Nahtjak89
SUSAN ABULHAWA
OGNI MATTINA A JENIN
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerr...
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Nahtjak89
SUSAN ABULHAWA
OGNI MATTINA A JENIN
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei giorni e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme. Adolescente, si è trasferita negli Stati Uniti, dove si è laureata in Scienze biomediche e ha avuto una brillante carriera nell'ambito della medicina. Vive in Pennsylvania. Autrice di numerosi saggi sulla Palestina, per cui è stata insignita nel 2003 del premio Edna Andrade, ha fondato l'associazione Playgrounds for Palestine, che si occupa dei bambini dei Territori Occupati. I suoi articoli sono apparsi su numerose testate, tra le quali "The Huffington Post", il "Chicago Tribune" e " The Christian Science Monitor". Ogni mattina a Jenin è il suo primo romanzo. Bestseller internazionale, è in corso di pubblicazione in ventidue paesi. Susan Abulhawa ha scritto un romanzo struggente che può fare per la Palestina ciò che il Cacciatore di aquiloni ha fatto per l'Afghanistan. Di vibrante realismo e inesorabilmente diretto alla verità, racconta con sensibilità e pacatezza la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di "senza patria".
Attraverso la voce di Amai, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l'abbandono della casa dei suoi antenati di Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, si snoda la storia di Amai: l'infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore. La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell'arco di quasi sessant'anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c'è la tragedia dell'esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affettti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condanna a sopravvivere in attesa di una svolta. L'autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà ,rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all'amore.
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SUSAN ABULHAWA OGNI MATTINA A JENIN Yehya Muhammad Abulheja sposato con Bassima Hassan Yehya Muhammad Abulheja sposato con Dalia Darwish Yehya Muhammad Abulheja sposato con una cugina 5 figli Yussef Hassan, Isma'il Fassan, Amai Hassan, Yehya M. Abulheja Yehya M. Abulheja Yehya M. Abulheja sposato con Fatima. . . (David Avaram) sposata con Majid. sposato con un'ebrea israeliana. . . Falastin Yussef Hassan.
Per Natalie e per Self Preludio JENIN 2002 Amai avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte. Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell'uccisione "accidentale" di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del "danno collaterale". Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato. L'uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amai lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amai lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava. Che strano, pensò di nuovo, non ho paura di morire. Forse perché sapeva, dal modo in cui il soldato aveva battuto le palpebre, che si sarebbe salvata. Chiuse gli occhi, rinata, il metallo freddo ancora contro la fronte. I ricordi la riportarono indietro, e ancora indietro, a una patria che non aveva mai conosciuto. Uno LA RACCOLTA 1941 In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amai, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. Era ancora buio, solo i bambini dormivano, mentre gli abitanti di 'Ain Hod si preparavano alla salat del mattino, la prima delle cinque preghiere giornaliere. La luna pendeva bassa come una fibbia che legasse cielo e terra, una scheggia timorosa di farsi piena. Gambe e
braccia si tendevano, l'acqua lavava via il sonno, occhi speranzosi si aprivano. Il udu', l'abluzione rituale prima della salat, spandeva il mormorio della shahada nella foschia del mattino sottoforma di centinaia di sussurri che proclamavano l'unicità di Dio e rendevano onore al suo Profeta. Quel giorno si pregava all'aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un'occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata. E così, accompagnati da un'orchestra mattutina di piccole creature, grilli e uccellini in fermento - e presto anche galli -, gli abitanti del villaggio proiettavano ombre di luna sui loro tappetini da preghiera. La maggior parte chiedeva solo perdono per i propri peccati, alcuni compivano una rak'a in più. In un modo o nell'altro, ciascuno diceva: "Mio Signore Iddio, che oggi sia fatta la Tua volontà. A Te la mia sottomissione e la mia gratitudine" e poi si incamminava verso ovest in direzione degli oliveti, alzando bene i piedi per evitare le spine dei fichi d'India. Ogni novembre, la settimana della raccolta riportava a Ain Hod una ventata di vitalità e Yehya, Abu Hassan, se la sentiva fin dentro le ossa. Uscì di casa di buon'ora insieme ai bambini, che aveva convinto con la sua annuale speranza di arrivare prima dei vicini. Ma anche i vicini avevano gli stessi propositi e la raccolta iniziava sempre attorno alle cinque di mattina. Yehya si girò timidamente verso sua moglie, Bassima, che aveva la cesta con le coperte e le tele cerate in equilibrio sulla testa, e mormorò: "Umm Hassan, l'anno prossimo dobbiamo alzarci prima di loro. Voglio arrivare un'ora prima di Salim, quel vecchio balordo sdentato. Solo un'ora prima". Bassima alzò gli occhi al cielo. Suo marito faceva la stessa geniale pensata ogni anno. Mentre l'oscurità del cielo si arrendeva alla luce, i rumori della raccolta di quel nobile frutto si alzavano dalle colline sbiancate dal sole di Palestina: i colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle vecchie tele incerate e sulle coperte stese sotto agli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano le ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.
Yehya si fermò per massaggiarsi il collo dolente. E quasi mezzogiorno, pensò, vedendo che il sole era vicino allo zenit. Madido di sudore, stava in piedi sulla sua terra, un uomo robusto con in testa una kefiah bianca e nera e l'orlo della velò ste infilato nella fascia che gli cingeva la vita alla maniera dei fellahin. Osservò lo splendore che lo circondava. L'erba verde muschio scendeva a cascata dalle colline, sulle rocce, attorno e sopra agli alberi. I muretti a secco dei sanasil, che aveva in parte aiutato il nonno a riparare, salivano serpeggiando sui fianchi delle alture. Si girò a guardare Hassan e Darwish, i loro pettorali rigonfi sotto le vesti a ogni colpo di bastone che faceva cadere le olive. / miei figli! Il cuore gli si riempì di orgoglio. Hassan cresce forte nonostante il problema ai polmoni. Sia ringraziato Iddio. I due ragazzi lavoravano ai lati opposti di ciascun albero mentre la madre ne seguiva a fatica i passi, togliendo coperte piene di olive fresche che avrebbero spremuto più tardi nel corso della giornata. Yehya vide Salim che raccoglieva i frutti dei suoi alberi nell'oliveto accanto. Vecchio balordo sdentato. Sorrise. Salim, in realtà, era più giovane di lui. Ma il suo volto, segnato da anni e anni di legno d'ulivo intagliato all'aperto, emanava un senso di saggezza e di atavica pazienza. Era diventato "Hajj" Salim dopo aver compiuto il pellegrinaggio alla Mecca e quel titolo bastava a farlo considerare più anziano di Yehya. A sera, i due amici si sarebbero trovati a fumare il narghilè e a discutere su chi avesse lavorato di più e di chi fossero i figli più forti. "Andrai all'inferno per tutte le balle che racconti, vecchio mio" avrebbe detto Yehya portandosi il bocchino alle labbra. "Vecchio? Sei più vecchio di me, balordo che non sei altro" avrebbe ribattuto Salim. "Almeno io ho ancora tutti i denti. " "Bene. Tira fuori la tavola e ti faccio vedere chi è il migliore, come sempre. " "Dici solo balle, pappamolle sdentato figlio di tuo padre." Partite di backgammon condite da narghilè gorgoglianti finivano per calmare quel battibecco annuale e i due uomini giocavano ostinatamente finché le mogli non li mandavano a chiamare più e più volte. Soddisfatto dell'andamento della mattina, Yehya recitò la salat alZhohr e si sedette sulla coperta dove sua moglie aveva disposto le lenticchie e la maklube di agnello e salsa di yogurt. Poco più in là, Bassima preparò il pranzo anche per gli aiutanti stagionali, che accettarono l'offerta con riconoscenza.
"È pronto!" gridò poi a Hassan e Darwish, che avevano appena concluso la seconda salat della giornata. Seduta attorno al vassoio di riso fumante e ai piattini con le salse e i sottaceti, la famiglia aspettò che Yehya spezzasse il pane nel nome di Dio. "Bismillah alrahman alrahim" cominciò, e i ragazzi ci diedero dentro, prendendo avidamente bocconi di riso da appallottolare con lo yogurt. "Yumma, nessuno cucina bene come te!" Darwish sapeva come ingraziarsi la madre a forza di complimenti. "Che Dio ti benedica, figlio mio." Bassima sorrise e spostò un pezzo di carne tenera sul suo lato del vassoio di riso. "E io?" protestò Hassan. Darwish si chinò verso il fratello maggiore e gli sussurrò maliziosamente all'orecchio: "Tu non ci sai fare con le signore". "Tieni, caro." Bassima staccò un altro bel pezzo di carne per Hassan. Il pranzo terminò presto, senza il consueto attardarsi con halawe e caffè. C'era ancora del lavoro da fare. Bassima aveva riempito delle grosse ceste, che gli aiutanti avrebbero portato al frantoio. Ciascuno dei suoi figli doveva spremere la propria parte di olive quel giorno stesso, o c'era il rischio che l'olio irrancidisse. Ma prima di rimettersi al lavoro recitarono una preghiera. "Prima, ringraziamo Dio per la sua bontà" disse Yehya perentorio, estraendo un vecchio corano dalla tasca della dishdashe. Il libro sacro era appartenuto a suo nonno, che aveva curato quegli stessi oliveti prima di lui. Anche se Yehya non sapeva leggere, gli piaceva guardare la bella scrittura mentre recitava le sure a memoria. I ragazzi abbassarono la testa, ascoltarono con impazienza il padre che salmodiava i versetti del Corano e, una volta ottenuto il permesso di andare al frantoio, si precipitarono di corsa giù dalla collina. Bassima si appoggiò una cesta di olive sulla testa, prese con ciascuna mano una sacca di stoffa piena di piatti e cibo avanzato e cominciò a scendere insieme alle altre donne che reggevano le giare e le stoviglie in perfetto equilibrio sul capo. "Che Dio sia con te, Umm Hassan" disse Yehya alla moglie. "Anche con te, Abu Hassan" rispose lei. "Non fare tardi." Rimasto solo, Yehya si chinò nel vento, soffiò delicatamente nel bocchino del suo nye e sentì la musica affiorare dai piccoli fori sotto le dita. Era stato suo nonno a insegnargli a suonare quel flauto antico e le sue melodie lo
facevano pensare agli avi, alle infinite raccolte, alla terra, al sole, al tempo, all'amore e a tutto ciò che al mondo c'era di buono. Come sempre, alla prima nota Yehya alzò le sopracciglia e chiuse le palpebre, come se ogni volta si stupisse della solennità che il semplice nye intagliato a mano sapeva dare al suo fiato. Diverse settimane dopo la raccolta, il vecchio furgone di Yehya era carico. C'era dell'olio, ma più che altro c'erano mandorle, fichi, agrumi e ortaggi. Hassan mise l'uva sopra al resto in modo che non si schiacciasse. "Preferirei che non andassi fino a Gerusalemme" disse Yehya a Hassan. "Tulkarem è a pochi chilometri da qui e la benzina costa. Anche Haifa è più vicina, e i mercati sono altrettanto buoni. E poi non si sa mai quale bastardo sionista si nasconda tra i cespugli o quale stronzo inglese decida di fermarti. Perché fare un viaggio tanto lungo?" Ma Yehya sapeva già perché. "Devi vedere Ari?" "Yaba, gli ho promesso che sarei andato" rispose Hassan in tono quasi supplichevole. "Be', ormai sei un uomo. Tieni gli occhi aperti. Fai in modo che tua zia si prenda tutto ciò che le serve dal carico e dille che la aspettiamo presto" disse Yehya, poi gridò all'autista, che tutti conoscevano e i cui lineamenti denunciavano la loro comune discendenza: "Che Dio protegga la tua guida, figliolo". "Che Dio ti doni lunga vita, 'Ammu Yehya." Hassan baciò la mano al padre, poi la fronte, gesti riverenti che colmarono Yehya di amore e di orgoglio. "Che Dio ti sorrida e ti protegga sempre, figliolo" disse, e Hassan si arrampicò sul retro del furgone. Mentre si allontanavano, Darwish gli galoppò accanto in groppa a Ganush, il suo adorato purosangue arabo. "Facciamo a gara. Ti do un'ora di vantaggio, visto che il furgone peserà una tonnellata" propose al fratello. "Meglio se sfidi il vento, Darwish. Questo rottame non andrà mai forte come te. Vai, ci vediamo a Gerusalemme a casa di 'Amtu Salma." Hassan guardò il fratello minore filare via cavalcando a pelo, la hatta stretta al capo, le estremità libere che svolazzavano al vento dietro di lui. Darwish era il miglior cavallerizzo nell'arco di chilometri, forse il migliore di tutto il paese, e Ganush era il cavallo più veloce che Hassan avesse mai visto.
Lungo la strada polverosa, il paesaggio si alzava in un silenzio silvestre, avvolto dai profumi dei fiori di agrumi e dell'henne selvatico. Hassan aprì l'astuccio che sua madre riempiva ogni giorno, prese un goccio di quell'intruglio vischioso e se lo avvicinò al naso, inspirando profondamente quanto i suoi polmoni asmatici gli permettevano. L'ossigeno gli corse nelle vene mentre apriva uno dei libri segreti che la signora Perlstein, la madre di Ari, gli aveva dato da studiare. Due ARI PERLSTEIN Ari aspettava vicino alla Porta di Damasco, dove i due ragazzi si erano conosciuti quattro anni prima. Era figlio di un professore universitario tedesco che era fuggito presto dal nazismo e si era stabilito a Gerusalemme, dove la sua famiglia aveva preso in affitto una piccola casa di proprietà di un ricco palestinese. I due ragazzi erano diventati amici nel 1937 dietro i carretti di frutta fresca, ortaggi e latte d'olio ammaccate del mercato di Bab alAmond, dove Hassan era seduto a leggere un libro di poesia araba. Il ragazzino ebreo dagli occhi grandi e il sorriso timido si era avvicinato a Hassan. Zoppicava, il lascito di una gamba curata male e della camicia bruna nazista che gliel'aveva rotta. Aveva comprato un grosso pomodoro maturo, l'aveva tagliato con un coltellino e ne aveva offerto metà a Hassan. " Ana ismi Ari. Ari Perlstein" aveva detto. Incuriosito, Hassan aveva preso il pomodoro. "Goo day sa! Shalom! " Hassan aveva azzardato le uniche parole non arabe che conosceva e fatto segno al ragazzino di sedersi. Anche se Ari sapeva improvvisare qualcosa in arabo, nessuno dei due parlava bene la lingua dell'altro. Ma trovarono presto un'affinità nel loro comune senso di inadeguatezza. "Ana ismi Hassan. Hassan Yehya Abulheja." "Salam 'alaykum" aveva risposto Ari. "Cosa leggi?" aveva chiesto, in tedesco, indicando il libro che aveva tra le mani. "Book." Inglese. "Dis,book." "Yes." Inglese. "Kitab." Libro. Arabo. "Yes." Avevano riso e mangiato un altro po' di pomodoro. Fu così che nacque un'amicizia all'ombra del nazismo in Europa e nel solco sempre più profondo tra arabi ed ebrei in patria, e andò
consolidandosi nell'innocenza dei loro dodici anni, nella poetica solitudine dei libri e nel comune disinteresse per la politica. Decenni dopo che la guerra ebbe separato i due amici, Hassan avrebbe raccontato alla figlia più piccola, una bimbetta di nome Amai, di quel suo amico d'infanzia. "Era come un fratello" le avrebbe detto, chiudendo un libro che gli aveva dato Ari nell'autunno della loro fanciullezza. Anche se Hassan sarebbe diventato un colosso, a dodici anni era un ragazzino malaticcio coi polmoni che sibilavano a ogni respiro. Quella fatica lo relegava ai margini delle rigide congreghe di ragazzini e dei loro giochi violenti. Allo stesso modo, l'andatura zoppicante di Ari scatenava l'implacabile derisione dei compagni di classe. Avevano entrambi una ritrosia che riconoscevano l'uno nell'altro e ciascuno dei due, in giovane età e nel proprio mondo e nella propria lingua, aveva trovato rifugio nelle pagine di poeti, saggisti e filosofi. Quello che era sempre stato un fastidioso, saltuario viaggio a Gerusalemme diventò una piacevole gita settimanale, perché Hassan avrebbe trovato Ari ad aspettarlo e avrebbero passato le ore a insegnarsi vicendevolmente i termini arabi, tedeschi e inglesi per "mela", "arancia", "oliva". "Le cipolle costano una piastra alla libbra, signora" dicevano per esercitarsi. Dietro le pile di frutta e verdura del carretto, si prendevano segretamente gioco dei ragazzi arabi di città, con la loro parlata affettata e i vestiti eleganti che non erano altro che manifestazioni di servile ammirazione per gli inglesi. Ari cominciò perfino a indossare l'abito tradizionale arabo durante i fine settimana e spesso tornava a 'Ain Hod insieme a Hassan. Immerso nelle melodie della parlata e delle canzoni arabe e nei sapori dei loro cibi e delle loro bevande, Ari conquistò una discreta padronanza della lingua e della cultura dell'amico, cosa che l'avrebbe aiutato non poco quando, alcuni decenni dopo, avrebbe insegnato all'Università ebraica. Allo stesso modo, Hassan imparò a parlare tedesco, a decifrare alcuni dei volumi inglesi della biblioteca del dottor Perlstein e ad apprezzare le tradizioni del giudaismo. La signora Perlstein voleva bene a Hassan e gli era grata per l'amicizia che lo legava a suo figlio, e Bassima accoglieva Ari con eguale entusiasmo materno. Anche se non si incontrarono mai di persona, le due donne finirono per conoscersi tramite i loro figli e ciascuna delle
due rimandava a casa il figlio dell'altra carico di cibi e prelibatezze speciali, rituale che Hassan e Ari sopportavano controvoglia. A tredici anni, un anno prima di finire la scuola dell'obbligo, Hassan chiese al padre il permesso di andare a studiare a Gerusalemme insieme ad Ari. Temendo che quella scelta avrebbe strappato il figlio alla terra che era destinato a ereditare e coltivare, Yehya gli disse di no. "I libri non faranno altro che mettersi fra te e la terra. La scuola con Ari puoi scordartela, per me la questione è chiusa. " Yehya era sicuro di aver preso la decisione giusta. Ma anni dopo si sarebbe rimproverato con profonda costernazione e rimorso per aver negato a Hassan quello che desiderava così tanto. Per quella decisione, Yehya avrebbe implorato il perdono di suo figlio il giorno in cui erano tutti accampati all'addiaccio a poca distanza dalle case a cui non potevano più tornare. Yehya, un profugo spossato dalla disastrosa immanenza dell'esilio, avrebbe pianto sulle spalle indulgenti di Hassan. "Perdonami, figliolo. Io non riesco a farlo" avrebbe detto tra le lacrime. E fu proprio per quella decisione e per il carico di rimorso e dolore che aveva generato, che Hassan avrebbe deciso, lavorando duro per salari irrisori, che i suoi figli avrebbero continuato a studiare. Per quella decisione, Hassan avrebbe detto alla sua figlioletta Amai, molti anni dopo: "Habibti, ormai non ci resta nient'altro che l'istruzione. Promettimi che studierai con tutte le tue forze". E la piccola l'aveva promesso a quel padre che adorava. Anche se gli fu negato il privilegio degli studi superiori, Hassan ricevette le ottime lezioni private della signora Perlstein, che mandava a casa il suo giovane e assiduo studente carico di libri, letture e compiti. Le lezioni erano il frutto di un accordo segreto tra Bassima e la signora Perlstein per sollevare Hassan dallo sconforto in cui era caduto da quando Yehya aveva pronunciato l'ultima parola sulla questione della scuola. "Ehi, fratello!" I due giovani si abbracciarono, si strinsero la mano e si baciarono su entrambe le guance alla maniera araba. Scaricarono il furgone e mandarono l'autista con gli altri venditori ambulanti. Poi, facendosi strada tra le strette viuzze acciottolate della Città Vecchia, si diressero al solito caffè prima di andare a casa di Ari. Da Bab alAmond, si incamminarono verso alQiyameh. Gli aromi dei vasi di terracotta, delle melasse e dei vari tipi di olio si alzavano dalle botteghe mentre i venditori lungo la strada invitavano i passanti a fermarsi e assaggiare.
Girarono in Khan alZeit, sfiorando con il capo le pelli e le sete in vendita appese ai muri. Saliti pochi gradini, entrarono nel caffè alMahfuz. "Due narghilè al miele e mela" disse Hassan al cameriere. "Non ti farà bene ai polmoni, Hassan" lo ammonì Ari. "Zio Yehya lo sa che fumi?" "Certo che no!" A casa dei Perlstein, Hassan consegnò due vassoi di halawe e knafe. "Il solito, da parte di mamma" disse in tedesco. "Grazie" disse la signora Perlstein prendendo i dolci. Era una donna longilinea, riservata, il cui aspetto secondo Hassan non dava conto dell'immensa gentilezza. Ogni volta che la vedeva, il suo primo istinto era quello di cercare il cimelio di famiglia che portava appuntato al petto. Uno, due, tre, quattro... diciotto. Prese l'abitudine di contare le piccole perle di quella spilla mentre lei gli controllava i compiti. Nel corso degli anni, Hassan si dimostrò un alunno sveglio e diligente. Le lezioni della signora Perlstein continuarono finché non si "diplomò" insieme ad Ari nel 1943, l'anno in cui i due giovani si allontanarono per un certo periodo, poiché Ari si fece un piccolo gruppo di amici a scuola e Hassan si innamorò follemente di una ragazza beduina di nome Dalia, che aveva rubato Ganush, il cavallo di suo fratello. Tre QUELLA POCO DI BUONO DI UNA BEDUINA 1940-1948 A differenza dei matrimoni dell'epoca, già fissati alla nascita e organizzati all'interno del clan familiare, l'unione tra Hassan e Dalia era nata da un amore proibito. Hassan discendeva dai primi fondatori di ' Ain Hod ed era l'erede di vaste distese di terra coltivata, frutteti e cinque impressionanti oliveti. Dalia, invece, era figlia di un beduino la cui tribù veniva a lavorare ogni anno per la raccolta e che alla fine si era stabilita in paese. La minore di dodici sorelle, Dalia era testarda e dava poco peso alle convenzioni. Sebbene assaggiasse spesso l'estremità impietosa della cinghia del padre, non sempre si ricordava di indossare il tradizionale hijab e lasciava i capelli liberi al vento. A differenza delle ragazzine perbene, si tirava su il vestito per inseguire le lucertole, rovinando i vivaci motivi beduini della sua thobe con macchie di fango e spine di
fico d'India. Spesso si scordava di togliere dalla sacca gli strani insetti e scarafaggi che aveva raccolto durante il giorno, e per questo la madre la picchiava. Ma la sua natura indomita non le permetteva di abbandonare quelle abitudini bizzarre. Così, continuò a godersi la compagnia di quei piccoli amici segreti a sei e otto zampe finché non ne trovò uno a quattro zampe, un cavallo di nome Ganush. Il suo giovane proprietario, un ragazzo che Dalia conosceva come Darwish, figlio di Yehya Abulheja, un giorno la vide camminare tutta sola per le colline e le offrì un passaggio. Dalia non poteva cavalcare insieme a un ragazzo. Suo padre gliele avrebbe date di santa ragione se l'avesse scoperto. "No" rispose, categorica come può esserlo una ragazzina di undici anni. Ma un attimo dopo, il suo volto si rilassò in un "forse". Darwish disse sommessamente: "Continuerò a piedi e giuro sul mio onore che non mi volterò a guardarti mentre sei in sella". Sembrava un ragazzo a posto e sulle colline non c'era nessuno nel raggio di chilometri. Dalia osservò il paesaggio silenzioso e ondulato. Aveva la coscienza pulita. "Come si fa a salire?" "Guarda come faccio io, poi prova anche tu quando sarò girato di spalle." Ganush lasciò montare quella figura minuta sulla propria schiena e Darwish cominciò a condurlo a piedi, lentamente. All'improvviso, Dalia fu presa dal terrore di essere sorpresa insieme a un ragazzo e al suo cavallo. Gli chiese di fermarsi e, appena scesa, scappò via. Alcune settimane dopo tornò nello stesso posto ad aspettare il suo splendido segreto a quattro zampe, finché non arrivò insieme a Darwish e provò di nuovo quella magica esperienza. Il segreto durò per più di due anni, durante i quali Dalia imparò a cavalcare da sola. Darwish avrebbe fatto di tutto per lei, se solo lei glielo avesse chiesto. Come la vedeva arrivare, distoglieva lo sguardo per non mancarle di rispetto, si girava dall'altra parte e teneva fermo Ganush mentre lei si alzava la thobe scoprendo le mutandine, montava in groppa e partiva al galoppo. Darwish aspettava il suo ritorno, poi eseguiva al contrario lo stesso pudico rituale. Per gli abitanti del villaggio, Dalia era come una zingara selvaggia, figlia della poesia e dei colori beduini e non una creatura in carne e ossa. Alcuni credevano che la piccola avesse qualcosa di demoniaco e convinsero sua madre a chiamare uno shaykh perché la esorcizzasse recitando i versetti del Corano. I più pensavano che, crescendo, la
ragazzina avrebbe abbandonato quegli atteggiamenti. Alla fine, tutti convennero sul fatto che Dalia doveva essere "raddrizzata". Ormai aveva quasi quattordici anni e bisognava correggere la sua infantile avventatezza. "Raddrizzala, picchiala, dalle una lezione" disse un'altra donna beduina a sua madre. "Guarda come mangia quell'arancia ! Che vergogna per la sua famiglia. Tutti i ragazzi la stanno osservando." Tanto era il disprezzo degli abitanti del villaggio per Dalia. Il tintinnio delle sue cavigliere irritava le donne, che per di più mal sopportavano la sua indifferenza al loro livore. L'impertinenza che irradiava dalla sua pelle e dai suoi capelli ricordava loro una vecchia beatitudine perduta, che avevano volenterosamente messo da parte. L'indelicata avventatezza di Dalia aveva qualcosa di erotico, tanto più perché non ne era cosciente. Dopo che Dalia, per prendersi segretamente una pausa dalla massacrante monotonia della raccolta delle olive, ebbe "rubato" il cavallo a suo figlio Darwish, Bassima, Umm Hassan, si convinse che la ragazza era una ladra senza Dio né vergogna. Il furto sarebbe andato a buon fine se Dalia non fosse caduta rompendosi una caviglia, suscitando uno scandalo che aveva attirato l'attenzione di Hassan. La notizia finì sulla bocca di tutti. Darwish pensò a come difendere Dalia ma sapeva che, mettendosi in mezzo, avrebbe provocato una punizione ancora peggiore. Disonorato, il padre di Dalia promise solennemente che avrebbe soffocato l'insolenza della figlia minore una volta per tutte. Per riacquistare l'onore perduto, legò Dalia a una sedia nel centro della piazza e, per farle confessare il furto, le premette un ferro rovente sulla mano che era stata costretta a dichiarare colpevole. "È questa? Avanti, fa' vedere, che te la brucio per bene" aveva detto l'uomo furente quando Dalia gli aveva porto il palmo destro. "E se gridi, ti brucio anche l'altra" aveva aggiunto, voltandosi verso la folla in cerca di approvazione. Dalia non emise suono mentre il metallo incandescente le bruciava la pelle del palmo. La gente era senza fiato. "Come sono crudeli i beduini" disse una donna, e alcuni implorarono il padre di Dalia di fermarsi, in nome di Dio, e di avere pietà perché Egli è Misericordioso. alRahma. Ma ogni uomo detta legge in casa propria. "Il mio onore non sarà macchiato. Fatevi indietro: questo è un mio diritto" disse il beduino. Era un suo diritto. La hawla wala qawata illa billah.
Dalia tenne il dolore dentro di sé, mentre la puzza di carne bruciata le consumava la vita nel profondo. La complicità con la natura, l'intimità dei suoi capelli con il vento, il tintinnare delle sue cavigliere di monete, il dolce aroma del sudore quando faticava, i suoi colori zingari - tutto, quel giorno, diventò un mucchio di cenere al centro della piazza sotto l'azzurro intenso del cielo. Se avesse urlato, forse il fuoco non sarebbe penetrato tanto in profondità. Ma non urlò. Vide un coniglio e si pietrificarono tutti e due in uno sguardo impossibile. Tenne la tortura nella propria mano, serrando la mascella mentre le lacrime le rigavano il volto. Per il resto della vita Dalia avrebbe conservato l'abitudine involontaria di sfregarsi il palmo della mano destra con i polpastrelli e di digrignare i denti, come se trattenesse dentro di sé qualcosa di vivo e desideroso di uscire. Bassima, cosciente di come gli occhi attenti di Hassan seguivano la giovane Dalia durante le mansioni quotidiane in paese e nei campi, era irritata dallo stoicismo della ragazza beduina e non voleva avere niente a che fare con "quella famiglia". Per lei, Dalia era "una beduina poco di buono" che avrebbe portato solo problemi nel loro pacifico borgo. Di fatto, i suoi peggiori timori furono confermati quando suo figlio, il giovane Hassan Yehya Abulheja, non potè più resistere alla sfrontata bellezza di Dalia e al suo spirito indomito, e decise di sposarla. Con la determinazione che l'avrebbe caratterizzato per tutta la vita e con il riluttante beneplacito del padre, Hassan comunicò alla madre la propria decisione. " Yumma, sposarsi non è un peccato" le disse, cercando un approccio conciliante. "No, no, no, no, no!" Bassima era fuori di sé. Nel dramma dello scandalo, agitava le braccia, si strapazzava la thobe invocando Dio, si batteva il petto e si schiaffeggiava il volto. Piangeva per l'umiliazione, maledicendo il giorno in cui "quella beduina" aveva messo piede per la prima volta a ' Ain Hod. Il suo disagio maturò in vergogna quando fu costretta a raccontare la ribellione del figlio e il suo rifiuto di sposare la cugina che gli era già stata promessa in sposa. "Ya Abu Hassan, cosa dirà la gente di noi?" implorò suo marito. Yehya cercò di farla ragionare. "Umm Hassan, lascia che sia. Ormai è un uomo. Non possiamo costringerlo." Ma lei continuò, sorda alle parole del marito. "Dirà che non ci si può fidare della nostra parola?
Che promettiamo di far sposare con nostro figlio una ragazza e poi lasciamo che ci disobbedisca? Che colpe ha la mia povera nipote per farsi rimpiazzare da una sporca ladra beduina?" "È la volontà di Dio. Lascia che sia, donna! Il paese è flagellato dai sionisti e tu te la prendi perché tuo figlio vuole sposare una bella ragazza che non ti piace? Non li ascolti, i notiziari? I sionisti uccidono inglesi e palestinesi ogni maledetto giorno. Vogliono sbarazzarsi degli inglesi per poi sbarazzarsi di noi, ma la gente è troppo stupida per capirlo o per fare qualcosa." Yehya prese il suo bastone in una mano, il nye nell'altra e uscì, nauseato dalle proprie paure, che aumentavano con i reportage quasi quotidiani della Bbc su azioni terroristiche compiute da gruppi sionisti sempre più militarizzati. Sui gradini di marmo della loro casa, Yehya soffiò nel suo prezioso nye, mosse le dita e alzò le sopracciglia alla prima nota. Suonò per i suoi alberi, per riportare la semplicità e la pace. "Smettila!" Bassima uscì a grandi passi sul portico che Yehya aveva disegnato e piastrellato con le proprie mani. Era furiosa. "Uno di questi giorni farò a pezzi quell'aggeggio" ringhiò sommessamente per non farsi sentire dai vicini, e si allontanò pestando i piedi, timorosa di essersi spinta troppo in là. Continuò a borbottare dal malcontento mentre passava sui tappeti persiani all'ingresso e sotto le splendide volte piastrellate, diretta in soggiorno, dove si inginocchiò a fatica e si sedette un attimo sul cuscino adagiato per terra. Anni prima, Yehya aveva proposto di comprare dei divani, come gli inglesi, ma Bassima si era opposta. Adesso pensava che non fosse un'idea così malvagia. Irrequieta, srotolò il tappetino da preghiera per rimettersi a Dio. Dopo aver recitato due rak'a si alzò, camminò su altri tappeti persiani stesi sul pavimento di marmo ed entrò in cucina, dove si fermò a osservare i motivi azzurri e verdi delle piastrelle di Yehya. Sarà testardo, ma di sicuro è un artista, pensò. Ya Yehya, come puoi accettare questo matrimonio! Le suppliche e le maledizioni di Bassima non riuscirono a dissuadere suo figlio. Solo Darwish comprendeva la determinazione con cui Hassan sfidava la madre, perché anche lui amava Dalia. E quando la famiglia andò a chiedere la mano della ragazza, Darwish pianse in compagnia dell'adorato Ganush e di Fatuma, la compagna di Ganush, una cavalla araba con una curiosa striscia bianca in mezzo agli occhi.
Il padre di Dalia accettò la proposta, contento di liberarsi della figlia minore, e due giorni dopo, com'era consuetudine, ricevette la dote della ragazza. Quel giorno, attraverso il paravento di legno traforato della sua finestra, Dalia vide un convoglio di uomini portare ori e denaro a suo padre. Rimase meno colpita dalla ricchezza della dote che dalla vista di Darwish che camminava in mezzo a loro. Anche se l'idea di diventare una 'arussa la affascinava, così come vestirsi da adulte affascina le ragazzine, Dalia non aveva nessuna voce in capitolo. Ma potendo, avrebbe scelto Darwish. Il giorno del matrimonio, le parenti di Dalia - madre, zia, sorelle sposate e cugine - sfregarono e ripulirono ogni centimetro quadro del suo corpo. La 'a'ida le fu ripetutamente stesa e strappata via da gambe, cosce, braccia, pancia e glutei. Dalia allungava il collo e guardava i ciuffetti di peli neri sradicati a ogni strappo, che aveva l'effetto di una scossa elettrica. La pelle delicata in mezzo alle gambe fu la più dolorosa. "Tranquilla, figlia mia" disse sua madre mentre le allargava le gambe. Bismillah alrahman alrahim. Con la sicurezza e la destrezza di un'ostetrica, le strappò tutti i peli pubici appena spuntati (di cui Dalia era così orgogliosa) con una singola passata di -a'ida che la fece balzare in piedi dal dolore. Le altre risero bonariamente. "Vieni, figliola. Torna nel mondo delle donne." E quando una zia notò l'umido tra le cosce della ragazzina, disse alla sorella: "Credo che tua figlia sarà un'ottima moglie". Risero di nuovo mentre Dalia assisteva obbedientemente alla propria trasformazione. Guardò nello specchio la polvere di antimonio delinearle occhi seducenti e abbozzarle sul volto un'età e una maturità che non possedeva. Era una 'arussa, lo splendido fulcro della sua cultura, e tutte le bambine la guardavano affascinate come anche lei in passato aveva guardato le spose che venivano preparate per il matrimonio. Carica di doni scintillanti che le pendevano dal collo e dalla fronte e le ciondolavano da polsi, caviglie e orecchie, la quattordicenne Dalia sposò Hassan Yehya Abulheja con una cerimonia maestosa. Fu una celebrazione adeguata alla rivalsa del padre di Dalia, all'amarezza virulenta di Bassima e alla malinconia del cuore di Darwish. Ingioiellata d'oro per metà del proprio peso, la piccola sposa assistette al proprio matrimonio in silenzio, sfregandosi continuamente la mano e tenendo la mascella serrata anche quando riceveva baci di buon augurio.
Prima di unirsi alle donne, gli uomini celebrarono separatamente sacrificando un agnello, ballando e facendo festa con canti e musica. Con il cuore ferito, Darwish aprì una dabke per il fratello e brindò allo sposo con affetto, una segreta tristezza e un senso di rassegnazione al volere di Dio. "Insha'allah, la prossima volta toccherà a te, fratello" disse Hassan sentitamente, abbracciando Darwish. "Insha'allah." Se Dio vorrà. Dieci mesi dopo il matrimonio, Dalia conquistò il villaggio mettendo al mondo un figlio, che chiamò Yussef. E così, dai quindici anni in avanti, fu rispettosamente chiamata "Umm Yussef" e Hassan "Abu Yussef". Già da prima della nascita di Yussef, Bassima si era addolcita nei confronti di Dalia. Non poteva restare indifferente di fronte alla tenacia con cui la ragazza sbrigava le sue mansioni, alla competenza con cui aiutava la madre a far nascere i bambini del villaggio e alla gioia che donava al suo sposo novello. Inoltre, le famiglie avevano concordato che Darwish avrebbe sposato la nipote rifiutata da Hassan e quindi l'orgoglio di Bassima era salvo. L'inesperienza di Dalia conquistò gli istinti materni della suocera, che iniziò la figliola beduina al mondo della maternità e le insegnò i ritmi dell'allattamento e i rimedi per le coliche. Bassima le trasmise i segreti per riacquistare un corpo sodo e i trucchi per mantenere vivo l'interesse del marito dopo il parto. "Con il tempo tutto cede - i seni, le cosce, si lasciano andare" le diceva. "Ma il segreto è l'olio di oliva." Gli occhi socchiusi di Bassima brillavano di complicità mentre si avvicinava e cominciava a descriverle i trucchi di bellezza che aveva scoperto lei stessa. "Sono segreti femminili che rivelerò solo a te e, insha'allah, alla moglie di Darwish, dato che Dio non ha voluto darmi delle figlie. " Bassima portò Dalia nel suo orto di erbe officinali e le rivelò gli utilizzi delle varie specie. Era tutta eccitata, contenta di avere un'erede per il suo impero di erbe magiche. Aveva già insegnato a Dalia a preparare l'unguento balsamico per Hassan. "Comunque, per la bellezza, l'olio di oliva resta l'ingrediente principale" mormorava. "Schiaccia menta e basilico nell'olio, poi massaggiatelo sul corpo per rassodare la pelle e sulla testa per dare luminosità ai capelli. " Grazie a questi incontri, Bassima e Dalia impararono a volersi bene, lentamente si trovarono avvinte in un
legame di affetto e devozione materna che nessuna delle due aveva mai conosciuto prima. Dieci mesi dopo la nascita di Yussef, Dalia partorì un bambino morto, cosa che la sprofondò in un dolore bruciante e in un rigido isolamento. Una vicina malevola, desiderosa di ingraziarsi Bassima, colse al volo quella tragedia per spacciare la disgrazia di Dalia come prova della sua indegnità. "La cosa non mi sorprende. Si sa che i beduini si occupano di magia nera. Come avrebbe potuto altrimenti una come Dalia convincere Hassan a sposarla?" "Fuori da casa mia ! " Bassima spinse a terra la donna e andò da Dalia. "Basta lacrime, Dalia. Coltiviamo nuove rose, per un nuovo inizio" disse, convincendo la nuora a porre fine al silenzio e a lasciarsi alle spalle quell'episodio doloroso. Tre anni dopo, quando gli ulivi si stavano spogliando del loro manto verdeargento, una bomba esplose nelle vicinanze. "Maledetti sionisti! Cosa diavolo vogliono da noi?" gridò Bassima, ormai partecipe delle paure del marito, verso il fumo che si alzava. L'angoscia le contrasse il petto e il cuore, facendole girare la testa e cedere le gambe. Cadde tra i suoi cespugli di rose, stringendosi la spalla. Era ancora viva quando Dalia corse da lei, appena in tempo per udire le sue ultime parole: "Binti, binti". Figlia mia, figlia mia. Dopo la morte di Bassima, Dalia divenne la custode delle sue adorate rose. Le incrociò secondo la fragranza e il colore come le aveva insegnato, ampliò il giardino e sulla sua tomba piantò un letto di rose rosse striate di bianco, le preferite di Bassima. Ogni settimana andava al cimitero insieme a Yussef per curarle. E mesi dopo, quando le nacque il secondo figlio, Isma'il, cominciò a portarci anche lui, legandoselo alla schiena. Ma quando il rischio di incursioni sioniste aumentò, Dalia cominciò ad andare al cimitero da sola, lasciando i bambini dai parenti e allontanandosi dalla protezione dell'abitato per una breve visita settimanale. Fu in una di queste occasioni che successe un incidente, un infortunio che avrebbe segnato il volto di Isma'il per sempre. Ognuno in famiglia aveva la propria grottesca versione dell'incidente. Yussef, l'unico testimone dell'evento, si rifiutò di parlarne, anche quando glielo chiedevano. All'epoca Yussef aveva quattro anni, lo stato di Israele non era ancora nato e Isma'il aveva quasi sei mesi. Quel giorno il piccolo era nervoso e non la smetteva di strillare dentro alla stessa culla che un tempo aveva
ospitato anche suo padre. Benché fosse vecchia e consumata, Bassima aveva insistito perché Dalia la usasse per i suoi figli, dato che era stata benedetta da uno shaykh siriano famoso per le guarigioni e i miracoli. Quando Dalia rimase incinta di Isma'il, Bassima si preoccupò di rinforzare le sbarre della culla con del legno di cedro che inchiodò di suo pugno. Comprò nuove fodere e imbottiture e inchiodò anche quelle al loro posto. Mentre Isma'il strillava nella culla e Dalia stava tornando dalla tomba di Bassima, Yussef sollevò il neonato dal laniccio delle bianche coperte ricamate che sua nonna aveva cucito ma mai completato prima di morire. Il peso inaspettato del fratellino che urlava e scalciava costrinse Yussef a lasciar cadere Isma'il. Il viso del piccolo batté contro un chiodo e la pelle si lacerò in uno sfregio che andava dalla guancia fino a tutto intorno all'occhio destro. Il lascito di quella giornata fu una cicatrice che avrebbe segnato per sempre il volto di Isma'il e che alla fine gli avrebbe fatto scoprire la verità. Quattro QUANDO SE NE ANDARONO 1947-1948 Poco dopo aver partecipato al matrimonio di Hassan e Dalia, Ari Perlstein partì per andare a studiare medicina ma, anche se le loro strade si erano divise, i due amici non persero mai completamente i contatti. Quando Bassima morì, Ari chiese un permesso e venne a ' Ain Hod a piangere la sua scomparsa insieme a Hassan. Era un pomeriggio limpido e fresco quando Hassan e Ari abbandonarono i riti funebri, che sarebbero durati quaranta giorni. L'ipnotica salmodia del Corano risuonava dalla casa di Yehya Abulheja e andò affievolendosi sempre più a mano a mano che Hassan e Ari si allontanavano fra gli oliveti. "È terribile, Hassan" disse Ari. "I sionisti hanno un mucchio di fucili. Hanno messo insieme un esercito con tutti gli ebrei che arrivano ogni giorno sulle navi. Tu non sai com'è, Hassan. Hanno perfino blindati e aerei. " Hassan guardò i terreni che un giorno sarebbero diventati suoi. Quest'anno avremo un ottimo raccolto. Il suono di un nye si alzò tra gli alberi e Hassan si girò istintivamente verso il cimitero cercando il padre con lo sguardo. Nessuno. Solo una melodia dal cuore svuotato e colmo di silenzio, come se il nye stesse piangendo.
"Hassan, si prenderanno la terra. Hanno lanciato una campagna mondiale, chiamano la Palestina 'una terra senza popolo'. Ne faranno una patria per gli ebrei." "Mio padre lo ripete da anni, ma sembrava così inverosimile!" È la verità, Hassan. Le Nazioni Unite si riuniranno a novembre e sono tutti convinti che smembreranno il paese. Sono molto ben organizzati e come sai gli inglesi hanno disarmato gli arabi dopo la rivolta, anni fa. Alcuni ebrei ortodossi in città hanno organizzato un movimento antisionista. Dicono che creare un vero stato di Israele è un sacrilegio. Ma certi uomini potenti in America hanno scatenato un'accanita campagna per spingere Truman a riconoscere e appoggiare uno stato ebraico qui. " Ari era visibilmente preoccupato. "Tu cosa ne pensi? Voglio dire, del fatto di creare uno stato ebraico qui" chiese Hassan, schiacciando un'oliva tra le dita per valutare come sarebbe stata la raccolta di novembre. La raccolta tirerà un po' su di morale papà. "Non lo so, Hassan." Ari abbassò lo sguardo, si sedette su una pietra e cominciò a passare le dita sulla sabbia. "Sono un ebreo. Cioè, penso che sia sbagliato. Ma non sai cos'abbiamo passato." La voce di Ari cominciò a tremare. "Ci ha uccisi, quello che è successo, anche se siamo riusciti a scappare. Non hai mai notato come sono vuoti gli occhi di mia madre? E morta dentro. Anche mio padre. Hassan, tu non sai com'è. Nemmeno adesso ci sentiamo al sicuro. Mio padre è convinto che quello che stanno facendo è sbagliato e non ne vuole sapere. Ma non siamo più al sicuro. Si dice in giro che gli inglesi se ne andranno. Allora sarà inevitabile. Trasformeranno questa terra in uno stato ebraico. Ma credo che se gli arabi l'accetteranno, andrà tutto bene e riusciremo a convivere pacificamente." Hassan si sedette per terra accanto ad Ari. "Ma hai appena detto che vogliono uno 'stato ebraico'." "Sì, ma credo che permetteranno agli arabi di restare. " Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle. "Quindi questi immigrati mi permetteranno di restare nel mio paese?" La voce di Hassan si alzò. "Hassan, non intendevo dire questo. Per me sei come un fratello. Farei qualsiasi cosa per te o per la tua famiglia. Ma quello che è successo in Europa..." Le parole di Ari sfumarono nelle terribili immagini dei campi di sterminio che entrambi conoscevano. Hassan schiacciò un'altra oliva come se volesse comprimere le parole di Ari, che aleggiavano nell'aria come un tradimento.
"Proprio così, Ari. Quello che ha fatto l'Europa. Non gli arabi. Gli ebrei vivono qua da sempre. Per questo adesso ne arrivano così tanti, giusto? Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato armi per cacciarci dalle nostre case." Hassan non era arrabbiato come sembrava perché comprendeva il dolore di Ari. Aveva letto delle camere a gas, dei campi di sterminio, delle atrocità. Ed era vero: sembrava che la vita avesse abbandonato gli occhi della signora Perlstein da tempo. Uno, due, tre... diciotto perle graziose. Prevedendo il conflitto che sarebbe scoppiato, Hassan disse: "Se gli arabi prenderanno il controllo della Città Vecchia, vai da mia zia Salma. Sai dove abita. Ha una casa grande e puoi nasconderti da lei". Irgun, Haganah e Gruppo Stern. Gli inglesi li chiamavano terroristi. Gli arabi li chiamavano yahud, ebrei, sionisti, cani, figli di puttana, merde. La nuova popolazione ebraica li chiamava combattenti per la libertà, soldati di Dio, salvatori, padri, fratelli. Comunque li si chiamasse, erano armati fino ai denti, ben organizzati e ben addestrati. Volevano sbarazzarsi della popolazione non ebraica - prima gli inglesi, con linciaggi e attentati dinamitardi, poi gli arabi, con massacri, terrore ed espulsioni. Non erano molti, ma la paura che provocarono fece rabbrividire l'intero 1947, preannunciando gli eventi futuri. Tra il 1947 e il 1948, mentre la Palestina era ancora mandato britannico, arrivarono a 'Ain Hod almeno quattro volte. Il primo attentato avvenne in occasione della festività ebraica di Hanukkah, il 12 dicembre del 1947. Un'esplosione fece tremare l'aria e Dalia scappò via dal cimitero urlando. Sentendo il boato, Hassan si precipitò a casa. Non trovando la moglie, corse al cimitero e la incontrò lungo la strada. Dalia gli si gettò tra le braccia, piangendo. "Arrivano gli ebrei! Arrivano gli ebrei!" Hassan la condusse verso casa mentre pennacchi di fumo si alzavano dalla vicina aiTira, e i curiosi e spaventati abitanti di 'Ain Hod si riunivano in piazza a guardare. Una volta dentro, Hassan fece delicatamente sdraiare sua moglie sul letto e le lavò il sangue dai piedi. "Cosa ti è successo?" chiese, controllando la gamba sanguinante. "Stavo curando le rose sulla tomba di Bassima" ansimò Dalia. "Poi ho sentito lo scoppio e una mano è uscita dall'inferno per afferrarmi la gamba. Ma ho continuato a correre e quelli se ne sono andati. " Yehya entrò con in braccio il piccolo e spaventato Yussef. "Ci siamo tutti?
Darwish è andato a controllare i cavalli e Isma'il è con sua moglie. Da dove arriva quel sangue?" Poche cose spaventavano il piccolo Yussef più del sangue. "Mamma! Mamma!" cominciò a strillare. Dalia prese in braccio il figlio e lo baciò sul capo. "È solo un taglietto, mio eroe." "Vado a vedere cosa diavolo è successo" ruggì Yehya uscendo di casa. "Non hai più la cavigliera! " esclamò Yussef. "Sì, l'ho persa" rispose sua madre. "Non tintinnerai più! Come farò a capire che stai arrivando?" "Ho sempre quell'altra." Dalia dimenò una gamba. "Vedi?" Yehya tornò dentro precipitosamente. "Che Dio maledica gli ebrei! Una delle loro bande ha lanciato delle bombe incendiarie contro una casa di aiTira ed è scappata con un furgone che aspettava negli oliveti sopra il cimitero. Devono aver visto Dalia davanti alla tomba. Siamo fortunati che non l'hanno presa. Lo sa Dio cosa le avrebbero fatto. " La rabbia e la frustrazione di Yehya crescevano, le sue mani gesticolanti tuonavano come la sua voce mentre andava su e giù per la stanza. "Ci servono delle armi, maledizione! Dove sono gli eserciti arabi mentre questi cani ammazzano un paese dopo l'altro? Cosa diavolo abbiamo fatto a quei figli di puttana? Cosa vogliono da noi?" Alzò le braccia al cielo, poi si lasciò cadere su una sedia, arrendendosi all'attesa, e si appoggiò allo schienale, gli occhi rivolti a Dio. "Affidiamoci alle sagge mani del Signore" disse Yehya e si alzò per andarsene. "Hisbiya Allah wani'am aluakil" mormorò ripetutamente tra sé mentre usciva, per scongiurare il male. Ma non andò ad aiutare gli abitanti di aiTira. Hisbiya Allah wani'am aluakil. Come i paesi arabi che malediceva, Yehya non andò in aiuto dei suoi sfortunati fratelli. Segretamente, pensava che 'Ain Hod sarebbe stata risparmiata se i suoi abitanti non si fossero immischiati. Pensava che una sincera proposta di pace agli ebrei avrebbe garantito loro la continuità. "Babà, gli ebrei bombarderanno anche noi?" La domanda di Yussef arrivò dritta al cuore di suo padre. "Dio ci proteggerà, figliolo. E soprattutto io proteggerò te, tua madre e tuo fratello" lo rassicurò Hassan, guardando Dalia. I suoi occhi contenevano un oceano d'amore e quel giorno, cinque anni dopo il loro matrimonio, mentre Hassan le teneva i piedi tra le mani e faceva quella promessa al figlio, Dalia si rese conto di quanto amava suo marito.
Meno di due settimane dopo l'incidente di aiTira, ci fu una strage di palestinesi nella vicina Balad alShaykh. I venti pestilenziali di quell'attentato soffiarono su 'Ain Hod portando con sé un avvertimento inequivocabile. Mentre notizie di nuove atrocità raggiungevano 'Ain Hod, i suoi abitanti furono presi dal terrore di ciò che li stava per investire. In previsione di nuovi attacchi, le donne staccarono dai rami prematuramente fichi e uva, li fecero seccare per avere uva passa e sciroppi, e raccolsero ortaggi per sostentare le loro famiglie in vista di un assedio prolungato dei cecchini. Nel maggio del 1948 gli inglesi lasciarono la Palestina e i profughi ebrei che vi erano entrati a frotte si autoproclamarono stato ebraico, cambiando il nome del paese da Palestina a Israele. Ma 'Ain Hod era vicino a tre villaggi che formavano un triangolo non ancora conquistato all'interno del nuovo stato, e il destino della gente di 'Ain Hod si unì a quello di ventimila altri palestinesi che ancora si aggrappavano alle loro case. Respinsero gli attacchi e proposero una tregua, chiedendo solo di continuare a vivere sulla loro terra come avevano sempre fatto. Avevano sopportato molti padroni - romani, bizantini, crociati, ottomani, inglesi - e il nazionalismo per loro non aveva significato. Il nocciolo della loro esistenza era il legame con Dio, con la terra e la famiglia, ed era questo che volevano difendere e custodire. Alla fine si arrivò a una tregua e 'Ain Hod tirò un sospiro di sollievo. "Daremo una festa in segno di amicizia e per dimostrare che vogliamo vivere fianco a fianco con loro" annunciò Yehya agli abitanti del villaggio a nome del consiglio degli anziani. Strinse la mano di Hajj Salim con cupa e speranzosa determinazione, come fosse una preghiera condivisa tra due vecchi amici. Gli ufficiali del nuovo stato arrivarono con le loro uniformi marrone chiaro tutte identiche, in assurdo contrasto con il calore di luglio. Venti cocenti facevano frusciare i peperoncini legati a seccare e le pentole appese sbattevano rumorosamente mentre i soldati israeliani armati di fucile, freschi di gloria per la vittoria, attraversavano il paese. Il sole artigliava tutto ciò che toccava e il ricco aroma dell'agnello e del cumino cercava di fare breccia nell'inquietudine. Yussef, quasi cinque anni, si aggrappava alla thobe di sua madre, sbirciando da dietro i fianchi di Dalia quegli stranieri con la pelle chiara e l'elmetto che mangiavano a quattro palmenti. Tra i soldati c'era un uomo di nome Moshe che era convinto di compiere una missione
divina. Mentre mangiava, guardava Dalia servire il cibo con Isma'il al petto e Yussef attaccato alle gambe. I suoi occhi continuavano a posarsi su di lei e i suoi pensieri filtravano ogni rumore che non fosse il tintinnio dell'unica cavigliera che le era rimasta. Dopo la festa i soldati se ne andarono nello stesso agghiacciante silenzio in cui avevano mangiato, lasciandosi dietro una scia di disprezzo. Rabbrividendo per quel presagio, gli abitanti di 'Ain Hod, da soli o in gruppo, passarono il resto della giornata a pregare e rimisero il loro destino nelle mani di Dio prima di consegnarsi all'insonnia. La mattina successiva, il 24 luglio, Israele scatenò un colossale bombardamento aereo e di artiglieria. L'Associated Press riferì che con quell'attacco immotivato gli aerei e la fanteria israeliani avevano violato la tregua palestinese. Le bombe piovevano mentre Dalia correva di riparo in riparo insieme a un terrorizzato Yussef e al piccolo e urlante Isma'il. 'Ain Hod fu devastata e nel giro di un giorno Dalia perse tutto ciò che aveva, ad eccezione di due sorelle. Suo padre giaceva carbonizzato nella stessa piazza dove le aveva bruciato la mano. Erano bastate poche ore per capovolgere il mondo. Isma'il pianse fino allo sfinimento. Dalia se lo tenne stretto al petto, non volendolo mettere giù sebbene fosse molto pesante. Come lei, altri sopravvissuti vagavano in una confusione senza parole. Era una quiete terribile, vuota di collera, amore, disperazione o perfino paura. Dalia osservò la terra, bruciata, priva di vita. Era consapevole di un dolore dietro al ginocchio sinistro e si concentrò su di esso, ma non ebbe la forza di guardare. Hassan si trovava nelle stalle quando era iniziato il bombardamento ed era corso a prendere la sua famiglia il prima possibile. Vide Dalia pietrificata in un silenzio agghiacciante. La sua rigidità, gli occhi impassibili e la stretta con cui teneva Isma'il lo spaventarono. "Dalia! " gridò, precipitandosi da lei. Dalia non si mosse. Hassan si buttò in ginocchio. Le gambette di Yussef tremavano violentemente e le sue manine stringevano con forza la thobe della madre. "Babà ! " gridò Yussef, sollevato nel vedere il padre. La sua voce nel silenzio spinse Dalia a battere le palpebre. "Vieni qui, habibi." Hassan, sempre più allarmato perché Dalia non si era ancora mossa, prese in braccio il figlio. Yussef si aggrappò
disperatamente al collo del padre e Hassan vide che aveva i calzoncini sporchi di feci e urina. "Darwish! Yaba!" Hassan chiamò suo fratello e Yehya in cerca d'aiuto, ma fu Hajj Salim ad arrivare per primo. "Hisbiya Allah wani'am aluakil, che Dio li maledica. Che Dio li mandi all'inferno gli ebrei" fu tutto ciò che riuscì a mormorare Hajj Salim vedendo com'era ridotta Dalia. "Si spaccherà i denti a forza di digrignarli. Hassan, dammi il piccolo e occupati di tua moglie. " Ma Yussef non voleva lasciare la presa. Non voleva aprire gli occhi. Le sue braccia, le sue gambe, la sua paura e i suoi calzoncini sporchi rimasero stretti a Hassan - il suo rifugio. In quell'istante arrivò Darwish e Hassan gli disse: "Fratello, prendi Dalia. L'ala est della casa è ancora intatta". Darwish fece alzare Dalia, Isma'il ancora stretto al petto. Adesso batteva le palpebre e assorbiva lo spettacolo di quel cielo azzurro e perfetto - così bello, così limpido - finché Darwish non la portò dentro e lei non vide altro che il soffitto intonacato di casa sua. Il mio Isma'il è al sicuro tra le mie braccia. Ed ecco Yussef, al sicuro tra quelle di suo padre. È stato solo un brutto sogno, vero? Non passò nemmeno un giorno, e i soldati israeliani tornarono al villaggio. Gli stessi uomini a cui era stato offerto del cibo adesso marciavano e puntavano i fucili contro chi aveva dato loro da mangiare. Hassan, Darwish e altri uomini furono costretti a scavare una fossa comune per trenta cadaveri freschi. Riuscirono a identificarli tutti tranne due. Tristemente, Hassan si scrisse i nomi degli amici e compaesani morti sulle maniche della dishdashe mentre scavava il terreno, così scioccato da non riuscire a piangere. alFatiha. Polvere alla polvere... Sconvolti - è un sogno? - e con i nervi a pezzi, accompagnati dai pianti dei bambini, gli abitanti di 'Ain Hod divennero arrendevoli. "Prendete gli oggetti di valore. Radunatevi al pozzo a est. Veloci! È solo una cosa temporanea. Andate al pozzo" ordinò una voce da un altoparlante, come un dio nascosto che distribuisse le sorti. Il cielo ancora infinito, il sole implacabile. Dalia infilò gli ori nel taschino della thobe e prese gli oggetti di valore come le era stato detto, tenendo Isma'il sul fianco sinistro e Yussef per la mano destra. "Mamma, voglio stare in braccio a babà" la supplicò Yussef. "Vai, habibi. Che Dio ci protegga." Dalia lasciò la manina del bambino, che saltò in braccio al padre. Che Dio ci protegga.L'area attorno al pozzo brulicava di volti tesi e contorti dalla preoccupazione. Se non fosse
stato per la paura, Yehya avrebbe potuto pensare che si fossero riuniti per prepararsi alla raccolta. La raccolta, pensò. "E adesso?" si chiese Hajj Salim. Darwish e la moglie incinta furono gli ultimi ad arrivare. Il ragazzo si avvicinò a testa bassa, un passo dopo l'altro, conducendo la sua cavalla prostrata, Fatuma. Ganush, gioia di Darwish e amico inseparabile di Fatuma, lo stesso cavallo che una volta aveva fatto rompere la caviglia a Dalia, era rimasto ucciso negli scontri ed era stata un'impresa convincere Fatuma a staccarsi dalla sua massiccia carcassa. E adesso? Al pozzo, i soldati cominciarono a usare i manganelli e a guidare la folla terrorizzata giù dalla collina. Un carro, carico dei beni di diverse famiglie, traballava e sollevava la polvere. Un'anziana donna cadde a terra e qualcuno l'aiutò a rialzarsi. "Avanti, avanti! " gridò il dio dell'altoparlante. Il terrore si levava dai cuori delle persone e volteggiava nell'aria come uno stormo di uccelli. Dalia teneva Isma'il stretto al petto, mentre Hassan con un braccio reggeva Yussef e con l'altro un sacco con alcuni effetti personali stipati in fretta e furia. Yehya portava sulla schiena una cesta con del cibo, mentre gli altri abitanti arrancavano verso le colline senza acqua e sotto un cielo riarso. "Fermatevi qua" disse il dio dell'altoparlante. "Giù le borse. Verrete a prenderle domani. Lasciate tutto, gioielli e soldi. Altrimenti sparo. Capito?" Andate. Fermatevi. Capito? Tornate. Domani. Al sicuro. Yehya si aggrappava a qualche parola. Yussef si aggrappava a suo padre. Dalia a Isma'il, la cui cicatrice era ancora rossa ma in via di guarigione. Forse c'era speranza. Così, misero giù le loro cose: i gioielli d'oro che avevano appesantito il corpo di Dalia il giorno del matrimonio, cibo, vestiti e coperte. Le forbici da giardiniere di Bassima. Perché le ho portate? si domandò Dalia. Darwish prese i sacchi che aveva sistemato sulla schiena di Fatuma e mise il loro contenuto accanto all'oro e agli altri oggetti di valore. "Il cavallo! Lascia il cavallo" ordinò un soldato. Non il dio dell'altoparlante, ma di sicuro un suo discepolo. "Ti prego! " Darwish mise da parte ogni orgoglio. Fatuma si meritava quelle suppliche, ma le suppliche irritarono il soldato. "Taci! " "Ti prego!" "Taci!" "Ti prego." Il soldato sparò due volte. Il primo colpo nella chiazza bianca in mezzo agli occhi di Fatuma. Cadde morta all'istante. L'altro al petto di Darwish. La moglie
incinta, la nipote di Bassima che era stata promessa in sposa a Hassan, urlò e gridò accanto al marito sanguinante mentre la gente si radunava per portarlo in disparte; qualcuno tirò fuori un barattolo di miele per evitare infezioni e lo bendò con delle strisce dei suoi stessi vestiti. Il proiettile si era conficcato nella colonna vertebrale di Darwish condannandolo all'immobilità, a una vita straziata da orribili piaghe da decubito, una vita tormentata dal fardello del triste destino di sua moglie, legata a un marito menomato. Ma anche così menomato, Darwish avrebbe sempre vissuto nel ricordo del vento e dei suoi cavalli. Gli spari scatenarono il panico e gli uccelli del terrore furono soppiantati da nubi che spinsero Yehya a sperare nella pioggia. Non era ancora la stagione, ma i suoi alberi avevano bisogno di acqua. Certe volte l'acqua era stata tutto per 'Ain Hod; altre volte era solo preziosa. Poi vide suo figlio Darwish e niente ebbe più significato. Al diavolo la pioggia. Yehya si lasciò cadere la cesta dalla schiena e cominciò a piangere per quel suo figlio così forte, quel figlio così bravo a cavalcare, quel figlio adorato. Dalia non li aveva ancora raggiunti. La folla impaurita l'aveva separata da Hassan, ma riusciva ancora a vedere la punta della kefiah del marito davanti a sé. Era più alto della maggior parte degli uomini, una cosa che le era sempre piaciuta. Dio, cosa sta succedendo? Le nubi se ne andarono velocemente com'erano venute. Il sole pungeva come uno scorpione. La polvere riempiva l'aria, i fichi d'India il terreno, e Dalia pensò all'acqua. In un attimo. Un attimo, il piccolo Isma'il di sei mesi era sul suo petto, tra le sue braccia materne. L'attimo dopo, Isma'il non c'era più. Un attimo può schiacciare un cervello e cambiare il corso della vita, il corso della storia. Fu un'infinitesimale scheggia di tempo a cui Dalia avrebbe ripensato più e più volte nel corso degli anni, cercando un indizio, una traccia di cosa poteva essere successo a suo figlio. Anche quando finì per smarrirsi in una realtà offuscata, continuò a cercare con il pensiero Isma'il tra quella folla in fuga. "Ibni! Ibni!" Figlio mio, figlio mio, gridò con gli occhi fuori dalle orbite, cercando suo figlio. Polvere sul viso, fichi d'India sotto ai piedi. "Ibni! Ibni!" Cercò per terra, sollevò lo sguardo e l'alta figura di Hassan non c'era più. "Ibni! Ibni!" Qualcuno cercò di aiutarla, ma ci furono degli spari e Dalia fu spintonata in avanti. È un sogno? Era tutto
talmente incredibile da non sembrare reale. Si guardò di nuovo le braccia per essere sicura. Forse si è infilato dentro la thobe. Si tastò il petto. Niente. Suo figlio era scomparso. Dalia si fermò, e così fece il tempo. Gridò come non aveva fatto quando suo padre le aveva bruciato la mano. Un grido lungo, penetrante, lacerante, ultraterreno, dall'angoscia profondissima di una madre. Dal desiderio violentissimo di riportare indietro il tempo, solo di pochi minuti. Se c'è un Dio, sentì il lamento di Dalia. Hassan corse da lei e cominciò a cercare disperatamente tra la folla come aveva fatto lei. Temendo per il figlio maggiore, si tenne stretto Yussef mentre cercava Isma'il, Yussef si aggrappò ancora di più al padre, troppo spaventato per parlare, e alla fine i tre riuscirono a salvarsi grazie alla forza e alla volontà di Hassan, ma senza Isma'il. Gli abitanti del paese si sedettero per terra nella vallata. Il paesaggio era sereno e magnifico come sempre. Alberi, cielo, colline e pietra erano immutati e le persone erano sconvolte e silenziose, a eccezione di Dalia. Fuori di sé dall'angoscia, interrogava la gente e scopriva i bambini delle altre donne nella speranza di trovarne uno con una cicatrice sulla guancia destra e attorno all'occhio. Lo cercava con un folle presentimento nel cuore, anche se Yehya tentava di convincerla che sicuramente qualcuno aveva preso il piccolo e certo era solo una questione di tempo e si sarebbero ricongiunti. Di sicuro, sapeva Yehya, le parole non bastano. Dalia esaurì le sue ultime energie piangendo, rivivendo quell'attimo in continuazione, senza sosta. Il piccolo Yussef, non comprendendo l'inferno che si era abbattuto all'improvviso sul paese, accettò di staccarsi da suo padre e si sedette tra le braccia di nonno Yehya, entrambi intontiti e in lacrime. Hassan passava senza requie dal fratello ferito, Darwish, all'inconsolabile moglie, al figlio terrorizzato e al padre sbigottito, finché cedette allo sfinimento e si addormentò per terra tra le zanzare impietose, con una pietra per cuscino. Ma nemmeno il sonno potè placare il senso di inadeguatezza che provava. Non era riuscito a proteggere la sua famiglia. Non poteva darle sicurezza, e non poteva riportare indietro Isma'il. "Nonno, adesso possiamo andare a casa?" chiese Yussef.
Yehya non poteva né mentire né dire la verità. Baciò il nipote, se lo strinse al petto e disse: "Riposa un po', ya ibni, adesso riposa un po', ya habibi". figlio mio, tesoro mio. Il giorno dopo cercarono di tornare alle loro case, ma i fucili puntati contro le schiene glielo impedirono. Per tre giorni e due notti camminarono su e giù per le colline impietose, sotto il bagliore accecante del sole e lo sguardo invisibile ma infallibile dei cecchini. Un bambino diabetico e sua nònna caddero per terra e morirono. Una donna abortì, i corpi disidratati di due bambini si afflosciarono tra le braccia delle madri. Riuscirono a raggiungere Jenin, riposando dovunque trovavano spazio nell'ondata di profughi che confluivano dagli altri paesi. La gente del posto li aiutò come potè, offrendo loro cibo, coperte e acqua e ospitandone nelle proprie case il maggior numero possibile in quei primi tempi di emergenza. Poco dopo Giordania, Iraq e Siria mandarono qualche tenda e a Jenin sorse un campo profughi, dalle cui colline gli abitanti di 'Ain Hod potevano guardare verso le case a cui non sarebbero mai tornati. Fu così che, otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale dell'esercito del Saladino, nel 1189 d.C, a 'Ain Hod non si videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero di generazioni che erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a quaranta. Fu un compito facilitato dall'usanza araba di chiamare i propri figli in modo da renderne evidente la genealogia, mettendo cinque o sei nomi della progenie diretta del bambino nell'ordine esatto. Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l'avrebbe proclamato - con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino - retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo. Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l'anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell'anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel
cuore della Palestina. Gli anziani di 'Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l'amore per la terra, e l'impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri. Cinque "IBM! IBM!" Nei giorni prima dell'attacco, alla fine del luglio 1948, i venti caldi del Naqab soffiavano verso Gerusalemme mentre i soldati israeliani tornavano in paese per sancire la tregua. Mancavano solo poche settimane a settembre, un mese di venti secchi da sud e piogge torrenziali. La pioggia, anche solo il presagio della sua venuta, era un segno di speranza. E la festa per la tregua, pensavano gli abitanti del villaggio, segnerà un inizio pacifico. Mentre i soldati di questa Israele mangiavano, quello chiamato Moshe guardava una donna araba. Avvinghiato alle sue gambe, un bambino le stringeva il caftano. Con un braccio la donna si teneva un altro bimbetto, più piccolo, stretto al petto, mentre con la mano libera serviva l'agnello a Moshe e ai compagni. Nella sua uniforme militare marrone chiaro, il soldato pensò a quant'era ingiusto che quella contadina araba godesse del dono della maternità mentre la sua povera Jolanta, che aveva patito gli orrori del genocidio, non poteva avere figli. La cosa gli faceva piangere il cuore. Moshe voleva che Jolanta fosse felice. Jolanta voleva un bambino. Ma il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che l'avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli appetiti sessuali delle SS. Quell'incubo le aveva salvato la vita ma l'aveva resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi, seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di depravazione. Voleva fuggire dalle
urla di morte che popolavano i suoi sogni, dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti. Moshe capiva il suo dolore. Lo vedeva negli occhi degli ebrei devastati, degli orfani e delle vedove, che arrivavano a centinaia ogni giorno sulle coste della Palestina. Ma Jolanta era speciale. Così fragile e bella. Si era innamorato di lei e si erano sposati pochi mesi dopo il suo arrivo. "Jolanta, adesso sei al sicuro" le disse la prima notte che passarono insieme. "Come fai a dirlo, Moshe?" pianse lei tra le sue braccia. "Un giorno vedremo la terra tra il Mediterraneo e il Giordano popolata solo di ebrei." La strinse più forte. "La Palestina sarà nostra. Vedrai. Insieme, cresceremo una famiglia. Per noi comincia una nuova vita. Adesso dormi. Sogna i figli che avremo, mia cara. Non saremo mai più perseguitati." Moshe tenne stretta Jolanta e rifletté sui loro progetti per espellere gli inglesi. Prima gli inglesi, pensò, poi gli arabi. Aveva ragione. I sionisti riuscirono a sbarazzarsi degli inglesi e della maggior parte degli arabi. Lui e Jolanta assistettero alla nascita di Israele. Di fatto, Moshe contribuì alla creazione del nuovo stato, uno stato ebraico sorto dalle ceneri dell'Europa. Eppure, non potevano concepire un bambino. Moshe lasciò 'Ain Hod insieme ai compagni, ma non riusciva a dimenticare l'immagine della donna araba e dei suoi bambini. Jolanta aveva sofferto così tanto; come poteva Dio negarle il dono fondamentale della maternità e concedere così tanti bambini sani agli arabi, che erano già numerosissimi? L'ingiustizia della cosa cristallizzò in lui la decisione di procurarsi - con la forza, se necessario - ciò di cui aveva bisogno. Dopo il bombardamento del giorno seguente, tra la folla di palestinesi in fuga, rivide quella donna araba, il bambino stretto al petto, la cavigliera provocante e graziosa quanto lei. Moshe si fece strada tra la gente, avvicinandosi da dietro alla donna. Prima che la raggiungesse, la folla pulsante, spintonandola, le fece cadere il bambino dalle braccia in quell'istante fatidico. In un lampo Moshe afferrò il piccolo, lo infilò nel suo zaino militare e continuò a camminare senza voltarsi. Sentì la donna gridare: "Ibni! Ibni! " e pensò che l'avesse visto prendere il bambino.
Ma non era così. La folla spingeva, si udirono degli altri spari, e la donna fu strattonata in avanti. Il bambino piangeva. Moshe lo sentiva scalciare debolmente dentro lo zaino mentre si dirigeva verso la jeep, lontano dagli occhi dei compagni. Gli arabi erano ormai distanti dal centro del paese. Pensò di calmare il piccolo con l'alcol che i soldati avevano messo da parte per quella sera, per festeggiare la vittoria di 'Ain Hod. Mentre versava del gin nella bocca del bimbo, Moshe si accorse della cicatrice sul suo volto. Era ancora rossa e l'occhio era gonfio. "Gli arabi se ne sono andati! " gridò un soldato. Gli abitanti di 'Ain Hod erano stati cacciati dal paese. Era arrivato il momento di festeggiare, e per Moshe era arrivata l'occasione di far sparire il bambino. "Ho dimenticato il gin. Torno subito" gridò. Chiuse il bambino intontito dall'alcol nello zaino, che frusciò sui sedili posteriori della jeep militare mentre correva a tutta velocità verso il kibbutz dove Jolanta stava probabilmente dormendo. Moshe pensava che dormisse troppo. Mangiava troppo poco. Non sorrideva quasi più. ; Occuparsi di una giovane vita le farà bene. La giovane vita era Isma'il, figlio di Dalia e Hassan, due fellahin del paesino palestinese di 'Ain Hod. Moshe non conosceva i loro nomi, e non li avrebbero mai conosciuti né il piccolo né Jolanta. Il volto della donna araba e il suo grido, "Ibni, ibni", avrebbero tormentato Moshe per anni e le atrocità che aveva commesso non gli avrebbero dato pace fino alla morte. Ma per il momento era spinto dall'amore a rubare un bambino. Un editto onnipotente lo aveva incaricato di cacciare delle persone dalle loro case. Una terra senza popolo per un popolo senza terra. Lo ripetè finché quasi non se ne convinse. Se non fosse stato per quella donna araba. Se non fosse stato per Dalia. Il viso di Jolanta si aprì come un fiore a primavera. I suoi istinti materni soffocarono la depressione, i fantasmi, l'angoscia. Prese tra le braccia quel prezioso bambino, semidrogato, sporco e sfigurato. Lo avvolse nella sua tenerezza più profonda, senza curarsi del fatto che era arabo. Quel giorno imparò la sua prima cosa sugli arabi: che circoncidono i loro bambini. Jolanta si innamorò. "È bellissimo, Moshe." Fremeva di gioia.
"Lui... il bambino... i suoi genitori..." Moshe non sapeva bene cosa dire e fu contento quando Jolanta lo interruppe. "Basta. Non voglio sapere niente. Dimmi solo una cosa: è nostro figlio, Moshe?" "Sì, amore mio. Ha bisogno di una madre." "Allora il suo nome è David, in memoria di mio padre" decise Jolanta, e Moshe fece ritorno a 'Ain Hod con gli alcolici e un senso di soddisfazione nel cuore. Prima gli inglesi, poi gli arabi. E adesso Jolanta aveva un bambino. Mentre gli abitanti di 'Ain Hod venivano costretti ad allontanarsi, privati di ogni cosa, Moshe e i compagni controllavano e saccheggiavano il villaggio appena rimasto vuoto. Mentre Dalia giaceva straziata dal dolore, delirante per la perdita di Isma'il, Jolanta cullava David. Mentre Hassan si preoccupava per la sopravvivenza della propria famiglia, Moshe cantava e gozzovigliava insieme ai compagni in una baldoria ebbra. E mentre Yehya e gli altri si allontanavano con passo angosciato dalla loro terra, gli usurpatori cantavano YHativka e gridavano: "Lunga vita a Israele! ". Sei IL RITORNO DI YEHYA 1948-1953 Mentre nel 1948 una minoranza straniera si dava da fare per costruire un nuovo stato, cacciando i palestinesi e saccheggiando le loro case e le loro banche, le cinque grandi potenze - Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna, Cina e Stati Uniti - incaricavano un mediatore delle Nazioni Unite di proporre una soluzione al conflitto. "È svedese" disse Yehya a un gruppo di uomini che si riunivano ogni mattina vicino alla sua tenda per sapere le ultime notizie. "Chi è svedese?" chiese un passante. "Zitto. Hassan ci sta leggendo il giornale " disse qualcuno bruscamente. Yehya guardò Hassan e annuì. "Continua, figlio." Hassan lesse: "Durante il suo incarico, il mediatore svedese delle Nazioni Unite, il conte Folke Bernadotte, ha affermato: 'Sarebbe un'offesa ai principi elementari della giustizia se a queste innocenti vittime del conflitto fosse negato il diritto di tornare alle loro case, mentre gli immigrati ebrei continuano a entrare in Palestina e pongono la minaccia di una sostituzione permanente dei profughi arabi che sono radicati in queste terre da secoli'." Ci fu una pausa pervasa
dall'ostinata speranza di un ritorno, prima che qualcuno dicesse qualcosa. "Era ora che si denunciasse questa vergogna." "Spero solo che gli ebrei non mi abbiano distrutto la casa." "Non mi interessa. La sistemerò. Voglio solo tornare a casa." "Vado subito a dirlo alla mia famiglia. Umm Khalil sarà così contenta. Era così preoccupata per i suoi limoni e i suoi mandorli." Ma proprio mentre gli uomini cominciavano a disperdersi, la debole voce di un bambino di cinque anni li fece fermare. "Nonno," il piccolo Yussef guardò Yehya, "adesso possiamo andare a casa?" Tutti l'avevano dato per scontato ma ora, di fronte alla domanda diretta, non erano più sicuri della risposta. Si voltarono verso Yehya e Hajj Salim, che gli sedeva accanto. Yehya guardò Hassan, poi si girò verso suo nipote e disse: "La verità, Yussef, è che non lo sappiamo ancora. Dobbiamo aspettare, ya habibi". Tesoro mio. Radunarsi per ascoltare le notizie diventò un rituale mattutino del campo profughi. Le donne avevano i loro gruppi, e così i bambini. Ma per gli uomini era l'evento più importante della giornata. Era un momento e un luogo in cui la speranza di ritornare a casa riceveva nuova linfa. Anche quando queste speranze venivano incessantemente infrante. Anche quando gli anziani cominciarono a morire uno dopo l'altro. E anche quando le speranze si assottigliarono, gli uomini continuarono a riunirsi per confermare il loro Diritto al Ritorno. Alcuni giorni dopo aver saputo del mediatore svedese, ricevettero un'altra notizia. Hassan lesse: "Il mediatore svedese delle Nazioni Unite, il conte Folke Bernadotte, è stato assassinato da terroristi ebrei". Israele non avrebbe permesso il ritorno e la famiglia aspettò prigioniera in quell'anno interminabile che, con il suo surreale scherzo del destino e il suo esito incerto, si protraeva senza fine, rinnovandosi ogni giorno con le notizie del mattino. Yehya invecchiò terribilmente durante quei mesi confusi che si dilatarono in anni, finché un giorno, nel 1953, si accorse che la sua povera tenda a Jenin era diventata un ammasso d'argilla. La simbolica stabilità del suo rifugio era troppo da sopportare. Avrebbe preferito restare nel suo alloggio di tela: il tetto che faceva acqua e il pavimento di fango confermavano che si trattava solo di un esilio temporaneo. Durante quegli anni di attesa nella città delle tende, Yehya si svegliava all'ora dell'adhan e passava la giornata a poltrire, suonando il suo nye
tra i pasti razionati e le cinque preghiere giornaliere. Trovava un po' di sollievo nell'affetto della famiglia e nelle partite quotidiane a backgammon con Hajj Salini e Jack O'Malley, il responsabile delle operazioni delle Nazioni Unite a Jenin. I tre uomini erano inseparabili da metà pomeriggio fino alle otto di sera o anche oltre, a seconda di come andava il gioco o di com'erano stati preparati i narghilè quel giorno. Ma in oltre sessant'anni di vita, Yehya si era abituato alle attività quotidiane dell'autosufficienza agricola. Il senso di vuoto della prigionia e dell'esproprio deformò il suo umore e incurvò la sua postura. La catena di promesse mancate e di risoluzioni dell'Onu, che valevano ancora meno della carta sulla quale scrivevano le loro richieste di concedere il Ritorno, indebolirono il suo spirito e lo resero taciturno. Yehya si trascinava qua e là come un uomo sconfitto dall'attesa. Sconfitto dal silenzioso tormento delle sue mani che volevano qualcosa da fare. L'argilla del suo nuovo alloggio, il senso di solidità che gli trasmetteva, lo scosse dalla rassegnazione. Nel 1953, una mattina all'inizio di novembre, Yehya portò alcuni vestiti a Dalia. "Ya binti," le disse, "puoi farli diventare bianchissimi?" Dalia prese i vestiti e li immerse nell'acqua saponata. China sul secchio per strofinare i panni, alzò la testa e, mentre alcune ciocche di capelli le sfuggivano dal foulard, guardò il suocero che si allontanava. E più sereno, sia ringraziato Iddio. In mutandoni e maglietta bianchi, Yehya si sedette su una roccia fuori dal suo rifugio di argilla e alzò il viso al vento. Si concentrò, prese fiato, chiuse gli occhi e soffiò dentro al nye, suonando una nuova melodia. Non era la triste musica dell'attesa. E nemmeno una melodia della tradizione. Era un richiamo alla terra. A Dio. Al paese che c'era dentro di lui. Attirò l'attenzione dei passanti, toccò i loro cuori e li spinse ad abbassare istintivamente la testa. Yehya suonò il nye tutta la mattina, quasi senza aprire gli occhi, con le sopracciglia alzate. Quando ebbe finito entrò nella baracca e tornò indietro con i suoi accessori da toilette: un rasoio, una striscia di cuoio e un frammento di specchio. Si sedette con la schiena dritta, ancorando i vecchi piedi callosi al terreno, e fece un respiro profondo. Le olive sono pronte.
Si rasò. Si modellò i baffi in due perfetti riccioli voltati all'insù e li fissò con della gommalacca. L'uva e i fichi ormai saranno caduti e staranno marcendo sul terreno. Un indumento alla volta, si vestì con una dignità d'altri tempi, mettendosi la sua dishdashe migliore, una giacca troppo grande per la sua corporatura e una kefiah a quadretti rossi fissata alla testa con un 'iqal nero attorcigliato. Le piogge d'ottobre avranno ammorbidito il terreno. E uscì fieramente dalla sua dimora. Intuendo cos'aveva in mente, Hajj Salim lo supplicò di essere prudente. "Ya Abu Hassan, so cosa vuoi fare. È novembre e lo sentiamo tutti. Ma è troppo pericoloso. Non essere sciocco, amico mio. Wahhid Allah! " "La illah illa Allah" rispose Yehya, affermando l'unicità di Dio. Ma non volle stare a sentire. Jack O'Malley sapeva bene che non c'era modo di fermarlo. Gli mise la mano bianca e grassoccia sulla spalla e disse con il suo accento irlandese: "Fa' attenzione, fratello. La tua sedia e il tuo narghilè ti aspettano al caffè Beit Jawad, quindi vedi di non stare via troppo". Quando Hassan cercò di fermarlo - "Ti prego, yaba. Ti uccideranno" Yehya fissò suo figlio con l'incontestabile, inappellabile autorità di un patriarca arabo. Poi si voltò e camminò come faceva un tempo, con determinazione e orgoglio - anche se col bastone - lungo la stradina che saliva dal campo, oltre i suoi confini, fuori dalla cerchia di quell'eterno 1948 e attraverso quello che era diventato Israele - un paesaggio che conosceva meglio del palmo della sua mano - finché non arrivò a destinazione. Sedici giorni dopo, Yehya tornò sporco e lacero, con la barba arruffata e l'animo raggiante. La kefiah che aveva in testa quando era partito era diventata un fagotto che gli pendeva da una spalla e sotto il cui peso camminava ricurvo e allegro. Yehya era riuscito a tornare a 'Ain Hod senza farsi scoprire dai soldati. "Quella terra ce l'ho nel sangue! " proclamò. "Conosco ogni albero e ogni uccello. I soldati no." Aveva vagato per i suoi campi per giorni, salutando i carrubi e i fichi con l'eccitazione di un uomo che si ricongiunge alla famiglia. Si era addormentato beatamente sotto le loro fronde, come aveva fatto per le sieste pomeridiane di tutta la vita. Il vecchio pozzo dove il soldato aveva sparato a Darwish e Fatuma era ancora là, e Yehya si era procurato un secchio che aveva legato ai viticci del caprifoglio per
attingere l'acqua. Era andato in visita alla tomba di sua moglie, dove le rose rosse striate di bianco erano ricresciute nonostante la distruzione. Aveva recitato la Fatiha per l'anima di Bassima e - era pronto a giurarlo - aveva parlato con il suo spirito. Quasi trent'anni dopo, e con gli stessi baffi arricciati di suo nonno, Yussef avrebbe ricordato la patina gialla sui denti di Yehya quando era tornato dai suoi sedici giorni nel paradiso della nostalgia concretizzata. Yehya aveva lasciato il campo con testarda solennità, indossando i suoi vestiti più dignitosi, ed era tornato che sembrava un allegro accattone, con tutta la frutta e le olive che era riuscito a portare nella kefiah, nelle tasche, nelle mani. Nonostante la sua aria da vagabondo, tornò pieno di euforia e la gente lo gratificò di una stima profonda, come si addiceva all'unico di loro che avesse gabbato dei militari spietati e quello che cinque grandi nazioni non riuscivano a fare. Era tornato. Per quanto breve e incerto poteva essere stato il suo ritorno, ci era riuscito. L'audacia di Yehya infuse vigore nei profughi, che erano ormai stanchi delle promesse delle Nazioni Unite e intorpiditi dopo l'umiliazione del 1948, l'anno senza fine. Per Yussef, dieci anni non ancora compiuti, l'impresa del nonno fu un seme che si piantò tra i ricordi di quella terribile deportazione e che avrebbe fatto germinare nel suo cuore un carattere ribelle. Nei giorni più felici della sua vita, una trentina d'anni dopo il coraggioso viaggio di Yehya, Yussef avrebbe raccontato a sua sorella Amai di quel nonno che lei non aveva mai conosciuto. "Era uno spettacolo" le avrebbe detto. "Era così felice. Ha disfatto un fagotto pieno di fichi, limoni, uva, carrube e olive in mezzo alla strada come se avesse portato un milione di dinari d'oro. Non riusciva a togliersi quel sorriso dal volto. Nostro nonno era un grand'uomo." "Come papà" avrebbe aggiunto Amai. "Sì. Come nostro padre." La sera in cui Yehya tornò, gli anziani e le anziane del campo organizzarono una veglia di festa. Divisero le provviste e le mangiarono solennemente, facendo danzare le olive sulla lingua prima di prendere il sacramento. Quei frutti di quaranta generazioni di duro lavoro erano come l'elisir della Palestina, come il nettare dei suoi secoli. "Assaggia la mia terra, Jack! Assaggia! Ecco una porzione speciale per te e per l'Hajj! " Yehya emanava gioia da tutti i pori, la sua generosità animata dal Ritorno.
Gli abitanti di 'Ain Hod mangiarono, risero, piansero, danzarono e cantarono le liete e tristi ballate della tradizione, confrontando i loro ricordi con le descrizioni di Yehya della nuova realtà. Le case delle zone est e ovest dell'abitato erano ancora in piedi ma abbandonate, e nelle dispense si potevano ancora trovare vasetti di sottaceti e marmellata, rimasti là da quando le famiglie se n'erano andate, cinque anni prima. Yehya si era dato da fare. "Meglio mangiarli che lasciarli agli ebrei." Proprio così. Aveva visto anche dei vestiti in quelle case. Giocattoli sparsi qua e là. La moschea in centro al paese, raccontò, era stata trasformata in un bordello, e a quel punto le donne imprecarono sottovoce e gli uomini scrollarono il capo disgustati. Ah sì, e Hajja Majida, pace all'anima sua, che era conosciuta per la sua fobia delle formiche - ebbene, la sua casa si era riempita di insetti. "Se li vedesse!" Tutti risero. "Pace all'anima sua. " Sì, pace all'anima sua. Nessuno usava il frantoio, se non per appenderci dei quadri. Era diventato una galleria d'arte. E la grossa quercia che era cresciuta dal nulla verso la fine dell'Ottocento era ancora là. "Be', ovvio che sia ancora là." Anche tutti gli ulivi c'erano ancora, ma avevano bisogno delle cure di chi sapeva come occuparsene. "Quelli non sanno un tubo di ulivi. Sono stranieri dalla pelle delicata, che se ne fregano della terra. Se gliene importasse qualcosa, tratterebbero gli ulivi con amore" disse Yehya, fissandosi i palmi delle mani che solo poche ore prima avevano accarezzato quegli alberi maestosi e adorati. Chiazzate dall'età e ruvide, le sue mani da contadino erano impregnate delle pigmentate verità di quelle colline. La verità che un ramo d'ulivo fiorisce solo una volta e, se non viene potato, entro l'inverno butterà gemme che diventeranno altri esili ramoscelli. La verità che il peggiore nemico biologico di un ulivo è una piccola mosca dalle ali merlettate e che è un bene far pascolare le pecore nelle vicinanze perché forniscono azoto al terreno. Le mani di Yehya conoscevano queste cose grazie a una vita dedicata agli alberi e alla loro terra. "Che siano maledetti! " gridò una donna tra la folla. "Non avevano bisogno di cacciarci dalle nostre case. Ne abbiamo accolti così tanti nel nostro paese. E gli abbiamo dato le olive della nostra raccolta." Tutti sospirarono. Le donne imprecarono sottovoce e gli uomini scrollarono il capo amareggiati mentre continuavano a mangiare i fichi,
assaporandoli lentamente. Poi Yehya tirò fuori il nye e cominciò a suonare alcune musiche tradizionali, e le donne ondeggiarono e intonarono tristi ballate finché qualcuno gridò: "Basta con queste cose! Suonaci Dal'onal". Yehya suonò, e il ritmo vivace fece alzare quei corpi artritici spingendoli a ballare una goffa dabke attorno al falò, poi qualcuno improvvisò una tabla, aggiungendo le percussioni al nye. Yussef, l'unico bambino che era stato ammesso alla loro compagnia e che si sforzava di rimanere sveglio, si sentì improvvisamente rianimato dai festeggiamenti in corso. Decenni dopo, a Beirut e insieme a sua sorella Amai, Yussef avrebbe ricordato i sorrisi sdentati di quella serata, le risate che scuotevano i vecchi corpi stanchi, l'euforia che sembrava venire da una cricca di monelli anziché da un gruppo di anziani, e il fumo del tabacco al miele e mela che si alzava a spirale dai narghilè e dalla pipa di Hassan. L'aria si riempì di suoni festosi e la gente era ubriaca dei frutti di quegli alberi che erano resistiti al tempo e avevano penetrato le nubi dell'esilio. Altri si unirono a loro, mentre l'allegria diventava un tutt'uno con la notte. Alcune donne uscirono con le loro più raffinate vesti contadine e i bambini, elettrizzati dalla prospettiva di passare la notte svegli, si riunirono attorno a Yussef e festeggiarono a modo loro al debole chiarore del fuoco. Nei giorni seguenti, l'allegra spontaneità di quella serata si stemperò nella gravosa fatica dell'attesa e nell'oltraggio di una vita provvisoria. Per Yehya fu una doccia fredda insopportabile. Così, due settimane dopo, chiese di nuovo a Dalia di fargli splendere le vesti. Yehya si rasò. Si vestì con lo stesso metodico rituale di alcune settimane prima. Ma questa volta eseguì i riti del Ritorno proibito con i gesti premeditati dell'esperienza. Yussef si sedette al suo fianco e guardò il rasoio muoversi lentamente lungo la mandibola di suo nonno, accecato dalla danza del sole sulla lama. Osservò la schiuma sporca nella tazza per il risciacquo, le macchie sulle mani di Yehya, il fango sotto le sue unghie. E impresse nella memoria la precisione con cui Yehya spuntò i suoi bei baffi neri e ne incerò le punte in una curvatura e simmetria perfette. Il manto di un patriarca. Nessuno sapeva esattamente quand'era morto Yehya. Ma quando la Mezzaluna Rossa riuscì a farsi restituire il suo corpo dalle autorità israeliane, Dalia aveva abortito un'altra volta. Tutti nel campo erano convinti che Yehya, quando aveva messo di nuovo il piede fuori dai
confini di quell'eterno 1948, sapeva che non sarebbe più tornato. Hajj Salim era certo che Yehya fosse tornato a morire nel posto che gli era destinato e quando la gente parlava di Yehya, diceva che era morto di crepacuore. La vera causa della morte fu un colpo d'arma da fuoco. 'Ain Hod si stava popolando di artisti ebrei venuti dalla Francia e si stava guadagnando la fama di essere un paradiso isolato dal mondo. Durante il suo primo viaggio, Yehya era stato visto da uno di quei coloni ebrei e, quand'era tornato, i soldati in attesa gli avevano sparato perché stava violando la proprietà altrui. Quando la famiglia preparò il suo corpo per la sepoltura, trovò tre olive nella sua mano e alcuni fichi dentro alle tasche. Yehya era morto con un sorriso sul volto e per tutti quella fu la prova che era salito felicemente nel paradiso dei martiri. Così, tra le lacrime, la popolazione del fatiscente campo di Jenin pianse la morte di Yehya celebrando la sua vita e il suo ultimo gesto di coraggio e di amore per la terra. Jack O'Malley concesse la giornata libera ai suoi uomini, che parteciparono tutti al corteo funebre. Hassan camminò in silenzio in quella triste processione, reggendo per un angolo il corpo di suo padre avvolto nel lenzuolo funebre mentre suo fratello Darwish avanzava al suo fianco sulla sedia a rotelle. Durante il funerale nessuno notò lo sgomento sul giovane volto di Yussef, e nessuno quella notte riuscì a dormire. La morte di Yehya alzò il velo su una verità che strinse alla gola la notte e la fece sospirare d'inquietudine. Perché un uomo non poteva camminare sulla sua proprietà, andare alla tomba di sua moglie, mangiare i frutti del lavoro di quaranta generazioni di antenati, senza pagare con la vita? Per qualche motivo quella brutale domanda non era ancora stata introiettata dai profughi, che invece si erano smarriti nella vasta eternità dell'attesa, aggrappandosi ad astratte risoluzioni internazionali, alla sopportazione e alla resistenza. Ma quell'assioma fondamentale della loro condizione affiorò in "superficie quando calarono il corpo di Yehya nel terreno, e la notte non portò ristoro. La mattina dopo, i profughi si alzarono dalla loro inquietudine con la consapevolezza che stavano per essere lentamente cancellati dal mondo, dalla sua storia e dal suo futuro. Uomini e donne tennero assemblee separate, dalle quali cominciò a emergere un improvvisato piano d'azione. Essendo il più istruito, Hassan veniva interpellato quasi
per ogni cosa e il compito di scrivere lettere e trattare con il personale delle Nazioni Unite per le necessità di base fu affidato alle sue mani capaci. Perfino i compatrioti palestinesi, nelle città della Cisgiordania ancora non espugnate, li consideravano con disprezzo dei "profughi". "Se dobbiamo essere dei profughi, non vivremo come cani" venne dichiarato. La morte di Yeyha spinse tutti nel campo a rimboccarsi le maniche. Un febbrile senso di orgoglio avvolse Jenin e ci si diede da fare per istituire delle scuole, specialmente femminili. Nel giro di un anno la comunità di profughi costruì un'altra moschea e tre scuole, e in tutto questo Hassan ebbe un ruolo centrale ma discreto, tenendosi ai margini della quotidianità ma continuando a scrivere laboriosamente lettere e documenti. Si alzava prima dell'alba, recitava la prima salat e leggeva, mentre la sua mano libera passava dalla tazza di caffè alla pipa con il tabacco al miele e mela. Poi usciva per andare al lavoro prima che la sua famiglia si svegliasse e da lì saliva sulle colline con i suoi libri, tornando quando gli altri stavano già dormendo. Si vergognava della misera paga che portava a casa. Si vergognava di tornare ogni giorno senza Isma'il. Certi giorni metteva i libri da parte e lavorava sulle automobili, una passione che gli aveva trasmesso Ari Perlstein e che si sarebbe trasformata in un vero e proprio lavoro, facendogli guadagnare abbastanza per mandare Yussef all'università. Per quanto riguarda Yussef, l'improvvisa scomparsa del nonno gli chiuse il cuore in una profonda tristezza. Da un angolo, osservava le sommesse partite di backgammon tra Hajj Salim e Jack O'Malley, la sedia vuota di Yehya in mezzo a loro. "Mamma..." disse, cercando di trattenere le lacrime perché Dalia voleva che fosse forte. Era seduto ai suoi piedi e giocherellava con la cavigliera rimasta. Mamma tintinna quando cammina. "...voglio che Jeddo ritorni." Non si rese conto delle proprie parole finché non le pronunciò. Dalia mise la mano sulla testa del figlio. Faticava a credere quanto era cresciuto. Yussef contò le monete sulla cavigliera, gli piaceva il modo in cui gli si muoveva tra le dita. Una, due, tre, quattro... diciotto monete d'oro. Dalia sapeva di aver trascurato Yussef da quando Isma'il era scomparso. Sto facendo del mio meglio, Dio, ci sto provando, davvero. Isma'il adesso avrebbe cinque anni. Chissà come sarebbe.
Mentre Dalia gli accarezzava i capelli, scostandoglieli dalla fronte, Yussef si chiese se sua madre avrebbe detto qualcosa. O se l'aveva delusa mostrandosi così sciocco da volere che qualcuno ritornasse dal regno dei morti. Imparerò a suonare il nye, decise Yussef, e si allontanò in silenzio.» Sette NASCITA DI AMAL 1955 Quattro anni dopo che le Nazioni Unite ebbero donato a Hassan e alle altre famiglie delle baracche di paglia e argilla, a Jenin venne creata una scuola maschile sponsorizzata dall'Onu. Jack O'Malley gli offrì un posto come insegnante, ma Hassan rifiutò. "Ci sono altri che hanno le credenziali giuste per insegnare. Non sarebbe giusto prendere il loro posto" insistè Hassan. Così, si fece assumere come bidello. Quando ricevette il primo stipendio, Hassan comprò alcuni regali per Dalia, che li accettò con una gioia rinnovata, scheggiando la rigidità del suo dolore. E nove mesi dopo, nella calura di luglio del 1955, nacque la loro terza figlia, Amai. Prima di quella nascita, Dalia aveva continuato a vestire un manto di lutto per Isma'il, coprendosi di un dolore nero che le arrivava fino a polsi e caviglie. Liberata da quella tenda soffocante, grazie al nuovo lavoro del marito e al bagno e alla cucina costruiti per sostituire secchi e bacinelle, per Dalia l'attesa che le cose tornassero alla normalità diventò tollerabile. Sostituì il suo logoro foulard nero con il vibrante bianco di uno nuovo, di seta. La nascita di un altro figlio sembrò riaccendere un barlume, seppur fugace, della zingara impetuosa che era stata una volta. Anche se il suo spirito era stato soffocato da tempo, Dalia lo vedeva reincarnato nella piccola Amai, come un turbine di vita che prendeva forma nella figlia. Dalia riconobbe presto la viva curiosità della bambina, i suoi occhi neri e distanti che sembravano senza fondo. La piccola aveva qualcosa di soprannaturale, come se si fosse materializzata dagli incantesimi dell'alchimia e della poesia beduina. Si comportava come se il mondo le appartenesse e un giorno Dalia la vide spingere con prepotenza alcuni compagni in un vicolo buio gridando: "Questo è il sole di mio padre, andate via!".
Non passò molto che la piccola fu costretta a crearsi degli amici immaginari disposti a sopportare la sua natura selvaggia - finché non incontrò un'altra anima solitaria di nome Huda. Huda aveva un carattere talmente mite e arrendevole che destò un istinto di compassione nella piccola Amai. Erano una strana coppia. Ma erano amiche, e nel campo profughi era raro vedere una senza l'altra. Durante la scuola elementare, Amai rimase testarda e capricciosa tranne che con suo padre, che vedeva raramente per via delle molte ore che passava al lavoro. Per lei era come un dio. Quando gli andava incontro, aveva occhi così colmi di venerazione che Hassan si sentiva toccato nel profondo. E quando lui prendeva in braccio la sua bambina, lo faceva con immensa tenerezza. Spesso, prima di impossessarsi delle attenzioni del padre, la piccola guardava Dalia con occhi diabolici, perché era una rivale nella conquista dell'affetto di Hassan. Dalia non trovò la volontà di infliggere alla bambina punizioni corporali come aveva fatto con Yussef. Lasciò Amai ai suoi capricci ribelli, guardandola come se contemplasse un'emotività ardente che l'aveva abbandonata da tempo per ritornare, dieci volte più forte, nella figlia. Il destino era stato perverso in questo, perché Dalia non aveva difese contro la vitalità sfrenata. Imparò a essere una madre stoica e a comunicare le richieste e le offerte della maternità con diverse gradazioni di silenzio. A questo taciturno distacco, la piccola oppose impulsività e insolenza, mescolate a effusioni di baci e di affetto febbrile intese a provocare la madre. L'amore di Dalia riusciva a esprimersi quando la piccola dormiva. Allora le accarezzava i capelli con tenerezza infinita e la ricopriva dei baci che le negava durante le ore di veglia. Otto COME IL MARE E TUTTI I SUOI PESCI 1960-1963 Da piccola ho passato molto tempo cercando di pensare a mamma come a Dalia, la beduina che un giorno aveva rubato un cavallo, che coltivava le rose e i cui passi tintinnavano. La madre che conoscevo era una donna dura, imponente e severa, che faticava tutto il giorno facendo le pulizie, cucinando, infornando e ricamando thobe. Più volte alla settimana veniva chiamata per far nascere un bambino. Come per tutto
il resto, svolgeva il suo mestiere di levatrice con distaccata efficienza e gran sangue freddo. Avevo otto anni quando mamma mi permise per la prima volta di aiutarla a far nascere un bambino. "È un lavoro importante. Devi prenderlo molto sul serio, Amai" mi disse, procedendo con il rituale delle abluzioni prima di uscire. "Udu' e poi salat. Fai come me" mi istruì. Ci passammo un sapone fatto in casa. La guardai imitando ogni dettaglio, ogni movimento. Sciacquarsi la faccia con l'acqua, lavarsi le mani, i gomiti, i piedi. Mormorare dichiarazioni di fede in Dio. Mi mossi come la sua immagine speculare. Ci lavammo e pregammo, poi mi intrecciò i capelli. Prima di avviarci, tenne le sue forbici speciali sulla fiamma del babbur e le avvolse in un panno. "Nel nome di Dio, clemente e misericordioso." A casa della partoriente mi comportai esattamente come mamma, seria e metodica. Le passai gli asciugamani, le stetti accanto con le forbici e tenni i nervi saldi (e il cibo nello stomaco) mentre lei ripeteva in continuazione: "Non essere debole e non sentirti male". Dura come il metallo. "Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro." Ricordo bene quel giorno. I lenti colpi del pettine di mamma che scendevano dalla cima della testa fino alle punte dei miei lunghi capelli neri. L'approvazione sul suo volto quando, prima che desse il segnale d'inizio, le dissi che ci sarebbero serviti più asciugamani. Le piaceva trasmettere competenze e prevenire debolezze. Tutto il resto, gli abbracci e i baci che agognavo, li teneva chiusi tra le mascelle serrate e nella presa delle dita che sfregavano contro il suo palmo destro. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Quella sera permise a me e Huda, la mia migliore amica, di dormire sul tetto. "Grazie, mamma." "Grazie, Umm Yussef" dicemmo con entusiasmo. Non ci rispose. Si limitò a tirare le tende sul suo cuore e a continuare con le pulizie serali. Dal tetto, quella sera, io e Huda guardammo mamma aspettare il ritorno di papà dall'officina. Camminava avanti e indietro con una scopa in mano mentre Umm Khalthum cantava dalla radio, e spazzò la polvere sulla soglia finché non ci fu più niente da spazzare se non il chiaro di luna. Mamma non ballava mai ai matrimoni e andava raramente a trovare le amiche. Una volta mi svegliai nel cuore della notte e la sorpresi che mi accarezzava delicatamente i capelli. Mi baciò, uno dei pochi, preziosi
baci che conservo nella mia memoria, e disse: "Continua a dormire, ya binti". I miei primi anni nel campo profughi di Jenin sono scanditi da simili scoperte. Come quando, a quattro anni, vidi il pene di Yussef. Mio fratello si stava vestendo e non si era accorto che lo stavo guardando. Ci pensai per giorni, esaminandomi il corpo e osservando mamma mentre faceva il bagno. Temevo che in mio fratello ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato. Ovviamente, suscitai un certo scalpore quando, senza curarmi dei vicini, afferrai i genitali di Yussef e mio fratello me le suonò di santa ragione. Tutti quelli che avevano assistito alla causa delle mie grida isteriche convennero che Yussef aveva fatto la cosa giusta. Tutti tranne mamma. Una vicina le disse: "Dalia, una bambina non può fare così, anche se ha quattro anni. Meglio estirpare subito queste tendenze diaboliche". Spezzala. Picchiala. Dalle una lezione. Un'altra disse: "Vedrai che così non lo farà più". Un'altra ancora: "È il fratello maggiore e ha tutto il diritto di picchiare sua sorella se si comporta male". Ma mamma prese le mie difese e sgridò Yussef: "Non provare mai più a picchiare tua sorella. Mai più". Trionfante, aspettai di essere presa tra le sue braccia. Ma mamma non lo fece nemmeno quella volta. "Smettila di piangere, Amai" mi ordinò. Non con rabbia, cattiveria o durezza. Ma con tono freddo, efficiente e pratico. Una mattina di aprile, il mese dei fiori, scoprii un lato di mio padre che prima non avevo mai conosciuto. Lavorava così tanto e lo vedevo così poco che fino a quel giorno mi ero limitata ad adorarlo da lontano. Avevo cinque anni. Mi svegliai prima dell'alba, accorgendomi con un senso di panico che l'avevo fatta nel letto, e mi precipitai a risolvere quel guaio nell'unica stanza che offriva un po' di privacy. Con orrore e vergogna, quando uscii dal bagno trovai papà che mi aspettava. Più di ogni punizione, temevo la sua delusione. Quel giorno è uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia. Senza dire nulla, papà mi aiutò a cambiarmi il pigiama e levitai da terra nelle sue braccia enormi. Nascosi la testa nel suo collo mentre mi portava fuori e mi faceva sedere sul suo grembo in terrazza, un rettangolo di tre metri per quattro di pietra e piastrelle coperto da una tettoia di vite rampicante - il tenace tentativo di mamma di riprodurre lo splendore dei suoi giardini di 'Ain Hod. Era ancora buio, ma ricordo lo sfumato panorama campestre dei frutteti in fiore. Peschi, melograni e ulivi
sbocciavano mentre, alla luce di una candela, mio padre per là prima volta mi leggeva qualcosa. Per molto tempo, i miei sensi mi avrebbero restituito i dolci profumi primaverili che incantavano l'aria. Anche la pipa di legno d'ulivo che sporgeva da un angolo della bocca di mio padre e il fumo del tabacco al miele e mela avevano segnato quella mattina speciale. "Ascolta bene le parole che leggo. Sono magiche" disse. Mi sforzai di comprendere la prosa classica araba, ma per la mia giovane mente era come un'altra lingua. Eppure aveva un ritmo ipnotico e la voce di papà era come una ninnananna. Mi addormentai tra le sue braccia. Non dissi a nessuno dell'incidente e passai la giornata aspettando con trepidazione la notte, l'oscurità appena prima dell'alba, sperando di avere nuovamente un posto speciale nel mattino di papà. Mi adattavo perfettamente al suo grembo. Le sue braccia mi cingevano e mi teneva così, con la testa appoggiata nella conca della sua spalla, mentre leggeva di nuovo: fermiamoci un attimo, amici miei, a piangere il ricordo della mia amata. Qui lei viveva, al margine del deserto sabbioso tra Dakhul e Hawmal. Le tracce del suo accampamento non sono ancora scomparse del tutto. Perché se il vento dal sud le ricopre di sabbia il vento dal nord la spazza via. I cortili e le recinzioni della vecchia dimora sono abbandonati; lo sterco del daino selvatico giace abbondante come grani di pepe. ha mattina che ci siamo detti addio mi sembrava di essere nei giardini della nostra tribù, tra gli arbusti di acacia, dove gli occhi mi si velavano di lacrime per il bruciore dei baccelli schiusi della coloquintide. Riuscivo a sentire l'agitazione dentro al petto di papà, la protesta dei suoi polmoni a ogni boccata di tabacco al miele e mela. "Papà, a chi vuoi più bene, a me o a Yussef?" "Habibti" cominciò. Non potevo fare a meno di sorridere quando mi chiamava così. "Voglio bene a tutti e due allo stesso modo." "Quanto mi vuoi bene?" "Come il mare e tutti i suoi pesci. Come il cielo e tutti i suoi uccelli. Come la terra e tutti i suoi alberi." "E l'universo e tutti i suoi pianeti? Te li sei scordati." "Ci stavo arrivando. Abbi pazienza" disse, mandando degli sbuffi di fumo dalla pipa. "E ti voglio bene più dell'universo e di tutti i suoi pianeti." "Vuoi bene anche a Yussef così?" "Sì. Come il mare... ma senza pesci." E cuore mi si gonfiò al pensiero di tutti i pesci, al pensiero che papà volesse un po' più bene a me. "E il cielo e la terra? Gli vuoi
bene come quelli, ma senza gli uccelli e gli alberi?" "Sì. Ma non dirlo a nessuno." "No, papà. Te lo prometto." Ora il mio cuore si gonfiò al pensiero di tutti gli uccelli. "E l'universo?" "Non essere avida." Mi fece l'occhiolino. "Adesso devo andare al lavoro, habibti. A domani." Habibti. A domani. Era difficile svegliarsi così presto e spesso ciondolavo il capo e mi riaddormentavo tra le braccia di papà. Ma col tempo mi abituai ad alzarmi prima del sorgere del sole e da allora è un'abitudine che non ho più perso. Ogni giorno all'alba, mentre papà leggeva sulla terrazza della nostra piccola casa di paglia e argilla, vedevamo il sole bagnare lentamente il paesaggio, impregnando di vita tutto ciò che toccava. Più di una notte ha disteso il suo manto avvolgendomi in un cupo dolore, inghiottendomi come un'onda marina, mettendomi alla prova con la sofferenza. Allora ho detto alla notte, mentre la sua immensa mole mi sovrastava, mentre il suo petto, le sue reni, le sue natiche mi schiacciavano per poi spostarsi lontano, "Oh, lunga notte, giungerà l'alba, ma non sarà più luminosa senza il mio amore. Sei una meraviglia, le tue stelle sembrano appese a una roccia massiccia con corde di canapa." Altre volte ho riempito un otre dell'acqua della mia gente e sono andato nel deserto, e ho percorso quelle vuote distese mentre il lupo ululava come un giocatore d'azzardo la cui famiglia muore di fame. Papà disse: "Possono portarti via la terra e tutto quello che c'è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato". Avevo sei anni e i bei vóti a scuola diventarono la moneta di scambio per conquistarmi l'approvazione di papà, che desideravo come non mai. Diventai l'alunna più brava di tutta Jenin e imparai a memoria le poesie che mio padre amava così tanto. Anche quando il mio corpo diventò troppo grande per il suo grembo, il sole ci trovava sempre abbracciati e con un libro tra le mani. Adesso, la mia vita prima della guerra mi ritorna in ricordi avvolti dalle braccia di papà e profumati dal tabacco della sua pipa. Avevamo poche cose e pochissime necessità. Non ho mai visto un parco giochi e non ho mai nuotato nel mare, ma la mia infanzia è stata magica, sotto l'incanto della poesia e dell'alba. Non ho più trovato un luogo sicuro come l'abbraccio di mio padre, quando nascondevo la testa nella cavità del suo collo e delle sue spalle robuste. Non ho più conosciuto un momento più dolce dell'alba, che arrivava con l'odore di tabacco al miele e mela e
le splendide parole di Abu Hayyan, Khalil Gibran, alMa'arri, Rumi. Non sempre capivo ciò che dicevano, ma i loro versi erano liricamente ipnotici. Grazie a loro conobbi le passioni di mio padre, le sue sconfitte, le sue angosce e i suoi affetti. Papà mi trasmise tutte queste cose. E fu un dono splendido, che nessuno riuscì a strapparmi. Decenni dopo, nell'alba grigia di un aprile in Pennsylvania, le parole dei versi ossessivi di Gibran e il ricordo della dolce voce baritonale di papà sarebbero stati il mio unico motivo di conforto. Nove GIUGNO NELLA BUCA SOTTO LA CUCINA Poi arrivò il giugno del 1967. Il caldo mese delle cose belle e delle vacanze scolastiche. A un mese dal mio dodicesimo compleanno, sguazzavo nell'entusiasmo dell'infanzia. Per non essere da meno di Lamya, una nostra amica agile come una scimmia nelle ruote e nelle capriole, io e Huda ci eravamo messe in testa di eseguire la capriola perfetta. Ci esercitavamo nella soffice radura vicino al frutteto di peschi, a ovest di Jenin. "E la chiami una capriola quella?" "Vediamo cosa sai fare tu, Amai!" Ci provai e caddi malamente di schiena. "Patetico" ridacchiò Huda. "Dio!" gemetti. "Lagamba! Mi sono fatta male davvero." "Alzati... su. Tanto lo so che fai finta." La voce di Huda si velò di apprensione. "Amai. Amai. Omioddio! " Scoppiai a ridere e la paura di Huda si trasformò in irritazione. "Non è divertente, Amai!" gridò. "E comunque, non sai ancora fare una ruota, e nemmeno una capriola." Sapeva come farmi smettere di ridere. "Nemmeno tu!" "Non sono io che voglio essere meglio di Lamya." Era vero. A Huda piaceva giocare, ma con me tutto diventava competizione. "Vuoi che continuiamo dopo?" domandai. "Sì. Arrampichiamoci sulla Vecchia Signora." La Vecchia Signora era un ulivo di millecinquecento anni, con rami che serpeggiavano verso il cielo come i riccioli di Sansone spuntati dal centro di un pascolo. I suoi frutti penzolavano da centinaia di piccoli rami che si snodavano da un enorme tronco deforme, che fungeva anche da punto di sosta per i pastori locali.
Papà una volta mi disse che la Vecchia Signora non apparteneva a nessuno. "Questa vecchia ragazza è qua da molto tempo prima di noi, e rimarrà qua a lungo anche dopo che ce ne saremo andati. Come si può possedere una cosa simile, habibti?" Mi piaceva da morire quando mi chiamava habibti, tesoro mio. "Non si può possedere un albero" continuò. "Può appartenere a te, come tu puoi appartenere a lui. Veniamo dalla terra, le diamo il nostro amore e il nostro lavoro, e lei in cambio ci nutre. Quando moriamo, torniamo alla terra. In un certo senso, le apparteniamo. La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei." Chiesi a Huda cosa volevano dire secondo lei le parole di papà. "Tuo papà dice sempre delle cose strane. Hajj Salim dice che legge troppo. Ieri l'ho sentito chiedere a tuo fratello di andare a togliere il naso di tuo padre dai libri e di portarlo al Beit Jawad a fumare un narghilè insieme a lui e a Ammu Jack O'Malley." 'Ammu Jack era un uomo tarchiato, con una risata scomposta che sembrava erompere fragorosamente dalle stonate corde di basso del suo grande cuore. Aveva una folta chioma di capelli bianchi e arruffati che si tagliava di rado. La sua barba ugualmente folta era macchiata di giallo a causa di una lunga liaison con le Lucky Strike e degli occasionali narghilè. Era incaricato di gestire scuole e cliniche per conto delle Nazioni Unite, ma passava di rado in ufficio, preferendo la compagnia e i narghilè di Hajj Salim al Beit Jawad. Ci arrampicammo sulla schiena della Vecchia Signora, dondolandoci sui suoi arti e tenendoci in equilibrio sul suo collo, poi ci riposammo sulla sua pancia, là dove il tronco si divideva in tre grossi rami. "È rimasto un po' di smalto?" chiese Huda, studiandosi il rosso sbeccato delle unghie. Una settimana prima avevano regalato uno smalto a mia madre che, non concedendosi lussi simili, l'aveva dato a me. Ci eravamo riunite in almeno una decina di ragazzine, dipingendoci le unghie a vicenda e immaginandoci di essere come le attrici egiziane sulle riviste. "Ce n'è ancora un po'" dissi. Huda si illuminò. "Pitturiamoci di nuovo le mani e i piedi, ma senza le altre." "Okay. Ma prima facciamo una gara di sputi." "Non abbiamo già fatto abbastanza gare per oggi?" protestò lei, ma si arrese subito. Una gara di sputi. Ecco cosa stavamo facendo quando ci chiamarono.
"Lo sputo va più lontano se lo raschi dalla gola. " Feci una dimostrazione pratica, mandando un suono graffiante. "Gli sputi normali si disfano. E per questo che perdi sempre." "Che schifo" si lamentò Huda. " Amaaaal !... Huuuuuudaaaaaa ! " Papà ci stava chiamando dal campo, dove vivevamo tutti all'ombra della carità internazionale. "Tuo padre ci sta chiamando." Huda disse un'ovvietà, come era sua fastidiosa abitudine. "Perché non è al lavoro oggi?" "Non lo so, andiamo." Corremmo. La trasformai in una gara di velocità, ma mi fermai davanti alla prima fila di baracche del campo. Era successo qualcosa. C'era troppa gente per strada. D'istinto, io e Huda ci prendemmo per mano e ci incamminammo lentamente verso il trambusto. Moltitudini ansiose scandivano slogan per le strade e i vicoli. Le donne si affrettavano nelle loro ricamate thobe palestinesi, reggendo ceste di provviste in equilibrio sulla testa. L'incertezza aleggiava nell'aria. Alcuni piangevano. Altri manifestavano la propria gioia con il trillo degli zagharid. Israele aveva appena attaccato l'Egitto. Una radio a tutto volume annunciava: "Gli eserciti arabi si stanno mobilitando contro l'aggressione sionista". Papà ci venne incontro e ci prese tra le braccia. "Habibti, è successa una cosa. Dovete tornare subito a casa." Era calmo e serio. "Adesso andate, bambine" e noi andammo. A casa nostra, alcuni uomini stavano aspettando mio padre, che era andato a telefonare a mio fratello a Betlemme, dove lavorava. Quando ci vide, mamma si precipitò verso di noi. Mi sorprese con un forte abbraccio e mormorò all'aria: "Sia lodato e ringraziato Iddio per la mia bambina". Poi mi baciò come faceva raramente. Se avessi potuto, non l'avrei più lasciata andare. Il suo improvviso slancio d'affetto mi riempì di gratitudine per l'attacco israeliano. "Allahuakbar!" gridò qualcuno. "Presto torneremo in Palestina!" Avvolta dal nuovo calore di mamma, mi sentivo piena di speranza. Evocai tutti i luoghi della mia patria come se l'era immaginata la mia giovane mente: un albero, un cespuglio di rose, una storia alla volta. Pensai all'acqua e alle spiagge sabbiose del Mediterraneo - "la sposa della Palestina" lo chiamava papà - quei luoghi che avevo visitato solo in sogno. Una deliziosa trepidazione partorì immagini di una vita passata che non avevo mai conosciuto. Quella vita legittima che mi era stata sottratta ma che finalmente avrei riacquistato: la terrazza sul retro
della casa di Jeddo Yehya e Teta Bassima, con l'uva succosa che pendeva dai rampicanti, il giardino di irose di mamma, i cavalli arabi di 'Ammu Darwish, la biblioteca di papà e la fattoria della nostra famiglia, che aveva dato da mangiare a metà villaggio. Rassicurai Huda, che sembrava spaventata, dicendole che una volta tornate avremmo avuto delle stanze tutte per noi e soldi per comprarci le bambole. Nella mia ingenua sicurezza, indicai quegli uomini disorganizzati e inesperti. "Guardali" le dissi, colpita dagli aspiranti combattenti che camminavano tra noi. "Guardali..." Era da tempo che mio padre nascondeva dei fucili in una buca scavata nel pavimento della cucina, sotto al lavello. Adesso era tornato e stava parlando con gli uomini. Capii che era arrivato il momento di usare quelle armi. Per anni l'avevo sentito lamentarsi del fatto che re Hussein ibn Talal di Giordania stava disarmando i palestinesi, lasciandoci indifesi contro i sionisti che ammassavano sempre più armi con l'aiuto dell'Occidente. Così, ogni volta che metteva le mani su un'arma, papà la nascondeva nella buca sotto al pavimento della cucina. L'aveva coperta con una piastrella, dichiarandola territorio vietato ai bambini. Non osavo disobbedire. Quel giorno lo vidi aprire il nascondiglio segreto e prelevare più di venti fucili. Li distribuì a quei combattenti che fino ad allora per me non erano stati altro che semplici padri, fratelli, zii e mariti. Mi allontanai. Da un angolo, studiai quell'anima gentile che era mio padre e vidi qualcosa di feroce affiorare in superficie. Il suo volto si era indurito e il sorriso che viveva nei suoi occhi era scomparso. Parlava agli altri uomini con una voce che non avevo mai sentito e che non portava più traccia dell'intellettuale solitario che passava il suo tempo sui libri o in comunione con la terra. Allora non avevo né la forza né la capacità per comprendere il brusco cambiamento di mio padre o degli altri adulti - quegli uomini che avevano già vissuto una terribile guerra e una straziante deportazione. "Amai." Mamma mi prese per un braccio. "Non andare in giro. Tu e Huda statemi vicine." Un colpo simile a un tuono risuonò in lontananza. Mi fece sobbalzare e diede ancora più insistenza alla voce di mamma. Mi guardò con i suoi occhi neri senza fondo, gli stessi che avevo ereditato, e ripetè l'insegnamento che per lei era fondamentale: "Sii forte come ti ho insegnato, qualsiasi cosa succederà".
La mia momentanea convinzione che avremmo visto presto tempi migliori sprofondò nella paura mentre mamma spostava me e Huda in un angolo come due pedine da gioco. "State qua e non allontanatevi" ci ordinò. Nessuno degli adulti voleva dirci cosa stava succedendo, così mettemmo insieme meglio che potemmo i frammenti delle loro conversazioni. Il ritmo affrettato, i lunghi sospiri, gli sguardi intensi e le volontà che si cristallizzavano spinsero me e Huda a metterci vicine, incollate al muro, confuse e con gli occhi sbarrati. Fu dato l'annuncio che le donne e i bambini dovevano restare dov'erano mentre gli uomini si sarebbero acquattati nelle postazioni di difesa - "Finché non arriveranno gli eserciti arabi" disse qualcuno. Io e Huda ci stringemmo tra le braccia. La paura ci strisciava nel corpo e ci faceva fremere e contrarre involontariamente i muscoli. "Ti voglio bene, Amai" gemette Huda. "Anch'io. Sei la mia migliore amica, Huda." "Anche tu sei la mia migliore amica." "Ci salveremo. Mio papà ha delle armi e ci proteggerà." "Restiamo unite." "Qualunque cosa succederà." "Lo giuri?" "Lo giuro su Dio." Ci abbracciammo per suggellare la nostra promessa. Gli uomini aspettarono il nemico, ma il nemico non arrivò. Da allora, il tempo scorse come un flusso continuo, non più scandito dal giorno o dalla notte. Non potevamo vedere il nemico in volto, ma lo sentivamo: aerei, una miriade, volavano rasoterra e lasciavano cadere bombe. Mamma fece nascondere precipitosamente me e Huda nella buca in cucina, ormai svuotata di armi. La buca era alta quanto me e larga abbastanza perché io e Huda potessimo accovacciarci sul fondo. Guardai in alto da quella posizione e vidi il volto di mamma. Come sembrava forte la sua mascella, vista da sotto. Mentre ci chiudeva dentro, feci in tempo a scorgere una ciotola dai colori vivaci sul bancone della cucina, un lavoretto che avevo fatto all'asilo per il Giorno della mamma. Ricordavo come il suo volto si era illuminato quando gliel'avevo dato, e come si era spento quando le avevo detto che avrei voluto una mamma migliore a cui darlo. Avevo cinque anni e volevo solo vedere se riuscivo a farle stringere i denti e serrare le mascelle. L'apertura si chiuse e la ciotola del Giorno della mamma scomparve dall'altra parte. C'era buio, dentro a quella buca.
"Huda" bisbigliai, continuando a tenerla stretta come faceva lei con me. "Sì." Stava tremando. "Scusa se ti sgrido sempre." Huda era stata la mia unica vera amica. Le altre bambine non sopportavano la mia competitività, il mio continuo desiderio di vincere. Ero prepotente e sgarbata. Ora pensavo che sarei morta. Passò molto tempo prima che mamma alzasse all'improvviso la piastrella e ci porgesse una bambina. Era la figlia di Khaltu Samiha, 'Aisha, la mia cuginetta di tre mesi. "Prendete 'Aisha. Torno presto" disse con voce roca. Un mese prima, Khaltu Samiha le aveva bucato le orecchie e 'Aisha portava i piccoli, graziosi orecchini con le pietre blu che suo padre aveva scelto per tenere lontano il malocchio. Non lo sapevamo ancora, ma Khaltu Samiha, suo marito, e mio cugino Musa, di sei anni, non erano sopravvissuti all'attacco. Era rimasta solo 'Aisha. Avvolta nella coperta che mamma aveva lavorato ai ferri per la sua nascita,'Aisha era per terra lungo la strada per la Giordania, non lontano dal luogo dove la sua famiglia giaceva senza vita. Una donna in fuga da Jenin riconobbe la coperta. Sapeva che mamma era ancora nel campo, essendosi rifiutata di scappare insieme agli altri, e le mandò 'Aisha con un giovane soldato giordano rimasto indietro mentre il suo battaglione, inviato dal regno hashemita contro l'invasione israeliana, batteva in ritirata. Huda, 'Aisha e io restammo nella buca per quella che sembrò un'eternità di silenzio spettrale. Poi mamma tornò con una pagnotta e del latte per la bambina. Era sporca e arruffata, e i suoi occhi guizzavano da una parte all'altra. "Amai, Huda, state bene?" ci chiese, infilando dentro un braccio per toccarci. "Sì, mamma, ma..." "Non muovetevi, bambine. La Giordania, la Siria e l'Iraq stanno combattendo a fianco dell'Egitto. Presto finirà. Andrà tutto bene." "Mamma, dobbiamo fare la cacca e la bambina si è sporcata il pannolino" la implorai, ma se n'era già andata. Senza dire nulla, io e Huda togliemmo il pannolino ad 'Aisha poi, a turno, facemmo i nostri bisogni e li coprimmo con del fango raschiato dalle pareti della buca. Mamma aveva lasciato la piastrella leggermente scostata perché entrasse un po' d'aria e di luce, ma l'aria era solo una
nube di polvere e la luce inesistente. Sentimmo delle esplosioni e il panico sopra di noi, ma non osammo alzare la piastrella né muoverci. Passarono dei giorni, credo. La bambina a volte era inconsolabile. Io e Huda ci univamo a lei, singhiozzando di paura insieme alla piccola. 'Aisha strillò finché non ebbe più voce. Sentimmo altre urla. Al di là della piastrella, bambini gemevano smarriti. Donne, inermi come i loro figli, piangevano e pregavano ad alta voce, come se cercassero di attirare l'attenzione di Dio in tutto quel caos. Sentimmo distruzione e vampate di fuoco. Sentimmo canti. L'odore di carne bruciata, spazzatura putrida e fogliame bruciacchiato, misto al puzzo dei nostri escrementi nella polvere. "Huda, credo che sia il Giorno del giudizio. È proprio come dice il Corano." "Oddio. Recitiamo lo Shahada e chiediamo perdono." " Ashhadu an la illah fila Allah. " Ripetemmo le parole che ci avrebbero portate in paradiso. Piangevamo. Con i volti anneriti e la pancia vuota, implorammo la misericordia di Dio. "Ti prego perdonami, Signore, per aver schizzato di fango il vestito nuovo di Lamya. Perdonami per..." Le mie preghiere continuavano e si univano a quelle di Huda. "Ti prego, Signore," pregavaHuda, " perdonando padre." Una forte esplosione fece saltare via la piastrella. All'improvviso ci fu luce e fummo ricoperte di polvere e macerie. Mi fischiavano le orecchie per lo scoppio. Gridavo e piangevo ma non riuscivo a sentire la mia voce. Eravamo rannicchiate sulla bambina e ci coprivamo la testa con le braccia. Sbirciai Huda e la vidi paralizzata nell'atto di gridare, un urlo muto di terrore assoluto. Aveva i capelli arruffati, bianchi di polvere e imbrattati di sangue, e il volto coperto di sporcizia. Da una tempia le gocciolava del sangue. Il mio cuore batteva così forte che potevo sentirlo. Tumtum, tumtum. L'esplosione mi chiuse le orecchie a ogni suono che non fosse il forte pulsare del mio cuore e il gorgoglio del terrore. Era un silenzio denso e logorante, come la calma al centro di un uragano o il suono attutito sott'acqua. Guardai in basso verso ' Aisha. Stava dormendo. Il suo volto era calmo. Serafico. Le sue piccole, dolci labbra rosa erano leggermente aperte, come in un sorriso. Non capivo. Le mie lacrime le caddero sul volto, rigandole la sporcizia sulla guancia. Il suo addome era uno squarcio aperto che cullava un frammento di shrapnel. Il mondo intero si
compresse nel mio battito cardiaco mentre prendevo in mano il pezzo di metallo insanguinato. Era così piccolo e leggero. Come aveva fatto a dilaniarla così? Come aveva potuto strappare una vita con tanta facilità? Mi alzai in piedi con la cuginetta morta e il frammento di metallo tra le mani. Se prima il pavimento mi arrivava a livello degli occhi, adesso la cucina non c'era più e potevo vedere il cielo dove prima c'era il tetto. Davanti a me c'erano cumuli di macerie, alcuni ancora fumanti. Un uomo, che riconobbi come un nostro vicino, Abu Samih, stava scavando convulsamente con le mani insanguinate tra un mucchio di detriti. Scomparve dentro un pennacchio di fumo, poi riemerse con un bambino piccolo tra le braccia e spezzò la mia trance con un urlo spaventoso di irrevocabilità condensata. Là, sulle macerie dove prima sorgeva la sua baracca di rifugiato e dove la sua famiglia era stata sepolta viva, l'uomo era in piedi sulla soglia di un abisso e piangeva, il volto deformato dall'agonia e la voce carica di disperazione. Stringendo il corpo afflosciato del figlio, piegò il collo verso il cielo e mandò un gemito da far rizzare i capelli, una resa gutturale al proprio destino. Abu Samih era un profugo che aveva dovuto rifarsi una vita dopo il 1948. L'attacco israeliano gli aveva ucciso il padre e quattro fratelli. Nel campo profughi si era sposato, aveva cresciuto dei figli e aiutato le sue due sorelle rimaste vedove. Come tutti noi, aspettava ardentemente il giorno in cui saremmo tornati alle nostre case. Ma alla fine l'ingiustizia originaria gli era piombata addosso di nuovo, portandogli via l'intera famiglia. Non poteva ricominciare da capo una terza volta. Non c'era più una vita da vivere. Dei bambini, alcuni dei quali riconobbi, vagavano senza meta. Qualcuno piangeva, altri avevano lo sguardo perso nel vuoto. Guardai in basso e vidi Huda ancora dentro la buca, curva in posizione fetale, che si dondolava avanti e indietro. Aveva smesso di gridare ma sentivo che stava recitando la Fatiha, la prima sura del Sacro Corano. Nel nome di Dio, clemente e misericordioso! Sia lode a Dio, il Signor del Creato, il Clemente, il Misericordioso, il Padrone del dì del Giudizio! Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto: guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell'errore! Amen. Poi ripetè dall'inizio. Nel nome di Dio, clemente...
Ero pietrificata, non riuscivo a muovere i piedi, erano come cementati. Ruotai gli occhi, assorbendo ciò che mi circondava, e vidi mamma. Era seduta per terra, gli occhi svuotati, distanti. Non batté ciglio quando i soldati arrivarono con i loro furgoni. Mi nascosi di nuovo dentro la buca, rannicchiandomi sotto quel che trovai per coprirmi, pezzi di lamiera ondulata e una bicicletta accartocciata. Feci segno a Huda di stare zitta mentre strabuzzavamo gli occhi in un rinnovato terrore. Mi rialzai, cercando di sbirciare fuori di nascosto. Tutto ciò che vedevo dei soldati erano le gambe. Portavano grossi scarponi che sembravano pestarmi sul corpo mentre andavano da una parte all'altra. Avevano bombardato e bruciato, ucciso e mutilato, rubato e saccheggiato. Adesso erano venuti a prendersi la terra. Quando sentimmo gridare e parlare in una lingua che non capivamo ci acquattammo dentro la buca. Poi, un singolo sparo. Appena ebbi il coraggio di sbirciare fuori di nuovo, vidi Abu Samih disteso a terra con un fucile in mano e il figlio morto nell'altro braccio. I soldati gli avevano sparato. Giaceva là, con gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso per sempre, incredulo. La vita gli defluiva dal corpo nella terra, e dalla buca in cucina guardai mentre la pozza di sangue si allargava sotto di lui come il sussurro di morti non celebrate. Abu Samih aveva raccolto le poche forze che gli rimanevano e aveva provato a sparare a quel nemico che cercava da tempo senza riuscire a trovare. Il suo fucile aveva fatto cilecca e i soldati l'avevano giustiziato. Fu un gesto misericordioso. Io e Huda restammo dove eravamo, troppo terrorizzate per muoverci. Quando i soldati se ne furono andati, scavammo con le dita una piccola nicchia nella terra e ci distendemmo la bambina, nella parete della buca di quella che un tempo era stata la nostra cucina. Ci addormentammo avvinghiate come due gemelle in un grembo, finché qualcuno infilò una mano dentro la buca e ci svegliò. Spaventate ma deboli, alzammo gli occhi e vedemmo una suora. Stava gridando in un arabo imperfetto: "Barelle, presto! Due bambine! Respirano. Qua sotto!". Ammutolite per la fame e la paura, io e Huda ci stringemmo in una tacita richiesta, che la suora capì. Non ci avrebbero separate! Huda rimase rannicchiata in posizione fetale mentre ci portavano in un ospedale di fortuna allestito dalle organizzazioni umanitarie
internazionali. Mi guardavo attorno, prostrata. I miei denti macinavano la sabbia che continuava a rivestirmi la bocca indipendentemente da quanto sputassi. Fu allora che, dentro una carriola, vidi passare il corpo martoriato del padre di Huda. Lei non lo vide, perché aveva gli occhi chiusi. Dov'è papà? Ti prego Dio, ti prego, ripetevo in continuazione,^' che arrivi. "Ti abbiamo chiamata Amai, con la seconda vocale lunga, perché con la vocale corta indica solo una speranza, solo un desiderio" mi aveva detto mio padre una volta. "Tu sei molto di più. Sei tutte le nostre speranze. Amai, con la vocale lunga, significa speranze, sogni, in quantità. " A soli sei anni, mi convinsi di essere l'unica portatrice dei sogni di mio padre. Di tutti i suoi sogni. Avevo un unico desiderio adesso: rivederlo. Quella suora gentile - disse di chiamarsi suor Marianne -ci camminava accanto con Aisha nascosta tra le braccia. Prima di arrivare alla tenda dell'ospedale fummo fermate da un soldato, il primo soldato israeliano che vedevo da vicino. Era molto alto. Il sole mi accecò mentre cercavo di guardarlo, dai piedi fino alla punta dell'elmetto. "Non puoi portare la bambina qua dentro" disse il soldato in un arabo rauco e stentato. "Perché no?" . "Giornalisti." "Avete paura che il mondo veda quello che fate ai bambini?" "Zitta. Ti ammazzo qua su due piedi, se no" la minacciò lui, alzando il fucile ma, stranamente, con un sorriso sul volto. Imperturbabile, la suora rispose: "Spara. Non siete diversi dai nazisti che volevano impedirmi di prendermi cura degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale". Poi, avendo riconosciuto il suo accento, socchiuse gli occhi e gli parlò in una lingua che entrambi conoscevano. Il soldato sgranò gli occhi dalla sorpresa, poi rispose nella stessa lingua e alla fine fece un cenno col capo, lasciandoci passare. "Portate le ragazze al Campo Tre" ordinò suor Marianne ai volontari. Mentre passavamo accanto al soldato, alzai lo sguardo dalla barella e riuscii a vedere di sfuggita i suoi occhi. Erano azzurri come il cielo. Io e Huda fummo medicate per delle piccole ferite. Huda ricevette alcuni punti sulla testa. Probabilmente il taglio era dovuto alle macerie che ci erano cadute addosso. Vidi mamma nella tenda delle medicazioni e mi precipitai da lei, sperando disperatamente in un altro abbraccio. Sedeva immobile in un angolo, per terra, così come l'avevo vista
quando mi ero alzata nella buca in cucina. Mi fermai. I suoi grandi occhi vuoti non mi vedevano. Sembrava che non vedesse niente. "Mamma." La toccai delicatamente, ma non reagì. Avvicinai il volto al suo, ma i suoi occhi mi passarono attraverso. Suor Marianne si avvicinò e mi prese tra le braccia - una sensazione deliziosa. "Conosci questa donna?" "È morta? \ "No, cara. È sotto shock. La conosci?" ripete suor Marianne. In quell'istante, un rancore violento mi riempì il petto. Odiavo mamma perché era sotto shock, qualunque cosa significasse, la odiavo perché non era lei a prendermi tra le braccia, perché era sempre stata diversa dalle altre madri. "No" mentii. "Non la conosco." Mi nascosi dietro a quella vergognosa menzogna per restare sotto la tutela di suor Marianne, e Huda fece lo stesso. Era confusa e spaventata e voleva solo stare con me. Riconobbi molti altri volti in quell' ospedale di fortuna e cercai di ricordarmi quando era stata l'ultima volta che li avevo visti. Basma dormiva distesa su una branda, con una benda insanguinata attorno alla testa e una gamba steccata. L'ultima volta che l'avevo vista stava allattando suo figlio a casa di Khaltu Samiha, il giorno in cui avevano fatto i buchi alle orecchie alla piccola 'Aisha. 'Ammu Munir era seduto su una sedia, sveglio e coperto di sangue. L'ultima immagine che avevo di lui era al caffè Beit Jawad, dove l'avevo visto seduto a leggere e imprecare contro i leader arabi di cui parlava il giornale. Ma ancora non c'era traccia di papà. Chiusi gli occhi e rimasi così più a lungo che potei, aprendoli solo quanto bastava per dissipare le immagini dalla mia mente. Più tardi, quel giorno, suor Marianne portò me e Huda fino a Betlemme su un furgone della Mezzaluna Rossa. Quando arrivammo a un posto di blocco, ci fece nascondere dentro a delle casse di cibo. Fortunatamente i soldati si limitarono ad aprire la portiera, lanciare un'occhiata all'interno e richiuderla. Quando il furgone tornò a fermarsi, eravamo davanti a una chiesa che conoscevo. Durante uno dei nostri viaggi per assistere alle celebrazioni cristiane, papà l'aveva indicata, dicendo che si chiamava Chiesa della Natività. "Dicono che qui sia nato il profeta 'Issa" mi aveva spiegato, rispondendo pazientemente alle mie infinite domande.
Betlemme sembrava Jenin, sgretolata, incendiata e disseminata di morti. La chiesa dov'era nato il profeta 'Issa era stata bombardata e portava ancora l'odore del fuoco. All'interno, centinaia di bambini, per la maggior parte resi orfani dalla guerra, erano seduti sul pavimento. Parlavano poco, come se parlare significasse confermare la realtà. Stare zitti apriva la possibilità che tutto fosse solo un incubo. Il silenzio raggiungeva il soffitto della cattedrale e si affollava là sopra, riecheggiando una tristezza e una lesione invisibile, come se troppe anime stessero levitando contemporaneamente. Eravamo da qualche parte tra la vita e la morte, e nessuna delle due ci accoglieva in pieno. Suor Marianne arrivò con una grossa caraffa d'acqua. "Venite con me, piccole. Dovrete lavarvi insieme per risparmiare acqua" disse, mentre io e Huda la seguivamo verso il bagno. Quella suora gentile versò l'acqua e ci lasciò sole. Eravamo talmente confuse che entrammo nella vasca di metallo con i vestiti sporchi. L'acqua calda mi avvolse il corpo come un abbraccio affettuoso, sussurrandomi una promessa di salvezza. Io e Huda ci spogliammo nella vasca e restammo sedute l'una di fronte all'altra. L'acqua intorbidata ci separava, ma le nostre gambe erano allacciate. Faccia a faccia, guardammo l'una nei pensieri dell'altra, riconoscendo il terrore dell'altra, e capimmo che avevamo superato un limite invisibile e senza possibilità di ritorno. Il mondo che conoscevamo non c'era più. In qualche modo, lo sapevamo. Piangemmo in silenzio e ci stringemmo tra le esili braccia. Restammo così, nel silenzio di un presagio per il quale non trovavamo parole. Mi guardai le dita dei piedi che spuntavano fuori dall'acqua. Smalto rosso sbeccato. Era passata solo una settimana da quando ci eravamo date quello smalto, inebriate da un gesto che ci aveva fatte sentire più grandi. Adesso, in quella vasca da bagno nella chiesa dov'era nato il profeta 'Issa, le nostre unghie portavano ancora la traccia rossa e irregolare di quella giornata. Una settimana era la distanza che separava la nostra vanità di ragazzine dall'inferno. Lentamente, mi lasciai scivolare nella vasca e misi la testa sotto l'acqua. Là, in quel mondo ovattato, simile al silenzio che avevo sentito dopo l'esplosione che aveva devastato la cucina e ucciso ' Aisha, provai lo strano desiderio di essere un pesce. Di vivere in quel rassicurante mondo subacqueo dove non si udivano né grida né spari, dove non si sentiva l'odore della morte.
Dieci QUARANTA GIORNI DOPO 1967 Guardavo il nostro campo devastato fuori dalla finestra rotta. Il sole era ancora nascosto, ma il cielo splendeva già dei viola e degli arancione che preannunciavano il suo arrivo. Sorprendentemente, i galli erano sopravvissuti, fedeli ai loro canti mattutini e ignari dell'ombra sinistra che gravava su di noi. Come al solito mi ero alzata prima dell'alba. Il sorgere del sole apparteneva a me e papà, quando leggeva per me mentre il mondo tutt'attorno dormiva. Erano passati quaranta giorni dalla fine della guerra e da quando suor Marianne ci aveva riportate a Jenin dove avevo trovato mamma in stato confusionale. Papà e mio fratello Yussef erano ancora dispersi. Poco dopo, la melodia dell'adhan entrò nelle nostre dimore provvisorie trasportata dall'aria, chiamando i fedeli alla preghiera. Decenni più tardi, dopo una vita di esilio, questa inconfondibile cadenza dell'anima araba mi avrebbe dato la serena certezza che avevo fatto la scelta giusta decidendo di ritornare a Jenin. Sebbene avventurarsi fuori fosse ancora pericoloso, il piccolo Samir, il nostro vicino di cinque anni, stava correndo per il campo strillando come un ossesso. La sua voce acuta squarciava il silenzio del coprifuoco che ormai dominava le nostre vite. Pensai che il piccolo stesse rivivendo il terrore degli eventi recenti. Non sarebbe stato strano: ultimamente quasi tutti i bambini gridavano nel sonno. "Sono nudi" diceva Samir affannosamente, sforzandosi di organizzare i pensieri. "Hanno bisogno di vestiti. Me l'hanno detto loro." Il piccolo Samir era agitatissimo e la gente cominciò a svegliarsi. Occhi esausti e perplessi sbirciavano dalle finestre. Le anziane fecero cigolare le loro porte improvvisate per dare un'occhiata di fuori. "Cosa succede?" gridò una voce lungo il vicolo. "Siamo di nuovo in guerra?" chiese un'altra. In quegli attimi di confusione, sconforto e trepidazione, la voce palpitò come una ventata di speranza tra quei morti viventi. La gente cominciò a gridare: "Allahu akbar!". Volti comparvero alle finestre di ciascuna baracca e si udirono altre grida mentre l'eccitazione cresceva nel campo. Dalla fessura di una finestra annerita dal fuoco giunse un messaggio euforico: "Gli eserciti
arabi stanno venendo a liberarci! ". Ma la gente rimase titubante, perché vedevamo i soldati israeliani appollaiati sulle loro postazioni di guardia. Quegli arroganti conquistatori. Assassini e ladri. Li odiavo tanto quanto il mare di cenci bianchi che ondeggiava sopra le nostre case - simboli di una resa umiliante. Ma con la stessa velocità con cui era divampata, l'euforia si spense non appena cominciammo a capire cosa diceva Samir. "Basta! La guerra è finita. Il bambino sta dicendo che i nostri figli sono vivi" disse la voce di un uomo, azzittendo le canzoni di guerra. Era Hajj Salim. Era sopravvissuto! Chissà dove si era nascosto. Hajj Salim aveva visto tutto. Così diceva a noi giovani. Ci vollero diverse stagioni per conoscere la sua storia, perché ce la raccontava sempre in maniera frammentaria. "L'ho visto con i miei occhi" diceva. "Lavoravo fedelmente per quegli uomini dai capelli biondi e gli occhi colorati, e in cambio quelli ci hanno mandato degli ebrei stranieri che mi hanno rubato tutti i mobili." Sempre piccole tessere del puzzle della sua esistenza, dispensate una alla volta. "Le ho viste con questi occhi. Tutte le guerre. Ci hanno cacciati dalla terra e si sono presi tutti i miei mobili." Poi si allontanava, lasciandoci pieni di curiosità. Ma nel nostro campo la sua storia era la storia di tutti, un unico racconto fatto di espropriazione, dell'essere denudati della propria umanità, essere buttati come spazzatura in campi profughi indegni dei topi. Dell'essere lasciati senza diritti, senza casa né nazione, mentre il mondo si voltava dall'altra parte a guardare e ad applaudire l'esultanza degli usurpatori che proclamavano il nuovo stato che chiamavano Israele. Hajj Salim era un uomo sagace e bonario, capace di modellare il legno in mobili eleganti e oggetti raffinati. Una volta, ci disse, un ufficiale inglese d'alto grado aveva acquistato una sua scultura in legno d'ulivo della Vergine Maria per darla alla regina degli uomini biondi e dagli occhi colorati, e la cosa fece sorgere in me la fantasia che Hajj Salim conoscesse una regina. È stato il personaggio più vivace e divertente della mia infanzia, e fu lui a tramandare la storia ai bambini del campo. A lui devo il mio patrimonio di folklore e proverbi palestinesi. Fu lui a insegnarmi i nomi e le vicende delle varie persone che, decenni dopo, avrei ritrovato come vittime della guerra sui testi di storia. Ci piaceva accerchiarlo e insistere perché ci raccontasse una storia dei tempi andati. Lo supplicavamo, dieci o venti monelli scalzi e con il moccio al naso, promettendo di non infastidirlo più, finché lui cedeva,
perfettamente cosciente che saremmo tornati il giorno dopo o l'ora dopo. Ci sedevamo per terra attorno a lui, pronti a ricevere i doni fantastici che uscivano dalla sua bocca. Hajj Salim, allora, intesseva vivide descrizioni della vita e degli eventi passati con una tale dovizia di particolari che la Palestina e tutti i suoi paesi, molti dei quali ormai devastati da Israele, prendevano vita nella mia immaginazione come se ci avessi abitato io stessa. La sua voce rauca, graffiata da anni di narghilè e mu' assai, si alzava e abbassava animatamente, trasportandoci magicamente al fianco dei nostri avi e facendo rivivere gli eventi passati come se appartenessero al presente. Ai nostri giovani occhi, Hajj Salim sembrava incredibilmente vecchio. "Avrà almeno novant'anni" azzardò Lamya una volta. Solo da adulta avrei capito che, in quei mesi prima della guerra del 1967, aveva solo sessant'anni o poco più. Era quasi calvo, con radi capelli bianchi che gli ricadevano sulle enormi orecchie. Una fitta peluria gli ricopriva la pelle abbronzata di tutto il corpo, alto e ossuto, le spalle sporgenti che facevano pensare a una gruccia sotto la dishdashe tradizionale. Come la maggior parte degli uomini palestinesi, portava la kefiah a quadretti bianchi e neri legata morbidamente attorno alla testa. Aveva due baffi arruffati che spesso tradivano quel che aveva mangiato. Erano una cosa enorme e corvina che non invecchiò mai, nemmeno quando superò i novant'anni: una curiosa reliquia di gioventù su un vecchio volto avvizzito. Soprattutto, non aveva denti. Li aveva persi, diceva, "lottando contro lo scorbuto". Naturalmente, tuttinoi bambini odiavamo lo "scorbuto", che credevamo fosse un mostro israeliano. Quando giocavamo a darci dei soprannomi, "scorbuto" veniva invariabilmente scelto come insulto. "Sei orribile come lo scorbuto" faceva parte del mio privato arsenale di parolacce. A nove anni qualcuno mi spiegò cosa voleva dire e non usai mai più quella parola. Ricordo bene quel sorriso sdentato. Quando eravamo piccoli, io, i miei cugini e i miei amici cercavamo spesso di farlo ridere. Facevamo il verso ai leader israeliani, prendendo in giro l'altezzoso Menachem Begin, che imitavamo schiacciandoci il volto, oppure scimmiottavamo la ruvida sciatteria di Golda Meir, la "Vecchia Strega", come la chiamavano gli egiziani. Alla fine, quando Hajj Salim non ce la faceva più, le sue gengive rosa gli aprivano il volto abbronzato in una risata fragorosa, stringendogli gli occhi in due lunghe linee indistinguibili
dalle altre rughe che segnavano la sua meravigliosa risata. Contenti di aver provocato quello spettacolo spassoso, ci univamo a lui in preda alla ridarella. Non ho mai capito da dove venisse, da quale città o paese, perché sapeva un sacco di cose praticamente su ogni angolo della Palestina. Mamma non me lo disse mai e Yussef non ne era sicuro. Girava voce che la sua famiglia fosse rimasta uccisa durante la Nakba del 1948 anche se quella storia non ce la raccontò mai. Viveva solo, senza moglie né figli, fratelli o sorelle. Era una cosa molto insolita nella società araba, che ruota attorno alla famiglia allargata. Nessuno era "senza famiglia". Ma tra i palestinesi, spodestati e costretti a disperdersi in seguito alla Nakba, c'erano molte eccezioni alla regola. Hajj Salim era stato amico di Jeddo Yehya. L'avevo saputo da papà. Hajj Salim fu anche il primo a parlarmi di mio fratello Isma'il, scomparso ancora in fasce nel caos disastroso del 1948. "Il piccolo è svanito nel nulla" disse durante una delle sue riesumazioni storiche. "Da allora, tua madre non è più stata la stessa." Il giorno in cui il piccolo Samir corse gridando per il campo profughi e io scoprii che Hajj Salim era sopravvissuto alla guerra del giugno 1967, segnò la fine della vita come l'avevo conosciuta fino ad allora e l'inizio di un'occupazione militare che avrebbe dominato le nostre esistenze. Erano trascorsi quaranta giorni da quando i soldati israeliani erano passati di baracca in baracca a radunare tutti gli uomini che erano rimasti nel campo. Per quaranta giorni eravamo vissuti sotto coprifuoco e, durante quelle lunghe ore, io e Huda non ci separammo mai, andavamo insieme anche in bagno. La nostra casa era stata distrutta, così ci trasferimmo da Khaku Samina, dove cercavamo di non guardare la culla di ' Aisha. Mamma era già là quando arrivammo, e stava pregando. Non mi disse niente. Si limitò a offrirci una pagnotta rafferma e del formaggio, poi tornò a pregare sul suo tappetino. Mi avvicinai a lei e, stando alle sue spalle, la presi tra le braccia. Mi vergognavo, mi chiedevo se si era accorta di quando l'avevo abbandonata. Né io né mamma dicemmo nulla. Mi diede solo dei leggeri colpetti sulla mano, forse con affetto. Poi la lasciai di nuovo. Io e Huda trovammo un mazzo di carte nella dispensa e ci inventammo dei giochi improvvisando le regole. A volte sedevamo in silenzio in un angolo, ipnotizzate dal ritmo del mormorio di mamma e del lento ondeggiare del suo corpo mentre per ore di fila pregava sul pavimento.
Ci pettinavamo e intrecciavamo vicendevolmente i capelli e cominciavamo a parlare di quello che avevamo passato. Dopo un po' scoppiavamo a piangere. Il piccolo Samir bussò alla porta di lamiera. Avevo già la testa fuori dalla finestra e la nostra vicina, Samirah, si sporse da quella accanto. "Amai" gridò Samir. "Yussef è vivo!" Samirah, i capelli arruffati e gli occhi ancora pieni di sonno, chiese di suo fratello. "E Faruk?" Ma Samir era già scappato via, veloce sulle sue gambette. Altri bambini del campo si erano uniti a lui e adesso correvano in un gruppo sempre più folto, come piccoli ossessi in preda al panico. Tirai dentro la testa per svegliare mamma, ma stava già venendo verso di me. "Cosa succede?" "Samir Haitham dice che Yussef è nudo." "Cosa?" "Yussef è vivo." "Allahu akbar! Dov'è mio figlio?" "Credo nel frutteto di peschi." "È insieme a tuo padre?" Pose la domanda che dominava già i miei pensieri. Io e mamma uscimmo in un batter d'occhio. Aveva la testa avvolta nel suo foulard preferito, gli orli le ricadevano sulle spalle. Era un regalo che le aveva fatto papà anni prima, quando aveva ricevuto il suo primo stipendio come bidello alla scuola dell'Unrwa per i bambini del nostro campo. Ormai ingiallito, un tempo era stato bianco e con raffinati ricami sul bordo. Quando il corpo di mamma si ricongiunse infine alla sua mente, che aveva lasciato questo mondo subito dopo la guerra del 1967, conservai quel foulard, e ancora lo tengo riposto al sicuro, insieme a ciò che mi resta della mia famiglia, in una piccola scatola. Ma quel quarantesimo giorno desideravo solo rivedere papà. Il resto non aveva importanza. Nient'altro poteva guarire la mia ferita, solo abbandonarmi alla sicurezza del suo abbraccio e sentirlo sussurrare che tutto si sarebbe sistemato. Quando si radunò una piccola folla di persone, fu chiaro che alcuni degli uomini stavano davvero tornando al campo. Le donne cominciarono a intonare i loro zagharid e a cantare "Allahu akbar". Sapevo che Yussef era tra loro, ma non avevo notizie di papà. Aspettai nell'ansia caotica di quegli attimi infiniti prima dell'arrivo degli uomini. Quanto più non scorgevo la figura di papà in lontananza, tanto più il mio cuore cominciava a temere l'insopportabile. Trattenni a fatica l'impulso di mettermi a piangere e mi arrampicai sul tetto piatto di una costruzione ancora intatta per vedere meglio.
Mentre osservavo il nuovo paesaggio costellato di torrette di controllo israeliane erette in fretta e furia, sentii gli anni comprimersi in settimane come in un incubo terribile e senza fine. Pervasi dal sapore terroso della morte, quei giorni si conficcarono nei miei ricordi come particelle di polvere ini sanguinata, come l'odore dolciastro della vita in decomposizione e della terra bruciata. Ci spostavamo, ma senza andare da nessuna parte. Guardavamo, ma la realtà ci offuscava la vista. Inalavamo ed espiravamo la polvere della carneficina, ma non respiravamo. Mentre la folla cresceva, guardavo dal tetto nel silenzio del mio terremoto privato. Eravamo profughi, tutti quanti. Quelli che erano scappati erano diventati profughi ancora una volta, in altri rottamai umani che punteggiavano la recente storia di Israele. E quelli di noi che erano rimasti diventarono prigionieri a Jenin. Adesso aspettavamo la libertà. Le originarie speranze di tornare in patria diventarono suppliche per i diritti fondamentali. Se un tempo avevamo sognato di vedere Haifa, Giaffa e Lydd, adesso era un rischio mortale anche solo uscire di casa. Erano passati i giorni delle gite famigliari a Tulkarem e Ramallah. Anche Gerusalemme era fuori questione. "Hanno bruciato Gerusalemme; che Dio bruci loro! " aveva detto una voce di donna in un contesto che non ricordo. Huda si arrampicò accanto a me sul tetto, dove continuavo a guardare l'orizzonte in attesa di papà. Il terrore che avevamo provato nella buca in cucina non aveva fatto altro che rinsaldare il legame tra noi. Huda possedeva una tenerezza e una fedeltà disarmanti. Anche se le difficoltà dei decenni successivi avrebbero fatto emergere in lei una naturale sicurezza di sé e una forza tranquilla, durante l'adolescenza la sua timidezza e la sua indole solitaria spinsero molti a considerarla strana, specialmente gli adulti. Alle anziane del campo piaceva guardare gli occhi di Huda. "Ecco quella strana bimbetta. Vieni qua, cara" dicevano, E mentre lei si sottoponeva ubbidientemente alle loro dita curiose e al loro alito cattivo, quelle ammiravano ciò che chiamavano il "tocco del divino" nei suoi occhi, la loro insolita mescolanza di grigio e bronzo. Huda aveva vissuto con noi per tre anni prima della guerra del 1967. Fu probabilmente il periodo più felice della mia infanzia. Ogni giorno, dalla quarta elementare alla prima media, andavamo e tornavamo da scuola tenendoci per mano. Trovavamo alberi sui quali arrampicarci e dove potevamo giocare come maschiacci senza essere viste.
Catturavamo piccoli insetti e ci inventavamo situazioni e personaggi in una casetta che avevamo costruito con le nostre mani. La nostra amicizia era consacrata da "Warda", una bambola con un braccio solo che avevamo recuperato da un mucchio di spazzatura vicino al villaggio di Taybeh. La nostra casetta era una dimora che avevamo costruito per Warda. Era composta da quattro pareti di pietre impilate e si trovava ai piedi del terzo ulivo, dietro ai due cedri gemelli, lungo il sentiero per la vicina Barta'a. Ci andavamo quasi ogni giorno per occuparci di Warda e tra le altre ragazzine corse voce che io e Huda eravamo le madri orgogliose di una bambina handicappata a cui un israeliano aveva fatto saltare un braccio, e che sporcava davvero i pannolini e piangeva lacrime vere. Non passò molto che gruppi di ragazzine curiose cominciarono ad arrivare a frotte da Jenin per visitare la "casa di Warda" vicino a Barta'a. E, come voleva l'usanza, portavano dei dolci. E restavamo là con tè e pasticcini fino a sera inoltrata, mentre Warda passava tra le braccia affettuose di tutte quelle madri. Il motivo per cui Huda venne a vivere con noi fu suo padre. Era un uomo orribile, che la picchiava regolarmente. Poi, quando Huda aveva otto anni, successe. Suo padre lo fece. Pronunciare quella parola sarebbe stato un tradimento imperdonabile. Dopo che successe per la prima e unica volta, Huda me lo confidò come se fosse un disonore e mi permise di dirlo a papà. Gli occhi di mio padre si colmarono di apprensione quando gli rivelai quel pesante segreto, che allora non comprendevo in pieno. Con fermezza, mi disse di rispettare la confidenza di Huda e di essere discreta. Se la gente lo fosse venuta a sapere, ci sarebbe stata una fadiha. Uno scandalo del genere, che coinvolgeva la verginità di una ragazza, aveva conseguenze molto serie nella nostra cultura. Non volendo mettere in piazza il dolore di Huda, mio padre si riunì con 'Ammu Darwish e Hajj Salini e trovò insieme a loro il modo di allontanare il padre di Huda. Non rivelò il motivo né a mio zio né a Hajj, né questi gli chiesero spiegazioni. Mio padre possedeva un'autorevolezza innata che ispirava fiducia in tutti quelli che lo conoscevano. Per prima cosa, i tre uomini andarono da Faris, il fratello maggiore di Huda. Umiliato, Faris rivolse la propria rabbia contro il bersaglio più debole, sua sorella. Ma papà riuscì a portare Huda a vivere con noi. Né io né lei avremmo potuto essere più felici. Dopo quella volta non vedemmo più il padre di Huda. Si diceva che fosse passato in Israele, dove forniva informazioni su chi stava
cercando di organizzare un'opposizione antiisraeliana a Jenin. Forse per un po' fu così, ma non dopo la guerra. Non l'avrei mai riconosciuto dentro a quella carriola se non fosse stato per la sua mano con quattro dita che ciondolava da un lato. Non ne feci mai parola con Huda. "Vedi tuo fratello? " mi chiese Huda studiando la folla sottostante. "Sì.EFaruk?" "Sì. È nudo." "Anche Yussef è nudo." "Perché sono nudi?" La domanda ci bruciava dentro. "Credo che gli abbiano rubato i vestiti" dissi infine. Tra la folla sottostante vidi la testa di mamma accanto a Umm 'Abdallah, la donna che viveva nella baracca sopra la nostra. Era la madre vedova di Samirah, Faruk e 'Abdallah, e la migliore amica di mamma. Passavano molto tempo insieme, cucinando e lavorando ai ferri. Adesso aspettavano insieme i loro figli. "C'è tua madre." La fastidiosa abitudine di Huda di rimarcare cose evidenti. «T ?? Lo so. "Ha il suo foulard di seta." "Lo so." "ÈconUmm'Abdallah." Avrei voluto urlarle qualcosa, ma sapevo che una durezza simile, dopo tutto quello che aveva passato, sarebbe stata troppo crudele. Nella stupidità della mia giovinezza non ero capace di apprezzare la sensibilità di Huda e lasciavo invece che mi esasperasse. Vorrei averle dimostrato tutta l'amicizia che lei dimostrava a me. Ancora sul tetto, Huda mi chiese: "Ci sarà anche Faruk?". Non risposi. Non vedevo papà tra gli uomini che stavano arrivando. "Credi che sia nudo anche lui?" Si guardò i piedi, poi alzò gli occhi al cielo e si rispose da sé: "Probabile. Sono tutti nudi". Lamya, la ragazza che invidiavo per le capriole, e che era ospite regolare della casa di Warda, salì sul tetto insieme a noi. "Perché sono nudi?" ci chiese. Huda rispose: "Gli ebrei gli hanno rubato i vestiti...". Mi sentivo compressa. Il sole era ormai alto nel cielo. Un'altra alba senza papà gravava l'aria di una consapevolezza terribile e facevo fatica a respirare. L'assenza di papà da quando la guerra era diventata grande come il mare e tutti i suoi pesci. Il dolore nel mio cuore era vasto come l'universo e tutti i suoi pianeti. La guerra ci cambiò, soprattutto mamma. La fece sfiorire. La sua tempra si sfilacciò, lasciandole un corpo che era un semplice involucro spesso attraversato da allucinazioni. Dopo l'occupazione e la scomparsa
di mio fratello e mio padre, mamma non lasciava più il suo tappetino da preghiera. Non voleva mangiare e rifiutava anche le irrisorie razioni che arrivavano con il furgone degli aiuti umanitari. Il cotone della sua veste si intrise del fetore di un corpo non lavato e il suo alito si fece cattivo. Sapeva di tristezza fermentata. Le sue labbra si indurirono in un reticolato di screpolature e il suo corpo si restrinse, mentre continuava a pregare e pregare. E mentre il corpo perdeva volume, i suoi occhi si facevano sempre più vuoti, tradendo un'anima che perdeva pian piano la presa sulla realtà. Il coraggio di mia madre durante la guerra sarebbe in seguito stato ricordato come l'essenza della forza di una fellaha. Si era rifiutata di fuggire. Era stata cacciata dalla sua terra quando Isma'il era scomparso e aveva deciso di non permettere che succedesse di nuovo. Tutti le riconoscevano che, per le cose importanti, sapeva essere davvero coraggiosa. Dopo la guerra, la gente diceva di lei: "Molti di noi parlavano tanto, ma poi sono scappati per salvarsi la pelle, mentre Umm Yussef è rimasta fedele alla sua parola. Diceva che non avrebbe permesso agli ebrei di toglierle l'unica casa che sua figlia aveva conosciuto". Mamma era rimasta per me. E io l'avevo abbandonata per andare con suor Marianne. Non me lo sono mai perdonata. Il giorno in cui tornò Yussef, ricordo di aver provato un grande affetto per mamma. Allora aveva ancora dei momenti di lucidità, anche se si era fatta come più mite, la sua austerità forse vinta dal delirio. Quel giorno la vidi nella pienezza del suo essere madre, con tutte le ferite della sua vita distrutta e del suo spirito devastato momentaneamente guarite. La vidi come la donna che aveva rischiato la vita per proteggermi da ciò che aveva dovuto patire lei stessa. I suoi gesti erano sinceri e così le sue lacrime. Ma durò poco, perché mamma aveva già cominciato a perdere la ragione. Se solo avessi potuto avrei afferrato quei momenti di tenerezza con le mie mani e li avrei messi in serbo in un posto sicuro. "Allahu akbar!" gridò quando le dissi che Yussef era vivo. Rare lacrime le rigavano il volto mentre seguiva Umm ' Abdallah tra la folla che si accalcava ai confini del campo per essere il più vicino possibile ai ragazzi e agli uomini in arrivo. Eravamo ancora sotto controllo militare e ci era vietato uscire dalle strutture deputate al nostro rifugio. Ma la gente, sopraffatta dalla notizia del ritorno degli uomini, si riversò per le
strade, trovando sicurezza nel numero o forse dimenticando che correva dei rischi. Credo che i soldati non sapessero semplicemente come reagire. "Allahu akbar", in continuazione. Decine, centinaia di voci. Una cacofonia di "Allahu akbar" che si fondevano in un unico, poderoso canto, mentre la gente accorreva. C'erano pochi uomini tra la folla. Solo i più anziani e i più giovani erano stati risparmiati. Dal punto in cui mi trovavo vedevo un mare di teste avvolte nei foulard. Madri, sorelle, figlie e mogli che piangevano e cantavano insieme, in attesa di sapere cosa il destino riservava loro dopo quaranta giorni. Quando Yussef arrivò alle porte di Jenin, l'intero campo, migliaia di anime, stava saltando e gridando "Allahu akbar". Aveva con sé un fagotto, probabilmente dei vestiti ricevuti strada facendo da quanti avevano saputo che erano stati spogliati nudi. I soldati si avvicinarono con i loro furgoni e cominciarono a sparare in aria. Cinque ragazzi del nostro vicinato caddero a terra e la folla si disperse, rannicchiandosi nei vicoli attorno alle abitazioni. Lamya e le altre bambine se n'erano già andate e, sentendo gli spari, io e Huda saltammo dentro una finestra, oltre il davanzale, e ci nascondemmo in una casa vuota mezza bombardata. Potevo vedere Yussef in lontananza. Indossava dei pantaloni marroni troppo corti e una camicia verde increspata, le prime cose che gli avevano dato per coprire la sua nudità. Papà non era tra loro e piansi mio malgrado, affacciata alla finestra di quella casa semidiroccata con Huda al mio fianco, entrambe rannicchiate in posizione fetale come quando eravamo dentro la buca in cucina. Guardammo le centinaia di anime pigiate nella stradina sotto di noi, tutte smarrite. L'iniziale euforia si raffreddò sotto il sole di luglio quando i ragazzi furono abbastanza vicini perché vedessimo le cicatrici e gli sfregi sui loro corpi, la sfacciata testimonianza naturale di pestaggi regolari. Yussef era stato via solo quaranta giorni, ma sembrava invecchiato di dieci anni. Era diventato magrissimo, e vederlo così mi diede una fitta terribile al cuore. Papà era scomparso per sempre. Mia madre continuò ad aspettarlo fino al giorno della sua morte, allo stesso modo in cui aspettava di tornare a casa, o si arrovellava per capire dov'era finito Isma'il. Avevo bisogno di pensare che papà fosse morto. Non sopportavo il pensiero che stesse soffrendo lontano da noi, così decisi di convincermi
che fosse in paradiso, con la sua fiera dishdashe e la kefiah, l'estremità della sua pipa tra le labbra, una tazza di caffè tra le dita e un libro che amava tra le mani. Lottai per tutta la vita per mantenere quell'immagine di lui - un padre forte, orgoglioso e affettuoso. Ma, inevitabilmente, rivedevo l'immagine di Abu Samih morto con il fucile in mano accanto alle macerie di casa sua, e il suo volto alla fine si confondeva con quello di papà. Mentre i ragazzi si avvicinavano, cercai 'Ammu Darwish e i miei cugini. Non erano tra la folla e pensai che non fossero sopravvissuti nemmeno loro. Solo in seguito scoprii che si erano nascosti nelle grotte sulle montagne, per tornare a Jenin alcuni mesi dopo la guerra. Yussef e i cinque ragazzi entrarono e la gente gli andò incontro per accoglierli e per chiedere dei propri cari ancora dispersi. Ili Faruk, Amin, Taha, 'Omar, Mahmud e Yussef si sedettero vicini, passandosi una pagnotta. Erano tramortiti, sfiniti, stremati e distrutti. Alcuni dei presenti intimarono di fargli spazio e di dargli il tempo di riprendersi. La madre di Faruk, Umm 'Abdallah, si buttò su suo figlio, tenendogli le spalle e baciandogli la testa con un sorriso triste. Il suo figlio maggiore, 'Abdallah, era stato ucciso, ma la donna non voleva condoglianze. "Lo giuro su Dio, accetterò solo felicitazioni per il martirio di mio figlio" insisteva. Con occhi che narravano la prostrazione di notti insonni e angosciate, Umm Jamal, la nostra vicina di casa, continuava a chiedere ai ragazzi: "Sai qualcosa di Jamal, Yussef? Dimmelo, Mahmud, figliolo. Taha? Ti prego, 'Omar, sai niente del mio Jamal? Ti prego, figliolo. L'hai visto? Sta bene?". La sua testa seguiva gli occhi sfuggenti di Yussef da una parte all'altra, cercando indizi del destino del figlio nell'espressione di mio fratello. "Io e Jamal siamo stati separati. È tutto quello che so" mentì Yussef. Seppi in seguito che la morte di Jamal era servita come "esempio". I soldati lo giustiziarono sotto gli occhi di mio fratello e di altri cinquanta. Jamal venne bendato, fatto inginocchiare e gli furono legate le mani. Poi un soldato israeliano conficcò un proiettile dentro la testa di quel ragazzino che frequentava casa nostra ogni giorno, che giocava a calcio nei campi infangati, che mi chiamava sempre "ammura" adorabile - e veniva in gita con noi a Gerusalemme, sul fiume Giordano, a Betlemme o a Gerico. Aveva sedici anni quando diventò un "esempio".
Yussef era impassibile e non aveva voglia di mangiare o di parlare. I suoi occhi, quasi solo pupille, sembravano persi in qualcosa d'inquietante. La folla si diradò. Amin, Faruk e Mahmud rimasero con noi. Mamma e Umm 'Abdallah si sedettero sul pavimento della cucina tenendosi per mano, pregando Dio e meravigliandosi dei loro figli, mezzi morti ma ancora nel mondo dei vivi, come se li vedessero per la prima volta. Preparai del qahweh e Huda lo offrì diligentemente ai presenti su di un vassoio. Quando si accorse che lo stavo guardando, Yussef si alzò e mi prese tra le braccia. L'increspatura merlettata della sua camicia mi sfregò il volto. Il suo abbraccio quasi mi convinse che era stato tutto un brutto sogno. Ma papà non era ancora tornato. Più tardi, mentre Mahmud e Faruk dormivano, sentii mio fratello che parlava con Amin. Yussef aveva imparato a esprimersi in maniera misurata e la guerra aveva consolidato una forza nel suo carattere che un giorno l'avrebbe accompagnato nel vivo dell'amore e della storia. "Era lui! " diceva Yussef. "Ho visto la cicatrice! È vivo ed è un yahudi che chiamano David! " Mio fratello aveva visto un soldato ebreo con una cicatrice identica a quella che segnava il volto di nostro fratello Isma'il, scomparso sette anni prima della mia nascita. Undici UN SEGRETO COME UNA FARFALLA 1967 Mentre guardava David, le sue ampie spalle curve sul tavolo da pranzo, Jolanta faceva fatica a ricordare quanto tempo era passato dal giorno in cui Moshe glielo aveva portato, un fagottino spaventato e ferito. Pensò a quella bellissima creatura, ora un uomo che le diceva, baciandole la guancia: "Ti voglio bene anch'io, Ma'! ". Era così piccolo tra le sue braccia, allora. Quando non c'era nessuno intorno se lo attaccava al seno asciutto. L'aveva amato e coccolato follemente. Lo imbacuccava a dismisura in inverno, cosa che David aveva tollerato fino all'età di sette anni, quando aveva realizzato che poteva rifiutarsi di indossare quello che sua madre aveva preparato per lui. Jolanta aveva amato anche la sua ribellione e riusciva a fatica a nascondere un sorriso quando lo vedeva affermare la sua indipendenza.
Era sempre preoccupata, e ogni volta lui le ripeteva: "Non preoccuparti, Ma', andrà tutto bene". La prima volta che David si fermò a dormire da un amico, a otto anni, Jolanda pensò che avrebbe avuto nostalgia di casa e gli fece promettere che avrebbe chiamato a qualunque ora della notte, se necessario. In occasione del suo primo fine settimana in campeggio, a dieci anni, la lista delle preoccupazioni era così lunga che nemmeno lei se la ricordava più. Si preoccupava che non avesse mangiato abbastanza a colazione prima di andare a scuola, che si sarebbe fatto male giocando a calcio, che una ragazza gli avrebbe spezzato il cuore. Si preoccupò quando David andò alla sua prima festa, dove ci sarebbe stato dell'alcol. E quando sembrava che tutto andasse bene, si preoccupava che lui le nascondesse qualcosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi. Aveva paura che prima o poi scoprisse che non era veramente suo figlio. Più di ogni altra cosa, Jolanta temeva il giorno in cui David avrebbe compiuto diciotto anni. Non voleva che il suo ragazzo entrasse nell'esercito. Ma non aveva scelta, così come non ce l'aveva suo figlio. Israele era un piccolo porto sicuro per gli ebrei in un mondo che altrove aveva costruito per loro campi di sterminio. Ciascun ebreo aveva un dovere morale verso la nazione da compiere. Così, nel giugno del 1967, quando il suo paese entrò in guerra, David aveva già prestato servizio nell'esercito per un anno. Fu mandato a nord, nel Golan. Era forte, pronto a servire il suo paese. Pronto a combattere. Faceva parte di un battaglione incaricato di provocare la rappresaglia dei siriani, così che Israele potesse impossessarsi delle alture del Golan. Il generale Moshe Dayan li incaricò di mandare dei trattori ad arare un terreno pressoché inutile, in una zona smilitarizzata, sapendo bene che i siriani avrebbero aperto il fuoco. Se così non fosse successo, l'unità di David doveva far avanzare i trattori fino a spingere i siriani a sparare. Usarono l'artiglieria e poi entrò in gioco anche l'aviazione. Ma l'ultimo giorno, quando Israele attaccò nel Mediterraneo la Liberty della marina statunitense, David fu mandato a casa perché si era ferito una mano. Era stato colpito da un fuoco amico che gli aveva ustionato il palmo destro. Jolanta ebbe un tuffo al cuore quando seppe che suo figlio era rimasto ferito e non trovò pace finché David non tornò a casa.
Gli buttò le braccia al collo. "Figlio mio! Fammi vedere la mano." "È a posto, Ma'. Me l'hanno sistemata." Volle controllare comunque. Non riusciva a smettere di ringraziare Dio per aver salvato suo figlio. "Hai fame?" Lo guardò con gioia mangiare il kreplach che aveva preparato con le sue mani. Il kugel e i blintze. Il mio cuore non reggerà se gli succederà qualcosa. In un angolo del suo amore, il segreto giaceva in attesa. Non era stato nelle sue intenzioni nascondere la verità a David. Fin dal giorno in cui era arrivato, nel luglio del 1948, tutto ciò che Jolanta era o era stata aveva fatto di lei semplicemente la madre di David. Il modo in cui aveva finito per diventare suo figlio rimase non detto, un'innocua farfalla in un campo d'amore. Adesso, vedendo la sua mano fasciata, Jolanta capì che non avrebbe retto l'eventualità di perdere suo figlio. Non poteva impedirgli di servire nell'esercito, ma poteva tenergli nascosta la verità. È mio figlio, è questa l'unica verità di cui ha bisogno, decise, ingabbiando la farfalla. Dodici YUSSEF, IL FIGLIO 1967 Un ragazzo, uno studente dell'Università di Betlemme, si precipita in aula durante una mia lezione sulle curve polari e parametriche. In circostanze normali, avrei accettato di buon grado l'interruzione. Ma non oggi. Non per questa notizia esplosiva nel bel mezzo della mia lezione. "Gli ebrei stanno bombardando l'Egitto! C'è la guerra! " grida il ragazzo, e corre via lungo il corridoio. Guerra. La parola fa esplodere un bagaglio di terrore che mi porto sulle spalle da quando ho cinque anni. Dal 1948, l'anno in cui io e la guerra siamo stati ufficialmente presentati. Mi fa gelare il sangue nelle vene. Quando torno in me, i miei studenti sono ormai scappati fuori dall'aula, precipitandosi sotto un vessillo sonoro di "Allahu akbar". Devo tornare a }Jenin. La folla si sta già riversando per i vicoli e le strade di Betlemme. Corro, spingendo e facendomi strada verso il pensionato dove ho preso in affitto una piccola stanza gestita dalla moschea di 'Omar ibn alKhattab. Hajja Umm Nassim apre la finestrella dell'antico portone di legno e la richiude di scatto non appena vede che sono io. Un attimo dopo,
preceduta da uno sferragliare di chiavistelli, la pesante porta si apre ruotando lentamente. Il corpo minuscolo di Hajja Umm Nassim sembra ancora più piccolo accanto a quella porta gigantesca, mentre mi fa segno di entrare. " Yussef, ya uledi! " dice nervosamente. "Hai saputo la novità?" È la prima volta che la sento pronunciare il mio nome. Nei due anni che ho passato a Betlemme, mi ha sempre chiamato solo "uledi". Figliolo. Ogni giorno, quando torno dal lavoro, mi porta del cibo che ha tenuto da parte. "Ecco, ya uledi. Mangia, mangia" dice con gentilezza. Tutto ciò che Hajja Umm Nassim dice o fa è sempre pervaso di carità. Perfettamente dritta, non raggiunge il metro e mezzo di altezza. Nuota nella sua enorme thobe e oggi affoga nell'inquietudine. "Devo tornare a Jenin, hajja" dico, superandola velocemente. Mi segue, tendendo il collo per guardare il pavimento ed evitare che le sue gambe nascoste, affrettandosi, inciampino nella thobe. " Ya uledi! È troppo pericoloso andare adesso. È un viaggio troppo lungo e non sappiamo cosa può succedere da un momento all'altro. Dicono che la Giordania e la Siria si stanno già muovendo per aiutare l'Egitto, e che arriverà anche l'Iraq." "La mia famiglia ha bisogno di me." Riempio una piccola borsa mentre Hajja Umm Nassim mi guarda dalla soglia. "Chiederò ad Abu Maher di accompagnarti. Non troverai mai un taxi in questa confusione" dice, girandosi sulle sue gambe nascoste. Ha ragione. La maggior parte dei veicoli sono già in fuga verso la Giordania. Mentre sto uscendo, Hajja Umm Nassim ricompare sulla soglia. Ha un'aria seria e autoritaria. "Abu Maher arriverà con la macchina tra cinque minuti. Se per qualsiasi motivo non potrà tornare a Betlemme stanotte, fa' in modo che resti con la tua famiglia a Jenin. Tieni" dice poi, infilandomi delle banconote arrotolate nel taschino della camicia. I soldi mi servono. Ho meno di venti fils in tasca e non so come pagare la benzina. Ma l'orgoglio spinge la mia mano a restituirglieli. "Uledi! Non fare storie. E comunque, è la quota inutilizzata del tuo affitto, puoi rendermela quando torni. Vai, Abu Maher ti aspetta. Che Dio vi protegga. " La bacio sulla testa, sul hijab, ed esco.
Tredici IL BELLISSIMO DEMONE DI MOSHE 1967 David era a casa da meno di un'ora quando Yarel, un suo compagno delle superiori, venne per parlargli di un prigioniero arabo. "Quel figlio di puttana dovrebbe essere morto, da tante ne ha prese. È uno tosto..." disse Yarel, cominciando quello che sembrava un lungo racconto inutile. "Perché me lo dici? Non mi interessa" lo interruppe David. "Be', ho fermato i ragazzi che lo picchiavano..." ricominciò Yarel. "Non mi interessa. Ecco, prendi del kugel. L'ha fatto mamma." Yarel non smise quel tono serio. "David, devi venire a vedere questo arabo. È come... è il tuo gemello." "Ah sì?" David era divertito. "Stai dicendo che somiglio a un goy, idiota che non sei altro?" "Credo che dovresti venire con me domani. " Si chinò, avvicinandosi. "Tolta la cicatrice, la vostra faccia è identica." David deglutì, cercando sul volto dell'amico un indizio che smascherasse lo scherzo. "D'accordo. Passa a prendermi domani." In una cella insieme ad altri quindici prigionieri, Yussef era rannicchiato nudo e in fin di vita, con le mani legate dietro la schiena e il volto incappucciato, quando David e Yarel firmarono l'ingresso al carcere di Ramla, gremito di detenuti rastrellati alla cieca dopo la guerra. "È lui, quello con il segno rosso sul braccio. L'ho fatto io per riconoscerlo" disse Yarel, togliendo il cappuccio dalla testa di Yussef. David abbassò lo sguardo su un uomo livido, sfregiato e ricoperto di sangue. Gli occhi erano nascosti sotto la carne tumefatta e l'inguine era rigonfio. "Cazzo, Yarel! Mi hai fatto venire fin qua per questo?" David era furente. Aveva solo un permesso limitato dall'esercito e Yarel l'aveva trascinato in quel viaggio di un'ora fino al carcere per niente. "Vaffanculo, David. Ieri non era conciato così. Credimi, preferirei passare il mio giorno libero a casa con la mia fidanzata anziché qua. " Yarel era convincente. "Fai come ti pare. Ma secondo me dovresti tornare. Ho degli amici qua dentro. Gli chiederò di trasferirlo all'infermeria. Nel giro di qualche giorno dovrebbe rimettersi." Quella sera, a cena, David raccontò della sua giornata insieme a Yarel al carcere di Ramla. Moshe, cosa rara, era a casa a mangiare con la
famiglia e Jolanta come al solito era indaffarata al bancone della cucina. "Yarel dice che io e l'arabo sembriamo gemelli" disse David, prendendo un morso di pane. Un piatto si fracassò sul pavimento della cucina. David si voltò e vide Jolanta irrigidirsi. "Tutto bene, Ma'?" "Non voglio che torni in quel carcere." "Non ci penso nemmeno. Ma non capisco perché sei così agitata..." Moshe abbassò gli occhi sul piatto, lasciò cadere rumorosamente la forchetta e si alzò, spingendo indietro la sedia. "Lascialo andare, Jolanta. Prima o poi dovrà andare." Detto questo, Moshe prese e uscì di casa. Scese pesantemente i gradini, sbatté il cancello del cortile, girò l'angolo, percorse tre isolati, entrò nel suo rifugio e disse al barista: "Ben, il solito. Con ghiaccio". Moshe avrebbe voluto che David sapesse cos'era successo anni prima. Il regalo che aveva fatto a Jolanta nel 1948 si era trasformato in un segreto troppo pesante da sopportare. Quella verità non era una farfalla ma un demone - un demone con il bellissimo volto della donna araba che gli aveva servito un piatto di agnello. I cui figli, uno sul petto e l'altro attaccato alle gambe, si erano mossi con lei, e che ancora gridava "Ibni, ibni! " dentro la testa di Moshe. Non era quello che aveva sognato. Aveva sognato una vita normale: una patria, una moglie, una famiglia. Aveva combattuto per salvare il popolo ebraico. Ma adesso era perseguitato dalle terribili espulsioni, dalle uccisioni, dalle violenze. Non poteva affrontare tutti quei volti, le loro voci. C'era così poca tranquillità nella sua vita. Il suo cuore trovava un po' di conforto solo nell'alcol. Così ogni giorno girava l'angolo, percorreva tre isolati ed entrava nel suo rifugio per mettere a tacere i demoni e se stesso. Alcuni giorni dopo, David partì insieme a Yarel e firmò di buon'ora l'ingresso al carcere di Ramla. Il secco calpestio dei loro scarponi militari riecheggiò tra le pareti sudicie mentre si dirigevano verso l'infermeria. Un attimo dopo, David era al capezzale di Yussef. Il gonfiore era diminuito e una sacca endovenosa gli stillava del fluido dentro al braccio, ancora segnato di vernice rossa. Meno di quindici centimetri separavano i loro corpi e in quello spazio erano racchiusi quasi ventanni, una guerra, due religioni, un Olocausto, la Nakba, due
madri, due padri, una cicatrice e un segreto le cui ali battevano lentamente, come quelle di una farfalla. David tastò il polso dell'arabo. "È vivo." Le palpebre rigonfie si aprirono piano e la cicatrice di David dissolse la foschia del dolore fisico. Si guardarono per quasi venti secondi. Venti eternità, durante le quali David indugiò, agganciato a troppe domande sbagliate. È possibile che abbiano catturato un ebreo per sbaglio? Un mio parente? Un ebreo venuto in Palestina senza sapere che anche i suoi parenti erano sopravvissuti? Cercò di trovare delle risposte, aprendo e chiudendo i cassetti della sua memoria per cercare un indizio su chi potesse essere o che cosa potesse significare per lui quel prigioniero. Da un angolo dell'occhio dell'arabo scivolò una lacrima. Isma'il! Allungò una mano verso il soldato e perse di nuovo i sensi, lasciando cadere il braccio a lato del letto. Quattordici YUSSEF, L'UOMO 1967 Il mio mondo cambia a partire dal giorno in cui Hajja Umm Nassim mi chiama per nome. Torno a Jenin e devo farmi strada tra la folla per entrare in casa. Mia sorella è contro la parete. Pietrificata dalla paura. Non riesce a vedermi e voglio andare da lei. Voglio parlarle, prenderla tra le braccia per soffocare la paura, ma mio padre mi trascina via. Mi dà un'arma che ha preso dal suo piccolo nascondiglio nella buca sotto la cucina, per difendermi dalla furia che si è abbattuta sul mondo. Per la prima volta nella mia vita, stringo un fucile tra le mani. Devo trovare Fatima. Non puoi andare, dice mia madre. Mamma, una vittima esperta della guerra, sta raccogliendo vettovaglie e pensando a dove nascondersi insieme alle altre donne. Mi dice che Fatima è andata a casa di suo zio, a Ramallah, insieme a sua madre e alle sorelle. Poi aggiunge, là sarà al sicuro. Nei giorni seguenti sono circondato di nuovo dal fuoco e dalle anime in fuga. Da una paura attorcigliata alla rabbia. Sparo con il mio fucile, ma nel momento della verità, quando il coraggio mi mette alla prova guardandomi dritto negli occhi, non riesco a spezzare la vita di un altro. Ho paura di violare la vita. Paura di perdere la mia. Così cammino insieme agli altri, le braccia alzate in segno di resa. Uno dei soldati
ebrei mi prende il volto, lo studia meravigliato. Sono disorientato dall'incredulità nei suoi occhi. Solo ora capisco che era identificazione. Durante quella settimana vedo parole famigliari infrangersi come cristallo e riassemblarsi in spiriti maligni che artigliano la mente, lacerandola. "Esempio" non era che un bruscolino. L'avevo sentita e pronunciata un'infinità di volte: "per esempio". Questa parola così insignificante e banale invade i giorni felici della mia infanzia e ruba il ricordo delle partite a calcio insieme al piccolo Jamal, che ora gli ebrei trasformano in un "esempio" davanti ai miei occhi. Guardo la vita stillare dallo squarcio di proiettile di un "esempio" di sedici anni e mi stupisco di come cose normalmente innocue come le parole possano diventare crudeli e spietate per rispondere alla sete di potere, a dispetto della ragione o della storia. Quindici YUSSEF, IL PRIGIONIERO 1967 Qui, in questo buco umido, vivo dell'amore di Fatima e dei ricordi del nostro futuro. Sono questi i fili a cui mi aggrappo per respirare. Il mio corpo è stordito dai dialetti della tortura. Ho oltrepassato la soglia del dolore, sono diventato insensibile. Non riesco a vedere, ho gli occhi chiusi per il gonfiore. Sono disteso, legato a me stesso con una corda, e credo che qualcosa, o tutto, sia rotto. Credo che morirò. Penso a Fatima, al mio amore, e riesco a sentire il profumo del gelsomino tra i suoi capelli. Vedo le sue ciglia fluttuare quando maliziosamente, peccaminosamente, posa gli occhi su di me nel mercato affollato. Il vaso che tiene in perfetto equilibrio sulla testa non cade quando alza il foulard ricamato per coprirsi le labbra con un gesto seducente, prima di guardare altrove. Poi si gira, per essere sicura che la sto guardando. Sono elettrizzato, il respiro mi si secca nella bocca aperta. Sta camminando per me. Il vaso sulla testa si sposta insieme a lei e sono colpito dalla simmetria dei suoi movimenti. Me la immagino ballare solo per me, con il vaso in equilibrio sulla testa e i fianchi e il ventre che ruotano e si curvano sinuosamente. Rileggo le sue lettere, ornate da svolazzi nei miei ricordi: Amore mio, mia mamma e le mie sorelle saranno a Gerusalemme da mercoledì fino a venerdì. Vieni giovedì prima della preghiera dell'alba, al nostro solito posto. Mi manchi da morire. Sono due settimane! Sento dei rumori attorno a me. I soldati mi
stanno tastando il collo, cercano pulsazioni. Mi buttano addosso dell'acqua e ora sono lucido. Non importa; torno a Fatima, a colei che tiene unito il mio corpo al mio respiro. La rivedo nel frutteto di peschi, sotto al limpido cielo d'Oriente e sotto di me, che temo di esplodere dal desiderio. Mi sussurra nelle labbra: "Quando saremo sposati, Yussef. Non ora". Ma mi lascia toccare la sua morbidezza, portandomi nell'ardente paradiso del suo mistero. Le prendo i seni tra le mani, seguo il ritmo dei forti battiti del suo cuore. Muove il corpo in un groviglio di inesperienza, passione e paura della colpa e del peccato. Il suo corpo esala nel mio una dichiarazione d'amore e placa la mia febbre. Mi alzo sopra di lei e bevo la sua nudità, il sacrificio che le impone la cultura per amore, la sua sottomissione a me. Assaggio i suoi seni, cautamente, e sento la terra ruotarmi nel cuore. Prometto silenziosamente a Dio di onorare il suo amore e di proteggerla fino all'eternità. Trovo il vergine graal che un giorno partorirà i miei figli, e bevo dalla sua coppa. Lei si alza bruscamente, spaventata dal crescere improvviso del piacere. Le bacio le labbra. "Fidati di me" dico, e lei si abbandona. La sua schiena si curva come l'arco del sole nascente, poi si tuffa, gemendo, tra le mie braccia. I soldati mi strappano dal mio ricordo di Fatima. Parlano tra loro e se ne vanno. Poco dopo mi portano in infermeria. Mi lascio condurre e, dovunque sono, ritorno al luogo della mia mente dove vive Fatima. Il gonfiore è diminuito e la luce di una lampadina mi filtra negli occhi. Ritrovo la luce dopo un'eternità e la vedo illuminare la cicatrice di un'altra vita. La cicatrice che ho tracciato per distrazione sul volto di mio fratello Isma'il. Ma Isma'il è morto. Un soldato israeliano, con il volto identico al mio, ha preso la cicatrice di mio fratello. Penso che sto sognando. Allungo la mano per toccare, ma lui indietreggia. Più tardi, non ora, capirò che non era un sogno. Isma'il è vivo. Mio fratello è un ebreo. È un soldato israeliano. Oh, padre, dove sei? Ci hanno separati, e chissà se gli ebrei hanno catturato anche te. Sei anche tu in questa prigione? In questa infermeria? Sono ancora vivo. Sono tornato al frutteto di peschi dove avevo scoperto il paradiso nella pelle di Fatima. Il campo è devastato. I profughi sono di nuovo profughi e non posso sopportare il bentornato. I segni della tortura gridano sul mio corpo e non ne vogliono sapere di festeggiamenti. Vedo soldati appollaiati sulle torrette e il cuore mi si
riempie d'odio. Strano, è la prima volta che mi sento così. Ma sono sicuro che non sarà l'ultima. Ci sono troppe persone attorno a me e cerco Fatima tra i loro volti. Umm Jamal mi viene a chiedere di suo figlio e non posso reggere la sua angoscia, il dolore di ciò che già sa nel profondo del cuore. Non riesco a guardarla negli occhi. Voglio che scompaia dalla mia vista. Non posso dirle che la vita di Jamal è stata strappata per dare significato alla parola "esempio". Un significato che non le appartiene. Non posso dirle che il figlio che ha portato in grembo, nutrito e amato è sepolto dentro una parola, che prende nuova forma dal sorriso di Jamal e dalle sue grandi orecchie. Ci sono degli spari e la gente ci lascia tranquilli. Mamma è stoica, ma so che sta piangendo. Le sue lacrime cadono dalla parte sbagliata, nel pozzo senza fondo che c'è dentro di lei. La mia sorellina Amai è rannicchiata in un angolo. Qualcosa le è strisciato dentro agli occhi, li ha svuotati. Anche se ho soltanto voglia di stare solo, l'assenza di papà mi costringe ad andare verso Amai, che mi si butta con foga sul petto, stringendomi il corpo ferito come se volesse attaccarsi a me per l'eternità. Papà non è più tornato da quando è cominciata la guerra. Il cielo grava sulle mie costole rotte mentre penso l'impensabile. Che mio padre, l'uomo che credevo non potesse morire, sia morto. Mi distendo, trovo un cuscino, e sento le parole di Rumi che mormorano nel sussurro del respiro di papà: Come può una parte del mondo abbandonare il mondo? Come può l'umidità lasciare l'acqua?... Ciò che ti ferisce, ti santifica... he tenebre sono la tua candela. I tuoi limiti, la tua ricerca. Potrei spiegarlo, ma romperebbe la copertura di vetro sul tuo cuore, e sarebbe irreparabile. Ti bastano queste parole, o devo stillare altro succo da tutto questo? E, mentalmente, dico a papà cosa ho scoperto. Isma'il è un yahudi, un sahyuni che combatte per Israele. Sedici I FRATELLI SI INCONTRANO DI NUOVO 1967 Cinque soldati israeliani, quattro a terra e uno sulla torre di controllo, sorvegliavano un posto di blocco vicino al villaggio di Barta'a. Si alternavano in gruppi di due, strascicando i piedi e sedendosi
mollemente nella noia di una crudeltà tediosa. David era sprofondato nella jeep quando due palestinesi si avvicinarono al posto di blocco, porgendo carte d'identità e fogli di permesso per il controllo. Anche se era tutto in regola, il soldato al cancello ordinò loro di farsi da parte, fermando la lunga fila di palestinesi che aspettavano di passare. Il soldato era un newyorkese corpulento la cui famiglia era immigrata in Israele. "Ehi! " Il soldato infilò la testa dentro la jeep, dove David era seduto a mangiare dell'anguria. "Vieni a vedere questo figlio di puttana di un arabo. Sembra il tuo cazzo di gemello! " disse ridendo. Il terrore spazzò via la noia. La farfalla di Jolanta sbatté le ali nello stomaco di David; il demone di Moshe gli alitò sul collo. Quel segreto che non sapeva, che non voleva sapere, l'aveva seguito. Esitò prima di scendere dalla jeep. Mentre seguiva il suo superiore, David soffocò l'impulso di prenderlo a calci, di veder rotolare quel grasso newyorkese giù dalla collina. Non aveva voglia di rivedere il palestinese. Quell'uomo con la sua stessa faccia, ma senza cicatrice. Sbirciando da sotto il bordo dell'elmetto, David si avvicinò al palestinese e i due uomini si riconobbero nella stessa angolatura della mascella, nelle stesse fossette sul mento, nella stessa pienezza delle labbra. I loro sguardi traboccavano di domande - Chi cazzo sei, arabo? - Come sei diventato un ebreo, Isma'il? - e nell'aria aleggiava un segreto che David non voleva conoscere. Affranto, Yussef chiese con le poche parole in ebraico che conosceva, poi in arabo, nel caso in cui il soldato capisse: "Ti chiami Isma'il?". Il soldato newyorkeseisraeliano scoppiò a ridere. Un furioso svolazzare di farfalle offuscò la vista di David e i demoni gli soffiarono nelle orecchie. David schiaffeggiò l'arabo. Poi lo colpì con il calcio del fucile. Non sapeva perché, ma non riusciva a fermarsi. Gli tirò una raffica di calci nel basso ventre. Continuò così, senza sosta, finché quell'arabo - quel volto - non perse i sensi. L'amico piangeva là accanto. "Basta, basta, vi prego. Non siamo terroristi. Non ha fatto niente. I nostri permessi sono regolari. Vi prego" li supplicava. "Okay. Okay" rispose il newyorkese, spingendo David da parte. "Non ho voglia di riempire tutte le carte per un morto al posto di blocco."
Yussef era disteso per terra, sanguinante. "Okay. Riportalo da dove siete venuti. Subito!" ordinò il soldato grasso. David si allontanò senza fiato. Diciassette YUSSEF, IL COMBATTENTE 1968 Ho paura di essere diventato impotente. Paura che i suoi colpi mi abbiano danneggiato per sempre i genitali. Orinare fa male. Ma vedere Fatima fa ancora più male. Passa davanti all'officina e mi nascondo sotto al cofano di una macchina, fingendo di non vederla, anche se tutti i miei amici sanno che è a Jenin solo per me. Mi guardano mentre mi nascondo e si nascondono a loro volta per non vedere il dolore sul suo volto. Anche Amai mi viene a cercare. La mia sorellina. È insieme a Huda e mi guarda dall'altro lato della strada. So che vuole che riempia il vuoto lasciato da papà. I soldati mi vengono a cercare. Mamma sta sempre peggio. Sono distrutto, non posso aiutare le persone che amo. Se resto qui morirò. Ma qualcosa continua a bruciarmi dentro. Qualcosa che si rifiuta di cedere, che vuole la lotta. Diciotto OLTRE LA PRIMA FILA DI ALBERI 1967-1968 Com'era successo a Hassan dopo la conquista del 1948, l'attacco israeliano del 1967 e la successiva occupazione della Cisgiordania lasciarono suo figlio Yussef con un destino incerto. La morsa dell'occupazione israeliana gli stringeva la gola, senza tregua. I soldati governavano arbitrariamente le loro vite. Erano loro a decidere chi poteva passare e chi no, e senza alcun criterio. Sceglievano chi schiaffeggiare a seconda del proprio capriccio. Stabilivano del tutto arbitrariamente chi doveva spogliarsi e chi no. Yussef crebbe a somiglianza del padre. Il suo temperamento tranquillo rispecchiava quello di Hassan. Trovò conforto nelle viscere della solitudine e si fece forte con la riflessione e il pensiero. Dato che l'occupazione limitò gli spostamenti dei palestinesi, Yussef non potè
più recarsi al lavoro e rinunciò al suo posto all'Università di Betlemme, accettando un incarico come insegnante nella stessa scuola maschile dell'Unrwa dove il padre aveva lavorato come bidello. Per lo stesso motivo, Yussef non poteva più rifugiarsi sulle colline quando voleva. Così, dopo il lavoro, riversava le sue energie nell'officina che aveva ereditato dal padre. Presto Yussef cominciò a trascorrere la maggior parte del tempo lontano da Amai e dalla madre. Di tanto in tanto lo si vedeva al caffè Beit Jawad che mandava boccate di fumo da un narghilè o ingannava il tempo giocando a backgammon o a carte con gli amici. Ma ogni venerdì, dopo la preghiera della jama'at, vinto dal richiamo della solitudine, dalla seduzione della bellezza della natura e dall'inarrestabile forza dell'abitudine, affrontava umiliazioni e attese interminabili ai posti di blocco per salire sulle colline, come aveva fatto insieme a Hassan da ancora prima che ne avesse memoria. Là, al riparo sotto le fronde degli alberi, Yussef leggeva. Era un'impresa coraggiosa, l'impulso solitario e tenace a onorare la memoria di suo padre. Proprio come Amai continuava a leggere alle prime luci dell'alba, come aveva fatto insieme a suo padre, Yussef continuava a tornare sui pascoli con un libro sottobraccio. Erano queste le condizioni dettate dalla disperazione, dal bisogno di cercare una continuità, di salvare come potevano la loro sorgente di forza - Hassan, il loro papà. Per sei mesi, Yussef aveva subito torture e pestaggi che avevano segnato quasi ogni parte del suo corpo. Era stato costretto a spogliarsi davanti alle donne e ai suoi studenti, aveva dovuto baciare i piedi a un soldato che minacciava di picchiare un bambino se Yussef non si fosse inginocchiato. La maggior parte degli uomini erano stati sottoposti a simili trattamenti. La maggior parte ne erano usciti devastati. E la maggior parte erano tornati da queste umiliazioni rivolgendo una rabbia feroce contro le proprie mogli, le proprie sorelle o i propri figli. Yussef rivolse tutto questo dentro di sé, come aveva fatto Dalia. Segregò il dolore, lasciando che s'intrecciasse con l'impotenza. Il silenzio consumava la loro piccola baracca a Jenin, e in seguito sia Amai che Yussef avrebbero ricordato quei giorni con un cupo senso di vuoto. La durezza trovò un terreno fertile nei cuori dei palestinesi e i germi della resistenza si radicarono nella loro pelle. La sopportazione diventò una caratteristica distintiva della comunità dei profughi. Ma il prezzo che pagarono fu l'annientamento della loro dolce
vulnerabilità. Impararono a esaltare il martirio. Solo il martirio offriva la libertà. Solo nella morte potevano essere invulnerabili a Israele. Il martirio diventò il rifiuto supremo dell'occupazione israeliana. "Non fargli mai capire che ti hanno ferito" era il loro credo. Ma il cuore non è insensibile. A volte il dolore affiorava camuffato da gioia. A volte era difficile capire la differenza. Per le generazioni nate nei campi profughi, il dolore trovava quiete in un letto di necrofilia. La morte finì per somigliare alla vita e la vita alla morte, e ci fu un periodo, durante la sua adolescenza, in cui Amai aspirò al martirio. Potrei spiegarlo, ma romperebbe / la copertura di vetro sul tuo cuore, / e sarebbe irreparabile. Yussef partecipava di rado al cantilenare rabbioso dei cortei funebri. Non celebrava il martirio, né lasciava trasparire il suo dolore. Una profonda sofferenza gli si agitava nel petto dietro a una corazza d'indifferenza. Amai lo adorava e cercava sempre la sua compagnia. A volte si sedeva insieme a Huda dall'altro lato della strada rispetto all'officina e guardava suo fratello che lavorava, sperando che la invitasse a trafficare con lui sotto i cofani. Che la rendesse partecipe della sua vita. Che la facesse sentire in famiglia. Che la abbracciasse come aveva fatto quella volta, quaranta giorni dopo la guerra. A volte Yussef si accorgeva di lei, ma non le chiedeva mai di avvicinarsi. Quasi non si parlavano più, Yussef e Amai. Dopo l'incidente di Barta'a, quando David l'aveva gettato a terra e pestato, Yussef aveva chiuso le porte del suo cuore. Le lettere che riceveva da Fatima rimanevano senza risposta. Mentre una decisione si andava formando lentamente nel cuore di Yussef, la loro madre vagava per gli affollati reami della propria mente, persa in un dialogo con le ombre. Umm 'Abdallah sedeva tenacemente al suo fianco e le due donne lavoravano a maglia tutto il giorno sul balcóne che s'inclinava sotto al loro peso e ombreggiava l'ingresso di casa. Amai e Huda le guardavano con stupore e si chiedevano spesso se erano molto coraggiose o semplicemente inconsapevoli che il balcone era pericolante. Era una struttura puramente decorativa, larga a mala pena per ospitare due persone. A parte questo, all'epoca Amai prestava poca attenzione a Umm 'Abdallah. Ma anni dopo, ripensando a quei tempi, avrebbe imparato ad amare la donna che aveva dimostrato
quell'incrollabile fedeltà a sua madre. Anche quando Dalia cadeva nei suoi stati più confusionali, Umm 'Abdallah ascoltava quei monologhi senza senso e la riportava delicatamente al lavoro a maglia se cominciava a vagare senza meta. Huda tornò a vivere insieme alla madre e al fratello subito dopo la fine della guerra. Ma lei e Amai non smisero di passare insieme le giornate, ed era l'unica cosa che dava loro un senso di continuità. Come prima, le due ragazzine dovevano badare a se stesse, ma ora le consuetudini volevano che Amai si occupasse anche della famiglia. Prima della guerra, lo sfondo della vita di Amai aveva i colori delle albe affettuose insieme a suo padre, degli insegnamenti stoici di sua mamma e della relazione segreta tra Yussef e Fatima. Adesso queste tinte erano state sostituite dal verde militare e dai toni scialbi della povertà. I vicini la guardavano con compassione e bisbigliavano. "Cosa farà questa ragazzina?" "È quasi in età da matrimonio. Questo è un bene." "Sì. Se piacerà a Dio, presto troverà un brav'uomo che si prenderà cura di lei." Il suo corpo aveva già cominciato ad allungarsi e a modellarsi in nuove forme, ma Amai era ancora una bambina di dodici anni il freddo venerdì di gennaio in cui i cedri erano maturi e le viti venivano potate e Yussef tornò inaspettatamente a casa dopo le preghiere del jum'a. Amai fu contentissima della sorpresa. Preparò il pranzo, il loro pasto principale, e distese sul pavimento dei giornali vecchi sui quali mangiare. La prospettiva di passare un po' di tempo insieme a quel fratello sfuggente la rese euforica e non vedeva l'ora di fare sfoggio delle sue doti culinarie. Anche Dalia sembrò riemergere dal suo abisso di irrealtà e Amai pensò che sarebbe stato come ai vecchi tempi. Un po' come la famiglia che erano stati. "Amai, puoi consegnare questa a Fatima?" le chiese Yussef porgendole una busta sigillata. Abbattuta, Amai gli chiese: "Non ti fermi a pranzo con noi? ". Yussef avvertì la delusione di Amai, finse di seguire l' " aroma inebriante" della sua cucina e si ritrovò seduto al suo fianco. "Quando sei cresciuta così tanto, Amai?" mormorò con la bocca piena del cibo che gli aveva preparato. "Ho quasi tredici anni." Sorpreso dallo scorrere del tempo, Yussef si fermò, la studiò e vide la prova concreta del passare inesorabile degli anni. Guardò la sorella e provò uno sferzante senso di colpa per averle
prestato così poche attenzioni da quando era scoppiata la guerra. "Sei bellissima" le disse. Quelle parole perfette, una delizia per le orecchie di Amai, risuonarono sulla caotica, sgraziata percezione che la piccola aveva di sé. Sorrise raggiante. Divisero la maklube - un piatto di riso indorato dall'intingolo di agnello, melanzane e zenzero - e si passarono la salsa di yogurt e cetrioli, i pinoli tostati e le cipolle croccanti. Amai era felice. Il pranzo fu colorito dalle fragorose risate di mamma, che seppe trovare dell'umorismo nell'alveare del suo mondo invisibile, mentre Yussef e Amai complottavano futilmente in un'allegra armonia condita di sorrisi, conservando quegli attimi passati insieme in uno scrigno di bei ricordi. Il ricordo del loro ultimo pasto insieme a mamma. Dopo pranzo, Amai corse a chiamare Huda con la busta di Yussef tra le mani. Insieme, si calarono nuovamente nelle vesti di messaggere delle lettere d'amore tra Yussef e Fatima. "Proprio come ai vecchi tempi" disse Huda. "Già. E al ritorno, passiamo a vedere se la casa di Warda c'è ancora." Proprio come ai vecchi tempi. Fatima vide Amai e Huda dalla finestra e aspettò con trepidazione di ricevere la lettera del suo innamorato. Le fossette del suo sorriso illuminarono la casa mentre prese eccitata la lettera. "Mangiate dei biscotti, ragazze. C'è del tè caldo sul fornello" disse, aprendo la busta e dirigendosi verso la stanza sul retro. Amai e Huda si servirono e aspettarono. Un grande specchio con una vistosa cornice d'oro sfavillante di finte pietre preziose era inclinato contro una parete e rifletteva il corpo di Amai nella sua interezza. Non si era mai vista così. A Jenin avevano un solo specchio, piccolo e insufficiente, appeso sopra al lavandino del bagno. A casa di Fatima, vedeva per la prima volta i boccioli sul suo petto, che le dolevano da settimane. Arrotondavano il tessuto della sua camicetta in un rigonfiamento che spinse la sua mano a seguire quelle forme femminili. "Cosa stai facendo?" Huda, masticando i dolci presi dalla cucina di Fatima, guardò il seno che l'amica racchiudeva in una mano colpevole. "Mi fa male il petto" disse Amai, cercando invano di sembrare disinvolta.
"Zia Nadia dice che è quello che succede quando cominciano a crescere" disse Huda con indifferenza. "Spero che crescano presto anche a me." Si ispezionò, eccitata. "Perché?" "Non ti piacciono le tue? " "Mi fanno male." "Tanto lo so che ti piacciono" disse Huda con tono accusatorio. "E allora?" "Posso toccarle?" "No!!!" Il silenzio che seguì fu interrotto dai singhiozzi di Fatima dall'altra stanza. "Fatima sta piangendo" disse Huda. "Lo sento che sta piangendo!" "Fatima, stai bene?" chiese Amai, aprendo la porta. Curva sotto l'enorme dishdashe azzurro chiaro, Fatima alzò il volto dalle mani. Aveva un aspetto terribile. Si strofinò inutilmente il naso, cercando di ricomporsi, ma aveva i capelli appiccicati alle guance bagnate e gli occhi rossi e gonfi. La lettera era accartocciata in una mano. "Amai, cara, perché adesso tu e Huda non andate a casa?" disse in tono sommesso, addolorato. Amai e Huda presero il solito sentiero che si snodava tra le colline della Palestina del Nord. Trovarono la vecchia casa di Warda ancora intatta, ma Warda non c'era. Provavano entrambe un dolore acuto per aver perso la loro bambola con un braccio solo, la loro bambina, ma nessuna delle due disse nulla. Piansero di nascosto nei loro giovani cuori, perché sembrava infantile piangere per una bambola dopo aver sepolto 'Aisha, una bambina vera, che piangeva vere lacrime e perdeva vero sangue. Ma il dolore per la perdita di Warda era ancora più grande, e fu un segreto che ciascuna delle due si tenne per sé mentre si allontanavano dalla casa di Warda. Gli alberi avevano perso le foglie per il freddo dell'inverno e i tronchi argentati degli ulivi si ergevano spogli come vecchie mani colossali, come guardiani nodosi e contorti del tempo, che spuntavano dal terreno, pazientemente rassegnati ad aspettare la stagione della fioritura. Le case, alcune centenarie e con folti rampicanti aggrappati ai muri, punteggiavano i pendii, e i pastori si spostavano con le loro greggi. Molti anni dopo, Amai avrebbe ripensato a quella fertile bellezza che aveva dato per scontata, mai immaginando che qualcosa di così antico e straordinario potesse essere cancellato o che qualcuno potesse volerlo cancellare.
A quel tempo la maggior parte della Cisgiordania era ancora ricoperta di verde, quella maestà naturale che si piega al vento, si spoglia al freddo e fiorisce al sole. Ma le cose sarebbero cambiate. Una casa, una fattoria, un villaggio alla volta. Demoliti, confiscati, rasi al suolo un'incessante appropriazione della terra palestinese. "Imperialismo al millimetro," lo chiamava Hajj Salim. Oggi il sentiero sul quale le ragazzine portavano l'amore di Yussef e Fatima sfuma in una terra brulla e desolata, cosparsa delle macerie di vecchie case, pneumatici bruciati, involucri di proiettili e piccoli ulivi che si sforzano di crescere. "Chissà cosa c'era scritto in quella lettera, per farla piangere." Huda era preoccupata per Fatima. Camminarono velocemente, finché non arrivarono al posto di blocco. Là, un soldato magro chiese loro: "Dove state andando? ". "A Jenin" rispose Huda mestamente. "A Jenin" disse Amai, vergognandosi della propria remissività. Al momento giusto mostrarono le carte e le tessere che erano obbligate a portare con sé dal giugno 1967. Erano i documenti d'identità di diverso colore che classificavano i palestinesi a seconda della religione e della zona in cui vivevano, oltre ai vari fogli dei permessi per spostarsi a est, ovest, nord o sud. Per i trattamenti medici, le attività commerciali e i pass universitari c'era bisogno di permessi speciali, così che una persona finiva per portarsi addosso pile intere di foglietti rosa, gialli e verdi, sgualciti e malridotti dal costante tocco delle dita, dal sudore e dal continuo aprire, controllare e richiudere. Dall'altra parte del posto di blocco, un soldato stava interrogando Osama Jamal, un ragazzino di quattordici anni che viveva a Jenin - non nel campo profughi, ma nella città che lo ospitava. Suo padre aveva una panetteria che attirava i passanti con l'aroma di pane appena sfornato, mana'ish e fatayer. Al posto di blocco, Osama fu spinto a terra e preso a calci dal soldato. Un altro soldato l'aiutò a rialzarsi e sgridò il primo in ebraico. Mentre i soldati litigavano, Osama si allontanò zoppicando con una costola rotta e l'ego a pezzi, pregando che le due ragazze di Jenin non l'avessero visto. Una volta lontane dagli sguardi dei soldati, Amai e Huda si offrirono di aiutarlo, ma lui rifiutò, finché il dolore vinse l'orgoglio e Osama consegnò le sue borse e si appoggiò alle loro spalle, dietro la promessa
che non avrebbero detto a nessuno che aveva accettato l'aiuto di due ragazzine. "Sei la sorella di Yussef Abulheja, vero?" domandò. "Sì" rispose Amai, lusingata che le avesse rivolto la parola. "Ti sanguina il naso." Huda prese un fazzoletto di carta dalla piccola scorta che si portava sempre nelle tasche perché, come ripeteva ad Amai, "puoi sempre aver bisogno di un fazzoletto". Amai non era mai stata così vicina a un ragazzo che non fosse Yussef, suo papà o 'Ammu Darwish. La cosa la fece arrossire di pudore e di una vaga agitazione, e la timidezza le strinse la gola. Accolse il peso di quel braccio sulla propria spalla, tenendo la testa in avanti e lo sguardo fisso a terra, mentre qualcosa le palpitava nello stomaco. Camminavano in silenzio, al ritmo del respiro faticoso di Osama, e lo sguardo di Amai si fissò su una piega dei pantaloni del ragazzo, che si formava e scompariva a ogni movimento della coscia sotto al tessuto, mentre il terreno si muoveva sotto ai loro passi. "Compri il pane al negozio di mio papà?" chiese Osama, mentre il dolore troncava e allungava le sue parole. Amai alzò la testa. Ma non l'aveva chiesto a lei, e capì che Huda era indifferente al suo interesse come lui lo era a quello di Amai. " Non parlare, peggiorerai le cose" rispose Huda con un'insolita assertività, che non era tanto sicura di sé quanto intenzionale, e la timidezza di Amai lasciò il posto all'invidia. A casa, Amai trovò Yussef che teneva la mano di mamma e parlava nell'aria stagnante che avvolgeva i suoi occhi vuoti. "Serve del pane? Posso andarlo a comprare" li interruppe, senza curarsi dell'evidente gravità della situazione, cercando solo una scusa per rivedere Osama. "Amai, ho bisogno di parlarti" disse Yussef. "Ma non ora. Puoi stare un attimo con mamma? Torno subito." E uscì. Impaziente di sapere cosa doveva dirle Yussef e perché Fatima si era messa a piangere, Amai lanciò uno sguardo ostile a sua madre e le si sedette accanto piena di rancore. Dalia si girò verso sua figlia. Emerse delicatamente dalla fluida calotta dell'inconsapevolezza, le sfiorò i capelli con le labbra, finalmente materna, e disse: "Yussef se ne va" sprofondando nuovamente nei suoi abissi. Torna indietro, mamma! gridò il cuore di Amai, ma la madre si era di nuovo ritirata dentro la sua mente.
Amai sapeva che Dalia aveva detto la verità. Yussef stava per andarsene. Forse gli israeliani gli stavano dando la caccia. Tantissimi uomini erano stati portati via bendati e ammanettati e non erano più tornati, trasferiti in un posto da cui uscivano solo i sottomessi e i devastati. Sentiva che stava per succedere qualcosa di terribile. Qualcosa che non riusciva ancora'a vedere o a capire, come l'alito nauseante di una bestia nascosta. Rabbrividì e le sue gambe cominciarono a muoversi senza meta. Corse fuori, senza sapere dove andare o nemmeno perché stava correndo. Huda. Dov'è Huda? "Huuudaaa" la chiamò da sotto la finestra di casa sua. La testa di Huda comparve solo il tempo necessario per dire: "Non ora. Passo dopo da te. Adesso non posso parlare. Ciao". Dio, cosa sta succedendo? Amai corse, incapace di controllare l'esplosione nelle sue gambe, i teneri boccioli sul suo petto martoriati a ogni passo. Gli occhi le pungevano per le lacrime, i polmoni le bruciavano dal freddo, finché non cadde in ginocchio, sfinita, nel frutteto di peschi, quel posto che un tempo brulicava di attività durante la raccolta di primavera e che d'inverno era un luogo di incontri clandestini dei giovani amanti, che si nascondevano dagli sguardi vigili delle famiglie. Adesso era vietato agli arabi, un altro dominio che Amai non osava violare. Eppure eccola là, oltre la prima fila di alberi... Diciannove YUSSEF SE NE VA 1968 Eppure eccomi là, oltre la prima fila di alberi nel frutteto di peschi, e stava diventando buio. Faceva freddo ed ero troppo sola per avere paura. Mi rannicchiai, sfinita e senza fiato, immaginandomi di essere tra le braccia di Osama. Mi addormentai così, avvolta dall'oscurità di un cielo tempestato di stelle, e mi svegliai prima dell'alba in un sottile strato di nebbia che indugiava bassa sul terreno. Non ricordo che effetto ebbe allora la scena che mi si aprì davanti agli occhi, ma adesso il pensiero di quel paesaggio mattutino mi lascia senza fiato. Era il suggestivo sfondo delle vite dei miei genitori chilometri e chilometri di pascoli che rivestivano vallate racchiuse tra oliveti ondulati. Alberi simili a nonni accoglienti e centenari, grinzosi e
ricurvi sotto il peso di braccia che si tendevano in ogni direzione come se stessero pregando. Gli uomini che avevano conquistato questa terra gloriosa, che risplendeva verde accanto alle azzurre acque del Mediterraneo fin da prima di Mosè, avevano detto che era un "deserto" che loro avevano "fatto rifiorire". Un sole splendido bagnava le colline della sua luce, simile a vernice gialla, e illuminava le vecchie case arabe che resistevano alle insidie dell'abbandono. Non c'era anima viva tutt'attorno e in quel momento mi sembrò di comprendere il fascino formidabile della solitudine. Istintivamente, misi le mani sui miei piccoli seni. Spinta dalla curiosità, li accarezzai con pensieri che alzarono ombre di colpa. La vergogna si agitava dentro di me, ricordandomi i testi sacri, il peccato, la punizione. Ma non prestai attenzione a nient'altro che all'irresistibile scivolare della mia mano nelle mutandine e là, sotto a un albero del frutteto di peschi proibito, scoprii i piaceri non detti della femminilità. La mia mano riemerse colpevole e insanguinata, indicando l'arrivo del misterioso e tanto atteso ciclo mestruale. Annusai il mio odore, assaggiai il sapore del mio sangue e capii che mi ero improvvisamente trasformata in una donna, che il mio mondo era magicamente cambiato. Mi alzai in piedi e m'incamminai verso Jenin, sicura che Yussef non se ne stava andando davvero, che era stato tutto un malinteso. Una parola in un arabo stentato ruppe il mio fantasticare. "Ferma!" Un soldato! Alzai due occhi supplichevoli verso il sole, ma il suo sorriso fulgido e indifferente mi riempì la vista di puntini neri mentre venivo sorpresa a sconfinare. Prima uno, poi altri due soldati mi furono addosso come iene, e cominciai a tremare di paura. Mi fecero un'infinità di domande, passandosi tra le mani il mucchietto di documenti di identità. Un soldato ripiegò con attenzione le carte e me le restituì cortesemente, misericordiosamente. "Vai a casa" disse. Incredula, mi allontanai con passi riluttanti e sospettosi, finché un istinto primitivo innescò nelle mie gambe tremanti una fuga precipitosa verso casa. Mentre correvo, un fruscio sembrò incendiarmi l'orecchio e qualcosa di terribile mi passò a pochi centimetri dalla testa. Poi sentii un crampo all'addome. Con il respiro in gola e le ginocchia deboli, mi fermai all'ingresso di Jenin, non lontano dal punto in cui il giorno prima Osama ci aveva chiesto di fare una sosta mentre io e Huda lo aiutavamo a camminare. Allo stesso tempo, mi guardai e tastai la gamba destra, stranamente calda e bagnata. L'incipiente consapevolezza che stavo
sanguinando mi spinse a pensare a delle mestruazioni abbondantissime. La mia mano si mosse verso il crampo sul fianco e, mentre le dita sprofondavano in un'orribile poltiglia, le ginocchia mi cedettero, gli occhi rotearono e uscirono dalle orbite e l'ultima traccia di consapevolezza di quella giornata si smosse dalle profondità della terra, mi attraversò i polmoni e abbandonò il mio respiro con un urlo feroce. Mi avevano sparato. Aprii gli occhi alla luce e sentii una voce sconosciuta di donna che diceva in arabo palestinese: "Si sta svegliando". La luce divenne un alone dietro al volto di Huda. Accanto a lei c'era Fatima e accanto a Fatima, Lamya. Sentii Fatima che diceva che Hajj Salim, 'Ammu Jack O'Malley, 'Ammu Darwish con la sua famiglia e altri del campo erano fuori dall'ospedale che fumavano aspettando notizie. Un mormorio familiare, il percettibile turbinare di una mente disturbata, mi arrivò all'orecchio. Girai la testa in quella direzione e vidi mamma e Umm 'Abdallah, immobili come due pezzi d'arredamento. Mamma indossava la sua thobe finemente ricamata e aveva un'aria fragile ma determinata. In quell'istante non pensai al proiettile o al dolore, né a Yussef, Osama o papà, ma a Dalia. Finalmente riuscivo a vedere, attraverso lo scarno involucro di mia madre, la ragazza beduina colorata, coraggiósa e vivace il cui fuoco era stato soffocato da un ferro rovente e la cui mente era stata annebbiata dalle ceneri di troppe morti e troppe guerre. Furono queste le mie riflessioni quando mi svegliai dall'intervento chirurgico che mi tolse i frammenti di metallo dall'addome. Il colpo era stato sparato da una torre di controllo a sud, non dai soldati che mi avevano controllato i documenti. Fu questa la conclusione del dottore che esaminò la traiettoria del proiettile nel mio corpo. Mi si era conficcato nel fianco destro appena sopra al rene, era esploso e, uscendo, mi aveva strappato via dei frammenti di carne dalla pancia. "Brucia" dissi. "Tieni. Il dottore ha detto di prendere queste per il dolore" disse Fatima, porgendomi due pillole arancione. "Siano benedette le tue mani. Dov'è Yussef?" Dalle loro espressioni desolate, capii che non sarebbe venuto. "Ti ha cercata..." cominciò Huda, e Fatima aggiunse con sicurezza: "Non sarebbe andato se avesse saputo che ti avevano sparato".
Andato dove? "Ecco. " Huda mi porse la lettera che Yussef aveva lasciato per me. Bismillah alrahman alrahim Mia cara sorella Amai Devo andare, ti prego, capiscimi. Sono settimane che cerco di scriverti questa lettera e non riesco a trovare le parole giuste. Ogni volta che mi siedo con una penna in mano, ripenso alla promessa che ho fatto a papà. Un venerdì, mentre eravamo seduti negli oliveti occidentali dopo le preghiere della jama'at, papà mi ha fatto promettere che mi sarei preso cura di te se gli fosse successo qualcosa. Voleva che tu studiassi, che sposassi un brav'uomo. Ero troppo ingenuo per pensare che gli ebrei ci avrebbero invasi di nuovo, ma credo che papà avesse intuito che sarebbe scoppiata la guerra. Pensavo che papà ci sarebbe sempre stato. Non so come mantenere la promessa che gli ho fatto. Se resto, gli israeliani alla fine mi ammazzeranno. Hanno tutto il potere e vogliono tutta la terra. Finora, niente è riuscito a fermarli. Si sono presi tutto, Amai. E vogliono ancora di più. Non posso più stare seduto a guardare con le mani in mano. Tiprego, sorellina, perdonami se parto. Vado a combattere. Non ho altra scelta. Hanno scritto per noi delle vite che non sono altro che prolungate sentenze di morte, calvari. Io non vivrò questo copione. Se morirò da martire, che sia. Sii orgogliosa, prega per la mia anima e festeggia il mio ingresso nel regno di Dio, perché tutti i martiri che muoiono lottando per la giustizia, la libertà e la terra mi accoglieranno tra loro. Qua sono come un uccello in gabbia. So che anche tu lo sei. Mi si spezza il cuore a non poterti dare la vita che avrebbe voluto papà. È insopportabile pensare che il nostro futuro sia stato cancellato, condannandoci a un'esistenza da eterni profughi, fatta di catene e sottomissione. La resistenza sta crescendo e alla fine ci riprenderemo ciò che ci spetta. Sei nata profuga, ma ti prometto che darò la vita, se necessario, perché tu non muoia profuga. Devo lasciare mamma alle tue cure. E un fardello terribile per una ragazzina giovane come te. Ho ceduto la mia parte di officina adAmin in cambio della promessa di prendersi cura di te e di mamma. Ti ho lasciato anche tutti i miei risparmi, hi ho dati ad 'Ammu Darwish
dicendogli di usarli con buon senso, per la tua educazione, se ce ne sarà la possibilità. Per favore, tieniti in contatto con Fatima. Ti vuole bene. Con affetto, Yussef Yussef aveva cominciato a mettere da parte dei soldi quando aveva sedici anni, dopo aver conosciuto Fatima, per pagarsi un bel matrimonio e una casa nuova. Cercai di capire, come lui mi chiedeva di fare. Ma riuscivo soltanto a sentirmi tradita e abbandonata. Ora che Yussef se n'era andato, ero rimasta davvero sola. Era il 20 gennaio del 1968. Venti EROI 1967-1968 Alle spalle del verde villaggio giordano di Karameh, la terra si alza in impervie colline pietrose dove un campo profughi palestinese, un'altra città di tende fredde e viuzze fangose, era anche il quartier generale di alFatah, i combattenti rivoluzionari palestinesi a cui Yussef si era unito sotto la guida di un giovane ingegnere di nome Yasser Arafat. Nel marzo del 1968 una formidabile forza d'assalto israeliana attraversò il ponte di Allenby nelle prime nebbie del mattino e marciò su Karameh, decisa a eliminare in poche ore lo zoccolo duro dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Israele aveva fatto male i conti. I fedayin si batterono con un coraggio furioso. Alcuni combattenti si lanciarono con cinture di esplosivi legate alla vita, facendo saltare in aria se stessi e i carri armati israeliani. Mio fratello Yussef era là, e lottava con furore in una battaglia corpo a corpo che si estese per tutta Karameh. Un proiettile nemico gli lacerò la coscia sinistra mentre cercava di soccorrere un compagno ferito. L'episodio, testimoniato dal conseguente zoppicare di Yussef, diventò leggenda a Jenin, dove io mi stavo ancora riprendendo dalla mia ferita. Prima di mezzogiorno Karameh era distrutta, ma quelle bande di combattenti armati alla leggera non cedettero e Israele dovette ritirarsi in fretta e furia, abbandonando veicoli e carri armati. Il mito dell'invincibilità israeliana era stato distrutto da mio fratello e dai suoi compagni.. Nel giro di poche ore, la notizia della battaglia di Karameh si diffuse a macchia d'olio per il mondo arabo. La sua gloria riverberò in Europa e in Unione Sovietica, e i giovani di tutto il mondo cominciarono a
indossare le kefiah quadrettate palestinesi come simbolo della rivoluzione e della forza dei deboli. Sentivo la radio che vociava dal caffè Beit Jawad lungo la strada. "Andiamo, ti aiuto io. Andiamo a vedere" disse Huda, mettendomi un braccio attorno alla spalla per farmi alzare. Appena fuori, mi fermai per schermarmi gli occhi dall'assalto della luce. Si era riunita una folla di persone, che cantavano e gridavano insieme alla radio. Amin, l'amico di Yussef, era in piedi su un tavolo del bar e teneva alzato l'apparecchio. La folla fece silenzio e sentimmo la voce di Yasser Arafat. "Quello che abbiamo fatto," diceva la voce, "è far capire al mondo che il palestinese non è più il profugo x o y, ma il membro di un popolo che ha in mano le redini del proprio destino e che è nella posizione di decidere il proprio futuro." Mi si accapponò la pelle delle braccia e della schiena. "Allahu akbar" ruggì la folla. Jenin cantò fiera e orgogliosa mentre la gente ballava per le strade. Come mi vide, Hajj Salini si fece strada tra la folla. Chinandosi per baciarmi una guancia, disse: "Tuo fratello ha combattuto a Karameh. Che roba! Ho saputo che sta bene". Con uno smagliante sorriso sdentato, si allontanò applaudendo insieme alla gente, le dita distese e allargate davanti al suo vecchio volto abbronzato. Da lontano, lo vidi mettere un braccio attorno alle spalle di 'Ammu Jack O'Malley, avvolti dalle grida incessanti: "Karameh, Karameh ! ". "Yussef Abulheja! Il feday di Jenin." "Allahuakbar!" Anche quando arrivarono i soldati a disperdere la folla, il concerto di una rivoluzione in divenire non cessò. Dalle finestre uscivano musiche a tutto volume e gli zagharid delle donne riempivano l'aria. L'aroma di cibi cotti al forno colorava l'oscurità e addolciva la notte, mentre quelle prelibatezze venivano portate in casa nostra attraverso le finestre e le porte dei vicini, in onore dell'eroismo di mio fratello. Karameh. Io, Huda e le altre ragazzine festeggiammo a modo nostro. Troppo debole per partecipare, guardai le mie amiche che ballavano nella notte. "Visto che c'è il coprifuoco, almeno domani non avremo scuola" disse Lamya, e le altre si unirono al suo entusiasmo. Con una speranza ravvivata dall'euforia e una certa dose d'ingenuità, riflettemmo sui dettagli pratici di un possibile ritorno ai nostri villaggi, che vedevamo come l'inevitabile conseguenza della vittoria di Karameh. Le innocenti considerazioni di quella sera alzarono il velo sui
particolari dei nostri sogni. "Un letto vero." "Niente soldati." "Un parco giochi." "Un giardino." "Una bicicletta." La lista dei nostri semplici desideri era lunga. Li scrivemmo, nominammo i tre principali e confrontammo le nostre scelte. Più di ogni altra cosa al mondo, Huda sognava di sedersi in riva al mare. "Solo sedermi," disse, "dato che non so nuotare." Non me lo sarei mai dimenticata. Adesso, la semplicità di quel desiderio è sufficiente a farmi piangere. La rete televisiva trasmise un filmato dei fedayin che marciavano per le strade di Amman e gli adulti si affollarono attorno ai pochi televisori di Jenin. Il caffè Beit Jawad aveva lo schermo più accessibile e potevo vedere Hajj Salirti e 'Ammu Jack O'Malley al loro solito tavolo che vociavano perché gli altri non gli coprissero la visuale. Storie vivide affioravano e turbinavano. C'erano manifestazioni in ogni angolo della Giordania e centinaia di migliaia di persone comuni si riunivano in segno di solidarietà e appoggio. Donne e bambini lanciavano fiori ai rivoluzionari. Uomini adulti piangevano, facendosi strada nella calca per baciare i loro fratelli palestinesi. Il movimento continuò a crescere durante la notte. Dappertutto, nei paesi arabi, gli uomini si misero in fila per unirsi all'Olp. Anche a Jenin molti presero le loro cose e partirono l'indomani, solo per essere arrestati dagli israeliani, che avevano informatori ovunque. Un mese dopo eravamo ancora sotto un rigido coprifuoco. Le nostre assurde liste di desideri di ragazzine erano ormai marcite come la spazzatura ammassata lungo le strade, quando una jeep militare venne a darci il permesso di uscire di casa. Perfino Lamya fu contenta di tornare a scuola. Ventuno ADDII SOMMESSI 1969 Senza spezzare l'ostinata continuità del lavoro a maglia sul balcone pericolante, mamma e Umm 'Abdallah di tanto in tanto alzavano la testa e guardavano il mondo attorno a loro. Mamma era ormai sprofondata negli abissi della sua mente, disertando anche il corpo e lasciandolo in preda all'epidemia della disgrazia, tanto che fu costretta a portare il pannolone. Fu Umm 'Abdallah, nella sua straordinaria fedeltà, a occuparsi dell'igiene di mia madre.
Gli occhi di mamma erano vuoti e assenti, i muscoli atrofizzati, e il suo respiro cominciò a diventare affannoso. Non avevo più una famiglia e mi accostavo alla soglia dei quattordici anni con un corpo deturpato. La vita era mutevole e incostante, inaffidabile. Per un attimo mi aveva accarezzata con l'incanto di un'infatuazione adolescenziale, la mia prima cotta per un ragazzo, e mi aveva sedotta con la fantasia di ogni ragazzina di diventare finalmente donna. Poi, con crudeltà e indifferenza, mi aveva rivestita di una pelle menomata, intessuta di diffidenza e del cotone dell'abbandono. Una porzione di carne tenera e liscia mi era stata strappata via da un fianco. Gli angeli bigotti che siedono sulle spalle delle persone per controllare e riferire i peccati a Dio mi tormentavano con i loro "Te l'avevo detto," e mi convinsi che l'orrore che mi sfregiava il corpo fosse una punizione per aver peccato masturbandomi. Mi chinai umilmente davanti a quegli angeli compiaciuti e maliziosi, piegandomi con mestizia a un eterno purgatorio. Non mi restava altro che il sogno di mio padre, che aveva lavorato duro e risparmiato perché i suoi figli profughi potessero studiare. Mi dedicai anima e corpo a quella missione, pur non avendo grandi velleità scolastiche o intellettuali. Non avevo altri sogni a parte quello di sentirmi libera e amata come mi succedeva durante quelle albe insieme a mio padre. Per onorare papà, per realizzare il suo sogno, divoravo libri di storia, letteratura, matematica e scienze con feroce determinazione. Di notte, per punirmi e sostenere l'impeto della mia solitudine scolastica, mi toccavo la carne sfregiata dell'addome, ricordandomi che nessun ragazzo avrebbe potuto desiderarmi. Per un certo periodo, la perdita del muscolo mi costrinse a zoppicare, aumentando il mio senso di inadeguatezza. Huda rimase al mio fianco durante la convalescenza, ma presto cominciai a respingerla. Adesso, con vergogna e rimorso, ammetto che invidiavo la pienezza del suo corpo e le auguravo la mia stessa disgrazia, così che avrei avuto un'amica in quel regno di rabbia, infelicità e menomazione. Ma Huda era sempre là, salda nella sua fedeltà, e non vacillò né si offese mai per il mio abbandono. Nonostante l'affronto subito, il mio corpo non perse l'abitudine di svegliarsi prima dell'alba, nella commemorazione quotidiana di papà, anche se la mia memoria aveva già dissolto i tratti del suo viso in un
aroma vagamente evocativo di tabacco al miele e mela. Lessi e rilessi i libri che amava e oggi, se potessi fare una lista di desideri materiali come avevamo fatto da ragazzine dopo la battaglia di Karameh, sceglierei solo quei libri malconci. Avvolsi la mia nuova pelle in un mare di carta e inchiostro, senza curarmi della mia povera madre che perdeva chilo su chilo, delle violente scorrerie dei soldati o della mia migliore amica Huda, e della storia d'amore che stava nascendo tra hi e Osama. Mi feci una fama di studentessa prodigio ed emersi dal mio esilio autoimposto all'ammirazione degli adulti del campo che, scambiandola per religiosità, approvavano anche la mia indifferenza verso i ragazzi. Ma sapevo benissimo, come lo sapeva Huda, che il mio non era altro che il tormento dell'inadeguatezza. Quando finalmente riemersi dalla Siberia della mia cocciuta determinazione, ritrovai ancora una volta il solido e duraturo terreno dell'amicizia di Huda, e ricominciammo da dove ci eravamo lasciate. Mentre io sprofondavo nella vergogna, nello studio e nel rimorso, Huda si innamorava. Ormai tutti nel campo sapevano che Huda era la ragazza di Osama ed era solo una questione di tempo prima che si sposassero. Nelle trasformazioni fisiche dell'adolescenza, le guance di Huda si alzarono sotto a due occhi screziati da gatta e le sue labbra si fecero piene, dipingendole una linea sinuosa sopra a due incisivi leggermente storti quando sorrideva. La "strana bimbetta dagli occhi particolari" era sbocciata in una Cleopatra con un fiume setoso di capelli neri e una bella pelle olivastra. Osama era invidiato da tutti i ragazzi del paese. Io e Huda avevamo quattordici anni quando, una calda sera di giugno, trovammo mamma fredda nel suo letto. Ci avvicinammo lentamente, accendemmo la lampada a olio sulla parete. Come avevamo sempre fatto di fronte all'incerto, ci prendemmo per mano. Mamma era distesa su un fianco, come era solita quando dormiva, e l'ombra della sua sagoma rigida sfarfallava sulla parete. Il brusio delle conversazioni fuori dalla finestra e l'odore viziato della fine strisciavano lungo le giunture tra la vita e la morte. Là, sulla gommapiuma a colori sgargianti del suo materasso, per terra, contro la parete spoglia e crepata della nostra piccola baracca, in quell'improvvisata nazione di dimenticati, mamma era morta da sola. I miei occhi versarono lacrime silenziose. Piansi, non per la morte di questa donna, ma per mia madre, che aveva abbandonato quel corpo ormai da anni. Piansi con un sollievo
dolceamaro al pensiero che si era finalmente e completamente sbarazzata del mondo corrotto che le aveva deflorato lo spirito. Piansi per l'impatto smussato del senso di colpa per non averla salvata, per non esserci riuscita. Piansi perché, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a riconoscere in quel corpo esile e pallido la donna che mi aveva messo al mondo. E piansi per l'imminenza di un triste domani sul terreno arido e cosparso di cadaveri dei miei giorni. Huda pianse per me. Solo Umm 'Abdallah, che aveva lasciato la fedele compagna a riposare ed era tornata per svegliarla, pianse per mamma. Era l'unica ad aver conosciuto la persona che aveva vissuto dentro quel cadavere emaciato, sul quale adesso versavamo lacrime in tre. Tra me e il corpo senza vita di mia madre aleggiava il ricordo di un tempo in cui Dalia mi aveva insegnato a spostare un bambino non ancora nato dentro al grembo della madre. Tutti erano sicuri che il piccolo sarebbe morto, forse anche la madre. Finalmente Dalia arrivò. "C'è Umm Yussef, la levatrice, insieme a sua figlia Amai" annunciò qualcuno quando ci precipitammo dentro, da quella donna che aveva spinto e agonizzato per ore mentre noi aspettavamo il permesso di uscire di casa durante il coprifuoco. Non ci era stato concesso, così eravamo sgattaiolate fuori di nascosto, le forbici speciali di mamma nascoste sotto alla thobe. La donna era sfinita a forza di gridare per allontanare il dolore. Per allontanare la morte dal suo bambino. Le luci basse e l'odore del parto riempivano la piccola stanza dove gemeva distesa sul letto. Dalia aveva messo delicatamente una mano sulla fronte della donna e l'altra sulla sua pancia, e aveva cominciato a recitare delle preghiere. "Respira, piccola. Affidati a Dio. Non c'è posto migliore per te che nelle sue mani. Respira, piccola. " La calma di mamma era contagiosa. "Aiutami a sollevarla." Mi fece un cenno. Anche la zia della donna si avvicinò e insieme la girammo, le gambe in alto sui cuscini, le spalle sul bordo del letto. "Il bambino è messo di traverso e potrebbe strozzarsi. Faremo ciò che vuole il Signore. " Poi, mamma congedò i presenti dicendo: "Uscite e pregate per lei. Vi chiamerò, se avremo bisogno di aiuto". Avremo. Lei e io. "Metti le mani qua" mi disse, appoggiando le sue dall'altra parte dell'addome della donna. "Chiudi gli occhi finché non senti che si
muove, e lascia che Dio guidi le tue mani." Ero spaventata, ma avevo capito bene. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Canticchiando sottovoce, come per blandire il bambino, mamma massaggiò la pelle della donna per un'eternità. Finché non cominciarono i movimenti. "Adesso aiutami. Muovi le mani così," disse, sempre calma, sempre canticchiando. La donna gemeva ma era tranquilla. Respira, piccola. Respirai e le mie mani si mossero insieme al bambino verso quelle di mamma. Ormai era fatta. Le donne tornarono. "Le vostre preghiere sono servite," disse mamma, "ma mia figlia ha fatto la parte più difficile." Lanciandomi un'occhiata dall'altro lato della pancia, mi disse: "Tu hai posizionato il bambino, Amai". Fece un gran sorriso orgoglioso, si alzò in piedi e, avvicinandosi, mi baciò sulla fronte. Come avevo potuto dimenticare quel giorno e perché mi tornava in mente adesso, alla morte di mamma? Dalia mi aveva voluto bene. Come avevo potuto metterlo in dubbio? "Allahu akbar." Il corteo funebre si concluse con la sepoltura di mamma, - la sommessa fine di mia madre, l'impetuosa ragazza beduina dalle cavigliere tintinnanti chiamata Dalia. Com'era usanza, uomini e donne piansero la defunta separatamente. Ma 'Ammu Darwish non si unì a nessun gruppo. Lo trovai al cimitero da solo, costretto sulla sua sedia a rotelle, preda di una sofferenza bruciante. Anche 'Ammu Jack O'Malley pianse la morte di mamma. "Ho conosciuto tua madre che era ancora una ragazza, disperata per la perdita del suo piccolo" mi disse. "Era una brava donna. Anche tuo padre. Mi dispiace tanto, Amai. alBa'iyya fihayatik." Jack aveva un modo schietto e spontaneo di prendere la vita per quel che era. Il suo fare impulsivo non era una questione di ingenuità, perché era un uomo intelligente e istruito. Piuttosto, era il lascito di una vita onesta e integra, che lo rendeva impermeabile alle critiche e suscitava l'ammirazione sia dei palestinesi che dei nostri occupanti israeliani in divisa. Per quel che sapevamo, 'Ammu Jack era un palestinese irlandese che andava a trovare sua figlia a Dublino una volta l'anno e viveva il resto del tempo nella nostra stessa miseria. Parlava l'arabo come l'inglese, con quell'inflessione irlandese che impenna la fine delle frasi facendole sembrare domande.
"Ciao, tesoro" mi disse alcuni giorni dopo la sepoltura di mamma. "Più tardi passa da tuo zio, che ti dobbiamo dire una cosa. Okay, cara?" Mi parlava in inglese, come aveva cominciato a fare per verificare la mia bravura, decantata dagli insegnanti, e in seguito per aiutarmi a praticare la lingua. "Il tuo inglese è sempre più ahsan, eh?" Spesso mescolava le due lingue. "Sì, il mio inglese migliora." "Bene!" E ridacchiava tossendo. Ma cosa bolliva in pentola a casa di mio zio? Perché volevano parlarmi? E chi mi voleva, parlare? Qualunque cosa fosse, avevo paura. E per dei buoni motivi. Ai loro occhi ero una ragazzina di quasi quattordici anni, senza madre, padre, fratelli o sorelle, povera e timorata di Dio. In altre parole, ero pronta per il matrimonio. Passai le ore seguenti a tormentarmi e a formulare una serie di piani per evitare il matrimonio, in parte anche perché temevo che una volta sposata avrei dovuto rivelare l'estensione del mio sfregio. Presi in considerazione l'idea di scappare. Ma non sarei mai riuscita a commettere una trasgressione culturale così grave. Inoltre, ovunque fossi andata, sarei incappata nei soldati e nei coloni israeliani, visto che Israele aveva già dato l'avvio a massicce confische di terre e alla costruzione di insediamenti ebraici attorno ai centri vitali palestinesi. Pensai anche di fingere una turba mentale o un mucchio di altre malattie. A sera ero ormai esausta, rassegnata alla prospettiva della sconfitta. Tenendoci per mano, io e Huda ci recammo insieme a casa di Ammu Darwish. Huda mi aspettò in strada mentre mi avvicinavo timidamente alla porta di ferro ed entravo nel piccolo cortile aperto dove mio zio, Hajj Salim e 'Ammu Jack O'Malley sedevano su alcuni cuscini passandosi un narghilè e sorseggiando qahweh da tre bicchieri minuscoli, incuranti dei polli che gli razzolavano attorno. La tradizione voleva che non si usasse zucchero in segno di rispetto per la defunta, così bevevano qahweh amaro per onorare la morte di mamma. Io, come al solito, ero scalza, un'abitudine che aveva reso la pelle dei miei piedi dura come la pietra e spingeva la gente ad accogliermi con un "Dove sono le tue scarpe, ragazzina?" - un commento insieme compassionevole e sdegnoso, di quelli riservati a quanti non avevano genitori che si occupassero di loro.
"Togliti le scarpe, Amai, e vieni qui" disse qualcuno, prima di rendersi conto che non le avevo. Mi avvicinai lentamente camminando sulla ghiaia. Era buio e la luce di due lanterne tremolava per le zanzare e le falene. Con la coda dell'occhio vidi una sagoma che si precipitava verso di me a braccia aperte: "Ciao, cara!". Era Khaltu Bahiya, la sorella maggiore di mamma. Viveva a Tulkarem, dove lavorava come domestica nelle case dei coloni, ed era partita per Jenin non appena aveva saputo la notizia. Anche se viveva a poco più di quindici chilometri di distanza, le ci erano voluti tre giorni di viaggio. Era stata respinta due volte al posto di blocco. Al terzo tentativo, i soldati l'avevano lasciata passare. Ma mamma era già stata sepolta e quando Khaltu Bahiya aveva capito che non sarebbe riuscita a dare l'ultimo addio alla sorella minore, aveva coperto d'insulti i soldati. Non mi aspettavo la sua visita, ma fui contentissima di vederla. Somigliava in maniera incredibile a mia madre, ma la stessa bellezza era sbocciata in maniera diversa in ciascuna delle due. Se quella di mia madre era delicata e inaccessibile, e si aggirava solitaria dentro a un castello abbandonato, la bellezza di Khaltu Bahiya ti conquistava all'istante. Era semplice e dirompente, ricca di risate generose, carpite ovunque fosse possibile. L'austerità, il sole e il tempo avevano inciso sui loro volti le fatiche del duro lavoro, del parto e della povertà. Ma anche questi solchi erano diversi sui volti delle due donne. Il volto di Khaltu Bahiya li incorporava nelle sue gioie e nei suoi dolori, facendoli apparire e scomparire a seconda delle sue espressioni e donando curve e sfumature alla sua tenerezza. Linee gentili le modellavano le labbra e le aprivano il volto quando sorrideva, come un'orchidea. Sul volto di mamma, invece, quei segni erano sempre sembrati fuori posto, come se la sua bellezza non potesse accettare cambiamenti o interferenze esterne. Le rughe le avevano intagliato la pelle come le sbarre di una prigione, dietro le quali s'intravedeva il perpetuo lamento di qualcosa di splendido e triste. Qualcosa che era ancora vivo e voleva uscire. "Vieni, ya binti." Hajj Salim mi fece segno di sedermi accanto a lui alzando un braccio e rivelando un ovale imperfetto di sudore sulla dishdashe di cotone. Mi sedetti scomodamente su un cuscino in mezzo a lui e al mio povero 'Ammu Darwish, ricurvo sulla sua sgangherata sedia a rotelle che aveva una giuntura tenuta insieme con corda e nastro adesivo. Suo figlio minore, mio cugino Fu'ad, aveva la febbre e
dormiva nella stanza comune; per quello eravamo là fuori a sopportare le zanzare in cortile. 'Ammu Jack O'Malley era seduto comodamente di fronte a Hajj Salim, e i due stavano bisticciando come scolaretti su chi tratteneva più a lungo il bocchino del narghilè. "Maledetto irlandese. " "Maledetto palestinese. " Ridevano, uno rauco e senza denti, l'altro come un farfuglio scoppiettante. Si erano riuniti per decidere il mio destino. Quello era chiaro. "Amai, che la vita ti doni anni migliori. Siamo tutti dispiaciuti per la morte di tua madre" cominciò 'Ammu Darwish. Dopo aver offerto le sue condoglianze, mi offrì una casa: potevo trasferirmi da lui. Per vivere - o sopravvivere - mio zio fabbricava ninnoli di vetro che vendeva ai turisti estraendoli dalla borsa di imprecazioni e salvezza della sua sedia a rotelle. "Sei della mia famiglia e farò tutto quello che posso per te" disse con sincerità. "Oppure puoi venire a vivere con me a Tulkarem" lo interruppe Khaltu Bahiya, mossa da un inviolabile senso della famiglia. Pur avendo già cinque bocche da sfamare, mia zia era pronta senza esitazioni a prendersi la responsabilità della figlia di sua sorella. La mia" terza opzione era andare a vivere a Gerusalemme insieme a ' Amtu Samiha, i cui genitori in passato avevano salvato la famiglia di Ari Perlstein. 'Ammu Jack si chinò in avanti, sopra Haji Salim, i due piccoli occhi azzurri che mi fissavano attraverso il disordine dei suoi capelli. "Ci sarebbe un'altra possibilità, Amai" disse, catturandomi nell'intensità del suo sguardo. In quell'istante, il teatrino di polli e narghilè svanì. Tutto ciò che c'era ai margini dello sguardo di 'Ammu Jack trattenne il fiato. 'Ammu Darwish si schiarì la gola. Hajj Salim e Khaltu Bahiya si guardarono, poi abbassarono gli occhi a terra. Toccava ad 'Ammu Darwish continuare. "A Gerusalemme c'è una scuola che ti vorrebbe" disse, un po' convinto che fosse la cosa giusta, un po' vergognandosi di non avere niente di meglio da offrirmi. "Ma sei tu che devi scegliere" lo interruppe Khaltu Bahiya, temendo che potessi fraintendere le loro buone intenzioni. "Le nostre case sono sempre aperte per te, quando e per quanto tempo vorrai." 'Ammu Jack,
ancora piegato in avanti ma senza lo sguardo fisso di prima, aggiunse: "È un bel posto per le ragazzine come te, Amai, e la scuola è ottima". Le ragazzine come me? Era un orfanotrofio di notte e un'agguerrita istituzione accademica di giorno. In quanto orfana palestinese con ottimi voti, sarei stata ammessa senza questioni e senza dover pagare una retta. Ne avevano già discusso ancora prima della morte di mamma, perché 'Ammu Jack era convinto che avrei avuto più probabilità di vincere una borsa di studio per l'università se mi fossi diplomata in quella scuola. Ma Hajj Salim la mise in maniera diversa. "Tuo padre avrebbe voluto questo per te" disse, facendo appello alle mie corde più sensibili. "Sappiamo tutti che hai ereditato l'amore di tuo padre per i libri e credo che tu sia troppo avanti per trarre altri benefici dalle nostre scuole." Poi dispensò la sua frase di rito, quella che ormai era diventata il suo marchio di fabbrica: "L'ho visto con questi occhi". Partì con un monologo che allora ascoltai con impazienza, ma a cui avrei ripensato molti anni dopo come all'insegnamento più saggio che abbia mai ricevuto da un altro essere umano. "Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l'umanità sarà il modo in cui Gli renderai onore. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell'ingiustizia." Il suo sguardo abbracciava ora tutto il mio passato e il mio futuro. Una saggezza triste e profonda dipingeva sul suo volto abbronzato e rugoso l'irrefutabile promessa che quel che diceva era vero. "Non ci piace vederti partire. È difficile per noi parenti. Ma hai onorato il dono di Dio con diligenza e duro lavoro, e sappiamo tutti che ora dobbiamo aiutarti a portare a termine il tuo viaggio per non sprecare il dono di Dio." Rimasi seduta immobile, incredula, sentendomi un'impostora. Non avevo fatto niente per meritare la spaventosa fiducia che mi concedevano. La diligenza e il duro lavoro di cui parlava Hajj Salim non erano che codardia e paura del vuoto, della punizione divina, del rifiuto. Paura della luce e dei rumori che in un soffio diventano guerra, morte e proiettili solitari e inaspettati che ti si conficcano nella carne. La correttezza m'imponeva di mettere in chiaro che quel che vedevano in me era solo paura, non un
dono né tantomeno il suo rendergli onore. L'onestà si affannò sulle mie labbra per formulare le parole giuste. "Ma..." dissi. "Io non... cioè... non sono... Dio, non ho fatto... non è così... non capite." Alla fine i miei pensieri contorti confessarono la semplice, autentica verità di quella che era stata la mia vita da quando papà era scomparso: "Ho paura". Vomitai quelle parole. Mi tremavano le labbra e per poco non mi misi a piangere. Era l'imprevisto quello che temevo e odiavo. "Ma'alesh." Khaltu Bahiya cercò di consolarmi, ma non avevo più bisogno di rassicurazioni. Avevo bisogno di cibo. La mia pancia brontolò sonoramente, ricordando che quel giorno non avevo ancora messo niente sotto i denti. Khaltu Bahiya aveva già disposto hummus, uova fritte, insalata e degli avanzi di kussa sul pavimento, sopra vecchi giornali. Mangiammo insieme, allungando le braccia e prendendo bocconi di cibo con dei pezzetti di pane. Accanto a noi, i polli beccavano briciole sparse sul pavimento. Non usavamo posate e ci servivamo dagli stessi piatti. Molti anni dopo, abituatami ai pranzi di lavoro statunitensi, avrei sorriso immaginandomi cosa sarebbe successo se avessi intinto il mio pane nel piatto di qualcun altro. Rimasi con 'Ammu Darwish dopo che gli altri se ne furono andati e Khaltu Bahiya si fu coricata accanto a mio cugino Fu'ad, a cui era passata la febbre e che ora, completamente sveglio, tracciava disegni sul volto addormentato di mia zia. "Dov'è sua madre?" chiesi, notando solo allora la sua assenza. "È andata dai suoi parenti" rispose 'Ammu Darwish, facendomi capire che lui e la moglie avevano litigato e che lei l'aveva lasciato solo con i bambini, come faceva spesso, per tornare dopo qualche giorno. Fu quella notte che venni a sapere dell'incidente in cui Dalia tanto tempo prima si era rotta la caviglia nella piccola 'Ain Hod, prima ancora della mia nascita, prima di Israele, prima dei campi profughi. Mio zio mi mostrò la fotografia di un bel ragazzo con un turbante bianco, che cavalcava un cavallo arabo nero. Mi disse che quel giovane avrebbe voluto sposare mia madre. Era difficile credere che lui e mio zio fossero la stessa persona. La storia che mi raccontò mi arrivò alle orecchie come poesia, componendosi nella bellezza di Dalia e sprofondando nelle sabbie mobili di una Palestina che non sarebbe mai più stata la stessa.
"Quello è Ganush?" chiesi, contenta di vedere finalmente una fotografia del leggendario cavallo di famiglia. "Sì! È lui" rispose, e il suo volto si aprì all'aria fresca del passato. Si spinse vicino a me, trascinando le sue inutili gambe flosce con la forza delle braccia, e mi raccontò una serie di aneddoti su Ganush e Fatuma: della capra che pensava che Fatuma fosse sua madre e piangeva ogni volta che la cavalla si allontanava; di come mio zio aveva dovuto dormire nella stalla quando c'erano i tuoni perché i cavalli avevano paura; di come l'avevano spinto a gran velocità in giro per la Galilea e lungo la costa del Mediterraneo. E di come quegli animali magnifici erano stati probabilmente l'amore più grande della sua vita. Il tempo che trascorsi insieme a mio zio quella sera è uno di quei momenti che, con il passare degli anni, si tingono sempre più di meraviglioso. 'Ammu Darwish riempì quelle tarde ore con le storie della sua giovinezza insieme a papà, di mio nonno, mia nonna e i miei bisnonni. Quella sera mi sentii vicina a papà come non mai, e decisi quindi che sarei andata a vivere con mio zio anziché all'orfanotrofio di Gerusalemme o a casa di Khaltu Bahiya. Quando glielo dissi, il volto di 'Ammu Darwish si chiuse e un intrico di rughe gli segnò gli angoli degli occhi. "Guarda qua" disse, indicando la fotografia di prima. "Tu adesso sei così. Ma se rimani qua, diventerai come me." Il suo volto si era disteso e rivelava la tregua che aveva fissato con il proprio destino per tenere lontana l'amarezza. "Non c'è futuro in un campo profughi, Amai. L'aria è troppo pesante per la speranza. Ti viene data la possibilità di far fiorire la vita che giace addormentata in tutti noi. Coglila." "Ma non voglio lasciare Jenin." "Allora dovrò convincerti, in un modo o nell'altro. Perché un giorno, quando io e tuo padre ci incontreremo di nuovo, dovrò raccontare a mio fratello maggiore come ho messo sua figlia sulla giusta strada, quella che avrebbe voluto che tu prendessi." Non c'era bisogno che mio zio dicesse altro. Ventidue LASCIARE JENIN 1969 Una folla di amici e parenti si riunì davanti alla piccola casa di cui ero l'unica inquilina rimasta, occupando il vicoletto antistante. Vennero a
dirmi addio con una cerimonia di baci e abbracci che durò per ore, nell'estate soffocante in cui mamma morì. Da quando cominciarono ad arrivare le prime persone a quando mi allontanai insieme ad 'Ammu Jack in un taxi giallo, io e Huda tenemmo le mani allacciate in una stretta salda e sudata. Osama gironzolava attorno a Huda lanciandole sguardi ardenti e pressanti che sembravano stillare nei nostri palmi la linfa di un segreto condiviso tra loro, qualcosa che era intrappolato e oppresso dalla rigidità di una cultura religiosa che non gli permetteva nemmeno di baciarle delicatamente una guancia. La moglie di 'Ammu Darwish era tornata dalla sua fuga e i due, con i cinque figli che gli correvano attorno, erano venuti con doni e consigli. "Studia molto, e non smettere di pregare" mi bisbigliò mio zio, sigillando con un bacio delicatissimo il dolce legame che avevamo stretto qualche giorno prima. Gli sarebbe piaciuto accompagnarmi di persona in taxi, mi disse, ma come sapevo solo gli stranieri potevano spostarsi liberamente. Umm 'Abdallah mi baciò la fronte con un selvaggio istinto materno che sembrava amare indiscriminatamente. Hajj Salim disse ad 'Arnmu Jack di insistere perché "all'orfanotrofio" capissero che mi dovevano trattare bene. "Ricordati quello che ti ho detto di dire a quelli dell'orfanotrofio" esclamò più severamente che potè con la sua bocca sdentata e un dito alzato. "Me lo sono già dimenticato, Hajj" lo punzecchiò 'Arnmu Jack, mettendosi a ridere. "Maledetto irlandese!" disse Hajj Salim, voltandosi per nascondere un sorriso. Khaltu Bahiya era già tornata a Tulkarem e ci eravamo salutate il giorno della sua partenza. Amici e vicini di casa mi fecero promettere che gli avrei fatto sapere se avevo bisogno di qualcosa. "Qualsiasi cosa, Amai. Qualsiasi cosa." "Che Dio vi doni una vita lunga e felice" li ringraziai. Ci furono abbracci bagnati di lacrime e una serie di "Che Dio sia con te", "Che Dio ti benedica", "Oh, non posso credere che mandino via una dei nostri" e via dicendo. Lamya, il viso tondo rigato dai segni delle lacrime, mi prese la mano libera e ci mise due dadi. "Tieni" disse, mortificata, chiudendomi la mano con le dita. "Li avevo presi dal tuo banco, a scuola." Doveva essere successo anni prima, oppure li aveva presi dal banco di qualcun
altro, perché non me ne ricordavo. La ringraziai comunque e insieme a Huda la strinsi in un abbraccio, sorridendo di nascosto al pensiero di quanto si era torturata credendo di aver rubato qualcosa a un'orfana. Osama rimase davanti alla folla riunita sulla polverosa strada d'ingresso al campo profughi di Jenin, mentre io e Huda ci stringemmo in un abbraccio lungo e straziante. Mi sussurrò all'orecchio che la famiglia di Osama si era accordata per venire a chiedere la sua mano. Moriva dalla voglia di tuffarsi nella sicurezza del loro amore, e fui contenta della notizia. "Congratulazioni." Stritolai al petto la mia migliore amica. "Mi mancherai, Amai. È come se una metà di me se ne andasse" mi singhiozzò al collo. Restammo là a piangere, Huda con le lacrime, io con il silenzio e la mascella serrata di mia madre. Eravamo avviluppate l'una all'altra, come nell'ultimo verso di un poema epico che non avremmo mai immaginato potesse finire. Quella storia d'infanzia che avevamo vissuto insieme rigo dopo rigo, mano nella mano, stava terminando, e sapevamo che si sarebbe conclusa nel momento in cui ci fossimo staccate. "Non preoccupatevi, voi due. Vi rivedrete" gridò 'Ammu Jack dal taxi, facendomi segno di salire. Era ora di andare. Io e Huda ci separammo, e salii in macchina. Mi allontanai con un senso di disperazione nel cuore. Alcuni bambini ci corsero dietro nella scia polverosa del taxi. Le persone che amavo diventarono sempre più piccole nello specchietto retrovisore, finché non svanirono dietro a una curva. Con i dadi di Lamya ancora stretti in pugno, mi voltai per guardare avanti. I sedili di vinile mi bruciavano le cosce sotto ai vestiti e sembravano consumare anche il dolore della partenza. Ero colpita dall'assenza di dolore, e cercai di provare la tristezza di qualche momento prima, ma non sentii nulla, come se le sbarre di una prigione fossero calate attorno alle mie emozioni. "Sembra incredibile, ti conosco da quando sei nata" disse 'Ammu Jack girandosi verso di me e studiandomi il volto. "Sei intelligente come Hassan e tenace come Dalia." Tornò a guardare la strada. "Pace all'anima loro. I tuoi genitori erano brave persone." Alla loro anima. Alla loro.
Non dissi nulla. Senza rendermene conto, tenevo i denti stretti, la mascella serrata. Delle lacrime cominciarono a scendermi dagli occhi questa volta, e per la prima volta, perché mi mancava mia madre. Qualsiasi cosa senti tienitela dentro. Dopo più di un'ora di viaggio, 'Ammu Jack indicò Gerusalemme fuori dal finestrino, la sua cupola che si alzava in lontananza. "Eccola là." La Cupola della Roccia, alAqsa, da dove il profeta Muhammad era asceso al cielo durante il suo leggendario Viaggio notturno, era il punto in cui confluivano tutte le storie di Gerusalemme. Ricordavo quando ci ero entrata ed ero rimasta in piedi dietro a una delle dodici massicce colonne di marmo che circondano la roccia dell'ascensione. L'immagine di quell'enorme pilastro, che svettava ad altezze inimmaginabili per la mia mente di bambina, era il ricordo più vivido che avevo di un viaggio a Gerusalemme insieme alla mia famiglia, nel 1960, prima che Israele la conquistasse. Mamma aveva conservato una fotografia di noi quattro - lei e papà, io e Yussef - in piedi sul pavimento piastrellato, sovrastati dalla cupola dorata. Era l'unica fotografia di famiglia che avevamo. Mi ritraeva avvinghiata alla gamba di papà sopra alla veste, come se avessi voluto sancire su pellicola il mio esclusivo possesso. Sembravo piccola e seria, e quando trovai quella fotografia dopo la morte di mamma, mi resi conto di quanto poco sorridevo. Il volto di papà, aperto e mite, portava la traccia di un sorriso, anche se le labbra erano rilassate. Il sorriso era nei suoi occhi. Mamma gli era accanto, dritta in un perfetto allineamento simmetrico, come sempre, e con insondabili profondità negli occhi. Yussef appoggiava disinvolto il peso su una gamba e aveva quel sorriso confortante che gli partiva sempre dall'angolo destro della bocca per poi allargarsi anche a sinistra. Di tutti noi, sembrava il più felice, il più delicato, il più affettuoso. Dopo che Israele ebbe conquistato la Palestina, nel 1967, non tornammo più a Gerusalemme. All'inizio fu troppo difficile, poi diventò vietato. Il primo giorno di occupazione, i bulldozer israeliani rasero al suolo l'intero quartiere marocchino: circa duecento case antiche e diverse centinaia di abitanti, a cui diedero meno di due ore per andarsene. Musulmani e cristiani, greci e armeni si videro confiscare la maggior parte dei loro beni mentre venivano rinchiusi nei ghetti o mandati in esilio. 'Ammu Jack chiese all'autista di portarci in un posto chiamato Khilwa, sul Monte degli Ulivi.
"E un tantino fuorimano, ma ti piacerà. È un buon punto per osservare la città" mi disse. Un attimo dopo stavamo procedendo per viuzze strette, delimitate da alti muri biblici di pietra, finché non ci fermammo al margine di un vecchio cimitero ebraico sotto all'Hotel Seven Arches, che sovrastava quel luogo eterno. Ho sempre trovato difficile non commuovermi alla vista di Gerusalemme, anche quando la odiavo - e Dio sa quanto l'ho odiata, per il suo immenso costo di vite umane. Ma la sua visione, da lontano o da dentro il labirinto delle mura, mi trasmette sempre un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la circondano. I glorificati e i condannati hanno lasciato le loro impronte sulla sua sabbia. È stata conquistata, distrutta e ricostruita così tante volte che le pietre sembrano possedere una vita donata loro dagli eterni bilanci di preghiere e sangue. Eppure, in qualche modo, Gerusalemme trasmette umiltà. In me suscita un innato senso di familiarità - l'indubbia, irrefutabile sicurezza palestinese di appartenere a questa terra. Mi possiede, indipendentemente da chi la conquista, perché il suo suolo è il custode delle mie radici, delle ossa dei miei antenati. Perché conosce i desideri segreti che hanno infiammato i letti delle mie progenitrici. Perché io sono il frutto naturale del suo passato ardente e burrascoso. Sono figlia di questa terra, e Gerusalemme mi rassicura di questo titolo inalienabile molto più degli atti di proprietà ingialliti, dei registri catastali ottomani, delle chiavi di ferro delle nostre case rubate, di tutte le risoluzioni o i decreti che potranno emanare l'Onu o le superpotenze. "Niente male come posto, vero, tesoro?" disse 'Ammu Jack. Sorrisi timidamente e tornai in macchina. Era buio quando arrivammo a Dar aitifi al-'arabi, la "Casa del fanciullo". La direttrice, la signorina Haydar, ci accolse al cancello con studiata compostezza e ci portò nel suo studio, dove cominciò a esporre la storia dell'istituto e le sue regole. Sotto la luce elettrica, io e 'Ammu Jack notammo un chiaro senso di delusione nell'espressione della donna, come se fossimo in qualche modo venuti meno alle sue aspettative. Nel corso degli anni successivi avrei capito che una specie di vaga e feroce aspirazione romantica si risvegliava in lei ogni volta che sapeva che un uomo avrebbe messo piede nella struttura. Evidentemente 'Ammu Jack non era quello che aveva sperato, anche se
allora nessuno di noi due comprese l'espressione che si disegnava sul suo volto mentre ci parlava. "Questo istituto è stato fondato dalla signorina Hind Husseini," disse, "della famiglia Husseini di Gerusalemme" e inarcò le sopracciglia con enfasi. Gli Husseini erano personaggi di spicco a Gerusalemme, con una ben documentata storia di preminenza e rispettabilità che durava da secoli. La signorina Hind, quando Israele si era stabilita su gran parte della Palestina, nel 1948, era una ricca ereditiera nubile. Viveva in un palazzo di mattoni rossi adiacente all'hotel della sua famiglia, dove avevano alloggiato nobili, diplomatici, dignitari, poeti e scrittori in visita a Gerusalemme, prima che Israele prendesse il controllo della città. Ma nell'aprile del 1948, tre orfani insanguinati erano arrivati fino a Gerusalemme Est, dove avevano vagato senza meta finché qualcuno non li aveva accompagnati all'uscio della signorina Hind. I bambini venivano da Deir Yassin, un paesino alle porte di Gerusalemme, dove più di duecento palestinesi, uomini, donne e bambini erano stati massacrati da terroristi ebrei. La signorina Hind aveva preso con sé i bambini. Nelle settimane seguenti, nel crescendo di atrocità commesse dagli israeliani, le furono portati sempre più bambini, finché la donna non decise di chiudere l'hotel e lo trasformò prima in un ricovero, poi in un orfanotrofio e infine in una scuola. La Haydar era stata tra quei primi orfani ed era stata adottata dalla signorina Hind, che era rimasta nubile. Durante quel breve colloquio di orientamento con me e 'Ammu Jack, non ci disse una parola di sé. Si limitò, con un certo orgoglio, a presentarsi come figlia della signorina Hind. Venni a sapere le tragiche circostanze della sua adozione dalle altre ragazze, durante i miei primi giorni all'orfanotrofio. La signorina Haydar era una donna dura. Compensava la bassa statura con dei tacchi alti, nei quali si muoveva più agilmente che se fosse stata a piedi nudi. Camminava su quelle orribili cose con una grande naturalezza, come se avesse imparato a camminare da sempre solo sulle punte. I suoi capelli tinti all'henne erano l'unica cosa morbida che aveva. Incorniciavano un volto esageratamente truccato e due occhi piccoli, che avevano vissuto quasi esclusivamente entro i confini dell'orfanotrofio. "Dovresti sentirti privilegiata di poter accedere all'istruzione che ti verrà data" mi disse con occhi fiammeggianti. "Le famiglie pagano fior di quattrini per mandare qua le loro figlie." Si riferiva alle studentesse
che frequentavano la scuola di giorno e poi se ne tornavano a casa. Come le altre orfane, avrei imparato a chiamarle "le ragazze esterne". Durante i quattro anni che passai là dentro non strinsi amicizia con nessuna di loro. Scroccavamo o estorcevamo loro cibo e soldi, ma capivamo che una vera amicizia era difficile non appena guardavamo le loro scarpe nuove, le belle divise e gli altri privilegi che indicavano una "normalità" per noi irraggiungibile. A conti fatti, però, erano le loro tasse scolastiche, oltre alle donazioni internazionali, a finanziare la vita di noi orfane - "le ragazze interne" - a Gerusalemme. L'edificio principale era una meraviglia in calcare alta cinque piani, con i ricercati ingressi ad arco tipici dell'architettura palestinese. L'ala ovest fungeva da dormitorio per ragazze dai dieci ai ventitré anni. Il resto dell'edificio ospitava le aule, dove frequentavo lezioni di biologia, matematica, arabo, religione, geografia, tedesco e inglese. La terrazza rialzata sul retro del palazzo dava su un ampio cortile dove un solitario canestro da basket malridotto dall'uso si ergeva all'estremità; una vecchissima edera si aggrappava al muro che racchiudeva la struttura. "Prendi le tue cose e seguimi" disse la signorina Haydar, facendo un cenno perentorio verso la piccola borsa che conteneva i miei vestiti. "Il signor Jack adesso deve andare." Non ero pronta per un altro addio. Sentii un tuffo al cuore e le mie spalle s'incurvarono. Caddi in ginocchio e le lacrime mi riempirono gli occhi, anche se non piansi. "Non lasciarmi, 'Ammu Jack" lo implorai. Lui abbassò il suo corpo robusto in modo da guardarmi negli occhi, scostandosi con una mano tremante i capelli ribelli dalla fronte. Nell'altra mano aveva un pacchetto avvolto con carta di giornale e nastro adesivo marrone. "Non avrei dovuto tenerla così a lungo" cominciò sommessamente. "Volevo darla a tuo fratello Yussef. Ma non ho avuto il coraggio di raccontargli del giorno in cui l'ho vista cadere per terra." Mi porse il pacchetto goffamente, con un gesto dolorosamente tenero. "Non ho potuto farci niente, Amai" disse, anticipando le domande che sapeva gli avrei fatto una volta aperto il pacchetto. Ma la signorina Haydar mi trascinò via, tirandomi per un braccio con impazienza. "Basta così. È troppo buio per stare fuori." Si girò verso 'Ammu Jack. "Grazie, signore. La prego di dirigersi al cancello." Una trentina di ragazze reclamavano a gran voce la nuova arrivata appollaiate sulla stretta scalinata di pietra vecchia di trecento anni.
Camminai sotto ai loro sguardi, stringendo nei pugni il pacchetto di 'Ammu Jack e i dadi di Lamya, le povere vestigia della mia vita precedente. La signorina Haydar mi mostrò il mio letto, un curioso aggeggio di metallo che chiamò "letto a castello". Sedici coppie di letti simili erano allineate a ridosso delle pareti più lunghe di una sala rettangolare. Le trentuno ragazze che vivevano là dentro mi studiavano con attenzione. Sessantadue occhi, un tribunale silenzioso che s'imprimeva nella mia carne. "Ragazze, fatele vedere il posto e assicuratevi che impari le regole" ordinò la signorina Haydar, poi girò sui suoi tacchi alti e se ne andò. Le ragazze vennero verso di me e io mi feci piccola per la paura. La più vicina, capelli rossi, pelle traslucida e un sorriso dolce, mi accarezzò la testa. "Che bei capelli. Io sono Samra. " Avrei poi scoperto che il suo nome scatenava battute senza fine nell'orfanotrofio, perché "Samra" in arabo significa "dalla pelle scura" e la sua chioma color carota risaltava come un pallone arancione in un oceano scuro. "Come ti chiami?" Non risposi. "Da dove vieni?" mi chiese un'altra. Poi un'altra e un'altra ancora. "Perché sei triste?" "Vuoi essere mia amica?" "La Haydar ti ha fatto il suo stupido discorsetto?" "Sei anche tu un'orfana?" Non ricevendo risposte, cominciarono a rispondersi da sé. "Certo che è un'orfana, stupida!" "Si chiama Amai. Ho sentito la Haydar che parlava al telefono." "Perché dovrebbe fare amicizia con te, denti da coniglio?" "La Haydar dice un sacco di scemenze." Una bella ragazza dalla pelle scura e con un manto setoso di capelli neri le rimproverò con l'autorevolezza dell'anzianità. "Lasciatela stare! Non vedete che è scombussolata? Fatele un po' di spazio, sanguisughe! " Obbedirono tutte. Fu quello il mio primo incontro con Muna Jalayta, che sarebbe diventata mia grande amica. Prima di andarsene, Muna mi assicurò che l'orfanotrofio non era poi così male e che avrebbe fatto del suo meglio per tenere a distanza le ragazze. Poi sorrise e si allontanò. Sola e con gli occhi rossi, perplessa e confusa da tutte quelle svolte della vita, aprii il pacchetto che mi aveva dato 'Ammu Jack. Sotto la carta di giornale crepitante, dentro a una fragile scatola, c'era una pipa di legno d'ulivo. L'alzai, stringendo tra le dita i delicati ricordi di papà, di quando leggevamo poesie alla luce del sole nascente. Vicino al bocchino, sull'asta della pipa, c'erano le tracce lasciate sul legno nel
corso degli anni dallo sfregare dei suoi baffi. La pipa conservava ancora l'aroma del tabacco al miele e mela, l'odore del respiro faticoso di papà e dei suoi abiti stanchi di quando dava libero sfogo al suo amore girando le pagine per me all'alba. Conoscevo quell'odore così bene che inconsapevolmente avevo finito per associarlo alla fragranza del sorgere del sole. Mi raggomitolai con il ricordo di papà dentro al mio nuovo letto, lasciando che il suo soffio rassicurante avvolgesse le mie ferite e mi cullasse in quella prima notte nel ricovero di Gerusalemme per ragazze palestinesi. Non avrei più rivisto 'Ammu Jack per chiedergli in quali circostanze era entrato in possesso della pipa di mio padre. Nell'estate del 1971, due anni dopo che mi aveva accompagnata a Gerusalemme, venni a sapere che Jack era morto nel sonno. Non potei tornare per il funerale perché Jenin era sotto coprifuoco. Non avevo nemmeno i soldi per il viaggio, ma mi dissero che migliaia di persone si erano riunite per dargli l'ultimo addio, come di solito succedeva solo per i martiri. 'Ammu Jack era molto amato da tutti quelli che lo conoscevano, soprattutto dai profughi ai quali aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita. Anche alcuni soldati israeliani che pattugliavano i posti di blocco di Jenin erano andati a porgere le condoglianze a sua figlia, la sua unica parente, che era venuta dall'Irlanda per la sepoltura - 'Ammu Jack aveva chiesto di essere sepolto in Palestina. Hajj Salim pianse al funerale di Jack. Non tornò più al caffè Beit Jawad, dove i due avevano diviso infiniti narghilè nella costruzione di un'amicizia. Un'amicizia delicata, che avevano creato dal giocoso brontolare di due uomini che invecchiavano nel tedio di una battaglia eterna per lasciare ai giovani un mondo migliore. Ventitré L'ORFANOTROFIO 1969-1973 Muna Jalayta aveva ragione: l'orfanotrofio non era poi così male. E, fin dall'inizio, mi prese sotto la sua ala protettiva. Durante il mio secondo anno, in una calda sera d'estate soffusa di umidità e del brusio degli insetti vigili, sentii Muna che si agitava nel letto sopra al mio. "Sei sveglia?" bisbigliai.
"Come diavolo si fa a dormire? E come se non bastasse queste imbecilli russano come caproni ! " sbuffò, facendo ciondolare la testa dalla sponda del letto. "Proviamo sulle piastrelle fresche." "Buona idea" dissi, uscendo dal letto e togliendomi la camicia da notte. "Idea migliore. Nude sulle piastrelle." Ma sul pavimento non c'era abbastanza spazio. "Se provassimo in terrazza?" "Certo, perché no." Uscimmo dalle doppie porte all'aria aperta e fummo subito abbracciate dalla luna. "Wow! Non ho mai visto la luna così vicina" disse, stringendo la ringhiera di ferro battuto della terrazza. Le sue forme si stagliavano alla luce della lanterna della notte che sedeva bassa nel cielo. "La luna piena mi fa pensare a mio padre. Anche se non riesco a ricordarmelo. Non è sciocco?" disse, inspirando l'oscurità della notte, gli occhi chiusi. "Diceva a mia sorella che la luna piena è un portale per le orecchie di Dio. Che cosa sciocca." "Proviamo a lamentarci di quella grassona della Haydar. Magari la risucchierà nello spazio" proposi goffamente. "Chi ha detto che Abulheja non ha senso dell'umorismo ! " "Come sono morti, i tuoi genitori?" Una pausa. "Mio padre era un professore che diceva la verità sugli sporchi affari tra re Abdullah e Golda Meir. I leader arabi ci hanno traditi esattamente come gli inglesi. Ci hanno venduti. Figli di puttana. Li ucciderei tutti se potessi, dagli hashemiti alla famiglia reale saudita." Un altro respiro profondo nella notte. "Gli studenti amavano mio padre e facevano la fila per assistere alle sue lezioni. Credo che la monarchia hashemita lo vedesse come una minaccia. "Era un giorno di febbraio e si era messo a piovere mentre tornavamo da casa di mia zia. Mia madre, mio padre, mia sorella Jamila e io ci affrettavamo sotto agli ombrelli. Mamma mi stava sgridando perché continuavo a saltare nelle pozzanghere, quando un agente degli hashemiti di Giordania gridò: 'Ahmed Jaber Jalayta'. Come il padre di Muna si era girato, l'agente gli aveva sparato un colpo alla testa. Un secondo proiettile aveva dilaniato i polmoni della madre di Muna, che aveva cercato di fare scudo al marito con il proprio corpo. Due spari improvvisi e il terrore attutito dalla pioggia avevano dato vita al primo ricordo di Muna, all'età di quattro anni. Ci mettemmo supine, la sua testa sulla mia pancia, la mia sulle camicie da notte appallottolate, mentre la luna illuminava la nostra pelle scura.
"Mi dispiace, Muna" dissi, accarezzandole i capelli e muovendo le dita dei piedi sudate sul metallo della ringhiera. Ricordo chiaramente quella notte, quel senso di solidarietà tra due amiche. Ai margini dei ricordi di Muna, sentivo un'evoluzione inarrestabile dentro di me. Non più una ragazzina, non ancora una donna, mi chiedevo chi delle due stesse meglio: lei, che viveva con il dettagliato terrore della morte di suo padre, oppure io, che vivevo senza sapere cos'era successo al mio. Mi chinai sul dolore di Muna e le baciai la fronte. Mentre eravamo strette su quel tappeto di luce lunare, e avvolte da un silenzio magico, la presi tra le braccia. Lei mi baciò la cicatrice e ci addormentammo. Muna mi fece entrare nella sua banda, che somigliava un po' a una famiglia. Tra le mie nuove amiche c'erano le "sorelle colombiane": Yasmina, Layla e Drina. Quand'ero arrivata vivevano all'orfanotrofio già da tre anni. Dopo la guerra del 1948, il padre era riuscito a emigrare in Colombia, dove le tre sorelle erano nate e cresciute ai ritmi vivaci della salsa e del merengue - che mi insegnarono a ballare. Ma la loro vita in Sudamerica si era conclusa quando il padre era morto di cancro. Anziché usare i pochi soldi che aveva per curarsi, li aveva spesi per fare in modo che i famigliari tornassero in Palestina, dove uno zio li aveva aiutati a trovare un piccolo appartamento e aveva mandato le ragazzine all'orfanotrofio dato che era l'unico modo perché continuassero a studiare. I due fratelli maggiori, avendo già finito gli studi, erano rimasti a Ramallah insieme alla madre. Che litigassero o filassero d'amore e d'accordo, le sorelle colombiane erano sempre uno spettacolo. Non ne avevo mai abbastanza della risata di Drina. Era fragorosa, rimbombava tra i muri come un'eco ubriaca ed erompeva sempre da una bocca spalancata, con la testa rovesciata all'indietro. Era la maggiore delle tre sorelle e, con il suo fisico forte e atletico, era anche la ragazza più tosta della scuola. Anche se non ricordo che abbia mai fatto del male a qualcuno, i suoi modi bruschi spesso facevano pensare che avrebbe fatto a pezzi la prima persona che la infastidiva. La cosa che ricordo di più di Drina è lo scatto veloce della sua testa quando ti puntava addosso due occhi ardenti, pretendendo onestà e lealtà. Mi rivolse quello sguardo una sola volta, quando emersi da uno snervante interrogatorio della signorina Haydar, che mi aveva tenuta per cinque ore nello scantinato del dormitorio, "la segreta", per
convincermi a fare i nomi delle mie complici. La sera prima Muna, le sorelle colombiane e io eravamo entrate di nascosto nel laboratorio d'arte, come facevamo ogni sera da quando era cominciato il Ramadan. La signorina Haydar ci aveva scoperte l'ultima settimana di quel mese di digiuno, a causa di una pentola di foglie di vite ripiene che ci aveva portato una suora francese. La suora era sorella Clairie - il cui nome non riuscii mai a pronunciare correttamente. Il Natale dell'anno prima, quando una delegazione del convento era venuta a portare dei doni alle meno fortunate del mondo noi -, suor Clairie si era affezionata in modo particolare a Layla, la sorella colombiana di mezzo. Riconoscendo in quella ragazzina un animo generoso, la suora le si era avvicinata tendendo una mano. "Mi chiamo Clairie" aveva detto, pronunciando quel nome come se dell'acqua le gorgogliasse in fondo alla gola. "Posso aiutarti?" aveva chiesto, accennando alla neonata senza nome tra le braccia di Layla. "Grazie. L'hanno abbandonata questa mattina davanti al cancello" aveva detto Layla, deponendo con attenzione la piccola tra le braccia della suora. "Layla prende sempre ibambini" aveva detto Drina. "Sembra quasi che li abbia partoriti lei, da quanto li coccola." Era vero. L'istinto materno di Layla era così puro e conosciuto fra noi che ogni ragazza ferita, fisicamente o in altro modo, veniva affidata alle sue cure. Gli stessi capelli neri, sopracciglia folte e labbra piene che incorniciavano gli occhi penetranti di Drina, sul volto di Layla erano trasformati dalla sua sensibilità. I lineamenti spigolosi di Drina si facevano morbidi e arrotondati sulla sorella minore. I folti riccioli che le tre ragazze avevano ereditato dalla madre spuntavano dalla testa di Drina in crocchie confuse e ribelli ma ricadevano come trecce obbedienti sulla schiena di Layla. Dopo aver conosciuto Layla, quella suora gentile tornò all'orfanotrofio quasi ogni settimana. E ogni volta, portava una scatola di dolci. Spesso arrivava con del materiale medico per curare i bizzarri graffi e tagli delle ragazze che si rivolgevano a Layla. Ma non mancavano mai delizie di cioccolato e caramelle, che Layla divideva con le sorelle, con Muna e con me. Per alleviare la fame del Ramadan, suor Clairie veniva ogni sera sotto la parete est dell'orfanotrofio e attraverso una piccola apertura tra le
pietre consegnava a Layla una pentola calda. La sua generosità era un delizioso segreto noto solo a noi cinque. Spinte da un istinto pavloviano, arrivavamo alla fessura nel muro almeno mezz'ora prima delle cinque, quando sarebbe giunta la suora. Era già febbraio e la brezza pungente ci raggelava mentre pattugliavamo e facevamo a turno per sbirciare di fuori. "Sta arrivando!" sussurrai come vidi la pelle chiara e le guance rosee avvolte nell'abito marrone di quel volto che cercava solo Dio e rifioriva nella religiosità monastica. Drina mi spinse da parte. "Speriamo che siano foglie di vite e zucchine ripiene come ieri" disse, sbirciando fuori dalla fessura. "Qualsiasi cosa è meglio delle schifezze che prepara Umm Ahmed" intervenne Yasmina. Ci facemmo tutte da parte per permettere a Layla di prendere l'agognata pentola di cibo, che immediatamente ci passò per poter parlare con la sua amica cristiana. "Ce l'ho"", rassicurai le altre, nascondendo la pentola sotto la mia coperta. "Mmm, che profumino" disse Drina, infilandoci il naso. Come facevamo da quasi un mese, penetrammo nel laboratorio di arte per consumare il nostro pasto. Yasmina, la più piccola delle sorelle colombiane, e la più pratica e organizzata di tutte noi, distribuì il cibo in cinque porzioni uguali mentre aspettavamo che l'adhan ci desse il permesso di rompere il digiuno. Muna digiunava insieme a noi solidale, pur essendo cristiana. Non avendo piatti, usavamo le vaschette per i colori che c'erano nell'armadietto del materiale da disegno e ci sedevamo in cerchio, gli occhi fissi sul magnifico dono di suor Clairie e le orecchie tese alle prime note delPadhan. "Alllaaaaaaahu akbar... Alllaaaaaaahu akbar...," si riversò con una cadenza musicale dal cielo sopra di noi, e rompemmo il digiuno, "nel nome di Dio, clemente e misericordioso." Divorammo il cibo in pochi minuti e ci ritrovammo tutte a fissare la pentola per le ultime gocce di sugo e sapore. Di nuovo, Yasmina si calò nel suo ruolo non ufficiale di mediatrice. "Facciamo così" disse alzandosi in piedi, i riccioli neri legati in una coda di cavallo così stretta da tenderle gli occhi, per poi esplodere dietro di lei in una massa vorticosa di ciocche ribelli. "Facciamo un gioco, e chi vince finisce la pentola" annunciò. Si guardò attorno e prese ispirazione dai palloncini disegnati da una bambina. "Si
chiama il gioco del palloncino" cominciò, poi dettò le regole, carpendo idee qua e là. "Per giocare a questo gioco" spiegò, mentre il suo corpo ossuto camminava su e giù, "dovete saltare su un piede in linea retta e dire la parola 'pallonciiiiino' tutta d'un fiato, finché non avete più aria nei polmoni. Chi salta più lontano vince." Non ricordo chi vinse, solo che non fui io. Ricordo lo sguardo diabolico di Drina un attimo prima di spruzzare di pittura Yasmina, che fu eliminata dal gioco mentre Drina scoppiava nella sua risata disarmante. Mi precipitai in aiuto di Yasmina con tubetti di pittura blu, che sprememmo su Drina mentre Layla spruzzava a casaccio, facendosi schermo di sua sorella. Muna non si era schierata e lanciava palline di cartapesta contro chiunque si trovasse nella sua linea di tiro. I miei ricordi di quella serata sono tinti di pittura e pieni di risate che mi lasciarono senza voce per diversi giorni. Ci fermammo a lungo per cercare di ripulire le conseguenze di quella battaglia con i colori, e molti anni dopo, quando tornai in visita all'orfanotrofio, vidi un gruppo di ragazzine che giocavano al gioco del palloncino nel cortile fuori dal laboratorio di arte. La signorina Haydar mi acciuffò la mattina successiva, mentre tornavo sulla scena del delitto a recuperare la mia coperta. Mi stava aspettando quando scavalcai la finestra del laboratorio, che lasciavamo aperta di nascosto. Il supplizio di quell'interrogatorio di cinque ore fu poi mitigato dall'approvazione di Drina quando capì che non avevo fatto la spia. Essermi guadagnata il rispetto di Drina fu il mio premio. Anche se avevamo pochissimo e spesso stavamo senza mangiare, i miei ricordi di quegli anni sono essenzialmente felici, ricchi di sostanza e di sentimento. Gli inverni a Gerusalemme erano bianchi e rigidi, e dovevamo fronteggiare quelle notti gelide con una sola, sottile coperta grigia per ciascuna. Anche se era proibito dividere lo stesso letto o avvicinarli e c'erano punizioni durissime se si veniva scoperte, era una regola che infrangevamo spesso, condividendo coperte e calore corporeo. Una di quelle notti in cui eravamo acquattate a dormire insieme, una ragazza nuova arrivata un anno dopo di me se la fece addosso, bagnandoci tutte. Si chiamava Maha e rimase solo pochi mesi, ma dopo quell'incidente diventammo più selettive riguardo all'ammissione nella nostra cerchia. Umm Ahmed, la cuoca, preparava tre pasti al giorno per circa duecento ragazze nell'età dello sviluppo. La colazione, alla quale arrivavo spesso troppo tardi, consisteva di una fetta di pane e tè caldo a volontà. La
cena era uguale, con l'aggiunta di una fetta di mortadella. Il contenuto di questi pasti cambiò raramente nei quattro anni che rimasi lì. Il pranzo era il momento in cui si mangiava davvero. C'era sempre qualche tipo di stufato, cucinato in un enorme calderone di metallo e servito sopra a del riso. Potevamo mangiarne tanto quanto ne volevamo, finché ce n'era. Il problema era che l'unica carne che conteneva era quella degli scarafaggi che popolavano abbondantemente la cucina. Mi abituai anche a quelli. Non solo, spesso organizzavamo delle gare per vedere chi riusciva a togliere più scarafaggi dal proprio piatto. Quelle schifezze nere si individuavano facilmente in pietanze come l'okra o lo stufato al pomodoro. Ma con la mulukhiya, uno stufato di verdure scure, l'impresa era infinitamente più difficile. Allora, era inevitabile che qualche ragazza sfortunata ne mangiasse qualcuno per sbaglio. Una volta quell'infelice privilegio toccò a Muna. Convinta che, avendo pescato tre scarafaggi, non ce ne fossero più, ripulì il piatto. Tra il sonoro disgusto generale, si tolse dai denti un filamento scuro che si rivelò essere una zampetta pelosa. Qualcuno gridò, "Muna Jalayta ne ha trovato uno ! " e l'intera sala da pranzo scoppiò a ridere e intonò allegramente - "Muna ! Muna ! " finché la signorina Haydar comparve sulla scena, ordinando a noi "animali" di tacere. Non durò. Non appena la Haydar fu fuori portata d'orecchio, il chiasso ricominciò e le ragazze vennero al nostro tavolo per consolare e rendere omaggio a Muna, come fosse un soldato ferito in battaglia. Prima dei pasti eravamo obbligate a metterci in fila indiana in un minuscolo cortile fuori dal refettorio. Su insistenza della signorina Haydar, dovevamo disporci in cinque file ugualmente distanziate prima di poter entrare. Accettavamo il suo bizzarro comportamento come una forma non ancora identificata di demenza, dato che si prendeva pure la briga di misurare la distanza tra le ragazze di ciascuna fila. D'inverno questa pratica era particolarmente penosa per tutte, tranne che per le tre ragazze che riuscivano a conquistare i "posti tubo", le postazioni attorno al tubo di metallo alto una settantina di centimetri che saliva lungo una parete in cortile e convogliava il vapore caldo fuori dalla cucina. Se riuscivi a metterti abbastanza vicino, potevi godere di una fonte di calore mentre la signorina Haydar concionava con in mano il suo ridicolo metro. La mia lentezza non mi concedeva il lusso di una
posizionetubo e non mi abituai mai a quella mezz'ora passata là fuori, al freddo. Solo una volta ebbi il privilegio del tubo, ma non perché arrivai in cortile in tempo. Una sera particolarmente fredda, in cui avevo pure la febbre, Drina s'impietosì di vedermi là in fila e costrinse una ragazzina di nome Sonya a lasciarmi il migliore dei posti tubo. Accettai con riconoscenza, tremando in quel punto caldo finché non potemmo entrare nel refettorio per la nostra fetta di mortadella, la fetta di pane e il tè a volontà. Naturalmente, guarii grazie alle cure di Layla, ai suoi intrugli di erbe e impacchi freddi. Nessuna di noi fu sorpresa né tantomeno delusa quando, una sera, Layla annunciò che si stava convertendo al cristianesimo e che dopo il diploma sarebbe entrata in convento e avrebbe vissuto insieme a suor Clairie. Drina pensò che fosse solo una fase, ma Layla entrò davvero nell'Ordine delle Carmelitane, consacrando la vita a Dio e alle ragazze che arrivavano all'orfanotrofio di Dar aiTifi, dove eravamo diventate delle giovani donne tra i muri di pietra e sotto lo sguardo severo della Haydar. Se non fosse stato per le cure di Layla avrei passato i miei anni all'orfanotrofio con la testa rasata, dato che avevo spesso i capelli infestati di pidocchi. Il giorno deputato al controllo dei pidocchi era il primo del mese. Alcuni giorni prima, ci davamo da fare per toglierci vicendevolmente i parassiti dai capelli ed evitare così il temutissimo rasoio elettrico. In fila l'una dietro l'altra, estirpavamo le bestiole e le buttavamo dentro a barattoli pieni di cherosene. Layla mi controllava i capelli. E grazie al "pettine bianco" di Yasmina, un'altra delle sue ingegnose invenzioni, che riusciva a togliere centinaia di quei piccoli farabutti in un colpo solo, i miei lunghi capelli neri non conobbero mai il rasoio elettrico. Un triste "incidente da rasoio" successe invece a una bella ragazzina di nome Su'ad, che era sul punto di diplomarsi e poi sposarsi. I suoi splendidi capelli castani le arrivavano ormai alla vita, quando la Haydar sostenne di avervi trovato dei pidocchi. Nessuno potè fare niente, se non ascoltare le grida di Su'ad mentre le sue ciocche sinuose cadevano sul pavimento. Drina era convinta che la Haydar si fosse inventata quella faccenda dei pidocchi perché era gelosa di Su'ad. "Sapeva che Su'ad si doveva sposare," disse, "e a quella vecchia strega non andava giù." Fummo tutte d'accordo.
Tra le altre grandi invenzioni di Yasmina c'era la lingua Z. Si trattava di un linguaggio escogitato da lei, che prevedeva lo spostamento di certe sillabe nelle parole e l'aggiunta di una "Z" tra le consonanti. Con grande irritazione della signorina Haydar, imparammo a parlarlo fluentemente e a usarlo per prendere in giro la sua mole e le sue narici, che più che di un essere normale sembravano quelle di un clown. Le amicizie che strinsi all'orfanotrofio sono tra i ricordi più dolci della mia adolescenza. Ovviamente, non riuscii mai a replicare il legame che esisteva tra me e Huda. Io e lei eravamo legate per sempre dalla nostra infanzia, da sei giorni di terrore passati nella buca sotto la cucina, da una sorellanza che sarebbe rimasta senza eguali nell'arco di tutta la mia vita. Ma il destino aveva diviso le nostre vite, portandoci su strade diverse. Huda riuscì a venirmi a trovare una volta sola durante i quattro anni che passai all'orfanotrofio. Anche se raggiungere Gerusalemme era difficile, arrivò insieme a Osama nel febbraio del 1973 per dirmi che aspettavano il loro primo figlio. La loro unione era sbocciata in un quieto fulgore che allora non potevo capire, e la vita che cresceva dentro di lei li avvolgeva entrambi in un'aura di promessa e di speranza. Sulle prime non riconobbi la mia migliore amica in quella bellezza che sembrava così cresciuta, così più donna di me. Aveva un'aria affascinante ed esotica, con occhi in parte di tigre e in parte umani. Ma il suo carattere forte e tenero sovrastava tanta bellezza, e il suo volto conquistava. Anche decenni dopo, quando il tempo le avrebbe segnato le guance e impresso sulla fronte i solchi dell'età, il volto di Huda avrebbe conservato la capacità di incantarti, spingendoti a cercare un segreto che sapevi essere là, nascosto tra le striature gialle dei suoi occhi. Non era consapevole della propria bellezza, e questo non faceva che renderla ancora maggiore. "Mi sei mancata" disse, le lacrime agli angoli degli occhi. Credo che fu allora che, per la prima volta nella mia vita, mi resi conto della freddezza del mio cuore e sentii le barriere di mamma che si cementavano dentro di me. Il pensiero di poter soffocare così facilmente il dolore della perdita e della separazione mi spaventava. Mi precipitai verso la mia amica d'infanzia, soffocando in un abbraccio la mia scoperta e i nostri singhiozzi. Huda piangeva perché mi voleva bene e provava un grande senso di vuoto da quando avevo lasciato
Jenin. Io piangevo perché, pur volendole bene a mia volta, sapevo che il mio sentimento non riusciva ad avere la stessa intensità. Nel tentativo di procedere con passo sicuro in una vita che vacillava d'incertezza, imparai a venire a patti con il presente recidendo inconsapevolmente i legami d'affetto con il passato. Essendo cresciuta in un panorama di sogni improvvisati e astratti desideri patriottici, tutto mi sembrava transitorio. Non si poteva fare affidamento su niente, né sui genitori, né sui fratelli o le sorelle, né sulla propria terra. Nemmeno sul proprio corpo, visto com'era vulnerabile ai proiettili. Avevo accettato ormai da tempo che un giorno avrei perso tutto e tutti, anche Huda. Me ne resi conto in quel momento, tra le braccia della mia migliore amica, e piansi egoisticamente per me stessa e per i cristalli di ghiaccio che mi stavano gelando il cuore. "Sei la migliore amica che io abbia mai avuto" singhiozzò Huda. "Jenin non è più la stessa senza di te." Huda imparò ad amare quello che aveva e ad accontentarsi della dolcezza che riusciva a distillare dalla propria vita, ì ricordi erano per lei pilastri di forza, e il campo profughi non era così male. Trovò consolazione nei legami che strinse con le corde del proprio cuore. La fede e la preghiera le permisero di crearsi una nicchia di serenità, anche dopo che i soldati, nella loro incessante ricerca di "terroristi" le ebbero devastato la casa. Finché poteva tornare tra le braccia dell'amore alla fine di ogni giornata, tutto il resto non aveva importanza. Trascorremmo il tempo della sua visita nel perimetro della scuola, dato che non mi era permesso uscire, mentre Osama andò nella Città Vecchia. Presentai Huda alle mie amiche dell'orfanotrofio, che l'accolsero con caloroso entusiasmo, e passammo la giornata nel divertente mondo delle giovani donne. Ascoltammo attentamente le risposte di Huda quando Drina la interrogò sul sesso, dato che era l'unica di noi ad aver provato quel grande mistero. Facemmo a turno a sentirle la pancia, cercando di svegliare il bambino e aspettando con ansia i suoi movimenti. Il piccolo si mosse alcune volte, come un'ombra dietro a una tenda, e strillammo di gioia per il senso di magia e miracolo che solo i bambini sanno evocare semplicemente muovendosi. Mangiammo tutte e sei dalla pentola di agnello in salsa di yogurt che aveva portato Huda. Yasmina distribuì la carne, concentrata dietro alle lenti dei suoi occhiali di fil di ferro.
" Che occhiali curiosi, Yasmina. Non ho mai visto una montatura così" disse Huda. Le rispondemmo quasi all'unisono: "Se li è fatti lei". "Sta sempre a inventare e costruire cose, la nostra Yasmina" disse Drina con insolito orgoglio. "Se hai le lenti posso fartene un paio, Huda" propose Yasmina sgranando gli occhi, ansiosa di poter costruire qualcosa. Per quanto volessimo credere che niente sarebbe cambiato, che saremmo rimaste per sempre una famiglia di cinque amiche, il giorno del diploma si avvicinava inesorabilmente. Nel 1973 Drina aveva finito la scuola da due anni, ma era rimasta all'orfanotrofio come insegnante di ginnastica mentre frequentava l'Università islamica. Layla aveva già intrapreso il suo cammino di fede cristiana e si era trasferita in un convento a vivere dietro ad altri muri di pietra. Io e Yasmina ci diplomammo insieme, entrambe con il massimo dei voti, mentre a Muna mancava ancora un anno. Anche se Yasmina era la più intelligente e la più studiosa di tutte, toccò a me vincere una borsa di studio. Era offerta ai profughi palestinesi da un gruppo di ricchi araboamericani. Dato che la famiglia di Yasmina era fuggita in America Latina e non aveva mai vissuto in un campo profughi, le mancavano i requisiti necessari. Credo che l'opportunità di studiare in un'università estera le fece rimpiangere di non essere mai vissuta in un campo. Uscii fiduciosa ed esausta dall'ultimo dei cinque giorni di test d'ingresso e aspettai il verdetto. Volevo disperatamente vincere quella borsa di studio, ma solo per le conferme che mi offriva. Non riuscivo a immaginare di andare da nessun'altra parte se non nella familiarità di Jenin, oppure sarei rimasta nell'orfanotrofio a insegnare, come Drina. Di sicuro non ero pronta ad andare negli Stati Uniti, come prevedeva la borsa di studio. La realtà nel mio paese mi spaventava già abbastanza. Perché rischiare di andare in un mondo sconosciuto dove nessuno parlava arabo e dove non avevo nascondigli? Prendere voti alti era già un fine in se stesso. Mio padre aveva voluto che studiassi e io avevo ubbidientemente trapiantato la mia vita nel terreno del suo sogno. Ma non ero pronta a fare progetti a lungo termine. Yasmina, invece, aveva il dono della lungimiranza e faceva piani e piani di riserva. Quando le dissi candidamente che forse non avrei accettato la borsa di studio, mi tirò uno schiaffo.
"Chi ti credi di essere, per rifiutare un dono simile?" La sua domanda mi riecheggiò nelle orecchie. Era un caso straordinario e una fortuna rara che una ragazza come me potesse incontrare un'opportunità simile nel miserabile destino che aveva ereditato dalla nascita. Chi credevo di essere? "Farei di tutto per avere quella maledetta borsa di studio ! " Gridava, ma non contro di me, contro qualcosa che nessuna delle due poteva vedere. Gridava contro la crudeltà del destino, che non si era accorto della sua intelligenza e di tutte le ore che aveva passato sui libri. Sognava da tempo l'università, e la sognava ancora di più da quando si era saputo delle borse di studio. Mi vergognavo di fronte alla sua delusione, e quella sera, mentre ero seduta da sola sulla terrazza, Yasmina spalancò le porte dell'amicizia con un buon consiglio. "Non essere stupida, Amai. Vinci la tua paura" disse, e tornò dentro, lasciandomi all'indifferenza di una mezzaluna cullata in un cielo nero punteggiato di stelle. Quand'ero piccola, Hajj Salim mi diceva che il cielo poteva darti tutte le risposte, se lo guardavi a lungo e con attenzione. Diceva che le costellazioni erano geroglifici divini che potevano essere decifrati dai cuori sinceri. A quell'arazzo di stelle offrii la mia ferita più profonda. A Jenin non mi restavano altro che dei frammenti d'infanzia e le macerie di una famiglia perduta per sempre, il tutto calpestato dagli scarponi e dai carri armati dei soldati israeliani. Se tornavo, mi aspettavano inevitabili le nozze, secondo la cultura tradizionale del campo profughi di Jenin. La mia orribile cicatrice e il mio corpo sfigurato mi facevano guardare con terrore al matrimonio, che non avrebbe fatto altro che accentuare il mio senso di rifiuto e inadeguatezza. Chi credevo di essere? Una patetica orfana, povera e senza patria, che viveva di carità. La borsa di studio americana era un dono che non avevo nessun diritto di rifiutare. Un dono provvidenziale, messo sulla traiettoria dei sogni che mio padre aveva nutrito per i suoi figli. Mentre la luna sorrideva nel cielo, implorai la notte di svelarmi il sogno racchiuso nel mio cuore. Perché in vita mia, non avevo ancora sognato il mio sogno. Non potevo partire senza vedere Huda, Osama e la loro bambina, che avevano chiamato Amai. Come regalo di addio, le amiche dell'orfanotrofio racimolarono tutto quello che avevano, anche se bastava a malapena a coprire parte della tariffa del taxi. Sorprendentemente, la signorina Haydar coprì la
differenza con cento shekel israeliani. Ancora più sconcertante fu l'abbraccio che accompagnò quel dono generoso. Spostai gli occhi dai soldi alla donna dal volto incipriato di talco che si tracciava le sopracciglia con una matita e svolgeva con rabbia il proprio incarico di direttrice dell'orfanotrofio. Sotto al suo aspetto segnato e alla sua leggera demenza, vidi l'insicurezza e provai un senso di sorellanza quando mi strinse tra le braccia. "Grazie, signorina Haydar" dissi con sincerità. "Di niente. Facci onore." Non volevo troppa gente attorno, così arrivai a Jenin senza preavviso, di sera. Camminai per oltre tre chilometri dalla Linea Verde, attraversando due posti di blocco israeliani. Nei pressi del villaggio spopolato di Allajun, trovai un contadino palestinese che mi offrì un passaggio su un carretto trainato dai buoi fino a Zir'ain, alle porte di Jenin. Non volle denaro - "Non posso prendere soldi da una figliola araba" - così lo ringraziai e percorsi a piedi il tragitto che mi restava. Tre carri armati israeliani erano appostati sulle colline affacciate sul campo. Una presenza continua. Un controllo continuo. Era buio quando scesi dal pendio e mi infilai nel labirinto contorto di baracche e vicoli, ma non mi serviva la luce per orientarmi. Avrei riconosciuto anche a occhi chiusi le stradine fangose scolpite tra le case. C'era il pollaio di 'Ammu Darwish, il mio nascondiglio preferito. Un metro più in là c'era la finestra di Lamya, ad altezza degli occhi, con le due sbarre di metallo che suo padre aveva fissato dopo aver sorpreso un ragazzino che sbirciava dentro. Poi la via si divideva in tre e io presi quella di mezzo, la più stretta, che portava alla casa di Huda. Le abitazioni lungo i lati consentivano a malapena il passaggio di una persona e sfiorai i muri di argilla con le mani, come facevo sempre con Huda. Dentro alcune finestre si vedevano delle luci e la sagoma di qualche anima stanca che si trascinava qua e là, ma il resto del campo stava ancora dormendo. La terra era sovrastata dai cori dei grilli e i gatti selvatici si riunivano sui mucchi di spazzatura in cerca di cibo avariato o dei topi che rovistavano lì intorno. Se non avessi conosciuto la solida generosità degli abitanti del campo, avrei avuto paura di essere là da sola, al buio. Mi fermai davanti a una porta di ferro blu, graffiata e ammaccata. Bussai delicatamente.
Osama guardò fuori da uno spioncino arrugginito, poi sentii il cigolio metallico dei chiavistelli che si aprivano in fretta e furia. Un sorriso gli alzò le sopracciglia sotto a un disordine di capelli arruffati, e l'animo gentile che conoscevo mi accolse con occhi pieni di gioia. "Ahlan! Ahlan!" esultò, facendomi segno di entrare nel loro piccolo cortile. Una lampadina solitaria ronzava in un angolo, dove si distinguevano le sagome di alcune galline che dormivano su un letto di paglia. Degli ortaggi spuntavano da un lungo vaso rettangolare dipinto a mano, senza dubbio da Huda. Osama mi fece fermare sulla soglia. Le ombre rivelavano una dolce malizia sul suo volto. "Shh" disse portandosi un dito alle labbra. "Facciamole una sorpresa. " Mi condusse dentro casa in punta di piedi e con un'attenzione esagerata. Lo seguii, guardando il ragazzino della mia infanzia, ora un marito e un padre con due baffi sottili sul giovane volto e un affetto smisurato per la propria famiglia, che gli trasudava da tutti i pori. Poi, quando vidi Osama e Huda insieme, seppi con certezza che erano fatti l'uno per l'altra. Dopo tre anni di matrimonio si parlavano in un modo che faceva pensare a due gattini che giocano. Huda mi buttò le braccia al collo non appena feci capolino in cucina. Com'era prevedibile, si mise a piangere e sia io che Osama la prendemmo allegramente in giro per la sua sensibilità. Mi portarono alla culla della piccola Amai. Era una bambina robusta, con la stessa pelle olivastra di sua madre e capelli neri e soffici come cotone. Mentre dormiva, le carezzai i teneri rotolini su gambe, collo e pancia con mille baci e pizzicotti delicati, e avvertii Huda e Osama che non vedevo l'ora di rivelarle le loro malefatte, non appena avrebbe avuto l'età per cacciarsi nei guai lei stessa. "Fai come ti pare," m'implorò Osama, "ma ti prego, non svegliarla!" Si scambiarono uno sguardo che tradiva un intermezzo romantico interrotto dalla mia visita. Ci abbandonammo tutti e tre ai ricordi e ai pettegolezzi sul campo profughi. Il sostituto di 'Ammu Jack O'Malley era un'inglese gentile ma distaccata di nome Emma, che passava raramente la notte al campo. 'Ammu Darwish era stato sorpreso a vendere senza permesso souvenir ai turisti a Gerusalemme e stava scontando tre mesi di carcere. Huda era diventata amica di Fatima.
"Quella sciocca," disse Huda di Fatima, "ha rifiutato tutti i corteggiatori." Era chiaro, anche se rimase sottinteso, che non voleva nessun altro uomo se non mio fratello. Osama andò a letto verso le due, lasciandoci alle nostre "chiacchiere da ragazze". Qualunque cosa pensava che fossero, non voleva prendervi parte. Huda lottò per restare sveglia, ma alla fine cedette al richiamo del sonno e al tocco della mia mano che le accarezzava i capelli. Ma qualcosa dentro di me, un misto di ansia e trepidazione, non mi permise di chiudere occhio e l'insonnia non riuscì a mitigare l'inquietudine che cresceva sempre più con l'approssimarsi del mio futuro. Irrequieta, uscii nell'oscurità e mi arrampicai sul tetto della casa di Huda. Nelle calde estati della nostra infanzia avevamo passato innumerevoli notti sui freschi tetti delle nostre baracche, scambiandoci storie, risatine e pettegolezzi. Da quella posizione strategica vedevo il campo profughi delle Nazioni Unite estendersi per un chilometro quadrato, tutte quelle anime accalcate nella lunga e tenace attesa di un ritorno alla loro Palestina. Dopo un po', l'adhan lanciò il suo primo richiamo alla preghiera musulmana, mentre il sole si alzava lentamente nel cielo dietro le colline. Il ritmo melodico dell'adhan mi avvolse il corpo come le forti braccia di papà e la brezza dell'alba mi accarezzò la pelle come il foulard di seta di mia madre. Il sole si alzò dietro ai carri armati e alle vedette israeliane, l'arancione inondò il cielo, illuminando la parte della mia vita che era ormai perduta per sempre. Ripensai con dolore ai miei giorni nel campo profughi. Ma quel che mi restava era una vita usurpata, e la reclamai immediatamente con tutta la forza della mia confusione e del mio desiderio, mentre i galli annunciavano con il loro canto l'inizio di un nuovo giorno. Lasciai una lettera per Huda in cucina, accanto al caffè, il primo posto dove avrebbe guardato appena sveglia. Dentro la busta misi una collana con un ciondolo d'oro su cui era incisa la Surat alKursi, il Versetto del Trono - per i musulmani, un'invocazione della protezione divina. Era un regalo che avevo comprato per la piccola Amai. Mi incamminai verso il più vicino varco d'ingresso a Israele, dove speravo di riuscire a prendere un taxi per Gerusalemme. Inspirai il profumo di falafel freschi nell'aria serena, intrappolato nei vicoli di quell'architettura compressa. Una gabbia di canarini cantava dal balcone di una casa e dietro le pareti sottili sentivo i deboli pianti dei neonati che si svegliavano. Alcune persone strascicavano i piedi,
cominciando la loro giornata, e i galli saltellavano ovunque trovavano spazio. Ero frastornata dalla prospettiva della partenza, mentre le gambe mi guidavano verso la porta di Hajj Salim. L'uomo che aveva rallegrato la mia infanzia era là, che armeggiava davanti all'uscio di casa. Mi fermai a una certa distanza per non essere vista e lo guardai cercare inutilmente di spazzare via la polvere che gli invadeva la soglia. Appoggiai la schiena contro un muro e mi lasciai scivolare giù, mentre Hajj Salim muoveva la scopa con movimenti artritici. Stringendomi le ginocchia al petto, mi immaginai di andare da lui e di toccargli delicatamente la pelle ruvida, chiedendogli un ultimo racconto della nostra Palestina rubata. Magari quello del pastore di alKhalil, che era andato cocciutamente fino a San Giovanni in Acri a cercare le sue pecore. "L'ho visto con questi occhi. E gente dalla testa dura, quella. Secondo me è per questo che Dio ha riempito la città di alKhalil di granito: altrimenti avrebbero spaccato le montagne con la testa" diceva, erompendo nella sua magnifica risata sdentata. Avevo gli occhi gonfi di lacrime e mi strinsi ancora di più le ginocchia al petto. "Maledetta polvere" lo sentii dire con un tono di rassegnata frustrazione, mentre rientrava in casa. La tenacia della sua buffa lotta e sconfitta quotidiana contro la polvere mi fece sorridere, e mi rialzai in piedi appena sentii sbattere la porta metallica. Tornata a Gerusalemme, andai a prendere le mie borse all'orfanotrofio e a dire addio a quella città e a tutto quello che aveva significato per me. Misi una mano in tasca e trovai una busta sigillata. Sorrisi, sapendo che era una lettera di Huda. La misi nella vecchia scatola di latta che avevo ricevuto anni prima in dono dall'ente benefico di uno dei ricchi stati del Golfo. Era graffiata e ammaccata e conteneva i miei averi più preziosi: la pipa di papà, la pettorina della preziosa thobe di mamma, il suo foulard di seta sbiadita, i dadi che Lamya mi aveva restituito piena di sensi di colpa e una pila di lettere di Muna Jalayta, accumulate durante i miei quattro anni all'orfanotrofio. Anche se vivevamo nello stesso dormitorio, io e Muna ci comunicavamo i fatti dell'istituto e i nostri segreti attraverso lettere. Era un modo per vincere la solitudine e la noia della nostra vita. Quelle lettere sarebbero diventate le cronache di un tempo in cui condividevamo il cibo in più, toglievamo scarafaggi dai piatti e ci pettinavamo via vicendevolmente i pidocchi dai capelli. Dipingevano i
colori di un'amicizia nata dal bisogno reciproco di sopravvivenza e affetto. Contenevano le storie del pettine bianco, dei buffi giochi che inventavamo, delle nostre avventure quando entravamo di nascosto nel laboratorio di arte e nell'infermeria per rubare colori e materiale medico da dare a Layla. In quelle lettere Muna parlava spesso anche del ragazzo di cui era innamorata. Ironicamente, si chiamava anche lui Osama. E io scherzavo sempre, dicendo che ero destinata a sposare qualcuno con quel nome dato che sia lei che Huda, le mie due migliori amiche, avrebbero sposato degli Osama. Ripenso a quegli anni con nostalgia. È vero che non avevamo stufe per riscaldare le notti fredde o l'acqua dei bagni settimanali, ma avevamo molte delle cose che riscaldano l'anima. Eravamo amiche che all'occorrenza si sdoppiavano in madri, sorelle, insegnanti, aiutanti e a volte perfino in coperte. Condividevamo tutto, dai vestiti alle angosce. Ridevamo insieme e scolpivamo i nostri nomi nelle antiche pietre di Gerusalemme. Uscivamo tutte a fatica dagli abissi dell'espropriazione e cercavamo di sopravvivere come potevamo sotto l'occupazione israeliana. I nostri piaceri più grandi erano i momenti di normalità. Una cotta per un ragazzo. Una partita a carte. Raccontarci barzellette sporche mentre lavavamo a mano i vestiti sul tetto di quel palazzo di cinque piani. Le parole d'incoraggiamento di un insegnante. Il legame che stringemmo si basava su un tacito impegno alla comune sopravvivenza. Abbracciava la storia, cavalcava i continenti, attraversava le guerre, e conteneva le nostre tragedie e le nostre vittorie collettive e individuali. Era un legame fatto di lettere adolescenziali, di pentole di foglie di vite ripiene. Era la Palestina. Era una lingua che smantellammo per costruirci una casa. IV. ALGHURBA (LA CONDIZIONE DI STRANIERO) Ventiquattro AMERICA 1973 Un senso di inadeguatezza segnò i miei primi mesi in America. Mi dibattevo in un mondo senza limiti, cercando di adattarmi. Ma la mia diversità traspariva dalla mia pelle scura e dal mio accento. Mi portavo
addosso la condizione di esule come un cattivo odore, e i dirottamenti aerei degli anni settanta scrivevano il mio cognome arabo nel cielo. "Tranquilla. Non hai mai visto un ascensore?" mi chiese una bella ragazza rossa all'aeroporto internazionale di Filadelfia. Così era un "ahsceynsore". "Tu devi essere Amai." Mi porse una mano morbida e curata. "Io sono Lisa Haddad. Mia mamma sta parcheggiando. Siamo la tua famiglia ospite." Lisa era più giovane di me ma molto più sofisticata e carina. "Ciao" dissi, guardandola con un'invidia imbarazzante. "Ho preparato la stanza degli ospiti per te" disse Lisa energicamente durante il breve tragitto in auto dall'aeroporto a casa loro. Era facile farsi conquistare da lei - anzi, era difficile il contrario. Il suo mondo era soffuso di tinte pastello, emotivamente protetto, finanziariamente solido e politicamente irrilevante. Mi sembrò strano ed eccitante che cercasse la mia simpatia e la mia approvazione. "Grazie" dissi, non sapendo bene quale fosse la corretta risposta americana al suo cortese entusiasmo. Nel mondo arabo, la gratitudine è di per se stessa un linguaggio. " Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono"; "La bellezza è nei tuoi occhi che mi vedono graziosa"; "Che il Signore ti doni una lunga vita"; "Che Dio non respinga mai le tue preghiere"; "Che il prossimo pasto che cucinerai per noi sia per festeggiare il matrimonio di tuo figlio... il diploma di tua figlia... la guarigione di tua madre"; e via dicendo, una serie infinita di ringraziamenti e benedizioni. Venendo da una cultura simile, ho sempre trovato insufficiente un semplice "grazie", come se rendesse misera e ingrata la mia risposta. Guardai il paesaggio urbano. Strisce di asfalto e di cemento si allungavano e si collegavano sotto più automobili di quante avessi mai visto in vita mia. Case a schiera, fabbriche e magazzini si susseguivano lungo la statale e lo smog velava il fitto skyline di Filadelfia. L'odore della città penetrava nell'auto. Enormi panini al formaggio e carne dei venditori ambulanti, patatine fritte unte, esalazioni dei furgoni diesel, gas di scarico delle auto diedero alle mie narici un corposo benvenuto. Un odore simile all'irreparabile morire dei gigli bianchi che ccrescevano nelle doline della Palestina, allo sfiorire dell'henne, che si schiudeva ogni primavera in fragranti fiamme di grappoli bianchi e gialli, ardenti e delicati. La madre di Lisa, Angela Haddad, parlava sommessamente, indicando il Museum of Art, la statua di William Penn, il municipio,
l'Independence Hall e altri monumenti che per me non significavano nulla. Teneva il collo perfettamente dritto e le lunghe dita avvinghiate al volante della sua Mercedes mentre guidava per la città. Possedeva un'eleganza impenetrabile e, pur essendo molto generosa e gentile con me, facevo fatica a rilassarmi in sua presenza. "Mamma, papà verrà questa settimana?" chiese Lisa. Il padre di Lisa viveva con la sua fidanzata e veniva a trovare la famiglia di tanto in tanto. Pensai che fosse un accordo strano, finché non lo conobbi. Era un parvenu alto e spavaldo che aveva sposato l'ereditiera Angela e usava i soldi della moglie per le sue costose avventure da donnaiolo, una causa che patrocinava nei più raffinati circoli maschili di Filadelfia. "È il nuovo progetto di tua mamma, dolcezza?" chiese a Lisa, facendo un cenno verso di me, quando venne a "portare fuori" sua figlia. "Si chiama Amai, papà" rispose Lisa con imbarazzo. "Ciao, Omar. Io sono Milton Dobbs." Mi porse una mano e gliela strinsi. "E questo che amo di tua madre, dolcezza, cerca sempre di salvare il mondo. È per questo che l'ho sposata" disse alzando la voce perché sentisse anche Angela, che lo ignorava da dietro il bancone della cucina. "No, mi hai sposato per i miei soldi" ribatté sua moglie con disinvolta, elegante ironia. "Non so se verrà questa settimana, tesoro" aveva risposto Angela mentre continuava a indicare le prestigiose attrattive di Filadelfia. "E questa, Amai, sarà la tua casa per le prossime tre settimane, o se vorrai anche di più" concluse, entrando lentamente in un lungo vialetto circolare. Sulla soglia, sgranai gli occhi di fronte a tanta immensità. Non avevo mai immaginato che potessero esistere case così grandi. Sembrava che i soldi scendessero a fiocchi dai soffitti di quelle stanze enormi e immacolate, e stentavo a credere che Lisa e sua madre vivessero sole in uno spazio così vasto, con l'aiuto di una domestica parttime. Il ricordo più vivido della mia prima notte negli Stati Uniti fu l'aver dormito per la prima volta in un letto vero. Non una stuoia o una branda. Allungai braccia e gambe in un oceano bianco e soffice di lenzuola e piumino, che assorbì la stanchezza del mio corpo sfinito dal viaggio. Sopra al letto, era appeso il poster di un uomo dai capelli ingellati e il giubbino di pelle aperto in una buffa posa seducente. Lisa
lo adorava, mi confidò, chiamandolo "Fonzie". Appoggiato a una parete c'era un regalo per me, una bicicletta Schwinn 1973 azzurra, che Angela mi insegnò a usare nei giorni seguenti. Come per tenermi ancorata alla realtà in quel grande letto, allungai una mano verso il passato e mi toccai la pelle sfregiata della pancia. Avvolta nel lusso, sulla soglia di un mondo tanto sgargiante quanto incerto, stavo cominciando una nuova vita. Ma come la cicatrice sotto la mia mano, il passato era ancora con me. A Filadelfia vagavo tra contrasti di ricchezza e povertà con un sorriso disperato incollato alla faccia. Mi sentivo lontana chilometri dagli uomini e dalle donne che camminavano con fare sicuro e deciso, o dagli esseri umani addormentati sui marciapiedi della città. Ero meravigliata dal modo in cui questi americani sicuri di sé svolgevano le loro attività quotidiane. Facevano compere, andavano al lavoro, mangiavano cibi prelibati, chiacchieravano nei ristoranti all'aperto. Mi sentivo svilita, fuori luogo, e morivo dalla voglia di essere come loro. Angela mi aiutò a riempire gli scoraggianti moduli che dovevo decifrare e riempire prima di poter iniziare il mio primo anno alla Tempie University. Non immaginavo ci volessero così tante carte per assicurazione sanitaria, iscrizione alla biblioteca, libretto universitario e la lista continuava. Ma fui pronta prima dell'inizio delle lezioni e, con l'aiuto di Angela, trovai un posto allo studentato. Elana Rivers, una burlona con un petto enorme, chiese alla direttrice dello studentato se c'era un modulo speciale per iscrivere le sue tette. Fin dai primi mesi di lezioni si fece conoscere tra gli studenti più grandi come una preda facile, cosa che le garantì l'ingresso alle feste studentesche maschili " giuste". Spesso tornava barcollando rumorosamente alle prime luci dell'alba. Non mi rivolgeva mai la parola, anche se il più delle volte si riferiva a me come "l'araba", pronunciata "ayrab", o come "la maomettana". Una sera la sorpresi a stuzzicare un infatuato pony pizza nell'atrio dello studentato. Frastornato dalla disinvoltura di Elana, il poveretto la fissava con un'espressione buffa che mi fece ridacchiare mentre passavo. Sentendomi, Elana si girò bruscamente verso di me. "Oh mio Dio!" Scoppiò a ridere. "L'araba lo trova divertente." La paura mi divampò rossa in volto, prosciugando ogni sorriso mentre Elana veniva verso di me. "Hai mai fatto sesso?" mi chiese untuosamente.
Raggelai. Non avevo mai nemmeno baciato un ragazzo. Grazie al cielo, una voce disgustata intervenne dietro di me: "Dio, Elana! Quando la smetterai?". Era Kelly Mason, una studentessa del corso propedeutico di medicina che avevo conosciuto alle lezioni di biologia. "Che c'è? Sto solo facendo conversazione" rispose Elana. Ma Kelly mi fece filare via, mettendosi coraggiosamente davanti a Elana, che da allora non mi importunò più. A parte qualche sporadico pranzo con Kelly, il mio primo anno di università trascorse senza amici. Fu un anno solitario e indaffarato. Il mio accento era un handicap sociale, o così pensavo. Non feci altro che studiare e andarmene in giro per la città in bicicletta. Ogni mio tentativo di entrare nell'arena sociale veniva sgarbatamente e senza sorpresa ignorato o snobbato. Mi restavano i libri, e la ricompensa fu il massimo dei voti sia nel semestre invernale che in quello estivo. Alla fine riuscii a inserirmi in un piccolo gruppo di amici, con i quali condivisi un alloggio fino alla laurea. Era una malandata casa a schiera in mattoni su tre piani, che durante il nostro terzo anno fu battezzata "la latrina" dopo che le acque di scarico allagarono i pavimenti. Continuai a studiare assiduamente per tutti quegli anni, ma la ragazzina palestinese di misere origini fu calpestata dalla mia foga di integrarmi e trovare una dimensione in Occidente. Attutii ogni sensibilità verso il mondo, nascondendomi in una nicchia americana senza passato. Per la prima volta, vivevo senza minacce e senza i sedimenti della guerra. Vivevo libera da soldati, libera da sogni ereditati da altri e da martiri che mi tiravano per le mani. Ma ogni casa ha i suoi demoni. Mi trasformai in un inclassificabile ibrido arabooccidentale, sconosciuto e senza radici. Bevvi alcolici e frequentai diversi uomini comportamenti che a Jenin avrei pagato con l'ostracismo. Mi tuffai in quel mutamento culturale, nuotando dentro e fuori lo stile di vita americano fino a smarrirmi. Mi innamorai di americani e mi sentii anche corrisposta. Vissi nel presente, tenendo nascosto il passato. Non scrissi a Huda, a Muna o alle sorelle colombiane. Né a 'Ammu Darwish, Lamya, Khaltu Bahiya o Hajj Salim. Ma a volte il battito delle mie ciglia era uno spasmo di rimorso che mi riportava faccia a faccia con il passato.
Un giorno, mentre camminavo in centro, mi sembrò di vedere mia madre nella vetrina di un negozio, come un alito spettrale che attraversò la mia immagine riflessa. Mi fermai a fissare la figlia di mia madre. Dalia, Umm Yussef, mi aveva lasciato in eredità un temperamento che non poteva respirare se restava ancorato al passato. Ma se lei era riuscita a isolare ogni attimo presente pur vivendo in un passato eterno, io avevo bisogno della distanza fisica per allontanarmi da me stessa. In quell'istante, mi resi conto che nessuno avrebbe potuto capirmi quanto lei. Il sottofondo della mia vita in America fu un senso di vergogna per aver tradito la mia famiglia - o peggio, me stessa. Ma mi consegnai alle usanze americane e mi consacrai alle loro libertà. Tuttavia, in certi momenti non potevo fare a meno di guardare nell'abisso che mi separava dalle persone che avevo attorno. Durante l'incidente con le acque di scarico che diede il suo soprannome alla nostra casa, l'agitazione riportò a galla ricordi di Jenin, dove capitava che le fogne a cielo aperto traboccassero e che dovessimo arraffare asciugamani o vestiti vecchi per tappare le commessure delle nostre abitazioni. Per quanto l'esperienza e le successive pulizie fossero disgustose, io e Huda non riuscivamo a frenare l'entusiasmo e la trepidazione di poter dormire sul tetto per sottrarci a quella puzza nauseante. Anche gli altri bambini facevano lo stesso, e l'aria della notte si popolava delle voci, delle barzellette e delle risatine di noi giovani profughi. Allora eravamo ancora ingenuamente pieni di sogni e speranze, beatamente inconsapevoli di essere la feccia del mondo, lasciata a marcire in mezzo alla propria miseria e ai propri escrementi. Là, su quei tetti piatti, affidavamo i nostri desideri e i nostri segreti allo stellato cielo mediterraneo. Non c'erano ancora soldati, prima della guerra del 1967. I nostri sogni erano semplici, e non potevano essere altrimenti. Pensavamo sempre al ritorno a 'Ain Hod. Pensavamo che fosse il paradiso. Quelle notti serene sul tetto erano soffuse d'innocenza. Il richiamo alla preghiera serale era la nostra coperta, io e Huda dormivamo abbracciate finché l'alba non arrivava con il libro che papà avrebbe deciso di leggermi. La melma disgustosa che luccicava nei vicoli era per noi un inconveniente temporaneo, che offriva una fantastica evasione. Così, a Filadelfia, mentre i miei coinquilini facevano telefonate convulse ai loro genitori, al padrone di casa, all'ufficio di igiene e alle
compagnie d'assicurazioni, io rimasi impassibile. Mentre loro si comportavano come se quella merda fosse la fine del mondo, io pensavo con nostalgia e struggimento ai miei vecchi amici. La distanza che ci separava era innegabile, insuperabile. Così era. La Palestina riemergeva dal profondo nel cuore stesso della mia nuova vita, senza preavviso. A lezione, al bar, mentre passeggiavo per la città. Improvvisamente, i salici piangenti di Rittenhouse Square si trasformavano nei fichi di Jenin e si abbassavano per offrirmi i loro frutti. Era un richiamo insistente, che gridava fin dalle cellule del mio corpo, riportandomi a me stessa. Poi sprofondava di nuovo in uno stato di latenza. Svolsi due lavori per quasi tutto il mio periodo di studi. L'università mi assunse come tutor alla pari, mentre nei fine settimana lavoravo in nero in un minimarket aperto ventiquattr'ore su ventiquattro a West Philly, un "quartiere malfamato" dove i bianchi normalmente non mettevano piede, specialmente con il buio. "Hai istinti suicidi" mi dicevano i miei coinquilini. "Sfidi la sorte lavorando da quelle parti." Erano sicuri che mi avrebbero violentata o quantomeno rapinata. "Non conosci ancora abbastanza questo paese. Non per essere razzisti, è solo che è un brutto posto." Ma ogni venerdì inforcavo la mia bicicletta e mi tuffavo nel traffico caotico di Broad Street, giravo a destra verso le belle case di Spruce Street e continuavo dritta fino alla fatiscenza di West Philly. Là, l'Opportunità svoltava appena superata la Trentesima Strada e la Libertà per tutti sedeva scompostamente in poltrona come uno studente pigro. A West Philly, natura e architettura si piegavano al fantasma della schiavitù, lasciando che rifiuti e urina riempissero le aiuole di fiori. Ragazzi in jeans a zampa di elefante e acconciature afro ciondolavano per le strade. All'inizio fischiavano, mi chiamavano "marna" e facevano commenti sul mio didietro. Ma quando il mio volto divenne un elemento costante del paesaggio dei fine settimana, cominciarono a chiamarmi per nome con un ritmo fischiettante, a riconoscere il mio fondoschiena - in una parola ad accettarmi. Le donne anziane, delle maestose matriarche, spettegolavano sulle verande e tenevano d'occhio il quartiere meglio che potevano. Alla fine anche le loro espressioni diffidenti si trasformarono in sorrisi generosi quando mi vedevano arrivare. Le ragazzine, i capelli legati in obbedienti treccine aderenti al capo, saltavano la corda con una coordinazione spettacolare. Avevo
l'impressione che i neri mettessero ritmo in tutto ciò che facevano. Li vidi restaurare una chiesa in un giorno solo, accompagnati dai loro canti. Scoprii anche che era stata la loro cultura assoggettata a dare vita al rock'n 'roll: una razza depredata che aveva finito per ridefinire la cultura intera con la sua musica. Capitava che ci fossero omicidi e rapine. Spacciatori e papponi. Forse stupidamente, io non avevo paura del buio di West Philly. I soldati che avevo incontrato nella mia vita avevano alzato i miei parametri nel definire i brutti ceffi. Così gli adolescenti impauriti che una volta, pistola alla mano, rapinarono il negozio per quaranta dollari, non mi fecero né caldo né freddo. Ne arrivarono tre, un sabato sera, a mezzanotte e mezzo. Entrarono insieme, il loro piano avventato ancora scritto sul volto con i segni dell'inquietudine. In negozio c'erano tre clienti e Bo Bo, il proprietario, se n'era andato solo un'ora prima. Due dei ragazzi si misero agli angoli opposti del negozio e il terzo aspettò in fila davanti alla cassa, dove lavoravo dietro al bancone. Capii che c'era qualcosa che non andava e, mentre prendevo i soldi dal cliente che mi stava pagando, ripetei mentalmente le istruzioni di Bo Bo. "Se ti dovessero rapinare, dagli tutti i soldi senza esitazioni" mi aveva detto quando avevo cominciato a lavorare, un anno prima. Al bancone, il giovane rapinatore mise giù due pacchetti di gomme alla menta e una bottiglia di CocaCola, a cui aggiunse una 9 millimetri. Poi mi chiese i soldi. Aveva occhi pieni di paura e la pelle scura liscia per la giovane età. Gli altri ragazzi si davano da fare arraffando qua e là dagli scaffali e coprivano la porta. Ero sorpresa dall'ironia della situazione: la paura di quel ragazzo e la mia calma. Mentre vuotavo il contenuto della cassa dentro a un sacchetto di carta marrone, mi dicevo che comunque non avrei potuto essere più impaurita. La pistola del ragazzo era un giocattolo rispetto ai fucili d'assalto M16. "Tu. Ferma! " Un M16 puntato al volto. "Tu. Di qua." Un M16 puntato al petto. "Giratevi, tutti. Adesso questa è una zona militare chiusa." Un M16 che roteava tra la folla, pronto a sparare qualche colpo in aria se non ci muovevamo abbastanza in fretta. Dopo aver dato tutti i soldi al ragazzo, gli mostrai una scatola nascosta dove i suoi amici potevano trovare altri trenta dollari. Poi gli diedi una stecca di sigarette. "Non fumo" osservò lui, sbalordito. Uscirono. Chiamai Bo Bo, non la polizia. Il fine settimana dopo, ancora di sabato, Bo Bo venne al negozio trascinando un ragazzo per il
colletto. "È lui?" mi chiese. Era lo stesso ragazzo impaurito che mi aveva minacciato con una 9 millimetri. Annuii e Bo Bo, il cui vero nome era Bernard, girò il suo possente corpo scuro contro il ragazzo, buttandolo a terra insieme al contenuto dello scaffale delle caramelle. "O mi rendi subito quello che hai rubato o vieni qua ogni giorno a lavorare finché non avrai pagato il tuo debito" grugnì con un'autorità che solo uno sciocco avrebbe osato contrastare. Il ragazzo - si chiamava Jimmy - continuò a lavorare per Bo Bo anche dopo aver saldato il suo debito. La polizia non lo venne mai a sapere. "Era solo finito nelle loro maglie, tutto qua. E una vecchia rete che spreme i neri fino a che non rimane più nulla da spremere" mi disse Bo Bo. Quello che sapevo per certo era che la gente a West Philly mi trovava bella, non diversa, e che il mio accento non suscitava diffidenza. Le stesse cose che mi rendevano sospetta nel mondo dei bianchi erano dei lasciapassare nei quartieri della gente di colore. Venticinque LA TELEFONATA DI YUSSEF 1978-198 1 Nell'estate del 1978, prima di cominciare la specializzazione all'Università della Carolina del Sud, cedetti alle insistenze dei miei coinquilini e andai con loro a Myrtle Beach. Durante i cinque anni precedenti avevo egoisticamente chiuso il mondo fuori dalla mia porta. La guerra dello Yom Kippur cominciò e finì nel 1973, come altri disordini in Palestina, e poco dopo fu firmato l'Accordo di Camp David di Jimmy Carter - il tutto senza reazioni da parte mia. Evitavo di proposito le discussioni politiche, non scrivevo alle persone che mi volevano bene e mi facevo chiamare "Amy" - Amai senza la speranza. Ero una parola prosciugata del suo significato. Una donna svuotata del suo passato. La verità è che volevo essere qualcun altro. E quell'estate a Myrtle Beach, ero Amy in costume da bagno, distesa sulla sabbia e lontana da me stessa come non lo ero mai stata. Mi ci vollero giorni per trovare un costume da bagno adatto. Un bikini era fuori discussione. "Wow. Hai fatto un incidente o qualcosa del genere?" mi chiese Kelly nello spogliatoio quando mi vide la pancia. "Qualcosa del genere" risposi.
Scelsi un classico costume nero perché aveva un grappolo di margherite di plastica applicato al tessuto, una cosa piuttosto ridicola che copriva l'evidentissima rientranza nel mio addome. Avevo sempre pensato che le coste mediterranee di Haifa sarebbero state le spiagge protagoniste della mia vita. Ma ora, all'età di ventitré anni, nuotavo nell'acqua dell'oceano per la prima volta e infilavo le dita dei piedi nella sabbia atlantica di una spiaggia della Carolina del Sud. Allungavo il corpo per accogliere il sole, lo stesso sole che era sorto su Jenin dagli albori della mia vita e che mi aveva regalato cieli color porpora e poesie nel baritono asmatico che usciva dal petto di papà. Non c'erano soldati qui. Non c'era filo spinato o zone interdette ai palestinesi. Non c'era nessuno che mi giudicava. Non c'erano resistenza, grida o canti. Ero anonima. Non amata. Mentre indossavo il mio primo costume da bagno, ripensai al grande desiderio espresso da Huda dopo la battaglia di Karameh, quando pensavamo che saremmo tornate nella nostra Palestina. "Sedermi in riva al mare. Solo sedermi, dato che non so nuotare" era il suo sogno, il primo di quell'ingenua lista che avevamo compilato da piccole. Huda. Dopo un anno di studi nella Carolina del Sud, ottenni la green card e scelsi gli Stati Uniti come mia nuova patria. Amy. L'Amai dei profughi tenaci e dal passato tragico era diventata Amy nella terra dei privilegi e dell'abbondanza. Quel paese che scorreva sulla superficie della vita, supino sotto cieli incrollabili. Ma indipendentemente dalla facciata dietro la quale mi nascondevo, sarei sempre appartenuta a quella nazione palestinese di esuli senza terra, né umanità, né onore. Il mio essere araba e il richiamo originario della Palestina mi ancoravano al mondo. E mi ritrovai a cercare sui libri di storia eventi e personaggi che corrispondessero ai racconti di Hajj Salim. Passò un altro anno. Qualsiasi cosa senti... Mi tenevo tutto dentro. Finché un giorno il telefono squillò alle cinque di mattina. Mezza addormentata, alzai la cornetta. "Pronto?" "Aluu" rispose una voce maschile con un forte accento. "Amai?" " Aywa" dissi, intuendo chi era e svegliandomi di scatto. La voce ridacchiò, un suono che avrei riconosciuto ovunque. Era la risata smorzata che partiva sempre dal lato destro della bocca di Yussef per poi allungarsi in un sorriso sul suo bel volto. Una vita prima, Fatima mi aveva confidato che la prima volta che aveva visto mio fratello, quando
lui aveva sedici anni e lei quattordici, il suo sorriso le aveva sciolto il cuore. "Finalmente, sorellina! Sono mesi che ti cerchiamo." Qualcuno prese il telefono. "Amai! Habibti, cara! Ti abbiamo trovata." Era Fatima. Amai. Piansi sentendo pronunciare il mio nome arabo. Il telefono era un mezzo inadeguato per trasmettere la sorpresa e il caldo desiderio, mentre cercavamo di parlare tra singhiozzi e interferenze. "Aspettiamo un bambino." Il loro primo figlio. "Dove ti trovi negli Stati Uniti? Noi adesso siamo in Libano. Sai cos'hanno fatto all'Olp in Giordania, quei bastardi." Sentii Yussef che diceva a sua moglie: "Non ora, habibti". "Va bene, caro." E continuò. Era una lunga storia di combattimenti senza fine - "Yussef ti racconterà ogni cosa" - attraverso i quali scorreva un fiume di amore infinito - "ma questo lo sai già". Nel decennio successivo alla battaglia di Karameh, mio fratello aveva fatto carriera nei ranghi dell'Olp. Il movimento aveva ricevuto un tale appoggio popolare in Giordania che la monarchia hashemita aveva temuto per la propria sopravvivenza e aveva schiacciato guerriglieri e civili palestinesi con orribili massacri che avevano fatto guadagnare il nome di " Settembre nero" al nono mese dell'anno. L'Olp fu quindi cacciata in Libano nel 1971, sotto la leadership di Yasser Arafat, e mio fratello accettò un posto come insegnante presso una scuola dell'Unwra che serviva i campi profughi di Sabra e Shatila, dove continuò anche a operare tra le fila dei combattenti palestinesi. "Non avevo mai smesso di aspettarlo, sai... Ti racconterò tutti i particolari quando ci rivedremo. Yussef sente moltissimo la tua mancanza. E anch'io, cara" disse Fatima. Nonostante i lunghi anni di lontananza e l'incertezza sugli spostamenti di Yussef e sul destino di Fatima, tutti e due erano rimasti fedeli al loro amore, resistendo alle pressioni della tradizione perché si sposassero con qualcun altro. Finalmente, nel 1977, dopo difficili ricerche, Yussef aveva scoperto che il suo amore non si era sposato, e aveva subito spedito a Fatima una lettera che impiegò quasi un anno a percorrere meno di ottanta chilometri verso sud e ad arrivare per vie clandestine al villaggio di Barta'a, dove Fatima viveva ancora insieme alla madre. "Era come se Dio avesse aperto il paradiso e lasciato cadere quella lettera per il mio cuore" disse Fatima. Quel cuore che agognava mio
fratello così come la vita agogna il respiro. Nel giro di tre mesi, si erano ritrovati e sposati a Beirut. Per compiere quel viaggio, Fatima aveva dovuto dire addio per sempre alla sua famiglia e al suo paese perché, una volta partita, Israele non le avrebbe più permesso di tornare nella terra che occupava. Aveva rinunciato a tutto quello che aveva per sposare mio fratello, e non se n'era mai pentita. Aveva trentadue anni, e lui trentaquattro. "Sorellina, vedi di tornare prima che Fatima ti faccia diventare zia!" "Quando sarà?" "Verso metà giugno." "Adesso è dicembre. Ho qualche mese per mettere da parte i soldi per il biglietto e finire l'università." "Finire l'università?... Papà sarebbe orgoglioso di te." Anche dopo così tanti anni, desideravo ancora essere l'orgoglio di mio padre. Dovunque fosse. Guardai fuori dalla finestra, vidi il sole nascente e rimasi senza parole di fronte all'intensità della luce, il sorriso di papà, che entrava nella stanza. "Sbrigati a tornare, sorellina. Ci manchi." "Voi di più. Tornerò presto." Yussef mi dettò un numero dove potevo lasciare un messaggio perché mi chiamasse a un orario prestabilito. Riagganciai con riluttanza. Mi laureai a giugno, con l'unico progetto di andare in Libano in mente. Dopo la telefonata di Yussef, non pensai ad altro che a tornare dalla mia famiglia, da me stessa. Ma avevo anche stretto dei legami sinceri in America e, sotto molti punti di vista, il posto che in quegli anni avevo chiamato patria era diventato una parte di me. Ero triste di lasciare i miei amici, ma anche felice per quello che mi aspettava, quando salii su un aereo per Beirut. E speravo di arrivare prima che Fatima mi facesse diventare zia. V. 'ALBI FI BEIRUT (IL MIO CUORE A BEIRUT) Ventisei MAJID 1981 Una folata d'aria calda e secca mi accolse quando sbarcai sul suolo libanese. L'aeroporto internazionale di Beirut era un luogo reso sinistro dai troppi fucili in spalla a troppi soldati in divisa. Ma i toni serici e gutturali dell'arabo vibrarono dentro di me non appena sentii la melodia di benedizioni e complimenti della mia lingua. È una danza, davvero. Mentre superavo i metal detector, qualcuno offrì del tè a un uomo
seduto dietro al banco. "Benedette siano le tue mani" disse l'uomo, e l'altro rispose: "Anche le tue, e che Dio ti protegga sempre". Benedizioni e complimenti che danzano nell'aria. Emergendo dalle nervose code per l'immigrazione, vidi un uomo alto e dall'aria stanca e impassibile sotto a un cartello con scritto il mio nome. I suoi occhi neri erano incastonati sotto a due sopracciglia arruffate. Una rada peluria gli rivestiva le guance nella vana lotta per diventare barba e due baffi meticolosamente simmetrici non riuscivano a nascondere la pienezza delle sue labbra. Quando i nostri sguardi si incontrarono, il riconoscimento gli aprì il volto in un sorriso. "alHamdulillah 'ala salama" disse, porgendomi la mano. "Mi chiamo Majid. Tuo fratello mi ha incaricato di venirti a prendere." "Che Dio protegga anche te" risposi. Benedizioni. "Ti ho riconosciuta subito. Sei uguale a Yussef." "Abbiamo preso da nostra madre. " Sorrise, sfilandomi dalla mano la valigia. Il traffico di Beirut avanzava a singhiozzo in una bolgia di clacson strombazzanti. Alcune biciclette sfrecciavano tra le macchine mentre Majid guidava pazientemente attraverso il trambusto, scusandosi per il "lessico scurrile" della strada quando autisti baffuti, furenti e sudati, si lanciavano insulti coloriti. Le volgarità arabe spesso non sono altro che allusioni gratuite all'anatomia di qualche parente di sesso femminile. La semplice menzione. "Vai, idiota! La passera di tua madre." Oppure: "Aspetti un tappeto rosso per muovere la tua dannata macchina? La passera di tua sorella!". Poi c'è l'onnipresente: "Al diavolo tuo padre e il padre di tuo padre!". Dispersi in quel pandemonio, gli ambulanti vendevano giornali, fiori e gomme da masticare, mentre l'aroma del pane appena sfornato l'esposizione ai lati della strada di ka'k al sesamo con timo macinato e formaggio - mi riempiva i sensi dei ricordi della Palestina. "È bello essere di nuovo sul suolo arabo" pensai a voce alta. "Ho sentito che sei stata via un bel po'" disse Majid dopo una breve pausa. "Sì, un bel po'." "Scusa, non volevo essere invadente." "No, non c'è problema. Sono partita con una borsa di studio e non potevo più tornare a Jenin. Sai com'è quando sei via da un po'. Gli israeliani non ti lasciano tornare..." E poi non avevo niente e nessuno da cui tornare. E a essere sincera, volevo essere un'americana. Volevo dimenticare il bagaglio del mio passato e le tragedie e provare a essere Amy.
Girai la testa verso il finestrino aperto per chiudere l'argomento e respirare ancora un po' dell'aroma di jibne caldo e za'atar dei ka'k al sesamo che riempivano i carretti sul bordo della strada. Majid chiamò un venditore dal finestrino e un vecchietto dall'aria cordiale si avvicinò con due grossi ka'k avvolti nella carta di giornale. "Che Dio ti doni una lunga vita, hajj" disse Majid per ringraziare il vecchio, e lo pagò. "E felicità a te e alla tua famiglia, figliolo" rispose il vecchio. "Scommetto che è da un po' che non mangi uno di questi." Majid si girò verso di me con un ka'k al jibne. Di nuovo quel sorriso. Lo ringraziai, entusiasta: "Siano benedette le tue mani, così gentili e generose". "Sapevo che qualcosa ti avrebbe fatta sorridere." I modi timidi e delicati di Majid stridevano con l'aspetto ruvido che avevo notato all'inizio. "Io e mia madre facevamo spesso lunghe passeggiate insieme quand'ero piccolo, e la facevo sempre fermare per comprarmi una di queste delizie" disse, spezzando delicatamente il silenzio. Ascoltavo. Non volevo guastare il suo ricordo con le parole o rompere la fluida serenità della sua voce. La piccola Fiat ammaccata conteneva a fatica il suo lungo corpo, obbligandolo a piegare leggermente la testa contro il tetto e ad alzare le ginocchia vicino al volante. Mangiammo nella quieta luce pulviscolare della macchina, con i finestrini alzati e i clacson che di tanto in tanto protestavano per la nostra lentezza, e Majid arrossì quando la mano che inseriva la quinta mi sfiorò accidentalmente la gamba. "Scusami. Sono mortificato." "Non è niente." Più avanti il traffico si fece più scorrevole sulle strade piene di buche e parzialmente asfaltate. "Perché non è venuto Yussef a prendermi?" "Non posso credere di essermi dimenticato di dirtelo!" esclamò, dandosi una leggera pacca sulla fronte. "Fatima ha avuto il bambino. Hai una nipote! " I suoi occhi si sgranarono come fanno quelli di chi porta buone notizie. " Yussef sperava che fosse un maschietto, ma si è sciolto lo stesso quando ha visto sua figlia." Sono zia! "Tutti gli uomini arabi vogliono un primogenito maschio, no?" scherzai, sentendomi più a mio agio insieme a quell'uomo. Ridemmo. "In realtà, io vorrei una bambina. Sara, come mia madre, pace all'anima sua. Ma sinceramente, qualsiasi cosa mi concederà il Signore sarà una benedizione" rispose Majid. La sua voce era come velluto, il suo profilo
un'incarnazione della sicurezza, e la sua presenza confortante. Sembra Che Guevara. Shatila era uno dei tre campi profughi di Beirut e dintorni. Accanto c'era Sabra, ed entrambi somigliavano al campo di Jenin: affollati labirinti di baracche di cemento e argilla che erano sorte dopo l'oltraggio delle tende date in elemosina ai palestinesi fuggiti dalla guerra del 1948. Le acque di scarico fluivano in canalette lungo i vicoli e i bambini giocavano facendoci galleggiare delle barchette di carta. Capii che eravamo arrivati quando i bambini cominciarono ad affollarsi attorno alla Fiat. Facevamo così anche noi quand'ero piccola. In particolare, tormentavamo senza sosta i visitatori e gli ispettori dell'Onu cercando disperatamente di posare per le loro macchine fotografiche. Anche se non vedemmo mai una di quelle foto, ci contendevamo comunque le posizioni davanti ai loro obiettivi. I bambini di Shatila mi fecero pensare a come dovevano avermi vista quei visitatori: sudicia e misera. Ma in realtà eravamo sempre euforici quando arrivavano e ci crogiolavamo beatamente nella loro gentilezza occidentale. Volevamo solo la loro approvazione, espressa nell'attenzione fugace di uno scatto, di un sorriso, una domanda e, a volte, nelle caramelle che ci regalavano e che io e Huda avevamo sempre diviso. Majid aprì il vano portaoggetti ed estrasse una manciata di caramelle. "L'ho fatto una volta e adesso se lo aspettano. Se vengo a mani vuote sono guai seri." Majid al centro, i bambini entusiasti tutt'attorno, stregati dai dolciumi. Io e Huda avremmo adorato un uomo del genere durante la nostra infanzia. "Doktor Majid! Doktor Majid!" gridavano i bambini, e lui notò lo stupore sul mio volto. Non pensavo che avesse studiato. L'avevo guardato con gli occhi di Amy. E Majid lo capì. Abbassai lo sguardo, imbarazzata dal giudizio che sapeva avevo formulato appena ci eravamo conosciuti. Un sole bianco ci seguì attraverso la città piena d'immondizia fino a casa di Fatima e Yussef. Era una struttura di un piano solo, con due gradini sgretolati che conducevano alla porta d'ingresso. Il tetto, come gli altri, era costituito perlopiù di lamiera ondulata e amianto tenuti fermi da sassi, vecchi pneumatici e qualsiasi altra cosa potesse opporre peso al vento. All'esterno, su delle sedie improvvisate, si erano riuniti una ventina di uomini che ridevano, fumavano e si passavano un vassoio di knafe. Sicuramente stavano festeggiando la nascita di mia nipote.
Eccolo là. Yussef! Mio fratello, santo cielo! Adesso, dopo tredici anni di separazione, ci divideva solo una piccola distanza. Venti passi al massimo. Facili da coprire. Un breve tragitto su una stradina infangata, dove una gabbia per canarini e alcuni vasi di fiori cercavano di sfidare la povertà. "Amai ! " Appena mi vide si alzò immediatamente tra i compagni dell'Olp, le punte incerate dei baffi arricciati agli angoli del suo sorriso. Misi giù la mia piccola borsa e corsi da lui. Al sicuro nel suo abbraccio rimasi lì più a lungo che potei, cercando di assorbire gli anni perduti dal suo petto robusto, incredibilmente simile a quello di papà. Per un attimo, le braccia di mio fratello smussarono la solitudine della mia vita. In cortile, un gruppo di donne, le mogli degli uomini di fuori, si stavano occupando della madre e della neonata. Come entrammo, corsero a baciarmi e ad abbracciarmi. "Finalmente ti conosciamo" dissero molte all'unisono. "Fatima ci ha parlato così tanto di te" dissero altre. Una donna con un foulard a puntini rossi strinse le labbra e disse: "Fatima ci ha detto che ti hanno sparato quando eri piccola, che Dio li ammazzi tutti". "Amen" disse un'altra. "Ecco, prendi del tè. E un po' di knafe." La più anziana, con una tradizionale thobe ricamata e un foulard bianco, si alzò con fatica e interruppe le altre. "Credete che sia qua per voi? O per i suoi parenti e la bambina?" Ci condusse nello spazio comune del trilocale di mio fratello. Una cucina e un bagno in cortile costituivano il resto della casa. Fatima era distrutta, sfiancata da ventuno ore di travaglio, e la mia nipotina giaceva in fasce accanto a sua madre, in un sonno angelico. L'avevano chiamata Falastin, il termine arabo per Palestina. " Che originale ! " scherzai con Yussef, che prese la sua bambina. Vederlo così, con le sue spalle larghe, mentre cullava la piccola Falastin con immensa tenerezza, fu uno spettacolo meraviglioso. Quando penso a Yussef, quel momento sublime di devozione incontaminata e incondizionata alla sua famiglia è quello che vedo. Sento ancora le sue parole. "Ho in braccio l'opera più perfetta di Dio. Vuoi provare, sorellina?" "IsmAllah, ismAllah!" Presi la mia nipotina con grande attenzione e con il cuore che entrava in punta di piedi in quella casa d'amore. La sua boccuccia si aprì in un lieve sbadiglio e mi avvicinai
per bere il suo profumo. Non c'è niente di più puro, è come se una parte di Dio vivesse nel debole respiro dei neonati. Nello sbadiglio di Falastin colsi il soffio di una promessa divina che comprendeva anche noi. Rimisi mia nipote sul petto della madre addormentata e guardai mio fratello, gonfio di affetto, che posava lo sguardo ora sulla moglie, ora sulla piccola appena nata. In quel campo profughi che Israele avrebbe battezzato "focolaio di terroristi" e "covo suppurante di terrore," assistetti a un amore che sminuiva l'immensità stessa. Più tardi, sola con mio fratello in cortile, arrivò il momento. "Ho una cosa per te" dissi, togliendo di tasca la pipa di papà. Gli porsi il pacchetto lentamente, come aveva fatto anni prima 'Ammu Jack O'Malley, pace all'anima sua, quando mi aveva accompagnata all'orfanotrofio di Gerusalemme. Una solennità grave e dolorosa fece alzare in piedi Yussef. E il fragile aroma del tabacco al miele e mela, mentre scopriva la pipa di nostro padre, gli trasformò le gambe in argilla. Le sue spalle s'incurvarono e, per la prima volta nella mia vita, vidi piangere mio fratello. "Come l'hai avuta?" mi chiese, ricomponendosi e asciugandosi le lacrime. Il nostro costante, silenzioso struggerci per un altro istante insieme a nostro padre emerse in superficie, coronando le ore successive di un fratello e una sorella che arrivavano a conoscersi solo da adulti. Yussef era addolorato per avermi abbandonata a Jenin. Ci avrebbe portate con sé, se avesse potuto. "Mi dispiace di non essere stato al tuo fianco quando è morta mamma." Aveva saputo che mi avevano sparato solo un anno dopo. La vita non era stata facile. Nemmeno per me. Ma eravamo di nuovo una famiglia e adesso c'era una bambina, una promessa della quale potevamo vivere. "Non avevo scelta, Amai. Ma voglio farmi perdonare. Voglio starti vicino adesso." "Hai fatto del tuo meglio, fratello. Lo so." "Ci sono cose che non ti ho mai detto" cominciò Yussef. Si guardò le mani, quasi volesse mettere le parole sui palmi prima di pronunciarle. "Nostro fratello Isma'il, il bambino che abbiamo perso nel '48, è vivo" disse, fissandomi negli occhi. Fu sorpreso quando gli dissi che lo sapevo già, o che se non altro l'avevo sempre sospettato, da quando io e Huda, molti anni prima, l'avevamo sentito parlare del yahudi che chiamano David.
"Anche Huda lo sa?" . " Non credo che quel giorno sia rimasta colpita quanto me dalle tue parole. E comunque, non ne abbiamo mai parlato." Quando Fatima si svegliò, io e mio fratello le portammo da mangiare a letto, e tutti e tre celebrammo la nostra riunione e la famiglia prendendo bocconi di anguria e jibne di Nablus dai piatti. Ricordo ancora benissimo i dettagli di quella giornata, anche se stranamente mi arrivano senza suoni. La rapsodia di madre e figlia è scandita dai delicati movimenti del capo della piccola Falastin mentre viene allattata. Fatima è bellissima, piena di gioia, innamorata. Qualcuno dice una cosa buffa e noto un'otturazione d'argento nei denti posteriori di Yussef, mentre una risata gli spalanca la bocca. Il pane - il largo, leggero khubz iraniano che adoro - viene spezzato e fatto girare. Più tardi, Yussef se ne va in giro orgoglioso per il campo con la piccola in braccio. La tengo un attimo anch'io, e Yussef si siede al suo posto, accendendo la pipa di nostro padre con del tabacco fresco. Inspira il fumo e le sue palpebre si abbassano, trasportando mio fratello in un ricordo che lo fa sorridere. Apre gli occhi, e siamo al sicuro nell'aroma di nostro padre. La mia memoria riesce a leggere i movimenti delle sue labbra ma non riesce a sentire le parole: "Oggi papà e mamma avrebbero danzato di gioia" dice Yussef. Fin da quand'era piccolo, aveva sperato di vederli ballare di nuovo come avevano fatto il giorno in cui Jeddo Yehya era tornato da 'Ain Hod con la sua frutta proibita, tra l'esultanza di tutti. Feci molte fotografie quella sera a Sfiatila, ma ce n'è una che mi è particolarmente cara e che ho incorniciato e messo sulla mensola del caminetto. Esprime perfettamente la felicità di quel giorno. È la foto che un giorno avrebbe lasciato la mia casa in Pennsylvania dentro a uno scatolone della Cia insieme ad altre prove - e di cui poi avrei cercato ansiosamente il negativo per farne un'altra copia. Mio fratello maggiore è immortalato con uno sciocco sorriso a mille denti mentre regge la sua primogenita, Falastin, e Fatima, l'amore della sua vita, gli si appoggia dolcemente a una spalla, sorridendo, nella loro minuscola abitazione in quella baraccopoli di profughi. Quell'estate, in Libano, io e Fatima stringemmo una profonda amicizia tra donne adulte. Non ero più la ragazzina che consegnava le loro lettere e giocava scalza nel campo, ma una giovane donna che poteva prendere sotto la propria ala. Ci dividevamo le incombenze domestiche,
scandivamo il tempo con la crescita di Falastin, e Fatima s'imbarcò nella missione di trovarmi un marito. Aveva in mente un uomo preciso, un medico che si trovava in una situazione simile alla mia. Profugo e orfano, aveva vinto una borsa di studio delle Nazioni Unite e trascorso undici anni a Oxford, specializzandosi in chirurgia vascolare. Naturalmente, mi finsi disinteressata. Ma Fatima mi spronava, scherzando su quanto dovevo sentirmi frustrata alla mia età senza un uomo. "Be', lo saprai bene, visto che non hai fatto sesso fino a trentadue anni!" ribattei. "Già. Ma ti assicuro che ne è valsa la pena! " "Ti prego. La competenza erotica di mio fratello non mi interessa" gridai, coprendomi le orecchie con le mani. Fatima rise. Ma quando le confidai la serie di relazioni deludenti che avevo avuto negli Stati Uniti, la sua voce si fece più profonda, e mi parlò con una saggezza che veniva dal cuore. "Amai, credo che la maggior parte degli americani non ami come amiamo noi. Non è questione di inferiorità o di superiorità. Vivono in sfere sicure e superficiali, e raramente spingono le emozioni umane nelle profondità in cui viviamo noi. Vedo che sei confusa. Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L'occupazione israeliana ci ha esposti fin da piccoli a emozioni estreme, e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema. "Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amai. "È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E un amore che si tuffa nudo verso l'infinito. Verso il luogo dove vive Dio." Nella lunga attesa reciproca e nel loro
amore incrollabile, che si era fatto il nido nella guerra, Yussef e Fatima avevano scoperto questo segreto. Mai) d venne a trovare mio fratello un venerdì, dopo la preghiera del jum'a. Quel giorno si concludeva la mia seconda settimana alla scuola femminile delle Nazioni Unite, dove avevo accettato un posto come insegnante per l'estate. Era anche un giorno speciale: quello in cui la piccola Falastin aveva sorriso per la prima volta. Passandomi accanto con un vassoio di caffè e mandorle per il suo ospite, Fatima mi sussurrò in un orecchio: "È il dottore di cui ti ho parlato". L'uomo con cui voleva fidanzarmi era lo stesso che mi era venuto a prendere all'aeroporto. Nell'entusiasmo della sua missione matrimoniale, Fatima propose a Majid di portarmi a vedere la città, dato che nel mese in cui ero stata lì non avevo lasciato il campo una sola volta. Lui esitava e io mi sentii a disagio. Il piano di Fatima era evidente e creò una situazione imbarazzante. Yussef trovava sconveniente che la sorella nubile si facesse vedere in giro insieme a un uomo. Si fidava di Majid, ovviamente. Ma c'era un ordine da seguire nelle cose. C'era la rettitudine. "Volevo solo dire che Amai potrà aiutarti con i parti" aggiunse Fatima, imperterrita. Majid prestava servizio come medico volontario al campo e assisteva quindi a un discreto numero di nascite. Fatima continuò: "Umm Yussef, pace all'anima sua, era una levatrice e ha insegnato il mestiere ad Amai. A Jenin hanno fatto nascere un sacco di bambini". Io e Dalia eravamo una squadra. Majid si rivolse a Yussef in segno di rispetto verso la sua autorità di capofamiglia. Mio fratello non ebbe niente da ridire e Majid accettò quindi il mio aiuto. "Umm Laith partorirà la settimana prossima" disse. Sarebbe stato onorato e sollevato di dividere con me quella responsabilità. Se, ovviamente, la cosa m'interessava. Mi voltai verso Yussef, affettuosamente, per ribadire che le questioni di casa dovevano sottostare al suo giudizio. Lui comprese i nostri gesti e rispose con tenerezza: "Per me va bene. Che Dio vi doni la forza". Sua sorella e il suo migliore amico avrebbero reso completa la sua gioia. Voleva che tutto andasse bene. Per onorare la promessa che aveva fatto
a papà e a me. Sorrise con la sua buffa smorfia, ormai in segreta combutta con Fatima. Udu' e poi salat. Una volta pronta, tenni un paio di forbici nuove sopra a una fiamma "nel nome di Dio clemente e misericordioso". Dato che Majid avrebbe tardato, dovevo precederlo a casa di Umm Laith. Mentre camminavamo, Fatima osservò che ero troppo silenziosa. "Non essere nervosa; l'hai già fatto un miliardo di volte." Istintivamente, risposi come mi aveva risposto una volta mamma: "Non parlare. Non è il momento adesso". Mi rimproverai all'istante. Glielo spiegherò dopo. Il bambino era completamente di traverso. Intuii subito il problema. "Aiutami a girarla! " gridai e mi ricordai che dovevo stare più calma. Qualsiasi cosa senti... Mi fermai e mormorai una preghiera. Respira, bambina. Feci un respiro, Dalia, aiutami, e premetti i palmi sulla pancia per sentire il bambino. "Riponi la tua fede nelle mani di Dio" sussurrai alla donna stravolta. Lascia che Dio guidi le tue mani, mi sussurrò Dalia. Majid arrivò e fece un cenno perché fosse chiamata un'ambulanza. Udii "cesareo", "basta così" e poi Fatima che diceva: "Aspettate". Il bambino si girò appena in tempo per non morire o uccidere sua madre. Il cordone ombelicale si era spostato, la testa era nella posizione giusta. Majid prese in mano la situazione, fece nascere un maschietto e mandò madre e bambino a riprendersi in infermeria. "Dov'è Amai?" Mi ero lavata ed ero uscita, inseguita dalla fatica delle ore trascorse e dai ricordi insistenti degli anni passati. Inseguita da Dalia. Com'era doloroso, anche se dolce, appagante, essere di nuovo Amai - e non l'anonima Amy. Continuai a camminare, e me lo ritrovai accanto. "Non ho mai visto una cosa del genere. Non sapevo che si potesse fare." Majid si era tagliato i capelli. Mesi dopo, mi avrebbe confidato che l'aveva fatto per me, per dare un'impressione migliore. "Non ce l'hanno insegnato alla scuola di medicina... Sei un po' pallida. Stai bene?" "Sono stanca." Abbassai lo sguardo. Mi manca mia madre. "Posso accompagnarti a casa?" Annuii, Sì. "Hai fame?" Da morire. Dove si va di qua? "È solo che... sento un profumo di shawerma uscire dal ristorante di Abu Nayef" disse, masticando le parole. "Credo che possa andare, dato che da domani si saprà in giro che sei la mia assistente. " Stava azzardando dei pensieri a casaccio, sperando che qualcuno funzionasse e riempisse un imbarazzo
che in realtà era pieno di fascino. "Ma se pensi che sia troppo compromettente, posso anche prendere qualcosa da portar via." Avevamo aiutato una donna e il suo bambino a vincere un round contro la morte, Dalia mi aveva aiutata a trovare un'altra parte di me stessa e adesso Majid arrancava nella nostra complicata cultura in cerca di un appiglio che gli permettesse anche soltanto di invitarmi a mangiare un boccone. Le mie labbra si tesero involontariamente, piegandosi in un sorriso. Maliziosamente, proposi: "Potremmo cenare in centro". Majid si raddrizzò e cancellò l'imbarazzo con un sorriso, rincuorato di non avermi offesa. Sulla guancia sinistra gli comparve una fossetta che prima non avevo notato, una piccola ombra resa più profonda dalla barba di fine giornata e da quel sorriso che mi piaceva tanto. Cominciava a imbrunire quando tornammo per lasciare un messaggio a Fatima. Yussef sarebbe rientrato tardi, ma io e Majid volevamo essere a casa prima che arrivasse. Così optammo per due shawerma in riva al mare. "Finalmente, 'la sposa della Palestina'" dissi, faccia a faccia con il Mediterraneo, infiammato dal chiaro di luna. "Mio padre lo chiamava così. Jeddo Yehya - non l'ho mai conosciuto - aveva l'abitudine di portare lui e 'Ammu Darwish in spiaggia quando la Palestina era ancora la Palestina. " "Sarà sempre la Palestina" disse Majid sommessamente, quasi con riluttanza. Si appoggiò all'indietro e sospirò. "Sai," aggiunse con voce più leggera e veloce, "i libanesi lo chiamano 'la sposa del Libano'. Mi sa che anche la Grecia e l'Italia lo rivendicano come propria sposa." "Be', le piace andare in giro." Rise e mi immaginai la fossetta sulla sua guancia. Provavo un benessere strano e gradevole. L'oscurità vasta e punteggiata di stelle, la luna, tagliata a metà, che si specchiava nell'acqua. "Guarda là" disse Majid, indicando il cielo stellato. "Cosa?" "Conosci la costellazione del Leone?" "Sì, è il mio segno zodiacale." "Lo so" rispose. "Riesci a vederne il profilo? Segui le mie dita." Tracciò la curva della testa del leone e disse: "Quella è Algieba, quella Ras Elased, Adhafera...". "Sono parole arabe. E così che si chiamano?" "Sì. Sono stati gli arabi a dare i nomi alle stelle, nomi che sono ancora usati. Le costellazioni invece hanno nomi greci. Vedi dove sto indicando?" Mi misi dietro di
lui per guardare meglio le stelle. Invece, vidi che le sue spalle si stendevano da una parte all'altra del mare. "Come fai a sapere così tante cose del cielo? O che sono del segno del Leone?" chiesi, indietreggiando. "Suwaru 'lKawakib di aiSufi" rispose, guardando in alto con attenzione. Era l'oggetto che gli stava più a cuore, uno dei primi trattati completi sulle costellazioni, redatto nel primo secolo. "Te lo porterò la prossima volta che vengo da Yussef. " "E..." aggiunse, "io e tuo fratello siamo molto amici. Abbiamo parlato di te." Mi guardò dritto negli occhi. "Soprattutto ultimamente... perché glielo chiedevo io." Un piccolo sorriso ombreggiato dalla luna si dischiuse sulle sue labbra e si tuffò nel mio cuore. Quando tornai, Fatima mi stava aspettando. "Allora?" "È carino" dissi per non darle soddisfazione, anche se morivo dalla voglia di raccontarle tutto. "Aha! Ti piace. Si vede. Ma non vuoi ammettere che non esiste un sensale migliore di me" si vantò, dandosi dei colpetti sulle spalle. "Va bene, sapientona. E se non mi piacesse? Hai cercato di buttarmi tra le braccia di uno sconosciuto. Che razza di araba sei?" scherzai. "Non è affatto uno sconosciuto. È il migliore amico di tuo fratello dai tempi della battaglia di Karameh. Majid è l'uomo che Yussef stava salvando quando s'è preso quel proiettile nella gamba, nel '68." Fui sorpresa di sapere che Majid aveva partecipato a dei combattimenti. "Come ha fatto un combattente dell'Olp a vincere una borsa di studio per l'Inghilterra?" "Yussef ha scoperto che Majid era stato un ottimo studente nel campo profughi e che aveva inutilmente cercato di ottenere una borsa di studio. Così tuo fratello ha deciso di darsi da fare perché ne avesse una. Aveva certe conoscenze tra lo staff delle Nazioni Unite per via del suo lavoro a scuola ed è riuscito a far arrivare la richiesta di Majid alle persone giuste." "Questo non me l'ha detto." "Te lo dirà senz'altro. Ma prima dimmi solo una cosa, chi è il miglior sensale della zona?" "Quella stupida di mia cognata." "Meno male che lo ammetti. Quando sei uscita mi hai lanciato uno sguardo spaventoso" esclamò ridendo.
Ventisette LA LETTERA 1981 Amai non riusciva a smettere di pensare a Majid. Popolava i suoi sogni a occhi aperti, facendole rivivere i momenti che avevano trascorso insieme e spingendola a cercare significati nascosti nelle sue parole. Quando fu passata un'intera settimana senza che si fosse fatto sentire, Amai cominciò ad agitarsi. E per altre due settimane si tormentò nell'attesa irrequieta della sua prossima visita a casa del fratello. Si guardava continuamente attorno in cerca della piccola Fiat bianca ammaccata, sperando - anzi, pregando - di sorprenderlo in visita a un paziente o mentre istruiva i medici del campo. Tendeva attentamente l'orecchio in cerca di notizie dei suoi spostamenti, delle prossime visite a domicilio o di quando sarebbe venuto a trovare il suo amico. Il suo stato d'animo fu facilmente compreso dalle donne di Shatila, che bisbigliavano tra loro quando vedevano la giovane insegnante che si guardava attorno cercando - ne erano sicure - tracce del doktor Majid. Pur trattandosi di pettegolezzi, non parlavano spinte dalla malizia quanto, piuttosto, dall'abitudine e dalla nostalgia dei giorni di gioventù, quando l'amore era stato la più splendida delle possibilità. È anche vero che in un campo profughi, dove così tante persone vivono in uno spazio così ristretto, nemmeno i segreti riescono a trovare un posto in cui nascondersi. Com'era ormai abitudine, una mattina un gruppo di ragazzine le si fece incontro mentre camminava verso la scuola. "Buongiorno, abla Amai! " Amai si girò verso le sue alunne, ciascuna con la sua divisa azzurra, i nastri bianchi tra i capelli, i libri legati con una cinghia dietro la schiena. Raja, una ragazzina esile dagli occhi furbi, arrivò correndo. "Abla Amai," disse ansimando, "aldoktor Majid domani verrà a casa di Mirvat per visitare suo padre." Bastò il semplice nome di Majid per scatenare in Amai un fremito che cercò di nascondere alle sue alunne. "Bene. Come sta Abu Jalal dopo l'operazione?" chiese con una naturalezza studiata. "alDoktor verrà di sera, abla" rimarcò Raja, ignorando la domanda dell'insegnante. "alAbla ti ha chiesto di Abu Jalal! " le ringhiò un'altra ragazzina, poi abbassò la voce, aggiungendo con fermezza e dandole una leggera spinta, "Non del doktor! " "Va bene, ragazze." Amai le guardò di traverso, sforzandosi di dare al titolo di "abla" l'autorevolezza che
meritava. "Andate in classe." E quelle s'incamminarono ridacchiando, lusingate di aver avuto una parte in quella storia tanto chiacchierata dalle loro madri. Amai rimase a scuola fino a tardi a preparare le lezioni della settimana successiva e a temporeggiare fino all'arrivo della sera, sperando in un incontro sulla via verso casa. Alla fine uscì, prendendo la strada più lunga e passando davanti all'abitazione di Abu Jalal. Guardò in tutti i vicoli larghi abbastanza per parcheggiarvi un'automobile, ma non vide nessuna Fiat bianca. Entrò in casa di suo fratello, la delusione sul volto. "Dov'eri? " Fatima le corse incontro, aiutandola a liberarsi dei libri. "Ho dovuto preparare le lezioni per le prossime tre settimane" rispose Amai sommessamente. "Ho mandato dei ragazzini a cercarti. C'era qua Majid. Se n'è andato meno di quindici minuti fa" disse Fatima. Di nuovo, bastò quel nome a scuotere Amai nel profondo. "Salamat ya ukhti." Yussef salutò sua sorella con un bacio sulla fronte. "Majid ha lasciato questo libro per te. Ha detto di trattarlo bene." Prese il libro lentamente. La preziosa copia del Suwarul 'lKawakib di aiSufi. Alzò lo sguardo sul fratello, cercando nei suoi occhi una traccia delle parole scambiate con Majid. Di sicuro Yussef non aveva preso il libro senza fare domande, né Majid gliel'avrebbe dato senza spiegazioni. La loro conversazione doveva essere stata priva di sotterfugi o allusioni nascoste. L'onestà è una questione di onore. E l'onore viene prima di tutto. Ma Yussef non disse altro e il suo volto non tradì nessun indizio utile. Nell'espressione di suo fratello, Amai non trovò che un'irritante naturalezza. Yussef sbadigliò. Stirò gli arti robusti e girò la testa verso la moglie. "Fatuma, habibti" - così chiamava Fatima quando voleva qualcosa - "Io me ne vado a letto presto, e tu?" "Tuo fratello mi sfinisce" bisbigliò Fatima allegramente nell'orecchio di Amai. "Agh" - la sorella si coprì le orecchie - "Non voglio sapere queste cose di mio fratello." Fatima baciò Amai su una guancia, si diresse ridendo in camera da letto e si chiuse la porta alle spalle. Amai uscì in cortile, con il vecchio libro stretto tra le mani. Se lo avvicinò al naso e le sembrò di sentire l'aroma dell'acqua di Colonia di Majid misto a quello dell'antica copertina di pelle. Come l'aprì, dalle pagine di pergamena si
alzò un odore di stantio. All'interno, tra la copertina e la prima pagina, c'era una piccola busta bianca: Per Amai. La prese. Yusseflo sa. Majid non lo avrebbe sfruttato a sua insaputa come messaggero. Anche Fatima lo sa. Coricarsi presto faceva parte del loro piano. Adesso, anche Amai avrebbe saputo. Bismillah alrahman alrahim Carissima Amai, non so bene come cominciare questa lettera, se non dicendoti che dal giorno in cui sono venuto a prenderti in aeroporto, non ho mai smesso di pensare a te. E da quella sera alla spiaggia, hai continuato a popolare i miei sogni. Ho evitato di venire a Shatila per cercare di fare chiarezza su quello che provo. Ma ogni pensiero mi porta a questo: sono innamorato di te. Ho votato la mia vita alla resistenza e giurato fedeltà alla lotta. Credevo che il mio cuore fosse troppo pieno di impegni e responsabilità per fare un'altra promessa. Ma tu mi hai toccato il cuore in punti che non credevo nemmeno esistessero. E adesso sono costretto a fare un'altra promessa, questa: Se mi vorrai, ti amerò e ti proteggerò per il resto dei miei giorni. Tuo Majid Amai la rilesse. Una, due volte. Il suo cuore batteva vigorosamente d'amore come un tempo aveva battuto di paura. "Vorrei vedere la sua faccia mentre la legge" disse Fatima, infastidita che suo marito non volesse rivelarle il contenuto della lettera che Majid aveva dovuto confidargli. Imbronciata, si finse seccata di essere l'ultima a sapere. Socchiuse gli occhi per mettere a fuoco un pensiero. "Se non me lo dici, andrò da Amai in cortile" avvertì suo marito, non riuscendo a nascondere un sorriso mentre si sforzava di dettare un solenne ultimatum. "Habibti, ti prego, resta con me" gemette Yussef come un bambino, disteso sul letto con Falastin addormentata tra le braccia. Fatima tenne gli occhi socchiusi e arricciò il naso, e Yussef fu contento di vedere il suo volto che si arrendeva a un sorriso spontaneo. In un ultimo tentativo d'impuntarsi, sua moglie si morse il labbro e Yussef riconobbe in lei una bellezza irresistibile. "Forse posso aspettare fino a domattina" disse Fatima, girandosi a prendere la camicia da notte da un cassetto. La gravidanza le aveva ingrossato il corpo e dilatato la pancia, e Fatima si nascose imbarazzata dietro al cassettone per cambiarsi. "Resta con la bambina" ordinò a Yussef, vedendolo venire verso di lei.
"Perché? Falastin sta dormendo." "Be', mi sto cambiando. Vai." Si nascose il corpo con la camicia da notte. L'interruttore della luce era troppo lontano. Yussef capì e si mise in ginocchio davanti a lei. "Fammi vedere" sussurrò all'altezza delle sue ginocchia. Fatima si fermò, tremando come se suo marito la vedesse e la toccasse per la prima volta. Scostò la camicia da notte e lui le appoggiò la testa in grembo. Cominciò a baciare quel corpo che aveva messo al mondo loro figlia, seguendo il contorno delle sue curve, assaporando i segni della maternità su quella donna che aveva vinto il suo cuore, i suoi sogni e i suoi dolori. La camicia da notte cadde per terra e l'amore sorse da loro, da quella piccola dimora nel campo profughi di Sfiatila. Da un uomo che si consumava di desiderio per sua moglie e da sua sorella in cortile, che leggeva e rileggeva una promessa d'amore. Ventotto "SÌ" 1981 Ci incontrammo segretamente due giorni dopo. Majid voleva che gli rispondessi in privato, lontano dalle voci e dalle aspettative. Fu così che, nel nostro posto preferito, vicino al pittoresco villaggio costiero di Tabarja, io e Majid ci abbracciammo per la prima volta. L'azzurro Mediterraneo lambiva i nostri piedi nudi e si perdeva all'orizzonte in un cielo senza nubi. Non si capiva dove finisse il mare e dove cominciasse il cielo e fu in quell'azzurro infinito che venni toccata dal sorprendente incantesimo dell'amore. Majid si girò verso di me, i suoi penetranti occhi neri nella luce azzurra. "Ho parlato con tuo fratello. Sai che dovevo farlo..." disse, spezzando la tensione. "Vuoi sposarmi, Amai?" chiese sinceramente, profondamente, il mare e il cielo suoi compagni e complici nella domanda. Aspettavo da tempo di rispondere. Mi ero esercitata davanti allo specchio dicendo "Sì". Un "Sì" sorpreso, felice. Un deciso "Sì, certo, lo voglio". Così tanti preparativi solo per pronunciare quella piccola parola. Ma non riuscii a far altro che annuire, assente, e fu il mio corpo a prendere Majid tra le braccia, assorbendo quell'azzurro infinito e crepitante d'amore. Lui mi sfiorò le labbra con le sue, avvicinandomi a sé, e mi sembrò di aver vissuto tutta la mia vita solo per quel bacio.
"Ti amo" disse. Quelle parole perfette. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Mamma si sbagliava. "Ti amo anch'io" gli sussurrai in un orecchio, arrendendomi volontariamente a quelle parole. Ascoltai il respiro che entrava e usciva dal mio corpo tra le braccia di Majid. Non mi ero mai sentita così viva, così contenta di vivere. Tornammo insieme, per comunicare la notizia. Alcune delle mie alunne ci corsero incontro mentre camminavamo per i vicoli. Ci salutarono, ridacchiarono, corsero via e ritornarono, gridarono "alDoktor Majid e Abla Amai si spooosaaano", poi corsero via di nuovo. L'ampiezza delle spalle di Majid che mi camminava accanto, la musica dei suoi passi, il suo modo di schiarirsi la gola mi sprofondarono in un sogno che riorganizzò la mia vita, mettendolo al suo centro per sempre. Ventinove AMORE 1981 Si incontrarono ogni giorno per tutto il mese del loro fidanzamento. Majid arrivava di mattina presto, quel momento che era stato così magico nell'infanzia di Amai. Lei l'aspettava ogni volta con trepidazione, il cuore sospeso nella foschia dell'alba, finché non sentiva i suoi passi che si avvicinavano. Majid camminava veloce, impaziente di vedere i suoi profondi occhi neri colmarsi di passione quando si posavano su di lui. Tuttavia, quando s'incontravano, il loro desiderio di stringersi e toccarsi era mitigato dalla rettitudine, dalla lealtà e dal rispetto per il buon nome di Yussef e Fatima, e dal loro imminente matrimonio. Parlavano, non tanto per dirsi delle cose quanto per sentire l'uno la voce dell'altra. Majid conobbe le sfumature di un amore serio, le linee che dipingeva ai lati degli occhi della donna che l'amava sinceramente, la pienezza del proprio respiro quand'era con lei, il modo in cui il tempo correva troppo veloce quand'erano insieme e troppo piano quand'erano lontani. Il loro affetto sembrava prendere una vita propria durante quei momenti che passavano insieme, tanto che Majid e Amai avevano l'impressione che le parole fossero di troppo. Così, si parlavano in sussurri. Il tempo scorreva accompagnato da questi teneri scambi, dal soffermarsi dei loro
cuori su una risata o su un sorriso, finché il sole cominciava a sorgere e facevano insieme la prima salat della giornata. Basso sulla terra, il sole li trovava a pregare e proiettava le lunghe ombre delle loro sagome in lontananza. Poi si separavano, contenti. "Verrai dopo il lavoro?" chiedeva lei ogni volta. La risposta di Majid era sempre la stessa. "Insh'allah," a Dio piacendo. Le sere erano deliziose, sempre piene, promettenti e serene quando Majid era vicino a me. Le rivedo adesso come se fossi un'estranea che guarda dentro la finestra di qualcun altro. Noi cinque, Fatima, Yussef, Majid, la piccola Falastin e io, siamo seduti attorno ai piatti di pomodoro fritto, hummus, fui, olive, za'atar, uova, yogurt e cetrioli. Un cielo nero e stellato ci sovrasta nel cortile dove parliamo e ridiamo come se fossimo sempre stati insieme. Falastin mette una manina nell'hummus e Fatima glielo lecca via dalle dita. La cosa diverte la piccola, che continua ad allungare le dita verso la bocca di sua madre. Capisco, allora, che muoio dalla voglia di avere un bambino tutto mio. Certe sere Majid portava il suo telescopio e m'insegnava i segreti del cielo notturno. Una volta, un giovedì che eravamo in spiaggia all'ora del tramonto, Majid vide la mia pancia sfregiata. Ci appoggiò una mano, senza curarsi della pelle segnata. Mi accarezzò affettuosamente l'addome, baciandomi le pieghe della cicatrice. Donò al mio corpo l'accettazione che io non ero mai riuscita a dare a me stessa. Quel gesto così dolce spazzò via la vergogna. Una cicatrice d'odio, lenita dai baci di Majid. Il giorno del matrimonio si avvicinava in fretta e io non mi ero mai sentita al centro di così tanta gioia e attenzioni. Gli zagharid delle donne riecheggiano ancora nei miei ricordi. Le amiche di Fatima, che adesso erano anche le mie amiche, mi incerarono e depilarono la pelle e mi massaggiarono con olii e balsami tutto il corpo. Bruciarono incensi per profumarmi i capelli e mi benedirono mormorando preghiere e cantilene. Una donna, che Dio gliene renda merito, prese Fatima da parte e le chiese con gravità se mi aveva istruita su cosa aspettarmi e cosa fare la prima notte di nozze.
Trenta UNA STORIA FATTA DI ETERNITÀ 1981-1982 Adorna di gioielli d'oro molto più umili di quelli che aveva portato sua madre, Amai si abbandonava alla gioia della festa nuziale. Indossava una veste verginale di seta bianca e ballava insieme alle donne di Shatila, che riempivano l'aria di canti e animavano la serata con i loro corpi danzanti. In quel mondo segreto, lontane dagli occhi degli uomini, le donne si tolsero gli hijab. Capigliature nere e all'henne si liberarono all'aria, e tutte si legarono i foulard attorno alle curve della loro femminilità. Muovevano le anche seguendo i sinuosi ritmi mediorientali, colme di seduzione e orgoglio femminile. Ballavano per rendere omaggio alla sposa e benedire con la gioia il suo matrimonio, celebrando secoli di donne arabe che avevano danzato insieme in un mondo privato a cui gli uomini non erano ammessi. " Aaaaaah eeee aaaaaahh" cominciò a gran voce un'anziana matriarca, e la folla tacque. "Che Dio doni fertilità al grembo di questa sposa." A lanciare queste antiche richieste di benedizioni avrebbero dovuto essere le parenti più anziane di Amai. Ma Fatima era la sua unica familiare di sesso femminile in Libano e non aveva ancora l'età necessaria. "Aaaaaahh eeee aaaaaahh" continuò l'anziana donna, elevando le preghiere nell'aria. Poi l'entusiasmo eruppe negli zagharid delle donne, quegli ululati ereditati dalle loro antenate arabe, che facevano fremere l'aria di allegria. Lo spettacolo ricordò ad Amai un tempo in cui giocavano alla 'arussa alla casa di Warda: una di loro faceva la parte della sposa e le altre avvolgevano foulard attorno a fianchi che un giorno si sarebbero allargati. Recitavano scene di matrimonio e cercavano di far vibrare rapidamente la lingua per emettere gli zagharid. Solo Huda, all'inizio timidamente, sapeva come riprodurre quel suono emozionante. Da allora in avanti era diventata la loro "istruttrice di zagharid" e Amai le aveva chiesto segretamente di non insegnarlo a Lamya, dato che Lamya sapeva già fare le capriole. Se solo Huda fosse qui adesso. Amai silenziosamente desiderava che la sua migliore amica fosse presente alle nozze. E quel desiderio ne generò altri. Di sua madre, la bellissima Dalia dalla volontà di ferro. Delle ragazzine della casa di Warda, e di Muna Jalayta e delle sorelle colombiane. Dell'alba e della voce rassicurante di suo padre. Della
melodia di benedizioni e complimenti del suo paese e dei giorni di ghurba. Amai sorrise durante tutto il matrimonio e non serrò le mascelle nemmeno una volta. Mentre osservava la celebrazione, fluttuò nostalgicamente dentro e fuori dai suoi ricordi. Con il passare delle ore, le donne si rimisero veli e sciarpe e si unirono agli uomini, fondendo i due festeggiamenti in uno solo. Qualcuno mise la mano di Amai in quella di Majid. Lo sposo era vestito di bianco, una cintura con una spada attorno alla vita, gli orli della kefiah intessuti di seta rossa. Amai si girò verso suo marito, la visuale inquadrata dal velo tempestato di monete, e gli ospiti allacciarono le braccia e cominciarono a ballare in cerchio attorno alla coppia. Una tempesta d'amore si agitava nel petto di entrambi. Un desiderio così forte da sciogliergli le ginocchia e fargli sudare i palmi nella stretta delle mani. Si voltarono a sorridere alla folla, com'era opportuno, come ci si aspetta che facciano due sposi novelli al loro matrimonio. Ma Majid non lasciò mai la sua mano. Dal momento in cui sentì le piccole dita della sposa scivolare tra le sue, non le lasciò più, finché non portò Amai in braccio verso la sua Fiat e partirono insieme. Majid condusse la moglie al loro appartamento nel condominio Tamaria, a Beirut. Poco dopo, la cintura con la spada cadde a terra e la seta sfregò contro la pelle, finché la carne non trovò la carne. Majid si alzò su di lei, bevendo la sua nudità. Aveva avuto molte donne durante il suo soggiorno in Inghilterra, ma nessun corpo l'aveva incantato con tanto amore. Era il corpo di Amai, con la vocale lunga, i suoi desideri e le sue speranze. Si distese sopra di lei e le baciò le labbra, chiudendo gli occhi per assaporarne la morbidezza. Amai sentì il suo respiro sfiorarle soffice il volto, allargò le gambe come due ali e accolse il suo amante, suo marito, dentro di sé. Quindi si arresero entrambi a una tempesta che trafisse le parti più recondite dei loro cuori, e il giorno dopo Amai si svegliò avvolta da un sogno che aleggiava su un paesaggio d'amore. Finalmente il destino le aveva donato un sogno tutto suo. Un sogno fatto di amore, famiglia, figli. Non di patria, giustizia o istruzione. Amai sarebbe andata ovunque insieme a Majid. Quell'uomo diventò le sue radici, la sua patria. Le loro vite si fusero in una sola, e lei fece tesoro di ogni minimo dettaglio del suo matrimonio con lui. Si lavavano i denti allo stesso lavandino, mangiavano e pregavano insieme. Scrivevano i loro nomi sulla sabbia come due giovani innamorati, tenendosi sempre per mano.
Majid le depilava le gambe mentre lei gli mordicchiava il collo. Amai gli spuntava i capelli e lui le lavava i suoi. Non davano niente per scontato. La loro era un'intimità istintiva, disinvolta, quel genere di amore di cui aveva parlato Fatima, che si tuffava nudo in se stesso e verso l'infinito, dove vivono le cose divine. "Cosa leggi, habibti?" mi chiese mio marito. Gli feci vedere la copertina. "È una raccolta di poesie americane che parlano di rose." "Anche gli inglesi adorano le rose." "Mia nonna Bassima ne incrociava diverse varietà. C'è una poesia di Robert Frost: 'La rosa è una rosa, ed è sempre stata una rosa, ma ora la teoria vuole, che anche una mela sia una rosa . Majid rispose: "Cos'hanno di tanto speciale le rose? Le hai mai guardate bene? Hanno le spine. Non sono particolarmente profumate. Sono difficili da coltivare e fragili quando riesci a farle sbocciare. Preferisco mille volte un dente di leone a una rosa. Quello è un fiore. È umile, robusto, continua a spuntare anche se non fai nulla. E fiorisce sempre con uno splendido sorriso giallo". "Parli come un vero comunista" lo presi in giro. "E io cosa sono? Una rosa o un dente di leone?" "Ah! Questa dovevo aspettarmela. Tu, mia cara... non sei un fiore, qualcosa che fiorisce un giorno e appassisce quello dopo. Tu sei il battito del mio cuore." "Bella risposta! Continua..." lo stuzzicai. "Ho diritto a un premio per le belle risposte?" "Forse." Sorrisi. "...sei la luce dei miei occhi" disse. "Bravo. Le spetta un premio, signore." "Oh, madame, troppo gentile." Majid inarcò le sopracciglia maliziosamente. "Credo che lo ritirerò subito." Trovammo una piccola casa nelle vicinanze di Shatila in modo che potessi continuare a insegnare nel campo e vedere Fatima e la bambina. Ma tenemmo l'appartamento di Beirut per le sere in cui Majid finiva di lavorare tardi. Eravamo al settimo cielo. Anche se nelle cronache alla radio e nelle conversazioni nei caffè si coglievano rumori di guerra, io e Majid parlavamo di fare figli.e di invecchiare accompagnati dalla dolce melodia dello scalpiccio dei nipoti. Quando le mestruazioni tardarono, la mia gioia fu immensa e diafana come il cielo del mattino, e raddoppiò nel pomeriggio, quando l'ospedale delle Nazioni Unite confermò sia la mia gravidanza che
quella di Fatima. Calcolammo che i nostri bambini erano stati concepiti la stessa settimana. "Il dottore dice che partorirò verso metà settembre" disse Fatima. "Anch'io." "Credi che Yussef e Majid l'abbiano fatto apposta?" Era quasi seria. "Mi aspetterei di tutto, da quei due." Majid era talmente entusiasta che cadde in ginocchio davanti alla mia pancia sfregiata, improvvisamente baciata dall'incantesimo di una nuova vita. Il tempo ha ormai eroso dalla mia memoria i deliziosi dettagli di quella serata perfetta. Ma riesco a evocare la sua purezza, quel senso di soddisfazione piena che ti toglie il diritto di chiedere di più. Majid mi baciò la pancia. "Ehi tu, lì dentro ! " disse, poi mi guardò incredulo. "Diventeremo genitori, Amai!" Era eccitato come uno scolaretto. Parlammo a lungo, ma non ricordo più le parole, solo la gioia. Un mese dopo, nudi nel letto, io e Majid facevamo progetti come fanno tutti i futuri genitori. Con gambe e braccia allacciate e stretti l'un l'altra, parlavamo del nostro avvenire e dell'avvenire del nostro bambino. "Se la situazione peggiora, habibti, io e Yussef abbiamo pensato che tu, Fatima e i bambini andrete via per un po', finché le cose non si sistemeranno" disse Majid solennemente, abbracciandomi più forte. Israele aveva attaccato il Libano per provocare la rappresaglia dell'Olp. Nel luglio del 1981 gli aerei a reazione israeliani avevano ucciso duecento civili in un raid su Beirut e Ariel Sharon, l'allora ministro della Difesa israeliano, aveva annunciato pubblicamente che avrebbe spazzato via la resistenza una volta per tutte. Quelle parole pesavano terribilmente su Yussef, che era preoccupato per noi nel caso in cui gli attacchi israeliani si fossero intensificati. Proteggere i campi profughi era la priorità. A questo scopo, la leadership dell'Olp avrebbe finito per stringere un patto col diavolo per proteggere donne e bambini. Nell'aprile del 1982, le Nazioni Unite avevano registrato 2125 violazioni israeliane dello spazio aereo libanese e 652 violazioni delle acque territoriali libanesi. Israele ammassò venticinquemila soldati lungo il confine e continuò illegalmente a eseguire manovre provocatorie verso il sud del Libano. L'Olp si trattenne dal compiere ritorsioni e lo stesso fece il governo libanese. Ma Yussef aveva già capito che Israele avrebbe trovato un motivo per invadere, indipendentemente dalla reazione dell'Olp.
Yussef e Majid, e anche Fatima, mi convinsero che era la soluzione migliore. Sarei tornata negli Stati Uniti, avrei rinnovato la mia green card e avviato le procedure di immigrazione per mio marito, per Fatima e per Falastin, che aveva quasi un anno. Il destino di Yussef era legato all'Olp, ma aveva bisogno di sapere che la sua famiglia sarebbe stata al sicuro. "Amai, non pensare che ci stai abbandonando" disse Yussef, leggendomi lucidamente nel pensiero. "Potresti davvero salvare le loro vite." Le mie alunne organizzarono una festa d'addio per il mio ultimo giorno di scuola. Ragazzine tra i dieci e i quindici anni, nelle loro divise azzurre identiche, portarono dolci e tè caldo in classe e avvicinarono i banchi per creare un tavolo. Due di loro, Wafa' e Dana, suonarono la tabla e le altre si presero sottobraccio ed eseguirono una dabke, costringendomi a ballare con loro. Prima di andarmene, ciascuna mi consegnò una lettera, un disegno o un regalo fatto a mano. Una bambina, Mirvat, aveva ricamato su una piccola federa le parole "I love you". Promisi che sarei tornata, sicura che la mia partenza era una precauzione temporanea e in fondo superflua. Fu questo ciò che dissi alle mie alunne prima di lasciarle a Shatila. Lasciare Majid fu infinitamente più difficile. "Ti prego, Majid. Ti prego, habibi, vieni via con me" lo implorai. "Habibti, sai che non posso partire così. Tra poco la gente avrà un bisogno disperato di medici. Non posso voltargli le spalle." In quel momento, avrei preferito che mio marito fosse un codardo. "Se succede qualcosa, ti prometto che mi trasferirò all'ospedale. Nemmeno Israele bombarderà un ospedale" mi rassicurò, stringendomi a sé. "Prima che tu te ne accorga saremo di nuovo insieme a crescere il nostro bambino, e magari ne faremo un altro. Ti amerò sempre, Amai. Quello che abbiamo è eterno." Amore. Eternità. Per sempre. Furono queste le parole di mio marito all'aeroporto, il giorno che partii da Beirut. Continuo ad aggrapparmi a ciascuna di esse. A ciascuna sillaba. Promisi a mio fratello, come mi chiese di promettergli, che la prima cosa che avrei fatto una volta arrivata negli Stati Uniti sarebbe stata chiedere asilo politico per Fatima, che era in piedi dietro di lui con gli occhi pieni di lacrime e la piccola Falastin in braccio. Ci scambiammo un buffo abbraccio laterale attorno alle nostre pance ingrossate, ormai
ben oltre il terzo mese, e ci salutammo con un bacio in quello spiraglio di buonumore. Imbeccata, Falastin premette la bocca aperta contro la mia guancia. "Amma" fu il suo modo di pronunciare il mio nome. Baciai mio marito un'altra volta e passai le successive ore di viaggio cercando di scacciare i cattivi presagi che roteavano come avvoltoi dentro la mia testa. Trentuno FILADELFIA, DI NUOVO 1982 La terra ci rifiuta, ci spinge attraverso l'ultimo varco e ci strappiamo le membra per attraversarlo... Dove andremo dopo le ultime frontiere? Dove voleranno gli uccelli oltre l'ultimo cielo? Mahmud Darwish, La terra ci rifiuta, scritta in seguito all'uscita dell'Olp dal Libano. Alle nove di mattina del 16 maggio 1982, ventisei ore dopo aver lasciato Beirut, ero a Filadelfia, triste e con il triste senso di vuoto di non voler essere lì. Mi sembrava passata una vita dalla prima volta che ero arrivata in quella città, insicura dei miei passi, terrorizzata che un ascensore mi trascinasse sottoterra, invidiosa dei capelli di Lisa Haddad. Compiti urgenti alla mano, chiamai il dottor Mohammad Maher, l'ex mentore di Majid in Inghilterra, ora docente a Filadelfia. "Amai, aspettavo la tua chiamata" disse una voce rauca per l'età e la gioia. "Per piacere, aspettami al ritiro bagagli. Arriverò in meno di mezz'ora." A mia insaputa, Majid si era tenuto in contatto con il dottor Maher per mesi per organizzare le cose. Avevo già un lavoro. Dovevo preparare relazioni cliniche per l'approvazione federale. "La paga è buona. Devo solo fargli vedere un attestato della tua laurea. Se deciderai per qualcos'altro, ti aiuterò." Majid era come un figlio per lui. "Quindi ti prego, vorrei che mi chiamassi 'ammu', o se preferisci solo Muhammad. Ma niente doktor o cose simili." Commossa e sprovvista delle parole adeguate - un semplice "grazie" mi sembrava insufficiente - dissi in arabo, "Che Dio la protegga e le doni la sua benevolenza. La sua gentilezza, dottor... 'Ammu Muhammad... è disarmante". La vita a Filadelfia correva con un ritmo accelerato. Me n'ero dimenticata. Nel giro di due settimane venni addestrata sul lavoro che
dovevo svolgere, visitata da un'ostetrica e andai cinque volte all'ufficio immigrazione. Mio marito poteva venire negli Stati Uniti, ma per il visto di Fatima bisognava aspettare come minimo un altro mese. Con le sue file di rigide treccine africane sulla testa e un sorriso gentile, la signora deU'Ins, il Servizio immigrazione e naturalizzazione, mi disse: "So che è un casino dalle tue parti. Farò tutto il possibile per sveltire la cosa". "Grazie." Che Dio ti conceda amore e ricchezza. La città sembrava cambiata durante la mia assenza. West Philly era diventato un miasma di droga e povertà. La disperazione aveva preso il posto dell'autorevolezza sui volti delle robuste matriarche che passavano ancora le giornate nelle loro verande all'ombra dell'abitudine. Poi c'erano i vecchi amici: Angela Haddad, Bo Bo e Jimmy. "È bello rivederti, Amai." Un appartamento nella zona nordest della città, per evitare di pesare troppo sui Maher. Mentre aspettavo di riabbracciare i miei familiari e ingannavo il tempo con la speranza e sporadiche conversazioni telefoniche con mio marito o Fatima, 'Ammu Muhammad e sua moglie Elizabeth mi accoglievano come un surrogato di famiglia. Erano sposati da quasi cinquant'anni. Dopo aver lasciato Oxford avevano prestato servizio nelle pianure africane, lui come medico e lei come infermiera, vivendo degli esigui stipendi delle organizzazioni umanitarie. Adesso, negli Stati Uniti, nonostante l'agiatezza nordamericana, la loro vita aveva qualcosa d'inquieto, come se gli mancassero dei figli. Anche se i loro corpi portavano bene gli oltre settant'anni d'età, il tempo aveva eroso le ossa e spento l'energia, obbligandoli a rallentare il passo e a reclutare giovani competenze mediche per portare avanti la loro missione. Medicina senza frontiere. Un lavoro fatto con passione, ma che non era abbastanza. Il mio arrivo, e la vita che mi gonfiava il ventre, smossero i sedimenti della loro età avanzata. Latente e innegabile, l'affinità istintiva degli anziani per bambini e bambine li riempì di gioia e li spinse a proteggere la mia gravidanza. Elizabeth faceva in modo che mi nutrissi bene, che assumessi vitamine e andassi regolarmente alle visite di controllo. Sedeva al mio fianco ogni giorno mentre componevo e ricomponevo numeri telefonici libanesi e dell'Ins, condividendo con me lo sconforto di trovare le linee vuote o sempre occupate.
I suoi capelli biondo sbiadito, corti sopra al collo, si curvavano dietro alle orecchie in un modo che escludeva ogni senso di vanità. Affrontava le giornate a testa alta e le sue lunghe dita artritiche si concedevano poco riposo dalla sua determinazione a salvare il mondo e, contemporaneamente, tenere in ordine la vita del marito. Le sue mattine cominciavano con un caffè, a cui aveva rinunciato per i quarantanni precedenti. Poi sistemava il farfallino rosso di 'Ammu - che era parte di lui tanto quanto i suoi occhi color nocciola - e si separavano con un pranzo dentro a un sacchetto di carta e un bacio, un rituale che non avevano mai abbandonato durante tutti quegli anni di matrimonio. Elizabeth era andata in pensione quando 'Ammu aveva accettato un incarico come docente all'Università della Pennsylvania. Il suo tempo si divideva tra le loro attività mediche umanitarie, l'appagante scoperta dei trattamenti termali e l'acquagym tre volte alla settimana. Il mio arrivo cambiò i suoi ritmi e, quando si avvicinò il momento del parto, Elizabeth dedicò tutto il suo tempo a me e al nostro rapporto madrefiglia. Trascorrevo più notti nella stanza degli ospiti di Elizabeth che nel mio appartamento. I giorni senza notizie da Majid, Yussef, Fatima o dall'Ins si accumulavano. Una somma di vuoto e cattivi presagi dai telegiornali della sera. Poi tutto crollò il 6 giugno del 1982. Israele attaccò il Libano. Non stavo prestando attenzione al piccolo schermo sul bancone della cucina, ma ' Ammu sì, e lo vidi cambiare espressione prima ancora di sentire la notizia. Stavamo tutti trattenendo il fiato da settimane e alla fine ciò che temevamo passò languidamente, come una nube, sul volto di 'Ammu, sbiancandolo e lasciandolo atterrito. Sentii la voce petulante del notiziario quando incontrai i suoi occhi tristi. "Un'invasione massiccia." "Intensi bombardamenti aerei." "Una forza d'attacco di novantamila uomini sta risalendo la costa del Libano. " La televisione la chiamava: "Operazione Pace in Galilea". Era questo il nome che le dava la storia. Operazione; come vengono profanate le parole. Majid eseguiva operazioni per salvare vite umane. Per cinque interminabili ore composi e ricomposi numeri telefonici, ma le linee libanesi erano in tilt per tutti i parenti che cercavano di mettersi in contatto tra loro mentre Israele cominciava la distruzione sistematica
delle comunicazioni nel paese. Alla fine, i cieli si aprirono. Un raggio di misericordia illuminò il mio mondo con il suono della dolce voce di mio marito all'altro capo del telefono. "Habibti. Dio, quanto avevo bisogno di sentire la tua voce. Qua è un inferno" disse, come se mi leggesse nel cuore. Ero riuscita a contattarlo all'ospedale, mentre la guerra infuriava tutt'attorno. Sentivo i boati delle bombe attutiti dalla distanza, le urla delle sirene delle ambulanze. I lontani gridi di terrore, là dove avrei voluto essere. "Majid, ti prego, vieni subito" lo implorai. "Habibti, ci arrivano feriti a centinaia e l'ospedale è già a corto di personale. Hanno bisogno di me. Un sacco di dottori li hanno già abbandonati. Ti prego, resta dove sei e prenditi cura del nostro bambino. Verrò... Presto sarò da te, te lo prometto." Non sapendo quando avremmo potuto parlare di nuovo, continuammo, riempiendo ogni secondo di un amore cui giurammo eternità. Mi promise che sarebbe rimasto all'ospedale. "Ho sognato che partorivi una bambina, Sara, e che facevamo un picnic sulla spiaggia di Sidone. Ti ricordi quando abbiamo scritto i nostri nomi sulla sabbia?" Quasi non riuscivo a parlare. "Certo che mi ricordo. " Singhiozzai. "L'ho vista, nell'ecografia." "L'hai vista?" "Sì. Avremo una bambina. Avremo Sara." Seguì una lunga pausa. "Alla fine, tu sei l'unica cosa che conta. E a te che devo tutto, molto più che a chiunque altro. Non è vero, cara? Ti amo più di quanto tu possa immaginare. Forse qua ho fatto tutto il possibile." La piccola Sara. Un attimo dopo fummo costretti a riagganciare, e fu come girare una valvola che mi espulse tutta l'aria dai polmoni. Ma Majid sarebbe arrivato e ormai era solo una questione di giorni, una settimana al massimo. Mi rivolsi a Dio con l'urgenza del voto solenne di ogni donna. Proteggi la mia famiglia e onorerò la tua misericordia per sempre. Pregai e pregai. Come Dalia aveva pregato in un'altra epoca e in un altro luogo. In un'altra guerra. Le linee telefoniche erano ormai interrotte. Ogni giorno, soffocavo la confusione dei cupi presagi notturni e mi sforzavo di vivere, la mente sempre sintonizzata sui notiziari. Composi e ricomposi numeri telefonici, contaminata dal terrore. Ariel Sharon fece marciare i suoi soldati sul Libano - conosciuto come "l'Oasi del Medio Oriente" per il suo splendore - e pose Beirut sotto assedio per
due mesi sfibranti, durante i quali Israele privò la popolazione di acqua, elettricità e assistenza medica. Il mio cuore divenne metallo, piombato dall'inchiostro dei giornali e dal tono freddo degli annunciatori. In ufficio, udii la voce di un cronista televisivo: "Le organizzazioni umanitarie mettono in guardia contro...". Ma non riuscivo a sentire. "La direzione deve fare qualcosa per il cibo qua dentro" disse uno dei miei colleghi. Altri commentavano il terribile problema del parcheggio: "È troppo lontano, specialmente quando piove". Avevo perso i contatti con Majid e mi sentivo come se stessi perdendo i contatti anche con la vita stessa. Bombe e ancora più corpi per riceverle. Pregai e chiamai la Croce Rossa. Chiamai l'Ins. Vi prego. Stavano facendo del loro meglio e no, non potevo andare là. Tutti i voli erano stati sospesi. Come farà la mia famiglia a venire? La Bbc trasmetteva immagini di palazzi che si sbriciolavano come argilla secca, travolgendo chiunque si trovasse all'interno. "Israele sta rispondendo agli attacchi dell'Olp, un'organizzazione terroristica il cui scopo è ammazzare gli ebrei come hanno fatto con gli atleti di Monaco." Lo scopo dichiarato di Israele era l'autodifesa. Rovesciare l'Olp, una resistenza di seimila membri. In agosto le cifre dicevano: 17.500 civili morti, 40.000 feriti, 400.000 rimasti senza casa e 100.000 senza rifugio. Prostrato, il Libano giaceva devastato e razziato, senza più infrastrutture per il cibo o per l'acqua. Israele disse che era stato costretto a invadere per salvaguardare la pace. "Veniamo in pace. Questa è una missione di pace." Decenni dopo, ancora in cerca di quel destino che mi aveva dimenticata, avrei passato al setaccio le cronache di quella pace. Nel suo epico memoriale, il martirio di una nazione. Il Libano in guerra, il corrispondente britannico Robert Fisk descriveva così le bombe al fosforo israeliane: "La storia della dottoressa Shamma'a era agghiacciante e me la raccontò con una voce spezzata. 'Ho dovuto prendere i bambini e infilarli dentro a dei secchi d'acqua per spegnere le fiamme' disse. 'Quando li ho tirati fuori, mezz'ora dopo, bruciavano ancora. Anche nella camera mortuaria, hanno continuato a bruciare senza fiamme per ore.' La mattina dopo, Amai Shamma'a portò quei corpicini fuori dall'obitorio per seppellirli. Con suo grande orrore, li vide divampare di nuovo". Ronald Reagan mandò Philip Habib a negoziare un cessate il fuoco, in seguito al quale l'Olp si ritirò dal Libano. Yussef doveva scegliere se
andarsene o morire. Se ne andò perché era l'unico modo per mettere in salvo Fatima e i bambini. Così gli dissero. L'Olp lasciò il Libano solo dietro l'esplicita garanzia da parte dei diplomatici statunitensi Philip Habib e Alexander Haig che gli Stati Uniti d'America, con l'autorità e la promessa del loro presidente Ronald Reagan, avrebbero tutelato la sicurezza delle donne e dei bambini rimasti indifesi nei campi profughi. Philip Habib firmò il documento di suo pugno. Quindi l'Olp fu mandata in esilio in Tunisia, portando con sé la promessa scritta degli Stati Uniti. Il destino delle persone che amavo era racchiuso tra le righe di quella promessa di Ronald Reagan. Trentadue UNA STORIA FATTA DI ETERNITÀ, ETERNAMENTE TACIUTA Il 10 settembre mi svegliai in preda al terrore, cercando di distinguere la realtà dall'incubo. L'orologio segnava le 3:02 e il telefono squillava in un angolo della mia mente. Era Yussef. Era arrivato nel suo luogo d'esilio insieme all'Olp. Tunisi era la destinazione finale di una partenza straziante dal Libano, dove Yussef e i compagni erano stati costretti a lasciare mogli, bambini e parenti. Questi sacrifici erano il corollario dei vergognosi accordi di Yasser Arafat a favore della sua gente. Adesso Yussef pativa l'odiosa, surreale responsabilità di comunicare alla sua unica sorella notizie che avrebbe preferito non dover dare. Majid aveva mantenuto la sua promessa ed era rimasto sotto la protezione dell'ospedale, che era chiaramente contrassegnato sul tetto e su ogni lato con il simbolo universale della medicina, una croce rossa. Ma, su insistenza dei colleghi, era tornato al nostro appartamento per una pausa dal continuo strillare delle sirene. Aveva dormito profondamente nel nostro letto, il letto in cui un tempo avevamo trovato liberazione nell'amore e dove avevamo concepito nostra figlia, e quando era tornato al suo dovere aveva trovato un inferno al posto dell'ospedale. Mio fratello era là in cerca di Majid, e insieme avevano aiutato a salvare più persone possibile.
"Solo la Grazia di Dio ti ha salvato, fratello" aveva detto Yussef, sollevato di vedere che Majid era vivo. Yussef non sapeva di preciso cosa si agitava nel cuore di mio marito, solo che gli diede la determinazione sufficiente a passare le ventisei ore successive a scavare nella devastazione di quel giardino di cadaveri straziati e anime morte. Ceneri umane si materializzavano nell'aria rarefatta e s'infittivano, ostruendogli la trachea mentre camminavano faticosamente dentro a pozze di sangue e verso grida di aiuto. Estrassero i cadaveri dei pazienti di Majid da sotto le macerie. Gli stessi colleghi che avevano insistito perché andasse a casa a riposarsi un po' erano ridotti a brandelli cremisi. La fatica gli intorpidiva i sensi e gli appesantiva le membra, finché Yussef e Majid, esausti, se ne andarono. Si stavano trascinando con le poche forze rimaste quando videro il cadavere irrigidito di una donna che stringeva al petto il corpo della figlia, una bambina con un nastro tra i capelli, che a sua volta si aggrappava alla madre. Avevano visto di peggio, ma la scena di quella madre con la sua bambina richiamò una piccola riserva di energia in entrambi, quanto gli bastò per stringersi tra le braccia. E singhiozzare. Majid guardò Yussef e gli chiese: "Sei riuscito a parlare con Amai?". Yussef non ci era riuscito. "Amai aspetta una bambina. Diventerò padre, fratello" disse Majid con calma, come se tutto ciò che circondava le sue parole fosse paralizzato. "Tornerò a Londra domattina, e da lì raggiungerò Amai oppure verrà lei in Inghilterra. Guarda cosa stanno facendo quei porci. Non posso rischiare di lasciare vedova Amai e orfana la mia Sara." "Che Dio sia con te, fratello." Yussef abbracciò nuovamente il compagno e si separarono in silenzio, Majid diretto al nostro appartamento al quinto piano del condominio Tamaria e Yussef al campo profughi di Shatila. Cinque ore dopo, una bomba israeliana rase al suolo il Tamaria e un'altra l'edificio accanto. "Ho cercato dappertutto, Amai. Ma sono sicuro che era là dentro. Non è sopravvissuto nessuno" singhiozzò mio fratello al telefono, le parole spezzate e storpiate dall'amore e dalla totale impotenza delle vittime perenni. "Mi dispiace, Amai." Mio fratello era triste, la sua voce così terribilmente pesante nelle mie orecchie. Così piena di tristezza. "Avrei dovuto insistere perché venisse con me. Ho cercato di chiamarti ma non
ci sono riuscito fino a quando non siamo arrivati a Tunisi..." Ascoltai... quelle sillabe pesanti mandarono in frantumi il mio senso della realtà. Dondolandomi sul pavimento stretta fra le mie braccia, premevo la cornetta contro l'orecchio. Non provavo né dolore né rabbia, e nemmeno amore. Non provavo niente. Ma tutto traboccò fuori. Le parole di Yussef mi corsero nel sangue come un torrente, strappando vita alle cellule del corpo e facendola defluire ai miei piedi. Ricordi della pioggia che batteva sul parabrezza della Fiat di Majid; i calli sui suoi piedi quando me li sfregava sulle gambe nude; i peli sul suo petto quando ci appoggiavo la testa; le linee attorno alla sua bocca quando ridevamo; l'arco delle sue sopracciglia che era un sorriso in se stesso; le piccole rughe sotto alle orecchie; la pelle levigata della sua schiena quando stava seduto a letto; il tocco delle sue dita, i suoi baci, la sua integrità, il suo amore... Tutte queste cose si accumularono sul pavimento e attorno a me come un lugubre basso ventre, finché non mi ritrovai prigioniera in un vuoto di pensieri a dondolarmi inebetita sul pavimento, stringendo ancora la cornetta mentre la voce di mio fratello, con la sua tristezza insopportabile, si affievoliva in quel vuoto. Majid. Amore mio. I sogni che avevamo fatto insieme ruotavano in cerchio attorno a questa nuova realtà. I figli che avremmo avuto, i posti dove saremmo andati, la casa che avremmo costruito, le risate che avremmo fatto e le canzoni che avremmo cantato, la vita che avremmo vissuto, l'amore... oh, l'amore che ci saremmo dati danzavano come in girotondo attorno alla realtà che Majid era morto. Ucciso. Casca la terra, tutti giù per terra. Affrontai il freddo fuori dal mio appartamento, camminando intontita sul marciapiede cosparso di foglie. Una vivace esposizione autunnale di arancione, verde, giallo e rosso bordava i lati della mia via di Filadelfia. Un'anziana donna con un cane al guinzaglio mi salutò con un cenno della testa. Superai due giovani innamorati sulla panchina di un parco e continuai attraverso il vento freddo, ipnotizzata e intorpidita dal destino, finché non arrivai davanti alla porta di Elizabeth, oltre quindici chilometri dopo. Svegliatosi di soprassalto, Muhammad socchiuse la porta con diffidenza, poi la spalancò per lasciar entrare il mio corpo enorme. "Hanno ucciso Majid" dissi senza mezzi termini. Ti amerò sempre. Quello che abbiamo è eterno.
Majid. La mia eterna storia d'amore, eternamente taciuta. Amore. Eternità. Per sempre. Le parole di mio marito all'aeroporto, il giorno che ero partita da Beirut. Le conservo nella mia mente come ceneri dentro a un'urna. La gloria dell'amore, come la vita, ridotta a una manciata di polvere. "Oh Dio santo! " Muhammad mi aiutò a entrare. In quell'istante, sentii scalciare debolmente la bambina dentro di me e mi accorsi che era sorto il sole. Trentatré IL MARTIRIO DI UNA NAZIONE 1982 Quella settimana di settembre, iniziata con la telefonata di Yussef, è il fulcro attorno al quale ruota tutta la mia vita. È il mio centro di gravità. È il punto in cui confluiscono simultaneamente tutte le svolte della mia vita. È il crescendo assordante di una stirpe vecchia duemila anni. E il trono di un dio demoniaco. Il 16 settembre, nonostante il cessate il fuoco, l'esercito di Ariel Sharon accerchiò i campi profughi di Sabra e Shatila, dove Fatima e Falastin dormivano indifese senza Yussef. I soldati israeliani eressero posti di blocco per impedire l'uscita ai profughi e fecero entrare nei campi i loro alleati della Falange Libanese. I soldati israeliani, appostati sui tetti, guardavano l'area con i loro binocoli durante il giorno e di notte illuminavano il cielo con i razzi per guidare la Falange che passava di baracca in baracca. Due giorni dopo, i primi giornalisti occidentali entrarono nei campi profughi e riferirono quel che videro. Robert Fisk scrive nel Martirio di una nazione: "Erano dappertutto, per strada, nei vicoli, nei cortili e dentro le stanze diroccate, sotto ai calcinacci e sopra ai mucchi di spazzatura. Quando arrivammo a cento cadaveri, smettemmo di contare. In ogni vicolo c'erano cadaveri -di donne, ragazzi, bambini, anziani - ammassati in gran numero, languidamente, terribilmente, là dov'erano stati sgozzati o uccisi dai mitra. Nei corridoi tra le macerie c'erano altri cadaveri. I pazienti dell'ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i killer avevano ordinato ai dottori di andarsene. Dappertutto, trovammo segni di fosse comuni scavate in fretta e furia. Anche mentre eravamo là, circondati dall'evidenza di tanta ferocia, potevamo vedere i soldati israeliani che ci osservavano. Dal tetto di un alto palazzo a ovest, li vedevamo fissarci con i loro
binocoli, scrutare avanti e indietro quelle strade piene di cadaveri, e le lenti dei loro binocoli a volte brillavano al sole mentre il loro sguardo si spostava per il campo. Loren Jenkins [del 'Washington Post'] cominciò a imprecare come un matto. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto rispondere di quell'orrore. 'Sharon!' gridò. 'Quello stronzo di [Ariel] Sharon! Questo è un altro Deir Yassin!' "Ciò che trovammo dentro al campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 era inenarrabile o, al limite, lo si sarebbe potuto esporre nella fredda prosa del linguaggio medico. C'erano già state altre stragi in Libano, ma raramente di questa portata e mai sorvegliate da un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. In questo paese, decine di migliaia di persone erano rimaste uccise nel panico e nel furore della battaglia. Ma queste persone, a centinaia, erano state ammazzate anche se erano disarmate. Si trattava di una carneficina, di un incidente - com'era facile usare il termine 'incidente' in Libano - che era anche un'atrocità. Andava al di là di ciò che gli israeliani in altre circostanze avrebbero chiamato atrocità terroristica. Era un crimine di guerra. "Io e Jenkins eravamo talmente sconvolti da ciò che avevamo trovato a Shatila che sulle prime non fummo in grado di esprimere il nostro shock. Avremmo potuto accettare l'evidenza di qualche omicidio, anche di dozzine di cadaveri, uccisi nella foga della battaglia. Ma c'erano donne distese dentro le loro case con le gonne tirate su fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola sgozzata, file di ragazzi fucilati alle spalle dopo essere stati allineati lungo un muro. C'erano neonati - anneriti, perché erano stati trucidati da più di ventiquattr'ore e i loro piccoli corpi erano già in stato di decomposizione - buttati su mucchi di spazzatura accanto a lattine di cibo vuote dell'esercito americano, materiale medico dell'esercito israeliano e bottiglie vuote di whisky". Conoscevo quelle donne, o quelle bambine? Quante di loro erano state mie alunne? Per quarantotto ore i soldati israeliani, acqua frizzante e patatine a portata di mano, avevano guardato quell'assalto feroce. Come può un soldato israeliano, un ebreo, guardare un campo profughi che viene trasformato in un macello? Fatima. Falastin. "In un vicolo alla nostra destra, a meno di cinquanta metri dall'ingresso, erano ammassati dei cadaveri. Saranno stati più di una dozzina, ragazzi le cui gambe e braccia si erano intrecciate le une alle altre nell'agonia della morte. Erano stati tutti uccisi a bruciapelo con un colpo alla
guancia. Il proiettile aveva strappato una striscia di carne fino all'orecchio ed era entrato nel cervello. Alcuni avevano degli sfregi cremisi oppure neri sul lato sinistro della gola. Uno era stato castrato: aveva i pantaloni aperti e una colonia di mosche che gli brulicavano sulle intestina squarciate. Questi ragazzi avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto solo dodici o tredici anni." Nel brano successivo trovai il destino di Fatima e delle sue amiche - le amiche che le erano state accanto il giorno in cui aveva dato alla luce Falastin. Le donne che mi avevano baciato perché Fatima gli aveva parlato tanto di me. Le donne che avevano spettegolato quando mi ero innamorata di Majid, e che avevano cantato, ballato e pianto di gioia al mio matrimonio. "Dall'altra parte della strada principale, su un viottolo tra le macerie, trovammo i corpi di cinque donne e diversi bambini. Le donne erano di mezza età e i loro corpi giacevano abbandonati su un mucchio di calcinacci. Una era supina, il vestito strappato e la testa di una bambina che le spuntava da dietro. La bambina aveva capelli corti e ricci, e i suoi occhi ci fissavano con un'espressione imbronciata. Era morta. Qualcuno aveva squarciato la pancia della donna, tagliandola di traverso e poi verso l'alto, forse per uccidere il bambino che portava in grembo. I suoi occhi erano sbarrati, il suo volto scuro una maschera di orrore." Un fotografo dell'Associated Press premette un pulsante e diffuse l'atrocità scarlatta di quella scena per il mondo. Vidi la foto sulla stampa araba e riconobbi subito la veste azzurra della donna. La dishdashe preferita di Fatima, lisa dopo quasi vent'anni di uso. La bambina riccia dietro di lei era mia nipote. Falastin. Yussef mi chiamò, gridando. Gridando. Anche attraverso le linee telefoniche, l'agonia nella sua voce era tale da squarciare il cielo. La sento ancora mandare in frantumi il vento quando cammino. "Quanto dobbiamo sopportare ancora? Quanto dobbiamo pagare?" gemette come un bambino. "Fatima! La mia Fatima! Hai visto cos'hanno fatto?" chiese, gridò, e si rispose da solo. "Le hanno squarciato la pancia, Amai! " Non avevo parole. "Hanno squarciato la pancia della mia Fatima con un coltello!... Hanno ucciso i miei bambini!" Continuava a gridare. "Hanno ucciso i miei bambini, Amai. Dio! Dio! " I suoi singhiozzi scuotevano la terra sotto ai miei piedi e credetti che l'intensità del suo dolore avrebbe fatto a
pezzi il sole. Lanciava gli oggetti che aveva sottomano mentre io ero in Pennsylvania, ipnotizzata dal rumore di vetri infranti all'altro capo del mondo. Piangeva in maniera convulsa, stretto in una morsa di dolore. Spasmo incontrollabile. Tuono. Maledì Israele, gli americani, Ronald Reagan, Arafat e il mondo intero, senza risparmiare nessun leader, nessun dio e nessun demonio. "Che vadano tutti all'inferno. Che provino quest'inferno che ci stanno facendo vivere. " Sotto la sua voce sentivo crescere il ruggito silenzioso dell'ira. Sentivo indurirsi in determinazione la sostanza grezza della disperazione e della rabbia. Promise vendetta, giurò che avrebbe tagliato loro la gola come maiali. Picchiò la testa contro il muro senza pietà per se stesso, tenendo ancora il telefono vicino all'orecchio, continuando a imprecare. Continuando a urlare - le urla di un'anima che moriva. Quel dolore folle lo annientò. Yussef era perso, irrimediabilmente. Uccidendo Fatima, avevano ucciso in contumacia anche il mio dolce fratello. E il suo cuore adesso batteva con la forza della sua rabbia. "HANNO MASSACRATO MIA MOGLIE E I MIEI BAMBINI COME BESTIE!" La linea diventò muta. Rimasi così, paralizzata dal tradimento del destino. Dai futuri rubati e dal dolore insopportabile dell'amore perduto. Nuovamente uscii di casa. Le foglie appena cadute crepitavano sotto ai miei passi. Soffocai le lacrime stringendo con forza i denti. Avevo paura di piangere, paura di sentire la stessa tempesta che si agitava dentro mio fratello. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Oh, Dalia, madre! Ora capisco! Mi sfilai le scarpe, tolsi i calzini e il maglione. Per ghiacciarmi meglio il cuore. E mi immaginai di coprire d'insulti gli abitanti di Filadelfia, che continuavano con le loro esistenze quotidiane di americani. Dieci isolati più avanti, mi accasciai a terra in Rittenhouse Square. In seguito mi dissero che avevo stretto una donna, implorandola di dirmi cosa ci trovava di così divertente nel mondo per ridere insieme alla sua amica, su una panchina del parco. Mi si ruppero le acque e un'ambulanza portò via il mio corpo bagnato, gravido e scalzo dalla folla di passanti impietositi che si erano fermati a guardare quella piccola donna sconvolta sul punto di partorire.
La mia ostetrica, venuta in ospedale su richiesta dei medici, avvertì Muhammad, che chiamò immediatamente Elizabeth. Avevano visto il telegiornale e gli bastò guardarmi in volto per capire che Fatima e Falastin non erano sopravvissute. Ma distolsi lo sguardo, temendo che il loro dolore avrebbe liberato le lacrime che mi sforzavo di trattenere. Per dieci ore il mio corpo fu scosso dalle contrazioni. Avrei voluto che il travaglio continuasse in eterno. I miei occhi si fecero vitrei, il cuore di ghiaccio, e nessun respiro lasciò il mio corpo senza prima essere spogliato di ogni suono. Tenni tutto dentro di me, afferrandolo con le unghie. Imprigionai ogni voce nella muta stretta delle mie mascelle. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Volevo che il dolore durasse di più, che diventasse più acuto, che mi uccidesse. Il bisogno di soffrire era molto maggiore del bisogno di spingere e vidi lo smarrimento, forse la paura - o il terrore - negli occhi delle infermiere che arrivavano a turno per "vedere come stavo". Il volto maturo ed elegante di Elizabeth era madido di compassione e di un evidente desiderio di sottrarmi al mio destino. Ma nella sua saggezza non disse nulla e si limitò a tenermi saldamente la mano, mentre fissavo il vuoto e serravo con forza le mascelle sulle giunture tremanti, rammaricandomi delle poche lacrime che mi fuggivano silenziose dagli occhi. Alla fine, l'istinto di vita della mia bambina ebbe la meglio, e mi arresi. Spinsi, inzuppando il panno sotto di me dei liquidi del parto e delle mie lacrime, finalmente libere. La testa cominciò ad affiorare, lacerandomi la carne, e pensai all'addome di Fatima squarciato dalla lama di un assassino. Urlai il suo nome come un grido di battaglia - "Fatima! " -spingendo sempre più forte, per dilaniarmi il corpo com'era stato dilaniato il suo. Volevo sanguinare per il dolore e i tormenti dell'espiazione. Perché dovevo vivere, mentre Fatima marciva in un'anonima fossa comune? Perché la mia bambina doveva nascere, mentre la sua le era stata strappata dal grembo? Spinsi con il cuore pieno di amore e nostalgia per Majid. Spinsi di nuovo, con la forza decisa dell'autopunizione, della contrizione e del rimorso di essere ancora in vita. Alla fine, la mia bambina giaceva avviluppata tra le mie braccia, come un bocciolo in fiore. Mi abbandonai al ritmo della sua bocca che mi succhiava il seno e riportava timidamente la vita al mio cuore indurito, come muschio che avvolge una pietra. Ma rimasi distante, eseguendo
solo la meccanica esteriore del prendersi cura di un neonato. Questa fragile bambina mi aveva imposto la volontà di vivere, ed era una cosa che le rimproveravo, perché allora non volevo nient'altro che morire. Trentaquattro SMARRITA 1982-1983 Ma non potete vedere né udire, ed è un bene. Il velo che vi offusca gli occhi sarà tolto dalle mani che l'hanno intessuto, e l'argilla che vi riempie le orecchie sarà bucata dalle mani che l'hanno lavorata. E vedrete. E sentirete. Eppure non vi pentirete dì aver conosciuto la cecità, né di essere stati sordi. Perché quel giorno capirete il fine occulto di ogni cosa, e benedirete le tenebre, come benedirete la luce. Khalil Gibran, Eaddio Mi imbarcai nella maternità senza Majid e con solo un filo di volontà. Elizabeth e Muhammad erano al mio fianco, fedeli e compassionevoli. Insistettero perché mi trasferissi da loro. Per molti aspetti ci salvarono, me e Sara. Guardavo mia figlia con curiosità, nutrivo il suo corpo spinta da un senso del dovere. Tenevo le mie emozioni chiuse in pugno e serrate tra le mascelle. Ma il profumo di Sara era irresistibile, un afflato muto e inebriante che mi indeboliva. Così, a volte, strisciavo fuori dalla fortezza del mio cuore per inspirare il suo odore fin nelle parti profonde di me stessa che ancora avevano un bisogno disperato di amore. E mi perdevo nel ritmo della sua bocca che succhiava, nel calore del suo essere indifesa, nell'insistenza dei suoi infiniti bisogni. Una settimana dopo il massacro di Sabra e Shatila, la rivista "Newsweek" decise che l'evento più importante dei sette giorni precedenti era stato la morte della principessa Grace. La settimana seguente, la storia di copertina portava il titolo "Il supplizio di Israele". Israele era una vittima. I "servizi" della stampa americana agitarono i fantasmi che mi affollavano la mente. Il dolce volto di 'Aisha mi sorrideva davanti agli occhi, turbato. Anche Fatima e Falastin vennero a bussare alla porta della mia immaginazione in cerca di una tomba decorosa, di un onesto riconoscimento di quanto era successo loro. Pensieri di mamma, papà e Yussef, e un desiderio dilagante delle carezze di Majid montarono in un peso opprimente fino a crollarmi sul cuore, come il cemento del nostro
palazzo che aveva schiacciato mio marito. L'unico modo per frenare la tempesta emotiva era buttarsi addosso dell'acqua fredda. Letteralmente, avevo bisogno di provare fisicamente freddo per mettere a tacere quelle voci. Altrimenti sarei impazzita, ne sono certa. Ma la tempesta era sempre in agguato, latente, nascosta nella stretta ferrea delle mie mascelle. Così, smisi di leggere e di guardare i telegiornali e cominciai ad aver paura di toccare Sara, per non contaminarla con il mio destino. Perché non mi scaldasse il cuore e sciogliesse la rabbia, i fantasmi e la follia che mi portavo dentro. Mi chiusi in me stessa. Le mie difese allontanavano chiunque osasse avvicinarsi, compresa Sara, anche se continuavo a consumare il suo profumo di notte, mentre dormiva, riempiendomi i polmoni del buonsenso che avevo bisogno di respirare. La amavo mio malgrado. La amavo immensamente. Infinitamente. E avevo paura di quell'amore così come avevo paura della mia rabbia contro il mondo. Ariel Sharon continuò a perseguire una politica di violenze, finché non ottenne la massima carica di potere in Israele, diventando Primo ministro dello stato ebraico. I cittadini di Israele lo elessero il 6 febbraio del 2001, più di un anno dopo la seconda rivolta palestinese, e la stampa americana lo descrisse come un "vecchio guerriero corpulento" e un "tenace veterano delle molte guerre d'Israele". Il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti d'America, George W. Bush, lo definì "un uomo di pace". La memoria e gli orrori di Sabra e Shatila erano stati sconfitti. L'ultima volta che parlai con Yussef fu nel gennaio del 1983, anche se disse che avrebbe cercato di chiamarmi di nuovo prima che "questo finisse". "Questo cosa?" " Yasser Arafat è un codardo che porta la sua gente al macello trascinandola con le corde delle bugie americane." "Fratello, mi sembri strano. Stai bene? Dove sei?" "Ho lasciato l'Olp" disse. L'aveva fatto poco dopo il trasferimento a Tunisi e ora mi chiamava dal Libano. "Dal Libano?" Rantolai. "Come hai fatto a tornare?" Ero sicura che gli americani non lo sapevano. Doveva essere entrato di nascosto. Ma come? Per chi stava lavorando? E, mio Dio! Cosa c'era andato a fare? Non rispose a nessuna delle mie domande e cominciai ad avvertire un senso di gelo nella sua voce. "Non chiedermi niente, Amai... Ti ho
chiamata solo per sapere se stavi bene ed eri al sicuro" disse, ciascuna parola rigida, isolata, agghiacciante. "Yussef. Ti voglio bene. Ti prego, vattene dal Libano. Ti prego, mio dolce fratello. Possiamo riunirci e rifarci una vita, magari in Francia... " Non rispose. "Ho chiamato mia figlia Sara. Dovresti vederla. Somiglia a Majid. Ci sei? Pronto! Yussef! Ti prego... Yussef. Yussef? Ti prego rispondi, lo so che sei lì, ti sento respirare." Silenzio. "Yussef, ti prego. Non sei solo. Ci sono migliaia di combattenti che hanno perso come hai perso tu. Come abbiamo perso tutti. Ma io e te non siamo soli. Capisco il tuo dolore, Yussef. Sai che lo capisco. Anch'io ho pensieri pieni di rabbia, come te. Ma ti prego... fratello. Non farti ammazzare. Non potrei sopportarlo. Ho bisogno di te, Yussef." La comunicazione fu interrotta. Mio fratello era irrimediabilmente perduto. Aveva attraversato l'abisso di fiamme davanti al quale io ancora esitavo, ed era atterrato sulla sponda placida e distaccata della vendetta. Aveva lasciato la sua anima a vagare per Sabra e Shatila, dove sua moglie e sua figlia giacevano in una fossa comune sotto a un mucchio di rifiuti, sotto l'impunità dei loro assassini, le promesse infrante delle superpotenze e l'indifferenza del mondo verso il sangue versato dagli arabi. Trentacinque IL MESE DEI FIORI 1983 Arrivò aprile nel 1983. Il diciottesimo giorno, il mese dei fiori assistette alla mietitura della rabbia che era stata seminata in Libano. Il fuoco fu vomitato fuori dalle viscere della vendetta, dell'ingiustizia e della storia, alzando pennacchi di fumo dentro agli schermi televisivi di tutto il mondo. La notte prima, strani sogni mi avevano costretta ad alzarmi alle tre di mattina, ma ora non ricordo che sogni fossero. Bevvi il caffè prima ancora di veder sorgere il sole, mentre Sara mi prendeva il seno nel suo sonno affamato. La cullai in grembo, mentre le sue piccole labbra avide mi succhiavano il capezzolo, e presi" Il profeta", sparso sul pavimento tra le mie pile caotiche di libri. Lessi le parole che mi aveva letto mio padre quando ero ancora troppo innocente per capire: Ancora un poco, e il mio desiderio riunirà polvere e schiuma per un altro corpo.
Ancora un poco, un attimo di quiete nel vento, e un'altra donna mi partorirà. Addio a voi e alla giovinezza che ho trascorso con voi. Era solo ieri che ci incontrammo in sogno. Avete cantato per me nella solitudine, e con i vostri desideri ho costruito una torre in cielo Ma ora il sonno è fuggito e il nostro sogno è finito, e non è più l'alba. Il mezzogiorno ci sovrasta e il nostro dormiveglia si è tramutato in pieno giorno, e dobbiamo separarci. Se ancora una volta ci incontreremo nel crepuscolo della memoria, parleremo nuovamente insieme, e intonerete per me un canto ancora più profondo. E se le nostre mani s'incontreranno in un altro sogno, costruiremo un'altra torre nel cielo. Quel giorno non lessi i giornali. Ormai ogni scusa era buona per non vedere, per non sapere. Ma la notizia mi arrivò comunque, quel diciottesimo giorno del mese dei fiori. Un uomo si era schiantato con un furgone carico di esplosivo contro l'ambasciata statunitense in Libano, uccidendo sessantatré persone e ferendone anche di più. La struttura triangolare era uno spettacolo orribile, disseminata di frammenti di corpi. Il filmato mostrava alcuni sopravvissuti sconvolti dall'esplosione che vagavano senza meta in quello che avrebbe potuto essere l'inferno. Un uomo, sopraffatto dal bagno di sangue, piangeva contro un muro. Un altro uomo e una donna, che si erano dati reciprocamente per morti, adesso si stringevano tra le braccia. Torri di fumo nero si alzavano dalle rovine velando il cielo, e il reporter dell'Abc tossì in quella foschia mortale. Si scusò. Conoscevo l'odore che stava respirando in quel momento. "I terroristi hanno colpito l'ambasciata statunitense in questo punto..." disse. Io ed Elizabeth restammo sedute con gli occhi rossi per ore davanti al televisore, pietrificate. Parenti delle vittime, in lacrime, rilasciarono interviste strazianti e il silenzio del mio cuore viaggiò attraverso lo spazio, condividendo il loro dolore. Poco dopo, ero sprofondata tra i cuscini del divano e guardavo Elizabeth che dava un omogeneizzato a mia figlia. Il televisore era spento. Un venticello insistente alzava le tende leggere, portando qualche momento di serenità in quella giornata turbolenta. Le rose rampicanti del vicino si erano fatte alte e belle fuori dalla finestra. Dall'altra parte della stanza, Elizabeth faceva ridere la piccola improvvisando con un cucchiaio volante rumori di aeroplano e, come
sempre, pensai che sarebbe toccato a me dare da mangiare alla mia bimba. Serrai le mascelle per impedire che la sua risata infantile dissotterrasse l'amore dalla grigia immobilità che avevo dentro. Ma sorrisi comunque nel vedere la scena, riempiendo cautamente il mio silenzio interiore con una gioia irresistibile ma segreta. In quello stesso istante l'Fbi, la Cia e la polizia locale stavano circondando la nostra casa. Risposi al campanello, sperando di trovarmi davanti Yussef. Ma il cuore mi sprofondò sotto ai piedi alla vista dei loro distintivi. "È lei AmalAbulheja?" "Sì, posso aiutarvi?" "Vorremmo fare due chiacchiere con lei" disse un bell'uomo dagli occhi azzurri in un impeccabile completo nero. "Se non le dispiace" aggiunse cortesemente, professionalmente. Erano tutti cortesi e professionali, a dire il vero. Tutti e sei, improvvisamente dentro casa mia. "Mi chiamo Jack O'Malley" cominciò l'agente, ma l'interruppi perché quel nome accese un sorriso nella mia mente. "Un tempo conoscevo un Jack O'Malley. Era di Dublino. Lavorava per le Nazioni Unite in un campo profughi palestinese." "Dobbiamo chiederle di venire con noi" disse lui seccamente, con un tono che mal si addiceva al suo nome. Lasciai Sara alle cure di Elizabeth, accettando senza proteste di andare con O'Malley per ulteriori domande. Poco dopo, sedevo sopraffatta dalla curiosità e dall'inquietudine su una sedia pieghevole di metallo al centro di un piccolo e spoglio locale della polizia. "Mi chiamo Jackson. Tom Jackson, signora. Ho alcune domande da farle" disse un uomo corpulento e dal volto arrabbiato. "Conosce quest'uomo?" chiese, facendo scivolare una fotografia sul tavolo che ci separava. Presi la foto di Yussef con mani tremanti. Mostrava solo il volto, con certi dettagli sgradevoli che non avevo mai visto prima. Le linee profonde attorno agli occhi tradivano la spietata determinazione che avevo sentito nella sua voce l'ultima volta che ci eravamo parlati. Le punte incerate e arricciate dei baffi, che portava in ricordo di Jeddo Yehya, erano state tagliate. Era il volto di Yussef, ma nei suoi lineamenti non riuscivo a trovare il fratello che conoscevo da sempre.
" E mio fratello " dissi, già temendo la risposta alla domanda che non riuscivo a pronunciare: Perché me lo chiedete? O'Malley, che era rimasto in piedi in silenzio contro una parete bianca, si avvicinò, si appoggiò lentamente al tavolo e mi fissò con due occhi di fuoco. "Crediamo che sia il terrorista che ha fatto esplodere l'ambasciata di Beirut. Ne sa qualcosa?" Scandì ciascuna di quelle parole pungenti con profondo disprezzo. Serrai le mascelle con forza. Non credevo a quegli uomini e il mio cuore si ritirò nella sua tundra interiore. Ma i miei sensi si fecero vigilissimi, amplificando i dettagli sconnessi di quella stanza. Il leggero, quasi impercettibile oscillare della luce sul soffitto, l'odore dozzinale di dopobarba, qualcuno che, raffreddato, tirava su col naso, qualcun altro che spostava il proprio peso sull'altra gamba e i granelli di sabbia che stridevano sulle piastrelle sotto alle sue scarpe. Mi misero davanti un biglietto spiegazzato, strappato da un quaderno di scuola. L'aveva scritto Yussef ed era passato per diverse mani, comprese quelle di un informatore della Cia, prima di arrivare a me, l'originale destinataria. Perdonami, Amai. È giunta l'ora che abbiano un assaggio di quello che ci hanno inferto per tutta la vita - Yussef. Passai le dieci ore successive a rispondere alle loro domande e alle loro accuse. Può darsi che alla fine fossero esausti quanto me, ma rimasero insoddisfatti delle mie risposte. "Sì, so che aveva lasciato l'Olp. Non so perché... Perché mi ha chiamato e me l'ha detto... Non mi ha detto altro... Non so niente del gruppo islamico Jihad... Lo giuro." Erano convinti che avesse fatto tutto lui, progetto, reclutamento e attentato. "Non vi credo" dissi. "Nemmeno noi crediamo a te." 'Ammu Muhammad arrivò con il suo avvocato e il giorno dopo fui finalmente libera di andarmene. Rimasi nell'assoluzione del mio buio interiore, ma i demoni mi seguirono anche lì, affollando lo sfondo dei miei giorni con un passato troppo denso. Mi congedai da Muhammad e vagai senza meta per le strade di Filadelfia, seguita da agenti governativi che non nascondevano la loro presenza e che da allora, e per molti anni, non mi avrebbero quasi mai lasciata. Cominciò a piovere, e accolsi con sollievo la distrazione del rumore dei miei stivali che sguazzavano sul marciapiede. Gli agenti dietro di me aprirono degli ombrelli neri e si mantennero a pochi passi di distanza,
finché non entrai in un bar. Era un locale rettangolare con delle luci rosse e odore di chiuso, le cui pareti di mattoni ospitavano fotografie a grandezza naturale di Humphrey Bogart e Marilyn Monroe. Era il bar di South Street dove avevo bevuto alcol per la prima volta, quando studiavo alla Tempie University. Bagnata fradicia, trovai uno sgabello libero in fondo al bancone e mi sedetti. Avevo i capelli inzuppati di pioggia e la maglietta gialla mi s'incollava al corpo, rivelando belle forme femminili su un lato e l'odioso lascito di un soldato israeliano sull'altro. Una serie di Long Island Iced Tea mi avvilupparono in una nebbia in cui l'unico suono era il sermone dei cubetti di ghiaccio che cozzavano dentro al mio spesso bicchiere di liquore, che a un certo punto alzai in segno di saluto verso i due agenti in impermeabile che bevevano acqua tonica all'estremità opposta del bar. Da qualche parte, in quell'annebbiamento, sentii una voce che mi chiedeva sorpresa: "Ehi... Non sei la ragazza che viveva con Angela? Come ti chiami... Omar o qualcosa del genere. Amy? No, Omar, giusto?". Era Milton Dobbs. Lo riconobbi all'istante. L'ex marito di Angela Haddad. Senza dire una parola, tornai al conforto del mio drink. Lui mormorò qualcosa agli amici e scoppiarono tutti a ridere. All'improvviso, un lampo di lucidità squarciò il mio oblio. Tutti gli occhi nel bar si girarono verso lo schermo di un televisore. La musica fu abbassata. Tutto sembrò lasciare spazio alla voce di un cronista in piedi tra le macerie dell'ambasciata americana. "Le squadre di salvataggio stanno ancora trovando frammenti di corpi" diceva l'annunciatore, e guardai quello spettacolo orribile, temendo che l'Fbi avesse ragione. Che il responsabile fosse quel fratello che amavo con tutta me stessa. Ma poi pensai al fratello che conoscevo ed ebbi la certezza che non poteva essere stato lui. I due agenti, impassibili, guardavano me, non il cronista. "Terroristi di merda!" esclamò Milton, perforando l'ascesso di rabbia che mi portavo dentro. Con la coda dell'occhio, lo vidi girarsi nella mia direzione mentre gridava: "Secondo me dovremmo bombardare a tappeto quel fottutissimo posto. Far fuori questi arabi di merda fino all'ultimo". La collera mi trasformò in un demonio. Mi alzai, cieca di rabbia. La verità che conoscevo mi avvolgeva come uno sciame di locuste, il fuoco mi gridava nelle vene. Non c'era un
angolo del mio corpo che non bruciasse, mentre guardavo le mie braccia tempestare di pugni Milton, che si dibatteva scioccato sotto di me mentre il sangue gli usciva dal naso e il bianco vestito ondeggiante di Marilyn Monroe volava nella foto sopra di noi. Ero una donna piccola, non arrivavo ai cinquanta chili, e in un batter d'occhio fui ammanettata, mentre, in piedi e senza fiato, sentivo la testimonianza di un cliente. "...è volata come... Sul serio, agente. E letteralmente volata da quello sgabello e l'ha steso a terra. Merda, non ho mai visto una donna fare una cosa del genere" diceva l'uomo all'agente di polizia, facendo delle pause tra i pensieri per ridere e meravigliarsi di quello a cui aveva assistito. Si riunì una piccola folla, ma gli uomini che mi avevano seguita per tutta la sera rimasero al bancone. Dietro ai volti che accerchiavano me e Milton, potevo vedere Jack O'Malley. Un Milton umiliato si rifiutò di sporgere denuncia, liquidandomi come una "troia psicopatica". La polizia mi tolse le manette e se ne andò. La folla si disperse. E non so perché, ma andai da Jack O'Malley e appoggiai la testa sulla sua spalla. Vedendo la mia mano rigonfia, disse al barista: "Si può avere una borsa del ghiaccio per la signora?". Mio fratello era un ragazzo che camminava per le colline di Tulkarem e beveva dalle sorgenti di Qalqiliya. Giocava a calcio con lo slancio della gioventù sulle pianure di Haifa e si nutriva dal petto di una stirpe antica nella terra dei suoi progenitori. Giocavamo a backgammon, lui e io. Il suo sorriso ha sciolto molti cuori mediterranei. A dire il vero, era il sorriso più bello che io abbia mai visto. Mio fratello è stato ripudiato, incarcerato, torturato, umiliato ed esiliato perché voleva vivere la sua vita ed ereditare il patrimonio lasciatogli dalla storia. Aveva dato il suo cuore a una sola donna, e il suo dolore per lei ha fatto tremare la terra e versato il sangue di quanti ci si trovavano. La fotografia che era uscita dalla tasca di O'Malley finì sugli schermi televisivi di tutto il paese e mio fratello Yussef diventò il simbolo di ogni bassezza e di ogni male nel mondo. Una volta, quando avevo quattro anni, Yussef mi fece il solletico fino a farmela fare addosso. Quando avevo sei anni, passò giorni e giorni a insegnarmi a fare i palloncini con le gomme da masticare. Con la stessa
pazienza, mi insegnò a fischiare. Nella dolcezza della mia adolescenza, io e lui percorrevamo insieme chilometri infiniti per andare ai mercati. Una fotografia ci ritrae mentre ci dividiamo un'arancia davanti alla Porta di Damasco, nella Città Vecchia, prima che Israele la conquistasse. Mangiavamo fichi, olive e pesche direttamente dagli alberi. Lo spiavo mentre guardava i giornaletti porno insieme agli amici nel nostro miserabile campo profughi. Leggevo le sue lettere d'amore per Fatima e ridevo alle sue spalle di tanto sentimentalismo, come farebbe qualsiasi sorellina impertinente. Mentre il suo volto implacabile guardava il mondo dagli schermi televisivi, trovai la fotografia che avevo scattato il giorno in cui Fatima aveva partorito nel campo profughi di Shiatila, ora un campo di battaglia dimenticato e disseminato di fosse comuni. Le linee attorno agli occhi di Yussef erano fatte di amore. Il suo sorriso aperto gli arrivava fino alla punta dei baffi, quel retaggio dell'affetto di Jeddo Yehya che mio fratello si era lisciato e curato ogni giorno nello stesso stile di suo nonno. Yussef aveva un'aria sciocca in quella foto. Immortalato con un sorriso a mille denti, sorreggeva una piccolissima Falastin su un braccio mentre Fatima, l'amore della sua vita, gli si appoggiava con dolcezza all'altra spalla. Trentasei YUSSEF, IL VENDICATORE 1983 Vedo il suo volto in tutto quello che faccio. In tutto quello che tocco. La sua logora dishdashe azzurra. Gliene compro molte altre, ma lei preferisce quella azzurra. La vedo che se la sfila così tante volte. Tante volte, sono io a spogliarla. E la vedo che l'indossa di nuovo di mattina. Non sa nemmeno che la guardo. La mia bellissima moglie. La madre della mia Falastin e di un altro frutto della mia carne e del mio sangue, di cui non saprò mai il nome. Si abbassa la dishdashe dall'alto per allattare nostra figlia e io gliela alzo dal fondo per baciarle le gambe. "Gli americani hanno firmato le carte" mi ricorda. "Siamo in salvo. Gli ebrei non rischieranno di far passare per bugiardi i loro unici sostenitori." Le bacio la coscia e guardo il nostro secondo figlio che cresce dentro di lei. Potrei dirle che la amo, ma queste parole incaute e abusate svilirebbero l'immensità di
quello che sento. Fatima è l'aria che respiro. E la ragione di tutte le promesse. L'incarnazione della tenerezza. È l'amore. Mi tiene stretto a lungo quando mi chiamano per partire. "Non importa quanto ci vorrà per essere di nuovo insieme. Aspetterò. Ti aspetterò fino alla fine del tempo" dice, gli occhi castani colmi di lacrime. "Papà." Falastin mi bacia. Vedo Fatima ferma sulla soglia, che mi saluta con una mano. Falastin si aggrappa alla dishdashe azzurra di sua madre. Mi allontano. In una fotografia, quella dishdashe è strappata e macchiata di sangue. Dio, ti prego, fammi entrare in quella fotografia! Almeno per seppellirla con onore, insieme ai nostri bambini. Non rispondo più di me. Annego in un dolore che non puoi capire e una rabbia che non puoi immaginare mi pesa sul cuore. Sono un arabo. Nato da Dalia e Hassan. Mio nonno è Yehya Abulheja e mia nonna Bassima. Sono il marito di Fatima, padre di due figli. Adesso sono un uomo tormentato, posseduto dai loro cadaveri. Una bufera mi monta dentro. Non dormo e non posso vedere il sole. Una rabbia infernale mi gorgoglia nelle vene. Che continui a strisciare anche dopo che me ne sarò andato. Che vi faccia assaggiare la sua ferocia. Voglio vendetta, niente di più e niente di meno. E l'avrò. E non ci sarà pietà. Trentasette UNA DONNA BARRICATA 1983-1987 Il movimento costante di corpo e mente continuò a far vibrare debolmente la mia vita. Rientrai nel mondo del lavoro, inserendomi con discrezione nel saldo flusso della vita americana. Tornai a lavorare nell'industria farmaceutica, lasciando Sara alle cure di Elizabeth per la maggior parte del tempo. Passavo lunghe ore a eseguire con perizia tutto quello che la ditta mi chiedeva. Curiosamente, mi adattai con facilità ai dettagli del capitalismo. Non mi sentivo sotto pressione mentre gli altri arrancavano dietro alle scadenze. Nei miei occhi di ghiaccio c'era il disprezzo per la totale inutilità dei profitti, per la sfibrante ricerca di continui benefici materiali. Eseguivo il mio lavoro meticolosamente e con facilità.
Ero una donna di poche parole e senza amici. Ero Amy. Un nome svuotato di significato. Amai, con la vocale lunga o corta, privata della speranza. Solo un linguaggio pratico poteva superare il nodo che avevo in gola, creato per un amore che vagava alla cieca nella fuliggine di una storia mancata. E in fondo, quali parole possono riscattare un futuro derubato del suo tempo? La mia vita sapeva di cenere e vivevo nel perpetuo silenzio di una canzone senza voce. Nella mia amarezza e paura, mi sentivo sola come nella solitudine più nera. Piacevo a pochi colleghi. Scambiavano la mia freddezza per arroganza. Erano gli stessi che mi erano sembrati così dignitosi e sicuri di sé quando avevo messo piede per la prima volta in America, molti anni prima. Ora li giudicavo severamente, mentre alle mie spalle mi chiamavano "regina di ghiaccio" e "super stronza". Li ignoravo, ma gli invidiavo la beatitudine delle loro piccole paure, la loro sicura tranquillità. Affrontavo il mondo da dietro un sottile velo di disprezzo. Solo Sara era una minaccia alla mia durezza. Era la vita esuberante che si arrampicava amorevolmente sulla pietra del mio carattere. Il caldo tizzone che continuava ad ardere nel profondo. Dalle ombre di un cuore più spaventato dall'amore che dalla morte, guardavo il tempo allungarle le ossa e coprirle di una pelle bellissima quel corpo di giovane donna. Era il colore splendente nella grigia desolazione del mio mondo, il punto in cui tutto il mio amore, la mia storia e il mio dolore si incontravano e sbocciavano perfettamente, come un fiore cresciuto su un terreno sterile. E che Dio mi perdoni, più lei cresceva, più avevo paura di starle vicino, di toccarla. Paura di trasmetterle la mia nauseata freddezza e che il mio tocco ruvido rovinasse la sua dolce, incondizionata tenerezza. Così affrontai i doveri della maternità trattenendo quell'amore ardente dietro alle fredde mura della paura é di lunghe ore passate al lavoro. Fino a quando ebbe quattro anni, Sara continuò a cercarmi con le sue tenere richieste di affetto. Mi saliva in grembo, avvinghiandosi a me in cerca di una storia o di una canzone, finché le mie mascelle serrate non cedevano. Il suo profumo penetrava in me attraverso la pelle e ravvivava le braci della maternità. Alla fine della storia o della canzone, mi sentivo esausta a forza di frenare un cuore che avrebbe voluto solo circondare d'affetto quella creatura perfetta, nata dal mio stesso corpo. Lo sognavo, immaginandomi di prenderla tra le braccia, gioiosamente.
Di farle il solletico come Elizabeth, per il piacere confortante del suo scoppio di risa. M'immaginavo i baci infiniti che avrei voluto imprimere nei suoi ricordi. Ma non feci nulla di tutto questo, e alla fine Sara smise di cercarmi, costruendosi a sua volta delle barriere per escludermi. Così, vivevamo nascoste dietro alle rispettive barricate, ciascuna sognando l'amore dell'altra. Ero già stata distrutta dalla perdita di tutti quelli che avevo amato e non avrei permesso che il volgare alito del mio destino rovinasse la sua vita promettente. Potrei spiegarlo, ma romperebbe / la copertura di vetro sul tuo cuore, / e sarebbe irreparabile. Così, con un dolore cronico, guardavo la sua mente e il suo corpo schiudersi giorno dopo giorno in una bellezza intoccabile. Fui una madre migliore durante i primissimi anni di mia figlia e, ripensandoci, credo che c'entrasse la nostra casa. Quando Sara era ancora piccola, acquistai una decrepita casa vittoriana nella periferia nord di Filadelfia. La ristrutturai, da sola, in tre anni, riempiendo ogni potenziale attimo di inattività col lavoro e il movimento. C'era qualcosa di rassicurante, o forse semplicemente di soporifero, nelle monotone pennellate che passavo sulle pareti o nei gesti ripetitivi del carteggiare i pavimenti di legno. Rimossi i depositi dell'incuria da porte e ringhiere, scoprendo lo splendore della venatura grezza della quercia e l'amore che vi aveva dedicato qualche esperto falegname ormai morto da tempo. Tolsi lo sporco dalle fessure, svelando i raffinati dettagli della fantasia architettonica altrui. Pulii e lavai e strofinai. Misi nuove piastrelle e lucidai vecchi pavimenti. Appesi tende nuove e sostituii vetri rotti, aggiunsi luci e riportai in vita quattro camini. Nella foga della ristrutturazione, rimossi inconsapevolmente anche le incrostazioni del lutto, cancellando la paura da una piccola porzione del mio cuore. Fu là che tenni Sara, la mia bambina, cullandola al petto e leggendo per lei all'alba come aveva fatto mio padre nei lontani giorni dell'amore. Ogni mattina mi sedevo su una sedia a dondolo che avevo recuperato dalla spazzatura e leggevo davanti alla portafinestra affacciata a est, mentre il sole si faceva strada nel cielo arancione e sorgeva dietro all'acero centenario nel nostro giardino sul retro. Non sono sicura che Sara si sia mai resa conto di tutte le albe in cui la portavo fuori dal letto,
ancora profondamente addormentata, perché, dopo aver letto per lei e finito il caffè, la riaffidavo al tepore delle sue lenzuola e andavo al lavoro, lasciando a Elizabeth il suo risveglio. Ricordo chiaramente l'ultima volta che lessi per lei all'alba. Aveva tre anni e mezzo e la tenevo in grembo avvolta in una coperta. Allungai una mano verso una pila di libri e, senza guardare, presi Il profeta di Khalil Gibran. Sempre a caso, aprii il libro sul brano che io e Majid avevamo letto la sera che avevamo scoperto di aspettare un figlio. I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie del desiderio della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi ma non da voi e, anche se sono con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dare loro il vostro amore ma non i vostri pensieri, poiché hanno pensieri loro. Volete dare alloggio ai loro corpi ma non alle loro anime, perché le loro anime abitano la casa del futuro, che voi non potete visitare, nemmeno in sogno. Potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Perché la vita non torna indietro e non indugia sul passato. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono lanciati come frecce viventi. L'arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e vi tende con la sua potenza affinché le sue frecce vadano veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia dalla mano dell'arciere; perché come ama la freccia che vola, così ama pure l'arco che è saldo. Al sorgere del sole, mentre leggevo quelle parole alla mia bambina addormentata, sentii la voce di suo padre nella mia e le sue dita che mi accarezzavano i capelli la sera che avevamo letto Gibran insieme. Si chinò su di me e mi baciò le labbra - apparizioni di una storia d'amore estinta. Era ancora con me, correva sotto la mia superficie come un fiume incantato dal quale non avrei più bevuto, nel quale non avrei più nuotato. Majid è il sogno che non mi ha mai abbandonato. La terra che mi hanno strappato. La patria che vedo, ma che resta irraggiungibile. Quel momento mi colmò di nostalgia e venni sopraffatta dal desiderio di riportare il tempo ai giorni dell'abbondanza. Tenni il fiato sospeso e serrai le mascelle per non ricordare l'amore, per non volerlo di nuovo. Posai Sara nel suo letto con attenzione e indossai il rigore di Amy e un elegante abito nero prima di uscire per andare al lavoro.
Trentotto QUA, LÀ E OLTRE 1987-1994 Poco tempo dopo, una sommossa sorse dalla terra nelle mani dei palestinesi, e le pietre che lanciarono ruppero la gloria morbosa della vittoria imperiale. Era un'intifada, una combustione spontanea dopo vent'anni di occupazione israeliana. Era lo scrollarsi di dosso di un'oppressione e contagiò i cuori di tutti i palestinesi. Scesero in strada scagliando pietre e bastoni. Israele rispose rompendogli le ossa con "forza, determinazione e pestaggi," secondo l'ordine di Yitzhak Rabin, Primo ministro israeliano. Qui, in America, Amai leggeva The Rise and Fall of Palestine, di Norman Finkelstein. "La stampa israeliana e le organizzazioni per i diritti umani riportavano dati di carne e sangue. Il numero del primo aprile 1988 di 'Hotam' riferiva il caso di un ragazzino di dieci anni pestato con tanta furia durante un interrogatorio dell'esercito, da essere ridotto 'come una bistecca'. I soldati rimasero 'impassibili' anche quando vennero a sapere che il ragazzo era sordo, muto e mentalmente ritardato. Il numero del 13 luglio 1988 di 'Koteret Rashit' riferiva la 'scomparsa di 25 bambini' e le minacce di carcere rivolte ai loro genitori per aver 'infastidito' l'esercito chiedendo dove fossero i loro figli. Il numero del 19 agosto 1988 di 'Hadashot' mostrava tre fotografie di un bambino di sei anni bendato dentro a una jeep militare. La didascalia spiegava che molti bambini della sua età erano tenuti in detenzione finché non venivano pagati dei 'riscatti' di diverse centinaia di dollari e che, mentre venivano portati via, i bambini spesso se la facevano addosso 'per la paura.' Sotto il titolo Omicidio premeditato, il bollettino della Lega israeliana per i diritti umani e civili rendeva noto che l'esercito israeliano (a quanto pare dei tiratori scelti delle 'unità speciali') aveva preso come bersaglio un 'crescente' numero di bambini palestinesi con ruoli di comando. 'Attentamente scelta,' la vittima veniva solitamente colpita alla testa o al cuore e moriva quasi all'istante. Il dottor Haim Gordon dell'Associazione israeliana per i diritti umani citava il caso di un bambino di otto anni torturato dai soldati dopo essersi rifiutato di rivelare chi tra i suoi amici aveva lanciato delle pietre. Spogliato nudo, appeso per le gambe e brutalmente picchiato, il bambino fu poi spinto giù da un tetto prima di essere rilasciato (come riferiva il bollettino del
gennaio 1990 della Lega israeliana). Il numero del 15 gennaio 1990 di 'Hadashot' riportava il caso di un tredicenne rinchiuso in carcere dopo che gli erano state rotte le dita e che fu poi lasciato senza trattamento medico né cibo perché suo padre non era in grado di pagare il riscatto di 750 dollari. Il numero del 26 gennaio 1990 di 'Davar' riferiva di una sedicenne pestata a colpi di manganello da un poliziotto ('cercò anche di infilarmi il manganello in mezzo alle gambe') e poi picchiata in carcere per essersi rifiutata di firmare una confessione. Il numero del 29 giugno 1990 di 'Hotam' riportava il caso di un detenuto di tredici anni che, rifiutandosi di fornire prove incriminanti contro suo fratello, si ritrovò con la faccia 'spaccata', 'lividi su tutto il corpo', non ricevette né cibo né acqua per ore e fu costretto a 'orinare e defecare nelle mutande'. In un servizio sull'orribile destino di alcuni palestinesi di appena quattordici anni arrestati per 'sospetto lancio di pietre', il numero del 22 febbraio 1992 di 'Hadashot' citava le parole di una fonte interna al centro di detenzione di Hebron: 'Quello che è successo là dentro... è stato un vero orrore: li tempestavano di manganellate, li colpivano sui genitali, legavano i prigionieri sul pavimento freddo e si mettevano a giocare a calcio - prendendoli letteralmente a calci e facendoli rotolare qua e là. Poi gli davano delle scosse elettriche con il generatore di un telefono da campo e li buttavano fuori, lasciandoli per ore al freddo e sotto la pioggia... Annientavano i prigionieri, li trasformavano in pezzi di carne'." Amai lesse queste descrizioni e non seppe mai che il bambino bendato di sei anni era Mansur, il figlio più piccolo dei suoi amici Huda e Osama. Mansur era stato un bambino esuberante e ingenuo. I suoi fratelli lo prendevano spesso in giro dandogli del mammone e lui, tra le braccia accoglienti di Huda, accettava quell'epiteto con una gioia sfrontata. Quando un reporter scattò quella foto, mentre singhiozzava bendato sul retro di una jeep militare, Mansur stava pregando che sua madre venisse a salvarlo e lei, Huda, stava impazzendo senza il suo piccolo. L'esercito lo trattenne per una settimana, il tempo necessario perché Huda e Osama raccogliessero i cinquecento dollari del riscatto e scoprissero dove si trovava Mansur. Nessuno seppe mai di preciso cosa accadde al piccolo Mansur durante quella settimana, ma quando fu finalmente restituito alla sua famiglia, non guardò nessuno negli occhi. E aveva perso la capacità di parlare.
Là, Huda e suo figlio si consolavano con il canto prima di dormire, lusingando la notte con la melodia perché concedesse loro dolci sogni. Nello stesso soggiorno, Osama, Amai - la primogenita - e i gemelli, Jamil e Jamal, ascoltavano, lasciando che il suono della voce di Huda cullasse anche loro nel sonno. Con quelle canzoni popolari palestinesi Huda fece addormentare dolcemente tutta la sua famiglia durante gli anni della prima intifada, e anche oltre. Oh, tu che passando mi salutasti con la mano Hai impresso i segreti dell'amore nel mio cuore Ho sentito la tua voce mentre parlavi Come un uccello che cantava su un ulivo Oh, uccello che voli alto nel cielo Di' "ciao" al tuo amato Il tuo nome, anima mia, resterà nella mia mente Scritto sulla fronte, in mezzo ai miei occhi. Anche se vivevano nell'umiliazione dell'esproprio e dell'occupazione militare, Huda cantava con la libertà inattaccabile che ha solo chi possiede una fede salda. Huda e Osama si amavano ancora con l'ardore della gioventù e la tenerezza di due gattini. La loro Amai era la principessa di suo padre e l'amica di sua madre. Avrebbe sposato un siriano e si sarebbe trasferita a Damasco insieme a lui. I gemelli, nati nel 1978, erano forti, testardi, inseparabili e protettivi nei confronti l'uno dell'altro e della propria famiglia. All'altro capo del mondo, Amai cullava la sua angoscia come avrebbe dovuto fare con sua figlia. Viveva in una prigione che si era costruita con le sue stesse mani, una galera di ghiaccio per isolarsi dal mondo. Digrignava i denti per gran parte del tempo, trattenendo il respiro mentre si muoveva in una nube di silenzio. Si aggirava lungo le trincee di quel silenzio, di quella paura. Si smarrì, perse una parte fondamentale di sé, ma non sapeva cosa fosse né dove o come recuperarla. Dopo un periodo in cui non volle sapere nulla della Palestina, si trovò a leggere tutto il possibile sulla sua patria e la sua gente, ma non prese mai carta e penna per scrivere una lettera a Huda né a nessun altro. Leggeva come se ogni libro fosse la tessera di un inafferrabile puzzle che doveva completare. Leggeva per ricordare. Ma, soprattutto, leggeva per punirsi con il bruciante senso di colpa per essere stata risparmiata. E Huda cantava. E pregava. "Vi supplico, non tirate pietre, yumma" implorava Jamal e Jamil, i suoi gemelli di dieci anni. "Non spezzatemi il cuore. Non spezzate il cuore di vostro padre mentre è là rinchiuso nelle loro carceri. L'hanno preso
così. Non voglio che prendano anche voi." Ma loro continuavano comunque a tirare pietre contro i carri armati israeliani, perché i ragazzi sono fatti così e i giovani non rispetteranno mai il fragile soffio che li tiene in vita. Non lo facevano in nome della libertà, che era un concetto troppo vago. Lo facevano perché incitati dai compagni, perché è nella natura dei ragazzini sentirsi attratti dalle avventure e dalle imprese degli adulti. Tiravano pietre sotto l'egida di astratte idee politiche, che non capivano, e perché si annoiavano dopo che Israele aveva chiuso le scuole. I loro cuori palpitavano di eccitazione, del brivido nello schivare per un soffio il morso di una morte che li rincorreva così da vicino. Come veri cowboy o indiani. Alcuni dei loro amici erano già stati colpiti dai proiettili israeliani. La posta in gioco era alta e trasformava la salvezza miracolosa di ogni giorno in un'euforia quasi orgasmica. Tutto questo continuò per due anni durante l'intifada, e finì quando Jamal rimase ucciso all'età di dodici anni. Jamil vide il proprio gemello scivolare via dalla vita mentre gli altri bambini correvano a nascondersi. Rimase stupito dalla mancanza di drammaticità della morte. Dalla sua banalità. Dalla sua silenziosa autorità. Jamal chiuse i suoi giovani occhi, senza espressione, come se si stesse semplicemente addormentando. E non li riaprì mai più. Per Jamil, la perdita del fratello segnò un punto di svolta. Lo compresse in un carattere che escluse ogni tenerezza, pietrificandogli il cuore e spillando rancore. La rabbia gli colmò la vista. Gli rivestì i pensieri. Congedò le risate, e anche il desiderio, dalla sua adolescenza. Huda cantava ancora di sera, sfumando le melodie in un sussurro mentre controllava i membri rimasti della famiglia: i suoi bambini, Amai, Mansur e Jamil. Quando era sicura che si fossero addormentati, pregava per un'altra rak'a, un bonus per la giornata con cui invocava il favore di Dio affinché proteggesse i suoi figli e donasse loro forza, grazia e saggezza. Era durante quelle ore che Huda pensava ad Amai, chiedendosi cosa fosse successo all'amica perduta. Amai passava attraverso il tempo negli Stati Uniti. Ogni giorno era come il precedente, e tutti erano forzati e irreali. Vagava lungo le strette giunture tra follia e depressione, amore e rabbia. La sua vita era immobile in una stanza di paura, con pareti sussurranti che ridevano con le illusioni di Dalia. Che bruciavano della rabbia di Yussef. O è la
mia rabbia? Che gridavano per il dolore di Yussef e tremavano per il proprio. Pareti oltre le quali non osava guardare e al cui interno turbinavano voci rabbiose e angosciate. Si disprezzava, svuotava il proprio mondo più che poteva e rivestiva quel vuoto di paura, vigilando contro ogni dolore, rabbia o amore che potevano penetrare nella sua fortezza e riempirne il vuoto. Evitava sua figlia, cercando di soffocare quell'amore bruciante, quella tenerezza danzante e colma di fulgide promesse. Quella voce dolce che la chiamava: "Mamma, mi leggi qualcosa come quand'ero piccola?". La toccante fantasia dell'infanzia: "Mamma, è vero. L'ho sentito al telegiornale. La fatina dei denti ha alzato i prezzi". Amai assimilava tutto, incapace di resistere a quella dolce indulgenza. Ma raramente ricambiava. Non per egoismo, ma per paura che la fuliggine della sua vita contaminasse la purezza della sua bambina. Era quindi per un perverso altruismo che rifiutava sua figlia, e se stessa - la rapsodia di quell'amore magnifico che sentiva nel profondo. Solo di notte, quando Sara dormiva, si concedeva una boccata d'amore. Nascosta dall'oscurità, la prendeva tra le braccia, respirando la dolce fragranza dell'amore materno finché il mondo non le sembrava di nuovo sopportabile. Potrei spiegarlo, ma romperebbe / la copertura di vetro sul tuo cuore, / e sarebbe irreparabile. Quando Amai pensava alla Palestina, pensava a Huda. Pensava a suo zio Darwish, a zia Bahiya, a Hajj Salim, ai suoi cugini e a Jack O'Malley. E spesso pensava a quell'altra possibilità, Isma'il, il fratello che Yussef aveva giurato di aver visto ancora in vita. Un ebreo chiamato David. I pensieri di David andavano sempre più spesso ad Amai, tutto quel che restava della sua famiglia fantasma. Era stato Moshe a dirglielo, la confessione di un uomo in punto di morte. Venire a sapere così tardi la verità sulle proprie origini l'aveva spinto a dubitare di ogni pensiero, di ogni amore, di ogni convinzione che avevano fatto di lui quel che era. La verità che concesse a Moshe di riposare in pace fu la rovina di David. Sapere che la propria esistenza era il frutto di un amore arabo, che il suo primo respiro l'aveva atteso nel grembo di una donna araba, che il suo primo latte era venuto dal suo seno, e che i primi ad amarlo erano stati degli arabi. Questa consapevolezza gettò David in un abisso profondo che divideva verità e menzogna, arabi e israeliani, musulmani ed ebrei.
"La prima volta che ti ho visto eri avvolto in una coperta bianca, sul petto di tua madre" aveva rammentato Moshe. "La donna araba quel giorno ci serviva da mangiare e incrociai il suo sguardo, brevemente, prima che guardasse altrove. Mi odiava. Ci odiava tutti. All'improvviso, eravamo i padroni della sua terra, i padroni del destino della sua famiglia, e lo sapevamo entrambi. " "Com'era fatta?" gli aveva chiesto David. "Era bellissima. Allora non me ne resi conto perché disprezzavo gli arabi. Ma non ho mai potuto dimenticare quello sguardo quando i nostri occhi si sono incontrati. Il suo viso mi ha tormentato per tutta la vita, figliolo. " La confessione di Moshe aveva spinto David a chiedersi se non avesse ucciso i propri parenti durante le guerre che aveva combattuto per Israele. La verità invase i suoi giorni e travolse la profonda diffidenza, l'odio, che nutriva per gli arabi. Le due verità di un uomo, ciascuna vera quanto l'altra, ciascuna opposta all'altra, eternamente in lotta con l'altra per il possesso dell'anima di David. La confessione lo sconvolse nel profondo, scardinando le sue convinzioni più salde. La verità pretese un altro dazio quando ne parlò con sua moglie. Il richiamo delle sue radici, e il bisogno assillante di sapere di più, cambiarono David. Sua moglie non potè sopportare quel segreto. Che suo marito non fosse un vero ebreo non si confaceva alla sua educazione né al senso del decoro della sua famiglia. Alla fine divorziarono, spaccando la famiglia in due con una mannaia ideologica: il figlio maggiore, Uri, un fervente sionista, non ne volle più sapere del padre e si schierò interamente dalla parte della madre, mentre Jacob chiese di andare a vivere insieme a lui. Non era incline alla demagogia o al conflitto e trovava il segreto di David accettabile, quasi interessante. Jolanta diede la sua benedizione a David perché facesse quello che gli dettava il cuore. Che fosse ebreo o gentile, Jolanta amava quel ragazzo. Dio solo sa quanto. Quell'amore l'aveva salvata una volta. Jolanta aveva fatto ciò che né a Dalia né ad Amai era riuscito: aveva trasformato la forza del proprio dolore in manifestazioni d'amore, e David ne era l'unico beneficiario. Jolanta, rosa dal rimorso, era pronta ad aiutare David a cercare la sua famiglia d'origine. Aveva sempre trovato delle scuse piene di sensi di colpa, ma la verità era sempre tornata, sfidandola ad affrontarla. Adesso
poteva e voleva sistemare le cose. Abbracciare la donna che aveva messo al mondo il suo David e trovare una riconciliazione nella verità. Perché se la vita le aveva insegnato qualcosa, era che la riconciliazione e la pace possono cominciare solo con l'ammissione dei torti commessi. Solo allora Jolanta capì con certezza che, a conti fatti, David era davvero suo figlio. La verità la liberò, e Jolanta trovò l'irresistibile sentiero della pace, dove la religione e la storia s'inchinavano davanti alla solidarietà di due madri per sempre unite dall'amore per lo stesso ragazzo. "Voglio conoscerla anch'io. Lascia che ti aiuti a cercare la tua famiglia palestinese" chiese a suo figlio, gli occhi lucidi di rimorso, rassegnazione e libertà. Ovviamente, a quell'epoca Dalia era ormai morta. Yussef aveva abbandonato l'Olp e Amai viveva in Pennsylvania. David e Jolanta cercarono insieme, ma non era rimasto più nessuno da trovare. Ma David continuò tenacemente, facendo telefonate che lo portarono da Huda all'orfanotrofio, dalle sorelle colombiane a Muna Jalayta e così via, finché non riuscì a localizzare Amai Abulheja in un sobborgo di Filadelfia. Amai sapeva della possibilità dell'esistenza di David. Yussef era sicuro che quel soldato ebreo fosse Isma'il, e Amai si chiedeva a volte se si sarebbero mai incontrati. Due decenni dopo, quando David finalmente la contattò, le sembrò di aver aspettato la sua chiamata per tutti quegli anni. Trentanove LA TELEFONATA DI DAVID 2001 Amai stava preparando un'insalata. Tagliava le verdure e di tanto in tanto lanciava un'occhiata all'orologio sulla parete mentre aspettava che sua figlia arrivasse per cena. Sara aveva ancora qualche giorno libero prima di tornare al college dopo le vacanze di Natale e quella sarebbe stata la loro prima sera insieme da quando era tornata. Aveva avuto molto da fare per la sezione locale di Amnesty International e per un gruppo di attivisti chiamato Studenti per la giustizia in Palestina, oltre ad aver rivisto i vecchi amici. Ma in cuor suo, Amai conosceva la dura verità: sua figlia voleva evitare la calma e silenziosa compagnia della sua rigida madre, anche se era stata via quasi cinque mesi all'università.
Quella sera, però, era tutta per loro e Amai si chiese se sua figlia fosse agitata, impaurita o se magari non provasse la stessa felicità che riempiva il suo cuore mentre preparava quella cena per due. Aveva cucinato il piatto preferito di Sara, la maklube, la pietanza palestinese che ogni volta le ricordava Yussef. Mise da parte quel pensiero e si meravigliò invece di come il richiamo della Palestina si fosse radicato in quella figlia americana. Poi, squillò il telefono. Amai posò il coltello sul tagliere, si pulì le mani e guardò l'orologio. Erano le sei di sera. Alzò il ricevitore, sicura che fosse Sara che l'avvisava che stava arrivando. "Ciao, Sara" disse, ma il silenzio dall'altra parte le fece capire subito che non era sua figlia. "Pronto?" aggiunse. "Pronto. Amai?" rispose una voce maschile in un inglese fortemente accentato. "Sì. Chi parla?" "Sono David Avaram" disse la voce. Non riconobbe il nome. Ma dal cognome, capì che l'uomo era israeliano. "La conosco?" chiese. "No... cioè, sì. Be', no, non mi conosci ma..." Stava per riagganciare, infastidita dall'interruzione, dato che Sara sarebbe arrivata da un momento all'altro. "Aspetta, ti prego, non mettere giù" disse lui, forse intuendo che Amai voleva chiudere la conversazione. "Mi sa che non ero così pronto come credevo per questa telefonata. " Un ricordo da un passato sepolto affiorò all'improvviso nella mente di Amai. È un yahudi che chiamano David. Possibile? Cominciarono a tremarle le mani e per poco non le cadde il telefono. "Credo che tu mi conosca come Isma'il" disse, ma Amai non riuscì a formare nessuna parola, travolta da un passato che infuriava nella sua mente. "Scusa se chiamo così. È solo che... Ti ho cercata così tanto... adesso, cioè, voglio..." farfugliò, cercando le frasi che aveva provato per giorni prima di decidersi a fare quella telefonata. Amai non riusciva ancora a formare le parole. "Non è giusto nei tuoi confronti. Forse è stato un errore chiamare così. Mi dispiace, Amai. Ora chiudo" disse, e Amai fu presa dal panico. "No!" disse più forte di quanto avrebbe voluto. "Non chiudere." "Grazie" disse lui. "So che è uno shock, ma sarò negli Stati Uniti tra
due giorni e mi chiedevo se..." Amai sentì il motore fragoroso del Maggiolino del 1970 di Sara che entrava nel vialetto e si ritrovò a organizzare velocemente un incontro con quel fratello smarrito da tempo, come se stesse organizzando un pranzo con un vicino di casa. Rimasero entrambi colpiti dalla goffa praticità di quegli ultimi istanti al telefono. Informazioni su volo, data, ora, l'indirizzo di lei, il numero di cellulare di David. "Grazie, Amai. A presto." "A presto" rispose lei, senza sapere bene come chiamarlo. Tenne il telefono vicino all'orecchio, ascoltò il segnale di fine chiamata, sentì la porta d'ingresso che si apriva e vide l'esile figura di Sara che entrava, sorridendo per qualcosa che stava leggendo sul telefonino. "Mamma, scusa il ritardo ! " gridò Sara verso la cucina, fermandosi sulla soglia a mandare un sms. Guardò in salotto quando sentì cadere il telefono e, vedendo Amai, mise via il cellulare. "Mamma, stai bene? Sei pallidissima." Si precipitò dentro. Quando fu abbastanza vicina per vedere le lacrime sul suo volto, si rese conto che non ricordava di aver mai visto piangere sua madre. "Mamma. Cosa c'è?" Amai guardò sua figlia, sorrise con enorme amore e la prese per mano, facendola delicatamente sedere. "Devo dirti una cosa" disse. Anche se Sara fu sorpresa di sapere di David e ferita che sua madre gliel'avesse tenuto nascosto per così tanti anni, era soprattutto incuriosita. Fu contenta di saperlo, anche se in ritardo. Di sapere qualcosa della sua famiglia. Di essere ammessa, in qualche modo, ai misteri di sua madre. Soprattutto, si sentiva insolitamente vicina ad Amai, quella donna dalla volontà di ferro che all'improvviso si mostrava vulnerabile, quasi fragile. "Ho uno zio israeliano che non hai mai conosciuto nemmeno tu. Verrà qua. Wow. E lo scopro solo ora, a quasi diciannove anni" disse Sara in modo non accusatorio. "Mi dispiace, Sara. Credevo che sarei riuscita a lasciarmi il passato alle spalle. Sapevo, o almeno sospettavo, che era vivo. Quando ero giovane avevo sentito Yussef parlare di Isma'il e di un uomo chiamato David. Ma non ho mai pensato di chiedere qualcosa o di mettermi a cercarlo." "Anche zio Yussef lo sapeva? Magari lo stava cercando prima di morire in quell'incidente d'auto." L'incidente d'auto. Come aveva mentito a sua figlia. Dio, potrà perdonarmi se le dico tutto quello che le ho nascosto?
"Mamma? Tutto bene? Ci sei?" "Habibti. Ci sono così tante cose che ti devo dire." Ma Sara sentì solo la parola habibti. Da quanto tempo sua madre non la chiamava così? "Quando Yussef ha visto Isma'il, era un prigioniero sotto tortura" disse Amai. "Isma'il l'ha torturato?" chiese Sara. "Non lo so. E credo che dovremmo chiamarlo David." Il pensiero che Isma'il avesse torturato Yussef era più difficile da sopportare che non se l'avesse fatto David. "Poi c'è stato un altro episodio, quando Yussef è stato pestato a un posto di blocco poco prima di lasciarmi a Jenin. Credo che sia stato David a picchiarlo." Sara rimase in silenzio un momento, cercando di elaborare le parole di sua madre. Isma'il era David e David ha picchiato e forse torturato Yussef. E a un certo punto, Yussef ha lasciato mia madre a Jenin. Con chi l'ha lasciata? Era sola? "Mamma, non conosciamo quest'uomo. Se ha fatto del male a zio Yussef, chissà di cosa è capace." Amai si girò verso sua figlia, le mise una mano sulla testa e le accarezzò i capelli. "Devo incontrarlo, habibti. Non posso non farlo." Quaranta IO E DAVID 2001 Avevo un'ora per pulire la casa prima che arrivasse David. Dopo averne discusso un po', Sara decise che non voleva farsi trovare al suo arrivo. "Credo che voi due dobbiate stare un po' soli la prima volta che vi incontrate" disse. "Allora adesso ti sei convinta che non mi rapirà e torturerà?" scherzai. "Non del tutto. È per questo che ho detto al nostro vicino più impiccione che questa sera hai un incontro piccante" disse, facendomi l'occhiolino. "Così posso stare sicura che qualcuno ti terrà d'occhio dalla finestra." Sorrisi, assaporando qualcosa di nuovo e prezioso tra noi. "Però voglio conoscerlo. Sarò a casa verso le cinque" disse, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle. Qualche attimo dopo, mentre mi accingevo a fare le pulizie, Sara tornò dentro precipitosamente. "Mamma, per piacere, puoi darmi un passaggio?" Il Maggiolino non partiva. Al mio ritorno David era già lì. Era arrivato in anticipo. La casa era ancora in disordine. Il cuore mi palpitava nel petto e sentii un sospiro
sfuggirmi dalla bocca prima di scendere dalla macchina nel freddo dell'inverno. David era in piedi accanto a Piccolo acero, l'albero che avevo piantato nel nostro giardino anteriore circa diciotto anni prima per far compagnia a Vecchio acero, il bel gigante che c'era sul retro. Ci fissammo per un attimo prima che mi avvicinassi a lui, entrambi insicuri e a disagio. Sembrava più vecchio di quel che avevo pensato. Somigliava a Yussef. "Ciao, Amai." "Ciao... David." Non era più Isma'il da cinquantatré anni. Una volta dentro, misi via l'aspirapolvere e mi scusai per il disordine, come facevo sempre con gli ospiti anche quando avevo passato ore a pulire la casa. Abbozzò un sorriso. "Non preoccuparti. Non ho molto tempo. Tra poche ore verrà a prendermi un taxi." "Non avevo capito che saresti partito così presto" dissi, detestandomi per quel tono noncurante ma non sapendo bene come comportarmi o cosa dire. Ci perdemmo in una conversazione futile e imbarazzata, per colmare quelli che sembravano dei vuoti e delle aspettative crescenti. Il suo volo era andato bene, tranne che per il russare del vicino di posto. Era stato "un po' sgradevole", ma per il resto le mie indicazioni erano state molto utili. "Bene." Disse che era già stato a New York per lavoro, ma era la prima volta che veniva a Filadelfia. Quello che aveva visto finora non gli era dispiaciuto. Gli chiesi cosa faceva nella vita. "Sono ingegnere. Niente di interessante." Dove lavoravo io? "Per una casa farmaceutica. Niente di interessante." Avevamo entrambi dei figli. Davvero? "Una figlia, Sara." Lui aveva due maschi, Uri e Jacob. Era divorziato. "Mi dispiace." Continuò: "E tu?". E io? "Un'altra volta. Ti piace Filadelfia?" Al diavolo, gliel'ho già chiesto. Si passò lentamente una mano sui capelli come per togliersi la maschera d'indifferenza che indossavamo entrambi. Questa specie di scambio superficiale non era ciò che si era aspettato. Nemmeno io. Guardandosi attorno, gli occhi di David si fermarono su un disegno dei fondatori di 'Ain Hod, che si erano stabiliti in quella regione durante l'Impero bizantino. La leggenda voleva che il Saladino, Salah aiDin alAyyub in persona, avesse donato la terra a uno dei suoi generali come ricompensa per il valore dimostrato in battaglia. Quel generale era un mio antenato. Aveva sposato tre donne e messo al mondo la maggior parte del villaggio.
"Quella è la nostra bisnonna" dissi, indicando la fotografia color seppia di una ragazza che sorrideva timidamente, con una thobe ricamata e un foulard bianco che le incorniciava delicatamente il volto bellissimo. "Si chiamava Salma Abulheja. La sua bellezza era leggendaria a 'Ain Hod, tanto che spesso le bambine del villaggio venivano chiamate come lei." Guardò in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e cioè che la loro storia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei palestinesi. Quegli uomini arrivati dall'Europa non conoscevano né l'hummus né i falafel, ma li proclamarono "piatti tradizionali ebraici". Rivendicarono le ville di Qatamon come "antiche dimore ebraiche". Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi che vivevano su quella terra, amandola e coltivandola. Arrivarono da nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come se fossero "antichi manufatti ebraici". Vennero a Giaffa e trovarono arance grosse come angurie, e dissero: "Guardate! Gli ebrei sono famosi per le loro arance". Ma quelle arance erano il risultato di secoli e secoli durante i quali i contadini palestinesi avevano perfezionato l'arte di coltivare gli agrumi. David raddrizzò le spalle e si schiarì la gola. Sapeva che la storia improvvisata del moderno Israele in realtà non era la sua. Nel sangue gli scorreva un'eredità antica, eppure per qualche motivo nemmeno quella gli apparteneva. Il destino l'aveva messo nel mezzo, lontano da entrambe. "Posso offrirti qualcosa da bere?" proposi. "Ti piace il qahweh?" "Ah... il caffè arabo. Sì, volentieri." Grata di avere qualcosa da fare, mi precipitai in cucina. Una volta là, misi delicatamente le mani sul bancone e vi appoggiai lentamente il mio peso. Le mascelle serrate. Isma'il, il neonato indifeso che si era perso e ci aveva ossessionati per anni, è qua, ed è adulto. Era da un po' che non preparavo il qahweh. Dove sono quelle tazzine d'argento? Trovai quello che mi serviva. Cosa starà facendo? Rimasi là a guardare il qahweh schiumeggiante, mescolando finché non raggiunse la densità giusta. È stata Dalia a insegnarmi a prepararlo. Versai un po' della schiuma marrone chiaro nelle tradizionali tazzine d'argento, poi le riempii con il caffè nero che stava sul fondo. "Ecco." Gli portai il qahweh vicino al camino, dov'era in piedi a guardare la fotografia che avevo scattato a Shatila nel 1981. Nell'inquadratura, Yussef sta sorridendo. Gli si vedono i denti. Il
sorriso timido di Fatima tradisce un amore profondo. E Falastin è in fasce, accoccolata nel braccio di suo padre. David si girò, gli occhi umidi. Un silenzio scese su di noi, come un pannello di vetro oltre il quale si vedevano turbinare quei cinquantatré anni perduti. Dalia ha dato a tutti i suoi figli occhi neri e grandi che possono colmarsi di una tristezza infinita. "Sono uguale a lui" disse David, rompendo quel silenzio di vetro. La cicatrice gli scendeva sinuosa lungo la guancia e attorno all'occhio. Me l'immaginai in fasce, la cicatrice in via di guarigione ma ancora rossa, stretto al petto di Dalia. "Tuo fratello ha fatto così quando mi ha visto la prima volta. Mi ha guardato la cicatrice" disse David. "Si chiamava Yussef" dissi sommessamente, sdegnosamente. "Gli hai fatto del male?" La mia domanda agitò gli spettri di una nazione, non placati dalla giustizia o dal ricordo, che mi sfarfallarono accanto in filmati in bianco e nero. Immagini di mio padre che mi teneva in grembo e leggeva poesie di Khalil Gibran con la sua voce profonda, gli scarponi dei soldati, la carriola, e il volto etereo della piccola 'Aisha; suor Marianne e tutte le orfane; le esplosioni e le grida, l'eterno dolore e i gemiti febbrili della gente annientata. Mi arresi ai ricordi di un passato oscuro, che mi riempì di una tristezza che avrei preferito fosse rabbia. David abbassò la testa, come se comprendesse le sofferenze dell'ingiustizia abituale, lo sfacelo cronico dell'esilio. "Sì" disse, con il mento tremante. Avrei voluto odiarlo, perché amavo Yussef. Ma sul volto malinconico di David potevo vedere le ombre degli occhi di mamma, il naso di papà e la sua stessa identità smarrita. "Amai, non hai qualcosa di più forte del qahweh? Qualcosa di alcolico?" "Ho della birra." "Va benissimo." Lo guardai bere. I suoi modi tradivano una profonda tristezza. Una tristezza incalzata da "qualcosa di più forte del qahweh". Aveva la mesta dignità di un uomo rassegnato a mangiare da solo a una tavola apparecchiata per cinque. Non era né miserabile, né forte, solo un uomo che quasi non conoscevo, con l'imprevedibile capacità di sbagliare, perdonare, amare, odiare. Mio fratello. Sprofondai nel divano e, appoggiando la schiena, notai il velo di polvere sul tavolino da caffè. E con una disperazione audace, provai il desiderio di rivedere Yussef, ancora una volta. Cosa farebbe se fosse qua insieme a me e Isma'il? Tre fratelli, emersi dalla culla di una
tragedia senza fine. Ciascuno separato dall'altro, ma continuamente inseguiti dai sussurri strappati dalla consapevolezza degli altri. David era mio fratello ed era un israeliano che aveva combattuto per Israele. La contraddizione poteva riconciliarsi solo nel suo rammarico. Ma quel che volevo sapere da lui avrebbe potuto cambiare ogni cosa. Premetti un palmo sulla mia cicatrice, sentii le pieghe ispessite, i solchi ruvidi e ripensai al sibilo del proiettile che mi aveva scavato l'addome. Avevo bisogno di scendere nel ventre dei miei ricordi per sentire quello che David aveva da dirmi. "Sei stato tu a torturarlo quando era in carcere?" chiese Amai. "No" rispose lui immediatamente, come sorpreso che avesse pensato una cosa simile. "Però sei stato tu a picchiarlo al posto di blocco di Barta a, vero?" "Sì". sussurrò. "Perché?" David abbassò gli occhi e cercò di spiegare l'urgenza del potere di imporsi per il solo fine dell'imposizione. L'elisir della forza incontrastata e il folle brivido dell'impunità. "Non c'è un senso o una logica. Avevo vent'anni e mi avevano dato un potere assoluto su altri esseri umani, Amai. Ero arrabbiato. In qualche modo, sapevo che Yussef era legato al segreto che custodivano i miei genitori. E nel profondo, temevo di poter essere anch'io un arabo. La rabbia e la sicurezza dell'impunità mi pulsavano nelle braccia mentre impugnavo il fucile." Guardò il bicchiere vuoto. "Posso averne un'altra?" Amai versò la birra, la guardò scorrere dentro al bicchiere e ripensò all'acqua che aveva versato per Yussef il giorno in cui era tornato insanguinato, sorretto dal suo amico Amin. "Ero una delle poche a sapere perché Yussef quel giorno si trovava al posto di blocco anziché al lavoro, come al solito" cominciò Amai. David alzò la testa. "Era una missione d'amore. Lo so perché ero io a portare le lettere di Yussef e Fatima avanti e indietro tra Jenin e Barta'a." La storia tra Yussef e Fatima durava già da diversi anni, molto più di un normale fidanzamento. L'infatuazione iniziale si era piegata al caldo tedio della determinazione di Yussef di diventare un uomo degno di Fatima. Rinviò il matrimonio fino a quando non sarebbe stato in grado di provvedere a lei in maniera adeguata. Quando finì gli studi ed ebbe messo da parte una piccola somma grazie al suo lavoro come insegnante, Yussef chiese a zio Darwish di prendere il posto di suo
padre nei venerabili riti del matrimonio. Il giorno in cui vide David al posto di blocco di Barta'a, Yussef era andato ad avvertire Fatima della delegazione che di lì a poco sarebbe venuta a chiedere la sua mano. "Huda mi accompagnava sempre a consegnare le lettere a casa di Fatima, e dividevamo il compenso. Yussef ci pagava due qirsh, un qirsh a testa per ogni consegna, e Fatima ci dava sempre caramelle e dolci fatti in casa" continuò Amai. La strada per Barta'a era un sentiero costeggiato da alti fichi d'India selvatici, gelsomini inebrianti e un arij di selvatico che si spandeva nell'aria. Fu durante uno di quei viaggi che Amai e Huda trovarono Warda, la bambola con un braccio solo alla quale avrebbero costruito una casa. Le due ragazzine sgambettavano lungo il sentiero, fermandosi a raccogliere frutta e datteri dalle piante, infilandosi fiori alla cintura e chiacchierando e bisticciando com'è tipico della loro età. A metà strada circa si fermavano a riposare sotto ai "gemelli", una coppia di cedri enormi, gli unici sopravvissuti di una famiglia di giovani alberi importati dal Libano trecento anni prima. Sotto ai "gemelli" o agli ulivi dietro alla casa di Warda, Amai tradiva la fiducia di suo fratello e di Fatima leggendo le loro lettere. Lei e Huda simulavano scene d'amore, così come se le immaginavano. Amai: Oh, Fatima, ti amo. Huda: Oh, Yussef, io ti amo di più. Amai: No, Fatima, io ti adoro. Ridevano di quelle romanticherie, finché le lettere non si fecero colme di un desiderio e un'intimità indecifrabili, che le due ragazzine non osavano scandagliare. Una volta, sature di curiosità, Amai e Huda provarono a mettere in scena il contenuto di una particolare lettera. Sbigottite dalla scena, si staccarono più velocemente di quanto non ci avessero messo a infilare la lingua l'una nella bocca dell'altra. '"Araf!" Amai e Huda si crogiolarono in un disgusto reciproco. "Che schifo!" Da quella volta smisero di leggere, convinte di essere state ingannate, che la lettera che avevano messo in scena fosse stata scritta per vendicarsi della loro curiosità. Così, Amai e Huda rivolsero la loro attenzione a questioni più urgenti, aggiungendo dettagli alla famosa casa di Warda e continuando a riscuotere i loro compensi per la consegna delle lettere.
Dopo aver portato a casa dal posto di blocco uno stremato e malconcio Yussef, Amin si era fermato insieme all'amico fino a sera tardi. Dalia era seduta là vicino, a vagare nei labirinti invisibili di una realtà decostruita e a ricamare insieme a Umm 'Abdallah sul balcone che si piegava sotto al loro peso e ombreggiava l'ingresso della casa. Anche se il loro mondo era stato limitato dai soldati, Amai e Huda avevano conservato le abitudini dell'infanzia: giocavano al gioco della campana nei vicoli, si abbandonavano a partite a carte di cui s'inventavano le regole durante i claustrofobici coprifuoco, e si esercitavano in quell'inimitabile capriola. Anche la loro inclinazione a curiosare era tornata e, il giorno in cui Yussef era disteso a riprendersi dopo il pestaggio al posto di blocco, Amai e Huda interruppero i loro giochi per spiare lui e Amin dalla finestra sul lato sud. Videro chiaramente il giornaletto porno nascosto dentro a un innocente libro rilegato tra le mani di Amin. Fingendosi disgustate, ciascuna perfettamente consapevole dell'interesse dell'altra, fecero a turno alla finestra con la scusa di controllare Yussef, che dormiva nello stupore della sofferenza. Huda tornò con gli occhi sbarrati dal suo turno alla finestra, annunciando gli ultimi sviluppi. "Tuo fratello è sveglio. Credo che stiano parlando di quell'orribile giornaletto." Ritornate alle postazioni di spionaggio, si sforzarono di udire la conversazione tra Yussef e Amin, ma riuscirono a decifrarne solo dei frammenti. Stavano parlando di "quel yahudi" e Amai sentì Yussef che diceva a un incredulo e costernato Amin: "E mio fratello Isma'il". Huda sentì ogni cosa e pianse quando Amai l'avvertì severamente di non rivelare il segreto di Yussef, anche se nessuna delle due sapeva bene quale fosse. Così le ragazzine se lo tennero per sé, non per un senso di lealtà ma più che altro perché non avrebbero saputo cosa ripetere. Isma'il era morto. Lo sapevano tutti! David ascoltò, desiderando di tornare indietro nel tempo. Si sarebbe comportato in maniera diversa. Avrebbe preso Yussef tra le braccia e l'avrebbe chiamato "fratello". Le cose sarebbero andate diversamente? Yussef avrebbe sposato Fatima e sarebbe rimasto in Palestina? ha storia avrebbe preso un'altra piega? Così tante domande. David indugiò su ciascuna di esse e offrì il suo dolore, grande quanto la sua vita, a sua sorella Amai. "E stato allora che hai saputo per la prima volta di me? Quando hai sentito parlare Yussef e Amin?" "Sì e no." Amai cercò di
spiegargli come, per lei, fosse vissuto sempre nella foschia dei ricordi degli altri. "Sono nata anni dopo la tua scomparsa. Per me non sei mai stato reale, anche dopo aver saputo della scoperta di Yussef. " David inspirò, inghiottendo parole che era troppo vulnerabile per pronunciare, e al loro posto mandò un sospiro. Poi, con una quieta intensità, chiese: "E adesso?". "Cosa, adesso?" "Sono ancora un'idea astratta?" No, pensò. Certo che no. Io e te siamo ciò che resta di un retaggio incompiuto, siamo gli eredi di un regno di identità rubate e di una confusione sfilacciata. Nella complicità della fratellanza, della solitudine e dello sradicamento, Amai amava David istintivamente, suo malgrado e malgrado ciò che lei aveva fatto o quello che era diventato. Voleva stringerlo tra le braccia e soffocare i rimorsi di coscienza che lo tormentavano. Voleva occupare un posto alla sua tavola e condividere la sua solitudine. Ma l'unica cosa che gli affiorò sulle labbra fu un arido: "Non lo so". Quarantuno IL DONO DI DAVID 2001 Il 20 gennaio 2001, un incredulo e affascinato David fissò la lettera che non avevo più aperto da quando Huda me l'aveva consegnata, trentatré anni prima, sul letto d'ospedale dove mi stavo rimettendo dal proiettile. Non l'avevo mai mostrata a nessuno. L'avevo tenuta nascosta anche nel 1983, quando gli agenti dell'Fbi e della Cia erano piombati nella mia vita in cerca d'informazioni. Non perché contenesse delle prove compromettenti, a parte l'umanità di mio fratello -ma semplicemente perché era mia. Ora la mostravo a mio fratello David, che la guardò come se fosse un documento storico, un reperto per studi accademici o giuridici, un pezzo per musei e collezionisti privati. Come lo sguardo impersonale di David si posò sulle mie reliquie di famiglia, per poco non rimisi la lettera dentro la scatola. Ma sulla parte anteriore di quel foglio ripiegato c'era la data. Per una coincidenza che aveva dell'incredibile, stavo conoscendo David e aprendo la lettera di Yussef nello stesso giorno dell'anno in cui mio fratello l'aveva scritta, trentatré anni prima. In quell'attimo d'implausibilità, udii la voce di mio padre: Cosile lacrime mi scendevano sul petto, al ricordo dei giorni d'amore; le lacrime mi bagnavano anche la cintura, tanto tenero era il mio amore.
Un senso di nostalgia si cristallizzò nell'aria immobile della mia casa in Pennsylvania, mentre sedevo di fronte a quel fratello cresciuto in un mondo diverso, a una manciata di chilometri da Jenin. Guardai il mio braccio allungarsi per porgere la lettera a David e sentii l'evidenza fisica del tempo intersecarsi con l'attimo in cui Huda aveva teso il suo con riluttanza, trentatré anni prima, porgendomi lo stesso foglio, piegato lungo le stesse tragiche linee. Mentre David leggeva le parole di Yussef, la sua iniziale curiosità si mutò in qualcosa di personale e cominciò a piangere. Nelle sue lacrime intravidi, pur non comprendendolo in pieno, lo sconforto di un terribile errore di identità. "Non l'avevi mai sospettato? Voglio dire, prima che Moshe te lo dicesse?" gli chiesi. "Ho sempre saputo che c'era qualcosa di non del tutto kosher." Fece una pausa, sorridendo amaramente. Il labbro gli si alzò solo dal lato destro, come faceva Yussef. Di fuori, Vecchio acero ondeggiava e le sue foglie sfioravano la finestra mosse da un vento sibilante. "Credo che sia cominciato attorno ai dodici anni, poco prima del mio bar mitzvah quando, nella concitazione di un litigio, mio cugino Ilan mi disse che 'non ero un vero ebreo', che aveva sentito dire ai suoi genitori che ero un goy e che non avrei mai potuto far parte del popolo ebraico." Turbato dall'incidente, David ne aveva parlato con sua madre, che aveva reagito con la sua solita tenerezza, soffocando quei timori nel vasto abbraccio della sua protezione e aggiungendo in un'aspra postilla: "Ilan è uno stupido, lo è sempre stato". Questo aveva messo a tacere la cosa per un po', ma molti anni dopo David aveva saputo che quel giorno sua madre era andata dai genitori di Ilan e aveva dato sfogo alla sua collera con una serie d'insulti e imprecazioni che avevano lasciato distucco gli zii di David. David sorrise ripensando all'espressione su queivoltimentre sua madre gli sputava fuoco addosso. "Credo che fece un certo effetto, dato che poi mio zio mi pagò praticamente tutto il bar mitzvah" ridacchiò. "Come si chiamava? Tua madre?" "Jolanta. Significa 'viola' in polacco" sorrise. "Era il suo colore preferito." David dipinse Jolanta come una donna affettuosa e affascinante, con un guardaroba che ricordava un campo di fiori selvatici. Era bassa, si era fatta rotonda con l'età e aveva "le ciglia più folte del mondo". Portava sempre dei vestiti fino al ginocchio, con maniche corte d'estate e lunghe in inverno, e scarpe e
borsetta abbinate. E se un vestito non aveva tinte color porpora o rosa nel motivo floreale, ci appuntava un mazzetto di violette appena raccolte, che coltivava lei stessa in casa. "Adorava cucinare e offriva da mangiare a chiunque entrasse in casa nostra. Sembrerà un cliché, ma c'erano sempre biscotti pronti sulla tavola quando tornavo da scuola insieme ai miei amici. Nei giorni di festa, preparava dei grandi banchetti e invitava tutti quelli che riusciva a far stare in casa, e anche qualcuno in più. Organizzava quei ricevimenti con cura e cucinava con grande amore ed entusiasmo." David parlava di Jolanta con evidente devozione. Nella mia mente, era tutto quello che avrei voluto mia madre fosse stata: dolce, premurosa e affettuosa. Jolanta era stata una diciassettenne fragile e impaurita quando gli Alleati avevano liberato il suo campo di concentramento. Tutta la sua famiglia era stata sterminata durante l'Olocausto. Ironicamente, ed era un'ironia che mi artigliava la mente, anche la vera madre di David, mia madre, era sopravvissuta a una carneficina che le aveva decimato la famiglia. Se non che quest'ultima era avvenuta a causa del primo, portando alla luce l'inesorabile verità che i palestinesi avevano pagato il prezzo dell'Olocausto ebreo. Gli ebrei avevano ucciso la famiglia di mia madre perché i tedeschi avevano ucciso quella di Jolanta. "E tua madre? Com'era?" chiese David. Un profondo senso di tristezza mi sorse dentro e mi avvolse come una scarna corazza, pronta a respingere ogni giudizio negativo del ricordo di mamma. Il movimento incessante della sua mano, indipendente dalla sua volontà, le mascelle serrate, la sua solitudine impenetrabile, la sua praticità di levatrice e il carattere stoico non reggevano il confronto con le attenzioni ricercate di Jolanta, completate dai giusti accessori e dai biscotti dopo la scuola. La domanda di David era una chiamata alle armi. Eravamo io e Dalia contro David e Jolanta. Misi a nudo l'essenza fondamentale del cuore di mamma così come l'avevo scoperta nelle infinite riflessioni mattutine, in esilio, smantellando strato dopo strato la fortezza inaccessibile che lei e il destino avevano costruito insieme. "Amava oltre misura" dissi. Questa affermazione mi uscì dalle labbra spontaneamente, come succede alla verità una volta che è riconosciuta o all'aria che erompe dai polmoni di un annegato tratto in salvo.
"Quand'ero giovane pensavo che fosse fredda. Ma con il tempo ho capito che era troppo fragile per il mondo in cui era nata" dissi. Il dolore le aveva donato una corazza di ferro. Dietro a essa, mia madre amava illimitatamente nella distanza e nell'isolamento della sua solitudine, al sicuro dalle tragiche piogge del suo destino. David ascoltò con attenzione, grato di avere un abbozzo della donna che l'aveva messo al mondo. Per se. qualcosa di fondamentale quel giorno del 1967 in cui pensò che fossi rimasta uccisa nell'esplosione che devastò la cucina, mentre ero acquattata in una buca con la mia amica Huda e la cuginetta 'Aisha" continuai. "Credo che fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nel corso degli anni mi sono chiesta spesso e con un enorme senso di colpa se avrei potuto salvarla." Se non me ne fossi andata con suor Marianne a Betlemme, lasciandola sola in quell'ospedale insieme ai demoni che avevano già cominciato a consumarla. Se fossi rimasta, se l'avessi abbracciata, le cose sarebbero andate diversamente? Dalla scatola di latta dove tenevo la lettera di Yussef, presi il foulard di seta e la pettorina ricamata della sua thobe preferita, i resti inanimati della sua breve permanenza sulla terra. Li avevo avvolti in una plastica che ne aveva preservato il profumo nel corso degli anni. David si portò i vestiti di mamma al volto e li annusò. "Non si lavava spesso" sorrisi, sopraffatta all'improvviso e per la prima volta da quello che mi sembrava il fascino squisito delle non proprio raccomandabili abitudini personali di mamma. In quella parentesi felice, capii che Dalia, Umm Yussef, l'infaticabile madre che dava sempre molto più di quel che riceveva, era il pozzo sereno e costante da cui avevo attinto forza durante tutta la mia vita. Avevo dovuto spingermi fino all'altro capo del mondo, improvvisare come un'attrice e immergermi nel mio stesso dolore e senso di inadeguatezza per rendermi conto che il suo spirito durevole mi aveva donato una volontà di ferro. "Cosa le è successo?" mi chiese David. "È sprofondata nella demenza poco dopo la guerra del '67." Ma non riuscii a spiegargli che la malattia era stata come un dono misericordioso di Dio. Dalia era maturata ancora giovane, cercando nelle tenebre delle sue notti il figlio che aveva perduto e rimproverandosi perché non sapeva dove trovarlo. Non amava per il gusto dell'appagamento o della
gratitudine. Amava contro la propria volontà. Strappava poco sonno alla notte, restando distesa sulla sua stuoia di gommapiuma finché non tornava papà e, fingendosi addormentata, controllava che mangiasse il cibo che aveva lasciato per lui. Riversava un'energia eccezionale nelle incombenze quotidiane: puliva, cucinava, ricamava, lavava, piegava, faceva nascere i bambini, coltivava. E cinque volte al giorno pregava, devotamente. Quando 'Ammu Darwish ebbe bisogno di una sedia a rotelle, vendette di nascosto la cavigliera e lasciò i soldi sulla soglia di mio zio. Fu un segreto che condivise solo con me. Vegliava su tutti noi in maniera attenta e riservata, dall'ombra, irrigidendosi o ritirandosi nel suo mistero se qualcuno cercava gentilmente di ringraziarla. Il suo cuore, ahimè, non era per niente di ghiaccio. Era una lava agitata, tenuta a freno dalla volontà, dalla stretta delle sue mascelle e dall'instancabile mano tremante. E il contenuto di quel cuore affiorava solo raramente. Forse ad allontanarla dalla realtà non fu tanto la serie infinita di tragedie che si abbatterono sui palestinesi, quanto un amore incommensurabile che non riusciva a darsi quiete. "Sognavo spesso che mamma fosse diversa. Più simile a Jolanta, forse" dissi ripensando a Dalia, a come un tempo la reputassi una madre dura, efficiente, egoista, che mi aveva cresciuta con freddezza e distacco. "Amavo Jolanta. È l'unica madre che io abbia mai conosciuto. Ma il suo irresistibile istinto materno mi ha fatto vivere in una grande menzogna che ha causato molta sofferenza" ammise David, come per proteggere Dalia da un confronto sfavorevole. Fece una pausa e prese da bere. "Anche Jolanta mi amava. Non c'è dubbio. Ma l'amore non può conciliarsi con l'inganno." Concentrò il dolore del suo sguardo distante sul bicchiere, che strinse e mise sul tavolo come per marcare il punto dove si trovava quel tradimento. Il amore non può conciliarsi con l'inganno. E non può abituarsi a un'esistenza pagata con la valuta della disperazione altrui - la disperazione di mia madre. "Mentre parlavi di Jolanta, del suo affetto generoso, ti ho invidiato" confessai. "Ma adesso, al contrario di quello che credevo stupidamente da giovane, so che non avrei potuto avere una madre migliore di Dalia. "
Quarantadue MIO FRATELLO, DAVID 2001 "Almeno sapevi chi eri e da dove venivi" disse David, chiedendomi un'altra birra con un cenno. "Devo fare un salto al negozio a prenderne altre" dissi. "Mi accompagni?" "Sicuro." Il viaggio in macchina fu difficile, un nuovo territorio da conquistare insieme prima di avere lo stesso livello di confidenza che avevamo raggiunto in casa. Ma era un tragitto breve, così lo riempimmo di convenevoli. "Bella città" disse David. "Quello è il fiume Delaware." "In Israele non nevica mai così tanto." Israele. "In Libano sì." Libano. Tornati a casa, un'altra birra e quel fratello smarrito da tempo fu abbastanza a suo agio da raccontarmi del difficile viaggio che avevano compiuto nella città natale di Jolanta, in Polonia. "A parte il giorno in cui è morta, vedere il campo di sterminio dove aveva perduto tutto è stato il momento più triste della mia vita" disse. "Io prendo un'altra tazza di caffè. Vuoi un'altra birra?" " Sì, per favore. " Mi guardò, e ricambiai il suo sguardo senza giudicarlo. Mi raccontò della confessione di Moshe. Di come gli aveva aperto gli occhi. E adesso era qua, dopo tutti quegli anni, a farsi forza con qualcosa di più forte del qahweh. "Ho cercato di far finta che mio padre si fosse portato il suo segreto nella tomba" disse David, prendendo un altro sorso dal bicchiere. "Ma le sue parole riempivano ogni attimo di silenzio, ogni ora d'insonnia." "EJolanta?" "Mi sentivo tradito da lei" disse. Un rancore irrisolto nel grembo del profondo affetto che provava per quella donna. Con Moshe era diverso. "Io e mio padre non eravamo così vicini. E poi, visto che me l'aveva detto, potevo perdonarlo. Mi ha raccontato tutto. Anche quello che non era tenuto a dirmi. Il giorno che mi ha confessato tutto, mi sono sentito vicino a mio padre come non mi era mai successo." Moshe aveva usato le ultime forze che gli restavano per rivelare il passato e chiedere perdono a suo figlio. Aveva parlato dei suoi sogni, dell'aspirazione degli ebrei ad avere una patria. Aveva svelato i segreti dell'Irgun, le atrocità che avevano commesso per cacciare i palestinesi dalle loro case. "La pietà era un lusso che non potevamo permetterci"
aveva detto. Aveva descritto i volti che lo tormentavano. "Troppi, figliolo." La donna araba con le cavigliere tintinnanti che gli aveva servito l'agnello. Il modo in cui aveva imparato ad amare il suo figlio arabo, soffocando nell'alcol le grida di "Ibni, ibni!" che sentiva ancora distintamente come quando aveva sottratto il neonato dalle braccia di Dalia. "La sentivo, ma ho continuato a camminare" aveva sussurrato a David. Moshe non aveva risparmiato nessun ricordo, dolce o atroce, finché non si era spento nella notte. Finalmente la storia completa dei giorni fatali della Nakba, in cui la mia famiglia perse il suo neonato e la terra venne spazzata via, si spiegò nel salotto di casa mia, in Pennsylvania, cinquantatré anni dopo. Ma ero l'unica rimasta a vivere quel momento insieme a Isma'il, il nostro anello mancante, e mi sentivo annientata dal dolore altrui. Mi appoggiai allo schienale del divano, chiudendo gli occhi come se chiudessi un libro dopo aver letto l'ultima pagina. Ma David aveva un'altra cosa da dirmi. "So che quello che ha fatto mio padre lo rende un terrorista ai tuoi occhi e a quelli degli altri" cominciò. "Ha fatto delle cose orribili, ma non era cattivo. Con me era buono. Era mio padre, Amai." Non risposi. Mi aggrappai alle parole di David, le soppesai, e sentii i miei occhi riempirsi di lacrime. "Capisci quello che voglio dire, Amai?" Capisco. "Ci sono certe cose che ti devo dire. Quando sarà il momento" dissi. "Se riguardano Yussef, le so già." In quell'istante si udì un clacson nel mio vialetto. Era il taxi venuto a portare David in aeroporto. "Non andare" lo supplicai istintivamente. "Non voglio andare" rispose immediatamente. Ci afferrammo in uno sguardo disperato, e ciascuno cercò negli occhi dell'altro le tracce di un imperativo reciproco a ricucire un destino dilaniato. E qualcosa nacque tra di noi in quell'attimo riflessivo. Qualcosa di tenero. David posticipò il volo alla mattina seguente. "Ai nuovi inizi" disse. Prima che potessi alzare il bicchiere verso il suo, Sara entrò dalla porta. Dalla trepidazione sul suo volto, capii che aveva aspettato di tornare fin dal momento in cui era uscita di casa, e fui contentissima di vederla. "Habibti. Ti presento David, mio fratello."
VII. BALADI (IL MIO PAESE) Quarantatre IL DOTTOR ARI PERLSTEIN Il passato adesso mi sembrava un sogno. Non so quando i suoi fantasmi smisero di tormentarmi o quando la mia bambina diventò una donna. O quando raccolsi l'eredità di Dalia e diventai una madre distante. Alcuni mesi prima avevo scoperto di essere irrimediabilmente invecchiata. La mia immagine nuda mi guardava dallo specchio, lo spettro sgraziato di un corpo rimodellato dalle mani impietose dell'età. Gli anni mi avevano dilatato la vita e inflaccidito la pelle. I miei seni pendevano come fiori avvizziti e i capelli erano entrati nell'inverno. Solo la cicatrice sul mio addome non era invecchiata. La pelle solcata era giovane e tesa come allora, imbalsamata dalla crudeltà, quell'inchiostro indelebile della memoria capace di cristallizzare il tempo. Passai una mano su quel residuo di gioventù come avevo fatto un'infinità di volte nella mia vita. Ma ora lo feci con una nostalgia stanca, rarefatta, e le parole di Sara che aleggiavano sui miei pensieri come libellule sull'acqua: "Mamma, vado in Palestina. Voglio che venga anche tu". Poi, c'erano le altre voci. Respira, piccola. Cercavo di soffiarle via, ma quelle ritornavano. "Non è solo per le ingiustizie e il marcio della politica, mamma" disse Sara, mentre i bordi degli occhi le si arrossavano e si riempivano di lacrime. "Voglio sapere chi sono." Eccolo là, quindi. Il dolore per una famiglia incompleta. Per un senso di appartenenza incompleto. Per una madre incompleta. Un'enorme "incompletezza" palpitava sotto alla sua decisione di andare in Palestina, dietro ai suoi occhi. Ma era figlia di sua madre, e la vidi richiudere subito tutto dentro di sé, camuffarlo di determinazione e concentrarlo nella bruciante sfida del suo sguardo. Qualunque cosa senti, tienitela dentro. "Ci penserò" dissi, soffocando l'impulso di prenderla tra le braccia. Ci pensai. Anzi, praticamente non pensai ad altro, fino al giorno in cui mi guardai in quello specchio e presi la decisione di tornare a Jenin, dopo trent'anni di esilio. Dopo quattro ore d'interrogatori e perquisizioni inenarrabili all'aeroporto di Lod, io e Sara fummo fatte passare.
"Sara! " gridò una voce maschile. Mia figlia mi superò di corsa e si tuffò tra le braccia di un bel giovanotto. Capii chi era quando vidi David in piedi accanto a lui. Lei e suo cugino Jacob si erano scritti da quando David era entrato nella nostra vita. Jacob, il minore dei due figli di David, aveva ventitré anni ed era la fotocopia del padre. "Shalom, zia Amai" disse rivolgendomi un sorriso giovane e accogliente, a cui non ero preparata. Zia Amai. Shalom. "Ciao, Jacob'' risposi, e soffocai l'imbarazzo girandomi verso David, che mi prese nel suo enorme abbraccio. Mentr'ero là, persa nella sua grandezza, tra quelle che sembravano, che addirittura odoravano come le braccia di Yussef, avevo di nuovo dodici anni ed ero immobile nell'abbraccio di Yussef dopo che era tornato nudo dal regno dei morti, nel 1967, l'increspatura verde dei vestiti imprestati che mi irritava la pelle allo stesso modo in cui ora il logo della Nike sulla maglietta di David mi sfregava contro la guancia. "È bello vederti, sorella" disse. "Anche per me, David. Anche per me." Volevo vedere Gerusalemme prima di andare a casa di David, a Netanya. Volevo passare dall'orfanotrofio e trovare l'ufficio di Ari Perlstein. "Ma Gerusalemme è nella direzione opposta" insistette David, e mi arresi. Ancora quel dolore, quél'incompletezza sul volto. Il dolore della non appartenenza, la precarietà di un'identità capovolta Ari Perlstein dovrà aspettare, pensai, anche se Ari non sapeva della mia visita imminente. Prima di lasciare Filadelfia l'avevo rintracciato in Internet ma non avevo avuto il coraggio di chiamarlo. In fin dei conti, cosa gli avrei detto? Sono la figlia di Hassan, si ricorda di lui? Oppure, Ehi, indovini un po' chi è? Le do un indizio: torni indietro di cinquanta, sessanta, settantanni o anche di più. Un altro indizio: 'Ain Hod. Le ricorda qualcosa? Ha ha. No, davvero. "Il dottor Perlstein?" "Sì." Una testa minuta si alzò dal mare di libri che gremivano il piccolo ufficio del professore. "Posso rubarle un attimo del suo tempo? Ho fatto un lungo viaggio per venire da lei." "Mi perdoni, ma alla mia età a volte la memoria mi tradisce. La conosco?" chiese, con la stessa gentilezza che mi ero immaginata. "No. Ma credo che conoscesse mio padre, Hassan. Hassan Abulheja." L'intera stanza - le pareti piene di libri, il manto di polvere, l'anziano
professore sbadato - ansimò e tenne il fiato per un lungo momento, finché gli occhi di Ari, ingigantiti dagli occhiali bifocali sul suo naso, s'illuminarono sotto il cespuglio delle sopracciglia. Manovrò a fatica il suo corpo gracile attorno alla disordinata scrivania di legno e venne verso di me, l'andatura zoppicante accompagnata dallo strascicare dei piedi. " Ya Illahi! " sussurrò in arabo quando mi fu davanti, mentre con mani tremanti e macchiate dall'età si asciugava impazientemente le lacrime dagli occhi ingranditi. " Hassan è qua? " chiese con voce ansimante, sfibrata dall'improvvisa disperazione del passato rubato, dal bisogno impellente di sapere, di rivedere quel vecchio amico. "No. Crediamo che sia stato ucciso nel 1967." Crediamo che sia stato ucciso nel 1967. Non avevo mai pronunciato quelle parole prima di allora, né mi ero mai resa conto di credere che fosse stato ucciso nel 1967. Dopo un silenzio interminabile, Ari disse: "Somigli a Dalia" e mi rivolse un sorriso gentile, benevolo. "Siediti. Siediti." "Fuori ci sono altre persone che vorrebbero conoscerla, signore. Mia figlia Sara, mio fratello David Avaram e suo..." "David Avaram... Abulheja?" m'interruppe, chiaramente sconcertato dal nome ebreo. "No, solo David Avaram. È una lunga storia... Se ha un po' di tempo." "Per oggi tutti gli impegni sono cancellati" dichiarò trionfalmente. Sorrise, facendo andare fuori posto la dentiera mentre componeva il numero della sua assistente. Ari non si era mai sposato, votandosi interamente agli studi, e una leggiadra solitudine emerse mentre intesseva il racconto della sua vita con la saggezza di un uomo che aveva letto molti più libri di quelle centinaia che ci comprimevano al centro del suo ufficio. Ari era un narratore magnifico e mi ricordava molto Hajj Salim, che ormai ero sicura fosse morto. Ci sedemmo tutti ad ascoltare incantati le storie delle sue avventure giovanili insieme a papà, dal giorno in cui si erano conosciuti alla Porta di Damasco a quello in cui mio padre li aveva aiutati a fuggire nella zona ovest di Gerusalemme, subito dopo che era stata conquistata da Israele. Parlò delle cavigliere tintinnanti di Dalia, dei baffi arricciati e perfettamente simmetrici di Jeddo Yehya, che gli arrivavano fin quasi agli occhi quando sorrideva, della cucina e del giardino di Bassima, degli alberi e frutteti di 'Ain Hod, dell'inesorabile crudeltà della guerra, della rabbia, e di un'amicizia che
gli aveva salvato la vita. E dove la memoria lo abbandonava, colmavo i vuoti con i miei ricordi. Nell'ufficio di Ari, eravamo tre generazioni sospinte dalla forza ostinata di una storia senza riscatto, truffata dal destino ma riunita in quel momento per chiedere di essere raccontata. La storia di una famiglia di un oscuro paesino, visitata un giorno da un destino che non le apparteneva e imprigionata per sempre dalla nostalgia tra le radici e la terra. Era un racconto di guerra, della sua furia agghiacciante, bruciante e di nuovo agghiacciante. Di un amore impetuoso e di un attentatore suicida. Di una ragazza che era fuggita dal suo destino per diventare una parola, svuotata del suo significato. Di bambini cresciuti che setacciavano la follia in cerca di un perché. Di una verità che si faceva strada tra le menzogne affiorando da una crepa, da una cicatrice sul volto di un uomo. L'emozione ci vinse tutti in quell'ufficio minuscolo, dove la luce del giorno che filtrava da un'alta finestrella solitaria sulla parete era l'unico indizio del mondo esterno. Quella luce smorzata era l'unica prova che il tempo non si era cristallizzato sull'immagine di un giovane Ari e un giovane Hassan che si dividevano un pomodoro dietro a un carretto del mercato, gettando con quel gesto le basi di un'amicizia eterna. Avevo raccontato a David molte cose di papà, e quello era un lato di lui ancora più toccante. "Tuo padre era così contento quand'è nato Yussef. Credo di non averlo mai visto più felice o più orgoglioso" disse Ari, rievocando con chiarezza un'immagine di mio padre che poteva ricordare solo lui. All'improvviso ero di nuovo una bambina che si chiedeva se suo padre era stato altrettanto felice alla sua nascita -magari più felice? O forse per niente felice, essendo un'altra bocca da sfamare in un campo profughi? Ari mi richiamò dal passato. "Dov'è adesso tuo fratello Yussef?" In quello stesso istante, l'adhan cominciò a spandersi nell'aria. Dentro la mia pelle. "Allaaaaaahu akbar, Allahu akbar..." L'adhan risuonò da diversi minareti contemporaneamente. Quella melodia, che non sentivo da troppo tempo, fluì liberamente negli angoli più reconditi della mia persona, attraversandomi come un fiume, come acqua battesimale. "Ashhadu an la illah illa Allah, ashhadu an Muhammad rasul Allah..." Rimasi seduta con gli occhi chiusi, aprendo il cuore a una nostalgia e a uno struggimento laceranti per la famiglia che avevo perduto, per
l'identità che avevo perduto, e lasciai che il canto di un popolo riempisse la pausa che seguì la domanda di Ari. Dov'è tuo fratello? Dov'è Yussef? "Hayya 'alaisalaaaat. Hayya 'ala'lfalah..." Le campane della chiesa del Santo Sepolcro suonavano seguendo la cadenza dei miei ricordi più dolci e più amari. Mi alzai in piedi mentre il ritmo dell'Islam risuscitava il sorriso con le fossette di Fatima nella sua dishdashe azzurro cielo, scatenando mille lacrime non piante. "Non lo so" risposi ad Ari, sorpresa dalla dolcezza della mia voce. A scanso di equivoci, e per evitare altre domande, continuai: "Dicono che sia stato lui a schiantarsi con un carrobomba contro l'ambasciata americana, nel 1983". Sara rimase a bocca aperta. Non l'aveva mai saputo. Il volto di Jacob cadde, come rocce che cadono dal fianco di una montagna. Non se lo sarebbe mai immaginato. David si irrigidì in silenzio sotto il peso delle mie parole, non volendo che cadessero così vicine a suo figlio, i cui occhi si riempirono di un grido implorante: Ma dovrebbero essere buoni. BUONI arabi. I nostri pacifici parenti palestinesi. Non terroristi! Il volto di Sara si aprì come una ferita. Era incredula, incuriosita, avida di conoscere l'intera storia della sua vita. Ferita da quella madre che le aveva tenuto nascoste così tante cose. Ero troppo esausta per fronteggiare la sua reazione. La dishdashe azzurro cielo, strappata nel mezzo, levitò dagli angoli della mia mente che tanto tempo prima avevo oscurato e mi coprì come una nube. Mi voltai e vidi Majid nei lineamenti di mia figlia. E chiusi gli occhi di scatto, troppo debole per sentire altro. Impaurita di trovare la stessa rabbia di mio fratello nel mio cuore, che la sua rabbia fosse anche la mia. Impaurita, sempre impaurita. Ma questa volta le mie difese non potevano nulla contro i ricordi e i sentimenti repressi che si alzavano sotto il mio ghiaccio come torce, fiammeggiando e chiedendo. Chiedendo di piangere per loro, di concedergli finalmente le lacrime che meritavano. Di ripagarli del dovuto con rabbia e tristezza. Di rendergli il riconoscimento da troppo tempo atteso con il ricordo e il dolore. "Laaa illaaah illa Allah" concluse l'adhan, e vidi una quieta comprensione guardarmi dagli occhi di Ari. Ari, il ragazzo la cui infanzia e la cui gamba destra erano state danneggiate irrimediabilmente dal fanatismo nazista. Il ragazzo zoppo e
con un solo amico, portato in un paesino arabo per respirare un po' d'aria fresca, non contaminata dai terribili ricordi dei suoi genitori, devastati per sempre dai campi di concentramento sebbene cercassero di rimettere insieme i cocci delle loro vite. Ari, il ragazzo perseguitato, che rischiò di soffocare chiuso in un forno tabun mentre gli arabi davano la caccia agli ebrei, tutti gli ebrei, per vendicarsi del 1948. Ari, il giovane che guardò i suoi genitori sbiadire come fantasmi nell'angoscia mortale dei loro ricordi, lasciandolo con le reliquie delle loro vite, una spilla con diciotto perle e scaffali pieni di libri. "Ecco la sua spilla." Mela mostrò. Una, due, tre, quattro, cinque, sei... diciotto vecchie perle graziose. Ari, l'uomo che non poteva sposarsi perché, come me, aveva più paura dell'amore che della morte. Perché, per gli odiati e i perseguitati, il rovescio dell'amore è un senso di perdita insopportabile. Ari - "l'ebreo che odia se stesso", come lo chiamavano i suoi connazionali; "il mio amico" come lo chiamava papà -capì. E distese un velo di compassione sulle mie parole. Si è schiantato con un carrobomba contro l'ambasciata americana, nel 1983. Per proteggere le mie parole, per proteggere me e il ricordo di Yussef dalla freddezza della verità di quelle parole. Glielo lessi sul volto. I nostri occhi s'incontrarono e si allacciarono, finché due grosse lacrime caddero, pesanti come ancore, bloccandomi alla mia sedia mentre scomparivano sul pavimento di pietra rossa di Gerusalemme. Ari, il giovane ebreo nella foto di matrimonio dei miei genitori, mi condusse attraverso i suoi ultimi ricordi di mio padre, portandomi sul carretto trainato dai buoi che papà si era fatto prestare per nascondere i Perlstein durante il loro avventuroso viaggio verso l'altro lato di Gerusalemme, quando Gerusalemme Est non era ancora stata conquistata. La bandiera con la Stella di Davide tracciata a mano, che mio padre aveva ricavato da un lenzuolo perché i Perlstein la sventolassero una volta raggiunto il lato israeliano, per non essere scambiati per arabi e uccisi, era nascosta sotto ai vestiti di papà. Avevano viaggiato nell'oscurità della notte, dove uomini risoluti pattugliavano con determinazione rabbiosa ciò che restava di quell'anno contro gli ebrei, che a loro volta pattugliavano l'altro lato nelle uniformi di una nazione appena nata, corredati della stessa rabbia e decisione. "I miei genitori erano troppo spaventati per muoversi, per aprire gli occhi", cominciò Ari, "ma io sbirciavo fuori da una fessura sul fianco
del carretto. Quando un soldato giordano ci intimò di fermarci, facendo dei cenni a tuo padre, per un attimo pensai che Hassan ci avesse teso una trappola per tradirci all'ultimo momento. La paura diventò diffidenza dentro a quel carretto, che non era molto diverso da quello che aveva contenuto gran parte della nostra infanzia, tra assi di legno e ruote ineguali. Pensai a un piano, a tradire prima di essere tradito. Allungai una mano verso il pugnale che Hassan aveva nascosto sotto a una coperta sul carretto - 'caso mai ci servisse' aveva detto." Ari fece una pausa. Inspirò quel ricordo pungente prima di espirarlo in parole, mentre le mani tremanti di David cercavano in una borsa la bottiglietta che si portava sempre appresso. "Ma prima che potessi scendere dal carretto, eravamo già ripartiti. E sprofondai in una vergogna atroce per aver pensato una cosa simile." Ari mi guardò apertamente, candidamente, gli occhi dilatati dietro alle lenti spesse, e continuò. "Passai il resto del viaggio a torturarmi per quell'errore, il mio privato tradimento dell'amico che stava rischiando la vita per salvare la mia. Per aver voluto tradire prima di essere tradito. "Non ricordo le ore successive, o se furono solo minuti. Ma dopo un po' Hassan si fermò e ci mostrò un sentiero tortuoso che conduceva dall'altra parte, porgendomi la bandiera su cui aveva accuratamente tracciato la stella ebraica, la stessa stella azzurra che sventolava sulla sconfitta del suo paese. "Mi abbracciò. 'Spero che ci rivedremo, fratello' furono le ultime parole che gli udii pronunciare. 'Perdonami' risposi, e mi avviai carponi insieme ai miei genitori." Ari si fermò, come per dire Ecco tutto. Nel vuoto di quella pausa cavernosa, ero una bambina tra le braccia di papà, che chiedeva di Ari Perlstein e vedeva il triste silenzio delle mani di papà che chiudevano il libro e, insieme a esso, quell'alba particolare. No. Non è tutto. "Dopo aver consegnato la sua casa, la sua terra, suo figlio, la sua identità allo stato ebraico, tuo padre ha rischiato la vita per salvare la mia e quella della mia famiglia." Ecco tutto. Con la coda dell'occhio vidi il volto di Jacob tornare a distendersi, come se giudicasse i suoi parenti arabi dal modo in cui si erano comportati con gli ebrei. Trovavo irritante quel ragazzo, anche se sembrava che a Sara piacesse molto. Eravamo stanchi quando ci congedammo da Ari. Ero stanca del racconto. Stanca del passato.
Durante il viaggio verso Netanya, chiesi a David di fare una piccola deviazione. "È un tantino fuorimano" dissi con accento irlandese, imitando Jack O'Malley, che mi aveva detto quelle stesse parole quando mi aveva accompagnata all'orfanotrofio molti anni prima. Nessuno capì il significato di quell'accento e io non mi presi la briga di dare spiegazioni. Più tardi racconterò a Sara tutto di O'Malley, dell' orfanotrofio, delle sorelle colombiane e della Haydar, la direttrice. Io e Huda le racconteremo della casa di Warda dietro al terzo ulivo dopo i cedri gemelli, sul sentiero per Taybeh, e passeremo una notte sul tetto insieme ai nostri figli come facevamo da piccole. Mi sentivo euforica e sicura. La terra sembrava dare il benvenuto al mio ritorno. Nonostante l'agitazione, ero contenta di essere lì. Sentivo il significato tornare a riempire quella parola che era stata privata della speranza e ridotta a una combinazione di lettere mute. Qui ero Amai, non Amy. "E bello sentire la gente che ti chiama Amai, mamma" mi disse Sara a Jenin, il giorno dopo. E a Khilwa, la deviazione "un tantino fuorimano" dove una biblica parete rocciosa si apriva come una tenda sul Monte degli Ulivi, mi fermai su quelle terre leggendarie affacciate su Gerusalemme come avevo fatto insieme a Jack O'Malley il giorno in cui avevo detto addio a Jenin. Adesso stavo tornando a Jenin. Il tempo si stava riawolgendo. Ora l'antico borgo dalle mura fatte di segreti e gli alberi piantati nel sangue sembravano inanimati. Sulle colline attorno a Gerusalemme e in Cisgiordania, una serie infinita di insediamenti - con i loro leccati giardini verdi e i tetti rossi che si metastatizzavano nelle vallate come un eritema della terra - stridevano crudelmente con le fatiscenti case arabe sottostanti, dove facevano defluire le proprie acque di scarico e spesso scaricavano la spazzatura. Edifici alti, troppo alti, svettavano sulla città. Palazzi per soli ebrei, insediamenti fortificati, alberghi spigolosi e arbusti importati sorvegliavano come guardie carcerarie le originarie porte e finestre a volta degli edifici in muratura, dalle cui arcate proviene il termine "architettura". Ma nonostante l'affannosa "Giudaizzazione di Gerusalemme", la Città Vecchia sembrava fredda. Perfino crudele. E, a conti fatti, immeritevole. Com'era potuto accadere? "Wow!" disse Sara. "È bellissima." Non è vero, avrei voluto dire. È solo pietra.
Perché la dignità e l'onore dipendono dalla pietra e dal terreno? Generazioni su generazioni sventravano la terra, costruendo monumenti dalle sue viscere per lasciare un'impronta, per foggiare un sogno di un qualche spessore in un universo immenso, per inventare un significato dall'assoluta casualità, per ottenere immortalità confiscando, calpestando, scavando una terra immortale. "È solo pietra, Sara" mi sfuggì. "Sono pietre che rappresentano la storia, mamma" disse, guardandomi incredula per aver cercato di sminuire una cosa tanto grandiosa. "È magnifica." "Ti mostrerò un ulivo a Jenin - la Vecchia Signora, la chiamano - che racchiude più storia delle mura della Città Vecchia. E più bello, umile e autentico di questa pietra cesellata" dissi, convincendomi delle mie parole solo mentre le pronunciavo. "Epoi," continuai, trafitta d'amore per quella creatura perfetta nata dal mio stesso corpo, "sei tu che sei magnifica." Quarantaquattro ABBRACCIAMI, JENIN 2002 Jenin era da poco apparsa nei notiziari: "COVO DI TERRORISTI" , "vivaio di terroristi" , "focolaio del terrorismo". Era una Jenin più alta di quella che avevo lasciato quasi trent'anni prima. Baracche costruite sopra a baracche. Pietra al posto di paglia e argilla. "Crescita verticale" è il termine tecnico. Due chilometri quadrati e mezzo sovvenzionati dalle Nazioni Unite, dove quarantacinquemila abitanti, quattro generazioni di profughi, vivevano ammassati verticalmente. Al mio arrivo l'aria fremeva. Sembrava che tutto si muovesse e si affannasse. Anche i bambini giocavano nervosamente. Non c'erano anziani seduti su secchi capovolti intenti pigramente al backgammon, quella scena costante della mia giovinezza. Ragazzi derubati dei loro sogni correvano per i vicoli con dei fucili a tracolla. Si preparavano all'inevitabile, ammucchiando scorte di cibo, allestendo difese, trappole esplosive e sacchi di sabbia contro l'attacco imminente. La rabbia andava a braccetto con il disprezzo, marciando a un passo militare, sinist, sinistdestsinist senz'altra meta che non fossero i due chilometri quadrati e mezzo di quel campo profughi diventato più alto. I terroristi
suicidi si stringevano le cinture, gli amanti si stringevano tra le braccia, le bambine si stringevano le ginocchia al petto e le madri nascondevano i loro piccoli nelle stanze più interne e più celate delle case. Era il 31 marzo 2002. Il 20 marzo un attentatore suicida aveva ucciso sette israeliani in Galilea come rappresaglia per i trentuno palestinesi uccisi da Israele il 12 marzo, come rappresaglia per gli undici israeliani uccisi l'I 1 marzo, a loro volta come rappresaglia per i quaranta palestinesi uccisi l'8 marzo da Israele, e così via e così via. Mentre rivisitavamo il passato nell'ufficio di Ari, nel presente i carri armati israeliani attaccavano il quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah. E mentre Yasser Arafat si rintanava tra le macerie del suo ex quartier generale e fuori dalla sua finestra non vedeva altro che la canna di un carro armato israeliano, il presidente George W. Bush annunciava che Arafat doveva "fermare il terrorismo". Più tardi, a casa di David, Sara chiese a suo zio di spegnere la televisione che stava trasmettendo "quell'ego enorme con annesso così poco cervello", come lo definì. "Forse penserete che il presidente degli Stati Uniti conosca bene la logistica del 'fermare il terrorismo', cioè palazzi intatti e forze di polizia. Ma nooo. Non il nostro caro presidente. Ripete la parola 'terrorismo' talmente spesso che comincio a pensare che sia una malattia. Una specie di tic verbale incurabile. Terrorismoterrorismoterrorismoterrorismo!" disse con una frustrazione sovraeccitata. Mia figlia. Il giorno dopo entrammo in quella Jenin molto più alta di prima. Quella Jenin molto più affollata. L'indaffarata, risoluta, arrabbiata Jenin. Non la passiva Jenin della mia infanzia, che si affidava alle mani di Dio. Io e mia figlia ci prendemmo per mano e ci inoltrammo nelle stradine serpeggianti, con il sole che tremolava sui rivoletti delle acque di scarico. La musica usciva dalle case e si riversava sul nostro tragitto. Riconobbi Fayruz, la sua voce che si arrampicava come la libertà verso e dentro il cielo. Per te prego, oh città della preghiera. Ya bahiyyat almasakin. Oh splendore di tutte le città. I nostri occhi si posano su di te ogni giorno... per alleviare il dolore delle tue chiese e cancellare la tristezza dalle tue moschee...
Mi fermai, allargai le braccia per toccare i muri ai due lati del vicolo e feci scorrere i palmi sulla pietra di quelle case più alte e ravvicinate. "Io e Huda facevamo sempre così quando passavamo per questi corridoi" dissi a mia figlia. "Non sai quant'è toccante per me essere qua, nel luogo dove sei cresciuta. Non vedo l'ora di conoscere Huda e di sentire le storie di voi due. " Sara era visibilmente eccitata. Sentii un'altra canzone, che mi arrivò dritta al cuore, prima con il gemito del nye, poi con le parole. 'Unadikum. Invoco il vostro aiuto, tirandovi per le mani e baciando la terra sotto ai vostri piedi... Vi dono la luce nei miei occhi... e prendo su di me il vostro dolore. Ho dato tutto per il mio paese... e mi sono fatto beffe dei miei oppressori, io, un orfano, nudo e senza scarpe. 'Unadikum. Invoco il vostro aiuto, con il mio sangue in mano... Più avanti, alcuni bambini ridacchiarono nel vedere due donne che camminavano facendo scorrere le mani sui muri. Una folla di polli starnazzanti batté le inutili ali cercando di scappare dai bambini che li rincorrevano. Certe cose non erano cambiate. I vecchi erano morti, i giovani erano invecchiati, le case si erano alzate e i vicoli si erano ristretti, erano nati bambini, ragazzini erano andati a scuola e rincorrevano i polli, e gli ulivi si erano piegati sotto il peso dei frutti. Eppure il campo profughi di Jenin era lo stesso di un tempo, un brandello di terra di due chilometri quadrati e mezzo, escluso dal tempo e imprigionato in un eterno 1948. Una voce dal mio passato si alzò da dietro. "Sei a Jenin!" Il mio cuore esplose al ricordo dell'amore. Al ricordo della vita. "Devi sempre dire delle ovvietà?" dissi, voltandomi verso gli occhi tigrati di Huda. Ci tuffammo l'una nelle braccia dell'altra, ridendo attraverso le lacrime. "Sei ingrassata" disse. "Anche tu." "Devi sempre dire delle ovvietà?" disse, imitandomi. Huda prese Sara nel nostro abbraccio e tutte e tre, allegramente, ci dirigemmo verso casa sua. "Ormai siamo rimasti solo io e il più piccolo, Mansur" disse ansimando, mentre salivamo faticosamente per la stradina verso la piccola baracca non distante da dove avevamo passato la nostra infanzia. "Gli ebrei hanno preso Osama il mese scorso. Jamil, uno dei miei gemelli, viene a trovarci spesso, ma di solito non sappiamo dov'è. " Si fermò, prese fiato, e continuò. "E con la resistenza" disse, aprendo la porta di ferro di
casa sua. "Gli ebrei hanno ucciso il suo gemello, Jamal, quando aveva dodici anni. Jamil non si è mai ripreso dopo che suo fratello gli è morto tra le braccia. Sedetevi, preparo un te." I bellissimi occhi di Huda luccicavano su un volto segnato da decenni di vicissitudini e dalla morte di un figlio. Nei suoi occhi, il passato che avevamo condiviso si mescolava con la Jenin del presente, più alta e popolata. In essi era racchiusa la continuità della nostra amicizia, e li studiai in cerca di quella sensazione di appartenenza che mi ero aspettata di trovare a Jenin, ma che non avevo trovato. Ero cambiata così tanto? Come mi sembrava innaturale riprendere le fila di un passato che avevo abbandonato da così tanto tempo. "Mansuuuuuuur!" gridò Huda. Dopo pochi minuti, un ragazzo alto e languido curvò la schiena ed entrò in casa. Registrò la nostra presenza con uno sguardo fugace, né sgarbato né gentile. Le braccia gli penzolavano mollemente sui fianchi come se accusassero il peso delle mani, che erano spruzzate e macchiate di pittura di ogni colore. "Habibi, questa è 'Amtu Amai. Finalmente è tornata. E questa è sua figlia Sara" disse. Il ragazzo ci strinse la mano, squadrandoci, e se ne andò com'era venuto, in un silenzio prosaico, curvando il corpo per uscire dalla porta. "Quello era il mio bambino, Mansur. È un artista! " disse Huda, emergendo dalla minuscola cucina reggendo un vassoio con tre bicchieri di tè caldo e alcuni biscotti. "Ma non offendetevi. Mansur non parla. Ha smesso di parlare a sei anni." Più tardi quel giorno, io e Sara lo vedemmo dipingere un murale di uno shahid morto da poco, quello che aveva fatto saltare in aria il bar di Gerusalemme. Mansur muoveva le braccia tracciando larghe e fluide pennellate su un muro che avrebbe accolto l'imminente invasione israeliana. Poco dopo, un volto implacabile emerse dalla pittura, con occhi esasperati che guardavano da sotto la kefiah verso un 1948 senza futuro, verso la libertà di una morte provocatoria che esplodeva in un letamaio di gloria. Anche se non parlava con nessuno e concedeva poco più di un'occhiata sfuggente, Mansur era molto benvoluto nel campo. Sembrava che tutti conoscessero il suo nome. I passanti si fermavano ad ammirare la sua opera, gli davano delle pacche sulle spalle e borbottavano ringraziamenti personali e preghiere per quel ragazzo e il suo talento. "È molto dotato, vero?" disse Sara.
Ma non si trattava solo di talento artistico. Era il suo silenzio. Una calma così densa e spessa che sembrava a un passo dal materializzarsi. Dipingeva attingendo alle profondità del suo silenzio, che lo avvolgeva come una forza invisibile. "È terribile pensare a quello che gli hanno fatto. A come l'hanno fatta franca" disse Sara. Durante il tè, Huda ci aveva dato un resoconto abbreviato del rapimento di Mansur, quando a sei anni era stato bendato e portato via sul retro di una jeep dell'esercito israeliano, e restituito una settimana dopo in cambio di un riscatto di cinquecento dollari. "Di tutti i miei figli, è sempre stato il più sensibile. Quello che aveva più bisogno di me" aveva detto Huda. 'Ammu Darwish era diventato un patriarca molto amato nel campo profughi. Lo capii dal numero di persone che c'erano a casa sua, la maggior parte delle quali mi riconobbero quando entrai. "Sei davvero quella che penso?" esclamò uno dei miei cugini, venendo ad abbracciarmi. "Sia lodato Colui che riporta a casa i nostri cari dalla ghurba" disse un altro. "Sempre sia lodato." Tutti si alzarono per salutarmi, ma aspettarono rispettosamente che prima mi vedesse mio zio. Mi avvicinai a 'Ammu Darwish, seduto sulla sua sedia a rotelle, e mi lasciai cingere dalle sue braccia aperte. "Ya habibti, ya Amai." Mio zio scoppiò a piangere. "Tu riporti l'anima di Hassan e Dalia in questa casa, mia cara. Tu mi porti gioia, figlia." Gli baciai la mano tre volte, portandomela alla fronte tra ciascun bacio. Con il passare della serata, il mio cuore si riempì sempre più di amore e di ricordi. 'Ammu Darwish era ormai vecchio e fragile, ma si rianimò durante le ore che trascorse insieme a me e Sara. Mio cugino mi sussurrò: "È da tempo che non vedo mio padre così felice, Amai". Solo la nostra terza sera a Jenin, il 2 aprile, venni a sapere che Hajj Salim era ancora vivo. "Facciamo a turno per portargli da mangiare ogni giorno, come facevano le nostre madri. I bambini di adesso non lo conoscono come lo conoscevamo noi. Non so bene quando abbia smesso di raccontare le sue storie. Credo a poco a poco. Adesso passa il tempo a intagliare bastoni di legno con un coltellino da tasca, che abbiamo smussato intenzionalmente" disse Huda. Sarei andata a trovarlo la mattina dopo.
Quella sera restammo in casa. Di fuori, le luci erano spente o nascoste dietro alle finestre annerite. Israele aveva dato il via a una campagna di bombardamenti contro la vicina Betlemme, quella piccola cittadina, e mobilitato centinaia di truppe nei villaggi attorno a Jenin. Accoccolate al lume di candela e tra i sacchi di sabbia, io e Huda ci abbandonammo ai ricordi, svelando gioie e dolori del passato ai nostri figli e ritrovando gemme quasi dimenticate. Quella sera, la casa di Huda diventò una baracca di piccole gioie in un mare di angoscia di due chilometri e mezzo. Disteso davanti a noi su alcuni sacchi di sabbia, Mansur disegnava su un blocco e sorrideva di tanto in tanto. Il vocabolario di Sara si ridusse a due parole fondamentali, "Raccontate ancora" mentre io e Huda ci rilanciavamo le storie della nostra vita insieme, riassaporandole attraverso i nostri figli cresciuti. La casa di Warda, che ospitava la nostra bambola con un braccio solo, gli alberi su cui ci arrampicavamo, il gioco della campana, i giornaletti porno di Yussef, la solitudine di papà, l'alba, mamma, Hajj Salim, le gare di sputo, la guerra. Un istinto latente di sorellanza ci spinse a prenderci per mano, come avevamo sempre fatto, e percorremmo mano nella mano l'intera distesa dei nostri ricordi. Sara appoggiò la testa nell'incavo della mia spalla, abbracciandomi, come non faceva da quando era troppo piccola per ricordarsene. E mentre l'aria di fuori era percorsa da un senso d'inquietudine e di morte imminente, io ardevo di quell'amore che mi ero negata e per quella figlia perfetta che riposava tra le mie braccia. Capii allora che avevo trovato la mia patria. Era sempre stata là. "Affidiamo la notte alle mani di Dio e cerchiamo di riposare un po'. Che Dio ci protegga, e che protegga il mio piccolo Jamil, dovunque si trovi" disse Huda. Ci addormentammo là dov'eravamo, sdraiate sui cuscini che c'erano sul pavimento e l'una sopra l'altra. Passarono le ore, ma sembrava che avessimo appena chiuso gli occhi quando una raffica di grida si levò nell'oscurità del campo: "Arrivano gli ebrei! Arrivano gli ebrei!". Arrivano gli ebrei. In un attimo, un bellissimo giovane piombò in casa, piegando il torso nudo per superare la soglia. La lanterna che aveva in mano gli illuminava i muscoli scolpiti sotto alla pelle scura. Sussurrò a Huda: " Yumma, sei sveglia? Mansur, fratello, dove sei?". Accese la luce. "Tranquilli. Gli ebrei non arriveranno prima di un'ora." Un'ora.
Colma di lacrime, la mia migliore amica avvolse il figlio tra le braccia. Lo baciò con un amore convulso, non lasciandogli un solo centimetro del bel volto senza baci, senza il suo amore materno. Huda sapeva che Jamil poteva non tornare mai più dopo quell'ora. Lo spettacolo di quell'addio mi spinse a stringere mia figlia e ad allontanarci entrambe con le nostre lacrime da quel momento al quale non avevamo il diritto di partecipare. "Mansur, fratello. Se dovesse succedere qualcosa, spetterà a te prenderti cura di mamma" disse Jamil, comprendendo la silenziosa risposta di Mansur. Quando Jamil fece per uscire, successe una cosa straordinaria. Durò meno di trenta eterni secondi e credo che fui l'unica ad accorgersene. Come il ragazzo si voltò - con una fascia a quadretti bianchi e neri legata dietro alla testa e due rosse bende comuniste attorno alle braccia perfettamente scolpite - i suoi impavidi occhi neri si posarono accidentalmente su Sara e i due rimasero immobili a guardarsi. Un'urgenza inaspettata, una supplica. Un amore improvviso che chiedeva di nascere. Un desiderio irreale, che nessuno dei due poteva permettersi. Un'oasi di intimità tra due estranei, che li richiamava entrambi. "Gli ebrei! Gli ebrei! " sentimmo poi, e la magia di quell'attimo fu rotta dall'appello a trovare rifugio in quel campo di rifugiati. Mansur spense la luce, accese un'altra lanterna e abbracciò suo fratello. Jamil baciò Huda sulla fronte. "Allah yihmik ya ibni" gridò lei, invocando la Sua protezione. "Khaltu Amai," disse Jamil seccamente, "da cui viene il nome di mia sorella." Non si concesse un'altra occhiata all'oasi che avevo accanto. Vidi però la sua presenza passare sulla pelle di mia figlia come una carezza. Come una richiesta di scuse, un rimorso prima della fine. Un rito di morte. Jamil prese l'unica cosa che era appesa alla parete, si avvicinò la cornice al volto, baciò il vetro e rimise a posto la fotografia di Jamal, il suo gemello, eternamente dodicenne. Poi uscì. Alle due di notte udimmo il ruggito dei carri armati in movimento, simile alle fusa di un gatto mostruoso. Ci stringemmo. La teiera di metallo, raffreddata dalla notte, era dove l'avevamo lasciata. Mansur si
chiuse nella stretta del suo silenzio. Continuò a disegnare. Huda rivolse il suo tappetino verso la Mecca e pregò in silenzio. Poi ci furono altri suoni. I rauchi colpi dei carri armati. Lo stridere dei missili degli elicotteri. Il fragore delle bombe aeree. I colpi delle esplosioni. La cacofonia della forza militare era inframmezzata da una calma ambigua, in cui si potevano sentire il tictictic delle creature che lasciavano le loro tane e le strilla dei neonati mentre i soldati passavano di casa in casa. I suoni di morte e distruzione si alzarono e si abbassarono per nove giorni, durante i quali restammo nello spazio più interno e più nascosto della casa. Una buca più grossa sotto al pavimento della cucina. "Ti ricordi?" mi chiese Huda. "Mi ricordo." Sentivamo case e fabbricati che venivano rasi al suolo nelle vicinanze. Le grida dei bulldozer, come un'orgia di draghi, facevano tremare la terra sotto ai nostri piedi, e pensammo a un piano di fuga nel caso in cui fossero arrivati da noi. Huda raccolse alcune fotografie di famiglia insieme ai suoi documenti d'identità delle Nazioni Unite e s'infilò il pacchetto nella tasca anteriore della thobe. Io e Sara ci mettemmo i passaporti americani nei reggiseni. Nessuno di noi si tolse le scarpe. Per tutto il tempo, tenni stretta mia figlia in un sogno privato, innamorandomi di lei come se l'avessi appena partorita una seconda volta. Parlammo per nove giorni, smontando le parole non pronunciate di una vita. Mentre la morte pioveva dal cielo e i proiettili tempestavano i muri esterni della casa di Huda, io e Sara ci spogliammo del dolore e dell'amarezza di cui ci eravamo rivestite e scoprimmo la nostra comune nostalgia per Majid nonostante, o forse a causa, del terrore che provavamo. "Avevo così tanta voglia di sapere. Di parlare di lui insieme a te, sai. Perché non me ne hai mai parlato?" Le lacrime le tremavano lungo i bordi degli occhi. Gli occhi di Majid. Due illimitate sfere nere, dagli angoli lievemente inarcati e con sopracciglia che sapevano alzarsi come un sorriso. La versione femminile di Majid nel volto di nostra figlia. Nelle nebbie del ricordo non riuscivo a trovare niente di completo, solo frammenti di lui. Una particolare ruga sul volto. Una cicatrice. I ciuffi ribelli alla base del collo. Il cielo e il Mediterraneo che sfumavano in un unico colore. Ma ricordavo il suo profumo. La rugiada del suo sudore dopo il lavoro e dopo l'amore. Dopo così tanti anni Majid era il profumo della tristezza.
"Mi dispiace, Sara." Aprii le mani e schiusi le mascelle. "Avevo paura... paura di quello che potevo sentire." Parlavo con il cuore in mano. "Ricordi com'è stato quando sono cadute le Torri Gemelle, l' 11 settembre? " Alzò le sopracciglia. "Sì. Ricordo che il giorno dopo sei rimasta chiusa nella tua stanza e non sei andata al lavoro. Pensavo che l'avessi presa molto male e ammetto che non capivo. Cosa c'entrava con mio padre?" Sentivo la voce di Yussef, oppressa e triste, arrabbiata e impotente, che parlava all'altro capo del telefono, vent'anni prima. "Tuo padre è stato ucciso allo stesso modo. Israele ha bombardato il nostro palazzo la sera prima che partisse da Beirut e ci raggiungesse." Quelle parole mi uscirono dal cuore e dalle labbra, contemporaneamente. Senza rabbia, collera o disperazione. Solo con un dolce dolore. Una tristezza che potevo drappeggiare attorno al mio cuore e tenerlo al caldo. "Oddio!" Sara mi strinse con affetto, con forza. "Ho pianto un mare di lacrime. Poi ho pianto per me stessa, una donna sola, senza l'onore che spetta alle mogli dei caduti. Il rispetto per la loro perdita, per la perdita dei loro figli. Una cosa così eloquente, maestosa. Così commovente e piena di solidarietà. E invece eccomi là, nello specchio, con il valore irriconosciuto della vita di mio marito. Il disprezzo per la mia perdita. L'Fbi sempre addosso. Il passato che incombeva minaccioso. Ma l'11 settembre ho rivissuto gli ultimi attimi della vita di tuo padre. L'ho visto in ogni persona che cercava di buttarsi, in ogni corpo che tiravano fuori dalle macerie. E mi sono vista come non mi era mai stato permesso di essere, consolata, capita e amata." Sara stava piangendo. Si sentiva in colpa perché allora il mio comportamento l'aveva irritata. "Oh, mamma. Mi dispiace tanto. Non sapevo. Sono stata così insensibile. Non capivo." Guardai mia figlia e capii, come so con certezza che il sole calerà e sorgerà di nuovo, che l'amavo con una forza e un'intensità più profonde del tempo, più profonde di Dio. "Shhhh, habibti. Non devi spiegare niente. Non sono stata una madre molto brava. Avrei dovuto dirtelo. Avremmo dovuto parlare di queste cose anni fa. Sono io che devo chiederti scusa." Dei movimenti di fuori ci fecero sobbalzare e svegliarono Huda. Avevo di nuovo undici anni nella buca sotto la cucina. Ci rannicchiammo di nuovo, pregammo, Mansur continuò a disegnare. Restammo immobili, controllammo le nostre carte, i passaporti. Le scarpe allacciate, pronte a scappare.
Allungammo le gambe; un crampo poteva essere fatale. Ma non ci alzammo, perché potevano entrare proiettili dalle finestre. Rannicchiarsi, rannicchiarsi nello spazio più interno e più nascosto. Mentre la paura si alzava dai cuori come uccellini nell'aria. Sara era spaventata come non l'avevo mai vista. Anche il colore del suo volto si ritirò e si nascose. Le scostai i capelli dalla fronte e la baciai. Le baciai il volto. Baciai via la paura. Finché non tornò la calma. Proiettili, carri armati ed elicotteri tornarono al loro mondo di proiettili, carri armati ed elicotteri. Calma, attorno a noi e dentro di noi. Un grido o un pianto occasionale. Soldati che controllavano il lavoro svolto, forse. Calma, a parte il cinguettio di quegli uccellini invisibili. Ormai c'era stata calma a sufficienza. Tirammo il fiato, facemmo volare via gli uccellini e cominciammo a sussurrare. Poi a parlare. "È stato un colpo di fulmine? Quando ti sei innamorata di mio padre?" mi chiese Sara, ma non riuscivo a individuare un momento preciso. Mi sembrava di aver sempre amato Majid. Come si può definire l'inizio di un amore? Quando, in quale istante, il cielo scuro della notte si tinge d'azzurro? "Non lo so, habibti" risposi con sincerità, ma la sua espressione voleva qualcosa d'altro. Voleva una storia. "Be', forse quando mi è venuto a prendere all'aeroporto. Arrivati al campo, tuo padre è sceso dalla sua Fiat con le mani piene di caramelle per le frotte di bambini che lo accerchiavano. Era una scena così bella..." E il ricordo di mio marito, dell'azzurro, dell'amore e della perdita, mi strinse delicatamente la gola. Le lacrime cominciarono a scendermi dagli occhi. Misericordiosamente, scesero. "Racconta ancora, mamma." La calma non durò. Ci furono altre esplosioni, seguite da un fuoco intermittente. Il terrore che infuriava attorno alla piccola baracca di Huda ci spinse nei meravigliosi legami dell'amore filiale e dell'amicizia. "Sai," cominciò Huda, "Fatima mi ha scritto di te e Majid. Sembrava così felice. " Poi abbassò lo sguardo a terra. "Ma ho ricevuto la sua lettera solo molti mesi dopo, quando... dopo che..." "Hai ancora quella lettera?" "Certo. E qua, tra le mie cose più importanti." Prese il pacchetto dalla tasca della thobe. Tolse un foglio arancione ripiegato e mi ricordai del blocco di carta da lettere arancione che Fatima teneva nella dispensa della cucina, un dettaglio che conservavo tra i miei ricordi del Libano.
L'aprii e cominciai a leggere di Falastin che cresceva, di Yussef che lavorava e si preoccupava troppo e di quant'erano felici di avermi con loro in Libano. La lettera parlava di me e Majid, e Fatima si vantava della propria abilità nel combinare matrimoni, prendendosi tutto il merito della nostra unione. Aveva appena saputo della sua seconda gravidanza e scriveva "Non ci crederai, ma anche Amai è incinta. Partorirà a settembre anche lei!". Scriveva di quanto le mancava Huda, di quanto le mancavano i suoi familiari in Palestina. ' "Un giorno" diceva, concludendo la lettera: Insha'allah. Ya Rabbi, un giorno saremo di nuovo insieme. Tutti quanti. Io, Yussefe i bambini, Amai e Majid con i loro figli, tu e Osama con i vostri figli. Sogno questo giorno. Con affetto, Fatima Il settimo giorno, Mansur fu portato via. I soldati fecero saltare la serratura della porta di metallo, riversandosi dentro come un'emorragia. Mentre due di loro rovistavano la casa, un terzo ordinò a Mansur di rimanere in mutande. Distogliemmo lo sguardo nell'inutile tentativo di lasciargli un minimo di dignità. Lo legarono e ammanettarono. E il silenzio di Mansur lo avvolse come un soprabito mentre lo portavano via, lasciando i suoi disegni disseminati per casa. "Che Dio ti protegga, figliolo" disse Huda. Senza piangere. Credo che avesse esaurito le lacrime. "Mansur tornerà. Lo picchieranno. Fanno sempre così. Torna sempre" disse come a se stessa. Sempre è una bella parola in cui credere. Raccogliemmo le opere di Mansur in una piccola pila di fogli. Ritraevano il mondo come lo vedeva lui: Huda che pregava, Sara abbandonata tra le mie braccia, Jamil vittorioso in battaglia, il profilo di Sara, noi tutti piegati su un umile pasto, con l'angelo della morte che ci sorvegliava dall'alto. Ci restava poca acqua preziosa e avevamo quasi finito il pane. Cos'era successo? Non osavamo togliere i sacchi di sabbia dalla finestra per guardare fuori ed eravamo troppo spaventate per avvicinarci alla porta di metallo distrutta, che offriva una feritoia. Ma era tornata la calma. Già da un po'. Tra poco passeranno con gli altoparlanti a dirci che possiamo uscire di casa. Ma non passò nessuno, e finimmo l'acqua e il pane. Pensammo che qualcuno sarebbe venuto senz'altro a portare via i morti, che, invisibili, ci costringevano a respirare attraverso un panno imbevuto d'acqua di rose. L'odore diventò insopportabile. I segni che tracciammo sul muro indicavano che erano passati due giorni dalla fine dei bombardamenti,
ma non riuscivamo a vedere nulla attraverso la fessura nella porta di metallo. Una nube infinita di polvere e macerie delle case distrutte saturava l'aria. Leccammo le ultime gocce di acqua di rose, rompendo la bottiglia per finire tutto il possibile, e ci addormentammo. "Il mondo non può permettere che questo continui" dissi a Huda. "Il mondo?" chiese Huda sarcasticamente, retoricamente, e con una profonda, insolita amarezza. "Da quando al 'mondo' importa qualcosa di noi? Sei stata via troppo tempo, Amai. Vai a dormire, adesso. Parli come un'americana." Detto questo, lei e la sua saggezza si alzarono il panno sul naso e chiusero gli occhi. La mattina dopo, il sole sorse sulla foschia di un campo profughi decimato. Sentii il rumore di un grosso veicolo. Un'ambulanza della Mezzaluna Rossa. Lasciai un biglietto in cui dicevo che sarei tornata con dei viveri dal furgone di aiuti e uscii, coprendomi il volto contro l'assalto della luce e della polvere. Mi feci strada in un'inquietante immobilità, simile alla quiete di un cimitero dove i suoni impercettibili delle anime svanite e di piccole storie interrotte mi si arrampicavano sui piedi come formiche. Pensavo che fosse finita. Pensavo che gli israeliani se ne fossero andati. Era tornata la calma. Pensavo che la macchina che avevo sentito fosse un veicolo di soccorso, un furgone di aiuti. Mi sbagliavo. Era un furgone dell'esercito israeliano. Lo vidi fermarsi poco più avanti, in una prateria di macerie dove solo pochi giorni prima c'erano state centinaia di case. Il fondo del furgone era pieno di corpi senza vita ammucchiati l'uno sull'altro come legname. Il furgone si era fermato per togliere il cadavere dilaniato di un palestinese impiccato a un palo di metallo che sporgeva dal fianco di un edificio parzialmente distrutto. La sua testa era cinta da una fascia a quadretti bianchi e neri e sulle braccia aveva due bende rosse comuniste. Simboli svuotati dalla morte in quel furgone di legname. La gravità del mio errore mi piombò addosso. Cautamente, muovendo solo gli occhi, guardai in alto e vidi i cecchini. Gli ebrei sono ancora qua. Click. Click. Mi voltai terrorizzata verso lo stridere del metallo che scattava e sentii un fucile premermi contro la fronte prima ancora di vedere il giovane volto del soldato che mi stava davanti.
Quell'attimo aprì uno spazio per noi, soffiò via la polvere e ci immobilizzò, insieme. E ora eccoci qua. Vedo le lenti a contatto galleggiargli negli occhi e il sudore imperlargli la fronte. Provo un'inspiegabile serenità. La morte, nella sua certezza, sta esigendo la dovuta quiete e il dovuto rispetto prima di prendermi per mano. Ma il soldato non spara. Batte le palpebre con forza. E una solitaria goccia di sudore gli scende dalla fronte. Lungo un lato del volto. La guardo cadere e noto la sua pelle liscia, ancora troppo giovane per richiedere una rasatura costante. Il potere che detiene sulla vita altrui è un fardello insostenibile per la sua giovane età. Lo sa e vorrebbe liberarsene. È troppo bello per non avere una fidanzata che aspetta nervosamente il suo ritorno. Preferirebbe essere con lei invece che con la sua coscienza. Invece che con il suo fardello o con me. So che ha già ucciso. Sa che lo so. Ma non ha mai visto la sua vittima in volto. I miei occhi, dolci d'amore materno e della calma di una donna morta, lo opprimono insieme al potere che ha tra le mani. Penso che si metterà a piangere. Non ora. Più tardi. Quando sarà faccia a faccia con i suoi sogni e il suo futuro. Sono triste per lui. Triste per questo ragazzo costretto a uccidere. Triste per i giovani traditi dai loro leader in cambio di simboli, bandiere, guerra e potere. Per un attimo, penso che potrebbe essere mio nipote. Ma no. Uri non ha dubbi sul suo dovere di uccidere per Israele. Questo soldato non è mio nipote. Strano, strano. È un bel ragazzo e sento di volergli bene. È così che Yussef aveva guardato David? Con un amore inspiegabile? Oh, David! Fratello. Ora ti vedo con chiarezza. Hai vissuto come uno straniero nella tua stessa pelle. Mi hai cercata per anni senza mai desistere, anche quando gli indizi della tua famiglia ti portavano a una tomba o a un macabro titolo di giornale. Il tuo cuore è riuscito a trovare quiete solo nel sollievo temporaneo dell'alcol. Hai cercato con l'unica, finale speranza che io, tua sorella, potessi attraversare l'abisso della tua solitudine con la peculiare volontà di chi non appartiene a nessun posto. E quando mi hai trovata, non mi sono avvicinata abbastanza. Hai confessato la tua vergogna e i tuoi peccati ma sono rimasta seduta in silenzio, arroccata nel mio dolore. Oh, fratello! Sento qualcosa di
nuovo, una rinascita che si avvicina. Comincerà con il tuo perdono. Verrò da te, quando tutto questo sarà finito. Finirà presto. Il mondo non può permettere che questo continui. Questa devastazione è al di là di ogni comprensione. Israele non può continuare a nasconderla. Il mondo alla fine saprà tutto. Le cose cambieranno. Presto verrò da te e ti chiederò scusa. Sei la mia stessa carne, il mio stesso sangue. Sei figlio di Hassan e di Dalia. Nipote di Yehya e Bassima. Padre di due figli. Voglio parlare a questo soldato che continua a puntarmi contro un fucile. Ma cosa c'è da dire? E le parole frantumeranno l'immensità della vita e della morte, così vicine l'una all'altra? Chiudo gli occhi e la mia vita mi sfarfalla davanti nella sua pienezza, lampeggia, prende forma. Ho commesso così tanti errori. Non ho amato abbastanza. Non ho amato abbastanza. Una voce grida, "Laaaaaaa" e capisco che è Huda, mentre sento gli occhi uscirmi dalle orbite e vedo con orrore mia figlia che esce, esposta al fuoco dei cecchini. Mi dimentico il soldato e il fucile puntato contro la mia testa. So volare. Lo giuro. Volo da lei. Mi lancio su Sara, felice di essere ingrassata perché il mio peso la spinge giù. Sono incredibilmente felice. Euforica, perché i cecchini non l'hanno vista e siamo al sicuro per terra. Basse sotto le nuvole di polvere. Da qualche parte, in lontananza, il muezzin comincia a richiamare i fedeli alla preghiera. L'adhan scende dal cielo come un triste bouquet di gigli. " Allahu akbar" riverbera sopra e dentro l'odore putrido di questa devastazione. Nella sua eco, sento la canzone incatenata dell'Oriente. Guardo negli occhi spaventati di mia figlia sotto di me e mi si scioglie il cuore. Sono pazza d'amore per mia figlia. La mia preziosa bambina. Sara. La canzone più dolce della mia vita. La mia casa. Sono troppo esausta per muovermi. Le sussurro: "Ti voglio bene". Sogno di invecchiare alla melodia dello scalpiccio dei nipoti che un giorno mi darà. I nipoti miei e di Majid.
VIII.NIHAYAWBIDAYA (UNA FINE E UN INIZIO Quarantacinque PER AMORE DI UNA FIGLIA 2001 Amai fu uccisa. Anche mentre la vita le abbandonava il corpo e i suoi occhi si svuotavano, Amai morì senza rendersene conto. Morì con la gioia di aver salvato la vita a sua figlia. Con pensieri di felicità e con amore. Morì in un sussurro, come se la morte stessa fosse avvilita dal dischiudersi di un cuore ferito e non volesse rovinare tanta dolcezza annunciando la sua presenza. Come se la morte le avesse cantato una ninnananna. Quel giorno è il punto in cui i vent'anni di Sara convergono e setacciano i minuti passati in cerca di risposte, di uno scopo o della volontà di rafforzarne il ricordo. O di rafforzare la mente contro quel ricordo. La pigra foschia di quel giorno. L'abisso della loro sete. La polvere apocalittica che galleggiava nell'aria come un'alga. Sara non sapeva perché sua madre fosse uscita quel giorno. C'era stata davvero un'ambulanza della Mezzaluna Rossa? I suoi occhi si erano appena svegliati da un sogno quando aveva varcato la soglia per raggiungere Amai. Stava sognando del suo concerto di violino, poco prima di compiere dieci anni, quando aveva guardato tra il pubblico e visto il volto di sua madre pervaso da un dolce senso di orgoglio. Ti ricordi, mamma? Ma nel sogno suonava per un pubblico di due sole persone, Amai e Majid, dai quali proveniva un applauso fragoroso che riempiva quel teatro immaginario. Majid aveva il suo stesso volto. Sara aveva cercato per tutta la vita di ricostruire i lineamenti di suo padre dalla propria immagine riflessa. "Gli somigli così tanto " le aveva detto una volta Amai. Ricordi quando me l'hai detto, mamma? Io sì. Avevo cinque anni. Nel suo sogno, Sara s'inchinava davanti a loro. All'improvviso vedeva anche i suoi nonni, Dalia e Hassan, zio Yussef, Fatima, la cugina Falastin, A bisnonno Yehya con la bisnonna Bassima, 'Ain Hod e i cavalli del prozio Darwish, e tutti i volti e le storie che avevano popolato la sua mente durante quei giorni a Jenin insieme a sua madre.
I suoi antenati si univano a quell'applauso per lei, il frutto del loro seme. L'auditorium rimbombava dei loro elogi e sullo sfondo s'intravedeva il paesaggio rigoglioso di 'Ain Hod. Poi l'applauso si trasformò in un fragore - Era quella l'ambulanza della Mezzaluna Rossa? - e spezzò in due il suo sogno, da cui ora vedeva il profilo di sua madre di fuori, in una realtà che si faceva sempre più viva. Continuò a scendere dal palcoscenico verso Amai e Majid, il cui volto adesso non era più uguale al suo ma a quello di un israeliano con un elmetto da soldato. Si diresse verso sua madre tra la languida delicatezza del concerto di violino e la terribile devastazione di Jenin. Si avvicinò ad Amai nell'instabilità di un sogno a occhi aperti. Poi ci fu l'urlo, e Sara si svegliò sotto il peso di sua madre. Sei la mamma più bella di tutte. Sara non potrà mai dimenticare quegli ultimi minuti della vita di sua madre. Almeno dieci minuti, forse un'ora, un'eternità che non sarà mai abbastanza. Continua a ripetersi nella sua mente, e lei la riporta nelle lettere che scrive alla sua defunta madre su un sito Internet, perché il mondo le veda: Il tuo volto mi sta guardando da sopra, le parole "ti voglio bene" si formano sulle tue labbra crepate dalla sete. Ma non esce alcun suono. Vorrei dirti che so che venivi in camera mia di notte, quando credevi che io dormissi, per prendermi tra le braccia. So che mi volevi bene. Vorrei dirtelo. Il tuo respiro era sempre pieno di amore e pieno di dolore. Vorrei dirtelo, ma sono terrorizzata perché adesso ho la prova concreta che mi ami più della tua stessa vita. Chissà cosa stai pensando. Ho bisogno del tuo perdono. Ho bisogno di te e supplico Dio che non ti porti via. Non ora. Non così. Il proiettile del cecchino, inteso per Sara, si conficcò nella carne di Amai e le dissanguò le viscere in una calda pozza bruna che rivestì il sogno di Sara, e ogni suo sogno da allora in poi. Fino a quando l'assedio finì, una settimana dopo, Sara rimase coperta del sangue di sua madre. Il soldato che aveva puntato il fucile contro Amai staccò Sara dalle braccia senza vita di sua madre. Lei lottò per restare avvinghiata. Gli chiese di spararle. Nello shock, lo vide stupito che parlasse inglese. Mentre trascinava Sara verso la casa di Huda, il soldato disse a nessuno in particolare, in un inglese tremante e spezzato, che "non poteva più sparare". Diede a Sara e Huda il suo thermos di acqua e due giorni dopo gliene portò un altro e disse loro dove potevano trovare il corpo "della donna"
quando il campo sarebbe stato "aperto". Aveva nascosto il cadavere di Amai sotto a un piccolo ulivo sradicato. Diede loro da bere e mangiare a sufficienza per la durata dell'assedio, ma non a sufficienza per lavare via il sangue di una madre dalla pelle di sua figlia. Quando l'assedio finì, i reporter si riversarono nel campo profughi. Seguirono acqua e cibo, e i sopravvissuti si misero in cerca gli uni degli altri, dei propri morti, delle proprie cose, della propria volontà. Libri di scuola, scarpe spaiate, utensili, gli oggetti della vita quotidiana erano disseminati tra le case distrutte. Hajj Salim non sopravvisse. I vicini in fuga avevano cercato di tirarlo fuori, ma il bulldozer in arrivo non si era fermato e la sua mole aveva raso al suolo l'abitazione del vecchio mentre era ancora al suo interno. Quando lo venne a sapere, Sara pianse e scrisse alla sua defunta madre: Mamma, sai che Hajj Salim è stato sepolto vivo in casa sua? Ti racconta le sue storie in paradiso, adesso? Avrei voluto conoscerlo. Vedere il suo sorriso sdentato e toccare la sua pelle ruvida. Chiedergli, come facevi tu da piccola, di raccontarmi una storia della nostra Palestina. Aveva più di cent'anni, mamma. Vivere così a lungo, solo per essere schiacciato da un bulldozer. È questo che significa essere palestinesi? Aprile, il mese dei fiori, ritrova sempre Sara tra le braccia di sua madre. È il mese in cui madre e figlia s'innamorarono di nuovo e rimasero sveglie tutta la notte a parlare, mentre la furia turbinava fuori dalle pareti che le proteggevano. Il mese in cui Amai trovò finalmente il proprio posto negli occhi di sua figlia. Sul suo sito internet, www.aprilblossoms.com, Sara scrive i ricordi di quel mese. Il mese da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna. Il mese a partire dal quale Sara ha cominciato ad amare e odiare. Sara tornerà in Pennsylvania. Questo è sicuro, perché ha già scritto troppo e il suo nome compare su una lista israeliana di "minacce alla sicurezza". Non c'è posto dove nascondersi in questa terra dove anche le ombre vengono sradicate. Ma il cuore di Sara non lascerà mai Jenin. Huda vagava intontita per il campo. Il luogo dov'era nata, dove era stata violentata e terrorizzata, amata e coccolata, era stato distrutto ancora una volta. I resti delle vite delle persone spuntavano da un mare di rovine. Huda vagava cercando qualcosa da trovare. Un accappatoio da donna ancora appeso alla parete di un bagno rimasto in piedi tra le macerie. Era l'accappatoio della sua amica e vicina di casa. Era qualcosa. Ma lo lasciò dov'era. Una mano, di cui si vedevano solo le dita, spuntava dal terreno. Qualcuno sepolto vivo. Huda girò
cautamente attorno alla mano, recitando sottovoce la Fatina per l'anima di quella persona. La scarpa di una bambina. Libri scolastici ovunque, strappati e segnati dai cingoli dei carri armati. Una bambola. La raccolse. Aveva solo un braccio. Huda si sedette lentamente per terra, la bambola con un solo braccio tra le mani. La guardò. La fissò. Sentì il soffio circolare del tempo attraversarle il cuore e si rivide di nuovo ragazzina. Sorrise con una tristezza infinita. Accarezzò la bambola sulla testa e le lisciò i capelli arruffati, un gesto che fece riaffiorare nuovamente le lacrime. Pianse con un debole mugolio, simile al suono di un cuore continuamente infranto. E, con grazia, chiuse gli occhi e pregò: Oh, Signore, aiutaci a sopportare tutto questo. Solo al funerale Huda gridò. Si disperò sul corpo della sua amica d'infanzia. Fu l'unico corpo che potè seppellire. Jamil non fu mai ritrovato. Huda sapeva, come solo le madri sanno, che suo figlio sarebbe stato ucciso. Ma quale madre può davvero prepararsi a una cosa simile? Così Huda gridò e gridò. Un richiamo primitivo nel cielo. L'amore e la morte dei suoi figli le incresparono e contorsero il volto. Conficcò le dita nella terra, lavorandola come se stesse modellando il destino stesso, afferrando manciate del proprio dolore e lanciandole in aria e sul proprio volto. Rimase là seduta, cosparsa di terra e in lacrime. Anche David era lì, in piedi al suo fianco, davanti alle sette lunghe file di fosse. Si conoscevano bene, perché era stata Huda a dare a David nomi e informazioni quand'era venuto a cercare la sua famiglia. Ma adesso non parlavano. Nessuno diceva nulla. I pochi uomini rimasti a Jenin scavavano le fosse. I bambini li guardavano incuriositi mentre i corpi avvolti nei lenzuoli funebri venivano calati nel terreno. Le donne alzavano manciate di terra e se la buttavano sul volto. Gemevano con un gorgheggiamento primordiale a cui il mondo non assistette. David piangeva in silenzio. Rimase sopra il cadavere di sua sorella, nel tormento della sobrietà, trasudando sete di alcol. Anche se muta, la forza del suo dolore era grande e aleggiava sulle fosse come una pioggia che non può cadere. Le sue lacrime prorompevano in una solitudine che non poteva essere né soffocata, né consolata, né toccata. Ari non si alzava. Era accovacciato sulla fossa di Amai, piegato dal dolore, e le parlava sommessamente: "Tieni questa", sussurrò al suo corpo, "devo la vita a tuo padre. Digli che non ho mai avuto un amico
migliore". E Sara lo guardò lasciar cadere la spilla con le diciotto perle sulla figura ricoperta di sua madre. La spilla della signora Perlstein è stata sepolta con te, mamma. Quando le ore ebbero accumulato su di loro stanchezza e sete, i lamenti lasciarono il posto al silenzio malinconico di un dolore sfinito. Ari zoppicò tra i presenti e pronunciò la preghiera musulmana per i morti. Tutti recitarono la Fatiha, nascondendo il volto negli "amen" tra le mani a coppa. "È stato tuo nonno a insegnarmi a pregare" disse più tardi Ari a Sara. "Vorrei tanto averlo conosciuto" rispose lei. "Ti racconterò tutto quello che ricordo. Conosco tuo nonno fin da bambino ed ero al suo fianco quando ha sposato tua nonna Dalia. Posso parlarti anche dei tuoi bisnonni, Hajj Yehya e Hajja Bassima. Se ti va, ti porterò a 'Ain Hod per farti vedere iluoghi delle tue origini. Non ci torno da quand'ero piccolo. Sarà poetico tornarci insieme alla nipote di Hassan. Proprio così. Mi farai un grande piacere se verrai. Hassan sarà contento, dovunque si trovi adesso. Sono in debito con lui." Le storie di Jenin si diffusero nei villaggi vicini. L'immagine di un ragazzo appeso a un palo di metallo, con le fasce da combattente attorno alle braccia e alla testa. La storia di un vecchio, un hajj centenario, schiacciato dal bulldozer che gli aveva raso al suolo la casa. Quella della palestineseamericana uccisa nel tentativo di proteggere la figlia. La donna, sopravvissuta a una pallottola israeliana da ragazza, ora era morta per quella diretta a sua figlia. La sua storia si diffuse in lungo e in largo, spingendo Muna Jalayta a chiamare le sorelle colombiane, in lacrime: "Amai è stata uccisa a Jenin". La storia arrivò anche all'estero e trafisse di dolore il cuore di Elizabeth, che pianse sulle spalle di suo marito per la donna e la figlia che avevano aiutato e amato. Angela Haddad e Bo Bo accolsero con dolore la morte di una cara amica. Ma anche questa storia, alla fine, si perse nel silenzio. Quando finalmente Israele aprì il campo, le Nazioni Unite non arrivarono. I membri del Congresso degli Stati Uniti, che visitavano i luoghi degli attentati suicidi ed esprimevano eterna fedeltà a Israele non arrivarono. Jenin seppellì in una fossa comune cinquantatré corpi, tra cui quello di Amai, ma centinaia rimasero dispersi. La relazione ufficiale delle Nazioni Unite, preparata da uomini che non avevano mai visitato Jenin e non avevano parlato con nessuna vittima né carnefice, concluse che non c'era stato alcun massacro. La stessa
conclusione rimbalzò sui titoli della stampa statunitense: "NESSUN MASSACRO A JENIN". "SOLO MILITANTI UCCISI A JENIN, AFFERMA ISRAELE." Ti hanno uccisa e sepolta nei titoli dei loro giornali, madre. Come posso perdonare, madre? Come può Jenin perdonare? Come si può portare questo fardello? Come si può vivere in un mondo che volta le spalle a questa ingiustizia da così tanto tempo? E questo che significa essere palestinesi, madre? Il cuore di Sara è avvolto da un grido silenzioso, simile a nebbia. Un grido che non trova parole adatte a descriverlo. Certe volte pensa che sia un impulso politico o umanitario di mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Altre volte sembra rabbia. Ma nell'ombra della solitudine, è un sussurro muto che sale dalle profondità del suo cuore, l'inconfondibile struggimento per un altro solo istante insieme ad Amai, per rispondere alle sue ultime parole e dirle: "Ti voglio bene anch'io". Quarantasei FRAMMENTI DI DIO 2002-2003 Alcune settimane dopo, Ari mantenne fede alla sua promessa e portò Sara a 'Ain Hod. Chiesero a David di venire con loro e camminarono tutti e tre per il villaggio. Sculture moderne punteggiavano il terreno. Alcuni artisti, perlopiù ebrei francesi, dipingevano paesaggi all'aperto e la gente se ne andava in giro in calzoncini corti e abiti estivi. "Questa è la casa della tua famiglia" disse Ari, indicando uno splendido edificio di pietra con un bellissimo giardino e alberi da frutto. "Possiamo entrare?" chiese Sara. "Chiediamo." Ari bussò alla porta. Venne ad aprire una bella ebrea sui trent'anni. Resasi conto che gli estranei che aveva davanti erano mossi da un afflato di nostalgia palestinese, si rifiutò di farli entrare. "So di cosa si tratta. Ma dovete capire che adesso questa è casa nostra." Mise l'accento su nostra. "E poi, il mio bambino sta dormendo. " Detto questo, chiuse la porta e gli ospiti mancati se ne andarono. Sara fotografò le stalle che un tempo avevano ospitato Ganush e Fatuma. Aveva promesso a suo prozio Darwish che avrebbe visitato quell'edificio in pietra che conservava i suoi ricordi più cari. Tre dei suoi figli, i cugini di Amai, erano entrati nella resistenza e avevano perso la vita negli scontri. Gli altri erano stati imprigionati, e in quei
giorni Darwish si era augurato di morire. Ma era sopravvissuto sulla sua sedia a rotelle - nello spazio più interno e più nascosto. David e Ari trovarono la tomba di Bassima là dove un tempo sorgeva il cimitero, appena sopra il villaggio. La maggior parte delle lapidi erano state divelte. Ma un gruppo di rose rosse screziate di bianco facevano capolino tra l'erba alta. "È all'incirca qui che l'abbiamo sepolta" disse Ari. "Queste rose le ha piantate Dalia." Sara raggiunse Ari e David. Negli ultimi giorni che avevano passato insieme, Amai aveva raccontato alla figlia della tomba e delle rose. Con quella storia ancora fresca nella mente, Sara capì subito cosa stavano guardando i due uomini. "Recitiamo la Fatiha per la mia bisnonna Bassima?" "Certo" disse Ari. "Me l'insegnate? La Fatiha?" chiese David dopo un po'. "Certo." Prima di sera, Sara fece una deviazione per la spiaggia di Haifa. Aveva promesso a zia Huda di fotografare il mare. In tutta la vita, Huda non era mai riuscita a realizzare il suo sogno d'infanzia e a sedersi in riva al mare. Solo sedermi, dato che non so nuotare. A Jenin, Sara trovò finalmente la famiglia allargata che aveva sempre desiderato. Huda diventò un'amica materna. Suo prozio Darwish aveva messo al mondo un nutrito contingente di cugini - di primo, secondo e terzo grado. Ma più che a chiunque altro, Sara voleva bene a Mansur. Un anno dopo la morte di sua madre, Sara era ancora a Jenin a dare una mano nel lento processo di ricostruzione, sovvenzionato dagli occasionali stanziamenti dei ricchi stati del Golfo. Trovò un impiego presso un'organizzazione non governativa francese e viveva insieme a Huda. Suo zio David e Jacob venivano a trovarla spesso. Quelle persone così diverse si riunivano nel ricordo della perdita e nella speranza della pace, e diventarono una specie di famiglia. Dopo la morte di sua sorella, David smise di bere. Ecco cosa scrisse sul sito internet di Sara: Non bevo più, sorella. In qualche modo mi hai fatto questo dono. Non sarò mai completamente ebreo né completamente musulmano. Mai completamente palestinese né israeliano. Accettandomi, mi hai reso contento di essere semplicemente umano. Hai capito che, pur essendo stato capace di grandi crudeltà, lo sono anche di un grande amore. Alla fine Sara fu espulsa e rimandata negli Stati Uniti, dove trovò un impiego presso un'agenzia di stampa di alJazeera. Suo cugino Jacob
andò con lei e s'iscrisse alla stessa università di Amai, la Tempie. A quanto pare era portato per la matematica, come suo zio Yussef. Mentre era ancora a Jenin, Sara riuscì a ottenere un visto per Mansur, che imparò ad amare come il fratello che non aveva mai avuto. Osama fu rilasciato dalle carceri israeliane e sia lui che Huda incoraggiarono il figlio a partire. Così, poco dopo essere tornata in Pennsylvania, Sara gli spedì un biglietto aereo perché venisse a vivere insieme a lei e Jacob nella vecchia casa vittoriana restaurata da sua madre dove era cresciuta. Qualche tempo dopo, David scrisse su www.aprilblossoms.com: Huda e Osama mi dicono che Mansur studia arte e lavora parttime insieme a Sara. "Sta bene" ha detto Huda. "Mi scrive sempre. Guarda. " Mi ha mostrato una pila di lettere. "Senti cosa dice qua" e mi ha letto un brano che descrive lo stupore per un mondo senza occupazione militare. Non si era mai immaginato quant'è entusiasmante vivere come si vuole e potersi spostare liberamente. Vado spesso a trovare Huda e Osama. Huda prepara piatti deliziosi e riescono a tenermi in riga quando mi vien voglia di bere. "Fatti una hukkah, invece" insiste Osama, e fumiamo mu'assai insieme. Il tabacco al miele e mela è di gran lunga il migliore. Ero là anche ieri, e Osama ha osservato che i nostri figli vivono come fratelli nella tua casa in Pennsylvania. Un'americana, un israeliano e un palestinese. "Che cosa bella" ha detto Huda, e i suoi occhi tigrati mi sono sembrati splendidi come non mai. "Proprio così" ho detto io, prendendo una boccata di tabacco al miele e mela. Con affetto, David ...Con affetto, Isma'il Quarantasette YUSSEF, IL PREZZO DELLA PALESTINA 2002 Lo organizzo. Lo vivo. Lo vedo. Lo realizzerò. Ucciderò. Lo farò. Ma non posso. So che non posso. Il mio Amore mi ha raggiunto in sogno e ha premuto le labbra sulla mia fronte. "L'amore è tutto ciò che siamo, mio caro" dice. "Il nostro amore non si è spento nemmeno con la morte, perché vivo nelle tue vene." La mia adorata moglie. La bellissima Fatima. E lotto per rituffarmi nel sogno per trovarla di nuovo.
So che non posso profanare l'amore di Fatima con la vendetta. Anche se voglio vederli versare il loro sangue non infangherò il nome di mio padre con le menzogne che racconteranno. Non posso lasciare Amai sola almondo. Non ho mantenuto le mie promesse. Ci ho provato. A proteggere mia moglie e i miei figli. A indirizzare la vita di mia sorella verso l'amore e la famiglia. Ci ho provato, papà. Adesso è troppo tardi. Posso tornare indietro? Gli ingranaggi ormai sono in movimento. "Non posso farcela" dico. "Non può farcela. Il codardo. Ma ormai è tardi" dicono. Ormai è tardi. Sopporterò questo dolore ma non lo causerò. Mangerò la mia rabbia e lascerò che mi bruci le viscere, ma la morte non sarà il mio lascito. "Ti capisco, fratello" dice un altro. Qualcun altro guida il carrobomba contro il palazzo americano. Ormai è tardi. E vedo in televisione quello che vedo nella mia oscurità. Vive dentro di me con questi anni necrotici senza fine. E il mio volto viene trasmesso e stampato sui giornali di tutto il mondo. "Ormai tutti conoscono il tuo volto, Yussef" dicono, passandomi un proiettile. "Se ti trovano, renditi onore." In tasca ho la mia pistola e un proiettile solitario. Mi porto addosso la mia morte, la mia questione d'onore, mentre io, il loro terrorista, cerco un lavoro nei reami malsani della vita. A Basra sono operaio. In Kuwait, trasporto pietre. In Giordania sono un mezzo straccione. Poi, sono un bidello di scuola. Come il destino si aggrappa alle sue abitudini. Mi corico in una stanza dietro alla biblioteca. Com'è clemente il destino. E ovunque, sono solo con i libri di mio padre, il mio proiettile, l'Amore e il ricordo di lei, il passato, e i ricordi di un futuro. Scrivo tantissime lettere ad Amai. Pile intere che si ammucchiano lungo queste pareti sporche. Ma per lei saranno guai seri se ci mettiamo in contatto e vengo scoperto. E poi, oh Isma'il, ho portato la tua cicatrice sulle mie spalle così a lungo che ormai mi si è conficcata dentro la pelle. Eccola qua. Leggo le tue parole in rete e piango. Piango oscurità e amore. Eccola qua, nella biblioteca dove vivo: www. apriiblossoms.com. Carissima Amai, con la vocale lunga di speranza. A volte l'aria mi riporta il sospiro dei ricordi, l'aroma degli ulivi e del gelsomino tra i
capelli del mio Amore. A volte porta il silenzio dei sogni infranti. A volte il tempo è immobile come un cadavere, e con lui giaccio nel mio letto. E così dormo, aspettando di rendermi onore quando sarà il momento. Perché non avrò tenuto fede alle mie promesse, ma terrò fede alla mia umanità. ...e l'Amore non mi sarà mai strappato dalle vene. Glossario Abla: insegnante. Abu: padre; padre di. Adhan: richiamo musulmano alla preghiera. Ahlan: benvenuto. Ah san: meglio. 'Aida: pasta di zucchero cotto (sciolto con limone) usata per la depilazione . alBa'iyyafihayatik: frase di cordoglio che significa "che tu abbia lunga vita". alHamdulillah 'ala salama: "grazie a Dio per averti fatto tornare sano e salvo". Allahu akbar: Dio è il più grande. Sulla stampa occidentale questa frase viene riportata come "Dio è grande", una traduzione erronea che ne sminuisce l'intensità e il contesto. Gli arabi usano "Allahu akbar" praticamente in ogni situazione e sempre come un umile promemoria che Dio è più grande di ogni evento o circostanza e che quindi la fede in Lui è la risposta. Ammu: zio paterno. Ammura: adorabile. Amtu: zia paterna. Ana ismi: mi chiamo. 'araf: schifoso Arij: fragranza. 'Arussa: sposa. Ashhadu an la Mah illa Allah, ashhadu an Muhammad rasul Allah: la shahada - la dichiarazione di fede musulmana che proclama l'unicità di Dio e dichiara che Muhammad è il suo profeta. Aywa: sì. Babà: papà.
Bah al-'Amud: Porta di Damasco (letteralmente: Porta della Colonna). Babbur. sorta di fornellino a gas usato per scaldare e cucinare (da "vapore"). Binti: "figlia mia". Bismillah: nel nome di Dio. Bismillah alrahman alrahim: nel nome di Dio, clemente e misericordioso. Blintze: frittatine al formaggio (termine yiddish). Dabke: danza popolare tipica di Palestina, Siria, Libano e Giordania Dal'ona: famosa canzone e danza popolare. Dinaro: il dinaro giordano, valuta ufficiale della Giordania e della Cisgiordania. Si divide in 10 dirham, 100 qirsh e 1000 fils. Dishdashe: lunga veste tradizionale, indossata sia dagli uomini che dalle donne. Fadiha: scandalo. Fatayer: focaccia di pane cotto al forno con formaggio o za'atar e olio d'oliva. Fatiha: la prima sura del Corano. Fedayin: combattenti per la resistenza. Fellaha: contadina. Fellahin: contadini. Fui: purè di fave, normalmente mangiato con del pane. Goy: gentile, non ebreo (ebraico). Habibi: "amore mio, tesoro mio, mio caro" (maschile). Habibti: "amore mio, tesoro mio, mia cara" (femminile). Hajj: pellegrinaggio alla Mecca; titolo dato a chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca (maschile). Hajja: titolo dato a chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca (femminile). Halawe: dolci. Hatikva: inno nazionale israeliano. Hatta: stoffa che copre il capo; maschile. Hayya 'ala'lfalah: invocazione al benessere di una persona (parte del adhan) lett: Orsù, al benessere! Hayya 'ala'lsalat: invocazione alla preghiera (parte dell'adhan); lett.: "Orsù, alla preghiera!". Hijab: stoffa che copre il capo; femminile. Hisbiya Allah wani'am aluakil: frase equivalente al rimettere una situazione nelle mani esperte di Dio.
Hummus: tradizionale salsa di accompagnamento ai cibi fatta di ceci e tahina. Ibn: figlio. Ibni: figlio mio. Insha'allah: se Dio vuole, a Dio piacendo, se Dio lo vorrà. Intifada: sollevazione o rivolta; lotta contro l'oppressione. 'lqal: cordicella, solitamente usata per fissare la batta (anche kufiyya o kefiya o kefiah) sulla testa (anche 'igalo 'egal). IsmAllah: il nome di Dio; usato come elogio e per scongiurare il male. 'Issa: in arabo, il profeta Gesù. ]eddo: nonno. ]ibne: formaggio. Jum'a (yom al-): il venerdì -Jama'at (salat al-): la preghiera in comune del venerdì. Ka'k: pane di forma allungata cotto al forno e con sesamo. Kefiah: copricapo palestinese, di solito a quadretti bianchi e neri o bianchi e rossi (anche kufiyya o kefiya). Khaltu: zia materna. Khalu: zio materno. Khan alZeit: nome di una via nella Città Vecchia di Gerusalemme. Khubz: pane. Kitab: libro. Knafe: una prelibatezza di pasta sfoglia e formaggio bagnati nello sciroppo. Kreplach: tipici ravioli israeliani di carne di forma triangolare (termine yiddish). Kugel: sformato di fettuccine o patate (termine yiddish). Russa: zucchine, di solito ripiene. La hawla wala qawata illa billah: non c'è forza né potenza se non in Dio. È un detto per esprimere la propria impotenza di fronte alle tragedie. La illah illa Allah: c'è un solo Dio (letteralmente: non c'è altro dio all'infuoridiDio). Ma 'alesh: va bene (non importa, non c'è di che, non fa niente espressione egiziana diventata di uso comune). Maklube: piatto palestinese di agnello, riso e melanzane con cannella e cumino.
Mana'ish: pane cotto al forno con olio d'oliva e za'atar (anche manakish e manaqish). Mu'assai: tipico tabacco dolce preparato con melassa, glicerina ed essenze da fumare con le pipe ad acqua. Mulukhiya: stufato di foglie di mulukhiya con brodo di pollo e aglio. Nakba: letteralmente: la catastrofe - il disastro. Termine arabo che indica l'espulsione della popolazione palestinese dai territori che nel 1948 diverranno lo stato d'Israele. Nye: antico flauto mediorientale (anche nay). Oud: strumento mediorientale simile al liuto. Qahweh: caffè. Rahma: misericordia. Rak'a: un'unità di preghiera (letteralmente prosternazione. Una rak'a consiste nello stare ritto, neU'inchinarsi, poi nel tornare ritto e infine nel prostrarsi due volte). Sabr. pazienza; anche il nome di un fico d'India molto resistente. Sahyuni: sionista. Salam 'alaykum: che la pace sia con voi - una comune formula di saluto. Salamat, yukhti: saluti, sorella (contrazione òiya ukhtt). Salat: preghiera (anche sala e salah). Sanasti: barriere di pietra disposte a spirale sulle colline della Palestina per frenare l'erosione. ' Shahada: dichiarazione di fede musulmana. Shahid: martire. Shawerma: pezzetti di carne arrostita arrotolati nel pane con insalata e salse varie (anche shawarma). Shaykh: un uomo di particolare importanza nelle tradizioni tribali, solitamente per le sue doti religiose (anche appellativo di riguardo per persona anziana). Sura: capitolo del Corano. Tobia: piccolo tamburo mediorientale. Tabun: grande forno usato per cuocere il pane. Teta: nonna. Thobe: caftano (anche thawb, tunica lunga). Udu': abluzione prima della preghiera. Uledz: figlio mio. Umm: madre di.
Wahhid Allah: dichiarazione dell'unicità di Dio. Ya: oh (particella del vocativo). Yaba: papà (contrazione di: ya babà). Yahud: ebrei. Yahudi: uomo ebreo. Ya lllahi: mio Signore. Yihmik: ti protegga. Yumma: mamma (contrazione di ya ummi). Za'atar. miscela di timo, curcuma e sesamo macinati. Zagharid: trilli di gioia o incitamento. Zhohr: mezzogiorno. Nota dell'autrice Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia. Per rendere con precisione luoghi ed eventi, mi sono basata su diverse fonti scritte, che ho riportato come riferimenti e, in certi casi, citato nel testo. Ringrazio gli storici che hanno detto e continuano a dire le cose come stanno, spesso a un alto prezzo personale e professionale. Scrivere questa storia e farla pubblicare è stato un lungo viaggio cominciato nel 2002. Inizialmente fu pubblicata con il titolo TheScar of David da una piccola casa editrice, fallita poco dopo. Ma nel frattempo venne tradotta in francese e pubblicata dalle Editions Buchet/Chastel con il titolo Les matins de ]énine. E fu grazie a Marc Parent, il mio fantastico editor di Buchet/Chastel, che Anna SolerPont, della Pontas Literary and Film Agency, diventò la mia agente due anni dopo la prima pubblicazione. Da allora, Anna ha saputo dare nuova vita al romanzo. Grazie ai suoi sforzi, il libro è stato tradotto in venti lingue e Bloomsbury mi ha proposto di pubblicarlo di nuovo in inglese. Sono infinitamente grata ad Anna e a Bloomsbury per avermi offerto questa seconda occasione. Ringrazio in particolare Alexandra Pringle, che ha creduto in questa storia tanto da occuparsene in circostanze così inusitate. E ringrazio Anton Mueller, il mio editor, per le intuizioni e la perizia letteraria (e la pazienza nei miei confronti) che hanno migliorato tanto questo romanzo. Ringrazio anche Janet McDonald per la sua ottima revisione.
L'idea per questo libro mi è venuta leggendo il racconto di Ghassan Kanafani Ritorno a Haifa, su un ragazzo palestinese cresciuto dalla famiglia israeliana che lo trovò nella casa in cui si trasferì nel 1948. Nel 2001, Hanan Ashrawi mi mandò un'email dopo aver letto un saggio che avevo scritto sui miei ricordi d'infanzia a Gerusalemme. L'email diceva: "Un articolo molto toccante, dal punto di vista personale, palestinese e umano. Credo che lei abbia i numeri per scrivere un'ottima biografia. Abbiamo bisogno di una storia del genere. Ci ha mai pensato?". Così, alla professoressa Ashrawi devo la spinta iniziale a scrivere. L'anno dopo andai a Jenin, dove venni a sapere che era in corso una strage in quel campo profughi dichiarato zona militare e chiuso al mondo, compresi reporter e volontari delle organizzazioni umanitarie. Le atrocità a cui assistetti mi diedero l'impulso a raccontare questa storia. La fermezza, il coraggio e l'umanità della popolazione di Jenin furono la mia ispirazione. Una borsa di studio della Leeway Foundation mi permise di ammortizzare le difficoltà economiche incontrate durante la scrittura. Ringrazio questa fantastica organizzazione e tutte le istituzioni che similmente apprezzano e cercano di finanziare l'espressione artistica. L'affetto e l'incoraggiamento degli amici hanno alleggerito i molti attimi di sconforto, specialmente quando i debiti e le lettere di rifiuto degli editori aumentavano. Sarò sempre in debito con Mark Miller per la sua amicizia e il suo appoggio incrollabili, anche nei momenti più difficili. Sono grata anche a molti altri per il loro affetto e l'aiuto editoriale, specialmente Mme Lamberth, che ha letto questo manoscritto tre volte in fasi diverse della sua stesura, e David Mowrey, per essere il migliore amico che io abbia mai avuto, e per tutti i sabati in cui mi ha accolto gentilmente per colazione a orari indecenti del mattino. Un grazie di cuore alle seguenti persone, la cui generosità, consulenza e incoraggiamento hanno avuto un impatto sulla creazione o la supervisione di questo romanzo (che lo sappiano o meno): il dottor Evalyn Segai, Gloria Delvecchio, Karen Kovalcik, Peter Ciampa, Yasmin Adib, Beverly Palucis, Martha Hughes, Nader Pakdaman, Anne Parrish, William Kowalski, il dottor Craig Miller e Anan Zahr. Pur avendolo incontrato solo una volta di persona, e per poco tempo, lo scomparso Edward Said ha influenzato non poco la stesura di questo libro. Una volta si è lamentato del fatto che la narrativa palestinese
mancasse di opere letterarie, e ho incorporato il suo disappunto nel mio proposito. Si è battuto per la causa palestinese con grande intelligenza, forza morale e una passione contagiosa che ha toccato molti di noi sotto più di un punto di vista. Per me era un personaggio eccezionale e, anche se sapevamo tutti che era malato, lo credevo anche più forte della morte. Purtroppo mi sbagliavo. La sua triste scomparsa, accusata da molte migliaia di noi, riecheggia tra le pagine di questa storia. La mia gratitudine più profonda va a Natalie. Essere sua madre è stata la mia gioia più grande, e il miracolo dell'amore incondizionato che sa dare e ricevere è il nutrimento del mio cuore. Fonti Benvenisti, Meron, SacredLandscape. The Buried History ofthe Holy Land Since 1948, University of California Press, Berkeley 2002. Chomsky, Noam, Fateful Triangle. The United States, Israel, andthePalestinians, South End Press, Cambridge, MA 1999. Finkelstein, Norman G., Image andReality of the IsraelPalestine Conflict, New and revised edition, Verso, London 2003. Finkelstein, Norman G., The Rise and Tali of Palestine. A Personal Account of the Intifada Years, University of MinnesotaPress, Minneapolis, MN 1996. Fisk, Robert, Pity theNation. The Ahduction ofLebanon, Nation Books, New York 2002; trad. it., Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra, il Saggiatore, Milano 2010. Gibran, Khalil, The Prophet, Alfred A. Knopf, New York 1923; trad. it. Il Profeta, Guanda, Parma 1995. Imulkais of Kinda, The Sacred Books and Early Literature of the East. Voi. 5, AncientArabia, trans. F. E. Johnson with revisions by Sheikh Faizullahbhai, Austin and Lipscomb, New York and London 1917. Karmi, Ghada, In Search of Fatima. A Palestinian Story, Verso, London 2002. Khalidi, Walid, Ali That Kemains. The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948, Institute for Palestine Studies, Washington D.C. 2006. Khalidi, Walid, Before Their Diaspora. A Photographic History ofthe Palestinians, 1876-1948, Institute for Palestine Studies, Washington D.C. 1991.
Palumbo, Michael, The Palestinian Catastrophe. The 1948 Expulsion of a People from Their Homeland, Olive Branch Press, New York, 1991. Rumi, Jalal aiDin, The Essential Rumi, HarperCollins, New York 1996. Said, Edward W. The Politics ofDispossession, The Strugglefor Palestinian SelfDetermination, 1969-1994, Vintage, New York 1994. Slyomovics, Susan, The Object of Memory, Arab and]ew Narrate the Palestinian Village, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1998. Indice 11 Preludio. Jenin 2002 13 I. ALNAKBA (La catastrofe) 15 1. La raccolta. 1941 21 2. Ari Perlstein. 1941 26 3. Quella poco di buono di una beduina. 1940-1948 37 4. Quando se ne andarono. 1947-1948 52 5. "Ibnillbni!". 1948 57 6. Il ritorno di Yehya. 1948-1943 69 7. Nascita di Amai. 1955 73 IL ALNAKSA (Il disastro) 15 8. Come il mare e tutti i suoi pesci. 1960-1963 82 9. Giugno nella buca sotto la cucina. 1967 98 10. Quaranta giorni dopo. 1967 115 III. La cicatrice di David 117 11. Un segreto come una farfalla. 1967 120 12. Yussef, il figlio. 1967 123 13. Il bellissimo demone di Moshe. 1967 127 14. Yussef, l'uomo. 1967 129 15. Yussef, il prigioniero. 1967 133 16.1 fratelli si incontrano di nuovo. 1967 135 17. Yussef, il combattente. 1968 136 18. Oltre la prima fila di alberi. 1967-1968 147 19. Yussef se ne va. 1968 152 20. Eroi. 1967-1968 156 21. Addii sommessi. 1969 170 22. Lasciare Jenin. 1969 181 23 L'orfanotrofio. 1969-1973 203 IV. alGHURBA (La condizione di straniero) 205 24. America. 1973 215 25. La telefonata di Yussef. 1978-1981 221 V. 'Albi fi Beirut (Il mio cuore a Beirut) 223 26. Majid. 1981 239 27. La lettera. 1981 244 28. "Sì". 1981 246 29. Amore. 1981 249 30. Una storia fatta di eternità. 1981-1982 257 31. Filadelfia, di nuovo. 1982 265 32. Una storia fatta di eternità, eternamente taciuta. 1982 269 33. Il martirio di una nazione. 1982 276 34. Smarrita. 1982-1983 280 35. Il mese dei fiori. 1983 288 36. Yussef, il vendicatore. 1983 291 VI. ILLI BAYNA (Quello che c'è tra noi) 293 37. Una donna barricata. 1983-1987 298 3.8. Qua, là e oltre. 1987-1994 307 39. La telefonata di David. 2001 311 40. Io e David. 2001 321 41. Il dono di David. 2001 328 42. Mio fratello, David. 2001 331 m Balata (Il mio paese) 333 43. Il dottor Ari Perlstein. 2002 345 44. Abbracciami, Jenin. 2002 363 Vili. NlHAYA WBlDAYA {Una fine e
un inizio) 365 45. Per amore di una figlia. 2002 373 46. Frammenti di Dio. 2002-2003 377 47. Yussef, il prezzo della Palestina. 2002 381 Glossario 387 Nota dell'autrice 389 Fonti