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Robert Ludlum Eric Van Lustbader La preda di Bourne Scansione Traduzione di Claudia Valentini e Paola Vitale Rizzoli Proprietà letteraria riservata First published in the United States as The Bourne Objective by Eric Van Lustbader ©MynPyn 2010 © The Estate of Robert Ludlum 2010; Published by arrangement with Myn Pyn, LLC c/o ÉAROR INTERNATIONAL © 2011 RCS Ali rights reserved Libri S.p.A., Milano ISBN 97888-17-04723-4 Titolo originale dell'opera: THE BOURNE OBJECTIVE Prima edizione: gennaio 2011 Seconda edizione febbraio 2011 Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autore o sono usati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti reali, luoghi, o a persone, vive o morte, è puramente casuale . Traduzione di: Claudia Valentini e Paola Vitale per Studio Editoriale Littera Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI) A Jaime Levine, per la competenza in campo editoriale e l'immenso entusiasmo che hanno trasformato questo lavoro in un piacere . TUTTO QUELLO CHE JASON BOURNE ricorda di lei è un corpo che precipita dalle scale di un tempio balinese. Holly Marie è morta così, e adesso all'ex agente della CIA resta solo l'anello che l'assassino aveva cercato di rubarle: una piccola fascia d'oro che reca incisa al suo interno un'iscrizione in una lingua dimenticata. Chi ha ucciso Holly Marie voleva impossessarsene a ogni costo. Ma perché? Per scoprirlo, Bourne deve tornare a Bali e trovare il modo di decifrare la misteriosa iscrizione. Sull'isola, però, lo attende la profezia dello sciamano che già una volta, in passato, gli ha salvato la vita: entro l'anno Jason Bourne morirà per cercare di proteggere una persona che ama. Ora Bourne ha i giorni contati per restituire un senso ai suoi ricordi, perché è l'anello la chiave che può consentirgli di sciogliere l'ultimo nodo, quello decisivo, sul suo passato. Ma un nemico infinitamente più potente di lui, una setta con affiliati in tutto il mondo, gli dà la caccia; pronta a tutto pur di mettere le mani sul gioiello. E sul terribile segreto che esso custodisce da millenni . ROBERT LUDLUM, nato a New York nel 1927, è scomparso nel 2001. Dopo le carriere di attore, regista e produttore, dalla fine degli anni Sessanta si è dedicato esclusivamente alla scrittura, diventando maestro indiscusso del romanzo di spionaggio. I suoi libri, tra i quali le serie di Jason Bourne e Covert-One, hanno venduto almeno 200 milioni di copie in tutto il mondo e sono in gran parte disponibili nel catalogo Bur. Gli ultimi titoli pubblicati da Rizzoli sono: Il Vettore di Mosca (2009), La scelta di Bourne (2009) e Il rischio di Bourne (2010) . ERIC VAN LUSTBADER, nato a New York nel 1946, è un acclamato autore di thriller. I suoi romanzi sono tutti editi da Rizzoli . *** Prologo Bangalore, India Calò la notte, e con essa un sipario vorticante di insetti risvegliati dal tramonto. Il rumore era insopportabile, così come i miasmi di corpi non lavati, escrementi umani, cibo marcio e cadaveri in decomposizione. La marea torbida dei rifiuti si riversava per le strade di Bangalore . Leonid Danilovic Arkadin se ne stava seduto in una stanza buia dove ristagnavano gli odori di materiale elettrico surriscaldato, fumo stantio e dosa, la focaccia indiana cotta alla piastra. Si accese una sigaretta, poi guardò verso il basso. Sotto di lui si stendeva lo scheletro di Phase Three, prodotto dell'incessante espansione che spingeva Electronic City lontano dalle baraccopoli appiccicate alla città come pidocchi. Il quartiere era stato costruito negli anni Novanta ed era diventato la capitale mondiale della terziarizzazione tecnologica. Tutte le maggiori società hi-tech avevano un ufficio nella zona. Rappresentava ormai il fulcro dell'industria del supporto tecnologico reso necessario dalle continue innovazioni .
Oro dal cemento, pensò Arkadin con ammirazione. Aveva letto molto sulla storia dell'alchimia, la capacità di trasformare gli elementi lo affascinava . Erano le prime ore della sera, ancora presto per la folla che riempiva gli uffici ricavati in ogni angolo dei palazzi. Ingressi e corridoi erano deserti e silenziosi, come sarebbero stati a New York alle tre di notte. Il lavoro era impostato sul fuso orario degli Stati Uniti. Gli impiegati del settore si trasformavano in fantasmi virtuali quando, cuffie in testa, si sedevano alle loro postazioni . Dopo il fiasco in Iran, dove aveva raggirato Maslov con grande maestria, Arkadin aveva fatto di questo quartiere la base delle sue operazioni. Era lontano dai futuri obiettivi: Dimitrij Ilinovic Maslov e Jason Bourne . Dai suoi uffici godeva di una visuale perfetta dell'area di lavoro: una voragine scavata nel terreno dove sarebbero state gettate le fondamenta di un'altra torre di uffici. Di solito i cantieri di questo tipo venivano illuminati con le fotocellule in modo che i lavori proseguissero anche di notte. Ma lì le attività erano ferme ormai da due settimane e non davano l'impressione di dover riprendere presto. Intanto lo scavo era stato preso d'assalto da un esercito di mendicanti, prostitute e baby gang che cercavano di spennare chiunque capitasse a tiro . Mentre fumava, sentiva di tanto in tanto i passi furtivi dei suoi uomini piazzati in punti strategici dell'edificio. Oltre a lui in quella stanza c'era solo Hassan, un mago del software sempre circondato da un aroma di cumino e circuiti elettrici. Arkadin aveva portato con sé i suoi fedelissimi. Erano tutti musulmani devoti. Non un problema da poco, visto che gli indù locali odiavano l'Islam. Aveva anche pensato di avvalersi di mercenari sikh, ma non era riuscito a fidarsi di loro . Hassan si era dimostrato molto prezioso. Era stato il programmatore di Nikolaj Evsen, il non rimpianto trafficante d'armi che Arkadin aveva sostituito ingannando Maslov. Aveva fatto una copia dei dati relativi a tutti i clienti, i fornitori e i contatti presenti nell'hard disk del suo computer, prima di formattarlo, cancellando ogni traccia. E ora Arkadin lavorava servendosi di quel database e guadagnava somme da capogiro rifornendo di armi e materiale bellico signori della guerra, dittatori e gruppi terroristici tra i più pericolosi del pianeta . Hassan, chino sulla tastiera, utilizzava il software cifrato agganciato ai server remoti che Arkadin aveva installato in un posto sicuro. Era un uomo che viveva per il suo lavoro. Nelle settimane successive al suo trasferimento e alla morte di Evsen a Khartoum, Leonid Danilovic non lo aveva mai visto lasciare l'ufficio. Dopo un pranzo leggero si concedeva un paio d'ore di riposo, dall'una alle tre, per la precisione, poi tornava al computer . L'attenzione di Arkadin era solo in parte concentrata su di lui. Nell'armadietto lì accanto c'era il portatile che uno dei suoi aveva rubato a Gustavo Moreno poco prima che il colombiano venisse ucciso nella sua tenuta a Città del Messico. Arkadin lo accese. Il suo viso, duro come il pugno calloso del padre, si illuminò del bagliore azzurrognolo dello schermo . Spense la sigaretta e passò in rassegna per l'ennesima volta i file già setacciati da cima a fondo. Non aveva mai permesso a nessuno, nemmeno ad Hassan, di accedere a quel particolare hard disk. Rintracciò il file fantasma che aveva mostrato il suo volto enigmatico solo dopo l'attacco di un potente antivirus. Riusciva a visualizzarlo, ma era bloccato in qualche parte remota, protetto da un logaritmo che il suo programma di criptaggio non era ancora riuscito a crackare dopo ventiquattr'ore . Il portatile di Moreno era misterioso tanto quanto il file. Aveva uno slot privo di porta USB, troppo grande per ospitare una SD card e troppo piccolo per un lettore di impronte digitali. Era chiaro che si trattava di un componente personalizzato, ma a che cosa poteva servire? E soprattutto, cosa diavolo c'era in quel file?, si domandava Arkadin. Come aveva fatto un signore della droga a ottenere un logaritmo così inaccessibile? Certo non si era rivolto agli hacker colombiani di Cali o a quelli di Città del Messico . Benché assorto nei suoi pensieri, Arkadin percepì un rumore. Non era sicuro di averlo sentito, ma drizzò le orecchie come un cane da caccia e si nascose nell'ombra .
Poi si rivolse ad Hassan: «Cos'è quella luce laggiù, nello scavo?» . Hassan sollevò lo sguardo. «Quale, signore? Ci sono così tanti falò...» «Là» indicò. «No, più in basso. Se ti alzi riesci a vederla.» Nell'attimo in cui Hassan si mise in piedi, una raffica di colpi mandò in frantumi le finestre dell'ufficio. Una tempesta di vetro investì Hassan, la scrivania e la moquette. Il ragazzo fu scaraventato all'indietro e cadde a terra ansimante. Iniziò a sputare sangue dalla bocca . Arkadin estrasse l'hard disk un secondo prima che la pioggia di proiettili devastasse le finestre perforando la parete opposta. Si riparò sotto il tavolo, imbracciò la Skorpion vz. 61 e ridusse in polvere il computer su cui stava lavorando Hassan. Intanto all'interno era iniziata una sparatoria. I rumori si mischiavano agli ordini degli aggressori e alle grida disperate di chi stava morendo. L'aiuto dei suoi non sarebbe arrivato, questo era sicuro. Ma riconobbe la lingua in cui venivano impartiti i comandi: russo. Accento moscovita . Capì che Hassan stava cercando di dire qualcosa, ma le sue parole si persero nel fragore delle esplosioni. Se gli assalitori erano russi, non potevano che volere le preziose informazioni di Evsen. Era intrappolato tra due fuochi, la sparatoria interna e le raffiche che venivano da fuori. Aveva pochi secondi per salvarsi. Corse verso Hassan. Si sentì addosso il suo sguardo implorante . «Aiutami... aiutami.» La sua voce era impastata di sangue e paura . «Ma certo, amico mio» gli disse Arkadin. «Ma certo.» Con un pizzico di fortuna i suoi nemici avrebbero scambiato Hassan per lui, facendogli guadagnare un po' di tempo per la fuga. A meno che non avesse iniziato a urlare. Mettendo al sicuro l'hard disk in tasca, gli premette il tacco dello stivale contro la gola fino a fargli uscire gli occhi dalle orbite. Con la trachea devastata non avrebbe potuto parlare. Arkadin sentì un frastuono proprio fuori dalla porta. Sapeva che i suoi uomini lo avrebbero difeso fino alla morte, ma a quanto pareva erano stati colti di sorpresa, forse anche in inferiorità numerica. Aveva una manciata di secondi, non di più . Come in tutti gli uffici moderni le grandi vetrate erano sigillate, probabilmente per prevenire tentativi di suicidio. Arkadin aprì una finestrella posteriore e scivolò nella notte. Sei piani sotto di lui c'era lo scavo in cui sarebbe sorto un nuovo edificio. Macchinari enormi si ergevano tra rifugi di cartone e falò simili a lingue di drago che brillavano nel buio . Le finestre dello scintillante edificio postmoderno erano prive di davanzali, ma nello spazio tra l'una e l'altra sporgevano motivi decorativi in ferro e cemento che si sviluppavano in verticale. Arkadin si aggrappò a uno di questi proprio mentre una scarica di proiettili perforava la porta dell'ufficio. I suoi uomini dovevano essere stati sopraffatti dagli aggressori . Lo raggiunsero gli odori notturni di Bangalore. Mentre cercava di scendere lungo la colonna di ferro e cemento, dallo scavo sottostante si alzò una zaffata nauseabonda di ghee e dosa - il burro chiarificato e le focacce onnipresenti nella cucina locale - succo di betel ed escrementi. In quel momento si accorse di alcuni fasci luminosi che venivano dal marciapiede. A quanto pareva, i suoi nemici si erano resi conto di non averlo eliminato e avevano cominciato le ricerche. Consapevole di essere troppo esposto e vulnerabile, lì appeso come un ragno alla parete dell'edificio, decise di fermarsi al quarto piano. Lì le finestre erano più piccole e regolari, perché la maggior parte di quel piano era occupata dalle centraline dei vari impianti: elettrico, idraulico, condizionamento eccetera. Arkadin sferrò un calcio a una finestra, ma senza risultato. Il vetro era infrangibile. Abbassandosi ancora un po', notò un pannello metallico. Un angolo sembrava non aderire troppo alla parete. In quella posizione precaria si calò un po' verso il basso, inserì le dita nello spazio tra il muro e il pannello e fece pressione finché non riuscì a rimuoverlo. Davanti a lui si aprì una fessura oblunga, larga quanto il suo corpo. Aggrappandosi alla colonna con entrambe le mani, Arkadin fece scivolare all'interno i piedi e le gambe fino alla vita. Solo allora lasciò la presa . Per un lungo attimo la testa e il busto rimasero sospesi nel vuoto: vide i riflettori che lo stavano cercando alzarsi verso di lui e subito dopo fu investito da un potente fascio di luce. Sentì gente
gridare, un turbinio di ordini gutturali urlati in russo. Si concentrò e con un ultimo sforzo si infilò dentro l'apertura. Sfuggendo alle raffiche di colpi che sibilavano contro l'edificio, si ritrovò nel buio . Rimase immobile un istante per riprendere fiato e ritrovare l'equilibrio, poi iniziò a muovere con cautela piedi e ginocchia per avanzare attraverso l'angusto passaggio. Strisciò così per circa un metro, fino a quando non si imbatté in un ostacolo. Allungando il collo riuscì a scorgere di fronte a sé una zona fiocamente illuminata: dunque il canale si restringeva, ma non era bloccato. Fece leva sulle gambe, ma aveva le spalle immobilizzate nella strettoia. Si fermò, cercando di rilassare il corpo mentre la mente cercava un modo per uscire da lì . Iniziò una serie di esercizi di respirazione lenti e graduali. Si sforzò di pensare che il suo corpo fosse malleabile e privo di ossa, finché non ne fu del tutto convinto. Contrasse le spalle portandole verso il torace, come aveva visto fare a un contorsionista al circo di Mosca. Poi esercitò una pressione leggera ma crescente con i bordi esterni delle suole degli stivali. All'inizio non accadde nulla, ma poi, contraendosi ancora, riuscì a sgusciare attraverso quella sezione più stretta, fuoriuscendo dall'altra parte. Subito dopo si ritrovò a battere la testa contro una griglia. Sollevando le gambe al massimo diede un colpo violento alla grata, che si staccò. Si ritrovò in quello che gli sembrò un ripostiglio che puzzava di grasso e metallo surriscaldato . A un'analisi più attenta il vano si rivelò la cabina elettrica dell'ascensore. Arkadin uscì dalla parte opposta, andando a finire nella tromba dell'ascensore. La cabina stava scendendo al quarto piano. Gli uomini all'esterno dovevano aver comunicato a quelli all'interno il punto in cui era rientrato nell'edificio . Si guardò intorno e individuò una scaletta verticale attaccata al muro che gli stava di fronte. Prima di riuscire a muoversi, però, lo sportello posizionato sul tettuccio della cabina si aprì ed emerse uno dei russi con tutto il busto. Vedendo Arkadin imbracciò fulmineo una mitragliatrice . Leonid Danilovic si abbassò per evitare la raffica di proiettili che si conficcarono nel muro, nel punto esatto in cui era stata la sua testa fino a pochi istanti prima. Restando accovacciato a terra, prese la mira e investì la faccia del russo con una rapida successione di colpi. Approfittando del fatto che la parte superiore della cabina era ormai quasi al suo livello, fece un salto per atterrarci sopra. Mentre i suoi stivali toccavano il tettuccio, una pioggia di proiettili attraversò lo spazio lasciato vuoto dallo sportello aperto. Riuscì a resistere. Con un balzo lungo e deciso si lanciò nel vuoto verso la parete opposta e la scaletta verticale, che afferrò al volo e subito prese a scendere di corsa. Sotto di lui la cabina iniziò a guadagnare i piani più bassi. Poi, quando fu a un paio di metri da lui, si fermò . Arkadin si mise in posizione, ruotò la parte superiore del busto e non appena vide qualcosa muoversi attraverso lo spazio dello sportello esplose tre colpi contro il tettuccio. Poi continuò la sua discesa lungo la scaletta, spesso saltando due o tre pioli, per essere un obiettivo più difficile da colpire . Il fuoco di risposta non tardò ad arrivare: i proiettili raggiungevano la scala in metallo seguendo i suoi movimenti, finché di colpo non si interruppero. Azzardando uno sguardo veloce, notò che uno dei russi ancora in vita era scivolato fuori dalla cabina e stava scendendo lungo la scaletta . Arkadin si fermò il tempo necessario a estrarre la pistola. Ma prima che riuscisse a usarla il russo lasciò la presa e, mentre precipitava nel vuoto, si aggrappò a lui, quasi rompendogli entrambe le braccia. Leonid Danilovic oscillò pericolosamente a causa dell'impatto e del peso del russo. Approfittando della sua difficoltà l'avversario gli strappò di mano la pistola. L'arma precipitò nella tromba dell'ascensore sbattendo contro le pareti. Intanto la cabina aveva ripreso a scendere . Il russo teneva una mano premuta contro la gola di Arkadin e l'altra stretta attorno all'impugnatura di un coltello Ka-Bar. Spinse verso l'alto il mento di Leonid Danilovic, scoprendone il collo. La lama spessa disegnò un arco nell'aria, e Arkadin sollevò un ginocchio.
Il corpo del russo si ritrovò proteso nella tromba dell'ascensore giusto in tempo perché il fondo della cabina in movimento lo colpisse . Nonostante tentasse di resistere con tutte le sue forze, anche Arkadin fu quasi trascinato via insieme al corpo del russo. Per un momento si ritrovò a testa in giù. Furono le caviglie ancorate alla scaletta a salvarlo. Si lasciò dondolare mentre cercava di capire dove fosse, poi si sollevò, afferrò i pioli con le mani ferme, liberò le caviglie e tornò lentamente in posizione verticale. Lo strappo che sentiva alle spalle era lacerante, ma questa volta era preparato e non batté ciglio. I piedi trovarono un appiglio saldo a cui appoggiarsi, e riprese a scendere . Sotto di lui anche la cabina continuava a procedere verso il pianoterra, ma dalla fessura dello sportello non si affacciò nessuno. Arkadin atterrò sul tettuccio e scrutò con cautela attraverso l'apertura non sorvegliata. Vide due persone a terra, morte. Si infilò nella cabina, prese le armi da uno dei due cadaveri, quindi premette il pulsante del seminterrato . Là sotto c'era un enorme parcheggio illuminato dai neon. Di fatto non veniva utilizzato molto, dato che la maggior parte delle persone che lavoravano nell'edificio non poteva permettersi un'auto. Andavano e tornavano in taxi . A parte la sua Bmw, due sfavillanti Mercedes, una Toyota Qualis e un'Honda City, il garage era pressoché deserto. Arkadin le controllò tutte. Vuote. Decise di ignorare la propria auto e di salire sulla Toyota. Dopo aver armeggiato per qualche istante con i fili elettrici, riuscì ad avere la meglio sul motorino di avviamento. Si mise al volante e ingranò la prima. Guidò sul cemento grezzo del garage e superò la rampa che portava in strada . Sobbalzò sull'asfalto rotto del retro dell'edificio, lasciando dietro di sé una scia di scintille. Lo scavo era proprio di fronte a lui. In mezzo ai cumuli di materiale edile, a gru e ruspe enormi ardevano i falò. Sembrava che l'intera area stesse per prendere fuoco da un momento all'altro . Sentì il rombo rauco di potenti motociclette provenire da destra e da sinistra, e vide due russi in sella ai loro mostri meccanici puntare dritto contro di lui in una traiettoria a tenaglia. Era chiaro che lo avevano aspettato ai due lati della strada, in modo da impedirgli qualsiasi via di fuga. Schiacciando al massimo il pedale dell'acceleratore, Arkadin puntò davanti a sé, attraversò la strada e sfondò il sottile recinto che circondava il cantiere . Il muso della Toyota fu risucchiato verso il basso, e la macchina scese a tutta velocità nello scavo. Gli ammortizzatori attutirono gran parte dell'impatto, ma quando la macchina raggiunse il livello del terreno con le gomme squarciate, Arkadin fu quasi sbalzato dal sedile. Dietro di lui, le due moto spiccarono un salto per seguirlo in fondo all'area dello scavo. Impattarono sul suolo con violenza, sobbalzarono, poi diedero di nuovo gas continuando a tallonarlo . Arkadin lanciò la vettura verso uno dei falò, quasi travolgendo i vagabondi al suo passaggio. Attraversò le fiamme, per poi sterzare bruscamente verso sinistra. Passò a filo in mezzo a due macchine, sfiorando una pericolosa pozza di rifiuti oleosi. Poi si gettò a destra, contro un altro falò e un altro gruppo di disperati . Controllando lo specchietto retrovisore si accorse che una delle moto gli stava ancora alle costole. E l'altra? Era riuscito a seminarla? Procedette dritto verso le fiamme per inchiodare con violenza solo all'ultimo istante. Mentre i vagabondi si disperdevano tutt'intorno, la moto andò a sbattere contro la parte posteriore della vettura. Il motociclista si ritrovò a rotolare sopra il tettuccio della Toyota per poi scivolare a terra davanti al cofano . Arkadin era già sceso dalla macchina. Sentì i gemiti dell'uomo che cercava di alzarsi, si avvicinò e lo colpì con un violento calcio alla testa. Stava per risalire, quando alcuni proiettili si conficcarono nel paraurti a pochi centimetri da lui. Si abbassò. Il fucile d'assalto che aveva strappato dalle mani del russo morto in ascensore era sul sedile del passeggero, troppo lontano. Tentò più volte di raggiungere lo sportello per rimettersi al volante, ma venne respinto dai colpi che crivellavano la Toyota . Si gettò a terra e strisciò sotto la macchina, mentre un altro colpo squarciava l'aria pungente e dolciastra. Arkadin raggiunse la parte opposta della vettura, aprì il portellone posteriore e per poco non si ritrovò la testa spappolata da un proiettile. Si tuffò di nuovo sotto la Toyota. Nel
giro di pochi secondi capì che l'unica possibilità che aveva era quella di abbandonare l'auto. Capì anche, però, che era proprio quello che aspettava il suo nemico. Così pensò a come neutralizzare, o quanto meno ridurre, il vantaggio che il russo aveva su di lui . Chiuse gli occhi per un secondo, cercando di immaginare dove potesse essere appostato, basandosi sulla direzione da cui arrivavano i proiettili. Poi si girò di novanta gradi e riemerse da sotto la macchina aggrappandosi al paraurti anteriore . Altri colpi mandarono in frantumi il parabrezza, che si trasformò in una ragnatela talmente fitta da impedire al suo inseguitore di vederlo fuggire. Più in fondo si stagliava la folla di senzatetto, oppressi e derelitti. Vide i loro volti mentre correva, zigzagando impazzito nella palude di quell'umanità scheletrica e pallida come la morte. D'un tratto sentì il rombo gutturale della moto emergere dal brusio di voci in hindi e urdu. La massa dei derelitti si muoveva come una marea. Si scostavano solo quando Arkadin cambiava direzione, e il russo seguiva i suoi spostamenti come se fossero il segnale di un sonar . Poco distante una struttura di putrelle metalliche spuntava dalle fondamenta in cemento; decise di andare da quella parte. Con un ruggito rauco la moto seminò la fiumana di disperati e si lanciò all'inseguimento di Arkadin, che nel frattempo si era dileguato nel labirinto della struttura in costruzione . Il russo rallentò. A sinistra c'era un recinto di lamiera ondulata, già aggredito dalla ruggine causata dall'aria umida di quel paese. Sterzò a destra e iniziò a girare intorno alle putrelle. Gettò un'occhiata verso il basso, nella voragine buia delle fondamenta. L'AK-47 era pronto per l'uso . Stava procedendo con cautela, quando Arkadin, aggrappato alle travi superiori come un ragno, gli balzò addosso. Il corpo del russo si inarcò all'indietro. La mano destra accelerò involontariamente facendo impennare la moto sbilanciata dal peso aggiuntivo. Sbandarono e finirono entrambi contro le putrelle. Il russo ne centrò una a tutta velocità e, nell'impatto, l'AK47 gli volò via di mano. Arkadin tentò di lanciarsi per afferrarlo, ma scoprì di avere una scheggia di metallo conficcata fino all'osso nella parte posteriore della coscia. Si strappò il corpo estraneo dalla carne con un gesto violento che gli mozzò il respiro. L'assalitore gli si avventò contro mentre gli occhi di Arkadin erano ancora invasi da lampi abbaglianti di dolore e i polmoni gli bruciavano a ogni respiro. Fu investito da una scarica di pugni alla testa, al torace e allo sterno; la sua reazione fu fulminea e imprevedibile: brandì la scheggia insanguinata appena strappata dalla sua coscia e la conficcò nel cuore del nemico . La bocca dell'uomo si spalancò per la sorpresa. Con occhi smarriti guardò Arkadin, un secondo prima di lasciar ricadere la testa all'indietro e accasciarsi in una pozza di sangue. Arkadin si voltò e si diresse verso la rampa per raggiungere la strada, ma era come se avesse appena subito un'anestesia totale. Le gambe erano rigide e rispondevano a fatica ai comandi inviati dal cervello, anch'esso sul punto di cedere. Avvertiva molto freddo e vedeva sfocato. Cercò di riprendere fiato, non ci riuscì e cadde a terra . Intorno a lui i falò continuavano ad ardere. Il cielo notturno era del colore del sangue, i battiti del suo cuore sempre più deboli. Vide gli occhi di tutti coloro che aveva ucciso accalcarsi su di lui, rossi come quelli dei topi. Non verrò all'inferno con voi, pensò mentre perdeva conoscenza . E forse fu proprio grazie a questo pensiero che riuscì a respirare profondamente e ad accettare un bicchiere d'acqua dalle mani di quelli che gli stavano intorno. Non erano i morti che popolavano i suoi ricordi, ma esseri umani vivi e sconosciuti. Per quanto fossero sporchi, laceri e disperati, erano capaci di riconoscere qualcuno che stava peggio di loro e di compiere un gesto di altruismo. Invece di gettarglisi addosso come avvoltoi, lo avevano soccorso con generosità. Non sono forse gli oppressi, quelli che non hanno niente, i più disponibili a condividere quel poco che possiedono, piuttosto che i milionari chiusi nelle loro regge? Questo pensava Arkadin mentre prendeva in dono quell'acqua ricambiando con le poche rupie che aveva in tasca. Poco dopo si sentì abbastanza forte da chiamare l'ospedale. Si strappò una manica della camicia e iniziò a tamponare la ferita sulla coscia. C'era un gruppetto di ragazzi, forse scappati di casa o forse figli di genitori uccisi in una delle tante faide che spesso
capitavano tra vicini. Lo guardavano come fosse l'eroe di un videogioco, come se non fosse reale. Li spaventava, ma allo stesso tempo li attirava come insetti verso la luce. Arkadin fece loro un cenno con la mano e quelli si avvicinarono. Tenevano in mezzo a loro la moto del russo come a volerla proteggere . «Non ve la porterò via, è vostra» disse in hindi. «Aiutatemi solo a raggiungere la strada.» Intanto il suono di una sirena si fece sempre più vicino. I ragazzi lo aiutarono a uscire dallo scavo e lo consegnarono agli infermieri che lo adagiarono sulla lettiga dell'ambulanza. Un infermiere gli prese il polso e controllò il battito cardiaco, mentre un altro iniziò a esaminare la ferita . Dieci minuti dopo entrava al pronto soccorso e veniva trasferito su un letto libero. L'aria fredda lo svegliò. Era a pancia in giù e i medici gli stavano facendo un'anestesia locale. Guardò l'andirivieni del pronto soccorso. Uno dei chirurghi si lavò le mani con il gel disinfettante contenuto nel dispenser attaccato a una colonna. Poi prese un paio di guanti nuovi dalla scatola e iniziò il processo di pulizia, disinfezione e sutura della ferita . L'operazione diede ad Arkadin il tempo di riflettere sull'attacco. Sapeva che dietro c'era Dimitrij Ilinovic Maslov, il capo della Kazanskaja, la mafia russa, conosciuta anche come grupperovka. Una volta lavorava per lui e ora si era impossessato del suo mercato illegale di armi. Quel giro d'affari era fondamentale, per Maslov, perché il Cremlino stava stringendo le morse intorno alla grupperovka, sottraendole in maniera inesorabile il potere che si era conquistata dopo la glasnost. Nel corso degli anni, però, Dimitrij Maslov si era dimostrato diverso da tutti gli altri capi della Kazanskaja, ormai inoffensivi o in prigione da tempo. Riusciva ad avere successo anche nei momenti diffìcili perché dotato della forza politica necessaria a sconfiggere le autorità, o per lo meno a tenerle a bada. Era un uomo pericoloso, e come nemico lo era ancora di più . Sì, pensò Arkadin mentre il dottore finiva di mettergli i punti, è stato dì sicuro Maslov a ordinare l'attacco, ma non è stato lui a progettarlo. Era troppo impegnato con gli avversari politici che cercavano di braccarlo da ogni parte. Inoltre da anni ormai non lavorava più per strada, perciò aveva perso quella superiorità che solo un'esperienza del genere può dare. A chi allora, si chiese Arkadin, può aver affidato questo compito? La risposta arrivò in quel preciso istante, quasi come per intervento divino. Nella penombra del pronto soccorso, ignorato dai medici che correvano trafelati e dai malati che si lamentavano, lo aspettava in piedi Vylaceslav Germanovic Oserov, nuovo sottoposto di Maslov. I due condividevano una storia lunga e rancorosa che aveva origine nella città natale di Arkadin, Niznij Tagil. Tra loro scorrevano solo odio e veleno. Nella sua mente era ancora vivido il ricordo del loro ultimo incontro: una brutta vicenda sugli altopiani dell'Azerbaigian settentrionale, dove stava addestrando una squadra d'assalto per conto di Maslov, progettando nel frattempo di tradirlo. Aveva affrontato Oserov riducendolo quasi in poltiglia, in risposta alle tante atrocità perpetrate nella sua città natale. Vylaceslav Germanovic era l'uomo perfetto per l'attacco, che, al di là di quello che aveva ordinato Maslov, di sicuro mirava a eliminarlo . Oserov se ne stava in piedi nella penombra del pronto soccorso con le braccia incrociate sul petto. Sembrava non guardare niente, in realtà osservava Arkadin con la concentrazione di un falco che segue la sua preda. Aveva il volto pieno di cicatrici, intricati simboli di omicidi, risse e scontri che lo avevano portato a un passo dalla morte. Gli angoli della bocca sottile erano rivolti verso l'alto, a disegnare quel sorriso odioso, tanto familiare quanto indecente . Arkadin aveva le gambe bloccate dai pantaloni. Erano arrotolati all'altezza delle caviglie, perché era stato impossibile sfilarglieli. Non sentiva alcun dolore alla coscia, ma non sapeva ancora se il colpo che aveva ricevuto avrebbe influito sulla sua capacità di correre . «Bene, abbiamo finito» disse il chirurgo. «Tenga la ferita asciutta e disinfettata per almeno una settimana. Le prescrivo un antibiotico e un antidolorifico. Li potrà prendere in farmacia uscendo. E fortunato, la ferita era pulita, ed è arrivato qui prima che potesse iniziare
un'infezione.» Poi il chirurgo rise. «Però sarà meglio che eviti le maratone per un po'.» Un'infermiera sistemò una garza sulla ferita, fermandola con del nastro chirurgico . «Non dovrebbe sentire niente, per la prossima ora» lo avvertì. «Ma faccia in modo di prendere un po' prima entrambi i medicinali prescritti.» Oserov liberò le braccia e si staccò dalla parete a cui era appoggiato. Continuava a non guardare Arkadin dritto in faccia, ma adesso teneva la mano destra nella tasca dei pantaloni. Leonid Danilovic non sapeva che tipo di arma potesse avere, ma non aveva alcuna voglia di aspettare per scoprirlo . Chiese all'infermiera di aiutarlo a rivestirsi. Dopo che si fu allacciato la cintura e messo seduto sul lettino, la donna fece per andarsene. Il corpo di Oserov fu attraversato da una strana tensione. Arkadin fece scivolare i piedi giù dal lettino e mentre si alzava sussurrò all'orecchio dell'infermiera: «Sono un poliziotto sotto copertura. Quell'uomo laggiù è stato mandato per uccidermi». La donna sgranò gli occhi, e lui aggiunse: «Faccia quello che le dirò e non succederà niente» . Tenendola come uno scudo umano tra sé e Oserov, Arkadin si spostò verso destra. Oserov seguiva ogni suo movimento . «Così si allontana dall'uscita» gli sussurrò l'infermiera. Lui continuò in quella direzione, arrivando vicino alla colonna sulla quale era attaccato il dispenser del disinfettante. Sentì l'infermiera agitarsi sempre più . «Per favore, mi lasci chiamare la sicurezza.» Erano arrivati dietro la colonna. «Va bene» disse lui spingendola con violenza contro un carrello e facendo cadere anche un medico e un'altra infermiera. Nella confusione che seguì vide una guardia arrivare dal corridoio e Oserov venire verso di lui brandendo un bisturi affilatissimo . Afferrò il dispenser e lo staccò dal muro scagliandolo con violenza contro la testa della guardia, che si accasciò sul pavimento di linoleum. Arkadin raccolse di nuovo il dispenser, scavalcò rapido il corpo dell'uomo riverso a terra e si diresse verso il corridoio . Oserov gli fu subito dietro, guadagnando terreno a ogni falcata. Arkadin si accorse di avere inconsciamente rallentato il passo per paura di strappare i punti della ferita. Disgustato da se stesso, si fece largo a spallate tra alcuni specializzandi e si allontanò di corsa. Il corridoio che aveva di fronte era libero. Cercò in tasca l'accendino, fece uscire la fiammella e poi liberò un po' di disinfettante dal dispenser. Riuscì a sentire il rumore sordo delle scarpe di Oserov, arrivando quasi a percepirne l'accelerazione del respiro . All'improvviso si girò. Con un movimento rapido diede fuoco al disinfettante e lanciò il dispenser in direzione dell'inseguitore. Si voltò di nuovo e riprese a correre, ma fu comunque raggiunto dall'esplosione, che lo scaraventò a terra . L'allarme antincendio scattò sovrastando la cacofonia di grida, passi concitati e fiamme crepitanti. Lui scappò, ma appena girato l'angolo rallentò il passo. Due guardie e un medico lo urtarono facendolo quasi cadere di nuovo. Il sangue iniziò a scorrergli lungo la coscia, denso e caldo. Ogni cosa che vedeva gli appariva chiara, netta, pulsante di energia. Tenne la porta aperta per una donna sulla sedia a rotelle che stringeva al petto il suo bambino. Lei lo ringraziò e Arkadin si mise a ridere con un'intensità tale da contagiare anche lei. In quel momento una squadra di poliziotti dagli sguardi torvi si precipitò nell'edificio dalla porta che teneva aperta, passandogli vicino di corsa . *** Libro Primo Capitolo 1 . «Sì» confermò Suparwita, «questo è l'anello che Holly Marie Moreau ricevette da suo padre.» Jason Bourne teneva tra le dita l'oggetto in questione, una semplice fascetta d'oro con un'iscrizione nella parte interna. «Questo anello io non me lo ricordo» disse . «Sono molte le cose del tuo passato che non ricordi» precisò Suparwita, «compresa Holly Marie Moreau.» Bourne e Suparwita erano seduti per terra a gambe incrociate, a casa del guaritore balinese nella giungla di Karangasem, nel sudest di Bali. Bourne era tornato sull'isola per incastrare Noah Perlis, la spia responsabile della morte di Holly, avvenuta anni prima.
Proprio a lui aveva strappato l'anello, dopo averlo ucciso a pochi chilometri dalla località dove si trovavano ora . «I genitori di Holly arrivarono qui dal Marocco quando lei aveva cinque anni» continuò Suparwita. «Avevano lo sguardo tipico dei rifugiati.» «Da cosa scappavano?» «E difficile dirlo con esattezza. Se le storie su di loro sono vere, avevano scelto un posto perfetto per proteggersi da una persecuzione religiosa.» Suparwita era conosciuto come Mangku, un ibrido tra sommo sacerdote, sciamano e molto altro, impossibile da descrivere con dei termini occidentali. «Cercavano protezione.» «Protezione!» esclamò Bourne accigliato. «E da cosa?» Suparwita era un uomo di bell'aspetto e dall'età indefinibile. Aveva la pelle marrone scuro e un sorriso grande, a cui era impossibile resistere, che rivelava denti bianchissimi e regolari. Era grasso, per essere un balinese, ed emanava un potere spirituale che affascinava Bourne. La sua casa era un santuario circondato da un giardino rigoglioso baciato dal sole e protetto da alte mura. Era ben ombreggiata, tanto che l'interno era fresco persino a mezzogiorno. Il pavimento era di terra battuta coperta da un tappeto di fibra di agave. Dalle pareti spuntavano come dotati di vita propria oggetti di natura indefinita: vasi di erbe, mazzetti di radici e fiori secchi composti a forma di ventaglio. Le ombre che riempivano ogni angolo sembravano muoversi in continuazione, come fatte di una sostanza liquida . «Dallo zio di Holly» riprese Suparwita. «L'anello l'hanno preso a lui.» «E sapeva che erano stati loro a rubarglielo?» «Pensava fosse andato perduto.» Il guaritore alzò la testa. «Ci sono degli uomini, là fuori.» Bourne annuì. «A loro penseremo tra poco.» «Non hai paura che facciano irruzione a pistole spianate?» «Non si faranno vedere finché non me ne sarò andato. E me che vogliono, non te.» Jason toccò l'anello con l'indice. «Continua.» Suparwita inclinò la testa. «Si nascondevano dallo zio di Holly. Aveva giurato di riportarla a casa, dalla sua famiglia, sulle montagne dell'Atlante.» «Sono berberi. Ma certo! Moreau significa "moro"» rifletté Bourne. «Perché lo zio di Holly voleva riportarla in Marocco?» Suparwita guardò a lungo il suo interlocutore. «Dovevi saperlo, una volta, immagino.» «Noah Perlis è stato l'ultimo a entrare in possesso dell'anello. Deve aver ucciso Holly per appropriarsene.» Bourne strinse la fascetta d'oro nel pugno. «Perché lo voleva? Cosa nasconde di così importante questa fede nuziale?» «È parte della storia che cercavi di scoprire» spiegò Suparwita . «Era tanto tempo fa. Ora non saprei nemmeno da dove cominciare.» «Perlis aveva appartamenti in molte città» iniziò lo sciamano, «ma abitava a Londra, e lì andò Holly durante i diciotto mesi che trascorse all'estero prima di tornare a Bali. Perlis deve averla seguita fin qui per ucciderla e rubarle l'anello.» «Come fai a sapere tutto questo?» Sul volto di Suparwita apparve un sorriso smagliante. Sembrava il genio della lampada. «Lo so» disse «perché sei stato tu a raccontarmelo.» Soraya Moore notò le differenze tra la vecchia CIA sotto la guida di Veronica Hart e la nuova sotto quella di Errol Danziger non appena mise piede nel quartier generale di Washington. Innanzitutto la sicurezza era stata rafforzata a tal punto che superare i vari checkpoint risultava difficile quanto introdursi in una fortezza medievale. Poi, non riconosceva nessuna delle guardie in servizio. Ogni volto aveva quell'espressione dura e sospettosa a cui solo l'esercito americano sa abituare un uomo. Tutto questo non la sorprendeva. Dopotutto, prima di diventare DCI, il presidente Errol Danziger era stato il vicedirettore della SIGINT (la Signals Intelligence) alla NSA con una brillante e onorata carriera nelle forze armate prima e nel Dipartimento della Difesa poi. Oltre, ovviamente, alla brillante e onorata carriera da emerito figlio di puttana. No, quello che la spaventava era la velocità con cui il nuovo direttore della CIA aveva installato i suoi uomini tra le pareti fino ad allora inviolate dell'Agenzia . Fin dai tempi in cui si chiamava Ufficio dei Servizi Strategici, durante la Seconda guerra mondiale, la CIA era sempre stata autonoma e libera da qualsiasi interferenza sia da parte del Pentagono sia del suo braccio legato ai servizi segreti, la NSA. Ora, dato il crescente potere del segretario alla Difesa Bud Halliday, la CIA era stata fusa con la NSA e il suo dna purissimo era stato diluito. Errol Danziger ne era il direttore, e Danziger era uno dei prodotti del segretario Halliday .
Soraya, direttrice della Typhon - un'agenzia antiterroristica con personale quasi esclusivamente musulmano che operava sotto l'egida della CIA - valutava i cambiamenti messi in atto da Danziger nel corso delle settimane in cui era stata in servizio al Cairo. La consolava non poco l'idea che la Typhon fosse in parte indipendente. Rispondeva solo al DCI, bypassando i vari capi dei direttorati. L'agenzia era per metà araba e lui conosceva tutti i suoi uomini, avendoli in molti casi scelti di persona. L'avrebbero seguita ovunque, anche all'inferno se gliel'avesse chiesto. Ma cosa sarebbe successo agli amici e colleghi all'interno della CIA? Sarebbero rimasti oppure no? Scese al piano dell'ufficio del direttore della CIA, immerso in un'inquietante luce verdognola che filtrava attraverso i vetri antiproiettile. Un giovane scheletrico dallo sguardo glaciale e i capelli rasati era seduto dietro una scrivania intento a sfogliare pile di documenti. La targhetta diceva: ten r. simmons reade . «Buon pomeriggio, sono Soraya Moore» si presentò. «Ho un appuntamento con il DCI.» Il tenente R. Simmons Reade alzò la testa riservandole uno sguardo neutrale che sembrava, però, celare un tono di scherno. Indossava un completo azzurro, una camicia bianca inamidata e una cravatta a righe rosse e blu. Le rispose senza nemmeno guardare lo schermo del computer davanti a sé: «Aveva un appuntamento con il direttore Danziger. Quindici giorni fa» . «Sì, lo so» ammise Soraya. «Ero sul campo, impegnata a risolvere alcune questioni rimaste in sospeso della missione in Iran che andavano...» La luce verdognola faceva sembrare il volto di Reade più lungo, affilato e pericoloso come un'arma. «Lei ha trasgredito un ordine diretto del direttore Danziger.» «Il nuovo direttore si era appena installato» ribatté Soraya. «Non aveva modo di sapere...» «Il direttore Danziger sa tutto quello che è necessario sapere sul suo conto, signorina Moore.» Lei si inalberò. «Che diavolo significa? E poi io sono la direttrice Moore.» «Come al solito arriva in ritardo, signorina Moore» replicò Reade in tono gelido. «Lei è licenziata.» «Cosa? Sta scherzando, spero. Non è possibile che...» Soraya si sentì come risucchiata in una voragine senza fondo spalancatasi all'improvviso sotto i suoi piedi. «Esigo di vedere il direttore!» Il volto di Reade si fece ancora più duro, come quello dello zio Sam nei manifesti dell'esercito americano. «Al momento la sua autorizzazione è revocata. Mi consegni il suo distintivo, la carta di credito e il cellulare aziendali.» Soraya si sporse in avanti e batté i pugni sulla scrivania. «Chi diavolo è lei per dirmi ciò che devo fare?» «Sono l'assistente del direttore Danziger.» «Non credo a una sola parola.» «I suoi pass non sono più attivi. Non le resta che lasciare l'edificio: non può andare da nessuna parte.» Soraya raddrizzò la schiena. «Dica al direttore che sarò nel mio ufficio, quando deciderà di parlarmi.» R. Simmons Reade estrasse da sotto la scrivania una scatola di cartone priva di coperchio, e gliela porse. Soraya lanciò uno sguardo al contenuto e rimase senza fiato. Là dentro, impilati con ordine, c'erano tutti gli oggetti personali che teneva in ufficio . «Io posso solo ripetere quello che mi hai detto tu.» Suparwita si alzò e Bourne con lui . «E così anche allora Noah Perlis mi preoccupava.» Non era una domanda e lo sciamano balinese non la considerò tale. «Ma perché? E in che modo è collegato a Holly Marie Moreau?» «Qualunque sia la verità» rispose Suparwita, «è molto probabile che si siano incontrati a Londra.» «E cosa mi dici delle strane lettere all'interno dell'anello?» «Me le hai già mostrate un tempo sperando che potessi aiutarti. Ma non ho idea di cosa significhino.» «Non è una lingua moderna» rifletté Bourne continuando a torturare la sua memoria in cerca di dettagli . Suparwita fece un passo verso di lui e abbassò la voce fino a farla diventare poco più di un sussurro. Eppure penetrò nella mente di Jason come il pungiglione di una vespa . «Ti ho detto che sei nato nel giorno di Siwa» pronunciò il nome del dio Shiva alla balinese. «L'ultimo del mese di dicembre, che rappresenta la fine e l'inizio. Capisci? Sei destinato a morire e a rinascere.» «L'ho già fatto otto mesi fa quando Arkadin mi ha sparato.» Suparwita annuì con aria grave. «Se non ti avessi dato un po' del giglio della resurrezione, è molto probabile che saresti morto.» «Mi hai salvato. Perché?» Suparwita gli riservò un altro dei suoi sorrisi estatici. «Siamo legati, io e te.» Lo sciamano si strinse nelle spalle. «Chi può dire come o perché?» Bourne era impaziente di tornare a questioni più pratiche. «Ci sono due uomini, fuori»
disse. «Ho controllato prima di entrare.» «E così li hai condotti fin qui.» Adesso toccava a Jason sorridere. «Fa tutto parte del piano, amico» bisbigliò . Suparwita alzò una mano. «Prima che lo porti a termine c'è una cosa che dovresti sapere, qualcosa che dovrei insegnarti.» Seguì una lunga pausa che diede a Bourne il tempo di chiedersi cosa avesse in mente . Conosceva il guaritore balinese abbastanza bene da capire che doveva trattarsi di una questione seria. Aveva visto quell'espressione alcuni mesi prima, quando gli stava per somministrare il giglio della resurrezione in quella stessa stanza . «Ascoltami.» Non c'era traccia di un sorriso sul suo volto, ora. «Morirai entro l'anno. Dovrai morire per salvare chi ti sta accanto, persone che ami o che ti sono vicine.» Malgrado l'addestramento e la sua disciplina mentale, Bourne avvertì una sensazione di gelo attraversargli il corpo. Un conto era trovarsi in situazioni di pericolo, cercare mille modi per ingannare la morte, spesso nel giro di una frazione di secondo, un altro era sentirsi dire in tono irrevocabile che si ha meno di un anno di vita. D'altra parte, però, poteva scegliere di buttarla sul ridere. Dopotutto era un occidentale, e al mondo c'erano così tante credenze che era possibile ignorarne almeno il novanta per cento. Ma fissando gli occhi di Suparwita riusciva a vedere la verità. Già in passato gli straordinari poteri del guaritore gli avevano mostrato il futuro, o almeno il suo. «Siamo legati, io e te.» Gli aveva salvato la vita in passato, sarebbe stato stupido dubitare di lui adesso . «Sai come o quando succederà?» Suparwita scosse la testa. «Non funziona così. I flash che ho del futuro sono come sogni a occhi aperti, ricchi di colori e presagi. Ma non ci sono immagini, nessun dettaglio. Mancano del tutto di chiarezza.» «Una volta mi hai detto che Shiva mi avrebbe protetto.» «Infatti.» Sul volto di Suparwita affiorò di nuovo un sorriso. Lo portò in un'altra stanza piena di ombre e invasa dal profumo di frangipani. «E nelle prossime ore ne avrai una prova.» Valerie Zapolskij, la segretaria personale di Rolly Doli, portò di persona il messaggio al DCI Errol Danziger perché, come diceva lei, il suo capo non si fidava dei sistemi informatici, nemmeno di quelli a prova di hacker dell'Agenzia . «Perché non me l'ha portato Doli, questo messaggio?» chiese Danziger accigliato senza neppure alzare lo sguardo . «Al momento il direttore delle Operazioni è impegnato» rispose Valerie . Era una donna minuta, con la carnagione scura e gli occhi perennemente socchiusi. Danziger era seccato dal fatto che Doli avesse mandato lei . «Jason Bourne è vivo? Ma come diavolo...!» Scaraventò la sedia all'indietro come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. Mentre esaminava lo scarno rapporto, breve e privo di dettagli significativi, scuoteva violentemente la testa, il volto sempre più rosso di collera . Valerie commise il grosso errore di mostrarsi premurosa. «Direttore, c'è qualcosa che posso fare?» «Fare? Fare!?» Fissò gli occhi sulla segretaria. «Certo che c'è qualcosa che può fare. Mi dica che questo è uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto da parte di Doli. Perché se non è così giuro che la caccio a calci nel sedere.» «Grazie Val, è tutto» la congedò Rolly Doli affacciandosi sulla porta dietro di lei. «Torni pure al suo ufficio.» L'espressione di sollievo che comparve sul volto della donna mitigò soltanto in parte il suo senso di colpa per averla mandata in prima linea . «Maledizione» gridò Danziger. «Giuro che la licenzio.» Doli si fece avanti e si fermò di fronte alla scrivania di Danziger. «Se lo farà, Stu Gold le sarà addosso ancora prima che possa accorgersene.» «Gold? E chi diavolo sarebbe questo Stu Gold? E perché mai dovrebbe fregarmene qualcosa?» «E l'avvocato dell'Agenzia.» «Caccio pure lui a calci nel sedere.» «Impossibile, signore. Ha un contratto di ferro con la HA ed è l'unico libero di fare qualunque cosa con chiunque di noi.» Il DCI sollevò le mani in un gesto irritato. «Pensi che non possa trovare un motivo valido per sbarazzarmene?» Schioccò le dita. «Come si chiama?» «Zapolskij. Valerie A. Zapolskij.» «Bene, che cos'è, russa? Non mi piace lo smalto che usa, chiaro?» Doli annuì diplomatico. Era magro e i capelli biondi mettevano in risalto gli occhi di un azzurro
elettrico. «Certo, signore.» «E prega Dio che non ci siano problemi o domande su quel rapporto.» Dopo la partenza di Peter Marks, il direttore della CIA era diventato di cattivo umore. Non avevano ancora nominato un nuovo direttore delle Operazioni. Marks era stato capo di Doli, il quale sapeva che se si fosse dimostrato fedele a Danziger avrebbe avuto buone possibilità di prenderne il posto. Stringendo i denti in silenzio per contenere la rabbia, tentò di cambiare argomento. «Dobbiamo parlare di questa notizia.» «Non si tratta di un'immagine d'archivio, vero? Non è uno scherzo?» «Vorrei tanto che lo fosse.» Doli scosse la testa. «Però no, signore, non lo è. Jason Bourne è stato fotografato mentre richiedeva un visto temporaneo all'aeroporto di Denpasar, a Bali, Indonesia.» «So dove si trova Bali, Doli.» «Era solo per essere precisi, signore, come lei ci ha chiesto di essere fin dal primo giorno.» Per quanto ancora nervoso, il DCI non disse niente. Teneva il rapporto e la foto in bianco e nero di Bourne stretti nel pugno, il suo pugno di ferro, come amava chiamarlo . «A giudicare dalla legenda elettronica in basso a destra, la foto è stata scattata tre giorni fa, alle due e ventinove ora locale. La SIGINT ci ha messo tutto questo tempo per accertarsi che non ci fosse il minimo errore di trasmissione o interpretazione.» Danziger riprese fiato. «Era morto. Bourne doveva essere morto. Ero sicuro che ce lo fossimo tolto dai piedi una volta per tutte.» Accartocciò la foto e la lanciò nel tritadocumenti. «Si trova ancora là, immagino tu lo sappia.» «Sì, signore. E a Bali, in questo momento.» «Lo stai tenendo sotto sorveglianza?» «Ventiquattr'ore al giorno. Non fa un passo senza che noi lo sappiamo» puntualizzò Doli . Danziger si fermò un attimo a riflettere, poi disse: «Chi sta facendo questo lavoro sporco?» . Doli si era preparato alla domanda. «Coven. Tuttavia, signore, se posso permettermi, nel suo ultimo rapporto dal Cairo Soraya Moore afferma che è stato per merito di Bourne se nel nord dell'Iran siamo riusciti a evitare il disastro che ha distrutto la Black River.» «C'è un'altra cosa di Bourne pericolosa quanto il suo muoversi al di fuori della legge: è la sua abilità, come posso dire... di influenzare le donne.» Danziger annuì. «Attiva Coven, Doli.» «Posso farlo ma ci vorrà del tempo per...» «Chi è più vicino?» chiese il DCI con impazienza . Doli controllò gli appunti. «Abbiamo un'ottima squadra a Giacarta. Posso farli imbarcare su un elicottero militare tra un'ora.» «Fallo, e usa Coven come copertura» dispose Danziger. «L'ordine è di portarmi Bourne vivo. Voglio sottoporlo a interrogatorio, prendere il suo cervello e scoprire quali segreti nasconde... capire come e perché riesce a sfuggire a tutti i nostri tentativi di acciuffarlo, e soprattutto alla morte.» Nei suoi occhi divampò l'odio. «Quando avremo finito con lui, gli pianteremo un proiettile in testa e faremo ricadere la colpa sui russi.» *** Capitolo 2. La lunga notte di Bangalore volgeva al termine. Sulla città ammorbata da fogne a cielo aperto, miseria e malattie, sulla sua infinita carica di rabbia, paura e frustrazione, si stendeva un'alba livida . Arkadin aveva trovato l'ambulatorio di un medico, vi si era introdotto e aveva preso tutto quello che gli occorreva: materiale per suturare la ferita, iodio, cotone sterile, bende e antibiotici da assumere al posto di quelli che non era riuscito a procurarsi in ospedale. Mentre correva nelle strade anguste sapeva di dover assolutamente arrestare l'emorragia . La ferita non era mortale, ma il taglio era profondo e non poteva permettersi di perdere altro sangue. Inoltre aveva bisogno di un posto in cui nascondersi, dove avrebbe potuto guadagnare tempo su Oserov e riprendere fiato mentre studiava la situazione. Si maledì per aver permesso al nemico di coglierlo di sorpresa. Era consapevole che la sua prossima mossa diventava cruciale: un fallimento si sarebbe potuto ben presto trasformare in una catastrofe di proporzioni mortali . Ora che il suo quartier generale era stato violato, non poteva più fidarsi dei contatti abituali di Bangalore. Gli rimaneva soltanto un'opzione: il posto in cui manteneva ancora un potere assoluto. Digitò un codice criptato che lo collegò a una rete di ripetitori protetti. Chiamò Stepan, Luka, Pavel, Alik e Ismael Bey, leader di facciata della Fratellanza Orientale .
«Maslov, Oserov e tutta la Kazanskaja ci stanno attaccando» andò dritto al punto senza preamboli. «Da questo momento siamo in stato di guerra.» Li aveva addestrati bene, nessuno gli fece domande superflue . Ascoltarono gli ordini replicando con risposte secche, poi riagganciarono per mettere in atto il programma predisposto per ciascuno di loro qualche mese prima da Arkadin in persona. Ogni capitano aveva un compito specifico: portare a termine la parte di un piano più generale che coinvolgeva l'intero pianeta. Se Maslov voleva la guerra, l'avrebbe avuta, e di certo non su un unico fronte . Arkadin scosse la testa e scoppiò a ridere. Aveva sempre saputo che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato, inevitabile come la morte. Ora che finalmente era giunto, provava una sensazione di sollievo. Non avrebbe più dovuto costringersi a sorridere a denti stretti, non avrebbe più dovuto fingere amicizia quando dentro di sé provava soltanto odio . Sei un uomo finito, Dimitrij Ilinovic, pensò Arkadin. Solo che ancora non lo sai . Una goccia di rosa tingeva il cielo. Leonid Danilovic era quasi arrivato da Chaaya. Doveva fare quella telefonata così difficile per lui. Digitò un numero di undici cifre, e dall'altra parte una voce maschile rispose in russo: «Agenzia Federale Antidroga». La famigerata FSB-2, che grazie al suo leader, Viktor Cerkesov, era diventata l'agenzia più potente e temibile del governo russo, superando persino la FSB, sorta dalle ceneri del KGB . «Il colonnello Karpov, per cortesia» disse . «Sono le quattro del mattino. Il colonnello Karpov non è reperibile» lo informò una voce maschile col tono di un morto vivente appena uscito da un film di George Romero . «Vale lo stesso per me» ribatté Arkadin con una punta di sarcasmo. «Ma come vede ho trovato il tempo per chiamare.» «E chi gli dovrei annunciare?» chiese la voce senza rivelare la minima emozione . «Sono Arkadin, Leonid Danilovic Arkadin. Va' a chiamare il tuo capo.» L'uomo trattenne il respiro per un istante, poi capitolò: «Attenda in linea» . «Sessanta secondi da adesso» precisò Arkadin guardando l'orologio per iniziare il conto alla rovescia. «Non uno di più.» Cinquantotto secondi dopo si sentirono dei rumori seguiti da una voce roca e profonda: «Sono il colonnello Karpov» . «Boris Illic, sono state molte le occasioni in cui avremmo potuto incontrarci in passato.» «Vorrei poter fare a meno del condizionale. Come faccio a sapere che sto parlando proprio con Leonid Danilovic Arkadin?» «Dimitrij Maslov ti dà ancora del filo da torcere, eh?» Karpov non raccolse l'allusione, e Arkadin continuò: «Colonnello, chi altro potrebbe offrirti la Kazanskaja su un piatto d'argento?» . La risata di Karpov fu sgradevole. «Il vero Arkadin non volterebbe mai le spalle al suo mentore. Chiunque tu sia, mi stai facendo perdere tempo.» In risposta Arkadin gli diede l'indirizzo di una località segreta alla periferia industriale di Mosca . Karpov rimase in silenzio per alcuni lunghi istanti. Nel ricevitore si sentiva solo il suo respiro pesante. Dipendeva tutto da quella conversazione. Il colonnello poteva credere che fosse davvero Arkadin e che dicesse la verità, oppure no . «Che me ne faccio di questo indirizzo?» chiese infine . «E un magazzino. Visto dall'esterno non ha niente di particolare. Idem all'interno.» «Mi stai annoiando, gospodin. Chiunque tu sia.» «La terza porta a sinistra è quella della toilette degli uomini. Nel terzo bagno a destra dopo gli orinatoi non ci sono sanitari. C'è soltanto una porta sulla parete in fondo.» Dopo un momento di esitazione, Karpov chiese: «E quindi?» . «Ti consiglio di presentarti armato fino ai denti.» «Mi stai dicendo che devo portarmi dietro una squadra d'assalto...» «No! Vacci da solo. E non dire a nessuno dove vai. Inventati una scusa, inventati un appuntamento dal dentista o qualcosa del genere.» Un'altra pausa, questa volta vibrante di paura. «Chi è la talpa nel mio ufficio?» «Ora non fare l'ingrato, Boris Illic. Non vorrai rovinarmi il divertimento dopo il bel regalo che ti ho fatto.» Arkadin fece un respiro profondo. Il colonnello stava abboccando, era il momento di affondare il colpo. «Se fossi in te,
non userei il singolare. Talpe è più corretto.» «Che cosa...? Stammi a sentire...» «Faresti meglio a darti una mossa, colonnello, o ti lascerai scappare il bersaglio sotto il naso.» Soffocò una risatina. «Tieni, questo è il mio numero, immagino che non sia apparso sul tuo telefono. Chiamami, quando torni: parleremo di nomi e, magari, di molto altro ancora.» Terminò la conversazione prima che Karpov avesse il tempo di ribattere . Per Delia Trane la giornata lavorativa era quasi finita. Osservava al computer il modello in 3-D di un ordigno esplosivo cercando di capire come disattivarlo prima che scattasse il timer. Se tagliava il filo sbagliato, o commetteva un errore nel maneggiare la bomba, si sarebbe attivato un allarme sonoro. Quel software era una sua creazione, ma capire come disinnescarlo restava comunque complicato . Delia era una donna poco appariscente di circa trentacinque anni. Aveva gli occhi chiari, un caschetto corto e la pelle scura che le veniva dai geni della madre colombiana. Malgrado l'età ancora giovane e il temperamento irruente, era uno degli esperti di esplosivi più richiesti dell'ATF, l'Ufficio Federale per il Controllo di Alcol, Tabacco e Armi da fuoco. Era anche la migliore amica di Soraya, perciò quando una delle guardie l'aveva chiamata per dirle che la Moore era in atrio gli aveva chiesto di farla salire da lei . Le due donne si erano conosciute sul lavoro e si erano subito piaciute perché avevano entrambe un carattere combattivo e indipendente, tratto molto difficile da trovare a Washington. Dato che si erano incontrate durante uno degli incarichi clandestini di Soraya, non avevano alcun bisogno di nascondersi la natura del loro lavoro, né il fatto che la loro professione impediva di intrattenere normali rapporti umani con il resto della popolazione. Entrambe sapevano che, nel bene e nel male, le loro esistenze erano legate ai rispettivi compiti. Non avrebbero saputo far altro che quel lavoro, del quale non potevano parlare con i civili. Era quello che dava valore alla vita, alla loro indipendenza in quanto donne, e al ruolo che si erano conquistate lottando contro i pregiudizi sessuali che a Washington erano duri a morire. Ogni giorno sfidavano l'establishment del Distretto di Columbia come due amazzoni coraggiose . Delia tornò a contemplare il suo modello in 3-D e in pochi secondi si ritrovò assorbita dai problemi tecnici che la preoccupavano, evitando di chiedersi perché mai la sua amica si trovasse lì a quell'ora del giorno. Quando un'ombra si allungò sulla scrivania, alzò lo sguardo verso il volto di Soraya e capì subito che qualcosa non andava . «Santo cielo, siediti!» esclamò offrendole una sedia libera. «Non svenire proprio qui! Cosa diavolo è successo? E morto qualcuno?» «No, solo il mio lavoro.» Delia le scoccò un'occhiata interrogativa. «Che vuoi dire?» «Mi hanno licenziata, fatta fuori, silurata» spiegò l'amica. «Sollevata dal comando senza alcuno scrupolo, anche se con una buona dose di pregiudizi» aggiunse con una punta di ironia . «Che cos'è successo?» «Sono egiziana, musulmana e soprattutto donna. Motivi più che sufficienti per il nuovo DCI.» «Non preoccuparti di questo. Conosco un buon avvocato che...» «Lascia stare.» Delia corrugò la fronte. «Non vorrai mica fargliela passare liscia? Questa è discriminazione, Raya.» Soraya agitò una mano. «Non voglio trascorrere i prossimi due anni a combattere contro la CIA e il segretario Halliday.» Delia si appoggiò allo schienale della sedia. «La faccenda riguarda perfino le alte sfere, vedo.» «Come possono farmi questo?» L'amica si alzò e andò ad abbracciarla. «So come ti senti. E come quando vieni abbandonata dalla persona che ami e scopri che durante tutta la relazione non ha fatto altro che usarti e tradirti.» «Ora so cosa ha provato Jason» disse Soraya con amarezza. «Ha tolto dai guai la CIA un sacco di volte, e che cos'ha ottenuto in cambio? Gli danno la caccia come se fosse un cane rabbioso.» «Sai che ti dico? Finalmente ti sei liberata della CIA!» Delia baciò l'amica sui capelli. «E ora di ricominciare da capo.» Soraya la guardò negli occhi. «Davvero? E che cosa mi metto a fare? Questo mondo è tutto ciò che conosco, tutto ciò che voglio. Danziger si è arrabbiato così tanto perché non sono tornata appena me l'ha ordinato che mi ha inserito nella lista nera dei servizi clandestini. E ora per me sarà impossibile lavorare nell'intelligence.» Delia si bloccò un secondo, pensierosa. «Devo fare un paio di cose giù in atrio, una chiamata, e poi ce ne andiamo
a cena da qualche parte. Ho voglia di portarti in un posto speciale. Cosa ne pensi?» «Meglio che stare a casa a rimpinzarmi di gelato davanti alla tv.» Delia scoppiò a ridere. «Così mi piaci.» Agitò un dito in aria e aggiunse: «Non preoccuparti, stasera ci divertiremo così tanto che anche volendo non riuscirai a essere triste» . Soraya le rispose con un sorriso sconsolato. «Posso almeno essere arrabbiata?» «Vedremo.» Bourne si allontanò dalla casa di Suparwita in fretta, senza guardarsi intorno. Pensò che così gli uomini appostati all'esterno avrebbero pensato che aveva un affare urgente e lo avrebbero seguito . Udì i loro passi nella vegetazione. Corse nel sottobosco cercando di farli avvicinare il più possibile. Non era in pericolo, lo sapeva. Lo volevano vivo per sapere tutto quello che c'era da sapere sull'anello. Di sicuro credevano di essere stati discreti, ma nessun segreto può rimanere tale, a Bali. Bourne aveva sentito che avevano raccolto informazioni al villaggio di Manggis. Quando aveva saputo che erano russi, non aveva avuto dubbi che lavorassero per Leonid Arkadin. L'ultima volta che aveva visto il suo nemico, come lui addestrato dalla Treadstone, si trovavano nell'Iran del nord ed era in corso una battaglia campale . Nel mezzo della foresta verde smeraldo, Bourne voltò a destra e si diresse verso un enorme banano, simbolo d'immortalità per tutti i balinesi. Si gettò fra le tante braccia dell'albero, facendosi largo nel labirinto intricato dei rami. Si arrampicò tra il canto degli uccelli e il ronzio degli insetti fino a quando non ebbe una visuale completa sull'intera area. Qua e là, i raggi del sole riuscivano a penetrare nella fitta volta vegetale, dando al terreno il colore del cioccolato . Individuò uno dei russi che si muoveva circospetto nel sottobosco, facendosi largo tra le folte chiome degli alberi. Nella mano sinistra stringeva la canna di un AK-47. L'indice della mano destra era saldo sul grilletto, pronto a esplodere una raffica di proiettili al minimo rumore . Avanzava lentamente verso il banano. Di tanto in tanto alzava lo sguardo per scrutare gli alberi con gli occhi scuri e torvi . Bourne si muoveva silenzioso tra i rami, in cerca della posizione migliore. Aspettò che il russo fosse esattamente sotto di lui e poi si lasciò cadere. Piombò con tutto il suo peso sulle spalle dell'avversario e rotolò rapido sul terreno scaricando l'impatto della caduta. Era già in piedi prima che il russo avesse avuto il tempo di riprendere fiato. Quest'ultimo però lo colse di sorpresa, assestandogli un calcio in pieno sterno . Bourne grugnì. Digrignando i denti, il russo cercò di rimettersi in piedi. Il tempo sembrava essersi fermato. Era come se la foresta millenaria che li circondava stesse trattenendo il respiro. Bourne sferrò un colpo con la mano destra che spezzò le ossa di una spalla lussata del nemico . Il russo gridò di dolore, ma nello stesso istante scagliò il calcio del fucile contro il fianco di Jason. Poi appoggiandosi all'AK-47 riuscì ad alzarsi e si avviò a passi incerti verso Bourne, disteso a terra nell'intrico del sottobosco. Gli puntò il fucile contro, ma Jason gli sferrò una sforbiciata alle ginocchia portandolo al suo livello. Dall'arma partì un colpo che fece cadere una pioggia di foglie, rami e pezzi di legno. Il russo impugnò l'AK-47 cercando di usarlo come un ariete, ma Bourne si era già lanciato in avanti e con un rapido gesto della mano destra ruppe la clavicola del russo, mentre con l'altra gli colpì il naso talmente forte da spappolarglielo. Nel momento in cui quello cadeva a terra esanime, Bourne gli strappò il fucile di mano. Riuscì a vedere il tatuaggio di un serpente attorcigliato intorno a un pugnale. Doveva esserselo fatto in prigione: prova evidente che era un membro della grupperovka . Stava già per allontanarsi, quando sentì una voce gutturale dietro di sé . «Getta l'arma.» L'accento era moscovita . Bourne si voltò piano e vide il secondo inseguitore. Doveva aver udito il rumore dello sparo . «Ho detto: getta l'arma» ringhiò. Anche lui teneva in mano un AK-47, puntato dritto contro il ventre dell'avversario . «Che cosa vuoi?» domandò Jason . «Sai bene cosa voglio» replicò il russo. «Getta a terra quel fucile e dammelo.» «Darti cosa? Dimmi almeno quello che vuoi.» «Non fare il furbo. Appena il fucile del mio amico avrà
toccato terra mi consegnerai l'anello.» Gli rivolse un gesto di impazienza. «Forza, stronzo. Altrimenti ti sparo a una gamba, poi all'altra, e se non funziona nemmeno così... be', sai quanto può essere dolorosa una ferita alla pancia. Ne passa di tempo, prima di morire dissanguati.» «Il tuo amico... Be', mi dispiace proprio per lui» disse Bourne lasciando al contempo la presa dall'AK-47 . Fu semplice istinto. Il russo non potè fare a meno di voltarsi verso il compagno privo di vita. Il movimento del fucile lo indusse a guardare in basso. Intanto Bourne aveva afferrato una liana che lanciò a mo' di lazo intorno al collo dell'uomo, quindi con un abile gesto lo tirò a sé sferrandogli un pugno al volto. Il russo si piegò in due. Jason lasciò la liana, lo colpì con forza alla nuca facendolo crollare e gli fu sopra in un attimo. L'uomo era stordito, annaspava e si dibatteva come un pesce nella rete. Jason lo risvegliò con un paio di potenti schiaffi, poi gli piazzò un ginocchio sullo sterno, caricandoci sopra tutto il suo peso . Il russo lo fissò con gli occhi stralunati. Aveva il viso paonazzo, e un rigagnolo di sangue gli usciva dall'angolo della bocca . «Perché Leonid ti ha mandato?» chiese Bourne in russo. L'uomo sembrò sorpreso. «Chi?» «Non provare a fregarmi.» Jason aumentò la pressione sullo sterno. Il russo rantolò. «Sai bene a chi mi riferisco. Leonid Arkadin.» L'uomo lo fissò per un attimo, in silenzio. Poi, malgrado le circostanze, si mise a ridere. «E questo che pensi?» Le lacrime iniziarono a sgorgare dagli occhi. «Che io lavori per quel pezzo di merda?» Quella risposta era troppo spontanea e inaspettata per essere falsa. E poi perché avrebbe dovuto mentire? Bourne rimase immobile, cercando di studiare meglio la situazione. «Se non è Arkadin» disse in tono lento e preciso, «allora chi ti manda?» «Sono un membro della Kazanskaja.» L'orgoglio che aveva nella voce non poteva trarre in inganno, era sincero anche quello . «Quindi ti ha mandato Dimitrij Maslov.» Aveva incontrato il capo della Kazanskaja a Mosca non molto tempo prima, in una situazione non proprio piacevole . «In un certo senso» rispose il russo. «Sono agli ordini di Vylaceslav Germanovic Oserov.» «Oserov?» Bourne non l'aveva mai sentito nominare. «Chi è?» «Il capo della Kazanskaja. Vylaceslav Germanovic pianifica ogni azione, mentre Maslov se la vede con il governo che non fa che dargli rogne.» Jason rimase a riflettere. «Okay, quindi il tuo capo è Oserov. Perché hai riso quando ho detto che ti mandava Arkadin?» Gli occhi del russo si infiammarono. «Allora non sai proprio niente. Oserov e Arkadin si odiano a morte.» «Perché?» «E una lunga storia. Be', è finito l'interrogatorio?» chiese il russo digrignando i denti insanguinati. «Togliti di mezzo, adesso!» «Ma certo.» Bourne si alzò, afferrò l'AK-47 e lo colpì alla testa con il calcio . *** Capitolo 3 . «Avrei dovuto aspettarmelo» disse Soraya . Delia si voltò verso l'amica con uno scintillio negli occhi. «Aspettarti, cosa?» «Che una giocatrice di poker incallita come te mi avrebbe portato nella più famosa casa da gioco del quartiere.» Delia scoppiò a ridere. Reese Williams intanto fece loro strada lungo un corridoio con le pareti ricoperte di fotografìe e quadri che ritraevano animali della savana, soprattutto elefanti . «Ho sentito molto parlare di questo posto» disse Soraya a Reese, «ma è la prima volta che Delia decide di accompagnarmici. » «Non se ne pentirà» assicurò la Williams. «Glielo garantisco.» Si trovavano nella sua casa in arenaria poco distante da Dupont Circle. Reese era il braccio destro del commissario di polizia Lester Burrows. Gli era indispensabile in molti modi, e soprattutto per i contatti con i gradini più alti della politica del Distretto di Columbia . La donna aprì la porta scorrevole rivelando una biblioteca convertita in casa da gioco con tanto di tavolo verde e sei comode sedie. Non mancava nemmeno la nuvola di fumo dei sigari aromatizzati. L'unico rumore che si sentiva era quello delle fiches e delle carte che venivano distribuite ai quattro uomini seduti al tavolo . Oltre a Burrows, Soraya riconobbe due senatori - uno junior e uno senior - e un faccendiere, poi spalancò gli occhi in preda allo stupore: ma quello era...? «Peter?» lo chiamò incredula. Peter
Marks alzò gli occhi dalle fiches. «Santo cielo! Soraya.» Saltò in piedi e si congedò dalla partita: «Sono fuori per questa mano». Fece il giro del tavolo e andò ad abbracciarla. «Delia, perché non prendi il mio posto?» «Con piacere» accettò, poi si rivolse a Soraya: «Peter viene qui spesso. Gli ho telefonato dall'ufficio. Pensavo ti facesse piacere rivedere un vecchio amico» . Soraya fece una smorfia e la baciò sulla guancia. «Grazie, Delia.» L'amica annuì e andò a sedersi al tavolo verde. Prese una pila di fiches e iniziò a giocare . «Come stai?» chiese Marks . La donna lo scrutò. «Come vuoi che stia?» «Ho saputo quello che ti ha fatto Danziger.» Scosse la testa. «Non ne sono sorpreso.» «Cosa intendi dire?» Marks la condusse dalla parte opposta della stanza e la fece accomodare nell'angolo tranquillo di un salottino deserto, lontano da orecchie indiscrete. Le portefinestre davano su un vialetto ricoperto di foglie. Le pareti della stanza erano rivestite con carta da parati di un caldo color cachi e c'erano fotografie di Reese circondata da membri di varie tribù africane. In alcune appariva accanto a un uomo più anziano, forse suo padre. Davanti al caminetto in marmo erano sistemati due eleganti divani e alcune poltrone ben imbottite ricoperte con tessuto a strisce. Un tavolinetto laccato e una credenza con liquori e bicchieri di cristallo completavano l'arredamento. Nessun funzionario comunale avrebbe potuto permettersi una casa del genere. Soraya dedusse che la famiglia di Reese doveva essere benestante . Si sedettero su un divano comodissimo . «Danziger sta solo cercando una scusa per liberarsi dei membri migliori della direzione della CIA» spiegò Marks. «Vuole piazzare i suoi uomini, o meglio, quelli del segretario Halliday, in posizioni-chiave, ma desidera evitare che sembri il massacro della vecchia guardia, anche se è proprio ciò che ha in mente. Ecco perché me ne sono andato.» «Sono stata per un po' al Cairo e non sapevo che avessi lasciato la CIA. E adesso di cosa ti occupi?» «Sto nel settore privato.» Marks fece una breve pausa, poi riprese: «Ascolta, Soraya, sono certo che sai mantenere un segreto, per cui correrò il rischio di rivelartene uno». Il suo sguardo indugiò sulla porta che aveva chiuso dopo che furono entrati nel salottino . «Allora?» Marks si sporse verso di lei. «Sono entrato nella Treadstone.» Per un momento ci fu soltanto un silenzio carico di stupore, accompagnato dal ticchettio dell'orologio sopra il caminetto che venne poi interrotto dalla risata forzata di Soraya. «Ma dai, la Treadstone è morta e sepolta!» «La vecchia Treadstone, sì» precisò Marks. «Ma ce n'è una nuova, messa in piedi da Frederick Willard.» Quel nome cancellò il sorriso dal volto della Moore. Conosceva quel nome: Willard era stato la talpa del Grande Vecchio all'interno della NSA e, grazie a lui, erano venute alla luce le tecniche di interrogatorio illegali di cui si avvaleva l'ex direttore. Ma da quella volta sembrava essere sparito nel nulla. Per questo la notizia di Peter sembrava verosimile . Scosse la testa turbata. «Non capisco. La Treadstone era un progetto illecito persino per gli standard dell'Agenzia. E stato interrotto per delle buone ragioni. Perché mai ti dovrebbe interessare adesso?» «Semplice. Willard odia Halliday quanto me e quanto te. Ha promesso di usare le risorse della Treadstone per distruggere la credibilità del segretario. Ecco perché voglio che tu entri a farne parte.» Soraya rimase di stucco. «Che cosa? Fare parte della Treadstone?» Socchiuse gli occhi dubbiosa. «Aspetta un attimo. Sapevi che sarei stata licenziata nel momento in cui ho messo piede nel quartier generale, non è così?» «Tutti lo sapevano, Soraya, tranne te.» «Oh santo cielo!» La donna balzò in piedi e iniziò ad andare su e giù per la stanza, sfiorando con le punte delle dita le copertine dei libri e i soprammobili. Peter ebbe il buon senso di non farglielo notare. Alla fine, si fermò nell'angolo opposto della stanza e si voltò verso di lui: «Dammi una sola buona ragione per cui dovrei seguirti. E, per favore, niente banalità» . «Okay, mettendo un attimo da parte il fatto che sei attualmente disoccupata, cosa pensi che accadrà quando Willard avrà raggiunto il suo obiettivo e Halliday non ci sarà più? Quanto pensi che durerà Danziger al comando della CIA?» Si alzò in piedi anche lui. «Non so tu, ma io voglio che la CIA torni a essere com'era prima, quella guidata per anni dal Grande Vecchio,
quella di cui vado fiero.» «Vuoi dire quella che ha usato Jason Bourne ogni volta che gli faceva comodo?» Marks scoppiò a ridere a quell'umorismo cinico. «Non è forse una delle cose che l'intelligence sa fare meglio?» Si avvicinò. «Andiamo, guardami negli occhi e dimmi che non vuoi che la CIA torni com'era.» «Voglio tornare a capo della Typhon.» «Sì, be', immagino che tu non abbia voglia di stare a guardare Danziger mentre distrugge tutte le reti che hai costruito.» «A dire il vero, il futuro della Typhon è l'unica cosa a cui ho pensato da quando ho lasciato il quartier generale oggi pomeriggio.» «Allora seguimi.» «E se Willard fallisce?» «Non succederà» assicurò Marks . «Non c'è niente di certo, nella vita, Peter. Tu dovresti saperlo bene.» «Okay. Se fallisce, falliremo tutti con lui. Ma quanto meno ci avremo provato.» Soraya sospirò, poi si mosse per raggiungere Marks. «Come diavolo ha fatto Willard a trovare i fondi per rimettere in piedi la Treadstone?» Facendo quella domanda capì che il suo inconscio aveva già accettato l'offerta. Sapeva di essere ormai dentro. Immersa in quelle considerazioni, però, per poco non le sfuggì lo sguardo afflitto di Peter. «La risposta non mi piacerà, non è così?» «Non piace nemmeno a me, ma...» si strinse nelle spalle. «Oliver Liss. Questo nome ti dice niente?» «Uno dei fondatori della Black River?» Soraya sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere. «Okay, stai scherzando, vero? Jason e io abbiamo fornito prove a sufficienza per screditare la Black River. Pensavo che tutti e tre i fondatori fossero stati incriminati.» «I soci di Liss, sì, ma lui no. Qualche mese prima del vostro intervento, Liss si è premurato di insabbiare ogni legame con la Black River. Nessuno è riuscito a trovare traccia della sua partecipazione nelle attività illegali.» «Sapeva!» Peter si strinse nelle spalle. «Forse è stato solo fortunato.» Soraya gli lanciò un'occhiataccia carica di significato. «Non credo, e non ci credi nemmeno tu.» Marks annuì . «Avevi indovinato, non mi piace per niente. E il senso etico di Willard dov'è finito?» Marks sospirò. «Halliday gioca sporco, quindi ogni mezzo per distruggerlo diventa lecito.» «Anche un patto con il diavolo?» «Forse ci vuole proprio un diavolo, per scacciarne un altro.» «Potresti anche aver ragione, ma questa strada non è affatto sicura.» «Perché pensi che ti voglia a bordo? Avrò bisogno dell'aiuto di qualcuno, quando sarò nella merda fino al collo. E non mi viene in mente nessuno più adatto di te.» Moira Trevor osservava gli uffici vuoti della Heartland Risk Management LLC, la sua nuova ma già compromessa società. La Lady Hawk era sempre nella fondina sulla coscia. L'aria si era fatta subito pesante, quindi in realtà non le dispiaceva andarsene. Provava solo il rammarico di essere durata meno di un anno. E adesso non c'era altro che polvere. Nemmeno un ricordo da portarsi via . Si voltò per uscire, quando un uomo comparve sulla porta. Indossava un abito elegante, scarpe inglesi tirate a lucido e, malgrado il bel tempo, teneva in mano un ombrello con il manico in legno massiccio . «La signorina Trevor, suppongo» esordì . Lei lo guardò attentamente: capelli ritti come setole d'acciaio,, occhi neri e un accento indefinito. Teneva in mano una busta di carta su cui gli occhi di Moira si erano soffermati sospettosi. «E lei sarebbe?» «Binns» si presentò allungando la mano. «Lionel Binns.» «Lionel? Mi prende in giro? Nessuno si chiama Lionel al giorno d'oggi.» L'uomo rimase impassibile alla battuta. «Posso entrare, signorina Trevor?» «E perché mai vorrebbe entrare?» «Ho un'offerta da farle.» Moira esitò un attimo, poi annuì. L'uomo varcò la soglia con movimenti rapidi e si guardò attorno. «Oh cielo, cos'è successo qui?» «Benvenuto a Desolation Row.» Binns le concesse un sorriso fugace. «Anch'io sono un grande fan di Bob Dylan.» «Cosa posso fare per lei, signor Binns?» Moira si irrigidì quando l'uomo aprì la busta . Tirò fuori due bicchieri di carta e disse: «Ho portato un po' di tè al cardamomo» . Primo indizio. «Che pensiero gentile» lo ringraziò Moira. Tolse il coperchio di plastica per sbirciarne il contenuto: il tè era chiaro, diluito con il latte. Ne bevve un sorso. Era anche molto dolce . «Signorina Trevor, io sono un avvocato. Il mio cliente vuole offrirle un lavoro.» «Bene.» Lanciò uno sguardo a Desolation Row prima di proseguire. «Mi occorre una nuova
occupazione.» «Il mio cliente vuole che lei recuperi il portatile che gli è stato rubato.» La donna si bloccò con il bicchiere a qualche centimetro dalle sue labbra. Gli occhi color caffè scrutarono l'avvocato con aria inquisitrice. I lineamenti duri rivelavano una personalità altrettanto forte . «Deve avermi scambiata per un investigatore privato. Qui a Washington ce ne sono a bizzeffe...» «Il mio cliente vuole lei, signorina Trevor. Solo lei.» Moira si strinse nelle spalle. «E fuori strada, signor Binns, non offro questo tipo di servizi.» «Oh, invece sì.» Il tono non era minaccioso. «Vediamo se sono ben informato. A quanto mi risulta lei era un valido agente della Black River. Otto mesi fa ha fondato la Heartland strappando al suo vecchio capo gli elementi migliori. Non si è fatta intimidire da Noah Perlis, anzi si è impegnata affinché gli affari sporchi saltassero fuori. Perlis è morto, la Black River è stata sciolta e due dei suoi tre fondatori sono stati incriminati. Mi fermi pure se ho detto qualcosa di sbagliato.» Moira rimase in silenzio, stupita . «Visto il cliente» continuò l'avvocato, «lei è la persona più adatta per ritrovare il suo portatile.» «Ah sì? E chi sarebbe il suo cliente?» Binns le fece un gran sorriso. «Le interessa, eh? C'è una bella ricompensa che l'aspetta.» «Non mi interessano i soldi.» «Anche se è senza lavoro?» Binns sollevò la testa. «Comunque, io non stavo parlando di soldi, anche se le sue parcelle verranno pagate tutte in anticipo. No, signorina Trevor, sto parlando di qualcosa che per lei ha molto più valore.» Si fermò a fissare la stanza vuota. «Parlo del motivo che la spinge ad andarsene di qui.» Moira rimase raggelata. Il battito del cuore cominciò ad accelerare. «Non so di cosa stia parlando.» «C'è un traditore all'interno della sua organizzazione» disse Binns senza inflessioni nella voce. «Qualcuno pagato dalla NSA.» Moira lo guardò di traverso. «Mi dica solo chi è il suo cliente, signor Binns.» «Non sono autorizzato a rivelarle la sua identità.» «E immagino che non sia autorizzato nemmeno a dirmi come fa a sapere tutte queste cose sul mio conto.» Binns allargò le braccia . Moira annuì. «Bene, troverò quel maledetto traditore da sola.» Quella risposta fece apparire un sorriso sornione sul volto dell'uomo . «Il mio cliente aveva previsto la sua reazione. Be', ho perso mille dollari.» «Non sarà un problema recuperarli, visto quello che guadagna.» «Quando avrà avuto modo di conoscermi meglio, capirà che non sono quel tipo di persona.» «Mi sembra un po' troppo ottimista» ribatté Moira . L'uomo annuì. «Forse.» Poi, raggiungendo la porta disse: «Se vuole seguirmi...». Visto che Moira non accennava a muoversi, aggiunse: «Solo questa volta. Mi conceda almeno una possibilità. Le ruberò soltanto quindici minuti. Cos'ha da perdere?» . A Moira non venne in mente nessun motivo valido, così si convinse . Chaaya possedeva un attico in uno degli scintillanti residence di Bangalore, separato e protetto ventiquattro ore su ventiquattro dalla giungla urbana. Ma per quanto tentassero di tenere lontana la realtà cittadina, per Arkadin rimaneva solo una questione di prospettive . Chaaya gli aprì la porta come aveva sempre fatto e come sempre faceva a qualsiasi ora del giorno o della notte. Non aveva scelta, d'altronde. La sua famiglia era benestante e viveva nel lusso e nella ricchezza, ma questi agi sarebbero svaniti in un attimo se si fosse scoperto il suo segreto. Era un'indù innamorata di un musulmano: un affronto gravissimo agli occhi del padre e dei fratelli. Benché Arkadin non avesse mai incontrato il suo amante, aveva fatto in modo che quel segreto rimanesse nascosto. Chaaya gli doveva tutto e faceva qualsiasi cosa lui le dicesse . Si mosse nel suo attico con la grazia di un'attrice di Bollywood. Intrigante, la carnagione scura e con solo una lunga vestaglia trasparente, si avvicinò alla porta, gli occhi ancora assonnati. Non era molto alta, ma lo sembrava, grazie al suo portamento. Quando entrava in una stanza si giravano tutti a guardarla, comprese le donne. Ad Arkadin non interessava piacerle. Lei lo temeva, e questo bastava . C'era più luce, lassù, si aveva come l'impressione che fosse già giorno. Ma di giochi di luce ce n'erano in abbondanza in quell'appartamento, e rispecchiavano le loro esistenze .
Chaaya, notando la gamba insanguinata, fece subito accomodare Arkadin in camera da letto, piena di specchi e marmo venato d'oro e rosa. Mentre lui si strappava i pantaloni, la donna fece scorrere l'acqua calda. Suturò la ferita con tanta maestria che Arkadin gli chiese se lo avesse già fatto altre volte . «Una volta, tanto tempo fa» rispose lei enigmatica . Ecco perché era andato proprio lì in un momento in cui potersi fidare di qualcuno era vitale. I due vedevano l'una nell'altro qualcosa di loro stessi, qualcosa di oscuro e lacerato. Si sentivano stranieri in quel mondo. Preferivano rifugiarsi ai margini, nascondersi in quelle ombre che terrorizzavano tutti gli altri. Erano lontani, estranei forse anche tra loro, ma la situazione li rendeva ancora complici . Mentre lei si prendeva cura della ferita, Arkadin pensava alla prossima mossa. Doveva lasciare l'India, questo era sicuro. In quale altro posto quello stronzo di Oserov poteva andarlo a cercare? A Campione d'Italia, in Svizzera, dove la Fratellanza Orientale aveva ancora una sede? O forse nel suo quartier generale di Monaco? La lista di Oserov doveva per forza essere corta. Persino Maslov non mandava i suoi uomini in giro per il mondo come pedine nel gioco dell'oca. Non era tipo da sciupare le risorse, ecco perché era ancora a capo dell'unica famiglia che manteneva il suo potere in un periodo in cui il Cremlino assestava duri colpi alle organizzazioni criminali . Doveva trovare un rifugio sicuro, un rifugio che né Oserov né Maslov avrebbero mai individuato. Non avrebbe detto nulla agli altri membri dell'organizzazione, almeno fino a quando non avesse scoperto come aveva fatto Oserov a sapere che si trovava a Bangalore . Prima di partire, però, doveva recuperare il computer di Moreno dal suo nascondiglio . Quando Chaaya finì le medicazioni, i due si spostarono in soggiorno. «Perché non apri il regalo che ti ho portato?» la esortò Arkadin . La ragazza alzò lo sguardo. Un piccolo sorriso le arricciò gli angoli della bocca. «Vuoi dire che posso finalmente scartarlo? Morivo dalla curiosità.» «Portalo qui.» Chaaya corse fuori dalla stanza per tornare subito dopo con una grossa scatola argentata impacchettata con un nastro viola. Si mise seduta di fronte a lui, carica di aspettativa, la scatola stretta tra le gambe. «Posso aprirla, ora?» Arkadin fissava la scatola. «L'hai già aperta.» Un lampo di terrore le attraversò il volto, rapido come il vento. Poi si sforzò di abbozzare un sorriso: «Oh, Leonid, non sono riuscita a trattenermi. E un abito così bello. Non ho mai visto una seta del genere. Deve esserti costato una fortuna» . Arkadin le tese una mano. «La scatola.» «Leonid...» Tentò di giustificarsi, ma poi eseguì l'ordine. «Non l'ho mai tirato fuori, l'ho solo toccato.» Arkadin slegò il nodo che la ragazza aveva rifatto con tanta cura, poi tolse il coperchio . «Ci tengo troppo. Avrei ucciso chiunque avesse provato ad avvicinarsi.» A dire il vero Leonid aveva sperato che si comportasse proprio in quel modo. Quando le aveva ordinato di non aprirla aveva scorto nei suoi occhi un lampo di cupidigia, e sapeva che non avrebbe avuto la forza di resistere. Ma sapeva anche che avrebbe protetto quella scatola con la sua stessa vita. Chaaya era fatta così . Il vestito, che in effetti era molto costoso, era piegato in tre. Arkadin estrasse il portatile che aveva nascosto tra quelle pieghe, poi le consegnò l'abito . Impegnato a svitare la parte inferiore del computer in modo da poter rimettere l'hard disk al suo posto, non fece neppure caso alle grida di felicità e ai mille grazie della ragazza . Il direttore della CIA, Errol Danziger, trascorreva spesso la pausa pranzo incollato alla sua scrivania, concentrato sui rapporti dei capi dei vari direttorati. Li confrontava con gli omologhi che richiedeva puntualmente alla NSA. Due volte alla settimana, però, usciva dalle mura del quartier generale per recarsi sempre nello stesso ristorante: l'Occidental sulla Pennsylvania Avenue. E pranzava sempre con la stessa persona: il segretario della Difesa Bud Halliday. Danziger sapeva bene come era stato ucciso il suo predecessore e per questo arrivava sempre a bordo di una GMC Yukon Denali accompagnato dal tenente R. Simmons Reade, due guardie
del corpo e un segretario. Non rimaneva mai da solo, lo metteva a disagio. Era un retaggio della sua infanzia, segnata dalle cicatrici lasciate da abbandoni e liti familiari . Soraya Moore lo stava aspettando. Era riuscita a farsi dare il programma giornaliero del DCI dal vecchio direttore delle Operazioni, che temporaneamente dirigeva la Typhon. Seduta a un tavolo del Café du Pare, molto vicino all'Occidental, vide arrivare la Denali alle 13:00 in punto. Si alzò e si avvicinò il più possibile a Danziger prima ancora che il gruppo salisse sul marciapiede. Una delle due guardie del corpo, un energumeno con un torace più largo dei tavoli del ristorante, le si parò davanti guardandola dall'alto in basso . «Direttore Danziger! Sono Soraya Moore» urlò . Anche la seconda guardia era ormai pronta a intervenire, ma Danziger fece segno di lasciarla passare. Era un uomo basso e tarchiato, con le spalle all'ingiù. Aveva fatto affari perché si era dedicato alla cultura islamica. Quegli studi tuttavia non avevano fatto altro che aumentare la sua antipatia per una religione, o meglio una cultura, che considerava retrograda, anzi medievale . Era convinto che nonostante le buone intenzioni gli islamici non sarebbero mai riusciti a conciliare il loro credo religioso con il progresso e la modernità. Lo chiamavano l'Arabo per il suo desiderio di annientare tutti i terroristi e tutti quei musulmani così folli da mettersi sulla sua strada . Avanzò di un passo tra le due guardie del corpo e disse: «Sei l'egiziana che ha preferito restarsene al Cairo malgrado fosse stata richiamata?» . «Avevo una missione da portare a termine sul campo, dove i proiettili e le bombe sono veri e non realtà virtuale al computer» replicò Soraya. «E poi, per sua informazione, sono americana, come lei.» «Io e lei non abbiamo niente in comune, signorina Moore. Io do gli ordini e chi non li rispetta non è degno della mia fiducia, quindi viene licenziato.» «Non mi ha nemmeno chiamata a rapporto.» «Se lo metta bene in testa, signorina Moore: lei non lavora più per la CIA.» Danziger si era sporto in avanti e aveva assunto la posizione di un pugile pronto alla lotta. «Non mi interessa chiamare a rapporto un'egiziana. Solo Dio sa chi beneficia della sua lealtà.» Lo sguardo si fece malizioso. «O forse lo so. Amun Chalthoum, non è così?» Amun Chalthoum era a capo di al-Mukhabarat, i servizi segreti egiziani con cui Soraya aveva collaborato al Cairo. Durante quella missione, lei e Amun si erano innamorati. Rimase esterrefatta, perfino stordita, nell'apprendere che Danziger era in possesso di informazioni così personali. Come diavolo aveva fatto a saperlo? «Siete uguali» riprese lui. «Fraternizzate - è la parola giusta,vero? - con il nemico. Niente di più lontano da quello che mi aspetto dai miei uomini.» «Amun Chalthoum non è il nemico.» «Be', di certo non lo è per lei.» Fece un passo indietro, chiaro segnale per le guardie del corpo, che serrarono i ranghi negandole quella vicinanza che si era guadagnata. «Le auguro buona fortuna per il prossimo impiego, signorina Moore.» R. Simmons Reade sorrise compiaciuto prima di trotterellare dietro al direttore della CIA. Poi Danziger sparì all'interno dell'Occidental. La gente intorno fissava Soraya. Lei si portò una mano al viso, scoprendo di avere le guance in fiamme. Aveva voluto quel processo a tutti i costi, ma purtroppo la giuria stava tutta dalla parte di Danziger, di cui, si rese conto, aveva sottovalutato sia l'intelligenza sia la portata delle informazioni che possedeva. Sbagliava quando pensava che il segretario Halliday avesse convinto il presidente ad assumere un fantoccio facile da manovrare . Che stupida! Mentre si allontanava a passi lenti dalla scena del disastro si ripromise di non commettere mai più un errore di valutazione del genere . Chiunque fosse stato a chiamarlo, aveva ragione almeno su una cosa: il magazzino indicatogli alla periferia di Mosca sembrava uguale a tutti gli altri. Boris Karpov, nascosto nell'ombra davanti all'ingresso, controllò l'indirizzo che aveva annotato durante la conversazione con l'uomo che aveva detto di essere Leonid Arkadin. Era nel posto giusto. Si voltò per dare il segnale ai suoi uomini, tutti armati fino ai denti, dotati di giubbotti antiproiettile ed elmetti antisommossa .
Karpov aveva fiuto per le trappole e questa la si poteva annusare a chilometri di distanza. Non si sarebbe mai presentato solo. Non sarebbe di certo caduto nella rete che gli tendeva Dimitrij Maslov . Perché era lì, allora?, si chiese per la centesima volta. Perché c'era la remota possibilità che quell'uomo fosse davvero Leonid Danilovic Arkadin. La FSB-2, e Karpov soprattutto, avevano indagato su Maslov e la Kazanskaja per anni, senza alcun risultato . Aveva ricevuto un mandato: consegnare Dimitrij Maslov e la grupperovka alla giustizia. Il mandato veniva dal suo diretto superiore, Melor Bukin, l'uomo che l'aveva tentato a lasciare la FSB con una promozione a colonnello e un comando tutto suo. Karpov aveva assistito all'ascesa di Viktor Cerkesov ed era determinato a fare altrettanto. Cerkesov aveva trasformato la FSB-2 da un'agenzia antidroga a una forza di sicurezza nazionale in grado di tenere testa addirittura alla FSB. Cerkesov è un amico d'infanzia di Bukin, e in Russia le cose funzionano così. Bukin era diventato il suo mentore, e lo aveva fatto salire ai piani più alti della piramide del potere . Parlava al telefono quando Karpov gli aveva comunicato dove stava andando e perché. Lo aveva ascoltato di sfuggita, ma gli aveva dato il suo benestare . Karpov aveva dispiegato un'intera squadra d'assalto intorno al perimetro dell'obiettivo e stava guidando i suoi uomini in un attacco frontale del magazzino. Diede ordine a uno di loro di sparare al lucchetto della porta d'accesso, poi li fece entrare. Con un gesto segnalò ai soldati di occupare tutte le corsie tra le casse impilate. Erano passate diverse ore dalla fine della giornata lavorativa, quindi non c'erano operai in giro . Dopo aver constatato che tutti gli uomini erano dentro, Karpov li condusse fino alla porta della toilette indicata dalla voce al telefono. Sulla sinistra e di fronte ai bagni c'erano gli orinatoi. I suoi uomini spalancarono le porte a una a una, ma non trovarono nessuno . Karpov si fermò davanti all'ultimo bagno, poi entrò di corsa. Come gli era stato detto, non c'erano sanitari, solo un'altra porta nel muro in fondo. Con una strana sensazione allo stomaco, Karpov distrusse il lucchetto con un colpo del suo AK-47 e si ritrovò davanti a una scaletta in ferro che conduceva in un ufficio rialzato . Era vuoto. I telefoni erano stati staccati dalle prese sul muro. Le cartelline rovesciate e i cassetti aperti delle scrivanie sembravano prendersi gioco di lui, con la loro evidente inutilità. Tracce lampanti della fretta con cui era stato portato via tutto. Il colonnello, girando su se stesso, passò in rassegna tutta la stanza. Niente. Non c'era niente . Si mise in contatto con gli uomini appostati all'esterno. Gli confermarono quello che la strana sensazione allo stomaco gli aveva già annunciato: nessuno era entrato o uscito dal magazzino da quando erano arrivati . «Cazzo! » Karpov si sedette su una scrivania. L'autore della telefonata si era dimostrato credibile. Gli aveva detto di presentarsi da solo, di non dire a nessuno dov'era diretto, altrimenti gli uomini di Maslov avrebbero potuto essere avvisati. Si trattava senza dubbio di Leonid Danilovic Arkadin . La Rolls-Royce era enorme. Apparteneva di certo all'era giurassica delle automobili. Sembrava un treno argentato nel parcheggio accanto al marciapiede fuori dall'ufficio. Precedendo la giovane donna di un passo, Lionel aprì lo sportello posteriore e Moira si abbassò per salire. Si sistemò sul sedile in morbida pelle, mentre l'avvocato chiudeva la portiera dietro di lei . Quando i suoi occhi si furono abituati alla leggera oscurità, capì di essere seduta accanto a un uomo corpulento dalla pelle color noce e gli occhi provati dal vento, scuri come il fondo di un pozzo. I capelli neri e folti erano mossi; la barba lunga e spessa come quella di Nabucodònosor. Ora il tè al cardamomo aveva un senso. Doveva essere arabo. Guardando meglio si accorse che, nonostante l'abito che indossava fosse senza dubbio di taglio occidentale, lo avvolgeva come la veste di un berbero . «Grazie per aver accettato il mio invito» le disse con una voce sicura e tonante. «E per avermi concesso il beneficio del dubbio.» Parlava con un forte accento gutturale, ma l'inglese era impeccabile .
Un attimo dopo, l'autista, nascosto dietro un pannello di legno, mise in moto la Rolls-Royce dirigendosi a sud . «Lei è il cliente del signor Binns, giusto?» «Sì. Mi chiamo Jalal Essai. Vengo dal Marocco.» Berbero. «E le hanno rubato il portatile.» «Esatto.» Moira sedeva con la spalla destra appoggiata alla portiera. Di colpo si sentì raggelare. Lo spazio le sembrava angusto e asfissiante. Era come se la presenza dell'uomo fosse fuoriuscita dal suo corpo e le togliesse spazio vitale, facendosi largo all'interno dell'abitacolo. Cercò di prendere fiato, ma riuscì soltanto a tremare. L'aria sembrava ondulata, come quando si scorge un miraggio nel deserto. «Perché ha scelto me? Ancora non capisco.» «SignorinaTrevor, lei ha di sicuro delle... diciamo così... abilità uniche, che credo si riveleranno fondamentali per ritrovare il mio portatile.» «E queste abilità sarebbero...» «Ha sconfitto sia la Black River sia la NSA. Crede che riuscirei a trovare un investigatore privato con delle credenziali migliori?» Si voltò verso di lei sorridendo e rivelando grandi denti bianchi che risaltavano su quel viso scuro dagli zigomi larghi. «Non c'è bisogno che mi risponda. Non era una domanda.» «Okay, allora gliela faccio io una domanda: sono coinvolte delle agenzie clandestine?» Essai sembrò riflettere per un momento, anche se Moira ebbe l'impressione che sapesse molto bene quale fosse la risposta . «È possibile» disse infine. «Molto probabile, anzi.» Moira incrociò le braccia sul petto come a volersi proteggere dal modo in cui la logica di quell'uomo intaccava la sua risolutezza. Non aveva mai provato niente di simile all'aura di energia nera che lui emanava. Le pareva di stare seduta vicino a un collisore di particelle. Scosse la testa con enfasi. «Mi scusi.» Essai annuì. Sembrava che nulla di quello che aveva detto o fatto lo avesse sorpreso. «Questa è per lei.» Le passò una cartellina di manila. Moira la guardò con sospetto; si sentiva come Eva che accetta la mela della conoscenza. Tuttavia prese la cartellina, come se qualcun altro stesse guidando le sue mani . «Non è una trappola. Stia tranquilla» la rassicurò . Moira esitò un secondo, poi l'aprì. Dentro c'era una foto scattata da una telecamera di sorveglianza: uno degli agenti migliori che aveva rubato alla Black River in compagnia del direttore delle Operazioni sul campo della NSA . «Tim Upton? È lui la talpa? Non è una foto ritoccata, vero?» Essai non rispose. Moira si concentrò sul foglio che riportava luoghi e ore degli incontri clandestini tra Upton e i membri della NSA. Trasse un profondo sospiro, tornò a sedersi appoggiando la schiena al sedile e richiuse la cartellina . «E molto generoso da parte sua.» Essai fece spallucce, come a voler dire che non era niente di importante. La Rolls-Royce rallentò e accostò a un marciapiede . «Arrivederci, signorina Trevor.» Moira era già arrivata a toccare la maniglia, quando si voltò verso l'uomo e gli chiese: «Cosa contiene di tanto importante quel computer?» . Essai le rispose con un sorriso accecante . *** Capitolo 4 . Bourne arrivò a Londra in un tetro mattino battuto dal vento. La pioggia e la nebbia turbinavano sopra il Tamigi oscurando il Big Ben. Il cielo plumbeo incombeva sulla parte moderna della città. L'aria puzzava di benzina e polverino di carbone, ma forse era solo pulviscolo industriale trasportato dal vento . Suparwita gli aveva dato l'indirizzo dell'appartamento di Noah Perlis. Era l'unico indizio che aveva di quella vita ormai dimenticata. Seduto sul taxi che aveva fermato dopo essere atterrato a Heathrow, Bourne guardava fuori dal finestrino senza riuscire a vedere niente. C'erano momenti in cui si dimenticava di aver avuto una vita prima dell'amnesia, ma poi qualcosa riaffiorava comunque dalla superficie e, come uno schiaffo in faccia, gli ricordava quello che aveva perso per sempre . In quegli istanti si sentiva un uomo a metà che condivideva la sua vita con un'ombra che, forse, non avrebbe mai visto né sentito .
Eppure era lì, una parte di lui che a volte riusciva a sfiorare. Una situazione troppo frustrante. Flash nella zona più remota della sua mente . Gli era successo a Bali, qualche settimana prima. Era salito al primo tempio del complesso di Pura Lempuyang in cerca di Suparwita. Si trovava nel punto preciso visto nel sogno quando aveva poi scoperto che era il luogo in cui si era dato appuntamento con Holly Marie Moreau. Un ricòrdo era riemerso. Gli era tornata alla mente l'immagine in cui lui la guardava impotente cadere lungo la scalinata, troppo distante per aiutarla. Come aveva in seguito scoperto, era stato Noah a spingerla giù . L'abitazione di Perlis si trovava a Belgravia, un quartiere di Londra tra Mayfair e Knightsbridge. La casa in stile georgiano era stata divisa in vari appartamenti e l'edificio di un bianco candido aveva un grande balcone che si affacciava su una piazza fiancheggiata di alberi. Belgravia era ancora disseminata di villette a schiera, ambasciate e hotel di lusso. Insomma, un quartiere signorile . La serratura del portone non gli diede alcun problema, così come quella dell'appartamento di Noah al secondo piano. Entrò in un salotto arredato secondo le ultime tendenze, forse non proprio da Perlis in persona, che di sicuro non aveva tempo per simili dettagli. Nonostante il sole, l'aria era fredda, cupa, carica di abbandono e del vago dolore delle cose scomparse o dimenticate. Una leggera vibrazione risvegliò i sensi di Bourne, come se fosse rimasta in quel posto dall'ultima volta che Perlis l'aveva abitato. Un refolo di vento passava attraverso il telaio della vecchia finestra e la polvere si agitava nei fasci di luce che filtravano obliqui . Anche se si intuiva facilmente che era la casa di un uomo - un divano in pelle color whisky, legno massello ovunque, pareti dipinte in toni scuri - Bourne non riuscì a fare a meno di collegare alcuni particolari a una figura femminile: un candelabro argentato con candele color avorio consumate per metà, delicate lampade marocchine, tovaglie messicane colorate come le piume degli uccelli tropicali. Ma fu il bagno, tirato a lucido e con le piastrelle in stile retro rosa e nere, a rivelare la presenza di una donna. Si diresse verso lo sciacquone e tolse il coperchio per vedere se Perlis avesse lasciato qualcosa nel più classico dei nascondigli . Non trovò nulla, quindi andò in camera da letto, la stanza che più gli interessava. Chiunque, persino un professionista fissato con la sicurezza come Perlis, nasconde in camera gli oggetti più intimi, quelle piccole cose che svelano il carattere di una persona . Iniziò dalla cabina armadio. Le file dei pantaloni e delle giacche nere o blu scuro seguivano la moda di quell'anno. Niente abiti interi, però. Doveva avere qualcuno che andasse a fare shopping per lui. Spostando i vestiti, Bourne prese a tastare la parete posteriore in cerca di zone vuote, invano. Fece lo stesso con quelle laterali, poi alzò le scarpe a una a una in cerca di un nascondiglio nel pavimento. Passò alla cassettiera, setacciando ovunque. In fondo all'ultimo cassetto trovò una Glock. La prese e si accorse che era carica e ben oliata. Se la mise in tasca . Infine si avvicinò al letto. Scostò da un lato il materasso per controllare se sotto ci fossero documenti, foto, chiavette USB o uno scompartimento segreto che avrebbe potuto contenerli. È un posto infantile dove nascondere le proprie cose, motivo per cui molta gente seguita a farlo. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Sganciò la rete e la mise sottosopra, ma ancora una volta non trovò niente. Rimise a posto il letto e si sedette sul bordo, osservando le sette foto sopra il comò. Erano allineate in modo tale che, con tutta probabilità, rappresentavano l'ultima cosa che Perlis voleva vedere prima di andare a dormire e la prima al risveglio . Noah compariva in tutte tranne una. Lui e Holly Marie Moreau si trovavano a Hyde Park. Si erano fermati davanti a uno dei tanti pulpiti affollati e Noah doveva aver chiesto a qualcuno di scattare la foto. In un'altra, fatta quasi di sicuro con l'autoscatto, stavano navigando su un fiume, forse il Tamigi. Holly rideva, magari per qualcosa che aveva detto Noah. Sembravano complici, il che turbò non poco Bourne, conoscendo l'epilogo della loro storia . La terza foto ritraeva Noah spalla a spalla con un bel ragazzo in abito elegante. Aveva la pelle scura e i tratti esotici. Qualcosa in quel viso attirava l'attenzione di Bourne, come se l'avesse conosciuto nel corso di quella vita ormai dimenticata. Un'altra foto li ritraeva giovani e
spensierati in un locale notturno di Londra. Sembrava esserci un tavolo da gioco dietro di loro. Alcuni scommettitori ci si appoggiavano in preda alla tensione. Due donne erano seminascoste dagli uomini e un po' sfocate. Bourne analizzò meglio la foto e riconobbe Holly... e Tracy. Fu una specie di shock, per lui. L'aveva conosciuta un mese prima su un aereo diretto a Siviglia, si erano alleati e avevano viaggiato insieme fino a Khartoum, dov'era morta tra le sue braccia. Solo in seguito aveva scoperto che lavorava per Arkadin . E così Tracy, Perlis, Holly e il giovane si conoscevano. Quale scherzo del destino li aveva fatti incontrare? Poi c'era un primo piano del ragazzo, che fissava l'obiettivo con uno sguardo sospettoso e al contempo divertito. Esibiva il classico sorriso che solo i rampolli delle famiglie più ricche sanno usare sia come arma sia come esca. La settima e ultima foto li ritraeva tutti e tre insieme, Perlis, il giovane e Holly Marie Moreau. Dov'era Tracy? Magari si trovava dietro l'obiettivo, o forse era in giro per il mondo in uno dei suoi numerosi viaggi. I volti erano illuminati dalla luce di alcune candeline sopra una torta ben decorata. Era il compleanno di Holly. Stava tra i due uomini, leggermente chinata in avanti. Con una mano si tirava indietro i lunghi capelli. Aveva gonfiato le guance, pronta a spegnere le candeline. Lo sguardo si perdeva lontano, come se pensasse al desiderio da esprimere. Sembrava molto giovane e del tutto innocente . Bourne tornò a osservare la disposizione ancora una volta, poi si alzò e rimosse le foto dalle cornici. Dietro quella del compleanno si nascondeva una copia del passaporto di Perlis. Lo infilò in tasca e rimise tutto in ordine, continuando a osservare le fotografie. Com'era Holly? Come aveva conosciuto Noah? Erano stati amanti, amici o Perlis l'aveva soltanto usata? O era stata lei a usare lui? Bourne si passò una mano tra i capelli, massaggiandosi la testa come a voler stimolare le meningi. Per un momento venne assalito dal panico. Ebbe la sensazione di trovarsi su una zattera alla deriva in un mare coperto dalla nebbia. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare i momenti trascorsi con lei. Se non fosse stato per il sogno ricorrente della sua morte, non l'avrebbe mai ricordata. Quando sarebbe finito quell'incubo? Le persone tornavano a riemergere dalla caligine del suo passato come fantasmi incagliati negli angoli della mente. Di solito era in grado di tenere le emozioni sotto controllo, ma conosceva il motivo per cui adesso era diverso: poteva ancora sentire la vita abbandonare il corpo di Tracy stretta tra le sue braccia. Aveva tenuto in quel modo anche Holly, ai piedi delle scalinate del tempio di Bali? Tornò a sedersi sul letto, le spalle in avanti e lo sguardo perso nei ricordi. Tutte quelle persone a lui care... morte... per colpa sua? Perché gli avevano voluto bene? Aveva amato Marie, di questo era certo. Ma Tracy? Ci si può innamorare di qualcuno in pochi giorni? Persino un mese sembrava un arco di tempo troppo breve. Eppure l'immagine della ragazza era ben salda nella sua mente, vivace e triste allo stesso tempo. Avrebbe voluto toccarla e parlarci, ma non poteva. Si sfregò gli occhi. E poi c'era la sofferenza di sapere che Holly aveva significato qualcosa per lui, che aveva camminato al suo fianco, magari sorridendo come aveva fatto con Noah. Ma non lo avrebbe mai saputo. L'unica cosa che si ricordava era il suo corpo che precipitava lungo gli scalini del tempio, giù, sempre più giù... Adesso si trovava di nuovo solo, perché non voleva che a Moira toccasse lo stesso destino di tutti quelli che avevano provato ad avvicinarlo. Solo per sempre.. . Il corpo di Tracy aveva tremato nel suo abbraccio . «Jason, non voglio restare sola.» «Non sei sola, Tracy.» Si ricordò di averle sfiorato la fronte con le labbra. «Sono qui con te.» «Lo so ed è bello. Ti sento vicino.» Ed esalò l'ultimo respiro . Le tende dell'appartamento di Noah si mossero come dotate di vita propria. A Bourne sfuggì una risata isterica. Anche Holly gli aveva sussurrato qualcosa prima di morire? «È nell'ora più buia che i nostri segreti ci divorano vivi.» Lei non poteva sapere che ogni ora persa nella sua amnesia era l'ora più buia. I segreti che lo divoravano erano sconosciuti persino a lui. Gli mancava Tracy. Sentiva il dolore di quella mancanza, acuto come la ferita lasciata da un pugnale tra le costole. Le tende si mossero ancora, spinte dal vento che attraversava il telaio. Fu come se Tracy fosse di nuovo lì con lui, a fissarlo con quegli occhioni azzurri e il sorriso
luminoso che gli ricordava tanto quello di Suparwita. Nel vento sentì la sua risata, il dorso della mano che gli sfiorava la guancia. Fu scosso da un brivido . L'aveva conosciuta solo per poco tempo, ma tutta una vita era stata compressa in quei giorni. Avevano combattuto la stessa battaglia in cui l'importante era sopravvivere, in cui ogni istante portava con sé il germe della morte, in cui i compagni di avventura diventavano amici per sempre . Tracy aveva toccato un angolo remoto del suo essere inaccessibile ma vulnerabile. Si era fatta largo dentro di lui, riscaldandolo, e lì era rimasta, viva e nitida persino dopo la morte . Stando così vicino a lei tanto da sentirne la voce, si ricordò una cosa che gli aveva detto la notte prima di essere uccisa. « Vivo a Londra, a Belgravia. Dovresti vedere il mio appartamento. E minuscolo, ma è mio e mi piace. Nel vicolo sul retro c'è un pesco che fa dei fiori bellissimi; in primavera le rondini vengono lì a fare il nido e le cicale mi fanno la serenata ogni sera.» Trattenne il respiro. Era una coincidenza che sia Tracy sia Noah vivessero a Belgravia? Bourne non credeva nelle coincidenze, soprattutto quando riguardavano Tracy, Holly, Perlis, gli Herrera, Nikolaj Evsen e Leonid Arkadin. Perlis ed Evsen erano morti, così come Tracy e Holly, e solo Dio sapeva dove si nascondeva Arkadin. Rimanevano gli Herrera. Forse erano loro che tenevano insieme le fila di tutto . Doveva controllare ancora la foto del giovane sconosciuto dal sorriso beffardo. Aveva già visto quel volto, prima d'allora, ma dove? Gli era familiare in un modo ossessivo, ma gli sembrava cambiato, come se lo avesse conosciuto quand'era più giovane... o forse addirittura più vecchio! Preso dalla frenesia, tolse il cartone dietro la foto, scoprendo una piccola chiave. La soppesò tenendola sul palmo della mano. Le dimensioni sembravano suggerire l'armadietto di un aeroporto, di una stazione, o... c'era una targhetta attaccata con un cordino. Riportava una serie di cifre scritte a penna. Una cassetta di sicurezza. Si rigirò in mano la chiave. Trovò un logo con due lettere che si intrecciavano: AB . Gli indizi portavano tutti in una direzione. Quell'uomo era Diego Herrera, figlio ed erede di Don Fernando Herrera che era stato in affari con Evsen, il trafficante d'armi che lui aveva ucciso un mese prima. L'attività di copertura di Don Herrera era la Aguardiente Bancorp: AB. E il figlio gestiva la filiale di Londra . Noah Perlis era amico di Diego, ed entrambi conoscevano Holly. Bourne prese in mano la foto che li ritraeva tutti e tre nel giorno del compleanno di lei. Scrutò quei visi a uno a uno e vi trovò lo stesso identico sguardo complice. Perlis era stato amico di Holly e l'aveva uccisa. Quello sguardo amico... e poi l'omicidio . La verità lo colpì come un treno in corsa: lei era soltanto un piccolo pezzo della sua costellazione. Suparwita gli aveva detto che Holly aveva ricevuto l'anello da suo padre, Perlis l'aveva uccisa per prenderselo, e ora era nelle sue mani. Che significato aveva l'iscrizione? La foto di loro tre sembrava volerlo deridere. Cosa li univa? Un triangolo amoroso? Un'attrazione fisica poi finita, oppure Perlis le era diventato amico per un motivo particolare? E Tracy, in che modo c'entrava con loro? Sentiva che qualcosa gli sfuggiva, qualcosa di intimo e ripugnante allo stesso tempo. Di sicuro per scoprire il segreto dell'anello era fondamentale capire la natura di quel legame . L'uomo conosciuto alla CIA con il nome di Coven era arrivato a Bali giusto in tempo per risalire su un aereo e seguire Bourne a Londra. Era seduto su un'auto presa a noleggio con gli occhi incollati a un binocolo, intento a scrutare la finestra dell'appartamento di Noah Perlis. Le tende si mossero di nuovo, e lui cercò di capire chi ci fosse all'interno. Teneva sulle gambe il PDF del fascicolo su Perlis che aveva richiesto. Ormai conosceva tutto ciò che la CIA sapeva sul suo conto. Non molto, quindi, ma abbastanza per chiedersi come mai Bourne si stesse occupando di lui. La sua missione originale consisteva nel mettere fuori gioco Jason e consegnarlo all'Agenzia, ma dopo che aveva richiesto il fascicolo su Perlis l'obiettivo era cambiato. Danziger aveva iniziato a fargli un sacco di domande cercando di capire come mai si interessasse a lui. Coven di solito non ficcava il naso in quelle cose, cercava di rimanerne fuori.
Faceva il lavoro sporco nel modo più rapido ed efficiente possibile, e poi spariva dalla circolazione. Ma stavolta era diverso. Non sapeva ancora perché o in che modo, ma era diverso. Aveva cominciato a insospettirsi quando Danziger aveva assunto il controllo diretto dell'operazione. Poi il DCI aveva confermato i suoi dubbi modificando la missione: ora doveva trovare il legame tra Bourne e Perlis prima di riconsegnare quel farabutto alla CIA . Era un mezzogiorno buio. Le nuvole basse scaricarono le prime gocce, poi la pioggia iniziò a cadere a scrosci. Rigava i marciapiedi, correva lungo le grondaie, sferzava il tettuccio e il parabrezza, privando il mondo dei suoi colori . Coven si mostrò scettico di fronte al cambio della guardia per il ruolo di direttore della CIA, tuttavia il lavoro sporco era sempre lavoro sporco: non credeva che un cambio del genere nella lontana Washington lo avrebbe compromesso, ma questo era prima che Danziger gli impartisse i nuovi ordini, che riteneva non professionali e destinati al fallimento . Sforzandosi di seguire Bourne tra le gocce di pioggia, si ritrovò a chiedersi quale fosse il vero piano di Danziger. Nessun DCI ne aveva mai avuto uno, ma quell'uomo era diverso. Non veniva dal basso e non godeva della fiducia di quelli che come Coven rischiavano la vita sul campo in ogni momento. L'idea che quell'intruso potesse disporre di lui per raggiungere i suoi scopi lo mandava in bestia. Così, nel momento in cui Bourne lasciò l'edificio, Coven decise di portare a termine quell'incarico a modo suo, mandando all'aria i piani di Danziger. Se Jason aveva qualcosa che il DCI desiderava così tanto, Coven se lo sarebbe preso e tenuto per sé . «In quel computer c'è la storia di tutta la mia famiglia» spiegò Jalal Essai . «Non credo sia il motivo che abbia spinto la Black River o la NSA a sottrarglielo» ragionò Moira ad alta voce . «No, certo che no.» Essai sospirò appoggiandosi allo schienale della sedia. Conversavano a un tavolo d'angolo sulla terrazza del ristorante del Caravanserai, un piccolo hotel esclusivo di proprietà dell'uomo. Tre lati dell'edificio, con mattoncini a vista, erano ricoperti d'edera. Una lunga fila di portefinestre che conducevano nel ristorante occupava la quarta parete . Davanti a loro c'erano due tazze di tè alla menta, ma Moira prestava molta più attenzione al suo ospite. Si sentiva più rilassata, ora, sia perché stava per accettare la proposta, sia perché si trovavano in un ambiente che poteva controllare. Se all'interno del ristorante la maggior parte dei tavoli era occupata, là fuori c'erano soltanto loro due. Una schiera di camerieri si teneva pronta a soddisfare qualsiasi capriccio del loro capo. C'era qualcosa, in quel posto, che ti faceva sentire lontano chilometri dagli Stati Uniti. Tanti chilometri . «Potrei mentire, ma ho troppo rispetto per lei.» Essai si bagnò le labbra con il tè. «La storia della mia famiglia è molto interessante per il governo e per un discreto numero di agenzie che lavorano nel settore privato.» «E perché?» chiese Moira. «Per favore, non sia vago.» Essai le sorrise. «Fin dal primo momento che l'ho vista ho capito che mi sarebbe piaciuta, e non mi sbagliavo.» «Ha fatto una scommessa con il signor Binns?» Essai scoppiò a ridere. Fu un suono bronzeo, simile a un colpo di gong. «Le ha detto della nostra scommessa?» Scosse la testa. «Il nostro signor Binns è un tipo all'antica, non accetterebbe più di una puntata.» Moira notò l'uso del termine «nostro», ma decise di ignorarlo, per il momento. «Torniamo alle cose importanti.» Essai bevve un altro sorso di tè. Le conversazioni dirette non rientravano nel suo repertorio, come per molti altri arabi. Preferiva una strada alternativa che permettesse alle due parti di conoscersi meglio prima di arrivare all'accordo. Moira lo sapeva, ma Essai e Binns l'avevano presa alle spalle e la cosa non le piaceva. Doveva riguadagnare il terreno perso nell'attacco subito nella Rolls-Royce, per questo voleva gestire lei il ritmo della conversazione . «C'entra Noah, vero?» chiese di colpo. «Era coinvolto con il furto del portatile, e io ho lavorato per lui alla Black River. Ecco perché ha scelto me. Non è così?» Essai la guardò negli occhi. «Lei è la persona adatta a questo incarico per diversi motivi, e uno di questi è la relazione che aveva con Noah Perlis, sì.» «Che cos'ha fatto? E stato lui a rubare il computer?» Essai aveva preso il menu e lo leggeva concentrato. «Ah, c'è la sogliola di Dover come piatto del giorno. Gliela consiglio.» Alzò gli occhi scuri scrutandola con aria seria. «Viene servita accompagnata
da cuscus marocchino.» «Come non assaggiarlo, allora?» «Ottimo!» L'uomo sembrava davvero estasiato. Non appena si voltò, uno dei camerieri gli fu subito vicino. Ordinò per tutti e due e restituì il menu. Quando furono di nuovo soli incrociò le dita e iniziò a parlare con lo stesso tono di voce. «Il suo vecchio, e immagino non rimpianto, capo era molto coinvolto.» Moira si sporse in avanti trepidante. «E...?» Essai fece spallucce. «Non posso dirle altro finché non avremo concluso il nostro patto. Accetta l'incarico di ritrovare il mio portatile?» Moira si rese conto di respirare, ma era come se fosse un gesto staccato dal corpo, come se osservasse quella scena dal di fuori. Non riusciva a dire di no, nemmeno adesso. Capì che non voleva tirarsi indietro. Aveva bisogno di un lavoro e le si offriva un'ottima opportunità. Quell'uomo in fondo le aveva fornito l'informazione che avrebbe potuto salvare la sua nuova società . «Va bene» si sentì dire sempre dal di fuori. «Ma voglio il doppio della parcella normale.» «D'accordo.» Essai annuì come se avesse aspettato a lungo quella risposta. «La ringrazio dal profondo del cuore, signorina Trevor.» «Mi ringrazi quando le avrò riportato il computer» replicò lei. «Ora mi dica di Perlis.» «Il suo Noah era un pesce pilota: gli piaceva seguire le iniziative altrui.» Allargò le braccia. «Ma non sto dicendo niente di nuovo, per lei, non è vero?» Moira fece un cenno con la testa . «Ed è così anche in questo caso. E sceso in campo con un po' di ritardo.» Quella frase fece scattare un campanello d'allarme nella mente di Moira. «In ritardo di quanto?» «Trovare il mio computer con qualunque mezzo era una missione della CIA. E per l'esattezza del DoN...» «DoN?» «Death of Night» le spiegò Essai. «Non sa cos'è?» Fece un cenno con la mano come a dire che non importava. «Meglio conosciuto come Treadstone.» Moira rimase allibita. «Alex Conklin voleva quel portatile?» «Proprio così.» Jalal tornò a sedersi comodo quando portarono l'antipasto a base di insalata di gamberetti. Il cameriere sparì in un batter d'occhio . «E stato lui a progettare l'incursione?» «Oh no, no, non Conklin.» Essai prese la forchetta con la mano destra e si concentrò nello scartare la testa dei gamberetti che aveva nel piatto . Con un crostaceo ancora infilzato, alzò gli occhi e incontrò quelli di Moira in un modo così intenso che la giovane donna indietreggiò visibilmente . «E stato il suo amico Jason Bourne a entrare nella mia casa, nel luogo in cui la mia famiglia mangia, ride e dorme.» In quell'istante in cui le sembrò che il cuore avesse smesso di battere ebbe la strana sensazione di capire come stavano le cose. Fu come quando i freni della macchina smettono di funzionare e l'auto accelera fuori controllo e tu ti accorgi che c'è un altro veicolo che sta puntando dritto verso di te . «Dove mia moglie mi cuce i vestiti, dove mia figlia si riposa con la testa sulle mie ginocchia, dove mio figlio impara giorno dopo giorno a diventare uomo.» Un'oscura vibrazione simile a un grido di vendetta gli incrinò la voce. «Nel momento in cui ha rubato il computer, Jason Bourne ha violato ogni sacro principio della mia vita.» Sollevò la testa di un gamberetto imprigionata nei rebbi della forchetta come fosse un vessillo di guerra. «E lei lo ritroverà, signorina Trevor, costi quel che costi.» *** Capitolo 5 . La City è il nucleo storico attorno a cui si è sviluppata Londra. Nel Medioevo la racchiudeva tutta, insieme a Westminster e Southwark, ed era protetta dalle mura edificate dai Romani nel Secondo secolo. Da quel centro la metropoli si è estesa in ogni direzione come un ragno che tesse la sua tela. Oggi la City, un po' più grande d'allora, è diventata il cuore finanziario della capitale britannica. La Aguardiente Bancorp aveva sede a Chancery Lane, a nord di Fleet Street. Dalle imponenti finestre rivolte a sudovest, Bourne si immaginò di veder sorgere Tempie Bar, la storica porta della città che un secolo prima univa il centro finanziario alla strada per Westminster, sede del potere politico. Prendeva il nome da Tempie Church, costruita dai Templari e adornata da sobrie statue di grifoni e un paio di draghi. Bourne, ovviamente, era sotto mentite spoglie. Assomigliava a Noah, risultato degli acquisti fatti in alcuni negozi di trucchi teatrali di Covent Garden . L'interno in pietra grigia e marmo nero era austero e ben si addiceva a un'istituzione che annoverava tra i clienti la maggior parte delle società internazionali che faceva affari nella City.
L'alto soffitto a volta richiamava atmosfere ecclesiastiche. Sembrava velato da una foschia, come il cielo di fuori che, avendo ormai scaricato il suo fardello, rimaneva in attesa come i corvi della Tower of London. Bourne attraversò l'atrio, rimandando un'eco leggera dei suoi passi. Si avvicinò al banco dell'ufficio titoli, dove c'era un signore che sembrava uscito da un romanzo di Charles Dickens. Aveva le spalle strette, un colorito giallognolo e due occhi piccoli e tondi che davano l'impressione di aver visto tutto quello che la vita ha da mostrare . Bourne si presentò allungando il passaporto di Perlis. L'uomo serrò le labbra mentre cercava di leggere le scritte in piccolo. Con le mani rossastre inclinava il documento in cerca di un po' di luce che avrebbe potuto aiutarlo. Poi lo chiuse di colpo dicendo: «Aspetti un attimo, sir» e sparì nei meandri misteriosi della banca . Dal vetro che lo separava dalla postazione dell'impiegato giallognolo, Bourne guardò i riflessi delle persone affaccendate dietro di lui. Si soffermò su un volto che aveva già visto. Lo aveva notato nel negozio di Tavistock Street quella mattina stessa. Non aveva niente di insolito, anzi, era un uomo del tutto ordinario. Solo Jason, e forse poche altre persone dotate della sua stessa capacità, avrebbero potuto accorgersi dello sguardo intenso e del modo in cui gli occhi analizzavano l'interno della banca. Bourne osservò quel movimento a lui così familiare. Studiava tutte le possibili vie di fuga, la disposizione delle guardie eccetera . Un secondo dopo l'uomo uscito da un romanzo di Dickens tornò con la stessa espressione di prima, impenetrabile come il caveau della banca . «Da questa parte, sir» disse l'impiegato con voce roca. Aprì un pannello nel muro di marmo facendo entrare Bourne. Si assicurò che il meccanismo di bloccaggio fosse scattato dietro di loro prima di condurre Jason attraverso una serie di scrivanie in legno dove un esercito di donne e uomini vestiti di scuro erano immersi nelle loro occupazioni. Alcuni parlavano al telefono, altri si occupavano dei clienti seduti di fronte. Nessuno alzò lo sguardo al loro passaggio . Superato il dispiegamento di scrivanie, l'impiegato giallognolo premette il pulsante sul citofono accanto a una porta di vetro zigrinato che lasciava filtrare solo un po' di luce. Si aprì, e l'impiegato si fece da parte . «In fondo a sinistra. L'ufficio all'angolo.» Poi, con una specie di ghigno, aggiunse: «Il signor Herrera accoglierà le sue richieste». Parlava anche come un personaggio di Dickens . Con un rapido cenno della testa Bourne si avviò verso l'ufficio all'angolo. La porta era chiusa. Bussò, e dall'altra parte si sentì un «Avanti» . Si ritrovò in un grande ufficio arredato con mobili costosi. Le finestre offrivano una vista della City indaffarata, con i grattacieli postmoderni accanto agli edifici storici. Una strana commistione di presente e passato che metteva a disagio Jason . Oltre al solito arredamento da ufficio, c'erano anche un divano in pelle e delle sedie coordinate, un tavolinetto in vetro e acciaio e una credenza che fungeva da bar . Mentre Jason si faceva avanti, Diego Herrera, molto più somigliante al padre ora che nella foto, si alzò e gli andò incontro con un sorriso stampato in viso. Gli offrì la mano. «Noah» disse con affettazione, «bentornato!» Nel momento in cui le due mani si toccarono, Jason sentì la lama di un coltello a serramanico premere contro la giacca . «Chi diamine sei?» Il viso di Jason non lasciava trasparire alcuna emozione. «Un banchiere non si comporta così.» «Al diavolo!» «Sono Noah Perlis, come è scritto sul passaporto.» «Non è vero» rispose Herrera deciso. «Noah è stato ucciso a Bali meno di una settimana fa. Sei stato tu?» La lama del coltello attraversò la giacca. «Dimmi chi sei o ti faccio a fettine.» «Va bene» cedette Bourne bloccando con una mano il braccio di Diego. Il banchiere si irrigidì. «Una sola mossa e ti rompo il braccio.» Gli occhi scuri di Herrera brillarono di rabbia cieca. «Bastardo.» «Calmati, senor Herrera, sono un amico di tuo padre.» «Non ti credo.» Bourne scrollò le spalle. «Chiamalo. Digli che Adam Stone è nel tuo ufficio.» Don Herrera avrebbe senz'altro riconosciuto il nome che aveva usato a Siviglia qualche settimana prima. Non vedendo alcun segno di cedimento da parte di Diego, cambiò tattica. Il suo tono si fece di colpo conciliante. «Noah era mio amico. Mi ha lasciato una serie di istruzioni da seguire. Mi ha detto che se fosse
morto sarei dovuto andare nell'appartamento a Belgravia, dove avrei trovato una copia del suo passaporto e la chiave di una cassetta di sicurezza di questa banca. Voleva che entrassi in possesso del contenuto. E tutto ciò che so.» Diego non sembrò affatto convinto. «Se eri un suo amico, perché non mi ha mai parlato di te?» «Immagino per proteggerti, senor Herrera. Sappiamo tutti e due che tipo di vita misteriosa conduceva. Divideva tutto in compartimenti stagni, amici e colleghi inclusi.» «E i conoscenti?» «Noah non aveva conoscenti.» Bourne l'aveva intuito dai brevi incontri avuti con lui a Monaco e Bali. «Lo sai meglio di me.» Diego grugnì. Bourne stava per aggiungere che era stato anche amico di Holly, ma il sesto senso affinato in lunghi anni gli suggerì di trattenersi. Disse invece: «Ed ero anche un buon amico di Tracy Atherton» . Herrera sembrò colpito. «Sei sincero?» Bourne annuì. «Ero con lei quando è morta.» Gli occhi del banchiere si strinsero. «E dov'è successo?» «Nel quartier generale della Air Afrika» rispose Jason senza esitazione. «Al 779 di el-Gamhuria Avenue, a Khartoum, per essere precisi.» «Cristo.» Diego Herrera si rilassò. «E stata una tragedia, una tragedia enorme.» Bourne gli lasciò il braccio, Herrera abbassò la lama e gli fece segno di accomodarsi. Bourne si sedette, mentre lui rimase in piedi davanti al bar . «E ancora presto, ma possiamo comunque bere qualcosa.» Versò tre dita di tequila Herradura Selección Suprema in due bicchieri vecchio stile. Ne passò uno a Bourne, poi si sedette anche lui. Dopo il primo sorso chiese: «Mi puoi raccontare com'è successo?» . «Doveva consegnare un dipinto» rispose Bourne con calma. «È rimasta ferita nella sparatoria seguita all'occupazione dell'edificio da parte delle forze di sicurezza russa sulle tracce di Evsen.» Diego Herrera sollevò la testa. «Il trafficante d'armi?» «Sì. Usava la sua società, la Air Afrika, per recuperare e consegnare la merce di contrabbando.» Gli occhi del banchiere si chiusero. «Per chi lavorava Tracy?» Bourne avvicinò il bicchiere alle labbra, scrutando con attenzione il volto di Diego senza farsi notare. «Per un uomo di nome Leonid Danilovic Arkadin.» Bevve un altro sorso di tequila. «Lo conosci?» Herrera aggrottò le sopracciglia. «Perché me lo chiedi?» «Perché voglio ucciderlo.» E vivo, pensò Leonid Danilovic Arkadin. Vylaceslav Germanovic Oserov non è rimasto carbonizzato in quell'ospedale di Bangalore. Cazzo, è ancora vivo . Fissava l'immagine ripresa da una telecamera di sicurezza che ritraeva un uomo con la parte destra del viso del tutto sfigurata. Gli ho lasciato un bel ricordino, però, pensò toccandosi la ferita alla gamba che guariva in fretta. Questo è certo . Si era sistemato in un vecchio convento nella periferia di Puerto Penasco, un piccolo paese sul litorale dello Stato messicano di Sonora ricoperto di polvere e noioso come un libro di filosofia ormai obsoleto. In realtà tutto a Puerto Penasco sembrava obsoleto. Era un agglomerato urbano industriale in cui si salvavano soltanto il mare caldo e le grandi spiagge bianche . Poche cartine geografiche lo segnalavano, ma quello era uno dei motivi per cui Arkadin aveva scelto quel posto . Un altro era che in quel periodo dell'anno molti studenti universitari attraversavano il confine dall'Arizona e venivano a godersi del buon surf e gli hotel di lusso. La polizia chiudeva un occhio in cambio di dollari americani. Con tutti quei ragazzi in giro, Arkadin si sentiva piuttosto al sicuro: anche se Oserov e i suoi fossero riusciti a trovarlo, com'era successo a Bangalore, sarebbero saltati subito all'occhio come mosche bianche . Certo, rimaneva ancora un mistero come avessero fatto a scovarlo in India. Il computer di Gustavo Moreno si trovava al sicuro, e lui era riuscito a connetterlo di nuovo al server remoto che conteneva i contratti; però aveva perso sei uomini e, cosa ancora peggiore, il suo piano aveva rivelato una falla notevole. Qualcuno dentro l'organizzazione informava Maslov . Stava per scendere in spiaggia, quando il telefono iniziò a suonare. Il segnale era debole, quindi restò dov'era, immerso nella contemplazione degli strati di nuvole che si addensavano a ovest . «Arkadin.» Era Boris Karpov. Leonid Danilovic provò una certa soddisfazione. «Te ne sei andato senza dire niente a nessuno?» La pausa pregna di silenzio che seguì era tutto quello che
gli serviva. «Non dirmi che non hai trovato nulla, che hanno fatto sparire tutto.» «Di chi stiamo parlando, Arkadin? Chi sono le talpe di Maslov nella mia organizzazione?» Leonid rifletté un secondo, lasciando il colonnello in trepidante attesa. «Temo che non sia così semplice, Boris Illic.» «Che vuoi dire?» «Avresti dovuto presentarti da solo. Avresti dovuto seguire le mie indicazioni» gli disse. «Ora è tutto più complicato.» «Cioè?» «Prendi il primo volo internazionale.» Arkadin osservò il sole del tramonto Ungere le nuvole di colori sempre nuovi fino a che gli occhi non iniziarono a fargli male. Eppure si rifiutò di spostare lo sguardo: quello spettacolo era meraviglioso. «E raggiungi il LAX... immagino tu sappia cosa sia.» «Certo. E l'aeroporto internazionale di Los Angeles.» «Quando arrivi chiama il numero che ti sto per dare.» «Ma...» «Vuoi le talpe, Karpov? Allora non discutere ed esegui i miei ordini.» Arkadin interruppe la comunicazione e si incamminò sulla spiaggia. Si piegò in avanti per arrotolarsi i pantaloni e sentì i granelli di sabbia sui piedi nudi . «Arkadin non ha ucciso Tracy di persona» spiegò Bourne. «Ma è comunque responsabile della sua morte.» Diego Herrera si appoggiò per un attimo allo schienale, pensieroso e con il bicchiere stretto in mano sopra il ginocchio. «Ti sei innamorato di lei, non è così?» Poi alzò il palmo di una mano. «Non c'è bisogno che rispondi, tutti si innamoravano di Tracy, senza che lei facesse niente.» Annuì rivolto a se stesso. «Parlo per me. Questo rendeva l'effetto ancora più devastante. Molte donne cercano di piacere a tutti i costi. Puoi arrivare a toccare la loro disperazione. Che pena. Ma Tracy era diversa. Era...» Schioccò le dita alcune volte. «Era... come Si dice?» «Sicura.» «Sì, ma qualcosa di più.» «Padrona di sé.» Diego Herrera ci pensò un attimo, poi annuì deciso. «Sì, aveva una padronanza di sé fuori dal comune.» «Tranne quando soffriva di mal d'aria» scherzò Bourne tornando con la mente a quando aveva vomitato sul volo da Madrid a Siviglia . Diego buttò la testa all'indietro scoppiando a ridere. «Odiava gli aerei, peccato dovesse prenderne così tanti.» Bevve un altro sorso di tequila, assaporandolo prima di buttarlo giù. Poi spostò il bicchiere da una parte. «Immagino tu voglia portare a termine l'incarico che ti ha dato Noah prima di morire.» «E al più presto.» Jason si alzò e con lui Diego. Lasciarono l'ufficio, attraversarono alcuni corridoi bui e silenziosi e scesero una lunga rampa che li condusse in un caveau. Bourne tirò fuori la chiave. Non ci fu alcun bisogno di dire a Diego il numero della cassetta. Herrera si diresse subito verso quella giusta. Jason inserì la chiave in una delle serrature, e Diego fece lo stesso con la sua in un'altra . «Insieme, al mio tre.» Girarono le chiavi contemporaneamente, e lo sportello metallico si aprì. Diego estrasse una lunga scatola che sistemò in una delle tante nicchie ricavate nel muro. Appoggiandola su una mensola interna, disse: «Eccoti servito, senor Stone. Quando hai finito suona il campanello e tornerò io stesso a riprenderti» . «Grazie, senor Herrera.» Bourne entrò nella nicchia, chiuse la tenda e si accomodò su una poltrona. Ascoltò immobile i passi di Herrera allontanarsi. Poi si chinò per aprire la scatola. Dentro c'era un libriccino, nient'altro. Lo tirò fuori e iniziò a leggere dalla prima pagina. Sembrava un diario, o una specie di storia, una raccolta di episodi da fonti diverse. Quando lesse il primo nome, avvertì un brivido lungo la schiena. Ebbe l'istinto di guardarsi intorno, benché non ci fosse nessuno. Percepiva una presenza vicina, un'energia irrequieta, come se un fantasma fosse emerso dalle pagine di Perlis . Leonid Arkadin, Vylaceslav Oserov - Slava, come lo chiamava Noah - e Tracy Atherton. Con la fronte corrugata, Bourne proseguì la lettura . Arkadin sentiva scivolare tra le dita dei piedi la sabbia umida e l'acqua salata. Ragazze in bikini giocavano a beach volley insieme a ragazzi in costumi da surf che arrivavano alle ginocchia, o facevano jogging sulla spiaggia. Molti sorseggiavano lattine di birra . Leonid era gonfio di rabbia per essersi lasciato mettere all'angolo da Maslov e Oserov. Non aveva dubbi che quest'ultimo avesse insistito non poco per essere mandato di persona a dargli la caccia. Un assalto frontale non era nello stile di Maslov. Era un tipo cauto, tanto più in un periodo come quello, con i guai che passava con la Kazanskaja. Il governo gli stava alle costole,
aspettava solo un suo errore. Con l'astuzia e l'intervento dei suoi amici fidati era riuscito a tenere a bada il Cremlino: nessuno era stato in grado di raccogliere prove concrete contro di lui. Sapeva abbastanza cose sul conto di alcuni giudici federali da potersene stare tranquillo ancora per un po' . Senza volerlo, Arkadin si era avvicinato all'oceano. L'acqua gli arrivava alle ginocchia bagnando i pantaloni. Non gli importava. In Messico si sentiva libero come mai si era sentito finora. Forse era il ritmo più tranquillo, o uno stile di vita in cui si traeva piacere dalla pesca, dalla contemplazione dell'alba sulla spiaggia o da un bicchiere di tequila assaporato con una donna vestita di mille colori che ti balla accanto. Il denaro non aveva alcun valore, lì, o almeno le somme a cui era abituato. La gente conduceva una vita modesta ed era felice . Fu in quel momento che la vide, o credette di vederla, emergere dall'acqua come la Venere di Botticelli. I raggi del sole lo accecavano, tanto che fu costretto a socchiuderli e schermarli con una mano. Ma non aveva dubbi, era Tracy Atherton. Alta, bionda e slanciata, con due occhi azzurri e il sorriso più grande che avesse mai visto. Però non poteva essere lei: era morta! La osservò avvicinarsi. A un certo punto la ragazza si voltò, lo guardò dritto negli occhi e la somiglianza sparì. Arkadin si allontanò insieme all'ultimo riverbero del tramonto . Aveva conosciuto Tracy a San Pietroburgo, all'Hermitage. Era a Mosca già da due anni, a lavorare per Maslov. Lei era lì per visionare i tesori degli zar, mentre lui doveva incontrare Oserov. Uno dei tanti appuntamenti, in cui spesso finivano per picchiarsi. Il miglior uomo al soldo di Maslov aveva ucciso un bambino che non aveva più di sei anni, a sangue freddo. Per quel gesto osceno, Arkadin gli aveva ridotto la faccia in poltiglia e slogato una spalla. Lo avrebbe ucciso se non fosse intervenuto il suo amico Tarkanian. Da quella volta l'astio tra i due non aveva fatto altro che crescere, fino all'ultima esplosione a Bangalore. Ma Oserov era come un vampiro, duro a morire. Con una risata amara si era ripromesso che la volta successiva gli avrebbe conficcato un palo di legno nel cuore. Era convinto che Maslov li avesse costretti a lavorare insieme spesso come semplice atto di sadismo. E per questo avrebbe presto pagato . In quel gelido mattino di San Pietroburgo, Arkadin era arrivato presto per essere sicuro che Oserov non gli avesse teso una trappola. Aveva trovato invece una giovane donna bionda, alta e snella, dagli occhi color fiordaliso, intenta ad ammirare un ritratto di Elisabetta di Russia. Indossava un lungo cappotto di daino, con il collo blu scuro, sotto il quale si intrawedeva una camicetta di seta rossa. Gli aveva chiesto cosa pensasse del quadro, saltando ogni convenevole . Arkadin, che non aveva fatto caso né al dipinto né a tutte le altre opere d'arte nella stanza, l'aveva guardata e aveva detto: «E del 1758. Che importanza può avere per me?» . La ragazza si era girata e lo aveva fissato con la stessa disarmante intensità con cui aveva esaminato il quadro fino a quel momento. «E la storia del tuo paese.» Aveva indicato qualcosa con la mano dalle dita lunghe e affusolate. «Louis Tocqué, il pittore che ha realizzato il ritratto, era considerato uno dei migliori artisti dell'epoca. Venne fatto arrivare da Parigi su richiesta di Elisabetta.» «E allora?» aveva replicato Arkadin . Il sorriso della giovane donna si era allargato. «E allora da qui si evince il prestigio internazionale e il potere della Russia di quel tempo. La Francia era affascinata da questo paese, e viceversa. Questo dipinto dovrebbe rendere orgogliosi tutti i russi.» Arkadin stava per rispondere in tono acido come al solito, ma aveva preferito mordersi la lingua e spostare lo sguardo sulla donna regale del quadro . «E bella, non trovi?» aveva chiesto lei . «Be', non ho mai conosciuto qualcuno così. Non sembra vera.» «E invece lo era.» Con un gesto aveva guidato i suoi occhi di nuovo verso l'imperatrice. «Immaginati nel passato, immaginati nel dipinto accanto a questa donna.» In quel momento ad Arkadin era sembrato di vederla per la prima volta e si era trovato d'accordo con lei. «Sì» disse, «credo sia bella.» «Be', lo considero già un successo!» Il sorriso della ragazza non si era affatto affievolito. Aveva anzi allungato la mano per presentarsi: «Tracy Atherton, piacere». Leonid aveva per un attimo pensato di darle un nome falso, come d'abitudine, invece aveva detto: «Leonid Danilovic Arkadin» .
Il profumo della storia aveva subito riempito l'aria di una miscela piccante e misteriosa di rosa e cedro. Molto tempo dopo capì perché si fosse vergognato a quel modo. Si era sentito come uno studente troppo pigro e ignorante. Quella mancanza di istruzione lo aveva fatto sentire nudo . Dopo quel primo incontro fu come se riuscisse ad assorbire tutte le cose che lei aveva imparato. Apprese il valore della conoscenza, ma una parte di lui non la perdonò mai per quello che gli aveva fatto provare. La usò in modo crudele, la trattò male, ma al contempo la avvicinava a sé . Si rese conto di ciò in seguito, ovviamente. Allora aveva avvertito solo un torrente di rabbia che lo trascinava via da lei, spingendolo a cercare Oserov . Ma la compagnia di Oserov non avrebbe alleggerito quella sensazione di disagio. E così aveva insistito perché lasciassero l'Hermitage. Avevano camminato in Ulitsa Millionnaja e poi erano entrati in un bar per scaldarsi con un caffè . La neve aveva iniziato a scendere con uno strano fruscio, come quello dei predatori che fiutano il sottobosco in cerca di prede. Arkadin non si sarebbe più scordato il modo in cui Tracy si era materializzata in mezzo a quel bianco. Il cappotto di daino lungo fino alla caviglia sembrava un'onda ghiacciata che si infrangeva sulla sua figura . In quel periodo, subito dopo che Maslov aveva inviato Oserov e Misa Tarkanian a Niznij Tagil per liberarlo, Oserov era diventato il suo superiore, e non perdeva occasione per farglielo notare. Gli stava spiegando come si faceva a uccidere un politico, motivo per cui si trovavano a San Pietroburgo. Quel politico in particolare si era messo contro Maslov e quindi andava eliminato, in modo rapido ed efficiente. Arkadin lo sapeva, e Oserov sapeva che lui lo sapeva. Tuttavia si divertiva a ripetere le stesse cose, come se il suo interlocutore fosse un bambino di cinque anni, stupido e insolente . Poche persone si sarebbero permesse di interromperlo, ma Tracy lo aveva fatto. Entrando in quel bar aveva visto Arkadin e si era diretta sicura verso di loro. «Ciao, che bello trovarti qui» aveva detto con il suo tipico accento britannico . Oserov, fermato nel bel mezzo della lezioncina, aveva alzato la testa e l'aveva fissata in un modo che avrebbe fatto raggelare chiunque. Tracy aveva esibito un gran sorriso e aveva preso una seggiola dal tavolo vicino. «Vi dispiace se mi siedo con voi?» E poi aveva ordinato un caffè prima ancora che i due potessero aprire bocca . Quando il cameriere se ne fu andato, lo sguardo di Oserov si era fatto minaccioso. «Senti, non so né chi sei né perché sei qui, ma noi stavamo parlando di una cosa importante.» «Lo vedo» aveva replicato Tracy gentile. «Andate pure avanti, non fate caso a me.» Oserov aveva spinto indietro la sedia digrignando i denti. «Ehi, ragazzina, togliti di torno!» «Calmati» era intervenuto Arkadin . «E tu chiudi il becco!» Oserov si era alzato sbattendo i pugni sul tavolo. «Se non te ne vai adesso, in questo fottutissimo secondo, ti butto fuori io a calci in quel bel culo che ti ritrovi.» Tracy lo aveva guardato negli occhi, imperturbabile. «Non c'è bisogno di usare questo linguaggio.» «Ha ragione, Oserov, ora la accompagno...» In quel preciso istante, però, Tracy aveva spostato la cravatta di Oserov che pendeva sopra il tavolo e rischiava di finire nel caffè. L'uomo si era scagliato contro di lei afferrandole il bavero del cappotto e costringendola ad alzarsi. La camicia di seta le si era strappata, e quel gesto violento aveva catalizzato su di loro l'attenzione di tutto il bar. La loro missione doveva essere anonima e Oserov stava dando spettacolo . Arkadin era scattato in piedi e aveva sibilato: «Lasciala». Vedendo che Oserov non aveva alcuna intenzione di mollare la presa, aveva aggiunto: «Lasciala o ti accoltello, qui» . L'altro aveva guardato in basso sentendo la punta del coltello a serramanico che gli premeva contro il fegato. Si era fatto ancora più cupo in volto, e in quegli occhi duri era apparso qualcosa di malvagio . «Mi ricorderò di quello che hai fatto» aveva detto in tono minaccioso mentre liberava la ragazza .
La stava ancora fissando, quindi non era chiaro a chi si stesse davvero rivolgendo. Arkadin aveva pensato a entrambi. Prima che potesse succedere qualcosa di peggio, Leonid aveva preso Tracy sottobraccio e l'aveva accompagnata fuori . Spalle e capelli si erano quasi subito ricoperti di neve . «Be', è stato interessante.» Arkadin, scrutandole il viso, non aveva trovato traccia di paura. «Ti sei appena fatta un terribile nemico.» «Torna dentro» gli aveva suggerito. «Ti congelerai, senza cappotto.» «Non credo che tu abbia capito...» «Conosci Doma?» Arkadin aveva sbattuto le palpebre. Si domandò se quella ragazza ascoltasse mai quello che le veniva detto. La marea innescata da Tracy lo stava portando sempre più lontano dalle coste conosciute. «Il ristorante vicino all'Hermitage. Chi non lo conosce?» «Stasera, alle otto in punto.» Gli aveva rivolto uno dei suoi sorrisi e lo aveva lasciato lì sotto la neve, davanti allo sguardo infuriato di Oserov . La ragazza che aveva scambiato per Tracy era ormai lontana, ma Arkadin riusciva ancora a seguire il sentiero creato dalle piccole orme sulla sabbia. L'acqua pullulava di meduse opalescenti e luminose. Da una radio in lontananza arrivava la voce di una donna che cantava una triste rancherà. Le meduse sembravano danzare a tempo di musica. Stava per calare la notte e si preannunciava un cielo pieno di stelle . Arkadin tornò in convento, accese le candele anziché usare l'energia elettrica e preferì ascoltare alcune tristi rancheras anziché guardare la tv. Il Messico gli era già entrato nelle vene . Comincio a capire perché Arkadin e Oserov si odiano così tanto, pensò Bourne distogliendo lo sguardo dal libro di Perlis. L'odio è un sentimento potente, rende ciechi, o comunque meno attenti. Forse ho finalmente trovato il tallone di Achille di Arkadin. Aveva letto abbastanza, per il momento. Mise il coperchio sulla scatola, infilò il taccuino in tasca e suonò il campanello. Se da una parte gli sembrava strano che Perlis avesse usato un metodo così superato per registrare informazioni importanti, dall'altra capiva che la cosa aveva un suo senso. Gli strumenti elettronici potevano essere resi vulnerabili in tanti modi. Carta e penna erano l'unica soluzione. Se poi si conservava il tutto in un caveau, era ancora più sicuro, e in caso di pericolo sarebbe bastato un fiammifero per distruggere le prove. Optare per alternative non tecnologiche era l'unico modo per difendersi dagli hacker, ormai in grado di penetrare anche le reti più sofisticate e scovare file che si credevano cancellati . Diego Herrera scostò la tenda, prese la scatola metallica, la rimise al suo posto e poi la bloccò con le due chiavi . «Ho un favore da chiederti» disse Jason mentre uscivano dal caveau . Diego lo guardò incuriosito ma diffidente . «C'è un uomo che mi segue. Mi aspetta su in banca.» Diego sorrise. «Certo. Ti faccio vedere la porta che usano i clienti che, diciamo così, esigono un livello di discrezione superiore alla norma.» Erano quasi arrivati al suo ufficio, quando un lampo di preoccupazione gli attraversò il volto. «Perché ti sta seguendo?» «Non lo so» rispose Bourne. «Sembra che io non faccia altro che attirare persone del genere.» Diego fece una lunga risata. «Anche Noah diceva sempre questa cosa.» Jason sentì che Herrera stava per chiedergli se lavorasse per Perlis. Quel ragazzo cominciava a piacergli quanto il padre, ma non c'era alcun bisogno di dirgli la verità. Annuì come a voler rispondere a quella tacita domanda . «Non so chi sia, ma è importante scoprirlo» disse . Diego allargò le braccia. «Sono al tuo servizio, senor Stone» disse da perfetto andaluso qual era . Diego vive a Londra, pensò, ma il suo cuore è ancora a Siviglia . «Ho bisogno di far uscire quell'uomo dalla banca prima di me. Un allarme antincendio sarebbe l'ideale.» Herrera annuì. «Consideralo fatto.» Alzò l'indice. «A condizione che tu venga a casa mia domani sera.» Gli diede l'indirizzo della sua casa a Belgravia. «Abbiamo amici in comune. Sarei scortese se non ti offrissi la mia ospitalità.» Poi sorrise, mostrando i denti bianchi. «Mangiamo qualcosa, e se hai voglia di divertirti un po' andiamo al Vesper Club, a Fulham Road.» Diego era diverso dal genitore. Era molto più altruista e socievole. Il che corrispondeva
al profilo che si era fatto tramite le ricerche in Internet. Il Vesper Club, un casinò riservato a clienti di un certo tipo, invece, non era roba per filantropi. Bourne ripose quell'anomalia in un angolo della sua mente e si preparò a entrare in azione . L'allarme scattò. Bourne e Diego stettero a osservare le guardie che ordinavano a tutti i clienti di dirigersi verso la porta principale, compreso l'uomo che seguiva Jason . Bourne uscì dalla porta laterale della banca, e mentre la folla si raccoglieva lungo il marciapiede individuò l'inseguitore. Osservava la porta principale in attesa di Bourne, da una posizione in cui riusciva a tenere sotto controllo anche l'uscita laterale . Avanzando nella calca ingrossata dai curiosi, Bourne raggiunse l'uomo alle spalle. «Cammina dritto avanti a te, fino a Fleet Street» intimò premendo le nocche contro la schiena. «Nessuno sentirà partire uno sparo da una pistola con silenziatore.» Assestò un colpo violento alla nuca dell'uomo. «Non ti ho detto di girarti. Inizia a camminare.» Lo sconosciuto eseguì l'ordine. Si aprì un varco tra la folla e si avviò veloce verso Middle Tempie Lane. Aveva le spalle larghe, i capelli biondi tagliati a spazzola, un viso molto ampio dalla pelle screpolata, come se avesse un'allergia o fosse stato al vento per troppo tempo. Bourne sapeva che avrebbe provato a liberarsi, prima o poi. Un uomo d'affari impegnato in una telefonata corse verso di loro, e Jason sentì Capelli a spazzola tendersi verso di lui. Gli andò a sbattere volontariamente contro, lasciando che l'urto lo spingesse da una parte. Stava per voltarsi verso Jason con il pugno destro in alto e stretto come un blocco di cemento, ma Bourne lo colpì dietro le ginocchia con un calcio secco. Gli afferrò il braccio destro in una morsa tra il gomito e l'avambraccio e glielo ruppe . L'uomo crollò in avanti, gemendo. Quando Bourne si piegò sopra di lui per farlo rialzare, l'uomo sollevò il ginocchio per colpirlo all'inguine. Jason, però, si scansò rapido da una parte e il ginocchio gli sfiorò la coscia . In quel momento vide una macchina lanciata a tutta velocità contromano. Non si sarebbe mai fermata in tempo per evitarli. Spinse l'uomo verso un punto sul tragitto del veicolo, e usando le sue spalle come trampolino saltò sul cofano. L'auto cercò di rallentare facendo stridere i freni. Nel momento in cui Bourne toccò il tettuccio una scarica di proiettili partì dall'interno, ma lui era già rotolato sul portabagagli . Sentì dietro di sé il rumore dell'auto che investiva il corpo e la puzza delle gomme sull'asfalto. Alzò lo sguardo e vide due uomini uscire dalla macchina con le Glock in mano. Si voltarono verso di lui, ma la folla radunata davanti alla Aguardiente Bancorp si riversò dalla loro parte. Voci, urla e telefoni impazziti per fotografare ogni cosa intrappolarono i due che non riuscirono ad agire in tempo. Altri curiosi spuntarono da Fleet Street. Alcuni secondi dopo, il suono familiare delle sirene della polizia squarciò l'aria. Bourne sgusciò in mezzo alla folla, girò l'angolo e sparì . *** Capitolo 6 . «Non sono più in contatto con lui» disse Frederick Willard . «Ma è già successo in passato» precisò Peter Marks sperando di convincerlo . «Sì, ma questa volta è diverso» ribatté brusco Willard. Indossava un vestito gessato, una camicia blu inamidata con colletto e polsini bianchi e una cravatta blu navy a pois. «Dobbiamo stare molto attenti, altrimenti la situazione rischia di impantanarsi.» Da quando era entrato nella nuova Treadstone, Marks aveva imparato in fretta che l'età di Frederick non voleva dire niente. Aveva sessant'anni, ma riusciva ancora a mettere fuori gioco oltre la metà degli agenti della CIA. Senza contare la capacità di sviscerare un problema per trovare la soluzione migliore, qualità per cui Marks lo vedeva bene come nuovo Alex Conklin, il fondatore della Treadstone. Ma la cosa che colpiva di più era l'inquietante abilità di individuare il punto debole dell'avversario e di studiare il modo migliore per sfruttarlo. Nessun dubbio che fosse una specie di sadico. Ma non era una novità in quell'ambiente dove confluivano sadici, masochisti e una moltitudine di individui afflitti da ogni tipo di devianza psicologica. Peter aveva capito che il trucco consisteva nel riconoscere queste stranezze prima che potessero distruggerti .
Si erano accomodati su un divano nel foyer di un'organizzazione che annoverava Oliver Liss tra gli iscritti. Era riservata ai soli soci, e a quanto pareva anche ai soli uomini . «Monition Club» disse Marks lanciando l'ennesima occhiata in giro. «Ma che razza di posto è?» «Non lo so» rispose Willard stizzito. «È tutto il giorno che cerco informazioni, ma niente!» «Ci deve pur essere qualcosa. Chi è il proprietario dell'edificio, innanzitutto?» «Una holding con sede a Granada» grugnì Frederick. «Sarà di sicuro una società fittizia. Chiunque siano i proprietari, preferiscono rimanere nell'anonimato.» «Non ci sono leggi, contro questa cosa?» domandò Peter Marks . «Pare di no, ma mi stanno sorgendo parecchi dubbi.» «Magari potrei fare qualche ricerca più approfondita.» All'interno risuonava l'eco come nelle grandi cattedrali. Le pareti in pietra, gli archi gotici e le croci dorate davano l'impressione che si trattasse di una struttura ecclesiastica. Tappeti spessi e mobili enormi appesantivano quel silenzio opprimente. Ogni tanto arrivava qualcuno, parlava con la receptionist e poi spariva nell'ombra . A Marks ricordava l'atmosfera della nuova CIA. Da quello che aveva sentito dai suoi vecchi colleghi, i corridoi erano affollati da facce serie e pervasi da un'atmosfera densa e cupa. Pensare a quell'ambiente tossico a volte leniva il senso di colpa che provava per aver lasciato l'Agenzia, tanto più perché aveva lasciato Soraya da sola, quando era appena tornata dal Cairo. D'altra parte, però, Willard gli aveva assicurato che le sarebbe stato molto più d'aiuto così. «In questo modo sarai più obiettivo e i tuoi consigli avranno più peso» gli aveva detto. Aveva ragione. Marks era l'unico che avrebbe potuto convincerla a entrare nella Treadstone . «A cosa pensi?» gli chiese Willard all'improvviso . «A niente.» «Risposta sbagliata. La nostra priorità è trovare il modo di stabilire un nuovo contatto clandestino con Leonid Arkadin.» «Perché Arkadin è così importante, oltre al fatto che è il primo prodotto della Treadstone e l'unico a essere fuggito?» Willard gli riservò uno sguardo truce. Non gli importava che un suo sottoposto gli risbattesse in faccia le sue parole. Il problema di Frederick era proprio questo: era convinto di essere superiore a tutti, e trattava gli altri di conseguenza. Secondo Marks proprio quell'arroganza aveva permesso a Willard di infiltrarsi e mantenere la posizione all'interno della NSA per così tanti anni. Doveva essere stato facile prendere ordini dai superiori sapendo che di lì a poco li avrebbe fottuti tutti . «Mi dispiace dovertelo spiegare, Marks. Nella mente di Arkadin ci sono gli ultimi segreti della Treadstone. Ai tempi Conklin lo aveva sottoposto a una serie di tecniche psicologiche ormai perdute.» «E Jason Bourne?» «Vista la fuga di Arkadin, Conklin aveva deciso di non seguire lo stesso procedimento con Bourne. E i due sono diversi per questo motivo.» «In che senso?» Willard, la cui attenzione per i dettagli era proverbiale, si aggiustò i polsini in modo che fossero della stessa lunghezza. «Arkadin non ha anima.» «Cosa?» Marks scosse la testa come se non avesse sentito bene. «A quanto mi risulta non esistono tecniche scientifiche in grado di distruggere l'anima.» Willard fece una smorfia. «Per la miseria, Peter. Non sto mica parlando di una di quelle macchine di cui sono pieni i romanzi di fantascienza.» Si alzò in piedi. «Ma chiedilo al sacerdote della tua parrocchia. Rimarrai sorpreso dalla sua risposta. Ecco il nostro nuovo signore e padrone, Oliver Liss.» Peter guardò l'orologio. «Quaranta minuti di ritardo. Puntuale.» Oliver Liss viveva sulla costa sbagliata. Aveva l'aria e il portamento di una star del cinema, e probabilmente si sentiva tale. Era bello, di quella bellezza ricercata da Hollywood, ma si capiva che non puntava solo su quello. Forse era superbia. Quando entrava in una stanza brillava di luce propria. Era alto, magro e atletico. Tutti gli uomini che lo incontravano provavano invidia. I drink gli piacevano forti, la carne rossa, e le donne giovani, bionde e formose. Per farla breve era il tipo di uomo che Hugh Hefner aveva in mente quando aveva fondato «Playboy» . Senza rallentare il passo, sorrise ai due che lo stavano aspettando. Fece loro cenno di seguirlo per superare la guardia ed entrare nel Monition Club vero e proprio. Era mattino, l'ora della colazione. A quanto pareva, in quel luogo si usava consumarla in una terrazza pavimentata a mattoncini che sovrastava un chiostro il cui centro era ordinato come un orto di erbe officinali.
In quel periodo dell'anno, però, non c'era molto da vedere a parte il terreno incolto e le recinzioni in ghisa che servivano a separare le piante di menta e salvia . Oliver Liss li condusse verso un grande tavolo intarsiato. Profumava di cera d'api e colonia di buona qualità. Era vestito come un tipico gentiluomo di campagna, con pantaloni di flanella, giacca di tweed, una cravatta con la stampa di alcune volpi fameliche e costosi mocassini rosso scuro . Dopo che ebbero ordinato, bevuto le spremute fresche e sorseggiato il caffè, Liss andò dritto al sodo. «So che siete stati impegnati nel trasloco nei nuovi uffici, ma assumerò una persona per questo: voi due siete troppo importanti per essere sprecati in faccende del genere.» Aveva una voce piena e cristallina. Si strofinò le mani, sembrava uno zio entusiasta di partecipare a una riunione di famiglia. «Voglio che vi concentriate su una cosa soltanto. A quanto pare la morte di Perlis ha lasciato in sospeso alcune questioni.» Willard rimase sorpreso. «Non ci starai chiedendo di andare a scavare tra i rifiuti tossici della Black River! » «Non proprio. Ho trascorso gli ultimi sei mesi a tirarmi fuori da quell'organizzazione che avevo contribuito a fondare, perché percepivo che la fine si stava avvicinando. Immaginate come mi sono sentito, ragazzi.» Alzò un dito. «Oh sì, Willard, forse anche tu hai provato qualcosa di molto simile.» Poi scosse la testa. «Noah stava portando avanti questa operazione solo per me. Nessuno all'interno della Black River lo sapeva.» Quando gli servirono la colazione si appoggiò allo schienale, poi si sporse sopra le uova alla Benedict cotte a puntino e continuò: «Noah aveva un anello. Credo che per ottenerlo abbia pagato un prezzo molto alto: una tragedia personale. E un anello particolare. Malgrado possa essere scambiato per una normalissima fede nuziale, non lo è. Ecco, date un'occhiata voi stessi». Mostrò loro alcune foto a colori dell'oggetto in questione . «Come potete vedere, nella parte interna ci sono incisi alcuni simboli; grafemi, per essere precisi.» «Cos'è un grafema?» domandò Marks . «L'unità di base di ogni lingua.» Willard strizzò gli occhi per vedere meglio. «Sì, ma che razza di lingua è questa?» «E inventata. Un insieme di sumero, latino e Dio solo sa quale altra lingua morta, magari sconosciuta.» «Vuoi che lasciamo perdere tutto per dedicarci a questo?» Marks era incredulo. «Non siamo mica Indiana Jones!» Liss sorrise. «Non è così antico, mio caro vecchio amico. Credo esista da dieci o al massimo vent'anni.» «Un anello!» esclamò Willard. «A cosa ti serve?» «Questa è un'informazione confidenziale.» Liss gli fece l'occhiolino e si toccò la punta del naso. «In ogni caso, Noah aveva l'anello quando è stato ucciso da Jason Bourne. E ovvio che il suo scopo era recuperare l'anello.» Marks scosse la testa. La simpatia che provava per Bourne era risaputa. «Perché avrebbe dovuto farlo? Deve avere avuto le sue buone ragioni.» «Quello che devi metterti in testa è che Jason ha di nuovo ucciso senza essere stato provocato.» Liss lo fissò con uno sguardo torvo. «Trovate Bourne e l'anello.» Ruppe il rosso di un uovo e vi inzuppò una fetta di pane. «Mi è arrivata una soffiata: Jason è stato visto all'aeroporto di Heathrow. Per cui è molto probabile che sia andato all'appartamento di Perlis a Belgravia. Cominciate da lì. Troverete tutti i dettagli in un messaggio sui vostri cellulari. Ho già prenotato un volo notturno per Londra, così sarete belli svegli per l'arrivo previsto domani mattina.» Willard mise da parte le foto e l'espressione che si dipinse sulla sua faccia preoccupò Marks . «Quando hai acconsentito a finanziare la nuova Treadstone» disse Willard con voce calma, «hai anche accettato di fare gestire a me le operazioni.» «Davvero?» Liss finse di sforzarsi di ricordare, poi scosse la testa. «No, non l'ho fatto!» «Stai scherzando, vero?» «No, non credo proprio.» Liss si portò il pane tostato in bocca e masticò rumorosamente . «Ho dei compiti da portare a termine.» Frederick pronunciò queste parole sottolineandole a una a una. «Ho messo in piedi la Treadstone per un motivo ben preciso.» «Conosco la tua ossessione per Leonid Arkadin, ma vedi, il fatto è che non sei stato tu a mettere in piedi la Treadstone. Sono stato io a farlo. E mia, finanzio tutto io, fino all'ultima cartuccia dei vostri fucili. Lavorate per me, e se non vi è chiaro, be', allora non avete ancora capito quali sono i termini del vostro impiego.» Marks ebbe il sospetto che per Willard passare dalla CIA a Oliver
Liss non fosse stato altro che passare da un tiranno all'altro. Come aveva detto proprio lui quando aveva reclutato Peter: «Non ci si può più tirare indietro, una volta che si è stretto un patto con il diavolo». Erano entrambi imprigionati in quella spirale, senza sapere dove li avrebbe portati . Anche Liss stava scrutando Willard. Sorrise benigno e indicò il piatto con la punta della forchetta: «Ti conviene mangiare, altrimenti la colazione si raffredda» . Dopo aver pranzato assorto nella lettura della faida sanguinaria tra Arkadin e Oserov, Bourne tornò a Belgravia, questa volta però imboccò la via in cui viveva Tracy Atherton. Faceva molto freddo e non si riusciva a vedere bene attraverso la foschia che imprigionava i comignoli delle villette a schiera. La casa di Tracy appariva ordinata e rifinita, come tutte le altre del quartiere. Una ripida scalinata conduceva alla porta d'ingresso dove c'era una targhetta con i nomi delle persone che vivevano nell'edificio . Bourne suonò il campanello contrassegnato dal nome t. atherton, come se fosse passato a prenderla per trascorrere il pomeriggio insieme a mangiare, bere, fare l'amore e chiacchierare d'arte e della sua storia complicata. Si stupì quando qualcuno rispose al campanello facendo scattare la porta . Jason entrò e si ritrovò in un piccolo atrio buio e freddo, tipico di Londra . L'appartamento di Tracy si trovava al terzo piano. Per arrivarci dovette percorrere una serie di scalini stretti e molto ripidi, che scricchiolarono sotto il suo peso. Vide il retro del palazzo e si ricordò di quello che gli aveva detto a Khartoum: «Nel vicolo sul retro c'è un pesco che fa dei fiori bellissimi; in primavera le rondini vengono lì a fare il nido». Bourne si immaginò gli uccelli nidificare proprio in quel momento. Fu un pensiero dolce e straziante allo stesso tempo . Trovò la porta dell'appartamento socchiusa, quindi si avvicinò con cautela. Non filtrava molta luce, così non riuscì a distinguere la persona che gli venne incontro. Rimase per un attimo attonito e con il cuore impazzito, convinto di avere di fronte Tracy. Alta, slanciata, bionda . «Salve, posso aiutarla?» Gli occhi della donna ruppero l'incantesimo. Erano marroni e non azzurri, e non così grandi come quelli di Tracy. Bourne tornò a respirare. «Mi chiamo Adam Stone. Ero un amico di Tracy.» «Oh sì, mi ha parlato di lei.» Non gli porse la mano, però. L'espressione che aveva in volto era neutra, ma attenta. «Sono Chrissie Lincoln, la sorella.» Non si allontanò nemmeno dal vano della porta. «Vi siete conosciuti su un volo per Madrid, se non sbaglio.» «No, il volo era da Madrid a Siviglia.» «Ah, giusto...» Chrissie lo guardò con diffidenza. «Tracy viaggiava così tanto... per fortuna le piaceva.» Bourne capì che lo stava mettendo alla prova. «Odiava volare. Si sentì male cinque minuti dopo che ci siamo presentati.» Aspettò che la ragazza dicesse qualcosa, poi continuò: «Posso entrare? Vorrei parlarle di lei» . «Se proprio deve...» Si fece indietro, un po' riluttante . Bourne entrò e richiuse la porta. Tracy aveva ragione. L'appartamento era piccolo, ma bello quanto lei. I mobili erano gialli e arancioni, le tende color crema incorniciavano ogni finestra. Cuscini a strisce, a pois, o con stampe di animali davano un tocco di colore. Bourne attraversò il salotto ed entrò nella stanza di Tracy . «Sta cercando qualcosa in particolare, signor Stone?» «Chiamami Adam.» Jason sapeva che doveva esserci una portafinestra che dava sul retro, ed ecco l'albero. «Le rondini.» «Come?» La voce di Chrissie era più alta e acuta di quella della sorella, e parlava più veloce di lei . «Tracy mi ha raccontato che in primavera le rondini vengono a nidificare su quell'albero.» La ragazza gli stava dietro. I capelli le profumavano di limone. Indossava una maglietta da uomo con le maniche tirate su a scoprire due braccia abbronzate, e un paio di jeans, ma non di quelli alla moda. Erano dei Levi's con il risvolto, sotto il quale spuntavano due ciabatte di bassa qualità, logore e sfondate. Sembrava un po' sudata, come se stesse facendo le pulizie. Non indossava alcun gioiello, nemmeno la fede. Eppure il cognome era Lincoln, non Atherton . «Le vedi?» gli chiese nervosa . «No» rispose Bourne voltandosi . La ragazza si accigliò e rimase a lungo in silenzio .
«Chrissie?» Non sentendola rispondere, Jason andò in cucina a prenderle un bicchiere d'acqua fresca. La ragazza l'accettò senza dire niente, e la bevve in maniera lenta e meticolosa, come fosse una medicina . Quando posò il bicchiere, si rivolse a Bourne: «Credo sia stato un errore farti entrare. Vorrei che te ne andassi» . Jason annuì. Aveva visto l'appartamento. Non sapeva cosa si aspettava di trovare, forse nient'altro che il suo profumo. La notte che avevano passato a Khartoum era stata molto più intima che se avessero fatto l'amore. Scoprire che Tracy in realtà lavorava per Arkadin era stato come uno schiaffo dato in pieno volto, ma nelle settimane successive alla sua morte era stato assalito dal pensiero che non fosse tutto lì. Non che dubitasse che avesse lavorato per Leonid Danilovic, eppure non riusciva a togliersi dalla testa che la cosa non potesse essere così semplice. Forse adesso si trovava lì per cercare delle prove, una conferma ai suoi sospetti . Nel frattempo lui e Chrissie erano tornati verso la porta d'ingresso, e lei teneva la porta aperta. Bourne stava per andarsene, quando la ragazza gli disse: «Signor Stone...» . «Adam.» Chrissie cercò invano di sorridere. Il suo volto sembrava sofferente. «Tu sai cos'è successo a Khartoum?» Bourne esitò. Fissò il pianerottolo, ma non riuscì a cancellare l'immagine di Tracy tra le sue braccia con il viso coperto di sangue . «Per favore. So di non essere stata molto ospitale. Come puoi vedere, non ho ancora le idee chiare.» Si fece da parte come a invitarlo a riaccomodarsi . Bourne tornò indietro e appoggiò una mano sulla porta semiaperta. «E stato un incidente.» Chrissie lo guardò spaventata, in attesa. «Come lo sai?» «Ero lì con lei.» Vide la faccia della ragazza sbiancare di colpo. Ora lo fissava come se non riuscisse a distogliere lo sguardo, come se avesse la certezza che stesse per succedere qualcosa di brutto . «Mi potresti raccontare come è andata?» «Non credo tu voglia davvero conoscere tutti i dettagli.» «Sì» disse. «Lo voglio. Io... io devo sapere. Era la mia unica sorella.» Chiuse la porta e girò la chiave, poi si diresse verso una poltrona, senza sedersi. Rimase in piedi dietro di lui con lo sguardo perso chissà dove. «Ho passato un inferno da quando mi hanno dato la notizia. La morte di una sorella non è... sì, insomma, è difficile. Non... non riesco a spiegarmi.» Bourne la guardò. Aveva le mani aggrappate allo schienale della poltrona . «E stata colpita da alcuni frammenti di vetro. Uno l'ha ferita gravemente. Ha perso molto sangue in pochissimi minuti. Non ho potuto fare niente per lei.» «Povera Tracy.» La presa che aveva sulla poltrona si fece ancora più stretta, tanto che le nocche sbiancarono. «Le avevo chiesto di non andare, così come le avevo detto di rifiutare quel dannato incarico.» «Quale?» «Quel maledetto Goya.» «Perché, ti ha raccontato del Goya?» «Non del dipinto, ma dell'incarico. Mi disse che sarebbe stato l'ultimo. Voleva mettermene a conoscenza. Perché sapeva che non approvavo quello che faceva, immagino.» Si chiuse nelle spalle. «Le Pitture nere... figlie del diavolo.» «Ne parli come se fossero esseri viventi.» La ragazza si voltò verso di lui. «In un certo senso quel quadro lo era, perché era legato a un uomo.» «Arkadin.» «Non mi ha mai fatto questo nome. Da quello che ho capito, quel tipo deve avergli affidato incarichi molto pericolosi, ma la pagava bene, per questo Tracy accettava. Almeno questo è quello che raccontava a me.» «Non le credevi?» «Sì, certo che le credevo. Da piccole abbiamo fatto un patto e abbiamo giurato di non mentirci mai.» Aveva i capelli un po' più scuri e spessi della sorella, e anche più folti. Il viso era meno spigoloso, più dolce e aperto, ma più segnato dalla vita. Si muoveva più svelta di Tracy, o forse era solo nervosa, come se fosse vittima di una serie di esplosioni interne. «Da grandi le cose sono cambiate. Sono sicura che ci sono stati molti momenti della sua vita privata che ha scelto di non condividere con me.» «E tu non hai insistito...» «Rispettavo le sue decisioni» disse per difendersi . Bourne la seguì e tornarono in camera. Chrissie rimase in piedi a guardarsi intorno, come se avesse perso la sorella e non riuscisse più a trovarla da nessuna parte. Rombi e rettangoli di luce filtravano attraverso la fronda dell'albero. La luce era calda e sfumata, come quella di una foto color seppia. La ragazza si mosse sopra una delle figure geometriche .
Portò le mani alla vita come a volere trattenere le emozioni. «Una cosa è certa. Quell'uomo è un mostro. Non credo che abbia mai lavorato per lui di sua spontanea iniziativa. Credo che le avesse fatto qualcosa.» E Bourne si trovò d'accordo. Forse Chrissie avrebbe potuto fare un po' di luce sulla verità, dopotutto. «Pensi di sapere che cosa?» «Te l'ho già detto, Tracy era la persona più riservata sulla faccia della terra.» «E quindi non hai mai notato niente di strano, nessuna risposta particolare alle tue domande, niente di niente.» «No.» Poi Chrissie precisò: «O meglio, c'è stata una cosa, ma è davvero ridicola» . «Ridicola? Cosa intendi?» «Mi ricordo che una volta stavamo chiacchierando, ma a un certo punto sembrò non ci fosse più niente da aggiungere dopo che avevo finito di raccontarle le mie novità. Mi annoiavo a ripetere sempre le stesse cose. Credo fossi un po' frustrata, perché mi misi a ridere e le chiesi se mi tenesse nascosto qualcuno.» Bourne alzò la testa. «E...?» «Be', mi sembra che non lo trovasse divertente, o forse sì. Non rise, però, questo me lo ricordo bene. Io mi riferivo a un ragazzo, a un marito, ma lei mi rispose in tono feroce che io rappresentavo tutta la sua famiglia.» «Non credi che...» «No» rispose Chrissie anticipando la domanda. «Non era da lei. Non andava d'accordo con mamma e papà. Si offendeva per ogni cosa che facevano. E loro non accettavano quel sentimento di ribellione. Io ero la sorella buona. Ho seguito le orme di mio padre e sono diventata professoressa a Oxford. Tracy, invece... preoccupava non poco i miei. Fin da quando aveva tredici anni non facevano altro che litigare come cani e gatti, e un bel giorno se ne è andata di casa e non ci è più tornata. Per questo posso sostenere con sicurezza che non aveva una famiglia sua.» «E pensi sia una cosa triste?» «No» rispose Chrissie. «E da ammirare, invece.» «Be', quanto meno possiamo cercare Bourne» rifletté Marks. «Consoliamoci, dopotutto rappresenta la metà dell'equazione della Treadstone, no?» «Non essere stupido» ruggì Willard. «Liss non ha nemmeno finto di farci un'offerta pacifica, perché sapeva che altrimenti gli sarei scoppiato a ridere in faccia. Sa che sono l'unica persona al mondo, o almeno l'unica che controlla, che può arrivare a Bourne senza riportare alcun danno. Ha progettato tutto dall'inizio, è stata l'unica ragione per cui ha acconsentito a finanziarci e io ci sono cascato in pieno.» «E un prezzo un po' alto da pagare per un anello» disse Marks. «Deve essere un oggetto molto raro, o molto costoso, o molto importante.» «Vorrei rivedere la foto dell'iscrizione» rimuginò Frederick. «E l'unico modo che abbiamo per scoprire qualcosa sull'anello, dato che Liss non ci dirà nulla.» Avevano camminato lungo il Mail, dal Washington Monument fino al Lincoln Memorial, con le mani ben salde nelle tasche dei soprabiti e la schiena piegata contro il vento . All'ultimo momento avevano deciso di deviare all'altezza del Vietnam Veterans Memorial. Lungo la strada si erano accertati di non essere seguiti, ognuno a modo suo. Non si fidavano di nessuno, tanto meno di Oliver Liss . Si fermarono, e Willard fissò il muro sempre ombreggiato, fece un respiro profondo e chiuse gli occhi. Sul suo viso comparve un leggero sorriso, sornione come quello dei gatti. «Pensa di avermi fatto scacco matto, ma non sa che ho una regina che non può controllare.» Marks scosse la testa: «Cos'hai in mente?» . Willard spalancò gli occhi. «Soraya Moore.» Marks lo guardò terrorizzato. «Oh, no!» «Ti ho detto di convincerla a unirsi a noi e tu l'hai fatto.» Arrivarono due veterani in uniforme, l'uno spingeva l'altro sulla sedia a rotelle. Scesero lungo una rampa e si fermarono di fronte ai nomi scolpiti nella pietra. L'uomo sulla sedia a rotelle non aveva le gambe. Passò al suo amico un mazzolino di fiori e una miniatura della bandiera americana su un piedistallo di legno e l'amico li adagiò ai piedi del memoriale . Quando Willard distolse lo sguardo da quella scena, nei suoi occhi comparve un guizzo. «Ho il primo incarico per la Moore: trovare Leonid Arkadin.» «Hai detto che l'hai perso» puntualizzò Marks. «Come farà a trovarlo?» «Questo sarà un problema suo» rispose Frederick. «E una donna intelligente. Ho seguito la sua carriera fino a quando è arrivata a dirigere la Typhon.» Sorrise. «Abbi fede, Peter. E merce di prima qualità e ha un vantaggio enorme rispetto a noi. E bella e desiderabile. Questo significa che Arkadin non tarderà a notarla.» La sua mente correva
alla velocità della luce. «La voglio con lui, Peter. Voglio che gli stia appiccicata giorno e notte, che mi dica quello che fa e quello che ha intenzione di fare.» I due veterani tenevano la testa bassa, chiusi nei loro ricordi più intimi, mentre turisti e parenti di altri caduti passavano lì davanti. Alcuni toccavano le lettere di qualche nome. Una guida giapponese con tanto di bandierina gialla richiamò l'attenzione del suo gruppo . Marks si passò una mano tra i capelli. «Non vorrai mica che... Oh Cristo, vuoi che le menta?» L'espressione di Willard sembrava schifata. «Da quando sei diventato un boy-scout? Di sicuro non da quando sei nella CIA. Il Grande Vecchio si sarebbe mangiato il tuo cuore a colazione.» «Ma è una mia amica, Fred. Una vecchia amica.» «Non esistono amici, in questo lavoro, Peter, c'è solo qualcuno che domina qualcun altro. Io sono lo schiavo di Liss e tu sei il mio. E Soraya Moore sarà la tua. E così che funziona.» Marks era abbattuto esattamente come Willard subito dopo colazione . «Le affiderai l'incarico prima che arriviamo all'aeroporto...» Guardò l'orologio. «Hai meno di sei ore per prepararti per Londra e per entrare in azione.» Sfoderò il sorriso più grande che avesse. «Più che sufficienti per un ragazzo in gamba come te, o sbaglio?» *** Capitolo 7 . «È meglio che vada» disse Bourne. «Dovremmo riposare un po', tutti e due.» «Non ho voglia di dormire» rispose Chrissie, che con un sorriso triste canticchiò: «Bad dreams in the nights». Scosse la testa con aria interrogativa. «Kate Bush. Conosci le sue canzoni?» «Quella frase è di WutheringHeights, se non sbaglio.» «Sì, mia figlia Scarlett la adora, anche se Kate Bush non spopola tra i suoi coetanei...» Era passata la mezzanotte. Bourne aveva deciso di andare in un takeaway indiano a comprare la cena, poi ritornò nell'appartamento di Tracy; dopo un paio di bocconi, Chrissie si era messa a guardarlo mangiare. Considerando quello che era successo quel giorno, Jason non voleva farsi notare troppo in giro, nemmeno nel suo hotel . Osservò la ragazza seduta di fronte a lui e gli tornò in mente un altro frammento della conversazione con Tracy: «Nella tua testa tu puoi essere chiunque, fare qualsiasi cosa. Tutto è malleabile, mentre nel mondo reale il cambiamento, ogni cambiamento, è difficile e faticoso». «Puoi anche assumere un'identità del tutto nuova» le aveva risposto lui. « Una in cui i cambiamenti sono meno difficili perché sei in grado di ricreare la tua storia.» Lei aveva annuito. «Sì, ma significherebbe niente famiglia, niente amici...» «La notte in cui è morta» iniziò Bourne «mi ha detto una cosa che mi ha fatto capire che le sarebbe piaciuto avere una famiglia. Anche se magari in un altro tempo o in un altro posto.» Per un attimo gli sembrò che a Chrissie mancasse l'aria. «Be', questa è una cosa abbastanza ironica.» Poi la giovane donna si riprese e continuò: «Sai, la cosa buffa è che... è tragico, se ci ripenso... ma in qualche modo la invidiavo. Era libera, non si è mai sposata, poteva andare dove voleva, e lo faceva. Era un razzo, le piacevano le sensazioni forti. Era come se il pericolo... non so... fosse un afrodisiaco per lei. O magari le dava quella sensazione che molti provano sulle montagne russe, quella sensazione di estrema velocità senza rischi». Si lasciò andare a una risatina. «L'ultima volta che sono salita sulle montagne russe ho vomitato.» Un po' le dispiaceva per lei, ma la parte professionale del suo io, la vera identità di Bourne, cercava un modo di scavare più nel profondo. Voleva tentare di capire se ci fosse qualcos'altro che Chrissie poteva rivelargli su Tracy e la sua misteriosa relazione con Arkadin. La vedeva soltanto come mezzo per raggiungere il suo fine, non come un essere umano. Si odiava, ma l'obiettività era la chiave del suo successo. Questo era il vero Bourne, o almeno quello che la Treadstone ne aveva fatto. Nel bene o nel male, ormai era compromesso: addestrato e altamente specializzato. Proprio come Arkadin. Eppure tra di loro si apriva un abisso così profondo da non poterne vedere la fine. Jason e Leonid si guardavano dalle due estremità affacciate su quel baratro, visibile solo a loro due. Cercavano un modo per distruggersi a vicenda senza rovinare se stessi. A volte Bourne si chiedeva se fosse possibile, se uno dei due potesse annientare il mondo dell'altro senza rimanerne coinvolto . «Sai che cosa vorrei?» tornò a rivolgersi alla ragazza. «Ti ricordi il film Superman? Non era un granché, ma comunque Lois muore e Superman sta così male che si lancia nel vuoto. Vola
intorno al mondo, sempre più veloce. Più veloce persino del suono e della luce. Riesce a far tornare indietro il tempo fino a un attimo prima che Lois venga uccisa, e la salva.» Gli occhi di Chrissie lo guardavano, ma in realtà vedevano tutt'altro. «Vorrei essere Superman.» «Faresti tornare indietro il tempo per salvare Tracy?» «Se potessi lo farei, ma se non dovessi riuscirci... quanto meno saprei come reagire a questo maledetto dolore.» Chrissie cercò di fare un respiro profondo, strozzato però dalle lacrime. «Mi sento sprofondare, come se avessi un'ancora attaccata al collo. O forse è il corpo di Tracy, freddo e immobile... che non si muoverà più.» «Passerà» le disse Bourne . «Sì, lo spero. Ma se così non fosse?» «Vuoi seguirla laggiù, nell'oscurità? E Scarlett? Che ne sarà di lei se te ne andrai?» Chrissie avvampò e balzò in piedi. Jason la seguì in camera da letto, trovandola a fissare il pesco illuminato dalla luna. «Per la miseria, Tracy, ma dove sei? Se fosse qui ora, giuro che la strangolerei.» «O almeno le faresti promettere di non avere più niente a che fare con Arkadin.» Bourne sperò che suggerire di nuovo il nome del russo potesse farle tornare in mente qualcosa. Sentiva che erano ormai arrivati a un punto cruciale. Non aveva alcuna intenzione di mollare. Ed era sicuro che nemmeno lei lo volesse. Lui rappresentava l'unico legame che le rimaneva con la sorella, e aveva assistito alla sua morte. Questo significava molto per Chrissie. Jason avvertiva che si stava avvicinando alla soluzione, rendendo la morte di Tracy appena un po' più facile da accettare . «Chrissie» riprese gentile, «ti ha mai detto come si sono conosciuti?» La ragazza scosse la testa. «Forse in Russia. Magari a San Pietroburgo. Ci era andata per visitare l'Hermitage. Me lo ricordo bene perché dovevo accompagnarla, ma Scarlett si era beccata un'infezione alle orecchie, febbre alta, giramenti e quant'altro.» Agitò le mani. «Oh, Dio! Che vita diversa avremmo potuto avere se fossimo partite insieme! E invece... Ecco come è andata a finire. Scarlett sarà sconvolta.» D'un tratto si fermò, accigliata. «Perché sei venuto qui, Adam?» «Perché cercavo qualcosa che me la ricordasse. Perché non sapevo dove altro andare.» Si rese conto di dire la verità, almeno in parte, e voleva condividerla con lei . «Anch'io» gli raccontò lei sospirando. «Scarlett era a casa dei miei genitori quando è arrivata la chiamata. Si divertiva così tanto, e si diverte ancora molto, a giudicare dagli ultimi messaggi.» Guardò Bourne, ma poi la sua attenzione si focalizzò di nuovo da qualche altra parte. «Da' pure un'occhiata in giro, prendi qualsiasi oggetto te la faccia ricordare.» «Grazie, lo apprezzo molto.» Chrissie annuì assente e tornò a contemplare il pesco in cerca delle rondini. Un secondo dopo restò senza fiato. «Eccole!» Bourne si alzò e si avvicinò a lei. «Sono tornate.» Arkadin si svegliò all'alba, si infilò un paio di calzoncini e andò a fare jogging in spiaggia. Il cielo era pieno di pellicani. Alcuni gabbiani ingordi beccavano i resti dei falò notturni. Leonid corse fino a raggiungere i locali più lontani, poi tornò indietro. Si tuffò in acqua nuotando per quaranta minuti. Quando arrivò al convento trovò più di venti messaggi sul cellulare. Uno era di Karpov. Si fece una doccia e si vestì, poi tagliò un po' di frutta fresca. Ananas, papaya, banane e arance. Mischiò i pezzettini con dello yogurt. Ironia della sorte, in Messico stava imparando a mangiare sano . Si pulì la bocca con il dorso della mano e prese il telefono per la prima delle chiamate in programma. Venne informato che le ultime spedizioni partite dai canali di Gustavo Moreno non erano giunte a destinazione. Erano in ritardo, o forse si erano perse. Non potevano ancora stabilirlo. Ordinò all'uomo dall'altra parte di tenerlo aggiornato sugli sviluppi e riagganciò . Avrebbe dovuto occuparsi di quella questione di persona e distribuendo non poche punizioni. Poi compose il numero di Karpov . «Sono al LAX» gli comunicò il colonnello. «E ora?» «Ora ci incontriamo faccia a faccia» gli rispose Arkadin. «Ho un volo per Tucson in tarda mattinata. Tu intanto parti, noleggia un'auto decappottabile a due posti. Più è vecchia e malandata, meglio è.» Diede a Karpov le indicazioni per raggiungere il posto. «Preparati ad aspettare almeno un'ora, se non di più. Voglio essere sicuro che rispetti tutte le condizioni. Chiaro?» «Sarò lì prima del tramonto» replicò Karpov .
Bourne era ancora sveglio. Ascoltava i rumori dell'appartamento, del vicinato, di Londra. Li inspirava e li espirava come fosse un grosso animale. Si voltò quando Chrissie entrò in salotto. Era andata in camera da letto un'ora prima, verso le quattro. Ma dalla luce dell'abat-jour e dal rumore di pagine sfogliate Jason aveva capito che non si era addormentata. Forse non ci aveva nemmeno provato . «Non sei ancora andato a letto?» gli domandò con voce dolce . «No.» Bourne era seduto sul divano, con la mente immobile e scura come il fondo dell'oceano. Il sonno non l'aveva sopraffatto. Per un momento pensò anche di aver sentito Chrissie sospirare, ma si trattava solo del respiro della città . La giovane donna lo raggiunse e si sedette accanto a lui, le gambe rannicchiate sotto di sé. «Vorrei restare qui, se non ti dispiace.» Jason annuì . «Non mi hai ancora raccontato nulla di te.» Bourne non rispose, non se la sentiva di mentirle . Fuori passò una macchina, poi un'altra. Un cane abbaiò rompendo il silenzio. La città sembrava imprigionata nel ghiaccio . Il fantasma di un sorriso apparve sulle labbra della ragazza. «Proprio come Tracy.» Si raggomitolò e appoggiò la testa tra le braccia di Bourne. Adesso sì che sospirava. Si addormentò in pochi secondi. Qualche attimo dopo dormiva anche lui . «Ma sei impazzito!?» gridò Soraya Moore. «Non sedurrò Arkadin, Willard. Né per te, né per nessun altro.» «Capisco le tue paure» insistette Marks, «ma...» «No, Peter, non credo proprio che tu le capisca. Altrimenti non ci sarebbe nessun ma.» Soraya si alzò e si avvicinò alla balaustra. Erano su una panchina lungo il canale di Georgetown. Le luci brillavano, le barche ormeggiate beccheggiavano... Dietro di loro alcuni ragazzi passeggiavano abbracciati con una birra in mano. Ogni tanto si sentiva una risata provenire da un gruppo di adolescenti. La notte era mite, macchiata solo da alcune nuvole che si inseguivano sullo sfondo di un cielo sudicio . Marks si alzò e la seguì. Sospirò come se fosse stato lui a essere ferito, e la cosa fece infuriare ancor di più Soraya . «Perché la donna viene sminuita al punto di essere usata per il suo corpo!?» Non era una domanda, e Peter lo aveva capito. Gran parte della rabbia nasceva dal fatto che era stato un suo vecchio amico a farle quella proposta. Il che rientrava nei piani di Willard. Sapeva che Soraya avrebbe considerato quell'incarico più offensivo per lei che per le altre donne con un'immagine di sé meno sicura. Sapeva anche che Marks era l'unica persona che sarebbe stata in grado di convincerla. Peter era certo che se Frederick le avesse assegnato quell'incarico di persona lei lo avrebbe mandato al diavolo e se ne sarebbe andata senza pensarci due volte . E invece eccola lì, come previsto da Willard. Benché visibilmente alterata, non gli aveva ancora voltato le spalle . «Visto che gli uomini hanno sottomesso il sesso femminile per secoli, le donne hanno sfruttato le loro capacità per ottenere quello che volevano: soldi, potere e una posizione di prestigio in una società maschilista.» «Non ho bisogno di una conferenza sul ruolo delle donne nella storia» gli rispose piccata . Marks decise di ignorare il commento. «Mettila come vuoi, fatto sta che le donne possiedono un'abilità unica.» «Puoi piantarla per favore di usare l'aggettivo "unico"?» «L'abilità di attrarre gli uomini, di sedurli, di scovare i punti deboli delle loro corazze e di usarli contro di loro. Sai meglio di me quanto il sesso possa rivelarsi un'arma micidiale. Questo vale soprattutto nello spionaggio.» Si voltò verso di lei. «Nel nostro mondo.» «Lo sai che sei un vero figlio di puttana?» Soraya tornò ad appoggiarsi alla balaustra con le dita intrecciate come fanno gli uomini, emanando quella sicurezza tipicamente maschile che la caratterizzava . Marks estrasse il cellulare e le mostrò una fotografia di Arkadin. «E carino, lo stronzo, no? Ha un qualcosa di magnetico, a quanto mi hanno riferito.» «Mi fai schifo!» «Questo genere di insulto non è da te.» «E invece scoparmi Arkadin è da me?» Gli porse il cellulare, ma Peter non lo prese .
«Rifiuta pure, ma rimane sempre il fatto che lo spionaggio è il tuo lavoro. Rappresenta quello che sei. E, soprattutto, questa è la vita che ti sei scelta. Nessuno ti ha obbligata.» «No? E tu cosa stai facendo?» Marks decise che valeva la pena correre un piccolo rischio. «Non ti ho dato un ultimatum. Puoi andartene quando vuoi.» «E poi? Non avrò niente, non sarò niente.» «Puoi tornare al Cairo, sposare Amun Chalthoum e avere dei bambini.» Lo disse senza malizia, ma il concetto appariva ugualmente meschino. In ogni caso la ferì nel profondo. All'improvviso realizzò che quello era l'ultimo colpo di Danziger, quello mortale. Non solo l'aveva cacciata dalla CIA, ma il DCI si era anche assicurato che rimanesse fuori da qualsiasi altra agenzia governativa. Anche le aziende private di gestione dei rischi non si potevano prendere in considerazione: non si sarebbe mai lasciata invischiare in un gruppo di mercenari come la Black River. Si girò dall'altra parte, mordendosi il labbro per trattenere le lacrime di frustrazione. Si sentì come tante donne prima di lei, quando dovevano affrontare un mondo maschilista, prendere ordini, rinnegare le proprie opinioni, mantenere i segreti rivelati in una notte di sesso.. . «Non è uno sconosciuto, per te» le disse Marks, attento a nascondere l'agitazione che provava. «E un bastardo, Soraya. Se lo sedurrai farai una cosa buona.» «Questo lo dite voi.» «Noi diciamo quello che va fatto. Tutto qui.» «E facile, per te, non ti hanno mica chiesto di...» «Tu non lo sai quello che mi hanno chiesto di fare.» Marks la guardò fissare il canale e le luci sull'acqua. I ragazzi alla loro sinistra erano scoppiati in una risata fragorosa che aumentava di intensità coinvolgendo l'intero gruppo . «Cosa darei per essere uno di loro, in questo momento!» mormorò la donna. «Nessun pensiero...» Marks si lasciò andare a un muto sospiro di sollievo; Soraya avrebbe ingoiato la pillola amara che le aveva offerto. Avrebbe accettato l'incarico . «Curioso. Molto curioso.» Nella calda luce del mattino, Chrissie studiava l'iscrizione all'interno della fede d'oro . «Conosco molte lingue» le disse Bourne, «ma questa sembra davvero sconosciuta.» «Be', è difficile da stabilire. Ha le caratteristiche del sumero e del latino, ma non è né l'una né l'altra.» Alzò lo sguardo verso Jason. «Dove l'hai preso?» «Credo non faccia alcuna differenza...» La giovane donna scosse la testa. «Sì, hai ragione.» Lei aveva preparato il caffè, mentre Bourne frugava nel freezer. Era tornato con un paio di focaccine che, a giudicare dai cristalli di ghiaccio, dovevano essere rimaste lì dentro da molto. Avevano trovato della marmellata e mangiato in piedi, entrambi carichi di energia nervosa. Nessuno dei due aveva riparlato dell'argomento della notte precedente. Poi Bourne le aveva mostrato l'anello . «Ma questa è solo la mia opinione, non sono un'esperta.» Gli restituì l'anello. «L'unico modo di scoprire qualcosa è portarlo a Oxford. Un mio amico è professore al Centro per gli studi di documenti antichi. Se si può decifrare, lui di sicuro saprà farlo.» Era ormai passata la mezzanotte quando il tenente R. Simmons Reade aveva scovato il suo capo in un campo di squash aperto anche di notte. Il direttore della CIA si allenava lì tre volte alla settimana. Reade era l'unico interno alla CIA in grado di comunicargli brutte notizie senza farlo agitare. Era diventato il pupillo di Danziger fin da quando aveva insegnato per un breve periodo in una scuola clandestina della NSA: l'Accademia per le Operazioni speciali. Il Grande Vecchio, che disprezzava ogni cosa rappresentasse la NSA, l'aveva rinominata Accademia per i Servizi speciali, così poteva chiamarla con l'acronimo ASS, «culo» . Reade aspettò la fine dell'ultima partita e poi entrò in campo. Faceva caldo e si sentiva puzza di sudore malgrado il sistema di condizionamento . Danziger lanciò la racchetta all'istruttore, si mise un asciugamano intorno al collo e si avviò verso il tenente . «Quanto cattiva?» Non c'era bisogno di preamboli. Se Reade lo cercava a quell'ora e aveva scelto di presentarsi di persona anziché chiamarlo, aveva una brutta notizia da dargli . «Bourne ha neutralizzato tutti i nostri uomini. Chi non è morto è in stato di fermo.» «Santo cielo!» esclamò Danziger. «Ma come fa? Ora capisco perché Bud ha bisogno di me per
sconfiggerlo.» Si incamminarono verso una panchina e si sedettero. Non c'era nessun altro, oltre a loro. L'unico rumore veniva dall'impianto di condizionamento . «Bourne è ancora a Londra?» Reade annuì. «In questo momento sì, signore.» «E anche Coven è ancora lì, tenente?» Danziger lo chiamava con il grado solo quando era davvero infuriato. «Sì, signore.» «Perché non è intervenuto?» «C'erano troppi testimoni in strada.» «Altre opzioni?» «Non ce ne sono, purtroppo» rispose Reade. «Posso fare qualcosa al riguardo? Magari contattare i nostri alla NSA per...» «Non ora, Randy. Non posso sguinzagliare tutti i miei uomini. Dobbiamo giocare al meglio questa mano.» «A giudicare dal curriculum di omicidi, Coven deve essere molto bravo.» «Bene.» Il DCI si batté le mani sulle cosce e si alzò. «Lasciamogli carta bianca. Digli che può fare quello che vuole purché ci consegni Bourne.» *** Capitolo 8 . Dopo aver ricevuto da Peter Marks l'incarico di trovare e seguire Arkadin, Soraya Moore si era rintanata nell'appartamento di Delia Trane. Aveva passato le ultime due ore al telefono - il cellulare attaccato alla presa - con diversi dei suoi agenti sul campo della Typhon. Pur non essendo più una sua creatura, continuava a restare in contatto con le persone da lei ingaggiate e quindi addestrate nell'attività altamente specializzata di controllo e infiltrazione di vari gruppi sunniti e sciiti, organizzazioni ribelli, jihadisti ed estremisti dissidenti, praticamente in tutti i paesi del Medio ed Estremo Oriente. A prescindere da chi fosse ora a dare gli ordini o fosse a capo della Typhon, loro restavano fedeli a lei . In quel momento stava parlando con Yusef, il suo contatto a Khartoum. Arkadin era molto noto in quell'area, dato che riforniva il grosso degli armamenti . «Arkadin non si trova da nessuna parte in Medio Oriente» disse Yusef, «ma se è per questo non è neppure nascosto su qualche montagna dell'Azerbaigian.» «E non è neppure in Europa, Russia o Ucraina, ho già verificato» rispose Soraya. «Tu sai perché ha fatto perdere le sue tracce?» «Dimitrij Maslov, il suo ex capo e mentore, ha lanciato su di lui una fatwa, o come diavolo la chiamano i russi.» «Capisco il perché» rispose Soraya. «Maslov l'aveva reclutato per rilevare il commercio di armi da Nikolaj Evsen, cioè quello che stava facendo a Khartoum alcune settimane fa. Invece lui è scappato con l'intera lista dei clienti di Evsen, memorizzata su un server.» «Be', si dice che Maslov abbia raggiunto Arkadin a Bangalore, dove non è riuscito a ucciderlo né a catturarlo, e che adesso lui sia svanito nel nulla.» «Di questi tempi e nella nostra era, nessuno è in grado di sparire, almeno non per molto.» «Almeno adesso sai dove non è.» «Questo è abbastanza vero.» Soraya rifletté per un momento. «Chiederò a qualcuno di visionare i nastri dei controlli di sicurezza per l'immigrazione in Nord e Sudamerica, magari anche in Australia, e vediamo cosa salta fuori.» David Webb era stato alla Oxford University, l'istituzione accademica più antica di tutto il mondo anglofono, almeno il doppio delle volte rispetto a quanto ricordava Bourne, ma naturalmente potevano esserci state ancora altre visite. A quei tempi il Centro per lo studio di documenti antichi si trovava al Classics Centre, nella vecchia scuola maschile di George Street. Poi era stato trasferito in una nuova sede, l'ultramoderna Scuola di ricerca per gli studi classici e bizantini Stelios Ioannou, al 66 di St. Giles Street, in stridente contrasto con lo studio delle lingue antiche e con i solenni edifici oxfordiani del Sette e Ottocento. Questa parte della via si trovava in pieno centro di Oxford, un'antica città il cui statuto risaliva al 1191. Il centro era detto Carfax, dal francese carrefour, «incrocio»; e in realtà, le quattro principali vie di transito attraverso la città, compresa High Street, s'incrociano proprio in quel punto, famose come Hollywood Boulevard e Vine Street a Los Angeles, ma molto più cariche di storia . Chrissie aveva telefonato al suo amico professore Liam Giles prima di partire per Londra. Oxford distava una novantina di chilometri dalla capitale, e con la sua vecchia Range Rover non impiegarono più di un'ora per arrivare. Tracy le aveva lasciato la macchina quando aveva cominciato a viaggiare frequentemente . La città era proprio come la ricordava Bourne: aveva la capacità di riportare il visitatore a un'epoca di cappelli a cilindro, abiti lunghi, carrozze e comunicazione via posta. Era come se il
luogo e gli abitanti fossero stati cristallizzati nell'ambra. Tutto a Oxford faceva parte di un'altra epoca, tanto più semplice di quella attuale . Quando Chrissie riuscì a trovare un parcheggio, il sole faceva capolino da dietro nuvole gonfie, e la temperatura stava iniziando a salire, come se davvero fosse primavera. Trovarono il professor Liam Giles immerso nelle carte nel suo studio, un ampio spazio allestito come stanza da lavoro e laboratorio. Gli scaffali traboccavano di manoscritti e di spessi tomi rilegati a mano. Era chino su un testo antico, intento a studiare la riproduzione di un papiro con una lente d'ingrandimento . Chrissie gli aveva detto che il professore era il direttore del Dipartimento Richard Bancroft, ma quando alzò lo sguardo Bourne notò con sorpresa che era un uomo di appena quarantanni. Aveva naso e mento sporgenti e una calvizie incipiente, e portava gli occhialini rotondi appoggiati alla fronte larga. I corti avambracci erano coperti da una folta peluria . La preoccupazione principale di Bourne nel tornare a Oxford era che qualcuno potesse riconoscerlo come David Webb. Ma, anche se i docenti insegnavano lì da decenni, l'università era enorme, i dipartimenti tanti e comunque lontani dall'Ali Souls, il college dove più volte aveva tenuto conferenze . In ogni caso, Giles lo accolse senza problemi come Adam Stone. Sembrava davvero felice di vedere Chrissie; le chiese come stava e si informò su Scarlett, dato che evidentemente la conosceva . «Dille di venire a trovarci, ogni tanto» disse. «Ho una sorpresina per lei che penso le piacerà. So che ha solo undici anni, ma è matura come una quindicenne, e questa cosa dovrebbe divertirla parecchio.» Chrissie lo ringraziò e introdusse subito l'enigma della strana iscrizione all'interno dell'anello. Bourne gli tese l'oggetto misterioso e Giles, alla luce di una lampada speciale, studiò l'incisione dapprima a occhio nudo e poi con un monocolo da orologiaio. Andò a prendere alcuni libri da uno scaffale e cominciò a sfogliarli, scorrendo con l'indice le grandi pagine fitte di testo e piene di miniature. Spostò lo sguardo più volte tra il testo e l'anello. Alla fine alzò gli occhi su Bourne e disse: «Penso che sarebbe utile se potessi fare qualche foto dell'oggetto in questione. Le dispiace?» . Bourne lo autorizzò a procedere . Giles si spostò con l'anello su un curioso dispositivo che aveva l'aspetto di un cavo a fibre ottiche. Sistemò con attenzione l'oggetto in modo che il filamento si trovasse al centro. Poi passò ai suoi ospiti una mascherina con speciali lenti scure e ne indossò una a sua volta. Quando fu sicuro della protezione digitò un paio di comandi sulla tastiera di un computer. Seguì una serie di flash rapidissimi di un'accecante luce azzurrastra, e Bourne capì che aveva attivato un laser a luce blu . L'esplosione silenziosa finì con la stessa rapidità con cui era iniziata. Giles si tolse la mascherina e loro fecero altrettanto . «Magnifico» commentò il professore mentre faceva volare le dita sulla tastiera. «Diamogli un'occhiata.» Accese uno schermo al plasma sulla parete, dove apparve una serie di fotografie ad alta definizione, riprese ravvicinate dell'iscrizione. «Questa è l'iscrizione come appare a occhio nudo, incisa su una superficie curva a trecentosessanta gradi. Ma cosa accadrebbe se fosse stata concepita per essere letta, o vista, su una superficie piana, come la maggior parte delle scritture?» ragionò Giles ad alta voce. A questo punto lavorò sulle immagini digitali fino a unirle in una striscia. «Ci rimane quella che sembra un'unica lunga parola, cosa altamente improbabile.» Fece uno zoom sulle immagini. «Per lo meno, questo è ciò che appare sulla superficie interna dell'anello. Però adesso, con l'iscrizione messa su superficie piana, si notano due interruzioni, e dunque quello che vediamo ora sono tre gruppi distinti di lettere.» «Tre parole» commentò Bourne . «Così pare» rispose Giles con una misteriosa cantilena nella voce . «Però io vedo dei caratteri cuneiformi» intervenne Chrissie. «Immagino siano sumerici.» «Be', sicuramente sembrano sumerici» disse Giles, «ma in realtà questo è antico persiano.» Le mostrò
uno dei testi che aveva consultato prima. «Ecco, dai un'occhiata.» Mentre la donna si chinava sul libro, lui si rivolse a Bourne: «L'antico persiano deriva dal sumero-accadico, dunque possiamo perdonare l'errore alla nostra diletta Christina». La frase affettuosa stemperava la pomposità della sua dichiarazione. «Tuttavia, esiste una differenza sostanziale tra le due lingue, senza la quale è impossibile decifrare l'iscrizione. La scrittura cuneiforme accadica rappresenta delle sillabe, mentre quella dell'antico persiano è semialfabetica, ossia ciascun carattere rappresenta una lettera.» «E perché ci sono anche lettere dell'alfabeto latino?» intervenne Chrissie. «E questi simboli sconosciuti fanno parte di una lingua?» Giles sorrise. «Lei, signor Stone, mi ha sottoposto un enigma quanto mai curioso e, devo dire, tremendamente avvincente.» Indicò lo schermo. «Quello che vedete qui è un composito di antico persiano, latino e... be', in mancanza di un termine adeguato, qualcos'altro. Ritengo di conoscere qualsiasi lingua antica scoperta e catalogata finora, e questa è decisamente un corpo estraneo.» Agitò una mano. «Lo scopriremo presto.» Spostò il puntatore del mouse in orizzontale appena sotto l'iscrizione. «La prima cosa che posso dirvi è che non esiste una lingua composita: caratteri cuneiformi e lettere non possono essere mescolate. Dunque, se questa non è una lingua a sé, che cos'è esattamente?» Bourne, che stava studiando a sua volta l'iscrizione, disse: «E un codice cifrato» . Giles spalancò gli occhi dietro le lenti degli occhiali. «Molto bene, signor Stone, mi congratulo con lei.» Annuì e continuò: «In realtà, questo sembrerebbe un codice cifrato ma, come tutto in questa iscrizione, è di natura particolare». A questo punto manipolò l'immagine un'altra volta, scomponendo i blocchi e separando i caratteri cuneiformi dell'antico persiano e le lettere latine in due gruppi distinti, con lettere del terzo gruppo a formare la lingua sconosciuta . «Severus» compitò Bourne, mettendo insieme le lettere latine . «Potrebbe voler dire qualsiasi cosa o anche niente» commentò Chrissie . «Vero» disse Giles. «Ma adesso arriviamo all'antico persiano.» Manipolò i caratteri cuneiformi. «Guardate qui, adesso abbiamo una seconda parola: Domna.» «Aspetta un attimo.» Chrissie rifletté per un momento. «Settimio Severo fu nominato senatore da Marco Aurelio intorno al 172. In seguito divenne imperatore nel 193 e governò per diciott'anni, fino all'anno della sua morte. Il suo regno fu una rigida dittatura militare, come reazione alla dilagante corruzione sotto il suo predecessore, Commodo. Sul letto di morte disse ai figli una frase rimasta famosa, "Arricchite i soldati e non curatevi di tutto il resto".» «Carino» commentò Giles . «Su di lui si narrano storie interessanti. Nacque nella Libia odierna e per ampliare le dimensioni dell'esercito romano arruolò corpi ausiliari di soldati provenienti dai confini orientali dell'Impero romano, tra cui probabilmente c'erano diversi nordafricani e anche uomini provenienti da terre più lontane.» «E questo cosa c'entra?» domandò Giles . «Settimio Severo era il marito di Giulia Domna» replicò Chrissie con una nota misteriosa nella voce . «Severus Domna» disse Bourne. Qualcosa scattò nelle profondità del suo cervello lacerando veli finora impenetrabili della sua memoria. Forse era un lampo di déjà vu, o forse un indizio, chissà. In ogni caso, come tutti i frammenti della sua vita precedente riaffiorati misteriosamente alla coscienza, sarebbe presto diventato come un prurito impossibile da placare. Non aveva altra scelta se non seppellirlo di nuovo fino a che non fosse riemerso da solo . «Adam, stai bene?» Chrissie lo osservava con un'espressione perplessa, quasi allarmata . «Tutto a posto» assicurò lui. Avrebbe dovuto controllarsi, in sua presenza; era perspicace come sua sorella. «C'è altro?» Lei fece un cenno affermativo col capo. «Ed è ancora più interessante. Giulia Domna era di origine siriana: la sua famiglia veniva dall'antica città di Emesa. I suoi avi erano re-sacerdoti del potente tempio di Baal e avevano influenza su tutta la Siria.» «Quindi, qui abbiamo un'iscrizione, allo stesso tempo un codice cifrato e un anagramma, formata da antiche lingue orientali e occidentali mescolate» rifletté .
«Esattamente come Settimio Severo e Giulia Domna fusero Oriente e Occidente.» «Ma cosa significa?» chiese Bourne meditabondo. «Sembra che ci manchi ancora la chiave.» Guardò Giles aspettando una risposta da lui . Il professore annuì. «La terza lingua. Ritengo che lei abbia ragione, signor Stone. La chiave per scoprire il significato di Severus Domna deve essere nella terza parola.» Restituì l'anello a Bourne . «Dunque l'ultima lingua rimane un mistero» osservò Chrissie . «Oh, no. So esattamente di che lingua si tratta. E ugaritico, una protolingua scritta estinta esistita in una piccola ma influente area della Siria.» Guardò Chrissie. «Proprio come la tua Giulia Domna.» Indicò l'iscrizione. «Qui si può vedere, e anche qui e qui, che l'ugaritico è un anello di congiunzione importante fra le prime protolingue e la parola scritta come la conosciamo oggi, perché si tratta della prima prova conosciuta di alfabeto levantino e semitico meridionale. In altre parole, l'alfabeto greco, ebraico e latino hanno tutti le loro radici nell'ugaritico.» «Quindi lei sa che questa è una parola ugaritica» disse Bourne, «ma non ne conosce il significato.» «Ancora una volta, sì e no.» Giles andò vicino allo schermo e indicò i caratteri ugaritici, singolarmente, pronunciando la relativa lettera. «Perciò io conosco tutte le lettere, ma, come le altre due parole, anche questa è anagrammata. Per quanto l'ugaritico venga trattato brevemente nei lavori sulle lingue mediorientali, lo studio di questa protolingua richiede una specializzazione che pochi esperti hanno, in quanto l'opinione diffusa è che sia una materia giunta a un punto morto: è una lingua facilitativa e non attiva. Esistono al mondo solo due o tre studiosi di ugaritico, e io non sono tra loro, dunque se dovessi provare a decifrare l'anagramma impiegherei un'infinità di tempo che, francamente, non ho.» «Mi sorprende che esista qualcuno che lo studia» commentò Chrissie . «In effetti c'è soltanto un motivo per cui viene ancora studiato.» Giles tornò a sedersi davanti alla tastiera del computer. «Alcuni ritengono che l'ugaritico abbia... come dire, dei poteri magici.» «Per esempio come la magia nera?» domandò Bourne . Giles scoppiò a ridere. «Oddio, no, signor Stone, niente di tanto fantasioso. No, queste persone ritengono che l'ugaritico sia un elemento fondamentale per la conoscenza dell'alchimia, che sia una lingua creata per i sacerdoti e per i loro canti, allo scopo di rendere manifesto il divino. Credono inoltre che l'alchimia stessa sia una miscela di ugaritico, che si ottiene articolando i suoni giusti nel giusto ordine, e degli specifici protocolli scientifici.» «Fa pensare all'oro» osservò Chrissie . Il professore annuì. «Proprio così, oltre a tutto il resto.» «Ancora una volta, la fusione di Oriente e Occidente» fece notare Bourne, «come Severus e Domna, come l'antico persiano e il latino.» «Avvincente. Non l'avevo ancora considerato sotto questo aspetto... So che può sembrare incredibile ma, be'... adesso che avete parlato di Giulia Domna, guardate qui.» Giles digitò qualcosa sulla tastiera. Sul monitor comparve una mappa del Medio Oriente che zumò rapidamente sulla Siria attuale e quindi su un'area specifica del paese. «L'epicentro della lingua ugaritica corrisponde a questa parte della Siria, dove sorgeva il Grande Tempio di Baal, considerato da alcuni una delle divinità più potenti del mondo antico.» «Lei conosce qualcuno di questi esperti di ugaritico, professore?» chiese Bourne . «Uno» rispose Giles. «E una persona alquanto eccentrica, come lo sono un po' tutti, in questo campo misterioso e alquanto insolito. In realtà giochiamo a scacchi on-line. O meglio, sono dei protoscacchi, come li conoscevano nell'antico Egitto.» Ridacchiò. «Se me lo consente, signor Stone, io gli invierei per e-mail la foto dell'iscrizione.» «Faccia pure» disse Bourne . Giles scrisse il messaggio, allegò una copia dell'iscrizione e lo inviò. «Va pazzo per i misteri, meglio ancora se sembrano insolubili, come potete immaginare. Se non ce la fa lui, nessun altro riuscirà a tradurre questa parola.» Soraya, stesa sul letto nella stanza degli ospiti dell'appartamento di Delia, stava sognando Amun Chalthoum, l'uomo che aveva lasciato al Cairo, quando il cellulare cominciò a ronzarle in grembo. Qualche ora prima l'aveva messo in modalità silenziosa così da non disturbare l'amica che dormiva nell'altra camera .
Aprì gli occhi di scatto, le immagini del suo bel sogno sfumarono e, portando il cellulare all'orecchio, rispose con una voce bassissima: «Sì?» . «Abbiamo un riscontro» disse la voce all'altro capo. Era Safa, una delle donne della rete Typhon, la cui famiglia era stata trucidata dai terroristi in Libano. «O almeno è una possibilità. Ti sto inviando delle foto sul portatile.» «Resta in linea» le chiese Soraya . Aveva una chiavetta Internet installata nel portatile e attivò il collegamento. Trovò il file nell'account di posta e lo aprì. In allegato c'erano tre immagini. La prima era una fotografia segnaletica, testa e spalle, di Arkadin, la stessa che le aveva mostrato Peter, quindi quella doveva essere l'unica foto decente che avevano di lui. Questa versione però era più grande e più definita. Marks aveva ragione, era un uomo di bell'aspetto: sguardo intenso e tratti volitivi. E biondo. Positivo o negativo? Non ne era sicura. Le altre erano dei fotogrammi ripresi da una telecamera a circuito chiuso, immagini piatte a colori sbiaditi di un uomo robusto e muscoloso, con un comunissimo cappellino da baseball con il logo dei Dallas Cowboys, acquistato probabilmente all'aeroporto. Non riusciva a vederlo abbastanza bene in faccia da identificarlo. Ma nel secondo fotogramma l'uomo aveva tirato indietro il cappellino per grattarsi la testa. I capelli erano scurissimi e lucidi, probabilmente tinti. Forse aveva pensato di essere fuori dal raggio della telecamera, pensò osservandone l'espressione. Mise a confronto l'immagine con la foto segnaletica . «Credo che sia lui» disse . «Anch'io. Le immagini sono state riprese dalle telecamere dell'Immigrazione all'aeroporto di Dallas-FortWorth, otto giorni fa.» Perché è andato in Texas, si chiese Soraya, e non a New York o a Los Angeles ? «È arrivato con un volo dal Charles de Gaulle di Paris con il nome di Stanley Kowalski.» «Stai scherzando!» esclamò Soraya. «Niente affatto.» Quell'uomo aveva decisamente il senso dell'umorismo . *** Capitolo 9 . Leonid Arkadin guardava con occhi socchiusi la decappottabile malandata color fango che avanzava sobbalzando sulla strada che portava alla banchina. Il sole era come una bandiera insanguinata all'orizzonte. Un'altra giornata torrida . Con il binocolo osservò Boris Karpov parcheggiare la macchina, scendere e sgranchirsi le gambe. Ora che non c'era più una dirigenza il colonnello non aveva altra scelta che muoversi da solo. Karpov si guardò intorno e per un attimo si soffermò proprio dove si trovava appostato Arkadin, prima di spostare lo sguardo senza vederlo. Arkadin era perfettamente camuffato, disteso sul tetto in lamiera ondulata della baracca di un pescatore sotto l'insegna verniciata a mano che segnalava bodega — pescado fresco a dario . Le mosche ronzavano fastidiose e il lezzo di pesce lo avvolgeva come una nube tossica, mentre la lamiera che aveva immagazzinato il calore del sole gli scottava stomaco, ginocchia e gomiti come fosse il pavimento di una fornace; eppure nulla lo distraeva dalla sorveglianza . Vide Karpov fare la fila per la crociera del tramonto, pagare il biglietto e salire a bordo dello schooner che tutti i giorni portava i turisti al Mare di Cortés. A parte l'equipaggio di messicani e marinai brizzolati, Karpov, con i suoi trent'anni abbondanti, era il più vecchio a bordo. «Un pesce fuor d'acqua» era la definizione migliore; in quel momento si trovava sul ponte, in mezzo a un gruppo di ragazze festaiole in bikini e i loro accompagnatori ubriachi con gli ormoni impazziti. Più era a disagio il colonnello, e più la cosa divertiva Arkadin . Dieci minuti dopo che lo schooner ebbe issato le vele per prendere il largo, Leonid Danilovic scese dalla baracca e si incamminò lungo la banchina, dove si trovava il motoscafo: una barca in vetroresina lunga e affilata che era, in pratica, tutta motore. El Heraldo (Dio solo sapeva da dove gli venisse quel nome) lo aspettava per aiutarlo a mollare gli ormeggi . «E tutto pronto, capo, come voleva lei.» Arkadin sorrise al messicano e gli strinse energicamente la spalla. «Cosa farei senza di te, amico mio?» E gli fece scivolare in mano venti dollari .
El Heraldo, un uomo basso e ben piantato, con la postura a gambe larghe tipica dell'uomo di mare, fece un largo sorriso mentre Arkadin saliva a bordo del motoscafo. Andò subito al frigo portatile pieno di ghiaccio, lo aprì, frugò con la mano tra i cubetti e vi nascose un oggetto che aveva inserito in una busta richiudibile a tenuta stagna. Poi si mise al volante. Quando avviò i motori, un brontolio lungo, basso e catarroso attraversò l'acqua sotto la poppa, assieme allo sbuffo di fumo azzurro del carburante marino. El Heraldo sciolse le cime a prua e a poppa salutando con la mano Arkadin mentre si allontanava dalla banchina in direzione delle boe che segnalavano il canale di uscita. Di fronte si stendeva il mare aperto, con i flutti blu cobalto punteggiati dal rosso del sole al tramonto . Il mare era calmo e senza onde, più simile a un fiume. Assomigliava alla Neva, pensò Arkadin. Ritornò con la mente al passato, ai tramonti di San Pietroburgo, il cielo di velluto e il fiume ghiacciato, lui e Tracy seduti l'uno di fronte all'altra a un tavolino del Doma con vista panoramica sull'acqua. A parte l'Hermitage, la riva era dominata da sontuosi palazzi che gli ricordavano Venezia, rimasti indenni anche dopo Stalin e i suoi successori. Persino l'Ammiragliato aveva una sua bellezza, così lontana dalla griglia architettura militare di tanti edifici in altre città russe . Davanti a blinì e caviale lei parlava delle opere d'arte esposte all'Hermitage, assorbita completamente dalla loro storia. Lui trovava divertente che poco lontano, sul fondo della Neva, giacesse il cadavere di un uomo politico, avvolto e legato come un sacco di patate marce e zavorrato con barre di piombo. Il fiume scorreva placido come sempre e celava alla vista l'oscurità fangosa. Si chiese brevemente se ci fossero pesci nel fiume e, nel caso, cosa avessero fatto del raccapricciante involto che aveva consegnato loro poche ore prima . «Devo chiederti una cosa» disse lei quando furono al dolce . Lui l'aveva guardata con aria interrogativa . Tracy aveva esitato, quasi non fosse sicura di come dovesse procedere, o se fosse meglio tacere. Alla fine bevve un sorso d'acqua e continuò: «Non è facile, per me, anche se, stranamente, il fatto che ci conosciamo appena lo rende un po' più agevole» . «Spesso è più semplice parlare con chi si conosce da poco.» Lei annuì, ma era pallida in volto e sembrava che le parole le si fossero fermate in gola. «In realtà si tratta di un favore.» Arkadin non aspettava altro. «Se posso esserti d'aiuto, lo farò volentieri. Che genere di favore?» Fuori, sulla Neva, una lunga nave turistica arava lentamente la superficie del fiume, i riflettori che illuminavano ampi squarci del fiume e dei palazzi sulle due rive. Avrebbero potuto essere a Parigi, una città in cui Arkadin era riuscito a perdersi diverse volte, anche se per breve tempo . «Ho bisogno di aiuto» disse lei con un filo di voce che lo costrinse ad appoggiare i gomiti sul tavolo e a protendersi verso di lei. «Quel tipo di aiuto che il tuo amico... come hai detto che si chiamava?» «Oserov.» «Giusto. Sono sempre stata brava a valutare le persone al volo. Il tuo amico Oserov mi sembra proprio il tipo di uomo che mi serve, ho ragione?» «Perché, che tipo di uomo è?» chiese Arkadin, domandandosi dove stesse andando a parare e come mai quella donna, di solito dalla parlantina così sciolta, in quel frangente facesse fatica a trovare le parole . «Disponibile.» Arkadin scoppiò a ridere. Quella ragazza ragionava come lui. «Perché hai bisogno di lui, esattamente?» «Preferirei dirglielo di persona.» «Non gli sei rimasta simpatica. Magari è meglio se prima ne parli con me.» Lei guardò fuori dalla vetrata il fiume e la riva opposta, poi si girò di nuovo verso di lui. «D'accordo.» Trasse un respiro profondo. «Mio fratello è nei guai, guai seri. Devo trovare un modo, che sia definitivo, per tirarlo fuori.» Suo fratello era un criminale? «Immagino che la polizia non debba saperne niente.» Lei fece una risata amara. «Vorrei poter andare dalla polizia, ma sfortunatamente non posso.» Arkadin si protese verso di lei. «Dimmi, che cosa ha combinato?» «E dentro fino al collo in una storia di debiti, ha avuto problemi di gioco. Io gli ho prestato dei soldi ma si è giocato anche quelli e, quando è rimasto per l'ennesima volta al verde, ha rubato un'opera d'arte che dovevo consegnare. Sono riuscita a rabbonire il mio cliente, grazie a Dio, ma se questa cosa si venisse a sapere io sarei finita.» «E immagino che il peggio debba ancora arrivare.» Tracy assentì, con
aria infelice. «Si è rivolto alle persone sbagliate, ha ricevuto un terzo di quanto pattuito, una cifra che comunque non gli sarebbe bastata. Adesso, a meno di saldare il conto immediatamente, l'usuraio lo farà ammazzare.» «E questo usuraio è così potente da poterlo fare?» «Oh, sì.» «Tanto meglio.» Arkadin sorrise. Aveva pensato che sarebbe stato divertente aiutarla ma, come negli scacchi, era già riuscito a prevedere come darle scacco matto. «Me ne occupo io.» «Tutto ciò che ti chiedo» disse lei «è di presentarmi Oserov.» «Te l'ho appena detto: non hai bisogno di lui. Sarò io a farti il favore.» «No» rifiutò lei in tono fermo. «Non voglio coinvolgerti.» Arkadin allargò le mani. «Sono già coinvolto.» «Non voglio coinvolgerti più di così.» La luce sopra il tavolo la illuminava come se fosse la protagonista di una scena teatrale sul punto di rivelare agli spettatori in platea un segreto che li avrebbe fatti sospirare. «E per quanto riguarda Oserov, a meno che non mi sia sbagliata, gli piacciono così tanto i soldi che supererà l'antipatia che prova per me.» Arkadin rise di nuovo, nonostante tutto. Stava per dirle che non poteva parlare con Oserov, ma qualcosa nei suoi occhi lo fece desistere. Pensò che lei si sarebbe alzata per andarsene, che non l'avrebbe mai più rivista. E non voleva che questo accadesse, perché avrebbe perso il vantaggio che aveva su di lei e l'occasione di poterlo sfruttare . Il forte beccheggio del motoscafo riportò Arkadin alla realtà. Aveva attraversato la scia dello schooner e ora stava puntando dritto verso la fiancata di babordo. Prese il microfono della radio a due canali e parlò con il capitano dello schooner, con il quale si era accordato in precedenza . Cinque minuti dopo il motoscafo ondeggiava a fianco del veliero, dal quale avevano calato una scaletta di corda che il corpulento Boris Karpov usò per scendere . «Bel posto per incontrarsi tra russi, eh, colonnello?» ironizzò con un sorriso e una strizzata d'occhio . «Ammetto che ero ansioso di incontrarti» rispose Karpov, «anche se in circostanze decisamente diverse.» «Sì, dove io dovrei essere in manette o morto in una pozza di sangue, immagino.» Karpov sembrava respirare con difficoltà. «Sei tu che ti sei fatto la reputazione di uno che mutila e uccide.» «E difficile per chiunque essere all'altezza di questo tipo di voci.» Arkadin notò divertito che Karpov, piuttosto pallido in volto, non sembrava avere voglia di scherzare. «Non preoccuparti, il mal di mare dura solo finché siamo sull'acqua.» Ridacchiò quando la scaletta venne ritirata. Si allontanò dallo schooner, lasciando dietro di sé una scia bianca. La prua si sollevò appena il motoscafo acquistò velocità e Karpov si sedette con un sonoro tonfo, tenendo la testa tra le ginocchia . «Ti suggerisco di stare dritto e di guardare un punto fisso all'orizzonte, per esempio quel cargo laggiù. Avrai meno nausea» disse Arkadin . Karpov fece come gli aveva consigliato . «E non dimenticarti di respirare.» Arkadin fece rotta a sud-sud-est e quando ritenne di essere sufficientemente lontano dallo schooner mise i motori in folle, si girò e si rivolse al suo passeggero . «Se c'è una cosa che devo dire del nostro governo è che addestra molto bene i suoi dipendenti a seguire gli ordini alla lettera» commentò Arkadin con un piccolo inchino. «Congratulazioni.» «Vaffanculo» ringhiò Karpov, prima di girarsi verso l'acqua e vomitare copiosamente . Arkadin aprì il frigo portatile procurato da El Heraldo e ne estrasse una bottiglia di vodka ghiacciata. «Non facciamo troppe cerimonie, in mare. Ecco, prendi un po' di questa, ti aiuterà a sistemarti lo stomaco.» Tese la bottiglia a Karpov. «Però fammi la cortesia di pulirti la bocca prima di bere dalla bottiglia.» Karpov raccolse con la mano dell'acqua di mare, si sciacquò la bocca e risputò in mare. Poi svitò il tappo e prese una lunga sorsata. Inghiottì la vodka con gli occhi chiusi . «Ora va meglio.» Restituì la bottiglia ad Arkadin. «E adesso parliamo di affari, non vedo l'ora di tornare sulla terraferma.» Ma prima che Arkadin potesse replicare si girò e vomitò di nuovo oltre la fiancata del fuoribordo. Era pallido e debole. Gemette quando Arkadin lo perquisì alla ricerca di un'arma o di un registratore elettronico .
Era pulito. Arkadin si allontanò e attese che Karpov si sciacquasse di nuovo la bocca, poi disse: «Credo sia meglio riportarti a terra il prima possibile» . Ripose la bottiglia nel frigorifero, offrì al colonnello una manciata di cubetti di ghiaccio e si rimise alla guida. Puntò a sud, seguendo una fila di pellicani bianchi e grigi in formazione perfetta che volavano bassi sull'acqua scura. Alla fine imboccò l'estuario dell'Estero Morua e si fermò nell'acqua bassa. A est il cielo era già scuro, mentre a ovest pareva una brace ardente, che brillava in lontananza nel vano tentativo di respingere le tenebre . Guadagnarono la riva a piedi, con Arkadin che trasportava senza sforzo il frigo portatile su una spalla. Appena giunsero sulla spiaggia, Karpov si lasciò cadere sulla sabbia. Sembrava ancora provato e aveva un aspetto orrendo mentre si toglieva goffamente scarpe e calze inzuppate. Arkadin, che calzava sandali anfibi, non aveva di questi problemi . Si diede da fare per raccogliere legna secca e accendere un fuoco. Aveva già bevuto una birra Dos Equis e ne stava aprendo un'altra quando il colonnello gliene chiese stancamente un po' . «Sarà meglio mandar giù qualcosa prima.» Arkadin gli tese un piccolo involto di carta, ma Karpov si limitò a scuotere la testa . «Come preferisci.» Arkadin infilò il naso in un burrito di carne accompagnato da una tortilla fresca e inalò soddisfatto . «Cristo santo» mormorò Karpov, girando la testa . «Ah, il Messico!» Arkadin addentò il burrito con gusto. «E un vero peccato che tu non mi abbia dato ascolto quando ti ho dato appuntamento al magazzino di Maslov» disse tra un boccone e l'altro . «Non cominciare!» scattò Karpov con rabbia. «Era plausibile che quella fosse una trappola su mandato di Maslov. Che cosa ti aspettavi che facessi?» Arkadin si strinse nelle spalle. «Dunque, un'opportunità sprecata.» «Che cosa ti ho appena detto? «Quello che intendo dire è che con un uomo come Maslov non se ne hanno più di due.» «So benissimo quel cazzo che intendi dire» sbraitò il colonnello . Arkadin reagì con una calma ammirevole. «Ne è passata di acqua sotto i ponti.» Stappò un'altra Dos Equis e gliela allungò . Karpov strinse gli occhi: sembrava che stesse contando mentalmente fino a dieci. Quando li riaprì, disse nel tono di voce più neutro che riuscì a trovare: «Sono venuto fin qui per ascoltare, quindi sarà meglio se mi racconti qualcosa di interessante» . Divorato il burrito, Arkadin si pulì le mani e prese un'altra birra per buttare giù la cena. «Tu vuoi i nomi di quelle talpe. Non ti biasimo, anch'io li vorrei se fossi al tuo posto, e ho tutte le intenzioni di darteli: prima però voglio delle garanzie.» «Eccoci al punto» commentò Karpov stancamente. Si passò la bottiglia gelata sulla fronte imperlata di sudore. «Va bene, qual è il tuo prezzo?» «L'immunità permanente per me.» «E cosa fatta.» «E voglio la testa di Dimitrij Maslov su un vassoio d'argento.» Karpov gli scoccò un'occhiata strana. «Che cosa c'è tra voi due?» «Esigo una risposta.» «Cosa fatta anche questa.» «Mi serve una garanzia» insistette Arkadin. «Nonostante tutti i tuoi sforzi, Maslov continua ad avere a disposizione un intero plotone di uomini, dagli apparatcik della FSB ai politici regionali, fino ai giudici federali. Non voglio che mi scappi dal ceppo.» «Be', questo dipende dalla qualità, dalla precisione e dalla quantità delle notizie che mi fornirai, non credi?» «Non preoccuparti di questo, colonnello. Tutto quello che ho è solido come una roccia ed estremamente pericoloso per lui.» «Allora ti ripeto che è cosa fatta.» Karpov bevve qualche sorso di birra. «Qualcos'altro?» «Sì.» Karpov, che stava esaminando una delle sue scarpe zuppe d'acqua, annuì con aria cupa. «C'è sempre qualcosa d'altro, vero?» «Voglio che Oserov sia assegnato a me.» Karpov aggrottò la fronte togliendo un filo d'alga dall'interno della scarpa. «Oserov risponde direttamente a Maslov ed è il secondo nella linea di comando, quindi tenerlo fuori dal bersaglio sarà un po' complicato.» «Non me ne frega un cazzo.» «Per favore, evita di essere così prevedibile» replicò asciutto Karpov. Si fermò un attimo a riflettere, quindi prese una decisione e annuì energicamente. «Va bene, allora.» Alzò un dito. «Però devo avvertirti che quando mi muoverò tu avrai al massimo
dodici ore per occuparti di lui. Dopodiché, lui torna a essere un mio uomo insieme a tutti gli altri.» Arkadin tese la mano e strinse quella di Karpov, che aveva una presa forte e ruvida, da manovale. Gli piaceva. Poteva anche essere un dipendente statale, ma non era un parassita: era un uomo che non avrebbe cercato di fregarlo, ne era certo . In quel preciso istante Karpov aggredì Arkadin, stringendogli il collo con una mano e alzandogli il mento, mentre con l'altra impugnava una lama da rasoio che gli appoggiò alla gola . «Dentro la scarpa.» Arkadin rimase seduto, perfettamente immobile. «Efficace e a bassa tecnologia.» «Stammi a sentire, razza di delinquente, non mi va per niente di essere infinocchiato, come hai già fatto al magazzino. Adesso Maslov è avvisato e starà in guardia, il che renderà molto più difficile farlo cadere. Non hai fatto altro che trattarmi senza il minimo rispetto. Sei un bastardo assassino, la più bassa forma di vita che puoi trovare in un mucchio di merda. Sei uno che usa l'intimidazione, la tortura, tormenta le persone e poi le ammazza come se la vita umana non avesse alcun valore. Mi sento sporco solo a starti vicino, ma voglio Dimitrij Maslov più di quanto voglia uccidere te e quindi mi abbasserò al tuo livello. La vita è piena di compromessi e ogni volta le tue mani affondano sempre di più nel sangue, questo lo posso accettare. Ma se tu e io dovremo lavorare assieme, tu mi mostrerai il rispetto che merito oppure giuro sulla tomba di mio padre che ti taglio la gola qui e ora, giro sui tacchi e mi dimentico di averti mai incontrato.» Avvicinò la faccia a quella di Arkadin. «Ci siamo capiti, Leonid Danilovic?» «Non puoi toccare Maslov se le talpe rimangono al loro posto.» Arkadin fissava un punto dritto davanti a sé, ossia il cielo notturno in cui le stelle brillavano come occhi distanti che osservavano l'agitarsi del genere umano con disprezzo o indifferenza . Karpov gli strattonò il collo. «Ci siamo capiti?» «Sì.» Si rilassò un poco quando il colonnello mise via il rasoio. Non si era sbagliato sulla natura schietta di Karpov: non era un uomo che si faceva intimidire, neppure dalla temibile burocrazia russa. Arkadin gli rese silenziosamente onore . «Il tuo primo problema è beccare le talpe nella cucina della FSB-2.» «Vuoi dire lungo il battiscopa?» Arkadin scosse il capo. «Se così fosse, mio caro colonnello, i tuoi sarebbero problemi facilmente risolvibili. No, intendo proprio la cucina, dato che uno degli chef è un uomo di Maslov.» Per qualche momento nessuno dei due parlò, in un silenzio rotto soltanto dal leggero sciabordio dell'acqua e dalle strida degli ultimi gabbiani prima della notte. La luna sbucò da dietro un banco di nuvole basse, illuminando i due uomini di una luce azzurrina e disseminando punti luminosi sulla superficie increspata del mare nero . «Chi è?» chiese Karpov dopo la lunga pausa . «Non sono sicuro che tu abbia voglia di sentirlo.» «Neanch'io sono sicuro ma, che cazzo, è troppo tardi per fermarsi, adesso.» «E proprio così, no?» Arkadin prese di tasca un pacchetto di sigarette turche e ne offrì una al colonnello . «Sto cercando di abbandonare i vizi.» «E una preoccupazione inutile.» «Non se soffri di ipertensione.» Arkadin si accese una sigaretta, ripose il pacchetto e fece un lungo tiro. Mentre esalava il fumo dalle narici, disse: «Melor Bukin, il tuo superiore, riferisce a Maslov» . Gli occhi di Karpov si accesero. «Stronzo, mi stai prendendo in giro un'altra volta?» Senza una parola, Arkadin prese la busta di plastica che aveva sistemato sul fondo del frigo portatile, l'aprì e gli mostrò il contenuto. Poi si girò ad aggiungere altri pezzi di legno sul falò morente . Karpov si avvicinò al fuoco per vedere meglio. Arkadin gli aveva dato uno di quei cellulari usa e getta che si acquistano ovunque, sul quale le chiamate non possono essere rintracciate. Provò a schiacciare qualche tasto . «Audio e video» spiegò Arkadin prendendo un bastone per sistemare la legna. Pensando a quel giorno o a uno simile, aveva usato il cellulare per registrare di nascosto alcuni incontri fra Maslov e Bukin ai quali era stato presente anche lui. Sapeva che il colonnello non avrebbe avuto più dubbi dopo aver esaminato le prove .
Alla fine Karpov sollevò uno sguardo tetro dal piccolo display. «Dovrò tenerlo, questo.» Arkadin fece un cenno con la mano. «E compreso nel servizio.» Da qualche punto in lontananza il vento portò loro il ronzio del motore di un piccolo aeroplano, un suono poco più forte del volo di una zanzara . «E poi chi altro?» domandò Karpov . «Io ne conosco due, i nomi dei quali sono sull'elenco telefonico, ma potrebbero essercene altri. Temo che dovrai chiederlo al tuo capo.» Karpov aggrottò la fronte. «Non sarà facile.» «Anche alla luce di questa prova?» Karpov sospirò. «Dovrò prenderlo in contropiede, isolarlo completamente prima che abbia la possibilità di contattare qualcuno.» «E rischioso» osservò Arkadin. «D'altra parte, se ti presenterai dal presidente Imov con la prova di questo scandalo, sono certo che ti darà carta bianca con Bukin.» Karpov sembrò riflettere a quell'idea. Bene. Arkadin sorrise dentro di sé. Melor Bukin aveva fatto carriera tra gli apparatcik soprattutto per opera del presidente, e poi era stato scelto da Viktor Cerkesov, il capo della FSB-2. Al Cremlino c'era una guerra in corso tra Cerkesov e Nikolaj Patrusev della FSB, noto pupillo e seguace di Imov. Cerkesov si era costituito una solida base di potere senza il sostegno del presidente. Arkadin aveva le sue ragioni per voler abbattere Bukin. Quando Karpov avesse messo dietro le sbarre Bukin, sarebbe stato seguito a breve da Cerkesov, il suo mentore. Cerkesov era l'unica spina nel fianco che non era riuscito a togliersi, ma adesso Karpov se ne sarebbe occupato al posto suo . Ma non c'era tempo per crogiolarsi. Nella mente stava già elaborando altre questioni più personali. Per esempio, i numerosi modi per vendicarsi di Karpov per avergli puntato un rasoio alla gola. Stava già immaginando la scena in cui era lui, con il suo rasoio, a tagliare la gola del colonnello . *** Capitolo 10 . Moira e Jalal Essai sedevano nel loro quartier generale temporaneo, nella suite di un hotel di Washington. Tra loro c'erano il computer portatile di Essai e un altro portatile che Moira, avendolo acquistato il giorno prima, sapeva essere assolutamente pulito. Lo aveva già potenziato, accrescendo di molto le sue prestazioni originarie . Stava per chiedergli come procedere, dando per scontato che tutti i suoi sistemi fossero stati compromessi, ma era una preoccupazione inutile. Scoprì presto che Essai aveva numerose informazioni sul computer e che non aveva difficoltà a comunicargliele. Di recente era caduto nelle mani di Gustavo Moreno, un grosso commerciante di droga che viveva alla periferia di Città del Messico. Moreno era stato ucciso qualche mese prima, quando nella sua tenuta aveva fatto irruzione un gruppo di agenti fingendosi petrolieri russi . «Il gruppo era capeggiato dal colonnello Boris Karpov» disse Essai . Curioso, pensò Moira. Ma in fondo sapeva quanto fosse piccolo e circoscritto quel mondo. Era stato Bourne a parlarle del colonnello; erano amici, per quanto potessero esserlo due persone di quel genere . «E quindi adesso è Karpov ad avere quel computer.» «Purtroppo no» rispose Essai. «Il computer è stato portato via dalla tenuta di Moreno da uno dei suoi, poco prima del raid.» «Uno dei suoi che ovviamente lavorava per chi... un rivale?» «Forse, non lo so» disse Essai . «Come si chiama il ladro?» «Nome, foto, tutto quanto.» Essai ruotò lo schermo del computer verso di lei e ingrandì l'immagine. «Però questo è un vicolo cieco. E stato trovato morto una settimana dopo il raid.» «Dove?» s'informò Moira . «Poco lontano da Amatitàn.» Essai passò su Google Earth e inserì alcune coordinate. Il globo terrestre si mise a ruotare fino a inquadrare la costa nordoccidentale del Messico. Indicò un punto. Amatitàn era nello Stato di Jalisco, al centro del paese della tequila. «Proprio qui. Casualmente, nell'estancia della sorella di Moreno, Berengària, anche se dopo aver sposato il magnate della tequila Narsico Skydel si fa chiamare Barbara Skydel.» «Mi sembra di ricordare una nota su Narsico alla Black River. E cugino di Roberto Corellos, il signore della droga colombiano adesso dietro le sbarre, giusto?» Essai annuì. «Narsico sta cercando da qualche
tempo di prendere le distanze dal cugino criminale. Non torna in Colombia da dieci anni. Cinque anni fa, non riuscendo a scrollarsi di dosso la cattiva reputazione della sua famiglia, ha cambiato nome ed è entrato con una compartecipazione nella distilleria di tequila più grande del Messico. Adesso ne è il proprietario e negli ultimi due anni ha fatto volare gli utili.» «Sposare Berengària può averlo danneggiato» commentò Moira . «Non saprei. Lei si è dimostrata una donna d'affari spietata. Molti ritengono che dietro l'espansione ci sia lei. Penso sia più disposta di lui ad assumersi dei rischi calcolati, e finora non ha ancora fatto passi falsi.» «In che rapporti era con Gustavo?» «A quanto ci risulta, i due fratelli erano molto legati, almeno dopo la morte della madre.» «Credi che anche lei fosse coinvolta nei suoi traffici?» Essai incrociò le braccia sul petto. «Difficile da stabilire. Anche se lo era, non lo dava a vedere, quindi non c'è niente che la colleghi direttamente alle attività di Gustavo.» «Però tu hai detto che era senza scrupoli, molto scaltra.» Lui aggrottò la fronte. «Sospetti che avesse il suo informatore tra i collaboratori del fratello?» Moira si strinse nelle spalle. «Chi può dirlo?» «Nessuno di loro sarebbe tanto stupido.» Moira annuì. «Sono d'accordo, anche se qualcuno vuole farci credere che uno di loro abbia ammazzato la talpa. Forse parlare con loro potrebbe rivelarsi utile. Ma prima vorrei fare visita a Roberto Corellos.» Essai sorrise in un modo che raggelò Moira. «Vedo, signorina Trevor, che ha già cominciato a guadagnarsi il suo onorario.» Bourne e Chrissie stavano rientrando sotto un acquazzone che li aveva colti di sorpresa, quando il cellulare di lui squillò . «Signor Stone?» «Salve, professore» rispose Bourne . «Ho alcune novità» esordì Giles. «Ho ricevuto un'email di risposta dal mio avversario di scacchi. Pare che abbia risolto l'enigma della terza parola.» «Che cos'è?» chiese Bourne . «Dominium.» «Dominium» ripetè Bourne. «Dunque, le tre parole incise all'interno dell'anello sono: Severus Domna Dominium. Cosa significa?» «Be', potrebbe essere una formula magica» azzardò Giles, «o un epiteto, una minaccia. Potrebbero addirittura essere, ma qui ammetto di star lavorando di fantasia, le istruzioni per trasformare il piombo in oro. Senza ulteriori informazioni temo che non abbiamo modo di scoprirlo.» La strada che si stendeva davanti a loro era inondata d'acqua e i tergicristalli spazzavano il parabrezza. Bourne controllò lo specchietto laterale, come faceva automaticamente più o meno ogni trenta secondi . «Il mio amico mi ha riferito una cosuccia interessante sull'ugaritico, anche se non so quanto potrebbe essere utile. Chi se ne occupa sa che esistono documenti, o per lo meno frammenti di documenti, ritenuti provenienti dalla corte di re Salomone. Sembra che gli astrologi di Salomone parlassero ugaritico tra loro e che credessero nei suoi poteri alchemici.» Bourne scoppiò a ridere. «Con tutte le leggende sull'oro di re Salomone, posso ben capire come mai gli scienziati antichi credessero che l'alchimia fosse la chiave per trasformare il piombo in oro.» «E la stessa cosa che gli ho risposto io.» «Grazie, professore. La sua consulenza è stata preziosa.» «A sua disposizione, signor Stone. Un amico di Christina è amico mio.» Quando Bourne chiuse la telefonata, notò che il camion nero e oro che si era spostato nella loro corsia poco prima, aveva superato tre veicoli e si trovava proprio dietro di loro . «Chrissie, preferirei che uscissi dall'autostrada» disse in tono calmo. «E appena siamo fuori, accosta.» «Ti senti bene?» Jason non replicò, ma continuò a controllare lo specchietto. Poi allungò un braccio impedendole di usare la leva dell'indicatore di direzione. «Non mettere la freccia.» Lei sgranò gli occhi e rimase per un momento senza fiato. «Che succede?» «Fai quello che ti dico e andrà tutto bene.» «Non mi hai tranquillizzata affatto.» Si spostò nella corsia di sinistra quando intravvide il cartello stradale dell'uscita successiva attraverso la cortina d'acqua. «Adam, mi stai spaventando.» «Non era mia intenzione.» Imboccò la rampa di uscita, che curvava subito a sinistra e accostò sul ciglio. «Allora, che intenzioni hai?» «Di guidare» rispose lui. «Lasciami il posto.» Lei scese dalla Range Rover, per ripararsi dalla pioggia si coprì la testa, incassata tra le spalle, e fece il giro dell'auto, saltando sul sedile del passeggero. Non aveva ancora chiuso la portiera quando Bourne vide il camion che imboccava la curva della rampa di uscita. Ingranò immediatamente la marcia e ripartì .
Il camion li tallonava, come se fosse agganciato alla Range Rover. Bourne accelerò, bruciò un semaforo rosso e rientrò in autostrada. Non c'era molto traffico, quindi riuscì a passare da una corsia all'altra senza problemi. Mentre pensava a quanto fosse scomodo inseguire qualcuno con un camion, furono affiancati da una Bmw grigia . Quando il finestrino si aprì, Bourne gridò a Chrissie di stare giù. La spinse in basso e si piegò sul volante mentre una raffica di proiettili mandava in frantumi il cristallo del lato guida. In quel momento vide sopraggiungere il camion nero e oro; intendevano schiacciarlo tra i due veicoli . Le due auto procedevano affiancate e pericolosamente vicine. Bourne arrischiò un'occhiata allo specchietto retrovisore. Avevano il camion incollato dietro . «Tieniti forte» disse a Chrissie, che era piegata al massimo consentito dalla cintura di sicurezza, con le mani sopra la testa . Sterzò e inchiodò. Per un secondo la Range Rover slittò sull'asfalto bagnato, ma poi si rimise in assetto. Il paraurti posteriore destro si accartocciò nell'impatto contro il camion e la Range Rover sbandò, ma in modo calcolato, andando a sfondare la Bmw con il paraurti posteriore del lato guida come fosse una palla di cannone. Sotto la forza d'urto la Bmw sbandò sulla destra e, ormai fuori controllo, andò a sbattere contro il guardrail; tutta la fiancata sinistra si squarciò. Ci furono un fuoco d'artificio di scintille e un terrificante stridio metallico mentre l'auto rimbalzava sul guardrail facendo un testacoda. Il muso era puntato direttamente contro la Range Rover e Bourne sterzò a destra, tagliando la strada a una Mini gialla. Si udirono rumori di frenate e l'urlo dei clacson nello stesso istante in cui i paraurti di parecchie auto andarono a schiacciarsi in un tamponamento a catena. Bourne accelerò per infilarsi nel varco, superò una serie di veicoli e si ritrovò sulla corsia veloce . «Gesù!» sussurrò Chrissie. «Gesù Cristo.» La Range Rover, pur semidistrutta, teneva la strada. Bourne non riusciva più a vedere la Bmw incidentata o il camion nero e oro nello specchietto retrovisore . Dopo uno scontro o un incidente, anche evitato per un soffio, tutto torna tranquillo, o forse l'orecchio umano, traumatizzato come tutto l'organismo, diventa temporaneamente sordo. In ogni caso nel Suv pesava un silenzio assoluto mentre Bourne usciva dall'autostrada per ritrovarsi su strade fiancheggiate da grandi magazzini e capannoni, dove non si sentivano grida di terrore, clacson febbrili o stridio di freni; lì regnava un ordine perfetto e il caos dell'autostrada sembrava far parte di un altro mondo. Proseguì fino a trovare uno spiazzo deserto e si fermò . Chrissie era silenziosa, pallidissima. Le tremavano le mani, che teneva in grembo. Sembrava sul punto di piangere per il terrore e il sollievo insieme . «Chi sei?» gli chiese dopo qualche minuto. «Perché qualcuno sta cercando di ucciderti?» «Vogliono l'anello» rispose Bourne. Dopo quello che era appena accaduto le doveva almeno un minimo di verità. «Non so ancora perché, ma sto cercando di capirlo.» Lei si girò a fissarlo. I suoi occhi sembravano chiarissimi. O forse era soltanto un gioco di luci? Bourne non lo pensava . «Tracy aveva a che fare con questo anello?» «Forse, non lo so.» Bourne rimise in moto e riprese la strada. «I suoi amici però erano coinvolti.» Chrissie scosse la testa. «Mi sembra che le cose stiano andando troppo veloci. Tutto si è capovolto e io non ho più appoggi.» Si passò le mani tra i capelli, poi notò qualcosa di strano. «Perché stiamo tornando a Oxford?» Jason la guardò con un'espressione ironica mentre riprendeva l'autostrada. «Nemmeno a me piace che mi si spari addosso. Ho bisogno di dare un'occhiata alla Bmw e all'amico che era alla guida.» Notando il suo terrore, aggiunse: «Non preoccuparti, scenderò io vicino al luogo dell'incidente. Te la senti di guidare?» . «Certo.» Girò a sinistra immettendosi in autostrada in direzione di Oxford. L'acquazzone era passato, sostituito da una pioggia sottile. Diminuì la velocità dei tergicristalli. «Mi dispiace per la macchina, è messa male.» Lei ebbe un brivido e sorrise debolmente. «Non era possibile
evitarli, giusto?» «Quand'è che Scarlett tornerà da casa dei tuoi genitori?» «Non prima della settimana prossima, ma posso andare a prenderla in qualunque momento» rispose Chrissie . «Bene.» Bourne annuì. «Non voglio che tu metta piede nella casa di Oxford. C'è qualche altro posto dove puoi stare?» «Mi trasferirò a casa di Tracy.» «Escluso. Queste persone avrebbero dovuto prelevarmi proprio lì.» «Che ne dici di casa dei miei?» «Non va bene nemmeno lì. Ti chiederei di passare a prendere Scarlett e andare in un luogo in cui non sei mai stata prima.» «Non penserai...» Con un gesto teatrale lui estrasse la Glock che aveva trovato nell'appartamento di Perlis e la mise nel portaoggetti del cruscotto . «Cosa stai facendo?» «E probabile che ci stessero seguendo da quando abbiamo lasciato la casa di Tracy. Non ha alcun senso che vengano a sapere di Scarlett, e neppure dove abitano i tuoi genitori.» «Ma chi è questa gente?» Bourne scosse la testa . «E un incubo, Adam.» Aveva la voce spezzata, come se le parole fossero di vetro. «In cosa diavolo si era infilata Tracy?» «Mi piacerebbe poterti dare una risposta.» Il traffico sulla corsia opposta dell'autostrada era bloccato, segnalando che il punto dell'incidente era vicino. La fila di macchine davanti a loro procedeva invece a passo d'uomo, quindi sarebbe stato meno difficile per lui scendere e cedere il volante a Chrissie . «E tu, invece?» domandò lei mettendo la Range Rover in folle . «Non preoccuparti per me» disse Bourne. «In qualche modo riuscirò a tornare a Londra.» La sua espressione ansiosa faceva capire che non gli credeva. Le diede il suo numero di cellulare. Quando però la vide cercare una penna nella borsa aggiunse: «Memorizzalo, non voglio che lo scrivi da nessuna parte» . Scesero dalla Range Rover e lei ritornò al posto di guida. «Adam.» Gli prese un braccio. «Per l'amor del cielo, stai attento.» Lui sorrise. «Andrà tutto bene.» Lei non lasciava ancora la presa. «Perché ti stanno inseguendo?» Ripensò agli ultimi istanti di vita di Tracy tra le sue braccia e lui con il suo sangue sulle mani . Infilò la testa dentro all'abitacolo e disse: «Non potrò mai ripagare il debito che ho con lei» . Bourne scavalcò lo spartitraffico e atterrò con un salto sull'altra corsia dell'autostrada bagnata di pioggia. I ragionamenti si susseguirono uno dietro l'altro mentre si avvicinava a piedi al luogo dell'incidente, osservando l'afflusso concitato di ambulanze, veicoli di assistenza e macchine della polizia. Il personale di soccorso era stato richiamato da tutta l'area circostante, un vero colpo di fortuna per quello che aveva in mente. L'area dell'incidente non era ancora stata transennata. Vide un corpo disteso a terra, coperto da un telo impermeabile. Gli addetti ai rilevamenti medico-legali perlustravano la zona attorno al cadavere e si consultavano tra loro prendendo appunti e fotografie e segnalando con coni di plastica numerati i vari reperti. Ogni più piccolo resto, gocce di sangue, schegge di fanali, frammenti di tessuto lacerato, un finestrino rotto, una macchia di olio veniva fotografato da diverse angolazioni . Bourne si spostò a fianco di uno dei veicoli di soccorso e con la massima discrezione scivolò nell'abitacolo per frugare nel vano portaoggetti alla ricerca di qualche documento di identità. Non trovando niente, passò alle alette parasole. Su una di esse c'era un elastico. La abbassò e trovò diverse cose interessanti, tra cui un badge scaduto. Era stupito da quanto la gente fosse attaccata al proprio passato e non riuscisse a staccarsi da qualunque prova tangibile di esso. Sentì che qualcuno si avvicinava, prese un paio di guanti di lattice, passò sull'altro sedile e scese dall'auto. Fissò il badge al giubbotto e si diresse a passo deciso verso il gruppo di persone che cercavano di raccapezzarsi nel caos che avevano trovato sull'asfalto . Diede un'occhiata alla Bmw: era infilzata sul guardrail come su un arpione, completamente squarciata. Bourne individuò l'ammaccatura sul paraurti posteriore provocata dalla macchina di Chrissie. Accosciandosi vicino all'auto si preoccupò di eliminare le tracce di vernice della Range Rover. Aveva appena finito di memorizzare il numero di targa quando un ispettore della polizia locale gli si fece vicino . «Cosa ne pensa?» Era un uomo dalla faccia pallida, con i denti marci e un alito pestilenziale. Aveva l'aspetto di uno che è stato cresciuto a birra tiepida, salsicce con purè e melassa .
«Doveva andare a una velocità folle per combinare questo casino.» Bourne parlò con voce rauca, imitando l'accento di Londra sud . «Raffreddore o allergia?» s'informò l'ispettore. «In ogni caso, è meglio che stia attento, con questo tempaccio.» «È il caso che io veda le vittime.» «Certo.» L'ispettore si rimise in piedi con uno scricchiolio delle ginocchia. Aveva il dorso delle mani rosso e screpolato, probabilmente a causa del lungo inverno chiuso in un ufficio mal riscaldato. «Da questa parte.» Guidò Bourne oltre i capannelli di persone fino a dove si trovava il cadavere. Alzò il telo perché Bourne potesse dargli un'occhiata. Il corpo era maciullato. Jason notò con sorpresa che l'uomo non era giovanissimo, forse intorno alla cinquantina, cosa molto strana per un killer . L'ispettore appoggiò le mani sulle ginocchia ossute. «Senza documenti, sarà difficile avvertire la moglie.» L'uomo portava quella che sembrava una fede nuziale d'oro al medio della mano sinistra. Bourne ne fu colpito, ma non aveva intenzione di parlarne con l'ispettore. Doveva vedere se c'era qualcosa all'interno dell'anello . «Ci penso io» disse . L'ispettore rise in modo sguaiato . Bourne gli sfilò l'anello, che era molto più vecchio di quello che aveva lui. Lo tenne sollevato davanti agli occhi per vedere meglio. Era graffiato e consumato dal tempo. All'interno c'era una scritta incisa. Riusciva a riconoscere l'antico persiano e il latino. Osservò meglio, ruotando l'anello tra le dita. C'erano solo due parole, Severus Domna. Mancava la terza, Dominium . «Trovato niente?» Bourne fece segno di no con la testa. «Pensavo di trovare una specie di dedica, tipo "A Bertie da Matilda" o qualcosa del genere.» «Un altro vicolo cieco» commentò l'ispettore in tono amaro. «Porca miseria, le ginocchia mi fanno un male cane.» Si alzò con un lamento . Adesso Bourne sapeva cosa rappresentava Severus Domna: un gruppo o un'organizzazione. Comunque lo si volesse definire, una cosa era chiara: avevano fatto di tutto per rimanere isolati dal mondo intero e agire in clandestinità. E ora, per qualche ragione, erano venuti allo scoperto, mettendo a rischio la loro segretezza, a causa dell'anello che portava inciso quel nome e la parola Dominium . *** Capitolo 11 . Oliver Liss, percorrendo a grandi falcate North Union Street nel centro storico di Alexandria, controllò l'ora e, un attimo dopo, entrò in uno di quei grandi magazzini che vendono praticamente di tutto. Superando gli scaffali dell'igiene dentale e dei prodotti per la pedicure, acquistò un cellulare di tipo economico con trenta minuti di traffico prepagato incluso e andò dritto alla cassa, dove una donna indiana gli batté lo scontrino mentre lui comprava anche una copia del «Washington Post». Pagò in contanti . Uscito dal negozio, con il giornale sottobraccio, aprì il blister di plastica e ritornò alla sua macchina parcheggiata sotto un cielo opaco e senza stelle. Salì in auto e collegò il cellulare a un caricabatterie portatile, che era in grado di eseguire una carica completa in meno di cinque minuti. Mentre aspettava, appoggiò la testa al sedile e chiuse gli occhi. Dal momento in cui aveva accettato di sostenere la resuscitata Treadstone era in costante debito di sonno . Spesso si domandava se avesse fatto la cosa giusta, e poi cercò di ricordare l'ultima volta in cui aveva preso una decisione finanziaria per libera scelta. Più di dieci anni prima era stato avvicinato da un uomo che si presentò come Jonathan, anche se Liss aveva capito subito che quello non era il suo vero nome. Jonathan gli aveva detto di far parte di un grande gruppo multinazionale. Se Liss avesse giocato bene le sue carte, se si fosse comportato correttamente nei confronti di Jonathan, e quindi del gruppo, l'uomo gli aveva assicurato che il gruppo sarebbe diventato suo cliente fisso. Poi gli aveva suggerito di trovare un consulente privato per la gestione dei rischi, in modo che l'azienda potesse diventare un operatore privato al servizio delle forze armate americane nelle zone calde oltreoceano. La Black River era stata costituita in questo modo. Il gruppo di Jonathan aveva fornito il capitale iniziale, e Jonathan aveva promesso di fare lo stesso anche con lui e aveva introdotto due soci. Questo stesso gruppo,
tramite Jonathan, gli aveva passato informazioni su eventi programmati che avrebbero potuto spazzare via la Black River in un attimo. Il gruppo l'aveva estromesso senza che lui fosse implicato in indagini future e udienze al Congresso, accuse criminali, processi e le inevitabili condanne . Così, solo qualche settimana dopo, Jonathan era arrivato con un nuovo suggerimento, che in realtà era un ordine: fornire il capitale di avviamento per la Treadstone. Non ne aveva mai neppure sentito parlare, ma gli era stato fornito un file cifrato con tutti i dettagli della sua costituzione e del suo funzionamento. Aveva scoperto in quel frangente che della Treadstone rimaneva in vita solo una persona: Frederick Willard. Si era messo in contatto con lui e il resto era avvenuto come aveva previsto . Ogni tanto si concedeva il lusso di pensare come facesse il gruppo a possedere una quantità così strabiliante di informazioni riservate. Su quali fonti potevano contare? Sembrava quasi irrilevante sapere se le informazioni riguardassero le agenzie di servizi segreti americane, russe, cinesi o egiziane, per nominarne solo alcune. Le informazioni erano sempre della massima importanza e sempre precise . L'aspetto più misterioso di tutto questo capitolo della sua vita era che non aveva mai incontrato di persona nessuno del gruppo. Jonathan gli dava dei suggerimenti via telefono, e Liss li seguiva senza il minimo accenno di protesta. Non che gli piacesse l'idea di essere un burattino, ma senza quelle persone sarebbe morto da tempo. Doveva tutto al gruppo . Jonathan e i suoi colleghi erano dei veri mastini, molto rigorosi, concentrati sui loro obiettivi, ma generosi nelle ricompense. Nel corso degli anni Liss era stato gratificato al di là delle sue aspettative più rosee, e quest'altro aspetto del gruppo ne aumentava il mistero: una disponibilità economica apparentemente illimitata. Altrettanto importante era poter contare sulla protezione del gruppo, come gli aveva promesso Jonathan, promessa che era stata mantenuta quando era stato salvato dal disastro che aveva portato i suoi ex colleghi della Black River nei penitenziari federali per il resto della loro vita . Un breve bip lo avvisò che il cellulare era carico. Lo scollegò dal caricabatteria, lo accese e digitò un numero locale. Dopo due squilli qualcuno rispose e lui disse solo: «Consegna». Ci fu una breve pausa, poi si azionò un risponditore automatico con voce femminile: «Ecclesiaste tre: sei-due» . Per qualche motivo sconosciuto il codice era sempre un libro della Bibbia. Chiuse la comunicazione e prese il giornale. «Ecclesiaste» indicava la pagina sportiva. «Tre: sei-due» voleva dire terza colonna, sesto paragrafo, seconda parola . Facendo scorrere l'indice lungo la colonna indicata scoprì la parola in codice del giorno: rubare. Prese di nuovo il cellulare e digitò un numero di dieci cifre. Alla risposta, dopo un solo squillo, disse: «Rubare». Anziché una voce, sentì una serie di scatti e clic elettronici mentre una rete complessa di servodispositivi e relè deviavano la chiamata in qualche località sperduta. Poi si udì il ronzio freddo dei sistemi di criptaggio che entravano in funzione e, finalmente, una voce umana: «Salve, Oliver» . «Buon pomeriggio, Jonathan.» Il criptaggio rallentava la conversazione, privando la voce di inflessioni emotive e tono, rendendola irriconoscibile, più simile a quella di un robot . «Li hai spediti?» «Sono partiti un'ora fa, saranno a Londra domattina presto.» Era la stessa voce che gli aveva inviato al primo luogo il dossier sull'anello. «Hanno ricevuto gli ordini, però...» «Sì?» «Willard parla solo di Arkadin, di Bourne e del programma Treadstone che li ha creati. Secondo quanto dice, avrebbe scoperto un metodo per renderli ancora più... utili, credo fosse questo il termine che ha usato.» Jonathan fece un risolino. Per lo meno Liss lo interpretò come tale, dato che gli giunse come un crepitio secco, simile a quello di uno sciame di insetti che infesta l'erba alta . «Voglio che lei gli giri alla larga, Oliver, è chiaro?» «Chiarissimo.» Liss si sfregò la fronte con le nocche. Quale poteva essere l'obiettivo di Jonathan, in questo caso? «Però io gli ho detto di sospendere i suoi piani fino a quando non verrà trovato l'anello.» «Esattamente quello che
avrebbe dovuto fare.» «Willard non era molto soddisfatto.» «A chi lo dice!» «Ho la sensazione che stia già progettando di chiudere la baracca.» «E quando la chiuderà» replicò Jonathan, «lei non farà niente per fermarlo.» «Cosa!?» esclamò Liss meravigliato. «Manon capisco...» «Tutto va come deve andare» concluse Jonathan prima di concludere la telefonata . Soraya stava facendo il giro delle agenzie di autonoleggio dell'aeroporto di Dallas-FortWorth con una foto di Arkadin. Nessuno lo riconosceva. Prese qualcosa da mangiare e si comprò un libro tascabile e una barretta Snickers. Sbocconcellando la barretta si avvicinò al banco della compagnia aerea con cui era arrivato Arkadin e chiese di parlare con il supervisore in servizio, un omone di nome Ted dall'aria dell'ex giocatore di football che aveva accumulato qualche chilo di troppo dopo essersi ritirato, come capitava più o meno a tutti. La squadrò attraverso le lenti sporche degli occhiali e, dopo averle chiesto come si chiamasse, propose di andare nel suo ufficio . «Sono della Continental Insurance» si presentò lei, dando un morso al suo Snickers. «Sto cercando un signore di nome Stanley Kowalski.» Ted si appoggiò all'indietro per un attimo, intrecciò le grosse mani sullo stomaco e disse: «Mi sta prendendo in giro, vero?» . «No di certo» replicò Soraya. Gli diede le coordinate del volo di Kowalski . Ted sospirò e alzò le spalle. Si spostò sulla sedia girevole e controllò il suo terminale. «Be', che strano» commentò. «In effetti, eccolo qua.» Si girò di nuovo. «Mi dica, cosa posso fare per lei?» «Vorrei scoprire dov'è andato una volta uscito da qui.» Ted rise. «Adesso sì che mi sta prendendo in giro. Questo è uno degli aeroporti più grandi e trafficati del mondo. Il suo signor Kowalski potrebbe essere andato ovunque e da nessuna parte.» «Non ha noleggiato una macchina» continuò Soraya. «E non ha preso qualche linea interna perché è passato dall'Ufficio Immigrazione direttamente qui a Dallas. Tanto per essere sicura, comunque, ho controllato le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso di quel giorno.» Ted aveva un'espressione corrucciata. «Devo dire che è una persona scrupolosa, questo lo ammetto.» Rifletté per un momento. «Ma adesso le dirò qualcosa che non sapeva, ci scommetto. Abbiamo diverse linee regionali in partenza da qui.» «Ho controllato anche le loro registrazioni.» Ted sorrise. «Be', io sapevo che lei non poteva averle controllate perché non esistono telecamere a circuito chiuso per i voli charter.» Scrisse qualcosa su un foglietto che strappò da un blocco di carta e glielo tese. «Qui ci sono i loro nomi.» Le fece l'occhiolino. «Buona caccia.» Fece bingo al quinto nome della lista di Ted. Un pilota ricordava la faccia di Arkadin, anche se non si era presentato come Stanley Kowalski . «Ha detto di chiamarsi Slim Pickens.» Il pilota aveva un'espressione stizzita. «Non c'era un attore con quel nome?» «E solo una coincidenza» commentò Soraya. «Dove ha portato il signor Pickens?» «All'aeroporto internazionale di Tucson, signora.» «A Tucson, eh?» Perché diavolo Arkadin è andato a Tucson ? Improvvisamente, come se nella sua testa fosse scattato un interruttore, capì . Messico . Dopo aver preso una stanza in un piccolo hotel di Chelsea, Bourne si fece una doccia bollente per lavarsi via di dosso il sudore e la sporcizia di quella difficile esperienza. I muscoli del collo, delle spalle e della schiena pulsavano per un dolore profondo causato dai postumi dello scontro e della lunga fuga in autostrada . Le parole Severus Domna continuavano a riecheggiare nella sua mente. Non poter accedere ai ricordi del suo nebuloso passato lo faceva impazzire. Era sicuro di averle già sentite. Perché? Forse il gruppo era stato l'obiettivo di una missione della Treadstone alla quale lo aveva assegnato Conklin? Era riuscito a entrare in possesso dell'anello del Dominium da qualche parte, ricevendolo da qualcuno per una ragione specifica e ignota, ma al di là di questi tre fatti piuttosto vaghi c'era la nebbia impenetrabile. Perché il padre di Holly aveva sottratto l'anello a suo fratello? Perché l'aveva dato a Holly? Chi era suo zio e cosa significava l'anello per lui? Bourne non poteva più chiederlo a Holly . Rimaneva solo lo zio, chiunque fosse .
Chiuse l'acqua, uscì dalla doccia e si asciugò vigorosamente con un asciugamano. Forse avrebbe dovuto tornare a Bali. Si domandò se uno dei genitori di Holly abitasse là. Suparwita avrebbe potuto saperlo, ma non aveva il telefono e non c'era modo di contattarlo, se non ritornare a Bali e andarlo a trovare di persona. Però esisteva un sistema migliore per raccogliere le informazioni che gli servivano, e il piano che stava escogitando avrebbe ottenuto un duplice risultato perché sarebbe servito anche a prendere in trappola Leonid Arkadin . Ragionando febbrilmente, indossò gli abiti che aveva acquistato da Marks & Spencer di Oxford Street sulla strada verso l'hotel, tra cui un completo scuro e un pullover nero a collo alto. Si pulì le scarpe con il nécessaire che trovò in camera e prese un taxi per andare a casa di Diego Herrera in Sloane Square . Era un edificio vittoriano in mattoni rossi, con il tetto alto e ripido di ardesia e due torrette a tetto conico, che svettavano nel cielo notturno come le corna di un animale. Un batacchio a forma di testa di cervo osservava con espressione impenetrabile tutti i visitatori. Quando Bourne bussò, Diego in persona venne ad aprire la porta . Lo accolse con un debole sorriso. «Non sei messo male per l'avventura di ieri, vedo.» Agitò una mano. «Entra pure.» Diego portava pantaloni scuri e un'elegante giacca da smoking, probabilmente il dress code per il Vesper Club. Bourne, invece, conservava nell'abbigliamento il gusto pratico dell'ambiente universitario e si sentiva scomodo e a disagio in abito formale, come se indossasse un'armatura medievale . Diego fece strada attraverso un salotto in stile antico, illuminato da lampade con paralumi in vetro opalino, fino a una sala da pranzo in cui troneggiava un tavolo in mogano lucido sul quale era appeso un lampadario di cristallo che gettava una morbida luce sfaccettata sulla carta da parati color pastello e sulla boiserie di rovere. La tavola era apparecchiata per due. Mentre Bourne prendeva posto, Diego versò per entrambi un ottimo sherry invecchiato per accompagnare i piatti di sardine fresche alla griglia, papas fritas, fette sottilissime di prosciutto Serrano stagionato, piccoli dischi di chorizo screziato di lardo e tre diversi formaggi spagnoli . «Prego, serviti» lo invitò Diego, mentre prendeva posto di fronte a Bourne. «E così che si mangia in Spagna.» Durante il pasto, Bourne si rese conto che Diego lo stava osservando. Finalmente parlò: «A mio padre ha fatto molto piacere che tu sia venuto a trovarmi» . Contento o interessato ?, si chiese Bourne. «Come sta Don Fernando?» «Come sempre.» Diego spiluccava appena il cibo. Forse non aveva appetito, oppure qualcosa lo assillava. «Lo sai che prova molta simpatia per te.» «Gli ho mentito sulla mia identità.» Diego rise. «Tu non conosci mio padre. Sono sicuro che gli interessava solo sapere se eri un amico o un nemico.» «Io sono nemico di Leonid Arkadin, come lui sa bene.» «Esatto.» Diego allargò le mani. «Vedi, abbiamo tutti la stessa cosa in comune. E questo a legarci.» Bourne allontanò il suo piatto. «In effetti mi stavo chiedendo proprio questo.» «In che senso, se posso saperlo?» «Siamo tutti accomunati dal fatto che conoscevamo Noah Perlis. Tuo padre conosceva Perlis, vero?» Diego non fece una piega. «In realtà, no. Noah era amico mio. Andavamo assieme al casinò, al Vesper Club, e giocavamo tutta la notte. Questo era ciò che piaceva fare a Noah quando veniva a Londra. Non appena sapevo che stava per arrivare, io organizzavo tutto, la sua linea di credito, le fiches.» «E naturalmente anche le ragazze.» Diego sorrise . «Certo, anche le ragazze.» «E lui non voleva vedere Tracy e Holly?» «Quando erano in città sì, ma la maggior parte delle volte loro non c'erano.» «Stavate sempre assieme, voi quattro.» Diego aggrottò la fronte. «Da dove viene questa domanda?» «Dalle foto scattate nell'appartamento di Noah.» «Cosa vuoi insinuare?» Il comportamento di Diego era cambiato in modo quasi impercettibile. C'era una tensione, come un'increspatura sottile, che gli veniva da dentro. Bourne fu contento di notare che la sua supposizione aveva toccato un nervo sensibile . Alzò le spalle. «Niente di particolare, solo che in quelle foto sembravate tutti molto affiatati.» «Come ti ho detto, eravamo amici.» «Più che amici, direi.» In quel momento Diego lanciò un'occhiata all'orologio. «Se ti va un po' di vita, è ora di andare a Knightsbridge.» Il Vesper Club aveva fama di essere un locale molto snob nell'ancor più snob West End di Londra. Era un
edificio discreto che non si faceva notare dall'esterno, completamente diverso dai volgari nightclub di New York e Miami nei loro tipici velluti e lustrini . Dentro c'era un ristorante con i séparé in morbidissima pelle, un lungo e sinuoso bancone bar con le luci al neon che facevano brillare vetri e ottoni, e diverse sale gioco tutte marmi, specchi e colonne di pietra con capitelli dorici. Passarono tra due file di slot machine. In fondo c'era la sala del gioco d'azzardo elettronico, con la musica sparata ad alto volume e le luci al neon che sembravano dire «Vai!». Bourne gettò uno sguardo all'interno e notò solo un sorvegliante. Probabilmente i gestori ritenevano che i clienti più giovani tendessero a diventare più rissosi e violenti degli habitué anziani . Scesero una lunga rampa di scale che conduceva alla sala principale, più tranquilla ma non meno lussuosa, in cui erano schierate tutte le postazioni dei giochi classici: baccarat, roulette, poker, black jack. La sala ovale riecheggiava del sommesso brusio delle scommesse, delle roulette che giravano, delle frasi dei croupier e del tintinnio dei bicchieri. Si fecero strada fino a una porta foderata in panno davanti a cui stazionava una guardia robusta in smoking. Vedendo Diego sorrise e fece un piccolo cenno deferente con la testa . «Come va stasera, signor Herrera?» «Abbastanza bene, Donald.» Indicò con un un gesto Bourne. «Questo è il mio amico Adam Stone.» «Buonasera, signore.» Donald aprì la porta verso l'interno. «Benvenuto alla Suite Empire del Vesper Club.» «E qui che Noah preferiva giocare a poker» gli confidò Diego girandosi. «Solo poste alte, solo giocatori esperti.» Bourne si guardò attorno: pareti scure, pavimento in marmo, tre tavoli a forma di fagiolo, le spalle curve e le espressioni assorte degli uomini e donne seduti attorno al tavolo verde ad analizzare le carte, studiare gli avversari e decidere la posta di conseguenza. «Non immaginavo che Noah avesse così tanti soldi da buttare al gioco.» «Non li aveva, infatti. Ero io a scommettere.» «Non era rischioso?» «Non se c'era Noah.» Diego sorrise. «A poker era davvero imbattibile. Nel giro di un'ora avevo recuperato tutti i soldi e anche qualcosa di più. Poi io giocavo con il surplus. Era un buon compromesso per tutti e due.» «Venivano qui anche le ragazze?» «Quali ragazze?» «Tracy e Holly» rispose Bourne in tono paziente . Diego ci pensò su. «Una o due volte, credo.» «Non te lo ricordi.» «A Tracy piaceva il gioco d'azzardo, a Holly no.» Diego scrollò le spalle nel tentativo di nascondere il disagio. «Ma sicuramente lo sai già.» «A Tracy non piaceva il gioco d'azzardo.» Bourne parlò senza alcun tono accusatorio. «Lei odiava il suo lavoro, che la obbligava a giocare d'azzardo quasi tutti i giorni.» Diego si voltò verso di lui con un'espressione costernata in volto, o forse di paura . «Lavorava per Leonid Arkadin» continuò Bourne. «Ma immagino lo sapessi già.» Diego si passò la lingua sulle labbra. «In realtà non ne avevo idea.» Dava l'impressione di aver bisogno di sedersi. «Ma come... com'è possibile?» «Arkadin la stava ricattando» disse Bourne. «Sapeva qualcosa su di lei. Che cosa?» «Io... io non lo so» balbettò Diego . «Devi dirmelo, Diego. È estremamente importante.» «Perché? Perché sarebbe così importante? Tracy è morta, come Holly. E adesso anche Noah. Non avrebbero il diritto di essere lasciati in pace?» Bourne si avvicinò. Nonostante la voce sommessa, appariva minaccioso. «Però Arkadin è ancora vivo. E lui il responsabile della morte di Holly. Ed è stato il tuo amico Noah ad ammazzarla.» «No!» Diego si irrigidì. «Ti sbagli, non avrebbe mai potuto...» «Io ero là quando è successo, Diego. Noah l'ha spinta giù da una scalinata, dalla cima di un tempio di Bali. Questi, amico mio, sono i fatti, non le storielle che mi stai rifilando tu.» «Ho bisogno di bere qualcosa» disse Diego sgomento con un filo di voce . Bourne lo afferrò per il gomito e lo accompagnò al piccolo bar in fondo alla sala. Diego barcollava con le gambe rigide, come se fosse già ubriaco. Lasciandosi cadere su uno sgabello, ordinò un doppio whisky, non più lo sherry raffinato di poco prima. Lo tracannò in tre lunghe sorsate e ne ordinò un secondo. Avrebbe buttato giù anche quello se Bourne non gliel'avesse tolto dalla mano incerta, appoggiandolo sul bancone di granito nero . «Noah ha ucciso Holly.» Diego sedeva curvo, fissando nelle profondità del suo whisky, in un passato che aveva creduto di conoscere. «Che cazzo di incubo!» Diego non sembrava il tipo che
usava un linguaggio scurrile. Per parlare con quel tono doveva essere fuori di sé, il che indicava che non fosse a conoscenza del traffico illecito di armi di suo padre. E, a quanto sembrava, non sapeva neppure cosa facesse Noah per vivere . Si girò di scatto a guardare Bourne. «Perché? Perché avrebbe dovuto farlo?» «Voleva qualcosa che lei aveva. Evidentemente Holly non aveva intenzione di darglielo di propria volontà.» «E allora l'ha uccisa.» Diego aveva l'aria incredula. «Che razza di uomo farebbe una cosa del genere?» Scosse la testa. «Non riesco a immaginare che qualcuno volesse farle del male.» Bourne notò che non aveva detto «Noah», ma un generico «qualcuno». «E chiaro che Noah non era come pensavi» disse, astenendosi dall'aggiungere «e neppure Tracy» . Diego afferrò il bicchiere con il whisky e lo buttò giù d'un colpo. «Cristo santo» mormorò . «Perché non mi parli di voi quattro, Diego?» gli chiese in tono gentile . «Ho bisogno di un altro drink.» Bourne gli ordinò un terzo whisky. Diego si lanciò sul bicchiere come si afferra un salvagente quando si sta per annegare. A un tavolo poco distante una donna in abito da sera di lamé incassò la vincita, si alzò e uscì. Un uomo con le spalle di un giocatore di football prese il suo posto. Appena entrata, un'altra signora grassoccia dai capelli con le mèches si sedette al tavolo centrale. Tutti e tre i tavoli erano occupati . Diego bevve due sorsate di whisky e disse in tono angosciato: «Tracy e io ci piacevamo; non era niente di serio, dato che uscivamo anche con altre persone... per lo meno lei lo faceva. Era tutto molto sporadico e informale. Abbiamo scherzato un po', niente di più. Non volevamo che questo rovinasse la nostra amicizia» . Qualcosa nella sua voce allarmò Bourne. «Ma c'è dell'altro, vero?» Diego assunse un'espressione ancora più triste e abbassò lo sguardo. «Sì. Io mi ero innamorato di lei. Non era in programma, non volevo che accadesse» aggiunse, come se avesse potuto scegliere. «Lei era stata così carina, così dolce. Eppure...» La sua voce si affievolì sull'onda dei ricordi . Bourne percepì che era il momento di incalzarlo. «E Holly?» Diego parve risvegliarsi da un sogno. «Noah l'aveva sedotta, l'avevo visto con i miei occhi. Pensavo fosse una cosa divertente, in un certo senso, che non sarebbe potuto succedere nulla di male. Ti prego, non domandarmi perché.» «Che cosa è accaduto?» Diego sospirò. «Venne fuori che Noah aveva un debole per Tracy, aveva proprio perso la testa. Da parte sua, lei non voleva avere niente a che fare con lui, e glielo disse chiaramente.» Buttò giù un altro sorso di whisky come se fosse acqua. «La cosa che lei non avrebbe mai rivelato, neppure a me, era che in realtà detestava Noah, o comunque non si fidava di lui.» «Ossia?» «Tracy era molto protettiva nei confronti di Holly e temeva che Noah stesse dietro a Holly perché non era riuscito ad avere lei. Pensava che Noah si comportasse in modo cinico e autodistruttivo, mentre Holly prendeva la relazione molto più seriamente. Era convinta che sarebbe finita male, più per Holly che per lui.» «Perché non è intervenuta e non ha detto a Noah di lasciar perdere?» «L'ha fatto, ma lui le ha detto, anche troppo schiettamente, che non erano affari suoi.» «E tu gli hai parlato?» Diego aveva l'aria sempre più abbattuta. «Avrei dovuto, lo so, ma non ho creduto a Tracy, o forse ho scelto di non crederle, perché la situazione era già un tale casino e io non...» «Cos'è, non volevi sporcarti le mani?» Diego annuì, senza guardare Bourne negli occhi . «Avrai pure avuto i tuoi sospetti su Noah.» «Non lo so, forse sì. Ma il fatto è che io volevo credere che tutto sarebbe andato bene, che noi l'avremmo fatto andare bene perché tenevamo l'uno all'altra.» «Ci tenevate sì l'uno all'altra, ma non nel modo giusto.» «Se adesso mi guardo indietro mi sembra tutto un caos, nessuno era chi diceva di essere o si interessava a chi diceva di essere interessato. Non capisco neppure che cosa fosse a tenerci uniti.» «E proprio questo il punto, no?» osservò Bourne con gentilezza. «Ognuno di voi voleva qualcosa da uno del gruppo; in un modo o nell'altro avete tutti sfruttato la vostra amicizia.» «Tutto quello che abbiamo fatto insieme, tutto quello che ci siamo detti o confidati è stato una menzogna.» Dopo una breve pausa Bourne riprese: «Non necessariamente. Tu sapevi che Tracy lavorava per Arkadin, vero?» .
«Ti ho già detto che non lo sapevo.» «Quando ti ho chiesto che cosa sapesse Arkadin su di lei, ti ricordi cosa mi hai risposto?» Diego si morse le labbra, ma rimase in silenzio . «Non hai detto che Tracy era morta, come Holly, e che dovevano essere lasciate in pace?» Fissò Diego negli occhi. «Questa è la risposta di uno che sa esattamente cosa gli è stato chiesto.» Diego batté il palmo della mano sul bancone. «Le ho promesso che non l'avrei detto a nessuno.» «Questo lo capisco» disse Bourne in tono gentile, «ma continuare a mantenere il segreto adesso non è più di alcuna utilità.» Diego si passò una mano sul volto, come se cercasse di scacciare un ricordo. Un uomo seduto al tavolo centrale disse «Esco», spinse indietro la sedia, si alzò e si stiracchiò prima di allontanarsi . «Va bene.» Diego guardò Bourne con sguardo risoluto. «Mi ha detto che Arkadin l'aveva aiutata a tirare fuori suo fratello da un pasticcio tremendo e che la stava ricattando per questo.» Bourne stava per dire: «Tracy non aveva un fratello», ma si trattenne. «Che altro?» domandò invece . «Niente. E stato dopo... anzi prima che andassimo a dormire. Era molto tardi, lei aveva bevuto troppo, era stata depressa tutta la sera e, appena finito di parlare, non riusciva a trattenere le lacrime. Le chiesi se avessi fatto qualcosa di sbagliato, con l'unico risultato di farla piangere di più. La tenni abbracciata a lungo. Quando si calmò me lo disse.» Qualcosa non quadrava. Chrissie aveva detto che non esisteva alcun fratello. Tracy aveva detto a Diego che c'era. Una delle due non era stata sincera. Ma chi? Quale poteva essere la ragione per cui Tracy aveva mentito a Diego? E perché Chrissie avrebbe dovuto mentire a lui? In quel momento Bourne colse un movimento con la coda dell'occhio. L'uomo che si era appena alzato dal tavolo da gioco si stava dirigendo verso il bar e dopo soli due passi lui si rese conto che stava venendo proprio nella loro direzione . Non era un tipo imponente, ma aveva l'aria di essere molto forte. Gli occhi sembravano due carboni ardenti in un viso color cuoio. I capelli folti e la barba corta e ben curata erano nerissimi. Aveva il naso aquilino, la bocca larga e carnosa e le guance piatte e lisce. Una piccola cicatrice obliqua gli attraversava un sopracciglio. Camminava con il baricentro basso, le braccia rilassate, anche se pareva non muoverle affatto . Era proprio quell'andatura e il suo atteggiamento a contrassegnarlo come un professionista, uno di quelli che camminano circondati da un'aura di morte. Furono questi particolari a risvegliare un ricordo in Bourne, aprendo uno squarcio nella sua frustrante amnesia . Un segnale d'allarme scattò, provò un brivido lungo la spina dorsale. Quello era l'uomo che l'aveva aiutato a entrare in possesso dell'anello del Dominium . Bourne si staccò dal banco. Quest'individuo, chiunque fosse, non lo conosceva come Adam Stone. Quando fu vicino, tese un braccio e fece un largo sorriso . «Jason, finalmente ci rivediamo.» «Chi è lei? Come fa a conoscermi?» Il sorriso si fece meno cordiale. «Sono Ottavio. Jason, non ti ricordi di me?» «Per niente.» Ottavio scosse il capo. «Ma come, abbiamo lavorato insieme in Marocco, su incarico di Alex Conklin...» «Non adesso» lo interruppe Bourne. «L'uomo con cui mi trovo...» «Diego Herrera, l'ho riconosciuto.» «Per Herrera io mi chiamo Adam Stone.» Ottavio annuì, cogliendo al volo la situazione. «Capisco.» Gettò un'occhiata al di sopra della spalla di Bourne. «Perché non me lo presenti?» «Non credo sia una buona idea.» «A giudicare dall'espressione di Herrera, sarebbe strano se non lo facessi.» Bourne si rese conto di non avere scelta. Girando sui tacchi, ritornò al bancone con Ottavio . Bourne fece le presentazioni. «Diego Herrera, questo è Ottavio...» «Moreno» intervenne Ottavio tendendo la mano . In quell'istante Diego sbarrò gli occhi per lo shock e crollò sullo sgabello. Bourne allora vide l'uomo estrarre la lunga lama in ceramica del coltello che con un abile e fulmineo gesto aveva impugnato e affondato nel petto di Diego. Aveva la punta leggermente ricurva all'insù, come se facesse la parodia del suo sorriso, diventato agghiacciante . Bourne lo afferrò per il colletto della camicia e lo sollevò da terra, ma l'uomo con la cicatrice non lasciava andare la mano di Diego. Era incredibilmente forte, la sua presa una morsa
d'acciaio. Bourne si girò verso Diego, ormai agonizzante: probabilmente il coltello aveva raggiunto il cuore . «Ti ammazzerò per questo» gli ringhiò Bourne a bassa voce . «No che non lo farai, Jason. Io sono uno dei buoni, ti ricordi?» «Non mi ricordo niente, neppure il tuo nome.» «Allora ti devi soltanto fidare. Dobbiamo andarcene, adesso...» «Tu non te ne vai da nessuna parte» sibilò Bourne . «Allora non hai altra scelta che fidarti di me.» L'uomo guardò verso la porta che si era aperta in quel momento. «Considera l'alternativa.» Bourne vide Donald, il buttafuori, entrare nella Suite Empire. Era accompagnato da due altri colleghi in smoking. Bourne notò immediatamente, con la rapidità di una scossa elettrica, che tutti e tre portavano un anello d'oro all'indice della mano destra . «Sono della Severus Domna» disse l'uomo con la cicatrice . *** Libro Secondo Capitolo 12 . Nel silenzio rarefatto che precede l'azione, in cui l'unico suono era il brusio dei giocatori intenti a scommettere, Ottavio tese a Bourne un paio di speciali tappi per orecchie e sussurrò: «Adesso» . Bourne si infilò i tappi. Vide che Ottavio estraeva dalla tasca una specie di sferetta d'acciaio, tenendola tra l'indice e il medio della mano sinistra. Solo la superficie corrugata e i tappi fecero capire a Bourne che quella poteva essere una USW, un'arma a ultrasuoni . In quel momento Ottavio lasciò cadere la USW, che rotolò sul pavimento liscio fino ai tre agenti della Severus Domna che si trovavano tra loro e la porta foderata di panno verde. La USW si attivò con l'urto a terra, creando un fascio di ultrasuoni che andò a colpire l'orecchio interno di tutti i presenti nella sala, facendoli crollare a terra in preda alle vertigini . Bourne seguì Ottavio oltre i tavoli, scavalcando i corpi riversi. Donald e colleghi erano a terra, come tutti i giocatori e i croupier, ma mentre Ottavio stava passando sopra uno dei buttafuori quest'ultimo lo bloccò e, tirandolo forte per la giacca, lo fece cadere all'indietro assestandogli un pugno appena sopra l'orecchio destro. Bourne si scansò di lato. Quando il buttafuori si alzò, Bourne vide che si trattava di quello che controllava la sala dei giochi elettronici: aveva i tappi nelle orecchie per proteggersi dalla musica a palla. Non erano come quelli in dotazione a Bourne e Ottavio, ma erano serviti ad attenuare il campo di ultrasuoni a sufficienza perché riuscisse a riprendersi prima degli altri . Bourne lo colpì al fianco. Il buttafuori si voltò con una Walther P99 in mano. Bourne mirò al polso con la mano di taglio. Riuscì a prendergli la pistola e con il calcio lo colpì in faccia; l'avversario indietreggiò, fuori portata. Bourne lo spinse contro il muro, ma l'uomo gli sferrò un colpo sul bicipite destro, facendogli perdere la sensibilità del braccio. L'altro, cercando di sfruttare il vantaggio, gli diede un pugno sul diaframma ma Bourne riuscì a scansarsi e a guadagnare tempo per riacquistare l'uso del braccio . Combatterono in silenzio in una sala stranamente affollata di persone riverse sui tavoli da gioco o sul pavimento come pupazzi inanimati. La loro furia muta dava la sensazione di un movimento convulso in un ambiente che ne era del tutto privo, come se quel combattimento corpo a corpo avvenisse sott'acqua . In Bourne la circolazione nel braccio si stava riattivando quando l'avversario, trovato un varco nella difesa, gli assestò un cazzotto potente nello stesso punto. Jason sentì che il braccio gli cedeva, come se fosse fatto di pietra, e notò la smorfia di compiacimento sulla faccia del buttafuori. Fece una finta sulla destra, una mossa che non ingannò l'altro, sempre più sorridente, allora alzò di scatto il gomito destro e lo colpì deciso sul collo, spezzandogli l'osso ioide. Si udì uno strano suono secco quando l'uomo crollò, perdendo conoscenza . Intanto Ottavio si era rimesso in piedi cercando di smaltire gli effetti del pugno ricevuto sulla testa. Bourne spalancò la porta ed entrambi passarono nella sala principale del casinò, camminando rapidi ma senza attirare l'attenzione. Il campo ultrasonico non era arrivato fin lì. Tutto filava liscio e nessuno aveva ancora idea di cosa fosse accaduto nella Suite Empire, ma
Bourne sapeva che era solo questione di tempo prima che il capo della sicurezza o uno dei gestori venisse a cercare Donald e gli altri buttafuori . Bourne aveva fretta di andarsene, ma l'uomo con la cicatrice si attardava . «Aspetta, aspetta» disse . Si erano tolti i tappi auricolari e i fruscii e le voci moderate di quel mondo ovattato li investirono come il frastuono di un mare in tempesta . «Non possiamo aspettare oltre» replicò Bourne. «Dobbiamo uscire di qui prima che...» Ma era già troppo tardi. Verso di loro stava arrivando a grandi falcate un uomo con il tipico atteggiamento diretto e sbrigativo dell'autorità: il responsabile. Bourne vide che Ottavio gli si faceva incontro. Lo precedette e disse, con un largo sorriso: «Lei è il direttore di sala?» . «Sì, sono Andrew Steptoe.» Tentò di lanciare un'occhiata oltre la spalla di Bourne verso la porta foderata di panno verde davanti alla quale avrebbe dovuto trovarsi Donald. «Mi scusi, ma sono molto occupato, in questo momento. Io...» «Donald ha detto che qualcuno l'avrebbe fatta chiamare.» Prese confidenzialmente Steptoe per un gomito e, avvicinandosi, gli disse a bassa voce: «Sono proprio in mezzo a una di quelle partite con poste altissime che capitano una volta nella vita, non so se mi spiego» . «Temo di no...» Bourne lo fece allontanare dalla porta della Suite Empire. «Ma certo che capisce: un duello testa a testa al tavolo di poker. Vede, è tutta questione di soldi.» Soldi era la parola magica. Ora aveva tutta l'attenzione di Steptoe. Oltre la schiena del direttore scorse Ottavio fargli un sorriso d'intesa. Fece avvicinare Steptoe al cassiere che si trovava a destra della sala delle slot machine posizionato accanto all'ingresso, di modo che i clienti potessero acquistare i loro gettoni entrando e i rari vincitori incassare al momento di uscire, se fossero riusciti a evitare tutte le esche succulente che i professionisti del gioco d'azzardo tendevano loro . «Quanti soldi?» Steptoe non riuscì a nascondere una nota di avidità nella voce . «Mezzo milione» rispose Bourne con sicurezza . Steptoe non sapeva bene se mostrare la faccia corrucciata o leccarsi i baffi. «Temo di non conoscerla, però...» «James, Robert James.» Erano ormai vicino al gabbiotto del cassiere, e quindi all'ingresso. «Sono socio di Diego Herrera.» «Ah. Capisco.» Steptoe contrasse le labbra. «Anche in questo caso, signor James, la casa da gioco non la conosce personalmente. Lei comprenderà, non possiamo mettere a disposizione una somma così alta...» «Oh no, ma io non intendevo questo.» Bourne finse di essere risentito. «No, io le chiedevo il permesso di uscire dal casinò con la partita in corso allo scopo di procurarmi la somma in questione per rimanere in gioco.» Adesso il direttore aggrottò le sopracciglia. «A quest'ora di notte?» Bourne aveva l'aria sicura. «Però è possibile effettuare un bonifico. Ci vorranno solo venti minuti, al massimo mezz'ora.» «Be', è assolutamente contro le regole, lo sa.» «Mezzo milione di sterline, signor Steptoe, è una forte somma, come lei stesso ha sottolineato.» Steptoe assentì. «Proprio così.» Sospirò. «Suppongo che, date le circostanze, si possa fare un'eccezione.» Agitò l'indice in faccia a Bourne. «Ma deve fare in fretta, signore. Non posso concederle più di mezz'ora.» «D'accordo.» Bourne strinse energicamente la mano al direttore. «La ringrazio.» Quindi lui e Ottavio si congedarono, salirono le scale, attraversarono l'atrio e la porta a vetri, e uscirono nella notte di Londra spazzata dal vento . Quando ritenne di essersi allontanato a sufficienza, Bourne prese per il bavero l'uomo con la cicatrice e lo sbatté contro la fiancata di un'auto in sosta, dicendo: «Adesso tu mi dici chi sei e perché hai ammazzato Diego» . Bourne gli bloccò il polso mentre l'altro cercava di prendere il coltello, almeno così gli era parso. «Lascia stare quel coltello» ringhiò. «Adesso voglio delle risposte.» «Io non ti farei mai del male, Jason, dovresti saperlo.» «Perché hai ucciso Diego?» «Gli era stato detto di portarti al club a una certa ora di stasera.» A Bourne ritornò in mente Diego che guardava l'orologio e diceva: «E ora di andare a Knightsbridge». Era in effetti piuttosto strano, a meno che l'uomo che aveva davanti non stesse mentendo .
«Chi aveva detto a Diego di portarmi al club?» «Quelli della Severus Domna sono arrivati a lui, non so come, e gli hanno dato istruzioni precise su come incastrarti.» Bourne ricordò che Diego aveva appena assaggiato la cena, come se avesse qualcosa per la testa. Stava forse pensando a cosa sarebbe successo ? Aveva ragione Ottavio ? Questi lo guardò dritto in faccia. «In realtà tu non mi conosci, giusto?» «Te l'ho già detto, no.» «Mi chiamo Ottavio Moreno.» Fece una breve pausa. «Il fratello di Gustavo Moreno.» Bourne si sentì attraversare da un brivido mentre qualcosa tentava di farsi largo nella nebbia della sua amnesia . «Ci siamo conosciuti in Marocco» disse in un sussurro . «Sì.» Il volto di Ottavio Moreno si aprì in un sorriso. «A Marrakech, e poi siamo andati insieme sulle montagne dell'Alto Atlante, ti ricordi?» «Non lo so.» «Cristo santo!» esclamò Moreno incredulo. «E il portatile? Cosa mi dici del portatile?» «Quale portatile?» «Non ti ricordi del computer?» Afferrò Bourne per il braccio. «Andiamo, Jason. Ci siamo incontrati a Marrakech proprio per prendere quel portatile.» «Perché?» Ottavio Moreno si fece scuro in volto. «Mi hai detto tu che era una chiave d'accesso.» «Una chiave, per cosa?» «Per accedere alla Severus Domna.» Furono interrotti dall'ululato delle sirene delle auto della polizia . «Abbiamo lasciato un bel casino, alla Suite Empire» disse Moreno. «Andiamocene di qui.» «Io non vado da nessuna parte con te» puntualizzò Bourne . «Invece devi, sei in debito con me» replicò Moreno. «Tu hai ucciso Noah Perlis.» «In altre parole» commentò il segretario alla Difesa Bud Halliday scorrendo la relazione che aveva di fronte, «tra pensionamenti, stress da lavoro e richieste di trasferimento, le quali, vedo, sono state non soltanto accolte ma favorite, un quarto della vecchia guardia della CIA se n'è andato.» «Ed è subentrato il nostro personale.» Danziger non si curò di nascondere la sua soddisfazione. Il segretario apprezzava le certezze tanto quanto detestava l'indecisione. Danziger prese la relazione e la ripose con cura. «Ritengo sia solo questione di mesi, e poi quel numero aumenterà fino a sostituire un terzo della vecchia guardia.» «Bene, bene.» Halliday si sfregò le mani grandi e squadrate, su ciò che rimaneva del suo frugale pasto. L'Occidental risuonava del vociare di politici, giornalisti, press agent, faccendieri del mondo politico e industriale. Tutti erano venuti a rendergli omaggio in un modo o nell'altro, ma sempre in maniera circospetta: chi con un sorriso vagamente terrorizzato, chi con un deferente cenno del capo o anche, come nel caso dell'autorevole senatore Daughtry, con una rapida stretta di mano e un paio di convenevoli. I senatori degli «Swing State», quelli che oscillano tra destra e sinistra, accumulavano potere anche negli anni in cui non si tenevano elezioni, dato che entrambi i partiti cercavano di ingraziarsi più favori possibili. Era un comportamento normalissimo all'interno della Beltway, a Washington . Per qualche tempo i due uomini rimasero in silenzio. La folla al ristorante cominciava a diradarsi mentre i politicanti si disperdevano tornando alle loro attività. Quasi subito però il loro posto fu preso da gruppi di turisti in magliette a strisce e cappellini da baseball appena comprati dai venditori lungo il Mail, con la scritta CIA o FBI. Danziger si concentrò di nuovo sul suo pranzo che, come sempre, era più sostanzioso rispetto alla bistecchina di Halliday. Sul piatto del segretario alla Difesa rimanevano solo delle chiazze di sugo sanguinolento punteggiate di grasso rappreso . All'altro capo del tavolo, Halliday stava ripensando a un sogno che non riusciva a ricordare. Aveva letto da qualche parte che i sogni sono una componente necessaria del sonno, ciò che gli studiosi chiamano sonno REM, senza la quale si diventerebbe pazzi. Invece, lui non riusciva mai a ricordare i sogni. La sua intera esperienza di sonno era come una tabula rasa sulla quale non era mai stato scritto nulla . Si scosse come un cane che rientra in casa dopo la pioggia. Ma perché doveva importargliene? Be', lui sapeva perché. Il Grande Vecchio gli aveva confidato una volta che soffriva dello stesso strano disturbo: l'aveva definito proprio così, un disturbo. Strano che un tempo fossero amici; anzi, molto più che amici, a pensarci... com'è che dicevano? Fratelli di sangue. Da giovani si erano confidati anche le più piccole fissazioni, le abitudini, i segreti più reconditi. Perché tutto
era andato perduto? Come avevano fatto a diventare acerrimi nemici? Forse c'entrava la graduale divergenza delle rispettive opinioni politiche, ma gli amici spesso riescono a superare questo tipo di disaccordo. No, il loro allontanamento era dovuto a un senso di tradimento, e per uomini come loro la lealtà era la massima, anzi l'unica prova di amicizia . La verità era che avevano tradito ciò che avevano costruito da ragazzi, quando il loro idealismo era stato infranto dall'impatto con la vita nella capitale, dove entrambi avevano scelto di vivere e lavorare. Il Grande Vecchio era stato un sostenitore accanito di John Foster Dulles quando quest'ultimo si era legato al carro di Richard Helms: uomini diversi per formazione, metodo e, soprattutto, ideologia. E poiché ciò che facevano era improntato all'ideologia e quel lavoro era la vita stessa, non avevano altra scelta che aggredirsi a vicenda, nello strenuo tentativo di provare che l'altro era in torto e cercando di abbatterlo, di distruggerlo . Per più di un decennio il Grande Vecchio l'aveva superato a ogni tornata, ma adesso il vento era cambiato, il Grande Vecchio era morto e a lui era toccato il premio sul quale aveva messo gli occhi tanto tempo prima: il comando della CIA . Danziger si schiarì la gola, riportando Halliday alla realtà . «C'è qualcos'altro di cui non abbiamo parlato?» Il segretario lo fissò come fa un ragazzino che studia una formica o un maggiolino, con la curiosità riservata a una specie considerata tanto inferiore da apparire incredibilmente distante . Danziger era tutt'altro che stupido, e per questo Halliday l'aveva paragonato al cavallo degli scacchi, libero di muoversi avanti e indietro sulla scacchiera dei servizi clandestini americani ma, a parte questo, del tutto sacrificabile. Halliday si era isolato nel momento in cui si era reso conto del voltafaccia del Grande Vecchio. Naturalmente aveva una moglie e due figli, a cui non pensava quasi mai. Suo figlio era un poeta... Cristo, tra tutti i mestieri che poteva fare, il poeta! E sua figlia, poi... meno sentiva parlare di lei e della sua fidanzata e meglio stava. Per quanto riguardava la moglie, aveva tradito anche lei, deludendola due volte. In quel periodo, se si escludevano le occasioni formali in cui il rigido codice dei valori familiari in vigore a Washington esigeva la loro presenza come coppia, conducevano vite separate. Da anni non dormivano nella stessa stanza, per non parlare dello stesso letto. Di tanto in tanto si ritrovavano a fare assieme la prima colazione, una piccola tortura alla quale Halliday si sottraeva appena possibile . Danziger si era proteso sul tavolo con aria confidenziale. «Se c'è qualcosa che posso fare, devi soltanto...» «Penso che tu mi abbia confuso con un tuo amico» scattò Halliday. «Il giorno in cui chiederò il tuo aiuto vorrà dire che sto per infilarmi una pistola in bocca e tirare il grilletto.» Scivolò sul sedile del séparé, si alzò dal tavolo e se ne andò senza guardarsi indietro, lasciando il conto da pagare al direttore della CIA . Arkadin, rimasto solo mentre Boris Karpov riposava al convento, si versò un mescal e si portò il bicchiere fuori, nell'umida notte di Sonora. Presto sarebbe spuntata l'alba, che con le sue sciabolate di luce avrebbe spento le stelle. Gli uccelli marini erano già svegli e uscivano a stormi sorvolando la battigia . Arkadin, respirando l'aria salmastra e lo iodio, digitò un numero sul cellulare, che squillò a vuoto per un po'. Sapendo che la segreteria telefonica non era inserita, stava per interrompere la chiamata quando una voce rauca e irritata rispose . «Chi accidenti è?» Arkadin rise. «Sono io, Ivan.» «Allora ciao, Leonid Danilovic» rispose Ivan Volkin . Volkin era stato una volta l'uomo più potente della grupperovka. Non era affiliato a nessuna famiglia e per molto tempo era stato un negoziatore tra le varie famiglie nonché tra i boss di diversi clan e gli uomini d'affari e i politici più corrotti. In pratica era uno al quale tutti coloro che detenevano una posizione di potere dovevano un favore. E, pur essendo ormai in pensione, aveva sfidato i luoghi comuni diventando ancora più potente da anziano. Provava una particolare simpatia per Arkadin, avendone seguito la rapida ascesa nella malavita dal giorno in cui Maslov l'aveva portato a Mosca dalla sua città di origine, Niznij Tagil .
«Pensavo che fosse il presidente» continuò Ivan Volkin. «Gli ho detto che questa volta non sono in grado di aiutarlo.» Il pensiero che il presidente della Federazione Russa chiamasse Ivan Volkin per chiedergli un favore fece ridere Arkadin ancora di più. «Peccato per lui» commentò . «Ho fatto qualche ricerca sul problema di cui mi hai parlato. Hai veramente una talpa, amico mio. Ho ristretto la rosa dei candidati a due, ma più di questo non sono riuscito a fare.» «E più che abbastanza, Ivan Ivanovic. Hai la mia eterna gratitudine.» Anche Volkin si mise a ridere. «Lo sai, amico, tu sei l'unica persona al mondo da cui non voglio niente in cambio.» «Potrei darti praticamente tutto quello che desideri.» «Questo lo so bene, ma, a essere sincero, per me è un sollievo sapere che nella mia vita c'è qualcuno che non mi deve niente e a cui io non devo niente. Non cambia nulla tra noi, eh, Leonid Danilovic?» «No, Ivan Ivanovic, non cambia nulla.» Dopo che Volkin ebbe dato ad Arkadin i nomi dei due sospetti, disse: «Ho un'altra piccola informazione che potrebbe interessarti. Trovo strano non riuscire a collegare nessuno dei due sospetti alla FSB oppure a un servizio segreto russo qualsiasi» . «E allora chi è che manovra la spia nella mia organizzazione?» «La tua talpa è stata estremamente attenta a tenere segreta la sua identità: porta occhiali scuri e una felpa con il cappuccio sulla testa, quindi le foto in mio possesso non sono chiare. Comunque, l'uomo con cui si incontra è stato identificato, si chiama Marion Etana.» «Strano nome.» Un campanello d'allarme trillò in qualche punto recondito della mente di Arkadin, ma non riuscì a collegarlo a niente . «La cosa ancora più strana è che non riesco a trovare uno straccio di informazione che sia uno su Marion Etana.» «Allora si tratta senz'altro di uno pseudonimo.» «Potrebbe anche essere» rispose Volkin. «Però vorrebbe dire che la leggenda ha conferito realtà allo pseudonimo. Non ho trovato niente, se non che Marion Etana è tra i membri fondatori del Monition Club, che ha numerose filiali nel mondo e, a quanto mi risulta, il quartier generale a Washington.» «Un braccio della CIA ben camuffato oppure una delle tante teste di quell'Idra che è il Dipartimento della Difesa americano.» Ivan Volkin commentò con un grugnito basso, di gola. «Quando lo scopri, Leonid Danilovic, ricordati di farmelo sapere.» «Ricordati di farmelo sapere» era la stessa frase che Arkadin aveva detto a Tracy qualche mese prima. «Qualunque cosa tu scopra su Don Fernando Herrera, anche l'informazione in apparenza più irrilevante.» «Anche la regolarità dei suoi movimenti intestinali?» La guardava con gli occhi ferini e scintillanti, senza muovere nemmeno un muscolo. Si trovavano in un bar di Campione d'Italia, un pittoresco paradiso fiscale per gli italiani annidato sulle Alpi svizzere. Il piccolo comune si inerpicava sulla ripida parete della montagna che si specchiava sulla superficie azzurro cupo di un limpido lago, punteggiato da imbarcazioni di ogni dimensione, dai piccoli gozzi a remi agli yacht multimiliardari, muniti di piattaforme d'atterraggio per gli elicotteri e relativi velivoli, nonché di ragazze ed escort, almeno sui più grandi . Nei cinque minuti precedenti l'arrivo di Tracy, Arkadin era rimasto a guardare uno yacht oscenamente immenso, sul quale due modelle dalle gambe lunghissime si mettevano in posa come se ci fossero stati i fotografi. Avevano una pelle perfettamente dorata che soltanto le donne di quell'ambiente sanno come conservare. Sorseggiando una tazzina di espresso, che quasi spariva nella sua mano forte e squadrata, si era trovato a pensare: «E bello essere il re». Poi gli era caduto l'occhio sulla schiena nuda e irsuta di quel re in particolare e aveva girato la testa, disgustato. Se non si può tirare fuori l'uomo dall'inferno, non si può nemmeno tirare fuori l'inferno dall'uomo, questo era il mantra di Arkadin . Poi era arrivata Tracy e lui non aveva più pensato all'inferno di Niznij Tagil, che lo perseguitava come un incubo ricorrente. Niznij Tagil era la sua città natale, dove era cresciuto e aveva lasciato tre dita di un piede in pasto ai ratti quando sua madre l'aveva rinchiuso in un armadio a muro, la città in cui aveva ucciso sfuggendo alla morte così tante volte da aver perso il conto. A Niznij Tagil aveva perso tutto, e là, si potrebbe dire, era morto .
Aveva ordinato per Tracy un caffè corretto alla sambuca, che le piaceva molto. Guardando il suo bellissimo volto continuava a provare sentimenti contrastanti. Era fortemente attratto da lei, e nello stesso tempo la detestava. Detestava la sua cultura, la sua erudizione. Ogni volta che lei apriva bocca, lui non poteva che avvertire la propria ignoranza. E, a peggiorare la situazione, imparava sempre cose preziose quando stava con lei. Accade spesso che si disprezzino gli insegnanti che ci gettano in faccia il loro sapere e la loro esperienza, e che li sentiamo superiori a noi proprio per questo. Tutte le volte che apprendeva qualcosa si rendeva conto di quanto fosse legato inesorabilmente a Tracy, di quanto gli fosse necessaria. E per questa ragione con lei passava da un estremo all'altro. L'amava, la ricompensava con somme di denaro sempre maggiori ogni volta che portava a termine un incarico e la ricopriva di regali tra una missione e l'altra . Non aveva mai dormito con lei. Non aveva neppure mai tentato di sedurla, temendo che nel delirio della passione potesse perdere il controllo, afferrandola alla gola e stringendo fino a farle uscire la lingua dalla bocca e gli occhi dalle orbite. Non avrebbe mai potuto perdonarselo, se fosse morta. Nel corso degli anni lei si era rivelata indispensabile. Con le informazioni riservate che gli aveva fornito lui era riuscito a ricattare i suoi facoltosi clienti, e quelli che lui decideva di non taglieggiare venivano utilizzati come ignari corrieri della droga, facendogli trasportare in tutto il mondo gli stupefacenti nascosti nelle casse che custodivano le loro preziose opere d'arte . Tracy aveva passato la scorzetta di limone sul bordo della tazzina. «Cosa c'è di tanto speciale su Don Fernando?» «Bevi il tuo caffè.» Lei aveva fissato la tazzina, senza toccarla . «Qual è il problema?» aveva chiesto lui infine . «Lasciamo stare, va bene?» Arkadin aveva atteso un momento. Poi, scattando in avanti, le aveva stretto il ginocchio sotto il tavolo in una presa lancinante. Lei aveva alzato la testa, fissandolo negli occhi . «Conosci le regole» l'aveva minacciata, senza alzare la voce. «Non si discutono gli incarichi: si accettano.» «Non stavolta.» «Tutti quanti.» «Quell'uomo mi piace.» «Tutti quanti. » Lei non aveva abbassato lo sguardo . Lo innervosiva particolarmente quando faceva così, con quella maschera enigmatica che le scendeva sul viso, facendolo sentire come un ragazzino stupido che non ha ancora imparato a leggere bene. «Ti sei dimenticata della prova che ho contro di te? Vuoi che vada dal tuo cliente a raccontargli di come hai protetto tuo fratello quando gli ha rubato il quadro per pagare i suoi debiti? Vuoi davvero passare i prossimi vent'anni della tua vita in prigione? E più brutto di quanto tu possa immaginare, credimi.» «Voglio uscirne» aveva detto lei con voce strozzata . Lui era scoppiato in una risata sarcastica. «Dio, quanto sei ingenua!» Una volta, soltanto una volta, aveva pensato, vorrei riuscire a farti piangere. «Non si esce da questa cosa. Tu hai sottoscritto un contratto col sangue, metaforicamente parlando.» «Voglio uscirne.» Lui si appoggiò allo schienale, lasciandole andare il ginocchio. «E poi, Don Fernando Herrera è soltanto un obiettivo secondario, almeno per ora.» Lei aveva iniziato a tremare leggermente, e le era comparso un tic nervoso sotto l'occhio sinistro. Aveva sollevato la tazzina e aveva trangugiato il caffè. Quando l'aveva riappoggiata, la mano le tremava appena . «Chi stai inseguendo?» Ci sono vicino, questa volta, aveva pensato. Molto vicino. «Qualcuno di speciale» aveva risposto. «Un uomo che si fa chiamare Adam Stone. E un incarico un po' diverso.» Aveva allargato le mani. «Naturalmente Adam Stone non è il suo vero nome.» «Qual è?» Arkadin aveva sorriso in modo perfido. Poi si era girato per ordinare altri due caffè . Stava sorgendo l'alba a Puerto Penasco mentre il breve lampo dei ricordi di Arkadin si spegneva nell'oscurità. Una fresca brezza di mare portava con sé il profumo del nuovo giorno. C'erano state tante donne, nella sua vita: Elena, Marlene, Devra e certo anche altre, il cui nome non ricordava più, ma mai nessuna come Tracy. Quelle tre - Elena, Marlene e Devra - avevano significato qualcosa per lui, anche se aveva difficoltà a definire esattamente cosa. Ognuna, a suo modo, aveva cambiato il corso della sua vita; eppure nessuna l'aveva resa più ricca e piena.
Soltanto Tracy, la sua Tracy. Strinse i pugni. Ma lei non era mai stata la sua Tracy, giusto? No, no, no. Cristo santo, no . La pioggia tamburellava sul tetto del cottage, mentre grosse gocce scivolavano lungo i vetri delle finestre. Il rombo di un tuono più vicino degli altri. Le tende di pizzo erano tirate. Nel cuore della notte Chrissie giaceva, vestita dalla testa ai piedi, su uno dei letti gemelli, e guardava la finestra, picchiettata come l'uovo di un pettirosso. Scarlett dormiva rannicchiata sull'altro letto, il respiro profondo e regolare nel sonno. Chrissie sapeva che avrebbe dovuto dormire, che aveva necessità di riposare, ma dopo l'incidente in autostrada non riusciva a calmarsi. Diverse ore prima aveva considerato l'idea di prendere mezza pastiglia di Lorazepam, ma l'ipotesi di perdere la lucidità la rendeva ancora più ansiosa . La tensione nervosa era aumentata dopo che era andata a prendere Scarlett dai suoi genitori. Suo padre, che capiva cosa provava con un solo sguardo, aveva avuto il sospetto che fosse successo qualcosa nel preciso momento in cui aveva aperto la porta; non si era lasciato convincere facilmente quando lei aveva cercato di rassicurarlo sul fatto che non ci fosse alcun problema. Vedeva ancora il viso lungo e affilato del genitore che la osservava mentre caricava Scarlett sulla Range Rover. Era lo stesso sguardo afflitto che aveva mentre la bara di Tracy veniva calata nella fossa. Quando salì in auto, Chrissie sospirò di sollievo per essersi ricordata di parcheggiare il Suv in modo che lui non vedesse i danni sulla fiancata. La bambina agitò allegramente la mano in segno di saluto mentre si allontanava. Suo padre era ancora sulla soglia quando l'auto svoltò oltre la curva sparendo dalla sua visuale . Adesso, dopo diverse ore e molti chilometri, era distesa su un letto nella casa di un'amica che si trovava a Bruxelles per lavoro. Era riuscita a farsi dare le chiavi dal fratello di lei. Nella camera buia stava sveglia ad ascoltare i rumori e gli scricchiolii, i bisbigli e i sibili di una casa sconosciuta. Il vento scuoteva le finestre a ghigliottina, come fosse alla ricerca di un varco per intrufolarsi. Rabbrividì e si avvolse meglio nella coperta, ma non riuscì a scaldarsi. Non bastava neppure il calore dei termosifoni. Aveva il gelo nelle ossa per la tensione e il terrore che le attanagliavano la mente . «E probabile che ci stessero seguendo da quando abbiamo lasciato la casa di Tracy» aveva detto Adam. «Non ha alcun senso che vengano a sapere di Scarlett, e neppure dove abitano i tuoi genitori.» Il pensiero che ci fossero persone che avevano cercato di uccidere Adam e che potessero sapere di sua figlia le provocò una sensazione dolorosa alla bocca dello stomaco. Voleva sentirsi al sicuro, in quella casa, credere che non ci fosse più pericolo, ora che si era allontanata da lui, ma i dubbi continuavano ad assillarla. Un altro brontolio di tuono, questa volta più vicino, e poi un nuovo scroscio di pioggia che picchiava sui vetri. Si sedette sul letto, senza fiato. Il cuore le batteva forte e allungò la mano a toccare la Glock che Adam le aveva dato per difesa. Aveva qualche dimestichezza con le armi, anche se si trattava per lo più di fucili e carabine. Nonostante le proteste della madre, il padre l'aveva portata più volte a caccia nelle domeniche d'inverno, con il gelo pungente e un sole velato e pallido. Ricordava il fianco tremante di un cervo e come era sobbalzata quando suo padre gli aveva sparato al cuore. Aveva impresso nella memoria lo sguardo che aveva l'animale quando il padre gli aveva infilato il coltello nella pancia per cominciare a scuoiarlo. Aveva la bocca semiaperta, come se prima di ricevere quell'ultimo colpo fosse stato sul punto di chiedere pietà . Scarlett piagnucolava nel sonno e, come faceva sempre quando sua figlia aveva un incubo, Chrissie si alzò, si chinò sul suo letto e le accarezzò i capelli. Perché i bambini dovevano essere afflitti dagli incubi, si chiese, quando c'era tanto tempo nella vita adulta? Dov'era finita la sua infanzia spensierata? Era stata un'illusione? Anche lei aveva avuto incubi, terrori notturni, paure? Non riusciva a ricordarsene, per fortuna . Però sapeva una cosa: Tracy avrebbe riso di lei per il solo fatto di avere questi pensieri. «La vita non è spensierata» riusciva ancora a sentire le parole della sorella. «Che cosa credi ? La vita è difficile, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, è un terribile incubo.» Cosa può averla portata a dire una cosa del genere ?, si domandò Chrissie. Quali disgrazie possono averla
colpita mentre io me ne stavo a Oxford, sepolta tra i libri? All'improvviso fu sopraffatta dalla sensazione di aver abbandonato Tracy, di non essere riuscita a vedere i segni dello stress, la sua vita complicata. Ma in realtà come avrebbe potuto aiutarla? Tracy era persa in un mondo talmente lontano e diverso, e lei l'avrebbe trovato incomprensibile. Proprio come non riusciva a capire il senso di quello che era accaduto quel giorno. Chi era Adam Stone? Non aveva dubbi sul fatto che fosse amico di Tracy, anche se sospettava che lui fosse qualcosa di più: un connazionale, un socio in affari, forse addirittura il suo capo. Qualcosa che lui non aveva voluto confidarle. L'unico fatto di cui poteva essere certa era che la vita di sua sorella rappresentava un mistero, e lo stesso valeva per quella di Adam. Entrambi facevano parte di quello stesso mondo, e ora anche lei, inconsapevole, vi era stata trascinata dentro. Rabbrividì di nuovo e, vedendo che Scarlett si era calmata, si distese di fianco a lei, mettendosi schiena contro schiena. Il calore della ragazzina la riscaldò piano, le palpebre le si fecero pesanti ed entrò nel dormiveglia, affondando lentamente e inesorabilmente nel delizioso abbraccio del sonno . Un rumore secco la risvegliò all'improvviso. Per un attimo rimase immobile, tesa nell'ascolto della pioggia, del vento, di Scarlett che respirava assieme alla piccola casa. Cercò di individuare la provenienza del rumore. Aveva sognato o era sveglia? Dopo quello che le sembrò un lunghissimo momento scese dal letto di Scarlett, allungò un braccio e fece scivolare la mano sotto il cuscino alla ricerca della Glock. Attenta a non far rumore andò verso la porta semiaperta della camera e sbirciò fuori, guardando verso lo spicchio di luce tenue proveniente dalla lampada che aveva lasciato accesa nella stanza da letto di fronte, in modo che lei e Scarlett potessero andare in bagno senza andare a sbattere contro i mobili . Si spostò nel corridoio, guardinga, in ascolto. Sentì una goccia di sudore correrle dall'ascella lungo il braccio. Aveva il cuore in gola. A ogni secondo l'ansia aumentava, come pure la speranza di avere solo immaginato quel rumore. In fondo al corridoio si affacciò alla balaustra delle scale e scrutò nel soggiorno immerso nel buio. Era indecisa, quasi convinta di aver sognato, ma poi sentì di nuovo quel rumore . Scese le scale buie a piedi nudi, passando dalla semioscurità al buio pesto. Sarebbe dovuta arrivare in fondo alla scala per raggiungere l'interruttore della luce del soggiorno. Al buio i gradini sembravano più ripidi e insidiosi. Per un attimo valutò l'idea di tornare indietro a cercare una torcia elettrica, ma rinunciò, pensando che poi le sarebbe mancato il coraggio. Continuò a scendere la scala, un gradino alla volta. Era in legno lucido e senza passatoia. A un certo punto fu sul punto di scivolare e cadere in avanti. Si aggrappò alla ringhiera e riuscì a rimanere in equilibrio, con il cuore che le batteva all'impazzata . Calma, si disse. Adesso tu ti calmi, Chrissie. Non c'è proprio nessuno . Di nuovo quel rumore, stavolta più forte, e allora ne ebbe la certezza: qualcuno era entrato in casa . Il giorno in cui Karpov aveva iniziato il lungo viaggio di ritorno a Mosca, Arkadin ed El Heraldo salirono sul motoscafo appena dopo il tramonto. Arkadin prese il largo senza accendere le luci di posizione, cosa non consentita ma necessaria. Inoltre, come aveva scoperto quasi subito, in Messico la linea di confine tra legale e illegale era mutevole quanto la linea dei fronti di guerra. Per non parlare del fatto che le cose vietate e quelle attuabili entravano spesso in conflitto . Il sistema GPS del motoscafo era ben nascosto, quindi non emanava alcun chiarore. L'oscurità era totale e a oriente erano apparse alcune stelle . «Tempo» disse Arkadin . «Otto minuti» rispose El Heraldo, guardando l'orologio . Arkadin modificò la rotta di un paio di gradi. Si trovavano già oltre il perimetro delle motovedette, ma non accese ancora le luci di posizione. Sullo schermo del GPS appariva tutto quello che gli occorreva sapere. I silenziatori installati da El Heraldo sul tubo di scarico funzionavano alla perfezione: il motoscafo ronzava appena mentre planava sull'acqua ad alta velocità .
«Cinque minuti» annunciò El Heraldo . «Tra poco entreremo nel campo visivo.» El Heraldo si mise alla guida in modo che Arkadin potesse guardare in direzione sud con un potente visore notturno . «Li vedo» annunciò dopo poco . El Heraldo rallentò subito l'andatura . Arkadin, osservando con il visore il natante in arrivo, uno yacht del valore di oltre cinquanta milioni di dollari, riconobbe i segnali all'infrarosso, due lunghi e due brevi, visibili solo a lui . «Okay, adesso» ordinò . El Heraldo spense i motori e il motoscafo proseguì per inerzia la sua corsa tra le onde fino a fermarsi. Proprio di fronte a loro lo yacht torreggiava a luci spente nell'oscurità. Mentre Arkadin si preparava, El Heraldo indossò il visore notturno e azionò il faro all'infrarosso. Anche lo yacht era equipaggiato di un faro analogo, per evitare collisioni in assenza di luci . Una scaletta di corda venne srotolata sulla fiancata sinistra dello yacht ed El Heraldo l'avvicinò al motoscafo. Un uomo vestito di nero gli tese una scatola di cartone. Il messicano la caricò su una spalla e l'appoggiò sulla coperta del motoscafo . Arkadin aprì il cartone con un temperino. Conteneva scatole di tortillas preconfezionate di mais biologico. Arkadin ne aprì una e tirò fuori il rotolo di tortillas: dentro erano impilati quattro pacchetti di polvere bianca, avvolta nella plastica. Infilò la lama del coltello in uno di essi e ne assaggiò il contenuto. Soddisfatto, fece un gesto prestabilito al marinaio dello yacht. Inserì di nuovo la cocaina nel rotolo di tortillas e nella scatola, rimise tutto a posto ed El Heraldo la restituì al marinaio . Mentre questi spariva oltre la fiancata, dallo yacht giunse un breve fischio e Arkadin restò in attesa. Poco dopo vennero calati due involti piuttosto grandi tramite un argano portatile. I due sacchi erano lunghi circa due metri ed erano imprigionati in una rete come fossero tonni . Quando il carico fu posato sulla coperta del motoscafo, il messicano estrasse i sacchi dalla rete, che fu immediatamente ritirata a bordo dello yacht, così come la scaletta di corda . Dallo yacht giunse un altro fischio, questa volta lungo. El Heraldo, alla guida del motoscafo, accese i motori, fece marcia indietro e cominciò ad allontanarsi. Quando furono a distanza di sicurezza, lo yacht cominciò ad avanzare, riprendendo il suo viaggio verso nord, fino alla costa di Sonora . Mentre El Heraldo correggeva la rotta verso est e verso la costa, Arkadin prese una torcia e, accovacciato, aprì uno degli involti con il coltello. Poi puntò la torcia sul contenuto . I volti di due uomini spuntarono pallidi alla luce, tranne nella zona della barba in ricrescita. Erano ancora intontiti per l'anestetico che era stato somministrato loro al momento del rapimento, a Mosca. Gli occhi, non più abituati alla luce da alcuni giorni, si chiusero di scatto, lacrimando . «Buonasera, signori» disse Arkadin, invisibile dietro il fascio di luce abbagliante della torcia. «Finalmente siete giunti alla fine del vostro viaggio. Uno di voi due, per lo meno. Stepan, Pavel, voi eravate due dei miei luogotenenti e i più fidati tra i miei uomini. Eppure, uno di voi due mi ha tradito.» Alla luce della torcia fece baluginare la lama scintillante del coltello. «Concedo un'ora al traditore per confessare tutto quello che sa. Sarà ricompensato con una morte rapida e indolore. Altrimenti... avete mai sentito parlare della morte per disidratazione? No? Che Dio vi assista, non è proprio un bel modo di crepare, per un essere umano.» Per un attimo Chrissie rimase immobile, incerta sul da farsi, come se le sue reazioni istintive fossero in conflitto. Poi trasse un profondo respiro e prese in considerazione le varie possibilità. Non sarebbe servito a niente tornare indietro: sarebbe rimasta intrappolata al secondo piano e chiunque si fosse introdotto in casa si sarebbe trovato molto più vicino a Scarlett. Il suo unico pensiero era per sua figlia. Qualsiasi cosa fosse accaduta, doveva proteggere lei . Fece un passo incerto verso il pianoterra, poi un altro. Mancavano cinque scalini all'interruttore. Con la schiena appoggiata alla parete arrivò quasi in fondo alla scala. Udì ancora quel rumore e di nuovo si bloccò. Aveva la sensazione che qualcuno fosse entrato dalla portafinestra della
cucina e stesse andando verso il soggiorno. Alzò la Glock, muovendola lentamente davanti a sé come se potesse aiutarla a vedere al buio. Ma, a eccezione della sagoma del divano e del bracciolo di una poltrona di fronte al caminetto, non riuscì a scorgere nulla né a percepire alcun movimento, per quanto furtivo . Un altro passo, sempre più vicino all'interruttore della luce. Mancava pochissimo... si protese verso la parete, allungando la mano libera, quando, trattenendo il respiro, arretrò di scatto. C'era qualcuno ai piedi delle scale. In un turbinio confuso avvertì uno spostamento d'aria dietro il montante della scala e vi puntò contro la Glock . «Chi è là?» Fu spaventata dalla sua stessa voce, come se si trovasse in un sogno o fosse stato qualcun altro a parlare. «Rimani dove sei, sono armata.» «Tesoro, dove accidenti hai preso una pistola!?» esclamò suo padre da qualche punto nel buio. «Sapevo che c'era qualcosa che non andava. Cosa succede?» Chrissie accese la luce e lo vide, immobile, pallido in volto e con un'espressione preoccupata . «Papà?» Batté le palpebre più volte, come se non riuscisse a credere che fosse davvero lui. «Che cosa ci fai qui?» «Tesoro, dov'è Scarlett?» «Sta dormendo di sopra.» Lui annuì. «Bene, questa però tienila così.» Afferrò la canna della Glock e le abbassò il braccio. «Adesso vieni qui da me. Mentre accendo il fuoco tu mi racconti cosa diavolo sta succedendo.» «Niente, papà. La mamma sa che sei qui?» «Tua madre è preoccupata per te quanto me. Lei affronta le cose cucinando, come sta facendo anche adesso. Sono venuto qui con l'ordine di riportarvi tutte e due a casa con me.» Come in trance, Chrissie scese l'ultimo gradino ed entrò in soggiorno. Suo padre stava accendendo un po' di luci. «Non posso farlo, papà.» «Perché no?» domandò lui facendo un gesto di stizza con la mano. «Non importa, sapevo che non l'avresti fatto.» Le voltò la schiena per mettere della legna nel camino. Poi si guardò attorno. «Dove sono i fiammiferi, in questa casa?» Si avviò verso la cucina. Lo sentì aprire e chiudere cassetti e frugarvi all'interno . «Non è che non ti sia grata, papà. Però è stato veramente stupido da parte tua venire qui nel cuore della notte. Cos'è, mi hai seguita? E come hai fatto a entrare?» Lo raggiunse in cucina . Una mano ruvida le tappò la bocca e, nello stesso momento, qualcuno le tolse di mano la Clock. Una fugace zaffata di colonia maschile. Poi vide che suo padre giaceva a terra svenuto e lei cominciò a dibattersi . «Sta' ferma» le intimò una voce all'orecchio. «Altrimenti andiamo di sopra e ti faccio vedere come sparo in faccia a tua figlia.» *** Capitolo 13 . Quando Soraya arrivò all'aeroporto di Tucson, andò diretta ai banconi delle compagnie di noleggio auto e mostrò a tutti gli impiegati la foto del sedicente Stanley Kowalski senza successo. Sui loro registri non compariva quel nome, ma del resto non si era aspettata che saltasse fuori. Un professionista del calibro di Arkadin non sarebbe stato così imprudente da noleggiare una macchina con lo stesso falso nome usato per l'Ufficio Immigrazione. Imperterrita, chiese di parlare con il direttore di ciascuna agenzia. Poiché conosceva la data e l'ora di arrivo di Arkadin all'aeroporto, aveva fatto in modo di essere sul posto più o meno alla stessa ora. S'informò dai direttori su chi fosse di servizio nove giorni prima. Erano tutti presenti anche quel giorno, tranne una donna che rispondeva al brutto nome di Biffy Flisser, che era passata al servizio reception dell'hotel Best Western dell'aeroporto . Il direttore le fece la cortesia di telefonare al Best Western e quando Soraya entrò nella hall, fresca e ariosa, Biffy Flisser la stava aspettando. Si sedettero in un salottino e parlarono davanti a qualcosa da bere. Biffy era una persona cordiale e disponibile e accettò di aiutare Soraya nelle ricerche . «Sì, questo lo conosco!» esclamò, picchiettando con un dito la foto della videosorveglianza sul cellulare di Soraya. «Cioè, non è che lo conosca di persona, però ha preso un'auto a noleggio proprio quel giorno.» «Ne è sicura?» «Sicurissima» assentì Biffy. «Ha chiesto un noleggio a lungo termine. Un mese o sei settimane, ha detto. Io ho risposto che in quel caso potevamo
fargli un prezzo speciale e mi sembrò soddisfatto.» Soraya attese un momento. «Si ricorda il suo nome?» domandò con nonchalance . «E una cosa importante, mi sembra.» «Mi sarebbe certamente di aiuto.» «Mi lasci pensare.» Tamburellò le unghie smaltate sul piano del tavolino. «Frank, mi sembra, Frank qualcosa...» Si concentrò ancora, quindi si illuminò. «Ci sono! Frank Stein. Frank Norman Stein, per l'esattezza.» Frank N. Stein. A Soraya venne da ridere . «Che c'è?» Biffy aveva l'aria confusa. «Cosa c'è di tanto divertente?» Arkadin era davvero un bel tipo, si ritrovò a pensare Soraya tornando all'aeroporto. Poi si bloccò. Era davvero così? Perché avrebbe consapevolmente dovuto usare un nome tanto bizzarro? Forse aveva intenzione di abbandonare la macchina da qualche parte, appena superato il confine . All'improvviso si sentì svuotata. Continuò comunque la sua indagine. Quando fu di nuovo di fronte al direttore dell'agenzia, gli diede il falso nome usato da Arkadin per il noleggio. «Quale auto ha preso?» «Solo un momento.» Il direttore andò al suo terminale e inserì nome e data. «Una Chevrolet nera, piuttosto vecchia, dell'87. Un bidone, in realtà, ma lui sembrava soddisfatto.» «Tenete le auto per così tanti anni?» Il direttore fece cenno di sì con la testa. «Prima di tutto, qui nel deserto non arrugginiscono. Inoltre, a causa dei continui furti, è più conveniente noleggiare vetture vecchie. E poi i clienti apprezzano le tariffe basse.» Soraya si appuntò l'informazione, compreso il numero di targa, senza eccessiva speranza che anche trovando la macchina sarebbe arrivata ad Arkadin. Quindi noleggiò un'auto, ringraziò il direttore ed entrò in un bar; si sedette e ordinò un caffè freddo . Aveva imparato a sue spese a non ordinare mai tè freddo, a meno che non si trovasse a New York, Washington o Los Angeles: gli americani bevevano il tè freddo con una quantità di zucchero intollerabile . Mentre aspettava, aprì una cartina dettagliata dell'Arizona e del Messico settentrionale. Il Messico era grande, ma lei riteneva che Arkadin si trovasse in un raggio di un centinaio di chilometri dall'aeroporto. Altrimenti perché avrebbe scelto proprio Tucson, quando avrebbe potuto scendere a Città del Messico o ad Acapulco? No, decise, la sua destinazione doveva essere in qualche punto del Messico nordoccidentale, magari appena oltre il confine . Arrivò il caffè freddo e lo bevve così, nero e amaro, assaporandone il gusto acidulo che le scendeva in gola e nello stomaco. Tracciò attorno all'aeroporto un cerchio del raggio di circa centocinquanta chilometri. Quella era la sua area di ricerca . Nel momento stesso in cui Soraya usciva dal suo ufficio, il direttore dell'agenzia di noleggio auto prese una chiavetta dalla tasca dei pantaloni e aprì il cassetto in basso a destra della sua scrivania. Dentro si trovavano alcune cartelline, una pistola automatica registrata a suo nome e una fototessera. Portò la foto più vicina alla luce, studiandola a lungo. Poi, arricciando le labbra, girò il cartoncino e compose il numero telefonico appuntato sul retro. Quando una voce maschile rispose, disse: «È venuto qualcuno a cercare il suo uomo, l'uomo della foto che mi ha dato... Ha detto di chiamarsi Soraya Moore, non ho avuto motivo di pensare che fosse un nome falso... Non ho visto un documento, no... Ho fatto come mi aveva detto... Niente di più facile, a questo riguardo... Sì, chiaro, adesso glielo spiego. Intendo dire che sarà tutto molto semplice, ha preso un'auto a noleggio...» . «... una Toyota Corolla, azzurro metallizzato, numero di targa... D come David, V come Victor, N come Nancy, tre-tre-sette-otto.» C'era anche dell'altro, ma di nessun interesse per Soraya. La minuscola cimice elettronica che aveva applicato sotto il piano della scrivania del direttore funzionava alla perfezione, la voce dell'uomo le arrivava chiara e distinta. Peccato solo che non potesse sentire la voce all'altro capo del telefono. Comunque ora sapeva che qualcuno stava tenendo d'occhio l'aeroporto di Tucson, forse ce n'erano degli altri anche nei pressi del confine messicano. Sapeva anche che, quali che fossero queste persone, l'avrebbero seguita fino in Messico . Una cosa era certa: la persona con cui il direttore stava parlando al telefono non capiva lo slang americano. Questo escludeva i messicani, i quali, nella zona di confine, avevano l'abitudine
quasi maniacale di apprendere e usare ogni possibile forma colloquiale dell'inglese e delle sue espressioni popolari. Quella persona doveva essere straniera, magari russa. E se, come supponeva, si trattava di un uomo di Arkadin incaricato di fare la posta al gruppo di esecutori di Dimitrij Maslov, allora quello poteva essere il suo giorno fortunato . La prima cosa che fece Peter Marks atterrando all'aeroporto di Londra Heathrow fu chiamare Willard . «Dove sei?» esordì Marks . «Meno ne sai e meglio è.» Marks si adombrò. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno lavorando sul campo è andare alla cieca» scattò . «Sto cercando di proteggerti da Liss. Se ti chiama, e guarda che lo farà, gli dirai senza mentire che non sai dove mi trovo, e per te finisce lì.» Peter esibì il suo documento ufficiale d'identità al funzionario dell'Ufficio Immigrazione, gli apposero un timbro sul passaporto e lo fecero passare. «Ma non per te.» «Lascia che me ne occupi io, Peter. Tu ne hai già abbastanza con l'anello che devi prendere a Bourne.» «Prima devo trovarlo» precisò Marks, dirigendosi al ritiro bagagli . «Tu sei già stato in contatto con Bourne» commentò Willard. «Sono sicuro che lo scoverai.» Marks si trovava ormai fuori dall'aeroporto, in una tipica mattinata londinese, grigia e uggiosa. Diede un'occhiata all'orologio. Era prestissimo, ma il cielo stava già scaricando violenti scrosci di pioggia . «Nessuno conosce veramente Bourne» osservò, «neppure Soraya.» «Questo perché non c'è niente di sensato in lui» rimarcò Willard. «E del tutto imprevedibile.» «Be', non puoi certo lamentarti. Voglio dire: è stata la Treadstone a ridurlo così.» «Non è vero» ribatté Willard seccamente. «Qualunque cosa sia successa, quell'amnesia di cui ha sofferto l'ha cambiato in modo irreversibile. A questo proposito, voglio che tu vada a parlare con un certo ispettore capo Lloyd-Philips. Bourne potrebbe essere implicato in un omicidio avvenuto ieri sera al Vesper Club. Comincia a cercarlo da lì.» Marks prese qualche rapido appunto scrivendo sul palmo della mano. «Sei tu quello incomprensibile.» Si mise in fila per il taxi, avanzando lentamente di posto. Abbassando la voce, si coprì la bocca con la mano: «Ti sei fatto in quattro per aiutarlo a Bali, e adesso mi sembra che lo consideri un soggetto da circo, una specie di mostro» . «Ma lui è un mostro, Peter. E anche pericoloso: ha già ammazzato Noah Perlis e adesso potrebbe essere implicato in un altro omicidio. Di quante altre prove hai bisogno per capire che è fuori controllo? Non voglio che lo dimentichi o che perdi di vista il tuo obiettivo. Con l'addestramento alla Treadstone è diventato un guerriero perfetto, ma poi c'è stato qualcosa, un imprevisto, uno scherzo del destino o della natura, chiamalo come vuoi, che l'ha cambiato ancora. Si è trasformato in qualcosa di sconosciuto, in qualcosa di alieno. E proprio per questo l'ho messo contro Arkadin. Come ho già avuto modo di spiegarti, Arkadin, che è stato il primo prodotto della Treadstone, è stato sottoposto a una forma di addestramento estremo che... be', dopo la fuga di Arkadin, dopo che si persero le sue tracce, Conklin decise di modificarla rendendola meno... estrema.» Essendo ormai arrivato in testa alla fila, Marks si sedette sul sedile posteriore di un taxi e comunicò all'autista l'indirizzo di un piccolo hotel del West End che gli piaceva molto . «Se la Treadstone è destinata a continuare e ad avere successo, se vuole fare onore alla sua promessa, dobbiamo scoprire chi dei due vincerà.» La voce di Willard ronzava nell'orecchio di Marks come una vespa contro il vetro di una finestra . Marks guardò fuori dal finestrino. «Voglio essere chiaro. Se vincerà Arkadin, tornerai al metodo di addestramento originale.» «Con alcune piccole modifiche che ho già in mente.» «E se sarà Bourne a far fuori Arkadin? Tu non sai...» «Esatto, Peter, ci troviamo di fronte a un fattore sconosciuto. Pertanto il processo richiederà più tempo. Dovremo studiare Bourne in un ambiente controllato. Noi...» «Aspetta un attimo... Intendi in carcere?» «Per sottoporlo a test ripetuti, sì, esatto.» Willard aveva un tono impaziente, come se stesse spiegando le sue ragioni e Marks fosse troppo stupido per afferrarne il significato. «È questa l'essenza della Treadstone,
Peter. È a questo che Alex Conklin ha dedicato la propria vita.» «Ma perché? Io proprio non capisco.» «Nemmeno il Grande Vecchio lo capiva, in realtà.» Willard sospirò. «A volte penso che Alex sia stato l'unico americano ad aver imparato dai tragici errori della guerra in Vietnam. Il suo particolare genio, capisci, ha anticipato l'Iraq e l'Afghanistan. Lui ha saputo prevedere un nuovo mondo. Capiva che i vecchi metodi per dichiarare guerra erano antiquati e destinati al fallimento quanto il codice napoleonico . «Mentre il Pentagono spendeva miliardi per accumulare bombe intelligenti, sottomarini nucleari, aerei stealth e caccia supersonici, Alex si era concentrato nella fabbricazione della sola arma da guerra di cui conosceva l'efficacia: gli esseri umani. La missione della Treadstone, fin dal suo primo giorno, è stata quella di costruire la macchina umana perfetta: senza paura, senza pietà, abile nell'arte del sotterfugio, nello sviamento e nel mimetismo. Un'arma dalle mille facce che potrebbe essere chiunque, andare ovunque, uccidere qualunque obiettivo senza alcun rimorso e così via, per poi ricominciare alla missione successiva . «E quindi puoi ben vedere come Alex fosse un visionario. Anche la sua idea alla fine è risultata obsoleta. Ciò che noi creiamo nel programma della Treadstone diventerà l'arma americana più potente contro i nemici del paese, per quanto abili e lontani siano. Pensi allora che dovrei seppellire una cosa tanto inestimabile? Ho fatto un patto col diavolo perché la Treadstone tornasse in vita.» «E cosa diresti se il diavolo avesse altre idee per la Treadstone?» domandò Marks . «In quel caso dovremo affrontarlo, in un modo o nell'altro» rispose Willard. Ci fu una breve pausa. «Per me non farà alcuna differenza se sarà Bourne o Arkadin a vincere. Mi interessa solo il risultato della loro lotta per la sopravvivenza. E in ogni caso uno di loro due diventerà il prototipo sul quale modellare i futuri prodotti della Treadstone.» «Parti dall'inizio» lo esortò Bourne. «Questa cosa ha tutte le caratteristiche di un incubo.» «Il nocciolo della questione» rispose Ottavio Moreno con un sospiro «è che tu non avevi alcun diritto di uccidere Noah Perlis.» Si erano rifugiati in una casa sicura a Thamesmead, un quartiere sorto su un'ex area industriale a ridosso del Tamigi, non lontano dall'aeroporto. Uno di quei prefabbricati moderni disseminati un po' ovunque nella zona, fragili all'aspetto e anche nella realtà. Ci erano arrivati sulla Opel grigia di Moreno, una macchina anonima come ce ne sono tante a Londra. Avevano mangiato pollo freddo e pasta appena scongelata, accompagnando il pasto con una bottiglia di discreto vino sudafricano, e si erano poi spostati nel soggiorno per gettarsi, letteralmente, sui divani . «Perlis ha ucciso Holly Moreau.» «Quella era una questione di lavoro» precisò Ottavio Moreno . «Lo stesso era per Holly, credo.» Moreno annuì. «Però poi si è trasformato in qualcosa di personale, giusto?» Bourne non aveva una risposta pronta, dal momento che entrambi la conoscevano . «Sono cose passate, ormai» continuò Moreno, prendendo il silenzio di Bourne per un assenso. «Quello che hai dimenticato è che io avevo ingaggiato Perlis per trovare il computer.» «Lui non aveva il computer: aveva l'anello.» Moreno scosse la testa. «Lascia perdere l'anello e cerca di ricordare la questione del computer.» Bourne aveva la sensazione di affondare sempre più nelle sabbie mobili. «Prima mi hai parlato di questo computer, ma io brancolo nel buio.» «Immagino quindi che non ricordi di averlo sottratto dalla casa di Jalal Essai.» Bourne scosse la testa, sconsolato . Moreno si premette i pollici sulle palpebre per un momento. «Adesso ho capito cosa intendevi quando mi hai detto di cominciare dall'inizio.» Bourne non rispose e lo osservò con attenzione. Era un problema costante che si verificava con le persone che lo avevano conosciuto in passato: non riusciva mai a capire bene chi fossero e se gli stessero dicendo la verità. Non è difficile mentire a qualcuno che ha perso la memoria. In realtà, rifletté Bourne, doveva essere divertente raccontare frottole a uno affetto da amnesia e stare a guardare le sue reazioni .
«Avevi ricevuto l'incarico di recuperare il portatile.» «Da chi?» Moreno si strinse nelle spalle. «Da Alex Conklin, deduco. Comunque noi due ci siamo incontrati a Marrakech.» Ancora il Marocco. Bourne si protese in avanti, sul bordo del divano. «Perché ci siamo incontrati noi due?» «Io ero il contatto di Conklin sul posto.» Quando Bourne gli lanciò un'occhiata scettica, aggiunse: «Sono una sorta di fratellastro. Mia madre è berbera, delle montagne dell'Alto Atlante» . «Tuo padre era uno che girava parecchio.» «Scherza pure... okay, per stavolta non ti faccio niente.» Ottavio Moreno rise. «Cristo, che mondo incasinato!» Scosse la testa, incredulo. «Va bene, stammi a sentire, amico. Mio padre aveva le mani in pasta in tantissime faccende, la maggior parte delle quali illegali, lo ammetto. E allora? I suoi affari lo portavano in giro per il mondo, a volte anche in posti strani.» «Gli affari non erano l'unica cosa che gli facesse gola» osservò Bourne . Ottavio Moreno annuì. «Verissimo. Aveva un debole per le donne esotiche.» «Ce ne sono altri, in giro, di piccoli Moreno per metà?» Moreno rise. «Potrebbero benissimo esserci, conoscendo mio padre. Ma, se esistono, io non ne so niente.» Bourne decise che non era di alcuna utilità portare il discorso sulla vita amorosa di Moreno senior. «Okay, dunque tu hai detto di essere l'uomo di Conklin a Marrakech.» «Non ho detto di esserlo» specificò Moreno leggermente accigliato, «io ero il suo uomo.» «Suppongo che tu non sia in grado di esibire degli assegni annullati provenienti dal conto della Treadstone.» «Ah, ah» fu il commento di Moreno, ma non era una risata. Prese un pacchetto di Gauloises Blondes, lo scrollò per prendere una sigaretta e l'accese. Fissò Bourne soffiando il fumo verso l'alto. Alla fine disse: «Mi sbaglio se dico che siamo dalla stessa parte, io e te?» . «Non lo so. E così?» Bourne si alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua fredda in cucina. Era furioso con se stesso, non con Moreno. Sapeva di essere quanto mai vulnerabile, in quella situazione. E non gli piaceva affatto. O meglio, nel suo genere di lavoro non poteva permetterselo . Tornò in soggiorno e si sedette su una poltrona di fronte al divano sul quale Ottavio Moreno finiva la sua sigaretta, come immerso nella meditazione. Nel frattempo aveva acceso la tv sul notiziario della BBC. L'audio era azzerato, ma le immagini del Vesper Club erano anche troppo familiari. Si vedevano ambulanze e macchine della polizia con i lampeggianti blu. Dall'ingresso del locale uscivano infermieri con una lettiga. Il corpo che vi era disteso sopra era coperto da un lenzuolo tirato sul volto. Poi la scena si spostava a un conduttore in studio, che pronunciava le parole scritte per lui poco prima. Bourne fece un segno e Moreno alzò il volume, ma non c'era niente di utile, in quello che sentirono, e Moreno tolse l'audio . «Adesso sarà più difficile che mai andarsene da Londra» osservò Bourne . «Io conosco più sistemi di loro per andarmene da Londra.» E indicò il poliziotto che stavano intervistando . «Anch'io» disse Bourne. «Non è quello il problema.» Moreno si allungò in avanti per spegnere il mozzicone in un brutto posacenere, e si accese subito un'altra sigaretta. «Se stai aspettando le mie scuse, resterai deluso.» «E troppo tardi per le scuse» puntualizzò Bourne. «Perché quel computer è tanto importante?» Moreno alzò le spalle . «Perlis aveva l'anello» continuò Bourne. «Ha ucciso Holly per prenderlo.» «L'anello è un simbolo della Severus Domna, tutti i membri ne portano uno al dito... oppure addosso, per maggiore discrezione.» «Tutto qui? Se quell'anello non ha nulla di importante, perché Perlis ha ucciso Holly per averlo?» «Non lo so. Magari ha pensato che l'avrebbe portato in qualche modo a quel computer.» Moreno spense anche la seconda sigaretta. «Senti, ma tutta questa diffidenza deriva dal fatto che Gustavo era mio fratellastro?» «Può essere» ammise Bourne . «Be', guarda, mio fratello maggiore è sempre stato la mia dannata spina nel fianco.» «Allora per te è un bene che sia morto» ribatté Bourne in tono secco . Moreno guardò Bourne per un attimo. «Cristo santo, allora tu sospetti che io abbia rilevato il suo traffico di droga.» «Sarei stato uno stupido se non mi fosse almeno venuto il dubbio.»
Moreno annuì con espressione cupa. «Giusto.» Si appoggiò allo schienale e allargò le mani. «Okay, allora, come posso dimostrarti che non è vero?» «Sta a te.» Moreno incrociò le braccia sul petto e rifletté per un momento. «Che cosa ricordi di questi quattro: Perlis, Holly, Tracy e Diego Herrera?» «Praticamente nulla» rispose Bourne . «Immagino che tu abbia chiesto a Diego. Che cosa ti ha detto?» «Ero al corrente della loro amicizia, della loro relazione amorosa.» Moreno si accigliò. «Quale relazione amorosa?» Quando Bourne glielo raccontò, Moreno scoppiò a ridere. «Mano, il tuo amico Diego ti ha raccontato un mucchio di stronzate. Non c'era nulla di tutto ciò tra loro quattro. Erano solo amici, almeno fino a quando Holly non ha cominciato a portare l'anello. Uno di loro - forse Tracy, non lo so - voleva conoscere il significato dell'incisione all'interno. Con il suo interesse ha stuzzicato anche la curiosità di Perlis. Così ha fatto una foto dell'incisione e l'ha portata a Oliver Liss, che allora era il suo capo. E stato questo a causare la tragica morte di Holly.» «Tu come lo sai?» «Io ho lavorato per la Black River fino a quando Alex Conklin non mi ha reclutato come agente della Treadstone sul posto, con sua grande soddisfazione: disprezzava Liss, un individuo corrotto e sfruttatore, esattamente il tipo che ti puoi aspettare di conoscere in questo ambiente. Era uno che godeva delle sofferenze altrui, attaccava il governo senza pietà e ordinava ai suoi agenti di commettere quei crimini e quelle atrocità di cui i politici non osavano macchiarsi. Fino a quando tu non hai contribuito ad affossare la Black River, Liss rappresentava più o meno l'agente più efficiente del mondo moderno, ed è tutto dire.» «Questo però non spiega ancora come...» «Un tempo Perlis riferiva a me, prima che Liss assumesse direttamente il controllo su di lui e lo utilizzasse per eseguire missioni private.» Bourne annuì. «E l'anello era una di quelle missioni private.» «Lo è diventato. A Perlis serviva aiuto e quindi si è rivolto a me. Ero l'unico di cui si fidasse. Mi disse che nel momento in cui Liss aveva visto l'anello era uscito di testa. E stata la volta in cui ordinò a Perlis di trovare il computer.» «Quello che tu mi hai aiutato a rubare a Jalal Essai.» «Esatto.» Bourne aggrottò le sopracciglia. «Ma che cosa ne è stato?» «Avresti dovuto consegnarlo personalmente a Conklin, ma non l'hai fatto.» «E perché?» «Hai scoperto qualcosa su quel computer: mi avevi detto che probabilmente Conklin non avrebbe voluto che tu sapessi di cosa si trattava. L'hai preso in carico tu, per cambiare la missione in volo.» «Che cos'avevo scoperto?» Moreno si strinse nelle spalle. «Non me l'hai rivelato e io ero troppo bene addestrato per chiedertelo.» Bourne era profondamente assorto nei suoi pensieri. L'enigma dell'anello si infittiva sempre di più. Considerata la reazione di Liss alla vista dell'anello, sembrava probabile che ci fosse un nesso con il computer. Sempre che Moreno stesse dicendo la verità. Aveva la sensazione di trovarsi in una sala degli specchi, con i riflessi talmente distorti da non distinguere più la realtà da una fantasia costruita con cura, la verità da una finzione ben architettata . Sullo schermo della tv l'annunciatore era passato ad altre notizie, ma le immagini del cadavere di Diego Herrera che veniva portato via dal Vesper Club continuavano a scorrere nella mente di Bourne. Era stato davvero necessario eliminarlo, come aveva detto Moreno, oppure quest'ultimo aveva qualche motivo oscuro e recondito che gli stava tenendo nascosto? L'unico modo per scoprire la verità era stare dalla parte di Moreno e continuare a fargli domande, fino a quando non fosse apparsa una crepa nella sua corazza, o fino a quando non si fosse dimostrato degno di fiducia . «Che cosa sai di Jalal Essai?» chiese Bourne . «A parte che è un membro del consiglio direttivo della Severus Domna, non molto. Proviene da una famiglia illustre, che risale al 1100, se non erro. I suoi antenati presero parte all'invasione moresca dell'Andalusia. Uno di loro fu governatore in Spagna per diversi anni.» «E in tempi più recenti?» «Oggigiorno nessuno s'interessa più ai berberi o agli amazigh, come ci chiamiamo noi.» «E della Severus Domna, cosa puoi dirmi?» «Ah, be', su questo argomento ho qualche informazione in più. Per prima cosa devo sottolineare che si sa molto poco sul gruppo in sé. Tengono un basso profilo e, anche se lasciano qualche traccia, risulta invisibile o facilmente cancellabile. Nessuno conosce le dimensioni dell'organizzazione, ma i suoi membri sono sparsi
praticamente in ogni angolo del mondo, e tutti occupano posizioni di potere nel governo, nel commercio, nei media e nelle attività criminali. Sono inseriti in qualsiasi industria che ti venga in mente.» «Qual è il loro obiettivo?» Bourne stava pensando alla parola Dominium incisa all'interno dell'anello. «Cosa vogliono?» «Potere, denaro, controllo sugli eventi del mondo. Chi può saperlo? Ma forse è proprio così. E quello che vogliono tutti, in fondo, no?» «Se sei uno studente di storia, sì» ammise Bourne . Ottavio Moreno rise. «Tantissimi non lo sono.» Bourne respirò a fondo. Si chiese cosa potesse aver scoperto su quel computer, tanto da indurlo a cambiare la missione. Non gli risultava di avere mai cambiato una missione della Treadstone, se non altro perché ricordava che fino all'assassinio di Conklin era stato in buoni rapporti con il capo della Treadstone, anzi, addirittura amichevoli . Quando glielo disse, Moreno commentò: «Tu mi avevi detto di riferire a Conklin che Essai non aveva il computer e che non sapevi cosa ne fosse stato» . «E tu l'hai fatto?» «Sì.» «Perché mi hai assecondato? Era la Treadstone a pagarti lo stipendio, Conklin era il tuo capo.» «Non ne sono del tutto sicuro» ammise Ottavio Moreno. «So solo che esiste una differenza fondamentale tra chi sta in ufficio e chi lavora sul campo. L'uno non comprende necessariamente le motivazioni dell'altro e viceversa. Là fuori, se non ci aiutiamo tra di noi, finiamo con un proiettile in fronte.» Mise via il pacchetto di Gauloises. «Quando mi hai detto che avevi trovato qualcosa di così grosso da cambiare la missione, io ti ho creduto.» «E allora è venuta a trovare il famoso Corellos.» Roberto Corellos, cugino di Narsico Skydel, fece un sorrisetto compiaciuto a Moira. Era seduto su una comoda poltrona. La stanza era spaziosa e piena di luce, con un tappeto alto e soffice, lampade col paralume di porcellana, quadri alle pareti, e assomigliava in tutto e per tutto a un salotto. Ma, come avrebbe presto scoperto Moira, le prigioni di Bogotà non erano come nel resto del mondo . «La stampa americana vuole parlare con il famoso Corellos, ora che si trova a La Modelo e che è sotto custodia.» Prese un sigaro dal taschino della camicia in stile cubano e, con affettazione, ne asportò la punta con un morso e lo accese con un vecchio Zippo. Sorrise di nuovo e disse: «Un regalo di uno dei miei tanti ammiratori». Non era chiaro se intendesse il sigaro o lo Zippo . Soffiò una nuvola di fumo aromatico verso il soffitto e accavallò le gambe vestite di pantaloni di lino. «Di quale giornale è?» «Sono una giornalista freelance per il "Washington Post"» rispose Moira. Erano credenziali ricevute da Jalal Essai. Non sapeva dove le avesse ottenute e non le importava. Ciò che contava era che reggessero a eventuali indagini: lui le aveva assicurato che erano solide, e tanto le bastava . Era arrivata a Bogotà da meno di ventiquattr'ore e aveva già ottenuto il permesso di intervistare Corellos. Rimase sorpresa, anche se non troppo, dal fatto che nessuno sembrava scomporsi . «E stata fortunata ad arrivare adesso. Tra una settimana o giù di lì sarò fuori.» Corellos fissò la brace sulla punta del sigaro. «E stata una specie di vacanza, per me.» Agitò una mano. «Qui ho tutto quello che potrei desiderare: cibo, sigari, troie da scopare, di tutto e di più... e non devo alzare neppure un dito per chiederlo.» «Magnifico» commentò Moira . Corellos la osservò. Era un uomo con un certo fascino, imponente e muscoloso, ardenti occhi neri, una figura molto virile... un tipo carismatico, certo. «Lei deve capire una cosa della Colombia, senorita Trevor. Il paese non è nelle mani del governo, assolutamente no. In Colombia il potere se lo dividono le FARC, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, e i cartelli della droga. Immagini i guerriglieri estremisti di sinistra e i capitalisti di destra insieme, o qualcosa del genere.» Aveva una risata rauca e stridula come il verso di un pappagallo. Sembrava completamente rilassato e a suo agio, come se fosse a casa propria e non nel carcere più grande di Bogotà. «Le FARC controllano il quaranta per cento del paese e noi l'altro sessanta.» Moira era scettica. «Mi sembra un po' esagerato, senor Corellos. Devo prendere tutto ciò che mi dice con le molle?» Corellos allungò una mano dietro lo schienale della poltrona e appoggiò una Taurus PT92 semiautomatica sul tavolo posto tra di loro . Moira era spiazzata e spiacevolmente sorpresa .
«E carica. Può controllare, se vuole.» Sembrava divertito dalla sua espressione allarmata. «Può anche prendersela come souvenir. Non si preoccupi: ce ne sono tante altre là dove me la sono procurata.» Rise un'altra volta, poi spostò la pistola di lato. «Ascolti, senorita, penso che lei, come la maggior parte dei gringo, non abbia idea di come funzionano le cose qui. Giusto il mese scorso c'è stata una sommossa, i guerriglieri delle FARC contro... be', gli uomini d'affari. E stato un conflitto in piena regola, con tanto di AK-47, bombe a frammentazione, esplosivo, tutto quanto. Le guardie hanno tagliato la corda. L'esercito ha circondato il carcere, ma non ha osato entrare perché noi eravamo armati meglio di loro.» Le fece l'occhiolino. «Scommetto che questo il ministro della Giustizia non gliel'ha raccontato.» «No, in effetti.» «Non mi sorprende. Qui c'è stato un vero inferno, glielo dico io.» Moira ascoltava affascinata. «Com'è finita?» «Sono intervenuto io. Le FARC mi ascoltano. Escuchame, io non ce l'ho con loro, certamente non contro quello che rappresentano. Il governo è una barzelletta, ma almeno quella parte la fanno bene. Sanno che io sto dalla loro, che raccolgo la mia gente per sostenerli, purché ci lascino in pace. A me non me ne frega un cazzo della politica, destra, sinistra, fascisti, socialisti... lascio le definizioni a quelli che non hanno di meglio da fare nella loro vita di merda. Io sono troppo impegnato a fare soldi, questa è la Cavita. Tutti gli altri possono pure crepare.» Scrollò la cenere del sigaro. «Io rispetto le FARC. Devo farlo, sono un uomo pragmatico. La maggior parte di Bogotà è roba loro, non nostra. E poi hanno il loro personale programma di rilascio dei detenuti. Le faccio un esempio: due settimane fa, nell'altro carcere della città, La Picota, le FARC hanno fatto saltare un intero muro, liberando novantotto dei loro. Per un gringo una cosa del genere sarebbe assurda, impossibile, giusto? Ma così va la vita, in Colombia.» Ridacchiò. «Che dicano quello che vogliono, delle FARC, ma quella è gente con le palle, che merita rispetto.» «In effetti, senor Corellos, se non ho capito male, questa è la sola cosa che lei rispetti.» Senza un'altra parola, Moira prese la Taurus, la smontò e la rimontò senza mai staccare gli occhi da quelli di Corellos . Quando riappoggiò l'arma sul tavolo, Corellos le domandò: «Perché vuole parlare con me, senorita? Per quale motivo è venuta qua? Non è per scrivere un articolo su un giornale, vero?» . «Mi serve il suo aiuto» rispose Moira. «Sto cercando un certo computer portatile che era in possesso di Gustavo Moreno. E sparito poco prima che lui morisse.» Corellos allargò le mani. «E io cosa c'entro?» «Lei era il fornitore di Moreno.» «E allora?» «L'uomo che ha preso il computer, uno degli uomini di Moreno che lavorava per qualcun altro di cui non sappiamo niente, è stato trovato morto non lontano da Amatitàn, nei confini della estancia di proprietà di suo cugino Narsico.» «Quel fighetto, col suo nome da gringo! Non voglio avere niente a che fare con lui: per me è come se fosse morto.» Moira rifletté un attimo prima di ribattere: «Mi sembra che il fatto che sia implicato nell'omicidio di quell'uomo possa essere un buon modo per rimettersi in contatto con lui» . Corellos sbuffò. «Sì, e dovrei lasciare che la polizia messicana lo trovi e lo arresti? Ma per favore! Quando si tratta di risolvere dei crimini sono dei perfetti idioti, buoni soltanto a prendere bustarelle e fare la siesta. Inoltre anche Berengària sarebbe tra i sospetti. No, se io volessi Narsico morto avrebbero trovato lui ad Amatitàn.» «E allora chi dirige il traffico di Moreno? Con chi tratta lei adesso?» Corellos soffiò fuori il fumo del sigaro, con gli occhi semichiusi . «A me non interessa far andare qualcuno in prigione» continuò Moira. «In realtà non servirebbe a niente, giusto? L'unica cosa che voglio è trovare quel computer e c'è una pista che devo seguire.» Corellos spense il sigaro. A un suo gesto entrò un uomo, che non era una guardia carceraria, con una bottiglia di tequila e due bicchierini, che posò tra i due. «Sto per ordinare la cena. Che cosa desidera?» «Quello che prende lei.» Lui fece un cenno al giovane, che annuì e uscì con discrezione, poi si chinò in avanti a versare la tequila. Quando ebbero bevuto entrambi, lui riprese il suo discorso. «Lei deve capire che io odio profondamente Narsico.» Moira si strinse nelle spalle. «Io sono una gringa, noi non prendiamo queste cose tanto sul serio. Quello che so è che lei non l'ha fatto ammazzare.» Corellos ebbe un moto di stizza alle sue parole.
«Questo è ciò che intendo con capire. Ucciderlo sarebbe un'azione che quella testa di cazzo neppure si merita.» Stava cominciando a seguirlo nel suo ragionamento. «Allora ha qualche altro piano in mente.» Di nuovo la risata da pappagallo. «E già cosa fatta. Chiunque abbia detto che la vendetta è un piatto che va servito freddo non ha sangue colombiano nelle vene. Perché aspettare quando ti si presenta una magnifica opportunità?» Il giovane tornò con un vassoio carico di piattini: dal riso e fagioli al pesce affumicato. Appoggiò il vassoio sul tavolo e Corellos lo congedò con un gesto imperioso, poi agguantò un piatto di gamberetti in salsa piccante e cominciò a mangiarli interi, con la testa e tutto. Leccandosi le dita, riprese a parlare. «Sa qual è il modo migliore di arrivare a un uomo, senorita? Attraverso la sua donna.» Adesso era tutto più chiaro. «Ha sedotto Berengària.» «Sì, l'ho fatto cornuto, l'ho disonorato. Ma non è tutto. Narsico voleva disperatamente essere migliore della sua famiglia e io ho fatto in modo che non potesse riuscirci.» Sprizzava una luce maligna dagli occhi. «Ho fatto in modo che Berengària Moreno prendesse il posto del fratello.» E ci sei riuscito molto bene, pensò Moira. Essai aveva detto che non c'erano segni di sue implicazioni. «Pensa che avesse un informatore sulle attività del fratello?» «Se avesse voluto una lista dei clienti di Gustavo, bastava che gliela chiedesse, cosa che non ha fatto, per lo meno finché lui era in vita.» «Allora chi può averlo fatto?» Le lanciò un'occhiata scettica. «Oh, non saprei, migliaia di persone, forse di più. Vuole che le scriva un elenco?» Moira ignorò il suo sarcasmo. «E cosa mi dice di lei?» Lui rise. «Cosa? Sta scherzando? Con Gustavo facevo un mucchio di soldi lasciando a lui il lavoro pesante. Perché avrei dovuto fottermi?» Moira si domandò se Corellos sapesse che la lista dei clienti di Moreno era su quel computer o se lo stesse solo presumendo. Essai non le sembrava il tipo che sta dietro i traffici di un signore della droga colombiano; aveva piuttosto l'aspetto di qualcuno che è stato derubato e vuole riavere quello che gli appartiene. Si protese verso di lui, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Escùchame, hombre. Qualcuno se l'è filata con quel computer. Se non è stata Berengària, allora deve essere qualcuno a cui fa gola il mercato di Gustavo, ed è solo questione di tempo prima che entri in azione.» Corellos si servì da un piatto di peperoncini fritti, infilandoseli in bocca uno dopo l'altro. Non sembrava avere alcuna intenzione di pulirsi le labbra unte d'olio . «Di questo non so niente» rispose in tono neutro . Moira non aveva difficoltà a credergli. Se l'avesse saputo, avrebbe già fatto qualcosa. Si alzò per congedarsi. «Forse Berengària lo sa.» Gli occhi di lui si ridussero a due fessure. «Col cazzo che lo sa. Tutto quello che sa lei, lo so anch'io.» «Ma lei è molto lontano dajalisco.» Corellos rise in modo sarcastico. «Tu non mi conosci molto bene, eh, chica!» «Io voglio quel computer, hombre.» «Così mi piace!» Fece un suono di gola, sorprendentemente simile alle fusa di una tigre. «Si sta facendo tardi, chica. Perché non rimani per la notte? Ti garantisco che qui la sistemazione è migliore di quella che potresti trovare in qualunque hotel della città.» Moira sorrise. «Meglio di no. Grazie per l'ospitalità, e per la sua sincerità.» Corellos fece un largo sorriso. «Qualunque cosa, per una bella senorita.» Alzò un dito in segno di avvertimento. «Cuidado, chica. Non ti invidio. Berengària è come un dannato pirana. Se gliene dai motivo, ti mangerà in un boccone, con le ossa e tutto il resto.» Quando Peter Marks arrivò a casa di Noah Perlis, la trovò brulicante di agenti della CIA. Due di questi li conosceva, uno in particolare: aveva lavorato insieme a Jesse McDowell in due incarichi sul campo prima di essere promosso a incarichi gestionali . Quando McDowell vide Marks gli fece segno con la mano e, prendendolo da parte, gli disse sottovoce: «Cosa diavolo stai facendo qui, Peter?» . «Sono in missione.» «Bene, anche noi, quindi sarà meglio che tu te ne vada prima che uno dei novellini fanatici di Danziger si ponga qualche domanda su di te.» «Non posso farlo, Jesse.» Peter allungò il collo, guardando oltre la spalla di McDowell. «Sto cercando Jason Bourne.» «Allora buona fortuna, ragazzo.» McDowell gli lanciò un'occhiata beffarda. «Quante rose vuoi che ti mandi per il funerale?» «Stammi a sentire, Jesse, sono appena arrivato da Washington; sono stanco, affamato, nervoso e non ho nessuna cazzo di voglia di giocare, né con te né con i
soldatini di Danziger.» Fece per passare oltre McDowell. «Credi che abbia paura di qualcuno di loro o di Danziger?» McDowell alzò le mani, con i palmi sollevati. «Okay, okay, è tutto chiaro, amico.» Prese Marks per il gomito. «Ti racconterò tutto, ma non qui. A differenza di te, sono ancora un uomo di Danziger.» Guidò Marks fuori dalla porta, sul pianerottolo. «Andiamo al pub a bere qualcosa. Dopo un paio di pinte di birra divento molto più loquace.» The Slaughtered Lamb, «l'agnello sgozzato», era il genere di pub londinese sul quale erano stati versati fiumi di inchiostro. Aveva il soffitto basso, scuro, odorava di birra fermentata e fumo di sigarette stantio, che aleggiava sospeso nell'aria come una nebbiolina sottile . McDowell scelse un tavolo contro una parete rivestita di legno, ordinò due pinte di birra a temperatura ambiente e, solo per Marks, un piatto di salsicce e purè. Quando arrivò il cibo, a Marks si rivoltò lo stomaco al solo odore. Fu costretto a rimandare indietro il piatto optando per un paio di panini al formaggio . «Questa indagine fa parte di un caso aperto dal Dipartimento della Giustizia contro la Black River» esordì McDowell . «Credevo che il caso fosse stato chiuso.» «Così pensavano tutti.» McDowell trangugiò la sua birra e ne ordinò un'altra. «Ma sembra che qualcuno molto in alto voglia inchiodare Oliver Liss.» «Liss ha lasciato la Black River prima che scoppiasse tutto il casino.» McDowell attaccò la seconda birra. «I sospetti portano in quella direzione. Il succo è che lui può anche essere fuori dall'organizzazione, ma è comunque probabile che sia stato tra gli artefici delle operazioni sporche della Black River. Il nostro scopo è confermare quell'ipotesi portando prove concrete, e poiché Noah Perlis era il cagnolino personale di Liss, stiamo buttando per aria casa sua.» «Sarà come cercare un ago in un pagliaio» osservò Marks . «Forse.» McDowell buttò giù il resto della birra. «Ma una cosa l'abbiamo trovata, e cioè una foto di quel tipo, Diego Herrera. Hai sentito che è stato pugnalato a morte ieri sera, in un casinò di lusso del West End che risponde al nome di Vesper Club?» «No» ammise Marks. «E perché dovrebbe interessarmi?» «Semplice, amico mio: perché l'uomo che è stato visto mentre accoltellava Diego Herrera era con Jason Bourne. Sono usciti dal locale pochi minuti dopo l'omicidio.» Soraya guidava diretta a sud, come, secondo il suo intuito, aveva fatto anche Arkadin, con il nome di Frank N. Stein. Quando si fermò a Nogales stava calando il crepuscolo. Si trovava ancora in Arizona. Appena oltre il confine c'era la città gemella, Nogales nello Stato di Sonora, in Messico . Parcheggiò l'auto e attraversò lentamente la polverosa piazza centrale. Trovò un bar all'aperto e si sedette per ordinare un piatto di tamales e una birra Corona. Parlava spagnolo molto meglio del francese o del tedesco, cioè benissimo. Qui la sua pelle ambrata, il sangue egiziano e il naso aquilino venivano facilmente scambiati per caratteristiche azteche. Si appoggiò allo schienale e si concesse di rilassarsi mentre osservava l'andirivieni delle persone impegnate nelle loro commissioni o nella spesa, le coppie mano nella mano. Molti anziani seduti sulle panchine giocavano a carte o chiacchieravano. Il traffico era costituito da vecchie auto ammaccate e camion polverosi e arrugginiti colmi di prodotti di ogni tipo. L'economia di Nogales si basava essenzialmente sull'agricoltura; dalla città gemella al di là del confine partivano senza sosta carichi di derrate che poi venivano confezionate e inviate in tutti gli Stati Uniti . Aveva finito l'ultimo tamaleed era alla seconda Corona quando vide una vecchia Chevrolet nera, sporca e imponente, ma la targa non corrispondeva e così tornò alla sua birra. Rinunciò al dessert passando al caffè . Il cameriere le stava posando davanti la tazzina fumante quando, oltre la sua spalla, intrawide una seconda Chevy nera. Quando il ragazzo si allontanò, si alzò in piedi. Questa volta la targa corrispondeva, ma alla guida c'era un punk diciottenne. Parcheggiò vicino al locale e scese dall'auto. Aveva i capelli a cresta, le braccia coperte di tatuaggi di serpenti e uccelli piumati. Soraya riconobbe il quetzal, l'uccello sacro degli aztechi e dei maya. Buttò giù l'espresso d'un colpo, lasciò alcune banconote sul tavolino e andò incontro al ragazzo . «Dove hai preso quella macchina, compadré?» lo apostrofò .
Lui la squadrò da capo a piedi sogghignando. Senza staccarle gli occhi dal seno, rispose: «E a te che cavolo te ne frega?» . «Non sono della polizia, se è questo che ti preoccupa.» «Perché dovrei essere preoccupato?» «Perché quella Chevy è un'auto che è stata noleggiata a Tucson, come sai benissimo anche tu.» Il punk continuava a sogghignare. Aveva l'aria di esercitarsi ogni mattina allo specchio in quell'espressione . «Ti piacciono?» Il ragazzo trasalì. «Che cosa?» «Le mie tette.» Rise, imbarazzato, e spostò lo sguardo da un'altra parte . «Stammi a sentire» incalzò lei. «Non m'interessi né tu né la macchina. Voglio sapere dell'uomo che l'ha presa a noleggio.» Lui sputò di lato e non rispose . «Non essere stupido» continuò Soraya. «Hai già abbastanza guai. Io posso tirartene fuori.» Il ragazzo sospirò. «In realtà io non so niente. Ho trovato la macchina in mezzo al deserto. E stata abbandonata.» «Come hai fatto a metterla in moto? Hai collegato i fili?» «No, non ce n'è stato bisogno: la chiave era nel quadro.» Questo dettaglio era interessante. Probabilmente Arkadin non aveva intenzione di tornare a prenderla, e quindi non si trovava più a Nogales. Soraya si fermò a riflettere per un momento. «Se io volessi attraversare il confine, come dovrei fare?» «Il posto di confine è solo a tre chilometri verso sud...» «Non voglio andarci in quel modo.» Il punk strizzò gli occhi, come se la vedesse per la prima volta. «Ho fame» disse. «Che ne dici di offrirmi qualcosa da mangiare?» «Va bene» acconsentì lei, «ma non aspettarti nient'altro da me.» Il ragazzo scoppiò a ridere e il fragile guscio della sua spavalderia si sgretolò di colpo. La sua faccia appariva ora quella di un ragazzino che osservava il mondo con occhi tristi . Tornarono insieme al bar, dove lui prese burritos de machacha e un piatto enorme di fagioli alla messicana con chiles pasados. Si chiamava Alvaro Obregón e veniva da Chihuahua. La sua famiglia era emigrata a nord in cerca di lavoro e si era fermata lì. Tramite un fratello di sua madre, i genitori avevano trovato un impiego in una maquiladora, uno stabilimento di proprietà americana, dove si confezionava frutta e verdura. A sentire lui, sua sorella era una puttana e i suoi fratelli oziavano tutto il giorno anziché darsi da fare. Lui invece lavorava per il proprietario di un ranch. Era venuto in città a ritirare alcuni materiali che il suo boss aveva ordinato per telefono . «All'inizio ero contentissimo all'idea di venire qui» le confidò. «Avevo letto delle cose su questa Nogales e avevo scoperto che qui erano nate un sacco di persone in gamba, come Charles Mingus. La sua musica mi sembra una merda totale, però sai, lui è uno famoso. E poi c'è Roger Smith. M'immagino come deve essere scopare Ann-Mar-gret! Ma la più forte di tutti è Movita Castaneda. Scommetto che non ne hai mai sentito parlare.» Quando Soraya glielo confermò, lui sorrise soddisfatto. «Ha fatto Carioca e Gli ammutinati delBounty, ma io l'ho vista solo in Torre della paura.» Tirò su con il pane gli ultimi fagioli. «Comunque, ha sposato Marlon Brando. Be', quello era veramente un figo, fino a che non si è gonfiato come un dirigibile, comunque.» Si pulì la bocca con il dorso della mano e schioccò le labbra. «Non ci vorrà molto prima che la vernice lucida venga via. Voglio dire, basta che ti guardi attorno. Guarda che merda!» «Mi sembra che tu abbia un buon lavoro» gli fece notare Soraya . «Sì, dai, provaci ancora. Fa schifo!» «E un lavoro fisso.» «Un ratto di fogna guadagna più di me.» Fece un sorriso storto. «Però non vuol dire che muoio di fame.» «E così ritorniamo alla mia domanda di partenza. Voglio andare in Messico.» «Perché? Quel posto è un fottuto buco di culo.» Soraya sorrise. «Cosa c'è?» Alvaro Obregón faceva finta di doverci pensare, ma Soraya aveva il sospetto che sapesse già come fare. Lui percorse la piazza con lo sguardo. Si erano accese le luci, i passanti uscivano a cena oppure tornavano a casa dopo gli acquisti dell'ultimo minuto. Nell'aria si sentiva puzza di fritto e qualche altro odore pungente e aspro di cucina nortena. Alla fine lui parlò. «Be', oltre il confine ci sono un paio di polleros locali.» Si trattava di uomini che venivano pagati per introdurre i clandestini oltreconfine senza passare dalla Dogana e dall'Ufficio Immigrazione. «Ma in realtà solo uno è affidabile. Sei fortunata, questa mattina presto ha portato una famiglia intera di messicani. Adesso è qui e te lo posso
presentare. Lo chiamano Contreras, ma io so per certo che quello non è il suo vero nome. Ci ho parlato di persona.» Su questo Soraya non aveva dubbi. «Vorrei che tu organizzassi l'incontro con il tuo compadre Contreras.» «Ti costerà cento dollari americani.» «E una rapina. Cinquanta.» «Settantacinque.» «Sessanta. E la mia ultima offerta.» Alvaro Obregón tese la mano con il palmo aperto e Soraya vi depose una banconota da venti e una da dieci. Il denaro scomparve rapidamente, tanto da dare l'impressione di non essere mai esistito . «Il resto alla consegna» disse Soraya . «Aspetta qui» rispose Alvaro Obregón . «Risparmia tempo e chiamalo, no?» Alvaro Obregón scosse la testa. «Non si tengono i contatti al cellulare, mai. Regole del gioco.» Si alzò e, senza particolare fretta, si allontanò con il tipico passo lento degli abitanti di Nogales . Soraya rimase sola per circa un'ora, godendosi le luci dei locali e le canzoni ritmate di una banda che suonava in stile Sinaloa. Un paio di uomini la invitarono a ballare; lei rifiutò, in tono gentile ma deciso . Nel momento in cui la banda attaccava la seconda cumbia, dalle ombre spuntò Alvaro Obregón. Era in compagnia di un uomo, presumibilmente Contreras, il pollero, che doveva avere circa quarantacinque anni e aveva una faccia che pareva una carta geografica piegata e ripiegata troppe volte. Era alto e magro, con le gambe leggermente arcuate, come chi va a cavallo da una vita. Portava un cappello a tesa larga da cowboy, jeans stretti e una camicia western con le cuciture profilate e i bottoni a pressione di madreperla . L'uomo e il ragazzo si sedettero senza aprir bocca. Da vicino, Contreras aveva gli occhi stanchi e incolori di un uomo abituato alla polvere, alla vegetazione rada e al deserto rovente. La pelle sembrava cuoio bruciato . «Il ragazzo dice che lei vuole andare a sud» disse Contreras in inglese . «Esatto.» Soraya aveva già visto quello sguardo nei giocatori d'azzardo: sembrano trapanarti il cranio . «Quando?» Un tipo di poche parole: per lei andava bene. «Il prima possibile.» L'uomo alzò gli occhi per guardare la luna, come un coyote sul punto di ululare. «Solo una falce di luna» commentò. «Stasera è meglio di domani, domani è meglio di dopodomani. Dopodiché...» Si strinse nelle spalle come a indicare che la porta si chiudeva . «Qual è la tariffa?» chiese Soraya . Alzò di nuovo gli occhi, con espressione neutra. «Non può contrattare con me come ha fatto con il ragazzo.» «D'accordo.» «Cinquecento, la metà subito.» «Un quarto, il resto quando mi avrà portata sana e salva dall'altra parte.» Contreras fece una piccola smorfia. «Avevi ragione, ragazzo: è proprio una puttana.» Soraya non si offese; sapeva che voleva essere un complimento. Era il modo di parlare di quella gente, non sarebbe stata lei a cambiarlo né aveva intenzione di provarci . Contreras si strinse nelle spalle e fece per alzarsi. «Io l'ho detto.» «Detto cosa?» replicò Soraya. «Le verrò incontro se accetta di dare un'occhiata a questa foto.» Contreras la scrutò e si risedette. Tese la mano aperta, alla maniera di Alvaro Obregón. Il ragazzo imparava in fretta . Soraya fece scorrere le foto sul cellulare fino a trovare quella di Arkadin scattata dalla telecamera di videosorveglianza. Posò il cellulare sul palmo del pollero. «Ha visto quest'uomo? Potrebbe averlo portato oltreconfine forse nove o dieci giorni fa.» Così aveva dedotto dal racconto di come Alvaro Obregón aveva trovato la Chevrolet abbandonata nel deserto: Arkadin era riuscito a passare in Messico evitando i controlli ufficiali . Contreras non guardò neppure la foto, ma continuò a fissarla con i suoi occhi slavati. «Io non contratto» ripetè. «Mi sta chiedendo un favore?» Soraya esitò per un momento e annuì. «Suppongo di sì.» «Io non faccio favori.» Diede un'occhiata alla foto. «Adesso la mia tariffa è duemila.» Soraya si appoggiò allo schienale con le braccia conserte. «Adesso lei se ne sta approfittando.» «Si decida» replicò Contreras. «Tra un minuto le chiederò tremila.» Soraya
sospirò. «Okay, va bene.» «Faccia vedere il colore.» Intendeva il denaro, tutta la cifra, tanto per essere sicuro che fosse in grado di pagare. Quando vide le banconote da cento dollari, annuì . «L'ho fatto passare dieci giorni fa.» «Ha detto dove aveva intenzione di andare?» Contreras sbuffò. «Non ha detto un cazzo di niente, neppure quando mi ha dato i soldi. Per me non c'era problema.» Soraya giocò la sua ultima carta. «E lei dove pensa che fosse diretto?» Contreras alzò la testa per un istante, come se stesse annusando l'aria. «Un uomo come lui non è adatto al deserto, quello è certo. Ho notato che odiava il caldo. E, sicuro come l'oro, andava a lavorare in una delle maquiladoras di Sonora. Quello era un capo, padrone di se stesso.» Abbassò lo sguardo e le fece l'occhiolino. «Come lei.» «E questo dove ci porta?» «Sulla costa, capa. Ci scommetterei la testa che lui stava andando sulla costa.» Bourne stava dormendo quando arrivò la telefonata di Chrissie. Al trillo del cellulare si svegliò all'istante . «Sì» rispose, sfregandosi un occhio con il pollice . «Adam.» Allarmato dalla tensione percepita in quell'unica parola, chiese: «Cos'è successo?» . «C'è... c'è qui una persona che vuole parlare con te. Oh, Adam!» «Chrissie, Chrissie...!» Subentrò una voce maschile sconosciuta. «Stone, Bourne, comunque ti chiami. Sarà meglio che tu venga qui. La donna e sua figlia sono nella merda fino al collo.» Bourne strinse forte il telefono. «Chi sei?» «Mi chiamo Coven. Devo vederti subito.» «Dove ti trovi?» «Adesso ti do le indicazioni. Ascolta attentamente perché non le ripeterò.» Coven snocciolò una complicata sequenza di autostrade, strade secondarie, incroci e chilometri. «Ti aspetto qui tra novanta minuti.» Bourne lanciò un'occhiata a Moreno che gli stava facendo dei gesti. «Non so se ce la posso fare per...» «Ce la farai» asserì Coven. «Altrimenti, la ragazzina si farà male. Per ogni quindici minuti di ritardo si farà ancora più male. Sono stato chiaro?» «Perfettamente» rispose Bourne . «Bene. Il conto alla rovescia parte da adesso.» *** Capitolo 14 . Frederick Willard passò otto ore filate su Internet a cercare di scoprire, senza riuscirci, chi fosse il proprietario del Monition Club, di cosa si occupasse l'organizzazione, da dove prendesse i fondi e i nomi dei suoi membri. Fece solo tre pause, due per andare in bagno e una per buttare giù dell'orribile cibo cinese ordinato on-line e fatto consegnare in ufficio. Era circondato da operai che stavano ristrutturando la nuova sede della Treadstone, da installatori di attrezzature elettroniche e di speciali porte insonorizzate e da imbianchini che dipingevano le pareti, fino al giorno prima rivestite di carta da parati . Willard aveva la pazienza di una tartaruga, ma alla fine gettò la spugna. Trascorse i quaranta minuti successivi in strada, facendo il giro dell'isolato per respirare un'aria diversa dai vapori di vernice e dalla polvere di gesso mentre cercava di schiarirsi le idee . Di ritorno in ufficio, stampò le sue referenze e poi andò a casa per farsi la doccia, la barba e indossare completo e cravatta. Controllò che le scarpe fossero ben lucidate. Poi, con la relazione piegata e infilata nel taschino interno della giacca, si diresse al Monition Club parcheggiando in un autosilo sotterraneo non lontano dal locale . Salì di corsa i gradini di pietra ed entrò nell'atrio sontuoso. Al bancone sistemato al centro c'era la stessa donna, alla quale si rivolse chiedendo del responsabile delle pubbliche relazioni . «Non abbiamo un responsabile delle pubbliche relazioni» rispose senza sorridere. «Come posso esserle utile?» «Vorrei parlare con la persona che si occupa delle assunzioni» spiegò Willard . La donna lo guardò con espressione dubbiosa, poi disse: «Non siamo in cerca di personale» . Willard addolcì la voce e sorrise. «Le sarei davvero grato se potesse riferire a chiunque gestisca queste faccende che desidererei incontrarlo, o incontrarla.» «Deve presentare le sue referenze.» Willard prese il foglio dal taschino della giacca . L'impiegata lo scorse rapidamente, quindi sorrise e chiese: «Il suo nome?» . «Frederick Willard.» «Un momento, signor Willard.» Digitò un numero interno e mormorò qualcosa al microfono del suo auricolare senza fili. Chiuse la chiamata, alzò lo sguardo su di lui e gli disse: «Prego, si accomodi, signor Willard. La persona che cerca sarà qui tra poco» .
Frederick la ringraziò e andò a sedersi sulla stessa panca dove era rimasto ad aspettare Oliver Liss insieme a Peter Marks. La receptionist tornò a rispondere al telefono e a smistare le chiamate. Willard notò che si trattava di un sistema stranamente antiquato. In apparenza, le persone che lavoravano al Monition Club non avevano numeri telefonici diretti . Dettaglio interessante. Cominciò a studiare meglio la donna dietro il bancone. Pur essendo giovane e, a prima vista, identica a una normale centralinista, dava la sensazione di essere nel complesso diversa. Per prima cosa, era lei a decidere se passare le telefonate o bloccarle. Secondo, controllava ogni singola chiamata . Dopo circa mezz'ora entrò un uomo piuttosto giovane da una porta scorrevole di legno. Indossava un completo color antracite, di taglio austero. Sulla cravatta era ricamata una barretta dorata. Si diresse subito al bancone e, chinandosi leggermente, parlò con la receptionist a voce così bassa che, anche in quell'ambiente silenzioso e ovattato, Willard non riuscì a sentire quello che si dicevano . Quindi il giovane si voltò e, con un sorriso vago sul volto, si diresse verso Willard . «Signor Willard, se vuole seguirmi.» Girò sui tacchi senza aspettare la risposta. Frederick attraversò la sala. Quando passò accanto al banco, notò che la donna lo stava osservando . Il giovane fece strada oltre la porta e lungo un corridoio male illuminato, con il pavimento di moquette e le pareti rivestite in legno, decorate con scene medievali di caccia. Ai due lati del corridoio c'erano delle porte chiuse, dalle quali non proveniva alcun rumore. Quindi o gli uffici erano deserti, cosa improbabile, oppure le porte erano insonorizzate: altro bizzarro particolare per un ambiente di lavoro. Almeno, se non faceva parte del servizio clandestino . Finalmente l'uomo si fermò davanti a una porta sulla sinistra, bussò una volta e l'aprì verso l'interno . «Il signor Frederick Willard» annunciò in maniera troppo formale, varcando la soglia . Willard lo seguì per entrare non in un ufficio, bensì in una biblioteca, e anche sorprendentemente vasta. Tre delle pareti erano rivestite da scaffalature alte fino al soffitto. La quarta parete era una vetrata che si affacciava su un piccolo giardino interno, ben curato, con una fontana in stile moresco al centro. Sembrava un quadro del Cinquecento . Di fronte alla vetrata troneggiava un grande tavolo da refettorio, con uno spesso ripiano in legno scuro e lucido. Attorno al tavolo erano disposte a intervalli regolari sette sedie di legno dall'alto schienale. Su una di esse sedeva un uomo dalle spalle curve, i capelli grigi e ondulati pettinati all'indietro e la pelle ambrata. Era concentrato nello studio di uno spesso tomo aperto di fronte a lui . Quando alzò lo sguardo Willard si trovò di fronte un paio di penetranti occhi azzurri, un importante naso aquilino e un sorriso tagliente . «Si accomodi, signor Willard» esordì con quel sorriso stampato in volto. «La stavamo aspettando.» «Usano barche da diporto, yacht molto costosi» spiegò Contreras . «Per andare su e giù lungo la costa?» chiese Soraya . «E il modo più sicuro per trasportare merci dal Messico centrale, dove vengono spedite dai cartelli colombiani.» Il cielo sembrava una volta sconfinata sopra il deserto, talmente pieno di stelle che in alcuni punti diventava di un algido azzurro. Bassa sull'orizzonte si vedeva una sottilissima falce di luna, sufficiente a rischiarare il paesaggio. Contreras controllò l'orologio; sembrava conoscere alla perfezione gli orari e le abitudini delle pattuglie dei migras . Accovacciati nell'ombra scura proiettata da un arbusto e da un gigantesco saguaro, parlavano a voce bassissima. Soraya seguì l'esempio del pollero, affinché anche la sua voce non si distinguesse dal rumore del vento secco del deserto . «Il suo uomo è nel giro della droga, sicuro» disse Contreras. «Perché mai uno come quello vorrebbe raggiungere il Messico clandestinamente?» Faceva più freddo di quanto si sarebbe aspettata e Soraya tremava un po' . «A meno che non ci fosse qualcuno ad aspettarlo, probabilmente si sarà diretto a Nogales, avrà rubato una macchina e poi avrà guidato verso ovest, verso il mare.» Soraya stava per rispondere
quando lui si appoggiò l'indice sulle labbra, facendole segno di tacere. Si mise in ascolto e un attimo dopo sentì anche lei ciò che l'aveva messo in allarme: un leggero scricchiolio delle suole di scarponi sul terreno, piuttosto vicino a loro. Quando si accese la luce di un riflettore, Contreras non mosse un muscolo, facendole capire che stava aspettando proprio quello. La luce disegnò un arco, non sull'area del loro nascondiglio, ma oltre, dove si apriva il confine invisibile, desolato e tormentato dal vento. Si udì un grugnito, la luce che si spegneva e il rumore degli scarponi che si allontanavano . Lei stava per cambiare posizione, ma Contreras l'afferrò per un braccio bloccandola. Anche nell'oscurità stellata riusciva a percepire i suoi occhi che la fissavano. Quasi subito il fascio di luce accecante si riaccese, illuminando una vasta porzione di deserto. Poi tre colpi d'arma da fuoco esplosero nel buio, facendo schizzare lapilli di terriccio secco nei punti di impatto dei proiettili . Si udì un breve gorgoglio, forse una risata. La luce si spense. Poi tornò il silenzio e ci fu soltanto il mormorio del vento . «Adesso andiamo» le sussurrò Contreras . Soraya annuì. Con le gambe doloranti, si alzò; sbucarono da dietro l'arbusto e, girando a destra, attraversavano il terreno piatto che divideva Stati Uniti e Messico. Non c'era nulla a segnalare il loro passaggio tra i due paesi . Sentì in lontananza l'ululato di un coyote, ma non riuscì a stabilire da quale parte del confine provenisse. Una lepre, sbucata da qualche punto davanti a loro, la fece trasalire. Il cuore le batteva all'impazzata e le ronzavano le orecchie, come se il sangue le scorresse troppo velocemente nelle vene e nelle arterie . Contreras faceva strada a passo rapido e regolare, senza mai fermarsi e nessuna incertezza nella direzione da prendere, il che le dava un senso di sicurezza. Era una sensazione strana e vagamente inquietante, che la faceva ripensare ad Amun, al Cairo e al tempo trascorso nel deserto egiziano. Potevano essere passate solo poche settimane? A lei sembrava un'eternità, e in più i loro sms si stavano via via diradando, per diventare sempre più brevi e concisi . La notte era ora senza stelle, l'oscurità profonda come gli abissi del mare. Si stentava a credere che tra poche ore ci sarebbe stata un'alba e che un sole sarebbe sorto a est all'orizzonte. Ci fu un lampo improvviso, seguito da un tuono, ma lontano, nel cielo di un altro paese . Camminarono a lungo, attraversando un paesaggio piatto e monotono che sembrava privo di vita. Alla fine Soraya cominciò a intrawedere delle luci ed ecco che Contreras le indicava Nogales, nello Stato di Sonora . «Più avanti di così non posso andare» disse il pollero. Non guardava verso le luci, ma verso l'oscurità delle propaggini orientali della città . Soraya gli diede il saldo della cifra pattuita, che lui si mise in tasca senza controllare . «Da Ochoa le stanze sono pulite e i gestori non fanno domande.» Poi sputò con noncuranza tra le punte dei suoi stivali da cowboy. «Spero che trovi quello che sta cercando» fu il suo congedo . Lei annuì e rimase a guardarlo mentre si allontanava verso est e una destinazione a lei sconosciuta. Quando l'uomo fu inghiottito dal buio della notte, si girò e riprese a camminare, fino a che il terriccio si trasformò in strade asfaltate e marciapiedi. Trovò l'albergo Ochoa senza difficoltà. C'era una sorta di sagra notturna in pieno svolgimento. La piazza centrale era illuminata a giorno; su un lato, un gruppo mariachi suonava un ritmo veloce e cacofonico, all'altro capo diverse bancarelle vendevano tacos e quesadillas preparati al momento. Nel mezzo, una folla di persone andava e veniva; la gente ballava e beveva apostrofando bonariamente i suonatori e il pubblico. Ogni tanto scoppiava una rissa e si alzavano grida di minaccia. Un cavallo nitrì e, sbuffando dalle narici, pestò gli zoccoli . L'ingresso dell'hotel Ochoa era tutt'altro che deserto . Il portiere notturno, un ometto sanguigno con la faccia da roditore, stava guardando le immagini sgranate di una telenovela messicana su una piccola tv portatile. Sedeva nel suo
cubicolo senz'aria ed era così assorto che guardò a malapena Soraya, le allungò una chiave quando ebbe pagato il prezzo per una notte, indicato su un tariffario appeso in alto. Non le chiese il passaporto né nessun altro documento. Per quello che importava a lui, avrebbe potuto compiere una strage . La stanza era al secondo piano e affacciava sul retro, dato che lei aveva richiesto una camera tranquilla. Ovviamente non c'era il condizionatore. Spalancò la finestra e guardò fuori. Vide un vicolo sporco e un muro di mattoni spoglio, il retro di un altro edificio, forse un ristorante, a giudicare dalla lunga fila di bidoni per la spazzatura allineati accanto a una porta chiusa soltanto da una zanzariera . Una lampada fluorescente gettava una livida luce bluastra sui bidoni. Le ombre avevano il colore del sangue rappreso. Un uomo con un grembiule macchiato uscì e si sedette su uno dei bidoni. Si arrotolò una canna e l'accese. Inalò profondamente il fumo e chiuse gli occhi. Sentì un rumore: in fondo al vicolo una coppia faceva sesso contro il muro. Il cuoco, perso nei fumi della marijuana, non prestò loro attenzione. Forse non li aveva neppure sentiti . Soraya si allontanò dalla finestra e ispezionò la stanza. Come le aveva detto Contreras, era pulita e ordinata, compreso il bagno, per fortuna. Si tolse gli abiti sporchi e aprì il rubinetto della doccia, attese che l'acqua fosse calda e vi entrò, godendo del calore che scacciava polvere e sudore. La tensione muscolare si allentò e cominciò a rilassarsi. All'improvviso fu assalita da un'ondata di stanchezza e si rese conto di essere esausta. Uscì dalla doccia strofinandosi vigorosamente con un telo, fino ad arrossarsi la pelle ambrata con la spugna ruvida e sottile . Il vapore dell'acqua calda aveva reso irrespirabile l'aria della stanza. Tenendosi l'asciugamano davanti, andò alla finestra. In quel momento notò i due uomini addossati contro il retro del ristorante. Alla luce della lampada fluorescente vide che uno dei due stava controllando qualcosa sul suo palmare. Indietreggiò, nascondendosi dietro la tenda scolorita un attimo prima che il secondo alzasse lo sguardo alla finestra. Lo vide in volto; scuro e contratto come un pugno chiuso disse qualcosa all'altro, il quale alzò a sua volta gli occhi per controllare la finestra . L'hotel Ochoa non era più un posto sicuro. Soraya si allontanò dalla finestra, indossò gli abiti appena tolti e andò alla porta. Quando l'aprì, due uomini irruppero nella stanza. Uno le bloccò le mani dietro la schiena, mentre l'altro le tappava bocca e naso con un pezzo di stoffa. Lei cercò di trattenere il respiro e di liberarsi dalla presa d'acciaio che la teneva stretta, in una lotta inutile e silenziosa che andò avanti per qualche minuto, con l'unico risultato di svuotarle i polmoni delle riserve di ossigeno. Riprese poi a respirare regolarmente. Sentì un odore tremendo e cercò di gridare. Gli occhi le si riempirono di lacrime, che le rigarono le guance. Tentò di inalare aria. Poi fu solo oscurità e crollò a peso morto tra le braccia del rapitore . Arkadin scorse la pinna dorsale che fendeva l'acqua. A giudicare dalle dimensioni, apparteneva a un grosso squalo, lungo almeno tre o quattro metri. Puntava dritto contro la poppa del motoscafo. Nulla di strano, considerata la quantità di sangue che c'era in acqua . Arkadin stava torchiando Pavel da tre o quattro ore, riducendolo a un ammasso di carne sanguinolenta: era rannicchiato su un fianco, in posizione fetale, e piangeva senza riuscire a fermarsi, mentre il sangue che usciva dagli innumerevoli tagli scorreva in rivoletti rossi che si mescolavano all'acqua di mare sul fondo dell'imbarcazione . Pavel era stato presente all'interrogatorio, alla tortura e, alla fine, alle grida di Stepan che protestava la sua innocenza, ma poi era venuto il suo turno. Si era aspettato che Arkadin lo sventrasse con lo stesso coltello che aveva usato su Stepan, ma un elemento fondamentale dell'interrogatorio era la sorpresa, il terrore dell'imprevisto . Arkadin lo aveva appeso per i piedi all'argano e lo aveva calato a testa in giù oltre la poppa. A ogni tuffo prolungava il tempo di immersione, tanto che verso la sesta o settima volta sott'acqua Pavel aveva creduto di affogare. Poi Arkadin aveva cominciato il lavoro di coltello, procurandogli due tagli sotto gli occhi. Mentre il sangue scorreva, l'aveva immerso un'altra
volta, continuando così per almeno quaranta minuti. Allora era arrivato lo squalo, e Pavel doveva averlo visto. Quando El Heraldo lo tirò su, era terrorizzato a morte . Approfittando di quel momento, Arkadin lo colpì tre volte al fianco in rapida successione e con estrema violenza, tanto da spezzargli due o tre costole. Pavel cominciò a boccheggiare; non riusciva quasi a respirare. In risposta a un segnale del capo, El Heraldo lo immerse nuovamente. Lo squalo si avvicinò, curioso e interessato . Pavel cominciò ad agitarsi nell'acqua, in preda al panico, con l'unico risultato di attirare ancora di più quel predatore del mare. Gli squali non vedono molto bene e si affidano per lo più all'olfatto e ai sensori di movimento. A quel punto l'animale sentiva odore di sangue fresco e l'agitazione gli faceva dedurre che la preda fosse ferita. Partì a tutta velocità, puntando dritto contro la creatura in difficoltà . Arkadin notò l'improvvisa accelerazione della pinna dorsale e alzò un braccio, un segnale per El Heraldo perché azionasse l'argano. Un istante prima che testa e spalle uscissero dall'acqua, Pavel cominciò a dimenarsi disperatamente mentre veniva attaccato dallo squalo. Quando El Heraldo ebbe sollevato a sufficienza Pavel, emise un urlo strozzato e, estraendo la pistola, si protese oltre la poppa del motoscafo svuotando il caricatore sulla sagoma dell'enorme animale . Mentre l'acqua intorno si tingeva di scuro per il sangue dello squalo, Arkadin andò all'argano, lo fece girare e calò Pavel, che urlava e singhiozzava sul ponte. Arkadin aveva lasciato che El Heraldo si divertisse. Da quando suo fratello minore aveva perso una gamba per l'attacco di uno squalo, tre anni prima, El Heraldo aveva una luce assassina negli occhi ogni volta che vedeva una pinna scura. Il messicano gli aveva raccontato quel triste episodio della sua famiglia una sera in cui aveva bevuto troppo ed era giù di morale . Arkadin spostò l'attenzione su Pavel. Quello che le ripetute immersioni avevano iniziato, lo squalo l'aveva portato a termine. Pavel era ridotto malissimo. Lo squalo gli aveva strappato un lembo della spalla sinistra e della guancia. Sanguinava a fiotti, ma quello era il problema minore. Era sotto shock per l'attacco subito. Aveva gli occhi fissi e spalancati, che saettavano velocissimi da una parte all'altra senza riuscire a mettere a fuoco. Batteva i denti ed emanava odore di escrementi . Ignorando tutto ciò, Arkadin si accovacciò vicino al suo luogotenente e, posandogli una mano sulla testa, disse: «Pavel Mikhailovic, mio caro amico, abbiamo un problema serio da risolvere. E solo tu puoi aiutarmi. Tu o Stepan avete passato informazioni a qualcuno di esterno alla nostra organizzazione. Stepan giura che non è stato lui, e quindi, temo, il colpevole sei tu» . Pavel, sconvolto per il dolore e il terrore, non reagì fino a quando Arkadin non gli fece sbattere la testa sul fondo della barca . «Sveglia, Pavel Mikhailovic! Guardami! La tua vita è appesa a un filo.» Quando Pavel riuscì a guardarlo in faccia, Arkadin sorrise e gli scompigliò i capelli. «Lo so che fa male, amico, e perdio, stai veramente sanguinando come un maiale sgozzato! Ma presto sarà finita. El Heraldo ti rimetterà insieme in men che non si dica: è bravissimo con l'ago, credimi . «Ascolta, Pavel Mikhailovic, questo è il patto. Dimmi per chi lavori, quali informazioni hai passato, raccontami tutto e noi ti ricuciamo. Sarai come nuovo. E in più, farò sapere che la talpa era Stepan. Il tuo capo si rilasserà e tu continuerai come prima a passare informazioni, solo che ti limiterai a quelle che ti dirò io. Che te ne pare? Siamo d'accordo?» Pavel gemette e fece segno di sì con la testa, anche se ancora non si fidava . «Bene.» Arkadin alzò gli occhi su El Heraldo. «Hai finito di divertirti?» «Quel figlio di puttana è morto.» Il messicano sputò nell'acqua con una certa soddisfazione. «E adesso i suoi amici stanno banchettando con lui.» Arkadin guardò Pavel e pensò: E lo stesso con questo figlio di puttana qui . L'uomo dagli occhi azzurri e penetranti fece un gesto. «Prego, si accomodi, signor Willard, posso offrirle qualcosa da bere?» «Un whisky andrebbe benissimo» accettò l'offerta Willard .
Il giovane uomo che Willard aveva seguito lungo il corridoio scomparve, per ritornare subito dopo con un vassoio sul quale erano sistemati un bicchiere antiquato con del whisky, un secondo bicchiere con acqua e uno con ghiaccio . Willard provava una sensazione di straniamento, come se fosse qualcun altro a camminare sulle sue gambe, prendere una sedia e sedersi a quel tavolo imponente. Il giovane gli posò davanti i tre bicchieri, quindi andò alla porta e uscì dalla stanza . «Non capisco come sia possibile che mi stiate aspettando» esordì Willard. Poi gli vennero in mente le otto ore passate a setacciare la rete in lungo e in largo in cerca di informazioni sul Monition Club. «Il numero del mio provider è criptato.» «Niente è criptato.» L'uomo prese il libro, lo capovolse e lo sottopose a Willard. «Mi dica, cosa vede qui?» Willard osservò un'illustrazione con una serie di lettere e strani simboli. Riconobbe le lettere dell'alfabeto latino, ma gli altri segni gli erano sconosciuti. Poi un sottile brivido gli percorse la spina dorsale. Se non si sbagliava, quella serie era identica a quella dell'iscrizione sulle foto che Oliver Liss aveva mostrato a lui e a Peter Marks . Alzò lo sguardo su quegli occhi blu cobalto e disse: «Non saprei, non mi dicono niente» . «Signor Willard, lei è appassionato di storia?» «Sì, è una materia che mi piace.» «Dunque conosce la storia di re Salomone.» Willard si strinse nelle spalle. «Più della maggior parte delle persone, immagino.» L'uomo di fronte a lui si appoggiò allo schienale e incrociò le dita sullo stomaco piatto. «La vita e l'epoca di Salomone sono cariche di mito e leggenda. Come nella Bibbia, spesso è diffìcile, se non impossibile, distinguere la realtà dalla finzione. Perché mai? Perché i suoi discepoli avevano interesse a oscurare la verità. Cominciarono a girare le storie più strampalate sul tesoro di Salomone. Quantità enormi d'oro, che probabilmente solleticavano l'immaginazione di molti. Oggi gli storici e gli archeologi ignorano queste leggende, giudicandole distorte o manifestamente false. Per esempio, da dove proveniva tutto questo oro? Dalle sue miniere? Anche se il re avesse utilizzato diecimila schiavi non sarebbe riuscito ad ammassare una tale quantità d'oro nel corso della sua breve vita. Oggi quindi si ritiene ormai assodato che il tesoro di re Salomone non sia mai esistito.» Si protese in avanti col busto e picchiettò sull'illustrazione del libro con un indice adunco. «Però, questa serie di lettere e simboli racconta una storia diversa. E un indizio; anzi, molto più di un indizio. E una chiave che dice a quanti vogliano ascoltare che il tesoro di re Salomone invece esiste.» A Willard sfuggì un risolino involontario . «Trova qualcosa di divertente in quello che ho detto?» «Mi perdoni, ma mi è difficile prendere sul serio questa congettura.» «Molto bene, è libero di andarsene quando lo desidera. Anche ora, se crede.» L'uomo stava girando il libro aperto verso di sé, quando Willard tese un braccio e lo fermò . Willard si schiarì la gola. «In realtà preferirei di no. Prima stava parlando di realtà e finzione.» Fece una brevissima pausa. «Forse sarebbe utile se mi dicesse il suo nome.» «Benjamin ElArian. Faccio parte della ristretta cerchia di studiosi che il Monition Club impiega per trattare questioni di storia antica e analizzarne l'impatto sulla storia attuale.» «Mi perdoni ancora una volta, ma io non credo neppure per un istante di aver ottenuto subito e all'improvviso un colloquio con un semplice studioso dopo avere peregrinato su Internet per otto ore alla ricerca di materiale informativo sul Monition Club. No, signor El-Arian: lei potrà anche essere uno studioso, ma certamente non è solo questo.» El-Arian rimase a osservarlo per qualche istante. «Signor Willard, lei mi sembra troppo intelligente per trovare divertente quello che le ho rivelato poco fa.» Riprese il libro e girò pagina. «E inoltre non dimentichiamo che è stato lei a venire qui, spinto probabilmente dal desiderio di conoscenza.» Una luce, forse di scherno, si accese nei suoi occhi. «Oppure stava pensando di farsi assumere allo scopo di infiltrarsi fra noi come ha fatto con l'Agenzia per la Sicurezza nazionale?» «Mi sorprende che ne sia al corrente; non è una cosa di dominio pubblico.» «Signor Willard» replicò El-Arian, «non c'è nulla su di lei che non sappiamo. Compreso il suo ruolo nella Treadstone.» Ah, finalmente siamo arrivati
al punto, pensò Willard. Attese, con espressione perfettamente neutrale, ma senza staccare gli occhi da Benjamin El-Arian, come se fosse un ragno appostato al centro della tela . «Vedo che la Treadstone è un tema alquanto delicato, per lei» osservò El-Arian, «pertanto le dirò quello che so. La prego, non esiti a correggermi se sbaglio. Treadstone è il nome di un programma creato da Alexander Conklin all'interno della CIA. Da questa creazione sono usciti soltanto due prodotti: Leonid Danilovic Arkadin e Jason Bourne. Adesso lei ha rimesso in piedi la Treadstone sotto l'egida di Oliver Liss, ma dopo poco tempo Liss ha cominciato a dettare legge e a darle ordini, ancora più di quanto facesse la CIA con il suo predecessore.» Fece una pausa per permettere a Willard di correggerlo o di fare obiezioni. Quando il suo ospite rimase in silenzio, annuì. «Ma questa è soltanto la premessa.» Batté la mano sul libro aperto. «Dal momento che Liss le ha ordinato di trovare l'anello d'oro con l'iscrizione, potrebbe essere interessante per lei sapere che non sta operando come entità indipendente.» Willard si irrigidì. «Quindi io per chi starei lavorando, in realtà?» El-Arian fece un sorriso vagamente sardonico. «Vede, come tutto in questa storia, è complicato. L'uomo che ha fornito a Liss fondi economici e informazioni si chiama Jalal Essai.» «Mai sentito nominare.» «Non mi sorprende. Jalal Essai non è uno che frequenta il suo mondo. In effetti, come me, Essai opera in modo da rimanere sconosciuto a persone come lei. E un membro del Monition Club, o meglio lo era. Vede, per alcuni anni si presumeva che questo particolare anello fosse andato perduto. E l'unico del suo genere, per ragioni che le saranno chiare tra poco.» El-Arian si alzò dalla sedia, andò davanti a una scaffalatura e premette un pulsante nascosto. Si aprì un ripiano su cui c'erano un servizio da tè composto da una teiera in ottone cesellato, un piatto con una scelta di minuscoli dolcetti ricoperti di zucchero a velo e sei bicchieri alti e stretti. Trasferì il tutto su un vassoio, che poi portò al tavolo . Versò con un gesto cerimoniale il tè in due bicchieri, quindi invitò Willard a servirsi. Si accomodò di nuovo, centellinando il tè che, come scoprì Willard, era zuccherato e alla menta, tipica bevanda marocchina . «Ma torniamo al nostro argomento.» El-Arian prese un dolcetto e lo mangiò in un boccone. «Quello che ci ha fatto capire la scritta incisa all'interno dell'anello è questo: l'oro di re Salomone è un fatto, non una fantasia. L'iscrizione contiene particolari simboli ugaritici. La corte di Salomone pullulava di veggenti. Costoro, o per lo meno alcuni di loro, erano anche alchimisti. Avevano scoperto che pronunciando determinate parole e frasi in ugaritico, contemporaneamente a certi procedimenti scientifici, si poteva trasformare il piombo in oro.» Willard rimase annichilito per un momento. Non sapeva davvero se ridere o piangere. «Il piombo in oro!?» esclamò infine. «E proprio così?» «Proprio così.» El-Arian inghiottì un secondo dolcetto. «Ecco la risposta al mistero apparentemente irrisolvibile di cui ho parlato prima, ossia come avesse fatto Salomone ad accumulare tanto oro in un arco di vita così breve.» Willard si agitò sulla sedia. «Ma è questo che fate, qui dentro? Correte dietro alle favole?» ElArian sfoggiò uno dei suoi enigmatici sorrisi. «Come le ho già detto, è libero di andarsene in qualsiasi momento. Eppure non lo farà.» Piccato, Willard balzò in piedi. «E lei come fa a saperlo?» «Perché, pur non essendo ancora convinto, l'idea è troppo allettante.» Willard sorrise a sua volta in modo enigmatico. «Anche se si tratta di una favola.» El-Arian si alzò di nuovo dalla sedia e andò davanti alla scaffalatura della libreria dove aveva preso tè e dolcetti. Infilò una mano in qualche recesso nascosto, prese un oggetto e lo posò sul tavolo, di fronte a Willard . Frederick sostenne lo sguardo di El-Arian per una frazione di secondo, poi guardò davanti a sé. C'era una moneta d'oro. Portava incisa una stella a cinque punte e un'iscrizione in caratteri ebraici negli spazi tra le punte. Al centro della stella si notava un simbolo, però talmente consumato da essere incomprensibile . «La stella a cinque punte è il simbolo di re Salomone, sebbene diverse fonti ritengano che il suo sigillo fosse una stella di David a sei punte, oppure una croce con iscrizione in lettere ebraiche, addirittura un nodo celtico. Ma sull'anello che portava sempre con sé era incisa la stella a
cinque punte, che si riteneva fosse dotata di poteri magici. Tra le altre cose, gli consentiva di evocare demoni e spiriti e di parlare agli animali.» Willard rise. «Non crederà a queste assurdità!» «Certo che no» replicò El-Arian. «D'altro canto, però, quella moneta d'oro proviene senza dubbio dal tesoro di re Salomone.» «Non capisco come faccia a esserne così certo» replicò Willard. «Non esistono esperti che possano comprovare una cosa del genere.» El-Arian sorrise ancora una volta nel suo modo strano. «Per prima cosa, la moneta è stata datata. Ma abbiamo scoperto qualcosa di molto più importante» continuò. «La giri, per cortesia.» Willard restò stupefatto e sorpreso nel vedere che il retro della moneta era completamente diverso . «Vede, il retro non è d'oro» gli fece notare El-Arian. «È di piombo, il metallo originario prima della trasformazione in oro.» *** Capitolo 15 . Moira partì per Guadalajara al mattino presto, per attraversare il paese dell'agave azzurra, lo Stato messicano di Jalisco. Il cielo era una volta sconfinata, inframmezzata da poche pennellate di nuvole. Il sole era già alto e la temperatura aumentava di pari passo. Verso mezzogiorno fu costretta a chiudere i finestrini e ad accendere il condizionatore. Il cellulare perse il campo diverse volte e senza GPS ebbe qualche difficoltà a raggiungere Amatitàn . Durante la guida provò a collocare nella giusta prospettiva la conversazione avuta con Roberto Corellos. Perché le aveva detto di aver scelto Berengària per continuare l'attività del fratello? Perché mai avrebbe incaricato una donna di gestire la sua principale fonte di guadagno? Moira aveva conosciuto diversi uomini come Corellos, nessuno dei quali aveva una considerazione particolarmente illuminata dell'universo femminile. Essere disponibili al sesso, cucinare, fare figli, questo si aspettavano dalle donne . Rimuginò su questi argomenti per ore, finché arrivò in vista di Amatitàn. Corellos covava un desiderio irrefrenabile di vendetta. Per un uomo dal carattere sanguigno come il suo, la vendetta diventava una questione d'onore. Cornificare suo cugino non sarebbe stato sufficiente: Corellos voleva intrappolare Narsico proprio in quel genere di vita che il cugino aveva cercato con tutte le sue forze di lasciarsi alle spalle. Quella era la vera vendetta . Se Berengària era davvero l'erede del traffico di droga, doveva per forza esserci un uomo a gestire il traffico dietro le quinte. Chi era? Corellos non aveva intenzione di dirglielo e non c'era nulla che lei potesse offrirgli in cambio, tranne il suo corpo, eventualità che al momento non voleva prendere in considerazione. Ma Berengària era un'altra faccenda. Poteva anche essere un pirana, ma Moira aveva già trattato in precedenza con persone di quel tipo. Si era insospettita però quando Corellos non si era mostrato preoccupato del fatto che chiunque avesse rubato il computer ora avesse accesso alla lista dei clienti di Gustavo. La sola spiegazione poteva essere che Corellos era già in rapporti d'affari con questa persona . La strada attraversava campi sconfinati di agave azzurra. I contadini faticavano nelle colture, sudando e imprecando. Vestancia degli Skydel era poco più avanti . Era convinta che se il computer di Essai sottratto a Gustavo Moreno conteneva davvero i dossier dei clienti del traffico di droga, allora doveva racchiudere anche qualcos'altro che interessava al suo datore di lavoro, ed era pronta a scommettere che non si trattava semplicemente della storia della sua famiglia, come affermava lui. Allora perché Essai non le aveva detto la verità? Cosa voleva nascondere? «Oliver Liss le ha mentito fin dal primo giorno» continuò Benjamin El-Arian . «Non mi aspetto che le persone mi dicano la verità» replicò Willard. «Si tratta di un male necessario, nella vita che faccio.» I due uomini stavano passeggiando nel giardino moresco sul quale si affacciava la biblioteca del Monition Club. Lì non soffiava il vento, e il sole, alto nel cielo, riscaldava loro le spalle . «Quindi la cosa le sta bene.» «Naturalmente no.» Willard fece un respiro profondo. C'era qualche pianta nel giardino, un'erba aromatica, probabilmente, che profumava in modo piacevole e familiare. «La mia vita è una guerra continua. Io leggo tra le righe, ho imparato a vedere oltre ciò che mi dicono. Poi agisco di conseguenza.» «Lei sa già che Oliver Liss non ha intenzione di permetterle di gestire la Treadstone come meglio crede.» «Ovviamente sì, ma mi
serviva qualcuno in grado di risollevare la Treadstone. Le nostre rispettive agende non avrebbero mai potuto coincidere. E comunque, Liss era l'unico che potesse farlo.» «Adesso c'è qualcun altro» commentò El-Arian. «Liss è un uomo di Jalal Essai. Come le dicevo, Essai è un ex membro del Monition Club. Attualmente lavora in proprio.» «Cosa lo spinge a farlo?» domandò Willard . «La stessa cosa che ha trattenuto lei dall'uscire dalla biblioteca.» «L'oro di re Salomone?» ElArian assentì. «Quando ha scoperto che l'anello di Salomone non era andato perduto, ha deciso che voleva mettere le mani su quell'oro.» Willard si fermò e si girò a guardare El-Arian. «Ma di che quantità stiamo parlando?» «E difficile stabilirlo con precisione, ma se dovessi fare un'ipotesi azzarderei tra i cinquanta e i cento miliardi di dollari.» Willard fischiò piano. «E una somma sufficiente a convincere un intero esercito a disertare.» Si grattò la testa. «Quello che non riesco a capire è perché mi sta raccontando tutto questo.» «L'anello di Salomone ce l'ha Bourne» disse El-Arian. «E l'altro prodotto della Treadstone, Leonid Arkadin, è in possesso di un certo computer portatile. Alcuni anni fa Alex Conklin inviò Bourne a sottrarre il computer a Jalal Essai. Lui l'ha fatto, ma per qualche ragione a noi sconosciuta non l'ha mai consegnato al suo capo. L'abbiamo cercato per anni, senza successo. Sembrava svanito nel nulla. Poi un informatore ci ha fatto sapere tramite un nostro agente, Marion Etana, che il computer rubato si trovava nelle mani di Arkadin. Come ha fatto ad averlo? È successo che un signore della droga colombiano, Gustavo Moreno, è rimasto ucciso nel corso di un raid circa un mese fa, ma nella sua tenuta non è stata trovata traccia del portatile che conteneva l'elenco dettagliato dei suoi clienti. In qualche modo Arkadin l'ha fatto sparire e ora se ne serve per accaparrarsi il traffico di Moreno.» «Si tratta dello stesso computer sottratto a Jalal Essai?» «Sì.» «E come diavolo ha fatto ad arrivare nelle mani di Gustavo Moreno?» El-Arian si strinse nelle spalle. «E un mistero che dobbiamo ancora risolvere.» Willard rifletté sull'intera faccenda. «In ogni caso, non può interessarvi un elenco di rivenditori di droga» osservò. «Che cos'ha di così speciale questo computer?» «Nell'hard disk c'è un file nascosto che fornisce la chiave per localizzare l'oro di re Salomone.» Willard rimase esterrefatto. «Mi sta dicendo che Arkadin sa dove si trova l'oro?» El-Arian scosse la testa. «Dubito che Arkadin sappia dell'esistenza del file nascosto. Prima le ho detto che l'ha rubato per mettere le mani sulla lista dei clienti di Moreno. Ma, anche se fosse a conoscenza del file, non sarebbe in grado di accedervi, essendo criptato.» «Niente è criptato, come ha ribadito lei stesso poco fa» osservò Willard . «Tranne questo file. Non esiste al mondo un programma di decrittazione e nessun computer in grado di sbloccare quel file. C'è un solo modo per leggerlo. Nel computer si trova uno slot speciale. Se vi viene inserito l'anello di Salomone, un lettore interno rileva l'iscrizione nascosta e il file si apre.» «Quindi Essai aveva il computer» riprese Willard. «E l'anello?» «Jalal Essai li aveva entrambi.» «Non riesco a comprendere il senso di tutto ciò. Allora perché non ha cercato lui stesso l'oro di Salomone?» «Perché, anche se avesse aperto il file, non sarebbe stato in grado di utilizzarlo.» El-Arian, passando dal sole all'ombra, sembrò cambiare di dimensioni, come se fosse costituito da due persone che si muovevano leggermente fuori sincronia. «Nel file manca una parte delle istruzioni.» «Ed Essai non le ha.» «No, in effetti.» «Chi le ha?» chiese Willard . «Si trovano in una particolare stanza di una casa di Tineghir, una cittadina del Marocco, sull'Alto Atlante.» Willard scosse la testa. «Mi rendo conto che è facile fare questa domanda col senno di poi, ma perché l'anello e il computer erano stati affidati a Essai?» «La sua è una famiglia di origini antichissime, estremamente osservante. Al tempo fu ritenuta la scelta migliore.» Seguì una breve pausa di silenzio, durante la quale ognuno dei due probabilmente pensò all'errore di valutazione compiuto . «Quello che ancora non capisco è perché tutto questo stia accadendo ora. C'è stato un momento in cui avevate sia l'anello sia il computer. Perché non vi siete presi l'oro allora?» «L'avremmo fatto, naturalmente» rispose El-Arian, «ma non abbiamo potuto. Ci mancavano quelle istruzioni. Dopo decenni di ricerche, sono state rinvenute per caso in Iran, in seguito a un terremoto che ha rivelato un sito archeologico nascosto ricchissimo di documenti, molti dei
quali provenienti dalla grande biblioteca di Alessandria d'Egitto, prima che fosse distrutta dall'incendio. Uno dei rotoli conteneva le informazioni sulla corte di re Salomone.» «E tutto ciò è venuto alla luce dopo la sparizione dell'anello e il furto del computer?» «Esatto.» El-Arian allargò le braccia. «Dunque, vede 259 bene ora che la sua agenda e le nostre coincidono. Lei vuole un confronto tra Bourne e Arkadin per capire una volta per tutte chi dei due è il guerriero perfetto. Noi vogliamo l'anello di Salomone e il computer.» «Mi perdoni, ma non vedo il nesso.» «Abbiamo provato, senza successo, a recuperare il computer da Arkadin. Ho perso tutti gli uomini che ho inviato per ucciderlo, e sono stanco di sacrificare persone. Ma so anche che la CIA sta provando da anni a far fuori Bourne, senza riuscirci. No, il solo modo che abbiamo per ottenere quello che vogliamo è riunire quei due uomini.» «Bourne senz'altro avrà l'anello con sé, ma Arkadin si porta sempre in giro quel computer?» «Ultimamente non lo perde mai di vista.» Ricominciarono a passeggiare attorno alla fontana, dove un pettirosso stava bevendo guardandoli impaurito. Willard si sentiva nervoso quanto lui . «Se non ho creduto a Oliver Liss, perché dovrei credere a lei?» riprese Willard . «Non mi aspetto che lei mi creda» replicò El-Arian. «Ma, per provarle la mia sincerità, ecco la mia proposta: lei mi dà una mano con Bourne e Arkadin, che sono un obiettivo anche per lei, e io le toglierò dai piedi Oliver Liss.» «E come pensa di fare? Liss è un uomo di grande potere.» «Mi creda, signor Willard, se le assicuro che Oliver Liss non sa cosa vuol dire il potere.» Benjamin El-Arian si girò a guardarlo. Gli occhi illuminati dalla luce del sole sembravano mandare scintille. «Scomparirà dalla sua vita.» Willard scosse la testa. «Temo che le promesse non siano sufficienti. Voglio la metà subito e il resto quando sarò riuscito a portare Bourne e Arkadin nello stesso posto.» El-Arian aprì le mani. «Stiamo parlando di un uomo, non di denaro.» «Questo problema lo lascio a lei» disse Willard. «Io mi muoverò quando, e solo quando, le azioni confermeranno le sue parole.» «Bene, allora.» El-Arian sorrise. «Mi resta soltanto da organizzare un cambiamento di scena per il signor Liss.» La hacienda degli Skydel si estendeva al centro dell'immensa estancia. Era in stile coloniale spagnolo, con pareti bianche, persiane in legno intagliato, grate in ferro battuto e il tetto in tegole curve di cotto. Venne ad aprire una cameriera in uniforme la quale, dopo che Moira si fu annunciata, la guidò attraverso l'atrio spazioso con il pavimento in cotto, oltre un ampio e fresco soggiorno e poi fuori, in un patio in lastre di pietra; il patio si affacciava su un campo da tennis e sul giardino con piscina, nella quale stava nuotando una donna, presumibilmente Berengària Moreno. Nel vasto spazio circostante si stendeva l'onnipresente piantagione di agave azzurra . Moira colse l'inebriante profumo del Vecchio Mondo mentre veniva accompagnata da un signore seduto a un tavolo di vetro e ferro battuto, carico di piatti di terracotta messicana pieni di cibo e di caraffe di sangria bianca e rossa . L'uomo si alzò per accoglierla, con un ampio sorriso. Indossava una maglietta di spugna a maniche corte e pantaloncini da bagno che rivelavano un corpo snello e villoso . «Barbara!» chiamò guardando oltre le spalle di Moira. «La nostra ospite è arrivata!» Poi tese la mano e gliela strinse. «Buongiorno, senorita Trevor. Sono Narsico Skydel. Felice di conoscerla.» «Piacere mio» rispose Moira . «Prego, faccia come se fosse a casa sua» disse, invitandola ad accomodarsi . «La ringrazio.» Moira si sedette accanto a lui . «Bianco o rosso?» «Bianco, grazie.» Versò della sangria bianca in due bicchieri e gliene offrì uno. «Sarà affamata, dopo un viaggio così lungo.» Indicò le varie pietanze. «Non faccia complimenti.» Quando si fu riempita il piatto notò che Berengària Moreno, che qui chiamavano Barbara Skydel, aveva terminato le sue vasche e stava venendo verso il patio sul viottolo lastricato in pietra, asciugandosi con un telo. Era una donna alta e ben proporzionata, con un volto molto bello, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Moira cercò di immaginarsela a letto con Roberto Corellos mentre tradiva suo marito. Barbara raggiunse il patio e venne a salutarla, a piedi nudi. La sua stretta di mano era fresca ed energica, quella di una donna d'affari .
«L'addetto stampa di Narsico ci ha detto che lei sta scrivendo un articolo sulla tequila, giusto?» Aveva una voce profonda e sonora, come se avesse preso lezioni di canto da bambina . «Proprio così.» Moira sorseggiò la sua sangria . Narsico intervenne dicendo che la tequila veniva prodotta a partire dalla pina, la parte interna dell'agave azzurra . Barbara lo interruppe. «Che genere di articolo sarà il suo?» Sedette di fronte a loro, dalla parte opposta del tavolo, secondo Moira una scelta rivelatrice. Prendere posto accanto al marito sarebbe stato più naturale . «In realtà avrà un taglio sociologico. Le origini della tequila, che cosa ha significato per il Messico, questo genere di cose.» «Questo genere di cose» ripetè Barbara. «Be', tanto per cominciare la tequila non è affatto un distillato messicano.» «Ma i messicani conoscevano sicuramente le proprietà dell'agave.» «Ovvio.» Barbara Skydel prese un piatto, che riempì con assaggi vari. «Da secoli la pina veniva consumata e venduta cotta e candita. Poi sono arrivati gli spagnoli. Sono stati i francescani spagnoli che si stabilirono in questa fertile valle a fondare la città di Santiago de Tequila, nel 1530. E sono stati sempre i francescani ad avere l'idea di fare fermentare gli zuccheri della pina per ricavarne un distillato alcolico.» «Quindi l'agave è stato l'ennesimo aspetto della cultura messicana di cui i conquistadores si appropriarono per trasformarlo» osservò Moira . «Be', in realtà è ancora peggio di così.» Barbara si leccò la punta delle dita, in un modo che a Moira ricordò Roberto Corellos. «I conquistadores si limitarono a uccidere i messicani. Furono i francescani che viaggiavano al loro seguito a smantellare sistematicamente il modo di vivere locale, sostituendolo con la versione spagnola del cattolicesimo, particolarmente cruenta. Dal punto di vista culturale, la chiesa spagnola ha distrutto la civiltà messicana» disse con un sorriso. «I conquistadores erano semplici soldati in cerca dell'oro del Messico. I francescani erano i soldati di Dio e volevano l'anima del Messico.» Mentre Barbara si versava un bicchiere di sangria rosso rubino, Narsico tossicchiò. «Come può notare, mia moglie è diventata una fiera sostenitrice della cultura indigena messicana.» Sembrava imbarazzato per quella discussione, come se sua moglie si fosse comportata in modo villano. Moira si chiese da quanto tempo le opinioni di Barbara fossero motivo di contrasto fra loro. Forse lui non era d'accordo, oppure pensava che la schiettezza della consorte su quell'argomento fosse un biglietto da visita negativo per l'azienda, la quale dopotutto dipendeva interamente dal gradimento dei consumatori? «Lei è sempre stata di questa idea, senora Skydel?» «Essendo cresciuta in Colombia, io conoscevo solo la lotta del mio popolo contro i nostri generali-dittatori e le milizie fasciste.» Narsico sospirò in maniera affettata. «Poi il Messico l'ha cambiata.» A Moira non sfuggì la venatura amara nella sua voce. Osservò Barbara mentre mangiava, un atto così basilare che però rivelava sulle persone molto più di quanto immaginassero. Barbara mangiava rapidamente, quasi aggredendo il cibo, come se avesse bisogno di difendere ciò che aveva nel piatto, e Moira si chiese come fosse stata educata. Essendo l'unica figlia femmina veniva di certo servita per ultima, come la madre. Inoltre appariva completamente concentrata sul pasto. Moira ipotizzò che per lei il cibo fosse un'esperienza sensuale. A Moira piaceva come mangiava, le suscitava tenerezza, e ripensò ancora a Corellos che la descriveva come un pirana . In quel momento il cellulare di Narsico ronzò. Lui rispose, si alzò e si allontanò, scusandosi. Moira notò come Barbara lo ignorasse mentre rientrava in casa . «Come avrà già capito» riprese Barbara, «la stessa storia può essere raccontata in diversi modi.» Aveva un modo molto diretto di parlare e di guardare dritto in faccia l'interlocutore. «Mi piacerebbe riuscire a influenzare il suo articolo.» «L'ha già fatto.» Barbara annuì. Era una di quelle donne fortunate che possiedono una struttura fisica eccellente, la pelle lucida e tesa e un corpo snello e atletico che sfidava l'impietoso scorrere del tempo. Era impossibile stabilire la sua età. A giudicare dal modo di comportarsi, secondo Moira poteva avere una quarantina d'anni, anche se ne dimostrava cinque o sei di meno .
«Da dove viene?» «In effetti sono arrivata direttamente da Bogotà» rispose Moira. Sapeva che doveva sfruttare l'occasione, ma non aveva il tempo di girarci troppo attorno e sentiva di dover approfittare dell'assenza di Narsico. «Ho incontrato Roberto Corellos, il cugino di Narsico.» Osservò attentamente la reazione della donna. «... E suo vecchio amico.» Un'espressione fredda e cupa apparve sul volto di Berengària Moreno. «Non so a cosa si riferisca. Corellos e io non ci siamo mai visti vis-à-vis» disse in tono gelido . «Forse bocca a bocca?» Per un lungo momento Barbara rimase immobile. Quando riprese a parlare non aveva più niente di bello o attraente, e Moira capì esattamente cosa intendeva Corellos. Ecco che arriva ilpirana, pensò . A voce bassa e minacciosa Barbara disse: «Potrei farla buttare fuori di peso, farla picchiare fino a farle perdere i sensi o addirittura...». Si fermò, mordendosi il labbro . «O cosa?» la provocò Moira. «Farmi ammazzare? Bene, sappiamo tutte e due che suo marito non avrebbe le palle per farlo.» A sorpresa, Barbara Skydel scoppiò in una risata. «Oh, Jesus mio, ma se lo immagina?» Si ricompose immediatamente. «Roberto non aveva il diritto di raccontarle quello che è successo.» «Dovrà discutere della cosa con lui.» Moira notò che Barbara lanciava un'occhiata furtiva alla casa, dove si intrawedeva Narsico che, sempre al telefono, passeggiava su e giù dietro una delle portefìnestre . Barbara si alzò. «Perché non andiamo a fare una passeggiata?» Dopo una breve esitazione, Moira buttò giù il fondo del suo bicchiere di sangria, si alzò e seguì Barbara oltre il campo da tennis, in giardino. Quando si furono allontanate dalla casa per giungere in mezzo a un gruppo di pini nani, Barbara si fermò e l'affrontò. «La trovo una persona interessante. Chi è lei? Perché di certo non è una giornalista.» Moira si preparò mentalmente al peggio. «Che cosa glielo fa pensare?» Barbara le si avvicinò in modo minaccioso, come fanno certi uomini. «Roberto non avrebbe mai raccontato di noi a una giornalista. Non le avrebbe detto proprio niente.» «Cosa vuole che le dica?» Moira alzò le spalle. «Gli stavo simpatica.» Barbara sbuffò. «A Roberto non sta simpatico nessuno e ama solo se stesso.» Inclinò la testa di lato e di nuovo cambiò atteggiamento, che da minaccioso si fece seduttivo. Fece indietreggiare Moira bloccandola contro il tronco di un albero e sollevò una mano, arrotolandosi sull'indice una piccola ciocca dei suoi capelli. «Allora te lo sei scopato, o come minimo gliel'hai preso in bocca.» «Non mi ha neppure sfiorata.» Barbara le accarezzò la guancia con il dorso della mano. Era gelosa, oppure stava cercando di sedurla, o magari di farla innervosire? «Come sei riuscita ad arrivare a lui?» Moira sorrise. «Ero la prima della classe, al corso di fascino.» Le lunghe dita di Barbara si muovevano leggere come piume, sfiorandole la guancia e l'orecchio . «Che cosa avrà visto Roberto in te? Sarà anche un bruto e un porco, ma è bravissimo a valutare le persone al primo sguardo. Perciò adesso mi chiedo cosa sei venuta a fare qui.» Moira sentì che doveva inventarsi qualcosa, se voleva mantenere il vantaggio su Barbara. «Sono qui per indagare sull'omicidio dell'uomo che è stato trovato nella tua proprietà alcune settimane fa.» Barbara fece un passo indietro. «Sei della polizia? La polizia americana si sta interessando dell'omicidio?» «Non sono della polizia» puntualizzò Moira. «Sono dei federali.» Barbara rimase apparentemente senza fiato. «Cristo!» esclamò. «Ecco come sei arrivata a Roberto.» «Berengària, voglio che mi accompagni nel luogo dove è stato rinvenuto il corpo. Andiamoci adesso.» Bourne si mise alla guida della Opel grigia di Ottavio Moreno e partì seguendo alla lettera le indicazioni ricevute da Coven. Di fianco a lui, Ottavio stava sistemando tutti i suoi acquisti. Non parlavano, si sentiva solo il rumore del traffico e quello degli pneumatici sull'asfalto . «Venti minuti» annunciò Bourne . «Saremo pronti» rispose Ottavio senza alzare lo sguardo da ciò che stava facendo. «Non preoccuparti.» Bourne non era preoccupato: non era nella sua natura e, se lo era stato in precedenza, l'addestramento alla Treadstone aveva azzerato da tempo questa sensazione. Stava pensando a Coven, senza dubbio il nome in codice di un agente operativo della CIA. Sapeva benissimo che l'Agenzia disponeva di un gruppo di uomini alle sue dirette dipendenze,
specializzati nel lavoro sporco. Aveva bisogno di raccogliere tutte le informazioni possibili su quell'uomo prima di incontrarlo, e c'era una sola persona in grado di aiutarlo . Prese il cellulare e digitò un numero che non utilizzava da tempo. Quando gli rispose una voce familiare, disse: «Peter, sono Jason Bourne» . Peter Marks stava andando a parlare con l'ispettore capo Lloyd-Philips, che lo stava aspettando al Vesper Club, quando arrivò la chiamata. Riconoscendo la voce di Bourne fu percorso da un brivido di sorpresa . «Dove diavolo ti trovi?» Marks, seduto sul sedile posteriore di un imponente taxi londinese, si scoprì a parlare a voce troppo alta . «Mi serve il tuo aiuto» disse Bourne. «Che cosa sai dirmi di Coven?» «L'agente operativo della CIA?» «Non hai detto il nostro agente operativo. Non sei più nella CIA, Peter?» notò Jason . «In effetti ho mollato tutto non molto tempo fa.» Marks dovette fare uno sforzo di volontà per riportare i propri battiti cardiaci a un livello accettabile. Doveva scoprire dove si trovava Bourne e raggiungerlo. «Danziger ha creato un'atmosfera nociva che non riuscivo più a sopportare. Si sta liberando di chiunque era rimasto fedele al Grande Vecchio.» Tossì. «Sai che ha licenziato Soraya?» «Non lo sapevo.» «Jason, voglio che tu sappia... Sono incredibilmente felice che tu sia vivo.» «Peter, dimmi di Coven.» «Giusto, Coven. E un uomo pericoloso e molto intelligente.» Marks rifletté per un momento. «Duro, spietato, un vero stronzo.» «Sarebbe capace di fare del male a un bambino?» «Cosa?» «Mi hai sentito» disse Bourne . «Gesù, no, non credo. È un buon padre di famiglia.» Marks fece un respiro profondo. «Jason, cosa diavolo sta succedendo?» «Adesso non ho tempo...» «Ascolta, mi hanno spedito a Londra per scoprire cosa cazzo è successo al Vesper Club.» «Peter, l'incidente al Vesper Club è successo ieri sera. Se sei davvero a Londra...» «Sì, sono qui. In questo momento sono in taxi e sto andando al Vesper Club.» «Eri già sull'aereo quando io mi trovavo al club, quindi basta con le stronzate, Peter. Per chi lavori, adesso?» «Willard.» «Sei della Treadstone.» «Esatto. Noi due lavoriamo per la stessa...» «Io non lavoro per la Treadstone né per Willard. Anzi» continuò Bourne, «la prossima volta che lo vedo gli spezzo l'osso del collo. Mi ha venduto. Mi dici perché l'ha fatto, Peter?» «Non lo so.» «Stammi bene, Peter.» «Aspetta! Non riattaccare, ho bisogno di incontrarti.» Ci fu una breve pausa. Marks sentì che il telefono gli stava quasi sfuggendo dalla mano madida di sudore. «Jason, ti prego. E una cosa importante.» «Non hai intenzione di chiedermi perché mi trovavo con l'uomo che ha accoltellato Diego Herrera?» «Puoi anche dirmelo, se vuoi. Ma francamente non m'interessa. So che devi avere avuto dei validi motivi.» «Bravissimo. Willard ti sta tirando su bene.» «Hai ragione, ovviamente Willard è un perfetto stronzo. Farà qualunque cosa per rimettere in piedi la Treadstone.» «Perché?» Marks esitava. Non gli era mai piaciuta l'idea di condividere il sogno di Willard, ma al momento aveva avuto la sensazione di non avere altra scelta. E Willard l'aveva lavorato per bene, facendo leva sul suo desiderio di vendetta verso Danziger e il suo burattinaio, Bud Halliday. Quando Willard gli aveva garantito che avrebbe trovato il modo di affossare Halliday, e Danziger con lui, aveva accettato. Ma Willard aveva commesso un errore quando gli aveva chiesto di fregare Bourne. Willard, la cui lealtà era solo rivolta alla Treadstone, non riusciva a concepirla negli altri . Trasse un profondo respiro e continuò: «Willard ha intenzione di riunire te e Arkadin in modo da determinare una volta per tutte quale sia il protocollo migliore per l'addestramento alla Treadstone. Se Arkadin ti ammazza, ritornerà ai protocolli originali, con qualche piccola modifica, e inizierà a reclutare gente» . «E se sarò io a uccidere Arkadin?» «In quel caso, Jason, dice che sarà necessario studiarti per capire quali cambiamenti abbia prodotto in te l'amnesia, in modo da poter modificare di conseguenza il programma di addestramento della Treadstone.» «Come una scimmia da laboratorio.» «Temo di sì.» «E il tuo incarico è riportarmi a Washington?» «No, non è così semplice. Ma se possiamo vederci ti spiegherò tutto nei dettagli.» «Forse, Peter. Prima devo capire se posso fidarmi di te.» «Jason, certo che puoi. Puoi fidarti.» Marks ne era fermamente
convinto in ogni fibra del suo essere. «Quando possiamo...?» «Non ora. In questo momento tutto ciò che mi serve da te è che tu mi dica tutto quello che sai di Coven: voglio sapere dei suoi metodi, delle sue inclinazioni e di cosa è capace.» Bourne ascoltò Peter Marks con attenzione, memorizzando ogni sua parola. Poi gli disse che l'avrebbe chiamato e chiuse la telefonata. Per un po' si concentrò sul traffico, per consentire al suo cervello di elaborare un piano: ossia come neutralizzare Coven senza mettere in pericolo Chrissie e Scarlett . Vide l'indicazione per George Street e si ricordò subito di quel pomeriggio a Oxford. Non stava però pensando a Chrissie e al professor Giles. Ricordava nei minimi particolari la visita al Centro per lo studio di documenti antichi, nella vecchia scuola maschile. Ci era andato presentandosi come David Webb, visiting professor di linguistica, ma poi la sua vera identità si era imposta. Sapeva, ma non capiva come facesse a saperlo, che in quel momento era ancora in possesso del computer portatile sottratto a Jalal Essai. Tra una lezione e l'altra era entrato nel Centro per lo studio di documenti antichi. E lì, che cosa aveva fatto, cosa stava cercando? Non riusciva a ricordarlo. Però sapeva che ciò che aveva scoperto lo aveva indotto a tenersi il computer. Che cosa ne aveva fatto? Il ricordo lambiva la sua memoria, come il bordo fiammeggiante del sole durante un'eclisse. C'era quasi, mancava pochissimo . Poi vide sulla destra lo svincolo di cui aveva parlato Coven e dovette accantonare il ricordo, perché era arrivato il momento di affrontare quell'uomo . *** Capitolo 16 . «Da qui in poi dovremo proseguire a piedi.» Barbara scese dalla jeep. Nonostante la cappa di calore, indossava un paio di jeans, stivali da cowboy e una camicia a quadri con le maniche arrotolate fino ai gomiti . Moira la seguì. Avevano percorso forse un chilometro e mezzo, dirigendosi a ovest della hacienda, ma sempre entro i confini dell'immensa estancia. In lontananza si scorgevano azzurre colline sormontate da una foschia rosata, e l'aria era satura del profumo dolce e quasi fermentato dell'agave. Il sole indugiava appena sopra l'orizzonte. Il terreno scottava, carico del caldo immagazzinato durante il giorno. A ovest il cielo era bianco e abbagliante . «Ai, Narsico diceva che tutto questo sarebbe finito, ma io sapevo che non era vero.» «Perché?» chiese Moira . «E sempre così.» «Così come?» la incalzò . «Ci si fa fregare dai dettagli più insignificanti.» «Un omicidio è qualcosa di insignificante?» Barbara alzò il mento in un gesto carico di disprezzo. «Credi che mi importi qualcosa di uno che nemmeno conosco?» «Com'è finita l'indagine della polizia?» domandò Moira mentre si incamminavano sul terreno arido e brullo . «Al solito.» Barbara socchiuse gli occhi sotto il sole. «E venuto un ispettore da Tequila a fare qualche domanda, ma l'uomo non è stato identificato e nessuno ha reclamato il cadavere. Il poliziotto ha continuato a interrogare noi e tutti i nostri collaboratori per settimane. Mai conosciuto un tale seccatore prima. Insisteva sul fatto che doveva esserci una ragione se la vittima è stata trovata nella nostra estancìa. Siamo diventati i principali sospettati, ma lui e quelli del suo genere sono talmente inetti che alla fine ha dovuto smettere di sputare insinuazioni e accuse. Poi, il silenzio assoluto. Per quanto ne so io, il caso è stato archiviato.» «Questa è la prospettiva messicana» replicò Moira. «Per noi, l'omicidio ha assunto implicazioni più vaste.» Moira avvertì nella voce di Barbara la stessa preoccupazione che aveva percepito poco prima. «Per esempio?» «Per prima cosa, sappiamo che la vittima lavorava per tuo fratello nella sua tenuta alla periferia di Città del Messico, ecco perché vi hanno collegati a quell'uomo.» «Lavorava per Gustavo? Non ne avevo la minima idea. Non mi occupavo degli affari di mio fratello.» «Davvero? Il fatto che tu andassi a letto con il suo fornitore rende un po' difficile crederlo.» «E poi cos'altro sapete?» Moira non rispose. Probabilmente si stavano avvicinando alla scena del crimine, o per lo meno al punto in cui era stato abbandonato il corpo, perché Barbara rallentò il passo e iniziò a guardarsi attorno. A un certo punto disse, indicando un'area distante da loro meno di un metro: «E lì che è stato trovato il cadavere» .
In quel clima arido le impronte lasciate diverse settimane prima erano ancora visibili, anche se ormai indistinguibili da quelle dei poliziotti. Moira si incamminò lentamente lungo la zona perimetrata, scrutando il terreno . «Sembra che la terra non sia stata scavata, e neppure smossa troppo. Non mi pare che la scena del crimine sia stata setacciata a fondo.» «Difatti. Ci hanno trascinato qui mentre facevano ancora i rilievi» confermò Barbara . Moira si mise all'opera. Infilò un paio di guanti di lattice e iniziò a esaminare il suolo fra il terriccio, la polvere e l'erba secca. Attraverso qualche canale misterioso, Jalal Essai era venuto in possesso delle copie delle fotografie della vittima scattate al momento del ritrovamento, nelle quali giaceva sul fianco sinistro. Aveva i polsi legati dietro la schiena e le gambe piegate ad angolo, con la testa in avanti. Se ne poteva dedurre che al momento della morte si trovava in ginocchio. Essai aveva cercato di ottenere anche una copia del referto dell'autopsia, che tuttavia risultava smarrita dall'ufficio del coroner o dalla polizia. Che incompetenti! «L'altra cosa che sappiamo» proseguì, con l'intenzione di tenere Barbara ancora sulla corda «è che la vittima ha lasciato la tenuta meno di trenta minuti prima dell'irruzione in cui è stato ucciso tuo fratello.» Alzò lo sguardo per fissare Barbara negli occhi. «Il che significa che aveva saputo in anticipo dell'irruzione.» «Perché mi guardi?» disse Barbara. «Ti ho già spiegato che non avevo niente a che fare con gli affari di Gustavo.» «Hai intenzione di continuare a ripeterlo finché non mi avrai convinta?» Barbara incrociò le braccia sul petto. «All'inferno! Io non c'entro con la morte di quest'uomo.» Moira stava cercando un bossolo. Dalle foto aveva notato immediatamente che la vittima era stata uccisa con una pistola di piccolo calibro. Un colpo alla base del cranio. L'assenza di polvere da sparo e di ustioni sulla pelle o bruciature sugli abiti indicava che il killer aveva sparato a distanza non molto ravvicinata, l'ideale se si intende uccidere un uomo con un solo colpo e con una pistola di piccole dimensioni . Dopo quaranta minuti passati a setacciare il terriccio non aveva ancora trovato nulla. Aveva già percorso l'intero perimetro della scena del crimine. Ovviamente esisteva la possibilità che la vittima fosse stata uccisa altrove e poi trasportata lì, ma aveva deciso di scartare questa ipotesi. Se, come sospettava, il killer voleva non solo ridurre la vittima al silenzio, ma anche coinvolgere gli Skydel, allora aveva deliberatamente eseguito l'omicidio nella loro proprietà . Poco oltre la vegetazione diventava più fitta, e Moira, di nuovo in ginocchio, cominciò a scavare attorno alla base di alcune piante coriacee, di un colore tra il grigio e il verde. Il sole era ora più basso, seminascosto dietro una cortina di nuvole sfrangiate. In quel falso tramonto il paesaggio sfumò nella penombra. Moira si sedette sui talloni, attendendo il ritorno della luce. Quando il sole riemerse, la scena del crimine fu inondata da sciabolate arancioni, che colpivano il terreno ad angolo acuto. Le ombre si allungavano dietro le due donne facendole assomigliare a figure sottili e gigantesche . A un tratto con la coda dell'occhio Moira colse un improvviso lampo luminoso, come il riflesso di un diamante, che subito scomparve. Girò la testa nella direzione da cui le era sembrato provenisse il lampo. Niente. Continuò a far scorrere le dita nel terreno, smuovendo e sollevando il suolo polveroso . E poi eccolo là, inaspettato, nel palmo della sua mano, appena tolto dal terriccio. Con molta cautela, lo prese tra pollice e indice e lo sollevò per esaminarlo alla luce del sole. Di nuovo ci fu quel lampo, mentre leggeva le scritte sul bossolo con il cuore che le batteva all'impazzata . Barbara si avvicinò. «Che cos'hai trovato?» chiese con voce leggermente affannata . Moira si alzò. «Hai mai pensato che la vittima potrebbe essere stata volutamente uccisa nella tua estancia?» «Cosa? E perché mai?» «Come ti ho detto, la vittima lavorava per tuo fratello, Gustavo. Però doveva essere l'uomo di qualcun altro. Questo qualcuno lo ha avvertito dell'irruzione e la vittima è scappata. Perché è stato allertato, dato che è stato ucciso solo poche ore dopo la fuga?» Barbara scosse la testa, senza fare commenti . «Quando ha lasciato la tenuta di Gustavo ha preso con sé il computer di tuo fratello, in cui erano contenuti tutti i suoi contatti per il traffico di droga.» Barbara si passò la lingua sulle
labbra. «E stata la persona che lo controllava a sparargli?» «Sì.» «L'ha ucciso nella mia estancia.» «Sì, per cercare di coinvolgervi» disse Moira. «A salvarvi è stato il fatto che, per vostra fortuna, gli agenti locali non sono proprio delle aquile.» «Ma perché questa persona vorrebbe coinvolgere me nell'omicidio?» «Sto solo facendo delle ipotesi» rispose Moira, «però direi che voleva eliminarti dalla scena.» Barbara scosse ancora il capo . «Riflettici un attimo. La persona che ora ha il computer di Gustavo conosce tutti gli affari di tuo fratello. Il suo piano era farsi strada con la forza liberandosi di chiunque trovasse sul suo cammino.» Barbara la fissava con gli occhi spalancati. «Non ti credo.» «Veniamo al bossolo.» Moira lo sollevò. «Le foto repertate mostrano che la vittima è stata uccisa con un proiettile alla base del cranio. La cosa strana è che il killer ha usato una pistola di piccolo calibro, anche se non si trovava esattamente dietro la vittima. La mia idea era che avesse usato munizioni speciali, e adesso ne ho la conferma.» Adagiò il bossolo nella mano di Barbara. Lei se lo portò all'altezza degli occhi e lo osservò alla debole luce del tramonto . «Non riesco a leggere le scritte.» «Perché sono in cirillico. La ditta costruttrice si trova a Tuia, nella zona di Mosca. Il bossolo appartiene a un proiettile speciale, cavo all'interno e riempito di cianuro. Naturalmente è illegale e si trova solo in Russia. Non viene venduto neppure tramite Internet.» Barbara la guardò. «Il killer è un russo.» «L'uomo che si è intromesso con la forza negli affari di Gustavo.» Annuì. «Giusto, so che tu stai soltanto coprendo l'attività di tuo fratello... e che tu e Roberto avete un nuovo socio.» Aveva colpito nel segno. Barbara sbiancò. «Cazzo, avevo avvertito Roberto che Leonid stava per arrivare a lui, ma mi ha riso in faccia.» «Leonid?» Moira trasalì. «Il vostro socio è Leonid Danilovic Arkadin?» «Roberto mi ha detto: "Ma che cosa vuoi saperne tu, sei una donna e le donne sanno solo quello che gli viene raccontato, niente di più".» Moira le afferrò un braccio per fissarla negli occhi. «Barbara, è Leonid Arkadin il vostro socio?» Barbara distolse lo sguardo e si morse un labbro . «E per lealtà o per paura che stai tenendo la bocca chiusa?» Moira intrawide un impercettibile sorriso sul volto di Barbara. «Non sono leale nei confronti di nessuno. In questo tipo di attività non conviene. E un'altra di quelle cose che mio marito non capisce.» «Allora hai paura di Arkadin.» Barbara scosse violentemente la testa, un'espressione irata nello sguardo. «E stato lui a intromettersi con la forza. Ha messo alle strette Roberto, ha detto che aveva la lista dei clienti di Gustavo. Roberto ha risposto che quelli erano i suoi clienti. Arkadin ha detto che quello era il passato, che Gustavo era morto, lui aveva la lista e i clienti erano suoi. Ha detto che la soluzione migliore era dividersi equamente i profitti e che se Roberto non ci stava li avrebbe contattati anche senza il suo permesso o aiuto e che gli avrebbe dato la roba procurandosela da altri . «Roberto ha tentato per tre volte di far fuori Arkadin, senza riuscirci. Poi Arkadin gli ha detto: "Fottiti, i clienti di Gustavo adesso sono miei, va a cercarti i polli da spennare per conto tuo". Credevo che a Roberto sarebbe venuto un infarto. Sono stata io a calmarlo.» «Tuo marito avrà di sicuro gradito» commentò Moira secca . «Mio marito è un vigliacco, come puoi notare anche tu» disse Barbara. «Però mi è fedele e ha una sua utilità.» Allargò le braccia per indicare i terreni. «Inoltre la sua attività sarebbe andata a rotoli senza di me.» Il sole era scivolato dietro le montagne a ovest. Il buio stava calando molto rapidamente, come se un'immensa coltre fosse stata stesa a coprire il cielo . «Torniamo alla jeep» disse Moira prendendo il bossolo dalla mano di Barbara . Sulla strada del ritorno alla hacienda Barbara osservò: «Tu conosci Arkadin, ne deduco» . Moira del russo sapeva solo quello che le aveva raccontato Bourne. «Abbastanza bene da scommettere che la sua prossima mossa sarà di impadronirsi dell'attività di Corellos. E così che lavora Arkadin.» E nello stesso modo si era appropriato del traffico di armi di Nikolaj Evsen a Khartoum. Forse era riuscito a corrompere una guardia del carcere di La Modelo o un detenuto delle FARC, o magari una delle tante donne di Corellos in prigione, pagandoli il giusto per placare la loro paura verso il signore della droga. Uno di questi giorni, pensò Moira, Corellos sarebbe finito morto ammazzato nella sua cella di lusso .
«Arkadin è già parecchio arrabbiato con Roberto e con me» rivelò Barbara mentre guidava la jeep sullo sterrato. «L'ultima spedizione ha subito un grosso ritardo. Hanno dovuto fermare la barca per ripararla, perché il motore si surriscaldava. Se conosci il Messico, dovresti sapere che non è un tipo di riparazione che si fa nel giro di qualche ora, e nemmeno di notte. La barca sarà pronta domani sera, ma so che non sarà contento.» Stringeva talmente forte il volante che le sue nocche diventarono bianche come ossa . «Capisco, Berengària, ti assicuro che capisco benissimo.» «Vuoi offendermi? Da anni mi faccio chiamare Barbara.» «Io rispetto il tuo vero nome. Dovresti accettarlo, non rifiutarlo.» Poiché Berengària rimaneva in silenzio, Moira continuò: «Arkadin ha le sue regole, e sono inflessibili. Senz'altro tu e Roberto dovrete pagare una penale per il ritardo» . Berengària guardava fisso davanti a sé. «Lo so.» «E poi stammi a sentire, mami, se questa spedizione non dovesse andare a buon fine, qualcun altro verrà a farti visita, qualcuno non così gentile e comprensivo come me. Puoi starne certa.» Berengària rifletté a lungo. Il sole era ormai tramontato dietro le montagne color porpora che si stagliavano contro il cielo sgombro di nuvole. A est faceva già buio. Restarono in auto per parecchio tempo, come se Berengària stesse guidando in tondo, quasi non volesse far ritorno alla hacienda. Alla fine frenò mettendo la jeep in folle. Poi si girò verso Moira . «E cosa succede» sbottò, «se non sono d'accordo?» Moira gongolò: le cose si stavano mettendo bene. Berengària si trovava finalmente a tiro. Rispose alla sua violenza con un sorriso. «Allora credo di poterti aiutare.» Berengària la fissò con un'intensità che un'altra donna avrebbe potuto giudicare imbarazzante. Ma Moira capiva cosa voleva, cosa avrebbe significato il suo gesto. Ammirava quella donna e allo stesso tempo la compativa. Era già abbastanza difficile essere una donna forte in un mondo di maschi, ma restare forte nel mondo latino-americano era un'impresa degna di un'amazzone. Eppure, al di là dei suoi sentimenti, aveva la certezza che Berengària fosse il suo obiettivo . Avrebbe ottenuto quello che le serviva. E adesso sapeva anche come . Chinandosi molto lentamente verso di lei, le prese la testa tra le mani e premette le labbra sulle sue . Gli occhi di Berengària si spalancarono per un istante, prima di chiudersi. Le sue labbra si ammorbidirono, poi si schiusero, mentre si abbandonava al bacio . Moira percepì il momento della resa con un senso di trionfo, ma anche di pena. Poi sentì la mano di Berengària sulla nuca, la passione che pulsava prepotente, e sospirò nella morbida bocca di lei . «Il mio nome è Lloyd-Philips, ispettore capo Lloyd-Philips.» Peter Marks si presentò e strinse la mano che gli veniva offerta, pallida, molle e macchiata di nicotina. Lloyd-Philips, con un abito da poco prezzo, un po' liso sui polsi, sfoggiava un paio di baffi rossicci e aveva capelli radi che un tempo dovevano essere dello stesso colore ma ora sembravano cosparsi di cenere . L'ispettore capo cercò di sorridere, senza riuscirci. Forse aveva quei muscoli ormai atrofizzati, fu l'ironica osservazione di Marks. Mostrò a Lloyd-Philips le sue false credenziali, dalle quali risultava collaboratore di un'azienda privata sotto l'egida del Dipartimento della Difesa e quindi con il potere del Pentagono alle spalle . Si trovavano nella hall deserta del Vesper Club, transennata dalla polizia in quanto scena del crimine . «Uno dei presunti responsabili potrebbe essere una persona interessante per i miei superiori. Se così fosse, gradirei molto poter vedere le riprese video a circuito chiuso della notte scorsa» esordì Marks . Lloyd-Philips si strinse nelle spalle esili. «Perché no? Stiamo già stampando i volantini con le foto dei due uomini da distribuire alla polizia e agli addetti in tutte le stazioni ferroviarie, negli aeroporti e nei terminal degli spedizionieri.» L'ispettore capo lo guidò attraverso il casinò vero e proprio, lungo un corridoio e quindi nei locali sul retro, uno dei quali era caldo e odorava di componenti elettronici. Un tecnico stava seduto di fronte a una complicata consolle zeppa di
strumenti, cursori e una tastiera da computer. Davanti agli occhi scorrevano due file di monitor, ognuno dei quali sorvegliava una zona diversa del casinò. A quanto Marks riusciva a vedere, nessun angolo, nessuna nicchia era stata trascurata, neppure le toilette . Lloyd-Philips si avvicinò al tecnico e gli mormorò qualcosa; l'uomo annuì cominciando a premere sui tasti. L'ispettore capo ricordava a Marks il tipico personaggio tratto da un qualunque romanzo inglese di spionaggio. La sua espressione vagamente dispeptica, di noia inveterata, gli dava l'aria del burocrate in carriera, con un occhio socchiuso e l'altro puntato sulla pensione imminente . «Eccoci qua» cantilenò il tecnico . Uno dei monitor diventò nero, quindi apparve un'immagine. Marks riconobbe il bancone del bar nella sala dei giocatori d'azzardo. Poi nell'inquadratura comparvero Bourne e un uomo che indentificò come Diego Herrera, il morto. Stavano parlando, ma dando parzialmente le spalle alla telecamera; era quindi impossibile capire cosa stessero dicendo . «Diego Herrera è entrato al Vesper Club più o meno alle nove e trentacinque di ieri sera» spiegò Lloyd-Philips in tono didascalico e un po' annoiato. «Con lui c'era quest'uomo.» Indicò Bourne. «Adam Stone.» Il video proseguì. Un altro uomo - presumibilmente il killer - entrò nell'inquadratura. Quando cominciò ad avvicinarsi a Bourne e a Diego Herrera le cose si fecero interessanti . Marks si protese in avanti, nervoso. Bourne si spostò di fronte a Herrera, come per bloccare la strada al sicario. Ma, mentre i due parlavano, successe qualcosa di strano. L'atteggiamento di Bourne cambiò. Era come se conoscesse l'assassino, anche se a giudicare dalla sua espressione iniziale non poteva essere così. Eppure Bourne gli permise di avvicinarsi al bancone del bar e di piazzarsi accanto a Herrera. Poi Diego crollò a terra. Bourne afferrò il killer per il bavero della giacca, come avrebbe dovuto fare all'inizio. A quel punto ecco la seconda cosa strana. Bourne non massacrò quell'uomo di botte. Marks si stupì nel vedere i due uomini ora alleati affrontare i tre buttafuori che erano entrati dal salone principale del casinò . «E questo è quanto» commentò l'ispettore capo Lloyd-Philips. «Il killer ha usato qualche tipo di arma a ultrasuoni per stordire la vittima.» «Lo avete identificato?» domandò Marks . «Non ancora. La sua faccia non compare nei nostri database.» «Questo club è aperto soltanto ai soci. Il direttore deve conoscerlo.» Lloyd-Philips aveva un'aria decisamente seccata. «In base ai registri del locale il nome del sospetto dovrebbe essere Vincenzo Mancuso, ma sebbene in Inghilterra esistano tre individui con questo nome, nessuno di loro assomiglia all'uomo in questione. Abbiamo comunque inviato i nostri detective a interrogare i tre diversi Vincenzo Mancuso, uno solo dei quali è residente nei dintorni di Londra. Tutti hanno un alibi, abbiamo controllato.» «Cosa dice il medico legale?» chiese Marks . L'ispettore capo sembrava voler staccare la testa di Marks a morsi. «Non sono state rilevate impronte digitali sospette e non è stata trovata traccia dell'arma del killer. Ho ordinato ai miei uomini di setacciare l'area nel raggio di un chilometro e mezzo dal club, di frugare nei bidoni della spazzatura, di guardare nelle cunette di scolo eccetera. Hanno perfino dragato il fiume, anche se nessuno si illudeva di recuperare il coltello. Finora le ricerche non hanno dato esito.» «E cosa mi dice dell'altro uomo, Adam Stone?» «E scomparso dalla faccia della terra.» Il che vuol dire che l'inchiesta è a un punto morto, pensò Marks. Questa è un'indagine su un omicidio di alto profilo. Non mi meraviglia che sia nervoso . «Adam Stone è la persona che interessa ai miei superiori» confidò Marks all'ispettore capo, facendolo allontanare dal tecnico. «Loro, e nella fattispecie anch'io, considererebbero un favore personale se volesse togliere la foto di Stone dai volantini.» Lloyd-Philips sorrise: non esattamente una bella vista. Aveva i denti macchiati di nicotina, come lo erano le punte delle dita . «Ho costruito la mia carriera non facendo mai favori personali. E così che preservo la mia futura pensione.» «Eppure, in questo caso particolare i miei superiori del Dipartimento della Difesa le sarebbero grati se lei facesse un'eccezione.» «Senta, ragazzo, io l'ho portata qui per
pura cortesia.» Lo sguardo dell'ispettore capo si fece all'improvviso duro come la sua voce. «Non me ne frega niente se i suoi superiori sono dei cazzuti generali a cinque stelle, mio caro balivo di Londra. I miei superiori, il governo di Sua Maestà, non apprezza che voi veniate qui a starci addosso come se fossimo un branco di sfaticati delle colonie. E neppure a me piace, neanche un po'.» Alzò un dito minaccioso. «Un'ultima cosa: si tolga dai piedi prima che mi scocci sul serio e decida di trattenerla come testimone materiale.» «Grazie per la sua ospitalità, ispettore capo» replicò Marks gelido. «Prima di andare, gradirei avere una copia delle foto di Stone e dell'uomo non identificato.» «Qualunque cosa, purché si levi dalle palle.» Lloyd-Philips batté sulla spalla del tecnico, il quale chiese il numero di cellulare di Marks e premette un pulsante: un attimo dopo un'immagine digitale dei due uomini fianco a fianco, prelevata dal video della sorveglianza, apparve sul telefono di Marks . «Bene, allora.» L'ispettore capo si girò verso Marks . «Non mi faccia pentire di ciò che ho fatto. Stia alla larga da me e dal mio caso e tutto andrà bene.» Fuori dal locale, il sole emergeva a fatica dietro la massa di nuvole striate. Il rombo della città accerchiava Marks. Controllò le foto sul suo palmare. Poi cercò di mettersi in contatto con Willard tramite VoiceOver. Willard era off-line, cosa che Marks reputò strana, considerata l'ora di Washington. Gli lasciò un messaggio dettagliato, chiedendo a Willard di verificare la foto dell'uomo che aveva accoltellato Diego Herrera incrociando le informazioni delle banche dati della Treadstone con quelle della CIA, NSA, FBI, Dipartimento della Difesa, più alcune altre alle quali Willard era riuscito ad accedere . Da un ispettore al quale aveva mostrato i suoi documenti falsi all'esterno del locale, Marks aveva ottenuto l'indirizzo di casa di Diego Herrera. Quaranta minuti dopo si trovava davanti all'abitazione, nel momento esatto in cui una limousine Bentley grigio argento svoltava l'angolo e si fermava di fronte all'ingresso. L'autista in livrea scese e superò la scintillante griglia del radiatore per andare ad aprire la portiera posteriore. Ne uscì un uomo alto e distinto, molto somigliante a una versione più anziana di Diego. Con il volto tirato e il passo pesante salì i gradini che portavano all'ingresso della casa di Diego e infilò una chiave nella serratura . Prima che si richiudesse la porta alle spalle, Marks gli fu rapidamente di fianco. «Signor Herrera, mi chiamo Peter Marks» lo apostrofò. Quando l'uomo si voltò per guardarlo in faccia, Marks aggiunse: «Sono terribilmente dispiaciuto per la sua perdita» . Herrera senior si fermò per un istante. Di bell'aspetto, con una criniera leonina di capelli bianchi portati lunghi sul colletto secondo lo stile andaluso, aveva un colorito terreo dietro la carnagione abbronzata dal sole. «Lei conosceva mio figlio, senor Marks?» «Temo di non averne avuto il piacere, signore.» Herrera annuì, con aria vagamente assente. «Sembra che Diego avesse pochissimi amici maschi.» La bocca ebbe un tremito, nel vano tentativo di abbozzare un sorriso. «Certo preferiva le donne.» Marks fece un passo avanti e gli porse i documenti. «Signore, so che questo è un momento difficile per lei, e mi scuso in anticipo se le sembrerò invadente, ma ho bisogno di parlarle.» Herrera continuò a tenere lo sguardo fisso oltre Marks, come se non avesse sentito una parola. Poi sembrò tornare in sé. «Lei sa qualcosa sulla sua morte?» «Non è una conversazione che possiamo fare in strada, senor Herrera.» «No, certo.» La testa di Herrera ebbe un piccolo scatto. «La prego di perdonare la mia maleducazione, senor Marks.» Fece un gesto di invito. Aveva mani molto grandi, le mani capaci di un lavoratore esperto. «Entri, potremo parlare.» Marks salì gli ultimi gradini, varcò la soglia ed entrò nella casa del defunto Diego Herrera. Sentì il vecchio che chiudeva la porta dietro di sé, poi la lama di un coltello appoggiata sulla gola e il padre di Diego Herrera che lo stringeva in una presa incredibilmente forte . «Adesso tu, figlio di puttana» intimò Herrera, «mi dirai tutto quello che sai sull'assassinio di mio figlio, oppure, perdio, ti taglio la gola da un orecchio all'altro.» *** Capitolo 17 . Bud Halliday era seduto su un divanetto semicircolare al White Knights Lounge, un bar in una zona fuorimano del Maryland provinciale, dove andava spesso per rilassarsi. Centellinava un
bourbon con acqua mentre cercava di mettere ordine nella mente, dopo il caos che si era accumulato nel corso di quella lunga giornata . I suoi genitori abitavano nella Main Line di Philadelphia, la regione delle famiglie più altolocate. Loro due potevano far risalire le proprie origini, rispettivamente, ad Alexander Hamilton e a John Adams. Si erano innamorati ancora ragazzini e, com'era prevedibile, alla fine avevano divorziato. Sua madre, una persona molto in vista, si era trasferita a Newport, nel Rhode Island. Suo padre, tormentato da un enfisema polmonare frutto di anni di tabagismo incallito, era rimasto a vivere nella dimora di famiglia, seguito ovunque dalle sue bombole di ossigeno e da una coppia di infermieri haitiani. Halliday non vedeva più nessuno dei due. Aveva voltato le spalle allo splendore dorato di quel mondo ermeticamente chiuso quando, con loro orrore e mortificazione, si era gioiosamente arruolato nei marines appena compiuti i diciott'anni. Mentre era al corso di addestramento aveva immaginato lo shock dei suoi familiari alla notizia, cosa che gli dava una soddisfazione immensa. Probabilmente suo padre aveva strappato con un morso l'estremità di un sigaro, aveva dato la colpa alla moglie per quella delusione e si era rintanato in ufficio, nella sede della compagnia assicurativa di sua proprietà, che dirigeva con successo straordinario e senza alcuno scrupolo . Notando di avere finito il bourbon, Halliday fece un cenno al cameriere e ne ordinò un secondo . Le gemelle arrivarono insieme al suo drink, e ordinò per loro dei Chocolate Martini. Si sedettero accanto a lui, ai due lati. Una era vestita di verde, l'altra di azzurro. Quella in verde aveva i capelli rossi, l'altra era bionda. Almeno per quel giorno. Erano fatte così, Michelle e Mandy. Amavano sottolineare le proprie inquietanti similitudini e allo stesso tempo ribadire le differenze. Erano alte quasi un metro e ottanta, con un fisico voluttuoso e sexy come le loro labbra. Avrebbero potuto essere due modelle o forse due attrici, visto il modo esperto di interpretare i loro ruoli, ma non erano donne superficiali e neppure stupide . Michelle aveva conseguito una laurea in matematica teorica e Mandy era microbiologa al Centro nazionale per il controllo e la prevenzione delle malattie. Michelle, che avrebbe potuto scegliere di insegnare in qualunque università prestigiosa del paese, lavorava invece per la DARPA, l'Agenzia per i progetti di ricerca avanzati della Difesa, dove si occupava di algoritmi crittografici in grado di battere persino il computer più veloce, anche se usato in tandem. La sua ultima creatura utilizzava le tecniche euristiche, ossia poteva imparare da qualsiasi tentativo fatto per forzare un computer, come se fosse un'entità in grado di autoaddestrarsi per cambiare al momento giusto. Per sbloccarla era necessaria una chiave fisica . Mai due menti tanto brillanti erano state rivestite da un involucro più gradevole ed erotico, pensò Halliday mentre il cameriere posava sul tavolo i loro chocolate martini. Alzarono i bicchieri in un brindisi silenzioso, a un'altra notte da trascorrere insieme. Quando non erano in servizio le due ragazze amavano il sesso... il cioccolato e il sesso, nell'ordine esatto. Ma erano ancora in servizio . «Cosa sai dirmi dell'anello?» chiese Halliday rivolto a Michelle . «Sarebbe stato più utile» rispose lei «se mi avessi dato l'oggetto, anziché una serie di foto.» «Visto che non l'ho fatto, che cosa pensi che sia?» Michelle bevve un sorso del suo drink, come se avesse bisogno di tempo per riordinare i pensieri e riflettere su come esprimerli ad Halliday, un uomo con il cervello di un moscerino, niente a che vedere con quello delle due gemelle . «E probabile che l'anello sia una chiave fìsica.» Halliday sembrò subito molto interessato. Aveva lo sguardo intento e concentrato. «Cosa significa?» «Solo quello che ho detto. Magari è per l'algoritmo sul quale sto lavorando, ma le strane incisioni all'interno dell'anello mi ricordano le scanalature di una chiave.» In risposta allo sguardo interrogativo di Halliday, cambiò approccio. Prese dalla borsa un pennarello sottile e tracciò dei segni sul tovagliolino del segretario della Difesa . «Questa è una normale chiave di una serratura. Ha delle scanalature incise che sono uniche. Le serrature più comuni hanno dodici pistoncini all'interno del cilindro, sei sopra e sei sotto.
Quando la chiave viene inserita nel cilindro, le scanalature alzano i pistoncini superiori sopra la linea di allineamento, permettendo di girare la sbarra interna al cilindro e alla serratura di aprirsi . «Ora, se guardi ciascun ideogramma dell'incisione interna all'anello, puoi considerarlo come la tacca di una chiave. Infili l'anello nella serratura giusta ed ecco fatto, "Apriti Sesamo".» «Ma è possibile?» chiese lui . «Tutto è possibile, Bud. Lo sai.» Halliday fissava il disegno, improvvisamente elettrizzato. Era necessario un grande sforzo di immaginazione per credere a quella teoria, ma la ragazza era un genio, né più né meno. Non poteva permettersi di scartare nessuna delle sue ipotesi, anche se di primo acchito poteva sembrare pazzesca . «Qual è il nostro programma per stasera?» intervenne Mandy, evidentemente annoiata dall'argomento . «Io ho fame.» Michelle ripose la penna. «Non ho mangiato niente per tutto il giorno, tranne uno Snickers che ho ripescato nel mio cassetto, talmente stantio che il cioccolato era diventato bianco.» «Finite i vostri drink» disse Halliday . Lei atteggiò le labbra in un finto broncio. «Lo sai cosa mi succede se bevo a stomaco vuoto.» Halliday ridacchiò. «Sì, ne ho sentito parlare.» «Be', è tutto vero, e anche di più» ribadì Mandy. E poi, con una voce diversa, vibrante e profonda, la voce di una cantante, intonò: «Dat lil' girl, sheget freakeee!» . « Whereas dis one» continuò Michelle con la stessa voce, «she already got herfreak on!» Entrambe gettarono la testa all'indietro ridendo allo stesso modo, e per lo stesso tempo. Halliday le osservava girando la testa a destra e a sinistra, e sentì un dolore pulsante alla fronte, come se stesse guardando un match di tennis da una distanza troppo ravvicinata . «Ah, eccoti qui!» disse Mandy accogliendo l'elemento mancante del loro quartetto . «Pensavamo che non saresti venuto» osservò Michelle . Halliday coprì con il palmo della mano il suo tovagliolino con lo schema della serratura e se lo nascose in grembo. Le due ragazze notarono il suo gesto, ma non fecero commenti limitandosi a sorridere al nuovo venuto . «Non esiste alcuna potenza al mondo,» Jalal Essai scivolò sul divanetto e baciò Mandy sul punto del collo che gli piaceva di più «che sarebbe riuscita a tenermi lontano da voi.» Peter Marks rimase immobile. L'uomo alle sue spalle odorava di tabacco e di adrenalina. La lama appoggiata sulla sua carotide era affilata come un rasoio e Marks, che certo aveva esperienza di queste cose, non nutriva dubbi che Herrera gli avrebbe tagliato la gola, se non avesse saputo ciò che voleva . «Senor Herrera, tutto questo non è necessario» disse cauto. «Sarò felice di comunicarle quello che so. Cerchiamo solo di stare calmi e di non perdere la testa.» «Io sono calmissimo» replicò Herrera asciutto . «Va bene.» Marks cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. «Devo ammettere che quello che so non è poi un granché.» «Dovrà essere più di quello che quel bastardo di Lloyd-Testadicazzo è stato disposto a dirmi. Prima mi ha detto di concentrarmi sulle procedure per riportare mio figlio in Spagna, e poi che non era possibile farlo finché il medico legale non aveva terminato il suo lavoro.» Ora Marks capiva perché Herrera fosse così infuriato. «Sono d'accordo con lei, l'ispettore capo è un idiota.» Deglutì. «Ma in questo momento non ha alcuna importanza. Io voglio sapere almeno quanto lei perché Diego è stato assassinato. Mi creda, sono determinato a scoprirlo.» Questo era vero. Marks non avrebbe mai trovato Bourne se non avesse scoperto ciò che era successo al Vesper Club la sera prima, e perché Bourne fosse uscito con l'assassino come se lo conoscesse da una vita. Qualcosa non quadrava . Avvertiva il respiro dell'uomo alle sue spalle. Era profondo e regolare, cosa che innervosì Marks perché significava che, nonostante la sofferenza, si trattava di qualcuno nel pieno possesso delle sue facoltà. Era segno di una personalità forte; sarebbe stato da pazzi tentare di ingannarlo .
«In realtà» continuò Marks «posso mostrarle una foto dell'assassino di suo figlio.» La lama del coltello vibrò un attimo nel polso possente di Herrera, poi la sentì allontanarsi. Marks si spostò di lato e si girò di fronte al vecchio . «La prego, senor, io comprendo il suo dolore.» «Lei ha un figlio, senor Marks?» «No, non sono sposato.» «Allora non può capire.» «Ho perso una sorella quando avevo dodici anni. Lei ne aveva solo dieci. Ero così furioso che avrei voluto spaccare tutto quello che mi passava per le mani.» Herrera lo fissò per un momento e disse: «Allora lo sa» . Guidò Marks nel soggiorno e lo fece sedere su un divano, ma lui rimase in piedi a guardare le foto del figlio e, presumibilmente, delle sue tante fidanzate allineate sulla mensola del caminetto. Rimasero a lungo così, Herrera in silenzio e Marks che non voleva intromettersi nel dolore del vecchio . Alla fine Herrera si voltò e, avvicinandosi a Marks, disse: «Ora mi mostri quella foto» . Marks prese il suo palmare, andò alla gallery delle immagini e selezionò la foto che aveva avuto dal tecnico informatico di Lloyd-Philips . «E quello sulla sinistra» spiegò Marks, indicando l'uomo ancora senza identità . Herrera prese il cellulare e rimase a fissarlo tanto a lungo che Marks pensò si fosse trasformato in pietra . «E l'altro?» Marks alzò le spalle. «Uno che non c'entra niente.» «Mi dica qualcosa di lui, quella faccia non mi è nuova.» «Lloyd-Testadicazzo mi ha detto che si chiama Adam Stone.» «Ah, è così.» Qualcosa passò sul volto di Herrera . Marks gli indicò di nuovo la foto, con impazienza. «Senor, è importante. Lei conosce l'uomo sulla sinistra?» Herrera spinse il palmare nella mano di Marks, poi andò al mobile bar e si versò un brandy. Lo buttò giù d'un fiato e poi, sforzandosi di ricomporsi, appoggiò lentamente il bicchiere. «Oh Cristo» mormorò a mezza bocca . Marks si alzò e si avvicinò all'uomo. «Senor, io posso aiutarla, se me lo permette.» «Come? Come può aiutarmi?» «Sono bravo a trovare le persone.» «Lei è in grado di trovare l'assassino di mio figlio?» «Con un po' d'aiuto sì, penso di riuscirci.» Per qualche istante Herrera parve soppesare la questione. Poi, come se avesse preso una decisione, annuì leggermente. «L'uomo sulla sinistra si chiama Ottavio Moreno.» «Lo conosce?» «Oh sì, senor, lo conosco molto bene, da quando era bambino. L'ho tenuto spesso in braccio quando stavo in Marocco.» Herrera prese il suo brandy e scolò il bicchiere. Gli occhi azzurri sembravano vuoti, ma Marks colse la collera che montava nelle ombre addensate dietro la sua espressione impassibile . «Mi sta dicendo che Ottavio è il fratellastro di Gustavo Moreno, il signore della droga colombiano?» «Le sto dicendo che è il mio figlioccio di battesimo.» La collera stava per esplodere, Marks la colse dall'irrigidirsi della mascella e dal lieve tremito della sua mano. «Ecco perché so che non può essere stato lui a uccidere Diego.» Moira e Berengària Moreno giacevano strette in un abbraccio. La sontuosa cabina dell'armatore aveva un odore muschiato, un misto di gasolio e salsedine. Sotto di loro, lo yacht oscillava gentilmente, quasi volesse cullarle per accompagnarle nel sonno. Entrambe sapevano, ognuna a suo modo, che dormire era fuori questione. Lo yacht doveva mollare gli ormeggi tra meno di venti minuti. Si alzarono lentamente, con i corpi indolenziti per l'amore e i sensi ancora eccitati, come se fossero scivolate fuori dal tempo e dallo spazio. Si rivestirono senza parlare e dopo pochi minuti salirono in coperta. Il cielo di velluto nero le avvolgeva come una campana protettiva . Dopo aver parlato con il capitano, Berengària fece un cenno a Moira. «Hanno terminato i test. Il motore adesso è perfettamente funzionante. Non dovrebbero esserci altri ritardi.» «Speriamo.» La luce delle stelle si rifletteva sull'acqua. Berengària aveva pilotato il monomotore Lancair IV P di Narsico fino all'aeroporto internazionale Gustavo Diaz Ordaz sulla costa del Pacifico. Da lì rimaneva solo un breve tragitto fino a Sayulita, paradiso dei surfisti, dove erano salite sullo yacht. In tutto, il viaggio non era durato più di un'ora e mezza . Moira si avvicinò a Berengària. L'equipaggio, impegnato nei preparativi per la partenza, non badava a loro due. Tra poco Berengària sarebbe scesa a terra .
«Hai chiamato Arkadin?» Berengària annuì. «Gli ho parlato mentre tu eri in bagno. Sarà all'attracco della barca prima dell'alba. Ovviamente, visto il ritardo, vorrà salire a bordo per controllare di persona l'intera spedizione. Devi tenerti pronta.» «Non preoccuparti.» Moira le sfiorò il braccio, provocando in lei un altro lieve fremito. «Chi è il destinatario?» Berengària fece scivolare il braccio attorno alla vita di Moira. «In realtà non è necessario che tu lo sappia.» Quando Moira non rispose, Berengària si appoggiò a lei e fece un sospiro profondo. «Dio mio, è tutto così incasinato. Al diavolo gli uomini. Al diavolo tutti quanti!» Berengària sapeva di spezie e di sale, profumi che Moira amava. Trovava eccitante sedurre un'altra donna. Non c'era niente di disgustoso, faceva semplicemente parte del mestiere, una cosa solo un po' diversa, per lei una sfida nel vero senso della parola. Era una creatura sensuale, ma, a parte una piacevole e isolata esperienza al college, si era sempre considerata eterosessuale. Berengària aveva un lato pericoloso che trovava attraente. In effetti, fare l'amore con lei le aveva dato molto più piacere che con i tanti uomini con i quali era andata a letto. Diversamente da quei maschi - con l'eccezione di Bourne -, Berengària sapeva quando essere aggressiva e quando essere tenera, scoprendo i punti segreti che eccitavano i sensi e vi si era concentrata finché Moira non aveva raggiunto l'orgasmo più e più volte . Non si era sorpresa scoprendo che Berengària non era affatto come la descriveva Roberto Corellos, ossia un pirana. Era allo stesso tempo forte e vulnerabile, una persona complessa, davanti alla quale un animale come Corellos poteva solo rimanere sordo, cieco e muto. Si era fatta strada in un mondo di uomini, dopo aver gestito e ampliato senza incertezze l'attività del marito; eppure aveva vissuto nel terrore del fratello, esattamente come ora in quello di Corellos e di Leonid Arkadin. Moira sapeva che Berengària non si faceva illusioni. Il suo potere era piccolo, paragonato al loro. Essi ricevevano dai propri sottoposti un rispetto che lei non avrebbe mai ottenuto, per quanto ci provasse . Ancora una volta Moira provò quella sensazione mista di ammirazione e compassione, perché nel momento in cui lei avesse preso il mare per recarsi all'appuntamento con Arkadin, Berengària sarebbe rimasta al suo destino incerto. Stretta tra il potere brutale di Corellos e la deprecabile debolezza di Narsico, per lei il futuro non prometteva nulla di buono . Per questo motivo la baciò forte sulle labbra tenendola stretta, perché poteva essere l'ultima volta, e Berengària si meritava almeno quel minimo di conforto, anche se fuggevole . Le sfiorò con la lingua l'orecchio. «Chi è il cliente?» Berengària rabbrividì e la strinse a sé. Alla fine si scostò abbastanza da sostenere il suo sguardo. «E uno dei migliori clienti di Gustavo, uno dei più vecchi, ecco perché il ritardo ha causato tutti questi problemi.» Aveva gli occhi umidi di lacrime, e Moira si rese conto che per entrambe quella notte era stata l'inizio e la fine di tutto. Quella donna speciale non si faceva illusioni, è vero. Per un istante, Moira avvertì il doloroso senso di perdita che si prova quando un oceano o un continente separa due persone che si amano . In un segno di resa, Berengària chinò la testa. «Si chiama Don Fernando Herrera.» Soraya si svegliò con in bocca il sapore del deserto di Sonora. Fu subito travolta dai dolori, rotolò sulla schiena e gemette. Aprì gli occhi per fissare i quattro uomini che torreggiavano sopra di lei, due su ciascun lato. Avevano la pelle olivastra, come lei, e come lei erano di sangue misto. Non sono diversi da me, pensò ancora intontita. Quegli uomini erano di origine araba. Si assomigliavano tanto che avrebbero potuto essere fratelli . «Dove si trova?» chiese uno di loro . «Dove si trova, chi?» ribatté lei, cercando di identificare il suo accento . Uno di loro, sul lato opposto, si accoccolò alla maniera degli arabi del deserto, con i polsi posati sulle ginocchia . «Signorina Moore... Soraya, se mi permette, lei e io stiamo cercando la stessa persona.» Parlava in tono calmo e rassicurante, con distacco, come se fossero due vecchi amici che cercano di trovare un compromesso dopo un litigio. «Un certo Leonid Danilovic Arkadin.» «Chi sei?» chiese lei .
«Qui le domande le facciamo noi» replicò quello che aveva parlato per primo. «Lei si limiti a rispondere.» Soraya cercò di alzarsi, ma scoprì di essere bloccata a terra; era legata ai polsi e alle caviglie da corde fissate a picchetti da tenda conficcati nel terreno . Il chiarore dell'alba cominciò a invadere il cielo in sprazzi rosati che si avvicinavano rapidamente . «Come mi chiamo io non è importante» riprese l'uomo accosciato. Aveva un occhio castano, notò lei, mentre l'altro era di un azzurro acquoso e opalescente, come se fosse stato danneggiato da un incidente o da una malattia. «Conta solo quello che voglio.» Quelle due affermazioni le sembrarono talmente assurde che sentì l'impulso di scoppiare a ridere. La gente si conosce attraverso il nome. Senza un nome non esiste storia personale, nessun profilo possibile, solo una pagina vuota: esattamente quello che lui sembrava volere. Si chiese come avrebbe potuto cambiare quella situazione . «Se non accetta di parlarmi di sua spontanea volontà» continuò l'uomo, «dovremo provare in un altro modo.» Schioccò le dita e uno dei suoi scagnozzi gli passò una gabbietta di bambù. Senzanome la fece dondolare tenendola per la minuscola maniglia e, passandola sul volto di Soraya, gliela posò tra i seni. All'interno c'era un grosso scorpione . «Anche se dovesse pungermi» commentò Soraya, «non morirò per questo.» «Oh, ma io non intendo ucciderla.» Senzanome aprì la porticina e iniziò a spingere fuori lo scorpione con una penna. «Ma se non ci dice dove si nasconde Arkadin comincerà ad avere le convulsioni, il battito cardiaco e la pressione le schizzeranno alle stelle, la vista le si annebbierà... E necessario che vada avanti?» Lo scorpione era rigido, nero e lucido, con la coda arcuata sopra il carapace. Quando fu investito dalla luce del sole, sembrò quasi risplendere in trasparenza. Soraya si sforzava di non guardarlo, nel tentativo di reprimere la paura che le stava montando dentro. Ma era difficile controllare una reazione istintiva. Sentiva il rimbombo del cuore nelle orecchie, assieme a un dolore dietro lo sterno, mentre il panico cresceva. Si morse il labbro . «E se dovesse essere punta più volte e non ricevesse alcuna cura, be', chi può dire quanto male potrebbe stare?» Con passi lenti l'insetto avanzò sulle sue otto zampe fino a fermarsi nell'avvallamento tra i seni di Soraya. Lei represse a fatica il bisogno di urlare . Oliver Liss sedeva su una panchina nella sala pesi della sua palestra. Aveva il petto e le braccia lucidi di sudore e un asciugamano attorno al collo. Era alla terza serie di quindici ripetizioni per i bicipiti, quando arrivò la rossa. Alta, spalle squadrate, una postura eretta e due tette pazzesche. L'aveva già vista in palestra diverse volte. Aveva allungato cento dollari al gestore e aveva scoperto che si chiamava Abby Sumner, aveva trentaquattro anni, era divorziata e non aveva figli. Apparteneva allo stuolo di avvocati che lavoravano per il Dipartimento della Giustizia. Secondo lui l'eccessivo lavoro aveva causato la separazione dal marito, ma era proprio questo modo di lavorare che trovava attraente. Significava che non avrebbe avuto il tempo di stargli addosso, nel caso avessero allacciato una relazione . Perché lui era sicuro che l'avrebbero avuta, una relazione, nessun dubbio. Era solo questione di tempo . Liss terminò i suoi esercizi, rimise a posto i manubri e si asciugò il sudore mentre eseguiva la procedura di valutazione. Abby era andata direttamente alla panca e, dopo aver selezionato i pesi, si sistemò sotto la sbarra. Era il segnale che Liss attendeva. Si alzò e, avvicinandosi con noncuranza alla panca, la guardò con il suo sorriso da attore hollywoodiano ed esordì: «Ti serve uno spotter?» . Abby Sumner guardò in su con i suoi occhioni azzurri e gli restituì il sorriso . «Grazie, potrebbe anche servirmi. Ho appena aumentato i pesi.» «Non accade spesso di vedere una donna alla panca, a meno che non si stia allenando.» Abby Sumner continuò a sorridere. «Al lavoro faccio continuamente sollevamento pesi.» Liss rise piano. Lei staccò i pesi dai sostegni e cominciò le sue ripetizioni, mentre lui teneva le mani sotto la sbarra nel caso avesse mancato la presa. «Mi sa che è meglio non contrariarti, allora.» «No» rispose lei. «Meglio di
no.» Non sembrava avere quasi nessuna difficoltà, anche con i pesi maggiorati. Liss invece aveva serie difficoltà a staccare gli occhi dal suo seno . «Non inarcare la schiena» le suggerì . Lei appiattì la colonna vertebrale sulla panca. «Mi capita sempre di farlo quando aumento i pesi. Grazie.» Finì la prima serie da otto ripetizioni e lui l'aiutò a risistemare la sbarra sui sostegni. Mentre lei faceva una breve pausa, lui disse: «Mi chiamo Oliver e sarei felice di invitarti a cena, qualche volta» . «Sarebbe interessante.» Abby sollevò lo sguardo verso di lui. «Sfortunatamente, non mescolo mai lavoro e divertimento.» In risposta all'espressione interrogativa di lui, scivolò da sotto la sbarra e si alzò in piedi. Era veramente uno schianto, pensò Liss. Lei lanciò un'occhiata al bar, dove un uomo distinto sorseggiava un succo di germogli di grano color verde fosforescente. L'uomo vuotò il bicchiere, lo posò e li raggiunse . Abby sollevò la sua borsa sportiva sulla panca e ne estrasse diversi fogli piegati, che tese a Liss . «Oliver Liss, il mio nome è Abigail Sumner. Questa ordinanza del procuratore generale degli Stati Uniti autorizza me e il qui presente Jeffrey Klein» indicò il bevitore di succo di grano, che li aveva raggiunti «a prenderla in custodia in attesa delle indagini relative alle accuse che le sono state mosse quando era presidente della Black River.» Liss la fissò a bocca aperta. «Ma è un'assurdità. Sono stato indagato e prosciolto.» «Sono emersi nuovi capi d'accusa.» «Quali capi d'accusa?» Lei indicò con un cenno della testa i documenti che gli aveva dato. «Troverà l'elenco nell'ordinanza del procuratore generale.» Liss aprì l'ordinanza, senza riuscire a mettere a fuoco le lettere. Le tese nuovamente i documenti. «Deve esserci un errore. Non ho intenzione di venire con voi da nessuna parte.» Klein tirò fuori un paio di manette . «Per favore, signore» disse Abby, «non complichi le cose.» Liss si guardò attorno, come se cercasse una via di fuga o una sospensione all'ultimo minuto per opera di Jonathan, il suo angelo custode. Dov'era? Perché non lo aveva avvisato di queste nuove indagini? Il colonnello Boris Karpov ritornò a Mosca con il cuore pesante. La sua visita a Leonid Arkadin era servita a calmarlo sotto molti punti di vista, non ultimo quello relativo al terribile ginepraio in cui si trovava. Maslov aveva corrotto diversi apparatcik all'interno della FSB-2, tra cui Melor Bukin, il superiore diretto di Karpov. Come tutte le notizie riservate fornitegli da Arkadin, la prova era allo stesso tempo schiacciante e inconfutabile . Karpov, sul sedile posteriore della Zil nera della FSB-2, fissava il vuoto fuori dal finestrino mentre l'autista si dirigeva in città dopo averlo prelevato all'aeroporto di Seremet'evo . Arkadin aveva suggerito a Karpov di recarsi dal presidente Imov con la prova ora in suo possesso. Il fatto stesso che il suggerimento venisse da Arkadin rendeva Karpov sospettoso, ma anche se Arkadin aveva le sue buone ragioni per spingerlo ad andare da Imov, l'avrebbe fatto comunque. La posta era tuttavia altissima, sia professionalmente sia personalmente . C'erano due possibilità. Avrebbe potuto esibire la prova contro Bukin a Viktor Cerkesov, il capo della FSB-2. Ma c'era un problema: Bukin era un fantoccio di Cerkesov. Se quella prova fosse stata resa pubblica, anche Cerkesov, per associazione, sarebbe diventato un sospetto. Che fosse o meno consapevole della slealtà di Bukin, lui sarebbe comunque finito in disgrazia e sarebbe stato costretto a dimettersi. Karpov immaginava che, per evitare le dimissioni, avrebbe cercato di eliminare quella prova a carico del suo amico, e quindi anche lo stesso Karpov . Doveva ammettere che Arkadin era stato corretto. Andare da Imov con la prova era la scelta più sicura, perché il presidente non vedeva l'ora di abbattere Cerkesov. In realtà, avrebbe potuto nominare in segno di gratitudine come nuovo capo dell'agenzia qualcuno di cui si fidava all'interno della FSB-2, come per esempio Karpov . Più Karpov ponderava la questione, più l'idea gli sembrava sensata. Eppure, in sottofondo sentiva una vocina insistente ripetergli che, se quello scenario si fosse avverato, sarebbe stato veramente in debito con Arkadin. Sapeva per istinto che non era una posizione comoda in cui trovarsi. Ma solo se Arkadin restava in vita .
Ridacchiò tra sé mentre diceva all'autista di fare una deviazione fino al Cremlino. Ritornò ad appoggiarsi allo schienale e digitò il numero dell'ufficio del presidente . Trenta minuti dopo veniva ammesso nella residenza privata del capo dello Stato, dove un paio di guardie dell'Armata Rossa lo scortarono in una sala alla fine di una lunga serie di anticamere gelide, dai soffitti altissimi. Sulla sua testa, come una gigantesca ragnatela coperta di brina, pendeva un intricato lampadario di cristallo e bronzo dorato, che sprigionava una luce sfaccettata e cangiante sul mobilio italiano altrettanto elaborato, dalle imbottiture di seta e broccato . Si sedette, sotto l'occhio vigile delle guardie, ai lati opposti della sala. Un orologio, sulla mensola di marmo marezzato di un caminetto, ticchettava con ritmo solenne; batté la mezz'ora e quindi l'ora. Karpov entrò nello stato di meditazione che utilizzava per passare il tempo durante le numerose veglie solitarie che aveva dovuto sopportare nel corso degli anni, in tanti di quei paesi stranieri che ne aveva perso il conto. Finalmente arrivò un assistente, la fondina sotto l'ascella, per accompagnarlo. Karpov si sentiva riposato. L'assistente sorrise e Karpov lo seguì in corridoi interminabili, svoltando così tanti angoli da perdere l'orientamento all'interno di quella residenza immensa . Il presidente Imov lo aspettava dietro una scrivania Luigi XIV nel suo studio lussuosamente arredato. Nel camino ardeva un fuoco vivace. Alle sue spalle, le magnifiche cupole della Piazza Rossa sembravano strani missili stagliati sullo sfondo screziato del cielo di Russia . Il presidente stava scrivendo su un registro con una penna stilografica piuttosto antiquata. L'assistente si ritirò senza una parola, chiudendosi silenziosamente le doppie porte alle spalle. Dopo un momento Imov sollevò lo sguardo, si tolse gli occhiali dalla montatura di metallo e fece un gesto in direzione dell'unica poltrona che si trovava di fronte alla scrivania. Karpov attraversò il tappeto e si sedette a sua volta senza dire una parola, attendendo paziente l'inizio del colloquio . Per un certo tempo Imov restò a fissarlo con i suoi stretti occhi color ardesia, leggermente allungati. Forse aveva ascendenze mongole. In ogni caso era un guerriero che aveva combattuto per arrivare alla presidenza, e poi contro numerosi e spietati avversari per restare al suo posto . Imov non era un colosso, ma sembrava comunque un uomo imponente. Con la sua personalità riusciva a riempire un salone da ballo, purché fosse dell'umore giusto. Altrimenti si accontentava di lasciar parlare il prestigio del suo ruolo . «Colonnello Karpov, trovo molto strano che lei sia venuto a trovarmi.» Imov impugnò la sua stilografica come un pugnale. «Lei è un uomo di Viktor Cerkesov, un silovik che ha sfidato apertamente Nikolaj Patrusev, il suo omologo alla FSB-2, e per estensione anche me.» Mulinò agilmente la penna. «Mi dica, allora, c'è qualche ragione per cui dovrei ascoltare quello che ha da dire, dal momento che il suo capo ha mandato lei invece di venire lui di persona?» «Non sono venuto per ordine di Viktor Cerkesov. In realtà lui non immagina neppure che io mi trovo qui, e preferirei non lo sapesse mai.» Karpov posò il cellulare con la prova che incriminava Bukin sulla scrivania, nello spazio che li divideva, e tolse la mano. «Inoltre io non sono l'uomo di nessuno, neppure di Cerkesov.» Imov non staccava lo sguardo dal volto di Karpov. «Già. Dal momento che Cerkesov l'ha portata via a Nikolaj, devo dire che questa è una buona notizia.» Picchiettò la punta della penna contro il piano della scrivania. «Eppure non posso fare a meno di accogliere la sua affermazione con un minimo di scetticismo.» Karpov annuì. «Comprensibilissimo.» Quando spostò lo sguardo sul cellulare, anche Imov fece altrettanto. «E cosa abbiamo qui, Boris Illic?» «Una parte della FSB-2 è marcia» disse Karpov scandendo bene le parole. «E necessario fare pulizia, il prima possibile.» Per un istante Imov restò immobile, poi appoggiò la stilografica, tese una mano per prendere il cellulare e lo accese. Silenzio tombale: non si udiva alcun rumore in quello studio, neppure, notò Karpov, i passi ovattati del personale di segreteria e degli assistenti che dovevano lavorare in quei locali. Probabile che lo studio fosse isolato acusticamente, e a prova di intercettazioni elettroniche .
Quando Imov ebbe finito, teneva il cellulare esattamente come la penna stilografica, quasi fosse un'arma . «E chi, secondo lei, Boris Illic, dovrebbe andare a ripulire la FSB-2 dal marciume?» «Chiunque lei scelga.» A questa risposta, il presidente Imov gettò la testa all'indietro e rise. Poi, asciugandosi gli occhi, aprì un cassetto, ne estrasse un humidor rivestito d'argento lavorato e prese due sigari Avana. Ne offrì uno a Karpov, staccò con un morso l'estremità del suo e lo accese con un accendisigari d'oro, dono del presidente dell'Iran. Quando Karpov estrasse una bustina di fiammiferi, Imov rise di nuovo e spinse l'accendino d'oro sulla scrivania . Il colonnello Karpov trovò l'accendino incredibilmente pesante. Fece scattare la fiammella e aspirò con voluttà il fumo del sigaro . «Dovremmo cominciare, signor presidente.» Imov guardò Karpov attraverso una cortina di fumo. «Niente di meglio di questo momento, Boris Illic.» Gli voltò la schiena, girandosi sulla sua poltrona a contemplare le cupole a cipolla della Piazza Rossa. «Ripulisca quel dannato posto, una volta per tutte.» Era ironico, a pensarci, si disse Soraya. Nonostante i numerosi occhi - non riusciva assolutamente a ricordare quanti fossero -, gli scorpioni non vedevano molto bene e si affidavano a minuscole ciglia sulle chele per percepire movimenti e vibrazioni, che in quel momento erano il sollevarsi e l'abbassarsi ritmico della sua gabbia toracica . Senzanome osservava lo scorpione immobile sul petto di Soraya con un misto di impazienza e ribrezzo. Chiaramente non sapeva quando avrebbe attaccato. Per scuoterlo, prese la penna e ne batté la punta sulla testa. Il colpo improvviso lo spaventò e lo fece infuriare. La coda si arcuò e punse Soraya, che restò per un attimo senza fiato. Senzanome spinse l'animale nella gabbietta pungolandolo con la penna, poi chiuse la porticina con della corda . «Adesso» disse Senzanome «aspettiamo che il veleno faccia effetto, oppure lei ci dice dove trovare Arkadin.» «Anche se lo sapessi, non te lo direi» replicò Soraya . Lui aggrottò la fronte. «E non ha intenzione di cambiare idea?» «Vai a farti fottere.» Lui annuì, come se avesse immaginato la sua ostinazione. «Sarà interessante vedere quanto resisterà, dopo otto o nove punture di scorpione.» Con un gesto languido della mano fece un cenno a quello che teneva la gabbietta, che ne slegò la porticina per aprirla quando, con uno scoppio assordante, fu scagliato all'indietro in un'esplosione di sangue e frammenti di ossa. Soraya girò la testa e lo vide disteso a terra, completamente privo della parte superiore della testa. Seguirono altri colpi d'arma da fuoco e quando si voltò di nuovo anche gli altri uomini giacevano al suolo. Senzanome si stringeva la spalla destra maciullata, mordendosi le labbra per il dolore. Due gambe calzate di scarponi impolverati entrarono nel suo campo visivo . «Chi..?» Soraya cercò di guardare in su, ma non riusciva a vedere bene a causa del veleno dello scorpione che entrava in circolo e del sole negli occhi. Aveva la sensazione che il cuore le schizzasse dal petto mentre il suo corpo era scosso da tremiti come se fosse in preda a una febbre convulsiva. «Chi..?» Una figura maschile si accovacciò accanto a lei. Con il dorso della mano abbronzata scagliò via la gabbietta dal torace di lei. Qualche istante dopo sentì che le funi che la stringevano venivano allentate. Quando socchiuse gli occhi, lui le appoggiò sulla testa un cappello da cowboy per ripararla con la tesa ampia dal sole accecante . «Contreras» lo riconobbe lei, guardando il volto segnato dalle rughe profonde . «Il mio nome è Antonio.» Le mise un braccio sotto le spalle per aiutarla ad alzarsi. «Chiamami Antonio.» Soraya iniziò a piangere . Antonio le offrì la sua pistola, Un pezzo interessante fatto su misura: una Taurus Tracker .44 Magnum, un'arma da caccia con il calcio in legno. Lei la prese facendosi aiutare a tirarsi su. Fissava Senzanome a terra, che la guardava a sua volta, con i denti scoperti in una smorfia. Soraya continuava a tremare e sentiva la testa in fiamme. Osservava lui che la guardava. Il suo indice si piegò sul grilletto. Prese la mira e fece fuoco. Come tirato da fili invisibili, Senzanome sussultò una volta inarcando la schiena, poi rimase immobile, mentre gli occhi ormai ciechi riflettevano il sole del primo mattino . Lei smise di piangere .
*** Capitolo 18 . Coven continuò il suo lavoro con una calma agghiacciante. Dopo aver immobilizzato Chrissie e Scarlett, aveva passato le ultime ore a familiarizzare con la casa. Quanto al padre di Chrissie, l'aveva legato, imbavagliato e chiuso in un ripostiglio. Uscì di casa per quaranta minuti, il tempo di raggiungere un negozio di ferramenta, dove si procurò il generatore portatile più grande che potesse trasportare da solo. Tornato a casa andò a controllare i suoi prigionieri. Chrissie e sua figlia erano ancora saldamente legate ai letti gemelli, al piano superiore. Il padre doveva essere addormentato o privo di sensi, e Coven non si preoccupò di appurarlo. Poi aveva trascinato il generatore in cantina e lo aveva collegato senza problemi al sistema elettrico, in modo che intervenisse in caso di blackout. Provò a eseguire un test. L'arnese ticchettava come un pendolo. Era decisamente sottodimensionato, per i suoi scopi. Anche riducendo i circuiti che aveva collegato, calcolò che avrebbe avuto al massimo dieci minuti di luce prima che il generatore schiantasse. Be', avrebbe dovuto arrangiarsi con quello che aveva . Poi tornò di sopra e restò a guardare Chrissie e Scarlett fumandosi una sigaretta. La figlia, anche se solo preadolescente, era più carina della madre. Se fosse stato un altro tipo di persona avrebbe approfittato del corpo acerbo ed esile, ma lui disprezzava quell'inclinazione da pervertiti. Era un uomo retto, con una morale. Era così che gestiva il suo lavoro, riuscendo a rimanere equilibrato in quello che considerava un mondo impazzito. La sua vita personale era decisamente banale, noiosa come l'esistenza grigia di un autista di autobus. Aveva una moglie, la sua fidanzatina delle superiori, due bambini e un cane di nome Ralph. Aveva un mutuo da pagare, una madre un po' svanita a cui badare e un fratello che andava a trovare ogni due settimane in manicomio, anche se al giorno d'oggi non lo chiamavano più a quel modo. Quando tornava a casa da qualche missione lunga, difficile, dove spesso aveva dovuto sporcarsi le mani, scoccava alla moglie un bacio rassicurante sulla bocca, poi andava dai suoi figli e, sia che stessero giocando, guardando la tv o fossero addormentati, si chinava su di loro e inalava il loro dolce profumo di latte. Poi mangiava quello che sua moglie gli aveva preparato, la portava di sopra e la scopava fino a perdere il contatto con la realtà . Si accese un'altra sigaretta con la brace della prima e fissò madre e figlia, sdraiate fianco a fianco sui due letti, legate con le braccia e le gambe divaricate. La ragazzina era ancora una bambina, intatta. Trovava repellente il pensiero di farle del male. Quanto alla madre, non gli piaceva, così magra ed esangue. L'avrebbe lasciata a qualcun altro. A meno che Bourne non l'avesse costretto a ucciderla . Tornato di sotto, frugò nella dispensa, aprì una scatoletta di fagioli al pomodoro Heinz e ne mangiò il contenuto freddo, prelevandolo con due dita. Per tutto il tempo rimase in ascolto dei lievi suoni che provenivano dalla casa catalogando mentalmente gli odori di ciascuna stanza. Continuò a girare per la casa fino a che non ebbe scoperto ogni più piccola caratteristica, ogni minima peculiarità di quella famiglia. Adesso era il suo territorio, il suo punto strategico, il luogo della sua vittoria finale . Quindi tornò in soggiorno e accese tutte le luci. In quell'istante sentì il colpo di pistola. Si alzò, prese la Glock dalla fondina di cuoio e, scostando le tende, sbirciò fuori dalla finestra sul davanti. Si irrigidì nel vedere Jason Bourne che correva zigzagando verso la porta d'ingresso. In uno stridio di gomme e facendo schizzare la ghiaia, una Opel grigia girò l'angolo e si fermò davanti alla casa. La portiera del guidatore si aprì e qualcuno fece fuoco contro Bourne. Lo mancò. Bourne era già sui gradini e Coven corse alla porta, la mano sulla Glock. Sentì altre due esplosioni e, chinandosi sulle ginocchia, spalancò la porta. Bourne era disteso sui gradini a faccia in giù, mentre una chiazza di sangue si allargava sul suo giubbotto . Coven si riabbassò mentre partiva un altro colpo. Si lanciò fuori senza alzarsi, sparando a raffica. L'uomo armato risalì sulla Opel. Coven afferrò Bourne per il giubbotto con la mano libera e lo trascinò oltre la soglia. Sparò un ultimo colpo, poi sentì il tizio ingranare la marcia e partire a razzo. Si richiuse la porta alle spalle con un calcio .
Controllò il polso di Jason e andò alla finestra. Aprì le tende e guardò nel vialetto d'accesso, ma non vide segni del killer, né della Opel . Tornando in soggiorno si chinò sul ferito, ancora prono sul pavimento, e gli premette la bocca della Glock sulla tempia. Lo stava girando sulla schiena quando ci fu uno sfarfallio nelle luci di casa, che si abbassarono e poi tornarono normali. Dalla cantina sentì il faticoso ticchettio del generatore di emergenza. Ebbe a malapena il tempo di rendersi conto che non c'era più energia elettrica, quando Bourne allontanò la Glock con un rapido gesto della mano e lo colpì con un poderoso pugno in pieno sterno . «L'uomo che stai cercando si trova a Puerto Penasco, sono sicuro.» Antonio restituì a Soraya il cellulare. «Il mio compadre, il comandante della capitaneria di porto della marina, conosce il gringo. Si è stabilito nel vecchio convento di Santa Teresa, abbandonato da anni. Ha un motoscafo offshore col quale esce tutte le sere, appena dopo il tramonto.» Erano seduti in una cantina soleggiata in Calle de Ana Gabriela Guevara, a Nogales. Antonio aveva aiutato Soraya a ripulirsi, le aveva procurato del ghiaccio da mettere nell'incavo tra i seni, nel punto in cui l'aveva punta lo scorpione. La macchia rossa non si era gonfiata e i vari sintomi che l'avevano assalita nel deserto ora si erano attenuati. Aveva chiesto ad Antonio di prenderle anche sei bottiglie d'acqua, che cominciò a bere subito, sia per contrastare la disidratazione sia per eliminare il veleno dall'organismo il più in fretta possibile . Dopo circa un'ora si sentì meglio. Comprò degli indumenti nuovi in un negozio di Plaza Kennedy e poi andarono a cercare qualcosa da mangiare . «Posso accompagnarti io a Puerto Penasco» si offrì Antonio . Soraya fece sparire in bocca l'ultimo pezzetto di chilaquiles. «Credo che tu abbia cose più importanti di cui occuparti. Adesso hai finito di fare soldi su di me.» La faccia di Antonio si fece contrita. Tornando a Nogales le aveva detto che il suo vero nome era Antonio Jardines; «Contreras» era il nome che usava per lavoro. «Ora mi stai offendendo. E così che tratti l'uomo che ti ha salvato la vita?» «Sono veramente in debito con te.» Soraya si appoggiò allo schienale, osservandolo bene. «Solo che non riesco a capire perché ti interessi tanto a me.» «Come posso spiegarti?» Antonio sorseggiò il suo café de olla. «La mia vita è definita dallo spazio tra Nogales in Arizona e la Nogales di qui, nello Stato di Sonora. Una fottuta e noiosa striscia di deserto nota soltanto perché porta uomini come me al bere. La mia unica preoccupazione sono i fottuti migras, le guardie sul confine; credimi, non è che sia poi tanto interessante.» Appoggiò le mani aperte sul tavolo. «C'è anche qualcos'altro. La vita, qui, è piena di fatalismo. In effetti si potrebbe dire che la vita qui è definita dal fatalismo, del genere che ti invade l'anima e infesta tutta l'America Latina. A nessuno frega niente di niente e di nessuno, tranne che dei soldi.» Finì di bere il suo caffè. «Poi arrivi tu.» Soraya rifletté sulle sue parole. Non parlò subito perché non voleva commettere errori, anche se lì non poteva essere sicura praticamente di niente. «Non voglio andare in auto a Puerto Penasco» spiegò infine. Aveva continuato a pensarci per tutta la durata del pasto. Quando Antonio le aveva detto che Arkadin possedeva un motoscafo aveva preso una decisione. «Intendo arrivarci in barca.» Gli occhi di Antonio si illuminarono. Poi le puntò contro l'indice. «Ecco di cosa sto parlando. Tu non pensi come una donna, ma come un uomo. E ciò che avrei fatto anch'io.» «Il tuo compadre alla marina può procurarcela?» Lui sogghignò. «Vedi che hai bisogno del mio aiuto?» Bourne sferrò un secondo pugno. Era stato colpito a salve da Ottavio Moreno ed era sporco del sangue di maiale contenuto in un sacchetto che aveva provveduto a forare. Coven, che non aveva reagito in alcun modo ai colpi, puntò la Glock sulla fronte di Bourne. Questi gli afferrò il polso e glielo torse con forza. Poi gli spezzò un dito. La Glock scivolò sul pavimento del soggiorno, fermandosi a fianco della grata del condizionatore . Bourne riuscì per un attimo a spingere via Coven e si alzò su un ginocchio, ma l'altro infilò una gamba dietro di lui e lo fece ricadere all'indietro, poi gli fu subito sopra e cominciò ad assestargli una scarica di pugni in faccia. Jason rimase immobile. Coven si alzò e fece per tirare
un calcio alle costole di Bourne che però, con uno scatto fulmineo, gli afferrò il piede prima che potesse colpire e gli torse la caviglia verso sinistra . Coven gemette quando le ossa del malleolo si spezzarono. Atterrò pesantemente, rotolò subito sul ventre e si diresse verso la Glock, trascinandosi sui gomiti e sulle ginocchia . Bourne prese una statuetta di ottone da un tavolino da caffè e gliela lanciò. La scultura lo colpì alla nuca, facendogli sbattere a terra naso e mento. La mascella si richiuse con forza e dal naso uscì un fiotto di sangue. Imperterrito, riuscì a riprendere la Glock e, con un unico movimento rapido, si girò col braccio teso e fece fuoco. Il proiettile colpì il tavolo a pochi centimetri dalla testa di Bourne, facendolo cadere sopra e rovesciando la lampada che vi era appoggiata . Cercò di fare fuoco un'altra volta, ma Jason gli fu sopra con un balzo, atterrandolo sulla schiena. Afferrò un attizzatoio e lo colpì forte, ripetutamente. Bourne rotolò di lato e l'attizzatoio rimbalzò sul pavimento. Coven lo brandì, ma riuscì a colpire solo il giubbotto di Bourne, inchiodandolo al pavimento. Piantò la punta dell'attizzatoio nel legno e si issò faticosamente sopra Bourne. Prese la paletta della cenere, appoggiò il lungo manico di ottone sulla gola dell'altro e premette forte con tutto il suo peso . Quasi duecento chilometri separavano Nogales da Las Conchas, dove un collega del compadre di Antonio aveva rimediato la barca che avrebbero preso. Lei aveva chiesto una grossa imbarcazione, qualcosa di pretenzioso, che potesse catturare l'attenzione di Arkadin in modo che lui la guardasse bene. A Nogales, prima di partire, aveva comprato in un centro commerciale il bikini più sexy e provocante che fosse riuscita a trovare. Quando lo aveva provato ad Antonio erano quasi schizzati fuori gli occhi dalle orbite . «Madre de Dios, qué linda muchacha!» aveva esclamato . A causa degli effetti ancora visibili della puntura di scorpione, aveva acquistato anche un copricostume semidio trasparente, alcuni teli da spiaggia, un paio di enormi occhiali da sole firmati Dior, una vezzosa visiera parasole e una serie di creme solari, che non perse tempo a spalmarsi . L'amico di Antonio si chiamava Ramos e aveva portato loro esattamente il tipo giusto di barca: grande e vistosa. I motori diesel ronzavano e gorgogliavano quando lei e Antonio salirono a bordo per la visita guidata di Ramos. Era un uomo basso, scuro e tarchiato, con i capelli neri e ricci, tatuaggi sulle braccia massicce e un sorriso spontaneo . «Ho anche delle armi, pistole e semiautomatiche, se vi dovessero servire» spiegò servizievole. «Nessuna spesa extra, tranne i proiettili usati.» Soraya lo ringraziò, dicendo che le armi non sarebbero state necessarie . Mollarono gli ormeggi subito dopo che furono risaliti in coperta. Puerto Penasco distava solo cinque miglia in direzione nord . Con i motori in sottofondo, Ramos disse: «Abbiamo ancora un paio d'ore prima che Arkadin esca con il motoscafo, di solito al tramonto. Ho a bordo l'attrezzatura da pesca. Magari vi porto alla barriera corallina, dove ci sono un sacco di halibut, spigole e dentici. Che ne dite?» . Soraya e Antonio pescarono oltre la barriera per circa un'ora e mezza, per poi dirigersi verso la darsena. Ramos indicò il motoscafo di Arkadin mentre riduceva la velocità per aggirare il promontorio e avvicinarsi all'attracco. Non c'era traccia di Arkadin, ma Soraya vide un vecchio messicano intento a preparare la barca per prendere il mare. L'uomo aveva la pelle bruciata dal sole e il volto segnato da solchi, segno di una vita di lavoro, vento salmastro e ustioni solari . «Siete fortunati» commentò Ramos. «Sta arrivando.» Soraya guardò nella direzione indicata da Ramos e vide un uomo robusto arrivare a piedi lungo il molo. Portava un berretto da baseball, calzoncini da bagno neri e verdi, una maglietta Dos Equis stinta e un paio di sandali di gomma. Lei si tolse il copricostume, esponendo la pelle scura e lucida di crema . Il molo era lungo, entrava per buona parte nella darsena, ed ebbe quindi il tempo di osservare bene Arkadin. Aveva i capelli scuri tagliati molto corti, un volto dall'espressione dura e chiusa, spalle ampie e squadrate, come quelle di un nuotatore, mentre le braccia e le gambe erano più quelle di un lottatore, lunghe e muscolose. Aveva l'aria di colui che ha tutte le ragioni per
nutrire la massima fiducia in sé; camminava rilassato, senza sforzo, quasi scivolando, come se sotto i piedi avesse dei cuscinetti a sfera. Emanava un'energia che gli veniva da dentro e che lei non riusciva a comprendere, ma che la faceva sentire a disagio. Il pensiero che in lui ci fosse qualcosa di familiare trasformò il suo disagio in dolore, o quasi. E poi, con una scossa elettrica che la spaventò fino al midollo, si rese conto di cos'era: quell'uomo si muoveva esattamente come Jason . «Andiamo.» Ramos guidò la barca di fronte al motoscafo e mise in folle, in modo da portarsi per inerzia verso il molo . Arkadin stava dicendo qualcosa al messicano, ridendo con lui, quando la barca di Ramos entrò nella sua visione periferica. Guardò in su, stringendo gli occhi per vedere controluce, e subito notò Soraya. Le narici si allargarono quando lo sguardo registrò il volto di lei, di un'esotica aggressività, e il suo corpo, fasciato in un bikini microscopico che lasciava pochissimo spazio all'immaginazione. Lei alzò un braccio a trattenere la visiera sulla testa, in un gesto che accentuava ulteriormente la sua sensualità . Proprio in quell'istante lui si girò per dire al messicano qualcosa che lo fece ridacchiare. Soraya era seccata. Stringeva con le dita il parapetto, quasi volesse strozzarlo . «Il gringo è un fottuto maricón, ecco cos'è» sbottò Antonio . Soraya rise. «Non fare lo stupido.» Ma il suo commento l'aveva risollevata da quel momentaneo senso di sconfitta. «Non l'ho provocato abbastanza.» Poi le venne un'idea e, girandosi verso Antonio, gli appoggiò le braccia sulle spalle. Guardandolo negli occhi, gli disse: «Baciami. Baciami e non ti fermare» . Antonio sembrò felice di accontentarla. La cinse alla vita e appoggiò le labbra sulle sue. Cominciò a scaldarla con la lingua, insinuandosi tra i denti e nella sua bocca. Soraya inarcò la schiena, appoggiandosi a lui con tutto il corpo . Ramos manovrò la barca vicinissimo alla prua del motoscafo, tanto che il gringo ed El Heraldo si voltarono. Mentre El Heraldo si precipitava a prua, gesticolando e lanciando improperi ad alta vóce, il gringo rimase a guardare Soraya e Antonio avvolti nel loro focoso abbraccio. Adesso sembrava più interessato . Gridando le sue scuse, Ramos riportò la barca nella direzione giusta e la sistemò all'attracco. Un addetto della darsena li attendeva, pronto a legare le cime a poppa e a prua, mentre Ramos spegneva i motori e gli lanciava le cime. Poi scese dalla barca e si diresse verso la capitaneria di porto. Arkadin non staccava gli occhi di dosso da Soraya e Antonio Jardines, senza muoversi . «Basta, adesso» mormorò Soraya tra le labbra di Antonio. «Basta, hombre! Basta!» Antonio era riluttante a lasciarla andare, ma lei lo allontanò, prima con una mano e poi con entrambe. Quando riuscì a liberarsi, Arkadin era sul molo e li stava raggiungendo . «Mano, sei veramente come un pulpo» commentò ad alta voce, solo in parte a beneficio di Arkadin . Antonio, godendosi il suo ruolo, le sorrise e si passò il dorso della mano di lei sulle labbra. Arkadin intanto era già a bordo, tra loro due . «Maricón, che cazzo ci fai qui? Togliti di torno» lo apostrofò Antonio . Arkadin tese un braccio e lo scaraventò fuori bordo, nell'acqua. Il messicano sul motoscafo scoppiò in una risata sgangherata . «Non è stata una buona idea» osservò Soraya in tono gelido . «Le stava facendo male» replicò Arkadin, come registrando un dato di fatto . «Lei non ha idea di cosa stesse facendo.» Soraya mantenne il suo atteggiamento altero . «Lei è una donna, lui è un uomo» disse Arkadin. «So esattamente cosa stava facendo.» «Magari mi piaceva.» Arkadin rise. «Forse sì. Devo aiutare il figlio di puttana a risalire sul molo?» Soraya guardò in basso, mentre Antonio soffiava l'acqua dal naso. «Avrei potuto farlo anch'io.» Poi incrociò di nuovo gli occhi di Arkadin. «Lasci il figlio di puttana dove si trova.» Arkadin rise di nuovo e le offrì il braccio. «Forse ha bisogno di un cambiamento di scena.» «Può darsi.
Ma non sarà con lei.» Gli passò davanti, scese dalla barca e s'incamminò con studiata lentezza e andatura provocante lungo il molo . Bourne sentiva i polmoni in fiamme. Vedeva macchie nere davanti agli occhi. Tra pochissimo la sbarra che gli premeva sulla gola gli avrebbe spezzato l'osso ioide e per lui sarebbe stata la fine. Protese un braccio, riuscì ad afferrare la caviglia fratturata di Coven e strinse più forte che potè. Coven gridò per la sorpresa e il dolore, allentando la pressione sul collo di Bourne nel momento in cui si inarcava all'indietro. Jason riuscì ad alzare la sbarra e a rotolare via, passandole sotto . Coven, con uno sguardo assassino negli occhi, trovò la Glock e la puntò verso Bourne. In quell'istante il ticchettio del generatore cessò e la casa piombò nell'oscurità. Coven sparò alla cieca, mancando di poco il suo bersaglio, che si ritirò dove l'ombra era più scura. Restò immobile per la durata di dieci lunghi secondi, poi rotolò di nuovo. Coven sparò ancora, questa volta mancandolo di parecchio. Chiaramente non aveva idea di dove si trovasse il nemico . Bourne sentiva che Coven si spostava, dandogli la caccia: senza più luce, aveva perso il vantaggio di trovarsi su un territorio conosciuto. Avrebbe dovuto escogitare un altro modo per ristabilire la sua posizione di dominio . Se Jason fosse stato nei suoi panni avrebbe cercato di andare da Chrissie e Scarlett, usandole come esche per stanarlo. Continuò a restare immobile, tendendo l'orecchio nella direzione in cui percepiva i movimenti di Coven. Si spostava da sinistra verso destra. Adesso passava di fronte al caminetto. Dov'era diretto? Dove teneva i suoi prigionieri? Bourne conosceva del pianoterra solo quello che aveva visto quando Coven lo aveva trascinato dentro. Riusciva a distinguere il caminetto, le due poltrone imbottite, il tavolino con la lampada, il divano e le scale che conducevano al piano di sopra . Lo scricchiolio di un gradino tradì Coven e nel giro di un secondo Bourne scattò fuori dal suo nascondiglio, afferrò la lampada e strappò la spina dalla presa elettrica. La scagliò con violenza contro la parete alla sua sinistra, salendo in piedi sulla poltrona. Coven sparò due colpi verso il rumore provocato dalla lampada, mentre Bourne si lanciava oltre il corrimano delle scale . Urtò contro Coven e lo spinse contro la parete prima di bloccarlo a terra; colto di sorpresa, questi riuscì comunque a sparare altri due colpi. Non andarono a segno, ma le fiammate gli ustionarono una guancia. Coven si gettò in avanti, cercando di colpire l'altro con la canna della Glock. Bourne sferrò un calcio davanti a sé, facendo uscire dalla sua sede una delle colonnine della balaustra. Ne approfittò per sfilarla del tutto e usarla come una potente mazza che abbatté violentemente sulla mandibola di Coven. L'uomo emise un gemito di dolore mentre il sangue schizzava sulla parete riuscendo a schivare un secondo colpo solo per un soffio. Attaccò a gamba tesa, colpendo la faccia di Bourne con la suola della scarpa. Rotolando all'indietro, Jason riuscì a tenersi fuori portata mentre Coven, reggendosi alla parete, premeva il grilletto altre due volte nello spazio ridotto della scala . Uno dei due colpi avrebbe senz'altro centrato Bourne se non fosse riuscito a scavalcare il corrimano. Rimase nascosto nell'oscurità. Quando sentì che Coven si trascinava su per le scale, fletté le braccia, si sollevò e rotolò di nuovo oltre la ringhiera. Salendo tre gradini alla volta raggiunse rapidamente il secondo piano. Ora sapeva due cose: Coven stava andando dai suoi ostaggi e la Glock aveva finito i colpi. A Coven serviva tempo per ricaricarla ed era quanto mai vulnerabile . Ma quando Bourne fu sul pianerottolo del secondo piano non avvertì alcun movimento. Rimase ad attendere acquattato, in ascolto. La presenza di finestre voleva dire più luce, pur debole e incerta, poiché i rami dell'albero accanto alla casa, troppo cresciuto, sfioravano i muri. Riuscì a distinguere quattro porte: quattro stanze, due su ciascun lato del corridoio. Aprì quella che immetteva nella prima camera a sinistra, che era vuota; entrò e appoggiò l'orecchio alla parete divisoria che la divideva dal locale attiguo. Non sentì nulla. Tornò sulla soglia. Coven gli sparò mentre percorreva di corsa il corridoio ed entrava nella prima stanza sulla destra. Aveva dato a quel bastardo il tempo di ricaricare l'arma .
Senza indugi, Bourne andò alla finestra, sbloccò la maniglia, la spalancò e uscì sul davanzale. Si trovò di fronte a un fitto groviglio di rami di quercia, e iniziò ad arrampicarsi. Spostandosi da un ramo all'altro si portò davanti alla finestra della seconda stanza a destra. All'interno vide un'ombra e restò immobile. Nonostante la scarsa luce esterna vide due letti gemelli. Gli parve di notare due figure distese su di essi: potevano essere Chrissie e Scarlett? Aggrappandosi al ramo che sporgeva più o meno orizzontale sopra la sua testa si dondolò avanti e indietro per guadagnare la velocità necessaria a lanciarsi a gambe tese attraverso la finestra. La vecchia lastra si ruppe in migliaia di frammenti cristallini, e Coven si coprì istintivamente il volto con l'avambraccio . Atterrato nella stanza, Bourne l'attraversò di corsa, andando a colpire Coven con la spalla. I due sbatterono contro la parete in fondo e caddero in un groviglio di braccia e gambe. Bourne lo colpì per tre volte e fece per strappargli la Glock. Coven però era preparato e colse il momento utile per sferrargli un colpo micidiale sulla mandibola ustionata e sanguinante. Bourne cadde a terra e Coven alzò la Glock per mirare non più a lui, ma a Scarlett, legata a braccia e gambe aperte sul letto più vicino. L'angolazione gli impediva di prendere la mira contro Chrissie, distesa sul letto accanto alla finestra . Coven respirava con affanno, ma riuscì comunque a dire: «Bene, adesso alzati. Hai cinque secondi per mettere le mani dietro la testa. Poi sparerò alla ragazzina» . «Per favore, Jason, ti prego, fai quello che dice.» La voce di Chrissie era acuta, invasa da un terrore mortale, vicinissima all'isteria. «Non permettergli di fare del male a Scarlett.» Bourne lanciò un'occhiata a Chrissie, poi bloccò il braccio teso di Coven con una sforbiciata che fece cadere la pistola lontano dalla bambina . Coven imprecò tra i denti mentre cercava di recuperare la Glock. Quello fu il suo errore. Senza allentare la morsa delle gambe sul braccio di Coven, Bourne fece leva sul suo corpo e assestò una testata sul naso già rotto e sanguinante di Coven, il quale urlò di dolore ma cercò ancora di liberare il braccio. Bourne colpì con la suola della scarpa la rotula dell'altro, rompendogliela e facendolo cadere a terra, poi gli salì sul ginocchio con tutto il peso. Gli occhi di Coven si riempirono di lacrime e la mandibola iniziò a tremargli violentemente, mentre il corpo veniva scosso da brividi . Jason gli strappò la Glock e gliela premette sull'occhio destro . Quando Coven cercò di reagire, Bourne disse: «Se lo fai, non uscirai mai vivo da questa stanza. Chi si prenderà cura di tua moglie e dei tuoi bambini, allora?» . Coven, con l'unico occhio libero fisso e iniettato di sangue, non oppose resistenza. Ma non appena Bourne allontanò la pistola riuscì a balzare il piedi, facendo forza sulla spalla e sul fianco. Bourne sopportò l'attacco senza opporre resistenza e permise a Coven di spingerlo all'indietro, in modo da prosciugargli ogni energia residua, per poi appoggiare la Glock sul suo cranio e sparare nell'osso orbitale. Coven tentò di urlare, ma dalla bocca non gli uscì alcun suono. Roteò gli occhi verso l'alto e crollò ai piedi di Bourne . *** Capitolo 19 . Boris Karpov attraversò la Piazza Rossa spazzata dal vento, respirando profondamente mentre pensava come procedere contro Bukin e, per associazione, contro Cerkesov, uomo alquanto pericoloso. Il presidente Imov gli aveva concesso tutto l'aiuto necessario, compresa l'assoluta segretezza fino a quando non fosse riuscito a stanare le talpe della FSB-2. Doveva iniziare da Bukin: sapeva di poterlo distruggere, e, fatto questo, le altre talpe sarebbero uscite allo scoperto senza difficoltà . Cadeva un nevischio leggero, con piccoli fiocchi asciutti che turbinavano nel vento. Le cupole a cipolla, dorate e a righe multicolori, riflettevano la luce mentre i turisti scattavano foto con i flash, riprendendosi l'un l'altro sullo sfondo di quegli edifici sontuosi. Si fermò un momento per contemplare quello scenario tranquillo, in contrapposizione alla Mosca di quei giorni . Ripercorrendo le proprie tracce fece ritorno alla limousine in attesa. L'autista, vedendolo arrivare, accese il motore, scese dall'auto e andò ad aprire la portiera posteriore per farlo salire.
Una ragazza alta e bionda passò avvolta in un mantello di volpe rossa e con stivali alti al ginocchio. L'autista la seguì con lo sguardo mentre Karpov si chinava per entrare in macchina, quindi chiuse la portiera con un colpo secco . Karpov disse «QG» quando l'autista s'infilò nuovamente al posto di guida. L'uomo annuì senza parlare, ingranò la marcia e uscì dal Cremlino . Ci volevano più o meno dieci minuti per arrivare alla sede della FSB-2, sulla Ulitsa Znamenka; dipendeva tutto dal traffico, che a quell'ora era piuttosto scorrevole. Karpov era sovrappensiero. Stava ragionando su come isolare Bukin, per allontanarlo dai suoi contatti. Decise che l'avrebbe invitato a cena. Una volta saliti in macchina, avrebbe detto all'autista di fare una deviazione fino ai grandi cantieri della Ulitsa Varvarka, dove non c'era campo per i cellulari, in modo da poter «discutere» con Bukin indisturbato . L'autista si fermò a un semaforo rosso, ma al verde non ingranò la marcia. Attraverso il finestrino oscurato, Karpov vide una limousine Mercedes. In quel momento la portiera posteriore si aprì e ne uscì un individuo. Era troppo buio per riconoscerlo, ma un attimo dopo la portiera della sua auto venne spalancata (cosa strana, perché l'autista bloccava sempre tutte le portiere) e l'individuo, infilando la testa nell'abitacolo, scivolò sul sedile accanto a lui . «Boris Illic, è sempre un piacere incontrarti» esordì Viktor Cerkesov . Aveva il ghigno di una iena e ne aveva forse anche l'odore, notò Karpov . Cerkesov, i cui occhi gialli gli davano un aspetto rapace, quasi da animale assetato di sangue, si chinò leggermente in avanti per parlare all'autista. «Ulitsa Varvarka, penso. Il cantiere.» Poi si appoggiò allo schienale, con quel suo sorriso repellente che spiccava nella semioscurità dell'abitacolo della limousine. «Non vogliamo essere disturbati, vero, Boris Illic?» Non era affatto una domanda . Mandy e Michelle dormivano abbracciate, come sempre dopo un lungo tour de force erotico. Bud Halliday e Jalal Essai si erano invece spostati nel soggiorno dell'appartamento del quale erano comproprietari sotto falso nome e nessuno sarebbe mai riuscito a risalire a loro due . Più per cortesia che per scelta, Halliday stava bevendo un bicchiere di tè alla menta troppo dolce, seduto di fronte a Essai . «Stavo aspettando il momento per dirtelo» esordì Halliday in tono leggero. «Oliver Liss è in custodia federale.» Essai balzò a sedere. «Cosa? Perché non me l'hai detto subito?» Halliday fece un gesto in direzione della camera da letto, dove le due gemelle dormivano profondamente . «Ma... che cosa è successo? Mi sembrava che fosse al sicuro.» «Di questi tempi, pare, nessuno è al sicuro.» Halliday stava cercando l'humidor. «In pratica senza preavviso, il Dipartimento della Giustizia ha aperto una nuova indagine sui suoi movimenti all'epoca della dirigenza della Black River.» Alzò di scatto lo sguardo, inchiodando Essai. «L'indagine arriverà anche a te?» «Sono completamente blindato» rispose Jalal Essai. «Me ne sono assicurato fin dall'inizio.» «Okay allora. Al diavolo Liss. Noi andiamo avanti.» Jalal Essai sembrava perplesso. «Non sei sorpreso?» «Secondo me, Oliver Liss da qualche tempo stava pattinando sul ghiaccio sottile.» «Io ho bisogno di lui» fece notare Jalal Essai . «Ti correggo: tu avevi bisogno di lui. Con "noi andiamo avanti", intendevo dire proprio questo.» Halliday trovò finalmente l'humidor foderato in cuoio e ne estrasse un sigaro. Lo offrì a Essai, che declinò. Poi ne staccò l'estremità con un morso, se lo infilò in bocca e lo accese, ruotandolo sulla fiamma e soffiando via il fumo . «Suppongo che Liss sia sopravvissuto alla sua utilità» osservò Essai . «L'idea è questa.» Halliday si sentiva più calmo, con il sigaro. Il sesso con Michelle gli provocava sempre la tachicardia, al limite del dolore. Quella ragazza era una vera forza della natura, a letto . Essai si servì dell'altro tè. «Con Liss mi limitavo a seguire gli ordini di un'organizzazione che mi sono lasciato alle spalle.» «Adesso noi due siamo in affari» disse Halliday .
Essai annuì. «Cento miliardi in oro.» Halliday aggrottò le sopracciglia mentre fissava la punta accesa del sigaro. «Non hai nessun rimorso a tradire la Severus Domna? Dopotutto appartengono alla tua stessa razza.» Essai ignorò il commento razzista. Si era abituato ad Halliday, allo stesso modo in cui ci si abitua al fastidio di un foruncolo. «La mia razza non è diversa dalla tua, dal momento che ci sono i buoni, i brutti e i cattivi.» Halliday sghignazzò talmente forte che quasi soffocò per il fumo. Si sedette sul bordo del divano, ridendo e tossendo nello stesso tempo. Aveva gli occhi pieni di lacrime . «Devo ammettere, Essai, che per essere un arabo sei piuttosto simpatico.» «Sono berbero, un amazigh.» Essai lo disse come un dato di fatto, senza alcuna traccia di rancore . Il segretario della Difesa lo guardò con gli occhi socchiusi attraverso le spire di fumo. «Tu parli arabo, no?» «Oltre alle altre lingue, compreso il berbero.» Halliday allargò le mani, come se quella risposta fosse la dimostrazione della sua tesi. Lui e Jalal si erano conosciuti al college, che Essai aveva frequentato durante i due anni di studio all'estero. In realtà Halliday aveva cominciato a interessarsi a quella che riteneva la crescente minaccia araba nei confronti del mondo occidentale proprio a causa di Essai. Quest'ultimo era musulmano, ma in realtà era anche un outsider nel mondo arabo, un mondo frammentato e pervaso dalla religione. Attraverso la lente della visione del mondo di Essai, Halliday si rendeva conto che era solo questione di tempo prima che le battaglie tra le fazioni arabe travalicassero i loro confini e si trasformassero in una serie di guerre. Proprio per quella ragione coltivava l'amicizia con Essai, suo consulente per quel mondo. Solo molto più tardi - quando Essai cominciò a disinteressarsi degli obiettivi della Severus Domna - avrebbe capito che il giovane arabo era stato spedito negli Stati Uniti, e in particolare al suo college, per coltivare lui come amico e alleato . Quando l'avidità ebbe la meglio su Essai, quando confessò la sua motivazione originale, tutti i peggiori pregiudizi di Halliday contro gli arabi trovarono conferma. Quella volta arrivò a odiarlo. Aveva anche pensato di ucciderlo. Ma alla fine aveva abbandonato le sue fantasie di vendetta, sedotto dall'oro di re Salomone, proprio come Jalal. Chi avrebbe potuto resistere a un simile premio? Con Essai, come Halliday arrivò a notare in un orribile momento di lucidità, aveva più cose in comune di quanto sembrasse possibile, dato il retroterra culturale così diverso. Eppure, ancora una volta, erano entrambi guerrieri della notte, che si muovevano nel mondo di ombre che prosperava ai margini della società civile, difendendolo dagli elementi che potevano distruggerlo sia dall'esterno sia dall'interno . «La Severus Domna non è diversa da qualsiasi tirannia fascista, comunista o socialista» osservò Jalal Essai. «Vive per accumulare potere, per permettere ai suoi membri di influenzare gli eventi del mondo al solo scopo di conquistarne il dominio. Di fronte a un così vasto potere, la semplice politica degli uomini diventa irrilevante, così come la religione.» Essai si appoggiò allo schienale, accavallando le gambe. «All'inizio la Severus Domna era motivata dal desiderio di favorire l'avvicinamento tra Oriente e Occidente, tra islam, cristianesimo ed ebraismo. Un obiettivo nobile, lo ammetto, e per un periodo ci sono anche riusciti, nel loro piccolo. Ma poi, come tutti i tentativi altruistici, anche questo si è rivelato in contrasto con la natura umana.» Balzò a sedere in avanti, sull'orlo del divano. «Voglio confessarti una cosa, non esiste motivazione più forte dell'avidità negli esseri umani, persino più della paura. L'avidità, come il sesso, rende gli uomini stupidi, ciechi di fronte al pericolo o al bisogno di qualsiasi altra cosa. L'avidità ha talmente distorto gli obiettivi della Severus Domna da renderli praticamente irrilevanti. I membri continuano a onorare la missione originale, ma intanto la Severus Domna è diventata marcia fino al midollo.» «E questo cosa cambia?» Halliday continuava a fumare il suo sigaro. «Siamo avidi quanto la Severus Domna, forse ancora di più.» «Ma noi siamo consapevoli di quello che ci spinge ad agire» concluse Jalal Essai con un lampo nello sguardo. «Siamo tutti e due lucidi, e ci vediamo benissimo.» Scarlett alzò gli occhi su Bourne mentre la liberava. Aveva le guance rigate di lacrime. In quel momento non piangeva, ma era scossa da un tremito incontrollabile che le faceva battere i denti .
«La mamma sta bene?» «Sì.» «Chi sei?» Stava ricominciando a piangere, questa volta a singhiozzi. «Chi era quell'uomo?» «Mi chiamo Adam e sono un amico della tua mamma» spiegò Bourne. «Le ho chiesto di aiutarmi e lei mi ha accompagnato a Oxford, dal professor Giles. Ti ricordi di lui?» Scarlett fece segno di sì con la testa, tirando su col naso. «Mi è simpatico il professor Giles.» «Anche tu gli sei simpatica. Moltissimo.» Parlava in tono tranquillo e la ragazzina sembrò calmarsi. «Sei entrato nella stanza come Batman.» «Non sono Batman.» «Lo so, questo» disse vagamente sdegnata, «ma sei tutto coperto di sangue e non sei neppure ferito.» Lui pizzicò un lembo della sua camicia zuppa. «Ma questo non è sangue vero. Mi serviva per ingannare l'uomo che ha rapito te e tua madre.» Lei lo guardò, studiandolo. «Sei un agente segreto come la zia Tracy?» Bourne rise. «La zia Tracy non era un agente segreto.» «Sì che lo era.» Quella nota di risentimento nella sua voce gli fece capire che non doveva trattarla come una bambina . «Che cosa te lo fa pensare?» Scarlett si strinse nelle spalle. «Ogni volta che le parlavi ti nascondeva qualcosa. Secondo me lei viveva solo per i segreti. E poi era sempre triste.» «Perché, gli agenti segreti sono tristi?» Scarlett annuì. «E per quello che diventano agenti segreti.» C'era qualcosa di puro e profondo in quella affermazione, ma per il momento Jason non intendeva approfondire. «Il professor Giles e tua madre mi hanno aiutato quando ho avuto un problema. Sfortunatamente, quell'uomo voleva qualcosa di mio.» «Mi sa che la voleva tantissimo, quella cosa.» «Già, proprio così.» Bourne sorrise. «Mi dispiace tanto di aver messo te e la mamma in pericolo, Scarlett.» «Voglio vederla.» Bourne prese la bambina in braccio. Gli sembrò fredda come il ghiaccio. La portò fino al letto accanto alla finestra, dove Chrissie giaceva coperta di frammenti di vetro, priva di sensi . «Mamma!» Scarlett si divincolò dalle braccia di Bourne. «Mamma, svegliati!» Bourne, notando la sfumatura di terrore nella voce della piccola, si chinò su Chrissie. Le pulsazioni e il respiro erano regolari . «Sta bene, Scarlett.» Pizzicò le guance di Chrissie e le palpebre ebbero un fremito, quindi si aprirono. Lei lo guardò in viso . «Scarlett.» «E qui vicino a te, Chrissie.» «E Coven?» «Adam è entrato in volo dalla finestra come Batman» disse Scarlett, fiera di dare quella notizia . Chrissie si fece scura in volto, notando la camicia di Bourne. «E tutto quel sangue?» Scarlett strinse forte la mano della mamma. «E sangue finto, mamma.» «E tutto a posto, adesso» disse Bourne. «No, non muoverti ancora.» Cercò di levarle di dosso i frammenti. «Va bene, sbottonati la camicetta.» Ma le dita le tremavano così tanto che non riusciva ad afferrare i bottoni . «Le braccia mi fanno malissimo» disse piano. Girò la testa e sorrise alla bambina. «Grazie a Dio stai bene, tesoro.» Scarlett scoppiò di nuovo in lacrime. Chrissie continuò a guardare Bourne mentre si affaccendava sui bottoni della sua camicetta e la liberava dalle maniche in modo che gli ultimi vetri le ricadessero di lato senza ferirla . Poi la sollevò di peso. Quando l'ebbe alzata dal letto, la mise giù. Chrissie rabbrividì per l'orrore quando scavalcarono il corpo senza vita di Coven. Si fermarono nella stanza dove era entrata per prendere le felpe per sé e per la figlia, la quale, come in una reazione ritardata, piangeva mentre si inginocchiava per indossare la felpa, che era gialla con i coniglietti rosa che mangiavano il gelato. A metà scale ricominciò a piagnucolare . Chrissie le posò un braccio sulle spalle. «Va tutto bene, tesoro. Va tutto bene, adesso la mamma è qui con te» le sussurrò più e più volte per confortarla . Quando furono al piano di sotto, disse a Bourne: «Coven ha immobilizzato mio padre, è qui, da qualche parte» . Fu Jason a trovarlo, legato e imbavagliato, in un armadio della cucina. Era privo di sensi, con un ematoma che gli aveva provocato la tumefazione della tempia destra . Bourne lo distese sul pavimento della cucina e gli tolse il bavaglio. Non c'era luce, mancando l'energia elettrica .
«Oddio, è morto?» esclamò Chrissie entrando in cucina con Scarlett . «No. Il polso è forte e regolare.» Tolse il dito dalla carotide e cominciò a liberarlo dai legacci . Chrissie, che aveva perso ogni coraggio residuo alla vista di suo padre immobile e privo di sensi, cominciò a piangere silenziosamente, e Scarlett a singhiozzare. Ricacciò indietro le lacrime, mordendosi il labbro. Fece scorrere l'acqua fredda nel lavello, bagnò uno straccio e riempì un bicchiere. Accovacciandosi accanto alla figlia, appoggiò il panno ripiegato sulla guancia di Bourne, che aveva cominciato a gonfiarsi e a diventare bluastra . Suo padre era esile, come spesso lo sono le persone anziane. Il volto segnato dalle rughe sembrava asimmetrico, forse per i postumi di un ictus subito non molto tempo prima. Bourne lo scosse gentilmente e le palpebre tremolanti si aprirono, mentre con la lingua si umettava le labbra secche . «Riesci a metterlo seduto?» domandò Chrissie. «Cerchiamo di farlo bere.» Sostenendo l'uomo dietro la schiena, Bourne lo mise a sedere, lentamente e con molta cautela . «Papà, papà!» «Dov'è quel figlio di puttana che mi ha colpito?» «E morto» rispose Bourne . «Ecco, papà, bevi un po' d'acqua.» Chrissie osservava attentamente suo padre, temendo che potesse svenire di nuovo da un momento all'altro. «Ti sentirai meglio.» Ma il vecchio non le prestava attenzione; stava fissando Bourne. Si leccò nuovamente le labbra e prese il bicchiere d'acqua, aiutato dalla figlia. Mentre beveva a singulti, il nodoso pomo d'Adamo gli sobbalzava sul collo. Tossì . «Piano, papà. Piano.» L'uomo sollevò una mano incerta e allontanò l'orlo del bicchiere dalla bocca. Poi tese l'indice, puntandolo contro Bourne . «Io ti conosco.» La sua voce era come carta vetrata sul metallo . Bourne replicò: «Non credo» . «Sì, invece. Tu sei entrato al Centro quando sono arrivato io. E stato anni fa, ovviamente, quando il Centro era nella vecchia scuola maschile, in George Street. Ma non l'ho mai dimenticato, perché ho dovuto chiamare un ex collega di nome Basii Bayswater, un buono a nulla di prima categoria, se mai ce n'è stato uno. Poi ha fatto un colpaccio, è diventato ricco e si è trasferito a Whitney. Ha passato tutta la vita a giocare a una versione antica degli scacchi, o una cosa di quel tipo lì. Che terribile perdita di tempo. Ma tu...» e puntò il dito contro il torace di Bourne. «Io non dimentico mai una faccia. Che io sia dannato, tu sei il professor Webb. Ecco chi sei! David Webb!» *** Capitolo 20 . Peter Marks rispose alla telefonata breve e concisa di Bourne, e con sentimenti contrastanti acconsentì a recarsi all'indirizzo che si appuntò. Da una parte era piacevolmente sorpreso; dall'altra però non gli era sembrato il solito Jason, quindi si ritrovò a domandarsi in quale nuovo casino si stesse cacciando. Il suo rapporto con Bourne aveva solo una ragion d'essere: Soraya. Sapeva qualcosa della loro storia e si era sempre domandato se la sua opinione su di lui fosse stata influenzata da sentimenti personali . Secondo la versione ufficiale della CIA l'amnesia aveva reso Bourne imprevedibile e quindi pericoloso. Era un ribelle, sleale verso tutti, soprattutto nei confronti dell'Agenzia. Quando era stata costretta a servirsi di lui, in passato, lo aveva sempre fatto con l'inganno o con la costrizione, perché non sembravano esserci altri modi per tenerlo sotto controllo. E neppure quei metodi si erano dimostrati così validi. Marks era ovviamente al corrente dell'operato recente di Bourne, che aveva sgominato la Black River e fermato una guerra imminente contro l'Iran, ma non conosceva quasi nulla dell'uomo. Era un enigma assoluto. Inutile tentare di prevedere le sue reazioni in una qualunque situazione. E poi c'era il fatto che le tante persone che avevano cercato di essergli vicine erano tutte morte, di una morte violenta e improvvisa. Per fortuna Soraya non era tra queste, anche se Marks temeva che fosse solo questione di tempo . «Brutte notizie?» chiese Don Fernando Herrera .
«Niente di importante» rispose Marks. «Solo una riunione a cui devo partecipare.» Erano seduti nel soggiorno della casa di Diego Herrera, circondati dalle sue foto. Marks si chiese se trovarsi lì fosse per il padre più doloroso o consolatorio . «Senor Herrera, prima che io vada, c'è forse qualcos'altro che può dirmi sul suo figlioccio? Sa perché si trovasse al Vesper Club ieri sera, o perché potrebbe avere accoltellato Diego? Che tipo di rapporto avevano?» «Nessuno, per rispondere all'ultima domanda.» Herrera prese una sigaretta, l'accese, ma non sembrava avere voglia di fumarla. Percorreva la stanza con lo sguardo, come se avesse paura di concentrarsi su un oggetto qualsiasi troppo a lungo. Marks intuiva il suo nervosismo. Per cosa? L'uomo rimase a guardare Marks per qualche istante. La cenere della sua sigaretta consumata cadde silenziosa sul tappeto, tra i suoi piedi. «Diego non sapeva dell'esistenza di Ottavio, per lo meno per quanto riguardava il suo rapporto con me.» «Allora perché Ottavio avrebbe ucciso Diego?» «Non lo avrebbe mai fatto, ecco perché mi rifiuto di credere che sia stato lui.» Herrera diede istruzioni al suo autista di accompagnare Marks all'ufficio di noleggio auto più vicino. Insistette per avere il numero di telefono di Marks e per dargli il suo. Le parole di Don Fernando continuavano a risuonargli nelle orecchie quando Marks inserì l'indirizzo che Bourne gli aveva dato nel programma GPS del suo palmare . «Voglio essere tenuto al corrente della sua indagine» disse Herrera. «Ha promesso di trovare l'assassino di mio figlio e considero molto seriamente tutte le promesse che mi vengono fatte.» Marks non ne dubitava . Aveva lasciato l'ufficio del noleggio auto da quindici minuti, quando il palmare ronzò e apparve un sms di Soraya. Dopo qualche minuto ricevette una chiamata di Willard . «Procedi.» «Ho stabilito un contatto» disse Marks, riferendosi a Bourne . «Sai dove si trova?» Willard parlò in tono lievemente concitato . «Non ancora» mentì Marks. «Ma ci arriverò presto.» «Bene. Sono ancora in tempo.» «In tempo per cosa?» chiese Marks . «La missione ha subito qualche variazione. Mi serve che tu organizzi un incontro tra Bourne e Arkadin.» Marks cercò di individuare qualche significato recondito nel tono della voce di Willard. Qualcosa era cambiato, laggiù in patria. Detestava essere fuori dal giro e sentirsi in posizione di svantaggio. «Cosa mi dici dell'anello?» «Ma mi stai a sentire?» scattò Willard. «Limitati a eseguire gli ordini.» Adesso Marks era sicuro che gli stessero nascondendo qualche sviluppo importante. Sentì la ben nota rabbia per le macchinazioni dei suoi superiori salirgli in gola come bile . «Soraya Moore si è messa in contatto con te?» continuò Willard . «Sì. Ho appena ricevuto un sms modificato da lei.» «Contattala tu» disse Willard. «Coordinate gli sforzi. Devi trovare il modo di far incontrare i due uomini dove ti dico.» Diede a Marks un indirizzo. «Lascio a te l'organizzazione, ma sappi che ho delle informazioni che Arkadin dovrebbe trovare interessanti.» Riferì a Marks quello che gli aveva raccontato El-Arian riguardo a quell'informazione mancante senza la quale il file sul disco fisso del portatile era inservibile. «Hai settantadue ore di tempo.» «Settantadue...?» Ma stava già parlando al vento. La conversazione era stata interrotta . All'incrocio successivo, Marks controllò il navigatore del palmare per accertarsi di non aver sbagliato strada mentre parlava al telefono con Willard. Dopo il sole del mattino, adesso il cielo era coperto di nuvole e tutto era tinto in diverse sfumature di grigio. Una leggera foschia rendeva indistinte anche le linee più nette degli edifici e dei cartelli stradali . Scattò il verde e, superando il semaforo, notò nello specchietto retrovisore una Ford bianca che si spostava di corsia portandosi dietro di lui. Sapeva riconoscere un pedinamento. Aveva già visto quella Ford bianca, distanziata da lui da parecchi veicoli, anche se ogni tanto l'aveva persa dietro qualche camion. Nella Ford si distingueva solo il guidatore, che portava gli occhiali da sole. Premendo l'acceleratore, fece scattare la sua auto a noleggio passando dalla prima alla terza più rapidamente di quanto potesse consentire il sistema di trasmissione. La vettura singhiozzò per un momento, tra la seconda e la terza, e temette di aver sballato il cambio. Poi la
macchina schizzò in avanti, tanto che quasi andò a sbattere contro il retro del camion che la precedeva. Scartò sulla corsia di destra, accelerando ancora mentre la Ford bianca s'infilava dietro di lui . Si trovava in una zona di Londra molto trafficata e piena di negozi e grandi magazzini. All'ultimo momento vide l'indicazione di un parcheggio sotterraneo e girò di scatto. Grattò il paraurti anteriore sinistro sulla parete di cemento, poi corresse la traiettoria e imboccò a tutta velocità la rampa di accesso al sotterraneo illuminato dalle luci al neon . Fermò la macchina in un parcheggio così stretto che dovette strisciare tra la portiera e la fiancata per uscire. In quel momento sentì lo stridio delle gomme e comprese che la Ford lo stava ancora tallonando. Vide la rampa delle scale accanto all'ascensore e vi si infilò nel momento in cui un'auto bianca passò rapida come un lampo. Le scale odoravano di grasso e di urina. Mentre saliva due e tre gradini alla volta, udì una portiera sbattere e il suono di rapidi passi sul cemento, e poi qualcuno che saliva le scale di corsa, dietro di lui . Mentre stava per svoltare un angolo, si imbatté in un barbone talmente ubriaco da essere svenuto. Marks trattenne il respiro mentre si chinava e lo afferrava per trascinarlo su per le scale, lasciandolo cadere appena dietro l'angolo. Si appiattì nell'ombra sulla rampa superiore e restò in attesa, facendo respiri profondi e regolari . Il rumore dei passi pesanti sulle scale si fece più vicino e lui si accovacciò leggermente. L'inseguitore girò l'angolo correndo e, come Marks aveva previsto, si accorse dell'ubriaco steso a terra solo all'ultimo momento. Quando inciampò, cadendo in avanti, Marks saltò giù dalle scale, atterrando col ginocchio sulla fronte dell'uomo. Questi barcollò all'indietro, inciampò di nuovo contro l'ubriaco e crollò sulla schiena . Marks lo vide estrarre una Browning MI900 da sotto la giacca e riuscì a fargliela scivolare di mano con un calcio un istante prima che facesse fuoco. Il rumore risuonò talmente forte e assordante, in quello spazio angusto, che il senzatetto aprì gli occhi di scatto e balzò a sedere. Il tizio con la Browning afferrò l'uomo per il bavero e gli premette la pistola sulla tempia . «Adesso tu vieni con me, oppure gli faccio saltare il cervello!» Parlava con un accento particolare, forse mediorientale. Scuoteva l'ubriaco così forte che dalle labbra semiaperte gli fuoriuscì un rivolo di saliva . «Ehi, idiota!» gridò il malcapitato, confuso e spaventato. «Levati dai coglioni!» L'uomo con la pistola, sprezzante e furioso, colpì il barbone alla testa con la canna della Browning. Marks si lanciò in mezzo a loro. Con la base del palmo colpì l'assalitore in pieno mento, facendogli alzare la testa ed esponendo il collo. Mentre teneva bloccato il braccio armato gli sferrò un pugno al pomo d'Adamo. La cartilagine cedette e l'uomo cadde, annaspando. Aveva gli occhi spalancati e rovesciati. Riusciva a emettere solo versi indistinti, ma molto presto cessarono anche questi . Il barbone si girò con agilità inaspettata e assestò un calcio nell'inguine dell'uomo a terra. «E adesso cos'hai da dire, bastardo?» Poi, borbottando tra sé, infilò barcollando le scale per andarsene senza guardarsi indietro . Marks ispezionò rapidamente le tasche dell'uomo, ma trovò soltanto le chiavi della Ford bianca e un rotolo di banconote. Niente passaporto, nessun documento. Aveva la pelle olivastra, capelli neri e ricci e una folta barba. Una cosa è certa, pensò Marks, non è della CIA. E allora per chi lavorava e perché cavolo mi stava seguendo ? Si domandò anche chi poteva sapere dove si trovava, oltre a Willard e Oliver Liss . Poi sentì le sirene della polizia e si rese conto che doveva allontanarsi di corsa. Studiò per l'ultima volta l'uomo morto, in cerca di un elemento identificativo, come un tatuaggio, oppure.. . In quel momento vide l'anello d'oro sul medio della mano destra e, chinandosi, glielo sfilò. Sperava che ci fosse una scritta incisa all'interno . Ma non la trovò. C'era invece qualcosa di molto più interessante . Soraya scorse Arkadin nel ristorante semideserto della darsena. O forse era lui che la stava cercando, dato che lei, impegnata a mangiare il suo riso piccante allo zafferano e gamberetti,
non l'aveva visto entrare. Il cameriere le portò un drink (che definì tequini) offerto dall'uomo al bar. Soraya alzò lo sguardo: naturalmente era Arkadin. Lo guardò negli occhi mentre alzava la coppa di Martini. Gli sorrise. Tanto bastò per incoraggiarlo . «E un tipo tenace, questo glielo concedo» esordì lei quando lui si presentò al suo tavolo . «Se lei fosse la mia donna, non la lascerei cenare da sola.» «Si riferisce al mio ex ragazzo della piscina? Me lo sono tolto dai piedi.» Arkadin rise e fece un gesto in direzione del séparé in cui sedeva lei. «Posso?» «Preferirei di no.» Lui si accomodò comunque e appoggiò il suo drink sul tavolo, come a marcare il territorio. «Se mi permette di ordinare, le offrirò la cena.» «Non ho bisogno che lei mi offra la cena» replicò lei in tono asciutto . «Il bisogno non c'entra nulla con questo.» Alzò la mano e il cameriere si avvicinò, rapido. «Prendo una bistecca al sangue e una porzione di tomatillos.» Il cameriere annuì e scomparve . Arkadin sorrise e Soraya fu stupita nel notare che era un gesto sincero. Anzi, c'era in lui un calore profondo, che la intimoriva . «Mi chiamo Leonardo» si presentò . Lei sbuffò. «Non sia ridicolo. Nessuno a Puerto Penasco si chiama Leonardo. Ci scommetto un penny!» Sembrò mortificato, come un bambino pescato con le mani nel barattolo della marmellata, ma ora lei iniziava a capire il suo approccio con le donne. Notò che aveva un grande magnetismo, una personalità forte e che trasudava la sicurezza di un uomo potente, però con un nucleo morbido di vulnerabilità. Quale donna avrebbe potuto resistere a quella combinazione? Rise silenziosamente tra sé e si sentì meglio, come se alla fine fosse approdata su un terreno solido, un luogo in cui poter portare avanti con fiducia il suo incarico . «Ma certo, ha ragione» rispose Arkadin. «In realtà è Léonard, un semplice Léonard.» «Il mio penny, grazie.» Lei tese una mano, e lui la trattenne brevemente. «Che cosa fai a Puerto Penasco, Léonard?» «Pesco, vado in barca.» «Con il motoscafo.» «Sì.» Soraya finì i suoi gamberetti nel momento in cui arrivò la bistecca con i tomatillos per lui. La carne, al sangue come l'aveva chiesta, era sommersa di peperoncini. Arkadin cominciò a mangiare di gusto. Deve avere uno stomaco di ferro, pensò lei . «E tu?» «Io sono venuta per il clima.» Allontanò da sé il bicchiere con il tequini . «Non ti piace?» «Non bevo alcolici.» «Alcolici?» Lei rise. «Musulmana. Vengo dall'Egitto.» «Mi scuso se ti ho omaggiata in modo inappropriato.» «Nessun problema» minimizzò lei con un gesto noncurante della mano. «Non potevi saperlo.» Poi gli sorrise. «Però sei carino.» «Ah! Carino no, decisamente non lo sono.» «No?» Lei inclinò la testa di lato. «Cosa sei, allora?» Lui si tamponò le labbra con il tovagliolo e si appoggiò allo schienale per un momento. «Be', per dirla tutta, sono piuttosto un duro. Così la pensavano i miei soci, soprattutto quando ho rilevato tutto quanto. E così la pensava anche mia moglie, se è per questo.» «Anche lei fa parte del passato?» Annuì, riprendendo a mangiare. «Da quasi un anno.» «Figli?» «Stai scherzando?» Arkadin era di sicuro molto bravo a raccontare storie, pensò ammirata. «Neppure io ho molto senso materno» disse, abbastanza vicina al vero. «Sono completamente assorbita dal mio lavoro.» Lui le chiese di cosa si occupasse, senza alzare lo sguardo dalla sua bistecca . «Import-export» rispose lei. «Da e per il Nordafrica.» Lui alzò la testa lentamente e in modo molto calcolato. Soraya sentì il cuore batterle contro la cassa toracica. Le venne in mente che era come convincere con le buone uno squalo ad abboccare all'amo. Non intendeva commettere il minimo errore, e sentì dentro un brivido di paura. Si trovava sull'orlo del precipizio, il suo io fittizio che andava a fondersi con il vero io. Questo momento era esattamente la ragione per cui aveva accettato l'incarico. Ecco perché non aveva piantato in asso Peter quando l'aveva reclutata per la missione, mentre lui decideva di relegare sullo sfondo gli aspetti più degradanti di quello che ci si aspettava da lei. Nulla di tutto ciò era importante quanto trovarsi a un passo dal precipizio. Lei viveva in funzione di questo preciso istante, e Peter lo sapeva da molto prima di lei . Arkadin si asciugò di nuovo la bocca. «Nordafrica... Interessante. I miei ex soci hanno fatto molti affari con il Nordafrica. A me non piacevano i loro metodi, o meglio, a dire il vero, le
persone con cui avevano a che fare. Quella è stata una delle ragioni per cui ho deciso di rilevare tutto.» Era bravo a cadere sempre in piedi, pensò Soraya; stava improvvisando sul momento. Quella conversazione la intrigava sempre di più . «Tu di cosa ti occupi?» gli domandò . «Computer, periferiche, assistenza tecnica, quel genere di cose.» Giusto, pensò lei divertita. Fece un'espressione pensierosa. «Be', potrei metterti in contatto con delle persone affidabili, se vuoi.» «Magari potremmo fare affari insieme, io e te.» L'ho preso!, si disse con una certa euforia. Adesso devo issare a bordo lo squalo, ma con molta calma e stando molto attenta . «Mmh. Non saprei, sono già quasi al limite.» «Allora hai bisogno di espanderti.» «Giusto. Con che capitale?» «Ce l'ho io, il capitale.» Lei lo guardò con circospezione. «Non saprei. Nemmeno ci conosciamo.» Lui appoggiò le posate e sorrise. «Allora diciamo che al primo punto dell'ordine del giorno c'è che dobbiamo conoscerci meglio.» Alzò un dito. «Ho proprio qualcosa da mostrarti che potrebbe invogliarti a entrare in affari con me.» «E cosa sarebbe?» «Ah-ah-ah, è una sorpresa.» Chiamò il cameriere e ordinò due caffè espresso senza chiederle se ne desiderasse uno. A lei andava bene. Voleva essere sveglia e lucida, perché era sicura che a un certo punto della serata avrebbe dovuto respingere le sue avance in un modo che l'avrebbe stuzzicato ancora di più, e non gli sarebbe dispiaciuto . Chiacchierarono amabilmente prendendo il caffè, cercando il modo di sentirsi a proprio agio in reciproca compagnia. Soraya, vedendolo molto rilassato, si concesse di lasciarsi andare un po' anche lei. Sottopelle, però, avvertiva come una sensazione di cavi d'acciaio che le vibravano dentro. Aveva di fronte un uomo di enorme fascino e carisma: poteva capire come mai tante donne fossero attratte nella sua orbita. Ma una parte del suo cervello pensava ancora razionalmente e riconosceva che quello spettacolo non rivelava il vero Arkadin. Si chiese anche se qualcuno l'avesse mai visto. Era riuscito talmente bene a dissimulare davanti ad altri esseri umani che sospettava non fosse più così facile arrivare al vero Arkadin, nemmeno per lui stesso. In quel momento lo vide come un ragazzino solo al mondo, in perenne esilio, incapace di ritrovare la via di casa . «Bene» disse lui, appoggiando sul piattino la sua tazzina vuota, «ci muoviamo?» Gettò qualche banconota sul tavolo e, senza aspettare la sua risposta, slittò sul divanetto e fuori dal séparé. Le tese la mano e, dopo un momento di calcolata esitazione, lei la prese, concedendogli di farla alzare dalla sedia con un gesto elegante . La notte era tiepida, senza un filo di vento, pesante come una tenda di velluto. Non c'era luna, ma le stelle brillavano nell'oscurità. Passeggiando, si allontanarono dall'acqua e si diressero verso nord, costeggiando la spiaggia. Sulla destra, la distesa di luci di Puerto Penasco sembrava parte di un quadro, un mondo a parte . I lampioni stradali lasciarono il posto al chiarore delle stelle e poi, all'improvviso, alle luci che illuminavano un grande edificio in pietra dall'aspetto vagamente religioso. Soraya notò la croce fissata sulla pietra, sopra il portone in legno e ferro . «Un tempo questo era un convento.» Arkadin aprì il portone e si fece da parte per farla entrare. «La mia casa, quando non sono a casa.» L'interno appariva spartano e odorava di incenso e di cera di candele. Soraya vide una scrivania, diverse poltrone, un tavolo da refettorio con otto sedie, un divano simile a una panca da chiesa ornato di cuscini male assortiti. Tutto era in legno scuro e pesante. Non c'era nulla che sembrasse comodo . Mentre attraversavano il salotto, Arkadin accese diversi ceri color crema su portacandele di varie altezze. L'effetto di quell'immensa sala da convento era sempre più medievale e le venne da sorridere, sospettando che quello fosse l'allestimento della scena per il corteggiamento o, in questo caso, per la seduzione . Aprì una bottiglia di vino rosso e lo versò in un enorme calice messicano, quindi ne riempì un secondo di succo di guava. Le offrì il succo e disse: «Vieni. Da questa parte» . Le fece strada nella luce fioca, fermandosi ad accendere le candele lungo il percorso. La parete in fondo era occupata da un enorme camino di mattoni, come quelli delle dimore nobiliari
inglesi. Si sentiva ancora l'odore di cenere e del creosoto che rivestiva il focolare dopo decenni di uso continuato e, da quello che vedeva, parecchi anni di disuso . Arkadin accese una candela più grossa delle altre e, tenendola alta come una torcia, si avviò verso il camino, totalmente in ombra. L'oscurità impenetrabile lasciò il posto alla luce tremolante della fiammella . Quando le ombre si diradarono, nel camino iniziò a delinearsi una forma, una sedia. E sulla sedia c'era qualcuno . La figura era legata alla sedia all'altezza delle caviglie. Le braccia, presumibilmente legate ai polsi, erano dietro la schiena . Quando Arkadin si avvicinò con il cero, la debole luce rivelò prima le caviglie, poi le gambe, il torso, e infine il volto, insanguinato e orribilmente gonfio, con un occhio chiuso . «Ti piace la sorpresa?» domandò Arkadin . Il calice di succo di frutta cadde dalle mani di Soraya e si frantumò sul pavimento . L'uomo legato alla sedia era Antonio . Era come una partita a scacchi. Bourne fissava il vecchio, cercando di vederlo nelle vesti di direttore del Centro per lo studio di documenti antichi quando era stato a Oxford con il nome di David Webb, e il vecchio fissava lui, sempre più sicuro dell'identità di Bourne con il passare dei secondi . Chrissie fissava tutti e due, quasi cercando di indovinare chi avrebbe dato scacco matto all'altro. «Adam, ha ragione mio padre? Ti chiami veramente David Webb?» Bourne intrawedeva una via d'uscita, in realtà l'unica, ma non gli piaceva. «Sì e no» rispose . «In ogni caso, non ti chiami Adam Stone.» La voce di Chrissie aveva un suono metallico. «Il che vuol dire che hai mentito a Tracy. Lei ti conosceva come Adam Stone, e lo stesso vale per me.» Bourne si girò a guardarla. «Adam Stone è il mio nome, tanto quanto lo era David Webb. Mi hanno chiamato in diversi modi, in tempi diversi. Ma sono soltanto nomi.» «Va' all'inferno!» Chrissie si alzò, gli voltò la schiena ed entrò rigida in cucina . «E piuttosto arrabbiata» osservò Scarlett, guardandolo con la sua faccina da undicenne, graziosa ma ancora acerba . «Sei arrabbiata anche tu?» le chiese Bourne . «Non sei un professore?» «In realtà lo sono» rispose Bourne. «Professore di linguistica.» «Forte! Allora hai un sacco di identità segrete?» Bourne rise. Quella ragazzina gli piaceva. «Quando ne ho la necessità, sì.» «Bat-segnale!» La ragazzina inclinò la testa di lato e, nella maniera diretta dei bambini, disse: «Perché hai detto una bugia alla mamma e alla zia Tracy?» . Bourne stava per dire qualcosa su Tracy, ma si ricordò appena in tempo che Scarlett credeva che sua zia fosse ancora viva. «Quando ho conosciuto tua zia avevo una delle mie identità segrete. Poi Tracy ha parlato di me con tua madre. Era il sistema migliore per farmi ascoltare da lei in fretta.» «Se non sei il professor David Webb, chi diavolo sei?» intervenne il padre di Chrissie, che si stava riprendendo . «Quando ci siamo conosciuti, ero Webb» rispose Bourne. «Non sono venuto a Oxford e da lei con l'intenzione di ingannarla.» «Che cosa fai qui con mia figlia e mia nipote?» «E una lunga storia» rispose Bourne . Un lampo di furbizia apparve sul volto dell'uomo. «Scommetto che in tutto questo c'entra la mia figlia maggiore.» «In un certo senso.» Il vecchio strinse il pugno. «Quella dannata incisione!» Bourne sentì un piccolo brivido lungo la spina dorsale. «Quale incisione?» Il vecchio lo fissò con curiosità. «Non ricordi? Io sono il dottor Bishop Atherton. Tu sei venuto da me con il disegno di una frase e mi dicesti che si trattava di un'incisione.» E poi Bourne ricordò. Ricordò ogni cosa . *** Libro Terzo Capitolo 21 . Antonio era accasciato su una sedia nell'oscurità profonda del focolare del convento, talmente fitta e nera che pareva annullare non soltanto la luce ma la vita stessa . Soraya fece qualche passo verso di lui, cercando di distinguere la sagoma nel buio .
«Non è il ragazzo della piscina» disse Arkadin. «E piuttosto evidente.» Lei non fece commenti, sapendo che Arkadin aveva cominciato a tormentarla allo scopo di ottenere informazioni. Questo, in sé, era un segnale positivo, in quanto indicava che Antonio non aveva parlato, nonostante le percosse . Decise di adottare la linea dura. Si rivolse a Leonid Danilovic e lo apostrofò: «Cosa diavolo pensi di fare?» . Lui sorrise ricordando un lupo appena sbucato tra i pini. «Mi piace sapere chi sono i miei possibili soci.» Il suo sorriso si allargò come un pugnale sguainato. «Soprattutto quelli che mi cascano tra le braccia.» «Soci?» Lei fece una risata aspra. «Tu sogni, mio caro amico russo. Non mi metterei in affari con te neppure...» A quel punto lui l'afferrò e premette forte le labbra sulle sue, ma lei era preparata. Si puntellò contro di lui e gli diede una ginocchiata all'inguine. Sentì le sue mani tremare per un istante, ma non la lasciò andare. Non si tolse mai dalla faccia il suo ghigno da lupo, anche se aveva le lacrime agli angoli degli occhi . «Non mi avrai» disse lei in tono calmo e glaciale, «in nessun caso.» «Sì, invece» replicò lui in tono altrettanto gelido, «perché sei venuta qui per prendere me.» Soraya non ribatté nulla nella speranza che lui stesse bluffando, perché altrimenti era fottuta. «Libera Antonio.» «Dammi una buona ragione per farlo.» «Possiamo parlare.» Arkadin si massaggiò delicatamente l'inguine. «Abbiamo già parlato.» Lei scoprì i denti in un sorriso. «Potremmo provare un altro tipo di comunicazione.» Le appoggiò una mano sul seno. «Tipo questa?» «Slegalo.» Soraya cercò di non stringere i denti. «Lascialo andare.» Arkadin sembrò soppesare la sua richiesta. «Non penso che lo farò» replicò dopo una lunga pausa. «Lui significa qualcosa per te, il che lo rende prezioso per ottenere ciò che voglio.» Mise una mano in tasca e ne estrasse un coltello a scatto. Lo aprì e, spingendola da parte, si avvicinò ad Antonio. «Cosa pensi che dovrei tagliargli per primo? Un orecchio? Un dito? Oppure qualcosa un po' più in basso?» «Se osi toccarlo...» Si girò verso di lei. «Sììì?» «Se osi toccarlo non potrai più dormire sonni tranquilli.» La guardò con aria lasciva. «Non sono uno che dorme.» Stava cominciando a disperare per la vita di Antonio quando il suo cellulare squillò. Rispose senza attendere il permesso di Arkadin . «Soraya.» Era Peter Marks . «Sì.» «Cos'è successo?» Intuitivo come sempre, aveva colto la tensione nella sua voce . Fissò Arkadin negli occhi. «Va tutto benissimo.» «Arkadin?» «Esatto.» «Ottimo, sei riuscita a metterti in contatto con lui.» «Molto più di questo.» «C'è un problema, l'ho capito. Be', dovrai trovare il modo di uscirne da sola e anche in fretta, perché la nostra missione è diventata urgente.» «Cosa diavolo sta succedendo?» «Devi fare in modo che Arkadin si presenti all'indirizzo che ti dirò, entro settantadue ore.» «E un ordine impossibile da eseguire.» «Lo so, ma devi farcela. Deve incontrarsi con Bourne, ed è lì che lo troverà.» Intrawide un puntino di luce davanti a sé. Sì, pensò, potrebbe anche funzionare. «Okay» disse a Peter. «Cercherò di sbrigarmela.» «E controlla che prenda con sé il portatile.» Soraya sospirò. «E come dovrei fare?» «Ehi, è per questo che vieni pagata profumatamente.» Riattaccò prima che riuscisse a mandarlo all'inferno. Mise via il cellulare con un'espressione disgustata . «Problemi di lavoro?» domandò Arkadin in tono sarcastico . «Nulla che non si possa risolvere.» «Mi piace il tuo atteggiamento positivo.» Continuando a stuzzicarla, brandì il coltello. «Allora, risolverai anche questo problema?» Soraya lo guardò con aria meditabonda. «Forse.» Gli passò davanti ed entrò nel focolare, da dove Antonio la guardò con l'unico occhio aperto. Rimase molto colpita nel vederlo sorridente . «Non pensare a me» disse con voce rauca, «mi sto divertendo.» Arkadin non poteva vederli e lei si appoggiò l'indice sulle labbra e poi lo premette sulle sue. Quando lo tolse era sporco di sangue. Si girò verso Arkadin. «Dipende tutto da te.» «Non credo proprio. La palla ce l'hai tu.» «Ecco come faremo.» Uscì dall'oscurità e tornò alla tremula luce della candela. «Tu lasci andare Antonio e io ti dirò come trovare Jason Bourne.» Lui scoppiò a ridere. «Stai bluffando.» «Non bluffo mai, quando c'è di mezzo la vita di qualcuno» rispose lei .
«E comunque, cosa ne sa di Jason Bourne una che si occupa di import-export?» «Semplice.» Soraya aveva già pensato alla risposta. «Ogni tanto usa la mia azienda come copertura.» Era una storia abbastanza plausibile per indurlo a crederle . «E perché pensi che a me importi dove si trova Jason Bourne?» Lei inclinò la testa di lato. «Ti importa o no?» Non era il momento di fare retromarcia o di mostrarsi debole . «E cosa succede se tu non sei chi dici di essere?» «E se tu non sei chi dici di essere?» Il russo agitò un dito contro di lei. «Io non credo che sia quello il tuo lavoro.» «Ancora più interessante.» Lui annuì. «Confesso che mi piacciono i misteri, soprattutto se mi avvicinano a Bourne.» «Perché lo odi così tanto?» «E responsabile della morte di qualcuno che amavo.» «Oh, andiamo» disse lei. «Tu non hai mai amato nessuno.» Fece un passo verso di lei, ma era difficile capire se volesse minacciarla o solo andarle più vicino . «Tu ti servi delle persone, e quando hai finito le getti nella spazzatura come un fazzolettino usato.» «E che mi dici di Bourne? E esattamente come me.» «No, non è affatto come te.» Arkadin sorrise ancora di più, e per la prima volta non c'era in lui la minima traccia di ironia. «Oh, finalmente mi hai rivelato qualcosa di interessante su di te.» Lei si trattenne dallo sputargli in faccia: sarebbe solo riuscita a dargliela vinta, perché si aspettava questo da lei . All'improvviso qualcosa sembrò cambiare in lui. Tese una mano e le sfiorò con la punta delle dita il contorno della mandibola. Poi, indicando Antonio con la punta del coltello, disse: «Avanti, slega quel bastardo ostinato» . Quando entrò di nuovo nel focolare e si inginocchiò per liberare Antonio, Arkadin aggiunse: «Lui non mi serve più. Adesso ho te» . «È così che è successo.» Chrissie si trovava in piedi in cucina e guardava fuori dalla finestra sopra il lavello. Non c'era nulla da vedere, tranne la luce soffusa dell'alba grigia che cominciava a infiltrarsi tra i rami degli alberi come un velo. Non aveva detto nulla quando Bourne era entrato nella stanza, ma aveva cominciato a parlare quando avvertì che era vicino a lei . «E successo, cosa?» La voce di Bourne risuonò nel silenzio . «Che sono arrivata a mentirti.» Chrissie aprì il rubinetto dell'acqua calda, mise le mani sotto il getto e iniziò a lavarle meticolosamente, alla maniera di Lady Macbeth. «Un giorno» iniziò, «quando Scarlett aveva circa un anno, mi guardai allo specchio e mi dissi: "Hai un corpo che è stato abbandonato". Forse un uomo non può capire. Avevo consegnato il mio corpo alla maternità e dunque avevo abbandonato me stessa.» Muoveva le mani nell'acqua, continuando a sfregarsele. «Da quel momento presi a odiarmi e poi, per estensione, a odiare la mia vita, compresa Scarlett. Ovviamente non potevo tollerare un sentimento del genere. L'ho combattuto e sono caduta in una terribile depressione. Il lavoro ha iniziato a soffrirne, in modo così evidente che il capo del dipartimento prima mi consigliò ma poi insistette perché prendessi un anno sabbatico. Alla fine cedetti. Voglio dire, avevo forse un'altra scelta? Ma quando mi chiusi alle spalle la porta dell'ufficio e mi allontanai in auto da Oxford, immersa nella nebbia come Avalon, mi resi conto che dovevo agire in modo radicale. Sapevo che non era un caso se mi ero segregata in un luogo che non cambiava mai. Come mio padre. A Oxford vivevo al sicuro, tutto era pianificato, preordinato, anzi, là non è possibile nemmeno la minima digressione. E per questo che aveva disapprovato le scelte di vita di Tracy. Lo avevano terrorizzato e lui si era rifatto su di lei. Solo quel giorno, lasciandomi Oxford alle spalle, compresi quella dinamica familiare e mi resi conto di come mi avesse influenzata. Mi venne in mente che forse avevo scelto quella vita tranquilla per lui, non per me.» Chiuse il rubinetto e si asciugò le mani con uno strofinaccio. Il dorso delle mani era arrossato e screpolato. «Devo portare via di qui la mia famiglia.» «Non appena arriverà la persona che sto aspettando, ce ne andremo» disse Bourne . «Dov'è Scarlett?» «E con tuo padre.» Lei si voltò, quasi con struggimento, oltre la porta del soggiorno. «Scarlett, almeno, vuole bene ai miei genitori.» Sospirò. «Usciamo un attimo. Non riesco a respirare, qui dentro.» Presero una boccata d'aria fuori nell'aria umida del mattino. Faceva piuttosto freddo e il respiro si condensava in sbuffi di vapore. Gli alberi erano ancora
scuri alla base, come se le radici fossero rimaste abbarbicate al cuore della notte. Chrissie rabbrividì e si circondò con le braccia . «Cos'è successo?» chiese Bourne . «Niente che abbia un senso. Ho conosciuto Holly per puro caso.» Bourne rimase sorpreso. «Holly Marie Moreau?» Lei annuì. «Stava cercando Tracy e invece ha trovato me.» Tutti i tasselli di questo puzzle sembrano ricondurre a Holly, pensò. «E siete diventate amiche?» «Più che amiche e meno che amiche allo stesso tempo» rispose lei. «So che non ha molto senso.» Si strinse nelle spalle. «Ho cominciato a lavorare per lei.» Bourne aggrottò le sopracciglia. Si sentiva come un minatore che percorre a tentoni un tunnel senza luce e tuttavia sa istintivamente da che parte girare. «Di cosa si occupava?» Chrissie fece una risatina imbarazzata. «Con un eufemismo, poteva essere definita una commerciante. Periodicamente andava in Messico per due o tre settimane. Su richiesta di qualche cliente, doveva allestire un narcorrancho. I narcorranchos sono proprietà fittizie dei signori della droga messicani, sperdute in genere nel deserto del nord, come a Sonora, ma qualche volta anche in uno Stato più meridionale, come Sinaloa. A parte un custode e magari un paio di guardie, nessuno ci vive stabilmente . «Comunque, l'ho accompagnata a Città del Messico, nei locali after-hour, nei bordelli, dove sceglieva da una lista aggiornata da lei tutte le settimane, come un'agenda giornaliera o un calendario. Noi dovevamo portare le ragazze nel narcorrancho di proprietà del cliente di turno. Quando arrivavamo c'erano solo alcuni messicani, dei peónes e dei militari armati di tutto punto che continuavano a sogghignare anche quando sbavavano dietro alle ragazze. Il mio lavoro era arredare e allestire gli interni e sistemare le ragazze nelle varie camere. Il lavoro pesante lo facevano i peónes . «Poi cominciavano ad arrivare le auto: limousine Lincoln, Suv Chevrolet, Mercedes, tutte con i vetri oscurati, pesantissime e blindate. Gli addetti alla sicurezza perimetravano la zona come se fossimo stati in un bivacco notturno in tempo di guerra. Quindi arrivavano i fornitori a portare carne fresca, frutta, fusti di birra, casse di tequila e, naturalmente, cocaina in quantità. Iniziavano con i barbecue di carne e maialini e agnelli interi cotti allo spiedo, il tutto al suono di musica salsa e disco sparata a palla. Gli addetti ai fuochi puzzavano di sudore e di birra, tanto che non potevi stare loro vicino. E poi arrivavano i boss con le loro guardie del corpo ed era come un girone infernale, feste al di là di ogni immaginazione.» Bourne sentiva la mente lavorare a una velocità tale da far girare la testa persino a lui. «Tra i clienti di Holly c'era anche Gustavo Moreno, vero?» «Gustavo Moreno era il suo miglior cliente» precisò Chrissie . Sì, pensò Bourne, non poteva che essere così. Un altro pezzo mancante del puzzle . «Spendeva più di chiunque altro. Gli piaceva gozzovigliare tutta la notte. Più andava avanti e più la festa era chiassosa e selvaggia.» «Eri decisamente lontana da Oxford, professoressa.» Lei fece segno di sì con la testa. «Lontana anche dal mondo civile, direi. Ma Holly era così. Conduceva una doppia vita. Diceva di aver fatto pratica nella sua giovinezza in Marocco, perché la sua famiglia era molto severa, molto religiosa, devota. Una donna aveva pochi diritti, una ragazza ancora meno. Sembra che suo padre si fosse allontanato dalla famiglia, e capofamiglia era diventato suo fratello, lo zio di Holly. Mi raccontò che avevano avuto un diverbio furibondo. Lui la portò insieme a sua madre a Bali, un luogo diametralmente opposto al loro villaggio sull'Alto Atlante. Non ha raccontato a nessun altro della sua vita segreta in Messico.» Falso, pensò Bourne. A me l'ha detto, oppure io l'ho scoperto in qualche altro modo. Probabilmente è così che il portatile è finito nelle mani di Gustavo Moreno. Devo averglielo dato io. Ma perché"? In questo enigma, rifletté, c'è sempre un altro vuoto da riempire, un 'altra domanda a cui rispondere . Chrissie si voltò a guardarlo. «Immagino che tu conoscessi Holly.» Quando lui non rispose, lei continuò: «Probabilmente sarai scioccato da quello che ti ho appena raccontato» . «Mi dispiace che tu mi abbia mentito.» «Abbiamo mentito entrambi.» Chrissie non riuscì a trattenere una venatura di amarezza nella voce .
«Al riguardo ho molta esperienza.» Aveva la sensazione di aver chiesto a Holly di portarlo in Messico durante uno dei suoi viaggi. Oppure poteva averla obbligata a farlo? «Perché hai cambiato vita?» le chiese . «Ho avuto come una rivelazione nel deserto di Sonora. Non mi sorprende che ci siamo trovate, io e Holly. Entrambe ci stavamo lasciando alle spalle la nostra vecchia esistenza, in fuga dal nostro io precedente. O piuttosto avevamo perso la strada, non sapevamo più chi fossimo o chi volevamo essere. Ci premeva di più rifiutare quello che gli altri si aspettavano da noi.» Si guardò le mani arrossate, come se non le appartenessero. «Ero convinta che ciò che avevo lasciato, il santuario chiuso di Oxford, non fosse la vita vera. Ma dopo un po' mi resi conto che era quella di Holly a non essere la vita vera.» Il cielo schiariva sempre di più. Gli uccellini cinguettavano sulle cime degli alberi e una brezza leggera portava fin lì l'odore della terra umida, di cose viventi . «Una notte, molto tardi, sono entrata in una stanza vuota, o almeno così credevo. E trovai Holly sopra Gustavo Moreno; ci stavano dando dentro. Li osservai per un momento, come se fossero due sconosciuti che giravano una scena porno. Poi mi ritrovai a pensare: Cavolo, ma quella è Holly. Si potrebbe dire che mi sono risvegliata in quell'istante.» Scosse il capo. «Credo che Holly non l'abbia mai fatto.» Anche Bourne la pensava allo stesso modo. Triste, ma vero: Holly aveva rappresentato molte cose per diverse persone, per nessuno la stessa. Quelle identità multiple le avevano permesso di rintanarsi sempre più in se stessa, di nascondersi da tutti, mentre era suo zio quello che temeva di più . In quel momento Scarlett sporse la testa dalla porta e disse: «Ehi, voi due, abbiamo visite» . Dentro, c'erano Ottavio Moreno e Peter Marks, che si studiavano con circospezione . «Mi volete spiegare?» chiese Bourne . «Questo è Ottavio Moreno, l'uomo che ha accoltellato Diego Herrera» disse Marks rivolto a Bourne. «E tu lo stai proteggendo?» «E una storia lunga, Peter» replicò Bourne. «Ti racconterò tutto in macchina, mentre andiamo a...» Marks si rivolse a Moreno. «Tu sei il fratello di Gustavo, il signore della droga colombiano.» «E così» rispose l'uomo . «E il figlioccio di Don Fernando Herrera, il padre dell'uomo che hai ferito a morte.» Moreno non disse nulla. Marks continuò: «Sono appena stato a casa di Don Fernando. E devastato, come puoi immaginare. O forse non ne sei nemmeno capace. In ogni caso lui non crede che sia stato tu a uccidere suo figlio. La polizia, invece, è sicura del contrario». Senza attendere la risposta, si rivolse a Bourne: «Come diavolo hai potuto lasciare che accadesse?» . Poi Ottavio Moreno fece un errore tattico. «Credo che faresti meglio a calmarti» lo esortò. Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa, ma probabilmente era rimasto colpito dalle parole di Marks e dal tono della sua voce . «Non dirmi cosa devo fare» ringhiò Marks, alterato . Bourne aveva una mezza idea di lasciare che i due uomini se la risolvessero tra loro, se non altro per allontanare la tensione accumulata nelle ultime due ore, ma doveva pensare a Chrissie e alla sua famiglia, quindi si mise in mezzo a loro. Afferrò Marks per il gomito e lo guidò fuori dall'ingresso principale, dove potevano parlare senza essere ascoltati. Prima di poter dire una parola, Moreno uscì come una furia . Si diresse deciso verso Marks, ma non era neppure a metà strada quando uno sparo proveniente dagli alberi lo fece accasciare a terra. Nel momento stesso in cui crollava all'indietro, nell'attimo in cui il secondo colpo d'arma da fuoco gli portava via parte del cranio, Bourne si lanciò dietro la Opel di Moreno. Quando Marks lo raggiunse, un altro sparo infranse l'aria immobile del primo mattino . Marks barcollò e cadde . Boris Karpov accompagnò Viktor Cerkesov all'interno del cantiere in Ulitsa Varvarka. Passarono da un varco nella recinzione di rete metallica e scesero tramite una rampa nella zona senza campo per i cellulari. Cerkesov continuò ad avanzare fino a quando non si furono
addentrati nella selva di travi d'acciaio corrose e di blocchi di cemento crepati; ciuffi di erbacce spuntavano ovunque, come peli sulla schiena di un gigante . Cerkesov si fermò accanto alla fiancata sfondata di un camion abbandonato, al quale avevano portato via pneumatici, centralina elettronica e motore. Era inclinato su un lato, come una nave che sta colando a picco. Il camion era verde, ma qualcuno con velleità artistiche l'aveva coperto di graffiti osceni disegnati con vernice spray color argento . Le labbra di Cerkesov si contrassero in una parodia di sorriso quando si voltò dopo aver contemplato l'opera artistica . «Ora, Boris Illic, sia così gentile da raccontarmi il succo del suo improvviso incontro con il presidente Imov.» Karpov obbedì, non vedendo altra via d'uscita. Cerkesov non lo interruppe neppure una volta, ascoltandolo attentamente mentre spiegava ciò che era venuto a sapere di Bukin e delle talpe sotto il suo comando. Quando ebbe finito, Cerkesov annuì. In mano aveva una pistola Tokarev TT, ma non la puntò contro Karpov, o almeno non esattamente . «Ora, Boris Illic, io mi chiedo cosa dovrei fare. Innanzitutto, cosa dovrei fare con te? Spararti e lasciarti qui a marcire?» Sembrò riflettere brevemente su quella opzione. «Be', a essere sincero, non me ne verrebbe niente di buono. Andando direttamente da Imov ti sei reso invulnerabile. Se vieni ucciso, o scompari, Imov ordinerà un'indagine a 360 gradi, che presto o tardi arriverà a me. E, come puoi immaginare, questo sarebbe per me quanto mai inopportuno.» «Penso che sarebbe più che inopportuno, Viktor Delyagovic» replicò Karpov con voce atona. «Sarebbe l'inizio della tua fine e il trionfo di Nikolaj Patrusev, il tuo più acerrimo nemico.» «Di questi tempi ho altro di cui occuparmi che Nikolaj Patrusev.» Cerkesov pronunciò queste parole in tono calmo, quasi avesse dimenticato la presenza di Karpov e stesse ragionando tra sé. Poi parve tornare all'improvviso alla realtà, e puntò lo sguardo sul colonnello. «Quindi ucciderti è fuori questione, per fortuna, Boris Illic, perché mi piaci veramente. Per essere precisi, ammiro la tua tenacia al pari della tua intelligenza. Ecco spiegato perché non proverò neppure a corromperti.» Fece un verso strano, una sorta di risata venuta male. «Potresti essere l'ultimo uomo onesto nei servizi segreti russi.» Agitò la Tokarev. «Quindi, dove ci porta tutto questo?» «Situazione di stallo?» propose Karpov . «No, no, no. Una situazione di stallo non va bene per nessuno, soprattutto per noi due e soprattutto in questo momento. Hai fornito a Imov la prova contro Bukin, Imov ti ha dato un incarico. Non abbiamo scelta, devi solo andare avanti.» «Ma sarebbe un suicidio per te» rifletté Karpov . «Solo se rimango a capo della FSB-2» disse Cerkesov . Karpov scosse la testa. «Non credo di capire.» Cerkesov aveva una ricetrasmittente miniaturizzata nell'orecchio. «Puoi scendere, ora» disse a chiunque fosse all'altro apparecchio . Aveva stampato in faccia un sorriso che Karpov non gli aveva mai visto prima. Fece un passo verso il colonnello e, l'istante dopo, indicò qualcuno. «Guarda chi sta arrivando, Boris Illic.» Karpov si girò e vide Melor Bukin che avanzava tra le macerie . «Ora» disse Cerkesov, mettendo la Tokarev nella mano di Karpov, «fa' quello che devi.» Karpov tenne la Tokarev dietro la schiena mentre Melor Bukin si avvicinava. Si chiese cosa gli avesse raccontato Cerkesov, dato che Bukin sembrava tutto rilassato e privo di sospetti. Spalancò gli occhi quando Karpov spianò la pistola e gliela puntò contro . «Viktor Delyagovic, che significa tutto questo?» disse . Karpov gli sparò nel ginocchio destro e Bukin crollò come una colonna abbattuta . «Cosa stai facendo?» gridò, afferrandosi con le due mani il ginocchio maciullato. «Sei impazzito?» Karpov gli si fece incontro. «So tutto dei tuoi imbrogli, e anche il presidente Imov ne è al corrente. Chi sono le altre talpe all'interno della FSB-2?» Bukin alzò gli occhi sbarrati su di lui. «Cosa dici? Talpe? Non so di cosa stai parlando.» Con calma e deliberatamente, Karpov gli ridusse in briciole il ginocchio sinistro con un secondo colpo di pistola. Bukin emise un urlo terrificante, contorcendosi a terra come un verme . «Rispondi!» ordinò Karpov .
Bukin aveva gli occhi iniettati di sangue. Era pallido e scosso da brividi per lo shock e il dolore. «Boris Illic, il nostro passato non significa niente per te? Io sono il tuo mentore, sono stato io a portarti nella FSB-2!» Karpov si chinò minacciosamente su di lui. «Una ragione di più perché sia io a fare pulizia nella tua casa sporca.» «Ma, ma, ma...» balbettò Bukin. «Io eseguivo solo degli ordini.» Indicò Cerkesov. «I suoi ordini.» «Bugiardo» commentò Cerkesov . «No, Boris Illic, è la verità, lo giuro!» Karpov si accovacciò di fianco a Bukin. «Io so come possiamo risolvere questo problema.» «Ho bisogno di andare in ospedale» gemette Bukin. «Sto perdendo troppo sangue.» «Dimmi i nomi delle talpe» incalzò Karpov. «Poi ti farò curare.» Gli occhi rossi di Bukin saettavano tra lui e Cerkesov . «Lascialo perdere» continuò Karpov. «Sono io quello che decide se lasciarti o no sanguinare in questo pozzo nero.» Bukin deglutì a fatica e fece i nomi di tre uomini della FSB-2 . «Grazie» disse Karpov. Si rialzò e sparò a Bukin in mezzo agli occhi . Poi si rivolse a Cerkesov e gli domandò: «Che cosa mi impedisce ora di uccidere anche te o di farti arrestare?» . «Puoi anche essere incorruttibile, Boris Illic, ma sai bene da quale parte è imburrato il pane, ora e in futuro.» Cerkesov si accese una sigaretta. Non degnò di un solo sguardo il suo luogotenente steso a terra. «Io posso spianarti la strada per diventare il capo della FSB-2.» «Può farlo anche il presidente Imov.» «E vero anche questo» disse Cerkesov annuendo. «Ma Imov non può garantirti che uno degli altri comandanti non ti versi del polonio nel tè o una bella sera non ti infili uno stiletto tra le costole.» Karpov sapeva benissimo che Cerkesov aveva ancora la facoltà di identificare ed eliminare potenziali nemici all'interno della FSB-2. Era davvero l'unico in grado di spianargli la strada . «Sarò molto diretto» disse. «Mi stai proponendo di rilevare il tuo posto?» «Sì.» «E cosa ne sarà di te? Imov vorrà la tua testa.» «Ovviamente sì, ma prima dovrà trovarmi.» «E cosa farai, sparirai dalla circolazione, diventerai un latitante?» Karpov scosse la testa. «Non lo vedo plausibile, come futuro per te.» «Nemmeno io, Boris Illic. Andrò a occupare una posizione ancora più prestigiosa.» «Più della FSB-2?» «Più del Cremlino.» Karpov aggrottò le sopracciglia. «E quale sarebbe?» Un lampo brillò negli occhi di Cerkesov. «Dimmi, Boris Illic, hai mai sentito parlare della Severus Domna?» *** Capitolo 22 . Marks si stringeva la coscia sinistra con una smorfia di dolore. Il cecchino invisibile continuava a tenerli sotto tiro. Bourne si lanciò verso di lui, lo afferrò e lo trascinò al riparo . «Tieni giù la testa, Peter.» «Dillo al tuo amico Moreno» ribatté Marks. «Io ce l'ho giù, la testa.» «Figurati.» Bourne ispezionò la ferita e verificò che il proiettile non avesse reciso l'arteria. Poi strappò una manica della camicia di Marks e la usò come un laccio emostatico, legandogliela attorno alla coscia, appena sopra la ferita . «Non lo dimenticherò» disse Marks . «No, sono solo io quello che dimentica» replicò Bourne con una venatura sarcastica nella voce, tanto che a Marks venne da ridere, anche se a fatica . Bourne girò davanti al muso della Opel. Fece respiri profondi mentre scrutava il folto degli alberi. Era salito su uno di quei tronchi solo poche ore prima e utilizzò la sua memoria eidetica, affinata durante l'addestramento alla Treadstone, per ricostruire le possibili postazioni ideali per un cecchino nascosto. Dal modo in cui erano caduti Moreno e Marks si era fatto un'idea di dove doveva trovarsi l'uomo armato. Cercò di pensare con la testa del cecchino: dove si sarebbe posizionato per avere una buona visuale della porta d'ingresso ed essere allo stesso tempo al riparo? Sentì Chrissie gridare il suo nome, e dal tono ansioso della sua voce dedusse che probabilmente lo stava chiamando da qualche tempo. Strisciando fino all'altro capo della Opel, le gridò di rimando: «Sto bene. Rimani dentro finché non vengo a prendervi». Scattò fino ai fanali posteriori e poi uscì di corsa dal riparo, slanciandosi dietro gli alberi. Una raffica di colpi andò a colpire il muso dell'auto. Aveva contato gli spari dall'inizio dell'attacco. Dopo l'ultima raffica aveva calcolato che il cecchino aveva bisogno di tempo per ricaricare l'arma. Per arrivare al riparo degli alberi gli servivano solo un paio di secondi. Stava per iniziare la caccia .
Tra pini e querce, lunghe ombre si aggrappavano al denso intrico dei rami. Qua e là la luce filtrava formando minuscoli diamanti in continuo movimento quando il vento soffiava tra gli alberi. Bourne, semiaccovacciato, si addentrò nel sottobosco, facendo molta attenzione a non spezzare legnetti o pigne. Ogni cinque o sei passi si fermava, scrutando, in ascolto, come una volpe o un ermellino, attento sia alla preda sia ai predatori . Intrawide qualcosa di nero e marrone, indistinto, che sparì quasi prima che riuscisse a registrarne la presenza. Puntò in quella direzione. Soppesò la possibilità di salire sugli alberi, ma temeva che il rumore dei rametti spezzati avrebbe rivelato la sua posizione. A un certo punto cambiò direzione, facendo un'ampia deviazione semicircolare in modo da arrivare al cecchino di fianco. Procedendo guardava continuamente dietro e sopra di sé, in cerca di un segno rivelatore dell'avversario . Un luccichio metallico in alto, davanti a lui, lo spinse a continuare a un'andatura più rapida. Sbirciando da dietro il tronco di una quercia riuscì a scorgere la spalla e il fianco destro dell'uomo. Si inginocchiò dietro una folta macchia di cespugli e gli arrivò con uno scatto fulmineo alle spalle. Uno stretto spazio tra due pini gli consentiva una visuale eccellente della porta d'ingresso e del vialetto di accesso. Bourne scorse il corpo di Ottavio Moreno steso a terra in una pozza di sangue. Marks era nascosto dietro la fiancata della Opel di Moreno . Bourne immaginò che il cecchino fosse in attesa che qualcuno si muovesse. Sembrava intenzionato a sparare per uccidere chiunque avesse messo il naso fuori di casa. Era della NSA, della CIA o un militante della Severus Domna? C'era un solo modo per scoprirlo . Bourne si avvicinò con molta cautela, ma all'ultimo momento il cecchino si accorse della sua presenza e lo colpì nella parte bassa dell'addome, spingendo all'indietro il calcio di legno del suo Dragunov SVD. Poi girò su se stesso e abbatté la canna del fucile sulla spalla di Bourne. Era magro, con il viso appiattito, occhi piccoli e neri e il naso schiacciato . Colpì ripetutamente Bourne fino a farlo inginocchiare e, con un ulteriore colpo del Dragunov, lo costrinse a stendersi supino. Gli premette la bocca del fucile contro il petto . «Non muoverti e non dire una parola» gli intimò. «Dammi quell'anello.» «Quale anello?» Il cecchino spostò con forza il fucile contro la mandibola di Bourne, provocandogli una ferita. Ma nello stesso momento Bourne assestò un colpo violento al ginocchio dell'uomo. L'articolazione si piegò verso l'interno, le ossa scricchiolarono e il cecchino restò senza fiato per il dolore. Bourne rotolò di fianco mentre il cecchino sparava un colpo. Il proiettile si conficcò nel terreno nel punto in cui si trovava prima Bourne, mandando in pezzi una vecchia tavola marcia, irta di lunghi chiodi da falegname . Appoggiato su un ginocchio, il cecchino cominciò a maneggiare il Dragunov come una mazza, agitandolo avanti e indietro per tenere Bourne a distanza intanto che cercava di riprendere fiato. Infine, con uno sforzo combinato, riuscì a rimettersi in piedi. In quel momento Bourne si piegò e lo colpì con una spallata. Caddero a terra. Subito l'uomo cercò di portare Bourne sui chiodi che spuntavano dalla tavola, mentre i due lottavano per il possesso del Dragunov. Bourne assestò all'uomo una gomitata violenta sul pomo d'Adamo. Quando quello iniziò a boccheggiare lo colpì con un pugno tra l'orecchio e la tempia. L'uomo rimase inerte . Bourne gli controllò le mani, senza trovare alcun anello. Poi gli frugò nelle tasche. Si chiamava Farid Lever, secondo il passaporto francese che aveva con sé, ma Bourne sapeva che un nome non significava niente: il passaporto poteva essere vero come falso, non aveva il tempo di verificare. Lever, o come diavolo si chiamasse, aveva con sé cinquemila sterline, duemila euro e le chiavi di una macchina . Svuotò il caricatore del Dragunov, lo lanciò nel folto degli alberi e diede alcuni schiaffi all'uomo per fargli riprendere i sensi . «Chi sei?» lo incalzò Bourne. «Per chi lavori?» Gli occhi neri lo guardarono, impassibili. Bourne gli schiacciò il ginocchio ferito. L'uomo spalancò gli occhi e ansimò, ma non emise alcun altro suono. Jason era però certo che presto l'avrebbe fatto. Quell'individuo aveva appena sparato a due persone, uccidendone una. Gli aprì con forza la bocca e vi spinse il pugno.
L'uomo cercò di respirare, inarcando la schiena. Provò a liberarsi scuotendo la testa da una parte all'altra, ma Bourne mantenne la presa. Quando alzò le mani, Bourne gliele fece abbassare con forza e premette il pugno ancora più a fondo . Gli occhi del cecchino si riempirono di lacrime, tossì e di nuovo boccheggiò. Poi la gola si alzò senza controllo ed ebbe un conato di vomito, ma aveva la bocca bloccata. Sarebbe morto per asfissia. Il volto gli si riempì di terrore e annuì con tutta l'energia che aveva in corpo . Nel momento in cui Jason lo liberò dal pugno in bocca, l'uomo rotolò su un fianco e vomitò, con il naso gocciolante e gli occhi pieni di lacrime. Tremava dalla testa ai piedi. Bourne lo prese per le spalle e lo voltò sulla schiena. Era devastato in volto: aveva l'aria di un ragazzino pestato in una rissa di strada . «Allora» ricominciò Bourne. «Chi sei e per chi lavori?» «Fa... Fa... Farid Lever.» Chiaramente aveva difficoltà a parlare . Bourne gli mostrò il passaporto francese. «Un'altra frottola e ti caccio questo giù per la gola, ma stavolta ti garantisco che ce lo lascio.» Il cecchino deglutì, con una smorfia di disgusto per il sapore acido che aveva in bocca . «Farid Kazmi. Sono un uomo di Jalal Essai.» Bourne colse un lampo nell'oscurità. «Severus Domna?» «Prima.» Kazmi dovette fermarsi a riprendere fiato e a cercare di produrre un minimo di salivazione. «Ho bisogno di bere. Hai dell'acqua?» «Anche quei due a cui hai sparato avevano bisogno di acqua. Uno è morto, l'altro è ferito, ma nessuno dei due l'avrà» disse Bourne. «Va' avanti. Jalal Essai...» «Jalal faceva parte della Severus Domna. Ma poi ne è uscito.» «E una decisione pericolosa. Doveva avere un'ottima ragione per farlo.» «L'anello.» «Perché?» Kazmi cercò di inumidirsi le labbra con la lingua. «Appartiene a lui. Aveva creduto per anni che fosse andato perso, ma adesso ha scoperto che gli era stato rubato da suo fratello anni fa. Ce l'hai tu.» Allora Jalal Essai è il famoso e temibile zio di Holly, pensò Bourne. Se non altro, il puzzle stava prendendo forma. Da una parte Holly l'edonista, e dall'altra suo zio Jalal, l'estremista religioso. E se il padre di Holly se ne fosse andato dal Marocco per proteggerla dal fratello, il quale avrebbe senz'altro cercato di reprimere le tendenze naturali di Holly, di soffocarla, di ucciderla, addirittura? Ma adesso ne era certo, in un lampo accecante di ricordi che gli si affollarono nella mente: era lui. Holly l'aveva in un certo senso reclutato per proteggerla da Jalal Essai. Lui l'aveva fatto, ma lo strano rapporto tra Holly, Tracy, Perlis e Diego Herrera, un rapporto di cui non gli aveva parlato, aveva finito per distruggerla. Perlis aveva saputo da lei la storia dell'anello e poi l'aveva uccisa per impossessarsene . «Dovevo recuperare l'anello a tutti i costi» proseguì Kazmi, riportando Bourne alla realtà . «Anche al prezzo di qualche vita.» Kazmi annuì, con una smorfia di dolore. «Tutte quelle necessarie.» Un lampo attraversò i suoi occhi neri. «Jalal se lo riprenderà.» «Perché dici questo?» Il volto di Kazmi si distese, all'improvviso sereno, e Bourne si slanciò verso la sua bocca. Ma era troppo tardi. Con i molari aveva spezzato una capsula e il cianuro contenuto all'interno stava già facendo effetto . Bourne si accovacciò. Quando Kazmi esalò l'ultimo respiro, si alzò e ritornò verso la casa . Peter Marks giaceva a terra, cercando di restare il più possibile immobile. Muoversi avrebbe causato un'ulteriore perdita di sangue. Anche se ben addestrato, non era mai rimasto ferito sul campo né da nessun'altra parte, non aveva mai avuto un incidente, non era mai neppure caduto da una scala né era inciampato sui gradini. Stava disteso, inerte, ad ascoltare il suo respiro entrare e uscire dalla bocca, mentre sentiva il sangue pulsargli nella gamba come se là ci fosse un altro cuore, però maligno, nero pece, un cuore che significava morte; come se negli atri e nei ventricoli si fosse annidata furtivamente la morte . Marks sentiva che la vita stava per essergli strappata prima del dovuto, come era accaduto a sua sorella. Avvertiva la sua vicinanza, come se all'ultimo momento l'avesse portata via da quell'aereo maledetto, tenendola stretta mentre planavano tra le nuvole. Quell'improvvisa consapevolezza della fragilità della sua stessa esistenza non era così spaventosa, ma gli aveva cambiato il modo di vedere le cose. Era disteso a terra, inerme e sanguinante, e guardava una
formica lottare con una foglia appena caduta, una foglia giovane, di un verde luminoso, che fino a un momento prima era piena di vita. Era chiaramente troppo grande per la formica, ma lei continuava imperterrita a tirare e a spingere, trascinando la foglia recalcitrante su sassolini e radici, gli ostacoli insormontabili del suo mondo. Marks si scoprì ad amare quella formica, che si rifiutava di mollare, anche se la vita era così difficile. Perseverava. Resisteva. Anche Marks decise di fare lo stesso. Decise che avrebbe badato a se stesso e alle persone a cui voleva bene Soraya, per esempio - in un modo che mai avrebbe potuto immaginare o prevedere prima di essere colpito da quel proiettile . E così rimase disteso ancora per un po', senza sentire altro che il suono discontinuo del vento tra gli alberi. Fu per la sua nuova consapevolezza che, quando sentì la voce di Chrissie, rispose: «Sono Peter Marks. Sono stato colpito alla gamba. Moreno è morto e Adam è andato a cercare il cecchino» . «Adesso vengo a prenderla.» «Rimanga dove si trova» gridò di rimando. Trascinandosi in avanti, si mise faticosamente seduto, con la schiena appoggiata alla Opel. «L'area non è sicura.» Ma un attimo dopo lei apparve al suo fianco, accovacciata per ripararsi dietro la fiancata dell'auto crivellata dai proiettili . «Stupida mossa» commentò lui . «Si figuri.» Era la seconda volta che qualcuno glielo diceva, quel giorno, e la cosa non gli piacque. In realtà in quel momento non gli piaceva quasi nulla della sua vita, e per un istante rimase disorientato a chiedersi come avesse fatto a ridursi in quel miserevole stato. Non aveva nessuno da amare e, per quanto gli era dato sapere, nessuno amava lui, almeno non in quel periodo. Probabilmente era stato amato dai suoi genitori, nel loro modo burbero e prevaricatore, e di certo da sua sorella. Ma chi altro c'era stato? La sua ultima fidanzata aveva retto sei mesi, un lasso di tempo più o meno normale per stancarsi delle sue assenze e mancanza di attenzioni. Amiche? Qualcuna. Ma, come Soraya, lui usava loro oppure loro si servivano di lui. Provò un improvviso senso di nausea ed ebbe un brivido . «Sta andando sotto shock» disse Chrissie, capendolo meglio di quanto lui potesse immaginare. «Sarà meglio portarla in casa, deve scaldarsi.» Lo aiutò ad alzarsi in piedi, puntandosi sulla gamba sana. Marks le appoggiò un braccio sulle spalle e si avviarono verso casa. Lui barcollava e, inciampando su un sasso o su una radice, fece quasi perdere l'equilibrio a tutti e due . Cristo santo, pensò in un impeto di furia. Sono pieno di autocommiserazione, oggi, e il disgusto di sé crebbe ancora . Il padre di lei, che intanto era uscito di casa, si affrettò a raggiungerli e si pose all'altro fianco di Marks per aiutarli. Quando furono dentro, il vecchio richiuse la porta con un calcio . Bourne s'imbattè nella donna all'improvviso. Era mezza sepolta nelle foglie secche. La faccia era rivolta all'insù, gli occhi chiusi. I lunghi capelli erano impiastricciati di sangue, ma dalla sua posizione a terra era impossibile capire se fosse viva o morta. Magari era una vicina che, uscita per una passeggiata, aveva avuto la sventura di incappare in Kazmi. Sotto lo strato di foglie si intrawedevano una camicia di flanella a quadri rossi e neri, dei jeans e un paio di scarpe da trekking. In apparenza, le foglie le erano state gettate addosso in tutta fretta . Bourne stava tornando da Peter Marks e dagli altri, ma prima doveva accertarsi se quella donna fosse solo ferita e quindi ancora viva. Si avvicinò con circospezione e tese una mano per sentire le pulsazioni all'altezza del collo . Lei spalancò gli occhi e alzò una mano che stringeva il manico di un coltello da caccia. La punta saettò verso il suo petto e, quando lui si spostò, gli tagliò la camicia e la pelle sullo sterno. Lei scattò a sedere, cercando di colpirlo. Le foglie le cadevano di dosso come terriccio appena smosso da un cadavere vivente. Bourne le afferrò il polso per allontanare la lama, ma la donna aveva un secondo coltello nell'altra mano. Nella concitazione della lotta lo vide solo all'ultimo momento e la punta lo colpì sulla clavicola . La donna sapeva come muoversi ed era sorprendentemente forte. Con una sforbiciata delle gambe gli bloccò la caviglia destra, facendogli perdere l'equilibrio. Jason cadde all'indietro e lei
gli fu sopra in un baleno. Le stringeva un polso, ma la lama del coltello era pericolosamente vicina alla sua gola. Armato di un chiodo da falegname, impugnandolo come un punteruolo glielo conficcò con forza nel collo, proprio sulla carotide . Ne zampillò un getto di sangue pulsante al ritmo del cuore, sempre più lento. La donna crollò sul tappeto di foglie di cui era coperta prima. Lo guardò con lo stesso sorriso enigmatico di Kazmi, un'espressione che gli fece capire che con Jalal Essai non era finita, la stessa che gli aveva fatto intuire di non abbassare la guardia e di prendere con sé uno di quei chiodi. Forse Kazmi e la donna lavoravano in coppia? Lei doveva agire come suo appoggio? Così gli sembrava, un piano diabolico che faceva di Jalal Essai un nemico difficile da battere con il quale condivideva un passato complicato e pieno di ombre, un uomo che senza dubbio ce l'aveva a morte con lui . Chrissie, aiutata dal padre, stava facendo sedere Marks su una sedia, quando risuonarono dei colpi di fucile all'esterno. La donna si precipitò alla porta e la spalancò, nonostante il padre le gridasse di stare attenta. Al riparo dello stipite, scrutò gli alberi oltre il vialetto d'accesso e la Opel, ma non riuscì a scorgere alcunché, anche se cercava con tutte le proprie forze di penetrare con lo sguardo tra i rami alla ricerca di un segno qualsiasi che le indicasse che Bourne era ancora vivo. E se fosse stato ferito e avesse bisogno di aiuto? Aveva già deciso di uscire a cercarlo, come immaginava avrebbe fatto Tracy in una circostanza analoga, quando lo scorse mentre sbucava tra gli alberi. Prima che potesse fare un solo passo, qualcuno le passò davanti come un lampo . «Scarlett!» La ragazzina corse sul vialetto, passò accanto al cadavere di Moreno, girò attorno al cofano dell'auto e si gettò tra le braccia di Bourne . «Questa volta è sangue vero, è il tuo sangue» disse con affanno, «ma io posso aiutarti.» Bourne stava per allontanarla dolcemente da sé, ma la sua evidente preoccupazione gli fece cambiare idea. Voleva davvero rendersi utile e lui non poteva mandarla via. Si inginocchiò accanto a lei, in modo che potesse controllare i suoi tagli e le contusioni . «Vado a prendere le bende nel kit di pronto soccorso del nonno.» Ma non si allontanò da lui, e rimase a giocherellare nel terriccio con le dita come fanno i bambini quando sono in imbarazzo o non sanno cosa dire. Poi avvicinò la faccia alla sua. «Stai bene?» Lui sorrise. «Fai finta che sia inciampato su un sasso.» «Solo graffi e botte?» «Tutto qui.» «Allora va bene. Io...» Sollevò qualcosa, in modo che lui potesse vedere. «Io ho trovato questo. E del signor Marks? Era dove stava disteso lui.» Bourne lo prese e lo ripulì dallo sporco. Era un anello della Severus Domna. Da dove saltava fuori? «Lo chiedo al signor Marks quando siamo in casa» dichiarò facendo scivolare l'anello in tasca . In quel momento sopraggiunse Chrissie, affannata, non solo per la corsa, ma anche per il terrore di sapere sua figlia esposta ad altri pericoli . «Scarlett!» chiamò . Bourne si accorse che stava per rimproverare la bambina, ma poi, nel vedere come stava esaminando concentrata le ferite superficiali di lui, chiuse la bocca per consentire lo svolgimento di quella piccola scena drammatica . «Se mi dai il permesso di medicarti quei tagli, poi guarisci» disse Scarlett . «Allora entriamo, dottoressa Lincoln.» Scarlett ridacchiò, soddisfatta. Bourne si rialzò e tutti e tre si diressero in silenzio verso la casa. Il padre di Chrissie stava medicando Marks attingendo a un kit di pronto soccorso molto ben fornito. Marks aveva gli occhi chiusi e la testa rovesciata all'indietro. Bourne immaginò che il professore gli avesse somministrato un sedativo . «Papà tiene quel kit nel baule della macchina» spiegò Chrissie mentre Scarlett cercava delle bende e il mercurocromo. «Va a caccia da sempre.» Bourne sedette a gambe incrociate sul tappeto mentre Scarlett si occupava di lui . «La ferita è pulita» disse il professor Atherton del suo paziente. «Il proiettile è fuoriuscito, quindi le possibilità di un'infezione sono scarse, soprattutto adesso che l'ho disinfettata.» Prese il mercurocromo a Scarlett, ne bagnò due riquadri di garza sterile, le applicò nei punti di entrata
e di uscita del proiettile e bendò la ferita con gesti esperti. «Ho visto di peggio» commentò. «L'unico problema è farlo stare a riposo e somministrargli liquidi appena possibile. Ha perso molto sangue, anche se sarebbe andata peggio, in mancanza del laccio emostatico.» Quando ebbe finito, alzò lo sguardo dal suo paziente per spostarlo su Bourne. «Ha un pessimo aspetto, lei come cavolo si-chiama. » «Professore, ho bisogno di farle una domanda.» Il vecchio sbuffò. «Ma non sa fare altro che domande, ragazzo?» Appoggiò una mano sulla sedia di Marks e fece forza per rimettersi in piedi. «Be', può chiedermi tutto quello che vuole, ma non vuol dire che le risponderò.» Anche Bourne si rialzò. «Tracy aveva un fratello?» «Cosa?» Chrissie si accigliò. «Adam, ti ho già spiegato che Tracy era la mia unica...» Bourne alzò una mano. «La mia domanda non è se tu e tua sorella aveste un fratello. La domanda è se Tracy avesse un fratello.» Il professor Atherton si rabbuiò in volto. «Maledizione, giovanotto, in altri tempi le avrei fatto saltare via le orecchie a suon di pugni per aver detto una bestialità del genere.» «Ha eluso la domanda. Tracy aveva un fratello?» L'espressione del professore si fece ancora più torva. «Forse intende un fratellastro.» Chrissie fece un passo verso i due uomini, che si trovavano muso a muso, quasi pronti a venire alle mani. «Adam, ma perché stai...?» «Non fare tante storie per niente!» Il padre liquidò il suo intervento con un gesto sgarbato. «Lei mi sta chiedendo se sono andato a letto con un'altra donna ed è nato qualcosa da quella relazione?» «Esatto.» «No, mai» rispose il professor Atherton. «Io amavo la madre delle mie figlie e le sono stato fedele più a lungo di quanto riesca a ricordare.» Scosse la testa. «Penso che si sia creato castelli in aria.» Bourne rimase impassibile. «Tracy era al servizio di un uomo pericoloso. Ho dovuto chiedermi perché, dato che sembrava fuor di dubbio che lavorava per lui volontariamente. Poi Chrissie mi ha fornito una parte della risposta. Tracy aveva detto a quell'uomo di avere un fratello in difficoltà.» All'improvviso il professor Atherton cambiò atteggiamento. Si fece esangue in volto e sarebbe crollato a terra se Chrissie non fosse accorsa a sostenerlo. Con qualche difficoltà riuscì a farlo sedere sulla sedia di fronte a Marks . «Papà!» si inginocchiò accanto a lui, tenendogli una mano madida di sudore tra le sue. «Che storia è questa? Esiste un fratello del quale non so niente?» Il vecchio continuava a scuotere il capo. «Non avevo idea che lo sapesse» biascicò, quasi parlando a se stesso. «Come diavolo ha fatto a scoprirlo?» «Allora è vero.» Chrissie scoccò uno sguardo in direzione di Bourne e tornò a occuparsi del padre. «Perché tu e la mamma non ce l'avete mai detto?» Il professor Atherton trasse un profondo sospiro e si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Guardò sua figlia con espressione vuota, come se non la riconoscesse o si aspettasse di vedere qualcun altro . «Non voglio parlarne.» «Ma devi.» Sembrò sul punto di alzarsi, raddrizzando la spina dorsale, per poi chinarsi verso di lui, quasi a conferire maggior peso alle sue parole. «Adesso non hai scelta, papà. Devi dirmi tutto di lui.» L'uomo rimase in silenzio, impassibile, come se la febbre che lo aveva assalito se ne fosse andata di colpo . «Come si chiama?» implorò lei. «Non puoi dirmi almeno questo?» Il padre parlò senza guardarla negli occhi. «Non aveva nome.» Chrissie si lasciò cadere su una sedia, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno volto. «Non capisco.» «E perché dovresti?» continuò il professor Atherton. «Vostro fratello è nato morto.» *** Capitolo 23 . Jalal Essai era un uomo segnato, e lo sapeva. Seduto su una sedia pieghevole che aveva sistemato nella camera avvolta nella penombra, stava riflettendo su alcuni fattori. Rompere con la Severus Domna non era stata una decisione facile, o meglio, se la decisione era stata semplice era stato difficile metterla in pratica. Ma in fondo era sempre difficile, considerò Essai, mettersi deliberatamente in pericolo. Non aveva dato corso alla sua decisione prima di avere messo a punto il metodo per attuarla, tracciando nella mente una lista di tutti i possibili percorsi, per poi scartarne uno alla volta e individuare quello che presentava il minor numero di controindicazioni, il livello di rischio più accettabile e le migliori probabilità di successo. Si serviva di questo approccio analitico per prendere tutte le sue decisioni: era il modo più logico. Inoltre presentava l'ulteriore vantaggio di calmarlo, come gli accadeva con le preghiere ad
Allah o con la contemplazione di un koan zen. Una mente sgombra è in grado di accogliere possibilità inaccessibili agli altri . Così sedeva, completamente immobile, nel buio della sua camera del suo appartamento, con tutte le tende tirate a schermare le luci della strada e i fari di qualche auto o furgone di passaggio. La notte e la minaccia della notte. La notte era per lui quello che la tazzina di caffè era per qualcun altro, uno stato di riflessione calma e appagante. In questo modo riusciva ad addentrarsi nell'oscurità, persino negli incubi, perché Allah lo aveva illuminato con il dono del vero credente . Erano le tre del mattino. Sapeva cosa sarebbe successo a breve, e per questo aveva deciso di non affrettarsi. Se uno corre fuori dal suo territorio, diventa un bersaglio facile. Inciampa, e muore. Essai non aveva intenzione di inciampare. Invece, aveva preparato la sua camera per l'inevitabile, ed era disposto - ne era persino contento - a rimanere al suo posto fino a quando il nemico non si fosse palesato . Dapprima sentì il rumore. Un leggero scalpiccio, come di topi, proveniente dal soggiorno, in prossimità della porta d'ingresso. Il suono cessò quasi subito, ma lui sapeva che il nemico aveva scassinato la serratura della porta, perché nell'appartamento c'era qualcuno. Lui non si mosse. Non c'era ragione per farlo. Tenne lo sguardo puntato sul letto, dove una massa informe sotto le coperte avrebbe dovuto rivelare agli occhi del nemico la presenza di una persona immersa nel sonno . La qualità del buio non era più la stessa: era più profondo e fitto, rivelatore della presenza di un altro essere umano. Essai focalizzò ancora di più lo sguardo. Il nemico, che ormai era nell'obiettivo, si chinò sul letto . Essai percepì il movimento come una corrente d'aria quando il suo nemico estrasse un pugnale e lo affondò nella figura addormentata. Dalla plastica forata uscì subito un getto che investì in pieno il killer di acido per batterie, con il quale Essai aveva riempito la bambola gonfiabile . Il nemico reagì come aveva previsto, cadde all'indietro, agitando braccia e gambe. Sul pavimento cercò disperatamente, senza riuscirci, di ripulirsi faccia, collo e torace. L'azione servì soltanto a distribuire meglio il liquido sulla pelle. Cercò di gridare, ma poiché l'acido gli stava corrodendo le labbra e la lingua non riuscì a produrre alcun suono. Doveva essere un incubo per lui, pensò Essai, alzandosi finalmente dalla sedia . Chinandosi sul nemico - l'uomo inviato dalla Severus Domna per ucciderlo a causa della sua slealtà - aveva sulle labbra il sorriso del giusto, dell'uomo retto agli occhi benevoli di Allah, e appoggiandosi l'indice sulle labbra sussurrò «Shhhhh» così piano che solo lui e il suo nemico poterono sentire . Poi prese il pugnale del sicario e attraversò il corridoio fino all'ingresso. Appiattendosi contro la parete si mise in attesa, liberando la mente da ogni aspettativa. Nel suo magnifico vuoto vide il percorso che con ogni probabilità avrebbe fatto il secondo uomo. Sapeva che doveva esserci un secondo uomo, proprio come sapeva che l'assassino non avrebbe usato una pistola per ucciderlo, perché i capisaldi del metodo operativo della Severus Domna erano due: agire di nascosto e avere sempre un appoggio. Metodi che egli stesso aveva utilizzato nella sua caccia a Jason Bourne e all'anello . Un'ombra che cadeva in diagonale sul pavimento dell'ingresso avvalorò la sua ipotesi. Ora sapeva dove si trovava il secondo uomo, o meglio dove era prima, perché si stava muovendo. Il suo compatriota aveva avuto tempo a sufficienza per eseguire il compito e ora lui entrava per verificare che tutto fosse andato secondo i piani . Certamente qualcosa era andato storto, come gli confermò il pugnale, lanciato da Essai con precisione assoluta, che andò a conficcarsi nel torace nello spazio tra due costole, per fermarsi nel cuore. L'uomo cadde con un tonfo, come uno gnu abbattuto da un leone. Essai si avvicinò e si inginocchiò per stabilire se c'era ancora il polso, una traccia di vita. Poi ritornò in camera, dove il primo killer si contorceva sul pavimento con movimenti sempre più scoordinati .
Accese una luce e studiò il volto dell'uomo. Non lo aveva mai visto prima, ma non si aspettava niente di diverso. La Severus Domna non avrebbe certo mandato qualcuno che avrebbe potuto riconoscere con un'occhiata. Si accovacciò di fianco all'uomo e gli parlò. «Amico mio, mi fai pena. Mi fai pena perché ho deciso di non porre fine alla tua esistenza e quindi alla tua sofferenza. Ti lascerò vivere così come sei.» Prese un cellulare usa e getta e digitò sulla tastiera un numero locale . «Sì?» rispose Benjamin El-Arian . «C'è una consegna da ritirare» disse Essai . «Temo ci sia un errore. Non ho ordinato niente.» Essai avvicinò il cellulare alla bocca dell'uomo, dalla quale uscirono dei suoni simili a muggiti, come quelli di un animale in preda alla sofferenza . «Chi è?» Il tono di voce di El-Arian non era più lo stesso: c'era adesso una vena febbrile. Essai, che aveva di nuovo l'orecchio al cellulare, la percepiva benissimo . «Penso che tu abbia una trentina di minuti prima che il tuo uomo muoia. La sua vita è nelle tue mani.» Essai chiuse la comunicazione e schiacciò il cellulare sotto il tacco della scarpa, facendolo a pezzi . Poi si rivolse all'assassino per l'ultima volta: «Dovrai raccontare a Benjamin El-Arian quello che è successo qui, poi lui farà con te quello che ritiene opportuno. Digli anche che la stessa sorte attende chiunque mandi a farmi fuori. E tutto quello che devi fare. Il suo tempo, e il tuo, è scaduto» . Moira, in piedi a tribordo dello yacht, osservava lo scambio di segnali all'infrarosso attraverso il visore notturno che le aveva fornito il capitano qualche minuto prima. Riusciva a vedere il motoscafo, ora che lo yacht si stava avvicinando. Spostando leggermente il campo visivo, scorse due figure sul motoscafo, oltre a colui che faceva i segnali. Un uomo e una donna. L'uomo era quasi certamente Arkadin, ma chi era la donna, e perché avrebbe dovuto avere a bordo qualcun altro? Berengària le aveva detto che Arkadin sarebbe venuto incontro alla barca accompagnato da una sola persona, un vecchio messicano di nome El Heraldo . Il capitano continuò a tenere i motori in folle scivolando per inerzia tra le onde scure. Ora Moira riusciva a distinguere il volto di Arkadin, e quella vicino a lui era... Soraya Moore! Per poco il visore notturno non le cadde di mano. Cosa diavolo... fin ogni piano c'era qualcosa che poteva andare storto e mandare tutto all'aria. Là c'era il suo bastone tra le ruote . Quando il motoscafo si affiancò allo yacht si sentiva solo il tranquillo sciabordio dell'acqua. Un uomo dell'equipaggio calò una scaletta di corda sulla fiancata, mentre un secondo manovrava l'argano. Intanto altri due uomini erano impegnati a issare il carico da sottocoperta. Berengària le aveva spiegato la procedura nei particolari. Nella rete fu caricata una cassa in modo che Arkadin potesse ispezionare il contenuto . Durante le operazioni, Moira si protese oltre il parapetto, per guardare le persone a bordo del motoscafo. Soraya la vide per prima e rimase a bocca aperta per la sorpresa. «Cosa diavolo...?» disse muovendo solo le labbra a Moira, alla quale venne da ridere. Entrambe avevano avuto la stessa reazione . Poi Arkadin la vide. Scuro in volto, si arrampicò sulla scaletta. Nell'istante in cui scavalcava il parapetto dello yacht, estrasse una Glock 9mm e la puntò contro il fianco di Moira . «E tu chi cazzo sei?» l'apostrofò. «E che cosa fai a bordo della mia barca?» «Non è la tua barca. Appartiene a Berengària» rispose Moira in spagnolo . Gli occhi di Arkadin si strinsero. «E appartieni anche tu a Berengària?» «Io non appartengo a nessuno» ribatté Moira, «ma sto curando gli interessi di Berengària.» Aveva pensato alle possibili risposte a questa domanda per tutto il viaggio fino alla costa messicana. Alla fine aveva concluso che Arkadin era per prima cosa un uomo, e poi un criminale e omicida . «E proprio tipico di una donna mandare un'altra donna» commentò Arkadin nello stesso tono dispregiativo di Roberto Corellos .
«Berengària è convinta che non hai più fiducia in lei.» «Infatti.» «Forse anche per lei è lo stesso.» Arkadin le lanciò uno sguardo torvo, ma non disse nulla . «E un triste stato di cose» ammise Moira. «E non è certo il modo giusto per fare affari insieme.» «E la donna a cui tu non appartieni come propone di procedere?» «Per cominciare, potresti abbassare quella Glock» suggerì Moira . Intanto Soraya si era arrampicata sulla scaletta ed era salita sullo yacht, scavalcando il parapetto di ottone. Si rese conto immediatamente della situazione, spostando lo sguardo da Moira ad Arkadin e viceversa . «Andate a farvi fottere, tu e Berengària!» si infuriò Arkadin . «Se avesse mandato un uomo, ci sono buone possibilità che vi sareste ammazzati l'un l'altro.» «Io sicuramente l'avrei ucciso» replicò Arkadin . «Quindi non sarebbe stato molto intelligente da parte sua mandare qui un maschio.» Arkadin sbuffò. «Fanculo, non siamo mica ai fornelli.» Scosse la testa, incredulo. «Non sei neppure armata.» «Quindi non mi sparerai» continuò Moira. «E quindi mi ascolterai di buon grado quando parlerò, quando condurrò la trattativa e quando ti proporrò un modo per andare avanti senza che ci siano sospetti, da entrambe le parti.» Arkadin la fissava nello stesso modo in cui un falco guarda un passerotto. Forse non la considerava più una minaccia, o forse con le sue parole era riuscita a colpirlo. In ogni caso, abbassò la pistola e la infilò dietro la schiena, nella cintura dei pantaloni . Moira scoccò a Soraya uno sguardo significativo. «Ma non ho intenzione di trattare o di proporre alcunché in presenza di estranei. Berengària mi aveva parlato di te e del tuo marinaio, El Heraldo, ma io qui vedo una donna. Non mi piacciono le sorprese.» «Siamo in due.» Arkadin accennò a Soraya con un movimento della testa. «E una nuova socia, ancora in prova. Se non funziona, le farò un buco dietro la testa.» «Già.» Il russo si avvicinò a Soraya e, atteggiando pollice e indice a imitare una pistola, gliela premette alla base del cranio. «Bum!» Poi si voltò e, con il più affascinante dei sorrisi, disse: «Dimmi che cos'ha in mente» . «Ci sono troppi soci» osservò Moira in tono schietto . Arkadin parve esitare. «Per quello che mi riguarda» replicò, «non m'importa niente dei soci.» Si strinse nelle spalle. «Purtroppo fanno parte degli affari. Ma se Berengària non li vuole...» «Pensavamo più a Corellos.» «E il suo uomo.» «Si tratta di affari» disse Moira. «Quello che ha fatto con Corellos era per mantenere la pace tra loro.» Si strinse anche lei nelle spalle. «Quale arma migliore di questa può avere?» Arkadin sembrò considerarla in una nuova luce. «Corellos è un uomo molto potente.» «Corellos è in carcere.» «Non credo che ci resterà a lungo» considerò Arkadin . «Ecco perché abbiamo intenzione di colpirlo adesso.» «Colpirlo?» «Uccidere, far fuori, assassinare, chiamalo come vuoi.» Arkadin fece una breve pausa, quindi scoppiò a ridere. «Ma dove diavolo ti ha trovata, Berengària?» Moira, gettando un'occhiata a Soraya, arrivò molto vicina a indovinare quando pensò: Più o meno nello stesso posto in cui tu hai trovato la tua nuova socia . «Perché l'avrebbe fatto?» Il professor Atherton parlava tenendosi la testa fra le mani. «Perché Tracy avrebbe dovuto dire a qualcuno che aveva un fratello?» «Soprattutto perché, dicendolo, ha attribuito ad Arkadin un potere su di lei» aggiunse Chrissie . «Ha fatto di più che menzionare un fratello» intervenne Bourne. «Ha elaborato una storia complicata per far credere che fosse vivo e in difficoltà. E come se avesse voluto dare ad Arkadin qualcosa su di lei.» Chrissie scosse la testa. «Ma non ha alcun senso.» Invece ne ha, pensò Bourne, se avesse avuto l'incarico di avvicinarsi ad Arkadin. Per riferire sui suoi affari e i luoghi che frequentava, per esempio. Comunque non aveva intenzione di approfondire con loro. «Possiamo rimandare a dopo questo discorso» disse. «Dopo quello che è successo nel bosco, adesso dobbiamo andarcene di qui.» Si rivolse al professor Atherton. «Io mi occupo di Marks, lei ce la fa a muoversi da solo?» Il vecchio annuì seccamente . «Ti aiuto io, papà» si offrì Chrissie .
«Pensa a tua figlia» rispose lui in tono burbero. «Io me la cavo benissimo.» Chrissie risistemò il kit di pronto soccorso. Lo trasportò nell'ingresso, tenendo Scarlett per mano. Bourne fece alzare Marks, issandoselo su una spalla . «Andiamo» disse, precedendo il professore all'esterno della casa . Chrissie fece strada fino alla macchina del padre parcheggiata sul retro . Bourne caricò Marks sull'auto a noleggio, miracolosamente illesa. Chrissie portò la macchina davanti all'ingresso per far salire Scarlett . Jason si avvicinò . «Cosa succederà adesso?» domandò lei . «Torni a fare la tua vita.» «La mia vita!» Rise, un po' a disagio. «La mia vita, come quella della mia famiglia, non sarà mai più la stessa.» «Magari,è una cosa positiva.» Lei annuì . «In ogni caso, mi dispiace.» «Non importa.» Fece un debole sorriso. «Per un momento sono stata Tracy, e adesso so che non ho mai voluto essere come lei, l'ho solo pensato.» Gli appoggiò una mano sul braccio. «Per fortuna ha incontrato te. L'hai resa felice.» «Per una notte o due.» «È più di quanto molte persone abbiano in una vita intera.» Tolse la mano. «E stata Tracy a scegliere la sua vita, non il contrario.» Bourne annuì. Si alzò e guardò all'interno dell'auto. Quando tamburellò sul finestrino, Scarlett lo aprì. Lui le mise qualcosa in mano e le richiuse le dita sopra . «È una cosa tra di noi» le raccomandò Bourne. «Non guardare fino a quando non sarai da sola a casa.» La ragazzina fece segno di sì con la testa, con aria solenne . «Andiamo» disse Chrissie, senza guardare Bourne . Scarlett chiuse il finestrino. Disse qualcosa che Bourne non riuscì a sentire; lui appoggiò il palmo della mano aperta sul vetro. Dall'interno, Scarlett premette la mano sulla sua . Marks aveva lasciato la chiave infilata nel quadro e Bourne mise in moto . La combinazione di rumore e vibrazioni quando la macchina si mosse sul vialetto per immettersi sulla strada risvegliò il passeggero dal dormiveglia . «Dove diavolo mi trovo?» mormorò con voce rauca . «Stiamo tornando a Londra.» Marks annuì, come fa un ubriaco che sta lottando per familiarizzare di nuovo con il mondo esterno. «Cazzo, la gamba mi fa malissimo.» «Ti hanno sparato, hai perso parecchio sangue, ma ti riprenderai presto.» «Bene.» Poi cambiò espressione e fu scosso da un brivido, come se i ricordi degli eventi recenti fossero riemersi all'improvviso. Si girò verso Bourne. «Senti, mi dispiace. Mi sono comportato di merda.» Bourne non disse niente e continuò a guidare . «Mi hanno mandato a cercarti.» «L'avevo immaginato.» Peter Marks si sfregò gli occhi con le nocche, nel tentativo di schiarirsi la mente. «Adesso lavoro per la Treadstone.» Bourne fermò la macchina sul ciglio della strada. «Da quanto tempo è stata ricostituita la Treadstone?» «Da quando Willard ha trovato un finanziatore.» «E chi sarebbe?» «Oliver Liss.» A Bourne venne da ridere. «Povero Willard! Dalla padella nella brace.» «Proprio così.» Marks parlava in tono lugubre. «E un gravissimo errore.» «E tu ne fai parte.» Marks sospirò. «In realtà spero di essere parte della soluzione.» «Sul serio? E come pensi di fare?» «Liss vuole qualcosa che hai tu: un anello.» Tutti vogliono l'anello delDominium, pensò Bourne, ma non fece commenti . «Avevo il compito di prendertelo.» «Sarei curioso di sapere come pensavi di farlo.» «A essere sincero, non ne ho idea» rispose Marks, «e neppure m'interessa più.» Bourne rimase in silenzio . Marks annuì. «Hai tutti i diritti di essere scettico, ma ti sto dicendo la verità. Willard ha chiamato poco prima che arrivassi alla casa. Ha detto che la missione era cambiata e che adesso dovevo portarti a Tineghir.» «Nel Marocco sudorientale.» «Ouarzazate, per la precisione. Sembra che anche Arkadin si stia dirigendo là.» Bourne stette zitto così a lungo che Marks si sentì costretto a parlare. «A cosa stai pensando?» «Al fatto che alla Treadstone non è più Oliver Liss che comanda.» «Perché dici questo?» «Liss non ti avrebbe mai ordinato di portarmi a Ouarzazate.» Guardò Marks. «No, Peter, c'è stato qualche cambiamento radicale.» «Anch'io ho
la stessa sensazione, ma cosa può essere successo?» Marks prese il suo palmare e fece scorrere alcuni siti governativi di notizie. «Cristo santo!» esclamò alla fine. «Liss è stato arrestato per ordine del Dipartimento della Giustizia durante un'indagine sul suo ruolo nelle operazioni illegali della Black River.» Alzò lo sguardo. «Ma è stato scagionato dalle accuse settimane fa.» «Ti ho detto che c'è stato un cambiamento radicale» ribadì Bourne. «Willard prende ordini da qualcun altro.» «Deve essere qualcuno in cima alla catena alimentare, visto che ha fatto riaprire l'indagine.» Bourne annuì. «E adesso sei all'oscuro di tutto, tanto quanto me. Ho idea che il tuo capo ti abbia mollato senza farsi troppi scrupoli.» «Francamente, non mi sorprende.» Marks si massaggiò la gamba. Il suo gemito di dolore era anche una protesta . «A Londra conosco un medico che saprà essere discreto su quella ferita.» Bourne mise in moto e, guardando dallo specchietto retrovisore, tornò sulla strada. «Tanto perché tu lo sappia, Diego mi aveva teso una trappola. Al club c'erano dei nemici che mi aspettavano.» «E Moreno ha dovuto ucciderlo?» «A questo punto non lo sapremo mai» rispose Bourne. «Ma Ottavio mi ha salvato la vita. Non meritava di essere ammazzato come un cane.» «Mi chiedo chi diavolo sia stato a spararci.» Bourne gli parlò della Severus Domna e di Jalal Essai, senza entrare nei particolari riguardo a Holly . «Sono stato attaccato a Londra. Ho preso uno strano anello d'oro dall'indice della mano destra dell'uomo che mi ha aggredito.» Si frugò nelle tasche. «Merda, mi sa che l'ho perso.» «L'ha trovato Scarlett e l'ho dato a lei per ricordo» disse Bourne. «Lo portano tutti coloro che fanno parte della Severus Domna.» «Allora tutto questo rientra in una vecchia missione della Treadstone.» Marks rifletté sulle implicazioni per qualche istante. «Sai perché Alex Conklin voleva il portatile?» «Non ne ho idea» rispose Bourne, anche se ora pensava di saperlo. Esisteva qualcuno al mondo, tranne Soraya e Moira, di cui potesse fidarsi? Pur sapendo che Soraya e Peter erano buoni amici, ancora non era convinto che Marks fosse del tutto affidabile . Marks si agitò sul sedile, alla ricerca di una posizione migliore. «C'è qualcosa che devo dirti. Temo di aver spinto Soraya a unirsi alla Treadstone.» Bourne sapeva che la Typhon non poteva funzionare, senza di lei, e ipotizzò che Danziger stesse smantellando sistematicamente la vecchia CIA per ricostituirla a immagine della beneamata NSA di Bud Halliday. Ma non intendeva preoccuparsene. Detestava e diffidava di tutte le agenzie di spionaggio. Però apprezzava il lavoro fatto dalla Typhon sotto la direzione del suo primo direttore e in seguito di Soraya. «Cosa intende farle fare Willard?» «Non ti piacerà.» «Dimmelo lo stesso.» «La sua missione è avvicinare Leonid Arkadin e il suo portatile.» «Lo stesso portatile che Conklin mi ha chiesto di rubare ajalal Essai?» «Proprio così.» A Bourne venne da ridere, ma se l'avesse fatto Marks gli avrebbe posto domande per le quali non aveva delle risposte pronte, quindi si trattenne. «E stata un'idea tua quella di chiedere a Soraya di avvicinare Arkadin?» «No, è stata di Willard.» «Ci ha messo un po' prima di decidersi?» «Me ne ha parlato il giorno dopo che l'ho reclutata.» «Quindi è possibile che avesse già in mente quell'incarico per lei quando ti ha chiesto di ingaggiarla.» Marks alzò le spalle, come se non riuscisse a capire che importanza potesse avere . Era invece molto importante per Bourne, che vedeva un disegno nel modo di pensare di Willard. Restò senza fiato. E se Soraya non fosse stata la prima donna ingaggiata dalla Treadstone per tenere d'occhio il suo primo diplomato? E se anche Tracy avesse lavorato per la Treadstone? Tutto tornava. La sola ragione per cui Tracy avrebbe mentito, mettendosi deliberatamente nelle grinfie di Arkadin, era per farsi assumere da lui e riuscire a passare informazioni sui suoi spostamenti e sui suoi affari. Un piano splendido, che aveva funzionato fino a che Tracy non era stata uccisa a Khartoum. Poi il russo era scomparso di nuovo. A Willard serviva un modo per ristabilire un contatto e quindi era ricorso a una tattica collaudata della Treadstone. Arkadin si serviva delle donne come di tovaglioli di carta, da gettare dopo l'uso. Probabilmente non avrebbe sospettato di essere sorvegliato da una donna . «Immagino che Soraya l'abbia trovato.» «Adesso è con lui a Sonora e sa cosa deve fare» disse Marks. «Pensi che sia in grado di farlo arrivare a Tineghir?» «No» rispose Bourne. «Io però sì.»
«E come?» Bourne sorrise, ricordando l'appunto sul computer portatile di Noah Perlis. «Ho bisogno di inviarle le informazioni per sms. Lei saprà cosa farne.» Erano arrivati nella periferia di Londra. Bourne uscì dall'autostrada allo svincolo successivo e parcheggiò in una strada laterale. Marks gli passò il palmare e gli dettò il numero di Soraya. Bourne lo digitò, scrisse il messaggio e lo inviò . Restituì il palmare a Marks e riprese la guida. «Io non so cos'è successo» disse, «ma è la Severus Domna a comandare Willard e la Treadstone.» «Cosa te lo fa dire?» «Jalal Essai è un amazigh. Viene dalle montagne dell'Alto Atlante.» «Ouarzazate.» «Allora, Willard prende ordini da Essai o dalla Severus Domna?» «Per il momento non ha importanza» rispose Bourne, «ma scommetterei sulla Severus Domna. Dubito che Essai abbia il potere di chiedere al Dipartimento della Giustizia di arrestare Liss.» «Perché Essai si è staccato dalla Severus Domna, vero?» Bourne assentì. «Il che rende la situazione ancora più interessante.» Svoltò a sinistra e poi a destra. Si trovavano ora su una via costeggiata da graziose case a schiera bianche in stile georgiano. Uno Skye Terrier, impegnatissimo ad annusare i gradini, trascinava il suo padrone sul marciapiede. Il medico abitava tre case più in giù. «Non capita spesso che i miei nemici si azzannino tra di loro.» «Andrai a Tineghir nonostante tutto? Non è una decisione facile...» «Anche tu hai delle decisioni difficili da prendere» replicò Bourne. «Se vuoi restare in questo ambiente, Peter, devi tornare a Washington e occuparti di Willard. Altrimenti, in un modo o nell'altro, lui arriverà a distruggere sia te sia Soraya.» *** Capitolo 24 . Frederick Willard conosceva il White Knights Lounge già da qualche tempo, da quando aveva iniziato a redigere il suo dossier privato sul segretario alla Difesa Bud Halliday. Ma Halliday aveva quel genere di arroganza che troppo spesso porta gli uomini del suo rango a rotolare nella polvere insieme a tutti i peónes che tirano avanti a fatica. Quelli come Halliday sono talmente assuefatti al potere da credersi al di sopra della legge . Willard era stato presente ai colloqui tra Halliday e il gentiluomo mediorientale, identificato più tardi come Jalal Essai. Era un'informazione che aveva avuto nel corso di un incontro con Benjamin El-Arian. Non sapeva se El-Arian fosse al corrente di quel legame, ma in ogni caso non sarebbe stato lui a rivelarglielo. Certe informazioni andavano condivise solo con la persona giusta. E quella persona era arrivata in quell'istante, puntuale, fiancheggiata dalle sue guardie del corpo come un imperatore romano . Errol Danziger raggiunse il tavolo di Willard e si infilò nel séparé in stile antico. La fodera in cuoio sintetico, macchiata e strappata in più punti, era rivelatrice di decenni di sbornie avvenute lì dentro . «Certo che questo posto è un vero buco di culo» osservò Danziger. Aveva l'aria schifata, quasi volesse chiudersi in un enorme profilattico. «Siete proprio caduti in basso, da quando ci avete lasciati.» Si trovavano in un locale piuttosto anonimo, una tavola calda di infima categoria lungo una delle strade a scorrimento veloce che collegano Washington alla Virginia. Solo gli inveterati frequentatori di localacci e con il fegato ingrossato lo trovavano attraente, tutti gli altri lo ignoravano, da vero pugno nell'occhio qual era. L'interno puzzava di birra stantia e di olio da frittura rancido. Era impossibile dire di che colore fossero le pareti. Da un juke-box preistorico usciva musica di Willie Nelson e John Mellencamp, ma nessuno ballava, e dagli sguardi si capiva che neppure ascoltava. Qualcuno seduto all'estremità del bancone emise un grugnito . Willard si sfregò le mani. «Cosa posso offrirti?» «Andiamocene» disse Danziger, sforzandosi di respirare appena. «Prima ce ne andiamo, meglio è.» «Nessuno che potrebbe riconoscerci metterebbe mai piede qua dentro» osservò Willard. «Riesci a pensare a un posto migliore per il nostro incontro?» Danziger aveva un'espressione sgradevole. «Di' quello che devi dire.» «Tu hai un problema» esordì Willard senza troppi preamboli . «Ho un sacco di problemi, se è per questo, ma è tutta roba che non ti riguarda.» «Non avere tanta fretta.» «Ascoltami bene, tu sei fuori dalla CIA, il che significa che non sei nessuno. Ho accettato di incontrarti, non so neanch'io perché, in considerazione dei servizi passati. Adesso
però mi accorgo che è stata una perdita di tempo.» Willard, impassibile, non si fece sviare. «Questo problema in particolare riguarda il tuo capo.» Danziger si appoggiò allo schienale, quasi volesse allontanarsi il più possibile da Willard . Willard allargò le mani. «T'interessa ascoltare? Sennò, sei libero di andartene.» «Va' avanti.» «Bud Halliday ha, per così dire, un legame clandestino con un uomo di nome Jalal Essai.» Errol Danziger si stava alterando. «Cos'è questo, un ricatto...?» «Rilassati. E un rapporto esclusivamente d'affari.» «E perché dovrebbe interessarmi?» «Essai è nocivo sia per Halliday sia per te. E membro di un gruppo che si fa chiamare Severus Domna» rispose Willard . «Mai sentito.» «Lo conoscono in pochissimi. Però qualcuno della Severus Domna ha fatto in modo che quelli della Giustizia decidessero di dare un'altra occhiata a Oliver Liss e di metterlo al fresco durante le indagini.» Un ubriaco cominciò a cantare cercando di duettare con Connie Francis. Uno dei gorilla di Danziger si avvicinò all'uomo e lo fece smettere . Danziger aggrottò la fronte. «Stai dicendo che il governo degli Stati Uniti prende ordini da... cosa? Cos'è, un'organizzazione islamica?» «I membri della Severus Domna sono in tutti i paesi del mondo.» «Cristiani e musulmani?» «E presumibilmente anche ebrei, indù, giainisti, buddisti e qualunque altra religione ti venga in mente.» Danziger sbuffò. «Assurdo! Non riesco a pensare a uomini di religioni diverse che trovano un accordo sul giorno della settimana in cui incontrarsi, per non parlare di lavorare fianco a fianco in un'organizzazione globale. E per cosa, poi?» «Tutto quello che so è che i suoi obiettivi non sono i nostri.» Danziger reagì come se avesse ricevuto un insulto. «I nostri obiettivi? Tu adesso sei un civile). » Pronunciò il termine in tono sgradevole e dispregiativo . «Non credo che il capo della Treadstone possa essere definito un civile» ribatté Willard . «La Treadstone, eh?» Danziger fece una risata rauca . «Tu e la Treadstone non significate niente per me. Questo colloquio è terminato.» Mentre si accingeva a scivolare fuori dal séparé, Willard tirò fuori l'asso dalla manica. «Collaborare con un gruppo straniero è tradimento, punibile con la pena di morte. Immagina l'ignominia, se arrivassi a vivere fino a quel momento.» «Che diavolo vuoi dire?» «Prova a pensare di vivere in un mondo senza Bud Halliday.» Danziger fece una pausa. Per la prima volta da quando era entrato, appariva insicuro . «Dimmi un po'» continuò Willard, «perché dovrei sprecare il nostro tempo su una cosa senza senso, direttore? Che cosa ci guadagnerei?» Danziger si lasciò ricadere sul divanetto. «Che cosa ci guadagni a raccontarmi questa favola?» «Lo sai benissimo. Se non fosse così te ne saresti già andato.» «Non so davvero cosa pensare» replicò Danziger. «Per il momento, comunque, sono disposto ad ascoltare.» «E tutto ciò che ti chiedo» disse Willard. Ma naturalmente non era vero. Voleva molto di più da Danziger, e in quel momento capì che l'avrebbe ottenuto . Sulla via del ritorno in ufficio, Karpov chiese all'autista di fermare la macchina. Nascosto alla vista, vomitò nell'erba alta. Non che non avesse mai ucciso qualcuno prima. Al contrario, aveva sparato a un buon numero di eretici. Quello che gli aveva causato il voltastomaco era la situazione in cui si era ritrovato, che puzzava di pesce andato a male. Doveva esserci una via d'uscita da quel baratro. Purtroppo era intrappolato fra il presidente Imov e Viktor Cerkesov. Imov era un ostacolo con il quale tutti i silovik emergenti dovevano misurarsi, ma ora era in debito con Cerkesov ed era certo che presto o tardi questi sarebbe venuto a chiedergli in cambio qualcosa di decisamente imbarazzante. Riusciva a vedere il moltiplicarsi di quei favori in futuro, era il tipo di uomo che avrebbe richiesto il pedaggio ogni volta fino a farlo a pezzi . E bravo Cerkesov! Dandogli quello che voleva, Cerkesov aveva trovato l'unica strada per fare breccia nella sua incorruttibilità. Non c'era nulla da fare, se non quello che i buoni soldati russi facevano da secoli: mettere un piede davanti all'altro e procedere, facendosi strada nel mucchio di fango sempre più alto . Si era detto che era per una buona causa: l'idea di togliersi dai piedi Maslov e la Kazanskaja certamente avrebbe prodotto qualche fastidio. Però era come dire «Stavo solo eseguendo gli ordini», e si sentì ancora più depresso .
Risalì sul sedile posteriore dell'auto, pensieroso e tetro. Cinque minuti dopo l'autista si dimenticò di svoltare . «Fermati qui» ordinò Karpov . «Qui?» «Sì.» L'autista lo guardò nello specchietto retrovisore. «Ma il traffico...» «Fa' come ti dico!» L'autista si fermò. Karpov scese, aprì la portiera del posto di guida, si infilò nell'abitacolo e strattonò l'autista, tirandolo fuori di peso dal sedile. Senza badare ai colpi di clacson e allo stridio dei freni delle auto che dovevano girare attorno alla sua per passare, sbatté la testa dell'autista sulla fiancata. L'uomo scivolò in ginocchio e Karpov gli assestò una violenta ginocchiata sotto il mento, facendogli sbattere i denti. Quando cadde a terra, lo riempì di calci, per poi mettersi al posto di guida, sbattendo la portiera, e ripartire . Avrei dovuto essere americano, pensò mentre si passava più volte il dorso della mano sulle labbra secche. Ma lui era un patriota e amava la Russia. Era proprio un peccato che la Russia non ricambiasse il suo amore, da vera amante spietata, crudele e senza cuore. Avrei dovuto essere americano. Canticchiò più volte quella frase fra sé e sé su una melodia inventata al momento, come se fosse una ninna nanna, e in effetti un po' lo tranquillizzò. Si concentrò su come far cadere Maslov e riorganizzare la FSB-2 quando Imov l'avesse nominato direttore . La prima voce all'ordine del giorno era tuttavia affrontare le tre talpe che si trovavano all'interno della FSB-2. Munito dei tre nomi avuti da Bukin poco prima, parcheggiò l'auto di fronte al palazzo ottocentesco sede della FSB-2 e salì i gradini di buon passo. Sapeva in quali direttorati lavoravano le talpe. Avviandosi verso l'ascensore, estrasse la pistola . Ordinò al primo uomo di uscire dall'ufficio. Vedendolo riluttante, Karpov gli spianò la pistola in faccia. I silovik di tutto il piano uscirono dai loro cubicoli, segretarie e assistenti alzarono la testa dal loro arido e noioso lavoro per seguire il dramma in diretta. Si radunò una discreta folla, che per Karpov andava molto bene. Con la prima talpa al seguito, entrò nell'ufficio della seconda. Era al telefono e dava le spalle alla porta. Quando si girò sulla poltrona, Karpov gli sparò in testa. La prima talpa indietreggiò quando la vittima fu scagliata all'indietro dal contraccolpo, con le braccia aperte e il telefono che cadeva, e andò a sbattere contro la vetrata della finestra. La vittima rovinò a terra, lasciando dietro di sé un interessante motivo astratto composto da sangue, materia cerebrale e osso su vetro . Quando sulla porta si affacciarono i silovik stupefatti, Karpov scattò alcune foto con il cellulare . Facendosi largo tra l'assembramento di colleghi agitati, trascinò per un braccio l'uomo, ora in preda al terrore, alla tappa successiva, al piano superiore. Quando arrivarono, la notizia si era sparsa e furono accolti da una folla di silovik muti e stupefatti . Mentre Karpov trascinava l'uomo verso l'ufficio della terza talpa, il colonnello Lemtov si fece largo tra i colleghi per affrontarlo . «Colonnello Karpov» urlò, «cosa significa questo oltraggio?» «Si tolga dai piedi, colonnello. Non lo ripeterò una seconda volta.» «Chi è lei per...?» «Sono un emissario del presidente Imov» rispose Karpov. «Chiami il suo ufficio, se vuole. Meglio ancora, chiami Cerkesov stesso.» Poi si servì della talpa per spingere da parte il colonnello Lemtov. Dakaev, il terzo uomo, non era nel suo ufficio. Karpov stava per contattare la sicurezza quando una segretaria terrorizzata lo informò che il suo capo era in riunione. Indicò la sala conferenze e Karpov vi irruppe spintonando il suo ostaggio . Dodici uomini sedevano attorno a un tavolo rettangolare. Dakaev era a capotavola. Essendo il capo di un direttorato, sarebbe stato più utile vivo che morto. Karpov spinse la prima talpa contro il tavolo. Tutti, tranne Dakaev, arretrarono sulle sedie. Dakaev invece rimase immobile con le mani intrecciate posate sul tavolo. A differenza del colonnello Lemtov non si mostrava sdegnato né confuso. In realtà, notò Karpov, aveva perfettamente compreso ciò che stava accadendo .
Tutto questo doveva cambiare. Karpov trascinò il suo ostaggio lungo il tavolo, facendo volare fogli, penne e bicchieri d'acqua, finché l'uomo non finì con la faccia di fronte a Dakaev. Fissando negli occhi Dakaev, Karpov puntò la pistola alla nuca dell'uomo . «Per favore» implorò il prigioniero, mentre una chiazza di urina si allargava sui suoi pantaloni . Karpov premette il grilletto. La testa dell'uomo sbatté con violenza contro il tavolo, rimbalzò e si adagiò in una pozza di sangue. Un disegno alla Pollock si formò sulla giacca di Dakaev, sulla camicia, la cravatta e il viso rasato di fresco . «Alzati!» intimò Karpov accompagnando l'ordine con un movimento della pistola . Dakaev si alzò. «Hai intenzione di sparare anche a me?» «Alla fine, forse.» Karpov lo afferrò per la cravatta. «Dipende solo da te.» «Capisco» disse Dakaev. «Voglio l'immunità.» «Immunità? Te la do io l'immunità.» Karpov lo colpì sulla tempia con la canna della pistola . Dakaev barcollò di lato, inciampando in un silovik paralizzato dal terrore sulla sua sedia. Karpov si chinò sul capo del direttorato, che giaceva a terra, mezzo appoggiato alla parete . «Adesso tu mi dici tutto del tuo lavoro e dei tuoi contatti - nomi, luoghi, date, ogni cazzo di particolare, anche il più insignificante - e poi deciderò cosa ne sarà di te.» Tirò Dakaev su di peso. «Voialtri, tornate a fare quello che stavate facendo.» In corridoio fu accolto da un silenzio di tomba. Tutti stavano immobili come soldatini di legno, non osavano neppure respirare. Il colonnello Lemtov abbassò lo sguardo quando Karpov passò con Dakaev imbrattato di sangue, diretto agli ascensori . Scesero oltre il pianoterra, nelle viscere dell'edificio, dove le celle erano scavate nella nuda roccia. Il seminterrato era freddo e umido. Le guardie portavano il pastrano pesante e colbacchi di pelliccia con paraorecchie, come se fossero in pieno inverno. Parlando si formavano sbuffi di vapore condensato . Karpov condusse Dakaev nell'ultima cella a sinistra. Dentro c'era una sedia metallica imbullonata al pavimento di cemento grezzo, un lavandino di acciaio di dimensioni industriali, un gabinetto dello stesso materiale e una tavola fissata a una parete, con un materasso sottile sopra. Sotto la sedia c'era un grande buco di scarico . «Gli attrezzi del mestiere» disse Karpov spingendo Dakaev a sedere sulla sedia. «Confesso di essere un po' arrugginito, ma sono convinto che non te ne accorgerai nemmeno.» «Tutta questa sceneggiata non è necessaria» interloquì Dakaev. «Non ho fatto alcun giuramento di fedeltà, ti dirò tutto quello che vuoi sapere.» «Non ne dubito.» Karpov aprì il rubinetto del lavandino. «D'altro canto, non credo che un uomo che ammette di non aver giurato fedeltà a nessuno dica la verità spontaneamente.» «Ma io...» Karpov gli ficcò la pistola in bocca. «Stammi bene a sentire, mio caro agnostico, un uomo che non è leale nei confronti di qualcosa o di qualcuno non merita di avere un cuore che batte nel petto. Prima di ascoltare la tua confessione, dovrò insegnarti il valore della fedeltà. Quando uscirai di qui, a meno che tu non lo faccia con i piedi in avanti, sarai un membro onesto della FSB-2. Persone come Dimitrij Maslov non riusciranno mai più a indurti in tentazione. Sarai incorruttibile.» Karpov assestò un calcio al prigioniero, facendolo cadere per terra a quattro zampe. Lo afferrò per il colletto e lo fece chinare sul lavandino, riempito fino all'orlo di acqua gelida . «Cominciamo» annunciò. E gli cacciò la testa sott'acqua . Soraya guardava Arkadin mentre ballava con Moira, presumibilmente per farla ingelosire. Si trovavano in uno dei tanti locali di Puerto Penasco aperti tutta la notte, pieno di lavoratori turnisti che andavano o tornavano dalle vicine maquiladoras, le fabbriche che lavorano in subappalto. Da un juke-box fosforescente, simile a una parodia di un UFO in Incontri ravvicinati del terzo tipo, provenivano le note di una rancherà triste . Soraya, sorseggiando un caffè nero, osservava Arkadin agitare i fianchi come se avesse l'argento vivo addosso. Però, sapeva ballare! Poi tirò fuori il suo palmare e studiò gli sms inviati da Peter Marks. L'ultimo conteneva le istruzioni per attirare Arkadin a Tineghir. Com'era arrivato Peter a queste informazioni? Non aveva fatto trasparire la sua sorpresa nel vedere Moira oltre la sua facciata professionale. Quando era salita sullo yacht gli era mancata la terra
sotto i piedi. Le regole del gioco erano cambiate tanto radicalmente che dovette rimettersi al passo, e in fretta. Per questa ragione era stata attentissima alla conversazione tra Moira e Arkadin, non solo dal punto di vista del contenuto, ma anche dei toni, per cogliere qualsiasi indizio le dicesse perché Moira si trovava lì. Che cosa voleva da Arkadin? Di una cosa era certa: l'accordo che stava facendo con lui era fasullo tanto quanto il suo . Fuori la notte era scura, senza luna. C'erano delle nuvole, si poteva scorgere solo un tenue alone stellato. Dentro, il locale odorava di birra e di sudore. La sala emanava un senso di disperazione, inutilità e sconforto. Si sentiva circondata da persone per le quali non esisteva un domani . Avrebbe tanto voluto parlare con Moira in privato, anche solo per un attimo, ma sotto gli occhi di Arkadin era impossibile. Se fossero andate alla toilette per signore nello stesso momento avrebbero destato comunque i suoi sospetti. Non conosceva il numero di cellulare di Moira, quindi era escluso che potesse inviarle un sms. Le rimaneva solo la conversazione verbale, inframmezzata da messaggi in codice. Se stavano percorrendo strade parallele, o forse addirittura la stessa, era essenziale che non si intralciassero a vicenda . Arkadin e Moira tornarono al tavolo madidi di sudore. Il loro cavaliere ordinò due birre per loro e un altro caffè per Soraya. Qualunque cosa fosse accaduta il giorno dopo, in quel momento si stava chiaramente divertendo con le due ragazze . «Moira» l'interrogò Soraya, «sai qualcosa anche del Medio Oriente oppure sei più esperta delle Americhe?» «I miei territori sono il Messico, la Colombia, la Bolivia e anche parte del Brasile.» «E lavori da sola?» «Ho una mia azienda, ma in questo momento sto lavorando per Berengària Moreno.» Moira fece un cenno con il mento. «E tu?» «Anch'io ho una mia azienda, anche se attualmente c'è un gruppo che sta cercando di fare un'acquisizione in modo ostile.» «Una multinazionale?» «Essenzialmente americani.» Moira annuì. «Import-export, hai detto?» Soraya mescolò lo zucchero nel suo caffè. «Esatto.» «Magari potrei fornirti la mia consulenza contro quegli offerenti di cui parli.» «Ti ringrazio, ma non serve.» Soraya sorseggiò il caffè e poi appoggiò la tazza sul piattino. «Ho... come dire, i miei assistenti.» «Come si chiama un pensiero nella testa di una donna?» Arkadin si intromise, spostando lo sguardo dall'una all'altra. «Un turista!» Scoppiò a ridere così forte che per poco la birra non gli andò di traverso. Poi, notò la loro espressione perplessa. «Cazzo, rilassatevi, signore, siamo qui per divertirci, non per parlare d'affari.» Moira lo fissò per un attimo. «Che cosa ottieni se incroci un russo con una vietnamita? Un ladro di macchine che non sa guidare.» Soraya rise. «Adesso sì che ci stiamo divertendo!» Arkadin sorrise. «Ne sai un'altra?» «Vediamo un po'.» Moira tamburellò con le dita sul tavolo. «Che ne dite di questa? Due russi e un messicano sono su un'auto. Chi è alla guida? Un poliziotto!» Arkadin rise e agitò l'indice davanti a Moira. «Ma dove le hai sentite, queste barzellette?» «In prigione» rispose Moira. «A Roberto Corellos piace raccontare barzellette sui russi.» «E il momento di passare alla tequila» annunciò Arkadin, chiamando la cameriera con un cenno. «Portaci una bottiglia» ordinò. «Qualcosa di buono. Un reposado o un anejo.» Anziché un'altra roncherà, il juke-box cominciò a suonare 24 hoursfrom Tulsa. Il forte vibrato di Gene Pitney si levava al di sopra delle risate e degli schiamazzi dei clienti ubriachi. Si stava facendo giorno e la clientela si dava il cambio. Gli animali notturni andavano a dormire ed entravano gli operai del turno di notte, col mal di testa e le membra stanche. Non erano comunque molti, dato che la maggior parte di loro andava direttamente a casa per crollare sul letto senza neppure la forza di togliersi la tuta da lavoro . Prima che fosse servita la tequila, Arkadin afferrò Moira per mano e la condusse sulla pista da ballo, poco più ampia di un francobollo. La tenne stretta mentre ballavano al suono di una melodia di Burt Bacharach . «Però sei una furbetta, tu» disse lui, col sorriso di uno squalo . «Non mi è stato facile» replicò lei . Lui rise. «Immagino.» «Lascia perdere.» Arkadin la fece volteggiare. «Stai sprecando il tuo tempo, in America Latina. Dovresti venire a lavorare per me.» «Prima di sistemare l'assassinio
di Corellos?» «Facciamo che questo è il tuo ultimo incarico.» Le appoggiò il naso sul collo e aspirò profondamente. «Come pensi di procedere?» «Credevo che avessi detto niente affari.» «Solo un pochino, poi pensiamo a divertirci e basta. Giuro.» «Corellos non sa stare senza donne e io ho un contatto con chi gli fornisce le ragazze. Un uomo è molto vulnerabile, dopo il sesso. Troverò qualcuna che sappia maneggiare il coltello.» Arkadin l'attirò contro di sé. «Mi piace. Organizza subito.» «Però voglio un premio.» Lui le stuzzicò il collo, leccò il velo di sudore. «Ti darò tutto quello che vuoi.» «Allora sono tua.» Il cellulare di Karpov squillò mentre era impegnato con la talpa di Dimitrij Maslov. Dakaev era sul punto di annegare o, più precisamente, credeva di esserlo, il che era l'obiettivo di tutta l'operazione. Dieci minuti dopo, con Dakaev di nuovo sulla sedia d'acciaio e Karpov che versava del tè in un bicchiere, il cellulare suonò di nuovo. Questa volta rispose: all'altro capo sentì una voce familiare . «Jason!» gridò Karpov. «E bello sentire la tua voce.» «Sei occupato?» Karpov gettò un'occhiata a Dakaev, accasciato, con il mento sul petto. Non sembrava quasi più un essere umano, anche questo un risultato voluto. Non era possibile costruire qualcosa di nuovo senza distruggere quello che c'era stato prima . «Sì, sono occupato, ma per te il tempo lo trovo sempre. Come posso aiutarti?» «Penso che tu conosca il luogotenente di Dimitrij Maslov, Vylaceslav Oserov.» «Sì, lo conosco.» «Pensi di riuscire a trovare il modo di farlo andare da qualche parte?» «Se intendi un luogo tipo l'inferno, sì, ci riesco.» Bourne rise. «In realtà pensavo a un posto meno definitivo. Diciamo una località del Marocco.» Karpov bevve un sorso di tè, che trovò amaro. «Posso chiederti perché ti serve Oserov in Marocco?» «E un'esca, Boris. Il mio scopo è catturare Arkadin.» Karpov pensò al suo viaggio a Sonora, al suo accordo con Arkadin, e lo aggiunse alla lista del presidente Imov e di Viktor Cerkesov. Aveva promesso ad Arkadin che avrebbe avuto la sua occasione con Oserov, ma al diavolo! Sono troppo vecchio e troppo bastardo per essere in debito con gente pericolosa, pensò. E sempre uno di meno . Poi lanciò un'occhiata a Dakaev, il suo collegamento con Dimitrij Maslov e, di riflesso, con Vylaceslav Oserov. Dopo quello che aveva appena passato, non aveva dubbi che il suo ostaggio avrebbe colto al volo l'occasione di fare quello che gli avrebbe chiesto . «Spiegami in dettaglio quello che devo fare.» Mentre ascoltava, Karpov sorrideva soddisfatto. Quando Bourne ebbe finito, rise di cuore. «Jason, amico mio, cosa non darei per essere al tuo posto!» Era appena sorto il sole; tutti erano accaldati e desideravano un bagno. Nel suo alloggio al convento, Arkadin diede a Moira e a Soraya due magliette troppo grandi. Lui portava calzoncini da surf che gli arrivavano alle ginocchia. Il torace e le braccia erano un museo vivente dei tatuaggi che, se interpretati nel modo giusto, raccontavano la sua carriera nella grupperovka . I tre avanzarono nella spuma del mare agitato dalle onde che s'infrangevano sulla sabbia dorata. Il cielo era tinto di un rosa che volgeva al color panna. I gabbiani si tuffavano per la pesca mattutina e riprendevano il volo sopra le loro teste, mentre minuscoli pesci pizzicavano loro piedi e caviglie. Un'ondata li bagnò completamente, facendoli ridere come bambini. Era la pura gioia di sentirsi liberi nell'oceano . Sulla spiaggia, Moira pensò che era strano che Arkadin continuasse a cercare conchiglie sott'acqua, anziché fissarle i seni sotto la maglietta bagnata, soprattutto dopo il modo in cui l'aveva stretta ballando nel locale. Aveva scoperto molto poco sulla missione di Soraya dalla conversazione in codice iniziata qualche ora prima e interrotta dalla barzelletta misogina di Arkadin . Approfittando del fatto che Arkadin era ancora a caccia di conchiglie, decise di raggiungere Soraya per provare a scambiare qualche parola. Si tuffò in un'onda che stava per frangersi e cominciò a nuotare verso il punto in cui l'amica galleggiava sulla schiena, ma si sentì afferrare alla caviglia e strattonare all'indietro . Si voltò. Era Arkadin. Cercò di liberarsi, premendogli le mani sul petto, ma lui la tirò ancora di più a sé. Emerse dall'acqua e si trovò faccia a faccia con lui .
«Che cosa credi di fare? Non riesco a stare in piedi, così.» Lui la lasciò andare immediatamente. «Adesso sono stanca e ho fame.» Moira si girò e si rivolse a Soraya, che intanto si stava dirigendo a nuoto verso di loro . «Andiamo a fare colazione!» gridò . Le due ragazze uscirono dall'acqua, tallonate da Arkadin. Erano già sul bagnasciuga, con la distesa di sabbia asciutta davanti, quando Arkadin si chinò. Con il bordo tagliente di una conchiglia recise i tendini nell'incavo del ginocchio sinistro di Moira . *** Capitolo 25 . Whitney, nell'Oxfordshire, si trovava a pochi chilometri a ovest di Oxford, sul fiume Windrush. Mancavano solo gli hobbit e gli orchi a completare il paesaggio. Bourne partì da Londra con un'auto a noleggio. Era un pomeriggio fresco, il sole andava e veniva dietro le nuvole. Non aveva mentito a Peter Marks: aveva intenzione di andare a Tineghir. Ma prima c'era una cosa di cui doveva occuparsi . Basii Bayswater abitava in un cottage dal tetto di paglia che pareva uscito da un romanzo di Tolkien. Aveva curiose finestre circolari e aiuole di fiori lungo il vialetto di ghiaia bianca che conduceva all'ingresso. La porta era di legno massiccio, con un batacchio di ottone a forma di testa di leone. Bourne lo usò per annunciare la sua presenza . Dopo qualche tempo un uomo un po' più giovane di quanto si sarebbe aspettato venne ad aprire . «Sì? Desidera?» Aveva i capelli scuri pettinati all'indietro, che gli lasciavano scoperta l'ampia fronte, occhi scuri e attenti e il mento squadrato . «Sto cercando Basii Bayswater» esordì Bourne . «Ce l'ha di fronte.» «Non penso» rispose Bourne . «Ah, forse intende il professor Basii Bayswater. Temo di doverla informare che mio padre è morto tre anni fa.» Moira urlò di dolore mentre una larga chiazza di sangue si formava nell'acqua. Arkadin la trattenne sotto le ascelle mentre cadeva . «Mio Dio!» gridò Soraya. «Che cosa hai fatto?» Moira continuava a urlare, piegata in due, tenendosi la gamba sinistra . Arkadin, ignorando Soraya, mostrò i denti a Moira in un sorriso crudele. «Credevi forse che non ti avessi riconosciuta?» Moira provò un senso di gelo alla bocca dello stomaco. «Cosa vuoi dire?» «Ti ho vista, a Bali. Eri con Bourne.» Rivide nella sua mente la fuga attraverso il villaggio di Tenganan e Bourne colpito da un cecchino nascosto nella foresta . Spalancò gli occhi . «Sì, ero proprio io.» Lui rise, lanciando in aria la conchiglia sporca di sangue e riprendendola al volo, come una palla. «Ed eri con Bourne. Sei la sua donna. E adesso il destino ti ha portata da me.» Soraya era rabbiosa e al contempo terrorizzata. «Cosa diavolo sta succedendo qui?» «Ora lo scopriremo.» Arkadin si girò verso di lei. «Questa qui è l'amante di Jason Bourne, ma forse voi due vi conoscete già.» Con uno sforzo di volontà, Soraya cercò di reprimere il panico che l'attanagliava. «Di cosa stai parlando?» «Okay, te lo spiego meglio. Non mi sono mai bevuto la tua storia, ma non avevo intenzione di lasciarti andare finché non avessi scoperto cosa volevi davvero. Ho il forte sospetto che sia stato Willard a mandarti qui. Ci ha già provato con un'altra donna, Tracy Atherton. L'ha spedita a tenermi d'occhio per riferirgli tutti i miei movimenti e i miei affari. E ha funzionato. Quando l'ho capito, lei era già morta. Ma con te mi è stato chiaro fin dall'inizio, perché Willard è un uomo abitudinario, soprattutto con le persone che hanno già lavorato per lui.» «Lasciala andare!» urlò Soraya, sempre più agitata . «Potrei anche farlo» disse Arkadin. «Potrei anche decidere di non ucciderla. Ma questo dipende solo e soltanto da te.» Soraya si avvicinò e allontanò Moira da lui. Con estrema delicatezza l'adagiò sulla sabbia. Poi si sfilò la maglietta bagnata e, dopo averla attorcigliata, la legò stretta attorno alla coscia di Moira, che aveva perso i sensi per lo shock o il dolore, o forse per tutte e due le cose .
«E te che voglio» continuò Arkadin. «Tu sei quella che parlava di Khartoum, sei tu quella che vuole attirarmi là. Adesso mi dici chi sei, quello che sai, e io prenderò in considerazione l'idea di alleggerire la posizione di Moira.» «Dobbiamo portarla subito in ospedale» lo interruppe Soraya. «Bisogna disinfettare e ricucire la ferita il più presto possibile.» «Ribadisco» disse Arkadin aprendo le mani. «Dipende solo e soltanto da te.» Soraya si chinò a osservare l'incavo del ginocchio di Moira. Oh Gesù, riuscirà mai a camminare ancora come prima? Più aspettavano a consegnare Moira alle cure di un bravo chirurgo, peggio sarebbe stato. Aveva già visto dei tendini recisi. Non erano semplici da rimettere a posto, e chissà, anche i nervi potevano essere stati intaccati . Fece un lungo sospiro. «Che cosa vuoi sapere?» «Tanto per cominciare, chi sei?» «Soraya Moore.» «Quella Soraya Moore, la direttrice della Typhon?» «Non più.» Accarezzò i capelli umidi di Moira. «Willard ha riesumato la Treadstone.» «Non mi meraviglia che voglia tenermi d'occhio. Che altro puoi dirmi?» «Un sacco di cose» rispose Soraya. «Ti racconterò tutto mentre andiamo in ospedale.» Arkadin incombeva su di lei. «No tu parli adesso.» «Allora uccidici tutte e due, qui sulla spiaggia.» Arkadin imprecò, ma acconsentì alla sua richiesta. Sollevò Moira tra le braccia e la trasportò al convento. Mentre la sistemava sul sedile posteriore dell'auto, Soraya andò a prendere qualche vestito di ricambio. Stava frugando nella scrivania di Arkadin quando lui la trovò . «Cazzo, no» disse, afferrandola per un polso e trascinandola fuori. La scaraventò sul sedile del passeggero, minacciandola: «Non ho problemi ad ammazzarti come un cane». Fece il giro dell'auto e si mise alla guida . «Hai ragione.» Soraya teneva sollevata la gamba di Moira mentre si dirigevano a tutta velocità verso la periferia di Puerto Penasco. «Willard voleva che ti avvicinassi per riferirgli dei tuoi spostamenti e dei tuoi affari.» «E poi? Ho la sensazione che ci sia dell'altro.» «In effetti c'è» ammise lei. Sapeva che non poteva più commettere errori. Non aveva più un'assoluta fiducia nella sua capacità di batterlo in astuzia, ma era necessario fare uno sforzo. «Willard si sta interessando a un uomo che tu conosci sicuramente, perché lavora per Maslov: Vylaceslav Oserov.» Le nocche di Arkadin diventarono bianche mentre stringeva il volante, ma dalla voce non traspariva alcuna alterazione. «Perché Willard è interessato a Oserov?» «Non ne ho idea» rispose Soraya. Questo, per lo meno, era vero. «Però so che ieri un agente della Treadstone ha identificato Oserov a Marrakech e l'ha seguito fino ai monti dell'Atlante, in un villaggio che si chiama Tineghir.» Erano arrivati all'ospedale Santa Fe, sulla Morua Avenue, ma Arkadin non accennava a scendere dalla macchina . «Che cosa faceva Oserov a Tineghir?» «Cercava un anello.» Arkadin scosse la testa. «Parla chiaro.» «Questo anello ha la particolarità di sbloccare un file nascosto sull'hard disk di un computer portatile.» Sollevò lo sguardo su di lui. «Lo so, non ho capito bene neanch'io.» Tutte queste informazioni erano contenute nell'ultimo sms che aveva ricevuto da Peter. Aprì la portiera posteriore. «Mi aiuti a portare Moira al pronto soccorso, per favore?» Arkadin scese dall'auto. «Voglio di più.» «Ti ho detto tutto quello che so.» La fissò negli occhi. «Hai visto cosa succede alla gente che cerca di fregarmi.» «Io non sto cercando di fregarti» replicò Soraya. «Ho appena tradito un patto di fiducia. Cos'altro vuoi da me?» «Tutto» disse lui. «Voglio tutto quanto.» Portarono di corsa Moira al pronto soccorso. Mentre il personale medico si affaccendava attorno a lei e le prendeva i parametri vitali, Soraya s'informò sul nome del miglior neurochirurgo di Sonora. Parlava uno spagnolo con espressioni idiomatiche e inoltre all'aspetto pareva latino-americana, cosa che rendeva più facile la comunicazione . Quando ottenne il numero privato del chirurgo, lo chiamò personalmente. La segretaria le rispose che non era rintracciabile, fino a quando Soraya non la minacciò di arrivare a spezzarle l'osso del collo. Poco dopo riuscì a parlare con il medico. Soraya descrisse il problema di Moira e gli comunicò dove si trovavano. Avrebbe fatto il più in fretta possibile, considerato il cachet di duemila dollari americani che lo aspettava . «Andiamocene» disse Arkadin appena lei ebbe terminato la telefonata .
«Io non lascio Moira.» «Abbiamo altro di cui parlare.» «Allora parliamo qui.» «Torniamo al convento.» «Non ho intenzione di venire a letto con te» lo avvisò . «Meno male, farlo con te sarebbe come scopare con uno scorpione.» L'involontario humour del suo commento la fece ridere, nonostante la tensione e la preoccupazione. Andò a cercare un caffè, seguita da Arkadin . Bourne stava andando a Oxford guidando alla massima velocità consentita per non attirare l'attenzione della polizia. La città era esattamente come l'aveva lasciata. Le vie poco affollate, i negozi un po' datati, gli abitanti stanziali impegnati nelle loro commissioni, le sale da tè, le librerie, tutto gli ricordava un modellino opera di un pignolo studioso del Settecento. Addentrarsi nelle strade di Oxford era come visitare l'interno di una di quelle palle di vetro con la neve dentro . Bourne parcheggiò non lontano da dove Chrissie aveva lasciato la Range Rover quando erano stati lì insieme, e salì di corsa i gradini del Centro per lo studio di documenti antichi. Anche il professor Liam Giles era esattamente al posto in cui l'aveva visto l'ultima volta, chino sulla scrivania del suo vasto studio. Alzò la testa all'ingresso di Bourne, aprendo e chiudendo le palpebre come un gufo, in apparenza senza riconoscerlo. Jason si accorse che in realtà non era Giles, ma un altro studioso che gli assomigliava molto . «Sto cercando il professor Giles.» «E in congedo» rispose l'uomo . «Ho bisogno di parlargli.» «Lo immagino. Posso chiederle perché?» «Dove si trova?» L'uomo chiuse e riaprì le palpebre. «E via.» Bourne aveva letto per strada la biografìa ufficiale di Giles, pubblicata sul sito web dell'università di Oxford . «Si tratta di sua figlia.» L'uomo alla scrivania di Giles sbatté di nuovo le palpebre. «E ammalata?» «Temo di non poterglielo dire. Dove posso trovare il professor Giles?» «Non penso...» «E urgente» incalzò Bourne. «Questione di vita o di morte.» «Si sta comportando volutamente in modo così teatrale, signore?» Bourne gli mostrò le credenziali dell'Emergency Medical Service che si era procurato dopo l'incidente. «Sono serissimo.» «Povero me.» L'uomo fece un gesto in direzione della porta. «E al gabinetto, in questo momento. Sta combattendo con il pasticcio di anguilla che ha mangiato ieri sera.» Il neurochirurgo era giovane, scuro come un indio, con dita lunghe e sottili da pianista. I tratti del volto erano delicati, e quindi in realtà non era un indio. Era però un affarista senza scrupoli, che non alzò un dito fino a quando Soraya non gli ebbe infilato in mano una mazzetta di banconote. Poi si allontanò rapidamente per un consulto con i medici del pronto soccorso che si erano occupati di Moira fino a quel momento . Soraya bevve il suo pessimo caffè senza sentirne il sapore, ma dieci minuti dopo, mentre camminava senza scopo su e giù per il corridoio, cominciò a sentire bruciori di stomaco, e accettò di buon grado l'invito di Arkadin ad andare a mangiare qualcosa. Entrarono in un ristorante poco lontano dall'ospedale. Soraya prima di sedersi controllò che non fosse colonizzato da insetti . Ordinarono e attesero, seduti l'uno di fronte all'altra, ma senza guardarsi in faccia, o almeno così fece Soraya . «Ti ho vista senza maglietta» commentò Arkadin «e mi è piaciuto molto lo spettacolo.» Soraya lo mise a fuoco. «Vaffanculo.» «Lei è un nemico» continuò lui, riferendosi a Moira. «C'è una legge che la tutela?» Soraya guardò dalla vetrina. La strada era totalmente sconosciuta, come la faccia nascosta della luna . Arrivarono i piatti e Arkadin cominciò a mangiare. Soraya osservava un paio di ragazze troppo truccate e troppo poco vestite che andavano a lavorare. Non smetteva di stupirsi delle donne sudamericane, che mostravano il loro corpo con tanta noncuranza. La loro cultura era lontanissima dalla sua. Eppure si sentiva immersa in quell'atmosfera triste, riusciva a comprendere quella disperazione. Era stata il lascito culturale delle donne da tempo immemorabile, ed era forse la ragione principale per cui aveva scelto il suo lavoro; in quell'ambito, nonostante i soliti pregiudizi di genere, riusciva ad affermarsi in un modo che la faceva sentire bene. Ora, per la prima volta, vedeva quelle ragazze con i loro top attillati e le
gonne troppo corte sotto una luce diversa. Quegli abiti erano un modo, forse l'unico, che avevano per affermarsi in una cultura fatta di avvilimento e di disprezzo nei loro confronti . «Se Moira dovesse morire, o se non potesse più camminare...» «Risparmiami le tue stupide minacce» la interruppe lui, spazzolando ciò che rimaneva dei suoi huevos rancheros . Tipico di Arkadin, pensò Soraya. Anche se lui riteneva il contrario, continuava a svalutare e a disprezzare le donne. Era sottotraccia in qualsiasi cosa facesse e dicesse. Era senza cuore e senz'anima, non conosceva il rimorso o il senso di colpa: non c'era niente in lui che lo definisse e lo distinguesse in quando essere umano. Se non è un essere umano, si ritrovò a domandarsi con una sorta di terrore irrazionale, allora che cos'è? Il bagno degli uomini era cinque porte più in giù rispetto all'ufficio del professor Giles. Il poveretto era chiaramente in preda a crampi addominali dietro la porta chiusa di uno dei box. Il locale era invaso da un odore terribile e Bourne andò subito a spalancare la finestra. Una debole corrente rese l'aria più respirabile . Jason attese fino a che i rumori intestinali non cessarono. «Professor Giles» lo chiamò poi . Per qualche tempo non ci fu alcuna risposta. Poi la porta venne aperta con uno strattone e il professor Giles, pallido come uno straccio, uscì con passo un po' malfermo passando davanti a Bourne. Si chinò sul lavabo, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e mise la testa sotto il getto . Bourne si appoggiò al muro, con le braccia conserte. Quando Giles rialzò la testa, Bourne gli tese alcuni asciugamani di carta. Il professore li prese senza fare commenti e si asciugò viso e capelli. Solo quando gettò la carta nel cestino sembrò riconoscere l'uomo che era con lui . Subito raddrizzò la schiena e assunse un portamento più energico. «Ah, il figliol prodigo è tornato» commentò in tono didascalico . «Si aspettava di vedermi?» «Non esattamente. Però non sono affatto stupito di trovarla qui.» Accennò un debole sorriso. «Come si suol dire, l'erba cattiva non muore mai.» «Professore, vorrei chiederle un'altra volta di mettersi in contatto con il suo collega delle partite a scacchi.» Giles aggrottò la fronte. «Non è così semplice. E una persona molto riservata e non gradisce essere disturbato.» Immagino, pensò Bourne. «Potrebbe fare almeno un tentativo?» «Va bene» rispose Giles . «E comunque, qual è il suo nome?» Giles esitava. «James.» «James, come?» Altra pausa. «Weatherley.» «Non Basii Bayswater?» Il professore si voltò verso la porta . «Che cosa vuole sapere?» «Gli chieda di descriverle l'aldilà.» Giles, sul punto di uscire, si fermò, girandosi lentamente verso Bourne. «Prego?» «Dato che il figlio di Basii Bayswater mi ha detto di aver seppellito suo padre tre anni fa» continuò Bourne, «direi che si trova nella posizione ideale per raccontarci com'è essere morti.» «Le ho detto» rispose Giles, vagamente accigliato «che si chiama James Weatherley.» Bourne lo prese per il gomito. «Professore, non ci crede nessuno, neppure lei.» Fece spostare Giles dalla porta all'angolo più lontano dell'antibagno. «Ora mi dica perché mi ha mentito.» Il professore restò in silenzio e lui continuò. «Lei non ha mai avuto bisogno di chiamare Bayswater per la traduzione della scritta incisa nell'anello, lei la conosceva già.» «Sì, può essere. Nessuno dei due è stato sincero con l'altro.» Alzò le spalle. «Be', che cosa si aspetta dalla vita? Niente è mai come sembra.» «Lei è Severus Domna.» Giles sorrideva in modo più deciso. «Non ha senso negarlo, dato che sta per restituire l'anello.» In quel momento, come se fosse stato a origliare alla porta, l'uomo che prima era seduto alla scrivania del professore irruppe nel bagno. Con la SIG Sauer in mano aveva un'aria un po' meno professorale. Subito dietro di lui entrarono due uomini massicci e muscolosi, armati di pistola con silenziatore. Si disposero a ventaglio, con le armi puntate su Bourne . «Come può vedere» concluse il professor Giles, «non le ho lasciato scelta.» *** Capitolo 26 . Vylaceslav Oserov si stava curando le ferite che aveva in faccia e intanto covava un rancore enorme nei confronti di Arkadin, l'uomo che lo perseguitava da anni e che era la causa dell'orribile deturpazione subita a Bangalore. Il composto chimico gli aveva corroso i vari strati della pelle fino a intaccare la carne viva; la guarigione era difficile e non avrebbe recuperato mai più un aspetto normale .
Per giorni, dopo essere tornato a Mosca, era rimasto avvolto nelle bende, dalle quali filtrava sangue misto a un liquido giallastro e vischioso, il cui odore gli dava la nausea. Si era rifiutato di prendere antidolorifici e quando il medico, su ordine di Maslov, cercò di iniettargli un sedativo, gli spezzò il braccio e per poco anche il collo . Ogni giorno le urla di dolore di Oserov si sentivano in tutti gli uffici e persino nei bagni, dove gli altri uomini si rifugiavano per una breve pausa. Quelle grida di sofferenza, come di un animale fatto a pezzi, erano così agghiaccianti da spaventare e atterrire persino i criminali più incalliti al servizio di Maslov, che era costretto a legarlo a una colonna, come Ulisse all'albero della sua nave, e a chiudergli la bocca con lo scotch per dare a lui e ai suoi scagnozzi un po' di respiro. In quel periodo Oserov presentava buchi profondi sulle tempie, rossi di sangue come scarnificazioni tribali, e per il dolore si era scavato con le unghie anche nella pelle non toccata dalle ustioni . Per certi versi era tornato un bambino. Maslov non poteva farlo ricoverare in ospedale o in una clinica privata per evitare domande imbarazzanti e che fosse avviata un'indagine della FSB-2. Aveva perciò cercato di sistemare Oserov nel suo appartamento, che versava in condizioni di totale abbandono ed era stato colonizzato, come un tempio orientale nella giungla, da insetti e roditori. Non riuscì a convincere nessuno a rimanere lì con Oserov, né quest'ultimo avrebbe potuto sopravvivere senza assistenza. L'ufficio era l'unica soluzione . Oserov non riusciva più a guardarsi allo specchio, tanto che li evitava più di un vampiro. Inoltre non sopportava più i raggi del sole e qualsiasi luce forte, un comportamento che gli aveva procurato un nuovo soprannome nella Kazanskaja: il Vampiro . Era seduto, torvo e meditabondo, negli uffici di Maslov, che venivano trasferiti tutte le settimane. Nella stanza che Maslov gli aveva assegnato i lampadari erano spenti e le tende tirate per chiudere fuori la luce del giorno. Una lampada che pendeva di fronte al punto in cui era seduto gettava un circoletto di luce sul parquet graffiato e polveroso . Il fallimento di Bangalore - non essere riuscito a uccidere Arkadin o almeno a recuperare il portatile per Maslov - lo aveva segnato profondamente. Il suo aspetto fisico non era più lo stesso. Peggio ancora, aveva perso la fiducia nel suo capo. Oserov non era nessuno, senza la Kazanskaja. Da giorni, ormai, si stava scervellando alla ricerca del modo di tornare nelle grazie di Maslov, di recuperare la preminenza della sua posizione di comandante esecutivo . Tuttavia non era venuto a capo di nulla. Non gli importava che la sua mente, dilaniata dalla sofferenza delle lesioni, faticasse a mettere insieme due pensieri coerenti. Il suo chiodo fisso era vendicarsi di Arkadin e insieme recuperare l'oggetto più ambito per Maslov: quel maledetto computer. Oserov non sapeva perché il suo capo lo volesse, e nemmeno gli interessava saperlo. Quello era il suo obiettivo, o la morte: era sempre stato così fin dal suo ingresso nella Kazanskaja, e così doveva essere . Ma la vita era strana. La salvezza per Oserov arrivò inaspettatamente. Gli fu passata una telefonata: era così immerso nei suoi tetri pensieri che sulle prime rifiutò di rispondere. Poi il suo assistente gli comunicò che la chiamata era su una linea criptata, e che lui sapeva chi potesse essere. Rifiutò di nuovo, in quel momento non aveva voglia di ascoltare qualunque cosa avesse da dirgli Yasa Dakaev . L'assistente di Oserov infilò la testa nella stanza, cosa che aveva avuto ordine di non fare per nessuna ragione . «Cosa c'è?» latrò Oserov . «Dice che è urgente» rispose l'assistente, ritirandosi alla svelta . «Maledizione» borbottò Oserov, prendendo il telefono. «Yasa, sarà meglio che ci sia un'ottima ragione.» «C'è.» Dakaev parlava in tono piatto e distante, ma poteva anche essere dovuto al fatto che per fare le sue chiamate doveva cercarsi angoli nascosti all'interno della sede della FSB-2. «Ho delle informazioni sui movimenti di Arkadin.» «Finalmente!» Oserov scattò a sedere. I battiti del cuore accelerarono .
«In base al rapporto che ho appena ricevuto, si sta dirigendo in Marocco» annunciò Dakaev. «Ouarzazate, più precisamente Tineghir, un villaggio sui monti dell'Alto Atlante.» «Cosa cazzo ci va a fare in quel buco di culo, in Marocco?» «Non lo so» rispose Dakaev. «Ma dalle nostre informazioni risulta che adesso è in viaggio.» Questa è la mia occasione, pensò Oserov, balzando in piedi. Se non la colgo posso anche mangiarmi la pistola. Si sentiva elettrizzato per la prima volta da quella notte a Bangalore. Il fallimento l'aveva bloccato, era rimasto a rodersi dall'interno. Si era lasciato disorientare dalla vergogna e dalla rabbia . Chiamò il suo assistente e gli diede i particolari . «Fammi uscire da questo cazzo di posto» ordinò. «Prenotami il primo volo in partenza da Mosca che va nella direzione giusta.» «Maslov sa che parte di nuovo?» «E tua moglie sa che il nome della tua amante è Ivana Istvanskaja?» L'assistente batté in ritirata in tutta fretta . Si concentrò nella stesura di un nuovo piano. Ora che gli era stata data una seconda possibilità, giurò a se stesso che l'avrebbe sfruttata al meglio . Bourne alzò le mani assestando un calcio nelle reni al professor Giles. Quando questi, agitando le braccia per non cadere, barcollò verso i tre uomini armati, Bourne girò su se stesso, balzò con una lunga falcata verso la finestra aperta e si tuffò all'esterno . Cadde al suolo e si mise a correre a tutta velocità, ma quasi subito, quando l'edificio dell'università adiacente si profilò davanti a lui, dovette rallentare per adeguare la sua andatura a quella degli abitanti di Oxford. Si tolse il giaccone nero e lo infilò in un cestino per i rifiuti. Cercò con lo sguardo e individuò un gruppo di persone adulte, molto probabilmente docenti, che si spostavano da un edificio all'altro, e si accodò a loro . Qualche attimo dopo scorse i due uomini armati della Severus Domna uscire di corsa dal Centro. Si divisero per pattugliare la zona . Uno dei due camminava verso di lui, ma senza notarlo, così Jason potè sgusciare via alla fine del gruppo. I professori stavano discutendo dei filosofi tedeschi di destra e, inevitabilmente, degli effetti di Nietzsche sul nazismo e su Hitler in particolare . A meno di avere la possibilità di incontrare il professor Giles da solo, cosa di cui dubitava, Jason non aveva alcun desiderio di un altro scontro fisico con la Severus Domna. L'organizzazione era simile a un'idra dalle molte teste: ne tagliavi una e al suo posto ne ricrescevano due . L'uomo armato, che aveva nascosto la pistola sotto il giaccone, si avvicinò ai professori ignari di tutto, chiusi com'erano nella loro torre d'avorio. Bourne dava la schiena all'uomo, risultando indistinguibile: in teoria avrebbe dovuto indossare un giaccone nero. Cercava di approfittare di ogni appiglio . I docenti salirono le scale ed entrarono con sussiego nella sede universitaria. Bourne, che stava parlando di alcuni aspetti dell'antico tedesco con un professore dai capelli bianchi, superò con gli altri la soglia . L'uomo si animò quando colse il riflesso di Bourne nel vetro della porta aperta. Salendo due gradini alla volta cercò di farsi largo tra la compagine di suoi colleghi i quali, anche se di una certa età, certamente non erano inermi, specie quando si trattava di decoro e protocollo. Formarono quindi una sorta di parete vivente che impedì all'uomo armato di passare, alla maniera della falange romana che avanzava contro i barbari. Preso alla sprovvista, lui si ritirò . Era quello che serviva a Bourne per staccarsi dal gruppo e infilarsi nel corridoio dal pavimento di marmo lucido, dove risuonavano passi calzati di belle scarpe e l'eco di conversazioni pacate. Da una fila di finestre quadrate in alto entrava la luce del sole, che illuminava le teste degli studenti come una benedizione. Le grandi porte di legno si fecero indistinte mentre Bourne si dirigeva sul retro del Centro. Suonò la campanella che segnalava l'inizio delle lezioni delle quattro . Svoltò dietro un angolo e si infilò in un breve corridoio che conduceva all'uscita posteriore. In quel momento fece irruzione l'uomo della Severus Domna. Non c'era nessun altro nel corridoio.
Portava il giaccone appoggiato sul braccio destro, a coprire la mano che teneva la pistola munita di silenziatore. La puntò contro Bourne, che stava ancora correndo . Jason si gettò sul pavimento, scivolando sul marmo liscio con la velocità di un proiettile. Si fermò contro il killer spingendolo con i piedi e facendogli perdere l'equilibrio e cadere la pistola di mano. Bourne rotolò su un fianco e colpì l'uomo sotto il mento con una ginocchiata, stendendolo . Sentì le voci di più persone che avanzavano lungo il corridoio, appena dietro l'angolo. Rimettendosi in piedi, Bourne raccattò la pistola e trascinò l'uomo esanime all'esterno, giù dalle scale, e lo lasciò dietro una fitta siepe di bosso. Si mise in tasca la pistola e si incamminò lungo i vialetti dell'università a passo normale. Superò alcuni studenti dai volti freschi e giovani, che ridevano e chiacchieravano, e un austero professore che sbuffava affrettandosi per la sua lezione successiva, poi uscì su St Giles Street. Il tempo stava peggiorando rapidamente, come spesso accade in Inghilterra. Un vento freddo spazzava le grondaie e le facciate. I passanti procedevano con le spalle curve, simili a navi che avanzano contro la burrasca imminente. Bourne, confondendosi come sempre tra la folla, si affrettò a tornare alla macchina . «Vai» sussurrò Moira quando gli effetti dell'anestesia svanirono e tornò in sé . Soraya scosse la testa. «Io non ti lascio.» «Quello che doveva succedere è già successo» disse Moira, a ragione. «Qui non ti è rimasto più nulla da fare.» «Non dovresti restare sola» insistette Soraya . «Neppure tu. Sei ancora con Arkadin.» Soraya fece un sorriso triste, perché tutto ciò che aveva detto Moira era vero. «Comunque...» «Comunque» continuò Moira, «sta arrivando qualcuno a badare a me, una persona che mi ama.» Soraya restò leggermente spiazzata. «Si tratta di Jason? Jason sta venendo qui da te?» Moira sorrise, scivolando di nuovo nel sonno . Soraya trovò Arkadin che l'aspettava. Prima però voleva parlare con il giovane neurochirurgo, il quale era, a suo modo, ottimista sulla prognosi . «Il fattore principale in casi di questo tipo, che interessano nervi e tendini, è la rapidità con la quale il paziente viene sottoposto a intervento.» Parlava in modo formale, tanto che pareva più spagnolo che messicano. «Da questo punto di vista, la sua amica è stata molto fortunata. La ferita però presentava margini irregolari, non netti; inoltre la lama che l'ha prodotta non era pulita. Pertanto la procedura ha richiesto più tempo ed è stata più delicata e complessa del solito. Ancora una volta, la fortuna è stata aver contattato me. Non lo dico per vantarmi: è una questione di dati e fatti. Nessun altro sarebbe riuscito a riparare il danno senza fare pasticci o saltare qualche passaggio.» Soraya sospirò, sollevata. «Allora guarirà?» «Certo, guarirà» rispose il neurochirurgo. «Dovrà fare cicli di riabilitazione e fisioterapia, però...» Soraya si sentì attanagliare da un senso di angoscia. «Riuscirà a camminare come prima, vero? Voglio dire, senza zoppicare.» Il neurochirurgo scosse il capo. «Nei bambini i tendini sono piuttosto elastici, e quindi nel loro caso sarebbe possibile. Ma in un adulto non c'è più la stessa elasticità, o quanto meno buona parte di essa. Perciò sì, avrà una forma di zoppia. Se si noterà o meno, dipenderà esclusivamente dal risultato della riabilitazione. E, sottinteso, dalla sua volontà di accettare la cosa.» Soraya rimase sovrappensiero per qualche istante. «Lei lo sa?» «Lei me l'ha chiesto e io ho risposto alle sue domande. E meglio così, mi creda. Alla mente occorre più tempo per adattarsi che al corpo.» «Possiamo andarcene di qui, adesso?» intervenne Arkadin quando il chirurgo fu sparito in fondo al corridoio . Scoccandogli uno sguardo assassino, Soraya gli passò accanto, attraversò a grandi falcate l'atrio affollato e uscì in strada. Puerto Penasco le appariva come in sogno, un luogo talmente estraneo da sembrarle un villaggio di una valle del Bhutan. Osservò le persone che passavano come al rallentatore, quasi fossero sonnambule. Notava i loro tratti aztechi, mixtechi, olmechi, e pensò ai sacrifici umani, al cuore estratto vivo e pulsante dal petto delle vittime. Aveva la sensazione di essere coperta di sangue gelido. Voleva correre, ma si sentiva paralizzata, bloccata sul posto dalle mani immaginarie di tutte le vittime sacrificali seppellite sottoterra .
Percepì la presenza di Arkadin accanto a lei e rabbrividì, come svegliandosi da un incubo per precipitare in un altro. Si chiese come potesse sopportare la sua vicinanza, come riuscisse a parlare con lui dopo quello che aveva fatto a Moira. Se avesse mostrato anche solo un briciolo di rimorso, forse si sarebbe sentita meglio. Ma lui si era limitato a dire «Lei è un nemico». Il che voleva dire, ovviamente, che anche lei rappresentava un nemico, e che la stessa cosa, se non peggio, poteva capitare anche a lei . Senza scambiare una parola, lui la scortò alla macchina e partirono immediatamente alla volta del convento . «Cosa vuoi da me, adesso?» domandò Soraya in tono piatto . «La stessa cosa che tu vuoi da me» rispose lui. «La distruzione.» Arkadin cominciò a preparare i bagagli appena furono entrati al convento. «Mentre tu te ne stavi a torcerti le mani, io ho fatto le prenotazioni.» «Quali prenotazioni?» «Per noi due» spiegò senza fermarsi un attimo. «Tu e io stiamo per andare a Tineghir.» «Mi sento male alla sola idea di andare da qualche parte con te.» Lui si interruppe e si girò a guardarla. «Credo che potrai tornarmi utile, in Marocco, quindi non intendo ucciderti. Ma non esiterò, se necessario.» Tornò ai suoi bagagli. «Diversamente da te, io so quando limitare i danni.» In quel momento Soraya vide il portatile che, per lei, aveva acquisito ormai un significato mitologico. A suo modo Arkadin aveva ragione, pensò. Proprio come aveva avuto ragione Moira. Era tempo di passare oltre il suo personale disgusto nei confronti di quell'uomo. Era tempo di tornare a comportarsi da professionista. Doveva anche lei limitare i danni . «Ho sempre desiderato vedere le montagne dell'Alto Atlante» disse . «Vedi?» disse Arkadin mettendo via il portatile. «Non era poi così difficile, no?» Jalal Essai, seduto su un'auto anonima che aveva rubato quella mattina presto, scorse Willard che usciva dal Monition Club. Come ebbe modo di notare, non aveva l'atteggiamento di chi era stato allontanato all'ingresso o aveva atteso invano di essere ricevuto da uno dei membri del club. Scendeva le scale con lo stile di un Fred Astaire, agile e leggero, come a ritmo di musica. Quell'atteggiamento disinvolto dava sui nervi a Essai. Anzi, gli faceva venire la pelle d'oca, il che era ancora peggio. Essai, che viveva in stato di allarme costante da quando la sua casa era stata invasa dalla Severus Domna, sapeva per esperienza, essendo stato dall'altra parte della barricata, che una reazione passiva come la fuga avrebbe portato inevitabilmente alla morte. L'organizzazione non avrebbe cessato di inseguirlo e di fargli la posta, fino a che non fosse riuscita a eliminarlo, in un modo o nell'altro. In questo tipo di circostanze c'era un solo sistema per restare vivi . Willard girò l'angolo e si mise alla ricerca di un taxi. Essai si affiancò al marciapiede e abbassò il finestrino dalla parte del passeggero . «Le serve un passaggio?» propose . Willard, stupito, si ritrasse come se avesse ricevuto un'offesa. «No, grazie» rispose, e tornò a scrutare il flusso di macchine in arrivo, alla ricerca di un taxi libero . «Signor Willard, la prego di salire in macchina.» Quando Willard lo guardò di nuovo, vide un uomo che impugnava una pistola Hunter Witness EAA lOmm dall'aria minacciosa . «Su, salga» intimò Essai. «Non peggioriamo la situazione.» Willard aprì la portiera e si sedette a fianco di Essai senza dire una parola . «Posso chiederle come pensa di guidare e allo stesso tempo tenermi quell'arma puntata contro?» Per tutta risposta, Essai assestò un colpo con la Hunter Witness sulla testa di Willard, poco sopra l'orecchio sinistro. Willard emise un gemito, con gli occhi vacui. Essai lo appoggiò, privo di sensi, contro il finestrino e sistemò la pistola nella fondina a spalla. Poi ingranò la marcia e si infilò nel traffico . Si diresse a sud, attraversando il centro. In qualche punto di demarcazione invisibile gli imponenti edifici governativi scomparivano, lasciando il posto a negozi locali, outlet di articoli da poco prezzo, catene di fastfood, sedi di associazioni no-profit e piccoli bar. Fuori dai locali si aggiravano ragazzi in felpa col cappuccio alzato, piccoli spacciatori impegnati nei loro traffici.
Uomini anziani sedevano sotto i portici con la testa fra le mani o semidistesi con la schiena appoggiata ai gradini di pietra, gli occhi semichiusi e la testa ciondolante. I bianchi erano rari, poi scomparvero del tutto. Era una Washington diversa, al di fuori dei circuiti turistici, ma anche da quelli dei politici. Le pattuglie di polizia erano poche e sporadiche. Quando ne arrivava una, attraversava rapida il quartiere, come se gli agenti non vedessero l'ora di essere altrove, ovunque ma non lì . Essai parcheggiò di fronte a un edificio che si faceva passare per un hotel. Le camere venivano affittate a ore, e quando entrò trascinandosi Willard semisvenuto, le prostitute, pensando che fosse ubriaco, mostrarono a Essai le loro grazie avvizzite. Lui le ignorò . Posò una valigetta nera da medico sul bancone consumato del bugigattolo del custode e fece scorrere una banconota da venti dollari. Il custode era pallido ed esile, né vecchio né giovane. Stava guardando un film porno su una tv portatile . «Come» esordì Essai, «non c'è il concierge?» Il custode rise, senza staccare gli occhi vitrei dallo schermo della tv. Senza guardare, prese una chiave da una tavoletta portachiavi e la gettò sul bancone . «Non voglio essere disturbato» si raccomandò Essai . «Tutti lo vogliono.» Gli allungò altri venti dollari, che subito il custode afferrò. Poi prese un'altra chiave e disse: «Seconda porta sul retro. Potresti morirci dentro e nessuno lo verrebbe a sapere» . Essai prese la chiave e la valigetta nera . Non c'era l'ascensore, quindi a fatica trascinò Willard su per le scale. Una finestra sporca, in fondo allo stretto corridoio, faceva entrare una luce plumbea, del colore dei gas di scarico. Dal soffitto pendeva un'unica lampadina a illuminare le costellazioni di graffiti osceni scarabocchiati sulle pareti . La stanza sembrava la cella di un carcere. Lo scarno mobilio - un letto, un comò a cui mancava un cassetto, una sedia a dondolo - era grigio o incolore. La finestra dava su un cortile interno dove era quasi sempre buio. La camera odorava fortemente di fenolo e candeggina. Essai preferiva non pensare a cosa potesse essere accaduto lì in passato . Scaricò Willard sul letto, appoggiò la sua valigetta, l'aprì e dispose una serie di oggetti bene allineati sul copriletto macchiato. Era un articolo che portava sempre con sé, un'abitudine che aveva preso quand'era ancora molto giovane, durante l'addestramento prima di trasferirsi in America, per insinuarsi nelle persone selezionate dalla Severus Domna. Non aveva idea di come il gruppo fosse arrivato a Bud Halliday o come avesse potuto sospettare che sarebbe arrivato così presto nel firmamento dei politici americani, ma del resto era abituato all'inquietante preveggenza della Severus Domna . Servendosi di un taglierino, tolse gli abiti a Willard, poi prese una mutanda pannolone e gliela sistemò addosso. Lo schiaffeggiò leggermente sulle guance per destarlo dallo stato di incoscienza. Prima che fosse del tutto sveglio, gli sollevò testa e spalle e gli versò un flacone di olio di ricino in gola. Inizialmente Willard tossì e gli andò di traverso. Essai fece una pausa, quindi riprese a versare il liquido, questa volta a poco a poco. Willard lo mandò giù tutto . Gettò via il flacone vuoto e schiaffeggiò forte Willard, prima su una guancia e poi sull'altra, riattivando la circolazione cerebrale. Lui si svegliò di colpo, aprendo e chiudendo rapidamente le palpebre. Si guardò attorno . «Dove mi trovo?» La voce era rauca e impastata . Si passò la lingua sulle labbra ed Essai prese il rotolo di nastro telato . «Cos'è questo sapore?» Quando Willard cominciò ad avere i conati di vomito, Essai gli tappò la bocca con il nastro adesivo . «Se vomiti, soffocherai. Ti consiglio di reprimere i conati.» Sedette sulla sedia, dondolandosi mentre Willard lottava per riprendersi. Quando vide che il prigioniero aveva vinto la sua battaglia, disse: «Mi chiamo Jalal Essai». Spalancò gli occhi al cenno di assenso di Willard. «Ah, vedo che conosci già il mio nome. Bene. Questo rende le cose più facili. Hai appena
incontrato Benjamin El-Arian. E stato lui, scommetto, a parlarti di me. Mi ha dipinto come il cattivo della situazione, senza dubbio. Be', eroi o malvagi, dipende tutto dal punto di vista. ElArian non lo ammetterà mai, ma ha dimostrato di essere indeciso, come una canna mossa dal vento in tutte le direzioni.» Essai si alzò, si avvicinò al letto e strappò il nastro dalla bocca di Willard . «So che ti stai chiedendo cosa sia quel sapore che hai in bocca.» Sorrise. «Hai mandato giù una bottiglia intera di olio di ricino.» Indicò l'inguine di Willard. «Ecco il motivo di quel pannolone. Tra non molto qualcosa di disgustoso comincerà a uscire dal tuo corpo. Il pannolone servirà a contenere quello schifo, almeno in parte. Temo però che non ce la farà ad assorbire tutto, e allora...» Si strinse nelle spalle . «Qualsiasi cosa tu voglia da me, non l'avrai.» «Bravo! Questo è lo spirito giusto! Ma purtroppo per te, io ho già ottenuto quello che voglio. Come ho fatto con gli altri emissari di El-Arian, verrai scaricato sulla soglia di casa sua. La procedura sarà ripetuta fino a quando non smetterà di starmi addosso e mi lascerà perdere.» «Non lo farà tanto presto.» «Allora vorrà dire che avremo un lungo tratto di strada da fare assieme.» Essai appallottolò il nastro adesivo e lo buttò nel cestino. «Il tuo viaggio, invece, sarà decisamente più breve.» «Non mi sento bene...» Willard lo disse con un tono strano, come se fosse un bambino lamentoso che parla a se stesso . «No» commentò Essai, allontanandosi dal letto, «penso proprio di no.» *** Capitolo 27 . Era ancora notte sulle strade di asfalto e sui marciapiedi di cemento il mattino successivo, quando Bourne arrivò all'aeroporto di Heathrow. Era umido e freddo, ed era felice di andarsene da Londra. Il suo volo partiva alle sette e venticinque e sarebbe arrivato a Marrakech all'una e un quarto, con un breve scalo a Madrid. Non c'erano voli commerciali diretti . Era seduto nell'unico bar aperto a quell'ora, con le sedie di plastica e i tavoli di colore livido nella luce fluorescente, a sorseggiare un caffè che sapeva di bruciato e acquistò il sapore della cenere quando apparve Don Fernando Herrera, che si diresse verso di lui e si accomodò senza salutare e senza essere invitato . «Condoglianze» disse Bourne . Don Fernando non rispose. Perso nell'abito di buon taglio divenuto troppo grande, sembrava invecchiato dall'ultima volta in cui Bourne l'aveva visto, anche se era trascorsa solo una settimana o poco più. Guardava con aria assente la vetrina di una valigeria di fronte al bar . «Come hai fatto a trovarmi?» chiese Bourne . «Avevo il sospetto che saresti andato a Marrakech.» Si voltò di scatto verso Bourne e lo aggredì: «Perché hai ucciso mio figlio? Stava solo cercando di aiutarti, come io gli avevo chiesto di fare» . «Non l'ho ucciso io, Don Fernando.» Solo in quel momento Bourne sentì la punta del coltello penetrare all'interno della coscia. «Credi che sia una buona idea?» «Io sono già oltre, ragazzino.» Aveva gli occhi vuoti, lucidi, colmi di angoscia. «Adesso sono solo un padre che piange il figlio morto. Nient'altro, è l'unica vita che questa vecchia carcassa riesce a contenere.» «Io non avrei mai fatto del male a Diego» spiegò Bourne. «E lo sai.» «Non può essere stato nessun altro.» Il tono di Don Fernando era sommesso, ma era come un grido di dolore e sofferenza. «E stato un tradimento!» Scosse la testa. «L'unica altra possibilità è Ottavio Moreno. Ma lui è il mio figlioccio. Lui non avrebbe mai alzato un dito su Diego.» Bourne sedeva immobile, mentre un rivolo di sangue gli scendeva lungo la gamba. Avrebbe potuto mettere fine a tutto quanto in qualsiasi momento, invece scelse di assecondare la situazione fino in fondo, perché una fine violenta non gli sarebbe stata utile. In fondo era affezionato a Don Herrera e non sarebbe mai riuscito a fargli del male. «Eppure è stato Ottavio ad accoltellare Diego» disse in tono deciso . «Falso!» Il vecchio signore tremava. «Quale motivo poteva mai avere per...?» «Severus Domna.» Subito Don Herrera sbatté le palpebre. Un tic nervoso si manifestò sulla sua guancia destra. «Cosa stai dicendo?» «Hai sentito parlare della Severus Domna, immagino.» L'uomo annuì. «Nel corso degli anni ho incrociato le spade con alcuni membri dell'organizzazione.»
Jason trovò la frase molto interessante. Adesso era doppiamente felice di avere scelto di non reagire. «Io ho qualcosa che la Severus Domna vuole» proseguì Bourne. «I suoi emissari mi hanno seguito a Londra, a Oxford, da altre parti. Dappertutto. In qualche modo, uno di loro è arrivato a Diego. Il suo incarico era portarmi al Vesper Club, dove mi stavano aspettando. Ottavio l'ha scoperto. Magari avrà agito d'impulso, però mi stava proteggendo, te l'assicuro.» «Tu e lui vi conoscete?» «Sì, ci conoscevamo» rispose Bourne. «E morto ieri.» Don Fernando s'indurì in volto. «Come?» «E stato ucciso da un uomo al soldo di Jalal Essai.» Don Herrera girò la testa di scatto. Stava riacquistando colore sulle guance. «Essai?» «Essai vuole la stessa cosa della Severus Domna.» «E lui non è più con il gruppo?» «No.» Bourne sentì che la punta del coltello veniva estratta lentamente . «Le mie più sincere scuse» disse Herrera . «Sarai stato fiero di Diego.» Per un po' Don Herrera rimase in silenzio. Bourne fece cenno a una cameriera e ordinò due caffè. Quando le tazze furono servite, Don Herrera mescolò lo zucchero e bevve un sorso di caffè, che ingurgitò con una smorfia di disgusto . «Non vedo l'ora di tornare a Siviglia.» I suoi occhi incrociarono quelli di Bourne. «Prima che tu vada, c'è qualcosa che devo dirti. Un tempo tenevo Ottavio Moreno in braccio, quando andavo a trovare sua madre. Si chiama Tanirt e vive a Tineghir.» Fece una pausa. Il suo sguardo era penetrante ed era tornato l'uomo scaltro e cinico di un tempo. «E lì che sei diretto, giusto?» Bourne assentì . «Sta' molto attento, senor. Tineghir è il punto di collegamento della Severus Domna. E nata proprio a Tineghir e lì ha prosperato agli inizi, soprattutto per opera della famiglia di Jalal Essai, che si è divisa quando il fratello di Jalal ha girato le spalle all'organizzazione, ha sradicato la sua famiglia e si è trasferito a Bali.» Il padre di Holly, dedusse tra sé Bourne . «Benjamin El-Arian, che con la sua famiglia bramava il potere degli Essai, si è servito dello scisma per diventare più influente. Per quanto ne so, è il capo della Severus Domna già da qualche anno.» «Allora è guerra a oltranza tra Essai ed El-Arian.» Don Fernando annuì. «A quanto mi risulta, la Severus Domna non tratta con i guanti di velluto i membri che lasciano il nido. E un patto di sangue.» Finì di bere il caffè. «Ma per tornare a Tanirt, la conosco da molto tempo. Sotto molti aspetti è la donna a cui sono stato più vicino, compresa la mia povera moglie.» «Mi pare di capire che è la tua amante.» Il vecchio signore sorrise. «Tanirt è una persona speciale, come scoprirai da te quando avrai modo di parlarle.» Si chinò in avanti. «Escuchame, senor, guarda che lei è la prima persona che devi vedere quando sarai in Marocco.» Scrisse un appunto su un foglietto. «Chiamala a questo numero appena arrivi. Lei ti starà aspettando. I suoi consigli ti saranno utili, senza dubbio. Riesce a vedere tutti gli aspetti di una situazione.» «Devo dedurre che è stata la donna di Gustavo Moreno e che ora sta con te?» «Capirai quando avrai modo di conoscerla» concluse Don Fernando. «Però questo te lo voglio dire. Tanirt non è la donna di nessuno. Lei è quello che è. Nessun uomo può possederla, in quel senso. Lei è...» Distolse lo sguardo per un momento. «... selvaggia.» Dimitrij Maslov accolse con cauto ottimismo la notizia che Boris Karpov si trovava nel Metropole per farsi fare barba e capelli . Karpov, che era un uomo prudente, non si faceva mai tagliare i capelli due volte nello stesso posto . Maslov fece chiamare Oserov, ma gli venne detto che quest'ultimo era assente senza permesso, essendo partito da Mosca il giorno precedente. Maslov, furioso, decise che ne aveva abbastanza di quell'uomo. In realtà l'aveva tenuto con sé fino a quel momento solo per far innervosire Arkadin, per il quale nutriva un affetto paterno e allo stesso tempo l'odio profondo del genitore respinto. Ma il vergognoso fallimento di Oserov a Bangalore l'aveva fatalmente buttato giù. Per Maslov era diventato del tutto inutile, col suo odore di sconfitta . «Dov'è andato?» domandò Maslov all'assistente di Oserov. Erano tutti e due in piedi negli uffici, in presenza dello staff al completo .
«A Tineghir.» L'assistente ebbe un colpo di tosse e si umettò le labbra secche. «In Marocco.» «Perché è andato in Marocco?» «Lui... non me l'ha detto.» «Hai cercato di scoprirlo?» «Come potrei?» Maslov impugnò la sua Makarov personalizzata e sparò un colpo all'assistente in mezzo agli occhi. Poi lanciò uno sguardo carico di ferocia a ognuno dei suoi uomini. Quelli più vicini a lui indietreggiarono, come colpiti da una staffilata invisibile . «Se c'è qualcuno che pensa di essere libero di pisciare senza il mio permesso, faccia un passo avanti!» Nessuno si mosse . «Se c'è qualcuno che pensa di poter disobbedire a un mio ordine, faccia un passo avanti!» Nessuno fiatò . «Evgenij.» Si rivolse a un uomo tarchiato, con una cicatrice sotto un occhio. «Prendi le armi e di' ai tuoi due uomini migliori di prepararsi. Venite con me.» Poi tornò a grandi passi nel suo ufficio, si diresse all'armadietto dietro la sua scrivania e cominciò a scegliere le armi. Se il fiasco di Bangalore gli aveva insegnato qualcosa, era che se vuoi che venga eseguita un'operazione difficile devi farla personalmente. I tempi erano cambiati. Lo sapeva anche lui, eppure non aveva voluto crederci. Tutto era diventato più difficile rispetto a prima. Il governo era diventato aggressivamente ostile, i silovik erano subentrati ai più malleabili oligarchi ed era sempre più raro trovare brave persone. I soldi facili appartenevano al passato. Adesso doveva prendersi ogni singolo dollaro con le unghie e con i denti. Lavorava il doppio solo per ricavare i profitti di dieci anni prima. Era sufficiente per fargli rimpiangere la giovinezza perduta. La verità, rifletté mentre avvitava un silenziatore alla canna della sua Makarov, è che essere un criminale non è più divertente. Oggi è un lavoro, puro e semplice. Era stato ridotto alla stregua di un apparatcik ed era una cosa che detestava. La nuova realtà era per lui una pillola amara da mandar giù. Era esausto per i continui tentativi di tenere la testa fuori dall'acqua . E infine, a coronamento del tutto, Boris Karpov era diventato la sua personale bestia nera . Armato di tutto punto, sbatté le ante dell'armadietto. Sollevando la Makarov percepì in sé un rinnovato vigore. Dopo tanti anni dietro una scrivania, era bello essere di nuovo per strada, prendere la legge nelle proprie mani e ridurla a pezzettini. Anzi, si sentiva pronto a staccarle la testa a morsi . La barberia Metropole era situata poco lontana dalla vasta hall tutta marmi e bronzo dorato dell'hotel Moskva, un antico e nobile palazzo tra il teatro Bolshoi e la Piazza Rossa. L'edificio era talmente ricco di decorazioni che sembrava sul punto di esplodere da un momento all'altro per l'abbondanza di cornici, balaustre, pannelli di pietra lavorata, architravi massicce e davanzali sporgenti . Il Metropole era arredato con tre poltrone da barbiere vintage, dietro le quali c'era una parete di specchi e gli armadietti con i vari attrezzi del mestiere: forbici, rasoi a mano libera, le macchinette per il sapone da barba, grandi flaconi di vetro di disinfettante, asciugamani ben piegati, pettini, pennelli, tagliacapelli elettrici, scatole di talco e bottigliette di dopobarba tonificante . Al momento tutte e tre le poltrone erano occupate da clienti nelle loro mantelline nere di nylon chiuse dietro il collo con il velcro. I due uomini, uno a destra e l'altro a sinistra, si stavano facendo tagliare i capelli da barbieri con la tradizionale giacca bianca del Metropole. Al centro, semidisteso sulla poltrona con un asciugamano caldo sulla faccia, c'era Boris Karpov. Mentre il barbiere affilava il rasoio, Karpov fischiettava una vecchia melodia popolare russa che ricordava dagli anni dell'infanzia. In sottofondo, una radio preistorica diffondeva un asettico notiziario che annunciava le ultime iniziative del governo per combattere la crescente disoccupazione. Due clienti, uno giovane e uno più anziano, sedevano in attesa del proprio turno su delle sedie di legno all'altro lato del salone, leggendo copie della «Pravda» . Gli uomini di Evgenji avevano fatto una ricognizione di dieci minuti nella hall dell'albergo, controllando se erano presenti agenti della FSB-2. Non ne trovarono e fecero un cenno in codice al loro capo. Evgenji, con un lungo cappotto invernale simile a quello dei suoi uomini, fece il suo ingresso al Moskva assieme a una famiglia che seguiva una serissima guida della
Intourist. Mentre la guida conduceva la famiglia alla reception, lui si diresse al Metropole, verificando se l'uomo seduto sulla poltrona al centro fosse veramente Boris Karpov. Non appena il barbiere tolse l'asciugamano dalla faccia di Karpov, Evgenji si girò a fare un cenno all'uomo in piedi accanto alla porta girevole. Questi, a sua volta, fece un segnale a Maslov, che scese dalla Bmw nera parcheggiata di fronte all'hotel, attraversò il marciapiede e salì le scale . Dopo che ebbe attraversato la porta girevole, Evgenji e i suoi uomini entrarono in azione secondo i piani. I due sgherri si piantarono ai due lati dell'ingresso del Metropole. Non c'era altra via di accesso . Evgenji entrò e muovendo la canna della sua Makarov ordinò ai due uomini di togliersi di mezzo. Puntò la pistola verso i clienti in attesa e i barbieri, intimando loro di non muoversi. Un altro cenno con la testa e Maslov varcò la soglia . «Karpov, Boris Karpov.» Maslov teneva la mano sulla Makarov. «Mi pare di capire che mi stavi cercando.» Karpov aprì gli occhi, posò lo sguardo su Maslov per un momento. «E una situazione davvero imbarazzante.» Maslov sorrise con il ghigno di un lupo. «Solo per te.» Karpov alzò una mano da sotto la mantellina. Il barbiere allontanò la lama del rasoio dalla sua guancia e fece un passo indietro. Karpov spostò lo sguardo da Maslov a Evgenji e ai due uomini armati che ora si erano materializzati all'ingresso . «Non mi sembra una buona idea, ma se mi ascolti potremmo trovare un accordo.» Maslov rise. «Ma senti un po', l'incorruttibile colonnello Karpov che contratta per la sua vita.» «Sto solo cercando di essere pragmatico» ribatté Karpov. «Sto per diventare il capo della FSB-2, dunque perché uccidermi? Ti converrebbe avermi come amico, non trovi?» «L'unico buon amico» replicò Maslov «è un amico morto.» Prese la mira, ma prima che potesse premere il grilletto un'esplosione lo scaraventò all'indietro. Nella mantellina di Karpov c'era un buco provocato dal proiettile che aveva sparato. Se la strappò via nel momento stesso in cui i due clienti in attesa, entrambi agenti della FSB-2 sotto copertura, aprivano il fuoco. I due uomini di Evgenji caddero a terra, mentre Evgenji stesso uccise uno degli uomini di Karpov prima che questi gli sparasse tre colpi in pieno petto. Karpov, ancora con la crema da barba sulle guance, raggiunse a grandi passi Maslov, steso sul pavimento di mattonelle bianche e nere . «Come ci si sente...» gli domandò puntandogli la pistola in faccia, «alla fine di un'epoca?» Senza attendere risposta, premette il grilletto . Moira aprì gli occhi con la sensazione di aver dormito una settimana intera e vide il volto di Berengària Moreno . Il suo sorriso era venato di ansia. «Come ti senti?» «Come se mi fosse passato sopra un treno.» Aveva la gamba sinistra ingessata dall'inguine alla caviglia e sospesa in modo che la parte inferiore si trovasse sopra il livello della testa . «Hai un bell'aspetto, mami.» Berengària parlava in tono leggero e carezzevole. Posò un lieve bacio sulle labbra di Moira. «Giù c'è un'ambulanza privata che ci aspetta per riportarci alla hacienda. Un'infermiera a tempo pieno e una fisioterapista hanno già preso alloggio nelle camere degli ospiti.» «Non dovevi.» Era una cosa stupida da dire. Per fortuna Berengària non fece commenti . «Dovrai abituarti a chiamarmi Barbara.» «Lo so.» Poi cambiò tono e disse con voce dolce, chinandosi su Moira: «Ero sicura che non ti avrei mai più rivista» . «Sai, nulla è come ci si aspetta.» Berengària rise. «Lo sa solo Dio.» «Barbara...» «Mami, ti prego, mi fai arrabbiare se pensi che mi aspetti qualcosa in cambio. Farei qualunque cosa per te, anche lasciarti in pace, se è quello che vuoi.» Moira appoggiò la mano sulla morbida guancia di Barbara. «In questo momento vorrei soltanto guarire.» Sospirò. «Barbara, io voglio riuscire a correre di nuovo.» Barbara posò la mano su quella di Moira. «Allora ci riuscirai. E io ti aiuterò, se lo desideri. Altrimenti...» Si strinse nelle spalle . «Grazie.» «Guarisci, mami. Sarà il tuo modo di ringraziarmi.» Negli occhi di Moira passò un'ombra. «Sai, non stavo mentendo ad Arkadin. Corellos va affrontato il prima possibile.» «Lo so» sussurrò Barbara .
«Dovremo occuparcene, e in più posso concentrarmi su qualcos'altro che non sia la mia gamba.» «Sarei tentata di dirti di pensare solo a guarire, ma so che mi rideresti in faccia.» Moira si adombrò ancor di più. «Lo sai che questi non sono affari tuoi, vero?» «Era la vita di mio fratello.» «Sarei tentata di dirti che non deve essere per forza la tua, ma so che mi rideresti in faccia.» Barbara fece un sorriso triste. «Non si sfugge alla famiglia.» Accarezzò sovrappensiero l'ingessatura di Moira. «Mio fratello era buono con me, mi proteggeva quando gli altri cercavano di fregarmi.» Guardò Moira negli occhi. «Mi ha insegnato a essere dura, a camminare a testa alta in un mondo di uomini. Senza di lui non so dove sarei.» Moira rifletté sulle sue parole. Stando da Barbara, avrebbe tentato di convincerla a lasciar perdere gli affari del fratello, nonostante lei si sentisse in obbligo. Moira non era più in contatto da anni con la propria famiglia, e non sapeva neppure se i suoi genitori fossero ancora vivi, ma non era sicura che gliene importasse qualcosa. Suo fratello invece era tutt'altra faccenda. Sapeva dove si trovava, cosa faceva e quali erano i suoi contatti. Era altrettanto certa che lui non sapesse niente di lei. Avevano troncato ogni rapporto appena ventenni. Per lui provava qualcosa, diversamente che nei confronti dei propri genitori, ma nulla di buono . Trasse un profondo respiro ed espirò l'aria stantia del suo passato. «Mi sto riprendendo più in fretta di quanto si aspettasse il chirurgo, ed è uno che ha un'alta considerazione del suo mestiere.» A Barbara brillarono gli occhi. «Be', sai, nulla è come ci si aspetta.» Questa volta, risero tutte e due . Benjamin El-Arian sedeva alla scrivania nel proprio studio. Era al telefono con Idir Syphax, il gran capo della Severus Domna a Tineghir. Syphax aveva confermato che sia Arkadin sia Bourne erano in viaggio per il Marocco. El-Arian voleva accertarsi che ogni dettaglio strategico da lui studiato fosse stato messo in pratica nel modo corretto. Non era il momento delle sorprese; doveva stare attento con quei due uomini . «E tutto pronto nella casa?» «Sì» confermò Idir all'altro capo del telefono. «Il sistema è stato controllato e ricontrollato. L'ultima volta da me personalmente. Una volta entrati, non saranno più in grado di uscire.» «Abbiamo costruito un'eccellente trappola per topi.» Seguì una breve risata. «E giusto della stessa misura.» El-Arian venne alla domanda più difficile. «Che mi dici di quella donna?» Non riusciva a pronunciare il nome di Tanirt . «Lei non possiamo toccarla, ovviamente. Gli uomini hanno il terrore di lei.» E a ragione, pensò El-Arian. «Allora lasciatela in pace.» «Pregherò Allah» disse Idir . El-Arian era soddisfatto, anche perché Willard aveva fatto la sua parte nell'accordo. Stava per aggiungere qualcosa quando sentì lo stridio delle gomme di un'auto che si allontanava dalla sua casa di Georgetown. Dato che aveva gli auricolari, si alzò, attraversò lo studio e sbirciò tra le stecche orientabili delle persiane senza interrompere la conversazione . Notò un fagotto indistinto gettato sui gradini davanti alla porta, come se fosse stato abbandonato. Era di forma cilindrica, avvolta in un vecchio tappeto. Stimò che dovesse essere lungo tra un metro e sessanta e un metro e ottanta . Continuando a parlare nel microfono, attraversò l'atrio, aprì la porta d'ingresso e trascinò il tappeto all'interno. Era molto pesante. Il rotolo era legato in tre punti con del semplice spago. Ritornò alla scrivania, prese un coltello a serramanico da un cassetto e tornò nell'atrio. Si chinò e tagliò i tre giri di spago, srotolando il tappeto. Ne uscì un tanfo tremendo che lo fece allontanare con un sobbalzo . Quando vide il corpo e riconobbe la persona, rendendosi conto che era ancora viva, interruppe la comunicazione. Fissando Frederick Willard, pensò: Che Allah miprotegga, Jalal Essai mi ha dichiarato guerra. Altri uomini inviati da lui a far fuori Essai erano stati uccisi, ma quello era un affronto personale . Superando il ribrezzo, si chinò su Willard. Un occhio era chiuso per il gonfiore, l'altro era rosso per i capillari rotti . «Pregherò per te, amico mio» disse El-Arian .
«Non m'interessano né Dio né Allah.» Willard riusciva a stento a muovere le labbra aride e screpolate, e dovevano avergli fatto qualcosa di tremendo alla gola o alle corde vocali, perché parlava con una voce quasi irriconoscibile. Aveva il suono di un rasoio che penetra nella carne. «Il resto è solo buio. Non resta nessuno di cui fidarsi.» El-Arian gli domandò qualcosa, ma non arrivò nessuna risposta. Con due dita controllò il collo di Willard. Non c'era polso. El-Arian recitò una breve preghiera, più per se stesso che per l'infedele . *** Libro Quarto Capitolo 28 . «Mi sembri sorpreso» commentò Tanirt . Bourne era davvero sorpreso. Si era immaginato una donna più o meno dell'età di Don Fernando, forse di dieci anni più giovane. Era difficile attribuirle un'età precisa, ma Tanirt sembrava avere trentacinque anni o poco più. Doveva trattarsi di un'illusione. Se si pensava che Ottavio era in effetti suo figlio, doveva avere una cinquantina d'anni almeno . «Sono venuto in Marocco senza aspettarmi niente di preciso» disse lui . «Bugiardo.» Tanirt aveva pelle e capelli scuri, una figura voluttuosa che non aveva perso nulla nella sua rigogliosa maturità. Aveva il portamento di una regina e i suoi grandi e languidi occhi neri sembravano cogliere tutto subito . Lei lo osservò per un momento. «Io ti vedo. Il tuo nome non è Adam Stone» sentenziò risoluta . «Ha importanza?» «La verità è la sola cosa che importa.» «Il mio nome è Bourne.» «Non il tuo nome di nascita, ma quello che usi adesso.» Annuì, soddisfatta. «Per favore, fammi vedere la mano, Bourne.» L'aveva chiamata appena sbarcato a Marrakech. Lei lo stava aspettando, come gli aveva predetto Don Fernando. Gli aveva dato istruzioni su dove trovarla: un negozio di dolci, nel cuore di un mercato nella zona sud della città. Aveva trovato il posto senza alcuna difficoltà, poi aveva parcheggiato per proseguire a piedi nel labirinto di vicoli tappezzati di bancarelle e botteghe che vendevano di tutto, dagli articoli in cuoio inciso al foraggio per i dromedari. Il proprietario del negozio di dolci era un berbero avvizzito che sembrò riconoscere Bourne alla prima occhiata. Gli indicò sorridendo di entrare nel negozio, che profumava di caramello e semi di sesamo tostati. Il locale era scuro e carico di ombre, eppure Tanirt sembrava emanare luce dall'interno . Lui le porse la mano con il palmo girato verso l'alto e lei la prese. Tanirt sollevò gli occhi su di lui. Indossava una semplice tunica fermata in vita con una cintura. Non aveva un centimetro di pelle esposta, eppure emanava una carica sensuale, pulsante di vita . Gli teneva morbidamente la mano tra le sue e percorse con l'indice le linee del palmo e delle dita. «Tu sei un capricorno, sei nato l'ultimo giorno dell'anno.» «Sì.» Non aveva alcun modo di saperlo, eppure era così. Bourne sentì un formicolio che partiva dalle dita dei piedi e si espandeva in tutto il corpo, infondendogli calore e attirandolo a lei, come se si fosse stabilito un contatto energetico tra di loro. Vagamente a disagio, pensò di uscire subito dal negozio, ma non lo fece . «Tu hai...» Si fermò e appoggiò la mano sulla sua, come a bloccare una visione improvvisa . «Che cosa?» domandò Bourne . Tinirt sollevò lo sguardo su di lui, che in quel momento ebbe la sensazione di poter annegare in quegli occhi. Non gli aveva lasciato andare la mano, ma continuava a tenerla stretta fra le sue. In lei c'era un magnetismo allo stesso tempo eccitante e inquietante. Jason sentiva dentro di sé degli impulsi contrastanti che lo frastornavano . «Vuoi davvero che te lo dica?» Aveva la voce di un contralto che avesse studiato canto, profonda, intensa e sonora. Anche parlando in tono sommesso, quella voce sembrava pervadere ogni anfratto del piccolo locale . «Hai cominciato tu» replicò Bourne . Lei sorrise, senza traccia di allegria. «Vieni con me.» La seguì nel retrobottega e uscirono da una porticina stretta. Di nuovo nei meandri del cuore del mercato, Jason osservò la distesa stupefacente di merci e servizi: polli vivi e pipistrelli dalle ali vellutate in gabbia, cacatua su
trespoli di bambù, grossi pesci in vasche di acqua marina, un agnello scuoiato e sanguinolento appeso a un gancio. Una gallina fulva girava starnazzando come se le stessero tirando il collo . «Qui vedi tante cose, diverse creature, ma le persone sono solo amazigh, solo berberi.» Tanirt indicò a sud, dove si stagliavano le montagne dell'Alto Atlante. «Tineghir si trova al centro di un'oasi di trenta chilometri quadrati, a un'altitudine sopra i millecinquecento metri, e si estende su uno stretto e rigoglioso cuneo di uadi fra la catena dell'Alto Atlante a nord e l'Antiatlante a sud . «È un luogo dove ci sono poche differenze. Come l'area circostante, il villaggio è abitato dagli amazigh. Gli antichi romani ci chiamavano mazices; per i greci eravamo libici. Ma, comunque si voglia chiamarci, noi siamo berberi, indigeni in molte regioni del Nordafrica e della Valle del Nilo. L'autore latino Apuleio era in realtà un berbero, così come Sant'Agostino d'Ippona. E lo era anche Settimio Severo, che fu un imperatore romano. Era berbero anche Abd ar-Rahman Primo, che conquistò la Spagna meridionale e fondò il califfato omayyade di Cordoba, nel cuore della regione che chiamò al-Andalus, la moderna Andalusia.» Si girò a guardarlo. «Ti dico queste cose in modo che tu possa comprendere meglio quello che sta per accadere. Questo è un luogo di storia, di conquista, di gesta gloriose e di grandi uomini. E anche un centro di energia. E un punto dove si intersecano destini e opportunità.» Gli prese ancora la mano. «Bourne, tu sei un enigma» disse con dolcezza. «La tua linea della vita è lunga, insolitamente lunga. Eppure...» «Che cosa?» «Eppure tu morirai oggi o forse domani, ma comunque entro questa settimana.» Marrakech era un unico suq, tutti i marocchini sembravano commercianti di qualcosa. Nei negozi e nei mercati che si susseguivano nei vicoli affollati e nei viali si vendeva e si comprava di tutto . Arkadin e Soraya non erano passati inosservati al loro arrivo, dato che erano attesi, ma nessuno li avvicinò né furono seguiti nel tragitto dall'aeroporto alla città. Non era un buon segno, anzi li rese ancora più guardinghi perché significava che gli agenti della Severus Domna non lo ritenevano necessario, di conseguenza la città, e probabilmente l'intera regione di Ouarzazate, pullulavano di agenti . Anche Soraya era della stessa idea. «La tua presenza qui non ha alcun senso» disse nel taxi che odorava di lenticchie, cipolla fritta e incenso. «Perché ti stai ficcando da solo in questa trappola?» «Perché posso farlo.» Arkadin sedeva tenendo il suo bagaglio sulle ginocchia. Dentro c'era il computer portatile . «Non ti credo.» «Non me ne fréga un cazzo di quello che credi.» «Altra bugia, altrimenti non sarei qui con te, adesso.» Lui la guardò scuotendo la testa. «Nel giro di dieci minuti potrei farti urlare, farti dimenticare tutti gli uomini che hai avuto.» «Sono veramente incantata.» «Questa è una Madre Teresa, non Mata Hari.» Lo disse con voce carica di disprezzo, come se il suo atteggiamento casto gli avesse fatto perdere ogni rispetto per lei . «Tu credi che m'importi qualcosa di cosa pensa di me un pezzo di merda come te?» Non era una domanda . Sobbalzarono sul sedile posteriore per un po'. Poi Arkadin riprese a parlare, quasi a continuare la conversazione precedente. «Tu sei qui come una specie di assicurazione sulla vita. Tu e Bourne avete qualche tipo di legame e, al momento opportuno, intendo sfruttarlo.» Soraya, sovrappensiero, rimase in silenzio per il resto del tragitto . Arrivati a Marrakech, Arkadin condusse Soraya in un dedalo di strade in cui i locali continuavano a fissarla, leccandosi le labbra al suo passaggio come se stessero assaggiando la morbidezza della sua carne. Erano immersi in una bolgia di urla e rumori, simile a una giungla. Alla fine entrarono in un negozietto soffocante, che odorava di olio di macchina. Arkadin fu accolto nello stile ossequioso di un impresario di pompe funebri da un ometto calvo simile a una talpa che continuava a sfregarsi le mani e a inchinarsi. Sul retro c'era un piccolo tappeto persiano. L'ometto lo spostò e tirò uno spesso anello metallico che apriva una botola sul pavimento. L'uomo, armato di una piccola torcia, fece strada scendendo una scala a chiocciola di metallo. Arrivati in fondo, accese una serie di lampadine fluorescenti installate su un soffitto
così basso che dovettero chinarsi per attraversare un locale pavimentato con parquet lucido. La cantina, diversamente dal negozio al piano di sopra, polveroso e zeppo di cartoni, casse e fusti accatastati alla bell'e meglio, era in perfetto ordine. Lungo le pareti, alcuni deumidificatori portatili ronzavano accanto a una fila di purificatori d'aria. Il locale era diviso in corsie da lunghi mobili alti circa un metro, ognuno con tre cassetti, pieni di ogni tipo di armamento conosciuto dall'uomo moderno. Ciascuna arma era contrassegnata e portava un cartellino . «Bene, dato che conosce già la merce» disse l'uomo-talpa, «la lascerò scegliere con calma. Quando ha finito porti di sopra quello che intende acquistare. Le fornirò le munizioni che le servono, poi ci accorderemo sul prezzo.» Arkadin annuì con aria assente. Era abituato a passare da un cassetto all'altro di quell'arsenale, calcolando la potenza di fuoco, la facilità d'uso, l'ergonomicità del peso e delle dimensioni delle varie armi . Quando lui e Soraya rimasero soli, prese da un cassetto quello che alla donna sembrò un riflettore fornito di una grossa batteria. Si girò verso di lei e scosse l'oggetto. La batteria si aprì e si bloccò in posizione. Si trattava di una mitragliatrice pieghevole . «Non avevo mai visto una cosa del genere.» Era affascinata, nonostante tutto . «E un prototipo, non è ancora sul mercato. E una Magpul FMG, si usa con munizioni standard Glock da nove millimetri, ma spara più veloce di una pistola.» Fece scorrere la mano sulla canna tozza. «Carina, no?» Soraya era d'accordo. Ne avrebbe proprio voluta una anche per sé . Arkadin colse al volo l'avidità nel suo sguardo. «Tieni.» Lei la prese, la esaminò con occhio esperto, la smontò e la rimise assieme . «Incredibilmente ingegnosa.» Arkadin sembrava non avere fretta di riprendere la FMG. In apparenza guardava lei, ma in realtà vedeva qualcos'altro, una scena del passato . A San Pietroburgo aveva accompagnato Tracy al suo hotel. Lei non l'aveva invitato a salire, ma non aveva protestato quando lui l'aveva seguita. Una volta dentro, aveva appoggiato la borsetta e le chiavi su un tavolino, aveva attraversato la stanza ed era entrata in bagno, chiudendo la porta, ma senza girare la chiave . Il fiume scintillava sotto la luna, nero e possente e pieno di segreti, come un grosso serpente mezzo intorpidito. Nella stanza faceva caldo, perciò lui era andato alla finestra e l'aveva aperta. Un refolo di vento, odoroso dell'acqua del fiume, si era intrufolato nella camera. Si era girato a guardare il letto e vi aveva immaginato Tracy, nuda alla luce della luna . Un suono leggero, come un sospiro o un sussulto nella voce, l'aveva fatto voltare. La porta del bagno era aperta e un nuovo colpo d'aria l'aveva spalancata. Ora uno spicchio sottile di luce gialla cadeva obliquo sulla moquette. Era entrato in quello spicchio di luce e si era spinto con lo sguardo nella stanza da bagno. Aveva visto Tracy di schiena, o piuttosto solo una parte di essa, bianca e perfetta. Più in basso c'era la curva delle natiche e il solco profondo nel mezzo. Aveva provato un impulso di piacere talmente violento da risultare quasi doloroso. In lei c'era qualche cosa che lo rendeva debole. Disprezzava se stesso, eppure non era riuscito a fare a meno di andare verso la porta e di spingerla per aprirla . L'anta, vecchia e con la vernice screpolata, aveva scricchiolato e Tracy si era voltata a guardarlo da sopra la spalla. Il suo corpo nudo si mostrava a lui in tutto il suo splendore. Il suo sguardo era colmo di compassione e di disgusto, tanto che gli aveva strappato un suono quasi di animale dalle labbra. Aveva richiuso in fretta la porta. Quando lei era uscita dal bagno, non era riuscito a guardarla. L'aveva sentita attraversare la camera e chiudere la finestra . «Ma dove sei cresciuto?» aveva commentato . Non era una domanda, ma uno schiaffo in pieno viso. Non gli era uscita alcuna risposta e in quel momento aveva sentito il desiderio fortissimo di ucciderla, di sentire la cartilagine della gola cedere sotto la pressione delle dita, di percepire il sangue di lei scorrergli caldo tra le mani. Invece erano reciprocamente legati. Erano bloccati in un'orbita di rancore, senza possibilità di fuga . Ma Tracy era fuggita, si ritrovò a pensare adesso, ed era morta. Gli mancava e si odiava per quel sentimento. Era l'unica donna che l'avesse respinto. Fino a quel momento, cioè .
Quando i suoi occhi misero di nuovo a fuoco Soraya che ripiegava la FMG, provò un brivido premonitore in tutto il corpo. Per un istante vide in lei la morte e il suo teschio. Poi tutto ritornò normale e riprese a respirare . Era diversa da Tracy: la sua pelle era del colore del bronzo dorato. Come Tracy, si era mostrata a lui quando si era sfilata la T-shirt che aveva usato come laccio emostatico per la coscia di Moira. Aveva i seni pesanti, i capezzoli scuri ed eretti. Li vedeva anche adesso, sotto la maglietta . «E perché non puoi avermi» disse Soraya, quasi leggendogli nel pensiero . «Al contrario, potrei averti in questo preciso momento.» «Vuoi dire stuprarmi.» «Si.» «Se avessi voluto» replicò lei, voltandogli la schiena, «l'avresti già fatto.» Lui si avvicinò alle sue spalle e le sussurrò: «Non tentarmi...» . Lei si voltò. «La tua rabbia è diretta contro gli uomini, non contro le donne.» Lui la fissava, immobile . «Ti ecciti quando uccidi gli uomini e seduci le donne. Lo stupro, invece? Non sei un violentatore.» Arkadin tornò con la mente alla sua città natale, Niznij Tagil, dove per un periodo era stato membro della banda di Stas Kuzin, quando raccoglieva le ragazze per strada per rifornire il rozzo bordello del capo della mafia. Notte dopo notte era stato a sentire le urla e i pianti delle ragazze che venivano stuprate e picchiate. Alla fine aveva ammazzato Kuzin e metà della sua banda . «Lo stupro è roba da bestie» disse con voce rauca. «E io non sono una bestia.» «E la storia della tua vita. La lotta per essere un uomo e non una bestia.» Lui distolse lo sguardo . «È stata la Treadstone a farti questo?» Lui rise. «La Treadstone è stata il meno. E tutto quello che è successo prima, tutto quello che cerco di dimenticare.» «Curioso. Per Bourne è esattamente l'opposto: lui lotta per ricordare.» «Allora è fortunato» ringhiò Arkadin . «E un vero peccato che siate nemici.» «E stato Dio a renderci nemici» concluse Arkadin prendendole di mano l'arma. «Un dio di nome Alexander Conklin.» «Tu sai come morire, Bourne?» sussurrò Tanirt . « Sei nato nel giorno di Shiva. L'ultimo del mese di dicembre, che rappresenta la fine e l'inizio. Capisci? Sei destinato a morire e a rinascere.» Così gli aveva detto Suparwita a Bali, solo qualche giorno prima . «Sono già morto una volta» rispose. «E sono rinato.» «Carne, carne, solo carne» borbottò lei. E continuò: «Questa volta è diverso» . Tanirt lo disse con un'energia che lui percepì in ogni fibra del suo essere. Si protese verso di lei, attirato dalla promessa delle sue cosce e del suo seno . Lui scosse la testa. «Non capisco.» Lei lo afferrò, avvicinandolo ancora di più a sé. «C'è un solo modo per spiegarlo.» Si girò e lo condusse nuovamente nel negozio di dolci. In un angolo nascosto spostò diversi involti odorosi, rivelando l'esistenza di una scala di legno, piena di polvere e di cristalli di zucchero di palma. Salirono a un ammezzato che doveva essere, almeno fino a poco tempo prima, l'abitazione di qualcuno. Forse era la figlia del proprietario, a giudicare dalle locandine di film e dai poster delle rockstar alle pareti. L'ambiente era più luminoso e dalle finestre entrava la luce del sole. Faceva un caldo torrido, ma Tanirt non sembrava soffrirne . Al centro della stanza si voltò verso di lui. «Dimmi, Bourne, tu in che cosa credi?» Lui non rispose . «La mano di Dio, la sorte, il destino? Qualcuna di queste cose?» «Credo nel libero arbitrio» disse infine. «Nella capacità di fare le proprie scelte senza alcuna interferenza, né di organizzazioni né del destino, o come preferisci chiamarlo.» «In altre parole, tu credi nel caos, perché l'uomo non controlla niente nel suo universo.» «Questo vorrebbe dire che sono disperato. Io non lo sono.» «Dunque, né la Legge né il Caos.» Sorrise. «Il tuo è un sentiero speciale, quello di mezzo, dove nessuno prima di te ha mai camminato.» «Non sono certo che la
metterei in questo modo.» «Ovviamente no. Tu non sei un filosofo. Come la metteresti, allora?» «Di cosa stai parlando?» domandò lui . «Sempre il soldato, così impaziente» replicò Tanirt. «Morte. Sto parlando della natura della tua morte.» «La morte è la fine della vita» disse Bourne. «Cos'altro c'è da sapere sulla sua natura?» Lei andò a una finestra e l'aprì. «Dimmi, per favore, quanti nemici riesci a vedere?» Bourne si avvicinò a lei. Sentiva il calore intenso che emanava, quasi fosse il motore surriscaldato di un'auto. Da quel punto di osservazione riusciva a vedere diverse strade e i passanti . «Da qualche parte ci sono. Possono essere da tre a nove, è difficile precisare» rispose lui dopo parecchi minuti. «Chi sarà a uccidermi?» «Nessuno di questi.» «Allora sarà Arkadin.» Tanirt inclinò la testa di lato. «Quest'uomo, Arkadin, sarà il messaggero, ma non sarà lui a ucciderti.» Bourne si girò a guardarla. «Allora chi?» «Bourne, tu sai chi sei?» Era in sua compagnia da abbastanza tempo per fargli capire che non era obbligato a rispondere . «Ti è successo qualcosa» continuò Tanirt. «Tu eri una persona, adesso sei due persone insieme.» Gli appoggiò una mano sul petto e il suo cuore sembrò fermarsi per un istante, o meglio parve saltare un battito. Trattenne il fiato . «Queste due persone sono incompatibili, in tutti i sensi. Per questo c'è una guerra dentro di te, una guerra che ti condurrà alla morte.» «Tanirt...» Lei tolse la mano dal suo petto e lui ebbe la sensazione di precipitare in una palude . «Il messaggero, questo Arkadin, arriverà a Tineghir con la persona che ti ucciderà. Si tratta di qualcuno che conosci, forse molto bene. E una donna.» «Moira? Si chiama Moira?» Tanirt scosse la testa. «E un'egiziana.» Soraya! «Non credo che sia possibile...» Tanirt sorrise nel suo modo indecifrabile. «Questo è l'enigma, Bourne. Una parte di te non lo crede possibile. L'altra invece sa che lo è.» Per la prima volta, da quanto riusciva a ricordare, Bourne si sentì davvero disperato. «Che cosa devo fare?» Tanirt gli prese una mano tra le sue. «Come reagirai, che cosa farai, sarà questo a stabilire se dovrai vivere o morire.» *** Capitolo 29 . «Buon compleanno» disse Errol Danziger quando Bud Halliday rispose al telefono . «Il mio compleanno è stato mesi fa» rispose il segretario alla Difesa. «Che cosa vuoi?» «Ti aspetto giù in macchina.» «Sono occupato.» «Non per questo.» C'era qualcosa nella voce di Danziger che impedì ad Halliday di mandarlo a quel paese. Il segretario alla Difesa chiamò il suo assistente e gli disse di cancellare gli appuntamenti per l'ora successiva. Poi prese il soprabito e scese le scale. Mentre attraversava il pianterreno della Casa Bianca, i soldati di guardia e gli agenti dei servizi segreti gli fecero un deferente cenno di saluto con il capo. Sorrise a quelli che conosceva per nome . Salendo sul sedile posteriore dell'auto di Danziger, disse: «Sarà meglio che ne valga la pena» . «Fidati» rispose il direttore della CIA. «Ne vale assolutamente la pena.» Venti minuti più tardi la vettura si fermava al 1910 di Massachusetts Avenue SE. Danziger, che sedeva dalla parte del marciapiede, scese per primo e aprì la portiera al suo capo . «Edificio 27?» s'informò Halliday mentre salivano rapidi i gradini di una costruzione moderna in mattoni nel complesso dell'Health Campus. «Chi è morto?» Nell'edificio 27 si trovava l'ufficio del medico legale distrettuale . Danziger scoppiò a ridere. «Un tuo amico.» Superarono due livelli di sicurezza e presero l'ascensore, enorme e rivestito di acciaio inox, per scendere nel seminterrato. L'interno odorava di cloro e di qualcosa di nauseabondo e dolciastro che Halliday era riluttante a identificare . Erano attesi. Un assistente coroner, un uomo esile, con gli occhiali e il naso adunco, dall'aria accigliata, fece loro un cenno del capo in segno di saluto e li precedette nella cella frigorifera. Si fermò a tre quarti della fila di sportelli d'acciaio, ne aprì uno e ne estrasse una salma su un carrello, coperta con un lenzuolo. A un cenno di Danziger, l'assistente coroner scoprì il volto della salma . «Madre di Dio!» esclamò Halliday. «Ma è Frederick Willard?» «E chi, sennò?» Danziger aveva l'aria di uno in preda a un attacco di ilarità .
Halliday fece un passo avanti. Tirò fuori di tasca uno specchietto e lo piazzò sotto le narici di Willard. «Non c'è respiro.» Si rivolse all'assistente coroner. «Cosa diavolo gli è successo?» «Difficile stabilirlo» rispose l'uomo. «Tanti elementi da analizzare e pochissimo tempo...» «Venga al punto» tagliò corto Halliday . «Torturato.» Halliday scoppiò a ridere. Lanciò un'occhiata a Danziger. «Ironia della sorte, no?» «Ha colpito anche me.» In quel momento il palmare del segretario alla Difesa emise un ronzio. Lo prese e lo guardò. Era desiderato alla Casa Bianca . Anziché nello Studio Ovale, il presidente era nella War Room, il centro operativo che si trova tre piani sotto l'Ala Ovest. Grandi monitor erano allineati lungo le pareti della stanza, al centro della quale c'era un tavolo ovale equipaggiato con tutti gli accessori di dodici uffici virtuali . Quando Bud Halliday arrivò, il presidente si trovava in riunione con Hendricks, il consigliere per la Sicurezza nazionale, e con Brey e Findlay, rispettivamente capo dell'FBI e del Dipartimento della Sicurezza interna. Dalle loro espressioni gravi era chiaro che si trattava di una riunione di emergenza . «Sono lieto che tu sia riuscito a venire, Bud» esordì il presidente, facendo cenno con la mano ad Halliday perché si accomodasse su una poltrona al lato opposto del tavolo . «Cos'è successo?» si informò il segretario alla Difesa . «È emerso qualcosa» chiarì Findlay, «e apprezzeremmo il suo consiglio su come procedere.» «Un attacco terroristico a una delle nostre basi all'estero?» «Più vicino a casa.» Hendricks prese la parola. Capovolgendo un dossier di fronte a sé, lo passò ad Halliday. «Prego.» Halliday aprì il documento e si trovò di fronte una foto di Jalal Essai. Mantenne la calma e aveva la mano ferma mentre sfogliava le sottilissime pagine del dossier . Quando fu certo di essere perfettamente lucido e tranquillo, alzò gli occhi. «Per quale motivo stiamo guardando le foto di quest'uomo?» «Abbiamo alcune informazioni che lo collegano alla tortura e all'assassinio di Frederick Willard.» «Prove?» «Per il momento, nessuna» rispose Findlay . «Ma abbiamo molti segnali che ci dicono che sono in arrivo» aggiunse Hendricks . «E dovrei anche credervi?» disse Halliday in tono caustico . «Ciò che ci preoccupa, segretario Halliday, è che questo Essai è riuscito a passare inosservato ai nostri radar, nonostante rappresenti un'evidente minaccia all'attuale sicurezza nazionale» continuò Findlay . Halliday tamburellò con le dita sul dossier. «Qui ci sono delle note di intelligence su Essai che risalgono già a diversi anni fa. Com'è potuto accadere...?» «E la domanda alla quale è necessario rispondere, Bud» intervenne il presidente . Halliday inclinò la testa di lato. «Bene, voglio dire, da dove venivano queste informazioni?» «Chiaramente, non dai tuoi uomini» intervenne Brey . «E neppure dai tuoi» replicò Halliday in tono aggressivo. Spostò lo sguardo da un volto all'altro. «Non penserete di attribuire questa negligenza ai miei uomini.» «Non si è trattato di una negligenza»replicò Findlay. «Per lo meno, non di una negligenza da parte nostra.» Nella sala calò un silenzio carico di tensione, che fu infine rotto dal presidente. «Bud, noi tutti pensavamo che saresti stato più disponibile.» «Io no di certo» puntualizzò Brey . «Una volta messo di fronte all'evidenza» rincarò la dose Hendricks . «Evidenza di cosa?» sbottò Halliday. «Non esiste niente per cui debba dare spiegazioni o scusarmi.» «Mi dovete cento dollari a testa» annunciò Brey con un sorriso compiaciuto . Halliday lo folgorò con uno sguardo carico di collera fulminante . Hendricks prese il telefono, disse qualche parola al ricevitore e mise giù . «Per l'amor di Dio, Bud» lo apostrofò il presidente, «stai rendendo tutto quanto terribilmente difficile.» «Cos'è questo?» Halliday si alzò. «Un processo dell'Inquisizione?» «Be', non sei riuscito a trattenerti.» C'era una venatura di profonda amarezza nella voce del presidente. «Ultima chance.» Halliday, rigido come la statua di un milite ignoto, aveva le mascelle serrate .
Poi la porta della War Room si aprì ed entrarono le due gemelle, Michelle e Mandy. Lo guardarono con espressione divertita . Cristo, imprecò tra sé. Cristo santo . «Si sieda, segretario Halliday.» La voce del presidente era così carica di rabbia repressa e di un senso di tradimento personale che Halliday provò un brivido lungo la spina dorsale. Con il cuore pesante, fece come gli veniva ordinato . Di fronte aveva il lungo e umiliante cammino verso la disgrazia e la rovina. Ascoltando le registrazioni fatte dalle gemelle delle sue conversazioni con Jalal Essai nell'appartamento segreto che avevano in comune, si domandò se avrebbe trovato il coraggio di isolarsi in qualche posto tranquillo e farsi saltare le cervella . Oserov sbarcò in Marocco con il volto seminascosto dalle bende. A Marrakech trovò un negozio dove gli fecero un calco di cera e, su questo modello, una maschera di lattice, bianca come la luna, da applicare sulla sua faccia sfigurata. Con terribile e freddo stoicismo celava con quell'oggetto il furioso tormento della sua carne viva, ma apprezzava l'anonimato che gli consentiva. Acquistò un thobe, una tunica araba pesante, a strisce nere e marroni, fornita di cappuccio per nascondere meglio la testa e la fronte. Una volta indossatolo, con il cappuccio tirato su, il volto restava in ombra . Dopo un pasto veloce, che buttò giù senza sentirne il sapore, noleggiò subito una macchina e pianificò il percorso. Poi si mise in viaggio per Tineghir . Idir Syphax perlustrava lentamente e con metodo la casa nel cuore di Tineghir. Si spostava da un'ombra all'altra come uno spettro, senza fare rumore, leggero come l'aria. Idir era nato e cresciuto nella regione di Ouarzazate, nell'Alto Atlante. Era abituato al freddo e alla neve dell'inverno. Lo soprannominavano «l'uomo che porta il ghiaccio nel deserto», a significare che era speciale. Come Tanirt, i berberi locali lo temevano . Idir era magro e muscoloso, con la bocca larga, i denti bianchissimi e il naso che ricordava la prua di una nave. Portava avvolta su testa e collo la tipica sciarpa blu dei tuareg e indossava una tunica a quadretti bianchi e blu . All'esterno, la casa era identica alle altre. Dentro invece era costruita come una fortezza, con le stanze una dentro l'altra a proteggere, al centro, il torrione. I muri erano in cemento armato, le porte in legno duro erano rinforzate con spesse lastre metalliche, per respingere anche il fuoco di armi semiautomatiche. C'erano due sistemi elettronici di controllo separati da oltrepassare: dei sensori di movimento nei locali esterni e sensori di calore all'infrarosso in quelli interni . La famiglia di Idir era strettamente legata con gli Etana, una dinastia antica di secoli, che erano i fondatori del Monition Club, un meccanismo che consentiva alla Severus Domna di muoversi e agire in diverse città del mondo senza attirare l'attenzione o usare il vero nome dell'organizzazione. Per il mondo esterno, il Monition Club era un'associazione filantropica che si occupava di studi antropologici e di filosofie antiche. Era un pianeta ermeticamente sigillato, nel quale i membri sotto copertura del gruppo potevano spostarsi, incontrarsi, discutere delle loro iniziative e pianificarne altre . Idir aveva avuto le proprie idee riguardo al potere e alla successione, ma prima che potesse metterle in pratica Benjamin El-Arian si era installato nel vuoto di potere che si era venuto a creare con la partenza del fratello di Jalal Essai. Adesso che Jalal Essai aveva mostrato la sua vera faccia, per quanto riguardava la Severus Domna la famiglia Essai era morta e sepolta. La sua sconfitta era avvenuta sotto il controllo di El- Arian. Idir aveva già parlato più volte con Marion Etana, il capo dell'organizzazione europea. A Etana aveva detto che insieme avrebbero potuto competere con Benjamin El-Arian. Etana non ne era così certo, ma secondo Idir i troppi anni vissuti in Occidente l'avevano reso eccessivamente prudente, timido e calmo. Non erano caratteristiche che andavano bene per un capo. Lui serbava invece piani ambiziosi per la Severus Domna, al di là della portata di qualunque cosa potessero concepire El-Arian o Etana. Aveva provato con le trattative, con il ragionamento e persino facendo appello alla vanità e all'ego dei vari capi. Tutto inutile. Rimaneva aperta solo la via della violenza .
Soddisfatto della sua ispezione finale, si chiuse la porta alle spalle e si incamminò. Non andava lontano. Lo spettacolo stava per cominciare e lui si era tenuto un posto in prima fila . Nel momento in cui Arkadin aveva dato ascolto ai suoi sospetti, proprio quando aveva reciso i tendini nell'incavo del ginocchio di Moira, l'idillio del suo soggiorno a Sonora era andato in pezzi. Ora lo vedeva per quello che era, un'illusione. I ritmi lenti e il sole caldo, le ballerine sinuose e le canzoni malinconiche non facevano per lui. La sua vita andava in un'altra direzione. Da quel momento in poi aveva solo cercato di andarsene al più presto dal Messico. Era stato amaramente tradito. A Sonora aveva visto la propria esistenza come in uno specchio, un'esistenza alla quale era legato per quanto disperatamente desiderasse lasciarla . In Marocco era di nuovo nel suo elemento, era come uno squalo che nuota in acque profonde e piene di pericoli. Ma da migliaia di anni gli squali hanno imparato a sopravvivere in quelle acque: e così era anche Leonid Danilovic Arkadin . Armato e pericoloso quanto mai, era in viaggio con Soraya, una donna che trovava complicata in modo sconcertante. Finché non si era fatto raggirare da Tracy, era stato abituato a dominare le donne in ogni senso immaginabile. Aveva fatto in modo di dimenticare sua madre, che lo teneva sotto controllo e rinchiuso in un armadio a muro, dove si era lasciato divorare dai topi tre dita dei piedi prima di riuscire a ribellarsi, prima strappando la testa degli animali a morsi, e poi ammazzando sua madre. Il suo disprezzo per lei era tale che l'aveva completamente rimossa, sia dalla coscienza sia dalla memoria. Gli rimanevano solo brevi lampi di ricordi, scene sfocate di un vecchio film visto da ragazzo . Eppure era stata proprio sua madre a portarlo a vedere le donne attraverso una lente particolare. Flirtava per abitudine, ma disprezzava quelle che cedevano subito al suo fascino virile. Le usava e le gettava via non appena si stancava di loro. Nelle rare occasioni in cui aveva incontrato resistenza - Tracy, Devra, la dj conosciuta a Sebastopoli e adesso Soraya - reagiva in modo diverso, con minore arroganza, si faceva divorare dal dubbio, si bloccava e falliva. Non era stato in grado di vedere oltre la facciata di Tracy; non era stato capace di proteggere Devra. E Soraya? Ancora non lo sapeva, ma non riusciva a smettere di pensare a quello che gli aveva detto sulla sua vita, che era una lotta continua per essere un uomo e non una bestia. Un tempo avrebbe riso in faccia a chiunque gli avesse mosso un'accusa del genere, ma adesso qualcosa era cambiato in lui. Nel bene e nel male aveva acquisito una maggiore consapevolezza: ciò che lei gli aveva detto non era affatto un'accusa, ma un dato di fatto . Pensava a questo, mentre erano in viaggio per Tineghir, con Soraya al suo fianco. Anche a Marrakech faceva piuttosto freddo, ma lì nell'Alto Atlante coperto di neve, un vento gelido penetrava nelle gole, soffiando aria ghiacciata sullo uadi . «Tra poco la strada finirà» disse lui . Soraya non rispose; non aveva aperto bocca per tutto il tempo . «Non hai nient'altro da dire?» Il tono era volutamente canzonatorio, ma lei si limitò a sorridere e a guardare fuori dal finestrino. Questo suo comportamento lo innervosiva, ma non era sicuro di come dovesse reagire. Non era riuscito a sedurla e non era capace di intimidirla. Cos'altro poteva fare? Poi, con la coda dell'occhio, vide un'alta figura maschile, troppo alta per essere un tuareg, abbigliata con un thobe a strisce nere e marroni. Aveva la faccia nascosta dal cappuccio, ma quando lo superò con la macchina notò che non c'erano cicatrici. L'andatura era quella di Oserov, ma come poteva essere lui? «Soraya, vedi quell'uomo con la tunica nera e marrone?» Lei fece cenno di sì con la testa . Fermò l'auto. «Scendi e vai a parlargli. Fa' quello che ti pare. Voglio che tu scopra se è russo e se per caso si chiama Oserov. Vylaceslav Germanovic Oserov.» «E tu?» «Io rimango qui a controllare. Se è Oserov, fammi un segno» la istruì, «così so che devo farlo fuori.» Lei sorrise in modo enigmatico. «Mi stavo giusto chiedendo quando l'avrei vista di nuovo.» «Cosa?» «Quella rabbia.» «Tu non sai che cosa ha fatto Oserov, non hai idea di cosa sia capace.» «Lascia perdere.» Aprì la portiera e scese dall'auto. «Ho visto di cosa sei capace tu.» Soraya si avviò con circospezione sulla strada brulicante di gente, in cerca dell'omone con il thobe nero e
marrone. Sapeva che era essenziale mantenere il sangue freddo. Arkadin l'aveva già battuta in astuzia una volta; non aveva intenzione di cascarci di nuovo . Durante il tragitto verso Tineghir si era chiesta più volte se ci fosse il modo di fuggire, ma non si era arrischiata a farlo per due ragioni. La prima era che non credeva di riuscire a eludere la sorveglianza di Arkadin. La seconda, ancora più importante, era che aveva giurato a se stessa di non abbandonare Jason. Le aveva salvato la vita più di una volta. Anche se all'interno della CIA circolavano di nuovo malignità su di lui, sapeva di poter contare su Bourne per qualsiasi cosa. Adesso che la sua vita era di nuovo in pericolo, non gli avrebbe voltato le spalle per correre a nascondersi. E poi doveva fare qualcosa per modificare i piani di Arkadin . Quando fu più vicina all'uomo, gli si rivolse in un arabo con inflessione egiziana. Sulle prime lui la ignorò. Forse non l'aveva sentita a causa del rumore della strada, o pensava che stesse parlando con qualcun altro. Si spostò in modo da trovarsi esattamente di fronte a lui e disse qualche altra cosa. L'uomo, che teneva la testa abbassata, non rispose . «Ho bisogno di aiuto. Lei parla inglese?» esordì . Quando lui scosse la testa in segno di diniego, Soraya alzò le spalle, si girò e accennò ad andarsene. Poi però si voltò di nuovo e gli disse in russo: «So chi sei, Vylaceslav Germanovic». L'uomo sollevò la testa. «Non sei un collega di Leonid?» «Tu sei amica di Arkadin?» La voce gli usciva gutturale e impastata, come se avesse un boccone incastrato in gola. «Dove si trova?» «Proprio laggiù.» Indicò la macchina. «E seduto al volante.» Accadde tutto molto rapidamente. Soraya arretrò di scatto e Oserov si girò in posizione di guardia. Sotto la tunica aveva nascosto un fucile d'assalto AK-47. Con un unico movimento fluido sollevò il mitra, prese la mira e fece fuoco verso l'auto. La gente si disperse urlando in tutte le direzioni. Oserov continuò a sparare avanzando sulla via, avvicinandosi sempre più alla macchina e sobbalzando per i contraccolpi, tra i bossoli vuoti . Quando fu a lato dell'auto si fermò. Cercò di aprire la portiera del lato del guidatore, ma era danneggiata e bloccata. Imprecando, cominciò a picchiare su ciò che rimaneva del finestrino con il calcio del mitra. Guardò nell'abitacolo. Era vuoto . Ruotando su se stesso, spianò l'AK-47 su Soraya. «Dov'è? Dove si trova Arkadin?» Soraya vide Arkadin uscire da sotto la macchina, alzarsi in piedi e agganciare da dietro il collo di Oserov con un braccio. Lo tirò con tanta violenza da alzarlo da terra. Oserov tentò di colpire Arkadin sulla gabbia toracica con il calcio del fucile, ma invano. Continuava ad agitare la testa avanti e indietro per impedire ad Arkadin di stringere la presa e strangolarlo. La maschera cominciò a scivolargli dalla faccia e Arkadin, che se n'era accorto, gliela strappò del tutto, esponendo il volto gonfio e orrendamente sfigurato . Soraya attraversò la strada, ormai sgombra, avvicinandosi ai due antagonisti con passi lenti e decisi. Oserov lasciò cadere il mitra e sguainò un grosso pugnale. Soraya notò che era fuori dal campo visivo di Arkadin, il quale non si era accorto che Oserov stava per accoltellarlo a un fianco . Arkadin, concentrato nella lotta all'ultimo sangue con il suo nemico di sempre, inalò un odore nauseabondo e marcescente e si rese conto che proveniva da Oserov, come se tutti i morti ammazzati da lui fossero usciti dalla terra e gli si fossero avvinghiati in grossi tralci. Oserov si stava putrefacendo dall'interno. Arkadin strinse più forte mentre Oserov lottava cercando una via di fuga dalla morsa in cui si trovava. Ma, iniziata la lotta, nessuno dei due avrebbe mollato né lasciato all'altro il minimo vantaggio, come se il loro epico scontro fosse quello di una persona sdoppiata. Non era solo un conflitto contro i crimini di Oserov, ma contro il passato disumano dello stesso Arkadin, che lui cercava ogni giorno di scacciare dalla mente, di seppellirlo in profondità. Eppure, come uno zombie, continuava a riemergere dalla sua tomba . «È la storia della tua vita» gli aveva detto Soraya. «La lotta per essere un uomo e non una bestia.» Le figure del passato si erano alleate per abbatterlo e ridurlo alla stregua di un animale. La sua unica possibilità di essere qualcosa di più si era presentata con le sembianze di Tracy Atherton. Lei gli aveva insegnato tante cose, ma alla fine l'aveva tradito. Le aveva augurato la
morte e adesso era morta davvero. Oserov, il suo nemico, incarnava tutti coloro che avevano cospirato contro di lui: adesso ce l'aveva davanti, e stava lentamente e inesorabilmente togliendogli la vita . La sua attenzione fu attirata all'improvviso da un movimento che colse con la coda dell'occhio. Soraya stava coprendo di corsa gli ultimi cinque metri che li separavano. Assestò a Oserov un colpo sul polso sinistro che gli lasciò la mano paralizzata. Arkadin vide il pugnale solo quando cadde a terra . Per un istante sospeso fissò Soraya negli occhi. Tra loro passò un messaggio segreto e senza parole che scomparve in un lampo, e mai avrebbero potuto parlarne ad alta voce. Arkadin, traboccante della rabbia che era andata accumulandosi per anni, colpì violentemente Oserov alla tempia con il palmo della mano. La testa si piegò sulla destra, contro il braccio di Arkadin che lo stringeva alla gola. Le vertebre si spezzarono e Oserov fu preso dagli spasmi, come una marionetta impazzita. Affondò le unghie nell'avambraccio di Arkadin, facendogli uscire il sangue. Muggiva come un bisonte e per un secondo riuscì quasi a liberarsi con uno sforzo sovrumano . Poi Arkadin gli spezzò il collo ancora una volta, questa volta più forte, e tutta l'energia rimasta nell'uomo si prosciugò all'istante. Oserov emise un lamento agghiacciante e sommesso. Cercò di dire qualcosa che doveva sembrargli importante, ma dalla bocca gli uscì solo la lingua insieme a un fiotto di sangue . Eppure Arkadin non lo lasciava ancora andare. Continuò a colpirlo alla tempia come se il collo non fosse già fratturato in più punti . «Arkadin» disse Soraya a bassa voce, «è morto.» Lui la guardò, con una luce di follia negli occhi. Le mani di Soraya erano su di lui nel tentativo di staccare Oserov dalla sua furia, ma Arkadin non sentiva nulla. Era come se le sue terminazioni nervose fossero bloccate negli ultimi momenti della lotta, come se la sua voglia di distruggere Oserov non avesse fine e non gli consentisse di lasciare andare la sua vittima. Se lo tengo stretto potrò ucciderlo ancora, questo pensava . Lentamente, l'uragano delle emozioni che aveva dentro cominciò a calmarsi. Percepì le mani di Soraya che lo toccavano. Poi sentì anche la sua voce che gli ripeteva: «E morto», e finalmente mollò la presa. Il cadavere crollò a terra in un mucchio scomposto . Si chinò a guardare la faccia devastata di Oserov e non provò alcun senso di trionfo o di soddisfazione. Non provava nulla. Vuoto. Non c'era niente dentro di lui, solo l'abisso che s'ingrandiva sempre più . Digitando un codice sul cellulare, andò dietro la macchina, aprì il portabagagli e prese il portatile dalla valigetta . Soraya si guardò attorno e vide diversi uomini con le loro tuniche tuareg. Avevano visto tutto restando al riparo delle ombre. Nel momento in cui Oserov era caduto a terra esanime, si avvicinarono all'auto . «E la Severus Domna» lo avvertì Soraya. «Stanno venendo a prenderci.» In quel momento una macchina si fermò accanto a loro con uno stridio di gomme. Arkadin aprì la portiera posteriore . «Sali» ordinò, e lei obbedì . Arkadin scivolò sul sedile accanto a lei e la vettura ripartì a tutta velocità. Dentro c'erano tre uomini armati di tutto punto. Arkadin si rivolgeva a loro in un russo conciso e idiomatico e a Soraya tornò in mente il loro discorso a Puerto Penasco . « Che cosa vuoi da me, adesso?» aveva domandato ad Arkadin . E la sua risposta era stata: «La stessa cosa che tu vuoi da me. La distruzione» . Poi distinse le parole «terra bruciata» e capì che era venuto a Tineghir con l'intenzione di dichiarare guerra . *** Capitolo 30 .
Bourne era giunto a Tineghir con il bagaglio di informazioni che gli aveva trasmesso Tanirt. Ovviamente fu attirato dalla folla radunata attorno alla macchina crivellata dai proiettili. Il cadavere era irriconoscibile. Eppure, proprio per il volto ustionato e scarnificato capì che doveva trattarsi di Oserov . Non c'era traccia di poliziotti, nella zona. C'erano però diversi militanti della Severus Domna, i quali probabilmente avevano la stessa funzione in quella regione. Nessuno accennava a fare qualcosa del cadavere. Intorno ronzavano già sciami di mosche e il lezzo della morte stava cominciando a diffondersi come un'arma chimica . Bourne superò la macchina e scese dalla sua molto più avanti, tornando indietro a piedi. La rivelazione di Tanirt gli aveva fatto modificare i suoi piani, probabilmente non in meglio. Ma non aveva scelta, in questo era stata molto chiara . E così alzò lo sguardo. Il cielo era del colore pallido e indistinto che spesso ha alle cinque del mattino, anche se era pomeriggio avanzato. Anziché andare all'indirizzo che gli era stato dato, la sede della Severus Domna, si mise in cerca di un bar o di un ristorante e quando l'ebbe trovato vi entrò. Si sedette a un tavolo da cui potesse guardare fuori e ordinò un piatto di cuscus e tè alla menta. Aspettò con le gambe distese e incrociate alle caviglie, cercando di riflettere su Soraya e nient'altro. Di fronte gli era stato sistemato un piccolo bicchiere e qualcuno gli stava versando il tè dall'alto, senza schizzare neppure una goccia. All'improvviso colse lo sguardo di un russo che passava all'esterno. Non era Arkadin, ma era un russo, Bourne lo aveva dedotto dai tratti somatici e dal modo di ammiccare con gli occhi, che non era tipico dei tuareg e neppure degli arabi. Questo gli fece capire diverse cose, nessuna però che gli fosse di qualche aiuto . Arrivò il cuscus, ma non aveva appetito. Soraya entrò nel locale per prima, seguita a breve distanza da Arkadin. Si era aspettato che Soraya avesse un aspetto tormentato, ma non era così, e Bourne si chiese se non l'avesse sottovalutata. In quel caso sarebbe stato il primo segnale positivo della giornata . Soraya attraversò decisa il locale e si sedette senza dire una parola. Arkadin rimase per qualche minuto sulla soglia, perlustrando il luogo con lo sguardo. Bourne cominciò a mangiare il cuscus con la mano destra, tenendo la sinistra in grembo . «Come stai?» l'accolse lui . «Da schifo.» Lui replicò con un mezzo sorriso. «Quanti uomini ha con sé?» Sembrava sorpresa. «Tre.» Arkadin li raggiunse. Prese una sedia da un tavolo vicino e si sedette . «Com'è il cuscus?» «Non male» rispose Bourne. Spinse il piatto sul tavolo . Arkadin assaggiò la pietanza. Annuì, si leccò le dita unte e le asciugò sulla tovaglia. Si protese in avanti. «Ci stiamo correndo dietro da parecchio tempo.» Bourne riprese il suo piatto. «E ora, eccoci qui.» «Comodi come tre cimici su un tappeto marocchino.» Bourne sollevò la forchetta. «Non mi sembra una buona idea spararmi con la pistola che mi stai puntando contro da sotto il tavolo.» Un lampo passò sul volto di Arkadin. «Non sta a te decidere, giusto?» «Dipende. Anche tu hai una Beretta 8000 carica di proiettili calibro 357 puntata sulle palle.» L'espressione cupa fu cancellata dall'aspra risata del russo. A Bourne faceva pensare a qualcuno che non avesse mai imparato a ridere. «Proprio come delle cimici su un tappeto» commentò Arkadin . «Inoltre» continuò Bourne, «se io muoio, non uscirai mai vivo da quella casa.» «Non credo proprio.» Bourne affondò la forchetta in un monticello di cuscus. «Stammi a sentire, Leonid, qui ci sono in gioco altre forze che né tu né io siamo in grado di gestire.» «Io posso gestire qualsiasi cosa. E poi mi sono portato degli alleati.» «Il nemico del mio nemico è mio amico.» Bourne citò un proverbio arabo . Gli occhi di Arkadin si strinsero. «Dunque, che cosa suggerisci?» «Noi siamo gli unici due prodotti della Treadstone. Siamo stati addestrati per affrontare situazioni come questa. Ma siamo uguali. Chissà, magari siamo immagini speculari.» «Hai dieci secondi. Vai al punto.» «Insieme, noi due, possiamo sconfiggere la Severus Domna.» Arkadin sbuffò. «Tu sei pazzo.» «Riflettici un momento. La Severus Domna ci ha fatti venire qui, ha preparato la casa per noi, ed è convinta che, se siamo qui entrambi, uno dei due finirà per uccidere l'altro.» «E allora?»
«E allora tutto va secondo i loro piani.» Bourne fece una breve pausa. «La nostra unica possibilità è fare quello che non si aspettano.» «Il nemico del mio nemico è mio amico.» Bourne annuì . «Fino a quando non lo è anche lui.» Arkadin posò sul tavolo la Magpul che teneva spianata sotto il tavolo e Bourne fece lo stesso con la Beretta che gli aveva dato Tanirt . «Adesso formiamo una squadra» disse deciso Bourne. «Tutti e tre.» Arkadin scoccò una breve occhiata a Soraya. «Allora parla.» «Il più importante» iniziò Bourne «è un uomo di nome Idir Syphax.» La casa era annidata al centro del quartiere, con i lati che quasi sfioravano le abitazioni vicine. Era scesa la notte, rapida e improvvisa, come un cappuccio gettato sopra la testa. Tutt'attorno alla valle, le vette delle montagne erano di un nero assoluto. Il vento penetrava nelle strade e nei vicoli, trasportando quelli che sembravano cristalli di ghiaccio o granelli di sabbia. La luce delle stelle era illusoria . Idir Syphax era accovacciato sul tetto piatto di un'altra casa di fronte. Al suo fianco c'erano due tiratori scelti della Severus Domna, con i loro fucili Sako TRG-22. Idir osservava quell'edificio come attendendo il ritorno a casa di una figlia, con la sensazione del pericolo di luoghi sconosciuti a coprirlo con le sue ali, come se la casa stessa fosse sua figlia. E in un certo senso lo era. Aveva progettato quella casa seguendo i consigli di Tanirt. « Voglio costruire una fortezza» le aveva detto. E lei gli aveva risposto: «La cosa migliore che puoi fare è seguire la pianta del Grande Tempio di Baal. Era la fortezza più invincibile di cui si avesse notizia nell'antichità». Quando ebbe studiato il disegno che lei aveva fatto, Idir si disse d'accordo e aveva contribuito egli stesso alla costruzione. Ogni singola tavola, ogni chiodo o tondino di ferro, ogni muro di cemento portava impressa la sua fatica. La casa non era stata progettata a uso abitativo, ma per una cosa, un'idea, forse un ideale: in ogni caso, qualcosa di intangibile. Da quel punto di vista era un luogo sacro, al pari di una moschea. Era il principio e la fine di tutte le cose. L'alfa e l'omega, un cosmo con le sue proprie regole . Idir aveva ben chiaro questo concetto, non come altri membri della Severus Domna. Secondo Benjamin El-Arian era una sorta di pianta carnivora. Marion Etana la riteneva un mezzo per arrivare a uno scopo. In ogni caso entrambi pensavano che fosse una cosa morta, al massimo un animale da soma. Non aveva nulla di mistico, non era un cancello che portava al divino. Non capivano che era stata Tanirt a scegliere il luogo, usando le antiche magie delle quali possedeva il segreto e che egli bramava. Una volta le aveva chiesto in quale lingua stesse cantando. Era ugaritico, la lingua parlata dagli alchimisti alla corte di re Salomone, dove oggi è la Siria. Per questo lei gli aveva fatto collocare la statua al centro della casa, in uno spazio da cui poteva emanare la sua sacralità. Aveva dovuto farla trasportare di nascosto, perché qualunque statua era severamente proibita dalla sharia, la legge islamica. Naturalmente, Benjamin El-Arian e Marion Etana non sapevano della sua esistenza; in quel caso lo avrebbero fatto ardere vivo come eretico. Ma se Tanirt gli aveva insegnato qualcosa, era che esistevano antiche forze, meglio definite come misteri, precedenti a qualsiasi religione, persino al giudaismo, che rappresentavano i tentativi dell'umanità di affrontare il terrore della morte. Tanirt gli aveva detto che i misteri avevano origine divina e che secondo lei non avevano nulla a che vedere con la concezione attuale del divino. «E forse esistito Baal?» questa la sua domanda retorica. «Ne dubito. Ma qualcosa c'era.» La notte era tranquilla, tranne che per il vento. Sapeva che stavano arrivando, anche se non da quale direzione. Tutti i tentativi di inseguimento erano falliti, ma se l'era aspettato. D'altro canto però c'era stato uno scontro. I tre uomini di Arkadin erano stati neutralizzati, ma anche quattro dei suoi avevano perso la vita. Quei russi erano combattenti valorosi. Non aveva alcuna importanza: Arkadin non sarebbe entrato, per quanto ci provasse. Tutte le case avevano dei punti deboli che potevano servire per forzare l'ingresso: le fognature, per esempio, o gli scarichi, o i punti d'ingresso dei cavi elettrici. Non essendo la casa progettata per viverci, non c'erano fognature. Non esistendo riscaldamento o condizionamento, frigoriferi o forni, l'impianto elettrico era alimentato da un enorme generatore collocato in una stanza
schermata all'interno dell'edificio. Non c'era letteralmente alcuna via d'accesso che non facesse scattare diversi livelli di allarme, che a loro volta avrebbero innescato altre misure di sicurezza . Suo figlio Badis aveva chiesto di venire, ma ovviamente Idir non aveva voluto sentire ragioni. Il bambino continuava a chiedere di Tanirt, anche se a undici anni era abbastanza grande da poter capire. Badis ricordava solo i tempi in cui Tanirt amava suo padre, o per lo meno diceva di amarlo. Attualmente Idir ne era terrorizzato, e il terrore gli era entrato nelle ossa, per manifestarsi la notte, durante il sonno, con incubi indicibili . Tutto era andato in pezzi quando lui le aveva chiesto di sposarlo e lei aveva rifiutato . «E perché non credi che ti ami?» le aveva chiesto . «So che mi ami.» «E a causa di mio figlio, allora. Tu pensi che poiché amo Badis più di ogni altra cosa io non possa renderti felice.» «Non è per tuo figlio.» «Allora per cosa ?» «Se hai bisogno di chiedermelo» aveva risposto lei, «allora non potrai mai capire.» E in quel momento lui aveva commesso un errore fatale. L'aveva messa al pari delle altre donne. Aveva cercato di costringerla, ma più la minacciava e più lei sembrava rafforzarsi, fino a che aveva occupato con la sua presenza tutto il suo salotto, togliendogli il respiro. E, in cerca d'aria, era fuggito da casa propria . Il rumore delle carabine Sako a ripetizione lo riportò al presente. Scrutò nell'oscurità. Forse c'era un'ombra sul tetto della casa di fronte. Anche i suoi tiratori erano della stessa idea. Nella luce insidiosa della luna intrawide una forma indistinta, poi più nulla. Completa immobilità. Ma poi con la coda dell'occhio percepì un nuovo movimento. Il cuore gli balzò in petto. Aveva già sulle labbra l'ordine di fare fuoco, quando qualcuno alle sue spalle chiamò il suo nome . Si girò e vide Leonid Danilovic Arkadin a gambe divaricate, con una strana e tozza arma spianata . «Sorpresa» disse Arkadin, e sparò in rapida successione due colpi con la Magpul che fecero saltare la testa ai tiratori. Si afflosciarono come marionette . «Non mi fai paura» ribatté Idir. Aveva la faccia e gli abiti imbrattati di sangue e materia cerebrale dei suoi uomini. «Io non ho paura della morte.» «La tua, forse.» Arkadin fece un cenno con la testa e la donna, Soraya Moore, sbucò dall'ombra. Idir trattenne il respiro. Davanti a lei c'era Badis . «Papà!» Il ragazzino si lanciò verso suo padre, ma Soraya lo afferrò per la collottola e lo trattenne. «Papà! Papà! » Sul volto scuro di Idir apparve un'espressione di angoscia profonda . «Idir» fu l'ordine di Aikadin, «butta giù dal tetto quegli uomini.» Idir lo fissò per un istante, esterrefatto. «Perché?» «Così gli altri sapranno cos'è successo qui e cominceranno a temere le conseguenze delle loro azioni.» Idir scosse la testa . Arkadin si avvicinò a grandi passi al bambino e gli ficcò in bocca la canna della Magpul. «Se adesso gli sparo, neppure sua madre sarà in grado di riconoscerlo.» Idir sbiancò in volto e lo guardò torvo, in segno di frustrazione. Si chinò e cercò di afferrare uno dei cadaveri, ma il sangue viscido gli impediva la presa . Badis osservava la scena con gli occhi spalancati, tutto tremante . Tenendo stretto il cadavere, Idir lo fece rotolare oltre il parapetto. Quando precipitò, tutti udirono il rumore che fece battendo sul selciato. Badis sussultò. Quindi Idir fece scivolare anche il secondo cadavere giù dal tetto. Ancora una volta, quel rumore sordo, quasi vischioso, fece sobbalzare il bambino . A un gesto di Arkadin, Soraya trascinò il ragazzino recalcitrante fino al bordo del tetto e gli spinse la testa nel vuoto . Idir fece per muoversi verso il figlio, ma Arkadin agitò la Magpul, scuotendo la testa . «Dunque, vedi anche tu che la morte ha diversi aspetti e che alla fine tutti quanti abbiamo paura.» E così, finalmente vennero sguainati i coltelli. Bourne scese dal tetto quando sentì i due colpi di pistola. E ora, vedendo Arkadin che spingeva davanti a sé Idir Syphax, andò loro incontro. Bourne e Arkadin si fissavano come agenti segreti di fazioni opposte in procinto di scambiarsi i prigionieri sulla linea di demarcazione della terra di nessuno .
«E Soraya?» si informò Bourne . «Sul tetto con il ragazzino» rispose Arkadin . «Non gli avrai fatto del male?» Arkadin lanciò un'occhiata a Idir e guardò Bourne con espressione disgustata. «L'avrei fatto, se ci fossi stato costretto.» «Non era questo l'accordo.» «Il nostro accordo» ribatté Arkadin seccamente «era portare a termine questo lavoro.» Nel silenzio teso, Idir era sulle spine e i suoi occhi dardeggiavano dall'uno all'altro. «Voi due fareste meglio a sistemare i vostri problemi.» Arkadin lo colpì in piena faccia. «Chiudi quella cazzo di bocca!» A questo punto Bourne tese ad Arkadin il computer portatile nella sua valigetta protettiva. Poi prese in consegna Idir e gli disse: «Adesso tu ci porti là dentro. Sarai il primo a passare tutte le barriere. Ti avverto che sono costantemente in contatto con Soraya. Se qualcosa va storto...». E gli agitò il cellulare sotto il naso . «Capisco.» Idir parlò in tono spento, ma nei suoi occhi ardevano odio e furore . Li condusse all'ingresso principale, che aprì con due chiavi. Appena furono dentro, digitò un codice su una tastiera installata nella parete a sinistra . Silenzio . Un cane ululò, e in quell'atmosfera di tensione la luce lunare pareva colpire la casa con il suono del nevischio . Idir diede un colpo di tosse e accese le luci. «Prima ci sono i sensori di movimento, poi quelli all'infrarosso.» Si frugò in tasca e tirò fuori un piccolo telecomando. «Posso disattivarli entrambi da qui.» «Senza il generatore si blocca tutto» osservò Bourne. «Portaci là.» Ma quando Idir si avviò in una direzione, Jason lo fermò: «Non da quella parte» . Un lampo di terrore passò sul volto di Idir. «Tu hai parlato con Tanirt.» Ebbe un brivido nel pronunciare il suo nome . «Se conosci la strada» intervenne Arkadin in tono seccato, «perché cazzo ce lo portiamo dietro?» «Perché sa come spegnere il generatore senza farlo esplodere.» La risposta mise a tacere Arkadin per un po'. Idir cambiò direzione e li condusse lungo un percorso che costeggiava i locali esterni. Passarono davanti al primo sensore di movimento, con il led rosso spento . Arrivarono davanti a una porta, oltre la quale si apriva un altro corridoio che si diramava a ventaglio e poi con angoli e curve. A Bourne vennero in mente le camere delle grandi piramidi di Giza. Un'altra porta incombeva davanti a loro. Idir la aprì. Ancora un corridoio, questa volta breve e perfettamente diritto. Non c'erano altre porte. Le pareti erano disadorne, intonacate di un colore neutro che ricordava la pelle umana. Il corridoio terminava davanti a una terza porta in acciaio, superata la quale si intrawedeva una scala a chiocciola che scendeva in un piano interrato buio . «Accendi le luci» ordinò Arkadin . «Quaggiù non c'è elettricità» spiegò Idir, «solo torce.» Arkadin fece per scagliarsi su di lui, ma Bourne lo bloccò . «Tienilo lontano da me» disse Idir. «Quello è pazzo.» Iniziarono a scendere la scala, addentrandosi nell'oscurità. Giunti al fondo, Idir accese una torcia di canne. La passò a Bourne e prese altre torce da un cesto metallico che si trovava in una nicchia nel muro. Ne accese un'altra . «Dove sono i sistemi di allarme?» chiese Bourne . «Qui ci sono troppi animali» rispose Idir . Arkadin si guardò attorno, osservando il pavimento di cemento grezzo, che odorava di polvere e di escrementi secchi. «Che genere di animali?» Idir andò avanti. Alla luce tremolante delle torce il sotterraneo appariva immenso. Non c'era nulla da vedere, tranne le fiamme che scoppiettavano nel buio. Il fumo si alzava denso nell'aria immobile. All'improvviso si trovarono in un passaggio più stretto. Dopo una quarantina di passi curvava a destra; anche qui le pareti erano completamente vuote, senza neppure una porta. Continuavano a procedere verso destra. Bourne aveva l'impressione di percorrere una spirale a cerchi concentrici sempre più stretti, e
immaginò che fossero vicini al punto più interno dell'edificio. Si sentivano schiacciati da un peso invisibile che rendeva difficile respirare . Finalmente il corridoio si aprì in una sala a pianta grossomodo pentagonale. Si udiva un profondo pulsare, come il battito di un cuore gigantesco. Riempiva tutta la stanza e le vibrazioni si espandevano tutt'intorno . «Eccolo qua.» Idir fece un cenno col mento verso un oggetto che sembrava un grande piedistallo al centro della sala. Sopra vi era issata la statua in basalto nero dell'antica divinità Baal . Arkadin si piazzò di fronte a Idir. «Che cosa significa questa merda?» Idir si spostò più vicino a Bourne. «Il generatore si trova sotto la statua.» Arkadin imprecava. «Questo cavolo di idolo senza senso...» «Le istruzioni mancanti sono nascoste all'interno della statua.» «Ah, andiamo bene.» Mentre Arkadin andava verso l'idolo, Idir si avvicinò a Bourne . «E evidente che tra voi due non corre buon sangue» gli sussurrò. «Se si sposta la statua, una carica di esplosivo C-4 al plastico applicata al generatore verrà attivata con un timer di tre minuti. Neppure io sono in grado di fermarlo, però posso portarti fuori di qui in tempo. Ammazza quella bestia, in modo che non faccia del male a mio figlio.» Arkadin allungò un braccio verso la statua. Bourne sentì che Idir tratteneva il respiro; era pronto a scappare. Bourne vedeva con chiarezza quel momento. Era quello che Suparwita e Tanirt avevano in qualche modo previsto. Era il momento in cui la sua sete di vendetta per la morte di Tracy poteva essere placata. Adesso le sue due personalità contrastanti l'avrebbero finalmente dilaniato dall'interno: era il momento della sua morte. Ma lui ci credeva? Non c'era un momento chiaro e lampante nella sua esistenza? Oppure tutto quanto era pervaso dall'ignoto della vita che non ricordava? Poteva fuggire dai pericoli che lo minacciavano, oppure poteva affrontarli. La scelta di quel momento sarebbe stata per lui definitiva, lo avrebbe cambiato per sempre. Avrebbe tradito Arkadin o Idir? E poi si rese conto che non aveva alcuna scelta, dato che la via da percorrere si delineava netta davanti a lui, come se fosse illuminata dalla luna piena . La richiesta di Idir era sensata, anche se irrilevante . «Leonid, fermati!» gridò Bourne. «Se muovi la statua, provocherai un'esplosione.» Arkadin si bloccò all'istante, con la punta delle dita a pochi centimetri dalla pietra. Girò la testa. «E quello che ti ha detto quel figlio di puttana dietro le mie spalle?» «Perché l'hai fatto?» La voce di Idir era colma di angoscia . «Perché tu non mi hai detto come spegnere il generatore.» Arkadin spostò lo sguardo su Bourne. «Ma perché cazzo è tanto importante?» «Perché il generatore controlla una serie di dispositivi di sicurezza che ci impedirebbero di uscire per sempre» gli spiegò Bourne . Arkadin piombò su Idir e lo colpì in pieno volto con la canna della Magpul. L'uomo sputò un dente insieme a un fiotto di sangue . «Ne ho abbastanza di te» disse. «Io ti faccio a pezzi! Adesso ci dici quello che ci occorre sapere. Magari non avrai paura della morte, ma so bene di cosa hai paura. Appena sarò uscito di qui getterò Badis giù da quel tetto con le mie mani!» «No, no!» gridò Idir, precipitandosi a fianco dell'alloggiamento del generatore. «Adesso, adesso» mormorò tra sé. Premette su una lastra di pietra alla base del piedistallo e aprì uno sportello. Spostò una leva e le vibrazioni del generatore cessarono. «Visto? E spento.» Si rialzò in piedi . «Ho fatto quello che volevate. La mia vita non vale niente, ma vi scongiuro di risparmiare quella di mio figlio.» Arkadin, con un largo sorriso, appoggiò la valigetta sul piedistallo, l'aprì e prese il portatile. «E adesso, l'anello» ordinò, accendendo il computer . Idir si avvicinò. Fece in tempo a graffiare con le unghie lo schermo del computer prima che Arkadin gli assestasse un colpo violento con il dorso della mano che lo scaraventò a sedere per terra . Mentre Bourne prendeva l'anello, Idir osservò: «Non servirà a niente» . «Chiudi quella boccaccia» lo apostrofò Arkadin .
«Lascialo parlare, invece» intervenne Bourne. «Idir, cosa vuoi dire?» «Che quello non è il computer giusto.» «Sta mentendo» ribatté Arkadin. «Guarda qui...» Prese l'anello dalla mano di Bourne e lo inserì. «... c'è lo slot per l'anello.» La risata isterica di Idir era venata di follia . Arkadin provò a sfilare e a inserire più volte l'anello nello slot, nel tentativo vano di richiamare il file fantasma sulle partizioni dell'hard disk . «Che idioti!» Idir non riusciva a smettere di ridere. «Qualcuno vi ha fottuti. Vi dico che quello è il computer sbagliato!» Con un grido strozzato, Arkadin si girò come un fulmine . «Leonid, no!» Bourne si lanciò verso Arkadin, troppo tardi per impedirgli di sparare, ma riuscì a gettarsi di peso sulla sua spalla destra. La sventagliata di proiettili colpì troppo in alto, ma due si conficcarono nell'addome e nella spalla di Idir . Le torce erano a terra, con la fiamma scoppiettante. Erano consumate per più della metà. Bourne e Arkadin lottavano con le mani, i piedi e le ginocchia. Arkadin colpiva Bourne con la Magpul che teneva nella mano destra, costringendolo ad alzare le braccia di fronte alla faccia per parare i colpi. Bourne aveva i polsi martoriati da contusioni e da lacerazioni provocate dalla pesante canna della pistola. Riuscì a bloccare il russo con un ginocchio sullo stomaco, con scarsi risultati. Poi afferrò la canna della pistola, provocandosi però un profondo taglio sul palmo della mano. Arkadin gli puntò contro l'arma e Jason gli assestò un pugno sul naso. La testa di Arkadin si piegò all'indietro con un colpo secco, battendo sul pavimento con la nuca. Il sangue gli usciva copioso dal naso. Sparò un colpo di pistola; il rumore in quello spazio chiuso era assordante. Bourne lo colpì di nuovo, sbattendogli la testa di lato. In quell'istante colse un movimento sulla destra con la coda dell'occhio . Un ratto, terrorizzato dal frastuono, balzò sulla faccia di Arkadin, che cercò di toglierselo di dosso senza riuscirci. Rotolò di lato, afferrò una torcia e l'abbatté selvaggiamente sull'animale. Il ratto schizzò via, scavalcando il corpo afflosciato di Idir. Aveva la coda in fiamme e l'animale stridette di dolore, così come Idir, la cui tunica stava bruciando con un odore acre. Si rimise in piedi a fatica cercando disperatamente di spegnere le fiamme con il braccio sano, ma perse l'equilibrio, barcollò e cadde urtando il piedistallo. Batté con la testa contro la statua di Baal, facendo cadere la copertura del generatore, che si frantumò . Bourne si alzò di scatto e corse verso Idir, ma il fuoco l'aveva già avvolto, rendendo impossibile avvicinarsi. In un istante ci fu il puzzo nauseabondo della carne bruciata, il crepitare delle fiamme sempre più alte, e poi il minaccioso ticchettio del conto alla rovescia, degli ultimi tre minuti di vita che restavano loro . Arkadin sventagliò il braccio teso e fece fuoco, ma Bourne si trovava dietro Idir e i proiettili non andarono a segno. La fiamma della torcia cominciava a estinguersi. Raccogliendone un'altra da terra, Bourne corse fuori dalla porta e nel corridoio. Tenendosi al riparo, prese la sua Beretta. Stava per sparare quando vide Arkadin sulle mani e sulle ginocchia intento a frugare tra i frammenti della statua distrutta. Trovò una scheda di memoria, la ripulì alla meglio e, rimettendosi in piedi, la inserì in uno slot del computer . «Leonid, lascia perdere!» gridò Bourne. «Non è il computer giusto!» Non ci fu alcuna risposta. Bourne lo chiamò di nuovo, questa volta in modo più pressante. «Ci restano poco più di due minuti per uscire da qui.» «Così voleva farci credere Idir» rispose Arkadin in tono distratto. «Perché avrebbe dovuto dirci la verità?» «Era terrorizzato per la vita del figlio.» «Occhio non vede cuore non duole» replicò Arkadin . «Leonid, andiamo! Lascia stare! Stai solo perdendo tempo.» Ancora nessuna risposta. Nel momento in cui Bourne rientrò nel pentagono, Arkadin fece fuoco. Stringendo la torcia che crepitava e mandava scintille, sul punto di spegnersi, Bourne si lanciò a tutta velocità lungo il corridoio percorso poco prima. Poi la torcia si spense del tutto. La gettò via e continuò a muoversi, facendosi guidare dalla memoria eidetica fino alla base della scala . Adesso era tutta questione di battere sul tempo quel timer. Secondo i suoi calcoli, aveva meno di due minuti per uscire dalla casa prima dell'esplosione. Arrivò in cima alla scala, dove regnava il buio. La porta era chiusa .
Scese rapidamente di sotto, prese un'altra torcia, l'accese e ritornò alla porta. Venti secondi sprecati. Restava un minuto e mezzo. Esaminò la porta alla luce della torcia. Mancava la maniglia. La superficie era liscia, priva anche della serratura. Ma doveva per forza esserci il modo di aprirla. Si chinò e fece scorrere le dita lungo il bordo, nel punto di giunzione con lo stipite. Niente. Si rialzò ed esplorò l'architrave, dove trovò un riquadro che cedette alla pressione delle sue dita. Balzò fuori dalla porta nell'istante stesso in cui si apriva. Aveva poco più di un minuto per trovare l'uscita dal labirinto di cerchi concentrici che conduceva alla salvezza . Percorse la spirale di corridoi correndo più forte che poteva, tenendo la torcia alta davanti a sé. Si fermò una volta, restando in ascolto per cercare di capire se sentiva dei passi alle sue spalle, ma non riuscì ad accertarlo e riprese a correre . Superò le due porte aperte e si trovò in quello che, stando alla sua memoria, doveva essere l'ultimo corridoio. Ancora trenta secondi. Eccola: finalmente la porta d'ingresso era davanti a lui. Si slanciò sulla maniglia, ma la porta non si mosse. Diede qualche spallata, senza risultato. Imprecando a mezza bocca, si girò a guardare il corridoio spoglio, privo di porte e di finestre. «In quella casa tutto è illusione» lo aveva avvertito Tanirt. «E il consiglio più importante che posso darti.» Venti secondi . Passando rasente alla parete esterna sentì dell'aria sulla guancia. Non si vedevano prese d'aria, dunque da dove proveniva? Passò la mano sulla parete che doveva dare sulla strada. Bussò sull'intonaco con le nocche, cercando di identificare un suono anomalo, ma non percepì alcun vuoto. Si spostò ancora lungo il corridoio . Quindici secondi . Finalmente il suono cambiò. Lì c'era il vuoto. Indietreggiò e assestò una pedata possente alla parete, sfondandola. Poi un'altra pedata. Dieci secondi. Non c'era abbastanza tempo. Spingendo la torcia nel foro, incendiò i materiali di costruzione. Poi abbandonò la torcia, si protesse la testa con le braccia e si tuffò attraverso il foro . Ci fu un'esplosione di vetri e lui rotolò sulla strada, per poi rimettersi in piedi e cominciare a correre con quanto fiato aveva in gola. Alle sue spalle la notte sembrava aver preso fuoco. La casa si staccò dalle fondamenta in una palla di fuoco, l'onda d'urto l'aveva scagliata contro la facciata dell'abitazione di fronte . All'inizio fu assordato dal frastuono. Si fermò, barcollante, contro un muro, e scosse la testa. Sentì qualcuno che gridava il suo nome. Riconobbe la voce di Soraya e poi la vide correre verso di lui. Non vedeva Badis da nessuna parte . «Jason! Jason!» gridava correndogli incontro. «Stai bene?» Lui fece cenno di sì con la testa ma, dopo avergli dato una rapida occhiata, lei si stava già togliendo il giubbotto. Si strappò via una manica della camicia e cominciò a fasciargli le mani sanguinanti . «Dov'è Badis?» «L'ho lasciato andare quando la casa è saltata in aria.» Lo guardò negli occhi. «E il padre?» Bourne scosse il capo . «E Arkadin? Ho fatto il giro dell'edificio e non l'ho visto.» Bourne si voltò a guardare l'incendio che divampava. «Non ha voluto abbandonare il computer e l'anello.» Soraya finì di bendargli le mani, poi rimasero entrambi a fissare quel che rimaneva della casa divorata dal fuoco. La strada era deserta, ma probabilmente centinaia di occhi stavano osservando, non visti, la scena. Non si fece vivo alcun militante della Severus Domna. Bourne ora ne capiva il motivo. In fondo alla strada c'era Tanirt, con un sorriso enigmatico sulle labbra . Soraya annuì. «Immagino che Arkadin abbia finalmente ottenuto quello che voleva.» Bourne pensò che dopotutto doveva essere così . *** Capitolo 31 . «Non le avevo detto» si lamentò Peter Marks «che non volevo vedere nessuno?» Era un rimprovero, non una domanda. Tuttavia Elisa, l'infermiera che gli era stata assegnata al momento del ricovero all'ospedale militare Walter Reed, restò imperturbabile. Marks giaceva a letto, con la gamba ferita bendata che gli dava dei dolori lancinanti. Aveva rifiutato gli
antidolorifici in qualsiasi forma, cosa tipica del suo carattere, ma con suo grande disappunto quello stoicismo non aveva intenerito Elisa. Un vero peccato, pensò Marks, perché era molto carina, oltre che svelta e precisa . «Credo che farà un'eccezione, questa volta.» «A meno che non si tratti di Shakira o Keira Knightley, non m'interessa.» «Solo perché lei ha la fortuna di stare qui a tormentare noi, non ha il diritto di comportarsi come un bambino capriccioso.» Marks inclinò la testa di lato. «Già, perché non viene qui a vedere il mondo dal mio punto di vista?» «Solo se promette di non allungare le mani» replicò lei con un sorriso furbetto . Marks rise. «E va bene. Allora, di chi si tratta?» Quella ragazza aveva il dono di metterlo sempre di buonumore . Si avvicinò al letto e gli sistemò il cuscino prima di sollevare la rete. «Voglio che mi faccia il piacere di sedersi.» «Devo anche chiedere il biscottino?» «Sarebbe veramente carino.» Il sorriso si allargò. «Basta che non sbavi troppo.» «Mi restano così poche gioie, qua dentro, non mi porti via anche questa.» Fece una smorfia mentre si metteva a sedere con fatica. «Cristo santo, mi fa male il culo!» Elisa si morse un labbro in modo ostentato. «Lei mi rende tutto così facile che non riesco neppure a trattarla male.» L'infermiera si avvicinò, prese una spazzola dal comodino e gli sistemò i capelli . «Ma chi è, per l'amor del cielo!» sbottò Marks. «Il presidente in persona?» «Quasi.» Elisa andò alla porta. «E il segretario alla Difesa.» Buon Dio, pensò Marks. Cosa può volere da me Bud Halliday ? Dalla porta entrò invece Chris Hendricks. Marks sgranò gli occhi per la sorpresa. «Dov'è Halliday?» «Buongiorno a lei, signor Marks.» Hendricks gli strinse la mano, prese una sedia e si sedette accanto al letto, senza togliersi il soprabito . «Mi scusi, signore, buongiorno» balbettò Marks, a disagio. «Non sapevo... pare che debba farle le mie congratulazioni.» «Questo è lo spirito giusto.» Hendricks sorrise. «Allora, come si sente?» «Presto sarò come nuovo» rispose Marks. «Qui sono in ottime mani.» «Non ne dubito.» Hendricks accavallò le gambe e posò le mani una sopra l'altra. «Signor Marks, ho poco tempo e dunque andrò dritto al punto. Mentre lei era all'estero, Bud Halliday ha rassegnato le dimissioni. Oliver Liss è in carcere e francamente non credo che uscirà tanto presto. Il suo diretto superiore, Frederick Willard, è morto.» «Morto? Mio Dio, come?» «Di questo parleremo un'altra volta. Per ora basterà dire che, con tutti questi avvenimenti improvvisi, al vertice della piramide si è formato un vuoto di potere.» Hendricks si schiarì la voce. «Come avviene in natura, i servizi segreti non sopportano il vuoto. In questi ultimi tempi ho seguito con un certo distacco lo smantellamento della CIA, il suo campo d'azione precedente. Mi piace quello che ha fatto la sua collega con la Typhon. Di questi tempi, un'organizzazione clandestina gestita da musulmani vicini all'estremismo islamico mi sembra una soluzione piuttosto elegante al nostro principale problema attuale . «Per nostra sfortuna, la Typhon appartiene alla CIA. Dio solo sa quanto tempo ci vorrà per raddrizzare quella barca, e non ho alcuna intenzione di sprecare tempo.» Si chinò in avanti. «Ecco perché vorrei chiederle di diventare il capo di una nuova Treadstone, che rileverà la missione della Typhon. Lei riferirà direttamente a me e al presidente.» Marks aggrottò la fronte . «C'è qualcosa che non va, signor Marks?» «Un sacco di cose. Prima di tutto, dove diavolo ha sentito parlare della Treadstone? Secondo, se è tanto infatuato della Typhon come dice, perché non ha contattato Soraya Moore, l'ex direttrice della Typhon?» «E chi le ha detto che non l'ho fatto?» «Ha rifiutato?» «Ma lei è interessato?» «Certo che sono interessato, ma voglio sapere di Soraya.» «Signor Marks, spero che lei sia impaziente di uscire di qui tanto quanto lo è con le sue domande.» Hendricks si alzò, andò alla porta e l'aprì. A un cenno del capo, entrò Soraya . «Signor Marks» annunciò il segretario Hendricks, «ho il piacere di presentarle il suo codirettore.» Mentre Soraya si avvicinava al letto, aggiunse: «Sono sicuro che voi due avrete molte questioni da discutere, organizzative e quant'altro, dunque mi scuserete» .
Né Marks né Soraya gli prestarono la minima attenzione mentre usciva dalla stanza e si chiudeva silenziosamente la porta alle spalle . «Guarda guarda, qual buon vento!» Deron accolse Bourne sulla soglia. Non appena fu entrato, lo abbracciò fortissimo. «Amico, sei peggio di un fuoco fatuo. Ora ci sei, ora sparisci.» «E quella l'idea, giusto?» Spostò lo sguardo sulle mani fasciate di Jason. «Cosa diavolo hai combinato?» «Mi sono scontrato con qualcosa che ha cercato di mangiarmi.» Deron rise. «Be', allora devi essere buono. Vieni, entra.» Fece accomodare Bourne nella sua casa di Northeast Washington. Deron era un uomo di bell'aspetto, alto e snello, con la pelle del colore del cacao chiaro. Parlava con ottimo accento britannico. «Ci prendiamo qualcosa da bere o, meglio ancora, da mettere sotto i denti?» «Mi dispiace, amico, ma non ho molto tempo. Ho un aereo per Londra questa sera.» «Bene, allora ho proprio il passaporto giusto per te.» Bourne rise. «Questa volta non mi serve. Sono venuto a ritirare il pacco.» Deron si voltò a fissarlo. «Dopo tutto questo tempo.» Bourne sorrise. «E che finalmente ho trovato la casa adatta.» «Ottimo. I vagabondi mi mettono tristezza.» Deron guidò Bourne attraverso la casa a pianta irregolare fino all'enorme studio che odorava di colori a olio e trementina. Su un cavalletto di legno c'era una tela. «Dai un'occhiata al mio ultimo nato» disse prima di sparire in un'altra stanza . Bourne girò attorno al cavalletto e osservò il dipinto. Non era finito, ma ciò che si vedeva era sufficiente a mozzargli il fiato. Una donna vestita di bianco, con un ombrellino aperto a proteggersi dal sole, camminava nell'erba alta mentre un ragazzino in secondo piano, forse suo figlio, la osservava con sguardo nostalgico. La resa della luce era veramente straordinaria. Bourne si avvicinò a studiare le pennellate, uguali in tutto e per tutto a quelle di Claude Monet, l'autore della Promenade originale nel 1875 . «Cosa ne pensi?» Bourne si voltò. Deron era tornato con una valigetta portadocumenti rigida. «E magnifico. Ancora meglio dell'originale.» Deron rise. «Santo cielo, amico, spero proprio di no!» Tese a Bourne la valigetta. «Eccolo qua, sano e salvo.» «Grazie, Deron.» «Ehi, è stato veramente difficile. Io falsifico opere d'arte e, per te, passaporti, visti e roba del genere. Ma un computer, be', è tutt'altra faccenda. Per dirti la verità la custodia in materiale composito è stata una rogna. Non ero sicuro di averla rifatta come si deve.» «Ottimo lavoro, invece.» «Un altro cliente soddisfatto» commentò con una risata . Si riavviarono verso la porta . «Come sta Kiki?» «Come sempre. Adesso è in Africa per sei settimane, sta lavorando per migliorare le condizioni di vita di quella gente. Mi sento un po' solo qui senza di lei.» «Voi due dovreste sposarvi.» «In questo caso sarai il primo a saperlo, vecchio mio.» Erano ormai nell'ingresso. Strinse la mano di Bourne . «Sei mai tornato a Oxford?» «In realtà, sì.» «Salutamela. Vorrei tanto rivederla.» «Lo farò.» Bourne aprì la porta. «Grazie di tutto.» Deron salutò l'amico agitando la mano e augurandogli buona fortuna . Durante il volo notturno per Londra, Bourne sognò di essere di nuovo a Bali, in cima alla scalinata del tempio di Pura Lempuyang, e di guardare attraverso l'arco che incorniciava il monte Agung. Holly Marie camminava piano, da dest ra a sinistra. Quando passava di fronte alla montagna sacra, Bourne correva verso di lei e, mentre veniva spinta, la afferrava prima che potesse cadere dagli scalini. La teneva tra le braccia e la guardava in viso. Solo che era il viso di Tracy . Tracy sobbalzava e lui vedeva i frammenti di vetro conficcati nella schiena. Era coperta di sangue che gli gocciolava sulle braccia e sulle mani . «Cosa sta succedendo, Jason?Non è ancora ora di morire...» Ma non era la voce di Tracy, quella che sentiva in sogno; era quella di Scarlett . Londra lo accolse con un'insolita mattina luminosa, azzurra e brillante. Chrissie aveva insistito per venire a prenderlo a Heathrow. Lo stava aspettando appena oltre i controlli di sicurezza. Sorrise quando la salutò con un bacio sulla guancia . «Il tuo bagaglio?» «Ho solo questo» rispose Bourne .
Abbracciandolo alla vita, lei disse: «E bello rivederti così presto. Scarlett è stata felicissima quando gliel'ho detto. Pranziamo a Oxford e poi passiamo a prenderla a scuola» . Arrivarono al parcheggio e salirono nella sua Range Rover ammaccata . «Come ai vecchi tempi» commentò lei in tono allegro . «Come ha reagito Scarlett alla notizia della morte della zia?» Chrissie sospirò, mettendo in moto. «Più o meno come mi aspettavo. E stata completamente a terra per ventiquattr'ore. Non potevo neanche avvicinarmi a lei.» «I bambini sono di gomma.» «Almeno questo, per fortuna.» Uscì dall'aeroporto e prese l'autostrada . «Dov'è Tracy?» «L'abbiamo sepolta in un cimitero antico, appena fuori Oxford.» «Se non ti dispiace, vorrei andarci subito.» Lei gli lanciò una rapida occhiata. «No, non mi dispiace affatto.» Il tragitto fino a Oxford fu breve e silenzioso; Bourne e Chrissie erano entrambi persi nei propri pensieri . Si fermarono ad acquistare un mazzo di fiori. All'altezza del cimitero Chrissie svoltò e parcheggiò l'auto. Scesero e lei lo guidò attraverso le file di lapidi, alcune vecchie di secoli, fino a una grande quercia. Una brezza che soffiava da est le scompigliava i capelli. Rimase qualche passo indietro mentre Bourne si avvicinava alla tomba di Tracy . Restò in raccoglimento per un po', poi appoggiò le rose bianche alla base della lapide. Voleva ricordarla com'era la notte prima della sua morte, ricordare solo i momenti più intimi e delicati. Ma, nel bene e nel male, il loro momento più intimo era stato quello della sua morte. Non avrebbe mai potuto dimenticare la sensazione del sangue di lei sulle mani e sulle braccia, una sciarpa di seta porpora che li legava in modo indissolubile. I suoi occhi che lo guardavano. Aveva cercato disperatamente di aggrapparsi alla vita che l'abbandonava insieme al sangue. Udiva ancora la sua voce che gli mormorava all'orecchio, mentre la vista le si annebbiava. Aveva gli occhi colmi di lacrime brucianti, ma non piangeva. Quanto avrebbe voluto sentire il suo respiro, lì accanto a sé! Poi sentì Chrissie che lo circondava con un braccio . Scarlett, staccandosi da un gruppetto vociante di compagni di scuola, corse tra le sue braccia. Lui la sollevò e la fece girare in tondo . «Sono stata al funerale della zia Tracy» gli raccontò Scarlett con infantile gravità. «Mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio.» Bourne l'abbracciò forte. Poi salirono tutti in macchina e, su richiesta di Bourne, si diressero verso l'Ali Souls College, nell'ufficio di Chrissie . La stanza era ampia, a pianta quadrata, con le finestre che davano sul giardino dell'antica università. Odorava di libri antichi e di incenso . Mentre Bourne e Scarlett si accomodavano sul divano che Chrissie usava per correggere le relazioni degli studenti, lei preparò il tè . «Che cos'hai in quella valigetta?» chiese Scarlett . «Adesso vedrai» rispose Bourne . Arrivò Chrissie con il servizio da tè su un vassoio nero in stile giapponese. Jason attese pazientemente che lei versasse la bevanda, mentre Scarlett continuò ad agitarsi fino a quando sua madre non le diede un biscotto . «Allora» esordì Chrissie prendendo una sedia, «che cos'è tutta questa storia?» Bourne appoggiò la valigetta sulle sue ginocchia. «Ho un regalo di compleanno per te.» Chrissie aggrottò le sopracciglia. «Mancano almeno cinque mesi al mio compleanno.» «Allora consideralo un regalo in anticipo.» Aprì la serratura, sbloccò le chiusure ed estrasse un computer portatile che sistemò sul tavolino, accanto al vassoio del tè. «Vieni a sederti vicino a me» la invitò . Chrissie si alzò e si spostò sul divano mentre Bourne apriva il computer e lo avviava. La batteria l'aveva ricaricata durante il volo. Scarlett sedeva sull'orlo del sofà, per vedere meglio . Sullo schermo comparve uno screensaver mentre il computer terminava l'avvio . «Scarlett, hai ancora l'anello che ti ho dato?» «Lo porto sempre con me.» Scarlett frugò in tasca e poi lo allungò a Bourne. «Devo ridartelo?» Bourne rise. «L'ho dato a te perché volevo che lo tenessi tu.» Tese la mano. «Solo per un momento.» Prese l'anello e lo inserì nello slot appositamente installato. Era il computer che aveva preso a Jalal Essai, lo zio di Holly, su
richiesta di Alex Conklin. Non l'aveva consegnato perché aveva scoperto cosa conteneva e aveva ritenuto che si trattasse di una scoperta troppo importante per passarla alla Treadstone o a chiunque altro dei servizi clandestini. Perciò aveva incaricato Deron di costruire un computer falso e uguale in tutto e per tutto a questo. Accompagnando Holly in uno dei suoi viaggi a Sonora per allestire un narcorrancho, aveva conosciuto Gustavo Moreno. Bourne aveva fatto in modo che il falso computer cadesse nelle mani del signore della droga perché, se fosse saltato fuori alla fine come proprietà di Moreno, avrebbe sviato i sospetti di Conklin . Poi aveva scambiato l'anello di Salomone con quello che Marks aveva preso all'uomo che l'aveva aggredito a Londra. Il fatto che Scarlett avesse trovato l'anello di Marks il giorno in cui gli avevano sparato gli aveva dato un'occasione perfetta per effettuare lo scambio. Aveva giustamente pensato che l'anello di Salomone sarebbe stato più al sicuro nelle mani della bambina che nelle sue . I due pezzi combaciavano perfettamente. L'iscrizione misteriosa incisa all'interno dell'anello sbloccò il file fantasma sull'hard disk del portatile: era un PDF, una riproduzione perfetta di un testo in antico ebraico . Chrissie si protese verso il monitor. «Ma che cos'è? Sembrerebbero quasi... istruzioni?» «Ricordi quello che ci siamo detti con il professor Giles?» Lei gli lanciò un'occhiata. «E curioso che tu l'abbia menzionato. Ieri è stato portato via dal MI6.» «Temo che sia stata un po' colpa mia» replicò Bourne. «Il professore faceva parte del gruppo che ci ha creato tutti questi problemi.» «Vuoi dire...?» Ritornò a studiare il testo antico. «Buon Dio, Jason, non intenderai dirmi...!» «Secondo questo file» spiegò Bourne, «l'oro di re Salomone è seppellito in Siria.» Chrissie era sempre più elettrizzata. «A Ugarit, in qualche luogo sul monte Casio o nelle vicinanze, dove si diceva vivesse il dio Baal.» Aggrottò la fronte quando lesse la fine del testo. «Ma dove, di preciso? Il testo è incompleto.» «Giusto» commentò Bourne, ripensando alla scheda di memoria trovata da Arkadin tra i cocci della statua di Baal. «Manca l'ultima parte. Mi dispiace.» «Non essere dispiaciuto.» Si girò verso di lui e lo abbracciò forte. «Dio mio, che regalo meraviglioso!» «Se troverai l'oro di re Salomone.» «No, questo testo ha un valore inestimabile di per sé. Contiene una miniera di materiale di ricerca che aiuterà a gettare nuova luce su quello che è verità e quello che è leggenda riguardo alla corte di re Salomone. Io... io non so come ringraziarti.» Bourne sorrise. «Allora fai una donazione all'università a nome di tua sorella.» «Perché io... ma certo! E una bellissima idea! Adesso lei sarà più vicina a me e anche parte di Oxford.» Bourne si sentì pervadere dal ricordo di Tracy e sospirò, rilassato. Ora poteva pensare a lei in tutte le sue incarnazioni e non inondata dal dolore . Appoggiò un braccio sulle spalle di Scarlett. «Sai, anche tua zia ha partecipato a questo regalo.» La ragazzina sollevò la testa a guardarlo con gli occhi sgranati. «Davvero?» Bourne annuì. «Adesso ti racconto come ha fatto, e quanto è stata coraggiosa.» *** HA SCONFITTO OGNI NEMICO . MA NON IL SUO PASSATO .