JOHN SANDFORD GLI OCCHI DELLA PREDA (Eyes Of Prey, 1991) 1 Carlo Druze era un killer nato. Se ne andava a passo lento su...
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JOHN SANDFORD GLI OCCHI DELLA PREDA (Eyes Of Prey, 1991) 1 Carlo Druze era un killer nato. Se ne andava a passo lento sul vecchio marciapiede di lastroni incrinati e sconnessi, sotto le nude querce. Nulla gli sfuggiva dell'ambiente circostante. Dietro l'angolo, dove aveva lasciato l'auto, un odore di sigaro aleggiava nella fredda aria della notte; fatti trenta metri, era entrato in una nuvola di fragranza, deodorante o profumo scadente. Una canzone di Mötley Crüe proveniva da una camera al primo piano: se era così ben udibile dal marciapiede, doveva essere assordante all'interno. Due isolati più avanti, sulla destra, un'ombra dalla trasparenza d'avorio si proiettò da una finestra illuminata. Lui scrutò la finestra, ma non vi fu altro movimento. Un primo fiocco di neve vagò nell'aria, poi un altro. Druze uccideva senza provare emozioni, ma non era stupido. Stava attento: non voleva passare la vita in prigione. Perciò aveva l'aria di andare a zonzo, mani nelle tasche, come un bighellone. Osservava. Valutava. Il bavero sollevato della giacca da sci gli copriva le orecchie e il naso. Il berretto con visiera era calato sulla fronte. Se avesse incontrato qualcuno — una persona che portava a passeggio il cane, o faceva jogging notturno — costui non gli avrebbe visto che gli occhi. Dall'imboccatura del vicolo vide la casa designata e dietro a essa il box. Vicolo deserto, quiete assoluta. Pochi bidoni delle immondizie, come funghi di plastica ammaccati, aspettavano di essere portati dentro. Quattro finestre erano accese al pianterreno della casa, altre due di sopra. Il box era buio. Druze non si guardò attorno; era un attore troppo bravo. Difficilmente un vicino lo avrebbe osservato, ma chi poteva saperlo? Un vecchio solo, davanti alla finestra, con uno scialle sulle spalle scarne... Druze lo vide con l'occhio della mente e fu cauto: lì abitavano benestanti e lui era un estraneo nelle tenebre. Un atteggiamento furtivo fuori luogo, come una battuta sbagliata sul palcoscenico, sarebbe stato notato. I piedipiatti erano a un minuto dal vicolo. Un passo casuale, dunque, non una mossa repentina. Druze svoltò nella più fitta oscurità del vicolo e arrivò al box, che era collegato alla casa da
un passaggio in calcestruzzo sormontato da vetri. La porta in fondo al passaggio non sarebbe stata sprangata; da lì si andava in cucina. «Se lei non è in cucina, sarà nel soggiorno a guardare la televisione», aveva detto Bekker. E si era mostrato raggiante, la faccia infuocata dall'incontrollato piacere. Gli aveva disegnato la planimetria della casa e tracciato i corridoi con la mano tremante che aveva lasciato linee incerte sul foglio. «Cristo, come vorrei essere là a vedere.» Druze prese la chiave dalla tasca, tirando su lo spago al quale era legata. Aveva fissato lo spago alla cintura, così non avrebbe rischiato di perdere la chiave in casa. Allungò la mano guantata verso il pomo della porta, girò. Chiusa. La chiave provvide ad aprirla. Entrò, richiuse e si fermò nel buio ad ascoltare. Un tramestio? Un topo in soffitta? Il rumore del vento sulle tegole? Attese. Druze era uno gnomo. Da bambino era stato vittima di un incendio. Certe notti, brutte notti, i ricordi invadevano la sua mente e nel dormiveglia lui si agitava infelice sotto le coperte, sapendo e temendo che cosa sarebbe successo. Si sarebbe ritrovato nel suo letto di bambino avvolto dalle fiamme. Fuoco sulle mani, sul viso, fuoco che si spargeva come un liquido sul naso, sui capelli, e sua madre gridava, gettava acqua e latte, suo padre si sbracciava, urlando inutilmente. All'ospedale lo avevano portato solo il giorno dopo. Sua madre gli aveva spalmato lardo sul corpo, sperando di rimediare, mentre lui aveva urlato tutta la notte. Ma alla luce del mattino, quando gli avevano visto il naso, il ricovero era stato inevitabile. Rimase un mese nell'ospedale della contea, strillando dal dolore quando le infermiere gli facevano i bagni e lo spellavano, e i medici facevano i trapianti di pelle. Ne avevano fatto il «raccolto» dalle cosce — così avevano detto, e la parola gli si era impressa nella mente — per rappezzargli la faccia. Alla fine il suo aspetto fu migliore, ma non buono. I lineamenti parevano fusi insieme, come compressi da un'invisibile calza di nailon sul viso. La pelle era un rammendo a mosaico di cuoio scolorito, zigrinato. Il naso glielo avevano aggiustato il meglio possibile, ma era troppo corto, con le narici troppo sporgenti, come fari neri. Le labbra erano rigide e sottili, spesso aride. Lui se le leccava ogni pochi secondi, inconsciamente, e i suoi parevano colpi di lingua di una lucertola. Gli avevano dato una nuova faccia, ma gli occhi erano i suoi.
Aveva occhi neri, opachi, come tinta vecchia sulle palpebre di un indiano in uno spaccio di tabacchi. Chi lo conosceva per la prima volta poteva prenderlo per cieco, ma non lo era. I suoi occhi erano lo specchio dell'anima, un'anima che Druze aveva perso la notte dell'incendio. Il box era silenzioso. Nessuna voce, nessun trillo di telefono. Druze rimise la chiave nella tasca dei pantaloni e prese invece una pila d'alluminio di dieci centimetri a forma di penna. Con la sua luce filiforme aggirò l'auto e scansò le cose sparse attorno. Bekker lo aveva avvisato in proposito: la donna amava il giardinaggio. La metà inutilizzata del box era invasa da pale, rastrelli, zappe, palette, vasi di terracotta, rotti e sani, sacchi di fertilizzante e di torba già aperti. Accanto c'erano un tagliaerba e uno sgombraneve. Lì c'era odore di terra e di benzina, un miscuglio acre, inebriante che lo riportò alla sua fanciullezza. Druze era cresciuto in una fattoria, da povero, aveva abitato in una roulotte con il serbatoio di propano, più simile al pollaio che alla casa colonica. Conosceva gli orti, i vecchi attrezzi meccanici, il fetore del letame. La porta fra il box e il passaggio era chiusa, ma non a chiave. Il passaggio era largo due metri e pieno di roba anch'esso. «Lei lo usa come serra, attento ai pomodori sul lato sud, sono dappertutto», aveva detto Bekker. «Avrai bisogno di luce, ma lei non la vedrà né dalla cucina né dal soggiorno. Controlla le finestre a sinistra. C'è lo studio, e lei potrebbe vederti da lì, ma non ci sarà. Non lo usa mai. Vai tranquillo.» Bekker era un ideatore meticoloso, soddisfatto del proprio lavoro. Quando aveva disegnato la planimetria della casa sotto gli occhi di Druze, a un certo momento si era interrotto per ridere. La sua risata era la caratteristica peggiore, aveva constatato Druze. Aspra, gracchiante, somigliava al grido del corvo inseguito dai gufi... Druze percorse il passaggio e giunse alla porta a vetri illuminata. Lui era robusto, ma non grasso. Era un atleta: giocoliere, ballerino, funambolo, saltava in aria, batteva i tacchi e atterrava lievemente, cosicché il pubblico sentiva solo il colpo dei tacchi. In quel momento udì una voce e si arrestò. Una voce che cantava. Dolce, semplice, da studentessa nel coro. Parole smorzate. Riconobbe il motivo, ma gli sfuggiva il titolo. Una canzone degli anni Sessanta. Forse di Joan Baez. Il campo si restringeva. Era sicuro di farcela. Uccidere Stephanie Bekker sarebbe stato come tagliare la testa a un pollo o la gola a un maialino. Una giovane scrofa, disse fra sé. E tutta
carne... Druze aveva commesso un altro delitto anni prima. Ne aveva parlato a Bekker davanti a una birra. Non era stata una confessione, ma un semplice racconto. E ormai, a tanti anni di distanza, l'omicidio pareva piuttosto un incidente. O addirittura la scena di un film mezzo dimenticato, di cui non si ricordava la fine. Una ragazza in un alberguccio di New York. Una puttana forse, una drogata di sicuro. Lo aveva insultato. E lui l'aveva uccisa. Quasi per esperimento, per provare se l'atto lo avrebbe emozionato. Nulla. Non aveva mai saputo il suo nome, e difficilmente avrebbe ritrovato quell'alberghetto, se ancora esisteva. A distanza di tanto tempo non ricordava più in quale settimana dell'anno il fatto era avvenuto: in estate sicuramente, c'era aria soffocante, sudore, odore di latte guasto e di verdura marcia nei cassonetti sul marciapiede. «Non mi fece né caldo né freddo», aveva detto a Bekker che insisteva. «Non fu... Merda, non fu proprio niente. Feci zittire la cagna, questo è certo.» «L'hai colpita? In faccia?» Bekker era completamente preso dal racconto. Fu quello, pensò Druze, il momento in cui divennero amici. Lo ricordava con assoluta chiarezza: il bar, l'odore di sigarette, quattro universitari seduti a mangiare la pizza, a ridere di sciocchezze... Bekker portava un pullover di mohair color albicocca, il suo preferito. «La feci dondolare, sbattendola contro il muro», aveva detto Druze, per darsi importanza. Una nuova sensazione. «Quando lei crollò a terra bocconi, le saltai sopra, le strinsi il collo con un braccio e strattonai... fatto. Il collo si spezzò. Il rumore fu come mordere della cartilagine. Mi rinfilai i calzoni e uscii dalla porta...» «Impaurito?» «No. Non dopo che fui uscito. Liscio come l'olio... che cosa potevano fare gli sbirri? Uno esce e quando ha percorso l'isolato, quelli sono fregati. In quel posto di merda forse non la scoprirono che due giorni dopo, e solo a causa del caldo. Non ero impaurito. Semmai incalzato dalla fretta.» «Complimenti.» L'approvazione di Bekker era stata per Druze come uno scroscio di applausi, ma migliore, più concentrato. Solo per lui. Ne aveva tratto l'impressione che Bekker avesse qualcosa da confessare, ma lui non lo aveva fatto. Al contrario aveva chiesto: «Non lo hai più ripetuto?» «No. Non fu... divertente.» Bekker lo aveva guardato attonito per un momento, poi aveva sorriso.
«Accidenti che racconto, Carlo.» Non aveva sentito molto quando aveva ucciso la ragazza. E non sentiva molto ora, mentre si muoveva come un fantasma nel buio, avvicinandosi al bersaglio. Tensione, paura del palcoscenico, ma non ripugnanza per l'incarico. La porta di legno in fondo al passaggio aveva un vetro ad altezza d'occhi. Se la donna era a tavola, aveva detto Bekker, probabilmente gli avrebbe voltato le spalle. Se era al lavello, ai fornelli o davanti al frigorifero, non avrebbe potuto vederlo. La porta si sarebbe aperta silenziosamente, ma lei avrebbe sentito entrare l'aria fredda se Druze avesse esitato. Che canzone era? La voce della donna lo avviluppava, un sussurro affascinante nella notte. Con movimento lento guardò dal vetro. Lei non era a tavola, c'erano due sedie vuote. Afferrò saldamente il pomo della porta, sollevò un piede e pulì la suola della scarpa sul pantalone dell'altra gamba, poi ripeté l'operazione con l'altro piede. Se le scarpe da ginnastica avevano raccolto dei sassolini, questi, grattando sul pavimento, lo avrebbero tradito. Bekker lo aveva messo in guardia, e Druze era uno che ci teneva ai dettagli. Girò il pomo. Esso si mosse lentamente come la lancetta dei minuti sull'orologio. La porta era a molla e si sarebbe richiusa da sola... E lei cantava. Qualcosa con Angelina, ta-dum, Angelina. Good-bye, Angelina? Era un vero soprano, la sua voce squillante. La porta era silenziosa come Bekker aveva detto. L'aria calda gli arrivò in faccia come un cuscino di piume; facilitato dal rumore delle stoviglie, entrò e si mosse, la porta si richiuse, le sue scarpe non facevano rumore sulle piastrelle di cotto. Proprio di fronte c'era il banco della colazione in formica bianca screziata, con una rosa dal gambo corto in un vasetto a una estremità, una tazza e un piattino al centro, e una bottiglia di vetro verde più vicina a lui. Il ricordo di un viaggio in Messico, gli aveva detto Bekker. Di vetro soffiato, pesante come pietra, con il collo massiccio. Druze, una valanga in nero, si stava spostando velocemente verso il fondo del banco, e la donna comparve alla sua sinistra, davanti al lavello, di spalle. Cantava. I capelli neri le scendevano sulle spalle, un négligé di seta blu trasparente le modellava i fianchi. All'ultimo istante lei percepì una presenza, forse sentì un movimento, dell'aria fredda, e si voltò. Un imprevisto: Druze stava per aggredire la moglie di Bekker, era troppo tardi per cambiare tattica, ma capì che qualcosa non andava.
Un uomo nella casa. Nella doccia. Stava per andarsene. Stephanie Bekker si sentiva calda, a proprio agio, ancora un po' umida dopo la doccia, una goccia le solleticava la spina dorsale all'altezza delle scapole... Aveva i capezzoli doloranti, ma in modo piacevole. Lui si era rasato, ma non di fresco... Sorrise. Che sciocco, non doveva essere stato allattato abbastanza da piccolo... Stephanie Bekker sentì l'aria fredda sulla schiena e si voltò a sorridere al suo amante. Il suo amante non c'era; c'era la Morte. Lei disse: «Chi?» e tutto le si affollò nella mente come una manciata di cristalli: i progetti di lavoro, i bei giorni ai laghi, il cocker spaniel che aveva avuto da ragazzina, il volto di suo padre segnato dal dolore dopo l'attacco cardiaco, la propria incapacità ad avere bambini... E la sua casa: le piastrelle in cucina, gli antichi recipienti per la farina, i poggiapentole in ferro battuto, la rosa nel vasetto, rossa come una goccia di sangue... Andati. Un imprevisto... «Chi?» disse lei, a voce bassa, girandosi per metà, dilatando gli occhi, il sorriso raggelato. La bottiglia roteò, mazza da baseball in vetro verde. La mano della donna si sollevò. Troppo tardi. Troppo piccola. Troppo delicata. La pesante bottiglia si abbatté sulla tempia con uno schianto. Lei barcollò e cadde all'indietro, come se non avesse più ossatura. La nuca urtò il bordo del banco, il corpo fu spinto in avanti e rotolò. Druze le fu addosso, la schiacciò con il suo peso; la mano sul torace sentiva il capezzolo. Colpì il viso e il viso e il viso... La bottiglia si ruppe, e lui fece una pausa, pompando aria, sollevò la testa, a bocca spalancata, cambiò la presa e affondò il vetro aguzzo nei suoi occhi... «Dacci sotto», aveva sollecitato Bekker. Era sembrato un giocatore di football che descriveva un'azione di gioco, agitando il braccio come se stesse per urlare: Avanti! «Fallo come lo farebbe un tossicomane. Cristo, quanto mi piacerebbe essere lì. E colpisci gli occhi. Bada bene di colpire gli occhi.» «So come fare», aveva risposto Druze.
«Ma devi colpire gli occhi...» Bekker aveva una goccia di saliva all'angolo della bocca. Gli succedeva quando era eccitato. «Colpiscili per me...» Qualcosa non andava. C'era stato un altro rumore nella casa ed era cessato. Benché intento a colpirla, a infilarle le punte di vetro negli occhi, Druze registrò il négligé. Lei non lo avrebbe indossato in una notte d'aprile fredda e ventosa, sola in casa. Le donne erano attrici nate, con un istinto per ciò che era più adatto andando oltre la semplice comodità. Non lo avrebbe indossato se fosse stata sola... La colpì in faccia e sentì dei passi sordi sulle scale; si voltò a metà, si sollevò a metà, spaventato, ingobbito come un golem, la bottiglia nella mano guantata. L'uomo, che aveva un asciugamano attorno al corpo, girò l'angolo in fondo alle scale. Più alto del normale, ben piantato ma non grasso. Capelli biondi bagnati con un principio di calvizie, spettinati. Pelle chiara, poco esposta al sole, peluria ingrigita sul torace, chiazze rosate sulle spalle per effetto della doccia. Un istante d'immobilità, poi l'uomo farfugliò: «Gesù» e schizzò via. Druze mosse un passo per inseguirlo, perse l'equilibrio. Il sangue sul pavimento era quasi invisibile, rosso su rosso, e lui scivolò a gambe all'aria. Batté la schiena sulla testa della donna, il cui viso massacrato lasciò l'impronta sulla giacca nera. L'uomo, l'amante di Stephanie Bekker, era risalito di corsa. La vecchia casa aveva porte di quercia. Se quello si chiudeva in camera, Druze non avrebbe sfondato la porta tanto facilmente. Il tizio stava forse chiamando la polizia. Druze abbandonò la bottiglia, secondo i piani, si girò e uscì dalla porta. Era a metà del passaggio a vetri quando la porta sbatté e lo fece sussultare come una fucilata. La porta, disse la sua mente, ma ormai correva pestando i pomodori. Trovò la pila e uscì dal passaggio. In altri due secondi superò il box, fu nel vicolo e lì rallentò. Cammina. Cammina! In altri dieci secondi fu sul marciapiede, un uomo grosso, ingobbito, con il bavero rialzato. Arrivò all'auto senza avere visto un'anima. Un minuto dopo aver lasciato Stephanie Bekker, si allontanava dalla zona... Evita di pensarci. Druze si sforzò di tenere la mente libera. Ogni cosa era stata eseguita in modo impeccabile. Segui il copione. Rispetta l'itinerario. Gira attorno al lago, vai in France Avenue, all'autostrada 12, indietro verso il raccordo per la I-94, e segui la 94 fino a St. Paul. Dopo pensò.
Lui ha visto la mia faccia. Chi diavolo era? Così rotondo, così roseo, così spaventato. Druze batté la mano sul volante per la frustrazione. Come è potuto accadere? Bekker tanto in gamba... Per Druze era impossibile sapere chi fosse l'amante, ma forse Bekker era al corrente. Qualche idea almeno doveva averla. Sbirciò l'orologio sul cruscotto: 22.40. Ancora dieci minuti per la prima telefonata stabilita. Imboccò l'uscita seguente, si fermò a un negozio SuperAmerica e prese il sacchetto delle monete che aveva lasciato sul pavimento dell'auto: le aveva tolte dalla tasca perché non tintinnassero durante il suo lavoretto. C'era un telefono pubblico sul muro esterno e Druze, con l'indice in un orecchio per attutire il rumore della strada, formò il numero di un altro telefono pubblico a San Francisco. Una voce registrata chiese monete e Druze le infilò nella fessura. Un secondo dopo il telefono suonò sulla costa del Pacifico. Bekker era là. «Pronto?» Era previsto che Druze dicesse un «sì» o un «no» e riattaccasse. Invece disse: «C'era un tizio, là». «Cosa?» Per la prima volta vi fu sorpresa nella sua voce. «Se la faceva con un tizio», disse Druze. «Sono entrato e l'ho sistemata, e il tizio è sceso dalle scale e me lo sono visto davanti. Aveva un asciugamano attorno al corpo.» «Cosa?» Più che sorpreso. Sbigottito. «Svegliati, per l'amor di Dio. Piantala di dire: 'Cosa?' Abbiamo un problema.» «Ma... la donna?» Si stava riprendendo. Senza fare nomi. «Ah, quella è un bel 'sì'. Ma il tizio mi ha visto. Per un secondo appena. Avevo la giacca da sci e il berretto, ma con la mia faccia... Non so quanta se ne vedeva...» Seguì un prolungato silenzio, poi Bekker disse: «Non possiamo parlare di questo. Ti chiamerò stasera o domani, dipende da quello che succede. Sei sicuro riguardo alla... donna?» «Certo, è un 'sì'.» «Una cosa è fatta», disse Bekker con soddisfazione. «Lasciami pensare all'altra.» Fine della conversazione. Allontanandosi dal telefono, Druze canticchiava un pezzetto della canzone: Ta-dum, Angelina, good-bye, Angelina... Non era esatta, e la maledetta canzone gli sarebbe frullata in testa finché non l'avesse ricordata.
Forse poteva telefonare a una stazione radio e chiedere di trasmetterla. Quel motivo lo faceva impazzire. S'immise nella I-94, dopo passò sull'autostrada 280, sulla I-35W e sulla I-694, si diresse a ovest, veloce, troppo veloce, inebriato dalla folle corsa, superando i raccordi attorno alle città. Lo faceva ogni tanto per scaricarsi. Gli piacevano il sibilo del vento dalla fessura del finestrino, i vecchi successi alla radio. Ta-dum... La maschera sanguigna si seccò sul dietro della sua giacca, divenne invisibile. Lui ignorava che vi fosse. L'amante di Stephanie Bekker udì gli strani colpi sordi mentre si asciugava dopo la doccia. Il suono era innaturale, violento, aritmico, ma non gli passò per la mente che Stephanie fosse stata aggredita e stesse morendo in cucina. Forse lei stava muovendo qualcosa, una delle pesanti sedie antiche, o forse non riusciva ad aprire un vasetto e batteva il coperchio sul banco della cucina, francamente non sapeva che cosa pensare. Si avvolse l'asciugamano alla vita e scese. Piombò nell'incubo. Un uomo dalla faccia di bestia, curvo sopra Stephanie, la bottiglia rotta tenuta in mano come un pugnale, rigata di sangue. Il volto di Stephanie... Che cosa le aveva detto un'ora prima quando erano a letto? Sei una bella donna, le aveva detto un po' impacciato, sfiorandole le labbra con la punta del dito, tanto bella... Appena l'aveva vista sul pavimento si era girato ed era fuggito. Che altro poteva fare? chiese una parte della sua mente. E la parte meno nobile, la lucertola che si rintanava, disse: Vigliacco. Aveva fatto le scale di corsa, spaventato, si era chiuso in camera, lontano dall'orrore, quando sentì lo gnomo sbattere la porta sul retro. Afferrò il telefono, cominciò a formare il numero della polizia, il 9, l'1. Ma intanto la sua mente sveglia stava cambiando idea. S'interruppe. Ascoltò. Nessun vicino, niente chiamate nella notte. Niente sirene. Nulla. Guardò il telefono e infine mise giù il ricevitore. Forse... S'infilò i pantaloni. Con i nervi tesi aprì uno spiraglio della porta, aspettandosi di essere aggredito. Nulla. Scese le scale lentamente, a piedi nudi. Nulla. Arrivò guardingo in cucina. Stephanie era riversa là, spacciata; il viso maciullato, la testa deformata dalle botte. Il sangue aveva formato una pozza attorno a lei, il killer ci aveva camminato sopra lasciandovi le sue impronte, il bordo di una scarpa da ginnastica e il tacco, in direzione della porta.
L'amante di Stephanie Bekker allungò la mano per toccarle il collo, sentire il battito, ma all'ultimo istante, vinto dalla ripugnanza, la ritirò. Doveva essere morta. S'immobilizzò, folgorato da un presentimento: gli agenti sul marciapiede si avvicinavano, raggiungevano la porta d'ingresso... Lo avrebbero sorpreso lì, accanto al cadavere, come l'innocente in un telefilm della serie Perry Mason, avrebbero puntato il dito contro di lui, accusandolo di assassinio. Girò il capo verso la porta d'ingresso. Nulla. Non un suono. Tornò su, in un mulinare di pensieri febbrili. Stephanie gli aveva giurato di non avere detto a nessuno della loro relazione. Le sue amicizie erano all'università, nell'ambiente artistico o tra il vicinato: confidare certe cose in uno di quei giri avrebbe prodotto pettegolezzi a non finire. Loro due lo sapevano e ne conoscevano le conseguenze. Lui ci avrebbe rimesso il posto, travolto dallo scandalo. Stephanie aveva una paura terribile del marito: non osava immaginare quello che lui avrebbe fatto. Era stata una sciocchezza, ma nessuno dei due aveva resistito. Il matrimonio di lui era alla fine, quello di lei era finito da un pezzo. Gli venne un nodo alla gola, si controllò, gli venne di nuovo. Non aveva pianto da quando era bambino, non poteva farlo adesso, ma spasmi di dolore, rabbia e paura gli contrassero il torace. Fatti forza. Cominciò a vestirsi, si stava abbottonando la camicia quando il suo stomaco si ribellò; corse nel bagno e vomitò. Stette inginocchiato davanti alla tazza per diversi minuti, squassato da conati, finché gli occhi non gli si riempirono di lacrime. Calmati gli spasmi, si sollevò e finì di vestirsi, senza mettersi le scarpe. Per non fare rumore, pensò. Fece un attento inventario: portafogli, chiavi, fazzoletto, monete. Cravatta, giacca. Cappotto e guanti. Si costrinse a sedere sul letto per ripercorrere mentalmente i propri movimenti nella casa. Che cosa aveva toccato? Il pomo della porta d'ingresso. Il tavolo in cucina, il cucchiaio e la ciotola usati per mangiare il dolce alle ciliegie. Le maniglie delle porte di camera e bagno, i rubinetti, il sedile del water.... Prese un paio di mutandine di cotone dal cassettone di Stephanie, riscese, cominciò con la porta d'ingresso e agì metodicamente. In cucina non guardò il corpo. Non poté, ma ne sentì la costante presenza all'estremità del suo campo visivo, e badò a scansare il sangue. Tornò in camera, nel bagno. Mentre puliva la doccia pensò al tubo di scarico. Peli del corpo. Tese l'orecchio. Silenzio. Fai con calma. Tolse la chiusura, pulì il tubo fin dove poté con della carta igienica, poi vi diresse il
getto dell'acqua. Buttò la carta nel water, tirò lo sciacquone una, due volte. Peli del corpo: il letto. In camera fu scosso da un'altra ondata di disperazione. Avrebbe dimenticato qualcosa... Tirò via le lenzuola, ne prese di pulite e ci mise cinque minuti a rifare il letto completamente. Pulì il comodino e la testiera, si fermò per guardare attorno. Bastava. Arrotolò le mutandine nelle lenzuola sporche, s'infilò le scarpe e scese con la biancheria. Controllò il soggiorno, il salotto e la cucina per l'ultima volta. Evitando di guardare Stephanie. Non vi era altro da fare. Indossò il cappotto e vi nascose sotto la biancheria. Già ben piantato, con quel rigonfiamento diventò un ciccione. Bene, se qualcuno lo vedeva... Uscì dalla porta d'ingresso, scese i quattro gradini esterni e percorse la strada fino all'incrocio dove era la sua auto. Erano stati prudenti, e questo, forse, lo avrebbe salvato. La notte era fredda, con spruzzi di neve, e lui non incontrò nessuno. Scese dalla collina, girò attorno al lago, arrivò a Hennepin Avenue e vide una cabina telefonica. Si fermò, estrasse un quarto di dollaro e chiamò il 911. Con aria furtiva, sentendosi sciocco, coprì il microfono con le mutandine prima di parlare. «Una donna è stata assassinata», disse al centralinista. Fornì nome e indirizzo di Stephanie. Mentre l'altro lo pregava di attendere in linea, lui riattaccò, ripulì il ricevitore e tornò in auto. No, sgattaiolò come un topo, pensò. Non gli avrebbero mai creduto, mai. Chinò il capo sul volante. Chiuse gli occhi. La sua mente si mise a ragionare. Il killer lo aveva visto. Il killer non era il tipo del drogato o del ladruncolo che uccide d'impulso. Era robusto, ben nutrito, determinato. E poteva dargli la caccia. Doveva fornire maggiori informazioni agli investigatori, decise, altrimenti avrebbero puntato i sospetti su di lui, l'amante. Doveva indicare l'assassino. Sarebbe venuto fuori che Stephanie aveva avuto un rapporto sessuale, il medico legale lo avrebbe rilevato. Oddio, si era lavata? Sì, naturalmente, ma quanto bene? Vi sarebbe stato sperma sufficiente per la prova del DNA? Niente da fare per quello. Ma poteva dare alla polizia informazioni utili per rintracciare il killer. Stampando una dichiarazione, fotocopiandola più volte con diverse gradazioni di luce per confondere le caratteristiche della stampa...
Il volto di Stephanie emerse dal nulla. Lui stava pensando, ed eccola là, a occhi chiusi, girata dall'altra parte, addormentata. Gli balenò l'idea che, tornando da lei, l'avrebbe trovata alla porta, e che era stato tutto un incubo. Gli si chiuse la gola, ansimò. E seduto in macchina pensò: Bekker? Aveva fatto questo? Avviò il motore. Bekker. Aveva poco di umano la cosa che si trascinava sul pavimento della cucina. Occhi distrutti, cervello rovinato, emorragia, ma era viva e aveva una mira: il telefono. Non c'era aggressore, non c'era amante; non c'era tempo. Solo dolore, pavimento e, da qualche parte, il telefono. La cosa si trascinò verso la parete dove era l'apparecchio, il suo braccio si sollevò, si tese... e ricadde. Era agonizzante quando gli infermieri arrivarono, quando i pompieri ruppero il vetro della finestra ed entrarono. La cosa chiamata Stephanie Bekker udì le parole «Santo Iddio» e poi spirò, lasciando una sola impronta della mano insanguinata a quindici centimetri dal telefono. 2 Del era alto, nodoso, sgraziato. Piazzò le gambe sul sedile del séparé e i jeans gli salirono sopra le scarpe alte marrone con le stringhe. Erano crepate e infangate. Scarpe così le portavano i mezzadri, pensò Lucas. Lucas scolò il resto della Diet Coke e girò la testa verso la porta. Nulla. «Lo stronzo è in ritardo», disse Del. La sua faccia si accendeva di giallo, poi di rosso per via dell'insegna luminosa sulla vetrina. «Viene, viene.» Lucas catturò lo sguardo del barista e indicò la lattina di Diet Coke. L'uomo annuì e aprì il piccolo frigo. Era grasso, con un grembiule macchiato sull'ampio ventre, e camminava come un papero. «Un dollaro», borbottò. Lucas pagò. Il barista li guardò entrambi attentamente, stava per fare una domanda, preferì non farla e tornò dietro il banco. Più che fuori posto loro due erano male assortiti, ragionò Lucas. Del indossava jeans, un camiciotto grigio da detenuto, strappato al collo, giubbotto di jeans, fascia attorno al capo ricavata da una cravatta fantasia, e scarpe da mezzadro. Aveva la barba di una settimana e i suoi occhi sem-
bravano paludi di torba. Lucas indossava un giubbotto di pelle su un maglione di cachemire, pantaloni kaki e stivaletti da cowboy. I capelli scuri, spettinati, gli ricadevano su una faccia quadrata, dura, di un pallore invernale. Il pallore nascondeva quasi la cicatrice dal sopracciglio alla guancia che diventava visibile quando lui serrava le mascelle. Allora si raggrinziva, e il solco era più bianco del resto della pelle. Il loro séparé era vicino alla finestra. Il vetro argentato consentiva a chi stava dentro di vedere fuori, ma non viceversa. Sotto le finestre si alternavano cassette di fiori e radiatori coperti. I fiori erano petunie di plastica infilate in una specie di sudiciume. Del masticava gomma, una stecca ogni pochi minuti. Quando la finiva, sputava il rimasuglio nella cassetta dei fiori. Dopo un'ora una dozzina di palline rosate formavano germogli primaverili tra i fiori finti. «Viene, viene», disse ancora Lucas. Ma non ne era sicuro. «Arriverà.» Giovedì sera, scrosci di pioggia intermittente, pochi clienti nel locale. Tre puttane, due nere, una bianca, erano sedute sugli sgabelli al banco, bevevano birra e si dividevano la rivista Mirabella. Si erano tolte gli impermeabili di vinile lucido a colori vivaci e li tenevano ripiegati sotto il sedere a mo' di cuscini. Le puttane non si separavano mai dai propri indumenti. Una bianca sedeva da sola in fondo al banco. Aveva capelli biondi crespi, occhi di un verde acquoso e una bocca larga e sottile, facile al tremore. Le sue spalle ricurve parevano pronte a farsi bastonare. Un'altra puttana: stava scolando gin con teutonica determinazione. Gli uomini nel bar non si curavano di loro. Due cowboy con cappelli mimetizzati, uno con coltello a serramanico alla cintura, giocavano a carte. Altri due uomini, forse del vicinato, parlavano con il barista. Un quinto, più vecchio, aveva davanti una coppetta di noccioline, e si nutriva della rabbia di una vita e di whisky. Un sorso dal bicchiere, una nocciolina e un borbottio rabbioso a capo chino. Un'altra mezza dozzina di uomini e una donna formavano un gruppetto compatto in fondo al bar, dove stavano guardando alla TV gli incontri eliminatori del campionato di pallacanestro, via satellite. «Non ho visto molto crack alla TV recentemente», disse Lucas, cercando di far conversazione. Del aveva rimuginato qualcosa tutta la sera, ma ancora non l'aveva sputata. «Già sfruttato dai media», rispose Del. «Ora non fanno che parlare di una nuova droga. Pare che si chiami ice e venga dalla Costa occidentale.»
Lucas scosse il capo. «Maledetto ice», disse. Colse la propria immagine sul vetro della finestra. Non troppo male, pensò. Non si vedevano i fili grigi nei capelli, né i segni sotto gli occhi, né il principio di rughe agli angoli della bocca. Forse doveva prendere un pezzo di quel vetro e usarlo quando si faceva la barba. «Se aspettiamo ancora molto, quella avrà bisogno di una trasfusione di denaro», disse Del, sbirciando la puttana sbronza. Lucas le aveva allungato venti dollari, ma ormai le erano rimasti gli spiccioli. «Arriverà», insistette Lucas. «Il bastardo sogna di fargliela pagare.» «Randy non è abbastanza intelligente per sognare», disse Del. «Lo vedremo presto», commentò Lucas. «Non la lascerà seduta là in eterno.» La donna era un'esca. Del l'aveva trovata in un bar di South St. Paul due giorni prima e l'aveva riportata a Minneapolis valendosi di un vecchio mandato di cattura. Lucas aveva sparso la voce che lei stava vuotando il sacco su Randy per evitare una condanna per possesso di cocaina. Randy aveva sfregiato la faccia a una confidente di Lucas. La puttana era stata presente al fatto. «Scrivi ancora poesie?» chiese Del dopo un poco. «Quasi più», rispose Lucas. Del scosse il capo. «Peccato.» Lucas guardò i fiori finti e disse con tristezza: «Sto invecchiando. Bisogna essere giovani o ingenui per scrivere poesie». «Hai tre o quattro anni meno di me», precisò Del. «Né tu né io abbiamo vita facile», disse Lucas. «Ho capito», rispose Del tristemente. Quelli della Narcotici erano sempre stati magri. A lui piaceva un po' troppo l'eroina e talvolta metteva il naso nella cocaina. Una conseguenza del lavoro: non ne uscivano mai puliti. Ma Del... le borse sotto gli occhi erano il suo tratto più vistoso, i suoi capelli erano rigidi, sporchi. Come un gatto malato senza rimedio, lui non curava più la propria persona. «Troppe carogne. Sto diventando come loro.» «Quante volte ne abbiamo parlato?» chiese Lucas. «Un centinaio», rispose Del. Stava per dire di più, ma furono interrotti da uno scoppio di esclamazioni dal fondo e da una voce maschile che gridava: «Hai visto il volo di quel negraccio?» Una delle puttane nere sollevò la testa, lanciò un'occhiata ostile, ma tornò a guardare la rivista senza dire nulla.
Del fece un cenno al barista. «Un paio di birre», gridò. Il barista annuì e Lucas disse: «Pensi che Randy non venga?» «È in ritardo», rispose Del. «E se continuo a bere Coca Cola mi servirà un trapianto di vescica.» Arrivarono le birre e Del disse: «Hai sentito dell'assassinio di ieri notte? La donna sulla collina? Maciullata in casa?» Lucas assentì. Era questo che Del aveva rimuginato. «Sì. L'ho visto al telegiornale. E ne parlavano in ufficio.» «Era mia cugina», disse Del, chiudendo gli occhi. Lasciò andare la testa all'indietro, come sopraffatto dalla stanchezza. «Eravamo cresciuti insieme, passavamo il tempo sul fiume. Le sue furono le prime tette che vidi, nella vita reale.» «Tua cugina?» Lucas esaminò il compagno. Per una sorta di autodifesa i poliziotti scherzavano sulla morte. Più questa era grottesca, più si prestava alla battuta spiritosa; ma occorreva frenare la lingua quando moriva il parente di un amico. «Andavamo insieme a pescare le carpe, ci crederesti?» Del si spostò per appoggiare la schiena contro la cassetta dei fiori. Pensava al passato. La sua faccia non rasata, immusonita e solenne, pareva una vecchia foto di James Longstreet dopo la disfatta di Gettysburg, pensò Lucas. «Giù alla diga, a un paio di isolati dalla tua abitazione. Rami d'albero usati come canne da pesca. Cordoncino di nailon con palline di mollica per esca. Lei scivolò dalla roccia, sul muschio, e che tuffo fece...» «Doveva stare attenta.» «Aveva, che so, quindici anni e portava una maglietta senza reggiseno», disse Del. «Le si era incollata alla pelle. Le dissi: 'Be', così vedo tutto, puoi anche toglierla'. Stavo scherzando, ma lei se la tolse davvero. Aveva le tette del colore della rosa canina, sai? Un bel rosa chiaro. Mi rimase duro per due mesi. Si chiamava Stephanie.» Lucas indugiò nel parlare, osservando la faccia del compagno. «Non te ne stai occupando?» «No. Non sono tagliato per quella roba, per fare congetture», disse Del. Allargò le mani in un gesto d'impotenza. «Ho passato la giornata con i miei zii. Sono tutti incasinati. Non capiscono perché io non possa fare qualcosa.» «Che cosa vogliono da te?» chiese Lucas. «Che arresti il marito. È un dottore all'università, un patologo», disse Del. Mandò giù un po' di birra. «Michael Bekker.»
«Stephanie Bekker?» domandò Lucas, corrugando la fronte. «Il nome non mi suona nuovo.» «Infatti. Andava in giro a far politica. Forse l'hai anche incontrata: due anni fa era nel gruppo di studio per il Civilian Review Board. Ma il fatto è che quando lei è stata uccisa, suo marito era a San Francisco.» «Quindi non c'entra», disse Lucas. «A meno che non l'abbia commissionato.» Del spinse il busto in avanti, riaprì gli occhi. «Quell'alibi è un po' troppo perfetto. Personalmente ritengo che lui abbia qualche rotella fuori posto.» «Che vuoi dire?» «Bekker ha del marcio. Non sono sicuro che l'abbia uccisa, ma potrebbe averlo fatto», disse Del. Un tizio in maglietta si precipitò al banco con una manciata di banconote, le sbatté sul piano e disse: «I conti dopo», e tornò di corsa davanti alla TV con tre birre. «Avrebbe un movente?» chiese Lucas. Del si strinse nelle spalle «Il solito. Denaro. Si considera migliore degli altri e non capisce perché è povero.» «Povero? È un dottore...» «Sta' a sentire. È un dottore e dovrebbe essere ricco, ma lui lavora all'università per settanta, ottantamila dollari. È patologo e non c'è molta richiesta di esami patologici nel mondo civile.» «Humm.» Sul marciapiede, oltre il vetro a specchio, una coppia sotto un ombrello rallentò il passo e, credendosi non vista, accese uno spinello. La donna aveva una minigonna bianca e una giacca di pelle nera. La Porsche di Lucas era parcheggiata lungo il marciapiede e i due, passandovi accanto, si fermarono a guardarla; l'uomo offrì lo spinello a lei che tirò qualche boccata, socchiuse gli occhi e lo ripassò al compagno. «L'ho sentito dire in ufficio... c'era un tizio con lei? Con tua cugina?» «Non sappiamo come stiano le cose», ammise Del, rabbuiandosi. «Qualcuno era con lei. Avevano fatto l'amore, lo sappiamo dal referto medico, e non è stato stupro. E un tizio ci ha telefonato, denunciando l'omicidio.» «Una lite fra amanti?» «Direi di no. Il killer deve essere entrato dal retro, l'ha uccisa ed è uscito dalla stessa parte. Lei stava rigovernando al lavello, c'era ancora schiuma nell'acqua quando gli agenti sono arrivati, e lei ne aveva un po' sulle mani. Niente tracce di lotta, di resistenza. Lavava i piatti, e pah.» «Non sembrerebbe una lite fra amanti.»
«No. E il poliziotto giunto sulla scena del delitto si è chiesto come ha fatto il killer ad arrivarle alle spalle, supponendo che non sia stato l'amante, senza che lei lo sentisse. Hanno controllato la porta e scoperto che i cardini erano stati oliati di recente. Nelle ultime due settimane, probabilmente.» «Ah, Bekker.» «Già, ma non è molto.» Lucas rifletté. Uno scroscio improvviso di pioggia colpì la finestra, ma poco dopo cessò. Passò una donna con un ombrello rosso da golf. «Senti», disse Del. «Non sto qui a raccontar balle... Speravo che te ne occupassi tu.» «Ah, odio i delitti. E non ingrano tanto bene...» Lucas fece un gesto sconsolato. «Questa è un'altra cosa. Hai bisogno di un caso interessante», disse Del, puntandogli l'indice davanti alla faccia. «Sei più imbranato di me, e io sono un maledetto rottame.» «Grazie.» Lucas era sul punto di fargli un'altra domanda, ma due figure stavano passando davanti alla finestra. Una era una nera dalla pelle molto chiara con un impermeabile beige e cappello di cotone a tesa larga dello stesso colore. L'altro era un ragazzo bianco, alto e cadaverico, con un cappello da alpino ornato da una piccola penna. Lucas si raddrizzò. «Randy.» Del guardò fuori, poi allungò la mano e strinse il braccio del compagno. «Vacci piano, d'accordo?» «Era la mia migliore informatrice», replicò Lucas con voce rauca. «Era quasi un'amica.» «Cazzate. Vacci piano.» «Lascia che entri e venga avanti. Muoviti per primo, coprimi, lui conosce la mia faccia.» Randy entrò tenendo le mani nelle tasche. Si fermò un attimo, ma nessuno badò a lui. A dodici minuti dalla fine della partita, i Celtics erano in svantaggio di un punto, con un giocatore sulla linea dei tre punti. A eccezione della puttana ubriaca e del vecchio chiuso nella sua rabbia, tutti gli altri stavano incollati alla TV. La donna entrò dopo Randy e chiuse la porta. Lucas emerse dal séparé dietro a Del. Bella pupa, pensò sbirciandola da sopra la spalla di Del prima di riabbassare il capo. Perché si è messa con un fetente come Randy?
Randy Whitcomb aveva diciassette anni ed era un pappone, con pistola, coltello e talvolta un bastone di prugnolo con pomo d'oro. Aveva un viso lungo e lentigginoso, capelli rossi ruvidi e due denti anteriori storti. Si scosse come un cane, spruzzando acqua dal suo cappotto di tweed. Era troppo giovane per quel tipo d'indumento, oltre che troppo smilzo e pazzoide. Avanzò lungo il banco, verso la donna ubriaca, e si fermò in posa, aspettando di essere visto. Lei non alzò la testa fino a quando l'apriscatole con punta a triangolo, che Randy aveva cavato dalla tasca, non scivolò sul banco, andando a colpire il suo mucchietto di monete. «Marie», disse Randy con voce melodiosa. Il barista colse il tono e lo guardò. Del e Lucas si stavano avvicinando, ma Randy non se ne accorse. Fissava Marie con occhi di fuoco. «Marie, tesoruccio», mormorò dolcemente, «ho sentito dire che hai chiacchierato con i piedipiatti...» Marie cercò di scendere dallo sgabello, mentre ruotava gli occhi agitati in cerca di Lucas. Lo sgabello si ribaltò e lei, traballante, tese le mani per aggrapparsi al banco. Randy stava quasi per raggiungerla, ma Lucas era alle sue spalle. Gli mise una mano sulla schiena e lo spinse con forza contro il banco. Il barista vociò: «Ehi!» E Del mostrò la tessera mentre la donna cadeva sul pavimento e il suo bicchiere andava in frantumi. «Polizia. Tutti fermi», gridò Del. Dalla fondina al fianco estrasse un revolver a canna corta e lo tenne in posizione verticale davanti alla propria faccia, in modo che ognuno lo vedesse. «Randy Ernest Whitcomb, carogna», esordì Lucas, spingendo il giovane a metà schiena mentre agganciava il piede alle sue caviglie. «Sei in...» Tenendo Randy piegato in avanti e con i piedi indietro, un braccio immobilizzato, Lucas cercò le manette in tasca. Ma Randy urlò: «No», e con un colpo di reni si buttò sul banco. Lucas cercò di afferragli una gamba, ma Randy scalciò, si dimenò. Un piede colpì di lato la faccia di Lucas, un colpo di striscio ma sufficiente a fargli male e a spingerlo indietro. Randy atterrò dall'altra parte del banco, camminò carponi fino in fondo al bar e afferrò una bottiglia di vodka con cui tentò di colpire in testa Del. Poi fuggì verso il retrobottega, inseguito da Lucas a quattro passi di distanza. La porta di servizio era sprangata. Randy la tempestò di colpi, poi fece una piroetta, lo sguardo spiritato, e agitò un arpione. Andavano di moda tra i delinquenti. Infilati nel taschino della camicia sembravano pen-
ne a sfera. Tolto il cappuccio erano bisturi d'acciaio di quindici centimetri con la punta affilatissima. «Fatti avanti, sbirro di merda», urlò Randy, sputando verso di lui. I suoi occhi erano dilatati, la voce acuta. «Vieni, fetente, beccati un taglio.» «Metti giù la lama», intimò Del, puntandogli la pistola alla testa. Lucas, sbirciando il compagno, sentì allentare la tensione. Il grasso barista era rimasto dietro il banco e si tappava le orecchie come se questo bastasse a bloccare lo scontro. Marie, rimessasi in piedi, si guardava il palmo della mano sanguinante e strillava; i due cowboy si erano scostati dal videogame e uno, il cui pomo d'Adamo andava su e giù, palpava il coltello appeso alla cintola. «Vaffanculo, sbirro, ammazzami», strillò Randy, muovendo un passo strascicato di lato. «Sono minorenne, bastardi.» «Metti giù la lama, Randy», ripeté Del. Guardò in tralice Lucas. «Che cosa vuoi fare, amico?» «Lascia che lo prenda io», rispose Lucas, e segnalò: «Il cowboy ha un coltello». Mentre Del si voltava, Lucas affrontò Randy con sguardo deciso e gli chiese: «Ti piace scopare, Randy?» «Sono un asso», si vantò il giovane. Ansimava, aveva la lingua fuori. Un pazzo. «Scopo roba di prim'ordine.» «Allora spero che tu abbia buona memoria perché t'infilerò quella punta nei testicoli. Hai fregato Betty con quell'apriscatole. Era una mia amica. Ti stavo cercando da un po'.» «Bene, mi hai preso, Davenport fottuto, vieni a farti incidere», gridò Randy. Teneva una mano al fianco, come aveva imparato al riformatorio, e l'altra armata un po' indietro. Regola del poliziotto, dettata dalla pratica: se un malvivente arriva a tre metri da te con un coltello, sarai ferito, anche se hai la pistola, anche se spari. «Calmo, calmo», gridò Del, guardando il cowboy. «Dov'è la donna? Dov'è?» chiese Lucas, mentre a braccia allargate stava nella posa del lottatore davanti a Randy. «È alla porta.» «Prendila.» «Mah...» «Fermala. Io provvederò a questo stronzo.» Lucas si fece sotto, con una finta di destro, schivò la mano sinistra di Randy, e quando la destra con l'arpione roteò, gli acchiappò la manica, strattonò e gli mollò una sventola di destro in faccia. Randy urtò contro la
parete, tentò comunque una coltellata, e Lucas gli sferrò un pugno in faccia. «Lucas!» gridò Del. Ma l'azione ormai era inarrestabile... la testa del giovane rimbalzava dal muro, Lucas usava braccia, ginocchio, gomito, in una sequenza di colpi e di combinazioni, uno-due-tre, uno-due, uno-due-tre, come in un esercizio di velocità... l'arpione cadde, schizzò lontano. D'un tratto Lucas barcollò all'indietro; tentò di girarsi e non poté. Il braccio di Del attorno al suo collo lo tirava. Tornò nel mondo reale. La gente nel bar stava in attonito silenzio, tutti in piedi, facce come francobolli su una busta senza indirizzo. La partita di pallacanestro continuava, la TV diffondeva grida e applausi attutiti. «Gesù», disse Del, risucchiando l'aria. «Pensavo che ti avesse colpito con quella lama. State tutti lontani da quell'arnese, ci servono le impronte. Chi lo tocca finisce al fresco.» Aveva ancora una mano sul colletto di Lucas. L'altro disse: «Sto bene, amico». «Veramente?» Del lo guardò e le sue labbra formarono una parola: testimoni. Lucas annuì e Del disse ad alta voce: «Non ti ha ferito?» «Mi sembra di no.» «Hai rischiato grosso», disse Del, sempre a voce alta. «Il ragazzo è pazzo. Avete visto come si scatena con quel coltello? Mai visto nulla di simile.» Imbeccava i testimoni, pensò Lucas. Cercò Randy con gli occhi. Era immobile sul pavimento, il viso una maschera di sangue. «Dov'è la sua ragazza?» domandò Lucas. «Fregatene», rispose Del. Si avvicinò a Randy, tenendo d'occhio Lucas, si accosciò e gli mise le manette. «Lo sapevo che ti avremmo incastrato, coglione.» Una delle puttane, con addosso l'impermeabile rosso e pronta ad andarsene, abbassò lentamente lo sguardo su Randy e nel silenzio generale disse con l'accento cantilenante di Kansas City: «Dovreste chiamare l'ambulanza. Quel fetente è ferito». 3 Bekker aveva una doppia personalità. Uno era il Bekker di tutti i giorni, l'uomo di scienza, l'uomo in camice
bianco che operava dissezioni nella centrifuga ad alta velocità e usava il bisturi. L'altro era Beauty. Beauty era felicità. Beauty era luce. Beauty era danza. Beauty era le anfetamine destrogire, i confetti arancione a forma di cuore e le capsule metà nere e metà chiare. Beauty era le pastiglie bianche di metanfetamina cloridrato, le nere lucide di anfetamina e le nere e verdi di fendimetrazina tartrato. Tutte legali. Beauty era soprattutto le illegali, le anonime pillole di MDMA chiamate ecstasy, e i quadratini forati di carta assorbente con sopra i segni dello zodiaco, ognuno dei quali conteneva una goccia di LSD, e la cocaina. Beauty era steroidi anabolici per il corpo e ormoni di crescita sintetici per combattere l'invecchiamento. Il Bekker di ogni giorno era depresso e accigliato. Bekker era capsule rosse di codeina, il Dilaudid. Le benzodiazepine gli calmavano l'ansia: Xana, Librium, Clonopin, Tranxene, Valium, e altre. Il molindone per le turbe psichiche. Tutte legali. E le illegali. Le pastiglie bianche di metaqualone che arrivavano dall'Europa. Sopratuttto la fenciclidina, o più brevemente PCP. La potenza. Un tempo Bekker usava un elegante portapillole d'oro per le sue medicine, ma poi non gli bastò più. In un negozio di antiquariato di Minneapolis comprò un portasigarette d'ottone stile Art Déco che foderò di velluto. Poteva contenere cento pastiglie. Cibo per entrambi, Bekker e Beauty. Beauty aveva lo sguardo fisso nel portasigarette e riviveva la mattinata. Come Bekker, era andato all'impresa di pompe funebri e aveva chiesto di vedere sua moglie. «Dottor Bekker, veramente, le condizioni...» L'impresario era nervoso, sulla sua faccia si alternavano il finto zelo e la vera preoccupazione, un velo di sudore gli bagnava la fronte. La signora Bekker non era stata uno dei suoi capolavori. Non voleva che il marito vomitasse sul tappeto. «Perdio, voglio vederla», tuonò Bekker. «Ecco, devo avvertirla...» L'impresario gesticolava.
Bekker gli rivolse un'occhiata fredda, da furetto. «Sono un patologo. So che cosa vedrò.» «Be', se lo dice lei...» Nella bara di bronzo Stephanie era adagiata su un'imbottitura di raso arancione con gale. Sorrideva appena e aveva le guance rosate. La parte superiore del viso, dall'attaccatura del naso in su, pareva una foto sfocata. Tutta cera modellata, trucco e tinta, e nulla di giusto. Gli occhi erano chiaramente mancanti. L'avevano ricomposta come meglio avevano potuto, considerando le condizioni. «Mio Dio», disse Bekker tendendo la mano verso la bara. Un'ondata di esultanza lo pervase. Si era liberato di lei. L'aveva odiata per tanto tempo, con tutto quello che era suo: mobilia pregiata, tappeti orientali, dipinti antichi in imponenti cornici, calamai, ampolle, barattoli per conserve di frutta e vasi di Quimper, bottiglie sbilenche pescate in vecchie capanne rurali. Lei toccava, accarezzava, lustrava, spostava, vendeva quelle cose. I suoi occhietti le guardavano con amore... E ne parlava in continuazione, con amici antiquari dai gesti molli, tutti seduti su sedie traballanti con tazze di tè in mano: Mogano con gambe rivestite di giunco, cuoio a disegni dorati, ma è quasi invisibile sotto l'orribile lucidatura che lei ha fatto, evidentemente non conosceva il valore dell'oggetto, o non gliene importava. Sono stata là a vedere un tavolino da tè del Settecento inglese che lei aveva descritto come magnifico, ma l'ho trovato molto scalcinato... E ora era morta. Corrugò la fronte. Difficile credere che lei avesse avuto un amante. Uno di quei rammolliti dal viso pallido che parlavano di teiere e di bergères... inconcepibile. Che cosa facevano a letto? Chiacchieravano? «Dottore, ho l'impressione...» L'impresario gli mise la mano sul braccio per sostenerlo; non aveva capito. «Sto bene», disse Bekker, accettando quel gesto di conforto con un delizioso senso d'inganno. Si trattenne un altro minuto. Era una visione che non voleva scordare. Michael Bekker era bello. Testa larga, folti capelli biondi ben curati che ornavano orecchie piccole e perfette. La fronte era ampia e liscia, le sopracciglia chiare, due virgole sopra occhi incavati d'un azzurro splendido. Aveva un accenno di zampe di gallina, ma gli conferivano un ineffabile
tocco di mascolinità in più. Il naso era sottile con narici piccole, quasi delicate. Il mento quadrato aveva la fossetta, e la carnagione era di un pallore sano. La bocca era larga e mobile con denti regolari e bianchi. A differenza della faccia quasi perfetta, da attore del cinema, il corpo era appena passabile. Spalle troppo strette, fianchi troppo larghi. E gambe un tantino corte. I difetti lo avevano spronato a trovarvi rimedio. E c'era quasi arrivato. Si esercitava quattro sere la settimana: mezz'ora al vogatore, un'ora di ginnastica con i pesi. Gambe e tronco una sera, braccia e spalle la seguente. Un giorno di riposo e altri due di ginnastica, poi la pausa di fine settimana. E le pillole, naturalmente, gli steroidi anabolici. A Bekker non interessava la forza fisica, quella era un di più. Gli premeva la forma del corpo. L'esercizio fisico gli allargava le spalle e gli irrobustiva il torace. Poco c'era da fare per i fianchi larghi, ma le spalle più ampie equilibravano la linea. Le gambe... ahimè, non potevano essere allungate, ma a New York aveva trovato un negozietto in Madison Avenue dove facevano bellissimi stivaletti di vitello con rialzi invisibili. Ci guadagnava due centimetri e mezzo che lo facevano sentire quasi uno scandinavo. Bekker sospirò e si scoprì a guardare la propria immagine nello specchio del bagno. I suoi piedi nudi sentivano il freddo delle piastrelle. Ancora un vuoto di coscienza. Per quanto tempo? Consultò l'orologio al polso con una punta di panico. L'una e cinque. Quindici minuti andati. Questo doveva controllarlo. Aveva preso due metobarbital per eliminare la tensione nervosa, e lo avevano portato fuori dal mondo. Non avrebbero dovuto, ma la cosa gli capitava sempre più spesso. Fece uno sforzo di volontà per andare sotto la doccia, aprì l'acqua fredda e trattenne il fiato quando gli investì il torace. Tenne gli occhi chiusi, s'insaponò, si lavò. Aveva tempo? Sicuro, lo aveva sempre per questo. Si spalmò degli emollienti sul viso, si passò il dopobarba sulla mascella, acqua di colonia sul torace, dietro le orecchie e sotto le palle, spruzzò talco sul petto, le ascelle, nel solco delle natiche. Quando ebbe finito, si guardò di nuovo allo specchio. Il naso sembrava infiammato. Valutò se usare un leggero trucco, ma poi vi rinunciò. Non doveva apparire in forma smagliante. Andava a seppellire Stephanie e la
polizia sarebbe stata presente. Gli investigatori erano puntigliosi: il maledetto padre di Stephanie e il cugino poliziotto sussurravano paroline nelle loro orecchie. Non che l'indagine lo preoccupasse più di tanto. Aveva odiato Stephanie e alcune sue amiche lo sapevano. Ma era a San Francisco quella sera. Sorrise allo specchio, non fu soddisfatto e tornò serio. Provò una mezza dozzina di altre espressioni più appropriate al funerale. Ma per quanto facesse, la sua faccia restava bella. Tutto fatto? No, sui capelli aggiunse del gel al profumo di lillà e li spazzolò leggermente. Soddisfatto, andò all'armadio e guardò i vestiti. Quello blu, pensò. Quentin Daniel pareva un macellaio con l'abito della festa. Un buon macellaio tedesco a una prima comunione. Con quella faccia rossa e rugosa, un principio di doppio mento, il colletto bianco inamidato che gli segava il collo, i rotoli di grasso alla nuca, sarebbe stato bene a pesare costolette d'agnello sulla bilancia di acciaio inossidabile. Finché non gli si guardavano gli occhi. Li aveva da gesuita irlandese, celesti, imperiosi. Era un poliziotto quantomeno con il cervello: aveva smesso di portare la pistola anni prima, quando si era comprato i primi abiti di sartoria. Invece portava gli occhiali. Usava i bifocali cerchiati d'oro di stile militare quando trattava con la truppa, un altro paio con montatura di tartaruga quando leggeva sullo schermo del computer, e le lenti a contatto azzurre per le apparizioni in TV. Niente pistola. Lucas spinse la pesante porta di quercia ed entrò con passo lento nell'ufficio di Daniel. Indossava lo stesso giubbotto della sera prima, ma si era fatto la barba e cambiato camicia, pantaloni e scarpe. «Mi hai chiamato?» Daniel aveva gli occhiali da computer. Sollevò la testa, strizzò gli occhi come se non riconoscesse il visitatore, sostituì gli occhiali con quelli bifocali e indicò a Lucas di sedersi. La sua faccia era più rossa del solito, pensò Lucas. «Conosci Marty McKenzie?» domandò Daniel con calma, le mani piatte sul sottomano di panno verde. «Sì», confermò Lucas sedendosi. Accavallò le gambe. «Ha lo studio nel Claymore Building. Un pidocchioso.»
«D'accordo», convenne Daniel. Congiunse le mani sul ventre e guardò il soffitto. «Stamane, per prima cosa, sono stato qui a sorridere per mezz'ora mentre il pidocchioso se la prendeva con me. Indovini perché?» «Randy.» «Perché aveva un cliente sotto stretta sorveglianza al Hennepin General Hospital, massacrato di botte da uno dei miei agenti. Dopo che il pidocchioso se n'è andato, ho chiamato l'ospedale e ho parlato con un medico.» Daniel aprì un cassetto della scrivania e tirò fuori un bloc-notes. «Costole rotte. Naso rotto. Denti rotti. Possibile incrinatura dello sterno. Sotto esame per trauma toracico chiuso.» Sbatté il blocco sulla scrivania con un colpo che pareva di una calibro 22. «Perdio, Davenport...» «Mi ha minacciato con un arpione», disse Lucas. «Ha cercato di colpirmi. Ecco qui.» Mostrò la parte anteriore del giubbotto di pelle dove era evidente il lungo taglio. «Non dirmi stronzate», replicò Daniel, ignorando il taglio. «Gli spioni dei Servizi segreti sapevano da una settimana che lo stavi cercando. Tu e i tuoi amici. Gli davi la caccia da quando quella puttana è stata sfregiata. Ieri sera lo hai trovato e gli hai fatto sputare l'anima con le botte.» «Veramente...» «Chiudi il becco», disse Daniel irato. «Una spiegazione sarebbe stupida. Tu lo sai, io lo so, quindi a che pro?» Lucas si strinse nelle spalle. «Va bene.» «Il corpo di polizia non è una maledetta banda di teppisti», disse Daniel. «Non puoi fare queste cazzate. Ci siamo tirati addosso dei guai e potrebbero essere guai seri.» «Per esempio?» «McKenzie è andato agli Affari interni prima di venire qui, quindi ci sono di mezzo anche loro e non posso togliermeli dai piedi. Vorranno una deposizione. Ammetto che Randy sia una carogna, ma tecnicamente è un minorenne: gli è stata già assegnata un'assistente sociale che si è incavolata per come il ragazzo è stato pestato. Non vuole sentir parlare di aggressione a un poliziotto.» «Potremmo mandarle qualche foto della donna sfregiata da lui.» «Sì, sì, lo faremo. Forse cambierà opinione. La tua giacca con il taglio servirà, e stiamo raccogliendo dichiarazioni dei testimoni. Ma non so... se non ci fosse stato il taglio avrei dovuto sospenderti», disse Daniel. Si massaggiò la fronte con la base della mano come per detergersi il sudore, poi
roteò sulla poltrona girevole e guardò fuori della finestra, voltando le spalle a Lucas. «Mi preoccupi, Davenport. E preoccupi anche i tuoi amici. Ho fatto venire qui Sloan. Mentiva spudoratamente per proteggere le tue chiappe, poi gli ho detto di piantarla. Allora abbiamo fatto una chiacchieratina.» «Al diavolo Sloan», sbottò Lucas. «Non ho bisogno di lui.» «Lucas...» Daniel si girò a guardarlo, e il suo tono passò dalla collera all'interessamento. «È tuo amico e dovresti apprezzarlo, perché hai bisogno di averne tanti. Dunque, sei stato da uno strizzacervelli?» «No.» «Loro hanno pillole per il tuo problema. Non curano nulla, ma danno qualche sollievo. Credimi, perché io ci sono stato. Sei anni fa. E vivo con la paura che un giorno potrei tornarci.» «Non lo sapevo.» «Non è una cosa che si racconta in giro, se si è in politica», disse Daniel. «Altrimenti la gente pensa di avere un pazzo come capo della polizia. Comunque il tuo problema si chiama 'depressione unipolare'.» «Ho letto i libri», replicò Lucas. «E non intendo andare da uno strizzacervelli.» Si alzò dalla poltrona e passeggiò nella stanza, guardando le facce di dozzine di politici le cui foto ornavano le pareti. Per lo più tratte da giornali e riprodotte appositamente su richiesta del capo, tutte in bianco e nero. Vi erano soltanto due macchie di colore sulle pareti tradizionalmente gialle. Una era un tessuto Hmong in cornice con una targhetta di ottone che diceva: «A Quentin Daniel dagli amici Hmong, 1989». La seconda era un calendario con il dipinto di un vaso di fiori a tinte vivaci. Lucas si fermò davanti al calendario e lo studiò. Daniel lo osservò un attimo, sospirò e disse: «Forse a te non serve uno strizzacervelli... non sono la soluzione per tutti. Però ti dico questo da amico: sei sull'orlo del precipizio. L'ho conosciuto e ne vedo i sintomi. Sei fottuto. Sloan è d'accordo. E anche Del. Devi rimetterti in carreggiata prima di rovinare te stesso o altri». «Potrei andarmene», buttò là Lucas, tornando alla scrivania. «Prendere un permesso.» «Non sarebbe il toccasana», disse Daniel, scuotendo il capo. «Chi ha guai nella testa ha bisogno di stare in mezzo agli amici. Vorrei proporti una cosa. Se sbaglio, dimmelo.» «D'accordo.»
«Desidero che ti occupi del delitto Bekker. Continua la tua attività, ma concentrati su questo caso. Ti occorre compagnia, Lucas. Ti occorre il lavoro di squadra. E io ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano in questo maledetto assassinio. La famiglia della vittima gode di un certo prestigio e i giornali danno risalto al fatto.» Lucas inclinò il capo, soppesando la proposta. «Del me ne ha accennato ieri sera. Gli ho detto che forse avrei collaborato.» «Fallo», lo spronò Daniel. Lucas si alzò, e Daniel si cambiò gli occhiali, tornando a occuparsi delle informazioni sullo schermo del computer. «Da quanto non fai più servizio sulle strade?» gli chiese Lucas. Daniel guardò lui, poi il soffitto. «Ventun anni», rispose infine. «Le cose sono cambiate», lo informò Lucas. «La gente non crede più nel bene e nel male; quelli che ci credono li releghiamo fra i pazzoidi. La realtà è cupidigia. Oggi credono nel denaro, nel potere, nella bella vita e nella cocaina. Per i cattivi in circolazione noi siamo una banda di violenti. Loro comprendono l'idea. Nel momento in cui non saremo più una minaccia, quelli ci assalteranno come topi.» «Gesù.» «Sta' a sentire», continuò Lucas. «Non sono stupido. E forse non penso, in teoria almeno, di potermela cavare per quello che ho fatto ieri sera. Ma certe cose devono essere fatte da qualcuno. Il sistema legale ha bravi giudici e pubblici ministeri duri e ciò non significa un tubo... è un gioco che non ha a che vedere con la giustizia. Quello che ho fatto io era giustizia. La gente questo lo capisce. Non ho fatto né troppo né troppo poco. Ho fatto il giusto.» Daniel lo guardò a lungo e poi disse seriamente: «Non ti do torto. Ma non rifarlo». Sloan stava appoggiato alla porta di metallo dell'ufficio di Lucas nel seminterrato; sfogliava un giornale trovato per caso, e fumava. Era un uomo magro dalla faccia volpina e con i denti macchiati di nicotina. Il feltro marrone era calato sugli occhi. «Hai sparso di nuovo letame», gli disse Lucas, mentre percorreva il corridoio. Si sentiva la testa piena di bambagia, ogni pensiero aggrovigliato in una massa di fili lanuginosi. Sloan si staccò dalla porta, lasciando che Lucas l'aprisse con la chiave. «Daniel non è un allocco. E non era letame. Allora ci stai? Lavori al caso Bekker?»
«Devo pensarci.» «Il funerale della donna è nel pomeriggio», lo informò Sloan. «Dovresti andarci. E ti dico una cosa: sto tenendo d'occhio quel Bekker. Abbiamo a che fare con un tipo freddo come il ghiaccio.» «Dici davvero?» Lucas spinse il battente ed entrò. Il suo ufficio era stato ricavato dal ripostiglio del custode. Conteneva due sedie, scrivania di legno, classificatore, gettacarte di metallo, un antiquato attaccapanni di quercia, un computer IBM e il telefono. La stampante era su un tavolino di metallo, pronta a sfornare numeri telefonici trasmessi da una penna ottica. Una macchia sulla parete indicava la costante infiltrazione di liquido sospetto. Del aveva segnalato che al piano di sopra, più o meno in quel punto, c'era il gabinetto delle donne. «Sì, dico sul serio», confermò Sloan. Si calò sulla sedia dei visitatori e buttò i piedi sul bordo della scrivania, mentre Lucas appendeva il giubbotto. «Ho letto le informazioni sul suo passato, e risulta che Bekker fu assegnato alla Criminal Investigation Division a Saigon durante la guerra in Vietnam. Ho pensato che fosse una specie di poliziotto, così ho parlato con Anderson, lui ha chiamato certi suoi amici a Washington che lavoravano ai computer e abbiamo avuto il suo stato di servizio. Non era un poliziotto, ma un medico legale. Faceva autopsie in casi criminali che coinvolgevano militari americani. Ho rintracciato il suo vecchio comandante, un certo Wilson. Si ricordava di Bekker. Mi sono qualificato e lui ha detto: 'Che cosa è successo, il figlio di puttana ha ucciso qualcuno?'» «Non gli hai messo la pulce nell'orecchio?» chiese Lucas, sedendosi alla scrivania. «No. Quelle sono state le prime parole uscite dalla sua bocca. Wilson ha detto che Bekker era chiamato 'Dottor Morte', immagino che gli piacesse un po' troppo il suo lavoro. E gli piacevano le puttane. Wilson ha detto che lui godeva fama di riempirle di botte.» «Fino a che punto?» Sloan scosse il capo. «Non so. Quella era la sua fama... Wilson ha detto che un paio di puttane furono uccise quando Bekker era là, ma nessuno ipotizzò mai che fosse stato lui. I poliziotti indagarono fra i soldati americani. Non trovarono un colpevole, ma non s'impegnarono troppo a fondo. Wilson ha detto che il luogo era frequentato da disertori, soldati in permesso e in licenza, insomma un andirivieni di gente. Un caso impossibile. Ma ricorda che in ufficio parlarono delle uccisioni e che Bekker era... spettrale. Si occupò delle autopsie, naturalmente. Wilson non ricorda se le eseguì lui
stesso o un medico vietnamita. Ma dopo Bekker sembrò soddisfatto.» «Huh.» La stampante ruttò un numero. Lucas vi buttò un'occhiata, riportò l'attenzione su Sloan. «Bekker ha ucciso Stephanie? L'ha fatta uccidere?» Sloan tirò a sé il cestino e schiacciò accuratamente il mozzicone. «È una grossa possibilità, penso», disse lentamente. «Se lo ha fatto, è lontano dal bersaglio, abbiamo controllato l'assicurazione di lei.» «Dieci milioni di dollari?» «No. Stephanie stava avviando un commercio. Vendita di manufatti architettonici per restaurare vecchie dimore. Finestre con vetri istoriati, maniglie antiche, e cose del genere. Un commercialista le disse che avrebbe risparmiato facendo l'assicurazione personale tramite la ditta. Così lei e il marito sostituirono la vecchia assicurazione sulla vita con una nuova. In caso di morte violenta non accidentale, assassinio o suicidio, la polizza esclude il pagamento per i primi due anni.» «Allora...» «Allora lei non era assicurata», disse Sloan. «Da quella parte Bekker non incassa niente. Un mese fa lei aveva centomila dollari e li ha avuti per poco.» Lucas contrasse gli occhi. «Se un avvocato della difesa portasse questo in tribunale...» «Sì», disse Sloan. «Sarebbe un buco nell'acqua in un processo indiziario.» «E lui ha un alibi.» «Solido. Era a San Francisco.» «Gesù, io stesso lo dichiarerei non colpevole, sapendo tutto questo.» «Perciò abbiamo bisogno di te. Se dietro il delitto c'è lui, ha dovuto ingaggiare un killer. Ce ne sono tanti nelle città disposti a farlo. Probabilmente in gran parte li conosci. Altrimenti li conoscono i tuoi collaboratori. Deve esserci stato un grosso pagamento. Forse qualcuno dispone di troppo denaro all'improvviso.» Lucas annuì. «Chiederò in giro. Che mi dici del tizio che se la faceva con la moglie di Bekker?» «Lo stiamo cercando», disse Sloan. «Per ora niente. Ho parlato con la migliore amica di Stephanie e lei aveva avuto il sospetto di qualcosa. Non sa chi sia il tizio, ma ha fabbricato un pettegolezzo.» Lucas sogghignò a quella parola. «Allora fabbricalo per me», disse. Sloan si strinse nelle spalle. «Per quel che può valere, forse Stephanie
scopava con uno psicanalista del vicinato. Lei li aveva visti a chiacchierare insieme ai party, e ha pensato che loro... Ha detto testualmente: 'erano le due metà di una mela'.» «Va bene.» Lucas sbadigliò e si stirò. «La maggior parte dei miei informatori non sarà ancora in giro, ma sonderò il terreno.» «Ti farò una fotocopia del fascicolo.» «Non avere fretta per questo. Non so se me ne occuperò a fondo.» Sloan si stava alzando per andarsene, e Lucas premette il tasto sulla segreteria telefonica. Il nastro si riavvolse e dopo un segnale elettronico una voce disse: «Sono Dave, quello degli accessori d'auto. Ci sono un paio di banditi in città. Ho appena fatto un lavoro alle loro moto. Penso che desideri sentire la storia. Hai il numero». «Farò la fotocopia», disse Sloan sogghignando, «a ogni buon conto.» Uscito Sloan, Lucas stette con un blocco di fogli gialli sulle ginocchia e i piedi sollevati, ascoltando i messaggi e scrivendo i numeri. Ed esaminò il proprio stato. La sua testa non funzionava a dovere. Da mesi. Ma adesso, pensò, stava cambiando qualcosa. Una piccolissima attenuazione della tempesta. Aveva perso la sua donna e la figlia. Se ne erano andate, una storia semplice e al tempo stesso complicata. Lui non l'accettava, eppure doveva accettarla. Si compiangeva ed era stufo di compiangersi. Recepiva la sollecitudine degli amici e ne era scocciato. Ogni qualvolta cercava di evadere, e lavorava due o tre giorni fino all'esaurimento, i pensieri tornavano sempre subdolamente. Se io avessi fatto una cosa, lei ne avrebbe fatto un'altra, e poi tutti e due avremmo dovuto farne una terza, e poi, e poi. Ci pensava e ripensava ma alla fine rimaneva solo cenere. Tante volte aveva detto a se stesso che il passato era passato, ma non riusciva a non pensarci. E per questo si disprezzava sempre di più. E ora Bekker. Una fiammella. Un interesse. Notò il primo stimolo. Bekker. Si passò la mano nei capelli; il germoglio d'interesse crebbe. Sul foglio scrisse: 1. Elle 2. Funerale Come puoi perdere con una lista di due cose da fare? Anche quando — Come si chiamava? Depressione unipolare? — anche quando la depressio-
ne unipolare ti prende per le palle, due cose le puoi fare. Lucas prese il telefono e chiamò un convento. Suor Mary Josepha stava parlando con una studentessa quando Lucas arrivò. L'uscio era socchiuso e da dove era seduto vide il lato sinistro del suo viso butterato. Elle Kruger era stata la più bella della sua classe. Dopo, quando Lucas aveva cambiato scuola, lei era stata rovinata dall'acne. Ricordava l'impressione che aveva ricevuto rivendendola dopo anni a un torneo di hockey su ghiaccio fra squadre di studenti. Lei era sulle gradinate, lui giocava. La bella bionda dei suoi sogni di bambino non esisteva più. La ragazza aveva scoperto in sé la vocazione religiosa, gli aveva detto quella sera, ma Lucas non ne fu mai convinto. Ora indossava l'abito tradizionale con la corona del rosario appesa alla vita. La studentessa rise e si alzò, e la sua sagoma s'intravide dal vetro fumé della porta. Anche Elle si alzò, e la ragazza passò davanti a Lucas, guardandolo con aperta curiosità. Lui aspettò che uscisse prima di andare nell'ufficio di Elle. Là si sedette e incrociò le gambe. Elle lo scrutò e disse: «Come stai?» «Non male.» Si strinse nelle spalle, sogghignò. «Speravo che potessi darmi un nome all'università. Un dottore, qualcuno che conosca un tale di Patologia. Niente di ufficiale. Uno che sappia tenere la bocca chiusa.» «Webster Prentice», disse pronta Elle. «Lui è a Psicologia, ma lavora all'ospedale e ha rapporti con i medici. Vuoi il suo numero di telefono?» Lucas disse di sì. Mentre sfogliava la sua rubrica, Elle gli chiese: «Come ti senti veramente?» Lui fece un'alzata di spalle. «Più o meno lo stesso.» «Vedi tua figlia?» «Ogni due sabati, ma è sgradevole. Jen non mi vuole là e Sarah ha l'età per intuirlo. Forse rinuncio per un po'.» «Non farlo, Lucas», disse decisa Elle. «Non puoi startene tutte le sere là al buio. Ti ucciderà.» «Sì, sì...» «Frequenti una donna?» «Non adesso.» «Dovresti cominciare», disse la suora. «Ristabilire un contatto. E se tornassi ai giochi?» «Non so... Che gioco state facendo?» «Stalingrado. Possiamo sempre far entrare un altro nazista.»
«Si vedrà», rispose Lucas senza impegnarsi. «Come mai vuoi parlare con Webster Prentice? Stai lavorando a un'indagine?» «Una donna è stata uccisa. Massacrata. Do una mano», rispose Lucas. «L'ho letto», disse Elle, annuendo. «Sono contenta che te ne occupi. Ti fa bene.» «Mah, vedrò.» Lei scrisse il numero telefonico su un cartoncino e glielo passò. «Grazie.» Lui fece una mossa per alzarsi. «Siediti», disse lei. «Non te ne andrai di qui tanto facilmente. Dormi?» «Un poco.» «Ma prima devi esaurire le tue forze.» «Sì.» «Alcol?» «Non molto. Delle volte, scotch. Quando sono così spossato che non posso muovermi, ma neppure dormire. Il liquore mi facilita il sonno.» «Ti senti meglio al mattino?» «Il mio corpo sì.» «I Crow ti hanno conciato maluccio», disse Elle. I Crow erano indiani, terroristi o patrioti. Lucas aveva contribuito a ucciderli. La televisione aveva cercato di fare di lui un eroe, ma il caso gli era costato il legame con la sua compagna e la figlia. «Finalmente hai scoperto che si paga un prezzo per vivere come fai tu. E hai scoperto che puoi morire. E può morire tua figlia.» «L'ho sempre saputo.» «Non lo pensavi. E se non si pensa alla cosa, non ci si crede», replicò Elle. «Non mi preoccupa la morte», disse lui. «Ma c'era attaccamento con Jennifer e Sarah.» «Forse tornerete insieme. Jennifer non ha mai detto che era finita per sempre.» «Eppure sembra così.» «Avete bisogno di tempo, voi tutti», disse Elle. «Non ti voglio propinare una terapia. Non sarei obiettiva. Ci conosciamo da troppo tempo. Però dovresti parlarne con qualcuno. Posso darti dei nomi, brave persone.» «Quello che penso degli strizzacervelli lo sai», rispose Lucas. «Non è quello che pensi di me.» «Come hai detto, ci conosciamo da troppo tempo. Ma non voglio uno
psicanalista, perché li giudico tutti male. Forse un paio di pillole o che altro...» «Il tuo male non si cura con le pillole, Lucas. I rimedi sono soltanto due: il tempo o la terapia.» «Scelgo il tempo», disse lui. La suora sollevò le braccia in gesto di resa e mostrò i denti bianchi in un sorriso giovanile. «Se ti trovassi veramente con le spalle al muro, chiamami. Ho un amico medico che ti prescriverà una cura senza tuttavia minacciare la tua mascolinità.» Lo accompagnò all'uscita e rimase a guardarlo mentre andava verso l'auto sul lungo prato che rinverdiva, con un debole sole fra gli alberi spogli. Fuori dal riparo dell'edificio, il vento investì Lucas in faccia. Era già un vento primaverile. Presto sarebbe arrivata l'estate. Nel convento Elle Kruger baciò il crocifisso e cominciò a recitare il rosario. 4 Bekker si vestì con attenta cura: completo blu, camicia azzurra, cravatta scura a minuscoli disegni amaranto, mocassini neri con soprattacco. Infilò gli occhiali da sole nel taschino della giacca. Li avrebbe usati per nascondere il dolore, pensò. E gli occhi, se ci fosse stato nella folla qualcuno dotato d'insolita capacità d'osservazione. Il funerale gli avrebbe fatto perdere tempo, ma doveva andarci. Sospirò, inforcò gli occhiali da sole e si guardò allo specchio. Non male. Si tolse un filo sulla spalla della giacca e sorrise. Proprio niente male. Quando fu pronto, prese dal portasigarette d'ottone una capsula di Contac, l'aprì e ne versò la polvere sul piano di vetro del comodino. I produttori se la sarebbero fatta addosso se lo avessero saputo, pensò; cocaina pura per uso medico. La fiutò, assorbì la sferzata, si ricompose e uscì a prendere la macchina. Il tragitto da fare era breve. Il luogo gli piaceva. Gli era familiare. Ridacchiò, ma si frenò subito. Non doveva farlo. Poi pensò: il pietoso permesso, e gli tornò la voglia di ridere. L'università gli aveva accordato il pietoso permesso... Dio, per quanto fosse divertente, lui non poteva mostrare allegria. Fenobarbital. Quel che ci voleva per un funerale. Gli avrebbe dato l'aspetto giusto. Riprese il portasigarette, e mentre teneva d'occhio la strada,
pescò una pastiglia del sedativo e se la buttò in bocca. Ci pensò su e ne prese una seconda. Ah, che birichino! Un assaggio di PCP? Sicuro. Il bello di quella droga era che ti irrigidiva, ti toglieva ogni espressione. L'aveva visto su di sé. E sarebbe stato quanto di meglio per un marito affranto dal dolore. Ma senza esagerare. Spezzò la pastiglia con i denti, ne inghiottì metà e l'altra metà la rimise nell'astuccio. Ora era pronto. Parcheggiò a un isolato dalla cappella, camminò con passo svelto, ma un tantino rigido... il PCP faceva già effetto? Il Minnesota aveva assunto l'aspetto primaverile da un giorno all'altro, come al solito. E lo stesso accadeva per l'inverno. Il sole era caldo, nei cortili i pettirosso saltellavano in cerca di vermi, le piante avevano grossi germogli e c'era odore di erba bagnata... La piacevole sensazione del fenobarbital cominciava a farsi sentire. Si fermò davanti all'impresa di pompe funebri e respirò profondamente. Com'era bello essere vivo. E senza Stephanie. L'edificio era in pietra marroncina, forse ritenuto di stile inglese da chi lo aveva progettato. La cappella era fredda. Alla cerimonia partecipò un centinaio di persone fra antiquari, arredatori, docenti universitari. Le donne, tutte in abiti scuri, lo guardarono con curiosità mentre lui avanzava lentamente nella navata. Le donne erano così. Bekker si sedette, si estraniò completamente dalla musica d'organo che usciva da altoparlanti nascosti, e cominciò a fare calcoli. Impresa difficile con il fenobarbital nel sangue, ma lui insistette. La casa valeva più di mezzo milione. L'arredamento duecentomila: neppure gli stupidi parenti di lei lo sapevano. Stephanie aveva fatto acquisti da esperta, approfittato di occasioni, recuperato pezzi di valore. A lui quella casa non piaceva, ma altri la consideravano un gioiello. Desiderava un appartamento, in alto, pareti bianche, rifiniture in legno di betulla, pochi oggetti Maya. Avrebbe avuto denaro per comprare tutto ciò e gliene sarebbe avanzato mezzo milione da investire nei fondi comuni. Questi, se ben scelti, gli avrebbero assicurato una rendita di settantacinquemila dollari l'anno. Più il suo stipendio. Stava per sorridere a quel pensiero, frenò l'impulso e lanciò sguardi attorno. Molti dei presenti non li riconobbe, ma tanti di loro erano seduti con persone che lui conosceva, a gruppi o a coppie. Gente dell'ambiente di Stephanie. E i suoi famigliari: padre, fratelli e sorelle, cugino poliziotto. Bekker fece un cenno di saluto al vecchio che lo aveva guardato con cipiglio.
Un uomo, seduto da solo verso il fondo, catturò la sua attenzione. Era muscoloso, carnagione scura, abito grigio di taglio europeo. Di bell'aspetto, il tipo del pugile. E sembrava interessato a Bekker. Lo aveva tenuto d'occhio da quando era entrato e si era seduto vicino alla bara, parzialmente rivolto al pubblico presente. Protetto dagli occhiali da sole. Incrociò lo sguardo dell'uomo. Gli balenò la sciocca idea che quello fosse l'amante di Stephanie. Pazzesco. Un tipo così non si sarebbe messo con Stephanie. Quella cavallona? Stephanie senza occhi? Dopo entrò nella cappella Swanson, l'agente che lo aveva interrogato al ritorno da San Francisco; si guardò attorno e si sedette accanto allo sconosciuto. I due avvicinarono le loro teste e parlottarono, mentre lo sconosciuto osservava Bekker. Dunque era un piedipiatti. Va bene. Bekker se ne disinteressò, e continuò a far scorrere l'occhio sulla folla. Philip George arrivò con sua moglie Annette e i due si sedettero dietro i poliziotti. L'amante. Chi era l'amante? La cerimonia funebre fu crudelmente lunga. Dodici persone presero la parola. Stephanie era buona, Stephanie era gentile. Stephanie lavorava per la comunità. Stephanie era una rompipalle. Se anche andassi per valle tenebrosa, non temerò alcun male, perché tu sei con me; la tua verga e il tuo bastone mi confortano... Bekker si estraniò dalla realtà. Quando riprese contatto, gli astanti erano in piedi e lo guardavano. Era finito? Sì, doveva andarsene, tenere la mano sul lato della bara. Per andare al cimitero Bekker raggiunse la sua auto da solo, sentendo su di sé gli occhi di tutti. Ricompose il viso: mi serve una maschera, pensò, una maschera da tomba. Ridacchiò. Non seppe trattenersi. Girò il capo, sforzandosi di tornare serio. La folla lo stava osservando. E sulla collina, seduto sull'erba, l'uomo in abito di taglio europeo lo spiava. Bekker sentì il bisogno di darsi una sferzata. La sua mano scivolò al portasigarette. Aveva ancora due Contac, e una mezza dozzina di metanfetamine. Quel che ci voleva dopo i barbiturici. E un po' di ecstasy per dessert? Ma naturalmente... La cappella era affollata, la bara chiusa. Lucas era seduto accanto a
Swanson, l'investigatore capo. Del stava con la famiglia di Stephanie. «Quel figlio di puttana sembra inebetito», bisbigliò Swanson, dando una gomitata al compagno. Lucas girò la testa e osservò Bekker che stava passando. Un uomo attraente, quasi troppo, pensò Lucas. Come una bestia mitologica composta delle parti migliori di diversi animali, la faccia di Bekker sembrava riunire in sé i tratti più belli di vari divi del cinema. «È ferito?» bisbigliò Lucas. Bekker camminava male, le sue gambe parevano di legno. «Non che io sappia», rispose sottovoce l'altro. Bekker percorse la navata, una mano sulla bara, rigido, gli occhi invisibili dietro gli occhiali. Ogni tanto le sue labbra si muovevano, come se lui mormorasse fra sé o pregasse. Non sembrava una finzione: quell'istupidimento si sarebbe detto genuino. Seguì la bara fino al carro funebre, attese che fosse caricata, poi tornò dove aveva lasciato l'auto. Là si voltò e guardò dritto verso Lucas. Lucas captò il suo sguardo, e lo ricambiò. Poi Bekker se ne andò. Lucas si trasferì al cimitero, spinto dalla curiosità. Che cosa sentiva Bekker? Dolore? Disperazione? Oppure fingeva? Da una collina vide calare la bara nella fossa. Bekker non cambiò mai espressione: la sua bella faccia era come una massa di creta. «Che cosa te ne pare?» domandò Swanson quando Bekker se ne fu andato. «Per me quello è un finocchio, ma non so di che genere.» Per il resto della giornata Lucas provvide a diffondere la voce nella sua rete di informatori, una quantità di prostitute, librai, barbieri, postini, scassinatoli, biscazzieri, agenti, un paio di distinti spacciatori di marijuana: Si sa niente di un colpo fortunato? C'è in giro un pazzoide con troppo denaro? Pochi minuti dopo le sei ricevette una chiamata al suo telefonino e tornò alla Centrale, che occupava una parte del palazzo comunale di Minneapolis. Sloan lo aspettava nel corridoio, fuori dall'ufficio del capo. «Hai saputo?» gli chiese Sloan. «Che cosa?» «Abbiamo ricevuto la lettera di un tale che dice di essere stato là quando Stephanie veniva uccisa. Il nostro Casanova.» «Nessuna identificazione?» «No. Ma la lettera dice molto.»
Lucas seguì Sloan nella stanza della segretaria, e da lì nell'ufficio del capo. Daniel, seduto alla scrivania, rigirava un sigaro fra le dita mentre ascoltava un detective della Omicidi che sedeva di fronte a lui in una poltrona di pelle verde. Daniel sollevò lo sguardo quando Sloan bussò alla porta aperta. «Entrate. Davenport, come stai? Swanson mi sta mettendo al corrente.» Lucas e Sloan tirarono le sedie avanti e si sedettero a destra e a sinistra di Swanson. Lucas gli chiese: «Di che parla questa lettera?» Swanson gliene passò una fotocopia. «Stavamo appunto facendo delle ipotesi. Poteva essere un drogato, messo in fuga dalla presenza di Casanova. A meno che non sia stato l'amante stesso.» «Lo ritieni colpevole?» Il detective scosse il capo. «No. Leggi la lettera. Corrisponde più o meno alla scena. E hai visto Bekker.» «Nessuno parla bene di lui», disse Sloan. «Eccetto che professionalmente. I medici all'università sostengono che il suo è un lavoro di prim'ordine», riferì Swanson. «Ho parlato con persone del suo dipartimento. 'Un genio', dicono.» «Sai che cosa mi dà da pensare?» intervenne Lucas. «In questa lettera l'amante dice che lei era supina in una pozza di sangue, morta. Ho visto le foto, e lei era bocconi, vicino alla parete. L'uomo non menziona l'impronta della mano. Penso che l'abbia lasciata là ancora viva.» «Sì», confermò Swanson. «È morta nel momento in cui arrivavano gli infermieri. Le hanno praticato un'iniezione per stimolare il cuore, per tentare di farlo battere. Non è stato possibile, ma lei era appena morta, il sangue sotto la testa era fresco. Invece quello sul pavimento, vicino al lavello, aveva cominciato a coagularsi. Calcolano che sia vissuta per quindici o venti minuti dopo l'aggressione, il suo cervello era rovinato; chissà cosa ci avrebbe detto? Ma se Casanova avesse chiamato il pronto intervento, forse la donna sarebbe ancora in vita.» «Fesso», commentò Sloan. «Questo lo rende un complice?» Swanson si strinse nelle spalle. «Dovresti chiederlo a un avvocato.» «Si sa nulla dello psicanalista, quello con cui lei chiacchierava ai party?» domandò Lucas. «Stiamo indagando», rispose Daniel. «Lo fai tu?» Lucas domandò a Sloan. «No, Andy Shearson.» «Merda, Shearson? Non si troverebbe il culo con le mani e un paio di ri-
flettori», commentò Lucas, sbigottito. «Era l'unico disponibile e non è così incapace», disse Daniel. Si mise il sigaro in bocca, lo spuntò con i denti, prese la punta rotta con le dita, la esaminò e la gettò nel cestino. «Questo caso fa ancora notizia alla TV... stronzate su un assassino casuale. Mi scoccerebbe se la cosa si gonfiasse.» «Fra una settimana non ne parleranno più. O prima, se lo diamo per il delitto di un drogato», disse Sloan. «Forse sì, forse no», replicò Daniel. «Stephanie Bekker era una bianca e apparteneva all'alta borghesia. I giornalisti si identificano con quel genere di donna. Potrebbe alimentare la cronaca nera per un po'.» «Daremo un'accelerata», disse Swanson. «Parleremo di nuovo con Bekker. Attualmente interroghiamo i vicini. Controlliamo gli scontrini di parcheggio della zona, parliamo con amiche e amici di Stephanie. La cosa principale è trovare l'amante. O è stato lui o ha visto la scena.» «Lui dice che il killer somigliava a uno gnomo», disse Lucas, leggendo la lettera. «Che diavolo significa?» «Che mi venga un accidente se lo so», rispose Swanson. «Brutto», disse Daniel. «Con il busto a barilotto.» «Siamo sicuri che non sia Bekker? Lui era davvero a San Francisco?» domandò Lucas. «Sì», confermò Swanson. «Abbiamo trasmesso la sua foto, gli agenti di San Francisco l'hanno mostrata ai portieri dell'albergo. Bekker era là, non c'è dubbio.» «Humm», fece Lucas. Si alzò, infilò le mani nelle tasche e andò a guardare le foto alle pareti. Tra quei trofei c'era la faccia sorridente di Jimmy Carter. «Ci mettiamo dalla parte sbagliata con i mass media. Se Bekker ha assunto un killer, l'arma migliore che abbiamo è l'amante. Il testimone.» «Una certa coscienza ce l'ha perché ha scritto la lettera. Poteva tenersi fuori e noi non avremmo mai sospettato...» «Lo avremmo saputo», disse Swanson. «L'autopsia ha rilevato che lei aveva avuto un rapporto sessuale poco prima di essere uccisa. E lui l'ha lasciata morire.» «Forse credeva che fosse morta», disse Lucas. «Comunque un po' di coscienza ce l'ha. Dovremmo fare un appello pubblico all'uomo. TV, giornali. Con un duplice scopo: fare uscire lui dall'anonimato e indurre l'assassino o Bekker a fare una mossa.» «Altre opzioni?» domandò Daniel. «No, se vuoi incastrare il colpevole», disse Lucas. «Potremmo non farlo:
ma in questo momento direi che la possibilità di accusare Bekker è pressoché zero. Lo beccheremo soltanto in un modo: il testimone deve identificare il killer e il killer deve consegnarci Bekker in cambio di uno sconto di pena.» «Non vorrei lasciare nulla d'intentato», disse Daniel. «La nostra percentuale di successi...» «Allora facciamo venire qui quelli della televisione», propose Lucas. «Aspettiamo altre ventiquattr'ore», disse Daniel. «Ne riparliamo domani sera.» Lucas scosse il capo. «No. Devi rifletterci stanotte perché se lo facciamo, dobbiamo agire in fretta. Domani sarebbe meglio, e abbastanza presto perché vada in onda a metà pomeriggio. Prima che l'amante, chiunque sia, venga eliminato. Dovresti dire chiaramente che lui non è sospettato dell'uccisione, e che abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Che lo invitiamo a venire da noi e gli assicuriamo un avvocato. Che, se è estraneo al delitto, gli offriremo l'immunità... magari consulta il procuratore della contea su questo punto. Di' che se lui non fosse disposto a venire da noi, dovrebbe almeno comunicarci maggiori particolari. Ritagliare da pubblicazioni foto di persone che assomigliano al killer. Disegnare la sua faccia, se ne è capace. O magari potremmo far stampare sui giornali vari identikit e lasciare a lui l'opportunità di scegliere i migliori, correggendoli per farli il più somiglianti possibile all'assassino.» «Ci penserò.» «E sorvegliamo Bekker. Se lanciamo un appello all'amante, Bekker, qualora sia il mandante dell'assassinio, scalpiterà. E potrebbe darci una possibilità», disse Lucas. «D'accordo. Ci penserò. Venite domani.» «Dobbiamo agire», incalzò Lucas, ma Daniel lo liquidò con un gesto della mano. «Ne riparleremo domani», disse. Lucas si avvicinò di nuovo a Jimmy Carter ed esaminò la sua giacca di tweed. «Se Bekker è l'esecutore o il mandante, se è l'uomo di ghiaccio che Sloan ritiene che sia...» «Sì?» Daniel si gingillava con il sigaro, osservando Lucas. «Sarà meglio che troviamo l'amante prima che lo trovi Bekker», completò Lucas. 5
Il cielo serotino passò dal cremisi al blu oltremare e infine assunse un grigiore uniforme. Lucas abitava nella zona centrale di St. Paul e lì il cielo non diventava mai scuro. Al di là della strada, sul sentiero lungo il fiume c'era un andirivieni di affezionati del jogging, tutti in tute fosforescenti alla moda. Alcuni portavano fasce attorno al capo e correvano con il massimo impegno. Sulla sponda opposta del Mississippi i lampioni a vapori di sodio occhieggiavano nel reticolato delle strade, più visibili delle luci bluastre delle case. Quando si accesero le luci della città Lucas abbassò l'avvolgibile e si sforzò di tornare al gioco. Ci lavorava con accanimento, senza ispirazione, elaborando la trama per il programmatore. Un lungo nastro di carta di stampante scorreva sul tavolo, dentro e fuori il cerchio di luce sulle sue mani. Con un modello di schema a blocchi e una matita numero due, progettò le diramazioni della Caccia del druido. Un tempo aveva pensato d'imparare a programmare lui stesso. Infatti aveva seguito un corso universitario di Pascal, arrivando piuttosto avanti. Ma il lavoro di programmazione lo aveva annoiato, così aveva assunto un ragazzo per farlo. Lui buttava giù i racconti con la miriade di salti e diramazioni, e il ragazzo scriveva il codice. Il giovane programmatore non aveva nessuna delle stravaganze di una personalità da computer. Indossava la giacca con il distintivo del suo college e disse a Lucas che se l'era guadagnata in un incontro di lotta libera. Era un tipo ottimista e talvolta portava con sé un'amica per farsi aiutare. Lucas aveva pensato ironicamente di chiedergli: Aiutarti a fare che cosa? ma aveva lasciato perdere. I due ragazzi frequentavano università cattoliche della zona e avevano bisogno di uno spazio privato a buon mercato. Lucas aveva cercato di lasciarli soli. E forse lei lo aiutava davvero. Il lavoro veniva fatto. Lucas scriveva giochi. Simulazioni storiche da giocare a tavolino, tanto per cominciare. Poi, per denaro, si era messo a scrivere giochi di ruolo del genere Dungeons & Dragons. Una delle sue simulazioni, su Gettysburg, era diventata così complicata che lui aveva acquistato un personal computer IBM per calcolare tempi, punti ed effetti militari. La flessibilità del computer lo aveva colpito: con esso poteva creare effetti, impossibili con un tabellone, come movimenti segreti di truppe e informazioni militari imprecise. Con l'aiuto del ragazzo aveva trasferito l'intero gioco su un clone IBM 386. Una società elettronica
del Missouri, che aveva avuto sentore del gioco, lo acquistò da lui, lo modificò e lo fece trasmettere. In sere stabilite diverse dozzine di appassionati della guerra civile giocavano Gettysburg via MODEM, pagando otto dollari l'ora per il privilegio. Due di questi andavano a Lucas. La Caccia del druido era diversa, un gioco di ruolo con il computer che fungeva da maestro. Il videogioco stava diventando complesso. Lucas s'interruppe per cambiare musica nel giradischi, tolse Big Time di Tom Waits e mise African Sanctus di David Fanshawe, poi tornò alla sua sedia. Ma un istante dopo posò il modello di programmazione e fissò lo sguardo sulla parete di fronte. La teneva nuda di proposito, per fissarla. Bekker era interessante. Lucas aveva sentito crescere in sé lo stimolo, lo aveva sorvegliato come un giardiniere sorveglia una nuova pianta, quasi timoroso di sperare. Aveva visto colleghi depressi, ma era stato sempre scettico. Ora non più. La depressione — parola inadeguata per quello che era capitato a lui — era così tangibile che la immaginava come una bestia sconosciuta che lo inseguiva furtivamente nell'oscurità. Mentre fissava quel pezzo di parete, gli tornò in mente il nauseante odore dei fiori durante il rito funebre per Stephanie, l'umidità della cappella privata, la cantilena del sacerdote. «Maledizione.» Avrebbe dovuto concentrarsi sul gioco, ma non ci riusciva. Si alzò, fece il giro della stanza, mentre le nenie del Sanctus gli martellavano in testa. Una cartelletta attirò il suo occhio. Il fascicolo del caso, copiato da Sloan e lasciato sulla sua scrivania. Lo prese, lo sfogliò. Un'infinità di particolari. Nessuno sapeva quali potevano essere utili e quali no, perciò ce li avevano messi tutti. Lesse pagina per pagina e stava per rimetterlo sulla scrivania quando una riga del rapporto della Scientifica destò il suo interesse: «Il tubo di scarico sembra sia stato pulito fisicamente...» La camera da letto e il bagno adiacente erano stati spolverati, evidentemente da Casanova, per eliminare impronte digitali. Questo dimostrava una freddezza non comune. Ma il tubo di scarico? Quella era un'altra cosa. Cercò informazioni sul letto della donna e non ne trovò nel rapporto. Il documento era firmato da Robert Kjellstrom. Lucas frugò nella scrivania e trovò la lista dei numeri telefonici per uso interno della polizia, cercò quello di Kjellstrom e lo chiamò. L'uomo dovette alzarsi dal letto per rispondere. «Non c'è nulla nel rapporto su capelli nel letto.» «Perché non ce n'erano», rispose Kjellstrom.
«Nemmeno uno?» «No. Le lenzuola erano pulite. Parevano di bucato.» «Qui si dice che Stephanie Bekker aveva appena avuto un rapporto sessuale.» «Non su quelle lenzuola», puntualizzò Kjellstrom. Finito di leggere, Lucas guardò l'ora: le dieci. Tornò in camera, si tolse la camicia sportiva, i pantaloni e i mocassini e indossò camicia di flanella, jeans e anfibi, si munì di una Smith & Wesson calibro 45 a doppia azione, portata a tracolla, e s'infilò una giacca di montone. Era stata una bella giornata, ma le notti erano ancora pungenti, ultimi residui dell'inverno. Anche i malviventi stavano al coperto. Uscì con la Porsche dal box, aspettò nel vialetto interno che la serranda si richiudesse, poi si diresse a nord lungo il Mississippi River Boulevard. Giunto a Summit Avenue dovette fare una scelta e optò per Cretin Avenue, la I-94 a nord e poi a est, raggiungendo la periferia di St. Paul. Tre auto della polizia erano parcheggiate davanti a un supermercato che aveva un ristorante sul retro. Lucas chiuse la macchina ed entrò. «Gesù, guarda che fottuto bastardo è arrivato», disse il poliziotto più vecchio. Era prossimo alla cinquantina, corpulento, con baffi a spazzola ingrigiti e occhiali con la montatura d'oro. Era seduto con tre colleghi in un séparé. In quello accanto altri due bevevano caffè. «Ho pensato che vi servisse un po' di guida, e sono venuto subito», disse Lucas. Al centro del ristorante c'era un banco circolare, con tanti sgabelli girevoli attorno, mentre i séparé erano sistemati lungo la parete. Lucas prese uno sgabello e si piazzò davanti agli agenti. «Apprezziamo la tua sollecitudine», disse il poliziotto con i baffi. Tre di loro erano di mezza età e di grossa corporatura; il quarto era giovane, snello, con gli occhi azzurri dal taglio allungato. I più vecchi stavano bevendo caffè. Il giovane mangiava fette di pane fritto con salsiccia. «Questo è un poliziotto?» chiese il giovane, con la forchetta a mezz'aria. Guardava con sospetto la giacca di Lucas . «Ha addosso...» «Grazie, Sherlock», lo interruppe uno dei più vecchi. Indicando Lucas con la testa, disse: «Lucas Davenport, tenente investigativo della polizia di Minneapolis». «Guida la Porsche a centosessanta all'ora sulla Cretin Avenue congestionata dal traffico», disse un altro, sogghignando in direzione di Lucas. «Cazzate. Osservo tutte le norme stradali di St. Paul», protestò Lucas.
«Perdonami se faccio una pernacchia», disse l'agente della Stradale. «Deve essere stata la Porsche di qualcun altro quella che ho visto apparire sul mio radar verso le cinque e mezzo di venerdì.» Lucas sogghignò. «Devi avermi spaventato.» «Giusto... Sei in servizio o cosa?» «Sto cercando Poppy White», disse Lucas. «Poppy?» I tre più anziani si guardarono l'un l'altro, poi uno disse: «Ho visto la sua auto davanti a Broobeck's ieri notte e un paio di volte anche la scorsa settimana. Una Oldsmobile rossa dell'anno scorso. Se non è lì, Broobeck potrebbe sapere dov'è.» Lucas si trattenne a far due chiacchiere, poi si alzò dallo sgabello. «Grazie dell'informazione su Poppy», disse. «Ehi, Davenport, se hai intenzione di sparare a quel figlio di puttana, potresti aspettare dopo che abbiamo finito il turno?» La Oldsmobile rossa era parcheggiata sotto l'insegna al neon del bocciodromo di Broobeck. Lucas entrò e guardò verso le corsie. Solo due erano usate da un gruppo di giovani coppie. Tre tizi sedevano al bar, ma nessuno di loro era Poppy. Il barista portava un berretto di carta e masticava uno stuzzicadenti. Fece un cenno di saluto quando Lucas si avvicinò. «Cerco Poppy.» «È qui da qualche parte, forse al cesso.» Lucas andò al gabinetto degli uomini, infilò dentro la testa. Vide un paio di stivaloni sotto una delle mezze porte e chiamò: «Poppy?» «Sì.» «Lucas Davenport. Ti aspetto al bar.» Andò a sedersi in un séparé con una birra, e un minuto dopo comparve Poppy che teneva le mani lontane dal corpo. «Dovete metterci degli asciugamani», si lamentò con il barista. Questi gli allungò un pacco di tovagliolini. Poppy si asciugò le mani, prese una birra e raggiunse Lucas. Sui cinquantacinque e troppo grosso, indossava jeans, maglietta nera e giaccone di pelle. I capelli grigi erano tagliati a spazzola. Con una sega e una torcia ti smontava una Porsche rubata in tanti pezzi di ricambio nello spazio di un'ora. «Che novità?» chiese, mentre si sedeva. «Ti serve un motorino d'avviamento?» «No. Sto cercando qualcuno con denaro fresco. Qualcuno che potrebbe avere avuto l'incarico di far fuori una donna a Minneapolis l'altro giorno.»
Poppy scosse il capo. «Ho capito di che cosa parli, ma non ho sentito neppure un tintinnio. I drogati sono in allarme perché i giornali dicono che è stato uno di loro e temono che qualcuno venga preso nella rete.» «Nessuna voce?» «Niente di niente, amico. Se qualcuno è stato pagato, la cosa non riguarda questa zona. Sei sicuro che fosse un bianco? Perché sulla gente di colore non sono più informato.» Lucas cercava un bianco. Questa era la regola: i bianchi ingaggiavano bianchi, i neri ingaggiavano neri. Settarismo con pari opportunità, anche nel delitto. Vi erano poi altre ragioni. In quel quartiere della città un nero sarebbe stato notato. Lasciò Poppy alla corsia di gioco e ripartì verso ovest per tornare a Minneapolis; fece brevi puntate in un bar di gay sulla Hennepin Avenue, in due locali di Lake Street e infine, non avendo saputo niente, svegliò un ricettatore che abitava nella tranquilla cittadina di Wayzata. «Non so, Davenport, potrebbe essere un pazzoide. Pesta a morte la donna, fugge in Utah, spende il denaro nell'acquisto di una fattoria», disse il ricettatore. Erano seduti in una veranda a vetri che guardava su uno stagno. Le luci provenienti da un'altra casa si riflettevano sull'acqua e Lucas riusciva a distinguere le sagome scure di un gruppo di anitre che dondolavano, vicinissime l'una all'altra, nel mezzo dello stagno. Il ricettatore non era a suo agio; in pigiama, fumava una sigaretta senza filtro, e sua moglie, in vestaglia, stava accanto a lui sul divano. Lei aveva in testa bigodini rosa e appariva preoccupata. Aveva offerto a Lucas acqua minerale al cedro, fredda, e lui si rigirava la bottiglietta nelle mani mentre parlavano. «Se fossi in te», disse il ricettatore, «interrogherei Orville Proud.» «Orville? Lo credevo al fresco in Arizona o da quelle parti», disse Lucas. «È uscito.» L'uomo si tolse un granello di tabacco dalla lingua e lo sbatté via. «Comunque è in giro da una settimana circa.» «Si rimette in attività?» Avrebbe dovuto saperlo. Proud era in città da una settimana: avrebbe dovuto saperlo. «Sì. Penso di sì. Il vecchio commercio. Ha una gran sete di quattrini. E conosci il genere di contatti che ha. Dannati teppisti in moto e picchiatori, neonazisti eccetera. Perciò gli ho detto: 'Corre voce che potrebbe essere stato un picchiatore, assoldato dal marito'. E lui ha risposto: 'Non è salutare parlarne, Frank'. Così ho smesso di parlarne.»
«Huh. Sai dov'è?» «Non voglio subire vendette», disse il ricettatore. «Orville è un po' strano...» «Non preoccuparti», lo rassicurò Lucas. L'altro guardò l'ora. «Prova al Loin, stanza 221. Stanno giocando.» «Pistole?» «Conosci Orville.» «Sì, disgraziatamente. Bene, Frank. Ti sono debitore.» «Mi fa piacere. Hai sempre quella casetta a nord?» «Sì.» «Ho in vista qualche buon affare su motori Evinrude da venticinque cavalli.» «Non forzare la fortuna», lo ammonì Lucas. «Eh, tenente...» Frank sorrise in modo accattivante, e i suoi denti erano quasi verdi. Il Loin era il Richard Coeur de Lion Lounge & Motel di fronte all'aeroporto internazionale di Minneapolis-St.Paul. Aveva iniziato con una gestione corretta e subito perdite per alcuni anni, poi era stato rilevato da persone più spavalde di Miami Beach. Da allora fu chiamato il Dick o il Loin, ma infine prevalse il secondo nome, considerato più di classe da coloro che decidevano tali cose. I migliori giocatori d'azzardo, i più astuti spacciatori di cocaina, le più belle puttane e i giocatori di football meno giudiziosi affollavano il bar e il più delle notti alloggiavano nel motel. Il bar era arredato in legno scuro e velluto rosso, con specchi ovali. Nella hall due volpi rosse imbalsamate, su piedistalli che erano pezzi di legno irregolari, stavano ai lati di una riproduzione di The Blue Boy. Di sopra, le stanze offrivano letti con materassi ad acqua e film porno via cavo, tutto compreso nel prezzo. Lucas attraversò la hall, fece un cenno di saluto alla donna al banco che gli sorrise come se si ricordasse di averlo registrato fra i clienti; sali al primo piano dove un unico corridoio si estendeva per tutta la lunghezza del motel. La stanza 221 era l'ultima a sinistra. Si fermò davanti alla porta ad ascoltare, tirò fuori la sua calibro 45 dalla fondina a tracolla e la infilò dietro la vita. Bussò e arretrò in maniera da essere visto dallo spioncino. Una voce disse: «Chi è?» «Lucas Davenport desidera vedere Orville.» «Non c'è nessun Orville qui.»
«Digli...» L'occhio spari dallo spioncino e passò un minuto. Poi un'altra voce dietro la porta disse: «Sei solo?» «Si. Nessun problema.» Orville Proud aprì la porta e guardò nel corridoio. «Nessun problema?» domandò. «Devo solo parlare con te», disse Lucas, guardando oltre Orville. La stanza era senza letti. Sette uomini sedevano impietriti attorno a un tavolo ottagonale, i loro occhi da uccello lo valutavano; sul tavolo c'erano le carte ma non le fiches, posacenere e bottiglie di acqua minerale erano appoggiati sul piano e ai piedi dei giocatori. Dietro di loro un ometto con giacca di pelle sedeva sul registro delle partite. Portava occhiali con montatura d'oro e pizzetto. Somigliava a Lenin, e lo sapeva. Ralph Nathan. Lucas si portò la mano al fianco, a quindici centimetri dal calcio della calibro 45. «Verrà il giorno che ti faranno la pelle», disse Orvdile senza peli sulla lingua. Uscì nel corridoio e chiuse la porta. «Che cosa vuoi?» «Ho bisogno di sapere se sono circolate chiacchiere sull'assassinio di una donna a Minneapolis. È stata massacrata, e alcuni pensano che il marito abbia ingaggiato un killer. Il fatto sta creando molto fermento.» Orville scosse il capo, si accigliò. Lui non voleva fermento. «Un paio di persone l'hanno menzionato, ma io non ho sentito cose particolari. Le avrei sapute, perché sto razzolando in cerca di denaro per avviare di nuovo il mio commercio; lo chiedo a tutti quelli che conosco. Non c'è un accidente, amico.» «Nessuno si è arricchito, nessuno ha comprato un'auto?» Proud scosse la testa. «Nulla di nulla. Terry Meller ha rubato un carico di TV Panasonic a colori, sparito dal treno a St. Paul, e questo è tutto.» «Ne sei sicuro?» «Senti, ho passato le ultime tre settimane a correre su e giù per la città, parlando con tutti. Non ho fatto altro. E non c'è nulla.» «Va bene», disse Lucas, scoraggiato. «Com'era l'Arizona?» «Il New Mexico. Là non ci staresti neppure dipinto. È un posto primitivo.» «La notizia mi rattrista.» «Già, sicuro.» «Tieni i contatti con me, okay? Hai il mio numero?» Proud annuì, poi si frugò in tasca e tirò fuori un biglietto da visita con stampato un numero a nove cifre divise in gruppi di tre, due e quattro, co-
me un numero della Protezione civile. Lo porse a Lucas. «Chiama gli ultimi sette numeri in senso inverso. È il mio cellulare. Se vuoi rivedermi, telefona prima, okay? Non venire a bussare alla porta senza avvisarmi.» «Okay. E ti do un consiglio gratis, Orville», disse Lucas, mentre si allontanava. «Togliti dai piedi Ralph. È un caso patologico, quello cerca qualcuno da ammazzare. Procurati una mazza da baseball o altro. Se resti con Ralph finirai in galera con lui per assassinio. Garantito.» «Ricevuto», rispose Proud, mentendo. Al parcheggio Lucas si appoggiò all'auto, per pensare. Erano in un vicolo cieco. Daniel doveva ricorrere alla televisione. 6 Beauty ballava. Una giga, seguendo una musica che aveva nel cervello. Con il saltellare dei suoi piedi il pene dondolava come la testa di un verme di cera; le sue braccia un po' piegate sbattevano come ali di pollo. Rideva di piacere: il piacere del contatto dei piedi nudi sul tappeto persiano e della vista di sé negli specchi. Ballava e faceva piroette e lanciava una gamba in aria e rideva. Sentì un'umidità sul torace e abbassò gli occhi. Una pioggia rossa gli stava colando sulla pelle. Si toccò il naso. Ritirò le dita macchiate, appiccicose. Sangue. Gli bagnava le labbra, gocciolava dal mento, scivolava sul torace pallido, glabro fino alla peluria all'inguine. La musica nel cervello cessò. «Sangue», gemette. «Tu sanguini...» Con il cuore martellante, Bekker s'inginocchiò, tastò alla cieca sotto la scrivania e tirò fuori la sua valigetta. Sapendo che la polizia sarebbe andata a casa sua, aveva giudicato prudente trasferire le medicine in ufficio. Non le aveva ancora rimesse nell'armadietto del bagno. Armeggiò con la serratura a combinazione e l'aprì. La valigetta conteneva dozzine di flaconcini di plastica ambrata con tappi bianchi ed etichette che riportavano prescrizioni mediche, e qualche integratore alimentare acquistabile senza ricetta. Toccò qua e là, mentre perdeva sangue. Amobarbitale. Anfetamine destrogire. Loxapina. Secobarbital. Etotoina. Clordiazepossido. Amiloride. No, no, no, no. Avrebbe dovuto adottare un sistema di codice a colori, pensò, ma una
volta tutto nell'armadietto, sarebbe stato più facile scegliere. Avrebbe messo gli eccitanti in alto, i sedativi in basso, i tranquillanti sul secondo ripiano, le vitamine e gli integratori sul primo... Haloperidolo. Diazepam. Cloropromazina. No. Dov'era? Eppure... Ah, ecco. Vitamina K. Quante? Nessun problema con la vitamina K, meglio abbondare. Ne scaricò cinque in bocca, fece una smorfia e le inghiottì. Meglio. L'epistassi diminuiva comunque, ma un'eccedenza di vitamina K non avrebbe danneggiato. Prese un pacchetto di fazzoletti di carta dalla scatola sulla scrivania e si tamponò il naso. Gli era successo altre volte. Non sentiva dolore, e l'emorragia cessava presto. Tuttavia, pensò, questa volta erano solo due, eppure sanguino. Perché le aveva prese, le metanfetamine? Una ragione doveva esserci. Guardò nell'angolo della scrivania il portasigarette aperto, come un invito. Tre pastiglie nere di metanfetamina erano in un settore assieme a quelle di fenobarbital, butalbitale, e i criminali della ciurma, tutti in una cella separata: l'unica pastiglia di «acido» rimasta, le quattro fenciclidine bianche e le tre Contac. Solo tre metanfetamine? Ma lui ne teneva sempre sette nell'astuccio. Ne aveva prese quattro per sbaglio? Non lo ricordava, ma si sentiva su di giri, caricato, aveva ballato per... quanto tempo? Molto, pensò. Forse avrebbe fatto bene... Prese un fenobarbital per equilibrarsi. Senza causare una epistassi. Forse... Raddoppiò la dose, poi rimise il portasigarette, la scialuppa di salvataggio, nella valigetta, la nave principale, e la riempì di nuovo con cura. Sanguinava ancora? Si tolse il tampone dal naso. Il sangue pareva nero sulla carta azzurra, ma il flusso era cessato. Si rimise in piedi e si mosse evitando gli indumenti che aveva sparso sul pavimento quando le anfetamine avevano cominciato a fargli effetto. Perché le aveva prese? Doveva pensare. Il suo studio era in ordine: scrivania antica con bassorilievi, macchina per scrivere elettrica su un tavolino antico d'angolo, libreria su un'intera parete con volumi, periodici, riviste. Vicino alla porta c'era una foto di lui, in piedi accanto a una Jaguar tipo E. Non sua, disgraziatamente, ma una bella macchina. La foto era in una cornice d'argento. Dall'altra parte della porta in una cornice uguale c'era Stephanie, sorridente, in calzoni da cavallerizza. Perché lei...? Che fatica pensare. Doveva. Stephanie? L'amante. Chi era l'amante? Ecco la domanda critica. Lui aveva creduto che le anfetamine lo avreb-
bero aiutato in questo... Se così era stato, non lo ricordava. Si sedette al centro della stanza, a gambe divaricate. Doveva pensare... Bekker sospirò. Spinse fuori la lingua, sentì un gusto salato. Si guardò e si vide la pelle coperta di croste scure. Croste? Si toccò il torace con la punta del dito. Sangue. Si stava seccando. Si alzò, intorpidito, salì le scale piegato in due, toccando ogni scalino con le mani, e poi percorse il corridoio fino al bagno. Aprì il rubinetto, mise la testa sotto il getto freddo, si bagnò la faccia, poi si guardò allo specchio. La faccia era rosa, il torace ancor color fegato per via del sangue raggrumato. Somigliava a un demonio, pensò. L'idea gli venne spontaneamente. Bekker sapeva tutto del demonio. I suoi genitori, rispettosi della loro severa fede cristiana, gli avevano inculcato l'idea del demonio, usando le antiche parole di Jonathan Edwards: Nelle anime dei malvagi regnano quei principi infernali che in breve si accenderebbero e divamperebbero in un fuoco demoniaco, se non vi fossero i freni di Dio. I freni di Dio lui non li aveva mai conosciuti, aveva detto Bekker al predicatore una domenica sera. Per questo si era preso talmente tante botte che, allora, aveva creduto di morire. Infatti non era andato a scuola per una settimana, ma non aveva visto un briciolo di pietà negli occhi dei genitori. Mentre si ripuliva, si guardò allo specchio e pronunziò le vecchie parole che ancora ricordava: «Dio ti tiene sospeso sull'abisso dell'inferno, nel modo in cui uno tiene un ragno o qualche schifoso insetto sopra il fuoco, ti detesta, ed è terribilmente arrabbiato». Fesserie. Ma lo erano? Lo spirito andava da qualche parte dopo la morte? C'era un abisso? I bambini che aveva visto morire, il loro cambiamento di espressione all'ultimo istante... era estasi? Vedevano qualcosa nell'aldilà? Bekker aveva esaminato i filmati dei nazisti nei campi di sterminio, scrutato le facce dei moribondi sottoposti a esperimenti medici, documentari considerati da collezione per certi tedeschi autorevoli... C'era qualcosa oltre la morte? La mente razionale dello scienziato Bekker rispose di no: non siamo che fango animato, un cosciente pezzo di sudiciume, la coscienza un semplice manufatto chimico. Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai. Non era ciò che professavano i cattolici? Strano candore per la politica della Chiesa. Qualunque cosa dicesse la sua mente razionale, le altre parti, quelle istintive, non sapevano immaginare un mondo senza Beauty. Lui non pote-
va svanire... o sì? Guardò l'orologio. Aveva tempo. Con la medicina giusta... Guardò, oltre il bagno, il portasigarette sul cassettone. Michael Bekker, molto disteso grazie a un po' di cocaina e un pizzico di fenciclidina, percorse i corridoi dell'ospedale universitario. «Dottor Bekker...» Un'infermiera, passando, lo aveva chiamato «dottore». La parola gli infuse potere, o era merito della droga? Talvolta gli era difficile dirlo. Di notte le luci erano abbassate. Tre infermiere sedevano nella loro stanza meglio illuminata e sfogliavano carte, controllavano richieste di farmaci. In alto, una mezza dozzina di monitor, emettendo luci tremolanti come componenti di un impianto stereo da ricchi, mostravano i tracciati delle condizioni dei pazienti nell'Unità di cura intensiva. Bekker consultò il suo blocco. Sybil Hart, stanza 565. Si diresse da quella parte, senza fretta, passando davanti a una camera privata dove una paziente russava. Si guardò attorno: nessuno in vista. Entrò. La paziente dormiva della grossa, in posizione supina, con la bocca aperta. Il rumore di una motosega, pensò Bekker. Andò al comodino, aprì il cassetto. Tre flaconcini di pillole marrone. Li prese, li guardò nel riflesso di luce del corridoio. Il primo conteneva penicillamina, usata per prevenire calcoli renali. Non serviva. Lo rimise a posto. Parametasone acetato. Altra medicina per i reni. Sul terzo era scritto: CLORDIAZEPOSSIDO IDROCLORATO 25 MG. L'aprì, guardò le capsule verdi e bianche. Ah, Librium. Quello poteva sempre servire. Prelevò metà del contenuto, rimise il flaconcino nel cassetto. Nascose le capsule in tasca. Alla porta si fermò ad ascoltare. Occorreva prudenza: le infermiere portavano scarpe di gomma, erano silenziose come fantasmi. Ma se uno era pratico, poteva captare il quasi impercettibile cigolio della suola sul pavimento a piastrelle. Il corridoio era silenzioso e lui uscì dalla stanza, guardando il suo blocco, pronto a mostrarsi confuso se un'infermiera lo avesse visto. La via era libera e andò verso la camera di Sybil Hart. Sybil Hart aveva capelli corvini e occhi scuri, lucenti. Dal suo letto guardava lo schermo muto della televisione fissata su un angolo della stanza. Aveva un auricolare e sebbene gli sciocchi programmi della notte le facessero venire la voglia di gridare, lei non lo faceva. Non poteva.
Era immobile, seduta appoggiata ai cuscini nel letto. Non era in terapia intensiva vera e propria, ma le infermiere la controllavano ogni mezz'ora. Era affetta da sclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Lou Gehrig, e le restavano tre settimane, un mese di vita. Le era cominciata con una parestesia delle gambe, la tendenza a incespicare. Lei l'aveva combattuta, ma il male si era esteso: gambe, funzioni intestinali, braccia e infine la voce. Ora, crudelmente, aveva attaccato i muscoli facciali, comprese palpebre e sopracciglia. Dopo aver perso la parola, lei aveva imparato a comunicare usando un computer Apple adattato e un apposito programma di videoscrittura. Finché aveva potuto muovere le dita, ne aveva usate due e un interruttore speciale per scrivere messaggi senza sforzo. Perso l'uso delle dita, il terapeuta le aveva sistemato un interruttore a bocca e lei poteva ancora comunicare. Dopo era passata a un interruttore sistemato sul sopracciglio. Ma adesso Sybil Hart stava precipitando nel silenzio finale, la paralisi del diaframma. Tempo due o tre settimane... Per il momento il suo cervello era sano e lei poteva muovere gli occhi. Il commentatore della CNN parlava con foga di un'incursione di agenti della DEA in un laboratorio farmaceutico all'università di Los Angeles. Bekker entrò nella stanza e gli occhi di Sybil ruotarono verso di lui. «Sybil», disse con voce calma e gradevole. «Come stai?» L'aveva visitata già tre volte, interessato alla malattia che paralizzava il corpo, ma lasciava vivo il cervello. A ogni visita aveva constatato il progressivo peggioramento. L'ultima volta lei era riuscita a malapena a rispondere con il computer. Recentemente un'infermiera lo aveva informato che anche questa possibilità era scomparsa. «Possiamo parlare?» chiese Bekker nel silenzio. «Puoi passare al tuo programma?» Guardò la televisione, ma sullo schermo rimase la CNN. «Puoi cambiarlo?» Bekker si accostò al letto, vide i suoi occhi seguire i movimenti. La guardò. «Se puoi cambiarlo, sposta gli occhi in alto e in basso, per dire si. Se non puoi, spostali a destra e a sinistra, per dire no.» I suoi occhi andarono lentamente a destra e a sinistra. «Mi stai dicendo che non puoi farlo?» I suoi occhi si mossero in alto e in basso. «Ottimo. Stiamo comunicando. Ora... un momento.» Bekker si allontanò per guardare nel corridoio. Da lì vedeva solo l'angolo della stanza delle infermiere, a una trentina di metri da lui, e la cuffietta di una di loro occupata
alla scrivania. Nessun altro. Tornò al letto, tirò a sé una sedia e si sedette dove Sybil poteva vederlo. «Vorrei spiegarti i miei studi», le disse. «Riguardano la morte, e tu sarai un meraviglioso soggetto.» Gli occhi di Sybil lo fissavano. E quando il dottore se ne andò un quarto d'ora dopo, lei guardò il commentatore della CNN e cominciò a sforzarsi. Se almeno... se almeno. Venti minuti di tensione e improvvisamente vi fu un clic e comparve il programma di videoscrittura. Finalmente. Le serviva una B. Quando l'infermiera arrivò mezz'ora dopo, Sybil stava fissando lo schermo dove c'era una sola B. «Oh, che cosa è successo?» chiese l'infermiera. Sapevano tutti che Sybil Hart non poteva più usare il computer. Le avevano lasciato l'interruttore attaccato perché il marito di lei aveva insistito. Per il suo morale. «Deve avere avuto una piccola contrazione», disse la donna, dando una pacca sulla gamba insensibile di Sybil. «Ora le rimetto la televisione.» Sybil guardò disperata la B che scompariva, sostituita dal viso abbronzato e dai denti brillanti del commentatore della CNN. Quattro piani sotto Bekker gironzolava nel laboratorio di patologia, fischiando senza suono, perduto in fantasticherie. Il luogo era fresco, familiare. Pensò a Sybil morente. Se avesse potuto avere un paziente appena un po' prima, cinque minuti prima. Se avesse potuto aprire un corpo agonizzante, studiarne il meccanismo... Bekker inghiottì due pasticche di ecstasy. Beauty si mise a danzare. 7 Luce. Lucas mosse la testa e socchiuse un occhio. Il sole filtrava dalle stecche dell'avvolgibile e colpiva il letto. Pieno giorno? Si mise seduto, sbadigliò, guardò la sveglia. Le due. Il telefono suonava. «Perdio...» Era stato a letto nove ore: una dormita così non l'aveva fatta da mesi. Aveva staccato il telefono sul comodino per non essere disturbato nel sonno, qualora avesse avuto la fortuna di dormire. Perciò dovette buttarsi giù dal letto, stirarsi e andare a rispondere in cucina. «Pronto, Danveport.» Aveva lasciato su l'avvolgibile e dalla finestra vide una donna che passeggiava con un setter irlandese al guinzaglio. «Lucas? Daniel.»
«Sì.» «Ho parlato con alcune persone. Ci affidiamo alla televisione.» «Magnifico. A che ora è la conferenza-stampa?» La donna era più vicina e Lucas si rese conto di stare nudo di fronte a un davanzale che arrivava appena all'altezza delle ginocchia. «Domani.» «Domani?» Lucas si accigliò. «Dovevi farla oggi.» «Impossibile. Non c'è tempo. È stato deciso appena mezz'ora fa. La Omicidi non è troppo favorevole.» «Pensano di fare una brutta figura...» La donna stava per passare davanti alla casa e Lucas si acquattò per non farsi vedere. «Comunque sia, ci vorrà il resto della giornata per organizzarci. Devo incontrarmi con il procuratore della contea per gli aspetti legali, studiare se sia il caso di sorvegliare Bekker giorno e notte, e quant'altro. Stiamo vagliando la cosa. Ti ho lasciato dei messaggi in ufficio, ma siccome non sei venuto, ho immaginato che fossi occupato fuori.» «Uh, sì», rispose Lucas. Diede un'occhiata alla cucina. I piatti da lavare erano accatastati nel lavello e scatole di cibo precotto erano ficcate in un cestino di plastica. Sulla tavola c'erano pile di conti insieme con libri, riviste, cataloghi e la posta di due settimane, non ancora aperta. Viveva come un maiale. «Sono tornato in questo momento.» «Bene, faremo la conferenza-stampa domani nel primo pomeriggio. Probabilmente alle due. Ti vogliamo presente. Sai, per le pubbliche relazioni. Porta la solita attrezzatura segreta, a quelli della televisione piace.» «D'accordo. Verrò un po' prima domani, per fissare i dettagli. Ma oggi sarebbe stato meglio.» «Non posso», disse Daniel. «Troppe cose da risolvere. Vieni in ufficio?» «Più tardi, forse. Sto cercando di avere un colloquio con un tale che conosce Bekker.» Finita la conversazione, Lucas fece capolino alla finestra e notò una rossa che fingeva di guardare la facciata della casa per non vedere il suo cane che la faceva nei cespugli. «Maledizione.» Sgattaiolò in camera, trovò il suo blocco di appunti, si sedette sul letto e chiamò Webster Prentice all'università del Minnesota. Rispose una segretaria che gli passò l'ufficio di Prentice. «Pensa che l'abbia uccisa Bekker?» domandò Prentice, dopo che Lucas si fu presentato. «Chi ha menzionato Bekker?»
«Per quale altra ragione un poliziotto chiamerebbe me?» disse lo psicologo con voce gioviale da grassone. «Senta, l'aiuterei volentieri, ma sono la persona sbagliata. Le suggerisco di chiamare il dottor Larry Merriam.» Lo studio di Merriam era in un edificio dall'architettura strana, tutta angoli e giunture. Dentro era un labirinto, con gallerie e passaggi sopraelevati che lo univano a edifici adiacenti e uscite a pianterreno su livelli diversi. In alcune parti della struttura mancavano piani interi. Lucas girovagò per dieci minuti, chiese due volte informazioni, poi trovò una fila di ascensori e raggiunse il quinto piano dell'ala sinistra. La segretaria di Merriam era bassa, grassoccia e preoccupata; sembrava una caricatura di Disney nella sua fretta di rintracciare il capo. Larry Merriam, quando lei lo riportò dal laboratorio, era un uomo in camice bianco dalla faccia mite, con un principio di calvizie, grandi occhi scuri e mani piccole e inquiete. Fece accomodare Lucas nel suo studio, si premette le dita sulle labbra e sospirò: «Oh, povero me», quando Lucas gli espose la ragione della visita. «Questo è un colloquio riservato?» «Sicuro. Non le creerà problemi. A meno che non confessi di avere ucciso la signora Bekker», disse Lucas sorridendo, allo scopo di tranquillizzarlo. Lo studio di Merriam guardava su un autosilo. Le pareti erano color crema; una bacheca abbondava di vignette di soggetto medico. Da dietro la scrivania con il solo movimento delle labbra Merriam trasmise il messaggio: Chiuda la porta. Lucas eseguì. Merriam si rilassò, incrociando le mani sul petto. «Clarisse è un'ottima segretaria, ma trova difficoltà a mantenere un segreto», disse. Si alzò e, con le mani nelle tasche, guardò fuori della finestra che era dietro la scrivania. Un uomo in giacca rossa, con una valigetta apparentemente da medico, camminava sul tetto dell'autosilo. «E Bekker è un argomento inquietante.» «Tanta gente sembra turbata dal dottor Bekker», disse Lucas. «Noi stiamo cercando di trovare una svolta, un...» Non gli veniva in mente la parola giusta. «Un qualcosa che porti a degli sviluppi», disse Merriam, guardando Lucas da sopra la spalla. «Questo occorre sempre, in qualsiasi genere di ricerca.» «Esatto. Con Bekker...» «Che cosa sta facendo quell'uomo?» lo interruppe Merriam, mentre os-
servava il tetto dell'autosilo. L'uomo in giacca rossa si fermò accanto a una BMW blu notte, sbirciò attorno, tirò fuori una lunga lamina di metallo dalla manica e la inserì tra il vetro e la guarnizione di tenuta. «Penso, uh... Sta rubando la macchina, quello?» «Che cosa?» Lucas raggiunse la finestra e guardò. Il tizio si fermò un istante e osservò l'edificio dell'ospedale, come se percepisse una qualche presenza. Non poteva vedere i due perché la finestra aveva vetri fumé. Lucas ebbe un tuffo di piacere. «Sì. Devo telefonare, ci vorrà un minuto», sussurrò Lucas avvicinandosi al telefono sulla scrivania. «Faccia pure», disse Merriam, guardando un po' Lucas e un po' il ladro. «Schiacci il 9.» Lucas comunicò con il Centro operativo. «Shirl, sono Lucas. Da una finestra sto vedendo un tizio che si chiama E. Thomas Little. Forza la portiera di una BMW.» Le diede i dettagli e riattaccò. «Oh, mio Dio!» disse Merriam. E. Thomas Little aveva aperto la portiera e si era messo alla guida. «Quello è un mio vecchio cliente», spiegò Lucas. Provò ancora un fremito di piacere, gradito come una brezza primaverile. «E sta rubando l'auto?» «Sì. Ma non è molto bravo a farlo. In questo momento dà strattoni al bloccasterzo per staccarlo dal volante.» «Quanto ci metterà ad arrivare la polizia?» «Un minuto o poco più», rispose Lucas. «Altrimenti saranno mille dollari di danno.» Stettero a guardare in silenzio il ladro che armeggiava nell'auto. Sessanta secondi dopo fece retromarcia per uscire dal posto di parcheggio e si diresse verso la rampa di discesa. Mentre stava per imboccarla, un'auto della polizia, salendo sulla sinistra, frenò davanti a lui. Un minuto dopo l'uomo parlava con gli agenti. «Molto strano», disse Merriam, mentre il ladro veniva ammanettato e caricato sull'auto della polizia. Uno degli agenti guardò in su verso le finestre dell'ospedale, come aveva fatto Little, e agitò la mano in un saluto. Merriam mosse la mano a sua volta, si rese conto che non poteva essere visto, e si girò verso Lucas. «Lei voleva sapere di Michael Bekker.» «Sì.» Lucas tornò a sedersi. «Riguardo al dottor Bekker...» «Lui è... Lei sa di che cosa mi occupo?» «È un oncologo pediatrico», disse Lucas. «Cura i bambini affetti da cancro.»
«Sì. Bekker mi chiese se poteva osservare il mio lavoro. È molto quotato nel suo campo, la patologia, e si sta facendo una buona fama fra sociologi e antropologi per quella che lui chiama l''organizzazione sociale della morte'. Per questa ragione venne qui. Voleva fare un dettagliato esame della chimica che usiamo, e di come la usiamo, ma voleva anche conoscere come trattiamo la morte, quali convenzioni e strutture si sono sviluppate al riguardo.» «E lei fu d'accordo?» Merriam annuì. «Certo. Qui vi sono sempre dozzine di studi in corso: questo è un ospedale d'insegnamento e di ricerca. Bekker aveva le credenziali ed entrambi gli studi avevano un valore in sé. Effettivamente il suo lavoro portò a cambiamenti procedurali.» «Cioè?» Merriam si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Appariva stanco, pensò Lucas. Non come se avesse perso una notte, ma cinque anni di sonno. «Alcune cose non si notano quando si hanno sempre sotto il naso. Ogni qualvolta un paziente sta per morire, be', vi sono cose che vanno fatte al corpo e nella stanza. Bisogna pulire bene, prepararsi a trasferire il corpo a Patologia. Alcuni pazienti sono lucidi anche da moribondi. Quindi, che effetto deve fare quando una donna arriva armata di straccio, disinfettante e granata, getta un'occhiata nella stanza e controlla se il malato è già spirato? Il paziente capisce che noi le abbiamo detto: 'Quello se ne andrà oggi'.» «Brrr», fece Lucas, sussultando. «Sì. E Bekker osservava anche problemi più sottili. Uno dei guai di questo lavoro è che non tutto il personale medico è all'altezza di farlo. Noi curiamo bambini con tipi di cancro rari e in fase avanzata, e quasi tutti muoiono. Quando se ne vedono morire tanti, e si vede la sofferenza dei loro genitori, be', si ha un'enorme percentuale di infermiere, tecnici e perfino dottori stressati ed esauriti, con la sindrome della 'bruciatura'. Spesso manifestano problemi di depressione cronica inabilitante. Questa può andare avanti per anni, anche se la persona ha smesso di curare i bambini. Comunque la collaborazione di Bekker, pensammo, ci avrebbe fornito idee per evitare tali guai.» «Ragionevole, direi», commentò Lucas. «Ma da come lo dice... Bekker fece cose sbagliate? Che cosa successe?» «Non so se successe qualcosa», disse Merriam, girando la testa a guardare verso il cielo. «Proprio non lo so. Ma dopo che lui era qui da una settimana o due, i dipendenti cominciarono a venire da me. Lui li rendeva
nervosi. Perché non studiava tanto le consuetudini di morte, le strutture, i procedimenti, le formalità e via dicendo, ma osservava piuttosto la morte in sé. E ci godeva. Il personale lo soprannominò allora 'Dottor Morte'.» «Gesù», esclamò Lucas. Sloan aveva detto che Bekker era chiamato così in Vietnam. «Ci godeva?» «Sì.» Merriam si protese e poggiò le mani a pugno sul piano della scrivania. «Quelli che lavoravano con lui dissero che pareva eccitarsi quando la morte si approssimava. L'agitazione è comune tra il personale medico... consideri un bambino che ha sempre lottato per vivere, e un dottore che ha lottato con lui e poi lo vede morire. In queste circostanze anche chi ha una lunga carriera alle spalle perde la calma. Bekker era diverso. Si eccitava come chi manifesta un piacere intellettuale.» «Non sessuale?» «Non saprei. Vi era un'intensità di sensazione dell'ordine del piacere sessuale. In ogni caso era piacere, come mi riferirono. Quando un bambino moriva, lui assaporava una certa soddisfazione.» Merriam si alzò e, aggirata la poltrona, sostò davanti alla finestra. Un agente aveva rimesso la BMW al suo posto e stava scrivendo un messaggio al proprietario. «Non so se posso dirlo, potrei espormi a critiche.» «Le ho garantito riservatezza», lo rassicurò Lucas. Merriam continuò a guardare fuori e Lucas comprese che l'uomo voleva evitare di guardarlo in faccia. Il silenzio si protrasse. «Vi è un ritmo verso la morte nei malati di cancro», disse alla fine Merriam lentamente, come se soppesasse le parole. «Un bambino potrebbe essere a un passo dalla morte, ma sai che non morirà. Anzi, il più delle volte migliora. I sintomi regrediscono. Il bambino si rimette seduto, chiacchiera, guarda la TV. Sei settimane dopo è morto.» «Remissione», disse Lucas. «Sì. Bekker stette qui tre mesi, senza un orario. Facemmo un accordo: lui poteva venire quando voleva, di giorno o di notte, per osservare i malati. Non c'era molto da vedere di notte, ma lui volle libero accesso alle corsie. Ci parve utile e accettammo. Tenga presente che è un professore universitario con eccellenti credenziali. Però non volevamo che qualcuno girovagasse per le corsie senza controllo. Gli chiedemmo di mettere la firma di entrata e uscita. Nessun problema, lui comprese. Dunque, in quel periodo morì un bambino. Anton Bremer. Undici anni. Era all'ultimo stadio, con dosi massicce di farmaci.» «Droga?»
«Sì. Era alle soglie della morte, ma quando morì fu una sorpresa. Come ho detto, vi è un ritmo verso la morte. Lavorando in corsia, lo sappiamo. La morte di Anton fu insolita. D'accordo, può succedere che uno muoia quando non ce lo aspettiamo. Be', sul momento non ci pensai troppo. Tirai avanti con il lavoro.» «Bekker ebbe qualche responsabilità in quella morte?» «Mah. Non avrei sospettato, se il suo atteggiamento verso la morte dei nostri pazienti non avesse irritato il personale. Erano tutti incavolati. Alla fine dei tre mesi, periodo di prova stabilito, decisi di non prorogare l'incarico. Posso farlo senza specificarne il motivo. Per il bene del reparto.» «Lui si arrabbiò?» «No... ovviamente. Fu molto cordiale, disse che capiva eccetera. Due o tre settimane dopo venne da me un'infermiera — non lavora più qui perché 'si è bruciata' — e mi disse che il pensiero di Anton la tormentava. Non poteva togliersi dalla testa che Bekker lo avesse uccìso. Il bambino aveva avuto una fase di peggioramento, poi si era stabilizzato e stava recuperando le forze. Lei aveva fatto il secondo turno quel giorno, dalle quindici a mezzanotte. Tornata la mattina dopo, aveva trovato Anton morto. Aveva ripensato a Bekker in un secondo tempo ed era andata a controllare a che ora lui aveva firmato quella notte. Sul registro non figurava la sua firma. Ma lei si ricordava di averlo visto in giro, e andare due volte dal bambino; alla fine del suo turno Bekker era ancora in ospedale.» «Quindi l'infermiera pensa che lui non abbia firmato per cautelarsi qualora fossero state fatte indagini su decessi inspiegabili.» «Esatto. Ne parlammo e le dissi che mi sarei occupato della cosa. Interrogai altri due dipendenti che non avevano ricordi precisi, ma pensavano che lui fosse in ospedale. Telefonai a Bekker, con la scusa che stavamo indagando su un furto, e gli chiesi se avesse mai visto qualcuno prendere di nascosto degli abiti da fatica dallo sgabuzzino delle scorte. Lui disse di no. Poi gli chiesi se aveva firmato sempre all'arrivo e all'uscita, e lui rispose che riteneva di sì, ma forse qualche volta se n'era scordato.» «Non si fa cogliere in fallo», commentò Lucas. «No.» «Vi furono altre morti? Come quella di Anton?» «Una. La seconda o terza settimana in cui lui era qui nel nostro reparto. Una bambina con cancro alle ossa. Ci ripensai dopo, ma... non so.» «Furono fatte autopsie sui bambini?» «Sicuro. Complete.»
«Le fece lui? Lo sa?» «No, no, abbiamo un collega specializzato.» «Trovò cose insolite?» «No. Vede, erano bambini molto indeboliti, così prossimi alla morte che se Bekker si fosse avvicinato e avesse stretto fra due dita il tubo di alimentazione dell'ossigeno, questo sarebbe bastato. Ma l'autopsia una cosa così non la scopre, per via dell'eccessiva sozzura chimica che troviamo in casi di cancro: quantità massicce di droga, effetti delle radiazioni, funzioni corporee fortemente alterate. Al momento dell'autopsia gli organismi di questi bambini sono un caos.» «Ma lei pensa che Bekker potrebbe averli uccisi.» «È troppo grave», disse Merriam voltandosi a guardare Lucas. «Se ne fossi stato convinto avrei chiamato la polizia. Se vi fossero state indicazioni mediche o qualcuno che aveva visto o aveva motivo di crederlo colpevole, avrei fatto intervenire la polizia. Ma non c'era niente, tranne una sensazione. E questa poteva essere dovuta a un nostro stato psicologico, il risentimento verso l'estraneo che ficca il naso nei 'rituali di morte', come Bekker li chiamava.» «Ci sono pubblicazioni di Bekker?» chiese Lucas. «Sì. Posso darle i titoli. O meglio, posso chiedere a Clarisse di cercare delle fotocopie.» «Gliene sarei grato», disse Lucas. «Be', lei sa che cosa è successo l'altra notte.» «La moglie di Bekker è stata uccisa.» «Ci stiamo occupando del caso. Alcuni, francamente, pensano che lui possa averci messo lo zampino.» «Mah. Ho qualche dubbio», disse Merriam con aria cupa. «Mi pareva che lo ritenesse capace.» «Vede, se avesse saputo che sua moglie sarebbe stata uccisa, lui sarebbe andato là a vedere», precisò Merriam. Poi, con improvviso imbarazzo, aggiunse: «Forse esagero». «Huh», disse Lucas e, scrutando l'altro: «Lui è ancora in ospedale, si occupa di pazienti vivi?» «Sì. Non è più nel mio reparto, ma in diversi altri. L'ho visto un paio di volte nella sala operatoria e in Medicina generale, dove trattano tipi speciali di malattie.» «Ha mai fatto parola a nessuno...?» «Senta, io non so niente», disse Merriam stizzito. «È un problema mio.
Se dico qualcosa, insinuo che lui è un assassino. Per l'amor di Dio. Non posso farlo.» «Una parolina in segreto...» «In questo posto? Resterebbe segreta per trenta secondi, si e no», dichiarò Merriam, passandosi la mano sui pochi capelli. «Senta, finché non si è lavorato in un ospedale universitario non si sa che cosa significa 'distruzione della personalità'. Vi sono dieci persone del nostro corpo medico convinte che il prossimo anno saranno candidate al Nobel, se qualche idiota dell'ufficio accanto non li fa ragionare. Se ipotizzassi qualcosa su Bekker, la voce si spargerebbe in cinque minuti. Lui lo verrebbe a sapere e io sarei additato come la fonte. Non posso fare niente.» «Va bene.» Lucas si alzò per andarsene. «Mi procura quelle copie degli articoli?» «Certamente. E se c'è dell'altro che possa fare per lei, mi chiami e l'aiuterò. Ma vede in che ginepraio sono.» «Sì.» Lucas si mosse, ma Merriam lo fermò con un gesto improvviso. «Continuo a pensare a come definire il comportamento di Bekker di fronte alla morte», disse. «Sa, quando si legge di quei fanatici che si battono contro la pornografia, e si percepisce che non sono molto normali? Che l'attrazione per la materia va molto al di là di un semplice interesse? Come se uno avesse una raccolta di duemila riviste pornografiche per poter dimostrare quanto tutto ciò è terribile. Ecco, così era Bekker. Mostrava una specie di pia tristezza quando un bambino moriva, ma si percepiva che sotto sotto gongolava di vero piacere.» «Lo descrive come un mostro», disse Lucas. «Sono un oncologo», rispose semplicemente Merriam. «Credo nei mostri.» Lucas uscì dall'ospedale soprappensiero. Una graziosa infermiera gli sorrise e lui ricambiò automaticamente, ma dentro di sé non sorrideva. Bekker aveva ucciso i bambini? L'esperto di medicina legale era grasso, malinconico, con guance e labbra così rosate e lucide che sembrava essersi divertito con il trucco che si applica ai morti. Diede a Lucas il referto su Stephanie Bekker. «Se vuoi la mia opinione, il tizio che l'ha fatta fuori era uno psicopatico o voleva apparire tale», disse. «Il cranio era come un uovo rotto, tutto in frammenti. L'arma del delitto era una di quelle grosse bottiglie che i turisti portano dal Messico. Di colore turchese, più vaso che bottiglia. Il vetro
doveva avere uno spessore di circa due centimetri. Quando si è rotta, lui l'ha usata come un coltello, e ha infilato le punte di vetro nei suoi occhi. Tutto il volto era mutilato, lo vedrai nelle foto. La cosa è...» «Sì?» «Il resto del corpo non è stato toccato. Lui non ha assestato colpi alla cieca, ferendola da qualsiasi parte. Prendi uno imbottito di droga, eroina, PCP, be', quello dondola. Se insegue la vittima, e se la vittima si rifugia dietro un'auto, lui la raggiunge. Se non può colpirla in faccia, colpisce spalle, torace, schiena, piedi, e morde, graffia, fa qualunque cosa. Questa è un'aggressione quasi... tecnica. Chi l'ha fatta era un pazzo con qualche mania per il volto e gli occhi, oppure voleva apparire tale.» «Grazie dell'informazione», disse Lucas. Si sedette a una scrivania libera, aprì la cartelletta e guardò le foto. Anomalo, pensò. Il referto era tecnico. In base alla temperatura corporea e alla mancanza di cianosi, la donna era morta appena prima che arrivassero i barellieri. Non aveva avuto possibilità di reagire: benché fosse forte, con unghie lunghe, non erano stati trovati né sangue né frammenti di pelle sotto le unghie. Non c'erano abrasioni sulle mani. Aveva avuto un rapporto sessuale, probabilmente un'ora prima della morte. Nessuna contusione attorno alla vagina e vi erano indicazioni che l'atto era stato volontario. Si era lavata dopo il rapporto, e i campioni prelevati per l'analisi del DNA potevano non risultare validi. Il test era in corso. L'esperto aveva annotato che la casa era stata trovata intatta, senza segni di lotta o di una lite. La porta d'ingresso non era stata chiusa a chiave, e neppure quella di servizio che collegava la cucina al box. Una scia di sangue conduceva nel box. Anche la serranda del box non era chiusa a chiave, quindi l'aggressore poteva essere arrivato dal vicolo. Vi era un'unica impronta di mano insanguinata sulla parete della cucina, e una scia di sangue dal punto dove lei era caduta inizialmente. L'esperto supponeva che la donna fosse restata in vita da venti a trenta minuti dopo l'aggressione. Lucas chiuse la cartelletta e rimase a fissare il piano della scrivania. Poteva essere stato Casanova. Se avesse avuto in mano dei fatti consistenti, ci avrebbe scommesso sopra. Ma quel genere di violenza era raramente riscontrabile dopo un felice incontro sessuale, specialmente senza i preliminari di lancio di vasi, piatti, e di percosse reciproche. E poi c'era Bekker. Tutti ne parlavano con nervosismo. Il grasso medico si stava lavando le mani quando Lucas se ne andò.
«Ci ricavi qualcosa?» gli chiese. «Anomalo», disse Lucas. «Un problema.» «Se non è un drogato...» cominciò a dire Lucas. «Allora hai un grosso problema», completò il grassone, scrollando via l'acqua dalle sue sottili dita rosate. Le giornate si stavano allungando. Nel cuore dell'inverno faceva buio alle quattro. Quando Lucas arrivò al municipio c'era ancora luce sebbene fossero le sei passate da un pezzo. Sloan era già andato via, ma alla Narcotici trovò Del che stava cercando qualcosa nel classificatore. «Novità?» chiese Lucas. «Non da parte mia», disse Del. Richiuse il cassetto. «Ci sono state riunioni tutto il giorno. I capi discutevano su chi doveva fare che cosa. Penso che non avrai la tua squadra di sorveglianza.» «Perché no?» Del si strinse nelle spalle. «Mi sa che loro sono contrari. Continuano a dire che non c'è nulla contro Bekker, anche se qualche agente della Narcotici pensa che sia stato lui. Intendendo me, e tu sai quel che pensano di me.» «Sì.» Lucas sogghignò suo malgrado. A loro sarebbe piaciuto vedere Del in divisa a fare multe per strada. «La conferenza-stampa si fa?» «Domani alle quattordici», rispose Del. «Sei stato in giro dai tuoi uccellini?» «Sì. Niente da quelli. Ma ho parlato con un dottore all'ospedale dell'università; lui pensa che Bekker potrebbe avere ucciso un bambino. Forse due.» «Bambini?» «Sì. Nel reparto di Oncologia. Se necessario, me ne servirò per convincere Daniel a farlo sorvegliare.» «Giusto», disse Del. «Nulla funziona bene come il ricatto.» La segreteria telefonica di Lucas aveva registrato una dozzina di messaggi, nessuno dei quali sul caso Bekker. Lui fece due chiamate di risposta, controllò i numeri telefonici sulla penna ottica e chiuse bottega. Il palazzo del municipio era quasi buio e i suoi passi echeggiavano nei corridoi. «Davenport.»
Lui si voltò. Karl Barlow, sergente agli Affari interni, stava avvicinandosi a lui con un fascio di carte in mano. Era un uomo piccolo, spalle quadrate, viso quadrato, capelli a spazzola e muscolatura da ginnasta. Portava sempre camicie bianche a maniche corte e pantaloni ben stirati. Nel taschino sul petto teneva un portapenne di plastica con una fila ordinata di biro. Era, per sua ammissione, un eccellente cristiano. Un eccellente cristiano, pensò Lucas, ma non un bravo agente nelle strade. Barlow aveva il guaio dell'ambiguità. «Ci occorre una deposizione sulla rissa dell'altra notte. Ti stavo cercando.» «Non è stata una rissa, ma l'arresto di un noto pappone e spacciatore con l'accusa di aggressione a mano armata», disse Lucas. «Un minorenne. Ti ho cercato ripetutamente in ufficio, ma non ci sei mai.» «Sto lavorando al delitto Bekker. Mancano indizi», disse Lucas conciso. «Non posso farci nulla», replicò Barlow, piantandosi il pugno sul fianco. Lucas aveva sentito dire che Barlow era stato allenatore di una squadra giovanile di football e si era trovato nei guai con dei genitori per avere insistito che un ragazzo si fingeva infortunato. «Devo prendere appuntamento con uno stenografo del tribunale, perciò dimmi quando puoi testimoniare.» «Dammi un paio di settimane.» «Un po' troppo», disse Barlow. «Vengo quando posso», replicò Lucas con impazienza, cercando di sganciarsi. «Non c'è urgenza, giusto? E potrei anche portare un avvocato.» «È nel tuo diritto.» Barlow si avvicinò di più e spinse il fascio di carte contro Lucas. «Ma queste voglio che le sistemi, e presto. Se cogli il senso.» «Sì. L'ho colto», rispose Lucas. Si voltò verso Barlow e se lo trovò a pochi centimetri dal naso. L'altro dovette arretrare di mezzo passo per guardarlo negli occhi. «Ti farò sapere quando.» E io ti scaraventerò dalla finestra se mi dai una fregatura, pensò Lucas. Si allontanò e salì le scale. Barlow gridò: «Presto», e Lucas di rimando: «Sì, sì». Fuori, si fermò sul marciapiede, guardò a destra e a sinistra e si scosse come un cavallo infastidito dalle mosche. Sembrava che la giornata fosse andata storta. Lui provò un senso di attesa, ma di che cosa? Attraversò la strada e si diresse all'autosilo.
8 Pressione. Aprì il pugno, palpò la pastiglia nella mano, la leccò, sentì l'acidità della droga e il sapore salato del proprio sudore. Troppa? Doveva stare attento. Non poteva sanguinare quel giorno, perché usciva in auto. Dopo subentrò in lui l'urgenza e non ci pensò più. Chiamò Druze da una cabina pubblica. «Dobbiamo rischiare», gli disse. «Se faccio fuori la Armistead stanotte, la polizia diventerà matta. Incontrarci sarebbe difficile dopo.» «Gli sbirri sono ancora tra i piedi?» Druze non aveva un tono preoccupato — la sua scala emozionale doveva essere limitata — ma interessato. «Voglio dire, la Armistead va sempre bene?» «Sì. Loro continuano a tornare. Vogliono me, ma non hanno trovato nulla. La Armistead li metterà fuori strada.» «Potrebbero venire a sapere qualcosa se trovassero il tizio con l'asciugamano», disse tristemente Druze. «Appunto per questo dobbiamo vederci.» «All'una?» «Sì.» Le foto ricordo di Stephanie erano pressate in scatole da scarpe nell'armadio dov'era il necessario per cucire, ficcate in cesti di paglia in cucina, accatastate su un tavolo da disegno nello studio, nascoste in cassetti della scrivania e del cassettone. Tre album in pelle erano in biblioteca, con foto che risalivano alla sua infanzia. Fermandosi spesso davanti ai molti specchi della casa per esaminare la propria nudità, Bekker si muoveva fra le antichità a caccia di foto. Nel cassettone di lei trovò una busta di plastica con un diaframma — sulle prime non lo identificò — scosse il capo e lo rimise a posto. Quando fu certo di avere raccolto tutte le foto, si preparò un panino, inserì nel giradischi i Carmina Burana di Carl Orff, si adagiò in poltrona e rivisse mentalmente il funerale. Era stato bravo, pensò. Il poliziotto dall'aspetto duro. Quello non lo capiva, ma Swanson se lo era lavorato bene. Intuiva di averlo sconfitto. Il duro, d'altro canto... i suoi abiti erano troppo eleganti, decise. Mentre masticava, il suo occhio colse un piccolo movimento all'angolo estremo della stanza. Girò la testa per controllare: un altro specchio, una delle dodici lamine romboidali inserite alla base di un lume francese degli
anni Venti. Si mosse di nuovo, si accomodò. I suoi occhi si riflettevano in uno degli specchi e a distanza parevano buchi neri. I suoi genitali si riflettevano in un altro, e lui rise divertito. «Un simbolo», disse a voce alta. «Ma di che cosa?» Rise ancora e si mise a ballare la giga. L'ecstasy faceva sentire i suoi effetti. A mezzogiorno si vestì in modo sportivo, infilò le foto in una borsa della spesa e uscì dal retro per prendere l'auto. Era possibile che la polizia lo sorvegliasse? Ne dubitava, che altro si aspettavano che facesse? Stephanie ormai era morta; comunque non avrebbe corso rischi. In auto fece un percorso tortuoso prima di raggiungere un piccolo centro acquisti. Nessuno lo pedinava. Girovagò per alcuni minuti tra i vari reparti, ancora guardingo, comprò carta igienica e asciugamani di carta, dentifricio, deodorante e aspirina, poi tornò alla macchina. Percorse altre strade avanti e indietro: nulla. Si fermò a un emporio e usò il telefono all'esterno dell'edificio. «Sono per strada.» «Benissimo. Sono solo.» Druze abitava in un appartamento ai margini della zona di teatri e cinema sulla sponda occidentale del fiume. Bekker, sempre vigile, passò due volte davanti allo stabile prima di parcheggiare in strada, attraversò l'area di parcheggio e suonò il citofono. «Sono io», disse. La porta si aprì e lui entrò nell'androne. Usò le scale. Druze stava guardando un documentario sulle immersioni di subacquei su un canale via cavo. Spense la TV con il telecomando quando Bekker arrivò. «Sono lì le foto?» chiese, guardando la borsa gonfia. «Sì. Ho portato tutte quelle che ho trovato.» «Vuoi una birra?» disse Druze con qualche imbarazzo. Non era abituato a ricevere gente; nessuno andava da lui, non aveva amici. «Sicuro.» Bekker non gradiva troppo la birra, ma si divertiva a fingersi in cordiali rapporti con lui. «Spero che lui ci sia», disse Druze. Prese una bottiglia di Bud Light dal frigo e la portò a Bekker che, inginocchiato sul tappeto del soggiorno, stava vuotando la borsa. Aprì una delle scatole da scarpe e ne rovesciò il contenuto. «Lo troveremo», disse Bekker. «Un omone, biondo, scialbo, faccia da scandinavo, carnagione chiara, grassoccio. Discreti attributi virili», disse Druze.
«Ne frequentavano una mezza dozzina così», commentò Bekker. Mandò giù un sorso di birra e fece una smorfia. «Molto probabilmente appartiene al mondo degli antiquari. Sarebbe un problema perché non li conosco tutti. Ma potrebbe anche essere uno dell'università. Non so. Questo amorazzo della strega è l'unica cosa che mi abbia sorpreso.» «Il guaio è che gli antiquari sono considerati frequentatori di teatro. Come tutto l'ambiente artistico. Lui potrebbe vedermi.» «Sul palcoscenico, con il trucco, appari diverso», disse Bekker. «Sì, ma dopo, quando usciamo nel foyer e baciamo il culo al pubblico, lui potrebbe vedermi da vicino. E se mi vede...» «Lo troveremo», disse di nuovo Bekker, rovesciando l'ultima scatola di scarpe. «Io te le passo, tu guardi.» Erano centinaia, e ci volle più tempo di quanto Bekker avesse calcolato. Stephanie con amici e amiche, nei boschi, a far spese, con parenti. Nessuna foto di Bekker. A metà lavoro Druze si tirò in piedi, ruttò e disse: «Continua a metterle in fila. Vado a pisciare». «Mmm», annuì l'altro. Appena Druze si fu chiuso nel bagno, Bekker si alzò, aspettò un minuto, poi andò svelto in cucina e aprì l'ultimo cassetto sotto il banco. Carte geografiche, conti pagati, un paio di cacciaviti, bustine di fiammiferi... Rimestò in quel disordine, trovò la chiave, se la mise in tasca, richiuse il cassetto senza fare rumore e tornò nel soggiorno proprio quando Druze tirava l'acqua. Era stato lì altre volte, sperando sempre di avere l'occasione di recuperare la chiave. Finalmente c'era riuscito. «Altri candidati?» chiese Druze, uscendo dal bagno. Bekker era davanti alla pila di foto. «Un paio», rispose alzando il capo. «Vieni. Si sta facendo tardi.» Vi apparivano diversi uomini biondi di notevole corporatura, ma il Minnesota, in fondo, ne era pieno. Per due volte Druze pensò di averlo individuato, ma dopo un più attento esame alla luce di una lampada fece cenno di no. «Forse dovresti vederli di persona. Con discrezione», suggerì Bekker. «No, non è nessuno di loro», confermò Druze scuotendo il capo. «Ne sei convinto?» «Quasi al cento per cento. Non l'ho visto nel modo migliore perché io ero sul pavimento e lui in piedi, però era più robusto di questi delle foto. E grassoccio.» Ne prese una di Stephanie con un uomo biondo, scosse il capo e la gettò nel mucchio.
«Maledizione. Ero sicuro che ci fosse», disse Bekker. Le foto erano tutte attorno a loro come foglie d'autunno; frustrato, ne prese una manciata e le scagliò contro una scatola vuota. «Quella strega chiacchierava con tutti, fotografava tutti, non dava mai un minuto di respiro a nessuno. Perché non aveva anche la foto di lui? Deve esserci.» «Forse è uno nuovo. O forse lei le ha tolte. Hai guardato nella sua roba?» «Ci ho perso una mezza giornata. Aveva un diaframma, ci credi? I poliziotti non ne hanno parlato. Ma non c'è altro. Nessuna foto.» Druze cominciò a raccoglierle e buttarle nelle scatole. «Allora che cosa facciamo? Andiamo avanti? Con la Armistead?» «C'è un rischio», ammise Bekker. «Se non troviamo il tizio e togliamo di mezzo la Armistead, quello potrebbe decidere di presentarsi alla polizia. Specialmente se ha un alibi per l'ora in cui la Armistead viene uccisa... per quanto ne sappiamo, non si fa vivo perché ha paura di essere accusato di omicidio.» «Se non ci sbrighiamo a eliminare la Armistead, lei mi scaricherà», disse chiaramente Druze. «Questa porcheria di spettacolo, Whiteface, non durerà. Lei mi odia. Lottiamo per restare sul libro-paga e io sarò il primo a essere buttato fuori.» Bekker fece un giro attorno alla stanza, pensando. «Senti, se quest'uomo, l'amico di Stephanie, si presenterà alla polizia, loro me lo diranno in un modo o in un altro. Non mi meraviglierei che lo portassero a darmi un'occhiata, tanto per essere sicuri che io non abbia architettato l'alibi di San Francisco. Comunque, se scoprirò chi è prima che lui abbia la possibilità di vederti, lo elimineremo. Quindi se togliamo di mezzo la Armistead e tu rimani nascosto, tranne quando lavori...» «Ma allora sarò truccato.» «Sì.» «Ecco quello che dovremo fare», decise Druze. «Forse continuando a cercare scopriremo il bastardo. Altrimenti si vedrà.» «Lo individuerò prima o poi», disse Bekker. «È solo questione di tempo.» «Come ci terremo in contatto se gli sbirri ti staranno addosso?» «Ho già risolto il problema.» Il collega di Bekker, che aveva la stanza accanto alla sua nel reparto di Patologia, lavorava in Inghilterra in quel periodo. Prima di partire i due avevano fatto una chiacchierata e Bekker aveva notato, senza un secondo
fine, che l'altro teneva la segreteria telefonica nell'ultimo cassetto della scrivania con il relativo manuale per l'uso. Una notte in seguito, quando non c'era nessuno, Bekker era riuscito a far scattare la vecchia serratura dell'ufficio del collega, era entrato, aveva attivato l'apparecchio e utilizzato il manuale di istruzioni per elaborare un nuovo codice di accesso per l'opzione di memorizzazione. Bekker diede a Druze i numeri del nuovo codice. «Puoi chiamare da qualsiasi telefono a toni e lasciare un messaggio. Io posso fare lo stesso per riceverlo o per lasciarne uno a te. Dovresti verificare ogni tre o quattro ore per sentire se c'è qualcosa.» «Bene», confermò Druze. «Ma provvedi a cancellare le registrazioni.» «Si possono cancellare anche con comando a distanza», chiarì Bekker. Druze annotò i numeri di codice su un'agenda. «Allora è tutto stabilito», disse. «Sì. Dovremmo forse evitare contatti per un poco.» «E sistemeremo la Armistead come d'accordo?» Bekker guardò lo gnomo e il sorriso gli sfiorò la faccia. Druze lo considerò un segno di gioia. «Sì», disse. «La sistemeremo. Stanotte.» Le finestre dai vetri istoriati del salotto di Bekker provenivano da una chiesa luterana del North Dakota, abbandonata dalla congregazione che aveva scelto climi più caldi e lavori migliori. Stephanie aveva comprato quelle finestre, le aveva fatte trasportare nelle «Città gemelle», Minneapolis e St. Paul, e aveva imparato l'arte del vetro istoriato. Quelle finestre restaurate erano lì, sotto i suoi occhi, tenebrose nella notte, ignorate. Bekker si concentrò, invece, sul nodo allo stomaco che si stava allentando. Una torbida esultanza: ma troppo presto. La rintuzzò e si sedette su un caldo tappeto orientale color cremisi e giallo limone, con un martello a gancio bagnato e il pacco di asciugamani di carta. Il martello lo aveva comprato mesi prima e riposto in un cassetto nel seminterrato, senza usarlo. Ne sapeva abbastanza della polizia scientifica per non correre il rischio che una analisi chimica rilevasse qualcosa di appartenente unicamente alla casa: prodotti di rifinitura di Stephanie, polvere di vetro, o depositi di piombo. Sarebbe stato sciocco rischiare. Lo aveva lavato con il detersivo per i piatti, messo sul tappeto e ora lo tamponava con un pezzo di carta per asciugarlo. Dopo lo avrebbe maneggiato esclusivamente con i guanti. Lo avvolse in altra carta e lo lasciò sul tappeto. Aveva ancora molto tempo, pensò. I suoi occhi vagarono nella stanza e
si posarono sulla giacca sportiva appesa alla sedia. Prese il portasigarette dal taschino e ne controllò il contenuto, valutando la situazione. Niente Beauty stanotte. La cosa richiedeva una fredda energia. Mise sulla lingua una pastiglia di PCP, fu tentato di morderla, poi la inghiottì. E una metanfetamina, per potenziare l'azione; normalmente le anfetamine erano per l'estasi di Beauty, ma non abbinate all'altra droga. Elizabeth Armistead era un'attrice e faceva parte del consiglio di amministrazione del Lost River Theater. Un tempo aveva recitato a Broadway. «Quella donna pestifera non mi darà mai una parte.» Druze era ubriaco e vaneggiava la sera di sei mesi prima, quando a Bekker era venuta la brillante idea. «Come quel film... com'era intitolato? Sul treno...? Lei mi butterà fuori. Ha una parata di bei ragazzi. Le piacciono i belli. Io con questa faccia...» «Che cosa è successo?» «La compagnia votò per fare il Cirano. Chi si prese la parte principale? Gerrold. Il bel ragazzo. Lo resero brutto e a me toccò di portare la maledetta picca nelle scene di battaglia. Prima che quella strega arrivasse — si fece passare per un'attrice di Broadway, figuriamoci, ma in realtà la nominarono consigliera perché non sapeva recitare — io ero qualcuno. E di colpo mi ritrovo a portare una picca.» «Che cosa conti di fare?» Druze aveva scosso il capo. «Non lo so. È difficile trovare lavoro. Sulla scena, con i riflettori, il trucco, questa faccia va bene. Ma quando entro dalla porta, la gente mi guarda, quelli del teatro, e dice: «Puah, come sei brutto. I brutti in teatro non piacciono. Servono i belli». Bekker aveva chiesto: «E se Elizabeth Armistead scomparisse?» «Che cosa intendi dire?» Ma Bekker, cogliendo il repentino bagliore mortale negli occhi di Druze, aveva compreso quale pensiero si nascondeva nella mente dello gnomo. Senza la Armistead le cose sarebbero state diverse. Proprio come lo sarebbero state per lui, se Stephanie fosse scomparsa... Bekker aveva nascosto la tuta da lavoro in un sacchetto in fondo al cassettone; l'aveva comprata tre mesi prima in un grande magazzino. Era blu, come quelle dei meccanici. La indossò sopra i jeans e la maglia sportiva, prese dall'armadio il berretto analogo e se lo mise. Druze, pratico di costumi, gli aveva consigliato quel travestimento. Indicava un certo tipo di
lavoro. Nessuno avrebbe badato a lui. Bekker controllò l'ora, e notò la prima stonatura con un fremito: portava un orologio Dalí, oblungo, che gli ornava il polso come una salsiccia. Meraviglioso. E la potenza arrivava, oscurandogli la vista, facendo apparire tutto ultravioletto. Si frugò in tasca, prelevò dal portasigarette una pastiglia per darsi la carica, la inghiottì. Che piacere... Si mosse barcollando nella stanza, sentì l'effetto, la potenza scorrere nelle vene, duecento volte l'eccitazione da nicotina. Si controllò, tenne in serbo la potenza, avvertì la tensione. Il tempo stringeva. Si affrettò a scendere, guardò da una finestra se fuori era buio, poi prese con cura il martello e lo infilò nella tasca destra. Il resto dell'attrezzatura, il portablocco a molla, il contatore e la targhetta di identificazione erano sulla scrivania di Stephanie. Il portablocco con i relativi fogli faceva parte del travestimento. Così pure il contatore che Druze gli aveva trovato in un negozio di articoli elettronici di seconda mano, pagandolo una sciocchezza. Era in disuso, con un grosso quadrante analogico, che in origine era servito per controllare campi magnetici attorno a linee elettriche. La targhetta d'identificazione era di Bekker, al tempo in cui lavorava nel vecchio ospedale. Lui l'aveva laminata, vi aveva praticato un foro e l'aveva appesa al collo con un cordoncino elastico. Fece un respiro profondo, controllò mentalmente se aveva tutto con sé. Uscì dal retro e nel box usò l'apriporta automatico per sollevare la serranda. Percorse il lungo vicolo, proseguì nel seguente, buttando l'occhio sullo specchietto retrovisore. Nessuno. Attraverso strade secondarie arrivò alla casa di Elizabeth Armistead in poco più di otto minuti. Era importante. Se Druze veniva sospettato, lui doveva conoscere l'ora di arrivo. Sperò che la donna ci fosse. «Fa mezz'ora di meditazione, poi beve una tisana e viene a teatro per i preparativi», lo aveva informato Druze. «È pignola in questo. Una volta saltò la meditazione e per tutto lo spettacolo dimenticò delle battute.» Druze... Il piano prevedeva che Bekker telefonasse a Druze al momento di uscire di casa per andare dalla Armistead. Ricevuta la telefonata, a un lontano apparecchio nella cabina di controllo del teatro, Durze doveva chiamare la biglietteria usando il suo migliore accento californiano. Parla Donaldson Whitney. Elizabeth Armistead ha detto che mi avrebbe messo nella lista per due biglietti omaggio. Sono di passaggio in città, ma ho tempo per vedere lo spettacolo. Potrebbe telefonarle e chiederle conferma
? Avrebbero chiamato per chiedere conferma. Lo facevano sempre. Troppi fessi volevano entrare gratis. Ma Donaldson Whitney era un critico teatrale di Los Angeles. La Armistead avrebbe fatto salti di gioia... e quelli della biglietteria se ne sarebbero ricordati. Ecco il punto: creare un'ultima persona che parlasse con la donna prima della sua morte, quando Druze era già al trucco, ripassava la parte e aveva un alibi. La proposta era partita da lui e Bekker non si era opposto. Tuttavia poteva anticipare l'orario; Druze non l'avrebbe saputo. Ma la polizia sì. Uccisa la Armistead, avrebbe fatto la telefonata come se stesse per uscire di casa allora. Druze avrebbe chiamato la biglietteria che, se non avesse ottenuto risposta dalla Armistead, ne avrebbe dedotto che lei non era in casa. E questo imprevisto non poteva essere imputato a Bekker. Avvicinandosi alla casa, rallentò. Aveva già fatto un giro di perlustrazione della zona tempo prima. Le case erano piccole, ma piuttosto frequentate. Un uomo che entrava o usciva non era mai notato. Dalla Armistead la luce era accesa sul retro. La sua Dodge Omni metallizzata era davanti al portone come al solito. Bekker parcheggiò nella via laterale, sotto un albero pieno di germogli primaverili, prese la sua attrezzatura, restò un momento a occhi chiusi. Come una lettura digitale: uno-due-tre-quattro-cinque. Fasi semplici. Lasciò sprigionare in sé un poco dell'effetto della «bomba»; quando aprì gli occhi il volante era storto. Sorrise appena, si concesse di sentire il fuoco nel sangue per un altro istante, poi scese dalla macchina, sostituì il sorriso con un'espressione infastidita e girò l'angolo per raggiungere la casa. Suonò il campanello, una, due volte. La Armistead. Più robusta di come pensava, in vestaglia. Viso ovale e pallido, capelli scuri tirati indietro in un complicato chignon fermato da una spilla di legno. A guardarla pareva che fosse stata svegliata dal campanello. Alla porta c'era la catena. Dallo spiraglio lei lo scrutò con grandi occhi scuri. Doveva fare figura sulla scena. «Sì?» «Società del gas. C'è odore di gas in casa?» «No.» «Ci risulta che lei ha apparecchi a gas, lavatrice, asciugatrice e scaldabagno.» Ne era stato informato da Druze che aveva fatto una ricognizione durante un party della Armistead. Bekker consultò il suo blocco. «Sì, nel seminterrato», disse lei. La conoscenza di quelle cose confermò
la sua qualifica. «Abbiamo avuto fluttuazioni critiche di pressione in più punti della via a causa di un guasto alla valvola principale. Ho qui un apparecchio di controllo» — lui lo sollevò per farglielo vedere — «e occorre fare delle letture nel suo seminterrato, per sicurezza. Una fuga di gas potrebbe provocare improvvise esplosioni. Abbiamo avuto un incendio nell'isolato seguente; forse ha sentito i pompieri.» «Uh, ero in meditazione.» Stava già togliendo la catena. «Ho una fretta terribile, devo andare al lavoro.» «Questione di un minuto o due», le promise Bekker. Ed entrò. Infilò la mano in tasca, afferrò il martello, aspettò che lei richiudesse la porta. «Deve passare dalla cucina e scendere le scale», disse la donna. La sua voce era forte e chiara, ma con una nota d'impazienza. Interrotta nelle sue faccende. «La cucina?» Bekker si guardò attorno. Le tende erano chiuse. Aleggiava odore di fiori di campo e di spezie e lui pensò alla tisana. La potenza gli scoppiò in testa, vide tutto blu, momentaneamente. «Qua. Venga», disse lei innervosita. Gli voltò le spalle, lo guidò verso il retro. «Non ho sentito un bel niente.» Bekker la tallonò, cominciò a tirare fuori il martello e inaspettatamente gli uscì il sangue dal naso. Lasciò andare il contatore e trattenne il sangue con la mano; lei sentì del movimento, si voltò, vide il sangue, aprì la bocca... per gridare? «No, no», disse lui, e la donna socchiuse la bocca, ma tutto era al rallentatore. Così lento. «Ah, questa è la seconda volta oggi. Ho preso una botta al naso dal mio bambino, che ha solo cinque anni. Roba da non credere... Ha dei fazzoletti di carta?» «Sì.» Lei aveva sgranato gli occhi, terrorizzata, mentre il flusso di sangue colava sulla tuta. Erano sul tappeto del soggiorno e lei fece l'atto di girarsi per andare a prenderli. Lui vide il movimento molto lento e la droga glielo fece assaporare. Non dovevano esserci scontri, lotta, possibili vie di scampo. Non doveva farsi graffiare, o riportare delle contusioni. Si trattava di un lavoro, ma la potenza della droga sapeva che cosa ci voleva. Lei stava dicendo: «Qui, in cucina», si stava girando, e Bekker, con una mano premuta sulla faccia, le fu alle spalle, tirò fuori il martello, lo brandì come una racchetta da tennis e sferrò un diritto con tutta la forza della schiena e della spalla. Il martello produsse un doppio colpo, duro e morbido, come quando si
fora una parete di gesso, e l'impatto fece girare la donna. Non era morta: aveva occhi spalancati, saliva alla bocca, contorceva i fianchi e i piedi perdevano contatto con il pavimento. Crollò, era agonizzante, ma non lo sapeva perché cercò di lottare, spinse in su le mani, aprì la bocca, e Bekker le fu sopra, a cavalcioni. Le strinse il collo con una mano, mentre il suo corpo si arcuava. Evitò le sue unghie, con la testa smussata del martello le colpì la fronte, una, due volte... fatto. Il respiro di lui era una macchina a vapore, la potenza della droga lo mandava in orbita, il suo cuore era impazzito, il sangue gli scorreva sul viso. Non devo farlo cadere su di lei. Si ripulì alla meglio con la manica della tuta, tornò a guardare la donna, i suoi occhi semiaperti. Gli occhi. Colto da improvviso spavento, Bekker girò il martello. Avrebbe usato il gancio... 9 La sera passava lentamente; gli era rimasta la sensazione di aspettare qualcosa. Pensò di chiamare Jennifer, di chiederle se gli concedeva un'altra visita alla figlia. Per due volte fu sul punto di farlo, ma vi rinunciò. Desiderava vedere Sarah, ma soprattutto desiderava chiarire la situazione con Jennifer. Rottura definitiva o impegno alla riconciliazione. E questo, pensò, non si risolveva con una semplice telefonata fatta d'impulso. Non con Jennifer. Perciò si sedette davanti alla televisione e vide un brutto film poliziesco. Cambiò canale pochi minuti prima dell'azione culminante: poliziotti e malviventi erano fasulli, e non gli importava che fine facessero gli uni e gli altri. Guardò il telegiornale e poi tornò nella stanza da lavoro per portare avanti il gioco. Ma aveva Bekker in testa. L'indagine si affievoliva. Percepiva la perdita d'interesse dei colleghi. Loro conoscevano le probabilità contrarie: senza testimoni oculari o un sospettato che avesse il movente e l'opportunità, non speravano in un arresto, tanto meno in una condanna. Lucas conosceva almeno due uomini che avevano ucciso le loro mogli e l'avevano fatta franca, e una donna che aveva ucciso l'amante. I delitti non avevano avuto aspetti stravaganti. Né armi esotiche, né alibi astuti, né sicari. Gli uomini avevano ucciso a randellate, usando una pompa per ingrassaggio e un treppiedi d'alluminio per macchina fotografica. La donna si era
servita di un coltello da cucina con manico di legno. Così l'ho trovato, o trovata, avevano detto agli agenti. Quando gli erano stati letti i loro diritti, i tre avevano chiesto l'avvocato. Dopo non c'era stato niente su cui lavorare. La pura, semplice difesa quasi infrangibile: è stato qualcun altro. Lucas fissò lo sguardo sulla parete di fronte. Ho bisogno di questo fottuto caso. Se l'indagine falliva, se la scintilla d'interesse diminuiva e si esauriva, lui temeva di ricadere nel baratro della depressione. Prima di sperimentarla aveva considerato le malattie mentali un problema che riguardava persone deboli, senza volontà di reagire, o comunque geneticamente lesionate. Ora non più. La depressione era reale, una tigre nella giungla che va in cerca di carne. Se appena abbassi la guardia... La bella faccia di Bekker si formò nella sua mente, come una diapositiva a colori proiettata su uno schermo. Bekker. Mancavano venti minuti alle undici quando il telefono suonò. Lui lo guardò con un brivido di tensione. Jennifer? Sollevò il ricevitore. «Lucas?» La voce di Daniel, rauca, infelice. «Che novità?» «Il figlio di puttana ne ha fatta un'altra», gracidò Daniel. «Quello che ha ucciso la Bekker. Chiama il Centro operativo per avere l'indirizzo e muovi le chiappe.» Una scintilla di euforia? Un tantino di sollievo? Lucas spinse la Porsche a tutta velocità nella notte, attraversò il Mississippi, piegò a ovest verso i laghi, facendo volare le foglie morte sul marciapiede e voltare le teste dei nottambuli. Non ebbe difficoltà a trovare l'indirizzo; le luci della piccola casa erano tutte accese e la porta aperta. I vicini, a gruppi sul marciapiede, guardavano verso la casa della morte; ogni tanto qualcuno attraversava la strada e formava un nuovo gruppo, una nuova serie di chiacchiere. Elizabeth Armistead giaceva supina sul tappeto del soggiorno. Il sangue sotto la testa aveva formato una larga macchia scura. Un braccio era ripiegato sotto di lei, l'altro teso in fuori a palmo in su, con le dita un po' piegate. Il viso era maciullato dal naso alla fronte. Al posto degli occhi vi erano buchi profondi un dito, pieni di sangue e poltiglia di carne. Il labbro superiore era spaccato e i denti rotti. La vestaglia parzialmente aperta lasciava intravedere le mutandine, non toccate. Si sentiva un forte odore di sangue fresco.
«Lo stesso individuo?» chiese Lucas, guardandola. «Sembra di sì: io ho visto anche la prima e questa è una maledetta copia», rispose l'esperto della Scientifica. «Cose evidenti?» chiese Lucas, girando l'occhio attorno. La casa pareva intatta. «No. Le unghie delle mani sono pulite e in ordine. Non si notano segni di lotta, e la donna è stata uccisa proprio qui: ci sono schizzi di sangue vicino al tavolo. Non ho guardato personalmente, ma i colleghi dicono che non vi è segno di effrazione su porte o finestre.» «Non mi pare uno stupro.» «No. E non ci sono tracce di sperma esternamente al corpo.» Un detective della Omicidi andò al fianco di Lucas e gli disse: «Vieni a vedere l'arma». «L'ho vista quando sono entrato», disse Lucas. «Il martello?» «Sì. Ma Jack ha appena notato qualcosa.» Andarono nel corridoio dove il martello, avvolto nel cellofane, veniva maneggiato da un altro poliziotto. «Che cosa?» «Guarda la testa e il gancio. Non il sangue, il martello», disse il secondo agente. Lucas guardò, non vide niente e lo ammise. «Come il cane che non ha abbaiato», disse l'agente con soddisfazione. Sollevò il martello sotto un lume in modo che la testa riflettesse la luce negli occhi di Lucas. «La prima volta che usi un martello per piantare un chiodo o altro, vi restano delle intaccature. Guarda questo. Liscio come il culetto di un neonato. Non è mai stato usato. Scommetto che il tizio l'ha portato con sé per ucciderla.» «Sei sicuro che sia dell'assassino? Non di lei?» Il poliziotto si strinse nelle spalle. «In casa ci sono circa sei arnesi: cacciaviti, una chiave inglese e un martello. Una scatola di chiodi e dei ganci per quadri. Sono ancora nel cassetto in cucina. Non era tipo da 'fai-da-te'. Perché doveva avere due martelli? Specialmente uno grosso e pesante come questo? E l'assassino come avrebbe fatto a trovarlo?» Una luce viva sventagliò davanti alla casa e Lucas si girò a metà. «La televisione», disse il primo agente. Si mosse verso la porta d'ingresso. «Di' a tutti di tenere le bocche cucite. Daniel emetterà un comunicato domani mattina», disse Lucas. Riportò la sua attenzione sull'agente con il
martello. «Dunque lo ha portato lui», continuò. «Direi di sì.» Lucas pensò, corrugò la fronte, poi diede una pacca sulla spalla dell'agente. «Non so che cosa significa, ma è una buona circostanza», disse. «Se è nuovo, forse possiamo controllare dove vendono questa marca Estwing.» «Lo faremo domani.» «Che cosa si sa di lei?» domandò Lucas, puntando il pollice verso il soggiorno. La Armistead era un'attrice, lo informò l'agente. Non avendola vista arrivare in teatro per la rappresentazione, una sua amica era venuta lì, aveva trovato il corpo e chiamato la polizia. Dalla temperatura corporea, ancora superiore a quella piuttosto fresca della casa, la donna doveva essere morta da circa quattro ore quando il medico legale l'aveva esaminata poco dopo le undici. Non vi erano segni di scasso e furto. «Dov'è l'amica?» domandò Lucas. «In camera da letto, con Swanson», rispose l'agente, accennando verso il retro della casa. Lucas diede un'attenta occhiata in giro per farsi un'idea del sistema di vita della donna. La casa era arredata con gusto, ma senza ricchezza. I quadri alle pareti erano originali, ma di modesto valore, forse avuti da amici artisti. I tappeti a disegni orientali erano lisi. Lui pensò a quelli di casa Bekker e si curvò a toccare il pelo del tappeto su cui posava i piedi. Sottile e viscido. Del genere sintetico, tessuto a macchina. Mancava un legame... L'uscio della camera era aperto e quando mise dentro la testa, vide Swanson seduto a ripulire le lenti dei suoi occhiali cerchiati di metallo. Una donna stava distesa sul letto, con un piede sul pavimento. L'altro aveva lasciato un'impronta fangosa sul copriletto giallo, ma lei non se ne era accorta. Lucas bussò sullo stipite ed entrò, mentre Swanson sollevava il capo. «Davenport», disse l'agente della Omicidi. Si rimise gli occhiali. Poi sospirò e disse: «È un fottuto vagabondo». «Lo stesso?» «Sì. Non ti pare?» «Molto probabile.» Lucas guardò la donna. «Ha trovato lei il corpo?» Era una rossa, sui trentacinque valutò, e carina in condizioni normali. Quella notte era stravolta, con occhi gonfi di pianto, naso rosso e gocciolante. Non si prese la briga di alzarsi, ma si scostò un ricciolo dalla fronte. Aveva occhi scuri, quasi neri. «Sì, sono venuta qui dopo lo spettacolo.»
«Perché?» «Eravamo in ansia. Tutti noi», rispose lei, tirando su con il naso. «Elizabeth avrebbe lavorato anche con una gamba rotta. Siccome non si era fatta vedere e non aveva telefonato, abbiamo pensato che le fosse successo qualcosa. Nel caso non l'avessi trovata a casa, avrei chiamato gli ospedali. Ho suonato il campanello e poi ho guardato dal vetro della porta e l'ho vista là... La porta era chiusa, e sono corsa da un vicino per chiamare la polizia.» Le si formò una ruga sulla fronte e lei spinse in su la testa e disse: «Lei è il poliziotto che uccise l'indiano». «Mmmm.» «Sua figlia sta bene? L'ho sentito alla TV.» «Sì, sta bene», rispose Lucas. «Gesù, deve essere stata una brutta esperienza.» La donna si mise seduta con uno scatto dei muscoli, senza sforzo. Ora i suoi occhi erano verde giada, e lui notò che uno dei denti anteriori era lievemente storto. «Cercherà questo tizio? L'assassino?» «Faccio la mia parte.» «Spero che lei trovi e uccida quel figlio di puttana», disse la donna, scoprendo i denti e sgranando gli occhi. Aveva zigomi alti, il naso un po' ossuto, di tipo celtico. «Mi piacerebbe prenderlo», disse Lucas. «Quando avete visto la Armistead per l'ultima volta?» «Nel pomeriggio. C'è stata una prova generale fin quasi alle tre», rispose lei. Si carezzò il lato della guancia con la punta delle dita mentre ricordava e guardava distrattamente il copriletto. «Dopo è andata a casa. Una delle cassiere le ha telefonato circa un'ora prima dello spettacolo, ma non ha risposto nessuno. Questo è tutto quello che so.» «Perché le hanno telefonato? Era già in ritardo?» «No, qualcuno voleva dei biglietti omaggio, e lei doveva dare l'autorizzazione. Ma non ha risposto.» «Bucky e Karl sono andati a interrogare quelli del teatro», informò Swanson. «Hai controllato Bekker?» domandò Lucas. «No. Lo farò domani, dopo avere messo a punto questa faccenda. Dovrà dirmi dove è stato stanotte, minuto per minuto.» «Bekker non è il nome di quella donna che è stata uccisa?» chiese la rossa, guardando ora l'uno ora l'altro. «Parliamo del marito», rispose Lucas conciso. «A proposito, lei come si
chiama?» «Cassie Lasch.» «È attrice?» «Sì.» «A tempo pieno?» «Faccio particine», rispose lei tristemente, scuotendo la chioma rossa che le scendeva sulle spalle. «Ma lavoro a tempo pieno.» «La Armistead era legata a qualcuno?» chiese Swanson. «Non proprio... Che cosa c'entra Bekker con questo? È sospettato?» Lei stava guardando Lucas. «Sicuro. Si controlla sempre il marito quando la moglie viene assassinata», rispose Lucas. «Allora non pensa seriamente che abbia fatto questo?» «Lui era a San Francisco quando sua moglie è stata uccisa», precisò Lucas. «Questo delitto è tanto simile all'altro che sembra compiuto dalla stessa mano.» «Oh.» Lei fu delusa e si morse il labbro inferiore. Voleva il colpevole, intuì Lucas, e se avesse potuto dire la sua, lo avrebbe voluto morto. «Se le viene in mente qualcosa, mi chiami», le disse Lucas. I loro sguardi s'incrociarono in una rapida valutazione reciproca. Lui le diede un biglietto da visita e la donna disse: «Lo farò». Lucas girò sui tacchi, diede un'occhiata alle sue spalle notando che lei lo guardava, e si diresse nel soggiorno. L'agente con il martello stava parlando con uno in divisa che aveva preso in consegna una donna di mezza età. In vestaglia rosa trapuntata, la donna si spostava passo passo verso l'arcata di accesso al soggiorno. L'agente la bloccò con il fianco e le chiese: «Che aspetto aveva l'uomo?» «Come ho detto, sembrava un idraulico. Aveva con sé una cassetta degli attrezzi o qualcosa di simile, e ho detto a Ray, mio marito: 'Oh, oh, vuoi vedere che quella Armistead ha problemi con le tubazioni dell'acqua. Speriamo che non sia di nuovo il condotto principale'. Sa, hanno dovuto spaccare la strada due volte qui da quando ci abitiamo, appena dal Settantuno, e credevamo che avessero messo a posto tutto.» Fece un altro passetto da granchio verso l'arcata, smaniosa di vedere. «Non le piace la signora Armistead?» domandò Lucas, avvicinatosi a loro. La donna fece un mezzo passo indietro, perdendo terreno. Se ne accorse
e il suo viso mostrò una vampata d'irritazione. «Perché pensa questo?» domandò. Nella sua voce subentrò un lamento difensivo. Aveva sentito fare quel tipo di domande nei telefilm della serie Los Angeles Law, di solito poco prima che uno ricevesse un duro colpo. «L'ha chiamata 'quella Armistead'.» «Be', era un'attrice e io ho detto a Ray...» «Suo marito.» «Sì, ho detto: 'Ray, quella non mi sembra un'attrice'. Voglio dire, so che aspetto ha un'attrice, giusto? E lei non era il tipo dell'attrice, troppo scialba. Ho detto a Ray: 'Si fa passare per attrice, ma chissà quale rigiro c'è sotto'.» Lanciò un'occhiata maliziosa. «Pensa che si occupasse di altro?» le domandò l'agente con il martello. «Se vuole la mia opinione... Dica, quella è l'arma del delitto?» La donna sgranò gli occhi, notando il martello nel sacchetto di cellofane. «Prima di arrivare a questo», intervenne Lucas con impazienza, «l'uomo che ha visto alla porta, perché sembrava un idraulico?» «Per come era vestito», rispose lei, e siccome non staccava gli occhi dal martello, l'agente abbassò il braccio lungo il fianco, nascondendo quasi il sacchetto. La donna tornò a guardare Lucas. «Non l'ho visto proprio bene, ma portava una di quelle tute scure, e un berretto con una scritta sopra. Come fanno gli idraulici.» «Non lo ha visto in faccia?» «No. Quando l'ho visto, lui era sulla veranda e mi voltava le spalle.» «Ha visto un furgone?» Lei corrugò la fronte. «No, ora che me lo dice. Non so da dove venisse quel tale, ma non c'erano veicoli nella strada. A parte l'auto della signorina Armistead; quella la noto perché Ray ne aveva una quasi uguale, argentea, quando era sposato con la sua prima moglie, però era una Plymouth Horizon.» «Lo ha visto uscire?» «No. Stavo rigovernando.» «Va bene. Grazie», disse Lucas. Zero. Probabilmente la donna aveva visto il killer, ma a che cosa serviva? A meno che... «Ancora una domanda. Quel tale aveva arnesi da idraulico, o arnesi di qualche genere, cose che lei poteva vedere... oppure lui si atteggiava a idraulico?» «Be'...» Lei non afferrò la domanda. «Aveva l'aspetto di un idraulico. Uno lo vede sul marciapiede e dice: 'Ecco un idraulico'.»
Dunque poteva esserlo. O forse era un attore... Lucas andò nel soggiorno. Uno degli esperti di laboratorio filmava il cadavere e la stanza, e le luci intense facevano apparire ancora più bianco il volto della morta. Lucas si trattenne brevemente, poi uscì. Fuori gli agenti in uniforme avevano transennato la zona attorno alla casa e alla siepe. Lui sentì pronunciare il proprio nome dai cronisti, e quando scese dalla veranda e fu in strada i riflettori lo bersagliarono. «Davenport.» I cronisti lo assalirono come squali, ma lui scosse il capo. «Non posso parlarne, ragazzi», disse, allontanandoli con la mano. «Ci dica perché è qui», gridò una donna. Aveva passato l'età per fare la telecronista, e forse le avrebbero tolto presto quel lavoro. «Gioco d'azzardo, droga? Che cosa?» «Ehi, Katie, rivolgiti a quelli della Omicidi.» «Nessun collegamento con i venditori di armi?» Lucas sogghignò, negò e si aprì un varco per raggiungere la sua auto. Se fosse rimasto a chiacchierare, qualcuno si sarebbe ricordato che lui stava lavorando al caso Bekker e avrebbe tratto le sue conclusioni. Allontanandosi da lì, lui stesso cercò di trarre conclusioni. Se il primo delitto era commissionato da Bekker, che cosa significava il secondo? Doveva pur esserci un legame — la tecnica era identica — ma era difficile credere nel coinvolgimento di Bekker. Swanson e gli altri investigatori gli erano stati addosso: se esisteva un rapporto passato o presente fra Bekker e la Armistead, lui non avrebbe corso il rischio di ucciderla. Sarebbe stato stupido oltre che pazzo. E nessuno lo considerava stupido. Lucas si fermò al semaforo rosso, un piede sulla frizione, l'altro sull'acceleratore, imballando il motore. Il primo delitto aveva il marchio della casualità. Un drogato s'introduce in una casa di ricchi, cercando qualsiasi cosa da convertire in crack. Inaspettatamente si trova di fronte la donna, perde il controllo e la uccide, dandosi poi alla fuga. Se non fosse stato per l'opinione che di Bekker avevano i parenti, se Sloan non avesse parlato con l'ex comandante militare di Bekker, il delitto sarebbe già stato attribuito a un drogato. Ma il secondo delitto aveva tutta l'aria di essere stato progettato: il martello, nuovo e lasciato sul posto. Nella casa non era stato sottratto nulla. Il drogato non c'entrava. Quello avrebbe rubato qualcosa. Anche da casa Bekker non era stato portato via nulla... Lucas scosse il capo, accortosi che il rosso era passato al verde e al giallo. Stava per scattare avanti e passare comunque, quando una Nissan Ma-
xima nera, sorpassandolo in volata, si bloccò a pochi metri davanti a lui. Lucas diede una brusca frenata, e l'auto sobbalzò e si arrestò. «Bastardo», disse e tirò la maniglia della portiera. L'altro guidatore fu più svelto. Mentre Lucas apriva la portiera, una bionda longilinea saltò fuori dalla Nissan e si avvicinò, stagliata dai fari della Porsche, con un sorriso tirato. TV3. Faceva servizi giornalistici da un paio di anni e Lucas l'aveva vista in occasione del caso dei Crow. «Perdio, Carly.» «Piantala, Lucas. So come lavorasti con Jennifer e un paio di altre persone. Voglio far parte della lista. Che cosa è successo là?» «Ehi...» «Senti, il contratto mi scade fra due mesi, siamo in trattative, io e la stazione», disse lei. «Ne chiedo sessanta ed è ragionevole. Forse sarà un sì, forse un no, ma tu che cosa hai fatto per noi recentemente? Ho bisogno di qualcosa, e quel qualcosa sei tu.» Si mise in posa, incrociando le caviglie, una mano sul fianco. «Che cosa me ne viene?» domandò Lucas. «Vuoi una all'interno della Tre? L'hai trovata.» Lucas la guardò e annuì. «Ti accordo fiducia per una volta», rispose, sollevando l'indice. «Se mi freghi, non farti rivedere mai più.» «Bene. Lo stesso vale per me. Se mi freghi, o tenti di farlo, io negherò tutto e ti denuncerò», replicò la bionda. Erano entrambi nella strada, faccia a faccia. Una Trans Am nera rallentò, passando vicino e fu aperto il finestrino dalla parte del passeggero. Un ragazzino ben pettinato, con la fronte bitorzoluta, guardò fuori e chiese: «Che cosa c'è?» «Polizia. Circolare», intimò Lucas. «Come non detto», disse il ragazzino tirando dentro la testa, e l'auto accelerò. «Dunque che cosa è successo?» domandò Carly, mentre seguiva con gli occhi la Trans Am e poi tornava a guardare Lucas. «Sai del delitto Bekker?» «Certo.» «Questo è identico. Una tale Elizabeth Armistead del Lost River Theater, un'attrice...» «Oh, merda, la conosco. Cioè, l'ho vista. Siamo sicuri che è stato il medesimo assassino?» La donna si mise in bocca l'unghia laccata del pollice e la morse. «Quasi.»
«Come è stata uccisa?» «Con un martello a gancio. L'uomo l'ha colpita alla nuca, poi le ha distrutto gli occhi, come ha fatto con Stephanie Bekker.» Il semaforo eseguiva la sua sequenza di colori e i capelli della donna diventavano di volta in volta verdi, gialli, rossi. «Gesù. Che possibilità ci sono che le altre stazioni diffondano la notizia domani mattina?» «Io ho detto a quelli che sono là di tenere la bocca chiusa, in attesa che il capo autorizzi a diramare la notizia», rispose Lucas. «Dovresti averla in esclusiva, a meno che gli agenti di vigilanza all'esterno non abbiano già parlato.» «No, là nessuno parla», disse lei. «Okay, Lucas. Te ne sono grata. Qualunque cosa ti serva dalla stazione, fammelo sapere. Sono nelle tue mani.» «Magari», sogghignò Lucas. La bionda sorrise, e siccome il semaforo era tornato rosso, Lucas aggiunse: «Non c'è molto di più che io possa dirti sul delitto». «Mi basta così», rispose lei andando verso la sua auto. «In fondo, perché pasticciare una grande storia con una quantità di fatti?» Lasciò Lucas in strada, fece una spericolata inversione a U, illegale e per di più con il rosso. Lucas rise e tornò a bordo della Porsche. Era di nuovo sulla breccia, per la prima volta dopo mesi. Aveva ripreso interesse. E pensò: un imitatore? L'idea non stava in piedi; la tecnica dell'assassino era troppo simile nei due casi. I giornali non avevano dato informazioni tali da permettere a un folle di ripetere i dettagli del delitto. Quindi doveva essere lo stesso individuo. L'uomo in tuta: la tuta era stata un mezzo per entrare in casa? Si stava avvicinando alla conclusione: avevano un altro psicopatico fra le mani. Ma se tale era, perché aveva portato con sé l'arma per il secondo delitto, e non per il primo? Stephanie Bekker l'aveva uccisa usando una bottiglia che era in cucina. Ciò faceva pensare a un intruso che aveva agito d'impulso, un drogato preso dalla paura. Non così era stato per la Armistead. Le due donne non avevano subito violenza carnale. Il sesso era quasi sempre una componente degli omicidi in serie. Se Bekker aveva commissionato il primo, era possibile che avesse fatto scatenare un maniaco? No. Non quadrava.
Lucas aveva avuto contatti con due serial killer. In entrambi i casi i mass media avevano speculato sull'effetto della pubblicità nella mente dell'assassino. Parlare di killer generava altri killer? I film violenti o la pornografia inaridivano gli uomini e li rendevano capaci di uccidere? Lucas non lo pensava. Un pluriassassino era una pentola a pressione umana, reso tale da maltrattamenti, passato difficile, chimica cerebrale. Non si raggiunge una tale pressione con una cosa tanto marginale come la televisione. Un pluriassassino non è un petardo che viene acceso da un altro. Ingarbugliato. E interessante. Senza accorgersene, Lucas si mise a fischiettare sommessamente. 10 La sala conferenze puzzava di fumo di sigaretta, ascelle nervose e apparecchi surriscaldati. Venti giornalisti stavano nelle prime file, Lucas e una dozzina di altri poliziotti gravitavano sul fondo. La notizia del secondo delitto, trasmessa da Carly Bancroft nel primo telegiornale del mattino, aveva creato panico nelle altre stazioni. La conferenza-stampa era iniziata poco dopo le dieci. «Ci sono domande?» La fronte di Frank Lester era imperlata di sudore. Il vicecapo del reparto investigativo aveva letto il comunicato ufficiale; posò il foglio e diede un'occhiata circolare nella sala con espressione infelice. «Lester nella gabbia dei leoni», Sloan bisbigliò a Lucas. Si ficcò una sigaretta all'angolo della bocca. «Hai da accendere?» Lucas tirò fuori una scatola di fiammiferi, ne accese uno e lo avvicinò alla punta della sigaretta. «Se tu fossi Casanova, ti presenteresti?» Sloan negò con la testa mentre esalava una boccata di fumo bluastro. «Perdio, no. Ma d'altra parte sono un poliziotto. So che figli di cane siamo. Forse non avrei neppure menzionato Casanova nella faccenda...» «Riguardo... all'amico della signora Bekker, avete fatto un'analisi della voce registrata al telefono?» un giornalista chiese a Lester. «Be', non abbiamo nulla con cui raffrontarla.» «Abbiamo sentito che lo chiamate Casanova.» «Non io, ma lo si dice», rispose torvo Lester. «Il killer ce l'ha, forse, con le donne dell'ambiente artistico?» gridò un'altra giornalista. Lavorava per una stazione radio e aveva un microfono che sembrava una pistola per il tiro al bersaglio calibro 22 modello governati-
vo. Il microfono era puntato in mezzo agli occhi di Lester. «Non lo sappiamo», rispose lui. «La signora Bekker era solo marginalmente nel campo artistico, direi. Ma potrebbe essere... non abbiamo elementi per affermarlo. Come ho detto, non siamo neppure sicuri che si tratti del medesimo assassino.» «Ma ha dichiarato...» «Probabilmente lo è.» Si alzò un giornalista di un quotidiano con un abito marrone chiaro stazzonato: «Quanti serial killer abbiamo avuto? Negli ultimi cinque anni?» «Uno all'anno? Non so.» «Uno? Ce ne furono almeno sei fra i Crow.» «Intendevo dire una serie ogni anno.» «È così che li contate?» «Non so come li contate voi», sbraitò Lester. «Per serie», intervenne un altro giornalista. «Balle», protestò uno della televisione. «Per killer.» Dal fondo della sala un radiocronista con un grosso registratore chiese: «Quando prevedete che colpirà di nuovo?» «Come facciamo a saperlo?» domandò a sua volta Lester, che stava perdendo le staffe. «Vi abbiamo detto quanto sapevamo.» «Lei è quello che dovrebbe dirigere le indagini», lo schernì il giornalista. «Dirigo le indagini, ma se lei avesse mai lavorato in un'area più grande di una cabina telefonica, saprebbe che questi assassini non si trovano sempre dalla sera alla mattina.» Vi fu un ridere contagioso, e Sloan disse seccamente: «Sta perdendo terreno». «Quali precauzioni dovrebbero prendere le donne della città?» chiese una giornalista. Pareva che declamasse, o recitasse una parte. «Non fare entrare in casa nessuno di cui non si conosce l'identità», disse Lester, sentendosi a disagio. «Tenere le finestre chiuse...» «Chi ha passato la notizia alla Tre, questo vorrei sapere», gridò un altro più indietro. Carly Bancroft sbadigliò, tentò senza troppa convinzione di non sogghignare, poi si grattò il torace. Quando Daniel aveva fissato la conferenza-stampa, si era aspettato cronisti di «nera» dei quotidiani e corrispondenti di secondo piano di stazioni televisive. Con l'uccisione della Armistead tutto era cambiato. Lui aveva passato l'incarico a Lester nel tentativo, aveva detto, di sminuire l'importanza della conferenza. Non aveva funzionato: i furgoni erano parcheggiati
in doppia fila nella strada, e fornivano la diretta ai rispettivi canali. Le segretarie del municipio guardavano imbambolate i divi dell'informazione, questi a loro volta controllavano la propria pettinatura, e il commentatore di TV3, abbronzato, in forma, con una spruzzata di grigio alle tempie e una cravatta del colore dei suoi occhi, si presentò davanti alle telecamere per fare una critica della conferenza. La sua stazione aveva anticipato la notizia, non per merito suo; ma sua era la gloria perché la sua presenza dava peso al dibattito. La conferenza, iniziata in un clima irato, si surriscaldò. Lester avrebbe preferito non farla, e ogni giornalista, eccetto uno, era rimasto deluso. Alla fine la cronista di Canale Otto montò sulla sedia e lanciò invettive a Lester. I poliziotti vicino a lei si sedettero: la donna portava una minigonna di pelle nera assai ridotta. «Ogni lasciata è persa», disse Sloan, ridendo. Lester era fuggito e Sloan, Lucas e Harmon Anderson percorrevano il corridoio, diretti alla sezione Omicidi. «Il reparto pullula di fottuti pervertiti», disse Anderson, aggiungendo: «Stando nella giusta posizione, si vedeva anche la fessura». «Gesù, Harmon, questa è violenza sessuale di terzo grado», disse Lucas, ridendo con Sloan. «Sapete perché quelli della televisione hanno gran belle voci?» chiese Anderson, cambiando argomento. «Perché risuonano nella cavità in cui tanti altri hanno il cervello.» Swanson, massiccio, con i suoi occhiali d'oro, arrivò nel corridoio e li raggiunse con andatura dinoccolata. «Mi sono perso qualcosa?» «Eccome», rispose Sloan. «Anderson ha visto per la prima volta in vent'anni la fica di una donna.» «Che novità su Bekker?» chiese Lucas. «Zero. Lo abbiamo convocato qui subito, gli abbiamo chiesto se voleva un avvocato e lui ha detto di no. Che lo avrebbe chiesto se fosse stato necessario. 'Che cosa ha fatto?' gli abbiamo domandato. Ha risposto che ha passato il tardo pomeriggio a lavorare in casa, e alla sera ha guardato la TV. Gli abbiamo domandato che cosa ha visto e lui ce lo ha detto. Ha guardato, pare, la CNBC nel pomeriggio, un programma di informazioni finanziarie e di Borsa, poi il telegiornale. È uscito verso le nove per andare a mangiare un boccone. Di questo abbiamo conferma.» «E le telefonate?»
«Ha parlato con qualcuno, un tale dell'ospedale, ma era tardi, molto dopo il delitto.» «Chi è stato a telefonare?» domandò Lucas. I quattro detective si erano disposti attorno a Swanson. «L'altro», rispose Swanson. «Forse aveva un videoregistratore, e ha registrato i programmi», ipotizzò Anderson. «Effettivamente ce l'ha», confermò Swanson. «Non so se ha registrato i programmi. Comunque abbiamo la sua testimonianza e, merda, non c'è stato niente da dire. Lui non conosceva la Armistead, non sa neppure se l'ha mai vista recitare. Un fiasco. Lo abbiamo spedito a casa.» «Ti ha convinto?» chiese Lucas. Swanson corrugò la fronte. «Non so. Quando si prende di mira un tale, come stiamo facendo con Bekker, scandagliando nel vicinato, telefonando ai vicini di casa, e tutto quanto... e poi succede una cosa che potrebbe scagionarlo, lui dovrebbe farsi in quattro dalla smania di dimostrare la sua innocenza. E invece no. Bekker era freddo. Ha risposto a tutte le domande come se leggesse delle schede in archivio.» «Non mollarlo», disse Anderson. Swanson scosse il capo. «Non funzionerà con quello. Comincio a pensare... è un fetente, ma potrebbe essere pulito.» Ne stavano parlando ancora quando Jennifer Carey girò l'angolo. «Lucas.» La sua voce era femminile, chiara, professionale. Lucas la riconobbe all'istante e si voltò. Sloan, Anderson e Swanson fecero altrettanto, poi si allontanarono, sbirciando Lucas che si avvicinava a lei. «Daniel ha detto che avresti parlato, dopo», disse Jennifer. Era snella e bionda, con qualche rughetta da trentenne in un viso ben conservato. Indossava un tailleur grigio con blusa di seta rosa e fece quasi arrestare il cuore di lui. I due avevano una figlia di due anni, ma non erano sposati. Vivevano separati da quando la bambina èra stata ferita. «Sì. Non ti ho vista alla conferenza.» «Arrivo adesso. Dove parlerai? Giù nella sala conferenze?» Era tutta lavoro, efficiente, impersonale. Non ci sarebbe stato niente di più, pensò Lucas. «No. Sarò a disposizione qui... Come stai?» «Lavoro con una nuova squadra», disse lei, ignorando la domanda» «Potremmo uscire, sui gradini?»
«Sicuro. Come ti va?» insistette lui. Jennifer si strinse nelle spalle e prese la via dell'uscita. «Al solito. Vieni da noi sabato pomeriggio?» «Mah... penso di no», rispose lui, accodandosi, mani nelle tasche. «Bene.» «Quando vogliamo parlarne?» «Non so», rispose lei da sopra la spalla. «Presto?» «Non penso», replicò lei. «Presto no.» «Ehi, aspetta», disse Lucas. Allungò la mano, l'afferrò per un braccio e le fece fare una piroetta. «Lasciami andare», protestò lei, irata, tirando via il braccio. Lucas si era sempre crucciato che le donne lo temessero, perché era troppo rude anche quando non ne aveva l'intenzione. Ma il tono di lei fu tagliente. Le mise una mano piatta sul torace e spinse, mandandola a sbattere contro la parete del corridoio; la sua testa rimbalzò. «Chiudi il becco», ringhiò. «Va' a farti fottere.» Lucas, pensando di essere picchiato, indietreggiò, ma si accorse che lei era spaventata e stava sollevando la mano per autodifesa. Il suo polso era sottile e delicato. Lui mostrò le mani in gesto di resa. «Ascoltami», disse, e la sua voce uscì in un rauco sussurro. «Sono stufo di questa merda. Più che stufo. Non la sopporto più. Negli ultimi due giorni ho saltato il fosso. Perciò ti dico: sono pronto a rompere. Sono pronto a uscire di scena. Da mesi mi prendi per il naso e io non lo sopporto, e non lo sopporterò. Non ho ancora tagliato i ponti, ma se desideri parlare, è bene che ti decida presto perché ti dico questo: se aspetti troppo, non mi troverai più disposto al dialogo.» Lei scosse la testa, cominciando a piangere, ma erano lacrime di rabbia; Lucas fece dietrofront e si allontanò. Un direttore di produzione di TV3 arrivò nel corridoio e guardò Jennifer, ancora appiccicata al muro, e la faccia di Lucas quando gli passò accanto, poi disse a Jennifer: «Jen, tutto okay? Jen? Che cosa è successo?» Mentre usciva sui gradini per presentarsi alle telecamere, Lucas sentì che Jennifer rispondeva: «Non è successo nulla». Tutte e cinque le stazioni TV fecero veloci interviste; per quattro di loro Lucas stette sui gradini del municipio, gonfio di rabbia a causa di Jennifer, ma cosciente che gli stava sbollendo mentre parlava per far posto a un
freddo vuoto. La quinta intervista la fece in strada, appoggiato alla Porsche. Spente le telecamere, Lucas girò attorno al cofano per salire in auto, mentre cercava attentamente Jennifer con gli occhi, speranzoso e scettico al tempo stesso. Lei non c'era. Lo cercò, invece, un reporter di Star Tribune, un uomo bruno, barbuto, sovrappeso, che portava sempre con sé un cartoccio di carote affettate. «Mi dica una cosa», esordì. Agitò un bastoncino di carota davanti a Lucas, con fare amichevole. «Resti fra noi... per un quadro generale, non per divulgarlo. È impaziente di dare la caccia a questo assassino?» Lucas ci pensò su un attimo, guardò in tralice l'ultimo telecronista che era troppo lontano per sentire, e annuì. «Sì, non vedo l'ora. È un periodo di stanca.» «Dopo avere sbaragliato i Crow, il resto deve esserle sembrato robetta.» Il cronista trangugiò il bastoncino di carota con due morsi. «No», rispose Lucas. «Ma questo è... interessante. Gente che muore.» «Lo prenderà?» «Non lo so. Ma saremmo avvantaggiati se potessimo parlare con l'amante di Stephanie Bekker. Lui sa cose che non immagina di sapere.» «Un momento», disse il cronista, tirando fuori un blocchetto di carta dal taschino della giacca sportiva. «Posso divulgare questa ultima parte? Possiamo considerarla una intervista ufficiale?» «Okay. Ma solo questo: l'amico della signora Bekker — usi 'amico' quando cita le mie parole — ha visto in faccia l'assassino. Forse pensa di averci parlato di lei, telefonando e scrivendoci, ma non lo ha fatto. Una buona squadra di esperti pescherebbe cose nella sua memoria che lui nemmeno sa di avere. E non mi riferisco a un interrogatorio di terzo grado. Se potessi parlargli al telefono per dieci minuti, o se lo facesse Sloan, penso che avremmo molte più possibilità di risolvere in fretta questo caso.» Il cronista stava annotando velocemente. «Volete dunque che lui si presenti.» «Qualsiasi cosa possiamo ottenere da lui ci servirà», confermò Lucas. Aprì la portiera. «Chiusa la parte ufficiale?» «Sicuro.» «L'amante è il nostro unico appiglio, per questo ne abbiamo grandissimo bisogno. C'è qualcosa che non quadra in questo caso, e senza il suo aiuto non so come troveremo il bandolo della matassa.» L'ira contro Jennifer gli tornò mentre attraversava la città e ripensava al-
la scena nel corridoio. Lei conosceva le scene, conosceva il dramma, conosceva la psicologia. Non doveva essere lei a chiedergli una intervista. Lo stava menando per il naso, e la cosa funzionava. L'ottimismo, il sollievo degli ultimi giorni erano spariti. Accelerò uscendo allo svincolo della Sixth Street per entrare nella I-94. A casa e a letto, pensò. Per riflettere. Ma il suo occhio colse il cartello dello svincolo di Riverside Drive, e senza una buona ragione imboccò la rampa, girò a sinistra, e si diresse verso la zona dei teatri sulla sponda occidentale. Cassie Lasch era seduta sul pavimento della biglietteria del Lost River Theater. Indossava jeans e T-shirt rosa e stava rimestando in un sacco di plastica delle immondizie. Lucas spinse la porta girevole ed entrò nel ridotto; appena la vide si fermò. «L'attrice», disse, mentre i suoi occhi si adattavano alla poca luce. «Lasch... Cathy.» «Cassie. Come sta, Davenport? Vuole aiutarmi? Sto cercando un indizio.» Lucas si accovacciò accanto a lei. Faceva troppo freddo per stare in maglietta, ma la donna pareva non sentirlo. Aveva braccia forti, con una muscolatura che le arrivava al collo. Ed era abbronzata, per quanto potesse esserlo una rossa, in modo uniforme e artificiale. Una sollevatrice di pesi, pensò Lucas. «Quale indizio?» «La polizia è stata qui tutta la mattina e mi sono scordata di dirglielo.» Smise di frugare nell'immondizia. Un piccolissimo ritaglio di carta le si era appiccicato alla mascella, e i capelli le ricadevano sugli occhi. Lei li scostò con la mano e disse: «Nessuno ha chiesto del tizio che voleva i biglietti gratis ieri sera. Si ricorda, gliel'ho detto, la cassiera aveva telefonato a Elizabeth per questo, ma senza ottenere risposta». «Sì, ricordo», confermò Lucas. Allungò la mano, le tolse il pezzetto di carta, glielo mostrò e lo buttò via. «Grazie... uh...» Aveva perso il filo, e gli sorrise, premendo il dente storto sul labbro inferiore. Il suo viso era appena furbetto ed espressivo. Aveva una spruzzata di lentiggini sul naso. «La faccenda dei biglietti», le suggerì Lucas. «Ah, sì. Dunque, il tizio dice che è un critico teatrale e chiede di entrare a sbafo, in quanto amico di Elizabeth. Stamane ho domandato a quelli che ritirano i biglietti e mi hanno detto che non vi sono stati ospiti ieri sera. Chiunque abbia telefonato non si è fatto vedere. Questo potrebbe essere un
indizio.» Parlò seriamente, come una Miss Marple con meravigliosi seni. «Perché un indizio?» «Perché, se conosceva Elizabeth, forse è andato da lei... non so. Comunque qui non è venuto.» Lucas stette a pensare, poi annuì. «Ha ragione. L'appunto è qui?» «Sì, da qualche parte. Su un pezzo di carta strappata da quei blocchi a spirale. Probabilmente appallottolato.» «Allora rovesciamolo», disse lui. Prese il sacco dal fondo e lo scosse, spargendo il contenuto sulla moquette. Vi era una grande prevalenza di carta, molta bagnata da residui di bibite, e verso il fondo trovarono un filtro di carta pieno di fondi di caffè. «Forse non avremmo dovuto farlo», disse Cassie, arricciando il naso. «Al diavolo», esclamò Lucas. «La lista ci serve.» Impiegarono cinque minuti a frugare meticolosamente, lavorando spalla a spalla. Lei aveva, concluse Lucas, uno dei corpi migliori contro cui si era mai strusciato. Ogni cosa era dura, eccetto quello che doveva essere morbido, e che appariva morbidissimo. Ogni qualvolta lei si abbassava, i suoi seni procaci tendevano la maglietta. Perdio, Davenport, sei pronto per scene da guardone... Lui sorrise fra sé e raccolse una tazza di plastica. Dentro c'era una carta ripiegata più volte, piccola come un dado. La spiegò, la girò. In alto era scritto: OSPITI, e sotto: DONALDSON WHITNEY, LOS ANGELES TIMES. «È questo?» Cassie prese il foglio, lo guardò e disse: «Sì. Kelly, la cassiera, ha detto che il tizio era di Los Angeles». Lucas si alzò in piedi e la cartilagine dei suoi ginocchi scricchiolò. «C'è un telefono? In un posto tranquillo?» «Ce n'è uno in ufficio, ma là ci sono due persone... Un altro è nella cabina di controllo. E di questa roba che ne facciamo?» Guardò i rifiuti sparpagliati. I fondi di caffè, su cui Lucas aveva messo il piede, stavano macchiando la moquette. Lui si accigliò, come se li vedesse per la prima volta, e disse: «Non m'interessa. Ne faccia quello che vuole». «Be', accidenti, non ce l'ho messa io lì», replicò Cassie. Scosse indietro i capelli e si mosse. «Andiamo, le mostro la cabina di controllo.» Lo guidò per un corridoio e nella platea. Alla luce del giorno era un disastro. Tinta nera scrostata dalle pareti di cemento, spalliere delle poltron-
cine macchiate, l'illuminazione al soffitto un groviglio di fili elettrici, cavi, riflettori, attacchi e carrucole. Di sera tutto quello non si vedeva. La cabina di controllo era in fondo alla platea, salendo due brevi rampe di scale. Era costruita in legno compensato, tinta di nero esternamente, rozza dentro. Davanti al quadro di comando vi erano uno sgabello alto e una sedia girevole. Prolunghe e fili del computer erano fissati con graffe alle pareti e sul pavimento. Il telefono a muro era alla sinistra del quadro di comando. Cassie notò che lui si guardava attorno e disse: «Niente denaro per i lussi». «È la prima volta che mi trovo in una cabina di controllo teatrale», spiegò Lucas. Lei fece spallucce. «Più o meno sono tutte così, a meno che il teatro non riceva sovvenzioni governative.» Lucas usò la sua carta di credito per chiamare Los Angeles. Cassie, con la schiena appoggiata al quadro di comando e le braccia dietro, ascoltò con interesse. Whitney non era al suo tavolo di lavoro, fu detto a Lucas. Poiché lui insistette, gli furono passati altri, e infine parlò con un redattore della sezione spettacolo che fece l'errore di sollevare il ricevitore di un telefono che stava suonando. Costui disse che Whitney era in ferie. «A Minneapolis?» chiese Lucas. «Perché nella dannata Minneapolis d'aprile?» rispose il redattore innervosito. «È in Micronesia dove si diverte a fare il sub.» «Ebbene?» domandò Cassie quando Lucas riattaccò. «Ebbene che cosa?» «Era lui o no ieri sera?» «Uh, apprezzo il suo aiuto, signorina Lasch, ma questo riguarda la polizia.» «Non vuole dirmelo?» Non poteva crederci. Gli afferrò la manica della giacca e tirò. «Avanti.» «No.» «Non è leale...» I suoi occhi erano grandissimi, e di nuovo scuri, con una scintilla. Inclinò la testa, accennò un sorriso. «Le mostrerò le tette se me lo dice.» «Cosa?» Lui fu sorpreso e divertito. Divertito, pensò, analizzandosi. «Là nel ridotto non ha fatto altro che tastare il terreno con me, perciò... me lo dica, e io le concedo di dare un'occhiata.» Lucas rifletté. «Questo è imbarazzante», disse infine.
«Io non mi sento facilmente in imbarazzo.» «Forse lei no, ma io sì», replicò Lucas. Lei inarcò le sopracciglia. «È imbarazzato? Questo dimostra una certa inaspettata profondità. Suona il piano?» La donna era troppo precipitosa. «Ah, no.» «Svelto, Davenport, si decida.» Ora Cassie lo punzecchiava. Lui la deluse. «Che cosa fa oltre che recitare? Ha detto che non ottiene buone parti.» «Sono una delle più grandi cameriere del mondo. Ho imparato nei ristoranti dei teatri a New York.» «Humm.» «Allora come la mettiamo?» insistette lei. «Deve tenere la bocca chiusa», l'ammonì lui. «Certo. Muta come un pesce.» «Ci scommetto... E va bene. Il tizio è in Micronesia e si diverte a fare pesca subacquea. La Micronesia è in mezzo al Pacifico.» «Lo so, ci sono stata», disse lei. «Quindi è maledettamente impossibile che lui fosse qui ieri sera.» «Esatto.» Lucas lanciò occhiate attorno. Non c'era nessuno in vista, e la cabina era ancora più isolata. «Quindi...» «Se aspetta di vedere le mie tette, se le scordi», disse lei, incrociando le braccia sul petto. «Ah. Non sta ai patti?» osservò lui, sogghignando. «Naturalmente. Quando si vuole scoprire qualcosa, prima si usa l'inganno — in questo caso non funzionerebbe — e poi si fanno strane offerte sessuali», rispose lei con calma. «Di solito si ottiene quello che si vuole sapere. L'ho imparato trattando con gli agenti teatrali.» «Dannate femmine», disse Lucas. «Così indifferenti quando spezzano il cuore di un uomo.» «Infatti lei è completamente distrutto», ironizzò Cassie. Lucas fece un breve passo verso la ragazza, senza sapere esattamente come comportarsi. Lei non si ritrasse; ma in quel momento un uomo entrò in palcoscenico, sotto di loro, e Lucas dirottò là la sua attenzione. Senza parlare, e apparentemente ignaro della loro presenza nella cabina, l'uomo premette un interruttore della luce, si portò al centro del palcoscenico e cominciò a fare giochi di destrezza. Aveva sei palle da baseball che faceva girare in cerchio senza un errore, poi all'improvviso si mise a ballare il tip tap. Non in modo semplice, ma con mosse complicate, e nello stesso tem-
po le palle giravano in aria. L'uomo aveva la faccia tinta di nero. C'era qualcosa di strano, però. Effetto del trucco, delle grandi labbra bianche, dello strano naso schiacciato? Cassie notò l'interesse di Lucas e, portatasi alle sue spalle, sussurrò: «Carlo Druze, un attore. Questo è uno dei suoi numeri». Druze cominciò a cantare, con falso accento da negro, tremolante voce da baritono, stile da ambulante. «Way down upon the Swanee River, far, far away....» «Facciamo uno spettacolo chiamato Whiteface, una specie di satira razziale.» Il suo fu un sussurro, ma Druze parve udirlo. Raccolse le palle con un veloce movimento coordinato. «Ho un pubblico?» gridò, guardando verso la cabina. Lucas applaudì e Cassie gridò: «Solo noi, Cassie e un poliziotto». «Ah.» Ebbe un sussulto? Lucas non ne fu sicuro. C'era qualche difetto nella sua faccia? «Sei stato bravissimo, Carlo», disse Cassie. Druze fece un inchino. «Ah, se fosse la signorina Cassie a dirigere lo spettacolo», disse, tornando all'accento da negro. «Ci togliamo dai piedi», gli gridò Cassie, guidando Lucas fuori dalla cabina e giù per le scale, verso la luce dell'uscita. Nel corridoio che portava al ridotto Lucas chiese: «Quel... come si chiama, era qui ieri sera?» «Carlo? Sì. È qui quasi ininterrottamente, comunque. Lavora per lo scenario. È uno dei migliori macchinisti della compagnia. E poi è bravissimo nel fare tante voci. Sa imitare chiunque.» «Okay.» «È un duro», aggiunse la ragazza. «Duro come la sua faccia.» «Ma era qui?» «Be', nessuno ha preso i nomi. Ma sì, era in giro.» «Okay.» Lucas, seguendola, le osservò schiena e spalle. Era una figuretta delicata, come lo sono le rosse snelle, ma non vi era nulla di fragile in lei, constatò. «Fa sollevamento pesi, giusto?» le chiese. «Sì, un poco», rispose lei, girandosi parzialmente. «Ma non per gareggiare, o cose del genere. E lei?» «Ho dei pesi nel mio seminterrato e mi esercito ogni mattina. Ma niente di impegnativo.» «Devo tenermi in forma», disse Cassie, battendosi l'addome. Giunti al ridotto, Cassie si fermò di colpo e afferrò il braccio di Lucas.
«Oh, no», gemette. «Che cosa c'è?» «Sono nella merda», rispose lei. Un uomo stava guardando la massa di rifiuti sulla moquette. Era tutto vestito di nero, dagli stivaloni al berretto, e i suoi lunghi capelli biondo rossicci erano legati in un codino. Con le mani sui fianchi, batteva nervosamente un piede. Cassie avanzò e lui alzò la testa. «Cassie», disse. Aveva una barbetta a punta e i suoi denti erano d'un bianco brillante. «L'hai fatto tu questo? Una delle cassiere ha detto che rovistavi nelle immondizie.» «Uh.» «Sono stato io», intervenne Lucas, in tono brusco. Cassie gli lanciò un'occhiata di riconoscenza. «Opera della polizia. Stavo cercando informazioni riguardanti l'uccisione della Armistead.» «Be', ha intenzione di ripulire?» domandò l'uomo, toccando con la punta dello stivale una pallottola di carta. «Lei chi è?» chiese Lucas, avvicinandosi. «Uh, questo è Davis Westfall», lo presentò Cassie, ancora nervosa. «È... era... condirettore artistico insieme con Elizabeth. Davis, questo è il tenente Davenport della polizia di Minneapolis. Lo stavo accompagnando in giro.» «Mi è stata d'aiuto», Lucas confermò a Westfall. «Signor Westfall, la morte della signorina Armistead la rende unico responsabile del teatro, o no? Voglio dire, in un certo senso lei ne trae un... beneficio.» «Cacchio.... questo dipende dal consiglio di amministrazione», farfugliò Westfall. Sbirciò Cassie per avere un sostegno, e lei annuì. «Non siamo un teatro maschilista, e immagino che nomineranno un'altra donna al posto di Elizabeth.» «Humm», disse Lucas. Studiò Westfall brevemente, con espressione scettica. «Nessun grosso contrasto per la direzione?» «No, no», rispose Westfall, innervosito dalle domande. «Resta nei pareggi?» «Oh, sì.» «Bene. Non tolga subito l'immondizia. Un nostro esperto di laboratorio potrebbe desiderare guardarla. Se non vede nessuno per...» Lucas guardò il suo orologio, «le sei, può farla raccogliere.» «Siamo a sua disposizione», disse Westfall, completamente sgonfiato. Lucas fece un cenno di saluto e si girò per andarsene. «L'accompagno
all'uscita», disse Cassie. «Devo richiudere a chiave.» «Grazie», rispose Lucas in modo formale. Alla porta Cassie sussurrò: «Grazie. Davis sa essere un fetente. Io sono l'ultima ruota del carro, qui». «Va bene così», disse Lucas, sogghignando. «Le sono grato dell'informazione sulla lista degli ospiti. Potrebbe venirne fuori qualcosa.» «M'inviterà a uscire con lei?» gli chiese. Nuova sorpresa per Lucas. «Mmm. Forse», le rispose con un sorriso. «Ma perché...» «Be', se ne ha l'intenzione, non aspetti troppo, okay? Non sopporto l'indecisione.» Lucas rise. «D'accordo», disse. Quando fu sul marciapiede, udì lo scatto della porta che veniva chiusa. Fece un altro passo verso l'auto e sentì bussare sul vetro della porta. Si voltò e Cassie sollevò la maglietta, ma fu un istante. Quanto bastò. Belle tette, pensò. E lei era sparita. 11 Bekker camminava sul tappeto Heriz, girando attorno al divano rococò, mentre seguiva parti della conferenza-stampa trasmesse dal telegiornale di mezzogiorno. Aveva sentito sintesi più brevi alla radio mentre si recava in auto all'ospedale, ed era tornato a casa per vederla alla televisione. Per lo più le conferenze-stampa erano fatte di sciocchezze; quelle della polizia erano vuote. Ma l'appello all'amante di Stephanie poteva essere pericoloso. «Crediamo che chi ha chiamato il pronto intervento dica la verità. Crediamo che l'uomo non abbia ucciso la signora Bekker, specialmente alla luce del secondo delitto», stava dicendo Lester davanti a vari microfoni. Sudava e si tamponava la fronte con un fazzoletto bianco piegato. «Dopo averne parlato con il procuratore, si è convenuto che se l'amico della signora Bekker si facesse avanti, l'autorità giudiziaria della contea di Hennepin sarebbe disposta a trattare la sua immunità in cambio della testimonianza, sempre che non sia coinvolto nell'omicidio...» Lester proseguì, ma Bekker non lo ascoltava più. Continuava a camminare, mordendosi l'unghia del pollice e sputandone i frammenti. I poliziotti erano sguinzagliati nella zona. Non si nascondevano. Anzi, erano volutamente spudorati. Il cugino di Stephanie, quel cretino drogato,
continuava ad andare di porta in porta, insistendo per avere informazioni. Questo gli faceva montare la collera, ma la collera doveva aspettare. Ora aveva altri problemi. «Casanova», lo avevano chiamato alla TV. Chi era? Qualcuno del loro circolo, sicuramente. Qualcuno che poteva avere facili contatti con Stephanie. Lui aveva esaurito le forze a furia di pensarci. Accidenti a Druze, pensò. Non aveva trovato il tizio. Eppure doveva esserci la sua faccia in quelle foto. Stephanie fotografava tutti, non lasciava la gente in pace, sempre con quell'apparecchio puntato su qualcuno. Scatole, cesti pieni di foto di tutti quei muscolosi biondi scandinavi. E se Druze si fosse sbagliato? Era possibile, ma, dovette ammetterlo con disagio, poco probabile. Non aveva mostrato incertezze. Aveva studiato le facce e detto no. «Strega», disse Bekker a voce alta. «Con chi scopavi?» Tornò a guardare la TV, Lester che chiacchierava. Ebbe una vampata di collera: era ingiusto, loro avevano venti, cento uomini, e lui aveva solo Druze. E Druze non poteva andare in giro, perché se fosse stato visto per primo... «Puttana», inveì, e in preda all'ira uscì a grandi passi dal salotto, fece le scale, entrò in camera. Il portasigarette era con le chiavi e una manciata di monete. Lo aprì, mandò giù due anfetamine e un assaggio di LSD; chiuse gli occhi in attesa di Beauty. Eccolo. Il letto si mosse, si liquefece, lo spogliatoio si aprì come una bocca, una caverna, un luogo caldo dove raggomitolarsi. I vestiti lo comprimevano e lui combatté il panico. Lo aveva già provato, la camicia si restringeva attorno al collo, le maniche gli serravano le braccia come cartavetrata... Tenne a freno il panico e si liberò della camicia, dei pantaloni e della biancheria intima, gettandoli alla rinfusa nella stanza. Lo spogliatoio chiamava, lui s'inginocchiò e strisciò dentro. Caldo e sicuro, con l'odore stantio delle scarpe... confortevole. Vi rimase un minuto, cinque minuti, lasciando che l'eccitante gli scorresse nelle vene e l'«acido» nel cervello. Fuoco, pensò. Aveva bisogno di fuoco. Fu una constatazione repentina e lui saltò fuori dalla caverna, carponi, pieno di paura. Strisciò fino alla toeletta, alzò il braccio, tastò, trovò la scatola di fiammiferi e tornò svelto nel nascondiglio, a occhi spalancati, non più belli. Nella semioscurità accese un fiammifero e fissò la fiamma. Al sicuro. Con il fuoco. La sua collera crebbe e s'intorbidì. Puttana. Il volto di lei apparve e si liquefece. Dolore bruciante nella mano e buio im-
provviso. Il fiammifero si era consumato. Ne accese un altro. Puttana. La visione di un letto, non il loro, e carta da parati con fiordalisi: dove? L'albergo di New York. Sotto l'effetto della droga, Bekker si vide uscire dalla stanza da bagno, nudo, con un asciugamano ai fianchi. Stephanie era al telefono... Ancora dolore alla mano. Buio. Buttò il fiammifero, ne accese un terzo. Puttana. Entro nella vasca per lavarmi, quando esco lei è al telefono, parla con lo sverniciatore o non so chi. La sua mente si tese e ghermì, si tese e ghermì, controllata, gelida. Dolore. Buio. Un altro fiammifero. Si pulì la bava sul mento, mentre fissava la fiamma tremolante. Dolore. Buio. Strisciò fuori dallo spogliatoio, sentendo tutta la potenza della droga. Ed ecco la risposta, nel flash di New York. Si tirò in piedi, con la mente come un ghiacciaio. Dolore nella mano. «Sono stupido?» Uscì dalla camera, ancora nudo ma inconsapevole di esserlo, scese nello studio e si sedette alla grande scrivania di quercia. Aprì un cassetto e tirò fuori una scatola di plastica grigia. L'etichetta sopra diceva: FATTURE, PAGATE E DA PAGARE. New York, gennaio. Rovesciò il contenuto sulla scrivania e setacciò la mole di carte, ricevute, fatture, matrici di assegni. Dopo un minuto disse: «Ecco». La nota delle telefonate. Lui non aveva chiamato nessuno, ma sul conto figuravano sei telefonate da New York a Minneapolis, di cui quattro a un numero interno dell'università. Non conosceva quel numero. La mente come ghiaccio. Viaggiava a tutta velocità. Formò il numero dall'apparecchio sulla scrivania. Rispose una donna. «Ufficio del professor George, desidera?» Bekker riattaccò, l'eccitazione fugò il ghiaccio dalla mente. «Philip George», gracchiò. «Philip George.» Occorreva agire, ma dovette starsene lì, a dondolarsi sulla poltroncina, ormai dominato dalla droga. Il tempo non contava. Dolore. Si guardò la mano. Una vescicola gli si era formata sulla punta dell'indice. Il pollice era bruciato e infiammato. Come gli era successo? C'era stato un incendio? Andò in cucina, punse la vescicola con un ago, passò del disinfettante sulle due dita e coprì le bruciature con dei cerotti. Un mistero... E Philip George. Bekker rovistò in biblioteca, alla ricerca di un certo libro. No. No. Dove? Doveva essere nella paccottiglia, tra i ricordi, dove altro lei... Ah, ec-
colo: Facoltà e docenti — Università del Minnesota. Sfogliando le pagine, vide la propria faccia sorridente, poi quella di Philip George. Mite. Un tantino stupida, in qualche modo invadente, pensò. Biondo, ben piantato, grassoccio. Come aveva potuto, lei? Il dolore alla mano non gli dava tregua e lui, confuso, tornò a guardarsi le dita. Come...? «Carlo?» «Perdio, pensavo...» Druze era spaventato. «Scusa, ma è urgentissimo.» «Hai visto la televisione?» domandò Druze. «Sì. E nessuno si è messo a cercarti. Non ancora. Per questo ti chiamo. Ho trovato il nostro uomo.» «Chi?» farfugliò Druze. «Un professore della facoltà di Giurisprudenza, Philip George. Dobbiamo muoverci, hai visto la televisione?» «Sì, sì, dove sei?» domandò Druze sulle spine. «Sei al sicuro?» «Sono a un isolato da te, nel supermercato VGA», disse Bekker. Stava usando un telefono pubblico accanto all'espositore dei giornali, e una cliente si dirigeva da quella parte con in mano una lista di cose da comprare. Forse voleva telefonare. «Ho controllato e ricontrollato; non mi segue nessuno. Te lo garantisco. Ma uscirò da dietro, e prenderò il vicolo. Sarò da te fra sessanta secondi. Aprimi subito.» «Se qualcuno ti vede...» «Lo so, ma ho cappello, giacca e occhiali da sole e mi accerterò che l'atrio sia vuoto prima di entrare. Sii pronto quando suono. Farò le scale. Fammi trovare la tua porta aperta.» «Va bene. Se sei sicuro...» «Non dubitare. Ma ho bisogno che tu dica: 'Sì, è lui'.» Bekker riattaccò e guardò in giro. Era sorvegliato? Non ne era sicuro, ma pensava di no. La cliente stava telefonando, ora, ma senza prestare attenzione a lui. Un vecchio era alla cassa con un barattolo di caffè, e gli altri in vista erano dipendenti del supermercato. Lui aveva fatto una veloce ricognizione dei reparti prima di telefonare. C'era un cartello di uscita vicino ai latticini. Prese un carrello e si diresse verso il fondo, osservando gli altri clienti. Non si poteva mai dire. Al banco dei latticini aspettò di essere solo, poi abbandonò il carrello e varcò una porta a molla. Si ritrovò in un locale adibito a magazzino, maleodorante di prodotti avariati, e vide un'altra porta a
molla di metallo. Uscì di là e arrivò su una piattaforma di carico; la percorse di buon passo, scese i pochi gradini all'estremità, buttando un'occhiata alle spalle. Nessuno. Cinque secondi dopo era nel vicolo dietro il supermercato. In fondo all'isolato, girò l'angolo e dopo trenta metri giunse al portone di Druze. Suonò, gli fu aperto, ed entrò. L'ascensore era disponibile, ma prese le scale a destra, facendo i gradini a due a due. Controllò il pianerottolo e filò alla porta aperta di Druze. «Perdio, Mike.» Normalmente la faccia di Druze era imperscrutabile come una zucca. Ora appariva tesa, insolite rughe verticali segnavano la pelle rattoppata della fronte. Lui indossava una maglia di cotone avana sformata, e pantaloni spiegazzati. Teneva le mani nelle tasche. «E lui?» Bekker gli mise davanti la foto di Philip George. Druze la guardò, la portò sotto la luce, la osservò più da vicino, sporse il labbro inferiore. «Huh.» «Deve essere lui», disse Bekker. «Collima: è biondo, è massiccio, di persona lo è anche di più. Questa foto deve risalire a quattro o cinque anni fa. E non era in nessuna delle foto precedenti. Stephanie lo chiamò di nascosto da New York.» Alla fine Druze annuì. «Potrebbe essere. Gli somiglia. Ma quello che era nella casa, l'ho visto così», e fece schioccare le dita. «Deve essere lui», insistette Bekker. «Sì, sì, penso che sia lui. Dandogli due o tre anni in più...» «Accidenti, Carlo», gracchiò Bekker, con la bella faccia raggiante. Agganciò il collo di Druze con il braccio e lo spinse giù, una specie di abbraccio scherzoso che Druze apprezzò molto perché non aveva mai avuto un amico. «Perdio, noi due battiamo la polizia.» «E adesso?» domandò Druze. Gli venne spontaneo di sorridere. Che strana sensazione, un vero sorriso. Bekker lo lasciò andare. «Devo filarmela da qui e pensare. Qualcosa inventerò. Stanotte, dopo lo spettacolo, vieni nel mio ufficio. Anche se mi sorvegliano, stanno fuori. Chiamami prima di venire, così ti aspetto alla porta laterale, vicino alla rampa. Se fai finta di aprire la porta con la chiave, quelli non sospetteranno.» Philip George. Bekker fu assalito da quel problema mentre tornava all'ospedale. Dovevano provvedere in fretta a George. Si fermò dalla segretaria della facoltà.
«Lucy, hai un orario delle lezioni?» «Sì, dovrebbe essere...» La segretaria aprì un classificatore, frugò e tirò fuori un opuscolo giallo. Glielo porse. «Per favore me lo riporti, è l'unico.» «Certo», rispose lui distrattamente, sfogliando le pagine. Il dolore nelle dita era intollerabile e lui dovette fermarsi. «Lucy?» Tornò alla scrivania della segretaria. «Hai dei cerotti grandi da qualche parte? Mi sono bruciato il pollice.» «Mi pare di sì.» La ragazza cercò nella scrivania, li trovò. «Vediamo... Oh, mio Dio, dottor Bekker, come le è successo?» Protette le bruciature, percorse il corridoio, entrò nel suo ufficio e si sedette alla scrivania. Giurisprudenza, George... consultò l'ora. Le tredici e trenta. George: Torti fondamentali, MWF 13.10-15.00. Stava facendo lezione. Bekker chiamò la segreteria della facoltà di Giurisprudenza e cinguettò con la donna che rispose. «Phil George? In classe? Capisco», disse con voce opportunamente delusa. «Sono un suo amico dei tempi dell'università di Hamline, sono di passaggio e dovevamo vederci una di queste sere, ma dovrei predisporre i miei appuntamenti. Sa se lui ha lezioni o riunioni serali per il resto della settimana? No, non posso trattenermi, ho un seminario proprio adesso che andrà per le lunghe, poi ripartirò in aereo. Ho provato a chiamare sua moglie a casa, ma non c'era nessuno. Sì, resto in linea.» La segretaria posò il ricevitore e Bekker la sentì allontanarsi. Passò un minuto, poi un altro, e tornò all'apparecchio. «Sì, domani sera, dalle diciannove alle ventidue deve preparare un processo simulato come esercitazione degli studenti. Le altre sere è libero da impegni universitari.» «Molte grazie», disse lui, sempre cinguettando. «È stata molto gentile. Come si chiama? Grazie, Nancy. Oh, a proposito, dove si terrà il processo?... Okay, grazie ancora.» Riattaccò e, assunta una posizione rilassata, unì le mani a piramide. George sarebbe stato occupato fino a tardi. Utile. Che auto aveva? Era rossa, tipo jeep. Poteva fare un giro davanti a casa sua, più tardi. George abitava in Prospect Park e probabilmente lasciava l'auto in strada. Druze era convinto che Bekker si drogava, ma non sapeva che cosa usasse. Nell'ambiente teatrale scorreva un oceano di cocaina, ma Bekker non era un cocainomane o, se lo era, usava anche altra roba. Talvolta era euforico, la sua bella faccia rifletteva una gioia, una libertà ulteriori; altre volte era tetro, infido, calcolatore.
Qualunque droga fosse, aveva rapidi effetti su di lui. Quando Druze era arrivato all'ospedale, Bekker era maniacale. Ora era come ghiaccio. «Uscirà domani sera», disse Bekker. «So che non c'è molto tempo... Lui ha una jeep Cherokee rossa. Pompa anticendio rossa. Sarà parcheggiata dietro l'edificio chiamato Peik Hall.» Gli spiegò il resto e Druze cominciò a scuotere la testa. «Un banale inconveniente? Che cazzata è questa?» «È l'unico sistema», rispose calmo Bekker. «Se richiamiamo la sua attenzione, se lui subodora qualcosa, potrebbe spaventarsi. Se pensa che gli diamo la caccia... insomma, non posso telefonargli e chiedergli d'incontrarci all'angolo. Lui un po' di paura deve averla... che qualcuno lo identifichi, che l'assassino tenti di scovarlo.» «Preferirei che ci fosse un altro modo», disse Druze. Girò l'occhio attorno e si accorse che era in una specie di aula d'esame. Bekker gli aveva aperto la porta laterale, normalmente chiusa, e lo aveva guidato per un corridoio male illuminato; poi, aperta una porta rossa, lo aveva tirato dentro. Le pareti erano occupate da file di classificatori, un carrello di acciaio inossidabile era addossato a un muro, e una quantità di luci pendevano dal centro del soffitto. Le loro voci rimbombavano. L'aula era fredda. «Sembra piuttosto... incerto.» «Senti, è la cosa più difficile indagare su un fatto casuale, avvenuto fra sconosciuti. Come quando accoppasti quella donna a New York. Come fa la polizia a trovare un movente, un collegamento? Se premediti qualcosa, lasci tracce. Se vai là, dove è lui, e lo colpisci...» «Ci sarà?» chiese Druze. «Sì. Prepara un processo simulato. Fa da giudice, deve esserci.» «Be', forse è inevitabile», disse Druze, passandosi le dita nei capelli. «Perdio, non mi piace. Preferisco le cose preparate. Tua moglie non è stata un problema. Questo...» «È il modo migliore, credimi», disse Bekker con fervore. «Trova la sua auto. Dovrebbe essere nel parcheggio dietro l'edificio. C'è molta vegetazione attorno, ho controllato. Se l'auto è vicina al fogliame, cerca di stare lì, bucagli una gomma. Così gli studenti se ne andranno mentre lui sarà occupato a cambiare la gomma, e allora tu lo colpirai.» «Non male», ammise Druze. «Ma, perdio, Michael, ho la sensazione che abbiamo pestato catrame fresco. Un piede ci si è attaccato e ora dobbiamo metterci l'altro per cercare di liberare il primo.» «Con questo finiamo, ma dobbiamo farlo, non lo capisci? Per la tua sal-
vezza», disse Bekker. «Ammazzalo e portalo via.» «Anche questo mi preoccupa. Dovermi sbarazzare del corpo. Se lo colpissi e basta, chi mi scoprirebbe? Ma se devo trasportarlo nel Wisconsin... Gesù, potrei essere fermato da ispettori delle specie protette, per vedere se ho pesci o che so io.» Bekker scosse il capo, ipnotizzando Druze con il suo sguardo. «Se lo uccidiamo e lo lasciamo lì, capiranno dai suoi occhi che lui doveva essere l'amante di Stephanie... altrimenti perché non li avrebbe più? Sono già sospettosi, e se lasciamo il cadavere nel parcheggio, mi piomberanno tutti addosso.» «Potremmo tralasciare gli occhi...» «No.» Bekker fu duro come roccia. Si avvicinò a Druze e gli afferrò il braccio sopra il gomito. Lo gnomo fece mezzo passo indietro, impaurito dal suo sguardo gelido. «No. Gli occhi vanno distrutti. Hai capito?» «Oddio, va bene», confermò subito Druze, tirando via il braccio. Bekker puntò lo sguardo su di lui per giudicarne la sincerità. Evidentemente soddisfatto, continuò: «Se lo seppelliamo lontano da qui — e io conosco il posto perfetto — nessuno lo troverà. Nessuno. La polizia, forse, sospetterà che sia stato lui l'amante di Stephanie, ma non saprà se è fuggito per paura, o perché colpevole, o se è morto. Sarà un enigma.» Druze ritrovò l'uscita dalla porta laterale. Bekker tornò verso il suo ufficio, e mentre pensava, si massaggiò il mento. Druze era riluttante. Non ribelle, ma infelice. Doveva tenerlo presente. In ascensore guardò l'ora. Aveva tempo. «Sybil.» Dormiva? Bekker si curvò sul letto e le sollevò le palpebre. Gli occhi della donna, scuri e lucenti, lo guardarono, ma quando lui lasciò andare le palpebre, Sybil le richiuse. Sì, era sveglia, ma non collaborava. Lui si sedette accanto al letto. «Devo guardare nei tuoi occhi mentre muori, Sybil», le disse. Il suo respiro era affrettato, lo notò, quegli esperimenti lo eccitavano sempre. «Ecco qua...» Le premette un cerotto sulla bocca, posò la base dell'altra mano sulla sua fronte e tirò su le palpebre con l'indice e l'anulare. Dopo si curvò nel suo campo visivo e le disse sommessamente: «Ti ho incerottato la bocca perché tu non possa respirare; ora ti stringo il naso fino a farti soffocare... Capisci? Non dovrebbe essere doloroso, ma gradirei un segnale se vedi... qualcosa. Muovi gli occhi su e giù mentre vai all'altro mondo. Se c'è
un altro mondo». Stava parlando con la sua voce più suadente e convincente. «Sei pronta? Partiamo.» Le chiuse il naso, tenendo le dita in modo che lei potesse vederle, anche se non le sentiva. Benché immobilizzata, Sybil poteva contrarre i muscoli, e questo avvenne dopo il primo minuto: piccoli tremori che dal collo della donna arrivavano alle mani di lui. Gli occhi cominciarono a rovesciarsi e Bekker accostò la faccia a quella di lei, sussurrando con impazienza: «Lo vedi? Sybil, lo vedi?» Era inerte, senza conoscenza. Lui tolse la mano dal naso e la mise sul torace, iniziando una serie di compressioni. Non era stata così vicina alla morte, pensò, ma lei aveva creduto di morire, e sarebbe morta se lui non avesse tolto la mano. La ragazza gli doveva l'informazione. «Sybil, mi senti? Ehi, Sybil, so che sei viva.» Alle due, con i residui dell'ecstasy nella mente, Bekker tornava a casa, apparentemente controllato. L'episodio con Sybil era stato deludente. Una infermiera era sopraggiunta nel corridoio ed era entrata in una stanza vicina. Allora lui aveva preferito allontanarsi, per non farsi vedere con Sybil. E fu come se non fosse stato là. Tornato nel suo ufficio, aveva preso l'ecstasy, sperando di bilanciare la delusione. Spente le luci, se ne era andato. Era passato davanti alla sua casa prima di entrare nel vicolo. E aveva visto un uomo in fondo alla strada. Sul marciapiede. Quel tale aveva girato la testa per osservare lui in auto. Robusto, vigile, familiare. Bekker rallentò, si fermò, abbassò il finestrino. «Le serve aiuto?» disse ad alta voce. Vi fu un lungo momento di silenzio, poi l'uomo si avvicinò. Portava un giubbotto di pelle e anfibi. «Dottor Bekker, come sta?» «È un poliziotto?» «Lucas Davenport, polizia di Minneapolis.» Sì. L'uomo al funerale, quello dall'aspetto duro. «La polizia si è accampata nel mio terreno?» chiese Bekker. Tranquillizzato — non era un rapinatore o un parente vendicativo — usò un tono cortese intessuto di sarcasmo. «No. Sono soltanto io», rispose l'altro. «Sorveglianza?» «No, no. Mi piace gironzolare sulla scena di un delitto di tanto in tanto.
Ne colgo l'atmosfera. Mi aiuta a pensare.» Davenport. Un campanello suonò nella mente di Bekker. «Non è lei il poliziotto che l'FBI chiamò 'il Pistolero'? Quello che uccise un numero fantastico di persone?» Nonostante la scarsa illumuiazione — il lampione era all'angolo — Bekker vide brillare i denti bianchi del poliziotto. Sorrideva. «L'FBI non mi ha in simpatia», rispose Lucas. «Le è piaciuto? Uccidere tutta quella gente?» L'interesse fu genuino, le parole uscirono spontanee dalla sua bocca. Il poliziotto parve riflettere, spingendo la testa indietro come a guardare le stelle. Era abbastanza freddo per far condensare il respiro. «Alcuni, sì», rispose Lucas. Si dondolava sui piedi, guardando in alto. «In certi casi mi sono divertito.» Bekker non poteva vedergli bene gli occhi; erano troppo incavati, con arcate sopraccigliari marcate, e la curiosità lo vinse. «Senta», Bekker gli propose senza riflettere, «devo mettere la macchina nel box. Ma gradirebbe entrare a prendere un caffè?» 12 Lucas attese alla porta d'ingresso. Quando gli aprì, Bekker accese anche le luci della veranda. Erano gialle e lo mostrarono con la pelle simile a pergamena, tesa sull'ossatura del viso. Come un teschio, pensò Lucas. Dentro, nella luce soffusa, l'illusione del teschio svanì. Bekker era bello. Non di fattezze perfette, ma più che attraente. «Venga. La casa è un po' in disordine.» Era una casa fantastica. L'anticamera aveva il parquet di quercia. A sinistra c'era un piccolo armadio a muro per appendere i cappotti, sulla parete a destra un dipinto a olio di paesaggio inglese: un cottage con tetto di paglia in primo piano, barche a vela sul fiume in secondo piano. Di fronte una scala con guida color cremisi portava di sopra, curvando a destra. Sotto la curva c'era una porta a vetri da cui s'intravedeva una stanza piena di libri. A sinistra si entrava in salotto, con tappeti orientali, una mezza dozzina di specchi antichi e un caminetto di pietra. Bella e calda. Ventisei o ventisette gradi. Lucas aprì la cerniera del giubbotto e si abbassò per toccare il tappeto. «Meraviglioso», disse. Il pelo era soffice come chiara d'uovo montata, alto due o tre centimetri, e complicato nella tessitura come una fiaba araba.
Bekker grugnì. Non era interessato. «Torniamo indietro, andiamo a sederci in cucina», disse, e lo guidò in una cucina rustica con pavimento in cotto. Stephanie Bekker era stata uccisa lì, si ricordò Lucas. Ma il marito pareva indifferente alla cosa, mentre tirava fuori le tazze e vi versava le dosi di caffè istantaneo. «Spero che la caffeina vada bene», disse. La voce di Bekker era piatta, incolore, come se lui bevesse ogni giorno il caffè con un poliziotto che lo sospettava di omicidio. Doveva sapere... «Benissimo.» Lucas guardò la cucina mentre Bekker riempiva le tazze con acqua del rubinetto, le metteva nel forno a microonde e premeva i pulsanti. La cucina denotava cura dei particolari come il resto della casa: carta da parati campagnola fine Ottocento, mobili di quercia naturale e il tocco delle piastrelle di cotto. Una cucina accogliente. Bekker si rivolse a Lucas mentre il forno cominciava a ronzare. «Sono una nullità per cucinare», disse. «M'intendo appena di vini.» «Sopporta molto bene la morte di sua moglie», disse Lucas. Si avvicinò a una piccola foto in cornice. Quattro donne in abiti lunghi e scuri con grembiuli bianchi stavano attorno a una zangola per il burro. «Chi sono, antenate?» «La bisnonna di Stephanie e delle amiche. Si sieda, signor Davenport», disse Bekker, indicando con il capo un banco da colazione con sgabelli. Il forno fischiò e lui tolse le tazze fumanti, le portò sul banco e si sedette di fronte a Lucas. «Stava dicendo?» «La morte di sua moglie...» «Mi mancherà, ma per essere sincero non l'amavo molto. Non le ho mai torto un capello — so quel che pensa la polizia, quell'idiota del cugino di Stephanie — ma il fatto è che nessuno dei due contava molto nella vita dell'altro. Sospettavo che lei avesse qualcuno, ma non m'importava. Anch'io ho avuto le mie amicizie femminili.» Cercò la reazione sulla faccia di Lucas. Non ci fu. Lo sbirro accettava l'infedeltà come un'abitudine... forse. «E questo non infastidiva la signora? Che lei avesse altre donne?» Lucas sorseggiò il caffè. Scottava. «Non credo. Sapeva, naturalmente, ci pensavano le sue amiche a informarla. Ma lei non me ne parlò mai. E non era tipo da lasciar correre, se gliene fosse importato.» Bekker soffiò sul caffè. Indossava giacca di tweed e pantaloni di saia a diagonali marcate. Molto stile inglese. «Perché non il divorzio?» chiese Lucas. «Che ragione c'era? Andavamo avanti abbastanza bene, e avevamo que-
sta», fece un gesto a indicare la casa, «che non avremmo conservato se ci fossimo separati. E poi vi sono altri vantaggi a vivere insieme. Si dividono i lavori di casa, ognuno fa commissioni per l'altro, si prende cura dei suoi affari se è assente. Non vi era passione, ma c'era un buon adattamento reciproco. Non penso a risposarmi, alla mia età. Ho il lavoro. Lei non poteva avere figli; aveva le tube di Falloppio occluse e quando venne fuori la fecondazione in vitro, non pensava più ai bambini. Io non li ho mai voluti, quindi non c'è stata neppure quella possibilità.» S'interruppe come se riflettesse, prese un sorso del caffè bollente. «Suppongo che altri non capiscano quel nostro modo di vivere, che trovavamo conveniente e comodo.» «Humm.» Lucas sorseggiò il caffè guardando l'altro dritto negli occhi. Bekker ricambiò, placido, senza batter ciglio, e fu allora che Lucas comprese che il patologo stava mentendo, almeno in parte. Nessuno aveva un'espressione così innocente senza uno sforzo di volontà. «Suppongo che un pubblico ministero potrebbe confutare che, non avendo interesse l'uno per l'altra, ed essendo indifferente per lei se sua moglie viveva o moriva, la sua morte sia molto... conveniente. Invece di avere metà di questa», imitò il gesto di Bekker, «lei ce l'ha tutta.» «Potrebbe, se fosse uno molto stupido o molto maligno», replicò Bekker. Sfoderò il sorriso, una fila di piccoli denti bianchi. «L'ho invitata per via della gente che ha ucciso, signor Davenport. Pensavo che avesse conoscenza della morte e del delitto. Questo dovrebbe accomunarci. Io studio la morte come scienziato. Ho studiato il delitto, sia le vittime sia gli assassini. Tanti uomini nella prigione di Stillwater, che si considerano miei amici, scontano condanne all'ergastolo. In base alle mie ricerche ho tratto due conclusioni. Primo: l'omicidio è stupido. Nella maggior parte dei casi parla da solo, come disse un inglese. Se si vuol commettere un delitto, la cosa peggiore che si possa fare è progettarlo ed eseguirlo in combutta con un altro. Sorgono contrasti, gli investigatori mettono i due a confronto. So come funziona. No. L'omicidio è stupido. Se progettato con un altro, è un'idiozia. Il divorzio, d'altra parte, è semplicemente fastidioso. Una tragedia per alcune coppie, forse, ma se due non si amano, è soprattutto una faccenda legale.» Bekker si strinse nelle spalle e tornò al caffè. Quando protese le labbra rosate verso la tazza, somigliava a una sanguisuga, pensò Lucas. «Qual è la seconda cosa che sa sul delitto? Ha detto che erano due», gli ricordò Lucas. «Ah. Sì.» Bekker sorrise di nuovo, compiaciuto dell'attenzione del poli-
ziotto. «Progettare ed eseguire un delitto a sangue freddo, be', solo un pazzo potrebbe farlo. Uno appena normale no. I pluriassassini, i sicari, quelli che uccidono le mogli secondo un piano prestabilito, sono tutti pazzi.» Lucas annuì. «Ne convengo.» «Mi fa piacere», commentò Bekker. «E io non sono pazzo.» «È questa la vera ragione del suo invito? Per dirmi che non è uno squilibrato?» Bekker annuì con aria addolorata e disse: «Sì, credo di sì. Perché pensavo che lei avrebbe compreso la totalità di quanto dico. Anche se avessi voluto uccidere Stephanie — e non volevo — non l'avrei fatto. Sono troppo intelligente e troppo sano di mente». Allungò la mano e toccò il braccio di Lucas, il quale pensò: L'idiota sta cercando di sedurmi. Vuole che io lo trovi simpatico. «I suoi colleghi sono stati in tutto il vicinato, ostentatamente, per creare impressione. Avverto la diffidenza dei miei vicini. Sono sicuro che il cugino di Stephanie, quel pazzo drogato, le ha detto che l'ho uccisa io per prendermi la casa, ma se lo chiede agli amici di lei, scoprirà che di questo non mi è mai importato. Della casa o dell'arredamento.» «Potrebbe venderla...» «Ci stavo arrivando», lo interruppe l'altro. Con la mano libera fece un gesto come se scacciasse delle zanzare. «Non m'interessa molto, ma non la disprezzo. È un posto comodo per viverci. Il successo universitario è largamente politico, lo sa, e la casa è un meraviglioso scenario per riunioni sociali. Per far colpo su determinate persone che contano. Potrei conservarla, ma temo che quel pazzo cugino di Stephanie mi faccia imbestialire. Se tutti i miei vicini credono che l'abbia uccisa io, rimanere qui sarebbe intollerabile. Può anche riferirlo a Del, quando lo vede. Se venderò, sarà solo perché lui mi ci costringerà.» «Glielo dirò», promise Lucas. «E se gli altri agenti le stanno creando problemi... ho qualche influenza alla Centrale. Li farò smettere.» «Davvero?» Bekker mostrò sorpresa. «Lo farebbe?» «Sicuro. Non so se lei sia coinvolto nell'uccisione di sua moglie, ma non devono tormentarla illegalmente. Mi occuperò della cosa.» «Splendido», disse Bekker. Nella voce aveva infuso gratitudine all'eccesso, ma nei suoi occhi balenò il disprezzo. «Sono contento di averla invitata; ho intuito che lei avrebbe capito.» Dopo un momentaneo silenzio Lucas disse: «È stata uccisa qui, in cucina. Sua moglie». «Ah, sì... suppongo», rispose Bekker, dando occhiate vaghe attorno.
Reazione sbagliata, stronzo. Bekker doveva ben sapere dove era avvenuto il delitto. Aveva avuto il tempo di pensarci, di guardare il punto preciso, di avere l'immagine nella testa: chiunque lo avrebbe fatto, innocente o colpevole, pazzo o sano di mente. E quella storia del divorzio che era un fastidio. Se ci credi, sei più stupido di quanto pensassi. Lucas indugiò, sperando che l'uomo dicesse di più, ma lui scostò lo sgabello e rovesciò il resto del suo caffè nel lavello. «Quelli che lei ha ucciso, Lucas. Pensa che siano andati da qualche parte?» Il suo tono era discorsivo. «Che cosa intende dire?» domandò Lucas. «Per esempio, se sono andati in paradiso?» «O all'inferno.» Bekker tornò a studiarlo. La sua voce era carica d'interesse. «No. Non penso che siano andati in qualche luogo», disse Lucas, scuotendo il capo. «Ero cattolico, e quando entrai nella polizia mi preoccupai di questo. Vidi tanti morti o moribondi per nessuna ragione... non quelli che uccisi io, altri. Bambini affogati, moribondi a causa d'incidenti stradali, per attacco cardiaco, per colpo apoplettico. Vidi un guardafili fulminato su un palo dell'alta tensione, ridotto in pezzi, e nessuno poté aiutarlo. Li vidi morire, urlanti, piangenti, o immobili con la lingua fuori, rantolanti, e attorno amici e parenti disperati. Non vidi mai nessuno guardare l'aldilà. Secondo me, Michael, chiudono gli occhi e basta. Vanno dove vanno le parole su uno schermo di computer quando lo si spegne. Esse esistono, magari sono profonde, sono il frutto di tantissimo lavoro. E un attimo dopo, via, sparite.» «Sparite», ripeté Bekker. Inarcò le sopracciglia chiare. «Non rimane niente?» «Solo un guscio e quello marcisce.» «Ah.» Bekker distolse lo sguardo, impressionato. «Molto triste. Be', devo coricarmi. Mi aspetta del lavoro domani.» Lucas si alzò, scolò le ultime gocce di caffè e lasciò la tazza sul banco. «Non so se potrei fare una richiesta. Sono sicuro che altri poliziotti hanno girato in tutta la casa. Mi farebbe dare un'occhiata alla stanza dove Stephanie e il suo amico... passavano il tempo?» «Vuol dire la sua camera da letto», precisò Bekker con una smorfia. «Perché no? Come ha detto, i tappeti si sono consumati per il calpestio di tutti quei piedipiatti... senza offesa.» Lucas rise, suo malgrado, poi seguì Bekker di sopra. «Io sto là», disse
quando furono in cima alla scala. Accennò a sinistra, ma andarono a destra. A metà corridoio, lui aprì una porta, accese la luce allungando il braccio, si tirò da parte e disse: «È questa». Stephanie Bekker aveva dormito in un letto matrimoniale vecchio stile, con un'intelaiatura alla francese. Trapunta, coperte di lana e lenzuola erano ammucchiate ai piedi del letto, in parte ricadenti su un grande baule antico. Una dozzina di riviste di arredamento, antichità e arte era sul baule. Sul comodino, telefono, sveglia, altre due riviste e un romanzo di Stephen King. A sinistra c'era una porta. Lucas mise dentro la testa e vide una piccola ma completa stanza da bagno, con cosmetici e saponi. Un grande telo di spugna rossa era appeso su uno dei due portasciugamani. Erano rimaste tracce della polvere usata per rilevare impronte digitali sul ripiano dei cosmetici, sulla maniglia del water, sull'impugnatura della doccia e sui portasciugamani. Lucas tornò nella camera, vide un altro asciugamano sul tappeto orientale a tinte rosse. «Esattamente come... è stata lasciata», disse Bekker. «Quelli della Scientifica mi hanno detto che mi avrebbero fatto sapere quando posso riordinare. Ha idea di quanto tempo ci vorrà?» «Hanno fotografato?» «Penso di sì.» «Controllerò anche questo», disse Lucas. Guardava Bekker dall'altra parte del letto, valutandolo, e gli chiese: «Non è stato lei?» Bekker lo guardò a sua volta. «No», rispose con voce uniforme e gli stessi occhi fermi, decisi. «Bene. È stato un piacere conoscerla», disse Lucas. Fuori, l'aria si era raffreddata, una notte quasi gelida. A Lucas fece piacere dopo il caldo eccessivo della casa. Percorse lentamente il marciapiede, girò a destra verso il vicolo, arrivò sul retro della casa di Bekker. L'assassino doveva essere passato da lì. Una finestra laterale s'illuminò, una lunga lama brillante si proiettò fuori perché le tende non erano completamente chiuse. D'impulso, Lucas spinse il cancelletto inserito nella recinzione del cortile posteriore. Chiuso. Si guardò attorno, poi lo saltò con un volteggio e attraversò il cortile tastando con i piedi e con le mani, attento a non colpire bidoni d'immondizie e fili tesi per il bucato. Strisciò lungo il muro fino alla finestra illuminata e ruotò la testa piano
piano per guardare dalla fessura delle tende. Bekker era nello studio, nudo, andava barcollante da una parte all'altra della^stanza, muovendo la bocca in modo convulso; la faccia, irriconoscibile, era una maschera di dolore, terrore o estasi religiosa, gli occhi rovesciati. Tremava, si contorceva, allargava le braccia. Infine crollò su una poltrona di cuoio con la bocca semiaperta. Passò un minuto, due, senza che si muovesse, e Lucas pensò che gli fosse venuto un infarto o una sincope. Poi si mosse, articolò braccia e gambe, assunse una posa autorevole, come un re sul trono. E rise. Un meccanico «ah, ah, ah» che usciva quasi strozzato. E i suoi occhi erano ancora vacui, guardavano interiormente, guardavano Dio. Lucas sognò la faccia di Bekker. Doveva drogarsi. Per forza. Nel sogno continuò a dibattere quel punto, che l'uomo fosse un drogato; ma droghe non ne erano state trovate, e Bekker, trattenuto da due anonimi agenti in uniforme blu, si ribellava e strillava: Sono rapito da Gesù. Era uno di quei sogni in cui Lucas sapeva di sognare, ma non riusciva a venirne fuori. Quando la sveglia suonò, poco dopo le tredici, fu un vero sollievo. Ruzzolò giù dal letto, si lavò, e stava per versarsi il caffè quando Del bussò alla porta. «Sei alzato», disse Del quando Lucas gli aprì. «Entra. Che novità?» «Ho avuto delle chiamate sulla linea delle informazioni segrete. Non molto.» Scosse un pacchetto raggrinzito per far uscire una sigaretta senza nicotina, senza catrame, e l'accese mentre andavano in cucina. «E stamane Sloan ha parlato con una certa Beulah Miller, un'altra amica di Stephanie. Le ha chiesto dello psicanalista e lei ha detto: 'Può essere'.» «Ma l'interessato nega.» «E anche sua moglie», completò Del. Si sedette al tavolo in cucina e quando. Lucas brandì il bricco del caffè, lui fece un cenno di assenso. «Sloan è tornato a interrogarla quando era sola. Ha detto che il marito aveva avuto una relazione anni fa, ma lei lo aveva saputo subito dall'inizio. E lui non ha avuto altre donne. Ha aggiunto che, dopo la prima visita di Sloan, aveva affrontato il marito per conoscere la verità. Lui ha negato e nega tuttora. Lei gli crede.» «Questa donna ha un suo lavoro?» domandò Lucas, mentre gli metteva davanti la tazza di caffè. «Sloan ha pensato anche a questo», rispose Del. «Sì, è una lobbista per il
Foro dei contribuenti e per un paio di altri gruppi economici conservatori. È laureata in legge, dice Sloan, e probabilmente guadagna un mucchio di soldi.» «Quindi non ha bisogno del buono-mensa.» «Credo di no. Comunque l'amica sospettava che Stephanie avesse una relazione. Non ne parlarono mai, ma vi furono allusioni insistenti. Non ne parlarono mai, ha specificato la Miller, forse perché l'uomo e probabilmente anche sua moglie erano anche suoi conoscenti, e Stephanie aveva temuto la reazione dell'amica.» «Dunque non è lo psicanalista, ma forse qualcuno noto nell'ambiente.» «Sì.» «Sloan ha fatto una lista delle possibilità?» «Naturalmente. Ventidue nomi. Ma lei ha detto che alcuni rappresentano possibilità molto remote. Sloan si occupa oggi dei più probabili, degli altri domani. Ma ha saputo un'altra cosa che potrebbe interessarti.» Lucas inarcò un sopracciglio. «Che cosa?» «Bekker avrebbe avuto una relazione tempo addietro, due o tre anni fa. Un'infermiera. È voce comune in ospedale. Sloan ha avuto nome e indirizzo, c'è andato. Quella gli ha detto di andare al diavolo. Lui ha mostrato il tesserino, ma sai com'è fatto Sloan, ama un po' troppo la gente...» «Huh. Pensi...?» «Penso che tu saresti l'uomo perfetto per parlare con lei», spiegò Del. «Perché non tu?» «Verrei volentieri con te, ma non ho l'aspetto giusto per questo incarico», disse Del, agitando i lunghi capelli neri. «Ho l'aria di un Charlie Manson. Le persone non mi fanno neppure entrare in casa, a meno che non siano dei cazzoni. Ma tu, quando ti presenti con un bel completo grigio, impersoni la legge.» Cheryl Clark non voleva farli entrare. «Si tratta di un omicidio, signorina Clark», disse Lucas, controllato e ufficiale, mettendole la tessera sotto il. naso. «Può parlare con noi e vi sono novanta probabilità su cento che dopo ce ne andiamo. O può rifiutarsi e la condurremo alla Centrale dove potrà farsi assistere da un avvocato, e parleremo a quel modo.» «Non sono obbligata a parlare.» «Sì, invece. Non ha il diritto di rifiutarsi. Ha il diritto di non incriminare se stessa. Se pensa di incriminare se stessa, viene con noi alla Centrale,
chiama un avvocato, e le offriremo l'immunità in cambio della sua deposizione. Oppure andrà in galera per oltraggio alla corte», disse Lucas. La sua voce si era alzata di tono. «Senta, non vogliamo torchiarla, se non ha commesso reati; mi creda, sarà molto più semplice fare adesso una chiacchierata informale.» «Non ho proprio nulla da dire», protestò lei. I suoi occhi si spostarono su Del, che aspettava in fondo alla piccola veranda e guardava una motocicletta. «Vorremmo comunque farle delle domande», disse Lucas. «Mah... va bene. Entrate. Ma potrei non rispondere», insistette lei. La stanza era ordinata ma impersonale, come quella di un motel. La televisione, il mobile predominante, stava di fronte a un divano. Il divano era ricoperto di panno verde, forse tolto da un tavolo da bigliardo. Una finestra scorrevole immetteva su un balconcino con vista della valle del Mississippi. «Quella fuori è la moto del suo ragazzo?» domandò Del in tono amichevole. «È la mia», rispose la Clark. «Lei va in moto? Fantastico», disse Del. «E fuma una quantità di spinelli?» Stava davanti alla grande finestra sul balcone e guardava il fiume. Portava una camicia arabescata a maniche lunghe sotto la giacca di jeans, e pantaloni neri sudici con cintura nera a grandi borchie d'argento. «Io no», rispose la ragazza in uniforme da infermiera, seduta rigidamente sul divano. I suoi occhi, infossati nel viso pallido, mostravano occhiaie marcate. Guardò Lucas. «Stava dicendo?» «Non ci prenda per i fondelli», replicò Del, mantenendo il tono amichevole. «Per favore. Me ne frego della droga, ma niente bugie. Lei potrebbe essere incriminata per queste cose.» «Io non...» cominciò a dire lei, poi con un'alzata di spalle: «Non fumo molto». «Non tema per questo», le disse Lucas. Si sedette sul divano, mezzo girato verso la ragazza. «Dunque, lei ebbe una relazione con Michael Bekker.» «L'ho detto al primo poliziotto. Non fu quasi niente.» Le sue mani gesticolarono davanti al petto. «Lui è indagato per l'uccisione di sua moglie. Non lo accusiamo, ma lo stiamo sorvegliando», disse Lucas. «Lei mi sembra una persona intelligente. Quello che vorremmo è... una sua valutazione.»
«Mi sta chiedendo... ?» «Lui sarebbe tipo da uccidere la moglie?» Lei lo guardò un attimo, poi disse: «Sì». «Fu violento con lei?» «Sì», rispose la ragazza dopo una breve pausa. «Mi racconti.» «Aveva l'abitudine di picchiarmi. Con le mani. Mani aperte che facevano male. E una volta mi strinse il collo. Stavo soffocando e pensai che sarei morta. Ma lui smise... Era anche collerico. Quando perdeva le staffe, la sua collera pareva inarrestabile, ma poi si frenava.» «Cosa mi dice delle pratiche sessuali? Atti insoliti, schiavizzazione, cose del genere?» «No, no. Vede, il sesso quasi non ci fu.» Lei guardò Lucas per vedere se il poliziotto le credeva. «È impotente?» domandò Lucas. «No», rispose lei. Sbirciò Del che la incoraggiò con un cenno del capo. «Cioè, delle volte lo facevamo, altre no, ma lui non sembrava eccitato tanto dal sesso quanto da...» «Che cosa?» La ragazza aveva superato la paura di loro e ora stava cercando le parole giuste per descrivere la situazione. «Lui ha bisogno di dominare. Mi faceva fare sesso orale e via dicendo. Non perché lo stimolasse, non credo, ma perché gli piaceva impormelo. Era il dominio che gli piaceva, non il sesso.» «Usò mai droghe in sua presenza?» «No... ecco, forse fumò marijuana. Però, sa, ho idea che usasse steroidi. Ha un gran bel corpo.» Abbassò le palpebre. «Ma testicoli piccolissimi.» «Davvero?» «Sì... quasi come due palline di vetro», disse lei. «Sa, chi come lui fa sollevamento pesi usa steroidi. L'uso prolungato di steroidi riduce i testicoli, così io glielo chiesi e lui andò su tutte le furie. Quella fu la volta che tentò di strozzarmi.» «Lo vide mai danzare?» chiese Lucas. «Danzare? Quella sua danza?» La Clark spinse il busto indietro. «Lo ha visto farlo...» «Dunque è al corrente», disse Lucas. Del corrugò la fronte, confuso. «Una volta mi picchiò forte», disse lei, agitandosi. «Non proprio da portarne i segni, ma sentii male e piansi, e d'un tratto lui si mise a ridacchiare,
a saltellare, alzando ora una gamba ora l'altra. Mi pareva di sognare... faceva una specie di danza. Una giga.» «Porca miseria», esclamò Del. «Una giga?» Lucas annuì e rispose all'amico. «L'ho visto. Deve drogarsi. Parlane ai tuoi contatti, accertati se lui la compra in strada.» Del guardò la Clark e le chiese: «Perché si mise con lui?» «Perché è bello.» «Bello?» «Sì. Non avevo mai avuto un uomo bello.» La ragazza guardò prima l'uno, poi l'altro, in cerca di comprensione. E Del assentì. Uscirono dieci minuti dopo. «Quella sa di più», disse Lucas. «Ci ha taciuto qualcosa che forse considera importante.» «Sì. Ma non possiamo stabilire quanto importante.» Del si grattò la testa, e si girò a guardare la casa. «E se insistiamo troppo, quella o andrà in pezzi, o chiamerà l'avvocato.» «Il che è peggio.» «Sì.» Camminavano lungo il marciapiede per arrivare all'auto. «Dov'è tua moglie?» domandò di punto in bianco Lucas. «Ho saputo che se ne è andata.» «Sì. Più di un anno fa.» «Hai compagnia a letto?» «Solo le mie dita», rispose Del con una risatina amara. «Guardami, sono un rottame. Intronato per metà del tempo e vado in giro con una pistola all'ascella. Chi vuoi che si accompagni con me? A parte un paio di puttane?» «Sì.» Lucas guardò il collega. «Sai una cosa? A lei sei piaciuto, direi. Alla Clark. Parlando delle moto e tutto quanto. Insomma, lei va in moto e tu sei come sei.» Del tentennò il capo. «Amico, posso trovare di meglio.» «Non ci sei riuscito», sottolineò Lucas. «E trovare di meglio non ci dirà quello che lei sa.» «Direi che dodici o tredici di loro sono veri squilibrati e non abbiamo voluto disturbare lei», disse l'incaricato del Centro operativo, dando a Lucas un fascio di foglietti di chiamate. «Li ho contrassegnati. Sei non hanno voluto dire il loro nome. Giudichi lei, ma sono una perdita di tempo... Altri sei dovrebbero essere presi in esame. Persone che conoscevano i Bekker o
la Armistead; dicono di avere un'informazione. Ma non la considerano urgente.» «Vabene. Grazie.» «Questa, l'ultima, ha detto che era personale.» Lucas guardò il foglietto. Cassie Lasch. Pensò di non chiamarla. Un modo facile per uscirne, se lasciava passare il tempo. Andò a casa, si preparò la cena nel forno a microonde, conscio del telefono alla periferia del suo campo visivo. Resistette un'ora prima di chiamarla. «Non mi ha telefonato», disse Cassie. «Sto lavorando. Mi dia un po' di tempo.» «Quanto tempo ci vuole per una chiamata? Dove abita?» «A St. Paul.» «E se venissi lì?» propose lei. «Ah...» Lucas si raggelò, ebbe l'impulso di liberarsi di lei. Guardò il tavolo della cucina, invaso da giornali e corrispondenza non aperta, libri, alcuni letti, altri no, un paio di scatole di fiocchi d'avena ancora nuove, una pila di piatti da lavare... Non stava facendo un tubo. Era appena appena vivo. «Sa dov'è il Mississippi River Boulevard?» 13 Cassie fu tutta muscoli e intensità, gli diede battaglia sul letto. Quando furono stremati, lei giacque bocconi sull'altro guanciale, mentre Lucas, supino, lasciava evaporare il sudore dal proprio corpo. «Gesù», disse dopo un poco. «È andata bene. Ero un po' preoccupato.» Lei girò la testa. «Da che cosa?» «Era passato del tempo.» Cassie si appoggiò a un gomito. «Ah. Un po' di depressione?» «Credo di sì», rispose lui, stranamente disposto a parlarne. A Jennifer non aveva mai confessato i suoi problemi. «Ne avevo tutti i sintomi.» Lei strisciò sopra l'uomo, e allungò la mano per accendere il lume sul comodino. Lui sobbalzò e girò la testa per evitare la luce. «Guarda qui», disse la ragazza, mostrandogli i polsi. Sulla parte interna si vedevano due cicatrici parallele, trasversali. Inequivocabili. «Che cos'è questa roba?» disse lui. Le prese i polsi nelle mani e carezzò le cicatrici con i pollici.
«Che cosa ti sembra?» «Che ti sei tagliata i polsi», rispose lui. Cassie annuì. «Indovinato. Finto tentativo di suicidio; così dissero gli psichiatri. Depressione.» «Le cicatrici non sembrano finte», obiettò lui. «Lo pensai anch'io», disse lei, tirando via le braccia. «Hai sigarette da qualche parte?» «No. Non sapevo che tu fumassi.» «Fumo soltanto dopo il sesso», precisò Cassie. «Quelli erano tagli abbastanza profondi. Raccontami.» Lei si mise seduta, tirandosi le ginocchia al mento, e lo guardò. «Fu cinque anni fa. Non corsi pericolo di morire. Persi tanto sangue e dovetti andare da uno specialista per alcuni mesi.» «Che cosa c'era di finto in questo?» domandò Lucas, girandosi di fianco e puntellandosi su un gomito. «Così dissero gli strizzacervelli: io stavo con un tale che aveva la pistola, e sapevo dove la teneva. L'appartamento era al settimo piano, e avrei potuto buttarmi dalla finestra. Sapevo anche che lui sarebbe tornato a casa molto presto. Dunque, dissero, in realtà io volevo vivere e quello fu soltanto un tentativo per attirare l'attenzione sulle mie condizioni.» «Ma le ferite...» «Sì. Gli strizzacervelli sono degli stronzi. Ti dicono come parlare a un altro, come gestire problemi personali, ma non sanno quello che avviene nella tua testa, a meno che non l'abbiano sperimentato in se stessi. Avrei potuto gettarmi dalla finestra, o spararmi. Ma non ci pensai. Avevo, come dire, questa...» «Fissazione.» «Sì, esatto», confermò lei, sorridendo. «Vedi, tu lo sai. Il teatro ha tutta una tradizione sul suicidio, e i coltelli sono lo strumento per attuarlo. Io pasticciai tutto. Avrei dovuto fare il taglio per il lungo, o al gomito, ma non lo sapevo. Avrei potuto usare frammenti di vetro, ci si taglia meglio con quello, ma non lo sapevo.» Lucas rabbrividì. «Vetro. Lo vidi una volta. Fa passare la voglia di usarlo.» «Lo terrò a mente», disse lei con una smorfia. «Dunque ti svenasti.» «Sì. Mi tagliai con la lama e rimasi lì a sanguinare e a piangere finché non arrivò il mio amico. Non mi fecero neppure la trasfusione in ospeda-
le», disse Cassie. «Una buona cosa. A quell'epoca c'era l'AIDS nelle scorte di sangue. Sebbene, chi può sapere, sai, noi maledetti attori...» «Gesù, che consolazione mi dai.» Abbassò lo sguardo preoccupato sul proprio organo. «Forse dovresti immergerlo nel Lysol», disse lei. «Non ho il Lysol», rispose lui, ridendo. La ragazza gli batté una pacca sulla gamba. «Tu che cosa facevi? Pensavi alle tue armi?» Lui la guardò e annuì. «Sì. Ho una cassaforte piena di armi nel seminterrato. Era come se risplendessero laggiù. Avevano una loro gravità, una sorta di magnetismo. Ne sentivo l'influsso dovunque mi trovassi, mi attiravano là. Non importava se ero dall'altra parte di Minneapolis, ne sentivo sempre la forza di attrazione. Porto abitualmente la pistola, ma non ho mai pensato di usarla. Erano quelle in cassaforte a esercitare un fascino su di me.» «Scendi mai giù? Per guardarle, maneggiarle? Metterne una all'orecchio?» «No. Mi sentirei un po' stupido», disse Lucas. Lei spinse indietro la testa e rise, non per gioia ma di comprensione. «Penso che molti suicidi vengano evitati perché ci si sente stupidi. O per la figura che si farebbe dopo. Come se uno s'impiccasse.» Si mise le mani attorno al collo e strinse, incrociando gli occhi e tirando fuori la lingua. «Gesù», esclamò lui, ridendo ancora. La ragazza tornò seria. «Ci pensavi perché la vita ti era troppo penosa, o cosa?» «No. Non potevo controllare quello che passava nella mia mente, quella tempesta. Non dormivo: ero assalito da ossessioni pazzesche in cui nove milioni di pensieri mi martellavano in testa e non potevo fermarli. Follie. Sai, come i nomi dei miei compagni all'ultimo anno delle superiori, o di quelli che componevano la squadra di hockey, fesserie bizzarre, e m'incazzavo se non ricordavano un paio di nomi.» «È abbastanza comune», disse Cassie. «Ma, soprattutto, pensavo alle armi perché mi pareva del tutto irrilevante essere vivo o morto. Era come giocare a testa o croce — testa vivi, croce muori — e se continui a lanciare la moneta, prima o poi viene croce.» Cassie annuì. «Un tizio che conobbi a New York aveva l'abitudine di giocare alla roulette russa con la pistola. Più o meno una volta l'anno faceva ruotare quel coso...»
«Il cilindro.» «Sì. Poi si metteva la canna in bocca e tirava il grilletto. Nel periodo di Natale. Diceva che questo lo faceva rigare diritto per tutto il nuovo anno.» «Come andò a finire?» domandò Lucas. «Non lo so. Non era un grande amico. L'ultima volta che andai a New York lui era vivo. Non riuscii mai a capire se fosse fortunato o sfortunato.» «Huh.» Lei si allungò sul letto, incrociò le mani dietro la testa, e i due restarono a fianco a fianco in un confortevole silenzio. «Avevi una voce nei recessi della testa che ti seguiva nelle tue stranezze?» domandò infine lei. «Sì. L'osservatore. Era come avere il mio critico, il mio giornalista personale.» Lei ridacchiò. «Non l'ho mai considerato a questo modo, ma è così. Per esempio, la parte principale di me menava colpi su colpi con un coltello da pane.» «Ah, perdio, un coltello da pane?» «Sì, di quelli con la lama seghettata.» «Mio Dio.» «Di buona marca anche, un Solingen.» «Santo cielo, Cassie.» «Comunque la parte principale di me menava colpi furibondi e la vocetta interiore commentava, come fosse la CNN. Era anche scettica.» «Mio Dio.» Lucas le mise una mano sull'addome e la carezzò dall'ombelico ai seni, e ancora giù fino all'inguine, all'interno delle cosce. «Abbastanza grave, eh? Comunque sono contenta che stai migliorando.» «Non ne sono proprio sicuro.» «Oh, sì» Lei batté la mano sul letto. «Sei qui. Quando uno è depresso la vita sessuale va a farsi benedire. Io feci una terapia di gruppo, e gli uomini in cura lo dicevano. Non era che non potessero... non sopportavano il pensiero delle complicazioni. Il sesso è la prima cosa che se ne va. Quando ritorna, sei sicuramente migliorato.» Il telefono squillò alle undici. Lucas si svegliò con gli occhi limpidi, riposato, e rotolò verso il bordo del letto prima di accorgersi del peso dall'altra parte. Aveva dormito, sognato, e quasi dimenticato... Cassie stava di nuovo bocconi, nuda come Dio l'aveva fatta, il lenzuolo ai fianchi. I suoi capelli si erano divisi e la luce che filtrava dall'avvolgibile le illuminava la linea sensuale delle vertebre dalla nuca fino quasi all'osso
sacro. Benché il telefono suonasse per la quarta o quinta volta, lui allungò una mano e le abbassò il lenzuolo fino alle gambe. Cassie lo riprese e si ricoprì. «Va' a rispondere», borbottò, senza muovere la testa. Lucas sogghignò e andò in cucina; sollevò il ricevitore al sesto trillo. Era il Centro operativo. «Ho una chiamata da Michael Bekker, è in linea», disse la donna. «Glielo passo?» «Sì.» Vi fu un clic, una pausa e poi Bekker disse: «Pronto?» «Sì, qui Davenport.» «Ah, Lucas. È libero stasera, sul tardi?» La voce dell'uomo era bassa, cordiale, studiatamente modulata. «Ho lezione, poi una cena, ma ho trovato qualcosa fra le carte di mia moglie; penso sia interessante. Vorrei mostrargliela.» «Può informarmi per telefono?» «Mmm. Perché non viene da me? Uno di voi dovrebbe farlo comunque, e io preferisco che venga lei. L'altro poliziotto... è un po' tonto.» Swanson. Tutt'altro che tonto, anche se molti di coloro che alloggiavano nella prigione di Stillwater avevano commesso l'errore di ritenerlo tale. «D'accordo. A che ora?» «Verso le dieci?» «Bene, ci vediamo.» Lucas tornò in camera. Il letto era vuoto, e in bagno scorreva l'acqua. Cassie era ricurva sul lavabo e usava lo spazzolino da denti di lui. Lucas ebbe un moto di disappunto, poi allungò la mano sul sedere della donna. «Salve», disse lei con la bocca schiumosa, guardandolo dallo specchio sopra il lavabo. «Finisco in un minuto. Ho il fiato di un dinosauro. E devo fare pipì.» «Vado nell'altro bagno», disse lui. Percorse il corridoio, si accertò che lei non lo seguisse, aprì un cassetto, prese uno spazzolino nuovo, lo tolse dall'involucro. Sorrideva quando si guardò allo specchio. Tornato in camera, vide lenzuola e coperte ammucchiate sul pavimento, e lei allungata in mezzo al letto. «Salta su», lo invitò, battendo la mano sul materasso. «Siamo giusto in tempo per quella di mezzogiorno, e poi non ci siamo ancora alzati veramente. Non è grandioso?» Dopo che Cassie se ne fu andata in taxi, Lucas passò il resto della gior-
nata a bighellonare, incapace di concentrarsi molto sul caso; telefonò a chi lo aveva cercato, fece un giro in città controllando la sua rete di informatori. Ripassò dalla casa di Bekker e parlò con un vicino che stava rastrellando via la sporcizia invernale dal suo prato. Un tempo Stephanie aveva un cocker spaniel, disse l'uomo, e quando Bekker doveva portarlo fuori in inverno, arrivava fino all'angolo e «là lo prendeva a calci. Lo vedevo dalla finestra; e lo fece parecchie volte». La moglie dell'uomo, che stava dividendo i bulbi di iris, si voltò e disse: «Sii giusto, digli delle scarpe». «Le scarpe?» «Ah, sì, il cane doveva avere disturbi renali, immagino, e aveva l'abitudine d'infilarsi nello spogliatoio di Bekker e pisciare nelle sue scarpe.» Lucas e l'uomo scoppiarono a ridere. Alla sera, un'ora prima che Cassie andasse in teatro, lei e Lucas percorsero l'isolato e si fermarono in un bar. Si sedettero l'uno di fronte all'altra in un séparé e presero un caffè. Cassie disse: «Non sei abbastanza bizzarro per i miei gusti. Ma sarebbe piacevole se potessimo restare insieme un paio di mesi». Lucas annuì. «Sarebbe piacevole.» Alle dieci e cinque minuti Lucas era alla porta di Bekker. Le luci sfavillavano da varie finestre del pianterreno, e lui frenò l'impulso di andare a spiare. Invece suonò il campanello e Bekker venne alla porta in vestaglia color cremisi. «È sua la Porsche?» chiese meravigliato, guardando verso la strada. «Sì. Ho denaro mio», rispose Lucas. «Ah.» Bekker fu colpito. Conosceva il prezzo di una Porsche. «Bene, entri.» Lucas lo seguì nello studio. Bekker sembrava instabile, nervoso. Macchinava qualcosa, decise Lucas. «Scotch?» «Grazie.» «Ne ho di buona qualità. Prima bevevo Chivas, ma un paio di mesi fa Stephanie», fece una pausa, come se rivedesse il suo viso, «mi comprò una bottiglia di Glen Grant, puro malto, gustoso. Non tornerò più all'altro.» Lucas non distingueva un whisky da un altro. Bekker mise cubetti di ghiaccio in un bicchiere, vi versò due dita di liquore e lo offrì a Lucas. Buttò l'occhio al proprio orologio, e Lucas considerò strano che lui portasse l'orologio essendo già in vestaglia. «Allora che cosa ha trovato?» gli
domandò. «Un paio di cose», rispose Bekker. Si sedette alla scrivania, in posizione comoda, con il bicchiere in mano, e incrociò le gambe. Queste fuoruscirono dalle falde della vestaglia come le gambe di una donna da un abito da sera. Deliberatamente, pensò Lucas. Lui vuole vedere se sono un gay, e tenta di sedurmi. Bevve un sorso di scotch. «Un paio di cose», ripeté Bekker. «Come queste.» Prese un pacchetto di cartoncini colorati legati con un elastico e li spinse verso Lucas. Lui li esaminò. Erano biglietti di spettacoli al Lost River Theater. Fece scorrere il pollice sui primi otto, di tre colori diversi. «Nota niente di particolare, Lucas?» chiese Bekker. «Be', sono del Lost River Theater. Lucas tolse l'elastico e li guardò a uno a uno. «Tutti per rappresentazioni diurne... e otto biglietti sono per tre diverse. Tutti annullati.» Bekker mimò un applauso, poi sollevò il bicchiere come per brindare a Lucas. «Sapevo che lei era intelligente. Non trova che lo si possa capire sempre? Comunque la seconda donna uccisa era un'attrice di quel teatro, giusto? Io andai a vedere un paio di spettacoli serali con Stephanie, ma non sapevo che lei ci andasse di giorno. Così mi sono detto: sta' a vedere che il suo amante...» «Capisco», disse Lucas. Un collegamento. Che lasciava fuori Bekker. «E ho trovato anche questo», disse Bekker. Si protese e porse a Lucas diversi fogli formato lettera. Estratti-conto dell'American Express con varie voci sottolineate in inchiostro blu. «Quelle sottolineate sono le spese per il teatro. Sei o sette volte negli ultimi mesi, sulla sua carta di credito personale. Un paio corrispondono alle date delle diurne, e la cifra è giusta. E poi per quattro volte c'è una spesa per il pranzo al ristorante, nientemeno che trenta dollari. Scommetto che invitava qualcuno. In quel ristorante, The Tricolor Bar, sono stato anch'io una o due volte, ma mai di giorno.» Lucas guardò i fogli, poi Bekker. «Avrebbe dovuto mostrarli a Swanson.» «Non mi piace quell'uomo», rispose Bekker, guardandolo negli occhi. «Mi piace lei.» «Bene», disse Lucas. Scolò quanto rimaneva dello scotch. «Anche lei sembra una persona ragionevole. Patologia, giusto? Forse le chiederò di collaborare a uno dei miei giochi; potrebbe dare una consulenza medica.» «I suoi giochi?» Bekker buttò ancora un'occhiata al suo orologio, in modo furtivo.
Che cosa c'è in ballo? «Sì, invento videogiochi. Sa, giochi di strategia storica, con personaggi eroici, e cose del genere.» «Humm. Mi interesserebbe parlarne qualche volta», disse. «Veramente.» 14 Salutato Lucas, Bekker chiuse la porta e schizzò su, lasciando le luci accese. Andò alla finestra sopra la veranda e scostò appena la tenda con l'indice. Davenport stava salendo sulla Porsche. Un momento dopo i fari si accesero e l'auto partì. Bekker corse in camera. Indossò pantaloni blu scuro, camicia di maglia grigia, giacca blu e mocassini, trangugiò una metanfetamina e uscì dal retro; salì in auto. Un ristorante della zona aveva un telefono pubblico appena dentro l'entrata. Si fermò là, formò il numero, rispose la segreteria telefonica al secondo trillo: c'era un messaggio. Fece il numero di codice 4384. Dopo una pausa la voce di Druze pronunciò una sola sillaba. Druze stava ingobbito al volante, il peso della notte lo opprimeva. Come il catrame fresco. Un piede ci si appiccica, devi aiutarti tirando calci con l'altro, poi usi la mano e ti si appiccica anche quella. Era l'ultima volta per lui. Avrebbe dissuaso Bekker dal compiere un altro omicidio. Non ce n'era bisogno. Non ora. Aveva visto la televisione e la polizia era convinta che il killer, fosse uno solo, uno psicopatico. Druze stava girando attorno a un edificio a mattoni rossi del complesso universitario: Peik Hall. Osservava. Una quantità di luci, grossi lampioni arancione ai vapori di sodio, illumuiazione nei vialetti, all'entrata degli edifici. Abbondanza di alberi e cespugli. Un buon nascondiglio. E nessuno in giro. La notte era fredda, con nuvoloni che correvano in cielo e a tratti lasciavano vedere la luna piena. Si preannunciava pioggia. Una buona notte da trascorrere nelle taverne di Riverside Drive con i compagni di teatro, fra birra, ragazzacci e TV. Lui non era mai uno dei ridanciani, di quelli che lanciavano frizzi e chiacchieravano; se ne stava sullo sgabello in fondo al banco del bar, pago della eccitazione riflessa. Qualsiasi cosa era migliore di quella che stava per fare, ma la colpa era soltanto sua. Avrebbe dovuto inseguire il tizio grassoccio... Druze indossava la stessa giacca da sci, questa volta non solo per nascondersi, ma anche per proteggersi dal freddo. Non voleva che George lo
riconoscesse troppo presto. La Cherokee era parcheggiata in una piccola area racchiusa dietro l'edificio adiacente a Peik Hall. Pillsbury Drive, la strada che correva al limite del campus, girava dietro quella zona di parcheggio. Dopo le dieci vi era scarso traffico, ma qualche veicolo passava a intervalli di alcuni minuti. Il fondo stradale era abbastanza liscio per cui non si sentiva arrivare. C'era un'altra auto di fronte a quella di George. Druze fece un giro di ricognizione, poi parcheggiò la sua Dodge station wagon accanto alla jeep di George, ma lasciando un po' di spazio fra le due. Si guardò attorno prima di scendere, e dopo si fermò ad ascoltare. La zona era scarsamente illuminata; un unico globo era acceso sul retro dell'edificio. Non si vedeva anima viva. Druze andò verso il marciapiede, si fermò accanto a un cespuglio e tese l'orecchio per dieci, venti secondi. Niente. Tornò alla jeep, si acquattò, cavò di tasca un manometro, lo girò in senso inverso e usò il grosso arpione per forare la gomma sinistra posteriore. George si sarebbe avvicinato da quella parte e l'avrebbe sicuramente vista. La fuoruscita dell'aria parve a Druze il fischio di un treno, un fischio che non finiva mai. Ma dopo un minuto la gomma era a terra. Druze si tirò su, gettò un'occhiata circolare e si allontanò senza fredda. Il parchimetro. Porca miseria. Tornò indietro ai parchimetri del campus che funzionavano giorno e notte. Doveva stare attento agli agenti di vigilanza. Controllavano i parcheggi una o due volte per notte. Una multa sarebbe stata un disastro. Druze non provava assolutamente nulla quando uccideva, nessuna reazione, dolore, empatia. E neppure paura. Ma quella notte vi fu in lui un po' di apprensione: gli venne quando stava per dimenticarsi dei parchimetri. E se fosse tornato all'auto, avesse ucciso George e solo allora avesse notato il foglietto sul parabrezza? Lo avrebbero incastrato. Druze rabbrividì e incurvò le spalle. Non aveva previsto di cacciarsi in quel ginepraio. Una studentessa con i libri sul braccio passò sull'altro lato della strada, senza guardarlo. Lui entrò in University Avenue, tenendo d'occhio le finestre illuminate di Peik Hall. Bekker aveva fatto un sopralluogo e gli aveva detto quali finestre guardare. Un giovane nero con giacca rossa passò frettoloso sul marciapiede opposto. Un bianco, con casco chiaro e zainetto, sfrecciò sui pattini a rotelle. Ora Druze bighellonava, si era calato nella parte e recitava, una mano in tasca, sul manico del vecchio affilacoltelli tedesco. Era pesante quanto un attizzatoio da caminetto, ma più corto, quarantacinque centimetri, la punta
come una spada e il manico di noce levigato. Ne aveva spinto la lama d'acciaio oltre la fodera della tasca, poiché il manico era abbastanza grosso per tenerla ferma, a contatto della sua gamba. Si era esercitato nel tirarla fuori. Usciva facilmente e roteava come uno stringitubo, con migliore equilibrio. Avrebbe fatto un buon servizio. Druze lasciò la University Avenue e camminò sul prato di fronte a Peik Hall. Stava facendo parecchio per Bekker, pensò, ma non solo per lui. Lo faccio per me, rifletté, quel tale mi ha visto in faccia. Alle dieci e cinque uscirono tre studenti con i libri sotto il braccio. Si fermarono sui gradini esterni di Peik Hall, poi un ragazzo andò a sinistra, l'altro e la ragazza a destra. Un minuto dopo ne uscirono altri in gruppo, e chiacchierando si allontanarono insieme. Una serie di luci si spense alle finestre sorvegliate da Druze. Lui ritornò in University Avenue e poi in Pillsbury Drive, diretto al parcheggio. Giunto là, camminò fino in fondo e si dispose all'attesa in mezzo a due cespugli. Arrivarono due uomini dal lato dell'edificio. Udì le loro voci, prima confuse e lontane, come il battere di una macchina per scrivere, poi come linguaggio umano. «...Non so capacitarmi come abbiano fatto a vincere, dato che la società non aveva avvisato nessuno che il serbatoio della benzina perdeva», stava dicendo il più piccolo dei due. «Giurie. Devi tenerlo a mente, sempre. Non esiste un buon modo per predire quello che loro faranno, neppure con il migliore programma selettivo. In questo particolare... Oh, merda.» La conversazione s'interruppe. Druze si mosse per andare sul marciapiede. Se erano in due, doveva lasciar perdere. «Guarda questa maledetta gomma. Ha appena tre mesi.» «Vuole che...» si offrì l'altro. Uno studente, pensò Druze. «No, no. Posso cambiarla in due minuti», rispose George, sbirciando la gomma con disgusto. «Però mi fa incazzare, scusa l'espressione. Dovrei poter passare sopra arpioni di rotaie con queste gomme... Ecco un caso per te, Brekke. Intenta causa per mio conto alla dannata ditta produttrice dei pneumatici.» «Con piacere.» Vi furono altre chiacchiere e tintinnio di arnesi mentre lo studente guardava il robusto professore togliere la ruota di scorta dalla jeep. Druze si augurò quasi che lo studente rimanesse lì. Ma dopo un paio di minuti il giovane guardò l'ora e disse: «Ecco, mia moglie si starà chiedendo...» «Vai, vai. Tra un minuto ho fatto.»
Lo studente uscì in auto dal parcheggio senza guardare in direzione di Druze. Il professore si era tolto la giacca e arrotolato le maniche della camicia, mentre brontolava e sacramentava. Tolse la gomma sgonfia, mise quella di scorta. Lavorava con perizia, senza perdere tempo. Con una serie di rapide torsioni, il nuovo pneumatico fu a posto. Druze fece un profondo respiro, strinse la mano sull'affilacoltelli e avanzò nel parcheggio, facendo tintinnare le chiavi dell'auto nella mano sinistra. Il professore aprì la parte posteriore della jeep, lasciando inserita la chiave — ogni cosa ora andava al rallentatore per Druze, ogni cosa era messa a fuoco con nitidezza — sollevò la gomma bucata, tenendola a distanza dai pantaloni, e la scaricò nella jeep. Druze era tre metri indietro, controllava e controllava. Nessuno in giro. Nessuno in Pillsbury Drive, nessuna auto. Il professore, un pezzo d'uomo biondo, sbatté la portiera posteriore, e si voltò sentendo il rumore delle chiavi di Druze. Era un rumore armonioso, e indicava che Druze era diretto all'ultima auto del parcheggio. «Gomma a terra?» chiese Druze. Il professore annuì senza mostrare di averlo riconosciuto, sebbene ormai Druze fosse vicino. «Sì, questa dannata era piatta come una frittella.» «Tutto a posto?» chiese Druze, rallentando. Passò lo sguardo attorno un'ultima volta: nulla. Il manico dell'affilacoltelli era fresco nella sua mano. «Oh, sì, nessun problema», rispose George, rimettendosi la giacca. Aveva le mani nere di grasso per avere maneggiato i dadi. «Bene.» Druze tenne l'arnese nascosto dietro la gamba e andò avanti, fingendo di essere diretto alla sua macchina, poi fece una brusca giravolta e brandì quell'arma come un machete quando taglia la canna da zucchero. Colpì George alla tempia destra. Il professore urtò e rimbalzò sulla jeep, cadendo a terra. Druze lo colpì ancora ma non era necessario; il primo colpo gli aveva spaccato mezzo cranio. Un fetore improvviso rivelò a Druze che l'uomo aveva defecato. Né lui né Bekker avevano pensato al puzzo di quel corpo trasportato in auto. Bando alla prudenza: se qualcuno fosse sopraggiunto nei successivi trenta secondi, sarebbe stata la fine. Druze afferrò George sotto le ascelle e lo trascinò alla Dodge. Le luci dell'edificio, lontane e inadeguate pochi secondi prima, ora gli sembravano riflettori in uno stadio. Druze aprì la porta posteriore dell'auto e gettò il corpo sui sacchi neri da immondizia che ave-
va steso sul fondo, dietro i sedili. Sotto i sacchi c'era una vanga dal manico corto. Cadendovi sopra, il cadavere colpì la parte metallica, fece sollevare il manico e rompere i sacchi. Druze imprecò e spinse in giù il manico, ma questo fece rotolare il corpo. George era pesante, e le sue gambe ciondolavano fuori dall'auto. Con movimenti frenetici Druze faticò per piegargli le gambe, poi si occupò del busto massiccio, lo tirò per i risvolti della giacca, senza vedere la testa sanguinante e contorta, in uno sforzo accanito per ficcarlo dentro. Quando ebbe finito, gocciolava di sudore. Druze non aveva avuto mai paura. Ora era spaventato. Non terribilmente, ma abbastanza da riconoscere l'emozione, la stessa di quando era stato ustionato. I bagni in ospedale, quando gli avevano tolto la pelle morta... quelli lo avevano spaventato. I trapianti lo avevano spaventato. Quando il dottore era venuto a controllare le sue condizioni, quello lo aveva spaventato. Uscito dall'ospedale, non aveva più avuto paura. Gli era tornata ora, come un formicolio. Druze coprì il corpo con altri sacchi di plastica e poi abbassò i sedili posteriori. Questi non lo nascondevano del tutto, ma per chi guardasse casualmente l'abitacolo sembrava vuoto. Sbatté la porta posteriore, tornò alla jeep, tolse le chiavi rimaste nella serratura, le gettò fra il marciapiede e la ruota anteriore, poi controllò il parchimetro: dieci minuti. Cavò delle monete dalla tasca e lo regolò a due ore. Nessuno in giro. Solo le luci di Minneapolis al di là del fiume e un lontano, triste suono di clacson sulla Hennepin Avenue. E se l'auto non fosse partita? E se... Avviò il motore e uscì dal parcheggio, girò a destra. Non incontrò altre auto. Entrò in University Avenue e tirò un sospiro. Superò i dormitori studenteschi. Controllò la quantità di benzina per la centesima volta. Percorse Oak Street, svoltò a sinistra, e poi entrò nella I-94 diretto nel Wisconsin. Il viaggio fu terribile. Un silenzio opprimente. Lui ebbe la sensazione che l'auto fosse ferma, investita via via dalle luci, come in un incubo. A Snelling un poliziotto attraversò la rampa sopraelevata. Druze lo controllò sullo specchietto retrovisore, ma l'uomo continuò per Snelling. Tralasciò l'uscita alla Fifth Street, dopo l'autostrada 61, e s'immise nello svincolo a White Bear Avenue. Si fermò a una stazione di servizio, chiamò il numero che Bekker gli aveva dato, comunicò con la segreteria telefonica e pronunciò una sola sillaba: «Sì». Rientrato nella I-94, si mantenne sui novanta all'ora, sebbene i cartelli
indicassero centocinque; superò il doppio ponte sul fiume St. Croix, uscì dal Minnesota ed entrò nel Wisconsin. Le indicazioni dei chilometri partivano dal confine occidentale di ogni Stato, perciò lui poté calcolarli a mano a mano che si addentrava. Sedici... diciannove. Imboccò lo svincolo segnalatogli da Bekker, si diresse a nord. Sei chilometri e ottocento metri, tre riflettori rossi su un cartello per la strada secondaria. La trovò, esattamente dove Bekker aveva detto, e vi si inoltrò tra sobbalzi e scossoni sul fondo sterrato. Trecento metri. Il sentiero finiva a una casetta di legno con porta al centro e due finestre quadrate ai lati. La casetta era buia. Alla luce dei fari vide un lucchetto di ottone appeso alla cerniera di chiusura della porta. Oltre la casetta, vide il chiaro di luna sul lago. Più che un lago era un grande stagno. Spense i fari, scese e camminò fino all'acqua, seguendo a tentoni il sentiero fra la casetta e il lago. Vi era una sagoma scura alla sua sinistra e volle capire che cosa fosse. Tavole di legno su intelaiatura d'acciaio, ruote... un imbarcadero mobile. Okay. Sulla sponda opposta del lago notò una sola finestra accesa, ma non individuò la casa. Unico rumore il vento che faceva frusciare gli alberi. Restò fermo un attimo ad ascoltare, a osservare, poi tornò sui suoi passi. Questa volta fu più facile maneggiare George perché non era incalzato dalla fretta. Prese una torcia elettrica dal portaoggetti nel cruscotto, poi, afferrato il cadavere, lo sollevò e se lo mise in spalla come un sacco di farina. Andò oltre la fine del sentiero, come Bekker gli aveva detto, oltre l'altalena appesa al pioppo. Usò la torcia a intermittenza, per vedere dove metteva i piedi; si muoveva in diagonale rispetto alla casa sulla sponda opposta, quindi non avrebbero visto la sua luce. Rovi di more, secchi ma ancora pungenti, gli si attaccarono ai vestiti. Passa tra i rovi, aveva detto Bekker. Prosegui dritto da quella parte dove non va nessuno. Bekker e sua moglie avevano esplorato il luogo tre anni prima, quando lei cercava un cottage sul lago. Avevano visto il cartello IN VENDITA tornando da un altro lago, si erano fermati, avevano trovato la casetta vuota, e dopo dieci minuti erano ripartiti. Troppo rozza e primitiva: una stalla, senza acqua corrente, senza isolamento termico. Stephanie l'aveva scartata, e nessuno sapeva che loro erano stati là. Druze avanzò tra i rovi e quando sentì il terreno molle scaricò il cadavere. Accese la torcia, si guardò attorno. Era al margine di una desolata palude di larici selvatici, Bekker aveva ragione. Ci sarebbero voluti anni prima che qualcuno andasse là. O forse mai...
Druze tornò indietro a prendere la vanga e si mise al lavoro. Scavò per un'ora, stancandosi i muscoli. Niente di raffinato, pensò; bastava una buca. Ne fece una larga un metro, ma la terra era sempre più bagnata e pesante. Incontrò delle radici, le spezzò con la vanga, scavò ancora, coprendosi di fango. Alla fine si ritrovò in una fossa profonda oltre un metro nella cui melma sguazzava fino alle caviglie. Uscì da lì, afferrò il morto per la cravatta e una gamba e lo scaricò dentro. Provocò uno schizzo d'acqua e accese la luce. La testa di George era immersa, i piedi erano rimasti su. I calzini gli erano scesi alle caviglie e Druze notò la pelle bianca; una scarpa aveva la suola bucata. Spossato, si riposò un momento, mentre nel cielo le nuvole correvano come barche nere, e la luna faceva capolino di tanto in tanto. Freddo, pensò. Come ad Halloween. Rabbrividì e si accinse a riempire la fossa. Nessuno vide, nessuno udì. Percorse il sentiero in retromarcia, e accese i fari solo giunto sulla strada principale. Era già a St. Paul quando si rammentò di non avere colpito gli occhi. Al diavolo gli occhi. E al diavolo Bekker. Druze era uscito dal catrame fresco. Due agenti del campus passarono vicino alla jeep di George e buttarono la luce sul parchimetro. Il limite di orario era superato di oltre un'ora. «Sì.» L'unica sillaba gli ronzò nell'orecchio, pesante come pietra. George era morto. Bekker, al telefono pubblico del ristorante, mise giù il ricevitore e ballò la sua giga, saltellando e dimenandosi e ridacchiando. Si controllò. Si guardò attorno con aria colpevole. Nessuno. Loro due erano puliti. Mancavano dei dettagli, ma si trattava di poca cosa. Dopo che si fosse liberato della jeep, nessuno lo avrebbe collegato ai crimini. Be', un modo c'era. Ma era una cosa trascurabile. Controllò l'ora: quasi mezzanotte. Druze doveva essere già nel Wisconsin. Bekker prese l'auto, andò all'ospedale, parcheggiò. Tirò fuori il portasigarette, nella penombra prelevò una capsula di Contac, fiutò. La cocaina agì immediatamente, e lui si abbandonò all'estasi, buttando la testa indietro e chiudendo gli occhi. Era ora di andare. Nessuno lo seguiva, ma, in caso contrario, sapeva co-
me fare. Con l'agente e i suoi amici. Entrò nell'ospedale e usò le scale. Per scendere, questa volta. Con la sua chiave aprì la porta della galleria che portava all'edificio accanto. Tutti lo facevano, specialmente d'inverno. Ma gli sbirri non lo sapevano. Attento, disse a se stesso, è paranoia... non c'erano sbirri. La droga gli circolava nel sangue. Ma che cos'era? Non lo ricordava. Aveva preso delle anfetamine, le prendeva sempre, e leccato il PCP, aveva preso aspirine, e le sue dosi regolari di steroidi anabolici per il potenziamento fisico e l'ormone di crescita per combattere l'invecchiamento. Tutti bilanciati, pensò; e per la creatività, un pizzico di LSD? Non si rammentava. Raggiunse l'edificio accanto, si tirò su il bavero e si calò il cappello sulla fronte. Peik Hall era a tre minuti da lì. Mentre camminava rasente l'edificio s'infilò i guanti. La jeep era là dove doveva essere. Si chinò, trovò le chiavi, aprì la portiera e si sistemò alla guida. Ora veniva la parte rischiosa. Quindici minuti. Ma riuscì a portare l'auto all'aeroporto, un modo per depistare la polizia e indurla a pensare a un'improvvisa partenza di George. Gli agenti di ronda nel campus ripassarono in auto dieci minuti dopo. La jeep era sparita. Uno dei due, una donna, vide qualcosa brillare in terra e disse: «Cosa c'è là?» «Dove?» «In quel punto. Sembra denaro.» La donna scese e raccolse qualcosa. Un dado. Lo buttò nella parte posteriore dell'auto. «Niente d'importante», disse. Bekker fece lo stesso percorso di Druze, prese la I-94 ma verso ovest, la I-35W verso sud e poi la Crosstown Expressway per l'aeroporto. Lasciò la jeep nel garage di lungo parcheggio e mise il tagliando sotto lo schermo parasole. Tornato in strada, fermò un taxi e vi salì senza mostrare la faccia. «Dove?» bofonchiò il tassista, laconico. «Al Lost River Theater in Cedar Avenue.» Da lì sarebbe tornato all'ospedale, una passeggiata di venti minuti. Entrò da dove era uscito, ripercorse la galleria, salì nel suo ufficio dove si trattenne dieci minuti. Si ricordò di chiamare la segreteria telefonica e, usando i tasti di multifrequenza, ordinò che tornasse a zero. Lasciò passare altri minuti, poi spense le luci e andò a riprendere la macchina. A casa si spogliò mentre saliva di sopra, buttando gli indumenti dove
capitava. Stephanie sarebbe inorridita; quel pensiero lo fece sorridere. Si rintanò nel suo spogliatoio e prese due pastiglie di fenobarbital, altre due di metaqualone, due di metadone, una buona dose di LSD, quanto ih tutto? Il fuoco fu incredibile. Le droghe produssero il loro effetto come sempre — sequenze di colori, spezzoni di vita, fantasie, il volto di Dio — poi inaspettatamente i gialli e i rossi sfumarono nei rosa, nei porpora, e infine, con la paura che gli cresceva in gola, Bekker vide il serpente srotolarsi. Il serpente era enorme, senza squame, più simile a un'anguilla che a un serpente, senza bocca, una lunga forma fredda che si svolgeva avanzando verso di lui. E George era là. Non diceva niente: osservava e cresceva. I suoi occhi erano neri, ma anche brillanti come pietre preziose. Si accostò a Bekker, gli occhi sempre più grandi, la bocca un po' aperta, la lingua biforcuta visibile... Bekker aveva ucciso tre prostitute in Vietnam. Lo aveva fatto fidando di non essere mai scoperto; aveva indossato l'uniforme di un soldato semplice morto in un incidente stradale e Saigon; l'uniforme gli era stata recapitata alla porta in una sacca nera che il soldato aveva sulla sua jeep. Le tre donne erano state strangolate. Abbastanza facile. Essendo delle specialiste, non si erano meravigliate quando lui aveva espresso il desiderio di sedersi sul loro torace. Lo furono un po' di più quando si videro immobilizzare le mani. E decisamente sorprese quando le forti dita di lui strinsero i loro colli rompendo la cartilagine con una potente pressione di pollice e indice. La prima lo aveva guardato diritto negli occhi al momento della morte, ed era stato allora che a Bekker era venuta l'idea che la donna avesse visto l'aldilà. E quella, infatti, era tornata. L'aveva tormentato, ossessionato, seguito con i suoi occhi neri. Per sei settimane lui si era drogato, aveva gridato la notte, con la paura di addormentarsi. L'aveva vista nelle ore di veglia, nei riflessi lucenti dei suoi strumenti, negli specchi, in vetri di finestre, in frammenti di vetro... Alla fine si era dileguata, sconfitta dalle droghe. E Bekker aveva capito che il problema erano gli occhi. Con la seconda era preparato. L'aveva immobilizzata, strozzata e prima che spirasse le aveva tagliuzzato gli occhi con il bisturi. E aveva dormito come un angioletto.
La terza era morta rapidamente, prima che lui potesse distruggerle gli occhi. Dopo l'aveva fatto, ma continuava a temere che la donna potesse tormentarlo nei sogni; era necessario colpire gli occhi viventi. Comunque non l'aveva mai rivista. Aveva distrutto gli occhi del vecchio morente per insufficienza cardiaca e della vecchia agonizzante per un colpo apoplettico.... subito dopo il decesso glieli avevano portati nel reparto di Patologia e lui conservava ancora la descrizione registrata del taglio degli occhi della vecchia. Aveva inciso anche gli occhi del bambino e della bambina nell'ospedale di Oncologia pediatrica, correndo un rischio molto più elevato. Alla bambina era riuscito a farlo poco prima che portassero via il corpo dall'ospedale. Per il maschietto era dovuto andare nella camera ardente e aspettare l'occasione buona. Erano stati due giorni pessimi, in quell'attesa, con il bambino là. Ma, alla fine, li aveva distrutti. Non aveva potuto farlo con George. E ora George era lì, veniva a ossessionarlo. Rannicchiato nello spogliatoio, nudo, abbracciandosi le ginocchia, gli occhi spalancati nel vuoto, Bekker cominciò a urlare. 15 «Sei sicuro?» Lucas domandò a Swanson. «È il nostro Casanova?» Swanson si grattò la pancia e annuì. «Deve essere lui. Appena l'ho saputo, mi sono precipitato da Bekker. L'ho tirato giù dal letto. È stato circa tre ore fa, alle sei, e lui aveva un aspetto terribile. Gli ho detto: 'Quanto all'amante, potrebbe essere Philip George della facoltà di Giurisprudenza?' E lui ha fatto questa espressione» — mimò la faccia perplessa di Bekker — «e ha detto, parole testuali: 'Se mi informasse che è lui, non sarei... esterrefatto. Voglio dire, lo conoscevamo. Perché? È lui?' Allora gli ho parlato di George. E lui sembrava sotto l'effetto della droga.» «Hai l'ora della scomparsa di George? È stata fissata? Esattamente?» «Sì. Con uno scarto di meno di cinque minuti, direi», rispose Swanson. Barba lunga, tazza di caffè vuota in mano, aveva gli occhi vitrei per la stanchezza e la caffeina. Si era alzato alle cinque, dopo sole quattro ore di sonno. «C'era uno studente con lui, quando si è messo a cambiare la gomma. Lo studente doveva tornare subito a casa, sua moglie è incinta e può partorire da un momento all'altro, perciò lui era in ansia. Siccome ha l'oro-
logio sul cruscotto, ha detto che ha guardato l'ora mentre usciva dal parcheggio, e si ricorda che erano le ventidue e quindici. Può dirlo con esattezza.» «E dello psicanalista Shearson che cosa mi dici?» Swanson si strinse nelle spalle. «Ho sempre pensato che fosse una fesseria, ma Daniel ha voluto che controllassimo.» «Figlio di puttana», sbottò Lucas, infuriato. Del stava ad ascoltare appoggiato allo stipite della porta e Lucas gli passò accanto come un razzo, uscì nel corridoio, si voltò e disse: «Quel bastardo mi ha usato come suo alibi. Lo sapete? Io sono il fottuto alibi di Bekker». «Se George è morto», disse Swanson. «E questo è un grosso interrogativo. E se Bekker vi è coinvolto.» Lucas spinse l'indice nel ventre di Swanson. «George è morto. E Bekker è colpevole. Credimi.» Lucas si rivolse a Del. «Ti ricordi quando hai detto che l'alibi di San Francisco era un po' troppo perfetto?» «Sì.» «Be', questo allora? Invita un investigatore della polizia a casa sua per un drink, per parlare, tenta di sedurlo, accidenti, proprio quando il testimone principale viene eliminato. Che cosa te ne pare come coincidenza?» Del si strinse nelle spalle, per comunicare un silenzioso «te lo avevo detto». Lucas riportò l'attenzione su Swanson, ripensando alla sua strana descrizione di Bekker. Il patologo era apparso in buona forma, la sera prima: bello, e anche mellifluo. «Hai detto che aveva una faccia terribile. Spiegati meglio.» «Pareva drogato», rispose Swanson: «Un vecchio centenario. Uno che non aveva dormito.» «Perché aveva lavorato a un maledetto omicidio. Ecco perché. E proprio la notte scorsa», disse Lucas. «Va bene. Lo beccheremo. In un modo o in un altro» — questa volta pungolò Del — «il bastardo cadrà.» Sloan arrivò dal corridoio, rotolando fra le labbra una sigaretta non accesa, le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile. «È stato Bekker?» chiese. «Con assoluta certezza», rispose Lucas con aria lugubre. «Huh», disse Sloan. «Pensi che abbia ucciso George prima o dopo aver portato la sua jeep all'aeroporto?» Lucas lo guardò sbigottito. «Come hai detto?» «Gli agenti dell'aeroporto hanno ricevuto il comunicato di ricerca della
jeep e l'hanno trovata nella rampa di lungo parcheggio. Come se lui non avesse intenzione di ritornare.» Lucas scosse il capo. «Stronzate. Se George è l'amante, non fugge. È morto.» «Non lo sappiamo per certo», replicò Sloan. «Potrebbe essere andato in Brasile. Forse gli sono saltati i nervi e ha deciso di filarsela.» «Chi va a parlare con sua moglie?» domandò Lucas. «Neilson, ma più tardi ci vado anch'io», rispose Sloan. «Dammi retta, quello è morto», insistette Lucas, sistemandosi nella sua poltrona. «Come avrebbe potuto lasciare un dado nel parcheggio? Ci si può mai dimenticare di rimetterlo? Il bullone è lì che sporge, lo hai sotto gli occhi. La gomma bucata è stata un trucco.» «Quanto è vecchia la jeep?» Del chiese a Sloan. «Nuova.» «Vedete?» disse Lucas con soddisfazione. «Bucata, un corno.» Ne stavano ancora discutendo quando Harmon Anderson arrivò alla porta con un foglio in mano. «Non indovinerai mai», disse a Lucas. «Potrei accordarti cento risposte e scommettere un milione di dollari, sicuro che non indovini.» «Non hai un milione di dollari», disse Swanson. «Che cos'è?» Anderson spiegò il foglio, una fotocopia, e lo sollevò come il banditore a un'asta d'arte, roteando su se stesso per esibirlo a tutti velocemente. «Che cos'è?» chiese Del. Il foglio mostrava il dipinto di un gigante con testa deforme e un solo occhio, in posizione obliqua mentre guarda infastidito da una collina una dormiente nuda in primo piano. «Tataratà», esclamò Anderson. «Il sicario di Bekker, visto dall'amante della signora. Un ciclope, vedete.» «Che roba è?» disse Sloan, prendendo il foglio; lo guardò con la fronte aggrottata e lo passò a Lucas. «È arrivato per posta, questa è una copia; stanno cercando eventuali impronte sull'originale», precisò Anderson. «L'originale è in bianco e nero?» chiese Lucas. «Sì. Una fotocopia. E c'è una nota di Casanova. Siamo certi che è lui perché ripete cose dette nella prima lettera. Lo definisce 'uno gnomo', non un gigante.» «Gesù», disse Lucas, massaggiandosi la fronte, mentre guardava la fac-
cia del ciclope. «Devo averlo visto da qualche parte.» «Chi? Lo gnomo?» «Sì. Lo conosco, ma non so dove l'ho visto.» Gli altri tre guardarono Lucas, poi Sloan disse scettico: «Hai parlato di recente con qualche caprone scorbutico?» «Quando è stata spedita?» chiese Lucas. Anderson si strinse nelle spalle. «Ieri, in giornata; è tutto ciò che sappiamo.» «Qualcuno conosce la provenienza del dipinto?» chiese Lucas. «Io no... Potremmo controllare.» «Mi spiego meglio: se è preso da un libro, forse lo ha trovato in biblioteca», ipotizzò Lucas. Sloan e Swanson si scambiarono un'occhiata, e poi Sloan disse: «Giusto. Il tizio è agitato, dopo avere assistito al delitto e con un centinaio di agenti che lo cercano; così va in biblioteca e dice: 'Ecco il mio biglietto da visita, prego, inseritemi nella memoria del vostro computer in modo che Lucas Davenport, venendo qui... '» «Sì, sì, è debole», ammise Lucas, interrompendo Sloan con un gesto della mano. «Non è maledettamente debole, zoppica.» Lucas guardò la fotocopia. «Posso tenerla?» «Fa' pure», disse Anderson. «Possiamo averne quante ne vogliamo dalla fotocopiatrice.» Bekker, in ordine e baciato dal sole del mattino, andò a un telefono pubblico e chiamò Druze. «Non hai fatto gli occhi», gli disse appena l'altro alzò il ricevitore. Vi fu un lungo silenzio e poi: «No. L'ho scordato». «Perdio, Carlo», brontolò Bekker. «Mi stai uccidendo.» Lucas tornò a casa a mezzogiorno, guidando sotto una pioggerella fredda e un cielo plumbeo. In cinque minuti si confezionò un tramezzino con tacchino e mostarda, lo mise su un piatto di carta, prese una birra dal frigo e andò a sedersi nella camera degli ospiti, fissando la parete. Non andava da mesi in quella stanza e la quantità di polvere lo dimostrava. Sulla parete erano attaccati promemoria con una serie di possibilità e di connessioni: tracce del caso dei Crow. Quello di cui maggiormente aveva avuto bisogno per trovare i colpevoli era sui fogli, con schemi orga-
nizzati, ponderati, in attesa della fase finale. Chiuse gli occhi, riudì la sparatoria, le grida... Si alzò, sospirò, e tolse i promemoria, rimettendo gli spilli nel pannello sul muro. Scorse i nomi, ricordando, poi stracciò i fogli in due, in quattro, in otto pezzi, e andò a gettarli nel capiente cestino dello studio. Il blocco di carta da disegno era ancora lì; lui si sedette, lo aprì, scelse con cura il pennarello giusto e compilò delle liste mentre mangiava. BEKKER, scrisse in cima al primo foglio. E sotto: Droghe, Tempi e Luoghi. Amici? In cima al secondo foglio scrisse: KILLER. E sotto: Somiglia a uno gnomo Conosce Bekker Potrebbe essere uno spacciatore? È pagato? Controllare i conti di Bekker Un nesso con il teatro? Io lo conosco? Sul foglio di Bekker aggiunse: Cheryl Clark Uccisioni in Vietnam Bambini malati di cancro Sul terzo foglio scrisse: CASANOVA. E sotto: Pulito tubo scarico della vasca Cambiato lenzuola Dipinto fotocopiato Philip George? Portò i nuovi promemoria nella camera e li fissò sul muro; poi li guardò. Perché il killer aveva dato la caccia a George, ammesso che così fosse? Se George lo conosceva, perché non l'aveva detto quando aveva telefonato? E se non lo conosceva, perché il killer se ne sarebbe preoccupato? Forse lavoravano insieme, o si muovevano negli stessi ambienti sociali? Questo non tornava con la faccenda della droga... o George si drogava? Oppure aveva rapporti con Bekker? E se Bekker, un medico, disponeva di droga e un tossicomane lo sapeva e si era introdotto nella sua casa... ma allora,
perché la Armistead? Continuò a speculare, cercando di arrivare a qualcosa su cui lavorare. La trovò subito. Ci pensò, s'infilò la giacca e chiamò il Centro operativo. Mentre formava il numero, sbirciò in direzione della finestra. Una fastidiosa pioggia primaverile spinta dal vento di nord-ovest. «Potete comunicare con Del e dirgli di venire da me in ufficio?» chiese quando gli fu risposto. «Non è urgentissimo, basta nel pomeriggio.» «Sta in un bar», disse l'incaricato. «Prende là le telefonate, se vuole il numero.» «Certo.» Lucas prese un foglio ripiegato dal taschino della camicia; era la fotocopia del dipinto, e vi scarabocchiò il numero. Quando chiamò, gli rispose il barista che fece venire Del all'apparecchio. Poteva andare da Lucas alle quattro. Mentre parlavano, Lucas guardava il ciclope e la dormiente. Il gigante aveva la testa quasi rotonda, come un pallone, e la bocca sottile, larga, irregolare. Dove...? Dopo cercò un numero sulla guida telefonica e chiamò il reparto di libri rari della biblioteca universitaria. «Carroll? Sono Lucas Davenport.» «Lucas, è un pezzo che non partecipi ai giochi. Zukov sta per inseguire i romeni a nord di Stalingrado.» «Sì, Elle me lo ha detto. E ha detto che ti occorrono dei nazisti.» «È poco divertente per i nazisti d'ora in avanti.» «Senti, mi serve aiuto. Ho la riproduzione di un gigante con un occhio solo. Guarda dall'alto di una collina una donna che dorme, ed è armato di clava. Un dipinto un po' primitivo. Fanciullesco, ma non credo che lo abbia fatto un bambino. C'è dell'arte in esso.» «Un gigante con un occhio solo, come il ciclope dell'Odissea?» «Esattamente. Qualcuno ha detto che è uno gnomo, ma qualcun altro lo ha definito un ciclope. Sto cercando il libro da cui è stato preso, se si tratta di un libro.» Dopo una breve pausa Carroll disse: «Vattelapesca. Ci vorrebbe uno che conosce tutto sull'Odissea, ma dovresti essere molto fortunato a trovarlo. Ci sarà un milione di illustrazioni con ciclopi». «Merda... Che cavolo faccio?» «Dici che è primitivo ma buono. Vuoi dire un primitivo patinato, come un'illustrazione di Playboy, o...» «No. Più lo guardo e più penso che potrebbe essere famoso. Ha un tocco da artista.»
«Huh. Sai, potresti tentare alla facoltà di Storia dell'arte Ma forse non ci trovi nessuno, e se lo trovi, potrebbe non voler parlare con te se non dimostri di avere pagato l'iscrizione.» «Huff. Okay, grazie Carroll.» «Un momento. C'è un pittore a St. Paul — o meglio un genio del computer — che viene qui a guardare le illustrazioni dei libri. È un esperto in materia. Ho il suo telefono, se vuoi chiamarlo.» «Sì, dammelo.» Lucas sentì posare il ricevitore, e dopo un minuto di attesa Carroll tornò all'apparecchio. «È un tipo un po' appartato, nelle nuvole, come tutti i pittori. Fai il mio nome, ma sii cortese. Ecco il numero... E torna ai giochi. Tu puoi essere Paulus.» «Cacchio, non so che dire.» Finita la conversazione con Carroll, formò il numero. Dopo cinque o sei trilli stava per riattaccare quando gli fu risposto. Dalla voce, fredda, scorbutica, pareva che il pittore fosse stato svegliato. Una certa cautela subentrò in lui quando Lucas si qualificò. «Ho avuto il suo nome da Carroll all'università. Ho un problema in cui, forse, lei può aiutarmi.» «Computer?» Era vigile, e Lucas si chiese perché. «Arte. Ho il dipinto di un gigante, un soggetto un po' bizzarro. È una figura robusta. Ho bisogno di sapere da dove proviene.» L'artista non domandò perché. E Lucas lo considerò insolito. «Il gigante morde la testa di un morto?» «No.» «Allora non è Goya. Il gigante ha un occhio solo?» «Sì.», rispose Lucas. «Un grande occhio che guarda da una collina.» «Guarda una donna nuda in primo piano, adagiata ai piedi della collina.» «Esatto», confermò Lucas. «Odilon Redon. Il quadro è intitolato Le Cyclope. Un pittore francese, lavorò soprattutto a pastello. Quello lo fece sul finire dell'Ottocento. La donna nuda volta la schiena al ciclope, quindi la si vede di fronte.» «Sì, sì. In che libro si trova? È poco noto, o cosa?» «No, ci sono tanti libri su Redon. È in auge, adesso. O lo era. La biblioteca dovrebbe avere qualcosa. Non è un pittore conosciuto da tutti, ma certamente lo è da quelli che sanno un po' di arte.» «Okay. Dunque, probabilmente in un libro.» «O su un calendario. Vi sono dozzine di calendari artistici in circolazio-
ne, cartoline con riproduzioni di quadri, e libri di arredamento con quadri. Dipende di che misura è.» «Okay, grazie. È quanto mi serve. Lei dice che uno deve conoscere un po' di arte.» «Sì. Se vuole farsi un'idea, forse l'uno per cento della gente comune lo conosce, sa chi è Redon, ha sentito il suo nome. Di questi, uno su cinque saprebbe citare un suo dipinto.» «Grazie di nuovo.» «Sempre lieto di aiutare la polizia», disse l'artista. Dal tono di voce pareva che sorridesse. Del non sorrideva. Del si contorceva le mani. «Diamine, non è difficile», disse Lucas, accosciandosi accanto a lui che stava seduto nella poltroncina pieghevole di metallo, riservata ai visitatori. «Le dici che hai pensato a lei. Di': 'Desidero scusarmi per come ho agito, lei sembra una brava ragazza. Ha dei begli occhi'. Lei ti chiederà prima o poi: 'Di che colore sono?' e tu rispondi: 'Nocciola'.» «Che ne so se sono nocciola?» Del sollevò il ricevitore con una mano, e con l'indice dell'altra tolse la linea. «Ma lo sono», replicò Lucas. «In realtà sono castani, ma ti rendi carino se dici nocciola. Lei sa di averli castani, ma le piace pensare che siano color nocciola. Perdio, Del, quando è stata l'ultima volta che hai portato fuori una donna?» «Circa ventidue anni fa», rispose Del, a testa bassa. Un attimo dopo i due scoppiarono a ridere. Del disse: «Accidenti a me», e cominciò a formare il numero. «Deve essere stasera?» «Prima è meglio è», sentenziò Lucas, tornando dietro la scrivania. Voleva che Del lo avesse davanti nel caso gli occorresse qualche suggerimento. Il telefono squillò sei volte e Del stava per mettere giù il ricevitore quando Cheryl Clark rispose. «Ah, pronto, ah, la signorina Clark?» balbettò Del. Ventidue anni? Lucas scosse il capo. «Ah... sono il poliziotto che è stato da lei con l'altro poliziotto. Io sono quello con la fascia sul capo. Sì, Del. Senta, uh, questo non riguarda l'indagine, sa, ma, uh, ho pensato a lei e alla fine ho deciso di chiamarla... Non so, mi è sembrata una brava ragazza... uh, una donna, sa, ha... begli occhi... Uh, uh... sì, se le va, mi chiedevo se potremmo prendere un caffè insieme. Uh, uh, va bene.» Distolse lo sguardo, abbassò la voce. «Le andrebbe da Annie's sulla sponda occidentale? Uh, uh. Vengo a pren-
derla, va bene? Uh. Quarantino. Sì. Sì. Diamine, sono color nocciola, e davvero belli. Sì. Okay. Senta, verso le sei e mezzo? A mangiare qualcosa, un paio di hamburger? Okay?» Quando ebbe finito, la sua faccia era madida di sudore. «Quarantuno?» chiese Lucas sogghignando. «Che cosa significa quarantuno?» «Non rompermi le palle, Davenport», protestò Del, lasciandosi andare sulla poltroncina. «L'ho fatto, va bene?» «D'accordo», disse Lucas, tornando serio. «Adesso di che cosa parlerai?» «Che cavolo ne so? Di Bekker, naturalmente...» «No. Non di lui.» «Ma perché?» «Quella donna è stata sempre usata nella sua vita. È il tipo, e sarà molto suscettibile a questo riguardo. Si lascia usare perché è il solo modo con cui può allacciare delle relazioni. Continua a sperare in un rapporto vero, ma allo stesso tempo non crede che le capiterà», disse Lucas. Stava proteso sulla scrivania e parlava rapidamente, a occhi socchiusi e con voce pressante, per imprimere la lezione al suo discepolo. «Se l'assilli con Bekker, lei capirà. Si sentirà manipolata. La offenderai profondamente. Quindi non menzionare mai Bekker. Comportati come tutti i divorziati: parla della tua ex moglie. In breve sarà lei a parlarne. Vuoi sapere di Bekker? No, tu non vuoi sapere di lui. Vuoi parlare di te stesso, della tua ex moglie, e di quanto è difficile avviare una relazione con una persona perbene. Tu dici: al diavolo Bekker. Non voglio sentir parlare di quel fetente, è argomento di lavoro. Portala fuori un paio di volte, e lei ne parlerà spontaneamente. Non potrà farne a meno, ma niente pressioni.» «Niente pressioni», ripeté Del. I suoi occhi erano come palline di vetro. «Niente pressioni», confermò Lucas. Del spinse il busto contro lo schienale della poltroncina, studiando Lucas come se fosse un delinquente appena catturato. «Gesù», disse dopo un minuto, «sei un crudele figlio di puttana, lo sai?» Lucas si seccò del suo tono. «Parli sul serio?» «Eccome», confermò Del. Lucas fece spallucce e distolse lo sguardo. «Faccio quello che devo fare», disse. Incontrò Anderson mentre andava a riprendere la macchina.
«Ho spedito Carpenter alla biblioteca dopo che hai telefonato», disse Anderson. «Ha trovato un libro su questo Redon, e il dipinto è proprio quello, ma l'illustrazione è più grande della copia che abbiamo. L'ha trovata in un solo libro che non è stato chiesto in visione da due mesi.» «È qualcosa», disse Lucas. «Sì? Esattamente che cosa?» domandò Anderson. Mentre Lucas si dirigeva a casa, si scatenò un acquazzone con lampi e tuoni. Una buona notte per gli gnomi, pensò. Bekker, dannazione. 16 La pioggia era fredda e insistente, investiva con forza l'auto e i tergicristalli non riuscivano a dare sufficiente visibilità. Una notte schifosa. Una mezza dozzina di «bellezze nere» gli diede il mordente di cui aveva bisogno, un paio di Xanax purpurei gli calmò i nervi. Non abbastanza, forse. Il costante fruscio dei tergicristalli cominciava a irritarlo, e lui dovette mordersi la lingua per non gridare. Zzz, zzz, zzz, una tortura. Rosso. Frenò all'ultimo istante e per poco non sbandò all'incrocio. Il conducente dell'auto nella corsia accanto lo guardò, e Bekker dovette rintuzzare l'impulso di gridargli male parole. Invece, tirò fuori il portasigarette, leccò una Tranxene gialla e oblunga. Aveva perso il conto di quanta droga assumeva; lo guidavano segnali interni, esigenze del corpo. Stava bene, la mezza manciata di tranquillanti presi nella giornata lo equilibrava, gli arginava la pressione. Ma soltanto per un poco. Il serpente era in agguato, là, nell'oscurità. Poi, quando avrebbe incontrato Druze, le «bellezze nere» lo avrebbero potenziato, eliminando l'effetto dei tranquillanti. Avrebbe avuto paura a guidare con i tranquillanti nel sangue, ma con le anfetamine era uno scherzo. Il semaforo scattò e Bekker ripartì, stringendo il volante con quanta forza aveva. Si erano dati appuntamento nella University Avenue, in un supermercato aperto tutta la notte, il cui parcheggio era sempre pieno. Quella notte vi erano solo poche macchine, e una era un'auto celeste della polizia di St. Paul. Quando la vide, fu quasi colto dal panico. Avevano preso Druze? Come erano arrivati a lui? Loro due erano stati traditi? O Druze si era con-
segnato alla polizia? No, calma, calma. Eccolo là, Druze, nella Dodge, in attesa, con i finestrini appannati. Non c'erano poliziotti vicino alla radiomobile. Dovevano essere dentro il mercato. Bekker parcheggiò a sinistra della Dodge, spense il motore e scivolò fuori, tenendo d'occhio l'entrata illuminata. Dove erano i poliziotti? Aprì il bagagliaio e prese la pala. Indossava un abito di tessuto impermeabile e un cappello di tela; benché fosse all'aperto da non più di quindici secondi, l'acqua gli colava dalla tesa come un torrente. Druze aprì la portiera dalla parte del passeggero per farlo salire. Bekker ansimava. Scandagliò il parcheggio sferzato dalla pioggia, poi buttò la pala nella parte posteriore della Dodge dove c'era la vanga di Druze, e si sedette. Si tolse il cappello e buttò dietro anche quello. Druze s'impressionò nel vedere la faccia di Bekker. Non era più bella, ma scarna e grigia. Un cadavere, pensò. Distolse lo sguardo e avviò il motore. «Stai bene?» gli chiese mentre ingranava la marcia. «No», rispose Bekker conciso. «È maledettamente spaventoso», disse Druze, mentre aspettava che passasse il flusso di macchine per immettersi sulla strada. La sua faccia ustionata era senza vita, senza emozione, le labbra avevano cicatrici simili a fenditure nel letto asciutto di un fiume. «Dissotterrare i morti.» «Chi se ne frega», sbottò Bekker irritato. Un fulmine illuminò il cielo a oriente dove loro erano diretti. «Dobbiamo farlo.» «Non riesco a togliermi dalla testa il catrame fresco», disse Druze. «Da questo Philip George non ci leviamo le gambe.» In altri rabbia, paura, risentimento scorrevano come benzina. In Druze anche le emozioni violente si muovevano come argilla, in un lento girare, comprimersi, incupirsi. Ora, nell'ascoltare Bekker, era arrabbiato a suo modo. L'altro lo intuì e gli posò una mano sulla spalla. «Carlo, sono fottuto», disse Bekker, mangiando le parole. «Sono fuori di testa. Non me ne scuso. Non intendo farlo. Ma le cose stanno così. E Dio mi è testimone, io sto morendo.» Druze assimilò il discorso senza comprenderlo, e imboccò la rampa di accesso alla I-94. «Dimmi, hai provato con il Valium o altro?» «Che fesso sei.» In Bekker la rabbia esplose come napalm, ma lui si controllò subito, si umiliò. «Scusami. Ho provato con tutto. Proprio tutto. C'è solo un modo.» «Pericoloso.» «Me ne fotto del pericolo», gridò Bekker. Poi, calmatosi, aguzzò la vista
nella fitta pioggia mentre acceleravano, e la sua voce fu quella di un uomo in balia di emozioni altalenanti. «Un serpente. Ho un serpente nel cervello.» Druze gli allungò un'occhiata in tralice. Bekker pareva scivolare nella trance, il suo volto era rigido. «Eravamo d'accordo di stare lontani l'uno dall'altro. Se quelli ci vedessero ...» buttò là Druze. Bekker non rispose. Si contorceva le mani. Dieci chilometri dopo, riemergendo da chissà dove, disse: «Lo so... E uno di loro non è scemo. L'ho invitato a casa a prendere un caffè». «Che cosa?» Druze girò la testa di scatto. Bekker dava i numeri. Ma no, sembrava quasi ragionevole, adesso. «L'ho invitato. L'ho trovato davanti a casa mia. Spiava. Lucas Davenport. Tutt'altro che scemo. È un cattivo.» «Un tipo duro? Alto più di un metro e ottanta, corporatura da pugile? Capelli scuri, cicatrice al sopracciglio?» sciorinò Druze, tracciando sul proprio viso la linea della cicatrice di Lucas. Bekker annuì, inclinò la testa di lato. «Lo conosci?» «È stato al teatro dopo che ammazzasti la Armistead», rispose Druze. «Parlava con una delle attrici. Sembravano piuttosto amici.» «Chi? Quale attrice?» «Cassie Lasch. Faceva la cameriera in... no, non l'hai vista. Fa parti secondarie. Bellina. Chissà che non mi capiti di vederlo, quello sbirro, se lui va a trovarla. Lei abita nel mio caseggiato.» «Lavori molto con lei?» «No. Facciamo entrambi parte della compagnia, ma ci scambiamo poche parole, a livello personale voglio dire.» «Potrebbe riferirti quel che pensa Davenport?» «Non so. Può darsi che lei raccolga qualche informazione. Ma se lui è in gamba, non voglio che controlli me.» «Hai ragione», disse Bekker, guardando Druze mentre l'abitacolo veniva illuminato dai fari di un'auto in senso inverso. «Come hai detto che si chiama? Cassie?» «Cassie Lasch», disse Druze. «È una rossa.» I fulmini saettavano attorno a loro quando attraversarono il fiume St. Croix ed entrarono nel Wisconsin. Allo svincolo di Hudson si aprirono le cateratte del cielo. La pioggia torrenziale obbligò Druze a rallentare nella zona di campagna. Al momento di prendere la strada per il lago procede-
vano a sessanta all'ora. «Che notte infernale», disse Druze. Il fulmine rispose. «Non resisterei altre ventiquattr'ore», commentò Bekker. «È profondo?» Profondo? Ah, si riferiva a George! «Sessanta, settanta centimetri», rispose Druze. «Forse quasi un metro.» «Roba da poco. Dovremmo far presto», disse Bekker. «Ah, perché non eri qui ieri notte», replicò Druze con aria lugubre. «Stiamo parlando di una palude di torba. Ci vorrà del tempo». Non videro la deviazione per la casetta. Druze aveva rallentato ancora, a cinquanta, a quaranta, cercando i riflettori che segnavano il punto... ma lo superarono e dovettero tornare indietro. Incrociarono solo un camioncino, il cui guidatore stava curvo sul volante. Ritrovarono il sentiero e s'inoltrarono nella boscaglia. La pioggia stava diminuendo; il temporale si era spostato verso nord, sebbene i lampi si susseguissero uno dietro l'altro. La casetta di legno emerse come un miraggio alla luce dei fari, nitida, vicina. Druze si fermò, spense i fari e disse: «Su, andiamo». Prese un impermeabile di plastica grigia dal sedile posteriore e se lo infilò. Bekker era ben equipaggiato e si coprì la testa con un cappuccio da frate. «Prendi il mio cappello», disse a Druze, recuperandolo da dietro e passandoglielo. Scesero, trovando terreno solido, sabbioso più che melmoso. La pioggia era modesta, ma stava aumentando il vento che ululava fra i rami nudi delle betulle. Oltre la casetta, a due o trecento metri sulla sponda del lago, Bekker vide una luce blu e più in basso il rettangolo giallo di una finestra illuminata. «Da questa parte», borbottò Druze. Aveva già il fondo dei pantaloni bagnato, e acqua dentro le scarpe da ginnastica. Vanga in spalla e torcia accesa, procedette per primo tra i rovi fino al bordo della palude di larici. Lì il terreno era morbido e melmoso. «Quanto...» cominciò a dire Bekker. «Ci siamo.» Druze sventagliò la luce in basso e Bekker individuò il punto dove la terra era irregolare. «Ci ho battuto sopra del sudiciume con il piede», disse Druze. «Fra due settimane ti sfido a trovarla.» «Faremo altrettanto prima di andarcene. Magari delle foglie», disse vagamente Bekker. La pioggia gli bagnava il viso e si raccoglieva sulle so-
pracciglia, e lui farfugliava. Si stava disintegrando nell'acqua, si frantumava come la strega cattiva, pensò Druze. «Sicuro», borbottò Druze. Infilò la torcia nei rami di un cespuglio nudo e cominciò a vangare. «Scava.» Bekker lavorò freneticamente, parlando da solo, sputando nella pioggia. Druze cercò di essere più metodico, ma dopo pochi minuti preferì togliersi di mezzo. A nord c'erano rombi di tuono, e un altro scroscio di pioggia aggiunse acqua nella tomba. «Non capisco più», disse Bekker ansimando, «se è pioggia o acqua che sale... da sotto.» «L'una e l'altra», disse Druze. La torcia illuminò una massa apparentemente diversa e Druze la rimosse con la punta della vanga. Il metallo toccò qualcosa che faceva resistenza. «Penso di esserci.» «È lui? Fammi vedere.» Spinse in là Druze e s'inginocchiò tenendo la pala come un mestolo, nella smania febbrile di arrivare al cadavere. «Eccolo, eccolo», disse con il respiro pesante. Un fianco, una gamba, una spalla, la giacca sportiva. «È qui, è qui» Druze arretrò, mentre gli faceva luce, e Bekker rimosse il fango dalla parte superiore del corpo. «Merda», disse, guardando Druze con faccia di cera. «È rivoltato.» «Io l'ho scaricato senza badare...» si giustificò l'altro in tono di scusa. «Non importa. Devo soltanto...» Bekker tirò la giacca, ma c'era troppa terra attorno che teneva fermo George come se fosse nel cemento. «Sembra che ci sia una ventosa», bofonchiò Bekker. Il suo equipaggiamento da pioggia e il viso erano infangati, ma lui non se ne accorse. Si mise a cavalcioni del morto, solo in parte visibile, lo afferrò per il collo con entrambe le mani e tirò verso di sé per liberare la testa. «Non ci riesco, maledizione», disse dopo un minuto. «Bisogna spalare ancora.» «Sì.» Bekker ricominciò a togliere palettate di fango, scavò attorno al corpo, cercò di liberare le braccia, intrappolate nella melma del fondo. Tirò su il braccio sinistro e la mano bianchissima con dita rigide e fredde, poi parte della gamba sinistra, e disse a Druze: «Se vuoi darmi una mano». Druze si accosciò al bordo della fossa, afferrò il morto per la cintola. «Prendi la testa», disse. «Sei pronto? Solleva.» George uscì parzialmente dalla fossa come un manufatto archeologico
all'estremità di un cavo di gru. Non rigido, ma neppure flessibile, con le gambe ancorate nel fango e la testa pendente in avanti. «Forza», disse Druze e, afferratolo per le spalle, con una mossa energica riuscì a girare il corpo di lato; le gambe rotolarono fuori dalla melma. Naso e bocca erano coperti da una crosta di fango, ma un occhio era visibile. Mentre la pioggia lo lavava, i due videro il globo bianco che li guardava. «Mio Dio», esclamò Druze, arretrando. «Te lo avevo detto!» urlò Bekker. Si frugò in tasca e tirò fuori un cacciavite. «Te lo avevo detto, te lo avevo detto, te lo avevo detto!» Preso il morto per i capelli, affondò il cacciavite in un occhio e nell'altro, ripetutamente, accanitamente, dieci, venti, trenta volte, gridando: «Te lo avevo detto!» Alla fine Druze lo tirò per il bavero. «Basta, basta!» urlò. Rimasero un attimo a guardarsi in faccia, gocciolanti di pioggia, Bekker senza fiato, barcollante, Druze impaurito che gli venisse un infarto. Ma poi Bekker disse: «Sì... dovrebbe bastare». Tolse la torcia a Druze, si acquattò al bordo della fossa e con gesto quasi gentile girò la testa di George. Gli occhi erano buchi profondi senza sangue, e si stavano riempiendo di fango. Bekker sollevò la testa e un filmine in lontananza gli illuminò il viso. Era di nuovo bello, sereno, come un angelo, e i suoi denti bianchi risplendevano nel sorriso. «Questo dovrebbe servire», disse. Lasciò andare la testa di George, e il corpo ricadde bocconi nella fossa acquitrinosa. Si tirò in piedi, offrendosi alla pioggia. Stava saltellando, pensò Druze. Gesù, è una danza. E intanto che lui ballava, la pioggia si attenuò e poi cessò. Druze si stava allontanando, spaventato, inebetito. «Bene», ansimò Bekker, mostrando un sorriso isterico. «Suppongo che dobbiamo riempire la fossa, non ti pare?» Riempirla fu facile. L'ultima cosa che videro di Philip George fu il suo piede destro, il calzino abbassato alla caviglia, bianca come la carta, la scarpa che stava marcendo. Druze spianò la superfìcie con colpi di vanga, poi vi buttò sopra foglie e rovi. «Togliamo il culo da qui», disse. Si affrettarono a rimontare in auto, e Druze dovette far manovre avanti e indietro per liberare le ruote dal fango e percorrere il sentiero. Bekker, la cui voce era tornata chiara e calma, disse: «Controlla la segreteria telefonica. Tre, quattro volte al giorno. Chiama dai soliti telefoni pubblici. Quando George risulterà scomparso, la polizia mi starà appiccicata alle costole. Se
dovessi parlare con te, il messaggio telefonico è l'unico sistema. E ricordati di fare il 3, e riavvolgere il nastro.» «Ah, volevo proprio chiedertelo», disse Druze, mentre riportava la Dodge sulla strada asfaltata. «Se si riavvolge il nastro, il messaggio rimane o no?» Sull'altra sponda del lago la finestra era ancora illuminata. Una donna in vestaglia rosa, con i bigodini in testa, stava leggendo un vecchio numero di Country Living. Era di fronte a una grande finestra panoramica con vista sul lago allorché Druze e Bekker ripartirono. «Richard», disse al marito, e si alzò per guardare meglio. «Ci sono di nuovo quei fari... Io chiamo Ann. Non credo che loro avessero intenzione di venire su stanotte.» 17 Sull'autostrada che attraversava una campagna di boschi spogli e campi lavorati Lucas spinse la Porsche a forte velocità, facendo stridere i pneumatici sull'asfalto bagnato. Il cielo era coperto, le nuvole fosche. Un cervo, investito da un'auto probabilmente nella notte, giaceva, piegato e ossuto, nel fosso al margine della strada. Cento metri più in là un tasso morto era stato scaraventato come uno straccio sulla linea gialla. Lui aveva visto tanti luoghi del delitto, tutti lugubri. Si uccideva mai in ambienti allegri, sia pure casualmente? Una volta era andato in un luna park dove si era consumato un delitto. Non era stato ancora aperto per la stagione, e sebbene fosse famoso per i suoi divertimenti speciali, la silenziosa ruota panoramica, le montagne russe e l'otto volante immobili, la casa degli specchi vuota, erano sinistri come una qualsiasi casa in rovina in una brughiera inglese. Raggiunse la cima di una collinetta, vide le auto della polizia ferme sulla strada, con un'ambulanza all'imboccatura di una strada laterale. Un grasso vicesceriffo, con il pollice infilato nel cinturone, gli fece cenno di andare avanti. Lucas si portò sul ciglio della strada, spense il motore e saltò a terra. «Ehi, lei.» Il grassone stava piombando su di lui. «Credeva forse che facessi aerobica?» Lucas esibì la sua tessera e disse: «Polizia di Minneapolis. È questo...?» «Sì, da questa parte», rispose l'altro, gesticolando verso la strada laterale,
e arretrò di un passo. Tentò di assumere nuove espressioni e infine gli spuntò quella sospettosa. «Mi hanno detto di tenere lontano la gente.» «Buona idea», commentò Lucas amabilmente. «Se si sparge la voce, si ritroverà assalito da un milione di telecamere in men che non si dica... Come mai hanno lasciato le auto qui?» L'atteggiamento cameratesco di Lucas rese l'altro meno teso. «L'agente che ha preso la chiamata ha pensato che potessero esserci tracce nel fango, là», spiegò il grassone. «E che quindi dovevamo far venire la Scientifica.» «Ben fatto», disse Lucas, annuendo. «Non credo che vedremo televisioni, qui», disse l'altro. Lucas non seppe dire se questo gli facesse piacere o no. «Il vecchio D.T. ha messo il divieto su tutto. D.T. è quello che dirige lo spettacolo là.» «Spero che lo rispettino», disse Lucas, andando verso la stradina laterale. «Ma se spuntassero le televisioni, non si faccia infinocchiare da loro.» «Va bene.» Il vicesceriffo afferrò il cinturone con entrambe le mani e si diede una sistemata. In fondo al sentiero Lucas trovò una donna nervosa dai capelli grigi e un uomo che fumava la pipa, seduti sulla veranda di una casetta di legno, entrambi con maglioni a coste e impermeabili di plastica. Oltre la casa, in un groviglio di macchie e rovi, Swanson era in un gruppetto di persone, parte delle quali in divisa. Lucas procedette cautamente fra la vegetazione, all'esterno del lungo nastro giallo con cui la polizia aveva recintato la zona. Lì, un po' indietro sul sentiero, un poliziotto in uniforme, muovendosi carponi, stava versando un prodotto da stampo su una impronta di scarpa. Alzò appena la testa vedendo passare Lucas e si rimise al lavoro. Aveva fatto la stessa operazione su altre impronte nel sentiero. «Davenport», disse Swanson, quando Lucas arrivò. Due incaricati dell'obitorio in modesti abiti scuri attendevano da una parte, e una barella con lenzuola di bucato era pronta ad accogliere le povere spoglie. Altri due lavoravano nella buca fangosa per dissotterrare il corpo, usando mestole di plastica come negli scavi archeologici. Il corpo era già per metà visibile, ma non la faccia. Swanson si staccò dal gruppo con espressione lugubre. «Siamo sicuri? È George?» chiese Lucas. «Sì. quando hanno cominciato a scavare, hanno trovato un piede e si sono fermati, chiedendo aiuto. Dopo hanno trovato la giacca e il suo portafogli in tasca. Quello che l'ha scoperto ha capito chi era e ha chiesto altro
aiuto. Gli abiti corrispondono. È lui.» Lucas si portò di lato per avere una migliore visione della fossa. Un piede emergeva in posizione strana, come un grottesco ramo d'albero che andasse in cerca del sole. Un vicesceriffo con berretto rotondo e impermeabile si avvicinò a disse: «Lei è Davenport?» «Sì.» «D.T. Helstrom», disse l'altro, porgendo una mano ossuta. Era un tipo magro, con faccia scura e rugosa. «L'ho vista allaTV.» Si strinsero la mano e Lucas chiese: «È arrivato lei per primo?» «Sì. Quei due là sulla veranda...» «Li ho visti», disse Lucas. Si allontanò dalla fossa con Swanson ed Helstrom, il quale continuò a parlare. «Hanno visto delle luci qui ieri notte. Fanno tanti furti in questi cottage sul lago, così sono venuto e ho controllato. Alla casa non c'era niente, ma ho notato che qualcuno era passato tra i cespugli. Sono andato avanti... e ho trovato la tomba.» «Non hanno cercato di nasconderla?» chiese Lucas. Helstrom guardò indietro e sogghignò. «Sì, immagino, alla maniera cittadina. Buttandovi sopra della sporcizia, non troppo bene. Devono avere calcolato che con la pioggia in un paio di settimane nessuno l'avrebbe trovata. E avevano ragione. Le dò una settimana e quella fossa non la troverebbero con tre contatori Geiger e una bacchetta da rabdomante.» «Stiamo parlando al plurale», disse Lucas. «Quanti erano, si sa?» «Probabilmente due», rispose Helstrom. «Hanno lasciato tracce ma c'è stata pioggia intermittente tutta la notte, e le impronte ora sono poco marcate. Uno portava scarpe da ginnastica, sicuramente, perché i segni si vedono ancora bene. Poi vi sono altre impronte senza caratteristiche insieme con le prime, ma non possiamo dire se la pioggia abbia toto i segni della suola». «Auto?» chiese Lucas. «Può vedere dove erano i pneumatici. Ho fatto tutto il percorso fino alla strada principale, e là i segni spariscono.» «Comunque pensa che fossero in due», disse Lucas. «Probabilmente», confermò Helstrom. «Ho cercato qualsiasi traccia, mancando quelle buone per il calco; non potrei giurarlo in tribunale, ma sarei disposto a scommetterci a Las Vegas.» «Mi sembra che lei sia già esperto di questa merda», disse Lucas. «Lavoro da vent'anni a Milwaukee», spiegò Helstrom, scuotendo il capo.
«La polizia della grande città può baciarmi il culo; sì, è vero, l'ho già fatto. A proposito, portiamo il corpo a Minneapolis. Abbiamo un contratto con il medico legale, se le servono i dettagli macabri.» Swanson stava guardando indietro, verso la fossa. Dal punto in cui erano potevano vedere solo il piede che spuntava fuori e i due uomini che ormai erano quasi pronti a tirare su il cadavere. «Forse dovremmo concederci una pausa», disse a Lucas. «Forse. Non so quanto sarà utile.» In quell'istante uno degli incaricati, tirando con forza, portò il corpo mezzo fuori della fossa. La testa ruotò e mostrò le orbite vuote, senza più gli occhi. «Ah, che mi pigli un colpo!» gridò l'uomo, e lasciò andare il corpo. La testa non si girò e quella faccia senza occhi continuò a guardare il grigio cielo del Wisconsin e i rami spogli degli alberi. Tornando indietro pensò, valutò i pro e i contro, e infine entrò in un emporio a Hudson e chiamò TV3. «Carly? Lucas Davenport.» «Che novità?» «Hai avuto una breve informazione ieri sera su uno scomparso, un professore di Diritto?» «Sì. La sua auto è stata trovata all'aeroporto. Corre voce che fosse l'amante di Stephanie Bekker.» «Infatti... questa è la teoria.» «Posso dare la...?» «Lo stanno tirando fuori da una fossa nel Wisconsin, proprio in questo momento.» «Cosa?» Le diede indicazioni su come raggiungere il luogo, aspettò che lei parlasse con il direttore del telegiornale circa la possibilità di mandare una squadra per le riprese, e poi le fornì altri particolari. «Che cosa mi costerà questo?» gli domandò a bassa voce. «Tieni a mente che ti costerà», rispose Lucas. «Che cosa non lo so ancora.» Sloan stava lavorando alla scrivania dietro il bancone del pubblico alla sezione Omicidi quando Lucas si fermò da lui. «Sei stato nel Wisconsin?» chiese Sloan.
«Sì. Gli hanno fatto il solito servizio agli occhi, come alle donne. Hai parlato con la moglie di George ieri?» «Sì. Ha detto che è ben difficile credere che lui scopasse con Stephanie Bekker. Non era molto interessato al sesso, passava tutto il suo tempo a lavorare, ha detto.» «Huh», disse Lucas. «Poteva essere il tipo che s'infiamma se incontra la donna giusta.» «L'ho pensato anch'io, ma la signora sembrava molto sicura del fatto suo.» «Torni da lei oggi?» «Solo per pochi minuti», disse Sloan. «Un controllo, nel caso avesse dimenticato di dirmi qualcosa. Siamo andati piuttosto d'accordo. Lo sceriffo del Wisconsin le ha dato la notizia per telefono e lei ha chiamato delle vicine a tenerle compagnia. Suo fratello andrà a identificare il corpo.» «Ti dispiace se vengo con te?» «No, affatto, se lo desideri», rispose Sloan. Guardò Lucas con curiosità. «Che cosa hai in mente?» «Voglio guardare i suoi libri.» «Be', qui non combino quasi nulla», disse Sloan. «Su, prendiamo la Porsche.» L'abitazione di Philip George era a St. Paul, in uno di quegli stabili che formavano due isolati moderni in un quartiere di vecchie case signorili dell'alta borghesia: acciaio e vetro si scontravano con mattone e stucco attorniati da olmi malati. Tre donne erano con la signora George quando Lucas e Sloan arrivarono. Sloan chiese di parlarle da sola e Lucas domandò il permesso di guardare i libri del marito. «Sì, certamente, sono laggiù, nello studio», disse lei, indicando il corridoio. «Se le serve qualcosa...» «Un semplice dubbio», disse Lucas vagamente. Mentre Sloan parlava con la signora, le amiche si trasferirono nel soggiorno e Lucas andò nello studio, una ex camera da letto, in cerca dei libri. George non era stato un lettore spericolato. Possedeva un centinaio di volumi su vari aspetti del Diritto, libri di storia forse usati da studente, una dozzina di romanzi popolari, risalenti anche quelli a molti anni prima, una collezione di testi su riparazioni di case. Nessun libro d'arte. Lucas non era un intenditore, ma i quadri alle pareti erano roba scadente, niente a che vedere con Odilon Redon.
Tornando nel soggiorno, esaminò le foto in cornice nel corridoio. George alle riunioni dell'Associazione degli avvocati, mentre accettava il martelletto. George con espressione incerta in tenuta da caccia, fucile in una mano, un'oca selvatica morta nell'altra. In due foto, una in bianco e nero e una a colori, cantava al bar, a braccia sollevate, e dietro a lui c'erano facce ridenti da ubriachi. Una portava la scritta: GARA DEI CATTIVI TENORI IRLANDESI NELLA FESTA DI SAN PATRIZIO; un cartoncino sull'altra diceva: CATTIVI TENORI. Annette George, stanca, affranta, era seduta al tavolo in cucina a parlare con Sloan quando Lucas ebbe finito il suo giro. Sollevò gli occhi arrossati e gli disse: «Ha trovato qualcosa?» «Eh, no», rispose Lucas. «Suo marito aveva qualche interesse per l'arte? La pittura?» «Mah, veramente... no. Forse anni fa gli era venuta l'idea di dipingere, ma non trovò mai il tempo. E credo che comunque sarebbe stato lontano dal suo carattere.» «Nessun interesse per un certo Odilon Redon?» «Chi? No. Mai sentito. Un momento, è forse lo scultore? Quello che fece quel coso, Il pensatore?» «No, era un pittore. Non credo che abbia fatto sculture», rispose Lucas, un po' sbalestrato. Lei scosse il capo. «No.» «In un paio di foto nel corridoio si vede suo marito che canta in gare di tenori.» «Sì, lo faceva ogni anno», disse lei. «Era bravo? Cioè, era un tenore naturale, o cosa?» «Sì, era piuttosto bravo. Tutti e due cantavamo all'università. Ecco, se lui aveva interesse artistico, quello era il canto.» «All'università che parte cantava?» domandò Lucas. «Primo tenore. Io ero contralto e cantavamo in un coro misto, ci mettevamo vicini... Perché?» «Niente. Sto cercando di farmi un'idea su di lui», disse Lucas. «Di immaginare che cosa sia accaduto.» «Oh, Dio, le cose che potrei raccontarle», disse la donna, abbassando la testa. «Non posso credere che lui e Stephanie...» «Per quel che può servire, non lo credo neppure io», precisò Lucas. «Ma le sarei grato se lo tenesse per sé.» «Lei non crede?» chiese la signora.
«No.» Dopo, quando Sloan e Lucas stavano per andarsene, lei chiese: «Che cosa farò? Ho cinquant'anni...» Una delle amiche, guardando Lucas come se lo ritenesse responsabile della situazione, disse: «Su, su, Annette, coraggio». Sul marciapiede Sloan girò la testa; lei era ancora là, guardava dal vetro della controporta. «Che storia è questa dell'arte? E la gara tenorile?» chiese poi a Lucas. «E pensi davvero che l'amante sia un altro?» «Hai mai assistito a una di quelle gare?» chiese Lucas. «No.» «Io sì, una volta, alla parata per la festa di san Patrizio. Era tutti tenori», disse Lucas. «Voci piuttosto forti, specialmente quella del primo tenore. Non hai sentito cantare My Wild Irish Rose? Ecco, sono voci così. Il tizio che ci ha telefonato non so come potrebbe cantare da tenore. A meno che non avesse un terribile raffreddore.» «Dalla registrazione non si direbbe», disse Sloan, socchiudendo gli occhi. «No. Pareva piuttosto una voce da baritono, se non da basso.» «E George non s'interessava di arte, o di quel... come si chiama?» «Redon», completò Lucas distrattamente. «L'artista con cui ho parlato ha detto che bisogna avere un po' di conoscenza dell'arte per tirare fuori dalla testa quel dipinto. Non è comune. Ma da quanto ho visto, i George non hanno neppure un libro d'arte in casa.» Sloan girò di nuovo la testa. Annette George non c'era più. «Bene, se George non era l'amante, quello vero può stare tranquillo. Tutti suppongono che sia il morto.» «Ora rifletti», disse Lucas, rallentando il passo. «Se questo tale è un serial killer, perché si prenderebbe il disturbo di seppellire George? Non se ne è curato per le altre due. E trasportare il corpo nella campagna è un grosso rischio. Che cosa vuole nascondere di George?» «E perché non l'hanno seppellito la notte stessa, invece di aspettare? Questo è un rischio anche maggiore», aggiunse Sloan. «Che casino! Comincio a chiedermi se sappiamo veramente come stanno le cose», disse Lucas. Erano all'auto e lui si era appoggiato a un parafango. «Continuiamo a puntare su Bekker perché abbiamo la sensazione che sia lui. Ma se ci caliamo nei suoi panni, la cosa non ha senso.» «Spiegamelo», incalzò Sloan.
«Se è opera di Bekker, perché è stata uccisa la Armistead? Lui sostiene che non la conosceva, e noi non abbiamo trovato indicazioni contrarie. Le amiche di lei certamente non conoscevano Bekker, perché si sarebbero ricordate la sua faccia. E se l'assassino ha colpito George solo per sfizio, perché lasciare sul posto le due donne e seppellire George?» Sloan annuì e sospirò. «Come hai detto, è un casino.» «Interessante», aggiunge Lucas. «Dammi le chiavi», disse Sloan. «Ho voglia di guidare questa meraviglia.» Mentre tornavano al municipio, Lucas ripensò al piede di George che spuntava dalla tomba. Erano sulla I-94 diretti a ovest e Lucas, accanto al guidatore, stava guardando distrattamente un cartello che reclamizzava il turismo in South Dakota. Il piede? «Perdio», disse. «Quando hanno rilevato le impronte a casa di Bekker, hanno controllato sul pavimento fuori del bagno? Quello comunicante con la camera di lei?» «Boh, chi lo sa?» disse Sloan. «Perché?» «Orme», rispose Lucas. «L'amante può aver ripulito tutte le maniglie e le cose toccate, ma scommetto che non ha ripulito il pavimento. E in tal caso potremmo trovare ancora delle impronte.» Cassie arrivò e cucinò all'italiana, canticchiando mentre preparava la salsa di pomodoro; in cucina si muoveva a passo di danza, assaggiava il cibo a roano a mano che aggiungeva le spezie. Portava una maglia d'angora aderente e Lucas, dietro di lei, l'abbracciò e le carezzò l'addome. «Cristo, hai dei muscoli incredibili», disse. «Ringrazio Jane Fonda ogni mattina.» Mama's Got a Squeeze Box giunse dalla radio e lei tentò di dargli una lezione di aerobica. Lui non fu all'altezza. «Hai lo stesso problema di tutti i bianchi robusti; hai paura a dimenare il sedere», si lamentò lei. «Mi sento ridicolo a farlo», disse Lucas. Fece una prova. «Sì», ammise lei, «non fai una bella figura. Ma potremmo continuare le lezioni.» «Preferirei lezioni di banjo.» Il telefono suonò e Lucas andò a rispondere. «Sono Mikkelson», disse il sostituto medicò legale. «Si notano cose
strane esternamente.» «Che cosa hai trovato?» chiese Lucas. «Ogni genere di schifezza. Sangue fresco e feci fresche negli abiti di George quando è stato messo nella fossa. Si sono mescolati al fango, quindi non erano ancora essiccati.» «Il che significa che lui è stato ucciso soltanto ieri notte.» «I fori negli occhi erano pieni di fango, ma quelli sono stati fatti dopo che tutto il sangue si era raccolto nel torace e nelle braccia, cioè molto dopo la morte», spiegò l'altro. «Non torna», disse Lucas confuso. «C'è solo una ipotesi», rispose il medico, con evidente soddisfazione. «Lo hanno sepolto e poi dissotterrato per bucargli gli occhi. Abbiamo in corso altri test, ma dalla prova del tessuto direi che hanno fatto così.» «Perché?» «Accidenti, Lucas, sono un medico, non un medium. Però è successo questo. E... dal vostro laboratorio mi hanno portato le impronte di piedi rilevate in casa di Bekker.» «Sì?» «Non ce n'è una che combaci. Neppure un poco.» 18 «Mi occorre aiuto», disse Daniel. «Aiuto politico. Sai come funziona il Consiglio comunale. Quelli pensano che gli elettori siano stupidi, che li toglieranno dall'incarico se noi non acciuffiamo oggi il colpevole. Si stanno incavolando.» «Hai avuto anche un paio di cattivi articoli», disse Lucas. Erano seduti nell'ufficio di Daniel, sotto lo sguardo vigile dei personaggi politici nelle foto. «Be', che cosa ti aspetti?» replicò Daniel. Guardò nella scatola dei sigari e sbatté giù il coperchio: «Scrivere articoli è l'unico lavoro in cui il sarcasmo passa per intelligenza. Maledizione, Davenport, mi occorre qualcosa, non importa che». «Metti la sorveglianza continua su Bekker», propose Lucas. «D'accordo», disse Daniel, accettando la proposta volentieri. «Perché?» «Per decidere su di lui, in un modo o nell'altro. Prendere nota di tutte le persone con cui parla, seguirlo dovunque vada. Se è coinvolto, ha assoldato un sicario dall'aspetto molto strano. Nella squadra dovranno esserci a-
genti con tanto cervello da mettere in ginocchio Bekker, se necessario, e ricercare il killer. Dovremo procurarci l'autorizzazione del tribunale per mettere sotto controllo i suoi telefoni a casa e all'università. O lo consideriamo innocente o lo impicchiamo.» «Che cosa pensi? Che sia stato lui?» chiese Daniel con curiosità. «Non lo so.» Lucas si strinse nelle spalle. «Abbiamo solo lui, ma ogni cosa punta altrove.» «D'accordo, organizzerò la sorveglianza», confermò Daniel. «Informerò un paio di persone che stiamo sorvegliando un sospettato.. Loro calmeranno un poco la febbre del Consiglio. Ma ci gioverebbe se una volta tanto avessimo delle pubbliche relazioni decenti.» «Poche sere fa, parlando con un confidente, ho saputo che una comune conoscenza ha rubato un carico di televisori, pare duecento, che venivano da St. Paul. Poi un altro mi ha detto che Terry — Terry Meller, te lo ricordi? No? È un tizio ai margini della malavita — dunque, ha detto che Terry utilizza un magazzino nei pressi della 280. I televisori sono nascosti là, insieme, probabilmente, con altra refurtiva. Potremmo incaricare quelli del Pronto intervento, ottenere un mandato, avvisare la televisione e i giornali...» «Potrei dire di attrezzare i giornalisti... abbiamo dei giubbotti antiproiettile di scorta», disse Daniel, illuminandosi. L'unità di Pronto intervento faceva sempre notizia nei telegiornali. «Dare loro una buona occasione di cronaca.» «Non sarà dimenticato il caso Bekker, ma faremo una bella figura con quest'altra operazione», disse Lucas. «E ci sarà il filmato dell'operazione.» «Procurati il mandato», disse Daniel con entusiasmo, pungolandolo con un dito. «Io metterò in moto il Pronto intervento, e qualcuno dei Servizi segreti che sorvegli il magazzino. Fermati al loro ufficio uscendo e dai l'ubicazione.» «Ho una nuova amica a TV3, per inciso», disse Lucas. «Mi deve qualcosa.. :» «Le hai passato notizie sul corpo di George?» chiese Daniel, guardando Lucas in tralice. L'altro sogghignò e fece spallucce. «Forse qualcosa mi è sfuggito. Ma siccome il caso Bekker non è finito, vorrei dirle che sciolgo le riserve. Che secondo me George non è l'amante, e che nel parlarne dovrebbero ventilare l'esistenza di contrasti fra me e il reparto. Questo ci farà gioco, le altre emittenti si adegueranno, come pure i giornali.»
Avevano parlato della possibilità che l'amante fosse ancora vivo, ma Daniel era scettico. «Pensi veramente che lui sia vivo?» Lucas corrugò la fronte. «Sì. So che questo comporta dei problemi; per esempio, perché George è stato ucciso e seppellito se non era l'amante? Non so immaginarlo. Poteva esserlo. I due si conoscevano, avevano l'età giusta per una relazione... Non so... A proposito, Shearson ha saputo qualcosa dello psicanalista su cui indagava? L'altro amico di Stephanie?» «Lui pensa di sì.» «Non è uno che brilli per intelligenza.» «Eppure è in gamba», replicò Daniel bonariamente. «Non ti piace perché veste meglio di te.» «Già, ma con camicie da golf.» «Senti», disse Daniel, «sappiamo che Bekker non ha ucciso né George né sua moglie, almeno personalmente...» «Sì. E sono certo che si è servito di me per avere un alibi in relazione a George, ma adesso... Maledizione, questo affare mi fa incazzare. E la chiave è l'amante. Se è tuttora vivo, voglio trovarlo. Potrei fare un appello. O spargere la voce che sto stringendo il cerchio attorno a lui, e che farebbe meglio a parlare subito con me... che se non si presenta, lo troveremo comunque e lo spediremo a Stillwater con l'accusa di complicità in omicidio di primo grado.» «Mah», disse Daniel. Si massaggiò il mento dove era già visibile l'ombra della barba. «La mia tendenza è di non farlo.» «La tua tendenza?» «Sì. Ma tu sei adulto. Il culo è tuo», disse Daniel. Lucas annuì. Daniel era in politica. Se Lucas si esponeva e faceva un errore, Daniel, ricorrendo a una certa ambiguità decisionale, prendeva le sue precauzioni. «Okay», disse Lucas. «Puoi dire al sindaco che sorvegliamo un tale e diamo la caccia all'amante.» «Non è tonto, il sindaco», disse Daniel. «Lo so, ma lui vuole qualcosa da dare in pasto agli squali e questo gli servirà.» «Speriamo. Incaricherò Anderson di formare la squadra di sorveglianza e staremo alle costole di Bekker da stasera.» Lucas si fermò dall'agente di turno nell'ufficio dei Servizi segreti e lasciò l'indirizzo del magazzino di Terry Meller, poi andò nel proprio ufficio e chiamò Carly Bancroft, infine parlò con il disegnatore del reparto e gli fece
fare uno schizzo. Mezz'ora più tardi s'incontrò con la Bancroft al Dairy Queen nello Skyway. «Ho altri dettagli per te», disse, dando piccoli morsi a un cono di cioccolata. «In parte sono altri punti per me — il tuo debito aumenta — e in parte rientra nel tuo stipendio. Chiamale sciocchezze. Ma desidero che siano trasmesse.» «Sentiamo», disse lei. «Tutti suppongono che Philip George fosse l'amante della signora Bekker e che il killer lo abbia eliminato per proteggersi.» «Infatti, è quello che diciamo», confermò lei. «Per me non è esatto. Anzi, sono abbastanza sicuro che sia un errore», disse Lucas. «L'amante è ancora vivo.» Lei diede una leccata al gelato alla vaniglia. «È una buona informazione, se possiamo fare il tuo nome. Che altro?» «Devi accennare che sto stringendo il cerchio attorno al tizio, che interrogo persone e ho un identikit che sto mostrando in giro. Lo farò vedere a persone che tu puoi intervistare, perché sapranno di dover parlare con te. Ti descriveranno il tizio, ma io mi rifiuterò di mostrarti il disegno.» «Molto bene. Qual è la conclusione?» «Devi dare la notizia come se l'avessi avuta da una terza persona. Usa il mio nome, ma non citarmi direttamente; puoi dire che sono io la fonte originaria delle informazioni e che mi sono rifiutato di fare commenti.» «Questo è mentire.» «Esatto. Mentisci», disse Lucas. «Fa' sapere che hai avuto le informazioni da una fonte segreta della polizia, ma non da me. Lascia intendere che c'è una diversità di opinioni nella Omicidi, e che mi è stato ordinato di tenere la bocca chiusa. Poi devi fornire qualche notiziola su di me, di' che Davenport ha fonti segrete, talvolta sconosciute agli altri poliziotti.» «Non comprendo il significato di tutto questo», disse la ragazza, accigliandosi. «Preferirei vedere dove cammino, tanto per non cadere in un burrone.» Lucas finì la cioccolata, leccò la vaniglia, poi gettò il cono nel cestino dei rifiuti alle sue spalle. «Sono convinto che l'amante è vivo. Bisogna che si senta minacciato, ma non devo rappresentare io la minaccia. Per indurlo a venire da me», spiegò Lucas. Lei annuì. «Sta bene. Possiamo adeguarci ai tuoi desideri.» «E che non sia una cattiva cronaca», precisò Lucas. «A proposito», lei guardò l'ora, «devo correre.»
«Che cosa c'è?» «Organizzano una grossa irruzione non so dove, e vado con quelli del Pronto intervento.» «Interessante», disse Lucas. «Stronzate, ma devo essere ripresa nel servizio», disse lei. «Alle dieci.» Elle Kruger muoveva le labbra in silenzio mentre camminava a testa bassa sul marciapiede, oltre lo stagno delle anitre, e sgranava il rosario appeso al fianco. Lucas, che non l'aveva trovata in ufficio, la seguiva a una certa distanza e dava pigre occhiate alle studentesse: le più erano gradevoli, bionde, robuste come se fossero tutte uscite da uno stampo cattolico tedesco. Aspettava che Elle avesse finito di pregare. Quando lei lasciò ricadere il rosario al fianco e, raddrizzatasi nella persona, allungò il passo e girò attorno allo stagno, Lucas annullò la distanza. Lei si voltò prima che la raggiungesse. «Da quanto mi segui?» gli chiese sorridendo. «Da cinque minuti. La segretaria mi ha detto che ti avrei trovata qui.» «È successo qualcosa?» «No, non proprio. Sono perplesso, cerco di districarmi nel caso Bekker, di capire quel che è accaduto.» «Un caso strano che diventa sempre più strano, a giudicare dai giornali», disse lei, ma con un'inflessione di voce che fece sembrare la frase una domanda. «Sì. Forse.» Lui era restio a dire cose impegnative. «Senti questo: abbiamo un tale che uccide due donne, distrugge i loro occhi. Poi uccide un uomo, lo trasporta lontano e lo seppellisce nel Wisconsin; viene scoperta per caso la sua tomba perché dei vicini, vedendo i fari di un'auto, pensano che là ci sia un ladro. Si scopre poi che, probabilmente, ha seppellito il corpo la notte prima ed è tornato al solo scopo di colpirgli gli occhi.» «Non vuole essere osservato dal morto», commentò vivacemente Elle. «Mi stavo chiedendo se non fosse proprio questo», disse Lucas. «Ma mi stavo chiedendo anche: dobbiamo ritenerlo un atto spontaneo? O si tratta di una manipolazione fatta per un'altra ragione?» «Per esempio?» «Pubblicità. O un deliberato tentativo di far collegare i vari delitti.» Lei si strinse nelle spalle. «Sarebbe possibile, ma perché tornare a distruggere gli occhi di un uomo che ha voluto seppellire con la speranza che non venisse scoperto?»
«Ecco il punto», disse Lucas scoraggiato. Ficcò le mani nelle tasche. «Quindi è probabilmente un atto autentico, con delle implicazioni», disse lei, guardandolo. «Cioè?» «Ha colpito gli occhi delle tre vittime, almeno delle tre che conosciamo. E lo ha fatto subito con la prima, al momento di ucciderla. Come sapeva che la prima vittima lo avrebbe guardato dopo morta? Questo farebbe pensare...» «Che lui abbia ucciso altre volte e che poi gli occhi dei morti lo abbiano guardato.» Lucas si batté la fronte con la base della mano. «Dannazione, non ci avevo pensato.» «È un uomo molto pericoloso, Lucas», mormorò Elle. Irrequieto, Lucas andò al Lost River Theater. La porta era chiusa, ma lui scorse all'interno una donna che si truccava. Bussò sul vetro e quando lei lo vide, le mostrò la tessera. «Cassie c'è?» chiese Lucas. «Stanno facendo le prove», rispose la donna. «Sono tutti sul palcoscenico.» Lucas si diresse nel corridoio ed entrò in platea. Le luci erano accese, quelli della compagnia camminavano o stavano fermi sul palcoscenico o nello spazio sottostante della platea. Altri due o tre erano seduti e chiacchieravano. Metà dei bianchi avevano la faccia nera con grandi labbra bianche, mentre due neri avevano il viso pallido. Cassie lo vide e fece un timido cenno con la mano, disse qualcosa al direttore artistico ed entrambi andarono incontro a Lucas. «Do un'occhiata in giro, se mi permette», disse Lucas. «Disturbo se guardo?» «Non c'è molto da vedere», rispose il direttore artistico. «Resti pure, ma è soprattutto dialogo.» «Ce ne avremo per un'oretta ancora», disse Cassie. I suoi occhi verdi erano stelle lucenti sul volto tinto di nero. «Che ne diresti di un menu alla francese? Intendo più tardi, se non hai nulla da fare.» «Splendido.» Mentre si allontanava disse: «Fra un'oretta». Lucas si sedette verso il fondo e assistette alle prove. Whiteface era una critica brutale ma allegra alla segregazione dei nostri giorni. Diverse scene erano accompagnate da musiche riscritte di vecchie operette. Nelle fre-
quenti interruzioni discutevano, cambiavano le battute, correggevano le posizioni del corpo di ballo. Movimentando le scene, la troupe offriva un vivace spettacolo di varietà: giochi di prestigio, tip tap, comicità, suonatori di banjo. Una scena maniacale mostrava due attori neri nel ruolo di golfisti di professione che cercavano di intrufolarsi in un country club del Sud. In un episodio secondario Cassie faceva la parte di una bella ragazza dalla faccia nera in un college del Sud frequentato da studenti bianchi, e cercava di far durare la sua relazione con un nero radicale dalla faccia pallida. In una scena più buia, un tipo robusto con cappello a larghe falde rapinava i passanti bianchi in un parco. Sebbene lui avesse la faccia palesemente tinta di nero, nessuna delle vittime, parlando con i poliziotti, andava oltre il colore nero, benché sapessero che era fasullo. Dopo questa parte dello spettacolo vi fu una discussione, breve ma accesa: essa violava il ritmo e il senso del resto? I due attori neri, che furono eletti arbitri del buon gusto, ebbero opinioni divergenti. Uno, che sembrava più addentro negli aspetti tecnici della produzione teatrale, pensava che dovesse essere eliminata; l'altro, più interessato all'impatto sociale, insisteva per conservarla. Il direttore artistico si girò verso le file di sedili. «Che cosa ne pensa la polizia?» gridò. «Penso che sia piuttosto forte», rispose Lucas. «Non è come il resto delle scene, ma aggiunge qualcosa.» «Bene. Lasciamola, almeno per ora», concluse il direttore. Quando ebbero finito, Lucas stette con Cassie e una mezza dozzina di altri attori che si dovevano struccare. L'uomo che impersonava il rapinatore non era fra quelli. Mentre stava uscendo, Lucas lo vide sul palcoscenico a provare una danza dello spettacolo. «Carlo», disse Cassie. «Lui fa quel numero.» Mangiarono e andarono a casa di Lucas. Cassie si buttò di peso sul divano del soggiorno. «Sai qual è la cosa peggiore se una è povera? Deve lavorare sempre. Una ricca può prendersi il lusso di poltrire per sei settimane. Ecco, mi ci vorrebbero sei settimane da passare davanti alla TV durante il giorno.» «Meglio dei telegiornali serali, comunque», disse Lucas. Sollevò le gambe di lei, si sedette sul divano e si mise le gambe sulle ginocchia. «Con gli sceneggiati sai sempre che sono stupidaggini.» «Humm. Bene, potremmo filosofare sui mass media e fare una conver-
sazione intelligente, oppure potremmo spassarcela», disse Cassie. «Tu che cosa vorresti fare?» «Indovina», rispose Lucas. Più tardi nella serata Del telefonò. «Scusami per l'altro giorno.» «Non pensarci», rispose Lucas. «Che novità?» «Sono stato fuori con Cheryl due volte e lei comincia a parlare», spiegò l'altro. «Io continuo a dirle che non voglio ascoltare, e lei continua a parlare.» «Che ti avevo detto?» «Bastardo», disse Del. «Però la ragazza mi piace... Dunque, lei pensa che Bekker potrebbe prendere qualche tipo di droga. Eroina o cocaina, o altro. Ha detto che certe volte lui agiva da pazzo, la scopava e diventava un po' demente, delirava, sbavava.» «Anomalie sessuali?» «Ecco, non proprio. Il sesso, credo, era abbastanza convenzionale, solo che lui perdeva il controllo. Veniva dopo di lei con quell'attacco di follia, e poi era come se la donna fosse un mobile. Non voleva sentirla parlare, non voleva restare abbracciato a lei. Di solito si portava qualcosa da leggere, e quando aveva una nuova erezione ricominciava con le sue stravaganze.» «Humm. Non è la cosa peggiore che io abbia sentito,» «Domani ci rivedremo.» «C'è modo di far sapere a Bekker che tu frequenti la ragazza?» «Per quale ragione?» domandò Del sorpreso. «Per incalzarlo un poco. È in atto la sorveglianza, quindi non dovrebbero esserci problemi per lei.» «Be'... sì, credo che potremmo escogitare qualcosa. Forse potrei indurla a chiamarlo, a fare qualche accenno...» «Provaci», disse Lucas. 19 Il telefono squillò alle tre del mattino. Cassie dormiva supina appena visibile nella luce del lampione che filtrava dall'avvolgibile, le coperte tirate fino al collo e tenute strette nelle mani, come se facesse un brutto sogno. Lucas andò in punta dei piedi in cucina e rispose. Era il Centro operativo, con un eccesso di sollecitudine personale. «Lu-
cas, sono Kathy. Scusami se ti ho svegliato, ma c'è un tizio al telefono, dice che è un dottore, che si tratta di tua figlia.» Il cuore di lui si fermò. «Gesù. Mettimi in comunicazione con lui.» «Provvedo» Vi fu un momento di vuoto elettronico, poi giunse il respiro di qualcuno in attesa.«Qui Davenport», disse bruscamente Lucas. Non vi fu una risposta immediata, ma la sensazione di una presenza, un sottofondo che poteva essere una lontana autostrada. «Pronto, perdio, sono Davenport.» La voce arrivò, bassa, gracchiante, atonale, falsata, le parole scandite, come se lette da un robot: «Non c'è nessun problema per sua figlia. Sa chi è che parla?» Lucas aveva ascoltato le registrazioni. Casanova. «Ah... sì, penso di saperlo.» «Mi dia il suo numero di telefono.» La voce era da Guerre stellari, ricordava quella di Darth Vader. Niente contrazioni. Niente inflessioni. Testo preparato e ridotto all'osso. «Non faccia telefonate. La richiamo entro cinque secondi. Se la sua linea è occupata, me ne vado. Ho la matita pronta.» Lucas gli diede il numero. «Se lei telefona...» «Cinque secondi.» Vi fu un clic e Lucas disse: «Kathy, Kathy? Sei ancora in linea? Maledizione». Dovette riattaccare. Dopo uno o due secondi il telefono suonò. Lucas lo afferrò con gesto nervoso. «Sì.» «Desidero aiutare, ma non posso farlo di persona», gracidò la voce come se leggesse. «Non mi esporrò. Come posso aiutare?» «Ci ha mandato un dipinto? Devo saperlo, per l'identificazione.» «Sì. Il ciclope. Il killer non assomiglia al ciclope. Si sente un ciclope. Ha la testa come una zucca. È anomala.» «Non dico che lei stia mentendo, ma sembra come l'uomo con un braccio solo in quel programma televisivo di tanto tempo fa», disse Lucas, lasciando trapelare una punta di scetticismo nella voce. Cercò di controllarsi. Cassie entrò in cucina, assonnata, strofinandosi gli occhi, attirata dal tono della voce di lui. «Sì, The Fugitive», disse Casanova. «Ci ho pensato. Come ha ottenuto un mio identikit?» Casanova aveva visto il servizio di Carly Bancroft su TV3. «Mi faccia fare delle domande per un minuto, okay? Non vorrei che si spaventasse e
mi piantasse in asso prima che io possa parlare. Le risulta un qualche rapporto fra Michael Bekker o sua moglie e Philip George?» «No.» Vi fu una breve esitazione e poi una voce più alta e con inflessioni disse: «Ci ho riflettuto...» Di nuovo la voce da robot. «No.» «Senta, lei ha una coscienza», disse Lucas. «Abbiamo un dannato mostro che uccide e potrebbe non aver finito. Ci serve ogni piccola informazione sul caso.» «Prendete Michael Bekker.» «Non sappiamo se sia coinvolto.» «È un mostro. Ma Stephanie non l'ha uccisa personalmente. Io non ho fatto un tale errore di persona.» «Mi dica che cosa c'è in comune fra lei e George, se pensa che un rapporto ci sia», disse Lucas con voce suadente. «Se lei conserva l'anonimato e in seguito verrà preso, testimonierò che mi stava fornendo informazioni, che mi ha aiutato, okay? Forse la toglierò dai guai.» Un'altra pausa. Poi: «No. Non posso. Ha ancora trenta secondi». «Non riattacchi. Perché?» «Perché lei potrebbe rintracciare la chiamata. Ho stabilito due minuti. Ha ancora venticinque secondi.» «Aspetti, aspetti, dobbiamo accordarci su come posso comunicare con lei. Se avessi urgente bisogno...» «Metta un annuncio su Tribune, nei 'Personali'... dica che non è più responsabile dei debiti di sua moglie. Si firmi Lucas Smith. La chiamerò circa a quest'ora. Due minuti. Tenga d'occhio Bekker. Stephanie aveva una paura matta di lui. Non lo molli.» «Mi conceda un'altra domanda, una sola», supplicò Lucas. «Perché Bekker è un mostro? Che cosa ha fatto a Stephanie?» Clic. «Accidenti», esclamò Lucas, guardando il telefono. «Chi era?» chiese Cassie, avvicinandosi a lui. Le sue dita, leggere, calde, rassicuranti, scorsero sulla spina dorsale dell'uomo. «L'amante di Stephanie Bekker», disse Lucas. Formò un numero di sette cifre e gli fu risposto immediatamente. «Qui Davenport. Passami Kathy.» «Come sta tua figlia?» chiese la donna un secondo dopo. «Erano fandonie», disse Lucas. «Ma va bene, il tizio doveva parlare con me. Ho bisogno della registrazione della telefonata al Centro operativo, perciò metti da parte il nastro.»
«Non è registrata», disse Kathy. «L'uomo ha chiamato sulla linea trentotto, non su quella di emergenza.» «Maledizione», disse Lucas. Si grattò la testa. «Senti, scrivi quello che ricordi della conversazione e dallo ad Anderson appena arriva. Scrivi come ti sembrava la voce, osservazioni a tutto campo.» «Lavoro pesante?» chiese lei. «Sì. Molto.» Quando Lucas riattaccò, Cassie disse: «Penso...» ma lui la interruppe con un gesto della mano. «Shhh... devo ricordare.» Lei lo seguì in camera, a letto, dove Lucas giacque a occhi chiusi. Ricordare. Non le parole. Le sensazioni ricevute. La voce era profonda, le parole ben scandite, le frasi chiare. Quando non aveva usato un linguaggio artefatto, si era espresso come se avesse visto TV3: Ci ho riflettuto. E inoltre Lucas pensava che l'uomo somigliasse a George. Su questo lui aveva riflettuto. Ne era sicuro. Lucas aveva fatto la stessa cosa: il falso identikit messo in circolazione era un'immagine semplificata di Philip George. Che altro? Casanova non era andato al funerale perché non sapeva se George vi avrebbe partecipato. Aveva indagato su Lucas. Sapeva della figlia e sapeva che non abitava con il padre. Dopo il caso dei Crow i giornali avevano dedicato molto spazio a Lucas, a Jennifer e alla figlia, quindi fare ricerche non era difficile, anzi, l'uomo poteva essersi basato sulla propria memoria. Ma, a ogni buon conto, perché non controllare nelle biblioteche, negli archivi dei giornali? Ne avrebbe parlato con Anderson. Aprì gli occhi. «Scusami, dovevo riepilogare.» «Non scusarti, è così che io imparo le battute», disse Cassie. «Che figlio di puttana», esclamò Lucas. Si alzò dal letto, s'infilò lo slip. «Devo scrivere degli appunti.» Lei lo seguì nella camera degli ospiti, guardò i fogli alla parete. «Pezzi dell'enigma», spiegò lui. Un foglio piegato in quattro era sul letto. Mentre Cassie guardava i promemoria, lui lo spiegò. Era la fotocopia del ciclope. «Il fatto è che sappiamo che Bekker è l'artefice di questo pasticcio, ma ogni cosa punta in altra direzione.» Cassie guardava ancora i fogli con aria più seria. «Lo fai per tutti i casi?» chiese. «Quelli molto complicati.» «Hai mai avuto tutti gli indizi elencati là, senza riuscire a trovare la soluzione se non troppo tardi?»
«Non so, non ci ho pensato. È difficile avere tutte le informazioni che ti occorrono per aprire il caso, a meno che non si tratti di un caso subito risolto: acciuffi uno con la mano insanguinata, o cinque testimoni lo hanno visto uccidere la moglie», rispose Lucas. «Se è complicato... non so. Ho mandato in galera persone che si proclamavano innocenti e ancora sostengono di esserlo. Sono sicuro al novantanove per cento che non lo sono, ma... la certezza assoluta non c'è.» «Non ti farebbe arrabbiare se lì ci fosse una informazione essenziale che tu non hai visto, e qualcuno viene ucciso?» «Mmm, non so. Non ci si può sentire responsabili se uno psicopatico va in giro a uccidere. Non sono Einstein.» «Allora che cosa vuoi fare?» chiese Cassie, a occhi spalancati. Lucas ributtò la fotocopia ripiegata sul letto. «Quello che farebbe qualsiasi buon poliziotto alle tre del mattino. Torno a letto.» Lucas mise la sveglia alle sette. Quando suonò, lui fermò la suoneria, scivolò giù dal letto, lasciando dormire Cassie, e andò in cucina a telefonare a Daniel. Lo beccò che faceva colazione e gli riferì la conversazione notturna con l'amante di Stephanie. «Figlio di puttana», bofonchiò il capo. «Dunque avevi ragione. Ma perché hanno ucciso George?» «Lui ha detto che non lo sa. O meglio, ha detto che ha riflettuto sulla cosa, ma non voleva parlarne. Io so che cosa pensava: che somiglia a George. E se si vagliano tutte le implicazioni di questo, si arriva a Bekker», disse Lucas e lo spiegò. Daniel ascoltò e fu d'accordo. «E adesso? Come lo scopriamo il tizio?» «Potremmo inventare una svolta, pubblicare un avviso sul giornale, sguinzagliare uomini per la città, mettere sotto controllo il mio telefono e quando lui chiama... bang, lo rintracciamo. E lo prendiamo.» «Hmm. Può darsi. Ne parlerò con i tecnici. Ma che cosa succede se non lo rintracciamo?» «Non lo so. Comunque è furbo», disse Lucas. «Se facciamo fiasco con lui, possiamo cambiare mestiere. Non voglio rischiare che mi scappi. Lui può riconoscere il sospettato, semmai ne arrestiamo uno.» «Okay. Ma la cosa deve restare fra noi», disse Daniel. «Ordinerò che provvedano a controllare il tuo telefono e a registrare le chiamate. Parlerò con Sloan, Anderson e Shearson per escogitare qualche forma di pressione che lo spinga a chiamare di nuovo.»
«Potrei farlo io. Penso...» «No. Non devi dare la caccia all'amante. Concentrati sull'assassino o gli assassini... Bekker e il suo compare.» «Non c'è una pista da battere.» «E tu continua a darci dentro. Vai in giro. Io ne ho tanti da usare per il lavoro spicciolo. Devi catturare il killer prima che uccida ancora.» 20 Non sapendo se i vicini fossero più o meno amici di Bekker, e restii a chiedere, gli addetti alla sorveglianza decisero di non cercare una postazione di ascolto in casa di qualcuno di loro. La squadra si piazzò agli incroci più prossimi alla casa di Bekker per controllarne la parte anteriore e posteriore. Da due auto tenevano d'occhio la porta d'ingresso e le due estremità del vicolo che passava dietro la casa. Le auto si davano il cambio ogni ora, sia per evitare la noia sia per ridurre il rischio di fare insospettire Bekker. Ciò nonostante, un'avvocatessa che praticava jogging individuò una delle auto in sosta da poco e avvisò la polizia. Le fu detto che essa apparteneva a un detective impegnato in un'indagine sul traffico di droga, e le fu chiesto di non divulgare l'informazione. Nello stesso giorno lei vide la seconda auto e comprese che Bekker era sorvegliato. Pensò di parlarne a un vicino, ma non lo fece. La sorveglianza cominciò di sera. Al mattino seguente quattro agenti stanchi seguirono Bekker al lavoro. Altri quattro lo controllarono all'ospedale, ma presto compresero che una rete perfetta sarebbe stata impossibile: l'ospedale era un formicaio di corridoi, scale, ascensori e gallerie. Si limitarono ad accertare che lui fosse nell'edificio, facendo occasionali controlli oculari della sua ubicazione. Mentre lui era dentro, uno della Narcotici attaccò un trasmettitore sotto il paraurti posteriore della sua auto. La scoperta del cadavere di George produsse viva emozione e impressione. Bekker guardò atterrito il servizio di TV3: uomini in divisa kaki avanzavano tra i rovi nei pressi della casetta sul lago, trasportando una lettiga. Il corpo era avvolto in un lenzuolo bianco, come una crisalide. Una giornalista bionda, con il viso stilisticamente e cosmeticamente appropriato alla scena, come lo è una giapponese del teatro No, fece il resoconto con voce da litania funebre, in un fondale di nuvole grigie.
Bekker, che guardava poco la TV, cercò la guida ai programmi sul giornale e segnò gli orari dei telegiornali. Gli altri canali riportarono la notizia, ma nessuno aveva il filmato di TV3. La sera successiva, temendo altre brutte novità, fu sconcertato nel vedere una cronaca quasi interminabile sul recupero di un carico di televisori in un magazzino alla periferia di Minneapolis. Televisori? Cominciò a calmarsi quando, cambiando canali, trovò dovunque la stessa notizia riferita da telecronisti sul posto, protetti da giubbotti antiproiettile. Se fosse venuto fuori qualcosa di importante, certamente non avrebbero parlato di televisori rubati. Stava quasi per perderla. Si spostava da un canale all'altro quando ritrovò la bionda, questa volta nello studio televisivo e senza giubbotto. Annunciò un altro colpo basso: Davenport, disse, non credeva che Philip George fosse l'amante di Stephanie; era convinto che l'uomo fosse ancora in circolazione, e perciò mostrava in giro un suo identikit. Davenport, disse, era un genio. «Cosa?» farfugliò Bekker, sgranando gli occhi, come se il televisore potesse rispondergli. Che avesse ragione Davenport? Avevano preso un granchio con George? Doveva meditare. Niente di effimero. Ma qualcosa per stimolarsi, per mettere a fuoco le idee. Aprì l'astuccio, lo esaminò. Sì. Se lo portò alla bocca e con la lingua prese una capsula, come una rana prende una mosca. Fuoco. Il viaggio non fu buono. Non terrificante come vedere il serpente, ma neppure piacevole. Seppe cavarsela, però, muovendosi fra le ombre dove Davenport si nascondeva. Maledetto Davenport, secondo le sue previsioni il caso doveva essere chiuso, e lui libero... Tornò in sé con il sapore di sangue sulle labbra. Sangue! Abbassò la testa e, vedendo sangue sul torace, si riscosse. Era stato di nuovo nelle nuvole. Che cosa era successo? Che cosa? Ah, sì, l'amante. Che fare? Sistemarlo, naturalmente. Si tirò su e, barcollante, vagò verso le scale. Nel bagno, a lavarsi. Perse il contatto con la realtà, e quando tornò in sé alcuni minuti dopo, aveva la mano sulla ringhiera delle scale, gli occhi aridi. Sbatté le palpebre. Druze era stato insolitamente di malumore durante il viaggio nel Wisconsin, quello per distruggere gli occhi di George. Non ne aveva compreso la necessità. Si tirava indietro? No. Ma era cambiato, lui che non aveva sbalzi di umore.
Bisogna che lo coinvolga ancora. Gli occhi di Bekker si spostarono al telefono. Uno strappo alla regola? No. Non da lì. Non doveva. Perse di nuovo la lucidità mentre si puliva e si vestiva, ma dopo non ricordò il contenuto del viaggio... se un contenuto c'era stato. Quando fu pronto, tirò fuori l'auto e andò all'ospedale. Là, scese le scale di fretta, senza pensare. La rapidità con cui si mosse disorientò gli uomini di sorveglianza. Uno gli stette dietro per dieci secondi, camminò nel corridoio oltre gli ascensori e la porta delle scale che erano in una rientranza. Bekker era sparito. Aveva trovato l'ascensore pronto? L'uomo si affrettò a uscire, e avvertì il caposquadra che con il telefono cellulare chiamò l'ufficio di Bekker. «Posso parlare con il dottor Bekker?» L'agente, con capelli corti, grassoccio e l'aria infastidita, somigliava a un impiegato delle poste. «Mi spiace, il dottor Bekker non è ancora arrivato.» «Sono dabbasso e mi era sembrato di vederlo un minuto fa.» «Sono seduto vicino alla sua porta e lui non c'è.» «Lo abbiamo perso», disse il capo agli altri. «Deve essere nell'edificio. Sparpagliatevi. Trovatelo.» Bekker scese velocemente la scala che portava alla galleria dalla quale si passava all'edificio accanto. Si soffermò a un distributore automatico di caramelle, prese una confezione di Nut Goodie, e filò a un telefono pubblico nella galleria. Druze non era in casa. Bekker esitò, poi chiamò l'Ufficio informazioni ed ebbe il numero del teatro. Lì rispose una donna che, alla richiesta di parlare con Druze, posò il ricevitore e si allontanò. Non sapendo se lei stesse cercando Druze o no, Bekker aspettò due, tre minuti e alla fine Druze arrivò: «Pronto?» «Hai sentito?» chiese Bekker. «Sei a un telefono sicuro?» La voce di Druze era bassa, quasi un sussurro. «Sì. Sono stato molto prudente.» Bekker guardò nella galleria. «Hanno trovato il corpo e quel piedipiatti, Davenport, non crede che George fosse l'amante... E non è uno scherzo. Quello ha buone ragioni per pensarlo.» «E tu come lo sai?» «Perché lui continua a vedere una delle nostre attrici, Cassie Lasch.
Quella che ha trovato la Armistead; tra lei e Davenport è nata una specie di relazione.» «Mi hai già detto di lei. Abita nel tuo caseggiato.» «Sì, esatto», confermò Druze, mangiando le parole. «Stamane Cassie ci ha detto che l'amante è ancora vivo. Penso che Davenport voglia parlare con lui, ma non sa chi sia. E un'altra cosa. Pare che gli sbirri abbiano un qualche ritratto di me. Non un disegno della polizia, una cosa diversa.» «Perdio, sarà vero?» Bekker si massaggiò la fronte furiosamente. La situazione si complicava. «Qualcuno ha chiesto a Cassie perché non lo hanno mostrato alla TV, se la notizia è vera», disse Druze. «Lei ha detto che non ha visto il ritratto, ma sa che c'è, ed è piuttosto strano. È stata anche precisa sull'amante. Faceva la misteriosa, ma penso che sappia. Quei due devono andare a letto insieme, e lei riceve confidenze nell'intimità.» «Maledizione.» Bekker si mordicchiava un'unghia. «Sai che cosa dobbiamo fare? Si parlava di fare il numero tre prima che venisse fuori George. Be', dobbiamo farlo. Dobbiamo eliminare una persona che non abbia nessun rapporto con me o con te. Una sconosciuta.» «Chi?» «Non so. Il punto è questo: deve essere una persona a casaccio. I parcheggi dei centri commerciali sono pieni di donne. Va' a colpirne una.» Vi fu un momento di silenzio e poi Druze disse: «Là mi ci vedo appeso, amico». «Anch'io», replicò Bekker irato. «Se c'è un disegno di te, anche approssimativo, se l'amico di Stephanie lo ha mandato alla polizia e se quell'attrice lo ha visto, allora siamo fritti.» «Sì, hai ragione. Lei mi vede ogni giorno e ogni sera.» «Com'è il suo nome?» chiese Bekker. «Cassie Lasch. Ma se sistemiamo lei...» «Lo so. Non possiamo farlo adesso, più tardi, fra una settimana... Prima depistiamo le indagini della polizia, e poi lei potrebbe avere, diciamo... un incidente. Una cosa senza collegamento. A che piano abita? In alto?» «Al sesto, credo. E una volta tentò il suicidio.» «Così, se cadesse dalla finestra... Non so, Carlo. Escogiteremo qualcosa. Ma dobbiamo toglierci dai piedi i poliziotti. Fare una cosa che non ha a che vedere con il teatro, o l'università, o gli antiquari.» «Parli sul serio? Un centro commerciale?» La voce di Druze era incerta. «Sì. Scegline uno nei sobborghi della città. Burnsville andrebbe bene.
Maplewood. Roseville. Sei in gamba, trova il sistema... Adocchia una che abbia l'aria di fare grossi acquisti. Beccala all'auto. Poi fai sparire l'auto con le provviste. Ricordati gli occhi. Vogliamo che appaia una scelta casuale. Sai cosa? Forse dovresti perlustrare i parcheggi. Guarda se c'è un'auto con targa dello Iowa o comunque di un altro Stato.» «Mah, non so. Dammi tempo per pensarci.» «Se l'amante è vivo, non abbiamo tempo», incalzò Bekker. «Dobbiamo metterli fuori strada, almeno fino a quando non scopriamo lui.» «Perdio, vorrei...» «Ehi, abbiamo dovuto sbarazzarci di loro. Ce lo meritavamo. Adesso si tratta di fare un po' di pulizia. Okay?» Silenzio. «Okay?» ripeté Bekker. «Sì, ma ora devo andare.» Druze stava diventando infido; Bekker doveva tenerlo bene in pugno. Tornando verso il suo ufficio, Bekker si fermò al gabinetto. Mentre si lavava le mani entrò uno studente, lo guardò e andò anche lui a urinare. Aveva uno zainetto rigonfio sulle spalle. Ma anche qualcosa di strano, pensò Bekker. Jeans e giacca di maglia andavano bene, come pure la camicia di cotone lavorato. Lo sbirciò di nuovo quando il giovane uscì. Erano le scarpe, pensò, soddisfatto di averlo scoperto. Forse il ragazzo aveva appena finito il servizio militare. Non si vedevano studenti con quelle scarpe nere e lucide. Dai tempi del Vietnam. Lo studente, nascostosi nel corridoio, sentì i passi di Bekker che si allontanavano, poi tirò fuori la ricetrasmittente dallo zaino. «L'ho trovato», comunicò. «Era al cesso. Nel seminterrato, ora sta salendo le scale dell'ala ovest.» Agli ascensori un secondo studente aspettava di salire e leggeva un giornaletto di spettacoli gratuiti. Portava scarpe come l'altro. Una nuova moda? Un segnale per indurre a comprare fondi di magazzino? D'altra parte nessuno dei due studenti sembrava il tipo che detta moda. Tornare in ufficio o salire dalla paziente? Bekker controllò l'ora. Aveva tempo, e nessuno lo avrebbe disturbato. Un lieve fremito lo pervase. Poteva anche fare del lavoro serio. Andò deciso in Chirurgia, fece un cenno di saluto a una infermiera ed entrò nello spogliatoio degli uomini, si tolse i suoi abiti e indossò un cami-
ce color lavanda. Tecnicamente non ne aveva bisogno, non andava in sala operatoria o nel reparto degli ustionati. Ma a lui piaceva quel tipo di camice; era comodo e gli conferiva una certa autorità. Quando lo indossava, lo chiamavano sempre «Dottor Bekker», mentre in Patologia spesso si scordavano il titolo. Con quel viso e il camice da chirurgo, talvolta gli piaceva mostrarsi al pubblico nel bar tavola calda dell'ospedale. Non quel giorno. S'infilò copriscarpe di carta sui mocassini, prese il bloc-notes dall'armadietto e salì un'altra rampa di scale, con il cuore un po' accelerato. Erano trascorsi alcuni giorni da quando aveva parlato con Sybil. Doveva trovare più tempo. In cima alla scala, spinse la porta di comunicazione e percorse il corridoio fino alla stanza delle infermiere. «Dottor Bekker», disse una, guardandolo. «È in anticipo oggi.» «Avevo tempo.» Sfoderò un sorriso. «Nessun cambiamento?» «No, da quando lei è stato qui», rispose l'infermiera, senza sorridere. Cambiamento era l'eufemismo di Bekker per dire «morte». C'erano volute diverse sue visite perché l'infermiera afferrasse il concetto. «Be', vado a fare un giro», disse Bekker. «Qualche posto dove non dovrei andare?» «Stanza 712, abbiamo un trattamento di radiazioni, la teniamo sterilizzata.» «Non entrerò», promise Bekker. La lasciò alla scrivania, occupata a sbrigare l'infinito lavoro d'ufficio che affliggeva le infermiere. Sostò in due camere, per salvare le apparenze, prima di andare da Sybil. «Sybil? Sei sveglia?» Lei aveva gli occhi chiusi e non li aprì, ma Bekker vide che c'era una fleboclisi in funzione. «Sybil?» Gli occhi rimasero chiusi. Lui diede un'occhiata nel corridoio, poi si avvicinò al letto, si protese, e con le dita le sollevò le palpebre. «Svegliati, svegliati...» La televisione alle sue spalle era sintonizzata su TV3, uno spettacolo di giochi. Nel frattempo Sybil aveva aperto gli occhi e guardava freneticamente qua e là. «No, no. Non hai nessun aiuto, cara», disse Bekker in tono suadente. Bekker passò un'ora in ospedale. E quando uscì fu seguito dai poliziotti. «Ha una strana espressione», disse una della Narcotici, parlando dentro la sua borsa. «Viene proprio verso di me.» Lo vide procedere sul marcia-
piede, oltre la panchina dove lei era seduta a leggere una rivista automobilistica. «Strana, come?» chiese il capo, mentre la squadra si ricompattava. «Non so», rispose la donna. «Sai, come se avesse appena fatto l'amore.» «Un'espressione che conosci bene», disse l'agente Louis, normalmente in uniforme, ma assegnato a quel servizio. «Chiudi il becco», disse il capo. «Stagli alle calcagna e non spaventarlo. Stiamo andando bene.» A metà del campus Bekker si mise a ballare la giga. Fu un atto inconscio, ma non del tutto... si controllò e girò l'occhio attorno con aria colpevole prima di riprendere a camminare. «Che cavolo era quella buffonata?» chiese la donna. «Da pazzoide», disse Louis. «Zitti», ordinò il capo. «Dovremmo filmare quel tizio, sapete? Mi piacerebbe riprenderlo quando danza.» Lo seguirono fino a casa e lì la vigilanza passò a un'altra squadra. Louis, un tipo incline alle spiritosaggini, rientrò alla Centrale dove s'imbatté nel cronista di «nera» di Canale Otto. «Che novità, Louis?» chiese l'uomo. «Hai qualcosa di buono per le mani?» Louis masticava gomma; inclinò la testa di lato con aria furbetta. «Ho cose qua e là», rispose. «Una storia succulenta, se potessi raccontartela.» «Si direbbe che sei stato di sorveglianza», disse il giornalista. «Tutto elegante come un essere umano.» «Ho forse parlato di sorveglianza?» sogghignò Louis. Aveva simpatia per i giornalisti. Avevano citato diverse volte il suo nome in fatti criminali. L'altro si accigliò. «Ehi, non sarà il caso Bekker?» Louis perse il sorriso. «Non posso parlare. Mi piacerebbe, credimi.» «Non ti fregherò, Louis», disse il giornalista. «Ma qui da qualche parte c'è chi spiffera, e TV3 fa la parte del leone.» Louis aveva simpatia per i giornalisti... 21 Anderson sbatté due fascicoli sulla scrivania di Lucas. «Rapporti della sorveglianza e interrogatori sommari di quelli del teatro e degli amici della Armistead», disse. «Qualche elemento qui?» domandò Lucas. Stava reclinato sulla sedia,
con i piedi sul cassetto della scrivania. Uno stereo sul pavimento diffondeva Radar Love. «Non molto», disse Anderson, mostrando i suoi denti gialli. Era il maniaco del computer nel reparto. Si vestiva come un rozzo montanaro e in precedenza era stato un feroce agente stradale. «Bekker si è aggirato per lo più nell'università, il suo ufficio, l'ospedale.» «Va bene, darò un'occhiata», disse Lucas, sbadigliando. «Se non caviamo qualcosa presto...» «L'ho sentito dire a Daniel», commentò Anderson. «Quei televisori ci hanno salvato il culo, ma oggi non c'è niente.» «Quanti ne abbiamo recuperati?» «Centoquarantaquattro: dodici dozzine. Un bel carico. E anche trenta videoregistratori Hitachi, sei bilance da bagno Sunbeam, una trentina di casse di carta igienica Kleenex, in parte bagnata, e uno scatolone di vibratori di gomma Lifestyle Stimula per massaggi, che Terry ha detto erano per uso personale. Chissà se funzionano.» «Che cosa?» «I vibratori.» «Non lo so. Io di gomma ho solo i pneumatici.» Anderson uscì e Lucas prese in mano il fascicolo, cominciando a leggere. Bekker aveva fatto una giga. Il particolare gli fece ricordare la notte in cui lo aveva conosciuto e visto danzare freneticamente. Che cosa ci faceva all'ospedale? Forse valeva la pena controllare ancora. Nei fascicoli non trovò nient'altro. Li buttò da una parte, sbadigliò, sentendosi piacevolmente sonnolento. Cassie era un po' impetuosa, tutta muscoli nel sesso. Interessante. E diversa. Fece un paragone mentale con Jennifer, notando le differenze. Jennifer aveva una scorza dura, sviluppata in anni di giornalismo. Lucas pure. Come, del resto, quasi tutti gli assistenti sociali. «Quando si vede troppa merda durante la vita, si deve trovare il modo di affrontarla», aveva detto una volta Jennifer. «Giornalisti e poliziotti si costruiscono un guscio di difesa. Se puoi ridere di un folle stupratore, sai lo 'stronzo puzzolente' e tutti i nomi carini che voi gli date, ebbene, non sei costretto a prenderlo tanto sul serio.» «Sì, giusto, passami lo spinello», aveva detto Lucas. «Vedi? È proprio come sto dicendo...» Cassie non aveva scorza. Ogni cosa che le capitava colpiva i suoi senti-
menti. La terapia psichiatrica era normale, pensava. Un sacco di gente era svitata, ma parlarne faceva bene, anche se si doveva pagare qualcuno per farsi ascoltare. Occasionalmente, all'epoca in cui era stato con Jennifer, Lucas aveva avuto la sensazione che entrambi avessero lo struggente desiderio di dialogare, di manifestarsi, ma non vi erano riusciti. La comunicazione li avrebbe resi troppo vulnerabili e, conoscendosi, la vulnerabilità sarebbe stata usata. «Ehi, tu ti fai mettere sotto i piedi. La gente ti usa, fai la parte dello stupido», aveva detto Cassie, quando lui gliene aveva parlato. «Bell'affare! Chiunque viene usato.» E Lucas si era ritrovato ancora una volta ad analizzare il suo periodo di depressione. «Me la spassai con una quantità di ragazze fin da adolescente. Mi calmai parecchio quando cominciai con Jennifer... trasgredii un paio di volte, male, ma noi due andavamo d'accordo, poi... lo sai. Il fatto era che mentre lei camminava, io mi fermai. Ed ebbi un tracollo psichico. Il vero baratro fu nell'autunno scorso, più o meno nel giorno del Ringraziamento; io ero appena tornato da un incontro con una donna a New York e lei aveva praticamente rotto i ponti. Mi parve d'impazzire. Non pazzo pazzo, come si vede al cinema. Ma una pazzia in cui non ti alzi dal letto per due giorni, non paghi la rata del mutuo perché non riesci a compilare un assegno.» «Io una volta non pagai le tasse per questa ragione. I soldi li avevo, ma non ero capace di assolvere ai miei doveri», aveva detto Cassie, senza ridere. «Restai in quelle condizioni per tre o quattro mesi, e quando cominciai a sentire che ingranavo di nuovo, ebbi paura di guardare una donna, qualsiasi donna. Ebbi paura che la cosa non funzionasse e mi facesse ricadere nel baratro. Allora preferii la solitudine al terrore del male oscuro. Tutto fuorché quello.» «La tua è stata una forma grave», aveva detto Cassie. «In questi casi si ha bisogno di una con grosse tette per rannicchiarsi e infilarvi la testa in mezzo e succhiarsi il pollice.» Lucas si era messo a ridere, e aveva spinto la testa nell'incavo dei seni di Cassie. Una cosa aveva tirato l'altra... Daniel entrò nell'ufficio di Lucas e chiuse la porta. «Abbiamo un problema.» «Quale?»
Daniel si passò la mano sui radi capelli, con un'espressione fra la rabbia e la perplessità. «Dimmi la verità. Hai fatto qualche soffiata a Canale Otto?» «No. Mi sto lavorando una di TV3.» «Sì, sì, questo lo so. Niente con quelli della Otto?» «No. Lo giuro», disse Lucas. «Perché?» Daniel si lasciò andare sulla sedia dei visitatori. «Mi ha chiamato Jon Ayres. Dice che una fonte li ha informati che noi stiamo sorvegliando un sospettato e che un arresto sarebbe imminente. Io ho negato. Lui ha insistito che la fonte è sicura. Ho continuato a negare e gli ho detto che notizie false potrebbero danneggiare le indagini. Lui si è fatto petulante, ci siamo scambiati parole forti, e poi ha detto che ci avrebbe pensato.» «Il che significa che intendono usare la notizia», disse pronto Lucas. «Devi parlare con il direttore della rete.» «Troppo tardi», rispose Daniel. Indicò l'orologio sulla parete. Le dodici e quindici. «Era la notizia principale del telegiornale di mezzogiorno.» «Figlio di puttana», inveì Lucas. «Lo so, lo so.» Del fece una capatina sul tardi. «Andiamo molto d'accordo e ora non riesco a farla smettere di parlare di Bekker. Insiste perché indaghi su di lui. Il problema è che lei non sa molto.» «Cioè nulla?» «Dice che probabilmente Bekker si droga. Perché diventa strano. E un'altra cosa: lui ha una fissazione per gli occhi.» «Davvero?» Lucas si protese sulla scrivania. Questo era un passo avanti. «Ti ricordi quando ci ha raccontato che lui godeva nell'umiliarla? La costringeva a fargli un trattamento orale e via dicendo? Quando glielo succhiava, lei doveva tenere su la testa perché Bekker potesse guardarla negli occhi. Diceva sempre che gli occhi erano la via che portava all'anima, o qualcosa del genere.» «'Quelle deliziose stelle, quelle finestre dell'anima...'» citò Lucas. «Chi l'ha detto?» «Non mi ricordo. Ho fatto un corso di poesia e mi sono rimaste delle reminiscenze.» «Be', sembra che lui abbia il pallino degli occhi. Quell'uomo le fa ancora paura quando lei lo incontra per caso in ospedale.» «La ragazza ha qualche idea di quello che lui stia facendo adesso?»
«No. Vuoi che glielo chieda?» «Sì. La rivedrai?» «Sicuro, se vuoi che le tiri fuori dell'altro», rispose Del. «Non pensavo a questo», spiegò Lucas. «Pensavo... che hai un aspetto niente male.» Che era sorvegliato Bekker lo seppe da Druze. Si aspettava una sua telefonata, che doveva informarlo sul suo terzo omicidio, e a intervalli di qualche ora chiamava la segreteria telefonica. «Su Canale Otto ho sentito che gli sbirri sorvegliano un sospettato», disse Druze senza identificarsi. «Ho fatto attenzione e non credo di essere io.» Fine del messaggio. Che cosa? Bekker non riusciva a concentrarsi e volle risentirlo. Sorveglianza della polizia? Se controllavano Druze e lo avevano visto fare quella telefonata, sarebbero stati in grado di rintracciarla? Pensò di no, ma non ne era sicuro. Comunque scartò l'idea che sorvegliassero Druze. Come potevano arrivare a lui? Il presunto ritratto? Forse. Era più probabile che lui stesso fosse controllato, se non erano fantasie della TV. Gli balzò nella mente l'immagine dello studente nel gabinetto, e il secondo... Non scarpe militari, disse fra sé. Erano scarpe da poliziotto. 22 Le condizioni climatiche dello Stato erano estremamente variabili, dal freddo canadese al caldo messicano. Druze aveva la sensazione di respirare acqua. I temporali si erano abbattuti sul Minnesota occidentale, ma le previsioni metereologiche dicevano che la perturbazione sarebbe arrivata in città prima delle ventuno. Viaggiando sulla interstatale, Druze vide lampi a nord e a ovest, ma ancora lontani. Il centro commerciale di Maplewood era molto frequentato dagli abitanti di St. Paul, specialmente quelli dei sobborghi di nord-est. Scarsa delinquenza, molto benessere. Ragazzi in giacche con distintivo della scuola, giovanette alle prime scappatelle. Druze fece il giro del parcheggio per osservare i clienti. Cercava la donna giusta che usciva dal centro commerciale. Sui quaranta, perché rispondesse al profilo. Aggredendola in un punto adatto, non avrebbe avuto bisogno di muoverla. Prima la trovava, prima i poliziotti avrebbero dato un
corso diverso alle indagini. Si fermò a un passaggio trasversale e una donna camminò davanti ai suoi fari; indossava un cardigan, pantaloni e scarpe con tacco alto, teneva una borsa della spesa con due mani e aveva un'espressione decisa. Un po' troppo vecchia, pensò Druze, e non nel posto giusto. Parcheggiò, scese, e camminò lemme lemme verso il mercato. Una radiomobile della polizia fece il giro del parcheggio ad andatura lenta e Druze si affrettò a entrare. Si era messo molto fondotinta sul viso e teneva il cappello di feltro calcato in testa; fra tanta gente poteva riuscire a passare inosservato. Purché non lo guardassero da vicino e vedessero il suo naso. Druze era preoccupato. In principio il piano elaborato con Bekker gli era sembrato semplice. Lui avrebbe ucciso Stephanie, Bekker la Armistead. Con vantaggio reciproco: la sicurezza per sé, la libertà per l'altro. Entrambi avrebbero avuto alibi di ferro. Se la pressione su Bekker fosse diventata eccessiva, Druze avrebbe eventualmente fatto un'altra vittima. Nessun problema. Ma poi era saltato fuori l'amante. George era la persona giusta? Somigliava all'uomo da lui visto nel corridoio, ma quello aveva soltanto un asciugamano attorno al corpo, i capelli bagnati, il viso stravolto. E lo aveva visto per un istante. Era più grosso di George? Con il passare del tempo Druze fu preso dal dubbio. Aveva guardato troppe foto, e molti di quegli uomini somigliavano più o meno all'amante. Contaminato dalle informazioni, pensò. Bekker... Non era più tanto d'accordo con lui. Si erano incontrati dopo uno spettacolo, nel bar del teatro. Bekker era con Stephanie e un gruppo di docenti universitari. Il dottore si era tenuto ai margini del gruppo, un po' isolato. Druze era entrato, da solo, per bere qualcosa. Aveva visto subito quel bell'uomo, non gli aveva tolto gli occhi di dosso: Bekker aveva tanto! L'altro era stato ugualmente affascinato. E aveva preso l'iniziativa: Salve, l'ho vista poco fa nello spettacolo. E in seguito, molto più tardi, dopo che erano... amici? Potevano dirsi amici?... Bekker gli aveva detto: «Siamo le facce opposte della stessa medaglia, amico mio, prigionieri del proprio aspetto». Ma non era stato l'aspetto a tenerli uniti. Era stato, che cosa? Il piacere della violenza? Si fermò alla ringhiera dell'atrio e guardò il piano sottostante. I clienti giravano nel mercato vestiti in vario modo: abiti invernali, scuri, tristi, per
proteggersi dal freddo, e guanti che sporgevano dalla tasca del cappotto; giacche a vento sopra T-shirt, e anche calzoncini, se si erano adeguati al caldo messicano. Lui cominciò a selezionare le donne. Qarantenni. Attraenti. Tali da attirare presumibilmente uno psicopatico. Ve n'erano a bizzeffe, da sole, in due, in tre, alte, basse, robuste, snelle, musone, ridenti, a guardare la merce, a pagare alla cassa, a controllare il conto, ad accomodarsi la blusa... Inconsciamente Druze buttò in aria le chiavi dell'auto con una mano, le riprese con l'altra, e continuò il giochetto d'abilità. E scelse. Nancy Dunen si sbalordì vedendo il prezzo dei jeans. Ogni volta che entrava lì, trovava i prezzi spaventosi, un incubo. I suoi gemelli portavano a primavera gli stessi jeans acquistati in settembre, all'inizio della scuola. Due dodicenni, quattro paia di jeans, trentadue dollari il paio. Guardò nel vuoto, muovendo le labbra; stava facendo i calcoli. Centoventotto dollari. Mio Dio, dove li trovava? Con la sua carta di credito c'era da ridere. Sollevò i pantaloni per vedere se avevano difetti. Notò il taglio femminile. Dodici anni e già avevano le curve nei pantaloni. Dovevano essere gli ormoni nei cereali della colazione. Un uomo gironzolava nella parte anteriore del mercato. Una faccia strana, ma era difficile dire quale fosse l'anomalia. L'antiquato feltro marrone era troppo calcato sulla fronte. Quando lei lo vide, avvertì un lieve magnetismo dei loro sguardi che s'incrociavano; poi girò la testa mentre anche lui la girava, e sentì un difetto nel tessuto dei jeans che palpava. Li posò e ne prese un altro paio. Talvolta Nancy pensava di essere carina, altre volte no. Era una bruna con i capelli corti, appena truccata, e faceva jogging tre volte la settimana per tenersi in forma. Non sprecava tempo a pensare se fosse bella o no, anche se si proclamava la quarantatreenne con il miglior sedere del vicinato. Suo marito le voleva bene, lei gliene voleva, e tutti e due amavano i figli. Portò i jeans alla cassa, emise un lamento quando vide lo scontrino di addebito sulla carta di credito, lo ripiegò e lo infilò nella borsa. «Se mio marito lo trova, mi torce il collo», disse alla cassiera. «Sì, ma...» La bionda scosse i capelli, sorrise e infilò i jeans in un sacchetto, accompagnandoli con un gesto della mano che pareva scorresse su tasti di pianoforte. «Sono dei bei pantaloni.» Nancy si allontanò, sacchetto in mano, sbirciò l'esposizione di abbiglia-
mento femminile, e tirò via. L'uomo con il cappello era dietro di lei sulla scala mobile, diretti entrambi alla stessa uscita. Non ci badò più di tanto. Un ragazzone, con giacca della sua scuola e capelli sbiancati ai lati, le tenne la porta aperta. Portava un orecchino e le guardò il sedere. Nancy sorrise fra sé. Negli anni Cinquanta, quando era bambina, i ragazzi più grandi di lei si sarebbero svenati piuttosto che portare un orecchino. Nancy scese dal marciapiede e si fermò alla sua macchina; frugò nella borsetta per cercare le chiavi. L'uomo con il cappello le passò accanto. Lei stava quasi per fargli un cenno di saluto, c'erano state quelle reciproche occhiate nel centro acquisti. Invece spalancò la portiera, buttò i jeans sul sedile posteriore, saltò dentro e accese il motore. Doveva farcela ad arrivare per le otto. Che cosa davano alla TV quella sera? Druze si era preparato l'affilacoltelli in tasca, lo stesso usato per George. Lo aveva ripulito meticolosamente e tenuto nel cassetto in cucina. Seguita la donna, pronto ad aggredirla, controllò se c'erano altre persone, auto in partenza dalle file, quanto era illuminata la zona. La donna si era fermata alla prima auto nel parcheggio, una Chevrolet Spectrum bianca. Avrebbe potuto colpirla mentre lei cercava le chiavi, ma erano troppo in vista. Si guardò alle spalle: persone sul marciapiede, alle porte, molto viavai... Merda. Si sentì stupido. Scegliendo una donna dentro il centro commerciale, poteva trovarsi poi in una situazione sfavorevole nel parcheggio. E magari la donna era attesa fuori dal marito o dal figlio. Passò vicino a Nancy Dunen, facendo il giochetto con le chiavi. Lei lo guardò di sfuggita mentre frugava nella borsetta. Lui non si voltò più, sentì sbattere la portiera, mettere in moto. Andò a riprendere l'auto, si spostò al limite del parcheggio, constatò che da lì non vedeva niente, si spostò ancora. Buono. Si fermò, spense i fari e attese. Era ad angolo acuto rispetto a un'uscita laterale. Normalmente la gente non avrebbe guardato da quella parte, ma lui poteva controllare chi usciva. Passarono cinque minuti. Nulla. Poi una coppia si avvicinò al gruppo di auto dalla parte di Druze. Una donna sola li seguiva a una ventina di metri. La coppia raggiunse la propria auto, l'uomo aprì la portiera alla moglie e il bagagliaio per mettervi i pacchi. La donna sola arrivò quando la coppia stava per partire. Ignara di essere osservata, e a non più di dieci metri da
Druze, stava salendo in macchina. Uscì in retromarcia quasi contemporaneamente alla coppia. Maledizione. Quella era giusta, pensò Druze. Un po' giovane, ma nel posto buono. Si allungò sul sedile, tirando giù il cappello. I clienti entravano e uscivano. Kelsey Romm era in jeans, blusa rossa e scarpe da ginnastica, aveva capelli lunghi e labbra truccate d'un rosso scuro. Lavorava part-time al centro commerciale di Maplewood e part-time in un supermercato di Roseville, e nei fine settimana in un Target. Talvolta il superlavoro le dava mal di stomaco; altre volte le gambe le dolevano tanto che non riusciva a piegarle per sedersi. Ma un unico lavoro a tempo pieno era un miraggio. Ragioni economiche, le aveva detto il direttore del centro commerciale. Si mettono insieme tanti dipendenti a orario ridotto e si evitano tutte le indennità, le aveva detto. In quel modo era più facile stabilire gli orari. Negli altri posti le avevano rifilato la stessa storia. Se non le piaceva, c'erano tanti studenti delle scuole superiori che cercavano lavoro. Del resto non ci voleva molta esperienza. Bastava saper usare il registratore di cassa. Kelsey Romm aveva bisogno di lavorare. Due figli adolescenti. Due errori, vita sregolata, la figlia già dedita all'alcol e chissà che altro. Kelsey Romm camminava a testa bassa, come al solito. Così non vedeva niente. E non vide neppure Druze. Andò alla macchina, una Chevrolet Cavalier marrone, un macinino in cui non funzionavano né aria condizionata né radio, che aveva gomme consumate, freni lamentosi e portiera anteriore senza chiusura di sicurezza. Lei inserì la chiave nella serratura. Vide l'uomo all'ultimo minuto e cominciò a girare la testa. L'arnese d'acciaio la colpì dietro l'orecchio e l'ultima cosa che la donna vide fu l'entrata del centro commerciale e un ragazzino appoggiato a un bidone di rifiuti. Se le avessero detto che avrebbe fatto quella fine, lei non si sarebbe meravigliata. Druze la vide uscire di fretta e capì che sarebbe venuta dalla sua parte. Lasciò la portiera accostata, pronto a scendere. La donna camminava a testa bassa, diretta alla fila dietro a Druze. Bene. Molto bene. Lui scese, passeggiò lungo la fila, buttando in aria le chiavi e riprendendole. Le persone sui marciapiedi del centro commerciale erano rare e un ragazzino vicino all'entrata guardava altrove. Fu soddisfatto.
La donna si fermò a una vecchia Chevrolet. Lui si mosse a zigzag fra le auto. Se quella aveva le chiavi in mano, pensò, lo avrebbe battuto sul tempo. Strinse la mano sull'affilacoltelli. Lei cominciò a frugare in borsetta, sempre a testa bassa. Come una talpa che scavava, pensò Druze. Ormai vicinissimo, notò la sua blusa di raso, si guardò attorno. Nessuno. Brandì l'arnese, sferrò il colpo mentre lei piegava la testa. La donna cadde, rimbalzò sull'auto cone aveva fatto il professore, ma fece rumore, una specie di sonoro gracchiare del corvo, quando l'aria le uscì dai polmoni. Druze guardò in giro; tutto a posto, pensò. Il ragazzino al bidone dei rifiuti pareva distratto. Druze si abbassò, pescò le chiavi nella borsetta di lei, aprì la portiera e scaraventò dentro il corpo. L'auto aveva sedili ribaltabili e, in mezzo, i comandi del cambio automatico; lei era rimasta in posizione strana, mezza riversa sulla spalliera dei sedili. Druze si raddrizzò, controllò l'area di parcheggio, poi si infilò dentro, le toccò il collo. Il cuore non batteva più. Sistemata. Usò il cacciavite per gli occhi. Quella notte Bekker era Beauty, una piccola dose di anfetamina, un assaggio di «acido». La sua mente lavorava, compiacente, effervescente, un intelletto alla quinta potenza, che sviscerava i problemi in un baleno, così sembrava... ma erano passate ore. Tornato a casa di giorno, si accorse che era già notte. Quanto tempo? Ricadde nell'oblio. Cheryl Clark gli aveva telefonato in ufficio. Desiderava riallacciare, pensò lui. Ora che sua moglie era morta. Cercava di ingraziarselo. Aveva notizie: un poliziotto era stato più volte a casa sua. Voleva sapere della vita amorosa, delle abitudini personali di lui. Così aveva pensato di avvertirlo, gli aveva detto. Forse l'avrebbe rivista. Quella relazione lo aveva annoiato dopo poco, però c'erano state delle notti... La sua mente era come fuoco liquido, il sapore dell'ecstasy in bocca, sotto la lingua. Che fare? Prenderne ancora? Veramente doveva moderarsi. Quando riprese contatto con la realtà, e fu una ripresa lunga, aveva scoperto come risolvere il problema della sorveglianza. Semplice. Non aveva un amico nella polizia? La squadra di sorveglianza seguì Bekker appena lo vide uscire in auto; lui si diresse verso Hennepin Avenue, percorse quella via fino all'intersta-
tale. Giunto alla biblioteca, si fermò e andò dentro. Fu seguito all'interno. Lui guardò uno dei testi di consultazione, poi una guida di St. Paul. Annotò le pagine: se avesse avuto il tempo di scorrere i nomi avrebbe trovato Lucas Davenport a circa metà della seconda colonna. Attraversare il Mississippi e poi a sud. Un bel quartiere. Accidenti agli indirizzi di St. Paul, i numeri civici non erano distinti strada per strada. Cominciavano da uno e andavano avanti finché vi erano case. La casa di Davenport non lo colpì particolarmente. Era a un piano, in pietra con rifiniture bianche e un grande cortile anteriore. Una bella casa, ma non eccezionale. Stephanie non ci avrebbe sprecato una seconda occhiata. Le finestre erano illuminate. Suonò il campanello, e Davenport fu svelto a rispondere. «Agente Davenport», disse Bekker, lieto di vedere Lucas. Teneva le mani nelle tasche della giacca di cuoio. «Lei mi ha detto che avrebbe provveduto perché non fossi disturbato. Mi dica, perché mi seguono a ogni passo?» Perplesso, Davenport uscì sulla veranda. La sua faccia era come pietrificata, e Bekker si tirò indietro. «Che cosa?» «Perché mi pedinano? So che loro sono là», disse Bekker, gesticolando verso la strada. «Non è paranoia. Ho visto i vostri agenti che mi sorvegliavano. Giovani vestiti da studenti con scarpe da poliziotto.» La faccia di Davenport s'irrigidì in una smorfia. Avvicinatosi, prese Bekker per i risvolti della giacca. Lo sollevò e lui rimase sulle punte dei piedi. «Mi metta giù», disse il patologo. Era forte, ma troppo vicino a Davenport e con le braccia piegate. Tentò di respingerlo, e il poliziotto, evidentemente in un accesso d'ira, cominciò a strapazzarlo. «Non deve venire mai a casa mia», inveì con gli occhi fuori dalle orbite. «Ha capito, idiota? L'ultimo che ci ha provato l'ho ucciso. Se ritorna, fa la stessa fine.» «Mi scusi», balbettò Bekker. Davenport non era più il freddo poliziotto che aveva ispezionato la camera di Stephanie. Ora aveva lo sguardo stralunato, la testa spinta in avanti, il collo teso, le mani d'acciaio. Lucas se ne liberò con una spinta. «Vada. Si tolga dai piedi.» Bekker barcollò. Quando fu sul marciapiede, a quattro metri dalla veranda, disse: «Desideravo soltanto che mi fosse tolta la sorveglianza, non essere malmenato». «Chiami il capo», rispose Lucas. La sua voce era fredda, brutale. «Ma
stia alla larga dalla mia casa.» Davenport si ritirò e chiuse la porta. Bekker rimase un momento a guardare la casa, incredulo. Davenport era stato cordiale, aveva compreso certe cose. In auto gli esplose la rabbia. Trattato come un contadino russo. Allontanato a calci. Buttato fuori. Picchiò le mani sul volante. Immaginò di sferrare colpi, fracassare il naso di Davenport, fargli sanguinare la faccia, dargli calci alle spalle. «Fottuto, trattarmi così, fottuto, trattarmi così... non puoi, pensaci bene... Fottuto, trattarmi così.» All'ora in cui Bekker si allontanava dalla casa di Davenport, seguito dagli agenti, un ragazzino andò all'auto di Kelsey Romm e guardò dentro. La donna stava scopando con qualcuno? Come mai... Il ragazzo era stato appoggiato al bidone in attesa che succedesse qualcosa, che qualcuno si facesse notare, e poi vide succedere qualcosa. Che cosa non sapeva. C'era quel tizio... Lui aveva avuto in regalo una videocassetta per il suo compleanno: il film Darkman, il suo preferito. E quel tizio somigliava a Darkman, senza bende, ma con lo stesso cappello... E successe qualcosa. Lo vide entrare e uscire da quell'auto, andare a prenderne un'altra e partire. Non pensò a memorizzare il numero della targa. E non era il tipo di ragazzo che riconosce subito le marche delle auto. Dopo la scuola, bighellonava e guardava Darkman. L'auto con la donna non si mosse. Quando l'altra si fu allontanata, il ragazzo ci pensò su e poi piano piano andò verso le file di auto. Che cos'era quella donna? Una prostituta che faceva una sveltina sul sedile posteriore? La curiosità lo vinse. Si avvicinò e diede un'occhiata. «Oh, mio Dio.» Il ragazzo corse al centro commerciale, mulinando le braccia. A metà strada si mise a urlare: «Aiuto!» Lucas, schiumando ancora di collera a causa di Bekker, lavorava alla Caccia del druido quando fu chiamato dal comandante del servizio di vigilanza. 23
Quando Lucas uscì da casa, Minneapolis era sotto il temporale, con pioggia e vento che scuotevano le chiome degli olmi. Si diresse a nord, sull'autostrada 280, lasciando a ovest le luci di St. Paul appena visibili. Per strada incappò nel temporale, da poche gocce sul parabrezza a un torrente, un diluvio, con la grandine che martellava il tetto dell'auto, che rimbalzava sull'asfalto illuminato dai fari. Piegò a est sulla I-694 e la pioggia diminuì fino a cessare del tutto. Dall'autostrada non vide il centro commerciale, nascosto da altri edifici, ma notò il lampeggiare delle luci rosse di emergenza riflesso su una finestra. L'uscita di White Bear Avenue era bloccata. Lui spostò la Porsche al bordo della strada e proseguì lentamente. Un agente della Stradale gli corse incontro e Lucas sventolò la sua tessera dal finestrino. «Davenport», disse l'agente, abbassandosi al finestrino. «Venga dietro a me e le aprirò un varco.» L'agente si mosse lungo il bordo, guidandolo a un posto di blocco. La strada era invasa da persone che, in grande confusione, volevano uscire dal centro commerciale, allontanarsi dalla scena del delitto, e in più c'era il traffico normale di entrata e uscita dalla interstatale. Impossibilitati a controllare quella marea, gli agenti cercavano di far sfollare più gente possibile. Al posto di blocco l'agente che guidava Lucas disse qualcosa agli altri e il traffico fu fermato, un'auto spostata, onde consentire a Lucas di proseguire ed entrare nel parcheggio. Mezzi della televisione e auto di giornalisti erano allineati lungo il perimetro del parcheggio, a cento metri dalla scassata Chevrolet marrone. Le quattro porte erano spalancate e luci di emergenza la illuminavano come se fosse esposta in un autosalone. Lucas lasciò la Porsche in un gruppo di camionette della polizia e avanzò a piedi. «Davenport, da questa parte.» Un poliziotto in giubbotto blu, che parlava con un collega in maglione, lo chiamò. «John Barber, di Maplewood», l'agente si presentò. Aveva occhi celesti e mascelle affilate. «Questo è Howie Berkson... Howie, va' a dire a quel branco di televisivi che ci vorranno altri venti minuti, okay?» Mentre Berkson si allontanava, Barber disse: «Andiamo». «Dubbi se sia o no lo stesso uomo?» chiese Lucas. Barber si strinse nelle spalle. «Credo che sia lo stesso. Uno dei vostri è qua attorno. Shearson? Dice che la tecnica è identica. Aspetti di vedere il viso.»
Lucas andò e vide, si ritirò e i due fecero un giro attorno all'auto. «Sembrerebbe lui», disse aspramente. «Un imitatore non potrebbe metterci lo stesso entusiasmo.» «È quel che ha detto Shearson.» «A proposito, dov'è?» Barber sogghignò. «Ha detto che noi avevamo la situazione sotto controllo e pare che sia andato al centro commerciale a comprarsi delle camicie.» «Testone», disse Lucas. «È anche la nostra sensazione. Senta, abbiamo trovato un ragazzo che ha visto l'uomo.» «Cosa?» Lucas si fermò di botto. «Lo ha visto?» «Non ci speri troppo», disse Barber. «Era distante un centinaio di metri e non prestava troppa attenzione. Ha visto anche l'auto del tizio, ma non sa dire né marca, né modello, né colore. Dice che il killer somigliava al personaggio di un film tratto dai fumetti.» «Allora come sa che lui lo ha visto?» «Perché ha notato la donna camminare verso la sua auto. Non stava molto attento, bighellonava, ma un minuto dopo ha visto un uomo vicino all'auto di lei, e pareva che l'aiutasse a sedersi. Un paio di minuti dopo, ma non è sicuro sul tempo, ha visto il tizio allontanarsi con la propria auto. E la donna non usciva mai dal parcheggio. Lui ha pensato allora che fosse una prostituta che facesse delle sveltine in auto, oppure una spacciatrice. La sua testa ragiona in questo modo. Incuriosito, si è mosso per andare a sbirciare.» «Perciò ha visto sicuramente l'assassino.» «Pare di sì», disse Barber. «Mi faccia parlare con il ragazzo.» Era un adolescente magro, trasandato, con ginocchiere da skateboard, guanti senza dita, capelli biondi, sporchi e lunghi, viso con accenno di acne. Portava un berretto con una grande visiera piegata in giù di lato, sull'orecchio. Sua madre vigilava, gettando severe occhiate ora al figlio ora ai poliziotti. «Hai un minuto?» Lucas chiese al ragazzo. «Credo di sì, tanto non mi lasciano andare da nessuna parte», rispose l'altro. Si scostò i capelli dagli occhi, lo stesso gesto che faceva Cassie, vuoi per difesa, vuoi per necessità.
«Vorremmo andare a casa a una certa ora», disse la madre, giudicando Lucas più alto in grado. «Non siamo...» «Questo è piuttosto importante», rispose Lucas pacatamente. Poi, al ragazzo: «Perché non facciamo un giretto attorno al centro commerciale?» «Posso venire?» chiese la madre. «Certamente», disse Lucas con qualche riluttanza. «Ma lasci che sia lui a raccontare i fatti, okay? Qualsiasi aiuto gli dà... non è un aiuto.» «D'accordo.» «Dunque, che sensazione dava quel tizio?» domandò Lucas, mentre camminavano. Il ragazzo corrugò la fronte. «Sensazione?» «Quali vibrazioni emanava? L'agente di Maplewood, Barber, dice che non hai potuto vederlo bene, ma devi aver ricevuto delle vibrazioni. Barber dice che lo hai paragonato a un personaggio dei fumetti.» «Non dei fumetti, di un film tratto dai fumetti», precisò il ragazzo. «Lei ha visto Darkman?» «No.» «Dovrebbe vederlo. È un grande film.» «Il suo preferito», chiocciò la madre. «Questi ragazzi...» Lucas le fece segno di stare zitta. «Sa, c'è questo Darkman che si ritrova la faccia rovinata... tutta ferita dai teppisti», disse il ragazzo, sbirciando la madre. «Cerca di ricomporla con la pelle che...» «Ehi, ehi», disse Lucas. «Aveva qualcosa di strano la sua faccia? Intendo il tizio nel parcheggio.» «Non l'ho vista bene per via del cappello. Però lui si muoveva come Darkman... Dovrebbe vedere il film», disse il ragazzo con molta serietà. «Darkman si muove come... non so spiegarmi. Dovrebbe vederlo. Quel tizio si muoveva allo stesso modo. Non potrei descrivere la sua faccia, ma lui si muoveva come se non volesse farla vedere. La teneva sempre girata.» «Lo hai visto aggredire la donna?» «No. Ho visto lei mentre camminava, poi ho guardato altrove, e dopo ho visto l'uomo. Lui è salito in auto, è ridisceso, e si è mosso come Darkman. Pareva che andasse avanti scivolando. Con quel cappello.» «Scivolando?» «Sì. Normalmente la gente cammina. Quello pareva che scivolasse. Come Darkman. Deve vedere il film.» «Va bene. Nient'altro? L'hai visto parlare con qualcuno, ha ballonzolato,
ha fatto...?» «No, o almeno non ho visto. Solo come camminava... Ah, sì, giocava con le chiavi.» «Come?» «Un gioco di abilità... così.» Il ragazzo mimò l'uomo, lanciando in aria le chiavi, fece un rapido passo doppio, le riprese con l'altra mano. «Gesù», esclamò Lucas. «Una sola volta?» «No, lo ha fatto due, tre volte.» Si erano fermati davanti a una vetrina di coltellerie dove un modello di coltello dell'esercito svizzero lungo mezzo metro si piegava e si allungava meccanicamente. «Che cosa fai, ragazzo? Vai ancora a scuola?» gli chiese Lucas. «Sì.» «Hai buon occhio. Potresti fare il poliziotto da adulto.» Il ragazzo guardò altrove. «No, non potrei», disse. Sua madre lo pizzicò, ma lui andò avanti. «I poliziotti rompono le scatole alla gente. Io non potrei farlo come lavoro.» Lucas lasciò il ragazzo e la sua ansiosa madre con un agente di Maplewood e usò un telefono pubblico per chiamare Cassie. Doveva essere libera, ma lui non ebbe risposta né a casa né al teatro. «Maledizione!» Aveva necessità di lei. Uscito dalla cabina, trovò Shearson e Barber fermi all'entrata del centro commerciale. Shearson aveva un sacchetto sotto il braccio. Stava piovendo e i riflettori attorno all'auto della morte erano stati spenti. «Hai trovato quel che cercavi?» Lucas chiese a Shearson, battendo un dito sul sacchetto. «Ehi, io sono qui fuori servizio», replicò Shearson. Indossava un soprabito scuro di cachemire sopra un abito grigio perla, camicia bianca con cravatta azzurra a piccoli disegni di corone, e mocassini neri. Il suo fiato sapeva di caramella. «Ha parlato con il ragazzo?» domandò Barber. «Sì. Vorrei che ci fosse uno stenografo domani a casa sua per prendere la testimonianza», disse Lucas. «Il ragazzo mi ha detto che il tizio giocherellava con le chiavi e faceva un piccolo passo di danza quando le riprendeva. Vorrei che questo particolare fosse ben trascritto.» «Ci dica per telefono quali domande...» disse Barber. «Hai ottenuto qualcosa?» domandò Shearson con aria stupita.
«Non lo so», rispose Lucas. Di Shearson si fidava poco. «Cosa mi dici dello strizzacervelli di cui ti occupi?» «È l'amante, sì», disse Shearson. «Nasconde qualcosa. Ci sono tanti punti in sospeso da approfondire. Penso che dovremmo aspettare un paio di giorni. Potrebbe saltare fuori qualcosa di nuovo. Ma Daniel vuole che gli stia alle costole senza dargli tregua.» «Okay... Vado a dare un'ultima occhiata all'auto», disse Lucas. Barber lo accompagnò, e i due affrontarono la pioggia a lunghi passi e spalle ricurve. «Il suo amico ha un guardaroba di lusso», disse Barber, un po' ironico. «Ma un tronco d'albero sarebbe più intelligente di lui», commentò Lucas. Stavano rimuovendo il corpo, avvolto in teli. Un altro agente di Maplewood si fece avanti e disse: «Non c'è niente in auto che assomigli a un'arma. Solo carta, involucri di dolciumi, di caramelle, di cioccolatini. Quella donna viveva nella sporcizia». «Va bene», disse Lucas. E a Barber: «Può tenermi informato sugli sviluppi?» «Le manderò via fax tutto quello che avremo domani mattina, come prima cosa. Non ci teniamo che questo buffone uccida gente nella nostra zona.» Lucas non si era aspettato di trovare molto sulla scena del delitto. Se l'assassino non aveva alcun rapporto con la vittima, quindi nessun movente plausibile, nessun metodo razionale di azione, non rimaneva che trovare dei testimoni o prove fisiche rintracciabili. Potendo scegliere tempo e luogo, un serial killer avrebbe scelto una situazione tale da ridurre il rischio al minimo. Per non parlare della prova — sperma in casi collegati con il sesso, o sangue, o campioni di pelle — che non serviva se non dopo che il killer era catturato. Ecco un delitto quasi perfetto. Quasi. Il temporale si stava esaurendo mentre Lucas procedeva verso ovest. C'era un'altra cellula temporalesca lontana, a sud, che si dirigeva verso la zona dell'aeroporto internazionale, quindi fuori della parte meridionale dello Stato. Quando arrivò a casa di Cassie piovigginava appena. Suonò il campanello, ma non ottenne risposta. S'incamminò in direzione del teatro, ma lo trovò tutto buio.
Accidenti. Aveva bisogno di lei. E la trovò. Seduta sui gradini della veranda a casa sua, con una sacca da ginnastica in mezzo alle gambe. «Da quanto sei qui?» le chiese dall'auto, mentre lei si alzava e gli andava incontro sul vialetto interno. «Come sei arrivata?» «Da venti minuti... con il pullman. Avrei forzato la porta, ma la donna della casa accanto mi sorvegliava dalla finestra», disse Cassie sorridendo. Mosse il capo a indicare la finestra illuminata. Una signora anzianotta spinse fuori la testa e Lucas la salutò con la mano. Lei ricambiò e scomparve. «Vigila un po' sulla mia casa», spiegò Lucas. «Comunque ti ci vorrebbe un maglio per aprire la mia porta... Vado a mettere dentro la macchina.» Cassie aspettò, seguendo l'auto che lui lasciò nel box accanto alla vecchia Ford. «Tuta sportiva e scarpe», disse lei, sollevando la sacca, mentre Lucas abbassava la serranda. «Ho pensato che potremmo correre lungo il fiume.» «Sotto la pioggia?» «Dovrebbe smettere», disse lei. «Okay.» La prese per il gomito e la baciò sulla bocca. «Hai sentito la notizia?» «Che notizia?» chiese lei, confusa dal tono grave di Lucas. «Abbiamo avuto un altro delitto. A Maplewood.» «Oh, no», disse lei, premendosi le dita sulla bocca. «È una persona di teatro?» Lucas scosse il capo. «No, per quanto ne sappiamo. È una donna che lavorava nel centro commerciale. Stanno controllando, ma non pare il tipo che bazzica nei teatri. Tanto meno un'attrice.» «Mio Dio... l'avrebbe scelta a caso?» «Ho da chiederti una cosa... più tardi», rispose Lucas. «Perché tanto mistero?» «Non posso dirtelo. Ho bisogno che tu abbia il cervello fresco. Corriamo.» Cassie stabilì l'andatura lungo il fiume, ma a un certo punto Lucas, con il fiatone, la costrinse a rallentare. «Più piano!» disse. «Ricordati che io sono vecchio.» «Sei anni più di me», rimarcò lei. «Alla tua età dovresti poter fare una maratona di cinque o sei chilometri per essere in discreta forma.» «Balle», brontolò lui. «Se riesci a fare una maratona fino a dieci chilo-
metri, sei in gran forma, come essere umano normale.» «Vedi, non stai male», disse lei. «Puoi ancora parlare.» Ma rallentarono, si fermarono a un belvedere panoramico, lì camminarono in circolo per un minuto e ripresero la corsa, questa volta allontanandosi dal fiume. «Devo fermarmi a un negozio di videocassette», disse Lucas. «Mi occorre vedere un film.» «Un film?» «Un ragazzo al centro commerciale ha visto l'assassino. Ha detto che somigliava a Darkman, quello del film. Tu l'hai visto?» «No. Ne ho sentito parlare. Pare che sia violento.» «È questione di pochi minuti.» Quando tornarono a casa, Lucas si appoggiò, ansante, alla serranda del box, dondolando il sacchetto di plastica con la videocassetta. «Dovrei farlo più spesso», disse. «Quanto credi che abbiamo percorso?» «Cinque chilometri, più o meno. Quanto basta per sudare appena.» «Mi dispiace dirtelo, ma io ho cominciato a sudare dopo duecento metri», replicò lui. «Ci vuole una doccia», disse lei a bassa voce. Era accanto a lui e infilò una mano sotto la sua maglia, facendo scorrere le unghie dal petto all'ombelico. Lucas ebbe un fremito e si accostò a lei. «Abbiamo del lavoro serio qui», le disse, battendo il sacchetto sulle sue natiche. «Ehi, che differenza fa se lo guardiamo adesso o fra un'ora?» Lui parve meditare, strofinandosi il mento. «Humm. Un argomento che ha una certa forza persuasiva.» «Allora andiamo a farci una doccia.» Ancora umido dopo la seconda doccia, Lucas s'infilò jeans e maglietta, andò a inserire la cassetta nel videoregistratore e accese il televisore. «Che cosa stiamo cercando?» chiese lei. «Voglio vedere se questo Darkman ci fa venire in mente qualcuno. Non studiarlo... lascia che filtri in te.» Il film scorse, Cassie era seduta sul pavimento vicino allo schermo. «Capisco perché il ragazzo lo ha chiamato 'un film tratto dai fumetti'», disse lei poco dopo quando Darkman fu scaraventato fuori dalla finestra del suo laboratorio a causa di una enorme esplosione. «Sono tutte fesserie.» «Ti fa venire in mente nessuno?» «Non ancora.» Lei si alzò. «Quel gelato alla pesca è ancora in frigo?» «Sì.»
Lei si sedette con il gelato, sorbendo cucchiaiate e guardando lo schermo. Durante una scena in cui Darkman faceva una danza macabra, con un imbuto sulla testa, Cassie corrugò la fronte e scosse la testa. «Che cosa c'è?» «Fallo ripassare.» Lui fermò il nastro e fece ripetere la scena della danza. «Non dirmelo ancora.» «Okay. Andiamo avanti.» Lui la osservò mentre il film scorreva e la vide sempre più interessata. Alla fine lei disse: «Robetta. Ma alcune parti erano forti». «Che cosa ci hai visto?» Lei lo fissò per un momento e poi disse: «Sai, in sostanza io sono la meno indicata». «Sì, sì.» «Io e quelli che frequento.» «Uh, uh.» «E francamente mi ripugna l'idea che la polizia si insinui e controlli noi del teatro, e tutto quanto.» «Ma dai...» Lei guardò lo schermo spento, si accigliò e disse: «Darkman mi ricorda uno della compagnia. Intendiamoci, è completamente diverso. La sua struttura fisica è diversa, la sua faccia diversa, però, in un certo senso ha un che di Darkman. E talvolta si muove come Darkman». «Okay. Sta' lì.» Lucas andò svelto nella camera degli ospiti e prese la fotocopia di Le Cyclope di Redon, lasciata sul letto. «Chiudi gli occhi», le disse, tornando. «Ti metterò davanti un foglio. Devi guardarlo per un secondo, non di più, poi richiudi gli occhi. È per provare un'impressione momentanea. Aprì gli occhi quando te lo dico.» «Okay.» Aperti gli occhi, Cassie non li richiuse, e quando fu passato più di un secondo, lui nascose il foglio dietro la schiena. «Gesù», disse lei. «Mi sento un Giuda.» «Chi è?» «Potrebbe essere Carlo Druze. L'hai visto il primo giorno che sei venuto al teatro. Era quello che faceva le prove sul palcoscenico.» «Ah, lo sapevo», esclamò Lucas. L'emozione gli diede fremiti lungo la spina dorsale. «È quel dannato giocoliere, esatto? Quello che non si vede
mai senza trucco. Sapevo di averlo visto!» «Mi sento come...» «Fregatene», urlò lui. «Hai visto la tua amica Elizabeth. Vuoi vedere la donna di Maplewood? Si suppone che lui abbia usato un cacciavite per...» «No, no.» «Ci sono delle buone foto di lui al teatro? Materiale pubblicitario, o altro?» Cassie annuì, ma titubante. «È pieno di cicatrici. Non gli piace farsi fotografare. Certe volte usa il fondotinta per coprirle... ma si sente più a suo agio con il trucco di scena. E di solito lo si vede così nelle foto pubblicitarie. Non so se ve ne siano che lo ritraggono al naturale.» «È possibile entrare?» Lei esitò. «Potrei farti entrare, ma l'ufficio è chiuso. E poi, lasciarti rovistare... non so.» «Dai, Cassie», disse Lucas, con meno asprezza. Allungò una mano per toccarla. «Mi basta una foto dell'uomo.» «Va bene», disse lei. Poi, seguendolo in camera, aggiunse: «Mi sento una merda a dirlo, ma continuo a pensare ad altre cose... Carlo detestava Elizabeth, e il sentimento era reciproco». Mentre s'infilava la camicia, Lucas chiese: «Lei aveva intenzione di licenziarlo?» Cassie si strinse nelle spalle. «Mah. La sensazione era che a lei non piacesse per il suo aspetto. Come attore, non è male.» Lucas si fermò e la guardò. «Druze potrebbe farlo? Sarebbe tipo da uccidere?» Lei rabbrividì. «Di tutte le persone che conosco... sì, lui è quello che ci riuscirebbe meglio. Ma non lo farebbe con passione. Non capisco gli occhi. Se voleva uccidere, poteva farlo e basta.» «Huh. Interessante», disse Lucas. Indossò una giacca sportiva, poi frugò nell'ultimo cassetto della scrivania, trovò un portafogli di pelle e se lo mise in tasca. «Andiamo.» Mentre attraversavano la città, Lucas disse: «Quando l'ho visto la prima volta in teatro, ti ho domandato dov'era quando la Armistead è stata uccisa. Mi hai detto che era stato lì tutto il pomeriggio». «Sì...» Lei corrugò la fronte. «Era lì in giro. Ma sai, vanno e vengono continuamente. Fanno un salto al locale di fronte, a prendersi un panino, una bibita. Nessuno ci fa caso. E dal teatro a casa di Elizabeth ci si va in
dieci minuti.» «Ma la tua impressione è che lui fosse in teatro.» «Sì. Non lo ricordo perfettamente, però... Un agente lo ha interrogato il giorno dopo, forse lui lo sa.» «Ma se Druze ha ucciso la Armistead, come si concilia con la falsa telefonata?» chiese Lucas. «Noi abbiamo ipotizzato che il killer avesse chiamato per accertarsi se la donna era lì.» «Può darsi... dico una sciocchezza, ma qualcuno non poteva volere veramente un biglietto gratis?» «Ecco il guaio di un'indagine, si cerca sempre di trovare la ragione di ogni cosa», ammise Lucas. «Comunque era una telefonata strana. Io penso... non so.» Si fermarono davanti a un rock bar e guardarono il teatro di fronte, completamente al buio. «Non mi piace», disse Cassie con nervosismo, sbirciando la strada. «Qui c'è molto viavai di gente. Se qualcuno lo scoprisse, perderei il lavoro. Puoi giurarci.» «Ne dubito», rispose Lucas sorridendo. A lei quel sorriso non piacque. Conteneva una vena di crudeltà. «La cosa si può sistemare.» «Come?» Lui allungò lo sguardo al teatro. «Ti sorprenderesti di quante violazioni edili, urbanistiche, igieniche si possano trovare in un edificio teatrale. Dubito che un vecchio teatro sopravviverebbe se uno volesse metterli tutti nei guai.» «Ricatto», disse lei. «Applicazione della legge.» «Sicuro», disse lei con disgusto. «Temo che non lo sopporterei.» Cassie scese dall'auto e attraversò la strada. Aprì la porta con la sua chiave e chiamò: «Ehi, c'è nessuno?» Silenzio. A lui che l'aveva raggiunta sussurrò: «Da questa parte». Attraversarono il ridotto sfruttando la luce della strada e imboccarono un corridoio. Cassie toccò la parete sinistra e trovò l'interruttore della luce. Giunti a una porta di legno rossa lei girò il pomo. Era chiusa a chiave. «Maledizione. Speravo che fosse aperta», disse. «Fa' vedere», disse Lucas. Cavò dalla tasca una minuscola pila, si inginocchiò davanti alla serratura, mandò la luce sulla fessura fra battente e stipite, girò il pomo più che poté e poi lo girò in senso contrario. «Puoi aprirla?» «Sì.» Prese il portafogli composto di tre parti, lo aprì e lo stese sul pavi-
mento, scegliendo una sottile lama di metallo. «Che cosa fai?» «Magia», rispose lui. Inserì la lama nella fessura e la ruotò verso il basso. La serratura scattò. «Voilà!» L'ufficio era piccolo, in disordine, con pareti verdoline, scrivania metallica, telefono, quattro sedie, un tabellone e classificatori. Nell'aria gravava un vago odore di muffa e di fumo di sigaretta. Mentre Lucas riponeva i suoi arnesi da scasso, lei andò a uno dei classificatori e aprì un cassetto. Centinaia di foto, venti per venticinque centimetri, erano stipate in cartelle. Ne tirò fuori due rigonfie e le mise sulla scrivania. «Deve essere in queste», disse. Cominciò a guardarle, battendo la foto ogni qualvolta vi trovava la faccia di Druze. «Qui... qui... ancora qui.» «È bravo a evitare la macchina fotografica», disse Lucas. Ne prese diverse e le portò sotto la luce. In tutte Druze era con il trucco di scena. Altrimenti la sua faccia era oscurata da un cappello, oppure nascosta da un gesto della sua mano. «Ecco, questa è la migliore finora», disse Cassie, porgendogli una foto. Gnomo, pensò Lucas. Druze aveva la testa rotonda, troppo grande rispetto al corpo. E sebbene truccato, si notavano evidenti anomalie del tessuto cutaneo, come se la pelle fosse rappezzata. Il naso era troppo corto, rovinato. «È la migliore», disse Cassie, dopo che le ebbe passate tutte. «Ma, ah...» Guardò un altro classificatore. «Se potessimo aprire quello, ci sono le cartelle personali. Forse lì c'è una foto al naturale... Ma lo tengono sempre chiuso a chiave.» «Guardiamo», disse Lucas. Esaminò la serratura, prese uno strumento appuntito dal portafogli e aprì il classificatore in meno di un secondo. «Che rapidità!» disse Cassie, meravigliata. «Per i classificatori si ottiene di più con un passe-partout che con un punteruolo», disse Lucas. «Dove prendi questi arnesi?» «Conosco un tale», rispose Lucas. Aprì il primo cassetto e trovò la cartella intestata a Druze. Dentro c'era una serie di foto-tessera, la sola testa, senza trucco. Due erano state tagliate dalla striscia di pose. «Foto per passaporto. E somiglia proprio al ciclope», disse Lucas. Andò alla scrivania, trovò un paio di forbici nel primo cassetto, ritagliò una foto e la mostrò a Cassie. Lei vi buttò un'occhiata e poi si occupò del contenuto di una cartella che
aveva in mano. «Che cos'è?» Lei guardava un foglio, e sorrideva tristemente. «E la mia cartella. C'è una nota di Elizabeth. Dice che occorre valutare il mio lavoro nel caso la situazione finanziaria peggiori.» «Che cosa significa?» «Che mi avrebbe sbattuta fuori», disse Cassie. Una lacrima le cadde sulla guancia. «Fottuta gente di teatro.» Lucas usò il punteruolo per richiudere il classificatore. La serratura della porta aveva il dispositivo per far scattare la chiusura dall'interno; quindi, uscendo, bastò che Lucas spegnesse le luci e tirasse a sé il battente. Cassie aveva preso la nota della Armistead e quando furono di nuovo in auto, la rilesse. «Non posso crederci», disse. «Non posso credere che mi avrebbe fatto questo.» «Be', lei non c'è più, le cose sono cambiate», disse Lucas. «Ti ho vista recitare e sei brava.» «Ma la credevo mia amica», insistette Cassie, appallottolando il foglio. «C'era confidenza fra noi. Parlavamo di quello che volevamo fare.» «Gli amici risultano spesso diversi da come pensi che siano. La maggior parte di loro sono per metà costruiti. Sono quello che tu vorresti che fossero.» «Ti disturba se sto qui a piangere per un paio di minuti?» «Ma via», disse Lucas, «mi fai sentire un verme.» Le passò un braccio sulle spalle e la baciò in fronte. Lei afferrò i risvolti della sua giacca e nascose il viso sulla spalla di lui. «Su, su, Cassie.» Le carezzò i capelli e lei pianse. 24 Daniel, spostando lo sguardo dalla foto a Lucas, era sbalordito. «Lo abbiamo identificato? È questo?» «È possibile», disse Lucas. «Corrisponde a ciò che sappiamo dell'assassino. L'aspetto è quello, il modo di fare è quello, e la mia amica dice che lui è un asociale. Aveva un movente per uccidere la Armistead. E Bekker mi ha dato quei biglietti che facevano pensare a un qualche rapporto tra sua moglie e il teatro.» «Due dei nostri si sono impegnati a fondo su questo particolare, ma pare che nessuno l'abbia mai vista là, o comunque si ricordi di lei», disse Da-
niel. Guardò ancora la foto. «Ma questo tizio somiglia al ciclope.» «E abbiamo quelle ricevute dell'American Express.» «Sì, sì.» Daniel si grattò la testa, continuando a guardare la foto di Druze. «Dovremmo metterlo sotto sorveglianza.» «Sì, senz'altro. Dato che lo abbiamo fatto per Bekker...» «Il problema è: se Druze ha visto quel telegiornale, potrebbe aver pensato che sorvegliassimo lui.» Un tenue sorriso spuntò sul volto rubicondo di Daniel. «Quindi negli ultimi due giorni si è mosso furtivamente, rasente i muri, vedendo spie dappertutto.» «Stavo pensando...» «Sì?» «Potresti accusare Canale Otto di pregiudicare le indagini, dicendo che, a causa della loro notizia sul sospettato, la polizia ha dovuto togliere la sorveglianza. Quella persona ha protestato con un funzionario del reparto... che sarei io.» «Hmm. Questo servirebbe anche di lezione alle televisioni», disse Daniel. Gli tornò il sorriso. «Incaricherò Lester; ne sarà felice.» «E se c'è un contraccolpo politico, puoi sempre dare la colpa a lui», sogghignò Lucas «Ho detto questo?» chiese Daniel con aria innocente, la mano sul cuore. «Riguardo a Druze... forse potremmo fare un filmato su di lui, riprenderlo da lontano, e mostrarlo al ragazzo di Maplewood.» «Sì, buona idea», confermò Lucas. «Dovremmo farlo oggi», disse Daniel. Aggirò la scrivania, gli occhi fissi sulla foto come se fosse un talismano. «Continuo a pensare che Bekker ci sia dentro in qualche modo», disse Lucas. «Se Druze e Bekker si parlano, forse possiamo avere delle registrazioni telefoniche.» Daniel annuì. «Possiamo fare anche questo. D'accordo. Prepara una lista per Anderson, digli quel che deve fare», ordinò Daniel. «Ora, come pensi di far arrivare questa foto all'amante di Stephanie Bekker?» Lucas si strinse nelle spalle. «Non ci ho pensato.» «Prova questo», disse Daniel. Si sedette alla scrivania, aprì la scatola dei sigari, la guardò e la richiuse. «Ci stavo già pensando. Canale Due termina le trasmissioni poco dopo la mezzanotte. Noi gli chiediamo di riaprirle, diciamo, alle tre, e mostrare la foto. Per un minuto. Nessuno la vedrebbe,
tranne le persone che in quel momento si divertissero a passare da un canale a un altro. E l'amante sarebbe al sicuro. Potrebbe vederla su qualsiasi televisore dell'area metropolitana, via cavo o no. E se avesse un videoregistratore, potrebbe registrarla.» «Splendido. Hai qualche aggancio alla Due?» chiese Lucas. Quella rete faceva programmi educativi. «Sì. Non prevedo difficoltà.» Lucas annuì. «Mi sembra perfetto. Farò pubblicare un annuncio sullo Star Tribune di domani mattina. Quando lui mi chiamerà, cercherò di convincerlo a venire da noi. Se non vuole, gli dirò di guardare la TV.» «Intanto trattiamo Druze come se fosse l'assassino, e informiamo anche gli altri perché tutti sappiamo che cosa stiamo facendo.» Daniel si protese sulla scrivania e premette il pulsante dell'interfono. «Linda, mandami qui Sloan, Anderson e gli agenti di punta nel caso Bekker, tutti quelli che trovi. Fra mezz'ora.» «Non abbiamo niente su di lui, solo congetture», rimarcò Lucas. «Sorvegliamolo», ribadì Daniel deciso. «Voglio conoscere ogni passo che lui fa. Sento che è lui, Lucas. Ricevo forti vibrazioni.» «Sto pensando...» disse Lucas. Stava pensando di entrare di soppiatto nell'alloggio di Druze per una perquisizione informale, senza mandato. Daniel gli tolse la parola. «Non dirlo. Ma, certo, sarebbe utile sapere qualcosa.» Lucas annuì, si protese sulla scrivania, aprì la scatola e guardò dentro. Tre sigari. La richiuse. «Be'?» chiese Daniel. «Mi sono sempre chiesto che cosa tenevi lì dentro.» Il fascicolo su Druze conteneva scarne informazioni. Nessun precedente penale: Anderson aveva controllato il nome sui computer federali appena Daniel aveva aperto la riunione. Druze era stato interrogato dal detective Shawn Draper dopo l'omicidio Armistead, e il colloquio era stato riassunto in sei paragrafi concisi. L'interpellato aveva dichiarato di trovarsi in teatro al momento del delitto. Aveva citato diversi fatti che lo confermavano. Brevi controlli, interrogando altri attori, avevano dato esito positivo. Anderson, Lester, Sloan, Del, Draper, Shearson e altri tre o quattro detective erano nell'ufficio di Daniel per mettere a punto la sorveglianza, mentre Lucas era seduto in disparte a leggere il fascicolo. Draper, un uomo robusto e apatico, stava spaparanzato su una sedia pieghevole dietro ad
Anderson. «Lo hai interrogato tu, Shawn», disse Lucas, durante una pausa nella discussione. «Vedendolo di persona, hai pensato che somigliava al ciclope del dipinto? Vi era qualche...» Draper si grattò la testa. «No... non direi. Cioè, aveva una faccia rabberciata, ma non era... No.» «Il suo alibi per la Armistead era solido?» «Quando il capo ci ha chiamati, sono andato a rileggere le mie annotazioni. Per la serata era sicuramente lì, dalle sette o sette e mezzo. Prima, il suo alibi è impreciso.» «Si suppone che la donna sia stata uccisa... quando? Verso le sette?» chiese Lucas. «Più o meno», rispose Sloan. «Perciò potrebbe averla uccisa, essere tornato in teatro e avere fatto il possibile per farsi notare in giro.» Anderson intervenne nel dialogo. «Sì, ma lui non ha cercato di proteggersi per l'ora del delitto. Se l'avessi ammazzata io, mi sarei fatto notare 'prima' di andare da lei. Poi mi sarei sbrigato, tornando in fretta, magari con un sacchetto di ciambelline, e avrei cercato di farmi notare», disse. «Be', lui non l'ha fatto», disse brusco Draper. «Hai un alibi sicuro per dopo, non per prima.» «Hmm», fece Lucas. «Che cosa?» chiese Daniel. «Sto ancora rimuginando su quella telefonata...» Il direttore degli annunci di Star Tribune disse che se ne sarebbe occupato personalmente. «Non sono responsabile dei debiti di Lucilie K. Smith. Firmato, Lucas Smith.» Da pubblicare nella edizione del mattino. «È una faccenda delicata», disse Lucas. «Tenga la bocca chiusa, ma questo è l'annuncio più importante che lei avrà in un anno.» «Sarà sul giornale domani mattina.» Lucas chiamò Cassie dal portone. «Che cosa ci fai qui? Oddio, la mia casa è uno sfacelo.» Cassie azionò il pulsante per farlo entrare. Rossa in viso, lo accolse alla porta. «Carino», disse Lucas, entrando. L'appartamento era piccolo; un angolo di cottura era ritagliato nello spazio del soggiorno, da cui partiva un corridoio con tre porte, bagno, camera da letto e ripostiglio.
«È che ho ficcato gli indumenti sporchi nel ripostiglio, la lavapiatti è piena di roba usata per due giorni, e ho appena pulito lo sporco di un mese.» Rise, si sollevò sulla punta dei piedi e lo baciò, notando la borsa che lui portava. «Che cosa fai? Sembri un uomo d'affari. Stavo per andare al teatro.» «Ero all'università e ho pensato di fermarmi da te», disse. «Devi andartene subito?» Lei annuì e fece il broncio con occhi assonnati. «Quasi subito. Da quando ho letto la nota di Elizabeth, mi sono imposta di essere puntuale.» «Ah... bene.» «Potremmo fare una rapida doccia», propose lei. «No, se cominciamo con la doccia... E poi devo tornare al lavoro. Ci vediamo più tardi?» «Sicuro. Finiremo prima delle undici.» «Ti porterò in un posto di lusso.» «Che sfacciato lusingatore sei.» Lo prese per un orecchio e tirò la sua testa in basso per baciarlo ancora. «Ci vediamo.» Lucas rimase nell'edificio. Druze abitava tre piani sotto, e lui aveva preferito non armeggiare alla serratura del portone. Che Cassie abitasse lì non era pura fortuna; altri attori avevano trovato comodo sistemarsi in prossimità del teatro, pagando un modesto affitto. Lucas scese al piano e si fermò a qualche porta da quella di Druze. Si nascose nel pianerottolo, tirò fuori dalla borsa il telefonino e chiamò il capo della squadra di sorveglianza. All'ultimo controllo Druze era in teatro. «Dov'è?» «Ancora dentro.» L'altro non sapeva dove Lucas fosse. «Appena si muove...» «Va bene.» Dal teatro a lì c'era meno di un isolato. Se Druze doveva correre a casa a prendere qualcosa, Lucas voleva essere avvertito in tempo. Chiamò il Centro operativo e diede il numero di telefono di Druze. «Dammi un collegamento provvisorio... lascialo suonare il tempo necessario. Il tizio potrebbe essere fuori a falciare l'erba», disse. «Benissimo.» Oddio, pensò. In quel modo il Centro operativo diventava complice di un atto illegale. Si mise il telefonino sotto il braccio qualora la
telefonista del Centro lo chiamasse, e avanzò nel corridoio. Sedici porte in tutto, ugualmente distanziate a destra e a sinistra. Pareti a intonaco, guida consumata. Alla porta di Druze sentì suonare il telefono all'interno. Cinque volte, dieci. Nessuno. Provò ad aprire, ma la porta era chiusa a chiave. Prese un attrezzo simile a un trapano in miniatura. Dalla punta sporgeva un rebbio che Lucas introdusse nella serratura prima di metterlo in moto. Il rumore fu come quello di un cuscinetto a sfere gettato in un condotto per immondizie. Sembrò infinito, ma bastò un secondo o due per entrare. «Salve. C'è nessuno?» Il telefono all'interno suonava ancora. «Oilà?» L'alloggio era in ordine, solo perché non conteneva quasi niente. Su una piccola libreria incassata nel muro c'erano delle pile di copioni e alcuni libri di recitazione, un registratore e delle cassette. Il divano stava davanti alla televisione, il telecomando sul pavimento. Nei suoi anni di servizio nella polizia, lui era stato in tante pensioncine e alloggi transitori, posti dove vivevano gli scapoli. Spesso le stanze si presentavano ordinarissime, come se chi le abitava non avesse avuto altro da fare che pulire i posacenere, i fornelli, spolverare la radio, avere una scorta di latte in polvere. L'appartamento di Druze non differiva dagli altri. Il telefono suonava ancora. Lucas usò il telefonino. «Betty? Riguardo a quella chiamata... lascia perdere.» «Okay, Lucas.» Il telefono smise di suonare. Per prima la camera. Non sapeva esattamente che cosa cercare, ma se lo vedeva... Fece una veloce perquisizione dell'armadio, palpando le tasche di giacche e pantaloni, controllò il piano del comò, aprì i cassetti. Nulla. La cucina richiese meno tempo. C'erano ben pochi utensili, niente scatole di metallo, o barattoli per riporre roba. Guardò nel frigo: solo un cespo di lattuga, una bottiglia di salsa, un hamburger avvolto in plastica, una scatola aperta di bicarbonato di sodio per dolci, una confezione di latte in polvere. Quello non mancava mai. Niente cubetti di ghiaccio. Nulla nello scomparto in basso della cucina economica. Ma un'arma Druze l'aveva, un affilacoltelli. Lucas lo trovò nel cassetto della cucina, lo soppesò, lo ispezionò. Nessuna traccia di capelli o sangue... ma l'acciaio era pulitissimo, lavato di recente. Prese dalla borsa della creta da modellare, la spianò nella sua mano, e vi premette l'arnese. L'acciaio si attaccò un poco, ma l'impronta risultò abbastanza buona. Ripose l'affilacoltelli, avvolse la creta in carta paraffinata e la mise nella borsa.
Passò nel soggiorno. Niente sotto il divano, oltre la polvere. Niente fra le pagine dei libri. Nella credenza trovò il suo archivio: fatture, documenti di lavoro, ricevute dell'assicurazione sull'auto, denunce dei redditi di sei anni. Doveva controllare un armadio all'entrata. «Accidenti.» Una giacca da sci nera con colletto rialzato. Uguale a diecimila altre, tuttavia... l'amante aveva visto una giacca come quella. Lucas la tolse dall'armadio, la indossò, prese la Polaroid dalla borsa, la sistemò sul ripiano della libreria con l'autoscatto, e si fece fotografare davanti e dietro. Quando ebbe visto le foto, rimise a posto la giacca. Era lì da quindici minuti. Abbastanza. Diede un'ultima occhiata in giro e uscì. «Lucas?» rispose Daniel. «Sì.» Era seduto nella Porsche e guardava le Polaroid. «Hai preso contatto con Canale Due?» «Tutto sistemato», disse Daniel. «Se lui ti chiama domani notte, possiamo mandarla in onda un'ora più tardi. Alle quattro.» «Posso far trasmettere un'altra foto?» «Di che cosa?» «Di uno in giacca da sci.» Più tardi. Daniel camminava avanti e indietro nel suo ufficio, eccitato, irritabile. Lucas e Del occupavano le poltrone dei visitatori. Sloan stava appoggiato alla parete, Anderson era in piedi con le mani nelle tasche. «Ho una fondata sensazione», insistette Daniel. Lucas aveva tagliato la propria faccia dalle due foto prima di darle a Daniel. Daniel e Anderson, dopo averle guardate, si erano detti d'accordo che quella poteva essere la giacca descritta dall'amante di Stephanie. «È quasi certamente questa, da quel che sappiamo», disse Anderson. «Troppe coincidenze. Forse dovremmo prenderlo e metterlo sotto torchio.» «Dobbiamo ancora collegarlo con Bekker», protestò Lucas. «Quello che dobbiamo fare è metterlo contro Bekker, se veramente lavorano insieme», disse Daniel. «Se lo torchiamo, forse otteniamo dei risultati.» «Non abbiamo molti elementi da sfruttare», disse Sloan. «Con la politica di mezzo, quattro morti, i maledetti giornalisti avrebbero le nostre teste se noi gli facessimo il terzo grado per arrivare a Bekker.» «Della politica, se permetti, me ne occupo io», rispose Daniel. Prese una
delle foto Polaroid e la guardò di nuovo. Poi si rivolse a Sloan: «Potremmo fare questo: lo accusiamo di omicidio volontario, ma gli proponiamo di considerarlo preterintenzionale, con una condanna minore, se lui ci consegna Bekker. Poi diciamo ai giornalisti che se lui verrà accusato di un reato meno grave, noi chiederemo al giudice di usare severità nella sentenza, in maniera che sia quasi come una condanna per omicidio volontario». Sloan si strinse nelle spalle. «Se pensi che l'accettino.» «Passeremo da geni», disse Daniel. «Comunque sarebbe preferibile qualcosa di concreto», insistette Lucas. «Si può mettere sotto controllo il suo telefono? Magari sorvegliare Druze per alcuni giorni prima di agire? Vedere se parla con Bekker o lo incontra?» «Non otteniamo l'autorizzazione per il telefono senza ragioni solide», precisò Daniel. «Se l'amante di Stephanie Bekker si fa vivo, se conferma questo... allora è diverso. Metteremo anche una microspia nell'appartamento di Druze.» «Quindi tutto dipende da Casanova», disse Lucas. «Dovrebbe chiamarmi domani notte.» «Bene. Fino ad allora staremo appiccicati a Druze come angeli custodi», disse Daniel, passandosi le mani sui radi capelli. «Perdio, che attesa. Che maledetta attesa.» «È vero», disse Anderson. Bekker era alla finestra a bovindo e guardava oltre l'erba rasata delle aiuole a rombo, verso la strada. Decise: doveva muoversi. L'indomani. Il portasigarette era semivuoto; lo aprì e scelse fra il poco rimasto. Una piccola sferzata di potenza. Succhiò appena una pastiglia di PCP, poi la rimise a posto. Le sostanze chimiche gli attaccarono la lingua, ma ormai lui vi si era assuefatto. La droga lo aiutava a concentrarsi, lo faceva uscire dal proprio corpo, gli lasciava la mente libera di funzionare. Rendeva chiare le mosse da fare. Prima la donna, poi Druze. Doveva far venire Druze con una chiamata urgente. L'ora migliore, le cinque. Druze mangiava sempre a casa prima di andare al teatro. E la donna sarebbe stata a casa alla stessa ora. Qui niente raffinatezze, dottore. Niente cose elaborate. Esegui e via. Andò avanti e indietro con gambe che parevano non appartenergli, elaborando il piano. Se tutto filava liscio, era una cosa semplice. Ma doveva controllare la pistola. Andare nel Wisconsin a sparare qualche colpo. Non
la usava da anni, da quando era andato nel New Mexico. L'aveva comprata nel Texas, da un cowboy di El Paso, un ubriacone che aveva bisogno di denaro. Era una calibro 38 special, niente di eccezionale, ma abbastanza buona. Quanto allo sparo... doveva rischiare. Se lei aveva la radio... Forse le quattro era l'ora migliore. Quei due sarebbero stati in casa, mentre quelli degli appartamenti vicini probabilmente fuori. Camminava e la sua mente era un vulcano; eccitazione, calore, e la leggera dose di PCP lo facevano passare dalla lucidità all'oblio in continuazione. A mezzanotte, tormentato dal bisogno di Beauty, assunse due ecstasy. La droga gli scoppiò dentro, annullò l'effetto del PCP, e lui si mise a danzare sul tappeto del soggiorno, piroettando e alzando una gamba e l'altra alternativamente. Perse ogni contatto con il mondo. Quando si riprese, ansimava ed era mezzo nudo. Come mai? Era confuso. Che cosa doveva fare? L'idea venne. Se l'indomani qualcosa andava male — improbabile, ma possibile — avrebbe perso un'occasione. Eccitato, con le mani tremanti, si rivestì, s'infilò la giacca e scese a prendere l'auto. In dieci minuti sarebbe stato all'ospedale. Là, sulle scale, rimase inebetito per cinque minuti. Era andato subito nel suo ufficio, aveva preso un'altra ecstasy per avere la scintilla creativa e l'intuizione, e una metanfetamina per acuire le percezioni. Poi era andato nello spogliatoio e aveva indossato il camice antisettico. Il tessuto di cotone gli dava un senso di fresco e pulito sulla pelle, e quel piacere era esaltato dalla droga. Uscì, un po' affrettandosi e un po' frenando l'impazienza. Non ce la faceva ad aspettare. Sgattaiolò su per le scale, e se proprio non rideva, era comunque pervaso da una gioia incontenibile. Prudenza. Se lo vedevano non era un disastro, ma meglio non farsi notare. In cima alle scale aprì appena la porta di comunicazione e dalla fessura guardò verso la stanza delle infermiere che era nel corridoio a una quindicina di metri. Tenne la mano sulla maniglia; se qualcuno lo avesse sorpreso 11, lui avrebbe reagito spalancando la porta. L'infermiera stette cinque minuti al telefono; era in piedi, rideva. Bekker la maledisse: le droghe agivano nel suo sangue, gli imponevano di andare da Sybil. Cercò di frenarsi, ma non sapeva quanto avrebbe resistito. Ah. L'infermiera mise giù il ricevitore, si sedette e fece ruotare la poltroncina, voltando le spalle a Bekker. Lui entrò svelto nel corridoio, si
mosse silenziosamente e fu presto fuori del campo visivo di lei. Nella camera di Sybil la televisione al soffitto era accesa, sintonizzata sul programma di videoscrittura. Lui si accigliò. Si riteneva che la donna non fosse più in grado di usarlo. Bekker si curvò su di lei. La consolle era su un tavolo alla sinistra del letto. Le girò la testa e vide che Sybil aveva l'interruttore. Guardando lo schermo, usò la tastiera per muovere il cursore alla opzione Select, poi premette Enter. Apparve una serie di opzioni, tra cui una dozzina di file. Nove file avevano un nome. Altri tre solo un numero. Stava muovendo il cursore per scegliere il primo file quando si accorse che lei era sveglia. I suoi occhi erano scuri e terrorizzati. «È l'ora», le sussurrò. Esaltato dalle droghe, si accostò e scrutò i suoi occhi. Lei li chiuse. «Apri gli occhi», le disse. Lei non obbedì. «Apri gli occhi.» Rimasero chiusi. «Aprili... Sybil, ho assolutamente bisogno di sapere quello che vedi, ora che sei alla fine; devo vedere le tue reazioni. Apri gli occhi, Sybil.» Premette un tasto. «Sto guardando i tuoi file.» Gli occhi si aprirono, all'istante, quasi involontariamente. «Ah», disse lui, «c'è dunque una ragione per cui non dovrei guardarli.» I suoi occhi si muovevano freneticamente da Bekker allo schermo. Lui mosse il cursore sul primo file numerato e premette Enter. Apparvero due lettere: MB. «Ah. Non stanno forse per Michael Bekker?» chiese. Cancellò le lettere. Passò al secondo file. UCCISO. Cancellò anche quelle. «Un piccolo messaggio? Pensi davvero che avrebbero compreso? Naturalmente, con qualche giorno in più avresti potuto sforzarti a scrivere ancora.» Bekker andò all'ultimo file: ME. «Sei finita, comunque», disse e cancellò le lettere. «Bene», disse, girando la testa verso di lei. «Posso convincerti a tenere gli occhi aperti?» Lei li chiuse. «È l'ora», disse. «E questa volta andiamo fino in fondo. Veramente, Sybil. Fino in fondo.» Tornò alla porta e sbirciò nel corridoio. Nessuno. Gli occhi di Sybil, turbati, umidi, seguirono i suoi movimenti. Tornato da lei, Bekker le mise il palmo della mano sulla bocca e con l'altra le strinse il naso. Sybil chiuse gli occhi. Con indice e medio della prima mano le sollevò le palpebre. Lo
sguardo fu vacuo, fisso per quindici secondi. Poi gli occhi si mossero impauriti, da una parte e dall'altra in cerca di aiuto. Il suo torace cominciò a tremare, poi gli occhi smisero di roteare, fissarono un punto oltre lui e si illuminarono. «Che cosa c'è?» sussurrò Bekker. «Vedi? Che cosa vedi? Che cosa?» Lei non poté dirlo e alla fine i suoi occhi, ancora luminosi, si rovesciarono. «Chi c'è?» Colto dal panico, lui tolse la mano dal naso e indietreggiò dal letto. Tremava violentemente, incapace di controllarsi. La donna era lì lì per... «C'è qualcuno?» Andò barcollante alla porta, respirava appena, e mise fuori la testa. Vide un angolo della stanza delle infermiere, ma nessuna di loro. Poi una voce di donna, due camere più in là. L'infermiera. «Mi ha chiamato, signora Lamey?» Bekker rischiò, percorse il corridoio in tre lunghe falcate e varcò la porta delle scale. Lasciò che si richiudesse da sola, e fece le scale a balzi. L'infermiera doveva aver sentito o intuito qualcosa. Lui volò giù. Aprì la porta del suo piano, e ancora in lontananza udì un altro «Chi c'è?» Dieci secondi dopo era nel suo ufficio, con l'uscio chiuso a chiave e la luce spenta. Ansimava e aveva il cuore impazzito. Era salvo. Un Xanax gli avrebbe fatto bene. Ne deglutì uno, due, rimase seduto al buio. Doveva aspettare per rivestirsi. Poi prese l'ecstasy che agì potentemente e lo fece precipitare nell'oblio. Lucas andò a prendere Cassie al teatro e aspettò che lei si struccasse. Gli sarebbe piaciuto rivedere Druze, ma l'uomo doveva essere altrove. «Come va lo spettacolo?» chiese Lucas. «Abbastanza bene. Facciamo un buon incasso, che è la cosa importante. È divertente, e trasmette un messaggio. Una combinazione giusta per Minneapolis.» «Uno zuccherino», disse Lucas. «Più o meno.» Fecero una cena leggera in un ristorante francese del centro, poi una passeggiata, guardando le vetrine di gallerie d'arte e locali alla moda. Due di questi avevano il piano rialzato e i più giovani li guardavano dalle finestre, stando a tavola con le loro gambotte piegate all'altezza dell'occhio. «Non ho fatto che guardare Carlo, è stato più forte di me», disse Cassie.
«Ho paura che se ne accorga e pensi che voglia civettare con lui.» «Sta' attenta con quello», disse Lucas. «Se viene da te, degli che stai facendo la doccia, che sei bagnata, o inventa qualche altra cosa. Magari che ci sono io con te... Non farlo entrare. Tieni la porta chiusa. Non restare sola con lui.» Cassie rabbrividì. «Me ne guardo bene. Però... è buffo. Prima di vedere quelle foto, avrei detto: 'Sì, Carlo potrebbe uccidere'. Adesso stento a credere che uno con cui lavoro possa essere un assassino. Specialmente la faccenda degli occhi. Carlo non sembra un esaltato; voglio dire, magari pazzo, ma un pazzo freddo. Non uno furioso. Potrei immaginarlo che strangola qualcuno con assoluta impassibilità. Ma non che si scatena in un delirio di pazzia.» «E se fingesse? Potrebbe essere abbastanza freddo da colpire gli occhi senza emozione?» Lei ci pensò, poi disse: «Non so. Forse». Rabbrividì ancora. «Però mi ripugna pensare che qualcuno, chiunque sia, possa essere tanto freddo. E perché poi?» «Mistero», disse Lucas. «Non sappiamo come siano andate le cose.» A casa di Lucas, in camera, Cassie si distese sopra di lui, una compatta massa di muscoli. Gli diede un pizzicotto alla vita. «Niente cuscinetti. Piuttosto eccezionale per un vecchio come te.» Lucas grugnì. «Ah, sono in pessima forma. Non ho mosso il culo per tutto l'inverno.» «Hai bisogno di allenamento?» «Per esempio?» «Niente sesso finché non mi immobilizzi e conti fino a tre.» «Ma dai!» «Dai tu, pigrone.» Lottarono e dopo un poco, ma non molto, lei fu immobilizzata. Beauty arrivò a casa più o meno a quell'ora. Il lavoro notturno era stato spaventoso ed esaltante. Una delusione sotto certi aspetti, ma in fondo poteva tornarci. Per sistemare Sybil. Mentre Lucas e Cassie facevano l'amore, Bekker ingurgitò altre due ecstasy e danzò con la musica dei Carmina Burana, saltellando sul tappeto orientale fino a quando non sanguinò... 25
Lucas sentì quando il primo giornale cadde sulla veranda. Doveva essere il Pioneer Press. Star Tribune arrivava entro una decina di minuti. Sonnecchiò, in un dormiveglia che mescolava sogno e realtà. Jennifer e la piccola Cassie, altri volti, altri tempi. Registrò il rumore di Star Tribune, ma la logica del sogno lo respinse; poi si svegliò, sbadigliò, si buttò giù dal letto per prendere i giornali. Alle cinque e mezzo era ancora buio, ma vide una cappa di nuvole grigie e sentì odore di pioggia nell'aria. Controllò l'annuncio: «Non sono responsabile... Lucas Smith». Diede una scorsa ai fumetti e tornò in camera, cadendo bocconi di traverso al letto. Le lenzuola emanavano il profumo di Cassie, che era voluta tornare a casa sua. «Siamo molto impegnati con lo spettacolo. Non dovrei fare tardi la sera e dormire di giorno. Devo lavorare», gli aveva detto mentre sì vestiva. Il profumo era confortante, segno di compagnia. Dormì dalla parte di lei, sognò di nuovo e fu svegliato dal telefono. Sobbalzò. Casanova, pensò e, ancora intontito, afferrò il telefono sul comodino, dando anche una botta al lume. «Davenport.» «Lucas, sono Del.» «Sì, che c'è?» Si mise seduto, con i piedi sul pavimento. Freddo. «Ecco... sono da Cheryl. Ieri sera parlavamo e lei mi ha detto che Bekker si aggira furtivo nel suo reparto. Continua ad andare da una paziente quasi ogni giorno, ma il fatto è che la donna non può parlare.» «Affatto?» «Non dice una parola. La sua mente è tuttora normale, ma lei ha il morbo di Lou Gehrig ed è completamente paralizzata. Cheryl dice che la donna può avere una o due settimane di vita, non di più. Non capisce l'interesse di Bekker, che non è un tipo socievole e di buon cuore. Be', ho pensato che valesse la pena dirtelo.» «Humm. Ho un amico là. Gli telefono», disse Lucas. «Sei di turno per Druze oggi?» «Sì. Sto per andarci.» «Può darsi che ci vediamo.» Lucas riattaccò, sbadigliò, guardò la sveglia. Le dieci passate; aveva dormito più di quattro ore dopo aver guardato il giornale. Si ributtò disteso, ma la sua mente lavorava. Poi si alzò, chiamò Merriam, gli fu detto che il dottore non era arrivato, lasciò un messaggio e andò a farsi la barba. Merriam lo chiamò quando lui
stava per uscire. «C'è una donna lì e vorrei che la controllasse», disse. «Si chiama Sybil...» Per prima cosa Lucas si fermò da Anderson. «Dov'è Druze?» «Ancora chiuso in casa.» Nel suo ufficio la segreteria telefonica indicava due messaggi. Casanova? Azionò l'apparecchio e si tolse la giacca. «Lucas, sono il sergente Barlow. Passa da me quando arrivi. Grazie.» Accidenti, non aveva tempo per lui. Se riusciva a filarsela senza incontrarlo... Un clic e la registrazione andò avanti. «Tenente Davenport, sono Larry Merriam. Farebbe bene a venire subito qui. Lascio detto di farla salire. Oncologia pediatrica. Io sarò in corsia. Parli con l'infermiera di turno, lei mi rintraccerà.» Dalla voce Merriam pareva preoccupato, concluse Lucas. Si rinfilò la giacca e stava chiudendo la porta del suo ufficio quando Barlow scese le scale in fondo al corridoio e lo vide. «Ehi, tenente Davenport, devo parlarti», gridò. Barlow lo seguì. «Senti, dobbiamo sistemare la faccenda», disse stizzito. Lucas affrettò il passo. «Sono preso fino al collo. Verrò appena posso.» «Dannazione, è una cosa seria.» Barlow, con uno scatto, si piazzò fra Lucas e la porta. «Verrò», disse Lucas, senza nascondere l'irritazione. Si fissarono negli occhi, poi Lucas lo aggirò. «Ma non adesso. Domandalo a Daniel, se non mi credi.» Barlow non era stato bravo nel servizio di ronda. Lo era assai di più agli Affari interni. Gli Affari interni indagavano su un poliziotto solo se c'era stato uno scontro pubblico e questo andava bene a molti colleghi del reparto, tranne poche teste calde strampalate. Meglio gli Affari interni, dicevano, che una commissione esterna piena di neri, indiani e chissà chi altri. Il reparto era appena riuscito a far cadere una proposta del Consiglio comunale in base alla quale sarebbe stata costituita una commissione d'indagine veramente dura. Coloro che la proponevano, tuttavia, avevano dato l'impressione di voler calcare la mano sui poliziotti. E questo non era piaciuto agli elettori, impauriti dal dilagare della delinquenza. Così una grave rissa in pubblico faceva scattare l'indagine degli Affari
interni. Un poliziotto veniva preso di mira anche se si drogava troppo, o rubava troppo. Ma gli Affari interni non si preoccupavano gran che se un protettore si era preso qualche pugno. Specialmente se aveva tirato fuori il coltello. Metà degli agenti in servizio gli avrebbero sparato, e sarebbero stati assolti dalla commissione interna. Se poi lo scontro era avvenuto durante un arresto su mandato di cattura per atti di violenza, e se la vittima era rimasta sfregiata e poteva testimoniare e mostrare come era ridotta... Barlow veniva dalla luna? Lucas scosse il capo. La cosa non era chiara. Anderson stava entrando nel momento in cui Lucas usciva. Quest'ultimo lo prese per un braccio. «Pensi che quelli del reparto vorrebbero vedermi cadere? Farmi buttar fuori dagli Affari interni?» chiese Lucas. «Sei impazzito?» chiese a sua volta Anderson. «Che diavolo combinano gli Affari interni?» «Mi stanno addosso per lo scontro con quel giovane, il pappone. Non so capacitarmi da dove viene la denuncia.» «Chiederò in giro», disse Anderson. «Ma quando decidono che uno dovrebbe cadere, non è mai un segreto. Lo si sa. E nessuno parla di te.» «Allora chi soffia sul fuoco?» chiese Lucas. Barlow rimase un pungolo nella mente di Lucas, mentre andava all'università. Lasciò l'auto in zona di parcheggio vietato, fuori dell'ospedale, appiccicò l'adesivo della polizia sul finestrino e andò dentro. L'Oncologia pediatrica era al sesto piano. Un'infermiera lo condusse per una quantità di stanzette, dopo quella più grande dove bambini in accappatoio stavano su sedie a rotelle e guardavano la TV. Infine trovarono Merriam seduto su un letto a parlare con una ragazzina. «Ah, tenente Davenport», disse. Guardò la paziente a letto. «Lisa, questo è il tenente Davenport, della polizia di Minneapolis.» «Che cosa ci fa qui?» chiese lei, andando dritta al centro del problema. Era completamente calva, con il viso pallidissimo e le labbra d'un rosa innaturale. A parte la chemioterapia, pensò Lucas con un senso di paura, Lisa somigliava molto a come sarebbe stata sua figlia fra dieci anni. «È un mio amico, è venuto a fare due chiacchiere con me», rispose Merriam. «Devo andare, ma tornerò prima che comincino a farti il trattamento.» «Okay», disse lei.
Fuori, nel corridoio, Lucas disse: «Io non potrei fare il medico. Lei ha figli?» «Quattro», rispose Merriam. «Ma non penso alle malattie.» «Dunque, che novità?» chiese Lucas. «Dal messaggio mi è parso un po' teso.» «Si tratta della donna che mi ha segnalato. Sono andato da lei. È affetta da sclerosi laterale amiotrofica.» «Il morbo di Lou Gehrig.» «Esatto. Non ha quasi più la facoltà di comunicare. Il suo cervello funziona bene, ma lei può muovere solo gli occhi. Morirà fra una o due settimane. E Bekker sta tentando di ucciderla.» «Che cosa?» Lucas afferrò Merriam per il braccio. «Sono veramente disorientato; un bravo dottore come lui», disse Merriam, liberando il braccio. «Ma venga a vedere. Mi segua.» Scesero una rampa di scale. «Sono andato da lei stamane e mi sono fermato a chiedere informazioni alle infermiere», disse Merriam mentre scendevano. Poi varcarono una porta a molla. «L'infermiera del turno di notte stava prolungando il servizio perché la collega era malata. Le ho detto che ero lì per Sybil e le ho chiesto se il dottor Bekker si era fatto vedere. L'infermiera ha detto — lo prenda con riserva — che non lo ha visto, ma ha sentito la sua presenza. Nel cuore della notte. Ha avuto la sensazione che il lurido Dottor Morte, così ha detto, si aggirasse nel reparto perché ha avuto dei brividi, e lei rabbrividisce sempre quando lo vede.» «Lo chiama 'Dottor Morte'?» «'Lurido Dottor Morte'», precisò Merriam. «Non molto lusinghiero, le pare? Così sono andato da Sybil. Il declino è molto lento, e le infermiere dicono che ha ancora un minimo di risorse.» Merriam passò oltre la stanza delle infermiere, percorse il corridoio, varcò una porta, superò altre tre o quattro stanze e poi infilò la testa nella successiva. Sybil giaceva supina, immobile, a parte gli occhi che si spostarono subito su Merriam e su Lucas. Erano occhi scuri, lucenti, supplichevoli. «Sybil non può parlare, ma comunica», disse Merriam semplicemente. «Sybil, questo è il tenente Davenport della polizia di Minneapolis. Se capisci, di' sì.» I suoi occhi si mossero su e giù, un assenso, e rimasero fissi su Merriam. «Ora di' no», la sollecitò il dottore. Gli occhi si mossero da destra a sinistra.
«Il dottor Bekker è stato qui?» chiese Merriam. Sì. «Temi per la tua vita?» Sì. «Hai cercato di comunicare tramite l'interruttore oculare?» Sì. «Il dottor Bekker te lo ha impedito?» Sì. «Il dottor Bekker sta tentando di ucciderla?» chiese Lucas. Gli occhi di lei si spostarono sul poliziotto e dissero: Sì. Una pausa e ancora: Sì, freneticamente. «Gesù», esclamò Lucas. Guardò Merriam in tralice. «Ha mostrato interesse per i suoi occhi? Ha detto qualcosa...» Gli occhi della donna andavano rapidi su e giù. Sì. «Gesù», rispose Lucas. Si chinò sulla malata. «Si faccia forza. Porteremo qui una cinepresa e un esperto per interrogarla; la filmeremo e registreremo tutto su una videocassetta. Quel pezzo di merda finirà in prigione e ci resterà tanto a lungo da dimenticarsi come è fatto il sole. Okay?» Sì. «E scusi il linguaggio», disse Lucas. «Certe volte mi lascio andare.» No, dissero i suoi occhi. «No?» «Penso che lei voglia dire: 'Non si scusi', perché è un pezzo di merda», chiarì Merriam. «Giusto, Sybil?» La donna era come argilla da modellare, immobile, silenziosa, a parte i suoi luminosi occhi. Sì, disse. Sì. «Manderò qualcuno fra mezz'ora», disse Lucas, quando furono nel corridoio. «Dovrete parlare con il marito, perché tutto sia fatto nella legalità», disse Merriam. «Io informerò il direttore.» «Gli dica che il mio capo gli telefonerà. E provvederò perché un nostro avvocato parli con il marito. Gli agenti possono usare il suo ufficio per telefonare?» «Sicuro. È a vostra disposizione.» Lucas stava per andarsene, ma si fermò. «I bambini che lei suppone siano stati uccisi. Gli occhi furono colpiti?
Avevano qualcosa di anormale?» «No, no. Ero presente alle autopsie, gli occhi erano intatti.» «Hmm.» Lucas si mosse e si fermò di nuovo. «Non faccia avvicinare nessuno a Sybil.» «Non si preoccupi.» Lucas chiamò Daniel da un telefono pubblico e lo informò. «Figlio di puttana», gracchiò Daniel. «Allora lo abbiamo incastrato.» «Non so», rispose Lucas. «Però abbiamo una traccia. L'avvocato dovrà stabilire se sarà una prova valida in giudizio. E comunque non è collegato agli altri fatti.» «È un passo avanti», insistette Daniel. «Manderò subito la squadra per registrare, e Sloan per interrogarla.» «Possiamo mettere un agente alla sua porta?» «Non c'è problema. Giorno e notte. Pensi che dovremmo ricominciare a sorvegliare lui?» Lucas rifletté, poi disse: «No. È troppo furbo. Stiamo sorvegliando Druze... Vediamo che cosa succede». «D ' accordo. Che cosa fai?» «Ho un altro paio di idee.» Un'anitra maschio inseguiva una femmina nello stagno del college mentre Elle Kruger e Lucas camminavano sul marciapiede, diretti all'edificio principale. Era primavera, ma soffiava un vento freddo. Lontano a occidente nuvole nere gravavano su Minneapolis, segno che là pioveva. «La fissazione degli occhi potrebbe essere nata da un qualche avvenimento traumatico, ma mi sembra piuttosto improbabile», disse Elle. «È meglio ipotizzabile che lui abbia sempre avuto la paura di essere osservato, e che questa sia la sua reazione.» «Perché, allora, non lo fece ai bambini?» «Ti sfugge l'ovvio, Lucas», disse la suora. «Male per un ardimentoso.» «D'accordo, dimmi l'ovvio, sorella Mary Josepha», rispose lui. «Forse lui non li uccise.» Lucas scosse la testa. «Ci ho pensato. Ma Merriam ha queste vibrazioni, e ne abbiamo conferma da ciò che Bekker fa a Sybil, dal suo interesse per gli occhi delle altre vittime. Una coincidenza? Ne dubito.» «Come ho detto, è possibile che lui abbia sviluppato la fissazione fra un delitto e l'altro.»
«Ma non probabile.» «No.» Camminarono a testa bassa, risalendo la collina, e Lucas disse: «Farebbe differenza il tempo di esecuzione? Cioè se colpisse gli occhi dopo?» Elle si fermò e lo guardò. «Be', non so. La donna morta al centro commerciale... gli occhi sono stati distrutti dopo che lei era morta.» «E così è stato per George, quello dissotterrato nel Wisconsin. Pare che siano passate ventiquattr'ore dalla morte.» «Eccoti la risposta. Lo fa dopo che sono morti, ma evidentemente non occorre che sia subito. Che cosa stai pensando?» «Se un bambino muore e dovrà esserci un'autopsia, è opportuno che gli occhi siano distrutti dopo. Specialmente se si ha la possibilità di farlo.» «Per esempio quando il morto è esposto?» «Appunto. In qualsiasi momento dopo l'autopsia. Lui è patologo, perciò sta in mezzo ai morti. Poteva farlo quando i bambini erano ancora in ospedale, oppure andando nella camera ardente allestita dall'impresa di pompe funebri, come un normale visitatore. Chi sorveglia un morto?» «Non l'avrebbero notato?» Elle era dubbiosa. «Non so. Ma lo scoprirò», rispose Lucas. «Che ore sono?» chiese lei all'improvviso. «Ho lezione alle quattro.» Lucas guardò il suo orologio. «Sono le quattro adesso.» 26 Bekker controllò l'ora quando scese dall'auto: le quattro, era puntuale. La casa era a un isolato di distanza. Lui aveva un bloc-notes sotto il braccio e una scatola di fiori. La pistola gli pesava in tasca; il nastro adesivo molto meno. Camminò a testa bassa per difendersi dalla fitta pioggia. Il maltempo era giunto a puntino, una fortuna insperata, pensò. Così era normale il suo equipaggiamento da pioggia e il cappuccio che gli nascondeva parte del viso. Il suo passo era reso pesante dalla fenciclidina che gli dava un certo irrigidimento. Ma anche potenza. Lo faceva concentrare sull'obiettivo. Pensandoci, tirò fuori e inghiottì un'altra pastiglia. Aveva preso misure elaborate per assicurarsi di non essere pedinato, girando avanti e indietro nelle strade della zona del lago, si era fermato, era passato per i vicoli. Se lo sorvegliavano, dovevano farlo via satellite. Il negozio era di fronte alla casa di Druze. Era rettangolare, molto più
lungo che largo, e il pavimento di legno scricchiolava quando i clienti giravano fra le file di elettrodomestici da cucina. Lavatrici, asciugatrici, frigoriferi, cucine economiche di varie marche. Walt teneva le luci spente, a meno che non entrasse un cliente, perché sfruttava quelle stradali attraverso le vetrine polverose. Walt era un tipo comune come la sua merce. Troppo massiccio. Abbastanza cordiale, ma senza dare eccessiva confidenza. Si copriva la calvizie con ciocche di capelli d'un castano ingrigito pettinate di traverso, e portava occhiali dalla montatura di plastica poggiati sulla punta del naso carnoso che con l'età somigliava a un lampone troppo maturo. Negli anni Cinquanta aveva fatto parte della gioventù bruciata, e nel cassetto della scrivania teneva Urlo di Ginsberg. Passava più tempo a leggere che a trattare con i clienti. Fu felice di collaborare con la polizia. Del resto non aveva mai usato il mezzanino se non per immagazzinarvi vecchi campionari di tappeti e rotoli di vinile. Vi mise un materasso gonfiabile, una poltroncina da ufficio, un tavolino pieghevole per televisore e una pila di Playboy, vecchie edizioni. Gli agenti portarono binocoli, un telescopio da avvistamento Kowa, una videocamera con teleobiettivo e il telefono cellulare. Erano contenti, al caldo, al riparo dalla pioggia. Un negozio vicino li riforniva di pizze. Un'altra squadra, non altrettanto fortunata, sorvegliava l'entrata posteriore della casa, stando in auto. L'agente di turno nel mezzanino era seduto e controllava la strada. Sul tavolino accanto c'era un bicchiere di carta con Coca Cola. Il telescopio era montato su un treppiedi davanti a lui. Il compagno disteso sul materasso leggeva Playboy. Quello di guardia vide Bekker trascinarsi sotto la pioggia, lo guardò con il telescopio, non lo prese in considerazione e non ne parlò al compagno. Non vide la faccia per via del cappuccio, ma notò la scatola rettangolare color lavanda, del tipo usato per consegnare rose in città. Erano ben riconoscibili. Bekker guardò il casellario della posta, trovò il numero dell'appartamento di lei, aprì il portone usando la chiave di Druze, e prese l'ascensore per il sesto piano. La porta era l'ultima del corridoio. D'impulso, pensando alla pistola in tasca, si fermò alla porta vicina e bussò leggermente. Non ebbe risposta. Riprovò. Non c'era nessuno. Bene. Infilò la mano nel taschino della giacca, trovò una pastiglia di fenciclidina e se la mise sotto la lingua. Si sentì un leone. La sua mente di-
staccata, feroce, aspettava che il corpo agisse. La sua mano — niente a che fare con la mente che era sul proprio piedistallo — bussò alla porta e sollevò la scatola perché si vedesse dallo spioncino. C'erano dei fiori dentro. Se la donna non era sola, lui avrebbe fatto la consegna e se ne sarebbe andato. Druze? Sì, doveva sistemarlo, ma per lui non vi sarebbe stato un bel pacchetto dono. Era davanti alla porta di Cassie e aspettava che gli aprisse. Le quattro. Lucas lasciò il St. Anne, si diresse a ovest, incontro alla pioggia. Forse avrebbe visto Cassie, pensò. Brevemente, prima dello spettacolo. Ma il giorno prima lo aveva quasi buttato fuori di casa. E poi c'era il problema dei bambini morti. Conosceva un direttore di pompe funebri che stava nella zona sud della città. Poteva chiedere informazioni a lui, anche se l'idea lo turbava. Vecchia fede cattolica, pensò. Uccidere non era terribile, ma disturbare i morti non gli piaceva. Sogghignò, si fermò al semaforo rosso. A sinistra avrebbe preso il Ford Bridge verso la zona sud e l'impresa di pompe funebri. A destra avrebbe tagliato la I-94 e sarebbe stato da Cassie in dieci minuti. Il semaforo nell'altra direzione era passato al giallo e Lucas tolse il piede dal freno, pronto a ripartire. Ancora indeciso. Destra o sinistra? «Fiori?» Lei sorrideva, assolutamente ignara. Prese la scatola. Bekker guardò nel corridoio, poi estrasse la pistola e gliela puntò alla fronte. «Dentro», ordinò, mentre lei sgranava gli occhi. «Non gridare, o ti faccio saltare le cervella.» Il suo corpo era staccato dalla mente. Con la mano sinistra la spinse indietro. Lei strinse al petto la scatola, aprì la bocca, e indietreggiò. Lui temette che gridasse e disse minaccioso: «Zitta!» Chiuse la porta e l'arma era ora a una trentina di centimetri dalla fronte di lei. «Indietro, sul divano.» Cassie lasciò andare la scatola, e lui notò le sue braccia muscolose. Niente lotta con quella. Lei indietreggiò finché sbatté le gambe contro il divano e ricadde di peso. «Non farmi male», balbettò. Era sbiancata in volto. «No, se fai la brava», disse il corpo di Bekker. La sua mente fluttuava, dirigeva l'azione. «Ho bisogno di un nascondiglio per un'oretta.» «Non sei con Carlo?» chiese lei, ritraendosi sul divano. La domanda lo colpì, ma la droga lo protesse. Il suo corpo era dissocia-
to, operava come una marionetta, le sue mani avevano perso la sensibilità. «Chi?» «Non sei con Carlo?» «Io non sono con nessuno. Ho solo bisogno di nascondermi finché gli sbirri non si allontanano da questa strada», disse Bekker. Il suo corpo era rigido come marmo, non tradiva nulla, ma la sua mente lavorava febbrilmente. Sapevano di Carlo. Perdio, sorvegliavano lui? Evidentemente sì. Bekker gesticolò con la pistola. «Giù, sul pavimento. Bocconi. Mani dietro la schiena.» «Non farmi del male», ripeté lei. Scivolò dal divano, cadendo in ginocchio, gli occhi colmi di spavento. La donna stava invecchiando, pensò la mente di Bekker: aveva minuscole rughe attorno agli occhi e sulla fronte. «Non ti farò del male», disse freddamente il suo corpo. Aveva già studiato che cosa dire. Doveva rassicurarla, farsi obbedire. «Ti legherò le mani con nastro adesivo. Se volessi farti del male, se volessi violentarti, non ti legherei le mani dietro la schiena.» Cassie preferì fidarsi. «Ti prego...» disse, girando la testa. «La pistola è puntata alla tua testa», disse lui. «Ho suonato alla porta accanto e non c'è nessuno. Perciò potrei sparare, se fossi costretto... E lo farò se non stai buona. Capito?» «Sì» «Allora metti giù la testa, incrocia le mani. Posso legarti con una mano sola.» Lei obbedì: il meraviglioso potere della pistola. Il nastro adesivo fu passato tre volte attorno ai polsi. «Non muoverti», ordinò lui. Aveva la lingua come impastata e sbrodolava le parole. Questo era più spaventoso che se lui avesse gridato. Le legò anche le caviglie, attento a non ricevere calci. Quando la donna fu immobilizzata, lui ripose l'arma in tasca e rinforzò la legatura dei polsi con altro nastro. «Mi fai male», disse lei. Bekker grugnì. Parlare era inutile ormai. L'aveva in pugno. Le premette un ginocchio sulla schiena, la tenne inchiodata sul pavimento e usò un largo cerotto per tapparle la bocca. Lei oppose resistenza, ma l'uomo la prese per i capelli e aggiunse altro cerotto. «Così dovrebbe bastare», disse il suo corpo, parlando alla mente più che a lei. La parte inferiore del viso di Cassie era incapsulata: il naso e gli occhi liberi. La prese sotto le braccia e la trascinò in camera. Quando lei cominciò a divincolarsi, l'uomo le assestò un malrovescio sul naso. Violento.
«Non fare così.» In camera la scaricò sul materasso a faccia in giù e le legò i piedi alla base del letto, usando nastro adesivo. E con altro nastro le legò il collo alla testiera. «Vado in soggiorno a vedere la televisione, per controllare se mi hanno individuato», disse. «Devi stare tranquilla come un topo; per adesso non ti ho fatto nulla, ma attenta a non darmi fastidio.» Chiuse la porta della camera e accese la TV. Ora veniva la parte rischiosa. Cassie tentò di piegare il corpo per far cedere il nastro. Tirando con forza, forse si sarebbe liberata. E se si fosse alzata, avrebbe saltellato con i piedi legati fino al comò dove c'erano le forbici. E con le mani libere avrebbe spinto il comò contro l'uscio per impedire all'uomo di entrare, avrebbe gettato qualcosa dalla finestra, gridato «aiuto», se necessario. Ma quando si piegò su se stessa il nastro attorno al collo minacciò di strangolarla. Tirò finché poté, poi vi rinunciò. Il cerotto sulla bocca le impediva di immettere la maggiore quantità di aria richiesta dallo sforzo e per un momento vide rosso. Un guaio. Giacque immobile, pensando. Non veniva nessuno? Se fosse capitato Davenport, come aveva fatto il giorno prima... Troppo bello! Doveva sbrigarsela da sola. Provò a dondolarsi avanti e indietro. Durò uno, due minuti, si rovesciò supina, fece un altro mezzo giro. Il nastro si stava rompendo? Non poteva vedere. Premette le braccia al corpo e provò a rotolarsi di nuovo. Bekker uscì dall'appartamento di Cassie senza chiudere a chiave la porta e percorse il corridoio in direzione delle scale. Intanto si fasciò la mano destra con un fazzoletto. Druse abitava tre piani sotto e i poliziotti sapevano tutto di lui. E probabilmente lo sorvegliavano. Una telecamera nel corridoio? Improbabile. Se Druze era sorvegliato, la polizia non avrebbe fatto nulla che attirasse l'attenzione. La sua mente segnalò: la donna lo aveva visto, quindi doveva eliminarla. Non si era fatto notare dagli sbirri, ma d'ora in poi il rischio c'era. La sua mente studiò il problema e infine disse al corpo di andare avanti. Di rischiare. Doveva farlo. Il corridoio del terzo piano era deserto. Sollevò il cappuccio e andò svelto alla porta di Druze. Stava per bussare quando ebbe un ripensamento. E se ci fossero state delle microspie nell'appartamento?
Grattò sulla porta. Sentì del movimento all'interno. Grattò di nuovo. La porta fu socchiusa e Druze guardò dalla fessura. Bekker si mise l'indice sulla bocca per intimargli di stare zitto e di uscire fuori. Druze, turbato, obbedì, scrutando il corridoio. Bekker gli indicò la porta di accesso alle scale. «Non posso spiegarti tutto adesso, ma abbiamo un problema», sussurrò quando furono sulle scale. «Ho parlato con Davenport e ha detto che c'è un sospettato, ma niente prove. 'Dobbiamo coglierlo sul fatto', ha detto.» «Oh, merda», rispose Druze, preoccupato. «Che cosa hai fatto alla mano?» «Lei mi ha morso. Comunque sono venuto qui abbastanza presto e l'ho pescata, come si era detto...» «Non in modo definitivo, però», ribatté Druze. «Dovevamo farlo, e io non potevo rischiare di telefonarti», spiegò Bekker. «Forse il tuo apparecchio è sotto controllo.» «Non sappiamo se sospettano di me.» «Ora lo sappiamo. Sono andato su da lei, le ho piantato la pistola alla fronte e l'ho legata. Avevo progettato di aspettare che tu fossi a teatro, poi le avrei dato delle botte in testa come se fossero colpi dovuti a una caduta, ed ero a posto.» «Che cosa è successo?» «La prima cosa che lei ha detto è stata: 'Non sei con Carlo?' La sincerità era nella sua voce.» «Perdio», disse Druze, passandosi le dita fra i capelli. «E pensi che il suo appartamento abbia delle microspie?» «Non so. Ma se la donna cade dalla finestra mentre tu sei a teatro, c'è una prova in più a tuo favore. La polizia saprà che non sei coinvolto.» Vi era qualche stortura nel ragionamento, ma Druze, scioccato, non seppe coglierla. E Bekker aggiunse: «Vieni su da lei. Tu la spaventi. Dobbiamo scoprire che cosa sa la polizia». «Oddio, in fondo mi è simpatica», disse Druze. «Tu a lei no», rispose Bekker acido. «Ti considera l'assassino.» Bekker risalì svelto le scale con la pistola che gli batteva sulla gamba. Druze lo seguì. Entrati, andarono in camera dove Cassie era distesa bocconi, ma aveva lottato per liberarsi e il nastro era arrotolato fra i piedi e il letto. «Girala perché possa vederti», disse Bekker, al fianco di Druze. L'altro si chinò e afferrò la ragazza per la spalla e il fianco, rovesciandola.
La mente di Bekker era limpida, il suo corpo si muoveva con la precisione di un robot industriale. Estrasse la pistola con la mano fasciata: la sua mente vedeva l'azione al rallentatore. Con un gesto fluido puntò l'arma a due centimetri dalla tempia di Dfuze. L'altro percepì il movimento, fece per girare la testa, mentre apriva la bocca. Bekker tirò il grilletto. Lasciò cadere l'arma. L'esplosione lo fece indietreggiare. Nella piccola stanza il rumore fu terribile, assordante. Mentre Bekker arretrava, Cassie si arcuò e tirò freneticamente i legacci. Druze si accasciò senza un gemito, la pistola rimase sotto il suo corpo. Il golf di Cassie si macchiò del sangue di Druze e di piccoli brandelli amorfi di ossa e di tessuto cerebrale. Bekker toccò Druze. Morto. Le droghe cantarono nel suo corpo e lui fece il viaggio. Quando tornò in sé, sospirò. Gesù, quanto tempo era passato? Sbirciò il suo orologio. Le quattro e venti. Vide Cassie che lo fissava dal letto e muoveva freneticamente le mani legate. Pochi minuti di oblio. Ascoltò. Veniva qualcuno? No. Guardò Druze sul pavimento. Doveva lasciarlo lì, poteva esserci qualche impronta di sangue. Niente da fare per gli occhi, naturalmente. Di questo si preoccupò, ma non poteva fare altrimenti. Druze doveva risultare l'assassino. Cassie. Aveva smesso di tirare il nastro, ma stava con la schiena arcuata, la testa girata per guardare. Non c'era tempo da perdere: lui doveva tornare nell'appartamento di Druze per lasciarvi le foto. Si mosse per andare in cucina, ma una porta sbatté nel corridoio e lui si fermò. Ascoltò. C'era del movimento? Nel corridoio? Tese l'orecchio. La guida attutiva i passi. Lasciò passare un minuto, e oltre. Non poteva più indugiare. Si batté il torace. Sì, le foto c'erano. Avrebbe colpito gli occhi... Doveva essere prudente. Se la polizia aveva messo il telefono di Druze sotto controllo e si rendeva conto che lui non era in casa, gli agenti di guardia, che non l'avevano visto uscire, forse si sarebbero mossi. Se lo avessero sorpreso nell'appartamento... preferì non pensarci. Con il PCP nel sangue, Bekker andò in cucina e prese un coltello da pane, il più affilato che trovò.
Di nuovo... del movimento? Qualcuno nel corridoio. Si raggelò, ascoltò. No. Presto, presto. Non lo fece bene, e neppure rapidamente. La sgozzò e poi, mentre Cassie moriva, le tenne gli occhi verdi aperti. 27 Lucas passò una decina di minuti all'impresa di pompe funebri con un allegro direttore dalla faccia rotonda che parlava di golf. «Dannazione, Lucas, sono già andato fuori due volte», disse. Aveva il putter e batteva palle arancione sul tappeto, mirando a una tazzina di caffè posta di lato. «Ho bisogno di sapere degli occhi.» «Allora non parlarmi di golf», si lagnò l'impresario. Colpì l'ultima palla che rimbalzò dal bordo della tazza. «Nessuno vuole parlare di golf. Sai quanto è difficile parlare di golf quando sei nelle pompe funebri?» «Posso immaginarlo», disse Lucas asciutto. «Che cosa vuoi sapere esattamente?» chiese l'altro, appoggiando il putter a una poltrona. Erano in un appartamentino sopra l'ufficio, dove alloggiava il custode notturno. Una quantità di gente moriva di notte, disse l'uomo, e se non si è pronti, chiamano un altro. Per il comune mortale una ditta di pompe funebri valeva l'altra. «Posso sapere degli occhi? Li lasciate o li togliete?» «Perché dovremmo toglierli?» chiese l'allegro direttore, divertito dalla conversazione. Lucas, al contrario, si sentiva a disagio e lo mostrava. «Be', non so... Dunque li lasciate?» «Sicuro.» «Cucite le palpebre o le incollate?» «No, no, quando sono chiuse, le lasciamo così.» «E quando il morto è esposto? C'è sempre qualcuno che sorveglia?» «Be', qualcuno in giro c'è sempre, ma non è detto che stia proprio là. Ci regoliamo secondo i casi. Se vediamo un balordo entrare nella camera ardente, lo accompagniamo, non vogliamo che vengano rubati anelli o altro. Ma se è un famigliare o una persona dall'aria rispettabile, lo lasciamo solo. Magari diamo una controllata ogni due minuti, ma tanti, quando si accomiatano dal defunto, non gradiscono essere spiati dal personale. Hanno l'impressione che si voglia mettere loro fretta, come il commesso di un
grande magazzino che si piazza al tuo fianco. Una volta un'intera famiglia ci mise in guardia su un certo nonno. Il morto aveva una placca d'oro che doveva valere sui duecento dollari, e il vecchio era un ladro. Perciò gli stemmo vicini. Lui era inginocchiato a pregare, ci guardava e riprendeva a pregare. Credo che abbia pregato per mezz'ora. I famigliari dissero che era stata la preghiera più lunga della sua vita.» «In teoria, se uno volesse entrare e toccare un morto, o guardargli gli occhi, potrebbe farlo. Se non ricevete avvertimenti.» L'uomo si strinse nelle spalle. «Potrebbe farlo benissimo. Senza problemi. Ma che cosa si può fare a un morto in due minuti?» Lucas teneva il telefonino sotto il sedile, e Del lo chiamò quando lui era a metà della circonvallazione. «È successo qualcosa a Druze», disse Del. «È sparito. Gli agenti di sorveglianza giurano che non è uscito dall'edificio, ma lui non risponde al telefono ed è in ritardo alle prove in teatro.» «Che cosa pensi? Controlliamo in casa?» «Non so. Forse è il caso di aspettare un po'. Abbiamo continuato a chiamare ogni due o tre minuti, quindi anche se fosse stato al gabinetto...» «Continua a sorvegliare. Ti raggiungo.» Non pensò a lei, non subito. Sulla Minnehaha Avenue il traffico diretto a nord era intenso e Lucas dovette restare accodato a un camion per tre isolati. Imprecò e alla fine lo sorpassò, guadagnandosi un gesto volgare da un accigliato camionista capellone. Passò tre volte con il rosso, e solo allora gli venne in mente Cassie. Stesso edificio. Fu percorso da un brivido. Prese il telefonino e chiamò Del. «Ho un'amica in quella casa. Fa l'attrice nello stesso teatro di Druze», disse. «Vuoi chiamarla?» «D'accordo.» Mentre correva, stava vedendo i caseggiati della I-94, sei isolati dal teatro, quando Del lo richiamò. «Non risponde.» «Merda.» Lucas controllò l'ora. Cassie doveva essere al teatro. «Puoi chiamare il teatro e chiedere di lei?» Ora percorreva Riverside Drive, a forte andatura, zigzagando. Passò con il rosso, spaventò un ubriaco e uno studente, scorse la casa in lontananza. «Lucas, abbiamo chiamato, ma lei non si è fatta vedere.» «Ah, Gesù, ascolta, devo controllare se sta bene. Abbiamo parlato del caso...»
«Ti aspetto sul marciapiede. Ho parlato con l'arnministratrice un paio di volte.» Del passeggiava in Riverside Drive quando Lucas arrivò e saltò giù dall'auto. «Novità?» «No. Ho telefonato all'amministratrice. Dovrebbe... Ah, eccola.» La donna aveva la chiave del portone e Del le presentò Lucas. «Questo non è un intervento ufficiale», precisò Lucas. «La persona è una mia amica e ha dei problemi seri; non si è presentata al lavoro. Siamo preoccupati.» «Okay. Visto che siete della polizia...» Salirono al sesto piano in silenzio, ascoltando il rumore dell'ascensore e guardando i numeri sulla pulsantiera. Il corridoio del piano era vuoto. Lucas bussò alla porta di Cassie. Nulla. Ribussò. «Apra», disse all'amministratrice, tirandosi indietro. Lei inserì la sua chiave e aprì. Del si precipitò dentro per primo. Un odore impregnava il soggiorno. «Tu rimani qui, Lucas», gridò Del. Lo afferrò per il colletto e lo spinse indietro, mentre con l'altra mano bloccava la donna. «Anche lei, rimanga qui.» Del si diresse nella camera da letto. Lucas lo seguì a ruota. Cassie. Il suo viso era girato. Lui seppe, ma pensò: Forse lei... C'era sangue dappertutto sul letto, e quando fu lì e vide gli occhi... e lo squarcio rosso al collo dove strati di nastro adesivo erano stati tagliati... e Druze sul pavimento accanto a lei, e ancora sangue... Qualcuno emise un gemito, lungo, orribile, cavernoso, e lui si rese conto che quel gemito usciva dalla propria gola; allungò la mano e toccò la donna. «Cassie», gridò, e Del si girò di scatto, lo prese per la giacca e lo spinse lontano come un giocatore di football in azione. Anche Del urlò. «No, no, no.» L'amministratrice, a mani congiunte sulla soglia, guardò e arretrò sconvolta. Corse verso la porta d'ingresso e cominciò a vomitare e a gridare, e a vomitare ancora. Il fetore superò quello della carneficina. Lucas resistette al suo amico e Del disse: «Sta' alla larga, Lucas, perdio, dobbiamo fare i rilevamenti. È morta, Lucas, è morta». Lo spinse su una sedia e usò il telefono. «Ne abbiamo un altro. Ci occorre tutto, appartamento 642. Sono due, sì,
Druze e...» Guardò Lucas che si era alzato e pareva pronto a disobbedirgli. Invece si allontanò dalla camera e fece una cosa che spaventò Del più di qualsiasi tentativo di guardare Cassie: si mise immobile a fissare il muro da una distanza di mezzo metro, il viso pietrificato. «Lucas?» Nessuna risposta. «Davenport, per l'amor di Dio.» «Vuoi andare all'ospedale?» gli chiese Sloan. «A che scopo?» Del lo aveva tirato via dal muro, ficcato nell'ascensore, guidato nell'androne e sorretto fuori. «Prendi un sedativo.» «No.» «Sei completamente suonato, amico. Non puoi comportarti così», disse Sloan. Guidava lui la Porsche, mentre Lucas stava abbandonato sul sedile accanto. «Portami a casa», disse Lucas. Nella sua testa era tornata la tempesta, quella che temeva. Il viso di Cassie. Le cose che lui poteva aver fatto, che avrebbe potuto fare, che lei avrebbe potuto fare. Girare in tondo, migliaia di opzioni, milioni di complicate possibilità, e tutte portavano alla vita o alla morte... Il viso di Sybil apparve all'improvviso nella sua mente. «Abbiamo salvato la vita di una donna destinata a morire fra una settimana», gemette. «Ma forse abbiamo incastrato Bekker; gli avvocati stanno guardando le registrazioni.» «Accidenti a me», disse Lucas, chinando la testa. Doveva piangere, ma non ci riusciva. Poi aggiunse: «Sono andato da uno delle pompe funebri. Se fossi venuto qui...» E ancora: «Faccio del male a ogni donna che frequento. Sono una maledizione sulle loro teste». E ancora: «Avrei potuto salvarla». «Devo telefonare», disse Sloan di punto in bianco, portando l'auto nel parcheggio di uno spaccio. «Ci metto un minuto.» Chiamò Elle Kruger, e guardò Lucas da sopra la spalla. Non gli vide che la cima della testa. Rispose la centralinista; Sloan le spiegò che era un'emergenza della polizia. La donna disse che avrebbe cercato di rintracciare Elle. Dopo un'attesa lo informò che la suora era a cena e l'aveva mandata a chiamare. Sloan aspettò in linea.
«Lucas?» chiese Elle quando fu all'apparecchio. «No, sono il suo amico Sloan. Lucas ha un problema...» Quando Sloan tornò in auto, Lucas aveva gli occhi chiusi, il respiro lento, come se dormisse. «Stai bene?» gli chiese Sloan. «Quel maledetto Casanova. Se si fosse fatto vivo con noi, gli avremmo mostrato la foto di Druze appena trovata, e dopo avremmo arrestato subito il giocoliere. Invece abbiamo dovuto fare la stronzata dell'annuncio sul giornale.» «Lascia perdere», disse Sloan. «Ormai non possiamo farci niente.» Elle aspettava Lucas a casa, con un'altra suora in una utilitaria nera. «Come stai?» gli chiese. Lui scosse la testa, guardando in basso. Incontrare il suo sguardo gli fu impossibile, troppo complicato. «Chiamo la mia amica, mi faccio dare un sedativo per te.» «Ho queste cose che mi girano in testa», disse lui. E le pistole; sentiva la loro presenza nel seminterrato. Non in modo opprimente come l'inverno scorso, ma c'erano. «Lascia che chiami la mia amica.» Elle gli prese il braccio, poi la mano e lo guidò verso la porta come se fosse un bambino; Sloan e l'altra suora li seguirono. L'indomani mattina Lucas si svegliò spossato. I sedativi lo avevano fatto piombare in un sonno senza sogni. La tempesta nella mente si era dissipata, ma lui la sentiva appena oltre il confine della coscienza. Provò a scendere dal letto; in piedi barcollò, aprì l'uscio della camera e per poco non cadde sul divano. Sloan lo aveva piazzato lì e stava muovendosi per alzarsi. «Lucas.» Sloan, in maglietta e pantaloni, con una coperta sulle spalle, aveva un aspetto stanco e spaventato. «Che diavolo ci fai, Sloan?» Sloan si strinse nelle spalle. «Abbiamo pensato che fosse una buona idea, casomai tu avessi fatto il sonnanbulo.» «Casomai fossi andato a cercare le pistole?» «Be', più o meno», ammise Sloan, guardandolo. «Hai un aspetto di merda. Come ti senti?» «Di merda», rispose Lucas. «Devo fare riesumare dei bambini.» Sloan impallidì, e Lucas sorrise suo malgrado, sorrise come una vedova
quando le seppelliscono il marito. «Non preoccuparti. Non sono pazzo. Ora ti racconto di Bekker.» 28 Nel suo ufficio Daniel camminava avanti e indietro con le mani nelle tasche. Aveva tirato giù la veneziana senza accendere la luce e la stanza era quasi al buio. «La Omicidi è soddisfatta», disse. «Sai che io non chiudo i casi di assassinio in base alla politica... e tutto sta a indicare che era lui. Tu l'hai trovato. Bekker è un'altra faccenda.» Anche Lucas era in piedi, appoggiato al davanzale interno della finestra, a braccia conserte. «Se Bekker ne uccide un'altra e le cesella gli occhi, tu che cosa fai? La dannata stampa piomberà qui con forconi e torce.» Daniel sollevò le mani con un gesto di disperazione. «Senti, lo so che tu e quell'attrice...» «Questo non c'entra», replicò Lucas. La sua testa era ancora come un pezzo di legno. Cassie c'entrava, eccome. La vendetta non sarebbe bastata, ma era pur qualcosa. «Forse l'ha uccisa Druze, ma la mente di tutto è stato Bekker.» «Hai parlato con quelli della Scientifica?» «No.» «Hanno esaminato quella giacca in casa di Druze. C'era una macchia di sangue dietro. Non si vede perché il tessuto è nero e aveva assorbito il sangue. Ma c'era, e hanno fatto le prime analisi. È dello stesso tipo di quello di Stephanie Bekker.» Lucas annuì. «Sì, penso che Druze abbia ucciso Stephanie.» «E George. Abbiamo trovato un percorso in taxi dall'aeroporto al Lost River Theater nella notte in cui George fu ucciso.» «E per Elizabeth Armistead? Ho dei dubbi al riguardo. Ho indagato la notte stessa e il giorno dopo e tutti hanno confermato che Druze era in teatro, per l'intero pomeriggio o quasi.» Daniel puntò l'indice su Lucas. «Ma forse non di continuo. Gli sarebbe bastata mezz'ora. E quella che ha visto l'uomo andare dalla Armistead ha detto che aveva una tuta da operaio. Questo mi puzza tanto di attore, gli agenti sono andati al teatro per controllare tutti i loro guardaroba.» «E la telefonata?» «Andiamo, Lucas. Quella non ha senso, comunque tu la rigiri. E il ra-
gazzino di Maplewood è abbastanza sicuro che sia stato Druze a uccidere la Romm.» Daniel prese una cartella dalla scrivania e la porse a Lucas. «Hanno trovato queste in casa di Druze.» Lucas l'aprì: conteneva foto di Stephanie Bekker e di Elizabeth Armistead. Gli occhi erano stati tagliati. «Dove le hanno prese?» «Nell'archivio di Druze. Ficcate in fondo.» «Balle», replicò Lucas. «Ho perquisito quel suo archivio. Queste non c'erano.» «Forse le aveva con sé.» «Già, e le ha riposte prima di andare su a farsi saltare le cervella?» chiese Lucas. «Senti, considerala come vuoi: un proseguimento d'indagine o un modo di proteggere il tuo culo politico. Ma dobbiamo tenere d'occhio Bekker. Diciamo pure alla stampa che il caso è chiuso, ma restiamo alle costole di quell'uomo. Per incominciare riesumiamo i bambini.» «Come lo spieghiamo?» chiese Daniel. «Che cosa diciamo?» «Non diciamo niente. Perché dovremmo dirlo? Basta convincere i genitori a stare zitti.» Daniel riprese a camminare, a testa china, massaggiandosi le mani. Infine annuì. «Maledizione, avevo sperato di metterci una pietra sopra.» «Non finisce finché Bekker non cade in trappola. Hai visto le registrazioni di Sybil, perdio.» «E hai sentito il parere dei legali. Una donna morente, forse paranoide, imbottita di droga? Andiamo! Io credo a lei. Come ci crede Merriam, e anche Sloan e tu. Ma nessun giudice la presenterebbe come prova davanti a una giuria.» «Deposizione in punto di morte.» «Ah, sciocchezze. Non l'ha fatta in punto di morte.» «Sai che cosa Cassie non capiva negli omicidi? Gli occhi. Diceva che Druze non si sarebbe mai accanito sugli occhi. E sai che cosa dice Elle a proposito degli occhi? Dice che lui deve farlo. Quindi se Bekker è pazzo e uccide qualcun altro... perdio, non capisci? Colpirà di nuovo gli occhi, e le tue palle ciondoleranno da un palo fuori del municipio.» Daniel si tirò il labbro, sospirò e annuì. «Va' avanti. Parla con i genitori dei bambini. Se dicono di sì, procedi all'esumazione. Se dicono di no, torna da me e ne riparliamo. Non vorrei chiedere un ordine del tribunale.» Lucas incontrò Anderson nel corridoio. «Hai saputo?»
«Che cosa?» «Gli esperti dicono che Druze non aveva tracce di nitrito sulle mani. Potrebbe avere messo un fazzoletto sulla pistola, però...» «E che cosa ne pensano?» «Forse non si è suicidato. Il medico legale trova un po' strana tutta la scena, il modo in cui si sarebbe sparato, la sua posizione quando avrebbe premuto il grilletto. Ha dei dubbi su come la pistola possa essere finita sotto il corpo. La bocca dell'arma doveva essere al massimo a una decina di centimetri dalla tempia, e con il colpo del proiettile e il rinculo, il corpo sarebbe dovuto cadere da una parte e la pistola da un'altra. Invece è caduta prima di lui sul pavimento.» «Il medico legale sta ancora esaminando il cadavere?» «Oh, sì. Hanno prelevato campioni di ogni genere. La cosa si sta facendo sempre più strana.» Lucas si sedette a riflettere nel suo ufficio, sentendo i tormenti della depressione nel substrato della mente. Se avesse smesso di concentrarsi, sarebbero esplosi. Si costrinse a pensare: Druze aveva ucciso Cassie? Pareva probabile. Nei delitti, in generale, la risposta più ovvia è quella giusta... e in qualsiasi indagine criminale vi sono sempre anomalie. La pistola non sarebbe dovuta cadere prima del corpo di Druze, ma forse era avvenuto così. Uno dei tormenti venne a galla: se Cassie lo avesse identificato un giorno prima e l'amante avesse chiamato, fornendo una precisa conferma... Accidenti a Casanova. Lucas s'incupì, prese il telefono e chiamò la Omicidi. Sloan era a casa, dissero, aveva bisogno di dormire. Lucas gli telefonò, lo tirò giù dal letto. «Ieri notte, quando ero narcotizzato, ha telefonato nessuno?» «No.» «Hmm. A che ora abbiamo identificato Druze per la TV e comunicato la notizia che aveva commesso i delitti...?» «Stamane. Cioè, il nome di Druze lo hanno avuto ieri sera, verso la mezzanotte, ma soltanto il nome. La notizia completa degli omicidi da lui commessi l'abbiamo data stamane.» «Okay. Grazie.» Dopo chiamò TV3 e chiese di Carly Bancroft. «Sono Lucas. Avete fatto il nome di Druze nel telegiornale della notte?» «No, l'abbiamo avuto stamattina presto», rispose lei. «Mi sarebbe servito un po' d'aiuto.» «Ero... in cattive condizioni», disse Lucas. «E gli altri canali? Lo hanno
trasmesso?» «No, per quanto sappia. Il comunicato della polizia lo abbiamo captato stamane. Nessuno si è lamentato di essere stato battuto sul tempo, e lo avrebbero fatto con una notizia come questa. Quando puoi concederci un'intervista? Sei stato tu a trovarli, non è vero?» «Non posso per ora», rispose Lucas. «Ti richiamerò.» Riappese e rimase seduto a massaggiarsi le tempie. Casanova non aveva chiamato. L'auto di Jennifer era nel vialetto interno quando lui arrivò a casa. La superò lentamente mentre la serranda del box si sollevava, posteggiò all'interno e quando uscì, lei era scesa dalla sua macchina. «Come stai?» gli chiese. Portava un dolcevita nero e sopra un cardigan. Gli orecchini d'oro a cerchio erano visibili sotto i capelli biondi a caschetto. «Che cosa vuoi?» Colpita dalla sua voce fredda, lei arretrò. «Volevo vedere come stavi.» «È stata Elle a farti venire?» Jennifer stava con la schiena appoggiata alla portiera e Lucas la dominava. Le mani di lui erano strette a pugno nelle tasche. «Mi hanno detto che eri in difficoltà.» «Non ho bisogno del tuo aiuto. L'ultima volta che ne ho avuto bisogno, ho ricevuto una doccia fredda», disse lui. Girò sui tacchi e tornò nel box. «Lucas.» La sua mente correva come un treno merci: tutti i fatti, le supposizioni, i ricordi, i progetti e le possibilità filavano via sotto i suoi occhi come vagoni chiusi; impossibile fermarli. Jennifer. Occhi verdi. Labbra piene. Sarah, un fagottino che squittiva quando lui la lanciava in aria. Jennifer e Sarah insieme nella sala parto, alla casetta sul lago, Jennifer che faceva il bagno sotto il chiaro di luna, Sarah che cominciava a muovere i primi passi... Era a un bivio, lo sentiva, con diecimila opzioni possibili fra le quali non riusciva a districarsi. «Vattene», le disse. Ci provò, ma non riuscì a dormire. Troppe supposizioni. Infine, dando un'occhiata alla sveglia, chiamò l'Istituto di Belle Arti di Minneapolis e chiese fino a che ora stava aperto il negozio dei regali. Faceva in tempo. Si affrettò, cercando di non pensare. Doveva muoversi, non preoccuparsi delle pistole. Quelle erano nel seminterrato, luccicavano; che andassero a
farsi fottere. Nel negozio c'era soltanto la commessa, una donna annoiata, così ben vestita che Lucas la considerò una volontaria. «Desidera?» gli chiese. «Mi interessa un certo Odilon Redon. Che cosa avete di lui? Dei calendari?» Cinque minuti dopo era tornato in auto e cercava un pezzetto di carta. Trovò la ricevuta di un gommista. La rovesciò, la spianò bene sul manuale della Porsche che teneva sulla coscia, e cominciò a scrivere una nuova lista. Più tardi, rifuggendo dal letto, si sedette nella camera degli ospiti con una bottiglia di Canadian Club e guardò i suoi promemoria. Quello del Killer numero uno era completo: Druze. Uno gnomo, robusto, tarchiato, con la testa strana, che aveva ucciso Stephanie. Fin lì non c'erano più dubbi. Se agiva con Bekker, doveva aver ucciso anche George, perché Bekker era con Lucas. E Cassie, forse. Poteva aver ucciso la Armistead. E anche la donna al centro commerciale, ma perché? Quest'ultima era completamente fuori dello schema. Non uccisa in casa; non del mondo accademico, non dell'ambiente artistico... E da dove venivano le foto con gli occhi mancanti? Killer numero due. Esisteva? Era Bekker? Alcune impronte sul luogo dell'uccisione di George facevano pensare a un secondo uomo. Come avrebbe fatto Druze a trovare George se Bekker non glielo avesse indicato? (Possibilità: Aveva partecipato al funerale di Stephanie?) Perché avrebbe portato la jeep di George all'aeroporto? Come avrebbe potuto uccidere la Armistead? Perché la telefonata: una coincidenza, qualcuno che voleva entrare gratis? Le risposte erano nello schema, da qualche parte. Lucas ne aveva la sensazione, ma non arrivava a scoprirle. Prese la ricevuta del gommista che aveva in tasca. In cima aveva scritto: CASANOVA. Guardò il foglio, chiuse gli occhi e fece lavorare la mente. Alle sei del mattino telefonò a Del. «Devo venire a parlare con te», gli disse. Del conosceva bene la droga. «Cristo, che cosa fai in piedi alle sei? Sei peggio di me.» Lucas attraversò la città allo spuntare dell'alba di un altro giorno freddi-
no e nuvoloso. Erano iniziati i programmi radiofonici dell'ora dei pendolari, e lui passò dalle chiacchiere del disc jockey alla frequenza della polizia, ascoltando distrattamente mentre s'immetteva sulla I-94 in direzione di Minneapolis. Del lo aspettava alla porta in calzoncini ingialliti e maglietta senza maniche, stile Clark Gable. Quando Lucas gli disse che cosa voleva, Del scosse il capo e rispose: «Lucas, ti ammazzerai». «No. Ho solo bisogno di restare sveglio per un poco», replico l'altro. «So quel che faccio.» Del lo guardò, annuì, andò in camera e tornò con una confezione arancione. «Dieci dosi. Lavoro pesante. Ma non tirare troppo la corda.» «Grazie, amico», disse Lucas. Una voce di donna giunse dal fondo. «Del?» «Un minuto», rispose lui, sorridendo a Lucas. «Cheryl. Che cosa posso dirti?» L'eccitante lo animò. Si diresse a sud, vide che erano le sette. Sloan doveva essere in piedi. «Come ti senti?» chiese la signora Sloan quando gli aprì la porta. «Tutti me lo domandano», disse Lucas, sogghignando. Era una donna piccoletta e piuttosto in carne, materna e sexy allo stesso tempo. A Lucas piaceva. «Sloan si è alzato?» Lei girò la testa. «Sloan? C'è qui Lucas.» «Sono sulla veranda», gridò Sloan. «Ha un nome di battesimo Sloan?» chiese Lucas mentre passava davanti alla donna. «Non lo so, non gliel'ho mai chiesto», rispose lei. Sloan era seduto in veranda, fumava una sigaretta e mangiava una torta di ciliegie. Sul tavolino c'era una Coca Cola. «Una vera colazione da boscaiolo», osservò Lucas. «Non alzare la voce», disse Sloan. «Non sono ancora sveglio.» «Ho bisogno che tu vada a convincere delle persone per conto mio», disse Lucas. Sloan era il migliore della squadra per condurre interrogatori. Faceva parlare la gente. «Ho i nomi e gli indirizzi.» «A quale scopo?» domandò Sloan, prendendo il foglietto. «I loro bambini sono morti», rispose Lucas. «Vogliamo esumare le salme. E vogliamo farlo oggi.»
29 Beauty danzava e sanguinava, danzava e sanguinava, e alla fine cadde riverso sull'enorme tappeto orientale della sala da pranzo, a braccia e gambe allargate in una sorta di crocifissione. Non vi furono sogni di occhi. Né altri sogni. Non vi fu nulla. Il dolore lo fece svegliare. La luce del giorno filtrava dalle persiane e il suo corpo tremava dal freddo, i muscoli tesi vibravano. Si mise seduto e si guardò; gli parve di essere imbrattato di fango, poi si accorse che era sangue coaugulato. Quando tentò di mettersi in piedi, croste di sangue si staccarono e caddero sul tappeto. Qualcosa era cambiato. Lo sentì. C'era una differenza, ma quale? Non era in grado di ricordare. Si sforzò di farlo, ma la sua mente era confusa. Andò nel bagno, fece scorrere l'acqua nella vasca, ne guardò il getto, il turbinio, e cominciò a cantare come gli aveva insegnato la signora Wilson in quinta elementare: «Frère Jacques, frère Jacques, dormez-vous, dormez-vous?...» Il sangue si sciolse nella vasca, tinse l'acqua di rosa, e Beauty vi si immerse, se la buttò sul bel viso, e cantò tutte le canzonane di un alunno di quinta elementare. Lo specchio era appannato quando lui uscì dalla vasca. Questo lo irritava sempre, perché non poteva rimirarsi, doveva aprire l'uscio, far entrare aria fredda. Se usava un asciugamano per togliere il vapore, non otteneva mai l'immagine nitida. Aprì l'uscio e il freddo lo investì; la stimolazione gli fece quasi tornare la memoria. Quasi... Poco a poco si vide nello specchio. La faccia era lontana, pensò disorientato. Ma lui non era lontano. Era proprio lì... Toccò lo specchio con la mano e la faccia si avvicinò, l'orrore crebbe. Quello non era Beauty. Era... Bekker urlò, barcollò all'indietro, incapace di staccare gli occhi dallo specchio. Uno gnomo lo guardava. Uno gnomo dal viso rappezzato, gli occhi spalancati, come a sfidarlo. E il ricordo affiorò, l'appartamento, la pistola, Druze che cadeva come un pallone scoppiato. «No!» urlò Bekker allo specchio. Si prese i capelli ai lati e li tirò, con-
tento del dolore, sperando di rimuovere lo gnomo dalla sua coscienza. Ma gli occhi, freddi, crudeli, fluttuavano nello specchio, lo guardavano... Bekker fuggì nel corridoio; un altro degli specchi di lei, specchi dappertutto, specchi con occhi. Inciampò, cadde, strisciò sul pavimento, carponi, nudo, raggiunse la sua camera come una donnola, cercò a tasto il portasigarette. Era in preda al panico. Occhi dovunque, nella lucida superficie dell'antica testiera, nel vetro della finestra, sulla superficie dell'acqua in un bicchiere. Attesa. Non c'era posto per Beauty. Trangugiò tre capsule rosse di Nembutal, 100 mg di pentobarbital e le perle verdi, il Luminal, 30 mg di fenobarbital, tre, quattro, sei di queste. E poi le perle purpuree, lo Xanax, 1 mg di alprazolam. Troppi? Non sapeva, non ricordava. Forse non abbastanza. Prese con sé una riserva di pillole e a occhi semichiusi, evitando di guardare le superfici lucide, piagnucolando, strisciò nello spogliatoio, si nascose dietro gli indumenti appesi, fra scarpe e odori di oscurità. Il Nembutal gli fece effetto per primo, dandogli una modesta eccitazione, una eccitazione da Beauty. Non era quello che lui voleva. Gli occorreva calmarsi; e già mentre lo pensava, l'azione stimolante passò e subentrò l'effetto sedativo. Il Luminal lo avrebbe tenuto disteso per tutto il giorno, fin quando non avesse fatto i suoi piani per sistemare Druze. Lo Xanax gli avrebbe dato la calma necessaria. Un'altra voce gli parlò nella mente, lontana, appena razionale: Druze. Trova Druze. Bekker si guardò la mano mezza chiusa con le pillole. Avrebbe trovato Druze se le droghe lo tenevano su. Lucas attese. La seconda casa era su una modesta salita, rispetto alla strada principale: prato che rinverdiva, aiuole con i primi fiori di primavera. Una Ford Taunus station wagon era parcheggiata nel vialetto interno, l'auto del marito. Era arrivato un minuto dopo Sloan e Lucas. Lucas era rimasto in macchina, Sloan era entrato in casa. La droga stava cominciando la sua azione. Lucas si sentiva lucido e duro, e anche instabile. Ascoltava Chris Rea in musicassetta; erano canzoni su Daytona e lui batteva il ritmo con la mano. Sloan uscì, attraversò il prato con il foglio in mano. «Tutto fatto», disse. «La donna è stata disponibile, ma suo marito credevo che uscisse dai gangheri.»
«Basta che abbiamo ottenuto il consenso», commentò Lucas. La prassi dell'esumazione assunse una esagerata importanza. Una pala caricatrice frontale tolse un metro e mezzo di terra e la trasferì su un grande telo di canapa. Due becchini del cimitero spalarono a mano l'ultimo mezzo metro di terra, agganciarono la bara e la tirarono su. Lucas e Sloan seguirono il furgone dal cimitero al centro della città e quando la bara fu scaricata, entrarono nell'obitorio a parlare con il medico legale. Trovarono Louis Nett che stava indossando un lungo camice sopra i suoi abiti. «Ha saputo qualcosa dell'altro?» gli chiese Lucas. Il secondo bambino era stato sepolto nella cittadina di Coon Rapids, a breve distanza da Minneapolis. «Sta per arrivare», rispose Nett. «Se volete aspettare, posso darvi il responso in un paio di minuti... compatibilmente con le condizioni del morto.» «Che cosa ne pensa?» chiese Sloan. «Be', la bambina fu affidata alla Saloman Brothers. È una impresa molto accurata, e il corpo non è stato a lungo sottoterra. Penso che vi siano buone possibilità, se la bara è chiusa ermeticamente. Altrimenti, sapete...» Si strinse nelle spalle. «Si accettano scommesse.» «Aspettiamo», disse Lucas. «Potete venire a vedere», propose Nett. «No, no», disse Lucas. «Be', se non le dispiace, io verrei», disse Sloan. «Non ho mai visto questo.» L'ufficio del medico legale somigliava all'ufficio di un impiegato comunale o di un revisore di conti della contea, ma non certo al luogo dove si sezionavano scientificamente i morti. Le segretarie erano sedute davanti ai computer, ogni scrivania era contrassegnata da oggetti scaramantici: rane di porcellana, neonati dal sederino rosa, minuscoli angeli con le mani congiunte in preghiera, circolari di istruzioni degli organi superiori, disegni umoristici fotocopiati dai più bassi in grado. Nell'altra stanza stavano smembrando un'adolescente morta da molto tempo. Lucas si sedette sul divano e chiuse gli occhi, ma i suoi occhi non volevano stare chiusi. Li riaprì e fissò la parete, si mosse irrequieto, prese una vecchia rivista sulla caccia con l'arco, lesse poche parole, la rimise sul ta-
volino. L'orologio su una scrivania non occupata segnava le quattro e quindici. Nett aveva detto che si sarebbe sbrigato in due minuti. Alle quattro e mezzo Lucas si alzò e gironzolò per la stanza, mani nelle tasche. Sloan uscì per primo e Lucas gli andò incontro. «Hai vinto», annunciò Sloan. La morsa che chiudeva lo stomaco di Lucas si allentò. Lo avevano in pugno. «Gli occhi?» «Tagliati. Nett dice con un coltello acuminato o qualcosa del genere, io penso un bisturi. Una lama affilatissima.» «Possono fare delle foto?» «Veramente li stanno togliendo», disse Sloan. «Li mettono in boccette con formaldeide.» «Oh, Cristo.» 30 La giornata iniziò con una discussione. «Non sono diventata psicologa per consigliarti come distruggere la mente», disse Elle Kruger irata. «Non ho bisogno che mi si scarichino addosso scrupoli etici. Ne ho avuto abbastanza a scuola», rispose Lucas. «Ho bisogno di sapere che cosa accadrà, che cosa pensi che accadrà. Se non funzionerà, dillo. Se funzionerà... ti abbiamo detto che cosa fa lui. Vuoi che questo mostro si aggiri furtivo negli ospedali, facendo morire soffocati dei bambini? Perché tu hai scrupoli cattolici?» «Questa è una frase molto offensiva», disse la suora irritata. «Non l'accetto.» «Insomma, dimmelo», insistette Lucas. Discussero per un altro quarto d'ora. Alla fine lei cedette. «Se è l'uomo che tu pensi potrebbe funzionare. Ma se è intelligente come dici e se ragiona lucidamente, potrebbe fiutare la trappola. E allora sei rovinato.» «Dobbiamo affrettare i tempi», disse Lucas. «Esercitare un certo controllo.» «Ti ho detto quello che penso: potrebbe funzionare. Dovresti concedergli soltanto un flash, così, dopo, lui non saprebbe se lo ha visto davvero o solo immaginato. Non puoi fargli sperimentare... la materialità dell'imma-
gine. Non puoi mandargli una foto, o altro. Se ha una cosa solida in mano, se può sedersi a contemplarla, dirà a se stesso: Aspetta. Questa è reale. Come ha fatto a passare dalla mia mente alla realtà? E dopo te la farà pagare. Quindi devi affidarti alle impressioni visive, e più sono eteree meglio è. Un miraggio nel deserto.» «Ah», disse Lucas. «Servirà?» «Non si può giurarlo, Lucas, quando si tratta della mente umana. Questo dovresti saperlo, dopo lo scorso inverno.» Si guardarono, lui di qua e lei dall'altra parte della scrivania. Poi Lucas si alzò per andarsene. «Che decisione hai preso?» volle sapere la suora. «Lo metterò sotto pressione», rispose lui. «Perdio, ci vorrebbe la telecamera, così non lo sopporto.» Carly Bancroft era seduta accanto al posto di guida nella Dodge di Druze, e stava scegliendo dei cosmetici da scena in un cofanetto. L'abitacolo era opprimente, con loro due così vicini. In lei l'odore del sudore superava quello del profumo, e Lucas era sicuro di non emanare un odore migliore. «Potrai sempre fare la cronaca», disse Lucas. «Sarà una storia sensazionale.» «Non lavoro per un giornale. Non mi servono le parole. Ho bisogno di immagini», protestò lei. Lucas non aveva voluto la presenza della telecamera. Carly aveva una Nikon da trentacinque millimetri in una borsa a tracolla, ma continuava a dire che si sentiva nuda. «Non se l'aspettano questa storia.» «Non parlare mentre ti trucco.» Lucas si sentiva sciocco, seduto lì con la testa indietro mentre la giornalista lo truccava. Spinse in giù lo specchietto retrovisore e si guardò. «Sembro un mascherone», disse, cercando di non muovere le labbra. «Va benissimo», rispose lei. «Questo non è trucco comune, ma trucco teatrale. Sei fortunato che io abbia fatto un corso di truccatura. Stai fermo, accidenti, devo accorciarti il naso.» I suoi capelli erano già scuri come quelli di Druze, ma lei aggiunse un'ombra grigio-azzurra nella zona della barba e sotto il naso. Poi lo incipriò per rendere compatto il trucco. Perse molto tempo a mescolare toni di blu e ocra per dare al suo viso l'effetto di chiazze e cicatrici. Altri cosmetici gli arrotondarono il viso, anche se esso non era a luna piena come quello di Druze. Un asciugamano da
bagno avvolto attorno al torace lo rese più grosso. In tutto ci vollero venti minuti. Poi attesero. «Si è mosso», informò Sloan con voce uniforme. «Dammi il cappello», disse Lucas. La ragazza gli passò un vecchio feltro con la tesa abbassata sulla fronte. Lui se lo mise e usò il telefonino per chiedere: «Dov'è?» «Sta venendo. Due minuti. Sei pronto?» «Pronto», confermò Lucas. E alla Bancroft: «Vai dietro, semmai dovessero succedere imprevisti. Se tenti di sbirciare dal finestrino, ti decapito. E non mettere in mostra quella maledetta Nikon». «Dimmi che cosa succede», disse lei, scavalcando agilmente il sedile. Lucas colse una visione di gambe lunghe e dei suoi occhi azzurri. «Non farti vedere.» «Non mi è concessa un'occhiatina?» «Due isolati», disse Sloan. «Vediamo il semaforo. È rosso.» «Sta scattando adesso», informò un'altra voce. «Dimmi quando...» «Resterà un tempo brevissimo sul verde», disse Lucas alla Bancroft. «Mettiti giù.» «Ultimo incrocio, Lucas. Parti adesso», disse Sloan. Lucas si staccò dalla curva, fece la breve salita e la successiva discesa verso il semaforo. Vide l'auto di Bekker diretta allo stesso incrocio, con il lampeggiatore a sinistra. Il giallo e il rosso scattarono su comando degli agenti nell'auto di sorveglianza. Lucas frenò, si fermò, guardò Bekker dal parabrezza fumé. Non pensavano che l'uomo potesse vedere Lucas da quella distanza. La luce passò al giallo. «Ora andiamo», disse Lucas. «Stai nascosta.» Bekker, che segnalava la svolta a sinistra, avanzò al centro dell'incrocio, seguito dall'auto degli agenti. Lucas si mosse lentamente e quando incrociò l'auto di Bekker, guardò a sinistra dal finestrino. Aveva il bavero rialzato, il cappello calato, il viso in ombra. I loro sguardi s'incrociarono, e Bekker girò la testa di scatto dall'altra parte come se fosse stata tirata da un filo. Lucas accelerò per superare l'incrocio e proseguire verso la collina. «Si è bloccato all'incrocio, non riesce a far partire la macchina», lo avvisò Sloan. «Mi ha visto», gridò Lucas. E alla ragazza: «Puoi tirarti su».
«Ah, ci volevano delle immagini», si lamentò lei. «Davenport, mi stai uccidendo...» Bekker, sotto choc, era seduto in auto e piangeva, cercava di ripartire, ma quando ingranava la prima, il motore girava a vuoto e si spegneva. Bekker non pensò a inseguirlo. Sapeva che cos'era che aveva visto. Era stato chiuso nello spogliatoio per un giorno e una notte, un po' dormendo e un po' in stato di dormiveglia. Non sapeva quante pillole aveva preso, in quali dosaggi, ma poi, vedendo la luce del giorno e il portasigarette vuoto, era strisciato fuori dal nascondiglio. Gli occhi lo aspettavano. Tiratosi in piedi, era andato barcollante nel bagno, con il corpo pieno di dolori. La posizione rattrappita nello spogliatoio gli aveva paralizzato i muscoli. Dopo una doccia caldissima, i dolori gli avevano cancellato le immagini dalla mente. Si era vestito, aveva buttato giù una capsula nera, anfetamina, tanto per reggere un poco, e preso l'auto; aveva visto gli occhi nello specchietto retrovisore, lo aveva spostato, ed era partito. C'era una pizzeria a un chilometro e mezzo. Il semaforo rosso lo aveva bloccato. Una station wagon in direzione opposta... «Va avanti?» chiese Lucas. «Sì», rispose Sloan. «Lentamente, però. Penso che abbia dei problemi.» «È agitato», disse Lucas. «Lo vedi, conosceva Druze.» «Qualcosa non va», disse Sloan. «Sta facendo manovra. Torna indietro.» Gli agenti che lo seguivano tornarono con Bekker verso il centro della città. «Potrebbe essere diretto all'ospedale», disse Sloan. Lucas mise sul tetto della Dodge il segnalatore luminoso della polizia che aveva preso in prestito, e andò a tutta velocità verso l'università. La ragazza, che era tornata a sedersi davanti, gli sistemò la cintura di sicurezza. «Guidi male come un cameraman», gli disse, mentre allacciava l'altra cintura per sé. «Non ho molto tempo», disse Lucas. «Sai dove portare la macchina?» «Sì.» La sua voce era tesa, e lui sogghignò. «Sarai ripagata in pieno dopo questo.» «Figurati!» rispose lei. «Se i capi sapessero quel che sto facendo...» «Be'?» «Ora che ci penso, non so che cosa farebbero. Se avessi un servizio filmato, probabilmente si metterebbero in fila fuori della stazione con faccia
solenne.» Lucas saltò a terra in Washington Avenue, all'inizio di un cavalcavia. Risalendolo velocemente, avrebbe avuto il tempo di nascondersi nella facoltà di Chimica in fondo al cavalcavia. «Sta avvicinandosi allo svincolo, perciò hai tempo», disse Sloan. «È uscito.» Lucas salì sul cavalcavia, guardò a ovest, oltre il Mississippi. «Davenport.» Sentì la voce della Bancroft dall'altra parte, si girò e si sporse dal parapetto. Lei era in piedi su un muro del sindacato studentesco, la Nikon al viso. Lucas le fece cenno di allontanarsi, e andò avanti. «In Washington Avenue», lo avvisò Sloan. Uno studente, snello e capellone, con una palandrana alle caviglie e al collo una collanina con croce egizia, lo guardò con curiosità e disse: «Non può essere Cirano, con quel naso». «Smamma, ragazzo», disse Lucas. Si parò gli occhi dal sole mentre guardava in basso Washington Avenue. «Sul ponte», comunicò Sloan. «Okay», rispose Lucas. «Poliziotto?» chiese il ragazzo. «Vattene», disse Lucas. «Potresti mandare all'aria un'azione importante e io dovrei sbatterti in galera.» «È un buon argomento», rispose il ragazzo, allontanandosi in fretta. L'auto di Bekker era sul ponte, incanalata nel traffico. Lucas si acquattò sul cavalcavia in modo da non essere visto fino a quando Bekker non fosse arrivato a una trentina di metri da lui. Doveva concedergli appena un flash... Ora! Lucas si tirò su e guardò sul ponte. Bekker lo vide, la sua auto fece uno scarto. Lucas sparì, corse verso l'edificio della facoltà di Chimica. «Ti ha visto, ha accostato sul lato», gridò Sloan. «Si muove?» «No, è ancora lì.» Bekker era fermo sul ciglio della strada, la testa sul volante. Aveva paura di dormire, aspettava per muoversi. Ed ecco lì Druze, tornava... Fece una inversione a U, riattraversò il Mississippi, lasciò l'auto nel parcheggio di un dormitorio di studenti e andò a piedi alla biblioteca. Una squadra di altri agenti lo prese in consegna. In biblioteca Bekker consultò
un indice di Star Tribune, prese l'edizione giusta e annotò i particolari della morte di un vagabondo. Da una cabina pubblica telefonò all'obitorio. «Sto cercando di rintracciare mio padre, che... aveva problemi mentali», disse. «Non eravamo in contatto, io fui adottato da un'altra famiglia, ma ora ho saputo da un suo vecchio amico che lui è morto, e fu sepolto l'anno scorso a cura della contea... Non so se voi potete dirmi quali imprese di pompe funebri usate, sa, per trovare la sua tomba.» La contea usava quattro imprese, scelte in base a una gara di appalto annuale: Walker & Son, Halliburton's, Martin's e Hall Bros. Le chiamò in questo ordine. Con Martin's spese la sua ultima moneta. «Chiamo per il funerale di Carlo Druze.» «È venerdì.» «C'è la camera ardente?» «Be', di solito sì, ma devo controllare. Stia in linea.» La donna lo fece aspettare tre o quattro minuti. Quando tornò, gli chiese: «Lei è un parente del signor Druze?» «No... sono del teatro.» «La madre del signor Druze ha preso qualche accordo, che non include la camera ardente, ma ora sappiamo che diversi attori verranno, e pensiamo di esporlo dalle diciannove alle ventuno domani sera nella cappella rosa; sarà sepolto a Shakopee. Dovremo sentire se la madre è d'accordo.» Domani sera dalle diciannove alle ventuno... Bekker chiuse gli occhi. Lo seppellivano prima di quando si aspettasse o sperasse. Druze era morto da due giorni, e dopo altri due lo avrebbero sepolto. Lui aveva calcolato una settimana o più prima che dessero l'autorizzazione. Imbottito di droghe, avrebbe potuto reggere una settimana, non di più. Altrimenti avrebbe dovuto rinunciare e affrontare Druze nel terreno dei sogni. Ora era più facile. Domani sera e tutto sarebbe finito. 31 Bekker vide Druze due volte ancora, o pensò di vederlo: non seppe decidere se era una visione reale o un'immagine interiore. Lo vide a due isolati dalla sua casa, una figura scura che stava girando l'angolo. Bekker si fermò, a bocca aperta, con il giornale in mano, e la figura scomparve come un filo di nebbia. Lo rivide a metà pomeriggio,
quando passò in auto. Prima la sua attenzione fu attirata dall'auto, poi dalla figura alla guida, dietro il finestrino chiuso. Senti gli occhi di Druze su di sé. Ingurgitava Equanil come se fosse popcorn, e in più, ogni tanto, delle anfetamine; aveva paura di dormire, stava sempre nello studio da dove aveva tolto tutti gli specchi e i vetri. Ah, se avesse potuto passare la giornata a guardare il tappeto... Aveva difficoltà a pensare. Per stare bene doveva provvedere a Druze. Dopo si sarebbe eclissato, avrebbe cercato di disintossicarsi. Di fare a meno della droga... Che cosa? Non ricordava. Che gran fatica pensare. Le unità di pensiero, i concetti, parevano legati in fili di possibilità, fili troppo ingarbugliati per poterli seguire. Fece i suoi sforzi e intanto il tempo passò. La sede dell'impresa di pompe funebri era più tetra di come doveva essere, mattoni rosso scuro e pietra naturale, con l'edera ancora spoglia sul muro. Malsicuro, ansioso, ma pregustando il momento, Bekker passò in auto, una, due volte. C'erano macchine parcheggiate sulla strada e nel vialetto interno. La seconda volta vide aprire il portone e uscire un gruppetto di persone che si fermarono sui gradini a chiacchierare. Per lo più vecchiotti, portavano cappottoni invernali e cappelli scuri, come ricchi russi. Bekker rallentò, accostò l'auto al marciapiede, li osservò. Era una conversazione animata; discutevano? Impossibile dirlo. Dopo cinque minuti il gruppo si sciolse. Se ne tornarono a coppie, o in tre, alle rispettive auto e partirono. Bekker traccheggiò, ma poi non resse. Lo stimolo era troppo forte, e non c'era nessuno in vista. Credeva poco all'impiegato delle pompe funebri che si aspettava di vedere gli attori del teatro. Sebbene con quella gente non si potesse mai dire. Scese dall'auto, si guardò attorno, si mosse lentamente verso l'edificio. Una macchina passò e lui girò la testa. Un uomo lo guardava? Druze? Non fu sicuro. Ma che importava? Entro cinque minuti la cosa sarebbe stata fatta. La squadra di vigilanza era appostata. «È sceso dall'auto, osserva il portone», disse il più vicino, andando avanti. Non guardò Bekker che stava percorrendo il vialetto.
Non c'era dove nascondersi nella cappella rosa, ma le altre stanze erano peggio. Lucas pensò di perforare con un chiodo il pannello di legno della porta a due battenti in modo da spiare Bekker da quel forellino. Il direttore non gli permise di usare un chiodo, ma gli diede un trapano elettrico con punta finissima. Quando mise l'occhio allo spioncino, Lucas vide tutta la zona della bara. «Vai nella camera ardente, curvati su di lui», disse a Sloan. Del stava appoggiato alla parete, lievemente divertito. Sloan si piazzò accanto alla bara e guardò verso la porta a due battenti. Mise la mano sulla testa di Druze. E in quel momento la porta fu aperta da Lucas. «Non vedo la tua mano», disse Lucas. Diede un'occhiata circolare. «Ma penso che non si possa fare di meglio.» «Purtroppo, con la nicchia fatta così», disse Sloan, indicando la posizione della bara. Del sogghignò. «Sapete, potremmo mettere un pupazzo a molla sotto le sue palpebre e quando Bekker gliele apre, il pupazzo salta su.» «Bella idea», disse Sloan. «Il bastardo ci rimarrebbe secco.» «Oddio», esclamò Lucas, guardando il morto. «Contentiamoci del buco nella porta.» «Si muove», disse la voce al telefonino. Sloan guardò Lucas. «Nervi saldi?» «Sì», rispose Lucas. «Anch'io ho i nervi saldi», disse Del. Inconsciamente abbassò la mano al fianco dove teneva una cosa attaccata alla cintura. L'impiegato al banco era dei Servizi segreti, abituato ai travestimenti e alle missioni speciali. «Non c'è problema», disse. «Potrei vincere un Oscar, con il lavoro che faccio.» C'erano due squadre pronte a intervenire, più quelli che avevano seguito Bekker ed erano arrivati con lui. «È qui», comunicò una voce. «Passa oltre.» Bekker girovagò nelle vicinanze, per controllare, passò un'altra volta davanti all'edificio e alla fine si fermò. «È sceso dall'auto, guarda il portone», disse la voce. «Ognuno al suo posto», ordinò Lucas. Un pizzico di gioia raggiunse la sua anima. Fra cinque minuti... Bekker indossava impermeabile, cappello ripiegabile e guanti di pelle da
guidatore. Il bisturi, con il cappuccio di plastica sulla punta, era nel taschino della sua camicia. Il portone dell'impresa, pensò, somigliava a quello di un brutto chalet di montagna. Dentro, il caldo era eccessivo. Uno specchio antico, come quelli che aveva collezionato Stephanie, lo colse di sorpresa appena oltre la soglia. Trasalì, distolse lo sguardo, ma i suoi occhi tornarono a fissare. Druze era sparito. Beauty si rifletteva lì. Beauty aveva un bell'aspetto, pensò, ma appariva stanco. Insolite rughe solcavano la sua fronte, altre rughette erano agli angoli degli occhi. Un aspetto diverso, pensò, ma non privo di attrattiva. Da francese, forse, da uomo navigato... come quell'attore che si confezionava le sigarette. Qual era il suo nome? Non poté concentrarsi, la sua immagine fluttuava davanti a lui come un sogno. Poi cominciò a formarsi una massa scura dietro quella immagine, e... Girò subito gli occhi. Druze era là, lo aspettava ancora. «Buchanan?» «Cosa?» Bekker sobbalzò. Era tanto imbambolato per via dello specchio che non si era accorto dell'impiegato finché non se lo era trovato accanto. «È qui per il signor Buchanan?» L'uomo era comune, magro, con abito tradizionale, non si collegava alla morte, anche se lavorava in mezzo ai morti. Non aveva immaginazione. «No», rispose Bekker. «Il signor Druze.» «Ah, sì. Nella cappella rosa. Più avanti a destra.» Pareva un agente immobiliare che indica la disposizione delle stanze in una casa. La cappella rosa era la terza, la più piccola. «Grazie.» Lì regnava il silenzio, i suoni erano attutiti dai pesanti tendaggi e dai tappeti. Per non far sentire il pianto, immaginò Bekker. Mentre entrava, buttò un'occhiata indietro. L'impiegato gli voltava le spalle e stava tornando al suo posto. Il telefono suonò. L'uomo rispose e avviò una conversazione. Bene. Bekker andò avanti. Lucas, dal suo nascondiglio, udì il falso impiegato fare la domanda e Bekker rispondere. E udì il trillo del telefono. Preoccupati che il patologo, una volta lì, avesse paura ad agire, avevano ideato il trucco della telefonata; Sloan aveva chiamato da una stanza sul retro. Sentendo il prolungarsi della conversazione, Bekker avrebbe agito senza titubare. La cappella era piccola, e quindici sedie di legno scuro erano allineate
davanti alla bara. Le pareti d'un rosa pallido avevano un alto zoccolo in legno color avorio. Una porta a due battenti era di fronte a Bekker, e doveva immettere in altri locali dell'impresa. La sua larghezza pareva giusta per farvi passare una bara su un carrello. Il morto era esposto alla destra di Bekker, la bara stava su una predella all'interno di una nicchia con stucchi di rose dipinte a mano. La predella era coperta da un drappo a disegni di rose. Bekker vide il lato della testa di Druze e le sue grosse spalle nell'abito scuro. Beauty era insistente adesso, voleva la celebrazione, lo faceva muovere. Lui sentì in lontananza la voce dell'impiegato al telefono. La sua mano andò al taschino, trovò il bisturi. Tolse il cappuccio. Lui si accostò alla bara. Com'era grande la testa di Druze, pensò. Non una comune zucca, una grossa zucca. La faccia era stata corretta con il trucco, per cui i trapianti di pelle erano appena visibili. Il naso... per quello c'era stato poco da fare. Si accigliò. Peccato! Druze era stato quasi un amico. Con lui aveva potuto parlare. Ma era stato necessario ucciderlo. Lo aveva saputo fin dall'inizio. L'omicidio era una cosa che non si spartiva, se non con i morti. Lucas incollò l'occhio al foro nella porta. Non vide Bekker entrare, né avanzare con la sua bella faccia. Ma ora l'uomo si era fermato davanti alla bara, abbassava la testa. Lucas sentì il borbottio del collega al telefono, e dopo, fulmineamente, Bekker fu sopra Druze, curvo su di lui, la sua mano, non visibile, lavorava... Bekker si guardò alle spalle, poi allungò la mano sinistra e aprì una palpebra del morto. L'occhio era intatto, ma spento, secco, un pezzo di cuoio che fissava il soffitto. Con il cuore accelerato, la pressione nelle vene, il mormorio dell'impiegato che gli dava la necessaria sicurezza, Bekker conficcò la punta del bisturi nell'occhio di Druze, poi roteò il manico come fosse un cavatappi. Sentì sollievo, un senso di liberazione. Presto, presto. Boccheggiante, lavorò il secondo occhio, si guardò alle spalle, rigirò la lama nella ferita. Era libero. Glielo disse la sensazione di leggerezza. Fece un piccolo passo, manifestazione di Beauty, e tornò a guardare Druze. Le palpebre erano aperte, grinzose come frammenti di foglie morte. Il suo cuore batteva forte, di gioia, Beauty allungò la mano per abbassarle con cura; il bisturi era ancora nell'altra mano. «Hai inciso gli occhi, Mike?»
La voce lo investì come un secchio di acqua ghiacciata, distruggendolo, togliendogli il respiro. Ogni parola lo colpì come una pietra tagliente: Hai inciso gli occhi, Mike? Fece una piroetta, con il bisturi nella mano destra. Davenport era lì, appoggiato alla grande porta a due battenti, il giubbotto di pelle scura, pistola nelle mani, puntata non su Bekker ma di lato. Appariva teso, occhi dilatati, capelli sporchi, barba non fatta. Un assassino. Un altro arrivò da sinistra, e poi un terzo, Del, il cugino drogato di Stephanie. Dietro di loro il presunto impiegato. «Perché, se gli hai inciso gli occhi, Mike, ti arrestiamo anche per i bambini. Li abbiamo appena esumati e il medico legale dice che i loro occhi sono stati tagliuzzati da un coltello come quello, un bisturi. Non è un bisturi quello, Mike?» Bekker aveva perso l'uso della parola; quanto gli veniva detto rimbalzava nel suo cervello: Ti arrestiamo anche per i bambini, e Davenport balzò in avanti. Uno degli agenti disse: «Stai buono», ma Bekker non afferrò il senso. Lucas lo affrontò a muso duro, la pistola in pugno. Bekker era eccezionalmente bello nella luce soffusa della stanza, un violento contrasto con la faccia rappezzata e coriacea del morto. La mente di Lucas era ghiaccio puro; poteva fare qualsiasi cosa quando si sentiva così. In parte dipendeva dalla droga. Era in piedi da tre giorni, ma perfettamente sveglio e controllato, lucido più che mai. Si protese di lato a Bekker, ignorando il bisturi, e sollevò le palpebre di Druze con la mano sinistra. Bekker evitò di guardare. Lucas si ritirò e diede un'occhiata a Sloan. «Forati. Vuoi guardare?» Lucas urtò Bekker con il fianco e il medico cercò di indietreggiare. Il bisturi gli scivolò dalla mano. Cadde sullo spesso tappeto e la lama pareva un dito d'acciaio puntato contro di lui. «Incisi tutti e due... bel lavoretto», disse Sloan, curvandosi sul corpo di Druze. «Ma voglio sapere una cosa», Lucas disse a Bekker, usando un tono discorsivo, «perché hai ucciso Cassie Lasch? Che bisogno avevi di farlo? Non ti bastava eliminare Druze? Andavi da lui, gli piantavi la pistola all'orecchio e tiravi il grilletto. Le foto potevi metterle lì ugualmente e noi a-
vremmo colto il senso.» Bekker aveva la bocca aperta, ma non ne usciva alcun suono. «Ho bisogno di una risposta», disse Lucas. «Calmo», disse Sloan, acchiappando la manica della sua giacca. «Calmo, un corno», sbottò Del, balzando a fianco di Bekker. Con la faccia a pochi centimetri da quella di lui, gli disse: «Conoscevo Stephanie da molto prima di te, Mike. Amavo quella ragazza. Perciò sai una cosa?» Bekker, stretto fra Lucas e Del, si rattrappì contro la parete, ma non rispose. «Sai una cosa?» gridò Del, con gli occhi fuori dalle orbite. «Ehi, ehi», ammonì il finto impiegato. Prese Del per la giacca. «Che cosa?» gracidò Bekker, con un filo di voce. «Te ne darò tante da farti sputare l'anima, caro mio», disse Del. La sua destra disegnò un arco e colpì Bekker sul naso. L'uomo urtò contro il muro, con il naso rotto e il sangue che gli colava sul mento. Sollevò le braccia e le incrociò davanti al viso. «Calmati», strillò Sloan. Tentò di passare davanti a Lucas che però lo respinse e intanto Del aveva assestato altri due colpi a Bekker, destro e sinistro, evitando la debole difesa dell'uomo. La testa di Bekker batté due volte sul muro come il martelletto di un giudice, e il suo sopracciglio mostrò una ferita. L'agente dei Servizi segreti si mise alle spalle di Del, e Sloan lo abbracciò dal davanti, spingendolo di lato. Bekker mugolava, si teneva una mano sul naso e il suo pareva il lamento del moribondo. «Basta, basta!» gridò Sloan. Trascinarono via Del e Bekker osò guardare. «No, non basta», disse freddamente Lucas, che era a meno di un metro da lui. Sloan e l'altro agente faticavano a reggere Del e nello stesso tempo buttavano occhiate verso Lucas. La pistola roteò come una frusta, girata dalla parte del mirino. «Ti ricordi di Cassie, bastardo?» disse Lucas, in un tono che era tanto lamento quanto grido. Lo afferrò al collo con la sinistra. L'uomo ebbe appena il tempo di rattrappirsi prima che il mirino gli tagliasse guancia e lato del naso, lasciandovi un solco frastagliato. Il dolore colse Bekker come fuoco ardente. Lucas, preciso, scattante, con la disinvolta coordinazione del drogato, colpì Bekker una dozzina di volte, sempre con il mirino. Ferì la fronte, due, tre volte, spaccò le sopracciglia, disegnò solchi sanguigni sul naso, la guancia sinistra, poi la destra, tagliuzzò le labbra, le
mani... Sloan assalì Lucas da dietro, lo avvinghiò con un braccio mentre lui sferrava un'ultima sventola con la pistola, aprendo una ferita sul mento di Bekker con l'efficacia di una motosega. Con il vuoto mentale e un solo obiettivo, Lucas si accorse appena delle braccia di Sloan che lo stringevano, dell'altro agente che lo sollevava da terra, e della squadra che irrompeva nella stanza e immobilizzava Bekker. Anche mentre Lucas cadeva, i suoi occhi fissavano Bekker, le sue mani si tendevano verso di lui. Sloan cercò di strappargli la pistola, tenendo il pollice sotto il cane. Lucas era conscio del peso sul suo torace, e di Sloan: Sloan che guardava altrove, guardava Bekker e la sua scia di sangue sulla parete. Nel vedere la sua faccia, esclamò: «Oh, Cristo, oh, Cristo». Era una maschera di sangue e carne arricciata. Perfino Druze ne avrebbe avuto ribrezzo, se fosse stato vivo. In una decina di minuti il mondo si rimise in moto. Lucas sedeva su una panca di legno dell'ingresso, con Sloan accanto. Del era nel corridoio, con le mani nelle tasche. L'agente dei Servizi segreti, altri due in divisa e gli infermieri erano con Bekker. Quando lo portarono fuori in barella, uno degli infermieri teneva in alto il flacone pieno di liquido per la fleboclisi. Bekker era cosciente. Un occhio era gonfio e quasi chiuso, l'altro aperto. Vide Lucas, lo riconobbe, e un suono scaturì dalle sue labbra rovinate. «Che cosa?» domandò Lucas. «Fermatevi... Che cosa ha detto?» I barellieri si fermarono e guardarono l'uomo che faceva grandi sforzi per tirarsi su e mettere insieme le parole, mentre il sangue gli bagnava l'occhio aperto. «Avresti dovuto...» Non ce la fece più; dopo si riprese, una bolla di sangue gli si formò sulle labbra. «Che cosa?» insistette Lucas. Si chinò su di lui e la bolla di sangue scoppiò. «Avresti dovuto...» «Che cosa, bastardo?» gli gridò Lucas, mentre Sloan lo afferrava per le braccia. «...uccidermi.» Bekker tentò di sorridere. Le sue labbra spaccate glielo impedirono. «Stupido.»
32 Lucas era seduto fuori dell'ufficio di Daniel, a poca distanza dalla scrivania della segretaria. Lei aveva tentato di far conversazione, ma per poco. Quando suonò l'interfono, accennò con la testa verso la porta del capo e Lucas entrò. «Vieni», disse Daniel. La sua voce era formale, non così il suo ufficio. La scrivania era invasa di carte e sullo schermo del computer un cursore ambrato lampeggiava a metà di una colonna di numeri. Un lieve odore di sigaro aleggiava nell'aria. Daniel gli indicò la poltrona degli ospiti. «Che maledetta settimana. Come stai?» «Sottosopra», rispose Lucas. «Conoscevo Cassie da pochi giorni, e non penso che avremmo durato... ma accidenti. Lei mi tirava su. Mi sentivo quasi umano.» «Stai per ricadere nel baratro?» Daniel appariva dubbioso, preoccupato. «Cristo, spero di no», disse Lucas, passandosi le mani aperte sulla faccia. Era esausto. Dopo l'arresto, era andato a casa ed era crollato, aveva dormito la notte e tutto il giorno dopo; lo aveva svegliato la telefonata di Daniel. «Qualsiasi cosa ma non quella.» «Hmm.» Daniel raccolse un sigaro spento, se lo rigirò nelle dita. «Hai saputo della segreteria telefonica?» «No, sono stato fuori circolazione.» «Uno degli agenti che erano sulla scena del delitto... conosci Andre?» «Sì.» «Andre stava perquisendo l'ufficio di Bekker e una segretaria gli ha detto di avere visto il dottore uscire dall'ufficio accanto al suo. Aveva pensato che Bekker ci andasse per tenere in ordine la stanza del collega che è in Europa con una borsa di studio. A ogni buon conto Andre ha telefonato al tizio in Europa, gli ha raccontato i fatti, ha ottenuto il suo okay, e hanno perquisito l'altro ufficio. Lì c'era la segreteria telefonica ed era in funzione. Andre ha premuto il pulsante e l'apparecchio si è fermato; ha fatto riavvolgere il nastro e dopo ha ascoltato le registrazioni incise. C'era un messaggio di Druze a Bekker in cui gli diceva che era tutto a posto... Siamo andati alla società dei telefoni e abbiamo controllato: la chiamata era stata fatta mezz'ora dopo l'uccisione della donna a Maplewood. Dopo c'è un altro breve messaggio, poche parole, di Bekker questa volta.» «Ecco la prova.» «Sì. E un paio di altre cose si aggiunge agli elementi che abbiamo.»
«Che ne è di Casanova?» chiese Lucas. «Ho tolto Shearson dalla sorveglianza dello psicoanalista. Shearson pensa che sia lui, ma non lo sapremo mai. A meno che lui non si faccia avanti e ce lo dica.» Daniel rotolava il sigaro nei palmi delle mani. La sua espressione era più che infelice. «Qual è in problema?» chiese Lucas. «Merda.» Daniel scaraventò il mozzicone contro la parete con un colpo di rovescio ed esso rimbalzò dal ritratto in bianco e nero di Robert Kennedy, cadendo sul pavimento. «Sputa l'osso», disse Lucas. Daniel ruotò sulla sedia girevole e guardò fuori della finestra. La primavera era ormai arrivata, le giornate si allungavano. La via era soleggiata, sebbene la temperatura si aggirasse sui cinque-dieci gradi. «Lucas... Dannazione. Hai pestato Bekker. La sua faccia... E ti ricordi come hai picchiato quel protettore, Whitcomb? Il suo avvocato è tornato agli Affari interni: la famiglia del giovane non crede alla faccenda del protettore, dice che l'angioletto è caduto nelle mani di un cattivo poliziotto. Minacciano un'azione legale.» «Abbiamo già risolto cose del genere», sottolineò Lucas. «Non come questa. Qui c'è lotta. E queste persone non hanno potuto difendersi.» «Whitcomb è un violento spudorato», disse Lucas, protendendosi verso la scrivania. «Il suo avvocato ha visto la ragazza?» «Sì, sì. Whitcomb è un criminale, ma tu non dovresti esserlo. E ora si è sparsa la voce che ti sei introdotto in casa di Druze. Lo sanno in troppi. Se cercassi di negarlo davanti al giudice, ti renderesti spergiuro. E c'è di più.» «Vale a dire?» «Un tale di Canale Otto avrebbe intenzione di sporgere formale denuncia perché tu hai concesso speciali privilegi a una giornalista di TV3. Non sarebbe un grosso guaio, normalmente, solo che Barlow è venuto a saperlo e ha concluso che tu le hai passato informazioni riservate sulle indagini.» «Questo potresti bloccarlo sul nascere», disse Lucas. «Sì. Questo. O qualsiasi delle altre cose. Ma tutto insieme...» «Vai al nocciolo», disse Lucas. «Che cosa vuoi dirmi?» Daniel sospirò, si girò e si protese sulla scrivania. «Non posso salvarti.» «Non puoi salvarmi?» ripeté Lucas con calma pensosa. «Ti metteranno sulla graticola», disse Daniel. «I nostri tromboni e un paio di consiglieri comunali... E io non posso farci un cacchio. Li avevo
informati che, forse, tu avevi avuto dei problemi psicologici, ma si stavano risolvendo. E loro hanno detto: stronzate. Se è matto, toglilo del servizio operativo. E tu hai ucciso delle persone. Hai visto l'editoriale di Pioneer Press? 'Il nostro serial killer... '» «Oh, Cristo», disse Lucas. Si alzò e fece il giro della stanza, guardando tutte le foto in bianco e nero, le sorridenti facce degli squali, una vita da politici. Si fermò all'arazzo Hmong, al calendario meteorologico. «Sono spacciato?» «Potresti controbattere, ma sarebbe piuttosto dura», disse Daniel. «Ti chiederebbero spiegazioni sulla violazione di domicilio, la rissa con Whitcomb e la faccia di Bekker... Insomma, guarda una foto di come Bekker era prima e di come è adesso. Perdio, sembra Frankenstein. In aggiunta a tutto questo non hai fatto il minimo sforzo per guadagnarti la palma della popolarità.» «C'è gente della stampa...» «Ti salteranno addosso come topi», disse Daniel. «Nulla dà più soddisfazione a un editorialista che vedere qualcuno silurato dal posto di lavoro.» «Ho degli amici...» «Sicuro. Me, per esempio. Io testimonierei a tuo favore, ma, come ho detto — ed essendo un politico, so quel che dico — non posso salvarti. Come amico ti dico questo: se ti dimetti, posso far mettere tutto a tacere. Provvedere affinché chiudano un occhio. Tu ne esci pulito. Se deciderai di opporti alle accuse, io sarò dalla tua parte, ma...» «Non servirebbe a niente.» «No.» Lucas fissava distrattamente il calendario, poi annuì e tornò a guardare Daniel. «Sapevo di avere giocato quasi tutte le mie carte», disse. «Si sta rovesciando troppa lordura. Quasi quasi era meglio...» «Che cosa?» «Era meglio se ammazzavo Bekker, accidenti.» «Non parlare a questo modo. Con nessuno», lo consigliò Daniel, puntandogli contro un dito. «Non potresti che pentirtene.» «Quando me ne vado?» Daniel sollevò la testa. «Presto. Diciamo adesso.» «Hai un foglio di carta intestata del reparto?» chiese Lucas. S'ingobbì sulla scrivania e scrisse due sole frasi:
Vi prego di accettare le mie dimissioni dal corpo di polizia di Minneapolis. Ho fatto con passione il mio lavoro, ma ritengo che sia giunto il momento di dedicarmi ad altri interessi. «Venti fottuti anni», disse amaramente, mentre metteva il puntino sulle i. «Mi rincresce», rispose Daniel. Si era girato di nuovo e guardava fuori della finestra. «Naturalmente puoi andare in pensione, se vuoi.» «Al diavolo la pensione.» Lucas si guardò la mano, notò che reggeva un foglietto rosa, quadrato, la ricevuta del gommista. Sul retro c'era una lista con scritta in alto la parola CASANOVA. L'appallottolò e lo lanciò in direzione del cestino di plastica che era dietro la scrivania di Daniel, in una rientranza del muro. La pallina di carta batté sul bordo, e i due la videro rimbalzare sul tappeto. «Ho messo la data di domani, ho delle cose ufficiali da sistemare. E desidero passare a Del alcune mie pratiche.» «Va bene. Del... so che ha pestato Bekker, ma lui non ha i precedenti...» «Certo. Se nascono problemi, se gli Affari interni indagano su di lui, di' loro che parlino con me. Mi assumerò tutta la responsabilità.» «Non occorre. Come ti ho detto, posso arginare la cosa, se non c'è qui la tua presenza a renderli battaglieri. E posso fare di più. Accettare le tue dimissioni e metterti nella riserva.» «La riserva? Che cavolo sarebbe?» Daniel fece un gesto sconsolato. «Non c'è niente, per adesso. Ma forse, se ne esci pulito, se lasci decantare la situazione, potremmo riprenderti... Magari non a tempo pieno, ma, diciamo, in qualità di consulente...» «Mi sembra una stronzata», disse Lucas. Guardò un attimo Daniel, poi disse: «Potresti fare di più che arginare... ma non puoi, non è vero?» Daniel ruotò sulla poltrona, incerto. «Come?» «Non puoi avermi tra i piedi. Io sarei...» Guardò Daniel per un lungo minuto, poi scosse la testa e disse: «Tolgo il disturbo». Daniel, ancora confuso, disse precipitosamente: «Fai qualcosa, Lucas. Sei uno dei più intelligenti che io abbia mai avuto. Studia giurisprudenza. Diventeresti un grande avvocato. Hai denaro: gira il mondo per un poco. Non sei mai stato in Europa». Quando fu alla porta, Lucas si fermò e guardò di nuovo Daniel, ora in piedi alla scrivania, con le mani nelle tasche. Aprì la bocca per dirgli qualcosa, scosse il capo e uscì, tirandosi dietro la porta.
Andò nell'archivio delle prove di reato, firmò per avere la cassetta del caso Bekker e guardò il contenuto. La prova fisica era lì, calchi in gesso delle impronte di scarpe rilevate sul luogo di sepoltura di George nel Wisconsin, frammenti della bottiglia usata per uccidere Stephanie Bekker, il martello impugnato per uccidere la Armistead, le lettere scritte dall'amante di Stephanie. Erano stati usati riproduttori a nastro per conservare le impronte dei piedi dell'amante sul pavimento della camera da letto di Stephanie Bekker. Li avevano sigillati in buste di plastica con l'etichetta sopra. Quelli erano spariti. Dopo tale controllo, Lucas prese la giacca, chiuse il suo ufficio, salì le scale per uscire, passando vicino alla statua di Nettuno, bizzarra ma interessante, e fu in strada. Dove andare? Si aspettava il richiamo delle pistole, custodite nel seminterrato. Sarebbero state luccicanti, come un marchio luminoso di solennità. «Ti è rimasto poco, testone», disse a voce alta a se stesso mentre camminava verso l'angolo. «Ehi, Davenport.» Un agente in divisa lo chiamava dal portone del municipio. «Qualcuno ti cerca.» «Non lavoro più là», gli gridò di rimando Lucas. «Neppure questa persona», disse l'agente, tenendo la porta aperta e guardando in basso. Sarah, in vestitino rosa e scarpette bianche, venne avanti a cercarlo, e quando lo vide il suo visino si aprì a un sorriso felice. Aveva il succhiotto in mano, lo agitava e gorgogliava. Jennifer era un passo indietro, e mostrava un rossore, forse, d'imbarazzo. Tutta la scena era talmente preparata che fece ridere Lucas. «Vieni, piccola», disse, accosciandosi e battendo le mani. Sarah assunse una espressione decisa e arrivò come un fiume in piena, finendo nelle braccia del padre. «Potremmo parlare, se non è troppo tardi», disse Jennifer, mentre Lucas mandava in aria la bambina. «Non è troppo tardi», rispose lui. «Da come eri l'altra sera...» «Ero incazzato», disse Lucas. «Sai di...» «Sloan ha raccolto delle voci, e mi ha chiamato», disse Jennifer. Pungolò la bambina sulla pancia e Sarah si aggrappò al collo del padre, sorriden-
do alla madre. «Ho idea che Sarah avrà un futuro in TV. L'ho istruita su come doveva uscire dalla porta, e lei lo ha fatto in modo naturale. Ha detto anche la battuta esatta.» «Bambina in gamba.» «Quando parliamo?» Lucas allungò lo sguardo sulla strada, verso il Metrodome. «Non ho voglia di fare niente oggi. Desidero sedermi e vedere se riesco a sentirmi bene. C'è una partita dei Twins...» «Sarah non c'è mai stata.» «Vuoi vedere la partita, stellina? Non sono i Cubs, ma al diavolo.» Lucas si mise Sarah a cavalcioni sulle spalle e lei gli afferrò un orecchio e si attaccò al padre con il succhiotto in mano. Lui fu colpito da uno spruzzo di saliva. «T'insegnerò a fare grida di protesta. Forse troveremo un sacchetto da metterti in testa.» Quando Lucas se ne fu andato, Daniel raccolse le sue carte e scaricò il mucchio nel cestino della posta da evadere, spense il computer e fece il giro nella stanza, guardando le facce dei suoi politici. Decisioni amare, sofferte. «Gesù», disse sommessamente. Sentì il cuore accelerato, la sferzata di adrenalina, un pizzico di paura. Ma ormai si era alla conclusione, tutto finito. Tornò verso la scrivania, vide la pallina di carta che Lucas aveva lanciato, mancando il cestino. La raccolse con l'intenzione di buttarvela dentro, ma notò lo scritto a penna sul retro. Spianò il foglio sulla scrivania. Nella chiara scrittura di Davenport, sotto l'intestazione CASANOVA lesse: Robusto, biondo con principio di calvizie. Somiglia a Philip George. Non può consegnarsi alla polizia né trattare: poliziotto. Nessun capello nel tubo di scarico della vasca o sul letto: poliziotto. Massima alterazione della voce: mi conosce. Stette con S. Bekker nel gruppo di studio per il Civilian Review Board. Sapeva che Druze era l'assassino. Non ha richiamato dopo l'annuncio sul giornale e le immagini trasmesse in TV: sapeva già che Druze era morto e che era stato lui a uccidere S. Bekker. Aveva sul calendario la riproduzione di un quadro di fiori di Redon; lo
stesso calendario all'Istituto delle Belle Arti ha il quadro del ciclope per il mese di novembre; l'ha cambiato con un calendario meteorologico. Assegna cazzate per dare la caccia a un falso amante. Dopo uno spazio, scarabocchiato in fondo, aveva aggiunto: Deve liberarsi di me. Ecco spiegato chi ha mosso gli Affari interni. «Porca miseria», disse Daniel fra sé. Girò l'occhio verso il calendario che stava in mezzo alle foto dei politici, i quali parevano guardare lui e il foglio raggrinzito. Frastornato, tornò alla finestra, vide Davenport che sollevava in aria una bambina. Davenport sapeva. Avrebbe voluto corrergli dietro. Dirgli che gli dispiaceva. Non poté farlo. Si sedette, invece, alla scrivania, e con la testa nelle mani pensò. Non era più riuscito a piangere dopo gli anni della fanciullezza. Casanova, talvolta, avrebbe tanto voluto farlo. FINE