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ALBERTO PINCHERLE
LA FORMAZIONE TEOLOGICA
DI
SANT'AGO STI NO
EDIZIONI ITALIANE ROMA
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Proprietà 1 (
« V A I R O N E » per l'arie tipografica -ROMA
AVVERTENZA
II presente lavoro non è se non il rifacimento — che, per
quanto mi riguarda, verrei sperare definitivo — di una disorganica
serie di articoli pubblicati tra il 1930 e il 1934 nella rivista Ricerche
Religiose (dal 1934 Rcligio) diretta da Ernesto Buonaiuti. Quegli
articoli erano a loro volta il risultato dello smembramento di un
lavoro più vasto, concepito in origine come complemento e chiari-
mento di un volume di sintesi ; ma i più di essi vennero riscritti
via via, perchè, come suole accadere, nel proseguire lo studio mi
venne fatto di approfondire meglio alcuni punti, tener conto di
pareri altrui e, insomma, ripensarci su. Perciò non mancano in
essi le ripetizioni e, se non vere e proprie contraddizioni, differenze
di vedute. Siccome poi sullo stesso problema continuai a riflettere
anche dopo il 1934, mi ero dato, nell'estate del 1938, a preparare
una stesura finale di questo saggio, in vista di una sua pubblica-
zione integrale negli Annali della Facoltà di Lettere e di Filosofìa
- della R. Università di Cagliari. Riuscii però a preparare e conse-
gnare soltanto la prima parte, che infatti è apparsa sul volume IX
(1939), grazie alle cure che vi dedicò l'amico e collega carissimo pro-
fessor V. Pisani. Questa pubblicazione, l'ho potuta vedere soltanto
al mio ritorno in Italia.
Continuai però ad attendere a questo stesso lavoro, non appena
potei avere i numerosi appunti presi e l'altro « materiale » prepa-
rato, durante l'autunno e l'inverno 1938-39. Ebbi allora l'occa-
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sione di discutere vari punti con l'illustre abate del Mont-César, dom
B. Capelle, che quelli articoli aveva recensito in modo assai lusin-
ghiero mentre contemplavamo quella Lovanio che, inconscia del
futuro, mostrava ancora le tracce del passato martirio. Poi,
stabilitomi non molto lungi da Losanna, grazie alla cortesia e allo
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squisito senso di ospitalità e solidarietà tra studiosi dei colleghi di
quella Università , e in particolare del prof. Meylan, ebbi la fortuna
di poter usufruire della Biblioteca della Facoltà Teologica, oltre che
della Cantonale e Universitaria. Così condussi a termine il mio
lavoro.
Il manoscritto, con gli altri scartafacci e i pochissimi libri che
potei racimolare, mi seguì nel Perù. Ricordo ancora l'espressione
di meraviglia con cui un amico, a Londra, poco prima della mia par-
tenza, commentò la speranza, che gli avevo manifestata, di poter
pubblicare colà un lavoro siffatto. In realtà , non fu possibile trovare
un editore che se ne incaricasse per suo conto ; ed anche più impos-
sibile, se si può dire, il farlo stampare a mie spese. Accolsi pertanto
con piacere l'offerta di pubblicarlo nuovamente, capitolo per capitolo,
nella rivista « Sphinx », organo dell'« Instituto Superior de Lingui-
stica y Filologia » dell'Universidad Mayor de San Marcos, nel quale
insegnavo ; con l'intesa che di ogni capitolo si sarebbe fatta una tira-
tura a parte così che, alla fine, ne sarebbe risultato un volumetto.
Per la sbadataggine di un'impiegata, ciò non fu fatto. D'altronde,
apparsi i primi tre capitoli (tradotti in spagnolo e alquanto rimaneg-
giati) in tre-fascicoli di quella rivista (numeri 8, 9 e 10-11-12), tra
il dicembre 1939 e il novembre 1940, e quando avevo quasi ultimato
la traduzione del resto, l'Istituto perdette l'autonomia di cui godeva
e Sphinx dovette cessare le pubblicazioni.
Solo qualche anno più tardi mi si presentò l'occasione di ripren-
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dere il lavoro tante volte interrotto, quando cioè, in seguito allo
amichevole intervento del 'prof. Rodolfo Mondolfo, il manoscritto
mi fu richiesto, per prenderne visione, da un'importante casa e8i-
trice di Buenos Aires. Ma oramai, dopo tanti anni di lontananza
e di angosce per le sorti della Patria sempre amata e desiderata,
oltre che di familiari ed amici, tornava ad arridermi la speranza,
già quasi certezza, di un prossimo ritorno.
Era naturale, per contro, il timore che queste pagine, nel
frattempo, fossero invecchiate e, con il progresso degli studi, dive-
nute superflue. Ho quindi cercato di conoscere, per quanto pos-
sibile, le pubblicazioni apparse in questi anni di guerra, e delle
quali nel Perù non si aveva notizia neppure indiretta. In parte, e
specialmente per ciò che si è venuto facendo negli Stati Uniti,
potei compiere questo lavoro di aggiornamento durante un breve,
6
ma fruttuoso, soggiorno presso la Harvard University, di cui ero
stato alunno venticinque anni prima e dove mi vennero concesse,
grazie anche alla cordialità di G. La Piana e di G. Salvemini,
le maggiori facilitazioni per l'uso della magnifica biblioteca ; in
parte, e tra difficoltà ben note agli studiosi italiani, nelle varie
biblioteche di Roma. E mi sembra di poter dire, ora, che questa
indagine — limitata all'idea che Agostino s'è fatta del cristiane-
simo come religione di salvezza e per conseguenza alla sua conce-
zione del peccato, della redenzione, del libero arbitrio, ecc. e che
perciò non pretende di rendere superflui tutti gli altri scritti rela-
tivi alla formazione ed all'evoluzione spirituale di Sant'Agostino —
nonostante qualche probabile lacuna nell'informazione bibliografica,
può ancora essere pubblicata.
Le conclusioni cui essa giunge potranno sembrare non nuove,
ed alcuni le troveranno probabilmente molto, troppo, « conserva-
trici ». Esse divergono alquanto da quelle che ho esposto nel
volume su ricordato. Sono dunque, in tutti i sensi del termine,
una retractatìo. Ma su quello che è l'oggetto del presente studio
si è svolta, soprattutto in Italia, una vivace, e talvolta aspra, pole-
mica, provocata da uno scritto di Ernesto Buonaiuti, che, tradotto
in inglese, ha avuto anche all'estero una notevole risonanza. Allo
inizio delle mie ricerche, io avevo creduto di poter concordare
completamente con lui e recare anzi qualche nuovo argomento p
sostegno della sua tesi.
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Ora, questa coincidenza di vedute rimane circa !a conclusione
%eneraiissima, cioè che, tra gli anni 396 e 397, si produsse nelia
mente di Sant'Ag isnno ..n lanib'amento importante a proposito di
certi essenzialissimi punti di teologia. Ma, su ciò, vi è accordo
tra molti studiosi, compresi vari che sono prettamente cattolici.
Circa il modo, invece, in cui taie mutamento va configurato e
sulla diffìcile questione degli influssi che Agostino risentì in quegli
anni decisivi, io mi vidi orWigate a divergere sempre più /tetta-
mente da colui che mi fu maestro di • Storia del Cristianesimo nella
Università di Roma ; e nel quale, per grandi e gravi che possano
essere la diversità di atteggiamenti spirituali e le riserve o le
critiche relative a certe posizioni da lui assunte, tutti siamo d'ac-
cordo nel ravvisare lo storico di più vasta erudizione e di più
profonda genialità , che l'Italia moderna abbia avuto in questo campo.
Egli amava atteggiarsi a maestro — come, nell'ambito degli studi
•storico - religiosi, ne aveva pienamente il diritto ; ma con genero-
sità e larghezza d'idee, non comuni, rispettava, anzi apprezzava,
le personalità dei, discepoli che, maturando, acquistavano una loro
indipendenza di giudizio e di atteggiamenti.
Ma bisognava andare oltre quelle polemiche. A tal fine, mi era
apparso da tempo che si rendesse necessaria una ricerca condotta
con la più assoluta obbiettività , cioè con severo rigore di metodo,
seguendo il criterio cronologico : leggere e rileggere attentamente,
cercando di spremerne fuori, per così dire, tutto ciò che. potevano
darci di utile, le opere di Sant'Agostino nell'ordine stesso in cui
con maggiore probabilità possiamo ritenere che furono pensate e
scritte, e tenendo conto delle connessioni che esistono tra esse. 11
che significa, poi, seguire in genere l'ordine stesso delle Retracta-
tiones, quando si abbiano presenti tutte le indicazioni che esse ci
forniscono.
Ho visto con piacere che questo criterio è stato adottato anche
da altri studiosi recenti, a proposito di problemi diversi, e con buoni
frutti. Senonchè oggi, quando questo metodo si' viene applicando,
già ormai da parecchi anni, anche ad un Aristotele, adottarlo per
Sant'Agostino può sembrare cosa ovvia e perfino banale. Non era
così quando ho incominciato. Se poi i risultati del lungo studiare
e meditare nort hanno nulla di sensazionale, io per mio conto non
me ne lamento, nè trovo che sia stato perduto il tempo impiegato,
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mentre non mi illudo che possano soddisfare tutti. Molte questioni
resteranno controverse, e alcuni punti non si potranno considerare
mai come chiariti del tutto : perchè la loro soluzione è questione
di apprezzamento e perchè nonostante gli sforzi che si possano
fare, resterà sempre un certo campo aperto alle ipotesi, come è
inevitabile, quando si tratta di ficcare lo sguardo nella vita di una
anima, e così grande e ricca come quella di Agostino. Ma appunto
per ciò, sono tanto più affascinanti i problemi e tanto più varie le
possibilità di risolverli ;*e anche l'errore è meno inutile che mai,
se in qualche modo ci permette, esso pure, di avvicinarci a Lui.
Poco dopo aver pubblicato il suo primo scritto, De pulchro et
apto, Agostino si decise al gran passo, di trasferirsi a Roma. Sa-
peva che i retori non vi mancavano, ma aveva coscienza del suo
valore e dovette contare sul probabile appoggio di lerio, cui
aveva dedicato il suo libro, e su quello, immancabile, dei suoi
correligionari manichei (1). Il suo stesso trattato di estetica non fu
probabilmente che un tentativo di applicare, dando loro veste filo-
sofica, le idee della setta cui aveva dato la sua adesione (2). Ma,
dopo vicende ben note, si presentò a Simmaco : il ricchissimo e
nobilissimo senatore, capo del partito pagano, ascoltò il retore pro-
vinciale e diede il giudizio favorevole, che procurò a questi la no-
mina alla cattedra di Milano. Gli amici manichei che presentarono
Agostino a Simmaco, difficilmente si saranno proclamati aperta-
mente seguaci di una setta proscritta ; è più probabile che si pre-
sentassero piuttosto come « filosofi », aderenti in qualche modo al
partito della reazione anticristiana (3). Ma non dobbiamo neppu-
re esagerare il contrasto tra l'esaminatore e l'esaminato, vedendo in
quest'ultimo già l'autore della « città di Dio » (4). E possiamo forse
anche supporre che Simmaco non vedesse, malvolentieri l'occa-
sione di collocare sulla cattedra imperiale qualcuno che dovesse
a lui questo posto e potesse in qualche modo aiutarlo a controbilan-
ciare la crescente influenza di S. Ambrogio.
Quanto ad Agostino, forse già si affacciavano alla sua men-
te i primi dubbi e le prime difficoltà contro il manicheismo, sia
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sotto l'aspetto scientifico sia sotto quello etico ; e forse a lui pure,
anche per questo riuscì gradito l'allontanarsi da Roma. Tuttavia,
se allora si inclinò verso lo scetticismo accademico, questo dovet-
te sembrargli non incompatibile con ciò che vi era di essenziale nel-
la dottrina di Mani, cioè il dualismo. Perchè, dall'osservare nel-
l'uomo l'anelito costante verso il Vero e il Bene, insieme con l'im-
possibilità di raggiungerli, si poteva dedurre che nella natura uma-
na bene e male sono commisti insieme ; e che un solo Dio non po-
teva aver creato un essere dotato di tendenze contraddittorie. Quin-
di, la fiducia di Agostino nel manicheismo, scossa per ciò che ri-
guarda quella che è la parte esteriore, e come il rivestimento, del-
la dottrina, dovette invece mantenersi, se pure non rafforzarsi, in
un primo momento, quando egli si mise a studiare le dottrine de-
gli Accademici. Non è illogico anzi il supporre che Agostino cer-
casse d'interpretare lo scetticismo accademico da un punto di vi-
sta manicheo, o di spiegare filosoficamente il manicheismo appog-
giandosi su teorie che avevano illustri precedenti classici.
Sarebbe fuori di luogo rifare qui la biografia di Agostino ed
esporre ancora una volta il processo graduale della sua conversio-
ne, analizzandone i motivi e cercando di disfare e sbrogliare tutti
i fili che, a volte nascondendosi ai nostri occhi, formano il tessuto
complesso del racconto delle Confessioni. Influirono su questo pro-
cesso anche motivi di ordine pratico, ai quali pare non rimanesse
insensibile neppure Santa Monnica (5). Agostino apprezzò i van-
taggi che gli potevano dare un matrimonio vantaggioso e amici in-
fluenti ; et?be le sue ambizioni mondane ; avrebbe gradito un po-
sto di certa importanza nell'amministrazione dell'Impero. Ma tut-
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te queste considerazioni, sia che le facesse spontaneamente, sia che
gli fossero suggerite da altri, non fecero, al più, che fomentare e
affrettare lo sviluppo di una crisi tutta interna e spirituale, L'ori-
gine i d! questa, per quanto ci è dato penetrare nella psicologia di
Agostino, va cercata in quel contrasto tra le aspirazioni dell'ani-
ma sua fantasiosa e assetata di bellezza e purità , e la sua sensua-
lità sempre accesa (in relazione, — è probabile — con quella stes-
sa fantasia così vivace e ardente) : contrasto che aveva provocato
le crisi precedenti. In questa incertezza, in queste angosce, può
avere arriso ad Agostino, in qualche momento, una filosofia scet-
tica e pessimista : egli può aver pensato, a tratti, che meglio vale-
va rinunciare alla ricerca del vero, e, annullato il valore di tutte
le scienze e distrutte le basi della vita morale, stordirsi nell'attivitÃ
pratica. Ma non pare che questa si sia presentata mai come una
10
conclusione. Dovette essere più uno stato d'animo momentaneo,
che un convincimento maturato.
Le esigenze d'ordine morali erano in lui troppo forti, e rinasce-
vano più prepotenti ad ogni suo atto di debolezza.
Quella che alcuni biografi — seguendo una delle versioni che
egli stesso dà della sua conversione (5 bis) — hanno voluto isola-
re come una « fase scettica » nello sviluppo spirituale di Agosti-
no, dovette essere in realtà un periodo di dubbi e di lotte inter-
ne, non un'epoca di accettazione piena di una .filosofia, che sod-
disfacendo l'intelletto infondesse anche tranquillità e serenità a
tutta l'anima. Lo scetticismo accademico dovette dapprima appa-
rire ad Agostino come consono con le dottrine di Mani : ma al
tempo stesso alimentare nuovi dubbi relativamente allo stesso ma-
nicheismo. Ma insieme, doveva riuscire difficile rinunciare all'i-
dea di una vittoria del Bene sul Male, mentre, d'altra parte, l'as-
serita impossibilità per l'uomo di giungere alla conoscenza della
verità non era una prova sufficiente dell'inesistenza di questa.
La crisi si chiuse con la lettura dei libri neoplatonici (6) e la
famosa « scena del giardino ». Su questa crisi di Agostino, come
sull'attendibilità del racconto delle Confessioni e sul carattere del-
la conversione, si è discusso moltissimo. Io vorrei solo presentare
qui alcune considerazioni. In primo luogo, non conviene dimenti-
care -- anche chi elimini qualsiasi elemento sovrannaturale — che
si tratta di ricostruire un processo psicologico dei più sottili e deli-j
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cati : ogni nostro tentativo di analizzarlo e di ricostruirlo non può
non essere alquanto schematico e perciò, anche qualora riuscisse
a non trascurare nessun elemento, avrebbe sempre qualcosa di
arbitrario. In secondo luogo, non va perduto di vista che all'inizio
dell'attività filosofica di Agostino vi fu la lettura dd\'Hortensius
ciceroniano : di un'opera cioè, che riecheggiava il Protrettico di
Ariste'01», quell'« Aristotele perduto », tuttora platonizzante, noto
agli antichi ma a noi rivelato da indagini recenti. Di qui, e ricor-
dando che gli Accademici erano i continuatori della tradizione pla-
tonica, dovette venire malgrado tutto ad Agostino l'idea che all'a-
nima umana, purificandosi da tutte le scorie, non dovesse essere im-
possibile giungere alla scoperta del Vero. Anche il sentire in sé
l'aspirazione ad una vita più alta e più nobile dovette parere ad
11
Agostino una prova convincente di tale capacità . Ma quell'aspira-
zione andava favorita e sostenuta : con il sottrarsi alle tentazioni,
con la fuga dal mondo, con il rifugiarsi, dalle tempeste della vita
pratica, agitata da ambizioni e preoccupazioni, nel porto sicuro
della filosofia (7).
Ma appunto la riluttanza sempre maggiore ad accettare lo
scetticismo accademico, doveva portare con sè anche l'abbandono
definitivo del manicheismo. Dovette fare profonda impressione,
allora, nell'animo di Agostino anche l'argomento di Nebridio (8);
un Dio, che può essere vinto, anche momentaneamente, dalle forze
del male, cessa di essere assoluto, non è più Dio. A poco a poco,
il dualismo manicheo appariva assurdo ; e, grazie all'interpreta-
zione allegorica, anche i racconti biblici, oggetto di tante critiche
da parte manichea, si rivelavano invece pieni di sublimi ammae-
stramenti etici. Restava il problema del male; particolarmente
difficile da risolvere per chi non sapeva ancora decidersi a conce-
pire Dio — l'unico Dio — come assolutamente incorporeo. La
lettura dei libri neoplatonici, e la conoscenza dell'ascetismo cristia-
no, con i racconti di San Simpliciano e, poco dopo, di Ponticiano,
ebbero allora un'influenza decisiva.
Ma va ancora osservato, a proposito di questa crisi agostinia-
na, quanto è difficile il determinare in essa momenti successivi
e il segnalare dei cambi nètti di orientamento. Qualsiasi presenta-
zione di questo processo, che si voglia tentare con il proposito di
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non allontanarci troppo dalla verità , non sarà mai abbastanza ricca
di sfumature.
Un esempio, ce lo dà la relazione che corre tra gli avvenimenti
esteriori e lo sviluppo interno. Alle ambizioni mondane, succede il
progetto di realizzare l'abbandono del mondo, di ritirarsi in una
specie, si direbbe con termine moderno, di « convento laico » ;
qualcosa tra una Tebaide, che fosse centro di vita intellettuale
oltre che religiosa, e una « Platonopoli » (l'ideale di Piotino) con
un colorito ascetico-cristiano. Ma il momento in cui Agostino sì
preparò a realizzare questo progetto era quello stesso in cui si pote-
va già considerare come ormai inevitabile il conflitto aperto tra
Valentiniano II e Massimo, e si era fatto più acuto il contrasto tra
l'imperatrice madre Giustina e Sant'Ambrogio. E' allora che Ago-
12
stino, allegando le cattive condizioni della sua salute, si ritira nella
solitudine di Cassiciaco. Sarebbe senza dubbio ingiusto ed eccessivo
attribuire l'allontanamento di Agostino dall'insegnamento e da Mi-
lano a un calcolo opportunistico e al timore di prendere un atteg-
giamento netto nella grave crisi politica. Ma sarebbe alquanto ardi-
to, credo, l'affermare a priori che questa situazione non esercitò
alcun influsso su Agostino, per lo meno nel senso che esso contri-
buì a farlo decidere : anche in quanto potè accrescere in lui la
ripugnanza per la politica attiva e il desiderio di abbandonare una
volta per sempre quel terreno infido.
Non è possibile, infatti, ravvisare nel ritiro di Cassiciaco sol-
tanto l'aspetto ascetico, farne un atto di rinuncia totale al mondo
,e aile sue attività . Si oppone a ciò il fatto che precisamente allora,
in quei pochi mesi di Cassiciaco, comincia l'attività letteraria pro-
priamente detta di Sant'Agostino. E' come se tutte le sue ambizioni
precedenti si fossero trasferite del tutto al campo della cultura. E
ciò potè ben essere dovuto, in parte, all'influsso di circostanze
esterne, il quale venne a sovrapporsi, ad aggiungersi e quasi a
confondersi, a quello della sua lotta spirituale. Dall'uno e dall'altro
— il secondo senza dubbio più forte, il primo forse con maggiore
prontezza — venne ad Agostino l'impulso di dedicarsi a una forma
superiore di attività , dandosi a quella vita contemplativa, che -tanto
nella « letteratura protrettica » quanto negli scritti dei neoplatonici
era presentata come la forma più nobile di esistenza, anzi la sola
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veramente degna dell'uomo.
Così anche quell'interiore irresolutezza, quell'oscillare tra
l'aspirazione al successo materiale e alla vita filosofica, giunse al
suo termine. Tornò insomma a predominare nella mente di Ago-
stino l'entusiasmo giovanile per la filosofia, destato già dalla lettura
dell'Hortensius, ma ora fatto più forte e più intimo dalla maturitÃ
e consapevolezza raggiunta dopo una lunga lotta con se stesso; e
con una rinnovata e prepotente vitalità che lo spingeva a scrivere.
Non rinuncia, dunque, ad esercitare un'azione sugli altri ; non ri-
nuncia nemmeno, quindi, a continuare ad essere un maestro. Ma
sembra non desiderare per sé altro alloro da quello, più duraturo
di tutti, che procurano le opere dell'ingegno ; non dare alla sua vita
altro scopo che la disinteressata contemplazione del Vero, nella
perfetta tranquillità d'animo del sapiente. E di questo vero è parte
13
integrante, essenziale, il cristianesimo. Ma un cristianesimo che,
nel suo pensiero, coincideva perfettamente con la filosofia da lui
accettata, e alla quale sì accedeva attraverso le arti liberali, come
propedeutica necessaria. Di qui anche il progetto di quella che è
stata chiamata, a ragione o a torto, l'« enciclopedia » di Agostino,
i Disciplinarum libri (9). Per mezzo dei quali egli desiderava, senza
dubbio, anche acquistare fama; ma questa, come i vantaggi con-
seguenti, non era da lui ambita, ormai, se non come ricompensa
della sua opera di studioso, di uomo dedito alla vita contemplativa.
Si opera in questo momento una vera « conversione », proprio nel
senso etimologico del termine : la sua vita -prende una direzione
nuova.
Ma qui è da fare un'altra osservazione. Molti, quasi tutti, i
biografi e in genere gli studiosi di Sant'Agostino si domandano a
questo punto se la sua conversione fu di natura filosofica o religio-
sa, se fu conversione al neoplatonismo o al cristianesimo. Posto il
problema così, con un vero aut, aut, le soluzioni tendono natural-
mente ad essere nette, taglienti, e sempre con una certa intonazione
polemica. In realtà , il problema in quei termini è posto male, come
oramai si comincia a riconoscere (10). Perchè, nello stabilire una
opposizione recisa, quasi una incompatibilità assoluta, tra cristia-
nesimo e neoplatonismo, noi forse ci lasciamo guidare un po' troppo,
dal nostro modo di considerare quest'ultimo; e non possiamo di-
menticare che Piotino e Perfino scrissero contro i cristiani. Ma,
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nel IV secolo, contavano anche gli elementi di cultura comuni a
tutti coloro che avevano ricevuto un certo grado di educazione ;
contava la tradizione della letteratura protrettica ; e contava anche
tutto ciò che del pensiero antico, e di platonismo e neoplatonismo,
per tale modo e per sforzo cosciente di alcuni maestri, era già pene-
trato ne! pensiero cristiano (li).
E d-'altra parte, era tuttavia vivo nella coscienza cristiana il
problema, se tale cultura, pagana d'origine e di modi e tale ancora
di spiriti in alcuni suoi cospicui rappresentanti, fosse compatibile
con la vera fede. Agostino, sul quale influivano poderosamente e
la sua formazione retorica ed esempi antichi e contemporanei, sem-
bra, almeno per ora, non avere dubbi in proposito. I disciplinarum
libri vanno, perciò considerati anche sotto questo aspetto, di uno
sforzo cosciente per inserire nel cristianesimo il più e il meglio della
14
cultura antica, mettendola al servizio della Verità e di Dio, dei
quali, del resto, le menti superiori dell'antichità avevano avuto giÃ
qualcosa di più che un vago sentore. Nel fonte battesimale di Mi-
lano, Agostino scendeva, entusiasta e convinto; ma — se si può
dire — vi faceva entrare con sé anche Piatone e Cicerone.
Quei primi scritti di Agostino sono uniti tra loro da nessi
strettissimi. Se ognuno si occupa di un problema determinato o *
insiste sopra un punto speciale, è perché essi si completano a vi-
cenda : i motivi fondamentali sono identici, il pensiero è identico.
E in ciascuno, quand'anche solo per via di accenni, è in realtà tutto
l'insieme dei problemi filosofici che forma l'oggetto della tratta-
zione. Ma questi scritti di Cassiciaco sembrano concepiti già come
parti di un complesso, e destinati a essere letti e studiati tutti in-
sieme.
Il Cantra Academicos (12) è, prima di ogni altra cosa, un
« Protreptico », una esortazione alla filosofia. La felicità può con-
sistere. secondo alcuni, anche nel solo ricercare la verità , senza
trovarla ; ma Agostino' reagisce contro lo scetticismo degli accade-
mici, falsi filosofi che abusivamente si richiamano all'autorità di
Piatone. A dir vero, però questo scetticismo non è che un accor-
gimento, uno stratagemma difensivo contro gli stoici. L'autentica
dottrina di Piatone si è perpetuata, è giunta fino ai pensatori con-
temporanei di Agostino : i neoplatonici (13). Così egli può combat-
tere lo scetticismo accademico e . al tempo stesso salvare il suo Cice-
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rone. La verità può essere conosciuta (e dimostrare la ragionevolez-
za di questa fiducia nelle capacità dell'anima umana è per lui un'esi-
genza fondamentale) ; conoscerla è possedere Dio ; nel possesso di
Dio è la felicità . Chè la sapienza è divina sapienza, e al tempo
stesso il sapiente la trova in sé; ma soprattutto è modus animi (14),
predominio della ragione sulle passioni, cioè moralità , senza la
quale non è possibile conoscere il vero. A questa eticità superiore,
alla purificazione dello spirito, conduce anche il cristianesimo, che,
esso pure, pratica e promuove la vita ascetica : pertanto cristiane-
simo e vera filosofia sono sostanzialmente concordi, e hanno comu-
ne anche l'avversario : lo scetticismo, che è tutt'uno con il pessi-
mismo, con la dottrina dei manichei. Tra la filosofia platonica (ben
15
diversa dalla « filosofia di questo mondo » contro cui S. Paolo e
tutte le Scritture sacre ci mettono in guardia) Agostino non ravvisa
alcuna differenza di sostanza. L'à iòv [iéXXwv del Vangelo è il
xóauo? VOYJTÓ; dei neoplatonici, la vita dei Padri nel deserto
è il S-etopTjTixóc- |3fo{ dei filosofi (15). Tale appare ad Agostino
il genere di vita condotto a Cassiciaco : a diventare perfetto filo-
sofo occorre intensificare l'attività spirituale, rivolgerla a fini sempre
più alti, subordinando anche gli studi meramente letterari — pur
senza trascurarli del tutto — alla ricerca della verità , per mezzo
della filosofia. Nemmeno il dogma trinitario presenta difficoltà ad
Agostino (16), perché anche per lui Dio è trascendenza assoluta, il
Cristo è il Logos divino e al tempo stesso umano in quanto la ra-
gione non è, in ogni uomo, se non una particella, una scintilla, di
quello stesso Logos divino ; e purché essa ragione umana si ricordi
della sua origine e del suo fine, e si purifichi da ogni carnalità , non
vi sono ostacoli al suo ricongiungimento con Dio. Gesù ha additato
la via. Ma anche i grandi filosofi hanno conosciuto il vero, e pos-
seduto Dio e conseguito la felicità .
E il De beata vita sembra scritto specialmente per dimostrare
questa sostanziale identità tra religione cristiana e vera filosofia
(neoplatonica); lo dimostrano, tra l'altro, l'accettazione del dogma
trinitario e la chiusa con la citazione del verso di S. Ambrogio
(sacerdotis nostri), che fa riscontro in maniera assai significativa
alla dedica a Manlio Teodoro (16 bis). Ci spieghiamo così la parte,
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molto importante, che in questo dialogo è fatta a Monnica (17),
personaggio reale ma, al tempo stesso, starei quasi per dire sim-
bolico (primo passo verso quell'idealizzazione e sublimazione di
lei che tocca l'apice nelle Confessioni, dove essa è reale e ideale
a un tempo). Monnica rappresenta, non tanto la donna incolta, che
ragiona col semplice e schietto « buon senso » ; -quanto il cristiane-
simo, ossia ciò che Agostino chiama ancora fede ingenua nell'auto-
rità e che arriva di primo acchito, e inconsapevolmente, alle con-
clusioni stesse cui il ragionamento condurrà il filosofo. Ma questi
vi giunge mediante la ragione ; e in ciò consiste la sua superioritÃ
sul semplice credente. Il quale, se non è in grado di giustificare
razionalmente la sua fede, vive però, attenendosi ai precetti della
religione, una vita moralmente buona; e così adempie alla prima
e più importante delle condizioni indispensabili affinché la ragione
16
possa elevarsi a riconoscere la trascendenza, unicità , bontà e prov-
videnza di Dio. La beatitudine consiste nell'unione con Dio, cum
Deo esse, ma tale unione non ha nulla di mistico; è invece tutta,
o quasi, intellettuale. Né troviamo accenni alla redenzione : anche
\'admonitio quaedam quae nobiscum agii ut Deum recordemur (18)
ncn o conseguenza di un atto di Dio, che nella sua misericordia si
protenda, per cosi dire, in soccorso del credente nella preghiera ;
non è insomma il risultato di un atto d'amore; è soltanto consc
guenza del fatto che l'anima umana partecipa in qualche modo della
natura divina e, pur nell'imperfezione di questa vita, non dimen-
tica la propria origine. Del resto, se così non fosse, l'uomo non
potrebbe neppure aspirare alla conoscenza della verità , ad ammi-
rare l'ordine che regna nel creato e a riconoscere nel Creatore il
Sommo Bene.
Parallelamente, nel De ordine, con un rafforzamento dei mo-
tivi polemici antimanichei, troviamo l'esaltazione della vita contem-
plativa. A qualche accenno di sapore prettamente cristiano (Deum
colant, cogitent, quaerant, fide, spe, cariiate subnixi) fa tuttavia
riscontro il concetto che Agostino ha ancora della morale evangelipa
come inferiore all'etica ragionata dei filosofi : la Regola aurea è
un vulgare proverbium. Tanto ancora egli, pure riconoscendo l'i-
dentità della mèta ultima, subordina l'autorità , e la fede delle masse
che si contentano del dettame oramai proverbiale, alla ragione e
al filosofare cosciente. Dalla prima è possibile elevarsi alla seconda,
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e ciò è anzi necessario, perché non si può comprendere l'ordine
che regna nell'universo, senza possedere la cultura, che richiede
l'ordine degli studi.
Solo con uno sforzo grande e costante si arriverà ad appren-
dere le varie disciplinae, ordinate in modo da condurre a Dio. Chè
la filosofia, secondo una dottrina abbastanza diffusa (19), conside-
rata come suprema, tra le arti e le scienze, nel De ordine è collo-
cata appunto in cima alle altre disciplinae (grammatica, dialettica,
retorica, musica, geometria, astronomia) e completa il numero tra-
dizionale delle sette arti liberali (20).
Così il De ordine ci si rivela come strettamente collegato, non
solo con i due scritti precedenti, ma con la serie dei disciplinarum
libri, tanto da non far parere assurda l'ipotesi che fosse concepito
come una specie di introduzione, in cui esporre le conclusioni e i
17
fini dell'opera, alla « enciclopedia », di cui Agostino andava com-
piendo, e in parte colorando, il disegno. Questa doveva essere
appunto la grande opera, destinata a condurre la ragione umana
dai primi elementi della scienza fino a Dio : intuito, sì, dalla sem-
plice fede, ma dimostrato e compreso dalla filosofia (21); la grande
opera alla quale Agostino, mutando ambizioni, aveva pensato di
legare il proprio nome. E' sempre un fatto degno di nota che,
appunto nei giorni in cui si preparava a ricevere il battesimo — e
questa non era per lui una formalità vana — egli attendesse alla
redazione dei primi cinque libri De musica; chi di ciò si stupisse,
mostrerebbe di non aver inteso bene la vera natura e lo scopo di
questo scritto, che si rivela chiaro quando lo inquadriamo nel com-
plesso dell'attività di Agostino in questo periodo.
Il De ordine si chiude con la dottrina del ritorno dell'anima
su sé stessa e con l'affermazione ch'essa è immortale. A dimostrare
l'immortalità , strettamente congiunta con l'immaterialità , dell'anima
sono destinati i due libri dei Soliloquia nonché gli altri due, il De
immortaìitate animae e il De quantitate animae. La prima opera
si apre con la famosa preghiera, su cui s'è tanto scritto e discus-
so (22). Il carattere neo-platonico di questa preghiera è stato rico-
nosciuto da tutti coloro che l'hanno studiata ; essa è però allo stesso
tempo una preghiera cristiana, nella quale è vivissimo, per esem-
pio, il senso della paternità di Dio. Ma questo riconoscimento non
deve poi trascinarci a ridurre il neoplatonismo di questa preghiera
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a pura apparenza superficiale ; quello che dobbiamo riconoscere
ormai è, allo stato degli studi, ripeto, l'esistenza di un neoplatoni-
smo cristiano, il cui principale rappresentante fu appunto quel
Mario Vittorino, l'esempio e gli scritti del quale furono così potenti
sull'animo di Agostino (23). Ma appunto per ciò è inutile, mi sem-
bra, sforzarsi di voler trovare nella preghiera dei Soliìoquia quello
che non c'è né ci può essere ancora ; e, se vi fosse, non sapremmo
spiegarci più la sua assenza in opere posteriori (24). Del resto
ritroviamo nei Soliloquia l'identificazione del mondo intelligibile con
il « mondo venturo » e la dottrina della luce intima, del raggio
divino che è nell'anima umana. Il De immortalitate animae riprende
quello che è anche^l tema dei Soliìoquia (24-bis).
Ma la terza di queste opere, il De quantitate animae, merita che
vi fermiamo sopra l'attenzione, non solo per gl'intenti polemici
18
antimanichei, bensì anche per gli accenni al cristianesimo. L'anima
è simitis Deo, pertanto incorporea ; deve sottrarsi al dominio degli
oggetti sensibili, che le sono inferiori, per aspirare alla sua vera
patria; la religione cristiana c'insegna appunto a disprezzare tutto
ciò ch'è corporeo, ed a staccarci da questo mondo sensibile, affin-
che possiamo ritornare simili a Dio, quali siamo stati creati. In ciò
consiste la salvezza dell'anima, la sua redenzione. A questo con-
cetto si contrappone quello del peccato, che ne è il presupposto.
Agostino parla infatti di « uomo vecchio » e di « uomo nuovo » e
mostra così di aver presente la caratteristica terminologia di San
Paolo. Ma fino a qual punto, e in che modo, ne ha inteso e assi-
milato il pensiero, e in che cosa consistono ora per lui il peccato,
la redenzione e quel soccorso divino che ad ottenere quest'ultima
egli dichiara indispensabile? Il peccato, realtà misteriosa che col-
pisce di riverenza e di timore e addirittura fa sbigottire Agostino,
è bensì per lui una violazione della legge divina ; ma esso consiste
nel volgersi alle cose carnali, agli oggetti sensibili, a quel mondo
della materia, che ancora una volta è identificato col mundus hic di
cui parla il Vangelo e contrapposto a quello delle realtà intelligibili
(e questo, dunque, è considerato ancora identico ali' à ubv fiiXXwv).
Che l'anima umana si trova dinanzi due vie. Può, accostandosi
alla materia, degradarsi fino a diventar simile all'animale ; e può
altresì — ecco in che consiste la redenzione — elevarsi, per ratio-
nem atque scientiam, e divenire sempre più simile a Dio, ritraen-
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dosi dal mondo sensibile per ritornare a sé stessa. L'abrenuntio,
che Agostino ha pronunciato nel ricevere il battesimo, implica
appunto l'impegno di sottrarsi al dominio degli oggetti sensibili,
per innalzarsi alla conoscenza razionale di Dio : alla quale non
può non pervenire chi cerchi per puro amore della verità , pie caste
ac diligenter. Si tratta di ritornare alla natura propria dell'uomo,
per cui è al disopra di tutte le creature e inferiore a Dio solo; di
risplasmarsi secondo quell'immagine di Dio, che il creatore ha
posto in noi e che è quanto noi uomini abbiamo di più prezioso.
Questa purificazione, questo ritorno dell'anima a sé stessa, non è
possibile senza un aiuto divino. Ma tale aiuto è da Agostino stesso
paragonato alla creazione : il suo paolinismo non arriva ancora
al punto da indurlo a meditare sulla morte e la risurrezione del
Cristo. E, in sostanza, l'indispensabile aiuto divino è già in noi,
19
poiché in noi è il modello cui dobbiamo conformarci ; si tratta sol-
tanto di ricordarcene. In ciò consiste il soccorso, largito a tutti.
Preoccupato di combattere i manichei, Agostino mostra che, imma-
teriale come l'anima umana che gli somiglia, Dio creatore del mondo
continua a manifestare la sua clemenza verso il genere umano. Se
il peccato fu un piegare verso gli oggetti corporei, la redenzione
sta nello staccarsene, nel purificarsi dalle passioni. E questa è cosa
difficile, ma non impossibile : basta che l'uomo si ricordi della pro-
pria natura e usi quel soccorso divino che trova in sé stesso, cioè il
libero arbitrio che Dio gli ha -dato (25). Da questo dipende che
l'uomo si possa conformare al modello celeste secondo il quale è
stato fatto ; e perciò l'aiuto che egli riceve da Dio è tanto mag-
giore quanto più egli procede sulla via della sapienza. Evodio,
rimasto in fondo all'anima ancora manicheo, e per il quale l'ap-
prendere è un crescere dell'anima (quindi materiale), domanda ad
Agostino come si spieghi che il bambino, venendo al mondo, non
sappia nulla. Ed Agostino gli risponde con la dottrina della remi-
niscenza. Ma ciò non toglie che l'anima possa compiere un pro-
gresso continuo, attraverso i sette gradi della sua purificazione (26).
Lo stesso concetto, che la sapienza si possa ottenere mediante
un progressivo perfezionamento morale ispira i due trattatelii De
moribus, redatti anch'essi da Agostino durante il suo nuovo sog-
giorno in Roma (27). La felicità , cui l'uomo anela, consiste nel
possesso del bene più alto a cui possa aspirare : un bene, dunque,
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superiore all'uomo e tale che non possa essere perduto. Rispetto al
corpo, il massimo bene è l'anima ; per questa, è tale la virtù ; essa
si raggiunge seguendo Dio. E a farci conoscere Dio soccorre per
prima — poiché si tratta di apprendere — l'autorità , ossia la Sacra
Scrittura; poi la ragione. Il De moribus Ecclesiae cathoìicae è
quindi in gran parte dedicato a dimostrare — altro evidente mo-
tivo antimanicheo — l'accordo tra l'Antico ed il Nuovo Testamento
e il valore dell'interpretazione allegorica. Giacché i cristiani hanno
di Dio un concetto ben superiore a quello dei manichei.
L'amore dell'uomo si volge -a Dio, a Cristo che è virtù, veritÃ
e sapienza; la virtù è amore sommo di Dio, e di tale amore le
quattro virtù cardinali non sono che aspetti diversi. Prima tra esse,
e sopra le altre lodata da Agostino, è la temperanza, con l'eser-
cizio della quale ci si spoglia dell'» uomo vecchio » e si riveste il
20
nuovo. Anche qui dunque ritroviamo il linguaggio di S. Paolo; del
quale Agostino ricorda con altri i due passi, in cui la cupiditas è
detta origine di tutti i mali (/ a Timoteo, VI, 10) e in cui l'apostolo
mette in guardia contro la filosofia. Ma a tale proposito Agostino
insiste sopra le parole et elementa huius mandi (Ai Colossesi, II, 8)
per trame la conferma che non il filosofare per se stesso, bensì
l'amore per le cose sensibili è pernicioso ai cristiani. Anzi, non si
possono neppure chiamar tali coloro, l'oggetto del cui amore sia
altro da Dio. Ora, la temperanza ha come propria funzione il far
disprezzare ogni attrazione esercitata dal mondo corporeo, o dalla
vanagloria, per dirigere invece l'amore a ciò ch'è invisibile e divino.
Che il mondo sensibile può sedurre l'anima fino a farle credere
reale solo ciò che ha corpo, o se pure essa riconosca per fede
l'esistenza di realtà incorporee, a pensarle e raffigurarsele per mezzo
di immagini tratte dall'ingannatrice esperienza dei sensi. All'esal-
tazione della temperanza segue quella delle altre virtù, e la glori-
ficazione della Chiesa. Mater christianorum verissima, essa insegna
a venerare Dio, eterno, evitando il culto delle creature e di tutto
quanto è fatto, mutevole, corporeo — è questo il solo modo di evi-
tare l'infelicità — e ad amare il prossimo, nel che è la fonte di
tutte le virtù : la Chiesa fornisce così i rimedi a tutti i mali onde
le anime soffrono, per i loro peccati (28).
Così nel De moribus manichaeorum, dopo aver insistito sulla
trascendenza e unicità di Dio — dimostrate anche argomentando in
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base alla ratìo numerorum (29), Agostino può contrapporre il falso
e superficiale ascetismo manicheo a quello della Chiesa cattolica,
che è in possesso della verità ; e contrapporre altresì alle azioni
immorali, compiute perfino dagli « eletti » manichei, la virtù dei
fedeli e l'eroismo dei martiri di Cristo.
E' chiaro, da tutto ciò, che cosa Agostino intenda in questi
scritti per cupiditas e come egli interpreti San Paolo. Insomma,
il suo sforzo è tutto diretto ad affermare il sostanziale accordo tra
la filosofia e la religione (e la prima, cioè la ratìo, è considerata
superiore alla seconda, \'auctoritas), nonché la bontà e l'ordine
dell'universo, insieme con la trascendenza e la provvidenza di Dio.
Agostino polemizza continuamente con i manichei — cioè con se
stesso, quale era nel momento in cui s'iniziò il processo della sua
conversione — e perciò ritorna continuamente sul problema che
21
10 assillava, e di cui nel manicheismo stesso aveva creduto di trovare
la soluzione : qullo del male. Di esso discute lungamente nei primi
capitoli del De moribus manichaeorum ; e in polemica con essi è
condotta la dimostrazione del libero arbitrio, che s'inserisce logi-
camente — e non soltanto cronologicamente — a questo punto
dell'attività letteraria e dell'evoluzione spirituale di Agostino' (30).
11 libero arbitrio dell'uomo rientra anch'esso nell'ordine dell'uni-
verso, dipende da quella stessa suprema legge dalla quale il mondo
è governato.
In che consiste, infatti, il fare il male? Non certo nel solo
agire contro la legge, poiché vi sono azioni, in sé malvagie, che
essa permette; d'altronde l'adulterio, per esempio, non è certo
male perché vietato ma vietato in quanto è un male. E' interes-
sante l'ossequio tutto romano, per la legge e l'ordine costituito
che dà vivezza alla discussione, il cui scopo, beninteso, è sol-
tanto di condurre alla conclusione che esiste una legge eterna, mo-
dello alle umane, contingenti e mutevoli. Essa è la summa ratio;
in forza di essa è giusto che tutte le cose siano ordinatissime ; essa
mantiene l'ordine dell'universo. Per questa legge, per questo ordi-
ne, l'uomo, dotato di ragione, è superiore agli animali ; e nell'uomo
l'ordine medesimo esige che predomini la ragione. Male è dunque
la violazione dell'ordine, l'appetito smodato cui la ragione non frena.
Ora, colui che giunge ad attuare il predominio della mens sulla
libido è il sapiente. Ma questo potere sulle passioni è stato con-
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cesso alla ragione dalla legge eterna ; dunque la ragione è più forte
della libido, e del corpo. Quindi, se la mens si degrada sino a
farsi compagna e complice degli appetiti, ciò avviene perché essa
lo ha voluto, di propria spontanea e liberissima iniziativa. E' per-
tanto giusto che in tal caso la mens sia punita.
A Evodio si presenta tuttavia ancora qualche difficoltà : è giu-
sta la sofferenza del sapiente, non quella dello stolto. E Agostino
gli risponde in due modi. Prima di tutto, cerca di annullare quella
distinzione : tu, gli dice, presupponi per certo e chiaro che noi
non siamo mai stati sapienti prima di questa vita; in realtà è un
problema assai grave, e da trattarsi a suo luogo, se prima di unirsi
al corpo l'anima non abbia vissuto un'altra sua vita, e se abbia
vissuto secondo sapienza. Agostino non pensa a una vera trasmi-
grazione delle anime, ma soltanto a una loro preesistenza, nel
•
22
mondo delle idee : dottrina della quale Agostino non è ben sicuro,
e che non sa se e in che modo possa conciliarsi con il cristiane-
simo (31). Perciò preferisce ricorrere a un secondo ordine di argo-
menti. Bene superiore a tutti gli altri è la buona volontà , che ci
fa desiderare di vivere con rettitudine e onestà e giungere alla
sapienza suprema, e alla quale si riducono tutte le virtù cardinali.
Dipende dunque da noi il vivere moralmente, cioè l'essere felici,
o no : perchè alla volontà cattiva tiene dietro necessariamente l'in-
felicità , in virtù di quella eterna legge divina, per la quale secondo
la nostra volontà siamo meritamente premiati o puniti. La volontÃ
buona consiste appunto nell'amare quella legge eterna ed immuta-
bile, nel preferire cioè i beni superiori e non transeunti ai contin-
genti e materiali; sicché coloro i quali preferiscono i secondi sono
giustamente puniti.
L'umanità si divide così in due categorie : coloro che inten-
dono e servono la legge superiore, gli oirouSatoi, starei per dire,
0 meglio yvcixTctxof, e che sono pertanto sciolti da ogni legge tem-
porale, beati ; e gli altri, cpaùXoi, uXtxof, tJ>ux""^, sottomessi e alla
legge temporale e all'eterna, onde discende ogni giustizia, ma inca-
paci d'intenderla ; e infelici. La legge temporale impone di amare
i beni temporali, tra i quali sono la famiglia e la patria; sua
caratteristica è la coazione, l'imporsi col timore delle pene. Per
contro, la legge divina è legge di libertà . E' chiaro, che Agostino
ha presente qui anche la discussione paolina sul valore della legge,
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nelle lettere ai Calati e ai Romani ; e infatti la libertà cristiana è
da lui intesa qui in modo perfettamente consono al suo concetto
dell'« uomo vecchio » e dell'« uomo nuovo ». La conclusione ultima
è che il male consiste per l'uomo nell'essere soggetto a quelle cose,
che dovrebbero essere sottoposte a lui; e pertanto il male non è
nelle cose stesse, bensì nell'uso che ne viene fatto, cioè, in sostan-
za, esso dipende dalla nostra volontà .
Evodio si dichiara vinto : gli uomini fanno il male a causa del
loro libero arbitrio. Ma egli chiede ancora se conveniva che Dio
lo concedesse. Senza di esso, infatti, noi non saremmo stati capaci
di peccare; se dunque Dio ce lo ha dato, egli è in certo qual
modo l'autore primo delle nostre malefatte. Così il dialogo ritorna,
un po' inaspettatamente, proprio a quella domanda fondamentale,
2;
che Evodio ha formulato fino dal principio : Die mihi, quaeso te,
utrum Deus non sii auctor mali? (32).
Siamo di nuovo al problema che assilla l'animo di Agostino, e
che egli dice di aver voluto risolvere seguendo prima l'autorità poi
la ragione. Con ciò, egli applica alla propria vita il principio enun-
ciato nel detto profetico : nisi credideritis, non intellegetis (33). E'
chiaro però che con quel ritornare alla questione iniziale, Agostino
intendeva aprirsi l'adito a una nuova trattazione del problema che
egli infatti promette di dare. Il che significa che non gli pareva di
avere completamente debellato i manichei, e che qualche cosa nella
sua dimostrazione lo lasciava ancora scontento, per quanto certo
di poter giungere a una soluzione soddisfacente.
Neppure è senza significato, che per definire il rapporto tra
l'auctoritas e la ratio Agostino senta ora il bisogno di rivolgersi
proprio alla Scrittura; quando, in altri luoghi dello stesso primo
libro De libero arbitrio (34) egli ha anche dichiarato essere im-
possibile, ad uomini che desiderano di comprendere, il cercar
rifugio nell'autorità . Agostino si viene accostando maggiormente
alla vita della Chiesa, desidera aderire ad essa più strettamente, ser-
virla come apologista. Gli avversari restano sempre i manichei; ma
ora, in Africa, per combatterli, e con una confutazione che sia acces-
sibile a tutti, abbandona il campo della discussione filosofica e la
forma del trattato dialogato, per quella del commento ai libri sacri,
di cui ormai egli ha un concetto più alto. E scrive appunto il De
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Cenesi contra manichaeos.
Gli si presenta subito una grave questione. I manichei, leggendo
che « in principio Dio creò il cielo e la terra », chiedono che cosa
facesse Dio prima della creazione e per qual motivo egli si sia
deciso a creare. Era il problema, cui il loro mito dava pure una
risposta. Ma per un ingegno filosoficamente educato, è questo il
problema del rapporto che intercede tra Dio e l'universo, tra la
eternità e il tempo : problema che travaglierà a lungo la mente di
Agostino. Ora, egli risponde che in principio non significa « all'inizio
del tempo», bensì in Christo, cum Verbum esset apud Patrem;. e
che, del resto, anche ammettendo la prima interpretazione, il tempo
stesso, opera di Dio, non poteva esistere prima della creazione.
Ma si accontenta di ciò e abbandona subito questo argomento, per
ribattere le altre obiezioni dei manichei. Infatti, quella prima dif-
24
Scoltà tendeva soltanto ad avvalorare il mito manicheo della crea-
zione, e questo, anche quando si accolga semplicemente come un
mito, implica i principi dualistici su cui si fonda tutto il loro sistema,
che Agostino vuole confutare. Si tratta dunque, per lui, di dimo-
strare la bontà e perfezione del creato, giustificando il male che
esiste nel mondo e nell'uomo, soggetto a morire.
Ma, quando insistono sulla debolezza, le sofferenze e la morta-
lità dell'uomo, i manichei commettono un errore fondamentale : essi
considerano infatti l'uomo quale è dopo il peccato. E questo è con-
sistito nella superbia, cioè nell'allontanamento da Dio. Nel peccato
di Adamo e nella sua condanna si manifesta infatti ciò che si veri-
fica ancora oggi. In un primo momento, si ha la suggestione, attra-
verso le raffigurazioni del pensiero o dei sensi che possono suscitare
— ma anche non suscitare — una passione. Può anche darsi che
questa trovi a sua volta un freno nella ragione. Ché se invece
questa, con o senza lotta, acconsenta alla passione, allora l'uomo
è veramente scacciato dal paradiso, perde cioè ogni felicità . Vi è
dunque la possibilità di non peccare e il libero arbitrio è riaffer-
mato, mentre la storia e le condanne del serpente e dei progenitori
significano che non possiamo subire tentazioni se non attraverso
quella ch'è la parte materiale di noi, nonchè le difficoltà e i dolori
provocati dal resistere alle tentazioni stesse, dal far sorgere, in
luogo della cattiva la consuetudine buona, dall'affaticarsi per giun-
gere alla conoscenza della verità .
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Quindi Agostino confuta le obbiezioni dei manichei contro la
Bibbia. Egli osserva che i cristiani sanno interpretare allegorica-
mente i passi che quelli tacciano di antropomorfismo, e sono ben
lungi dal considerare Dio come esteso, cioè corporeo. L'espressione,
che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio si riferisce sol-
tanto all'uomo interiore, dotato d'intelletto e di ragione, il quale
può essere chiamato anche uomo spirituale. Tale egli fu creato
quando Dio gl'insufflò lo « spirito di vita ». Quindi, nel Paradiso
l'uomo era spirituale e solo dopo esserne stato scacciato divenne
animale. E perciò, noi creati dopo il peccato percorriamo la via
inversa : animali dapprima, seguendo l'Adamo spirituale che è
Cristo, ricreati e nuovamente vivificati, veniamo reintegrati nel Pa-
radiso. Questo ritorno si compie gradatamente, progressivamente,
ed è facoltà dell'uomo l'iniziarlo, anche se forse non il condurlo a
25
termine. Il corpo spirituale, perduto da Adamo, potrà essere riac-
quistato da coloro che sappiano rendersene degni. Il peccato di
Adamo ed Eva è stato punito da Dio trasformando il loro in un
corpo mortale, che ospita un cuore mendace; ma la somiglianza
tra la condizione di Adamo dopo il peccato e quella di tutto il
genere umano non implica l'impossibilità di giungere al bene. Vi
sono infatti uomini, i quali anche in questa vita, riescono a odiare
ed eliminare i pensieri falsi e mendaci, effetto della loro condizione
mortale, e meritano con ciò che il loro corpo venga trasformato in
angelico e degno del Paradiso.
Agostino infatti sa che vi è un processo di rigenerazione, stabi-
lito dalla Provvidenza e di cui i sette giorni della creazione sono
il simbolo. Questi sette giorni significano le sette età del genere
umano : da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da questi a Davide,
l'epoca dei re, quella dalla cattività babilonese a Cristo ; col Vangelo
ha inizio la sesta età che, a differenza dalle altre, non comprende
un numero fìsso di generazioni, sicchè la sua durata è ignota ; e la
settima giungerà improvvisa, quasi vespera, quae utinam nos non
invernat, ma seguita però dal mattino, cum ipse Dominus in ciart-
iate venturus est (35). Ma gli stessi sette giorni simboleggiano altresì
le varie tappe della vita spirituale, della nostra ascensione a Dio.
Agostino le ha già descritte nel De quantitate animae (36). Vi sono
senza dubbio tra questi due luoghi delle differenze, ma identico
è in entrambi il concetto fondamentale della possibilità di una pro-
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gressiva purificazione interiore e di un'ascesa graduale verso la
perfezione morale, la sapienza, la conoscenza e il possesso di Dio
in cui consiste la beatitudine. E ciò, almeno per quando riguarda
l'inizio e le prime tappe del processo, per mezzo delle sole forze
umane. E' infatti certamente degno di nota che Agostino, parlando
della redenzione e graduale purificazione dell'anima, non accenni
affatto al battesimo. Non meno notevole è poi che il grado nel
quale l'uomo può dire di se stesso : mente servìo legi Dei, carne
autem legi peccati (Rom., VII, 25) sia soltanto il terzo; mentre —
se il passaggio dell'indicativo al congiuntivo desiderativo significa
qualche cosa — egli personalmente si considera già arrivato al
quarto (37).
Il problema dei rapporti tra \'auctoritas e la ratio torna a pro-
porsi nel De magisiro. Qui la lunga discussione sul linguaggio con-
duce a concludere che le parole altro non sono che signa delle co-
se, le quali sole contano : tutto ciò che esse significano ci è già noto
in una certa misura. E tale notizia si può avere per i soliti due
modi, la differenza tra i quali è espressa da Agostino ricorrendo
ancora una volta allo stesso testo di Isaia, VI, 9. Il credere è più
ampio che l'intellegere o lo scire; però il credere anche ciò che
propriamente non si sa, è utile.
Tutto ciò che è compreso intellettualmente è conosciuto; vero
conoscere è quindi soltanto Vintellegere; ma a ciò le parole possono
servire soltanto come richiamo. Senonchè ora per Agostino, cono-
scere non è più soltanto un ricordare; le parole non risvegliano in
noi idee apprese in una conoscenza anteriore. Esse bensì rimet-
tono per così dire in azione quella mens che possiede la verità in
quanto è stata deposta in essa da Dio, in quanto cioè vi è nella
anima dell'uomo come una particella, o un raggio, della verità e
sapienza divina (38), .cioè del Logos : Cristo, che abita e vive nel-
l'interno di ogni uomo e si rivela a ciascuno esattamente nella mi-
sura in cui questo ha saputo compiere la propria purificazione mo-
rale, nella misura cioè in cui ciascuno è disposto ad accoglierlo, se-
condo la propria volontà buona o cattiva. In queste parole, così ce-
lebri, è contenuta — mi sembra — una nuova giustificazione dell'in-
terpretazione data più sopra, dell'affermazione agostiniana che è ne-
cessario all'uomo, per redimersi, un soccorso divino. Infatti, se-
condo lo stesso De magistro, bisogna distinguere le cose sensibili
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e le intelligibili o, per parlare come la Bibbia, carnali e spirituali.
Le prime, o sono oggetto di una sensazione diretta e immediata,
oppure non si apprendono se non in quanto si presti fede alle
parole altrui. Le altre, invece, che vediamo con l'intelletto e con
la ragione, noi parlando le abbiamo presenti in quella luce spiri-
tuale che c'illumina internamente : chi ascolta, per poco che riesca
a sua volta a purificare il proprio occhio interiore, le contempla
anch'egli, in realtà , anzichè farsene soltanto una pallida immagine
attraverso le altrui parole. In questo senso si deve intendere che
Cristo è il solo maestro, come dice la Scrittura (39) ; le cui afferma-
zioni sono cosi dimostrate e chiarite nel loro autentico significato
dalla filosofia. La quale rappresenta dunque un grado di conoscenza
superiore e più completo, ma il cui contenuto non è diverso dal-
l'altro. Praticamente il credere ci porta allo stesso risultato dello
27
intellegere; ma questo soltanto ci permette di dimostrare, e pertanto
conoscere veramente, la dottrina contenuta nella rivelazione. Di pari
passo, la dottrina della conoscenza si è modificata; e troviamo qui
una spiegazione del conoscere più conforme alla dottrina della crea-
zione dell'uomo per opera di Dio (40).
Dall'inizio della sua conversione al cristianesimo, Agostino è
andato dunque approfondendo via via la sua esperienza, affron-
tando i problemi che gli si presentavano, preparando un'apologetica
antimanichea e rivolta a dimostrare la perfetta consonanza tra la
filosofia e il cristianesimo. Ma proprio in omaggio a quella concor-
danza egli lascia cadere qualcosa delle sue dottrine d'un tempo e
attenua in gran parte il vigore con cui aveva sostenuto la subordi-
nazione dell'auc/orzYas alla ratio. Nel De quantitate animae (41)
egli aveva osservato che il credere magnum compendiimi .est et
nallus labor, e aveva lasciato sdegnosamente questa via facile e
comoda agli imperitiores : che, se volessero arrivare all'intelligenza
razionale, si smarrirebbero; mentre coloro che non si contentano
di credere e non riescono a frenare la nobile ambizione di percorrere
la via più ardua, hanno anche forze sufficienti a superare le dif-
ficoltà . Invece ora, nel De magistro, il credere resta bensì solo
un passo verso la conoscenza vera ; ma Agostino ammette che non
tutto può essere conosciuto; e, in ogni modo, dichiara di saper
molto bene quam sit utile credere etiam multa quae nescio.
Si osserverà forse che si tratta d'una differenza solo di tono, di
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una questione di forma più che di sostanza; di una semplice sfu-
matura. Tuttavia, questa differenza non è trascurabile. E per di
più, siamo arrivati a un momento, nel quale Agostino ritiene di
poter esporre il suo pensiero integralmente e in forma sistematica.
NOTE
(1) Sul senso della dedica a Jerio, v. H.-T. Marrou, Saint Augustin et
la fin de la culture antique, Paris 1939, p. 163. Sul manicheismo del De pul-
chro et apio, anche R. Jolivet. Saint Auffuistin et le néoplaionisme chrétìen,
Paris (1932), p. 35.
(2) Non riesce a convincermi J. Guitton. Le temps et l'étetnité chez
ì'iotin et saint Augustin, Paris 1933, pp. 92 sgg., 102 sgg. ecc.
(3) Con ciò non si vuoi dare un giudizio d'insieme sul manicheismo,
gl'influssi cristiani sul quale sono stati mese' in luce sempre più da recenti
scoperte e studi. Ma neppure si può trascurare l'impiego nei manicheismo
greco-latino di una terminologia filosofila, testimoniata da Alessandro di
28
Licopoli e dallo stesso Agostino; o l'aspetto « scientifico » delle spiegazioni
che davano dei fenomeni celesti; o il carattere razionalista delle obiezioni
che i manichei facevano alla Bibbia e anche al Corano, riferite da S. Agostino
e da fonti copte e musulmane.
(4) Vorrei cosi precisare maggiormente ciò che il Marrou, o. c. p. 399,
osserva circa l'affinità della formazione culturale dei due uomini.
(5) In una molto cortese recensione al mio Scuri'Agostino d'Ippona il
prof. Tescari (in Convivium, 1930, p. 475) muove varie obiezioni a ciò che a
proposito di Monnica e della madre di Adeodato avevo scritto, forse con
espressioni che — trascinato da giovanile ricerca d'una certa scioltezza di
stile — andavano un po' al di là del mio pensiero. Ma, quanto alla so-
stanza, devo dirgli che non mi ha convinto. Si potrà forse, per riguardo ad
Agostino; dire col Jolivet — del resto, ben più severo di me nel fondo —
che per un giudizio definitivo « nous manquons des renseignements néces-
saires » (o. c., p. 85) sebbene questa non sia che una supposizione, di
fronte al chiaro racconto aelle Confessioni, al quale dobbiamo pure attenerci.
Il Tescari muove a me e ad altri un appunto circa l'interpretazione di Con/.
VI, 13, 23: cuius aetas ferme biennio minus quam nubilis erat. Dopo aver
citato Coni IX, 9, 19, Virgilio (Aen. 7, 53) Ovidio (iMeram. 14, 335) e Cice-
rone (Pro Cluent, 11) il Tescari conclude « che pur nel passo delle Confes-
sioni, ohe ha scandalizzato tanti ,la parola nubilis non abbia significato di-
verso dai passi citati (e dall'altro passo di Agostino'stesso) e^valga da ma-
rito ». E gli potrei rispondere che in Con/. IX, 9, 19 non è affatto indicato
quanti anni avesse Monnica quando andò sposa: che « con ogni verisimi-
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glianza » fosse « sui ventanni » è mera supposizione del Tescari, fondata
sul fatto che Monnica mori di 55 anni, quando Agostino ne aveva 32. Ma
ciò non prova nulla, perché come il Tescari osserva nella nota della sua
traduzione a cui mi rimanda, Agostino aveva una. sorella, e un fratello,
Navigio, di lui maggiore, ma di cui non sappiamo se fosse il primogenito e,
anche in questo caso, perché dovremmo supporlo nato durante il primo anno
di matrimonio? Ma è invece da aggiungere che proprio nei passi citati dal
Tescari (e Coni. IX, 9, 19 è chiara reminiscenza vergiliana) nubilis è accom-
pagnato da un'altra determinazione (plenis arrnìs: Agostino e Virgilio che
aggiunge matura; le due idee unite pure in Ovidio; grandis: Cicerone) a indi-
care appunto l'idea di un pieno sviluppo; mentre proprio in Coni. VI, 23
questa ulteriore determinazione manca. Piuttosto, mi chiederei questo: se
Agostino tace il nome della madre di Adeodato, sarà proprio per disprezzo
— come si suppone in genere — o non piuttosto per 'delicatezza?
(5bis) De util. cred., 1: racconto che Guitton, o. c. p. 250 ritiene ispirato
da una tesi; cfr. c. II, nota 32.
(6) Quali fossero questi libri, si è discusso 'di recente con una certa
vivacità , specic tra W. Theiler (Porphyrius und Augustin, Halle 1933) e il
p. Henry (Plotin et l'Occident, Louvain 1934). Per mio conto, ritengo più
plausibile la soluzione data ora da P. Courcelle, Les lettres grecques en
Occident de Macrobe a Cassiodore, Paris 1943, pp. 159-176) secondo il quale
l'espressione platonicorum libri indica veramente parecchie opere di vari
autori quindi almeno il IleplxaXoò di Piotino e il De regressu animae di Por-
fido nella traduzione di Mario Vittorino, oltre, probabilmente, a un trattato
di Mantio Teodoro che il Courcelle (p. 124 sgg.) propone suggestivamente
d'identificare con l'uomo immanissimo tylo turgìdus (Conf. VII. 9, 131 che
pose in mani d'Agostino le opere dei neoplatonici.
(7) II trovarsi questa metafora due volte in scritti agostiniani poste-
riori alla conversione (c. Acori. II, 1, 1; De b. vita, 1. 1) e il confronto con
altri scrittori ha fatto pensare a G. Lazzati (L'Aristotele perdalo e gli scrittori
cristiani, Milano 1938) che essa derivi in qualche modo, dal Protrettico di
Aratotele. Può dcir^i. Comunque, ha tutta l'aria di essere un'espressione
corrente. Cfr. anche le osservazioni del Marrou, o. c p. 213 sg, a proposito
della « sorte de xoi\rfj philosophique », della « tradition scoli-are représentée
par tonte une letterature de florilège» et de marmele » da cui «pestìo dipende
Agostino.
08) Su costui, v. ora il breve articolo di John J. Gavigan, St. Augutìne's
ìriend Nebridius in Catholic Hìstorical Review, XXXII, 1 (Aprile 1946),
pp. 47-58.
(9) Sulla concezione agostiniana della iym'nrtMc; itaiSela e le fonti di essa,
e in particolare le varie liste delle scienze e il fatto di aver omesso in
De ordine, II, 12, 35; 16, 44; 18, 47 l'aritmetica; cfr. Marrou, o. c., specie
pp. 191-197 e 213-217. Ma quanto al problema del perché Agostino non co-
minciò, a redigere un De astronomia, e quasi certamente non vi pensò nep-
pure, conviene non solo constatare, come fa il Marrou (p. 249), che Agostino
probabilmente non si dedicò allo studio di quella scienza (l'astronomia ma-
tematica), ma aipprofortdire l'altra osservazione dp. 196 sg.) relativa all'imba-
razzo che Agostino mostra ogni qualvolta ne parla: esso non traduce solo
« la crainte toujours presente de voir le lecteur confondre la science ma-
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thématique et son usage superstitieux », ma la resipiscenza di chi, per un
momento, vi prestò fede. Non ho potuto vedere, neppur io, il lavoro di De
Vreese, Augustinus en de astrologie, Maastricht 1933, che anche il Marrou
conobbe solo attraverso la recensione in PhiloI-Wochenschr., 1934, col. 4555.
(10) Mi associo quindi a quanto, recensendo l'opera di Suor Mary Pa-
tricia Garvey (Saint Augurine: Christian or Neo-Platonist? From his retreat
at Cassiciacum until his ordination al Hippo, Milwaukee, Wisc., Marquette
Univereity Press, 1939) scrive O. Amand, in Revue bénédìctine, 111 (1940),
p. 166: « Pantant d'une question mal posée, qui ne tient pas compte de l'atti-
tude philosophique, intellectualiste, du passionné de verità qu'était l'ex-pro-
fesseur de rhétorique la réponse est nécessairement deficiente. C'est une
gageure de vouloir séparer en lui [Agostino] le croyant, le chrétien sincère
et ardent de Cassiciacum et l'ami de la sagesse, le quéteur du vrai, celui
qui a écrit et pratiqué: Intellectum valde ama. Avec Jolivet, Grabmann,
Boyer, Gilson et d'autres, je reconnais volontiers qu'il n'y a pas de con-
tradiotion majeure entre les Dialogues et les Contessions et que l'Augustin
qui se recueille dans la maison de campagne près de Milan est un chrétien
qui a soumis son initelligence a la vérité divine se manifestant dans les
Ecritures et dans l'Eglise. Mais je refuse a rédiuire au minimum, comme le
fait S Garvey, l'influence preponderante du néo-platonisme sur l'esprit spé-
culatif et avide d'explioation rationnelle de notre converti ... Dresser la foi
chrétienne en antagoniste irréductible de la métaphysique et de l'éthique
de Plotin, c'est indùment sirnplifier les données de fait ».
(11) E' quanto mi ero sforzato di mettere in chiaro fin dal 1930 flcfr.
nota 13) e viene ora confermato da studi recenti: p. e. G. de Plinvat, Péìage,
ses écrits, sa vie et sa rélorme, Lausanne 1943, specialmente pp. 84 sg., 131 sg.
30
Si confronti anche, per la tradizione protrettica, il lavoro cit. del Lazzati,
oltre, s'intende, gli scritti fondamentali del Bignone; e le osservazioni del
Marrou, cit. alla n. 7; inoltre Courcelle, o. e , p. 169 sg. e p. 397: «la con^ •
venskxn d'Augustin est a la foie une conversion au néo^platonisme et au
christianisoie ».
(12) Di questa, come di varie altre opere di Agostino fino al De vera
religione ha dato eccellenti analisi anche A. Guzzo (Agostino dal « Contro
Academicos » al «De vera religione», Firenze [1925]); buone osservazioni
ha anche, tra altri, J. Guitton, o. e. Superfluo avvertire che non sempre mi
è possibile consentire in tutto con questi autori, o con altri.
Avverto anche, una volta per tutte, che cosi in questa, come nelle note
successive, indico soltanto quei passi che hanno più diretto e immediato
riferimento con il testo ; ma che di ciascuno scritto agostiniano è da tener
presente l'insieme e l'intonazione generale; ossia anche ciò che, a volte, per
brevità di esposizione, viene sottinteso.
Del C. Acati, si veda: 1, 1 e 2; 8, 25 (la exercitatio); II, 1, 1; 2, 5-6; 3, 9>
8, 14; HI, 1, 1; 9, 20; 17 Sgg.
(13) Agostino lip' •fifià ^ xaì xaSapiadcrco ^jxà i;, di 162, 700,
Greg. Nyss., Max. Taur., perché dal commento di Tertulliano ( Adv. Marc., IV,
26, CSEL 47, p. 509) non risulta sia degli eretici da lui combattuti; e lo stesso
si può dire di questa. Varrebbe dunque la pena di studiarla, anche perché è
questo l'unico luogo di Agostino in cui si trovi. Gir. C. H. Milne, A recan-
struction of the OId - latin text or texls of the Gospels used by Saint Aagastine,
Cambridge 1926, p. 15. Altre varianti in II, 74 a Mt. VII, 12, ecc. La conoscenza
del greco e i criteri che Agostino adotta nello stabilire il testo, sono ancora
quelli di un principiante.
(26) Cfr. De serm. Dom., I, 15: In caelis dictiim puto in spiritalibus fir-
mamentis, ubi habitat sempiterna iustitia; in quorum comparatlone terra dicitur
anima iniqua... Sentiunt ergo iam istam mercedem, qui gaudent spiritalibus
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bonis; sed tunc ex orimi parte perficietur, cum etiam hoc mortale induerit
Jmmortalitatem [cfr. / Cor., XV, 53-54]; I, 34: Nam tua sunt quibus impletur pec-
catum: suggestione, delectatione, et conseasione. Suggestio sive per memo-
riani fit, sive per corporis sensus... Quo si fruì delectaverit, delectatio illa
refrenanida est... Si autem consensio facta fuerit, plenum peocatum erit... Tria
ergo haec... similia sunt illi gestae rei quae in Genesi scripta sunt, ut quasi
a serpente fiat suggestio et quaedam suasio; in appetitu autem carnali, tam-
quam in Èva, delectatio; in ratione vero, tamquam in viro, consensio. Quibus
peractis, tamquam de paradiso, hoc est de beatissima luce iustitiae, in mortem
homo expellitur; iustissime omnino. Non enim cogit qui suadet. Et omnes na-
turae in ordine suo gradibus suis pulcrae sunt; sed de superioribus, in qui-
bus rationalis animue ordinatus est, ad inferiora non est declinaadum. Nec
quisquam hoc facere cogitur; et ideo, si fecerit, iusta Dei lege punitur; non enim
hoc committdt invitus; I, 54-55: Quibus laboriosi uè et operosius dici aut cogitari
potest, uibi omnes nervos industriae suae animus fia'elis exerceat, quam in vi-
tiosa consuetudine superanda?... Verumtamen in his laboribus cum quisque
difficultatem patitur et per dura et aspera gradum faciens circumvallatur
variis tentationibus... timet ne aggres&a implere non possit, arripiat conei-
Uum, ut auxilium mereatur. Quod est aulem aliud consilium, nisi ut infinni-
tatem aliorum ferat, et ei quantum potest opituletur, qui sibi divlnitus desi-
derat subveniri?; II, 23: lile etiam non abeurdus, immo et fidei et spei nostrae
convenjentissimus intellectus est, ut caelum et ternam accipiamus spiritum et
camem. Et quoniam dicit apostolus « mente pervio, ecc. », [Rom., VII, 25] vi-
81
demus factam voluntatem Dei in mente id est in spirito; e um autem absorpta
fuerit mors in victoriam et mortale hoc induerit immortalitatem [/ Cor., XV,
54-55], quod flet carnis resurrectiqne atque illa immuta tione quae promittitui
iustis, secun,dum eiusdem «postoli praedicationem, fiat voluntas Dei in terra
sicut in eoeJo; id est, ut quemadmodum spiritua non resistit Deo, sequene et
faciene voluntatem eius, ita et corpus non resistat spiritui vel animae, quae
nunc corporis infirmitate vexatur, et in carnalem consuetudinem prona est,
quod erit suimmae pacis in vita aetema, ut non solum velie adiaceat nobis, sed
etiam perficere, bonum... [cp. Rom. VII, 18] quia nondum in terra sicut in
caalo, id est nondùìn in carne sicut in spiritu facta est voluntas Dei. Narù et in
miseria nostra fit voluntae Dei, cum ea patimur per carnem quae nobis morta-
litatis iure debentur, quam peccando meruit nostra natura. Sed id orandum
est, ut... quemadmadum corde condelectamur legi secundum interiorem ho-
minem, ita etiam corporis immutatione facta, buic nostrae delectationi nulla
pars nostra terrenis doJoribus seu vohiptatibus adversetur; inoltre II, 44; 56;
I, 78, ecc. e anche I, 10-12 cit. alla n. 21 ecc.
Con il passo I, 15 cfr. De Genesi c. Man. II, 21 cit. a cap. I n. 35.
(27) Cfr. c. II, nota 16 e gli accenni analoghi nel De fide et symbolo.
(28) Epist. 23 cfr. Monceaux, Hist. liti, de I Air. chret., VII C1923), pp. 129
sgg. e 279.
(29) Cfr. Retract. I, 20 (211); e 5 y•.. •— 46: « Usque adeo autem dumi non facil
quisque quod debet, nulla culpa est condiloris... Si enim hoc debei quisque
quod accepit, el si homo factus est, ut necessario peccet, hoc debet ul peccet.
Cum ergo peccai, quod debet facit. Quod si scelus est dicere, neminem na-
tura sua cogit ut peccet. Sed nec aliena. Non enim quisquis dum id quod non
vult patitur peccat... Quod si neque sua neque aliena natura quis peccare
cogitur, restat ut propria voluntate peccelur. Quod si tribuere volueris Con-
ditori, peccantem purgabis, qui nihil praeter sui Conditoris instituta commisit,
qui si recle defendilur, non peccavit; non est ergo quod tribua« Conditori.
Laudèmus ergo Conditorem, si potest defendi peccator, laudemus si non potest.
Si enim iuste defenditur, non est peccatori lauda autem Conditorem. Si autem
defendi non potest, in tantum peccator est, in quantum se a Creatore avertiti
lauda ergo Creatorem ».
109
(27) Si sa che su taie questione Agostino respingendo tanto la dottrina
manichea guanto quella di Origene si mantenne a lungo incerto tra le varie
opinioni inclinaudo poi sempre più verso il Iraduciamsmo di Tertulliano, come
è ammesso generalmente dagl'interpreti del suo pensiero, tra cui Gilson
\Intrcrduction a l'elude de Si. Augwtin, Parie 1929, p. 65). Curioso che il Gil-
son non ricordi tra le fonti agostiniane né De Genesi ad liti. X, né l'Epistola
T.XC; né sembra distinguere bene tra l'Ep. CXI De anima et eius origine
i il trattato in 4 libri contro Vincenzo Vittore ,il cui titolo esatto è (cfr.
C.S.E.L., 60) è De natura et origine animae.
(28) De Ut. uri). ///, 47 (Evodio): Sed taaten scire vehem, si fieri potest,
quate illa natura non peccai, quam non peccaturam praescivit Deus, et quare
ista peccet quae ab ilio peccatura praevisa est. Non enim iam pulo, ipsa Dei
praescientia vel isiam peccare vel illam non peccare cogi... Sed nolo mini
respondeatur "voluntas"; ego 'enim causam quaero ipsius voluntatis ». —
48: (Agostino) « avariila cupiditas est; cupiditas porro improba voluntas eSt.
Ergo improba voluntas malorum omnium causa est». — 49: «Sed quae tan-
dem esse poterli ante voluntatem causa voluntatis? Aut enim et ipsa volun-
ias est, et a radice ista voluntatis non recedilur; aut non est voiuntas et
peccatum nullum habel. Aut igitur ipsa voluntas est prima causa peccandi
aut nullum peccatum est prima causa peccandi. Nec est cui recte impuletur
peccatum nisi peccami; non est ergo cui recle imputetur, nisi volenti... Deinde,
quaecumque illa causa esl voluntatis, aut iusla profeclo est, aut industa. Si
iusta, quisquis ei obtemper,averit non peccabiti si iniusta, non ei obtemperet
et non peccabit » (cfr. 50). — 51: «Et tamen quaedam etìam per ignorantiam
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facla improbantur et corrigenda iudicantur {/ Tim. I, 13; Ps. XXIV, 7; Rom.
VII, 19; Ga7. V, 17). Sed haec omnia hominum sunt, ex illa mortis damnalione
venientium; nam si non est isla poena hominis, sed natura, nulla ista pec-
cata sunt ». L'uomo ora « non est bonus nec habel in potestate ut bonus sii,
sive non videndo qualis esse debeat, sive videndo el non valendo esse, qna-
lem debere esse se videi: poenam isiam esse quis dubitet? Omnis autem
poena si iusta est, peccali poena est, et supplicium nominatur; si autem iniusta
est poena, quoniam poenam esse nemo ambigit, iniuste aliquo dominante no-
mini imposita est. Porro quia de omndpotentia Dei et iuslilia dubitare de-
mentis est, iusta haec poena est, et pro peccato aliquo pendilur. Non enim
quisquam iniuslus dominator aut subripere hominem poluit, velul ignoranti
Deo, aut extorquere invitd, tamquam invalidiori, vel terrendo vel confligendo,
ut hominem industa poena cruciare!. Relinquitur er.go, ut haec iusta poena
de damnatione hominis veniat ». — 52: « lila esl enim peccati poena iustìssi-
ma, ut amittat quisque quo bene uti noluit, cum sine ulla posset difficultate,
si vellet... Nam sunt re vera omni peocanti animae duo ista poenalia, ìgnoran-
tia et difficultas. Ex ignorantia dehonestat error, ex difficultate cruciatus
affligit. Sed approbare falsa pro veris, ut erret invitus, et resistente atque
torquente dolore carnalis vinculi non posse a libidinosis operibus temperare
non est natura instituti hominis sed poena damnati. Cum autem de libera
voluntate recle facieodi loquimur, de illa scdlicet in quo homo faclus est
loquimur ». — 53: Coloro che ritengono ingiusta la propria condanna « recte
fortasse quererentur si erroris et libidini^ nullus hominum victor exsisteret;
cum vero ubique sdt praesens qui multis modis per creaturam sibi Domino
servientem aversum vocet, doceat credentem. consoletur sperantem, diligentem
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adhortetur, conantem adiuvet, exaudial deprecantem. Non tifo i deputatur ad
culpam, quod invitus ignoras, sed quod negligis quaerere quod ignoras; neque
illud quod vulnerata membra non colligis, sed quod volentem sanare contem-
nis: ista tua propria peccata sunt ». — 54: v Nam iilud quod ignorans quisque
non recte facit et quod recte volens facere non potest, ideo dicuntur peccata,
quia de peccato ilio liberae voiuntatìs originem ducunt. Illud enim praecedens
meruit ista sequentia... Non solum peccatum illud dicimus, quod proprie voca-
tur peccatum — libera enim voluntate et a sciente commi tti tur — sed etiam
illud quod iam de huius supplicio consequatur necesse est ». — 56: « Noa
erit nascentibus animis ignoiantia et difficultas supplicium peccati, sed prt>-
ficiendi admonitio et perfectionis exordium... Quamquam enim in ignorantia
et difficultate nata sit (scil.: anima), non tamen ad permaneiudum in eo quod
nata est aliqua necessitate comprimitur ». — 64: « Non enim quod naturaliter
nescit et naturaliter non potest, hoc animae deputatur in reatum, sed quod
scire non studuit et quod dignam facilitati comparandae ad recte faciendum
operam non dedit ». — 65: « Creator vero eius (scit.: animae) ubique laudatur,
vel quod eam ab ipsds exordiis ad sturami boni capacitatem inchoaverit, vel
quod eius profectum adiuvet, vel quod impleat proficientem atque perficiait,
vel quod peccantem, id est aut ab initiis suis. seee ad perfectionem attollere
lecusantem aut iam ex profectu aliquo relabentem, iustissima damnatione pro
meritis ordinat... Quod ergo ignorat quid eibi agendum sit, ex eo est quod
nondum accepit; sed hoc quoque accipiet, si hoc quod accepit bene usa fuerit.
Accepit autem ut pie et diligenter quaerat si volet. Et quod agnoscene quid
sibi agendum sit, non continuo valet implere, hoc quoque nondum accepit:
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praecessit enim quaedam pars eius sublimior ad sentiendum quod recte faciat
bonum, sed quaedam tardior atque carnalis non consequenter in sententiam
(iuoitur; ut ex ipsa difficultate admoneatur eundem implorare adiutorem per-
fectionis suae, quem inchoationis sentii auctorem, ut ex hoc ei fiat carior,
dum non suis viribus, sed cuius bonitate habet ut sit, eius misericordia
sublevatur ut beata eit ».
(29) Ritengo che P. Alfaric (o. c., p. 412 eg.) avesse ragione di considerare
il terzo libro De libero arbitrio come non redatto di un solo getto. I cc. 13-17,
p. es. hanno tutta l'aria d'e&sere alquanto posteriori ad altri; lo stesso po-
trebbe dirsi dei cc. 50-62 (o forse anche 47-62); di questi ultimi sembrano
essere contemporanei i cc. 63-76.
Ma per me contano le idee manifestate nelle parti più importanti del
libro, e tali sono certo i cc. 31 e 51 sgg., che senza dubbio appartengono al
tempo in cui Agostino si sforzava di approfondire il senso delle epistole
Ai Romani e Ai Calati. Anche se alcune parti dello stesso libro fossero
etate redatte in precedenza, è evidente che le idee in esse esposte corrispon-
devano ancora al pensiero dell'autore al momento della pubblicazione.
(30) Jbid., 66: « Non enim metuendum est, ne vita esse potuerit media
quaedam inter recte factum atque peccaitum et sententia iudicìs media esce
non poesit inter praemium atque suppJicium ». — 67: « Quo loco etiam il-
lud perscrutar! homines solent, saciamentum baptismi Christi quid parvulis
prosit cum eo accepto plerumque monuntur priusquam ex eo quidquam co-
gnoscere potuerint. Qua in re sati« pie recteque creditur prodesse pannilo
eorum fidem a quibus consecrandus offertur. Et hoc Ecclesiae commendai salu-
berrima auctoritas, ut ex eo quisque sentiat quid sibi prosit fides sua, quando
111
in akorum quoque benefiaium, qui propriam nondum habent, potest aliena
commodari » ctr. De quant an., 80: « Cum vero etiam puerorum infantium
consecrationes quantum prosint obscurìssima quaestio est, nonnihil tamen
prodesse credendum est.
(31) De ìib. arb. IIi, 60. Agostino considera qui soltanto quegli eretici che
o non hanno un concetto esatto della trascendenza di Dio (cioè, i manichei) o
non intendono correttamente il dogma trinitario.
(32) Epistoìae ad Galalas expositio, 3: Giatia Dei est qua nobis donantur
peccata ut reconciliemur Deo; pax autem, qua reconciaamur Deo » (a I, 3); 16:
« Destruxit autem superbicim gJonantem de operibus Legis, quae deetrui et
deberet et posset, ne gratia fidei videretur non necessaria, si opera Legis etiam
sine illa iustificare crederentur » (a II, 17); 17: « Mortuum autem se Legi dicit,
ut iamsub Lege non esset, sed tamen per Legem; sive quia ludaeus erat et" tam_
quam paedagogum Legem acceperat, sicut postea manifestai; hoc autem agìtur
per paedagogum ut non sit necessarius paedagogus..., sive per Legem spi-
ritualiter intellectam Legi morluus est, ne sub ea carnaliter viveret. Nam hoc
modo per Legem Legi ut moreretur volebat, cum eis paulo post ait... ut per
eandam Legem spiritualiter iniellectam morerentur carnalibus observationibus
.Legis... Sub Lege autem vivit, in quantum quisque peocator est, id est in
quantum a vetere homine non est mutatus; sua enim. vita vivit, et ideo Lex
supra illum est... Nam iusto Lex posita non est (/ Tim. I, 9), id est imposita.
ut supra illum sit; in illa est, potius quam sub illa; quia non sua vita vivit,
cui coercendae Lex imponitur. Ut enim sic dicani. ipsa quodammodo Lege vivit
qui cvun dilectione iustitiae iuste vivit, non proprio ac transitorio, sed com-
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muni ac stabiti gaudens bono (cfr.De lib. arb. II, 19: « manifestimi est ergo ea
quae non commutamus et tamen sentimus corporis sensibus et non pertinere
ad naturam sensuum nostrorum et propterea magis nobis esse communia quia
in nostrum et quasi privatum non vertuntur atque mutantur... Proprium ergo
et quasi privatum intelligendum est quod unicuique nostrum soli est, et quod
in se solus sentit, quod ad suam naturam proprie pertinet; commune autem
et quasi publicum, quod ab omnibus senlientibus nulla sui corruptione atque
commutatone sentitur »). Et ideo Paulo non erat Lex imponenda, qui dicit
« vivo autem » ete. " ete. Quis ergo audeat Christo Legem imponere, qui vivit in
Paulo?» (a II, 19-21); 46: « Quod autem ait "caro concupiecit " ete. putant hic
homines liberum voluntatis arbitrium negare apostolum nos habere nec intel-
ligunt hoc eis dictum si gratiam fidei susceptam tenere nolunt, per quam solam
poesunt spiritu ambulare et concupiscentias cainis non perficere; si ergo nolunt
eam tenere, non poterunt ea quae volunt facere. Volunt enim operari opera
iustitiae quae sunt in Lege sed vincuntur concupiscentia carnis, quam se-
quendo deserunt graliam fidei... Cum enim charitas Legem impleat. prudentia
vero carnis commoda temporalia consectando spiritali charitati adversetur, quo-
modo poteet legi Dei esse subieota, id est libenter atque obsequenter implere
iustitiam, eique non advsrsari, quando etiam dum conatur, vincatur necesse
éet, ubi invenen! maius cornmodum temporale de miquitate se posse assequi,
quam si custodiat aequitatem? Sicut enim prima nominis vita est ante Legem,
cum nulla nequitia et malitia prohibetur... sic secunda est sub Lege ante gra-
tiam, quando prohibetur quidem et conatur a peccato abstinere se, sed vincitur,
quia nondum iustitiam propter Deum et propter ipsam iustitiam diligit... Tertia
est vita sub gratia, quando nihil tempo-ralis commodi iustitiae praeponitur:
112
quod nisi charitate spirituali, quam Dominus txemplo suo docuit et gratia do-
navit, fieri non potest. In hac enim vita etiamsi existant desideria carnis de
mortasiate corporis, tamen mentem ad consensionem peccati non subiugant.
Ita iam non regnai peccatiim in nostro mortali corpore, quamvis non possit
Disi inhatwtare in eo, quamdiu mortale corpus est. Primo enim non regnai, cum
mente servimus legi Dei, quamvis carne legi peccati, id est poenali consuetu-
dini, cum ex iL'a existunt desideria, quibus tamen non obedimus; poslea vero
ex omni parte exstinguilur... (a V, 17; si osservi come Agostino qui finisca per
commentare Romani): 48: « Agunt autem haec (scil.: opera carnis) qui cupidi-
ta tibus carnalibus consentientes facienda esse decernunt, etiamsi ad implen-
dum facultas non datur. Caeterum, qui languntur huiusmodi motibus et immo-
biles in maiore charitate con&istunt, non solum non eis exhibentes membra
corporis ad male operaradum, eed neque nutu consensionis ad exhibendum con.
. sentientes; non haec agunt et ideo regnum Dei possidebunt. Non enim iam. re-
gBat peccatum in eorum mortali corpore.., quamvis habilet in eorum mor-
tali corpore peccatum, nondum extincto impetu consuetudinis naturaiis, qua
mortaliter nati sumus et propriae vdlae nostrae, cum et nos ipsi peccando
auximus quod ab origine peccati humani demnatdonisque trahebamus. Allud
est enim non peccare, aliud non habere peccatur. Nam in quo peccatum
non regnat, non peccai, id est non obedit deeideriis eius; in quo autem non
existunt omnino i sta desideria, non solum non peccai, sed etiam non habet
peccatum. Quod etiam sd ex multìs partibus in ista vita possit effici, ex omni
tamen parie nominisi in resurreclione carnis alque commulatione sperandum
esl ». (a V, 19-21). 49: « Nam in quibiltì haec regnant, ipsi Lege legitime utuntur
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quia non eel illis Lex ad coercendum posita: maior enim et praepollentior de-
lectatio eorum iuetilia est... Regnant ergo spirituales isli fructus in homine, in
quo peccata non regnant. Kegnant autem ista bona, si tantum deleclant, ut ipca
teneant. animum in tentationibus, ne in peccati consensionem ruat. Quod
enim amplius nos deleotat, secunidum id operemur necesse est: ut, verbi gratia,
occurrit fo'rma speciosae feminae et movet ad deleclationem fornicationis, sed
si plus delectat -pulcriludo iila intima el sincera species caslitatis, per gratiam
quae est dn fide Christi, secundum hanc vivimus el secundum hanc operamur;
ut, non regnante in nobis peccato ad oboedieiidum desideriis eius, sed regnante
iuslitia per charitatem cum magna delectatione faciamus quidquid in ea Deo
piacere cognoscdmus. Quod autem de castitate el de fornicatione dixi, hoc de
celcris inteiligi volui » (a V, 22-23) 54: «Manifestum esl certe secundum id nos
vivere quod sedati fuerimus; sectabimur autem quod dilexerimuG. Itaque si ex
adverso existant duo, praeceptum iustitdae el consueludo camelis, et utrumque
Jiligilur, id sectabimur quod amplius dilexerimus; sd tantumdem utrumque
diligitur, nihdl horum sectabimur, sed aut timore aut inviti trahemur in alteru.
tram partem, aul si utrumque aequaliler etiam timemus, in pericuilo eine dubio
remanebimus, fluctu dilectionis et timoris alternante quassati » (a V, 25). 50:
« Cum carnis et spiritus nominibus a pcena peccati usque ad gratiam Domini
atque iustitiam nos converti oportere praadicerel (scil.: Apostolus), ne dese-
rendo gratiam temporalem qua pro nobis Dominus mortuus est, non pervenia-
mus ad aeternam quietem, in qua pro nobis Dominus vivit, neque initell'igendo
poanam temiporalsm in qua nos Dominus mortasiate carnis edomare dignatus
est, in poenam semipilernam incidamus, quae perseverano adversum Domanum
superbiae praeparala est ».
113
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V
Ne\\'Expositio Epistolae ad Calatas un altro punto colpisce la
nostra attenzione, ed è l'interpretazione del passo II, 11-16, dop-
piamente celebre, per se stesso e nella storia dell'esegesi, il quale
racconta il dissidio tra Paolo e Pietro in Antiochia. Agostino ac-
cetta senza discussione la realtà dell'episodio e nell'attegiamento di
Pietro, sottomessosi al rimprovero di Paolo a lui inferiore, ravvisa
un insigne esempio di quell'umiltà che tutto il commento si pro-
pone d'inculcare. Ma talune frasi hanno un'intonazione polemica,
e lasciano chiaramente divedere che Agostino contrappone qui la
sua esegesi a quella di un altro scrittore, secondo il quale Paolo
avrebbe fatto a Pietro un rimprovero simulato; che se la ripren-
sione da lui rivolta a Pietro fosse stata vera, avrebbe dovuto svol-
gersi in segreto. Anzi, Agostino sembra preoccuparsi di rispondere
ad argomentazioni ricavate dalla condotta di S. Paolo in altre cir-
costanze; e al modo di comportarsi di lui, ispirato dalla carità ,
contrappone quello di San Pietro, suggerito da motivi meno
plausibili (1).
La stessa interpretazione del passo indicato, con la stessa into-
nazione polemica, anzi più vivace e precisa, e con la medesima
preoccupazione di confutare argomenti ricavati dall'azione di San
Paolo (2) si ritrova nell'opera composta poco o immediatamente
dopo \'Expositio Epistolae ad Calatas, un trattatello morale, la cui
presenza in mezzo a una serie di opere esegetiche ci sorprende
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alquanto: il De mendacio (3). Qui Agostino si pone il duplice
problema, di definire esattamente la menzogna e di stabilire se
sia vero che il mentire sia in qualche caso lecito e utile o addirittura
115
doveroso (4). La prima questione è trattata piuttosto rapidamente;
alla seconda è dedicato quasi tutto il libro, di cui forma il tema
principale. Vi sono, dice Agostino, alcuni i quali credono che la
bugia sia talvolta buona, e citano a prova esempi tratti dall'Antico
Testamento (Sara, Esau, le levatrici degli Ebrei) ; ma questi esempi
•non provano nulla, perché ciò che è scritto nell'Antico Testamento,
anche se è realmente accaduto, dev'essere inteso in senso figurato.
Invece nel Nuovo Testamento, eccettuate le parabole, non si tro-
vano né racconti allegorici né esempi che autorizzino la menzogna.
Quindi è molto più plausibile l'opinione di coloro che sono contrari
a ogni specie di bugia (5). In seguito, Agostino passa in rassegna-
e discute minutamente tutti i casi in cui il mentire può sembrare
lecito. Non lo seguiremo in questa disamina : la cui conclusione è
che è sempre meglio dire il vero, anche quando la menzogna sia
detta per evitare un danno grave ; giacché nessun male è peggiore
che la corruzione dell'anima. Sarà lecito, egli osserva, commettere
un peccato affine di evitarne un altro, allorché siano in pericolo due
beni entrambi spirituali ; ma allora non è sempre il caso di parlare
di peccato. Quali sono del resto i beni da salvare ad ogni costo?
La pudicitia corporis in realtà non si perde, ove manchi il con-
senso; la castitas animi consiste nella volontà buona e nell'amore del
vero bene, cioè di quello rivelato dalla Verità divina ; la veritas doc-
trinae religionis atque pietatis non è violata se non, appunto, dalla
menzogna. Quindi noi siamo sempre liberi della scelta e poiché la
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stessa verità divina c'insegna a preferire la perfetta fede anche alla
castità del corpo (la quale è nulla senza quella dell'anima ; ed essa
a sua volta consiste in un amore dei diversi beni rispettoso della
loro gerarchia), sappiamo che nessuna menzogna è lecita e che
vano è l'addurre a nostra giustificazione un presunto stato di ne-
cessità . Mentire o dire il vero dipende da noi, come il preferire i
beni inferiori e materiali o quelli spirituali e superiori (6).
Appare evidente che anche in quest'opera Agostino mira a
combattere i manichei, con la riaffermazione sia del libero arbitrio,
sia dell'accordo esistente tra le due parti della Bibbia, quando per
l'Antico Testamento — o almeno per quelle parti di esso che ap-
paiono scandalose — si sappia ricorrere all'interpretazione alle-
gorica. Ma è anche chiaro che Agostino non ha scritto il De men-
dario principalmente con questo scopo e altresì che il problema del-
116
I'« officiosum mendacium » non gli si è presentato che in conse-
guenza di un fatto concreto, quale non può essere altro che quella
interpretazione dell'incidente di Antiochia, alla quale egli si oppone
con tanta forza. E che si trattasse di una questione importante per
Agostino — come lo fu del resto per parecchi altri — ci punto da
indurlo a scrivere un intero libro, si spiega allorché si consideri
ch'egli si trovava ad opporre la sua opinione a quella del più illustre
esegeta del suo tempo, celebre anche come polemista : San Giro-
lamo (7). E infatti, questo dell'interpretazione del contrasto tra
Pietro e Paolo in Antiochia è uno degli argomenti della celebre
controversia epistolare, tra i due grandi Padri latini (8), in cui Ago-
stino osserva appunto che l'esegesi di Gerolamo mette in pericolo
l'autorità della Bibbia. I manichei sostengono già che i passi del
Nuovo Testamento a loro contrari sono falsificati e a mala pena
li possiamo confutare mettendo loro sott'occhio codici antichi e il
testo greco : che avverrà se noi stessi riconosceremo che gli apo-
stoli hanno scritto cose non vere? (9). Ma Agostino sembra an-
nunciare a Gerolamo uno scritto speciale intorno all'interpretazione
dei passi biblici addotti a sostegno della menzogna « doverosa » :
certamente il De mendacio. E sono questi accenni che possono aver
contribuito a far correre la voce che Agostino avesse scritto un'o-
pera polemica contro Girolamo : voci che giunsero anche a Betlem-
me e a Ippona e che Agostino, appena le conobbe, si affrettò a
smentire (10). Anzi, queste voci, e il rispetto per il solitario di Be-
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tlemme, contribuirono a indurre Agostino a tenere il suo scritto
per sé. Veramente, nelle Retractationes (11) dice che esso gli parve
obscurus et anfractuosus et omnino molestus, tanto che pensò di
distruggerlo e che per questo non lo pubblicò, tanto più, in quanto
aveva scritto un'altra opera sullo stesso argomento, il Contra men-
dacium. Però non lo distrusse. Anzi, nel redigere le Retractationes,
Agostino riconosce che il De mendacio, nonostante i suoi difetti, e
ancora utile, anzi necessario, perché contiene cose che non si tro-
vano nel Contra mendacium : del che, dice, si rese conto nel
rileggere tutte le sue opere. Ora, le Retractationes sono all'incirca
del 427, ma il progetto di scriverle alquanto anteriore (12); il Contra
mendacium è del 419 o 420. Dopo averlo scritto, Agostino man-
tenne la decisione di lasciare inedito il De mendacio, ma poi invece
lo pubblicò, tra il 420 e il 427, anno nel quale ne parla come di
117
opera già in circolazione da qualche tempo. Il che significa che la
pubblicazione avvenne solo dopo che Agostino ebbe notizia della
morte di S. Girolamo (30 settembre 420). Né d'altronde si vede per
qual ragione, fuori di quella di non urtare la suscettibilità di Giro-
lamo (13) e di non riaccendere la polemica, Agostino avrebbe man-
tenuto inedito per più di 25 anni questo suo libretto, senza distrug-
gerlo né alterarlo. E' davvero paradossale, che lo scrittore contrario
alla menzogna in tutte le sue forme, sia stato poi, nelle Retracta-
tiones, per lo meno reticente circa le vere ragioni per cui non pub-
blicò il De mendacio : ma è reticenza che costituisce un esempio
di carità .
**
Ci troviamo così di fronte ad un'altra serie di problemi.
Infatti, noi abbiamo veduto Agostino incominciare a informarsi degli
scrittori ecclesiastici e prender loro a prestito argomenti e me-
todi (14). Già in base a questo fatto si pone il problema delle fonti
delle opere esegetiche di lui ; di fronte alla dichiarazione esplicita
ch'egli ha voluto leggere il commento di S. Girolamo all'epistola
Ai Calati, non è possibile sottrarci all'obbligo di ricercare se e fino
a che punto egli abbia utilizzato non soltanto quel commento, ma
anche altri dello stesso S. Girolamo, nonché quelli di altri esegeti.
Per quanto è dato stabilire attraverso una rilevazione parziale (15),
il commento a Calati di Girolamo fu letto e utilizzato da Agostino
non solo a proposito dell'« incidente di Antiochia » ma anche di altri
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punti (16).
Del pari sembra si possa affermare con relativa sicurezza che
Agostino conobbe e in qualche punto ebbe presente il commento di
Mario Vittorino (17). Eppure, una lettura seguita di tutta l'Expositio
agostiniana, condotta tenendo presenti anche i commenti dei pre-
decessori, fa risaltare in piena luce l'indipendenza di Agostino chi
anche là dove ha aderito alle spiegazioni altrui, accoglie bensì il
loro pensiero, ma si mantiene originale. D'altronde, \'Expositio stes-
sa ha tutta l'aria di derivare da un commento orale, anzi si direbbe
qua e là , occasionale e forse addirittura improvvisato : che, a parte
qualche luogo in cui Agostino si addentra in discussioni di alta teo-
logia, l'esegesi procede generalmente piana e semplice, senza le
118
osservazioni filologiche di cui si arricchisce quasi ad ogni passo il
commento geronimiano, e lasciando invece trasparire qua e là la
persona dell'ecclesiastico e il tono del sermone (18).
Un problema ben più grave, anche per le discussioni a cui ha
dato luogo, è presentato dall'Ambrosiastro, il quale commenta l'in-
cidente di Antiochia nello stesso senso di Agostino. Ora questi, po-
lemizzando con Girolamo non solo contesta l'autorità degli esegeti
da lui addotti a sostegno della propria tesi, ma contrappone a co-
storo S. C ipriano e S. Ambrogh (19). Il passo del primo, al quale
evidentemente Apostino si rifensce; è stato ritrovato; non così quel-
lo del secondo. Perciò si presenta spontanea l'ipotesi che non di
S. Ambrogio si trattasse, bensì dell'Ambrosiastro : al quale rimanda
infatti il Goldbacher nell'apparato della sua edizione, indicando il
commento a S. Paolo ; mentre il Baxter costruiva un'ipotesi alquanto
più complicata, tenendo conto allresì di quanto era stato asseri'.o da
aitri circa la conoscenza dell'Ambrosiestrc da parte di Agostino,
a proposito della lettera Ai Romani (20). Ma il problema è reso al-
quanto più complicato dal fatto che del dissidio tra Pietro e Paolo
l'Ambrosiastro si occupa non soltanto nel commento a Calati, ma
altresì in una delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti.
Conviene prima di tutto ricordare che l'epistola 82 di Agostino
è generalmente assegnata al 405 circa, perciò di un diecina d'anni.
o più, posteriore all'inizio della polemica e ali'Expositio; e che poco
prima del passo riferito Agostino ricorda un'altra volta Ambrogio,
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ed esattamente, benché in maniera affatto generica (21). Ma soprat-
tutto colpisce il fatto che, nel suo Tractatus a Calati l'Ambrosiastro
esamina gli argomenti di Girolamo, ma in particolare quello tratto
dalla circoncisione di Timoteo (22), mentre Agostino si ferma — e
solo per un istante — a confutare l'altro, che cioè se Paolo avesse
voluto rimproverare Pietro davvero e non soltanto quasi per uno
stratagemma, sarebbe ricorso alla riprensione segreta. Quindi, se en-
trambi concordano nell'opporsi all'interpretazione accolta e difesa
da Girolamo, questo accordo è, direi, puramente negativo, in quanto,
pur essendo loro comune il proposito di respingere llinterpretazio-
ne di quello, la confutano in maniera diversa. E' vero che dobbiamo
tener conto anche di quel desiderio di indipendenza, che abbiamo os-
servato in Agostino anche quando utilizza scritti di predecessori.
Ma mi preme aggiungere subito, che, per quanto ho potuto vedere,
119
non s'incontrano nell'Expositio agostiniana altri punti di contatto
con i Tractatus del misterioso contemporaneo di papa Damaso. Alla
circoncisione di Timoteo, Agostino accenna invece nel De mendacio
e più ampiamente nel Contra Faustum e nella ricordata epistola
82 (23). Ora, si comprende benissimo che Agostino, nel commento
a Calati si contentasse di respingere sommariamente l'interpreta-
zione altrui per sostenere la propria, indicando solo l'argomento che
gli pareva perentorio ; mentre poi, nella polemica diretta, doveva
prendere in considerazione tutte le ragioni dell'avversario, che non
aveva certo bisogno di apprendere dall'Ambrosiastro. Il che non to-
glie che Agostino abbia ferse potuto conoscere anche il Tractatus in
Calatas quando scriveva il Contra Faustum. Ma quello che importa
stabilire ai fini del nostro studio, non è tanto se Agostino abbia cono-
sciuto in un'epoca qualsiasi questo scritto dell'Ambrosiastro, bensì
se lo conoscesse nel momento particolare in cui redigeva l'Expositio.
E resta il fatto della nessuna somiglianza tra questa e il Tractatus
Ma l'Ambrosiastro si occupa del medesimo argomento anche
in una delle Questiones : precisamente la LX dell'Appendice nell'ed.
Scuter. In essa, il problema è posto negli stessi termini di Girola-
mo : come mai poteva davvero rimproverare Pietro quello stesso
Paolo il quale, circoncidendo Timoteo, s'era comportato precisamen-
te allo stesso modo di Pietro? E la risposta è identica a quella data
nel Tractatus : se Timoteo, nato di madre giudea, fosse venuto al
cristianesimo senza passare attraverso la Legge, ciò avrebbe dato
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scaricalo a tutti i fedeli provenienti dal giudaismo. Ma non troviamo
menzionati nella Quaestio (né, del resto, nel Tractatus) i cognati di
Timoteo, dei quali parla invece Agostino nella lettera a Girolamo (24).
Per contro la preoccupazione antimanichea da cui Agostino stesso
sembra essersi lasciato principalmente guidare nel combattere Giro-
lamo, è del tutto assente dai due scritti dell'Ambrosiastro. Quanto
alla relazione tra questi due, è da considerare che molte delle Quae-
stiones lasciano chiaramente intravedere il loro carattere di scritti
d'occasione : non sembra quindi inverosimile che la Quaestio LX
sia stata suggerita proprio dal desiderio di contrastare l'interpreta-
zione di Girolamo. Certo non polemizza con l'altro commento,
quello di Mario Vittorino, in cui non vi è traccia di tale spiegazio-
ne (25). Il fatto che detta quaestio, così come la qu. LII, su
Calati V, 17, manchi nella seconda edizione delle Quaestiones, si
120
spiegherebbe qualora si ammettesse che fossero entrambe ante-
riori al Tractatus in Calatas, in seguito al quale l'autore avrebbe
ritenuto superfluo ripubblicarle (26). Ma, concludendo, credo di
non poter rispondere affermativamente al quesito se sia la Quae-
stio sia il Tractatus fossero noti ad Agoslino nel momento in cui
componeva l'Expositio Epistolae ad Calatas.
***
Resta tuttavia da considerare, a proposito della conoscenza dei
Tractatus dell'Ambrosiastro da parte di Agostino e dell'influenza che
essi avrebbero esercitato su di lui, la serie degli scritti relativi alla
lettera Ai Romani. A tal fine non sarà inutile esaminare il pensiero
dell'Ambrosiastro, almeno quale risulta dal commento a Romani.
Incominciamo precisamente dal passo che, per essere citato dallo stes-
so Agostino, ha in certo modo dato origine alla discussione (27). Da
vero commentatore, l'Ambrosiastro segue fedelmente il testo ; e per
primo sottolinea il parallelismo tra l'unico Adamo e l'unico Cristo,
per cui mezzo soltanto il genere umano fu salvato, e che è uno in so-
stanza con Dio Padre. Quindi passa a commentare l'inciso in quo
omnes peccaverunt. Il pronome relativo, maschile, si riferisce evi-
dentemente a Adamo; quindi tutto il genere umano, discendente da
lui, è stato generato sub peccato e tutti gli uomini sono peccatori,
perché Adamo prevaricò e meritò la morte. Ma questa è solo la morte
corporale, cioè la separazione dell'anima dal corpo e non va confusa
con la « seconda morte », quella della Geenna, alla quale siamo bensì
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sottoposti in conseguenza del peccato di Adamo, ma solo in quanto
esso fornisce un'occasione ai peccati personali, che sono la causa del-
la condanna. Da tale seconda morte sono dunque esenti i giusti —
s'intende, quelli dell'Antico Testamento —, sebbene d'altra parte le
loro anime non potessero ancora salire al cielo, a causa appunto del-
la sentenza che ha colpito lo stesso Adamo (28). Vi sono dunque stati
sempre dei giusti, anche se pochi, o per lo meno uomini che non
hanno peccato allo stesso modo di Adamo. Giacché per l'Ambrosiasiro
il peccato fondamentale è l'idolatria e non diverso da essa è lo stes-
so peccato di Adamo, il quale pensò di poter diventare un dio. Nel
suo sforzo per intendere il valore e il significato della legge, egli s'i-
spira a questa considerazioie fondamentale : quello che conta è il rap-
porto che gli uomini hanno o non hanno saputo stabilire con Dio.
'
121
Prima della legge mosaica, esisteva già tra gli uomini la legge natu-
rale ma si riteneva ch'essa valesse soltanto a regolare i rapporti uma-
ni, e s'ignorava che Dio avrebbe giudicato le azioni di ciascuno. Ciò
divenne chiaro allorché fu promulgata la legge mosaica, ma gli uo-
mini avrebbero potuto e dovuto non ignorarlo ; senonché essi abban-
donarono Dio per venerare gli idoli, violando così la prima parte
della stessa legge di natura, che impone di onorare il Creatore e
non attribuire ad alcuna creatura la maestà e la gloria proprie di lui
solo. Così gli uomini peccavano, nella loro stolta illusione di rima-
nere impuniti, e se ne allietava Satana, sicuro che Dio gli avesse
abbandonato l'uomo in possesso, a causa di Adamo. Ma la morte
non regnava su tutti, perché non tutti peccarono « in somiglianza alla
prevaricazione di Adamo », poiché non tutti abbandonarono il Crea-
tore. Coloro che rimasero fedeli a Dio, peccarono anch'essi — per-
ché è impossibile non peccare — ma non contro Dio, quindi su questi
pochi la morte non regnò. Così il regno della morte cominciò ad es-
sere distrutto fra gli Ebrei, che conobbero Dio ; e oggi è distrutto
ogni giorno più fra tutti • i popoli, che in maggioranza si cambiano
da figli del demonio in figli di Dio. Che Dio stabilì di emendare per
mezzo di Cristo ciò che era stato violato per opera di Adamo (29).
Venuta la legge mosaica, si vide che Dio punisce le cattive azioni
degli uomini, ma questi dominati dall'antica consuetudine radicata in
loro, rimasero « carnali » e continuarono a fare ciò che la legge vieta ;
« dominati dal senso della carne », che impedisce di credere alle ve-
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rità spirituali della fede, vissero nel peccato, schiavi di esso. Anzi il
peccato — cioè il demonio — trasse maggior forza dal divieto e,
spingendo l'uomo a contaminarsi sempre più con peccaminosi pia-
ceri, rese ancora più saldo il proprio dominio. L'uomo è incapace,
senza il soccorso della misericordia divina, di ubbidire alla legge e
di resistere al nemico ; ha un corpo corrotto da un difetto dell'a-
nima ed è soggetto al peccato, in quanto il demonio può imporsi alla
sua volontà e dominarla. Il diavolo non aveva questo potere prima del
peccato di Adamo ; ma, dopo che questi ebbe dato ascolto al serpente,
il demonio ottenne il potere di sottomettere l'anima dell'uomo e si-
gnoreggiarla ; perché il corpo dell'uomo — creato tale che, essendo
unito all'anima, non era soggetto alla morte — divenne invece mor-
tale, soggetto a desideri inferiori che si comunicano all'anima e le
sono come un peso opprimente. Ma sin dall'inizio Dio volle pre-
122
disporre un modo di riparare al peccato di Adamo e alle sue conse-
guenze : onde alla legge naturale è subentrata la Legge mosaica e a
questa quella della fede e della grazia. La grazia di Dio, concessa
mediante Cristo,, ha liberato l'uomo dalla seconda morte e dal peccato
rendendolo così capace di servire con l'anima la Legge di Dio, ben-
chè la carne serva ancora la legge del peccato, cioè del diavolo, che
attraverso la carne a lui soggetta presenta ancora all'anima le sue
tentazioni malvage. Ma quando si dice « Legge di Dio » si intendono
tanto la Legge mosaica, esclusa la parte cerimoniale, quanto la ?ra-
zia. Ora, in virtù di questa, l'uomo, tornato alla consuetudine buona e
con l'aiuto dello Spirito Santo, è in grado di resistere alle tentazioni e
al nemico, mentre il corpo vi è ancora soggetto. Ma il corpo non po-
teva essere restituito al suo stato primitivo di immortalità , ostandovi
la sentenza emanata da Dio su Adamo. Pur rispettando la santitÃ
della cosa giudicata, fu trovato dunque un rimedio, che rendesse al-
l'uomo la sua primitiva salute spirituale. In altri termini, all'uomo giÃ
reso incapace di resistere alle tentazioni, è stato restituito pienamente
il libero arbitrio (30).
E infatti Dio, nella sua prescienza, conosce coloro che gli
saranno fedeli, e li elegge in base appunto alla sua prescienza.
Non si tratta dunque di una predestinazione nel senso stretto della
parola ; ma — anche nell'Ambrosiastro come nelle opere di Ago-
stino che abbiamo esaminato — di una predestinazione conse-
guente la previsione dei meriti. L'Ambrosiastro non si nasconde la
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difficoltà , che solleva il separare troppo nettamente la prescienza
dall'onnipotenza, il conoscere dal volere in Dio ; sa — e lo dice —
che le cose non possono svolgersi altrimenti da come Dio le ha pre-
viste. Ma — a parte il fatto che l'argomento cui si interessa real-
mente è molto più la condizione degli Ebrei e la loro conversione
(31) che non il problema della salvezza in maniera generale — egli
si preoccupa straordinariamente di salvaguardare la giustizia di Dio.
Perciò afferma che i decreti con i quali Dio stabilisce la sorte del-
l'uno o dell'altro sono posteriori al suo conoscere in che maniera
si comporterà ciascuno. L'eleggere, cioè il chiamare alla fede co-
lui del quale Dio sa in precedenza che darà ascolto, non è un atto
di favore, per cui, tra due uomini nelle stesse condizioni, Dio ne
sceglierebbe uno in base a una specie di simpatia personale : anzi,
Dio non fa considerazione di persona, ripete l'Ambrosiastro, ricor-
123
dando ancora Rom. II, 11. Tanto forte è in lui questa preoccupazione,
che egli vede addirittura nelle parole del vs. 18, non l'espressione del
pensiero di Paolo, ma parole da lui messe in bocca a un supposto
contraddittore. Insomma, Dio non agisce arbitrariamente, come fa-
rebbe il vasaio ; è vero che noi siamo di fronte a lui come dinanzi al
vasaio la massa amorfa, ma Dio sa bene di chi aver compassione
giustamente. Non solo; ma è longanime, aspetta che coloro i quali
non hanno fede si rendano con la loro pervicacia indegni di ogni
scusa ; e nella sua longanimità prepara questi alla rovina, e i buoni
e credenti alla gloria. Ma tale preparazione consiste appunto nella sua
prescien7a, la Quale pertanto non si può in alcun modo disgiungere
dalla giustizia (32).
Già da questa rapida esposizione è facile vedere in quanti e
quali punti l'esegesi dèll'Ambrosiastro coincida con quella di Agostino.
Sebbene animato da motivi che il secondo non condivide menoma-
mente (l'altissimo valore attribuito alla Legge mosaica, la sorte del
popolo ebraico, insieme con una mentalità di giurista che si manifesta
nel rispetto per l'intangibilità della sentenza regolarmente emanata
e passata in giudicato) pure in sostanza anche l'Ambrosi astro distingue
la storia del genere umano in quattro periodi, che corrispondono a
quelli di Agostino, sebbene non li definisca altrettanto nettamente
né dia loro gli stessi nomi. Ma anche per lui il peccato è dovuto
al dominio esercitato dai sensi sull'uomo, incapace di sottrarsi, senza
l'aiuto divino, e del tutto, asl'impulsi e agli appetiti di natura infe-
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riore, che provengono dal corpo mortale. Concedendo all'uomo, dopo
la grazia- della nuova legge, la capacità di resistere agl'impulsi mal-
vagi — si noti che questa « legge della fede » è la terza, dopo quella
naturale e la mosaica ; facendo della « seconda morte » una pena
speciale per il mancato riconoscimento dell'onore dovuto a Dio ; e
introducendo il concetto di consuetudine buona e cattiva : l'Ambro-
siastro, precisamente come Agostino nelle opere fin qui studiate, fa
del peccato un atto tutto volontario, riconosce come sola conseguenza
del'peccato di Adamo la trasformazione del corpo da immortale in
mortale (la reintegrazione completa appartiene a un quarto stadio) ;
e per conseguenza (si consideri altresì il valore ch'egli attribuisce al-
l'Antico Testamento) l'Ambrosiastro assume un atteggiamento deci-
samente opposto a quello dei manichei, contro i quali, per di più di-
fende la libertà dell'arbitrio umano (33). Con questo modo di vedere
124
collima perfettamente la sua dottrina della predestinazione posi prae-
visa merita, per cui Dio concede il suo aiuto a coloro dei quali sa
fin dall'inizio che non solo si rivolgeranno a lui, ma gli resteranno
fedeli.
Ma per l'Ambrosiastro il peccato è il demonio ; attraverso il corpo
— che, come si è visto, è rimasto mortale anche dopo la redenzione
operata da Cristo, affinchè non venisse annullata la sentenza resa da
Dio su di Adamo — esso esercita il suo dominio sull'uomo, in virtù
di un suo preciso diritto. Quella sentenza di condanna è infatti il
presupposto di tutta l'economia della salvezza. E qui, credo, tocchia-
mo il punto centrale della soteriologia dell'Ambrosiastro, il quale con-
cepisce la redenzione come un autentico riscatto che il Cristo fa del-
l'umanità , passata giustamente e giuridicamente in potere del de-
monio. Adamo, cioè, si è volontariamente venduto; Dio con la sua
sentenza, rendendolo mortale (e cioè ponendolo in una condizione
per cui cede più facilmente alle attrattive dei beni inferiori e alle sug-
gestioni del nemico) ha ratificato quel patto e -messo il demonio stes-
so in grado di esercitare la sua padronanza. Ma nello stesso tempo
Dio ebbe compassione del genere umano e ne predispose il riscatto,
in modo però da non distruggere la sentenza che egli stesso aveva
pronunziato (34). Questo suo modo di vedere spiega la preoccupazio-
ne per la sorte dei giusti morti prima di Cristo (35), la stessa forza
con cui sostiene la lezione dei suoi codici in Rom. V, 14 (36) e quel-
la con cui accentua la contrapposizione delle due leggi di Dio e del
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demonio, la quale può anche sembrare ispirata dal manicheismo ; ma
ad esse l'Ambrosiastro, come si è visto, è recisamente contrario.
In questa concezione, che ci riporta col pensiero ad Ireneo, scrit-
tore del resto che l'Ambrosiastro cita volentieri è, io credo, la
spiegazione dei passi in cui egli sottolinea la solidarietà del genere
umano con Adamo. Il parallelismo tra questi e Cristo dev'essere per-
fetto e come il secondo ha redento in sè l'umanità , così il primo l'ha
contaminata in sè e asservita al demonio. Ma, nell'uno come nel-
l'altro caso, non si tratta dell'umanità intera : l'Ambrosiastro sa che
Cristo non salva se non coloro che hanno, e continuano ad avere,
fede in lui (fede che forma l'oggetto della prescienza divina ma non
è essa stessa puro dono di Dio) ; e così Adamo non ha assoggettato
alla morte spirituale, alla condanna eterna, se non coloro che hanno
peccato a somiglianza di lui.
125
Noi conosciamo il pensiero di Agostino in questo momento della
sua evoluzione spirituale, tra l'ordinazione sacerdotale e la consacra-
zione all'episcopato. E' facile rilevare le somiglianze tra questo suo
pensiero — cioè il suo modo di intendere S. Paolo — e quello
dell'Ambrosiastro. E' facile anche rilevare le differenze (37). In com-
plesso, dunque, lo studio dell'epistolario paolino ha posto ad Ago-
stino dei problemi nuovi, o almeno in termini e sotto aspetti rinno-
vati ; allo stesso tempo, la lettura degli scrittori cristiani anteriori, a
cui si dedica da quando, diventato sacerdote, l'autorità della Chiesa
e la forza della tradizione hanno conquistato per lui un valore più
concreto — ed evidente — lo mette di fronte a qualche opinione da
cui dissente (e che egli non esita a combattere) ma anche ad almeno
uno scrittore, le cui idee in gran parte concordano con le sue.
***
Ma l'Expositio epistolae ad Calatas presenta ancora un punto
interessante. Nel commentare IV, 21 Agostino annota che S. Paolo
stesso chiarisce il significato allegorico dei due figli di Abramo, ma
che l'apostolo non parla di quelli nati al patriarca dopo la morte di
Sara, e questo perché Abramo aveva solo due figli allorché accaddero
i fatti cui allude il passo da interpretare. Molti dùnque, i quali igno-
rano il racconto del Genesi, possono credere che Abramo non avesse
se non due figli ; mentre ne ebbe altri da Chetura (cfr. Cenesi XXV,
1 segg.). Questi furono anch'essi generati da una libera ma non
secondo una promessa di Dio : non possono quindi rappresentare il
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seme d'Abramo spirituale. Dunque Isacco è l'erede, e rappresenta il
popolo del Nuovo Testamento, non solo perché nato dalla libera, ma
perché — cosa ben più importante — generato secondo la promessa.
I figli di Chetura, nati essi pure da una libera, ma non in virtù di
una promessa bensì secondo la carne, non hanno parte dell'ereditÃ
né appartengono alla Gerusalemme celeste ; sono i « carnali » che
stanno materialmente nella Chiesa e ;vi suscitano scismi ed eresie.
D'altra parte la persecuzione che Isacco patì ad opera di Ismaele è
allegoria di quella che tutti coloro che vissero secondo lo spirito eb-
bero a soffrire da parte dei giudei carnali (38). Non è questa un'af-
fermazione dell'idea che i giusti debbono necessariamente patire in
questo mondo ; ma è significativo vedere che la persecuzione di
Isacco è messa in relazione col fatto — a chiarire il quale è destinato
126
tutto l'excursus sui figli di Chetura — che vi sono nella Chiesa uo-
mini i quali le appartengono bensì materialmente, però, quali eretici
e scismatici, non sono figli della promessa, né fanno parte del po-
polo del Nuovo Testamento predestinato presso Dio. Questa idea
si trova anche (e lo abbiamo segnalato) già nel De vera reli-
gione (39), ma espressa in forma differente. Qui poi si presenta con
ben altra profondità , legata com'è strettamente a un'interpretazione
biblica e a una visione completa di tutto il problema della salvezza.
E nulla di simile si trova nelle altre opere esegetiche di Agostino che
abbiamo finora esaminato, nulla di simile negli altri commentatori,
della medesima epistola, che Agostino potè consultare ; e neppure in
S. Ambrogio che nello spiegare gli stessi passi della Genesi parla in
modo affatto diverso (40). Un raffronto invece ce lo offre invece
una delle ultime questioni, la 81 — ossia una di quelle composte
più tardi — del De diversis quaestionibus LXXXIII. In essa, in mez-
zo a una interpretazione tutta allegorica dei numeri 40 e 50, leggiamo
che la Chiesa nel mondo soffre dolori e afflizioni, in attesa della re-
surrezione, con cui cesserà la mescolanza dei buoni e dei malvagi (41).
Qualche cosa di simile troviamo anche in un'opera alquanto po-
steriore, scritta o almeno pubblicata, da Agostino già vescovo, ma
che spiritualmente si dimostra contemporanea a quelle che abbiamo
sopra esaminate, il De agone christiano. Qui l'elenco delle eresie
è più ricco che in scritti anteriori, quali il De vera religione e an-
che il De fide et symbolo (42). Ma ciò che colpisce è l'importanza
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attribuita ai concetto della lotta contro il demonio, che costituisce il
tema fondamentale di questo scritto (43). Questa lotta consiste nel
sottrarsi all'attrazione delle cose sensibili, e la salvezza dipende
ancora principalmente da un atto di fede volontario, perché l'uomo è
dotato di libero arbitrio ; ad esso consegue la purificazione della
condotta e dell'anima, che mette in grado di conoscere la verità ,
prima accolta solo per fede. Primo passo verso la purificazione,
dunque è l'accogliere i precetti di Cristo (44). Del resto, abbiamo
dinanzi a noi l'esempio dell'apostolo stesso, S. Paolo (45) che dun-
que in questo scritto Agostino considera ancora come « spiri-
tuale », sub gratìa (46). Nella Chiesa, però, non tutti sono spiri-
tuali e ai buoni sono frammisti i malvagi, fino al momento della se-
parazione (47). E' evidente che il problema dell'eresia e dello sci-
sma, così come quello del potere della Chiesa di rimettere i pec-
127
cati (48) è sempre più ognora allo spirito di Agostino. In fondo, si
tratta sempre di quel problema dell'esistenza del male, che ha affa-
ticato Agostino fin dall'inizio della sua attività intellettuale : e che
ora lo interessa anche sotto questi aspetti particolari, e più propria-
mente ecclesiastici.
E' altresì notevole — soprattutto considerando, per ragioni
che si vedranno in seguito, l'epoca in cui fu composto — che Agostino
professi anche nel De agone christiano le medesime dottrine che
abbiamo trovato nelle opere precedenti l'episcopato e di cui abbiamo
osservato la somiglianza con quelle dell'Ambrosiastro. Anzi questa
affinità è anche maggiore nel De agone christiano dove Agostino
fa proprio anche il concetto della diuturna lotta contro il demonio ;
mentre non si pone affatto un problema che, sembra, avrebbe do-
vuto occupare interamente la sua attenzione, dopo \'Expositio in
Calatas. Giacché la interpretazione ch'egli vi dava — e che poi di-
fese sempre strenuamente — dell'incidente di Antiochia implicava
come conseguenza inevitabile che anche un apostolo, uno spirituale
certo sub gflatia, come Pietro, potesse a volte comportarsi male,
tanto da meritare la giusta riprensione da parte di Paolo. E' una
conseguenza che Agostino riconobbe esplicitamente più tardi (49) ;
ma sorprende che non se ne avvedesse immediatamente.
- Ma, d'altra parte, era poi Agostino così sicuro di stesso, come
gli sarebbe probabilmente piaciuto, non dico di far credere, ma
di potersi credere egli stesso? Si sentiva intimamente tale da po-
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ter additare il suo proprio esempio come quello di un uomo che,
per le virtù della sua sola volontà , dedicandosi interamente alla ri-
cerca del vero e alla meditazione della parola di Dio, si era defi-
nitivamente sottratto all'impero delle cose sensibili, e al dominio
della carne e del peccato? Domande come queste non si scrivereb-
bero neppure, se la risposta dovessimo darla noi : ma essa è data '
invece, in gran parte, dallo stesso Agostino e per il resto, pro-
prio dai fatti. Che il fatto fondamentale, e che ci dice tutto, è che
egli non smise dall'affaticarsi intorno ai testi di S. Paolo, anzi inten-
sificò gli sforzi per afferrarne pienamente il significato.
ifr NOTE
(1) Expos. Ep. ad Gai., 15. « In nu/fam ergo simutationem Paulus lapsus
erat, quia eervabat ubkjue quod congruere videbat, sive ecclesiis gentium
128
sive ludaeorum, ut nusquam auferret consuetudinem quae servata non impe-
diebat ad obtinenrium regnum Dei ... Petrus autem, cum venissel Antiochiasn,
obiurgatus est a Paulo non quia servabat consuetudìnem ludaeorum... sed obiur.
gatue est quia gentibus eam volebal imponere, ... segregabat se a gentibus et
simulate illis consentiebat ad imponendo gentibus ilta onera servitutis, quod-in
ipsiue obiurgationìs verbis salis apparet... Non enim utile erat errorem qui
palam noceret in secreto emendare. Huc accedit quod firmitas et charitas Petri...
obiurgationem talem posteriori^ pastoris pro salute gregis libentissime eusti-
nebat... Valet autem hoc ad magnino, humilitatis exemplum, quae maxima est
disciplina christiana; humililale enim conservatur charitae... Quoniam « ex ope-
ribus legis », cum suis viribus ea quieque Iriibuerit, « non iustifioabitur omnds
caro », id est omnis homo, sive omnes camaliter sentientes. Et ideo illi qui,
cum iam essent sub Leige, Christo crediderunt, oon quia iusti erant, sed ut
iustificarentuT yenerunt ad gratiam fidei ».
(2) De mend., V, 8: « Et ideo de libris Novi Testamenti, exceptìs figuratie
significationìbus Domini, si vitam moresque sanctorum et facta ac dieta con-
sideres, nihii tale proferri potest quod ad imitationem provocet mentiendi.
Simulatio enim Petri et Barnabae non solum commemorata, verum etiam repre-
hensa atque correda est (cfr. « simulate iilis consentiebat », Exp. Ep. ad Gai., 15,
n. 1). Non enim, ut nonnulli putant, ex eadom simulatione etiain Paulue apo-
stolus aut Timotheum circumcidit aut ipse quaedam ritu iudaico sacramenta
celebravit, sed ex illa liberiate sententiae suae qua praedicavit nec gentibus
prode,5se circumcisionem nec ludaeie obesse». — XXI, 43: «Tanta porro caecitas
hominum animos occupava, ut eis parum 'Sit, si dicamus quaedam mendacia
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non esse peccata, nisi etiam in quibusdam peccatum dioant eese si mendacium
recusemus eoque perducti sunt defendendo mendacium, ut etiam primo ilio
genere, quod est omnium sceleratiesimum (quello cioè che " fit in doctrina
religionis ", cfr. 17 e 25) dicant uS'Um fuisse apostolum Paulum. Nam in epistola
ad Galatas, quae utìque sicut ceterae ad doctrinam religionis pietatieque con-
scripta est, ilio loco dicunt eum esse mentìtum, ubi ait de Petro et Barnaba
' cum vidiesem, ete. " (Gai., II, 14). Cum enim volunt Peitrum ab errore atque
ab illa, in quani inciderat, viae pravitate Refendere, ipsam religionis viam in
qua salus est omnibus, coniracta et comminuta Scripturarum aucloritate, conan-
tm evertere. In quo non vident non solum mendacii crimen, sed etiam periurii
se obicere apostolo in ipea doctrina pietatis, hoc est in epistola in qua piae-
dicat evangelium ».
(3) L'ordine in cui gli ultimi scritti precedenti l'episcopato sono ricordati
nelle Retractationes è il seguente. 22 (23) Expasitio quarundam propositionum
ex Epist. ad Rom.; 23 (24): Expositio Ep. ad Galatas; 24 (25): Ep. ad Rom.
expositio inchoata; 25 (26): De diversis quae&ionibus LXXXIII; 26 (27): De
mendacio. Però le « 83 questioni », composte via via, furono pubblicate da
Agostino giù vescovo; e la Expositio inchoata può, in certo modo, consi-
derarsi contemporanea o di pochissimo posteriore all'Expos/h'o quarr. propp.
Si consideri inoltre il modo in cui Agostino si esprime: 22 (23), 1: « liber unus
accessit superioribus opusculis meis»; 23 (24), 1: Post hunc librum exposui;
24 (25), 1: «Epistolae quoque ad Romanos sicut ad Galatas expositionem su-
sceperam ». Evidentemente Agostino considera i due commenti come comin-
ciati nello stesso tempo.
(4) De mend., I, 1: «Magna quaestio est de mendacio, quae noe in ipsis
quotidianis actibus nostris saepe conturbat, ne aut temere accusemus menda-
128
cium, quod non est mendacium, aut arbdtremur aliquando esse mentienrium
honesto quodam et officioso ac misericordi mendacio ». — « Sed utrum sit
utile aliquando mendacium; multo maior magusque necessaria quaestio est »
(IV, 5).
(5) Ibid., IIi, 6: « Contra tili, quibus placet numquam mentienidum, multo
fortìus agunt, utentes primo auctoritate divina... » (cfr. V, 8, cit. alla n. 2);
XXI, 42: « Elucet ilaque diseussis omnibus nihil aliud illa testimonia Scriptu-
rarum monere nisi numquam esse omnino mentiendum, quando quidem nec
ulla exempla mendaciorum imitatione digna in moribus factisque sanclorum
inveniantur quod, ad eas attinet Scripturas quae ad nullam figuratam signi-
ficationem referuntur, sicuti sunt res gestae in Actibus apostolorum. Nam
Domini omnia in Evangelio, quae imperitioribus mendacia videntur, figuratae
significationes sunt » (cfr. 43 cit. alla n. 2; 26).
(6) Ibid., XVIII, 38: « Nemo tamen palesi dicere hoc se aut in exemplo aut
in verbo Scripturarum invenire, ut diligendum vel non odio habendum ullum
mendacium videatur, sed interdum mentiendo faciendum esse quod oderis, ut
quod amplius detestamdum est devitetur... Sed in hoc errant homdnes, quod
subdunt praetiosa vilioribus... Ex sua quisque cupiddtate atque 'consuetudine
metitur malum et id putat gravius, quod ipse amplius exhorreecit, non quod
amplius revera fugiendum est. Ho-c totum ab amoris perversitate gignitur vi-
tium. Cum enim duae sint vdtae noetrae, una sempiterna quae divinitue pro-
mittitur, altera temporalis in qua nunc sumue, cum quisque isiam temporalem
amplius diligere coeperit, quam illam sempilemam, propler hanc quam diligit
putat esse omnia facienda... ». 39: « iam illa desinunt esse peccata, quae proptei
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graviora vitanda suscipiuntur... et in rebus sanctis non vocatur peccatum, quod
ne gravius admiltatur admiltilur. XIX, 40: « Ista eunt autem quae sanctitatis
causa servanda sunt, pudicitia corporis et castitas animae et veritas doctrinae.
Pudiciliam corporis non consentente ac permitlente anima nemo violat; quid-
quid enim nobis invitis nuilamque tribuentibus polestatem maiore vi contigit
in nostro corpore, nulla impudicitia est. Sed permittendi potest esce aliqua ra-
tio, consentiendi autem nulla. Tunc enim consentimus, cum adprobamus et volu-
mu6... Consensio sane ad impudicitiam corporalem etiam caetitalem animi vio-
lat. Animi quippe castiitas est in bona voluntate et sincera dilectione, quae non
corrumpitur nisi cum amamus atque adpetimus quod amandum atque adpeten-
à um non esse veritas docet.... Veritas autem doctrinae, religionis atque pietatìs
nonnisi mendacio violatur, cum ipsa summa atque intima veritas, cuiue est ista
doctrina. nullo modo potest violari: ad quam pertinere... non licebit, nisi cum
" corruplibi/e hoc" induerit " incorruptionem" ete. (/ Car., XV, 33). Sed quia
omnis in faac vita pietas exercilatio est qua in illam lendilur, cui exercitationA
ducatum praebet ista doctrina, quae humanis verbis el corporeorum sacra-
mentorum signaculis ipsam insinuat atque in limai veritatem, propterea et
haec, quae per mendacium corrumpi potest, maxime incorrupta servanda est »;
XX, 41 : « Unde cogimur non opinione hominum quae plerumque in errore est,
sed ipsa quae omnibus supereminet atque una invictìssima est ventate, etiam
pudicitiae corporis perfeetam fidem anteponere. Est enim animi castitas amor
ordinatus non subdens malora minoribus. Minus est autem quidquid in carpore
quam quidquid in animo violari potest »... « Unde colligitur mullo magis animi
caetitatem servandam esse in animo, in quo lulela est pudiciliae corporalis ».
(7) Cosi commenta S. Girolamo Gai. II, 11 sgg. (Comm. in Ep. ad Galatas,
130
P. L. XXVI, 363-4) : « Cum itaque vidisset apostolus Paulus periclitari gratiam
Gruisti, nova bellator vetus ueus est arte pugnamdi, ut dispeneiationem Petri,
qua ludaeos saivari cupiebat, nova ipse contradictionis dispensatione corri-
geret... Quod si putat aliquis vere Paulum Petro apostolo restitisse, et pro
ventate Evangelii intrepide fecisse iniuriam praecessori, non ei stabit illud
quod et ipse Paulus ludaeis ludaeus factus est ete. (cfr. / Cor. IX, 20) et
eiusdem simulaitionis tenebitur reus quando caput totondit in Generis (Act.
XVIII, 18) et facto oalvitio oblationem obtulit in lerusalem (Act. XXIV, 11)
et Timotheum circumcidit (Act. XVI, 3) et nudipedalia exercuit, quae utique
manifestissime de ' caeremoniis ludaeorum sunt... Legerat utique Paulus in
Evangelio Dominum praecipientem (Le. XVII, 3) ».
(8) Aug. ep. 28 (Hierom. 56), 3-4: « Legi etiam quaedam scripta quae tua
dicerentur, in epistolas apostoli Pauii; quarum ad Galatas cum enodare veliee,
venit in manue locus iile, quo apostolus Petrus a perniciosa simulatione revo-
catur. Ibi paitrocinium mendacii susceptum esse vel abs te, tali viro, vel a
quOpiam, si alius illa ecripsit, fateor, non mediocriler doleo, donec refellan-
tur, si forte refelli possimi, ea quae me movent. Mihi enim videtur exitiosissime
credi aliquod in libris sanctis haberi mendacium, id est eos homines, per quoe
iiobie illa Scriptura ministrata est, atque conscripta, aliquid in libris suie
fuisse mentitos. Alia quippe qua&sito est, sitrle aliq,uiando mentiri viri boni,
et alia quaestio est, utrum scriptorem Sanctarum Scripturarum mentiri opor-
tuerit: immo vero, non alia sed nulla quaestio est. Admisso enim semel in
tantum auctoritatis fastigium officioso aliquo mendacio, nulla illorum librorum
particula remanebit, quae non, ut cuique videbitur vel ad mores difficilis vel
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ad fidem incredibilis, eadem perniciosissima regula ad mentientis auctoris con.
sjlium officiumque referatur. Si enim mentiebatur apostolus Paulus... quid
respondebimus, cum exsurrexerint perversi homines prohibentee nuptias, quos
futuros ipse praenuntiavit, et dixerint totum iLud quod idem apostolus de ma-
trimoniorum iure firmando locutus est, propter hominee qui dilectione coniugum
tumultuari poterant, fuisse mentitum?». 5.: «Et ego quidem qualibuscumque virL
bus, quas Dominus suggerii, omnia illa testimonia, quae adhibita sunt adstruen-
dae utilitati mendacii, aliter opor-tere intellegi ostenderem, ut ubique eorum
firma veritas doceretur. Quam enim testimonia mendacia esse non debent,
tam non debent favere mendacio... Ad hanc autem considerationem coget te
pietas, qua cognoscis fluctuare auctoritatem divinarum Scripturarum, ut in eis
quod V'Ult quisque credat, quod non vult, non credat, si semel fuerit persuasum
aliqua illos viros... in scripturis suis officiose potuisse mentiri; nisi forte re-
gulas quasdam daturus es, quibus noverimus1 ubi oporteat mentiri, ubi non
oporteait ».
(9) Cfr. altresì: Aug. Ep. 40 (= Hier. 67), 4-7; Aug. Ep. 73 (= Hier. 110,
4); Aug. Ep. 32 (= Hier. 116), 5, 6, 7, 8, 12, ete. Per l'argomento dell'importanza
che allo scopo di confutare gli eretici, ha il testo greco della Bibbia, v. anche
Aug. Ep. 71 (= Hier. 104), 4; qui con riferimento alla Volgata. La storia di
questa corrispondenza tra Agostino e Girolamo è stata fatta da molti; la cro-
nologia delle lettere presenta punti oscuri o controversi. Si ammette di solito
che l'ep. 28, portata da Profuturo, e che S. Girolamo non ricevette mai, sia la
stessa, da lui scritta ancora da prete, cui Agostino allude nell'Ep. 71, 2: nel-
l'ep. 28 si nomina Alipio, il quale, essendo ancora semplice sacerdote, visitò
Girolamo in Palestina portandogli il saluto di Agostino; ed ora è già Vescovo.
Perciò come data dell'ep. 28 si suole indicare il 394-5; ma è evidente che la
131
datazione di essa dipende da quella che si accetti per la consacrazione episco-
pi-ilo di Agostino. Questi poi, accorgendosi che la sua lettera non era giunta a
destinazione, scrisse nuovamente a Girolamo Yep. 40. Cfr. Cavaliere, St. Jé-
róme, II, 47-50; J. Schmid, SS. Bus. Hieronymi et Aur. Augustini Epistolae mu-
tuae, Bonn 1930 (Floriìegium Patristicum, XXXII); D. de Bruyne, La correspon-
dance échangée entre Augustin et Jéróme, in Zeitschr. f. neutestom. Wissensch.,
1932, pp. 233-248.
(10) Cfr. Aug. Ep. 67 (= Hier. 101), 2; 68 (= Hier. 102), 1. Girolamo ha
conosciuto, in una copia, una lettera nella quale Agostino lo invita a scrivere
la sua palinodia (evidentemente l'Ep. 40 di Agostino); Aug. Ep. 72 (= Hier. 105).
(11) Retract. I, 26 (27).
(12) Aug. Ep. 143 ad Marcellinum, 3 (del 412).
(13) Per la suscettibilità di S. Girolamo, cfr. l'Ep. 105 (= Aug. 72). Si noti
che già i Maurini (Vita Augustini, II, 7 e 8) e Tillemont avevano veduto che
il De mendacio è conitemporaneo all'£p. 28; e sottolineano il fatto che nel
Contro mendacium non solo non vi è accenno al libro affine precedente,
ma anzi Agostino « significare videtur se nondum Scripturae testimonia de
mendacio discussisse ». L'allusione all'incidente di Antiochia nel Contro men-
dacium (12, 26) è brevissima e scevra di ogni carattere polemico.
(14) Per Tertulliano, Cipriano e Ottato di Milevi, cfr. e. HI, n. .1.
(15) Tengo a sottolineare che si tratta di una ricerca rapida e limitata
ad alcuni punti, sufficienti allo scopo che mi ero prefisso. Rimane aperto il
campo a chi volesse procedere ad un confronto completo e più minuzioso.
(16) P. es. a I, 1 Girolamo (P. L XXVI, 33C) distingue quattro generi di apo-
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stoli («Unum quoti neque ab hominibus est neque per hominem sed per lesum
Christum et Deum Patrem; aliud, quod a Deo quidem est sed per hominem;
tertium quod ab homine non a Deo; quaitum quod neque a Deo neque per
hominem neque ab homine sed a semetipso ») ; Agostino (v. i, testo a n. 17)
la una distinzione analoga, tralasciando però la quarta categoria. Un incontro
più evidente sembra di poter trovare a proposito di I, 3-5, dove Girolamo
(col. 338 seg.) osserva: « Quaeritur quomodo piaesens saeculum malum dictum
sii. Solent quippe haeretici hinc capere occasiones, ut alium lucis et futuri
caeculi, alium tenebrarum et praesentis asserant conditorem. Nos autem dicj-
mus, non tam saeculum ipsum, quod die ac nocte, annis currit et mensibue,
appellari malum, quam èj/ttovónto? ea quae in saeculo fiant... Unde loannes alt
(/ loh. V, 19); non quod mundus ipse sit malus, sed quod mala in mundo fiant
ab hominibus... ita et saeculum, quod est spatium temporum, non per seme-
tipsum aut bonimi aut malum est, sed por eos qui in ilio sunt aut bonarn
appellatur aut malum »; e Agostino, più brevemente e con allusioni meno cir-
costanziate ai manichei, ma con le medesime preoccupazioni di Girolamo
commenta « Saeculum praesens malignimi propter malignos homines qui in eo
sunt intelligendum est; sicut dicimus et malignam domimi propter malignos
inhabitantes in ea ».
(17) Per es. a I, 1 Mario Vittorino (P. L. VJH, 1147) mette in bocca a
Paolo stesso questa conclusione: « ergo credendum mihi et habenda fides;
et verum evangelium est quod profero»; Agostino dal canto suo commenta:
« Qui ab hominibus mittitur, mendax est; qui per hominem mittitur, potest esse
verax quia et Deus verax potest per homdnem mittere; qui ergo neque ab
132
hominibus neque per hominem sed per Deum mitlitur, ab ilio verax est qui
etiam per homines missos veraces facit », ete. (cfr. n. 16). — A II, 11-16 Mario
Vittorino (col. 1163) annota: «neque Petrus neque ceterd iransierant ad iu.
daicam disciplinam sed ad tempus consenserant; quod quidem aliquoties fit
simulata consensione: verumtamen unde peccabat Petrus? quia non ille ad in-
ducendos ludaeos ista finxerat, ut consentirei illis, quod fecit ipse Paulus et
fecisse se gloriatur, sed ut illos lucrifaceret (cfr. / Cor. IX, 20); sed quod Pe-
trus simulavit quidem, in eo lamen peceavit, quod subtrahebat se timens
eos qui erant ex circumcisione » (coi. 1163); per Agostino, n. 1. — A HI, 10,
dice Vittorino: « Quod autem ddxit « ex operi bus legis » i nielli Bumus esse etìam
opera christianitatis, maxime illa quae saepe apostolus mandai... et caetera
quae in hoc apostolo ad vivendum praecepta retinentur, quaeque opera ab
apostolo omni christiano implenda mandatur. Alia igitur opera legie. scildcet
observationes... inteltigamus» (col. 1169). E Agostino a III, 2: « Sed haec quae.
etio ut diligenter tractetut, ne qnis fahatur ambiguo, scire prius debet opera
legis bipartite esse. Nam partim in sacramentis, paitim veio in moribus acci-
piuntur... Nunc ergo de bis operibus maxime tractat, quae sunt in sacramentis,
quamquam et illa interdum se admiscere significet. Prope finem autem episto-
lae de his separatim tractabit, quae sunt in moribus: et illud breviter, hoc au-
tem diutius». — A IV, 5, Vittorino osserva: « ut filii Dei simus, sed et filii ado-
ptione. Non enim filii ut ipse Filius, sed per Filium filii » (col. 1178) e Agostino
« Adoptionem proplerea dicit, ut distincte intelligamus unicum Dei Filium. Nos
enim beneficio et dignatione misericordiae eius filii Dei sumus; ille natura
est Filiue, qui hoc est quod Pater ».
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(18) P. es. a IV, 8-10, dopo aver discusso il problema del male (« procu-
ratores auctoresque huius mundi nihil faciunt, nisi quantum Dominus sìnit.
Non enim latet eum aliquid, sicut hominem, aut in aliquo est minus potens,
ut procuratores alque auclores, qui sunt in eius potestate, aliquid ipso sive
non permittente sdve nesciente in subiectis sibi pro suo gradu rebus efficiant.
Non eis lamen rependitur, quod de ipsis iuste fit, sed quo animo ipsi faciunt;
quia neque liberam voluntatem rationali creaturae suae Deus negavit, et tamen
polestatem qua etiam, iniustos iuste ordinat, sibi retinuit. Quemi locum la-
tius et uberiue in libris aliis saepe tractavimus ») rimandando, come si è visto,
al De libero arbitrio, soggiunge quest'altra osservazione, interessante dal punto
di vista documentario: « El tamen si deprehendalur quisquam vel catechume-
nus iudaico rilu sabbalum observans, lumultualur ecclesia. Nunc aulem innu-
merabiles de numero fidelium cum magna confidenza in faciem nobis dicunt
" die posi kalendas non proficiscor ". El vix lente ista prohibemus, arridentes,
ne irascantur el limentee ne quasi novum aliquid mirentur » (già utilizzala da
J. Zellinger, Augustin und die Volkstrommtgkeit, Munchen 1933, p. 21).
(19) Ep. 82, 23-24: « Flagilas a me ut aliquem sallem unum ostendam cuius
in hac re sententiam sim secutus, cum lu tam plures nominatim commemorave-
ris qui in eo quod adstruis praecesserunt, petens ut in eo si te reprehendo er-
rantem, patiar le errare cum talibus quorum ego, fateor, neminem legi ». Ma
su sette aulori invocati da Girolamo, quattro sono di un'ortodossia almeno
sospetta (Apollinare, Alessandro, Origine e Didimo); ne restano dunque tre
soli, Eusebio di Emesa, Teodoro di Eraclea, Giovanni di Costantinopoli. Indi
Agostino prosegue: « Porro si quaeras vel recolas, quid hinc senserit noster
Ambrosius, quid noster ilidem Cyprinaus, invenies t'orlasse nec nobie defuisse
133
quos in eo quod adserimus, sequeremur ». Si noti, tra parentesi, come Agostino
sottolinei il suo ricorrere a Padri occidentali e latini.
(20) Goldbacher (ed.), Sancii Aureli Augustiws Epistolae pars II, p. 376
(CSEL 34, Vienna ete. 1898); Hilberg (ed.) S. Eusebii Hieronymi Epistulae, pare
II, p. 414 (CSEL 55 Vienna 1912); Baxter, in Journal oì Theological Studies,
1922, p. 128; 1923, p. 187. V. anche cap. VII, nota 31.
(21) Aug. Ep. 82, 21: « Cur ergo non aperte dicis officiosum mendacium
defendendum? nisi forte nomen te movet, quia non tam usitatum est in eccle-
siasticis libris vocabulum officii, quod Ambrosius noster non timui-t, qui suos
quosdam libros utilium praeceptionum plenos " De officite" voluit apppellare ».
(22) Ambrstr. In Galat., a II, 11: : Reprehensibilis oitique ab evangelica
ventate, cui hoc facium adversabalur. Nam quis eorum duderet Petro apo-
stolo, cui claves regni caelorum Dominus dedit, resistere, nisi alius talis qui
fiducia electionis euae sciens se non imparem constanter improbaret quod ille
sine consiìio fecerat? » — 12-13: « Nam et ipse utique cessit animositati et
audacia» Judaeorum, timens ne per hoc, quod facile est, subreperet scanda-
'um, quod difficile sedaretur; quia et secundum legem purificavit se coactus
et Timotheum circumcidit invitus ». — 14: « Sed hic tota causa reprehensionis
est quod, advenientibus ludaeie ab lacobo, non solum segregane* se ab eis
cum quibus gentiliter vixerat (scil.: Petrus) sed et compellebal eos iudalzare,
causa timoris illorum, ut quid horum verum esset ignorarent gentiles. Sciebant
enim ipsum sscum non quasi ludaeum vixiss;e post autem audientee ab eo
quia ludaeorum instar sequendum erat, haesitabant utique quid esset verum...
Apostolus autem Paulus, quando ad horam cessit. non hoc et suasit, eed rem
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se superfluam et inanem tacere clamitavit, propter furorem ludaeorum. Cui
quidem rei non succubuisset, nisi causa interfuisset, qua audacia ludaeorum
plurimorum se iactaret. Erat autem Timotheus filius mulieris iudaeae, patre
autem Graecp; unde faotum est ut infans secundum Legem minime circumci-
deretur. Insidiabantur ergo, explorantee si eum, qui ludaeus natus erat, incir-
cumcieum assumeret: quod illicitum putabant generi ludaeorum, ooccasionem
quaerentes qua eum eversorem tenerent Legis: hac causa ad horam cesait
furori eorum » (P. L.. XVII, 369-70). Cfr. anche In. I ep. Ad Corinth., IX, 20.
(23) De men.d., 8 cit. a n. 2; ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea
circumcidit, ne ludaeis et maxime cognationi eins maternae sic viderentur,
qui ex gentibus in Christum crediderant, detestari circumcisionem sicut ido-
latria detestanda est, cum illam Deus fieri praeciperit, hanc Satanas persuase-
ut »; 17: «• longe ante quam tuas litteras accepissem, scribens contra Faustum
manichaeum... »; C. Faustum, XIX 17: « Inde est quod Timotheum, iudaea ma-
tre et graeco patre natum propter illos ad quos tales cum eo venerat, etiam
circumcidit apostolus atque ipse inter eos morem huiusmodi custodivit. non
simulatione fallaci, sed consilio prudenti; neque enim ita natis et ita in-
stitutis noxia erant ista, quamvis iam non eesent significandis futuri^ neces-
saria... Si autem iis qui ex circumcisione venerant talibueque sacramentis adhuc
dediti erant, ultro vellent, sicut Timotheus, conferre congruentiam, non pro-
hiberentur; verum si in huiuemodi Legis operibue putarent suam spem salu-
temque eontineri, tamquam a certa pernicie vetarentur ». ...Contra hoe [i giu-
daizzanti] apostolus Paulus multa scripsit; nam in horum simulationem etiam
Petrum adductum fraterna obiurgatione correxit ».
(24) Ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea circumcidit, ne ludaeis
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et maxime cognationi eius maternae sic videretur, qui ex gentibus in Christum
crediderant dstestari circumcisionem, sicut idolatria detestanda est ».
(25) Nella prima stesura di questo scritto (cfr. Rie. Rei, Vili, 1932,
p. 135) io mi ero rivolto la domanda, se la Quaestio LX dell'Ambrosiastro non
possa essere etata occasionata precisamente dalle discussioni romane; se, anzi,
essa non sia da identificare con lo scritto contro Girolamo, attribuito ad Ago-
stino, e circolante in Roma; e se, addirittura, lo spunto non fosse offerto dalla
stessa ep. 28 di Agostino stesso. Questo crea qualche difficoltà cronologica,
benché non insuperabile; infatti, volendo mantenere ciò che è detto nel testo,
bisognerebbe ammettere che le Quaestiones della I edizione fossero state com-
poste durante un periodo abbastanza lungo; ohe tra la detta I edizione, il Tra-
ctatus in Romanos (per cui v. sotto), quello In Gtató/us e probabilmente anche
.a II edizione delle Quaestiones l'intervallo fosse invece relativamente piccolo.
In complesso, preferisco per ora lasciare tutti questi problemi da parte. Si os-
servi però che la quaestio 109 « De Melchisedech », sarebbe quella mandata da
Evangelo a Girolamo (cfr. ep. 73) nel 398.
(26) Cfr. A. Souter, nei prolegomeni (p. XII) alla eua edizione delle
Quaestiones (C.S.E.L. 50, Vienna 1908).
(27) Contro duas epiglolas Pelagianomm, IV, 4, 7 (C.S.E.L. 60, p. 528).
(28) Ambrstr. In Rom. V, 12 (P. L. XVII, 96-97): « Quoniam superius Dei
gratiam per Christum datam ostendit secundum ordinem veritatis, nunc ipsum
ordinem unius Dei Patris per unum Ghristum filium eius declarat: ut quia Adam
unus, id est Eva (et ipsa enim Adam est) peccavit in omnibus, ita unus Chri-
stus filius Dei peccatimi vicit in omnibus. Et quia propositum gratiae Dei erga
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genus humanum ostendit, ut ipsa primordia peccati osteoderet, ab Adam coe-
pit, qui primum peccavit, ut providentiam unius Dei per unum reformasse do-
ceret quod per unum fuerat lapsum et tractum in mortem. Hic ergo unus est,
pei quem salvati hanc i 1l i reverentiam, quam Deo Patri, debemus, ipso volente...
Sa ergo soli Deo serviendum dicit, et Christo servire praecepit, in unitate Dei
est Christus nec dispar aut alter Deus.
In quo, idest in Adam omnes peccaverunt. Ideo dicit in quo, cum de mu-
liere loquatur, quia non ad speciem retulit, sed ad genus. Manifestum itaque
eet in Adam omnes peccasse, quasi in massa; ipse enim per peccatum cor-
ruptus quos genuit omnes nati sunt sub peccato. Ex eo igitur cuncti peccatores
quia ex ipso sumus omnes. Hic enim beneficium Dei perdidit, dum praevarica-
vit, indignus factus edere de arbore vitae, ut moreretur.... Est et alia more,, quae
secunda dicitur ingehenua, quam non leccato Adae patimur, std eius occasione
propriis peccatis acquirituj, a qua boni immunes sunt; tantum quod in inferno
erant f sed superiori quasi in libera (custodia?) f, qui ad caelcs ascendere non
poterant. Sententia enim tenebantur data in Adam, quod chirographum in de-
cretis morte Christi deletum est (cfr. Coloss., II, 14). Sententia autem decreti
fuit, ut unius hominis corpus solvereetur super terram, anima vero vinculis
inferni detenta exitia pateretur ».
(29) Id., a V, 13: « In Adam omnes dicit peccasse, siout supra memoravi
et usque ad Legem datam non imputatum esse peccatum; putabant enim se
homines apud Deum impune peccare, sed non apud homines, Nec enim lex
naturalis penitus obtorpuerat, quia non ignorabant quia quod pati nolebant aliis
facere non debebant... Lex naturalis semper est, nec ignorabatur aliquando; sed
putabatur ad tempus tantum auctoritatem habere, non et apud Deum reoc facere.
Ignorabatur enim quia iudicaturus esset Deus genus humanum, ac per hoc non
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iinputabatur peccatum quasi peccatiim non cognitum eseet apud Deum. in-
curiosum Deum asserentes. At ubi aulem Lex data est per Moyeem manifesta-
tum est curare Deum res humanas et non impune iis futurum qui malefacientes,
quacumque ex causa in praesenti evadunt. Nam utique si inter se, maestra
iustitia vel natura, peccata non inulta ceneebant, quanto magis Deeum, quem
mundi sciebant opificem, haec requisilurum non debuerant ignorare... Sed cum
piaelermiseo Deo figmenta coeperunt in honorem Dei recipere, depravati mente,
partem legis naturali^ quae prima est, calcaveiunt. Quia lex naturalis tres
habet partts, cuius prima haec est, ut agnitus honoretur Creator, nec eiue cla-
ritae et maiestas alicui de creaturis deputetur; secunda aulem pare est moralis,
hoc est ut bene vivatur, modestia gubernante; congruit enim homini habenti
notitiam Creatoris vitam suam lege refrenare, ne frustretur agnitio; tertia vero
pare est docibilis, ut noiitia Creatoris Dei et exemplum morum ceteris tradatur,
ut discant quemadmodum apoid Creatorem meritum collocatur. Haec est vera et
chrietiana prudentia ». A 14: « Quoniam non imputabatur peccatum antequam
Lex daretur per Moysen, sicut dixi, ipsa usurpationis impunitate regnabat
mors, sciens eibi illoe devotos. Regnabat ergo more securitate dominationis
suae tam in hos qui ad tempus evadebant quam in illos qui etiam hic poenas
dabant pro malis suis openbue Omnes enim eoios eeese videbat; quia « qui
facit peccatum, servue est peccati » (loh. Vlii, 34) ; impune iam cedere putan-
les, magis delinquebant; circa haec tamen peccata promptiores quae mundue
quaei licita nutriebat. Quo facto gaudebat Satanas, securue quod causa Adae
relictum a Deo hominem in posseeeionem habebat. Regnabat eigo more in eoe
« qui peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae », qui eet forma futuri,
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quod in subiectis monstrabimus. Ilaque non in amnes mortem regnasse mani-
lestum est, quia non peccaveiunt omnes in similitudinem praevaricationis Adae,
id est non omnes contemplo Deo peccoverunf. Qui autem sunt qui contemplo
Deo pecoaverunt, nisi qui neghcte Creatore servierunt Creaturae, deos sibi
constituentes quos colerent, ad inimiam Dei? Idciico taetabatur in latte dia-
bolus, qui videbat illas imilalores saas efieclos... Et peccalum Adae non longe
est ab idololatria; praevaricavit enim, putans se hominem futurum Deum... Qui
enim intellexit, sive ex traduce, sive iudicio naturali, et veneratile est Deum,
nulli honorificentiam nominis ac maieslatis eius imperliens, si peccavit — quo-
niam impossibile est non peccare — sub Deo peccavit, non in Deum quem iu-
dicem sensit; ìdeoque in huiusmodi mors nion regnavtt. Ini hos autem, sicut
dixi, regnavit, qui sub specie idolorum servierunt diabolo... Maxima enim pars
mundi Deum fore iudicem ignorabat; perpauci autem in quoe non reignavit
mors. In quos autem regnavit, post isiam mortem, quae prima dicitur, a se-
cunda excepti sunt ad poenam et perditionem futuram. In quos autem non
regnavit, quia non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, sub spe
reservati sunt adventui Salvatone in libera ... Sicut enim post Legem datam
qui idolis aut forrjicationi servierunt, contemnentes legislatorem, regnavit in
eos morsi ita et ante Legem, qui sensum Legis praesenserunt, honorificantee
auctorem eius, non utique regnavit in eoe more;' propterea enim regnasse di-
'citur quia cognitio unius Deei evanuerat in terris... Primum igitur in ludaea
coepit destrui regnum mortis quia « notus ra ludaea Deue» (Ps. LXXV, 2);
nunc autem in omnibus gentibus quotidie destrtdtur, dum magna ex parte ex
filile diaboli n'unì filii Dei. Itaque non in omnes regnavit mors, sed in eos
qui peccaverunt in simililudinem praevaricalionis Adae, sicut eupra memo-
ravi. Adam autem ideo forma futuri eet, quia iam tum in mysterio decrevit
136
Deue per unum Christum emendare, quod per unum Adam peccatum erat ».
Tutta l'esegesi che l'Ambrosiaìstro fa di questo passo si fonda sulla lezione
« qui peccaverunt » — e perciò egli difende lungamente come originale, invo-
cando anche le testimonianze di Terlulliano, Cipriano e Vittorino, contro
quella dei codici greci (TOÙI; (!•}) à iiapr^aavra?) che del resto, dice, diffe-
riscono anch'essi tra loro. Cfr. Aug. De peccai, mer. et remiss., I, 11, 13.
(30) A V, 20: « Sicut enim nativitas interit, nasi nutrimenta à abeat quibus
iota adolescat, ita et naturale iustitiae ingenium, nisi habeat quod respiciat et
veneretur, non facile proficit, sed aegrotat et supervenientibus cedit peccatis.
Consueludine enim delinquendi premitur, ne crescat in fructum et per hoc
extinguitur. Providenter ergo data estLex in adiutorium, sdcut testatur proprieta;
sed populus veterem consuetudinem sequens multiplicavit peccata ». — A V,
2) : « Sicut per Adam coeptiim peccatum regnavit, ita et per Christum gratia.
Sic autem regnai gratia per iustitiam, si accepta remissione peccatorum iusti-
tiam sequimur; ut videns gratia fructum se habere in bonis quoe redemit, re-
gnet in vitam aeternam, sciens nos futuros aeternos ». — VI, 19: « Ut occasio-
nem nobis auferret timoris accedendo ad fidem quia quasi importabilis nobis et
aspera videretur, ea mensura nos Deo servire praecepit, qua prius famula-
bamur diabolo; cum utique propensius deberet serviri Deo quam diabolo,
quippe qui cum his salus, illic damnatio operetur; medicus tamen spiritalis
non plus a nobis exigit, ne dum praecepta quasi gravia ìugeremus, perpendentes
infirmitatem nostram, maneremus in morte ». — Vft, 5: « Cum in carne sii, est
enim in corpore, negai se esse in carne; quia hic dicitur esse in carne qui ali-
quid sequitur quod lege prohibetur. Igitur in carne esse multifarie intelligitur:
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nam omnis incredulus in carne est; id est carnalis; et christianus sub Lege
vivens in carne est; et qui de hominibus aliquid sperat, in carne est, et qui
male intelligit Christum, in carne est; et si quis christianus luxuriosam habet
vitam, in carne est. Hoc tamen loco in carne esse sic inteilegemus, quia ante
fidem in carne eramus; sub peccato enim vivebamus, hoc est carnalea sensus
eequentes vitiis et peccatis subiacebamus. Sensus autem carnis est non cre-
dere spiritalia, id est: sine commixtione viri virginem peperisse... Manifestum
est quia qui non cred'it sub peccato agit et captivus trahitur ad vitia admit-
tenda, ut fructum faciat morti secundae; lucrum enim lunc facil mors, cum
peccatur. In membris lamen dicit vitia operari, non in corpore, ne occasio
esset male tractantibus corpus». — VII, 11: «Peccatum hoc loco diabolum in-
tellige, qui auctor peccati est. Hic occasionem per legem invenit, quomodo
cr,udelitatem suam de nece ho-minis eatiaret; ut quia Lex comminata est pecca-
toribus, homo instinctu eius prohibita semper admittens, offenso Deo, ultionem
Legis incurreret; ut ab ea quae illi profutura data erat damnaretur. Quia enim
invito ilio data est Lex, exarsit invidia adversus hominem, ut eum amplius
viliosis voluplatibus macularet, ne manus eius evaderei. — VII, 14: « Ego au-
tem » etc. Hominem autem carnalem appellat, dum peccat. « Venditus sub
peccato»: Hoc est venditum esse sub peccato, ex Adam, qui prior peccavit,
originem trahere et proprio deliclo eubieclum fieri peccato... Adam enim
vendidil se prior, ac per hoc omne semen eius subieclum est peccato. Qua-
mobrem infirmum esse ho.minem ad praecepla Legis servanda, nisi divinis
auxiliis muniatur, binc est unde ait «Lex spirituali^ est, ego autem etc.»; hoc
est, Lex firma est et iusta et caret culpa; homo autem fragilis est et paterno,
vel proprio, subiugatus delicto, ut potestate sua uti non possit circa obedien-
137
tiam Legis. Ideo est ad Dei misericordiam confugienduxn ut severitatem Legis
effugiat et exoneratus delictis, de caeteio Deo favente, inimico resistat. Quid
est enim subiectum esse peccato, nisi corpus habere vitio animae corruptuin,
cui se inserat peccatum et impellet homdnem quasi captivum delictis, ut faciat
yoluntatem eius?... Nam ante praevaricationem hominis priusquam se manci-
paret morti, non eiat his (cioè i « satellites Satanae ») potestas ad interiora
hominis accedere et cogitationee adversas inserere. Unde et astutia eius fa-
ctum est, ut confabulatione per serpentem hominem circumveniret. Postquam
autem circurvenit eum et subiugavit, potestatem in eum accepit ut interiorem
hominem pulsaret, copulane se menti eius; ita ut non possil agnoscere quid
suum sit in cogitatione, quid illius, nisi respiciat Legem ». — VII, 18: « Non
dicit, sicut quibusdam videtur, carnem malam; sed quod habitat in carne non
esse bonum sed peccatum. Quomodo inhabitat in carne peccatum, cum non
sit substantia, sed praevaricatio boni? Quoniam primi hominis corpus corruptum
est per peccatum ut poseit dissolvi, ipsa peccati corruptio per conditionem of-
fensionis manet in corpore, robur tenens divinae sententiae datae in Adam, quod
est signum diaboli, cuius instinctu peccavit. Per id ergo quod facti causa manet,
habitare dicitur peccatum in carne, ad quam diabolus accedit, quasi ad suam
legem, et manet quasi in peccato peccatum; quia caro iam peccati est, ut de-
cipiat hominem suggestionibus malis ne homo faciat quod praecipit Lex ». —
VII, 24-25: « Hic quasi legem fidei tertiam inducit potiorem, quam et gratìam
vocat, quae ex lege tamen spirituali originem habet, quia per hanc liberatus
est homo, ut quia Moyses dedit Legem deditque et Dominus, duae dicantur, una
tamen intellegatur quantum ad sensum et providentiam pertinet. lila vero ini-
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M-atrix est salutis, haec vero consummatrix. Sed non hanc partem Legis dico
quae in neomeniis est et in circumcisione et in escis, sed quae ad sacramentum
Dei attinet et disciplinam... Hanc dicit mortem quam supra oetendit in necem
hominis per peccatum inventam apud inferos quae appellatur secunda; corpus
autem mortis est cuncta peccata; multa enim unum corpus sunt, singula quasi
membra uno auctore inventa ex quibus homo ereptue gratia Dei per baptis-
mum supradictam mortem evasit ... « Igitur ego ipee, etc. ». Legem Dei cum
dicit, et Morsi significat legem et Christi. « Ego ipse » id est qui liberatus
sum de corpore mortis... liberatus est a cunctis malis. Remissio enim peccato-
rum omnia tollit peccata. Liberatus ergo de corpore mortis gratia Dei per Chri-
stum, « mente », vel animo, « servio legi Dei, carne autem legi peccati », id est
diaboli qui per subiectam sibi carnem suggesticnes malas ingerit animae ...
^i Mente servio » etc.... Iam enim liber animus et in consuetudinem bonam re-
vocatue Spiritu Sancto adiuvante, ma-Las suggeetiones potest spernere: reddita
est enim illi auctoritas qua audeat resistere inimico... Caro autem quia iudi-
cium non habet neque capax est discernendi (est enim bruta natura) non potest
inimico aditum claudere, ne veniena introeat atque animo contraria suadeat...
Cum autem unus homo carne constet et anima, ex illa parte qua sapit Deo
servii, ex altera eutem qua etolidus est, legi peccati. Si enim homo in eo quod
factus est perdurasset, non esset potestas inimico ad carnem eiue accedere et
animae contraria susurrare. Ut autem totus homo minime reparatus fuisset
Christi gratia ad statum pnslinum (una specie di tes'Atutio in i'r./egruim) sen-
tent'a obstitit data in Adam; iniquum enim erat solvere sententiam iure de-
promptam. Idcirco manente sententia, providentia Dei remedium inventum est,
ut redhibiretur homini ealus, quam proprio vitio amiserat, ut hic sanatus cre-
138
deret quia adversariue eius devictus potentia Christi non auderet transpuncta
sententia primae mortis hominem sibi defendere, adunato genere Adae, ne ad
primae originis redderetur facturam, iam totus permanens immortalis ». Vale
la pena di osservare come, pur non usando un frasario tecnicamente giuridico,
l'Ambrosiastro si ispira a concezioni proprie del diritto. L remedium va in-
teso come un vero e proprio « rimedio giuridico ».
(31) Una considerazione che potrà sembrare molto materiale, ma che pure
ha, aggiunta alle altre, un certo peso, è questa: su poco più di 8 Colonne nel-
l'ediz. dei Maurini che occupa l'intero commento dell'Ambrosiastro a Rom. IX,
poco più di 5 sono dedicate ai vss. 6-28; una e mezza ai ves. 29-33. Le consi-
derazioni fatte nel testo, e del resto banali, sui motivi che ispirano l'Ambrosia-
stro non implicano affatto (è appena superfluo avvertirlo) una mia presa di
posizione anche larvata, nella vexata quaestio dell'identificazione di questo
scrittore.
(32) Ambrostr. a Rom. Vlii, 29: « Istis quos praescivit futuros sibi devotos
ipsos elegit ad promissa praemia capessenda; ut hi qui credere videntur et non
permanent in fide coepta, a Deo electi negentur; quia quos Deus elegit, apud
se permanent ». — a IX, 7: « Hoc est quod vult intelligi, non iam ideo dignos
esse omnes quia filii sunt A.brahae, sed eos esse dignos qui filii promissionis
sunt, id est quos praesciit Deus promissionem suam suscepturos... ». — IX,
11-13: « Praescientiam Dei flagitat in his causis, quia non aliud potest evenire
quam novit Deus futurum. Sciendo enim quid unusquisque illorum futurus
asset, dixit: hic erit dignus, qui erit minor et qui maior erit irtdi.gnus. Unum
elegit praescientia et alterum sprevit; et in ilio quem elegit propositum Dei
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manet quia aliud non potest evenire quam quod scivit et proposuit in ilio
ut salute dignus sii; et in ilio quem sprevit simili modo manet propositum quod
proposuit de ilio quia indignus erit. Hoc quasi praescius, non personarum ac-
ceptor, nam neminem damnat ante quam peccet et nullum coronat antequam
vincat. Hoc pertinet ad causam ludaeorum, qui sibi praerogativam defendunt
quod filii sint Abrahae. Apo&toJus autem consolatur se... Minuit ergo dolorem
suum inveniens olim praedictum quod non omnes essent credituri; ut his solis
doleat qui per invidiam in incredulitate laborant. Possunt tamen credere, quod
ex subiectis aperit. Incredulis lamen praedictis non valde dolendum est, quia
non eunt praedestinati ad vitam^ praescientia enim Dei olim hos non salvandos
decrevit... Praescius itaque Deus malae illos voluntatis futuros, non illoshabuit in
numero bonorum... Sed hoc propter iustitiam, quia hoc est iustum ut unicuique
pro merito respondeatur. ... De iustitia enim Deus iudicat, non de praescien-
t:a... Non est personarum acceptio in praescientia Dei; praescientia enim est
qua definitum habet qualis uniuscuiusque futura voluntas erit, in qua man-
surus est, per quam aut damnetur aut coronetur. Denique quosscit in bono man-
suros frequenter ante sunt mali et quos malos scit permansuros aliquoties prius
sunt boni ». — A 14: « lustus est Deus; scit enim quid faciat nec retractandum
est eius iudicium. Hoc in Malachia propheta habetur: lacob, etc. (Mal. I, 3 cfr.
vs. 13). Hoc iam de iudicio dicit; nam prius de praescientia ait quia maior etc.
(Gen. XXV, 23 cfr. vs. 12), sicut et de praescientia Pharaonem damnavit, sciens
se non correpturum; apostoium vero Paulum persequentem e'.egit, praescius
utique quod futurus eeset bonus. Hunc ergo praevenit ante tempus quia necee-
sarius erat et Pharaonem ante futurum iudicium damnavit, ut crederetur ludi-
139
caturus ». — A 15: « Hoc est " eius miserebor"; cui praescius eiam quod mi-
sericordiam daturus essem, sciens conversurum illum et perinanaurum apud
me.., ei misericordiam dabo quem praescivd posi errorem recto corde rever-
surum ad me.'Hoc est dare illi cui dandum est et non dare illi xui dandum
non est, ut eum vocet quem scdat obaudire, illoim autem non vocet quem sciat
minime obaudire. Vocare autem est non pugnare sed compungere ad recipien-
dam fidem ». — A 16: « Ex hoc utique dantis Dei et non dantis iudicium se-
quendum est, quia non iniuste iudicat, qui omnes salvos vult, manente iusti-
tia: inspector enim cordis scit petentem, an hac mente poscat ut mereatur acci-
pere. Et... propter diffidente®, ut mens eorum medelam consequi possit, ne
putent iudicium Dei iniustum dicentes: Unum vocat et alterum negJigit, sic
arbitrante» excusari posse damnandos, rebus istud potius probemu« quam ver-
bis (esempi di Saul e Davide). — A 18: « Ex persona contradicentis loquitur,
qui quasi putet Deum neglecta iustitia alicui •gratiosum, ut unum e duobus pa-
ribus accipiat, alterum respuat, hoc est unum compungat ut credat, alterum
induret ne credat. Cui quidem ex auctoritate respondet, servata tamen iusti-
tia... ». A 19: « Nec enim competit ei ut iniustus sit, cuius benevolentia tanta
cipparet... Qui ergo tam providus et bonus est, ambigi non debet quia iustus
est». — A 21: « Manifesfum est vasa aliqua fieri ad honorem... alia vero ad
contumeliam...; unius tamen esse substantiae sed differre voluntate opificis in
honore. Ita et Deus, cum omnes ex una atque eadem massa simus in substantia
et cuncti peccatores, alii miseretur et alterum despicit (cfr. n. 29) non sine iu-
stitia... scit enim cuius debeat misereri, sicut supra memoravi ». — A 22: « Ipse
sensus est, quia voluntate et longanimitate Dei, quae est patientia, praepa-
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rantur infideles ad poenam: diu enim exupectati conventi noluerunt. Ideo ergo
exspectati sunt, ut inexcusabiles deperirent. Scivit enim Deus hos non credi-
turos ». — A 23: « Patientia et longanimitas Dei ipsa est quae sicut malos
praeparat ad interitum, ita et bonos praeparat ad coronam; boni enim sunt
in quibus spes fidei est. Omnes enim sustinet, sciens exitum singulorum; ac
per hoc patientia est, quae illos qui ex malo corriguntur aut in bono perseve-
rantee sunt praeparat ad gloriam... Eos autem qui ex bonis fiunt mali et in
coepto malo perdurant, praeparat ad interitum... Praeparare autem unum quem-
que est praescire quid futurum est ». — A 24: .i Hos quos vocavit praeparavit ad
gloriam, sive eos qui prope erant, sive eos qui longe, sciens permansuros in
fide ».
(33) Cfr. Ambrostr. Quaest. Ver. et Novi Test., qu. 52 (II nov. 61, ed. Scu-
ter p. 446), a Gai. V, 19-21, 1: « Qarnem non substantiam carnis eo loco intel-li-
gas, sed actus malos et perfidiam significatam in carne... 2: « Hic itaque error,
quem carnem appellai, concupiscit adversus spiritiim, id est suggerii mala
contra eundem spiritum, qui est lex Dei. Duas enim leges inducit, Dei et dia-
boli... His ergo repugnantibus medius homo est, qui cum consentii spiritui, non
vult caro; cum autem manum dat carni, spernit spiritum, id est legem Dei
contemnit... 3: « Ideo ergo haec apostolus publicat, ut ostendat arbitrio humano
cui rei voluniatem suani .committat, non ut arbitrium libertatis inaniat, sed
doce^arbitrium cui rei se coniungat. Si autein non est voluntatis arbitrium, ne-
que lex diaboli quae est caro, neque lex Dei quae est spiritus, invicem sibi
adversando hominem consiliis sollicitarent. Qui enim sollicitat, suadet; qua
autem suaret non vim inferi, sed ciroumvenit; qui circumvenitur, fallaciis qui-
busdam voluntas eius mutatur. Si autem non esset liberum ajbitrium, nolene
140
homo traheretur ad ea quae non vult », cfr, anche Traci, in Gol., p. es. a
V, 17-18: « Duae leges proponit, eicut facit et in epistola ad Romanos, quae
invicem advereae sunt, unam Dei alteram peccati. Quae ideo in carne signi-
ficatur quia visibilibus oblectatur, cupida peccatorum; ut his sibi adversantibus
mediuc homo non ea quae vult aga-t. Divina enim lex piemit et fugat legem
peccati, consulens homini ut vigorem naturae suae custodiat, ne capiatur ille-
cebris; illa e contra in insidiis agene, lacessit hominem blanditite ut spernat
praeceptum legis divinae. Cum ergo consensent homo legi Dei, contradicit lex
peccati... ». E anche Trac/, in Ephes., a II, 9-10: « Gratia fidei data est, ut cre-
dentes salvemtur. Verum est quia omnis gratiarum actio salutis nostrae ad
Deum referenda est, qui misericordiam suam nobie praestat, ut revocaret er-
rantes ad vitam et non quaerentes verum iter. Ideoque non est gloriandum
nobis in nobis ipsis, sed in Deo, qui nos regeneravit nativitate caelesti per
lidem Christi, ad hoc ut bonis operibus esercitati, quae Deus nobis iam rena-
Us decrevit promiesa mereamur accipere ».
(34) Cfr. TracUn Rom. a V, 12 cit. a n. 28; 14 cit. a n. 29; a VII, 11, 14,
24-25 cit. a n. 30.
(35) Che d altra parte è strettamente congiunta con la cura ch'egli ha
di far rijevare il valore della Legge, a sua volta connessa con l'atteggiamento
contrario al dualismo manicheo.
(36) Cfr. n. 29, in fine.
(37) P. es. Agostino non spinge allo stesso punto la contrapposizione tra
il demonio e Dio — senza dubbio per una preoccupazione antimanichea — e,
non avendo la mentalità giuridica deU'Aoibroeiastro, non insiste affatto sul
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concetto di una sentenza divina vera e propria, pure parlando frequentemente
di pena, ma piuttosto in senso morale. Tanto più degno di rilievo mi pare il
punto in cui anche Agostino fa sua, per un momento, la dottrina del « chiro-
grafo » (cfr. De lib. arb. III. 31 cit. a e. IV, n. 26).
(38) Expos. Ep. ad Galalas, 39 (a IV, 20): «Non autem sufficit quod
de libera uxore natus est Isaac ad significandum populum heredem Novi
Testamenti; sed plus hic valet quod secundtim promissionem natus est. lile au.
tem et de anetila secundum carnem et de libera nasci potuit secundum carnem,
sicut de Cethura, quam postea duxit Abraham, non secundum promissionem sed
secundum carnem s-uscepit filios... Qui filli de libera quidem, sicut isti de ec-
clesia, sed tamen secundum carnem nati sunt non spiritualiter per repromds-
sionem. Quod si ita est, nec ipsi ad hereditatem inveniuntup pertinere, id est
ad caelestem lerusaJem, quam eterilem vocat Scriptura, quia diu filios in terra
non genuit. Quae deserta etiam dieta est, caelestem iustitiam deserentibus ho-
minibus, terrena sectantibus, tamquam virum habente illa terrena lerusalem,
quia Legem acceperat. Et ideo caelestem leruealem Sara significat, quae diu
deserta est a concubitu viri propter cognitam sterilitatem. Non enim tales ho-
mines, qualis erat Abraham, ad explendain libidinem utebantur feminis, sed ad
successionem prolis. (Anche questo inciso, e il fatto di averlo inserito, non è
privo di significato)... Senectus autem parentum Isaac ad eam significationem
valet, quoniam Novi Testamenti populus quamvis sii novus, praedeetinatio ta-
men eius apud Deum, et ipsa lerusalem caelestis antiqua est... Carnales autem
qui sunt in ecclesia, ex quibus haereses et sohismata fiunt, ex Evangelio quidem
occasionem nascendi acceperuat, sed carnalis error quo concepii sunt et quem
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secum trahunt non refertur ad antiquitatem veritatis; et ideo de matre adule-
soentula et de patre sene sine repromissione nati sunt... Nati sunt ergo tales ex
occasione antiquae veritatis in novitio lemporalique mendacio. Dicil ergo noe
Apostolus secundum Isaac promissionìs filioe esse; et sic persecutionem passimi
Isaac ab Ismaele quemadmodum hi qui spiritaliter vivere coeperant a carna-
libus ludaeis persecutionem patiebantur: frustra tamen, cum secundum Scri-
pturam eiciatur ancilla et filius eius, nec heres esse possit cum filio liberae ».
(39) Cfr. e. II, n. 16.
(40) Cfr. Ambr. De Cain et Abeì, I, 6, 23-24 (C. S. E. L. 32 p. 1, pp. 359-60);
Explan, in Ps. XXXVI, 61 (C. S. E. L. 64, p. 118); De Abraham, II, 72 (C. S. E. L.
J2, p. 1, p. 606).
(41) De div. quaest. LXXXIII, qu. 81, De quadragesima et quinquagesima,
2: « Et ideo ea quae nunc est Ecclesia, quamvis filii Dei cimus ante tamen
quam appareat quid erimus, in laboribus et afflictionibus agit... Et hoc est lem-
pus quo ingemiscimus et dolemus exspectantes redemptionem corporis nostri
(cfr. Rom. Vili, 23), quod Quadragesima celebratur... cum.., non solum credere
quae pertinent ad fidem sed etiam perspicuam veritatem intetlegere mereamur.
Talis Ecclesia, in qua nulhis erit moeror, nulla permixtio malorum hominum,
nulla iniquilas, sed laetitia et pax et gaudium, Quinquagesimae celebratione
praefiguratur ». — 3: « Haec autem duo tempera, idest unum laboris et sollici-
tudinis, alterum gaudii et securitatis, etiam retibus missis in mare Dominus
noster significat. Nam ante passionem de reticulo dicitur misso in mare, quia
lantum piscium ceperunt ut vix ad litus trahendo perducerent. et ut retia rum-
perentur (Luca, V, 6-7). Non endm mòssa sunt in dexteram partem (haibet emm
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multos malos Ecclesia huius temporis) neque in sinistra (habet enim etiam
bonos), sed passim, ut permixtionem bonorum malorumque significaret. Quod
autem rupta sunt retia, charitate violata multas haeresee exiisse significat. Post
resurrectionem vero, cum vellet Ecclesiam futuri temporis praemonstrare, ubi
omnes perfecti atque sancii futuri sunt, iussit mitti relia in dexteram partem
et capti sunt ingentes pisces centum quinquaginta tres, mirantibus discipulis
quod cum lam magni essent, retia non sunt disrmpta ».
(42) De ag. chr., 14, 16-32, 34. Notevole l'ampiezza del e. 28, 31, contro i
Donalisti, «qui sanctam ecclesiam quae una catholica est negant per orbem esse
diffusam (cfr. 13, cit. a n. 47) sed in sola Africa, hoc est in parte Donati po.-
lere arbitrantur » e che i due successivi siano dedicati uno (32) ai luciferiani
l'altro (33) a coloro « qui negant ecclesiam Dei omnia peccata poese dimit-
tere... Isti sunt qui viduas, si nupserint, tamquam adulteras damnant et super
doctrinam apostolicam se praedicant esse mundiores ».
(43) Anche l'Incarnazione è spiegata ora in relazione a questa lotta:
« Coronam victoriae non promittilur nisi certantibus. In divinis autem scriptu-
ris assidue invenimus promitti nobis coronani si vicerimus... Debemus ergo co-
gnoscere quia sit ipse adversarius, quem si vicerimus coronabimur. Ipse est
enim quem Dominus noster prior vicit ut etiam nos in ilio permanentes vinca-
mus... Sed quia naturam nostram deceperat, dignatus est unigenitus Dei Filiue
ipsam naturam nostram suscipere ut de ipsa diabolus vincerelur et quem
semper ipse sub se habet, etiam sub nobis eum esse faceret. Ipsum significat
'Jicens (lolì. XII, 31), non quia extra mundum missus est, quomodo quidam
142
haeretici putant, sed forae ab animis eorum qui cohaerent Verbo Dei et non
diligunt mundum, cuius ille princeps est quia dominatur eis qui diligunt tem-
poralia bona quae hoc mundo visibili continentur, non quia ipse dominue est
huius mundi, sed princeps cupìditatum eorum quibus concupiscitur omne quod
transit, ut ei subiaceant qui neglegunt aeternum Deum et diligunt instabilia et
mutabilia... Per hanc cupiditatem regnat in homine diabolus et cor eius temei.
Tales sunt omnes qui diligimi istum mundum. Miltitur autem diabolus foras,
quando ex tolo corde renuntiatur buic mundo. Sic enim renuntiatur diabolo,
qui princeps est huius mundi, cum renuntiatur corruptelis et pompis et angelis
eius » (De ag. chr., 1). — Si noti il significato del richiamo al battesimo.
(44) De ag. chr. 2: « Habemus magistrum qui nobis demonstrare dignatus
est, quomodo invisibiles hostes vmcantur... Ibi ergo vincuntur inimicae nobis
invisibiles potestates, ubi vincuntur invisibiles cupiditates... Non slmus terra,
si nolumus manducari a serpente. Sicut enim quod manducamue in corpus no-
strum convertimus, ut cibus ipse «ecundum corpus hoc efficiatur quod nos su-
mus, sic malis moribus per nequiliam et impietatem hoc efficitur quisque quod
diabolus, id est similis eius, et subicitur ei, sicut «ubiectum est nobis corpus no-
strum ». — 10, 11: « Deus hominem inexterminabilem (cfr. Sap. II, 23) fecit et ei
liberum voluntatis arbitrium dedit. Non enim eseet optimue si Dei praeceptis ne-
cessitate non voluntate servirei ». •— 11, 12: Certi che discutono l'Incarnazione
(cfr. 1, a n. 40) « non... intelligunt quid eit aeteinitas De'' quae hominem adsum-
psit, et quid sit ipsa humana natura, quae mutationibus euis in pristinam firmi-
tatem revocabatur, ut disceremus docente ipso Domino infirmitates, quas pec-
cando collegimus, recle faciend'o posse sanari. Ostendebatur enim nobis ad
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quà m fragilitatem homo sua culpa pervenerii et ex qua fragilitate divino au-
xilio liberetur. Itaque Filius Dei hominem adsumpsil ». — 13, 14: « Subiciamus
ergo animam Deo, si volumus servituti eubicere corpus noetrum el de diabolo
triumphare. Fides esl prima quae subiugal animam Deo; deinde praecepta
vivendi quibus custodilis spes nostra firmatur et nutritur caritas et lucere in-
cipit quod antea lantummodo credebatur. Cum enim cognitio et actio beatum
hominem faciant, sicut in cognitione cavendus est error, sic in actione cavenda
est nequitia. Errat autem quisquis putat veritatem se posse cognoscere, cum
aà huc nequiter vivat. Nequitia est autem mundum istum diligere et ea quae
nascuntur el transeunt pro magno habere et ea concupiscere... Itaque prius-
quam mens nostra, purgetur debemus credere quod intellegere nondum vale-
mus». — 27, 29: (loh. Ili, 18): hoc dixil quia iam damnatus est praescientia
Dei qui novil quid immineat non credentibus ».
(45) De ag. Chr., & Dopo aver citato / Cor. IX, 26-27 e XI, 1 : « Quare intel-
legendum est etiam ipsum aposlolum in semetipso triumphasse de potestatibus
huiue mundi; sicut de Domino dixerat, cuius se imitatorem esse profitetur.
Imilemur ergo et nos illum ».
(46) La conseguenza di questo presupposto è che in quasi tulio il capo 7
di Romani l'apostolo parlerebbe non di se stesso, ma a nome dell'umanità non
ancora sub gratia: cfr. De div. quas&i. LXXXIII, qu. 66, 5 cil. a c. IV, n. 16).
(47) De ag. chr., 12, 13: « Sed ecclesia catholica per lolum orbem longe la-
* 143
teque diffusa... criminatores palearum euarum non curat, quia tempus meesis et
tempuG arearum et tempus horreorum caute diligenterque distinguiti crimina-
tores autem frumenti sui aut errantes corrigli, aut invidentes inter epinas
et zizania computat ».
(48) Gfr. De ag. chr. 33, cit. a n. 42.
.(49) Ep. 82, 5: « At enim satìus esl credere apostohmi Paulum non vere
scripeisse quam apostolum Petrum non recte aliquid egiese. Hoc si ila est,
dicamus, quod' a.bsit, satiue esse credere mentiri evangelipm, quam negatum
esse a Petro Christ-um ».
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144
VI
L'occasione di tornare a meditare sulla lettera Ai Romani fu
offerta presto ad Agostino dalle domande rivoltegli da Simpliciano,
successore sulla cattedra episcopale milanese, di S. Ambrogio, mor-
to il 4 aprile del 397. A quelle domande Agostino si accinse a ri-
spondere nel tempo in cui diveniva prima coadiutore, quindi suc-
cessore del vescovo Valerio. Ed egli deve aver colto tanto più vo-
lentieri l'opportunità che gli si presentava di spiegarsi meglio, in
quanto coincideva con un suo bisogno spirituale (1). Del resto questa
esigenza di chiarirsi sempre più pienamente, con iterate letture e
commenti, i libri fondamentali della Bibbia, sembra essere stata una
delle più appariscenti caratteristiche di Agostino dal giorno in cui
entrò nella carriera ecclesiastica : basta pensare ai commenti alla
Genesi (2).
La prima quaestio del primo libro concerne Romani, VII, 7-25.
Quale sia l'indirizzo del pensiero di Agostino è rivelato fin dall'i-
nizio, dove egli avverte che l'apostolo si è come travestito da uomo
posto sotto la Legge (3). Il problema fondamentale è quello del va-
lore che Paolo attribuisce alla Legge stessa : dopo aver parlato di
« Legge di morte » (Rom. VII, 6 nel testo « occidentale ») egli si
preoccupa che si possa accusarlo di averla incolpata : cosa che non
intendeva affatto di fare, pur dicendo che essa ha fatto conoscere il
peccato. Se prima della Legge il peccato si poteva dire « morto »,
cioè ignorato, dopo la Legge esso venne conosciuto (« rivisse », il
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che significa ch'esso era già vivo, ossia noto, nella prevaricazione
di Adamo). Ma con la legge, essendo ormai conosciuto il precetto,
si aggiunse il fatto della trasgressione volontaria. Bisogna dunque
io
145
distinguere due momenti : prima della Legge, quando il peccato
esisteva ma era « morto», senza la coscienza di peccare; dopo la
Legge, quando il peccato viene commesso con piena coscienza ed è
più grave (4). La proibizione non ha dunque fatto altro che ac-
crescere il desiderio e rendere il peccato più dolce, perchè gli uomini
che non hanno ancora ricevuto la grazia commettono più volentieri
ciò che è vietato : così il peccato ha ingannato gli uomini, promet-
tendo un piacere, che è seguito da gravi pene e inducendoli alla
trasgressione, e alla morte. I1 male non è dunque nella Legge, bensì
in chi ne usa male e la trasgredisce, non sottomettendosi umilmente
a Dio per ottenere a grazia, si dà poter divenire spirituale, capace
di adempiere la Legge. L'uomo spirituale, quanto più si adegua alla
Legge spirituale cioè si eleva a desideri spirituali, tanto più facile e
dilettoso trova l'adempimento, p.erchè illuminato dalla Legge stessa :
la grazia gli rimette i peccati e gl'infonde lo spirito di carità , per cui
ama la giustizia (5).
Ma, poichè Paolo applica a se stesso il termine di « carnale »,
Agostino osserva che questo appellativo può essere inteso in vari
sensi e applicato a diverse categorie di persone. Carnali infatti in cer-
to modo si possono chiamare, come fa l'apostolo con i fedeli di Co-
rinto (I Cor. IH, 2), anche coloro che sono già sub gratia, rinati
mediante la fede e redenti dal sangue di Cristo. Carnali in senso più
stretto e proprio sono altresì coloro che si trovano ancora sub Lege,
schiavi Jel peccato e d: quella dolcezza ingannevole, trasgressori co-
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stretti a servire alla passione e nondimeno consci di peccare. Co-
storo riconoscono la buntà della Legge e vorrebbero conformarsi ad
essa, e tiprovano ii male che fanno, ma, vinti dalla passione, ne
subiscono il dominio. Paolo dunque, parlando in prima persona', si
riveste della personalità di chi non è ancora sub gratta (6). Costui
consente alla Legge, in quanto sa che nella sua carne non dimora il
bene; eppure nelle sue azioni cede al peccato. E questo peccato,
donde viene ? Agostino distingue : v'è un peccato che proviene dal-
la natura dell'uomo in quanto mortale ed è la pena del peccato ori-
ginale di Adamo, con cui veniamo al mondo. L'altro deriva dalla
consuetudine al piacere, è un peccato ripetuto e che noi stessi ac-
cumuliamo vivendo. L'una e 1 altra cosa, natura e consuetudine. si
congiungono insieme e dà nno forza invincibile alla passione : questo
è il peccato che Paolo dice abitare nella sua carne ed esercitarvi
146
un dominio dispotico (7). Alcuni, osserva Agostino, credono che
esprimendosi a quel modo Paolo abbia voluto togliere all'uomo il
libero arbitrio ; ma errano. L'apostolo, dicendo che il volere è a sua
portata di mano, riconosce che è in suo potere; ma l'uomo che
non è ancora sub gratta non ha la facoltà di compiere il bene, e
questa è la retribuzione del peccato originale, pena del delitto per cui
fu mutata la natura originaria de!' uomo in mortele, quasi seconda
natura, dalla quale ci libera la grazia di Dio quando ci trova' sotto-
messi ,a lui mediante la fede. Ma chi sta ancora sub Lege è vinto
dalla concupiscenza, che trae forza non solo dalla mortalità che ci
è d'impedimento bensì dalla consuetudine che ci opprime. L'uomo
sotto ,la Legge, di cui Paolo assume la personalità , riconosce dunque
che la Legge è buona, in quanto si rimprovera di contravvenirle,
ma nondimeno non riesce ad ottemperare ai suoi precetti. Si vede
così incolpato per la trasgressione ed indotto ad invocare la grazia
del Redentore. Questo peso opprimente della condizione mortale
si può chiamare legg'i delle membra: legge, perchè sanzionata da
Dio con una sua sentenza a titolo di pena. Essa combatte contro
la legge della mente, e prima che l'uomo sia giunto ad essere sub
gratia lo tiene schiavo di se stesso e del peccato. Perciò l'uomo che
è ancora in questa servitù non deve presumere delle sue forze,
come i Giudei si vantavano delle opere della Legge : chi è ancora
vinto, prigioniero e prevaricatore non ha altra risorsa che invocare
umilmente la benevolenza di Dio e riconoscere che la liberazione
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non gli può venire che dalla grazia. Dunque in questa vita mortale
il libero arbitrio non è capace di far sì che l'uomo possa adempiere
alla giustizia, pur volendo ; ma esiste, e conserva tuttavia quel tanto
di vigore che basta a ottenere che l'uomo si rivolga supplichevole
a Dio, il quale gli dona la forza di adempiere (8).
Paolo dunque, ripete Agostino, non incolpa direttamente la Leg-
ge ; essa impone di fare ciò di cui l'uomo è incapace, se prima non
si sia rivolto a Dio. Perciò alla categoria degli uomini sub Lege, che
sono da essa dominati e puniti come contravventori, si contrappone
quella sub gratia (terzo grado che si aggiunge ai due già segnalati),
i quali sono sottratti al timore della legge e messi in condizione di
eseguirla per amore (9). Perciò la Legge è detta legge di morte
per i Giudei ; i cristiani invece si possono considerare morti alla
legge che condanna. Cioè, alla Legge, senz'altro : perchè il ter-
147
mine si usa più comunemente in quseto senso, e d'altra parte non
ci sono due leggi, come credono i manichei (10); ma la stessa legge
promulgata con Mosè affinchè fosse temuta, con Cristo è diventata
grazia e verità , affinchè fosse adempiuta. Allo stesso modo la Legge
si può chiamare « lettera che uccide / per i Giudei e per tutti coloro
che, privi dello spirito di carità e di amore che è proprio del Nuovo
Testamento, la leggono ma non la. comprendono né eseguiscono :
mentre coloro che sono morti al peccato attraverso il sacrificio di
Cristo sono anche morti alla lettera (11).
I motivi fondamentali sono dunque gli stessi che abbiamo sem-
pre trovato fin qui : in particolare, come era naturale trattandosi di
commentare il medesimo testo, nella qu. 66 del De diversis quaestio-
nibus LXXXHI. Rimanee netta la distinzione dei tre stadi, ante Legem,
sub Lege e in gratia caratterizzati alla stessa maniera. Agostino con-
tinua a pensare che San Paolo dicendosi « carnale » indichi non la
propria persona, ma l'uomo sub lege; però l'apostolo appartiene
alla categoria degli spirituali, i quali ormai vincono le passioni ine-
renti alla carne mortale, sebbene siano ancora soggetti a sentirle.
Sotto questo aspetto [anche se non trovarne qui la metafora della
massa che d'altronde il testo commentato non suggeriva) l'umanitÃ
è veramente una con Adamo : in conseguenza del suo peccato e
per effetto di una sentenza di Dio, essa eredita quella perversione
della sua natura originaria, che è la mortalità *. Ma gli effetti della
colpa di Adamo si limitano a questo : vi è trasmissione della pena,
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non del peccato. Il peccato si ha quando l'uomo di fronte alla Legge,
sentendo di non potersi conformare ai suoi precetti, trascura di fare
ogni sforzo per ottenere il soccorso divino che gli è necessario.
Questa necessità è affermata, e quindi l'uomo non si redime da
solo : è chiaro che Agostino era già arrivato a pensare che l'uomo
vale non in quanto si dedichi alla ricerca della verità ma in
quanto viva nella Chiesa e partecipi dei suoi sacramenti (12). Ma oltre
il rilevare gli effetti che tale partecipazione ha avuto psicologica-
mente sulla persona di Agostino è impossibile andare, perchè non
troviamo traccia nelle sue opere di questo periodo, di una dottrina
dei sacramenti, e anche l'ecclesiologia è in uno stato ancora em-
brionale, non avendo egli anccra sviluppato il concetto della per-
manenza di buoni e malvagi nella Chiesa sino alla separazione
finale.
148
Insomma, per Agostino, in questo momento, non vi è peccato
che non sia individuale; il passaggio dal secondo al terzo stadio
dipende dal volere di ogni uomo, libero di commettere, non sotto-
mettendosi a Dio, un peccato di superbia, o di compiere un atto di
umiltà , invocando la grazia che lo metterà in grado di adempiere i
precetti della Legge con amore anziché per timore, acquistando così
la salvezza in ricompensa di un merito di cui Dio senza dubbio ha
prescienza, anzi lo conosce eternamente, ma che è un merito dello
uomo : i predestinati sono coloro dei quali Dio nella sua prescienza
sa che avranno fede. Il problema dei rapporti tra prescienza e on-
nipotenza di Dio non ha formato ancora l'oggetto di uno studio ap-
profondito.
In questa serie di commenti a S. Paolo, Agostino ha dunque ela-
borato una dottrina, di cui sembra per ora soddisfatto. E il rilevare
qualche oscurità non deve farci dimenticare ch'essa non manca di
coerenza. Di fronte a ogni sistema più o meno intinto di dualismo,
tale dottrina salva l'unità della rivelazione e di Dio, come la sua
trascendenza e la sua giustizia. Certo, può sembrare un'incrinatura
nel sistema che Agostino, ricordando il testo di / Corinzi III, 1-2
ammetta che vi siano uomini « carnali » anche dopo aver ricevuto il
battesimo. Ma egli distingue con sufficiente nettezza questa cate-
goria di « carnali », così chiamati perché non abbastanza progrediti
nella fede, dai « carnali » veri e propri, ancora sub lege. E' anzi
perché egli ha vivissimo il sentimento della diversità tra i rimasti
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ne) secondo stadio e coloro che sono pervenuti al terzo, che Ago-
stino non vuole ammettere che ai già battezzati Paolo applichi la
qualifica di « carnali » nel pieno senso del termine. Non bisogna di-
menticare che, anche in gratia, l'uomo rimane mortale e ha quindi
in sè, come conseguenza inevitabile della mortalitas, la concupiscenza
destinata a estinguersi soltanto nel quarto grado, in pace, quando
con la resurrezione l'uomo riacquisterà il corpo spirituale. Sol-
tanto allora questa pena del peccato di Adamo scomparirà inte-
ramente. Ma forse anche quella distinzione è fatta piuttosto per
salvare i1 sistema ; e forse il riconoscere che si è carnali e che la con-
cupiscenza sopravvive anch.e in gratia, e quindi l'aver continuato a
riflettere sopra un testo che non potè non metterlo per un momento
in imbarazzo, non fu senza conseguenze sullo spirito di Agostino e
sullo svolgimento ulteriore del suo pensiero.
149
Nella seconda quaestio Agostino esamina Romani IX, 10-29.
Come- già nel De diversis quaestionibus LXXX1I I (13), egli comin-
cia con l'affermare che San Paolo non vuole abolire comple-
tamente le opere bensì mostrare che esse seguono, non precedono,
la fede : questa ottiene la grazia che pertanto è condizione del
bene operare, non conseguenza di esso. La grazia poi si comincia
a ricevere quando si comincia a credere, ma non sempre e non in
tutti essa è sufficiente a procurare il regno dei cieli : così accade,
per esempio, nei catecumeni. Si delinea dunque di nuovo la dif-
ferenza tra coloro che non sono abbastanza progrediti nella fede
e gli altri : infatti vi sono nella fede delle gradazioni. Vi è un'ini-
zio, che assomiglia al concepimento, ma non è ancora la nascita.
Nulla si ottiene senza la grazia (14).
Posto così il problema del rapporto tra l'azione di Dio e quella
dell'uomo nella giustificazione, Agostino si prepara a risolverlo.
Le difficoltà sono molte e varie. Si rischia da un lato di attribuire
implicitamente a Dio anche l'origine del male o un procedere
arbitrario e tirannico, contrario alla giustizia ; dell'altro, di ca-
dere in un razionalismo che prescinda dai dati rivelati o li neghi.
La causa profonda dei dubbi in cui si dibatte Agostino deriva ap-
punto dal fatto, che egli attribuisce ora alla rivelazione un valore
infinitamente più grande di quanto non facesse all'inizio della sua atti-
vità di pensatore cristiano. La ferma decisione, di rimanere ade-
rente ai testi biblici e di evitare al tempo stesso pericoli che conosce
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per penosa esperienza, lo inducono a non risparmiare gli sforzi. Ra-
giona così, non esponendo una dottrina già fatta, ma argomentando
in base ai testi che ha sempre presenti, e a contatto coi quali
la fiducia nella soluzione già raggiunta viene alquanto scossa.
Perciò egli procede in maniera che può apparire contorta, e rende
senza dubbio difficile il seguirlo. Assistiamo al lavorio, direi quasi
al travaglio, del suo pensiero che viene faticosamente maturandosi.
Alla mente di Agosting, pur dopo quella premessa, si presenta
un altro testo, Efesini II, 8-9. Ora, egli incornicia con l'osservare
che Giacobbe non poteva essersi acquistato alcun merito con le
opere, prima di nascere; e parimenti Isacco non s'era meritato
di nascere e che Dio promettesse ad Abramo una discendenza.
Il vero « Seme di Abramo », cfà è i redenti in Cristo, sono dunque
coloro che comprendono di essere « figli della promessa », anzi
150
senza insuperbire per i loro meriti attribuiscono l'essere coeredi
'di Cristo soltanto alla chiamata di Dio. Anzi, per escludere i me-
riti dei genitori, i quali avrebbero potuto avere al momento del
concepimento disposizioni diverse, Esaù e Giacobbe furono ge-
melli, concepiti nello stesso istante ; il che, tra l'altro, mostra quanto
siano vane le speculazioni degli astrologi (15). Ma questo serve
ad abbattere la superbia degli uomini, col mostrare che la diversa
sorte dei due gemelli — o piuttosto l'elezione dell'uno — non
può essere dovuta che a Dio, il quale fa la grazia di chiamare ;
chi riceve la grazia compie poi le opere buone. Ma come si con-
cilia tutto ciò con la giustizia di Dio? Come si può parlare di una
« scelta », che non ha potuto essere fatta in base ad alcun merito,
il quale non poteva essere acquistato prima di nascere né di
poter fare alcuna opera buona, e neppure in base ad una diffe-
renza di natura, trattandosi di gemelli? E d'altra parte è chiaro
che, se Dio è giusto, non potè eleggere Giacobbe affine di farlo
buono, prima che fosse tale.
Ed ecco presentarsi nuovamente ad Agostino la soluzione
adottata altre volte : forse Dio, nella sua prescienza, previde la
fede di Giacobbe prima ancora che nascesse? Sicchè, nessuno è
giustificato in base alle opere buone, perché non può fare il bene
se prima non sia stato reso giusto; ma, poiché Dio giustifica in
virtù della fede, e credere è nel libero arbitrio dell'uomo, Dio
prevede questa volontà di credere e, nella sua prescienza, elegge
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ancor prima della nascita, colui che giustifica. Ma la debolezza di
questa risposta appare subito evidente. Infatti, se Dio previde la
fede di Giacobbe, come possiamo escludere che potesse prevedere
anche le opere e che non lo elesse per queste? E come si giu-
stifica il detto dell'apostolo che l'elezione non è dovuta alle opere?
Giacchè, o diciamo che ciò fu in quanto non erano nati ancora,
e dobbiamo riconoscere che mancava loro anche la fede ; o ricor-
riamo alla prescienza di Dio, e questa si estende certamente anche
alle opere. Il problema resta dunque insoluto, se non in quanto
possiamo escludere che l'apostolo volesse farci intendere che la
elezione fosse fatta in base alla prescienza. Eppure, se ritorniamo
al testo, dobbiamo riconoscere che non il proponimento di Dio
rimane fermo in seguito all'elezione, ma che al contrario Questa
dipende dal proponimento ; in altre parole, Dio non si propone
151
di giustificare in quanto trova negli uomini delle opere buone da
eleggere, ma per il suo proposito di giustificare i credenti egli
trova opere che elegge al regno dei cieli. La giustificazione pre-
cede l'elezione, non ne dipende. E allora, se Dio « ci elesse prima
della creazione », come si possono spiegare queste parole, se non
riferendole alla prescienza? La profezia che « il maggiore ser-
virà il minore » va intesa non nel senso di un'elezione di meriti,
i quali si producono solo dopo la giustificazione, ma riferita alla
liberalità di Dio, affinchè nessuno si vanti delle proprie opere.
Agostino ripete quindi il passo Efesini II, 8, da cui ha preso le
mosse (16).
E' dunque lecito chiederci se la giustificazione sia preceduta
dalla fede, che procaccia dei meriti, o no. Ora il testo di S. Paolo
è chiaro : esso parla di Dio che chiama. Senza questa chiamata,
non vi è fede : quindi la misericordia divina precede qualsiasi
merito ; Cristo è morto per uomini che non si possono chiamare
altro che empi. Da Dio « che chiama » dunque Giacobbe ottenne
che Esaù lo servisse. Ma la grazia consiste solo in una vocatio,
che può essere accolta, o no, e che non è pertanto diversa da
quella di cui Agostino ha parlato nei suoi tentativi precedenti (17).
Ma con ciò restiamo sempre allo stesso punto. Agostino se ne
avvede, ed è precisamente la possibilità di opporre resistenza* alla
chiamata quella che lo induce ad esaminare il problema non più
dal punto di vista del giustificato, ma da quello del reietto. Perchè
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è stato condannato Esaù? Se dobbiamo escludere tanto i meriti
delle opere quanto quelli 'della fede, e parimenti anche la prescien-
za, per Giacobbe, dovremo fare lo stesso anche per Esaù ; ma da
altra parte non possiamo ammettere che Dio abbia creato Esaù
al solo fine di « odiarlo », cioè condannarlo, cosa che Dio non
fa per alcuna delle sue creature. Dio non punisce che giustamente,
cioè per una colpa. Ma se ammettiamo questo per Esaù, attri-
buiamo anche a Giacobbe dei meriti reali. O negheremo forse che
Dio sia giusto? Agostino, che ha già riaffermato la sua convin-
zione della bontà del creato, si rifà ancora una volta al suo testo.
Anche S. Paolo ha veduto il pericolo e perciò ha ricordato le
parole di Dio a Mosè. Ma con ciò, ha egli veramente risolto il
problema, o non l'ha piuttosto reso più oscuro? Ché se Dio
avrà compassione di colui per il quale l'avrà avuta, possiamo ben
152
chiederci perchè non l'ha avuta per Esaù, sì da renderlo buono
come Giacobbe. Oppure quelle parole voglion dire che, se Dio
ha per uno tanta compassione da chiamarlo, ne avrà anche tanta
da fare che creda, e, una volta concessagli la fede, lo metterÃ
anche in grado di compiere opere buone?
Sicchè siamo ancora una volta avvertiti di non insuperbire
per le nostre opere buone : che cosa abbiamo, che non abbiamo rice-
vuto? (18Ì. Ma resta il problema: perchè non fu concessa que-
sta misericordia ad Esaù, ed egli non ricevette una chiamata
tale da ispirargli la fede e renderlo capace di opere buone? Se
ammettiamo che Esaù non volle credere, allora dobbiamo rico-
noscere che al contrario Giacobbe volle, e la fede non fu più
un dono di Dio per lui che ebbe qualche cosa senza averla rice-
vuta. O il pensiero di S. Paolo è che il credere dipende dal nostro
volere, il volere dall'essere stato chiamato, e quindi, tale chiamata
non dipendendo da noi, il dono che Dio fa della fede consiste
precisamente in questa chiamata, senza la quale non si può cre-
dere contro la propria volontà ? In tal caso la vocatio sarebbe
condizione necessaria, ma non sufficiente, della nostra fede; e
infatti molti sono i chiamati, pochi gli eletti, cioè coloro che non
disprezzarono l'appello di Dio. Ma che cosa significano allora
le altre parole dell'Apostolo, che il volere e il correre a nulla val-
gono se Dio non usa compassione? Vuoi forse dire che non solo
senza una chiamata non possiamo volere, ma che anche la nostra
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volontà a nulla vale, se Dio non ci aiuti a ottenere ciò che ne è
l'oggetto? Dunque, Esaù non volle e non corse; ma se anche
avesse fatto l'una e l'altra cosa sarebbe giunto alla meta solo
grazie all'aiuto di Dio, che con la chiamata" gli fornì anche il
volere ed il correre ; senonchè, egli, trascurando l'appello, divenne
reprobo. Bisogna dunque distinguere l'atto di Dio che ci dà il
volere, da quello che ci fa ottenere l'oggetto della nostra volizione.
Nel primo, si ha cooperazione tra Dio e l'uomo : egli ci chiama,
ma noi lo seguiamo. Nel secondo, egli solo ci concede di fare il
bene e di conseguire la beatitudine. Ma neppure così è risolta la
questione, perchè, se dipende da noi il seguire o meno la chiamata
di Dio, come avrebbe potuto Esaù scegliere prima di nascere?
E allora perchè fu riprovato, essendo ancora nel grembo materno?
Si torna sempre alle medesime difficoltà . Se infatti ricorriamo
163
nuovamente alla prescienza divina, ecco che la stessa spiegazione
deve valere per Giacobbe e non solo per la sua fede, ma per le
opere (19).
Ma anche una cooperazione dell'uomo con Dio va esclusa,
perché l'Apostolo stesso si è espresso chiaramente in contrario
in un altro luogo, che va tenuto in considerazione nell'interpre-
tare il nostro testo, e lo chiarisce : Filippesi, II, 12-13.
Dunque è Dio che opera in noi anche il buon volere ; chè
se S. Paolo avesse voluto sostenere che la volontà umana non
basta da sola, senza l'aiuto di Dio, a farci vivere rettameme,
avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto mediante la proposi-
zione reciproca, cioè che la misericordia di Dio essa pure non
è sufficiente da sola, senza il concorso della volontà umana : cosa
manifestamente assurda. Inoltre è chiaro che la volontà buona
non precede la chiamata, ma questa quella, e quindi il nostro volere
il bene è da attribuire interamente a Dio che ci chiama, poiché non
da noi dipende l'essere chiamati (20).
Ma neppure con ciò le difficoltà sono finite. Infatti se la
chiamata di Dio produce per se stessa la buona volontà , anche pre-
scindendo dal problema della ragione per cui alcuni non sarebbero
chiamati, v'è un testo che Agostino ha ricordato poco prima e che
si ripresenta ora alla sua mente : « molti i chiamati, pochi
gli eletti ». Fedele al suo principio di attenersi alla Scrittura, Ago-
stino si propone ora l'obiezione implicita in questa affermazione, di
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cui non mette in dubbio la verità . Ma se gli eletti sono pochi per
non aver risposto all'appello, e il non rispondere era in loro fa-
coltà , siamo di nuovo al punto di prima. Si può tuttavia fare una
altra ipotesi. Forse coloro che, chiamati così come sono, non ac-
consentono, potrebbero, se chiamati altrimenti, indirizzare la loro
volontà alla fede : sicché è vero che molti sono chiamati e pochi
eletti, in quanto il medesimo appello non produce su tutti la stessa
impressione e pertanto seguono la chiamata di Dio quelli che sono
trovati capaci di accoglierla ; e non è meno vero che il bene ope-
rare è da attribuire a . Dio, il quale rivolse il suo appello nel
modo conveniente a coloro che lo seguirono. La chiamata giunse
bensì anche agli altri, ma era tale che non poterono indursi a
darle ascolto (21).
154
A questo punto, può sembrare già che Agostino abbia tro-
vato, o almeno intravveduto, la soluzione definitiva. Infatti egli non
si rivolge più le domande che ci attenderemmo, e cioè quale è la
ragione per cui alcuni sono chiamati in un modo, altri in un altro ;
e se la chiamata degli eletti fu efficace in quanto Dio ha saputo
nella sua prescienza che essi avrebero creduto. Ma se egli non
pone questi problemi in forma diretta, è perché il suo testo, e il
metodo ch'egli ha già seguito, gl'impongono di riproporli in ma-
niera indiretta : relativamente cioè non agli eletti, ma ai reprobi.
. E' infatti in relazione a questi che si pone con maggior chiarezza
il problema della giustizia, ossia quello che gli sta particolarmente
a cuore. E' chiaro che la condanna deve essere motivata da un
peccato. Perciò Agostino considera ora il caso di Esaù. Anche il
Nuovo Testamento, egli osserva, ci presenta diversi esempi di fede
e di incredulità , una serie cioè di. casi in cui la medesima chia-
mata agì in maniera differente. Ora, non si può dire che a Dio
onnipotente mancasse il modo di rivolgere ad Esaù un appello
tale da indurlo alla fede. A chi osservasse che ci può essere una
ostinazione tanto forte, da far rimanere sordi a qualunque chia-
mata, è facile rispondere che, se non si voglia negare l'onnipotenza
di Dio, bisogna ammettere che un appello rivolto in modo da non
indurre alla fede — ossia, tale da provocare quella ostinazione —
non può essere che effetto di un abbandono da parte di Dio. E'
logico chiedersi allora se questo stesso indurimento di cuore non
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sia già di per se stesso una pena. Siamo sempre di fronte' alla
medesima esigenza, che Agostino (lo ripetiamo ancora) sente sempre
come un problema vitale, di non attribuire a Dio l'origine del
peccato e del male. Ma con una finezza esegetica che mette a pro-
fitto l'abilità acquistata in tanti anni di pratica della retorica (22),
Agostino confronta ora i due versetti, che parlano l'uno della mise-
ricordia divina e l'altro dell'indurimento del cuore da parte di
Dio. San Paolo dice bensì che la salvezza non dipende dall'uomo
e dal suo operare, ma da Dio che usa misericordia ; tuttavia non
soggiunge che la condanna non dipende dell'uomo che resiste o
recalcitra, ma da Dio che indurisce. Dal confronto dei due testi
risulta chiaro che cosa intende l'apostolo quando dice che Dio
« indurisce chi vuole ». E' semplicemente questo : non gli usa mi-
sericordia. Dio a nessuno dà qualche cosa che lo renda effet-
155
tivamente peggiore; soltanto, non gli concede ciò per cui possa
divenire migliore. Ma è possibile che questo avvenga fuori della
giustizia, indipendentemente da qualsiasi discriminazione di me-
riti? Se ciò fosse, chi non si lagnerebbe di Dio — il quaie spes-
so lamenta che gli uomini non vogliono credere e vivere secondo
giustizia, dichiarando con ciò che essi sono i responsabili — e
non userebbe quelle espressioni che l'apostolo respinge? (23).
Siamo così al culmine di questa lunga, faticosa, tortuosa discus-
sione, che ho creduto necessario seguire nei particolari, precisamente
per assistere da vicino al lento, graduale e tormentoso processo di
sviluppo del pensiero di Agostino. Lo abbiamo visto più volte ritor-
nare sulle medesime posizioni, sì che pare volesse mostrare coi fatti,
urtando ogni volta contro lo stesso ostacolo, che le varie vie che si
presentano sono in realtà vicoli ciechi, all'infuori di una. Si prova
un poco, a questo punto, la stessa sensazione che in certe escursioni
montane, quando dopo la lunga ed inamena ascesa su di un ver-
sante ripido e monotono, si riesce infine ad infilare il vallone che
conduce al colle, che tanti, pur piccoli ed incerti segni, ci fanno
presagire vicino : finchè s'intravedono profili di nuove vette lon-
tane e già ci rinfresca e allieta la brezza che spira dall'opposto
versante. Agostino, proponendosi di salvare la giustizia di Dio, che
gli appare inseparabile dal libero arbitrio umano, ha cominciato con
l'ammettere che l'iniziativa dell'atto di fede per cui gli eletti si sal-
vano, spetti all'uomo. Ma poichè con ciò si finisce per attribuire
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la salvezza alle opere, ha dovuto lasciare quell'iniziativa a Dio. Gli
pesa tuttavia ammettere che i reprobi siano condannati, prima d'ogni
loro positivo demerito, da un atto di Dio ; o una condanna la quale
non sia giusta retribuzione d'una colpa. Ed ecco che l'atto divino onde
agli eletti è concessa la fede si chiarisce come un dono, e il suo « in-
durire il cuore » dei reprobi semplicemente come un non usare mi-
sericordia, un non concedere quel medesimo dono ; quindi, se Dio è
giusto e s'egli non è tenuto ad usare misericordia a tutti, vuoi dire
che ciò che agli uomini è dovuto è soltanto la condanna. Non volendo
nè potendo concedere che Dio costringa i reprobi a peccare, ma at-
tribuendo soltanto a lui l'atto di misericordia che avvia gli eletti alla
fede e alla salvezza, Agostino deve riconoscere nei condannati, che
sono il maggior numero, una spontanea inclinazione al male.
Dio è giusto : il suo aver compassione di chi vuole deve essere
•
156
dunque conforme a quella giustizia. Ma precisamente perchè la giu-
stizia di Dio possa essere posta fuori discussione, bisogna che in
base ad essa tutti gli uomini non meritino altro che la condanna.
Allora è possibile fare intervenire una distinzione : al diritto assoluto
e rigido, Io strictum ius, era stata da tempo contrapposta l'aequiias ;
e se nel diritto classico questo termine significa soltanto « giustizia »
e l'aequitas può volere decisioni più severe di quelle imposte dal
ius, nel IV secolo essa ha già , sembra, incominciato ad acquistare il
significato che nella compilazione giustinianea apparirà ammesso pie-
namente, di mitezza, indulgenza, benignità , che permette di attenua-
re, e anche eliminare del tutto i rigori della legge. E' in virtù di que-
sto sentimento di benevolenza che un creditore può rinunciaTe a esi-
gere il pagamento da parte di uno dei debitori senza che ciò lo
obblighi ad accordare il medesimo trattamento agli altri. Del resto,
Agostino rileva altresì che giustizia ed equità umane non sono che un
pallido riflesso di quelle di Dio. Comunque, l'atto di Dio che usa
misericordia è sempre atto di equità , che dipende interamente dal
suo arbitrio, senza che nessuno abbia il diritto di considerarlo come
un'ingiustizia. Ché di fronte a Dio tutti gli uomini, morti — cioè
peccatori — in Adamo da cui si è diffusa a tutto il genere umano
come un contagio l'offesa fatta a Dio, sono come il mucchio d'ar-
gilla di fronte al vasaio : una massa intrisa di peccato, debitrice di
pena. Nessuna ingiustizia, dunque, da parte di Dio s'egli condona
soltanto ad alcuni il castigo dovuto a tutti. Ma il voler giudicare di ciò
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noi uomini è pura superbia : si tratta di equità , cioè di un vero e pro-
prio atto di clemenza da parte di Dio, che certamente non è nrbi-
trario ma trascende ogni giudizio umano; torna opportuno il ri-
cordare la parabola degli operai nella vigna. Ed è vano l'argomentare
in proposito, o il lamentarsi, come se Dio costringesse qualcuno a
peccare : mentre egli si limita ad elargire la sua misericordia agli
eletti, ed il suo « indurire-» il cuore dell'uomo non è che un rifiuto
di clemenza, ed egli ha dunque pienamente ragione di lamentarsi
dei peccatori (24).
Se dunque qualcuno si turba, pensando al diverso trattamento
fatto ad uomini che provengono dalla medesima massa peccatorum e
ricordando che, se Dio aiuta o abbandona chi vuole, la sua volontà è
onnipotente, a costui è appunto da replicare con le parole di S: Paolo.
Le parole sono evidentemente rivolte ai « carnali », come dimostra giÃ
157
l'immagine stessa del fango di cui fu formato il primo uomo ; e poiché
« in Adamo tutti muoiono », perciò "dice l'apostolo che una è la massa
da cui è tratto anche il vas in honorem. Dunque anche l'eletto co-
mincia con l'essere carnale, per salire poi al grado di spirituale. Ago-
stino che, come noteremo meglio in seguito, ha sin qui polemizzato
contro se stesso e abbattuto con le sue mani l'edificio teologico co-
struito nei precedenti commenti a S. Paolo, cerca ora di conservarne
almeno una parte e di mantenere la distinzione tra i diversi gradi
della vita spirituale. Correlativamente, egli si sforza ancora di man-
tenere Paolo tra gli spirituali ; e non è ancora disposto ad abban-
donare la spiegazione che del termine di « carnali » usato a pro-
posto dei fedeli di Corintp egi ha già dato precedentemente (25).
Ora, dal fatto che quell'epiteto è applicato anche a fedeli, già rinati
in Cristo, ma che l'apostolo considera ancora come infanti da nu-
trire di latte, Agostino argomenta che molto più giustamente si pos-
sono chiamare così quelli che non solo ancora rigenerati o anche
i repr.obi. E tuttavia deve emmettere che carnali sono detti anche
quelli che sono già rasa in honorem (26).
Agostino è ripreso dal suo timore del manicheismo. Perciò non
solo conclude la discussione precedente ripetendo ancora una vol-
ta che Dio è giusto, ma vuole riaffermare anche la sua bontà . L'oc-
casione gli è offerta dal riavvicinamento di due testi biblici ; se-
condo uno Dio non odia nulla, eppure secondo l'altro egli ha odiato
Esaù. Come si possono conciliare le due affermazioni? Anche Esaù
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è stato creato da Dio, il quale ama tutte le cose che ha creato e che
sono tutte buone secondo il posto di ciascuna nell'ordine dell'uni-
verso, e non ne odia alcuna. Nell'uomo anche il corpo è buono, ma
l'anima è superiore; e Dio non odia se non il peccato, che è una
volontaria deviazione, per cui l'anima si dirige verso i beni infe-
riori. L'origine del peccato è pertanto nell'uomo, non in Dio il
quale mandò Cristo a redimere il genere umano giustificando i
credenti. Nei reprobi dunque Dio odia non la propria creatura, ma
l'empietà ; e se egli rifiuta loro la giustificazione concessa agli elet-
ti, in base ai suoi giudizi imperscrutabili, non per questo essi non
hanno una loro funzione nell'ordine del creato (27).
Come si vede, basta che le preoccupazioni antimanichee ripren-
dano il sopravvento, perché Agostino ritorni alle sue concezioni di
un tempo, e faccia quasi della giustificazione un premio. Conseguen-
158
za, sì, di giudizi imprescrutabili, il che è conforme al testo e non
contraddice formalmente al concetto di equità ; ma, in fondo, im-
plica un ritorno momentaneo all'idea che anche la giustificazione
sia retributiva.
Poi Agostino spiega perchè non vi è differenza, riguardo alla
salvezza, tra Giudei e Gentili : chè se Dio sceglie i suoi eletti così
fra gli uni come fra gli altri, vi sono evidentemente dei reprobi anche
tra i Giudei e ciò significa che tanto gli uni quanto gli altri meri-
tano la condanna. Unica è dunque la massa dei peccatori ed empi
che proviene da Adamo. Ma se il peccato non deriva da Dio, che
non fece gli uomini peccatori, quale n'è l'origine, e come s'è formata
questa massa ? Ossia, come accade che si verifichi in ogni uomo quella
inordinatio atque perversitas in cui consiste il peccato, per cui tutti
non sono degni, in stretta giustizia, che di pena? Ora Agostino
ha già osservato che la massa peccatorum et impioru.ni proviene da
Adamo ; dopo il peccato del progenitore, gli uomini furono resi mor-
tali. Egli ha cura di sottolineare che quello che importa è la mor-
talità , non il corpo ; il quale, creato da Dio, è per se stesso buono e
mosìra nelle sue membra una tale armonia che l'apostol.> ha potuto
trame un'immagine per illustrare l'unione dei feddi nell'amore.
Il corpo, in sè, non sarebbe quindi di impedimento alia perfezione
spiritu'j'e, giacchè il Creatore ha disposto che le memrif fossero ani-
mate da uno spirito vitale, e al disopra di questo dominasse l'anima,
che deve a sua volta sottomettersi a Dio. Si tratta dunque della
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stessa teoria che Agostino ha esposto tante volte, e anche poco più
sopra. Ma con la trasformazione del corpo umano in mortale, pena
del peccato, s'è verificato anche un altro cambiamento : la concu-
piscenza, che regnava già come pena del peccato, ha penetrato tutta
la massa del genere umano, ha acquistato il dominio della carne,
e con ciò ha diffuso in tutti gli uomini non soltanto la pena, ma
il peccato medesimo. Trasmettendosi di generazione in generazione
la sua natura mortale, l'umanità si trasmette anche questo predo-
minio degli appetiti più bassi, la concupiscentia carnaìis che l'allon-
tana da Dio ed è lo stesso peccato d'origine (28).
Ed ora Agostino si avvede di un altro pericolo.
Anche se si afferma semplicemente — senza attribuire il pec-
cato a Dio— che alla trasmissione della pena si accompagna quella
del peccato, la concupiscentia carnaìis che impedisce all'anima
159
di esercitare il suo primato e rivolgersi unicamente al Creatore,
non si viene a togliere all'uomo la capacità di determinarsi al bene,
non si nega cioè il libero arbitrio? Questa conclusione è quella
dei manichei ed egli l'ha già combattuta. Ma per evitare l'eresia, non
vi è bisogno di affermare la libertà totale di ogni singolo individuo,
così come non è affatto necessario negarla assolutamente. Agostino
ha già ammesso che nell'uomo, dopo il peccato di Adamo, il libero
arbitrio ha subito una diminuzione (29) ; ora egli sarà portato ad
accentuarla, senza con ciò arrivare alla conseguenza estrema di
negare completamente la libertà umana. Bisogna ripetersi che di
ogni nostra azione buona il merito va nettamente a Dio. Gi si
ordina di fare il bene, ma chi può compierlo se non chi è stato
reso capace, cioè giustificato, e in virtù della fede? Ci si ingiunge
di credere, ma chi è in grado di farlo, se non abbia ricevuto una
chiamata, che lo metta come in presenza dell'oggetto della fede
stessa? E chi può far sì che la sua mente sia colpita da una rap-
presentazione tale da indurre la sua volontà alla fede? La volontÃ
umana è infatti libera, nel senso che essa si volge a ciò che la diletta
e varie sono le cose che possono attrarla ; ma chi può fare che
essa incontri l'oggetto desiderabile e che questo, incontrato, susciti
il desiderio? E' dunque soltanto la grazia che ci ispira e ci con-
cede di essere attratti dagli oggetti che conducono a Dio : il moto
della volontà , il tendere verso il bene, il compiere opere buone,
son tutti doni di Dio. Ma si presenta ora alla mente di Agostino
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un testo, che un tempo lo ha indotto a pensare diversamente (30) ;
un testo, che sembra affermare nella maniera più recisa la prioritÃ
dell'iniziativa umana, seguita da un soccorso divino che ne è
quasi condizionato : « chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete,
bussate e vi sarà aperto » (Matt. VII, 7). Ma il vescovo d'Ippona
constata ora che anche la nostra preghiera è talvolta tiepida, anzi
fredda e vana, a tal punto che in certi casi neppure ce ne ramma-
richiamo : ché se sentiamo dolore di questa frigidità , allora la nostra
è già una vera preghiera. Ammissione ben significativa! E' una
breve frase, ma che c'illumina forse più di ogni altra : possiamo
immaginare, vediamo, Agostino in orazione. La sua preghiera è
immune, ora, da ogni elemento intellettualistico, non è più tenta-
tivo di riconoscere con piena evidenza l'ordine dell'universo e di
inchinare la mente di fronte al Creatore e Ordinatore del tutto, in
I6o
uno sforzo di intelligenza ; bensì slancio di amore, che impetra di
ottenere dal suo stesso oggetto la forza di amarlo e che prega di
poter pregare. E' nella sua stessa esperienza che Agostino trova
la ragione di quel monito divino. Esso significa, per poco che
l'uomo vi rifletta, che anche il pregare, il chiedere, cercare e bus-
sare ci è concesso da Dio, il quale ci ha imposto di farlo, affine
di renderci coscienti di quella verità (31).
Insomma, due punti vanno tenuti fermi : che vi è un'elezione
e che questa, non segue la giustificazione, anzi la precede e ne è
causa. Ma quanto alle ragioni di questa scelta, Agostino non sa
trovarle, ed è disposto a confessare la sua debolezza di fronte a
chi possa saperne di più, benché la sua opinione sia che quelle
ragioni debbano rimanere nascoste agli uomini finché essi fanno
parte della massa damnationis. Nessuna infatti delle ragioni che si
potrebbero addurre è soddisfacente, nessuno dei valori che gli
uomini apprezzano è stimato da Dio: non l'ingegno, che vi sono
fedeli certo intellettualmente inferiori agli eretici, non la moralitÃ
quale è considerata dagli uomini (del resto non può trattarsi che
di un peccare meno, nessuno essendo senza peccato), che vi sono
uomini virtuosi tra gli eretici e i pagani e d'altra parte meretrici e
istrioni che si convertono e valgono più di quelli per fede spe-
ranza e carità . Del resto, anche a questo proposito dell'assoluta
indifferenza di Dio di fronte ai valori umani, S. Paolo ha parlato
chiaro (/ Cor. I, 27). E se, infine, volessimo dire che Dio sceglie
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la buona volontà , dobbiamo riconoscere che la volontà stessa si
determina in base a ciò che l'attrae; e il farglielo incontrare non
è in potere dell'uomo. Con tutto ciò, Dio è giusto, in manièra
assoluta : egli è il creditore, che a suo talento esige o condona il
debito, nella pienezza del suo buon diritto; è il creatore e l'ordi-
ntore del mondo. Non resta che inchinarsi ai suoi giudizi imper-
scrutabili. E la discussione, in qualche punto così tormentosa e
contorta e che in uno almeno ha assunto un tono solenne, termina
con un movimento oratorio, ma parenetico, con un andamento da
sermone (32).
Qualche cosa è dunque profondamente mutato nel pensiero
di Agostino. Ma che cosa, esattamente? Il rispondere con la mag-
gior possibile precisione a questa domanda è condizione indispen-
sabile per poter determinare anche il modo in cui avvenne il cam-
iti t
11
biamento, cioè in virtù di quali influssi esterni e sotto l'impero di
quali esigenze intime il pensiero teologico di Agostino si è venuto
svelgendo fino a questo momento : che è a sua volta condizione
indispensabile per un'esatta comprensione dello sviluppo succes-
sivo della sua teologia.
Se ora torniamo a leggere i passi de\\'Expositio quarundam
propositìonam e specialmente del De diversis quaestionibus LXXXIII
in cui si parla della massa iati, o massa peccati (33), e restrin-
giamo il nostro esame a quelle poche frasi, può anche sembrare
che non vi sia stato nessun cambiamento. Nella 68a delle « 83
questioni » Agostino dice infatti esplicitamente che dopo ii peccato
di Adamo il genere umano si perpetua secondo le leggi delia gene-
razione del corpo mortale e pertanto gli uomini sono diventati una
sola massa di fango, massa peccaminosa, con la quale Dio opera,
come il vasaio con l'argilla. Ma abbiamo anche veduto che Ago-
stino riteneva che l'apostolo abbia negato il diritto di tentare di
rendersi conto del procedere di Dio solo a chi fa parte di questa
massa, è cioè tuttora carnale; e lo abbiamo veduto altresì conclu-
dere che con l'aiuto di questa grazia l'uomo può divenire spiri-
tuale e questo aiuto Dio lo concede a chi vuole, ma in base a dei
meriti, benché reconditi : i quali meriti consistono Dell'ascoltare
la vocatio di Dio, che nella sua prescienza conosce coloro che
avranno fede, e li elegge, sicché il merito vero non è loro, mentre
è propria dei condannati la colpa di non avere ascoltato tale
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chiamata.
Ma questa è per l'appunto la concezione contro la quale Ago-
stino polemizza ora, facendo osservare che se l'elezione fosse
compiuta in base alla previsione relativa alla fede, non vi sarebbe
ragione di non riconoscere una prescienza per quanto conceme
le opere. Non solo; ma caratteristico della qu. 2 del primo libro
Ad SimpKcianum è il voler risolvere il problema considerando gli
eletti ma anche, e soprattutto, i reietti, i dannati. In questi. Ago-
stino aveva scorto una colpa particolare, quella cioè di non aver
seguito l'appello divino ; ora invece egli riconosce che anche in
loro il libero arbitrio è sminuito, in quanto si rivolge spontanea-
mente al male. A una sola vocatio, Agostino ne sostituisce ora due :
una capace di indurre gli eletti al bene, in quanto presenta, e fa
appetire loro, i beni di ordine superiore che li conducono a Dio:
162
l'altra incapace di sostituire altri oggetti di desiderio' a quelli cui
la carne si rivolge naturalmente.
Infatti — e qui tocchiamo il punto essenziale — è mutato nel
pensiero di Agostino il modo d'intendere la natura mortale dello
uomo. Prima, la mortalita!, gli era apparsa semplicemente una pena
del peccato di Adamo, la quale aggravava bensì la condizione dello
uomo ma non gl'impediva in maniera assoluta di elevarsi spiritual-
mente e di passare dallo stadio sub lege a quello sub gratia. La
volontà umana, per determinarsi al bene e volgersi a Dio, incon-
trava, è vero, ostacoli nello stato d'ignoranza e di debolezza in
cui l'essere soggetto a morire ha posto l'uomo; ma si trattava di
una consuetudine, che non era impossibile vincere. Ora, il posto
di questa ignorantia et difficutias è preso da una impotenza che
è totale, finché consideriamo le sole forze umane; in luogo della
consuetudine al peccato è subentrato un peccato autentico, quello
dì Adamo, che con l'atto stesso della generazione si trasmette in
ogni uomo e lascia in lui la sua impronta. E' per tale peccato che
l'uomo merita soltanto la pena, sicché l'elezione è un puro atto
di misericordia, da parte di Dio, il quale giustifica chi vuole, ren-
dendolo atto a credere, e largendogli la fede. Che, se l'atto iniziale
di fede fosse in potestà dell'uomo, allora la logica esige che si
attribuisca la redenzione non più alla sola fede — che acquista
un merito — ma altresì alle opere.
Il monito dell'apostolo, che Agostino aveva inteso come rivolto
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agli uomini ancora carnali, ora è considerato da lui come diretto
anche, almeno, ai catecumeni all'inizio della fede. Il vescovo di
Ippona ritiene però che vi siano diversi gradi nella fede; non
tutti ne hanno quanta è richiesta per ottenere il regno dei cieli.
Egli non dice ancora esplicitamente che anche Paolo può avere
applicato l'epiteto di carnale a se stesso, né si ricorda di avere
attribuito a Pietro un peccato per cui considera che fu giusta-
mente redarguito. Anzi, si direbbe che a quella conseguenza Ago-
stino voglia sfuggire, o per lo meno che un punto gli sia rimasto
ancora oscuro : che se carnali sono i catecumeni, è ancora impre-
cisato il valore del battesimo. Il riconoscimento che questo can-
cella il peccato d'origine, mentre lascia sussistere la concupiscentia
carnalis, non verrà che più tardi. Né si vede per quale ragione
Agostino debba parlare di una doppia vocatio, e di una inefficace,
«3
se non perché di votatio ha parlato già altre volte e, pur mutando,
vuole mantenere questo concetto. Del pari, appena accennata —
ma tuttavia già presente — è un'altra concezione caratteristica:
quella del non valore della moralità degli infedeli.
Il cambiamento è dunque indiscutibile e profondo. Che Ago-
stino ne avesse coscienza nel momento stesso in cui si produsse,
è indubbio, perchè, come abbiamo veduto, egli polemizza con sé
stesso; benché probabilmente non si rendesse conto, per allora, di
tutto ciò che implicava. Ma resta da vedere, nella misura in cui
è possibile, quali cause contribuirono a operare questo cambio.
NOTE
(1) II De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri duo è indicato nelle
Retractationes come la prima opera posteriore all'episcopato. Agostino dice
esplicitamente (I, pr.) che le questioni su cai Simpliciano lo interroga erano
state da lui trattate in opere precedenti, ma che egli ha voluto riesaminare
accuratamente i testi di S. Paolo che era stato richiesto di spiegare. Sul valore
delle sue parole, v. oltre.
(2) L'Ad Simplicianum differisce dai commenti alla Genesi, e anche dagli
aitri sulle epistole paoline per essere uno scritto occasionale, provocato dalle
domande di Simpliciano; ma i! fatto che Agostino non si contentò d'inviare
all'amico una copia, o una riproduzione lievemente modificata, di uno degli
scritti anteriori, prova come i problemi sollevati da Simpliciano corrispondes-
sero a esigenze profondamente sentite da Agoslino stesso. Ciò sarebbe vero,
anche qualora, per spiegare com'egli inviasse a Simpliciano alcune delle « 83
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questioni » si volesse fare l'ipotesi che le domande rivoltegli dal successore
di Ambrogio fossero provocate proprio dalla lettura di quaìcuna tra le opere
esegetiche di Agostino stesso.
(3) Ad Simplic. I, qu. 1. 1: Dicendo « ego vivebam sine lege aliquando »
(Rom. VII, 9) « videtur mihi apostolus transfigurasse in se hominem sub lege
positum, cuius verbis ex persona sua loquitur »; cfr. 4, cit. a n. 4; 9, cit. a n. 6;
11, cit. a n. 8.
(4) Ad Simplic. I, qu. 1 ,1: «Et quia paulo ante dixerat "Evacuati su-
mus a lege mortis " ... atque ita per haec verba quasi reprehendisse Legem pos-
set videri, subiecit statim " Quid ergo dicemus? » etc. — 2: « Hic rursus mo-
vet, /si Lex non est peccatum, sed insìnuatrix (var.: inseminatrix) peccati, ni-
hilominus his verbis reprehenditur. Quare intelligendum est, ad hoc datam
esse non ut peccatum insereretur neque ut extirparetur, sed tantum ut demon-
etraretuir quo animarn humanam quasi de innnocentia securam ipsa paccati
demonetrationo ream faceret; ut quia peccatum sine gratia Dei vinci non poa-
«et, ipsa reatus soìlicitudine ad percipiendam gratiam converteretur. Itaque non
ait. pecoatum non feci nisi per Legem, sed " peccatum non cognovi (vs. 7).
Unde apparet concupiscientiam per Legem non insitam sed demonstratam ». —
3: « Consequens autem erat ut quoniam, nondum accepta giatia, concupiscen-
164
tiae resisti non poterai, augerelur etiam; <juia maiores vires habet concupi-
scentia crimine praevaricationis adiuncto, cum etiam contra- Legem facit, quam
si nulla Lege prohiberetur... Erat enim et ante Legem, sed non omnis erat,
quando crimen praevaiicationié adhuc deerat ». —; 4: «Sane qnod ait (vs. 10:
" Tevixdt ") satis signìficavit hoc modo aliquando vixisse peccatum id est nolum
(var.: natimi} fuisse, sicut arbitror, in praevaricatione primi 'hominis quia et ipse
mandatum acceperat... Non enim potest reviviscere nisi quod vixit aliquando.
Sed mortuum fuerat, id est occultatimi, cum mortales nati sine mandato Legis
homines viverent, sequentes concupieeentias carnis sine ulla cognitìone, quia
sine utla prohibilione. Ergo " Ego " inquit " vivebam (vs. 9)". Unde manife-
stat non ex persona sua proprie sed generaMter ex persona velerie (var., om.)
hominis se loqui. " Adveniente auitem " (vss. 9-10). Mandato enim si obe-
diatur utique vita est. Sed inventimi est esse in morlem, dum fit cantra man-
datum, ut non solum peccatum fiat, quod etiam ante mandatum fiebat, sed hoc
abundantius et perniciosius, ut iam a sciente et praevaricante peccetur ».
(5) Ibid. 5: (vs. 11). « Peccatum... ex prohibitione aucto desiderio, dulcius
iactum est et ideo fefeilit. Fallax enim dulcedo est quam piures atque maiores
poenarum amariludines ccnsequuntur. Quia ergo ab hcxminibus nondum spiri-
talem gratiam percipientibus suavius admittitur quod vetatur, fallii peccatum
falsa dulced-ine. Quia vero etiam accedit reatue praevaricationis, occidit ». —
5: (vs. 12): « In malo utente quippe vitium est, non in mandato ipso, quod
bonum est. Quoniam bona est Lex, si quis ea legitime utatur (/ Tim., I, 8).
MaJe autem utitur Lege qui non se subdit Deo pia humiMtate ut per gratiam
Lex possit impieri ». — 7: « " Scimue enimi" inquit "quia" ete. {vs. 14). In
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quo satis ostendit non posse impleri Legem nisi a spiritualibus, qui non fiunt
nisi per /gratiam. Spirituali enim Legi quanto fit quisque simiiior, id est, quanto
ma/gis et ipse in spiritualem surgit affectum tanto eam magis implet, quia
tanto magis ea delectatur iam non sub eius onere afflictus sed eius lumine
vegetatus, quia praeceptum Domini lucidum est i;luminans oculos ete. (Ps.
XVIII, 3-9), gratia donante peccata eit infundente spiritum charitatis quo et non
sit molesta et sit etiam iucunda iustitia ».
(6) Ibid., 7: «Sane, cum dixisset " ego autem carnalis eum " (vs. 14)
contexuit etiam qualis carnalis. Appellati sunt enim ad quendam. modum carna-
les iam eliam sub gratia constiteli, iam redempti sanguine Domini et renati per
fidean quibus idem apostolus dicit (/ Cor, IH, 1-2). Quod dicens utique ostendili
iam renatos fuisse per gratiam qui erant parvuh in Christo et lacte polandi et
tamen eos adhuc carnales vocat. Qui autem nondum est sub gratia, sed sub
Lege, ita carnalis est ut nondum sit renatus a peccato, sed venumdatus sub pec-
calo, quoniam pretium mortiferae voluptatis ampiectitur dulcedinem illam qua
fallitur, et delectatur eliam contia Legem facere, cum tanto magis libet quanto
minus licei. Qua suavitale fruì non polesl quasi pretio conditionis suae 'nisi
cogatucr tamquam emptum mancipium servire libidini. Sentit enim se servum
dominantis cup-iditatis, qui prohibetur et se recte prohiberi cognoscit et tamen
facit ». — 9: « (vs. 15) Hoc enim non vult quod ei Lex; nam hoc vetat Lex.
Consentit ergo Legi non in quantum facit quod illa prohibet sed in quantum
non vult quod facit. Vincitur enim nondum per gratiam liberatus, quamvis
iam per Legem, et noverit se male facere et nolit. Quod vero sequitur et dicit
"Nunc autem " (vs. 17) non ideo dicil quia non consentii ad faciendum pec-
165
catum, quamvis Legi consentiat ad hoc iroprobandum. Loquitur eaim adirnc
ex persona horuinis sub Lege conati-luti, nondum sub gratia, qui profecto tra-
h'tur ad male operandola concupiscentia dominante atque fallente dulcedine
peccati prohibiti, quamvis ex parte nolitiae Legis hoc improbet. Sed p-ropteraa
dicit " non ego operor illud " quia victue operatur. Cupidilas quippe id ope-
ratur, cui superanti ceditur. Ut autem non cedatur, sitcjue mene nominiti ad-
versus cupiditdtum robustior, gratia facit, de qua post dicturus est ».
(7) IbitL, 10: « " Scio enim ", inquit, etc. (vs. 18). Ex eo quod scit, con-
sentit Legi; ex eo autem quod facit, cedii peccato. Quod' Si quaerit aliquis
unde hoc scil quod dicit habitare in carne sua non utique bonum, id est pec-
cai um: unde nisi ex traduce mortali Li UÃ et assiduitate voluptatis (var.: voluti -
talis)? lliud est ex poema originaJis peccati, hoc est ex poena frequentati pec-
cati. Cum ilio in hanc vitam uaseimur, hoc vivendo addimus. Quare duo sci-
licet, bamquam natura et consuetudo, coniuncta robustissimam faciunt et in-
victiseimam cupiditatem, quod vocat peccatiim et dicit habitare in caine
sua, id t«t dominationem quandam et quasi regnum obtinere ».
(8) Ibid., Il: « Hi& verbi* videtur non recte intelligentibus velut auferre
libenim arbitrami. Sed quomodo aufert, rum dicit " velie adiacet mirti " (ve.
18)7 Certe enim ipsum velie in potestate est, quoniam adiacet nobis; sed quod
perfioere bonum non est in potestate, ad meritum pertinet originalis peccati.
Non enim est haec prima natura hominis, eed delicti poena, per quam facta est
ipsa moitaldtas, quasi secundn natura, unde noe gratia liberat conditori» sub-
ditos sibi per fidem. Sed istae nunc voces sunt sub Lege hominis constituti,
nondum sub gratia. Non enim quod vudt facit bonum, qui nondum est sub
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gratia, sed quod non vult maJum, hoc agii, superante concupiscentia, non
solum vinculo mortalitatis sed mole consuetudinis roborata ». — 12. « Quid
enim faciline homini sub Lege constituto quam velJe bonum et facere malum?...
Perhibet i-gitur testimonium Legi, quod bona sit, homo sub ea positus et non-
dum gratia liberatus; perhibet omnino eo ipso quod se reprehendit facere con-
tra Legem; et invenit eam bonum eibi esse, volens facere quod illa iubet, et
•concupiscentia superante non valens. Atque ita se praevaricationis reatu im-
plicatum videt, ad hoc ut gratiam Liberatoris imploret ». — 13 (vs, 22). « Legem
appellai in memibris sui» onus ipsum mortalitatis, in quo " ingemiscimus gra-
vati " (// Cor. V, 4)... Quam earcinam prementem et iirgentem ideo Legem ap.
pellat, quia iure supplici! divino iudicio tributa et imposita est ab eo
qui praemonuit hominem dicens (Gen., II, 12)... Haec lex repugnat legd mentis...
et antequam eit quisque sub gratia ita repugnat, ut et captivet eum sub leg«
peccati id est sub semetipsa ». — 14: « Hoc autem totum dicitur, ut demon-
stretur homini captivo non esse praeeumendum de viribus snis. Unde ludaeos
arguebat tamquam de operibus Legis superbe gloriantes cum traherentuir con-
cupiscentia... Humiliter ergo dicendum est homini victo, damnato, captivo et
nec saltem accepta Lege victori sed potius praevaricatori, humiliter exclainan-
dum est " miser ego homo (vss. 25-26). Hoc enira tìestat in ista mortali vita li-
bero arbitrio, non ut impleat homo iustitiam, cum voluerit, sed ut se supplici
pietate convertat ad Eum, cuius dono possit implere ». . .
(9) Ibid. 15: « Quisquis putat sensisse Apostolus quod mala sit Lex (Rotti.
V, 20; VII, 4-6; / Cor. XV. 56: // Cor, IH, 7)... et alia si qua huiusmodi Apo-
ptolum dixasse invenimus, ailtendat ideo esse ista dicta quia Lex augèt concu-
piscentiam ex prohibitione et reum obligat ex praevaricatione iubendo quod
implere homines ex infirmi tate non possimi, miai se ad Dei gratiam pie tate
cOnvertant. Et ideo sub illa esse dicuntur, quibus dominatur. Eis autem domi,
natur quos punii; punii autem praevaricatore* omnes. Porro qui acceperunt
Legem, praevaricaai eam, nisi per gratiam consequantur posse quod iubet. Ita
fit ut non, ilominetur eis qui iam sub gratia suut, implentibus eam per charita-
fem, qui erant sub eius timore damnati ».
(10) Ibid., 16.
(11) Ibid., 17: «Ad ludaeos enim dieta est lex ministratio mortis ad quos
el in lapide scripta est ad eorum duritiam figurandam, non ad eos qui legem
per charitatem implent... Cun " mortui sumus Legi per corpus Chrifiti " (cfr.
vs. 4) si 'bona est lex, Quia mortui sumus legi damnanti (var: dominanti),
liberati ab eo a-ffectu quem Lex punii et damuat. Usitatìus enim vocatur Lex,
quando minatur et terrei et vindicat. Itaque idem praeceptum itimentibus Lex,
est, amanti-bus .gratia... Eadem quìppe Lex quae per Moysen data est ut for-
midaretìUF gratia et veritas per lesum, Chnstum facta est ut impleretur. Sic
•ergo dictuim est " Mortui estis legi ", ac si diceretur Mortui eslis supiplioio
legie per corpus Chrieti ", per quod sunt delicla donata quae legittimo suppli-
cio -costringebant... Lex liltera est eis qui non eam implent per sp.iritum cha-
rilatis, qoio pertinet Testamentum Novum. IlaqUe mortui peccato liberaatur
a littera, qua detinenilur rei qui non implent quod' scriptum est... Lex enim
tantummodo lecta et non intellecla vel non impleta ulique occidit, lune enim
" appeJilatun littjera ».
(12) Come si vede, convengo col Marrou (o. e., p. 162) che in Ippona il
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cosiddetto « periodo filosofico » di Agostino è finito. Solo mi pare impossibile,
come ho già indicalo, far coincidere questo termine con l'ordinazione sacer-
dotale, anziché con il .periodo di studio che seguì. Per di più, si notano anche
nel periodo successivo evidenti sapravvivenze del precedente: le ha segna-
late lo stesso Marrou in alcune pagine (357-368) che sono tra le migliori e le
più equilibrate del suo importante libro.
(13) De dlv. quaeift. jLXXX/j/. qu 76, 1, su /ae. II, 20; cfr e. IV, n. 23.
(14) Ad Simplicianum, I, qu. II, 2 « non ut opera extinguat, sed ut osten-
tat non esse opera praecedentia gratiam, sed consequentia: ut scilicet non se
quisque arbitretur ideo percepisse gratiam quia bene operatue est, sed bene
cpeuari non posse, nisi per .'idem perceperil gratìam. IncipK autem homo per-
cipere gratiam ex quo incipit Deo credere, vel interna vel externa, admonitione
ffiotus ad fidem... Sed in quibusdam tanta est gratia fidei, quanta non sufficit ad
-obtineochiim regnum oaelorum; sicut in catechumenis... In quibsusdam vero
tanta est ut iam cospori Christi et sancto Dei tempio deputentur... Fiunt ergo
ii.'choatìones1 quaedam fidei, conoeptìonibus similes, non tamen sòlum concipi,
sed ettam nasci opus est ut ad vitam perveniatur aetemnam. Nihil tamen
horum sine gratia misericordiae Dei » appunto perché le opere buone seguo-
no, non precedono, la gnazia.
(15) Ubid., 3: « Nemo enim posset dicere quod operibus promeruerat Deum
lacob nondum natus, ut divinitus diceretur " et maior serviet minori ". Ergo
" non solum ", inquit, Isaac promdssus est, cum dicium est " Ad hoc lempus
veniam et erit Sarae filius": qui utique nullis operibus promeruerat Deuro, ut
nasciturus proimitleretur, ut in Isaac vocaretur semen Abrahae, id est, illd
167
pertinerent ad sortem sanctorum quae in Olmeto est, qui se intellegerent filioe
promissioni, no» euperbientes de merilie suis, sed gratiae vocationis (var.:
giatiae vocationi) deputantes quod coheredes essent Christi. Cum enim pro-
missum est ut essent, nihil utkpie meruerant qui nonrìum erant. " Sed et Re-
becca ex uno concubitu habens Isaac patris nostri ". Vigilantissime ait, " ex
uno concubitu " (gemini enim concepii erant), ne vel p a tenue merilis tribue-
retur si quisquam forte diceret: Ideo tajis natus est filius quia pater ita erat
affectus ilio in tempore quo eum sevit in utero matris, aut: Ita erat mater
«iffecta cum eum concepit. Simul enim ambe* uno tempore ille sevit, eodein
tempore illa concepit. Ad hoc commendandum ait " ex uno concubitu ", ut nec
astrologis daret locum, vel eie potius quos genethliacos appellaverunt ».
Questo argomento contro gli astrologi, tratto dalla nascita di due ge-
melli con diverso destino, è già in De div. qitaest. LXXXIII qu. 45, 2; l'esem-
pio di Eeaù e Giacobbe si ritrova in Contess., VII, 6, 10.
(16) Ibitì., 3: « Sed... ad frangendam atque deiciendam superbiam hotninum
ingratorum gratiae Dei et a udenti um gloriari de meritis suis ista commemo-
tantur. "Cum enim nondum nati fuissent... " .(vss. 11-12). Vocantis est ergo
gratia; percipientis vero gratiam consequenter sunt opera bona, non quae gra-
tiam pariant, sed quae gratia pariantur ». — 4: i Unde igitur ista electio, vel
qualis electio, si nondum natis nondumque aliquid operatìs nulla «unt mo-
menta meritorum? An forte sunt aJiqua naturarum?... Si enim bonus factue est
Incob, ut piacerei, unde placuit 'ante quam fieret, ut bonus fieret? Non itaque
eJeclue esl ut fieret bonus sed bonus factus eligi potuit... ». — 5: « An ideo
" eecundum eleclionem ", quia omnium Deus praescius eliam Juluram fidem
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vidit in lacob nondum nato? Ut, quainvis non ex operibus suis iustificari quis-
que mereatur, quandoquidem bene operari nisi iustificatus non polest, tamen
quia ex fide iuslificat gentes Deus, nec credil aliquis nisi libera voluntate, hanc
ipsam fidei voluntatem futuram praevidens Deus etiam nondum natum prae-
scientia, quem iustificaret, elegerit. Si dgilur electio per praescientiam, praesci-
vit autem Deus fidem lacob: unde probas quia non etiam ex operibus elegit
eum? Si propterea quia nondum nati erant et nondum aliquid egerant bonum
seu malum, ila etiam nondum crediderat aliquis eorum. Sed praescientia vide-
rat credilurum. Ila praescientia videre poterat operaturum... Quapropter unde
oelendit apostolus non ex openbue dictum esse '-maior serviet minori"? Si
quoniam. nondum nali erant, non solum non ex operibus sed nec ex fide dicium
est: quia utrumque deerat nondum eatis. Non igilur ex praescientia voluit
intellegi factam electionem minoris, ut maior ei servirei... Quamoorem unde
illa electio facta sdt quaeritur... unde igitur? ». — 6: « Non ergo eecundum ele-
ctionem propositum Dei manet, eed ex proposito electio; id est, non quia inve-
riit Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum iueti-
ficationis ipsius, sed quia ili od manet ut iustificet credentee, ideo inveii it opera
quae iam eligat ad regnum caelorum. Nam nisi esset electio non essent electì,
r.ec reote diceretur: " quis accusabit " etc. (Roma. VIIi, 33). Non tamen electio
praecedit iustificationem, sed electionem iustincatio... Unde quod dictum est
'- quia elegil nos Deus... " (Eph. I, 4) non video quomodo sii dictum, nisi prae-
scientia- Hic autem quod ait "non ex operibus, etc. " non electione meritorum
quae posi iustification«m gratiae proveniunt, sed liberalitate donorum Dei vo-
luil intelligi, ne quis de operibus extoll'atur. " Gratia enim Dei... (Eph. li, 8) ".
(17) Ibid., 7: « Quaeritur autem, utrum vel ndes mereatur hominis iustifi-
cationem, an vero nec fidei inerita praecedant misericordiam Del, sed et fides
ipsa inter dona gratiae numeietur. Quia et hoc loco cum dixissel " Non ex ope.
ribus " non ait "sed ex fide "..... ait autem " sed ex vocanite'' (ve. 12). Nemo
enim credit, qui non vocatur. Misericors autem Deus vocat, nullis hoc vel
fidei meritie largiens; quia merita fidei sequuntur vocationem 'potius quam
piaecedunt. " Quomodo " enim " credent quem non audierunt et quomodo
eie. (Rom. X, 14)? ". Nisi ergo vocando praecedat misericordia Dei, nec credere
quisquam potest, ut ex hoc incipiat iustificari et accipere facultatem bene
operandi. Ergo ante om,ne meritum est gratta. Etenim " Ghristus pro impiis
mortue est" (Rom. V, 6). Ex vocante igitur nunor accepdt, non ex ullis meriti*
operimi suorum, ut maior ei servirei ».
(18) Ibid., 8; « Si autem verum est quod non ex operibus, et inde hoc pro-
bat quia de nondum natis nondumque aliqaid operatis hoc dictum, unde nec
ex. fide quae in nondum natis similiter nondum erat, quo merito Esau odio habe-
tur antequam naecatur? Quod enim fecit Deus ea quae diligerei nulla quaestio
eet... Ut autem odisset Esau, niei iniustitiae merito, iniustum est. Quod si con-
cedimus, incipit et lacob iustitiae merito diligi...». — 9: « Vidit ilaque aposto-
lue quid ex his verbis posset animo audientis vel legentis occorrere, statimque
subilcit: " Quid ergo dicemus?... absit '' (ve. 14). El quasi docens quomodo absit:
" Moysi enim dicil ", inquii " miserebor cui micertue ero et misericordiam
piaestabo cui misericors fuero " (ve. 15; £xo. XXXIII, 19).,Quibus verbis solvit
quaeetionem, an potine arctius colligavitV Id ipsuin est enim quod maxime mo-
ve!... cur haec misericordia defuit Esau, ut etiam ipse per illam eesei bonus
quemadmodum per illam bonus factus est lacob. An ideo dictum est (vs. 15;
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Exo. XXXIII, 15) quia cui misertus erit Deus ut eum vocet, miserebitur eius
ul credat, et cui misericors fuerit ut credat, misericordiam praestabit, hoc est
iaciet eum misericordem, ut etiam bene operelur? Unde adìnonemur nec ipeis
operibus misericordiae quemquam oportere gloriari et extolli... Quod ei eam
(scil.: misericordiam) credendo se mentisse quis iactat, noverit eum sibi prae-
stitìsse ut crtederet qui miseretur inspirando fidem, cuiue miserlus eet ut adhuc
infid'eli vooationem imperliret. lain enim discerndlur fidelis ab impio. " Quid
enim habes " inquit " quod non eccepisti. Si autem, ete. " » (I Cor., IV, 7).
(19) Ibid., 10: « Recte quidem hoc sed cur haec misericordia eubtracta est
ab Esau ut non sic vocaretur ut et vocato inspiraretur fides et credens miseri-
cors fieret ut 'bene operaretur? An forte quia noluit?... An quia nemo potest ere.
dere nisi velit, nemo velie nisi vocetur, nemo autem sibi potest praestaQj ut
vocetur, vocando Deus praeelal et fidem, quia sine vocatione non potest quis-
quam credere, quamvis nullus credat invitus?... nemo itaque credit non voca-
tus; sed non omnis credit vocatus. " .Multi enim eun-t vocali, pauci vero e!e-
ctì " (Aflalf. XX, 16): utique it qui vocantem non contempserunt, sed credendo
seculi sunt, volentes aulem sine doibio crediderunt. Quid est ergo qucd
sequitur " Igitur non volentis, etc. "? (vs. 16). An quia nec velie poesumus nisi
vocati, et nihil valet velile nostrum, nisi ut perficiamus adiuvet Deue? Opus esl
ergo velie et eurrere... Non tamen " volentis neque currentis sed miserentis
est Dei " ut quod volumus adipiscamur el quo volumus perveniamus. Noluil
ergo Esau et non cucurrit; sed el si voJuissel et cucurrisset, Dei adiutorio
pervenisset qui ei eliam velie et currere, Tooando, praestaiet, nisi vocatione
contempta reprobus fieret. Aliter enim Deue praestat ut velimue, aliter praeelat
quod voluerhmw. Ut velimue eniin et suum esse voluit et noetrum, suuui vo-
16»
Cdndo, nostrum sequerado. Qucxl autam voluerimus solus praestaf, id est posse
bene agere et semper beate vivere. V«rumtamen Esau nondum oatus nih.il
horum po&set velie seu nolle. Cur ergo in utero positus improbatus est? Redi-
tur enhn ad illae difficullates, non solum sua obscuritate sed etiam nostra tam
muita repetitione molestiores ».
(20) Ibid., 12: « lila etiam verba si diiigenter attendas " Igitur non vo-
lenlifi " (ve. 16) non hoc apostolus propterea tantum dixisse videbitur quod
adiutorio Dei ad id quod volumus perveniamus, sed etiam ex illa intenfcione
qua et alio 'loco dixit " Cum timore et tremore... prò bona voluntate " (fhil. II,
12-13). Ubi satis ostendit etiam ipsam bonam voluntatem in nofais operante
Deo fieri. N*m si propterea soJum diètum est (vs, 16) quia volonta* hominis
«ola non sufficit ut iuste recteque vivamus nisi adiuvemur misericordia Dei,
potest et hoc modo dici: Igitur non miserentis est Dei sed volenti** est homiflis,
quia misericordi,-) Dei sola non sufficit, nisi consensus nostrae voluntatis ad-
darur. At illud manilestum est, frustra noa velie nisi Deus misereatur; illud
autem nescio quomodo dicatur, frustra Deum misereri nisi nos velimus... At
enim, quia non praecedit voluntas bona vocationem, eed vocatio bonam vo-
luntatem propterea vocanti Deo recte tribuitur quod bene volumus, nobis vero
tribui non poteet quod vocamur ». , •
(21) Ibid. 13: «"Multi vocati pauci electi " (MoEt. XX, 16). Quod si ve-
rum ee-t et non consequenter vocationi vocatus obtemperat, atque ut non
obtemperet in eius est posltum voluntate, recte etiam dici potesi: Igitur non
miserentis Dei, eed... An forte illi qui hoc modo vocati non consentiunt, possent
allo modo vocati accomodare fi'dei voluntatem, ut et illud verum sit " Multi
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vocatì... ", ut quamvis multi uno modo vocali sint, tamen quia non omnes uno
modo affecti sunt, illi soli sequantur vocationem qui ei capienidae reperiuntur
idonei; et illud non minus verum sit (vs. 16) qui (scil.: Deus) hoc modo vocavit,
<juomodo aptutm erat eis qui secuti sunt vocationem? Ad alios autem vocatio
quidem pervenit; sed quia talis fuit qua moveri non possent, ne,c eam capere
apti essent, vocati quidem dici potu«runt, sed non electi; et non iam similiter
' verum est: Igitur non miserentis Dei, sed volentis atque currentis est hominis "
quoniam non potesl effectus misericordiae Dei esse in hominis potestate...
lili enim electi qui congruenter vocati; illi autem qui non congruebant neque
contemperabantur vocationi, non electi, quia non secuti, quamvis vocati ».
(22) Marrou (o. c., p. 3, cc. 4 e 5) ha segnalato molto bene tutto ciò che
in Agostino l'esegeta deve al grammaticus che sopravvisse in lui sempre. Sa-
rebbe forse conveniente studiare ora i possibili punti di contatto tra l'esegesi
biblica, nel periodo patristico, e quella giuridica: senza dimenticare che teo-
logi e giuristi avevano ricevuto la stessa formazione durante il periodo degli
studi secondari, sotto la guida del grammatico e del retore.
(23) Ibid. 14: « quis audeat dicere defuisse Deo modum vocandi, quo
•etiam Esau ad eam fidem mentem applicare* voluntatemque coniungeret, in qua
lacob iustificatus esl? Quod si tanta quoque potest esse obstinatio voluntatia,
ut contra .Oflomes modos vocationis obdurescat mentis aversio, quaeritur utrum
de divina poena sii ipsa duritia, cum Deus deserii non sic vocando, quomodo
ad fidem moveri polest. Quis enim dicat modum, quo ei persuaderete ut cre-
derei, etiam omnipotenti defuisse? ». — 15: « " Ergo cuius vult miseretur et
quem vult obdurat" (vs. 18); cum superius non utrumque dicium sit. Neque
enim quomodo dictum est " Non volentis eic." (ve. 16), sic eliam dicium est;
170 »
non nolenti* acque contemnentis, sed obdurantis est Dei. Unde datur intelligi,
quod infra utrumque posuit: " Ergo etc " (vs, 18) ita sententiae superiori posse
congruerc ut obduratio Dei sii nolle mdaereri; ut, non ab ilio irrogetur aliquid
quo sii homo detono:, sed lantum quo sit melior non erogetur. Quod ai fri
nulla distinctione meritorum, quis non erumpet in eam vocem, quarti «ibi obie.
cit apostolus " Dicis itaque.. " (vs. 19)? Conqueritur enim Deus fsaepe de ho-
minibue... quod nolint credere et rette vivere ».
(24) Ihid., 16: Questo è proprio « alicuius occultae atque ab humano mu-
dalo mvestigdbiilis aequitatis, quae in ipsis rebus humanis terreniaque contra-
ctibus animadvertenda est in quibus nisi supernae iustitì.ae qùaedam impres-
sa vastigia teneremus, numquam in ipsum cubile ac penetrale sanctissimum
atque castis&imum spiritalium praectiptorum nostrae infirmilaUs suspiceret at-
que inhiarel intentio... quis non videat iniquitatis arguì neminem posse, qui
quod sitai debetur exegerit? nec eum certe qui quod ei debetur donare volue-
rit? hoc autem non esse m eorum qui debitores sunt, sed in eius cui debe'tur
arbitrio? Haec imago vel. ut supra dixi, vestigium negotiis hominum de fa-
stigio «uramo aequitatis impressiim est. Sunt igitur omnes homines, quando-
quidem ut apostolus ait " in Adom omnes moriiinlar " (/ Cor., XV, 22), a quo
in univereum genus humanum origo ducitur offeusionis Dei, una quaedam
massa peccati suppiicium debens divinae summaeque iuetitiae, quod sive
exigatui eive donetur, nulla est imquitas. A quibus autem exigendum et qui-
bus don andimi sit, superbe indicarti debitores: quemadmodum conducti ad il-
lam vine.am iniuste indignati sunt (cfr. Matth. XX, 11)... Itaque huìue impuden.
tiam quaestdonis ita retundit Apostolus: " O homo, tu quis es, etc." (vs. 20)...
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Sic enim respondet Deo cum ei displicet quod de peccatoribus conqueritur
Deiis, quasi qpemquam Deus peccare cogat, si tantammodo quibusdam peccan-
tibue mìsericordiam iustificationis suae non largiatur et ob hoc dicatur obdu-
rare peccantes quosdam quia non eorum miseretur, non quia impellit ut pec-
cent. Eorum autem non miseretur, quibus misericordiam non esse praebendam
aequitate occultissima et ab humanis sensibus remotissima iudicat. « Inecruta-
bilia " enim sunt " iudicia eius, etc. ' (R&m. XI, 33). Conqueritur autem iuste
de peccatoribus tamquam de bis quos peccare ipse non cogit. Simul etiam ut
hi quorum miseretur hanc quoque habeant vocationem; ut dum conqueritur
Deus de peccatoribus compungantur corde, atque ad eius gratiam convertantur.
luste ergo conqueritur et misericorder ». Sul concetto di .aequiias v, P. Bon-
fante, Storia del diritto romano, 3» ed., Milano 1923, I, p. 370; id., istituzioni
di dir. rom., 8a ediz., Milano 1925, p. 7. Non ho trovato citato questo passo di
Agostino, pure significativo anche dal punto di vista della storia dei concetti
giuridici, neil lavoro di M. Roberti, in Sant'Agostino, Pubblicazione commemo-
rativa del XV centenario della sua morte, Milano 1931 (Rivista di filosofia neo-
scolastica, suppiem. spec. al voi. XXIII).
Vorrei anche richiamare l'attenzione sullo stile alquanto più studiato e
sull'andamento oratorio almeno dei primi periodi del par. 16 in confronto del
resto dell'opera. Agostino li ha certo meditati e studiati più a lungo, forse
anche preparati prima. E' anche questa considerazione che m'induce a chie-
dermi se il suo modo di argomentare in questa quaestio non sia stato adottato
ad arte.
(25) V. sopra, p. 146 e n 6.
171
(26) Ibid, 17: « Srtl si hoc movet quod voi un In ti elus nuUus resistit quJa
cui vult subvenit et quein vult deserit, eum et ille cui subvenit et ille queano
deserit ex eadem massa sint peccatorum... si hoc ergo move*, " O homo, ete. "
(vs. 20)... Eo ipso fortasse satis ostentiti se hominì carnali loqui, quoniam hoc
limufi ipec significat, unde primus homo fonnatus est: et quia " omnes... in
Adam moriuntur " (1 Cor. XV, 22) unam dicit esse conspersionem omnium. Et
quamvis tìiiuil vas fiat in honorem aliud in cnntumeliam, tamen et ilihid quod
fit in honorem necesse est ut carnale esse incipiat atque inde in spiritualem
consurgat aetatem. Quandoquidem iam in honorem facti erant et in Ch risto iam
nati erant, sed tamen quoniam parvuios adhuc alloquitur etiam ipsos carnales
appellai (I Cor. Ili, 1-2)... Quamvis ergo carnales eos esse dicat, tamen iam in
Christo natos et in ilio parvulos et lacte potandos... Ergo iam vasa erant in
honorem facta quibus adhuc tamen recte diceretur " O homo etc. ". Et GÌ talibue
recte dicitur, multo rectius eie qui ve,l nondum ita regenerati eunt, vel etiam
in contumeliam (adi ».
(27) Ibid., 18: « Qui nodus ita solvitur, si intellegamus omnium crealura-
rum esse artìficem Deum. Omnie autem creatura Dei est et omnis homo, in
quantum homo est, creatura est, non in quantum pecoator est. Est ergo creator
Deus et corporis et animi humani. Neutrum horum nralum et neutrum odit
Deue; nihil enim odu eorum quae fecit. Est autem animus praestantior corpo,
re, Dess vero et animo et corpore, utriusque effector et conditor, nec odit in
homine nisi peccatum. Est autem peccatum hominis inordinatio atque perver-
sitas, id est a praestantiore Conditore aversio et ad condita inferiora conver-
sio... homtnee Dei conditione, peccatores p-ropria voluntate... Odit enim Deue
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ùnpielatem. Itaque in aliis eam punii per damnationem, in aliis adimit per iu-
stificationem, quemadmodum ipse iudicat esse fadendum iHi* iudiciis inscru-
tabilibus. Et quod ex numero impicrum qoics non iuetificat facit vaea in con-
tumeliam, non hoc in eis odit quod facit; quippe, in quantum impii sunt,
execrabilee sunt, in quantum autem vaea fiunt, ad aliquem usum fiunt, ut per
eorum ordinatas poenas vaea quae fiunt in honorem proficiant ... Odit enim in
eie impietatem, quam ipse non fecit ».
(28) Ibid., 19: « " Quod et voravit nos inquit " non solum ex ludaeie
sed etiam ex gentibus" (vs. 24), id est vasa misericordiaè quae praeparavit in
gtoriam. Non enim omnes ludaeos, sed ex ludaeis; nec omnes omnino hominee
gentium sed ex gentibus. Una est enim ex Adam massa peccatorum et impio-
tum, in qua et ludaei et Gentes remota gratia Dei ad unam pertinent coosper-
sionem... et ex ludaeis sunt alia vasa in honorem alia in contumeliam sicut ex
Gentibus: sequitur ut ad unam consperisonem omnes pertinere inteMigantur...».
— 20: «"et immutavit vias eourm " (Eccles., XXXIII, 10), ut iam. tamquam
morlales viverent. Tunc facta sst una massa omnium, veniens de traduce pec-
cati et de poena mortalitatis, quamvis Deo formante et creante quae bona sunt.
In omnibus est enim species et compa po corporis. in tanta membrorum con-
cordia, ut inde apostolus ad charitatem obtinenòam similitudinem duceitet; in
omnibus est etiam spirilus vilalis terrena membra vivificans, omnisque natura
hominis dominatu animae et famulatu corporis conditione mirabili temperata;
sed concupiscentia carnalis, de peccati poena iam regnans, universum genue
humanum tamquam totani et unam conspersionem originali reatu in omnia per.
manante confuderat ». ,
173
(29) dfr. ibid, 12 di. alla n. 20.
(30) Cfr. e. I, n. 24.
(31) Ad Simplie., I, qu. 2, 21: «Nulla igitur intentio tenetur apostoli, et
•omnium iustifiqatorum per quos nobis inteliertus gratiae demonstratus est, nisi
ut. "qui gloriatui in Domino glorietur ". {/ Cor., I, 31). Quis enim discutiet
opera Domini, ex eadem conspersione unum damnantis alterum iustificantis?
Liberum voluntatie arbitrium plurimum valet, immo vero est quidem, sed
in venumdatis sub peccato quid valet? " Caro ", inquit " concupiscit ete. "
(Gol. V, 17). Praecipitur ut reote vivamua, hac utique mercede proposita ut in
aeternum beate vivere mereamur, sed quió potest recie vivere et bene operari,
nisi iustificatus ex fide? Praecipitur ut credamus... sed quis potest credere nisi
aliqua vocatione, hoc est aliqua rerum testificatione tangatur? Quis habet in
potestate tali viso attingi mentem suam, quo eius voluntas moveatur ad fidem?
Quis autean animo amplecticur aliquid quod eum non delectat? aut quis habet
in potestate ut vel occurrat quod eum delectare possit, vel delectet cum oc-
currerit? Cum ergo nos ea deieotant quibus proficiamus ad Deum, inspiratur
hoc et praebetur gratia Dei, non nutu nostro et industria au-t operum meritis
comparatur: quìa ut sit nutus voluntatie, ut sit industria studii, ut sint opera
cariiate ferventia, iiie tribuit, ille largitur. Petere iubemur ut accipiamus el
quiaemere ut inveniamus et pulsare ut apériatur nobis. Nonne aliquando ipsa
oralio nostra sic tepida est, vel potius frigida et paene nulla, immo omnino in-
terdum ita nulla, ut neque hoc in nobis cum dolore advertamus? quia si vel hoc
dolemus, iati oramus. Quid ergo aliud ostenditur nobie, nisi quia et petere et
quaerere et pulsare ille concedit, qui ut haec faciamus iubet? ».
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(32) Ibid., 22: « Quod si electio hic sit aliqua, ut sic intelligamus quod
dictum est " Reliquiae... salvae faotae sunt " (/sa., X, 22-23, egli
faccia menzione una volta sola. E' insomma più facile pensare che
Agostino rammentasse queste parole di « Ilario » in un momento
nel quale aveva formulato già tutte le sue dottrine, che non l'am-
mettere che queste, e tutto il suo nuovo orientamento fossero effetto
di una lettura del commento dell'Ambrosiastro a Romani.
E veniamo a Ticonio (38). Che questo strano scrittore abbia
esercitato un notevole influsso su Agostino, è cosa nota, per am-
missione di quest'ultimo (39), relativamente all'esegesi biblica, e
in base a indagini di studiosi moderni (40) i quali hanno posto in
rilievo questo influsso relativamente alle idee ecclesiologiche ed
escatologiche, specie per l'interpretazione del millennio. Ora. nel
De civitate Dei, Agostino confessa che, un tempo, è stato anche
egli millenarista (41) : ma tale ass-erzione è stata generalmente con-
siderata come generica e privi; d'importanza, né, che io sappia,
la si è riferita a un momento preciso della sua evoluzione spiri-
tuale, di cui si troverebbero segni negli scritti di lui. Ma tracce
di millenarismo si trovano proprio in una delle « 83 questioni »
che precisamente, secondo il criterio già adottato, dovrebbe essere
stata composta press'a poco al tempo dell'ordinazione sacerdotale
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di Agostino (42). Per contro, in parti del De diversis quaestionibus
LXXXI1I che dobbiamo considerare come posteriori (43), e così pure
nella Enà rratio in Ps. LIV (44) l'affinità con le idee di Ticonio è evi-
dente. Potremo così delimitare, all'ingrosso, tra l'ordinazione sacerdo-
tale e qualche tempo prima dell'assunzione all'episcopaio, il momento
in cui Agostino conobbe gli scritti di Ticonio. Ciò trova conferma
in quello che sappiamo del suo sforzo di acquistare maggior fami-
liarità con le questioni ecclesiastiche e la letteratura teologica. Per
mettersi in grado di meglio combattere i donatisti, Agostino avrÃ
voluto leggere qualche opera di quel loro singolare scrittore ; così
come, quando si accinge a spiegare epistole di San Paolo, volle
conoscere i commenti dei suoi predecessori.
E infatti, idee affini a quelle di Ticonio si trovano anche nel-
\'Expositio Epistolae ad Calatas, là dove Agostino parla dei figli
185
che Abramo ebbe da Cethura, e delle persecuzione che Isacco patì
ad opera di Ismaele; simboli, i primi, degli uomini carnali che,
pur stando materialmente nella Chiesa, non le appartengono; e la
seconda, del male che gli spirituali sempre soffrono nel mondo
da parte dei carnali. Abbiamo già osservato che considerazioni di
questo genere rappresentano una novità in Agostino (45) e si è
visto, pure che non sono state suggerite da S. Ambrogio : ma ora
possiamo additarne la fonte in Ticonio. Però, il fatto che nella qu. 81
del De diversis quaestionibus LXXXIII Agostino si fonda sui rac-
conti evangelici della pesca miracolosa, (Luca, V ; Ciovanni XXI),
testi cioè che non sono citati nel Liber Regularum, permette di
escludere che Agostino abbia tenuto presente questa tra le opere
di Ticonio (46). Ma non molto tempo dopo, Agostino, ansioso di
approfondire le sue conoscenze bibliche, si dev'essere procurato
snche le Regulae, che fecero su lui profonda impressione. C'ò non
è una semplice congettura, perché trova conferma nella lettera di
Agostino ad Aurelio, che è press'a poco contemporanea all'episco-
pato, e da cui risulta che .egli ha chiesto varie volte all'amico il suo
parere su quel libro singolare (47).
Ora, l'affinità ideale tra il Liber Regularum di Ticonio e la
quaestio 2 del primo libro Ad Simplicianum è impressionante. Anche
Ticonio è contrario alla dottrina che fa consistere l'elezione nella
semplice prescienza che Dio avrebbe avuto della fede degli eletti,
determinantisi in virtù del loro libero arbitrio. Ticonio non ha
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dubbi : la prescienza di Dio è strettamente connessa con la sua on-
nipotenza. Infatti, Dio sapeva, che vi saranno coloro che avranno
fede liberamente, o che non vi saranno. Nel primo caso, non c'è
più discussione, appunto perchè, nel secondo caso, Dio, che non
inganna, non avrebbe promesso. In altri termini, questa promessa
divina non può essere condizionata da un atto libero dell'uomo; se
Dio l'ha fatta, è perché sapeva che l'avrebbe mantenuta : e che
spazio rimane allora alla libera iniziativa dell'uomo? Non vince, se
non colui per il quale vince Dio stesso ; se dunque il vincere non
è cosa nostra, è dovuto alla fede. E ogni opera dell'uomo si riduce
appunto alla fede ; e che cosa abbiamo che non ci sia stato dato?
Da Dio abbiamo l'essere ; a Dio, Salomone riconosce di essere de-
bitore della continenza. Ma vi è di più : in Ticonio troviamo pre-
186
cisamente il versetto di / Cor., a cui Agostino attribuisce un'in-
fluenza decisiva sullo sviluppo del suo pensiero, insieme con l'altro
della medesima epistola, che leggiamo citati nella qu. 2 di Ad Sim-
plicianum I. E, ciò che più importa, entrambi i versetti da Ticonio
sono interpretati proprio nel senso in cui erano adatti a far riflettere
Agostino e ad avviare il suo spirito in una nuova direzione (48).
Pertanto, se vi è un autore che ha potuto avere influenza su
Agostino, sì da indurlo ad assumere un atteggiamento diverso circa
l'interpretazione della lettera ai Romani e delle altre simili, costui
è Ticonio. Ciò a me appare dimostrato sufficientemente : nella mi-
sura, s'intende, in cui influssi di questo genere possono essere og-
getto di una dimostrazione.
Si presentano però due obbiezioni : La prima, ci porta a trat-
tare del terzo autore, che abbiamo dovuto prendere in considera-
zione. Se lo stesso Agostino, parlando dei versetti di / Cor., segnala
San Cipriano e la maniera in cui questi li interpretò nei suoi Testi-
monia (49), non ci sarebbe bisogno di pensare ad altri autori. Però —
pur prescindendo dal fatto che questo influsso di Cipriano su Ago-
stino è menzionato da questi solo nelle opere più tardive della con-
troversia antipelagiana — invano .si cercherebbero negli scritti
del primo le altre affermazioni, in particolare circa il libero arbi-
trio, che troviamo per contro in Ticonio. Non si nega, dunque, che
l'aver trovato il testo / Cor. IV, 7 nei Testimonia, e «otto quel ti-
tolo, possa aver fatto grande impressione su Agostino ; ma non è
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facile ammettere che la sola lettura del versetto e del titolo del
capitolo in cui è incluso, sia stata capace, da sola, di determinare
il cambiamento di opinioni che ci occupa.
L.a seconda obbiezione, che sotto un certo aspetto si ricollega
alla precedente, è che Agostino, il quale contro i pelagiani ricorda
tutti gli scrittori ecclesiastici che sostengono la sua tesi, non no-
mina mai Ticonio a questo proposito. Ma Agostino vuoi dimostrare
che. contrariamente a quanto dicono Pelagio e Giuliano, le teorie
di costoro sono nuove ed eretiche, mentre le sue sono quelle orto-
dosse e tradizionali. Ciò posto, qualunque fosse stata l'importanza
reale dell'influsso che Ticonio aveva esercitato su di lui, Agostino
non poteva commettere l'imprudenza di nominarlo, poichè qualcuno
tra gli avversari avrebbe potuto scoprire che si trattava di un dona-
tista. E tanto meno avrebbe potuto farlo, dopo aver dichiarato
187
che il donatismo non era più uno scisma, bensì una vera eresia.
Agostino avrebbe potuto replicare : non ogni eretico è tale in tutto
e un donatista, eterodosso su certi punti, poteva essere un eccel-
lente testimonio della fede tradizionale per altri. Per di più, Ti-
conk) era un donatista sui generis, che, per difendere i suoi com-
pagni, dava loro torto. Ma con tutto ciò Agostino si sarebbe trovato
in una condizione di netta inferiorità , obbligato a dare spiegazioni
e a difendersi. Né Ticonio era autore di tal fama, che potesse riu-
scire vantaggioso il citarlo, nonostante i suoi errori, come poteva
essere il caso con Origene : Ticonio in realtà , fuori dell'Africa,
doveva essere del tutto sconosciuto.
Sappiamo del resto, che per Ticonio Agostino ebbe grandissima
stima. Per di più, non è neppur vero ch'egli non lo abbia ricor-
dato, e a proposito della dottrina della Grazia. Nel presentare le
teorie di Ticonio, non ho omesso di ricordare un passo nel quale
egli ricorda che Salomone chiama la continenza un dono di Dio.
Ma la frase che precede questa può essere intesa nel senso che la
fede, o almeno l'initium fidei, sia opera umana (50) : sebbene, poi,
un'asserzione di questo genere sarebbe difficilmente conciliabile
con il resto. Ebbene parlando precisamente della terza tra le Re-
gulae di Ticonio, a cui appartiene la frase in questione, Agostino,
dopo averlo lodato, nota che egli non giunse ad affermare « etiam
ipsam... fidem donum Illius esse, qui eius mensuram unicuique
partitur ». Questa osservazione di Agostino risale precisamente allo
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inizio della sua polemica antipelagiana ; e appunto per questo egli
scusa e spiega anche quell'illogicità del donatista, avvertendo che
se egli, Agostino, ha potuto andare più oltre, è stato precisamente
perché la necessità di combattere la nuova eresia lo ha costretto
a una ulteriore e più approfondita riflessione (51). E in queste
parole potremmo trovare anche la spiegazione perché Agostino, più
che su ogni altro punto a proposito del quale mutò opinione nel-
\'Ad Simplicianum, insista sulla questione dell'inftium fidei. Ma è
interessante che Agostino non omettesse di cogliere e segnalare
l'unico punto debole iV tutta l'argomentazione del donatista.
***
Vari autori hanno creduto di poter segnalare una stretta affi-
nità tra la concezione agostiniana delia massa peccatorum et im~
188
piorum, massa peccati, ecc., e quella manichea della fìwXoj. Anzi,
questa sarebbe l'origine di quella ; e la dottrina agostiniana del pec-
cato originale e della grazia sarebbe il risultato non solo della ri-
flessione sui testi biblici e della lettura di commenti, ma di un
ritorno — certo non intenzionale — di Agostino al manicheismo.
Tutto quel suo lavorio intellettuale attorno a S. Paolo avrebbe avuto
come principale conseguenza di ridestare nello spirito di Agostino
idee e sentimenti ivi deposti dal manicheismo, e che la conversione
avrebbe, non eliminato, ma soltanto reso temporaneamente inattivi.
Questa tesi ha avuto una notevole diffusione (52).
Ora, una vera dimostrazione di questa teoria dovrebbe poter
mostrare con una certa precisione il lavorio mentale grazie al quale
la metafora della massa venne ad acquistare per Agostino un valore
espressivo tanto grande da influire a sua volta sul modo in cui Ago-
stino si rappresentò la realtà , che quella metafora adombrava. 'Bi-
sognerebbe farci seguire sui testi le varie tappe di questo processo,
per cui l'idea della massa peccati avrebbe fatto rinascere, per così
dire, quella di Bòlos. Questa dimostrazione non è stata data per
ora. che io sappia : e così la teoria rimane una mera ipotesi, fon-
data su di una semplice intuizione, brillante se si vuole e quanto si
vuole ; ma nulla di più.
Inoltre, sembra a me che tra le due concezioni vi siano diffe-
renze non piccole. La massa peccatorum agostiniana è formata dal
genere, umano dopo il peccato di Adamo : la metafora si riferisce cioè
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a tutti gli uomini durante questa vita terrena : degni di condanna,
ma non ancora, nè tutti, condannati. La Bòlos — che, tra f altro,
viene resa in latino con globus — è invece formata da tutte le « te-
nebre » che dopo il lungo processo di separazione della luce e la
conflagrazione finale, tornano a riunirsi. La mossa agostiniana è
un concetto prevalentemente soteriologico, la Bòlos prevalentemente
escatologico. Riconosciamo la connessione tra questi due aspetti
della religiosità . Ma bisogna pure ammettere che la concezione della
Bòlos implica un dualismo di gran lunga più accentuato di quello
che si possa ritenere venga presupposto da quella massa peccati.
D'altra parte, quel cambiamento, quel nuovo orientamento
spirituale, che avvertiamo nella tante- volte citata qu. 2 del primo
libro di Simpliciano, non dovette essere cosi brusco e violento, né
sembrare ad Agostino che implicasse una rottura così netta col passa-
189
lo, come egli forse se lo rappresentò più tardi e come noi medesimi
siamo forse un po' troppo inclini a supporre. Così si spiega che nel
De agone christìano, posteriore all'episcopato, si trovano ancora dot-
trine esposte negli scritti anteriori a\\'Ad Simplicianum e che questa
stessa opera sia stata pubblicata da Agostino senza considerare quella
differenza, che a noi pare tanto notevole, tra la prima e la se-
conda quaestio del primo libro. Si spiega altresì che Agostino si man-
tenesse fedele alla filosofia che aveva appreso nei libri dei neo-
platonici anche quando pare a noi moderni che il diverso punto
di vista adottato rispetto al peccato originale e aH'iniiiam fidei do-
vesse indurlo a modificare tutta la sua antropologia e, di conse-
guenza, anche gran parte della sua metafisica. Del resto, è fondan-
dosi sulla metafisica neoplatonica che Agostino combatte il manichei-
smo, e chi considera queste due correnti spirituali appoggiandosi
sugli scritti di lui è portato a considerarle.come radicalmente, an-
titeticamente avverse una dall'altra : ma è poi vero che la filosofia
di Piotino fosse del tutto immune da ogni traccia di dualismo? (53).
Ma nella polemica contro i manichei un certo cambio si nota,
però è anch'esso graduale e progressivo. Anche negli scritti ante-
riori all'episcopato, vediamo Agostino da principio impiegare so-
prattutto argomenti di natura schiettamente filosofica, e poi accen-
tuarne sempre più altri, come il ricorrere all'autorità della Chiesa
nell' esegesi dell' Antico Testamento : interpretazione allegori-
ca, ma non senza tentativi di spiegazione puramente letterale.
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Nelle opere antimanichee posteriori all'episcopato sono questi ul-
timi motivi che prevalgono. La questione principale viene ad es-
sere l'opposizione che i manichei stabiliscono tra l'Antico e il Nuo-
vo Testamento, e l'argomentazione viene sempre più ad appoggiarsi
su quel principio dell'autorità della Chiesa, il quale ha trovato la
sua formulazione più piena, e celeberrima, nella dichiarazione del
Contro Epistulam Fundamenti circa l'autorità della Chiesa Cattolica
come ragione per prestar fede allo stesso Vangelo (54).
Ora, dall'inizio della sua conversione, il pensiero di Agostino
ha proceduto costantemente in questa direzione : dalla ragione alla
fede. Da principio, afferma la loro indipendenza, ma concede il
primato alla ragione, ché essa seguono gli spiriti più perfetti, men-
tre per gl'ignoranti basta la fede ; più tardi invece la ragione — certo,
non spogliata di tutti i suoi diritti — è sottomessa alla fede e al-
190
l'autorità . Da principio pare ad Agostino — e i principii intellettuali
si desumono bene dal suo modo di agire — che la perfezione cristiana
possa raggiungersi, non di certo fuori della Chiesa o senza di que-
sta, ma per mezzo di una vita ascetica in certo modo autonoma,
mediante uno sforzo individuale, con la purificazione della mente
e la pietà personale. Più tardi, non solo la necessità di apparte-
nere alla Chiesa è formulata da lui con la più assoluta e intransi-
gente rigidezza, ma vengono accentuate sempre più quelle che oggi
chiameremo la pietà associata, la devozione liturgica. Certo, Agostino
non parla come chi è venuto dopo di lui ; ma questo suo atteggia-
mento è evidente. Chi se ne voglia fare un'idea precisa, non ha che
da considerare come la stessa pietà personale, pur senza sopprimersi,
si modifica, e acquista un significato così nuovo e diverso, che la
sua stessa essenza ne risulta modificata. La pietà ora non ha più
per fine principale la purificazione della propria anima, lo stabili-
re una relazione quanto più immediata e diretta possibile tra essa
e Dio, bensì la lode di Dio nella quale altre anime possano congiun-
gersi con essa, e la confessione degli errori propri, che è un altro
modo di lodare Dio e viene fatta perchè ha un valore esemplare,
serve cioè al fine superiore dell'edificazione di tutti (55).
Queil ' attribuire gradualmente sempre maggior importanza al-
l'autorità procede parallelamente con i progressi di Agostino nello
studio della Bibbia. A questo egli si dedicò con nuovo e alacre
fervore dal giorno in cui, repentinamente e con sua sorpresa, gli
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venne conferito il sacerdozio. Allora egli avvertì la necessità di co-
noscere a fondo la Scrittura, per poterla spiegare chiaramente e
con esattezza, e commentare in maniera degna. Ma a ciò si univa
il desiderio di sentirsi inserito nella tradizione, anello di quella só-
l:da catena, in consonanza perfetta con il sentire della Chiesa. In
difesa della quale Agostino doveva ora combattere contro tutti coloro
che ne minacciavano o insidiavano la compattezza, e quindi — non
più libero, come prima, da scrittore privato, di scegliere i propri
avversar! — anche contro i donatisti. Ma per questo gli era ne-
cessario conoscere bene l'origine e la natura dello scisma e l'og-
getto della controversia.
Tra le opere che Agostino volle leggere, alcune lasciarono nel
suo spirito un'impressione più profonda. Abbiamo cercato di deter-
191
minare quali fossero, e che effetti avessero, nonché la natura
degl'influssi che esercitarono. Ma vi è un punto sul quale conviene
insistere ancora. Le opere che Agostino lesse, e certo quelle che
lasciarono in lui tracce durevoli e lo spinsero a riflettere ulterior-
mente, o a modificare il suo modo di pensare, tutte trattano di San
Paolo. Gli scritti di Agostino, negli ultimi anni del suo sacerdozio
sono in enorme maggioranza, commenti a passi di San Paolo.
Dopo il Cenesi, a spiegare il quale si affaticò nei primi tempi dopo
la sua conversione e in piena polemica antimanichea (e tornò ad
affaticarvisi sopra più tardi, da vescovo) quello che fra tutti gli au-
tori sacri lo attrae di più, gli presenta problemi e gli suscita diffi-
coltà , quello che egli si sforza permanentemente di intendere sempre
più a fondo, è San Paolo.
Ora ciò non è dovuto al caso né ad influenze esterne. In San
Paolo, intorno alla risurrezione dei corpi — da lui difesa contro i
manichei e i. « filosofi » — Agostino leggeva del corpo glorioso e
spirituale. Da ciò era naturale arguire che il corpo umano in que-
sta vita terrena, è, sì, buono, perché creato da Dio, ma senza dubbio
anche imperfetto, se non è suscettibile di essere assunto in cielo. E
ciò, visto che quel corpo è stato creato da Dio, doveva attribuirsi
a qualche cosa di sopravvenuto, a qualche menomazione da esso
subita dopo la creazione di Adamo. Infatti, l'uomo è ora mortale, e
procrea; forse i primi genitori non procreavano? (56). Comunque,
questo corpo è soggetto alla morte, a tante infermità , ai sensi ; costi-
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tuisce una remora e un impaccio alla purificazione dell'anima. Tor-
nava così a presentarsi ad Agostino quell'angosciosa domanda : Unde
malum? per rispondere alla quale aveva tanto meditato, faticato e
sofferto. Ma alla stessa domanda lo riconducevano tutti gli altri
temi che San Paolo gli presentava : efficacia delle opere e della
fede, valore della Legge, contrasto e parallelo tra Adamo e Cristo,
necessità della redenzione, e così via. A questi problemi venivano
ad aggiungersi, e agivano nello stesso senso, quelli suscitati proprio
dalla partecipazione più intensa alla vita della Chiesa e dall' ammi-
nistrare i suoi sacramenti; con l'esistenza di eresìe e scismi, con le
debolezze umane dei suoi fedeli, in una parola, con l'esistenza di
malvagi nel mondo e dentro la Chiesa stessa. E tutto ciò a sua volta
lo riconduceva a San Paolo.
Vi ritornava continuamente, ripetendo le stesse, o assai simili,
192
spiegazioni, ma sotto l'assillo di una insoddisfazione intima, che a
lui stesso forse sarebbe stato difficile chiarire;, finché un giorno,
quello che fu poi per sempre ai suoi occhi il significato pieno
e incontrovertibile del messaggio dell'Apostolo gli apparve evidente.
Vi fu guidato da qualche lettura, o vi giunse da sé? Non mi atten-
terei di rispondere a questa alternativa. Se un'influenza vi fu, e
determinò quel cambiamento tante volte menzionato, ho indicato
quella che a me pare sia la più probabile. Certo è che, sebbene
costretto dalla limitazione della sua preparazione linguistica a con-
tentarsi per allora soltanto di scritti latini, Agostino cercò di leggere
tutto ciò che poteva essergli d'aiuto. Ma si noti che queste letture,
nel suo sforzo di rendersi familiare la letteratura propriamente ec-
clesiastica, non furono ispirate da mero desiderio di ampliare e arric-
chire le sue cognizioni, non furono dettate da ambizioni simili a
quelle del retore né da preoccupazion di erudito.
Che parallelamente a questa evoluzione, di cui a maniera di con-
clusione delle ricerche analitiche, ci sforziamo di segnalare rapida-
mente, e assai imperfettamente, le grandi linee, se ne osserva un'al-
tra, strettamente legata a quella, anzi parte di essa. Riguarda la
stessa concezione della cultura. Il cambiamento, anche a questo
proposito, non poteva essere totale e non giunse, per fortuna, fino
a un totale rovesciamento di posizioni. La primitiva formazione re-
torica di Agostino aveva impresso in lui, tracce incancellabili : e
ciò ebbe importantissime conseguenze. Ma non meno importanti
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l'ebbe l'altro fatto, che la cultura di Agostino, durante questo decen-
nio della sua preparazione teologica, tra il battesimo e l'episcopato,
si fece decisamente, coscientemente cristiana. Ebbe cioè come suo
fondamento la Bibbia e ricevette lo spirito animatore dal Vangelo.
Il De doctrina christiana è evidentemente un tentativo di sin-
tesi, uno sforzo fatto per offrire quell'opera di educazione totale,
di lYxuxXto? Tiatà da. che Agostino, all'inizio della sua conversione
e con mentalità differente, aveva cercato di realizzare a Milano e,
con qualche diversità , nei primi tentativi dopo il suo ritorno in
Africa. Con un titolo, che rivela già per se stesso il cambiamento
operatosi in Agostino durante questo periodo, il De doctrina chri-
stiana rappresenta, in questo'momento, uno sforzo analogo a quello
già fatto da lui con i Disciplinarum libri prima e con il De vera
religione poi. Per la data della sua composizione è evidente che
193
il De dottrina christiana, manuale di formazione del cristiano colto,
è un prodotto di questo sviluppo che stiamo cercando di esporre.
Ma il De doctrina christiana rimase per molti anni incompiuto. Il
secondo libro era finito, quando Agostino scriveva il Cantra Faustum ;
anzi la sua composizione era giunta già oltre la metà del terzo (57).
Solo una trentina d'anni dopo, mentre redigeva le Retractationes,
Agostino si decise a riprendere quela sua vecchia opera : terminò il
terzo libro, inserendovi le regole esegetiche di Ticonio, e vi aggiun-
se il quarto. Molto probabilmente, però, riprese in mano tutta l'o-
pera, correggendo, riscrivendo, facendo cioè quella che merite-
rebbe d'essere chiamata una « seconda edizione » (58). Quello che
interessa noi, però, è il vedere ancora una volta un'opera teorica
di Agostino, in cui doveva manifestarsi una nuova tendenza del suo
autore, rimanere interrotta. Questa volta, però, il nuovo orienta-
mento è il definitivo. Non si può dunque attribuire l'interruzione a
stanchezza o a insoddisfazione o a dubbi sortigli nell'animo durante
la composizione stessa; e neppure alla difficoltà del tema, che non
ne presentava più dal punto di vista teorico, e nemmeno pratiche :
tra le altre cose, Agostino non si proponeva più il gravoso com-
pito di compilare manuali di tutte le discipline. L'ipotesi più naturale,
per spiegare tale interruzione, è dunque che nel frattempo Agostino
avesse posto mano a un'altra opera la quale, in maniera diversa,
servisse allo stesso ideale, ubbidisse allo stesso fine, e in modo che
a lui dovette sembrare più efficace. E quest'opera, che nelle Retrac-
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tationes va cercata nelle vicinanze immediate del De doctrina chri-
stiana,- non sarà certamente il Contra partem Donati; sarà invece,
con tutta sicurezza, le Confessioni (59).
In luogo di occuparsi soltanto di doctrina, cioè di cultura nel
senso intellettuale, Agostino giudicò più efficace, più opportuno, e
forse anche più conforme alla sua qualità di vescovo trattare della
formazione spirituale. Nulla è più significativo, nulla esprime me-
glio la personalità di Agostino, del fatto che il cambio di orientamento
teologico si rifletta quasi immediatamente in un modo nuovo di
concepire la cultura e l'educazione intellettuale ; e che, poi, lo scritto
composto con questo proposito rimanga interrotto, per lasciare il
posto alla redazione dell'opera destinata a inculcare i principii della
formazione più propriamente spirituale; dell'opera che ha per fine
l'edificazione dei fedeli.
194
Abbiamo visto che le Confessioni furono scritte realmente poco
dopo l'assunzione di Agostino all'episcopato (60) e sono quindi an-
che di poco posteriori a quel cambiamento nell'interpretazione di
San Paolo, al quale dobbiamo continuamente riferirci. E chi cerchi
di penetrarne e sentirne veramente lo spirito, si rende conto che le
Confessioni sono appunto il prodotto di una profonda crisi spi-
rituale. Benché in grandissima parte autobiografiche, esse non sono
però aulobiografia, né altro di simile : perché, oltre a tutto quanto
si possa osservare a tale proposito dal punto di vista letterario, c'è
il fatto che nulla è più estraneo allo spirito di Sant'Agostino che il
raccontare la sua vita per mettere in mostra la propria personalità ,
o giustificarsi di fronte agli uomini o ribattere accuse diffamatorie
e ingiuste. E se, giudicandole sempre da un punto di vista letterario,
anzi retorico, si potrà trovare che « mancano di unità », (61) pure
è impossibile dubitare dell'intimo spirituale legame tra le varie parti :
il racconto autobiografico, la confessione di Agostino nel suo stato
presente, e il commento del primo capitolo del Genesi, con le que-
stioni filosofiche che vi si riconnettono. Vi si deve aggiungere quel-
la che forma il tema dominante dell'ammirevole e varia sinfonia : la
confessio laudis, che forma un tutto indivisibile con la confessio pec-
cati. Esse si integrano a vicenda : confessare i propri peccati e la de-
bolezza causata dalla concupiscentia carnis è al tempo stesso lodare
Dio, che con la pena stabilì la redenzione. Ma il Creatore non può
essere veramente lodato dalla creatura, se questa non riconosca ap-
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pieno il suo essere nulla. Così questi due aspetti della confessio si
completano e servono allo stesso proponimento. Infatti, la celebre
invocazione iniziale a Dio, in cui trova finalmente quiete il cuore in-
quieto, ha .il suo parallelo in quella ch'é al principio del libro X ; e
il fine delle Confessioni ci si manifesta evidente in quelle parole,
nelle quali Agostino riconosce che, essendo peccatore, confessarsi a
Dio è un dispiacere a se stesso, ed essendo pio, è un non attri-
buire questo a se stesso, perché il Signore è colui che bene-
dice il giusto, dopo di averlo reso tale da empio che era. La con-
fessione dei peccati proprii ha come risultato che si sveglino anche
altri cuori, e si rendano conto del loro stato e della misericordia di
Dio ; e si uniscano nella preghiera in favore di Agostino, così come
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Agostino-scrive le sue Confessioni a gloria di Dio e per l'edificazione
dei fratelli (62).
Tale è dunque il fine principale delle Confessioni : e il ricono-
scerlo ci chiarisce quel senso corale, associato, liturgico della Chiesa
a cui Agostino è pervenuto. Ma ci ammonisce altresì contro l'er-
rore di intendere quella sua evoluzione come puramente intellet-
tuale. Essa fu sviluppo continuo e graduale, ancorché non uniforme :
e credo aver segnalato i momenti nei quai il movimento appare
più celere e si nota un cambiamento di rotta. Ed essa fu soprat-
tutto tormento, lotta e discussione affannosa con se stesso, per rag-
giungere la verità non solo nell'ordine logico, ma in quello morale e
religioso. Fu sforzo di purificazione ed elevazione interiore. Abbia-
mo visto come pregasse ancora nei primissimi tempi dopo a con-
versione : e in che modo egli parafrasasse, poco dopo il « Padre no-
stro » ; e anche quella sua osservazione posteriore circa la freddezza,
a volte, della preghiera (63) ; e come prega poi, nelle Confessioni.
Teniamo pur conto, quanto è giusto e necessario, degli elementi intel-
lettualistici e anche delle influenze altrui che poterono avere, che eb-
bero di fatto, importanza notevole nel determinare quell'evoluzione ma
facciamo ora la parte dovuta anche ai fattori propriamente ed esclusi-
vamente reliigosi. I quali si associano a quelle preoccupazioni morali,
a quell'ansia verso il bene e la purezza, che appare dominante in
tuta la vita di Agostino e si manifesta, intellettualmente, con la in-
vestigazione appassionata del problema del male. Agostino non fu
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un puro filosofo, intento alla conquista esclusivamente intellettuale
d'una verità capace d'imporsi per il rigore cogente della dimostra-
zione, e per la coerenza tra le varie parti del sistema ; quella veritÃ
ch'egli cercava doveva essere per lui anche luce e calore dell'anima,
doveva parlarle e confortarla. Agostino cercava sopra tutto Dio e la
salvezza dell'anima. Non intende Agostino e non si rende conto
<Jel suo sviluppo spirituale chi non consideri che il termine di questo
suo periodo di formazione è segnato da un'opera nella quale la sua
fede e la commozione per la riconosciuta verità si manifestano in
espressioni liriche. Non intende Agostino chi non ravvisi in lui, in
ogni momento — anche se le esigenze dell'indagine critica costringa-
no a prescindere da ciò nel momento dell'analisi, il che rende tanto
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più doveroso ridare a questo elemento il suo posto nel momento
ulteriore della sintesi — il mistico. Nascono così l'inno e l'abbandono
a Dio delle Confessioni, con il loro linguaggio poetico nuovo, fog-
giato sui Salmi, e con il loro intento duplice, personale ed edificativo.
Termine e conclusione di questa evoluzione che abbiamo cercato di
spiegare è l'alta opera di poesia e di preghiera in cui Agostino con-
fessa i suoi peccati e rende grazia a Dio.
NOTE