in cui era consentito abbeverare i cavalli, ma lui non voleva che si gonfiassero il ventre d'acqua. In fretta, Nefer e Meren si tolsero l'armatura di cuoio e la corta tunica che portavano sotto, restando nudi alla luce del sole. Tra la folla corse un mormorio di ammirazione di fronte a quei corpi giovani e sodi, allenati fino a raggiungere la perfezione atletica, e alcune donne di bassa condizione sociale e dubbia moralità lanciarono ululati e commenti salaci, saltellando eccitate. Ormai ogni secondo che passava consentiva ai carri inseguitori di avvicinarsi. Nefer non degnò neanche di un'occhiata le donne che danzavano: lui e Meren avanzarono con decisione, ciascuno verso l'avversario che gli era stato assegnato. Nefer si soffermò per un istante all'esterno del cerchio di pietre bianche e guardò Polios di Ur, fermo al centro. Non era particolarmente alto o massiccio, non più di lui, perché i giudici li avevano valutati con equità. D'altra parte nel corpo di Polios non c'era un filo di grasso. Era evidente che si stava già scaldando in previsione dell'incontro, perché scintillava di sudore e di olio e i muscoli erano turgidi e ben irrorati di sangue. Le spalle erano perfettamente proporzionate alla Wilbur Smith
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cintola, il ventre piatto, le gambe lunghe e agili. Era fermo al centro dell'arena, con le braccia incrociate sul petto, e fissava Nefer con uno sguardo duro e inespressivo. Mentre inspirava a fondo, Nefer sentì di nuovo la voce di Taita dentro di sé, nitida come se gli stesse parlando di nuovo all'orecchio: «Il ginocchio sinistro. Quella è la sua unica debolezza». Guardò in quella direzione, ma il ginocchio sinistro di Polios sembrava solido al pari del destro, roccioso e impenetrabile come il tronco di un ulivo. Nefer sfiorò l'amuleto d'oro che portava al collo prima di entrare nel cerchio di pietre, accompagnato da ululati, uggiolii e grida della folla. Polios puntò le mani sulle ginocchia, curvando le spalle per fissarlo con lo sguardo piatto e implacabile di un serpente. Nefer capì che avrebbe dovuto fare lui la prima mossa, perché l'avversario non aveva fretta: il suo compito era trattenerlo finché i carri degli inseguitori non lo avessero raggiunto. Girò una volta intorno a Polios, che si voltò lentamente per averlo sempre di fronte. Sì, è vero, ammise tra sé Nefer. Trascina il piede sinistro. Ma era un difetto così impercettibile che non lo avrebbe mai notato, se non ci fosse stato Taita. «Una vecchia ferita», gli aveva spiegato. «Qui!» e aveva premuto il pollice sul ginocchio di Nefer per indicare il punto esatto. Ma poi aveva aggiunto: «Anche così, non devi sottovalutarlo, comunque. È un assassino nato. Questa è la sua mossa preferita, ed è quasi impossibile contrastarla». Gliene aveva dato una dimostrazione. Nefer girò di nuovo in senso opposto, e Polios con lui. In quell'istante, il ragazzo vide bene il difetto: un lieve incavo innaturale appena sotto la sporgenza della rotula. Ma ormai non poteva permettersi di perdere neanche un istante, e attaccò. I due eseguirono tutte le mosse del preludio classico, afferrandosi con entrambe le mani, cercando il colpo decisivo per rovesciare l'avversario, cambiando presa, spostando il peso, spingendo e ritirandosi subito dopo per saggiare l'equilibrio dell'altro. Poi, all'improvviso, Polios balzò in avanti, riuscendo a eludere la guardia di Nefer: per quanto se lo aspettasse, non poté impedire che gli passasse fulmineamente intorno alla vita una delle lunghe braccia. Di colpo, il ragazzo si ritrovò sollevato da terra, fino a sfiorarla soltanto con la punta dei piedi, mentre Polios roteava su se Wilbur Smith
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stesso, tenendolo tra le braccia e costringendolo a restare piegato all'indietro. Poi, altrettanto repentinamente, Polios posò a terra il ginocchio destro, trascinando in basso Nefer. L'altra gamba del lottatore era saldamente piantata sul terreno, con la coscia sinistra parallela alla terra come una panca, e Nefer vi piombò sopra di schiena, all'altezza delle reni. Il colpo avrebbe potuto spezzargli la spina dorsale, ma lui aveva provato centinaia di volte la risposta insieme con Meren: inarcando il dorso per assorbire l'impatto, piantò al contempo i talloni per attutirne la forza. Ciò nonostante sentì la colonna vertebrale scricchiolare, con le vertebre tese al limite della resistenza. Polios si abbatté su di lui con tutto il suo peso, ma Nefer riuscì a protendersi alle sue spalle, afferrando con la mano destra il ginocchio dell'altro. Taita lo aveva costretto a ore di allenamento per rafforzare il pollice destro, strizzando una palla di cuoio finché non lasciava un'impronta sulla superficie. E anche allora il vecchio non si era ritenuto soddisfatto, ma aveva incitato Nefer a continuare gli esercizi finché non era riuscito a schiacciare una conchiglia di cipride tra il pollice e l'indice. Poi gli aveva mostrato più volte il punto esatto in cui si trovava la lesione, sotto la rotula, e la direzione in cui doveva esercitare la pressione per produrla. Nefer, trovandolo, spinse il pollice nell'incavo tra la testa della tibia e la rotula non trattenuta dai legamenti. Tutti i muscoli del braccio destro si gonfiarono per lo sforzo, mentre gli occhi sporgevano dalle orbite. D'un tratto, sentì qualcosa che cedeva sotto la punta del pollice e fece un ultimo sforzo. Il pollice affondò nell'articolazione, la cartilagine già fragile e il legamento cedettero con uno schiocco, e la rotula si sollevò sotto la stretta di Nefer, uscendo dal suo alloggiamento. Polios lanciò un grido di sofferenza così acuto da ridurre al silenzio gli spettatori che rumoreggiavano, assiepati ai bordi dell'arena, poi lasciò la presa, tentando di respingere Nefer, ma lui assecondò la sua mossa senza mai lasciare la stretta sulla rotula danneggiata, anzi allargando la lacerazione. Improvvisamente Polios, indifeso come un bambino, scoppiò in singhiozzi, sopraffatto dal dolore. Nefer gli fu sopra, costringendolo con la faccia a terra. Gli torse la gamba sinistra all'indietro, e Polios non riuscì a opporre resistenza, poi piegò il ginocchio fratturato fino a toccare con le dita del piede le natiche dell'avversario, gravando sopra l'articolazione con tutto il suo peso. Il Wilbur Smith
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grido terribile lanciato da Polios non aveva nulla di umano. «Arrenditi!» gridò Nefer, ma l'altro era stordito e paralizzato dalla sofferenza, quindi toccò all'arbitro slanciarsi in avanti per sfiorare la spalla di Nefer, decretando la sua vittoria. Il giovane allora si alzò di scatto, lasciando a terra Polios che si contorceva, piagnucolando dal dolore. Gli spettatori si separarono in silenzio per lasciarlo passare, sbalorditi da una vittoria così rapida e schiacciante. Nefer sentì qualcuno tra la folla dire: «Con quella gamba non potrà più camminare», ma non si voltò neanche indietro, preso dall'ansia di correre verso l'altra arena, facendosi largo tra gli uomini che la circondavano. Meren e Sigassa, il Coccodrillo, erano allacciati in una presa frontale e rotolavano da una parte all'altra dell'arena. Nefer vide subito che il compagno era ferito. La malattia rendeva la pelle di Sigassa spessa e callosa, insensibile al dolore; anzi lui la usava come un'arma, sfregandosi contro l'avversario con tanta forza da lacerare le carni di Meren, che perdeva sangue da numerose ferite poco profonde sul torace e sulle braccia. Taita lo aveva messo in guardia contro quello svantaggio, ma gli era stato impossibile sottrarsi a quell'abbraccio orribile. Nefer era arrivato appena in tempo. Le regole della Via Rossa erano deliberatamente a svantaggio dei novizi, tuttavia consentivano a uno di loro di aiutare l'altro, ma soltanto dopo che aveva sconfitto il suo avversario. Quella era una delle poche concessioni ammesse, e Nefer la sfruttò appieno. Entrando nell'arena, si chinò a raccogliere un sassolino bianco della forma e delle dimensioni di un uovo di tortora. Accorrendo in aiuto di Meren, collocò il sasso al centro del palmo e vi serrò intorno il pollice e l'indice con tanta forza che le nocche sbiancarono per la pressione. In questo modo aveva trasformato il pugno in un'arma efficace come il maglio di un carpentiere. La folla lanciò un avvertimento a Coccodrillo, che lasciò andare Meren, alzandosi con un movimento fulmineo per caricare subito Nefer, a testa bassa. Taita lo aveva avvertito che il suo cranio calvo e nodoso era un'arma temibile come un ariete. Sigassa aveva già incrinato due costole a Meren con la prima carica, e cercava di fare altrettanto con Nefer. Lui lo lasciò avanzare, calcolando il momento giusto, piantò saldamente i piedi sul terreno e poi sferrò un destro alla mascella, nel punto esatto Wilbur Smith
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indicato da Taita. Il peso e la velocità dell'assalto di Coccodrillo si scontrarono con la forza di Nefer, che aveva caricato il colpo con la spalla. La grande testa ricoperta di scaglie scattò all'indietro, mentre le gambe di Sigassa diventavano molli come cera, ma la forza d'inerzia lo trascinò in avanti e lui cadde lungo disteso oltre la fila di pietre che delimitava il confine dell'arena. Nessuno degli spettatori aveva mai visto usare un pugno nudo come un'arma, quindi tutti restarono a bocca aperta per lo stupore. Persino Nefer fu sorpreso del risultato, perché l'avversario rimase inerte, senza neanche un fremito; poi si riprese, gridando all'arbitro: «Sigassa ha lasciato l'arena! Deve darsi per vinto!» L'arbitro proclamò il verdetto: «La vittoria va a Nefer Seti. Si-gassa abbandona la lotta. La prova è superata, Nefer Seti!» Lui corse da Meren, rimettendolo in piedi. «Sei ferito?» «Le costole! Quel porco mi ha caricato come un toro», rispose l'altro, ansimando. «Dobbiamo andare avanti.» «Certo.» Meren si alzò, raddrizzando le spalle, anche se aveva il volto grigio come la cenere per il dolore. «Non è niente», dichiarò. Mentre tornavano di corsa verso il carro, però, si teneva con la mano un lato del torace. «Ci abbiamo messo troppo tempo. Perdiamo terreno a ogni istante», borbottò poi, indossando in fretta la tunica e infilando l'armatura di cuoio, imitato da Nefer. Risalirono infine a bordo del carro, voltandosi per guardare in direzione del pendio a terrazze, verso i bersagli per il giavellotto disposti nella pianura sottostante. «Eccoli che arrivano», mormorò Meren, avvistando la nube di polvere che si gonfiava al sole, pallida ed eterea. I veicoli lanciati all'inseguimento erano soltanto puntini scuri sotto la cappa di polvere sospesa nell'aria, ma sembravano aumentare di dimensioni a vista d'occhio. Non c'era niente da dire. Gli inseguitori non dovevano superare la prova di lotta, quindi potevano passare oltre. Nefer e Meren sapevano quanto fosse esiguo il loro vantaggio, e con quanta facilità potesse ridursi in nulla. Bastava soltanto un altro passo falso o un errore di calcolo da parte loro. Nefer scrollò le redini, incitando i cavalli. Mentre loro lottavano, Dov e Krus avevano bevuto e si erano riposati. Adesso erano freschi, quindi impressero una forte spinta al carro, lanciandosi al galoppo. Più avanti, la fila di bandiere che contrassegnavano il percorso cominciava a descrivere Wilbur Smith
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un'ampia curva per tornare a sud, nella direzione da cui erano venuti. «Siamo già a metà strada!» esclamò Meren, cercando di mostrarsi allegro, anche se la sua voce era tesa per il dolore delle costole incrinate e ogni respiro era una sofferenza. Attraversato l'altopiano, raggiunsero il versante opposto, dove il pendio a terrazze declinava verso l'orlo del precipizio, formando una serie di gradini giganteschi. Volsero lo sguardo verso il basso, sui campi recintati e sui pascoli delle terre irrigate, di un verde incredibile sullo sfondo di un paesaggio color ocra e cannella, e sui tetti e le torri di Gallala, affastellati in modo così irregolare che, visti da lontano, non sembravano opera dell'uomo, bensì formazioni naturali del deserto. Poi guardarono oltre, verso l'abisso spalancato davanti a loro come le fauci di un mostro. Le pareti laterali erano verticali e inaccessibili, a strapiombo sul fondo violaceo. Sul sentiero che costeggiava la sommità delle pareti si scorgevano gruppetti di persone che avevano assistito al lancio dei giavellotti e poi avevano imboccato la scorciatoia per assistere alla gara di tiro con l'arco. Nefer lanciò i cavalli a tutta velocità sulla superficie della terrazza, tentando di conquistare fino all'ultima spanna di vantaggio sugli inseguitori. Fu allora che Krus compensò in buona misura l'errore commesso coi bersagli del giavellotto, perché la sua grande forza li trascinò, infondendo nuovo coraggio a Dov, che correva al suo fianco. Raggiunto il precipizio, corsero sul ciglio dell'abisso, così vicini al baratro che i sassi sollevati dalle ruote finivano nel vuoto, ma Krus, sebbene corresse sul lato esterno, non ruppe mai l'andatura, anzi si prodigò al massimo, correndo con tutto il cuore e la forza di volontà di cui disponeva. Nefer si sentì risollevare il morale. «Possiamo ancora farcela ad arrivare primi al ponte», gridò nel vento. «Forza, Krus! Avanti, Dov!» Guardando di fronte a sé, individuò la figura alta e inconfondibile di Taita, fermo sull'orlo del precipizio. Osservava i bersagli per il tiro con l'arco predisposti dalla parte opposta dell'abisso, e non si voltò neppure quando i due giovani si fermarono alle sue spalle e balzarono a terra dal carro. La sera precedente aveva dichiarato: «Se il vento soffierà da ovest, saranno il tiro con l'arco e l'attraversamento del baratro a decidere l'esito finale. Vi aspetterò lì». Wilbur Smith
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Presero archi e frecce dalla rastrelliera, affidando i cavalli agli stallieri in attesa per precipitarsi a raggiungere Taita sull'orlo del precipizio. «Abbiamo perso tempo col lancio del giavellotto», gli spiegò Nefer con aria tetra, mentre impugnava il grande arco da guerra, ancorandone un'estremità nel terreno, in mezzo ai piedi, per esercitare tutta la sua forza e il suo peso sull'estremità opposta nello sforzo di tenderlo. «Krus era troppo ansioso», rispose Taita, «e lo eri anche tu. Ma ripensare al passato non serve a niente. Guarda avanti!» Indicò i bersagli, sospesi a una leggera impalcatura di canne, oltre l'abisso. Come nel tiro col giavellotto, i bersagli erano cinque. Si trattava di vesciche di maiale gonfiate d'aria e sospese ciascuna alla traversa, fissata a un palo verticale per mezzo di una cordicella di lino. Erano ben distanziate tra loro, per evitare che la freccia lanciata verso un bersaglio ne colpisse per caso un altro. La cordicella che le teneva legate era lunga due cubiti, quindi i bersagli avevano anche una certa libertà di movimento. Inoltre, essendo leggeri, danzavano al vento dell'ovest, sussultando e oscillando in modo imprevedibile. Il grande vuoto che si apriva tra loro rendeva quasi impossibile calcolare con precisione la portata del tiro, giacché il vento dell'ovest formava vortici lungo le pareti di roccia. La forza e la direzione del vento che potevano valutare dalla loro parte dell'abisso erano diverse da quelle del versante opposto, e quei fattori avrebbero influito sulla traiettoria della freccia quasi quanto sui bersagli. «Qual è la gittata, vecchio padre?» chiese Nefer, scegliendo dalla faretra una freccia lunga. Qualche ora prima, Taita aveva misurato la lunghezza del lato di un triangolo rettangolo con la base che coincideva con l'orlo del precipizio, poi, grazie a uno strano sistema di corde e cavicchi, aveva calcolato l'angolo sotteso ai bersagli sull'altro versante e infine utilizzato quelle misure per calcolare la distanza tra le due pareti dell'abisso, applicando un metodo che a Nefer era sembrato pressoché incomprensibile. «Centoventisette cubiti», rispose Taita. Nefer aggiunse quell'elemento ai suoi calcoli personali relativi alla velocità e alla direzione del vento, mentre prendeva posizione sull'orlo del precipizio, che gli si sgretolava sotto i piedi. Meren gli si affiancò, stringendo tra le mani l'arco della cavalleria, che era più leggero. «Nel nome di Horus e della dea», pregò Nefer. «Cominciamo!» Wilbur Smith
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Scagliarono la freccia contemporaneamente. Il lancio di Nefer, troppo lungo e alto, finì al di sopra della traversa, mentre la freccia di Meren s'innalzò, descrivendo un angolo più acuto. Mentre rallentava, giunta al vertice della parabola, il vento la investì, deviandola verso sinistra; poi, giunta quasi al limite della sua portata, la freccia ricadde in direzione della fila di vesciche di maiale e colpì in pieno il bersaglio centrale. Si udì lo schiocco dell'esplosione, poi il bersaglio svanì, come per magia. Gli spettatori lanciarono un'esclamazione di gioia, e l'arbitro segnalò a gran voce il centro, ma Meren, incoccando un'altra freccia, borbottò: «È stato un colpo fortunato». «Non mi dispiacerebbe se ne avessi qualche altro in serbo nella faretra», replicò Nefer. «Bak-her, fratello, bak-her!» Presero la mira e lanciarono di nuovo, ma il lancio di Meren risultò troppo corto e la freccia finì tintinnando sulle rocce della parete sottostante. Nefer mancò di mezzo cubito il bersaglio all'estremità di destra, maledicendo Seth per il vento che aveva mandato. A differenza dei giavellotti, nel caso delle frecce le regole della Via Rossa non ponevano limiti al numero di lanci concessi. L'unica condizione era che le frecce dovevano essere tutte a bordo del carro fin dall'inizio, quindi si trattava di calcolare con attenzione il rapporto tra peso e numero. Ciascuno dei due aveva portato con sé cinquanta frecce, ma una di quelle lunghe usate da Nefer pesava una volta e mezzo quella di Meren. Lanciarono e fallirono il colpo, e la volta dopo accadde lo stesso. Taita aveva osservato il vento e il volo di ciascuna delle frecce, facendo appello a tutti i suoi poteri per riuscire a percepire la forza e l'impeto di quel soffio insidioso. Gli pareva quasi di vederne il flusso e la forza, come le correnti in un corso d'acqua limpido. «Mira nello stesso punto», ordinò a Nefer. «Però aspetta il mio ordine.» Nefer tese l'arco con tutte le sue forze e lo mantenne teso, anche se tutti i muscoli del braccio destro tremavano per la tensione. Taita lesse il vento, diventando parte di esso, fino a percepirlo nel profondo dell'essere. «Ora!» bisbigliò, e la freccia partì, volando alta sull'abisso, veleggiando sulle folate capricciose; poi si ebbe l'impressione che si raccogliesse, come un falco che scruta la preda dall'alto prima di piombare sul bersaglio. La vescica colpita esplose, e dalla folla si levò un ululato. Wilbur Smith
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«La prossima!» ordinò Taita. Nefer tese l'arco, puntando in alto a destra rispetto alla seconda vescica. «Ora!» sussurrò il vecchio, che dava l'impressione di poter controllare il volo della freccia con la forza del pensiero. Proprio un istante prima che colpisse il bersaglio, il vento dell'ovest tentò di deviarla, ma la freccia mantenne l'inclinazione iniziale e la vescica scoppiò con uno schiocco sonoro. «La prossima. Tendi l'arco!» mormorò Taita, poi, un attimo dopo, aggiunse: «Ora!» La freccia sfiorò la vescica, ma, all'ultimo momento, la sfera gonfia si scostò, sussultando. Nefer scagliò un'altra freccia, seguendo il suggerimento di Taita, e mancò il bersaglio di una freccia intera, lanciando più in alto a sinistra. Lo sforzo necessario per tendere il grande arco era eccessivo: il braccio destro gli doleva, i muscoli in preda ai crampi sussultavano involontariamente. «Riposa!» gli ordinò Taita. «Tieni l'amuleto di Lostris nella mano destra, e riposa.» Nefer abbassò l'arco e rimase a testa china, in atto di pregare, con la stella d'oro stretta nella destra. Sentì allora la forza affluire di nuovo nel braccio che tendeva l'arco. Meren continuava a tentare con l'arco più piccolo, ma il dolore delle costole incrinate lo costringeva a piegarsi in due e il volto pallido era rigato dal sudore e contratto dallo sforzo. Proprio in quel momento la folla in cima al precipizio cominciò ad agitarsi, voltandosi e guardando verso la sommità del terrazzo. Qualcuno gridò: «Arrivano!» e il grido passò di bocca in bocca, sinché il frastuono non divenne assordante. Alzando la testa, Nefer vide il primo carro superare la linea dell'orizzonte. Era abbastanza vicino per consentirgli di riconoscere chi teneva le redini: si trattava di Daimios, coi capelli d'oro gonfiati dal vento. Dietro di lui, arrivavano gli altri carri degli inseguitori, in fila. Udì vagamente i conducenti che incitavano i cavalli e il rombo delle ruote sul terreno irregolare. «Non guardarli», suggerì Taita. «Non pensare a loro. Pensa soltanto al bersaglio.» Nefer voltò le spalle alla fila di carri che si avvicinava, sollevando l'arco. «Tendi l'arco e aspetta!» disse il vecchio mago. Il vento cadde, dopo una breve folata. «Ora!» La freccia volò infallibile oltre l'abisso e la quarta vescica esplose. Wilbur Smith
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Nefer prese un'altra freccia dalla faretra, poi rimase immobile con la freccia in mano, assalito da una profonda disperazione. Una tempesta di polvere che arrivava dal deserto stava per abbattersi sulla fila di bersagli. La cortina color ocra di sabbia, polvere e detriti oscurò la parte opposta dell'abisso, fino a inghiottire l'ultima vescica rimasta. Dall'alto della collina alle loro spalle, i conducenti dei carri inseguitori lanciarono grida di trionfo, e Nefer udì la voce di Daimios urlare, al di sopra del fragore della tempesta: «Ora dovrai fermarti per batterti con me, Nefer Seti!» «Manca ancora un centro per poter superare la prova», gridò in tono severo Socco, che faceva da arbitro. «Devi continuare.» «Ma il bersaglio non si vede», protestò Nefer. «È il volere del dio senza nome», ribatté Socco. «Devi accettarlo.» «Guardate! Questa è la manifestazione della volontà di una dea più grande e potente», gridò Taita, indicando la nube impenetrabile di polvere gialla che turbinava oltre l'abisso. Come un turacciolo che risale galleggiando dal fondo di un lago torbido, la vescica veleggiava nell'aria, trascinandosi dietro la cordicella spezzata, salendo fino alla sommità della nube di polvere e rimanendo sospesa sull'aria surriscaldata del vortice. «Ora, in nome della dea Lostris!» gridò Taita in tono incalzante. «Ormai è l'unica che può aiutarti.» «In nome della dea!» esclamò Nefer, tendendo il grande arco e prendendo la mira per colpire il palloncino minuscolo in balia della tempesta. La freccia saliva sempre più in alto, dando l'impressione di deviare troppo a sinistra, ma la vescica d'un tratto scese a precipizio per andarle incontro e la punta di selce affilatissima la squarciò, facendola scoppiare e volar via come una foglia al vento. «Avete superato la prova!» Socco li lasciò liberi di ripartire. Nefer lasciò cadere l'arco per correre verso il carro, e Meren lo imitò, sempre stringendosi le costole danneggiate. Dov e Krus partirono di slancio, tra gli incoraggiamenti della folla. Le grida degli inseguitori alle loro spalle erano cariche di collera e di frustrazione, ma Nefer non si voltò. Mille passi più avanti, li aspettava il ponte che univa una parete all'altra, sospeso nel vuoto su un abisso terribile, ma, prima di raggiungerlo, dovevano superare la prova del fuoco.
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Per la prova dell'attraversamento del ponte l'arbitro era Shabako. Lasciata la postazione presso i bersagli dei giavellotti non appena Nefer e Meren avevano superato la prova, aveva raggiunto al galoppo l'orlo del precipizio, occupando il posto stabilito in testa al ponte. Quello era il punto cruciale di tutta la Via Rossa. I novizi avevano la possibilità di scegliere: potevano rifiutarsi di attraversare il muro di fuoco per raggiungere il ponte, optando per la via più lunga e attraversando in un punto più basso, dove la pendenza delle pareti era meno proibitiva. Questo, però, allungava il percorso di due leghe. Shabako rimase fermo all'estremità del ponte, osservando il carro di Nefer che si allontanava dal luogo della prova di tiro con l'arco e, con gli inseguitori alle calcagna, si lanciava al galoppo nella sua direzione, costeggiando il precipizio. Le simpatie di Shabako andavano al Faraone, tuttavia il suo legame di lealtà nei confronti del Dio Rosso era ancora più imperioso. Per quanto desiderasse con tutto il cuore veder trionfare Nefer, non osava mostrare favoritismi: quella sarebbe stata una violazione del giuramento sacro che avrebbe messo a repentaglio la sua anima immortale. Osservò con attenzione la barriera lungo la quale erano accovacciati alcuni uomini con le torce ardenti. La barriera, alta il doppio della statura di un uomo, era fatta di fascine d'erba secca che avrebbero bruciato come esca, con quel vento caldo e asciutto, ed era fatta a semicerchio, con le due estremità ancorate all'orlo del precipizio, come se tenesse tra le braccia la testa del ponte. Non c'era modo di aggirarla, quindi, per imboccare il ponte, i novizi dovevano sfondarla. Shabako impartì a malincuore l'ordine di appiccare il fuoco. Gli uomini con le torce corsero lungo l'ostacolo, dando alle fiamme l'estremità inferiore della barriera. Il fuoco divampò immediatamente, innalzando una parete imponente di fiamme scarlatte e fumo nero. Nefer vide il muro di fuoco stagliarsi davanti a loro e, per quanto lo avesse previsto, sentì la sua sicurezza incrinarsi. Temeva per i cavalli, che avevano già dovuto subire tante dure prove. Osservando le orecchie di Krus, le vide muoversi a scatti in segno di allarme, allorché l'animale sentì l'odore del fumo e vide le fiamme guizzare, smosse dal vento. Ormai a poca distanza, udì la sfida beffarda di Daimios: «Prendi la via lunga, Nefer Seti. Il fuoco scotta troppo per la tua pelle tenera». Wilbur Smith
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Ignorandolo, studiò il muro di fiamme verso il quale erano lanciati. Non c'erano punti deboli, per quanto poteva vedere, ma all'estremità più vicina il fuoco era stato appiccato prima e le fiamme ardevano con violenza rabbiosa. Sotto i suoi occhi, una fascina pesante di erba secca si staccò dalla barriera, lasciando uno stretto varco, attraverso il quale poteva scorgere il contorno tremolante e offuscato del ponte che si stagliava più in là. Allora puntò verso il varco, ordinando a Meren, che gli stava accanto: «Copriti la testa!» Si avvolsero intorno al viso la stoffa del copricapo, innaffiandola con l'acqua dell'otre, prima di bagnare anche la tunica che indossavano. «Tieni pronte le bende per i cavalli», raccomandò Nefer. Ormai erano tanto vicini che sentivano il calore delle fiamme mordere la pelle. Krus ruppe l'andatura e cominciò a impuntarsi di fronte alla barriera di fuoco che gli veniva incontro. «In groppa!» ordinò Nefer. Mentre il carro era ancora lanciato, i due giovani balzarono sulla stanga, per montare in groppa ai cavalli. Nefer si stese sul dorso di Krus, passandogli le braccia intorno al collo per mormorare in tono rassicurante: «Va tutto bene, mio caro. Conosci già la benda e sai che non ti farò del male. Fidati di me, Krus! Fidati di me!» Coprendo gli occhi del cavallo con uno spesso panno di lana, lo guidò con la pressione delle ginocchia verso lo stretto varco che si apriva nella parete di fiamme. Il calore li investì come un'ondata, sollevando una nuvola di vapore dai vestiti bagnati. Nefer sentì la pelle sul dorso delle mani gonfiarsi di vesciche. La punta della criniera di Krus si annerì, arricciandosi a causa del calore, ma tutti e due i cavalli proseguirono la corsa. Investirono la parete d'erba in fiamme, che esplose intorno a loro. A Nefer parve che gli occhi friggessero nella testa per il calore e li chiuse, incitando Krus a fare altrettanto. Sbucarono dalla parte opposta in mezzo a una pioggia di scintille infuocate. Guardando indietro, Nefer vide che Daimios puntava col carro verso il vuoto che loro avevano aperto nella parete di fiamme; ma i suoi cavalli non erano bendati e, vedendo le fiamme, deviarono, cominciando a impennarsi e ad abbassare la testa, lottando per sfuggire all'orrore che scorgevano davanti a loro. «I cavalli di Daimios hanno rifiutato l'ostacolo!» gridò, rivolto a Meren, Wilbur Smith
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che era in groppa a Dov. «Ora abbiamo una possibilità.» Proseguirono al galoppo fino al ponte, poi trattennero i cavalli per fermarli poco prima dell'inizio. «Lasciali bendati!» ordinò Nefer. «Non devono vedere il precipizio.» La passerella che scavalcava l'abisso era stata deliberatamente costruita in modo da non consentire il passaggio a un carro: oltre a essere troppo stretta, non era in grado di sostenerne il peso. Avrebbero dovuto smontare il veicolo e trasportarlo un pezzo alla volta. Mentre Meren staccava i finimenti e impastoiava i cavalli, Nefer prese il maglio per estrarre con un colpo secco i perni di bronzo che fermavano i mozzi, dopodiché smontò le ruote, prendendone una e lasciando l'altra a Meren. Insieme corsero verso l'inizio del ponte, che oscillava dolcemente, ondeggiando a seconda del vento. Non era abbastanza largo per consentire loro di traversarlo affiancati. Nefer non ebbe esitazioni, avviandosi a passo di corsa sulla passerella stretta, seguito a breve distanza da Meren. Il ponte si muoveva pericolosamente sotto di loro, ma i due giovani riuscirono a bilanciare il movimento tenendo gli occhi fissi sull'estremità opposta, senza mai guardare il vuoto spaventoso ai loro piedi e il fondo della gola rivestito di rocce frastagliate. Non appena arrivati dall'altra parte, lasciarono cadere a terra le ruote e tornarono indietro di corsa. Nella barriera di fuoco le fiamme erano ancora troppo alte e violente perché Daimios potesse passare, anche se lo videro frustare i cavalli e insultarli. Dopo avere scaricato l'otre dell'acqua, le ultime frecce e ogni altro equipaggiamento inutile, sollevarono il telaio del carro. Mentre lo trasportavano sul ponte, il vento investì le trecce appese all'estremità delle aste, sferzandole. Ogni passo che facevano sembrava eterno, ma infine arrivarono dalla parte opposta, scaricarono il carro e corsero di nuovo indietro. Nefer raccolse la stanga, portandola sulle spalle come un bilanciere, mentre Meren sollevò i finimenti e le spade, quindi attraversarono di nuovo il ponte. Ormai restavano soltanto i cavalli. Tornando indietro, notarono che le fiamme si stavano spegnendo, ma, nei punti in cui la barriera era crollata, si era formato un alto strato di cenere ancora ardente. Rastafa, uno degli inseguitori, frustò i cavalli, minacciandoli per costringerli a passare; tuttavia, dopo qualche passo, la pelle delle loro zampe bruciò, lasciando la carne viva, e gli animali tornarono indietro nonostante le proteste del conducente, lanciando nitriti e Wilbur Smith
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scalciando per il dolore. Nefer precedette Meren, correndo lungo il ponte che oscillava. Raggiunsero Dov e Krus, che li attendevano con pazienza, bendati e impastoiati, e li liberarono dalle pastoie. «Fa' traversare per prima Dov», ordinò Nefer. «È la più calma.» Mentre lui attendeva, con un braccio intorno al collo di Krus, Meren condusse Dov sulla passerella. Quando sentì il movimento del ponte, la giumenta alzò la testa, sbuffando, allarmata, ma Meren le parlò sottovoce. Lei fece cautamente un altro passo in avanti, poi si fermò di nuovo. «Non metterle fretta», gridò Nefer. «Lasciale scegliere l'andatura che preferisce.» Un passo alla volta, Dov si avventurò sul ponte: arrivata al centro, si fermò, rimanendo immobile con le zampe allargate, tremante. Meren l'accarezzò sulla fronte, rassicurandola, e lei riprese ad avanzare. Appena raggiunto l'altro capo del ponte, scendendo dalla passerella e sentendo la terra sotto gli zoccoli, nitrì e scrollò la testa, sollevata. Daimios, ancora bloccato dalla barriera di fiamme, gridò alle loro spalle: «Hanno già portato uno dei cavalli dall'altra parte. Dobbiamo fermarli subito. Rastafa, dammi i tuoi cavalli. Sono già feriti. Li guiderò oltre la barriera, anche a costo di ucciderli». Nefer vide Daimios superare il letto di cenere ardente che arrivava alle ginocchia dei cavalli. Gli animali, già ustionati, incespicarono, rischiando di cadere, ma Daimios li spinse in avanti, sollevando un torrente di scintille, tra un lezzo disgustoso di peli e carni bruciati. I cavalli, piagati in modo orribile, lo trasportarono oltre la barriera, ma, non appena raggiunto il terreno aperto, si accasciarono. Daimios scese dal carro con un balzo, sguainando la spada per avventarsi contro Nefer. Lui estrasse a sua volta la spada, gridando a Meren: «Torna qui a prendere Krus, mentre io tengo a bada questo bastardo». Poi si fece avanti per affrontare la carica di Daimios. Parò l'attacco sferrato dall'avversario, con le lame che stridevano, sfregando l'una contro l'altra per tutta la loro lunghezza, poi Daimios si ritrasse per tentare un'altra stoccata alla testa. Nefer parò, contrattaccando e costringendo l'avversario a retrocedere con un salto. Ebbe un momento di respiro per guardare alle sue spalle, notando che Meren stava già conducendo Krus sulla passerella oscillante: il cavallo sentì quel movimento sotto gli zoccoli e scrollò la testa, cercando d'indietreggiare. Wilbur Smith
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«Forza, Krus!» gli gridò Nefer in tono severo, e il puledro, sentendo la sua voce, si calmò, continuando, seppur con diffidenza, ad avanzare. Daimios tornò all'attacco, costringendo Nefer a concentrarsi su di lui. Eseguì una rapida serie di stoccate, puntando alla gola e al petto, e, quando Nefer bloccò la lama, parando il colpo, cambiò, mirando alle caviglie. L'altro saltò il cerchio scintillante descritto dalla lama, attaccando la spalla dell'avversario, rimasta scoperta, e la toccò. Vide il sangue sprizzare dai muscoli abbronzati e unti d'olio, ma Daimios non risentì, almeno in apparenza, di quella ferita superficiale, e tornò all'attacco più forte che mai. Ci fu una serie di mosse e contromosse, poi Daimios fece un passo indietro e girò sulla sinistra, con l'intento di passare alle spalle dell'altro e tagliargli la strada del ponte; ma Nefer partì di nuovo all'attacco e lo costrinse a retrocedere. Quell'attimo di tregua gli permise di accorgersi che le fiamme sembravano spente e che ormai la barriera era stata abbattuta quasi del tutto. Gli altri inseguitori avevano abbandonato i carri e stavano scavalcando il letto di cenere ardente per unirsi alla lotta. «Formate un anello intorno a lui, tagliandogli ogni via di scampo!» gridò Daimios agli altri che accorrevano. Nefer vide che Meren si era già inoltrato sulla passerella con Krus, che tremava e sudava nel sentire l'oscillazione delle assi, ma fortunatamente non poteva vedere l'abisso sotto di sé. Proprio in quel momento gli altri inseguitori si slanciarono in avanti, brandendo la spada e cominciando a schernire Nefer: «Ora ti ficcheremo quella bella treccia su per il culo da Faraone!» Lui si affrettò a ritirarsi all'imbocco del ponte, dove potevano affrontarlo soltanto uno alla volta, e le grida di scherno cessarono. Si fermarono in gruppo davanti a lui. «Mi ha ferito», sibilò Daimios. «Tienilo impegnato tu, Rastafa, mentre io bendo la ferita.» Dopo aver strappato coi denti una striscia di tessuto dall'orlo della tunica, la legò sulla ferita poco profonda, mentre Rastafa correva verso il ponte. Era un uomo dalla carnagione scura, con lo sguardo cupo e collerico, massiccio, ma agile e svelto come un furetto. Si tenne in equilibrio senza problemi sulle tavole del ponte in movimento, sferrando assalti alla gola di Nefer e attaccando con tanta foga che lui dovette indietreggiare di nuovo. Non appena sentì il suono delle lame e le grida alle sue spalle, Krus si Wilbur Smith
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drizzò sulle zampe posteriori per protesta, facendo sussultare e ondeggiare il ponte: per un istante terribile si ebbe l'impressione che il cavallo potesse perdere l'equilibrio e finire nel vuoto, ma poi, chissà come, posò tutt'e quattro le zampe sulle tavole ondeggianti, restando immobile, col corpo scosso da un tremito. Fu Rastafa a incespicare e barcollare, mulinando le braccia nel tentativo di ritrovare l'equilibrio. Nefer, allora, avanzò fulmineo di un passo, riuscendo a colpirlo sotto il braccio sollevato. La lama di bronzo scivolò tra le costole, penetrando a fondo. Rastafa lo guardò con un'espressione sorpresa, mormorando: «Fa male... In nome di Seth, fa male!» Nefer ritirò la lama, e il sangue di Rastafa sprizzò come l'acqua da una sorgente, segno che la ferita aveva raggiunto il cuore, mentre lui cadeva all'indietro e finiva roteando nell'abisso, con le braccia e le gambe allargate come i raggi di una ruota. Precipitando, lanciò un urlo selvaggio, smorzato dalla caduta, poi quel grido s'interruppe bruscamente, mentre l'armatura si schiantava con un rumore metallico sulle rocce in fondo alla gola. I compagni rimasti intorno alla testa del ponte esitarono, inorriditi da quel tuffo mortale e improvvisamente restii ad avventurarsi sulla passerella. Nefer approfittò dell'occasione per dirigersi verso Krus, e accarezzarne i fianchi tremanti. «Sta' calmo, sono qui, bello mio. Forza, va' avanti!» Nel sentire la sua voce, Krus si placò e, non appena il folle ondeggiare del ponte cessò, fece un passo, poi un altro. «Avanti, Krus, avanti.» Erano quasi a metà strada, quando Meren gli gridò un avvertimento: «Alle tue spalle, fratello!» Nefer si girò di scatto, appena in tempo per affrontare un altro avversario, che conosceva di fama. Si trattava di uno schiavo libico, che combatteva per ottenere la libertà. Corse arditamente sulla passerella stretta, lanciato all'attacco. Sfruttò in pieno l'impeto della carica, e Nefer riuscì a stento a schivare il primo colpo. Incrociarono le spade, ritrovandosi allacciati in un abbraccio mortale col braccio libero. Lottarono, spostandosi e cercando di trovare una presa più vantaggiosa. Krus, eccitato dai suoni della lotta che si svolgeva alle sue spalle, si slanciò di nuovo in avanti, percorrendo qualche altro passo verso la salvezza rappresentata dal versante opposto. Nefer era ancora abbracciato all'avversario, che aveva i denti neri e Wilbur Smith
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scheggiati e l'alito fetido. Lo schiavo tentò di affondare le sue sudicie zanne nel viso di Nefer, facendole scattare come se fosse un cane, ma il giovane si tirò indietro per sferrargli una testata, urtando con la visiera dell'elmo di cuoio sul naso dell'altro. Sentì l'osso e la cartilagine spezzarsi, dopodiché lo schiavo allentò la presa, arretrando. Sbilanciato dal colpo, perse l'equilibrio, afferrando la corda che serviva da mancorrente e si aggrappò disperatamente a quell'ancora di salvezza, col corpo inarcato nel vuoto. Nefer gli recise le dita con un colpo di spada, e la corda scivolò via dai monconi sanguinanti. L'uomo precipitò dal parapetto, urlando e roteando nel vuoto: la caduta parve interminabile. Poi giunse il tonfo sordo del corpo che si schiantava sulle rocce sottostanti. Sulla passerella alle sue spalle si trovavano ancora tre uomini, guidati da Daimios. Quest'ultimo si era fasciato la ferita e sembrava determinato, ma aveva visto la sorte toccata ai due compagni, e questo lo aveva reso più cauto. Nefer lo impegnò in uno scambio di colpi, tenendolo sempre a distanza e concedendogli terreno soltanto a mano a mano che Krus avanzava esitante verso la sponda opposta. Poi Meren gridò trionfante: «Siamo dall'altra parte», e Nefer udì gli zoccoli del cavallo calpestare la roccia. Krus è passalo, pensò, esultante. Non poteva voltarsi, perché la spada di Daimios gli volteggiava scintillante davanti agli occhi, tuttavia riuscì a gridare: «Taglia il ponte, Meren! Taglia i sostegni e lascialo cadere». Daimios sentì quell'ordine e fece un balzo indietro, allarmato. Lanciando un'occhiata alle sue spalle, calcolò qual era la distanza dall'inizio del ponte e quanto mancava all'estremità opposta. Meren si avvicinò alle due corde spesse che sostenevano il peso della passerella. Vibrò un colpo violento alla prima, tagliandola per metà: i trefoli si divisero in due con uno schiocco sonoro e cominciarono a sciogliersi, riattorcigliandosi poi come serpenti allacciati nell'accoppiamento. Il viso sudato di Daimios fu pervaso da un orrore indicibile: voltò le spalle e fuggì insieme con gli altri, tornando verso il punto di partenza, mentre Nefer girava su se stesso e correva verso Meren. Raggiunse l'estremità del ponte, mettendosi in salvo con un salto, poi cominciò subito a colpire con la spada l'altro sostegno, mettendo nei colpi tutta la forza di cui disponeva. Uno dei sostegni si staccò e il ponte sembrò rabbrividire, inclinandosi di lato. Daimios si slanciò in avanti, aggrappandosi all'orlo del Wilbur Smith
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precipizio proprio mentre il secondo sostegno cedeva e il ponte crollava, precipitando nel vuoto. Daimios riuscì comunque ad alzarsi sul ciglio dell'abisso, anche se non poté far altro che fulminare con lo sguardo Nefer e Meren attraverso il vuoto che li separava. Nefer rinfoderò la spada e gli rivolse un saluto beffardo: «Vi aspetta un lungo viaggio per tornare indietro». Poi corse ad aiutare Meren a rimontare il carro. Si erano esercitati a farlo una dozzina di volte, sotto l'occhio vigile di Taita. Mentre Meren sollevava un lato del telaio, lui infilava le ruote sui rispettivi mozzi, inserendo il perno di bronzo con un colpo di maglio; quindi, insieme, sollevarono la stanga, fissandola all'anello sul fondo del telaio. Nefer si attardò ancora qualche secondo per guardare oltre il precipizio, e vide che Daimios e gli altri inseguitori superstiti stavano già risalendo sui carri. Li osservò al di là degli ultimi sbuffi di fumo della barriera d'erba: si allontanavano di gran carriera, seguendo la pista che costeggiava il ciglio del precipizio in modo da raggiungere il punto in cui le pareti diventavano meno ripide e riprendere l'inseguimento. «Abbiamo guadagnato abbastanza tempo.» Meren tentava di mostrarsi fiducioso, ma lo sforzo necessario per portare i cavalli innervositi attraverso il ponte gli aveva imposto un prezzo molto elevato. Infatti, con un gesto quasi involontario, si premette la mano sul fianco ferito. Nefer temeva per lui. «Forse, ma questo dipenderà dal Dio Rosso», mormorò, sfiorando l'amuleto di Lostris che portava al collo. Agganciarono i finimenti ai cavalli, aggiogandoli alla lunga stanga del carro, poi risalirono a bordo per riprendere il percorso lungo la fila di bandiere. In quel tratto potevano spingere i cavalli al massimo, perché alla fine li attendevano Khama di Taurine e Drossa dell'Indo. I cavalli avrebbero potuto riposare a lungo, mentre i loro conducenti affrontavano nell'arena i due combattenti più famosi della compagnia di Aartla. Nefer forzò l'andatura, cosicché le bandierine di segnalazione sfrecciarono ai lati in rapida successione. Superata l'ultima salita, videro davanti a loro, all'estremità opposta della valle lunga e stretta, la città di Gallala, con la porta spalancata per accoglierli. Ma da quella parte della valle, tra loro e la città, c'era una folla composta da molte centinaia di persone, raccolta in una lieve depressione tra le colline. Si sarebbe detto che tutti i cittadini fossero usciti da Gallala per Wilbur Smith
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assistere alla prova delle spade. Scesero di gran carriera lungo il pendio, mentre il frastuono si gonfiava come un'onda di tempesta. In mezzo alla folla c'era un percorso delimitato da ringhiere di legno che li portò fino alle due arene al centro, contrassegnate da cerchi di pietre bianche. Quando balzarono a terra e gli stallieri corsero a prendere i cavalli, Nefer abbracciò Meren. «Tu sei ferito, fratello», gli sussurrò. «Non c'è da vergognarsene, perché si tratta di una ferita ricevuta con onore, comunque ti sarà di ostacolo. Non devi tentare di affrontare Drossa e rispondergli colpo su colpo. Lui è forte e veloce, e inoltre porta l'armatura completa. Cerca di evitarlo e tienilo a bada finché non potrò venire in tuo aiuto.» Poi si separarono, ciascuno diretto all'arena che gli era stata assegnata dagli arbitri, e Nefer si fermò sulla linea di pietre dipinte di bianco, guardando il guerriero al centro. Khama di Taurine portava l'armatura completa, con elmo, pettorale e gambali. Se Nefer e Meren avessero voluto la stessa protezione, avrebbero dovuto portarla a bordo fin dall'inizio, ma il peso avrebbe logorato persino le forze di Krus. Dal bordo dell'arena, Nefer studiò l'avversario. L'elmo di Khama era una maschera spaventosa, con le orecchie protette da due ali allargate e il naso riparato da un becco d'aquila. Gli occhi che scintillavano nelle fessure dell'elmo parevano disumani e implacabili. Il torace era protetto da una corazza di bronzo, mentre i guanti erano coperti di scaglie d'oro simili a quelle dei pesci; sulla spalla sinistra portava un piccolo scudo circolare. «Gola, polsi, ascelle, caviglie e occhi», erano state le istruzioni di Taita. «Tutto il resto è coperto.» Nefer si tolse dal collo l'amuleto di Lostris, avvolgendo la lunga catena d'oro intorno al polso sinistro, poi accostò alle labbra il minuscolo pendente d'oro a forma di stella per baciarlo. Scavalcando il cerchio di pietre bianche, andò incontro a Khama di Taurine. Girarono l'uno intorno all'altro, ripetendo poi il movimento in senso opposto. All'improvviso, Khama si avventò su di lui con una serie fulminea di stoccate e colpi di taglio tanto rapidi da ingannare l'occhio. Nefer non si era aspettato che fosse così veloce, giacché portava un'armatura tanto pesante. Dovette fare appello a tutta la sua forza e abilità per tenerlo a bada, e ricevette lo stesso un colpo di taglio che penetrò Wilbur Smith
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nell'armatura di cuoio, graffiandogli le costole. Mentre si disimpegnavano, riprendendo a girare l'uno intorno all'altro, il ragazzo sentì il sangue scorrere caldo lungo il fianco. La folla gridava e rumoreggiava intorno a loro come un mare in tempesta, ma, nel silenzio improvviso, Nefer udì un grido di dolore provenire dall'altra arena e riconobbe la voce di Meren. Era stato ferito e, a giudicare dal suo tono, si trattava di una ferita grave. Aveva bisogno dell'aiuto di Nefer, probabilmente la sua vita dipendeva da quello; ma anche la vita di Nefer era esposta a un pericolo terribile, perché, fino ad allora, non si era mai trovato di fronte a un avversario come Khama. Neppure Taita era riuscito a cogliere in lui qualche punto debole, eppure, quando si affrontarono di nuovo, in un turbinio assordante di metallo, Nefer notò un lievissimo difetto: se Khama sferrava un colpo basso di taglio, lasciava scoperto per un istante il fianco destro e spingeva la testa in avanti, un gesto goffo che appariva in contrasto col suo stile, per il resto fluido ed elegante. Nefer capì che non avrebbe potuto resistere ancora per molto. Quell'avversario era davvero troppo abile e potente per lui. Ci si gioca tutto con un solo lancio di dadi, pensò. Affrontò il rischio, lasciando scoperto volutamente il fianco destro: Khama si avventò come una vipera per sferrare un colpo di taglio verso il basso, scoprendosi e puntando la testa in avanti. Nefer, che si era preparato, schivò il colpo con uno scarto laterale, lasciando che la lama sfiorasse l'orlo della sua tunica senza far sgorgare sangue. L'amuleto d'oro di Lostris scintillò, girando su se stesso all'estremità della catenella mentre Nefer lo faceva roteare e lo lanciava in avanti come una fionda, sfruttando lo slancio impresso dalla catena per aumentare la velocità del pendente, che saettò nell'aria come un raggio abbagliante di luce. Colpì l'orbita di Khama, incidendo in profondità la pupilla. Khama si ritrasse di scatto, mentre sulla maschera d'oro colava un misto di fluido oculare e di sangue. Accecato e disorientato dal dolore, tentò di togliersi l'elmo per portare la mano sulla pupilla scoppiata, ma quando l'elmo si sollevò, lasciando scoperto il collo, Nefer gli conficcò la punta della spada sopra la sporgenza della gola, per la profondità di un pollice. La punta penetrò nel cervello, e Khama spalancò le braccia e cadde all'indietro, morendo prima ancora che l'armatura si schiantasse sul terreno Wilbur Smith
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indurito dal sole. Nefer gli puntò alla gola il sandalo guarnito di borchie, ma dovette esercitare tutta la sua forza per liberare la punta della spada, rimasta bloccata tra il metallo dell'elmo e l'osso del cranio. Lasciò il cadavere dov'era, allontanandosi dall'arena e avvolgendo di nuovo la catenella dell'amuleto intorno al polso. Tentò di raggiungere l'altra arena, dove sapeva che Meren correva un pericolo mortale, ma la folla glielo impediva; allora brandì la spada per farsi largo e gli spettatori si dispersero, terrorizzati. Quando riuscì ad aprirsi un varco, si rese conto che Meren aveva perso la spada e sanguinava a profusione da uno squarcio terribile nel fianco destro, mentre un taglio gli aveva quasi staccato un orecchio, che penzolava sulla guancia, appeso a un filamento di carne. Nonostante questo, riusciva ancora a tenersi lontano dalla portata di Drossa, arretrando freneticamente di fronte a ogni mossa dell'avversario. Drossa rideva, muggendo come un toro, e il suono della sua risata echeggiava in modo strano all'interno dell'elmo da guerra sormontato da una cresta. Stava cercando di spingere Meren in una posizione adatta per infliggergli il colpo mortale, prendendosela comoda e assaporando sino in fondo quel gioco. In quel momento, voltava le spalle a Nefer, che gli balzò addosso, cercando di sferrargli un colpo nel punto in cui si allacciavano le due parti della corazza. Con l'istinto di un animale selvaggio, Drossa intuì il pericolo e si girò di scatto su se stesso. Il colpo di Nefer urtò contro il pettorale di metallo, scivolando di lato, mentre Drossa tentava di assestargli un colpo micidiale alla testa. Nefer si abbassò, indietreggiando per schivare il colpo, e presero a girare l'uno intorno all'altro. Meren vide l'occasione propizia e si chinò per raccogliere la spada che gli era caduta, ma Drossa gli saltò addosso. Il ragazzo era così debole che incespicò e cadde, mentre Drossa allontanava con un calcio la spada caduta e gli appoggiava un piede tra le spalle, inchiodandolo a terra. «Guarda, possente Faraone, temuto da tutto il mondo, il tuo bamboccio è in mio potere.» Finse di assestargli un colpo di mannaia, come un carnefice, ma arrestò la lama sulla nuca di Meren. «Devo offrirti la sua testa? E' un dono degno di un re.» Nefer, accecato da una rossa cortina di rabbia, si avventò su di lui per indurlo ad allontanarsi dal corpo di Meren, disteso a terra, ma sentì la puntura della lama sulla coscia e questo lo fece rinsavire. Facendo un salto Wilbur Smith
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indietro, si accorse dagli occhi di Drossa che l'avversario giocava con lui, spremendo da quella lotta fino all'ultima stilla di piacere sadico. Era un attore, e la folla amava quell'esibizione, esprimendo la sua approvazione con ululati selvaggi. D'un tratto, Meren riuscì a sollevarsi, afferrando la caviglia di Drossa con le mani insanguinate, per farlo cadere. Lui inciampò, imprecando e liberandosi subito con un calcio, ma rimase per un attimo sbilanciato, e Nefer colse l'occasione per attaccarlo. Mirò alla gola, nel varco tra la parte inferiore dell'elmo e l'estremità superiore del pettorale, però Drossa schivò il colpo con un movimento di torsione e la punta della spada di Nefer colpì soltanto il metallo. Nefer aveva perso l'occasione di ucciderlo, tuttavia lo aveva distolto dalla vittima. Meren infatti riuscì ad alzarsi e a spostarsi barcollando alle sue spalle, per usarle come scudo protettivo. Girarono di nuovo l'uno intorno all'altro, mentre Nefer si sentiva accapponare la pelle, sfiorato dal primo alito gelido della disperazione. Sapeva che da un uomo come Drossa non poteva aspettarsi un'altra occasione del genere. In preda allo sconforto, tentò di nuovo di sfruttare l'amuleto, facendolo oscillare all'estremità della catenella d'oro e mirando verso le fessure per gli occhi che si aprivano nell'elmo di Drossa, ma lui abbassò il mento e l'amuleto d'oro rimbalzò sulla fronte di metallo. Se non fosse stato per la catenella, Nefer lo avrebbe perduto, invece riuscì a recuperarlo e a riavvolgere la catena intorno al polso sinistro. «Quella non è un'arma, ma un giocattolo da bambini.» Drossa scoppiò a ridere con aria sprezzante. Continuarono a studiarsi, fintando; però, mentre l'avversario si muoveva agilmente, Nefer era ostacolato dalla necessità di proteggere Meren. Non poteva sferrare l'attacco, lasciandolo indifeso. Drossa lavorava con loro come un cane da pastore con un gregge di pecore, spingendoli contro la linea di pietre bianche. Voleva ucciderli in modo spettacolare, per compiacere la folla e accrescere la sua reputazione. «Gli inseguitori!» gridò qualcuno tra la folla, e tutti alzarono la testa, guardando verso la sommità del pendio, all'estremità opposta della lunga valle. Il carro di Daimios sfrecciava all'orizzonte. Deciso a rifarsi dell'umiliazione subita sul ponte, aveva spronato i cavalli, lasciandosi dietro tutti gli altri, e si avventava su di loro a tutta velocità. Wilbur Smith
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«Tu appartieni a me, possente Egitto!» esclamò beffardamente Drossa. «Non lascerò che uno sconosciuto come Daimios mi soffi la tua treccia.» Mentre avanzava con aria minacciosa, Nefer vide una determinazione glaciale negli occhi chiari che lo fissavano attraverso le fessure dell'elmo e mormorò a Meren: «Se io dovessi cadere, mettiti in salvo. Esci dall'arena». «No, Faraone, cavalcherò con te per sempre, portandoti la lancia», rispose Meren con un filo di voce. Poi le forze gli vennero meno, le gambe gli cedettero e cadde a terra. Drossa colse l'occasione, abbattendosi su Nefer come una valanga. La sua spada martellò di colpi la guardia disperata dell'avversario, come il maglio di un calderaio che picchia sull'incudine. I colpi intorpidirono il braccio di Nefer fino alla spalla, e il giovane capì che non avrebbe potuto resistere a lungo. Continuò a fissare Drossa negli occhi per prevenire ogni colpo, e li vide socchiudersi e scintillare mentre si concentrava per sferrare il colpo fatale. Arrivò dall'alto, come un tuono dal cielo, e Nefer non poté fare altro che sollevare la spada sopra la testa per pararlo. Sapeva di non poterlo deviare né fermare con una mano sola, perché era troppo potente; così strinse il polso destro con la mano sinistra, nella quale serrava l'amuleto d'oro. Le due spade cozzarono con una violenza alla quale il bronzo non poteva resistere: le lame si staccarono e volarono via, scintillando, fuori del cerchio di pietre bianche. Di colpo si ritrovarono disarmati, e, per un istante, rimasero stupiti a fissarsi. Nefer si riprese per primo, scagliando l'elsa della spada verso il capo di Drossa, che istintivamente batté le palpebre e abbassò la testa. Allora Nefer caricò, e i due si trovarono a faccia a faccia. Piroettarono insieme come un paio di danzatrici del tempio, prima da una parte e poi dall'altra, tentando di rovesciarsi a vicenda. Drossa riuscì a insinuare le mani sotto le ascelle di Nefer, serrando i pugni tra le sue scapole e, coi polsi protetti dal bracciale d'argento e con le mani coperte dai guanti di scaglie d'oro, cominciò a spingere il giovane contro la sua corazza di bronzo. Lui si sentì sollevare da terra, ma non poteva reagire. Non aveva nessun'arma con cui difendersi, tranne l'amuleto di Lostris. Con le ultime forze che gli restavano, riuscì a lanciare la catenella sulla testa di Drossa e, avvolgendola di nuovo intorno ai polsi, la fece scivolare verso il basso, finché improvvisamente essa trovò il varco tra l'orlo inferiore dell'elmo e la corazza, chiudendosi intorno al collo. Nefer tese la Wilbur Smith
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catenella, stringendola, e sentì le maglie d'oro penetrare a fondo nella carne viva. Drossa ansimò, mollando la presa e portandosi le mani al collo per cercare di liberarsi. Afferrando i polsi di Nefer, tentò di allontanarli dalla gola, ma in tal modo non faceva che premere ancora di più la catenella nella carne. Osservando le due fessure nell'elmo, Nefer vide gli occhi di Drossa gonfiarsi nelle orbite e venarsi di sangue. Allora avvolse un altro giro di catenella intorno al polso destro, facendola scorrere avanti e indietro, come una sega. Drossa si lasciò sfuggire un suono gorgogliante, mentre una vena scoppiava in uno degli occhi, che divenne gonfio e scarlatto come una bacca matura. Sempre stringendo i polsi di Nefer, cadde in ginocchio, ma il giovane continuò a serrare le mani e a stringere il cappio finché, all'improvviso, non sentì spezzarsi una cartilagine e il fiato di Drossa proruppe dalla trachea recisa. L'altro girò ancora la catenella per stringerla e tirò di nuovo, sentendola penetrare fino all'osso. Il sangue sgorgò a fiotti sotto l'elmo, e Nefer fece appello a tutte le forze che gli restavano. La catenella trovò la giuntura tra due vertebre nel collo di Drossa e la tagliò. La testa fu recisa dal collo e, ancora chiusa nell'elmo massiccio, rotolò nell'arena. Barcollando all'indietro, Nefer sentì l'arbitro gridare: «Hai superato la prova!» Allora si mise di nuovo al collo la catena d'oro insanguinata. Intanto guardava al di sopra della folla impazzita, verso il pendio della collina. Il carro di Daimios era già arrivato a metà strada e puntava al galoppo verso di lui. Si chinò su Meren. «Riesci a reggerti in piedi?» gli domandò, ma, quando l'amico tentò di farlo, le gambe gli cedettero e lui finì lungo disteso sul terreno sconvolto dalla lotta. Nefer lo afferrò per un braccio e se lo passò intorno al collo. Sostenendo il peso con le spalle, sollevò Meren, gli passò un braccio dietro le ginocchia e lo sollevò da terra di peso, con la testa penzoloni sulla schiena e le gambe appoggiate al petto. Meren era pesante e lui era quasi al limite delle forze. Barcollando, riuscì a trasportarlo fino al carro in attesa, lasciandolo cadere sulle assi del fondo. Poi si concesse un po' di riposo, appoggiandosi ansimante alla ruota per guardare indietro. Daimios era arrivato al tratto pianeggiante in fondo alla discesa, a meno di quattrocento passi di distanza, e continuava ad avanzare rapidamente: ormai era così vicino che Nefer poteva vedere la sua espressione Wilbur Smith
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trionfante. Daimios si protese, facendo schioccare la lunga frusta nera sul dorso del suo equipaggio, e i cavalli balzarono in avanti, aumentando ancora la velocità. I carri degli altri, sei in tutto, lo seguivano lungo il pendio. Accarezzò l'idea di fermarsi per affrontarli, ma poi la scartò. Nello stato in cui si trovava, non poteva battere neppure Daimios da solo. Quindi non gli restava che la fuga. Passò due tratti di corda intorno al corpo di Meren, facendola scorrere sotto le ascelle e serrando il nodo per assicurarlo alle assi del fondo. Poi s'issò a bordo a sua volta, a gambe larghe, coi piedi ai lati dell'amico. «Lasciateli andare!» gridò agli stallieri che tenevano fermi i cavalli, e subito gli uomini obbedirono, tirandosi indietro con un salto. «Via, Dov! Via, Krus!» gridò, scrollando le redini sul dorso lucente degli animali. I cavalli scattarono in avanti e la folla si disperse davanti a loro, mentre Nefer puntava verso la porta aperta della città, lanciandoli al galoppo. Meren, disteso ai suoi piedi, gemeva a ogni scossone del carro, e Nefer tentò di evitare i tratti più accidentati, ma poi sentì schioccare la frusta alle sue spalle e, voltandosi, vide che Daimios stava per piombargli addosso. Frustava i cavalli all'impazzata, incitandoli con grida colleriche, eppure Dov e Krus mantenevano il vantaggio. Nefer guardò di fronte a sé, calcolando la distanza che doveva ancora percorrere. Mancava meno di una lega alla porta di Gallala, e già riusciva a distinguere le corone di fronde di palma che adornavano le mura e decoravano i pilastri di pietra rossa ai lati della porta. In quel momento, pagò lo scotto della sua disattenzione. La ruota esterna urtò contro un affioramento di roccia ai margini della pista, facendo sobbalzare il carro che sfuggì al suo controllo, rischiando di capovolgersi. Mentre lui lottava per riportarlo sotto controllo, Krus si appoggiò alle tirelle, aiutandolo a raddrizzarlo, ma, quando Nefer guardò indietro, si accorse che quell'errore gli era costato caro, perché Daimios aveva guadagnato un centinaio di passi. Ormai si trovava a un tiro di giavellotto. Il ragazzo lo vide prendere l'arma dal contenitore fissato al pannello laterale del carro e avvolgersi la cinghia intorno al polso. Lui non poteva reagire, perché aveva usato tutti i suoi giavellotti nella prima prova, aveva abbandonato l'arco sul ciglio del precipizio e aveva perso anche l'ultima spada, spezzata nel duello con Drossa. Non aveva neppure la frusta: la sua unica difesa era la velocità. Wilbur Smith
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Incitò i cavalli. «Forza, Dov! Via, Krus!» Sentendosi chiamare per nome, rivolsero le orecchie all'indietro, tempestando il terreno con gli zoccoli. I mozzi delle ruote cigolarono, perché anche l'olio nero di Taita si stava asciugando. Poi Nefer sentì il rumore di altri zoccoli, che si mescolava a quello dei suoi cavalli. Quando guardò indietro, Daimios era ancora più vicino, coi cavalli sanguinanti sui fianchi e sul dorso per le frustate. Teneva pronto un giavellotto, e lo scagliò in quel preciso istante. Nefer lo vide staccarsi dalla sua mano e volare nell'aria come un insetto velenoso. Sussultò istintivamente, quando si conficcò nelle assi del fondo, vicino al suo piede destro, e rimase infisso nel legno, vibrando. «Forza, miei cari.» La sua voce assunse una nota stridula, e i cavalli la sentirono. «Datemi tutto quello che avete!» Krus trovò ancora una stilla di energia nel suo grande cuore, trascinando con sé anche Dov; insieme riuscirono a distaccare la pariglia malconcia e sanguinante di Daimios. «Tirate, maiali!» gridava lui. «Forza, altrimenti vi spello vivi.» E i cavalli, sentendo cantare la sua lunga frusta, sfrecciarono in avanti come se un filo invisibile tenesse uniti i due carri. Daimios afferrò un altro giavellotto, avvolgendosi la cinghia intorno al polso. Quando tirò indietro il braccio per il lancio, Nefer calcolò il momento adatto per imprimere una scossa alle redini. Mentre il giavellotto volava nell'aria, Dov si appoggiò alla spalla di Krus e i due animali deviarono leggermente, quanto bastava perché l'arma volasse oltre la spalla di Nefer. Ma quella manovra gli aveva fatto perdere terreno. Daimios afferrò fulmineo l'ultimo giavellotto dal contenitore. Ormai era vicino, molto vicino. Nefer lo guardò, sentendosi sopraffare dalla disperazione, ma continuando a tenere saldamente le redini in modo che i cavalli potessero anticipare i suoi ordini. Non appena l'altro ruotò in avanti la spalla destra per lanciare il giavellotto, lui indirizzò la pariglia dalla parte opposta, lanciandola al galoppo. Ma il giavellotto non partì dalla mano di Daimios: la sua era stata una finta. Sollevò di nuovo l'arma, tenendola puntata e pronta al lancio. Nefer fu costretto a riportarsi in carreggiata, altrimenti avrebbe dovuto lasciare la pista per avventurarsi sul terreno aperto, in mezzo ai macigni sparsi sulla pianura. Cambiò direzione, e stavolta Daimios non mirò a lui, bensì a Dov, che, nella curva, gli offriva il fianco scoperto. Wilbur Smith
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Il giavellotto penetrò nella parte alta della spalla, incidendo la pelle e i fasci di muscoli fino a raggiungere l'osso, senza tuttavia penetrare negli organi vitali. Non era un colpo mortale, ma certo tale da impedire la sua corsa, perché la punta del giavellotto era seghettata e l'estremità le pendeva sul fianco, ostacolando ogni falcata. La giumenta tentò, tentò con tutto il cuore, ma non riusciva più a mantenere il passo di Krus. Il sangue le scorreva lungo il fianco, schizzando sulle gambe di Nefer. Lui sentì il carro rallentare e, per quanto incitasse Dov, il giavellotto le batteva sul fianco a ogni passo, impigliandosi nelle zampe anteriori. Daimios guadagnò terreno. Con la coda dell'occhio, Nefer vide la testa dei suoi cavalli arrivare all'altezza della sua ruota, e la voce dell'inseguitore, arrochita dalla fatica e dall'esultanza, gli risuonò quasi nell'orecchio. «E' finita, Nefer Seti! Ormai ti tengo in pugno!» Nefer volse la testa, guardandolo. Le labbra di Daimios erano contratte in uno spasmo orribile, simile a quello di un cadavere colpito dal tetano. Aveva scagliato l'ultimo giavellotto a sua disposizione e gettato la frusta, ma aveva sguainato la spada. Chissà quanto manca alla porta della città, rifletté Nefer. Probabilmente meno di cinquecento passi... Pensare che è così vicina, eppure così lontana! D'istinto, alzò gli occhi verso il tetto del tempio, orlato da una fila di minuscole figure umane: tra loro, proprio dove si aspettava di vederla, scorse la tunica rossa di Mintaka e vide che agitava un ramo verde, coi lunghi capelli che fluttuavano al vento del nord come una bandiera. Lei è un premio superiore a ogni altro, pensò, posando la mano sul giavellotto di Daimios che si era conficcato sul fondo del carro. La punta era penetrata in profondità nel legno, ma lui fece forza e, torcendo e strappando, riuscì a liberarla. Non aveva una cinghia da lancio, ma lo impugnò come una lancia, guardando l'avversario. Daimios socchiuse gli occhi, vedendo l'arma nella mano di Nefer, e si mise in guardia, poi si affiancò al suo carro con una progressione inesorabile e gli sferrò un colpo con la spada, che Nefer parò con l'asta del giavellotto. I due carri si allontanarono, poi si accostarono di nuovo, con un urto così violento che Nefer rischiò di essere sbalzato fuori e dovette aggrapparsi alle redini per mantenere l'equilibrio. Wilbur Smith
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Daimios provò a troncare con la spada l'asta dalla quale pendeva la treccia di Nefer, ma non riuscì a tagliare la canna resistente. Recuperato l'equilibrio, Nefer tentò un affondo col giavellotto, spingendolo indietro. Ormai i due carri correvano affiancati. Nefer e Daimios erano entrambi sporti in fuori e si tempestavano di colpi. La spada di bronzo calò sul petto di Nefer e lui, benché scattasse all'indietro contro le redini, sentì il filo della lama penetrare attraverso il cuoio del pettorale, sfiorandogli la pelle come un rasoio; tuttavia ficcò a sua volta la punta del giavellotto sotto il naso di Daimios, costringendolo a ritirarsi di scatto. Con la punta seghettata del giavellotto ancora conficcata nelle carni, Dov soffriva visibilmente, anche perché l'asta urtava le zampe a ogni falcata. Nefer udì il suono di molte voci, dapprima sommesse e quasi sopraffatte dal rombo degli zoccoli e dal cigolio delle ruote, poi sempre più forti. Alzando la testa, vide, oltre il velo di sudore che gli irritava gli occhi, la porta della città. Le mura e i tetti erano affollati di spettatori. In mezzo al frastuono delle loro grida, gli parve di udire la voce di Mintaka: «Per me, cuore mio, fallo per me!» Forse era un'allucinazione nata dalla stanchezza, comunque contribuì a rinvigorirlo, e lui incitò i cavalli, sollecitandoli con le redini. Ma Dov ormai barcollava, allo stremo delle forze. Daimios tornò alla carica, e stavolta, quando Nefer tentò di colpirlo, vibrò un colpo violento, diretto non all'uomo, bensì al giavellotto. La sua lama colpì l'asta a una spanna dal polso dell'avversario, spezzandola e lasciandogli in mano soltanto un troncone inutile. Nefer lo lanciò contro la testa di Daimios, ma lui schivò il colpo e sferrò un altro assalto, costringendolo a spostarsi dalla parte opposta del carro per evitare la lama lucente. Riuscendo a rimanere in vantaggio, ne approfittò per passare in testa e, mentre sorpassava Nefer, si protese per afferrare l'asta sulla quale danzava al vento la sua treccia. Tentò di spezzarla, ma la canna, per quanto si piegasse, resistette ai suoi sforzi. Allora Daimios, stringendola con una mano, protese l'altra per afferrare la folta treccia scura, che fluttuava a poca distanza dalle sue dita; tuttavia, poiché cercava al contempo di non mollare la presa sull'elsa della spada, non riusciva ad agguantare il trofeo. Allora lasciò cadere la spada. A quel punto, afferrò la treccia, tentando di strapparla, ma l'asta di canna resistette, e, per di più, la treccia era Wilbur Smith
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saldamente legata. Krus e il cavallo di Daimios che correva sul lato sinistro galoppavano affiancati. Daimios era tutto preso dal tentativo di strappare il trofeo dall'asta di canna; sapeva che Nefer, disarmato, non costituiva un reale pericolo, e ignorava la porta di pietra che si avvicinava. «Appoggiati!» gridò Nefer a Krus. «Spingilo a spallate!» Tese le redini con forza spasmodica. Era a questo che li aveva addestrati per tanti mesi, nel deserto. Allenandosi, con Taita alla guida dell'altra pariglia, aveva insegnato a Krus ad amare quelle prove di forza. Il cavallo intervenne con tutto il peso della massiccia spalla destra, appoggiandosi da dietro all'altro cavallo e sbilanciandolo. I due carri appaiati si spostarono così verso destra, mentre la porta della città si avvicinava sempre più. Il portale vero e proprio era fiancheggiato da pilastri sbozzati di pietra rossa, ancora massicci e imponenti, sebbene i venti carichi di terriccio li avessero levigati e smussati nel corso dei secoli. «Spingilo fuori strada!» gridò Nefer a Krus, incoraggiandolo con le redini. Krus costrinse l'altro cavallo a spostarsi ancora più a destra, fino a puntare direttamente verso il muro compatto di pietra rossa. Proprio all'ultimo istante, Daimios si accorse di quello che stava accadendo e lanciò un grido di allarme, lasciando andare l'asta di canna per tentare di riprendere il controllo del carro, ma Krus dominava l'altro cavallo, ormai lanciato a testa bassa verso il muro. Daimios si rese conto che era impossibile fermare il carro ed evitare la collisione. Allora tentò di saltare dal carro in corsa, ma era troppo tardi. Entrambi i cavalli si schiantarono in piena corsa contro il pilastro di pietra, rimanendo uccisi all'istante. Nefer udì le loro grida di terrore al momento dell'urto, lo schianto dell'impatto, lo schiocco delle ossa che si spezzavano e lo scricchiolio delle assi fracassate. Una ruota si staccò di netto, rotolando a fianco del carro, mentre Daimios fu scaraventato contro le mura, neanche fosse uno dei suoi giavellotti. Urtò la parete di pietra con la testa, e il cranio esplose come un melone troppo maturo. In seguito i ragazzini della città avrebbero estratto i suoi denti bianchi e forti rimasti incastonati nella superficie di pietra rossa, per appenderli a catenelle d'oro da vendere come ricordo sulla piazza del mercato. Nefer guidò Krus e Dov oltre la porta e, sia pure graffiando la pietra rossa col mozzo della ruota di destra, imboccò al galoppo il viale principale, fiancheggiato da una folla entusiasta che aveva tappezzato la Wilbur Smith
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strada di fronde di palma, fiori e perfino scialli, copricapi e altri capi di vestiario. Il primo pensiero di Nefer fu per Dov. Arrestando i cavalli, balzò a terra per correre dalla giumenta ferita. La punta seghettata del giavellotto era conficcata in profondità nella spalla. Si sarebbe fidato soltanto di Taita per farla asportare, ma lui spezzò comunque l'asta per evitare che pendesse lungo il fianco della giumenta. Poi risalì a bordo, riprendendo le redini. Gli spettatori invasero il viale, correndo a fianco del carro che ormai avanzava a passo d'uomo. Si protendevano per sfiorare Nefer, usando la stoffa del copricapo per asciugare il sangue che, dalle ferite, colava lungo le gambe. Il sangue di un dio, di un Faraone e di un guerriero della Via Rossa avrebbe trasformato quel lembo di tessuto in un potente talismano. Tutti gridavano, isterici, le loro lodi. «Prega per noi, possente Egitto, vero Faraone!» «Guidaci, grande Faraone. Concedi anche a noi di dividere la tua gloria!» «Salve, divino fratello del Dio Rosso!» «Possa tu vivere mille e mille anni, Nefer Seti, vero Faraone!» All'ingresso della piazza, la folla era tanto fitta che le guardie della città dovettero precedere il carro a piedi, disperdendo la folla, perché Nefer potesse entrare. Al centro della piazza, sulla pedana rialzata di pietra, Hilto e Shabako diedero il benvenuto ai loro nuovi confratelli. Nefer arrestò sotto la piattaforma il carro malconcio, incrostato di polvere e di sangue, e i due guerrieri scesero per aiutarlo a sollevare di peso Meren. Insieme, lo trasportarono nel tempio di Hathor, dove Taita era in attesa di assisterlo. Deposero Meren sul cavalletto preparato dal vecchio mago, che cominciò subito a curarlo, dedicandosi anzitutto alla profonda ferita di spada nel fianco. Le lacrime di Merykara caddero sul corpo ferito e sanguinante di Meren e lenirono le sue ferite. I guerrieri della Via Rossa ricondussero poi Nefer nella piazza principale, dove il giovane scese i gradini per prendere dal carro le due trecce e portarle fino al braciere che ardeva sul tripode al centro della pedana. Poi s'inginocchiò davanti al braciere, dichiarando: «Nessun nemico ha messo le mani su questi trofei del nostro onore». Le sollevò, perché tutti fossero testimoni, poi, con voce limpida e fiera, dichiarò: «Le Wilbur Smith
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dedico al Dio Rosso». Gettò nel fuoco le trecce di capelli, che furono avvolte dalle fiamme. Soltanto allora Nefer si alzò, vacillando, indebolito dalle ferite. «Ho percorso la Via Rossa! Pur non avendo raggiunto l'età prescritta, ho confermato il mio diritto alla corona doppia dell'Egitto e dichiaro di essere il Faraone, l'unico, vero Faraone. Chiunque altro rivendichi la corona lo farà a suo rischio e pericolo.» Tutti lo acclamarono, mentre i guerrieri della Via Rossa s'inginocchiavano davanti a lui, baciandogli la mano destra e il piede destro e giurandogli fedeltà fino alla morte e oltre. Nefer alzò il braccio destro per chiedere silenzio, ma le gambe gli cedettero, e forse sarebbe caduto, se Mintaka non si fosse precipitata a sorreggerlo. Con un braccio sulle sue spalle, lui la guardò negli occhi, sussurrando: «Quello che ho fatto, l'ho fatto per l'Egitto e per te, amore mio». Aveva parlato con una voce così roca e sommessa che soltanto lei poté udirlo. Alzandosi in punta di piedi, lo baciò sulle labbra, e il popolo, vedendo in quel gesto una pubblica dichiarazione di amore e impegno reciproci, levò grida così sonore che gli echi spaventarono i piccioni selvatici, facendoli alzare in volo a stormi dalle rocce fuori delle mura cittadine. La città galleggiava sulle acque dei due grandi fiumi, schiudendosi sotto i loro occhi come un fiore di loto pronto per essere colto. Aveva le mura di mattoni cotti, larghe ventisette cubiti e più alte persino delle palme più alte di quella terra fertile e ben irrigata. «Quanto misurano in lunghezza?» chiese Trok a Ishtar il medo. «Quanto tempo ci vuole per fare il giro delle mura di questa città?» «Dieci leghe, maestà. Mezza giornata di viaggio.» Trok si alzò in punta di piedi sul fondo del carro, riparandosi gli occhi con la mano. «È questa la leggendaria Porta Azzurra?» domandò. Sapeva che Ishtar aveva vissuto nella città di Babilonia per quindici anni, apprendendo gran parte della sua magia proprio là, nel tempio di Marduk. Anche a quella distanza, la porta scintillava come una gemma enorme. La soglia era così larga che poteva accogliere dieci carri affiancati, mentre i battenti scolpiti in legno di cedro erano più alti di dieci uomini ritti l'uno sulle spalle dell'altro. Wilbur Smith
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«È davvero azzurra», osservò Trok stupito. «Ho sentito dire che è coperta di lapislazzuli.» «No, maestà.» Il viso di Ishtar si contrasse in una smorfia di condiscendenza. «Sono piastrelle di ceramica, ognuna delle quali rappresenta una delle duemila e dieci divinità di Babilonia.» Trok lanciò un'occhiata calcolatrice alle mura che si stendevano ai lati della Porta Azzurra. C'erano torri di guardia ogni duecento passi, mentre le mura massicce erano rafforzate a intervalli regolari da potenti bastioni. Ishtar sapeva a che cosa stava pensando Trok e disse: «Sulla sommità delle mura corre una strada abbastanza larga da consentire il passaggio di due carri affiancati. Nel giro di un'ora, Sargon può spostare lungo le mura cinquemila uomini in qualsiasi punto che sia minacciato da un esercito assediarne». Trok grugnì per far capire che non era impressionato dalla notizia. «In ogni modo, tutte le mura si possono minare alla base, scavando gallerie. Ci basta una breccia.» «Esiste anche una cinta di mura interna, divino Faraone», gli rammentò Ishtar con voce flautata. «Ed è quasi altrettanto inespugnabile della prima.» «Se non possiamo passare attraverso le mura, troveremo un modo per aggirarle», dichiarò Trok con un'alzata di spalle. «Sarebbero quelli i giardini del palazzo di Sargon?» Protese in avanti la barba adorna di nastri per indicare le terrazze che salivano fino al cielo in una gradinata imponente. Erano sovrapposte con abilità e avevano un'altezza impressionante: parevano galleggiare nell'aria come aquile possenti con le ali spiegate, affrancate dai vincoli terreni. Ishtar protese un braccio forte, ricoperto di tatuaggi azzurri. «Ci sono sei terrazze costruite intorno a un immenso cortile, ciascuna più grande dell'altra. Soltanto l'harem conta cinquemila stanze, una per ognuna delle mogli di Sargon. Il suo tesoro è sepolto in una segreta costruita sotto il palazzo, ed è pieno d'oro fino all'altezza della testa di un uomo.» «E tu hai visto tutti questi tesori coi tuoi occhi?» ribatté Trok in tono di sfida. «L'harem, no», ammise Ishtar, «ma sono entrato nel deposito principale del tesoro, e ti dico francamente che in tutto il tuo esercito non ci sono carri sufficienti a portare via un tesoro come quello.» «E io ti dico francamente, Ishtar il medo, che posso sempre costruire Wilbur Smith
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nuovi carri», ribatté Trok, rovesciando la testa all'indietro e scoppiando in una risata sinistra. La marcia fino a Babilonia era stata un lungo trionfo, una serie ininterrotta di vittorie. Si erano scontrati con Ran, il figlio maggiore di Sargon, sulle rive del Bahr al Milh; poi i carri di Trok e di Naja avevano stritolato il suo esercito come chicchi di dhurra, riversando la pula nel lago finché le acque non erano diventate rosse di sangue e i corpi gonfi non ne avevano ricoperto la superficie da una riva all'altra. Avevano quindi portato al padre la testa recisa di Ran, infilzata su una lancia, e Sargon, impazzito per il dolore, era finito in pieno nella trappola che gli avevano teso. Mentre Naja si ritirava di fronte alle sue truppe, attirandolo in avanti, Trok lo aveva aggirato da sud, piombandogli alle spalle con mille carri. Quando Sargon era tornato indietro per difendere il convoglio dei rifornimenti, si era trovato accerchiato da un anello di bronzo scintillante. Il re di Babilonia era riuscito a fuggire con una cinquantina di carri, ma ne aveva abbandonati duemila, insieme con undicimila uomini. Trok aveva evirato tutti i prigionieri, un compito che aveva richiesto due giorni di lavoro; aveva partecipato di persona all'impresa, imbrattandosi di sangue fino ai gomiti come un beccaio e lanciando un motto osceno a ognuno degli sventurati, mentre gli faceva penzolare davanti agli occhi i genitali recisi. Poi aveva lasciato morire dissanguate le vittime, facendo del loro sangue un'offerta a Seueth, il dio avido che amava nutrirsene, mentre i trofei recisi li aveva inviati a Sargon, conservati sotto sale in un centinaio di casse di legno di cedro: monito sottile di quello che poteva aspettarsi allorché Trok e Naja fossero arrivati a Babilonia. La città era costruita sulla sottile striscia di terra tra i due fiumi, l'Eufrate a ovest e il Tigri a est. Nella fretta di ritirarsi, Sargon non era riuscito a distruggere i ponti. Ci sarebbe comunque voluto un esercito intero per abbattere i possenti pilastri di mattoni sui quali poggiavano le arcate, e Sargon non aveva più un esercito. A difesa dei ponti aveva lasciato una compagnia già decimata, ma gli uomini erano demoralizzati e privi dell'appoggio dei carri; non avevano resistito a lungo contro l'esercito dei due Faraoni. Trok aveva legato i prigionieri mani e piedi, gettandoli dall'arcata centrale del ponte nelle acque brune del grande fiume, mentre i soldati egizi si affacciavano al parapetto per assistere ai loro buffi contorcimenti Wilbur Smith
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mentre affogavano. E ormai, a poco più di un anno dalla partenza da Avaris, Babilonia si trovava davanti a loro, «Tu conosci le difese della città, Ishtar, visto che hai collaborato a progettarne alcune. Quanto tempo ci vorrà, prima che essa si arrenda?» domandò spazientito Trok. «Quanto tempo impiegherò ad aprire una breccia nelle mura?» «Le mura sono inespugnabili, maestà.» «Sappiamo entrambi che questo non è vero. A patto di avere tempo, uomini e determinazione a sufficienza, non esistono mura che non si possano espugnare.» «Un anno», mormorò Ishtar, riflettendo. «O anche due, forse tre.» Ma aveva un'espressione subdola sul viso tatuato e uno sguardo sfuggente. Trok scoppiò a ridere, afferrando come per gioco la barba di Ishtar, suddivisa in aculei ispidi, e torcendola tra le dita finché il volto dipinto a spirali azzurre non si contorse in una smorfia di dolore, mentre gli occhi lacrimavano. «Tu vuoi giocare con me, mago. Lo sai quanto mi piace giocare, vero?» «Pietà, possente Egitto», rispose piagnucolando il mago. Trok lo respinse con tanta violenza che lui rischiò di cadere dal carro e dovette aggrapparsi alle sponde laterali per ritrovare l'equilibrio. «Un anno, dici? Due? Tre? Io non ho tempo di starmene qui ad ammirare le meraviglie e i portenti di Babilonia. Ho fretta, Ishtar, e tu sai che cosa voglio dire, no?» «Lo so, dio senza pari. Ma io sono soltanto un uomo, povero e fallibile.» «Povero?» gli gridò in faccia Trok. «Per Seueth, viscido ciarlatano, mi hai estorto già un lakh d'oro, e che cosa ho ricevuto in cambio?» «Una città e un impero. Il più ricco del mondo, dopo l'Egitto. E io l'ho deposto ai tuoi piedi.» Ormai, conoscendo bene Trok, il medo sapeva fin dove poteva spingersi. «Mi serve la chiave di quella città.» Trok lo studiò, felice di quello che vedeva. Anche lui conosceva bene Ishtar. «Dovrebbe essere una chiave d'oro», rispose l'altro in tono riflessivo. «Tre lakh d'oro, diciamo?» Trok si lasciò sfuggire una risata possente, sferrandogli un pugno alla testa; ma non intendeva fargli male, e Ishtar lo schivò con facilità. «Con tre lakh potrei comprare un altro esercito.» Trok scosse la testa, Wilbur Smith
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facendo danzare i nastri della barba come una nuvola di farfalle. «Laggiù, nel tesoro di Sargon, ce ne sono almeno cinquanta, di lakh. Tre su cinquanta mi sembrano un prezzo modesto.» «Consegnami la città, Ishtar. Consegnami la città entro tre lune, e avrai due lakh d'oro del tesoro di Sargon», promise Trok. «E se te la consegnassi prima del prossimo plenilunio?» Ishtar si sfregò le mani come un mercante di tappeti. Il sorriso di Trok svanì di fronte a quella prospettiva. Rispose con serietà: «Allora avrai i tuoi tre lakh, e un convoglio di carri per portarli via». L'esercito dei due Faraoni si accampò davanti alla Porta Azzurra, mentre Trok inviava a Sargon un emissario per chiedere la resa immediata della città, allo scopo di «salvare un simile prodigio architettonico dalle fiamme, nonché la tua persona, la tua famiglia e il tuo popolo dalla spada», come affermava con spavalderia nel messaggio. Per tutta risposta, Sargon, che era un uomo sanguigno e si sentiva al sicuro, gli rinviò la testa mozza dell'emissario. Allora Trok e Naja fecero il giro delle mura per farsi ammirare dai babilonesi in tutto il loro splendore e la loro potenza. Guidavano due carri d'oro. Quello di Trok era trainato da sei stalloni neri, mentre quello di Naja sfoggiava sei cavalli bianchi. Al fianco di Naja c'era Heseret, scintillante di gioielli, con l'ureo d'oro sui capelli raccolti in una massa di riccioli. Dietro i carri marciavano cinquanta prigioniere, donne babilonesi catturate nei villaggi e nelle città compresi tra i due fiumi, tutte incinte e alcune prossime al parto. I due Faraoni erano preceduti da un'avanguardia di cinquecento carri e seguiti da una retroguardia di altri cinquecento. Il lento e solenne giro della città richiese tutta la giornata, poi, al tramonto, tornarono alla Porta Azzurra. Sargon e il suo consiglio di guerra erano adunati sui parapetti che sovrastavano la splendida porta scintillante. Sargon era alto e magro, con una folta capigliatura argentea. Da giovane era stato un guerriero temibile e aveva conquistato le terre del nord, spingendosi fino al mar Nero per estendere i suoi domini. Era stato sconfitto una sola volta, per mano del Faraone Tamose, il padre di Nefer Seti. Adesso aveva altri due egizi alle porte, e non s'illudeva davvero che sarebbero stati misericordiosi come il primo. Quasi per dargliene una conferma, Trok costrinse le donne incinte a Wilbur Smith
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spogliarsi e sfilare davanti a lui, una alla volta. Poi, sotto gli occhi della città intera, fece squarciare loro il ventre, estrarre i nascituri e accumulare i loro corpicini sulla soglia della Porta Azzurra. «Aggiungili al tuo esercito, Sargon», ruggì Trok. «Avrai bisogno di tutti gli uomini che riuscirai a procurarti.» La giornata era stata lunga e piena di emozioni per Heseret, che si ritirò nella sua tenda con le ancelle, lasciando il marito e Trok intenti a meditare sulla mappa della città, alla luce delle lampade. La mappa era un'autentica opera d'arte, tracciata su una pelle di pecora finemente conciata: le mura, le strade e i canali erano disegnati in scala, con tutti gli edifici principali rappresentati a colori fin nei minimi dettagli. «Come sei riuscito a entrarne in possesso?» domandò Naja. «Dodici anni fa, per ordine del re Sargon, ho ispezionato la città e disegnato con le mie mani questa mappa», replicò Ishtar. «Nessun altro avrebbe potuto farlo con altrettanta precisione ed eleganza.» «Se te l'ha commissionata lui, come mai non l'hai consegnata a Sargon?» «L'ho fatto», rispose Ishtar, «ma a lui ho consegnato la copia, mentre in segreto tenevo per me l'originale che avete sotto gli occhi. Sapevo che un giorno qualcuno mi avrebbe offerto una ricompensa più lauta di quella pagata da Sargon.» Continuarono a studiare la mappa, mormorando ogni tanto qualche commento, ma restando per la maggior parte del tempo in silenzio, assorti nelle loro riflessioni. Da generali avvezzi al combattimento, con l'occhio professionale per gli aspetti salienti di un campo di battaglia, erano in grado di ammirare la profondità e la potenza delle mura, delle torri e dei fortini costruiti nel corso dei secoli. Alla fine, Trok si alzò. «Non riesco a individuare nessun punto debole, mago. Per la prima volta, devo ammettere che hai ragione. Ci vorranno anni di duro lavoro per penetrare oltre quelle mura. Dovrai fare di meglio per guadagnare i tuoi tre lakh.» «L'acqua», sussurrò Ishtar. «Guardate l'acqua.» «L'ho guardata», ribatté Naja, sorridendo. Però il suo era il sorriso di un serpente, gelido, a fior di labbra. «Ci sono canali che riforniscono tutti i quartieri della città, fornendo acqua sufficiente per coltivare le sei terrazze coltivate a giardini che s'innalzano fino al cielo, oltre che per dissetare e sfamare la città per almeno altri cent'anni.» «Il Faraone è sapiente e onnisciente», replicò Ishtar con un inchino. «Ma Wilbur Smith
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l'acqua da dove viene?» «Da due fiumi possenti, i più grandi del mondo, dopo il Nilo. Una riserva d'acqua che non è mai venuta meno nel corso di un millennio.» «Ma dove entra in città quest'acqua? Come passa, sotto o sopra le mura?» insistette Ishtar. Naja e Trok si scambiarono un'occhiata. Stavano cominciando a capire. Mezza lega a nord di Babilonia, fuori della cinta muraria, sorgeva il tempio di Ninurta, il dio alato dell'Eufrate con la testa di leone. Il tempio sorgeva sulla riva orientale del fiume, nel punto in cui il corso d'acqua era più largo e scorreva torpido, ed era sorretto da pilastri di pietra che si protendevano nelle acque. Le molteplici immagini del dio erano scolpite in un bassorilievo che correva lungo le quattro pareti esterne. Sull'architrave di pietra dell'ingresso era inciso un monito che invocava l'ira del dio su chiunque avesse tentato d'introdursi nel santuario. Sulla soglia, Ishtar il medo operò un incantesimo per annullare la maledizione, tagliando la gola a due prigionieri e spargendo il loro sangue. Una volta aperta la strada, Trok, scortato da venti soldati, entrò nel cortile del tempio dov'erano raccolti tutti i sacerdoti di Ninurta, vestiti con una tunica violacea. Cantavano e gesticolavano, agitando le braccia verso l'intruso e spruzzando acqua dell'Eufrate sul suo cammino, invocando Ninurta perché innalzasse un'invisibile parete magica intesa a respingere l'uomo che stava per compiere il sacrilegio. Ma Trok attraversò quella parete senza la minima esitazione, uccidendo il Gran Sacerdote con un solo colpo alla gola. Ululando per condannare quel sacrilegio, gli altri sacerdoti si prostrarono dinanzi a lui. Trok allora rinfoderò la spada, rivolgendo un cenno al capitano delle sue guardie. «Uccidili tutti e accertati che non si salvi nessuno», sibilò. Il lavoro fu eseguito in fretta e, quando il cortile fu costellato di corpi vestiti di viola, Trok ordinò: «Non gettateli nel fiume. Non vogliamo che le guardie cittadine li vedano galleggiare sull'acqua e intuiscano che cosa abbiamo in mente». Poi si girò per guardare Ishtar che era entrato nel cortile per operare un altro incantesimo, destinato a neutralizzare l'influenza negativa del dio da loro invocato. Bruciò in tutti gli angoli fasci di erbe, il cui fumo denso e untuoso era ripugnante tanto per Ninurta quanto per tutti gli altri dei e per i mortali, come osservò Trok in tono allegro. Una volta completata la Wilbur Smith
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purificazione, Ishtar fece strada agli altri nei luoghi sacri del tempio, seguito da Trok e dai suoi soldati, con le spade coperte di sangue ancora sguainate. I loro sandali muniti di borchie metalliche suscitarono un'eco sorda nei recessi oscuri del tempio enorme, dal soffitto alto come una caverna. Tuttavia, mentre si avvicinavano all'immagine del dio, persino Trok provò un improvviso brivido di timore superstizioso, guardando quella testa di leone dai denti scoperti in un ringhio silenzioso e le grandi ali di pietra spiegate. Ishtar recitò un'altra preghiera interminabile destinata a placare la divinità, poi guidò Trok nello spazio angusto tra la parete di fondo e il dorso dell'idolo per indicargli una porta costituita da una grata massiccia, incassata nella statua di Ninurta. Trok afferrò le sbarre, scrollandole con tutte le sue forze, ma la grata non si mosse neppure. «Esiste un modo più facile, onnisciente Faraone», suggerì Ishtar in tono mellifluo. «La chiave dev'essere sul corpo del Gran Sacerdote.» «Va' a prenderla», scattò Trok, rivolto al capitano delle guardie, che corse via. Quando tornò, aveva le mani insanguinate, ma portava con sé il pesante mazzo di chiavi, alcune delle quali lunghe quanto il suo avambraccio. Trok ne provò un paio, e la seconda riuscì ad aprire l'antico meccanismo della serratura. La grata si aprì, ruotando sui cardini cigolanti. Sbirciando verso il basso, Trok vide una scala a chiocciola che scendeva nel buio. L'aria che proveniva dal pozzo era fredda e umida; dal fondo giungeva un rumore di acqua corrente. «Prendete delle torce!» ordinò. Il capitano mandò quattro soldati a staccare le torce dalle staffe infisse nelle pareti. Con una torcia sollevata sopra la testa, Trok cominciò a scendere le scale strette, prive di protezione. Procedeva con cautela, perché i gradini erano viscidi e scivolosi. Più scendeva, più il rumore dell'acqua corrente diventava forte. Ishtar lo seguiva da vicino. «Questo tempio e le gallerie sottostanti sono stati costruiti quasi cinquecento anni fa», spiegò a Trok. Ormai sotto di loro si vedeva scintillare l'acqua, mentre il rumore era diventato quello di un torrente che scorreva nel buio. Trok arrivò finalmente in fondo alle scale, su una banchina di pietra. La luce tremolante della torcia gli rivelò che si trovava in un'ampia galleria col soffitto a volta, un acquedotto di dimensioni impressionanti. Il tetto e le pareti erano rivestiti di piastrelle di ceramica che formavano disegni geometrici. Le due estremità della galleria si perdevano nel buio. Wilbur Smith
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Ishtar staccò dalla parete un frammento di fungo, gettandolo nella corrente, dove fu trasportato via lungo il condotto, scomparendo alla vista. «È più profondo della statura di un uomo», osservò. Trok fissò con aria meditabonda il capitano delle guardie, come se stesse pensando di verificare quell'affermazione. Il capitano si ritirò nell'ombra, tentando di farsi notare il meno possibile. «Il camminamento nel quale ci troviamo corre per tutta la lunghezza dell'acquedotto», spiegò Ishtar. «I sacerdoti che riparano la galleria e ne curano la manutenzione lo utilizzano per accedere alle gallerie.» «Dove comincia e dove finisce?» domandò Trok. «Nel letto del fiume, sotto i pilastri del tempio, c'è un bacino nel quale affluisce l'acqua. L'estremità opposta dell'acquedotto sbocca in superficie nell'altro tempio di Ninurta, che si trova dentro le mura di Babilonia, vicino alla Porta Azzurra», spiegò Ishtar. «Soltanto i sacerdoti sono al corrente dell'esistenza di questo condotto. Tutti gli altri sono convinti che l'acqua sia un dono generoso degli dei. Dopo che è scaturita dalla fontana nel recinto del tempio, l'acqua viene sollevata mediante shadoof, ossia ruote ad acqua, fino ai giardini della città, oppure incanalata in tutti i quartieri cittadini.» «Ishtar, credo proprio che ti guadagnerai i tuoi tre lakh», commentò Trok, scoppiando in una risata compiaciuta. «Basta soltanto che tu ci guidi in queste gallerie che ci condurranno nella città dei portenti e dei tesori. Soprattutto dei tesori.» Trok rifletté che i sacerdoti del tempio principale di Ninurta entro le mura della città dovevano intrattenere rapporti regolari con quelli del tempio sul fiume. Quasi certamente usavano l'acquedotto come via di comunicazione tra le due comunità, e non ci avrebbero dunque messo molto a scoprire che, ai loro confratelli del tempio sul fiume, era accaduto qualcosa di spiacevole. Doveva quindi agire in fretta. Scelse duecento degli uomini migliori e più fidati, tutti membri del suo clan, quello del Leopardo, e li divise in due gruppi. Il primo gruppo, una volta penetrato in città attraverso l'acquedotto, doveva prendere possesso della Porta Azzurra e tenerla aperta sinché il Faraone Naja Kiafan non fosse riuscito a entrare col grosso delle truppe. Il secondo gruppo, molto più piccolo, doveva penetrare nel palazzo per impadronirsi del tesoro di Sargon prima che lui potesse disfarsi dell'oro. «Anche se ci vorrebbero Wilbur Smith
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mille carri per trasportarlo...» gli mormorò Ishtar. I duecento prescelti furono vestiti con le divise dell'esercito di Sargon tolte ai prigionieri e ai morti rimasti sul campo di battaglia: tuniche a strisce lunghe fino alle caviglie e strette in vita da una cintura, con l'elmo alto a forma di arnia. Ishtar insegnò loro ad acconciarsi la barba e i capelli coi riccioli caratteristici degli abitanti della Mesopotamia. Soltanto una fusciacca rossa alla vita li distingueva dai nemici. Gli scribi dell'esercito tracciarono in fretta copie rudimentali della mappa cittadina da distribuire ai comandanti di ogni divisione, in modo che conoscessero la pianta delle strade e degli edifici. Verso sera, tutti sapevano esattamente che cosa ci si aspettava da loro, una volta entrati in città. Non appena fece buio, Naja spostò le sue truppe d'assalto all'esterno della Porta Azzurra, pronte a fare irruzione nella città non appena gli uomini di Trok l'avessero aperta. Nel cortile del tempio di Ninurta sul fiume, Trok schierò la sua divisione. Indossando, sopra le vesti, il copricapo e la tunica violacea sottratti ai corpi dei sacerdoti massacrati, Ishtar e Trok fecero scendere agli uomini la scala a chiocciola fino all'acquedotto. Scesero senza fretta, perché avevano molte ore di tempo per coprire il lungo percorso sotterraneo. I sandali corazzati con le borchie erano stati avvolti nel cuoio, e dunque marciarono in silenzio, portando una torcia ogni dieci uomini, in modo da individuare un percorso sicuro in mezzo alle pietre viscide. Alla loro sinistra, scorreva nel buio il flusso ininterrotto dell'acqua. Ogni mille passi, Ishtar si fermava per placare il dio Ninurta con doni e incantesimi, sgomberando la via degli ostacoli magici e delle barriere collocati dai sacerdoti uccisi. Ciò nonostante, quella marcia silenziosa parve interminabile agli occhi di Trok. All'improvviso, tuttavia, Ishtar si fermò, indicando un punto più avanti. Un lieve baluginio si rifletteva sulle pareti di ceramica. Trok segnalò agli uomini che lo seguivano di fermarsi, prima di proseguire insieme con Ishtar. Avanzando verso la fonte della luce, i due videro un'altra porta a grata che sbarrava il tunnel. Sulle pareti, inoltre, si agitavano ombre deformate di uomini proiettate dalla luce di una torcia fissata a una staffa sopra la grata. Si avvicinarono, e, dalla parte opposta della griglia, scorsero due sacerdoti seduti davanti a una tavola del bao, assorti nel gioco. Quando Ishtar li chiamò sottovoce, sollevarono la testa. Quello grasso si alzò, Wilbur Smith
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avvicinandosi alla grata con un'andatura incerta. «Vieni da parte di Sinna?» domandò. «Sì», gli assicurò Ishtar. «Sei in ritardo. È dal tramonto che ti aspettiamo. Saresti dovuto venire qualche ora fa. Il Gran Sacerdote sarà irritato.» «Mi dispiace», rispose Ishtar in tono contrito. «Ma tu conosci Sinna, no?» Il sacerdote grasso ridacchiò. «Sì, certo che lo conosco. È stato lui a farmi da maestro, trent'anni fa.» Girò la chiave nella serratura della grata, con un rumore stridulo, poi spalancò il battente. «Devi affrettarti», aggiunse. Trok, col viso celato da un cappuccio e la spada nascosta in una piega della tunica, si avvicinò. Il sacerdote si addossò al muro per farlo passare. Trok allora si fermò di fronte a lui, sussurrando: «Ninurta ti ricompenserà, fratello». Poi lo uccise con una stoccata che, partendo da sotto il mento, gli trapassò il cranio. Il compagno balzò in piedi con un grido allarmato, rovesciando la tavola del bao e sparpagliando le pedine sul pavimento di pietra. Trok lo raggiunse con due lunghe falcate, spiccandogli la testa dal busto. Senza un lamento, il sacerdote cadde all'indietro nelle acque scure del condotto e, con la veste che gli si gonfiava intorno, fu trascinato via. Obbedendo al fischio sommesso di Trok - che era il segnale stabilito -, gli uomini si avvicinarono con la spada sguainata, camminando senza far rumore grazie alle protezioni di cuoio applicate intorno ai sandali. Ishtar li condusse fino ai piedi di un'altra ripida scala di pietra. Salirono in fretta, raggiungendo una pesante cortina che sbarrava la strada. Allora Ishtar sbirciò dalla parte opposta, annunciando: «Il tempio è vuoto». Trok sollevò la tenda e passò oltre, guardandosi intorno. Quel tempio era ancora più grande e imponente di quello sul fiume: il soffitto era così alto che la luce di cinquanta torce veniva inghiottita dalle ombre. Ai loro piedi si stagliava la statua del dio, accovacciato all'imboccatura del condotto da cui l'acquedotto sprizzava acqua con la forza di una fontana gigantesca, riversandola poi in una profonda conca col bordo di marmo bianco, dove fluttuava il corpo del sacerdote che Trok aveva decapitato. Di lì, l'acqua si riversava nel canale che la portava in città. Nell'aria aleggiava un forte odore d'incenso, eppure il tempio appariva completamente deserto. Trok fece segno agli uomini di avanzare. A mano a mano che emergevano dalla galleria, i soldati si schierarono in silenzio alle spalle del Wilbur Smith
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loro comandante e, a un suo segnale silenzioso, avanzarono correndo. Ishtar condusse il gruppo più piccolo oltre una porta laterale del tempio, in un corridoio che lo collegava col palazzo di Sargon, mentre Trok guidava i suoi uomini nella stretta via che correva alle spalle del tempio stesso. Orientandosi in base al ricordo che aveva della mappa, svoltò alla seconda traversa, sboccando sull'ampio viale che conduceva alla Porta Azzurra. Il buio avvolgeva ancora la città, placidamente addormentata sotto le stelle. Lungo la strada incontrarono alcune figure avvolte nei mantelli - tra cui un paio di ubriachi -, ma tutti si affrettarono a togliersi di mezzo, lasciando passare la colonna di guerrieri armati. Una donna con un bambino tra le braccia gridò al loro indirizzo: «Possa Marduk arridere alla vostra impresa, valorosi soldati, e salvarci da Trok, l'invasore venuto dall'Egitto». Trok capiva l'accadico quanto bastava per afferrare il significato della frase, che lo fece sorridere sotto i baffi. Grazie al travestimento, riuscirono ad arrivare in fondo al viale senza che nessuno li fermasse, ma, quando furono in vista della porta, una voce si levò dal posto di guardia. «Fermi! Datemi la parola d'ordine per questa notte.» Il soldato di guardia alla porta, spalleggiato da cinque uomini, uscì alla luce delle torce. Era tuttavia chiaro che quegli uomini erano del tutto impreparati a un attacco e neppure lo temevano: non indossavano né elmo né armatura, e avevano gli occhi gonfi di sonno. «L'onorevole emissario del re Sargon presso i Faraoni egizi», borbottò Trok, parlando in un accadico abominevole e impartendo al contempo ai suoi uomini il segnale dell'attacco. «Aprite la porta e fate largo!» Si avventò sul soldato di guardia, che esitò un istante di troppo. Poi vide lo scintillio delle spade e gridò: «Alle armi! Fate uscire la guardia!» Ma ormai era tardi. Trok era già su di lui, e lo abbatté con un colpo solo. I suoi uomini assalirono le altre guardie prima ancora che potessero abbozzare una difesa, ma il fragore dello scontro aveva allertato le sentinelle affacciate ai parapetti sopra la porta, che suonarono l'allarme, soffiando nei corni d'ariete, e scagliarono giavellotti contro gli attaccanti. «Snidateli da lassù!» ordinò Trok. Metà dei suoi uomini si precipitarono su per le rampe ai lati della porta, raggiungendo il parapetto, e furono subito impegnati dalle guardie in uno scontro serrato. Ishtar aveva descritto il locale che ospitava il complesso macchinario necessario per aprire la Porta Azzurra, un sistema di argani e pulegge che Wilbur Smith
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azionava il movimento dei massicci battenti. Trok guidò il resto dei suoi uomini verso l'entrata prima che i difensori potessero sbarrare le porte dall'interno: dopo qualche minuto di combattimento accanito, avevano già ucciso o ferito la maggior parte di loro. I superstiti gettarono le armi, alcuni inginocchiandosi per chiedere misericordia, ma invano; infatti furono uccisi a colpi di spada o di mazza, mentre erano ancora in ginocchio. Gli altri fuggirono dalla porta sul retro, mentre Trok mandava i suoi uomini ad azionare gli argani. Lavorando in due a ogni argano, cominciarono ad aprire i battenti. Intanto, però, i corni d'ariete avevano risvegliato le guardie cittadine, che arrivarono a frotte dai loro alloggi, alcuni senza armatura e ancora semiaddormentati, per accorrere in difesa della porta. Trok sbarrò la porta massiccia della sala degli argani, collocando alcuni uomini all'entrata per difenderla. Sui parapetti che sovrastavano la porta, i suoi soldati avevano ucciso i difensori, scaraventandone i corpi dall'alto delle mura, e in quel momento si battevano sulle rampe d'accesso, tenendo a bada i babilonesi lanciati all'attacco. La porta del locale degli argani tremava, gonfiandosi sotto i colpi d'ariete dei babilonesi, che tentavano disperatamente di sfondarla, ma gli argani continuavano a girare lentamente, azionati dagli uomini di Trok, e i massicci battenti della porta si sollevarono dal loro alloggiamento, aprendo un varco sempre più ampio. Ormai il viale che conduceva alla porta era affollato di difensori babilonesi, che tuttavia erano intralciati dal loro stesso numero. Sulle rampe che portavano alle mura potevano salire soltanto quattro uomini affiancati, e i soldati di Trok li affrontavano alla pari, respingendoli. Altri tentavano ancora di fare irruzione nella stanza che ospitava gli argani, ma la porta era solida e, quando infine riuscirono ad abbatterla, trovarono Trok e i suoi uomini ad aspettarli. All'esterno delle mura, gli uomini di Naja si erano fatti avanti a sciami, armati di leve che usarono per allargare sempre di più il varco nella porta, sinché esso alla fine consentì il passaggio di una squadra di carri. Allora si tirarono indietro, mentre Naja guidava una compagnia di carri da guerra lanciati in una carica brutale, spazzando via gli avversari da un capo all'altro del viale. Nella sua scia, tutto l'esercito egizio si riversò in città, mettendosi agli ordini di Trok, che li guidò all'assalto del palazzo. Il sacco di Babilonia era cominciato. Wilbur Smith
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La difesa del palazzo, guidata da Sargon in persona, fu strenua, ma quella sera Trok aveva già aperto una breccia nelle mura esterne della prima terrazza dei giardini pensili. Quando riuscì a introdurre un nutrito contingente di uomini attraverso quel varco, le difese crollarono. Facendo irruzione nella camera da letto di Sargon, lo trovarono in ginocchio davanti all'immagine di Marduk, il dio divoratore della Mesopotamia, con una spada insanguinata tra le mani. Accanto a lui c'era il corpo della sua moglie preferita, una donna dai capelli grigi che era al suo fianco da trent'anni: il re le aveva dato una morte misericordiosa in confronto a quella che avrebbe potuto aspettarsi dagli uomini di Trok. Sargon, però, non era riuscito a trovare il coraggio di gettarsi sulla spada. Trok gli strappò l'arma di mano. «Abbiamo molti argomenti da discutere, maestà», gli assicurò. «Non sei stato tu a definirmi la 'bestia nera di Seueth'? Spero di convincerti che mi hai dipinto nel colore sbagliato.» Le donne dell'harem furono condotte in massa fuori del palazzo: erano cinquecento, non cinquemila, come aveva detto Ishtar. Trok ne scelse per sé venti, le più giovani e graziose, lasciando le altre agli ufficiali di grado superiore. Dopo averne goduto, le avrebbero passate alla soldataglia. Furono necessari altri due giorni per raggiungere la sala del tesoro, sepolto nel terreno al di sotto del palazzo, perché era protetto da numerosi congegni e meccanismi ingegnosi. Senza l'esperienza e le informazioni di prima mano di Ishtar, forse avrebbero impiegato ancora di più per entrare nella sala del tesoro. Quando la via fu libera, Trok e Naja scesero lungo la scala, seguiti da Heseret, entrando finalmente nella stanza segreta. Per illuminare l'interno, Ishtar aveva acceso un centinaio di lampade a olio, con la luce riflessa ingegnosamente da specchi di rame levigato che mettevano in risalto il bottino. Persino i due Faraoni e Heseret ammutolirono di fronte allo splendore del tesoro. L'argento massiccio era stato fuso in barre, mentre l'oro era depositato sotto forma di lingotti conici che si adattavano l'uno all'altro, facilitandone la sistemazione in pile compatte. Recavano tutti il marchio degli orafi che li avevano realizzati e il cartiglio reale di Sargon. Heseret rimase per una volta senza parole, costretta a proteggere gli occhi delicati dallo sfavillio abbacinante di quella massa di metallo Wilbur Smith
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prezioso. Naja avanzò lentamente tra le pile di lingotti, più alte della sua testa, fermandosi ogni tanto per accarezzarne qualcuno. Infine ritrovò la voce, mormorando: «Sono caldi e levigati come il corpo di una vergine». Trok ne prese uno per mano, ridendo di gioia. «Quanti sono?» chiese a Ishtar. «Ahimè, splendida e divina maestà, non abbiamo ancora avuto l'opportunità di contarli, comunque abbiamo consultato le tavolette degli scribi di Sargon, che registrano un peso totale di cinquantacinque lakh d'oro e trentatré d'argento.» Allargò le braccia in un gesto di falsa modestia. «Ma chi può fidarsi dei calcoli di un babilonese?» «Sargon è un ladro ancora peggiore di quanto gli facessi credito», esclamò Trok, facendolo sembrare un complimento. «Se non altro, qui ce n'è a sufficienza per pagarmi la misera somma che mi hai promesso, vero?» suggerì Ishtar. «Penso che di questo si potrà discutere in seguito», ribatté Trok, sorridendogli con aria cordiale. «Io sono un uomo mite e generoso, Ishtar, come tu ben sai. Tuttavia l'eccesso di generosità è una forma di stupidità, e io non sono stupido.» Quando ebbe finito di contemplare gongolando il contenuto del tesoro reale, scoprì che c'erano molte altre meraviglie da ammirare, entro le mura della città. Insieme con Naja, fece il giro del palazzo, salendo sulla terrazza più alta dei giardini pensili, ricca di fontane, fiori e addirittura boschi interi. Dall'alto si potevano vedere entrambi i fiumi e le distese di campi, paludi e papi-reti intorno alle mura cittadine. Poi fu la volta dei templi, perché gli splendidi edifici erano anch'essi ricolmi di lingotti, mobili di squisita fattura, statue, mosaici e altre opere d'arte. Ordinandone la rimozione, Naja e Trok si rivolgevano al nume tutelare di ogni tempio con grande confidenza, su un piano di parità, da dio a dio. Trok spiegava che Babilonia non era più una capitale, ma semplicemente la sede di un satrapo dell'Egitto, quindi il dio doveva trasferire la sua sede terrena ad Avaris, dove Trok s'impegnava a fornirgli una sistemazione adeguata. La rimozione delle ricchezze del dio doveva quindi essere considerata un prestito, che in seguito sarebbe stato restituito. Il tempio più grande di tutti era quello dedicato a Marduk il divoratore. Trok scoprì che non era soltanto una miniera di metalli preziosi e gioielli, ma anche un luogo straordinariamente suggestivo. Ishtar era un discepolo di Marduk, e, da giovane, aveva studiato i misteri Wilbur Smith
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in quello stesso tempio, sotto la guida del Gran Sacerdote. Poiché non aveva ancora ricevuto la ricompensa promessa, stava incollato a Trok come una zecca al ventre di un leone. Lo istruì nel culto di Marduk, e il Faraone osservò: «Marduk ha gusti molto simili a quelli del mio nume tutelare, Seueth. Si direbbe che siano fratelli». «Sua maestà è perspicace come sempre. Tuttavia Marduk ha un appetito molto più spiccato per i sacrifici umani rispetto a Seueth, ed è piuttosto schizzinoso in fatto di offerte.» Fece da guida a Trok nel labirinto di passaggi e corridoi, giardini, cortili e sale piene di echi, fino a introdurlo nel santuario interno, annidato nelle viscere del tempio, che era di per sé una piccola città. Raggiunsero infine il complesso della fornace. Quando si soffermarono al di sopra della camera sacrificale principale, Trok guardò in fondo, restando letteralmente affascinato. Era colpito dal progetto e dalla costruzione della fornace. «Descrivila», ordinò al mago. «In realtà ci sono due fornaci, non una sola, dietro ciascuno di quei muri.» Ishtar indicò le pareti rivestite di rame lucente. «Quando si accendono i fuochi, questi vengono alimentati da grandi mantici, finché il calore non fa risplendere le pareti di metallo come il sole incandescente dell'alba. Le pareti sono mobili, e i sacerdoti possono farle avanzare o indietreggiare per mezzo di pulegge.» Una volta conclusa la spiegazione, Trok batté il pugno sul palmo dell'altra mano. «In nome di Seueth e di Marduk, non ho mai sentito una cosa del genere. Devo vederne una dimostrazione. Se è come dici, farò costruire lo stesso congegno nel mio tempio di Avaris. Ordina ai sacerdoti di accendere le loro spaventose fornaci. Celebreremo la mia vittoria con un sacrificio a Marduk!» «Ci vorranno parecchi giorni perché le fornaci raggiungano il calore desiderato», lo avvertì Ishtar. «Il tempo non mi manca», replicò Trok. «Devo sovrintendere al trasporto del bottino, e inoltre provvedere al benessere e alla soddisfazione di venti delle mogli di Sargon.» Fece roteare gli occhi. «Un compito davvero impegnativo. In ogni caso, i miei uomini sono già impegnati nel saccheggio della città. Ci vorrà ancora qualche tempo, prima che riesca a riportarli alla ragione.» Tre giorni dopo, Trok organizzò un banchetto per festeggiare la vittoria, invitando gli ufficiali di alto grado sulla terrazza superiore del palazzo Wilbur Smith
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reale. Gli ospiti furono accolti nelle aranciere dove gli alberi, che crescevano in enormi vasi di terracotta, erano in piena fioritura e saturavano l'aria di una dolce fragranza. Tutt'intorno gorgogliavano e chioccolavano le fontane. Il tavolo del banchetto era ricoperto di tappeti di seta, mentre piatti e coppe, sottratti alle offerte dei templi, erano d'oro e argento tempestati di gemme. Gli sgabelli sui quali erano seduti gli ospiti erano le mogli inginocchiate di Sargon, completamente nude, a parte le catene d'oro che portavano al collo. Più tardi, quando gli orci di birra spumeggiante e di vino dolce ebbero fatto il loro effetto, gli sgabelli viventi furono utilizzati come cuscini e materassi. Nel bel mezzo dei festeggiamenti, Ishtar si avvicinò di soppiatto a Trok, sussurrandogli all'orecchio: «Divino Faraone, che beve gli oceani e divora gli astri, le fornaci sono pronte». Trok si alzò barcollando e battendo le mani. «Cari fratelli!» esclamò rivolto agli ufficiali, che scoppiarono a ridere fragorosamente. «Ho uno svago da offrirvi. Seguitemi!» Poi si avviò a passi incerti verso la scala. Affacciati al parapetto della galleria, Trok e gli ufficiali guardarono verso la camera sacrificale che si apriva sotto di loro. Il fumo usciva dai due comignoli sopra la loro testa, mentre loro cominciavano a sudare per il calore riflesso dalle pareti di metallo incandescente. «Oggi siamo qui riuniti per celebrare un sacrificio al grande dio Marduk, che ci ha offerto la sua città come preda di guerra», declamò Trok, imitando il tono querulo e cantilenante di un Gran Sacerdote. I presenti lo acclamarono, entusiasti. «E quale sacrificio migliore possiamo offrire che un re con tutta la sua famiglia?» continuò. Gli ospiti applaudirono ancora. Trok fece un segnale con la mano a Ishtar, che si precipitò lungo la scala verso la camera sottostante, dove cento schiavi erano già pronti ai mantici per azionare il meccanismo. Obbedendo all'ordine del Gran Sacerdote, intonarono un inno a Marduk. Il Gran Sacerdote apparve sul pulpito sopra la camera sacrificale, che aveva le pareti incandescenti e la parte superiore aperta. Attorniato dagli schiavi che cantavano, alzò le braccia, cominciando a cantare in falsetto una preghiera al dio. Al suo segnale, si aprì una porticina nella parete di pietra della fornace, che era fissa, e un altro sacerdote fece entrare una fila di esseri umani che indossavano una semplice tunica bianca e non portavano nessun ornamento a parte una cavezza intorno al collo. Wilbur Smith
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Erano di entrambi i sessi e di tutte le età. Alcuni erano lattanti, ancora tra le braccia della madre, altri bambini o ragazzi alle soglie dell'adolescenza; ma il più alto era un uomo magro coi capelli bianchi e un portamento da re e da guerriero. «Ti saluto, Sargon, potente sovrano del cielo e della terra sacra tra i due fiumi», esclamò Trok in tono di scherno. «Sto per farti quello che non hai avuto il coraggio di fare tu stesso, inviandoti come messaggero tra le braccia amorevoli del tuo dio, Marduk il divoratore. Poiché sono un uomo misericordioso e non voglio che le tue mogli e i tuoi figli debbano piangere la tua morte, li mando con te, affinché ti facciano compagnia nel viaggio.» S'interruppe, lasciando che le risate dei suoi uomini si placassero, prima di aggiungere: «Porta questo messaggio a Marduk, quando sarai di fronte a lui. Digli che Trok, il suo fratello divino, lo saluta e invoca il suo favore». Sargon si strinse al petto i figli, senza degnarlo di uno sguardo o di una risposta. A quel punto Trok si rivolse al Gran Sacerdote. «Allora, facci vedere come funziona questo tuo congegno.» Il Gran Sacerdote riprese a pregare, ma stavolta si trattava di una preghiera diversa, più aspra e primitiva. Nel locale alle sue spalle, gli schiavi si unirono al canto, facendo tutti insieme un passo in avanti e battendo i piedi nudi sulle lastre di pietra, con un suono simile a un tuono. Un po' alla volta, l'argano cominciò a girare. Sulle prime non accadde nulla, poi Ishtar sussurrò a Trok: «Guarda le pareti incandescenti, possente Trok, grande fra tutti i sovrani e gli eroi. Vedi come cominciano ad avvicinarsi lentamente? Oh, sì, con estrema lentezza. Alla fine s'incontreranno, e le vittime del sacrificio saranno incenerite, come falene alla fiamma della lampada». Trok si protese in avanti, col viso lucente di sudore, pregustando lo spettacolo. «Marduk è compiaciuto», annunciò Ishtar, sollevando la testa dalla coppa. «Il sacrificio che gli hai reso nella fornace è stato molto gradito.» Trok annuì. «Riferisci a mio fratello Marduk che sono compiaciuto che lui sia compiaciuto.» Era inginocchiato su una pila di pelli di leopardo stese sul pavimento di pietra nel santuario interno del tempio, di fronte all'altare di Marduk il Wilbur Smith
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divoratore. La statua d'oro del dio rappresentava un bel giovane dall'espressione sorridente, grande il quadruplo del naturale. Le uniche differenze tra il dio e un mortale, a parte le dimensioni, erano le minuscole corna di capra che gli spuntavano ai lati della testa ricciuta e gli zoccoli fessi al posto dei piedi. «Mi avevi detto che Marduk era un dio terribile, più crudele e feroce di qualunque altro, persino di Seueth», aveva esclamato Trok in tono di sfida, la prima volta che aveva visto quell'effigie, «ma questo invece è un bel ragazzino.» «Divino Faraone, non farti trarre in inganno», lo aveva ammonito Ishtar. «Questo è il volto che Marduk mostra al mondo degli uomini, ma il suo vero aspetto è così terribile che chiunque lo vede resta accecato all'istante e si riduce a un folle balbettante.» Colpito da quell'idea, Trok si era inginocchiato di fronte alla statua, restando in silenzio mentre i sacerdoti introducevano nel tempio due neonati gemelli per offrirli al dio. Ishtar li aveva sgozzati con tanta abilità che si erano lasciati sfuggire appena un breve lamento, mentre il loro sangue scorreva nella coppa d'oro per la divinazione che teneva protesa sotto di loro. Quando i corpicini dissanguati erano stati gettati nello scivolo di marmo che portava alla fornace sotto il santuario interno, Ishtar aveva collocato la coppa d'oro davanti all'altare, accendendo i bracieri per l'incenso. Canticchiando e borbottando, aveva gettato sulle fiamme tre manciate di erbe, finché la volta non si era riempita di volute di fumo azzurrino e nell'aria si era diffuso un aroma intenso, che toglieva le forze. Dopo qualche minuto, Trok si era accorto che gli riusciva difficile pensare lucidamente: aveva la vista annebbiata e confusa, gli pareva di vedere ombre che oscillavano e danzavano, mentre, in lontananza, udiva un suono di risa beffarde. Chiuse gli occhi, premendo le dita sulle palpebre, ma, riaprendoli, notò che il volto del dio era diventato una maschera così oscena e spaventosa che gli si accapponava la pelle, come se vi strisciassero sotto insetti velenosi. Tentò di distogliere lo sguardo, però scoprì di non riuscirci. «Il grande dio Marduk è compiaciuto», ripeté Ishtar, leggendo gli auspici che si riflettevano sulla superficie della coppa piena di sangue. «Si degna di rispondere alle tue domande.» «Comunica pure a Marduk che lo onoro come mio pari. Gli invierò altri Wilbur Smith
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mille sacrifici, attraverso la fornace.» «Marduk ti ascolta.» Ishtar assentì, poi prese la coppa tra le mani, scrutandone la superficie. Dopo un lungo silenzio, prese a oscillare dolcemente, con la coppa in grembo. Infine alzò di nuovo la testa. «O Marduk, grande dio di Babilonia! Parlaci, o temibile, te ne preghiamo!» Allargò le braccia, tendendole verso la statua d'oro, e il dio parlò con una voce infantile, blesa e mielata. «Ti saluto, fratello Trok», disse quella voce strana. «Tu vuoi sapere del giovane falco che allarga le ali e affila gli artigli nei luoghi desertici.» Trok rimase stupito non soltanto da quella voce incorporea, ma anche dalla precisione di quelle parole. In effetti aveva proprio intenzione di chiedere consiglio riguardo ai progetti per attaccare e annientare Nefer Seti. Tentò di replicare, ma si sentiva la gola chiusa e arida come le bende di un'antica mummia. La voce infantile aggiunse: «Hai ricevuto buoni consigli dal mio fedele servo Ishtar il medo. È stato un bene che tu abbia ascoltato quei consigli. Se non lo avessi fatto, se avessi marciato su Gallala quando avevi in animo di farlo, saresti andato incontro a un disastro ancora più grave di quello causato dal khamsin che distrusse e seppellì le tue truppe». Trok rammentò con amarezza come Ishtar lo avesse dissuaso dal guidare un altro esercito nel deserto orientale per attaccare Nefer Seti e catturare Mintaka, la donna che gli era sfuggita. Da tempo, le sue spie gli avevano indicato il luogo esatto in cui viveva la coppia, a Gallala. Lui aveva riunito un altro esercito di carri e di soldati appiedati per la spedizione; sapeva che, se non si fosse liberato di quella sfida al suo trono, se non avesse eliminato il giovane Faraone prima che raggiungesse la pienezza delle forze, ben presto le ribellioni e le insurrezioni si sarebbero estese a tutto il regno. Se fosse accaduto tutto ciò, la dinastia che intendeva fondare si sarebbe estinta. Inoltre, per quanto desiderasse liberarsi della minaccia rappresentata da Nefer Seti, desiderava ancora di più catturare l'unica donna che lo aveva sfidato e umiliato. L'odio che provava per lei superava ogni altra emozione. Ishtar, invece, gli aveva proibito quell'impresa: predicendo conseguenze terribili, morte e disastri, lo aveva persuaso a utilizzare le truppe nella spedizione da compiere insieme con Naja contro la leggendaria città di Babilonia. Tuttavia, anche se, fino a quel momento, la spedizione si era rivelata un trionfo, anche se il bottino era stato superiore a ogni aspettativa Wilbur Smith
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e le stragi lo avevano appagato, Trok continuava a sentirsi profondamente inquieto. Rivolto dunque sia a se stesso sia al dio, mormorò: «Devo mettere le mani su Nefer Seti. La corona non sarà mai salda sulla mia testa finché non lo avrò ucciso, dando poi alle fiamme il suo corpo, in modo che non conosca la resurrezione. Ho già espunto il suo nome e il nome di suo padre da tutti gli edifici e i monumenti dell'Egitto, ma devo distruggere per sempre lui e il suo ricordo». Poi, in preda alla collera e all'odio balzò in piedi, gridando a Ishtar e al suo dio: «Mi avete già defraudato una volta del mio destino, con tutti quei presagi nefasti e moniti malevoli. Ora mi rivolgo a te, Marduk, come tuo simile, come tuo pari, e non come fedele. Ti chiedo di consegnarmi la persona e l'anima di Nefer Seti, affinché sia ristabilita la giustizia e comminata la pena. Non intendo accettare un altro rifiuto da te e da questo tuo servo». Spinto dalla collera e dalla frustrazione, Trok sferrò un calcio a Ishtar, ma il medo lo prevenne e rotolò di lato per schivarlo, cosicché il sandalo del Faraone, coperto di borchie di bronzo, urtò contro la coppa per la divinazione: il sangue dei neonati schizzò sulle lastre del pavimento, colando dall'altare. Persino Trok rimase inorridito dalle conseguenze del suo gesto, paralizzato di fronte alla statua, in attesa della reazione del dio. «Sacrilegio!» gemette Ishtar. «Trok Uruk, ora la tua impresa è destinata certamente all'insuccesso.» Si prostrò nella pozza di sangue, così terrorizzato da non arrischiarsi neppure ad alzare gli occhi verso la statua. Nel santuario regnava un silenzio sbigottito. E il rombo sommesso delle fiamme della fornace sacrificale, situata sotto il pavimento di marmo sul quale entrambi posavano i piedi, sembrava accentuarlo. Poi si udì un suono, sommesso, ma inconfondibile. Era il suono di un respiro, dapprima lieve come quello di un bimbo addormentato, poi sempre più forte e roco. A poco a poco divenne l'ansito di una bestia selvaggia, di un mostro, che echeggiava nel tempio, e infine il suono furioso di un dio offeso che ruggiva più forte di tutte le tempeste dei cieli, tuonando come le onde dell'oceano squassate da un fortunale. Era così terribile che persino Ishtar il medo cominciò a piagnucolare come un bambino. «Ora il dio non ti concederà mai il successo. Non osare intraprendere una spedizione contro Taita e il suo protetto, almeno finché il mago non Wilbur Smith
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sarà morto», sussurrò. Allora si levò una voce terribile, roca e soprannaturale, che sconvolse Trok fin nel profondo. «Ascoltami, Trok Uruk, omuncolo che sostieni di far parte del consesso degli dei!» Il tuono echeggiò, rombando nell'antro oscuro del santuario. «Tu sai di non essere un dio. Ascoltami, empio! Se marcerai contro Gallala, sfidando me e il mio profeta, Ishtar il medo, io distruggerò te e il tuo esercito, proprio come ho seppellito nella sabbia del deserto l'altro esercito che avevi armato. Stavolta non sfuggirai alla mia ira!» Per quanto avesse la mente annebbiata dal fumo venefico dell'incenso e fosse spaventato dall'ira di Marduk che sembrava echeggiare nel tempio, Trok era ancora abbastanza vigile da percepire una nota falsa in quelle parole e qualcosa di eccessivo nell'ira di Marduk. Facendo appello al suo coraggio, che pure era stato incrinato dalle manifestazioni del dio, tentò d'individuare esattamente quello che lo aveva insospettito. Si rese conto che il suono del respiro bestiale e la voce tonante uscivano dal ventre della statua d'oro e, fissandola con attenzione, si accorse che l'ombelico del dio era una fenditura buia. Fece un passo in avanti, ma subito Ishtar alzò la testa, allarmato. «Attento, Faraone! Il dio è in collera. Non avvicinarti.» Ignorandolo, Trok fece un altro passo in avanti, con gli occhi fissi sull'ombelico del dio, e, in fondo all'apertura, intravide un lieve scintillio, un movimento confuso. Spesso, in combattimento, aveva intuito il momento esatto in cui la sorte volgeva a suo favore e, in quel momento, ebbe la stessa sensazione. Facendosi forza, gridò, per sopraffare il suono orribile del respiro del dio: «Io ti sfido, Marduk il divoratore! Abbattimi con la tua folgore, se ne sei capace. Rovesciami addosso le fiamme del tempio, se puoi!» Il sospetto divenne certezza allorché intravide di nuovo quel baluginio nella fessura del ventre del dio, e udì un'esitazione nel suo respiro. Allora sguainò la spada e, col piatto della lama, scostò Ishtar prima di precipitarsi in avanti, dietro la statua d'oro. Ne esaminò in fretta il dorso, picchiettando sul metallo con la punta della lama e ricavandone un suono sordo come il ventre di un tamburo. A un esame più approfondito, scoprì un pannello mobile che combaciava quasi perfettamente con la superficie della statua. «Una botola!» esclamò in tono minaccioso. «A quanto pare, nel ventre di Marduk c'è più di quanto entra dalla bocca!» Wilbur Smith
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Tornò a sbirciare attraverso la fenditura nel ventre del dio, e si trovò davanti un occhio umano. La pupilla si dilatò per lo stupore, mentre Trok lanciava un grido possente: «Vieni fuori di lì, parassita della grande bestia!» Appoggiò la spalla all'idolo e spinse con tutte le sue forze. Quando sentì la statua vacillare sulla base di pietra, spinse ancora, e l'idolo crollò con uno schianto fragoroso sul pavimento di pietra. Ishtar gridò, allontanandosi di scatto dalla massa d'oro che minacciava di schiacciarlo. In seguito alla caduta, la testa del dio si piegò di lato, mentre, nel silenzio seguito all'impatto, si udiva uno scalpiccio, simile a quello di una fuga di topi spaventati, che si allontanava dall'idolo caduto. La porticina si aprì, lasciando uscire una figurina che lui riuscì a bloccare, afferrandola per la massa folta dei riccioli. «Pietà, grande re Trok», lo implorò la bambina con quella voce dolce come il miele. «Non sono stata io che ho tentato d'ingannarti. Non ho fatto che obbedire.» Era una bambina così deliziosa che, per un istante, Trok sentì la sua ira placarsi. Poi l'afferrò per le caviglie e la tenne sospesa con una mano a testa in giù. La piccola piangeva, divincolandosi. «Chi ti ha ordinato di fare questo?» le domandò. «Ishtar, il mago», rispose lei tra le lacrime. Trok la fece roteare due volte sopra la sua testa, in modo che il corpicino acquistasse velocità e forza d'inerzia, poi scagliò la piccola contro la colonna del tempio. Le grida cessarono all'istante, mentre il corpo della bambina ricadeva, inerte, sull'altare. Tornato verso l'idolo d'oro, affondò la spada nell'apertura della botola, frugando nel ventre del dio. Si sentì un altro grido stridulo e dall'apertura uscì una creatura grottesca. Da principio Trok pensò che fosse un'enorme rana toro e balzò indietro, allarmato. Poi si accorse che si trattava di un nano con la gobba, ancora più basso di statura e più minuto della bambina che aveva appena ucciso. Il nano lanciò un grido con voce possente come quella di un toro, emettendo ruggiti assordanti in netto contrasto con la sua statura minuscola. Era l'uomo più brutto che Trok avesse mai visto, con gli occhi strabici, l'uno più grande dell'altro. Gli spuntavano ciuffi di peli neri dalle orecchie e dalle narici, oltre che dalle verruche enormi che aveva in faccia. «Perdonami, se ho tentato d'ingannarti, possente dio e sovrano dell'Egitto!» Trok sferrò un fendente con la spada, ma la strana creatura schivò il Wilbur Smith
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colpo, balzando agilmente per il santuario, mentre continuava a emettere quei ruggiti terrorizzati con una voce sproporzionata rispetto al suo corpo. Lui si sorprese a ridere delle sue buffe acrobazie, mentre il nano schizzava dietro le cortine che coprivano il fondo della cella, scomparendo dietro una porta segreta. Trok lo lasciò andare, tornando a rivolgersi a Ishtar, appena in tempo per afferrare una manciata dei suoi capelli, mentre tentava di fuggire. «Tu mi hai mentito.» Non rideva più, anzi aveva il viso paonazzo per la rabbia. «Mi hai tratto deliberatamente in inganno, deviandomi dal mio scopo.» «Ti prego, signore e padrone», gemette Ishtar, rotolando sul pavimento per sottrarsi ai calci crudeli. «L'ho fatto solo per il tuo bene.» «Ed è stato per il mio bene che hai lasciato fiorire indisturbato il germoglio di Tamose, a Gallala, perché fomentasse la ribellione e la sedizione nel mio regno?» ruggì Trok. «Pensi forse che sia pazzo oppure tanto stupido da crederti?» «È la verità», farfugliò Ishtar, allorché il sandalo corazzato di Trok lo raggiunse alle costole, rovesciandolo sul dorso. «Come potremmo affrontare un mago che assoggetta il vento del deserto alla sua volontà come se fosse un cagnolino?» «Tu hai paura di Taita.» Trok arretrò, fermandosi a riprendere fiato. «Hai paura del mago, vero?» domandò incredulo. «Lui può vederci da lontano. Può ritorcere i miei incantesimi contro di me. Non posso prevalere su Taita. Ho cercato soltanto di salvarti da lui, grande Faraone.» «Hai cercato soltanto di salvare la tua pellaccia tatuata», ringhiò Trok, slanciandosi di nuovo in avanti per prendere a calci il corpo piegato in due di Ishtar. «Ti prego, primo tra tutti gli dei», lo implorò Ishtar, riparandosi il capo con le braccia. «Dammi la ricompensa che mi hai promesso e lasciami andare. Taita ha disperso i miei poteri. Non posso più affrontarlo. Non posso più esserti di aiuto.» Trok rimase immobile, col piede a mezz'aria nell'atto di sferrare un altro calcio. «La ricompensa?» ripeté, stupito. «Non crederai che io possa ricompensare la tua slealtà con tre lakh d'oro, vero?» Ishtar si sollevò sulle ginocchia, tentando di baciargli il piede. «Io ti ho consegnato Babilonia, padrone. Non puoi negarmi quello che hai promesso.» Wilbur Smith
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Trok rispose con una risata aspra. «Posso negarti tutto ciò che voglio, anche la vita. Se vuoi continuare a vivere fino a domani, mi condurrai a Gallala, e affronterai la sorte nel confronto col mago.» Sembrava che tutto l'Egitto fosse venuto a conoscenza del fatto che Nefer Seti aveva percorso la Via Rossa e legittimato la sua pretesa al trono. Ogni giorno arrivavano a Gallala visitatori provenienti da ogni parte del Paese. Alcuni erano i comandanti delle compagnie che Trok e Naja avevano lasciato a guardia dell'Egitto in loro assenza, altri erano emissari degli anziani delle grandi città lungo il Nilo, Avaris e Menfi, Tebe e Assuan, insieme coi Gran Sacerdoti dei templi di quelle città. Oppressi e disgustati dalla tirannia e dagli eccessi di Naja e Trok, oltre che imbaldanziti dalla loro assenza, visto che si trovavano nella lontana città di Babilonia, erano venuti tutti a giurare fedeltà al Faraone Nefer Seti. «Il popolo dell'Egitto è pronto ad accoglierti», dicevano gli emissari. «Le nostre truppe si pronunceranno in tuo favore non appena metterai di nuovo piede nel Paese, attanagliato dal terrore, e ti vedranno in volto, e sapranno che le voci della tua sopravvivenza sono vere», gli assicuravano i comandanti. Nefer e Taita li interrogarono a fondo per conoscere la disposizione delle truppe e il loro stato di preparazione. Ben presto fu chiaro che, per la spedizione in Mesopotamia, Trok e Naja avevano scelto il meglio delle compagnie, lasciando in Egitto soltanto i battaglioni di riserva, composti per lo più da reclute giovani e inesperte, oppure da anziani prossimi alla fine della loro carriera militare, ormai stanchi e poco allenati fisicamente, che già pregustavano il momento in cui si sarebbero ritirati a coltivare un piccolo appezzamento di terra vicino al fiume, dove avrebbero potuto sedersi al sole e giocare coi nipoti. «E per quanto riguarda carri e cavalli?» Fu Nefer a porre la questione cruciale. I comandanti scossero la testa, assumendo un'espressione grave. «Trok e Naja hanno letteralmente spogliato le truppe. Quasi tutti i veicoli li hanno accompagnati nel viaggio verso oriente. Hanno lasciato appena quanto basta per pattugliare i confini orientali e scoraggiare le incursioni dei beduini dal deserto.» «E che ne è delle officine di Menfi, Avaris e Tebe?» volle sapere Nefer. «Ognuna di esse può sfornare almeno cinquanta carri al mese.» Wilbur Smith
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«Certo, però, non appena addestrati i cavalli per trainarli, quei carri sono inviati a oriente, per unirsi all'esercito dei due Faraoni a Babilonia.» Taita valutò quell'informazione. «I falsi Faraoni sono perfettamente consapevoli della minaccia che rappresentiamo e vogliono avere la certezza che, se le truppe che si sono lasciati dietro dovessero ribellarsi e dichiararsi a favore del vero Faraone Nefer Seti, non dispongano di cavalleria e carri sufficienti per un'azione militare efficace.» «Dovete tornare alle vostre compagnie», ordinò Nefer agli ufficiali. «A Gallala siamo già in troppi, tanto che le risorse necessarie per sfamare e dissetare tutti rischiano di esaurirsi. Non permettete che altri veicoli o cavalli lascino l'Egitto. Tenete gli uomini in allenamento ed equipaggiateli meglio che potete coi nuovi carri, non appena saranno disponibili. Io verrò da voi presto, molto presto, per guidarvi contro i tiranni.» Tutti se ne andarono, lodando il suo nome e assicurandogli la loro lealtà. «Non affrettarti troppo a mantenere la promessa», lo ammonì Taita. «Potrai tornare in Egitto soltanto quando avrai ai tuoi ordini un esercito possente, ben addestrato e ben equipaggiato. Questi comandanti passati dalla tua parte sono uomini buoni e leali, e so che puoi contare su di loro; ma ce ne saranno altri che resteranno fedeli a Trok e Naja, o per paura delle conseguenze al ritorno dei falsi Faraoni, o perché convinti del loro diritto divino di regnare. Inoltre ce ne saranno molti che resteranno indecisi, ma ti si rivolteranno contro non appena scorgeranno qualche segno di debolezza.» «Allora c'è molto da fare», concluse Nefer, accogliendo il suggerimento. «Dobbiamo ancora domare una parte dei cavalli che abbiamo catturato a Thane e completare la riparazione dei carri disseppelliti dalle dune. Poi i nostri uomini dovranno completare l'addestramento per affrontare da pari a pari i veterani di Trok e Naja. Quando avremo fatto questo, ritorneremo in Egitto.» Così il piccolo esercito di Gallala moltiplicò gli sforzi per trasformarsi in una forza capace di sfidare la potenza dei falsi Faraoni. Erano spronati dal loro giovane comandante, perché Nefer non si risparmiava di certo, anzi lavorava più di tutti. Usciva ogni giorno coi primi squadroni di carri, prima dell'alba, e, con l'aiuto dei guerrieri della Via Rossa e dei consigli di Taita, forgiava a poco a poco le sue divisioni fino a ottenere un esercito unito. Quando rientrava in città, stanco e coperto di polvere, si recava nelle officine, dove scherzava e discuteva coi fabbricanti di armi e i costruttori Wilbur Smith
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di carri. Dopo cena, vegliava alla luce della lampada con Taita, esaminando i piani di battaglia e la disposizione tattica delle truppe. Di solito era già passata la mezzanotte quando si ritirava nella sua stanza, barcollando per la stanchezza. Mintaka si svegliava e si alzava senza protestare, aiutandolo a liberarsi dall'armatura e dai sandali, lavandogli i piedi e massaggiandogli i muscoli doloranti con oli profumati. Poi gli preparava una coppa di vino caldo col miele per conciliare il sonno. Spesso la coppa gli scivolava di mano prima che avesse finito di bere, mentre la testa ricadeva sul cuscino. Allora Mintaka gli sfilava di dosso la tunica, attirando la sua testa sul proprio petto e tenendolo stretto fino a quando Nefer non si destava. A ogni giorno che passava, le condizioni di Meren peggioravano. Non si era mai ripreso del tutto dalle ferite ricevute nel percorrere la Via Rossa. Taita gli aveva fasciato le costole incrinate, che si erano saldate abbastanza in fretta, e aveva ricucito l'orecchio lacerato, in modo tale che si notava appena una lieve inclinazione. Merykara, poi, trovava che la cicatrice a mezzaluna sulla guancia lo faceva sembrare più adulto e più autorevole. Invece il colpo di spada che lo aveva ferito sotto il braccio preoccupava persino Taita, perché, nel sondarlo, si era accorto, dall'inclinazione e dalla profondità del taglio, che l'arma doveva essere penetrata nel polmone. Per ben due volte la ferita, che sembrava già rimarginata, si era riaperta, lasciando trasudare liquido e pus maleodorante. A volte Meren era lucido e poteva sedersi a mangiare senza aiuto; poi, quando gli umori malsani tornavano a raccogliersi, sprofondava di nuovo in uno stato febbricitante di semincoscienza. Merykara restava al suo capezzale, per cambiargli le bende e spalmare sulle ferite l'unguento preparato per lei da Taita. Se Meren si sentiva in forze, cantava per lui e gli riferiva tutte le notizie sulla città e sull'esercito. Se la ferita peggiorava, lo imboccava e lo lavava come se fosse un bambino, accarezzandogli la testa madida di sudore finché lui non si calmava. Di notte dormiva ai piedi del suo letto, svegliandosi subito ogni volta che Meren si agitava e mormorava qualcosa nel delirio. Finì per conoscere il suo corpo con la stessa intimità di una madre che accudisce il figlio. Gli puliva i denti coi ramoscelli verdi dell'acacia, masticandone l'estremità coi denti piccoli e bianchi sino a trasformarla in uno spazzolino rigido. Gli curava i capelli, spazzolandoli, nell'attesa che Wilbur Smith
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diventassero abbastanza lunghi per raccoglierli di nuovo in una treccia. Gli tagliava le unghie, tanto che finì per conoscere e amare la forma delle dita, ricoperte di calli per aver maneggiato a lungo la spada e le briglie del carro. Gli toglieva il cerume dalle orecchie e il muco dalle narici senza tradire la minima repulsione. Usava il proprio pettine d'avorio per ravviare i folti peli scuri che gli crescevano sotto le braccia, sul petto e all'inguine. Ogni mattina lo lavava da capo a piedi, sfregando ogni piega, ogni superficie e ogni sporgenza soda e muscolosa del suo corpo, piangendo nel vedere che la febbre gli consumava le carni e le ossa cominciavano a sporgere. Nei primi tempi, distoglieva lo sguardo dal suo membro quando lo lavava, ma ben presto quel comportamento le parve ipocrita. Allora prese i genitali nel cavo della mano, osservandoli con attenzione. Erano così morbidi e caldi, con la pelle così liscia e perfetta... Poi ritrasse lentamente la pelle, come le aveva insegnato a fare Mintaka, e vide spuntare l'estremità rosea, serica come un petalo di oleandro, che s'inturgidì e si gonfiò nella sua mano, al punto che quasi non riusciva più a cingerla tutta col cerchio formato da pollice e indice. In quei momenti, aveva la strana impressione di restare senza fiato e provava un senso di calore in tutto il corpo. Una notte si svegliò e vide che la luce della luna inondava il pavimento di pietra della stanza, entrando dalla finestra come una cascata d'argento. Per un istante, credette di trovarsi ancora nella sua camera da letto nel palazzo sul fiume, a Tebe, ma poi udì il respiro affannoso e le grida incoerenti di Meren, scaturite dagli incubi, e tutto le tornò alla mente, sopraffacendola con un'ondata di terrore. Nuda, si alzò di scatto dal suo giaciglio ai piedi del letto per correre da lui. Quando accese la lampada, si accorse che Meren teneva gli occhi spalancati, ma senza vedere nulla, e aveva il volto cinereo e stravolto: sulle labbra gli si era formata una schiuma biancastra e tutto il suo corpo luccicava di sudore. Si dibatteva sulle lenzuola di lino già sgualcite con una violenza tale da farle temere che potesse procurarsi altre ferite. Lei capì che quella era la crisi preannunciata dal mago. «Taita!» gridò. «Ti prego, abbiamo bisogno di te.» Il vecchio dormiva dalla parte opposta del cortile e teneva sempre la porta aperta, in modo da poter accorrere al suo richiamo. «Taita!» ripeté Merykara, gettandosi sul petto di Meren per tenerlo Wilbur Smith
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fermo. Poi rammentò che il mago era partito alla volta del deserto con Nefer e una squadra di carri, per una delle loro solite spedizioni misteriose, e probabilmente sarebbe tornato soltanto di lì a qualche giorno. Pensò allora di chiamare Mintaka, ma la sua stanza era all'altro capo del palazzo antico, e lei non osava lasciare Meren. Era sola. Sapeva che la vita del giovane dipendeva da lei e, di fronte a quel pensiero, sentì il panico svanire. Si stese contro di lui e lo tenne stretto, sussurrandogli parole incoraggianti e rassicuranti. Poco dopo Meren si calmò e lei poté dirigersi verso la cassa addossata alla parete della finestra, dove trovò la fiala che Taita le aveva lasciato. Ne mescolò col vino il contenuto acre, scaldandolo sulla fiamma del braciere come le aveva ordinato di fare. Accostò la coppa alle labbra di Meren, e lui tentò di rifiutare, ma Merykara lo costrinse a bere. Non appena vuotata la coppa, mise a scaldare l'acqua per tergergli il sudore dal viso e ripulirgli le labbra dalla schiuma. Stava per fargli spugnature in tutto il corpo, quando lui fu assalito da una crisi improvvisa e cominciò a gemere e a tremare. Il terrore assalì di nuovo Merykara, che gli si gettò addosso, aggrappandosi a lui con tutte le sue forze. «Non morire, mio caro», lo pregò. Poi aggiunse, con maggiore energia: «Non ti lascerò morire. Oh, Hathor, aiutami. Andrò a strapparlo dall'aldilà con le mie mani». Sapeva di dover affrontare una battaglia, e combatté con lui, facendo appello a tutta la sua forza per unirla a quella di Meren. Quando lo sentì afflosciarsi tra le sue braccia, mentre il corpo madido di sudore cominciava a raffreddarsi, proruppe in un grido: «No, Meren, torna indietro! Torna da me. Non puoi andartene senza di me!» Accostando le labbra alle sue, tentò d'infondergli col respiro la sua stessa vita e, d'un tratto, lui emise un respiro esplosivo, svuotandosi i polmoni, e lei pensò che fosse tutto finito. Lo strinse tra le braccia, cingendo il torace ormai scarno. Tuttavia, quando allentò la pressione, lui trasse un altro respiro fragoroso, e poi un altro e un altro ancora. Il fremito febbrile del suo cuore divenne un battito forte e regolare che lei sentì ripercuotersi sul suo corpo. «Sei tornato», sussurrò. «Sei tornato da me.» Era ancora gelido, però, e lei lo tenne stretto tra le braccia, circondando il suo corpo con le gambe per scaldarlo. A poco a poco il respiro divenne profondo e regolare, mentre sentiva che il sangue tornava a scorrere nelle vene. Restò distesa accanto a lui, provando una profonda sensazione di appagamento, perché sapeva di Wilbur Smith
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averlo salvato, e sentiva che da quella notte in poi sarebbe appartenuto a lei soltanto. All'alba ci fu un altro miracolo. Sentì il corpo di Meren destarsi, e quello che una volta aveva sentito piccolo e morbido nel palmo della mano ora s'inturgidì contro di lei, diventando grande e duro come un osso, premendo contro le sue cosce dischiuse. Lo guardò in volto e vide che era lucido, con gli occhi scuri infossati nelle orbite scure, ma con una tale espressione di rispetto e di tenerezza che il cuore le si gonfiò nel petto, fin quasi a soffocarla con la piena delle sue emozioni. «Sì?» mormorò lui. «Sì», rispose Merykara. «È quello che desidero più di ogni altra cosa al mondo.» Schiuse le gambe e si protese per guidarlo dentro di sé, ardendo dal desiderio, accogliendolo nel profondo del suo essere, innalzandosi insieme con lui verso un luogo dove non era mai stata, prima di sciogliersi in lacrime quando si sentì inondare da un fiotto caldo, come se avesse risucchiato nel proprio corpo tutta la febbre e la sofferenza che avevano travagliato Meren, avvertendo la sensazione di pace profonda che regnava in lui mentre si abbandonava, scivolando nel sonno. Rimase distesa in silenzio al suo fianco, attenta a non disturbarlo, godendo del suono del suo respiro e del calore di quel corpo forte eppure devastato dalla febbre, assaporando persino il lieve dolore che le aveva procurato. Lo sentì ridestarsi e lo baciò delicatamente sulle labbra per accogliere il suo ritorno alla vita. Aprendo gli occhi, Meren la fissò, prima sconcertato e poi raggiante di gioia nel ricordare gli avvenimenti di quella notte. «Voglio che tu sia mia moglie», mormorò. «Lo sono già», rispose lei. «E lo sarò fino al giorno della mia morte.» Nefer ritornò lungo la colonna di carri, disposti in fila per quattro e lanciati al galoppo. I comandanti dei plotoni erano in attesa del suo segnale. Guardando in lontananza, vide la fanteria nemica schierata in linea sulla pianura, distorta dal miraggio della calura così da sembrare un serpente che si divincolava, nuotando in un lago di acque scintillanti, proprio là dove l'acqua non c'era. Puntò verso il centro dello schieramento. Grazie alle cure di Taita, Dov si era ripresa del tutto dalla ferita e correva con grande vigore, uguagliando Wilbur Smith
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la lunga falcata di Krus. Mentre stava per raggiungere l'obiettivo, vide la formazione nemica cambiare: come un gigantesco porcospino, la linea di soldati si avvolse su se stessa, formando una palla, un cerchio compatto di due file rivolte verso l'esterno, la prima con le lunghe lance spianate in avanti e la seconda con le lance che sporgevano dai varchi tra i soldati dell'avanguardia, in modo da presentare al nemico una parete scintillante di punte di bronzo. Nefer si lanciò verso il centro della doppia fila di lance, poi, quando furono a soli duecento passi di distanza, impartì con la mano il segnale delle «ali di Horus». La formazione si aprì come un fiore al sole: le file di carri si spostavano alternativamente a destra e a sinistra, spiegando le ali di Horus per circondare il porcospino formato dai soldati accovacciati. I carri girarono intorno a quella duplice schiera come il cerchione della ruota intorno al mozzo, mentre le frecce scagliate dagli archi corti e curvi della cavalleria formavano una nuvola scura. Nefer lanciò il segnale di sospendere l'attacco e ritirarsi. Subito i carri si schierarono di nuovo senza intoppi in colonna per quattro, allontanandosi. Un altro segnale, e si divisero in due, tornando all'attacco, coi giavellotti pronti al lancio e la cinghia avvolta intorno al polso. Passando vicino al cerchio di soldati della fanteria, Nefer sollevò il pugno in segno di saluto, gridando: «Ben fatto! Così andava molto meglio». I soldati sollevarono la lancia per rispondere all'elogio, gridando a loro volta: «Per Nefer Seti e Horus!» Nefer rallentò la corsa dei cavalli, facendoli tornare indietro al trotto per fermare lo squadrone di fronte alle file della fanteria, mentre Taita usciva dal circolo difensivo per salutarlo. «Feriti?» chiese Nefer. Anche se la punta delle frecce che avevano usato per esercitarsi contro il porcospino era smussata da una protezione di cuoio, era comunque in grado di cavare un occhio o infliggere altre ferite. «Solo qualche livido», rispose il vecchio mago con una scrollata di spalle. «Si sono comportati bene», commentò Nefer, gridando poi al comandante della fanteria: «Lascia liberi i ragazzi. Voglio fare un breve discorso. Poi potranno mangiare e bere prima di ripetere la manovra della falsa ritirata». Wilbur Smith
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Nefer salì su un affioramento di roccia, che formava un podio naturale, mentre tutti gli uomini, sia della fanteria sia dei carri, si riunivano ai suoi piedi. Taita si accovacciò alla base della roccia, restando a guardare e ascoltare. Nefer gli ricordava molto il Faraone Tamose, suo padre, quando aveva la stessa età. Aveva una disinvoltura naturale e parlava in modo semplice ma efficace, adottando il linguaggio colloquiale che gli uomini capivano meglio. In momenti come quelli diventava uno di loro: il calore e il rispetto che provavano per lui era evidente nel modo in cui reagivano, sorridendo e avvicinandosi per captare ogni parola, ridendo per le sue battute, accigliandosi per la vergogna se li rimproverava e illuminandosi se rivolgeva loro un complimento. Nefer passò in rassegna le esercitazioni di quella mattina, riconoscendo i loro meriti, ma sottolineando senza pietà tutti i limiti della loro prestazione. «Penso che siate quasi pronti per fare a Trok e Naja la sorpresa peggiore della loro vita», annunciò. «Ora cercatevi qualcosa da mangiare. La giornata non è finita, anzi è appena cominciata.» Gli uomini risero, iniziando a disperdersi. Nefer scese con un balzo dalla roccia, ma in quel momento Taita scattò in piedi, dicendogli in tono sommesso ma incalzante: «Fermo! Non muoverti!» e lui rimase immobile. Il cobra doveva aver fatto il nido nella roccia, ma il rumore e lo scalpiccio di piedi e zoccoli lo avevano disturbato. Scivolò fuori della fessura proprio mentre Nefer saltava giù, atterrando quasi su di lui, e si drizzò alle sue spalle, arrivandogli quasi all'altezza della cintola. Il cappuccio era aperto e la sottile lingua nera saettava tra le labbra sottili, che parevano tese in un ghigno. I suoi occhi erano perline di onice levigata, con una scintilla di luce nel centro nero, ed erano fissi sulle lunghe gambe nude di Nefer: un bersaglio facile proprio di fronte a lui. Gli uomini più vicini avevano udito l'avvertimento di Taita ed erano tornati indietro. Intorno a Nefer si erano riuniti quasi cinquecento soldati, ma nessuno osava intervenire. Fissavano inorriditi il pericolo mortale che incombeva sul Faraone. Il cobra spalancò la bocca, preparandosi all'attacco, e le zanne si drizzarono nella caverna pallida: sulla punta, sottile e acuminata come un ago, si scorgevano le gocce di veleno. Wilbur Smith
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Allora Taita fece oscillare come un pendolo l'amuleto di Lostris, appeso alla lunga catenella, scintillante alla luce del sole. Lo fece ondeggiare davanti alla testa sollevata del cobra che, distratto, distolse lo sguardo da Nefer per fissare la stella lucente. Il vecchio impugnò il bastone nell'altra mano, avvicinandosi in silenzio. «Quando colpisco, allontanati con un salto», sussurrò, mentre Nefer annuiva. Il mago si spostò gradualmente di lato e il cobra si girò con lui, affascinato dall'amuleto d'oro. «Ora!» gridò Taita, vibrando un colpo di bastone al cobra. Nello stesso istante, Nefer balzò lontano, e il serpente tentò di attaccare il bastone, ma il mago indietreggiò di scatto, cosicché il cobra fallì il bersaglio e rimase per un attimo steso sulla nuda terra. Con un movimento ancora più fulmineo, Taita lo inchiodò a terra con l'estremità ricurva del bastone, strappando un grido di sollievo ai presenti. Il cobra si attorcigliò su se stesso, formando una palla di scaglie lucenti intorno all'estremità del bastone. Taita si abbassò, insinuando la mano tra le spire fino a stringere la testa del cobra, afferrandola per la parte posteriore, poi lo sollevò di peso per mostrarlo agli uomini, che si lasciarono sfuggire esclamazioni di paura e di orrore. Si ritrassero istintivamente, mentre il rettile si avvolgeva intorno al braccio lungo e sottile del vecchio mago. Si aspettavano che Taita lo uccidesse, invece lui, sempre tenendo in mano il serpente che si dimenava, passò tra le file di soldati e si diresse verso il deserto. Quando fu a una certa distanza, scagliò il serpente lontano da sé. Non appena fu a terra, il cobra svolse le spire per allontanarsi, strisciando sul terreno roccioso. Taita lo seguì con uno sguardo intento. D'un tratto si udì uno stridio acuto dall'alto del cielo. Erano così assorti nella cattura del cobra, che nessuno aveva notato il falco mentre si librava nel cielo sopra di loro. Il falco scese verso terra, piombando addosso al cobra, ma, all'ultimo momento, il serpente si accorse del pericolo e si drizzò di nuovo, col cappuccio allargato. Senza interrompere il volo, il falco affondò gli artigli nel cappuccio allargato del cobra, poi si sollevò di nuovo in volo, battendo lentamente le ali e trascinando con sé il cobra che si dibatteva. Taita seguì con gli occhi il falco mentre portava via il serpente. Si ridusse a un puntino in lontananza, infine sparì nella nebbiolina grigioazzurra che velava l'orizzonte. Rimase a lungo immobile a fissarlo. Quando si voltò, per tornare verso il punto in cui si trovava Nefer, aveva Wilbur Smith
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un'espressione grave e rimase in silenzio per il resto del giorno. Giunta la sera, tornò a Gallala a fianco del giovane, ma sempre in silenzio. «È stato un presagio», disse Nefer, guardandolo per averne la conferma. «Ho ascoltato gli uomini», aggiunse piano. «Sono turbati. Nessuno di loro ha mai assistito a una scena del genere. Il cobra non è la preda abituale del falco reale.» «Sì», confermò Taita. «È stato un presagio, un monito e una promessa del dio.» «Che cosa significa?» chiese Nefer, studiando il viso del mago. «Il cobra ti ha minacciato. Ciò significa grande pericolo. Il falco reale è volato a est col serpente tra gli artigli. Questo significa grande pericolo a oriente, ma alla fine il falco ha trionfato.» Guardarono entrambi a oriente. «Domani all'alba partiremo con un gruppo di esplorazione», decise Nefer. Nell'oscurità gelida che precedeva l'alba, Nefer e Taita attendevano in cima alla montagna. Il resto del gruppo di esploratori era accampato sul versante opposto: si trattava di venti uomini che, per passare inosservati, avevano lasciato i carri a Gallala, viaggiando a cavallo. Le ruote sollevavano più polvere degli zoccoli, e a cavallo era possibile raggiungere quei luoghi elevati e scoscesi lungo la costa dove le ruote non potevano arrivare. Hilto e Shabako avevano guidato altri gruppi di esploratori in direzione sud; dividendosi i compiti, avrebbero potuto controllare tutte le vie di accesso da oriente a Gallala. Nefer aveva condotto il suo gruppo dal Gebel Ataqa lungo le coste occidentali del mar Rosso, controllando tutti i porti e i villaggi di pescatori sul percorso. A parte alcune carovane di mercanti e bande di beduini nomadi, non avevano trovato nulla, nessun segno del pericolo prefigurato dall'auspicio. Poi si erano accampati sopra il porto di Safaga. Taita e Nefer si erano svegliati nell'oscurità, lasciando il campo per salire di vedetta su quell'osservatorio, dove sedevano vicini, in un silenzio che toccò a Nefer rompere. «Potrebbe essere stato un auspicio falso?» Taita sputò, lasciandosi sfuggire un grugnito. «Un falco con un cobra tra gli artigli? Non è naturale. È stato senz'altro un auspicio, che d'altra parte può anche essere falso. Ishtar il medo e altri sono capaci d'inganni del Wilbur Smith
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genere. È possibile.» «Ma tu pensi di no, vero?» insistette Nefer. «Non ci avresti incalzato così, se lo avessi ritenuto falso.» «Si avvicina l'alba.» Taita preferì eludere la domanda, guardando invece il cielo a oriente, dove la stella del mattino era sospesa come una lanterna bassa sull'orizzonte. Il cielo si addolcì come un frutto maturo, assumendo il colore dei melograni maturi. I monti sulla riva opposta erano neri, aguzzi e seghettati come le zanne di un vecchio coccodrillo sullo sfondo più chiaro del cielo. Improvvisamente Taita si alzò, appoggiandosi al bastone. Nefer non finiva mai di stupirsi dell'acutezza di quegli occhi chiari. Sapendo che aveva visto qualcosa, si alzò per affiancarsi a lui. «Che cosa c'è, vecchio padre?» Taita gli posò una mano sul braccio. «L'auspicio non era falso», disse con semplicità. «Il pericolo è qui.» Il mare stava diventando grigio come il ventre di una tortora, ma la luce sempre più intensa rivelò che la superficie era punteggiata di bianco. «Il vento ha formato frangenti di schiuma», osservò Nefer. «No.» Taita scosse la testa. «Quelli non sono cavalloni, sono vele. Una flotta in navigazione.» Il sole si sporse dalla cima delle montagne lontane, scintillando sui minuscoli triangoli bianchi. Come un enorme stormo di egrette che tornano al nido, una flotta di dhow puntava verso il porto di Safaga. «Se quello è l'esercito di Trok e Naja, come mai arriva per mare?» chiese a bassa voce Nefer. «È la via più breve e diretta per arrivare qui dalla Mesopotamia. La traversata per mare consente agli uomini e ai cavalli di risparmiarsi il faticoso viaggio attraverso il deserto. Senza l'avvertimento del serpente e del falco, non ci saremmo aspettati un pericolo da quella direzione. È una mossa astuta.» Taita annuì, in segno di approvazione. «Si direbbe che, per compiere la traversata, abbiano requisito tutte le navi commerciali e i battelli da pesca del mar Rosso.» Si affrettarono a ridiscendere dalla montagna verso l'accampamento nella gola sottostante, dove i soldati erano svegli e all'erta. Nefer convocò le sentinelle per impartire gli ordini. Due di loro dovevano ritornare a tutta velocità a Gallala, portando le sue istruzioni a Socco, al quale Nefer aveva affidato il comando della città. Gli altri uomini furono suddivisi in coppie Wilbur Smith
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e inviati al sud per raggiungere i gruppi al comando di Hilto e Shabako, con l'incarico di riportarli in città. Lui tenne con sé soltanto cinque soldati. Nefer e Taita seguirono con gli occhi gli uomini che si allontanavano, poi montarono a cavallo per scendere tra le colline verso Safaga, coi cinque soldati prescelti. Verso la metà della mattinata raggiunsero l'altopiano che sovrastava il porto, dove Taita li guidò verso una torre di guardia abbandonata che dominava il porto stesso e le vie di accesso. Lasciarono i cavalli alle cure dei soldati, prima di salire la precaria scala che portava sulla piattaforma in cima alla torre. «I primi battelli stanno entrando nella baia.» Taita li indicò: erano molto carichi, ma col vento a favore si avvicinavano in fretta, sollevando con la prua due onde bianche come il sale alla luce del mattino. Doppiarono l'estremità del porto, gettando in mare le ancore pesanti. Dall'alto della torre, Nefer e Taita vedevano perfettamente il ponte delle imbarcazioni, affollato di uomini e di cavalli. Non appena i dhow gettarono l'ancora, gli uomini smontarono le battagliole di legno. Le loro grida arrivarono affievolite in cima alla torre in rovina, mentre spingevano i cavalli fuori bordo, sollevando alti spruzzi di schiuma. Poi gli uomini si spogliarono, restando in perizoma, per saltare in acqua dietro i cavalli, afferrandoli per la criniera. Infine raggiunsero a nuoto la spiaggia. Gli animali, giunti a riva, salirono sulla spiaggia, scrollandosi l'acqua di dosso sino a formare una nebbiolina sottile che disegnò arcobaleni alla luce del sole. Nel giro di un'ora, la spiaggia brulicava di uomini e di cavalli. Intorno alle costruzioni color fango del piccolo porto erano stati disposti turni di guardia. «Se avessimo una squadra di carri, questo sarebbe il momento di colpire», si lamentò Nefer. «Sì, ora, con solo metà delle loro forze a terra e i carri smontati, potremmo farli a pezzi.» Taita non replicò a quella recriminazione. Ormai la baia era affollata di navi. Le imbarcazioni che trasportavano i carri e i bagagli avevano gettato l'ancora vicino alla riva e, non appena la marea si abbassò, toccarono il fondo, inclinandosi sul fianco. Poco dopo l'acqua intorno allo scafo si ridusse all'altezza del ginocchio e gli uomini arrivarono a guado dalla spiaggia per trasportare a terra le varie parti dei carri smontati. Poi, sempre sulla spiaggia, presero a rimontarli. Il sole stava tramontando sui monti a occidente quando l'ultimo dhow Wilbur Smith
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entrò nella baia. Era il più grande di tutti: in cima al tozzo albero maestro sventolava lo stendardo con la testa di leopardo e i colori vivaci della casa di Trok Uruk. «Eccolo», esclamò Nefer, indicando la figura inconfondibile a prua. «E quello vicino è Ishtar: cane e padrone.» Negli occhi chiari di Taita c'era uno scintillio feroce che Nefer vi aveva visto solo di rado. Seguirono con lo sguardo quella coppia singolare che raggiungeva la riva. C'era un molo di pietra che si protendeva dalla spiaggia. Trok vi salì per sorvegliare dall'alto lo sbarco del resto dell'esercito. «Vedi per caso la bandiera di Naja su qualcuna delle altre navi?» chiese Nefer. Il mago scosse la testa. «Trok conduce la spedizione da solo. Deve aver lasciato a Naja il compito di governare Babilonia e la Mesopotamia. È qui per occuparsi di una faccenda personale.» «Come lo sai?» «Intorno a lui c'è un'aura che sembra una nube color rosso cupo. La sento da qui. Tutto quell'odio è concentrato su una persona sola. Non permetterebbe mai a Naja o a chiunque altro di dividere con lui il piacere della vendetta che lo ha portato fin qui.» «E sono io l'oggetto del suo odio?» chiese Nefer. «No, non sei tu.» «E chi è allora?» «È Mintaka. Viene soprattutto per Mintaka.» Al tramonto del sole, Nefer e Taita lasciarono i cinque soldati a spiare l'avanzata di Trok, cavalcando nella notte per tornare a Gallala. La mattina dopo lo sbarco, Trok catturò due beduini che guidavano una fila di asini lungo la strada per Safaga. Non sospettando di nulla, finirono tra le braccia delle sue sentinelle appena usciti dal deserto. La fama di Trok lo aveva preceduto persino in quelle regioni remote, quindi, non appena seppero chi era stato a catturarli, i beduini si mostrarono ansiosi di compiacerlo. Fornirono a Trok un resoconto invitante della resurrezione dell'antica città, parlandogli della sorgente di acqua dolce che ora sgorgava dalla caverna tra le colline e dei pascoli grassi che circondavano Gallala. Inoltre gli diedero una stima del numero dei carri messi insieme da Nefer Seti, e Trok si rese conto di poter contare su una superiorità numerica di cinque a uno nei confronti del nemico. Ma la cosa più importante fu la Wilbur Smith
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descrizione particolareggiata dell'itinerario da Safaga fino all'antica città. Fino a quel momento, Trok aveva avuto soltanto notizie di seconda mano sull'accesso a Gallala, e, a quanto pareva, era stato male informato. Gli avevano detto che, anche forzando le tappe, occorreva un viaggio di tre o quattro giorni per raggiungere la città, quindi aveva progettato di portare con sé, dalla costa, carri carichi di acqua e foraggio, con grande dispiego di tempo e fatica. Le nuove informazioni cambiavano tutto. I beduini gli assicurarono che poteva raggiungere Gallala con un giorno e una notte di viaggio. Soppesando i pro e i contro, decise di fare una sortita attraverso il deserto per cogliere la città di sorpresa. Certo, questo voleva dire che avrebbe dovuto attaccare battaglia coi cavalli esausti per la lunga marcia e gli otri dell'acqua vuoti, tuttavia, col vantaggio del numero e della sorpresa, avrebbero potuto conquistare la sorgente e i pascoli descritti dai beduini. Una volta ottenuto quel vantaggio, la vittoria era certa. Impiegò altri due giorni per sbarcare tutte le squadre e montare i carri. La seconda sera era pronto a cominciare la marcia forzata per Gallala. Con gli otri pieni d'acqua, le prime compagnie partirono da Safaga al tramonto. Ogni carro si portava dietro due pariglie di ricambio, legate per le briglie; in questo modo non si sarebbero fermati durante la notte per far riposare i cavalli, ma li avrebbero cambiati quand'erano stanchi. I cavalli esausti sarebbero stati lasciati liberi, in attesa di essere raggiunti dal branco di riserva. Trok, che comandava l'avanguardia, impose un'andatura massacrante, risalendo a piedi i pendii, e sferzando i cavalli per incitarli al trotto o al piccolo galoppo nelle discese e nei tratti pianeggianti. Una volta vuotati gli otri, non c'era modo di tornare indietro. Nella mattinata del giorno successivo il caldo era diventato torrido e i soldati avevano sfiancato quasi tutti i cavalli di ricambio. Le guide beduine continuavano ad assicurare che Gallala non era lontana, ma, ogni volta che salivano in cima a una collina, si trovavano davanti la stessa distesa di roccia e terra riarsa che tremolava all'orizzonte. Nel tardo pomeriggio, le guide beduine si dileguarono nel miraggio della calura con la grazia di due jinn e, sebbene Trok mandasse una coppia di carri al loro inseguimento, nessuno le vide mai più. «Ti avevo avvertito», disse gongolante Ishtar il medo. «Avresti dovuto ascoltare i miei consigli. Probabilmente quelle creature erano al servizio Wilbur Smith
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del mago Taita. Quasi certamente ha fatto sparire la strada e ci sta guidando verso il nulla. Non sappiamo quanto sia lontana questa favolosa Gallala, e neppure se esiste davvero.» Trok lo ricompensò di quel parere non richiesto con una frustata sul viso tatuato, ma questo non alleviò la sensazione d'impotenza e disperazione che minacciava di sopraffarlo. Sferzò ancora una volta i cavalli per incitarli ad affrontare la lunga salita sassosa che li aspettava, chiedendosi quante altre ce ne fossero ancora. I cavalli erano quasi allo stremo delle forze, e dubitava che potessero resistere per tutta la notte. In un modo o nell'altro proseguirono tutti, o quasi. Cinquanta o sessanta carri esaurirono anche l'ultima pariglia di cavalli, quindi Trok fu costretto a lasciarli lungo la strada. Il secondo giorno il sole si levò, caldo come un bacio dopo il gelo della notte, ma era un bacio infido, che ben presto ferì e abbagliò i loro occhi iniettati di sangue. Per la prima volta, Trok valutò la possibilità di essere condannato a morire lì, su quella strada diretta verso il nulla. «Ancora una collina», gridò all'ultima pariglia di cavalli, tentando d'incitarli al trotto con la frusta: ma gli animali affrontarono a testa bassa quel pendio facile, col sudore che ormai si era trasformato in una patina bianca sui fianchi. Poco prima della sommità, Trok si voltò a guardare la colonna decimata del suo esercito; anche senza contarli, vide che aveva perso metà dei carri. Centinaia di soldati appiedati si trascinavano dietro la colonna, ma due o tre caddero sotto i suoi occhi, accasciandosi lungo la pista, come morti. Nel cielo volteggiavano centinaia di avvoltoi, puntini scuri che roteavano sullo sfondo del cielo azzurro. Ne vide alcuni abbassarsi per consumare il banchetto che aveva preparato per loro. «C'è una sola direzione», disse a Ishtar, «ed è avanti.» Fece schioccare la frusta sul dorso dei cavalli, che ripresero ad avanzare penosamente. Poi arrivarono in cima alla collina, e Trok rimase a bocca aperta per lo stupore. La scena che lo attendeva nella valle sottostante era superiore a ogni sua aspettativa. Di fronte a lui sorgevano le spettrali rovine dell'antica città. Come gli avevano assicurato, Gallala era circondata da campi, pascoli e da una rete di canali d'irrigazione che scintillavano al sole. I cavalli sentirono l'odore dell'acqua e tesero le redini con rinnovato vigore. Nonostante la fretta disperata, Trok prese tempo per valutare la situazione. Si avvide subito che la città era inerme e indifesa, con la porta aperta da cui uscivano alla spicciolata gli abitanti, che fuggivano in preda Wilbur Smith
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al panico. Conducendo con sé i bambini e pochi involti con tutti i loro averi, sciamavano lungo la valle stretta e ripida a ovest di Gallala. Ai profughi si mescolavano alcuni soldati, chiaramente sbandati alla deriva. Non c'era traccia di cavalleria o di carri da guerra. Sembravano un gregge di pecore davanti a un branco di lupi, ma i lupi erano indeboliti dalla sete. «Seueth li ha messi nelle nostre mani!» gridò Trok trionfante. «Prima che il sole tramonti, avrete più donne e più oro di quanto possiate usarne.» Il grido fu ripreso dagli uomini che lo seguivano oltre la cresta delle colline, e questi si lanciarono verso il primo canale d'irrigazione, spingendo i cavalli esausti al massimo della velocità che riuscivano a ottenere. Si distribuirono per tutta la lunghezza del canale, coi cavalli che succhiavano quel liquido fino ad avere il ventre gonfio come donne incinte. Anche gli uomini si gettarono lunghi distesi sulla sponda, affondando il viso nell'acqua o riempiendo l'elmo per rovesciarselo sulla testa e in gola. «Dovevi lasciarmi avvelenare i canali d'irrigazione», osservò Nefer, mentre assistevano alla scena dal lato opposto della valle. «Lo sai meglio di me che sarebbe stato un delitto imperdonabile agli occhi degli dei», borbottò Taita, scuotendo i capelli d'argento. «In una terra così inospitale, soltanto Seth o Seueth potrebbero contemplare un'azione tanto malvagia.» «In un giorno come questo, sarei disposto persino a recitare il ruolo di Seth», ribatté Nefer, abbozzando un sorriso, ma lo diceva soltanto per provocare il mago. «Vi siete comportati bene, voi.» Lanciò un'occhiata ai due beduini laceri, inginocchiati vicino a Taita. «Pagali e lasciali andare.» «Non attribuiscono nessun valore all'oro», spiegò Taita. «Quando vivevo a Gebel Nagara, mi hanno portato i loro figli e io li ho guariti dal male dei Fiori Gialli.» Tracciò un segno benaugurante sugli uomini inginocchiati, mormorando alcune parole nella loro lingua per ringraziarli di avere rischiato la vita ingannando Trok, e promise loro la sua protezione per il futuro. I beduini gli baciarono i piedi prima di dileguarsi tra le rocce. Rimasti soli, Taita e Nefer dedicarono tutta la loro attenzione alla scena che si stava svolgendo nella valle sottostante. Gli uomini e i cavalli del nemico avevano bevuto a sazietà, quindi i soldati si accingevano a risalire a bordo dei carri. Per quanto ne avesse persi molti durante la marcia, Trok poteva contare ancora su forze superiori alle sue di almeno tre a uno. «Non possiamo affrontarli in campo aperto», rifletté Nefer, guardando la Wilbur Smith
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massa di profughi che si allontanava lungo la valle. Fin dall'inizio a Gallala c'erano state pochissime donne, giacché lui ne aveva volutamente limitato il numero per non intaccare le riserve di cibo destinate all'esercito. E pure quelle che si trovavano in città, come Mintaka e Merykara, erano state evacuate da Gallala due giorni prima, insieme con tutti i bambini, i malati e i feriti. Era partito anche Meren, guidando uno dei carri per le merci che trasportavano il tesoro, l'oro sottratto ai falsi Faraoni. Nefer li aveva mandati tutti a Gebel Nagara, dove Trok non li avrebbe mai trovati e la minuscola sorgente d'acqua avrebbe permesso loro di sopravvivere fino a quando l'esito della battaglia non fosse stato stabilito. Ormai Gallala era stata spogliata di tutto ciò che aveva valore, compresi tutti i carri, le armi e le armature. Nefer guardò soddisfatto il corteo di profughi. Anche da quel punto di osservazione, a distanza ravvicinata, era difficile capire che non si trattava di donne e semplici cittadini, bensì di soldati travestiti. Molti di quei veterani inciampavano nelle gonne lunghe e negli scialli; i fagotti che portavano tra le braccia non erano bambini in fasce, ma archi e spade avvolti nella stoffa. Le lance, troppo lunghe, erano state nascoste tra le rocce nella parte alta della valle, dov'era nascosto anche il grosso delle truppe. Tutti i carri di Trok avevano finito di abbeverare i cavalli e si stavano avvicinando attraverso i pascoli in formazione serrata e ordinata. L'acqua li aveva rianimati miracolosamente e li spronava la promessa del saccheggio e della rapina. «Prega Horus che riusciamo a ingannare Trok, spingendolo a proseguire l'inseguimento nella valle», mormorò Nefer. «Se non abbocca all'amo, decidendo invece di occupare la città indifesa, ci priverà della possibilità di attingere acqua e far pascolare i cavalli. Saremo costretti ad attaccare battaglia in campo aperto, dove tutti i vantaggi saranno dalla sua parte.» Taita non replicò. Era immobile, con l'amuleto d'oro accostato alle labbra e gli occhi rivolti verso l'alto, nell'atteggiamento che il giovane aveva imparato a conoscere così bene. Ormai il nemico era abbastanza vicino perché Nefer riuscisse a distinguere il carro di Trok in mezzo alla massa di veicoli in movimento, mentre manovrava per disporsi di traverso all'imbocco della valle, affollata di profughi in fuga. Si trovava al centro della prima fila, fiancheggiato da dieci carri per parte, che formavano un fronte abbastanza ampio da coprire la valle in tutta la sua ampiezza. Alle sue spalle era schierato il resto dei Wilbur Smith
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carri. La polvere si posò sul terreno intorno a loro, in un silenzio inquietante. L'unico suono che si udiva era il lieve brusio della marmaglia in fuga, all'altro capo della valle stretta che si stendeva davanti a loro. «Avanti, Trok Uruk!» sussurrò Nefer. «Ordina la carica! Entra nella Storia!» Nel carro di testa, in prima fila nell'esercito schierato, Ishtar il medo stava rannicchiato vicino alla figura imponente di Trok. Era così agitato che si sollevò in punta di piedi per tirargli i nastri della barba. «L'odore del mago aleggia nell'aria come il fetore di un cadavere vecchio di dieci giorni.» Parlava con una voce stridula, le labbra coperte di bava che schizzava nell'aria a ogni parola, tanto era intenso il tumulto delle sue emozioni. «Ti aspetta lassù, come un leone divoratore di uomini. Avverto la sua presenza. Guarda in cielo, possente Faraone!» Trok era abbastanza turbato da levare lo sguardo verso il cielo, dove gli avvoltoi si stavano abbassando. «Sì, sì!» esclamò Ishtar, cercando di sfruttare quel piccolo vantaggio. «Quelli sono gli animali di Taita! Aspettano di banchettare con le tue carni.» Trok guardò la valle, quel premio che sembrava attendere soltanto lui, ma le ombre degli avvoltoi saettavano sul terreno in mezzo a loro. Non riusciva a decidersi. Nascosto tra le rocce sul versante ripido della valle, Nefer lo osservava. Era così vicino che gli sembrava di poter decifrare la sua espressione. «Avanti, Trok!» mormorò. «Suona la carica. Guida l'esercito nella valle.» Intuiva l'esitazione dal modo in cui l'altro si gingillava con le redini e voltava la testa per guardare la figura ossuta di Ishtar, al suo fianco. Il viso tatuato di blu del mago della Media era rivolto verso di lui con aria grave, mentre gli si aggrappava al braccio e lo tirava per l'armatura, cercando di convincerlo con la forza delle sue argomentazioni. «È una trappola tesa per te dal mago. Dopo, potrai anche non avere più fiducia in me, ma adesso devi averla. Nell'aria aleggia la morte, insieme col fetore del tradimento. Sento le magie di Taita che mi sfiorano il viso come ali di pipistrello.» Trok si grattò la barba, lanciando un'occhiata dietro di sé, verso le file di carri schierati l'uno accanto all'altro e i soldati protesi in avanti con un'espressione crudele. «Torna indietro, possente Faraone. Conquista la città e la sorgente. Wilbur Smith
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Nefer Seti e il mago periranno in mezzo al deserto, come abbiamo rischiato di fare noi. Quella è la via sicura. L'altra è una follia.» Dal fianco della collina, Nefer socchiuse gli occhi, osservando i soldati travestiti che risalivano la valle, e capì che l'occasione stava per sfumare. «Che cos'è che trattiene Trok? Perché non si lancia alla carica?» gridò Nefer. «Se non attacca adesso...» «Guarda in cima alla valle.» Taita non aveva aperto gli occhi. Nonostante l'agitazione, Nefer gli obbedì e fu subito paralizzato da una sensazione di allarme, con la mano stretta sull'elsa della spada al punto che le nocche sbiancarono. «Non è possibile!» Verso la sommità della valle, ma ben visibile dal punto in cui erano fermi i carri di Trok, c'era una lastra di pietra quadrata, color ocra, che si stagliava di fianco alla strada come un monumento eretto dall'uomo. Sulla sommità di quella roccia, al di sopra del torrente di esseri umani in fuga, era apparsa una figura. Era una donna, giovane e snella, coi capelli scuri lunghi fino alla vita, vestita di una tunica scarlatta, il colore della casa reale di Apepi, che spiccava come una pennellata di colore sullo sfondo neutro di rocce brulle e sabbia. «Mintaka!» sussurrò Nefer. «Le avevo ordinato di andare a Gebel Nagara insieme con Meren e mia sorella.» «Sappiamo che non ti avrebbe mai disobbedito.» Taita aprì gli occhi, con un sorriso ironico. «Quindi deve averti frainteso.» «Questa è opera tua», ribatté Nefer con amarezza. «Vuoi usarla come esca per Trok, ma così l'hai esposta a un pericolo mortale.» «Forse posso controllare il khamsin», replicò Taita, «ma nemmeno io posso controllare Mintaka Apepi. Quello che fa, lo fa di sua spontanea volontà.» Sotto di loro, Trok si era voltato per dare ordine ai carri di tornare indietro, lasciando fuggire quella marmaglia, per conquistare invece la sorgente e la città di Gallala come gli suggeriva Ishtar. Tuttavia, prima che potesse aprire bocca, sentì Ishtar irrigidirsi al suo fianco e lo udì mormorare: «Questa è opera di Taita». Allora si girò di scatto, fissando la sommità della lunga valle, e scorse la figura minuscola vestita di rosso, ritta sulla piattaforma di roccia gialla. Riconobbe subito l'oggetto del suo odio e della sua ira. «Mintaka Apepi!» gridò, furioso. «Sono venuto per te, piccola cagna adultera. Ti ridurrò a Wilbur Smith
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invocare la morte.» «E' un'illusione, Faraone. Non lasciarti ingannare dal mago.» «Non è un'illusione, e te lo dimostrerò quando affonderò la mia verga nelle sue carni, pungolandola fino a dissanguarla.» «Il mago ti ha accecato», urlò Ishtar. «Intorno a noi non c'è altro che morte.» Tentò di scendere con un balzo dal carro per fuggire, ma Trok lo afferrò per i capelli, trattenendolo. «No, tu resterai con me, Ishtar. Ti lascerò assaggiare la dolcezza del suo miele, prima di gettarla ai miei favoriti perché la finiscano.» Levò in alto il pugno, gridando: «Avanti, in marcia!» I carri ai lati si misero in moto, mentre quelli alle sue spalle lo seguivano, col sole che scintillava sulla punta dei giavellotti, in mezzo a una nuvola di polvere che sembrava fumo. Gli ultimi profughi erano distanti trecento passi, quando Trok lanciò un altro ordine. «Al galoppo! Carica!» I cavalli balzarono in avanti, riversandosi nella valle con un rombo fragoroso di zoccoli e di ruote. «Trok si è deciso», mormorò Nefer. «Ma a che prezzo? Se cattura Mintaka...» Non riuscì a proseguire, fissando angosciato la figura alta e snella che restava immobile, con aria serena, sul percorso di quella nube tempestosa. «Ora hai un motivo per combattere», gli fece notare Taita in tono pacato. Nefer sentì tutto l'amore e l'ansia terribile che provava per Mintaka trasformarsi nel furore del combattimento, ma era una rabbia gelida, che acuiva tutti i suoi sensi e riempiva il suo essere, escludendo tutto il resto. Quando la schiera di carri passò sotto la sua postazione, sul fianco della valle, uscì dal riparo della roccia che lo aveva nascosto. Tutta l'attenzione di Trok e dei soldati era concentrata sulle vittime inermi davanti ai carri lanciati alla carica: non avevano occhi per la figura alta che apparve improvvisamente al loro fianco. Invece la videro benissimo i suoi uomini, nascosti tra le rocce lungo i due versanti della valle. Nefer alzò la spada sopra la testa e, mentre l'ultimo carro gli sfrecciava accanto, l'abbassò con un gesto deciso. I carri da trasporto erano pronti sul versante ripido, con le ruote bloccate da zeppe di legno e legate a funi. Erano nascosti alla vista da uno strato di erba secca che aveva un colore identico a quello dell'ambiente circostante ed erano carichi di sassi al punto che l'assale appariva assai curvo. Wilbur Smith
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Obbedendo al segnale di Nefer, i conducenti dei carri sfilarono dalle ruote le zeppe di legno e tagliarono le corde che le trattenevano: dai lati della valle, i carri da trasporto rotolarono in avanti, acquistando velocità e piombando sulla massa dei carri da guerra che avanzavano. Sentendo Ishtar gridare accanto a lui, Trok distolse lo sguardo dalla figura di Mintaka, e vide quei veicoli enormi piombare sulle sue squadre. «Indietro!» gridò. «Allontanatevi!» Ma persino la sua voce tonante andò perduta nel fragore. Una volta lanciata la carica, era impossibile fermarla, e in quella valle così stretta non c'era spazio di manovra. I primi carri si schiantarono sulle file iniziali del suo esercito con un gran fragore di legno spezzato, di lamenti di uomini e di nitriti, unito al rombo dei carri che si rovesciavano sul fianco e si capovolgevano, riversando il loro carico di sassi. Trok si trovò improvvisamente la strada sbarrata da uno di quei carri, che costrinse i suoi cavalli a sterzare verso il carro che correva accanto al suo. In un istante, quella splendida carica si trasformò in un ammasso di rottami rovesciati e di cavalli azzoppati o mutilati. I carri carichi di pietre avevano chiuso la valle alle due estremità, quindi anche i carri da guerra che non erano rimasti schiacciati e non si erano capovolti si trovavano compressi in una massa ribollente. Il loro scopo essenziale, il loro punto di forza, consisteva nella capacità di correre e manovrare, di caricare e ritirarsi in velocità: in quel momento, invece, erano immobilizzati, serrati tra due pareti di pietra, alla mercé degli arcieri di Nefer, appostati sui pendii. Le prime raffiche di frecce decimarono i soldati, privi di ogni protezione. In pochi minuti, la valle si trasformò in un mattatoio. Alcuni degli uomini di Trok saltarono a terra dai veicoli in trappola per risalire a piedi i fianchi della valle, ma erano sfiniti dall'estenuante marcia di avvicinamento e appesantiti dall'armatura e dunque, su quel terreno ripido e accidentato, si muovevano lentamente. Stando al riparo di massi e pareti di pietre a secco innalzate in fretta, gli uomini di Nefer li presero di mira con le lunghe lance e una pioggia di giavellotti. Quasi tutti furono abbattuti prima di raggiungere l'avanguardia dei difensori. Trok si guardò intorno, freneticamente, in cerca di una via per sfuggire alla trappola, ma uno dei suoi cavalli era morto, schiacciato dalla massa di pietre scaricata dal carro che gli sbarrava la strada. Dietro di lui, gli altri carri erano così vicini da non concedergli spazio per voltare o tornare Wilbur Smith
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indietro. Nell'aria ronzavano frecce e giavellotti, che urtavano contro i pannelli laterali del carro, rimbalzando sull'elmo e sul pettorale. Prima che lui potesse trattenerlo, Ishtar approfittò della confusione per saltare a terra e allontanarsi sgattaiolando tra i resti dei carri e i cavalli che lanciavano nitriti acuti. Poi Trok guardò di nuovo in avanti e, incredibilmente, vide Mintaka ancora lassù, immobile in cima alla roccia color ocra davanti a lui. Lo fissava con un'espressione di gelida ripulsa che trasformò la sua ira in follia. Afferrando l'arco da guerra dalla rastrelliera al suo fianco, prese una freccia dalla faretra, ma poi cambiò idea. Gettando via l'arco, le gridò, al di sopra della testa dei suoi cavalli, folli di terrore: «No! Una freccia è troppo per una cagna in calore. Verrò a prenderti a mani nude. Voglio sentirti lottare mentre soffoco il tuo ultimo respiro, sudicia sgualdrina». Sguainò la spada prima di balzare a terra, poi corse in avanti, schivando gli zoccoli dei cavalli imbizzarriti, e scavalcò il carro carico di sassi che si era rovesciato sulla pista. Due uomini di Nefer sbucarono dalle rocce per fermarlo, ma lui li abbatté con un colpo solo, passando poi sopra i loro corpi ancora frementi. Come una falena attirata dalla fiamma, teneva gli occhi incollati sulla ragazza vestita di rosso che si stagliava, alta e fiera, davanti a lui. Nefer lo vide sfuggire alla trappola e scese di corsa il pendio, saltando da una roccia all'altra. «Corri, Mintaka! Allontanati da lui», le gridò, angosciato. Ma lei non lo sentì, oppure non volle dargli ascolto. Trok invece lo sentì e si fermò, guardandolo. «Forza, fatti sotto, bamboccio. Ho una lama sufficiente per te e per la tua sgualdrina.» Senza neanche fermarsi, Nefer scagliò il giavellotto che aveva in mano, ma Trok lo ricevette proprio al centro dello scudo leggero che portava sulla spalla. L'arma ricadde, innocua, tintinnando sulla roccia prima di finire ai piedi di Mintaka, che la ignorò. Comunque il lancio era stato sufficiente a distrarre Trok. Nefer gli balzò davanti, su un tratto di terreno pianeggiante, e l'altro si mise in guardia, torcendo il viso in una smorfia feroce. Riparandosi dietro lo scudo di bronzo, gli fece oscillare sotto gli occhi la punta della spada. «Vieni, cucciolo. Mettiamo alla prova la tua pretesa di portare la corona doppia.» Nefer sfruttò l'impeto della discesa per investirlo, ma il primo colpo finì sullo scudo di bronzo di Trok. Lui riuscì a ritirarsi proprio mentre Wilbur Smith
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l'avversario tentava una stoccata al di sopra dello scudo, poi si lanciò di nuovo all'attacco, ribattendo colpo su colpo. I suoi uomini lo avevano visto caricare giù per la collina e seguirono il suo esempio, lasciando la copertura delle rocce per lanciarsi all'attacco a ondate successive. In pochi istanti, l'intera valle si colmò di uomini che lottavano, sferrando colpi e vibrando stoccate. Nefer fintò per colpire Trok al fianco, mirando al punto di congiunzione tra le parti dell'armatura. Quando Trok parò il colpo, lui invertì la direzione, puntando al viso. L'altro fu sorpreso dal cambio di direzione e dalla velocità di Nefer; sebbene avesse ritratto la testa, la punta della lama gli aveva squarciato la guancia, inondando di sangue la barba. La ferita, tuttavia, parve infondere nuova energia in Trok, spingendolo ad avventarsi contro Nefer. Sferrava colpi da tutte le direzioni, con una tale rapidità che la sua spada sembrava formare intorno a lui una parete impenetrabile di bronzo scintillante. Nefer fu costretto a retrocedere di fronte a quell'attacco, fino a sentire, dietro di sé, la lastra di pietra sulla quale si trovava Mintaka. Non poteva più ritirarsi o manovrare: era costretto a battersi contro la forza bruta dell'avversario. In uno scontro di quel genere, ben pochi uomini potevano tenere testa a Trok, che sembrava instancabile. Quando Nefer riuscì a parare alcuni dei suoi colpi, scoppiò a ridere. «Vediamo per quanto tempo riuscirai a fermare la marea, ragazzo. Io posso andare avanti così tutto il giorno. E tu?» domandò, senza perdere un colpo. Le lame di metallo si scontravano con un'eco sonora, mentre Trok si spostava gradualmente sulla destra per tagliare l'unica via di fuga che restava a Nefer. L'energia di Trok sembrava una forza maligna della natura. Nefer aveva l'impressione di essere del tutto inerme, in balia di una forte tempesta di vento, come se un'onda di marea lo stesse trascinando via. Sebbene gli anni di addestramento lo avessero temprato, non aveva previsto un'esperienza del genere. Sentiva che il braccio destro era ormai stanchissimo e rallentava sempre più il ritmo. Trok gli inflisse un taglio su un lato del collo e poco dopo squarciò la corazza di cuoio, graffiandogli le costole. Nefer capì che l'unica possibilità di sopravvivere a quella tempesta era opporre la sua velocità e la sua agilità alla forza bruta di Trok, ma era inchiodato contro la roccia. Doveva disimpegnarsi. Wilbur Smith
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Parò il colpo successivo in alto, deviandolo a sufficienza per creare un'apertura dalla quale sfuggire al contrasto, ma, proprio mentre spiccava il salto, lasciò esposto il fianco sinistro. Trok reagì, vibrando una stoccata che lo ferì alla coscia, poco più su del cartiglio tatuato. Il sangue cominciò a scorrere lungo la gamba fino al sandalo. Nefer sentiva le ultime forze abbandonarlo. Trok alzò la sua lama, legandola alla propria e costringendolo ad alzare sempre di più la guardia. Nefer sapeva che, se avesse tentato di disimpegnarsi, avrebbe esposto il petto a un colpo mortale, ma il taglio alla coscia lo aveva indebolito e rallentato. Il ghigno di Trok era trionfante. «Coraggio, ragazzo! È quasi finita. Poi potrai riposare per sempre.» Nefer sentì Mintaka gridare qualcosa, ma gli sembravano parole prive di senso; inoltre non poteva permettersi la minima distrazione. A poco a poco, Trok spinse di lato la sua lama, poi spostò bruscamente il peso sulla sinistra, verso la gamba ferita di Nefer. Lui tentò di contrastarlo, ma la gamba cedette sotto il peso del corpo. Allora Trok gli agganciò il piede dietro il tallone e lo fece cadere all'indietro. La spada volò via dalla stretta ormai fiacca di Nefer e, mentre era disteso sul terreno indurito dal sole, Trok alzò la spada con entrambe le mani, preparandosi a vibrare il colpo finale. Era fermo in quella posizione, allorché, improvvisamente, la sua espressione divenne stupita e perplessa. Senza portare a termine il colpo, sollevò verso la nuca una mano, facendola poi scorrere sotto gli occhi: era bagnata di sangue. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma agli angoli della bocca gli spuntarono due rivoletti di sangue. Si girò lentamente, rivolgendo le spalle a Nefer per fissare Mintaka, ritta sulla roccia sopra di lui. Con una sensazione d'incredulità, Nefer vide l'asta del giavellotto sporgere dalla nuca di Trok. Vedendo Nefer a terra, lei aveva raccolto il giavellotto rimasto ai suoi piedi dal momento in cui lo aveva scagliato, all'inizio dello scontro, per lanciarlo contro la schiena di Trok. La punta lo aveva colpito sotto l'orlo dell'elmo di bronzo, penetrando a fondo, mancando di poco la spina dorsale, ma squarciando la carotide. Simile a una maschera mostruosa, con la bocca aperta da cui il sangue sgorgava come da una fontana, Trok raccolse la spada per lanciarsi all'attacco, afferrando Mintaka alla vita e trascinandola giù dalla roccia. Tentava di dire qualcosa, ma i fiotti di sangue che gli uscivano di bocca soffocavano la sua voce. Wilbur Smith
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Mintaka urlò, sentendosi schiacciata contro il suo petto. Nefer allora riuscì ad alzarsi, raccogliendo la spada di Trok, che era caduta, e avvicinandosi alle sue spalle. Le grida di Mintaka avevano infuso nuova forza al suo braccio. Mise a segno il primo colpo all'altezza dell'allacciatura della corazza di Trok, affondandogli la lama nella schiena. L'avversario s'irrigidì, lasciando libera Mintaka, che si allontanò in fretta. Nefer ritirò la lama e colpì ancora. Trok si girò lentamente per affrontarlo, barcollando. Fece un passo verso di lui, tendendo le mani insanguinate. Ma Nefer lo colpì alla gola, e lui cadde in ginocchio, aggrappandosi alla lama. Il giovane allora la ritrasse di scatto, tagliando profondamente le dita e il palmo delle mani di Trok, recidendo nervi e tendini. Trok cadde bocconi e lui lo colpì di nuovo attraverso la giuntura della corazza, affondando la lama tra le scapole fino al cuore. Poi la lasciò dov'era, nel corpo dell'avversario, per correre da Mintaka, che si era rannicchiata al riparo della roccia. Lei gli andò incontro, abbracciandolo con tutte le sue forze. Una volta superato il pericolo, perse il ferreo autocontrollo che aveva mantenuto fino a quel momento e scoppiò in singhiozzi incoerenti. «Credevo che stesse per ucciderti, amore mio.» «E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per te», mormorò Nefer, ansimando. «Ti devo la vita.» «È stato terribile.» La voce di Mintaka tremò. «Credevo che non sarebbe mai morto.» «Era un dio.» Nefer tentò di ridere, senza riuscirvi. «E uccidere un dio non è impresa da poco.» Si rese conto che i suoni del combattimento provenienti dall'altro capo della valle erano cambiati. Sempre con un braccio sulle spalle di Mintaka, si girò a guardare. Vedendo cadere il Faraone, gli uomini di Trok avevano perso ogni spirito combattivo e cominciavano a gettare le armi, implorando: «Basta! Basta! Ci arrendiamo. Lodiamo tutti il Faraone Nefer Seti, l'unico vero sovrano!» Rendendosi conto di aver vinto, Nefer sentì gli ultimi residui di forza abbandonare il suo corpo malconcio e sanguinante. Gli era rimasta appena voce sufficiente per gridare: «Concedete loro la grazia. Sono nostri fratelli, sono egizi. Risparmiateli!» Quando Nefer cadde in ginocchio, Taita si materializzò al suo fianco, aiutando Mintaka a distenderlo sul terreno. Mentre i due fasciavano le Wilbur Smith
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ferite e stagnavano il sangue che sgorgava dal taglio profondo alla coscia, gli ufficiali si presentarono a rapporto da Nefer. Lui minimizzò la gravità delle ferite, chiedendo chi fosse sopravvissuto alla battaglia e quanti fossero i morti e i feriti. Con grande gioia, e gratitudine nei confronti di Horus e del Dio Rosso, vide che i suoi fidi comandanti, Hilto, Shabako e Socco, erano tra coloro che si affollavano intorno a lui, esultando per la vittoria, fieri di loro e dei propri uomini, pieni di gioia nel vederlo vivo. Improvvisando una lettiga con le lance, lo riportarono lungo la valle fino a Gallala, ma fu un percorso lungo, perché gli ufficiali e i soldati di Trok si affollavano lungo la strada, inginocchiandosi disarmati e a capo scoperto per implorare la sua misericordia, dichiarandosi pentiti di aver preso le armi contro il vero Faraone. Per ben tre volte, prima di raggiungere la porta della città, Nefer fece cenno di abbassare la lettiga per consentire ai comandanti fatti prigionieri di avvicinarsi e baciargli il piede. «Vi risparmio la morte dei traditori che meritereste ampiamente», disse loro in tono severo. «Ma siete tutti degradati a semplici sottufficiali degli Azzurri e dovrete dare prova della vostra lealtà verso la casa di Tamose.» Tutti lodarono la sua misericordia, ma Nefer si accigliò, scuotendo la testa, quando si rivolsero a lui come se fosse un dio. «Io non sono come quei blasfemi di Trok e Naja che sostengono di essere divinità.» Però gli uomini non si lasciarono dissuadere, rinnovando lodi e acclamazioni. I suoi stessi uomini, sotto la guida dei confratelli della Via Rossa, unirono la loro voce a quella degli sconfitti, pregandolo di proclamare la sua natura divina. Per distrarli, Nefer impartì alcuni ordini con aria corrucciata. «Il corpo di Trok Uruk, falso pretendente alla corona dell'Egitto, dovrà essere dato alle fiamme senza cerimonie qui, sul campo di battaglia, in modo che la sua anima continui a vagare per l'eternità senza mai trovare asilo.» Tra i presenti si levò un brusio sbigottito, perché quella era la punizione più terribile. «Gli altri nemici caduti devono essere trattati col massimo rispetto, imbalsamati e onorati con riti funebri. Il nome di Trok Uruk dovrà essere cancellato da tutti i monumenti e gli edifici del Paese e il tempio che aveva eretto per se stesso ad Avaris sarà dedicato a Horus alato, in ricordo della vittoria che ci ha concesso oggi presso la città di Gallala.» Wilbur Smith
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Gridarono tutti la loro approvazione, poi Nefer aggiunse: «Tutte le proprietà di Trok Uruk, tutti i suoi tesori e le sue tenute, gli schiavi e gli edifici, i magazzini e i beni di qualsiasi natura saranno incamerati dallo Stato. Inviate carri carichi d'acqua lungo la strada per Safaga, insieme con stallieri e medici, per raccogliere tutti i cavalli, i carri e gli uomini che Trok Uruk ha lasciato lungo il cammino durante la sua marcia arrogante verso la nostra capitale. I prigionieri, se ripudieranno i falsi Faraoni e giureranno fedeltà alla casa di Tamose, saranno perdonati e arruolati nel nostro esercito». Quando Nefer finì d'impartire gli ordini, emettendo l'ultimo decreto di quel giorno, aveva ormai la voce roca ed era assai pallido, allo stremo delle forze. Mentre veniva trasportato a braccia oltre la porta della città, chiese sottovoce a Mintaka: «Dov'è Taita? Qualcuno ha visto il mago?» Ma Taita era scomparso. Dal pendio della collina che sovrastava il campo di battaglia, Taita aveva osservato la trappola che si chiudeva sull'esercito di Trok, coi carri schiacciati dalla valanga di sassi e i superstiti investiti da una nube di frecce e giavellotti, allorché, in mezzo a quel caos, una figura bizzarra aveva colpito la sua attenzione. Ishtar il medo si stava allontanando tra le rocce. Come una lepre in fuga, scompariva alla vista soltanto per riapparire più in là, lungo il pendio, abbassandosi e schivando gli ostacoli. Per caso o per magia, era sfuggito alle frecce e ai giavellotti dei soldati di Nefer, tuffandosi infine oltre la cresta per scomparire del tutto. Il vecchio mago l'aveva lasciato andare, pensando che ci sarebbe stato tempo per occuparsi di lui. Poi aveva seguito il momento culminante della battaglia, estendendo i suoi poteri per fare da scudo a Nefer nel duello con Trok. Anche a quella distanza, era riuscito a deviare molti dei colpi che gli sarebbero stati fatali e, quando Trok aveva vibrato la stoccata alla coscia di Nefer, la lama avrebbe trovato la grande arteria femorale, se lui non avesse fatto appello a tutta la sua potenza per deviare il colpo. Da quella volta in cui aveva salvato Mintaka dall'incontro col cobra della dea, la giovane era diventata un soggetto molto sensibile alla sua influenza, giacché era assai perspicace e intelligente: sarebbe stato infatti impossibile influenzare un'idiota. Era stato lui a indurla a tornare a Gallala, per farsi vedere da Trok e attirarlo in trappola. Poi, quand'era rimasta Wilbur Smith
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paralizzata dall'orrore mentre i due si battevano ai suoi piedi, Taita aveva dovuto piegarla ancora una volta alla sua volontà, ispirandole l'impulso di raccogliere il giavellotto che giaceva a terra davanti a lei, e le aveva sostenuto il braccio destro per guidare la traiettoria. Poi, allorché la vita era defluita dal corpo di Trok, lui si era precipitato per assistere Nefer e fasciare la ferita così pericolosamente vicina all'arteria che pulsava nella coscia. Quando i confratelli della Via Rossa avevano sollevato il giovane Faraone sulla lettiga di spade, Taita, che ormai aveva compiuto il suo dovere, si era allontanato in mezzo alla folla, senza che nessuno facesse caso a lui. Trovò il sentiero seguito da Ishtar per fuggire da quella valle angusta e seguì le sue tracce fino a quando non fu impossibile distinguerle sul terreno in cima alle colline, indurito dal sole. Taita si accovacciò a terra ed estrasse dal sacchetto che portava sempre con sé una scheggia di radice seccata al sole per mettersela in bocca. Masticandola, aprì la mente, tutto proteso a individuare l'aura di Ishtar, la traccia che il mago aveva lasciato. Quando la radice affinò le sue facoltà mentali, finalmente la vide, all'estremità del suo campo visivo. Si trattava di un'ombra effimera, color grigio sporco. Un'ombra che svanì non appena la guardò direttamente. Ogni essere umano aveva la sua aura. Nefer Seti, per esempio, con la sua natura interiore nobile e divina, emanava un'essenza rosea che s'individuava facilmente. Lui l'aveva seguita per trovare il giovane quand'era stato dilaniato dal leone e si era smarrito con Mintaka nel deserto di Dabba. Invece l'aura di Ishtar il medo era cupa e contaminata. Taita si alzò per riprendere a seguirlo, avanzando rapido sulle lunghe gambe e battendo il bastone sulle pietre. Di tanto in tanto, notava una conferma al fatto che stava seguendo la pista giusta: un'orma incerta su un tratto di terreno più soffice, oppure un ciottolo smosso di recente. Ishtar aveva descritto un cerchio in direzione sud, poi era tornato verso Gallala. Allarmato, Taita allungò il passo. Se stava tentando di avvicinarsi a Nefer per compiere qualche altro misfatto, doveva assolutamente intercettarlo. Invece la pista lo condusse a uno dei carri che Trok aveva abbandonato nella marcia dalla costa. Ishtar doveva aver recuperato qualcosa dal relitto, e Taita chiuse gli occhi per capire che cosa fosse. «Un otre d'acqua», mormorò, notando i segni lasciati nel terreno da chi Wilbur Smith
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aveva estratto l'otre dal carro capovolto. C'era anche un altro otre, vuoto: Ishtar lo aveva lasciato, probabilmente perché sapeva di poterne portare uno solo. Taita lo prese e se lo mise in spalla prima di allontanarsi dal carro, coi cavalli morti ancora attaccati che cominciavano a decomporsi, per rimettersi sulle tracce del medo. Portando con sé l'otre, Ishtar era tornato verso Gallala. Non appena superata la sommità delle colline che sovrastavano la città, era sceso furtivamente verso la sponda del canale d'irrigazione più vicino. C'erano le impronte nitide delle sue ginocchia impresse nell'argilla umida là dove si era fermato a bere e a riempire l'otre che portava. Taita bevve a sua volta e, dopo aver riempito anche lui l'otre, si alzò per seguire le tracce che l'altro aveva lasciato allontanandosi verso oriente, lungo la strada che portava a Safaga e alla costa. Scese la notte, ma Taita proseguì il cammino. A volte l'aura di Ishtar svaniva del tutto, però lui continuava a seguire la strada; in altri momenti, invece, diventava più intensa, finché Taita non cominciò a percepire un lieve odore sgradevole, che sapeva di muffa. Quand'era forte, lui riusciva a sondare l'essenza di Ishtar, captando la sua natura crudele e vendicativa. Intuì che in quel momento era spaventato e avvilito dalla piega che gli eventi avevano preso contro di lui, ma i suoi poteri sembravano ancora temibili. Rappresentava un pericolo grande e reale, non solo per Nefer e Mintaka, ma per Taita stesso. Se fosse riuscito a mettersi in salvo e a rigenerare i suoi poteri dispersi, sarebbe diventato una minaccia terribile per il futuro della dinastia di Tamose e Apepi. Ishtar era uno degli iniziati di grado più elevato, e per giunta maligno, il che lo rendeva ancor più pericoloso. Senza dubbio, poteva osservare a distanza le sue vittime predestinate ed evocare ogni sorta d'influsso maligno per attirare il disastro sul capo di Nefer e Mintaka. Poteva avvelenare il loro amore, causare sofferenze, aborti spontanei ed epidemie, dolori e malattie senza motivo, aberrazioni mentali, follie e addirittura la morte. Neppure Taita era immune dall'influsso di quello spirito crudele. Se fosse riuscito a salvarsi, Ishtar avrebbe potuto erodere a poco a poco i suoi poteri e vanificare il suo lavoro. Doveva dunque intervenire subito, dato che ne aveva l'opportunità, per distruggerlo del tutto. La luna sorse sulle colline brulle, rischiarando il cammino di Taita. Il mago avanzava col passo lungo e agile che gli consentiva di procedere alla stessa velocità di un uomo a cavallo. Intuiva che Ishtar, davanti a lui, non Wilbur Smith
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sapeva di essere seguito e dunque avanzava molto più lentamente. A ogni ora che passava, la sua aura diventava più forte e più vicina. Lo raggiungerò prima dell'alba, pensò Taita. Tuttavia, proprio in quel momento si piegò in due, rovesciando sulla pista sassosa un fiotto di vomito. Assalito da un terribile attacco di nausea, rischiò di accasciarsi al suolo, poi ritrovò l'equilibrio e si ritrasse, asciugandosi le labbra per liberarsi dal gusto amaro della bile. «Che sventato!» esclamò sottovoce, furioso con se stesso. «Ero così vicino alla preda che avrei dovuto fare maggiore attenzione. Il medo mi ha scoperto.» Bevve una sorsata d'acqua dall'otre, prima di avanzare di nuovo, con maggiore cautela. Puntando il bastone in avanti, lo fece oscillare da una parte all'altra del sentiero e, d'improvviso, lo sentì molto pesante. Seguendo quella direzione, vide, poco oltre, un cerchio di sassolini chiari disposti a fianco della pista, scintillanti al chiaro di luna. «Un regalo del medo», disse a voce alta. Si sentì assalire di nuovo dalla nausea, ma la respinse, colpì il terreno col bastone e pronunciò una delle parole di potere: «Ncube!» La nausea cessò e lui poté avvicinarsi al circolo di pietre. Neutralizzare il suo incantesimo non è sufficiente, rifletté poi. Devo ritorcerlo contro di lui. Usò la punta del bastone per spostare uno dei sassolini, allontanandolo dal cerchio e distruggendone il potere. Quindi poté accovacciarsi vicino al disegno tracciato coi ciottoli: senza toccarli, li annusò. L'odore di Ishtar era forte: Taita si concesse un sorriso di gelida soddisfazione. «Li ha toccati con le mani nude», sussurrò. Aveva lasciato sui sassolini alcune tracce di sudore, e lui le poteva sfruttare. Facendo attenzione a non commettere lo stesso errore, spostò i ciottoli con la punta del bastone in modo da comporre un disegno diverso, una punta di freccia orientata nella direzione presa da Ishtar. Poi, prese una boccata d'acqua dall'otre e la sputò sui ciottoli, che scintillarono alla luce della luna. Infine puntò il bastone, come un giavellotto, nello stesso verso della freccia. «Kydash!» gridò. In quel momento sentì una pressione sui timpani, come se si fosse immerso in profondità nell'oceano. Tuttavia, un istante prima di diventare insopportabile, quella pressione diminuì e lui provò una sensazione di piacere e di benessere. Era riuscito a ritorcerla contro Ishtar.
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Una lega più avanti, Ishtar il medo si affrettava lungo il sentiero. Ormai era perfettamente consapevole dell'inseguimento; confidava nel potere della barriera che aveva collocato sul sentiero, ma sapeva che, se era in grado di bloccare la maggior parte degli uomini, non avrebbe fermato a lungo quello che lui temeva più di ogni altro. D'improvviso barcollò, portandosi le mani alle orecchie. Provava un dolore atroce, come se gli stessero conficcando in entrambe le orecchie un pugnale rovente. Con un gemito, si lasciò cadere sulle ginocchia. «È il mago», mormorò con un singhiozzo. Il dolore era così intenso che non riusciva a riflettere con lucidità. «Ha ritorto l'incantesimo contro di me.» Con le mani che gli tremavano, frugò nel sacchetto che portava alla cintola per estrarre il suo talismano più potente, la mano imbalsamata e disseccata di uno dei figli del Faraone Tamose, morto poco dopo la nascita durante l'epidemia dei Fiori Gialli. Per procurarsela, Ishtar aveva violato la tomba dei piccoli principi: la mano era scura e contratta ad artiglio come la zampa di una scimmia. Non appena l'accostò alla testa, sentì che il dolore cominciava ad attenuarsi. Si rialzò, traballando, e diede inizio a una danza, strascicando i piedi sul terreno, cantando e lanciando gemiti acuti. Il dolore alle orecchie svanì. Spiccò un ultimo balzo e si voltò nella direzione dalla quale era venuto: sentiva la presenza del mago, ormai vicino, come la minaccia del tuono nell'aria afosa di una giornata estiva. Pensò di tendergli un altro trabocchetto, ma sapeva che Taita glielo avrebbe ritorto contro. Devo deviare dal sentiero e cancellare la mia pista, decise. Proseguì di corsa lungo la strada, in cerca di un punto in cui poter cambiare direzione, e lo trovò in un tratto dove la pista attraversava una vena di scisto grigio, così dura che neppure il passaggio dell'esercito di Trok vi aveva lasciato tracce di sorta. Con l'indice della mano sinistra tracciò sulla roccia il simbolo sacro di Marduk, vi sputò sopra e pronunciò i tre nomi segreti del dio, che lo avrebbero evocato. «Nascondimi ai miei nemici, potente Marduk. Portami in salvo nel tuo tempio di Babilonia, e ti renderò i sacrifici che ami tanto», promise. Più di ogni altra cosa, Marduk amava che nella sua fornace venissero gettate bambine in tenerissima età. Procedendo su una gamba sola, saltellò all'indietro per cinquantacinque passi, il numero esoterico di Marduk, noto soltanto agli iniziati, poi si Wilbur Smith
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allontanò dalla strada ad angolo retto, puntando verso il deserto settentrionale. Camminava in fretta, cercando di aumentare la distanza che lo separava dall'inseguitore. Taita giunse nel punto in cui la cresta di scisto grigio intersecava la strada e si fermò bruscamente. L'aura, che fino a pochi istanti prima era stata così forte, sembrava svanita come la caligine dell'alba sotto i raggi del sole nascente. Del mago della Media non restavano più né il gusto né l'odore. Taita proseguì per un breve tratto, ma si accorse che la pista era fredda. Tornò subito indietro, raggiungendo il punto in cui l'aveva perduta. Ishtar non ha certamente perso tempo con un semplice incantesimo per celarsi alla vista, rifletté. Sa che le ceneri, oppure l'acqua e il sangue, non mi darebbero pensiero. Alzando gli occhi al cielo, individuò nel firmamento stellato la stella rossa che splendeva bassa all'orizzonte, l'astro della dea Lostris. Allora tenne sollevato l'amuleto, intonando il canto di lode alla dea. Aveva appena completato la prima strofa quando avvertì una presenza estranea e furiosa. Un altro dio era stato invocato in quello stesso luogo e lui, conoscendo Ishtar, poteva intuire facilmente chi fosse. Attaccò la seconda strofa e vide apparire sulla roccia nuda di fronte a sé un bagliore simile al riverbero delle pareti di rame nella fornace del tempio di Marduk, allorché ardevano i fuochi sacrificali. Marduk è offeso e manifesta la sua collera, pensò soddisfatto. Rimase immobile nel tratto di sentiero rischiarato da quel riverbero, declamando: «Sei lontano dalla tua terra e dal tuo tempio, Marduk della fornace. Ben pochi ti adorano, in Egitto. I tuoi poteri sono deboli. Io invoco il nome della dea Lostris, e tu non puoi contrastarla». Poi, sollevando l'orlo della tunica, aggiunse: «Io spengo i tuoi fuochi, Marduk». Accovacciandosi come una donna, urinò sulla roccia, che sfrigolò, fumando come una barra di metallo uscita dalla fucina del calderaio e immersa nella vasca d'acqua per raffreddarla. «In nome della dea Lostris, fatti da parte, Marduk il divoratore, e lasciami passare.» La roccia si raffreddò rapidamente. Non appena dissipato il vapore, Taita vide ancora una volta le tracce immateriali lasciate da Ishtar deviare dal sentiero per dirigersi a nord. Il velo che aveva teso sulla strada si era squarciato, consentendogli di riprendere l'inseguimento. L'orizzonte impallidì e la luce aumentò, assumendo a oriente una Wilbur Smith
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luminosità dorata. Taita sapeva di guadagnare terreno, quindi cominciò ad aguzzare lo sguardo nel chiarore dell'alba per intravedere la sua preda. Invece dovette fermarsi bruscamente: ai suoi piedi si spalancava un abisso, con le pareti verticali che scendevano a precipizio verso l'oscurità del fondo. Nessun essere umano avrebbe potuto scalare quelle pareti, e non c'era modo di aggirare l'ostacolo. Taita guardò dalla parte opposta. L'abisso era largo almeno mille passi e il salto nel vuoto era ancora più spaventoso, visto da quell'angolazione. Inoltre, al di sopra della voragine, si libravano alcuni avvoltoi e uno di essi volò in cerchio, prima di posarsi sul nido irto di ramoscelli, su una cengia in cima alla parete opposta. Taita scosse la testa con ammirazione. «Straordinario, Ishtar!» mormorò. «Persino gli avvoltoi... Quello è stato un tocco da maestro. Io stesso non avrei potuto fare di meglio, ma uno sforzo del genere ha richiesto un grande dispendio di energie. Ti dev'essere costato caro.» Superò l'orlo del precipizio, ma, invece di precipitare nel vuoto, sentì sotto i piedi il terreno solido. Lo spettacolo agghiacciante delle pareti di roccia e del precipizio, persino gli avvoltoi in volo, tutto svanì ondeggiando sotto i suoi occhi, come un miraggio. L'abisso era scomparso e, al suo posto, c'era un tratto pianeggiante di terreno sassoso, con una fila di colline basse velata da ombre azzurrine. Al centro di quella pianura, a meno di cinquecento passi di distanza, c'era Ishtar il medo. Era rivolto verso Taita, con le braccia in alto, nel tentativo disperato di preservare l'illusione che aveva creato. Tuttavia, nello scorgere l'altro che si avvicinava a lunghe falcate come un jinn vendicatore, comprese di aver fallito. Lasciò ricadere le braccia in un gesto rassegnato e si girò verso le colline calcaree all'estremità opposta della pianura sassosa, lanciandosi in una corsa affannosa, con la tunica nera che gli batteva contro le gambe. Instancabile, Taita lo seguì e, quando Ishtar si voltò, il suo viso tatuato di blu assunse un'espressione disperata. Per un istante, fissò con orrore la figura alta dai capelli d'argento, poi si girò di nuovo in avanti e riprese a correre, ancora più veloce. Per qualche tempo riuscì a distanziarlo, poi rallentò il passo e Taita, inesorabile, guadagnò terreno. Per alleggerirsi, Ishtar lasciò cadere l'otre che portava in spalla, ma precedeva Taita solo di poche centinaia di passi quando raggiunse le colline basse, che, alla luce del mattino, avevano il colore grigio-azzurro Wilbur Smith
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degli affioramenti di calcare, e scomparve in una delle piccole gole. Arrivato all'imbocco, Taita vide le impronte di Ishtar sul fondo sabbioso, dirette verso il punto in cui la gola deviava bruscamente verso destra. Le seguì, ma, non appena raggiunto lo spigolo della parete di roccia calcarea, udì il grugnito e il ruggito di una belva. Avanzando ancora, vide che il fondo di quel canalone si restringeva e la strada era sbarrata da un enorme leone maschio che agitava la coda. La criniera nera del leone era eretta e ondeggiava come l'erba al vento a ogni ruggito che prorompeva dalle fauci spalancate. L'animale aveva gli occhi d'oro e le pupille spietate ridotte a due fessure nere. Nell'aria torrida si avvertiva il suo odore acre, il lezzo delle carogne di cui si era cibato con quelle lunghe zanne gialle. Taita abbassò gli occhi sul terreno sabbioso dove il leone piantava le zampe massicce, con gli artigli sguainati, notando che le orme di Ishtar si vedevano ancora sulla sabbia, mentre le zampe del grande felino non avevano lasciato tracce. Non rallentò neppure il passo. Tenendo sollevato l'amuleto appeso alla collana, puntò direttamente verso il leone. Invece di aumentare d'intensità, il ruggito si spense e il contorno della criniera divenne trasparente, lasciando intravedere le pareti di roccia. Poi, come la nebbia sul fiume, la belva si dissolse nell'aria. Taita attraversò lo spazio che il leone occupava fino a poco prima, superando l'angolo della parete. Di fronte a lui, la gola si restringeva ancora e le pareti diventavano più ripide, arrestandosi bruscamente contro un muro di roccia. Ishtar era fermo, addossato a quel muro, e fissava Taita con occhi spiritati. Il bianco era giallastro e iniettato di sangue, la pupilla dell'unico occhio buono appariva nera e dilatata. L'odore del terrore emanato dal suo corpo era ancora più acre di quello del leone fantasma che aveva evocato. Alzando la mano destra, puntò verso Taita un dito lungo e ossuto. «Sta' indietro, mago!» gridò. «Ti avverto!» L'altro continuò ad avanzare e lui gridò ancora, stavolta in uno strano linguaggio gutturale, facendo il gesto di scagliare qualcosa d'invisibile contro la testa di Taita, che fu pronto a sollevare l'amuleto di Lostris all'altezza degli occhi. Sentì qualcosa sfiorargli la testa, col rumore di una freccia che vola nell'aria. Ishtar si voltò, sgattaiolando fulmineo in una stretta apertura nella roccia Wilbur Smith
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alle sue spalle, che aveva nascosto col proprio corpo. Taita esitò davanti all'ingresso, battendo col bastone sulla soglia di pietra. La roccia sembrava reale e si udivano i passi frettolosi di Ishtar che echeggiavano nell'antro buio. Era quasi certo che quella non fosse un'illusione, bensì l'entrata di una caverna reale che si apriva nella parete calcarea. Si avventurò all'interno sulle orme del medo, ritrovandosi in una bassa galleria scavata nella roccia e rischiarata a stento dal sole che entrava dall'ingresso alle sue spalle. Il pavimento della caverna era in lieve pendio. Proseguì, procedendo con maggiore cautela. Ormai era certo che il passaggio fosse reale nel tempo e nelle dimensioni, non un miraggio evocato da Ishtar per frustrarlo e sviarlo. Udiva il suono dei passi dell'altro, distorti e amplificati dalla galleria. Prese a contare i suoi, mentre avanzava nell'oscurità. Arrivato a centoventi passi, la luce ridivenne intensa, una forte emanazione che proveniva da qualche sorgente di luce nel fianco della collina. La galleria deviava bruscamente. Superando la svolta, Taita si trovò in una grande caverna dal soffitto alto, con un'apertura al centro che doveva portare al mondo esterno e all'aria aperta, perché un raggio di luce intensa cadeva sul pavimento della grotta. Mentre dal terreno s'innalzavano stalagmiti acuminate, coi cristalli scintillanti come i denti di uno squalo divoratore di uomini, dal soffitto pendevano stalattiti altrettanto minacciose, alcune simili a punte di lancia, altre alle ali scintillanti degli dei. All'estremità opposta della caverna, Ishtar era rannicchiato contro la parete. Da quella parte non c'erano vie di scampo. Non appena vide Taita apparire all'imbocco della galleria, cominciò a lanciare grida stridule, farfugliando: «Pietà, possente mago! Tra noi esiste un legame. Siamo fratelli. Risparmiami, e ti mostrerò misteri quali non ne hai mai neanche sognati. Metterò i miei poteri a tua disposizione. Sarò il tuo cane fedele. Dedicherò la mia vita al tuo servizio». Tanto erano umili le sue lusinghe e le sue promesse che, suo malgrado, Taita sentì la propria fermezza vacillare. Era soltanto un barlume di dubbio, ma Ishtar fu lesto a cogliere quella minuscola incrinatura nella sua corazza, sfruttandola all'istante. Tese una mano con l'indice e il pollice uniti a formare un cerchio, il segno di Marduk, e gridò qualcosa in quella strana lingua gutturale. Wilbur Smith
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Taita sentì un peso fisico insopportabile calargli sulle spalle, mentre qualcosa di simile ai tentacoli invisibili di una piovra gigantesca gli avviluppava il corpo, bloccandogli le braccia lungo i fianchi, e serrandogli la gola in una presa tanto forte da strangolarlo. Si sentì soffocare dall'odore di carne umana che bruciava, l'aura del divoratore. Non poteva muoversi. All'altro lato della caverna, Ishtar danzava e faceva le capriole, col viso tatuato stravolto dall'estasi come una maschera grottesca, la lingua protesa in fuori tra le labbra azzurre per leccare l'aria, come un gatto. Sollevò l'orlo della tunica, protendendo il bacino verso Taita. Il pene era in piena erezione, col cappuccio di pelle ritratto per lasciare scoperta la punta turgida e violacea come un frutto osceno. «La tua fragile dea non può proteggerti quaggiù, nel ventre della terra. Non puoi più prevalere contro Marduk il divoratore e il suo servo Ishtar», strillò. «La nostra sfida è finita. Ho sconfitto te e tutti i tuoi sortilegi, mago! Ora morirai.» In quel momento, Taita levò lo sguardo verso il soffitto della caverna, indistinto per la lontananza, concentrando la sua attenzione sulle lunghe stalattiti lucenti che parevano enormi pugnali scintillanti. Fece appello a tutte le sue riserve di energia per sollevare il bastone e puntarlo verso l'alto. Con l'ultimo fiato che aveva nei polmoni, gridò: «Kydash!» Si udì uno scricchiolio, poi la stalattite si staccò dal soffitto della caverna, precipitando. Sospinta dal suo peso enorme, la punta colpì Ishtar sulla sommità della spalla, vicino alla giuntura col collo, gli trapassò torace e ventre e fuoriuscì dall'ano. La lunga punta rocciosa lo inchiodò al pavimento della caverna come un pesce sventrato e messo a seccare sulla rastrelliera. Mentre lui fremeva, tremava e scalciava, in preda alle convulsioni dell'agonia, Taita si sentì liberato del peso che gli gravava sulle spalle. La pressione alla gola si allentò: Marduk si era ritirato e lui poteva tornare a respirare. L'odore di carne bruciata era svanito, l'aria era di nuovo pura, anche se stantia, fresca e venata appena da un lieve odore di funghi. Raccolto il bastone, si voltò per tornare indietro lungo il tunnel, sbucando all'aria aperta e al sole. All'entrata si girò e colpì col bastone la soglia di calcare della galleria, una, due, tre volte. Nelle viscere della terra si udì un brontolio di roccia che crollava: dall'imbocco della galleria uscì una folata d'aria mista a polvere, mentre il soffitto della caverna sotterranea sprofondava. «Con quell'aculeo di pietra nel cuore, neppure il tuo dio immondo potrà Wilbur Smith
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liberarti dalla tomba. Riposerai laggiù per l'eternità, Ishtar.» Pronunciate quelle parole, Taita si allontanò. Battendo col bastone sulle pietre, riprese la strada per Gallala. I tre messaggeri raggiunsero Babilonia in primavera, quando la neve era ancora alta sulle vette del nord, dove nascevano i due grandi fiumi della Mesopotamia. Il Faraone Naja Kiafan li ricevette sulla terrazza superiore dei giardini pensili del palazzo di Babilonia. Accanto al suo trono sedeva la regina Heseret, che indossava i gioielli più splendidi che il tesoro del re Sargon potesse offrirle. I capelli scuri, raccolti in alto, erano coperti da una rete di seta sulla quale le pietre preziose scintillavano come il firmamento. Aveva le braccia cariche di braccialetti e le dita appesantite da anelli di smeraldi, rubini e zaffiri, al punto che poteva sollevarle a stento. Al collo portava una pietra grande come un fico acerbo, limpida come l'acqua di un ruscello di montagna e tanto dura e resistente da tagliare il vetro o l'ossidiana. Quella gemma splendida proveniva dalle terre oltre il corso del fiume Indo e, quando il sole la colpiva, emanava bagliori che ferivano l'occhio. I messaggeri erano tutti alti ufficiali dell'esercito che il Faraone Trok aveva guidato verso oriente quattro mesi prima. Venivano a rischio della vita, perché portavano cattive notizie. Avevano viaggiato così a lungo e così in fretta che erano smagriti e bruniti dal sole del deserto e delle montagne. Si gettarono ai piedi del trono, sul quale Naja sedeva circondato da un tale splendore da mettere in ombra persino la moglie. «Salute a te, Faraone Naja, possente tra gli dei dell'Egitto», esclamarono nel salutarlo. «Portiamo notizie terribili. Abbi pietà di noi. Anche se quello che abbiamo da dirti ti dispiacerà, sii misericordioso e distogli da noi la tua ira.» «Parlate!» ordinò Naja in tono severo. «Solo a me spetta giudicare se dovrete essere risparmiati.» «Le notizie che portiamo riguardano il Faraone Trok Uruk, tuo fratello divino e sovrano dell'Egitto insieme con te», disse l'ufficiale che aveva comandato l'avanguardia di Trok col grado di Migliore dei Diecimila, e aveva al collo l'Oro del Valore. «Parla!» ordinò di nuovo Naja, perché l'uomo aveva esitato. «Nel deserto che circonda l'antica città di Gallala si è svolta una terribile battaglia tra l'esercito del Faraone Trok Uruk e quello dell'usurpatore Wilbur Smith
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Nefer Seti.» L'uomo tacque di nuovo. «Continua!» Naja si alzò, puntando verso il viso dell'ufficiale il flagello reale, un gesto che minacciava torture e morte. Il messaggero si affrettò a proseguire: «Grazie a un vile inganno e a maligne arti magiche, l'esercito del tuo fratello e nostro Faraone Trok Uruk è stato attirato in trappola e distrutto. Lui è rimasto ucciso, il suo esercito è stato decimato. I superstiti sono passati al nemico, schierandosi sotto la bandiera azzurra del falso Faraone Nefer Seti. Possa Seth colpirlo con una terribile vendetta, cancellando il suo nome e tutte le sue opere! Ora quel malvagio usurpatore marcia con tutte le sue truppe su Avaris e sui due regni dell'Egitto». Naja, sbigottito, sedette di nuovo sul trono. Al suo fianco, Heseret sorrise. Quando sorrideva, le linee crudeli agli angoli della bocca svanivano e lei si trasformava, ridiventando bella in modo ineffabile. Sfiorò con un dito ingioiellato il braccio di Naja e, allorché il marito si protese verso di lei, gli sussurrò all'orecchio: «Siano lodati gli dei! Gloria all'unico e solo Faraone dell'Alto e del Basso Egitto, il possente Naja Kiafan!» Lui tentò di rimanere impassibile, mantenendo un'espressione severa, ma un sorriso aleggiò sul suo volto attraente. Trascorse qualche istante prima che riuscisse a cancellarlo, alzandosi di nuovo. La sua voce era sommessa e sibilante, ma minacciosa come il suono della lama di una spada che colpisce la mola. «Voi mi portate la notizia della morte di un Faraone e di un dio. Guai a voi, perché siete contaminati, circondati dall'infelicità e dalla malasorte.» Fece un gesto, rivolto alle sue guardie del corpo, schierate intorno al trono. «Portateli via e consegnateli al sacerdote del dio Marduk perché siano sacrificati nella fornace per placare l'ira del dio.» Una volta che i messaggeri furono legati e condotti al sacrificio, Naja si alzò di nuovo per annunciare: «Il divino Faraone Trok Uruk è morto. Raccomandiamo la sua anima agli dei. Io dichiaro davanti a tutti voi che ora c'è un solo sovrano che governa entrambi i regni, come tutti i territori, le terre conquistate e i possedimenti dell'Egitto. E dichiaro che quel sovrano sono io, il Faraone Naja Kiafan». «Bak-her!» gridarono tutti i cortigiani e i comandanti riuniti intorno al trono, sguainando le spade e battendole sugli scudi. «Bak-her! Gloria al divino sovrano Naja Kiafan!» «Informate tutti i comandanti e i generali delle mie truppe. Riuniremo il Wilbur Smith
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consiglio di guerra oggi stesso.» Per undici giorni, il Faraone Naja presiedette dall'alba al tramonto le sedute del consiglio, nella sala del trono del palazzo di Sargon, facendo sorvegliare le porte dalle sentinelle per evitare che spie e ficcanaso curiosassero mentre stendevano i piani e l'ordine di battaglia. Il dodicesimo giorno, Naja inviò ambasciatori a tutti i re e ai satrapi dei territori conquistati tra Babilonia e i confini dell'Egitto per ordinare loro di allestire un esercito in vista della guerra, mettendosi ai suoi ordini per la campagna contro Nefer Seti. Al plenilunio successivo, quando sfilò davanti alla Porta Azzurra della città di Babilonia, l'esercito contava quarantamila uomini, tutti veterani esperti, ben equipaggiati con cavalli, carri, archi e spade. Heseret era al fianco del marito, l'unico Faraone d'Egitto, mentre passava in rassegna le truppe dai bastioni della città. «Che spettacolo meraviglioso!» commentò. «Non c'è mai stato un esercito come questo in tutti gli annali della guerra.» «Durante la marcia verso occidente, per tornare nella nostra madrepatria, si aggiungeranno a noi i sumeri e gli ittiti, gli hurriti e tutti gli eserciti dei Paesi conquistati attraverso i quali passeremo. Torneremo in Egitto con duemila carri, e il cucciolo non oserà affrontarci.» La guardò dall'alto. «Non senti pietà per tuo fratello Nefer?» «No!» Lei scosse la testa, facendo scintillare al sole i gioielli. «Tu sei il mio Faraone e mio marito. Chiunque si ribelli a te è un traditore e merita la morte.» «E morte avrà, mentre il mago traditore dividerà con lui la pira funeraria e brucerà al suo fianco», le promise Naja, rabbuiandosi. Sentirono da lontano l'odore del fiume, la fragranza delle acque fresche e dolci che aleggiava nell'aria del deserto. I cavalli alzarono la testa, emettendo un nitrito sommesso. I soldati della fanteria accelerarono il passo con gli occhi fissi in avanti, ansiosi di scorgere per la prima volta lo scintillio delle acque che, in quella stagione dell'anno, erano gonfie e scure di limo, la carne e il sangue della loro terra natia. Nefer e Mintaka viaggiavano insieme nel carro in testa al lungo corteo che si snodava lungo la via carovaniera da Gallala: Meren e Merykara erano alla loro destra, nel secondo carro della colonna. Nonostante le proteste di Merykara, che lo riteneva ancora troppo debole dopo la Wilbur Smith
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convalescenza, lui aveva insistito per viaggiare sul carro. «Sono mancato alla battaglia di Gallala, ma giuro che questo non si ripeterà mai più. Finché avrò fiato in corpo, cavalcherò col mio re e mio carissimo amico.» Per quanto fosse magro e pallido come un'egretta, si teneva eretto nel carro, con le redini strette tra le mani. I primi carri raggiunsero la sommità del pendio: ai loro piedi si stendeva la valle verdeggiante del Nilo, col fiume che splendeva come una colata di rame fuso dalla fornace, rosso ai primi raggi del sole. Nefer si girò sorridendo a guardare Meren. «Siamo a casa! A casa!» Mintaka cominciò a cantare, dapprima sottovoce, poi sempre più forte, quando Nefer si unì a lei. Tempio degli dei, sede dei diecimila eroi, verdissima fra tutte le terre, oggetto di amore profondo, padre dolcissimo, Egitto! Poi cominciarono a cantare anche Meren e Merykara, e il canto si estese a tutta la colonna. Le squadre intonarono una dopo l'altra quell'inno di gioia, scendendo lungo il pendio. Incontro a loro stava sopraggiungendo un altro esercito, coi soldati armati a bordo dei carri, i generali e i comandanti alla testa delle compagnie, seguiti dalle truppe di fanteria. Dietro di loro c'erano gli anziani, i sacerdoti e i nomarchi, tutti vestiti con le insegne, le catene e le decorazioni che competevano alla loro carica, alcuni sui carri, altri a bordo di portantine sorrette dagli schiavi, altri ancora a cavallo o a piedi. Infine veniva la massa dei cittadini, che ridevano e danzavano. Alcune delle donne portavano in braccio i figli lattanti e piangevano di gioia, riconoscendo i mariti, gli innamorati, i fratelli e i figli, tra i ranghi dell'esercito che tornava dall'esilio. I due cortei si unirono e si mescolarono, mentre anziani e generali si prostravano davanti al carro del Faraone. Nefer smontò, risollevando quelli che riconosceva e abbracciando i più potenti tra loro, invocando il favore degli dei sul suo popolo. Quando risalì sul carro, gli si accodarono, seguendolo fino alle rive del Nilo, dove smontò di nuovo per tuffarsi vestito nelle acque del fiume. Wilbur Smith
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Mentre loro si schieravano sulla riva, cantando e acclamandolo, lui compì il bagno rituale, bevendo le acque scure e limacciose. Risalito sul carro, dopo aver indossato una tunica di lino candido, con la corona azzurra sulla testa, Nefer guidò l'enorme corteo lungo la riva del fiume verso la città di Avaris. Per una lega almeno, la via era fiancheggiata da folle venute a dargli il benvenuto e che mescolavano la polvere con l'acqua del Nilo, spruzzandola poi sulla strada, agitando fronde di palma e gettando fiori sul suo cammino. Una volta raggiunta la città, trovarono le porte spalancate e il popolo schierato sulle mura. I cittadini avevano esposto sui bastioni bandiere e trionfi di fiori e frutta. Cantarono inni di lode, di benvenuto e di lealtà mentre Nefer superava la porta, a fianco di Mintaka. Belli come una coppia di giovani dei, raggiunsero anzitutto lo splendido tempio in riva al fiume che Trok Uruk aveva edificato per celebrare la propria natura divina. Nefer aveva già inviato istruzioni e gli artigiani erano al lavoro da settimane per scalpellare tutti i ritratti del falso Faraone e cancellare il suo nome dalle pareti e dalle alte colonne ipostile. Erano ancora impegnati a scolpire i ritratti e i titoli del dio Horus alato e del Faraone Nefer Seti, insieme con la descrizione della sua vittoria nella battaglia di Gallala. Nefer riteneva suo dovere recarsi per prima cosa nel tempio per ringraziare il dio e sacrificare davanti all'altare di pietra una coppia di tori neri privi di difetti. Dopo la cerimonia indisse una settimana di festeggiamenti e banchetti, con distribuzioni gratuite di pane, carne, vino e birra per tutti i cittadini, insieme con divertimenti e giochi. «Sei abile, mio caro», gli disse Mintaka con ammirazione. «Prima ti amavano, ma ora ti adoreranno.» Chissà per quanto tempo, si domandò Nefer. Non appena la notizia della nostra ascesa al trono arriverà a Naja, nella lontana Babilonia, lui si metterà in marcia, se già non lo ha fatto. Il popolo mi amerà finché lui non busserà alle porte. Il Faraone Naja Kiafan consacrò re di Babilonia il fedele generale Asmor, come satrapo del suo trono, lasciando ai suoi ordini cinquecento carri da guerra, duemila arcieri e soldati sufficienti a difendere le conquiste fatte. Poi, col grosso dell'esercito, intraprese la marcia verso l'Egitto per strappare la corona e il trono all'uomo che li aveva usurpati. Wilbur Smith
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Come una palla di neve che rotola lungo il fianco di una montagna, l'esercito del Faraone Naja Kiafan prese sempre più impeto e aumentò di peso, a mano a mano che avanzava a occidente sulle pianure e oltre le montagne per raggiungere il confine con l'Egitto. Al suo passaggio, i vassalli si univano a lui e, quando fu in cima al passo di Khatmia, il suo esercito si era quasi triplicato. Naja guardò verso occidente oltre il vasto deserto di sabbia, in direzione della città di Ismailia, all'estremità del Grande Lago Amaro, e dei confini del Paese. Sapeva fin dall'inizio che, a quel punto del suo cammino, sarebbe stato ostacolato dalle dimensioni dell'esercito, impacciato dalla sua stessa consistenza numerica. Davanti a lui si stendeva un deserto immenso, senza una sorgente o un'oasi che potessero dare sollievo all'esercito prima di raggiungere Ismailia. Era costretto ancora una volta a organizzare depositi per il rifornimento d'acqua lungo il percorso. Aguzzando gli occhi per difenderli dal riverbero, scorse le file di carri per l'acqua, carichi di recipienti d'argilla, che percorrevano la strada accidentata ai piedi del pendio, simili a vermi scuri che strisciavano lungo il paesaggio brullo color ocra. Erano al lavoro da mesi per costruire depositi d'acqua nel deserto, seppellendo nella sabbia le giare piene d'acqua e lasciando distaccamenti di fanteria a sorvegliarli, mentre andavano a prendere il carico successivo. La traversata avrebbe richiesto quasi dieci giorni e dieci notti. Durante quel periodo, l'esercito avrebbe dovuto ridurre al minimo le razioni, avendo a disposizione acqua appena sufficiente per resistere durante le lunghe marce notturne, sopportando il caldo torrido del giorno durante le soste, riparandosi all'ombra esigua offerta dalle tende di lino o dalle tettoie fatte di rovi ed erba secca. «Verrò con te nell'avanguardia», disse Heseret al suo fianco, interrompendo le sue riflessioni. Lui le lanciò un'occhiata. «Ne abbiamo già discusso», rispose, accigliandosi. Non molto tempo dopo il matrimonio, il fascino e la bellezza di Heseret cominciavano già a sbiadire, oscurati dalla petulanza, dalla gelosia e dall'irascibilità. Ormai Naja trascorreva sempre più spesso le sue ore con le concubine, affrontando violente scenate di gelosia quando tornava nel suo letto. «Tu viaggerai con le altre donne nel convoglio dei bagagli, sotto la tutela di Prenn, il comandante della retroguardia.» Heseret mise il broncio. Una volta anche quella era una delle sue Wilbur Smith
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attrattive, ma ormai appariva soltanto irritante. «In modo che tu possa mettere incinta Lassa, come hai fatto con la sorella», protestò. Si riferiva alle due principesse offerte in ostaggio a Naja dal satrapo della Sumeria, come prova della sua fedeltà alla corona d'Egitto. Le principesse erano snelle e giovanissime. Si dipingevano i capezzoli e andavano in giro mostrando i grandi seni nudi, secondo la moda svergognata dei sumeri. «Diventi noiosa, moglie.» Naja sollevò il labbro superiore in un sorriso che sembrava un ringhio. «Sai bene che si tratta di un'opportunità politica. Mi serviva un figlio da almeno una di quelle sgualdrinelle, per metterlo sul trono quando morirà il vecchio.» «Giurami sull'alito e sul cuore di Seueth che non porterai con te Lassa nell'avanguardia», insistette Heseret. «Sono più che disposto a giurarlo», replicò Naja, di nuovo con quel sorriso letale, «visto che porterò con me Sinnal di Hurria.» Era un altro ostaggio, ancora più giovane delle principesse sumere: aveva appena quattordici anni, i capelli color rame e gli occhi verdi, ma soprattutto le natiche grandi e rotonde. Heseret sapeva per esperienza che il marito amava conquistare la cittadella sia dalla porta sul retro sia da quella principale. «Mi serve un figlio anche da lei», spiegò Naja in tono paziente. «Devo metterlo sul trono dell'Assiria.» Poi fece un risolino di scherno. «I doveri di un sovrano sono davvero onerosi.» Heseret gli lanciò un'occhiata furiosa, prima di chiamare la portantina con le tende e i cuscini di seta per farsi condurre indietro, verso la retroguardia che Prenn stava cominciando a disporre in ordine di marcia. Su consiglio di Taita, Nefer aveva organizzato una rete di esploratori lungo le coste del mar Rosso, perché segnalassero qualunque sbarco di dhow. Tuttavia il mago era certo che l'esercito invasore sarebbe passato attraverso il grande deserto di sabbia. I falsi Faraoni lo avevano già attraversato per compiere l'avventurosa spedizione in Mesopotamia, quindi Naja conosceva bene il percorso. Del resto il suo esercito era troppo numeroso per solcare il mar Rosso a bordo delle imbarcazioni come aveva fatto Trok col suo, molto più piccolo. Grazie a una straordinaria innovazione introdotta dal mago, Nefer e i suoi conoscevano esattamente il numero e la composizione dell'esercito nemico. Uno dei comandanti di Naja, un ufficiale di grado elevato che era Wilbur Smith
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anche un vecchio compagno di Taita e aveva nei suoi confronti un debito di gratitudine, aveva inviato un messaggio al mago per dichiarare la sua lealtà nei confronti del Faraone Nefer Seti e la sua intenzione di unirsi all'esercito del vero Faraone. Tramite un altro dei suoi fedeli, un mercante di tappeti che guidava una carovana diretta a Beersheba, Taita gli aveva mandato una risposta, con l'ordine di restare a capo della sua compagnia. «Per noi sei molto più prezioso come fonte d'informazioni che come guerriero», aveva scritto, inviandogli due doni insoliti: un cesto di piccioni vivi e un rotolo di papiro sul quale era annotato un codice segreto. Non appena liberati, i piccioni tornavano nella voliera di Avaris in cui erano nati, portando con loro, legato a una zampa con un filo di seta, un messaggio in codice, scritto su un rotolo minuscolo di papiro della qualità più sottile e leggera. Grazie a quei messaggi, Nefer conosceva il numero e lo schieramento dei soldati agli ordini di Naja, sapeva esattamente in quale giorno era partito da Babilonia e quante truppe aveva lasciato sotto il comando di Asmor. Inoltre poteva seguire la sua avanzata verso occidente, attraverso Damasco, Beersheba e tutte le altre città e guarnigioni lungo il cammino. Ben presto apparve evidente che la valutazione di Taita era stata corretta: Naja non avrebbe tentato una traversata a sorpresa del mar Rosso. Aveva intenzione di sferrare un attacco frontale, attraversando il grande deserto di sabbia. Nefer ritirò le pattuglie disposte lungo le coste del mar Rosso e trasferì subito il quartier generale e gran parte dell'esercito nella guarnigione di frontiera di Ismailia, ai margini del deserto, dove esistevano pozzi d'acqua dolce in abbondanza e ampi pascoli per i cavalli. Grazie ai piccioni, mentre aspettavano a Ismailia, i rapporti continuarono ad arrivare. Nefer non soltanto conosceva l'entità delle forze di Naja, ma sapeva persino chi comandava ciascuna delle sue compagnie. Mintaka partecipava ai consigli di guerra nella fortezza di Ismailia, offrendo un contributo di valore incalcolabile. Infatti era hyksos di nascita e conosceva bene gli ufficiali al servizio di Naja, giacché, un tempo, erano stati agli ordini del padre. Da bambina aveva ascoltato i giudizi da lui pronunciati su ognuno di loro e aveva una memoria straordinaria, allenata e affinata dal gioco del bao. Esaminando le liste che avevano ricevuto, era in grado di dare consigli a Nefer in base ai punti di forza, alle debolezze e alle peculiarità individuali di ciascuno di quegli uomini. Wilbur Smith
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«Prendiamo questo, per esempio: Prenn, il comandante della retroguardia di Naja. È mio parente, perché era cugino di mio padre. Lo conosco bene, mi ha insegnato a cavalcare. Lo chiamavo zio Tonka, che nella nostra lingua significa 'orso'.» Sorrise, rievocando quel ricordo. «Mio padre diceva di lui che è fedele come un cane, prudente e lento, ma, se affonda i denti nella gola di un nemico, non lo molla più sino alla fine.» Ormai Meren si era ripreso del tutto, ritrovando la salute e le forze. Pregava e scongiurava di essere utilizzato in qualche modo, quindi Nefer lo inviò in avanscoperta con una divisione di carri per seguire l'avanzata di Naja, quando fosse sceso dal passo verso il deserto. Gli esploratori di Meren osservarono i carri per l'acqua trasportare il loro carico di giare piene, organizzando i posti di rifornimento nel terreno arido che Naja doveva attraversare per raggiungere il confine con l'Egitto. Meren chiese l'autorizzazione di attaccare e disperdere i convogli di carri, ma Nefer gli diede ordine di non interferire, limitandosi a tenerli sotto osservazione e a prendere nota dei luoghi in cui venivano depositate le riserve d'acqua. Poi ritirò le ultime truppe che aveva lasciato sul fiume e, una volta che furono accampate intorno a Ismailia, convocò un consiglio al quale parteciparono tutti i suoi comandanti. «Anche coi carri di Trok che abbiamo catturato a Gallala, Naja può vantare su di noi una superiorità numerica di quasi tre a uno», disse loro. «Tutti i suoi uomini sono temprati dal combattimento, i cavalli sono addestrati e in ottime condizioni. Non possiamo permettergli di attraversare la frontiera e raggiungere il fiume. Dobbiamo affrontarlo e batterlo qui, nel deserto.» Rimasero in consiglio per tutta la notte, finché Nefer non stese il piano di battaglia e impartì gli ordini. Dovevano lasciare Naja libero di avanzare per cinque giorni. Poi, non appena avesse raggiunto il punto senza ritorno nella traversata del deserto, avrebbero distrutto le sue riserve d'acqua, sia quelle davanti a lui sia quelle alle sue spalle, intrappolandolo nel mezzo del nulla. «Conosco abbastanza Naja per scommettere sulla sua arroganza nonché sulla fiducia nelle sue capacità di combattente. Sono certo che, una volta rimasto senza provviste d'acqua, non tornerà indietro, ma proseguirà l'avanzata. Le sue truppe raggiungeranno Ismailia dopo una marcia forzata di parecchi giorni nel deserto, senz'acqua, mentre noi potremo affrontarli coi cavalli e gli uomini ben riposati e dissetati, su un terreno di nostra Wilbur Smith
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scelta. Questo compenserà in parte la nostra inferiorità numerica.» Durante il lungo consiglio, Taita stava seduto in silenzio, nell'ombra, dietro lo sgabello di Nefer. Dava l'impressione di sonnecchiare, ma ogni tanto apriva gli occhi, poi, battendo le palpebre come un gufo insonnolito, le richiudeva, lasciando ricadere il mento sul petto. «I nostri problemi più gravi sono il numero e lo stato dei carri da guerra», aggiunse Nefer. «Tuttavia siamo quasi pari a Naja in fatto di arcieri, frombolieri e uomini armati di lancia. Sono certo che, quando si renderà conto di essere rimasto senz'acqua, deciderà di precedere la fanteria coi suoi carri. Taita e io abbiamo escogitato un piano per attirarli in una trappola in cui potremo sfruttare quel minimo vantaggio che abbiamo su di loro. Davanti alle città e ai pozzi costruiremo una serie di bassi muri di pietra, dietro i quali arcieri e soldati potranno nascondersi. Dovranno essere abbastanza alti da bloccare l'avanzata di un carro.» Servendosi di un carboncino, abbozzò un disegno sul foglio di papiro steso sul tavolo davanti a lui, mentre Hilto, Shabako, Socco e gli altri allungavano il collo per guardare. «I muri saranno disposti in modo da formare una trappola, come quelle che si usano per i pesci.» Disegnò una specie d'imbuto rovesciato, con la parte più sottile rivolta verso la fortezza di Ismailia. «E come lo attirerai nella trappola?» domandò Shabako. «Con una carica dei nostri carri e la fuga simulata che vi siete esercitati a compiere così spesso», spiegò Nefer. «Arcieri e frombolieri resteranno nascosti dietro i muri finché Naja non ci seguirà nell'imbuto. Più avanti riusciranno ad arrivare, più le sue squadre resteranno compresse tra i muri, offrendo un bersaglio migliore ai nostri frombolieri e agli arcieri che passeranno a distanza ravvicinata.» Persino l'esperto e scaltro Shabako parve impressionato. «Hai intenzione di chiuderli in un recinto come una mandria, proprio come hai fatto con Trok», commentò. Discussero con entusiasmo il piano, offrendo suggerimenti e proposte per migliorarlo. Alla fine Nefer affidò a Shabako l'incarico di costruire i muri. Taita aveva dedicato già cinque giorni a ispezionare il terreno e decidere il tracciato, quindi il lavoro poteva cominciare il giorno dopo all'alba. «Ormai ci resta pochissimo tempo», li ammonì Nefer. «Sappiamo che le truppe di Naja sono già schierate sulle alture di Khatmia. I depositi d'acqua Wilbur Smith
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sono quasi tutti approntati, quindi prevedo che a giorni Naja comincerà la discesa dal passo.» La riunione del consiglio si sciolse, mentre gli ufficiali si affrettavano ad allontanarsi per svolgere i compiti affidati loro da Nefer. Alla fine rimasero soltanto in tre nella stanza della torre della vecchia fortezza di Ismailia: Nefer, Taita e Mintaka. Fu lei la prima a riprendere il discorso. «Abbiamo già parlato di Prenn, lo zio Tonka.» Nefer assentì, lanciandole un'occhiata perplessa. «Se potessi incontrarlo per parlargli, sono certa che riuscirei a convincerlo a voltare le spalle a Naja per schierarsi con noi.» «Che vuoi dire?» ribatté Nefer, con la voce aspra e l'espressione severa. «Vestita da ragazzo, con un piccolo drappello di uomini valorosi e cavalli veloci, potrei aggirare l'esercito di Naja e raggiungere lo zio Tonka, nella retroguardia. Non ci sarebbero grandi rischi.» Nefer impallidì per l'ira. «È una follia!» sibilò. «Un'autentica follia, sullo stesso genere di quella che hai escogitato a Gallala quando ti sei messa in mostra per fare da esca a Trok. Non voglio sentire neanche una parola sull'argomento. Riesci a immaginare che cosa ti farebbe Naja, se cadessi nelle sue mani?» «E tu riesci a immaginare che cosa farebbe Naja se, nel momento cruciale della battaglia, lo zio Tonka e le sue truppe si rivoltassero contro di lui, attaccandolo alle spalle?» ribatté lei, furiosa. «Non ne parliamo più.» Nefer si alzò, battendo i pugni sul tavolo. «Resterai con Merykara qui nella fortezza per il resto della campagna. Se non mi darai la tua parola che hai rinunciato a questa idiozia, farò sbarrare e sorvegliare la porta della tua stanza.» «Non puoi trattarmi come un oggetto di tua proprietà.» La voce di Mintaka era incrinata dall'ira. «Non sono neppure tua moglie. Non intendo accettare ordini da te.» «Sono il tuo re, ed esigo la tua solenne parola d'onore che non metterai a repentaglio la tua vita con questo piano folle.» «Non è un piano folle, e non ti darò la mia parola.» Taita stava ad ascoltare, impassibile. Quella era la prima discussione seria tra i due, e lui sapeva che era resa ancora più aspra dai sentimenti profondi che provavano l'uno per l'altra. Aspettava con interesse di sapere come si sarebbe risolta. «A Gallala hai disobbedito deliberatamente ai miei ordini, e ormai non Wilbur Smith
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posso fidarmi di te. Non mi lasci alternative», le disse Nefer con espressione cupa, prima di gridare alla sentinella di guardia alla porta di chiamare Zugga, il capo degli eunuchi dell'harem reale. «Non posso fidarmi neppure di Merykara», aggiunse, tornando a rivolgersi a Mintaka. «È soggiogata da te e saresti capace di coinvolgere anche lei in questa tua folle impresa. Vi rimanderò entrambe nell'harem del palazzo di Avaris, dove dovrete restare, affidate alle cure di Zugga. Potrete divertirvi a giocare a bao finché la battaglia non sarà combattuta e la guerra vinta.» L'eunuco portò via Mintaka, ma lei, dalla soglia, si voltò a guardare Nefer, e Taita sorrise, decifrando la sua espressione: il suo protetto aveva trovato un avversario più ostinato di entrambi i Faraoni combinati. Verso sera, Taita andò a trovarla nella stanza che ora divideva con Merykara, in quello che un tempo era stato l'alloggio del comandante nella fortezza. Alla porta c'era una coppia di eunuchi dall'aria placida, mentre un altro era di guardia davanti alla finestra chiusa dalle sbarre. Mintaka fremeva ancora di rabbia. Merykara era altrettanto indignata per il trattamento riservato dal fratello a lei e alla sua amica più cara, e soprattutto per quella prigionia umiliante. «Almeno questo ti avrà insegnato che non conviene scontrarsi con un re, anche se ti ama», le disse Taita in tono gentile. «Io non lo amo», replicò Mintaka, con gli occhi pieni di lacrime di collera e frustrazione. «Mi tratta come una bambina e lo odio.» «Io lo odio ancora di più», dichiarò Merykara per non essere da meno. «Se solo Meren fosse qui!» «Non vi è venuto in mente che il comportamento di Nefer è la prova del suo amore e dell'ansia che prova per la vostra incolumità?» suggerì Taita. «Sa a quale sorte orribile andreste incontro, se doveste cadere nelle mani di Naja Kiafan e di Heseret.» Gli si rivoltarono contro con tanta violenza che fu costretto ad alzare le mani per placare la loro ira e a ritirarsi con tatto, con l'eco delle recriminazioni che gli ronzava ancora nelle orecchie. La mattina dopo, Nefer e Taita assistettero dal bastione del forte alla partenza da Ismailia di una piccola carovana diretta ad Avaris, scortata dagli eunuchi e da un contingente di carri da guerra. Mintaka e Merykara si erano trincerate dietro le cortine di seta della portantina al centro della colonna. Non si sporsero neppure una volta per salutare Nefer e Taita. «Personalmente, avrei preferito stuzzicare un alveare», mormorò Taita. «Forse sarebbe stato più opportuno mostrare un po' di tatto.» Wilbur Smith
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«Devono imparare che io sono il Faraone e che la mia parola è legge anche per loro. Inoltre, in questo momento, ho altri problemi cui pensare... Ah, i capricci delle donne», esclamò Nefer. «Passerà.» Ma rimase sulle mura a seguire con gli occhi la portantina che ondeggiava, mentre la carovana scompariva in lontananza, avvolta dalla foschia. Taita e Nefer uscirono a cavallo per ispezionare le mura innalzate in fretta da Shabako lungo le vie di accesso all'oasi di Ismailia da oriente. «Il lavoro di Shabako non sarà certo annoverato tra le opere architettoniche più insigni dei suoi tempi», sentenziò Taita, «ma è meglio così. Viste dalla direzione da cui arriverà Naja, sembreranno elementi naturali del paesaggio e non desteranno i suoi sospetti finché non entrerà nell'imbuto e scoprirà che si restringe progressivamente.» «Il nostro piano ha il pregio straordinario di consentirci la scelta del campo di battaglia», rispose Nefer con un cenno di assenso. «Con l'aiuto di Horus, lo trasformeremo in un mattatoio.» Poi posò una mano sul braccio ossuto di Taita. «Ancora una volta ti sono debitore, vecchio padre. Questa è tutta opera tua.» «No, io mi sono limitato a darti una piccola spinta. Il resto è tuo. Hai ereditato l'istinto militare di tuo padre, il Faraone Tamose, e raggiungerai la grandezza che avrebbe potuto essere sua, se non avesse incontrato una morte così crudele per opera del nemico che ora dovremo affrontare.» «È tempo che vendichi la sua morte. Assicuriamoci che il cobra non ci sfugga di nuovo.» Nei giorni seguenti, Nefer continuò a addestrare le truppe, provando e riprovando in tutti i dettagli i piani e la strategia della difesa. I battaglioni di arcieri e frombolieri uscivano ogni giorno dalla fortezza per prendere posizione dietro i muri rudimentali, collocando piccoli cumuli di pietre davanti ai muri stessi per segnalare la gittata delle armi, in modo da valutare con precisione il momento in cui era necessario far scattare la trappola. Sistemarono poco lontano alcuni fasci di frecce di riserva, per non rischiare di rimanerne senza durante la battaglia. I frombolieri modellarono nell'argilla dei proiettili che fecero cuocere finché non divennero duri come pietre, accumulandoli poi in monticelli dietro i muri, a portata di mano. Durante le esercitazioni, Nefer e i suoi comandanti fecero la parte delle Wilbur Smith
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truppe di Naja, spingendosi in pieno deserto per esaminare con occhio critico la posizione dei soldati e accertarsi che fossero ben nascosti dietro le fortificazioni. Poi, durante l'attesa, Nefer mise alla prova la sua tattica davanti alle fortificazioni, caricando, manovrando e ritirandosi, battendo il terreno a palmo a palmo fino a quando i suoi uomini non impararono a conoscerne ogni rilievo, ogni pianura e ogni gola, e persino la posizione delle buche scavate dalle talpe nonché di altri piccoli ostacoli. Scelse con cura i punti più sicuri dietro le mura, dove avrebbe potuto abbeverare i cavalli durante il combattimento e tenere le truppe di riserva finché non ci fosse stato bisogno di loro. «Dubito che un comandante sia mai arrivato a conoscere altrettanto bene la scacchiera sulla quale si giocherà la partita», osservò rivolto a Taita, prima di ordinare ai suoi squadroni di uscire di nuovo sul campo per ripetere le manovre. A sera, rientrò nella fortezza alla testa della sua squadra, col viso e il corpo incrostati di polvere e di sudore. Era esausto, ma soddisfatto di aver pensato a tutto ciò che poteva preparare le truppe alla battaglia che le attendeva. Tuttavia, quando arrestò Krus e Dov, gettando le redini agli stallieri e balzando a terra sul terreno indurito dal sole, quella sensazione di benessere svanì di colpo. Lo aspettava Zugga, il capo degli eunuchi dell'harem reale, con gli occhi rossi di pianto e la voce stridula per la paura, mentre si torceva le mani paffute. «Grande Faraone, perdonami. Ho fatto del mio meglio, ma è furba come una volpe e mi ha sconfitto in astuzia.» «Chi è questa volpe?» domandò Nefer, anche se lo sapeva già. «La principessa Mintaka.» «Che le è successo?» La voce di Nefer era aspra per l'ansia. «E' fuggita, portando con sé la principessa Merykara», farfugliò Zugga, aspettandosi di essere strangolato sul posto. Mintaka e Merykara trascorsero la maggior parte del viaggio di ritorno ad Avaris rannicchiate a bordo della portantina, parlottando sottovoce per concertare piani di fuga. Scartarono subito l'idea d'impadronirsi di uno dei carri della scorta: anche nel caso improbabile che fossero riuscite a ingannare o sopraffare uno dei conducenti, sapevano che, entro breve tempo, avrebbero avuto alle calcagna tutto l'esercito guidato dal Faraone in collera. A poco a poco riuscirono a mettere a punto un piano migliore. Wilbur Smith
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Il primo compito di Mintaka consisteva nell'ingraziarsi Zugga, il loro guardiano e carceriere, dandogli a intendere che erano sottomesse in tutto e per tutto alla sua autorità. Quando raggiunsero il palazzo di Avaris, quattro giorni dopo, era riuscita a placare i suoi sospetti a tal punto che Zugga avrebbe messo la mano sul fuoco per giurare che la natura della principessa era soave come il miele. A quel punto, Mintaka, nel modo più garbato possibile, gli chiese il permesso di far visita al tempio di Hathor, in modo che Merykara e lei potessero pregare per l'incolumità di Nefer e la sua vittoria nella battaglia imminente. Sia pure con qualche diffidenza, Zugga acconsentì, e le due giovani donne riuscirono a trascorrere quasi un'ora da sole con la Gran Sacerdotessa, nel santuario interno del tempio, mentre lui attendeva con ansia alla porta, perché nessun uomo, neanche un eunuco, era ammesso nel santuario. Il sollievo di Zugga fu grande, e tutti i suoi sospetti si dileguarono, allorché Mintaka e Merykara finalmente uscirono, belle, miti e innocenti come le sacerdotesse vergini del tempio. Così, qualche giorno dopo, quando chiesero di andare nuovamente a pregare nel tempio per celebrare un sacrificio alla dea, Zugga acconsentì senza problemi, accompagnando la portantina e conversando tranquillamente con le principesse, alle quali riferì gli scandali più succosi del palazzo. Ancora una volta la sacerdotessa accolse Mintaka e Merykara nel cortile del tempio, guidandole poi nel santuario interno. Senza sospettare nulla, Zugga si predispose ad attendere il ritorno delle due giovani. La Gran Sacerdotessa mandò una delle sue accolite a servirgli un piatto abbondante di pesce arrosto, insieme con un orcio di vino eccellente. Zugga mangiò tutto, scolò il vino e si addormentò all'ombra della statua di vacca della dea. Quando si svegliò, il sole era tramontato e lui era solo. Vide che i portatori erano spariti e si alzò, tormentato da fitte al ventre che non erano causate dalla cattiva digestione, ma da un crescente senso di allarme. Gridò per richiamare l'attenzione di qualcuno, battendo alla porta del tempio col bastone, ma passò molto tempo prima che una sacerdotessa arrivasse con un messaggio per lui: «Le due principesse hanno chiesto asilo nel tempio. La Gran Sacerdotessa, nostra madre, ha accolto la loro richiesta, prendendole sotto la sua protezione». Zugga era sconvolto. Il santuario del tempio era inviolabile, quindi non poteva esigere la restituzione delle sue protette, neanche in nome dell'autorità del Faraone. L'unica via che gli restava era tornare a Ismailia Wilbur Smith
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per confessare il fallimento, ma era una decisione rischiosa. Il giovane Faraone non aveva ancora rivelato per intero la sua vera natura, e la sua ira poteva dimostrarsi fatale. Nello stesso istante in cui le porte del tempio si chiusero dietro di loro, Mintaka e Merykara abbandonarono del tutto l'atteggiamento innocente e rassegnato. «Hai preso gli accordi, madre?» chiese con ansia Mintaka. «Non temere, figlia mia. È tutto pronto.» Gli occhi della Gran Sacerdotessa scintillavano divertiti: era chiaro che si godeva quella scappatella, un diversivo rispetto alla monotonia della vita nel tempio. «Mi sono presa la libertà di versare un blando sonnifero nel vino dell'eunuco», aggiunse ridacchiando. «Spero che non penserai che ho ecceduto, e mi perdonerai.» Mintaka la baciò sulla guancia liscia e pallida. «Sono certa che Hathor è fiera di te quanto lo sono io.» L'anziana donna le condusse in una cella dov'erano disposti tutti gli oggetti richiesti da Mintaka. Le due donne indossarono in fretta rozzi abiti da contadina, coprendosi la testa con uno scialle di lana, poi, caricandosi in spalla le sacche di cuoio, seguirono la Gran Sacerdotessa attraverso un labirinto di corridoi. La parte posteriore del tempio si affacciava sul Nilo, e sentirono sempre più forte il fruscio della corrente che lambiva i muri esterni. Infine, varcando una porticina, sbucarono all'aperto, su un molo al quale era ancorato un grande dhow. «Il comandante è stato pagato con l'oro che mi hai dato e sa già dove andare. Tutti gli altri oggetti che hai chiesto sono a bordo, nella cabina», disse la sacerdotessa. «E tu sai che cosa devi dire a Zugga», replicò Mintaka. La vecchia scoppiò di nuovo a ridere. «Sono sicura che Hathor mi perdonerà una menzogna tanto insignificante, visto che è per una buona causa.» Quando le due ragazze salirono a bordo del dhow, gli uomini dell'equipaggio, che stavano sonnecchiando all'ombra, si alzarono di scatto, affrettandosi a issare la vela. Senza attendere ordini, il comandante manovrò per inserirsi nella corrente e volgere la prua verso il delta. Le passeggere rimasero tutto il giorno nella cabina, per evitare che qualcuno le riconoscesse dalla riva o da una barca di passaggio. Verso la fine del pomeriggio, l'imbarcazione accostò alla riva orientale, dove salirono a Wilbur Smith
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bordo due uomini, gravati da sacchi pesanti. Subito dopo, il comandante del dhow issò di nuovo la vela e riprese il viaggio, filando a valle col favore della corrente. I due uomini scesero sottocoperta, prostrandosi di fronte a Mintaka. «Che tutti gli dei ti arridano, maestà», disse il più massiccio dei due, un hyksos barbuto col naso grosso e i lineamenti marcati. «Siamo ai tuoi ordini. Siamo venuti non appena ci hai convocato.» «Lok!» esclamò Mintaka, sorridendo di gioia nel vedere quel viso che ricordava bene, poi si rivolse all'altro. «E senza dubbio questo è tuo figlio, Lokka.» Sembrava altrettanto alto e robusto del padre. «Siete i benvenuti. Tu hai servito bene mio padre, Lok. Vuoi fare altrettanto per me, insieme con tuo figlio?» Parlava nella lingua degli hyksos. «A prezzo della vita, maestà!» le risposero all'unisono. «Quando saremo a terra avrò un compito impegnativo da affidarvi, ma per ora potete riposare e preparare le armi.» Il comandante del dhow scelse una delle tante bocche del delta in cui la corrente rallentava, insinuandosi attraverso paludi e lagune sulle quali volavano stormi di uccelli acquatici, fitti come nuvole scure. Il buio li sorprese prima che giungessero in mare aperto, ma il comandante proseguì imperterrito la navigazione in mezzo alle acque basse e ai banchi di sabbia, finché i miasmi degli acquitrini non furono spazzati via dall'aria pura e salmastra. Le due giovani donne salirono sul ponte. «A quest'ora Zugga si sarà accorto della nostra fuga», osservò Mintaka, rivolta a Merykara. «Mi domando che cosa dirà a Nefer. Che siamo al sicuro nel tempio sotto l'ala protettrice della vecchia sacerdotessa? Lo spero.» Sotto il cielo rischiarato da una mezzaluna, navigarono fuori dei confini delle vie fluviali, avvertendo il movimento del mare aperto che sollevava il ponte sotto di loro. Dopo aver scandagliato le acque, accertandosi che sotto la chiglia ci fosse una profondità sufficiente, il comandante virò di bordo verso est, navigando lungo la costa per tutta la notte. Al mattino, Mintaka e Merykara erano ritte a prua, avvolte negli scialli per tenersi al caldo, e guardavano a sud, verso la nuda costa desertica alla loro destra. «E pensare che Nefer è così vicino, a poche leghe da qui», sussurrò Mintaka. «Ho l'impressione che, tendendo la mano, potrei toccarlo.» «C'è anche Meren, poco più a oriente. Che sorpresa, se sapessero che Wilbur Smith
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siamo così vicine!» «Il mio cuore si strugge d'amore per Nefer. Prego ogni giorno che Horus e Hathor lo proteggano.» «Allora non lo odi più?» «Non l'ho mai odiato», ribatté Mintaka, indignata. Poi aggiunse, esitante: «Be', forse per un istante, ma molto poco». «Lo so come ti senti», le assicurò Merykara. «E che a volte possono diventare così ostinati, e cocciuti e...» Cercò un termine per definirli, ma non ci riuscì. «... infantili!» concluse Mintaka per lei. «E' proprio così. Sono come bambini. Ma immagino che dovremo perdonarli, no?» Per il resto della giornata e la notte seguente proseguirono la navigazione a oriente, attraverso il Khalig el Tina e lungo la serie d'isolette e di banchi di sabbia che cingevano la vasta laguna di Sabkhet el Bardawill. La mattina dopo, il dhow accostò verso la spiaggia a El Arish e, non appena l'acqua fu così bassa da arrivare soltanto alla cintola, le due guardie del corpo, Lok e Lokka, trasportarono di peso le giovani donne a riva, tornando poi verso l'imbarcazione per prendere i bagagli. Il piccolo gruppo rimase sulla spiaggia per assistere alla partenza del dhow, finché i marinai non ebbero issato la vela per puntare di nuovo verso il mare aperto e tornare in Egitto, verso il delta. «Bene, ce l'abbiamo fatta», mormorò Merykara, un po' incerta. Nonostante la compagnia di Mintaka, si sentiva sola e vulnerabile. «Ma adesso che si fa?» Sembrava sull'orlo del pianto. «Manderò Lok in cerca di qualche mezzo di trasporto», rispose Mintaka, poi, per darle conforto e ispirarle un po' più di sicurezza, spiegò: «Vedi, tuo fratello Nefer avrebbe potuto sbarrarci la strada verso il sud per impedirci di attraversare il deserto in cerca dello zio Tonka, ma noi lo abbiamo battuto in astuzia». Parlava in tono più gaio di quanto le dettasse il cuore, perché si rendeva conto di come fosse precaria la loro situazione. «Pensa come andrebbero su tutte le furie Nefer e Meren, se soltanto lo sapessero!» Scoppiarono a ridere insieme, poi Mintaka aggiunse: «Ora ci troviamo alle spalle dell'esercito di Naja che avanza, e la strada principale tra Beersheba e Ismailia passa a poche leghe da qui, a sud. Quando Lok ci avrà trovato un carro, o anche solo un carretto, potremo confonderci col convoglio che trasporta i bagagli dell'esercito e nasconderci tra le donne al seguito, in attesa di un'occasione per raggiungere il quartier generale dello Wilbur Smith
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zio Tonka». Trovare un mezzo di trasporto, però, non era davvero facile. Le due ragazze erano infatti state precedute dall'ufficiale addetto agli approvvigionamenti dell'esercito di Naja, che aveva requisito carri e cavalli, oltre che cibo e provviste, sequestrandoli agli abitanti del posto. Dovettero accontentarsi di cinque asini decrepiti, che pagarono a caro prezzo: due anelli d'oro massiccio e due d'argento. Gli animali riuscivano a stento a sostenere il peso delle due giovani, per non parlare delle guardie del corpo, così percorsero a piedi quasi tutto il cammino verso il sud, finché, il terzo giorno dopo lo sbarco, dall'alto di una collina, non avvistarono la coda dell'esercito del Faraone Naja che attraversava la valle. L'enorme schieramento si stendeva a perdita d'occhio, occupando la strada principale diretta da est a ovest in entrambe le direzioni: la polvere sollevata oscurava il cielo come il fumo prodotto da una foresta in fiamme. Scesero a raggiungerlo, ritrovandosi in mezzo al convoglio dei bagagli, e si confusero con la lunga carovana di carri da trasporto e bestie da soma. Avevano la testa e il volto coperti e, con gli abiti laceri e polverosi che indossavano, non attiravano troppo l'attenzione. Inoltre Lok e Lokka le sorvegliavano da vicino, scoraggiando le attenzioni di altri viandanti. La marcia era molto lenta, quindi persino i poveri asini malandati procedevano più in fretta degli altri mezzi. Come un fuscello che galleggia su un fiume impetuoso, vennero trascinate dalla corrente verso la testa del convoglio, superando creature di ogni genere e condizione, accattoni e prostitute, mercanti e portatori d'acqua, barbieri, calderai e carpentieri, cantori e saltimbanchi. C'erano superbi comandanti, insigniti dell'Oro del Valore, che guidavano i carri a tutta velocità in mezzo alla folla, sferzando gli invalidi che camminavano con le grucce per allontanarli dal loro percorso, e donne al seguito dell'esercito insieme coi loro bastardi, che allattavano i più piccoli marciando, mentre i più grandi si aggrappavano frignando alle loro gonne. Mintaka e Merykara continuavano a spingere i poveri asini al massimo della velocità. La prima notte si accamparono sotto le stelle, circondate dai falò, dal brusio e dal fetore di quell'immenso agglomerato umano. Ripartirono non appena ci fu luce sufficiente per vedere la strada. Prima di mezzogiorno avevano già raggiunto la retroguardia dell'esercito: compagnie di soldati armati di lancia, schiere di arcieri con la corda dell'arco ancora lasca, squadre di frombolieri che marciavano cantando nel Wilbur Smith
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linguaggio rozzo delle isole occidentali. Subito dopo, superarono le lunghe file di cavalli di riserva, legati in venti a una sola corda, dietro i carri del foraggio e dell'acqua. Mintaka rimase stupita dal loro numero: sembrava impossibile che in Egitto ci fossero tanti animali. I soldati le adocchiarono: nemmeno gli abiti trasandati e gli scialli voluminosi che portavano sulla testa potevano nascondere del tutto la grazia delle due giovani donne. Vedendole passare, gridavano complimenti insinuanti e inviti osceni, ma la disciplina degli ufficiali e la presenza arcigna di Lok e Lokka impedivano loro d'insistere. Continuarono la marcia anche dopo che il grosso dell'esercito si era accampato e, al tramonto, raggiunsero un recinto delimitato da paletti e rovi, eretto poco lontano dalla strada in una zona di colline poco elevate, facile da difendere. L'ingresso era ben sorvegliato e, tutt'intorno, ferveva l'attività: andirivieni di sentinelle, viavai frettoloso di servi e attendenti, movimento di carri guidati da ufficiali... Sopra l'ingresso del recinto sventolava uno stendardo che Mintaka riconobbe: la testa recisa di un cinghiale con la lingua sporgente dall'angolo delle fauci, da cui spuntavano le zanne. «È questo l'uomo che cerchiamo», sussurrò Mintaka a Merykara. «Ma come faremo a entrare per incontrarlo?» chiese l'altra, incerta, guardando le sentinelle. Sistemarono a breve distanza il loro rudimentale accampamento, in vista dell'ingresso del quartier generale di Prenn, ufficiale dei Rossi e comandante della retroguardia dell'esercito del Faraone. Da una delle sacche di cuoio, Mintaka tirò fuori la preziosa lampada a olio che era sopravvissuta al viaggio e, a quella luce, scrisse un breve messaggio su un ritaglio di papiro. Era indirizzato a «Zio Orso» e firmato «dal tuo piccolo grillo». Le due ragazze si ripulirono il viso dalla polvere, pettinandosi a vicenda e indossando la tunica. Poi, tenendosi per mano per farsi coraggio, si avvicinarono alla porta. La sentinella le vide arrivare e si fece avanti per allontanarle. «Andiamo, siete due bei bocconcini succulenti, sapete bene che non è il caso di venire qui a sbattercela in faccia. Andate via.» «Mi sembri un brav'uomo», ribatté Mintaka in tono altezzoso. «Permetteresti a qualcuno di rivolgersi alle tue figlie con questo linguaggio grossolano?» La sentinella sussultò, fissandola a bocca aperta, perché lei aveva usato Wilbur Smith
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la lingua degli hyksos parlando col tono e l'accento dell'aristocrazia. Sollevò la lanterna per guardarle meglio. Indossavano abiti dimessi, ma, vedendole in faccia, l'uomo rimase col fiato mozzo: erano chiaramente due giovani donne di alto rango. Anzi, quei volti gli sembravano familiari, anche se non riuscì a individuare subito a chi appartenevano. «Perdonatemi», mormorò. «Vi ho scambiato per...» S'interruppe, mentre Mintaka sorrideva con grazia. «Naturalmente, sei perdonato. Vuoi consegnare un messaggio da parte nostra al generale Prenn?» Gli porse il rotolo di papiro. Il sottufficiale della guardia esitò solo un istante prima di prenderlo. «Mi dispiace, ma devo chiedervi di aspettare qui finché non avrò ricevuto istruzioni dal generale.» Ritornò poco dopo, in affanno. «Sono desolato di avervi fatto aspettare, signore! Vi prego di seguirmi.» Le guidò verso una tenda colorata al centro dell'accampamento, ma dovettero attendere qualche altro istante perché il sottufficiale si mise a confabulare con l'ufficiale responsabile di guardia all'entrata. Finalmente vennero introdotte nella tenda, arredata con grande sobrietà e col pavimento coperto di pelli di animali, orici, zebre e leopardi. Su quel tappeto di pelli c'era un uomo seduto a gambe incrociate, circondato da mappe e rotoli; teneva sulle ginocchia un piatto di legno che conteneva un pezzo di carne arrostita e una forma di pane di dhurra. Vedendo entrare le ragazze, alzò la testa. Aveva il viso scavato, con le guance molto infossate, e neppure i nastri intrecciati alla barba potevano mascherare il fatto che essa era più grigia che nera. Aveva un occhio coperto da una benda di cuoio e le fissava con aria accigliata. «Zio Tonka!» Mintaka avanzò alla luce della lampada, togliendosi lo scialle dalla testa. L'uomo si alzò lentamente, fissandola, poi sorrise con l'unico occhio scintillante. «Mi sembrava impossibile!» L'abbracciò, sollevandola di peso da terra. «Ho sentito dire che ci hai abbandonato per passare al nemico.» Quando la rimise a terra e lei riuscì a riprendersi, almeno in parte, da quella calorosa manifestazione d'affetto, Mintaka rispose senza fiato: «È di questo che sono venuta a parlarti, zio Tonka». «Chi c'è con te?» Lanciò un'occhiata a Merykara, poi socchiuse l'unico occhio sano. «Per l'alito immondo di Seueth, io ti conosco.» «È la principessa Merykara.» Wilbur Smith
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«La moglie di Naja, la fuggiasca! Sarà contento di riaverti.» Prenn scoppiò in una risata. «Avete mangiato?» chiese poi, e, senza attendere la risposta, gridò ai servi di portare altra carne, pane e vino. Le due donne si coprirono di nuovo con gli scialli in presenza dei servitori, poi, una volta che furono usciti, Mintaka prese posto vicino a Prenn, dalla parte dell'orecchio buono, e abbassò la voce in modo che nessuno potesse udirla origliando dall'esterno della tenda. Lui l'ascoltò in silenzio, ma cambiò espressione allorché lei gli descrisse nei dettagli gli avvenimenti di quella terribile notte a Balasfura, quando il padre e i fratelli erano morti a bordo della nave in fiamme sul fiume. Mentre continuava a parlare, Mintaka ebbe l'impressione di scorgere una lacrima all'angolo dell'occhio di Prenn, ma sapeva che una simile manifestazione di debolezza era impossibile in un ufficiale dei Rossi. Prenn volse il viso dalla parte opposta e, quando la guardò di nuovo, la lacrima non c'era e lei capì di essersi sbagliata. Alla fine del racconto, lui le rispose con semplicità: «Volevo bene a tuo padre quasi quanto ne voglio a te, mio piccolo grillo, ma quello che mi proponi è alto tradimento». Rimase in silenzio ancora a lungo, poi sospirò. «Dovrò pensarci su. Nel frattempo, tuttavia, non potete tornare da dove siete venute. È troppo rischioso. Dovete restare sotto la mia protezione, tutt'e due, finché la faccenda non sarà risolta.» Le due ragazze protestarono, ma lui le zittì bruscamente. «Non è una richiesta, è un ordine.» Rifletté un momento. «Vi farò travestire in modo che sembriate due dei miei favoriti. Non ci saranno commenti, perché tutti i miei uomini sanno che so apprezzare un bel culetto quasi quanto un bel seno.» «Posso almeno inviare un messaggio a Nefer Seti?» pregò Mintaka. «Anche questo è troppo rischioso. Abbi pazienza. Non sarà per molto. Naja è già pronto sul passo di Khatmia. Entro pochi giorni comincerà la marcia verso Ismailia e la battaglia sarà decisa prima che la luna di Osiride cominci a calare.» La sua voce si ridusse a un brontolio sommesso. «E io sarò costretto a prendere una decisione.» Meren osservò da lontano l'imponente esercito del Faraone Naja scendere dal passo di Khatmia verso la desolazione del deserto, poi lasciò partire due dei piccioni che Taita gli aveva affidato: due, perché, se uno fosse stato catturato da un falco o da un altro predatore, l'altro almeno Wilbur Smith
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avrebbe potuto farcela. Entrambi i piccioni avevano un sottile filo rosso legato a una zampa: il segnale che l'avanzata era cominciata. Non per quello il ragazzo smise di spiare l'avanzata costante delle truppe nemiche attraverso il deserto, avvicinandosi di notte al campo per osservarle da vicino, mentre attingevano l'acqua alle giare immagazzinate e per origliare qualunque conversazione si svolgesse intorno ai fuochi da campo. Alla quinta notte di marcia, tutto l'esercito di Naja era ormai impegnato nella traversata del deserto; l'avanguardia aveva già superato il segnale che indicava il punto mediano della strada tra Khatmia e Ismailia. Meren riuscì ad avvicinarsi alla retroguardia per esaminare i depositi d'acqua che si erano lasciati alle spalle. Scoprì che le giare erano state vuotate quasi del tutto, oppure portate via. Naja era così fiducioso nella vittoria che non aveva lasciato nessuna riserva nell'eventualità di una ritirata. Grazie alle poche giare inutilizzate che riuscì a trovare, Meren poté riempire gli otri quasi vuoti, prima di distruggere i depositi rimanenti. A quel punto, proseguì la marcia in direzione parallela all'esercito di Naja, ma molto più a sud, oltre la visuale degli esploratori nemici, descrivendo un ampio cerchio per precedere l'armata che si muoveva con lentezza, impacciata dalle sue stesse dimensioni. Tornò nel punto in cui aveva lasciato, ben nascosto, il grosso delle sue forze, cinquanta carri guidati da veterani e trainati da alcuni dei cavalli migliori dell'esercito di Nefer. Si fermò solo quanto bastava per abbeverare i cavalli e cambiare i gagliardetti issati sui carri, passando dall'azzurro di Nefer al rosso di Naja. Non gli piaceva, quello scambio, ma si consolò col pensiero che in guerra si trattava di un espediente legittimo. Poi, alla testa del suo squadrone di carri, si slanciò in avanti, precedendo l'avanguardia di Naja lungo il percorso che avrebbe dovuto seguire. Gli uomini lasciati di guardia ai depositi d'acqua videro i carri avvicinarsi dalla direzione in cui si aspettavano l'arrivo dei commilitoni; quando poi videro i gagliardetti rossi, ogni indugio svanì. Del resto Meren non lasciò ai soldati il tempo di riflettere, ma si avventò su di loro, annientando chiunque tentasse di resistere. I superstiti ebbero la scelta tra morire o cambiare bandiera, e passarono quasi tutti dalla parte di Nefer Seti. Un solo colpo di maglio per ciascuna bastò a infrangere le giare di terracotta, facendo scorrere nella sabbia il liquido prezioso. Poi lo squadrone di Meren risalì a bordo dei carri per riprendere la corsa verso il Wilbur Smith
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deposito successivo. Quando infine giunsero a Ismailia, Nefer si fece incontro a loro per accoglierli, abbracciando Meren nell'apprendere che aveva portato a termine l'incarico: lasciare Naja senz'acqua nel deserto. «Ti sei appena guadagnato il primo Oro del Valore», disse a Meren, «e sarai promosso al rango di Migliore dei Diecimila.» Era sollevato nel vedere che l'amico sembrava perfettamente guarito dalle conseguenze della ferita: era ridiventato atletico, abbronzato dal sole del deserto e sembrava impaziente di combattere. «Nella battaglia che ci attende, ti assegnerò il comando dell'ala destra.» «Faraone, se sei contento di me, ti chiedo una sola grazia.» «Ma certo, amico mio. Se è in mio potere, la otterrai.» «Il posto giusto per me è al tuo fianco. Abbiamo percorso insieme la Via Rossa, ora concludiamo insieme questa battaglia. Lascia che venga con te come portatore di lancia: questo è l'unico onore che ti chiedo.» Nefer gli serrò il braccio in una stretta commossa. «Verrai ancora una volta con me, sul mio carro, e sarò io a sentirmi onorato.» Lasciò ricadere la mano. «Ma non c'è tempo per i discorsi. Naja non tarderà molto ad arrivare. Non appena scoprirà quello che hai fatto alle sue riserve d'acqua, sarà costretto a proseguire a marce forzate.» Istintivamente si voltarono a guardare il deserto nella direzione da cui sarebbe giunto il nemico, ma la foschia era fitta, intorbidita dall'afa, e non si vedeva altro che una pianura spettrale. Comunque non dovettero attendere a lungo. Il Faraone Naja tirò le redini del carro da guerra, contemplando dall'alto i resti del deposito d'acqua distrutto. Anche se gli esploratori lo avevano avvisato, era ancora sbigottito dalla portata di quella devastazione. Scese lentamente dal carro per avanzare nel campo coperto di detriti, sentì scricchiolare sotto i sandali le schegge di terracotta, e, d'un tratto, il gelido autocontrollo che gli era abituale venne meno. In preda all'ira e alla frustrazione, prese a calci una delle giare spaccate, poi si piantò i pugni sui fianchi, fissando iroso il deserto a occidente. Infine riprese il controllo di sé, mentre il suo respiro si faceva meno affannato. Si voltò per tornare dagli ufficiali in attesa. «Darai ordine di tornare indietro?» chiese con cautela uno dei comandanti. Wilbur Smith
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Naja si girò ad affrontarlo con aria gelida. «Il prossimo codardo che osa suggerire una decisione del genere verrà spogliato e legato per i piedi al mio carro, e io lo trascinerò fino in Egitto.» Tutti abbassarono gli occhi, stropicciando i piedi sulla sabbia. Poi Naja si tolse dalla testa la corona azzurra di guerra e, quando il suo portatore di lancia accorse per portargli un riquadro di tela di lino, si asciugò il sudore dalla testa rasata. Con la corona sotto il braccio, impartì nuovi ordini. «Raccogliete tutti gli otri dell'esercito. D'ora in poi la riserva d'acqua sarà sotto il mio diretto controllo. Né uomini né animali potranno bere senza il mio permesso. Indietro non si torna. Tutti i carri si sposteranno nella parte anteriore della colonna, anche quelli di Prenn, che si trova nella retroguardia. Gli altri carri e i soldati di fanteria dovranno seguirci come meglio potranno. Io porterò la cavalleria all'assalto dei pozzi di Ismailia.» Heseret si affacciò dall'apertura della tenda, chiamando il comandante delle guardie del corpo. «Che cosa mai succede?» gli domandò seccamente. «Questo è un luogo sacro, riservato al sovrano, quindi che ci fanno quei due furfanti nel mio recinto?» Indicava gli uomini che stavano scaricando gli otri dell'acqua da uno dei suoi carri personali per i bagagli, fermo vicino alla tenda. «Che cosa credono di fare? Come osano toglierci l'acqua? Non ho ancora fatto il bagno. Digli di rimettere subito a posto quegli otri.» «Maestà, è un ordine del Faraone, il tuo divino consorte», le spiegò il comandante, benché fosse agitato lui stesso, oltre che allarmato dalla prospettiva di essere abbandonato senz'acqua in quel deserto spaventoso. «Dicono che tutta l'acqua serve per gli squadroni di cavalleria in prima linea.» «Ordini del genere non si possono applicare a me, la divina sovrana dell'Egitto!» strillò Heseret. «Rimettete subito a posto quegli otri.» I soldati esitavano, e l'ufficiale che li comandava si sfiorò con la spada la visiera dell'elmo di cuoio. «Perdonami, maestà, ma ho ricevuto ordine di portare via tutta l'acqua.» «E tu osi sfidarmi?» gli gridò Heseret. «Ti prego di perdonarmi e di capire la mia situazione, maestà, ma ho ricevuto ordini...» L'uomo tenne duro. «Per il dolce nome di Iside, ti farò strangolare e darò alle fiamme il tuo Wilbur Smith
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corpo, se osi ancora sfidarmi.» «Gli ordini...» «Che la peste si porti te e i tuoi ordini. Andrò dal generale Prenn e, al mio ritorno, avrò altri ordini per te.» Poi si rivolse al comandante delle guardie del corpo. «Preparami il carro e una scorta di dieci uomini.» Su quella pianura piatta e priva di ostacoli l'accampamento del generale Prenn era ben visibile dalla tenda di Heseret. Il suo carro impiegò pochi minuti a raggiungerlo, ma la sentinella all'entrata del campo le sbarrò la strada, affermando: «Divina maestà, il generale Prenn non si trova qui». «Non ci credo», gridò Heseret, andando su tutte le furie. «Quella è la sua bandiera.» Indicò lo stendardo con la testa di cinghiale. «Maestà, il generale è partito un'ora fa con la cavalleria. Ha ricevuto dal Faraone l'ordine di unirsi all'avanguardia.» «Devo vederlo per una questione di estrema urgenza. So che non si sarebbe mai allontanato senza informarmi. Fatti da parte, così vedrò coi miei occhi se è qui.» Lanciò il carro nella sua direzione, e il soldato si affrettò a balzare di lato. La scorta seguì Heseret. Lei si diresse senza esitare verso la tenda del comandante, a strisce gialle e verdi, gettando le redini a uno stalliere. Era tanto agitata che non si attenne al cerimoniale, ma scese a terra con un balzo, avviandosi di corsa all'entrata della tenda. Il fatto che non ci fossero sentinelle la indusse a sospettare che i soldati le avessero detto la verità e Prenn fosse partito davvero. Comunque entrò lo stesso, fermandosi sulla soglia. C'erano due ragazzi, seduti sulla pila di pelli di animali al centro della tenda. Mangiavano con le mani dai piatti di legno, ma alzarono la testa di scatto, fissandola con aria sorpresa. «Chi siete?» domandò Heseret, anche se conosceva la fama di Prenn e poteva dunque intuire chi fossero quei due ragazzi. «Il generale dov'è?» Nessuno dei due rispose: continuavano a fissarla, ammutoliti. D'un tratto Heseret socchiuse gli occhi, facendo un passo in avanti. «Voi!» gridò. «Cagne infide e velenose!» Puntò un dito tremante sulle due ragazze. «Guardie!» strillò a gran voce. «Guardie, qui, subito!» Mintaka si riscosse e afferrò per la mano Merykara, costringendola ad alzarsi. Insieme fuggirono di corsa dalla tenda, uscendo dall'apertura sul retro. «Guardie!» gridò di nuovo Heseret. «Da questa parte!» Le sue guardie del corpo fecero irruzione dall'entrata alle sue spalle. Wilbur Smith
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«Inseguitele!» Rincorse la coppia in fuga, seguita a sua volta dalle guardie. Quando sbucarono all'aperto, Mintaka e Merykara erano già a metà strada dall'ingresso del recinto. «Fermatele!» gridò Heseret. «Non ve le lasciate sfuggire! Sono colpevoli di spionaggio e alto tradimento.» Le guardie le rincorsero, gridando alle sentinelle: «Fermatele! Prendetele! Non lasciatele scappare!» E le sentinelle sguainarono le spade, correndo a bloccare l'uscita. Vedendosi sbarrare la strada, Mintaka si fermò, guardandosi intorno. Poi, trascinandosi dietro Merykara, corse verso la palizzata con l'intento di scalarla, ma le guardie del corpo le raggiunsero, afferrandole per le caviglie e tirandole giù dal recinto. Le spine avevano lacerato braccia e gambe a tutt'e due, facendole sanguinare, ma si batterono disperatamente, scalciando, graffiando e mordendo. Alla fine i soldati riuscirono a sopraffarle e le trascinarono verso la tenda del comandante, di fronte a Heseret, che sorrideva con aria vendicativa. «Legatele bene. Sono certa che, al suo ritorno, mio marito, l'unico, vero sovrano dell'Egitto, escogiterà una pena adeguata per loro. Sarò lieta di ascoltare le loro grida quando saranno costrette a pagare il fio dei loro crimini. Fino a quel momento, dovranno restare chiuse in gabbia come animali selvatici, proprio all'entrata della mia tenda, dove potrò tenerle d'occhio.» Le guardie del corpo sollevarono di peso Mintaka e Merykara, legate ai polsi e alle caviglie, caricandole su un carro e trasportandole all'accampamento di Heseret. Uno dei carri del suo seguito serviva a trasportare le provviste di animali vivi per la sua cucina, polli, maiali e capretti. La gabbia di canne unite con strisce di cuoio grezzo che era servita al trasporto dei maialini di latte era ormai vuota, dato che i porcellini erano stati macellati e consumati, anche se puzzava ancora del letame rimasto sul fondo. Attraverso la porticina, le guardie vi spinsero dentro le due giovani donne. L'interno non era abbastanza alto per consentire loro di stare in piedi, quindi furono costrette a sedersi con la schiena rivolta alla parete di canne, mentre i polsi venivano legati per mezzo di cinghie di cuoio a uno dei montanti alle loro spalle. Non c'era la minima protezione dai raggi del sole. «Ci saranno uomini di guardia giorno e notte», le ammonì Heseret. «Se tenterete di fuggire, vi farò mozzare un piede per scoraggiare altri Wilbur Smith
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tentativi.» Dalla sua espressione capirono che diceva sul serio. Merykara cominciò a piangere, ma Mintaka le sussurrò: «No, mia cara, devi essere coraggiosa. Non darle la soddisfazione di vederti crollare». Dall'alto della torre di guardia che sovrastava la fortezza di Ismailia, la sentinella lanciò l'annuncio: «Faraone! I picchetti stanno rientrando!» Nefer si alzò di scatto dal tavolo posto sotto la tenda nel cortile, dove stava consumando il pasto di mezzogiorno con Taita, riesaminando per l'ennesima volta i vari aspetti della difesa. Si affrettò a salire sulla piattaforma, riparandosi gli occhi per guardare verso oriente. Attraverso il riverbero giallo del sole, riuscì a distinguere i carri dei picchetti avanzati che tornavano verso il forte. Quando scesero lungo il fianco dello uadi, le sentinelle aprirono le porte, lasciandoli entrare. «Il nemico arriva a gran velocità!» gridò il comandante dei picchetti, rivolto a Nefer, in cima alla torre. «Bene», rispose lui. Poi, rivolto a un soldato sulle mura, ordinò: «Suona il richiamo alle armi!» Gli squilli del corno d'ariete echeggiarono sulla pianura e tutto l'esercito, accampato nel letto ampio dello uadi, cominciò a riscuotersi. Il richiamo del corno fu ripreso e ripetuto, volando da una compagnia all'altra, da uno squadrone all'altro. Gli uomini uscirono a frotte dalle tende e dalle tettoie, imbracciando le armi e affrettandosi a raggiungere le loro formazioni. Ben presto si formarono file di uomini in marcia e colonne di carri diretti alla posizione che era stata loro assegnata. Taita si arrampicò sulla piattaforma, accolto con un sorriso da Nefer. «Dunque, sebbene privo dell'acqua, Naja non è tornato indietro.» «Non abbiamo mai pensato che lo avrebbe fatto.» A oriente il cielo cominciava a incupirsi, come se la sera volesse calare in anticipo. La nuvola di polvere dell'esercito nemico in arrivo si espandeva su un fronte vasto, ribollendo come una nube temporalesca. «Mancano ancora parecchie ore a mezzogiorno», osservò Nefer, alzando gli occhi verso il sole implacabile. «Ci sarà tempo per decidere le sorti della battaglia prima che finisca il giorno.» «I cavalli di Naja bevono poco da tre giorni, e devono aver dato il massimo, per arrivare così presto. Lui sa che deve vincere e raggiungere i pozzi entro oggi, altrimenti non vedrà sorgere l'alba di domani.» Wilbur Smith
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«Non vuoi venire con me ad affrontarlo in campo, vecchio padre?» gli chiese Nefer, allacciandosi alla cintura la spada che il suo portatore di lancia gli tendeva. «No», rispose Taita, sollevando la mano destra. All'indice portava un anello d'oro con un enorme rubino incastonato. Quando intercettò, scintillando, la luce del sole, Nefer lo riconobbe: era il pegno che Naja si era sfilato dal dito per offrirlo a Taita, come premio per il mago che aveva ucciso il giovane Faraone. Intuì che si trattava di un talismano quasi altrettanto potente di una ciocca di capelli, un grumo di escrementi secchi o un frammento di unghia di Naja. «Assisterò alla battaglia da qui, e forse, nonostante la debolezza fisica, potrò esserti di maggiore aiuto che non imbracciando un giavellotto o brandendo una spada.» Nefer sorrise. «Le tue armi sono più affilate e più precise di qualsiasi lama che abbia mai impugnato. Che Horus ti ami e ti protegga, vecchio padre.» Insieme, rimasero a guardare le compagnie di arcieri e frombolieri che uscivano marciando dallo uadi per prendere posizione dietro le fortificazioni di pietra. I ranghi serrati di uomini avanzavano con rapidità e determinazione, perché ognuno di loro aveva ripetuto quella manovra più volte. Quando l'ultimo uomo fu scomparso dietro i ripari predisposti per l'imboscata, la pianura parve deserta. La nube di polvere dell'avanzata di Naja era ormai distante meno di una lega. Nefer abbracciò Taita e scese la scala. Uscendo dalla porta del forte, fu accolto dal rombo delle acclamazioni che si levarono dalle squadre di carri ammassati nella spianata. Passando lungo le file, scorse i suoi comandanti e li chiamò per nome, uno dopo l'altro. «Coraggio, Hilto!» «Fallo ancora per me, Shabako!» «Stasera brinderemo insieme alla vittoria, Socco!» Nefer balzò a bordo del carro, prendendo da Meren le redini di Dov e Krus. La giumenta riconobbe il suo tocco e fremette, voltandosi a guardarlo coi grandi occhi luminosi velati dalle lunghe ciglia scure. Krus inarcò il collo, raspando il terreno con uno degli zoccoli anteriori. Nefer alzò il pugno sinistro, lanciando l'ordine: «In marcia! Avanti!» Il corno d'ariete suonò l'avanzata, mentre lui guidava i carri allo scoperto, una fila dietro l'altra. Si mossero in progressione maestosa, Wilbur Smith
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procedendo in mezzo alle fortificazioni basse dietro le quali non si vedeva un solo arciere, per uscire in campo aperto. Nefer diede un altro segnale con la mano e la formazione si aprì. Ruota contro ruota, la prima fila avanzò incontro alla grande nube di polvere che si avvicinava, rotolando sul terreno. Non appena raggiunse i segnali di riferimento che aveva disposto alcune settimane prima, Nefer arrestò lo squadrone, lasciando riposare i cavalli, mentre studiava l'avanzata del nemico. Soltanto lungo la linea in cui le nubi color ocra sfioravano il deserto grigio s'intravedeva una fila di puntini scuri, una miriade di lampi metallici che tremolavano nell'aria arroventata. Nel miraggio prodotto dal calore, i contorni dei carri dell'avanguardia di Naja apparivano distorti e guizzanti come girini in fondo a uno stagno. Poi si consolidarono, assumendo una forma nitida. Allora Nefer riuscì a distinguere i cavalli e gli uomini protetti dalla corazza sui carri dietro di loro. Meren mormorò: «Sia lodato il dolce nome di Horus. A quanto pare, ha impegnato tutti i suoi carri. Non si è tenuto neanche una compagnia di riserva». «Devono avere un bisogno disperato di acqua. La sua unica speranza di sopravvivenza è sfondare il nostro schieramento con una carica frontale per arrivare ai pozzi.» Il nemico si avvicinava sempre più: ormai potevano scorgere i lineamenti dei guerrieri nella prima linea, identificando le compagnie dai colori e dai gagliardetti e riconoscendo i loro comandanti. A duecento passi di distanza, quel possente esercito si fermò. Sul paesaggio minaccioso scese un silenzio profondo, incrinato soltanto dal sussurro inquieto del vento. La polvere si posò a terra come un sipario, rivelando ogni dettaglio dei due eserciti contrapposti. Un carro avanzò al centro dello schieramento nemico. Nonostante la polvere che lo copriva, l'oro in foglia scintillava al sole e lo stendardo reale garriva sul capo del conducente. Naja si fermò a meno di cento passi, tanto che Nefer riconobbe il viso gelido e attraente sotto la corona azzurra da guerra. «Ti saluto, Nefer Seti, cucciolo del cane che ho ucciso con le mie mani!» gridò Naja con la sua voce sonora. Nefer s'irrigidì nel sentirlo confessare così apertamente il regicidio. «Porto sul capo la corona che ho Wilbur Smith
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sottratto a Tamose mentre stava morendo. In mano», proseguì, sollevando la possente spada azzurra, «stringo l'arma che gli ho sfilato dal pugno. Intendi forse reclamarla per te, cucciolo?» Nefer sentì tremare le proprie mani, che stringevano le redini, mentre l'ira gli faceva calare sugli occhi una cortina rossa. «Calma!» sussurrò Meren al suo fianco. «Non lasciarti provocare.» Con uno sforzo enorme, Nefer dissipò la cortina di collera. Riuscì a rimanere impassibile, ma la sua voce assunse un timbro metallico. «Preparati!» esclamò, sollevando a sua volta la spada. Naja rise silenziosamente, voltando il carro per tornare al suo posto, al centro della prima linea. «Avanti, in marcia!» Naja brandì la spada azzurra. Le prime file acquistarono impeto, lanciandosi verso lo schieramento di Nefer. «Al galoppo! Carica!» I carri si proiettarono in avanti come una massa compatta. Nefer tenne duro, lasciandoli avanzare. Sentiva ancora risuonare nelle orecchie le parole beffarde di Naja, tanto che provò l'impulso quasi irresistibile di abbandonare il piano ben congegnato per lanciarsi in avanti, incontrando l'avversario a faccia a faccia e trafiggendogli quel cuore da traditore. Fu solo con uno sforzo violento che respinse la tentazione, sollevò la spada e descrisse nell'aria tre archi lampeggianti con la lama. Le sue truppe risposero all'istante. Come uno stormo di uccelli che virano in pieno volo o un banco di pesci che evitano il barracuda lanciato all'assalto, deviarono all'unisono per lanciarsi al galoppo sulla pianura, tornando nella direzione da cui erano arrivate. La prima fila di Naja si era preparata all'impatto, ma non incontrò nessuna resistenza e, come un uomo che inciampa su un gradino inesistente, perse l'impeto iniziale. Quando si riprese, Nefer era indietreggiato di altri cento passi. I suoi squadroni di carri cambiarono formazione con scioltezza, passando dallo schieramento in linea a quello in colonna per quattro. Naja si lanciò all'inseguimento; tuttavia, a meno di trecento passi, le ali della sua cavalleria s'imbatterono in un basso muretto di pietra che deviava obliquamente verso il centro. Ormai non potevano fermarsi, quindi cominciarono a convergere da destra e da sinistra. Come la corrente di un ampio fiume costretta d'un tratto a scorrere in una gola tra le rocce, furono obbligati a stringersi, spingendo una ruota contro l'altra, e le pariglie di Wilbur Smith
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cavalli dovettero cedere il passo ai vicini. La carica rallentò, ondeggiando, mentre carri e cavalli formavano una massa compatta. In quel momento cruciale, nel campo risuonarono gli squilli dei corni d'ariete e, a quel segnale, spuntarono dalle fortificazioni le teste e le spalle degli arcieri e dei frombolieri, schierati a destra e a sinistra. Le frecce erano già incoccate: gli arcieri non fecero altro che tendere l'arco corto e ricurvo e prendere la mira, scegliendo con cura il bersaglio. La prima serie di colpi era sempre la più importante. I frombolieri fecero roteare i proiettili, tenendo l'arma a due mani per controllare il peso delle palle di argilla solida contenute nei sacchetti di cuoio all'estremità delle lunghe cinghie, poi, non appena accumulata una forza d'inerzia sufficiente, le scagliarono nell'aria, producendo un ronzio. Le squadre di testa di Naja erano ormai penetrate in fondo all'imbuto tra le fortificazioni, quando i corni d'ariete suonarono di nuovo e gli arcieri scoccarono le frecce all'unisono. Avevano ricevuto l'ordine di mirare ai cavalli e centrare i comandanti nemici. Le frecce arrivarono a segno quasi in silenzio, accompagnate soltanto dal lieve sussurro dell'impennaggio nell'aria, ma la distanza era breve e l'impatto delle punte sulle carni vive produsse lo stesso rumore di una manciata di ghiaia scagliata nel fango. La prima fila della carica di Naja venne falciata. A mano a mano che i cavalli cadevano, i carri si accumulavano sulle loro carogne, privi di controllo, finendo contro i muri di pietra, o capovolgendosi e rotolando lontano. Poi i proiettili dei frombolieri colpirono il bersaglio con straordinaria precisione. Le sfere di argilla cotta al fuoco avevano le dimensioni di un melograno maturo e lo stesso peso di una palla d'avorio. Potevano spaccare il cranio di un uomo o di un cavallo, fratturare una gamba o spezzare le costole come se fossero ramoscelli secchi. Investirono con una serie di tonfi sordi la fila successiva di carri lanciati all'attacco, seminando la distruzione. I carri dell'ondata seguente non potevano fermare la carica, quindi s'infransero sui rottami di quelli che li avevano preceduti. I pannelli dei carri cedettero, schiantandosi con uno scricchiolio simile a quello dei rami verdi che bruciano in una foresta in fiamme. Alcune delle stanghe si spezzarono, conficcando schegge mortali nel corpo dei cavalli. Le ruote si deformarono e schizzarono via dal mozzo, mentre gli uomini a bordo venivano sbalzati e calpestati dagli zoccoli frenetici degli animali imbizzarriti che giravano su se stessi. Wilbur Smith
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Nefer, a capo della sua squadra, impartì con la mano il segnale che i suoi uomini stavano aspettando: uno sciame di soldati di fanteria balzò allo scoperto, trascinando via i cespugli di rovi che mascheravano i vuoti lasciati di proposito nei muri di pietra, da una parte e dall'altra. In rapida successione, i carri di Nefer imboccarono quei varchi, ritrovandosi in campo aperto, oltre le fortificazioni. Non più costretti in quello spazio angusto, furono liberi di manovrare nella pianura e tornare indietro, accerchiando alle spalle le squadre di Naja ormai in trappola e gettandosi sulla sua retroguardia. Ormai i due eserciti erano allacciati in una presa mortale, come tori da combattimento, corna contro corna. Non tutti i veicoli di Naja, però, erano stati attirati nella trappola tra le mura, anche perché non ci sarebbe stato spazio sufficiente per accoglierli. Quei carri sciolti si lanciarono di nuovo all'attacco, impegnando Nefer, e ne nacque ben presto una battaglia di tipo tradizionale, nella quale i carri in corsa invertivano la direzione, caricavano e si ritiravano, per poi tornare di nuovo alla carica. Gli squadroni si suddivisero in unità più piccole e ingaggiarono in mezzo alla pianura duelli isolati, carro contro carro, uomo contro uomo. Nonostante le perdite spaventose inflitte al nemico nella fase iniziale, Nefer era ancora in forte inferiorità numerica. Vedendo che il vantaggio era incerto, fu costretto a impegnare nel combattimento una parte sempre maggiore delle riserve che aveva tenuto nascoste nello uadi, alle spalle della fortezza. Infine lanciò un segnale anche agli ultimi carri. Ormai si era impegnato a fondo, facendo appello anche all'ultimo carro che aveva, ma non erano abbastanza. A poco a poco, uomini e cavalli venivano schiacciati dalla pura superiorità numerica del nemico. In mezzo alla polvere, al fragore e al trambusto, cercò disperatamente in tutta la pianura il carro d'oro di Naja con lo stendardo rosso del re. Sapeva che, se fosse riuscito a ingaggiare un duello con lui e a ucciderlo, avrebbe potuto ancora vincere la battaglia: ma non vide traccia del falso Faraone. Forse era stato abbattuto nella mischia in mezzo alle fortificazioni, forse giaceva ferito o morto, chissà dove, nel caos della battaglia. Poco lontano, scorse il carro di Hilto braccato da due carri nemici, e l'anziano guerriero ferito e gettato a terra. La sua squadra lo vide cadere e cedette, disperdendosi nella confusione. Nefer si sentì serrare il cuore dalla mano gelida della disperazione. Stavano perdendo la battaglia. Vide una fila di carri dei Rossi manovrare per disporsi dietro le file di Wilbur Smith
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arcieri e frombolieri schierati lungo le fortificazioni, falciandoli a colpi di frecce e di giavellotti. I soldati si dispersero, fuggendo, ridotti a una marmaglia vociante, e il loro smarrimento fu contagioso. Nefer ricordò con aria tetra che Taita lo definiva «l'effetto uccellino» perché, «quando ne vola via uno, volano via tutti». Sapeva che, tra poco, il suo esercito sarebbe stato in rotta, quindi incoraggiò i conducenti dei carri abbastanza vicini da sentirlo e tentò d'incitarli alla riscossa, abbattendo un altro carro nemico e massacrandone l'equipaggio con una dozzina di colpi di spada. Poi invertì la direzione per lanciarsi all'inseguimento di un altro carro rosso. Ma ormai Dov e Krus erano quasi sfiniti e il nemico riuscì a fuggire. Poi Meren, al suo fianco, gridò: «Guarda, Faraone!» indicando un punto a ovest nel deserto. Col dorso della mano, Nefer si terse il viso dal sudore e dagli schizzi di sangue nemico, fissando a occhi socchiusi il riverbero lontano. Capì, senza ombra di dubbio, che era finita: avevano perduto la battaglia. Una nuova massa di carri nemici avanzava al galoppo verso di loro. Non riusciva a capire da dove fossero sbucati; era convinto che Naja avesse impegnato nel combattimento tutti quelli che aveva. Comunque ormai non contava, perché la battaglia era perduta. «Quanti saranno?» domandò, con l'anima invasa da una nera disperazione. «Duecento», tirò a indovinare Meren. «Forse di più.» Il suo tono era rassegnato. «È tutto finito, Faraone. Ci batteremo fino alla morte.» «Ancora una carica», gridò Nefer ai carri più vicini. «Azzurri, a me! Cadremo con onore.» Lo acclamarono con voce roca, voltando i carri per affiancarsi a lui. Persino Dov e Krus sembravano rinvigoriti, mentre la linea rada di carri degli Azzurri si avventava sul nuovo nemico per affrontarlo a faccia a faccia. Avvicinandosi, videro che il carro del comandante nemico ostentava lo stendardo di un generale. «Per Horus, ma io lo conosco!» gridò Meren. «È Prenn, il vecchio sodomita.» Ormai erano così vicini che anche Nefer riconobbe la sua figura scarna, con la benda nera sull'occhio. Lo aveva intravisto tra i consiglieri del re Apepi, quando si erano incontrati per negoziare il trattato di Hathor: lo stesso giorno meraviglioso in cui aveva visto per la prima volta Mintaka. «Il suo arrivo è intempestivo», brontolò Nefer, «ma forse potremo Wilbur Smith
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salvare la prossima generazione di ragazzi dalle sue attenzioni amorevoli.» Lanciò Dov e Krus direttamente su Prenn nel tentativo di costringerlo a deviare, così da lasciare il fianco esposto al lancio di un giavellotto, ma, proprio quando stavano per raggiungerlo, Meren gridò, sorpreso: «Batte la bandiera degli Azzurri!» Lo stendardo di Prenn garriva al vento nella direzione opposta a loro, ed era per questo che Nefer non se n'era accorto prima, eppure aveva ragione Meren: Prenn aveva innalzato il colore azzurro della dinastia di Tamose, e con lui tutti i suoi carri. In quel momento, Prenn rallentò, piegando il braccio destro sul petto in un cenno di saluto a Nefer, e gridò con voce sonora, capace di sovrastare il rombo delle ruote dei carri: «Ti saluto, Faraone! Possa tu vivere diecimila anni, Nefer Seti». Stupito, Nefer abbassò il giavellotto che stava per scagliare, tenendo a freno i cavalli. «Quali sono gli ordini, Faraone?» gridò Prenn. «Che storia è questa, Prenn? Come mai prendi ordini da me?» gridò lui di rimando. «La principessa Mintaka mi ha riferito il tuo messaggio, e sono venuto a mettermi ai tuoi ordini, per aiutarti a vendicare il re Apepi e il Faraone Tamose.» «Mintaka?» Nefer era confuso, perché era convinto che la principessa si trovasse ancora rinchiusa nel santuario del tempio di Avaris; ma il suo istinto di guerriero ebbe la meglio, e respinse quei pensieri. Avrebbe avuto il tempo di riflettere in seguito. «Benvenuto, generale Prenn. Non è mai troppo presto. Affiancati coi tuoi carri ai miei, e spazzeremo questa pianura da un capo all'altro.» Caricarono a fianco a fianco. Le truppe sconfitte e disperse di Nefer, vedendo arrivare i gagliardetti azzurri e ascoltando il grido di guerra: «Per Horus e Nefer Seti!» nonché il suono del corno d'ariete, ripresero animo. Le squadre dei Rossi di Naja Kiafan non erano in condizioni migliori di loro, quindi riuscirono a opporre solo una resistenza minima di fronte alla carica delle forze fresche di Prenn. Continuarono a battersi, ma senza metterci l'anima. Alcuni degli uomini si gettarono dai carri per inginocchiarsi nella polvere, alzando le mani in segno di resa, chiedendo pietà e innalzando lodi a Nefer Seti. Quel comportamento ebbe un effetto contagioso e si estese a tutto il campo di battaglia, via via che i Rossi gettavano la spada e s'inginocchiavano. Wilbur Smith
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Nefer si tirò in disparte, cercando Naja. In cuor suo sapeva che la vittoria non sarebbe stata completa finché non avesse vendicato l'assassinio del padre. Tornò verso le fortificazioni, dove lo aveva visto per l'ultima volta alla testa della carica, passando in mezzo ai rottami e ai detriti della battaglia, tra carri distrutti e rovesciati, uomini e cavalli feriti e morenti, cadaveri sparsi sul campo. Anche se in gran parte i nemici erano morti o si erano arresi, c'erano ancora gruppetti isolati che continuavano a battersi. Gli uomini di Nefer non avevano pietà e li massacravano, anche quando tentavano di arrendersi. Se gli era possibile, interveniva per porre fine al massacro e proteggere i prigionieri, ma i suoi uomini erano in preda al furore della battaglia e altre decine di uomini morirono senza che riuscisse a salvarli. Una volta raggiunte le fortificazioni di pietra, trattenne le redini per fermare Krus e Dov. Dall'alto del carro poteva vedere, oltre il muro basso, il campo angusto in cui aveva intrappolato l'avanguardia dell'esercito di Naja. I carri distrutti erano ammucchiati l'uno sull'altro come relitti di una flotta sospinti sugli scogli da una violenta tempesta. Alcuni dei cavalli erano riusciti ad alzarsi e restavano legati per i finimenti ai veicoli fracassati. Vide una bella giumenta baia ritta su tre zampe, con l'anteriore destro spezzato dalla sfera di un fromboliere e, vicino a lei, uno stallone nero con gli intestini che pendevano fino a terra da uno squarcio nel ventre. Tra i carri giacevano morti e feriti. Alcuni si muovevano ancora, piangendo e invocando gli dei e la madre per ottenere acqua e soccorso. Altri restavano seduti, storditi e inerti per la sofferenza delle ferite. Uno cercava di estrarre la freccia che gli si era conficcata nello stomaco. Nefer cercò il corpo di Naja tra i morti, ma ovunque regnava una gran confusione: molti corpi erano sepolti tra i rottami. Poi scorse un lampo d'oro e vide lo stendardo reale di Naja Kiafan a terra, tra la polvere e le pozze di sangue che si stava coagulando. «Devo trovarlo», disse a Meren. «Devo sapere se è morto.» Balzò a terra dal carro. «Ti aiuterò a cercarlo.» Meren prese i cavalli per le briglie, legandoli al muro. Nefer superò con un balzo le fortificazioni, arrampicandosi sui relitti finché non raggiunse il carro dorato, che giaceva su un fianco. Era vuoto. Uno dei cavalli era ancora vivo, ma aveva le zampe anteriori spezzate. Alzò la testa, rivolgendo a Nefer uno sguardo che lo impietosì. Afferrato uno dei giavellotti dal contenitore fissato alla sponda laterale, il giovane Wilbur Smith
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uccise l'animale con un colpo solo dietro l'orecchio. D'un tratto Meren gridò, chinandosi a raccogliere qualcosa tra i detriti: quando sollevò il trofeo, Nefer vide che aveva trovato la corona azzurra di Naja. «Il corpo di quel porco dev'essere vicino», gli gridò Nefer. «Non l'avrebbe mai lasciata andare: è troppo importante per lui.» «Cerca sotto il carro», gridò di rimando Meren. «Potrebbe essere intrappolato sotto. Ti aiuterò a sollevarlo.» Si avvicinò, scavalcando i rottami, e in quel momento Nefer scorse un movimento fulmineo con la coda dell'occhio. Nello stesso istante Meren gridò un avvertimento: «Attento! Dietro di te!» Nefer si abbassò, girandosi di scatto. Naja era uscito allo scoperto dal suo nascondiglio, dietro la sponda anteriore del carro. Aveva la testa rasata pallida e lucente come un uovo di struzzo e gli occhi allucinati. Impugnando ancora la spada azzurra di Tamose, sferrò un colpo a due mani verso la testa di Nefer, ma l'avvertimento di Meren lo aveva salvato. Si abbassò, schivando la lama sibilante. La sua era ancora nel fodero che portava sul fianco, ma lui aveva in pugno il giavellotto col quale aveva inflitto il colpo di grazia al cavallo ferito. Tentò istintivamente di colpire l'avversario alla gola, ma Naja era veloce come il cobra da cui prendeva il nome e si spostò fulmineo di lato. Questo concesse a Nefer un po' di tregua per impugnare la spada, ma, nel frattempo, l'avversario indietreggiò ed ebbe modo di guardarsi intorno. Vide Meren arrivare in soccorso di Nefer con la spada sguainata e notò il carro vuoto legato al muro, con Dov e Krus ancora attaccati. Allora respinse Nefer con un'altra stoccata della lama azzurra, poi si girò di scatto per fuggire. Il giovane gli lanciò dietro il giavellotto, ma non aveva avvolto la cinghia intorno al polso e il colpo fallì il bersaglio. Naja raggiunse il muro e, superandolo di slancio, liberò i cavalli con un solo colpo della lama azzurra e balzò a bordo. Non avendo le redini, afferrò la frusta dal contenitore per sferzare sui fianchi Krus e Dov. Sorpresa, la pariglia scattò in avanti e, dopo mezza dozzina di falcate, si lanciò al galoppo. Dietro di loro, Nefer salì in cima al muro e vide Naja sfrecciare attraverso la pianura: allora prese fiato e fischiò, emettendo quel lungo richiamo penetrante che Dov e Krus conoscevano bene. Li vide alzare la testa, drizzando le orecchie e orientandole verso di lui. Poi Krus cambiò andatura, descrivendo bruscamente una curva stretta, e Dov lo assecondò. Il carro si piegò, sbandando con violenza tale che Naja dovette aggrapparsi Wilbur Smith
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alla sponda per non essere scaraventato fuori. I due cavalli tornarono al galoppo verso Nefer, in piedi sul muro. Naja ritrovò l'equilibrio e si preparò con la spada azzurra in pugno, pronto a colpirlo non appena fosse arrivato alla sua portata. Nefer sapeva che la sua spada di bronzo non avrebbe mai potuto reggere l'urto di quella lama terribile: attaccare un uomo dell'abilità di Naja armato di quella spada significava andare incontro a morte certa. Mentre i cavalli passavano veloci sotto di lui, spiccò un balzo, saltando leggero sulla groppa di Krus e, con le ginocchia, lo spinse al galoppo sulla pianura aperta. Voltandosi, vide Naja scavalcare la sponda anteriore del carro per avanzare lungo la stanga e colpirlo. Lui allora si abbassò sulla groppa di Krus, tagliando con la spada il nodo nella treccia di cuoio che assicurava i cavalli alla stanga. Il carro, ormai lanciato, si piegò di lato, il peso di Naja spinse in basso la stanga e l'estremità si conficcò nel terreno soffice. Il carro in corsa si capovolse, sbalzando a terra Naja, che urtò il terreno con la spalla. Nefer sentì nitidamente il suono dell'osso che si spezzava, nonostante il fragore degli zoccoli e del legno fracassato. Sempre in groppa a Krus, tornò indietro a passo di carica verso Naja. Questi si era alzato a fatica e restava in piedi, barcollando, col braccio destro fratturato stretto al petto. Nella caduta aveva perso la presa sull'elsa della spada azzurra, che gli era volata via di mano, conficcandosi nel terreno a dieci passi da lui. La lama vibrava ancora per l'impatto e lo straordinario metallo azzurro sprizzava schegge di luce, mentre l'elsa tempestata di pietre preziose oscillava. Naja si dirigeva barcollando verso l'arma, quando si vide piombare addosso Krus e un'espressione di profondo terrore stravolse il suo viso cinereo. Si voltò per fuggire. Sporgendosi dalla groppa di Krus, Nefer estrasse la spada dalla sabbia prima di lanciare il cavallo all'inseguimento. Naja sentì il crescendo degli zoccoli alle sue spalle: si girò, mentre il trucco degli occhi gli scorreva sulle guance, disegnando lacrime nere sul viso stravolto dal terrore. Ormai sapeva di non poter sfuggire alla terribile punizione che lo aspettava. Si gettò in ginocchio, sollevando le mani in un gesto di supplica. Con una pacca sui fianchi e un fischio acuto, Nefer fermò di colpo Krus davanti alla figura in ginocchio, poi balzò a terra, dominandolo dall'alto. «Pietà!» gridò Naja, singhiozzando. «Ti cedo la corona doppia e tutto il Wilbur Smith
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regno.» Strisciò ai piedi di Nefer per impietosirlo. «Li ho già. Mi manca una sola cosa: la vendetta!» «Pietà, Nefer Seti, in nome degli dei e per amore di tua sorella, la divina Heseret, e del bambino che porta in grembo.» D'improvviso nella sua mano balenò un pugnale, col quale tentò di vibrare un colpo all'inguine di Nefer. Lui schivò appena in tempo l'arma, che rimase impigliata con la punta nel tessuto della veste. Poi gli fece volare di mano il pugnale con un guizzo della spada azzurra. «Ammiro la tua costanza. Sei fedele fino all'ultimo alla tua natura vile.» Nefer sorrise con un'espressione gelida. «Ti concedo la stessa misericordia che hai mostrato a mio padre, il Faraone Tamose.» Affondò la punta della lama azzurra al centro del petto di Naja, facendola uscire tra le scapole. Sul viso dell'altro comparve un'espressione di dolorosa incredulità. «Hai insozzato questa spada sacra, e ora la purificherò col tuo sangue.» Nefer estrasse la spada, solo per affondarla di nuovo nel corpo dell'avversario. Naja cadde bocconi nella polvere, tirando ancora un respiro affannoso, poi l'aria gli uscì gorgogliando dai polmoni attraverso la ferita tra le scapole e lui si accasciò con un fremito. Nefer legò il suo corpo per i piedi ai finimenti che pendevano dal dorso di Krus, poi risalì in sella, trascinandolo attraverso il campo. Gli applausi lo seguirono come ondate, mentre si avvicinava alle porte della fortezza. Lì tagliò la fune e lasciò nella polvere il corpo insanguinato del falso Faraone. «È mio volere che il corpo dell'usurpatore sia tagliato a pezzi, destinati a essere esposti in tutti i nomi del regno. Che tutti i cittadini dell'Egitto contemplino i frutti del regicidio e del tradimento!» Poi alzò la testa verso la figura immobile in cima alla torre di guardia della fortezza, sollevando la spada azzurra macchiata di sangue in segno di saluto. Taita rispose con un cenno della mano destra, e dalla pietra dell'anello, il rubino di Naja, si sprigionò un lampo di luce rosso cupo. È rimasto sulla torre tutto il giorno, pensò Nefer. Chissà che parte ha avuto nel combattimento. Avremmo potuto trionfare senza la sua influenza? Non esistevano risposte, quindi accantonò quelle riflessioni e salì in cima alla torre, a fianco di Taita, per parlare ai suoi uomini. Li ringraziò per il senso del dovere e il valore di cui avevano dato prova e promise ricompense: una parte del bottino per tutti i combattenti e gli onori Wilbur Smith
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del grado, le catene preziose e l'Oro del Valore per i loro comandanti. Quando finì di nominarli tutti, il sole stava tramontando oltre una cortina bassa di nubi violacee all'orizzonte. Concluse il discorso con un richiamo alla preghiera: «Dedico questa vittoria all'Horus d'oro, il falco degli dei», gridò a gran voce. Mentre pregava, tuttavia, si verificò uno strano presagio. Uno degli ultimi raggi di sole superò la barriera di nubi, illuminando la cima della torre e strappando barbagli metallici alla corona di guerra che aveva in testa e alla spada azzurra che teneva in mano. In quello stesso istante, si udì un verso stridulo provenire dall'alto e tutti alzarono la testa, guardando verso il cielo, mentre la folla si lasciava sfuggire un mormorio e un sospiro collettivi: un falco reale si librava nell'aria sopra la testa del Faraone. Sotto i loro occhi stupiti, lanciò di nuovo quello strano richiamo ossessivo, poi volò in circolo tre volte e infine partì, volando in linea retta nel cielo orientale incupito dal tramonto, prima di sparire tra le tenebre. «Un segno di favore del dio», proclamarono i soldati. «Salve, Faraone! Anche gli dei ti salutano.» Tuttavia, non appena rimasero soli, Taita parlò a bassa voce, in modo che nessuno al di fuori della stanza potesse udire le sue parole: «Quello che ha portato il falco è un monito, non un segno di favore». «Qual è il monito?» domandò piano Nefer, pervaso da un'ansia profonda. «Quando il falco ha gridato, ho sentito gridare Mintaka», sussurrò Taita. «Mintaka!» esclamò Nefer. Nella foga della battaglia, se n'era dimenticato. «Che cosa diceva Prenn, a proposito di lei?» Affacciandosi all'entrata della tenda, gridò alle guardie: «Prenn! Dov'è il generale?» Prenn arrivò subito, inginocchiandosi davanti al Faraone. «Ti sei guadagnato la nostra più profonda gratitudine», gli disse Nefer. «Senza di te non avremmo potuto vincere. La tua ricompensa sarà superiore a quella di tutti gli altri comandanti del mio esercito.» «Il Faraone è generoso.» «All'inizio della battaglia, hai parlato della principessa Mintaka. Io credevo che fosse al sicuro nel tempio di Hathor, ad Avaris. Dove l'hai vista per l'ultima volta, e quando?» «Sei in errore, Faraone. La principessa Mintaka non si trova nel tempio. È venuta da me per portarmi il tuo messaggio. Non potevo condurla in battaglia, quindi l'ho lasciata due giorni fa nel mio accampamento nel Wilbur Smith
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deserto, sulla strada da qui a Khatmia.» Nefer fu assalito da un terribile presentimento. «Chi altri hai lasciato nello stesso accampamento?» «Altre donne della casa reale: la principessa Merykara, che aveva accompagnato Mintaka, e sua maestà la regina Heseret...» «Heseret!» Nefer balzò in piedi. «Heseret! Se Mintaka e Merykara sono in suo potere, che cosa potrà fare, quando saprà che le ho ucciso il marito?» Avviandosi alla porta della tenda, chiamò a gran voce Meren. «Mintaka e Merykara corrono un pericolo terribile», gli disse. «Come fai a saperlo?» Meren era stravolto. «L'ho saputo da Prenn. E Taita ha letto un monito nel grido del falco. Dobbiamo partire subito.» Heseret si svegliò nell'oscurità gelida che precedeva l'alba, quel momento terribile in cui il mondo è più cupo e lo spirito umano cade in preda allo sconforto. Sulle prime non capì che cosa avesse disturbato il suo sonno, poi avvertì il suono di molte voci, ancora lontane, ma via via sempre più forti. Si mise a sedere, lasciando ricadere le coperte all'intorno, nel tentativo d'interpretare quel brusio distante. Ora riusciva a distinguere le parole: «Sconfitto...» «Ucciso...» «Fuggire al più presto...» Chiamò le ancelle, e ne accorsero due, ancora seminude e insonnolite, portando piccole lampade a olio. «Che cosa succede?» domandò, ma gli occhi delle donne erano dilatati e incupiti dall'incomprensione. «Non lo sappiamo, padrona. Stavamo dormendo.» «Che stupide! Andate a vedere!» ordinò, incollerita. «E controllate che le prigioniere siano ancora nella gabbia e non siano fuggite.» Le ancelle si allontanarono in fretta. Lei si alzò dal letto. Accese tutte le lampade, poi si legò i capelli, indossò una tunica e si gettò addosso uno scialle. Il frastuono all'esterno del campo diventava sempre più forte: ora si sentivano grida e ruote di carri da trasporto che passavano sulla strada, ma ancora lei non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. Le due ancelle rientrarono atterrite nella tenda. La maggiore, ansimando e parlando in modo quasi incoerente, riferì: «Dicono che c'è stata una grande battaglia in un posto che si chiama Ismailia, maestà». Heseret provò una sensazione di trionfo. Naja aveva riportato una Wilbur Smith
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grande vittoria, ne era certa. «E qual è stato l'esito della battaglia?» «Non lo sappiamo, padrona. Non abbiamo chiesto.» Afferrò per i capelli la più vicina delle due, scrollandola con tanta violenza da strappargliene alcune ciocche. «Ma non hai un briciolo di cervello, in quella testa dura?» La schiaffeggiò, scaraventandola sul pavimento, poi afferrò una lampada e si precipitò all'ingresso. Accorgendosi che le guardie erano sparite, ebbe un presagio nefasto. Corse allora verso il carro e sollevò la lampada per sbirciare nella gabbia dei maiali. I suoi timori si placarono in parte nel vedere le due figure lacere ancora legate ai montanti sul fondo della gabbia. La guardarono col volto pallido, striato di sporco. Allontanandosi da loro, Heseret si diresse verso l'entrata del recinto e riuscì a distinguere un corteo disordinato che passava oltre il campo. Scorse le sagome di carri da guerra e da trasporto trainati da equipaggi di buoi. Alcuni erano carichi di balle di foraggio e casse, altri di donne che stringevano al petto i figli. Centinaia di soldati passavano a piedi, e Heseret si avvide che quasi tutti avevano gettato le armi. «Dove andate?» domandò. «Che cosa sta succedendo?» Nessuno le rispose, anzi sembravano non accorgersi neppure della sua presenza. Heseret corse fuori, sulla strada, afferrando uno dei soldati per il braccio. «Sono la regina Heseret, moglie del Faraone.» Lo scrollò con violenza. «Dammi ascolto, servo!» Il soldato lanciò una strana risata aspra, tentando di liberarsi con uno strattone, ma lei rimase aggrappata al suo braccio con forza spasmodica, finché lui non le assestò un colpo violento, lasciandola distesa nella polvere della strada. Si rimise in piedi a fatica, avvistando in mezzo alla folla un altro soldato. Con un rivolo di sangue che le usciva dal naso, corse verso di lui. «Che notizie ci sono della battaglia? Dimmelo. Oh, ti prego, dimmelo», implorò. L'uomo la fissò in volto e, sebbene la luce fosse fioca, la riconobbe. «Le peggiori che si possano immaginare, maestà», le rispose con voce brusca. «C'è stata una battaglia terribile e il nemico ha avuto la meglio. Il nostro esercito è sconfitto, tutti i carri sono andati distrutti. Il nemico arriva di gran carriera e tra poco ci sarà addosso. Devi fuggire subito.» «E il Faraone? Che ne è stato di mio marito?» «Si dice che la battaglia sia perduta e che il Faraone sia stato ucciso.» Wilbur Smith
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Heseret lo fissò, incapace di muoversi o di parlare. «Vuoi venire via, maestà?» le chiese il soldato. «Prima che sia troppo tardi. Prima che arrivino i vincitori, e comincino rapine e saccheggi. Io ti proteggerò.» Ma lei scosse la testa. «Non può essere vero. Naja non può essere morto.» Si allontanò, restando sola sul ciglio della strada, mentre l'esercito in rotta continuava a sfilare davanti a lei. Quella marmaglia confusa e disordinata non aveva nulla in comune con l'armata orgogliosa che si era schierata davanti alla Porta Azzurra di Babilonia solo qualche mese prima. Tra loro c'erano alcuni ufficiali, e Heseret ne chiamò uno. «Dov'è il Faraone? Che cos'è successo?» L'ufficiale non la riconobbe, col viso insanguinato e gli abiti laceri e impolverati. Le gridò di rimando: «Naja Kiafan è stato sconfitto e ucciso in combattimento da Nefer Seti in persona, e il suo corpo è stato fatto a pezzi, che saranno inviati in tutti i nomi dell'Egitto. Le truppe nemiche stanno arrivando in fretta. Probabilmente saranno qui molto presto». Heseret lanciò un grido acuto. Quei dettagli erano troppo vividi perché lei potesse dubitare ancora. Raccolse a due mani la polvere della strada, rovesciandola sul proprio capo. Sempre ululando in segno di lutto, si graffiò il viso con le unghie, facendo sgorgare il sangue, che corse sulla tunica. Le ancelle e il comandante delle guardie del corpo uscirono dal campo per riportarla dentro, ma lei, impazzita dal dolore, lanciava insulti e oscenità incoerenti. Col viso rivolto al cielo, maledisse gli dei, incolpandoli di non aver protetto il marito, un dio molto più grande di ogni altro. I singhiozzi e le grida aumentarono d'intensità, mentre il suo comportamento diventava sempre più folle. Si lacerò il seno col minuscolo pugnale tempestato di gemme che portava sempre con sé, urinò in piedi, rotolandosi nel fango che aveva creato, poi d'un tratto balzò verso il recinto. Corse alla gabbia dei porci che si trovava sul carro e gridò attraverso le sbarre a Merykara: «Nostro marito è morto, ucciso da quel mostro di nostro fratello». «Sia resa lode a Hathor e a tutti gli dei», replicò Merykara. «Empia!» inveì contro di lei Heseret. «Naja Kiafan era un dio, e tu eri sua moglie.» Non faceva che sprofondare sempre più nella follia. «Avresti dovuto essere per lui una moglie devota, invece lo hai abbandonato, Wilbur Smith
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coprendolo di vergogna e umiliazione.» «Mio marito è Meren», ribatté Merykara. «Io detesto quell'essere ignobile che tu chiami marito. Ha assassinato nostro padre, e merita ampiamente il castigo che Nefer gli ha inflitto.» «Meren è un comune soldato, mentre Naja era ed è un dio.» Pur avendo le labbra gonfie per la sete e riarse dal sole, Merykara si costrinse a sorridere. «Meren è un dio più di quanto sia mai stato Naja, e io lo amo. Ben presto sarà qui, ed è meglio che tu liberi Mintaka e me prima del suo arrivo, altrimenti lui e Nefer te la faranno pagare cara.» «Piano, amica mia», l'ammonì sottovoce Mintaka. «È pazza. Guardale gli occhi. Non provocarla. Ormai è capace di qualunque malvagità.» Heseret aveva perso anche l'ultimo barlume di senno. «Tu ami un soldato semplice?» le domandò. «E osi paragonarlo a mio marito, al Faraone d'Egitto? Ebbene, avrai soldati a sazietà!» Rivolgendosi al comandante delle guardie, gli ordinò: «Tirala fuori di quella sudicia gabbia». L'ufficiale esitò. Il monito di Merykara lo turbava: in effetti Nefer e i suoi comandanti sarebbero arrivati di lì a poco. Tuttavia Heseret riuscì a ritrovare una parvenza di autocontrollo. «È un ordine, capitano», ribadì. «Se non mi obbedisci, dovrai pagarne le conseguenze.» A malincuore, l'ufficiale impartì gli ordini ai suoi uomini: tagliarono i lacci di cuoio che legavano i polsi di Merykara, poi s'introdussero nella gabbia e la trascinarono fuori per i piedi. La giovane aveva le mani e i piedi lividi e gonfi a causa dei lacci che avevano bloccato la circolazione del sangue, e non riusciva quasi a reggersi in piedi. La pelle del volto, delle braccia e delle gambe era scottata dal sole, mentre i capelli le spiovevano arruffati sul viso. Heseret si guardò intorno e la sua attenzione fu attirata da una ruota che era stata staccata da uno dei carri da trasporto per essere riparata, restando poi appoggiata al recinto. «Portate qui quella ruota!» ordinò a due uomini, che la fecero rotolare nel punto indicato. «Legate la sgualdrina alla ruota. No, non così. A braccia e gambe larghe, per accogliere i soldati che ama tanto.» Le obbedirono, legando i polsi e le caviglie di Merykara al cerchione della ruota. Heseret, standole di fronte, le sputò in faccia, ma Merykara rise, nonostante le labbra screpolate. «Sei pazza, sorella mia. Il dolore ti ha sconvolto la mente. Mi fai pena, ma niente potrà riportare da te Naja. Wilbur Smith
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Quando i suoi odiosi crimini saranno pesati sulla bilancia della giustizia, il mostro alle porte dell'aldilà gli divorerà il cuore nero, e lui si perderà nell'oblio.» La sorella la colpì alle guance con la punta del pugnale, procurandole ferite fortunatamente non letali, che comunque sanguinarono in abbondanza. Il sangue cominciò a colare sulla veste di Merykara, e Heseret usò il pugnale per lacerare la stoffa, poi la strappò con le mani dal collo fino all'orlo. Sotto, Merykara era nuda. Il corpo, protetto dal sole, era candido e morbido. I seni piccoli avevano i capezzoli rosei, il ventre era bianco e piatto, con un triangolo di peluria morbida e fine alla base. Heseret indietreggiò, fissando le guardie. «Chi di voi vuol essere il primo?» Gli uomini fissarono a bocca aperta il corpo nudo e snello legato alla ruota. Mintaka gridò dalla gabbia: «State attenti a quello che fate! Tra poco, Nefer Seti sarà qui, e quella è sua sorella». «Chiudi quella bocca velenosa!» strillò Heseret, avventandosi su Mintaka. «Tu sarai la prossima. Là fuori ci sono diecimila uomini, e tu ne farai godere molti, prima che la giornata sia finita.» Tornò a rivolgersi agli uomini. «Andiamo, guardate che carne fresca e tenera. Non volete un assaggio? Vedo la vostra verga che s'indurisce sotto la veste.» «È una follia», mormorò il comandante delle guardie, ma senza riuscire a staccare lo sguardo da quel corpo candido. «È una principessa della dinastia reale di Tamose.» Heseret strappò la lunga lancia dalla mano del soldato più vicino, colpendolo con l'asta sulla schiena. «Suvvia, soldato, non hai le palle? Vogliamo vederti affondare in quel bel vasetto di miele.» L'uomo arretrò, sfregandosi il solco sulla schiena. «Sei pazza. Quale castigo m'infliggerebbe Nefer Seti?» D'improvviso si voltò e fuggì dal recinto, mescolandosi alla folla di persone sulla strada. I suoi compagni esitarono solo un istante, poi un altro mormorò: «E' impazzita! Non intendo aspettare che Nefer Seti arrivi e trovi la sorella in questo stato...» E si precipitò verso l'uscita del campo, seguito dai compagni. Heseret li rincorse. «Tornate indietro, ve lo ordino!» Ma gli uomini si erano ormai mischiati alla folla. Lei corse allora verso un alto arciere nubiano che passava in gran fretta, e lo afferrò per il braccio nel tentativo Wilbur Smith
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di attirarlo nel recinto. «Vieni con me. Vi conosco, voi animali neri, avete la verga grossa come un elefante maschio e non vi dispiace usarla. Ho qui qualcosa che ti piacerà senz'altro.» L'arciere la respinse con violenza. «Lasciami stare, sgualdrina! Non ho tempo per te, adesso.» Lei lo seguì con gli occhi mentre si allontanava lungo la strada affollata, gridandogli dietro: «Non si tratta di me, animale! Come osi insultare la regina d'Egitto?» Piangendo e delirando rientrò nel recinto. Dalla gabbia, Mintaka le disse: «Ormai è finita, Heseret. Calmati. Libera Merykara e noi ti proteggeremo». Parlava con voce bassa e suadente, perché si rendeva conto che ormai quella donna aveva superato i confini della ragione per smarrirsi nel deserto della follia. «Io sono la regina dell'Egitto, e mio marito è un dio immortale», gridò Heseret. «Guardatemi e rispettate la mia bellezza e la mia maestà.» Coperta di sangue e di sudiciume, brandiva la lancia con aria allucinata. «Ti prego, Heseret», disse Merykara, aggiungendo le sue suppliche a quelle di Mintaka, «tra poco Nefer e Meren saranno qui. Si prenderanno cura di te e ti proteggeranno.» L'altra la fissò con ira selvaggia. «Non ho bisogno di protezione. Non capisci che cosa sto dicendo? Io sono una dea, e tu sei la sgualdrina di un soldato.» «Mia cara sorella, sei impazzita per il dolore. Liberami, in modo che possa aiutarti.» Sul viso di Heseret passò un'espressione astuta. «Tu credi che non possa trovare un membro maschile che faccia per te? Ebbene, ti sbagli. Ne ho uno tutto mio.» Sollevando la lunga lancia, la rovesciò, puntando verso Merykara l'estremità smussata. «Ecco il tuo amante soldato, venuto a reclamarti.» Avanzò verso di lei con aria minacciosa. «No, Heseret!» gridò Mintaka angosciata. «Lasciala stare.» «Tu sarai la prossima, sgualdrina traditrice. Mi occuperò di te dopo aver sistemato lei.» «Heseret, no!» la implorò Merykara, dibattendosi per liberarsi dai lacci. Ma Heseret ignorò le sue grida, appoggiando l'asta della lancia tra le sue cosce allargate. «Sorella, non puoi farmi questo, non ricordi...» Merykara s'interruppe, sbarrando gli occhi per lo sconcerto e il dolore. «Prendi questo!» gridò Heseret, affondando la lancia dentro il suo corpo. Wilbur Smith
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«E questo!... E questo!» Ogni colpo arrivava più in profondità, finché l'asta non penetrò nel corpo per la lunghezza di un braccio, uscendo macchiata di sangue. Merykara e Mintaka urlavano all'unisono: «Basta! Oh, ti prego, basta!» Ma Heseret non smetteva. «Ecco! Ti basta per soddisfare la tua smania?» chiese, assestando un altro colpo. Merykara sanguinava, ma Heseret impresse all'asta tutta la forza del suo peso, conficcandola per intero dentro di lei. La sorella lanciò un ultimo grido di dolore, poi rimase inerte, col mento appoggiato al petto nudo. Heseret lasciò l'arma conficcata nel corpo pallido e snello, facendo un passo indietro per osservarlo con aria perplessa. «È stata colpa tua. Non prendertela con me. Era mio dovere. Tu ti sei comportata come una sgualdrina, e io ti ho trattato come tale.» Riprese a piangere. «Non importa. Non c'è più niente che importi. Naja è morto. Il nostro diletto marito è morto...» Come una sonnambula, si diresse verso la sua tenda sfarzosa ma ormai deserta. Togliendosi la tunica sporca di sangue e di urina, la lasciò cadere al centro del pavimento e ne scelse un'altra a caso da una pila nell'angolo, calzando poi un paio di sandali. «Ora vado a cercare Naja», disse con improvvisa fermezza. Raccolse in fretta alcuni oggetti, ficcandoli in un sacchetto di pelle, poi con nuova determinazione si avviò alla porta. Quando uscì, Mintaka la chiamò dalla gabbia. «Ti prego, vieni a liberarmi, Heseret. Devo assistere la tua sorellina. È gravemente ferita. Per carità, lasciami andare da lei.» «Tu non capisci», rispose lei, scuotendo la testa con violenza. «Devo andare da mio marito, il Faraone dell'Egitto. Ha bisogno di me. Mi ha mandato a chiamare.» Senza neanche degnarla di uno sguardo, uscì in gran fretta dal recinto, scrollando il capo e mormorando parole incoerenti. Si diresse verso occidente, in direzione opposta a quella del fiume di persone terrorizzate in fuga, tornando verso Ismailia e l'Egitto. Mintaka la sentì gridare di nuovo: «Aspettami, Naja, mio unico amore. Arrivo. Aspettami!» Poi i suoi vaneggiamenti si persero in lontananza. Mintaka si dibatté per liberarsi dai legacci, torcendosi e tendendosi tutta, puntando i piedi nudi contro le sbarre della gabbia per fare presa. Sentì il Wilbur Smith
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cuoio sfregare la pelle dei polsi, lacerandola, e il sangue caldo gocciolare tra le mani e le dita, ma le cinghie erano forti e ben serrate, per cui non riusciva a tenderle né a strapparle. Le mani diventarono insensibili per mancanza di sangue. Ogni volta che si concedeva una pausa, i suoi occhi correvano verso il corpo inerte di Merykara riverso sulla ruota. Le gridava: «Ti voglio bene, mia cara. Meren ti ama. Non morire. Fallo per noi, ti prego, non morire». Ma gli occhi di Merykara erano spalancati e il loro sguardo era fisso. Ben presto le pupille s'inaridirono, coprendosi di un velo opaco di polvere, mentre le mosche sciamavano su di lei, bevendo dalla pozza di sangue che le si era formata tra le gambe. D'un tratto Mintaka sentì uno scalpiccio furtivo all'entrata della tenda e, torcendo la testa, scorse due ancelle di Heseret che uscivano dalla tenda di soppiatto, portando ciascuna una grossa borsa piena di oggetti preziosi che avevano rubato. Mintaka gridò loro: «Vi prego, liberatemi. Avrete la libertà e una grande ricompensa». Ma loro la guardarono con un'espressione sorpresa e colpevole, prima di affrettarsi a fuggire dal recinto per unirsi alla marmaglia dell'esercito sconfitto che passava, diretto a oriente. Più tardi si udirono alcune voci all'ingresso e Mintaka fu sul punto di gridare, ma riconobbe in tempo gli accenti rozzi dei soldati e riuscì a trattenersi. Quattro uomini entrarono furtivamente nel recinto. A giudicare dall'aspetto, dagli abiti e dal modo di parlare, capì che erano delinquenti della peggiore specie, probabilmente membri di una di quelle bande di sciacalli che seguivano ogni esercito in cerca di bottino. Lasciò ricadere la testa in avanti, fingendosi morta. Gli uomini si soffermarono a esaminare il corpo di Merykara. Uno di loro rise, facendo un commento così osceno che Mintaka serrò le palpebre, mordendosi la lingua per non replicare. Poi si avvicinarono alla gabbia, sbirciando all'interno. Lei rimase immobile, trattenendo il respiro. Sapendo di avere un aspetto terribile, tentò di fingersi morta. «Questa puzza come una scrofa», commentò uno di loro. Scoppiarono tutti in una risata grossolana, poi si sparpagliarono nel campo in cerca di bottino. Quando furono usciti, portando tutto quello che potevano trasportare, Mintaka guardò le ombre allungarsi sulla terra battuta del recinto, mentre, all'esterno, il rumore dei carri che passavano, dei carretti e delle persone a piedi si affievoliva gradualmente. Poco prima del tramonto Wilbur Smith
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passarono gli ultimi, poi sul campo scese il silenzio del deserto e della morte. Durante la notte, Mintaka scivolò a tratti nel sonno, sopraffatta dalla stanchezza e dalla disperazione. Ogni volta che si svegliava di soprassalto, vedeva il corpo candido di Merykara steso alla luce argentea della luna, e la ruota del dolore ricominciava il suo ciclo terribile. Giunse l'alba e il sole si levò nel cielo, ma l'unico suono era il fruscio del vento del deserto tra i rami dell'acacia spinosa che cresceva vicino all'entrata, accompagnato, a volte, dai suoi singhiozzi. Ma questi divennero sempre più sommessi e più deboli a mano a mano che passava un altro giorno senza acqua. Poi udì qualcos'altro, un mormorio lontano che si tramutò in un rombo sommesso. Capì che era un rumore di ruote che si avvicinavano in fretta. Anzi un rumore di carri, perché sentiva aumentare d'intensità il suono degli zoccoli e delle voci umane. E infine riconobbe una di quelle voci. «Nefer!» Tentò di gridare, ma riuscì a emettere soltanto un mormorio roco. «Nefer!» Sentì grida di orrore e di costernazione e, voltando lentamente la testa, vide entrare Nefer, seguito da Meren e Taita. Nefer la vide subito e corse verso la gabbia. Strappò lo sportello dai cardini con le mani nude, poi estrasse il pugnale dal fodero per tagliare i lacci di cuoio. La tirò fuori delicatamente da quella fetida gabbia e se la strinse al petto, piangendo, mentre la portava nella tenda. «Merykara!» sussurrò la giovane donna, con le labbra gonfie e screpolate. «Taita si occuperà di lei, ma credo che sia troppo tardi.» Mintaka si voltò a guardare Taita e Meren, che avevano liberato Merykara dalla ruota, estraendo dal suo corpo l'arma incrostata di sangue. In quel momento stavano stendendo un lenzuolo di lino bianco sopra il suo corpo, nascondendo la terribile ferita. Mintaka chiuse gli occhi. «Sono sfinita dalla sofferenza e dalla disperazione, ma il tuo viso è lo spettacolo più bello e più gradito che abbia mai visto. Ora voglio riposare un po'.» E scivolò nell'incoscienza. Si svegliò a poco a poco, quasi dovesse risalire in superficie dal fondo di un pozzo buio e terribile, popolato da demoni. Wilbur Smith
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Quando aprì gli occhi, i demoni che avevano infestato i suoi sogni erano svaniti e, con immenso sollievo, vide i volti delle due persone che amava di più al mondo. Taita era seduto su una sponda del letto e Nefer sull'altra. «Per quanto tempo?» domandò. «Per quanto tempo sono rimasta priva di sensi?» «Un giorno e una notte», le rispose Taita. «Ti ho somministrato lo shepenn rosso.» Portandosi una mano al viso, lei scoprì che era coperto da uno spesso strato di unguento. Girando la testa verso Nefer, mormorò: «Sono brutta». «No! Sei la donna più bella che abbia mai visto e ti amo più di quanto sappia esprimere.» «Non sei in collera con me perché ti ho disobbedito?» «Mi hai donato una corona e un Paese.» Lui scosse la testa, lasciandole piovere sul viso una lacrima. «E soprattutto mi hai donato il tuo amore, che per me è prezioso più di ogni altra cosa. Come potrei essere in collera con te?» Taita si alzò in silenzio, lasciando la tenda, così i due giovani rimasero insieme per tutto il giorno, parlando tra loro a bassa voce. A sera, Nefer mandò a chiamare gli altri. Quando furono riuniti intorno al letto di Mintaka, li guardò con aria grave e vide che c'erano tutti: Taita e Meren, Prenn, Socco e Shabako, che si muoveva con difficoltà per il dolore delle ferite ricevute sul campo di battaglia di Ismailia. «Siete venuti a vedere che giustizia sia fatta», disse loro, rivolgendosi poi alle guardie sulla porta per ordinare: «Fate entrare la donna di nome Heseret». Mintaka tentò di mettersi a sedere, ma lui la respinse dolcemente indietro sui cuscini. «Dove? Dove l'avete trovata?» riuscì comunque a chiedere. «I nostri picchetti l'hanno individuata mentre vagava nel deserto, sulla strada per Ismailia. All'inizio non l'hanno riconosciuta e non hanno creduto alle sue proteste. La credevano una pazza.» Heseret entrò nella tenda. Nefer le aveva permesso di fare il bagno e le aveva fornito abiti puliti; Taita, dal canto suo, le aveva curato i tagli e i graffi sul viso e sul corpo. Lei si liberò con una scrollata dalle mani delle guardie, poi si guardò intorno, sollevando il mento con aria regale. «Prostratevi davanti a me», ordinò agli uomini che le stavano di fronte. «Sono una regina.» Wilbur Smith
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Nessuno si mosse. Nefer ordinò: «Portatele uno sgabello». Quando fu seduta, la fissò con uno sguardo così gelido che Heseret si coprì il viso con le mani, cominciando a piangere. «Tu mi odi», farfugliò. «Perché mi odi?» «Mintaka ti spiegherà il motivo», rispose lui, rivolgendosi poi alla ragazza distesa. «Per favore, descrivi com'è morta la principessa Merykara.» Mintaka parlò per quasi un'ora. Nessuno si mosse o pronunciò una sola parola, se non per lanciare esclamazioni di orrore nel sentire i passi più agghiaccianti del racconto. Alla fine, Nefer guardò freddamente Heseret. «Smentisci qualcosa di questa testimonianza?» Heseret gli restituì l'occhiata con pari freddezza. «Era una sgualdrina e ha disonorato mio marito, il Faraone d'Egitto. Meritava la morte. Sono fiera e orgogliosa di essere stata lo strumento della giustizia.» «Persino adesso avrei potuto perdonarti... Sarebbe stato sufficiente mostrare un briciolo di rimorso», disse Nefer sottovoce. «Io sono la regina. Sono al di sopra delle vostre leggi meschine.» «Non sei più una regina», ribatté Nefer. Lei parve confusa. «Sono tua sorella. Non vorrai farmi del male.» «Anche Merykara era tua sorella. Tu l'hai risparmiata?» «Ti conosco bene, Nefer Seti. Non mi farai del male.» «Hai ragione, Heseret. Io non ti farò del male, ma c'è qualcun altro che non si farà scrupoli.» Si rivolse ai comandanti riuniti. «È l'antica legge dei diritti di chi ha subito il torto più grave. Fatti avanti, Meren Cambise.» Meren si alzò, avanzando. «Faraone, sono ai tuoi ordini.» «La principessa Merykara era la tua promessa sposa, quindi tu hai subito il torto più grave. Ti concedo il corpo e la vita di Heseret Tamose, che era una principessa della casa reale d'Egitto.» Meren le mise intorno al collo una catena d'oro, ma lei cominciò a gridare: «Sono una regina e una dea, non ti azzardare a toccarmi». Nessuno badò alle sue grida, mentre Meren guardava Nefer. «Maestà, m'imponi qualche restrizione? Mi suggerisci o mi ordini di mostrare misericordia o compassione?» «Ti concedo Heseret senza riserve. La sua vita è tua.» Meren allentò la spada nel fodero che portava nel fianco, costringendo Heseret ad alzarsi con uno strappo della catena, poi la trascinò fuori della Wilbur Smith
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tenda, mentre gemeva e farfugliava. Nessuno li seguì. Rimasero in silenzio, ascoltando i lamenti, le lusinghe e le suppliche di Heseret attraverso le pareti di tela della tenda. Poi ci fu un silenzio improvviso e tutti si fecero forza. Si udì un grido acuto e penetrante, che finì di colpo così com'era cominciato. Mintaka si coprì il volto con le mani, mentre Nefer faceva un gesto di scongiuro con la mano destra. Gli altri tossirono, dimenandosi, irrequieti. Poi le tende all'ingresso si aprirono e Meren rientrò nella tenda, stringendo nella mano destra la spada e nella sinistra un oggetto orribile. «Maestà, giustizia è stata fatta.» Tenendola per i folti capelli, sollevò la testa mozzata di Heseret, moglie di Naja Kiafan, il falso Faraone. Passarono cinque giorni prima che Mintaka si riprendesse abbastanza per cominciare il lungo viaggio di ritorno verso Avaris, e anche allora Taita e Nefer insistettero per farla viaggiare in portantina, allo scopo di attutire gli scossoni e i sussulti del percorso accidentato che li attendeva. Procedendo lentamente, impiegarono due settimane a raggiungere la sommità delle dune desertiche da cui si scorgeva l'ampia vallata verdeggiante del Nilo. Nefer aiutò Mintaka a scendere dalla portantina. Insieme si allontanarono per un breve tratto dalla strada, per rimanere soli e assaporare in pieno il momento gioioso del ritorno a casa. Non erano lì da molto, quando Nefer si alzò, ombreggiandosi gli occhi con la mano. «Che cosa c'è, amore mio?» domandò Mintaka. «Abbiamo visite.» Lei si lasciò sfuggire un'esclamazione seccata per quella intrusione, ma il giovane aggiunse: «Questi visitatori sono sempre bene accetti». Sorrise anche lei, riconoscendo le due figure che si avvicinavano. «Taita! E Meren! Ma che strano abbigliamento è quello?» Indossavano entrambi due tuniche semplici, coi sandali e la sacca di cuoio degli uomini che compivano un pellegrinaggio. «Siamo venuti a dirvi addio e a prendere congedo», spiegò Taita. «Non vorrai lasciarmi proprio adesso!» Nefer era sconcertato. «Non assisterai alla mia incoronazione?» «Sei stato incoronato sul campo di Ismailia», rispose Taita in tono pacato. «E il nostro matrimonio?» gridò Mintaka. «Devi restare per il nostro Wilbur Smith
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matrimonio.» «Voi due siete sposati da molto tempo», replicò il mago, sorridendo. «Forse fin dal giorno della nascita, perché gli dei vi hanno fatti l'una per l'altro.» «E tu, confratello della Via Rossa e amico carissimo?» disse Nefer rivolto a Meren. «Tu perché te ne vai?» «Per me non c'è più niente qui, ora che Merykara se n'è andata. Devo accompagnare Taita.» Nefer capì che non c'era altro da dire. Qualunque altra parola avrebbe svilito quel momento. Non chiese neppure dove sarebbero andati. Forse non lo sapevano neppure loro. Li abbracciò, baciandoli. Poi rimase a fianco di Mintaka, seguendoli con gli occhi mentre si allontanavano e le loro figure rimpicciolivano sempre più nel tremolio del deserto. Condivisero lo stesso senso profondo di rammarico e di privazione. «In realtà non se ne sono andati», mormorò Mintaka, quando infine scomparvero alla vista. «No. Saranno sempre con noi.» La principessa Mintaka Apepi si avviò a sposare il Faraone Nefer Seti preceduta dalla Gran Sacerdotessa del tempio di Hathor e da cinquanta delle sue accolite. Si ritrovarono sul terrazzo del palazzo reale di Tebe, che dominava il grande corso bruno del padre Nilo in piena, nella stagione più propizia per tutte le creature viventi nella terra d'Egitto. Mintaka si era ripresa già da tempo dalle ferite e dalle dure prove subite. La sua bellezza era rifiorita in pieno, anzi in quel momento di gioia sembrava moltiplicata. Si sarebbe detto che l'Egitto intero fosse accorso ad assistere alle loro nozze. La folla si assiepava lungo le rive del Nilo fin dove l'occhio riusciva a spingersi. Quando la coppia si abbracciò, infrangendo le giare piene dell'acqua del Nilo, il tumulto che salì fino al cielo dovette far trasalire persino gli dei. Poi Nefer Seti prese per mano la nuova sovrana, mostrando la sua bellezza al popolo, che cadde in ginocchio, piangendo e proclamando a gran voce la sua lealtà e il suo affetto. All'improvviso, però, il silenzio scese su quella folla sterminata e tutti Wilbur Smith
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volsero lentamente lo sguardo in alto, verso un punto minuscolo nella volta del cielo sopra il palazzo. Nel silenzio, si udì il grido solitario di un falco reale, che scese in picchiata dal cielo azzurro. Alla fine, proprio quando sembrava che dovesse urtarlo con violenza, il falco spalancò le ali, librandosi sulla figura alta del Faraone. Nefer sollevò il braccio destro, tendendolo in fuori, e lo splendido falco si posò sul suo pugno con la leggerezza di una piuma. Di fronte a quel prodigio, dalla gola di diecimila persone scaturì un rombo simile a quello del mare in tempesta. Ma gli occhi di Nefer si posarono sulla sottile catenella d'oro puro stretta intorno alla zampa destra del falco, sopra i grandi artigli ricurvi. Inciso nel metallo prezioso c'era un simbolo che fece battere all'impazzata il cuore del giovane. «Il cartiglio reale», sussurrò Nefer. «Questo non è mai stato un falco selvatico. Questo è Nefertem, il falco di mio padre. Ecco perché veniva spesso da me nei momenti di grande pericolo, per ammonirmi e guidarmi. Era sempre lo spirito di mio padre.» «E ora Nefertem è venuto ad affermare di fronte al mondo intero che tu sei il sovrano legittimo», sussurrò Mintaka, stringendosi a lui e guardandolo con occhi sfavillanti di orgoglio e d'amore. FINE
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