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FRANCIS DURBRIDGE GIOCANDO A GOLF UNA MATTINA (A Game Of Murder, 1975) CAPITOLO PRIMO Douglas Croft parcheggiò la macchina in una strada laterale, controllò che le portiere e il portabagagli fossero ermeticamente chiusi e percorse i cinquanta metri che lo separavano da Finchley Road. Era l'ora di punta di un mattino qualsiasi e il traffico si snodava da Swiss Cottage sino al campo di cricket, distante circa mezzo chilometro. Invece di camminare sul passaggio pedonale, Douglas Croft si incuneò nel traffico sgusciando fra le auto in corsa; quindi raggiunse il marciapiede proprio all'altezza di una vetrina piena di articoli sportivi di ogni genere. Sia sulla vetrina che sulla porta d'ingresso si leggeva «Tom Dawson's Sport». La luce al neon che illuminava il negozio durante la notte, per facilitare la sorveglianza da parte della guardia notturna, era ancora accesa. Mentre Douglas infilava una delle due chiavi nella serratura per aprire la porta del negozio, sollevò lo sguardo e vide una ragazza che si avvicinava. Aprì la porta e aspettò che lo precedesse dentro il negozio. «'giorno, Liz. Hai visto il capo nel notiziario sportivo di ieri sera?» «No.» Liz scosse la testa e lanciò poi un'occhiata alla serie di fotografie che occupava il centro della vetrina. Erano istantanee che ritraevano Tom Dawson all'apice della sua carriera, quando nello spazio di un anno aveva rappresentato l'Inghilterra nella squadra di rugby e cricket ed era stato anche finalista nel campionato dilettanti di golf. «Non ho guardato la televisione ieri sera. Avevo un allenamento. La prossima settimana ci sarà una gara, i cento metri sul dorso», disse dirigendosi all'interno del negozio. Douglas chiuse la porta dietro di sé e girò la chiave nella serratura. Mancavano ancora dieci minuti all'orario di apertura. Prelevò la posta dalla cassetta delle lettere e seguì Liz nel piccolo ufficio situato nel retro del negozio. Non era la prima volta che guardava con ammirazione l'agilità con cui si muoveva quella figurina armoniosa. A diciannove anni Liz era come un alito di aria pura miracolosamente sopravvissuta ai fumi e alle nebbie di Londra. «Com'è riuscito il signor Dawson in televisione?» domandò lei. «Era nervoso, vero?»
Douglas fece una risata. «No, non lui! È quello che si dice un attore nato. Non mi meraviglierei affatto se un domani avesse uno spettacolo tutto per lui.» «Dio ce ne guardi!» esclamò Liz togliendosi il soprabito e appendendolo sul retro della porta. Douglas gettò il plico di lettere sulla scrivania e si diresse verso gli interruttori per accendere le luci principali del negozio e delle vetrine. L'illuminazione mise in risalto file di lucide mazze da golf, rastrelliere di sci verniciati, una vetrinetta piena di pullover estremamente costosi, impermeabili, una seria completa di equipaggiamento per sommozzatori e uno scaffale che conteneva libri riguardanti ogni aspetto dello sport, dal gioco della pulce al grande safari. «In ogni modo mi sono fatto una bella risata», disse Douglas aggiustandosi i capelli biondi leggermente ondulati che il vento aveva scomposto nel breve tragitto in macchina, «quando l'intervistatore descrisse il figlio di Dawson come 'il duro e affascinante ragazzo di Scotland Yard'». «Sciocchezze! Harry non è un duro... almeno non come il padre.» Liz aveva alzato la voce. Douglas fece un segno col dito, indicando il soffitto. Una scala a chiocciola conduceva all'appartamento sopra il negozio, dove Tom Dawson abitava con il figlio. «Credi che abbiano sentito?» bisbigliò Liz. «No. Di solito tengono chiusa la porta dello stanzino. Ma sentirò io il signor Dawson se non avrò aperto la corrispondenza prima che lui scenda.» Se Douglas Croft avesse potuto vedere attraverso il soffitto si sarebbe reso conto di avere un sacco di tempo a sua disposizione. Tom Dawson e suo figlio stavano ancora consumando la prima colazione seduti al tavolo da pranzo. Quando Tom Dawson, alcuni anni prima, aveva acquistato i locali, aveva fatto abbattere i muri interni creando un negozio ultramoderno al piano terra e al piano superiore un appartamento confortevole e razionale per sé, suo figlio e la loro governante. Il mobilio del salotto era funzionale e di buona qualità. Non vi erano fronzoli femminili, neppure un vaso di fiori e gli scaffali erano privi di inutili soprammobili. La vetrinetta che conteneva le innumerevoli coppe vinte da Tom Dawson rappresentava più una sfida che una parte integrante dell'arredamento. In quel momento c'era poco nell'aspetto di Harry Dawson che giustificasse la descrizione fatta dal commentatore televisivo. Indossava una ca-
micia col collo aperto, un paio di blue jeans sbiaditi e delle pantofole. Aveva il giornale del mattino appoggiato alla teiera davanti a lui e stava sorseggiando la sua terza tazza di tè. Tom Dawson studiò i lineamenti di suo figlio e il suo viso assunse un'espressione d'orgoglio. Il ragazzo aveva ereditato la sua stessa forza fisica; era alto e molto ben proporzionato e con un portamento elegante che aveva preso dalla madre. Anche la carnagione scura, la bocca volitiva e quegli occhi azzurri schivi e riservati, così insoliti nei tipi bruni, erano caratteristiche ereditate da sua madre. Era stata una sorpresa per Tom quando Harry, a suo tempo, gli aveva annunciato la sua intenzione di entrare a far parte della polizia, ma ora era più che mai convinto che suo figlio sarebbe stato promosso commissario prima di compiere i quarant'anni. «Avevi decisamente bisogno di un breve periodo di vacanza, vero Harry?» fece Tom rompendo il silenzio. «Vuoi dire che altrimenti sarei finito sul divano dello psicanalista?» Harry spinse indietro la sedia e allungò le gambe. «Ammetto che mi alletta molto l'idea di trascorrere due intere settimane senza andare a Scotland Yard e ascoltare il vecchio Yardley!» Tom Dawson notò una punta di amarezza nella voce del figlio. «Ho l'impressione che in questi ultimi tempi tu non vada troppo d'accordo con il sovrintendente, Harry.» «Sovrintendente capo, se non ti spiace. È molto importante per lui ora. Oh no, i nostri rapporti sono ottimi. Forse sono io che non gli vado molto a genio. Comunque, Yardley non è cattivo, solo un tantino irritabile, e ha il difetto di lavorare troppo.» Tom Dawson annuì sorridendo. Si alzò e si diresse verso la scrivania di mogano situata fra le due finestre della stanza, sulla quale erano appoggiati due telefoni e un citofono privato per comunicare con il negozio di sotto, unitamente ad altri oggetti d'ufficio che rivelavano chiaramente la sua abitudine di svolgere gran parte del lavoro nell'appartamento. Dawson padre era alle soglie della sessantina ma non lo dimostrava affatto. Si era sempre preoccupato di mantenere in perfetta forma quel suo fisico atletico acquisito con anni di allenamento sportivo. «A proposito, papà», Harry terminò la sua ultima tazza di tè e piegò il giornale, «ho cambiato idea sulla mia partenza. Preferisco rimanere qui a riposare per un paio di settimane. Se per te va bene, naturalmente». «Sicuro», rispose Tom, cercando di non dare a vedere quanto piacere gli aveva procurato l'improvvisa decisione del figlio. Nonostante fossero or-
mai passati dodici anni dalla morte della moglie si sentiva terribilmente solo. «Fa' come vuoi, Harry.» Allungò la mano sulla scrivania, alzò il ricevitore del citofono e schiacciò il bottone. Quasi subito si udì la voce di Douglas Croft. «Buon giorno, signor Dawson.» «'giorno, Douglas.» Per mostrare autorità, non aveva bisogno di alzare il timbro della voce, già forte e profondo. «Probabilmente rimarrò fuori tutto il giorno. Se telefonano dalla ditta Harris tagli corto, parlerò io domani con loro.» «Va bene.» Giù in ufficio Douglas stava dando una rapida occhiata alle lettere, cercando di decidere se ci fosse qualcosa di urgente da sottoporre all'attenzione del suo capo. «C'è una...» «Sì?» «C'è una risposta da Allied Sports. Penso non sia molto soddisfacente.» «Cosa dicono?» Tom Dawson poteva udire il fruscio delle carte e Douglas che si schiariva la voce. «Non me la legga per telefono, me la porti su. E... mi porti anche delle palle da golf, una mezza dozzina di Dunlop 65.» Appoggiò il ricevitore e ritornò al tavolo. Non guardò direttamente suo figlio, ma ebbe la sensazione che lui lo stesse studiando. «Con chi giocherai oggi, papà?» «Cosa? Oh... con nessuno in particolare. Il mio gioco è un po' scaduto ultimamente. Pensavo di fare della pratica per mio conto.» «Ma è magnifico!» esclamò Harry con entusiasmo. «Non ho gran che da fare oggi.» «Eh?» «Posso giocare io con te.» Le sopracciglia di Tom Dawson si aggrottarono leggermente e Harry notò sulle guance abbronzate del padre un improvviso rossore. «Grazie, Harry... veramente...» «Ho capito», lo interruppe Harry. «Capito cosa?» «Avanti, chi è il misterioso avversario?» Con riluttanza Tom Dawson incontrò lo sguardo di suo figlio. «Accidenti a voi poliziotti!» «Qualche bambolina in minigonna, immagino.» Harry trattenne il riso nel vedere comparire sul viso di suo padre un'e-
spressione estremamente seria. «Credevo mi attribuissi dei gusti più raffinati, ragazzo mio», disse pacatamente. Sapendo che il padre avrebbe proseguito il discorso, Harry rimase in silenzio. Dopo alcuni secondi Tom Dawson accennò un sorriso asciutto e si strinse nelle spalle. «E va bene, penso sia ora che vi conosciate. Senti, Harry, perché non vieni al club verso mezzogiorno? Dovremmo aver finito per quell'ora. Possiamo prendere un aperitivo insieme. Che ne dici?» L'espressione di Tom Dawson e il suo improvviso entusiasmo lo ringiovanirono di dieci anni. La conversazione fu interrotta dalla improvvisa apparizione della signora Rogers, che irruppe nella stanza asciugandosi le mani nel grembiule. La governante dei Dawson si era rivelata, subito dopo la sua assunzione, una specie di bisbetica intimamente convinta che la sua grande missione fosse di prendersi cura di quei due uomini soli. Ora, tuttavia, il suo vecchio ardore era scomparso. Il suo viso era segnato da profonde rughe e il corpo sembrava curvarsi sotto il peso di grandi preoccupazioni. «Vuole un altro toast, signor Harry?» «No, grazie, signora Rogers.» Harry spinse indietro la sedia. «Se vuole rigovernare abbiamo finito.» La signora Rogers annuì e si diresse verso il tavolo. «Ha notizie del suo cane?» chiese Tom Dawson. Harry si girò e alzò gli occhi al cielo, ma la governante approfittò della domanda e ritornò sui suoi passi. «No, purtroppo no, signor Dawson. Ieri sera ho telefonato all'Associazione per la protezione degli animali per sapere se potevano aiutarmi, ma naturalmente la risposta è stata negativa.» Scosse tristemente il capo. «È sempre così, nessuno se ne preoccupa, nessuno vuol saperne.» Infastidito dal tono di autocommiserazione della donna, Harry si volse. «Be', noi ce ne stiamo occupando, signora Rogers, stiamo facendo tutto il possibile.» Di scatto si avvicinò al tavolo, prese il giornale e piazzò una pagina sotto gli occhi di lei. «L'annuncio è nella cronaca cittadina ed è stata anche pubblicata la fotografia che ho inviato.» Gli occhi della signora Rogers si inumidirono nel vedere la fotografia raffigurante un barboncino seduto sulle zampe posteriori. Attorno al collo portava un vistoso collare, forse più adatto al polso di qualche stellina ci-
nematografica. Sotto la fotografia si leggeva: «Chi ha visto Zero?» «Sì, lo so che fate tutto il possibile, signor Harry, non mi riferivo... non mi riferivo a voi.» Alzò un dito per asciugarsi una lacrima. «È passata ormai una settimana da quando Zero è scomparso. E portava il collare, è questo che non capisco.» Prese il fazzoletto e si soffiò il naso, quindi volse lo sguardo verso Tom Dawson. «Portava quel delizioso collare che lei gli regalò per il suo compleanno.» Tom Dawson si schiarì la voce e lanciò un'occhiata a Harry. «Sì, lo so... Be', abbia pazienza, signora Rogers, su col morale. In fondo non è la fine del mondo, non le pare?» «È vero», convenne Harry. «Vorrei ancora un po' di tè», fece Tom Dawson, «le spiacerebbe preparare un'altra teiera?» La governante si drizzò come un soldato richiamato sull'attenti dal sergente maggiore, facendo uno sforzo notevole per riprendere animo, e con la teiera in mano si diresse verso la cucina. «Quel dannato barboncino!» esclamò Tom non appena la porta si fu richiusa dietro di lei. «Ne sta facendo un dramma!» «Il guaio è che pensa che tu sia in grado di rintracciarlo... così come niente.» Tom Dawson fece schioccare le dita, mentre Harry guardava la porta della cucina sorridendo. «Sì, lo so. Ai suoi occhi devo essere il peggior detective di tutta l'Inghilterra.» Si udì un rumore di passi sulla scala a chiocciola che conduceva allo stanzino adiacente, e non fu una sorpresa quando la porta si aprì e apparve Douglas Croft. «Posso entrare?» «Naturalmente, entri pure, Douglas», fece Harry. Douglas lo gratificò di un sorriso aperto e disarmante. «Buon giorno, Harry.» «'giorno, caro Douglas.» Harry prese il giornale e andò a sedersi in una poltrona di pelle di fronte al caminetto. Douglas mise la scatola di palline sulla scrivania, estrasse da una busta un foglio di carta dattiloscritto e lo porse a Tom Dawson. «È riuscito molto bene in televisione ieri sera, signor Dawson.» «Veramente?» Dawson era palesemente compiaciuto. «Sono sicuro che la sua apparizione in televisione attirerà dei nuovi
clienti», fece Douglas con entusiasmo. Dalla cucina giunse un suono di stoviglie in frantumi, seguito da un'esclamazione di sgomento. Tom Dawson disse addio alla sua seconda tazza di tè e annotò mentalmente una nuova teiera nella lista degli acquisti. Douglas, dopo una rapida occhiata alla porta della cucina, estrasse un'altra lettera dalla busta. «È vero, la risposta di Allied Sports non è molto soddisfacente.» Tom Dawson passò dalla prima lettera a quella che Douglas gli stava porgendo. «Questa è una risposta di Houston. Vuole venire qui a parlarle di persona...» «Non ne vedo il motivo, le racchette sono difettose e le devono ritirare.» Douglas guardò gli appunti che aveva buttato giù sul retro della busta e decise di attenersi all'essenziale. Il vecchio era molto impaziente non perché le lettere lo preoccupassero, ma piuttosto sembrava ansioso di sbrigare gli affari per essere libero. Douglas chiuse la busta e osservò con curiosità alcune cifre scritte sulla parte esterna. «Signor Dawson, lei ha annotato qualcosa che a prima vista sembra...» teneva la busta per un angolo, «il numero di una targa d'auto, non so per quale ragione». Dawson sollevò lo sguardo. «Un numero di targa?» «Sì, guardi qui sulla busta. JKY 384 L.» «Non so affatto di che si tratti», disse Dawson con impazienza. «Lo chieda a Liz, probabilmente lo ha scritto lei.» In quel momento la porta di cucina si aprì ed entrò la signora Rogers, chiaramente di umore nero. «Buon giorno, signora Rogers», la salutò Douglas con un sorriso. «Oh!» sembrava imbarazzata nel trovarsi di fronte a tre uomini. «Buon giorno, signor Croft.» «Ha notizie di Zero?» continuò Douglas allegramente, accorgendosi subito dopo di aver toccato il tasto dolente. Tom Dawson gli rivolse uno sguardo esasperato. La signora Rogers si rivolse a Douglas. «No, purtroppo. Ho chiesto aiuto all'Associazione per la protezione degli animali ma senza successo. E benché la foto di Zero sia stata pubblicata sul giornale nessuno si è fatto vivo. Non riesco proprio a capire, anche perché portava quel delizioso collare che...»
La governante era di nuovo in piena crisi. Tom lasciò a Douglas il compito di sbrogliare da solo la situazione che aveva creato e si diresse verso il figlio il quale, alzando gli occhi dal giornale, mormorò: «Ci risiamo!» *** Non avendo nulla di speciale da sbrigare, Harry poteva finalmente concedersi il lusso di starsene semplicemente in ozio. Era uscito per recarsi al circolo molto prima dell'ora stabilita in modo da poter guidare con tutta tranquillità. Si trovava ormai in prossimità del Westgate Golf Club; non erano ancora le dodici e non voleva arrivare in anticipo all'appuntamento col padre. Aveva il presentimento che quell'incontro sarebbe stato importante, forse una svolta determinante nella vita di Tom Dawson. Avrebbe potuto trattarsi semplicemente di un contatto d'affari; suo padre aveva l'abitudine di prendere accordi al circolo dopo una partita di golf. Ma in qualche modo Harry aveva la sensazione che questa volta la situazione sarebbe stata diversa, specie nel ricordare la seria espressione del padre quando gli aveva detto: «Credevo mi attribuissi dei gusti più raffinati, ragazzo mio». Se si trattava di una donna, Harry sperava che suo padre non si fosse invaghito di una ragazzina; il solo pensiero lo faceva rabbrividire. Il suono ormai familiare di una sirena interruppe le sue considerazioni. Guardando dallo specchietto retrovisore poté notare la luce blu lampeggiare sul tetto di un'ambulanza che si avvicinava a tutta velocità. Abbassò il finestrino e fece segno con la mano di passare. Proseguendo ad andatura più moderata, Harry vide l'ambulanza rallentare, farsi strada nel traffico ed entrare nei cancelli del Highgate Golf Club. Anche Harry, bloccato dal flusso delle macchine, dovette aspettare alcuni minuti prima di immettersi nelle strade private del Club. Quando giunse in vista dell'edificio, notò l'ambulanza ferma di fronte al portone. Uno degli infermieri era sceso e stava parlando con il segretario del club. Il comandante Whitby indicava il campo da golf. Harry vide il suo braccio muoversi in direzione di un sentiero erboso, usato dai mezzi di trasporto di servizio, che conduceva alla piazzuola di arrivo sei e alla piazzuola di partenza otto. Come l'infermiere risalì e l'ambulanza si mosse, il segretario si precipitò verso la sua giardinetta. Era in procinto di aprire la portiera quando l'Austin 1100 di Harry gli si fermò di fianco. Nel riconoscerlo il segretario cambiò espressione.
«Signor Dawson, grazie al cielo è venuto!» Harry aprì la portiera e fece l'atto di uscire. «Cosa succede?» «Si tratta di suo padre.» Gli occhi di Whitby evitarono quelli di Harry. «C'è... c'è stato un incidente.» «Che cosa intende dire?» «Per quanto ne sappiamo stava allenandosi alla piazzuola sei... suo padre cioè... e... be', lei sa che il terreno è in pendio verso il ruscello...» «Che tipo di incidente?» tagliò corto Harry. «Una pallina. Una pallina lanciata di taglio dalla piazzuola otto. Sembra che abbia colpito suo padre alla nuca e... fortunatamente il dottor Roach si trovava al club. Si è precipitato immediatamente e...» «È grave?» fece Harry, sforzandosi di controllare il tono della voce. «È grave?» «Be', il dottore era con lui quando sono tornato in ufficio a chiamare l'ambulanza, ma temo... ha battuto la testa su un sasso del ruscello.» «Salga in macchina», disse Harry con urgenza. «Seguirò quell'ambulanza.» Il segretario si sistemò nel sedile accanto e Harry infilò il sentiero erboso a tutta velocità. L'ambulanza era già scomparsa dietro la parte collinosa del percorso. Durante il tragitto non scambiarono parola finché giunsero alla sommità della collina e videro sotto di loro, in una piccola conca, la piazzuola sei. La buca sei era un Par 3 estremamente difficoltoso. Dal punto di partenza non sì vedeva la piazzuola di arrivo, cosicché il tiro, di circa 170 metri, era cieco. La lunghezza del tiro doveva essere ben calcolata, poiché una serie di ostacoli avrebbe intrappolato una pallina troppo corta, mentre una lunga sarebbe andata a finire nel ruscello, proprio sotto la piazzuola di arrivo. Era infatti dalla riva scoscesa del ruscello che i due infermieri stavano sollevando un corpo. Lo appoggiarono sull'erba falciata che fiancheggiava la piazzuola e si diressero a prendere la lettiga dell'ambulanza. Il dottor Roach era rannicchiato in cima alla riva del ruscello e stava riponendo i suoi strumenti nella borsa. Alzò lo sguardo non appena Harry, chiusa con violenza la portiera della sua auto, avanzò verso di lui. «È molto grave, dottor Roach?» Il dottor Roach si rizzò con uno sforzo notevole e guardò Harry con espressione contrita. «Sono veramente addolorato, signor Dawson. Suo padre è morto. Deve essere rimasto ucciso a causa della brutta caduta.»
Harry si era trovato altre volte a faccia a faccia con morti violente e improvvise e aveva imparato a non esserne eccessivamente sconvolto. Ma quando abbassò lo sguardo su quel corpo inerte con la testa sanguinante e il volto alterato da una smorfia di dolore, dovette fare uno sforzo enorme per controllarsi. «Ucciso?» ripeté incredulo. «Probabilmente la morte è stata istantanea. Il colpo violento gli ha fatto perdere l'equilibrio ed è caduto dal pendio giù nel ruscello. Attualmente c'è poca acqua là dentro, tanto che i sassi emergono. Ha battuto la testa su una delle pietre più grosse, ma penso non si sia accorto di nulla.» Harry indietreggiò per permettere agli infermieri di sistemare il padre sulla lettiga. Il suo sguardo non abbandonò un istante quel volto sfigurato finché l'infermiere non io coprì con una coperta, nascondendolo per sempre alla sua vista. Solo allora l'ispettore-detective Harry Dawson alzò gli occhi per osservare la scena che lo circondava. Il sole faceva capolino fra le nuvole e il campo appariva particolarmente ridente. Sul lato sinistro della piazzuola spiccavano dei cespugli di ginestre mossi da una leggera brezza. La sacca da golf di suo padre giaceva sull'erba di fianco alla piazzuola. Tre o quattro delle nuove Dunlop 65 erano scivolate da una tasca. In cerchio, ma a una rispettosa distanza, si trovavano un paio di inservienti e una mezza dozzina di giocatori, attratti sul posto dall'arrivo dell'ambulanza che aveva attraversato il sentiero. Un po' più lontano un giovane sulla trentina stava parlando sommessamente col segretario. Portava su una spalla una sacca chiara contenente una serie di mazze da golf e indossava una tenuta talmente eccentrica che lo si poteva scambiare per un indossatore di una casa di articoli sportivi. Al momento però appariva piuttosto nervoso e abbattuto. Si mosse verso Harry e parlò con tono basso e pacato. «Signor Dawson, voglio che lei sappia... Dio mio, non doveva proprio succedere...» La sua voce si affievolì. Harry non staccava un attimo gli occhi dal corpo di suo padre che, con estrema delicatezza, veniva issato sull'ambulanza. «Chi è lei?» «Mi chiamo Peter Newton. Ero alla piazzuola di partenza otto. Ho colpito la pallina di taglio, ma purtroppo male...» «La piazzuola otto?» «Sì. Stavo cercando di perfezionare il taglio...»
Ancora una volta Harry lo interruppe e si voltò verso il segretario. «Avete avvertito la polizia?» «La polizia?» ripeté il segretario stupito. «Naturalmente», fece Harry. Poi vedendo che il comandante Whitby esitava esplose: «Maledizione, qui un uomo è stato ucciso!» «Va bene», fece Whitby, quindi girò sui tacchi e scomparve. Ora e per la prima volta Harry diresse lo sguardo freddo su Peter Newton. «Dov'è il suo amico?» «Scusi?» «La persona con la quale mio padre giocava. Dov'è?» «Per quanto ne so... lui... suo padre era solo.» «Ne è sicuro?» «Sicurissimo. Almeno non ho visto nessuno. Nel momento in cui mi sono accorto di aver lanciato la pallina verso di lui, ho urlato 'attenzione', ma non deve avermi udito. Quando mi sono reso conto di averlo colpito, si può immaginare, mi sono precipitato qui come un fulmine. Era caduto da una sponda e giaceva laggiù, proprio nel letto del ruscello. La sua testa era...» «Non c'era nessuno con lui?» Peter Newton scosse il capo. «Nessuno, quando arrivai. Signor Dawson, questa è la cosa più tremenda che mi sia mai capitata. Voglio dire, come stavo cercando di spiegarle...» «Risparmi le sue spiegazioni per il funzionario di polizia incaricato delle indagini, signor Newton.» Dieci metri più avanti le porte dell'ambulanza venivano sbattute, come per puntualizzare l'incisiva affermazione di Harry. *** «Un incidente», fece Harry. «Continua a chiamarlo un incidente. Ma l'ispettore è semplicemente pazzo. Come fa a esserne certo? Ho cercato di dirglielo, Nat, ma...» «Ma lui ti ha detto di pensare ai fatti tuoi.» «Sì, più o meno. Come tu sai, sono in licenza proprio adesso. Vorresti sbrigartela tu con lui?» «Sì, naturalmente. Qual è il suo nome?» «Carter. E se persiste nella sua versione di morte accidentale ti consiglio...» «Lascia fare a me, Harry», lo interruppe Nat rassicurandolo. Harry si accorse che, trovandosi implicato personalmente in questa faccenda, era por-
tato ad agire in modo troppo impulsivo. «Lascia fare a me. Sarò lì non appena possibile.» «Grazie, Nat.» Riattaccò il ricevitore e si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro di sollievo. Era seduto alla scrivania di suo padre, ancora colma di quegli oggetti che solo poche ore prima aveva usato. Pensò a lui, che ora giaceva nella camera mortuaria della polizia. Nat Fletcher era un collega e un amico devoto. Molto meglio lasciare a lui il compito di affrontare l'intrigante e presuntuoso Carter. Douglas Croft era entrato nella stanza proprio all'inizio della conversazione telefonica e Harry gli aveva fatto segno di rimanere ad ascoltare quello che stava dicendo. «Harry, pensi... pensi veramente che non si tratti di morte accidentale?» Harry non rispose subito. Studiava con attenzione l'agenda del padre che giaceva aperta sulla scrivania. «Sì, Douglas... Ho dei sospetti.» Si alzò e attraversò la stanza fino all'angoliera che conteneva bicchieri e liquori. Trovò la bottiglia di whisky, ne versò una dose e aggiunse la stessa quantità di acqua tonica. «Un uomo muore a causa di gravi ferite alla testa», disse senza voltarsi. «Si supponeva stesse giocando a golf con uno sconosciuto e questa persona non è ancora stata rintracciata. C'erano delle macchie di sangue su una grossa pietra nei pressi del ruscello.» Harry indicò i bicchieri ma Douglas scosse la testa in segno di rifiuto. Era troppo preso dalle parole di Harry per essere attratto da qualcos'altro. Harry si mosse verso il centro della stanza senza staccare gli occhi dal bicchiere. «E un uomo, Douglas, ti si fa incontro asserendo di aver lanciato di taglio una pallina da duecento metri di distanza.» «Una distanza abbastanza lunga per battere una pallina di taglio», mormorò Douglas. «Una pallina», continuò lentamente Harry, «che ha tramortito mio padre causandone la caduta nel ruscello...» «Suo padre?» Entrambi gli uomini si volsero. La signora Rogers, vestita da passeggio e ancora con la borsa della spesa in mano, era in piedi vicino alla porta che conduceva alla cucina. Il suo volto era visibilmente pallido. Sembrava che avesse intuito che qualcosa di terribile le sarebbe stato rivelato da un momento all'altro. «È
accaduto qualcosa al signor Dawson?» «Venga a sedersi, signora Rogers.» Harry si precipitò a toglierle di mano la borsa prima che la lasciasse cadere a terra. «Qui, su questa sedia. Purtroppo è successo tutto così all'improvviso.» «Lui... lui è...?» mormorò. «Mio padre è morto stamattina. È stato ucciso in un campo da golf.» «U... ucciso?» La parola le si mozzò in gola. Douglas Croft si intromise sperando di alleviare lo shock. «Potrebbe essere stato un incidente, signora.» Harry gli lanciò un'occhiata infuriata. «È stato deliberatamente ucciso.» Quindi abbassò lo sguardo sulla governante e vide che stava perdendo i sensi. La raggiunse in tempo per sollevarla di peso prima che si lasciasse cadere a terra. «Svelto, Douglas, togli quelle cose dal divano.» Mentre Harry reggeva il notevole peso del corpo inerte della signora Rogers, Douglas raccolse i libri e le riviste sparse sul divano. Harry l'adagiò e le sistemò dei cuscini sotto la testa per farla stare più comoda. «Devo prendere un po' d'acqua?» «Hm?» Harry fissava con una certa sorpresa quel viso pallido e immobile. «Eh, sì.» Poi aggiunse, quasi parlando con se stesso: «Non avrei mai immaginato che lei...» Nel momento in cui Douglas tornava dalla cucina col bicchiere in mano le palpebre della signora Rogers cominciarono ad aprirsi e Harry le sollevò il capo per aiutarla a bere. «Su, signora Rogers, prenda un sorso d'acqua, poi andremo a preparare un buon tè.» La donna ignorò le parole e il bicchiere, e i suoi occhi spalancati fissarono prima Harry e poi vagarono per tutta la stanza. Era in stato di shock. Si passò la lingua sulle labbra e mormorò soltanto una parola: «Morto». *** Harry osservò con aria sconfortata il caos che regnava in tutta la casa. Erano già le nove e mezzo. Non avrebbe mai creduto di impiegare tanto tempo a preparare e a consumare la prima colazione, pur essendo stordito dalla gran quantità di whisky che si era scolato la sera prima. Quando il campanello della porta suonò, fu tentato di ignorarlo. Era ancora in pigiama e vestaglia e non si era rasato. Lo squillo fu seguito da
un'energica bussata che in qualche modo dava l'impressione di urgenza. Passandosi le dita fra i capelli, Harry si diresse nell'anticamera, quindi scese le scale fino all'ingresso privato accanto al negozio. Sulla soglia c'era un uomo di circa quarant'anni, coi capelli a spazzola e con un'espressione guardinga negli occhi. Indossava un impermeabile blu e teneva le mani sui fianchi, come pronto a un improvviso movimento di attacco o di difesa. «Nat!» esclamò Harry. «Entra.» Nat annuì e seguì l'amico su per le scale. «Come ti senti stamattina, vecchio mio?» «Ancora un po' annebbiato e letteralmente disgustato dal comportamento di quei dannati cronisti.» Harry fece strada al suo ospite fino al salotto. «Passa pure, Nat.» «Senti», disse Nat Fletcher con la voce rauca, «sono profondamente addolorato per quello che è successo a tuo padre». «Grazie, Nat.» Harry alzò la mano con sgomento indicando il disordine sul tavolo e in tutta la stanza. Gli occhi acuti di Nat avevano già inquadrato la situazione. «Scusa per la confusione, ma la signora Rogers, la mia governante, se n'è andata improvvisamente. Mi ha lasciato un biglietto dove dice che suo nipote Hubert ha l'influenza o qualcosa del genere.» «Cerca di capirla... date le circostanze.» «Francamente, vista la scena che ha fatto per la morte di mio padre, non sono del tutto contrariato che se ne sia andata. Era letteralmente a pezzi. Già era in crisi quando ha perso il cane, figurati adesso...» Nat si schiarì la voce. «Qualche volta, Harry, può essere utile dar sfogo alle proprie sensazioni.» «Certo», fece Harry leggermente risentito. «Ma ognuno di noi le esterna in modo diverso. Allora, che notizie mi porti da quella vecchia volpe di Carter? Continua a parlare di incidente?» Nat, sbottonandosi l'impermeabile, osservava il volto di Harry, sul quale notò evidenti segni di fatica e nervosismo. Benché fossero amici, ciò non impediva loro di imbattersi in frequenti divergenze di idee. «Senti, Harry, se hai intenzione di essere pignolo sulla tua...» «Pignolo?» esplose Harry. «Si tratta di mio padre. Pensi che potrei starmene qui seduto con le mani in mano e...» «E lasciar fare a chi di competenza, ecco.» «Hai visto Carter?» «Certo che l'ho visto, e ti assicuro che non è il tipo che si lascia sfuggire qualcosa.»
«Cosa ha detto della dichiarazione fatta da Newton? L'ha creduta?» «Senti, Harry», fece Nat bruscamente, come se parlasse a un bambino irragionevole, «Newton non aveva mai conosciuto tuo padre. Erano completamente estranei l'uno all'altro. Si trovava sul campo per allenarsi e purtroppo ha tirato una pallina sfortunata. Maledizione, anche il miglior giocatore del mondo non avrebbe potuto immaginare di colpire un uomo a una distanza di duecento metri». «Se veramente fosse andata così.» Nat aggrottò le sopracciglia, ma Harry continuò imperterrito. «Hanno trovato la pallina? I medici legali sarebbero in grado di dire se la pallina ha realmente colpito mio padre, come afferma Newton? E cosa ne dici del sasso sul quale ha battuto la testa?» «Cosa vuoi dire con questo?» «Hai visto il rapporto post mortem? Sicuramente il patologo può dire...» «Certo che può. Quando lui e i ragazzi della scientifica avranno terminato le loro analisi, allora potranno sorgere delle domande sulla validità della dichiarazione di Newton. Solo allora e non prima.» «Va bene, va bene», fece Harry aggiustandosi la cintura della vestaglia. «Allora cosa mi dici della persona con la quale mio padre doveva giocare, la persona che aveva intenzione di presentarmi al termine della partita? Cosa ne sappiamo di lui?» «Naturalmente Carter sta svolgendo delle indagini, ma finora nessuno ha confermato questa tua teoria.» «Teoria?» «Infatti», proseguì Nat con calma. «Quelli del circolo si dichiarano convinti di aver visto tuo padre dirigersi verso il campo da solo.» Prima che Harry potesse trovare un punto d'appiglio alla dichiarazione di Nat, il telefono cominciò a suonare. «Se è un altro giornalista...» Nat, approfittando dell'opportunità che gli si presentava per interrompere quella spiacevole conversazione, si era già diretto verso la porta. «Scusa ma devo andare, ti terrò informato se ci saranno delle novità. Va bene?» «Va bene», convenne Harry suo malgrado. Aspettò finché Nat non ebbe chiuso la porta dietro di sé, condannando in cuor suo l'atteggiamento ostile avuto nei confronti dell'amico. Non avrebbe permesso che qualcosa potesse rovinare la loro amicizia. Il telefono continuava a squillare e Harry si rassegnò a rispondere.
*** Alcune miglia più a sud, in una lussuosa abitazione di Hampstead Heath, una donna attendeva che qualcuno rispondesse alla chiamata. Era decisa a far suonare il telefono per due minuti ancora prima di interrompere la comunicazione. Era, a prima vista, sulla cinquantina ma, avendo rinunciato ad aver figli, il suo corpo si era mantenuto snello e giovanile. Il viso, dai lineamenti delicati, rivelava una freschezza ottenuta attraverso frequenti trattamenti di bellezza. Tutto ciò che la circondava era perfettamente adatto alla sua personalità. Il salotto, in netto contrasto con quello di Dawson, era sontuoso ed estremamente confortevole. Ogni oggetto rivelava il tocco di una donna il cui denaro poteva soddisfare il suo gusto raffinato. Durante l'attesa si ammirava nella grande specchiera appesa alla parete di fronte. Sybil Conway amava osservare le espressioni del suo viso durante le conversazioni telefoniche. «Pronto?» Diede una rapida occhiata a un foglietto sul tavolino del telefono. «È il 586-2679?» «Sì.» «Sono la signora Conway. C'è un annuncio sul giornale che riguarda un barboncino...» «Sì, esatto.» «È suo il cane, signor...?» «Dawson. No, è della mia governante, ma ho fatto pubblicare io l'annuncio. Ha trovato il barboncino, signora Conway?» «Sì. Almeno lo credo.» Le piaceva il timbro della sua voce; era calma e profonda e decisamente maschile. «Sembra uguale a quello sul giornale... solo un pochino malconcio purtroppo. A dire il vero mio marito l'ha trovato ieri sera nel giardino.» «Dove abita, signora Conway?» «Siamo a Hampstead. La palazzina si chiama Acquacheta e si trova nella Broadway Avenue. Conosce Hampstead, signor Dawson?» «Sì, certo.» «È una casa piuttosto grande, proprio all'angolo, situata un po' all'interno.» «Rimarrà in casa stamattina?»
«Sì, staremo in casa tutto il giorno. Può venire a qualsiasi ora.» «Grazie, signora Conway. È stata molto gentile a chiamarmi.» Riattaccò il ricevitore dopo di lui e quindi fece cadere lo sguardo sul giornale lì vicino. C'era la foto di Zero con quel grazioso collare attorno al collo. *** «Va bene, Zero, mi hai già baciato. Ora basta.» Harry tratteneva il barboncino nero sulle ginocchia ma l'animale, felice di rivedere un vecchio amico, continuava ad avvicinare il naso umido al viso di Harry. Era estremamente difficile controllare quel fascio di nervi in continuo movimento. Il collare che, al momento della sua scomparsa, portava al collo non c'era più. La signora Conway con le gambe accavallate stava seduta all'altra estremità del divano damascato. Arnold Conway era rannicchiato in una sedia a rotelle ultramoderna con la quale sembrava divertirsi ad andare su e giù cambiando continuamente posizione. Forse per supplire alla sua menomazione era vestito in modo impeccabile. Agli occhi di Harry sembrò un tantino più giovane della moglie. «Naturalmente fui molto sorpreso nel vedere il cane. Era nascosto dietro un vaso di rododendri ed era così docile che sembrava addormentato. Ho pensato fra me: 'Come diavolo avrà fatto a finire qui dentro?'» Con le mani mosse il meccanismo che controllava le ruote e fece girare bruscamente la sedia spingendola verso le finestre che davano su un'aiuola bordata di cespugli. «Era scomparso da più di una settimana ormai e avevamo perso ogni speranza di rivederlo.» Harry gli alzò il muso e lo guardò fisso negli occhi. «Dove sei stato, Zero? Cosa diavolo ti è successo?» La signora Conway intervenne. «Ha detto che portava un collare quando scomparve?» «Sì, ed era molto bello. Mio padre lo regalò alla signora Rogers per il suo compleanno.» «Per il suo compleanno, non per quello del cane!» La risata della signora Conway contagiò Harry. Conway aveva fatto ruotare la sedia e stava dirigendosi verso il divano. «Forse qualche capellone se l'è caricato in macchina, gli ha tolto il collare e l'ha scaraventato fuori.»
Allungò una mano per accarezzare Zero, ma il cane reagì ringhiando. Conway sorrise. «Te la sei vista brutta, poverino. La tua padrona ti farà dimenticare questa brutta avventura.» «Non ne dubiti», disse Harry alzandosi dal divano con il barboncino in braccio. «Signor Conway, l'annuncio parlava anche di una ricompensa di cinque sterline e penso che...» «La prego, signor Dawson», fece la signora Conway alzando una mano in segno di protesta. «Non ne parliamo nemmeno», intervenne il marito, «siamo felici di aver ritrovato il cane e questo è tutto». Stava già accompagnando Harry alla porta quando un improvviso pensiero gli balenò per la mente. Girò su se stesso sorridendo compiaciuto per la brillante idea. «Penso che non le dispiacerà destinare quella cifra a un'opera benefica!» «Tesoro!» protestò Sybil Conway con grazia. «Avanti, cara, non fare la schizzinosa. Perché pensi mi abbiano affidato l'incarico? Sono presidente dell'associazione dei 'Criceti', signor Dawson. Ne ha sentito parlare?» «Temo proprio di no.» «Siamo una associazione locale. Quello che gli americani definirebbero 'una setta di benefattori'. Aiutiamo i vecchi pensionati, ci prendiamo cura dei ragazzi poveri del quartiere, qualche volta allestiamo degli spettacoli a scopi benefici. L'anno scorso abbiamo raccolto ben più di ottocento sterline.» Harry lasciò scendere Zero, il quale andò a sedersi sui cuscini vicino alla signora Conway. «Naturalmente. Sarò lieto di devolverli in beneficenza.» «Grazie, signor Dawson.» «Arnold, sei veramente un mostro!» «Sciocchezze, Sybil. Oggigiorno anche poche sterline contano, lo sai.» Conway ammiccò a Harry. «L'assegno va emesso a favore di Basil Higgs. È il mio segretario. H-I-G-G-S.» La signora Conway stava accarezzando le orecchie di Zero che si era accovacciato vicino alle sue gambe. Indicò uno scrittoio Sheraton. «Può accomodarsi là, signor Dawson.» Harry prese il libretto degli assegni e una penna, quindi si sedette alla scrivania. «Senz'altro Basil la chiamerà», disse Conway. «Le farà pervenire una ri-
cevuta.» La signora Conway rise di nuovo. «Sono certa che avrà sue notizie. Due volte all'anno.» Harry sorrise, aprì il libretto degli assegni e cominciò a scrivere il nome di Basil Higgs. *** Sola nel negozio, Liz stava servendo un cliente quando vide Harry scendere dalla scala a chiocciola. Indossava ancora lo stesso soprabito di prima e sembrava avere una gran fretta. Servì il cliente con estrema sollecitudine e quindi si diresse nell'ufficio sul retro del negozio. Harry era seduto alla scrivania intento a rovistare nei cassetti. Appariva molto teso e nervoso. «Posso esserle d'aiuto, signor Dawson?» Harry non alzò lo sguardo. Trovò un plico di buste in un cassetto e cominciò a esaminarle. «Dov'è quella busta, Liz?» «Di quale busta sta parlando?» «Ieri mattina Douglas la portò su in casa. Era una comune busta blu con annotato un numero di targa...» «Un numero di targa?» «Sì, JKY 384 L. Penso che il numero sia quello, ma voglio esserne certo.» Liz scosse il capo, cercando di ricordare dove l'avesse vista. Dalla scala a chiocciola che proseguiva giù nello scantinato si udì un rumore di passi. Douglas Croft stava salendo con in mano una pila di scatole prelevate dal magazzino. Harry si volse verso di lui. «Douglas, ti ricordi quella busta che ieri mattina hai mostrato a mio padre? Una busta blu?» «Sì.» «Dov'è?» Douglas esitò, colpito dal tono imperioso della voce di Harry. Senza dire nulla consegnò a Liz le scatole e si avvicinò a un vassoio, dal quale prelevò la busta, che porse a Harry. «Sapevo di non sbagliarmi», fece quest'ultimo dopo una rapida occhiata. «Guarda qui, Douglas, JKY 384 L», proseguì indicando le lettere e i numeri annotati su un angolo della busta. «Mi ricordo che hai chiesto a mio padre di che cosa si trattasse.»
«Sì, infatti non capivo. Pensavo fosse stato lui a scriverli per una ragione qualsiasi, ma mi disse di no. Invece sono sicuro che è la sua calligrafia.» «Ho visto questo numero di targa stamattina. Apparteneva a una Fiat giardinetta che mi si è accostata al semaforo in Finchley Road. Ha frenato di colpo così vicino alla mia macchina che per poco non mi urtava. A bordo c'erano un uomo e una ragazza che litigavano furiosamente. La ragazza poteva avere vent'anni ed era molto attraente. Non ho potuto vedere subito il volto dell'uomo, ma quando si è girato per guardare il semaforo, l'ho riconosciuto. Era Peter Newton.» «Quel tipo che ha lanciato la pallina che...» «Esattamente.» Douglas prese la busta dalle mani di Harry per riguardare i numeri. «È proprio sicuro, Harry?» «Sicurissimo. Quando il semaforo diede via libera partì per primo, cosicché potei vedere la targa con comodo. Era decisamente JKY 384 L.» Harry si alzò e andò verso lo scaffale che conteneva le guide telefoniche di Londra. Prese il volume L-R, lo appoggiò sulla scrivania e cercò la lettera N. Fece scorrere il dito su tutti i Newton finché trovò l'iniziale P: quindi si avvicinò all'apparecchio telefonico e compose il numero. La risposta fu immediata. «È il 589-1872.» «Peter Newton?» Ci fu una breve pausa. «Sì, chi parla?» «Sono Harry Dawson.» «Oh, signor Dawson, stavo proprio per chiamarla.» «Veramente?» «Sì, per dirle ancora quanto mi dispiace per l'accaduto...» Harry lo interruppe bruscamente. «Vorrei vederla, Newton. Quanto possiamo incontrarci?» «Be'... lavoro fino alle sette e poi ho un invito a cena.» «A che ora sarà di ritorno?» «Verso le dieci e mezzo, penso.» «Va bene, ci vedremo a quell'ora», fece Harry in tono deciso. Consultò l'indirizzo nella guida. «Abita in Linton Close 3 a Chelsea, vero?» «Sì, è facile trovare la via. È una stradina stretta, vicina a Sloane Square.» «Non si preoccupi, la troverò.» «Venga su direttamente, sono al primo piano.»
«Bene, allora alle dieci e mezzo.» Harry appoggiò il ricevitore e alzò lo sguardo verso Douglas Croft che lo stava osservando con aria pensosa. *** Harry aveva individuato l'esatta ubicazione di Linton Close consultando la guida stradale di Londra. L'autoradio trasmetteva il segnale orario delle 22,30 proprio nel momento in cui l'Austin 1100 lasciava Sloane Square per immettersi nel vicolo cieco che portava il nome di Linton Close. Un tempo era una scuderia in cui la nobiltà della vicina Belgravia usava far riposare i cavalli e che comprendeva, ai piani superiori, gli alloggi per i palafrenieri e gli stallieri. Un proprietario pieno di immaginazione l'aveva trasformato in qualcosa che somigliava vagamente a una tranquilla strada di campagna. Faceva eccezione un susseguirsi di garage situati ai due lati della strada. Il vicolo era debolmente illuminato da lanterne di foggia antica poste ai lati dei portoni d'ingresso. Accostata al lato estremo del vicolo, Harry notò una Fiat giardinetta, vicino alla quale parcheggiò la sua Austin 1100. Tolse la chiave d'accensione ma non chiuse le portiere. Con tutta probabilità qualche inquilino dello stabile avrebbe avuto bisogno di spostarla per entrare e uscire dal garage. Da una delle finestre illuminate giungeva il suono di un complesso Hi-fi che trasmetteva un pezzo di Berlioz. Si avvicinò alla Fiat giardinetta e rimase un istante a guardare la targa... JKY 384 L. Il portone più vicino alla macchina era di color rosso porpora e su una targhetta di lucido ottone si leggeva il numero 3. Si avvicinò alla porta che trovò socchiusa; l'interno era immerso nella più fitta oscurità. Un istinto acquisito durante anni e anni nella polizia lo trattenne dall'entrare nel buio dell'androne con la luce dietro le spalle. Dritto su un lato del battente, diede una violenta spinta alla porta facendola sbattere contro la parete. Il piccolo ingresso era vuoto e pertanto non offriva alcuna possibilità di riparo. Più avanti una rampa di scale ricoperte da una passatoia conduceva a un angusto pianerottolo illuminato da una tenue luce arancione. L'ingresso era abbastanza invitante e incoraggiava il visitatore a sentirsi a proprio agio non appena varcato il portone. Harry salì lentamente le scale; il morbido tappeto attutiva il rumore dei suoi passi. La porta dell'appartamento di Newton si trovava in cima alla scala a destra. Un lume incassato nel soffitto spandeva una macchia di luce
sul tappeto e di conseguenza su chiunque si trovasse di fronte alla porta. Questa era dipinta di bianco e sopra il campanello, inserito in una cornicetta d'ottone, c'era un biglietto da visita di Peter Newton. Harry premette il bottone; lo scampanellio riecheggiò all'interno dell'appartamento. Trascorse all'incirca mezzo minuto, durante il quale Harry si domandò se per caso qualcuno lo stesse guardando attraverso lo spioncino che aveva notato al centro della porta. Pensò che, se anche il pavimento dell'appartamento era ricoperto di moquette, non avrebbe potuto udire il rumore dei passi che si avvicinavano. Suonò un'altra volta il campanello, con maggiore insistenza. Persino dalla posizione in cui si trovava Harry poté percepire un leggero profumo proveniente dall'appartamento. Non c'era il battente. Attese altri venti secondi, quindi appoggiò l'indice sul campanello e continuò a premere. Dalla strada giunse il rumore sordo di una portiera che veniva chiusa con forza. Harry guardò l'orologio e vide che erano le 22,35. Decise che avrebbe aspettato Newton comodamente seduto in macchina. Stava già per andarsene quando nell'appartamento udì squillare il telefono. Harry si fermò, trattenendo il fiato per sentire se qualcuno avrebbe risposto. La chiamata era insistente. Il telefono continuò a squillare nel silenzio dell'appartamento per ben tre minuti prima di smettere. Come sempre, l'effetto che provava era di mistero e di vuoto, come se il contatto con la persona che stava all'altro capo del filo fosse irrimediabilmente perduto. Harry scese le scale immerso in profondi pensieri. Fuori il vicolo era ancora deserto. Si fermò un attimo sul portone guardando in direzione della Fiat. Una macchia di colore sul selciato, sotto la portiera del passeggero, attirò la sua attenzione. Si diresse verso la macchina e, chinandosi, raccolse una sciarpa. Era una leggera striscia di organzino colorato, quel genere di cose che le donne usano legarsi in testa per tenere a posto i capelli durante una corsa in macchina. Harry la accostò al naso. Il profumo era molto intenso, ma non era sicuro che si trattasse dello stesso profumo che aveva avvertito fuori dell'appartamento di Newton. Improvvisamente qualcosa scattò nella mente di Harry mettendolo in guardia. Sentì un brivido salirgli fino alla nuca. Nella parte posteriore della giardinetta vide una coperta che pareva essere stata gettata sopra un fagotto dalla forma strana. Si avvicinò alla portiera, prese un fazzoletto per non lasciare impronte e
tentò di aprirla. Fortunatamente non era stata chiusa dall'interno e si aprì facilmente. Si infilò nella macchina e sollevò la coperta. Sotto c'erano una sacca da golf e una valigetta di pelle che conteneva alcuni indumenti di ricambio. Con un senso di sollievo rimise a posto la coperta. Chiuse la portiera e si diresse verso il lato del passeggero. Il finestrino era mezzo abbassato; sul sedile notò un pacchetto di sigarette aperto e un giornale della sera. Dopo un attimo di incertezza buttò la sciarpa sul sedile. Erano quasi le 22,40 e Newton era terribilmente in ritardo. Muovendosi in direzione della sua macchina Harry accese una sigaretta. Non era un fumatore accanito, ma portava sempre con sé un pacchetto per occasioni come questa. Una buona sigaretta rallentava la tensione e rendeva più tollerabile un'attesa snervante. Il sedile accanto a quello del guidatore, sgombro dei pedali e del cambio, era più comodo per rilassarsi durante quei lunghi appostamenti ai quali era fin troppo abituato. Aveva ancora lo sguardo rivolto alla Fiat quando aprì la portiera della sua macchina. Qualcosa di molto pesante appoggiato alla portiera forzava la sua mano. L'oggetto scivolò e cadde pesantemente contro il bordo inferiore dello sportello. Harry abbassò lo sguardo e fissò sbalordito il viso riverso di Peter Newton. Aveva la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Il suo corpo era stato sospinto sui sedili anteriori della Austin, con le gambe piegate, schiacciate contro una portiera e col capo appoggiato all'altra. Liberato dalla pressione, il corpo senza vita si distese lentamente, mentre il peso della testa e delle spalle lo faceva scivolare sul selciato. *** «La ragazza... quella che ha veduto con Newton stamattina... saprebbe riconoscerla?» La voce del sovrintendente capo Yardley era calma e gentile, ma non faceva prevedere nulla di buono. Aveva un tono burbero come quello di un nonno che redarguisce il nipotino. Harry sapeva che di solito era il preludio a una delle sue sparate. «Sì, certamente.» «Bene. Andiamo avanti, Dawson.» «D'accordo», fece Harry palesemente a disagio. «Non appena mi accorsi che il numero di targa era lo stesso, telefonai a Newton e gli chiesi un ap-
puntamento.» «Perché?» Harry sapeva che qualunque fosse stata la risposta non avrebbe soddisfatto Yardley. Sedeva accanto al suo capo su un'auto della polizia con targa civile, parcheggiata vicino a Linton Close. Non erano ancora passati venti minuti da quando aveva chiamato Nat Fletcher a Scotland Yard, che già la strada tranquilla e silenziosa dove Harry era giunto in macchina alle 22,30 era irriconoscibile. Una mezza dozzina di auto della polizia stazionava ai lati della strada. Agenti in uniforme si davano da fare per respingere una folla di curiosi che si accalcava davanti all'entrata e per controllare i fotografi e i reporter giunti sul posto non meno rapidamente della polizia. Dei riflettori illuminavano la zona intorno alla Austin 1100. Al di là del telone eretto per nascondere la macchina e il suo macabro contenuto il medico legale stava compiendo una visita preliminare, mentre agenti della scientifica prelevavano in silenzio le impronte digitali. In quel momento giunse l'ambulanza della polizia che avrebbe portato il corpo alla camera mortuaria per essere sottoposto ad autopsia. Harry sapeva che avrebbe dovuto salutare la sua macchina per un certo tempo. Anch'essa sarebbe stata prelevata ed esaminata minuziosamente come la salma. «Perché?» Yardley ripeté la domanda. Era come il colpo secco del tuono che preannuncia il temporale. Harry decise di non reagire come uno scolaretto colto in errore. «Volevo interrogarlo.» «Davvero?» Yardley assunse un'espressione incredula. «Lei era perfettamente al corrente che l'uomo si trovava sotto controllo da parte della polizia e nonostante ciò si è assunto l'incarico di...» «Con tutto il rispetto, signore», lo interruppe Harry guardando fisso davanti a sé, «non avrei agito d'ufficio». «No? E allora come diavolo avrebbe agito?» «Come un figlio, un figlio il cui padre è appena stato ucciso. Vede, io credo fermamente che Newton conoscesse mio padre.» Harry si girò per affrontare lo sguardo arcigno di Yardley. «Non credo assolutamente che la morte di mio padre sia stata accidentale.» «Non so nulla di suo padre. Sappiamo invece con certezza che Newton è stato ucciso da una pallottola sparatagli alla nuca con una pistola di piccolo calibro.» Le sue ispide sopracciglia si unirono in un cipiglio. «Pare che lei,
Dawson, sia arrivato a una serie di conclusioni affrettate sul conto di questo Newton. E poi, ha deciso di dargli appuntamento per questa sera senza nemmeno...» «Le ho spiegato il motivo», disse Harry con crescente esasperazione. In quel momento Nat Fletcher si stava avvicinando alla macchina. Aveva l'aria di quello che porta cattive notizie. «Gli fissai un appuntamento perché ero curioso. Mi sembrava strano che mio padre avesse annotato il numero di targa della sua auto, quando...» Harry si interruppe. Yardley aveva perso interesse per quello che stava dicendo. Aveva abbassato il finestrino e stava ascoltando Fletcher. «Sì, che cosa c'è, Nat?» «Non c'è traccia della pistola», fece l'altro. «Potrebbe essere stata gettata qui vicino. Abbiamo setacciato a fondo tutta la zona, ma senza risultato. Adesso stiamo per salire nell'appartamento.» «Bene.» Nat diede un'occhiata inquieta a Harry e porse a Yardley un pezzo di carta. «Questo l'abbiamo trovato addosso a Newton, signore. Era nella tasca del cappotto.» Lanciò un'altra occhiata a Harry e se ne andò. Yardley si girò in modo che la luce del riflettore cadesse sul rettangolino di carta. Lo scrutò per alcuni secondi, quindi si volse verso Harry, guardandolo in modo strano. «Senta, Dawson, quando ha parlato a Newton per telefono le ha detto niente di una lettera?» «Una lettera?» «Sì.» «No, perché?» «Sembra che le abbia scritto una lettera... anzi una raccomandata. L'ha impostata oggi; ecco la ricevuta.» Con riluttanza Harry prese la ricevuta, sulla quale vide il suo nome, cognome e indirizzo scritto con una penna biro. «Sa di che cosa si tratta?» «No, non ne ho la più pallida idea.» «Sicuro?» «Certo che ne sono sicuro!» Harry si lasciò scappare un tono non propriamente adatto nei confronti di un ufficiale superiore. «Be', non si preoccupi», rispose Yardley con sorprendente benevolenza. «Sapremo tutto domani mattina, Dawson.»
*** Rigirandosi nel letto, Harry decise che era proprio impossibile dormire quando ormai si era fatto giorno. Non poteva distogliere dalla sua mente il pensiero della raccomandata che probabilmente sarebbe stata consegnata entro breve tempo. Ancora in pigiama e vestaglia si era preparato la colazione e cominciò a darsi da fare per ottenere una parvenza d'ordine in cucina. Alle otto e mezzo scese dall'appartamento e andò alla porta accanto al negozio per vedere se la posta fosse arrivata. Sullo stuoino trovò solo il giornale del mattino. Harry lo raccolse e aprì la porta, lasciandola socchiusa, in modo che il postino potesse entrare direttamente. Sul giornale, la scena del delitto di Linton Close era dipinta a tinte fosche; c'era anche una fotografia che mostrava il capo e le spalle di Peter Newton. Harry aveva appena raggiunto il pianerottolo quando un suono di passi pesanti sulle scale lo fece voltare. L'imponente mole del sovrintendente capo Yardley si apprestava a salire. «È troppo presto per lei?» chiese Yardley. Aveva salito le scale con sorprendente rapidità per la sua corporatura pesante. Harry pensò che la sua domanda celasse un rimprovero per averlo trovato ancora in pigiama. «No», disse facendosi da parte. «Entri pure.» «È arrivata la posta?» «No, non ancora, ma non dovrebbe tardare.» Yardley fece il suo ingresso in soggiorno e con occhio professionale passò automaticamente in rassegna la parte visibile dell'appartamento di Dawson. «Desidera un caffè? Lo sto preparando in questo momento.» «Non per me, grazie», fece Yardley in tono cortese. «Ma faccia pure.» «Non era necessario che lei venisse fin qui», disse Harry incontrando lo sguardo del suo superiore. «Le avrei fatto pervenire la lettera.» «Sì, lo so, ma volevo parlare con lei.» Yardley indicò la comoda poltrona di pelle. «Posso sedermi?» «Ma certo, si accomodi.» Il cuscino sprofondò sotto il peso del suo voluminoso posteriore e Harry si appollaiò sul bracciolo del divano. «Avanti, vada a farsi il caffè.» «Non importa, il caffè può aspettare. Ho un sacco di tempo, sono in li-
cenza.» «Ah sì?» fece Yardley come se ciò gli giungesse completamente nuovo. «Fino a quando?» «Fino al venticinque. Per quale ragione voleva vedermi?» Prima di parlare, Yardley si soffermò un attimo a fissare il suo interlocutore. Quando era in procinto di dire qualcosa, gli angoli della sua bocca si contraevano in modo curioso. «Dawson, ieri sera mi ha detto di non aver mai incontrato Newton... non prima di averlo veduto sul campo di golf, naturalmente.» «Esatto.» La domanda successiva fu sparata tutto a un tratto, come un pigro giocatore di bocce che inaspettatamente con un colpo secco centra una biglia. «Allora cosa mi dice di un certo Higgs? Lo conosce?» «Higgs? No... non credo.» Yardley mise una mano in tasca ed estrasse il portafoglio. «Basil Higgs, per l'esattezza.» «Basil?» Harry si alzò. Quel nome gli diceva qualcosa. «Adesso ricordo. Ho firmato un assegno a favore di un certo Basil Higgs ieri mattina.» «Per l'appunto. È questo l'assegno, Dawson. L'importo è di cinque sterline.» Harry prese l'assegno che l'altro gli stava porgendo. «Dove l'ha pescato?» «L'abbiamo trovato ieri sera.» «Dove?» «In un cassetto dell'appartamento di Peter Newton.» «Ma... io non l'avevo dato a Newton!» «Ne sono più che certo, dal momento che figura intestato a Basil Higgs», ammise Yardley con tutta calma. «Sì, ma non l'avevo dato neppure a Higgs. Vede... lasci che le spieghi.» «È ora che si decida.» Harry descrisse brevemente la vicenda di Zero, come i Conway, notando l'annuncio sul giornale, avevano telefonato per avvertire che il cane era stato ritrovato. «Andai là ieri mattina a prelevare il cane. Mi parvero molto cortesi. Lui è un invalido, gira per casa su una sedia a rotelle. Comunque, mentre stavo per andarmene, accennai alla ricompensa e Arnold Conway mi suggerì di devolvere la somma in beneficenza. Mi chiese di emettere l'assegno a favore del suo segretario, Basil Higgs.»
«Capisco.» Allungò una mano per prendere l'assegno che ripose nel portafoglio. «Allora come ha fatto Newton a venirne in possesso?» «Non lo so.» Harry scosse il capo perplesso. «Non riesco proprio a capire.» I due uomini si guardavano l'un l'altro in silenzio. Si udì un colpo secco alla porta d'ingresso, seguito da un breve scampanellio. «Sarà il portalettere?» fece Yardley impaziente cominciando ad alzarsi. «È probabile.» Harry andò in anticamera e aprì la porta che dava sul pianerottolo. Il postino stava giungendo con un plico di lettere in una mano e il registro delle raccomandate nell'altra. «Buon giorno. C'è una raccomandata per lei, signor Dawson. Firmi qui, per favore.» Harry firmò il registro con la penna che gli porgeva il postino e prese una grossa busta leggermente rigonfia. «Grazie.» «Di niente, signore», rispose il portalettere chiudendo la porta dietro di sé. Harry posò la posta sul tavolino dell'ingresso e si diresse in soggiorno con in mano la lettera raccomandata. «È arrivata?» Yardley non riusciva a nascondere la sua impazienza. «Sì.» Harry si avvicinò alla scrivania di suo padre e prese il tagliacarte. Stava già infilandolo nella busta quando si accorse che Yardley si trovava alle sue spalle. Estrasse un semplice foglio di carta da lettere privo di indirizzo e di data. C'era un breve messaggio stampato in lettere maiuscole che diceva: ECCO PERCHÉ SUO PADRE È STATO UCCISO. PETER NEWTON. «Ecco perché suo padre è stato ucciso.» Yardley lesse brutalmente il messaggio ad alta voce. Harry gli porse il foglio e tagliò la busta da un lato. Dentro c'era un oggetto avvolto con cura in carta velina. Dopo aver disfatto i numerosi strati di carta Harry notò con stupore che si trattava di un prezioso collare finemente lavorato. «È il collare!» esclamò. «Il collare?» «Sì, quello che portava Zero. Era stato rubato.» «Ehi, un momento», protestò Yardley. «È sicuro che si tratti proprio di quello?» «Sicurissimo.»
«Allora, cosa diavolo significa questo messaggio?» fece Yardley aggrottando le sopracciglia. «Cosa vuole che ne sappia. Per me non ha senso.» Yardley posò il foglio sulla scrivania e indicò il collare. «Allora mi parli di quello. Da dove veniva all'origine?» «Veramente non saprei. Tutto quello che posso dirle è che mio padre lo regalò alla signora Rogers per il suo compleanno.» «Quando?» «Circa un mese fa. Sfortunatamente la signora Rogers è assente. Suo nipote è ammalato e dovrà prendersi cura di lui per qualche giorno.» Harry posò il collare sul foglio di carta. «Mi domando dove diavolo voleva arrivare Newton.» «Anch'io. Sembra un collare piuttosto comune, forse un po' troppo eccentrico.» Yardley si volse, accennando ad andarsene, e disse in tono risoluto: «Vorrei vederla più tardi, Dawson. Potrebbe venire nel mio ufficio alle undici?» «Sì», rispose l'altro guardando l'orologio. «Sarò alla polizia a quell'ora. Devono prendermi le impronte digitali stamattina.» «La solita routine.» Yardley parlava con noncuranza. «Hanno ispezionato a fondo la sua macchina, come può immaginare.» In quel momento il campanello della porta che dava sul pianerottolo suonò. Harry andò ad aprire e si trovò di fronte Nat Fletcher con in mano una busta leggermente rigonfia. «Salve, Nat!» lo salutò Harry. Sin dalla sera prima non era riuscito a capire con esattezza da quale parte stesse Nat. D'altronde gli sembrava logico che il dovere di subalterno lo portasse ad agire in netta armonia con il suo sovrintendente capo. «Salve Harry! Yardley è qui?» «Sì, è qui. Entra pure.» Era evidente che Yardley non si aspettava di essere raggiunto da Nat nell'appartamento di Dawson. «Salve, Nat. Qual buon vento ti porta?» «Buon giorno, signore. Vengo direttamente dall'appartamento di Newton. Abbiamo scoperto alcune cosette molto interessanti.» «Vuoi una tazza di caffè, Nat?» chiese Harry, sperando di riportare i loro rapporti sulla base della vecchia amicizia. Nat declinò l'offerta. «No, grazie, Harry.»
«Allora, di che si tratta?» Nat si sbottonò l'impermeabile che portava abitualmente. Il suo viso dai lineamenti tirati mostrava i segni di una notte trascorsa in bianco. «Eravamo al termine dell'ispezione e stavamo lasciando l'appartamento quando Jackson notò una porta. In un primo tempo pensammo che dietro ci fosse una dispensa. C'era invece uno stanzino ammobiliato come un ufficio. Scrittoio, macchina da scrivere, archivio, i soliti accessori da ufficio.» «Ebbene?» Nat si trovava vicino alla scrivania sulla quale aveva appoggiato la busta. Aveva notato il collare posato sul foglio di carta. «Abbiamo passato una mezz'ora indimenticabile a esaminare l'archivio, signore... per non parlare dello scrittoio...» «Veniamo al punto», lo interruppe bruscamente Yardley, irritato dal tono evasivo di Nat. «Cosa avete trovato, Nat?» si intromise Harry. Nat guardò prima l'uno poi l'altro con un sorrisetto malizioso, come un prestigiatore consapevole di sorprendere lo spettatore da un momento all'altro. D'un tratto prese la busta e fece scivolare il contenuto sul tavolo. Si trattava di una cinquantina di fotografie che raffiguravano belle ragazze in pose audaci. Alcune erano completamente nude, altre indossavano soltanto un reggicalze e delle calze nere, altre ancora facevano l'atto di spogliarsi. Il fotografo le aveva riprese da ogni angolatura possibile e si era servito a fondo della luce per creare un effetto altamente suggestivo. Yardley fece scorrere le foto in silenzio. Il suo respiro si era fatto più affannoso. Nat gli era alle spalle godendosi l'effetto che aveva creato. D'un tratto Harry prese la fotografia di una ragazza dall'aspetto fragile e dal busto generoso. «Conosco questa ragazza. È una prostituta che, se non sbaglio, ha testimoniato nel caso Oxford circa sei mesi fa.» Nat annuì. «Immaginavo fossero delle prostitute. In quella stanza ci sono più di duecento fotografie.» «Duecento?» Yardley era ancora intento a esaminare la serie di cinquanta fotografie che Nat aveva portato. «Il nostro amico Newton doveva avere una vasta cerchia di amicizie.» «Una cerchia di amicizie molto strana, signore», corresse Nat. «Nessun nome, nessun numero telefonico, neanche un indirizzo. Insomma, non esiste il più vago indizio. Solo le fotografie.»
Yardley riunì le istantanee e le infilò nella busta, restituendola a Nat. «Mi domando cosa diavolo stesse tramando il nostro amico Newton.» *** La piscina al coperto era stata inaugurata di recente. Costruita all'insegna delle tecniche più avanzate, offriva ogni genere di attrattive. La vasca principale era di misure olimpioniche e fiancheggiata da alte gradinate che alle undici di quel mattino erano praticamente vuote. Harry Dawson sedeva in prima fila e guardava la ragazza che stava ultimando la sua terza vasca nuotando in un perfetto stile libero. La sua cuffia bianca spiccava tra gli schizzi sollevati dalle lunghe bracciate e l'acqua le scivolava sul corpo agile. Tutt'intorno faceva eco un gran brusio di voci. L'aria era umida e pesante, carica di un acuto odore di cloro. La nuotatrice raggiunse l'estremità della vasca, fece una piroetta sott'acqua con l'agilità di un'anguilla e riemerse immediatamente per guadagnare velocità subito dopo. Questa volta, arrivata all'altra sponda, si fermò un attimo in acqua per riposare; quindi, facendo leva con le mani sul bordo della vasca, sollevò prima una gamba e poi l'altra. I suoi movimenti erano aggraziati. Numerose goccioline le scintillavano sulla schiena nuda, mentre si avvicinava alla panchina per prendere l'accappatoio. Improvvisamente, come se avesse avuto la sensazione di essere osservata, si volse e vide Harry seduto a pochi metri da lei. Gli sorrise e si mosse verso di lui. «Salve, signor Dawson.» «Salve, Liz.» Nell'avvicinarsi, si tolse la cuffia e agitò il capo per restituire ai suoi capelli il loro aspetto naturale. «Non sapevo che frequentasse la piscina.» «Infatti non vengo abitualmente. Douglas mi ha detto che di solito lei passa qui i suoi giorni liberi.» Il suo seno si muoveva ritmicamente mentre riprendeva fiato dopo il notevole sforzo impiegato nel compiere quell'ultima vasca. Prima d'allora Harry non aveva mai visto la ragazza in costume da bagno e in cuor suo ammise che quel corpo atletico e nello stesso tempo ben modellato fosse dieci volte più seducente di quelle fotografie che Nat Fletcher aveva trovato nell'appartamento di Newton. «Voleva parlarmi di qualcosa? Ci sono guai in negozio?»
«Volevo chiederle se per caso sa qualcosa di questo.» Harry tolse di tasca il collare di Zero e lo mostrò a Liz. «Non è di Zero?» «È esattamente quello che volevo chiederle. È in grado di riconoscerlo?» Liz si allacciò la cintura dell'accappatoio e prese il collare. «È senza dubbio lo stesso. Ma dove l'ha preso, signor Dawson? Ero convinta di averle sentito dire che era senza collare quando l'hanno ritrovato.» «Non si preoccupi di questo, Liz. Ciò che voglio sapere è se si tratta dello stesso collare che mio padre regalò alla signora Rogers.» «Sì», fece Liz rigirando il collare fra le mani. «Il medaglione mi sembra leggermente diverso, ma...» «Come? Le sembra un po' diverso?» «Veramente, ho l'impressione che il medaglione fosse un po' più piccolo ma...» Scosse il capo e lo rese a Harry. «No, è lo stesso collare, ne sono sicura.» «Ha idea dove mio padre l'aveva acquistato?» «Sì, certamente. Da Heaton. Quello in St. John's Wood. Penso si trovi in Valence Street.» «Glielo aveva suggerito lei?» «Sì. Una mattina stavamo parlando della signora Rogers e suo padre disse di non sapere cosa regalarle per il suo compleanno. Gli suggerii un collare per Zero.» Una comitiva di alunni, ben allineati e guidati da due insegnanti, emerse dagli spogliatoi; Harry pensò che da un momento all'altro si sarebbero tuffati in acqua con grida di gioia. Aveva notato in un angolo un piccolo bar, separato dalla piscina da una vetrata. «Le posso offrire qualcosa?» Liz annuì con entusiasmo. «Grazie, prenderei volentieri un caffè.» Harry la seguì nel locale. Lei gli fece strada fino al bancone e si sedette su uno sgabello, aggiustandosi l'accappatoio attorno al corpo. «Liz, c'è qualcosa che vorrei chiederle», fece Harry sedendosi su uno sgabello di fianco a lei. La ragazza gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Lei conosceva mio padre, lo vedeva quasi ogni giorno. Non aveva mai detto o fatto qualcosa che... be', che potesse suscitare la sua curiosità?» Liz esitò, abbassando gli occhi. In quel momento si avvicinò il cameriere e Harry ordinò due caffè. «No, non credo.»
«Ne è sicura?» insistette Harry. Era certo che qualche pensiero doveva aver attraversato la sua mente. «Be'...» Liz si asciugò il collo ancora umido con un angolo dell'accappatoio. «Ci fu un particolare, una cosa da niente. Non credo sia molto importante.» «La prego, me ne parli.» Liz arrossì leggermente, come assalita da una sensazione di colpa. «Un giorno della settimana scorsa, forse martedì, tornai in ufficio dopo l'intervallo della colazione, leggermente in anticipo. Suo padre era in negozio e fu sorpreso nel vedermi. Non potei fare a meno di udire parte della conversazione.» «Sono sicuro che non l'ha fatto apposta», la rassicurò Harry. «Con chi stava parlando?» «Be', ho pensato che si trattasse di una cliente.» «Una donna?» «Sì, una donna sulla cinquantina, alta, bruna e molto attraente. Portava degli abiti piuttosto costosi. Appena entrai in negozio udii suo padre che diceva: 'Per l'amor di Dio, Sybil, non creare delle difficoltà su...' Quindi si accorse della mia presenza e cominciò a parlare in modo completamente diverso.» Il barista spinse sul banco due tazzine di caffè. «Vada avanti, Liz.» «È tutto. Entrai in ufficio e dopo pochi minuti la donna se ne andò.» «Mio padre non fece alcun... commento?» «Sì.» Liz versò lo zucchero nella tazzina. «Volle sottolineare di non averla mai veduta prima. Disse che stava cercando una giacca a vento molto particolare.» «E lei gli ha creduto?» «Io... non sapevo se credergli o no.» Liz era chiaramente imbarazzata dall'interessamento di Harry su quel particolare. «Certo mi parve convincente.» «Ne ha mai parlato con Douglas?» «No, naturalmente», rispose Liz con prontezza. «Perché avrei dovuto? In fondo non erano fatti miei.» Harry annuì soddisfatto e prese a sorseggiare la sua tazza di caffè. «Grazie, Liz.» ***
Non avendo la sua macchina a disposizione, Harry fu costretto a prendere un taxi per recarsi a St. John's Wood. Era già mattino inoltrato e non aveva tempo a sufficienza per aspettare l'autobus o il metro. In tal modo evitava anche la seccatura di dover cercare il negozio di Heaton. Il tassista lo portò proprio di fronte all'ingresso. La parte anteriore del negozio era piuttosto stretta, ma si allargava all'interno. La vetrina era piena di gabbie contenenti uccelli di ogni genere, dal più comune cardellino ai pennuti esotici provenienti da vari paesi. Dentro c'era esposta una vasta gamma di oggetti di lusso per animali domestici. Una parte della parete era occupata da un serraglio in miniatura: file di gabbie contenenti topolini bianchi, scoiattolini, cuccioli di cani, gatti di ogni specie, tartarughe, scimmie e criceti. Nell'aria c'era un odore pungente. Cinguettii, latrati e miagolii davano al luogo un'aria festosa. Al centro del negozio faceva bella mostra la «Boutique del cane». Sul banco di vendita c'erano dei guinzagli di varie lunghezze e spessori, cappottini scozzesi per barboncini e pechinesi, collari adatti a tutti i tipi di cani, dal chihuahua al dobermann. Harry stava esaminando i collari quando si aprì la tenda che separava il negozio dal retro ed emerse il proprietario. Si passava il fazzoletto sulle labbra come se avesse appena terminato di mangiare qualcosa. «Buon giorno.» «Buon giorno. Il signor Heaton?» L'altro fece un sorriso disarmante. «In persona.» Era difficile stabilire con esattezza l'età di Sidney Heaton. Aveva i capelli crespi e brizzolati e attorno allo stomaco qualche chilo in più del dovuto. Il viso dalla pelle liscia aveva un colorito roseo e c'era nei suoi occhi una luce giovanile. Portava una cravatta a pois su una giacca con martingala guarnita da quattro tasche applicate. «Le interessa qualcosa?» «Sono un ufficiale di polizia, signor Heaton... di Scotland Yard... e sto svolgendo alcune indagini. Forse mi può essere d'aiuto.» «Santo cielo!» Gli occhi di Heaton passarono ansiosamente da una gabbia all'altra come per domandarsi quale dei suoi cuccioli fosse stato così incauto da mettersi contro la legge. «Sì, volentieri, se ne sarò in grado.» Harry aveva estratto dalla tasca il collare che aveva attirato l'attenzione di Heaton.
«Per quale ragione sta svolgendo delle indagini?» «Per via di questo collare. Ho saputo che mio padre... Tom Dawson lo acquistò in questo negozio circa...» «Lei è il figlio del signor Dawson?» I modi di Heaton erano completamente cambiati. Guardò Harry come se avesse ritrovato un vecchio amico. «Sì, sono io.» «Oh, signor Dawson, sono felice di conoscerla.» Con uguale rapidità assunse un'espressione addolorata. «Sapesse come sono rimasto sconvolto dalla notizia della morte di suo padre! Che cosa terribile!» «Grazie, signor Heaton. Conosceva mio padre?» «No... ma naturalmente ci siamo incontrati quando lui è venuto a comprare il collare. Sono stato un suo ammiratore per anni. Fui molto lusingato quando venne nel mio negozio quel pomeriggio. Forse non lo crederà, signor Dawson, ma ai miei tempi ero anch'io un atleta.» Heaton guardò sconsolato il suo stomaco prominente. «Signor Heaton, vorrei che lei desse un'occhiata a questo collare. Innanzitutto, è quello che ha venduto a mio padre o trova che ha qualcosa di diverso?» Heaton prese il collare e lo esaminò con interesse professionale. «Sì, è quello che ho venduto a suo padre... per quel che posso dire.» «In che senso?» Heaton sorrise. «Be', ne ho venduti parecchi e si assomigliano un po' tutti.» Così dicendo indicò il banco. «Come vede ne ho un grande assortimento. Forse alcuni sono più ornati di altri, ma più o meno sono tutti uguali.» Prese un collare e lo mise vicino a quello di Zero. «Non mi sembra che ci sia niente di diverso nel suo, signor Dawson.» «E cosa mi dice del medaglione? È lo stesso o è stato cambiato?» Heaton aggrottò le sopracciglia come se si sforzasse di ricordare. «Il medaglione naturalmente non gliel'ho venduto io. L'aveva portato suo padre con sé.» «Davvero?» «Sì.» Heaton si interruppe dandosi un colpetto sulla fronte. «No! No, mi sto sbagliando. Ora ricordo, l'ha portato una sua amica. È vero. Suo padre era ancora indeciso se acquistare il collare o no quando arrivò la sua amica. Quest'ultima disse che per lei andava benissimo, era esattamente quello che cercava.» «E fu lei a portare il medaglione?» Heaton annuì. «Esatto. Lei me lo porse e io lo adattai al collare. Erano
entrambi molto soddisfatti.» Così dicendo restituì il collare a Harry. «Sul medaglione c'erano già il nome e l'indirizzo o glieli ha messi lei?» «No, c'erano già.» In fondo al negozio, una delle scimmie aveva cominciato a borbottare eccitata contagiando gli altri animali, tanto che uno dei cuccioli più piccoli prese a guaire. Harry dovette alzare la voce per farsi udire. «Chi era l'amica di mio padre? La conosceva?» «No, temo di no.» «Era forse una donna bassa e grassoccia con una espressione bellicosa?» «Santo cielo, no!» ribatté Heaton in tono risentito. «Era una donna molto affascinante.» «Alta, bruna, elegantemente vestita?» «Indossava abiti decisamente costosi, ma un po' eccentrici per chi... diciamo, abbia dei gusti raffinati.» «Non la seguo, signor Heaton.» Heaton si mosse in direzione della gabbia più vicina e, infilando una mano tra le sbarre, accarezzò una scimmia che sembrò apprezzare il gesto affettuoso. «Non mi fraintenda, non che io sia eccessivamente critico, ma, vede, lavorando a contatto con gli animali una persona tende ad acquisire una certa affinità.» Heaton si soffermò sull'ultima parola, compiaciuto di aver trovato il termine adeguato. Sul suo viso passò un'espressione di infantile soddisfazione. «Mi vedo comparire dinnanzi una donna con una pelliccia di leopardo gettata con noncuranza sulle spalle, e... cosa vuole che le dica, mi si sono rizzati i capelli sul capo.» Si lasciò andare in una risata sprezzante e ritrasse la mano dalla gabbia. «Ha detto che indossava una pelliccia di leopardo?» «In effetti era... come si chiama? ocelot. Ecco, sì, ocelot.» Harry si stava dirigendo verso la porta. «Grazie, signor Heaton, mi è stato di grande aiuto.» Con fare premuroso, Heaton si affrettò ad aprirgli la porta. «Grazie, spero di rivederla, signor Dawson.» Da uno scaffale un gatto siamese spiccò un salto andandosi a posare sulla spalla di Heaton. I suoi occhi azzurri fissarono Harry con una espressione di fredda ostilità, in disaccordo col sorriso affettato del suo padrone.
*** Il sovrintendente Yardley aveva fatto il possibile per rendere più accogliente l'ufficio, arredato in modo funzionale ma un po' squallido, assegnatogli dopo il trasloco dalla vecchia sede di Embankment al nuovo edificio di Victoria Street. Eppure la vecchia scrivania e le poltrone di pelle un po' logore apparivano fuori posto nel nuovo locale e il paesaggio pastorale di Bruegel era in netto contrasto con la scena brulicante di Victoria Street, quindici metri più sotto. La parete di fondo era in gran parte occupata da una carta topografica della città con i vari comandi della polizia. Dallo spazio rettangolare era stato ricavato un piccolo ufficio per la segreteria con la porta che si apriva sul corridoio. Un poliziotto in uniforme comparve da questo ufficio non appena Harry fece il suo ingresso. «Salve, Hodges. Il sovrintendente capo è qui?» «Non è ancora ritornato da Hampstead.» «Hampstead?» «Sì, signore. Mi disse che sarebbe andato là, stamattina.» «Va bene, Hodges.» Harry annuì soddisfatto. Era contento che Yardley avesse la possibilità di verificare personalmente la sua versione. Si diresse verso l'ufficio. «A proposito, l'ispettore Fletcher è in sede?» Hodges indicò una porta comunicante che conduceva nell'ufficio adiacente. «Penso sia di là, signore. Devo comunicargli che lei è qui?» Prima che Hodges potesse raggiungere la porta, questa si aprì e apparve Nat. «Salve, Nat!» Lo salutò Harry. «Hai notizie di Carter? Cosa mi dici dei risultati dell'autopsia? E del rapporto della scientifica?» «Calma, Harry.» Nat alzò una mano come per difendersi dall'irruenza dell'amico. «Ho già un sacco di grane per conto mio, sai.» L'espressione di rabbia e delusione fu così palese sul volto di Harry che Hodges preferì ritirarsi nel suo ufficio. Nat appoggiò una mano sulla spalla dell'amico. «Comunque, so per certo che Carter e il suo capo stanno trattando la morte di tuo padre come un caso d'omicidio.» «Non potrebbe essere diversamente.» Nat guardò la foto che aveva in mano. «Comunque, a proposito di Newton, da' un'occhiata a questa.»
Era una fotografia a colori di formato piccolo che raffigurava Peter Newton insieme a una bella ragazza distesa su un materassino, sul bordo di una piscina. Sorridevano alla macchina fotografica e apparivano felici. «Riconosci la ragazza?» «Sì.» Gli occhi di Harry continuavano a fissare il viso della ragazza che sembrava gli sorridesse. Era un volto molto attraente e Harry provò un senso di ribellione al pensiero che una ragazza come quella potesse intrattenere una relazione con un uomo come Newton e apparentemente apprezzare la sua compagnia. «È la ragazza di cui ti ho parlato. Quella che litigava con Newton in macchina... la macchina che vidi quella mattina in Finchley Road.» «Speravo che me lo confermassi.» Nat riprese la foto. «Ma chi è?» «Si chiama Judy Black. Viveva con Newton. Ieri sera cenarono insieme in un posto a Charlotte Street. Sembra che abbiano avuto una violenta lite nel ristorante e siano usciti insieme verso le nove e mezzo.» «L'hai già rintracciata?» «Non ancora.» «Perché no?» protestò Harry. «Perché no? Mio Dio, parli proprio come Yardley.» Nat sedette in una poltrona di pelle e accavallò le gambe. «Per la semplice ragione che non l'abbiamo trovata.» Harry prese a camminare su e giù per la stanza. Dal piccolo ufficio giunse il ticchettio incerto della macchina da scrivere di Hodges. «Fece ritorno con Peter Newton nell'appartamento?» «Non lo sappiamo. È quello che vogliamo scoprire.» «Da dove viene la ragazza? Quali sono i suoi precedenti?» «È di Liverpool.» Nat guardava compiaciuto la ragazza in bikini. «Sembra che Newton l'abbia notata durante il suo numero in uno spettacolo a Liverpool e l'abbia persuasa a seguirlo a Londra. Le fece ottenere una parte in un musical... quello al St. Edward, che però si rivelò un insuccesso. Fino a un mese fa viveva in una camera ammobiliata nei pressi di Notting Hill Gate, poi si stabilì nell'appartamento di Newton.» Harry guardò l'amico con approvazione. Era chiaro che si era dato da fare. «Chi ti ha detto tutto questo?» «La sua affittacamere.» «E cosa mi dici di Newton?»
«Niente di nuovo, purtroppo. Nessuno vuole parlare di lui. Tutto quello che sappiamo per ora è che aveva una rendita personale e che aveva finanziato uno o due spettacoli nel West End, compreso quello in cui Judy Black fece fiasco. In ogni modo ho detto al sergente Quilter di tastare il terreno. Di solito riesce a far saltare fuori qualcosa di buono.» «Nat, devi trovare quella ragazza, a qualunque costo!» «Non preoccuparti, troverò...» Nat si interruppe e si alzò di scatto. La porta si aprì e Yardley entrò con impeto nella stanza. «Mi spiace di averla fatta attendere, Harry. Sono stato a Hampstead.» Appoggiò la borsa sulla scrivania e si volse verso Nat. «Novità? Avete trovato la ragazza?» «No, non ancora», rispose Nat, mostrandogli la fotografia. «Ma Harry l'ha riconosciuta. È la ragazza che vide in macchina con Newton e ora l'affittacamere pensa...» «Non voglio più sentire parlare dell'affittacamere», lo interruppe Yardley seccato, girando intorno alla scrivania. «Voglio quella ragazza, Judy Black. Trovatela!» Nat venne congedato. Controllando a stento il suo risentimento uscì di scatto dalla porta di comunicazione. Yardley appoggiò la sua mole sulla sedia girevole dietro la scrivania. Alzò gli occhi verso Harry riabbassandoli subito dopo. «Si segga, Dawson.» Harry si sedette sulla sedia occupata poco prima da Nat. Yardley prese dalla scrivania un foglio protocollo battuto a macchina e lo esaminò attentamente. Per un intero minuto nella stanza regnò il silenzio. In lontananza si poteva udire il rumore irregolare del traffico proveniente da Victoria Street, il ticchettio della macchina da scrivere di Hodges e lo squillo del telefono negli uffici vicini. Senza alzare gli occhi dal rapporto, Yardley disse improvvisamente: «Ho visto i Conway, stamattina». «Sì, immaginavo che sarebbe andato da loro.» «Confermano la sua storia del cane.» «Questo mi fa molto piacere», fece Harry seccamente. «Perché, si aspettava il contrario?» Yardley appoggiò il dattiloscritto, allungò i gomiti sulla scrivania e fissò Harry con occhio inquisitore. «In realtà ho trovato i Conway per puro caso. Stavano partendo per Al-
deburgh, dove sembra che lui sia socio del club di golf.» Harry stava per dire qualcosa, quando si ricordò che alcuni club associano anche i non praticanti. «Sono persone molto civili.» L'espressione di Yardley si ammorbidì ripensando lusingato alla cortesia che la signora Conway aveva mostrato nei suoi confronti. «Sì, mi hanno fatto la stessa impressione.» «Comunque, i due coniugi sono concordi nell'affermare di non aver ricevuto l'assegno di cinque sterline di cui mi ha parlato e di non aver mai conosciuto nessuno di nome Basil Higgs.» Per qualche istante Harry non riuscì a trovare le parole. «Ma... il signor Conway, non le ha parlato dell'associazione dei 'Criceti'?» «Mi ha fatto fare una bella figura, Dawson. I Conway si sono fatti una gran risata, quando ho nominato i criceti e Arnold Conway, dal gran ridere, è inciampato nel tappeto e per poco non cadeva.» «Aspetti un momento.» C'era qualcosa che non andava nella scena rievocata da Yardley. «Come può un uomo seduto in una sedia a rotelle inciampare in un tappeto?» «Conway non era in una sedia a rotelle. Quando gliel'ho accennato è letteralmente cascato dalle nuvole. Quell'uomo è sano come un pesce.» «Ma...» «Per avere un testimone», proseguì Yardley, «ho fatto entrare un mio vecchio amico, l'ispettore Emerson. Conosce Hampstead meglio delle sue tasche. È in zona da più di vent'anni». Harry guardò fisso Yardley. Non riusciva a credere che quella conversazione stesse avvenendo realmente. La stanza, la scrivania, lo stesso Yardley sembravano improvvisamente irreali, come se facessero parte di un sogno. «Emerson mi ha detto che Conway era un agente di cambio e che dopo aver fatto fortuna si era ritirato. Acquistò 'Acquacheta' nel 1963 pagandola trentamila sterline. Gli ho anche chiesto della sedia a rotelle. Conway non è sicuramente un invalido. Infatti, gioca a squash due volte alla settimana e frequenta i campi da golf alla domenica.» Harry si alzò di scatto e si diresse verso la finestra. «Non m'importa se gioca a tennis, squash, golf o hockey su ghiaccio. Quando l'ho visto io era su una sedia a rotelle.» Si volse con rabbia verso Yardley. «Maledizione, perché dovrei inventarmi una cosa del genere se non fosse vera?»
La risposta di Yardley fu quasi impercettibile. «Non riesce a immaginarne la ragione?» Harry si avvicinò alla scrivania. «Non mi crede, vero?» L'altro non rispose, aprì un cassetto ed estrasse il collare di Zero. «Mi parli di questo collare, ha scoperto qualcosa?» Harry riuscì a mala pena a controllarsi. «Lo acquistò mio padre in un negozio di St. John's Wood. È rimasto un lieve dubbio circa il medaglione.» «Vuole dire che potrebbe essere stato cambiato?» Yardley rigirò fra le dita il dischetto metallico. «C'è impresso il nome della signora Rogers e il suo numero di telefono, Dawson.» «Sì, ma sia Liz Mason che il proprietario del negozio di animali, che si chiama Heaton, hanno qualche dubbio sull'autenticità del medaglione.» Quando udì bussare alla porta, Harry si interruppe. Nat Fletcher entrò. «Ha un momento di tempo, signore?» «Sì, cosa c'è, Nat?» Nat lanciò un'occhiata in direzione di Harry che aveva il volto arrossato dall'ira. Immaginò di avere interrotto una discussione piuttosto accesa. «Sono stato appena chiamato dal sergente Quilter. Ha scoperto qualcosa su Newton, signore, qualcosa che non sapevamo.» «Ebbene?» grugnì Yardley, irritato dall'abitudine che aveva Nat di non arrivare subito al sodo. «Il suo nome non era Peter Newton. Se ne serviva soltanto come copertura per i suoi loschi affari. Il suo vero nome è Higgs, signore, Basil Higgs.» *** Era pomeriggio inoltrato quando Harry fece ritorno nel suo appartamento. Aveva pranzato alla mensa di Scotland Yard con la speranza di poter ritirare la sua macchina subito dopo, una volta finito il lavoro degli esperti. Solo verso le quattro gli venne comunicato che la macchina era disponibile. Di conseguenza fu costretto a immergersi nel traffico proprio durante l'ora di punta. Nel parcheggiare la macchina lungo il marciapiede opposto vide un taxi sostare di fronte al negozio. Ancora teso e coi nervi a fior di pelle girò la chiave nella serratura della porta d'ingresso. Aveva appena chiuso la porta dietro di sé quando ebbe la sensazione che qualcuno si trovasse sul pianerottolo in cima alle scale.
Rimase fermo al buio vicino alla porta d'ingresso. La signora Rogers, con indosso un cappotto di tweed e un cappellino ornato di fiori di plastica, era talmente assorta a coccolare il barboncino che non si accorse della presenza di Harry. Stava sbaciucchiando l'animale, che a sua volta rispondeva alle effusioni della padrona leccandole il viso. Ferma a mezza strada sulle scale vide Harry e si fermò imbarazzata. «Buona sera, signora Rogers.» «Oh, salve, signor Dawson.» Accennò un sorriso sforzato. «Speravo... Speravo proprio di vederla.» «Veramente, signora Rogers? Mi è difficile crederle. Spero che suo nipote si sia rimesso dall'influenza.» «Oh, sì, signor Dawson, grazie.» Così dicendo scese alcuni scalini. La freddezza nella voce di Harry era molto evidente. «Signor Dawson, credo di doverle delle scuse. Le ho mentito riguardo a quell'appunto che le ho lasciato... Il fatto è che ho trovato un altro posto.» «Eh?» «Sì, in quel nuovo albergo a Knightsbridge. Il Royal Plaza.» «Così all'improvviso?» Harry si fece da parte quando lei raggiunse il fondo delle scale. Aveva spostato sull'altro braccio il barboncino, che ora era intento a inumidirle l'orecchio sinistro. «Non sapevo proprio cosa fare. Ero sconvolta per la morte di suo padre, avvenuta in quel modo. Be', dovevo proprio andarmene. Temo di essermi comportata molto male, signor Dawson. Non vorrei apparire ingrata dopo tutte le sue gentilezze, ma... sono molto spiacente per tutto quanto.» Sembrava sinceramente dispiaciuta, ma Harry ebbe il sospetto che fosse una scena ben recitata. «Quanto le devo ancora?» tagliò corto Harry. «Niente», rispose prontamente. «Assolutamente niente, grazie. Siamo pari con la ricompensa che ha dovuto pagare per il cane.» Harry sapeva che non era vero ma ci passò sopra. «Bene, la cosa importante è aver ritrovato il cane.» «Sì, e può immaginare la mia felicità quando l'ho saputo. Stentavo a crederci.» Accarezzò le orecchie del cane. «Caro piccolo Zero.» «Come l'ha saputo, signora Rogers?» Harry non accennava a muoversi dalla porta. «Ho parlato con Hubert questo pomeriggio ed è stato lui a dirmelo. A proposito, che ne è del collare di Zero, signor Dawson? È stato rubato?»
«Sì.» «Oh, che peccato!» Fece una smorfia di disappunto. «Era un così bel collare, e poi era un regalo di suo padre.» «Il fatto strano è che prima è stato rubato, poi restituito», disse Harry osservando la sua reazione. «Restituito?» «Sì. Al momento si trova nell'ufficio del sovrintendente Yardley.» «Sovrintendente Yardley?» ripeté l'altra allarmata. «E perché mai è in mano alla polizia?» Un energico colpo alla porta evitò a Harry di darle una risposta. Aprì la porta e si trovò di fronte un tassista dall'aria impaziente. «Senta, non posso aspettare qui tutta la sera. Se non si sbriga mi troverò nei guai.» «Vengo fra un minuto.» «Subito, per favore, signora.» Fece un cenno in direzione della strada guardando Harry. «C'è un ficcanaso di un vigile là fuori e non vorrei che mi appioppasse una multa.» Quindi ritornò verso il taxi. Harry socchiuse la porta. «Signora Rogers, prima che lei se ne vada vorrei farle una domanda. Ha mai sentito mio padre nominare un certo Conway?» «Conway?» ripeté senza cambiare espressione. «No, non mi sembra.» «E lei ha mai udito questo nome prima d'ora?» «No.» Scosse il capo energicamente. «Sono sicura che l'avrei ricordato se suo padre avesse accennato a questo nome. Scusi, signor Dawson, ma adesso devo andare.» Aprì la porta e il tassista, quando la vide apparire, avviò il motore. «Va bene, signora Rogers. Arrivederci e buona fortuna per il suo nuovo lavoro.» Lei si volse e gli sorrise imbarazzata. «Grazie. Saluta il signor Dawson, Zero.» Il cane ignorò l'invito, con gran sollievo di Harry. Questi rimase sulla porta a osservare l'ex governante che, attraversato il marciapiede, si infilò nel taxi. Provò un inspiegabile senso di inquietudine al pensiero che quella donna, che per anni aveva avuto libero accesso in casa sua, fosse rimasta sola nell'appartamento tutto il pomeriggio. *** Harry aveva intenzione di fare soltanto un sonnellino quando si lasciò
andare esausto in una comoda poltrona. Ma la notte trascorsa in bianco e lo stress subito durante i due precedenti incontri con Yardley lo avevano ridotto a pezzi. Le palpebre gli si appesantirono e cadde in un sonno profondo. Lo squillo del telefono lo fece trasalire. Scosse il capo cercando di immaginare che ora fosse. Fuori era già buio e il frastuono del traffico era diminuito fino a divenire un mormorio. Si alzò a fatica cercando a tentoni l'interruttore della lampada da tavolo per fare un po' di luce. Fissò stupito il suo orologio da polso che segnava le dieci meno dieci. Aveva dormito cinque ore. Per fortuna la persona che chiamava non si arrendeva tanto facilmente; il telefono continuava a squillare a intervalli regolari. Ancora intontito dal sonno pesante, sollevò il ricevitore. «586-2679.» Invece della risposta udì una serie di suoni brevi e metallici come se la chiamata giungesse da una cabina telefonica. «Signor Dawson?» La voce bassa, nervosa e un po' affannosa era quella di una donna. «Chi parla?» «Sono Judy Black. Ero amica di Peter Newton.» «Judy Black!» «Sono nei guai, signor Dawson», disse in fretta la ragazza. Aveva un vago accento settentrionale, pensò Harry; forse sembrava più di Leeds che di Liverpool. «Sono terribilmente nei guai e vorrei parlarle prima di darmi per vinta. Possiamo incontrarci? Anche stasera se è possibile.» «Sicuro.» Harry allungò una mano per prendere un notes e una biro. «Dove si trova? Da dove sta parlando?» La ragazza non rispose subito. Era certo di aver udito dei suoni nel sottofondo che però cessarono di colpo come se qualcuno avesse coperto il ricevitore con una mano. Dopo pochi istanti riprese a parlare rapidamente ma sottovoce. «Mi trovo in un ristorante, il Chez Maurice. È in Greek Street, vicino a Soho Square.» «Non si muova da lì, signorina Black.» Harry assunse un tono autoritario, degno di un ufficiale di polizia. La sonnolenza che gli aveva annebbiato la mente era improvvisamente sparita. «La raggiungo tra un quarto d'ora al massimo.»
*** Il taxi procedeva lentamente lungo Greek Street. Sia Harry che il tassista cercavano un'indicazione qualsiasi che segnalasse la posizione del ristorante. D'un tratto Harry vide un'insegna luminosa sul lato destro della strada. Batté sul vetro del taxi. «Ci siamo! Si fermi qui, per favore.» «Non posso fermarmi qui, amico. Devo per forza arrivare fino a quello spiazzo là in fondo.» Harry poté vedere chiaramente le due ragazze, ferme sotto le luci che illuminavano l'entrata del Chez Maurice; erano appena uscite e sembravano in attesa di un taxi. La più alta delle due era una donna robusta di circa trent'anni; aveva una bellezza un po' ordinaria che poteva passare inosservata. I suoi capelli rossi risaltavano sotto la luce dell'insegna al neon. La ragazza che le stava di fianco era veramente uno schianto. Gli uomini che le passavano dinnanzi istintivamente rallentavano per guardarla. La riconobbe immediatamente come la ragazza che aveva veduto in macchina con Newton. Harry aveva già aperto lo sportello quando il taxi andò a fermarsi vicino al marciapiede, trenta metri più avanti. Senza staccare gli occhi dall'entrata del ristorante, attese con impazienza il resto. Judy Black era rimasta sola. L'altra ragazza era rientrata nel ristorante, evidentemente per cercare qualcosa che aveva dimenticato. Judy si guardava nervosamente intorno. Erano passati diciotto minuti da quando Harry aveva appoggiato il ricevitore e forse la ragazza si stava domandando se sarebbe venuto o no. Non appena il taxi si fu allontanato Harry la vide frugare nella borsetta ed estrarre un paio di occhiali scuri; se li infilò e si aggiustò il foulard che portava in capo, come se non volesse farsi riconoscere. Harry si affrettò lungo il marciapiede; sapeva che la ragazza l'aveva visto arrivare in taxi e lo stava seguendo con lo sguardo. Un flusso continuo di automobili gli impediva di attraversare. Le fece un cenno con la mano come per rassicurarla, ma ottenne l'effetto contrario. La ragazza si girò di scatto e lanciò un'occhiata dentro il ristorante. La sua amica non si vedeva ancora. Quindi, dopo un'altra occhiata ansiosa in direzione di Harry, scese d'impeto i due scalini del ristorante e si allontanò di corsa verso Soho Square. Qualcosa doveva averla spaventata, oppure aveva cambiato idea e non
voleva più parlargli. Harry si immerse nel traffico provocando la brusca frenata di una rombante macchina sportiva che procedeva a velocità moderata. Judy aveva un vantaggio di venti metri su di lui, che si lanciò a inseguirla a passo di corsa. Dal lato opposto di Chez Maurice, il conducente di un furgoncino avviò il motore e si fece largo fra le macchine che confluivano in Soho Square. La sua velocità non superava quella delle due figure in corsa. Una grossa Rolls-Royce Sedanca a sette posti si era fermata di fronte all'entrata di un locale notturno chiamato «The Mad House», la cui insegna al neon attirava l'attenzione dei passanti. Poco prima che Harry giungesse davanti al locale, le porte si aprirono e una dozzina di capelloni, in pantaloni ricoperti di borchie, si riversò sul marciapiede. Ognuno di loro portava uno strumento musicale, il più grande dei quali era un contrabbasso racchiuso in un enorme astuccio. Alla vista di Harry che cercava faticosamente di sorpassarli, risero divertiti. Uno di loro l'afferrò per un braccio e gli disse in tono ironico: «Ehi, amico, hai bisogno di rilassarti. Vieni con noi, ti daremo un tranquillante». Con un violento strattone, Harry si liberò dalla presa delle dita sottili ma straordinariamente forti del giovane. Contemporaneamente si scontrò con una coppia di americani in vacanza che stavano contemplando con occhi sgranati quel brandello di colore locale. Nell'urto fece volar via la borsetta della donna. La raccolse dal marciapiede e con un minimo di scuse la restituì alla proprietaria. Quando ritornò sui suoi passi Judy Black era scomparsa. Harry si precipitò verso Soho Square senza notare il furgoncino che continuava a seguirlo. Arrivò alla piazza giusto in tempo per vedere in lontananza un taxi girare e caricare una ragazza che gli faceva cenni frenetici con la mano. Il suo grido «Taxi! Taxi!» sembrava una disperata invocazione d'aiuto. Sapendo che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungerla, Harry si fermò per seguire con lo sguardo i suoi movimenti. La ragazza si infilò nel taxi, che subito dopo si mosse in direzione del tratto più breve di Oxford Street e poi voltò a destra. Il furgoncino accelerò per seguirli. Harry esitò un attimo. Un improvviso intuito gli disse che Judy sarebbe ritornata verso il West End. Decise di rischiare, d'altra parte non gli rimaneva altro da fare. Percorse, correndo, metà della piazza fino all'imbocco di Stratton Street, all'incrocio con Charing Cross Road. Se il taxi avesse girato a destra in St.
Giles Circus avrebbe avuto ancora una possibilità. Percorse circa cento metri in quindici secondi, tenendosi quasi sempre in mezzo alla strada. La gente stupita si girava alla vista di quel giovane apparentemente sano di mente che sembrava pervaso da un'improvvisa follia. Dalla folla si udì persino qualche buontempone che urlava «Al ladro!» In Charing Cross Road il traffico scorreva in entrambe le direzioni. Harry doveva raggiungere il lato opposto e si immerse nel traffico zigzagando come un giocatore di rugby che corre con la palla verso la meta. Giunto sul marciapiede si fermò per riprendere fiato, respirando profondamente, mentre i suoi occhi scrutavano gli occupanti di ogni taxi che passava. Ne contò una dozzina, quando d'un tratto vide una macchina che trasportava una ragazza estremamente pallida con un grosso paio di occhiali neri, rannicchiata sul sedile posteriore. Harry si piazzò in mezzo alla strada e sollevò una mano. Il conducente non avrebbe potuto passare senza investirlo e per un attimo Harry pensò che stesse per farlo. All'ultimo momento il tassista rallentò, per fermarsi a un centimetro dal punto in cui si trovava Harry. Sporse la testa dal finestrino. «Cosa diavolo sta facendo? Dove ha la testa? Non vede che questo taxi è occupato?» Harry gli si avvicinò. «Sono un ufficiale di polizia», disse con calma ma in tono autoritario. «L'ispettore Dawson. Ci porti direttamente a Scotland Yard.» Mentre il conducente si riprendeva dalla sorpresa, Harry aprì lo sportello e si infilò nel taxi. Judy Black, con aria esterrefatta, cercava di aprire la portiera per uscire dall'altra parte. Harry l'afferrò per un braccio e la trattenne sul sedile, quindi sbatté la porta e urlò al tassista: «Andiamo!» Il conducente avviò il motore e partì. Dietro di lui, anche il furgoncino, che aveva atteso con pazienza la sosta forzata e che si era fermato a una ventina di metri dal taxi, si mise in moto. Harry, seduto su uno strapuntino, voltava la schiena al conducente. In tal modo poteva guardare in viso la ragazza che appariva ancora spaventata. Anche da vicino era molto bella, ma di una bellezza inquietante. «Allora», cominciò Harry. «A che gioco giochiamo? Si può sapere dove diavolo vuole arrivare?» «Chi è lei?» Judy era letteralmente scossa dalla paura, tanto che la sigaretta che aveva appena accesa le cadde dalle dita. «Cosa vuole da me?» «Sa benissimo chi sono. Sono Harry Dawson. L'ispettore Dawson, se preferisce. Mi ha telefonato non più tardi di venti minuti fa...»
«Io... io le avrei telefonato...?» balbettò stupita. «Già!» Judy scosse il capo. «No, non le ho mai telefonato...» «Mi ha detto di trovarsi nei guai e di volermi vedere...» Harry si interruppe. La voce era diversa. Aveva un accento più del Lancashire che dello Yorkshire. Raccolse il mozzicone ancora acceso, aprì il finestrino e lo gettò fuori. «Allora la ragazza con cui ho parlato per telefono non era lei?» Judy scosse nuovamente il capo. «Veramente le ha telefonato qualcuno facendosi passare per me?» «Sì.» «È stata una soffiata», disse Judy con nervosismo. «Loro sapevano che mi trovavo al ristorante.» «Loro chi?» Judy si volse per guardare fuori del finestrino. Dopo il primo momento di shock che l'improvvisa apparizione di Harry le aveva causato ora stava riacquistando fiducia. «L'abbiamo cercata dappertutto», fece Harry. «Vorremmo farle alcune domande sull'assassinio di Peter Newton.» «Non ho ucciso io Peter», disse con ira, girandosi per incontrare gli occhi di Harry. «Sono fuori da questa storia.» «Non vogliamo insinuare questo, però pensiamo che possa esserci d'aiuto rispondendo ad alcune domande.» «Non so nulla dell'omicidio. Non ho niente da dire.» «Invece può dirci molte cose. Sappiamo che viveva con Newton da oltre un mese. Non è così?» «Mi spiace, non posso aiutarla», rispose Judy con freddezza. Harry si mosse in avanti e cercò di dare alla sua voce un tono più amichevole per convincerla a parlare. «Ascolti Judy. Se non ha ucciso Newton, la miglior cosa da fare per lei è...» «Non mi chiami Judy», ribatté aspramente la ragazza. «Quando lo vorrò glielo dirò io.» Harry sospirò ed estrasse di tasca un pacchetto di sigarette. Il taxi aveva superato Trafalgar Square e stava dirigendosi verso il Mall. «Dove mi sta portando?» «A Scotland Yard. Voglio presentarla a un mio amico, l'ispettore Fletcher. Si occupa lui del caso.»
Judy fece un breve cenno col capo. «Conosco Fletcher. È uno che si vede spesso in giro. Sono contenta che sia un suo amico.» Harry pensò che quella ragazza era meno caparbia di quanto volesse dare a vedere. Si alzò dal seggiolino, che di colpo si ripiegò su se stesso, e andò a sedersi accanto a lei. Le offrì una sigaretta; dopo un attimo di esitazione Judy l'accettò. Ma prima che Harry potesse estrarre l'accendino, Judy aveva già preso il suo, si era accesa la sigaretta e l'aveva rimesso nella borsetta. «Dobbiamo proprio andare a Scotland Yard?» «Temo proprio di sì.» «Non potremmo andare in qualche altro posto?» «Dove, per esempio?» Harry per un istante si domandò se per caso stesse cercando di corromperlo, se fosse come quelle ragazze delle fotografie di Peter Newton, ma in qualche modo non sembrava appartenere a quella categoria. «Non so, in qualsiasi posto dove si possa parlare.» «Pensavo che non avesse nulla da dire.» «Non mi riferisco a Peter Newton ma a qualcosa d'altro.» «E cioè?» «Faccia fermare il taxi e glielo dirò.» Harry la studiò per un attimo. Aveva già tentato una volta di scappare e questo poteva essere un altro espediente per cercare di sfuggirgli. La sagoma illuminata di Buckingham Palace appariva in lontananza. Sulla sinistra spiccavano i prati scuri, i laghetti e i fitti alberi di St. James's Park. Ormai convinto, si mosse in avanti e fece scorrere il vetro che li separava dal conducente. «Si fermi, per favore.» L'autista rallentò e frenò dolcemente. Sapeva di essere seguito da un veicolo, lo stesso furgoncino che gli si era avvicinato in Charing Cross Road, e non voleva correre il rischio di essere tamponato. Appena fermo, scese per aprire la portiera a Judy. «Tutto bene, signorina?» «Sì, grazie», annuì Judy. Harry pagò il tassista. Non staccava gli occhi di dosso a Judy per accertarsi che non se la svignasse, così non notò che il furgoncino, procedendo ad andatura moderata, li aveva superati andandosi a fermare cinquanta metri più avanti. Come il taxi si allontanò, Harry guidò la ragazza verso una panchina na-
scosta da un'alta siepe ai margini del parco. «Allora», cominciò Harry, «di che cosa voleva parlare... signorina Black?» «Be', potremmo parlare di... suo padre, per esempio.» Avevano raggiunto la panchina. Una decina di metri più in là un lampione proiettava cupe ombre attraverso i rami che sovrastavano le loro teste. Judy si sedette. Aveva gettato via la sigaretta e ora stava prendendone un'altra. «Che cosa sa di mio padre?» domandò Harry con voce pacata. Si sentiva addosso una strana agitazione, aveva come l'impressione di essere sul punto di scoprire qualcosa che avrebbe distrutto l'immagine che si era fatta del padre, che aveva venerato come un eroe. Questa volta Judy accettò il fuoco del suo accendino. Aspirò profondamente la sigaretta e fece uscire il fumo lentamente prima di rispondere. «So chi l'ha ucciso.» CAPITOLO SECONDO Il conducente del furgone parcheggiò cinquanta metri più avanti e, spostandosi sul sedile accanto, abbassò il finestrino. Mise fuori il capo quel tanto che bastava per scorgere la coppia che si sedeva sulla panchina del parco. Si spostò nuovamente sul sedile del guidatore. Non avendo spento il motore, ingranò la prima e si mosse in direzione di Buckingham Palace. Era un uomo di piccola statura e dall'aspetto scarno e macilento, tipico di molti fantini. Marty Smith non era certo il ritratto della salute. Il suo viso era butterato in seguito a una grave forma di acne, e una contrazione involontaria gli causava un tremito continuo che prendeva la parte destra del labbro, la narice e l'occhio. Girò attentamente attorno al Queen Victoria Memorial e ritornò giù per il Mall, questa volta nella direzione opposta. Pochi metri oltre la panchina dove la coppia era ancora seduta, girò a sinistra e fermò il furgone proprio di fronte al retro di Clarence House. Non era un parcheggio autorizzato, ma non c'erano vigili in giro. Uscì dal furgone e si immerse nell'ombra degli alberi e dei cespugli, fissando attentamente la strada. Avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di udire quello che quei due si stavano dicendo. ***
«Incontrai Peter circa un anno fa. Sa, sono un'attrice.» Judy sorrise e poi si corresse. «Be', una ballerina, per la verità. Fu Peter a convincermi a lasciare Liverpool. Mi fece ottenere una parte nello show in programma al teatro St. Edward, che però non ebbe successo.» «Immagino che Newton ci abbia rimesso parecchio denaro in quello spettacolo.» «Sì, ma la cosa non lo preoccupava molto, dato che aveva delle altre entrate. Devo ammettere che è stato piuttosto generoso con me ed è per questo che alla fine ho accettato di andare a vivere con lui.» «Sa da che fonte provenissero i suoi soldi?» «Mi disse che aveva un'agenzia immobiliare e che un suo zio, morendo, gli aveva lasciato duecentocinquantamila sterline in eredità.» «Hmm...» fece Harry dubbioso. «La trattava bene?» Judy si accese una sigaretta usando il mozzicone di quella precedente. «All'inizio eravamo molto felici. Peter era una persona divertente e di buona compagnia. Poi successe qualcosa di strano...» «Vada avanti», la esortò Harry. Senza farci molto caso, vide un ometto che deviava bruscamente per attraversare la strada. Scomparve oltre il sentiero che conduceva all'interno del parco. «Cosa accadde, esattamente?» «Be', l'altra sera... la sera prima della morte di suo padre... di ritorno da un cocktail party, Peter era di umore nerissimo. Il giorno successivo avremmo dovuto recarci a Parigi. Peter sosteneva che la mia cultura non sarebbe stata completa finché non avessi visitato il Louvre e la Torre Eiffel.» «Ma poi non siete partiti.» «No. Come le ho già detto ci fu un imprevisto. Dovevano essere circa le dieci, quando il campanello della porta suonò e apparve un uomo in abito da sera. Ero... be', volevo mettermi qualcosa addosso, così mi precipitai in camera da letto.» «Ha visto l'uomo? Sa chi fosse?» «Riconobbi immediatamente la sua voce; si chiamava Arnold Conway. Uscimmo insieme un paio di volte con lui e la moglie Sybil. Parlò a Peter con un tono di voce che non gli avevo mai udito prima e che mi impressionò notevolmente. Tuttavia, non potei fare a meno di ascoltare quello che diceva.» «Riesce a ricordare le sue parole?» La fronte di Judy si increspò mentre si sforzava di ricordare. «No, veramente non riesco a rammentare le parole esatte di quella conversazione.
Peter era evidentemente sorpreso di vedere Conway e gli chiese il perché della sua visita. L'altro gli disse che doveva assolutamente trovarsi al Highgate Golf Club alle dieci in punto perché per quell'ora Tom Dawson sarebbe stato sul posto. Peter protestò, ma Arnold non gli lasciò altra via d'uscita.» Si interruppe, lanciando un'occhiata ansiosa a Harry. «Be', vada avanti.» «Non c'è altro. Come tornai in salotto, Arnold divenne improvvisamente molto affabile e poco dopo se ne andò, lasciando Peter in uno stato di agitazione terribile. L'idea di rinunciare al viaggio a Parigi a causa di una partita a golf...» «È quello che le disse?» «Sì. Disse di aver organizzato la partita giorni addietro e di essersene completamente dimenticato. Finimmo per avere una violenta lite. Lo accusai di essere il galoppino di Tam Owen, cosa che lo fece andare su tutte le furie. Mi mollò un ceffone dicendo che non avrei mai dovuto proferire quel nome... né con lui, né con altri.» «Tam Owen», ripeté Harry. «Sa dirmi niente di lui?» «Posso dirle soltanto che tutti i giorni Peter si intratteneva al telefono con lui per una buona mezz'ora. Credevo parlassero d'affari.» *** In una cabina telefonica, nei pressi del Mall, Marty Smith aveva appena inserito il gettone nell'apparecchio. «Tam? Sono Marty... senti, non l'ha portata a Scotland Yard, non ancora. Ha fermato il taxi vicino al Mall... Sono seduti su una panchina e stanno parlando. Pensavo che volessi...» Si mise un dito nell'altro orecchio per attutire il rumore di una motoretta che passava lì vicino, cercando di concentrarsi nella conversazione. «Cosa ha detto Linda?... Maledizione!... Sì, sono seduti su una panchina qui vicino. Vuoi che te la riporti?» Rimase un attimo in ascolto, mentre il viso gli si contraeva spasmodicamente. «Va bene, Tam. Sei tu il capo.» Riagganciò, uscì dalla cabina guardandosi attorno, furtivamente, quindi infilò il sentiero che conduceva nel parco. Percorsi alcuni passi, girò a destra scavalcando uno di quei cartelli che vietano di calpestare le aiuole e scivolò tra i cespugli. Il lampione che aveva notato vicino alla panchina gli segnalò la direzione giusta. Mise una mano sopra la tasca dei pantaloni e
toccando l'arnese di metallo che portava con sé si sentì rassicurato. *** «Ebbene», proseguì Judy, «il giorno successivo Peter andò a giocare a golf. Tornò a casa prima del previsto. Appariva molto scosso ed era bianco come un lenzuolo. Senza mezzi termini mi disse che aveva ucciso un uomo. Non posso dimenticare lo shock che mi procurarono le sue parole. Continuava a ripetere che era stato un incidente, che mentre si stava allenando una delle sue palline era andata a colpire quell'uomo alla nuca». «Anche a me disse la stessa cosa», commentò Harry. «Crede che dicesse la verità?» «Francamente no. Mi accorsi che stava mentendo. Gli chiesi se conosceva l'uomo che aveva colpito e mi rispose che si trattava di un certo Dawson. Di colpo rammentai che quel nome era stato pronunciato il giorno prima da Arnold Conway. Ma quando glielo dissi, Peter mi afferrò per un braccio in modo così violento che ne porto ancora i segni. Mi fece giurare che avrei dimenticato quella faccenda.» Harry rimase in silenzio mentre la ragazza si accendeva un'altra sigaretta. La sua descrizione gli aveva fornito una chiara immagine di quello che doveva essere accaduto nell'appartamento di Peter Newton. I dettagli se li poteva immaginare. Non c'era da meravigliarsi che la ragazza fosse così spaventata. Se qualcuno aveva avuto una buona ragione per far fuori Newton e assicurarsi così il suo silenzio, poteva benissimo agire nello stesso modo nei confronti di Judy Black. Girò improvvisamente il capo sentendo un rumore tra i cespugli. Probabilmente si trattava di qualche animaletto timido che osava avventurarsi fuori della sua tana nel buio della notte. «Quando lessi dell'incidente», continuò Judy, riprendendo il racconto spontaneamente, «mi preoccupai ulteriormente. Sapevo che Peter non mi aveva detto la verità ed ebbi così la certezza che la morte di Tom Dawson non fosse accidentale. Le parole di Arnold Conway mi martellavano nel cervello». Aveva i nervi a fior di pelle. Persino il leggero fruscio delle foglie dietro di loro la faceva sussultare. «Il mattino seguente... ieri, per l'esattezza, anche se mi sembra così lontano... Peter ricevette una telefonata da Tam Owen. Ero ancora mezzo addormentata a quell'ora e Peter prese la comunicazione nel soggiorno, ma
potei udire ugualmente quello che diceva.» «Cioè?» incalzò Harry. Il tono della sua voce si era abbassato fino a diventare un bisbiglio. «Disse: 'Tam, ricordati quello che sto per dirti! Sei stato tu a uccidere Tom Dawson, non io. Adesso, per l'amor del cielo, lasciami in pace!' Quando ritornò in, camera da letto era letteralmente furioso, fremeva dall'ira. Chiusi gli occhi e finsi di dormire.» «Quest'uomo, Tam Owen, era socio in affari di Peter?» «Forse, ma Owen era sicuramente il capo.» «Cosa glielo fa credere?» «Era ovvio. Bastava che Tam gli dicesse: 'Vai a Birmingham o a Leeds o a Manchester' e Peter ubbidiva. Non l'ho mai udito discutere gli ordini di Tam.» «E Arnold Conway. Che parte aveva?» «Arnold era un amico di Peter. Fu lui a fargli conoscere Tam Owen.» «È così?» A duecento metri di distanza Harry poteva scorgere il cambio della guardia a Buckingham Palace. Un gruppetto composto da tre figure impettite in giacca scarlatta e colbacco si muoveva su e giù davanti all'edificio inondato di luce. Questo spettacolo dava all'intera scena un senso di ordine e di sicurezza. «Allora, signorina Black, mi racconti...» «Judy, per favore.» Gli mise una mano su un braccio e accennò un timido sorriso. «Mi dispiace di essere stata scortese in taxi. Non sapevo chi fosse lei ed ero spaventata.» Il suo sorriso e il tocco della sua mano avevano turbato Harry più di quanto pensasse. Si sforzò di mantenere un tono di voce calmo e distaccato, ma una parte di se stesso non poteva fare a meno di chiedersi che effetto gli avrebbe fatto prendere fra le braccia quella bella figliola. «Mi racconti di ieri sera.» «Peter mi portò fuori a cena e avemmo un'altra...» Il suo viso si contrasse in una smorfia di angoscia. «Un'altra lite?» «Sì. Questa volta una lite terribile. È per questo che lo piantai in asso.» «Che ora era?» «Circa le dieci.» «E lui dove rimase? Nel ristorante?» «No, uscimmo insieme dal ristorante alle nove e mezzo circa e andam-
mo in macchina fino a Hyde Park, e ci fermammo vicino alla Serpentine per una mezz'oretta.» «E poi cosa accadde?» «Gliel'ho detto», rispose Judy, leggermente a disagio sotto la pressione delle sue domande. «Lo piantai in asso.» «E dopo lei cosa fece?» «Me ne andai a spasso.» «Da sola?» «Sì, certo.» «Dove?» «Nel parco.» «Parlò con qualcuno... qualcuno che conosceva?» Lei lo fissò, consapevole infine del perché delle sue domande. Il lasso di tempo di cui stavano parlando coincideva con l'ora in cui Peter era stato ucciso. «No, credo proprio di no.» «Vada avanti. Poi cosa accadde?» «Rimasi tutta la notte a casa di un'amica. Adesso vorrei non averlo fatto! Se fossi ritornata nel nostro appartamento... Se soltanto non avessimo litigato così stupidamente...» Stava per scoppiare in lacrime. Harry rimase un attimo in silenzio e poi parlò con un tono più gentile. «Per quale motivo litigaste, Judy?» «Oh, per una cosa da niente.» «A causa di mio padre... per quello che accadde?» «No, per un motivo molto banale.» Frugava nella borsetta per cercare un fazzoletto. «E cioè?» «Litigammo per la cosa più ridicola al mondo... il collare di un cane.» Si soffiò il naso, lasciandosi andare in una breve risata che aveva un non so che di patetico. «Le ho detto che non era importante.» Harry si girò sulla panchina e l'afferrò per le spalle. Judy lanciò un'esclamazione di sorpresa di fronte al brusco cambiamento dei suoi modi. «Judy, mi stia a sentire...» Vide che la ragazza, con gli occhi sgranati, fissava i cespugli dietro la panchina. Gli parve di udire il rumore di un corpo che si strofinava contro le foglie e il crepitio di un ramo secco che veniva calpestato. Intuì il pericolo e si mise subito in guardia, ma era troppo tardi. Si stava alzando dalla
panchina per guardarsi intorno quando il pesante oggetto di Marty Smith lo colpì dietro l'orecchio. Barcollò e cadde pesantemente al suolo. Sentì la testa scoppiargli e l'ultima immagine che vide fu la bocca spalancata di Judy, come se stesse gridando, e un volto butterato e contorto dall'odio e dalla violenza... *** «Sto bene, ha capito? Devo assolutamente andarmene da qui. Adesso per favore dica a quell'idiota dell'infermiera di portarmi i miei vestiti.» Quando Harry riprese i sensi, si ritrovò in un letto d'ospedale, circondato da un paravento e con indosso soltanto una specie di camiciola rigida che non si poteva certo definire una camicia da notte. Le sue proteste non avevano scosso l'imperturbabilità della giovane infermiera, piuttosto bruttina, che stava rimboccandogli le lenzuola quando Harry aprì gli occhi. Nel frattempo un medico in gonnella dalla figura imponente ma abbastanza gradevole era stato chiamato per occuparsi di questo paziente particolarmente difficile. Indossava il camice bianco e lo stetoscopio le penzolava sul petto. «Non se ne parla nemmeno. Potrebbe avere delle gravi complicazioni e deve rimanere in una stanza al buio per parecchi giorni. D'altra parte dobbiamo farle una radiografia. Potrebbe esserci una frattura.» «Non è possibile!» disse Harry. «Senta, sono stato colpito altre volte. Sapesse com'è dura la mia testa.» Non c'era niente da fare, la dottoressa era inflessibile. Tutto quello che Harry riuscì a ottenere fu di far pervenire un messaggio a Nat Fletcher, a Scotland Yard, e lo ottenne minacciando la dottoressa di girare nudo per i corridoi in cerca di una cabina telefonica. Nat comparve dopo venti minuti. «Ah, eri tu!» fu la sua prima osservazione. «Sono io», lo corresse Harry. «No, mi riferivo a un rapporto che è giunto poco prima di ricevere il tuo messaggio. Un motociclista di passaggio ha assistito alla scena dell'aggressione vicino alla panchina del parco. Si è fermato poco distante, quindi si è avvicinato, ma eri rimasto solo tu. L'aggressore e la ragazza erano scomparsi nel fitto di St. James's Park. Ha pensato che la prima cosa da fare era di chiamare un'ambulanza.» «Nessuna traccia della ragazza?»
«No.» Nat si sedette sul bordo del letto e abbassò la voce. «Ha detto che la ragazza era bionda. Non era per caso Judy Black?» Harry annuì. Anche il più piccolo movimento gli acuiva il dolore al capo. «Devi farmi uscire da qui, Nat. Quelle befane mi hanno portato via i vestiti...» «Sta' tranquillo», disse Nat alzandosi. «Lascia fare a me.» Harry non seppe mai che storia Nat avesse raccontato alla dottoressa. Fatto sta che quest'ultima si disinteressò del suo caso e non si fece più vedere. Un'infermiera dall'aria arcigna gli portò i vestiti e pochi minuti dopo si ritrovò seduto nella macchina della polizia guidata da Nat. «È molto facile criticare gli altri, Nat», fece Harry non appena l'automobile si fu infilata nel traffico che scorreva attorno a Hyde Park Corner. «Ma cosa avresti fatto tu, nei miei panni?» «Sai benissimo cosa avrei fatto. L'avrei portata dritto a Scotland Yard.» «Me lo immaginavo.» «Harry, sei stato un vero idiota. Cosa diavolo diremo adesso a Yardley?» «Me ne infischio di Yardley.» Harry si passò le dita sulla nuca, tastando l'ematoma causato dal colpo infertogli da Marty. Le brusche frenate della macchina, intrappolata nel traffico, gli facevano aumentare quel fastidioso senso di nausea che non lo abbandonava. «Be', io no. Sono io il responsabile delle indagini di questo caso. Cerca di ricordartelo una buona volta. Quando il sovrintendente verrà a sapere questa storia, andrà su tutte le furie.» «Deve proprio saperla?» Per un attimo Nat distolse gli occhi dalla guida e fissò Harry. «Che cos'hai in mente?» «Se riesco a ripescare Judy, se riesco a trovarla prima...» «Se... se... se», lo interruppe Nat. «Hai solo la possibilità di cadere in un altro tranello. Non l'avresti mai incontrata, ieri sera, se non avessi ricevuto quella telefonata. Lei sapeva che la polizia la stava cercando, e allora perché diavolo non si è presentata spontaneamente?» «Sai bene perché non si è presentata, era troppo spaventata.» «Spaventata di che? Se non ha ucciso Newton, di che cosa si preoccupa?» La macchina stava dirigendosi verso Park Lane. Doveva esserci una cerimonia ufficiale in Grosvenor House e numerosi taxi erano allineati di
fronte all'entrata. «Nat, per l'amor del cielo, quella ragazza stava con Newton. Avevano litigato e il suo alibi faceva acqua da tutte le parti. Puoi biasimarla se non si è presentata alla polizia?» «Be'...» Nat non voleva lasciarsi influenzare da quello che considerava un atteggiamento sentimentale da parte di Harry. «Insisto nel dire che avresti dovuto condurla a Scotland Yard e farle vuotare il sacco una volta arrivati là.» «Così ho commesso un errore», ammise Harry. «D'altronde non è il primo che commetto, e penso che non sarà nemmeno l'ultimo.» Per un attimo Nat rimase in silenzio. Era intento a osservare le stramberie del conducente di una Jaguar che continuava a cambiare rotta. «Sta' a sentire, Harry», disse quando giunsero in vista di Marble Arch, «terrò la bocca chiusa su quanto è accaduto stanotte». «Grazie, amico.» «Non dirò niente per quarantotto ore.» Era intento a non farsi urtare dalle macchine che, nel caos di Marble Arch, cercavano di tagliargli la strada. «Ma se non avrai trovato Judy Black entro giovedì, lo dirò a Yardley. Lo dovrò fare.» «Va bene», fece Harry soddisfatto. «Ma ora dimmi una cosa, e sii sincero. Credi alla storia di Judy Black? Credi a quello che mi ha detto?» «Solo in parte. Credo dicesse la verità su tuo padre... di quanto accadde la sera antecedente alla sua morte. Ma non credo dicesse il vero su Newton.» «Perché dici questo?» «Perché Newton non aveva un'agenzia immobiliare, ma faceva parte di una organizzazione di tutt'altro genere. Judy ti ha detto che lavorava per quel tizio... come diavolo si chiama?» «Owen. Tam Owen.» Nat annuì. «Le sue apparenti attività sono solo una copertura. Owen dirige un giro di ragazze squillo, se vuoi proprio saperlo. È una cosa in grande, prostitute d'alto bordo per clienti speciali: alti funzionari, VIP, grossi uomini d'affari in visita a Londra. E non ho bisogno di dirti quale sviluppo può avere un lavoro di questo genere.» «Così credi che Judy ne sapesse qualcosa?» «Ma certamente», fece Nat con convinzione, «doveva saperlo!» Harry scosse il capo. «Mi spiace, Nat, ma non sono d'accordo con te.» «No? Certo non mi aspettavo il contrario», disse in tono sarcastico, e
aggiunse: «Da quando in qua leggi romanzetti rosa, vecchio mio?» «Oh, so cosa stai pensando, ma ti sbagli.» «Allora siamo pari», commentò seccato Nat, svoltando in Gloucester Place. Per il resto del tragitto, fino al negozio in Finchley Road, rimasero in silenzio. Giunti a destinazione, mentre Harry si apprestava a scendere, Nat allungò una mano sul sedile posteriore per prendere una valigetta. L'aprì ed estrasse il tanto discusso collare. «A proposito, ecco il collare. Non ci serve più.» «L'hanno esaminato i ragazzi della scientifica?» «Sì, a dir il vero è passato per tutto l'edificio. Comunque l'esito è negativo. È un collare del tutto normale. Non riesco a capire cosa diavolo volesse dire Newton con quel messaggio.» Harry era sul marciapiede e si era chinato per prendere il collare dalle mani di Nat. «Neanch'io.» «Cosa diceva? 'Ecco perché suo padre è morto'?» «Sì, più o meno. Buona notte, Nat, e grazie.» «Sei sicuro di sentirti bene ora?» «Sì, sto benissimo.» «Ricorda cosa ha detto il dottore. Niente stravizi e a letto presto.» Harry rimase a guardare la macchina che si allontanava. Si sentiva ancora malfermo sulle gambe e ogni tanto profonde fitte alla nuca gli davano un senso di stordimento. Quando fu alla porta d'ingresso che dava nell'appartamento si accorse che, nella fretta di raggiungere Judy, non l'aveva chiusa a chiave. E sebbene fosse certo di aver spento tutte le luci, vide che il pianerottolo era illuminato. L'esperienza di St. James's Park l'aveva reso più guardingo. L'idea di ricevere un altro colpo in testa non l'allettava affatto. Così cominciò a salire le scale molto lentamente e con la massima circospezione. L'individuo che gli voltava le spalle non avrebbe potuto essere più rassicurante. Indossava un vestito a righe grigio scuro e dalla giacca spuntava il colletto rigido di una camicia bianca. In testa portava una bombetta nera e dal braccio sinistro pendeva un ombrello accuratamente arrotolato. Stava premendo il pulsante del campanello e appariva piuttosto impaziente. Più di chiunque altro aveva il tipico aspetto dell'agente di una compagnia d'assicurazioni e di un venditore di enciclopedie.
«Posso esserle d'aiuto?» A quelle parole, l'uomo fece uno scatto indietro. Il suo viso rotondo e dalla pelle rosea assunse un'espressione contrita. «Oh... ehm», tentava di riprendersi dalla sorpresa. «Cercavo il signor Harry Dawson.» «Bene, sono io.» «Ah. Mi scusi se mi sono permesso di venire senza avvertirla.» «Lasci perdere. Chi è lei?» Harry non accennava ad aprire la porta. «Cosa desidera?» «Oh, sì, mi scusi. Sono il nipote della signora Rogers, Hubert Rogers. Non ci siamo mai incontrati prima, ma sono certo che lei avrà già sentito parlare di me dalla zia, come d'altronde io di lei.» «Oh sì, certamente.» Harry cercava di nascondere la sua sorpresa. Il signor Rogers non corrispondeva all'immagine che si era fatta di lui. Era l'unico membro della famiglia che aveva fatto strada ottenendo un posto presso una grossa compagnia d'assicurazioni. Ma l'elegante vestito che portava e la cravatta annodata con cura non si addicevano alla sua figura, come se non si fosse ancora abituato alla sua posizione. «Mi scusi, signor Rogers. Entri pure, la prego.» Harry girò la chiave nella serratura e tenne la porta aperta per far entrare Hubert Rogers, quindi lo seguì nel salotto e accese le luci. Hubert posò bombetta e ombrello sul tavolo in mezzo alla stanza. «Desidera qualcosa da bere?» «Lei è molto gentile ma... non bevo», fece Hubert ammiccando un sorrisetto. Harry prese un pacchetto di sigarette. «Una sigaretta allora?» Il sorriso di Hubert si fece più aperto. «E inoltre non fumo. Niente vizi, signor Dawson... eccetto uno», fece guardando Harry con occhi freddi e impenetrabili. «Ho il vizio di arrivare subito al sodo, così almeno dicono i miei colleghi.» «Non l'ho mai considerato un vizio, signor Rogers. Nel mio lavoro è più una virtù.» Hubert fece un sorrisetto asciutto. «Sì, sì, nel suo lavoro, certo.» Così dicendo fece scorrere un dito all'interno del colletto per allentarne la stretta. «Signor Dawson, sono preoccupato per mia zia. Per questo ho deciso di far quattro chiacchiere con lei.» Dava l'impressione di non essere affatto spontaneo. Sembrava curasse attentamente che il suo modo di parlare fosse
in sintonia con lo stile impeccabile del suo abbigliamento, ma una parola mal pronunciata, buttata là ogni tanto, non lo faceva riuscire nel suo intento. «Cosa la preoccupa? Fra parentesi, immagino sappia che sua zia non è più con me.» «Sì, so che lavora in quel nuovo albergo, il Plaza o qualcosa del genere. Plaza Royal, penso.» «Esattamente.» Harry pensò che non si sarebbe sbarazzato troppo presto di Hubert. Gli batteva la testa terribilmente e si domandava se le sue gambe tremassero veramente. Ma doveva resistere ancora un po'. Era curioso di scoprire per quale recondita ragione il nipote della signora Rogers fosse venuto nel suo appartamento a quell'ora tarda. Hubert accettò la sedia che gli veniva offerta. «Sono molto attaccato a mia zia e le devo molto. Fu lei a prendersi cura di me quando morirono i miei genitori, e ora sono veramente preoccupato per lei. Penso che sia... be', non vorrei esagerare, ma penso che le abbia dato di volta il cervello.» Sottolineò l'espressione dialettale come se pensasse di essere stato molto audace a usarla. «Perché dice questo?» «Be'... è molto strano. Mi ha telefonato, Dio solo sa quante volte, per dirmi sempre la stessa cosa. Ha continuato a ripetermi... è assurdo e lei vorrà perdonarmi se lo ripeto... che lei, signor Dawson, le avrebbe rubato qualcosa che le apparteneva.» «Io le ho rubato qualcosa? E cosa di grazia?» Ancora una volta Hubert fece un sorrisetto ironico. «Questo è il punto che definirei assurdo. Afferma che le avrebbe rubato un collare.» Per un attimo Harry scrutò il suo interlocutore. Un collare era l'ultima parola che aveva sentito pronunciare prima di essere messo KO. Automaticamente si passò le dita sul bernoccolo. «Immagino che voglia intendere il collare che mio padre le regalò per Zero!» «Sì, esattamente. Ma non capisco perché si ostini tanto. Va bene che era molto affezionata a suo padre, ma ora che ha riavuto il cane dovrebbe essere più che soddisfatta. In ogni caso potrebbe comprare un altro collare. Io stesso mi sono offerto di acquistarne uno...» «Sì, ma è un altro collare che vuole.» Harry aveva infilato una mano in tasca. «Questo.» Come Harry esibì il collare Hubert, sorpreso, si alzò e andò verso di lui.
«È questo il famoso collare?» «Sì, infatti.» «Santo cielo!» Hubert tese una mano. «Posso?» «Sì, prego.» Harry osservava attentamente la sua espressione mentre l'uomo girava e rigirava il collare fra le mani prima di restituirlo. «È molto bello, ma non ci vedo niente di particolare.» «Anch'io, signor Rogers.» Harry si alzò e andò a posare il collare sulla scrivania. «Comunque può dire a sua zia che, se lo vuole, può venire a prenderlo.» «Veramente?» Hubert parve felice che la sua visita fosse servita a qualcosa. Prese l'ombrello e la bombetta. «Bene, questo risolve tutto. Grazie, signor Dawson, gliene sono molto grato.» Soddisfatto che la conversazione fosse terminata in così breve tempo, Harry guidò il suo ospite verso la porta. Giunti in anticamera, Hubert si fermò voltandosi. «Veramente non sono affari miei e spero che la mia domanda non la infastidisca ma... perché non ha dato il collare a mia zia quando è venuta a prendere il barboncino?» «Per la semplice ragione che non l'avevo. Era in mano al sovrintendente Yardley.» Gli occhi di Hubert brillarono di curiosità, ma Harry si limitò ad alzare le spalle. «L'avevo detto a sua zia, signor Rogers. Sapeva che il collare si trovava a Scotland Yard.» «Veramente? Ecco, vede? Non me l'ha mica detto. Non ha fatto il minimo accenno a tutto questo.» Così dicendo scosse il capo e tese la mano a Harry. Era una mano molle e un po' sudaticcia. «Grazie, signor Dawson», ripeté. «Dica alla signora Rogers di telefonarmi.» «Sì, non mancherò. Di nuovo grazie e buona notte.» «Buona notte.» Harry attese il tempo necessario che l'educazione richiede in questi casi, quindi chiuse la porta. Invece di ritornare in soggiorno entrò nella sua camera da letto la cui porta dava nell'anticamera. Era una stanza piuttosto piccola ma l'arredamento di stile navale, acquistato quando un famoso transatlantico venne demolito, dava all'ambiente un aspetto funzionale e tipicamente maschile. Harry aprì l'armadietto situato sopra il lavabo, prese
quattro aspirine da un flacone e le inghiottì con un sorso d'acqua. Si guardò allo specchio e rimase scioccato. Il viso era quello di un uomo di dieci anni più vecchio. Quella notte avrebbe dovuto rifarsi in qualche modo delle tante ore di sonno perdute. Stava attraversando il soggiorno per andare in cucina, quando fu attratto dalla vista del collare appoggiato sulla scrivania. Si fermò, lo prese e si diresse nello stanzino da dove partiva la scala a chiocciola che conduceva giù nell'ufficio. Guidato dalle luci del negozio che rimanevano accese tutta la notte, scese le scale e si avvicinò alla cassaforte nascosta dietro un finto caminetto. Per riuscire a ricordare la combinazione, Harry dovette ricorrere all'esercizio mnemonico che suo padre gli aveva insegnato. Quando la porta si aprì, ripose il collare sul ripiano, quindi richiuse con cura la cassaforte. *** La chiamata giunse il mattino successivo, circa due ore dopo l'apertura del negozio. Harry stava occupandosi di alcune pratiche che Douglas Croft non era riuscito a sbrigare da solo. Una lunga notte di sonno l'aveva aiutato a riprendersi dalla botta subita. Aveva appena lasciato l'ufficio per andare a parlare con Liz in negozio, quando squillò il telefono sulla sua scrivania. Due minuti dopo Douglas fece capolino dietro la porta a vetri. «È per lei, signor Dawson. La signora Rogers le vuole parlare.» Harry si diresse in ufficio e attese che Douglas richiudesse la porta dietro di sé. «Signora Rogers?» «Salve, signor Dawson. Mi spiace disturbarla, ma ho appena parlato con Hubert, mio nipote. Dice di averla veduta ieri sera.» Harry notò che la sua voce era nervosa e imbarazzata. Sentendo il rumore del traffico nel sottofondo, immaginò che stesse parlando da una cabina telefonica. «Infatti, signora Rogers. Abbiamo avuto una piacevole conversazione.» «Ho sentito che le hanno restituito il collare... Il collare di Zero.» «Già», rispose Harry, «le piacerebbe riaverlo?» «Sì, moltissimo», fece l'altra in tono sollevato. «Molte grazie. Sarebbe così gentile da spedirmelo? Il mio indirizzo è...» «No, mi spiace, signora Rogers, preferirei evitare di spedirglielo. A dire
il vero, anch'io vorrei qualcosa da lei. Lo chiami pure un baratto, se vuole.» Harry spostò soprappensiero un libro in bilico sull'orlo della scrivania. Era uno di quegli elenchi dei soci dell'Automobile Club, aperto alla pagina in cui erano elencate le città in ordine alfabetico. «Cosa vuole da me?» Dopo la breve pausa, la voce della signora Rogers giungeva ancora nervosa. «Un'informazione.» «Su che cosa?» «Su un vostro amico... Tam Owen.» Dopo un attimo di esitazione, la donna rispose seccamente: «Non conosco nessuno di nome Tam Owen». «Invece credo proprio di sì, signora Rogers. Il collare è qui. Se lo desidera, venga da me a qualsiasi ora.» «No, aspetti un momento!» C'era del panico nella sua voce, come se avesse paura che Harry interrompesse la comunicazione. «Non voglio venire nel suo appartamento. Non è... conveniente. Io... conosce quel pub chiamato Golden Plough?» «È in St. John's Wood?» «Sì. Incontriamoci là stasera. Verso le sette, al bar del salone.» Così dicendo, riagganciò. Harry aveva a sua volta appoggiato lentamente il ricevitore e continuava a fissare il libro vicino al telefono. Era aperto sulla lettera A e qualcuno aveva fatto una croce di fianco al nome di una città. Aldeburgh. *** Il Golden Plough era un locale di recente costruzione, con diversi locali adibiti a bar e un piccolo ristorante. Il salone era ultramoderno: specchi alle pareti, luci diffuse e panche e sgabelli ricoperti di finta pelle. A una estremità del bar a forma di ferro di cavallo c'era un bancone della tavola calda, con una dozzina di alti sgabelli allineati di fronte a delle vetrinette contenenti arrosti fumanti, salsicce e insalate di vari tipi. Il piacevole suono di una musica registrata aleggiava discretamente nell'aria confondendosi col brusio delle voci. Quando Harry entrò, c'erano già diversi clienti seduti ai tavoli. Al bancone della tavola calda due uomini si apprestavano a mangiare. Un altro, più anziano, gironzolava vicino al bar, guardando con impazienza verso la toilette delle signore. Indossava un soprabito marrone col colletto di vellu-
to e un cappello a larga tesa. Su un braccio aveva un gatto siamese che gli si era accoccolato contro. «Salve, signor Heaton», fece Harry, mentre l'altro gli voltava le spalle. «Oh, salve, signor Dawson», fece Heaton girandosi e arrossendo leggermente sia per la sorpresa che per l'imbarazzo. Appariva vestito di tutto punto, come per un'occasione particolare. «Come sta?» fece Harry mentre gli stringeva la mano. «Molto bene, grazie. Non l'ho mai vista qui prima d'ora. Frequenta questo locale abitualmente?» «No, devo incontrare una persona. Lei ci viene spesso?» «Sì, il mio negozio è proprio dietro l'angolo. Oh!» La breve esclamazione fu causata dall'apparizione di una ragazza dai capelli rossi che era appena uscita dalla toilette. Era all'incirca sulla trentina, piuttosto robusta, coi lineamenti marcati. Quando vide Harry parlare con Heaton, si fermò di scatto, quindi si riprese immediatamente assumendo un atteggiamento di studiata sfrontatezza. Si diresse verso i due uomini dando loro la visione dei suoi denti smaglianti. «Sono pronta, tesoro», disse. Heaton era visibilmente a disagio. «Si è comportato bene il mio Chow?» «Sì, è stato buonissimo.» Prese il gatto e se lo mise su una spalla. «Niente graffi, eh?» Sapendo di essere osservata da Harry, gli diresse uno sguardo malizioso accompagnato da un sorriso provocante. «Mi scusi», disse Harry. «Lei è un'amica di Judy Black?» «Oh, pardon», s'intromise Heaton. «Ho dimenticato di presentarvi. La signorina Linda Wade. Il signor Dawson... di Scotland Yard.» Gli occhi di Linda incontravano ancora quelli di Harry e il suo sorriso non era mutato. «Piacere. Ha detto Judy Black? No, non conosco nessuna ragazza con questo nome.» «Sono certo di avervi viste insieme ieri sera... davanti al ristorante Chez Maurice in Greek Street.» «No, gliel'ho appena detto», disse Linda in tono amichevole. «Non conosco nessuna Judy Black. Spiacente.» Si volse e infilò il braccio in quello di Heaton. «Andiamo, tesoro, sono letteralmente affamata.» Heaton gli rivolse un sorriso che era un misto di orgoglio e di imbarazzo. Era chiaramente contrariato di essere stato sorpreso nel luogo che aveva scelto per il convegno, ma la consapevolezza di essere in compagnia di
quella donna così ammirata dagli uomini presenti nel locale glielo fece dimenticare. Harry li guardò allontanarsi, quindi si diresse verso il banco. Un barman in giacca di velluto si fece avanti con aria premurosa. «Un whisky e soda, per favore.» «Scusi, signore, non ho potuto fare a meno di udire il suo nome poco fa. Lei è il signor Dawson, vero?» «Già.» «C'è un messaggio per lei da parte della signora Rogers. Ha telefonato che è molto spiacente, ma non può venire all'appuntamento.» Harry trattenne un'esclamazione di disappunto. «Quando ha telefonato?» «Circa mezz'ora fa.» «Ha detto nient'altro?» «Sì, ha detto che le avrebbe telefonato più tardi, a casa sua.» «Capisco. Grazie.» «Ha detto whisky e soda, signore?» «Fallo doppio, senza ghiaccio.» *** Harry stava per aprire la porta dell'appartamento quando udì il telefono squillare. Si precipitò in anticamera e sollevò il ricevitore. «Pronto.» Nessuna risposta. «Pronto, signora Rogers?» Ancora nessuna risposta. Harry picchiettava con le dita sul ricevitore. Un attimo dopo udì il segnale di linea libera. «Maledizione!» Harry sbatté giù il ricevitore e rimase a guardarlo con aria minacciosa. Di lì a poco lo squillo del telefono ricominciò. Attese all'incirca dieci secondi, quindi risollevò il ricevitore. Ancora una volta udì il segnale di linea libera. Sbuffando infastidito, si tolse il soprabito e lo gettò sul divano. Prese una sigaretta da una scatola di metallo e l'accese, continuando a fissare il telefono come se stesse per ricominciare a suonare da un momento all'altro. La stanza rimase immersa nel silenzio. Harry si diresse in anticamera, spinse la porta della sua camera da letto e accese la luce. Si tolse la giacca e aprì l'armadio. Stava per prendere una gruccia quando l'anta dell'armadio si spalancò.
Durante il movimento di rotazione lo specchio, fissato all'interno, riproduceva, come un proiettore, tutti i particolari della stanza, e per ultimo il letto. Con un balzo Harry afferrò la maniglia dell'anta e la spostò di pochi centimetri. Riflessa sulla superficie dello specchio c'era una scena che a prima vista gli parve del tutto irreale. Lunga distesa sul suo letto giaceva bocconi la sagoma voluminosa di un corpo femminile. Il cappello coi fiori di plastica era spinto all'indietro e la gonna era sollevata fino a mostrare le ginocchia grassocce. Il manico d'avorio di un coltello da cucina spuntava tra le pieghe dell'abito. *** Harry aveva già provato una sensazione del genere quando tempo addietro si era trovato nell'ufficio di Yardley a Scotland Yard. Adesso, in preda a un vago senso di malessere, si domandava se per caso stesse sognando. Era là, seduto nel suo soggiorno, bersagliato dalle domande del suo sovrintendente capo. Sapeva di dire la verità ma ciò che lo esasperava maggiormente era il fatto che le sue risposte suonavano false ed esitanti. «Se non mi crede, se non crede una parola di quello che le dico, non vedo per quale ragione dovrei continuare a parlare.» Si alzò e prese una sigaretta, la terza da quando era arrivata la polizia. Di solito fumava moderatamente. «Senta, è meglio spiegarci chiaramente.» Yardley lo guardava mentre si accendeva la sigaretta, forse per controllare se le mani gli tremassero. «Non discuto sul fatto che lei si sia recato a questo pub. D'altra parte, la sua affermazione può facilmente essere confermata dalle testimonianze del barista e di quest'altro tizio... Heaton, mi pare. Ma quello che non capisco è per quale motivo è dovuto andare fino al Golden Plough.» «Ma gliel'ho già spiegato il motivo», disse Harry con esasperazione. «Per incontrare la signora Rogers.» Dal punto in cui si trovava poteva facilmente vedere quello che accadeva nella sua camera da letto. C'era un gruppetto della Squadra Omicidi che stava svolgendo il solito lavoro di routine a lui molto familiare. «Perché non è venuta qui a casa sua?» Yardley riguardava gli appunti che aveva preso. «Che motivo c'era di incontrarla in un pub a St. John's Wood?» «Non lo so. È stata un'idea sua, non mia.»
Girò la schiena a Yardley e si diresse verso il caminetto. Al centro della mensola c'era un orologio in una cornice d'argento, con una dedica incisa alla base. Era un tributo fatto a suo padre da parte di qualche associazione sportiva giovanile. Da quel giorno in cui suo padre era uscito di casa per recarsi al Westgate Golf Club gli pareva che tutti fossero improvvisamente impazziti. «Lei le ha chiesto di venire qui e la donna ha rifiutato.» Yardley parlava con voce calma e nello stesso tempo minacciosa. «Così ha pensato bene di fissarle un appuntamento al Golden Plough. È andata così?» Harry si girò di scatto per incontrare gli occhi di Yardley, ma l'altro stava chiudendo il libretto degli appunti che subito dopo rimise in tasca. «Infatti è andata così, signore. Non me lo sono inventato.» Il silenzio che seguì fu interrotto dall'ingresso di Nat Fletcher nella stanza. L'espressione impenetrabile del suo volto non meravigliò affatto Harry. Il poliziotto costretto a recarsi sul luogo del delitto, esaminare la salma, seguire il medico legale e gli esperti della scientifica intenti nei loro macabri compiti non deve lasciarsi coinvolgere sul piano emotivo da quello che vede. «Abbiamo finito, signore.» Yardley borbottò e si sporse in avanti sulla poltrona. «Sta bene.» Nat si volse a Harry sempre con quella strana e remota espressione stampata sul viso. «Sei sicuro, assolutamente sicuro, di non aver toccato il corpo?» Harry scosse il capo. «Non ho toccato nulla, non mi sono nemmeno avvicinato al letto.» «Bene. Esiste un parente stretto della vittima? Un marito?» «No, la signora Rogers era rimasta vedova dieci anni fa e non aveva figli. Aveva soltanto un nipote... Hubert Rogers. Lavora per una compagnia di assicurazioni, la Storm Insurance Company.» «A Londra?» «Sì, credo di sì.» Yardley si alzò. «Va bene, ci penso io, Nat.» «Sì, signore.» Yardley salutò Harry con un breve cenno del capo e si diresse verso l'anticamera. Nat si avvicinò alla sedia sulla quale aveva lasciato il suo soprabito. «Lui non mi crede, Nat. Non crede a una sola parola di quello che ho detto.»
Nat si infilò lentamente il soprabito, guardandosi in giro per accertarsi di non aver dimenticato nulla. Infine guardò l'amico. La sua espressione era chiaramente imbarazzata e nascondeva qualcos'altro che Harry non riusciva a definire. Non era esattamente ostilità o sospetto, ma si rendeva conto che la vecchia e simpatica amicizia e la cordialità che esistevano tra loro appartenevano ormai al passato. «Ci vediamo, Harry», disse Nat seguendo il suo capo verso l'uscita. Harry rimase seduto nel soggiorno, fumando una sigaretta dietro l'altra e bevendo del caffè che si era preparato da solo. Poteva udire gli agenti che stavano lavorando nella sua camera da letto, ma non gli passò per la mente di andare a vedere a che punto fossero. Quegli uomini erano suoi colleghi, eppure adesso sembrava che una invisibile barriera li separasse. Cominciava a rendersi conto di cosa potesse provare un uomo sano di mente segregato in un ospedale psichiatrico contro la sua volontà. Sembrava che il lavoro della polizia non dovesse mai finire. Era già mezzanotte quando giunse l'ambulanza della polizia per portarsi via la salma della signora Rogers. Venti minuti dopo Harry udì sbattere la porta d'ingresso e si accorse di essere rimasto completamente solo. Aveva già deciso di dormire nella camera di suo padre. Là c'era tutto ciò di cui poteva aver bisogno: pigiama, rasoio elettrico e un letto preparato per la notte. L'aria della stanza era ancora impregnata dell'odore di suo padre. Harry tirò la tenda e guardò fuori nell'oscurità della notte. Il suono del campanello interruppe le sue meditazioni. Richiuse la tenda e in preda a una crescente oppressione si avviò ad aprire la porta. L'orologio segnava l'una meno venti. Probabilmente uno di quegli stupidi sergenti si era dimenticato qualcosa. Ma l'individuo che si vide di fronte non aveva l'aria di un arcigno poliziotto. Era Hubert Rogers; ma un Hubert Rogers completamente diverso dal gentiluomo corretto e un po' affettato che gli aveva fatto visita il giorno prima. Aveva l'aspetto di uno che era stato tirato con forza giù dal letto proprio all'inizio del primo sonno. I suoi capelli erano scomposti. Si era infilato un paio di pantaloni di flanella decisamente fuori moda e un maglione verde col collo alto; ai piedi aveva dei mocassini nordafricani, probabilmente acquistati in un momento di follia durante un viaggio turistico. «Signor Rogers», disse Harry. Avrebbe dovuto immaginarsi che la prima reazione di Hubert nell'apprendere la notizia sarebbe stata quella di precipitarsi a casa sua. «È meglio che entri.» «Dawson, è vero... è vero quello che è accaduto a mia zia?»
«Sì, purtroppo.» Hubert entrò in anticamera, gettando uno sguardo spaventato in direzione della porta, chiusa a chiave e sigillata, della camera da letto di Harry. «Mio Dio, non posso proprio crederci. Un tizio di nome Yardley... deve essere il sovrintendente Yardley di cui lei mi ha parlato... è venuto da me. Un tipo mastodontico.» «Sì, è lui.» Harry chiuse la porta dell'appartamento. «Ero a letto. Ho l'abitudine di coricarmi presto almeno una sera alla settimana e...» S'interruppe e con grande sorpresa di Harry lo afferrò per un braccio. «Dawson, cos'è accaduto? Mi dica tutto.» «Andiamo in soggiorno. Lasci che le offra un drink, sembra che ne abbia bisogno.» Vedendolo sconvolto, gli mise una mano sulla spalla e lo guidò in soggiorno. «Allora, cosa beve? Whisky...» «Non bevo, grazie», disse Hubert con aria depressa. «Mi dica cosa è successo, per favore.» «Non gliel'ha detto il sovrintendente?» Mentre Hubert gli riferiva ciò che gli aveva detto Yardley, Harry andò al mobiletto bar e si versò una buona dose di whisky. «Sì, è esattamente quello che è accaduto.» «Ma non riesco proprio a capire.» Harry lo stava scrutando con una espressione allarmata e nello stesso tempo accusatrice. «Quando ho parlato con mia zia...» «Prego, si sieda», lo interruppe bruscamente Harry. «C'è qualcosa che vorrei dirle.» Hubert si guardò brevemente intorno e prese una sedia, mentre Harry si accomodò nella poltrona usata poco prima da Yardley. «Francamente non nego che tra noi non ci fosse una perfetta intesa e quando sua zia decise di andarsene non ne fui troppo dispiaciuto. Non avevamo molta simpatia l'uno per l'altra. Ma le posso assicurare che non l'ho uccisa io, Rogers.» «Santo cielo, non ho mai pensato questo», protestò Hubert rigirandosi sulla sedia. «Non mi è mai passata per la mente una cosa simile. E poi sbaglia a pensare che mia zia non avesse simpatia per lei, anzi le era molto affezionata, Dawson... affezionata sia a lei che a suo padre.» Hubert si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza, forse per evitare lo sguardo
scettico di Harry. «Ma c'è qualcosa che mi lascia perplesso su ciò che è accaduto stanotte. Qualcosa che non quadra.» «Cosa intende dire?» lo sollecitò Harry. «Quando lasciai il suo appartamento, telefonai a mia zia dicendole che il collare di Zero era in suo possesso e che lei era disposto a renderglielo. Era fuori di sé dalla gioia.» «Vada avanti.» «Questo pomeriggio la vidi comparire inaspettatamente. Disse di aver parlato con lei al telefono ed era compiaciuta per la sua cortesia. Aggiunse che sarebbe venuta qui stasera.» Per la sorpresa Harry si alzò di scatto facendo cadere il bicchiere di whisky, ma non fece alcuna mossa per raccoglierlo. «Disse che sarebbe venuta qui, a casa mia?» «Sì. Disse che lei l'aveva invitata a bere un drink qui a casa sua stasera. La poveretta era veramente lusingata.» «Ma... non è vero!» Gli occhi di Hubert avevano un'espressione ostinata. «Questo è quello che mi disse mia zia, Dawson.» Harry si sforzò di trattenere un gesto di disperazione. «Ne ha parlato al sovrintendente Yardley?» «Sì, naturalmente, amico mio. Che altro potevo fare?» *** Il mattino seguente Harry si accorse di avere la mente così annebbiata che non riusciva a concentrarsi su nulla. Forse una breve passeggiata gli avrebbe giovato; ma sapendo che Yardley sarebbe ricomparso da un momento all'altro decise di rimanere in casa per farla finita una buona volta con quello snervante interrogatorio. Alla fine fu lieto della sua decisione in quanto gli permise di avere un'interessante conversazione con Douglas Croft. Si trovava nel piccolo ufficio situato nel retro del negozio quando vide giungere la macchina della polizia. Yardley mise fuori le gambe e per sollevarsi fece leva con una mano sulla parte superiore della portiera. La figura snella di Nat Fletcher comparve dal lato opposto. Harry si volse verso Liz. «Per favore, dica loro che sono in ufficio.» La ragazza si precipitò in strada, mentre Douglas Croft raccoglieva i campioni di cui aveva appena discusso con Harry. Aveva una gran fretta di tagliare la corda. Quella mattina mentre usciva di casa si era imbattuto in
Nat Fletcher che l'aveva sottoposto a una raffica di domande. Non aveva alcuna intenzione di cacciarsi nei guai. «Posso sedermi?» fu la prima domanda di Yardley appena entrato in ufficio, «Stamattina i miei piedi mi fanno dannare! Si raccontano molte barzellette sui piedi dei poliziotti ma, per Dio, sono vere!» Si lasciò andare pesantemente sulla sedia di metallo che Harry gli aveva avvicinato. Nat rimase in piedi, col gomito appoggiato sullo schedario. Yardley venne subito al sodo. «Ieri sera ho visto il signor Rogers... il nipote.» «Sì, lo so.» «Così sa anche che sua zia è andata da lui ieri pomeriggio? E sa cosa gli ha detto?» «Sì.» Harry sentiva che il sangue gli stava salendo alla testa e che la sua voce era estremamente tesa. «Ma è tutto falso, signore.» Yardley lo scrutò con la testa piegata da una parte e quindi lanciò un'occhiata a Nat. Questi prese la palla al balzo e si intromise nell'interrogatorio. «Vuoi dire che non credi a Rogers? Non credi che sua zia sia andata da lui a dirgli...» «Sì, credo che lei gli abbia detto che sarebbe venuta da me, ma non diceva la verità.» Yardley domandò: «Perché avrebbe mentito su una cosa come questa?» «Non lo so, signore, e vorrei tanto saperlo. Ma ha mentito e ne abbiamo le prove.» «Quali prove?» domandò Nat. «Ha telefonato al pub lasciando un messaggio per me. Perché mai l'avrebbe fatto se ci fossimo già messi d'accordo di incontrarci qui?» «È stato qualcun altro a telefonare», lo corresse Yardley. «Non sappiamo per certo che fosse la signora Rogers.» Il telefono sopra la scrivania cominciò a squillare. «Il barista non la conosceva», convenne Nat. «Per lui era solo una voce al telefono.» «Sì, lo so, Nat, ma se noi dubitassimo di ogni...» Harry si interruppe seccato. Era impossibile parlare mentre il telefono suonava con insistenza. Sollevò il ricevitore. «Pronto... sì, sono io... sì, è qui, è appena arrivato.» Harry porse la cornetta a Nat. «È il tuo ufficio.» Con sua grande sorpresa Nat non allungò la mano. «Posso prendere la chiamata in qualche altra stanza?»
«Se sali le scale e attraversi lo stanzino ti troverai in soggiorno. Ti posso passare lì la comunicazione.» Attese finché Nat non raggiunse il piano superiore e alzò il telefono, quindi riappese la cornetta. Il fatto che Nat non avesse voluto parlare al telefono in sua presenza metteva brutalmente in evidenza la frattura che si era creata fra lui e i due ufficiali di polizia. Ora non era più un collega; era una persona sospetta implicata in un duplice caso d'omicidio. Si volse verso Yardley in attesa della domanda successiva. Non doveva perdere la testa, doveva invece attenersi strettamente alla sua versione dei fatti. Alla fine sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe dimostrato la sua buona fede. «Dawson, mi sembra di ricordare che la signora Rogers lavorasse al Royal Plaza. Non è così?» «Sì, gliel'ho detto io.» Yardley scosse il capo come se fosse sinceramente dispiaciuto di demolire ancora una volta una affermazione di Harry. «Sì, la signora Rogers era al Royal Plaza, ma come ospite. Alloggiava in una stanza al decimo piano. L'aveva affittata per cinque settimane. Le costava dodici sterline al giorno... esclusi i pasti.» «Ma come poteva permettersi di pagare cifre simili?» «Non lo so.» Ci volle un po' prima che Harry si riprendesse dallo shock di quella improvvisa rivelazione. «Suo nipote ne è a conoscenza?» «Adesso sì, gliel'ha detto Nat stamattina.» «Come ha reagito?» «È rimasto molto sorpreso. Anche lui credeva che sua zia lavorasse in quell'albergo.» «Non capisco più niente», fece Harry con sgomento. «Giuro che non mi raccapezzo più in tutta questa faccenda.» «Nemmeno io. Se è per questo sono tante le cose che non capisco.» Yardley si alzò, guardando Harry dall'alto in basso; la sua mole sembrava riempire l'ufficio. Quando parlò la sua voce era stranamente calma. «Vorrei che mi facesse un quadro molto dettagliato di tutta la situazione, Dawson.» «Io?» L'implicita accusa scosse Harry a tal punto che si accorse di rispondere come uno scolaretto redarguito dal maestro. «Sì, lei.» Il cipiglio di Yardley si era accentuato. «Secondo me, lei non mi aiuta affatto. Mi nasconde qualcosa. Inoltre quasi tutte le sue dichiara-
zioni finora risultano false.» «Le avevo detto la verità sui Conway e cosa ne ho ottenuto? Non mi ha creduto.» «Come avrei potuto, dal momento che entrambi i Conway demolirono la sua storia e che l'assegno fu trovato addosso a Newton? E poi, quell'assurdità su Arnold Conway su una sedia a rotelle. Quando ne parlai all'ispettore Emerson, rise a crepapelle.» «Ciononostante era la verità. E le dirò qualcosa in più sui Conway, ma naturalmente non mi crederà». «Avanti», fece Yardley sulle spine. Ma Harry esitò. Suo malgrado era costretto a rivelare qualcosa che avrebbe offuscato l'immagine di Tom Dawson. Attraverso la porta a vetri poteva intravedere i piacevoli contorni del corpo atletico di Liz Mason che si stagliavano contro la luce della strada. Improvvisamente si trovò a pensare a Judy Black. Erano trascorse trentasei ore da quando l'aveva veduta per l'ultima volta e non aveva la più pallida idea di dove si fosse nascosta. Aveva impiegato gran parte del pomeriggio precedente setacciando la zona di Soho con la speranza di incontrarla. Yardley era ancora in attesa che Harry proseguisse con la sua dichiarazione. «Aveva una relazione con mio padre», disse Harry con calma. «La signora Conway, vuol dire?» «Già.» «Chi gliel'ha detto?» Harry fece un cenno verso il negozio dove Douglas, che indossava una giacca sportiva un po' eccentrica, stava chiacchierando con un cliente. «Doug, Douglas Croft. Tempo fa trascorse un fine settimana a Worthing. Sybil Conway e mio padre alloggiavano nello stesso albergo.» Yardley emise un breve sibilo e Harry non capì se fosse d'invidia o di disapprovazione. «Perché non ne ha parlato prima?» «Perché me l'ha detto solo stamattina, poco prima che lei arrivasse.» «Il suo commesso è sicuro di non sbagliarsi?» «Sì, non ci sono dubbi. In un primo momento mio padre finse di non riconoscerlo, ma poi gli si avvicinò. Gli disse che la signora Conway era sposata con un invalido costretto su una sedia a rotelle e quindi non c'era alcuna possibilità di ottenere il divorzio. Si fece promettere da Douglas che non ne avrebbe parlato con nessuno.»
«Come sapeva Croft che la signora si chiamava Conway? Mi sorprende che suo padre avesse rivelato il suo nome.» «Infatti non lo fece. Ma l'altro giorno la signora telefonò a Douglas per informarsi se mio padre avesse fatto riparare una collana di perle che le apparteneva. Non ne aveva più saputo nulla e pensava che la ricevuta della riparazione si trovasse in ufficio e che Douglas avrebbe potuto fargliela avere. Gli aveva chiesto di spedirgliela in un albergo a Aldeburgh.» «Si trovava poi in ufficio?» «No, non c'era.» «Crede che la signora Rogers sapesse di suo padre e Sybil Conway?» «Sì», rispose Harry contrariato. «Credo proprio di sì.» Yardley lanciò uno sguardo in direzione del negozio, dove Douglas stava decantando i pregi di un nuovo tipo di racchetta da squash a un cliente indeciso sull'acquisto. Si udirono i passi affrettati di Nat Fletcher che scendeva dalla scala a chiocciola. Yardley lo guardò con aria interrogativa, domandandosi se la chiamata si riferisse a qualcosa di cui potevano tranquillamente discutere in presenza di Harry. «C'è un messaggio per lei da Hampstead, da parte dell'ispettore Emerson, signore.» «Dick Emerson? Cosa vuole?» «Be', ho avuto il messaggio da una terza persona, ma penso che desideri parlarle con una certa urgenza.» Nat lanciò un'occhiata a Harry. «Si tratta di qualcosa che ha a che fare con una sedia a rotelle.» *** Yardley riconobbe immediatamente la Bentley che stava lasciando il cortile del commissariato di polizia di Hampstead. Conway si trovava al posto di guida e sua moglie gli sedeva accanto. Apparivano stanchi e di cattivo umore, ed erano troppo intenti a discutere vivacemente su qualche faccenda personale per poter notare l'automobile di Yardley che li incrociava. Emerson era un vecchio amico di Yardley. Si intrattennero brevemente a chiacchierare sul buon tempo passato prima di discutere della faccenda in corso. «C'è stato un furto nell'abitazione dei Conway ieri sera verso mezzanotte. Fortunatamente uno dei nostri che stava ispezionando la zona ha notato
qualcosa e ci ha avvertiti immediatamente, cosicché siamo giunti sul luogo quasi subito. La casa era stata messa a soqquadro, ma non siamo stati in grado di stabilire se mancasse qualcosa prima dell'arrivo dei Conway. Erano letteralmente furiosi di essere stati tirati giù dal letto all'una di notte. Poiché si trovavano ad Aldeburgh, non sono arrivati prima delle quattro del mattino.» Yardley sorseggiò la tazza di tè che una delle impiegate di Emerson gli aveva portato. «Adesso viene il bello, Hal, ed è la ragione per la quale ti ho mandato a chiamare. Quando sono entrato nell'appartamento, in una delle camere da letto ho visto qualcosa che, in seguito alla nostra recente conversazione, ha immediatamente destato la mia curiosità. Non è necessario che ti dica che cosa fosse.» «Una sedia a rotelle», fece Yardley, come uno che suggerisce il termine appropriato in un gioco di parole crociate. «Esatto. La sedia si trovava in una specie di armadio a muro la cui porta era stata forzata.» Emerson prese la borsa del tabacco che si trovava sulla sua scrivania e cominciò a riempire la pipa. «Quando giunsero i Conway, chiesi loro di dare un'occhiata in giro per poter compilare una lista degli oggetti rubati. Dissero che così a prima vista pareva che non mancasse nulla. Sembrava incredibile, così chiesi a Conway di fare un altro giro dell'appartamento insieme a me. Gli suggerii di aprire l'armadio. La sedia era sparita.» «Così, all'improvviso?» «Sì. È ovvio che qualcuno deve averla rimossa subito dopo la mia scoperta.» «Lo hai accennato a Conway?» «Ho attirato la sua attenzione sulla serratura forzata e gli ho suggerito di accertarsi se mancasse qualcosa. Ha risposto: 'No, ispettore, ogni cosa è al suo posto, non è stato preso nulla'. Queste sono le sue testuali parole.» Yardley emise un profondo sospiro di sollievo. Improvvisamente la sedia su cui era seduto era diventata più comoda. «Grazie, Dick. A proposito, ho visto i Conway poc'anzi, proprio mentre stavo arrivando. Non sembravano decisamente di buon umore.» Emerson depose il fiammifero col quale aveva acceso la pipa. Spirali di fumo grigio azzurro serpeggiavano attraverso i raggi del sole che saettavano dalla finestra.
«Esatto, e adesso ti dico il resto. C'è un particolare, a mio avviso, piuttosto interessante. I Conway sono venuti a trovarmi circa mezz'ora fa. La signora ha detto di avere scoperto che nel loro appartamento è stata rubata una collana di perle e me ne ha fatto una descrizione particolareggiata. Francamente mi è parso un po' strano che un ladro che si introduce nottetempo in un appartamento pieno di oggetti di valore si porti via proprio una collana di perle.» «Ha detto quanto può valere?» «Sì, circa cinquecento sterline.» Emerson pose la scatola di fiammiferi sulla pipa per farla tirare meglio. «È quella storia della sedia a rotelle che non mi convince.» «Non sei il solo, Dick.» *** Pressappoco nello stesso momento in cui Yardley giungeva al commissariato di polizia di Hampstead, Harry apriva la porta del negozio di Sidney Heaton in St. John's Wood. Heaton era occupato a servire un cliente. Ciononostante fece a Harry un amichevole cenno di saluto. Quando il cliente si fu allontanato, carico di scatolette contenenti cibo per animali, Heaton attraversò il negozio e si avvicinò a Harry. «Buon giorno, signor Dawson, l'aspettavo. Sapevo che sarebbe venuto stamattina.» «Suppongo che abbia visto uno dei miei colleghi.» «Sì, il sovrintendente Yardley, se non erro. È venuto di buon'ora prima dell'apertura del negozio. Voleva sapere se ci eravamo incontrati ieri sera. Cosa è accaduto, signor Dawson? Quel poliziotto era tremendamente evasivo.» «La signora Rogers, la mia governante... o meglio la mia ex governante... è stata trovata uccisa ieri sera.» Heaton si portò una mano alla bocca. Harry, vedendo la sua reazione, si pentì di avergli dato la notizia in modo così brutale. «Uccisa?» Heaton sembrava rimasto senza voce. «Santo cielo! Dov'è accaduto?» «Nel mio appartamento», cominciò Harry. Osservava l'espressione profondamente turbata di Heaton con distacco. «Ma è orribile! Ha idea di chi...» «Mi scusi, signor Heaton», lo interruppe Harry. «Ho piuttosto fretta
stamattina e vorrei farle subito un paio di domande.» «Prego», Heaton cercò di controllarsi e guardò Harry con espressione condiscendente. «Sono lieto di esserle d'aiuto, se posso, signor Dawson.» «Sarebbe così cortese da dirmi chi era quella ragazza che vidi con lei al pub ieri sera? Se ben ricordo me la presentò come la signorina Linda Wade.» «Oh...» Heaton abbassò gli occhi imbarazzato. Le guance gli si arrossarono lievemente e nello stesso tempo un lampo di astuzia passò nei suoi occhi. «Vorrei che non mi avesse fatto questa domanda.» «È una sua amica?» «Santo cielo, no. Le assicuro che in genere le mie amicizie sono... So veramente poco di lei.» Harry assunse un'espressione formale. «Sto investigando in un caso di omicidio. Mi dica tutto quello che sa su Linda Wade.» Per un momento Heaton parve riluttante, poi si arrese e condusse Harry nel retro del negozio che fungeva sia da salotto che da ufficio. Avvicinò una sedia a Harry mentre lui, per poter controllare la porta del negozio, si appollaiò sul bordo della scrivania. «La vidi per la prima volta al Golden Plough all'incirca tre mesi fa. Era solita bazzicare il locale in cerca di qualcuno che le offrisse da bere o che la invitasse a cena. Poi, circa un mese fa, venne nel mio negozio per acquistare un gatto e da allora si è rifatta viva diverse volte. È una delle mie migliori clienti; strano a dirsi sembra che abbia denaro da buttar via... almeno adesso.» «Ha mai conosciuto una sua amica che si chiama Judy Black?» «No, mai», rispose Heaton prontamente. «Non conosco nessuno del suo giro. Gliel'ho detto, non è che sia proprio un'amica...» «Ma avete cenato insieme ieri sera», insistette Harry. «Sì, è vero ma...» Heaton si dilungò in una sequela di scuse piuttosto complicate. Per un po' Harry rimase ad ascoltarlo pazientemente e poi lo interruppe. «Dove abita?» Heaton si bloccò di colpo. «D... dove abita?» «Sì.» «Ha un appartamento a Defoe Mansions.» «Dove si trova?» «In Carrington Road.» «È mai stato là?»
«No, mai.» Heaton cercò d'incontrare lo sguardo freddo di Harry senza riuscirvi. Girò il capo dall'altra parte e balbettò: «Be'... una volta». «Solo una volta, signor Heaton?» «Be'... a dir il vero un paio di volte.» «Qual è il numero dell'appartamento?» «Credo sia trentadue.» Heaton non sarebbe apparso più confuso e tormentato da rimorsi se avesse dovuto confessare l'omicidio della signora Rogers. Aveva raccolto un biscottino dal tavolo e lo sbriciolava con le dita. «Grazie, signor Heaton», disse Harry allontanandosi. Aprì la porta e una campanella risuonò nel retro del negozio. Heaton era ancora là in piedi, con gli occhi fissi sul pavimento. *** Defoe Mansions era un edificio ben più dimesso di quello che un nome così altisonante desse a intendere. Originariamente era un complesso di tre palazzi che risalivano al diciannovesimo secolo. In seguito le mura interne erano state demolite per ricavarne un certo numero di appartamenti che gli opuscoli pubblicitari avevano reclamizzato come «ultramoderni e lussuosi». L'entrata si trovava nella palazzina centrale, da dove partiva un ascensore che portava ai piani superiori. Marty Smith uscì dall'ascensore e si fermò nella hall per accendersi un sigaro. Indossava una giacca sportiva a quadri e sul viso butterato aveva un'espressione compiaciuta. Il tic, che nei momenti di stress gli contraeva la parte destra del viso, era del tutto scomparso. Dall'altra parte della strada, a circa cento metri dall'ingresso principale di Defoe Mansions, c'era una taverna che Marty Smith era solito frequentare. Dopo aver gironzolato sul marciapiede sotto il tiepido sole del mattino decise che un buon boccale di birra era proprio quello che gli ci voleva; in fondo se l'era pienamente meritato. Aveva attraversato la strada ed era già in prossimità del Rose and Crown quando il suo sguardo fu attratto da una macchina che si stava fermando davanti a Defoe Mansions. Di scatto entrò in un negozio e si mise a scrutare attraverso la porta a vetri. Quando il conducente della Austin 1100 grigia, innestata la retromarcia, si girò per infilarsi nel parcheggio, Marty lo riconobbe subito. Una contrazione involontaria gli scosse la guancia de-
stra. Aspettò che Harry Dawson fosse entrato nella palazzina, quindi lo seguì attraversando lentamente la strada in un punto non visibile dalla hall di Defoe Mansions. Nel momento in cui oltrepassò la porta d'ingresso l'ascensore stava già salendo. Marty seguì i numeri sull'indicatore e vide che l'ascensore si era fermato al terzo piano. Provò a schiacciare il pulsante di chiamata e l'ascensore cominciò a scendere. Non vi era alcun dubbio, Dawson era uscito nel piano in cui alloggiava Linda. Tre minuti dopo Marty era in una cabina telefonica al Rose and Crown e stava componendo un numero che ormai sapeva a memoria. Per evitare che qualcuno ascoltasse le sue parole girava la schiena alla porta della cabina. La voce, all'altro capo del filo, rispose quasi subito. «Tam? Sono Marty... Ascolta, sono sotto la casa di Linda. Ho appena consegnato il passaporto... No, no, lei sta bene. Ma senti questa! Ho appena visto Harry Dawson... No, due minuti fa... Sì, è entrato proprio nel suo appartamento.» Marty estrasse un fazzoletto sgualcito e si asciugò il sudore sulla fronte. Parlare con Tam lo rendeva sempre molto nervoso. «Be', spero che se la cavi bene... Cosa? Queste maledette linee... Sì, certo, telefonale, è una buona idea. Bene, Tam.» Soddisfatto di aver fatto il suo dovere e di essersi tolto un peso, Marty riappese la cornetta. Lasciò la cabina strofinandosi la parte destra del volto. *** Harry dovette suonare diverse volte alla porta dell'appartamento n. 32 prima di sentire una voce impaziente che urlava: «Va bene, va bene, vengo!» La donna che venne ad aprire era la stessa che Harry aveva già visto due volte. Indossava una pelliccia scura e portava al braccio una borsetta di lucertola nera. «Eccomi...!» continuò a borbottare, poi si bloccò di colpo alla vista dell'uomo che si trovò di fronte. «Buon giorno, signorina Wade», disse Harry con sorriso amichevole. «Si ricorda di me? Sono l'ispettore Dawson. Ci siamo incontrati l'altra sera al Golden Plough. Può concedermi pochi minuti?» Dietro i suoi occhi calcolatori, la mente di Linda Wade stava lavorando velocemente. «Be', mi è un po' difficile al momento. Stavo proprio uscendo. Ho un appuntamento col parrucchiere alle undici e mezzo.»
«Ci vorranno solo pochi minuti», insistette Harry. «Be'...» «A dire il vero, mi sembra che lei sia appena uscita dal parrucchiere.» Linda si accarezzò i lunghi capelli rossi. Anche in simili circostanze non poteva fare a meno di non rimanere insensibile di fronte a un complimento. «Sciocchezze! Sono così in disordine!» «Posso entrare?» chiese Harry facendo un passo in avanti. «Solo per un momento.» «Va bene, ma l'avverto che deve proprio trattarsi di pochi minuti.» L'appartamento era surriscaldato al punto che Harry entrando provò un leggero senso d'oppressione. L'ambiente interno fu una vera sorpresa; in netto contrasto con l'aspetto esterno di Defoe Mansions, dava l'immediata impressione che il proprietario avesse acquistato in blocco quei mobili e quegli oggetti ornamentali che solo un rigattiere tiene in bella mostra. «Che bell'appartamento!» esclamò Harry non appena Linda chiuse la porta dietro di lui. «Le piace?» «Sì, molto.» Harry si guardava intorno mentre Linda lo guidava verso quello che senza dubbio doveva essere il salotto. Con sguardo attento controllava la posizione delle porte e cercava di individuare un qualsiasi oggetto, lasciato in giro per caso, che potesse attirare il suo interesse. Il soggiorno era spazioso e con il soffitto molto alto. In una parete c'era una larga nicchia, che originariamente doveva essere una finestra del vecchio edificio; nella parete accanto un paio di doppie porte, che al momento erano socchiuse, davano nella camera da letto. Per arredare questa stanza non era stata fatta alcuna economia. Un tappeto rosso porpora ricopriva il pavimento da una parete all'altra; su un ampio divano, che occupava un angolo della stanza, erano stati buttati alla rinfusa cuscini multicolori e una pelle di tigre. Le poltrone erano profonde e invitanti, lo scrittoio doveva essere costato una cifra rilevante e a ogni parete erano appesi grandi specchi con cornici dorate. Ma la caratteristica dominante della stanza era uno spazioso e ultramoderno mobile bar. Tuttavia l'insieme dava un effetto del tutto impersonale. Non c'era nulla che potesse risvegliare, nella mente dell'occasionale visitatore, un senso di colpa al ricordo della sua casa. Era solo una camera eccessivamente adorna in cui veniva ricevuto. «Mi spiace di non poterle offrire un drink, ma non c'è proprio tempo»,
disse Linda che non l'aveva invitato a sedersi. «Signorina Wade, le dirò subito perché volevo vederla...» «Penso di sapere il perché, tesoro», lo interruppe Linda. «Per via di Judy Black?» «Sì.» Harry non mostrò alcuna sorpresa per il fatto che lei avesse toccato il tasto così rapidamente. «Stavo quasi per telefonarle ieri sera dopo averla vista al Golden Plough, e poi ho pensato: 'Stanne lontano, Linda. Non immischiarti in certe faccende. Sei sempre stata una brava ragazza... con le dovute riserve, naturalmente... e continua a esserlo!'» C'era un che di avvincente nel suo modo di parlare così apertamente. «Ma lei conosce Judy, vero?» «Sì, certo che la conosco, non molto bene ma...» Si interruppe e lo guardò fisso negli occhi. «Venne da me quella notte, la notte in cui Newton morì.» «Dov'è ora?» «Non lo so, dolcezza. Ed è la verità. Onestamente non so dove sia.» C'era un leggero odore di fumo di sigaretta nell'aria e nel portacenere di vetro erano state spente una mezza dozzina di sigarette col filtro, alcune delle quali fumate solo per metà. Harry estrasse il suo pacchetto e lo porse a Linda. «Grazie, non fumo, ma lei faccia pure.» Harry se ne accese una e poi si rivolse alla ragazza in tono supplichevole. «Senta, sarò franco con lei. Sono in un pasticcio. Devo assolutamente trovare Judy e se non la trovo prima di...» «Tesoro, gliel'ho appena detto, non so dove si trova. Non ne ho la più pallida idea. Non la vedo da quella sera della fuga.» «È proprio vero?» Linda incrociò le dita all'altezza del petto. «Lo giuro!» Harry sorrise in risposta al suo giuramento e le mise una mano sul braccio, stringendolo leggermente. «Va bene... va bene, le credo.» Sicura che Harry, come tutti gli uomini, fosse ora interessato ai suoi attributi fisici più di qualsiasi altra cosa, Linda reagì alla pressione della sua mano muovendosi come colta da un brivido di piacere. «In ogni modo, sbaglia persona. Judy non ha ucciso Newton. In fondo la manteneva, perché mai doveva ucciderlo?» «Litigarono quella notte.»
«E con ciò?» fece Linda ridendo. «Litigo sempre anch'io ma non ho mai ucciso nessuno. Almeno finora.» «Conosceva Newton?» «Sì, lo conoscevo e non mi piaceva molto. Nell'insieme era troppo mellifluo per i miei gusti. Era convinto di essere un eccentrico, ma in fondo non lo era affatto.» «Be', è un vero peccato che non mi sia stata d'aiuto.» Harry fece un cenno in direzione del mobile bar. «E peccato anche per il drink. Sarà per un'altra volta, vero?» «Perché no? Casa mia è sempre aperta!» «È forse un invito?» «Intendevo dire per bere qualcosa», rispose Linda fingendosi offesa. Poi assunse quell'espressione invitante che aveva la sera prima, quando aveva trascinato Sidney Heaton fuori del Golden Plough. «È anche un invito, dolcezza.» Risero divertiti. Harry si chinò sul portacenere per spegnere la sigaretta; quindi si diresse verso l'anticamera. «Se lei permette, tornerò a trovarla. Di sera magari, dopo che lei è stata dal parrucchiere.» «Ci conto, ma mi dia un colpo di telefono prima. Mi spiace di non esserle stata utile... per quanto riguarda Judy, voglio dire. Ma sta perdendo il suo tempo, glielo assicuro. Non ha ucciso lei Newton.» Harry si fermò e poi si girò verso il soggiorno. Il telefono aveva cominciato a suonare. «Allora chi è stato?» «Non lo so, ma di sicuro non è stata Judy. Scusi, ma devo andare a rispondere al telefono.» «Va bene, vada pure. Posso uscire da solo.» Linda ritornò di corsa verso il soggiorno. Harry sollevò una mano per girare il pomo della serratura Yale e fece scattare la sicura. Se Linda si fosse girata verso l'anticamera avrebbe visto che Harry si era chiuso la porta dietro di sé. Harry rimase un momento sul pianerottolo, trattenendo la porta per l'anello del battente. La ragazza doveva aver iniziato la conversazione, ma dal punto in cui si trovava non riusciva a distinguere le sue parole. Aprì la porta e rientrò nell'ingresso, reinserendo molto lentamente la sicura. Ora poteva udire chiaramente quello che Linda diceva. «È appena uscito... Sì, certo... Avrebbe intuito qualcosa se non l'avessi
invitato a entrare... No, me la sono cavata bene... Cosa?... Sì, sta bene, ma un po' nervosa... Sì, penso che vada bene, la fotografia è eccellente... No, non l'ha vista. Lo porto con me il biglietto... Senti, Tam...» La voce di Linda divenne supplichevole. «Devi proprio mandare sempre Marty? Non potrebbe essere qualcun altro, almeno per una volta?... Se mi piace? È semplicemente disgustoso e anche troppo violento.» Harry capì che la conversazione giungeva al termine. Con molta cautela aprì una delle porte che davano nell'anticamera. Era la stanza da bagno. Scivolò dentro e richiuse la porta senza bloccarla. Linda aveva appeso il ricevitore e Harry poté udire il rumore dei suoi passi sul pavimento dell'anticamera. Sembrava molto agitata, come se stesse cercando qualcosa, forse la borsetta e il portamonete, pensò Harry. Come la ragazza si avvicinò alla porta del bagno Harry trattenne il fiato e la sentì bisbigliare qualcosa. Poi evidentemente cambiò idea e il cuore di Harry riprese lentamente a battere. Alcuni secondi dopo Linda chiudeva la porta di casa. Harry fece passare mezzo minuto, poi aprì la porta e si trovò nuovamente in anticamera. Al di là della porta d'ingresso i cancelletti dell'ascensore venivano chiusi. Sebbene ora si trovasse solo nell'appartamento, l'istinto lo fece muovere con cautela e quasi in punta di piedi. Rimase per un momento immobile in mezzo al soggiorno mentre gli occhi vagarono attentamente per tutta la stanza. «Da' ai tuoi occhi una possibilità», diceva un famoso adagio dell'ambiente poliziesco. Il portacenere di vetro fu il primo oggetto a essere sottoposto a un accurato esame. Si chinò e prese uno di quei mozziconi che aveva già notato prima. Era una Piccadilly, il tipo di sigaretta che Judy Black aveva fumato quella sera in St. James's Park. Poi si diresse verso lo scrittoio. Aprì e chiuse un certo numero di cassetti, dando una rapida occhiata al loro contenuto. Nel quarto cassetto trovò quello che cercava, un passaporto britannico. Lo portò vicino alla finestra. Il numero era N 35645, il che stava a indicare che era stato rilasciato circa cinque anni prima. Nella targhetta in copertina c'era il nome di una certa signorina Stella Morgan. Harry fece scorrere i fogli del passaporto, quando improvvisamente venne attratto dalla fotografia in terza pagina. Quel volto gli era familiare e nello stesso tempo sconosciuto. I lineamenti erano quelli di Judy Black, ma i capelli erano neri e pettinati in modo completamente diverso. Portava un grosso paio di occhiali ornati di tartaruga. «Judy.»
Fissando quel viso, la cui attraente semplicità brillava persino attraverso la fredda fotografia del documento, Harry si accorse di aver pronunciato involontariamente il nome della ragazza ad alta voce. Stava esaminando le generalità quando gli parve di udire un rumore sordo provenire dalla camera da letto adiacente. Era come se qualcuno stesse aprendo furtivamente una finestra a ghigliottina. Fece scivolare il passaporto nella tasca della giacca e si mosse in punta di piedi verso la porta della camera da letto. Quando poco prima stava parlando con Linda era sicuro di averla vista socchiusa; qualcuno doveva averla leggermente aperta. Di scatto spinse i doppi pannelli della porta, e lo fece con tale veemenza che andarono a sbattere contro le pareti della camera. Con un rapido e attento sguardo Harry registrò i particolari della camera da letto di Linda o almeno la camera nella quale soleva intrattenere i suoi ospiti. Uno spazioso divano letto, un enorme armadio guardaroba con le antine ricoperte di specchi fumé, alcune lampade con paralumi un po' troppo elaborati e allusivi quadri alle pareti. Ma l'attenzione di Harry si concentrò sulla finestra. La parte superiore era stata sollevata e una leggera brezza gonfiava le tendine, spostandole in avanti. Si avvicinò di corsa alla finestra e si affacciò. Il davanzale era piuttosto basso e dava su una scala antincendio eretta sul retro di Defoe Mansions. Tre piani più sotto, nel cortile interno, erano parcheggiate tre macchine e un furgoncino. Allungando il collo per guardare verso l'alto, Harry vide che la scala proseguiva per un altro piano e quindi fino al tetto dell'edificio. Scavalcò velocemente il davanzale e salì di corsa le due rampe di scale che lo separavano dal tetto. La superficie piatta del tetto era interrotta qua e là da gruppi di camini che rappresentavano un ottimo nascondiglio. Prese a camminare lentamente, facendo attenzione a non inciampare sui tubi, i mattoni e altri materiali edili abbandonati sul tetto. Se avesse setacciato minuziosamente ogni angolo del tetto avrebbe costretto chiunque ad abbandonare il nascondiglio e, tenendo sott'occhio l'accesso alla scala antincendio, ne avrebbe impedito la fuga. Rispetto alle case vicine, il tetto di Defoe Mansions era leggermente più elevato. Aveva appena raggiunto l'estremità opposta del tetto e stava tornando indietro per perlustrare l'altro lato quando udì un rumore, come se qualcuno avesse inciampato su una tavola di legno. Si girò di scatto e riuscì a in-
travedere i contorni di una figura che si muoveva dietro un camino. Come un falco che si lancia sulla sua preda, Harry si precipitò verso il camino, lo superò e si fermò di scatto. Judy era in piedi sul bordo del tetto; un parapetto alto quaranta centimetri la separava dal vuoto. I lunghi capelli neri le ricadevano su un lato del viso, estremamente pallido. Dietro le lenti chiare i suoi occhi erano privi d'espressione. Respirava affannosamente, sia per la paura che per lo sforzo compiuto; nella mano destra serrava una piccola automatica a canna corta. Harry rimase impietrito, non tanto per la rivoltella puntata su di lui che Judy sembrava essere perfettamente in grado di usare, ma per il timore che, se si fosse mosso in avanti, la ragazza avrebbe potuto fare un movimento brusco e precipitare nel vuoto. «Salve, Judy», disse in tono colloquiale, con le braccia lungo i fianchi. Judy non rispose. Dietro di lei le sagome dei tetti e dei camini si stagliavano contro i raggi del sole. «Ha sbagliato, Judy, a lasciare tracce così evidenti della sua presenza nell'appartamento di Linda. E anche questo...» Estrasse di tasca il passaporto. «Non è una buona fotografia, vero? Comunque, se è per questo, non è neppure buono il passaporto. Chi le ha dato questo inutile pezzo di carta, Judy? Tam Owen, vero?» «Me lo dia», disse Judy fredda. «Certo.» Harry gettò per terra il passaporto, a metà strada fra lui e la ragazza. Per raccoglierlo, Judy si sarebbe dovuta allontanare dal parapetto. Finché fosse rimasta lì Harry non sarebbe riuscito a trattenerla nel caso in cui avesse fatto involontariamente un passo indietro. D'un tratto la ragazza si mosse in avanti e si fermò per raccogliere il passaporto, con la pistola sempre rivolta verso il bersaglio. Era probabile che, nello stato mentale in cui si trovava, Judy sarebbe stata capace di premere il grilletto. L'unica possibilità che gli rimaneva era di spostarsi leggermente di fianco a lei. «Sa cosa farei se fossi in lei? Lo brucerei», disse Harry. «Non ho bisogno dei suoi consigli.» «Veramente, Judy?» Harry fece un altro passo in avanti e indicò la rivoltella. «È quella la rivoltella con cui ha sparato a Peter Newton?» «Non ho ucciso io Peter.» «Allora perché scappa?» «Non lo sa il perché?»
«Sì, lo so. Sta scappando perché qualcuno l'ha convinta che la polizia la accusa di omicidio, che l'abbia commesso o no. E non è vero, Judy. L'altra sera le ho detto che se si decide a dire la verità non ha nulla da temere.» I pesanti occhiali erano troppo grandi per il suo viso magro. Le scivolavano sul naso e ogni tanto doveva rimetterli a posto con un dito. «Non le credo. Anche se lei accettasse la mia storia come vera, Nat Fletcher non lo farebbe.» «Perché Nat non dovrebbe crederle?» Harry fu sinceramente sorpreso dalle parole di Judy. La ragazza ignorò la domanda. «Voglio che lei ritorni immediatamente giù nell'appartamento.» «Judy, mi ascolti. Ho rischiato molto l'altra sera acconsentendo a fermare il taxi e...» «Ha sentito quel che ho detto», lo interruppe Judy con voce isterica. Impugnava la pistola con mano talmente serrata che le nocche erano diventate bianche. «Torni indietro!» Harry fece un gesto di sconforto. «Spero che sappia quello che fa, Judy. Se si serve di quel passaporto e poi la pizzichiamo...» «Faccia come le ho detto!» urlò Judy. «Ritorni nell'appartamento!» «Va bene, Judy», disse, alzando le spalle in segno di sconfitta. Stava per voltarsi quando vide la mano libera della ragazza muoversi verso gli occhiali per rimetterli a posto. Scelse quell'istante per girarsi di scatto e saltarle addosso, sperando di riuscire ad abbassare la canna della pistola prima che Judy potesse premere il grilletto. Per una frazione di secondo Judy esitò, sorpresa dall'improvviso movimento di Harry o forse in cuor suo riluttante a mettere in atto la sua minaccia. Quindi chiuse gli occhi e sparò. L'automatica vibrò nella sua mano e il suo rinculo la colse di sorpresa. Lo sparo, così vicino alle sue orecchie, le sembrò assordante. Aprì gli occhi e vide Harry abbattuto al suolo, vicino ai suoi piedi. Balzò indietro lanciando un grido d'orrore. Il parapetto era lì ad attenderla. Appena si rese conto di perdere l'equilibrio annaspò alla ricerca di un appiglio. Per un attimo, la sua figura gesticolante si stagliò contro il cielo come una marionetta sotto l'azione dei fili. Poi barcollò all'indietro oltre il bordo del tetto e cadde nel vuoto con un urlo agghiacciante. CAPITOLO TERZO
Al suono delle sirene Marty Smith disse addio a quel che rimaneva del suo boccale di birra e si precipitò in Carrington Road. Due autoscale dei pompieri, una macchina della polizia e un'ambulanza sfrecciavano a tutta velocità una dietro l'altra. Sul marciapiede opposto a Defoe Mansions si era accalcata una piccola folla di curiosi con gli occhi rivolti verso l'alto. Marty seguì la direzione del loro sguardo e fu colto da un brivido di piacevole esaltazione. Sulla sommità di Defoe Mansions poté scorgere le sagome di due persone, un uomo e una donna. Erano aggrappati, o meglio l'uomo era aggrappato al colmo di un abbaino sul tetto della parte nuova dell'edificio, aggiunto quando Defoe Mansions venne trasformata. Con la mano libera l'uomo tratteneva la donna per la cintura. Il corpo di lei penzolava inerte nel vuoto e dava l'impressione che fosse morta o svenuta. Marty intuì la successione dei fatti. La ragazza doveva essere caduta dal tetto principale e scivolata giù su quello della parte aggiunta. Se l'abbaino non fosse stato nella direzione della sua caduta, la ragazza sarebbe andata a schiantarsi sul marciapiede. Solo in un modo l'uomo aveva potuto raggiungerla. Doveva essersi calato sul tetto sottostante subito dopo che la ragazza era precipitata. Marty rabbrividì al solo pensiero e si fece più vicino alla folla. Nel frattempo i pompieri avevano innalzato la scala fino all'abbaino. Uno di loro, con in testa un elmetto e aiutato dall'uomo che si trovava sul tetto, si caricò la donna sulle spalle e cominciò a scendere. L'uomo si sporse in avanti per appoggiare il piede sul primo piolo, quindi discese dietro di loro. Intanto il gruppetto di curiosi si era allargato e alcuni agenti in uniforme avevano creato una barriera per dar modo agli infermieri di deporre il corpo inerte sulla lettiga e caricarla velocemente dentro l'ambulanza. Quest'ultima, accesa la luce blu e azionate le sirene, scomparve subito dopo in fondo a Carrington Road. Facendosi strada a gomitate fra i numerosi reporter, i poliziotti e i curiosi, l'uomo che poco prima era sul tetto corse velocemente verso l'Austin 1100, parcheggiata vicino al marciapiede. Saltò dentro e sfrecciò all'inseguimento dell'ambulanza. Contemporaneamente gli agenti presero posto nelle loro macchine e seguirono l'Austin. Un brusio di voci concitate salì dalla folla attonita. Marty Smith, con le mani in tasca alla ricerca di un gettone, si diresse verso il Rose and Crown. ***
«Per amor del cielo, Harry, sta' calmo! Ti hanno appena detto che si salverà.» Nat fece ruotare la sedia, divaricò le gambe e si sedette mettendo le braccia sullo schienale. «Se fossi in te me ne andrei a far baldoria invece di star qui a preoccuparmi per una sgualdrinella che ha cercato di farmi fuori.» Harry non reagì. Nat lo guardò con aria accusatrice e indicò una porta dietro la quale entrambi sapevano che si trovava la camera mortuaria. «Potresti essere lì adesso, amico. Non lo capisci? Se non fossi stato abbastanza veloce da schivare la pallottola, potresti essere sdraiato là su una gelida tavola di marmo.» Harry, in piedi, appoggiava la schiena al calorifero. Era troppo nervoso per starsene seduto e d'altronde le sedie di una sala d'aspetto di un ospedale non sono mai molto invitanti. Aveva raggiunto l'ospedale in tempo per vedere Judy che veniva trasportata al pronto soccorso. Il medico di turno l'aveva vagamente tranquillizzato, ma le sue parole non erano servite a calmare la sua ansia. Aveva quindi deciso di aspettare finché Judy non avesse ripreso conoscenza. Dieci minuti più tardi era sopraggiunto Nat. «Sì, lo so», fece Harry con ostinazione, «lo so che può sembrare assurdo, ma non condivido la tua opinione sulla ragazza, non l'ho mai condivisa». «Cosa ti succede, Harry? Ti stai innamorando di lei?» chiese Nat con espressione stupita. «Non essere sciocco!» «Ah sì?» Nat si alzò dalla sedia e disse in tono iroso: «Allora ti dirò qualcosa sulla tua protetta e soci. Da quando abbiamo trovato quelle famose fotografie, ho continuato a far ricerche sui precedenti del signor Peter Newton e della signorina Judy Black». Nat gli si fece più vicino, quasi a sottolineare i suoi sospetti. «Io e il sergente Quilter abbiamo dovuto abbordare metà delle prostitute di Londra, per non entrare in particolari. Ti assicuro che di sesso ne abbiamo fin sopra i capelli io e Quilter. A questo punto una serata di follia me la immagino giocando a tombola e bevendo succo d'arancia.» «Che cosa hai scoperto di Judy?» «Newton lavorava per un tizio che si chiama Tam Owen.» Nat si volse e cominciò a passeggiare su e giù per la stanza. «Non chiedermi chi è Tam Owen perché non lo so. Apparentemente controlla un giro di ragazze squillo, ma in realtà pare che si tratti di qualcosa di più. Un ricco provinciale,
approdato in città in cerca di diversivi, compone un determinato numero e si mette in contatto con una ragazza affascinante di nome Judy Black. Dalla conversazione lei scopre con chi ha a che fare e allora lo scarica a Newton... o piuttosto lo scaricava a Newton. A questo punto Newton procura la compagna occasionale e nel giro di ventiquattr'ore il povero babbeo si ritrova ad acquistare un assortimento di foto pornografiche dal nostro signor Owen.» «Dimentichi che è stata proprio Judy a parlare per prima di Tam Owen. Non vedo per quale ragione avrebbe dovuto farlo se si fosse trovata a far parte del giro», ribatté Harry. «È abbastanza ovvio. Si è accorta di muoversi su un terreno pericoloso e poi aveva paura di te, Harry.» «Non sono d'accordo. Non è di me che aveva paura, Nat, ma di te.» «Di me?» Nat si fermò e guardò Harry con aria sbigottita. «Se non l'ho mai vista!» «Mai?» «No, mai. Cosa ti fa pensare il contrario?» «Non ha importanza.» La finestra di fronte a Harry dava su un corridoio parallelo all'ala dell'edificio in cui si trovava. Poteva scorgere due infermiere che spingevano una barella verso la sala operatoria, ma la persona che veniva trasportata rimaneva fuori del suo campo visivo. «Allora, dove vogliamo arrivare?» «Il nostro obiettivo è come incastrare quel bastardo di Owen. E non credere che Judy Black sia disposta a parlare, perché non lo è. Owen le ha messo addosso una paura indiavolata.» «Rimane sempre Linda Wade», fece Harry con calma. «Sai bene cosa ha detto il tuo amico Heaton della Wade», puntualizzò Nat. «Ha detto che ha denaro da buttar via. Quel denaro proviene da Tam Owen. Non credo che sia disposta a disfarsi della gallina che fa le uova d'oro, mio caro Harry.» «Non saprei.» «Be', se credi di poter impressionare la signorina Wade, avanti, datti da fare! Vai a parlarle. In fondo tentar non nuoce.» In quel momento la porta si aprì e Nat si interruppe. Entrò un medico che parve ad Harry straordinariamente giovane. «Ispettore Dawson?» Guardava i due uomini con aria interrogativa. «Sono io», disse Harry facendo un passo avanti. «Mi chiamo Friedman, ho in cura la signorina Black.»
«Come sta, dottore?» «È stata molto fortunata. Penso che si trovasse in stato di incoscienza nel momento in cui si portava oltre il parapetto; così che il suo corpo era inerte quando è precipitata sull'abbaino sottostante. Ciò le ha evitato delle fratture molto gravi. Infatti, ha riportato soltanto la lussazione di una spalla che abbiamo già rimesso a posto. Non dovrebbe esserci nulla di preoccupante, allo stato attuale.» «Posso vederla?» «Be'...» il medico parve dubbioso. «Quando ha ripreso conoscenza ha chiesto subito di lei, ma poiché ha subito un violento shock, le abbiamo somministrato un sedativo. Sarebbe opportuno che la paziente dormisse il più a lungo possibile, perciò sono costretto a chiederle di ritornare più tardi.» «Mi dica a che ora.» «Verso le otto?» «Benissimo.» Il medico fece un cenno col capo e si diresse verso la porta. L'atteggiamento vigile e assorto dei due poliziotti l'aveva messo a disagio. Quando si fu allontanato, Nat prese ad abbottonarsi il soprabito. «Incontriamoci qui alle otto meno cinque, Harry.» Questi annuì soprappensiero. «Benissimo, Nat.» «Dicevo sul serio a proposito di Linda Wade.» Il tono di Nat era più cordiale. «Provaci.» Quando Harry si rimise in macchina per tornare a Defoe Mansions, l'ora di punta non era ancora iniziata. Parcheggiò l'auto un centinaio di metri più avanti e percorse a piedi il breve tratto che lo separava dall'edificio. Si fermò un attimo sul marciapiede a guardare il tetto. Gli parve di rivivere quei momenti in cui, vedendo il corpo di Judy precipitare dal parapetto, aveva temuto per la sua vita. Guardando dal basso, gli pareva impossibile che la sommità dell'abbaino fosse sufficientemente larga da arrestare la caduta di un corpo. Non l'aveva neppure notato quando era scivolato sul tetto per raggiungere Judy. Una figura che si muoveva nell'ingresso dell'edificio attirò la sua attenzione. Ne uscì un uomo quasi di corsa. Indossava una giacca di velluto a coste e al collo portava un foulard di seta. Harry lo riconobbe immediatamente. Era Sidney Heaton. Guardandosi intorno con aria furtiva si diresse verso un'auto parcheggiata a un lato della strada. Le mani gli tremavano a tal punto che a mala pena riuscì a introdurre la chiave nella serratura. Nel
premere il bottone d'accensione, la macchina fece un balzo in avanti perché aveva dimenticato di mettere il cambio in folle. Quando infine riuscì ad avviare il motore, si portò bruscamente al centro della strada senza controllare lo specchietto retrovisore, quindi partì a velocità sostenuta oltrepassando il Rose and Crown. Harry rimase a guardare l'auto che si allontanava e poi attraversò rapidamente la strada. Entrato nell'ascensore, Harry salì fino al terzo piano. Chiuse i cancelli e così il gabbiotto rimase al piano. Vide subito che la porta dell'appartamento di Linda era socchiusa. Sostò un attimo sulla soglia cercando di individuare il suono che proveniva dall'interno, quindi spinse la porta ed entrò in anticamera. Da una stanza di fronte al bagno dove si era già nascosto in precedenza, si udivano dei singhiozzi incontenibili. In punta di piedi si avvicinò alla porta e si trovò di fronte a una camera da letto più intima e personale di quella che dava sul soggiorno. Linda Wade sedeva di fronte allo specchio della toilette e si asciugava il volto bagnato di lacrime. Le sue spalle nude erano coperte di lividi ed escoriazioni, alcune così profonde che sanguinavano. Qualcuno doveva averla percossa violentemente con un guinzaglio o con un frustino da cavallo. Benché ormai abituato a scene di violenza, Harry non poté fare a meno di provare un senso di nausea di fronte a quello spettacolo. Harry si mosse verso di lei. La ragazza vide il movimento riflesso nello specchio e si girò lentamente. «Come diavolo ha fatto a entrare?» «Dio mio!» bisbigliò Harry. L'aggressore di Linda, non contento di averla percossa sulle spalle, le aveva sfregiato anche il viso; la parte sinistra dalla tempia al mento era completamente sfigurata. «Visto?» disse Linda, ancora scossa dai singhiozzi che non riusciva a frenare. «Carina, vero?» «Ha bisogno di un medico.» Harry si mosse verso il telefono ma la ragazza alzò una mano per fermarlo. «Non voglio un dottore, non voglio vedere nessuno. Ha visto come sono ridotta.» Nascose il viso in un asciugamani. «Chi è stato?» chiese Harry con un tono di voce stranamente calmo. «Per favore, mi lasci sola.»
«Linda, ascolti...» «Non ha sentito quello che ho detto? Mi lasci in pace.» Harry prese uno sgabello e le si sedette di fianco. «So chi è il responsabile di tutto questo, non c'è bisogno che me lo dica. È Tam Owen, vero?» D'un tratto Linda smise di singhiozzare, e diede una rapida occhiata allo specchio che rifletteva il suo volto lacerato. «Oh, Dio! Come sono ridotta! Guardi la mia faccia. Quel maledetto porco!» «Perché l'hanno fatto? Forse perché ho trovato il passaporto? O forse perché ha fallito con Judy?» «Per favore, mi lasci in pace.» Harry vide che Linda si era calmata e questo era un buon segno. Decise di cambiare tattica. «Judy è in ospedale. Lo sa?» Questa volta si girò di scatto, sussultando per l'acuto dolore alle spalle. «In ospedale?» «Sì, c'è stato un incidente.» «Non le credo.» «È vero. È ricoverata al St. Matthew's.» «È grave?» «No, non credo. Devo vederla stasera.» Harry indicò il volto della ragazza. «So che è terribile da vedersi, al momento, ma non è poi così grave come può pensare. Vada da un bravo medico e in un paio di mesi non le rimarrà neppure un segno.» «È facile a dirsi.» Linda si guardò allo specchio e alzò un dito per toccare lo sfregio. «No, ne sono convinto. Al St. Matthew's c'è uno specialista in chirurgia plastica, è un mago nel suo campo. Le saprò dire come si chiama.» «Grazie», disse Linda riconoscente, soffiandosi il naso nell'asciugamani. Harry attese alcuni minuti, poi ritornò all'attacco per farsi dire chi l'aveva ridotta in quello stato. «Crede che sia pazza?» disse scuotendo il capo. «Non vede cosa mi è accaduto solo perché ho sbagliato con Judy? Non le dirò proprio nulla, e non so di cosa stia parlando. Non conosco nessun Tam Owen. Oh, Dio, la mia faccia! Sono un mostro.» Aveva ricominciato a piangere. «Presto o tardi», disse Harry, «dovrà pur vuotare il sacco su Owen,
quindi è meglio che lo faccia adesso». «Per favore, vada via. Mi lasci in pace. Per carità...» Era chiaro che si trovava in uno stato di shock tale da non riuscire a dare un senso logico alle sue parole. Harry si alzò. «Va bene, Linda. Ne riparleremo. Posso far qualcosa per lei?» «No, grazie. Prendo un paio di aspirine e me ne vado a letto per un'ora.» «Ottima idea.» Muovendosi in direzione della porta, Harry diede una rapida occhiata in giro. Nessun oggetto che poteva essere stato dimenticato dal visitatore di Linda attirò la sua attenzione. «A proposito, quanto tempo è rimasto qui il signor Heaton?» «Heaton?» La sorpresa di Linda parve genuina. «Già.» «Non l'ho visto. Non è mica stato qui.» «Veramente, Linda?» La ragazza non rispose. Era ancora intenta a tamponarsi la ferita. «Non crede che sarebbe meglio chiudere la porta a chiave dietro di me, tanto per essere prudenti?» Linda fece un breve cenno del capo e lo seguì in anticamera. Harry vide che aveva i piedi nudi perfettamente curati, le unghie laccate di uno smalto dorato. *** Gli animali che si agitavano nelle gabbie parvero istintivamente contagiati dall'umore del cliente che entrava nel negozio. Era in uno stato di agitazione tale che l'aria attorno a lui sembrava carica di elettricità. Cominciarono a squittire, abbaiare e miagolare tutti insieme, senza però soffocare il suono del campanello azionato dalla porta d'ingresso. Heaton comparve dal retro del negozio. «È chiuso. Non ha letto il cartello sulla porta?» Il tono della sua voce era più polemico che infastidito. Aveva la luce di fronte e non riusciva a distinguere chi fosse entrato. D'un tratto i suoi modi cambiarono. «Oh, salve, signor Dawson.» «Desidero parlarle, signor Heaton», fece Harry senza tante cerimonie. «Sì, sì, certamente.» Heaton prese a fregarsi nervosamente le mani. «Io...
mi rincresce di non averla riconosciuta subito. Vuole accomodarsi nel mio studio?» Harry ignorò l'invito. «Cosa è accaduto questo pomeriggio?» «Questo pomeriggio?» «Sì, a casa della signorina Wade.» «Mi spiace.» Con palese nervosismo, Heaton si aggiustò il foulard attorno al collo. «Non capisco.» «Allora cercherò di essere più chiaro. Voglio semplicemente che mi dica cosa è accaduto questo pomeriggio nell'appartamento di Linda.» «Penso che ci sia un errore, signor Dawson.» Heaton si sforzò di incontrare lo sguardo accusatore di Harry. «Sono rimasto qui tutto il pomeriggio a sistemare i conti.» «Non ci siamo, Heaton.» Harry scosse il capo. «L'ho vista mentre lasciava Defoe Mansions. Ho notato che si trovava in difficoltà nell'aprire la portiera della sua auto e nel metterla in moto. Ha visto per caso qualcuno da Linda? E cosa è successo?» «Non... non ho visto nessuno. Oh, mio Dio, ciò è molto imbarazzante.» Le labbra gli tremavano visibilmente e per un attimo Harry pensò che fosse in procinto di scoppiare in lacrime. «Non so proprio cosa dirle, signor Dawson. Le assicuro che non ho l'abitudine di far visita...» «Senta, Heaton, parliamoci francamente. Non faccio parte della squadra del buon costume e me ne infischio della sua vita sessuale. Non mi interessa di sapere con chi va a letto. Ma c'è una cosa che mi deve dire e subito. Cosa è successo questo pomeriggio?» Heaton fissò Harry come un coniglio ipnotizzato, quindi si diresse verso la porta del negozio. La chiuse a chiave e ritornò lentamente dove si trovava. «Devo... raccontare dall'inizio?» «No, non voglio sentire la storia della sua vita. Le ripeto che voglio sapere solo cosa è successo questo pomeriggio.» «Io... sono andato da Linda. Saranno state le cinque e un quarto.» Heaton si umettò le labbra. «Sono entrato nell'appartamento. C'era qualcosa di insolito che non riuscivo a capire e poi... Linda era sdraiata sul pavimento e piangeva. Dio mio, che scena spaventosa. Aveva il vestito strappato e perdeva sangue dalle spalle e dal viso.» Si coprì il volto con le mani e per un momento fu incapace di continuare. «Era orribile, signor Dawson, veramente orribile. Non sapevo proprio
cosa fare.» «Cosa ha fatto?» «Temo di essermi comportato molto male. Ma cerchi di capire la mia situazione, signor Dawson. Mi trovavo là, in quell'appartamento, con una donna ridotta in quello stato...» «Allora se l'è svignata.» «Sì, temo di sì.» Harry rimase impassibile di fronte alle giustificazioni di Heaton. Sapeva per esperienza che quei tipi apparentemente innocui e dall'aria sottomessa erano forse i più portati a improvvisi atti di violenza. Eppure stentava a credere che quell'uomo spaventato che aveva visto fuggire da Defoe Mansions avesse potuto aggredire Linda in modo così brutale. «Linda l'ha vista?» «Non lo so, non ne sono certo.» «Come ha fatto a entrare nell'appartamento?» «Linda mi aveva dato la chiave.» «Quando?» «Ieri sera, quando siamo andati a cena insieme. È stata una specie di... ricevuta, diciamo.» «Le ha dato del denaro?» «Eh... sì, infatti. Mi ha dato la chiave dicendomi che potevo usarla ogni volta che fossi andato a farle visita.» Heaton mise una mano in tasca ed estrasse una chiave. «Eccola.» «È vero quello che mi ha detto?» «Lo giuro. Francamente non potrei mentirle su una cosa simile.» Ancora una volta Heaton assunse un'espressione onesta e sincera. «Lei mi conosce, signor Dawson.» «È proprio qui che sbaglia. Io non la conosco affatto, signor Heaton.» Harry gli prese la chiave di mano. «Questa la tengo io.» *** Quando Harry arrivò all'ospedale all'ora stabilita, Nat era già lì ad aspettarlo, seduto su una di quelle scomode sedie della sala d'attesa. Aveva le gambe accavallate e fumava una sigaretta. «È un gran sollievo avere cinque minuti a nostra disposizione, senza quei maledetti telefoni che ci rompono i timpani. Mi sono liberato prima del previsto, così sono arrivato in anticipo. Hai seguito il mio consiglio per
quanto riguarda Linda?» «Sì», rispose Harry con freddezza. Poi raccontò all'amico della sua visita nell'appartamento di Linda e dell'interrogatorio fatto a Heaton. «Non ho mai incontrato questo Heaton.» Nat si alzò per gettare il mozzicone dalla finestra. Nella stanza c'era un cartello «Vietato Fumare» e di conseguenza non c'erano portaceneri. «È stato Yardley a interrogarlo quella volta. Devo ammettere che la sua storia mi sembra piuttosto inverosimile.» «Sì, ma non dimenticare che l'ho visto uscire da Defoe Mansions. Era veramente terrorizzato, quasi fosse preso dal panico.» «Non poteva essere tutta una finzione?» «Sì, potrebbe essere, ma perché avrebbe dovuto fingere?» «Mettiamo che l'abbia appena aggredita. Se la sta svignando, quando improvvisamente ti vede. Finge allora di essere un pover'uomo terrorizzato che odia talmente la violenza che non farebbe male a una mosca.» «Può anche darsi.» Harry non aveva certo l'intenzione di prendere le difese di un soggetto come Heaton. «Mi domando perché. Doveva pur avere un motivo.» «Non necessariamente. Forse ha ricevuto un torto e ha agito per ripicca. Ragazze come Linda Wade subiscono spesso delle aggressioni. È un rischio che sanno di correre, fa parte del gioco.» Nat parlava con quel cinismo che aveva acquisito in cinque anni di esperienza nella squadra del buon costume. «Sì, ma c'è un altro punto. Heaton potrebbe lavorare per Owen.» Nat annuì con un cenno del capo. «Oppure», continuò Harry seguendo un'idea che gli era balenata nella mente, «la tua ipotesi è giusta e Heaton è un vero commediante... di prim'ordine, direi». «Cioè?» «Può darsi che Heaton sia l'uomo che stiamo cercando. Forse è lui Tam Owen.» «Be', tutto è possibile, naturalmente», fece Nat non molto convinto. Nat era lento nelle sue reazioni, pensò Harry. D'altra parte, era comprensibile. Da oltre cinque giorni stava lavorando a quel caso e da allora erano stati commessi altri due omicidi. In simili circostanze, giorno e notte, giorni feriali e festivi, non fanno alcuna differenza. Finché l'assassino non viene scoperto, non ci si può permettere nemmeno un'ora di riposo. «Nat, stavo pensando a Judy Black. Se parla, se è disposta ad aiutarci,
dovremo proteggerla. Non possiamo permettere che badi a se stessa, una volta uscita dall'ospedale. Almeno non dopo quello che è successo a Linda Wade oggi pomeriggio.» «Che cosa intendi fare, Harry?» «Alcuni miei amici hanno un albergo nel Cotswolds. È un posto molto tranquillo; nessuno scoprirà mai il suo nascondiglio.» «Dove si trova?» Nat si era distratto, sembrava avesse perso interesse per quello che Harry gli stava dicendo. «Te l'ho detto, si trova nel Cotswolds. Un villaggio chiamato Steeple Aston.» «Okay.» Nat sorrise cercando di concentrarsi maggiormente per scacciare il sonno che gli appesantiva le palpebre. «Se è disposta a vuotare il sacco, ti permetterò di portarla al sicuro, altrimenti...» Il suo tono era cambiato. «Se invece si rifiuta di aiutarci, allora, dovrà vedersela con me... Oh, buona sera, dottore.» Nat si alzò leggermente imbarazzato. Il dottor Friedman aveva aperto la porta silenziosamente. «Buona sera», li salutò il medico in tono formale. «Come sta la nostra paziente, stasera?» chiese Nat. Il medico si volse verso Harry. «Sta molto meglio, può lasciare l'ospedale domani mattina, se vuole, ma naturalmente dovrà riguardarsi per un giorno o due. Le ho detto che lei è qui, signor Dawson. La ragazza avrebbe piacere di vederla, ma...» Friedman lanciò una rapida occhiata a Nat, «da solo, possibilmente». «Va bene», fece Nat tornando a sedersi. «Aspetterò qui.» *** Judy era in una camera privata a un letto. Con grande sorpresa di Harry non era coricata, ma seduta in una poltrona vicino alla finestra. Indossava lo stesso vestito di poche ore prima e portava il braccio sinistro al collo. Fumava una delle sue solite sigarette e, nonostante il suo pallore, sembrava abbastanza ristabilita. I capelli tinti di scuro la facevano apparire ancora strana agli occhi di Harry. «Posso entrare?» chiese Harry facendo capolino dalla porta. La ragazza assentì. Harry chiuse la porta e si diresse verso una sedia. «Come si sente?» «Non c'è male.»
«Le fa male la spalla?» «No, per il momento.» Ci fu un breve silenzio durante il quale entrambi non riuscivano a trovare le parole adatte. Judy volse il capo e per la prima volta lo guardò negli occhi. «Mi spiace per quanto è accaduto. È stata tutta colpa mia. Mi sono comportata come una sciocca. Mi hanno detto che ha rischiato la vita per salvarmi.» «Nessun rischio, mi creda. Piuttosto, mi dispiace molto che si sia fatta male.» «Cosa accadrà ora? Che cosa ne farete di me?» Harry si sedette su una poltroncina in un angolo della stanza. La poteva vedere di profilo, mentre la ragazza non era obbligata a incontrare il suo sguardo. Pensò che fosse abbastanza in forze per affrontare una spiacevole notizia. «Judy, c'è qualcosa che deve sapere. Linda Wade è piuttosto malridotta. Be'... è stata aggredita da qualcuno.» «No. Oh, no! Quando è accaduto?» «Questo pomeriggio. Il suo viso è orribilmente sfregiato, purtroppo.» Si sporse in avanti e parlò con calma ma molto chiaramente. «Ora mi ascolti, Judy, mi deve dire la verità. Voglio sapere tutto quello che sa su Newton e Tam Owen.» «Ma le ho già detto la verità!» Judy spense la sigaretta ancora a metà nel portacenere che aveva accanto. «Ha detto che Peter Newton era un agente immobiliare. Bene, non lo era affatto. Lui e Tam Owen controllavano un'organizzazione di ragazze squillo.» Judy guardò fuori della finestra prima di rispondere, poi disse con estrema calma: «Sì, lo so, me l'ha detto Linda. Mi ha raccontato tutta la storia. Non ne sapevo nulla finché non...» Con uno scatto di impazienza la ragazza si alzò e andò a mettersi dietro a Harry, fuori dal suo campo visivo. «Oh, a che serve? Tanto non mi crederebbe.» «Mi dica quel che sa. Deciderò dopo se crederle o no.» Harry rimase seduto dov'era. La ragazza si sarebbe aperta più facilmente se non si fosse sentita sotto la pressione del suo sguardo. «Secondo Linda», cominciò, «quando Peter mi incontrò per la prima volta capì subito che ero la ragazza adatta per quel genere di lavoro, ecco
perché mi portò con sé a Londra. Dopo un po' di tempo si accorse di essere innamorato di me e decise che...» Si interruppe per un momento. Da come si muoveva alle sue spalle, Harry capì che la ragazza era inquieta. «A quel tempo non sapevo nulla di questo giro di ragazze squillo. Peter me l'aveva tenuto nascosto. Non sapevo assolutamente nulla, è la verità.» «Ma sapeva di Linda», puntualizzò Harry, «doveva sapere che genere di vita conduceva, altrimenti...» «Sì, lo sapevo. Era una mia intima amica. Ma le giuro che non sapevo di Peter.» «Cosa accadde la sera in cui dovevamo incontrarci davanti al ristorante Chez Maurice a Soho?» Judy, sentendo che le gambe le tremavano ancora per la debolezza, tornò a sedersi sulla poltrona. «Tam Owen sapeva che la polizia mi stava ricercando e ordinò a una delle sue ragazze di farle quella famosa telefonata. Allora, quando Linda la vide davanti al ristorante, capì immediatamente cosa stesse tramando Tam e decise di aiutarmi. Così telefonò a Tam e gli disse che Peter mi aveva dato una lettera che conteneva informazioni su di lui.» «Su Tam Owen?» «Sì.» «Era vera... la storia della lettera?» «No, ma lo stratagemma riuscì. Mi aveva già messo Marty Smith alle calcagna. Quando ci fermammo nel Mall, Marty gli telefonò per prendere ordini. Tam era preoccupato perché temeva che avrei potuto consegnare la lettera alla polizia...» «Così ordinò a Marty Smith di sistemarmi a dovere e di riportarla da lui. Poi la convinse a tagliare la corda.» «Sì, solo che fu Linda a parlare con lui. Io non ho mai incontrato Tam Owen.» «Mai?» «No, mai. Solo Marty. È un amico di Linda, anche se non è il termine più adatto. Non credo che abbia degli amici. È un duro, forse il più violento di tutti gli scagnozzi di Tam Owen.» Allungò una mano per prendere una sigaretta. Harry fece scattare l'accendino e lei mise una mano sulla sua per avvicinarla alla sigaretta. «Vada avanti, Judy», fece Harry dopo che la ragazza ebbe tirato la prima boccata della sigaretta. «Linda mi disse che se fossi rimasta in giro non avrei avuto scampo. Mi
fece capire che avevo già agito in modo sospetto e che prima o poi la polizia mi avrebbe pizzicata. Promise che mi avrebbe procurato un passaporto falso.» «Direttamente da Tam Owen?» «No, da Marty Smith.» Harry si soffermò un attimo a riflettere. Judy era notevolmente impallidita. Evidentemente la conversazione l'aveva stancata, ma Harry decise di continuare visto che le cose prendevano la piega giusta. «Judy, per l'ultima volta mi dica la verità. È stata lei a uccidere Peter Newton?» Lei lo fissò dritto negli occhi e Harry notò che aveva delle ciglia molto lunghe che mettevano in risalto la bellezza dei suoi occhi. «No», disse con fermezza. «Non sapeva nulla della vera attività di Newton?» «Che cosa intende dire?» «Non si accorse che lui era dentro fino al collo in quella sporca faccenda? Non pensò di denunciarlo?» «No», rispose Judy. «Le cose andarono diversamente. Volevo aiutare Peter. Sapevo che si trovava nei guai e cercavo di persuaderlo ad andare dalla polizia a raccontare tutto. Ecco perché litigammo quella sera al ristorante.» «Ma credevo che il motivo della lite fosse quel famoso collare.» «Infatti, fu per il collare e per quel messaggio che lei ricevette la mattina dopo che Peter venne ucciso.» *** Alle undici del mattino seguente Harry si recò all'ospedale a prendere Judy. Essendo stata ricoverata d'urgenza, non aveva bagaglio. Gli abiti che indossava al momento dell'incidente erano stati puliti e stirati da una sollecita infermiera. Una buona dormita era stata un toccasana per Judy, tanto che le sue guance avevano ripreso colore. Aveva il braccio sinistro sorretto da una fascia bianca e portava la giacca sulle spalle. Non ci vollero più di dieci minuti per raggiungere Defoe Mansions. Questa volta Harry non cercò di passare inosservato e parcheggiò la sua Austin proprio di fronte all'entrata. Dal portabagagli estrasse una valigia vuota che Judy avrebbe riempito coi suoi oggetti personali. Giunti sulla soglia dell'appartamento, Harry depose la valigia e le rivolse
un sorriso rassicurante prima di suonare il campanello. «Lasci fare a me, parlerò io con Linda. Lei pensi soltanto a preparare la valigia.» Judy assentì e si aggiustò nervosamente la fascia. Dopo un minuto Harry tornò a suonare il campanello e questa volta premette il pulsante per una decina di secondi. Potevano udire il suono echeggiare nell'appartamento. «Non credo sia in casa», fece Judy, sperando così di evitare un confronto diretto con Linda. «Non sono d'accordo.» Harry indicò la cassetta delle lettere. «Provi a chiamarla per nome, forse se riconosce la sua voce viene ad aprire.» Judy si chinò e sollevò lo sportello della cassetta. «Linda», chiamò attraverso l'apertura. «Sono io, Judy.» Ancora nessuna risposta. Harry attese un altro po', quindi estrasse di tasca la chiave di Sidney Heaton e la infilò nella serratura. «Dove l'ha presa?» Harry ignorò la domanda e aprì la porta senza far rumore. Raccolse la valigia e si inoltrò nell'appartamento facendo segno a Judy di seguirlo. Come questa entrò nel soggiorno chiamando Linda, Harry le si fece più vicino per proteggerla da eventuali pericoli. «Decisamente non è in casa. Le mie cose si trovano in questa stanza...» «Aspetti!» Stava già per aprire la porta di fronte alla camera dove era stata trovata Linda, quando Harry la fermò e, scostandola, entrò a perlustrare la stanza. Era vuota e aveva un aspetto desolato. «Va bene, entri pure», disse, «e faccia il più presto possibile. Ho una strana sensazione». Judy entrò nella stanza e aprì l'anta di un armadio a muro. Harry appoggiò la valigia sul letto e fece scattare la serratura. «È strano», esclamò Judy. «Che cosa?» «I miei vestiti sono tutti al loro posto ma quelli di Linda sembrano essere scomparsi.» «Tiene i suoi abiti qui? Credevo che...» «No, la maggior parte li tiene nell'altra stanza, ma di solito appendeva gli abiti lunghi in questo armadio. Aspetti, vado a vedere.» Prima che avesse potuto fermarla, la ragazza era già fuori della stanza. L'avrebbe seguita se il telefono sul comodino non avesse cominciato a squillare. Rimase un istante a fissarlo, indeciso se rispondere o no, poi sollevò il
ricevitore e lo avvicinò all'orecchio. Immediatamente una voce asciutta domandò: «È il 586-1729?» Harry diede un'occhiata alla targhetta per controllare il numero. «Sì.» «C'è un telegramma per Linda Wade.» «Grazie, prendo nota.» «Le leggo il testo. 'L'aspetto domani alle dieci. Firmato Douglas'.» «Douglas, ha detto?» «Sì, esatto.» «Dove è stato fatto il telegramma?» «È stato consegnato all'ufficio postale di St. Albans alle undici e quarantacinque.» «Grazie.» «Vuole la conferma scritta?» «Sì, per favore.» Harry era ancora vicino al telefono quando Judy ritornò. «Chi era?» «Hanno sbagliato numero. Ha scoperto qualcosa?» «Sì, se n'è andata, ha lasciato l'appartamento. Il suo guardaroba è completamente vuoto.» «Va bene, Judy, muoviamoci. Non abbiamo molto tempo.» Judy si avvicinò all'armadio e cominciò a piegare i vestiti e a riporli nella valigia. «Quanto tempo impiegheremo per arrivare in quel posto?» «Impiegheremo circa due ore per arrivare a Bicester. Steeple Aston è a circa dieci miglia da lì.» Harry era in mezzo alla stanza con occhio sempre vigile, pronto a prendere nota del più piccolo dettaglio. «Steeple Aston?» «Sì, questo è il nome del villaggio, l'albergo si chiama Il Monastero.» «È un nome piuttosto insolito per un albergo», constatò Judy, ritornando verso l'armadio. «Sì, lo so. È più una pensione che un albergo, ma non si preoccupi. Le piacerà.» «Ne sono certa. Sono contenta di lasciare Londra per un po'.» Piegò una giacca e la ripose nella valigia, quindi si drizzò e rivolse a Harry uno sguardo tenero. «Le sono molto grata, Harry, per quello che sta facendo per me.»
«Non si preoccupi», disse Harry, pensando che era molto bella quando abbandonava quel suo modo di fare ostentatamente aspro. «Si prenda cura di sé e, soprattutto, si ricordi quello che le ho detto; non dia a nessuno il suo indirizzo, non esca dall'albergo per nessuna ragione e se ha bisogno di comunicare con qualcuno, telefoni a me.» Judy sorrise al tono sincero e premuroso di lui. «Non lo dimenticherò.» «I proprietari dell'albergo sono miei amici. Ho detto loro che deve ristabilirsi dalle conseguenze di un incidente automobilistico e che ha assoluto bisogno di...» Si interruppe ed entrambi guardarono in direzione dell'anticamera. Qualcuno aveva suonato il campanello. Harry mise un dito sulle labbra e fece cenno a Judy di rimanere dov'era. Poi entrò nell'anticamera, chiudendo la porta dietro di sé, e rimase immobile ad ascoltare. Dal pianerottolo, gli giunse il cigolio dei cancelletti che si chiudevano e il rumore sordo dell'ascensore in discesa. Chiunque avesse suonato non aveva certo nulla di urgente da comunicare. Harry attese un attimo, poi aprì la porta. Il pianerottolo era vuoto, ma c'era una grossa busta bianca sullo zerbino. Si chinò per raccoglierla, ma prima ancora di toccarla capì di avere commesso un errore imperdonabile. Con la coda dell'occhio scorse una gamba che si muoveva lungo la parete di fianco alla porta. Cercò di farsi da parte per schivare un colpo inevitabile, ma ormai era troppo tardi. Il calcio di una pistola lo colpì violentemente alla nuca ed egli cadde sulla soglia. Marty Smith scavalcò il corpo e si precipitò nell'appartamento con la pistola in pugno. «Judy!» Si fermò sulla soglia del soggiorno, guardandosi attorno furtivamente, quindi si diresse verso la porta della camera da letto adiacente e l'aprì di botto. Tornò in anticamera continuando a chiamare la ragazza ad alta voce. Notando che una delle porte che davano sull'ingresso era chiusa, si avvicinò di soppiatto e la spalancò. Judy era lì, a due passi da lui, con gli occhi sbarrati. «Marty!» esclamò, sforzandosi di sorridere. «Sei tu?» «Già, perché diavolo non rispondevi?» «Non ero sicura che fossi tu. Sei riuscito a sistemare quello stupido piedipiatti?» «Direi!»
La prese per una mano e la condusse in anticamera. Alla vista del corpo di Harry, Judy si arrestò. «L'hai voluto proprio tu, maledetto bastardo!» Nei suoi occhi non c'era la benché minima traccia di compassione. «Vieni, Judy», la sollecitò Marty, trascinandola via. La ragazza dovette scavalcare il corpo di Harry. Così facendo, notò che il suo viso era rivolto verso l'ascensore; aveva gli occhi leggermente socchiusi, e un lieve tremito delle palpebre le fece capire che non era morto ma soltanto svenuto. Marty, davanti all'ascensore, continuava a premere impazientemente il pulsante di chiamata, sebbene l'indicatore ne segnalasse la salita. Aveva la mano già pronta sulla maniglia del cancelletto e l'aprì non appena l'ascensore giunse al piano. Fece entrare la ragazza con uno spintone e ripose la pistola nella fondina. Il signor Pye era stato uno dei primi inquilini di Defoe Mansions e abitava al piano terreno. Sapeva per esperienza che c'era solo un sistema per far fermare l'ascensore al primo piano quando i passeggeri avevano già premuto il bottone del piano terra. Si doveva tirare con forza la porta nel momento in cui l'ascensore si trovava a livello del piano. La manovra prese letteralmente di sorpresa Marty che fissò sconcertato il signor Pye quando questi entrò sorridendo nel gabbiotto. Schiacciò il bottone del piano terra e, come l'ascensore ripartì, rimasero in silenzio l'uno vicino all'altro. Improvvisamente Judy, con il braccio libero, tentò di estrarre la pistola dalla fondina di Marty, ma non ci riuscì perché l'uomo le afferrò il polso. «Mi aiuti!» gridò all'attonito signor Pye. Questi reagì con sorprendente rapidità buttandosi sul braccio di Marty per far deviare la canna della pistola verso il pavimento. Nella colluttazione partirono due pallottole che andarono a conficcarsi nel pavimento di legno e riempirono il gabbiotto di un acuto odore di cordite. Con la mano libera, Marty colpì allo stomaco il signor Pye, il quale, con una smorfia di dolore, allentò la presa e si raggomitolò sul pavimento. In quel momento l'ascensore si fermò. Marty aprì il cancello e spinse fuori la ragazza con violenza. Questa inciampò sul gradino, attraversò la hall barcollando e andò a sbattere contro la parete opposta. Come Marty si mosse per raggiungerla il signor Pye, ancora a terra, allungò una mano, lo prese per il risvolto dei pantaloni e lo fece cadere lungo disteso sul pavimento.
Marty si rialzò bestemmiando, si voltò di scatto e colpì il malcapitato con un calcio. Poi si diresse verso Judy che, riversa sul pavimento, si lamentava sommessamente. Si era chinato afferrando la ragazza per i piedi e voltava la schiena alla rampa di scale che terminava accanto all'ascensore. Harry, che nel frattempo era tornato in sé, prese a scendere le scale a tre gradini per volta. Il salto finale lo portò dritto alle spalle di Marty, facendolo cadere. L'automatica gli scivolò di mano e Judy fu pronta ad allontanarla con un calcio. Con uno sforzo notevole Marty riuscì a liberarsi dalla stretta di Harry e si allontanò da lui rotolando su se stesso. Con un colpo di reni balzò in piedi estraendo contemporaneamente un coltello a serramanico. Harry ebbe appena il tempo di sollevarsi sulle ginocchia che Marty gli si parò contro, ma nello stesso tempo si rese conto che la sua era una posizione di vantaggio. Come Marty gli puntò il coltello addosso, Harry fece un mezzo giro su se stesso afferrandogli il polso con la mano sinistra e torcendoglielo. Poi allungò la destra per incrociare la mano armata di Marty e, sfruttando la sua stessa forza, deviò il colpo verso l'alto. Marty lanciò un urlo e si inarcò all'indietro per evitare che Harry gli spezzasse il braccio. Appena cercò di sollevare la testa, un potente sinistro di Harry lo mise fuori combattimento. Harry si precipitò verso Judy che, rannicchiata in un angolo, si stringeva convulsamente la spalla fasciata. Il suo volto era alterato da una smorfia di dolore. «Tutto bene, Judy?» La ragazza si sforzò di sorridere. «Se andiamo avanti di questo passo, farò una lunga vacanza in ospedale.» «Le farò compagnia», scherzò Harry fregandosi il nuovo bernoccolo che spuntava alla base del capo. Dietro di lui il signor Pye raccolse con estrema cautela la pistola di Marty e inserì la sicura. *** Quella mattina Harry se la prendeva comoda. Dopo tutto era ancora in licenza e voleva godersi quei pochi giorni che gli rimanevano. Aveva ancora parecchi affari del padre da regolare e inoltre doveva badare al negozio. Douglas Croft era abbastanza competente, ma riluttante a prendere
delle decisioni da solo. Ora che aveva consegnato Marty Smith nelle mani della polizia, Harry era sicuro che Yardley e Nat sarebbero riusciti a smascherare Tam Owen. Il sospetto che un tempo sembrava pendere su di lui era stato chiarito; tuttavia non era ancora convinto che Yardley avesse potuto veramente sospettare di lui. Se quella sera ormai lontana il sovrintendente capo aveva visto il programma televisivo dedicato a suo padre, aveva forse voluto mettere al suo posto «il duro e affascinante ragazzo di Scotland Yard». Sebbene in cuor suo non volesse ammetterlo, la ragione principale della sua attuale serenità era la certezza di sapere Judy al sicuro, in un luogo dove nessuno potesse trovarla. Le aveva telefonato quella stessa mattina, ancora prima di prepararsi la colazione. La ragazza pareva felice e in buona salute e, nonostante la brutta caduta, la sua spalla non si era ulteriormente contusa. Le ripeté le raccomandazioni di non lasciare l'albergo e di non fare alcuna telefonata all'infuori che a lui. Stava entrando nella stanza da bagno per radersi quando udì suonare il campanello della porta accanto al negozio. Esitò un attimo, poi decise di aprire. Poteva essere Nat che veniva a comunicargli i recenti sviluppi del caso. Forse avevano individuato il nascondiglio di Linda o forse avevano convinto Marty Smith a rompere il suo ostinato silenzio. Il visitatore mattutino era Hubert Rogers e, a giudicare dal suo aspetto fresco ed elegante, era sicuramente diretto in ufficio: il nodo della cravatta scompariva nella V del rigido colletto bianco, la bombetta appoggiata dritta sul capo, le scarpe nere lucidate a dovere. L'ombrello arrotolato e la valigetta completavano il quadro. Harry non poté fare a meno di nascondere una certa sorpresa. «Buon giorno, signor Dawson. Può dedicarmi pochi minuti?» «Sì, certo. Entri pure.» «Mi scusi», fece Hubert, gettando uno sguardo di apprezzamento alla vestaglia di seta e al pigiama a righe di Harry. «Spero di non averla buttata giù dal letto.» «No, non si preoccupi.» Harry lo fece accomodare nel salotto. «Il fatto è che al momento sono in licenza e mi lascio prendere dalla pigrizia. Posso offrirle qualcosa?» «No, grazie.» Con un gesto prevedibile, Hubert appoggiò la bombetta e l'ombrello esattamente nello stesso posto della sua precedente visita. «Dawson, ho dato un'occhiata alle cose di mia zia e ho sistemato alcune
faccende che la riguardavano. Ieri ho dovuto prendere una decisione circa il cane.» «Zero?» «Alla fine ho deciso di regalarlo a un amico che vive in campagna.» «Dove si trova il cane? All'albergo?» «Sì, stranamente quell'albergo ha del personale che si prende cura dei cani, forse proprio per questa ragione mia zia aveva scelto quel posto.» Harry aveva già notato che quando Hubert parlava di sua zia lo faceva con una certa condiscendenza. Sicuramente non gli andava a genio il fatto che una sua parente prossima fosse caduta così in basso da fare la domestica di professione. «Tra parentesi, saprà che mia zia era una cliente e non una dipendente di quell'albergo.» «Sì, lo so.» Harry non aveva intenzione di invitare Hubert a sedersi. «Ma mi dica la ragione della sua visita.» «Bene, quando sono andato a prendere Zero, la prima cosa che ho notato è stato il collare.» Hubert fece scattare la serratura della sua valigetta. «Senza dubbio era nuovo di zecca e dopo tutto il chiasso sollevato da mia zia sull'originale regalatole da suo padre, ho pensato di esaminare questo a fondo.» Tolse dalla valigetta un collare nuovo fiammante e lo porse a Harry. «C'è qualche cosa di diverso in questo?» «Sì.» Hubert aspettò che lo guardasse attentamente. Era fatto di un doppio strato di morbida pelle e all'interno c'era una piccola cerniera lampo che nascondeva una tasca segreta. «Ha trovato qualcosa qui dentro?» chiese Harry aprendo la cerniera. «Sì.» Hubert sfruttava al massimo la situazione. Con una certa aria di trionfo estrasse un foglietto piegato dalla tasca del panciotto. «Qualcosa che le appartiene, signor Dawson.» Harry prese il pezzo di carta e lo aprì. «Che cos'è?» «Sembra una ricevuta... di una collana di perle.» Harry spiegò il quadratino di carta sul tavolo e lesse: GIOIELLERIA MINERVA BURLINGTON STREET, RIF.: A4961 LONDRA, W.L. DAWSON. COLLANA DI PERLE A TRE FILI. RIPARATA. Harry alzò lo sguardo. «Non è mia.»
«Ma è intestata a lei, c'è scritto il suo nome.» «No, è intestata a mio padre, ma ne conoscevo l'esistenza. Grazie per avermela portata.» «Lei sapeva che...?» Hubert rimase deluso di fronte all'atteggiamento indifferente di Harry. «Già.» «Allora sapeva che era nel collare?» «No. Ma le ripeto che ne conoscevo l'esistenza, anzi l'abbiamo cercata dappertutto senza riuscire a trovarla.» L'altro era palesemente irritato dal tono casuale di Harry. «Capisco», disse Hubert sulle sue. Poi improvvisamente arrossì. «No, invece non capisco un accidente.» Per scaricare l'improvviso impeto di collera prese a passeggiare su e giù per la stanza, quindi si girò per incontrare lo sguardo di Harry. «Se la ricevuta apparteneva a suo padre, cosa c'entrava mia zia? E perché nasconderla nel collare, mi domando? Ma c'è qualcos'altro. È evidente che questo collare è stato fatto per un fine particolare. Sono certo che non è facile trovare un oggetto del genere in commercio.» «È vero», annuì Harry soprappensiero. «Vorrei tenere sia la ricevuta che il collare, se non le dispiace.» «Naturalmente, se lo desidera.» Nel frattempo Hubert si era calmato e, prima di parlare, tossì brevemente. «Dawson, ieri ho parlato con il sovrintendente Yardley. Mi ha detto che per il momento non ci sono nuovi sviluppi per quanto riguarda l'omicidio di mia zia e non si prevedono imminenti arresti. Ma ho avuto la sensazione che mi stesse, be'... nascondendo qualcosa.» «Se è così, la sta nascondendo anche a me.» Harry si mosse in direzione della porta. «Mi scusi, signor Rogers, ma ho un appuntamento alle nove e mezzo e come vede devo ancora vestirmi.» Dopo aver accompagnato Hubert alla porta, Harry ritornò in soggiorno e trovò Douglas Croft in piedi vicino al tavolo, intento a esaminare il collare. Era salito al piano superiore dalla scala a chiocciola e portava una busta sotto il braccio. «Harry, cosa diavolo è questo? Dove l'ha pescato?» «Te lo dico fra un momento, Douglas», rispose Harry in modo spicciativo mentre attraversava la stanza. «Prima devo fare una telefonata.» «È privata? Perché in tal caso...» «No, no.» Nel comporre il numero, accennò a un breve sorriso. «Anzi,
preferisco che tu rimanga.» Harry attese pazientemente la risposta all'altro capo del filo. Diede un'occhiata a Douglas e parlò in tono casuale. «Douglas, conosci una ragazza di nome Linda Wade?» «Linda chi?» «Wade», ripeté l'altro. «No, non credo...» «Mai sentita nominare?» «Linda Wade. No, ne sono certo.» Il volto di Douglas rimase privo di espressione. «Perché?» Harry gli volse le spalle nel momento in cui udì una voce gracchiare nel ricevitore. «Pronto, telegrammi? Questo è il 586-2679. Devo inviare un messaggio alla signora Sybil Conway, Acquacheta, Broadway Avenue, Hampstead, London, N.W.3.» Mentre dettava l'indirizzo lentamente e con chiarezza poteva udire il ritmico ticchettio della macchina da scrivere. «Fatto? Il testo è: Trovata la ricevuta. Stop. Suggerisco di incontrarci al Serpentine Restaurant, Hyde Park, oggi pomeriggio alle quattro.» Ascoltò l'operatore che ripeteva il messaggio, compitando i nomi propri, poi aggiunse: «Esatto. Il nome del mittente è Croft. Douglas Croft». *** Quando le lancette del suo orologio segnarono le quattro e un quarto, Harry cominciò a domandarsi se il pesce avesse abboccato all'amo. Non che fosse tedioso starsene seduto a un tavolo sulla terrazza del Serpentine Restaurant. Dal punto in cui si trovava poteva scorgere coppie di innamorati in barca che remavano goffamente scivolando sulle lucide acque del lago, stormi di anatre e di altri uccelli acquatici che si accalcavano attorno a una signora dai capelli bianchi che gettava loro briciole di pane. Una di quelle persone sole e isolate che preferiscono avvicinare esseri indifesi piuttosto che i loro simili. Poteva udire in lontananza il rumore sommesso del traffico che scorreva lungo la strada alle sue spalle. Le delimitazioni del parco servivano a tener lontano mezzo miglio da dove si trovava Harry quei bolidi rombanti che inquinavano l'atmosfera coi gas di scarico. Al di là degli alberi, dalla parte opposta della Serpentine, c'era il commissariato di polizia di Hyde Park. Intravide la Bentley mentre svoltava da Ring Road. Nei sedili anteriori
c'erano due persone, ma quando Arnold Conway uscì sulla terrazza era solo. Aveva il classico aspetto dell'uomo arrivato che si gode il frutto di pochi anni di lavoro redditizio. Portava un elegante abito principe di Galles che gli cadeva perfettamente. Il taglio dei suoi capelli ondulati, brizzolati solo alle tempie, era stato eseguito da uno dei migliori parrucchieri della città. Si guardò intorno per alcuni istanti e notò Harry Dawson seduto a un tavolo, ma di Douglas Croft non c'era nemmeno l'ombra. Poi, senza alcuna esitazione, si mosse verso il tavolo di Harry. «È stato lei a inviare il telegramma.» Era più un'affermazione che una domanda. Conway aveva fatto un quadro della situazione, accettandola. «Voglia scusare mia moglie, aveva alcune spese da fare così ho pensato di sostituirla.» «Era lei che aspettavo, signor Conway.» Harry cercava invano di attirare l'attenzione di una cameriera prima che scomparisse all'interno del ristorante. «Ma è leggermente in ritardo. Le è stato difficile parcheggiare la poltrona a rotelle?» Conway si limitò a rispondere con un sorriso enigmatico e con una domanda di rimbalzo. «Mi dica, signor Dawson. Il telegramma è realtà o fantasia?» «Non credo di capirla. Ho la ricevuta della collana di perle, se è quello che vuol dire.» «Infatti. Posso vederla?» Harry estrasse la ricevuta e la tenne sollevata in modo che Conway potesse leggerla. L'altro non fece alcun cenno di prenderla. «Grazie», disse. Prese una sigaretta piatta dal pacchetto e l'accese. Un forte aroma di tabacco turco aleggiò nell'aria. «Quando ha saputo della ricevuta?» «Sua moglie si era messa in contatto con un mio amico.» «Douglas Croft», annuì Conway. «So che lavorava per suo padre.» «Esatto. La signora Conway aveva telefonato a Douglas e gli aveva detto che mio padre doveva aver messo la ricevuta in qualche posto e...» «Aveva chiesto a Croft di cercarla.» «Già.» «E l'ha trovata?» «No. Veramente è stato qualcun altro a trovarla.» «Capisco.» Conway frugò in una tasca del suo panciotto alla ricerca di un bocchino. «Ma stento ancora a capire il significato del telegramma.
Non poteva inviare direttamente la ricevuta a mia moglie?» «Sì, ma in tal caso avrei dovuto rinunciare al piacere della sua compagnia, signor Conway. E non era quello che avevo in mente.» «E cosa aveva in mente? Cosa vuole da me?» Conway aveva uno strano modo di sbattere le ciglia quando fissava qualcuno negli occhi. Harry appoggiò i gomiti sul tavolo cercando di incontrare il suo sguardo. «Voglio sapere come mai mio padre si trovava coinvolto in questa faccenda. Voglio sapere perché sua moglie ha iniziato una relazione con lui. Voglio sapere perché Tam Owen lo ha ucciso.» Harry aveva parlato a bassa voce e per un attimo gli parve che Conway non lo avesse udito. La sua espressione non era cambiata e non aveva battuto ciglio. «Suo padre era uno sciocco», disse con calma, «e anche sfortunato. Il consiglio che posso darle, giovanotto, è di farsi i fatti suoi e di non occuparsi di questa faccenda». «Supponiamo che non voglia seguire il suo consiglio.» Harry si sforzò di mantenere calmo il tono della voce, benché sentisse aumentare la collera dentro di sé. «Non la credo così stupido. Ha visto cos'è accaduto a Linda Wade.» «Non mi spavento facilmente. Non è la prima volta che mi trovo di fronte a casi del genere. Io stesso sono stato aggredito due volte nel giro di pochi giorni.» «Lo credo bene.» Conway fece cadere la cenere della sigaretta. «Ma non è a lei che mi riferisco.» «A chi allora?» chiese Harry. «Si riferisce forse a Judy Black?» Le labbra di Conway si aprirono in un sorriso allusivo. «Non vorrà certo che accada qualcosa di spiacevole alla signorina Black, vero?» «Ha proprio ragione. E non le accadrà niente!» «È troppo sicuro di sé. Forse perché crede che non riusciremo a trovarla?» Il sorriso gli si accentuò. Conway si stava proprio divertendo. «Vuole che le dica dove si trova Judy Black in questo preciso momento?» «Sì, avanti.» Conway prese tempo tirando alcune boccate alla sigaretta prima di giocare la carta vincente. «Si trova in un hotel chiamato Il Monastero, a Steeple Aston, un piccolo villaggio a dieci miglia da Bicester.» L'effetto che produsse non era proprio quello che Conway sperava. I lineamenti di Harry si incresparono in un largo sorriso. Si sporse in avanti e
gli batté sulla spalla leggermente imbottita. «Se fossi in lei non ci scommetterei, signor Conway.» L'anziana signora sulla sponda del laghetto aveva terminato di gettare le briciole di pane. Indirizzò alcune parole di rimprovero alle anatre che avevano innalzato un coro di protesta come lei accennò ad andarsene. Per la prima volta da quando era arrivato Conway parve meno sicuro di se stesso. «Cosa vuol dire, 'non ci scommetterei'?» «Ieri pomeriggio», spiegò Harry vivacemente, «accompagnai Judy a casa di Linda Wade a radunare le sue cose; a un certo punto comparve Marty Smith. Non ho bisogno di dirle che cosa è accaduto al vostro signor Smith». «Vada avanti.» «Dopo averlo messo fuori combattimento tornai nell'appartamento e mi misi a frugare dappertutto. Trovai i microfoni e il registratore. Sapevo che la mia conversazione con Judy riguardo all'albergo di Steeple Aston era stata registrata, così lasciai l'installazione dove si trovava. Credo di avervi proprio buggerato, signor Conway.» «Non me personalmente», disse Conway in tono iroso, girando il capo per non incontrare lo sguardo divertito di Harry. «Avevo detto a Tam Owen, tempo fa, che avrebbe fatto un grosso errore a sottovalutarla...» Si interruppe non appena una voce femminile dal timbro basso e riservato giunse attraverso l'altoparlante. «Il signor Arnold Conway è desiderato urgentemente al telefono. Il signor Arnold Conway, per favore.» «È per me», disse Conway con aria sorpresa, «dove devo andare?» Harry fece un cenno in direzione di una porta a vetri all'estremità della terrazza. «Vada là in fondo, subito dietro la porta c'è una cabina telefonica.» Mentre aspettava, Harry si divertì a guardare un giovanotto che evidentemente non aveva mai messo piede in una barca prima d'allora, ma cercava di emulare il vincitore della coppa Diamond. Conway fu di ritorno dopo pochi minuti. Era come se camminasse sui carboni ardenti e con gli occhi lanciava sguardi pungenti in tutte le direzioni, compresa la strada al di là del ristorante. «Era mia moglie», disse con un atteggiamento di studiata noncuranza. «Voleva sapere se ne avevo ancora per molto.» «Cosa le ha risposto?» «Le ho detto di venirmi a prendere fra poco.» «Sarei lieto se si unisse a noi.»
«Non credo proprio, amico...» «La mattina in cui mio padre venne ucciso», lo interruppe Harry deliberatamente, «era Sybil che doveva incontrare al club, non è vero? La raffinata, elegante Sybil, che mio padre si illudeva fosse innamorata di lui, era soltanto un'esca». Conway non ebbe tempo di rispondere. Reclinò il capo non appena udì il crepitio ormai familiare che precedeva un annuncio attraverso l'altoparlante. «Il signor Harry Dawson è desiderato al telefono. Il signor Harry Dawson, per favore.» «È il suo turno, vecchio mio.» Harry si alzò, indeciso se rispondere alla chiamata. Conway sollevò lo sguardo e sorrise. «Non si preoccupi, ispettore, non scappo.» Harry si affrettò verso la porta a vetri che aveva indicato a Conway. Douglas Croft era l'unico a sapere dove si trovasse. A meno che la signora Conway... Come Harry si avvicinò al banco, la ragazza del bureau lo guardò con aria interrogativa. «Signor Dawson? Può prendere la comunicazione nella cabina di fronte.» Prima di entrare lanciò uno sguardo attraverso la porta a vetri. Conway era ancora seduto al tavolino in atteggiamento rilassato, contornato da una nuvola di fumo. Chiuse la porta dietro di sé e sollevò il ricevitore. Udì soltanto il classico suono di linea libera. Provò ugualmente a parlare. «Pronto, sono Dawson. Pronto... pronto.» Dopo mezzo minuto si arrese, aprì la porta e passò davanti al bureau, attirando l'attenzione della ragazza seduta al banco. «Non c'è nessuno in linea», disse. «È sicura...» Un urlo proveniente dalla terrazza lo interruppe. Seguirono altre urla accompagnate da rumori di vetri in frantumi e di tavolini ribaltati. Harry si lanciò verso la porta che dava sulla terrazza e la spalancò. I tavoli intorno a Conway erano vuoti. Colta dal panico la piccola folla dei presenti era indietreggiata. Conway era piegato in avanti, con la fronte appoggiata sul tavolino, immobile. Harry attraversò di corsa la terrazza. Un tipo calmo, dall'aria professionale, forse un medico, si stava avvicinando con passi affrettati. I due uomini raggiunsero il tavolo contemporaneamente.
«Che cosa è accaduto?» «C'è stato uno sparo», rispose l'altro in modo sbrigativo. «Forse è provenuto da quel punto.» Fece un gesto in direzione di una siepe vicino alla strada. Harry afferrò Conway per i capelli e gli sollevò il capo. Dal foro del proiettile sotto l'occhio destro usciva un fiotto di sangue. Gli riabbassò il capo con delicatezza, quindi lasciò di corsa la terrazza dirigendosi verso il prato da dove poteva scorgere la strada al di là della siepe. Una Jaguar grigia stava schizzando via da un lato della strada con un grande stridio di copertoni sull'asfalto. Senza badare al limite di velocità consentito in quel tratto di strada, scomparve in direzione dell'Albert Memorial. Harry non fece in tempo a leggere il numero di targa. Ritornò sui suoi passi e fece per dirigersi verso il morto. Come raggiunse la terrazza, una donna in pelliccia con gli occhi spalancati dal terrore stava uscendo di corsa dalla porta a vetri. Harry si mosse velocemente per fermare Sybil Conway prima che potesse vedere quella scena impressionante. *** Harry era fermo sul marciapiede in Parliament Square e osservava le lancette del Big Ben che segnavano le otto precise. L'ora di punta della sera era già passata e, sebbene il traffico che turbinava attorno alla piazza fosse ancora intenso, consisteva per la maggior parte di auto private, taxi e pullman a noleggio che trasportavano turisti alla scoperta della vita notturna londinese. Non era stato facile fissare un incontro con l'impegnatissimo sovrintendente capo Yardley. Alla fine Yardley stesso aveva suggerito una soluzione. Poiché doveva recarsi a Camden Town per svolgere delle indagini su un nuovo caso, chiese a Harry di accompagnarlo, cosicché avrebbero potuto parlare durante il tragitto. Erano circa le otto e dieci quando la Ford blu si fermò lungo il marciapiede di fronte a lui. Harry si sentì rabbrividire. Alla guida della Ford si trovava lo stesso Yardley, conosciuto come un guidatore spericolato. Il sovrintendente si allungò sul sedile di fianco per aprire la portiera. Non accennò a scusarsi per il lieve ritardo e Harry si sedette in macchina allacciandosi la cintura di sicurezza.
«È gentile da parte sua dedicarmi un po' del suo tempo, sebbene senza ampio preavviso. Lo apprezzo molto.» La testa di Harry fece un balzo all'indietro non appena Yardley accelerò in prima. «Per quale ragione voleva vedermi?» «Volevo parlare con lei, ma pensavo che se fossi venuto in ufficio avrei avuto la possibilità...» Si interruppe quando la macchina fece una brusca sterzata per immettersi in Whitehall. «Ho scoperto la verità su mio padre, signore.» Il grugnito di Yardley lo incoraggiò a proseguire il discorso. «Oggi pomeriggio, dopo l'assassinio di Arnold Conway, ho riaccompagnato a casa sua moglie. Era letteralmente sconvolta. L'ho lasciata parlare, pensando che sfogarsi un po' le avrebbe fatto bene, e d'altra parte era proprio quello che desiderava. Mi ha raccontato di mio padre e della signora Rogers. Ha spiegato perché...» «Dawson», lo interruppe Yardley, «mi interessa sapere quello che ha detto la signora Conway, ma non crede che sarebbe meglio partire dall'inizio?» «Sì, mi scusi.» Harry accettò il lieve rimprovero e fece un cenno d'assenso. «Sembra che la signora Rogers, prima di essere assunta da mio padre, avesse avuto una carriera piuttosto movimentata, e occupasse contemporaneamente un certo numero di posti. Un giorno scoprì che un tizio per il quale lavorava, che si chiamava Tam Owen, aveva per le mani un giro di ragazze squillo. Pensò bene di raccogliere delle prove sulla sua attività: fotografie, liste di appuntamenti e la copia fotostatica di una lettera molto compromettente scritta da Owen. Quindi la signora Rogers cominciò a ricattarlo. A un certo punto deve essersi accorta del rischio che correva, visto che Tam Owen era un tipo senza scrupoli e avrebbe potuto ucciderla. Gli disse allora che, se mai le fosse accaduto qualcosa, mio padre l'avrebbe sostituita. Per farla breve, gli fece supporre che lei e mio padre lavoravano insieme.» «Il che non era vero.» Il sistema usato da Yardley per evitare la massa di veicoli che giostravano attorno a Trafalgar Square era di fare una manovra che lo portava dritto in direzione di Cockspurs, premere l'acceleratore e fingere che la strada fosse completamente libera. Lo stratagemma funzionò ma i due uomini dovettero subire gli insulti di parecchi automobilisti inviperiti. «Certo che non era vero!» fece Harry dopo essersi ripreso dal brivido
provocatogli dalla spericolata manovra. «Persino Tam Owen aveva dei dubbi. Disse a Sybil Conway di fare amicizia con mio padre, in tal modo avrebbe avuto la possibilità di chiarire la sua posizione. Sybil dichiarò che, a suo avviso, la signora Rogers aveva mentito e inoltre riferì un particolare interessante, e cioè che andava matta per il suo barboncino, Zero.» «Così decisero di rapire il cane e pretesero come riscatto la lettera originale e la copia fotostatica.» L'aria condizionata della macchina emanava un caldo insopportabile. Yardley detestava gli spifferi e soleva tenere i finestrini ermeticamente chiusi. Harry abbassò furtivamente il finestrino di pochi centimetri. «Esatto. Peter Newton, su incarico di Tam Owen naturalmente, telefonò alla signora Rogers per fissarle un appuntamento. Fu allora che la signora Rogers annotò il suo numero di targa su una busta della corrispondenza di mio padre, lasciandola sulla sua scrivania. Si incontrò con Peter che la condusse a casa sua e le mostrò il collare del cane come prova tangibile del rapimento. La signora Rogers non abboccò in quanto, a insaputa di Newton, si trattava di un altro collare. Sarò in grado di spiegare questo particolare solo quando avrò ottenuto qualche informazione al riguardo da Judy Black. Il punto di maggiore rilievo è che la signora Rogers si accorse che stavano bluffando nei suoi confronti, così Tam Owen decise che doveva spaventarla in qualche altro modo.» «Per esempio, facendo fuori suo padre.» Al semaforo di Lower Regent Street era scattato il rosso. Yardley frenò bruscamente senza spegnere il motore e mise il cambio in folle. Per alcuni istanti rimasero assorti a guardare la girandola delle insegne luminose attorno a Piccadilly Circus. «Sì.» Harry proseguì il suo racconto con un tono di voce più sommesso. «Sybil Conway combinò un incontro con mio padre al club per una lezione di golf. Poco prima dell'ora stabilita gli telefonò per comunicargli che avrebbe ritardato e gli disse di aspettarla sul campo vicino alla piazzuola sei. Incontrò invece Marty Smith e Tam Owen. Marty lo colpì con un pugno e Owen prese una grossa pietra dal ruscello e...» Yardley si volse a guardarlo con un'espressione di compassione che Harry non gli aveva mai notato prima. Il semaforo scattò e un taxi dietro di loro prese a suonare con impazienza. «E Newton?» fece Yardley svoltando in Upper Regent Street. «Newton era già sul campo, pronto a raccontare la sua storia precedentemente studiata sulla disgraziata pallina che aveva colpito mio padre alla
nuca.» «Bene», osservò Yardley seccamente. «Questi individui credevano di farla franca con un omicidio e invece si sono spinti troppo oltre. Sembra tutto abbastanza improbabile, ma devo ammettere che si collega con quanto le ha detto Judy Black. Comunque non riesco a capire perché Newton le avesse inviato quel messaggio.» «Non fu Newton a inviarlo.» «Chi allora?» «Judy. Aveva grosso modo intuito quello che stava succedendo. Era convinta che la cosa migliore che Peter potesse fare era di incontrarmi e prendere di petto la situazione. Ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto, a meno che qualcuno o qualcosa lo avesse costretto. Allora ebbe l'idea di inviarmi il collare e il messaggio. La sera stessa raccontò a Peter quello che aveva fatto e gli consegnò la ricevuta della lettera raccomandata. Gli disse anche che il giorno successivo sarebbe stato sicuramente interrogato dalla polizia e che, se gli rimaneva un po' di buon senso, avrebbe fatto meglio a spifferare l'intera storia. Sfortunatamente litigarono. Peter tornò a casa e telefonò a Tam Owen. Non è necessario che le racconti in che modo Tam Owen risolse la situazione.» «Infatti. Dio mio, questo caso assume, giorno per giorno, un aspetto sempre più contorto.» Per alcuni istanti Yardley rimase assorto a seguire con lo sguardo i segnali che regolavano il traffico attorno a Oxford Circus e verso Portland Place. «Non sta deviando dal suo percorso?» chiese Harry. «La lascio a Regent's Park. Là c'è la linea diretta per St. John's Wood. Vuole andare a casa, vero?» «Sì, grazie, va benissimo.» «Le ha spiegato la faccenda della poltrona a rotelle e dell'assegno intestato a Basil Higgs?» «Be', i Conway erano persone un po' particolari. Entrarono a far parte del giro di Tam Owen principalmente per divertimento. Conway era il tipo d'uomo che si caricava osservando gli altri fare la figura degli stupidi. Infatti deve essersi divertito un mondo a convincere un ufficiale di polizia a emettere un assegno a favore di un conto alimentato dai proventi dei loro ricatti.» «E la poltrona a rotelle?» «Le ho raccontato la storia del marito invalido inventata da Sybil Con-
way per turlupinare mio padre? Infatti, quando andai a ritirare Zero, dovettero recitare la parte fino in fondo. Ripensandoci devono essersi fatti delle grasse risate. Se non altro la messa in scena servì a farle sorgere dei dubbi sulla mia versione. Non è così, signore?» Yardley tossì e non fece alcun commento. Erano già in prossimità della stazione metropolitana di Regent's Park quando riprese l'argomento. «E il collare, cosa rappresentava?» «Secondo me il collare era un segno simbolico della diffidenza di questa gente. La signora Rogers era il tipo di persona in continua ricerca di qualcosa da utilizzare per mettere la gente sotto pressione. Sottrasse a mio padre la ricevuta e la nascose nel collare di Zero.» «Ma il cane era senza collare quando andò a riprenderlo dai Conway.» «Sì, lo so. Penso addirittura che non l'avesse addosso quando fu rapito, oppure qualcuno può averlo scambiato con un altro.» «E naturalmente quella collana di perle doveva essere così preziosa da indurre la signora Conway a riaverla a tutti i costi.» «Sì, valeva una grossa cifra. Ecco perché il ladro che si introdusse nell'appartamento dei Conway cercava proprio quella. Allora la signora ebbe la brillante idea di tentare di farsi risarcire dalla compagnia di assicurazioni.» «Tutto questo è molto interessante, Dawson, ma non ha ancora trovato una risposta alla domanda più importante di tutte.» «Cioè?» Yardley fermò la macchina di fianco al marciapiede e fissò pensieroso la strada attraverso il tergicristallo. «Chi è Tam Owen?» *** L'autista della polizia, che condusse Judy nell'appartamento di Harry Dawson la mattina seguente, era stato avvertito che se fosse accaduto qualcosa alla ragazza durante il tragitto la sua carriera nella polizia si sarebbe conclusa bruscamente. Così, quando giunsero in Finchley Road, la tenne per un braccio mentre chiudeva la portiera e le rimase alle costole durante il breve tratto di marciapiede e lungo la rampa di scale che conduceva all'ingresso privato. La ragazza suonò il campanello e gli rivolse un sorriso. «Sono al sicuro, adesso, veramente al sicuro!»
L'agente era un giovane simpatico sui venticinque anni. Scosse il capo sorridendo apertamente. «Gli ordini erano di consegnarla personalmente al signor Dawson, signorina.» Il suo cuore batté più velocemente nel vedere il volto della ragazza irradiato dal sorriso. Ma non era per lui. La porta si era aperta e Harry Dawson era comparso sulla soglia. Portava una giacca sportiva a quadri e un paio di pantaloni marrone. «Salve, Judy, entri pure.» «Buon giorno, signore», disse il poliziotto, facendogli notare che esisteva anche lui. «Buon giorno, Fuller. La può lasciare sotto la mia protezione. Molte grazie.» «È stato un piacere.» Fuller sorrise e si rivolse a Judy. «Sempre a sua disposizione, signorina. Basta che chieda all'ispettore di farci un fischio. Possiamo essere molto utili nelle ore di punta.» Si congedò da Harry e si allontanò giù per le scale. Che bocconcino! pensava. Un corpo da mozzare il fiato e le più belle gambe di Londra. Questi detective hanno una fortuna sfacciata. Harry fece accomodare Judy in salotto. Era un mattino luminoso e i raggi del sole filtravano attraverso le finestre. Judy aveva ridato ai suoi capelli il colore naturale e ora splendevano sotto la luce del sole. Si era tolta la fascia e il dolore alla spalla sembrava completamente scomparso. Harry la guardò e pensò che era semplicemente meravigliosa. «Ha fatto colazione?» «Sì, avevo appena finito quando è arrivato l'autista.» «È rimasta sorpresa quando le ho telefonato?» «Be', sì.» Harry la condusse in un angolo del salotto, dove aveva sistemato delle comode poltrone. «Si segga, Judy. Posso offrirle una tazza di caffè?» «No, grazie, non ora.» Judy si sedette sul divano e con l'agilità di un gatto ripiegò le gambe sotto di sé. Harry si accomodò all'altra estremità. «Judy, questa mattina mi son fatto una lunga chiacchierata con il sovrintendente Yardley. Le chiediamo di aiutarci.» «Farò quello che posso, gliel'ho già detto.» «Sì, lo so, ma... voglio che lei sia convinta di quello che fa e di quello
che rischia.» Judy aprì un nuovo pacchetto di Piccadilly con filtro. «Cosa vuole che faccia?» «Prima di tutto voglio che parli con Linda Wade.» «Ma non so dove trovarla. Non la vedo da...» «Sappiamo dove si trova. Il nostro instancabile sergente Quilter l'ha scovata a St. Albans.» «St. Albans? Che cosa ci fa lì?» «È in una clinica privata in Maylee Park, specializzata in chirurgia plastica. È diretta da un giovane chirurgo di nome Douglas. Walter Douglas.» «Douglas? Dove ho già sentito questo nome?» disse Judy aggrottando le sopracciglia. «Il braccio destro di mio padre si chiama Douglas. Douglas Croft. Proprio una coincidenza. Domani il viso di Linda verrà sottoposto a un'operazione di trapianto. Sembra che il chirurgo asporti un lembo di tessuto da una regione del corpo di Linda per ricostruire quella danneggiata.» Judy sorrise. «Posso immaginare da quale parte del suo corpo sarà asportato, ma scommetto che non le farà piacere avere una cicatrice anche lì.» «Penso che dovrebbe andare a trovarla prima dell'operazione», disse Harry. «D'accordo, ma conoscendo Linda penso che sarà troppo spaventata per parlare. Non dirà nulla di nuovo. È troppo tardi.» «Capisco.» «Allora perché vuole che io la veda? Qual è il punto?» Harry aspettò che si accendesse una sigaretta, poi disse: «Vogliamo soltanto che lei trasmetta un messaggio. È lei che deve parlare, Judy, e non Linda Wade». *** «Francamente non ti capisco, Judy. Non so dove vuoi arrivare.» «Non preoccuparti, Linda. Ti chiedo semplicemente di trasmettere un messaggio per me.» «Come posso inviare un messaggio a una persona che nemmeno conosco?» Judy si rivolse all'amica con uno scatto d'ira. «Oh, per amor di Dio, non trattarmi come una bambina! Conosci Tam Owen. Hai avuto a che fare con
lui. Gli hai parlato per telefono non una ma centinaia di volte.» Il medico che aveva in cura Linda aveva insistito affinché la ragazza si mettesse a letto subito dopo il suo arrivo in ospedale. Le sue spalle, avvolte in bende, erano appoggiate su una pila di soffici guanciali. Un lato del suo viso era interamente ricoperto da una larga medicazione, fermata da una benda che le girava tutt'intorno al capo. Si poteva vedere soltanto l'occhio, circondato da una tumefazione viola scuro. In un cesto sopra una sedia a portata di mano il gatto siamese, Chow, sonnecchiava tranquillo. «Judy, perché credi che io sia qui?» disse Linda a bassa voce. «Perché credi che stia per subire questo maledetto intervento? Tam Owen mi ha conciato così perché credeva...» «Linda», tagliò corto Judy in tono esasperato, «tutto quello che ti chiedo di fare è di trasmettere un messaggio. Se conoscessi Owen, se sapessi come mettermi in contatto con lui, lo farei io stessa». Linda si mosse cautamente sui guanciali ed ebbe una smorfia di dolore. «Che... che cos'è questo messaggio?» Judy si sedette sul bordo del letto. «Digli che sono venuta a trovarti. Digli che sono tornata a casa tua e che voglio parlare con lui, Chiedigli di venirmi a trovare là domani mattina.» Mentre Judy parlava Linda scuoteva il capo. «Non verrà di persona, manderà Marty Smith, e sai benissimo di che cosa è capace quel bastardo...» «Non può mandare Marty. La polizia l'ha già messo nel sacco. Lo hanno incriminato per omicidio.» Un lato del volto di Linda si increspò in un ghigno di soddisfazione e gli occhi le brillarono di piacere. «Quando è successo?» «Linda, non ho molto tempo. Devo ritornare in città per l'ora di pranzo. Sei disposta ad aiutarmi o no?» «Supponiamo di sì», disse Linda lentamente. «Supponiamo che telefoni a Owen e lui mi chieda per quale motivo vuoi vederlo. Cosa devo rispondere?» «Digli che voglio prendere il posto di Peter. Stesso appartamento, stesse condizioni, stesso giro.» «Intendi dire che vuoi lavorare per Owen?» Il tono di Linda era così scandalizzato che il gatto si svegliò e guardò la sua padrona con aria interrogativa. «Dici sul serio?» «Dico sul serio», le assicurò Judy. «Sono stanca di starmene con le mani
in mano. So quanti soldi metteva in tasca Peter e so come lavorava. Non vedo perché non dovrei prendere io quel lavoro e farlo rendere come lui.» «Ma se solo l'altro giorno non sapevi nulla di Peter. Eri convinta che dirigesse una agenzia immobiliare.» «Senti, Linda», Judy guardò l'orologio e si alzò, «devi darmi una risposta. Vuoi telefonare a Tam Owen per me? Non hai niente da perdere. Vedrai che te ne sarà molto grato». «Va bene», ammise Linda dopo un momento. «Gli telefonerò, ma credo che tu stia per commettere un grosso errore. Se segui il mio consiglio...» Judy la guardò con un'espressione che l'altra non aveva mai notato prima sul suo viso. «Non voglio il tuo consiglio, Linda. Voglio soltanto che tu faccia quello che ti ho chiesto.» «Gli telefonerò stasera, ma sono certa che non abboccherà.» «Vedrai che lo farà.» «Tu non conosci Tam Owen.» «No, e lui non conosce me.» Judy schiacciò nervosamente la sigaretta nel portacenere. La sua voce era fredda come il ghiaccio. «Digli che ero un'amica di Arnold Conway. Un'intima amica.» Si alzò guardando dritto negli occhi di Linda. «Digli che eravamo soliti intrattenerci in conversazioni molto confidenziali.» *** Judy non si era mai sentita così sola in vita sua. Era arrivata a Defoe Mansions con un'ora di anticipo; Harry l'aveva accompagnata solo per un breve tratto di strada. Aveva il sospetto che Tam Owen o qualcuno dei suoi uomini fosse in agguato nei pressi dell'edificio. Il fatto di poter guardare dalla finestra e vedere la strada animata dal traffico e i passanti che si affrettavano lungo il marciapiede come se fosse stato un giorno qualsiasi della settimana le dava poco conforto. Poteva udire dei suoni giungere dagli appartamenti accanto: l'abbaiare di un cane, il pianto di un bambino, il rumore metallico del coperchio di una pattumiera. Non riusciva a trovare pace. Ogni volta che si avvicinava all'anticamera veniva assalita dal pensiero terrificante dell'aggressione a Linda. Che diritto aveva Harry Dawson di coinvolgerla in una faccenda così rischiosa? Desiderava ardentemente averlo vicino o almeno sapere dove poterlo raggiungere se si fosse trovata in pericolo.
Erano passate da poco le dieci e mezzo quando il telefono suonò, facendola sobbalzare. Alzò il ricevitore ma non ebbe alcuna risposta. Sentì che dall'altra parte del filo avevano appeso. Era forse Tam Owen? Voleva controllare se lei fosse già arrivata? Per la decima volta si avvicinò alla finestra, fissando la strada senza scostare le tende. Un uomo con un impermeabile chiaro andava su e giù lungo il marciapiede opposto. Non guardò mai in direzione di Defoe Mansions. Pareva intento a osservare gli articoli esposti nelle vetrine. Se Judy non si fosse imbattuta in Nat Fletcher, quando questi era in servizio, non avrebbe certamente pensato che potesse essere un ufficiale di polizia. Di Harry, nemmeno l'ombra. Con la speranza di far passare il tempo più velocemente, entrò in cucina per prepararsi una tazza di caffè. I portacenere, sparsi in tutto l'appartamento, erano già colmi di mozziconi. Aveva la tazzina alle labbra quando sentì suonare il campanello. La posò sul tavolino e notò che la mano aveva cominciato a tremarle. L'orologio a muro della cucina segnava le undici meno dieci. Aveva forse deciso di arrivare prima dell'ora fissata? Nat e Harry si erano accorti che era giunto con dieci minuti di anticipo? Esitò un momento, domandandosi se non era meglio ignorare qualsiasi chiamata precedente all'ora stabilita. Il campanello suonò ancora. Doveva sapere. Con il cuore che le batteva velocemente si avvicinò alla porta d'ingresso, si fermò un momento con la mano sul pomo della serratura, quindi la fece scattare. L'uomo fermo sulla soglia le era completamente sconosciuto, ma c'era qualcosa di rassicurante nei suoi modi timidi e cerimoniosi. Sembrava sorpreso quanto lei. «Oh», esclamò. Quindi, da vero gentiluomo, si tolse il cappello. «Buon giorno.» «Buon giorno.» «Posso parlare con la signorina Wade, per favore?» Judy lo studiò con curiosità. Costui poteva essere... No, doveva per forza essere uno degli «amici distinti» di Linda. Aveva una speciale predilezione per gli uomini di mezza età, un po' timidi e riservati. «Al momento non è in casa.» «Oh, che peccato!» Fece cenno di allontanarsi. Sebbene tutto fosse possibile, era abbastanza improbabile che avesse
scelto quell'ora del mattino per avvalersi dei favori di Linda. «Posso fare qualcosa per lei? Sono un'amica della signorina Wade.» «Be'... mi chiamo Heaton. Sidney Heaton.» La guardò con aria speranzosa. «Ho un negozio di animali a St. John's Wood, e Linda... ehm, la signorina Wade...» «Ah, sì, certo. Linda mi ha parlato di lei. Entri pure, signor Heaton.» «La ringrazio.» Il contatto con un altro essere umano, in particolare con una creatura inoffensiva come Sidney Heaton, era piuttosto rassicurante. Cionondimeno il tempo stava per scadere e non poteva permettersi di intrattenersi con lui troppo a lungo. Si fermò in anticamera lasciando la porta leggermente socchiusa. «Linda è via», spiegò. «Deve essere operata. Penso che non sarà di ritorno prima della fine della settimana.» «Oh, non lo sapevo. Credevo... Be', non è importante.» Rimase fermo, visibilmente imbarazzato, tenendo il cappello con entrambe le mani e lanciando frequenti occhiate in direzione del salotto, come se sperasse che Linda, da un momento all'altro, potesse materializzarsi. «È sicuro che non posso fare qualcosa per lei?» «No, è molto gentile...» Judy pensò che il suo modo di parlare lasciando le frasi incompiute fosse sintomatico di una certa mancanza di sicurezza. «Be'... il fatto è che la signorina Wade aveva intenzione di acquistare un altro gatto siamese e ho visto... Ne ha già uno, lo sa?» «Sì, lo so. Si chiama Chow.» Judy aveva sentito il rumore dell'ascensore che cominciava a salire. Attraverso la porta socchiusa aveva visto il numero uno illuminarsi sull'indicatore dei piani. «Esatto», proseguì Heaton. «Una creatura deliziosa. Ieri un mio cliente me ne ha portato un altro, proprio uguale a Chow, una cara bestiola. Di razza purissima. Sono sicuro che sarebbe disposto a venderlo a un prezzo vantaggioso...» «Perché non telefona a Linda e vi mettete d'accordo? In ogni modo sono certa che le farebbe piacere sentirla.» Dall'indicatore Judy capì che l'ascensore era fermo al secondo piano. «Si trova nella clinica privata Maylee Park in St. Albans.» «Può darmi il numero di telefono?» Heaton accennò a estrarre di tasca un'agendina telefonica. «Temo di no.» Judy si mosse per ricondurlo alla porta. «Ma lo troverà
senz'altro sulla guida.» «È una buona idea, grazie.» Esitò un attimo, volgendo un ultimo sguardo verso il salotto, quindi aprì la porta. «È stata molto gentile. Arrivederla, signorina...?» Gli strinse la mano, ma non raccolse l'intonazione interrogativa di Heaton. Chiuse la porta e vi appoggiò la schiena. Cinque minuti alle undici. Respirò profondamente e si mosse verso il soggiorno. Non aveva ancora superato la soglia che il campanello suonò nuovamente. Si fermò sui suoi passi. Qualcuno aveva avuto giusto il tempo di uscire al secondo piano e farsi con calma la rampa di scale che conduceva al piano superiore. Aprire la porta per la seconda volta le costò uno sforzo maggiore. Quando lo fece, la tensione nervosa che aveva accumulato si era ormai scaricata. «Mi spiace disturbarla ancora, ma... ha detto che la clinica si chiama Merton?» Teneva in mano una penna e una piccola agenda. Era chiaro che aveva deciso di trascrivere l'indirizzo prima di prendere l'ascensore. «No, Maylee», precisò Judy. «Sì, naturalmente.» Heaton sorrise scusandosi. «Che stupido! Come ho potuto pensare che fosse Merton?» Judy ripeté l'indirizzo scandendo le parole. «Adesso ci siamo. Temo di non essere molto lucido, stamattina.» Stava forse recitando? O piuttosto stava facendo una specie di esame preliminare prima di mettere le carte in tavola? «Se vuole entrare glielo posso trascrivere io.» «Non importa, grazie», disse Heaton dopo un attimo di esitazione. «Credo che me lo ricorderò.» Si toccò il cappello. «Grazie ancora, mi è stata di grande aiuto.» Mentre Judy chiudeva la porta, una forte corrente d'aria la fece sbattere più velocemente di quanto fosse nelle sue intenzioni. Ancora perplessa, si mosse verso il salotto. Vide immediatamente che la porta della camera da letto era spalancata. Era certa di averla chiusa prima di lasciare la stanza. D'un tratto ebbe la netta sensazione che qualcuno dietro di lei la stesse osservando. Si girò di scatto. Nat Fletcher era seduto su uno sgabello di fronte al mobile bar. Le fece
un cenno rassicurante. «Come ha fatto a entrare?» chiese Judy ancora tremante per lo spavento. «Dalla scala antincendio, che lei conosce bene.» Fece un cenno in direzione della camera da letto. «Sembra piuttosto spaventata.» «Lo sono», ammise Judy. «Ho una fifa indiavolata.» «Non si preoccupi, andrà tutto bene. Teniamo l'appartamento sotto controllo.» La ragazza si guardò in giro alla ricerca della sigaretta che stava fumando quando era comparso Heaton. Non trovandola, ne prese un'altra dal pacchetto che si stava svuotando rapidamente. Nat osservò le sue mani mentre faceva scattare l'accendino e notò che tremavano visibilmente. Come tirò le prime boccate alla sigaretta, si udirono i rintocchi di un orologio a pendolo che suonava le undici. «Quel tizio che è appena venuto ha detto di chiamarsi Sidney Heaton. Pensa che...» «Non si preoccupi.» Nat tamburellava con le dita su una piccola radio trasmittente che portava nel taschino della giacca. «Gli stiamo alle costole da quando è entrato nella zona...» Fu interrotto dall'improvviso squillo del telefono. Judy si girò a fissarlo. «Ci siamo.» Nat scivolò giù dallo sgabello. «Adesso, per favore, stia calma e cerchi di cavarsela bene.» Si mosse lentamente verso il telefono, con gli occhi sempre fissi all'apparecchio. Nat rimase in un punto della stanza da dove poteva controllare sia l'ingresso che la camera da letto. Judy fece un notevole sforzo per raccogliere tutto il suo coraggio e sollevò il ricevitore. «Pronto... sì, signor Owen. Sono Judy Black. Perché non sale?» Nat stava annuendo con approvazione. Il tono della sua voce era perfetto. Adesso che la commedia era iniziata, il nervosismo di lei era scomparso. «Perché dovrei tenderle una trappola? Sono i soldi che mi interessano. In cambio di prove, naturalmente. Prove che la possono mandare dritto in prigione, e per parecchio tempo, signor Owen.» Mentre parlava, sentì una corrente d'aria alle spalle. Si volse e vide Harry che usciva in punta di piedi dalla camera da letto. «Non dimentichi che conoscevo anche Arnold Conway. E molto meglio di quanto possa immaginare. Si ricorda di quando gli ha ordinato di far sparire il cane? Bene, nel collare di questo cane c'era nascosta un'informa-
zione molto compromettente. Ecco perché Arnold rifilò a Peter un altro collare, quello che mostrò alla signora Rogers. Ma lei è al corrente di tutto, ora, non è vero?» Lanciò a Harry uno sguardo d'intesa, facendogli capire che non ne avrebbe avuto per molto. Harry alzò la mano destra unendo l'indice e il pollice in segno di approvazione. «Sa benissimo perché Arnold Conway decise di rilevare l'impresa ricattatoria della signora Rogers, vero? Stava cercando di spillarle cinquantamila sterline...» Harry poteva udire la voce dell'uomo gracchiare nel ricevitore, ma non era in grado di capire quello che diceva. Si avvicinò al telefono. «D'accordo», proseguì Judy con quel tono di voce duro che sapeva usare con molta efficacia. «Ma Arnold non era così imprudente... No, vede, sapeva che prima o poi lei avrebbe cercato di intrappolarlo. Così, a titolo precauzionale, mi aveva chiesto di conservare quelle prove.» Mentre aspettava la risposta i suoi lineamenti apparivano molto tesi. «Quanto?» Sbottò in una secca risata. «Non voglio essere avida come Arnold. Diciamo ventimila in contanti. Va bene? Sì, ventimila.» Ci fu un attimo di silenzio, quindi Harry udì che l'uomo, dall'altro capo del filo, faceva una controfferta. Judy si volse con aria allarmata. «Come posso essere sicura di potermi fidare di lei?» Harry le fece segno di coprire il ricevitore e le bisbigliò tutto d'un fiato: «Dica che gli farà avere una parte delle prove per mille sterline, il resto dopo». Judy annuì. Era notevolmente impallidita. «No, signor Owen, è troppo rischioso. Io le farò avere una parte delle informazioni e lei mi dovrà consegnare mille sterline, tanto per essere pari. Parleremo del resto quando ci incontreremo. Va bene?» Ascoltava attentamente scuotendo la cenere della sigaretta sul portacenere. «Sì... sì. Ce l'ho, Cannon Street... Arrivederci.» Depose il ricevitore e si appoggiò contro il tavolo. I due poliziotti le diedero il tempo di riprendersi. «Allora?» Nat ruppe il silenzio. «Devo prendere la metropolitana fino a Charing Cross. Ha detto che deve prelevare il denaro da una banca lì vicino.» «E lei cosa deve fare?» «Devo fermarmi di fronte all'entrata dell'Embankment e aspettare che qualcuno si avvicini.»
*** Era un'ora morta del mattino e la stazione metropolitana di St. John's Wood non era affollata. Judy aveva comprato il biglietto del metro molte altre volte, ma quel mattino era terribilmente agitata. I soldi le continuavano a cadere di mano e per di più si era allontanata senza ritirare il resto. Ora era nuovamente sola, sebbene avesse la certezza che Nat, Harry e una mezza dozzina di agenti in borghese non fossero molto lontani da lei. Non osava guardarsi intorno per vedere se qualcuno la seguisse. Harry le aveva assicurato la sua protezione per tutto il tragitto da Defoe Mansions a Charing Cross. Era essenziale che lei, nel recarsi all'appuntamento, si comportasse come se fosse sola. Ora i treni, dopo aver trasportato migliaia di passeggeri al loro posto di lavoro, passavano a intervalli meno frequenti. Una piccola folla si era sparpagliata sulla piattaforma, in attesa del treno. Le procurava un senso di sollievo sentirsi circondata da tante brave persone, rispettose della legge. Un istinto di autoconservazione la guidò verso il punto più affollato. Si mise a fissare un cartellone pubblicitario sulla parete ricurva di fronte a lei. Raffigurava due ragazze che si raccontavano meraviglie del lavoro appena trovato. In quel momento ebbe la sensazione di essere osservata e non poté resistere alla tentazione di guardarsi intorno. Dietro di lei un giovanotto la stava contemplando con un'espressione piena di ammirazione. Si girò di scatto cercando di non dare a vedere il piacere che provava sentendosi ammirata. A giudicare dal sorriso non poteva essere né un detective, né uno scagnozzo di Tam Owen. Sembrava decisamente il tipo d'uomo che, in caso di necessità, sarebbe venuto in suo soccorso. Dal fondo della galleria giunse il rumore di un treno in arrivo. Una folata di vento si riversò sulla piattaforma e Judy sollevò la mano per rimettere a posto un ciuffo di capelli che le era caduto sulla fronte. La motrice del treno apparve nella zona illuminata della stazione, quindi cominciò a rallentare. Judy scrutò i passeggeri in attesa sulla piattaforma senza riuscire a scorgere né Harry né Nat. La folla dei viaggiatori si aprì a ventaglio, preparandosi nel punto in cui si sarebbero aperte le porte dei vagoni. Il treno era mezzo vuoto, non era quindi necessario affrettarsi per occupare un posto a sedere. Judy entrò da una delle porte in coda e sedette vicino all'entrata. Con sollievo notò che Nat Fletcher era salito all'altra estre-
mità del vagone. Aveva aperto il giornale senza guardare nella sua direzione. Una rapida occhiata alle facce dei viaggiatori presenti nel vagone la rassicurò. Nessuno di loro poteva essere Tam Owen. Il giovanotto aveva abilmente preso posto di fronte a lei per poterle ammirare le gambe. Si udì il rumore dei passi affrettati dei soliti ritardatari. Un uomo piuttosto alto, vestito di grigio, con l'ombrello accuratamente arrotolato e la bombetta entrò per ultimo nello scompartimento. Si fermò di fronte a Judy. Questa sollevò lo sguardo e vide che le sorrideva, facendo un cenno in direzione del posto libero accanto a lei. «Posso, signorina Black?» Judy annuì mordendosi le labbra. Era arrivato il momento in cui doveva assolutamente mantenere la calma. Dopo tutto il presentimento di Harry si era rivelato giusto. L'uomo le si sedette accanto. Le porte erano ancora aperte e il motore produceva il suo caratteristico ticchettio. Il conducente stava aspettando che il segnalatore gli desse via libera. Era sorprendente come un treno abbastanza affollato potesse essere così silenzioso mentre sostava nella stazione. Nessuno schiamazzo, nemmeno il brusio di una conversazione, solo quel regolare ticchettio simile a un mostruoso orologio. Judy parlò a bassa voce. «Credevo di aver capito di dover aspettare fuori...» «Ho cambiato idea», disse affabilmente, battendo una mano sulla valigetta. «Tutto bene. Ho qui il denaro. Ma non credo che mi servirà.» «Perché no, signor Owen?» «Rogers, prego.» Hubert assunse un'espressione compunta. «In queste occasioni preferisco essere chiamato col mio vero nome, Hubert Rogers.» Il motore del treno produsse il classico ronzio che preannunciava l'immediata partenza. «Perché pensa di non servirsene?» Judy si accorse che la voce le tremava, ma cercò di convincersi che non aveva nulla da temere. Hubert le rivolse un sorriso amichevole. «Perché penso che stia bluffando con me, signorina Black. Ecco perché.» Judy aprì la bocca per parlare, ma si trattenne non appena vide che l'espressione di Hubert era completamente cambiata. Anche quando parlò il suo tono di voce era diverso. «Crede forse che io non sia preparato a una situazione del genere?» disse con calma. «Crede che sia la prima volta?» «Quale... situazione?» Era come ipnotizzata dalla sua voce, non riusciva
nemmeno a gettare uno sguardo in direzione di Nat. «Una certa ragazza scopre qualcosa, qualcosa che mi riguarda personalmente.» Le stava parlando in fretta, sfiorandole quasi l'orecchio. «Si sente importante e quello che sa le dà un'eccessiva sensazione di potere. Decide di rischiare...» «Attenzione alle porte!» Hubert si interruppe non appena il ritornello familiare echeggiò nella stazione. L'avvertimento non era necessario in quanto la piattaforma era vuota. I pochi passeggeri del vagone erano seduti e quelli che erano discesi alla stazione di St. John's Wood erano già scomparsi sulle scale mobili. Judy arrischiò un'occhiata in direzione di Nat Fletcher. Improvvisamente una mano afferrò il suo polso. Hubert si era alzato di scatto e si era mosso velocemente verso la porta scorrevole mettendo un piede fra i due battenti per evitarne la chiusura. «Venga, Judy», disse vivacemente. «Da questa parte.» Spinse fuori la ragazza e, come tolse il piede per seguirla, il treno cominciò a muoversi. Accelerò rapidamente e, quando l'ultimo vagone passò davanti a loro, stava già procedendo a gran velocità. Judy ebbe appena il tempo di vedere Nat Fletcher che cercava invano di tirare la maniglia di comando della porta automatica. Era rimasto intrappolato dentro il vagone. Il treno lo portò lontano nel buio della galleria. «È un suo amico, vero?» chiese Hubert con freddezza. «Mi domando quanti altri ce ne fossero là dentro.» Le strinse fortemente il polso torcendoglielo dietro la schiena, in mezzo alle scapole. Un dolore lancinante la fece urlare. Hubert aveva volutamente afferrato il braccio slogato. Mentre la conduceva verso l'uscita, il marciapiede si era ormai svuotato e mezzo treno era già scomparso nella galleria. Harry era rimasto ad attendere all'altra estremità della piattaforma dove si era fermata l'ultima carrozza. Quando aveva visto Nat entrare nello stesso scompartimento di Judy, aveva parlato con l'addetto alle porte e si era intrufolato nella piccola cabina di controllo situata in coda. Ciononostante, la manovra di Hubert l'aveva colto di sorpresa. Quando le porte automatiche si erano richiuse, era convinto che, come Nat, anche Hubert Rogers fosse rimasto bloccato nello stesso scompartimento. Come il treno prese velocità, notò con orrore la coppia ferma sulla piattaforma, il braccio della ragazza immobilizzato dalla stretta dell'uomo. Spinse il ferroviere da un lato e con un balzo si buttò giù dal treno.
«Si fermi! Vuole suicidarsi?» Il treno doveva procedere a venti, trenta miglia all'ora. D'altra parte non aveva scelta. Ruzzolò sul marciapiede e la velocità dell'atterraggio attutì l'impatto. Scivolò lungo la piattaforma andando a sbattere contro il muro. Si ritrovò ammaccato e mezzo stordito. Quando si riprese, Hubert e Judy erano già scomparsi. Si alzò a fatica e cominciò a correre lungo il marciapiede. In quell'arco di tempo potevano aver raggiunto solo una delle uscite. Girò l'angolo e vide che la scala di fronte a lui era vuota. Salì i gradini a tre alla volta, svoltò l'angolo successivo e vide che si trovavano in cima alla rampa di scale. Hubert udì i passi affrettati dietro di lui e si girò di scatto. Quando vide Harry, infilò la mano libera sotto la giacca, estrasse una rivoltella e puntò la canna contro il petto di Judy. La minaccia del suo gesto era inequivocabile. «Stai indietro, Dawson, molto indietro. Se fai un passo, sparo.» Sempre con lo sguardo fisso su Harry cominciò ad allontanarsi. Dalla smorfia di Judy capì che doveva aver intensificato la stretta. Paradossalmente fu proprio questo suo gesto di crudeltà a provocare la sua fine. La vista di Judy che si dibatteva disperatamente indusse Harry a tentare il tutto per tutto. Come Hubert si girò per vedere se oltre l'angolo la strada fosse sgombra, Judy gli sferrò un calcio sul collo del piede col tacco appuntito. Con un movimento istintivo di difesa, Rogers sollevò il calcio del revolver per colpirla in viso. Harry approfittò dell'occasione favorevole per lanciarsi su di lui. Hubert allentò la presa attorno al braccio di Judy, ma quando i due uomini caddero uno sopra l'altro, stringeva ancora la pistola in pugno. Harry gli stava sotto e nel cadere aveva sbattuto la testa contro un gradino. Hubert stava cercando di dirigere la canna su Harry, quando Judy si gettò con furia sulla pistola afferrandola con entrambe le mani per deviare il colpo. Poi abbassò il capo e affondò i denti nella mano di Hubert, mordendogliela fino all'osso. Hubert lanciò un urlo e lasciò cadere la pistola. Judy fu pronta a raccoglierla e rimase ferma alle sue spalle. Hubert la fissò attentamente e dall'espressione del suo viso capì che in quel momento sarebbe stata capace di premere il grilletto. Si avvicinò la mano alla bocca e si succhiò la ferita. «No», disse, «non sparare». Sapeva cosa stava pensando Judy. Non al male che le aveva fatto, ma al
viso rovinato di Linda Wade, allo spietato omicidio di Peter Newton, alle inutili esecuzioni di Tom Dawson e Arnold Conway. «Per amor del cielo, Dawson», disse appena Harry si alzò, «le tolga quella pistola di mano». Harry si mosse verso Judy e le si mise di fianco. «Dia a me la pistola, Judy. Non si preoccupi, se solo si alza lo uccido.» *** Venti minuti più tardi Judy e Harry si trovavano sul marciapiede davanti all'ingresso della stazione di St. John's Wood. In silenzio, guardavano Hubert Rogers, ora con le manette ai polsi, che veniva spinto tra la folla e fatto entrare nella macchina della polizia. Questa si allontanò dal marciapiede e la luce blu scomparve fra il denso traffico di mezzogiorno. Un recente acquazzone aveva bagnato le strade, ma ora il sole era tornato a splendere. Tutto appariva chiaro e luminoso. Harry si volse verso Judy, che aveva il braccio contuso piegato sotto il soprabito. «Grazie, Judy, senza il suo aiuto non avremmo...» si interruppe. Gli era difficile trovare le parole giuste. «Cosa ha intenzione di fare, ora?» «Avrei bisogno di un caffè forte», disse Judy. «Preferibilmente corretto con dell'whisky.» «Non è una cattiva idea, ma voglio dire... dopo?» «Non lo so, mi hanno offerto un lavoro a Manchester ma non ho ancora deciso se accettare o no. Pensavo di andare via per una settimana o due. Credo di aver bisogno di una vacanza.» «È un'ottima idea. Perché non va al Monastero, a Steeple Aston? È un albergo molto simpatico e tranquillo e, come le ho già detto, il direttore e la moglie sono miei amici.» «Sì, forse.» Gli rivolse un sorriso enigmatico. «Steeple Aston. Vuol dire che devo prendere il treno alla stazione di Paddington?» «No», rispose Harry fingendosi serio. «Certamente non a Paddington.» «Euston, allora?» «No.» «King's Cross?» Harry scosse il capo e risero entrambi. La prese per un braccio, quello sano, e la condusse verso un bar, un centinaio di metri più avanti. «Non devi prendere nessun treno. Andiamo a berci un caffè e ti dirò
quali sono i miei piani per il futuro.» FINE