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LINDSEY DAVIS LA MANO DI FERRO (The Iron Hand Of Mars, 1992) A Rosalie in ricordo di due legionari romani della Ventinovesima Personaggi principali (Non tutti quelli che sono liberi di comparire) L'IMPERATORE VESPASIANO che ha bisogno di un agente di cui può fidarsi, e cioè: MARCO DIDIO FALCO un investigatore che ha bisogno di lavorare e che vuole: ELENA GIUSTINA che vuole l'impossibile, ma non: TITO CESARE che vuole Falco fuori dai piedi Inoltre a Roma, o nei dintorni: UNA VEDOVA DI VEII un semplice diversivo (davvero!) CANIDIO un sudicio segretario di archivi censurati BALBILLO un ex legionario con una gamba sola e senza peli sulla lingua XANTO un barbiere tagliente che vuole vedere il mondo SILVIA moglie di Petronio (che si tiene alla larga) DECIMO padre di Elena, un uomo sempre in cerca di scuse, padre anche di: CAMILLO ELIANO (in Spagna); un giovanotto arrogante E nella Storia: P. QUINTILIO VARO un generale disastroso (morto da tempo) PETILIO CERIALE un famoso generale (meno disastroso di Varo) CLAUDIA SACRATA una donna amante delle tresche (preferibilmente con i generali) MUNIO LUPERCO un ufficiale scomparso (probabilmente mor-
to) GIULIO CIVILE un capo ribelle che ha bisogno di un taglio di capelli VELLEDA una sacerdotessa che vive sola con i suoi pensieri e: ALCUNI SUOI PARENTI che vivono lì anche loro In Gallia: UN VASAIO GALLICO che sarà presto molto lontano da Lugdunum DUE VASAI GERMANICI che forse non torneranno mai a casa In Germania: DUBNO un venditore ambulante che vende più di quanto dovrebbe GIULIO MORDANTICO un vasaio che conosce alcune cose REGINA una ragazza collerica che serve ai tavoli della taverna Medusa AUGUSTINILLA nipote di Falco, sofferente d'amore e di mal di denti ARMINIA la sua piccola biondissima amica Appartenenti alla famosa Quattordicesima legione: FLORIO GRACILE il loro legato; un altro ufficiale introvabile MENIA PRISCILLA sua moglie, che non sente la sua mancanza GIULIA FORTUNATA la sua amante, che dice di sentirla RUSTICO il suo schiavo, introvabile e basta IL PRIMIPILO beffardo centurione capo della Quattordicesima IL CORNICULARIO l'altezzoso capo del segretariato A. MACRINO l'arrogante tribuno anziano S. GIOVENALE il truculento prefetto dell'accampamento Nella molto meno famosa Prima legione: Q. CAMILLO GIUSTINO l'altro fratello di Elena; un tribuno ingenuo
ELVEZIO un centurione con un problema, che comprende: DAMA il suo servitore, che si strugge per la Mesia, e inoltre: VENTI RECLUTE PIUTTOSTO OTTUSE fra cui: LENTULLO quello che non sa fare niente Compaiono anche: L'URO un animale leggendario noto per la sua ferocia e: TIGRE un cane che trova un osso interessante
PRIMA PARTE Il rifiuto di partire ROMA Settembre, 71 d.C. Non posso negare che sia stato Vespasiano a far iniziare la mia carriera pubblica e che Tito l'abbia fatta progredire... TACITO, Storie I «Una cosa è certa» dissi a Elena Giustina. «Non andrò in Germania!» Mi accorsi subito che stava già pensando a cosa mettere nei bagagli per il viaggio. Eravamo a letto nel mio appartamento, in cima all'Aventino. Una vera e propria tana di cimici al sesto piano, solo che la maggior parte delle cimici si stancava di salire le scale ancora prima di arrivarci. A volte le sorpassavo, distrutte di stanchezza sui pianerottoli intermedi, con le antenne flosce e le zampette esauste... Di quel posto si poteva solo ridere, altrimenti lo squallore vi avrebbe spezzato il cuore. Perfino il letto era malfermo. E questo dopo che ci avevo messo una gamba nuova e avevo teso la rete del materasso. Stavo provando un nuovo modo di fare l'amore con Elena, che avevo inventato per impedire alla nostra relazione di esaurirsi. La conoscevo da un anno, mi ero lasciato sedurre da lei dopo sei mesi passati a pensarci su e finalmente, circa due settimane prima, ero riuscito a convincerla a venire a vivere con me. In base alla mia precedente esperienza di donne, dovevo essere sul punto di farmi dire che bevevo troppo e dormivo troppo, e che sua madre aveva urgente bisogno di lei a casa. I miei sforzi atletici per mantenere vivo il suo interesse non erano passati inosservati. «Didio Falco... dove hai imparato... questo giochetto?» «L'ho inventato io...» Elena era figlia di un senatore. Aspettarmi che resistesse al mio stile di vita osceno per più di due settimane era come forzare il destino. Solo uno sciocco avrebbe visto nella sua scappatella con me qualcosa di diverso da
un intermezzo divertente nell'attesa di sposare un panciuto pollastro in uniforme patrizia in grado di offrirle ciondoli di smeraldi e una villa estiva a Sorrento. Da parte mia, l'adoravo. Questo faceva di me lo sciocco che continuava a sperare di riuscire a prolungare quella scappatella. «Non ti diverti!» Come investigatore privato, le mie capacità di deduzione erano appena sufficienti. «Non credo...» disse Elena boccheggiando «che la cosa funzioni!» «Perché no?» Le ragioni, in effetti, erano svariate. Avevo un crampo al polpaccio sinistro, un dolore acuto sotto un rene, e il mio entusiasmo appassiva come quello di uno schiavo costretto a stare in casa in un giorno di festa. «Uno di noi» propose Elena «dovrebbe ridere.» «In uno schizzo approssimato sul retro di una vecchia tegola pareva funzionare.» «Come le uova in salsa di pesce. La ricetta sembra facile, ma il risultato è un disastro...» Risposi che non eravamo in cucina, così Elena chiese con aria pudica se pensavo che l'esserci sarebbe servito. Poiché il mio dormitorio dell'Aventino era privo di una simile amenità, considerai retorica la domanda. Ridemmo entrambi, se la cosa può interessare. Poi mi districai e feci l'amore con Elena nel modo che tutti e due preferivamo. «In ogni caso, Marco, come fai a sapere che l'imperatore vuole mandarti in Germania?» «Voci maligne che circolano per il Palatino.» Eravamo ancora a letto. Dopo che il mio ultimo caso era faticosamente giunto a quella che passava per una conclusione, mi ero ripromesso una settimana di quiete domestica. Per mancanza di nuovi incarichi, c'erano parecchi vuoti nel calendario della mia vita lavorativa. In realtà, non avevo nemmeno un caso. Potevo restare a letto tutto il giorno, se mi andava. Lo facevo quasi sempre. «E così...» Elena era una tipa ostinata. «... Hai chiesto in giro allora?» «Abbastanza per sapere che la missione dell'imperatore può addossarsela qualche altro gonzo.» Dato che a volte svolgevo qualche incarico ambiguo per Vespasiano, ero salito a Palazzo per esaminare le possibilità che avevo di guadagnare un
corrotto denario da lui. Prima di presentarmi nella sala del trono, avevo preso la precauzione di fiutare l'aria che tirava nei corridoi. Una mossa accorta: l'incontro tempestivo con un vecchio compare di nome Momo mi aveva spinto a tornarmene precipitosamente a casa. «C'è molto in programma, Momo?» avevo chiesto. «Bazzecole. Ho saputo che ti hanno assegnato il viaggio in Germania...» mi rispose (con una risata beffarda che mi diceva che era qualcosa da evitare). «Quale viaggio?» «Esattamente la catastrofe che fa per te» aveva detto Momo sogghignando. «Una qualche indagine sulla Quattordicesima legione gemina...» A quel punto mi ero tirato il mantello sulle orecchie e avevo tagliato la corda, prima che qualcuno potesse comunicarmelo in modo ufficiale. Sapevo abbastanza sulla Quattordicesima per voler evitare a qualsiasi costo contatti più ravvicinati e, senza bisogno di rivangare le cronache passate, non c'era alcun motivo perché quei gradassi vanagloriosi dovessero gradire una mia visita. «Ma l'imperatore ha effettivamente parlato con te?» insistette la mia amata. «Elena, non glielo permetterò. Non vorrei mai recargli offesa rifiutando la sua proposta straordinaria...» «La vita sarebbe molto più lineare se solo gli permettessi di chiedertelo e poi ti limitassi a rispondergli di no!» Le rivolsi un sorrisetto che diceva che le donne (perfino le figlie intelligenti e ben educate dei senatori) non avrebbero mai potuto capire le sottigliezze della politica, al che lei, come risposta, mi spinse con entrambe le mani mandandomi lungo disteso giù dal letto. «Dobbiamo mangiare, Marco. Fila a cercare lavoro!» «E tu che cosa pensi di fare?» «Imbellettarmi il viso per un paio d'ore, nel caso passi a trovarmi il mio amante.» «Oh, giusto! Me ne vado e gli lascio il campo libero...» Scherzavamo sull'amante. Be', almeno speravo. II Nel Foro la vita procedeva più o meno come al solito. Per gli avvocati
era la stagione del panico. Con la fine di agosto termina la possibilità di presentare nuove cause prima dell'intervallo invernale, così la basilica Iulia era tutta in fermento. Eravamo alle none di settembre e la maggior parte dei patrocinatori legali, ancora abbronzati dopo le vacanze a Baiae, si affannavano per dirimere qualche causa veloce così da giustificare il loro rango sociale prima della chiusura dei tribunali. Attorno al Rostro c'erano i loro soliti rumorosi imbonitori, che offrivano ricompense ai capi delle claque perché irrompessero nella basilica a fischiare l'opposizione. Mi feci largo a spallate. All'ombra del Palatino, una processione di funzionari di uno dei collegi sacerdotali seguiva composta un'attempata vergine vestita di bianco nella Casa delle Vestali. Lei gettava occhiatacce in giro con l'aggressività di un'anziana signora eccentrica che vorrebbe essere circondata da uomini meno inclini a mostrarle rispetto tutto il giorno. Intanto, sui gradini dei templi di Saturno e di Castore, schiere di fannulloni sessuomani oziavano, adocchiando qualunque cosa (non solo femminile) che meritasse un fischio. Un edile piuttosto furioso stava ordinando alla sua marmaglia in armi di far spostare un ubriaco che aveva avuto la pessima idea di svenire sulla meridiana del lastricato alla base del Miglio Aureo. Il clima era ancora estivo. C'era ovunque un forte odore di sterco di asino appena sfornato. Proprio di recente avevo preso le misure di un pezzo di muro sul Tabularium. Ero venuto armato di spugna e con pochi abili colpi lavai subito via la propaganda elettorale che insozzava l'antica struttura di pietra ("Con l'appoggio delle manicuriste delle terme di Agrippa"... il solito candidato sofisticato). Una volta che ebbi cancellato le sue scempiaggini oltraggiose dal nostro patrimonio architettonico rimase parecchio spazio, proprio all'altezza degli occhi, perché potessi riempirlo di graffiti col mio gesso: Didio Falco Per qualunque indagine riservata + legale anche domestica. Buone referenze + tariffe convenienti Alla lavanderia dell'Aquila Corte della Fontana Allettante, vero? Sapevo che cosa mi avrebbe procurato quasi certamente: ambigui fun-
zionari delle importazioni ansiosi di verificare la salute finanziaria di ricche vedove che stavano corteggiando, o gestori di qualche osteria d'angolo che si preoccupavano di ragazze scomparse. I funzionari non saldano mai il conto, ma gli osti possono tornare utili. Un investigatore privato può andare avanti intere settimane a cercare donne introvabili e poi, quando (semmai) si stufa di mettere piede nelle mescite di vino, deve solo far notare al cliente che le cameriere scomparse di solito vengono ritrovate con il cranio sfondato, nascoste sotto le tavole del pavimento a casa dei loro fidanzati. Di regola questo fa sì che il conto della sorveglianza venga pagato in modo ultra rapido, e a volte capita perfino che gli osti lascino la città per un lungo periodo, con beneficio di Roma. Mi piace pensare che il mio lavoro abbia un valore sociale. Naturalmente anche un oste può essere una sciagura. Se la fidanzata è scomparsa davvero, essendo scappata con un gladiatore, si passano comunque settimane a cercarla, finendo con l'impietosirsi per quello stupido gonzo che ha perduto la sua pacchiana tortorella al punto da non riuscire a chiedergli di pagarvi il compenso... Andai alle terme per un po' di esercizio con il mio istruttore, nell'eventualità che fossi riuscito a trovarmi un caso che comportasse qualche fastidio. Poi andai in cerca del mio amico Petronio Longo. Era il capitano della ronda dell'Aventino, cosa che lo costringeva a trattare con ogni tipo di individui, molti dei quali privi di scrupoli abbastanza da poter avere bisogno delle mie prestazioni. Petro mi mandava spesso del lavoro, se non altro per evitare di doversi occupare lui stesso di personaggi molesti. Non era in nessuno dei suoi ritrovi abituali, così andai a casa sua. Trovai solo sua moglie, e non si può dire che mi fece una festa di benvenuto. Arria Silvia era una donna graziosa dalla corporatura minuta; aveva mani piccole e un naso ben fatto, con la pelle morbida e sopracciglia sottili come quelle di un bambino. Tuttavia il suo carattere, e l'opinione velenosa che si era fatta di me, non avevano nulla di tenero. «Come sta Elena, Falco? Ti ha già lasciato?» «Non ancora.» «Lo farà!» sentenziò Silvia. Era una battuta scherzosa, anche se piuttosto caustica, e la trattai con circospezione. Lasciai un messaggio per informare Petro che ero a corto di stimoli professionali, poi battei velocemente in ritirata. Già che ero da quelle parti, feci un salto da mia madre. Mamma era fuori
a fare visite. Non ero in vena di stare a sentire le mie sorelle lamentarsi dei propri mariti, così rinunciai alla parentela (decisione niente affatto difficile) e me ne tornai a casa. Mi si presentò una scena allarmante. Avevo attraversato il fetido vicolo in direzione della lavanderia di Lenia, l'attività di lavaggio a buon mercato con annesso furto di tuniche che occupava il pianterreno del nostro edificio, quando mi accorsi che un gruppetto di rozze canaglie guarnite di fibbie stazionava nella tromba delle scale cercando di non dare nell'occhio. Un compito superiore alle loro forze: le scene di battaglia sulle corazze lucide sfavillavano da fermare una clessidra, figuriamoci un passante, e dieci bambini risoluti li circondavano ammirando a bocca aperta i cimieri scarlatti degli elmi e sfidandosi a vicenda a infilare bastoncini fra le cinghie dei calzari di quegli uomini imponenti. Era la Guardia pretoriana. L'intero Aventino doveva sapere che erano lì. Non ricordavo nulla di recente su cui i militari potessero sollevare obiezioni, così assunsi un'andatura innocente e proseguii. Questi eroi erano fuori dal loro ambiente raffinato e parevano nervosetti. Non mi sorprese che due spade sbattessero insieme davanti al mio petto sbarrandomi il passo sui gradini. «Calma, ragazzi, non strappatemi il corredo; questa tunica ha ancora qualche decennio di vita davanti...» Una lavandaia emerse dal vapore con un sogghigno sul viso e una cesta di roba sporca particolarmente disgustosa. Il sogghigno era per me. «Amici tuoi?» domandò in tono di scherno. «Non insultarmi! Saranno andati ad arrestare qualche attaccabrighe e avranno perso la strada...» Era evidente che non erano lì ad arrestare nessuno. Qualche fortunato cittadino di quest'infima categoria sociale stava ricevendo in visita un membro della famiglia imperiale, in incognito, se si esclude la vivace presenza della sua guardia del corpo. «Che succede?» domandai al centurione che li comandava. «Cose riservate! Circolare!» Ormai avevo intuito chi era la vittima (io) e il motivo della visita (indurmi con le buone ad accettare la missione in Germania su cui Momo mi aveva messo in guardia). Avevo brutti presentimenti. Se la missione era così speciale e così urgente da richiedere un simile trattamento personale, comportava di sicuro quel genere di impegno che non mi sarebbe affatto piaciuto. Indugiai, chiedendomi quale dei Flavi arrischiasse i suoi princi-
peschi piedi nel fango puzzolente del nostro vicolo. L'imperatore in persona, Vespasiano, era troppo importante e troppo sensibile al proprio prestigio per mescolarsi con la plebe. E poi, era sopra i sessanta. A casa mia non sarebbe mai riuscito a salire le scale. La mia strada aveva incrociato quella del suo figlio minore, Domiziano. Una volta avevo smascherato un lavoretto sporco di Cesare junior; questo significava che ora Domiziano sarebbe stato ben felice di vedermi eliminato dalla faccia della terra, e io provavo lo stesso per lui. Tuttavia, in società ci ignoravamo a vicenda. Doveva trattarsi di Tito. «Tito Cesare è venuto a trovare Falco?» Era abbastanza impulsivo da farlo. Per far sapere all'ufficiale che disprezzavo la segretezza ufficiale, con un dito scostai garbatamente le punte delle spade dalla lucentezza impressionante. «Sono Marco Didio. Meglio che mi lasci passare così potrò sentire quali delizie la burocrazia sta apparecchiando adesso per me...» Mi lasciarono passare, anche se con un'occhiata sarcastica. Forse immaginavano che il loro eroico comandante si fosse abbassato a una tresca male assortita con una fanciulla dell'Aventino. Senza alcun tentativo di affrettarmi, poiché sono un fervente repubblicano, mi avviai su per le scale. Quando entrai, Tito stava conversando con Elena. Mi arrestai di botto. Le occhiate che avevo visto scambiare fra i pretoriani incominciavano ad avere più senso. E io incominciavo a pensare di essere stato uno stupido. Elena era seduta fuori sul balcone, un piccolo aggeggio aggrappato pericolosamente alla facciata del nostro edificio, con i vecchi sostegni di pietra tenuti insieme soprattutto da vent'anni di sporcizia. Sebbene lo spazio fosse sufficiente a un tipo informale come me per sederle accanto sulla panca, Tito era rimasto educatamente in piedi accanto alla porta. Di fronte a lui si estendeva una straordinaria veduta della grande città governata da suo padre, ma Tito la ignorava. Secondo me, con Elena da guardare, chiunque l'avrebbe fatto. Era evidente che Tito la pensava allo stesso modo. Aveva la mia stessa età, era un tipo ottimista e riccioluto che non si sarebbe mai lasciato inacidire dalla vita. Nel mio alloggio così poco regale, le foglie di palma incrostate d'oro che ricamavano la sua tunica creavano un effetto contrastante, eppure Tito riusciva a non sembrare fuori posto. Aveva una personalità affascinante ed era a proprio agio ovunque andasse. Era affabile e, pur essendo un pezzo grosso, colto fino alle cinghie dei sandali; un versatile uomo di successo in politica, e anche senatore, gene-
rale, comandante dei pretoriani, benefattore di edifici civici, protettore delle arti. Come se non bastasse, era anche di bell'aspetto. Io avevo la ragazza (anche se non l'avremmo ammesso pubblicamente); Tito Cesare aveva tutto il resto. Nel momento in cui lo vidi parlare con Elena, il suo viso aveva un'espressione compiaciuta e fanciullesca che mi fece digrignare i denti. Se ne stava appoggiato alla porta con le braccia conserte, ignaro del fatto che i cardini potessero cedere. Sperai che lo facessero. Avrei voluto che facessero finire Tito, con la sua splendida tunica scarlatta, lungo disteso con la schiena sul mio pavimento fatiscente. In realtà nell'istante stesso in cui lo vidi lì, preso dalla conversazione con la mia ragazza, sprofondai in uno stato d'animo in cui quasi ogni genere di tradimento pareva una brillante idea. «Ciao, Marco» disse Elena, facendo fin troppa attenzione ad assumere un'espressione distaccata. III «'Giorno» borbottai. «Marco Didio!» Il giovane Cesare mostrava una spontanea simpatia. Non mi lasciai incantare, conservando la mia espressione immusonita. «Sono venuto a dirti che mi dispiace per la perdita del tuo appartamento!» Tito si riferiva a un appartamento che avevo affittato di recente e pregevole sotto ogni punto di vista... a parte il fatto che mentre questa disgustosa catapecchia riusciva in qualche modo a stare in piedi a dispetto di qualsiasi legge della fisica, l'altro era crollato in una nuvola di polvere. «Bella bicocca. Costruita per durare» dissi. «Cioè, per durare circa una settimana!» Elena ridacchiò. Il che offrì a Tito la scusa per dire: «Ho trovato la figlia di Camillo Vero che aspettava qui; la stavo intrattenendo...». Doveva aver saputo che cercavo di avanzare qualche diritto su Elena Giustina, ma preferiva far finta che lei fosse un modello di modesto decoro alla ricerca di un principe sfaccendato con cui passare le ore del giorno. «Oh grazie!» ribattei in tono tagliente. Tito lanciò a Elena un'occhiata di ammirazione che mi fece sentire escluso. L'aveva sempre ammirata, cosa che io avevo sempre detestato. Fui sollevato vedendo che nonostante ciò che mi aveva detto, non si era truccata gli occhi come se aspettasse visite. Aveva un aspetto delizioso. Indossa-
va un abito rosso che mi piaceva, con agate su sottili anelli d'oro che le pendevano dalle orecchie e i capelli scuri raccolti semplicemente con pettini. Aveva un viso risoluto e intelligente, un po' troppo controllato in pubblico, sebbene in privato si ammorbidisse come miele al sole. Una cosa che amavo, a patto che fossi il solo per il quale si scioglieva. «Tendo a dimenticare che voi due vi conoscete!» commentò Tito. Elena rimase in silenzio, aspettando che spiegassi a Sua Cesarità gli esatti termini della nostra conoscenza. Mi trattenni ostinatamente. Tito era il mio protettore; se mi dava un incarico, lo svolgevo per lui in modo adeguato, ma nessun giovane gaudente di Palazzo si sarebbe mai impadronito della mia vita privata. «Che cosa posso fare per te, signore?» Per chiunque altro il mio tono avrebbe costituito un pericolo, ma nessuno che amasse la vita minaccerebbe il figlio dell'imperatore. «Mio padre vorrebbe parlarti, Falco.» «E così i buffoni di Palazzo sono in sciopero? Se Vespasiano è a corto di risate, vedrò che cosa posso fare.» A tre piedi di distanza, gli occhi marroni di Elena avevano assunto una fermezza implacabile. «Grazie» contraccambiò Tito con noncuranza. I suoi modi soavi mi davano sempre l'impressione che avesse individuato il punto in cui la salsa di pesce mi aveva macchiato la tunica il giorno precedente. Era una sensazione che in casa mia mi indignava profondamente. «Abbiamo una proposta da farti...» «Oh, straordinario!» risposi ingrugnito, con il cipiglio tetro di chi vuol fargli capire che è stato avvertito dell'atrocità della proposta. Lui si allontanò con calma dalla porta, che ondeggiò terribilmente ma rimase in piedi. Fece un lieve cenno a Elena, lasciando intendere che pensava fosse qui per parlare di affari con me e quindi non voleva intromettersi. Elena si alzò educatamente mentre lui si dirigeva verso la porta d'ingresso, ma lasciò che fossi io ad accompagnarlo fuori come se fossi il solo proprietario. Entrai e incominciai a giocherellare con la porta sgangherata. «Qualcuno dovrebbe dire a Sua Eccellenza di non appoggiare la sua augusta persona alla mobilia plebea...» Elena rimase in silenzio. «Hai la tua espressione sussiegosa, mia cara. Sono stato sgarbato?» «Immagino che Tito ci sia abituato» rispose Elena in tono pacato. Avevo trascurato di baciarla e sapevo che lei l'aveva notato. Volevo farlo, ma or-
mai era troppo tardi. «Il fatto che Tito sia così alla mano induce le persone a dimenticare che stanno parlando con l'uomo associato al trono dell'imperatore e futuro imperatore lui stesso.» «Tito Vespasiano non dimentica mai chi è esattamente!» «Non essere ingiusto, Marco.» Digrignai i denti. «Che cosa voleva?» Lei parve sorpresa. «Chiederti di incontrare l'imperatore... per parlare della Germania, presumo.» «Per chiedermi quello avrebbe potuto mandare un messaggero.» Elena incominciava ad avere l'aria stizzita con me, così naturalmente mi incaponii ancora di più. «In alternativa, avrebbe potuto parlare lui stesso della Germania mentre era qui. E con maggior riserbo, se la missione è delicata.» Elena allacciò le mani davanti alla vita e chiuse gli occhi, rifiutandosi di litigare. Poiché di solito mi rimbecca alla minima occasione, la cosa in sé era già una cattiva notizia. La lasciai fuori sul balcone e mi stravaccai all'interno. Sul tavolo c'era una lettera. «Questa pergamena è per me?» «È mia» gridò lei. «È di Eliano dalla Spagna.» Si riferiva al maggiore dei suoi due fratelli. Mi ero fatto l'impressione che Camillo Eliano fosse uno di quei giovani bastardi con le orecchie a punta in compagnia dei quali non mi avrebbero mai visto bere; siccome però non l'avevo mai incontrato di persona, rimasi in silenzio. «Puoi leggerla» propose lei. «La lettera è tua!» rifiutai inflessibile. Andai nella stanza interna e mi sedetti sul letto. Sapevo esattamente perché Tito era venuto a farci visita. Non aveva niente a che fare con alcuna missione che mi stava prospettando. Non aveva assolutamente niente a che fare con me. Prima di quanto mi aspettassi, Elena entrò e venne a sedermisi tranquillamente accanto. «Non litighiamo!» Anche lei aveva l'aria avvilita mentre districava le mie dita, costringendomi a tenerle la mano. «Oh, Marco! Perché la vita non può essere semplice?» Non ero dell'umore giusto per la filosofia, ma la mia espressione tetra si fece più amorevole. «Allora che cosa aveva da dire il tuo regale ammiratore?» «Stavamo solo parlando della mia famiglia.» «Oh, davvero!» Ripassai mentalmente l'albero genealogico di Elena,
come doveva aver fatto Tito: senatori da generazioni (il che era più di quanto potesse vantare lui stesso, provenendo dalla classe media, da una famiglia sabina di esattori delle imposte). Il padre era un tenace sostenitore di Vespasiano, la madre una donna dalla reputazione immacolata. I due giovani fratelli compivano il loro dovere civico lontano dalla patria e almeno uno dei due era destinato a finire al Senato. Mi era stato assicurato da tutti che ci si aspettava grandi cose dal nobile Eliano. E Giustino, che avevo conosciuto, sembrava un ragazzo perbene. «Tito aveva l'aria di gradire la conversazione. Ha parlato di te?» Elena Giustina: educazione liberale, carattere vivace, fascino intenso e fuori moda, nessuno scandalo (a parte me). Era stata sposata una volta, ma aveva ottenuto il divorzio consensuale e in ogni caso l'uomo ormai era morto. Lo stesso Tito era stato sposato due volte: una volta era rimasto vedovo, l'altra aveva divorziato. Io non ero mai stato sposato, pur essendo il meno innocente dei tre. «È un uomo... ha parlato di sé» rispose lei in tono beffardo. Emisi un brontolio. Era una ragazza con cui la gente amava parlare. Anche a me piaceva parlare con lei. Era la sola persona con la quale potessi parlare praticamente di tutto, e questo secondo me ne faceva una mia prerogativa. «Sai che è innamorato della regina Berenice di Giudea?» Elena abbozzò un breve sorriso. «Allora ha tutta la mia simpatia!» Il sorriso non era particolarmente dolce, e non era proprio diretto a me. Dopo un momento aggiunse in tono più dolce: «Di che cosa ti preoccupi?». «Di niente» dissi. Tito Cesare non avrebbe mai sposato Berenice. La regina giudea aveva alle spalle una storia vivacemente esotica. Roma non avrebbe mai accettato un'imperatrice straniera, né tollerato un imperatore che avesse suggerito di importarne una. Tito era romantico, ma realista. Il suo affetto per Berenice doveva essere sincero, ma un uomo nella sua posizione avrebbe potuto benissimo sposare qualcun'altra. Era l'erede dell'impero romano. Suo fratello Domiziano possedeva alcune doti familiari, ma non tutte. Tito aveva messo al mondo una giovane figlia, ma nessun figlio maschio. Poiché i Flavi, nel reclamare la porpora, avevano promesso di offrire stabilità all'impero, la gente avrebbe probabilmente sostenuto che era suo dovere procurarsi una rispettabile moglie romana. Parecchie donne, rispettabili o meno, speravano di certo che lo facesse. Che cosa avrei dovuto pensare, dunque, trovando questo autorevole per-
sonaggio in conversazione con la mia ragazza? Elena Giustina era una compagna premurosa, graziosa e d'indole dolce (quando voleva); aveva sempre buonsenso, tatto e un alto concetto del dovere. Se non si fosse innamorata di me, Elena sarebbe stata esattamente il genere di donna che Tito avrebbe dovuto cercarsi. «Marco Didio, io ho scelto di vivere con te.» «Perché all'improvviso te ne esci con questo?» «Hai l'aria di uno che potrebbe averlo dimenticato» disse Elena. Anche se mi avesse lasciato l'indomani, non avrei mai potuto dimenticarlo. Ma questo non voleva dire che potessi guardare con fiducia al nostro futuro insieme. IV Quella che seguì fu una settimana strana. Mi sentivo oppresso dal pensiero del terrificante viaggio in Germania che incombeva minaccioso su di me. Un lavoro era qualcosa che non potevo permettermi di rifiutare, ma un'escursione alle selvagge frontiere tribali dell'Europa era in cima alla lista dei divertimenti da evitare. Poi mi resi conto che controllavo l'appartamento in cerca di qualche segno che Tito si fosse aggirato nei dintorni. Non ne trovai, ma Elena si accorse che cercavo, e questo provocò ulteriore tensione. Il mio annuncio al Foro mi portò anzitutto uno schiavo che ovviamente non sarebbe mai stato in grado di pagarmi. Inoltre, cercava il fratello gemello perduto da tempo, cosa che un mediocre drammaturgo poteva forse considerare una ricerca interessante ma a me sembrava un lavoro noioso. Successivamente fui avvicinato da due funzionari in cerca di eredità, da una pazza che si era convinta che Nerone fosse suo padre (voleva che lo dimostrassi e questo mi indusse a pensare che fosse un po' tocca) e da un cacciatore di ratti. Quest'ultimo era il tipo più interessante, ma quello che gli serviva era un certificato di cittadinanza. Sarebbe stata una tranquilla giornata di lavoro presso l'ufficio del censore, ma non mi presto alla falsificazione di documenti neppure per personaggi affascinanti. Petronio Longo mi mandò una donna che voleva sapere se il marito, che era stato sposato in precedenza, aveva dei figli di cui teneva nascosta l'esistenza. Riuscii a dirle che non ce n'era nessuno registrato. Mentre mi occupavo di questo caso scovai un'altra moglie, da cui non aveva mai divorziato formalmente. Questa donna adesso era felicemente sposata con il pro-
prietario di una polleria (uso "felicemente" nel senso convenzionale; immagino che fosse arrabbiata con la vita come chiunque altro). Decisi di non avvertire la mia cliente. Un buon investigatore risponde a ciò che gli è stato chiesto, poi batte in ritirata. Il caso di Petro fruttò abbastanza argento da avere triglie per cena. Spesi il resto in rose per Elena, per darmi l'aria di un uomo pieno di prospettive. Sarebbe stata una serata felice, se solo lei non mi avesse informato proprio allora di averne di proprie: Tito l'aveva invitata a Palazzo con i genitori, ma senza di me. «Fammi indovinare... un banchetto riservato che rimarrà fuori dall'elenco degli impegni pubblici. Quand'è?» La vidi esitare. «Giovedì.» «Pensi di andarci?» «Non ne ho nessuna voglia.» Il viso era teso. Se la sua rispettabile famiglia d'alto rango avesse mai subodorato la possibilità di un legame con la stella della corte imperiale, la pressione su Elena sarebbe diventata intollerabile. Un conto era che se ne fosse andata di casa mentre i genitori non avevano altri progetti. Dato che aveva già avuto un matrimonio infelice, suo padre mi aveva detto esplicitamente di esitare a spingerla a tentare di nuovo. Camillo Vero era un tipo fuori dal comune: un padre coscienzioso. Tuttavia, dovevano esserci stati dei problemi dopo che lei se n'era andata. Elena mi aveva protetto dalla maggior parte delle bordate, ma io so contare i nodi in una tavola di legno. Volevano che tornasse, prima che tutta Roma venisse a sapere che se la faceva con un misero investigatore e i poeti satirici incominciassero a raccontare lo scandalo nelle loro odi scurrili. «Marco, oh Marco, quella sera voglio proprio passarla con te.» Elena pareva turbata. Stava pensando che sarei dovuto intervenire, ma non c'era niente che io potessi fare per scongiurare quella sventura; solo lei poteva respingere Tito. «Non guardare me, amor mio. Non vado mai dove non sono invitato.» «Questa è una novità!» Detesto le donne ironiche. «Marco, ho intenzione di dire a papà che ho un impegno precedente che non posso disdire, con te.» Mi sembrava che cercasse di eludere il problema. «Mi dispiace» dissi in modo lapidario. «Giovedì vado a Veii. Devo indagare su una vedova per uno dei miei clienti a caccia di eredità.» «Non puoi andarci un altro giorno?»
«Abbiamo bisogno del compenso. Approfitta dell'occasione!» dissi con sarcasmo. «Vai a Palazzo e divertiti. Tito Cesare è un tenero pezzo di lardo proveniente da un'ottusa famiglia di campagna: non avrai problemi a gestirlo, mia cara... ammesso, naturalmente, che tu lo voglia!» Elena si fece ancora più pallida. «Marco, ti sto chiedendo di stare qui con me!» Qualcosa nel suo tono mi turbò. Ma ormai ero così preso dall'autocommiserazione che mi rifiutai di cambiare i miei progetti. «Significa molto per me» mi avvertì Elena in un tono pericoloso. «Non ti perdonerò mai...» Questo mise fine alla discussione. Le minacce delle donne tirano fuori il peggio di me. Andai a Veii. Veii si rivelò un vicolo cieco. In qualche modo me l'aspettavo. Trovai la vedova abbastanza facilmente; tutti a Veii ne avevano sentito parlare. Che possedesse o meno una fortuna, era una bruna impertinente dallo sguardo vivace che mi confessò in tutta franchezza di menare per il naso quattro o cinque spregevoli spasimanti, uomini che si erano dichiarati buoni amici del suo defunto marito e che ora pensavano di poter diventare per lei amici anche migliori. Uno di costoro era un esportatore di vini, che vendeva numerose partite di disgustoso torcibudella etrusco ai galli, chiaramente quello con maggiori probabilità se la ragazza si fosse risposata con qualcuno. Dubitavo che volesse prendersi il disturbo: si stava divertendo troppo. Io stesso ricevetti da parte della vedova qualche allusione al fatto che un soggiorno a Veii mi avrebbe fatto bene, ma durante il viaggio ero stato perseguitato dal ricordo dell'espressione implorante di Elena. Così, imprecando e ormai definitivamente pentito, mi affrettai a tornare a Roma. Elena non era nell'appartamento. Doveva essere già uscita per andare a Palazzo. Uscii a mia volta e mi ubriacai con Petronio. Essendo un uomo sposato, aveva anche lui le sue tensioni ed era quindi sempre lieto di rendersi disponibile a passare una serata fuori per consolarmi. Tornai a casa tardi, di proposito. La cosa non riuscì a indispettire Elena perché lei non tornò a casa affatto. Immaginai che avesse trascorso la notte dai genitori. Era già abbastanza grave. Quando non riapparve alla Corte della Fontana la mattina dopo, fui preso dal terrore. V
Adesso ero davvero una pulce che annega in un barile di salsa di pesce. Esclusi a priori che Tito l'avesse sequestrata. Era troppo onesto. Inoltre, Elena era una ragazza risoluta. Non l'avrebbe mai tollerato. Non me la sentivo proprio di presentarmi a casa del senatore, supplicando di essere informato su quanto stava accadendo. Tanto per cominciare, qualunque cosa fosse, la sua famiglia ricca e potente ne avrebbe incolpato me. Trovare donne scomparse era il mio lavoro. Trovare la mia donna sarebbe stato facile come sgranare piselli. Almeno ero certo che se era stata assassinata e inchiodata sotto le assi del pavimento, il pavimento non era il mio. L'idea non era particolarmente consolante. Cominciai dove sempre si incomincia: ispezionai l'appartamento per vedere che cosa si era lasciata indietro. Dopo aver tolto di mezzo i miei detriti, la risposta fu: non molto. Non era venuta portandosi molti vestiti o gioielli, e la maggior parte adesso era sparita. Trovai per caso una delle sue tuniche, appallottolata con uno dei miei stracci, una forcina per capelli di giaietto dalla mia parte del letto, un vaso di steatite con la sua crema da viso preferita che era ruzzolato dietro la cassapanca... Nient'altro. Arrivai con riluttanza alla conclusione che Elena Giustina aveva svuotato il mio appartamento delle sue cose e se ne era andata offesa. Sembrava un taglio netto, finché non notai un indizio. La lettera di suo fratello Eliano si trovava ancora sul tavolo nel punto in cui era quando lei mi aveva invitato a leggerla. A quel punto la lessi. All'inizio me ne pentii. Poi fui lieto di sapere. Eliano era il tipo indolente e superficiale che di solito non si disturba a corrispondere con la famiglia, sebbene Elena gli scrivesse regolarmente. Lei era la maggiore dei tre figli di Camillo e trattava i fratelli minori con quel genere di affetto all'antica che in altre famiglie era volato fuori dalla finestra alla fine della Repubblica. Avevo già capito che Giustino era il suo preferito; le sue lettere in Spagna erano più che altro un dovere. Era scontato che Camillo Eliano, venendo a sapere del suo legame con un plebeo dalla professione sordida, le scrivesse una lettera così piena di invettive che la lasciai cadere disgustato. Eliano era verde di rabbia per il danno che Elena aveva arrecato al nome della loro nobile famiglia. E lo esprimeva con tutta la rozza veemenza di un giovane poco più che ventenne. Elena, che era una ragazza così legata alla famiglia, non poteva che restarne profondamente ferita. Doveva avere meditato tristemente sulla cosa
senza che io me ne accorgessi. E poi era comparso Tito, con la sua minaccia di sciagura... Era tipico di lei non dire quasi niente. E tipico di me voltarle le spalle nel momento in cui finalmente chiedeva aiuto. Non appena lessi quella lettera mi venne voglia di stringerla fra le braccia. Troppo tardi, Falco. Troppo tardi per consolarla. Troppo tardi per proteggerla. Troppo tardi per tutto, a quanto pareva. Non fui sorpreso quando arrivò un breve messaggio risentito indirizzato a me, in cui Elena diceva di non sopportare più Roma e che era partita. VI E fu così che mi lasciai spedire in Germania. Senza Elena, a Roma non c'era niente per me. Era inutile cercare di raggiungerla; aveva calcolato i tempi del messaggio in modo da lasciar prima raffreddare la pista. Ben presto mi stancai di sentirmi dire dai vari membri della mia famiglia che si erano sempre aspettati che lei mi scaricasse. Non potevo difendermi in nessun modo: me l'ero sempre aspettato anch'io. Il padre di Elena si recava spesso alle stesse terme dove andavo io, così avevo il problema anche di evitare lui. Alla fine lui mi scoprì mentre cercavo di nascondermi dietro un pilastro. Si liberò dello schiavo che gli stava grattando la schiena con uno strigile e arrivò di corsa in una nube di olio profumato. «Marco, mi affido a te: dimmi dov'è quella mia figliola...» Io deglutii. «Be', conosci Elena Giustina, signore...» «Neppure tu lo sai!» esclamò suo padre. Un attimo dopo prese a scusarsi per Elena come se fossi io quello che doveva sentirsi offeso dal suo comportamento irragionevole. «Calmati, senatore!» Gli avvolsi intorno un asciugamano, cercando di tranquillizzarlo. «Dare la caccia ai tesori degli altri quando scompaiono è il mio mestiere. La troverò.» Mi sforzai di non lasciar trasparire troppa preoccupazione dalle mie menzogne. Lo stesso fece lui. Il mio amico Petronio fece del suo meglio per tirarmi su di morale, ma perfino lui era piuttosto sorpreso. «Partita! Falco, hai il cervello di un pesce gatto ritardato. Non potevi innamorarti di una ragazza normale? Di quelle che si precipitano a casa dalla madre ogni volta che le fai arrabbiare, ma poi tornano in punta di piedi la settimana dopo con una collana nuova che tu dovrai pagare?» «Perché solo una specialista in gesti drammatici inutili poteva innamo-
rarsi di me.» Lui emise un brontolio spazientito. «La stai cercando?» «Come faccio? Potrebbe essere ovunque dalla Lusitania al deserto nabateo. Lascia perdere, Petro. Sono già stato abbastanza stupido!» «Comunque, le donne non fanno mai viaggi lunghi da sole...» Petronio, da parte sua, aveva sempre preferito i batuffoli semplici e timidi, o almeno donne che lo convincevano di essere fatte così. «Le donne, in teoria, non dovrebbero viaggiare affatto. Ma questa regola elementare non funziona da deterrente per Elena!» «Perché se l'è filata?» «Non posso dirtelo.» «Oh, capisco: Tito!» Uno dei suoi uomini doveva essere incappato nella Guardia pretoriana che se ne stava a ciondolare fuori da casa mia. «Sei fritto, Falco, comunque vada a finire!» Gli dissi che ero stanco dell'ottimismo altrui, poi mi allontanai curvo, da solo. Quando arrivò una nuova convocazione dal Palazzo, apparentemente da parte di Vespasiano, capii che probabilmente era Tito che in realtà stava complottando per togliermi di mezzo. Dominai il disappunto e feci voto di strappare il compenso più alto possibile. Per il mio colloquio con la porpora feci uno sforzo sartoriale, come Elena avrebbe voluto che facessi. Indossai una toga. Mi feci tagliare i capelli. Tenni le labbra serrate per occultare il mio brontolio repubblicano. Era il massimo che qualunque palazzo avrebbe mai potuto pretendere da me. Vespasiano e il figlio maggiore governavano l'impero in società. Chiesi del vecchio, ma il funzionario che mi ricevette aveva resina nelle orecchie. Nonostante l'invito scritto di suo padre, quella sera toccava a Tito, a quanto pareva, l'onere di gestire petizioni, condoni e rifiuti di osteria della mia risma. «Sala del trono sbagliata!» mi scusai quando un lacchè zoppicante mi ammise alla sua presenza. «Signore, mi sembra di capire che il bene dell'impero sarà meglio servito reindirizzandomi altrove! Corre voce che il tuo nobile padre voglia farmi un'atroce proposta che muoio dalla voglia di sentire.» Tito si accorse che accennavo alle sue motivazioni personali. All'udire che probabilmente sarei partito, scoppiò in una breve risata, alla quale non mi associai. Fece cenno a uno schiavo, probabilmente per farmi condurre
dall'imperatore, ma poi ci trattenne. «Sto cercando di rintracciare una certa tua cliente» ammise all'improvviso. «E così ha dato a entrambi il benservito! A te che cosa ha detto?» Lui non rispose. Almeno Elena riservava a me i messaggi furibondi. La cosa mi ringalluzzì, tanto da azzardare un sogghigno. «È in viaggio. Una visita al fratello, parrebbe. Ha ricevuto da poco una lettera del nobile Eliano, indignato per un affronto immaginario.» Non vidi la necessità di confondere Tito spiegandogli che si riferiva a me. Tito aggrottò la fronte, sospettoso. «Se suo fratello era contrariato, non sarebbe stato più logico evitarlo?» «La reazione di Elena Giustina sarebbe invece di precipitarsi ad affrontarlo.» Tito appariva ancora dubbioso. Credo che avesse avuto anche lui una sorella, una fanciulla irreprensibile che aveva sposato un cugino e poi era morta giovane di parto, come dovrebbero fare le donne romane di buona famiglia. «A Elena piace fronteggiare le situazioni, signore.» «Davvero!» fu il suo commento, forse un po' ironico. Poi mi chiese, in tono più assorto: «Camillo Eliano si trova nella Spagna Betica? Ma non è troppo giovane per fare il questore?» I futuri senatori di norma prestano servizio come funzionari provinciali delle finanze poco prima dell'elezione ufficiale alla Curia, a venticinque anni. Al fratello di Elena mancavano ancora due o tre anni per questo. «Eliano è il figlio su cui la famiglia ripone le migliori speranze.» Se Tito voleva Elena, gli serviva un ripasso sui suoi parenti. Gli descrissi la situazione con disinvoltura familiare: «Il senatore ha convinto un amico a Corduba a trovare al ragazzo un incarico in anticipo sui tempi, per avvantaggiarlo con un'esperienza lontano dall'Urbe». A giudicare dai termini con cui aveva scritto alla sorella, questo sforzo di insegnare la diplomazia a Eliano era uno spreco di tempo e denaro. «Dimostra un talento speciale?» Risposi con gravità: «Camillo Eliano sembra equipaggiato nel migliore dei modi per una spettacolare carriera pubblica». Tito Cesare mi lanciò un'occhiata, come se sospettasse che volessi insinuare che il criterio normale per una rapida carriera in Senato consistesse in un mucchio di letame. «Mi sembri ben informato.» Mi scrutò in modo penetrante, poi fece venire un messaggero dall'esterno. «Falco, quando è partita Elena Giustina?» «Non ne ho la minima idea.» Lui borbottò qualcosa al messaggero. Afferrai un accenno a Ostia. Tito
si rese conto che avevo sentito. «La signora appartiene a una famiglia di senatori; posso proibirle di lasciare l'Italia» mi spiegò sulla difensiva quando l'uomo ebbe lasciato la sala. Mi strinsi nelle spalle. «E così si è presa una vacanza non autorizzata. Perché no? Non è una vestale, e neppure una sacerdotessa del culto imperiale. Coloro che ti hanno preceduto sul trono l'avrebbero esiliata su un'isola per punirla di una simile prova di indipendenza, ma Roma si aspetta qualcosa di meglio dai Flavi!» Tuttavia, se fosse riuscito a trovarla (e io stesso avevo già sprecato una giornata in ricerche inutili sulle banchine di Ostia), ero assolutamente pronto a lasciare che Tito riportasse la mia signora a Roma sotto scorta. Sapevo che l'avrebbero trattata con rispetto a causa della sua posizione sociale. Sapevo anche che Tito Flavio Vespasiano sarebbe andato incontro a una Cariddi di guai se avesse dato un ordine simile. «Elena Giustina si opporrà con tutte le sue forze a essere sbarcata dalla nave. Se vuoi, rimango» mi offrii. «Quando sua signoria è in collera può diventare più di quello che la tua Guardia pretoriana riesca a maneggiare senza un aiuto!» Tito non tentò nemmeno di richiamare il messaggero. «Sono sicuro di riuscire a placare Elena Giustina...» Nessuna donna che lui avesse voluto sul serio sarebbe mai stata in grado di voltargli le spalle. Si lisciò con aria solenne le ampie pieghe della tunica purpurea. Io mi piantai a gambe larghe per darmi un'aria da duro. Poi lui domandò bruscamente: «Com'è che tu e la figlia di Camillo Vero date l'idea di essere insolitamente intimi?». «Lo credi?» «Sei innamorato di lei?» Gli rivolsi un sorriso ingenuo. «Cesare, come potrei osare?» «È la figlia di un senatore, Falco!» «È quello che tutti continuano a dirmi.» Conoscevamo bene entrambi il potere di suo padre e quanta autorità avesse già trasmesso a Tito per diritto proprio. Lui era troppo educato per fare un paragone fra noi due, io no. «Vero approva la cosa?» «Come potrebbe, signore?» «La permette?» «Elena Giustina è una ragazza amabilmente eccentrica» dissi con calma. Capivo dalla sua espressione che Tito se ne era già reso conto. Mi chiesi che cosa le avesse detto; poi, con pena ancora maggiore, mi chiesi che cosa lei gli avesse risposto.
Lui si mosse sul suo scranno, mettendo fine al nostro colloquio. Poteva allontanarmi dalla sala del trono, poteva ordinarmi di lasciare Roma, ma eravamo entrambi assai meno sicuri che potesse escludermi dalla vita di Elena. «Marco Didio, mio padre ha bisogno che tu faccia un viaggio. Ho l'impressione che sarebbe meglio per tutti.» «Qualche probabilità di andare in Betica?» azzardai sfrontatamente. «Sei fuori strada, Falco!» ribatté sferzante, mettendoci più gusto di quanto avrebbe dovuto. Poi si riprese e mormorò: «Speravo di avere la signora mia ospite qui, giovedì scorso. Mi è dispiaciuto che non sia venuta... anche se la maggior parte delle persone preferisce trascorrere le feste private con le persone più care...» Era una specie di esame. Lo fissai, senza lasciarmi sfuggire nulla. «Il compleanno di Elena Giustina!» spiegò lui, come un uomo che ottenga un doppio sei gettando dadi truccati. Non lo sapevo. Lui se ne accorse. Trattenni a stento la mia reazione istintiva, che era di dargli un pugno sul mento superbamente sbarbato tanto da trapassargli la sua bella dentatura fino al retro del suo cesareo cranio. «Goditi la Germania!» Tito mantenne la sua aria di trionfo sotto controllo. Ma fu allora che mi costrinsi a rendermi conto del ginepraio nel quale Elena ed io ci eravamo cacciati. Se la situazione per lei si era fatta imbarazzante, per me era visibilmente pericolosa. E quale che fosse la rognosa missione che stavano per affibbiarmi questa volta, Tito Cesare sarebbe stato felice soprattutto se non fossi riuscito a portarla a termine. Era il figlio dell'imperatore. Aveva infiniti modi per assicurarsi che, una volta mandato lontano da Roma, non ci facessi ritorno. VII Mi fecero passare attraverso gli uffici profumati di tre ciambellani, assorto nei miei tristi pensieri. Non sono del tutto stupido. Dopo dieci anni di vita sentimentale di successo (così la definivo), il compleanno di una nuova fidanzata era qualcosa che cercavo di scoprire alla svelta. L'avevo chiesto a Elena, ma lei si era messa a ridere evitando di rispondere. Avevo fermato suo padre, ma siccome la lista delle ricorrenze familiari la teneva il suo segretario era riuscito a svicolare. Sua madre avrebbe potuto dirmelo, ma Giulia Giusta riusciva già abbastanza ad agitarsi senza bisogno di mettersi a discutere con me
della figlia. Avevo perfino passato ore presso l'ufficio del Censore cercando il certificato di nascita di Elena. Niente da fare. O il senatore si era lasciato prendere dal panico all'arrivo della sua primogenita (cosa comprensibile) e non era riuscito a registrarla correttamente, oppure l'aveva trovata sotto un arbusto di alloro e quindi non poteva definirla cittadina romana. Una cosa era certa. Avevo commesso un sacrilegio domestico. Elena Giustina poteva passare sopra a molte offese, ma non al fatto che me ne fossi andato a bighellonare a Veii il giorno del suo compleanno. Che poi io non sapessi che era il suo compleanno era irrilevante. Avrei dovuto saperlo. «Didio Falco, Cesare...» Prima che fossi pronto a concentrarmi sulle faccende politiche, un servitore che puzzava di antica vanità e di cipolle rosolate di recente annunciò il mio nome all'imperatore. «Che muso lungo. Che succede, Falco?» «Problemi di donne» ammisi. Vespasiano si fece una bella risata. Gettò indietro la grossa testa e rise sguaiatamente. «Vuoi il mio consiglio?» «Grazie, Cesare.» Sorrisi a denti stretti. «Almeno questa innamorata non è scappata con la mia borsa, né fuggita con il mio migliore amico...» Ci fu un breve istante di silenzio, come se l'imperatore si fosse ricordato con disappunto chi era la mia ultima innamorata. Vespasiano Augusto veniva dal ceto medio, era corpulento, dalle maniere spicce e aveva conquistato il potere al termine di una feroce guerra civile; si era poi ripromesso di dimostrare che anche uomini privi di vistosi antenati potevano possedere le qualità per governare. Lui e il suo primogenito Tito ci stavano riuscendo, il che garantiva che non sarebbero mai stati accettati dai senatori con la puzza sotto il naso. Ma Vespasiano lottava da sessant'anni, troppi per aspettarsi riconoscimenti facili, anche quando indossava la veste purpurea. «Non sembri avere fretta di essere informato della tua missione, Falco.» «So già che non la voglio.» «È normale.» Vespasiano emise un leggero grugnito, poi disse a uno schiavo: «Voglio vedere Canidio adesso». Non mi presi la briga di chiedermi chi fosse Canidio. Se lavorava lì, non mi piaceva abbastanza da interessarmene. L'imperatore mi fece cenno di avvicinarmi. «Che cosa sai della Germania?» Aprii la bocca per dire "Caos!", poi la richiusi, poiché il caos era stato fomentato proprio dai sostenitori di Vespasiano.
Geograficamente, quella che Roma chiama Germania è il fianco orientale della Gallia. Sessant'anni prima, Augusto aveva deciso di non avanzare oltre il confine naturale tracciato dal grande fiume Reno, una decisione provocata dalla disfatta di Quintilio Varo, quando tre legioni romane erano cadute in un'imboscata ed erano state annientate dalle tribù germaniche. Augusto non si era mai ripreso. Probabilmente era in questa stessa sala del trono che soleva camminare su e giù, gemendo "Varo, Varo, rendimi le mie legioni...". Perfino così tanto tempo dopo il massacro io stesso ero assai poco propenso a trascorrere il mio tempo in quei luoghi insanguinati. «Allora, Falco?» Riuscii a sembrare imparziale. «Signore, so che la Gallia e le nostre province renane hanno giocato un ruolo importante nella guerra civile.» Era stata la recente rivolta di Vindice in Gallia a innescare il processo che aveva causato la caduta di Nerone. Il governatore della Germania Superiore aveva schiacciato la rivolta, ma quando era stato richiamato a Roma dopo che Galba aveva preteso il trono, le sue truppe si erano rifiutate di fare il giuramento del nuovo anno a Galba. Alla morte di Galba, Otone aveva preso il potere a Roma, ma le legioni del Reno l'avevano respinto, decidendo invece di eleggere un proprio imperatore. Avevano scelto Vitellio, a quel tempo governatore della Germania Inferiore. Aveva fama di ubriacone brutale e dissoluto: un ovvio requisito imperiale secondo i criteri del tempo. Dalla Giudea, Vespasiano l'aveva sfidato. Nel tentativo di bloccare le legioni in Germania, che erano il principale sostegno del suo rivale, Vespasiano si era messo in contatto con un capotribù locale che avrebbe potuto causare un diversivo. La cosa aveva funzionato... fin troppo bene. Vespasiano si era impossessato della corona imperiale, ma la ribellione in Germania gli era completamente sfuggita di mano. «Un ruolo culminato drammaticamente nella rivolta di Civile, Cesare.» Il vecchio sorrise della mia prudente neutralità. «Conosci bene gli avvenimenti?» «Leggo gli Acta Diurna.» Usai il suo stesso tono grave. Era stato un periodo torbido nella storia di Roma. Non era mancato assolutamente niente alla disfatta germanica. A quel tempo, la stessa Roma era una città lacerata, ma gli sconvolgimenti renani avevano superato perfino i nostri problemi di panico, incendi e pestilenze. Il capo dei ribelli, un batavo esaltato di nome Civile, aveva tentato di unificare tutte le tribù del continente nell'impossibile sogno di una Gallia in-
dipendente. Durante la confusione che era riuscito a creare, i forti romani erano stati occupati con la forza e incendiati uno dopo l'altro. La nostra flotta sul Reno, che aveva vogatori indigeni, passò al nemico. Vetera, la sola guarnigione che aveva resistito con onore, si era arresa per fame dopo un duro assedio; le truppe che si erano consegnate al nemico erano poi state assalite e massacrate mentre uscivano disarmate. Mentre la rivolta indigena infuriava su e giù per l'Europa, anche l'umore delle nostre truppe si era deteriorato. Si verificavano ammutinamenti ovunque. Gli ufficiali che davano prova di fermezza venivano aggrediti dai loro stessi uomini. Si raccontavano storie atroci di comandanti di legione lapidati, o che si erano dati alla fuga, o nascosti nelle tende travestiti da schiavi. Uno fu assassinato da un disertore. Due furono giustiziati da Civile. Il governatore della Germania Superiore fu trascinato a forza giù dal letto, dove giaceva ammalato, e assassinato. In un episodio particolarmente raccapricciante, il legato del forte di Vetera (quello che si era arreso) fu mandato in catene da Civile come dono a un'influente sacerdotessa della parte barbara della Germania. Ancora oggi non si sapeva che cosa ne fosse stato di lui. Infine, al culmine dei tumulti, quattro delle nostre legioni della Renania avevano addirittura venduto i loro servigi e avevamo dovuto subire l'estremo orrore di soldati romani che giuravano fedeltà ai barbari. Sembra inverosimile. In qualunque altro periodo sarebbe stato impossibile. Eppure, nell'Anno dei Quattro imperatori, quando tutto l'impero era messo a ferro e fuoco mentre i contendenti imperiali si accanivano per distruggerlo, questo fu solo un colorito episodio marginale in mezzo alla follia generale. Mi chiedevo mestamente quali ripercussioni avrebbe avuto la pittoresca frontiera del Reno sulla mia grigia esistenza. «Abbiamo la Germania in pugno!» dichiarò Vespasiano. Detto dalla maggior parte dei politici sarebbe stata una pia illusione. Non da lui: era un generale abile e attirava subordinati risoluti. «Annio Gallo e Petilio Ceriale sono riusciti a ribaltare completamente la situazione.» Gallo e Ceriale erano stati mandati a sottomettere la Germania con nove legioni. Era probabilmente la più grossa unità operativa mai inviata da Roma e pertanto il successo era una conclusione scontata, ma da leale cittadino sapevo quando mostrarmi impressionato. «Sto offrendo a Ceriale il governatorato della Britannia quale ricompensa.» Alla faccia della ricompensa! Ceriale aveva servito in Britannia durante la rivolta di Budicca, così doveva essere ben conscio di quale desolante privilegio aveva appena ottenuto.
Per pura fortuna mi ricordai che l'esimio Petilio Ceriale era imparentato con Vespasiano. Mi rimangiai una battuta ironica e chiesi in tono umile: «Cesare, se puoi affidare a Ceriale incarichi più elevati, questo vuol dire che la frontiera è sotto controllo?». «Ci sono alcune questioni ancora in sospeso: adesso ci arrivo.» Qualunque cosa si dicesse in pubblico, l'intera regione doveva essere ancora molto instabile. Non proprio il momento migliore per una tranquilla crociera lungo il fiume su una nave da trasporto per il vino. «Petilio Ceriale ha avuto un incontro con Civile...» «Ne ho sentito parlare!» Teatro puro: i due comandanti avversari si erano affrontati in mezzo al fiume, urlando entrambi sopra il vuoto dalle due estremità di un ponte crollato. Sembrava uno di quegli episodi usciti dalle nebbie dell'eroica storia di Roma che i ragazzi studiano a scuola. «Da allora Civile è stranamente silenzioso...» Parlando del capo ribelle, Vespasiano esitò, in un modo che avrebbe dovuto inquietarmi. «Speravamo che si fosse ritirato in pace nella patria batava, ma è scomparso.» La cosa risvegliò il mio interesse; la intesi come un cattivo auspicio per me. «Corre voce che potrebbe essersi spostato a sud. A questo proposito, vorrei dirti...» Di qualunque cosa avesse voluto parlarmi, o avvertirmi, a proposito del ribelle Civile non lo fece mai, poiché proprio allora si aprì una tenda e arrivò il funzionario che doveva essere colui che aveva chiamato Canidio. VIII Quando entrò col suo passo strascicato, i giovanotti energici in scintillanti uniformi bianche che servivano l'imperatore fecero tutti un passo indietro e lo fissarono con odio. Era proprio uno scarafaggio dei papiri. Ancora prima che aprisse la bocca, intuii che doveva essere uno di quei tipi strani che si aggirano per i segretariati svolgendo le mansioni che nessun altro vuole. Nessun palazzo ben gestito l'avrebbe tollerato, a meno che il suo contributo non fosse eccezionale. Indossava una sudicia tunica color prugna, calzari con un laccio legato storto e una cintura di cuoio conciata in modo così scadente da far pensare che la mucca dalla quale proveniva fosse ancora viva. I capelli erano lisci e unti e la pelle era di un pallore grigiastro che da giovane gli si sarebbe potuto eliminare lavandola ma che ormai era inamovibile. Anche se in realtà non puzzava, sembrava ammuffito.
«Didio Falco, questo è Canidio.» Fu Vespasiano in persona a presentarci nel suo modo sbrigativo. «Canidio custodisce l'archivio delle legioni.» Allora avevo ragione. Canidio era un segretario senza grandi prospettive che era riuscito a inventarsi un lavoro originale. Emisi un vago grugnito. Vespasiano mi lanciò un'occhiata sospettosa. «Nel tuo prossimo incarico, Falco, sarai il mio inviato speciale presso la Quattordicesima legione gemina in Germania.» Questa volta mi risparmiai l'ipocrisia della buona educazione e feci una smorfia evidente. L'imperatore la ignorò. «Mi giunge voce che c'è spirito bellicoso nella Quattordicesima. Ragguagliaci, Canidio.» Lo stravagante segretario declamò in tono nervoso, senza consultare nessun appunto. «La Quattordicesima legione gemina fu creata da Augusto e fu originariamente istituita a Moguntiacum, sul fiume Reno.» Aveva una vocina lamentosa che annoiava rapidamente l'ascoltatore. «Fu una delle quattro legioni scelte dal Divo Claudio per l'invasione della Britannia, dove si comportò valorosamente nella battaglia sul fiume Medway, coadiuvata dai suoi ausiliari indigeni, che erano batavi.» Nordeuropei del delta del Reno, i batavi sono tutti vogatori, nuotatori e piloti di fiume. Tutte le legioni romane si avvalgono dell'appoggio di simili unità di stranieri, in particolare della cavalleria indigena. «Falco non ha bisogno dei tuoi aneddoti su Claudio» borbottò Vespasiano. «E io ero presente.» Il segretario arrossì. Dimenticare la storia dell'imperatore era un errore madornale. Vespasiano aveva comandato la Seconda augusta nella battaglia sul fiume Medway, e lui e la Seconda avevano avuto un ruolo di spicco nella conquista della Britannia. «Cesare!» Canidio si dimenò in preda all'angoscia. «Il libro d'oro della Quattordicesima comprende anche la sconfitta della regina Budicca, per la quale, insieme alla Ventesima Valeria, le è stato conferito il titolo onorifico di martia victrix.» Forse vi chiederete come mai la Seconda augusta non ha ottenuto quel titolo prestigioso. La risposta è che a causa di quel genere di qui pro quo che noi preferiremmo poter dire che non capitano mai, la splendida Seconda (legione anche mia, oltre che di Vespasiano) mancò di presentarsi sul campo di battaglia. Le legioni che affrontarono effettivamente gli iceni furono fortunate a sopravvivere. Per questa ragione qualunque membro della Seconda faceva meglio a girare alla larga dalla Quattordicesima gemina, titoli onorifici e quant'altro.
Canidio proseguì: «Nel corso delle ultime guerre, gli ausiliari batavi della Quattordicesima hanno avuto un ruolo cruciale. Erano stati separati dalla legione d'origine e chiamati in Germania sotto Vitellio. La Quattordicesima, da parte sua, fu dapprima fedele a Nerone (che dopo la rivolta di Budicca l'aveva definita la sua legione migliore) e poi sostenne Otone, che la portò in Italia. Questo fece sì che la legione e le sue coorti indigene si trovassero su fronti opposti, e alla prima battaglia di Bedriacum...». La voce di Canidio si era smorzata mestamente. Stava cercando di eludere l'argomento, così mi intromisi: «Se la Quattordicesima gemina abbia effettivamente preso parte a Bedriacum, è un punto controverso. Piuttosto che ammettere di essere stati sconfitti in battaglia, loro hanno sostenuto di non esserci stati!». Vespasiano brontolò a fior di labbra. Probabilmente pensava che stessero semplicemente insabbiando la cosa. Canidio ricominciò parlando in fretta. «Dopo il suicidio di Otone, la legione e i suoi ausiliari furono riuniti da Vitellio. La cosa creò qualche rivalità» disse l'archivista con abile prudenza. Non era del tutto certo di ciò che l'imperatore voleva sapere. «Stai trascurando i dettagli pittoreschi» lo interruppi. «Dilla tutta! Nel seguito della storia la Quattordicesima ha avuto liti e pubblici tafferugli con i propri batavi, nel corso dei quali fu incendiata e distrutta Augusta Taurinorum...» Quell'episodio metteva in particolare risalto la questione della loro disciplina. Essendo consapevole di quanto l'argomento fosse delicato, Canidio si affrettò a terminare. «Vitellio ordinò alla Quattordicesima di tornare in Britannia, incorporando le otto coorti batave nella sua scorta personale finché non decise di schierarle di nuovo in Germania.» Ancora politica. Canidio aveva di nuovo l'aria infelice. «In Germania, le coorti batave si unirono subito a Civile, cosa che diede una straordinaria spinta alla ribellione.» Questo fatto mi mandava ancora in bestia. «Dato che Civile era il loro capo, la defezione dei batavi era del tutto prevedibile!» «Basta così, Falco» ordinò Vespasiano in tono aspro, rifiutandosi di criticare un altro imperatore, perfino quello che lui stesso aveva deposto. Fece un cenno di incoraggiamento a Canidio, che proseguì in fretta: «La Quattordicesima tornò di nuovo dalla Britannia per aiutare Petilio Ceriale. Al momento è stanziata a Moguntiacum». Concluse il suo racconto con sollievo.
«Sono rimasti in piedi solo i forti della Germania Superiore» mi spiegò animatamente Vespasiano «così allo stato attuale Moguntiacum controlla entrambe le parti del territorio.» Era chiaro che dato il ruolo chiave del forte dov'era acquartierata, aveva un bisogno assoluto di fidarsi della Quattordicesima. «La mia priorità è di rafforzare la disciplina e dissipare antiche simpatie.» «Che fine hanno fatto le truppe che giurarono fedeltà alla federazione gallica?» domandai incuriosito. «Quali erano, Canidio?» «La Prima legione germanica di Bonna, la Quindicesima primigenia di Vetera e la Sedicesima gallica di Novaesium, oltre alla Quarta macedonia di...» L'aveva dimenticato; era il primo segno di umanità in lui. «Moguntiacum» disse l'imperatore. Questo rafforzava la sua esigenza di farvi risiedere legioni fidate. «Grazie, Cesare. Quando Petilio Ceriale ricevette i colpevoli» mi informò il segretario «le sue parole ai ribelli furono...» per la prima volta Canidio fece ricorso a una tavoletta di appunti allo scopo di entusiasmarci con i particolari storici esatti: «"Ora i soldati che si sono ribellati tornano ad essere soldati del loro paese. A partire da oggi siete arruolati in servizio e vincolati dal vostro giuramento al Senato e al popolo di Roma. L'imperatore ha dimenticato ciò che è accaduto e il vostro comandante non ricorderà niente!"». Mi sforzai di non sembrare troppo esterrefatto da quella delucidazione. «Dichiariamo che si è trattato di circostanze eccezionali e siamo clementi nel trattamento, Cesare?» «Non possiamo perdere quattro legioni di soldati scelti» brontolò Vespasiano. «Saranno smobilitati, rimessi in riga e ricostituiti in diverse unità.» «Queste nuove legioni verranno trasferite dal Reno?» «Non c'è alcuna ragionevole alternativa. Saranno le forze arrivate al comando di Ceriale e Gallo a sorvegliare la frontiera.» «Non serviranno tutte e nove le legioni.» Ora vedevo quali opzioni aveva davanti l'imperatore. «La Quattordicesima gemina potrebbe quindi essere rimandata in Britannia, oppure stanziata in modo permanente a Moguntiacum. Se non sbaglio Canidio ci ha detto che era la loro base originaria. Qual è il tuo piano, signore?» «Non ho ancora deciso» obiettò l'imperatore, «È questa la mia missione?» Preferisco essere schietto. Lui parve irritato. «Non anticipare le mie istruzioni!» «Cesare, ma è chiaro. Ti hanno servito bene sotto Cenale, ma in prece-
denza sono stati piuttosto irrequieti. Da quando ha sconfitto gli iceni, la Quattordicesima è diventata proverbiale per la sua turbolenza.» «Non criticare un'eccellente legione!» Vespasiano era un generale all'antica. Non voleva credere che un reparto dall'ottima reputazione potesse guastarsi. Ma se fosse successo, sarebbe stato implacabile. «Moguntiacum è un forte da due legioni, ma il numero dei presenti è stato raddoppiato con truppe inesperte. Ne ho bisogno... se posso fidarmi di loro.» «La legione è stata costituita lì» osservai assorto. «Non c'è niente come la presenza interessata sul posto delle proprie nonnine per mantenere docili dei soldati... E poi, è più vicino della Britannia, il che rende più facile la sorveglianza.» «Dunque, Falco, che cosa ne pensi di andare a ispezionare con discrezione?» «Tu che cosa pensi?» ribattei in modo ironico. «Ho prestato servizio nella Seconda augusta durante il periodaccio con gli iceni. La Quattordicesima si ricorderà benissimo come li abbiamo abbandonati.» Posso cavarmela in una rissa di strada, ma ero riluttante a sfidare seimila professionisti vendicativi che avevano una valida ragione per spiaccicarmi come un onisco su una parete delle terme. «Cesare, è probabile che mi immergano completamente nella calce viva e se ne stiano lì attorno a sogghignare mentre sfrigolo!» «Riuscire a evitarlo servirà a dimostrare le tue qualità» ironizzò l'imperatore. «Che cosa mi stai chiedendo esattamente di fare, Cesare?» domandai, lasciando che capisse che ero nervoso. «Non molto! Voglio mandare un nuovo vessillo alla Quattordicesima, per celebrare la loro recente buona condotta in Germania. E tu lo trasporterai.» «Sembra semplice» mormorai grato, aspettando di scoprire l'inghippo. «Così mentre consegno questo attestato della tua alta stima, mi faccio un'opinione sul loro atteggiamento e decido se è il caso che continui a stimarli?» Vespasiano assentì. «Con il dovuto rispetto, Cesare, se stai progettando di cancellare la Quattordicesima dalla lista dell'esercito, perché non chiedi al legato al loro comando di fare un rapporto nei termini appropriati?» «Non è opportuno.» Sospirai. «Questo lascia presumere che esiste un problema anche con il legato, signore?»
«Certo che no» replicò deciso Vespasiano. In pubblico non poteva che rispondere così, a meno che non avesse fondati motivi di destituire quell'individuo. Immaginai che toccasse a me fornire i motivi. Moderai il mio tono. «Puoi dirmi qualcosa di lui?» «Non lo conosco personalmente. Si chiama Florio Gracile. È stato proposto per un posto di comando dal Senato, e non avevo nessuna ragione per oppormi.» C'era la credenza che fosse il Senato ad assegnare tutte le cariche pubbliche, sebbene il veto dell'imperatore fosse determinante. In pratica, Vespasiano proponeva di regola i propri candidati, anche se a volte sceglieva di blandire la Curia consentendole di nominare da sé qualche stupido cervello di gallina. Sembrava diffidare di quell'uomo, ma che cosa temeva? Corruzione plateale o un'ordinaria incompetenza? Lasciai cadere il discorso. Avevo le mie risorse per trovare informazioni sui senatori. Gracile era probabilmente il solito stupido di buona famiglia che faceva la sua parte nella legione solo perché il ruolo di comandante militare, quando avesse avuto trent'anni, gli avrebbe consentito un passo avanti nel suo cursus publicus. Non poteva che essere dislocato su una delle frontiere. Solo la sua cattiva sorte gli aveva procurato una legione in Germania. «Sono certo che Sua Eccellenza è all'altezza delle esigenze del suo incarico» commentai, facendo capire all'imperatore che mentre spiavo la legione poteva stare certo che il mio occhio notoriamente scettico sarebbe caduto anche su Florio Gracile. «Ha l'aria di essere la mia solita missione complicata, signore!» «Semplicità!» dichiarò l'imperatore. «Mentre ti trovi laggiù» aggiunse senza alcuna connessione logica «potrai dedicarti a qualche dettaglio che Petilio Ceriale è stato costretto a trascurare.» Emisi un profondo respiro. Adesso sì che c'eravamo. La fedeltà della Quattordicesima poteva essere accertata da qualsiasi centurione competente sul posto. Marco Didio Falco veniva mandato a correre in circolo dietro a qualche altra oca scappata. «Davvero?» dissi. Vespasiano non parve notare la mia faccia astiosa. «Nei tuoi ordini scritti troverai tutto quanto richiesto...» Raramente Vespasiano era laconico nel parlare di affari. Capivo dal modo disinvolto in cui evitava di scendere nei particolari che quei "dettagli" che ereditavo dal leggendario Petilio Ceriale dovevano essere compiti davvero immondi. Vespasiano sperava sicuramente che al momento di leggere
le istruzioni sarei stato già in viaggio e impossibilitato a sottilizzare. Li faceva sembrare trascurabili. Ma quelle questioni imprecisate tiratemi dietro come doni a un festino erano la vera ragione per la quale mi spediva in Germania. IX Mi seccava farmi vedere in pubblico insieme a una larva come Canidio. Aveva l'aria di uno che si era perso mentre andava alle terme e tre settimane dopo era ancora troppo intimidito per chiedere indicazioni. Tuttavia, avevo bisogno di attingere informazioni dalla sua capoccia. Piazzandomi sopravvento, condussi quell'individuo giallastro in un'osteria. Ne scelsi una che frequentavo di rado, dimenticando che era a causa dei prezzi esorbitanti se non eri un avventore abituale. Lo sistemai su una panca fra i giocatori di dadi occasionali, dove lui acconsentì a far conoscenza con il calore di un costoso rosso laziale. «Mi hai propinato la versione ufficiale sulla Quattordicesima, Canidio. Adesso sentiamo la verità!» L'archivista sembrava a disagio. Il suo campo riguardava solo la versione edulcorata degli eventi pubblici. Ma con in corpo un boccale pieno avrebbe sicuramente finito con il fornirmi tutti i sudici retroscena che non vengono mai scritti. I suoi occhi ebbero un moto vago quando udì provenire dalla stanza da letto dell'ancella sopra di noi, i suoni soffocati del piacere a pagamento. Doveva essere sulla quarantina, ma si comportava come un adolescente che ottiene per la prima volta il permesso di uscire. «Non mi immischio nella politica.» «Oh, nemmeno io!» replicai in tono cupo. Mordicchiavo il mio boccale di vino, rimuginando sul pasticcio in cui mi trovavo. Destinato a una provincia ai margini inospitali dell'impero, in un momento in cui le sue prospettive di un futuro civilizzato erano scoraggianti. Una missione così vaga che era come cercare di levare ricci di castagne da una pecora riottosa. Nemmeno una ragazza che mi consolasse. Con buone probabilità di incappare in un sicario appostato in qualche stazione di posta intermedia, istruito da Tito Cesare perché si assicurasse che quella fosse la tappa finale del mio viaggio. In alternativa, se mai fossi arrivato a Moguntiacum, la Quattordicesima gemina mi avrebbe gettato in una trincea come un palo delle fondamenta e avrebbe edificato il prossimo
bastione sul mio cadavere. Affrontai di nuovo l'archivista. «C'è altro che dovrei sapere sulla legione preferita di Nerone?» Canidio scosse il capo. «Nessuno scandalo o pettegolezzo?» Niente da fare. «Canidio, hai idea di quali mansioni speciali l'imperatore vuole che svolga in Germania?» Le idee non erano il suo forte. «D'accordo, proviamo con questo: che cosa stava per dirmi l'imperatore sul capo ribelle Civile? È stato interrotto a metà del discorso dal tuo arrivo.» Tutto inutile. Avevo sprecato pazienza e denaro. C'erano ancora parecchie informazioni di cui avevo bisogno. Una volta arrivato sul posto, avrei dovuto scoprire da solo sia le lacune sia le risposte. Maledicendomi per essere stato cortese con quello stupido, lo lasciai lì con la caraffa. Canidio mi lasciò pagare, naturalmente. Era un segretario. Tornando a casa, portai con me una pagnotta e qualche salsiccia cotta. Fuori dalla mia finestra aperta scendeva la sera. Il caseggiato risuonava di grida e di colpi lontani, segno che i suoi abitanti se le davano allegramente di santa ragione in ogni possibile modo. La strada sotto il mio balcone era piena di strani sussurri su cui preferivo non indagare. L'aria della notte portava una cacofonia cittadina di ruote cigolanti, flauti stonati, gatti urlanti e ubriachi dolenti. Mai prima di allora, però, mi ero reso conto di come fosse intenso il silenzio all'interno quando Elena non c'era. Intenso, finché non udii dei passi avvicinarsi. Erano leggeri, ma incerti: stanchi per l'interminabile arrampicata su per le scale. Non erano stivali. Non erano nemmeno sandali scalcagnati. Passi troppo lunghi per essere di una donna, a meno che non fosse una donna che non mi interessava vedere. Troppo disinvolti per essere di un uomo che avrei dovuto temere. I passi si fermarono davanti alla mia porta. Ci fu una pausa prolungata. Qualcuno bussò. Mi allungai all'indietro sullo sgabello senza dire una parola. Qualcuno aprì con precauzione la porta. La squisita fragranza di un unguento estremamente delicato s'insinuò e aleggiò curiosamente per tutta la stanza. Seguì una testa. Aveva ciocche scure disposte in eleganti strati, tenute a posto da un nastro a treccia. Era un'acconciatura che non si poteva non notare. L'aspetto era pulito, ordinato, curato e fuori posto lì sull'Aventino tanto quanto api su un letto di piume. «Sei tu Falco?» Incominciai a sentirmi il cuoio capelluto rovente e pieno di forfora. «Chi
vuole saperlo?» «Sono Xanto. Mi è stato detto che mi aspettavi.» «Non aspetto nessuno. Ma puoi entrare, già che sei qui.» Entrò. Stava osservando il posto con sarcasmo; così eravamo in due. Lasciò la porta aperta. Gli dissi di chiuderla. Lo fece come se avesse paura di essere sollevato da terra da un paio di feroci centauri e privato della sua virilità tra acuti nitriti. Lo sottoposi a un rapido esame. Era un gioiello. Non il solito messaggero di Palazzo, con la testa dura come le suole dei calzari. Costui aveva classe, nel suo modo stravagante. Mentre lo fissavo, la sua lozione da barba si accomodava in casa come un ospite importuno. Il mento da cui si spandeva la magica miscela orientale richiedeva di essere delicatamente rasato da una decina d'anni. Il messaggero indossava un'uniforme di Palazzo bianca con l'orlo guarnito d'oro, ma i calzari che avevo sentito sulle scale costituivano il suo tocco di classe: erano di pelle di vitello color vermiglio con la punta arrotondata e dovevano costare parecchio denaro, sebbene fossero di gusto discutibile. Il genere di calzatura flessibile che un attore mediocre potrebbe accettare in cambio delle attenzioni rivolte a un'ammiratrice devota. «Una lettera per te.» Me la tese: il papiro che temevo, solido come una sfoglia e appesantito da un'oncia di cera solennemente impressa. Sapevo che conteneva istruzioni per il mio viaggio in Germania. «Grazie.» La mia voce risuonò pensierosa. Quello strano individuo dai vistosi calzari mi dava da pensare. Non era esattamente quello che sembrava. Questo vale per quasi tutta Roma, ma con Tito Cesare gelosamente preoccupato della mia vita privata, ero più guardingo del solito nei confronti degli impostori sociali. Presi la lettera. «Appenditi al muro, nel caso io voglia mandare una risposta insolente.» «Va bene!» sbraitò lui, risentito. «Sono ai tuoi ordini. Il mio unico scopo è di gingillarmi sulle soglie mentre le persone leggono la loro corrispondenza.» In questo c'era qualcosa che non tornava. Dovevo fare una verifica. «Mi sembri un genere di messaggero un po' impaziente. I tuoi calli vanno peggio del solito?» «Sono un barbiere» rispose lui. «Tieni duro, Xanto. Una mano abile con i menti irsuti può fare la fortuna di un uomo.» E altrettanto può fare un sicario prezzolato, abile a passare armi taglienti sulla gola della gente. Lo esaminai con discrezione. Se por-
tava un pugnale, era ben nascosto. «E di chi saresti il barbiere?» Lui parve profondamente depresso. «Facevo la barba a Nerone. Si è ucciso con un rasoio a quanto mi hanno detto, probabilmente uno dei miei. Da allora sono passati tutti sotto le mie mani. Ho rasato Galba, ho rasato Otone... gli ho anche lavato il parrucchino a dire il vero!» Per la prima volta sembrava verosimile: solo un autentico barbiere dà tanta importanza ai clienti eminenti che è in grado di sfoggiare. «Dopo di che, quando si ricordava di lasciare che qualcuno aggredisse quello che cresceva di settimana in settimana, rasavo anche Vitellio...» La sfiducia riprese il sopravvento. Domandai con voce cupamente stridula: «Hai mai raschiato Vespasiano?». «No.» «E Tito?» Lui scosse il capo. Ero troppo vecchio per crederlo. «Conosci un certo Anacrite?» «No.» Anacrite era la Prima spia ufficiale di Palazzo, e non eravamo per nulla amici. Se qualcuno a Palazzo stava commissionando uno sterminio privato, Anacrite era sicuramente coinvolto. Soprattutto se lo sterminio riguardava me. Ad Anacrite avrebbe fatto piacere. Mi mordicchiai il labbro. «Allora come mai, in tempi in cui una perfetta rasatura è rara come uno smeraldo nel gozzo di un'oca, un barbiere imperiale si è ridotto a trascinarsi per l'Aventino con i suoi eleganti calzari scarlatti?» «Retrocesso» disse (con aria infelice). «Allo squallore di un giro di consegne? Non è certo adeguato. Penso che tu stia mentendo.» «Pensa quello che vuoi. Ho fatto del mio meglio per soddisfare chiunque finisse sotto la salvietta, ma mi è stato detto che non c'è più bisogno del mio talento e dato che Vespasiano odia gli sprechi, sono stato trasferito al segretariato.» «È dura!» «È così, Falco! I Flavi hanno una serie di menti forti. Ero stato assegnato a Tito Cesare.» «Una bella massa di riccioli!» «Sì. Avrei potuto fare un discreto lavoro su Tito...» «Ma il vincitore di Gerusalemme rifiuta di affidare la sua bella epiglottide a una tagliente lama spagnola nelle mani di un uomo che in precedenza aveva rasato Nerone e Vitellio? Chi potrebbe biasimarlo, amico?»
«Politica!» commentò con disprezzo. «In ogni caso, ora sono finito a scarpinare fra lo sterco in luridi vicoli e ad arrancare faticosamente per interminabili scale puzzolenti per recapitare dispacci cosiddetti urgenti a individui ostili che non si prendono nemmeno il disturbo di leggerli quando arrivo.» Le lamentele non mi sviarono. «Mi dispiace, non mi hai convinto. È stato Tito a mandarti qui?» Il barbiere scosse spazientito il capo, ma ormai non ci cascavo. «Piantala di agitarti come una puttana in una serata di lavoro dopo le corse.» «Perché questi gravi sospetti? Sono solo un verme che non sanno come sfruttare altrimenti.» Eccome se sapevano come sfruttarlo. Ruppi i sigilli della pergamena che mi aveva consegnato Xanto, solo per trovare altre cattive notizie. Gli ordini che Vespasiano mi mandava erano stati scritti da un segretario in eleganti caratteri greci che avrebbero costituito un'eccellente decorazione per un vaso, ma erano una tortura da leggere. Mentre mi sforzavo di decifrare quella scrittura a forma di rosa rampicante, il barbiere se ne stava addossato a una parete del mio appartamento. Sembrava spaventato da qualcosa. Probabilmente da me. Quando ebbi terminato, restai seduto in silenzio. Avevo la nausea per il vino bevuto con Canidio e la salsiccia mangiata troppo in fretta. Mi sarebbe venuta comunque. Quello che dovevo fare in Germania era: Consegnare il dono dell'imperatore alla Quattordicesima gemina e fare rapporto all'imperatore. Qualunque idiota sarebbe stato in grado di farlo. Ci sarei riuscito anch'io. Accertare il destino del nobilissimo Munio Luperco. E questo chi era? Ve lo dirò: nient'altro che il legato al comando della legione di Vetera, il forte che aveva resistito ai ribelli fino al limite della morte per fame prima che le sue truppe fossero trucidate dopo essersi arrese. Tutte all'infuori di Luperco. I combattenti per la libertà l'avevano mandato oltre il Reno come dono per la loro perfida sacerdotessa.
Tentare di porre fine alle attività di Velleda. Avete indovinato: Velleda era la sacerdotessa. Scoprire dove si trova Giulio Civile... «Per gli dèi!» Perfino nella mia lunga carriera di incarichi ripugnanti, quest'ultimo compito aveva dell'incredibile. Scoprire dove si trova Giulio Civile, capotribù dei batavi, e assicurarsi la sua futura collaborazione all'interno di una Gallia e di una Germania pacificate. Vespasiano aveva già mandato due comandanti in capo in pompa magna con porpora e tutto, oltre a nove legioni fidate, per cercare di recuperare Civile. Qualunque cosa riferissero fedelmente gli Acta Diurna dalla colonna del Foro, dovevano aver fallito. E adesso Vespasiano mandava me. «Cattive notizie?» domandò Xanto con voce tremula e nervosa. «Una catastrofe!» «Andrai in Germania, non è vero?» Era quello che avevo avuto intenzione di fare, finché non avevo letto quell'elenco di piaceri impossibili. Ora l'unica cosa da fare era andare nella direzione opposta. «Quanto ti invidio» si entusiasmò il barbiere, con l'autentica mancanza di tatto tipica del suo mestiere. «Ho sempre desiderato vedere qualcosa dell'impero fuori da Roma.» «Ci sono modi più a buon mercato per essere scomodi restando qui. Prova un pomeriggio infuocato al Circo Massimo. Prova una brutta commedia al teatro di Pompeo. Prova ad acquistare da bere dalle parti del Foro. Prova i crostacei. Prova le donne. Vai a farti una nuotata nel Tevere in agosto per beccarti qualche malattia esotica... Xanto, ho estremo bisogno di riflettere. Chiudi il becco. Togliti dai piedi. E cerca di non portare mai più i tuoi orribili calzari scarlatti nella mia direzione.» «Oh, dovrò farlo» mi assicurò lui, compiaciuto. «Tornerò domani a consegnare l'involto che dovrai portare in Germania.» Lo ringraziai per l'avvertimento, così avrei potuto fare in modo di non farmi trovare in casa.
X Avrei dovuto rifiutare quella missione. Volevo farlo. Avevo un disperato bisogno del denaro. Sarebbe stato parecchio, se fossi sopravvissuto per poterlo riscuotere. Ero anche ansioso di allontanarmi da Roma prima che le occhiate lanciatemi da Tito Cesare portassero a qualcosa di peggio. Ma soprattutto, dopo essermi abituato alla sua vivace presenza, non riuscivo più a sopportare di stare nel mio alloggio senza Elena. Avrei potuto far fronte alla povertà. Avrei potuto anche tenere testa a Tito. Ma la mancanza di Elena era una cosa diversa. Elena era la ragione per la quale continuavo a restarmene tristemente seduto nello squallore della mia stanza alla Corte della Fontana, incapace di scuotermi perfino per correre al Palatino a lamentarmi. Elena mi forniva un motivo urgente per voler andare in Germania. Volevo andarci anche se questo significava sopportare un inverno europeo in una provincia priva di ogni pretesa di lusso per via di una ribellione appena sedata, dove i miei stessi compiti andavano dal rischioso al comicamente impossibile. Avevo detto a Tito che Elena Giustina era andata a trovare il fratello. L'avevo detto perché credevo che fosse vero. Ma forse avevo messo Tito leggermente fuori strada. Elena aveva un fratello di nome Eliano, che studiava diplomazia nella Betica. Ne aveva un altro di nome Giustino. Avevo conosciuto Camillo Giustino. Era successo al forte dove prestava servizio come tribuno militare, in un luogo chiamato Argentoratum. Argentoratum è nella Germania Superiore. Il giorno dopo feci i preparativi. Un segretario di Palazzo con cui ero in buoni rapporti mi promise le copie dei dispacci riguardanti la ribellione di Civile. Feci richiesta di un lasciapassare per il viaggio e di una serie di mappe ufficiali. Poi mi incamminai in direzione del Foro, mi piazzai contro una colonna del Tempio di Saturno, e aspettai. Cercavo qualcuno: un uomo con una gamba sola. Non avevo l'esigenza che una particolare persona priva di un arto finisse saltellando nella mia traiettoria, ma doveva rispondere a un requisito: doveva essere stato in servizio attivo durante la guerra civile, preferibilmente dalla parte di Vitellio. Tentai con quattro. Uno era tornato a casa dall'Oriente, e quindi inutile, e tre erano degli impostori che corsero via su un normale paio di gambe non appena iniziai a fare domande. Poi ne trovai uno che corrispondeva ai requisiti. Lo portai in una taverna, gli feci ordinare una ciotola di minestra, la
pagai, e infine tenni in sospeso l'ordinazione mentre lo facevo parlare. Era un ex legionario, mandato in pensione dopo l'amputazione, che era recente, poiché il moncone di carne viva era appena guarito. Uso il termine "mandato in pensione" con una certa leggerezza, dato che Roma non ha mai provveduto dignitosamente ai soldati divenuti inutilizzabili sul campo di battaglia senza darsi la briga di morire del tutto. Questo poveraccio non aveva i requisiti né per una lapide funeraria né per la sua concessione fondiaria di veterano collocato a riposo. Era tornato zoppicando a Roma, dove solo il sussidio del grano e la coscienza dei suoi concittadini stavano fra lui e la morte per inedia. La mia sembrava la sola coscienza in funzione quella settimana, e sembrava una settimana nella norma. «Dimmi il tuo nome e la tua legione.» «Balbillo. Ero nella Tredicesima.» «Il che comporta anche le battaglie di Cremona?» «Bedriacum? Solo la prima.» Vitellio aveva combattuto entrambe le sue importanti battaglie - contro Otone, che aveva sconfitto, e Vespasiano, che l'aveva sconfitto - nella stessa località: un villaggio chiamato Bedriacum, presso Cremona. Non stupitevi. Una volta scelto un luogo adatto con vista sul fiume e configurazione interessante, perché mai avrebbe dovuto cambiare? «Bedriacum andrà bene. Voglio sapere come si comportò la Quattordicesima.» Balbillo scoppiò in una risata. La Quattordicesima gemina tendeva sempre a suscitare una reazione sguaiata. «A volte bevevamo insieme a loro...» Afferrai il sottinteso e gli fornii un incoraggiamento liquido. «Allora che cosa vuoi?» Era fuori dall'esercito, nelle peggiori condizioni possibili, così non aveva niente da perdere da un discorso sincero e democratico. «Ho bisogno di sapere i retroscena. Solo roba recente. Lascia perdere le gloriose gesta della Quattordicesima contro la regina Budicca.» Questa volta ridemmo tutti e due. «Sono sempre stati dei piantagrane» commentò Balbillo. «Oh sì. Per chi ami studiare la storia, la ragione per la quale il Divo Claudio li scelse per conquistare la Britannia era che aveva bisogno di tenerli occupati. Creavano scompiglio anche trent'anni fa. C'è qualcosa nel servizio in Germania che sembra portare alla sedizione!» Tutto, a mio modesto parere. «Allora, Balbillo, raccontami i particolari coloriti. Anzitutto, come reagirono a Vespasiano?» Questa era una domanda azzardata, ma lui mi diede una mezza risposta:
«C'erano sentimenti piuttosto contrastanti». «Oh, capisco. Nell'Anno dei Quattro imperatori le persone dovevano correggere le loro posizioni ogni volta che entrava in scena un uomo nuovo.» Non ricordavo di avere corretto la mia. Questo perché, come sempre, avevo disprezzato l'intera lista dei candidati. «Presumo che tutte le legioni britanniche considerassero Vespasiano uno di loro.» Balbillo dissentì. «Parecchi ufficiali e uomini delle legioni britanniche erano stati promossi da Vitellio.» Non c'era da stupirsi se ora Vespasiano era così ansioso di mandare in Britannia un governatore di cui potesse fidarsi. Petilio Ceriale probabilmente navigava attraverso lo stretto Gallico con l'ordine di estirpare il dissenso. Balbillo strappò un pezzo di pane. «Ci furono episodi molto strani in Britannia.» Spinsi verso di lui una ciotola di olive. «Che cosa successe? La versione scandalosa, se possibile!» «La Quattordicesima ci raccontò che il governatore della Britannia aveva messo in subbuglio le sue truppe anche più di quanto facciano di solito i governatori.» Con questo scatto di cinica arguzia l'ex soldato si ingraziò le mie simpatie anche più che con la sua pietosa ferita. «C'era costante antagonismo fra lui e il legato della Ventesima Valeria.» Mi ero imbattuto in loro ai tempi in cui prestavo servizio. Ottusi, ma competenti. «La guerra fece divampare la lite, le truppe si schierarono con il legato e il governatore dovette addirittura fuggire dalla provincia.» «Per Giove! E che ne fu della Britannia?» «I comandanti delle legioni costituirono un comitato per gestire la situazione. La Quattordicesima pareva piuttosto dispiaciuta di essersi persa la cosa.» Fischiai. «Non è trapelato niente di questo simpatico scandalo!» «Immagino che in un pantano desolato come la Britannia» confidò con sarcasmo Balbillo «i provvedimenti eccezionali sembrino assolutamente naturali!» Stavo pensando al mio particolare problema. «In ogni caso, questo significa che quando la Quattordicesima ha fatto di nuovo vela per il continente, aveva già l'abitudine di inventarsi i propri ordini? Per non parlare delle rivalità interne.» «Ti riferisci ai batavi?» «Sì, in particolare delle loro prodezze ad Augusta Taurinorum. Combat-
tevano per Vitellio e combatterono contro la propria legione a Bedriacum, ho ragione?» Lui aggredì nuovamente il pane. «Puoi immaginare come prima della battaglia fossimo tutti sui carboni ardenti perché si pensava che stesse arrivando la famosa Quattordicesima gemina.» «Perché era un combattimento decisivo e la Quattordicesima avrebbe potuto cambiarne le sorti?» «Be', era quello che pensavano loro!» disse Balbillo con un sogghigno. «Non apparvero mai. Le coorti batave combatterono dalla parte vincente. Affrontarono un gruppo di gladiatori in un bello scontro su un'isola del fiume Po. In seguito, naturalmente, ne approfittarono al massimo. Sfilarono in parata davanti al resto di noi, vantando in tono di scherno di avere messo al suo posto la famosa Quattordicesima, e che Vitellio doveva interamente a loro la sua vittoria.» «E così la Quattordicesima si è sentita in dovere di litigare con loro nel modo più plateale possibile?» «Immagina la scena, Falco. Erano due gruppi di teppisti che facevano il paio l'uno con l'altro, ma ad Augusta Taurinorum Vitellio decise di acquartierarli insieme, anche se i loro rapporti si erano deteriorati.» «E questo scatenò il putiferio? Tu c'eri?» «Una cosa imperdibile! Un batavo accusò un artigiano di imbrogliare, allora un legionario che era stato ospite dell'artigiano tirò un pugno al batavo. Scoppiarono risse per strada. L'intera legione prese parte agli scontri. Quando li separammo con la forza e ripulimmo il sangue...» «Cadaveri?» «Solo qualcuno! La Quattordicesima fu rispedita in Britannia. Quando abbandonarono la città, lasciarono fuochi accesi ovunque, intenzionalmente, così Augusta Taurinorum fu distrutta dagli incendi.» Imperdonabile, in circostanze normali. D'altra parte, anche se gli uomini della Quattordicesima si erano comportati da delinquenti, non si erano mai ammutinati, mentre le coorti batave che loro odiavano avevano disertato passando dalla parte di Civile. La Quattordicesima, dal canto suo, aveva servito chiunque si fosse trovato a essere imperatore quel mese. Vespasiano poteva giustamente ritenere che a quel punto tutto ciò di cui quegli esuberanti eroi avevano bisogno era un comandante capace di tenerli a freno. «Avrà bisogno di una presa ben salda!» disse sbuffando Balbillo, quando lo suggerii. «Durante il viaggio verso la Britannia, dopo che Vitellio si fu liberato di loro, avevano precisi ordini di evitare Vienne a causa di su-
scettibilità locali. Metà di quegli idioti volevano marciare direttamente sulla città. Lo sapevi? E l'avrebbero fatto, se non fosse stato per altri che si preoccuparono della propria carriera...» Notai, a favore della Quattordicesima, che aveva prevalso la saggezza. Ma tutto questo confermava che non erano in vena di vedermi arrivare e di sentirsi dire da me che dovevano rassegnarsi a un futuro sedentario nei loro alloggiamenti a sprecare il loro soldo in razioni di viveri invece di andare in giro a fare gli sbruffoni e a bruciare città. Diedi a Balbillo i soldi per una rasatura e un'altra caraffa di vino, poi lasciai che il soldato senza una gamba divorasse il suo cibo caldo mentre io me ne andavo a casa come un qualunque cittadino che si rispetti. Avrei fatto meglio a restare in giro a bere. Mi ero dimenticato del barbiere di Palazzo. Lui mi stava aspettando nella mia stanza con un sorriso vispo, disgustosi calzari color ciliegia e un grosso canestro di vimini. «Come promesso!» «Sì, mi avevi avvertito.» Imprecando, afferrai un manico e cercai di tirare più vicino il canestro. Non si spostò di un pollice. Mi puntellai contro una panca e tirai su. Il peso morto raschiò un'asse del pavimento con un assordante stridore di canne. Slacciai alcune pesanti cinghie e demmo un'occhiata dentro al nuovo vessillo della Quattordicesima. Xanto era impressionato. «Che cos'è quell'affare?» Io preferisco viaggiare leggero (se proprio sono costretto a viaggiare). L'imperatore aveva scelto proprio il genere di ninnolo che nessuno durante un lungo viaggio vorrebbe portarsi appresso nella sacca. Venivo mandato in Germania a portare una mano umana alta due piedi, sapientemente scolpita. Era dorata, ma sotto quella decorazione pretenziosa l'oggetto che dovevo trasportare attraverso l'Europa era fatto di solido ferro. Mi lamentai con il barbiere. «A seconda se lo chiedi a un esperto ottimista o realista, questo rappresenta un palmo aperto, simbolo di amicizia internazionale, oppure un emblema di implacabile potere militare. «Tu che cosa ne pensi?» «Penso che trascinarmelo in giro per l'Europa mi spezzerà la schiena.» Mi lasciai cadere sulla panca. Mi chiedevo chi avesse aiutato quel fragile fiorellino a portare su per le scale il canestro. «Bene, l'hai portato. Che cosa stai aspettando?» L'improbabile messaggero del Palazzo aveva un'aria evasiva. «C'è qual-
cosa che volevo chiederti.» «Sputa il rospo.» «Posso venire con te in Germania?» Questo confermava la mia convinzione che Tito l'avesse ingaggiato per farmi del male. Non ne fui neppure sorpreso. «Non credo di aver capito bene.» Lui fu assolutamente spudorato. «Ho i miei risparmi. Ho già fatto domanda per comprarmi la libertà. Mi piacerebbe molto viaggiare prima di sistemarmi.» «Giove!» brontolai dentro il collo della tunica. «È già abbastanza sgradevole farsi tagliare la gola mentre lo scriteriato di turno chiede se il signore ha intenzione di recarsi nella sua villa in Campania quest'estate, senza che uno dei bastardi voglia venire con te in vacanza!» Xanto non fiatò. «Xanto, sono un incaricato imperiale mandato in mezzo ai barbari. Dunque, amico mio, quale motivo avrebbe un barbiere di condividere la mia sventura?» Xanto rispose sgarbatamente: «Qualcuno in Germania potrebbe aver bisogno di una rasatura ben fatta!». «Non guardare me!» Mi passai il palmo della mano sul mento. C'era una feroce barba corta e ispida. «No» convenne lui, offensivo. Niente riusciva a fermarlo quando si radicava in un'idea sotto quella zazzera ben curata. «Nessuno qui sentirà la mia mancanza. Tito vuole liberarsi di me.» Questo riuscivo a crederlo. Tito voleva mettermi saldamente alle costole il suo accoltellatore personale. Meglio ancora se portavo Xanto in qualche posto lontano prima che estraesse la lama. «Tito può mettere in salsa di pesce il tuo lasciapassare di viaggio e mangiarselo sott'acqua. Io viaggio da solo. Se Tito vuole collocarti a riposo da incarichi ufficiali, lascia che ti dia una ricompensa così potrai aprire un chiosco alle terme.» «Non ti creerò nessun disturbo!» «Il requisito per un carriera con le forbici in mano deve essere nascere privi di orecchie!» Chiusi gli occhi per liquidarlo, ma sapevo che era ancora lì. Stavo arrivando a una decisione. Ormai ero convinto che Tito ritenesse utile che quella specie di buffone profumato affilasse il suo rasoio sulla mia gola. Se avessi accettato, o almeno avessi fatto finta, almeno avrei sa-
puto da quale mano armata guardarmi. Rifiutando quell'opportunità, sarei stato costretto a sospettare di tutti. Alzai lo sguardo. Anche il barbiere doveva avere spremuto le sue meningi, perché domandò all'improvviso: «Mi pare di capire che le persone ti assumono...». «Gli sciocchi lo fanno.» «Quanto viene a costare?» «Dipende da quanto trovo sgradevole l'incarico che vogliono affidarmi.» «Dammi un'idea, Falco!» Lo accontentai, ostentando disgusto. «Posso trovare quel denaro» disse lui piagnucolando. Non ne ero affatto sorpreso. Qualunque schiavo imperiale è perfettamente in grado di ammucchiare grosse mance. Inoltre, calcolavo che Xanto avesse un banchiere che gli avrebbe pagato il suo giro per il continente. «Ti assumerò perché tu mi faccia da scorta nel tuo stesso viaggio.» «Il richiamo dell'avventura!» ironizzai. «Dunque otterrò una gratifica ogni volta che riuscirò a organizzare che tu sia preso a randellate e rapinato? Doppia tariffa se ti beccherai una brutta eruzione cutanea da una prostituta continentale a buon mercato? Tripla se affogherai in mare?» Lui disse risoluto: «Ci sarai tu a consigliarmi come evitare i pericoli del viaggio». «Allora, il mio primo consiglio è di non fare affatto questo viaggio.» A quanto pare la mia noia di vivere lo colpì come se fosse una posa romantica. Niente l'avrebbe fatto desistere; doveva essergli stato ordinato di venire con me da persone abituate a farsi obbedire. «Falco, mi piace il tuo modo di fare. Credo che potremo cavarcela bene insieme noi due.» «D'accordo.» Feci finta di essere troppo stanco per discutere. «Sono sempre stato un tipo condiscendente per clienti a cui piace farsi insultare venti volte in un'ora. Mi servono altri due giorni per completare le mie indagini preliminari e sistemare i miei affari. Incontriamoci al Miglio Aureo... in un viaggio così lungo parto sempre dall'inizio. Fatti trovare lì all'alba con tutti i tuoi averi, mettiti dei calzari più pratici di quegli orrendi affari rosa e porta con te un attestato valido di affrancamento dalla schiavitù, perché non voglio essere arrestato per furto di proprietà imperiale!» «Grazie, Falco!» Mi mostrai irritato dalla sua gratitudine. «Un altro ostacolo? Il dono dell'imperatore all'esercito pesa parecchio. Puoi aiutarmi a trasportare la Mano di ferro.» «Oh no!» esclamò il barbiere. «Questo non posso farlo, Falco. Dovrò già
portare tutta la mia attrezzatura da barbiere!» Gli dissi che aveva molto da imparare. Anche se io stesso soffrivo certamente di danni cerebrali, se avevo accettato di farmi rifilare questo Xanto. SECONDA PARTE L'arrivo GALLIA E GERMANIA SUPERIORE Ottobre, 71 d.C. Scarso entusiasmo! Saremo ben presto nei pasticci, per quanto... TACITO, Storie XI Facevamo un bel quadretto di viaggio, il barbiere, il suo baule di emollienti, la Mano nel suo canestro e io. C'erano due strade per cercare di raggiungere la nostra meta: attraverso le Alpi passando per Augusta Praetoria, oppure per mare fino alla Gallia meridionale. In ottobre era meglio evitarle entrambe. Fra settembre e marzo, chiunque abbia un po' di buonsenso se ne rimane al sicuro a Roma. Detesto i viaggi per mare ancor più di quanto detesti l'alpinismo, ma decisi lo stesso di passare per la Gallia. È l'itinerario maggiormente seguito dall'esercito. Qualcuno a suo tempo deve aver stabilito che era il meno pericoloso da un punto di vista logistico. E poi avevo fatto quel percorso con Elena una volta (anche se nella direzione opposta), e mi ero convinto che se lei fosse andata in Germania invece che in Spagna, forse avrebbe voluto rivisitare luoghi che richiamavano teneri ricordi... Apparentemente no. Passai l'intero viaggio cercando di avvistare una donna alta con i capelli scuri che lanciava contumelie ai funzionari doganali, ma non ce n'era traccia. Mi sforzavo di non pensare a lei sepolta viva sotto una valanga, o aggredita da tribù ostili in agguato lungo gli alti valichi che attraversano l'Elvezia. Approdammo a Forum Iulii, che era relativamente amena. Le cose peggiorarono quando arrivammo a Massilia, dove dovemmo trascorrere una notte. Addio viaggio ben programmato. Massilia, a mio avviso, è un ascesso in suppurazione sul dente più sensibile dell'impero.
«Per gli dèi, Falco! È un po' turbolenta...» si lamentò Xanto mentre cercavamo di farci strada fra la marea di venditori d'olio spagnoli, imprenditori ebrei e mercanti di vino di ogni paese che si contendevano un letto in una delle locande meno malfamate. «Massilia è stata una colonia greca per seicento anni. Crede ancora di essere la cosa migliore a ovest di Atene, ma seicento anni di civiltà hanno un effetto deprimente. Possiede olive e vigneti, un eccellente porto circondato su tre lati dal mare e monumenti affascinanti, ma non ci si può muovere per via dei venditori delle bancarelle che cercano di rifilarti pentole di metallo di nessun valore e statuette di grasse divinità dai buffi occhi rotondi.» «Sei già stato qui in precedenza!» «Sono stato truffato qui! Se vuoi mangiare, dovrai arrangiarti da solo. C'è una lunga strada davanti a noi e non ho intenzione di debilitare le mie forze rovinandomi le budella con una ciotola di gamberetti di Massilia. Non metterti a parlare con nessuno degli abitanti del posto... né tantomeno con i viaggiatori. Il barbiere sgattaiolò via con aria infelice per mangiare un boccone da solo. Io mi accomodai alla fioca luce di un lume a olio per studiare le mie mappe. Un vantaggio di questo viaggio era che il Palazzo mi aveva fornito un'ottima serie di itinerari militari con tutte le principali strade consolari, il risultato di settant'anni di attività romana nella zona centrale del continente. Non semplici elenchi di distanze in miglia fra le città e i forti, ma discrete guide di viaggio particolareggiate, complete di appunti e diagrammi. Anche così, tuttavia, in alcuni punti avrei dovuto fare affidamento sulle mie facoltà mentali. C'erano enormi spazi vuoti assai preoccupanti a est del fiume Reno: la Germania Libera... Interminabili distese di territorio dove "libero" significava non solo libero dall'influenza commerciale romana, ma anche completamente privo della legge e dell'ordine romani. Era la zona dove si nascondeva la sacerdotessa Velleda e dove, probabilmente, si era rifugiato Civile. La frontiera era abbastanza instabile. Il continente era pieno di tribù irrequiete che cercavano di spostarsi verso altre aree, talvolta in grandi numeri. Dai tempi di Giulio Cesare, Roma cercava di insediare i gruppi più amichevoli in modo da creare zone cuscinetto. Le nostre province della Germania Superiore e Inferiore costituivano un corridoio militare lungo il
fiume Reno fra le terre pacificate della Gallia e il grande ignoto. Questa comunque era stata la linea di condotta, fino alla guerra civile. Studiai pensieroso la mappa. Nell'estremo nord, a fianco della Belgica, intorno all'estuario del Reno, si estendeva il paese d'origine dei batavi, con la roccaforte che loro chiamavano l'Isola. Lungo tutto il corso del fiume sorgevano i forti, i posti di vedetta, le torri di guardia e i luoghi di segnalazione romani che erano stati costruiti per controllare la Germania. Quasi tutti adesso erano stati allineati con ordine dallo scrivano che aveva aggiornato le mappe per me. Nel punto più a nord c'era Noviomagus, dove Vespasiano stava progettando un nuovo forte per tenere d'occhio i batavi, ma che per il momento era solo una croce sulla mappa; subito dopo veniva Vetera, teatro del feroce assedio. Poi c'era Novaesium, la cui meschina legione aveva disertato passando dalla parte dei ribelli; Bonna, che era stata sopraffatta dalle coorti batave della Quattordicesima con un'orrenda carneficina; e Colonia Agrippinensium, che i ribelli avevano conquistato ma risparmiato dalle fiamme per ragioni strategiche (e anche perché, a quanto ne so, Civile aveva dei parenti che vivevano lì). Sul fiume Mosella sorgeva Augusta Treverorum, capitale della tribù dei treviri, dove Petilio Ceriale aveva inflitto una dura sconfitta ai ribelli. Nel punto in cui il fiume Meno confluiva nel Reno, c'era la mia prima destinazione: Moguntiacum, capitale della Germania Superiore. Avrei potuto arrivarci seguendo una strada consolare diretta dal grande crocevia gallico di Lugdunum. Come alternativa, in una città chiamata Cavillonum, avrei potuto deviare dalla strada consolare e avvicinarmi alla Germania da un punto più a nord. Era una buona scusa per ambientarmi nella provincia. Avrei potuto viaggiare fino a Moguntiacum e arrivare al mio appuntamento con la Quattordicesima per via fluviale. Questo itinerario alternativo non comportava una distanza maggiore (me ne convinsi) e avrei raggiunto più comodamente il Reno ad Argentoratum, dove si trovava una certa persona la cui sorella amavo alla follia. Mentre stavo ancora osservando accigliato l'immensa distanza che avevamo davanti, il barbiere entrò di corsa, verde dalla rabbia. «Xanto! Quale incidente di viaggio ti ha appena avvelenato l'esistenza? Aglio, stitichezza, o ti hanno solo spennato?» «Ho commesso l'errore di ordinare da bere!» «Ah! Capita a tutti.» «Costava...»
«Non dirmelo. Sono già abbastanza giù. I Galli hanno una scala di valori un po' stramba. Vanno matti per il vino e spendono cifre improponibili per qualsiasi bevanda alcolica. Nessuno convinto che uno schiavo in buona salute possa equivalere a un'anfora di mediocre vino d'importazione può essere considerato sano di mente. E il vinaio non ti farà pagare meno di quanto abbia pagato lui solo perché a te è stato insegnato come ottenere una caraffa sul tavolo di una taverna a mezzo asse.» «E la gente che cosa dovrebbe fare, Falco?» «Credo che i viaggiatori esperti si portino il loro.» Mi fissò. Gli rivolsi il sorriso sereno di un uomo che probabilmente ha bevuto attingendo a una sua riserva personale mentre il suo compagno era in giro a farsi derubare. «Ti andrebbe una rasatura, Falco?» Aveva un tono offeso. «No.» «Sembri un selvaggio.» «Così passerò inosservato nei luoghi in cui dobbiamo andare.» «Avevo sentito dire che eri un donnaiolo.» «La donna di cui si dà il caso che sia l'uomo si dà il caso che si trovi altrove. Mettiti a dormire, Xanto. Ti avevo avvertito che appoggiare i tuoi graziosi sandali sul suolo straniero avrebbe implicato pena e tensione.» «Ti ho assunto per proteggermi!» si lamentò lui, avvolgendosi in una coperta leggera sul letto stretto. Ci trovavamo in un piccolo dormitorio. A Massilia si crede buona l'idea di stipare gli avventori uno addossato all'altro, come vasi di sottaceti su una nave da carico. Sogghignai. «Oh, se lo spirito è questo! Le avventure erano quello che volevi. Ma comportano sempre sofferenza.» Poco prima che il lume si consumasse del tutto, lasciai che mi vedesse esaminare il pugnale e metterlo sotto quello che passava per un cuscino. Credo che avesse capito il messaggio. Ero un professionista perfettamente addestrato. Il pericolo era il mio stile di vita. Se anche solo un topo avesse fatto scricchiolare un'asse del pavimento, la mia reazione istantanea sarebbe stata di accoltellare il barbiere. Vista la quantità di lozione da barba che si spruzzava addosso, l'avrei sentito arrivare anche nel buio più pesto. E sapevo dove conficcare l'arma per ottenere il risultato migliore. Qualunque cosa gli avessero detto, o non detto, a Palazzo, doveva esserne consapevole. La sua prima giornata in Gallia l'aveva buttato troppo a terra perché tentasse qualcosa quella notte.
Ci sarebbero state molte altre occasioni. Ma in qualunque momento avesse deciso di eseguire il lavoro sporco per Tito Cesare, io sarei stato sul chi vive. XII Arrivammo a Lugdunum. Non posso dire senza incidenti. Avevamo dovuto respingere una banda di monelli di paese che pensavano che il mio canestro con il vessillo di ferro contenesse qualcosa che avrebbero potuto vendere, poi trovai un passaggio su una nave che trasportava vino e per poco non lasciai cadere in acqua la Mano. In realtà, ogni volta che lasciavamo la dimora della notte precedente, correvo il rischio di dimenticare su una mensola il dono di Vespasiano per la Quattordicesima. L'acqua da bere ad Arelate incominciò a farci stare male, l'olio che i galli usavano per cucinare ci mise sottosopra mentre oltrepassavamo in barca Valentia, dell'infida carne di maiale ci tenne a letto per un'intera giornata a Vienne, e quando finalmente sgattaiolammo nella capitale amministrativa, il vino che avevamo tracannato per cercare di dimenticare la carne di maiale ci procurò un feroce mal di testa. Lungo tutto il percorso avevamo giocato a fare palline con la consueta quota autunnale di pulci che facevano provvista per l'inverno, cimici dei letti, vespe e minuscoli affari neri invadenti il cui alloggio preferito era su per il naso di uno sventurato viaggiatore. A Xanto, la cui pelle ben curata era uscita raramente dal Palazzo, si manifestò un'eruzione cutanea della quale mi descrisse i progressi con tediosa sollecitudine. Lugdunum, dunque. Mentre sbarcavamo, feci a Xanto il favore di dargli qualche informazione sul posto: «Lugdunum, capitale delle Tre Gallie. Quelle di "Gallia est omnis divisa in partes tres...", che ogni scolaro è costretto a imparare a memoria, anche se voi barbieri potete forse sottrarvi a tali insignificanti aspetti dell'educazione... Una bella città, fondata da Marco Agrippa come centro delle comunicazioni e del commercio. Si noti l'interessante rete di acquedotti, che usa condutture sigillate costruite come sifoni rovesciati per attraversare le valli fluviali. È una città estremamente cara, e da questo possiamo dedurre che, in termini provinciali, gli abitanti di Lugdunum sono estremamente ricchi! C'è un tempio al culto imperiale, che non visiteremo...» «Mi piacerebbe potere andare a vedere qualcosa!» «Stai con me, Xanto. Questa città vanta anche una succursale dello stra-
ordinario vasellame di terracotta aretino. Andremo a spassarcela lì. Tu ed io seguiremo la migliore tradizione dei viaggiatori, che impone di voler portare a casa qualche stoviglia... a due volte il costo e tre volte il fastidio di sborsare soldi che se la acquistassi in Italia.» «E allora perché lo facciamo, Falco?» «Non chiedermelo.» Perché mia madre aveva detto di farlo. La manifattura di stoviglie di Samo offriva una favolosa occasione per farci venire male ai piedi camminando tutta la mattina per guardare migliaia di vasi, senza considerare l'opportunità di sperperare in regali, cosa che avrebbe fatto venire un colpo ai nostri banchieri. I vasai di Lugdunum si offrivano di rifornire l'intero impero. La loro era la storia del più grande successo commerciale dei nostri tempi. Monopolizzavano il mercato e il loro settore aveva quell'atmosfera di tenace ingordigia che passa per iniziativa affaristica. Fornaci e bancarelle si estendevano intorno alla città come un esercito assediante, dominando la normale esistenza. I carri ostruivano tutte le vie d'uscita, quasi impossibilitati a procedere, cigolando sotto il peso di torreggianti casse dei famosi piatti rossi imballati nella paglia per il trasporto in tutto l'impero e probabilmente oltre. Perfino durante la crisi seguita alla violenza della guerra civile, questa località prosperava. Se mai il mercato delle ceramiche fosse crollato, Lugdunum avrebbe subito una rovina generalizzata. C'erano acri su acri di laboratori. In ognuno c'era un artigiano locale, per lo più cittadini nati liberi, a differenza delle principali manifatture nel nord dell'Italia che, a quanto sapevo, erano mandate avanti da schiavi. Mia madre (che mi dava sempre utili consigli sui regali che avrei potuto portarle) mi aveva fatto sapere che Aretinum era in declino, mentre la sua succursale qui a Lugdunum era nota alle matrone avvedute come luogo di provenienza di oggetti più raffinati. Erano sicuramente costosi, ma mentre osservavo le traballanti pile di piatti, caraffe e vassoi, mi rendevo conto che inseguivo la qualità. Gli stampi utilizzati qui avevano disegni finemente delineati o scene classiche scolpite in modo squisito, e la creta lavorata veniva cotta con grande impegno fino a diventare di un caldo e intenso rosso lucente. Capivo perché queste ceramiche fossero ricercate assiduamente come il bronzo o il vetro. Mia madre, che aveva cresciuto sette figli quasi senza alcun aiuto da par-
te di mio padre, meritava un oggetto ben fatto di terraglia rossa, e mi sarebbe piaciuto acquistare un bel piatto da portata per rabbonire Elena. Dovevo a entrambe un po' di attenzione. Ma mi dava fastidio essere raggirato. Ogni volta che mi azzardavo a chiedere il prezzo, mi affrettavo subito a proseguire. Questi non erano affari. A Lugdunum non conoscevano affatto il principio della vendita sottocosto per propaganda. Questi artigiani erano convinti che se c'erano persone abbastanza stupide da risalire il fiume per duecento miglia pur di esaminare i loro articoli di lusso, avrebbero potuto benissimo pagare il prezzo corrente. E il prezzo corrente era elevato quanto i vasai pensavano di poter arrivare a chiedere, dopo aver soppesato il valore delle pietre preziose che vi impreziosivano le dita e il pelo del vostro mantello da viaggio. Nel mio caso questo significava non molto elevato, ma era pur sempre più di quanto fossi disposto a pagare. Continuai nella mia ricerca, ma erano tutti convinti che il pubblico esistesse solo per essere spremuto. Finii sotto un tavolo poggiato su cavalletti, a rovistare in una cesta di pezzi scheggiati a prezzo ridotto. «Quelli mi sembrano una perdita di tempo» borbottò Xanto. «Sono figlio di un venditore d'aste. Mi hanno insegnato che in una cassetta dei rifiuti accanto al ciarpame a volte si annida un tesoro...» «Oh, sei pieno di saggezza domestica!» disse sogghignando. «So distinguere una rapa sana... vedi?» Avevo trovato un piatto da portata nascosto che era abbastanza esente da crepe e difetti di cottura. Il barbiere riconobbe con indulgenza che la perseveranza era stata premiata; poi andammo in cerca di qualcuno che ce lo vendesse. Non fu tanto semplice. I vasai di Lugdunum avevano sicuramente i loro metodi per ostacolare i taccagni. I ragazzi che spostavano i sacchi di argilla molle si giustificavano dicendo di ignorare i prezzi, l'uomo che scolpiva un nuovo stampo era troppo artista per barattare, gli addetti alla fornace erano troppo accaldati per essere disturbati e la moglie dell'artigiano che di norma prendeva i soldi era rimasta a casa con il mal di testa. «Probabilmente le è venuto a forza di preoccuparsi di come fare a spendere tutti i loro profitti!» mormorai a Xanto. L'artigiano stesso era temporaneamente occupato. Lui e la maggior parte dei vicini si erano raggruppati in una folla minacciosa sulla strada carraia all'esterno. Quando andammo a cercarlo era in corso una discussione, c'erano urti e spintoni. Dissi a Xanto di restare indietro.
Un gruppetto di vasai infuriati, con argilla molle sui grembiuli e gli avambracci, si era radunato intorno a un portavoce che dava aspre risposte a due uomini che, apparentemente, cercavano di provocare una disputa. Si vedevano più barbe e basette di quante ne trovereste in un raduno di uomini a Roma ma, a parte ciò, non si distinguevano molto l'uno dall'altro. I due uomini che discutevano in tono più acceso portavano le stesse tuniche galliche degli abitanti del posto, con alti colletti di stoffa ripiegata alla gola per tenere caldo, ma sopra indossavano mantelli di feltro nordici, con il collo tagliato verticalmente, maniche ampie e cappucci appuntiti tirati indietro. I due sbraitavano violentemente, con l'aria di uomini che stanno perdendo una battaglia. Di tanto in tanto gli altri rispondevano per le rime, ma tendevano a tenersi indietro con fare sprezzante, come se avessero meno bisogno di contrattare, visto che erano loro a comandare. Le cose stavano prendendo decisamente una brutta piega. Un tipo alto con una fossetta nel mento e un sogghigno vivace sembrava essere il capo locale. All'improvviso fece un gesto osceno ai due uomini. Il più robusto sollevò il pugno, ma fu trattenuto dal compagno, un uomo più giovane con i capelli rossi e le verruche. Avevo sperato che gli animi si placassero in modo da poter acquistare il mio piatto, ma ormai sembrava che quel giorno ogni affare si sarebbe concluso con nasi sanguinanti. Consegnai il regalo per mia madre a uno del posto, afferrai Xanto e feci una rapida uscita di scena. «Di che cosa discutevano, Falco?» «Non ne ho la minima idea. Quando viaggi, non farti mai trascinare in una lite. Non sai com'è iniziata, di sicuro sceglierai la parte sbagliata ed è probabile che entrambe le parti finiscano per rivoltarsi contro di te.» «Hai lasciato il tuo piatto!» «Esatto.» In ogni caso, era sghembo. XIII Durante la tappa successiva del nostro viaggio qualcosa incominciò a succedere. Mi stavo perdendo rapidamente d'animo. La visita alla manifattura di ceramiche era servita da diversivo, che però mi aveva causato i suoi buoni motivi di apprensione, visto che non avevo comprato nulla e mi aspettavo di ricevere un sacco di contumelie al mio ritorno a casa. Ma non pensai più ai vasai e ai loro problemi; avevo già abbastanza guai. La mia vera missio-
ne si avvicinava pericolosamente. Con Lugdunum ci eravamo lasciati alle spalle un terzo della distanza attraverso l'Europa, senza considerare l'estenuante viaggio per mare da Ostia. Ormai eravamo allo sforzo finale, e più ci avvicinavamo al maestoso fiume Reno e agli assurdi incarichi che Vespasiano mi aveva assegnato, più mi sentivo depresso. Non era la prima volta che rimanevo inorridito dalla distanza che dovevamo percorrere per attraversare l'Europa, e dal tempo che ci sarebbe voluto. «Altre cattive notizie, Xanto! Il viaggio fluviale è troppo lento. A questa velocità arriverebbe l'inverno prima che io porti a termine la mia missione. Io andrò a cavallo, per gentile concessione del mio salvacondotto imperiale, così tu dovrai noleggiare un mulo se vorrai tenermi dietro.» Non fatevi l'idea che Vespasiano mi avesse fornito i mezzi necessari per requisire un cavallo nelle stazioni di posta dello stato perché voleva che viaggiassi comodo: probabilmente lo considerava più opportuno per la Mano di ferro. I luoghi apparivano ormai decisamente estranei. Invece delle enormi ville italiche con i proprietari residenti altrove e centinaia di schiavi, passavamo accanto a modeste fattorie di fittavoli. Maiali al posto delle pecore. Meno uliveti e vigneti più striminziti a ogni miglio. Ai ponti venivamo ritardati da convogli di rifornimenti dell'esercito, da cui si capiva che ci avvicinavamo a una zona militare. Le città diventarono un'eccezione. Era tutto più freddo, più umido e più fosco di quando eravamo partiti da casa. Come viaggiatore, Xanto stava diventando più sicuro di sé, e questo significava che come bambinaia di quell'idiota dovevo stare ancora di più in guardia. Dovergli spiegare banali usanze regionali ogni volta che ci fermavamo per cambiare i cavalli mi esasperava. Per di più, erano cominciate le piogge. «Mi hanno rifilato delle monete rotte, Falco... tagliate in quarti e metà!» «Mi dispiace, avrei dovuto avvertirti: c'è da lungo tempo scarsità di spiccioli. Non c'è bisogno di mettere in mostra la tua ignoranza facendo una scenata. Le metà tagliate sono accettate localmente, ma non portarne a casa. Ammesso che ci si torni, a casa.» Ero così abbattuto che ne dubitavo. «Ti adatterai. Cerca solo di non sprecare un asse o un quadrante se puoi pagare con una delle tue monete più grosse, e raccogli gli spiccioli per i momenti di necessità. Se finiscono completamente le monete di rame le cameriere usano i baci, e quando esauriscono anche quelli...» Rabbrividii in modo intenzionale.
«Sembra sciocco!» si lamentò Xanto. Un vero barbiere. Con lui le battute erano sprecate. Sospirando nell'intimo, gli fornii la spiegazione razionale: «L'esercito ha sempre pagato in argento. I sesterzi sono più facili da trasportare in grossi quantitativi, così il Tesoro non pensa mai di mandare qualche cassa di monete di rame che i ragazzi possano usare per le piccole spese. C'è una zecca a Lugdunum, ma sembra che per orgoglio cittadino preferiscano produrre quelle grosse e lucenti.» «Vorrei che tagliassero a metà anche i prezzi, Falco!» «E io vorrei un sacco di altre cose!» Parlai con perfetto autocontrollo, ma ero vicino al punto di rottura. Avrei voluto che la smettesse di piovere. Avrei voluto trovare Elena. Avrei voluto essere al sicuro nella mia città, a occuparmi di un incarico privo di rischi. Ma soprattutto, mentre il barbiere continuava a blaterare all'infinito, avrei voluto liberarmi di lui. Trascorremmo la notte in un villaggio tipico di quella strada consolare: una lunga fila di case costruite lungo i lati della strada con una sola via principale dedicata soprattutto all'intrattenimento dei viaggiatori. C'erano parecchie locande, e una volta trovatane una pulita dove lasciare i bagagli, per un cambio di scena potevamo scegliere tra numerose taverne. Scelsi una delle osterie con un porticato che gettava luce sulla strada e scendemmo brancolando nella cantina sul retro dove altri viaggiatori erano seduti a tavoli rotondi, gustandosi carne fredda o formaggio con boccali di birra del posto fermentata. L'odore dei mantelli di lana umidi e degli stivali bagnati impregnava la stanza mentre tutti emanavano vapore dopo la giornata di viaggio sotto la pioggia. L'osteria era calda, asciutta e illuminata da sottili candele di giunchi. Il locale aveva quell'atmosfera da "siamo qui per accontentarvi" che leniva la fatica del viaggio anche in quelli di noi che erano riluttanti a farsi lenire troppo da qualsiasi cosa per evitare che il Fato ci facesse pagare una dura penalità. Bevemmo. Mangiammo. Xanto si rianimò. Io non dissi una parola. Lui si fece portare ancora da bere mentre io facevo tintinnare scontroso la mia borsa. Come sempre, sarei stato io a pagare. Xanto trovava innumerevoli modi per scialacquare i soldi del viaggio, ma aveva la capacità di cercare in fondo alle tasche solo quando lo lasciavo andare in giro da solo. Eravamo carichi dei suoi oggetti ricordo - lanterne tintinnanti, statuette di muscolose divinità locali e talismani a forma di ruota di carro - ma per qual-
che motivo sembrava che toccasse sempre a me finanziare la cena. In questa osteria erano disinvolti riguardo al pagamento: si paga tutto alla fine. Era un eccellente modo per far sì che la gente lasciasse più denaro di quanto avesse avuto intenzione di fare, anche se in realtà quando mi alzai per chiedere il conto, l'estorsione non fu troppo dolorosa, considerato quanto aveva mangiato e bevuto il barbiere. Una bella serata, per un uomo libero di godersela. Dissi a Xanto di incominciare ad andare avanti mentre aspettavo che il personale smettesse di affannarsi come al solito per trovare monete per il mio resto. Quando uscii sulla strada principale il mio docile rompiscatole era già sparito. Non avevo fretta di raggiungerlo. Era una notte asciutta, con fantastiche stelle che punteggiavano un cielo nero fra poche nubi alte e veloci. Probabile che l'indomani avessimo di nuovo abbondanti acquazzoni, ma me ne rimasi lì un momento a gustarmi quel vento secco e impetuoso sul viso. La strada era deserta in quel momento. Ero afflitto da uno spasimo di malinconia del viaggiatore. Tornai dentro l'osteria e ordinai un piatto di uva passa e un altro boccale. La stanza era meno affollata. Sentendomi indipendente, cambiai di posto. Questo mi consentì di osservare gli altri avventori. Gli uomini conversavano fra loro in piccoli gruppi; alcuni cenavano soli. Due attirarono il mio sguardo perché sembrava che stessero insieme ma non si parlavano. Non davano l'impressione di avere litigato, sembravano semplicemente ancora più abbattuti di quanto lo fossi stato io prima di togliermi Xanto dai piedi. Una serva accese una candela nuova sul loro tavolo. Quando la fiamma divampò riconobbi la coppia. Indossavano tuniche dal collo alto sotto mantelli gallici del colore delle more e dai cappucci appuntiti. Uno era sovrappeso e di mezza età, l'altro aveva capelli rossicci e una coltura particolarmente fiorente di verruche sulle guance e sulle mani. Erano i due che avevo visto discutere alla manifattura delle ceramiche. Se avessero avuto l'aria più espansiva forse mi sarei avvicinato e avrei accennato alla coincidenza. Ma erano immersi nei loro pensieri e io avevo sonno e mi godevo quel breve momento di intimità. Finii la mia uva passa. Quando alzai nuovamente la testa se ne stavano andando. Poco male, probabilmente. Dubitavo che mi avessero notato a Lugdunum, e in ogni caso allora erano così infuriati che forse non avrebbero gradito che qualcuno gli ricordasse l'episodio. L'indomani avremmo proseguito tutti il nostro viag-
gio in direzioni diverse. Era assai improbabile che avessimo un'altra occasione di incontrarci. Invece ci incontrammo. O meglio, io vidi loro. La mattina seguente, a mezz'ora di strada dal villaggio, mentre il barbiere mi stava ancora assillando chiedendomi dove fossi sparito per tanto tempo la sera prima e io ignoravo quel fiume di lamentele con la mia solita diplomazia a denti stretti, ci imbattemmo in due decurie di reclute dell'esercito. Non c'erano legioni di stanza nella Gallia vera e propria. Quei novellini dovevano essere diretti verso la frontiera. Ora si erano fermati. Se ne stavano qua e là per la strada consolare come carote sparpagliate, venti ragazzi di diciassette o diciotto anni non ancora abituati al peso dei loro elmi e sul punto di scoprire quanto sia noiosa e deprimente una lunga marcia. Anche il centurione che li comandava, che doveva essere in circolazione già da un po', era inadeguato ad affrontare la crisi nella quale erano incappati. Sapeva di rappresentare la legge e l'ordine, e quindi di essere obbligato a fare qualcosa. Ma avrebbe di gran lunga preferito proseguire con lo sguardo fisso davanti a sé. Francamente, anch'io. Il problema era che le reclute avevano avvistato i corpi di due viaggiatori distesi nel canale di scolo. Eccitati, avevano chiamato a gran voce il centurione, così lui era stato costretto a fermarsi. Quando arrivammo, non aveva un'aria felice. Mentre scendeva faticosamente a controllare, il suo stivale era scivolato sull'erba bagnata e viscida. Si era fatto male alla schiena, infradiciato il mantello e imbrattato di fango una gamba. Imprecava a ripetizione mentre cercava di ripulirsi con un ciuffo d'erba. Xanto e io fermammo i cavalli per guardare e questo lo allarmò ancora di più. Ora, qualunque cosa avesse deciso di fare per quel problema, avrebbe avuto testimoni oculari. Avevamo lasciato Lugdunum diretti a nord, seguendo il fiume Saona lungo la strada consolare costruita dall'esercito come direttrice veloce verso le due Germanie. Mantenuta a spese pubbliche da sovrintendenti, era un'opera di ingegneria di prima qualità: terra rullata, poi uno strato di ciottoli, un altro di detriti, un letto di eccellente calcestruzzo, quindi un selciato di lastre quadrangolari con una bombatura che lasciava scivolare via l'acqua come il carapace di una tartaruga. La strada correva un po' più in alto della campagna circostante. Su entrambi i lati c'erano ripidi fossati per provvedere tanto allo scolo dell'acqua quanto alla sicurezza contro le imboscate. Guardando giù dalla strada, avevo una visuale perfetta.
I ragazzi più entusiasti si erano lasciati scivolare giù dietro il loro centurione. Per loro era la cosa migliore che fosse successa da quando avevano lasciato l'Italia. Stavano rigirando sulla schiena il cadavere pingue. Credo di essere stato pronto per il seguito ancor prima di dare un'occhiata alla sua faccia. Si era gonfiato stando coricato nell'acqua piovana, ma sapevo che quello era uno dei due uomini di Lugdunum. Conoscevo anche il suo rigido compagno, sebbene fosse ancora a faccia in giù. Riconobbi le verruche sulle mani. Erano visibili perché prima di depositarlo nell'acqua del canale qualcuno gli aveva legato le braccia dietro la schiena. Qualunque fosse il motivo che aveva fatto tanto infuriare quei due, la sorte aveva trovato un modo risolutivo per aiutarli a superare la cosa. XIV Il centurione si infilò nella cintura le estremità penzolanti e appesantite dal bronzo dell'armatura, poi consegnò l'elmo a un soldato, che lo tenne con precauzione per il passante di sostegno. La pioggia per il momento era cessata, ma il mantello scarlatto dell'ufficiale si avvolgeva in modo fastidioso contro il budriere argentato della spada mentre i drappeggi di lana gli aderivano al corpo, impregnati di quell'umidità che sembrava non abbandonarci mai quando viaggiavamo. Quando alzò la testa, riconobbi in lui una stanca rassegnazione, dovuta al fatto che il nostro arrivo aveva mandato all'aria qualunque piano avesse avuto di trascinare un po' di sterpaglia sui corpi e allontanarsi in tutta fretta. Appoggiandomi al collo del cavallo, gli feci un lieve cenno del capo. «Tieni indietro la gente, soldato!» ordinò. Le reclute erano così poco avvezze alla vita militare che invece di fingere ostinatamente che l'ordine fosse rivolto al vicino, ci attorniarono tutte insieme. Io rimasi dov'ero. «Mostragli il tuo lasciapassare!» mi sibilò Xanto ad alta voce, credendo che fossimo nei guai, cosa che avvenne immediatamente, una volta che lui ebbe parlato. Lo ignorai, ma il centurione s'irrigidì. Adesso avrebbe voluto verificare per bene chi eravamo e, se era così diligente come sembrava, dove eravamo diretti, chi ci aveva mandati, che cosa ci facevamo in quella regione selvaggia e se qualcosa nei nostri affari poteva avere ripercussioni che l'avrebbero riguardato. Sembrava un buon motivo per trattenerci almeno per un paio di settimane. La mia calma minacciosa si comunicò al barbiere, che si placò mestamente. Il centurione ci fissò in modo ostile.
Ormai ero più o meno rassegnato al fatto che la gente arrivasse alla conclusione che Xanto ed io eravamo due amanti in gita di piacere. Xanto era inequivocabilmente un barbiere, e io ero evidentemente troppo povero per permettermi una scorta personale. Il cavallo e il mulo con cui viaggiavamo provenivano dalle stalle locali che rifornivano i portaordini imperiali, ma non c'era niente negli animali che lo rivelasse. Il canestro con il dono di Vespasiano per la Quattordicesima, con le sue belle fibbie, aveva un'aria militare. Il mio bagaglio appariva pratico. Tuttavia qualunque accenno di ufficialità che io fossi riuscito a imporre cozzava pesantemente con la ricercatezza del barbiere. Al pari di tutti gli altri, il centurione esaminò il suo mantello in stile greco e la tunica violetta con ricami color zafferano (era probabilmente una tunica smessa da Nerone, ma mi ero rifiutato di chiederlo, per non dare a Xanto il piacere di dirmelo). L'ufficiale valutò la carnagione luminosa, i capelli curati in modo meticoloso e i calzari odierni (lavorati a forellini e muniti di nappe scarlatte). Notò l'insopportabile espressione affettata. Poi si rivolse a me. Io ricambiai lo sguardo, spettinato e imperturbato. Gli concessi tre secondi di dilemma sulla mia identità. Poi suggerii con calma: «Un caso per le guardie della prossima città che abbia un magistrato?». Mi misi a consultare il mio itinerario e lasciai che vedesse che era materiale dell'esercito. «Siamo a tre giorni da Lugdunum, quindi Cavillonum dovrebbe essere solo a un salto di grillo davanti a noi. È una città abbastanza importante...» Le persone non sono mai grate. L'avergli offerto una scappatoia servì solo ad accrescere il suo interesse. Tornò a voltarsi verso i cadaveri. Avrei dovuto proseguire, ma il nostro precedente contatto con i morti suscitava in me una specie di cameratismo. Smontai da cavallo e, un po' saltando e un po' scivolando, scesi anch'io nel fossato. Non mi sorprendeva affatto trovarli lì, morti. Avevano mostrato tutti i segni di chi si trova nel bel mezzo di una situazione critica. Forse era il senno di poi, ma ciò che di loro avevo visto era parso preannunciare una tragedia. I segni di quello che aveva causato il danno effettivo erano minimi, ma sembrava che entrambi gli uomini fossero stati percossi fino a essere ridotti all'impotenza, e poi finiti con una pressione sul collo. Le braccia legate erano una prova abbastanza conclusiva che si trattava di omicidi intenzionali. Il centurione li perquisiva con naturalezza mentre i suoi giovani soldati si tenevano indietro un po' timorosi. Mi lanciò un'occhiata. «Mi chiamo
Falco» dissi, per dimostrare che non avevo niente da nascondere. «Missione ufficiale?» «Non chiedermelo!» Questo bastava a dirgli che ero abbastanza ufficiale. «Tu che cosa pensi?» Mi aveva accettato come un suo pari. «Sembra trattarsi di rapina. I cavalli sono spariti. Al ciccione hanno tagliato una borsa dalla cintura.» «Se è così, riferisci dove si trovano mentre passi da Cavillonum. Lascia che se ne occupino i civili.» Toccai col dorso della mano uno dei morti. Era freddo. Il centurione notò il mio gesto, ma nessuno di noi due fece commenti. I vestiti di quello che avevano rigirato erano bagnati fradici nel punto in cui l'acqua stagnante alla base del fossato aveva impregnato la stoffa. Il centurione notò che osservavo anche quello. «Niente che riveli chi siano o dove stessero andando! Continuo a pensare che siano stati i ladri.» Sostenne il mio sguardo, sfidandomi a contraddirlo. Io abbozzai un leggero sorriso. Al suo posto, avrei fatto lo stesso. Ci alzammo entrambi. Lui gridò in direzione della strada. «Uno di voi torni di corsa fino alla pietra miliare e se la segni.» «Sì, Elvezio!» Lui ed io risalimmo di corsa l'argine e raggiungemmo insieme la strada. Le reclute rimaste di sotto diedero un'ultima spinta ai corpi per ostentare coraggio, poi ci seguirono. La maggior parte di loro incespicò e scivolò indietro alcune volte. «Piantatela di fare i buffoni!» ringhiò Elvezio, ma era paziente con loro. Sogghignai. «Mi sembrano in linea con il basso livello che ormai è la normalità!» Lui li detestava, com'è normale fra gli ufficiali del reclutamento, ma lasciava correre. «Qual è la tua legione?» «La Prima adiutrix.» Portata al di là delle Alpi da Ceriale come parte dell'unità operativa che aveva soffocato la ribellione. Avevo dimenticato dove fossero di base al momento. Ero solo felice di apprendere che non apparteneva alla Quattordicesima. Xanto stava domandando a uno dei soldati a quale forte fossero diretti. Il ragazzo non fu in grado di rispondergli. Il centurione doveva saperlo, ma non lo disse, e io non glielo chiesi. Ci congedammo dai soldati e proseguimmo verso il crocevia di Cavillonum, dove avevo in programma di deviare verso sud. Dopo un miglio Xanto mi informò, con evidente orgoglio, che aveva riconosciuto negli uomini morti i due di Lugdunum.
«Anch'io.» Ne fu deluso. «Non l'hai detto!» «Era inutile.» «E adesso che cosa succederà?» «Il centurione incaricherà un magistrato civico di andare a prendere i corpi e organizzare un drappello armato di volontari per dare la caccia ai ladri.» «Pensi che li prenderanno?» «Probabilmente no.» «Come fai a sapere che era un centurione?» «Portava la spada a sinistra.» «I soldati semplici la portano diversamente?» «Esatto.» «Perché?» «Così il fodero non è di intralcio allo scudo.» Per un soldato della fanteria, l'assoluta libertà di movimento può significare la vita o la morte, ma questi dettagli non interessavano Xanto. «Lo sai, poteva toccare a noi!» esclamò con trilli entusiasti. «Se stamattina tu ed io, Falco, fossimo partiti prima di loro, poteva toccare a noi la sorte di incontrare i ladri.» Non dissi una parola. Lui immaginò che fossi spaventato da quell'insinuazione, così continuò a cavalcare con aria di superiorità. Era un'altra delle sue abitudini irritanti: ragionando riusciva ad arrivare a metà di un problema, poi il suo cervello si inceppava. Anche se lui ed io ci fossimo messi in viaggio all'alba con le borse da sella tintinnanti con su scritto "Servitevi pure" in tre lingue barbariche, non pensavo che chi aveva ucciso quei due ci avrebbe toccati. Non si trattava di una semplice rapina a opera di briganti di strada. C'erano in questo caso delle stranezze che tanto io quanto Elvezio avevamo subito individuato. Per prima cosa, i due uomini di Lugdunum non erano morti quella mattina. I corpi erano freddi, e lo stato dei loro indumenti rivelava che erano stati distesi in quel fossato tutta la notte. E chi viaggia di notte? Nemmeno i corrieri imperiali, a meno che non sia morto un imperatore o non rechino i particolari di uno scandalo molto clamoroso che coinvolga personaggi particolarmente altolocati. In ogni caso, avevo visto le vittime a cena. Avevano l'aria infelice, ma non mi avevano dato l'impressione di dovere proseguire in fretta a luce di lanterna. Quella sera si stavano riposando tranquillamente come il resto di noi nella taverna.
No. Qualcuno aveva assassinato quei due uomini, probabilmente al villaggio, non molto tempo dopo che li avevo visti, poi aveva trasportato lontano i corpi nell'oscurità. Forse, se non mi fossi attardato a bere, mi sarei trovato coinvolto nella rissa. Forse avrei potuto perfino impedirla. In ogni caso, dopo che li avevo visti lasciare la taverna, dovevano averli seguiti, pestati e strangolati, tentando poi di camuffare gli omicidi da incidente di viaggio in modo che nessuno facesse domande. «Una vera coincidenza, eh, Falco?» «Forse.» Forse no. Ma non avevo tempo di fermarmi a indagare. La sola questione su cui potevo riflettere mentre attraversavo Cavillonum era se il loro destino dipendeva interamente dai loro affari personali a Lugdunum o se aveva qualche attinenza con il mio incarico. Mi dissi che non l'avrei mai saputo. Non servì a niente. XV Argentoratum aveva dimenticato come si dà il benvenuto agli stranieri, posto che ne fosse mai stata capace. La città aveva ospitato un'imponente postazione militare per tutto il tempo in cui Roma si era interessata alla Germania, e le sue buone maniere ne avevano sofferto. Questa era la base originaria della mia legione, la Seconda augusta. All'epoca in cui ero stato destinato alla legione in Britannia erano rimasti ormai solo pochi veterani burberi che ricordavano qualcosa della vita sul Reno, ma siccome la posizione di Roma in Britannia era sempre sembrata pericolosa e, in ogni caso, avevamo sempre sperato di essere trasferiti in un posto migliore, Argentoratum era sempre rimasto un luogo il cui nome gli uomini della mia legione pronunciavano con un fremito di appartenenza. Questo non significava che avrei potuto avanzare antiche pretese se mai avessi commesso l'errore di andarci. Ero già passato in precedenza per quell'insediamento di gente dai lineamenti duri, in viaggio verso posti anche peggiori. L'ultima volta, però, avevo conosciuto il giovane Camillo Giustino, che mi aveva offerto una cena che ricordavo ancora, oltre a un giro per i luoghi significativi e quelli di malaffare, che non erano né significativi come Argentoratum amava pensare, né di malaffare come io speravo in quel momento. All'epoca ero disperato: un uomo innamorato, ma che non se ne era ancora reso conto. Ora
mi chiedevo se Camillo avesse capito che la sua superba sorella (che in teoria avrei dovuto accompagnare, anche se come al solito era stata Elena ad assumere il comando) era impegnata a mettermi in gabbia come un piccolo fringuello canterino. Non vedevo l'ora di domandarglielo e riderne con lui. Ma prima avrei dovuto trovarlo. I grossi centri militari hanno i loro svantaggi. Al forte non riesci mai a incontrare una sentinella che conosci. Nessun ufficiale simpatico è mai rimasto in carica dalla visita precedente. La città è poco incoraggiante allo stesso modo. Gli abitanti del posto sono troppo indaffarati ad arricchirsi a spese della truppa per preoccuparsi dei visitatori occasionali. Gli uomini sono rudi e le donne insolenti. I cani abbaiano e gli asini mordono. Alla fine trascinai Xanto in testa a una fila di gente che reclamava davanti al corpo di guardia principale. Avrei potuto farmi registrare come inviato imperiale e farmi assegnare un alloggio all'interno del forte, ma volli risparmiarmi una notte di cortesie verso gli intendenti. Uno degli uomini di guardia mi riferì tutte le cattive notizie di cui avevo bisogno: non erano stati informati dell'arrivo di nessuna nobile sorella di nessun nobile tribuno, e comunque Sua Eccellenza Camillo Giustino aveva lasciato Argentoratum. «Il suo sostituto è arrivato due settimane fa. Giustino aveva finito il turno.» «Che cosa? È tornato a casa a Roma?» «Ma no! Siamo sul Reno. Nessuno riesce a cavarsela così facilmente. Assegnato altrove.» «Dov'è di stanza ora?» «Non ne ho idea. Tutto quello che so è che riceviamo la parola d'ordine per la guardia di notte da uno stupido sbarbatello fresco di scuola di filosofia. Quella dell'altra notte era "xenofobia". Oggi ci sono tre sentinelle in cella per essersela dimenticata e l'aiutante di un centurione si aggira intorno furioso come un orso che si sia appena seduto su un cespuglio spinoso perché è costretto a fare un rapporto disciplinare alla sua migliore decuria.» In quel momento, nessuna legione in Germania poteva rischiare che le sentinelle commettessero errori. La provincia era sottoposta a una rigida legge marziale, per ottime ragioni, e non c'era posto per stupidi tribuni che volessero mettersi in mostra. «Immagino che il vostro brillante novellino stia ascoltando una dotta ramanzina da parte del legato!» Repressi le mie preoccupazioni per Elena,
concentrandomi su suo fratello. «Forse Camillo Giustino è stato assegnato a una delle legioni dell'unità operativa?» «Vuoi che mi informi?» Il portiere dava l'impressione di essere ben disposto ad aiutare l'amico di un tribuno, ma sapevamo entrambi che non aveva alcuna intenzione di lasciare il suo sgabello. «Non disturbarti» gli risposi con un sorriso affabile. Era ora di andare. Mi rendevo conto fin troppo bene che il barbiere, che osservava la scena alle mie spalle in una nube di esotica lozione per la pelle, incominciava a fare una pessima impressione a quell'incallito legionario di prima linea. Feci un ultimo tentativo di ottenere informazioni. «Qual è la parola d'ordine della Quattordicesima gemina?» «Bastardi!» ribatté la guardia. Una schiettezza simile era il massimo che potevo aspettarmi. Al posto di guardia di una legione in una cupa e piovosa sera di ottobre non c'era molto spazio per una frivola conversazione salottiera. Dietro di me, due corrieri stremati aspettavano di farsi registrare, Xanto appariva ancora più inopportuno e c'era un fornitore di cacciagione molto ubriaco, intenzionato a discutere su un conto con la mensa dei centurioni, che mi spingeva così dappresso che me ne andai, non volendo provocare una rissa proprio in quel momento, sentendomi però palpeggiato e offeso come un'ancella a un banchetto durante i saturnali. Trovai posto per noi da un affittacamere per civili tra il forte e il fiume, in modo da poter partire in fretta alle prime luci dell'alba. Andammo alle terme ma era già troppo tardi per l'acqua calda. Sbalorditi per il modo in cui le città straniere chiudono così presto i battenti, mangiammo una cena sgradevole, buttandola giù a forza con vino bianco acido, per poi essere tenuti svegli gran parte della notte da un calpestio di stivali. La stanza che avevo trovato era in una strada piena di bordelli. Xanto incominciò a dare segni di curiosità, ma gli dissi che l'agitazione era causata solo dalle truppe che facevano esercitazioni notturne. «Ascolta, Xanto. Mentre io proseguo per Moguntiacum, tu puoi restare qui se vuoi. Passerò a riprenderti sulla via del ritorno, dopo che avrò fatto quello che devo fare per l'imperatore.» «Oh no. Già che sono arrivato fin qui, rimango con te!» Parlava come se mi stesse facendo un enorme favore. Chiusi stancamente gli occhi e non risposi. La mattina dopo cercai di ottenere un passaggio gratis, ma senza fortuna.
Il viaggio lungo il Reno è molto pittoresco, così i proprietari delle chiatte fluviali si facevano pagare una cifra adeguatamente alta per concederti il privilegio di contemplare un centinaio di miglia del suo panorama. La nostra era una nave per il trasporto del vino; quasi tutte lo sono. Condividemmo i paesaggi che scorrevano lentamente con due uomini anziani e un venditore ambulante. I due nonnini avevano la schiena curva, la testa pelata e una serie di spuntini da far venire l'acquolina in bocca che non avevano alcuna intenzione di spartire con altri. Rimasero seduti l'uno di fronte all'altro per tutto il viaggio, parlando in continuazione, come persone che si conoscono da moltissimo tempo. Anche il venditore ambulante, che salì a bordo in un piccolo insediamento chiamato Borbetomagus, aveva la schiena curva, ma per il peso dell'armamentario di una bancarella pieghevole e della paccottiglia che vendeva. Xanto e io eravamo un pubblico nostro malgrado, così lui slegò subito gli angoli dei suoi involti di stoffa e stese sul ponte la mercanzia in offerta. Io lo ignorai. Xanto incominciò subito a fremere di ottusa eccitazione. «Guarda questo, Falco!» Poiché di quando in quando facevo deboli tentativi di salvarlo dalla sua stessa stupidità, gettai un'occhiata al ciarpame in cui stava per investire soldi in quel momento. A quel punto emisi un gemito. Questa volta erano oggetti militari. È probabile che pensiate che gli eroi della nostra fanteria ne avessero già abbastanza di arnesi e bardature senza bisogno di spendere il loro soldo per acquistarne altri, ma darlo per scontato sarebbe un errore. Quell'astuto venditore ambulante faceva ottimi affari sbolognando ai legionari i suoi penosi oggetti ricordo di antiche guerre. L'avevo già visto fare in Britannia. L'avevo visto nella carrettata di carabattole che il mio fratello maggiore, che era privo di senso della misura, si era portato a casa dagli esotici mercatini di Cesarea. Qui, con nove legioni lungo il Reno, in gran parte annoiate e tutte piene fino all'orlo di argento imperiale, dovevano esserci ottime possibilità di fare affari rifilando pittoreschi fermagli tribali, armi consunte e strane punte di ferro che potevano essersi staccate da qualunque utensile agricolo. L'uomo era originario della tribù degli ubii, tutto sorrisi e chiacchiere insulse. Le labbra erano allargate su grossi denti da cavallo, la parlantina era la tecnica che usava per fiaccare. Su Xanto funzionò. Capitava con la maggior parte delle cose. Lasciai che i due se la sbrigassero da soli. L'ambulante si chiamava Dubno. Vendeva i consueti elmi indigeni con
spuntoni sopra le orecchie, parecchie ciotole piene di punte di freccia e di lancia "antiche" (di cui aveva evidentemente fatto incetta giovedì scorso in qualche discarica di rifiuti in un forte precedente), una lurida coppa per bere che, giurò a Xanto, era un corno di uro, alcune maglie di "armatura sarmatica", mezza serie di "bardature icene per cavalli" e, guardacaso, una raccolta di pezzi d'ambra del Baltico. Nell'ambra non c'era traccia di insetti fossilizzati, ma era l'unica cosa che valesse la pena di esaminare. Naturalmente Xanto proseguì dritto senza degnarla di una seconda occhiata. Dissi che avrei acquistato alcune perline per la mia fidanzata se fossero state ben assortite e infilate come si deve. Non mi sorprese particolarmente che Dubno tirasse immediatamente fuori dalla sua tasca disgustosa tre o quattro fili di collane passabili, a tre o quattro volte il loro prezzo. Trascorremmo una discreta mezz'ora mercanteggiando sul filo con le perline più piccole. Riuscii a ribassare fino ad arrivare circa a un quarto del prezzo richiesto inizialmente solo grazie all'esercizio vocale, poi afferrai una delle collane migliori come avevo sempre avuto intenzione di fare. Il venditore ambulante mi aveva valutato astutamente, ma Xanto parve sorpreso. Non sapeva che avevo trascorso l'infanzia a frugare fra le bancarelle di roba di seconda mano dei Saepta Iulia. Inoltre pensai che sarebbe stato saggio acquistare un regalo per il compleanno di Elena, nel caso mi fossi imbattuto in lei. Sentivo la sua mancanza. Il che mi rendeva un facile bersaglio per chiunque vendesse gingilli che rivelassero lievi tracce di buongusto. Giudicando che la mia borsa fosse ormai sigillata, Dubno tornò a rivolgere il suo fascino lamentoso verso Xanto. Era un artista. Da figlio di un banditore, quasi quasi mi divertivo a osservarlo. Per fortuna non avremmo viaggiato sulla barca per tutto il tragitto fino al delta, altrimenti il barbiere avrebbe comprato tutta la mercanzia dell'ambulante. Si innamorò del corno di uro, presumibilmente tagliato dallo stesso Dubno a uno dei buoi gallici allo stato brado il cui temperamento feroce è leggendario... «Mi piacerebbe proprio vederne uno, Falco!» «Ringrazia solo che sia praticamente impossibile!» «Ti è mai capitato di vederne uno durante i tuoi viaggi?» «No. Sono un tipo prudente, Xanto. Non me n'è mai venuta voglia.» Il suo acquisto era un corno per bere abbastanza utile, che non gli rovesciò neppure troppo liquido sul collo della tunica quando cercò di utilizzarlo. Riuscì a lucidarlo fino a dargli una notevole brillantezza. Non gli rivelai
mai che gli uri non hanno corna ritorte. Mentre la nave carica di vino si avvicinava alla nostra destinazione spinta dalla corrente, Dubno riavvolse lentamente i suoi tesori. Xanto incominciò a maneggiare un elmo. In parte per salvarlo prima che dichiarasse bancarotta (poiché questo avrebbe significato che sarei stato costretto a pagare io per tutto), gli tolsi di mano l'oggetto. A prima vista sembrava di provenienza dell'esercito, ma con qualche differenza. L'elmo moderno ha incorporata una protezione più larga intorno alla parte posteriore, per riparare il collo e le spalle; ha anche guanciali e una protezione aggiuntiva per le orecchie. Ho il sospetto che questo modello sia stato sviluppato per contrastare i danni dei forti colpi inferti dagli spadoni celtici. Il modello originario era stato sostituito molto prima dei miei tempi, ma in quel momento ne stavo osservando uno. «Questo dev'essere davvero un pezzo di antiquariato, Dubno.» «Ritengo che sia un cimelio della catastrofe di Varo!» confessò affabilmente, come se ammettesse una contraffazione. Poi il suo sguardo incontrò il mio e ci ripensò. Riuscii a trattenere un brivido. «Dove te lo sei procurato?» «Oh... da qualche parte nei boschi.» La voce si affievolì in modo evasivo. «Dove?» gli chiesi di nuovo. «Oh... su nel Nord.» «Da qualche parte come ad esempio la selva di Teutoburgo?» Era riluttante a fornire spiegazioni. Mi lasciai cadere su un ginocchio, esaminando con più attenzione la sua mercanzia. Mi aveva già classificato come una fonte di guai, per cui non gli piacque che lo facessi. Ignorai la sua agitazione. Questo lo preoccupò ancora di più. Fu allora che notai un pezzo di bronzo antico che sarebbe potuto provenire da un pomo di spada romana, fibbie che somigliavano a una serie che avevo visto a casa di mio nonno, il supporto del cimiero di un elmo... un'altra briglia rotta, trasformata ora in un laccio per il trasporto. «Ne vendi molti di questi "cimeli di Varo", eh?» «La gente pensi pure quello che vuole.» C'era un altro oggetto annerito che mi rifiutai di toccare poiché supponevo che fosse un teschio umano. Mi alzai nuovamente in piedi. Da quanto si sapeva, il nipote acquisito di Augusto, l'eroico Germanico,
aveva scoperto il luogo in cui si era svolto il massacro, aveva raccolto i resti dei morti sparpagliati dappertutto e dato una specie di sepoltura decente all'esercito perduto di Varo, ma chi è disposto a credere che Germanico e le sue truppe coi nervi a fior di pelle abbiano trascorso laggiù nella foresta ostile così tanto tempo da rischiare di diventare loro stessi un nuovo bersaglio? Fecero del loro meglio. Riportarono a Roma le insegne perdute. Dopo di che riuscimmo tutti a dormire con la coscienza pulita. Era meglio non pensare che da qualche parte nel folto delle cupe foreste della Germania indomita si potessero ancora trovare armi rotte e altri cimeli mischiati a ossa romane insepolte. Le truppe di oggi avrebbero acquistato quelle cianfrusaglie ammuffite. I ragazzi dell'esercito amano gli oggetti ricordo che sanno di gesta virili in luoghi pericolosi. Più sono macabri, meglio è. Se Dubno aveva veramente scoperto il luogo di quell'antica battaglia, doveva fare soldi a palate. Evitai l'argomento passando alle domande più utili per me. «E così tu vai sull'altra sponda del fiume, vero? Nel nord?» Lui si strinse nelle spalle. Il commercio sviluppa l'audacia. In ogni caso, la Germania libera non era mai stata una zona proibita ai fini del commercio. «Fin dove ti portano i tuoi viaggi? Ti sei mai imbattuto nella famosa profetessa?» «E quale profetessa sarebbe?» Mi prendeva in giro. Cercai di non mostrarmi particolarmente interessato, nel caso la notizia della mia missione mi avesse preceduto. «Quante malvagie zitelle ci sono che esercitano la loro influenza sulle tribù? Intendo dire la sanguinaria sacerdotessa dei bructeri.» «Oh, Velleda!» disse Dubno sogghignando. «L'hai mai incontrata?» «Nessuno la incontra.» «Perché?» «Vive in cima a un'alta torre in un luogo sperduto nella foresta. Non vede mai nessuno.» «Da quando in qua i profeti sono così schivi?» La mia proverbiale scalogna. Ne avevo trovata una davvero strana. «Non che mi aspettassi avesse un ufficio di marmo, con un segretario addetto agli appuntamenti che serve infuso alla menta ai visitatori, ma come fa a comunicare?» «I suoi parenti maschi portano i messaggi.» A giudicare dagli effetti che Velleda aveva avuto sugli avvenimenti internazionali, i suoi zii e i suoi fratelli dovevano aver percorso attivamente un bel po' di terreno attraverso la foresta. Il che rendeva la sua elusività meno brillante.
Il barbiere sfoggiava la sua espressione eccitata. «Velleda fa parte della tua missione?» chiese in un sussurro. Il suo candore disarmante incominciava a infastidirmi come una fitta nel fianco quando si fugge da un toro infuriato. «So come trattare le donne. Ma non mi occupo di druidi!» Era una battuta. Due di noi lo sapevano, ma il povero vecchio Xanto parve impressionato. Dovevo muovermi in fretta. La nostra chiatta si stava avvicinando al grande ponte di Moguntiacum. Fra poco avremmo ormeggiato alla banchina. Rivolsi un'occhiata pensierosa al venditore ambulante. «Se qualcuno volesse mettersi in contatto con Velleda, sarebbe possibile fare arrivare un messaggio a quella sua torre?» «Forse.» Dubno sembrava turbato dal suggerimento. Feci capire senza mezzi termini che parlavo con una certa autorità e gli ordinai di non lasciare la città. L'ambulante assunse il contegno di quello che avrebbe lasciato la città esattamente quando voleva, e senza preoccuparsi di informarmi. TERZA PARTE Legio XIV gemina martia victrix MOGUNTIACUM, GERMANIA SUPERIORE Ottobre, 71 d.C. ... soprattutto la Quattordicesima, i cui uomini si erano coperti di gloria soffocando la ribellione in Britannia. TACITO, Storie XVI Moguntiacum. Un ponte. Un casotto del dazio. Una colonna. Un mucchio eterogeneo di capanne civili, con qualche bella casa di proprietà dei mercanti di lana e di vino locali. Complessivamente dominata da uno dei forti più imponenti dell'impero. L'insediamento sorgeva appena sotto la confluenza dei fiumi Reno e Meno. Il ponte, che collegava la parte romana del Reno alle capanne e alle banchine sulla sponda opposta, aveva piloni triangolari per frangere la cor-
rente e un parapetto di legno. Il casotto del dazio era un affare temporaneo, che sarebbe stato soppiantato presto da un nuovo imponente ufficio doganale a Colonia Agrippinensium. (Vespasiano era figlio di un esattore delle imposte e, da imperatore, questo influenzava il suo approccio.) La colonna, eretta ai tempi di Nerone, era un'opera pretenziosa che celebrava Giove. Il gigantesco forte proclamava che qui Roma faceva sul serio, ma rimaneva ancora il dubbio se con questo cercavamo di ingannare le tribù oppure di convincere noi stessi. Subii subito la mia prima delusione. Avevo raccontato a Xanto che avrebbe potuto tenersi occupato avviando la sua attività con le forbici fra le canabae. La maggior parte degli insediamenti militari lascia che si sviluppi una selva di chioschi, una baraccopoli che deturpa le mura esterne, offrendo alle truppe in libera uscita le solite distrazioni sordide. Ciò accade quando le terme vengono costruite all'esterno della fortezza come precauzione contro gli incendi; a quel punto si raccolgono rapidamente botteghe che vendono il pane, bordelli, barbieri e bigiotterie, con o senza licenza. Poi arrivano gli inevitabili civili al seguito delle truppe e le famiglie ufficiose dei soldati, e ben presto quella congerie fuori dalle mura cresce fino a diventare una città di civili. A Moguntiacum non c'erano chioschi. Fu un vero colpo. Si vedeva il luogo da cui erano stati tutti sgomberati. L'operazione doveva essere stata rapida e accurata. Nelle vicinanze c'era ancora un mucchio di imposte sfondate e di pali per i tendoni frantumati. Ora tutt'intorno al forte di estendeva il terreno scoperto, che formava un ampio passaggio difendibile dal quale il terrapieno di zolle di torba si innalzava nettamente per diciotto piedi fino alle torri di guardia e al cammino di ronda. Fra le difese visibili contai un fossato punico in più del solito e, nello spiazzo centrale, una squadra di fatica stava piantando quello che le legioni chiamano campo di gigli: pozzi profondi scavati secondo uno schema a quinconce, al fondo dei quali venivano messi pali appuntiti, per poi essere coperti di ramaglia in modo da celarne la posizione; un deterrente crudele durante un attacco. I civili erano stati sistemati molto più indietro, oltre il fossato esterno, e perfino un anno dopo la rivolta di Civile non si era consentito alcun riavvicinamento. L'impressione era austera. Doveva esserlo. Anche al forte, invece dell'abituale atmosfera organizzata ma indolente di un esercito in tempo di pace, ci accorgemmo subito che questi soldati il loro ruolo civico lo abbozzavano appena. I loro gesti verso la comunità lo-
cale erano per lo più osceni. Il barbiere e io contavamo come locali fino a prova contraria. Quando ci presentammo alla porta Praetoria, perfino Xanto smise di chiacchierare animatamente. Dovemmo lasciare i cavalli. Non c'era modo di accattivarci la simpatia delle sentinelle annoiate all'interno della guardiola. Ci trattennero nel locale quadrato fra la doppia serie di porte ed era evidente che se la nostra storia e i nostri documenti fossero stati in contrasto, saremmo stati immobilizzati contro un muro da una punta di giavellotto di due palmi e perquisiti energicamente. L'atmosfera mi scombussolava. Il trauma mi ricordava la Britannia dopo la faccenda di Budicca. Qualcosa che avevo cercato di dimenticare. Comunque, ci lasciarono passare. Il mio sigillo dell'imperatore sollevò qualche sospetto ma funzionò. Ci squadrarono da capo a piedi, ci iscrissero nell'elenco, ci ordinarono di andare direttamente ai Principia, poi ci lasciarono passare attraverso le porte interne. Da parte mia, ero preparato alle dimensioni e allo spazio dell'enorme parte interna, ma nemmeno l'essere nato e cresciuto nei labirintici corridoi della corte imperiale di Roma era riuscito a preparare Xanto a tutto questo. Moguntiacum era un forte permanente, e per di più doppio. Avendo due legioni di stanza, quasi tutto era raddoppiato. Era una cittadella militare. Dodicimila uomini vivevano stipati al suo interno, con magazzini, botteghe di fabbri e granai sufficienti a sostenere un assedio di mesi, anche se per i poveri diavoli attaccati dai ribelli a Vetera non aveva funzionato. All'interno della base, i due legati al comando occupavano discreti palazzi destinati a rifletterne la maestà e il rango diplomatico. Il complesso degli alloggiamenti dei dodici giovani tribuni militari che li aiutavano avrebbe fatto apparire modeste le ville migliori di molte delle città italiche e anche l'edificio del commissariato, dove eravamo diretti in quel momento io e Xanto, era sensazionale nel suo stile militare severo. Sbucammo fuori dall'ombra fredda del camminamento dei bastioni. Con le torri di vedetta del corpo di guardia che incombevano sopra di noi, dovemmo anzitutto attraversare la strada perimetrale. Era ampia ottanta piedi. Il percorso, concepito per offrire riparo dai proiettili oltre che per consentire un rapido accesso a tutte le parti del forte, era tenuto accuratamente sgombro da ogni ostacolo. Presi mentalmente nota che alla Quattordicesima gemina doveva essere attribuito metà del merito di quell'impeccabile pulizia, anche se probabilmente costringevano i loro colleghi inferiori a vuotare i cesti dei rifiuti e a spazzare le strade. Fasci di giavellotti di riser-
va erano accumulati in posti facilmente accessibili rispetto ai bastioni, insieme a mucchi di pesanti palle e dardi di balista da campo, ma mancavano completamente animali vaganti o la confusione di carri come spesso si vede. Se a qualche pollo consacrato era consentito di razzolare liberamente, non era in questa parte del forte. Mi tirai appresso il barbiere lungo gli interminabili blocchi di alloggiamenti: quasi cinquanta paia (sebbene non possa dire di averli contati), ciascuno dei quali ospitava centosessanta uomini in gruppi di dieci, con una doppia serie di alloggi dei centurioni a un'estremità di ogni blocco. Spazio adeguato per i legionari, alloggiamenti più angusti per i loro ausiliari indigeni, benché questo al momento non valesse per la Quattordicesima dato che le loro famose otto coorti di batavi avevano disertato passando dalla parte dei ribelli... Vespasiano non li avrebbe rimpiazzati finché non gli avessi fatto il mio rapporto. Xanto era già intimorito dall'atmosfera. Quanto a me, avevo un po' di batticuore a ritrovare quell'ambiente familiare. A me il forte dava l'impressione del normale vuoto diurno. Molti dei soldati dovevano essere impegnati nell'addestramento o sudavano nei lavori di fatica, altri facevano la loro marcia mensile di dieci miglia con tutto l'equipaggiamento. La maggior parte dei restanti doveva essere in giro di pattuglia, e non si trattava di semplici esercitazioni. «Impressionato, Xanto? Aspetta che l'accampamento sia pieno questa sera! Allora farai l'ineguagliabile esperienza di trovarti fra dodicimila uomini che sanno tutti esattamente che cosa stanno facendo!» Lui non disse parola. «Stai pensando al potenziale di dodicimila menti irsuti?» «Dodicimila esalazioni di alito maleodorante!» ribatté lui agguerrito. «Dodicimila variazioni sul tema "la ragazza che ho fottuto giovedì scorso". E con l'ammonimento a non tagliare dodicimila brufoli!» Arrivammo alla strada principale. «Xanto, se dovessi perderti, cerca di ricordare che la strada più importante è questa. Si chiama via Principalis. È larga cento piedi, nemmeno tu ti puoi sbagliare. Adesso calcola la tua posizione. La Principalis taglia trasversalmente l'accampamento fra le porte Sinistra e Destra, e la via Praetoria la incrocia ad angolo retto presso il quartier generale. Il quartier generale è sempre rivolto verso il nemico, quindi se riesci a vedere da quale parte arrivano le pietre delle fionde, sei in grado di orientarti in qualunque fortezza del mondo...» «Dov'è il nemico?» Era stordito. «Dall'altra parte del fiume.»
«Dov'è il fiume?» «Da quella parte!» Stavo perdendo la pazienza e sprecando il fiato. «Dalla parte dalla quale siamo arrivati» gli ricordai, ma lui era già troppo confuso. «Allora dove stiamo andando?» «A presentarci ai simpaticoni della Quattordicesima gemina.» Non ebbi successo. Tuttavia, a questo ero arrivato preparato. Per prima cosa, nessuno dei lavori per cui venivo assunto si concludeva mai tanto facilmente, e in secondo luogo la Quattordicesima gemina non era mai stata simpatica. XVII Il quartier generale della fortezza era fatto apposta per incutere timore a qualunque membro di una tribù selvaggia che avesse osato ficcare il naso dalle parti della porta Praetoria. Guardando in avanti la sua vista spiccava, e sicuramente ci intimoriva man mano che ci avvicinavamo. C'era un solo edificio dell'amministrazione nel forte. Le due legioni attualmente di stanza erano alloggiate in due metà distinte, ma condividevano quello stesso edificio, che rappresentava il punto fermo del forte. Era costruito in modo imponente. La facciata comprendeva una struttura in pietra con pesanti colonne su entrambi i lati di una tripla porta solenne che guardava direttamente verso di noi, lungo la via Praetoria. Sentendoci piccoli, entrammo furtivamente attraverso l'arco di sinistra e ci trovammo di fronte a una piazza d'armi abbondantemente calpestata che occupava più spazio del foro della maggior parte delle città provinciali. Per fortuna nessuno vi sfilava in parata in quel momento. Il mio timoroso compagno sarebbe rimasto stecchito per lo spavento. «Non possiamo entrare lì dentro!» «Se qualcuno tentasse di sfidarci, tieni ben chiusi i tuoi denti perlacei e lascia parlare me. Come regola generale, mentre siamo all'interno del forte non discutere con nessuno che porti una spada. E, Xanto, cerca di non avere quell'aria smarrita da attore sostituto di una delle recite di Nerone...» Tre lati della piazza erano occupati da magazzini e dagli uffici del quartiermastro. Di fronte, c'era la sala basilicale, che costituiva il punto centrale per le formalità di entrambe le legioni. Era lì che eravamo diretti, così mi incamminai direttamente attraverso la piazza d'armi. Arrivato a metà, mi sentii anch'io un po' allo scoperto. Mi sembrò che ci volesse mezz'ora per
arrivare dall'altra parte e avevo la sensazione che centurioni furiosi sputassero fiamme da tutti gli uffici che si affacciavano sulla piazza. Mi resi conto di come doveva sentirsi un'aragosta quando l'acqua nella pentola incomincia lentamente a scaldarsi. I Principia erano enormi. Si estendevano per tutta la larghezza del complesso. Le decorazioni erano minime: ottenevano l'effetto voluto con le dimensioni. La navata centrale era larga quaranta piedi e gigantesche colonne la separavano da buie navate laterali larghe a loro volta la metà di quella principale. Le colonne sostenevano un tetto colossale al cui peso era meglio non pensare mentre ci si stava sotto. In un giorno di pioggia un'intera legione sarebbe potuta stare pigiata lì dentro come lische di acciuga in un barile. Per tutto il resto del tempo, quel formidabile salone restava deserto e silenzioso, custodendo segreti e costituendo un valido tributo alla perizia dei genieri dell'esercito. Attraverso la semioscurità riconobbi a un'estremità il tribunale del comando. L'attrazione principale, proprio di fronte all'entrata, era il sacrario della legione. Mi incamminai attraverso la sala. I miei stivali risuonavano sul pavimento. C'era un persistente odore di olio cerimoniale, recente e non rancido. Dietro un contorno di schermi di pietra c'era una camera a volta resistente al fuoco: questa proteggeva l'altro santuario religioso, la stanza sotterranea del forziere. Quassù, nella parte aperta, conservavano l'ara trasportabile con cui si ottenevano gli auspici. Attorno a essa le insegne erano sistemate in modo da formare una punta. La Quattordicesima si era accaparrata la posizione più in vista per dispiegarsi al meglio, mentre la legione gemella stava rincantucciata su un lato in modo compiacente. Al posto d'onore brillavano l'aquila della Quattordicesima e un ritratto dell'imperatore avvolto nella porpora. Alla fioca luce di una remota finestra a lucernario in cima al salone principale, scorsi sulle insegne secolari più medaglie per atti di valore di quante ne avessi mai viste raccolte insieme. In prevalenza si trattava di onorificenze degli imperatori Claudio e Nerone, che dovevano essere state concesse per l'eccezionale servizio in Britannia. Naturalmente avevano anche statue di bronzo dei loro patroni titolari, Marte e la Vittoria. In confronto, le insegne dell'altra legione erano disadorne. Non eravamo venuti a rendere omaggio. Strizzai l'occhio all'aquila che custodiva le insegne spoglie. Poi spinsi Xanto nei vicini uffici. Il segretariato occupava il posto più rilevante, a fianco del sacrario. Dato che nessun
altro vuole occuparsi di problemi logistici, i funzionari hanno sempre il progetto della fortezza sotto controllo. E naturalmente avocano a sé il trespolo più attraente. Un segretario calvo ci indicò con un cenno del capo il fastoso complesso di uffici requisito dalla Quattordicesima. La situazione era tranquilla, il che poteva significare o che la legione era costituita da elementi sonnacchiosi e inefficienti o che le pratiche della giornata erano già state timbrate e portate via. Forse il loro legato stava schiacciando un pisolino a casa sua e il prefetto dell'accampamento aveva il raffreddore. Forse tutti i tribuni si erano presi una giornata di permesso per la caccia. Mi riservai di giudicare in seguito. Finché tenevano i granai pieni, un conteggio accurato delle armi e un registro aggiornato di ciò che andava nella cassa di risparmio, Vespasiano non era tipo da sottilizzare per il fatto che la Quattordicesima non avesse un commissariato indaffarato. Per lui contavano i risultati. Nella stanza più grande trovammo due degli ufficiali superiori della legione. Uno, che non era un combattente effettivo, indossava una tunica rossa ma era senza armatura. Il suo elmo era appeso a un chiodo, fregiato di due corna che gli attribuivano il titolo di corniculario: capo del commissariato. Secondo me, le piccole corna sono lo scherzo che le legioni fanno ai loro funzionari per farli apparire ridicoli. Il suo compagno era di una specie differente. Un centurione con tutta la sua attrezzatura, compresa una serie completa di nove phalerae, i medaglioni per il petto concessi per servizio devoto. Era sopra i sessanta e la sua aria di radicato disprezzo mi disse che costui era il primipilo, la prima lancia, il centurione più importante. Questa carica ricercata viene mantenuta per tre anni, dopodiché si ottiene una gratifica equivalente a una posizione sociale del ceto medio e un lasciapassare per comodi e redditizi impieghi civili. Alcuni, e immaginai che questo fosse uno di quelli, scelgono di ripetere il loro incarico di prima lancia, diventando così una pubblica minaccia nel modo che meglio conoscono. Cadere con le armi in pugno in qualche provincia dimenticata dagli dèi è l'idea che la prima lancia ha della bella vita. Il primipilo aveva il collo corto e taurino e dava l'impressione che il suo passatempo preferito fosse uccidere le mosche con un colpo della testa. Aveva spalle ampie e il busto non si restringeva quasi scendendo verso la cintola, ma niente di ciò che proseguiva sotto il torace era pancia. I piedi erano piccoli. Non si mosse mentre parlava con noi, ma intuivo che doveva essere agile quando decideva di esercitarsi. Non mi piaceva. La cosa era ir-
rilevante. Nemmeno lui mostrò alcuna simpatia per me, ed era questo quello che contava. Il corniculario aveva un fisico molto meno imponente. Aveva il naso all'insù e la bocca piccola e dura. A ciò che gli mancava in prestanza suppliva con il livore personale e le capacità espressive. Quando entrammo, i due stavano riducendo a brandelli un soldato che aveva commesso qualche infrazione, forse quella di fare una domanda ingenua. Si stavano divertendo e sarebbero stati disposti a umiliare la loro vittima per tutto il pomeriggio a meno che non fosse arrivato qualcuno che li disgustasse ancora di più. Qualcuno lo fece: Xanto e io. Ordinarono al soldato di infilarsi nel proprio fodero, o qualche espressione analoga. Lui se la filò passandoci accanto con aria grata. Il primipilo e il corniculario ci guardarono, si scambiarono un'occhiata, poi tornarono a fissarci con espressione beffarda mentre aspettavano che iniziasse il divertimento. «Non credo ai miei occhi!» disse il primipilo con meraviglia. «Chi ha fatto entrare questa marmaglia? Qualcuno deve avere dato una botta in testa alla sentinella all'ingresso!» «Quei bastardi indolenti della Prima!» «Buongiorno» provai ad azzardare dalla soglia. «Fuori dai piedi, riccioluto!» ringhiò il primipilo. «E portati via la tua ragazza inghirlandata.» Nel mio mestiere gli insulti rientrano nella normalità, così lasciai correre. Sentivo che Xanto fremeva di indignazione, ma se si aspettava che prendessi le sue difese in quella compagnia faceva meglio a ripensarci. Mi feci avanti e gettai a terra il canestro che conteneva il dono dell'imperatore. «Mi chiamo Didio Falco.» Sembrava prudente essere formali. Lanciai il lasciapassare imperiale al corniculario, che lo sollevò fra indice e pollice come se fosse stato rinvenuto in una fogna. Tirò fuori un sogghigno dalla piccola bocca serrata, poi spinse il mio cartellino verso l'altro lato del tavolo perché ridesse anche il primipilo. «E che cosa fai, Falco?» domandò la bocca. Spremette fuori le parole come l'imbottitura dalla fodera di un materasso cucita male. «Consegno pacchi delicati.» «Ah!» fu il commento del primipilo. «E che cosa c'è dunque nel cesto delle provviste?» mi schernì il suo compagno più loquace. «Cinque panini, una salsiccia di budella di pecora e una nuova insegna
con cui l'imperatore esprime il proprio favore personale per la Quattordicesima. Vuoi dare un'occhiata?» Da queste parti era il primipilo l'uomo d'azione, così mentre il corniculario si prendeva cura, con l'estremità scheggiata di uno stilo, di una sporgenza che aveva su un'unghia, toccò a lui avvicinarsi mentre io slacciavo le cinghie del canestro. La Mano di ferro pesava quanto un pezzo di conduttura di un acquedotto, ma lui la sollevò leggermente con il pollice, quasi fosse stato un amuleto. «Oh, molto bella!» Nessuno avrebbe potuto obiettare sulle sue parole. Solo il tono era sedizioso. Mantenni un atteggiamento pacato. «Devo consegnare il dono di Vespasiano al vostro legato in persona. Ho anche un dispaccio sigillato per lui, che credo contenga il programma di una cerimonia di investitura appropriata. È possibile parlare subito con Florio Gracile?» «No» disse il corniculario. «Posso aspettare.» «Puoi prenderti le misure per un'urna cineraria e rovesciartici dentro.» «Ecco un esempio di fascino e sollecitudine tipici della Quattordicesima legione!» feci amabilmente notare a Xanto. «Chi è il fiorellino dal fetore disgustoso?» domandò tutta un tratto il primipilo. Rivolsi una minuziosa occhiata a entrambi gli elementi dell'esercito. «Inviato speciale di Tito Cesare.» Mi passai un dito sul collo facendo il gesto ben noto. «Non ho ancora stabilito se è un assassino ben camuffato che cerca qualcuno da far fuori o solo un revisore dei conti con la predisposizione al travestimento. Ora che siamo arrivati qui dovremmo scoprirlo presto. O ci sarà una conta dei cadaveri, o lo troverete a esaminare i vostri conti quotidiani...» Xanto era così sbalordito che una volta tanto tenne il becco chiuso. Quei due buontemponi si consultarono stancamente. «Come pensavamo!» sospirò il corniculario. «Le cose devono essere difficili a Roma. Adesso ci mandano rifiuti delle compagnie musicali e feccia fasulla di questo tipo.» «Calma!» Sorrisi, cercando di trovare un accordo con loro. «Qualunque cosa io sia, sono genuino! Ma torniamo al punto. Se Gracile è troppo occupato in questo momento, fissatemi un appuntamento quando sarà più libero da impegni.» Qualche volta ingraziarsi le persone funziona. Non qui. «Feccia genui-
na!» commentò il primipilo rivolto al suo compare. «Sparisci su per il tuo culo, riccioluto!» «Lascia fuori dall'ordine del giorno i miei orifizi! Ascolta, centurione. Ho appena trascinato una Mano di ferro per mezza Europa e ho intenzione di consegnarla. So che la Quattordicesima è una massa di ignoranti blasfemi, ma se il vostro legato ci tiene al suo consolato non permetterà che un fanatico delle esercitazioni e un tampone per l'inchiostro respingano al mittente un'onorificenza dell'imperatore.» «Non fare il furbo» mi consigliò il corniculario. «Puoi lasciare il trofeo e puoi lasciare il dispaccio sigillato. Forse» rifletté con la sua espressione più allegra «il dispaccio dice: "Giustiziate il messaggero"...» Ignorai la battuta. «Sarò ben felice di mettere giù l'oggetto di ferro, ma gli ordini confidenziali li consegnerò personalmente a Gracile. Trovo alloggio al forte? Dovreste avere un sacco di posto ora che vi siete alleggeriti dei fedeli batavi!» «Se è una frecciata a spese della Quattordicesima» disse sbuffando il primipilo «approfittane al massimo. Non ci riuscirai una seconda volta!» Risposi che non mi sarei mai sognato di insultare i vincitori di Bedriacum e che mi sarei arrangiato per trovare una sistemazione. Mentre lo spingevo lungo il corridoio verso l'esterno, Xanto domandò in tono piagnucoloso: «Che cos'è Bedriacum?». «Una battaglia dove quelli della Quattordicesima, con un semplice stratagemma, hanno evitato di farsi chiamare perdenti sostenendo di non essere mai arrivati per il combattimento.» «Pensavo che fosse qualcosa del genere. Li hai fatti arrabbiare, Falco!» «Va bene così.» «E loro sanno che tu lavori per l'imperatore.» «No, Xanto, loro pensano che sia tu!» «A che scopo tutto ciò?» «Loro si rendono conto di avere dei precedenti imbarazzanti. Sanno che l'imperatore manderà qualcuno a controllarli, ma credono che io sia solo feccia. Finché mi comporto da stupido, non crederanno mai che la spia sono io.» Per fortuna Xanto non mi chiese perché fossi così ansioso di far passare qualcun altro per l'incaricato dell'imperatore. O cosa pensavo che la Quattordicesima gemina potesse cercare di fare a chiunque fosse ritenuto tale.
Mentre raggiungevamo l'uscita, vidi due tribuni che provenivano da un altro ufficio, assorti in una discussione in toni cortesi. «Macrino, non voglio essere importuno, ma...» «Nessuno può parlargli. Si è chiuso a progettare una delle sue incursioni contro immaginari attaccabrighe. Ricordamelo domani e ti porterò a fargli visita quando avrà un momento di respiro.» Sul momento mi misi ad ascoltarli perché mi parve di capire che si stessero riferendo al legato Gracile. Il giovanotto che parlava era un tipo tarchiato e sicuro di sé, del genere che non mi ha mai impressionato, con il fisico atletico, la testa quadrata e fitti riccioli color bronzo. Quello che apparentemente cercava di protestare aveva qualcosa di familiare. Doveva avere una ventina d'anni, ma sembrava più giovane. Una faccia regolare, da ragazzino. Corporatura alta e slanciata. Maniere pacate ma un sorriso pronto ad allargarsi in una bocca ampia. «Camillo Giustino!» Alla mia esclamazione di riconoscimento per il suo compagno, il primo tribuno ne approfittò con destrezza. Provenendo da una famiglia di senatori, aveva avuto una buona educazione: conosceva il latino, il greco, la matematica e la geografia, sapeva quanto pagare una prostituta, da dove venivano le ostriche migliori... e l'antica arte forense di svicolare da qualcuno che voleva evitare. «Mi dispiace, Giustino. Eri a colloquio?» Il fratello di Elena mugugnò rivolto alla schiena luccicante per l'armatura che batteva rapidamente in ritirata. «Non importa. Non sembrava intenzionato a rendersi utile. Tu sei Falco, vero?» «Sì. Marco Didio. Ho sentito dire che eri stato riassegnato... non presso la Quattordicesima, spero.» «Oh, non corrispondo ai loro alti requisiti! No, sono stato convinto a "offrirmi volontario" per un altro turno con la Prima adiutrix... si tratta di una compagnia nuova.» «Lieto di sentirlo. La Quattordicesima è composta da una massa di cafoni. Gli ho appena portato un trofeo e loro mi rifiutano un alloggio» allusi in modo spudorato. Giustino scoppiò in una risata. «Allora faresti meglio a venire a casa mia! Andiamo. Dopo aver cercato di tirar fuori un po' di buonsenso da questa gentaglia ho bisogno di andare a casa e stendermi al buio.» Ci avviammo. «Che ci fai qui, Marco Didio?» «Oh, niente di particolarmente eccitante. Affari per conto di Vespasiano. Ordinaria amministrazione, per lo più. Uno o due lavoretti extra con cui
divertirmi nel tempo libero. Reprimere ribelli, quel genere di cose» dissi scherzosamente. «C'è un legato scomparso da ritrovare, per esempio.» Giustino si arrestò di botto. Pareva sorpreso. Mi fermai anch'io. «Che cosa succede, tribuno?» «L'imperatore ha fatto ricorso a qualche nuovo genere di divinazione etnisca?» «Qualcosa non va?» «Mi lasci a bocca aperta, Falco! È quello che stavo cercando di chiarire con il mio omologo proprio adesso. Non capisco» brontolò «come abbia fatto Vespasiano a scoprire che c'era qualcosa di equivoco in Germania in tempo perché tu arrivassi qui ancora prima che il mio comandante avesse deciso che era necessario segnalare la cosa a Roma!» Quando si fermò per riprendere fiato, dissi semplicemente: «Puoi spiegarti?». Camillo Giustino lanciò un'occhiata alle sue spalle, poi abbassò la voce, sebbene stessimo attraversando la piazza d'armi deserta. «Florio Gracile non si vede da parecchi giorni. La Quattordicesima si rifiuta di ammetterlo perfino con il mio stesso capo, ma noi della Prima siamo convinti che il loro legato sia scomparso!» XVIII Posai la mano sul braccio del tribuno per fargli segno di attendere. Poi dissi a Xanto di andare avanti e di aspettarci alla porta principale di fronte a noi. Lui fece il broncio, ma non ebbe altra scelta. Restammo a guardarlo mentre si allontanava, dapprima strascicando volutamente i piedi nella polvere, ma preferendo poi salvaguardare il cuoio turchese dei suoi calzari dalle cinghie eleganti. «Chi è esattamente?» s'informò Giustino in tono circospetto. «Non ne sono sicuro.» Gli rivolsi un'occhiata eloquente, nel caso pensasse che era un compagno di mia scelta. «Se ti va di passare un paio di ore noiose, fatti raccontare da lui perché i rasoi spagnoli sono i migliori e quali segreti racchiude la pomata di grasso d'oca tedesca. Fa il barbiere di mestiere... questo è autentico. Ha insistito per venire con me per un viaggio di piacere. Sospetto che ci sia un motivo più sinistro dietro la sua decisione.» «Può anche darsi che desideri soltanto viaggiare.» Mi ricordai che il fratello minore di Elena aveva una commovente fiducia nell'umanità.
«O può darsi di no! In ogni caso, cerco di spacciarlo come delatore di Vespasiano.» Giustino, che doveva essere a conoscenza dei miei incarichi segreti, o comunque della mia storia passata, abbozzò un lieve sorriso. Mentre aspettavamo che Xanto, trotterellando, si allontanasse abbastanza da non essere a portata di voce, una leggera brezza sollevò i nostri mantelli. Era carica di caratteristici profumi di stalla della cavalleria, di cuoio ingrassato, di stufato di maiale prodotto in quantità. La polvere si sollevava nella piazza d'armi, pungendoci gli stinchi nudi. Ci arrivava il brusio del forte, come il sommesso sottofondo di un organo idraulico che si avvia stridendo: un martellare metallico, il fragore dei carri, il picchiettio di bastoni di legno mentre le truppe si allenavano al combattimento contro un ceppo verticale, e il grido brusco di un centurione che dava ordini, stridulo come un corvo. «Non troveremo un altro posto appartato come questo. Allora, Giustino, che cos'è questa faccenda? Parlami di Gracile.» «Non c'è molto da dire. Non si è più visto.» «È ammalato, o in viaggio di piacere?» «Se così fosse, sarebbe molto scortese da parte sua non informare il suo omologo nello stesso forte.» «La maleducazione non sarebbe una novità!» «Sono d'accordo. Quello che ha messo in allarme la Prima sulla possibilità che ci sia qualcosa di anomalo è che perfino sua moglie, venuta qui con lui, non sembra avere idea di dove sia. Ha chiesto alla moglie del mio legato se c'era in corso un'esercitazione segreta.» «È così?» «Scherzi, Falco! Abbiamo già abbastanza incarichi operativi senza bisogno di fare il gioco delle tavolette o di erigere accampamenti di addestramento.» Esitai un momento, guardandolo attentamente. Aveva parlato con un lampo di autorità. L'ultima volta che ci eravamo incontrati aveva un posto di tribuno subalterno, ma ora indossava le ampie strisce purpuree di un anziano: era il braccio destro del suo legato. Questi posti erano tenuti in serbo principalmente per i senatori designati; esservi promossi mentre si era in servizio era una cosa piuttosto inconsueta. Giustino aveva i requisiti sociali - era figlio di un senatore - ma era il fratello maggiore che sfruttava tutto l'olio balsamico. La famiglia aveva stabilito molto tempo addietro che il figlio minore fosse destinato semplicemente alla burocrazia di medio livello. Tuttavia, non sarebbe stato il primo giovanotto a rendersi conto che
l'esercito non ha pregiudizi, o a scoprire che una volta lontano da casa avrebbe potuto sorprendere se stesso. «E allora come sta reagendo la Quattordicesima? Che cosa dicono gli uomini?» «Be', Gracile è una nuova nomina.» «È quello che ho sentito dire. È impopolare?» «La Quattordicesima ha qualche problema...» Giustino era un ragazzo diplomatico. La Quattordicesima era il problema, ma lui minimizzava la cosa. «Gracile ha un atteggiamento un po' abrasivo. Il che non è bene accetto quando una legione si trova in una situazione spinosa.» «Gracile è stato la scelta del Senato» confidai, basandomi su quanto mi aveva detto Vespasiano. «Lo sai come dicono: "Sali di grado, eccellentissimo Florio. Tuo nonno era nostro amico; adesso tocca a te..." Che tipo è?» «Tutto attività virili e urla continue.» Facemmo entrambi una smorfia. «Dunque, proviamo a chiarire quello che stai insinuando, tribuno. Io so già che l'imperatore nutre qualche perplessità su questo individuo, e adesso tu dici che è sparito. La Prima adiutrix si è forse convinta che sia stato fatto fuori, magari dai suoi stessi uomini?» «Olimpo!» Giustino arrossì. «Questa è un'insinuazione allarmante!» «Sembrerebbe non priva di fondamento.» «La Prima è in una posizione difficile, Falco. Non abbiamo alcuna autorità per intervenire. Lo sai come funziona, il governatore è via, a ispezionare gli schieramenti a Vindonissa, così se Gracile si assenta ingiustificatamente, entra in gioco "l'onore fra comandanti". E poi, il mio legato è riluttante a entrare a passo di marcia esigendo di vedere il suo omologo, nel caso ci sbagliassimo.» «Farebbe senza dubbio la figura dello sciocco se Gracile uscisse a salutarlo, asciugandosi dal mento la pappa d'avena della colazione!» convenni con lui. Poi, influenzato dal tempo trascorso in compagnia di un barbiere, suggerii: «Può darsi che Gracile si sia fatto un taglio di capelli di cui si vergogna e voglia restare nascosto finché non gli ricrescono!». «O gli è venuto uno sfogo cutaneo estremamente imbarazzante...» Aveva lo stesso tono di Elena o di loro padre, un'aria seriosa che nascondeva una vena umoristica assai affascinante. «Ma questo non è uno scherzo.» «No.» Soffocai la fitta di angoscia che la sua risata familiare mi procurava. «Gracile farebbe meglio a farsi vedere, qualunque piattola si sia beccato.» Speravo che non fosse niente di peggio. Un ammutinamento fra le legioni proprio quando le cose sembravano risolte sarebbe stato disastroso
per Vespasiano. E ci sarebbero state implicazioni politiche incresciose se un altro legato romano fosse scomparso in Germania. «Vedo ottime ragioni per tenere segreta questa notizia. Vespasiano vorrà meditare con calma in che modo renderla pubblica... Camillo Giustino, non pensi che la Quattordicesima abbia riferito i fatti e aspetti di ricevere ordini speciali da Roma?» «Il mio legato ne sarebbe stato informato.» «Oh, questo è ciò che crede lui! La burocrazia prospera sui segreti.» «No, Falco. Le staffette portano ancora messaggi riservati personali per Gracile. Lo so perché continuano a chiedere al mio capo di firmarli. Né Vespasiano né il governatore invierebbero segnalazioni confidenziali se non fossero convinti che Gracile sia reperibile.» Il modo astioso nel quale ero stato accolto dal primipilo e dal corniculario incominciava ad avere senso. Se avevano semplicemente perduto il loro uomo, la loro situazione era brutta. Ma se era stato strangolato durante una rivolta soffocata in tutta fretta, le cose per loro erano davvero disperate. «Il loro tribuno anziano ti ha liquidato in modo abbastanza spudorato; io sono stato ricevuto più o meno nello stesso modo. È quello che succede sempre?» «Sì. Sembra che tutti gli ufficiali si sforzino di coprire la cosa.» Questo non sarebbe potuto succedere durante una marcia, dove Gracile doveva essere visibile in testa alla colonna, ma qui al forte potevano mandare avanti le cose da soli. Mi ricordava la storia di Balbillo sui comandanti della legione che amministravano tranquillamente la Britannia dopo avere cacciato il governatore. Ma l'epoca dell'anarchia si pensava fosse finita. «Fino alla prossima celebrazione, non c'è alcuna necessità di esibire qualcuno col mantello del comandante» dissi sorridendo. «Ma se c'è veramente una cospirazione, ho appena rovesciato il vassoio delle bevande! Ho portato una Mano di ferro, oltre a ordini per l'investitura con una cerimonia con tutte le insegne. A quel punto dovranno esibire il loro legato.» «Ah! Il governatore si farà un dovere di essere di ritorno per quell'evento!» Camillo Giustino aveva uno spirito tenace che mi piaceva. Mostrava un autentico piacere all'idea che i tentativi della Quattordicesima di mettergli i bastoni tra le ruote stessero per essere mandati a monte. «Quando si dovrebbe tenere la cerimonia?» «Per il compleanno dell'imperatore.» Parve incerto. Vespasiano era al potere da troppo poco tempo per essere accuratamente segnato sul calendario. Io lo sapevo (uno scrivano convinto che gli investigatori fossero igno-
ranti l'aveva annotato nei miei ordini). «Quattordici giorni prima di dicembre.» Eravamo ancora in ottobre. «Il che concede a noi due il resto del mese e fino ai primi sedici giorni di novembre per venire a capo dell'enigma con circospezione e trarre le nostre conclusioni.» Sogghignammo. Poi ci incamminammo verso il portone principale. Giustino aveva abbastanza carattere per intravedere le occasioni. Sarebbe stato un bene per lui se fosse riuscito a risolvere il rompicapo prima che Roma ne fosse coinvolta. Vedevo profilarsi segni di riconoscenza. Ero l'innamorato di sua sorella, quasi uno di famiglia. Era mio dovere aiutarlo ad avere successo. Anche se probabilmente a Giustino non andava affatto l'idea di quello che avevamo combinato io e sua sorella. E anche se mi sarei addossato io la maggior parte del lavoro. Mentre camminavamo, sprofondati in un silenzio amichevole, io riflettevo intensamente. Tutto questo puzzava di guai seri. Ne avevo inseguiti già abbastanza di recente. Ero a Moguntiacum da meno di un'ora e c'era già un secondo alto ufficiale scomparso, un'ulteriore complicazione da sommare al legato ufficialmente scomparso, alle truppe riottose, al capo tribù ribelle in delirio e all'eccentrica sacerdotessa. XIX Raggiungemmo Xanto e ci preparammo a scarpinare fino al settore del forte della Prima. Per coprire il percorso con una conversazione neutrale, domandai a Giustino della sua singolare promozione. «Mi ricordavo che il tuo ultimo comando era ad Argentoratum, e così sono andato a cercarti laggiù. Ma all'epoca non eri un ufficiale superiore...» «No, e non mi sarei mai aspettato di diventarlo. Questa è stata la lusinga che mi ha spinto ad accettare un prolungamento del mio turno. Ovviamente, in prospettiva è vantaggioso poter dire di avere ricoperto una carica con le strisce ampie...» «Spero che le tue ambizioni ti spingano a qualcosa di meglio che questo epitaffio per la tua pietra tombale! Hai fatto colpo su qualcuno?» «Be'...» Pareva ancora un ragazzo in un mondo di adulti. Parole grosse come ambizione lo spaventavano. «Mio padre è amico di Vespasiano; forse è stato questo.» Ero convinto che il ragazzo si stesse sottovalutando. Qualcuno doveva
aver pensato che avesse delle qualità. La Germania non era una provincia dove potevano permettersi di sopportare i rami secchi. «Com'è la tua nuova unità? Non conosco la Prima.» «È una legione costituita da Nerone, con uomini presi dalla flotta di Miseno, in realtà. Tanto la Prima quanto la Seconda adiutrix sono state messe insieme usando legionari di marina. Questo spiega in parte la tensione che c'è qui.» Giustino sorrise. «Temo che l'illustre Quattordicesima gemina martia victrix consideri la nostra compagnia un'inutile accozzaglia di marinai e addetti alle banchine.» Le truppe regolari avevano sempre visto i legionari di marina come palmipedi parassiti, un'opinione che avevo in parte condiviso. Scaraventare su questa frontiera instabile un reparto non collaudato sembrava davvero una follia. «E così sei qui per temprarli con la tua esperienza?» Lui si strinse nelle spalle con la sua tipica modestia. «Non fare il timido» dissi. «Tutto questo farà un'ottima impressione sul tuo manifesto quando sarai un consigliere cittadino.» Dieci o dodici anni prima, Tito Cesare aveva guidato i rimpiazzi che colmarono i vuoti nelle legioni britanniche dopo la rivolta di Budicca. E adesso ogni città fra i brumosi acquitrini gli innalzava statue e sottolineava quanto fosse stato amato ai tempi in cui era un giovane tribuno. Questo mi fece pensare con un po' di inquietudine all'ipotesi che Giustino, come Tito, un giorno potesse trovarsi imparentato con un imperatore regnante... grazie a un matrimonio, per esempio... Volevo chiedergli se aveva notizie della sorella. Per fortuna eravamo arrivati a casa sua, così potei risparmiarmi l'imbarazzo. XX L'abitazione di un tribuno anziano non aveva bagni privati, ma per un ragazzo poco più che ventenne a cui serviva solo lo spazio per l'armatura da parata e per le teste impagliate di qualunque animale selvatico gli capitasse a tiro di lancia nel tempo libero era un'abitazione spropositata. I tribuni non sono noti per l'assiduità con cui portano a casa dal commissariato voluminosi fascicoli sui quali lavorare e il loro programma di intrattenimenti domestici tende a essere esiguo. Sono invariabilmente scapoli e non sono molti quelli che invitano i propri amorevoli parenti ad andarli a trovare. Tuttavia, fornire agli ufficiali scapoli dimore che potrebbero ospitare tre generazioni è il genere di prodigalità in cui l'esercito indulge.
Giustino aveva ravvivato l'ambiente con un cagnolino. Era un randagio, poco più che un cucciolo, che lui aveva salvato da alcuni soldati che si stavano divertendo a torturarlo. Adesso il cane spadroneggiava lì dentro, scatenandosi per i lunghi corridoi e dormendo sul maggior numero di divani possibile. Giustino non aveva alcuna autorità sulla creatura, in compenso un suo guaito bastava perché fosse lui quello che si metteva a cuccia con fare supplicante. «Il tuo cucciolo si è trovato un canile sontuoso! Capisco perché tanti tribuni si affrettino a sposarsi non appena lasciano il servizio. Dopo tutta questa indipendenza, chi vuole tornare alla sobria dimora dei genitori?» Il matrimonio era un altro concetto che rendeva nervoso Giustino. Questo potevo capirlo. Il fratello di Elena aveva decisamente bisogno di un amico che ravvivasse la sua esistenza. Bene, ora c'ero io. (Anche se probabilmente Elena avrebbe disapprovato che lo facessi.) Giustino decise che dopo tutto era il caso di avvisare il suo legato della sua mancanza di progressi contro il muro di omertà della Quattordicesima. Mentre andava a fare rapporto, mandarono qualcuno all'entrata della fortezza a prendere i nostri bagagli. Uno degli schiavi personali del tribuno sistemò il barbiere in un posto adeguato, mentre io riconquistavo il lusso di una camera tutta per me. La lasciai subito per andare a gironzolare, deciso a dare una tranquilla occhiata in giro. Notai che mi era stata assegnata una bella stanza, anche se non la migliore. Da questo potevo valutare la mia posizione: un ospite in rapporti amichevoli, ma non un amico di famiglia. Mia madre sarebbe rimasta scandalizzata dalla polvere sulle mensole. I miei standard non erano così irreprensibili e ritenni di potermici sistemare. Giustino proveniva da una famiglia di pensatori e conversatori, ma i Camilli amavano conversare e pensare con fruttiere colme a portata di mano e cuscini dietro la schiena. Il loro tesoro era stato mandato fuori città equipaggiato di tutto punto per risparmiargli la nostalgia di casa. La sua dimora era confortevole. I suoi attendenti erano così trasandati solo perché non erano sorvegliati. Scrissi con un dito "Falco è stato qui" nella patina sul piedistallo di un vaso, come gentile accenno. Sarebbe potuta andare peggio. C'erano troppi escrementi di topo e nessuno si preoccupava di alimentare l'olio delle lampade, ma i servitori erano abbastanza educati, perfino con me. Volevano evitare che il loro giovane signore si sentisse costretto a dare una qualunque stressante prova di disci-
plina. Una saggia decisione. Se somigliava un po' alla sorella, poteva ricorrere a un temperamento fuori dal comune e a modi di dire coloriti. Se davvero somigliava un po' a Elena, Giustino aveva anche un cuore tenero e avrebbe potuto provare compassione per me che mi aggiravo per il suo alloggio chiedendomi malinconicamente in quale parte dell'impero si fosse nascosta la sua imprevedibile sorella. Badate, se era invece suscettibile come Eliano sulle faccende familiari, era più probabile che la mia relazione con Elena mi facesse finire chiuso in un sacco e gettato in mezzo al Reno da una pesante catapulta. Così, anche se impazzivo dalla voglia di sapere dove si trovava e se era sana e salva, decisi di tenere per me la faccenda. Andai alle terme della legione, che erano calde, efficienti, pulite e gratuite. Giustino e io tornammo a casa sua nello stesso momento. Nella mia stanza qualcuno aveva tirato fuori i miei indumenti, portandosi via le mie tuniche sporche. Il mio guardaroba era così povero che mettere tre capi di vestiario a lavare aveva svuotato la mia bisaccia da sella, ma riuscii a trovare una tunica che risultasse passabile a tavola, grazie alle lampade fioche. Più tardi mettemmo il naso fuori in giardino, ma faceva troppo freddo, così ci accomodammo dentro casa. Ero consapevole della nostra differenza di classe sociale, ma Giustino pareva felice di fare la parte del padrone di casa corretto e fermarsi a chiacchierare. «Viaggio avventuroso?» «Niente di troppo inquietante. La Gallia e la Germania sembrano ancora in preda a una certa anarchia.» Gli raccontai dei due corpi che avevamo visto nel fossato gallico. Lui parve allarmato. «Dovrei fare qualcosa in proposito?» «Rilassati, tribuno!» Gli dissi per rassicurarlo. «È successo in un'altra provincia ed è il magistrato civile che deve occuparsi degli atti di brigantaggio... Considera che il centurione di cui ti ho parlato, Elvezio, dev'essere uno dei tuoi. Mi aveva detto di essere assegnato alla Prima, anche se al momento non ho fatto nessun collegamento perché pensavo che tu fossi ancora al tuo vecchio posto.» «Il nome mi giunge nuovo. Non sono qui da sufficiente tempo per conoscerli tutti. Lo rintraccerò.» Aspettarsi di conoscere tutti i sessanta centurioni della sua legione era esagerare un poco. Ero sorpreso che questo ragazzo fosse stato promosso. Lavorava con tutto l'impegno e la diligenza
che per tradizione vengono trascurati nei rapporti sulle caratteristiche personali. Pensai che potesse divertirlo ciò che avevo sentito dire ad Argentoratum sui progressi del suo successore. «Tu avresti mai dato una parola d'ordine come "xenofobia"?» «Temo che le mie siano sempre estremamente banali. "Marte Ultore", o "Pesce in salamoia", o "Il secondo nome dell'ufficiale medico".» «Molto saggio.» Avevamo una caraffa di vino. «Il vino qui è un po' primitivo...» Giustino era troppo mite o troppo pigro per dirgliene quattro al suo mercante di vini. Sapeva di piscio di capra (di una capra con i calcoli alla vescica), ma una coppa in mano aiutava a far passare il tempo. «E così, Marco Didio, perché sei passato dalla mia vecchia base?» Doveva aver capito che cercavo Elena. «Cercavo te.» «Oh, che gentile!» Riusciva a far sembrare che parlasse sul serio. «Ho pensato che potesse farti piacere avere notizie della tua famiglia. Pare che stiano tutti bene. Tuo padre vuole acquistare una barca ma tua madre non ne vuole sentir parlare... Hai avuto notizie di tua sorella di recente?» Mi uscì la domanda prima di riuscire a fermarmi; troppo tardi perché il mio sembrasse solo un banale interesse. Giustino rispose senza indugio: «No, sembra stranamente tranquilla in questo periodo! C'è qualcosa che dovrei sapere?». Doveva essere al corrente della sua decisione di mangiare pane raffermo alla mia tavola. Spiegare la nostra relazione andava al di là delle mie capacità, così dissi soltanto: «Ha lasciato Roma». «Quando?» «Poco prima che io partissi.» Giustino, che era disteso su un divano da lettura di foggia militare, si stiracchiò leggermente per allentare la pressione sul braccio. «Una cosa piuttosto improvvisa!» Rideva, anche se intravedevo una certa solennità. «Qualcuno l'ha fatta arrabbiare?» «Probabilmente io. Elena ha maniere raffinate e io abitudini ignobili... Speravo che potesse essersi autoinvitata qui da te.» «No.» La ragione del mio vivo interesse era ancora sospesa pericolosamente nell'aria, ma rimase inespressa. Eravamo entrambi restii a rivoltare quel masso. «È il caso di preoccuparsi?» domandò Giustino. «È una persona assennata.» Giustino aveva una buona opinione della so-
rella e pareva disposto ad accettare la cosa. Anch'io le volevo bene, e non lo ero. «Tribuno, per quanto ne so tua sorella non ha preso accordi con il suo banchiere e non ha assunto una guardia del corpo. Non ha salutato vostro padre, ha completamente abbindolato vostra madre, ha sorpreso la mia, che le è molto affezionata, e non ha lasciato nessun indirizzo a cui inoltrare la posta. Questo» dissi «mi preoccupa.» Restammo entrambi in silenzio. «Che cosa suggerisci, Falco?» «Niente. Non ce niente che possiamo fare.» Anche questo mi preoccupava. Cambiammo argomento. «Non mi hai ancora detto» iniziò Giustino «come hai fatto ad arrivare in cerca di un legato scomparso nel momento stesso in cui il problema con Gracile è sorto?» «Pura coincidenza. Il legato che stavo cercando è Munio Luperco.» «Per Giove! Quello è un caso disperato!» Abbozzai un sorriso triste. Alcuni dei suoi parenti erano molto vicini all'imperatore ed ero convinto che Giustino avesse ereditato la loro discrezione. Parlai liberamente della mia missione, anche se evitai di accennare alla Quattordicesima gemina. Questa cortesia nei loro riguardi era probabilmente inutile, ma io ho i miei principi. «Una o due imprese stimolanti!» commentò lui. «Sì. Ho già scoperto che la profetessa Velleda vive in cima a una torre e può essere avvicinata solo tramite i suoi parenti maschi. Questo probabilmente serve a darle un'aura sinistra. Attraversare il fiume Reno mi rende già abbastanza nervoso, anche senza bisogno di teatrini!» Giustino rise. Poteva permetterselo. Non era lui a doverci andare. «Mi sembri un tipo aggiornato, Giustino. Sai dirmi qualcosa sul capo dei ribelli?» «Civile è scomparso, ma circolano parecchi aneddoti sulle sue orrende abitudini!» «Prova a impressionarmi!» grugnii. «Oh, il più spaventoso racconta che consegni i prigionieri romani al figlio più giovane come bersagli per il tiro con l'arco.» «È vero?» «Può darsi.» Splendido. Proprio il tipo che mi diverto a portare con me all'osteria per potergli sussurrare due paroline all'orecchio. «Prima che io inviti questo
genitore evoluto a bere qualcosa con me, c'è qualcosa di meno pittoresco che dovrei sapere?» Conoscevo gli antefatti in generale. Prima della rivolta i batavi avevano sempre avuto un rapporto speciale con Roma: le loro terre erano esenti dalla colonizzazione, e di conseguenza dalle tasse, e in cambio loro fornivano truppe ausiliarie all'esercito. Non era un cattivo affare. Godevano di un trattamento e di una paga eccellenti, un notevole progresso rispetto a quello che potevano ottenere razziando i loro vicini quando le riserve di cereali scarseggiavano, secondo la grossolana tradizione celtica. Noi sfruttavamo le loro competenze nautiche (pilotaggio, voga e nuoto). Erano famosi per la loro capacità di attraversare i fiumi completamente equipaggiati, pagaiando a fianco dei loro cavalli. Giustino si lanciò a capofitto nel racconto, in modo avvincente e privo di esitazioni: «Tu sai che Giulio Civile è membro della famiglia reale batava. Ha trascorso vent'anni negli accampamenti militari romani, capitanando per noi le truppe ausiliarie. Quando sono iniziati i recenti disordini, suo fratello Paolo è stato giustiziato come facinoroso dall'allora governatore della Germania Inferiore, Fonteio Capitone». «Erano davvero facinorosi in quella fase?» «Stando alle testimonianze, era un'accusa inventata» dichiarò Giustino con il suo tono misurato. «Fonteio Capitone era un governatore assai discutibile. Lo sai che fu processato da una corte marziale e ucciso dai suoi stessi ufficiali? Aveva fama di governare in modo avido, ma non saprei dirti se fosse vero. Galba trascurò di indagare sulla sua esecuzione, quindi è probabile che lo fosse.» O forse Galba era un vecchio incompetente. «Comunque, Galba scagionò Civile dall'accusa di tradimento, ma resistette solo otto mesi come imperatore, così Civile si trovò di nuovo ad essere vulnerabile.» «Com'è successo?» chiesi. «Quando Vitellio s'impadronì del potere, le sue armate pretesero che diversi ufficiali fossero messi a morte, apparentemente per la loro lealtà verso Galba.» Ora mi ricordavo di quello spiacevole episodio. Era servito a regolare vecchi rancori in modo piuttosto plateale. I centurioni impopolari furono il bersaglio principale, ma sapevo che le truppe avevano chiesto a gran voce anche la testa del capo batavo. Vitellio li ignorò e confermò il perdono di Galba, ma tutto questo doveva aver lasciato in Civile un forte risentimento contro i cosiddetti alleati romani. «In quel periodo, inoltre» continuò Giustino «i batavi venivano trattati molto male.»
«In che senso?» «Be', per esempio, durante il reclutamento per Vitellio, gli agenti imperiali arruolavano i vecchi e gli infermi per poter estorcere ricompense illecite per la loro esenzione dalla leva. E i ragazzini e le ragazzine venivano trascinati dietro le tende con propositi sgradevoli.» I bambini batavi tendono a essere alti e di bell'aspetto. Tutte le tribù germaniche hanno un forte senso della famiglia, quindi si capisce che questo trattamento li avesse esacerbati. Proprio per questo il successivo pretendente al trono, Vespasiano, aveva pensato di poter contare sull'aiuto di Civile per contrastare Vitellio. Ma dalla lontana Giudea Vespasiano aveva frainteso la situazione. In un primo tempo Civile aveva collaborato, insieme alla tribù dei canninefati. Avevano condotto un attacco congiunto alla flotta del Reno, catturando in tal modo tutte le armi e le navi di cui avevano bisogno e tagliando gli approvvigionamenti romani. Poi Vespasiano era stato proclamato imperatore. «Questo costrinse Civile a uscire allo scoperto» spiegò Giustino. «Riunì tutti i capi delle tribù galliche e germaniche per un incontro in un boschetto sacro nella foresta, lasciò che il vino scorresse a fiumi, poi li infiammò con vigorosi discorsi sulla possibilità di liberarsi dal giogo romano e costituire un impero gallico indipendente.» «Roba entusiasmante!» «Oh, molto teatrale! Civile arrivò al punto di tingersi i capelli e la barba di un rosso acceso e a giurare che non se li sarebbe tagliati finché non avesse cacciato tutti i romani.» Quel colorito dettaglio aggiungeva alla mia missione un che di pittoresco che detestavo. «Proprio il genere di fanatico etnico che amo cercare di far cadere in trappola! Si è mai rasato?» «Dopo Vetera.» Restammo silenziosi un istante, pensando a quell'assedio. «Un forte come quello avrebbe dovuto resistere.» Giustino scosse il capo. «Io non ci sono stato, Falco, ma a quanto si dice Vetera era in stato di abbandono e con truppe insufficienti.» Sprofondammo di nuovo nel vino rivoltante del tribuno, mentre io riflettevo amaramente su quello che avevo sentito a proposito di Vetera. Era stato un doppio forte, anche se non con gli effettivi al completo dopo che Vitellio aveva tolto numerosi vessilli per guidarli in marcia su Roma. Il resto della guarnigione aveva fatto del proprio meglio. Non era mancata l'iniziativa. Ma Civile aveva avuto un addestramento romano riguardo agli
assedi. Costrinse i suoi prigionieri a costruire arieti e catapulte. Non che le legioni impegnate nella difesa mancassero di inventiva: avevano ideato un marchingegno snodato in grado di sollevare gli aggressori e scagliarli all'interno del forte. Ma quando alla fine si arresero, avevano esaurito perfino i muli e i topi ed erano ridotti a masticare radici e l'erba che cresceva sui terrapieni. Per di più, con la guerra civile che infuriava in Italia, dovevano essersi sentiti completamente tagliati fuori. Vetera era uno dei forti più settentrionali in Europa e Roma aveva tutt'altre preoccupazioni. In effetti fu inviata una forza di soccorso, al comando di Dillio Vocula, ma costui fece fiasco. Civile lo fermò in modo abbastanza risoluto, poi fece sfilare intorno al forte di Vetera le insegne romane che aveva catturato, così da accrescere la disperazione degli occupanti. In seguito Vocula riuscì ad aprirsi un varco e a levare l'assedio, ma trovò una guarnigione astiosa. I suoi uomini si ammutinarono e lui stesso venne assassinato a Vetera dalle truppe. Il forte si arrese. Liquidato il loro comandante, i soldati giurarono fedeltà all'impero gallico. Furono disarmati dai ribelli, costretti a lasciare a passo di marcia l'accampamento e poi caddero in un'imboscata e furono massacrati. «Giustino, Civile aveva una fama tale che avrebbe dovuto indurre i nostri uomini ad aspettarsi di essere traditi?» «Non penso» rispose lentamente Giustino, per non rischiare di esprimere un giudizio avventato sul batavo. «Credo che ritenessero che un ex comandante delle truppe ausiliarie romane avrebbe onorato la parola data. Si dice che Civile abbia protestato con i suoi alleati per questo.» Restammo nuovamente in silenzio per un momento. «Che genere di uomo è?» domandai. «Molto intelligente. Dotato di un carisma eccezionale. Estremamente pericoloso! Un tempo la maggior parte della Gallia, oltre a parecchie tribù della Germania Libera, lo appoggiavano ed era riuscito a ottenere completa libertà di movimento nella Germania Inferiore. Si considera un secondo Annibale... o Asdrubale, magari, dato che anche lui ha un occhio solo.» Sospirai. «E così sto cercando un principe alto, guercio, con fluenti capelli rosso acceso, che nutre un odio implacabile per Roma. Almeno spiccherà sulla piazza del mercato... Per caso ha sollevato obiezioni» riflettei «anche quando Munio Luperco è stato catturato nell'imboscata e mandato in dono a Velleda?» «Ne dubito. Civile ha incoraggiato la sua autorità profetica. Erano con-
siderati soci. Quando Civile ha catturato la nave ammiraglia di Petilio Ceriale, le ha mandato anche quella.» «Sono troppo sfinito per chiederti com'è successo quel disastro!» Avevo sentito dire che il nostro generale Ceriale aveva le sue colpe. Era impulsivo e non sapeva mantenere la disciplina, e questo aveva comportato perdite che avrebbe potuto evitare. «Così Velleda ha ricevuto la sua personale chiatta di stato, oltre a un romano di alto grado legato e consegnato alla sua torre da usare come schiavo del sesso, o roba del genere! Tu che cosa pensi ne abbia fatto di Luperco?» Camillo Giustino rabbrividì e si rifiutò di provare a indovinarlo. Mi girava la testa. Sembrava il momento buono per sbadigliare abbondantemente come un viaggiatore stanco e andarmene a letto. Le note del corno che suonava il turno di guardia notturno mi agitarono e sognai di essere di nuovo una giovane recluta. XXI Il giorno seguente mi gingillai mentalmente coi rebus che Vespasiano mi aveva incaricato di risolvere. Non era facile accendere un po' di entusiasmo per quel demenziale assortimento, così decisi invece di affrontare l'unico problema su cui nessuno mi aveva chiesto di interferire: andai a trovare la moglie del legato scomparso. Mentre mi dirigevo verso la parte del forte assegnata alla Quattordicesima, devo dire che ero abbastanza fiducioso di giungere alla conclusione che l'eminente Florio Gracile non fosse affatto sparito. L'abitazione del legato era il massimo che ci si potesse aspettare. Se si considera che Giulio Cesare, perfino quando era impegnato in una campagna in territorio ostile con tutte le risorse spinte al limite, trasportava sui carri pannelli di mosaico per pavimenti da posare nella sua tenda per dimostrare alle tribù lo splendore di Roma, non era nemmeno pensabile che una residenza diplomatica in piena regola all'interno di un forte permanente mancasse di qualche comodità. Era quanto di più grande si potesse concepire, e decorata con materiali spettacolosi. Perché no? Per ogni occupante che si succedeva, arrivava una nobile moglie piena di idee sull'arredamento che apportava qualche miglioria. Ogni tre anni la casa veniva smantellata e rimessa a nuovo secondo un gusto differente. E ogni bizzarria che ordinavano era a spese dello Stato.
La residenza era costruita intorno a una serie di giardini interni con lunghe vasche e pregevoli fontane che diffondevano nell'aria una sottile e voluttuosa foschia. In estate dovevano esserci stati fiori dai colori vivaci, in ottobre l'impeccabile giardino ornamentale assumeva uno splendore più solitario. Ma c'erano pavoni. C'erano tartarughe. Al mattino, quando mi presentai con il mio sorriso fiducioso, lo scenario brulicava di giardinieri che come tanti afidi spazzavano foglie e potavano ramoscelli. Gli afidi veri non avevano nessuna possibilità. Nemmeno io, probabilmente. All'interno c'era una sfilata di sale da ricevimento affrescate. I soffitti decorati a stucco di un bianco brillante erano stupefacenti. I pavimenti formavano mosaici geometrici con affascinanti effetti tridimensionali. Le lampade erano dorate (e fissate alle pareti). Le urne erano enormi (e troppo pesanti per poter fuggire portandosele via). Guardiani discreti pattugliavano i colonnati, o stavano appostati con discrezione fra la collezione di statue elleniche. La mobilia del salotto avrebbe spinto mio padre banditore a mordicchiarsi le unghie e a chiedere di scambiare con l'amministratore della casa due parole con calma all'ombra di una colonna. L'amministratore sapeva il fatto suo. Molto tempo prima Florio Gracile era scivolato con disinvoltura dal disordine distratto dello scapolo nel quale viveva Camillo Giustino a un mondo di continui ricevimenti pubblici su scala più vasta. La sua residenza era organizzata da un esercito di risoluti servitori, molti dei quali dovevano essere con lui da quasi due decenni di frenetica vita sociale senatoriale. Dato che i funzionari di grado elevato si recano nelle province con tutte le spese pagate, il legato non si era portato dietro solo le testate del letto di tartaruga e i portalampada d'oro a forma di Cupido, ma già che preparava i bagagli aveva fatto posto anche per una moglie. Ero certo prima ancora di conoscerla che aggiungere una giovane sposa a quell'eccellente regime di vita era stato quasi certamente superfluo. Le ricerche fatte a Roma mi avevano detto che Gracile aveva l'età giusta per un comandante di legione. Si avvicinava ai quaranta: ancora immune dall'artrosi, ma abbastanza maturo da incedere solenne e impettito nel mantello color porpora. Sua moglie aveva vent'anni di meno. Tra i patrizi c'è l'usanza di sposare le scolarette. Alle ciniche alleanze politiche seguono spesso ricompense in termini di carni docili e intatte. Le attrazioni accidentali che movimentano la vita al resto di noi non sono per uomini del suo rango. Florio Gracile si era sposato una prima volta poco più che ventenne, quando mirava al Senato. Aveva scaricato la donna non appena gli era parso opportuno, quindi, all'incirca diciotto mesi prima, si era stabilmente
procurato una nuova consorte, questa volta di una famiglia ancora più antica e ancora più ricca. Doveva essere avvenuto quando aveva deciso di procurarsi il comando di una legione e cercava di apparire un uomo di pubblica probità. Menia Priscilla mi ricevette in un salotto nero e oro, il genere di stanza esageratamente laccata che mi porta sempre a notare dove una pulce mi ha morso il giorno prima. Era scortata da una mezza dozzina di cameriere, ragazzotte leggermente irsute e dalla fronte ampia che davano l'impressione di essere state acquistate in serie al mercato degli schiavi. Sembravano estranee alla loro padrona, sedute silenziosamente in due gruppi e impegnate in un lavoro di ricamo abbastanza scialbo. Priscilla le ignorò. Era piccola. Un'indole più dolce le avrebbe forse dato un'aria graziosa. Tempo e denaro erano stati spesi su di lei, senza però riuscire a dissimularne l'innata scontrosità. Privilegiava un'espressione languida e felina, che si induriva se si dimenticava di coltivarla. Era probabilmente figlia di un qualche pretore pronto ad agghindarsi solo quando la sua prole femminile raggiungeva l'età giusta per contrarre vistosi matrimoni dinastici. Ora era sposata con Gracile. Nemmeno questo era un gran divertimento, probabilmente. Impiegò alcuni minuti per sistemarsi in uno scintillio di balze violette. Portava pendenti di perle, braccialetti tempestati di ametiste e almeno tre collane d'oro intrecciate, anche se forse ce n'erano altre nascoste fra le pieghe lucenti in cui era avviluppata. Era la sua tenuta da giovedì mattina, completata dall'abituale schiera di anelli alle dita. Da qualche parte in mezzo a quegli orpelli c'era un anello nuziale da mezzo pollice, che non riusciva a farsi notare. «Didio Falco, signora.» «Oh, davvero?» Sostenere una conversazione era troppo faticoso. Mia madre avrebbe messo a dieta di carne rossa quella fiacca creaturina e l'avrebbe mandata a cavare rape per una settimana. «Sono un rappresentante dell'imperatore.» Avere un colloquio con un inviato imperiale avrebbe dovuto rallegrarle la mattinata. Vivere nella zona più pericolosa dell'impero avrebbe certamente affascinato alcune ragazze, ma intuivo che gli interessi di Menia Priscilla arrivavano raramente ad abbracciare gli affari correnti. Un uccello che era riuscito a evitare la scuola. Disprezzava le arti. Non riuscivo a immaginarla impegnata in opere caritatevoli. Tutto sommato, in qualità di moglie di uno dei più alti diplomatici dell'impero, non riusciva proprio a fare colpo.
«Buon per te!» Non c'era da stupirsi se negli ultimi tempi l'impero cominciava a scricchiolare. Mi rifiutai di reagire, ma fu imprudente e imperdonabile. La ragazza possedeva un misto di ignoranza e arroganza da scolaretta che avrebbe probabilmente causato dei guai. Se Gracile non la teneva d'occhio, gli davo sei mesi perché ci fosse uno scandalo con un centurione o un incidente in un alloggiamento che avrebbe rimandato a casa qualche persona in fretta e furia. «Scusami per avere invaso la tua intimità. Ho bisogno di vedere tuo marito, ma ai Principia non l'ho trovato...» «Non è nemmeno qui!» Questa volta parlò chiaro e in fretta, con l'aggressività trionfante che alcuni usano al posto dell'arguzia. I suoi occhi marroni mi diedero una rapida occhiata, cosa abbastanza corretta, visto che io avevo fatto lo stesso con lei. Lei, però, non vedeva niente, ma cercava solo di insultarmi. Inarcai un sopracciglio. «Devi essere molto preoccupata. Gracile ha l'abitudine di sparire?» «Le abitudini del legato sono affari suoi.» «Non proprio, signora.» La contrarietà le fece torcere la bocca in una smorfia più sgradevole. Gli uomini con informi tuniche rossicce e stivali malconci foderati di lana di solito non le rispondevano per le rime. (Mi sarebbe piaciuto essere equipaggiato in modo più entusiasmante, ma il mio banchiere mi aveva sconsigliato di forzare troppo il mio bilancio di quell'anno. I banchieri sono così prevedibili. E anche il mio bilancio.) «Signora, sembra che qui ci sia un problema! Un uomo nella condizione sociale di tuo marito non dovrebbe rendersi invisibile. Impensierisce le gerarchie inferiori. In effetti, l'imperatore potrebbe considerarla una dimostrazione di inettitudine politica... Se Gracile cerca di sfuggire ai suoi creditori...» Stavo scherzando, ma lei se ne uscì in una risata amara. Un'ipotesi fatta a casaccio aveva colpito nel segno. «Oh, è così?» «Può darsi.» «Puoi darmi una lista dei suoi debiti?» Lei scrollò le spalle. Probabilmente Gracile l'aveva portata in Germania per evitare il rischio che a Roma lei potesse convincere i suoi numerosi amministratori a lasciarle spendere denaro contante. Gli uomini di quel genere tenevano le mogli al sicuro, lontane dall'abaco domestico. Insistetti, ma lei sembrava davvero non saperne niente. Non ne fui sorpreso. «Allora non sai dirmi dove incominciare la ricerca? Non hai idea di dove
possa essere tuo marito?» «Oh, questo lo so!» esclamò maliziosa. Trattenni la mia irritazione. «Signora, questo è importante. Ho un messaggio di Vespasiano per Florio Gracile. Quando l'imperatore invia dispacci, si aspetta che io li consegni. Puoi dirmi dov'è tuo marito?» «Con la sua amante, presumo.» Era così insulsa che non mi guardò nemmeno per vedere l'effetto che faceva. «Ascolta» dissi, cercando ancora di mantenere la calma «la tua vita privata è affar tuo, ma per quanto siano moderne le tue opinioni in fatto di matrimonio, immagino che tu e Gracile seguiate alcune regole. Le convenzioni sono abbastanza chiare.» Le enunciai comunque: «Lui scialacqua la tua dote, tu intacchi la sua eredità. Lui può picchiarti, tu puoi diffamarlo. Lui ti offre guida morale e lascia che tu ti compri vestiti in abbondanza e tu, signora, proteggi sempre la sua reputazione nella vita pubblica. Adesso cerca di afferrare questo concetto: se non lo trovo alla svelta, ci sarà uno scandalo. Qualsiasi cosa succeda, il suo desiderio è che tu lo impedisca!». Lei balzò in piedi in un fracasso di gioielli stonati. «Come osi!» «Come osa un uomo pubblico essere tanto sfrontato da sparire proprio sotto il naso del governatore provinciale?» «Non potrebbe fregarmene di meno!» esclamò Menia Priscilla con la prima autentica traccia di vivacità. «Fuori di qui, e non tornare mai più!» Uscì rapidamente dalla stanza, lasciandosi dietro una folata di sgradevole profumo balsamico. Si precipitò fuori così infuriata che una forcina di avorio schizzò via da una treccia turrita della sua elaborata acconciatura e atterrò ai miei piedi. La raccolsi, poi consegnai in silenzio il giavellotto a una delle cameriere. Le ragazze parvero rassegnate, poi raccolsero i loro accessori e la seguirono fuori. Non ero preoccupato. In qualche parte della residenza c'era sicuramente un contabile incartapecorito che avrebbe risposto alle mie domande con un atteggiamento più realistico di quello manifestato dalla stizzosa mogliettina. Doveva per forza sapere con precisione quali creditori era costretto a tenere a bada ogni giorno e, se avessi mostrato interesse per il suo lavoro, probabilmente me l'avrebbe detto. Quanto al nome dell'amante del legato, sarebbe stata moneta corrente in qualunque parte degli alloggiamenti. XXII
Mentre ero alla ricerca di informazioni, a un certo punto mi imbattei nella palestra privata del legato. Capii che cosa intendesse dire Giustino sul fatto che Gracile era un fanatico dell'attività fisica: il suo covo era stipato di pesi, manubri, sacchi di fagioli da lanciare, e tutto il resto dell'attrezzatura che di norma fa pensare a un uomo che ha paura di apparire gracile, probabilmente perché è vero. A un'estremità della stanza le sue lance e i trofei di caccia pendevano da alcuni ganci. Un malinconico egiziano che sarebbe stato impiegato meglio a mummificare sovrani per il loro incontro con Osiride sedeva a gambe incrociate, impegnato nella tassidermia su un cervo abbastanza piccolo. Non spreco mai il tempo a parlare con gli egiziani. Anche se sapeva impagliare un maschio di capriolo, sentire le sue opinioni sulla vita debordare come un fiume infinito di tribolazioni non mi avrebbe aiutato a trovare il suo padrone. Gli feci un cenno del capo e passai oltre. Finalmente scovai il contabile, che mi fornì un lungo elenco di mercanti di vino, pellicciai, allibratori, cartolai e importatori di oli dalle delicate fraganze, tutti egualmente delusi. «Giove, quest'uomo certamente non ritiene di dover pagare i debiti!» «Gli affari non sono il suo forte» concordò blandamente lo scrivano. Il tipo aveva occhi gonfi e modi controllati. Sembrava stanco. «Non ci sono rendite sulle proprietà di Sua Eccellenza in Italia?» «Sono floride, ma quasi tutte ipotecate.» «E così si trova nei guai?» «Oh, ne dubito!» Aveva ragione. Gracile era un senatore. Per prima cosa, vivere sull'orlo del disastro finanziario era probabilmente una seconda natura per lui. Improbabile che se ne preoccupasse. Il matrimonio con Menia Priscilla doveva aver dato un incentivo alle sue garanzie di copertura. In ogni caso, era sostenuto da un potere consistente. Per i piccoli bottegai di una remota città provinciale, sua signoria doveva essere intoccabile. Qualche accorta truffa finanziaria l'avrebbe quanto prima tolto da ogni difficoltà occasionale. «Immagino che tu non abbia idea, dunque, del perché il tuo padrone sia sparito...» «Non ero a conoscenza di nessun mistero.» «Non ti ha lasciato istruzioni?» «Non è noto per la lungimiranza. Ho pensato che fosse via per affari per
qualche giorno. Anche il suo schiavo personale è assente.» «Come fai a saperlo?» «Ho assistito alle lamentele della sua amichetta.» «Lavora nella casa?» «No, serve ai tavoli alla Medusa, vicino alla porta Destra dei Principia.» Mi annotai i nomi tanto dei creditori quanto dell'amichetta dello schiavo scarabocchiandoli sulla mia tavoletta per appunti. La sua cera si era indurita per la mancanza d'uso, chiara allusione che era ora di mettersi al lavoro. «Dimmi un'altra cosa: il tuo padrone è un donnaiolo?» «Forse non dovrei fare commenti.» «Oh, fai un'eccezione!» «Il mio campo è puramente finanziario.» «Non è detto che le due cose non siano correlate! I suoi fondi potrebbero essere scarsi per via delle amanti costose...» Lasciai che restasse a fissarmi mentre uscivo. Sapevamo tutti e due che avrei trovato altre fonti ansiose di fornirmi le informazioni sordide. Lasciai la residenza con passo leggero. Avere degli indizi incoraggia sempre il mio lato ottimista. A quel punto feci l'errore di sfidare un'altra volta la sorte con la dispotica Quattordicesima gemina. Quella di prefetto dell'accampamento non era mai stata una carica nella legione repubblicana tradizionale. Così come in molte altre cose, sono del parere che i vecchi repubblicani avessero ragione. Oggigiorno questi prefetti esercitano un'influenza eccessiva. Ogni legione ne nomina uno, e costoro hanno una vasta sfera di responsabilità per quanto riguarda l'organizzazione, l'addestramento e l'equipaggiamento. In assenza del legato e del tribuno anziano assumono il comando, ed è allora che la situazione diventa pericolosa. Vengono pescati fra la consorteria delle prime lance che resistono al collocamento a riposo, il che li rende troppo vecchi, troppo pignoli e troppo lenti. Non mi piacciono per principio. E il principio è che era stato il comportamento ottuso di un prefetto dell'accampamento a rovinare la reputazione della Seconda augusta durante la rivolta britannica. A Moguntiacum ce n'era soltanto uno, responsabile dell'intero forte. Poiché la Quattordicesima era la sola legione esperta di stanza qui, era stato fornito da loro. Il prefetto dell'accampamento occupava un ufficio la cui grandezza sovradimensionata di certo affascinava la sua personalità sottosviluppata. Lo
trovai lì dentro. Stava leggendo pergamene e scrivendo operosamente. Aveva reso volutamente frugale il suo cantuccio. Usava uno sgabello pieghevole dall'intelaiatura di ferro arrugginita e un tavolo da campo che dall'aspetto doveva essere stato presente ad Azio. Nelle intenzioni, doveva dare l'impressione che il prefetto avrebbe preferito essere in servizio effettivo sul campo. Secondo me, se Roma intendeva conservare la sua reputazione militare, soggetti del genere andavano tenuti nell'accampamento, imbavagliati, legati e incatenati al suolo. «Sesto Giovenale? Sono Didio Falco. L'inviato di Vespasiano.» «Oh, mi era giunta voce che un verme aveva messo fuori la testa da una tana sul Palatino!» Scriveva con un calamo. O almeno avrebbe voluto. Appoggiò il calamo in meticoloso equilibrio sul calamaio in modo che non gocciolasse e mi aggredì: «Quali sono i tuoi precedenti?». Immaginai che non mi stesse chiedendo delle mie ziette di campagna. «Servizio di leva nella solita schifosa provincia, poi cinque anni come esploratore.» «Ancora in servizio?» La vita militare era il suo solo criterio di misura. Riuscivo a immaginarmelo mentre annoiava tutti a morte con le sue risolute teorie sui valori tradizionali, l'equipaggiamento antico e i terribili comandanti del passato di cui nessuno aveva mai sentito parlare e che rimanevano insuperati rispetto ai loro moderni equivalenti contemporanei. «Ora lavoro in proprio.» «Non approvo gli uomini che lasciano la legione prima del tempo.» «Non l'avevo mai pensato.» «Il servizio di leva ha perduto il suo fascino?» «Mi sono beccato una brutta ferita di punta di lancia.» Non tanto brutta, ma abbastanza per riuscire ad andarmene. «Da dove?» insistette lui. Avrebbe dovuto fare l'investigatore. «Dalla Britannia» ammisi. «Oh, conosciamo la Britannia!» Mi stava scrutando con attenzione. Mi feci coraggio. Non c'era via di fuga. Se avessi cercato altre scappatoie, l'avrebbe indovinato comunque. «Allora conosci la Seconda augusta.» Sesto Giovenale si mosse appena, ma il disprezzo sembrò inondare il suo viso come un nuovo colore in un camaleonte. «Bene! Hai avuto sfortuna!» disse in tono di scherno. «Tutta la Seconda ha avuto sfortuna: è incappata in un certo prefetto dell'accampamento di nome Penio Postumo!» Penio Postumo era l'imbecille che aveva ignorato l'ordine di attaccare battaglia contro gli iceni. Nem-
meno noi sapevamo veramente quali fossero state le sue motivazioni. «Ha tradito la Seconda così come ha tradito tutti voi.» «Ho sentito dire che l'ha pagata.» Giovenale abbassò la voce di un semitono, sopraffatto da inorridita curiosità. «Correva voce che in seguito Postumo fosse caduto sulla propria spada. È caduto davvero... o è stato fatto cadere?» «Tu che cosa ne pensi?» «Tu lo sai?» «Lo so.» Ero presente. C'eravamo tutti. Ma ciò che successe quella notte burrascosa è il segreto della Seconda augusta. Giovenale mi fissò come se fossi un guardiano sulle porte dell'Ade con la torcia all'ingiù. Si riprese quasi subito, però. «Se eri con la Seconda, dovrai muoverti con circospezione qui. Soprattutto» aggiunse gravemente «se sei una spia di Vespasiano!» Non feci nessun tentativo di cavillare. «Oppure è il tuo bizzarro compagno?» «E così hanno notato Xanto?» Sorrisi con calma. «Sinceramente, non so che ruolo abbia. E preferisco non saperlo.» «Dove l'hai trovato?» «Tito Cesare mi ha fatto un dono non richiesto.» «Una ricompensa per i passati servigi?» chiese beffardo il prefetto. «Immagino che potrebbe essere per quelli futuri.» Ero pronto a venire al sodo: «Tu sei l'uomo più adatto per fornire scuse alla Quattordicesima. Parliamo di Gracile». «Che cosa c'è da dire?» s'informò Giovenale in tono leggero. Sembrava seguire la linea ragionevole. Non mi feci ingannare. «Ho bisogno di vederlo.» «Si può fare.» «Quando?» «Presto.» «Ora?» «Non subito.» Mi mossi in modo irrequieto. «Ottobre nella Germania Superiore non è esattamente il periodo né il luogo perché i legati si prendano licenze non autorizzate.» «Lui non chiede consigli a me.» «Forse dovrebbe!» Anche la manifesta adulazione era condannata all'insuccesso. Prefetto dell'accampamento è un grado presuntuoso: pensava che gli fosse dovuta. «Forse accettare consigli non è la specialità del vostro le-
gato. Ho sentito dire che si sta rendendo impopolare.» «Gracile ha i suoi metodi.» Difendeva lealmente il proprio comandante. Nondimeno, intravidi un guizzo negli occhi del prefetto: contrarietà per l'atteggiamento abrasivo del legato. «Dunque è andato da una donna, oppure sta fuggendo dagli ufficiali giudiziari?» «Affari ufficiali.» «Dimmi. Sono ufficiale anch'io.» «Sono ufficialmente segreti» mi sfotté lui. Sapeva che non potevo rimbeccarlo. Gli uomini come lui sanno giudicare quello che conti dal modo in cui ti allacci le cinghie degli stivali. Le mie dovevano essere girate dalla parte sbagliata. «Ho i miei ordini, prefetto. Se non posso eseguirli, può darsi che debba mandare una richiesta di istruzioni a Roma.» Giovenale lasciò che un leggero sorriso gli increspasse le labbra. «Il tuo messaggero non riuscirà a lasciare il forte.» Mi stavo giusto chiedendo quanto potessi ricordarmi del codice dei segnali con il fumo e i falò quando lui mi anticipò con sdegno: «E scoprirai che l'accesso al posto delle segnalazioni è vietato». «Devo credere anche che a Moguntiacum non ci siano piccioni viaggiatori?» Cedetti con un'aria di buonagrazia che ero ben lungi dal provare. Ma preferivo non trovarmi nelle minuscole celle accanto all'ingresso principale, ridotto a mangiare una sola ciotola di pappa d'orzo al giorno. Cambiai tattica. «Sono stato inviato qui per fare un sondaggio politico. Se non posso ottenere informazioni da Gracile, in alternativa dovrò sfruttare le tue idee. Qual è l'umore fra le tribù locali?» «I treviri sono stati severamente sconfitti da Petilio Cenale» spiegò Giovenale in un tono che lasciava intendere che era troppo anziano per fare apertamente ostruzionismo, anche se volendo avrebbe potuto facilmente mandare a monte la mia missione. «A Rigodulum? La Ventunesima rapax si è comportata bene verso Ceriale in quell'occasione!» replicai, con un'allusione maligna al contributo meno rilevante della Quattordicesima. Giovenale la ignorò. «Le tribù sono tornate a guadagnarsi da vivere e a tenere abbassata la loro testa malvagia.» Questa informazione era inaspettatamente utile. Senza dubbio sperava che sarei andato in giro per la comunità locale a offendere qualcuno, per risparmiarsi il disturbo di pestarmi lui stesso fino a farmi perdere i sensi.
«Quali sono le attività principali da queste parti?» «Lana, navigazione sul fiume... e ceramiche» mi informò Giovenale, pizzicando in me una corda con quell'ultimo accenno. «Mantelli, imbarcazioni e vasi! Il capo ribelle Civile non aveva relazioni familiari in questa zona?» domandai. «Mi hanno detto che la moglie e la sorella sono rimaste a Colonia Agrippinensium durante la rivolta.» La sua faccia s'irrigidì «I batavi vengono dalla costa settentrionale.» «Risparmiami la lezione di geografia, prefetto. Conosco la loro provenienza. Ma Civile se l'è svignata dall'Isola e da tutta la regione. Devo trovarlo... mi stavo chiedendo se è tornato a sud.» «Per quanto strano» rispose Giovenale con un certo sarcasmo «di quando in quando veniamo a sapere che è stato avvistato.» «Davvero?» «Sono solo voci. Fra la sua gente circolava una certa mistica su di lui. Quando uomini così muoiono o scompaiono, si incappa sempre in qualche storia fasulla.» Aveva ragione, fino a un certo punto. Nei primi tempi dell'impero, individui che impersonavano i tiranni erano un fenomeno costante: Caligola, per esempio, veniva continuamente riportato in vita tra folli sostenitori in esotici stati orientali. «E così ritieni che le voci di avvistamenti locali siano tutte sciocchezze?» «È uno stupido se viene dalle parti della Quattordicesima!» Evidentemente la defezione delle loro coorti batave bruciava dolorosamente. «Mandate in giro pattuglie a controllare?» «Non trovano niente.» Pensai che questo non volesse necessariamente dire che non c'era niente da trovare. «Quali probabilità ci sono che la rivolta divampi di nuovo fra le tribù?» Giovenale non reputava che fosse un'incombenza della sua carica fornire aggiornamenti di carattere politico, così mi permisi di fare congetture: «È sempre la solita vecchia barzelletta. Se un greco, un romano e un celtico fanno naufragio su un'isola deserta, il greco aprirà una scuola di filosofia, il romano stabilirà una lista dei turni e il celtico darà inizio a una rissa». Lui mi scrutò con sospetto; anche come barzelletta era troppo metafisica. «Bene, grazie...» Non conclusi la frase perché la porta si aprì. Me lo sarei dovuto aspettare. Vuoi per coincidenza, vuoi, più probabilmente, in risposta a qualche voce di cospirazione, parecchi uomini influenti della Quattordicesima ci sta-
vano raggiungendo. Quando mi girai per esaminarli, mi sentii mancare il cuore. Avevano tutti un'aria cupa e risoluta. Fra loro riconobbi Macrino, l'infiorettato tribuno anziano che avevo visto discutere con Giustino il giorno prima, il primipilo mio antagonista, almeno altri tre centurioni dal volto accigliato e un tipo robusto e silenzioso che immaginai fosse lo specularius, una carica che avevo ricoperto anch'io una volta, quando avevo svolto per la prima volta incarichi segreti e studiato gli interrogatori, insieme a tutte le tecniche impietose che li acceleravano. Sapevo che ai miei tempi la presenza di quel sinistro individuo avrebbe significato qualcosa. Tuttavia, forse le cose erano cambiate. XXIII Ero seduto su uno sgabello. Loro si assembrarono tutt'intorno. Lo spazio divenne troppo angusto per potermi alzare. La stanzetta si fece più calda e più buia. Sentii il tintinnio sommesso del bronzo di una panciera dietro il mio orecchio sinistro, troppo vicino per sentirmi rassicurato. Non potevo voltarmi a vedere che movimento avesse causato quel rumore. Il tribuno e i centurioni se ne stavano con le mani appoggiate sul pomo della spada. Percepivo la forza consolidatasi all'interno di una legione costituita da lungo tempo. I messaggi si trasmettevano senza sforzo evidente. I consigli di guerra si convocavano quasi da soli. Le cospirazioni interne non potevano essere stroncate da un estraneo, e gli uomini avevano in sé una innata componente minacciosa come cuccioli d'orso, assassini dalla nascita. Dato che occupavamo il suo ufficio, il prefetto mantenne l'iniziativa. Nessuno degli altri centurioni parlò. Fu il tribuno a cominciare, tuttavia. L'infiorettato Macrino si passò la mano libera fra i capelli in un gesto meccanico che ne mise in risalto i riflessi naturali. «Abbiamo ricevuto una lagnanza dalla moglie del legato riguardo ad un intruso.» Il suo tono educato emetteva distintamente le sillabe come se sputasse fuori dei semi. Era un bel giovane atletico, arrogante e con lo sguardo indolente. Era facile immaginare Menia Priscilla che si precipitava da lui con i suoi problemi. Erano della stessa generazione, appartenevano alla stessa classe sociale. Se non andava già a letto con lui, avrei scommesso che intendeva farlo. «Una signora estremamente cortese» mormorai. Mi stava sfidando a dare della gattina viziata alla moglie del loro legato. E non solo lui. Vedevo le dita del prefetto che si contraevano in cerca del calamo, come se non
vedesse l'ora di redigere un'accusa per mancanza di rispetto. «I cani come te chiamano il nostro tribuno "signore"!» sbraitò Giovenale. «Mi dispiace, signore! Ho chiesto scusa per la mia intrusione. Avevo pensato che il nobile Florio Gracile potesse essere a casa con il raffreddore.» «La residenza è zona vietata.» I prefetti dell'accampamento adorano tracciare linee di demarcazione. «Utilizza le fonti opportune.» «Le fonti opportune si erano rivelate indisponibili, e io ho degli incarichi da parte dell'imperatore.» Ancora una volta mi accorsi di un movimento preoccupante alle mie spalle. Il tribuno sbottò, irritato: «Chi è questo tanghero curioso?». «Un rompiscatole di nome Didio Falco» dichiarò il prefetto. «È un ex militare di truppa della Seconda augusta. Dovremmo far passare questa notizia fra i ranghi insieme alla parola d'ordine.» Soffocai un gemito. Con questo si era garantito che nessun uomo della legione avrebbe parlato con me e probabilmente mi si stava preparando un destino anche peggiore. Quella sera entro il coprifuoco sarei stato un facile bersaglio per ogni ammasso di muscoli ubriaco che volesse fare colpo sugli altri ragazzi. «Ora lavora per Vespasiano... com'era prevedibile.» Giovenale riuscì a dare il tono più caustico possibile alla sua allusione al fatto che l'imperatore avesse in precedenza comandato la Seconda in Britannia senza che sembrasse slealtà verso il giuramento relativo alla sua carica. «Ma è tutto a posto» rassicurò l'assemblea. «Non è qui per importunare noi. Questo idiota ha intenzione di dar fastidio agli abitanti del posto cercando il loro capo ribelle. È convinto di poter addomesticare Civile!» Nessuno rise di quella spiritosaggine. Io emisi un sospiro sommesso. «In effetti, sono stato anche incaricato di trovare un legato scomparso, ma si tratta di Munio Luperco, e quindi la pista è ormai fredda... Ragazzi, ho afferrato il messaggio. I membri della Seconda sono persona non grata fra voi eminenti. Me ne vado.» Ci fu silenzio, ma un cambiamento di luce e un'aria più fresca alle mie spalle mi dissero che il muro armato si era aperto. Mi alzai in piedi. Loro continuarono a spintonarmi, così nel girarmi inciampai nello sgabello. Fui sorpreso che nessuno mi saltasse addosso. Era quello che volevano. Il mio nervosismo divertiva tutti, ma mi lasciarono andare. Qualcuno chiuse la porta con un calcio. Mi aspettavo di sentire delle risate, e quando non ce ne furono capii che era ancora peggio. Uscii sulla piazza d'armi, dove la luce
radiosa del sole autunnale basso sull'orizzonte mi colpì fastidiosamente gli occhi. Nessuno mi aveva toccato. Ma mi sentivo come se fossi stato frustato con corde piene di nodi da un'intera legione in una cerimoniale adunata punitiva. XXIV Questi lieti eventi avevano preso una parte sufficiente della mattinata, così me ne tornai passeggiando verso la casa del tribuno, dove eravamo d'accordo di incontrarci per il pranzo. «Ti porto fuori: devo pagarti da bere. C'è una taverna chiamata la Medusa che mi hanno raccomandato...» Giustino parve allarmato. «Nessuno che io conosca va a bere là!» Riconobbi che probabilmente dipendeva dal fatto che i suoi amici erano persone troppo raffinate, poi gli spiegai perché intendevo andarci. A Giustino piacque l'idea di partecipare all'indagine, così passò sopra ai propri scrupoli. Mentre andavamo si informò sugli sviluppi. «Ho appena avuto un incontro con la Quattordicesima. Sostengono che il loro uomo è via in missione ufficiale, il che è difficile da smentire. Ma qualcosa bolle in pentola. Hanno reagito in modo sproporzionato senza ragione.» Lo avvertii dell'atteggiamento minaccioso della Quattordicesima nei miei confronti. Giustino era troppo giovane per ricordare nei dettagli le vicende della rivolta britannica, così dovetti riferirgli tutta la miserevole storia di come la Seconda augusta fosse stata privata della gloria. Il suo viso mostrò un evidente sconforto. Oltre al fatto di avere come ospite un uomo sospetto, probabilmente era assai poco impressionato, come del resto la maggior parte della gente, dal contributo dato alla storia dalla mia legione. La Medusa era meno invitante di quanto avessi sperato, ma così ammuffita come avevo temuto. Aveva l'aspetto di un locale aperto tutta la notte che durante il giorno era solo mezzo sveglio. In realtà, non ci sono locali aperti tutta la notte a Moguntiacum. L'atmosfera sonnolenta della Medusa era semplicemente il risultato di una gestione negligente. I tavoli erano appoggiati disordinatamente contro pareti scrostate come funghi aggrappati ad alberi antichi e gli orci di vino erano oggetti grottescamente deformati di una fabbrica di ceramiche inefficiente. Il locale era pieno di rozzi soldati e dei loro equivoci tirapiedi. Ordinammo il piatto del giorno, dando per
scontato che fosse stato appena preparato. Vana speranza. Faceva abbastanza caldo per portare un tavolo fuori all'aria aperta. «Ah, polpettine di carne!» esclamò educatamente Giustino quando il cibo arrivò. Lo vidi perdere quasi subito interesse. «Sembra coniglio...» In realtà, sembravano piuttosto i resti sommariamente tritati di un mulo da soma logoro e cadente che era morto di dolore e di rogna. «Non c'è bisogno di preoccuparsi di quello che possono aver usato come condimento perché non sembra che ce ne sia...» Mi attraversò la mente il pensiero che la nobile madre del mio compagno, Giulia Giusta, che aveva già una scarsa opinione di me per ciò che avevo fatto alla sua bellissima figliola, difficilmente l'avrebbe migliorata se avessi fatto fuori suo figlio in una bettola come questa. «Ti senti bene, Falco?» «Oh, sì, sto bene!» I tribuni lì erano una rarità. L'oste ci aveva serviti di persona. Pensava probabilmente che stessimo compiendo un'ispezione, un compito che nessuno di noi due voleva affrontare troppo da vicino. Dopo un po' mandò una serva a chiedere se avessimo bisogno d'altro. Era una domanda che non aveva niente a che fare con il cibo o il vino. «Come ti chiami?» le domandai, fingendo di essere d'accordo. «Regina.» A quelle parole Giustino si mosse di scatto, eccitato, sebbene non per le ragioni che pensava lei. (Aveva saputo da me che Regina era il nome dell'amichetta dell'introvabile schiavo del legato scomparso.) «La moglie di un re!» esclamai rivolto a Giustino, in tono così malizioso da non essere credibile. A lei piacque. Ordinai un'altra mezza caraffa e le dissi di portare una coppa in più per sé. «Non sembra che le dispiaccia intrattenerci» mormorò Giustino quando lei andò a prenderli. Pareva preoccupato che potessimo avventurarci su un terreno di dubbia moralità dando l'impressione di incoraggiarla. Le mie preoccupazioni riguardo alla Medusa erano di natura puramente pratica. Temevo solo che avessimo corso un rischio mangiando quelle polpette immonde mentre seguivamo una falsa pista. «Intrattenerci è il suo compito, il che non esclude che abbia anche una vita privata abbastanza complicata dopo il lavoro. Le parlerò io» aggiunsi, passando al greco quando la ragazza tornò con il nostro vino. «Lascia che ti spieghi alcune regole di vita, ragazzo: mai giocare per denaro al gioco delle tavolette con estranei, mai votare per il candidato favorito e mai fidarsi di una donna che porta una catena alla caviglia...»
«Sei tu l'esperto di donne!» ribatté lui con ironia, in un greco che era più fluente del mio. Lo parlava, in ogni caso, abbastanza bene da essere insolente senza troppa fatica. «Sono stato respinto da un discreto numero di serve, certo...» Tornando al latino, scherzai con Regina: «Discorsi da uomini! Sua signoria si lamentava del fatto che gli avessi rovinato la sorella». La ragazza sonnolenta aveva dimenticato di portare la coppa per sé, così ostentò un sorriso vacuo e si allontanò di nuovo. Giustino tenne gli occhi sulla sua ciotola di polpette (che avevano indubbiamente l'aria di aver bisogno di una prudente esplorazione) mentre proseguiva in quel suo greco provocatorio e modulato con leggerezza: «In quanto a questo, Falco, mi piacerebbe chiederti se questa tua storia con mia sorella è seria». La mia mascella s'irrigidì. «È quanto di più serio sia possibile da parte mia.» Lui alzò lo sguardo. «Questo non vuol dire nulla.» «Ti sbagli, tribuno. Dice quello che vuoi realmente sapere: niente di male verrà mai a Elena da parte mia.» La nostra serva ritornò. Regina si sedette, lasciando che continuassimo a parlare fra di noi. Era abituata ai mercanti che prima di trattare con lei concludevano i loro affari. Sembrava condiscendente verso qualunque cosa, in realtà. Giustino e io lasciammo perdere la nostra precedente conversazione. Io mangiai tutto quello che riuscii a inghiottire dello stufato insipido, poi mi sciacquai la bocca con il vino. Sorrisi alla ragazza. Era una pupattola tracagnotta, con il seno piatto e corti capelli rossi. La sua zazzera era riccia del genere non proprio naturale tanto in voga fra le ragazze che mentre servono da bere offrono una mercanzia non altrettanto succulenta. Indossava una tunica bianca abbastanza pulita con la solita collana di perline di vetro e gli anelli a serpentina da pochi soldi, oltre all'inevitabile catena alla caviglia a cui avevo accennato prima. Il suo atteggiamento sembrava servile, ma con qualche traccia impercettibile di una vena ribelle. A Roma avevo una congrega di sorelle dure e insolenti. Regina me le ricordava. «Regina, conosci uno schiavo personale di nome Rustico?» «Può darsi.» Era il tipo che evita di rispondere alle domande per principio. «Sai a chi mi riferisco?»
«Lavora al forte.» «Per uno dei legati. Non preoccuparti, non c'è nessun problema!» mi affrettai a rassicurarla. «Ho sentito dire che tu e Rustico siete buoni amici.» «È possibile.» Pensai di vedere gli occhi scuri rabbuiarsi in modo scontroso. Forse era spaventata. O forse era qualcosa di più equivoco. «Sai dove sia?» «No.» «È andato in qualche posto?» «Perché vuoi saperlo?» domandò lei. «Mi piacerebbe molto trovarlo.» «Perché?» Stavo per spiegarle che cercavo il legato quando lei sbraitò con ira: «Non lo vedo da secoli. Non so dove sia!». Balzò in piedi. Giustino, colto di sorpresa, allontanò il suo sgabello dal tavolo con uno stridulo scricchiolio. «Che cosa vuoi?» sbraitò Regina. «Perché ti sei messo a importunarmi?» Altri avventori, per lo più soldati, lanciarono un'occhiata nella nostra direzione, ma senza particolare interesse. «Calma, Falco» s'intromise Giustino. La ragazza si precipitò all'interno come una furia. «Sì, sembra proprio che le cameriere siano la tua specialità!» fu il suo commento beffardo. Poi, lanciandomi un'occhiata di rimprovero, la seguì dentro la taverna. «Regina è così!» disse sogghignando uno dei soldati. «Graffiante?» «Si arrabbia per qualunque cosa.» Lasciai i soldi sul tavolo, gironzolando lì intorno finché il tribuno non ricomparve. «Sono contento di vederti tutto intero! Ho sentito dire che il suo caratterino è leggendario. Ama strillare e scoppiare in lacrime davanti a innocenti avventori. Per fare il bis ti tira in testa un'anfora. Se sei sfortunato, è un'anfora piena... Sei rimasto ad asciugarle le lacrime o cercavi solo di scansarla?» «Sei troppo duro, Falco!» «È quello che lei si aspettava.» «Oh, davvero?» borbottò Giustino fra i denti. «Bene, ho scoperto quello che volevamo sapere senza bisogno di tormentare la ragazza. È semplicissimo. Lei e lo schiavo Rustico hanno avuto il classico litigio fra innamorati. Non si vedono più.» «E quanto al legato che se l'è svignata?» «Tutto quello che sa è che ha sentito accennare al fatto che il padrone
del suo innamorato forse progettava di andare via qualche giorno. Non le hanno detto né dove né perché.» «Se è vero, va bene.» «Perché non dovrebbe esserlo?» «Lei serve ai tavoli in una taverna, tu sei un estraneo, e io so riconoscere una sgualdrinella bugiarda che ha qualcosa da nascondere!» «Be', io le ho creduto.» «Buon per te» dissi. Tornammo di buon passo verso l'entrata del forte. Giustino fingeva di essere ancora in collera, ma la sua natura gentile aveva ormai ripreso il sopravvento. Scossi il capo e risi sommessamente. «Che cosa c'è di tanto buffo?» «Oh... c'è un metodo infallibile per estorcere informazioni che consiste nel mandare avanti un bestione spietato che mette in agitazione il sospetto, dopodiché arriva il suo compare dolce e amichevole a consolarlo finché quello non gli apre il suo cuore.» «Sembra che funzioni» commentò Giustino, un po' freddamente. «Oh sì!» «Non vedo ancora il lato buffo.» «Non è niente.» Gli sorrisi. «Solo che in teoria il socio tenero dovrebbe essere un impostore!» XXV Tornati a casa, ci aspettava una novità. «Una donna è venuta a chiedere di te, Marco Didio.» Scoppiai a ridere. «Questo genere di messaggi ha bisogno di un approccio prudente!» Giustino assunse un'aria compassata. Se volevo sembrare un amico affidabile per Elena, la sfacciataggine non era la reazione giusta. Stavamo facendo troppe osservazioni scherzose sulle cameriere e non abbastanza sulla noiosa retorica che predomina fra i senatori. D'altra parte, non potevo farci niente se lui non era abituato a me. Sua sorella lo era, e aveva fatto la sua scelta. «Chi è questa matrona?» «Giulia Fortunata, Marco Didio.» Vidi Giustino sobbalzare a quel nome. Inarcai un sopracciglio. «Lascia che indovini... ha qualcosa a che fare con Gracile?» «Allora hai saputo qualcosa?» mormorò il tribuno. Di fronte ai suoi servitori si comportava con discrezione.
Non erano i miei servitori. «Menia Priscilla mi ha accennato stamattina al fatto che Gracile mantiene la sua amante da qualche parte. È lei? Mi sembra strano che venga così pubblicamente al forte. Mi chiedo che cosa possa volere di così urgente. Sai dove abita?» «Credo di sì» rispose Giustino, sempre con prudenza. «Corre voce che Gracile l'abbia sistemata in una villa non lontano...» Gli dissi che se aveva il pomeriggio libero poteva venire con me per distrarsi. Lui esitò. Poi ordinò a uno schiavo di andare a prendere i nostri mantelli. Uscimmo dalla porta Decumana dirigendoci a sud. Una volta avviatici lungo il declivio all'esterno della porta, scese la pace. A parte l'ampia ansa del fiume, il forte quadrato alle nostre spalle restava la caratteristica più rilevante del paesaggio che, cosa strana in quella parte del Reno, era privo dei sensazionali dirupi e delle gole rocciose che si trovavano più a valle. Qui il terreno era per la maggior parte pianeggiante, a tratti interrotto da insenature per l'ormeggio naturali o artificiali, ma si vedeva che non era acquitrinoso. C'erano grossi alberi, che spesso nascondevano alla vista il Reno e il Meno. Giustino mi condusse lungo la strada che mi consentiva di ammirare il monumento a Druso. I monumenti commemorativi di eroi istituzionali morti da lungo tempo non riescono a emozionarmi. Lo guardai appena. All'incirca un miglio più avanti sorgeva un fortino a difesa di un piccolo villaggio che, mi spiegò Giustino, riteneva di essere le canabae ufficiali di Moguntiacum. Giulia Fortunata viveva in una casa in affitto appena fuori dell'insediamento. Per una donna di un certo riguardo era appena appena sicuro. Il Reno era a portata di naso. Tuttavia, una strada militare correva parallela alla nostra riva del fiume, risalendo verso Argentoratum e Vindonissa e il posto di vedetta offriva una protezione immediata in caso di disordini improvvisi. Era una residenza di campagna dall'aspetto sostanzialmente romano, nonostante le solite differenze provinciali nel disegno e un'estensione molto ridotta in confronto alle vaste tenute dell'Italia. Entrammo per un piccolo sentiero erboso che correva fra il granaio e uno stagno per le anatre, oltrepassammo alcuni meli, prendemmo una deviazione vicino a una stalla vuota, evitammo un maiale libero e infine arrivammo a una casa con un colonnato. All'interno, dove la mitezza del clima mediterraneo avrebbe consentito
un atrio aperto con una piscina, c'era un tipico salone quadrato germanico con un focolare centrale. Giulia Fortunata aveva imposto uno stile volutamente romano: drappeggi dai colori ricercati, divani con volute all'estremità, statuette di corridori e lottatori greci ben disposte, un tavolo da parete con una piccola biblioteca di rotoli di pergamena in contenitori d'argento. C'era anche qualche tocco drammatico: festoni inaspettati di stoffa color porpora e lumi doppi in bronzo a forma di foglie di acanto. Quando comparve, mi porse la mano con calma e in modo formale, sebbene sapessimo quanto fosse ansiosa di vedermi. Sarebbe stata la moglie perfetta per un funzionario di alto rango, se la sorte non l'avesse fatta nascere in un contesto sociale buono sì, ma non abbastanza. Mentre la giovane moglie Menia Priscilla possedeva denaro e arroganza, Giulia doveva accontentarsi di cultura e buona educazione. Era priva dei vantaggi sociali che a Roma si ottenevano grazie a una famiglia con antenati illustri e decenni di ricchezze accumulate. Avrebbe potuto sposare un funzionario delle dogane ed essere regina di qualche piccola città per la vita, ma quale donna risoluta vuole lasciarsi sprofondare in una rispettabile noia? Se Gracile aveva l'età che pensavo, e cioè vicina ai quaranta, allora Giulia Fortunata doveva essere più vecchia almeno abbastanza da notarsi. Giustino mi aveva detto che, a quanto si sapeva, la loro relazione durava da tempo: era sopravvissuta al primo matrimonio del legato e sembrava destinata a superare anche questo. Giulia Fortunata seguiva Gracile ovunque gli fosse assegnato un comando militare. In qualunque posto andasse, in Italia o nel continente, era sottinteso che la signora sarebbe comparsa, si sarebbe installata a una distanza tale da permettere le visite e avrebbe fornito qualunque cosa fornisse abitualmente. La sistemazione aveva cessato da tempo di suscitare scandalo. Sembrava un'esistenza mediocre per lei, soprattutto perché, come mi era sembrato di capire, Florio Gracile era un uomo patetico. Ma le donne sofisticate pagano quel prezzo per un legame con un senatore. Era abbastanza alta e indossava un abito di una sobria tonalità fra il grigio e il malva. Non era una vera bellezza. Aveva un viso spigoloso, un collo che rivelava la maturità, e le caviglie che incrociò mentre si sedeva per parlare con noi erano orrendamente ossute. Tuttavia, aveva stile. Mani aggraziate sistemarono la stola. Portamento elegante. Compostezza nell'incontrare degli uomini. Era una mosca bianca: una matrona indipendente, decisa, compassata e raffinata. «Signora, sono Didio Falco e questo è Camillo Giustino, tribuno anziano
della Prima adiutrix.» Dato che entrambi appartenevano allo stesso ambiente sociale, ero disposto a lasciare che il tribuno prendesse l'iniziativa, ma lui si tirò indietro e rimase al mio fianco come osservatore. Giulia Fortunata ci osservò entrambi: Giustino nella sua tunica bianca pieghettata di fresco e l'ampia striscia color porpora, più tranquillo e più serio della maggior parte di quelli del suo rango; io dieci anni più vecchio per nascita e cento per esperienza. Scelse di trattare con me. «Grazie per avere ricambiato la mia visita con tanta sollecitudine.» La sua voce era ricercata e sicura di sé. Si adattava perfettamente al gusto deciso della sua tunica sobria e dei gioielli, che erano pochi ma spettacolosi. Un audace braccialetto di origine mediorientale e due grandi orecchini a disco in oro battuto. Anche i sandali avevano un disegno interessante. Era una donna che sceglieva le cose da sé e amava darsi un tocco fuori dal comune. «Stai svolgendo qualche genere di indagine?» Feci un gesto di assenso ma non fornii alcun particolare. «Sei passata dal forte oggi? Ammetto di esserne rimasto sorpreso.» «Era urgente. Immagino che se stai facendo delle indagini che riguardano il mio vecchio amico Florio Gracile, accetterai volentieri qualsiasi aiuto.» Tentai di scombussolarla. «Menia Priscilla pensa che lui possa essere con te.» «Menia Priscilla sa pensare?» Fu come un improvviso zampillo di vino spillato, che ci fece sobbalzare. «Temo che lui non sia qui.» Sorrisi. Capivo che cosa potesse affascinarlo. In questa casa sapevi esattamente dov'eri. «Lo conosci da molto tempo?» «Dieci anni.» Il lieve sarcasmo nella sua voce ammetteva che avremmo potuto considerarlo come qualcosa di più di una conoscenza superficiale. Cercai di essere esplicito. «E che tipo di rapporto avete?» «Cordiale» rispose lei in tono risoluto. Lasciai perdere. Era inutile essere incivili. Conoscevamo tutti la buona educazione. «Giulia Fortunata, sono un inviato di Vespasiano. Sono stato mandato nella Germania Superiore per un'altra questione, ma qualunque evento strano si verifichi mentre sono qui potrebbe essere correlato, e quindi richiede un'indagine. Hai ragione: accetterei volentieri qualunque informazione su dove potrebbe trovarsi Gracile. Puoi parlare in tutta franchezza.» Lei rimase in silenzio un momento, soppesandomi apertamente. Superai l'esame. Raggiunse un verdetto e ci fece cenno di sederci.
Aveva pianificato che cosa dire. Le uscì in forma concisa e senza bisogno di essere imbeccata. Non c'era dubbio che Gracile fosse sparito. La sua amica Giulia era molto preoccupata. Aveva chiesto di vedermi perché era convinta che "altri elementi" prendessero la faccenda troppo alla leggera oppure sapessero qualcosa e facessero il possibile per mettere tutto a tacere. Era inconcepibile che se ne fosse andato da qualche parte senza parlarne prima con Giulia. «Discutete anche di questioni militari?» «Entro i limiti opportuni, naturalmente.» «Naturalmente» convenni con lei. Al mio fianco, l'irreprensibile Giustino fece uno sforzo per dominare la propria disapprovazione. «Dimmi, aveva qualche preoccupazione?» «Gracile è estremamente coscienzioso. Si rode per qualunque cosa.» Un tipo irrequieto, eh? Senza dubbio un uomo che vessava i suoi uomini e indispettiva la moglie, anche se probabilmente quella che era la sua amante da dieci anni aveva imparato a ignorarne l'agitazione. Forse, pensai, il ruolo di Giulia Fortunata nella sua vita era sempre stato di tranquillizzarlo e risollevarne il morale. «Che cosa negli ultimi tempi? Puoi farmi qualche esempio?» «Da quando siamo arrivati in Germania? In generale, la situazione politica. Temeva che il trasferimento di Petilio Ceriale in Britannia fosse stato un po' prematuro, che la repressione dei ribelli potesse non essere ancora completa. Si rendeva conto che c'erano altri guai in vista.» Discuteva di politica come un uomo. Mi chiedevo se Gracile sapesse esprimersi effettivamente con la stessa eloquenza o se invece facesse assegnamento sulla sua amante per dare forma ai propri pensieri. Eppure ora, mentre lei lo descriveva nell'atto di ponderare la situazione in qualità di comandante locale, per la prima volta mi feci l'idea di un uomo che agisca con una qualche autorità. Era indubbio che Giulia lo influenzava positivamente. «Com'erano i suoi rapporti al forte?» «Era più che consapevole del fatto che la Quattordicesima legione possedesse un'esperienza molto maggiore e tendesse a imporsi sui colleghi.» Fece un lieve cenno di scuse a Giustino per avere denigrato la Prima. La sua sensibilità rientrava ormai nelle nostre aspettative. Giustino replicò con un mesto sorriso. «Qualcos'altro? Problemi di denaro?» «Niente di eccezionale.» «Problemi con la moglie?»
«Oh, credo che Gracile sia in grado di gestirli!» Ancora una volta si era concessa una nota leggermente amara e sprezzante, sebbene fosse ben controllata. Giulia Fortunata sapeva che la sua era una posizione di forza. «Altre donne?» suggerii con leggerezza. Lei non replicò, con aria di biasimo. «Allora che cos'era a preoccuparlo maggiormente? Per caso qualcosa che aveva a che fare con i ribelli?» «Mi ha esposto una sua teoria secondo la quale il capotribù Civile non accetterebbe la sconfitta e cercherebbe di riorganizzare i suoi sostenitori.» «Qualche prova?» «Niente di certo.» Sorrisi. «Aveva deciso di fare qualcosa in proposito?» «Avrebbe voluto completare il lavoro che Petilio Ceriale si era lasciato alle spalle. Gracile è ambizioso, naturalmente. Occuparsi di Civile avrebbe migliorato la sua posizione sociale a Roma e gli sarebbe valso la gratitudine dell'imperatore. Per quanto ne so, tuttavia, non aveva nessun elemento preciso.» Per un inviato che aveva a sua volta bisogno di una posizione sociale migliore e della gratitudine imperiale, era una notizia rassicurante! «L'interesse del legato arriva fino a Velleda?» «Non l'ha mai nominata.» Suonava come una dichiarazione di lealtà. Era probabile che il legato fosse affascinato dalla famosa profetessa come qualunque altro uomo. «Dunque non aveva intrapreso nessuna azione e a quanto ti risulta non aveva nessun piano a breve scadenza?» «Il legato stava in guardia nell'eventualità di disordini. È tutto ciò che posso dire. A parte che» aggiunse con enfasi, come se ritenesse che le informazioni che ci aveva fornito fossero sufficienti per dei professionisti «Florio Gracile si interessa puntigliosamente di tutto ciò che riguarda il forte, dalla qualità degli approvvigionamenti di grano alla concessione per la fornitura delle ciotole in cui mangiano i soldati!» Divenni pensieroso. «Deve esserci una grande quantità di contratti per le forniture che devono essere rinegoziati dopo tutta la confusione della guerra civile...» «Sì. E come ho detto, Gracile ama occuparsi con grande attenzione dei dettagli.» Ci avrei scommesso! «E che giudizio hanno di lui gli appaltatori?» «Avrei detto che fosse un'ovvietà» replicò cori asprezza Giulia Fortunata. «Quelli che hanno successo lodano il suo giudizio, quelli che perdono il
lavoro tendono a lagnarsi.» Provai un formicolio di eccitazione. Mi chiedevo se qualche vincitore di appalto avesse mai tributato al legato più ringraziamenti materiali che parole di lode, o se qualcuno dei perdenti lo avesse accusato di essere meno che corretto... Dovevo formulare la domanda con discrezione: «Sei a conoscenza di qualche problema recente riguardo alle transazioni commerciali che potrebbe avere attinenza con la scomparsa del legato?». «No.» Credo che avesse capito a che cosa mi riferivo. «Non ha lasciato assolutamente nessuna traccia.» Intuivo che la preoccupazione di Giulia era molto più profonda di quanto lasciasse intuire il suo tono misurato, ma era troppo orgogliosa, sia per conto proprio che per conto di Gracile, per rivelare qualcosa di più del suo tranquillo autocontrollo. Lasciai che ponesse fine al colloquio. Lei promise di tenersi in contatto se le fosse venuto in mente qualcos'altro che avrebbe potuto aiutarci. Era il tipo che avrebbe continuato a riflettere su quanto era successo al suo amante finché non avesse trovato la risposta. Speravo che non fosse quella che lei temeva. Era probabile che avrei disprezzato lui, ma lei mi piaceva. Mentre tornavamo a Moguntiacum, Giustino mi chiese: «Che ne pensi?». «Una donna dal carattere forte legata a un uomo che non ne ha. Niente di nuovo, come direbbe la tua graffiante sorella!» Lui ignorò il mio riferimento a Elena. «In conclusione, abbiamo fatto progressi?» «È possibile. Io scommetto che è qualcosa che ha a che fare con Civile.» «Davvero?» «Be', a parte quello, Sua Eccellenza potrebbe, in alternativa, essersi fatto coinvolgere in qualche truffa a proposito del foraggio per la cavalleria o in un'avventata macchinazione con gli appaltatori delle ceramiche. Per ragioni di orgoglio nazionale, preferirei che fosse tenuto in ostaggio da un pericoloso ribelle piuttosto che scoprire alla fine che l'idiota si è fatto dare una botta in testa con una pentola di terraglia rossa per la pappa d'avena!» Camillo Giustino sorrise in quel suo modo lento e riflessivo. «Io credo che sceglierò la pentola» rispose. XXVI
Giustino era l'ufficiale di guardia per il turno di notte, così spronammo i cavalli per tornare verso il forte mentre calava la sera. Quando fummo più vicini, gli chiesi di ricondurre lui il mio cavallo mentre io restavo indietro per familiarizzare con i luoghi. In vista del portone, lui mi lasciò a gironzolare a piedi. Feci una scarpinata lì attorno, dando un'occhiata. Il forte era situato a una certa distanza dalle banchine sulla sponda del fiume che brulicavano di attività, così le lasciai perdere. La maggior parte della vita civile avveniva al riparo dietro al forte, dove un acquedotto ben fatto portava l'acqua all'interno. All'altra estremità, a una certa distanza dalla base militare, c'erano un casotto del dazio e la colonna di Giove, con cui la cittadinanza tributava il proprio omaggio al Palatino. Inventai la mia versione delle solite penose sciocchezze: "Lunga vita a Nerone, compagno degli dèi dell'Olimpo, dicono i cittadini della nostra città (sperando ardentemente che Nerone ci faccia costruire un teatro)". Dovevano aver scelto il momento sbagliato, poiché non vedevo nessun teatro. Dalla sua posizione strategica su un terreno leggermente rialzato, il forte sovrastava la grande vallata dove il fiume descriveva un'ansa e si allargava dopo la confluenza con il Meno. Presi la strada che portava al ponte e lo attraversai. Solo allora mi resi veramente conto di quanto è largo il Reno. Al suo confronto, il Tevere sembrava un insignificante rigagnolo che serpeggia fra letti di crescione. Sull'altro lato era stato costruito un posto di vedetta, abbastanza grande da avere il proprio nome: Castellum Mattiacorum. Ora mi trovavo nella Germania Libera. A tutta prima sembrava esattamente uguale alla parte romana. L'atmosfera era meno inquietante del settore degli immigrati abusivi di Trastevere a Roma. Ma questo non era Trastevere, né era realmente sicuro, almeno per me. Una torre di guardia romana da questa parte del fiume era un'assoluta rarità. Trovandosi all'inizio della grande via commerciale che seguiva il corso del Meno verso l'interno, la sua esistenza era solo dimostrativa. Avevo fatto i miei primi timidi passi oltre le frontiere dell'impero. Alle mie spalle, le luci di Moguntiacum brillavano fioche in file ordinate. Di fronte a me si estendevano centinaia e centinaia di miglia incerte, abitate in primo luogo da tribù che disprezzavano apertamente Roma, poi da altre che noi romani non avevamo mai incontrato in terre di cui nessuno nel mio mondo conosceva neppure l'esistenza e le caratteristiche. In quella sera piuttosto malinconica, in cui faceva buio presto, prendere coscienza della geografia
europea su vasta scala mi fece sentire all'improvviso triste e lontano da casa. Il posto di vedetta era circondato da un tranquillo gruppetto di abitazioni civili. Sulla riva del fiume scovai una taverna con meno avventori e di un livello più elevato della Medusa, dove sedermi a osservare il solenne fluire del Reno e le ultime imbarcazioni che rientravano al calar della sera. Stavo pensando alla mia missione. Sebbene gli sviluppi fossero lenti, incominciavo a sentirmi molto più sicuro del mio ruolo in quel contesto, e consapevole di nuovi inconvenienti. Avevo la netta sensazione di avere scoperto un rivale. Se Florio Gracile si era assunto personalmente l'incarico di redimere il capotribù Civile - e qualunque cosa pensasse Giulia Fortunata, questo avrebbe potuto benissimo includere un analogo desiderio riguardo a Velleda - mi auguravo che fallisse. Altrimenti rischiavo di rimanere bloccato in quel posto arretrato, a mille miglia da casa e chissà quante da Elena, defraudato del mio incarico per l'imperatore e, con questo, di ogni possibilità di guadagnare un po' di denaro. Vespasiano era uno avido. Avrebbe preferito di gran lunga ricompensare con generosità un senatore piuttosto che trovarsi costretto a scucirmi controvoglia pochi sesterzi. Pareva senza dubbio possibile che Gracile si fosse lanciato in una ricerca. Forse per una volta aveva ritenuto che fosse troppo segreta per renderne partecipe l'energica Giulia. Forse aveva sentito perfino la necessità di buttarcisi a capofitto da solo. La Quattordicesima doveva sapere che cosa stava combinando. Ne conseguiva che una volta informati del perché Vespasiano mi aveva mandato, avrebbero avuto una duplice ragione per fare gli ingenui e poi interferire con i miei piani. In un modo o nell'altro, avrebbero appoggiato il loro comandante. E lo stesso Gracile non poteva non considerare quella missione più adatta al suo rango elevato piuttosto che a uno come me... Peggio per te, legato! Se questa era una gara, allora Marco Didio Falco era deciso a vincerla. Non che sapessi come. Ma dei semplici dettagli tecnici possono essere risolti in qualunque momento. Tutto ciò di cui un eroe ha bisogno è la grinta. Soddisfatto dei progressi della giornata, mi gustai la consumazione. La serata era tranquilla. L'atmosfera lungo la riva del fiume era piacevole e ordinata. Ora pensavo alle donne: serve, mogli di ufficiali, amanti... e infine a una che aumentava il mio piacere immaginifico ogni qualvolta le rivolgevo i miei pensieri: Elena.
Questo mi portò di nuovo a chiedermi dove fosse. Sconfortato, mi diressi al buio verso casa. Dalla nostra parte del fiume, i bottegai provinciali si affrettavano a chiudere, il che mi ricordò che forse tra quattro o cinque ore avrei avuto sonno anch'io. Se quelli di Argentoratum erano stati lesti a chiudere i battenti, paragonati a Moguntiacum sembravano gufi degenerati. Non appena il primo uomo sbadigliava a Moguntiacum, l'intera città si precipitava a letto. Quando un romano cosmopolita incominciava ad accorgersi di avere fame e voglia di un po' di svago serale, le taverne locali avevano già rovesciato le panche sopra tutti i tavoli e le scope spazzavano via i ritardatari. Chiunque se ne fosse andato troppo lentamente avrebbe rischiato di ritrovarsi con la tunica presa nelle porte pieghevoli che si chiudevano di botto. Mi avviai furtivamente per le strade sobrie sperando che nessuno mi notasse mentre andavo a zonzo. Non volevo sconvolgere nessuno. Al forte inciampai in un ostacolo. «Parola d'ordine?» «Come faccio a saperla? Sono solo un visitatore.» In Germania, un anno dopo la rivolta, le regole erano regole. Era una prassi ragionevole, e una vera e propria minaccia per tipi liberi e informali come me. Per fortuna la sentinella apparteneva alla Prima legione e cercava di aiutarmi. Se fosse appartenuta alla Quattordicesima sarei stato costretto a passare tutta la notte accampato all'esterno. Mi ricordai della mia conversazione con Giustino. «"Marte Ultore"?» «Provane un'altra.» «"Pesce in salamoia"?» «È quella di ieri.» «Oh, per Ade... che ne dici di "Il secondo nome dell'ufficiale medico"?» «Esatto» disse la sentinella, senza però togliere la punta della lancia dal pericoloso punto di mira, proprio al centro della mia gola. «Allora qual è il problema, soldato?» chiesi stancamente con voce roca. «Qual è?» «Qual è cosa? «Qual è» pronunciò lui distintamente «il secondo nome dell'ufficiale medico?» La Quattordicesima aveva ragione: quelli della Prima adiutrix erano un branco di marinai ignoranti e di scimmie in ghingheri con il cervello spugnoso come sughero.
Finalmente riuscii a passare. Chiunque sia entrato con l'inganno in un bordello sulla via Trionfale nel tentativo di salvare una finta vergine della Cirenaica e ne sia uscito di nuovo senza perdere il senso dell'umorismo o qualcosa di peggio è in grado di trattare con il guardiano sempliciotto di un forte di frontiera. In collera, ma sforzandomi di contenerla per evitare che qualcuno mi intralciasse chiedendomi che cosa avessi, mi affrettai verso il mio alloggio. Era assai probabile che se non mi fossi presentato per l'ora di cena, Camillo Giustino sarebbe uscito a mangiare con i suoi colleghi ufficiali, lasciandomi a cavarmela di buon grado con i panini del giorno prima. Allungai il passo, dimentico di tutto salvo del mio tradizionale obbligo di ospite di mangiare al mio anfitrione la casa e la camicia. L'imboscata mi aspettava a quattro passi dalla soglia del tribuno. XXVII Erano in tre. Un terzetto di soldati che gironzolavano per la via Principalis tra i fumi dolciastri della birra d'orzo appena bevuta, sotto l'effetto dell'alcol abbastanza da diventare pericolosi, ma non così ubriachi da riuscire a occuparmene da solo. In un primo momento pensai che fossero solo maldestri. Barcollando, erano finiti sulla mia strada, costringendomi a fermarmi di colpo, come ragazzi che erano solo troppo sgarbati per accorgersi della mia presenza. Poi si separarono incespicando e si raggrupparono di nuovo intorno a me: uno a destra, uno a sinistra e uno dietro. L'esperienza mi fornì un istante di preavviso che mi salvò la vita. Non vidi il pugnale, ma notai il movimento del braccio. Mi scansai bruscamente, scaraventando di lato un altro aggressore, ma afferrandolo come un sostegno. Per un attimo questi mi fornì uno scudo umano mentre giravo su me stesso. I suoi peli ispidi mi grattarono la faccia. Il suo alito pesante era disgustoso. L'istante di sicurezza passò: avrebbe costituito una minaccia peggiore se mi avesse aggredito così da vicino. Mollare la presa sarebbe stato fatale, ma continuare a tenerla era così insopportabile che fui sul punto di optare per un viaggio di sola andata attraverso lo Stige. Lui si liberò con uno strattone. In un modo o nell'altro intuii quello che aveva in mente e presi al volo l'occasione per arretrare di mezzo passo. Dietro di me, abbastanza vicino, c'era il muro di una casa che offriva un
po' di protezione. L'istinto mi diceva di addossarmici, ma a quel punto sarei stato perduto se si fossero avventati tutti insieme contro di me. Riuscii a gridare, ma non abbastanza forte. Dopo di che fui troppo indaffarato. C'erano parecchi militari nelle vicinanze, ma quell'incidente era perfettamente studiato per non sembrare niente di particolare. Chi si aspetta di assistere a un'aggressione subito fuori dagli alloggi degli ufficiali? E poi, chi si aspetta di essere aggredito? Io, era la risposta. Ovunque e in ogni luogo mi preparavo al peggio. Grazie agli dèi, quei delinquenti avevano dato per scontato che stessi tornando a casa fischiettando sovrappensiero. Avevano progettato di cogliermi completamente alla sprovvista, ma erano stati loro a rimanere sorpresi. Rapidamente, cercai di fare il punto della situazione. Un'ampia striscia di luce proveniva da una finestra aperta al primo piano della casa del tribuno. Proprio all'inizio, l'ombra di qualcuno che si muoveva nella stanza si era mossa attraversando quella luce. Alzai gli occhi, sperando di attirare l'attenzione, ma ormai non c'era alcun segno di vita. Tenevo il mio pugnale saldamente in mano. Lasciarmelo prendere era stato un grave errore. Avevo il fiato grosso per il trauma del primo assalto, ma ero in piedi e mobile. Nondimeno, le prospettive apparivano fosche. Ogni volta che facevo una finta cercavo di avvicinarmi al portico del tribuno, ma le possibilità di raggiungerlo erano scarse. Ogni volta che uno di loro faceva una finta, nel parare mi esponevo a un rischio maggiore da parte degli altri. Per fortuna si limitavano ai pugnali; le spade sguainate avrebbero suscitato troppo interesse pubblico. Mentre ci spostavamo di lato in ogni direzione, loro continuavano a ridere e a scambiarsi gomitate così che sembrasse solo un'allegra competizione. Non avevo tempo di chiamare aiuto. Ero riuscito ad avvicinarmi di un passo alla porta, ma mi stavo intrappolando in uno spazio più angusto fra due di loro e il muro, mentre il terzo soldato mi impediva la fuga dall'altra parte. Era il momento di tentare un discorsetto rapido, ma avevo la bocca così secca che non riuscivo a spiccicare parola. Quasi senza pensarci, feci un affondo verso l'uomo solo, poi cambiai direzione e affrontai con ferocia gli altri due. Le lame cozzarono con uno stridore che mi si ripercosse sui denti. Volarono scintille. Ero talmente impegnato che quasi non mi accorsi che una voce di donna urlò nelle remote profondità della casa del tribuno. Sollevai un braccio verso l'alto e sentii l'acciaio che scivolava sul muro alle mie spalle. La luce da sopra si fece
più intensa. Intravidi più chiaramente delle facce. Comparve un'altra ombra e poi sparì, ma ero troppo assorto per gridare. Il mio pugnale arrivò a segno da qualche parte, ma in modo maldestro. Diedi uno strappo con la spalla per recuperarlo mentre uno dei due uomini imprecava saltellando sul posto. Gli eventi prendevano una piega evidente; il secondo aggressore era propenso a svignarsela. Il terzo aveva più coraggio, o meno cervello. Si gettò su di me. Io ruggii, infastidito. Poi, proprio mentre avevo abbastanza da fare ad affrontarli tutti e tre insieme, l'uscio del tribuno si aprì di colpo. Qualcuno uscì, stagliandosi nero contro la luce alle sue spalle. La corporatura sbagliata per essere Giustino; troppo esile per essere una delle sue guardia. Chiunque fosse, scivolò silenzioso come un'ombra sinistra fuori dalla porta. Impegnato a difendermi dai miei aggressori che tentavano un ultimo attacco furibondo, non ero in grado di capire che cosa stesse succedendo. L'ombra mi passò accanto, affrontò uno dei soldati e gli tirò indietro la testa con un gesto preoccupante. Il soldato si piegò su se stesso senza emettere un suono e crollò al suolo in un modo inequivocabile. Ci fu un istante di calma. I due superstiti se la diedero a gambe con la velocità dei soldati che sanno a che cosa hanno appena assistito. Lo sapevo anch'io, anche se era difficile da comprendere. Non c'era tempo per inseguirli. Ero troppo sfiatato, in ogni caso. A quel punto le guardie del tribuno si precipitarono fuori con le torce, seguite da Giustino. La situazione si fece caotica e confusa, poi si tranquillizzò in un silenzio greve quando la luce rivelò l'uomo morto. Era un'uccisione raccapricciante. La quantità di sangue era incredibile. La testa del soldato era stata quasi troncata dal corpo da una lama più affilata perfino dell'acciaio militare. Mi voltai verso l'uomo che l'aveva fatto. Lui se ne stava immobile, l'arma ancora stretta in pugno come un oggetto quotidiano. Una delle guardie del tribuno fece un debole tentativo di togliergliela, senza ottenere molto: non ne ebbe il coraggio. Un'altra sollevò lentamente la torcia, quasi nel timore di scoprire qualcosa di soprannaturale. Niente di simile. Tutto ciò che vedemmo furono gli occhi velati e folli di un viaggiatore rimasto sbigottito dalla propria abilità e dall'ingegno dimostrato nella sua ultima avventura. «Xanto!» Oh, povero me. Ora qualcuno avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda difficile prima che allo sciagurato giramondo fosse restituito il la-
sciapassare e gli fosse permesso tornare a casa. XXVIII Lui mi percepiva ancora come il suo protettore e si rivolse a me con un gemito preoccupato. Gli lasciai il rasoio; sembrava sapere come maneggiarlo. «Non ti chiedo quante volte l'hai già fatto prima!» «No, meglio di no.» Sembrava parlare in tono pratico, ma si capiva che era sconvolto. «Ho sempre pensato che fossi stato mandato per assassinarmi. Va a finire che il rischio maggiore lo corro per il mio passato...» «Credo di voler tornare a casa, Falco.» «È tutto a posto.» «No, vorrei tanto essere a Roma.» Giustino stava prendendo in mano la situazione. Aveva esaminato i simboli identificativi incisi sul fodero della spada dell'uomo. «Uno dei teppisti della Quattordicesima...» Ordinò a una delle guardie di andare a chiamare il loro tribuno anziano. «Sii prudente. Cerca di far venire Aulo Macrino da solo. Non voglio che tutta la loro dannata legione si presenti qui piena di sdegno.» Poi venne ad aiutarmi con il barbiere. «Non preoccuparti, Xanto. Dovrai essere interrogato dal mio comandante, ma la cosa dovrebbe finire lì.» «Sembri fiducioso!» mormorai sottovoce. «Ti esalta l'idea di spiegare ai tuoi colleghi notoriamente permalosi come sia stato ammazzato uno dei loro nella parte del forte della Prima legione?» «Troverò qualcosa da raccontargli.» Reagiva bene al momento di crisi. I suoi occhi brillavano di intensa eccitazione, ma programmava le cose con freddezza. Il suo autocontrollo tranquillizzò anche gli altri lì intorno. «Marco, preparati. Alcune cose sono peggiori di quanto pensi!» Dopo avermi stuzzicato con questo mistero, la sua voce si fece gentile. «Togliamo di qui quel poveretto...» Xanto aveva incominciato a tremare lievemente. Se ne stava lì paralizzato dalla vista del cadavere, e cercare di spingerlo in casa avrebbe richiesto molto tatto. In realtà tutti quanti trovavamo difficile distogliere lo sguardo dalla scena. Mentre eravamo ancora in strada, la guardia tornò con Macrino. Perfino il suo sogghigno aristocratico impallidì leggermente quando indietreggiammo, lasciandogli vedere perché era stato convocato.
«È uno dei nostri? Per gli dèi, Camillo!» «Aulo, lascia che ti spieghi...» «È meglio che tu sia convincente!» «Niente minacce!» sbottò Giustino con impeto sorprendente. «I fatti sono inequivocabili. Ho un testimone attendibile. Tre dei tuoi soldati hanno aggredito Falco...» «Un gioco tra ubriachi.» «No! È stata un'aggressione gratuita e premeditata. Ciondolavano fuori da casa mia da mezz'ora... il mio testimone li ha notati. Era molto più che un gioco, Aulo! La serata poteva finire male.» «Direi che così è stato!» «L'alternativa era che il mio ospite fosse pugnalato a morte.» Davanti a ciò, l'uomo della Quattordicesima si trattenne. «Se quello che dici è vero, i colpevoli saranno trovati e puniti. Ma protesto per la segretezza con cui si è gestita la faccenda. Non mi importa del modo in cui mi hai fatto venire qui da solo. Voglio che siano presenti i miei osservatori, voglio che uno dei miei centurioni prenda nota sulla scena del delitto...» Mentre si lanciava in proteste, lo interruppi: «Niente verrà messo a tacere. Ma nessuno vuole un altro tumulto come la gazzarra pubblica della vostra legione ad Augusta Taurinorum!». Macrino mi ignorò. «Chi è stato?» «Il barbiere.» Questo lo rimise al suo posto. Capimmo che si ricordava di come Xanto fosse stato definito il sicario dell'imperatore. Fissammo tutti Xanto. Come sicario aveva un'aria piuttosto mansueta. «Alcuni di noi saranno un po' inquieti la prossima volta che avranno bisogno di una rasatura» commentai. Un bello spruzzo di sangue del soldato morto macchiava il lindo lino bianco della tunica del barbiere. Come al solito, era abbigliato in modo così elegante che lontano dalla corte la sua presenza sfolgorante diventava imbarazzante. Le macchie erano doppiamente sconcertanti, come se si fosse distratto durante una normale rasatura. «Nel mio lavoro» rispose lui con calma «è abbastanza facile che un uomo diventi oggetto di soprusi. Ho dovuto imparare a difendermi.» «Questo non giustifica l'assassinio di un soldato!» sbraitò Macrino. Non aveva alcuna finezza. «Il soldato» feci notare in modo logico «non aveva nessuna giustificazione per cercare di assassinare me!» A questo elegante rimbrotto lui si degnò di calmarsi. Era chiaro che Giu-
stino intendeva assumere il comando di qualunque inchiesta si fosse resa necessaria, il che era suo diritto, dal momento che i fatti si erano svolti all'interno della giurisdizione della Prima legione. Scontroso, Macrino si accontentò di un'ultima frecciata: «Hai accennato a un testimone. Spero sia qualcuno di cui ci si possa fidare!». «Assolutamente!» replicò Giustino, dando la leggera impressione di digrignare i denti. «Ritengo di dovere insistere per sapere chi è.» Macrino aveva avvertito la beffa, ma era troppo ottuso per battere in ritirata. «Mia sorella» gli disse placido Giustino. Sobbalzai. Aveva avuto ragione prima quando mi aveva punzecchiato. Non c'era dubbio che le cose fossero peggiori di quanto avessi previsto: Elena Giustina era qui. Alzammo gli occhi verso la finestra sopra di noi. Lei era ancora lì, così come doveva esserci stata durante parte del mio combattimento. Il suo viso era nascosto nel buio. La sua figura inconfondibile, il profilo dei capelli raccolti in modo disinvolto e perfino gli eleganti pendenti dei suoi orecchini proiettavano una lunga ombra perfetta che raggiungeva il cadavere, nascondendone in una decorosa semioscurità l'orrenda ferita. Il tribuno Macrino si mise sull'attenti, si tirò indietro i riccioli crespi e si esibì in un saluto adeguatamente enfatico per un tribuno con un'alta opinione di sé che renda omaggio all'unica figlia nubile di un senatore in circolazione da questa parte delle Alpi. Io indossavo gli stivali sbagliati per battere i tacchi. Le feci un cenno con la mano, sorrisi a suo fratello ed entrai a grandi passi in casa. XXIX «Di nuovo ad azzuffarti, Falco?» Un lenitivo da parte sua. Indossava un abito di lana con le maniche lunghe, con orecchini di giaietto piuttosto solenni. I soffici capelli scuri erano raccolti con pettini su entrambi i lati del capo, forse con maggior cura del solito, e sentii il suo profumo a due passi di distanza. Ma dopo avere viaggiato, o forse dopo aver assistito alla mia aggressione, sembrava pallida e tesa. Non ero in vena di scherzare. «Mi pare di capire che ti sei divertita guardandomi soffrire?» «Ti ho mandato i soccorsi.»
«Hai mandato un barbiere!» «Sembra competente.» «Non potevi saperlo... probabilmente non lo sapeva nemmeno lui.» «Non stare a sottilizzare. È stata la prima persona che ho trovato... Ci hai fatto aspettare per cena!» si lamentò, come se questo chiudesse il discorso. Voltai indietro la testa e osservai rivolto agli dèi: «Bene, sembra che sia di nuovo tutto normale!». Facevamo sempre scintille in questo modo dopo essere stati separati per qualche tempo. Soprattutto quando ci incontravamo di nuovo di fronte a estranei che ci osservavano. Per me, questo rinviava il momento in cui dovevo ammettere di avere sentito la sua mancanza. Per Elena, chissà? Almeno nel momento in cui mi aveva parlato, nei suoi occhi c'era un luccichio che non mi dispiaceva affatto trovarvi. Suo fratello aveva portato in casa Xanto e ci stava guidando tutti verso la sala di ricevimento. Aveva evitato di suggerire al suo collega tribuno di entrare per essere presentato alla nobile nuova arrivata, così ci venne risparmiato l'orrore di vedere Macrino pavoneggiarsi. Xanto fu trattenuto con noi per essere applaudito e coccolato dopo la sua difficile esperienza. Ci trovammo in sala da pranzo. C'era una cena pronta, che era stata chiaramente preparata da un po' di tempo. A quel punto mi sentivo disposto alle formalità. Mi sarei fatto avanti per baciare Elena sulla guancia, ma lei si lasciò cadere decisa sul letto del fratello. Era irraggiungibile, a meno che non volessi offendere Giustino invadendo il posto del padrone di casa. Mi seccava. Trascurare di salutarla dava l'impressione che non mi importasse. Chiesi scusa e mi allontanai per andare a ripulirmi: un po' di sangue, ma soprattutto sporcizia. Quando tornai mi ero perso l'antipasto (la mia portata preferita) ed Elena stava rallegrando la compagnia con i suoi scandalosi racconti di viaggio. Mangiai in silenzio, cercando di non ascoltare. Quando arrivò alla parte della ruota che si era staccata dal carro e del capo dei banditi della montagna che l'aveva rapita per ottenere un riscatto, sbadigliai e me ne andai in camera mia. Ne uscii di nuovo circa un'ora più tardi. La casa era immersa nel silenzio. La esplorai fin nelle viscere finché non trovai Xanto, coricato sul letto a scrivere il diario. Avendo viaggiato con lui, sapevo che teneva un diario di viaggio assai noioso. «Almeno "il giorno in cui ho ucciso il soldato" dovrebbe tenere avvinti i tuoi nipoti! Ed ecco un'altra emozione: questa sarà la notte in cui mi rade-
rai come si deve.» «Esci?» «No. Sto in casa.» Si era accucciato per tirare fuori i suoi attrezzi, anche se non pareva impressionato dall'abbondanza che gli stavo offrendo. Il vino a cena l'aveva calmato al punto della più totale insulsaggine. «L'alito della morte ti ha fatto forse giurare di offrire la tua barba agli dèi in una pisside di alabastro, Falco? Non sono sicuro che facciano vasi abbastanza grossi!» Lasciai che mi facesse sedere e mi avvolgesse in un raffinato scialle di lino, ma ignorai la facezia. «Il signore che cosa preferisce... linimento depilatorio? Uso un eccellente impasto di vite. Non consiglio mai ai miei clienti di provare intrugli strani come il sangue di pipistrello.» Si stava divertendo più di quanto fossi disposto a sopportare. «Basterà un rasoio.» La superstizione mi fece sperare che avrebbe usato una lama diversa da quella utilizzata prima. «Sicuro? Posso levigarti con la pomice o strapparti i peli con le pinzette altrettanto facilmente. Parola mia, ti sei trascurato. Forse è meglio provare a bruciare via quella roba con il bitume!» Credo che l'ultima fosse una battuta. «Qualunque cosa dia il risultato più liscio. E voglio anche un taglio di capelli... ma lasciami qualche ricciolo. Taglia via solo l'ammasso peggiore...» Xanto mi mise in mano uno specchio di rame cesellato, come uno che voglia tranquillizzare un bambino con un sonaglio. Continuai a descrivergli quello che volevo, sebbene sapessi che i barbieri non ascoltano mai. Un investigatore privato è sempre provvisto di certa cocciutaggine. «Per Giove, Falco! Su chi stai cercando di fare colpo?» «Fatti gli affari tuoi.» «Oh!» Xanto sputò sulla cote. «Oh, capisco!» Perfino lui era arrivato a capirlo alla fine. Il suo abituale desiderio di compiacere si trasformò nella scurrilità che quell'argomento suscitava sempre: «Sarai servito di barba e capelli!». Elena Giustina faceva spesso la stessa battuta, ricordai con pessimismo. «Per questo ci vuole il mio acciaio norico...» Volevo il meglio, così evitai di sottilizzare. Ma ero abbastanza certo che l'acciaio norico era lo stesso che aveva usato per tagliare la gola al mio aggressore. A suo merito, devo dire che sfruttò al meglio il materiale poco promettente che gli misi a disposizione. Non ero mai stato sbarbato così bene con
così poco fastidio, e anche il taglio di capelli era abbastanza consono allo stile di sobrio disordine con il quale mi sentivo maggiormente a mio agio. Dopo anni passati a valutare premurosamente i desideri degli imperatori, Xanto era in grado di giudicare il suo cliente con l'abilità che ci si aspetta da un barbiere che potrebbe finire dallo strangolatore pubblico qualora tagliasse il ricciolo sbagliato. Alla luce dei fatti, si sarebbe potuto risparmiare il disturbo. Tuttavia, penso che non fosse la prima volta che passava ore a preparare qualcuno per un compito che si sarebbe rivelato un fiasco. Con il mento irritato e in un tanfo di unguenti sconcertante, entrai in silenzio in quella che sapevo essere la migliore stanza degli ospiti. Continuavo a dirmi che tutto sarebbe andato bene una volta che avessi messo Elena alle strette da sola e le avessi riservato le mie attenzioni adoranti. Non vedevo l'ora di incontrarla. Avevo un bisogno piuttosto pressante di ristabilire delle normali relazioni. La solita iella. C'era una sottile candela accesa, ma la grande stanza era quasi buia. Rimasi fermo un istante, per abituarmi alla semioscurità e prepararmi dolci argomenti di conversazione se avessi trovato la mia amata sdraiata su un materasso di piume intenta a leggere una o due frivole odi mentre mi aspettava impaziente... Inutile: Elena non c'era. L'alto letto con la sua intelaiatura di tartaruga, il copriletto con le frange e il poggiapiedi intagliato in modo affascinante erano vuoti. In compenso, una piccola figura raggomitolata russava su un divano più basso: probabilmente una schiava che Elena aveva portato con sé perché l'accudisse. Ero sistemato! Nessuna speranza di un convegno appassionato, con una servetta che stava a guardare! Ricordavo i tempi in cui non permetteva mai che una schiava rimanesse in camera sua durante la notte se io ero nei paraggi. Indietreggiai e chiusi la porta, in preda alle mie emozioni represse. Sapeva per certo che sarei venuto. Si era tenuta alla larga di proposito. Chiacchierando con Giustino. Spaventando quel ragazzo ingenuo con i suoi racconti di ruote rotte e di briganti. Discutendo di vicende familiari. Mettendo in ordine la sua carriera. Qualunque cosa le evitasse di affrontarmi, furioso per il modo in cui era scomparsa da Roma, ma torturato dal desiderio di andare a letto con lei. Decisi di portare fuori la mia persona ignobilmente sbarbata e ubriacarmi il più possibile. L'indignazione mi spinse fino alla porta d'ingresso. A quel punto mi ri-
cordai che Moguntiacum aveva meschine abitudini provinciali. Non c'era un posto aperto dove spassarsela, a parte i soliti luoghi troppo sordidi per essere presi in considerazione. Inoltre, la prospettiva di cercare di lavorare l'indomani con la testa come un sacco di farina d'avena, risultato di una notte passata a spettegolare con qualche prostituta in una taverna dopo aver sperato di trascorrerla con Elena divenne insopportabile. Mi sedetti un momento nel giardino del tribuno, sentendomi avvilito, ma Giustino non era un appassionato di giardinaggio ed era un luogo ben misero in cui stare imbronciato. Il suo cane mi trovò e si arrampicò sul sedile al mio fianco per masticarmi l'orlo della tunica, ma persino la panchina era coperta di muschio umido e quasi subito balzò giù e sparì fiutando nel buio. Sgattaiolai anch'io verso la mia camera. Davo le spalle alla porta. Mi ero appena tolto la tunica (una pulita, troppo bella per dormirci) quando qualcuno entrò. «La più bella vista di un fauno nudo di spalle che abbia mai avuto il privilegio di adocchiare!» Elena. Essendo già stato aggredito una volta quel giorno, mi girai di scatto. Gli occhi ardenti e ammirati di Elena sorridevano mentre abbassavo un lembo di tunica in un sussulto di decenza. Il suo sorriso aveva sempre un effetto irresistibile su di me. «Questa è una stanza privata, signora.» «Bene!» disse lei. Mi sentii avvampare in viso, ma ostentai un'espressione altezzosa. Servì solo a incoraggiarla. «Ciao, Marco.» Non dissi una parola. «Credevo che volessi vedermi...» «Che cosa te lo fa pensare?» «Un intenso profumo di lozione nella mia stanza.» Fece il gesto di annusare. Maledissi Xanto. Mi aveva impomatato al punto che un segugio avrebbe potuto seguire le mie tracce dallo stretto Gallico fino alla Cappadocia. Elena inclinò la testa di lato, osservandomi. Stava appoggiata alla porta dietro di sé, come per impedirmi di fuggire. La mia mascella si indurì. «Come sta Tito?» «Come faccio a saperlo?» «Allora che cosa porta una giovane signora elegante in questa landa desolata?» «Qualcuno che sto inseguendo.» Elena aveva la capacità di far sembrare
la sua azione più illogica una risposta razionale a qualche assurda negligenza da parte mia. «Sei stata tu a lasciarmi!» l'accusai in tono sommesso. «E com'era Veii?» La sua voce ben educata aveva una nota sarcastica che mi seccò la bocca come la buccia dell'uva. «Veii è un porcile.» Tutt'a un tratto, senza un motivo apparente, mi sentii esausto. «Le vedove sono affascinanti?» Come prevedevo, sembrava una conversazione bellicosa. Adesso capivo perché mi sentivo sconfitto. «Alcune di loro pensano di esserlo.» «Ho parlato con una» disse Elena in tono deciso. «Ha insinuato che il tuo viaggio a Veii è stato un tremendo successo.» «La vedova è una bugiarda.» Elena mi guardò. Lei e io eravamo amici per un buon motivo: ci conoscevamo abbastanza bene da poter attaccare briga clamorosamente, ma sapevamo entrambi come chiedere una tregua. «È quello che mi dico anch'io» replicò lei con calma. «Ma perché, Marco?» «Era gelosa perché l'ho respinta e sono tornato a casa da te. E tu che cosa ci facevi a Veii?» «Ti stavo cercando.» In qualche modo il dissidio fra di noi si spense. «Ora mi hai trovato» dissi. Elena Giustina attraversò la stanza. Sembrava piena di propositi per i quali non ero del tutto pronto, anche se lo sarei stato. «Che cosa hai in mente, signora?» «Niente che non ti piaccia...» Mi strappò di mano la tunica. Per orgoglio, cercai di dissuaderla fingendo: «Ti avverto, detesto le donne sfacciate». «Sbagliato. Ti piacciono le ragazze che sanno esattamente quello a cui stai pensando e non se ne preoccupano...» Nonostante ciò, ebbe un attimo di incertezza. Fece un passo indietro. Feci un passo verso di lei. Sentii il suo calore fisico ancora prima che le sue braccia nude venissero in contatto con le mie. Doveva aver cambiato il vestito di lana che avevo visto prima con uno più leggero. Se avessi slacciato due fermagli, il delicato tessuto sarebbe scivolato a terra, lasciandola completamente a mia disposizione. Sembravano fermagli con ganci facili da aprire. Le misi le ma-
ni sulle spalle, come se fossi indeciso se tenerla a distanza o farla avvicinare. I miei pollici trovarono automaticamente i ganci. Elena fece per allontanarsi da me. Questo ci portò agevolmente verso il letto. «Non avere l'aria così nervosa, signora!» «Non mi spavento tanto facilmente.» «Dovresti...» «Oh, smettila di fingerti un duro!» Elena sapeva quasi tutto di me, e quello che non sapeva lo intuiva. «Non sei un bullo, sai come essere tenero...» Mi sentivo sicuramente tenero. Così tenero che non riuscivo a pensare a nient'altro. Atterrammo sul letto. Lasciai che prendesse lei l'iniziativa. Le piaceva sempre sistemare le cose. Quella notte mi andava bene tutto ciò che andava bene a lei. La giornata aveva portato abbastanza problemi. Adesso avevo Elena Giustina fra le braccia, dell'umore più condiscendente. Avevo tutto ciò che volevo, ed ero pronto a tutto. Lei si stava mettendo comoda, sistemando le lenzuola, togliendosi gli orecchini, sciogliendosi i capelli, spegnendo il lume... «Rilassati, Marco!» Mi rilassai. Mi rilassai completamente. Tutte le ansie della mia mente frenetica si placarono. Attirai Elena più vicina e sospirai intensamente mentre le mie mani percorrevano lentamente le forme familiari, riabituandosi ai loro segreti. La tenni stretta e chiusi gli occhi, grato. Poi feci la sola cosa che ci si potrebbe aspettare da un uomo in quelle circostanze. Mi addormentai. XXX Era trascorsa gran parte della notte. Mi svegliai sudato, rendendomi conto di ciò che dovevo aver fatto. «Un bel sonnellino?» Era ancora lì, comunque. «Mi hai detto di rilassarmi... Adesso sono sveglio» dissi, cercando di suonare eloquente. Elena si limitò a ridere di me, rannicchiandosi contro la mia spalla. «A volte quando cerco di fare amicizia con te, mi sento come Sisifo che spinge il suo masso su per la montagna.» Risi a mia volta. «Proprio quando ha spinto quell'affare più avanti del solito, gli viene un tremendo prurito alla spalla ed è costretto a grattarsi... lo so.» «Non tu» dissentì lei. «Tu troveresti un modo ingegnoso di infilare un
cuneo sotto il masso.» Amavo quella sua singolare fiducia in me. Mi girai all'improvviso dalla sua parte, afferrandola in una stretta prepotente. Poi, quando lei si irrigidì, aspettandosi qualcosa di impetuoso, la baciai così dolcemente che ne fu sopraffatta. «Dolcezza, tu sei la sola persona che non dovrà mai preoccuparsi di fare amicizia con me.» La guardai negli occhi sorridendo. Lei li chiuse. A volte detestava che vedessi la profondità dei suoi sentimenti. La baciai di nuovo, impegnandomi a fondo. Quando mi guardò di nuovo i suoi occhi erano di un marrone intenso e pieni d'amore. «Perché stasera sei scappato da tavola, Marco?» «Odio le storie in cui pericolosi banditi prendono in ostaggio le donne che mi stanno a cuore.» «Ah, il bandito era un tesoro!» mi stuzzicò teneramente. «Scommetto che l'hai rivoltato a tuo piacere.» «Ho una certa pratica di individui irascibili che credono di sapere tutto sulle donne!» disse canzonandomi, ma si stava stiracchiando sotto il mio peso in modo così invitante che facevo fatica a concentrarmi. Elena si fermò. «Mi vuoi bene?» «Certo.» «Ti sono mancata?» «Sì, tesoro...» Mentre mi accingevo al piacevole compito di dimostrarle quanto, lei mormorò con riluttanza: «Incomincia ad albeggiare, Marco. Dovrei andare». «Non credo di potertelo permettere...» Per un momento ebbi ancora l'impressione che fosse infelice. Insistetti, lasciandole capire che la decisione spettava tutta a lei se voleva che ci fermassimo. Poi lei si scordò le convenienze richieste dal fatto di vivere in casa del fratello e fu nuovamente tutta mia. XXXI La luce si era fatta strada attraverso una robusta imposta nordeuropea per raggiungere il mio letto che era in stato di confortevole scompiglio. Non eravamo rimasti addormentati a lungo questa volta, poiché eravamo ancora avvinghiati in un modo che rendeva abbastanza difficile dormire. «Grazie, signora. Ne avevo bisogno.»
«Anch'io.» Per essere una ragazza composta, sapeva essere molto schietta. Essendo cresciuto fra donne la cui sfrontatezza si accompagnava di rado alla sincerità a letto, la cosa mi lasciava sempre sorpreso. La baciai. «Che cosa pensi che dovrei dire a tuo fratello?» «Niente. Perché dovresti?» Questo era più in linea con ciò che mi aspettavo da una ragazza: di nessunissimo aiuto. Lei sorrise. «Ti amo, Marco.» «Grazie, ma mi perdonerai per non avere festeggiato il tuo compleanno?» Ormai quell'argomento non sembrava più rischioso. Eccellente tempismo, Falco: avrebbe voluto bisticciare, ma il suo senso di giustizia ebbe la meglio. «Non sapevi che era il mio compleanno.» Esitò. «Non è vero?» «No! Dovresti saperlo...» Mi allungai sopra di lei, poi, dopo un lieve indugio causato dalla sua dolcezza e dalla sua vicinanza, tirai fuori la collana di ambra. L'avevo acquistata sulla nave per il trasporto del vino da Dubno l'ambulante. Questo mi fece venire in mente che dovevo fare qualcosa a proposito di Dubno. Perché i pensieri di vitale importanza s'intromettono sempre in momenti così inopportuni? Mi ero felicemente dimenticato di quello sciacallo di un ubio, per non parlare del mio piano di servirmi di lui nella mia ricerca di Velleda. Con Elena Giustina lì fra le mie braccia, addentrarmi nella foresta primitiva era una prospettiva che ormai trovavo insopportabile. Lasciai che Elena esaminasse il luccicante groviglio di perline, poi glielo allacciai intorno al collo. «Ti sta bene, soprattutto senza nient'altro addosso.» «Dovrebbe fare colpo la prossima volta che sarò invitata a un banchetto! È deliziosa...» La vista di Elena senza nient'altro addosso che il suo dono di compleanno mi incoraggiò a proseguire nella riconciliazione, soprattutto perché ero riuscito a mantenere saldo il nostro contatto fisico anche mentre mi sporgevo di lato verso il tavolino da notte. «Marco, dovresti essere sfinito...» «Ho avuto una buona notte di riposo.» «Avevi paura di aver dimenticato come si fa?» mi prese in giro maliziosamente, ma senza disdegnare le mie attenzioni. Elena sapeva come mostrarsi riconoscente dopo aver ricevuto una collana di ottima scelta e dal costo spaventoso. «O avevi semplicemente dimenticato com'è bello?» «Dimenticato? Tesoro, quando mi lasci a struggermi, il guaio è che ricordo tutto fin troppo bene.»
Per qualche ragione quella rassicurazione virile funzionò così bene su di lei, che Elena rispose con quello che avrebbe potuto essere un singhiozzo, sebbene fosse ben soffocato. «Oh, stringimi... toccami...» «Dove?» «Lì... ovunque... dappertutto.» In un punto della casa lì vicino qualcosa cascò con uno schianto assordante. Qualcosa di grosso. Una statua di dimensioni da museo, o un vaso enorme. Nessuno strillò. Ma dopo un secondo sentimmo correre dei piccoli piedi disperati. «È un bambino!» Ero sorpreso. «Oh, Giunone, mi ero dimenticata...» Elena raggiunse la porta per prima. Una bambina stava fuggendo via per il lungo corridoio, lasciandosi alle spalle cocci enormi. Purtroppo per lei, era fuggita nella nostra direzione. Quello che aveva rovesciato era un sensazionale recipiente a due manici che cercava di passare per un cratere da vino ellenico del periodo di mezzo ornato di figure nere. C'era quasi riuscito, ma io ero stato istruito da esperti e sapevo riconoscere un falso, anche quando era il genere di falso di alta qualità che ha una lavorazione migliore dell'originale (e costa di più). Era stato in mostra sul piedistallo dove avevo scritto nella polvere "Falco è stato qui" per indispettire i servitori del tribuno. Il cratere era abbastanza grande perché un funzionario del Tesoro vi seppellisse i propri risparmi ed era probabilmente l'oggetto più costoso che Camillo Giustino possedesse. Il primo pezzo da collezione della sua vita, forse. «Basta! Fermati immediatamente!» Elena Giustina era capace di farmi arrestare di colpo quando voleva. Non ebbe alcuna difficoltà con una bambina di otto anni. Fu la colpevole, tuttavia, a domandare: «Che cosa ci fai qui?». Quella spavalderia insolente mi suonava familiare. «Scappa da te!» ringhiai, perché quella doveva essere la creatura importuna che prima avevo notato mentre russava nella stanza di Elena. Mi diressi verso i cocci e raccolsi un frammento curvo. Odisseo con una prominente barba a punta si divertiva a farsi indurre in tentazione da una qualche femmina; lei aveva una caviglia stuzzicante, ma il resto era andato in frantumi. In preda alla collera, mi voltai a osservare la bambina. Aveva una faccia
bruttina e un'espressione petulante, con cinque o sei treccine striminzite legate insieme sulla sommità del capo con un misero cencio. Mi lambiccai il cervello per capire il frutto di quale pancia fosse quella piccola peste e che parentela avesse con me. Perché non c'era dubbio che fosse una dei nostri. Solo gli dèi sapevano come fosse arrivata nella Germania Superiore, ma ero in grado di individuare un membro della dilagante stirpe Didia prima ancora di sentire il lamento: «Stavo solo giocando... è caduto da solo!». Arrivava all'altezza di un'anca e aveva indosso una tunica che avrebbe dovuto essere decente, anche se lei era riuscita a tirarsela su in modo da lasciare scoperto il fondoschiena. Questo risolveva il dilemma; riconoscevo la sua provenienza. Augustinilla. Un nome sofisticato per una personalità molto banale: stupida insolenza. Era la figlia più discutibile della più detestabile delle mie sorelle, Vittorina. Vittorina era la primogenita della nostra famiglia, la sventura della mia infanzia e il peggior motivo di imbarazzo per me fin da allora. Da bambina era stata una piccola monella litigiosa con il moccio al naso e il perizoma a mezz'asta intorno alle ginocchia coperte di croste. Tutte le madri del vicinato avevano ammonito i loro figli a non giocare con noi perché Vittorina era molto aggressiva. Vittorina li costringeva comunque a giocare con lei. Quando crebbe, giocò solo con i ragazzi. Ce n'erano molti. Non ho mai capito perché. Di tutti i bambini pestiferi che avrebbero potuto fare irruzione nel mio affettuoso convegno con Elena, proprio uno dei suoi doveva essere... «Lo zio Marco non ha niente addosso!» La ragione era che la tunica che Elena si era infilata frettolosamente mentre si precipitava alla porta era la mia. La bella collana di ambra le dava un'aria assai incongrua, accrescendo l'impressione che nella mia stanza fosse in corso un baccanale. Gli occhi accusatori della bambina si spostarono anche su Elena, ma lì ebbero il buon senso di evitare commenti. Probabilmente Augustinilla aveva visto da vicino come Elena Giustina aveva sistemato il selvaggio capo dei banditi. Assunsi una posa atletica: un errore. Mettere in mostra i muscoli oliati di un fisico aitante può riscuotere successo in uno stadio soleggiato a un soffio dal Mediterraneo, ma in un tenebroso corridoio domestico al centro del continente essere svestiti fa solo sentir freddo. Di cattivo umore, aspettai che Elena proferisse il tradizionale imperativo: «È tua nipote; occupatene tu».
Lo disse, e io le risposi con la tradizionale risposta sgarbata. Elena si sforzò di non mostrarsi indispettita davanti alla bambina. «Sei tu il capo della famiglia Didia, Marco!» «Puramente teorico.» Essere capo della nostra famiglia era qualcosa di così punitivo che il legittimo pretendente a quel titolo, mio padre, aveva abbandonato i suoi avi e cambiato totalmente identità per evitare quel compito ingrato. Adesso il ruolo era toccato a me. Ciò spiega perché non rivolgevo più la parola al mio padre banditore. Può spiegare perfino perché io stesso non avevo avuto alcun timore a dedicarmi a una professione che la maggior parte di Roma disprezza. Ero abituato a sentirmi lanciare imprecazioni e a essere trattato con disprezzo. La mia famiglia lo faceva da anni. E fare l'investigatore privato aveva il grande vantaggio di costringermi alla clandestinità o addirittura di portarmi lontano da casa. Forse tutte le famiglie sono uguali. Forse l'idea che la patria potestà abbia grande influenza era stata messa in giro da qualche ottimistico legislatore che di suo non aveva né sorelle né figlie. «Tu l'hai portata qui, e tu puoi avere il piacere di picchiarla» dissi freddamente a Elena. Sapevo che non avrebbe mai colpito una bambina. Tornai a grandi passi in camera mia. Mi sentivo depresso. Dato che non eravamo sposati, non c'era alcun motivo perché Elena si occupasse dei miei parenti; se lo faceva, questo lasciava presagire quel genere di seria pressione che ero arrivato a temere. Infatti, dopo poche veloci parole seguite da una risposta sorprendentemente docile da parte di Augustinilla, Elena entrò e si accinse a spiegare: «Tua sorella ha dei problemi...». «Quando mai Vittorina non ne ha avuti?» «Calma, Marco. Problemi di donne.» «Questa è una novità. Di solito i suoi problemi sono gli uomini.» Sospirai e le dissi di risparmiarmi i particolari. Vittorina era sempre stata una lagna in fatto di visceri. L'esistenza sregolata doveva avere logorato il suo organismo in modo intollerabile, soprattutto dopo il suo matrimonio con uno stupido imbianchino la cui capacità di generare figli orrendi in rapida successione offuscava quella di qualsiasi roditore di Roma. Tuttavia, la chirurgia non l'auguravo a nessuno. Tanto meno quelle operazioni dolorose e raramente utili con forcipi e dilatatori che, sapevo vagamente, venivano inflitte alle donne.
«Marco, i bambini sono stati distribuiti per dare a tua sorella la possibilità di ristabilirsi, e alla lotteria tu hai vinto Augustinilla...» Alla faccia della lotteria: un imbroglio evidente. «Nessuno sapeva dov'eri.» Questo era stato intenzionale. «E così l'hanno chiesto a te! Augustinilla è la peggiore del mazzo. Non poteva prendersela Maia?» Maia era l'unica delle mie sorelle che fosse abbastanza amabile, il che giocava a suo sfavore ogni volta che i problemi erano distribuiti dagli altri. La sua natura benevola faceva sì che venisse frequentemente sfruttata persino da me. «Maia non aveva più spazio. E perché Maia dovrebbe essere sempre quella condiscendente?» «Pare di sentir parlare lei! Ancora non capisco. Perché mai hai dovuto portare qui la marmocchia?» «Che altro potevo farne?» sbottò lei, irascibile. Avevo qualche suggerimento, ma prevalse il buonsenso. Elena si accigliò. «In effetti, non volevo ammettere con altri che ti avrei rincorso in giro per l'Europa.» Significava che si era rifiutata di dire che si precipitava al mio inseguimento dopo che avevamo litigato. Le sorrisi. «Ti amo quando sei imbarazzata!» «Oh, chiudi il becco. Mi occuperò io di Augustinilla» mi assicurò. «Tu hai già abbastanza da fare. Giustino mi ha parlato della tua missione.» Mi sedetti sul letto di malumore, imprecando. Con uno dei mocciosi maleducati di Vittorina nei paraggi, non sarei certo rimasto in giro per casa. Elena, invece, sarebbe rimasta a casa, come una rispettabile matrona romana. Perfino le burrascose fughe della mia signora sarebbero state limitate all'interno di un forte militare. Elena mi si avvicinò per scambiare la mia tunica con la sua. Mentre si sfilava la tunica dalla testa, io l'accarezzai a caso. «Parlare con te è come avere un colloquio con un centopiedi in cerca di un lavoro come massaggiatore...» La sua testa sbucò fuori. «Come va la tua missione?» domandò, investigando su di me. «Ho fatto qualche progresso.» Toccava a me ora incominciare a vestirmi e a Elena fare gli approcci, ma lei non approfittò dell'opportunità, anche se infilavo la mia tunica il più languidamente possibile. Era evidente che il mio divertimento ormai l'avevo avuto. Il moto di passione che Augustinilla aveva interrotto non si sarebbe ridestato per quel giorno. «Quanti progressi, Marco? Risolto qualcosa?» «No. Mi sono solo procurato nuovi incarichi: rintracciare un comandante
disperso di cui nessuno sapeva niente...» «Questo dovrebbe essere il luogo ideale per rintracciare sospetti... un forte, voglio dire. Hai a che fare con una comunità ristretta.» Scoppiai in una risata amara. «Oh sì! Una comunità ristretta di solo dodicimila uomini! Quel tipo ha fatto indignare tutta la sua legione, senza considerare che ha una moglie ostile, un'amante impicciona, numerosi creditori, gente della comunità locale...» «Che gente?» domandò Elena. «Sta cercando di rintracciare il ribelle al quale sto dando la caccia anch'io, tanto per cominciare.» Lei non chiese particolari su Civile: Giustino doveva averla ragguagliata la sera prima. «E pare che fosse implicato in qualche diverbio sulle forniture per l'esercito.» «Ha l'aria di qualcosa che avrebbe potuto facilmente avere brutte implicazioni per chi avesse gestito male l'affare. Quali concessioni?» s'informò curiosa. «Non sono sicuro. Be', vasellame di terracotta, per cominciare.» «Vasellame di terracotta?» «Stoviglie di terraglia rossa, credo.» «Per l'esercito? La posta in gioco è alta?» «Pensaci. In ogni legione ci sono seimila soldati semplici che hanno tutti quanti bisogno di coppe e ciotole per i cereali, oltre a pentole per cucinare e piatti da portata per ogni decuria. A questi aggiungi servizi da tavola completi per le cene formali dei centurioni e degli ufficiali, oltre a lo sanno gli dèi cosa per la regale dimora del governatore provinciale. Le legioni amano trattarsi bene. L'esercito non si accontenta di niente di meno dello sfavillio della prima qualità. Le ceramiche di Samo sono resistenti, ma si rompono se maneggiate rudemente, così le ordinazioni si susseguono di continuo.» «Le trasportano fin qui dall'Italia o dalla Gallia?» «No. Ho sentito dire che c'è una manifattura locale.» Sembrò cambiare tattica. «Hai trovato il vassoio per tua madre?» «Era un vassoio che voleva?» chiesi come se cascassi dalle nuvole. «Non l'hai comprato!» «Indovinato.» «Scommetto che non l'hai nemmeno cercato!» «Sì che l'ho cercato. Costava troppo. Mamma non avrebbe mai voluto che spendessi tanto.» «Marco, sei terribile! Se c'è una manifattura locale» decise Elena «farai
meglio a portarmici in modo che possa acquistargliene uno. E mentre io scelgo il tuo regalo, tu puoi guardarti in giro in cerca di indizi.» Elena Giustina non perdeva mai tempo. Abbandonato ai miei capricci, avrei potuto sprecare metà della settimana aiutando suo fratello nell'inchiesta ufficiale sulla morte del soldato. Invece, Giustino rimase solo. Riuscii però a parlargli brevemente di un altro argomento, chiedendogli di far trovare l'ambulante e chiuderlo in cella. «Che cosa ha fatto?» «Lascia in bianco il mandato di cattura. Ho solo bisogno di averlo a portata di mano. È per quello che intende fare.» Ormai Elena si era informata su dove trovare le migliori ceramiche di Moguntiacum, e senza quasi che riuscissi a fare colazione mi ritrovai a scortare la sua lettiga fuori dal forte. Non che la cosa mi contrariasse del tutto. Dovevo ancora spiegare a Giustino che mia nipote aveva distrutto il suo cratere per il vino ed ero lento a escogitare il modo di spiegargli il disastro. Elena e io lasciammo il forte nella tarda mattinata. L'autunno si faceva sentire: il gelo rinfrescava ancora l'aria molte ore dopo l'alba, e l'umidità indugiava sull'erba bruciata lungo i lati della strada. C'erano ragnatele ovunque, che mi facevano battere le palpebre ogni volta che il mio cavallo passava sotto rami bassi. Elena si sporgeva dalla lettiga ridendo, per poi doversi togliere lei stessa i filamenti che le si impigliavano nelle sopracciglia. Era una buona scusa per fermarsi, così potevo aiutarla. La strada dei vasai a Moguntiacum era assai più piccola del vasto settore che io e Xanto avevamo visitato a Lugdunum. C'erano segnali evidenti che l'intraprendenza germanica si sforzava di competere con i rivali della Gallia, che pure avevano l'appoggio della fabbrica originaria di Aretinum a dare loro maggiore autorevolezza. Qui gli artigiani non erano sostenuti da una casa madre. La merce esposta era di qualità altrettanto buona, eppure i vasai sembravano sorpresi di vedere acquirenti. La bottega più grossa era addirittura sprangata. Ne trovammo una vicina che era aperta. Era di proprietà di un certo Giulio Mordantico. Molti Celti della provincia adottano nomi aristocratici come Giulio o Claudio. Dopo tutto, se si cerca di avere successo, chi sceglie un nome da artigiano mediocre? Quasi nessun individuo romanizzato di seconda generazione appartenente a una tribù di una parte qualsiasi
dell'impero risponde al nome Didio, a parte uno o due giovanotti con madri molto graziose che vivono in città attraversate in passato da Festo, il mio fratello maggiore. Elena aveva subito acquistato un imponente piatto per mamma, per di più a un prezzo che non mi fece nemmeno trasalire troppo. Poi fece amicizia con il vasaio, gli spiegò che era venuta a trovare il fratello tribuno e ben presto spostò la conversazione sulle legioni in generale. Era raffinata, cortese, e molto interessata agli affari. Il vasaio pensava che fosse meravigliosa. Anch'io, ma cercavo di trattenermi. Quando ebbi pagato il piatto, mi appoggiai a un muro, sentendomi superfluo. «Immagino che farai molti affari con il forte» disse Elena. «Non tanto quanto vorremmo, di questi tempi!» Il vasaio era basso, con una faccia larga e pallida. Quando parlava muoveva appena i muscoli della bocca, il che gli dava un aspetto legnoso, ma gli occhi erano intelligenti. Aveva replicato a Elena spinto da un impulso immediato. La sua indole sembrava più prudente. Voleva lasciar cadere l'argomento militare. Mi allontanai dal muro mentre Elena continuava a chiacchierare. «Confesso che non sapevo che in Germania si facessero ceramiche di Samo. La produzione è confinata a Moguntiacum, o si estende più lontano, fra i treviri?» «In tutta la zona da Augusta Treverorum fino al fiume si producono ceramiche di Samo.» «Ve la passate bene?» suggerì lei. «C'è stata un po' di crisi di recente.» «Sì, guardavamo il chiosco del tuo collega, quello sprangato, appartenente a Giulio Bruccio. È a causa della crisi, oppure è via per un viaggio di piacere autunnale?» «Bruccio? Un viaggio di affari.» Un'ombra gli attraversò la faccia. Avevo un brutto presentimento quando m'intromisi: «È mica andato a Lugdunum per caso?». Elena Giustina si ritirò subito dalla discussione e si sedette in silenzio. Anche il vasaio aveva notato il mio tono. «Sono passato da Lugdunum mentre venivo in Germania» gli spiegai con calma. Respirai adagio, torcendo la bocca. «Bruccio è per caso un uomo tarchiato, sulla quarantina, che viaggia con un tipo più giovane con i capelli rossi e una gran quantità di verruche?» «Suo nipote. Sembra che tu li abbia visti da qualche parte lungo la strada.»
Giulio Mordantico aveva già l'aria preoccupata. Il ritardo dei suoi amici nel fare ritorno doveva averlo già preparato a qualche cattiva notizia, ma forse non cattiva come questa. La feci breve. Quando gli parlai del litigio a cui avevo assistito a Lugdunum e poi di come in seguito avessi trovato i due corpi, lui reagì lanciando un grido e coprendosi la faccia. Elena gli portò una sedia di vimini. Lo facemmo sedere e io restai lì tenendogli una mano sulla spalla mentre lui si sforzava di accettare la notizia. XXXII «Tiu!» Proferì con violenza il nome celtico di Marte. «Bruccio e suo nipote assassinati in Gallia...» «Mi dispiace» dissi. «Non sarà di grande aiuto, ma c'era un centurione del forte che stava andando a Cavillonum per fare rapporto sui corpi al magistrato locale. Forse potrebbe dirti chi è incaricato delle indagini e che cosa ne è emerso. Il magistrato dovrebbe avere dato disposizioni per i funerali, in primo luogo. Quando Elena e io torneremo indietro, cercherò il centurione e lo manderò qui a parlare con te. Si chiama Elvezio.» Giulio Mordantico fece un debole cenno di assenso. Avevo continuato a parlargli per dargli il tempo di ricomporsi. Ora che pareva più calmo, gli chiesi con circospezione: «Hai qualche idea su chi potrebbe esserci dietro le uccisioni?». Lui rispose senza indugio: «Quei bastardi egoisti di Lugdunum!». Non ne fui sorpreso. Avevo visto che Lugdunum aveva parecchio in gioco in quell'industria. Mi sentii obbligato a metterlo in guardia: «Le tue accuse potrebbero essere difficili da provare». «Se fanno vedere le loro facce da queste parti, non avremo bisogno di prove!» «Questo farò finta di non averlo sentito! Mi spiegheresti qual è l'oggetto del contendere?» Mordantico aveva deciso che gli andavamo a genio e l'intera storia gli uscì come un fiume: «Oggigiorno le cose non sono facili. Il commercio è in rovina. Noi facciamo affidamento sull'esercito per mandare avanti l'attività, ma con tutti i recenti disordini...». Lasciò il discorso in sospeso per un momento. Elena e io evitammo di ficcare il naso nelle simpatie locali, ma lui intuì che era la cortesia a farci trattenere. «Oh, noi eravamo dalla parte di Roma, posso assicurarvelo. C'è un rapporto stretto tra la nostra città e il
forte.» Parlava in modo professionale, come un capo locale che debba giustificare qualche celebrazione curiosa con un chiaro riferimento alla storia. «È nel nostro preciso interesse che le legioni rimangano qui sul Reno. Il generale Petilio Ceriale si è espresso nei giusti termini quando è arrivato: Roma ha occupato la regione su invito dei nostri antenati quando subivano razzie da parte di altre tribù in cerca di nuovi territori. Se Roma se ne va, le tribù a est del Reno ci invaderanno e prenderanno tutto.» Tanto più, probabilmente, perché questi popoli sulla sponda occidentale venivano ormai considerati come collaborazionisti. «Vi detestate cordialmente?» chiese Elena per incoraggiarlo. «Infatti. Civile e quelli come lui faranno anche un gran parlare in nome della libertà, ma non gli importa di noi più di quanto importasse ai loro antenati dei nostri padri e nonni. Civile vuole regnare sui popoli più ricchi del continente. La sua gente vorrebbe lasciare gli acquitrini batavi e spostarsi qui verso pascoli più verdi. La sola indipendenza germanica in cui credono è la loro libertà di spingersi fin dove più gli aggrada.» Pensavo che fosse un po' parziale. Infatti, la mia ricerca a Roma fra i dispacci riguardanti la ribellione mi aveva detto che Augusta Treverorum, la capitale tribale più vicina, aveva dato i natali a Giulio Tutore e a Giulio Classico, due dei capi ribelli più impetuosi dopo Civile, quindi i sentimenti erano più forti di quanto il nostro amico volesse ammettere. Ma non biasimavo Mordantico se assumeva il punto di vista più conveniente. Cambiai argomento. «Quello a cui ho assistito a Lugdunum sapeva piuttosto di commercio che di politica. Mi pare di capire che ci sia una notevole rivalità professionale fra voi e i galli. È per via dei vostri affari con l'esercito?» Lui annuì col capo, anche se con una certa riluttanza. «C'è ancora la questione aperta su chi otterrà il contratto per le nuove legioni al forte. Lugdunum è minacciata a sua volta da un grosso consorzio della Gallia meridionale. Bruccio e io stavamo cercando di convincere il nuovo legato ad assegnare di nuovo la concessione in loco.» «Questo legato era Florio Gracile?» «Proprio lui. L'altro comandante ha un ruolo molto meno rilevante.» «Sì, le sue milizie sono state reclutate fra le legioni di marina e sono piuttosto diffidenti. Dunque, la tua gente aveva la concessione in precedenza, quando la Quarta e la Ventiduesima erano le legioni di stanza al forte?» «E a ragione. Il nostro prodotto è di qualità pari a quello italiano e galli-
co, e ovviamente la consegna è più facile.» Se qui c'era argilla adatta, era naturale che Roma avesse incoraggiato una manifattura locale, impiantata con finanze ufficiali, senza dubbio, durante le vecchie campagne sotto Druso e Germanico. Avendo avviato una produzione locale e convinto la popolazione a guadagnarsi da vivere lavorando per le legioni, sarebbe stato arduo rivolgersi altrove. Ma Roma non si era mai curata molto dell'opinione comune. «I vostri prezzi sono competitivi?» domandai. Lui mi guardò con aria di rimprovero. «Per un appalto con le legioni, i nostri prezzi sono giusti! E poi, noi non abbiamo costi di trasporto. Mi rifiuto di credere che Lugdunum possa fare un'offerta più bassa della nostra.» «A meno che non imbroglino! Gracile si è mostrato ben disposto?» «Non ci ha mai risposto direttamente. Ho avuto la sensazione che le nostre argomentazioni non facessero alcun effetto su di lui.» Aggrottai la fronte. «Le avrà mai prese in considerazione?» Mordantico si strinse nelle spalle. Era il genere di commerciante ultraprudente che non si sbilancia mai a parlare male di coloro con i quali potrebbe essere costretto a trattare in futuro. Mi sembrava che avrebbe dovuto adottare una linea più decisa. «Guardiamo in faccia la realtà, Mordantico» insistetti. «Florio Gracile deve essere arrivato passando per la Gallia questa primavera, per la stessa strada che ho fatto io. Ha una moglie giovane che probabilmente voleva nuovi piatti per banchetti e l'avrà trascinato nel quartiere delle manifatture a Lugdunum. È facile che sia stato infinocchiato dai tuoi rivali prima ancora di arrivare qui. Tu lo sai, vero? I pezzi grossi di Lugdunum hanno circuito il legato.» Senza rispondere direttamente, Morgantico disse: «I vasai di qui avevano deciso di fare un ultimo tentativo per appianare le cose, e Bruccio era stato scelto come portavoce di tutti noi. Lo abbiamo mandato a Lugdunum per cercare di raggiungere un compromesso. C'è lavoro per tutti. Quegli attaccabrighe di Lugdunum sono soltanto avidi. Fanno già affari d'oro in Gallia, riforniscono le legioni della Britannia, senza considerare la Spagna. Esportano dai loro porti meridionali in tutto il golfo Ligure e la costa delle Baleari». Parlava come un uomo che aveva personalmente esaminato con cura le opportunità commerciali. «Già prima ce l'avevano con noi perché siamo qui sul posto. Dopo la ribellione, hanno preso l'occasione al balzo per farsi avanti a gomitate.» «Sembra probabile, quindi, che Bruccio e suo nipote abbiano fatto del
loro meglio laggiù, ma senza trovare collaborazione. La situazione era parsa sul punto di degenerare in violenza, ma i tuoi amici non mostravano danni fisici quando li ho visti cenare la notte in cui sono stati uccisi. Dovevano essersi arresi alla gentaglia di Lugdunum e stavano tornando a riferirvi le cattive notizie. Bada» dissi pensieroso «questo vuol dire che la questione di chi otterrà la concessione non può dirsi ancora risolta.» «Perché dici così?» s'informò Elena. «Non c'era alcuno scopo ad assassinare due persone se quelli di Lugdunum avessero avuto la certezza che le forniture sarebbero andate a loro. La mia opinione è che i vasai gallici pensassero che Bruccio poteva risultare fin troppo convincente. Con le legioni del Reno sulla porta di casa e il relativo legato quotidianamente reperibile, lui e i suoi colleghi potevano rappresentare una grave minaccia. Per questo quelli di Lugdunum l'hanno fatto fuori. Qualcuno ha seguito lui e il nipote fino a una distanza tale da non consentire a nessun magistrato di correlare i fatti, e poi li ha uccisi in un posto dove forse non sarebbero mai stati neppure identificati.» «Ma perché?» domandò il vasaio. «Siamo ancora in tanti qui.» «Mordantico, per il motivo più vecchio al mondo! Uccidere due di voi, o meglio ancora, farli sparire del tutto, avrebbe intimorito gli altri.» «Impossibile!» dichiarò Mordantico con la faccia decisa. «Non rinunceremo mai, non lasceremo che la facciano franca!» «Tu sei un uomo risoluto, ma rifletti, alcuni tentenneranno presto di fronte alla prepotenza. Non dimenticare che ci sono vasai con mogli che non hanno intenzione di ritrovarsi vedove. Vasai preoccupati della sorte di famiglie numerose se sparisce il capofamiglia. Vasai che pensano semplicemente che la vita ha di meglio da offrire che una prolungata lotta che potrebbero non vincere mai.» «È criminale!» disse Elena furiosa. «Roma non dovrebbe dare nemmeno lontanamente l'impressione di approvare metodi commerciali di questo genere. Il legato dovrebbe manifestare la propria disapprovazione escludendo del tutto Lugdunum, e poi assegnando a Moguntiacum ogni concessione disponibile!» Le sorrisi per quella sua reazione appassionata. «Da quanto ho sentito dire su Florio Gracile, non possiamo contare sul suo elevato tenore morale. So che è disperatamente a corto di denaro.» «Vuoi dire che è corrotto?» I tentativi dei genitori di Elena di offrirle una vita protetta erano in parte riusciti. Ma da quando aveva conosciuto me, aveva imparato abbastanza per non sorprendersi di nessuna insinua-
zione. «Gracile è corrotto, Falco?» «Questa sarebbe una grave accusa. Non intendo farla.» Non in questa fase, comunque. Mi rivolsi al vasaio. «Giulio Mordantico, io lavoro per l'imperatore. I tuoi problemi non dovrebbero riguardarmi, ma può darsi che abbiano a che fare con il mio incarico.» «Che sarebbe?» domandò lui, curioso. Non vedevo alcun motivo per nascondere la verità. «In primo luogo, stabilire un contatto con Civile. Non so dove si trovi al momento, ma credo che il legato lo stesse cercando. D'altro canto, Gracile potrebbe invece essere andato in cerca di Velleda, la profetessa dei bructiani.» «Se ha attraversato il fiume, è uno stupido!» Mordantico mi guardò come se fossi pazzo anche solo per averlo insinuato. «Non dirlo. Può darsi che anch'io debba presto attraversare il fiume.» «Allora ti aspettano giorni burrascosi. E direi che per Gracile è la morte.» «Forse viaggia in incognito.» «Un ufficiale romano non può non farsi scoprire. Questo ha qualcosa a che fare con la concessione?» domandò Mordantico, con in mente un solo scopo. «No, riguarda la gloria politica di Florio Gracile. Ma significa che tu e io abbiamo un interesse in comune. Non amo le promesse, ma se per caso lo incontro, può darsi che trovi il modo di discutere del vostro problema della concessione, e magari riesco a fargli credere che parlo a nome di Vespasiano.» Per qualche ragione, il nome dell'imperatore ebbe il suo peso. In una città capace di fare omaggio a Nerone di una colonna civica me lo sarei dovuto aspettare. Mordantico si mostrò grato come se gli stessi firmando io stesso il suo prezioso contratto per i vasi. «Puoi aiutarmi a organizzare un incontro, Mordantico? Sai qualcosa sui movimenti recenti del legato, o anche dove potrei trovare lo stesso Giulio Civile?» Il vasaio scosse il capo, ma promise di informarsi. Aveva ancora l'aria frastornata. Lo lasciammo a diffondere la notizia su ciò che era accaduto ai due colleghi. Non lo invidiavo. Mi aveva detto che erano coinvolte famiglie giovani. XXXIII Portai Elena Giustina a vedere la colonna di Giove in modo da poterle parlare in privato. Questa almeno era la mia scusa.
Le girammo attorno in atteggiamento solenne, fingendo di ammirare l'obelisco quadrato che era stato innalzato da due finanziatori in cerca di favori per conto della comunità locale. Era un monumento abbastanza decoroso, se vi piacciono gli elogi a Nerone. Raffigurava le solite scenette con le divinità dell'Olimpo: Romolo e Remo che dimostrano come una madre singolare non rappresenti un ostacolo per un uomo, Ercole intento nelle sue imprese da semidio con la solita villosa ostentazione e Castore e Polluce che abbeveravano i cavalli, ciascuno su un lato della colonna come se non si rivolgessero la parola. In cima c'era un'enorme statua di Giove Ottimo Massimo, tutto barba e grossi sandali, che brandiva una saetta particolarmente scattante che sarebbe stata un successo in qualunque serata alla moda. Il luogo di quella costruzione era troppo pubblico per poter stringere Elena in un abbraccio, anche se lei sapeva che ci avevo pensato. Mi sembrò delusa. Dato che non la toccavo almeno da tre ore, lo ero anch'io. «Dovrò portarti in barca lungo il fiume per un pranzo all'aperto» mormorai. «Giunone! Non è pericoloso?» «D'accordo, ammetto che la Germania non è al momento il posto adatto per chi voglia un tranquillo viaggio autunnale.» «Ma tu scenderai il fiume, vero?» Lo chiese con un tono di voce intensamente pacato, che riconobbi come sintomo di apprensione. «Sembra proprio che ci debba andare, amor mio.» Era turbata. Un cosa che non sopportavo. Elena era dibattuta. Lei non cercava mai di dissuadermi dal fare un lavoro. Per prima cosa, desiderava che io guadagnassi abbastanza denaro da acquistarmi l'accesso al ceto medio in modo che potessimo sposarci senza provocare uno scandalo. Per poterlo fare avevo bisogno di quattrocentomila sesterzi, una somma esorbitante per uno spregevole individuo dell'Aventino. Il genere di denaro che potevo guadagnarmi solo facendo qualcosa di illegale (cosa che, naturalmente, non avrei mai potuto prendere in considerazione) o qualcosa di pericoloso. «In ogni caso» disse lei allegramente «sei venuto fin qui per faccende politiche, ma sembra che tu ti sia imbattuto in una semplice guerra di vasai.» «Sembra proprio così.» Elena rise. «Quando sei così pronto a darmi ragione di solito scopro che intendi il contrario.» «Vero. Credo che quello delle ceramiche sia un problema secondario.»
Tuttavia, se avessi potuto aiutare i vasai mentre raggiungevo i miei obiettivi, l'avrei fatto. «I vasai si sono trovati a fronteggiare il solito pasticcio amministrativo. La gara di appalto è stata ingarbugliata da un idiota che è pagato abbastanza dallo stato per comportarsi meglio. Succede ovunque. Il fatto che Florio Gracile sia immischiato nella faccenda, e per di più ficchi il naso in ciò che Vespasiano mi ha mandato qui a negoziare con Civile, è solo la mia solita scalogna.» L'ultima cosa che desideravo, dovendomi recare in una zona pericolosa, era che un buffone senatoriale inadeguato perfino a concludere un normale contratto di utensili da cucina facesse la mia stessa strada. Soprattutto se, come ormai pareva probabile, aveva raggiunto la zona calda prima di me e aveva incominciato a commettere errori grossolani, peggiorando di gran lunga le sensibilità tribali. «Hai mai avuto fortuna, Marco?» «Solo il giorno in cui ti ho incontrata.» Ignorò la cosa. «Stavi parlando di Civile. Come speri di trovarlo?» «Qualcosa succederà.» «E la sacerdotessa?» «Velleda?» Sogghignai. «Giustino ti ha parlato anche di lei, vero?» «Sembra un'altra storia come quella della vedova di Veii» brontolò Elena, sarcastica. «È tutto a posto, allora. Posso tenerla a bada.» Elena Giustina mi diede del libertino mantenuto, io le dissi che era una strega cinica priva dei concetti di fiducia e lealtà, lei mi colpì con la pesante estremità della stola guarnita di perline, io la intrappolai contro il plinto della colonna e la baciai finché lei fu più o meno domata e io estremamente eccitato. «Non voglio sapere» disse quando mi rassegnai a lasciarla andare prima che il nostro sofisticato comportamento romano suscitasse la pubblica indignazione «quali sono i tuoi piani per scoprire il destino del legato di Vetera. So che è scomparso da qualche parte sull'altra sponda del fiume.» «Era stato inviato a Velleda come dono di amicizia.» Elena rabbrividì. «Questo significa che dovrai sicuramente recarti nella Germania Libera?» «Non ci andrò se tu non vuoi.» La sua espressione si fece ancora più seria. «Non dirlo... non dirlo mai... se non pensi davvero di farlo, Marco.» Con Elena non potevo che essere onesto. «D'accordo, ti prometto che
non andrò se riuscirò a risolvere il rompicapo in un altro modo.» «Oh, ci andrai» ribatté lei. «Ci andrai e lo risolverai: questo dovrebbe offrire almeno un po' di conforto alla famiglia di quel poveretto. È impossibile, perciò, che io provi perfino a immaginare di impedire il tuo viaggio.» Non mi sarebbe potuto importare di meno dei sentimenti della famiglia di Munio Luperco, che era stato un ricco senatore con un comando buono per la carriera e che aveva probabilmente gli stessi difetti di tutti quelli del suo stampo. Ma quando Elena parlava con quella determinazione non potevo mettermi a contestare l'argomento, così la baciai di nuovo e la portai a casa. Al forte trovammo mia nipote Augustinilla che terrorizzava le sentinelle alla porta Pretoria. Per fortuna, fu tale il loro sollievo di essere state liberate che me la lasciarono portare via sotto il braccio mentre lei strillava improperi contro tutti noi. XXXIV Il resto della giornata trascorse tranquillamente. Giustino aveva scoperto il vaso rotto e la sua reazione era stata di scomparire da casa. Era molto seccato, ma troppo educato per dirlo. «Tuo fratello passerà la vita a lasciare che se ne approfittino di lui.» «Pensavo che stesse manifestando chiaramente i suoi sentimenti!» Elena era fatta nello stesso modo, un'altra che si dileguava quando era arrabbiata. Prima di cena mandai Augustinilla dal tribuno a chiedere scusa. Poiché nessuno l'aveva mai costretta a scusarsi di qualcosa prima di allora, lo fece con un pathos così fresco che ebbe su di lui lo stesso effetto del povero cucciolo che aveva salvato. Mentre lei lo scrutava con occhi adoranti, il suo impulso protettivo aumentò. Augustinilla era alla sua prima esperienza con un giovanotto ricco in uniforme appariscente. Mi pareva di vedere sua madre fare capolino in lei. Passioni da scolarette a parte, ero convinto che Camillo Giustino, con la sua quieta bellezza e i suoi modi riservati, potesse spezzare più cuori di quanto pensasse. Alle donne piacciono i tipi seri. I tipi sensibili. (I tipi che sembrano disposti a pagare ingenti somme senza discutere.) Giustino dava l'impressione di avere bisogno di una brava ragazza dall'indole generosa che lo facesse uscire dal suo guscio. A Roma, se avessimo portato quei pensosi occhi marroni in giro per banchetti, avrebbe sicuramente trovato brave ragazze, e donne più mature ma ugualmente premurose, che l'avreb-
bero fatto uscire dal suo guscio tre volte alla settimana. A Moguntiacum doveva solo scansare una ragazzina di otto anni che si era messa in testa che lui somigliasse a un giovane Apollo. Augustinilla aveva ancora troppa soggezione della sua posizione per incominciare a scrivere il suo nome sui muri. Quando avesse trovato il coraggio di lasciargli struggenti biglietti d'amore accanto alla ciotola della colazione, l'inverno continentale avrebbe ormai gelato tutto l'inchiostro, risparmiandogli almeno quello. Il giorno seguente iniziò con due missive: l'amante del legato riferiva che i suoi servitori pensavano che Gracile frequentasse la corporazione dei vasai. E il vasaio mi diceva che nel caso era coinvolta un'amante. «È tutto un piacevole circolo!» mormorai fra me e me. Immaginai che l'amante parlasse dei vasai di Moguntiacum. Il vasaio, invece, si riferiva a un'amante diversa. Questo almeno lasciava intendere il suo messaggio. Mandai a Giulia Fortunata una cortese lettera di ringraziamento per dirle che avrei approfondito la sua informazione appena possibile. Mordantico sembrava l'opzione migliore su cui puntare per una visita. Prima di andare scovai il centurione Elvezio, che avevo visto l'ultima volta nei pressi di Cavillonum. Non fu difficile trovarlo, che strillava stancamente ordini cercando di addestrare quella banda di reclute dai brutti musi, maldestre, con le gambe storte, i piedi piatti e il cervello di gallina che gli avevo visto condurre attraverso la Gallia. (La descrizione è sua.) Era compito suo insegnare a quegli archetipi ideali a correre, cavalcare, nuotare, saltare, lottare, tirare di scherma, lanciare giavellotti, tagliare zolle, costruire muri, piantare palizzate, dirigere catapulte, formare una testuggine, amare Roma, odiare il disonore e riconoscere il nemico: "Carnagione paonazza, capelli rossi, pantaloni a scacchi, strepiti a non finire, e sono quelli che ti scagliano i giavellotti in testa!". Doveva scartare gli individui che avevano imbrogliato all'esame della vista e dislocarli come inservienti ospedalieri. Doveva scoprire chi non sapeva contare, o scrivere, o capire il latino, e poi insegnarglielo oppure rimandarlo a casa. Doveva coccolarli ogni volta che piangevano per la fidanzata, o la madre, o la nave (la Prima adiutrix accettava ancora gli scarti di marina) o la capra preferita (i secondogeniti di famiglie contadine avevano sempre costituito la spina dorsale delle legioni). Doveva mantenerli sobri e impedire che disertassero, doveva insegnargli le buone maniere a tavola e aiutarli a scrivere le loro ultime volontà. Finora era riuscito solo a farli allineare in tre file diritte. Elvezio abbandonò volentieri il suo programma deprimente e si conces-
se un po' di tempo per chiacchierare con me. «Didio Falco.» «Mi ricordo di te.» «Grazie! Mi piace credere di avere una personalità incisiva.» Poteva essere solo del nostro primo incontro a lato del fossato che aveva un ricordo così avvincente. Trascorremmo qualche minuto a rievocarlo. «È per questo che volevo vederti.» «L'avevo immaginato.» Apparteneva alla categoria degli imperturbabili. I lunghi anni di servizio gli avevano insegnato ad aspettarsi il peggio, e che non c'era mai niente per cui fosse il caso di agitarsi. Aveva occhi marroni molto scuri, come se fosse di origine meridionale, e la faccia simile al vecchio straccio per strofinare di uno stalliere: piena di grinze, indurita dall'uso e così logora da apparire lucida. Il suo disincanto era stagionato come i suoi lineamenti. Sembrava un ufficiale solido e totalmente affidabile. Gli dissi che il tribuno Camillo aveva acconsentito che fosse esentato dai normali incarichi perché dedicasse un po' del suo zelo alla comunità locale. Elvezio era lieto di far visita al vasaio, così lo portai con me nella zona delle manifatture. Era un'altra mattinata gelida con un pallido sole che cercava di dissipare la foschia. Il cambio di stagione accresceva la mia fretta. Spiegai a Elvezio che probabilmente presto avrei dovuto oltrepassare il fiume e che volevo terminare il viaggio prima dell'arrivo dell'inverno. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era di rimanere bloccato in territorio barbaro sotto la neve. «È abbastanza brutto in qualunque momento» commentò lui, torvo. «Ci sei stato?» Lui non rispose subito. «Solo quando a un qualche stupido tribuno è venuta voglia di una caccia al cinghiale in luoghi più emozionanti del solito.» Non Camillo Giustino, presumibilmente. Nessuno gli avrebbe dato dello stupido. «Naturalmente un giovanotto in strisce senatorie non vuole provare l'emozione vera di lasciarsi dietro la scorta... Hai avuto qualche problema laggiù?» «No, ma ti lascia la netta sensazione di essere stato fortunato a tornare a casa senza imbatterti in un po' di animazione.» «Alcuni di noi hanno il sospetto che il legato della Quattordicesima possa essersi recato sull'altra riva del fiume.»
«Gracile? E perché mai?» «In cerca di Civile... o di Velleda, magari.» Ci fu di nuovo un breve silenzio. «Non pensavo che fosse il tipo.» «Che tipo lo definiresti, allora?» gli chiesi. Elvezio, che era un vero centurione, si limitò a ridacchiare sotto la barba, che era la tipica barba riccia e folta del militare. «È un legato, Falco. Un tipo orrendo come tutti quanti loro.» Appena prima di arrivare alle manifatture di ceramiche, per prudenza tornammo a parlare dei due morti. Elvezio volle sapere del mio particolare interesse. Gli descrissi come il mio coinvolgimento fosse nato assistendo alla lite a Lugdunum. Lui abbozzò un leggero sorriso. Mi chiedevo il motivo della sua curiosità. La sua faccia s'irrigidì in un'immobilità da cui traspariva che la sua mente era altrove... altrove e molto distante. Dopo un'ulteriore pausa, però, proprio quando pensavo che non avesse nessun commento da fare, dichiarò all'improvviso: «Non ho detto niente quando ci siamo imbattuti nei corpi perché non ti conoscevo, Falco. Ma anch'io avevo già visto quegli uomini in precedenza, vivi». «Dove?» «Come te: a Lugdunum.» «Eri lì per qualche incarico ufficiale?» «Avrei dovuto. L'esercito sa essere efficiente! Il nostro comandante ha avuto un'idea geniale e ha fatto in modo che il mio viaggio servisse a due... anzi, tre scopi: licenza, reclutamento di uomini e una visita sul posto per controllare i fornitori di ceramiche. Quello ero il piano, in ogni caso.» «E che cos'è successo?» Lo intuivo. «Mi sono presentato, ma prendere nota dei fornitori sarebbe stata una perdita di tempo. Sua Eccellenza Gracile era arrivato prima di me e aveva concluso lui stesso l'intero affare per conto delle legioni della Germania Superiore e Inferiore.» «Pensa un po'!» mi meravigliai. «Una bella responsabilità!» «Un bel guadagno, se si è fatto corrompere!» Elvezio doveva avere tratto le sue conclusioni. «Attento, centurione! E i due vasai locali?» «Come te, li ho visti impegnati in un bel battibecco.» «In mezzo alla folla?» «No, solo con un tipo allampanato dall'aria beffarda e un paio di scagnozzi. Ho notato lo smilzo anche più tardi.»
«Ah sì?» «Lungo la strada. Il giorno prima di trovare quei due stecchiti nel fosso.» Questo sì che era un particolare di grande interesse per me. Mi ricordavo del Gallo dall'aria beffarda, ma dovevo aver mancato di incontrarlo durante il viaggio. Le cose parevano mettersi male per Florio Gracile. Dissi a Elvezio che per il momento era meglio tenere la cosa per noi. Lui mi guardò con sospetto. «Ti hanno mandato qui per raccogliere un fascicolo sulla corruzione?» Incominciava a sembrare che così fosse. Alla manifattura di ceramiche feci le presentazioni, poi lasciai che Elvezio riferisse del rapporto sui morti che aveva fatto a Cavillonum. Inutile dire che non c'era stato molto interesse da parte del magistrato. Elvezio ebbe abbastanza tatto da non farne parola mentre parlava con l'amico dei morti, ma dal suo tono intuivo quello che era successo... e non successo. Li lasciai insieme, impegnati a parlare di Bruccio e del nipote, mentre gironzolavo struggendomi a guardare le ceramiche di Samo. Quando Mordantico uscì chiese se qualcosa in particolare aveva attirato la mia attenzione. «Tutto quanto! Crei stoviglie eleganti.» Non era solo un tentativo di ingraziarmelo: le sue ceramiche erano cotte al punto da avere un colore soddisfacente, avevano disegni di buon gusto, una lucentezza piacevole e un buon equilibrio in mano. «Mi piacerebbe procurarmi un servizio da tavola decente, ma il problema è la netta mancanza di copertura finanziaria.» «Com'è possibile? Credevo che avessi una fidanzata ricca!» Il modo in cui lo disse rese accettabile la battuta perfino a un verme suscettibile come me. Una volta tanto stetti al gioco. «Ah, ma è suo padre che possiede le sontuose proprietà sui colli Albani. Se fossi al suo posto, lasceresti che i frutti della tua vendemmia finissero nelle mani di un cafone come me?» E poi, avevo il mio orgoglio. Non era semplicemente la speranza di possedere Elena che mi trascinava in quelle folli missioni per l'imperatore. Avevo il sogno di poter vivere un giorno lontano dallo squallore. Vivere in una casa tranquilla di mia proprietà, una casa circondata da pergolati coperti di rampicanti, dotata di spazi ampi, e piena di luce alla quale leggere. Una casa dove avrei potuto far invecchiare un'anfora di vino buono alla giusta temperatura e poi berla filosofeggiando insieme al mio amico Petronio Longo accanto a un tavolo
di acero apparecchiato con tovaglie di lino spagnole e, forse, coppe di Samo, se ci fossimo stancati dei bronzi cesellati con scene di caccia e dei vetri fenici screziati d'oro... Ripresi a spettegolare su argomenti più utili. «Ti ringrazio per il messaggio. Che cos'è questa faccenda di una donna? Giulia Fortunata non sarà contenta se Gracile le sta mettendo le corna, senza considerare il pandemonio che può aspettarsi dalla contegnosa mogliettina!» «Veramente, non so nulla di preciso...» Mordantico sembrava imbarazzato. Era bello constatare come le provincie considerassero Roma con rispetto: si vergognava quasi di confessare che uno dei nostri ufficiali d'alto grado avesse infranto il codice morale romano. «Non vorrei rovinare la reputazione di un uomo...» «Non finirai in tribunale con un'accusa di diffamazione per questo» suggerii. «Dimmi soltanto che cosa hai scoperto e io trarrò da solo le conclusioni infamanti.» «Be', una volta hanno chiesto a uno dei miei colleghi in che modo Florio Gracile potesse mettersi in contatto con una donna di nome Claudia Sacrata.» «È rilevante? Avrei dovuto sentirne parlare?» Di nuovo assunse un'aria decisamente imbarazzata. «È una ubia di Colonia Agrippinensium.» Esaminò una coppa come se avesse appena notato che il manico era attaccato storto. «Si diceva che il vostro generale Petilio Ceriale avesse avuto una tresca con lei.» «Ah!» Mi ero fatto una certa idea di Ceriale, e finora le donne non c'entravano. In Britannia aveva comandato la Nona legione hispana. Quando era divampata la rivolta di Budicca, aveva fatto una corsa disperata per andare in aiuto, ma era caduto in un'imboscata tesagli dalle tribù in una foresta, il che significa che doveva essersi precipitato senza adeguati esploratori davanti a sé. Petilio aveva perso un grosso contingente dei suoi uomini e se l'era cavata giusto con pochi residui della cavalleria. Quel che restava della Nona aveva preso parte alla battaglia finale contro la regina, ma a differenza della Quattordicesima e della Ventesima non aveva ricevuto in seguito nessuna onorificenza da Nerone. A detta di tutti, la più recente campagna del generale per riconquistare la Germania dal dominio di Civile era stata caratterizzata da simili episodi avventati, dai quali lo stesso generale era scampato in un modo o nell'altro, sempre in tempo per partecipare alle vittorie, e mantenendo intatta la sua buona reputazione.
Dissi con viso inespressivo: «Una tentatrice ubia non ha trovato molto spazio nei resoconti ufficiali delle sue vittorie». Forse perché i resoconti erano stati scritti dallo stesso Petilio Ceriale. Mordantico si rese conto che scherzavo, ma non sapeva come reagire. «È probabile che non ci fosse niente di vero...» «Sono deluso! Ma perché il nostro Florio Gracile dovrebbe andare a trovare questa bellezza? Per consolare la sua solitudine ora che Ceriale è scappato in Britannia? Immagino che non avrebbe potuto portarla. Se avesse sistemato nel palazzo del governatore provinciale di Londinium questo fardello ubio la notizia sarebbe giunta subito a Roma e avrebbe provocato un grande scompiglio.» Ora che aveva ottenuto la sua provincia, Petilio Ceriale era sicuramente in attesa di un consolato. Era imparentato con l'imperatore, grazie a un matrimonio, ed era noto a tutti che l'imperatore aveva opinioni rigorosamente antiquate. Lo stesso Vespasiano aveva un'amante di lunga data ora che era vedovo, ma coloro che si aspettavano nomine da lui non osavano rischiare di concedersi simili lussi. «Gli ubii hanno stretti rapporti con i batavi?» Giulio Mordantico si agitava, infelice. «È difficile rispondere. Alcuni alleati di Civile hanno punito molto duramente gli ubii per le loro simpatie a favore dei romani, ma alla fine alcuni di loro hanno combattuto con lui contro i romani...» «Un vero garbuglio! Claudia Sacrata conosceva Civile?» «È possibile. Lui ha parenti che vivono a Colonia Agrippinensium.» «Questo spiegherebbe perché Gracile sia andato a trovarla. Sa che quella donna ha legami con le alte sfere politiche di ambo le parti, e che quindi potrebbe sapere dove trovare Civile...» «Forse.» «In alternativa» suggerii in tono più faceto «non contento dell'amante ufficiale che si è portato da Roma, il nostro fido legato Florio Gracile ne sta cercando una ufficiosa, e Claudia Sacrata gli sembra adatta. Forse una relazione segreta con Claudia Sacrata è la ricompensa extra per gli uomini col mantello color porpora nei turni di servizio in Germania? Forse il suo indirizzo viene distribuito insieme ai rapporti con le disposizioni operative iniziali. Il che pone un problema. Mordantico, dato che io sono solo un misero insetto, chi darà a me l'indirizzo di Claudia Sacrata?» Il vasaio non era disposto a fare commenti sulla reputazione della donna, ma mi disse dove trovarla. Questo lasciava irrisolta solo un'altra questione: come facevo a spiegare
a Elena Giustina che sarei sparito per andare a trovare la cortigiana di un generale? QUARTA PARTE Una gita lungo il Reno DALLA GERMANIA SUPERIORE A VETERA Ottobre-novembre, 71 d.C. Il loro comandante... fu salvato da un errore dei nemici, che si precipitarono a trainare l'imbarcazione pretoria, pensando che il comandante si trovasse a bordo. Ma Ceriale aveva passato la notte da un'altra parte (a detta di molti a quel tempo, perché aveva una tresca con una donna ubia di nome Claudia Sacrata). TACITO, Storie XXXV La cosa provocò meno tensioni di quanto avessi temuto. Questo perché Elena affermò che Colonia Agrippinensium era un posto che moriva dalla voglia di vedere. Per mie ragioni personali, fui d'accordo con lei. La mia speranza di un po' di quiete insieme a Elena andò delusa. Prima suo fratello insistette perché portassimo con noi Augustinilla. Era riluttante, a quanto si capiva, a essere lasciato da solo al forte con una ragazzina che si struggeva per amore. Poi Xanto si aggregò con entusiasmo all'escursione. Reagiva ancora con un grave patimento all'uccisione del soldato. Disse che lo faceva pensare seriamente alla vita. La Germania gli piaceva e voleva stabilircisi. Vedeva un sacco di opportunità per il suo mestiere di parrucchiere. Moguntiacum, però, era troppo militare, così voleva cercare un'altra città in grado di offrire un'accoglienza più raffinata a un ex schiavo imperiale ambizioso. Gli dissi chiaro e tondo che non poteva venire con me oltre Colonia, ma lui replicò che gli andava bene così. Avevamo anche il cane del tribuno. Aveva morso un armiere e andava quindi allontanato al più presto dal forte. Tanti saluti al dolce viaggio fluviale solo con la mia ragazza. A dispetto della compagnia, il viaggio verso nord su una nave ufficiale
della flotta fu un piacere: vedere sfilare dirupi sporgenti e verdi pascoli, piccoli moli e approdi, formazioni rocciose e rapide, pendii collinari a terrazze dove la nascente industria vinicola piantava i suoi vigneti. Gustammo alcuni gradevoli vini bianchi di quelle produzioni lungo il percorso. Ce ne stavamo a sognare sul ponte, osservando le anatre che si facevano portare dalla corrente fra sporadici ramoscelli galleggianti, poi si alzavano in volo dall'acqua per tornare indietro e ricominciare. Basse chiatte, cariche di ogni articolo immaginabile, scendevano il fiume a due o a tre, poi venivano spinte a remi o trainate nella direzione opposta. Sembrava un'esistenza appagante. Per di più, i mercanti che esercitavano il loro commercio lungo la via d'acqua erano visibilmente ricchi. Con Elena al mio fianco, sarei potuto restare lì per sempre, diventando un felice vagabondo del fiume, senza mai più tornare a casa. «Che cos'hai nel bagaglio che è così voluminoso?» s'informò Elena. «Rotoli di pergamena da leggere.» «Poesia?» «Storia.» «Tipo Tucidide?» «Tipo le Grandi bestialità dei tempi moderni.» Elena si guardò in giro per vedere se Augustinilla avesse potuto sentire quell'insolenza, ma vide che mia nipote era troppo indaffarata a trovare il modo di cadere fuori dall'imbarcazione. Scoppiò a ridere. «Perché questo interesse?» «Ricerche per i diversi progetti che ho qui. Un archivista di Roma mi ha copiato alcuni dispacci sulla ribellione.» Ora che Elena sapeva che cosa mi portavo appresso nel viaggio lungo il fiume, non c'era motivo di tenerlo nascosto. Rovistai dentro il canestro e mi trovai ben presto assorbito nelle penose prodezze con cui Roma aveva cercato di far sloggiare Civile. Più leggevo della campagna militare, più mi sentivo sconcertato. Ci avevamo messo fin troppo tempo a superare la confluenza con il fiume Mosella a Castrum ad Confluentes, a oltrepassare Bingium e Bonna (tutte e due ancora gravemente sfregiate e incendiate, ma con nuove difese che venivano tirate su) e a raggiungere la nostra meta. Colonia Claudia Augusta Agrippinensium faceva del proprio meglio per essere all'altezza dei suoi titoli ridondanti. Fondata da Agrippa (come Ara Ubiorum), aveva poi assunto un nuovo nome datole dall'imperatore Claudio in onore di sua moglie Agrippina, nipote di Agrippa e figlia di Germa-
nico, la cui fama dispotica aveva ancora il potere di mettere a disagio uomini valorosi. Era il santuario ufficialmente riconosciuto degli ubii e la capitale provinciale della Germania Inferiore. Vantava anche la principale dogana sul fiume e il quartier generale della flotta romana del Reno, protetta da un piccolo fortino. Colonia era una città provinciale opulenta e ben disegnata, servita da un acquedotto costruito dall'esercito e dimora di un'estesa colonia di veterani in congedo: durante la rivolta i suoi stretti legami con Roma avevano reso necessario prendere decisioni difficili. In un primo tempo i cittadini erano rimasti fedeli all'impero, rifiutandosi di unirsi a Civile e ponendo agli arresti suo figlio, sebbene solo in "onorevole" custodia, nel caso di un capovolgimento delle sorti. Quando però la situazione si era fatta disperata quei prudenti notabili erano stati costretti ad ascoltare l'invito delle tribù sorelle a riconoscere il loro retaggio germanico, ma anche allora la loro alleanza con i combattenti per la libertà aveva avuto i suoi lati ambigui. Riuscirono a negoziare le proprie condizioni con Civile e Velleda grazie al fatto che tenevano agli arresti domiciliari più di un parente del batavo, ed erano abbastanza ricchi da mandare alla sacerdotessa della foresta il genere di doni adatto alle riconciliazioni. Il cauto gioco di abilità aiutò la città a sopravvivere senza essere saccheggiata da nessuna delle due parti. Poi, non appena Petilio Ceriale iniziò ad avanzare, i bravi cittadini dei dintorni invocarono il suo aiuto e si allearono di nuovo con Roma. Sapevano amministrare con garbo le loro faccende municipali. Ritenevo quindi che fosse un luogo sicuro dove portare Elena. Arrivammo nelle prime ore del giorno. Scaricai la mia brigata in una locanda con camere in affitto nelle vicinanze della prefettura, affidando a Xanto il ruolo di uomo al comando. Elena l'avrebbe subito disilluso. Ristorato dal viaggio sul fiume, andai a chiedere informazioni su Claudia Sacrata. Avevo promesso a Elena che non avrei fatto tardi, ma la porta alla quale scelsi di bussare risultò essere quella dell'amica del generale. Per il suo servitore, una faccia maschile romana era una credenziale sufficiente, così, benché avessi chiesto solo un appuntamento, lui mi fece subito entrare a farle visita. Era una modesta casa di città. Il decoratore provinciale aveva fatto del suo meglio, ma era stato costretto a dipingere affreschi con quello che conosceva. Giasone scopriva il Vello d'Oro sotto un cespuglio di agrifoglio durante un temporale. Scene di battaglia si svolgevano cupe sotto un fregio, ravvivandosi solo quando erano attraversate da un branco di oche sel-
vatiche renane. Venere, nel locale costume ubio, un abito con il collo alto e il soggolo, era corteggiata da Marte in mantello di feltro celtico. Lei sembrava una venditrice del mercato e lui un ragazzotto timido e un po' panciuto. Il servitore mi accompagnò in una sala di ricevimento. Mi trovai di fronte colori vivaci e divani giganteschi con enormi cuscini imbottiti dove un uomo stanco poteva lasciarsi cadere e dimenticare i propri guai. I rossi erano troppo terrosi, le strisce troppo larghe, le nappe eccessivamente ricche. L'effetto complessivo era di una rassicurante volgarità. Gli uomini che ci venivano potevano contare su mogli decise in fatto di gusti e probabilmente non notavano affatto l'impatto dell'arredamento. Volevano un posto pulito e confortevole, permeato dei profumi di lucido di cera d'api e di brodo che bolliva a fuoco lento, un posto che commemorasse gli aspetti essenziali della loro infanzia in Italia. Era il genere di casa dove il pane veniva servito in fette tagliate grossolanamente che sapevano di ambrosia infusa di nocciole. La musica doveva essere terribile, ma le persone avrebbero riso e parlato così rumorosamente da non accorgersene... Trovai Claudia Sacrata seduta su una lunga seggiola, come se aspettasse ospiti. Non era affatto una seduttrice affascinante, ma una donna grassottella di mezza età con un seno sorretto così saldamente che poteva servire da vassoio. Aveva un abbigliamento accurato. Portava un abito romano color farina d'avena e ocra, con meticolose pieghettature sulle spalle dove la stola era fissata da una grossa spilla con un rubino indiano il cui splendore diceva "Regalo di un uomo"! Il suo aspetto mi ricordava quello di una zia bonaria e un po' antiquata, agghindata per fare bella figura con i vicini durante una processione in onore della dea Flora. «Entra, tesoro. Che cosa posso fare per te?» La domanda poteva essere semplice cortesia... o un'offerta commerciale. Arrivai subito al dunque. «Mi chiamo Marco Didio Falco, sono un inviato del governo. Ti sarei grato se volessi rispondere a qualche domanda.» «Ma certo.» Naturalmente questo non garantiva che avrebbe risposto sinceramente. «Grazie. Spero che non ti dispiaccia se incomincio da te. Ti chiami Claudia Sacrata e hai una casa accogliente. Vivi con tua madre?» Conoscevamo entrambi il senso di quella frase eufemistica. «Mia sorella» mi corresse lei. Era lo stesso velo sottile di rispettabilità, anche se notai che non si presentò nessuno a presenziare al nostro colloquio.
Mi buttai a capofitto: «È vero che in passato godevi della confidenza di Sua Eccellenza Cenale?». «Esatto, tesoro.» Era il tipo che amava sorprendere le persone ammettendo l'impensabile. I suoi occhi scaltri mi scrutavano mentre cercava di indovinare quello che volevo. «Ho bisogno di procurarmi alcune informazioni delicate, ma è difficile trovare persone di cui io possa fidarmi.» «Ti ha mandato il mio generale?» «No. Questo non ha niente a che fare con lui.» L'atmosfera cambiò. Sapeva che indagavo su qualcuno. Se si fosse trattato di Sua Eccellenza, si era ripromessa di cacciarmi via in malo modo. Quando capì che il suo cliente più illustre era al di sopra di ogni sospetto, assunse un tono da padrona di casa. «Non ho niente in contrario a parlare di Cenale.» Mi indicò con un cenno un divano. «Mettiti più comodo, come se fossi a casa tua...» La mia casa non era mai stata così. Suonò un campanello per chiamare un servitore, un tipo agile che dava l'impressione di aver risposto a parecchi campanelli in vita sua. Dopo avermi esaminato con aria fintamente modesta, lei commentò espansiva: «Un uomo da vino caldo aromatizzato, direi». Fuori da casa mia odio quella roba. Ma per favorire le buone relazioni, accettai di essere un uomo che beve il vino caldo aromatizzato. Era un liquore generoso, servito in splendide coppe, con un eccesso di spezie. Un confortante calore mi inondò lo stomaco, poi si diffuse per il mio sistema nervoso, dandomi una sensazione di felicità e sicurezza, perfino quando Claudia Sacrata civettò dicendo un: «Raccontami tutto di questa faccenda!» che avrebbe dovuto essere la mia battuta. «No, raccontami tu» dissi con un sorriso, sottintendendo che donne che sapevano quello che facevano avevano già cercato in precedenza di insidiarmi. «Stavamo parlando di Petilio Ceriale.» «Una persona molto gradevole, un signore.» «Con una certa fama di esaltato?» «In che senso?» chiese con un sorriso affettato. «Nel senso militare, per esempio.» «Che cosa te lo fa pensare?» Era un balletto stupido. Giunsi però alla conclusione che, se volevo delle informazioni, parlare del suo prezioso Ceriale era il prezzo che dovevo pagare. «Ho letto della sua battaglia ad Augusta Treverorum, per dirne una.» Sorseggiavo la mia coppa di vino forte nel modo più riservato possibile. Se
Ceriale portava i suoi gradi nello stile comune, aveva tormentato tutti fino alla noia con la storia della sua grande battaglia. Claudia Sacrata si mise in posa e rifletté. «All'epoca si disse che aveva commesso degli errori.» «Be', puoi guardare la cosa in due modi» ammisi, facendo la parte del tipo amichevole. In realtà, c'era un unico modo in cui io potevo guardarla. Petilio Ceriale aveva stupidamente permesso agli avversari di raccogliersi in gran numero mentre aspettava rinforzi. Questo era stato abbastanza rischioso. Anche il famoso combattimento era stato un massacro. Ceriale aveva eretto il suo accampamento sulla sponda del fiume opposta rispetto alla città. Il nemico era arrivato all'alba, si era avvicinato furtivamente da diverse direzioni e aveva fatto irruzione nell'accampamento, creando un enorme scompiglio. «Ho sentito dire» lo difese Claudia con leale fermezza «che fu l'azione coraggiosa del generale a salvare la situazione.» Dunque era questa la sua versione. «Senza dubbio.» La mia professione richiede una spudorata capacità di mentire. «Ceriale balzò fuori dal letto senza armatura, scoprendo che l'accampamento era nel caos, la cavalleria si dava alla fuga e l'avanguardia era stata catturata. Recuperò i fuggitivi, li ricondusse indietro, riprese il ponte con grande coraggio personale, poi si fece strada a forza nell'accampamento romano e riorganizzò gli uomini. Salvò ogni cosa e concluse la giornata distruggendo il quartier generale del nemico invece di perdere il proprio.» Claudia Sacrata agitò il dito. «Perché allora sei così scettico?» Perché l'altra versione era che le nostre truppe erano state condotte in modo pietoso: il nemico non avrebbe mai dovuto essere in grado di arrivare così vicino senza essere scoperto, l'accampamento era stato scarsamente sorvegliato, le sentinelle dormivano e lo stesso comandante era assente. Se il nostro impetuoso generale non aveva subito una disfatta totale era solo grazie al fatto che gli uomini delle tribù erano impegnati ad arraffare bottino. Dominai l'amarezza. «Perché il generale non dormiva nell'accampamento quella notte?» La signora rispose con calma: «Non saprei». «Lo conoscevi già?» «Ci siamo incontrati successivamente.» Dunque ancora prima che iniziasse la loro tresca, lui aveva preferito le comodità di una casa privata. «Posso chiederti com'è nata la vostra amicizia?»
«Oh, lui venne in visita a Colonia Agrippinensium.» «Una storia romantica?» chiesi sorridendo. «Vita reale, tesoro.» Immaginai che pensasse che vendere favori sessuali non fosse diverso da vendere uova. «Raccontami...» «Perché no? Il generale venne a ringraziarmi per la parte che avevo avuto nell'indebolire il nemico.» «Che cosa avevi fatto?» Immaginavo qualche intrallazzo da bordello. «La nostra città stava cercando un modo per riallacciare i legami con Roma. I consiglieri municipali si offrirono di consegnare la moglie e la sorella di Civile, oltre alla figlia di uno degli altri capi, che erano stati trattenuti qui come garanzia. Poi tentammo qualcosa di più proficuo. Civile, ancora sicuro di sé, riponeva le proprie speranze nelle sue truppe migliori, guerrieri presi fra i ciauci e i frisii, che erano accampati non lontano da qui. Gli uomini della nostra città li invitarono a un festino e offrirono loro da mangiare e da bere in abbondanza. Quando furono tutti inebetiti, sbarrarono le porte e diedero fuoco alla sala.» Cercai di non mostrarmi troppo orripilato. «Un'amabile usanza germanica?» «Non è un mistero.» Quello che faceva rabbrividire maggiormente era il suo tono pratico. «Così quando Civile apprese che le sue truppe scelte erano state bruciate vive, fuggì a nord, e Petilio Cenale entrò riconoscente a Colonia... Ma tu che ruolo avevi, Claudia?» «Ho fornito cibo e bevande per il festino.» Posai la coppa di vino. «Claudia Sacrata, lungi da me insistere, ma sai dirmi qualcosa...» Quella donna stranamente serena e tuttavia insensibile mi sconvolgeva. Cambiai di proposito argomento. «Qual è la vera storia della perdita della nave pretoria del generale?» Lei sorrise e tacque. Era stato un altro stupido incidente. Le riferii quello che già sapevo dalle mie ricerche. Dopo un periodo di operazioni militari senza esito nell'Europa settentrionale, dove Civile e i batavi l'avevano impegnato nella guerriglia fra le paludi della loro terra ed era sembrato che avrebbero respinto Roma all'infinito, Petilio Cenale aveva fatto un'altra pausa (il suo genere di azione preferito) ed era andato a ispezionare i nuovi alloggiamenti invernali a Novaesium e Bonna, con l'intenzione di tornare a nord con una flotti-
glia navale che si rendeva assai utile. Tuttavia, ancora una volta la disciplina si dimostrò scarsa; ancora una volta le pattuglie armate furono negligenti. Una notte buia, i germanici penetrarono di nascosto, tagliarono i tiranti delle tende e fecero uno scempio mentre i nostri uomini annaspavano sotto le tende crollate e correvano seminudi e terrorizzati per l'accampamento. Non avevano nessuno che li riorganizzasse perché, naturalmente, ancora una volta Cenale era sgattaiolato altrove. «Poi i nemici trainarono via la nave pretoria, poiché Giulio Civile credeva che il generale fosse a bordo.» «Un errore da parte sua!» convenne Claudia con aria sorniona. «Dormiva di nuovo lontano dall'accampamento?» Mi sforzai di non sembrare critico. «Evidentemente.» «Insieme a te, come si disse?» Facevo una gran fatica a immaginarlo. «Non puoi pretendere che ti risponda.» «Capisco.» Insieme a lei. «Hai detto che le tue indagini non avevano niente a che fare con Petilio, allora perché tutte queste domande sul passato?» Mi stavo ormai spingendo più avanti di quanto le andasse bene. «Vado matto per i retroscena coloriti.» Speravo che il mio interesse per Petilio potesse dare l'impressione di minacciarlo, così avrebbe cercato di sviarmi con le informazioni che mi servivano davvero. Ma era più tosta di quanto sembrasse. Dietro ogni possibile impressione di insulsaggine si celava un acuto senso degli affari. «Alla fine che ne è stato della nave pretoria?» «All'alba tutti i ribelli presero il largo sulle navi romane. Trainarono la nave pretoria nel loro territorio come dono per la loro sacerdotessa.» «Velleda!» esclamai con un fischio. «Così se Ceriale era con te quella notte, gli hai salvato la vita.» «Sì» ammise con orgoglio. «Se fosse stato a bordo...» come avrebbe dovuto «la sua sorte sarebbe stata orrenda. Dell'ultimo ufficiale romano che i ribelli hanno inviato a Velleda non si è mai più saputo niente.» «Terribile!» convenne lei, con compassione formale. «È quella la mia missione» le dissi. «Era il legato di una legione. Devo scoprire, per l'imperatore e la famiglia, quale sorte impietosa gli è toccata. Dubito che tu l'abbia mai conosciuto; era di stanza a Vetera, molto lontano da qui.»
«Munio Luperco?» Parve sorpresa. «Oh, qui ti sbagli, tesoro» dichiarò l'imperturbabile Claudia. «Conoscevo Munio molto bene.» XXXVI Sospirai interiormente, cercando di cambiare posizione sui cuscini, ma questi mi tenevano bloccato con una specie di imbarazzante risucchio. Quando Claudia Sacrata diceva a un uomo di mettersi comodo, intendeva che non sarebbe riuscito a liberarsi senza l'aiuto di un fulcro da cantiere edilizio per fare leva. Mi ero recato a casa di una donna che conosceva tutti. Qui i nomi gocciolavano come l'acqua intorno a una fontana. Il pettegolezzo era la forma linguistica abituale. Ero seduto con le natiche indolenzite al centro di una ragnatela sociale che poteva essere ancorata in qualunque punto dell'Europa. «Conoscevi Luperco?» chiesi con voce rauca. Non mi va di essere monotono, ma non ero nelle condizioni per ricorrere a sottigliezze oratorie. «Un uomo così simpatico. Molto schietto. Molto generoso.» «Ne sono certo! Hai una vasta cerchia di conoscenze.» «Oh sì. La maggior parte dei ragazzi di Roma passa di qui prima o poi. Sono famosa» dichiarò Claudia compiaciuta «per la mia ospitalità.» Un modo come un altro di definirla. «Una donna influente!» Gettai il mio dado successivo con fare noncurante. «E in che rapporti sei con l'autorità in carica della Quattordicesima legione gemina?» Lei si dimostrò all'altezza come sempre. «Intendi dire Prisco? O quello nuovo, Gracile?» A quanto pareva entrambi avevano appeso al chiodo l'armatura. «Quello nuovo.» «L'ho incontrato una volta o due.» «Uomo simpatico?» azzardai prima di riuscire a trattenermi. «Oh, molto!» Per fortuna pensò che parlassi sul serio. Il suo senso dell'umorismo, ammesso che ce l'avesse, doveva essere allegro e immediato, non contorto come il mio. «Gracile è venuto a trovarti di recente?» A qualunque altra cosa si fosse abbandonato qui - ed era meglio non fare congetture - Gracile doveva avere fatto le mie stesse domande. Lei rispose con una strizzatina d'occhio d'intesa che feci fatica a sopportare. «Credo
proprio di sì!» «Immagino che avesse una scusa per presentarsi qui.» Lei scoppiò in una risata. Aveva un suono sgradevole e notai che le mancavano parecchi denti. «Qualcosa a proposito di una battuta di caccia...» «La solita vecchia scusa!» «Oh, credo invece che parlasse sul serio, tesoro... ce lo portava un gruppo di galli.» Galli? Ero già fin troppo preso con l'interesse germanico. Questa nuova complicazione era più di quanto potessi gradire con il cervello intontito dal vino aromatico. «Che cosa cercava?» A parte mettermi i bastoni fra le ruote nella ricerca di Civile e Velleda. «Cinghiali, credo.» Tentai un approccio diverso. «A Moguntiacum sono preoccupati per quello che è successo al suo schiavo personale. Rustico l'ha forse accompagnato in questa caccia grossa gallica per tenere il suo padrone in ordine mentre regge la lancia?» «Non c'era nessuno del genere con lui.» Decisi di non fare altre domande sull'infernale legato della Quattordicesima. Mi sarei solo ritrovato a dare la caccia a un misero schiavo fuggiasco che forse aveva semplicemente visto nell'assenza da casa del padrone un'opportunità di darsi alla fuga. Rinunciai, sorridendo. Claudia fu lieta di vedere che mi aveva battuto. Così lieta che accondiscese ad aggiungere: «I galli pagavano tutto». Avrei dovuto capirlo. «Detesto essere pedante, ma vuoi dire che avevano offerto loro a Florio Gracile il suo soggiorno qui da te?» Lei assentì senza parlare. Adesso l'avevo in pugno. Se al legato della Quattordicesima gemina venivano elargite grosse bustarelle di questo genere, Vespasiano avrebbe cancellato il suo nome dall'elenco dei funzionari in meno di un batter d'occhi. «Di che genere di galli si trattava?» «Vasai» rispose Claudia. Mi chiesi perché mai avesse deciso di darmi informazioni su questo cliente in particolare. Rivalità germanica con i galli? Disappunto per il modo sfacciato con cui le sue prestazioni erano state offerte come mezzo di corruzione? Optai per la disonestà commerciale. Essendo lei stessa una donna
d'affari, era naturale che Claudia non sopportasse la frode. «Non intendo metterti in imbarazzo ficcando ulteriormente il naso. Ascolta, stavamo parlando di Munio Luperco. La guerra risale a molto tempo fa e sto faticosamente tentando di trovare indizi. Mi si prospetta perfino di dover andare oltre il Reno per seguire il suo itinerario da prigioniero. La tua proficua rete di contatti si estende per caso all'altra sponda del fiume? Tu non avrai incontrato la profetessa...» Avrei dovuto immaginarlo. «Velleda?» esclamò Claudia Sacrata. «Oh, la conosco!» Il mio tono assunse una lieve sfumatura di esasperazione: «Pensavo che vivesse segregata! Ho sentito dire che abitava al di sopra delle cime degli alberi e che perfino gli ambasciatori mandati da Colonia per negoziare con lei dovettero mandare i messaggi tramite gli uomini della sua famiglia». «Infatti è così, tesoro.» Mi colpì un terribile pensiero. «Facevi parte della delegazione di Colonia?» «È naturale» mormorò Claudia. «Questa non è Roma, Marco Didio.» Questo era sicuramente vero. Alle donne germaniche evidentemente piaceva stare in prima linea negli avvenimenti. Era un pensiero terrificante per un ragazzo romano tradizionale. La mia educazione ne era scandalizzata, ma anche affascinata. «Ho una posizione sociale di rilievo a Colonia, Marco Didio. Qui sono famosa.» Riuscivo a immaginare che cosa le garantisse l'importanza: il distintivo sociale universale. «Sei una donna ricca?» «I miei amici sono stati gentili con me.» E così aveva scremato la superficie di qualche cospicuo patrimonio bancario. «Ho contribuito a scegliere i doni per Velleda e ne ho forniti alcuni io stessa. E poi avevo voglia di vedere posti nuovi, così ho viaggiato con gli ambasciatori.» Era pericolosa quanto Xanto. Il mondo doveva proprio essere pieno di intrepidi idioti che cercavano di beccarsi qualche forma letale di febbre di palude sconosciuta. «Lascia che indovini...» Sorridevo mio malgrado. «Anche se gli uomini erano tenuti a seguire le regole che salvaguardano la santità di Velleda, tu sei riuscita in qualche modo a strapparle un colloquio da donna a donna? Immagino che ogni tanto la venerata fanciulla debba fare un salto giù dalla torre... per lavarsi la faccia, diciamo?» Questa descrizione allusiva sembrava adeguata all'atmosfera discreta che regnava in casa di Claudia, dove Giove, protettore degli estranei, aveva di che esercitare il suo compito nel proteggere le persone alla disperata ricerca di una frase educata per chiede-
re dove fosse la latrina. «Ho fatto del mio meglio per lei.» Claudia Sacrata aveva l'aria triste. «Puoi immaginare che vita conduce quella povera ragazza. Nessuna conversazione, nessuna vita sociale. Gli uomini che la proteggono sono un branco di smidollati. Aveva un terribile bisogno di fare quattro chiacchiere, posso assicurartelo. E prima che tu dica qualcosa, tesoro, mi sono fatta un dovere di informarmi su Luperco. Non dimentico mai i miei ragazzi se ho l'occasione di fare un favore a uno di loro.» La cosa mi mandò su tutte le furie. «La morte di un uomo in territorio straniero non è cosa su cui spettegolare! Avete ridacchiato di Luperco nei boschetti bructiani? Ti ha detto che cosa ne ha fatto di lui?» «No» ribatté bruscamente Claudia, come se io avessi aggredito l'intero universo femminile. «Non è adatto a orecchie civilizzate? Che cosa gli ha fatto... ha appeso la sua testa come lanterna, ne ha spruzzato il sangue sul suo altare privato e ha ficcato le sue palle fra il vischio?» Roma, una volta tanto inorridita da pratiche perfino più barbare di quanto noi stessi potessimo concepire, aveva messo al bando quei riti in Gallia e in Britannia. Ma ciò non tutelava chi fosse rimasto intrappolato al di fuori delle nostre frontiere. «Lei non ha mai visto quell'uomo» rispose Claudia. «Non è mai arrivato alla torre?» «È successo qualcosa durante il tragitto.» Qualcosa di peggiore di ciò che gli sarebbe successo se fosse arrivato? «Che cos'è stato?» «Velleda non lo sapeva.» «Deve aver mentito.» «Velleda non aveva alcuna ragione per farlo, tesoro.» «Evidentemente una brava ragazza!» Questa volta lasciai che la mia ironia stridesse feroce. Claudia mi osservava con la bocca rivolta all'ingiù. Quando parlò di nuovo, c'era una traccia di risentimento: «Ti ho dedicato parecchio tempo, Marco Didio». «Te ne sono grato. Ho quasi finito. Solo un'ultima domanda: sei mai stata in contatto con Giulio Civile?» «Ci siamo incontrati in società ai vecchi tempi.» «Dove si trova adesso?» «Mi dispiace, tesoro. Pensavo che fosse tornato nell'Isola...»
Per la prima volta, la sua risposta suonò insincera. Ne dedussi che sapeva qualcosa. Mi resi anche conto che insistere con Claudia Sacrata una volta che aveva deciso di non fiatare mi avrebbe demoralizzato. A vederla sembrava una floscia palla di piumino d'oca, ma aveva una volontà straordinaria. Ero anche incappato in un'incrollabile solidarietà tribale. Non c'era speranza, ma provai comunque. «Civile è scomparso dall'Isola. Potrebbe benissimo essersi diretto di nuovo a sud, nella speranza di ristabilire la sua vecchia base di potere. Ho sentito dire che era tornato fra gli ubii e i treviri» incominciai basandomi sui fatti «e penso che possa essere vero. La sua famiglia viveva a Colonia.» «Questo quando Civile era assegnato ai forti romani.» «Può darsi, ma conosce la regione. Qualche suggerimento su dove cominciare le ricerche?» «Mi dispiace» ripeté lei. Ero un romano che aveva smesso di essere un simpatico ragazzo. Stavamo concludendo la conversazione. L'indole bonaria di Claudia tornò a prevalere tanto che mi chiese di nuovo se ci fosse qualcosa che poteva fare per me. Le risposi che avevo una fidanzata che mi aspettava, convinta che fossi uscito dalla porta solo per comprare un cesto di panini. «Sarà in ansia!» mi rimproverò Claudia con fare perbenista. Forniva conforto a uomini sposati lontani da casa, ma rovinare relazioni sulla soglia di casa era una faccenda che la offendeva profondamente. «Devi tornare da lei immediatamente.» Mi accompagnò di persona alla porta: una cortesia formale della casa. Senza dubbio, quando faceva uscire un generale, le piaceva che i vicini intravedessero la porpora. Sarebbero stati meno impressionati dal visitatore dappoco di oggi. «Allora come faccio a trovare Velleda?» chiesi. «Tutto ciò che so è che vive fra i bructeri. Sono una tribù molto estesa.» «Sono una frana in geografia. Quando ci sono andata, abbiamo viaggiato sul fiume.» Si riferiva al fiume Lupia. «E lei viveva nella foresta?» Lo sapevo già, ma guardare in faccia la cosa mi faceva raggelare. Velleda viveva nella regione che tutta Roma non sopportava nemmeno di prendere in considerazione, dove si erano infrante in modo così orrendo le speranze romane di dominare le tribù orientali. «La selva di Teutoburgo? Vorrei che fosse in qualunque altro posto all'infuori di quello!» «Stai pensando a Varo?» Per un folle istante credetti che stesse per dirmi
che Quintilio Varo e tutte le sue tre legioni perdute fossero stati suoi ragazzi. Era matura, ma non così stagionata. «I germani liberi si vantano ancora di Arminio.» L'avrebbero fatto ancora per molto tempo. Arminio era il capo tribù che aveva annientato Varo, liberando la Germania dal dominio romano, e che Civile stava ora cercando apertamente di emulare. «Sii prudente, Marco Didio.» Claudia Sacrata parlava come se io avessi avuto bisogno di farmi operare con un trapano: un foro praticato nel mio cranio per alleviare la pressione sul mio cervello. XXXVII «Sei stato in giro un bel po' di tempo» brontolò Elena. Le spiegai perché. Pareva la cosa migliore da fare, nel caso in seguito qualcuno della vasta cerchia di Claudia Sacrata a Colonia si fosse lasciato sfuggire l'informazione. Elena giunse alla conclusione che ero sparito di proposito. «E hai bevuto?» «Dovevo essere socievole. Ma ho rifiutato lo spuntino che lei serve d'abitudine ai suoi ragazzi romani.» «Molto morigerato da parte tua! Non sei tipo da salotto... essere socievole ha funzionato?» «Ho appreso qualche pettegolezzo scabroso. Mi ha confermato che Florio Gracile mi precede di un passo nella ricerca dei capi ribelli. È anche immerso fino al collo nella vendita di favori e maschera la cosa con una battuta di caccia autunnale. La sola informazione utile di cui sospetto lei sia a conoscenza, e cioè dove potrei trovare Civile, è stata la sola cosa che si è rifiutata volutamente di dirmi.» «Che ne è stato della tua capacità di persuasione?» «Dolcezza, non ho nulla da offrire a una donna che è abituata a farsi costringere da uomini con retribuzioni pubbliche di alto livello.» «Allora stai peggiorando!» commentò Elena, più caustica del solito. «A proposito, sono andata io a prendere il pane. Ho capito che te ne eri andato da qualche parte per lavoro e ho pensato che probabilmente te ne saresti dimenticato.» Mi diede un panino di farina integrale per consolarmi. Lo mangiai, abbattuto. L'effetto sul vino aromatizzato di Claudia Sacrata fu trascurabile. Mi sentivo ancora sbronzo, nel modo atroce che vi tormenta quando siete anche in disgrazia. «Marco, ho assunto una serva ubia per aiutarmi quando tu dovrai andare via. È una vedova... i disordini, sai. Ha
una figlia della stessa età di Augustinilla. Spero che un'amichetta allevata con più severità possa avere una buona influenza su di lei.» Non ero pronto a pensare di dovermene andare. «Buona idea. Pagherò io.» «Puoi permettertelo?» «Sì.» Lei mi rivolse una delle sue occhiate. Sapeva che intendevo dire no. Quasi a conferma della sua informazione, proprio allora due piccole teste fecero capolino dalla porta e mi fissarono. Avevano tutte e due la stessa faccia insignificante, una pagnottella ben rosolata con occhi come uvetta bruciata e un'informe massa rotonda di pallido impasto non lievitato. Davano entrambe l'impressione di essere una fonte di guai. Quella con le treccine biondissime chiese a quella bruna con il ciuffo: «È lui?». Aveva un leggero balbettio, un accento germanico e circa sei volte l'intelligenza di mia nipote. «Fuori di qui» grugnii «oppure entrate come si deve.» Loro entrarono e se ne stettero in piedi a mezzo passo di distanza, dandosi spallate e ridacchiando. Mi sentivo come un ippopotamo in un serraglio scalcinato, quello con la fama di fare imprevedibili cariche contro le sbarre. «Tu sei lo zio che fa l'investigatore?» «No, io sono l'orco che mangia i bambini. E tu chi sei?» «Mi chiamo Arminia.» Non ero dell'umore giusto per bambine a cui era stato dato il nome di eroici nemici di Roma. Arminia e Augustinilla si stavano ancora stuzzicando a vicenda per vedere se riuscivano a farmi uscire dalla mia gabbia caricando. «Su che cosa stai indagando a Colonia, per favore?» «Segreto di stato.» Scoppiarono entrambe in gridolini. «Non dargli retta» sentenziò Augustinilla. «Mia madre dice che non riuscirebbe a trovare il suo ombelico. Tutti a Roma sanno che lo zio Marco è un perfetto ciarlatano.» Con aria di grande superiorità, uscirono impettite mano nella mano. «Vedo che hanno fatto subito amicizia» commentai rivolto a Elena. «È evidente che non esistono barriere etniche fra ragazzine orrende. Così, invece di avere fra i piedi una scolaretta incontrollabile, adesso ne abbiamo due.» «Oh, Marco, non essere così pessimista.» Le cose continuarono a peggiorare. Il fratello di Elena, Giustino, arrivò
al nostro alloggio. Sarebbe stato un ospite benvenuto, non fosse che si era presentato con circa una settimana di anticipo. Il suo cagnetto gli riservò un'accoglienza scatenata, poi si precipitò dentro e fece pipì sui miei stivali. Prima di lasciare Giustino al forte, avevamo concordato che ci avrebbe seguito a Colonia, portando con sé il venditore ambulante, Dubno, di cui volevo servirmi come guida fra i bructeri. In teoria avrebbe dovuto raggiungerci solo dopo aver cercato di convincere il suo legato a lasciare che alcuni soldati venissero con me dall'altra parte del fiume. Mi ero aspettato che l'organizzazione della scorta l'avrebbe fatto ritardare. Fui stupito, quindi, di vederlo comparire all'improvviso già la prima sera. «Che cos'è questa storia? La tua nave deve avere percorso l'intera distanza remando a ritmo doppio per portarti qui così presto! Tribuno, non mi piacciono le sorprese. Di rado comportano buone notizie.» Giustino assunse un'aria imbarazzata. «È arrivata una missiva per Elena. Ho pensato di dovergliela portare qui il più presto possibile.» Gliela diede. Sia lei che io riconoscemmo la pergamena e il sigillo del Palazzo. Giustino si aspettava evidentemente che lei rompesse i sigilli con impazienza, ma Elena la tenne sulle ginocchia, con aria imbronciata. Io dovevo avere un'espressione simile. «Ha provocato un grande scompiglio al forte» protestò lui quando vide che lei la ignorava. «Davvero?» s'informò Elena, con il suo genere di raggelante disdegno. «Di norma non rendo pubblica la mia corrispondenza.» «È di Tito Cesare.» «Questo lo vedo.» Lei stava assumendo la sua espressione ostinata. Per cortesia verso suo fratello, dissi: «Elena gli aveva dato dei consigli a proposito di un problema con la sua vecchia zia». Lei mi lanciò un'occhiata che avrebbe scuoiato una donnola. «Ah...» Giustino era in grado di capire che aria tirasse. Ebbe la delicatezza di credere alla mia battuta pungente. «È meglio che io vada adesso, Marco Didio. Ho bisogno di un bagno. Potremo parlare meglio un'altra volta. Starò al forte della flotta del Reno.» «Sei riuscito a procurarmi una scorta?» «Ti hanno assegnato un centurione e venti uomini. Piuttosto inesperti, temo, ma non ho potuto fare di meglio. Ho spiegato al mio legato che eri in missione ufficiale, a dire il vero gli ho anche suggerito di incontrarti, ma se lavori in segreto per il Palazzo preferisce tenersi alla larga e lasciare che te la cavi da solo.»
Avrei preferito anch'io tenermi alla larga dalla mia missione. «Tipo all'antica, eh?» «Oggigiorno le incursioni sulla sponda orientale non sono incoraggiate.» Voleva dire che Roma aveva già abbastanza grattacapi nel territorio che controllava, senza aizzare le tribù orientali. «Mi va bene così. Detesto le formalità. Ringrazialo. Sono riconoscente per qualunque aiuto. Hai portato anche il venditore ambulante?» «Sì. Ma ti avverto che sta protestando animatamente.» «Non preoccuparti. Sono venuto attraverso la Gallia con un barbiere chiacchierone. Da allora sono in grado di cavarmela con qualsiasi cosa.» Giustino diede un bacio alla sorella e sparì in tutta fretta. Noi restammo seduti distanti e in silenzio. Date le circostanze, pensavo che toccasse a lei parlare. Elena generalmente ignorava quello che pensavo. Dopo un momento borbottai: «Ti bacerei anch'io, ma non mi sembra opportuno con una lettera del figlio dell'imperatore appoggiata sulle tue ginocchia». Lei non rispose. Avrei voluto che balzasse in piedi e bruciasse quell'oggetto. Protestai deciso: «Elena, faresti meglio ad aprire quel documento». Rifiutarsi avrebbe peggiorato il nostro stato di tensione, così ruppe lentamente il sigillo. «Vuoi che esca mentre la leggi?» «No.» Lei era veloce a leggere. E poi, per essere una lettera d'amore era ridicolmente breve. Lesse con il viso inespressivo, poi la arrotolò di nuovo ben bene, tenendo il rotolo nel pugno chiuso. «Hai fatto in fretta.» «È più simile a un'ordinazione per un paio di stivali nuovi» convenne lei. «È noto per essere mediocre come oratore pubblico, ma un uomo nella sua posizione dovrebbe saper imbeccare un poeta su commissione perché gli scribacchi qualche esametro con cui rendere omaggio a una signora... io lo farei.» «Tu» mormorò Elena, con una calma che mi lasciò istupidito per lo spavento «scriveresti gli esametri da solo.» «Per te lo farei.» Rimase in silenzio. Non c'era nulla che potessi fare per lei. «Mi ci vorrebbero alcune migliaia di versi» mormorai miseramente.
«Probabilmente dovresti aspettare un mese o due mentre li raffino come si deve. Se io ti stessi chiedendo di tornare a casa da me, vorrei dirti tutto...» Smisi di parlare. Se Tito le avesse offerto l'impero, Elena Giustina avrebbe avuto bisogno di riflettere. Era una ragazza prudente. Stavo cercando di convincermi che qualsiasi cosa Tito avesse da dire, finora non doveva essere niente di ufficiale. Se avesse fatto qualche proposta seria, sarebbero stati i loro padri a trattare. Persino fra imperatori - specialmente fra imperatori - ci sono modi per affrontare queste cose. «Non preoccuparti.» Elena alzò di colpo gli occhi. Era sempre così. Ogni volta che avevo motivo di preoccuparmi per lei, era lei che cercava di mettere fine alla cosa preoccupandosi per me. «Non succederà niente, te lo garantisco.» «Il grand'uomo ti ha fatto la sua proposta?» «Marco, non appena gli risponderò...» «Non farlo» dissi. «Come?» «Non rispondergli ancora.» Per lo meno, se mi fosse capitata una disgrazia, Tito Cesare si sarebbe preso cura di lei. Non le sarebbe mai mancato niente. E il vantaggio per l'impero sarebbe stato immenso. Un Cesare che avesse regnato insieme a Elena Giustina avrebbe potuto compiere imprese ineguagliabili. Tito lo sapeva. Anch'io. Avrei dovuto lasciarla andare. Qualcuno avrebbe detto che una volta raggiunta la Germania Libera il mio autentico dovere sarebbe stato di scomparire nei boschi. Negli imprevedibili momenti in cui mi preoccupavo di Roma, l'avevo pensato perfino io. Era strana. Invece di chiedermi che cosa intendessi, si alzò, mi venne vicina e poi si sedette in silenzio al mio fianco, tenendomi la mano. I suoi occhi si riempirono di lacrime che era troppo ostinata per versare. Lo sapeva, naturalmente. Io la volevo per me. Perfino quando avessi attraversato lo Stige nell'Ade, avrei litigato con il traghettatore e lottato con tutte le forze per lasciare la barca e tornare da Elena. Volevo soltanto tutelare il suo futuro, nel caso io non ci fossi stato. Lei sapeva anche il resto. Andare sull'altra sponda del fiume sarebbe stato stupidamente rischioso. La storia era contro di me. Le tribù libere erano nemiche implacabili di tutto ciò che era romano. E la Britannia mi aveva insegnato in quale modo i celti trattavano i loro nemici. Se mi catturavano,
potevo aspettarmi che mi avrebbero negato l'immunità diplomatica. Il mio teschio sarebbe stato impalato su una lancia in una nicchia all'esterno di un tempio. Quello che sarebbe successo al resto di me prima che mi mozzassero la testa sarebbe stato probabilmente più degradante e più doloroso di quanto potessi immaginare di affrontare. Non chiesi a Elena quanto sapesse di tutto ciò, ma lei era una che leggeva molto. Quando mi ero innamorato di Elena Giustina, avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai più esposto a gravi rischi. C'erano state parecchie dimostrazioni di prodezza nel mio passato, delle quali per lo più non le avrei mai neppure accennato. Ma un uomo invecchia. Impara che ci sono altre cose che contano. Lei poteva immaginare che avessi una carriera orripilante alle spalle, ma era convinta che, dicendole che l'amavo, intendevo anche dire che avevo chiuso con le avventure da scavezzacollo. Nessuno poteva biasimarla; l'avevo creduto anch'io. Adesso sembravo uno di quegli squilibrati che si eccitano per il pericolo. Elena doveva sentirsi scoraggiata come se si fosse legata a un ubriacone o a un fornicatore. Doveva essersi detta che tutto sarebbe cambiato sotto la sua influenza, ma ora si rendeva conto che non sarebbe mai accaduto... Tuttavia, sapevo di non essere più lo stesso. Questo era solo un ultimo tentativo di ottenere una ricompensa decente dall'imperatore, per poter stare con lei. Un ultimo lancio... Immagino che tutti gli squilibrati si dicano la stessa cosa. «Su con la vita» fece lei. I suoi modi erano bruschi. «Andiamo, Marco. Offriamo a Claudia Sacrata un altro scandalo per la sua collezione. Che ne dici di presentare la tua affettuosa figlia di senatore all'amante del generale?» XXXVIII C'era un mantello scarlatto appeso a un chiodo nell'ingresso. Elena e io ci scambiammo un'occhiata, sforzandoci di non ridacchiare. Claudia Sacrata uscì a incontrarci. Quella sera portava una ghirlanda di traverso e un abito in tonalità semi di melone e buccia d'uva. Il belletto di mercurio dato con mano pesante aveva prodotto quell'effetto luminoso attorno agli occhi grazie a cui le donne credono di apparire più giovani agli occhi degli uomini (e in effetti in molti casi funziona). C'era un suono di flauti di canna alle sue spalle, interrotto bruscamente da una porta che veniva chiusa.
Chiusa da qualcun altro. Claudia ci condusse in un'altra stanza. Quando ci lasciò nuovamente per un momento, Elena mormorò: «A quanto pare abbiamo sorpreso un ufficiale superiore con i ganci della corazza slacciati». «Approfitta dell'occasione. Non credo che ci fermeremo a lungo.» «Lei dove sarà andata? Sarà sgattaiolata indietro per dargli un romanzo greco da leggere mentre si occupa di noi?» «Può darsi che lui se la stia filando dal cancello del giardino con un solo schiniere sugli stinchi... Ti ho mai raccontato che il mio amico Petronio dice che ogni volta che fa irruzione in un bordello scopre l'edile che rilascia le licenze ai bordelli nascosto in una cassapanca fra le coperte? I boriosi con i nomi altisonanti sono incorreggibili.» «Immagino» disse sobriamente Elena Giustina «che siano le tensioni della carica a rendere necessaria la terapia.» Era stata sposata con un edile una volta. Speravo che lui avesse passato tutto il tempo libero dentro casse per le coperte, e non insieme a lei. Claudia Sacrata tornò. «Ho portato qualcuno che moriva dalla voglia di conoscerti...» Le presentai la mia aristocratica accompagnatrice. Qualunque grado maschile Claudia avesse intrattenuto, doveva essere la prima e forse unica volta che la figlia di un senatore sedeva in casa sua. Per un trofeo del genere, avrebbe lasciato che interrompessimo perfino il suo generale. Elena si era vestita con cura, ben sapendo che l'abito bianco con i ramoscelli di boccioli di fiori, la tonalità delle guance, la frangia della sua stola, gli orecchini ad anello di minuscole perle e la collana di ambra che le avevo regalato avrebbero fatto tendenza nella società ubia per i prossimi dieci anni. «Che ragazza deliziosa, Marco Didio!» esclamò Claudia, prendendo mentalmente appunti sulla moda. Elena sorrise con grazia. Anche quel tipo di sorriso avrebbe fatto mostra di sé in moltissime sale da pranzo di Colonia. «Sono contento della tua approvazione.» Questa risposta sfrontata mi valse un livido da parte degli attraenti calzari guarniti di perline della deliziosa ragazza. «Ha il suo lato selvaggio, ma pian piano la sto domando... Non giudicare le maniere romane dal suo comportamento impetuoso. Laggiù le ragazze sono tutte violette sussurranti che devono chiedere alla madre il permesso per qualsiasi cosa.» «Sei molto presa!» disse Claudia a sua signoria in tono confidenziale,
lanciandomi un'occhiata eloquente. «Tutti commettiamo i nostri errori» concordò Elena. Esaminarono entrambe l'oggetto del loro disdegno. Per accompagnare Elena in giro per Colonia mi ero vestito anch'io con cura: tunica, cintura, stivali, rivestimento degli stivali, mantello, sogghigno impertinente: la stessa tenuta trasandata di sempre. La nostra ospite si stava evidentemente chiedendo com'era possibile che una giovane donna intelligente come Elena fosse potuta cascare così male. Chiunque era in grado di vedere che lei era estremamente raffinata (un'ottima candidata a rovinarsi la reputazione sotto un colonnato), e tuttavia dotata di notevole buonsenso (e di conseguenza con ottime probabilità che mi assestasse un vigoroso calcio sotto il più vicino arco di trionfo). «Sei sposata, Elena?» si informò Claudia. Non prendeva nemmeno in considerazione la possibilità che Elena Giustina fosse sposata con me. «Lo sono stata.» «È possibile chiedere...?» «Abbiamo divorziato. È un passatempo popolare a Roma» spiegò Elena in tono leggero. Poi cambiò idea e aggiunse con franchezza: «Mio marito è morto». «Oh, poverina. Com'è successo?» «Non ho mai saputo tutti i particolari. Marco li conosce.» Ero furioso per quell'interrogatorio. Elena lo affrontava con calma e fierezza, nel suo abituale stile pubblico, ma in privato quell'argomento la turbava sempre. Con voce gelida, dissi a Claudia Sacrata: «C'è stato un pubblico scandalo. Lui si è suicidato». Il mio tono doveva aver chiaramente attestato che volevo che lasciasse cadere l'argomento. Lo sguardo di Claudia si fece più intenso ed eccitato, come se fosse sul punto di chiedere "Spada o veleno?", ma poi si rivolse a Elena. «Si prende cura di te, a quanto pare.» Elena inarcò le sopracciglia, che erano assottigliate in un'elegante mezzaluna e quasi certamente ravvivate con il belletto, sebbene in modo delicato. Claudia Sacrata disse in un sussurro: «Ha intenzione di infilzarmi con la lancia al soffitto se faccio troppe domande!». Elena diede una dimostrazione di come una donna ben educata dovesse semplicemente ignorare le cose sgradevoli. «Claudia Sacrata, ho saputo che tu sei un pilastro della società ubia. Marco Didio mi dice che sei la sua unica speranza di rintracciare Civile.» «Ho paura di non poterlo aiutare, tesoro.» Di fronte a Elena, Claudia Sa-
crata ora se ne rammaricava. Voleva essere vista come una benefattrice pubblica. «La persona che avrebbe potuto farlo era il figlio di sua sorella, Giulio Brigantico. Detestava lo zio ed è rimasto sempre leale a Roma, ma avendo accesso a informazioni familiari, si poteva sempre fare affidamento su di lui per sapere dove fosse Civile.» «Falco può mettersi in contatto con lui?» «È stato ucciso, mentre si batteva con Ceriale nel nord.» «E il resto della famiglia?» insistette Elena. Era evidente che Claudia Sacrata l'aveva presa in simpatia. Particolari che a me erano stati negati vennero fuori a bizzeffe. «Oh, Civile aveva una moltitudine di parenti: sua moglie, diverse sorelle, una figlia, un figlio, un'intera nidiata di nipoti...» Incominciavo a pensare che questo Civile doveva essere un personaggio simpatico. La famiglia del batavo sembrava terribile quanto la mia: troppe donne, e gli uomini intenti ad azzuffarsi l'uno con l'altro. «Non parleranno con voi» continuò Claudia. Anche in questo somigliavano ai miei parenti. «In maggioranza erano strenui sostenitori dell'impero gallico indipendente. Civile in realtà di tanto in tanto portava con sé dietro le linee la moglie e le sorelle, e le famiglie di tutti i suoi ufficiali... come facevano i guerrieri ai vecchi tempi.» «Con i viveri per fare un pranzetto?» riflettei in tono faceto. «Per incoraggiarli in battaglia, tesoro.» «E scoraggiare la rilassatezza!» disse seccamente Elena. Riuscivo a immaginarmela su un carro nelle retrovie dell'esercito, a urlare invettive che avrebbero terrorizzato il nemico e incitato i propri uomini incompetenti. «Quando non fanno da bersaglio alle lance, Claudia, non vivono da queste parti?» «Un tempo, sì. Civile e gli altri capi si incontravano perfino nelle loro case per cospirare. Questo, però, avveniva molto tempo fa, quando Colonia non voleva avere niente a che fare con questa ribellione. Oggigiorno nessuno del suo clan si fa vedere in giro. C'è troppo risentimento. Civile ha spinto le tribù vicine ad assalire gli ubii, i suoi amici treviri hanno stretto d'assedio Colonia e si sapeva che le sue intenzioni erano di saccheggiarci e depredarci.» «Allora dove potrebbe andare?» rifletté Elena. «Se volesse nascondersi in questa zona che conosce così bene, evitando però gli ubii, che lo consegnerebbero subito a Roma?» «Non saprei... Forse fra i lingoni, o più probabilmente i treviri. Il capo dei lingoni...» Claudia scoppiò all'improvviso in una risatina. «È una storia
buffa. Si chiama Giulio Sabino ed è un gran vanitoso, anche se totalmente fasullo. Era solito raccontare che la sua bisnonna, una vera bellezza, aveva sedotto Giulio Cesare.» «Non c'è niente di cui vantarsi!» borbottai. «Prego, tesoro?» «Era un'impresa facile.» «Oh, Marco Didio! In ogni caso, Elena, Sabino era pieno di boria, ma non appena arrivò Ceriale si fece prendere dal panico. Diede fuoco alla propria fattoria per far sembrare che si fosse suicidato, e poi se la filò. Sua moglie Eponnina lo tiene nascosto. Lo sanno tutti, ma nessuno ne parla pur credendo che uscirebbe strisciando, rosso in viso e con qualche filo di paglia nelle braghe. Tuttavia, da come vanno le cose, potrebbe restarsene rintanato per anni.» Era una storia divertente, e mi offriva un'indicazione interessante sulle preoccupazioni che potevano assalire anche la mia preda, Civile. «In ogni caso, miei cari, Civile non vorrà avere nulla da spartire con un tale codardo. È più probabile che divida il suo pane con Classico.» «Chi è?» domandò Elena. «Un capo dei treviri. Quello che spinse Colonia ad allearsi temporaneamente con i ribelli. Giustiziò anche alcuni tribuni romani a Moguntiacum, che avevano rifiutato di giurare fedeltà all'alleanza germanica.» «Giovanotti che conoscevi?» «Uno o due di loro.» Come d'abitudine, Claudia lo disse in modo impassibile, ma forse le dispiaceva davvero. Sembrava più vecchia quella sera, e stanca dell'allegria. «Scusami... Ti ho interrotta.» «Be', stavo dicendo di Classico. Dopo che il mio generale ebbe sconfitto i treviri, il loro capo andò a Roma e se la cavò grazie alla sua faccia tosta. Ora conduce una vita ritirata. I romani gli consentono di restare nella sua proprietà.» «Abbiamo promesso che non ci sarebbero state rappresaglie» confermai. «Sappiamo dove si trova. Una mossa sbagliata ed è messo al bando. Sarebbe disposto, ciò nonostante, a venir meno alla parola data per offrire rifugio a Civile?» «Non apertamente. Ma potrebbe mettergli a disposizione un nascondiglio con discrezione. Sì» concluse Claudia, convincendosene «Augusta Treverorum è il miglior terreno di caccia per te, Marco Didio.» Forse era così, ma non mi era minimamente utile, ora che mi preparavo a indagare su Velleda. La capitale dei treviri sorgeva a oltre un centinaio di
miglia a sudovest, all'interno della provincia della Belgica, molto lontano dal mio itinerario, che andava a nord e a est. Perfino Vetera, dove intendevo iniziare la mia ricerca, si trovava più vicina. Se Civile si annidava ad Augusta Treverorum, avrebbe dovuto aspettare, prima che io andassi a insidiare il suo nascondiglio. Le avevamo strappato maggiori informazioni, ma mi accorsi che la fonte si stava inaridendo. «Sei stata gentile a riceverci, ma ora è meglio che ce ne andiamo. L'esperienza mi dice che i riccioli fatti col ferro di Elena stanno per afflosciarsi...» La sua nuova ancella personale l'aveva aiutata a creare una coroncina di riccioli che le incorniciava il viso. Durante il procedimento mi ero preoccupato per l'odore di bruciato. «Sì» convenne lei con garbo. «Se succede, scoppierà il panico.» Mentre ci alzavamo in piedi, Claudia domandò: «E allora dove andrai prossimamente, Marco Didio?» «Non ho altra scelta che fare un'incursione sulla sponda orientale.» «La Germania, i cui guerrieri sono sempre stati considerati i più spietati al mondo» disse Elena. Sorrisi teneramente. «Immagino che anche loro abbiano un lato sentimentale.» «E le donne sono anche peggio» ribatté lei. «Sono abituato alle donne furiose, amore.» Lei si rivolse a Claudia. «Velleda è giovane o vecchia?» «Abbastanza giovane.» «È bella?» «Gli uomini probabilmente lo pensano» disse seccamente quella cortigiana di legati e generali, come se la mera bellezza non fosse nulla di cui complimentarsi. Ci accompagnò fuori. Vidi un luccichio nei suoi occhi argentati quando scoprì che Elena era stata portata lì su una lettiga di legno di cedro. Si diede un gran daffare per aiutarla a salire all'interno, sistemandole ad arte la stola di seta e accendendo con una candela le nostre lanterne in modo che i vicini si godessero l'effetto complessivo. Poi diede una pacca sulla spalla a Elena. «Non preoccuparti di Velleda. Sei nettamente superiore a lei.» «Io non ci sarò!» rispose tristemente Elena Giustina. XXXIX Mentre ci avvicinavamo al nostro alloggio, due piccole figure schizzaro-
no via nel buio. Dovevano essere rimaste in attesa del nostro ritorno, ma il coraggio le aveva abbandonate e se la svignavano. Erano mia nipote e la sua amichetta. Le richiamai, adirato, ma loro ignorarono il mio urlo. Giustino era tornato. Sperava ancora di sentire che cosa ci fosse nella lettera di Tito. Elena continuò a rifiutarsi di riferirglielo. Allora lui ci raccontò che si era offerto volontario per venire con me fino a Vetera. Mi chiedevo se in realtà si fosse prenotato per l'intera avventura, ma né lui né io ne discutemmo di fronte a Elena. In verità, lei mi prese da parte per ordinarmi risolutamente di proteggerlo, poi trascinò via lui per ordinargli di badare a me. Le bambine erano tornate furtivamente. «Ascoltate, voi due, voglio che sia inteso: le donne della mia famiglia non escono di casa quando è buio!» Ebbe il solito effetto di suscitare uno scoppio di risa, e fu subito dimenticato. La vedova ubia, una tipa silenziosa che sembrava abbastanza capace, stava cercando di mettere a letto quelle due. Augustinilla incominciò a piagnucolare. Arminia era ugualmente stanca, ma approfittò dell'opportunità per osservare lo scompiglio causato dalla sua amica come se fosse sorpresa di vederla comportarsi da bambina così cattiva. Trattenni la mia contrarietà mentre Elena diceva infastidita: «Marco, piantala di gridare. Non serve a niente. È solo una bambina esausta, affidata a estranei e portata lontano da casa. Le fa male un dente e la sua bambola si è rotta». La faccia di mia nipote era gonfia e arrossata in modo sgradevole e alla bambola che si teneva sempre stretta mancava un braccio. Avevo cercato di evitare di esserne informato, poiché avrei preferito che mi chiedessero di cavare uno dei miei stessi denti piuttosto che quello di un bambino. Per fortuna Augustinilla si rifiutò di aprire la bocca per lasciarmi dare un'occhiata. «Questo mi risparmia di essere morso! Bene. Sarebbe meglio se facessimo il funerale alla bambola e la bruciassimo in modo elegante!» «Chiudi il becco, Marco. Augustinilla, lo zio Marco te la riparerà. Dàgli i pezzi, altrimenti non potrà farlo.» «Non riuscirà a farlo, non sa fare niente...» Emisi un sommesso brontolio. Non sono del tutto senza cuore. Mi dispiaceva per la bambola, se non altro. Ma avevo già visto che quell'oggetto ciondolante aveva gli arti snodabili di terracotta di un tipo che sapevo essere una vera schifezza da riparare. «Ci provo, ma non chiamatemi assassino se va in pezzi. E se qualcuno dice "Marco, hai un cuore d'oro", me ne vado
di casa.» Elena borbottò, furente: «Pensavo che te ne andassi comunque!». «No, ragazza mia. Il mio permesso non è stato ancora firmato.» Mi ci volle un'ora e mezza per riparare la bambola. Non esagero. Giustino aveva perso ogni speranza di una conversazione civile, per non parlare della cena. Ci lasciò abbastanza presto reprimendo qualche espressione sconcia. Le bambine sedevano avvolte nelle coperte, osservandomi. Elena e la donna ubia fecero insieme uno spuntino evitando di chiacchierare, come se io fossi il tipo di lavoratore che da un momento all'altro potrebbe esplodere in modo irrazionale. Mangiarono salsiccia. Io dovetti rifiutare, per evitare di ungermi le mani. Come capita sempre, il giunto a sfera rientrò di colpo nella sua cavità con assoluta facilità. Tutti gli altri si scambiarono occhiate come se si chiedessero il perché di tutto quell'imprecare e di tutta quella perdita di tempo. Augustinilla mi lanciò un'occhiata ostile, afferrò la bambola, spingendosela contro la guancia in fiamme e si mise a dormire senza una parola di ringraziamento. Mi sentivo teso. «Usciamo» brontolai rivolto a Elena. «Pensavo che le tue donne venissero sprangate in casa dopo il coprifuoco.» «Ho bisogno di stare lontano da altra gente.» «Allora perché devo venire?» Le sfiorai per un attimo il collo. «Tu devi stare con me.» Staccai un lume e uscii in fretta di casa mentre Elena si fermò a prendere i mantelli che avevamo indossato entrambi in precedenza, e poi mi seguì. «Grazie per averlo fatto» buttò lì Elena quando le presi la mano durante la passeggiata. «Hai già abbastanza cose per la testa...» Io emisi un grugnito. «È inutile rischiare il collo se non lo si fa per un mondo nel quale ai bambini è dato credere che i maghi ripareranno sempre i loro giocattoli rotti.» Sembrava una frase trita e ritrita. Lo trovai confortante. È inutile fare l'eroe se non lo si compensa con un po' di retorica banale. «Il dente le fa veramente male, Marco. Hai qualcosa in contrario se la porto a un santuario delle guarigioni?» Dissi di no, purché fossero fatti tutti i tentativi per affogare Augustinilla in una sorgente sacra. Portai Elena lungo la riva del fiume. Riuscii a trovare un giardino. Era
quasi la metà di ottobre, ma si sentiva un profumo di rose, anche se non riuscivamo a vedere dov'erano. «Devono avere delle piante che fioriscono a ripetizione, come le rose centofoglie di Paestum...» Gettai indietro la testa, respirando profondamente finché non mi calmai. «Sto pensando a un altro giardino, Elena. Un giardino vicino al Tevere dove una volta mi sono reso conto di essere perdutamente innamorato...» «Ma che bei discorsi allegri, Falco.» Con addosso solo una leggera stola, tremava di freddo. La presi fra le braccia in modo da poterci avvolgere entrambi nel mio mantello. Lei era di umore scontroso e stava sulla difensiva. «Che cosa ci facciamo qui?» «Tu hai bisogno di parlarmi.» «Oh, certo» ammise. «È tutta la sera che ci provo, ma tu mi ascolti?» «Riconoscimelo. Sono venuto qui per ascoltarti.» Sconfitta dal mio atteggiamento assolutamente ragionevole, sospirò. «Grazie.» Liberò un braccio e lo puntò in direzione dell'acqua. Il fiume qui era più stretto che a Moguntiacum, ma ancora abbastanza ampio perché riuscissimo a stento a scorgere l'altra riva nell'oscurità. Se c'erano delle luci, non le vedevamo. «Guarda laggiù, Marco. È quasi un altro continente. Laggiù c'è l'antitesi di tutto ciò che è romano. Popolazioni nomadi. Divinità ignote in luoghi selvaggi. Nessuna strada. Nessun forte. Nessuna città. Nessun Foro, né terme, né tribunali. Niente di organizzato e nessuna autorità alla quale appellarsi.» «E non ci sei tu» dissi. Ero quasi sicuro che mi avrebbe chiesto di non partire. Forse lei aveva avuto perfino l'intenzione di farlo. Invece, trovò chissà come una pianta di rose e strappò un fiore per noi due. Le rose richiedono sempre una certa energia. Era una ragazza che aveva i suoi momenti di violenza. Annusammo insieme il profumo intenso del fiore. «Sono qui, signora. Sto ancora ascoltando.» Lei si succhiava un dito di lato dov'era entrata una spina. «Claudia aveva ragione. Tu mi proteggi. Da quando ci siamo conosciuti, tu ci sei sempre, che io lo voglia o no. A quel tempo sembrava perfino che mi detestassi, ma mi stavi già cambiando. Sono sempre stata la primogenita, la sorella maggiore, la cugina grande, quella testarda, prepotente, assennata. Tutti dicevano sempre "Elena Giustina sa badare a se stessa...".» Mi pareva di iniziare a capire dove voleva arrivare. «Le persone ti amano, mia cara. La tua famiglia, i tuoi amici, la mia famiglia... tutti si preoccupano per te così come faccio io.»
«Tu sei la sola persona dalla quale lo accetto.» «È questo che volevi dire?» «A volte ho paura di farti sapere quanto ho bisogno di te. Mi sembra di chiedere troppo, sapendo che mi hai già dato così tanto.» «Chiedi tutto quello che vuoi.» Stavo ancora aspettando l'importante richiesta di non andare. Non avrei dovuto essere così sciocco. «Fai solo in modo di tornare.» Elena parlò senza toni drammatici. Non c'era alcun bisogno di rispondere. Per due chicchi d'orzo avrei ordinato all'imperatore di avvolgere la sua missione nei pampini e passarci sopra con il suo cocchio trionfale. Ma a Elena non sarebbe piaciuto. Le dissi che era bellissima. Le dissi che l'amavo. Essendo una ragazza equa a cui erano state insegnate le buone maniere, fece considerazioni analoghe su di me. A quel punto chiusi il coperchio della lanterna così che Colonia Claudia Ara Agrippinensium (Ara Ubiorum) non venisse a sapere che sul suo bel lungofiume curato un plebeo nella condizione sociale di un ratto puzzolente si prendeva eccessive libertà con la figlia di un senatore. XL Partimmo il giorno seguente. Riuscii a liberarmi di Xanto, ma Giustino, che avrebbe dovuto avere più buon senso, fece salire a bordo di frodo il suo terribile cane. Ancora una volta il mio lasciapassare imperiale era servito per ottenere un passaggio su una nave della flotta ufficiale. Scoprii anche che Giustino allestiva le spedizioni in grande stile. Si era portato appresso cavalli, tre tende di cuoio, armi, provviste e un forziere di denaro contante. Solo la qualità dei suoi uomini si rivelò deludente, anche se essendo abituato a viaggiare da solo in missioni come quella, non mi lamentai. Mi risollevai per un momento quando Giustino e io arrivammo alla banchina: il centurione che sorvegliava il carico della nostra nave era Elvezio. «Ma come?» chiesi sorridendo. «Sei tu che comandi la mia scorta? Pensavo che avessi troppo buonsenso per una missione folle come questa.» Notai, e non era la prima volta, quella piccolissima esitazione prima che mi punzecchiasse di rimando: «Purtroppo per te. Significa che la tua scorta è formata da due decurie delle mie reclute incapaci». Era una cattiva notizia, ma alcuni di loro erano a portata d'orecchio così fummo costretti a essere abbastanza educati. «Ho cercato di scegliere il meglio per te.» Ma in verità Elvezio mi aveva portato una cesta di frutta caduta dagli alberi or-
mai ammuffita. «Abbiamo ancora un centinaio di miglia di navigazione» dissi al centurione «e parecchio spazio sul ponte. Posso darti una mano con un po' di addestramento supplementare con le armi.» Sarebbe anche servito a rimettermi in forma. «Per quando sbarcheremo a Vetera dovremmo riuscire a tirare fuori da loro qualcosa di decente.» La stessa ombra di diffidenza gli incupì il viso. «E così incominci da Vetera?» Pensai che sospettasse che volessi fare un viaggio di piacere. «Non c'è niente di morboso in questo. Incomincio da dove Luperco è partito.» «Saggio.» La sua risposta laconica mi convinse che stavo rivangando qualche tragedia personale. Navigavamo in direzione della grande pianura del basso Reno. La riva destra fino al fiume Lupia costituiva il territorio dei tencteri, una tribù potente, e una delle poche in Europa, a parte i galli, a fare ampio uso dei cavalli. Erano stati amici fidati di Civile durante la ribellione, ansiosi di attraversare il fiume e razziare i nostri sostenitori, specialmente Colonia. Ora si erano nuovamente ritirati al di là del fiume. Tuttavia, quando l'alveo lo consentiva, la nostra nave si teneva il più possibile vicina alla nostra riva sinistra. Più in là dei tencteri vivevano i bructeri. Tutto ciò che sapevo di loro era l'odio leggendario che nutrivano per Roma. Dato che avevamo portato con noi il venditore ambulante Dubno, ogni tanto gli facevamo qualche domanda sulla riva orientale. Le sue risposte evasive servivano solo ad alimentare le nostre paure. Dubno reagiva in modo assai modesto al richiamo dell'avventura; sembrava che si considerasse più un ostaggio che il nostro fortunato esploratore e interprete. Si lamentava parecchio. Anche noi eravamo scontenti, soprattutto a causa sua, ma io misi in chiaro che dovevamo coccolarlo tutti quanti. Doveva credere che fossimo comprensivi se volevamo poterci fidare di lui come guida. Trascorrevamo le giornate tenendoci in esercizio. Facevamo finta che fosse un passatempo; era il modo più facile per affrontare la cosa. Ma sapevamo tutti che stavamo temprando il fisico e preparando la mente per un'avventura che avrebbe potuto annientarci. Camillo Giustino mi aveva ormai confessato che il suo comandante gli aveva dato il permesso di accompagnarmi per tutto il percorso. Non feci
commenti. Il suo legato pensava probabilmente che il ragazzo avesse lavorato troppo ed era probabile che entrambi considerassero quell'escursione come una ricompensa per la sua intraprendenza. «Mi chiedevo come fossimo riusciti a procurarci quella favolosa scorta di provviste! E così è grazie alla tua onorata presenza... Immagino che tu non l'abbia mai detto a Elena.» «No. Credi che l'abbia capito?» «Che l'abbia capito o meno, faresti meglio a scriverle da Vetera.» «Lo farò. Altrimenti non me lo perdonerà mai.» «Più esattamente, Giustino, non perdonerà me.» «Penserà che sia stato tu a incitarmi?» «Probabile. E non le piacerà affatto saperci entrambi in pericolo.» «Mi è parsa assai preoccupata per te» osservò. «Per la visita alla strega nella foresta, voglio dire. Si basava forse su qualche esperienza passata?» «Tua sorella sa che qualunque insinuazione sul fatto che io possa cedere a Velleda è una menzogna!» Lui parve stupito dalla mia collera. Dopo un momento, sospirai. «Be', tu sai qual è il metodo tradizionale per trattare con una strepitosa bellezza nemica.» «Fa parte di una lezione di strategia che devo essermi perso» ribatté Giustino, in tono abbastanza freddo. «Be', te la porti a letto e le fai passare una notte di piacere come non le è mai successo prima. La mattina dopo, grazie alla tua favolosa attrezzatura e alla tua tecnica strabiliante, lei ti racconta tutto singhiozzando.» «Tua nipote ha ragione. Ti inventi un sacco di balle, Falco.» «È solo una leggenda.» «Mai fatto? Nella tua vita passata, naturalmente» aggiunse, per riguardo a Elena. «Ah! La maggior parte delle donne che conosco griderebbero "Vattene, schifoso, e portati via la tua striminzita attrezzatura!"» dissi eludendo con discrezione. «Allora perché mia sorella è così preoccupata?» «La leggenda» dissi «è molto radicata. Pensa a Cleopatra, a Sofonisba...» «Sofonisba?» «La figlia di Asdrubale e moglie del re di Numidia. Pare che fosse bellissima.» Sospirai di nuovo. Questa volta era un sospiro da vecchio. «La tua istruzione è andata tutta sprecata? Le guerre Puniche, figliolo. Mai sentito parlare di Scipione?»
«Di certo non ho mai sentito dire che il possente Scipione si portasse a letto le principesse cartaginesi!» «Infatti. Scipione era un generale saggio.» E probabilmente un buon romano bacchettone. «E allora?» «Scipione fece in modo di non incontrarla mai. Mandò invece il suo luogotenente Massinissa nella tenda della bella.» «Vecchio furbone di un Massinissa!» «Forse. Massinissa ne fu così profondamente affascinato che la sposò.» «E il marito?» «Una dettaglio trascurabile. Massinissa era innamorato.» Giustino scoppiò in una risata. «E così la principessa fu convinta a passare dalla nostra parte?» «No. Scipione riteneva che fosse lei ad attirare Massinissa dall'altra parte con le lusinghe, così gli fece un discorsetto pacato. Massinissa scoppiò in lacrime, si ritirò nella propria tenda e poi mandò alla sposa una coppa di veleno. Nel suo messaggio le diceva che avrebbe voluto adempiere ai suoi doveri di marito, ma poiché i suoi amici l'avevano sconsigliato, lì almeno c'era l'occorrente per evitare di essere trascinata in catene per Roma.» «Immagino che fortunatamente per la storia lei abbia tracannato il veleno e Massinissa si sia riscattato...» Era una risposta adolescenziale. Una volta Elena mi aveva letto la sferzante risposta di Sofonisba al suo sposo, il giorno dopo il matrimonio: "Accetto il tuo dono di nozze. E invero non è sgradito da parte di un marito che non ha niente di meglio da offrire. Tuttavia, mi sarei tolta la vita con più soddisfazione se non mi fossi sposata così prossima alla mia morte...". Troppo sottile per un tribuno, pensai. Perfino per uno che, a detta della mia terribile nipote, aveva occhi sensibili. Avrebbe imparato. Inutile dire che Elena Giustina approvava Sofonisba senza riserve. Avevamo oltrepassato il limite della mia precedente esperienza della Germania. Quella si concludeva a Colonia Agrippinensium, da dove la grande strada di Claudio portava a ovest attraverso la Gallia verso il luogo in cui ci si imbarca per la Britannia. Fino a quel momento, le grandi fortezze di Novaesium e Vetera non erano state altro che nomi per me. Avevo probabilmente letto degli avamposti meno importanti di Gelduba e Asciburgium, ma non ci si può ricordare tutto. Se si esclude la Britannia, questi
forti segnavano i confini dell'impero. Il nostro dominio nel nord non era mai stato troppo saldo e Roma ne aveva mantenuto il controllo solo negoziando relazioni speciali con i batavi che abitavano nelle paludi. Installare di nuovo i nostri avamposti e ristabilire l'alleanza batava come tampone contro le selvagge popolazioni orientali avrebbe richiesto un diplomazia assai efficiente. Ora che erano trascorse le idi di ottobre, il tempo cambiava in modo subdolo man mano che procedevamo verso nord. Le notti erano visibilmente più buie e arrivavano prima. Perfino durante il giorno la luce dorata che aveva abbellito lo scenario a Moguntiacum si era ridotta a una specie di foschia. Ancora una volta provai sgomento al pensiero della grande distanza che avevamo da percorrere. Anche il panorama mutava lentamente. Ci eravamo lasciati alle spalle i sensazionali dirupi e le languide isole. A volte c'era una piacevole campagna collinosa, dov'era possibile che il legato della Quattordicesima fosse stato portato per la sua battuta di caccia... se era a caccia. In alto nel cielo immensi stormi di oche e altri volatili migravano, alimentando il nostro stato d'animo ansioso con il loro volo insistente e le strida desolate. Mentre cresceva l'eccitazione delle reclute, il loro centurione si faceva più silenzioso. Il venditore ambulante aveva l'aria torva. Giustino era vittima di un senso di romantica malinconia. Io mi sentivo semplicemente depresso. Si percepiva sempre più la crescente vicinanza degli altri immensi corsi d'acqua che si riversavano nel delta: la Mosa proveniente dalla Gallia, il Vaculus che formava un secondo ramo del Reno, e tutti gli altri affluenti, ciascuno dei quali aveva un'imponenza maggiore dei fiumi ai quali eravamo abituati in Italia. Il cielo assunse quell'aspetto basso e grigio che conoscevo come caratteristico del remoto oceano Britannico: le acque più tempestose del mondo. Ogni tanto scorgevamo uccelli marini. La vegetazione fluviale di querce, ontani e salici si frammischiava con carici e fiori di palude. A quel tempo non c'era nessuna vera strada militare lungo quel tratto settentrionale. Le comunità lungo la nostra riva del fiume si riducevano a sporadici insediamenti celtici, molti dei quali recavano le cicatrici della guerra civile. Quasi tutti erano protetti da tetre torri di guardia romane. Sull'altra sponda non si vedeva nulla. Ci fermammo una notte a Novaesium, dove il forte ricostruito di recente brulicava di attività. Poi riprendemmo il viaggio, superammo la foce del Lupia alla nostra destra e finalmente toccammo terra sulla riva sinistra, a Vetera.
Francamente, non mi andava troppo a genio l'idea di sbarcare lì. E il nostro centurione si rifiutò pervicacemente di lasciare l'imbarcazione. XLI Il comandante della nave aveva fatto il possibile per raggiungere Vetera prima del calar della notte, non volendo rischiare di farsi sorprendere a un attracco temporaneo in luoghi circondati da territori considerati insicuri. Tuttavia, era già buio quando sbarcammo: il momento peggiore per arrivare perfino in un forte consolidato. Saremmo potuti restare tutti a bordo, ma lo spazio era limitato e i ragazzi non vedevano l'ora di trovarsi all'interno delle mura, soprattutto in un luogo così famoso. Se volevamo ottenere alloggio dovevamo muoverci. Giustino incominciò a protestare con il centurione, pronto a ordinargli di scendere dalla passerella. «Lascialo stare!» tagliai corto. «Ma per Giove...» «Lascialo stare e basta, Camillo.» Elvezio stava sull'attenti all'altra estremità dell'imbarcazione, con lo sguardo fisso oltre il fiume e il volto immobile. «Ma perché...» «Sono certo che Elvezio ha le sue ragioni.» Avevo capito quali erano. Facemmo scendere le reclute, ci presentammo in un buio edificio dell'accettazione e ci furono assegnati degli alloggi. Sapevamo che il forte vero e proprio si trovava a una certa distanza dal fiume, così fummo sorpresi di ritrovarci vicino a dove era ormeggiata la nave. Il nostro alloggio era solo un baraccamento di legno, praticamente sul molo. Le reclute, che si erano aspettate i lussi di una base importante, brontolavano per la strana sistemazione e perfino Giustino aveva l'aria riottosa. Dopo aver riposto la nostra attrezzatura, feci radunare tutti in circolo. La luce incerta di una candela proiettava sulle nostre facce un'ombra spettrale, e parlavamo tutti a voce bassa, come se perfino in quell'enclave romana le forze nemiche potessero ascoltarci. «Bene, come inizio non è promettente... Ragazzi, forse vi starete chiedendo perché non ci è stato consentito di raggiungere il forte e sistemarci là. I ribelli batavi devono averlo distrutto a un punto tale che hanno dovuto abbandonarlo. Le truppe adesso vivono in tende e in baracche provvisorie finché non sarà scelta una nuova ubicazione.» «Ma perché non possiamo ripararci all'interno dei vecchi bastioni?»
«Domattina vi renderete conto della situazione. Fino a quel momento, provate a immaginarvela. Si sta all'esterno del forte perché lì i romani soffrirono e morirono in gran numero. Seguite l'esempio delle truppe che sono di stanza qui: trattate il luogo con rispetto.» «Signore, pensavo che le legioni di Vetera avessero negoziato con il nemico.» Non avevano nessun senso della riverenza. L'indomani sarebbe servito a porvi rimedio. «No, soldato.» Questa volta fu Giustino a rispondere. Aveva capito al volo ciò che stavo dicendo e adesso la sua voce era diventata paziente e istruttiva. «Le legioni di Vetera resistettero in circostanze disperate. Effettivamente alcuni fra i rinforzi di Vocula a un certo punto vendettero i loro servigi all'impero gallico, ma dobbiamo sempre ricordarci che da qui sembrava che l'intero mondo fosse finito in pezzi e la Roma alla quale avevano fatto il loro giuramento non esistesse più.» Le reclute in un primo tempo avevano reagito con un po' di derisione. La maggior parte di loro non sapeva nulla della storia recente all'infuori di alcuni episodi locali come l'uccisione di una mucca da parte dei soldati di Vitellio in un villaggio tre miglia più avanti lungo la strada. Ma mentre Giustino parlava con loro, si calmarono, come ascoltatori assorbiti da un racconto di fantasmi dei Saturnali. Era un docente scrupoloso: «Quassù, la Quinta e la Quindicesima hanno avuto la peggio in tutti i sensi. È vero che giustiziarono un legato». Si riferiva a Vocula. «Ma si arresero solo quando Civile li ebbe affamati al punto dello sfinimento. Poi furono massacrati. Altri furono uccisi mentre uscivano disarmati. Alcuni si rifugiarono di nuovo dentro il forte e vi morirono quando Civile, in preda alla collera, lo incendiò. Qualunque cosa avessero fatto quegli uomini, pagarono un prezzo molto caro. L'imperatore ha deciso di passarci sopra un colpo di spugna, e chi siamo noi per dissentire da lui? Ascoltate Didio Falco: nessuno di noi può giudicare le legioni che erano di stanza qui, a meno che non siamo assolutamente certi di quello che avremmo fatto al posto loro.» Le reclute erano marmaglia, ma apprezzavano il fatto che qualcuno parlasse loro in termini ragionevoli. Si erano calmate, pur essendo ancora affascinate dal racconto. «Signore, perché Elvezio si è rifiutato di scendere a terra?» Giustino mi guardò in cerca di aiuto. Io inspirai lentamente. «Dovrete chiederlo a lui.» La mia supposizione era che il centurione fosse già stato a Vetera in precedenza. Ero giunto alla conclusione che probabilmente Elvezio apparte-
neva a una delle quattro legioni germaniche cadute in disgrazia che Vespasiano aveva ridistribuito altrove. Se avevo ragione, doveva essere uno dei pochi sopravvissuti della Quinta o della Quindicesima. In quel caso, avrei avanzato delle riserve sulle motivazioni che l'avevano spinto ad aggregarsi alla mia spedizione se ne fossi stato a conoscenza prima di partire. Ora sapevo che avevamo con noi un uomo le cui cicatrici mentali potevano rivelarsi pericolose. Era l'ultima cosa di cui avevo bisogno. Ma con una scorta di solo venti ragazzi inesperti e poco addestrati, oltre a Camillo Giustino a cui badare, era troppo tardi per fare qualcosa. Se avessi lasciato indietro qualcuno della nostra comitiva, non sarebbe stato rimpiazzato. E potevamo aver bisogno di ogni uomo. Così tenni con me il centurione. Alla fine fui contento di lui. Si era offerto volontario. E anche se avesse saputo quello che sarebbe successo, credo che avrebbe deciso di venire comunque. XLII Il giorno seguente facemmo sbarcare i cavalli e partimmo per la visita d'obbligo a Vetera. L'imponente forte doppio era deserto fatta eccezione per i cimeli che attestavano i resoconti più tremendi. Macchine per l'assedio che Civile aveva fatto costruire ai suoi prigionieri. Piattaforme rovesciate che i difensori avevano fracassato con il lancio di pietre. Il grande congegno che qualcuno era riuscito a inventare per arpionare i nemici che si arrampicavano sui bastioni e scagliarli lontano. Le superfici interne dei terrapieni scavati alla ricerca di radici o larve da mangiare. Gravi danni causati dall'incendio. Dardi conficcati. Torri crollate. La struttura era stata presa d'assalto per un lungo periodo, poi distrutta con i tizzoni. Riutilizzata da Civile, Petilio Ceriale l'aveva nuovamente demolita. La zona era stata sgomberata dai corpi ormai da un anno, ma l'odore della tragedia impregnava tutto intensamente. Edificammo un piccolo altare. Giustino sollevò le mani e pregò ad alta voce per le anime di quelli che erano morti. Presumo che la maggior parte di noi abbia aggiunto qualche parola anche per la nostra brigata. Tornammo indietro avviliti e trovammo Elvezio a riva, anche se notai che evitava di guardare la strada che portava verso l'interno. Stava parlando con uno dei legionari di stanza qui. Ci trovavamo di fronte a un dilemma: nonostante ciò che si diceva più a sud, tutti qui erano convinti che Ci-
vile si trovasse nel proprio territorio, in qualche parte dell'Isola. Ne discutemmo, Giustino, Elvezio e io. «Potrebbe essere la vecchia sindrome del "si trova nel nostro orticello"» dissi. «Sapete, quando ci si convince che un furfante si nasconda nelle vicinanze perché si vuole ottenere il merito di catturarlo. Ho un amico che è un capitano della ronda a Roma. Lui calcola che non appena sente dire "Il vostro uomo è stato avvistato in fondo alla strada", incomincia a cercare all'altra estremità della città.» Stavo pensando a Petronio Longo. Quella vecchia canaglia mi mancava. E anche Roma. «Il problema è» argomentò Giustino in modo cauto «che se ci dirigiamo a est fra i bructeri senza seguire questa pista, dopo non avremo più voglia di andare a nord. Lo sai che cosa succederà se riuscissimo a incontrare Velleda? Torneremo indietro lungo il fiume Lupia così sollevati di essere ancora vivi che avremo solo voglia di tornarcene a casa.» A casa ci volevo già andare. «Tu che cosa ne pensi, Elvezio?» «Detesto l'Isola, ma sono d'accordo con il tribuno: adesso o mai più. Ora, in qualche modo possiamo inserirla nel nostro itinerario. Dopo, la deviazione sarebbe troppo lunga.» «Come ti sei fatto questa conoscenza del posto?» domandai con voce affabile. «Nel modo che pensi tu» ripose Elvezio. Il tribuno e io evitammo i reciproci sguardi. Saltai il fosso: «La Quinta?». «La Quindicesima.» La sua faccia rimase inespressiva. La Quinta era quasi riuscita a salvare la propria reputazione, ma la Quindicesima aveva infranto il proprio giuramento senza alcun ritegno. Giustino completò la mia domanda nel suo modo pacato e cortese: «Qual è la tua storia?». «Ero stato ferito. Mi evacuarono via nave durante l'intervallo che seguì i soccorsi di Vocula. Rimasi in ospedale a Novaesium finché anche Novaesium non venne attaccata. Finii poi a lamentarmi su una barella in un'infermeria che erano riusciti ad attrezzare a bordo di una chiatta a Gelduba. Rimasi lì durante tutto l'ultimo assalto di Civile a Vetera, e durante ciò che seguì.» Il risultato era evidente, e comprensibile. Il sopravvissuto si sentiva in colpa perché la maggior parte dei suoi compagni erano morti. Si sentiva anche in parte colpevole perché, pur non avendo mai giurato fedeltà all'impero gallico, aveva perso l'onore insieme tutti gli altri. «Sono estromesso?»
«No» dichiarò Camillo Giustino. «Ora fai parte della Prima adiutrix.» «Abbiamo bisogno di te» aggiunsi. «Soprattutto se sei esperto del territorio.» «Sono più che esperto.» «Come mai?» «Sono stato anche nell'est.» La cosa mi stupì. «Raccontaci, centurione.» «Sono stato di servizio in questo buco per quattro anni, Falco. Tutti avevano bisogno di un passatempo: è sempre stata una base desolata. Non mi è mai interessato giocare d'azzardo o aggregarmi alle cricche di bellimbusti. In compenso incominciai a provare un grande interesse per il vecchio mistero di Varo. Mi documentai sulla storia. Di solito approfittavo delle mie licenze per sgattaiolare sull'altra riva. In modo abusivo, naturalmente, ma allora tutto era più tranquillo. Mi incuriosiva il luogo della battaglia e mi affascinava l'idea di trovarlo.» E così era questo che voleva dire con i suoi discorsi a proposito di tribuni da accompagnare in battute di caccia. I soldati amano dimenticare le proprie preoccupazioni rivivendo altre guerre. Vogliono sempre sapere che cosa è successo veramente ai loro predecessori. Era stato l'inganno del nemico o solo l'ennesimo caso di semplice stupidità del comandante? «Hai localizzato il sito?» chiesi. «Ero sicuro di esserci vicino. Maledettamente sicuro.» Non mi erano mai piaciuti i tipi ossessivi. «Dubno lo conosce» gli dissi perfidamente. Elvezio fischiò con disappunto. «Lascia perdere» aggiunsi sorridendo. «Quello è un mistero che possiamo lasciare all'insigne Germanico. Lasciali riposare in pace. Quello è stato il disastro dei nostri nonni. Vespasiano ci ha già dato abbastanza da fare, e per il momento non ho in mente di visitare la selva di Teutoburgo.» Aveva comunque un'aria più felice, ora che avevamo parlato. Comunque mi lasciai convincere a perlustrare l'Isola. Quando ci mettemmo in marcia sapevo già che andarci sarebbe stata una perdita di tempo. Sapevo anche che una volta che ci fossimo diretti a nord, la selva di Teutoburgo con la sua fama sinistra avrebbe costituito il percorso più ragionevole per tornare verso i covi dei bructeri. Viaggiavamo a cavallo. Fu una specie di colpo per le reclute. Lo sa Giove a che cosa pensavano che servissero i trenta cavalli che avevamo porta-
to. Di norma le legioni marciano, ma le distanze che dovevamo percorrere erano troppo grandi per un lavoro di gambe. E poi, i nostri ragazzi non erano esattamente abituati a marciare per giorni e giorni. In realtà, erano un tale disastro in generale che le truppe di Vetera si accalcarono fuori dal forte per vederci partire, con l'intenzione di osservare quel mucchio di babbei selezionati che mi portavo appresso nei territori selvaggi. Le reclute erano come qualunque altro gruppo di adolescenti: trasandati, pigri, lagnosi e truculenti. Passavano l'intera giornata a discutere di gladiatori o della loro vita sessuale con un misto di menzogne e ignoranza che lasciava esterrefatti. Ormai incominciavamo a identificarli. Lentullo era il nostro bimbo difficile. Lentullo non sapeva fare niente. Elvezio l'aveva portato solo perché desiderava tanto venire e aveva una faccia commovente. Poi c'era Sesto, che aveva i piedi piagati più di tutti gli altri, il che significava che gli stavano letteralmente marcendo negli stivali. Probo, che secondo la nostra opinione non avrebbe mai imparato a far marciare insieme entrambe le gambe. Ascanio, della città di Patavium, che raccontava buone barzellette ma nei momenti meno opportuni. Quello con l'accento campagnolo che nessuno riusciva a capire, quello che puzzava, quello che non piaceva a nessuno, quello col naso grosso, quello con i genitali grossi, quello che mancava di personalità. Mia madre avrebbe detto che non sarebbe stato prudente lasciare nessuno di quei ragazzi a sorvegliare una pentola sul fuoco. Badate, diceva lo stesso di me. Quando lasciammo Vetera sembravamo una carovana di mercanti malridotti che emergevano dal deserto nabateo dopo quindici giorni di tempeste di sabbia. Su venti reclute, diciannove prima di allora non erano mai montate a cavallo per più di tre miglia; restava Lentullo, che non era mai stato su nessun tipo di quadrupede in generale. Sembrava che tutti avessero occhi vagamente deliranti, orecchie che spuntavano da dietro i guanciali come remi di governo su una nave e spade che sembravano troppo grandi. I cavalli, pur essendo gallici, cosa che avrebbe dovuto significare una buona razza, erano un branco perfino meno allettante. Giustino e io cavalcavamo in testa, cercando di dare il migliore esempio di assetto possibile. In questo non ci aiutava il cagnetto del tribuno che abbaiava attorno agli zoccoli dei nostri cavalli Al centro della fila tenevamo Dubno sul suo cavallino dalle zampe storte, che aveva una serie di campanelle stonate da pecora cucite alle briglie. Costringemmo il venditore ambulante a smorzare il suono con dell'ovatta, che però venne via dopo il
primo miglio. Elvezio cavalcava in coda, sforzandosi di mantenere unito il gruppo. Lo sentivamo imprecare con cupa perseveranza fra il suono delle campanelle dell'ambulante. Accanto a Dubno cavalcava il servitore di Elvezio, sua preziosa dotazione in qualità di centurione. Era un omuncolo lugubre, incaricato di occuparsi della sua attrezzatura e del suo cavallo. Mentre il resto di noi continuava a cercare di approfittare dei suoi servigi, lui continuava a lamentarsi con Elvezio che voleva chiedere un trasferimento immediato in Mesia (è un avamposto disgustoso ai margini dell'angolo più squallido del Ponto Eusino). Giustino, al contrario, non si era portato appresso alcun seguito, sebbene grazie al suo rango avrebbe potuto averne uno assai numeroso. Sosteneva che sarebbe stato scorretto, considerato che il nostro viaggio era pericoloso. Ragazzo originale. La correttezza non era mai stata inclusa nelle condizioni di impiego per gli schiavi dei senatori. Tuttavia, pur essendo cresciuto nella bambagia, Giustino riusciva a badare non solo a se stesso, ma anche al suo cane. Indossavamo tutti l'armatura. Persino io. Avevo trovato un furiere che mi aveva procurato un corsaletto che andava bene. «Ne abbiamo in abbondanza, in realtà!» Un uomo calvo con un discreto accento gallico e un amaro senso dell'umorismo, era uno degli esperti dell'esercito. Da dove venissero le sue spettrali rastrelliere di attrezzature era evidente; alcune erano ancora contrassegnate con i nomi degli uomini morti. «Sicuro di volerti esporre così tanto? Perché non andate tutti con l'equipaggiamento da caccia e cercate di confondervi fra gli alberi?» Scrollai le spalle, verificando il peso familiare e la sensazione di freddo delle cerniere posteriori attraverso la tunica mentre agganciavo la corazza sul torace e ci infilavo un fazzoletto da collo rosso. Era passato molto tempo. Mi contorcevo dentro l'armatura come un granchio in un guscio di aragosta. «Travestirsi è inutile. Laggiù tutti gli uomini sono più alti e grossi, hanno la carnagione chiara e baffi enormi che si potrebbero usare per spazzare i pavimenti. Venti piccoletti scuri, con gli occhi marroni e il mento glabro sono riconoscibili come romani a parecchie miglia di distanza. Saremo nei guai non appena attraverseremo il confine. Se non altro un pettorale e una panciera garantiscono una piacevole sensazione di falsa sicurezza.» «Cosa contate di fare se vi troverete nei guai?» «Ho un piano.» Lui non fece alcun commento. «Spada?»
«Uso sempre la mia.» «Giavellotti?» «Ce ne siamo portati appresso un mucchio lungo il fiume.» A questo aveva provveduto Giustino. «Gambali, allora?» «Lascia perdere. Non sono un ufficiale in bella mostra.» «Celata?» Lasciai che mi rifornisse di un elmo. «Prendi anche questo.» Mi cacciò qualcosa nel palmo della mano. Era un pezzetto di steatite con inciso un occhio umano trafitto da diversi emblemi mistici. «Le armi non ti saranno di grande utilità. La magia è la sola altra cosa che ho in serbo.» Un tipo generoso. Mi aveva dato il suo amuleto personale. Passammo più giorni di quanto avrei voluto a sguazzare nell'acquitrino. L'Isola doveva essere stata un luogo desolato ancora prima dei disordini. Era un'autentica regione del delta, tutta melma e paludi salmastre. C'erano tanti di quei corsi d'acqua che la terra sembrava una semplice estensione del mare. Un brutto inverno durante la campagna militare di Cenale aveva causato più inondazioni del solito. Il suolo, rimasto abbandonato dalla popolazione colpita, si stava riprendendo con estrema lentezza. Ampie distese che avrebbero dovuto essere coltivate restavano intrise d'acqua. Civile aveva anche demolito di proposito la chiusa di Germanico, fracassandone il molo frangiflutti allo scopo di devastare vaste aree durante l'ultima fase della sua resistenza. Ci vennero in mente Petilio Ceriale e i suoi uomini, che si sforzavano di tenere le zampe dei cavalli all'asciutto nelle file, schivando frecce e nubifragi mentre avanzavano tra gli spruzzi in cerca delle secche, sotto la costante provocazione dei batavi che cercavano di attirarli negli acquitrini per annientarli. La capitale batava, Batavodurum, era stata rasa al suolo. Chiamata ora con il nome austero di Noviomagus, ci si accingeva a ricostruirla e presidiarla con una guarnigione. Vespasiano me ne aveva parlato, ma l'impatto c'era solo ora che ci trovavamo fra le case abbattute, a osservare i penosi e disorganici tentativi della popolazione di rimettere in piedi il loro insediamento mentre le famiglie vivevano sotto i tendoni con i loro maiali e i loro polli. Le cose, però, stavano migliorando, poiché incontrammo genieri dell'esercito romano che eseguivano rilievi. Erano in servizio distaccato, e stavano discutendo con alcuni consiglieri locali su come portare materiali e competenze tecniche. Durante l'ultima fase di resistenza dei ribelli, quando si era rifugiato nel-
la propria terra, Civile era stato stretto d'assedio a Batavodurum e poi cacciato in profondità nell'Isola. Aveva bruciato tutto ciò che era stato costretto a lasciarsi alle spalle. Ogni fattoria che si era salvata era stata distrutta dal nostro esercito, fatta eccezione per quelle che appartenevano allo stesso Civile. Era la vecchia ignobile strategia di risparmiare le proprietà del capo in modo da suscitare la gelosia e la rabbia dei suoi sostenitori sofferenti, evitando però che lui stesso raggiungesse il punto cruciale di non avere più niente da perdere. Seguimmo il suo percorso verso l'interno. La politica della terra bruciata selettiva comportava che potessimo vedere in quale tenuta avrebbe dovuto trovarsi. Ma lui aveva abbandonato i suoi campi fradici d'acqua e le basse casupole. Non ci viveva nessun membro della sua vasta famiglia e di lui non c'era traccia. Forse la strategia aveva funzionato. I batavi erano un popolo in rovina, almeno temporaneamente, e adesso il loro atteggiamento verso il principe che li aveva rovinati pareva ambiguo. Per la prima volta incominciai a dubitare che Civile stesse ancora complottando. Mi chiedevo se non fosse semplicemente fuggito per paura del pugnale di un sicario. Non avvertimmo alcun pericolo mentre ci trovavamo nell'Isola. L'atmosfera era cupa, ma il popolino aveva accettato la pace e la vecchia alleanza. Erano tornati ad essere un popolo libero all'interno dell'impero romano, esentato dalle tasse in cambio di uomini armati, anche se eravamo tutti coscienti che gli ausiliari batavi non avrebbero mai più prestato servizio in Germania. Lasciarono che passassimo in mezzo a loro senza insultarci. E quando ce ne andammo, furono contenuti nel mostrare il proprio sollievo. Entro le calende di novembre ero ormai stufo di perlustrare, stufo di attraversare fiumi su chiatte traballanti e stufo di vecchie strade semisommerse su passerelle di legno ondeggianti. Annunciai che ce ne saremmo andati di lì in cerca dei piedi asciutti e di terreno più solido. E così ci mettemmo in marcia attraverso il territorio dei frisii. QUINTA PARTE Paludi e foreste GERMANIA LIBERA Novembre, 71 d.C. Il comandante della legione Munio Luperco era stato inviato con altri doni a Velleda, una donna nubile che godeva di vasta influ-
enza sulla tribù dei bructeri. TACITO, Storie XLIII Era difficile credere che un tempo Roma avesse vantato il proprio diritto fino quasi al fiume Elba. Druso, suo fratello Tiberio e suo figlio Germanico avevano sgobbato per anni, cercando di includere un enorme tratto di Germania Libera. Per invaderla erano partiti da Moguntiacum nel Sud e dalle pianure settentrionali del delta usando un movimento a tenaglia doppia. Varo e la sua inettitudine avevano fatto naufragare il tentativo. Restavano ancora alcune tracce del tempo in cui Roma si era illusa di controllare quelle terre selvagge e paludose. Invece di tornare a Batavodurum, prendemmo il canale di Druso dalla foce del Reno fino al lago Flevo, anche perché il vecchio canale era una meraviglia che forse non avremmo avuto altra occasione di vedere. Toccammo nuovamente terra. A sud del lago non c'erano quasi più tracce dell'occupazione romana terminata sessant'anni prima. Lentullo, che era sempre impaziente, chiese quando saremmo arrivati alla prima città. Gli spiegai, un po' rudemente, che lì non c'erano città. Incominciò a piovere. Un cavallo inciampò e si strappò un tendine del garretto. Dovemmo scaricare la roba e abbandonarlo, mentre eravamo ancora in vista del lago. «Allora, che cosa sappiamo dei frisii, Marco Didio?» mi chiese Giustino per prendermi in giro, mentre montavamo furtivamente il nostro primo accampamento. «Diciamo che sono tranquilli agricoltori che coltivano cereali e con la passione del mare, e speriamo che il loro bestiame sia più pericoloso di loro. I frisii sono stati conquistati... no, proverò a riformularlo con più tatto... sono stati convinti a vivere alle condizioni romane pattuite dal nostro stimato Domizio Corbulo. È storia abbastanza recente.» Corbulo era un vero generale, uno che faceva sembrare Petilio Ceriale uno scarto della guardia antincendio di Roma. «Da che parte stavano allora, durante la ribellione?» «Oh, accaniti sostenitori di Civile, naturalmente.» Non avevamo ancora raggiunto la foresta e ci trovavamo ancora nella piatta regione costiera. A noi sembrava una terra bassa, desolata e monotona, priva di tratti distintivi almeno quanto era priva di calore. Ma forse, se foste nati in uno di questi allevamenti di vacche di qui, la Batavia e la Fri-
sia sarebbero state per voi una sfida, con la loro lotta incessante contro le inondazioni di fiumi, laghi e mari e il loro ampio panorama mutevole di cieli grigi e aperti. Gran parte di questa regione sembrava deserta. C'erano ben pochi insediamenti rispetto alla prospera Gallia. Perfino la Britannia era un luogo popoloso e socievole, fatta eccezione per le sue parti più selvagge. La Germania, invece, voleva essere diversa. Tutto ciò che vedevamo erano alcune case isolate, o nella migliore delle ipotesi rudimentali assembramenti di capanne e di stalle. Qui gli abitanti corrispondevano alla loro fama e conducevano un'esistenza solitaria. Se un uomo vedeva salire il fumo da una casa, si innervosiva. Gli veniva voglia di andare laggiù, non per mangiare un boccone o fare una partita di dadi, ma per uccidere il vicino, ridurre la sua famiglia in schiavitù e saccheggiare i suoi beni. La presenza dei romani appena al di là del grande fiume non poteva che aver peggiorato le cose. Ora le tribù avevano la scusa del commercio per sferrarsi l'un l'altro attacchi bellicosi, che servivano a fare prigionieri per venire incontro all'incessante richiesta di schiavi. «Signore, allora cercheranno di catturarci?» «Loro sanno che non possono vendere a Roma come schiavi dei cittadini romani.» «E allora, signore?» «Ci uccideranno, probabilmente.» «È vero che i barbari sono tutti cacciatori di teste?» disse Ascanio per scherzo. «Se è vero, non avranno nessun problema a scorgere la tua grossa capoccia.» Incominciavo a preoccuparmi per il venditore ambulante. Dubno appariva inspiegabilmente irrequieto. Gli avevo detto che poteva commerciare con i nativi, ma non faceva il minimo tentativo. Quando un uomo ignora un'opportunità di guadagnarsi da vivere, arrivo sempre alla conclusione che stia puntando a una qualche ricompensa, e di solito le ricompense hanno una provenienza sospetta. In uno dei miei tentativi di essere gentile con lui, gli feci qualche domanda sul commercio. Sapevo che le grandi rotte commerciali verso l'interno dell'Europa settentrionale correvano lungo il fiume Meno da Moguntiacum, lungo il corso del Lupia, fino a raggiungere la costa baltica dell'ambra. I mercanti del Meno e del Lupia, insieme ad altri che arrivava-
no dal Danubio, tendevano a confluire in un mercato fra i bructeri, dove eravamo diretti anche noi. «Le ho percorse tutte» disse l'ambulante. «Tutte all'infuori del mare. Non voglio navigare. Sono un tipo solitario. A volte mi piace semplicemente andarmene in giro per mio conto.» Era per questo che non gli andava la nostra compagnia? «Si fanno buoni scambi con le tribù, Dubno? Comprano o vendono?» «Vendono per lo più. Convertono il loro bottino.» «Che sarebbe?» Non si mostrava collaborativo. «Qualunque cosa possano avere rubato a qualcun altro.» «D'accordo. E allora che cosa rubano?» «Cuoio e pellicce. Corni per bere. Ambra. Oggetti di ferro battuto.» Dubno doveva essere ancora indispettito per essere stato arrestato e trascinato in giro con noi. Sogghignò con cattiveria. «In questa zona hanno ancora una notevole scorta di armature e di oro romani!» Stava cercando di farmi imbestialire. Sapevo dove voleva arrivare. Ventimila uomini avevano perso la vita con Varo... insieme all'equipaggiamento completo da battaglia, al tesoro personale del generale e alle casse della paga dei soldati. Ogni famiglia dall'Ems al Weser viveva confortevolmente da decenni rubacchiando ciò che restava del massacro. Ogni volta che perdevano un vitello, non dovevano fare altro che affrontare i bianchi mucchi di ossa e raccogliere una corazza da usare in un baratto per un nuovo animale. Chiesi in tono pacato: «Che cosa gli piace acquistare? Ho sentito dire che c'è una richiesta abbastanza costante di bronzo e vetro romani di buona qualità». «Nessun capo tribale che vada fiero della propria reputazione viene sepolto senza un vassoio d'argento accanto alla testa e un servizio completo di bicchieri di lusso di fattura romana.» «Immagino che tu riesca sempre a trovare acquirenti per fermagli o spille?» «Gingilli. Loro vogliono l'argento. Amano le monete, ma solo quelle antiche con i bordi zigrinati.» Nerone aveva svalutato la moneta circolante l'anno precedente il grande incendio di Roma. Anch'io preferivo le vecchie monete, perché avevano una consistenza più solida. A Roma, la garanzia dello stato era altrettanto valida per i nuovi sesterzi adulterati, ma da queste parti era il peso del metallo a contare. «Le tribù germaniche usano il denaro?»
«Solo per gli scambi con i mercanti.» «Le monete servono di più per il prestigio e come ornamento? Ma è vero che vietano le importazioni di vino?» Dubno chinò la testa. «Non del tutto. Ma qui non siamo in Gallia, dove venderebbero la madre per un bicchiere. La cosa importante è combattere.» «Pensavo che amassero i festini. Che cosa bevono?» «Idromele. Miscugli fermentati di orzo e frutta selvatica.» «Roba di cui si può fare volentieri a meno! Dunque, le tribù germaniche tollerano le nostre merci stravaganti, ma Roma non ha molte altre cose da offrirgli. Odiano tutto ciò che noi consideriamo arti civilizzate: la conversazione alle terme, le formalità, una bella bisboccia a base di Falerno.» «Odiano Roma e basta» disse Dubno. Gli rivolsi un'occhiata in tralice. «Tu sei un ubio. La tua tribù è giunta a suo tempo dall'altra sponda del Reno, per cui hai radici germaniche. Qual è la tua opinione?» «Un uomo deve guadagnarsi da vivere.» Lasciò trapelare un sottofondo di disprezzo. Ma la conversazione terminò lì, poiché ci imbattemmo nel primo gruppo di frisii. Ci fermammo come visitatori educati. Loro si avvicinarono con cautela. Erano a capo scoperto, con i capelli rossi, gli occhi azzurri, indossavano tuniche e mantelli di lana scura, proprio come ci saremmo aspettati. Ci eravamo detti che i cronisti tendono a esagerare tutto. Forse era il collerico temperamento germanico che avevano deciso di riferire in modo inesatto. «Fatti avanti, Falco!» ordinò allegro Giustino. «È venuto il momento per quel tuo famoso piano.» Respiravamo tutti con maggior cautela del solito. Trascinai Dubno in avanti. «Per favore, riferisci a questi gentiluomini che siamo in viaggio per portare i nostri omaggi a Velleda.» Lui si rabbuiò in viso, poi disse qualcosa. Afferrai il nome di Velleda. Il cane del tribuno si rivelò il nostro migliore alleato. Saltò addosso a ogni frisio, abbaiando, scodinzolando e cercando di leccare festoso le loro facce. Loro capirono che nessuno che si portava appresso un cane da caccia così inutile poteva avere intenzioni ostili, e quindi pretendere il nostro scalpo sarebbe stata un'offesa alla loro virilità. Per fortuna, quel giorno il cucciolo si dimenticò di mordere. I frisii restarono a fissarci. Poiché non facevano niente di più allarmante,
sorridemmo, salutammo e proseguimmo per la nostra strada. Dapprima ci seguirono, come bestiame curioso, poi si allontanarono. «A quanto pare, Velleda ha funzionato.» «Nel senso che avevano l'aria di non averla mai sentita nominare!» disse Elvezio per prendermi in giro. «Oh, penso che si possa presumere che l'abbiano sentita nominare» lo redarguì il tribuno nel suo modo solenne. «Credo che questo spieghi le occhiate di commiserazione che ci hanno lanciato tutti quanti!» Proseguì, coccolando il cagnolino, che faceva capolino con aria compiaciuta da una piega del suo mantello. Era piccolo, col pelo liscio, bianco a chiazze nere, costantemente affamato, assolutamente refrattario all'addestramento, e con una passione per l'esplorazione dello sterco. Giustino l'aveva chiamato Tigre. Non era un nome adatto. Somigliava a una tigre quanto il mio stivale sinistro. Il giorno seguente incominciammo a incontrare tratti di territorio leggermente boscoso e verso sera arrivammo ai margini della foresta vera e propria. Da quel momento in avanti avremmo avuto bisogno di tutta la nostra abilità per trovare i sentieri e mantenere la direzione giusta. Da lì il manto di alberi proseguiva ininterrotto attraverso l'intero continente. Francamente, da ragazzo di città qual ero avevo sempre considerato eccessivo l'arboreto continentale. Il fogliame mi piace, ma mi piace più di tutto quando il verde conduce a un pergolato con sotto una panchina di pietra dove si aggira opportunamente un venditore ambulante di vino, e dove ho appuntamento con la mia ragazza preferita nel giro di cinque minuti... Quando ci accampammo per la prima notte sul terreno umido e spinoso della foresta, sapendo che era una cosa che ormai avremmo dovuto sopportare per settimane, il nostro morale finì a terra e gli umori si fecero rapidamente scontrosi. Ormai le reclute erano passate attraverso tutte le fasi tipiche dei ragazzi rammolliti che vengono portati in una spedizione in territori aspri per temprarne il carattere. Avevamo superato l'intera serie dei lamenti, furti di tesori personali, pasti serali andati a male, equipaggiamenti smarriti, incontinenza e occhi pesti. Qualunque cosa la rude vita in comune avesse fatto per loro, i tre di noi che avevano il comando erano esausti, malconci, e uniti saldamente in una forte squadra difensiva. Una sera, dopo una giornata particolarmente sgradevole e una rissa nel corso della quale li avevamo sorpresi con i pugnali sguainati, Elvezio me-
nò botte con una tale collera che ruppe la sua bacchetta di rampicante. Allora Camillo Giustino li fece mettere in fila per una bella dose di retorica tribunizia. «Ascoltate, bastardi!» «Eccellente approccio!» borbottò Elvezio in tono sovversivo, rivolto a me. «Sono stanco, sono sporco. Sono stufo marcio di mangiare gallette e sono stufo marcio di pisciare contro qualche quercia sotto la pioggia!» Il suo discorso poco ortodosso aveva sorpreso il gruppo al punto da ridurlo al silenzio. «Odio questo paese almeno quanto voi. Quando vi comportate così odio anche voi. Mi piacerebbe dire che il prossimo piantagrane verrà rispedito dritto a casa. Purtroppo per noi, non abbiamo nessun carro che possa andare al quartier generale, altrimenti sarei io il primo a salirci. Guardate in faccia la realtà. Dobbiamo accettarla tutti quanti di buon grado, o a casa non ci tornerà nessuno.» Lasciò che afferrassero l'idea. «Decidetevi. Dobbiamo collaborare tutti quanti.» «Anche Lentullo?» gridò Probo. Giustino si accigliò. «Salvo Lentullo. Tutti gli altri collaboreranno... e insieme ci prenderemo cura di lui.» Scoppiarono a ridere. Ora avremmo trascorso una notte tranquilla e il giorno dopo sarebbero stati tutti fantastici. «Se la caverà» sentenziò Elvezio. «Ha una pazienza infinita con loro» convenni io. «Già visto prima. Incominciano pensando che sia un ignobile presuntuoso e finiscono con il morire per lui.» «Camillo non li ringrazierebbe per quello» dissi. «Non riuscirà a darsi pace se tornerà a casa anche solo senza uno di loro.» «Perfino Lentullo?» Emisi un gemito. «Specialmente lo stramaledetto Lentullo! E così, il tribuno è sistemato, vero?» «È probabile che ci tenga fuori dai guai.» «Grazie! E io?» «Per Mitra, non farmi ridere, Falco. Tu sarai quello che ci caccerà nei guai!» La mattina dopo furono tutti fantastici per circa mezz'ora. Poi Lentullo saltò su nel suo modo affabile: «Signore, signore, dov'è finito Dubno?». XLIV
Respirai profondamente. «Che cosa vuoi dire, Lentullo?» «Non c'è più, signore. E il suo cavallino è sparito.» Giustino balzò in piedi, allarmato. «Qualcuno sa quando se ne è andato?» Non lo sapeva nessuno. Mi alzai anch'io. «Prima decuria, venite con me! Elvezio, tu prendi la seconda decuria, caricate l'equipaggiamento, poi seguiteci...» Elvezio mi corse dietro mentre mi precipitavo a prendere un cavallo. «Perché tutto questo panico? Io conosco il terreno. Sono in grado di stabilire pressappoco dove ci troviamo.» «Usa la testa! Come faremo a comunicare con Velleda? Dubno è il nostro interprete!» «Ce la caveremo.» «Ma non è solo questo» dissi trafelato, sistemando freneticamente le briglie. «Finora siamo stati discreti. Nessun gruppo ostile ci ha avvistati. Ma Dubno sembrava pensoso. Stava macchinando qualcosa, ne sono certo. Non vorrei mai che ci mandasse contro una banda di guerrieri!» «Falco, forse vuole soltanto continuare con il suo commercio.» «Gli ho detto che poteva farlo...» Ora, però, avevo paura che l'ambulante sperasse di fare un mucchio di soldi in un nuovo settore: la vendita di ostaggi. «Non possiamo correre il rischio di essere noi la sua merce di scambio!» Seguimmo le sue tracce verso nord per un bel pezzo. Per noi era la direzione sbagliata, e forse lui, sapendolo, ne approfittava convinto che avremmo rinunciato, sebbene la cosa riuscisse solo a rendermi più ostinato. Speravo che sarebbe diventato meno prudente. Speravo che col tempo pensasse che eravamo così determinati nella nostra missione da rinunciare del tutto a dargli la caccia. Il mio era il più lento dei nostri due gruppi di inseguitori. Stavamo cercando di isolare una sola serie di impronte di zoccoli fra tutto ciò che ingombrava il suolo della foresta, mentre Elvezio seguiva la grossa traccia lasciata da noi. Ben presto ci raggiunse, e proseguimmo tutti insieme, prima deviando a est, poi di nuovo a sud. «Che cosa avrà in mente?» «Per Mitra, non lo so.» «Non sono sicuro che mi importi.» Dubno doveva averci lasciati presto, viaggiando di notte. Aveva troppo
vantaggio su di noi. Decisi che l'avremmo seguito fino alla sera e poi avremmo lasciato perdere. Entro il pomeriggio perdemmo le sue tracce. Ci trovavamo in mezzo ad alberi più alti, che crescevano più fitti di prima, nel silenzio denso delle foreste veramente antiche. Un enorme insetto con le corna ci guardò di traverso da una foglia morta arricciata, offeso da quell'intrusione. Non c'erano altri segni di vita. Facendo il punto della situazione, arrivammo alla conclusione che la sola certezza riguardo alla nostra attuale posizione era che non ci eravamo mai aspettati di trovarci in quella zona. Con un po' di fortuna, nessuno che nutrisse sentimenti ostili si sarebbe aspettato di trovarci lì. La sfortuna era che nessuno dei nostri amici avrebbe saputo dove guidare una missione di soccorso, ma quello l'avevamo già escluso a priori. Giustino e io avevamo lasciato istruzioni di non tentare operazioni di soccorso nel caso qualcosa fosse andato storto, perché sarebbe stato tutto inutile. Il nostro viaggio ci aveva condotti dall'Isola attraverso gran parte della Frisia meridionale, ma ormai dovevamo essere arrivati nel territorio dei bructeri. Giungerci da questa direzione era insolito, ma ci rendeva meno esposti. Eravamo molto lontani dai normali itinerari commerciali. Eravamo anche molto lontani sia dalle fortificazioni provvisorie romane che sopravvivevano ancora nella zona del delta sia dai vecchi forti che sapevo essere stati costruiti lungo il fiume Lupia. Ci stavamo avvicinando ai bructeri, famosi per la loro ostilità, non da dove si aspettavano l'arrivo di stranieri lungo il loro fiume - ma di sorpresa dal nord. Durante la maggior parte del nostro viaggio eravamo stati a circa un centinaio di miglia romane, quaranta o cinquanta in più o in meno in quell'interminabile massa di alberi, al di sopra del corso del Lupia. Questo ci garantiva una certa sicurezza, anche se alla fine avremmo dovuto comunque svoltare verso sud. Le alture della catena di Teutoburgo avrebbero contrassegnato il punto dove abbandonare la nostra attuale direzione orientale. Sapevamo che la famosa scarpata curvava a sud verso le sorgenti del Lupia. Non dovevamo fare altro che trovare l'estremità settentrionale, poi seguire le colline. Elvezio aveva accennato a una vecchia pista, ma nessuno di noi aveva voglia di seguirla. Una volta lì, avremmo dovuto percorrere ancora una quarantina miglia prima che le alture raggiungessero gradatamente il fiume. Ormai avevamo percorso una distanza sufficiente per incominciare a tenere gli occhi aperti in cerca di elevamenti del terreno ogni volta che la foresta ci consentiva di scrutare il paesaggio. Incominciammo a piegare a sud.
La deviazione che avevamo fatto per cercare il venditore ambulante ci aveva leggermente disorientati. Questo era un territorio dov'era facile perdersi. Di certo non c'erano strade, ed è risaputo che i sentieri della foresta non portano da nessuna parte. Ogni tanto quello che seguivamo terminava all'improvviso, così dovevamo aprirci un varco nella boscaglia, a volte per ore, finché non arrivavamo a un altro sentiero. Gli alberi erano così fitti che anche se ci fosse stata una pista di gran lunga migliore a pochi passi di distanza, non avremmo avuto alcuna possibilità di trovarla. Elvezio, che era già stato qui in precedenza per la sua ricerca storica, calcolò che fossimo ancora a una certa distanza dall'estremità più elevata della scarpata di Teutoburgo, per quanto, se non fossimo stati nel folto della foresta, le alture sarebbero state forse visibili in lontananza. Continuammo ad aprirci un varco in quella lugubre boscaglia, credendogli perché non avevamo altra scelta. In ogni caso, andare a sud non poteva essere totalmente sbagliato. Alla fine saremmo arrivati al Lupia. All'imbrunire ci fermammo. Mentre si piantavano le tende, diversi membri della comitiva si assentarono in solitudine per la consueta procedura della quercia. Faceva freddo. La luce era calata ma non ancora sparita del tutto. Stavamo riscaldando le gavette per ciascuna tenda, ma non erano ancora pronte. Elvezio scelse le sentinelle per la notte, mentre il servitore strigliava il suo cavallo. Giustino stava parlando con Sesto e un altro ragazzo. Gli stavano insegnando alcune parole dialettali della costa adriatica, visto che le lingue sembravano interessarlo. Io ero solo preoccupato e infelice come al solito. Vidi Lentullo che tornava furtivamente dopo avere fatto pipì nei boschi. Aveva un'aria furtiva, il che non era niente di strano. Sembrava anche spaventato. Non disse una parola con nessuno. Decisi di ignorarlo, poi mi resi conto che era impossibile. Mi misi a gironzolare finché non lo incrociai. «Tutto a posto?» «Sì, signore.» «C'è qualcosa che vorresti dirmi?» «No, signore.» «Meno male.» «Be', signore...» Oh, povero me! «Credo di aver visto qualcosa.» Lentullo era il tipo che avrebbe passato tre giorni a chiedersi se fosse il caso di accennare al fatto che un'ampia schiera di guerrieri su carri di vimini con corni di guerra e spadoni si stava dirigendo verso di noi. Non ca-
piva mai che cosa era importante. Lentullo ci avrebbe lasciati uccidere piuttosto che dire qualcosa che preoccupasse il comandante. «Qualcosa di vivo?» gli chiesi. «No, signore.» «Qualcuno morto?» Lentullo esitò e non mi rispose. Tutti i peli del collo e delle braccia mi si rizzarono lentamente sull'attenti. «Va bene, Lentullo. Adesso tu e io portiamo il cagnolino del tribuno a fare una passeggiata. Ci aprimmo un varco nella boscaglia per circa dieci minuti. Lentullo era un tipo vergognoso. L'avevamo già perso due volte quando per fare i propri bisogni si era spinto così lontano dall'accampamento che dopo non era più riuscito a ritrovarci. Si fermò per cercare di orientarsi. Restai in silenzio per non rischiare di confonderlo del tutto. Mi venne in mente che potevamo restare là fuori tutta la notte mentre Lentullo cercava di nuovo il suo tesoro. Odio le foreste. È facile farsi prendere dal terrore in un luogo dove tutto è assolutamente immobile. Fra quegli alberi potevano aggirarsi orsi, lupi, alci e cinghiali. L'aria gelida aveva un odore umido d'autunno insalubre e dannoso. La vegetazione era di un genere rigoglioso, senza fiori, senza alcun uso botanico conosciuto. Funghi simili a facce rugose erano aggrappati agli alberi antichi. Il sottobosco si impigliava vendicativo nei vestiti e nella carne, strappandoci le tuniche e graffiandoci le braccia. La mia corazza era piena di schizzi di una qualche secrezione di insetti. A quel punto sembrava che fossimo le sole cose che respiravano, a parte i misteriosi guardiani del mondo degli spiriti celtici. Avvertivamo la presenza di parecchi di loro, sia lontani che vicini. I ramoscelli si spezzavano, troppo vicini per esserci di conforto, come si spezzano i ramoscelli nelle foreste. Perfino Tigre era intimidito. Restava vicino a noi invece di precipitarsi qua e là rovistando in cerca di arvicole e cattivi odori. «Non mi piace questo posto, signore.» «Mostrami quello che hai trovato, poi possiamo andarcene.» Lui mi guidò attraverso qualche altra macchia di alberi, superando un tronco gigantesco e passando accanto a una volpe morta che era stata dilaniata da qualcosa di molto più grosso, qualcosa che probabilmente progettava di tornare quasi subito a prendere il resto. Tigre ringhiò in modo in-
quietante. Un nugolo di moscerini si accalcava sulla mia fronte. «È qui che mi trovavo. Mi pareva che somigliasse a un sentiero.» Forse. O solo uno spazio casuale fra gli alberi fitti. «L'ho seguito per dare un'occhiata...» Era curioso per natura. E stupido. Lentullo avrebbe raccolto uno scorpione per vedere se è vero che pungono. Non avevo ancora la minima idea di che cosa avesse visto, solo che il suo effetto sulla recluta mi faceva venire i brividi. «Andiamo, allora.» Imboccammo il presunto sentiero. Forse di lì passavano i cervi. L'aria sembrava ancora più ostile e la luce andava rapidamente spegnendosi. La rugiada aveva fatto gonfiare il cuoio degli stivali e i nostri piedi si trascinavano impacciati. Le foglie scricchiolavano sotto le suole più rumorosamente di quanto volessi. Il nostro incedere doveva essere percepibile nel raggio di un paio di miglia. Poi gli alberi terminarono. Ero stanco. Avevo freddo e mi sentivo inquieto. In un primo tempo i miei occhi si rifiutarono di mettere a fuoco, lottando contro l'incredulità. Poi compresi perché la recluta si era spaventata tanto per la propria scoperta. La radura silenziosa in cui eravamo penetrati era avvolta nella foschia. Era una vasta radura, o lo era stata una volta. Di fronte a noi si estendeva uno strano basso mare di rovi. I rovi e la sterpaglia sprofondavano leggermente nella zona più vicina a noi, poi si sollevavano per un tratto di parecchi piedi fino a una striscia regolare di terreno boscoso. La depressione, simile a un fossato, si estendeva di lato in ogni direzione. I giunchi affondavano come se il terreno sotto la loro massa aggrovigliata fosse stato tagliato. E così era stato. Lo sapevamo, anche senza bisogno di avventurarci oltre, cosa che sarebbe stata mortalmente pericolosa. Quasi davanti ai nostri piedi il suolo doveva scendere a precipizio, più profondo dell'altezza di un uomo. Sotto di noi, invisibile fra i rovi, c'era sicuramente un ammasso di pali terribilmente acuminati. Sul fondo del fossato ci sarebbe stato un eccellente canale di scolo largo quanto un badile, poi la muraglia più lontana sarebbe salita in diagonale fino a un argine, prima di scendere di nuovo sul terreno spianato. Lì, il terreno boscoso riempiva il passaggio. Un bosco relativamente giovane, non gli alberi antichi fra i quali ci eravamo fatti strada a fatica tutto il giorno, che erano già lì, robusti, dai tempi leggendari in cui Ercole aveva visitato la Germania. Quella che avevamo trovato era una leggenda diversa. Oltre gli alberi c'era un bastione. Riuscivamo a intravedere solo la parte
superiore che emergeva dalla vegetazione. Ma doveva esserci anche un cammino di ronda, coperto da una palizzata di travi e interrotto dalla sagoma familiare delle torri quadrate. Più oltre scorgemmo nel crepuscolo la mole formidabile tipica della porta di una fortezza. Tutto era silenzioso. Non c'erano sentinelle di pattuglia e non si vedevano luci. Ma qui, a un centinaio di miglia dalle province romane, era sorto un accampamento romano. XLV «Signore, c'è qualcuno lì?» «Per gli dèi misericordiosi, spero di no!» Non ero in condizioni di spirito per scambiare racconti di viaggio con uomini morti o i loro fantasmi. Incominciai a muovermi. «Andiamo dentro?» «No. Torniamo indietro.» Lo feci girare. «Signore, potremmo accamparci lì dentro.» «Ci accamperemo dove siamo...» Pochi di noi riuscirono a dormire quella notte. Giacemmo svegli, con le orecchie tese a sentire squilli di tromba provenienti dall'Ade, poi ci appisolammo poco prima dell'alba. Mi svegliai presto e mi alzai mentre era ancora buio, irrigidito e con la testa raffreddata. Uscirono anche gli altri. Dopo aver bevuto solo qualcosa di freddo e aver mangiato qualche galletta per farci coraggio, facemmo i bagagli, prendemmo i cavalli e poi partimmo in un gruppo compatto per fare una visita mattutina all'accampamento dei nostri colleghi. All'alba, riusciva a sembrare perfino più desolato. Questa non era Vetera. Era l'accampamento di un esercito campale, e un grosso esercito. Pur essendo stato costruito per un uso temporaneo, si ergeva nel suo isolamento con un'aria di stabilità. Non c'erano tracce di una guerra d'assedio. La decadenza, tuttavia, gli si avvinghiava tenace. A parte l'abbondante manto di sterpaglia sulle fortificazioni esterne, alcune delle torri si erano inclinate e le palizzate erano crollate. Vedevamo ora che più avanti le opere di fortificazione vere e proprie erano distrutte. Ci aprimmo un sentiero fino al posto di guardia. Una delle grandi porte di legno era uscita dai cardini. Ci infilammo con cautela appena dentro, non oltre. Un ragno delle dimensioni di un uovo d'anatra ci guardò entrare. La vegetazione era sensazionale. All'interno dei bastioni era tutto in ro-
vina. «Signore, c'è stata una battaglia?» «Non sono rimasti corpi, se ce n'erano.» Elvezio, unico di noi, smontò da cavallo e fece qualche passo avanti per dare un'occhiata. Nemmeno lui aveva intenzione di andare lontano. Si fermò e raccolse un piccolo oggetto. «Non credo che il luogo sia stato abbandonato» mormorò con voce perplessa. Incominciò a farsi strada più all'interno, e questa volta lo seguimmo. Era stato un accampamento di tende, per cui c'erano vasti tratti di terreno scoperto dove le lunghe farfalle di cuoio erano state montate in fila. Ma ovunque le legioni si fermino per un certo periodo di tempo, i magazzini e i Principia sono fatti di materiali durevoli. Questi avrebbero dovuto essere ben visibili, nelle loro ubicazioni note, come riquadri ricoperti solo da un basso tappeto di rade erbacce, per via dei pavimenti solidi, ma i loro siti erano occupati da vecchio legname marcio e cumuli di altri rottami. «Qual è il tuo verdetto, centurione?» domandò Giustino. Era pallido per via dell'ora mattutina, la mancanza di sonno e l'apprensione. «Era un accampamento deserto, ma non smantellato in modo regolare.» «Erano partiti per l'inverno» dissi. Parlavo con una certa sicurezza. Il sacrario e la stanza del forziere, costruiti in pietra, erano ancora in piedi. Non c'erano naturalmente insegne né aquile nel sacrario. Avevo visto le aquile d'oro che un tempo sventolavano quaggiù. Le avevo viste nel tempio di Marte a Roma. Elvezio mi guardò. Anche lui sapeva che cosa avevamo trovato. «Esatto. Tutti gli edifici furono lasciati qui. Pessima abitudine, ma loro immaginavano di tornare, ovviamente.» Era profondamente turbato. Mi rivolsi agli altri per dare una spiegazione. «Tutti voi conoscete le regole quando si lascia un accampamento provvisorio.» Le reclute ascoltavano attente, con aria ingenua. «Si carica sulle salmerie tutto ciò che è riutilizzabile. Si prendono, per esempio, i bastoni delle palizzate per usarli nel successivo luogo di sosta. Ogni soldato ne trasporta due.» Ci voltammo tutti a guardarci indietro. Sui bastioni fortificati alle nostre spalle, tratti delle difese di legno penzolavano attraverso il cammino di ronda, ancora legate parzialmente insieme, come staccionate di un podere danneggiate durante una terribile bufera di vento. Altri pezzi dovevano essere marciti; così le scale. Questa era opera del tempo. Nessun'altra forza l'aveva fatto.
«Il resto si brucia» continuò Elvezio. «Non si lascia niente che il nemico potrebbe utilizzare, ammesso che si pensi di avere un nemico.» Stava rigirando i resti della vecchia porta di un magazzino. «Questo era un accampamento deserto!» esclamò, quasi protestando per quell'inosservanza del protocollo. «Ci sono passati sopra con una discreta cura, dei saccheggiatori, direi. L'accampamento è stato costruito da romani, romani che credevano stupidamente che la regione fosse così sicura che potevano uscire come padroni di casa, lasciando la chiave della porta sotto lo zerbino...» Il centurione fremeva di una collera che andava lentamente crescendo. «I poveri bastardi non avevano la minima idea del grave pericolo in cui si trovavano!» Tornò a lunghi passi verso di noi, serrando nel pugno l'oggetto che aveva raccolto. «Chi erano, signore?» «Le tre legioni che furono massacrate nella foresta da Arminio!» spiegò con ardore Elvezio. «Ci fu una battaglia... per gli dèi, se ci fu... ma non ci sono corpi perché in seguito Germanico venne a seppellirli.» Sollevò l'oggetto rinvenuto. Era una moneta d'argento. Recava lo speciale marchio di zecca che Publio Quintilio Varo aveva usato per la paga dei suoi soldati. Non ne sono mai circolate molte a Roma. XLVI Da qualche parte in quella zona doveva trovarsi il tumulo sepolcrale. Quello del quale Germanico aveva deposto la prima zolla con le proprie mani, contro le regole della sacralità, considerato che a quel tempo ricopriva anche la carica di sacerdote. Ma qui era stato innanzitutto un soldato. Mentre stavamo lì in piedi, lo capimmo. Anche noi eravamo sopraffatti dalla nostra reazione emotiva. Non andammo in cerca del tumulo. Non erigemmo nemmeno un altare come avevamo fatto a Vetera. Li onorammo in silenzio. Tutti quanti: i morti, e quelli che si erano fatti un dovere di ritrovarli. Intrappolati nel passato, tutti noi ci stavamo sicuramente chiedendo se, nel caso fossimo stati uccisi lì in quella foresta, qualcuno che ci voleva bene avrebbe mai saputo del destino che ci era toccato. Lasciammo l'accampamento avvolto nella foschia attraverso la porta Praetoria in frantumi, lungo ciò che tenacemente resisteva della vecchia
strada di uscita. Si cavalcava più agevolmente che su qualunque altra strada attraverso la foresta, e volevamo coprire in fretta una lunga distanza. Ad un certo punto la strada dei nostri antenati era stata invasa dalla vegetazione. Facemmo le solite rimostranze sui genieri incapaci, anche se dopo sessant'anni senza manutenzione qualche buca e un po' di erbacce si potevano scusare. Continuammo il nostro viaggio. Come l'esercito di Varo, ci stavamo dirigendo a sud. Come per loro, era lì che il nostro destino ci aspettava al varco. C'era un'unica differenza: noi lo sapevamo. Era impossibile smettere di rimuginare su quella storia. Perfino Giustino ora si era associato alla discussione: «Sappiamo che Varo era diretto verso gli alloggiamenti invernali: i forti che avevano costruito sulle rive del Lupia, o forse pensava addirittura di tornare in qualche posto lungo il Reno. Deve avere lasciato quell'accampamento credendo erroneamente di avere assicurato il territorio, pronto a tornarci la primavera seguente». «Perché non potevano restare lì durante l'inverno, signore?» «Troppo lontano dai rifornimenti per rimanere tutto il tempo. E poi, immagino che le sue truppe insistessero per avere un periodo di riposo in qualche posto civilizzato.» Le truppe del tribuno rifletterono sulla sua solenne considerazione, poi fecero lentamente un largo sorriso. «E questo è il percorso che seguirono» disse Elvezio. Se lo sentiva. Amava drammatizzare, amava fare congetture. «Tutti credono che avessero raggiunto il crinale quando successe, ma perché non qui, molto più a nord? Tutto ciò che sappiamo davvero con certezza è che Germanico li trovò da qualche parte a est del fiume Ems.» «Signore, signore...» Ora che avevano lasciato l'accampamento fantasma, le reclute si sentivano più coraggiose ed eccitate. «Troveremo il famoso campo di battaglia?» «Sono dell'idea» rispose Elvezio in tono grave, come se fosse appena arrivato a una qualche conclusione «che il campo di battaglia sia tutt'intorno a noi. Questo spiegherebbe perché Germanico ebbe tanta difficoltà a trovarlo. Non si sgominano ventimila uomini... veterani di molte campagne, dopo tutto... in uno spazio simile a un cortile.» Ero d'accordo con lui. «Noi pensiamo che fu una cosa rapida, ma può darsi che il combattimento sia durato a lungo. Anzi, deve essere durato a lungo. È chiaro che Arminio si avventò su di loro e fece molti danni. Ma dopo essersi riavuti dalla sorpresa, essendo esperti come soldati devono avere opposto resistenza.»
«Esatto, Falco. Non c'è altra possibilità. Sappiamo comunque che lo fecero. Germanico trovò interi mucchi di ossa nei luoghi in cui avevano resistito in gruppo. Si imbatté perfino nei resti di alcuni che avevano tentato di tornare all'accampamento e lì erano stati trucidati.» «L'accampamento che abbiamo trovato?» «Chi può saperlo. Dopo tutto questo tempo, e dopo che Germanico ha ripulito tutto, bisognerebbe trascorrervi giorni per trovare qualche traccia.» «Così dopo l'assalto iniziale» dissi «affrontarono una prolungata agonia. Ci fu persino qualche sopravvissuto. Arminio fece dei prigionieri: alcuni vennero appesi ai rami degli alberi per propiziarsi le divinità celtiche, mentre altri furono imprigionati dentro orrende fosse.» Sono lieto di dire che non ne trovammo nessuna. «Alcuni di loro riuscirono a tornare a casa a Roma. Qualche poveretto addirittura venne di nuovo qui con Germanico.» Ogni guerra produce i suoi masochisti. «Ma accordarsi su una resa non è la caratteristica delle tribù. Fu un combattimento celtico. Uccidere e prendere teste. Qualunque legionario che avesse cercato di fuggire sarebbe stato braccato nei boschi. Proprio come in Britannia quando si sollevarono le tribù di Budicca.» Sentii la mia stessa voce farsi rauca per quel vecchio dolore. «La caccia fa parte dell'orrenda partita. Guerrieri sanguinari che urlano allegramente incalzando le loro vittime che sanno di non avere scampo...» «È possibile che Arminio abbia prolungato di proposito il divertimento» disse Elvezio a titolo informativo. «Il risultato potrebbe essere stato una lunga distesa di corpi per l'intero percorso da qui a...» «Al prossimo fiume in ogni direzione, centurione.» «Spiegati, Falco.» «I guerrieri bloccano tutti i fuggitivi rimasti sulla riva. Le teste e le armature sono offerte alle divinità dei corsi d'acqua.» Proseguimmo in gran silenzio. Impiegammo due giorni, nonostante il bel tempo e la sorte favorevole, per raggiungere le colline di Teutoburgo. So che ogni sera, quando sostavamo, alcune delle reclute sparivano nel sottobosco per lunghi periodi. So che trovarono parecchi oggetti. Erano ragazzi. Non che se ne infischiassero dei loro vecchi colleghi, ma trovavano irresistibile la ricerca di cimeli. L'umore generale della nostra comitiva si incupì. In quei momenti, Lentullo si sedeva insieme a me e a Giustino accanto al fuoco, senza prendere parte alla segreta ricerca di oggetti ricordo. Stava chiuso in se stesso, come
se per qualche ragione pensasse che era tutta colpa sua. Una volta scoppiai in una breve risata. «Eccoci qui, bloccati in capo al mondo con una buona dose di problemi ciascuno, che facciamo un gran parlare come strateghi che usano mele sul tavolo di una taverna per far rivivere Maratona e Salamina.» «Piantala di parlare di taverne, Falco» borbottò insonnolito Camillo Giustino dal fondo del suo letto da campo. «A qualcuno di noi farebbe davvero piacere un bel bicchiere!» Essendo stato a casa sua e avendo assaggiato il suo spaventoso vino da tavola, compresi quanto dovesse essere disperato Sua Eccellenza il tribuno. Il giorno seguente affrontammo le alture di Teutoburgo. Fatto strano, attraversammo senza incidenti la lunga scarpata. Sembrava troppo bello per essere vero. Infatti. Durante la discesa, in perfetta formazione, trovammo le sorgenti del fiume Lupia. Al tramonto ci accampammo con discrezione, senza accendere fuochi. Notai che Probo e un'altra recluta si allontanarono insieme e rimasero assenti per troppo tempo. Stavano senza dubbio perlustrando di nuovo il terreno in cerca di antiche spade e borchie. In un primo tempo non facemmo commenti, come al solito, ma avevamo finito di distribuire le razioni che loro non erano ancora tornati. Era inaudito. Elvezio rimase nell'accampamento mentre Giustino e io uscimmo in cerca dei nostri agnelli smarriti. Portammo con noi una recluta ciascuno. Lui scelse uno di nome Orosio. Con la mia fortuna, mi capitò Lentullo. Nel caso avessi avuto bisogno di altra compagnia, Tigre ci seguì saltellando allegramente. Com'era prevedibile, fummo Tigre, Lentullo e io a incappare nel boschetto sacro. Non appena entrammo, ci sembrò uguale a qualunque altra radura. Doveva essere vecchia di generazioni. Avanzammo baldanzosi fra gli alberi dai rami ricurvi, pensando che lo spiazzo aperto nel mezzo si fosse formato naturalmente. Si stava levando un vento furioso che stormiva instancabile tra le foglie secche e scure di novembre. Tigre, che ci aveva preceduti di slancio, tornò indietro correndo scatenato, portandoci un bastoncino da lanciargli. Mi chinai e, dopo la consueta lotta rumorosa, lo costrinsi a mollarlo. «Sembra strano come bastoncino» disse Lentullo. Allora ci accorgemmo che era un perone umano.
Mentre il cane abbaiava deluso, aspettando di giocare, Lentullo e io ci guardammo pian piano intorno e notammo finalmente che il posto aveva un'atmosfera particolare. C'era odore di muschio e di desolazione. Il silenzio ci serrò la gola. Il panico ci assalì. Ci volle qualche momento perché ci rendessimo conto che occhi vuoti ci osservavano da ogni lato. «Sta' fermo, Lentullo. Sta' fermo!» Non so perché lo dissi. Non c'era nessun altro lì attorno... eppure c'era una presenza dappertutto. «Mi dispiace, signore» disse con voce roca Lentullo. «Oh, madre mia! L'ho fatto di nuovo, vero?» Mi sforzai di sembrare allegro quando risposi sottovoce: «Sì. Sembra un'altra delle tue terrificanti scoperte...». Di fronte a noi si protendeva una statua grottesca di legno rozzamente sgrossato e in via di putrefazione: una qualche divinità dell'acqua, della foresta o del cielo... o forse tutte quante insieme. Incombeva su di noi come un enorme tronco nodoso di quercia, imperlato di livida muffa arancione e radicato nel marciume. Era il risultato di pochi colpi di un'ascia rudimentale. Le membra erano caricature appena abbozzate. Aveva tre facce primitive e, distribuiti fra di esse, quattro occhi celtici a mandorla spalancati. In cima, le ampie corna di un grosso alce si ramificavano come se cercassero di abbracciare il cielo. Davanti al dio c'era un primitivo altare di terra dove i sacerdoti dei bructeri venivano a fare i loro sacrifici. Sopra c'era la testa di un bue in avanzato stato di decomposizione. Come noi, predicevano il futuro con le interiora degli animali. Diversamente da noi, avevano l'abitudine di fare a pezzi qualunque cavallo o altro animale catturato ai nemici sconfitti. Eseguivano anche sacrifici di un genere peggiore. Lo capimmo perché tutt'intorno al boschetto, inchiodati sugli alberi antichi, c'erano teschi umani. XLVII Lentullo, che di norma non sapeva niente di niente, questa cosa la sapeva. «Entrare in un boschetto dei druidi significa morte, non è vero, signore?» «Se aspettiamo qui attorno, può darsi che arrivi un druido e ti risponda...» L'afferrai per il braccio, poi incominciai a retrocedere lentamente per la strada dalla quale eravamo venuti. Alla nostra destra c'era qualcosa fra gli alberi: una catasta di trofei. C'e-
rano innumerevoli armi - lunghe spade germaniche sconosciute, asce di guerra, scudi rotondi con robuste borchie - in mezzo ad altri oggetti dei quali riconoscemmo con triste turbamento la fattura romana. Lentullo emise un gemito stridulo e inciampò in una radice. Proprio quella primavera ero riuscito a mettere le mani su parte del De bello Gallico di Cesare, venduto a poco prezzo ora che Roma aveva nuove guerre immonde su cui concentrare la sua attenzione. Secondo Giulio, i suebi adoravano gli dèi, per lo meno a quei tempi, in un boschetto che le persone potevano visitare a scopo religioso, ma se vi capitavano per caso, l'usanza prescriveva che uscissero dal boschetto rotolando in posizione orizzontale. Cesare aveva sicuramente menzionato altri fatti rassicuranti che avrebbero forse potuto aiutarci a uscire da quello stato di terrore, ma non avevo mai avuto abbastanza denaro per acquistare il successivo rotolo della serie. Il terreno qui era particolarmente ricco di flora sgradevole, escrementi di cervo, funghi lattiginosi del genere scolorito e molliccio. Guardai di traverso l'ostile scultura di legno e scartai spavaldamente il rito suggerito da Cesare. Rotolare come un tronco per propiziarsi divinità locali non faceva parte del corso di addestramento delle nostre reclute, e questa in particolare non l'avrebbe mai imparato comunque. Tirai per il braccio il giovane idiota e lo feci alzare in piedi. Poi ci voltammo e incominciammo ad andarcene nel modo convenzionale. Ce ne pentimmo amaramente. A quel punto fummo costretti a passare davanti a qualcos'altro che non ci piacque. La costruzione all'uscita del boschetto era di forma quadrata, come un altro altare ma molto più grande. Era disposta intorno a un grosso palo, e fatta con diversi oggetti dalla forma sottile, con l'estremità irregolare o rotonda e di colore grigio. Doveva essere stata eretta nel corso di parecchie generazioni e al momento era larga due passi in ogni direzione e in altezza arrivava alla cintola. I suoi componenti erano stati disposti in file assai ordinate, prima in un senso, poi di traverso, come ramoscelli in un falò ben disposto. Era una gigantesca catasta di ossa. Ossa di braccia e gambe umane. Centinaia di vittime dovevano essere state smembrate per contribuire a quell'ossario: prima appese agli alberi come offerte, poi fatte a pezzi con indifferente efferatezza, come tagli scelti di carne. Da quanto sapevo dei riti celtici, la maggior parte di loro dovevano essere stati uomini giovani come noi.
Prima che potessimo impedirglielo, il cane del tribuno vi saltò sopra per fiutare quell'eccezionale mucchio di ossa. Distogliemmo lo sguardo, in segno di rispetto per i morti, mentre Tigre salutava ogni angolo dell'ossario con il suo particolare gesto di riverenza canina. Lasciammo in gran fretta il boschetto. XLVIII Ci incamminammo per tornare all'accampamento. Fu allora che ebbe inizio l'incubo successivo. All'imbrunire mi trovavo ancora in giro per un bosco con Lentullo. Questa volta non fu il silenzio a spaventarci. Tutta un tratto fummo circondati dal rumore: qualcosa, o qualcuno, che si muoveva in fretta e con gran fracasso in mezzo agli alberi. Eravamo già impietriti. Poi sentimmo un grido. Voci estranee riempirono la notte. Fin dall'inizio sembrò un inseguimento, ma fin dall'inizio capimmo che eravamo noi la preda. Costrinsi Lentullo a cambiare direzione, nella speranza di dare una possibilità al resto della nostra comitiva. «Sono con te, signore!» promise lui. «È confortante...» Avevamo perso il sentiero e ci muovevamo brancolando su un terreno insidioso dove rami e macchie di muschio ingannevoli stavano in agguato pronte a farci cascare a faccia in giù con qualche arto slogato. Cercavo di riflettere mentre ci precipitavamo in avanti attraverso la boscaglia. Ero abbastanza sicuro che nessuno ci avesse visti lasciare il boschetto. Forse non ci avevano visti affatto. Qualcuno là fuori cercava qualcosa, ma forse erano solo cacciatori che tentavano di riempire la pentola. Ci fermammo. Ci accovacciammo fra i cespugli mentre il sudore ci scendeva a fiumi e ci colava il naso. Non la pentola. Chiunque fossero, facevano troppo baccano per essere degli uomini che cercano di attirare un animale nella rete. Stavano battendo i cespugli per snidare dei fuggiaschi. Le risate stridule ci allarmarono. Poi sentimmo i cani. Risuonò una specie di grosso corno. Ora la chiassosa brigata veniva dritta verso di noi. Erano così vicini che uscimmo allo scoperto. Ci avrebbero trovati comunque. Qualcuno ci scorse. Le urla ripresero. Riprendemmo a scappare come meglio potemmo, senza neppure riuscire a voltarci indietro per vedere chi fossero i nostri inseguitori. Avevo perso
Lentullo. Si era fermato per chiamare il cane del tribuno. Proseguii. Forse poteva sfuggirgli, forse potevo sfuggirgli anch'io, forse potevamo perfino riuscire a cavarcela. Niente da fare. Li stavo distanziando, ma all'improvviso ci fu un'esplosione di suoni che poteva significare una sola cosa: avevano catturato Lentullo. Non avevo scelta. Emisi un sospiro e tornai indietro. Doveva trattarsi di una banda di bructeri. Se ne stavano in piedi intorno a una fossa profonda, ridendo. Lentullo e Tigre vi erano caduti dentro. Forse era una trappola per animali, o addirittura una di quelle fosse simili a dispense che il loro eroe Arminio aveva scavato per conservare freschi i prigionieri. La recluta doveva essere illesa, perché la sentivo gridare con un coraggio che mi fece sentire fiero, ma i guerrieri la provocavano agitando le loro rudimentali lance di legno. Lentullo doveva essere fortemente scosso a causa della caduta e si capiva che era terrorizzato. Uno dei bructeri sollevò la lancia. La minaccia era evidente. Mi misi a gridare. Mi stavo precipitando nella valletta quando qualcuno di grosso, con una spalla molto dura, balzò fuori da dietro un albero e mi fece stramazzare al suolo. Lentullo non poteva vedermi, ma doveva avermi sentito cadere. Per qualche ragione la mia presenza sembrò rincuorarlo. «Signore, come facciamo a parlare con questi uomini senza un interprete?» Quel ragazzo era proprio un idiota... Il mondo cessò di turbinare. Forse la mia risposta sarebbe stata l'ultima espressione amichevole che avrebbe ascoltato, così non me la sentii di rimproverarlo. «Parla lentamente e sorridi molto, Lentullo...» Forse ebbe qualche problema a decifrare il messaggio. Mi era difficile sembrare lucido di mente e disinvolto come sempre giacendo a faccia in giù sul suolo della foresta con le narici schiacciate nel terreno organico, mentre un gigantesco guerriero nudo fino alla cintola, che probabilmente non aveva capito la battuta, se ne stava con il piede piantato sulle mie reni e rideva di cuore di me. XLIX Per gli dèi, detesto i tipi grandi e grossi, gioviali e sempliciotti. Non si può mai dire se si limiteranno a prendervi in giro, oppure se, dopo avervi preso in giro con quell'allegra sghignazzata, vi mozzeranno la testa con un'ascia... Il tipo che mi aveva catturato mi tirò su di peso in una posizione più o
meno eretta, mi tolse la spada e il pugnale, li osservò con un sogghigno beffardo ma se li tenne, poi mi scaraventò più avanti nella valletta dove si trovavano gli altri. Dopo di che incoraggiarono Lentullo ad arrampicarsi fuori dalla fossa, pungolandolo con le lance. Lui tirò fuori il cane, che subito diede prova della sua fedeltà fuggendo via. L'allegra brigata ci mise fianco a fianco e valutò la propria raccolta come naturalisti che confrontano una serie di coleotteri rari. Quei ragazzi non sembravano molto sofisticati. Probabilmente contavano le zampe e le antenne delle creature strappandogliele via. Incominciai a contrarre nervosamente membra che non sapevo neppure di possedere. Tutti loro ci sovrastavano in altezza. Lo stesso poteva dirsi del gruppo che sopraggiunse quasi subito lanciando urla di trionfo e portando i nostri amici rimasti all'accampamento. Con loro c'erano i due scomparsi nella ricerca di tesori, Probo e il suo compagno. Probabilmente avevano scoperto loro per primi. Diedi loro un'occhiata ansiosa, per vedere se avevano subito danni. Elvezio ostentava un occhio nero e una forma irrecuperabile di turpiloquio e alcune delle reclute erano state un po' strapazzate. Quello che sembrava aver subito la sorte peggiore era il servitore del centurione, ma questo non era necessariamente un segno della crudeltà dei bructeri. Era un individuo davvero patetico e non faceva che lamentarsi di essere stato conciato per le feste. I ragazzi mi dissero in seguito che si erano lasciati catturare senza fare tante storie. Dopotutto, si presumeva che gli scopi del nostro viaggio fossero pacifici. I guerrieri erano arrivati all'improvviso davanti alle tende. Elvezio aveva seguito alla lettera il regolamento, cercando di fare conversazione. Era stato solo quando avevano iniziato a malmenare la nostra comitiva che aveva ordinato di prendere le armi. Ma a quel punto era troppo tardi. Non c'era mai stato molto che potessimo sperare di ottenere lottando, non in numero così esiguo e così lontano da casa. I guerrieri avevano poi perlustrato il bosco in cerca di dispersi. Con Lentullo e me pensavano evidentemente di avere completato la serie. «Signore, e quanto a...» «Chiunque tu abbia intenzione di nominare, non farlo!» Giustino e Orosio non c'erano. Adesso erano la nostra unica speranza, anche se non osavo ipotizzare di che tipo. «Non parlare di loro, non pensare nemmeno a loro, nel caso il pensiero ti si legga in faccia.» Forse erano già morti, cosa che pensavamo ci sarebbe toccata presto.
Con mio immenso sollievo, non fummo condotti al boschetto. Almeno non ancora. Ormai era buio pesto. Ci condussero a spintoni in direzione del fiume, anche se apparentemente non raggiungemmo mai la riva. Anche questo fu un sollievo. Se mi avessero gettato giù da una banchina come bocconcino per una divinità del fiume, avrei reso immediatamente l'anima nelle sue mani palmate. Non sarei stato capace di uscirne nuotando. Non nutrivo molte speranze neppure per le reclute: dovevano avere frequentato il mio stesso corso di nuoto dell'esercito. Procedemmo incespicando, circondati dai barbari. Parevano abbastanza gioviali avendo qualcuno da sfottere. Non ci procurarono ulteriori danni; ma è pur vero che noi non sfidammo la sorte domandando chi fosse il loro capo o quando ci saremmo fermati per fare uno spuntino. Dopo quelle che sembrarono ore arrivammo a un insediamento. Edifici rettangolari fatti di travi intonacate con tetti di legno molto spioventi che arrivavano quasi a terra. Alcune facce pallide ci fissavano alla luce di torce fumose. Un bue muggiva. I nostri accompagnatori ci spinsero urlando oltre una porta facendoci entrare in una lunga stalla collocata ad angolo retto rispetto alla casa o fattoria più grande. Aveva ospitato del bestiame di recente; lo capimmo dall'odore. Eravamo ruzzolati in uno spazio che aveva un corridoio centrale e stalle separate da pali e mangiatoie. All'altra estremità c'era solo un nudo focolare. Sentimmo chiudere la porta dall'esterno con una sbarra massiccia. L'esplorazione di quello squallido appartamento per gli ospiti non richiese molto tempo. Ci limitammo a rimanere accovacciati e a guardarci in giro da dove ci trovavamo. «E adesso che cosa succede, Falco?» Avevamo raggiunto quello stadio disperato in cui le persone non hanno altra scelta che rivolgersi a me. Eravamo al punto in cui tutti mi avrebbero quasi sicuramente ricordato che il viaggio verso il fiume Lupia era stato una mia idea. «Dobbiamo aspettare e vedere.» Sembravo moderatamente fiducioso. «Ma non crediate che ci chiederanno quale brillante avvocato difensore vorremmo assumere tra gli appartenenti al loro sofisticato servizio legale.» «Come facevano a sapere di noi per venire a cercarci, signore?» «La mia ipotesi è che li abbia avvertiti Dubno.» Ci preparammo a una lunga attesa, alla fine della quale non c'era molto da sperare. «Forse una bellissima vergine ci porterà un secchio con la cena, si inna-
morerà di me e ci aiuterà a fuggire» rifletté Ascanio. Era la recluta più magra e più sudicia che avessimo. «Non è saggio aspettarsi anche solo la cena, Ascanio.» A metà del lungo edificio c'era un'imposta. Alcuni bambini biondi l'aprirono e rimasero a scrutarci in silenzio affascinati. Ben presto Elvezio si stancò della cosa e andò a chiuderli fuori. Disse che gli enormi guerrieri se ne stavano lì attorno in gruppetti a discutere in modo inconcludente. Poi si eclissò di nuovo all'interno, nel caso la vista della sua brizzolata testa romana suscitasse in loro idee omicide. Dovevano essere in attesa di qualcuno. Dopo circa un'ora arrivò. Il brusio della discussione salì a un livello più animato. Andarono avanti a blaterare tutti quanti in un modo che mi ricordava quello dei miei parenti quando, a una riunione di famiglia, si mettono a discutere in modo inconcludente se il compleanno della prozia Azia cada in maggio o in giugno. Perfino l'uomo importante dovette stancarsi, poiché alla fine spalancò l'uscio ed entrò lentamente per darci un'occhiata. Era sulla cinquantina. Quando i capelli rossicci si erano diradati e stinti, doveva aver supplito aumentandone la lunghezza. Matasse scarmigliate di capelli si aggrovigliavano alle sue spalle. Xanto ne sarebbe rimasto inorridito. Aveva anche lunghi baffi, che avevano un gran bisogno di una pomata rivitalizzante, al di sopra dei quali c'erano un naso bulboso e due occhi di un azzurro chiaro piuttosto acquosi. Era un uomo enorme sotto ogni aspetto: spalle ampie, ossatura pesante, testa grossa, mani grandi. Indossava braghe di lana marroni, una tunica dalle maniche lunghe, un mantello verde e un fermaglio d'oro rotondo che non solo teneva insieme il suo completo ma si alzava e si abbassava in modo sensazionale per mostrare quanto si gonfiasse il suo torace ogni volta che respirava. Alcuni degli altri potevano forse sembrare denutriti, ma quell'individuo era in ottima forma. Era seguito dalle sue guardie del corpo. Uomini più giovani, ciascuno dei quali sarebbe stato un eccellente modello per una statuetta del Nobile Barbaro se fossero stati fatti ingrassare e se gli avessero insegnato a esibire un triste sguardo celtico. Lasciati a loro stessi, avevano lo stesso sguardo assente di qualunque ragazzo di campagna. Erano in gran parte senza tunica per far vedere com'erano robusti (o scarsi). Sputavano parecchio per principio e ci guardavano di traverso ogni volta che si ricordavano di essere lì per mantenere un contegno sgradevole verso i prigionieri. Avevano tutti spade germaniche particolarmente lunghe, forse per avere un oggetto
imponente su cui appoggiarsi con indolenza mentre il loro capo era occupato. Lui sembrava il tipo che sta sempre in giro a perseguire altri interessi e aveva un tocco eccentrico che gli dava carattere. Anche a Roma quella lieve impressione di follia qualche volta funziona per i candidati a un'elezione. Ci sentivamo depressi e irritati con noi stessi, così siccome lui non faceva alcun tentativo di comunicare rimanemmo dove eravamo, seduti in due file su entrambi i lati del corridoio. Lasciammo che camminasse su e giù. Nessuno di noi parlò. Eravamo stanchi e affamati e lo lasciavamo vedere, pur senza mostrarci demoralizzati. Un uomo sostenuto da un fiero retaggio romano può apparire bellicoso anche stando accucciato sopra due piedi di sterco compresso. Be', Elvezio ci riusciva, anche se lui aveva il vantaggio di essere un centurione: un grado di una certa importanza. Il capo dei bructeri era un uomo che camminava lentamente, con un passo che consolidava il terreno. Tornò al punto di partenza, poi si girò di nuovo verso di noi. Fece un suono aspro con i denti, come se sputasse un seme di lampone. Sembrava che fosse la sua valutazione della nostra combriccola, ed era un'espressione di sonoro disprezzo. Fui sorpreso che riuscisse a trovare due denti per emetterla, dato che si vedevano grossi spazi vuoti nelle sue gengive. «Qualcuno dovrebbe dirgli di fare attenzione» disse ironicamente Ascanio. «Probabilmente è così che ha perso gli altri.» Gli occhi del capotribù si posarono sul nostro burlone. Ci accorgemmo immediatamente che aveva capito. Mi alzai in piedi in qualità di portavoce. «Veniamo in amicizia» dichiarai. Marco Didio Falco, l'ingenuo dall'inguaribile ottimismo. «Siamo in viaggio per vedere Velleda, la vostra famosa profetessa.» In questo caso il nome di Velleda produsse lo stesso effetto che se avessimo cercato di convincere una cornacchia nera a farsi uno spuntino con una foglia di lattuga. «Voi venite in amicizia?» Il capo sollevò il mento. Incrociò le braccia. La posa era piuttosto scontata, ma date le circostanze era una sua prerogativa. «Voi siete romani nella Germania Libera.» Il suo latino aveva un accento terribile, ma era abbastanza per rimbrottare un gruppetto di rinnegati puzzolenti. «Voi non avete scelta. Noi siamo i bructeri» ci informò con arroganza. «Proprio così!» Fece nuovamente quel suono disgustato con i denti, poi uscì a grandi
passi. «A questo punto è chiaro» esclamò incorreggibile Ascanio. «La vergine è annullata. Niente cena per noi questa sera, ragazzi!» Aveva proprio ragione. L La bellissima vergine doveva essere troppo occupata la mattina dopo, perché al suo posto ci mandò sua sorella: aveva il fisico di un palo da tenda, la faccia come il disotto di un masso e una personalità insignificante. La cosa avrebbe anche potuto non deprimerci, se lei non fosse anche stata quella che non sapeva cucinare. «Grazie, mia cara» la salutai in modo compito mentre gli altri facevano le smorfie. «Siamo felicissimi di fare la tua conoscenza e quella del tuo delizioso paiolo di pappa d'avena.» Aveva portato quattro ciotole da dividere fra noi ventidue, e un pentolone di metallo tiepido con dentro una pappa glutinosa. Lei mi ignorò uscendo con passo pesante. Feci finta di preferire le donne che non sono troppo scontate. La prima colazione era qualcosa che tutti dovrebbero provare, così qualunque altra cosa siano mai costretti a raccogliere dal fondo di una padella nella loro vita futura, saprebbero che esiste di peggio. Quella banda di bructeri era fatta di dormiglioni. Eravamo in un piccolo villaggio sonnolento che sarebbe stato un luogo ideale per rimetterci in forze se la gente avesse mostrato maggiore simpatia per noi. Solo verso la fine della mattinata sentimmo muoversi qualcosa. «Attenzione, uomini, sta succedendo qualcosa...» Guardammo fuori dalla nostra imposta e vedemmo una spedizione che tornava dopo avere saccheggiato il nostro accampamento. Elvezio e io spingemmo da parte gli altri e ci mettemmo a fare i conti sui bagagli e i cavalli che venivano condotti nel villaggio. «Secondo i miei calcoli, mancano una tenda e sei animali.» «Oltre alla cassa del denaro, ai giavellotti...» «Probabilmente qualche razione di viveri e l'equipaggiamento personale del tribuno...» «Oh, ce la farà!» mormorò Elvezio orgoglioso. «Per Mitra, è un bravo ragazzo!»
Sembrava proprio che Camillo Giustino potesse almeno riuscire a riferire a Roma come fossimo stati catturati dai bructeri. Aveva con sé provviste, cavalli e Orosio come compagno. I barbari erano tranquilli ora che ci avevano catturati e non sarebbero stati all'erta. Avrebbe dovuto farcela a fuggire. Non potevamo sperare di più. Che altro potevamo aspettarci da un giovane ufficiale educato in modo signorile, aiutato da una recluta piuttosto ottusa? Qualcosa di stupido, ovviamente. (Fu Elvezio a dirlo.) L'arrivo dei cavalli segnò un cambiamento per noi. Il lato positivo era che dicevamo addio alla nostra stalla puzzolente. Gli aspetti deprimenti erano che si lasciavano indietro tutti i nostri bagagli, che Ascanio aveva perso l'occasione di fare l'amore con la ragazza della pappa d'avena, e che i bructeri andavano a cavallo... i nostri cavalli. Ci facevano andare accanto a loro, a piedi. Erano cavalieri veloci. E ovunque ci stessero portando, risultò essere a qualche giorno di distanza. «Guardate l'aspetto migliore. Almeno ci dirigiamo a ovest. Avrebbero potuto condurci ancor più nell'interno... Ogni miglio lungo il quale arranchiamo è un miglio più vicino a casa.» «E quanto è lontana Roma da qui, Falco?» «Giove, non chiedermelo!» Non appena i bructeri si stancarono di condurci in gruppo come oche, con fischi irritanti e un uso molto dinamico di bastoni spinosi e appuntiti, ci mettemmo a camminare in formazione regolare e gli facemmo vedere come marciano i fondatori di un impero. Perfino le reclute ora erano intenzionate a fare bella figura. Ero preoccupato per il servitore del centurione, ma risultò che dopo vent'anni passati nell'esercito non solo era in grado di far marciare i suoi stivali in modo efficiente, ma riusciva anche a lamentarsi nello stesso tempo. Cantammo perfino. Inventammo una marcetta che iniziava così: "Oh quanto amo la mia piccola gavetta con il mio nome che sull'orlo svetta..." e poi andammo avanti a elencare numerosi articoli dell'equipaggiamento di un legionario (ce ne sono parecchi fra cui scegliere) prima di arrivare alla sua morosa, dopodiché la forma rimase costante anche se introducemmo qualche controcanto osceno. Alle reclute piacque. Non avevano mai inventato una loro canzone prima di allora. «Signore, questa è proprio una bella avventura, signore!» «Davvero. Paludi, foreste, fantasmi, radure piene di teschi. Sporchi, ter-
rorizzati e affamati. Per poi finire tutti come schiavi...» «Signore, io credo che le persone che non nominiamo mai ci salveranno. Tu che ne pensi, signore?» Elvezio gli disse la sua opinione usando un'espressione anatomica. Io dissi che, ipotizzando che le persone che non nominavamo mai avessero fatto l'unica cosa sensata e fossero scappate verso casa il più in fretta possibile, ero disposto a prendere in considerazione suggerimenti su come salvarci da soli. Nessuno ne aveva. Cantammo ancora un tredici versi della canzone della gavetta, per far credere ai bructeri dai capelli rossi che non sarebbero mai riusciti a demoralizzare dei romani. Così, con le vesciche ai piedi e cercando di occultare alla meglio le nostre apprensioni, arrivammo in una vasta radura sulla riva del fiume, dove altri bructeri si stavano radunando intorno a una torre alta in modo sospetto. Alla base della torre, in alcune linde casette intonacate, viveva un gruppo di scheletrici barbari che erano riusciti a rifornirsi di notevoli quantità di braccialetti d'oro e fermagli per mantelli ornati di gemme. Quei tipi malconci somigliavano ai ladri di cavalli che vivono fra le paludi Pontine e si guadagnano da vivere forgiando paioli ammaccati. Avevano gli occhi sfuggenti, almeno secondo quanto mi avevano detto, ma ognuno di loro possedeva un'elegante torque, una cintura dalle belle guarnizioni smaltate e diversi astucci di bronzo e d'argento. A differenza di tutti gli altri, indossavano diversi strati di vestiario e stivali troppo grandi. Avevano dei cani da caccia molto belli e tenevano l'ultimo modello di cocchio dall'intelaiatura in vimini parcheggiato con ostentazione nel loro recinto. Erano un assortimento di uomini insignificanti, dinoccolati e dal mento lungo, la cui capacità di attirare ricche offerte non poteva che derivare da qualcun altro. Quando chiedevano lamentosamente dei doni, nessuno poteva discutere. Nessuno dei bructeri l'avrebbe fatto. Perché quelli erano senza dubbio i parenti maschi di Velleda. Eravamo legati tutti insieme, ma ci fu permesso di gironzolare. Andammo in fila verso il luogo in cui certamente viveva la profetessa. Avrei dovuto capirlo fin dall'inizio. Quando mai le tribù celtiche hanno costruito alte torri? Velleda si era rifugiata in una vecchia torre di segnalazione romana. Erano state apportate alcune modifiche a quella costruzione che adesso pareva ridicola. In cima aveva ancora la piattaforma di osservazione dove
si accendeva il falò, ma era stata resa ancora più alta con pareti di canne e poi fornita di un confortevole tetto di tavole di legno. Il tentativo quasi riuscito di far crollare l'impero era stato senza dubbio diretto da una delle nostre stesse costruzioni. Distogliemmo lo sguardo, disgustati. Gli affluenti principali del Lupia erano confluiti ben più a monte. In quel punto il fiume era abbastanza largo da consentire la navigazione. Lungo le rive c'erano diverse imbarcazioni indigene, comprese barche dalle fiancate alte con le vele di cuoio, chiatte e imbarcazioni di vimini. C'era anche una nave molto più grande, nettamente superiore, che appariva stranamente fuori luogo. Le reclute ne furono affascinate e continuarono a ignorare le grida con cui le nostre guardie cercavano di farci tornare indietro pur di rimanere a guardarla. Mi ero dimenticato che molti di loro venivano dal litorale adriatico. «Una liburna!» Le liburne sono veloci e leggere galee a doppio ordine di remi derivate dalle navi pirata del Mediterraneo e abbondantemente usate nella flotta romana. Questa aveva sulla prua un ritratto ornamentale di Nettuno e a poppa una cabina elaborata. La nave stava a galla, anche se l'avevano spogliata di metà dei remi e il sartiame era ridotto a un groviglio. Non c'erano segni che la sacerdotessa la tenesse in ordine per andarsene in giro lungo il fiume. Doveva esser rimasta abbandonata lì da parecchi mesi. «Quella dev'essere la nave pretoria che Petilio Cenale si è fatto fregare sotto il naso» dissi. «Per gli dèi, è bellissima, signore. Com'è potuto succedere?» «Era a letto con la sua amichetta.» «Oh signore!» «Non fate caso all'incuria del generale. Esattamente come la sua splendida galea liburna dobbiamo essere stati condotti qui come doni per la profetessa. Perciò state zitti, restate uniti e tenete gli occhi aperti in caso di guai. L'ultimo romano vivo mandato in dono alla signora non è stato mai più visto. E, così come è sicuro che l'ambrosia fa ruttare gli eroi, il poveretto ha cessato di vivere.» Malgrado ciò, mantenevo una vaga speranza che ci saremmo imbattuti nel legato scomparso, Luperco, e avremmo scoperto che si era trasformato in un indigeno e viveva qui come un principe insieme a Velleda. La speranza era così vaga che mi causava un leggero senso di nausea. Conoscevo fin troppo bene le alternative più probabili. E sapevo che valevano anche per noi.
«La profetessa è lassù in quella torre adesso, signore?» «Non lo so.» «Hai intenzione di chiedere di vederla?» «Non credo che me lo permetteranno. Ma voglio vedere qual è la situazione prima di parlare.» «Ooh, non andare lassù nella torre, signore. Potresti non uscirne mai più.» «Lo terrò presente.» L'assemblea dei bructeri sembrava un raduno organizzato. Doveva essere un lavoro ingrato per chi provvedeva al cibo. Le tribù celtiche hanno la fama di presentarsi agli appuntamenti fino a tre giorni prima o dopo la data fissata. Su rozzi tavoli poggiati su cavalletti si stava svolgendo un banchetto. Sembrava una cosa abbastanza permanente. Probabilmente serviva a passare il tempo finché un numero decente di partecipanti non si degnava di farsi vivo. Mi chiedevo chi avesse mandato gli inviti per quella riunione informale. Poi cercai di non chiedermi che conseguenza avrebbe avuto su di noi quella riunione. La nostra comitiva, con la sua interessante sfilata di prigionieri, suscitò scoppi di eccitazione. Gli accoliti degli altri capi si sentirono obbligati a venire a fare gli spacconi cercando di sfidare la banda vittoriosa del nostro capo. Lo fecero con i soliti gesti ingiuriosi e minacciosi nei nostri confronti, che noi ignorammo, anche se chiaramente quelli che ci avevano catturato non potevano permettere ad altri di tormentarci privandoli del loro privilegio. Ormai ci sentivamo interesse esclusivo del gruppo al quale ci eravamo abituati, così li incitammo e riuscimmo a tener viva una rissa piuttosto animata. Nessuno di loro sembrò grato del nostro incoraggiamento e alla fine si stancarono tutti quanti e si sedettero a banchettare. Diedero da mangiare anche a noi, ma poca roba. I guerrieri mangiavano avidamente cibo semplice ma gustoso: pagnotte, frutta, selvaggina appena arrostita e, credo, del pesce. Per noi la cuoca si era presa il disturbo di preparare una delle loro speciali pappe d'avena. Era come mangiare un impiastro per ferite. C'era da bere (una sorta di succo di mirtillo fermentato), ma avvertii i ragazzi di andarci piano nel caso avessimo avuto bisogno di avere la mente lucida più tardi. Le donne furono giudicate un notevole progresso rispetto al nostro scontro con la sorella della vergine; la ragazza che portava in giro l'orcio del succo meritava davvero che le si facesse la corte. Ordinai loro di lasciar perdere anche quello e fui eletto immediatamente
uomo meno popolare del gruppo. Passò il tempo. Mi appoggiai a un albero riflettendo sulla cosa. Sembrava che il tempo non avesse nessuna importanza reale. D'altra parte, che altro ci si può aspettare da tribù inconcludenti che non hanno mai inventato la meridiana, né tanto meno importato una clessidra italica per regolare rigorosamente le loro ore di libertà? Per gli dèi, quei selvaggi sembravano convinti che la vita significasse fare ciò che si vuole e godersela ogni volta che è possibile. Se mai i dogmi ascetici della filosofia greca fossero filtrati attraverso quelle pigre foreste, sarebbe stato un trauma terribile per quella gente. Ed erano così disorganizzati che non c'era da stupirsi se i figli e il nipote acquisito dell'ordinatissimo Augusto non erano mai riusciti a farne allineare un numero sufficiente da inscenare a Roma una dignitosa esibizione di resa. Roma aveva un metodo sistematico per disciplinare i popoli tribali, ma prima bisognava farli sedere e spiegare loro i benefici. Qui, erano i bructeri a farci sedere ad aspettare. Guardammo con sufficienza quella violazione del cerimoniale diplomatico. Non accadde nulla. Non c'era nemmeno la sensazione che altri aspettassero che accadesse qualcosa. In realtà, per noi l'intera faccenda non aveva assolutamente nessun senso. Stavamo seduti in disparte, legati insieme nel nostro miserabile groviglio di corda, frementi di impazienza nell'attesa di una qualche formalità, anche se fosse stata la decisione formale della nostra sorte. Ascanio fece l'occhiolino alla ragazza con l'orcio di succo. Lei lo ignorò, così lui cercò di afferrarle l'orlo della ruvida sottana di lana. A quel punto, con l'aria di una ragazza che l'aveva già fatto altre volte, lei gli rovesciò addosso ciò che era rimasto nell'orcio. Certe cose sono uguali dappertutto. Mentre se ne andava rapidamente con il suo bel naso per aria, io le sorrisi stancamente e lei mi rispose con quello che era davvero un bel sorriso. Il mio indice di gradimento crebbe di nuovo. Osservare altre persone che banchettano è un esercizio crudele. Passò altro tempo. Si avvicinava la sera. Qualunque cosa mi avesse raccontato Dubno sulle abitudini germaniche riguardo al bere, il vino di mirtillo era evidentemente una di quelle pozioni campagnole che hanno un effetto pericoloso. La mia prozia Febe faceva uno sciroppo simile con le bacche di mirto che provocava regolarmente una gazzarra da Saturnali. A questi tipi sarebbe piaciuto. Ben presto dal brusio da conversazione si passò
alle grida irate di una discussione. Come capita sempre, la maggior parte delle donne decise che se doveva finire in rissa, era meglio andarsene a borbottare da qualche altra parte. Rimasero solo alcuni casi difficili: evidentemente quelle che erano state deluse dalla vita. Sembravano perfino più ubriache degli uomini. Questi, che avevano dato l'impressione di poter sorseggiare il loro ricco intruglio rosso senza bisogno di sprecare sudore, ora luccicavano furiosamente. Si scambiavano opinioni, che come sempre è un segnale pericoloso. Altre opinioni più valide venivano contrapposte, con voci lente e biascicate, e ben presto sottolineate da pugni sul tavolo. A quel punto il nostro capo si alzò in piedi ondeggiando, con la faccia da ubriaco, e si lanciò in un discorso appassionato. Era evidente che si voleva arrivare a una votazione. Be', naturalmente ci sarebbe piaciuto che il nostro uomo si dimostrasse convincente nel dibattere; a ogni prigioniero fa piacere pensare di essere stato catturato da un degno nemico. L'unico problema era che, dalle violente occhiate lanciate nella nostra direzione, si capiva in modo sempre più evidente che l'argomento in gioco era il nostro destino. Cogliemmo anche un esplicito accenno al fatto che il capo con i denti che sputavano semi aveva deciso di accrescere il proprio prestigio offrendo i suoi prigionieri per il prossimo sacrificio umano da consumarsi in qualche boschetto. Fu un discorso lungo. Gli piaceva concionare. Gradatamente il rumore cambiò, mentre i guerrieri incominciavano a battere le lance sugli scudi. Sapevo che cosa significava. Quel fragore di scudi si fece più intenso e più rapido. D'istinto ci stringemmo l'uno all'altro ancora di più. Una lancia, scagliata con estrema precisione, si conficcò ronzando nel tappeto erboso proprio ai nostri piedi. Il baccano si acquietò. Arrivò alla cosa più simile al silenzio che fosse possibile ottenere in un gruppo numeroso di persone sfinite dal mangiare e dalle discussioni. Piano piano l'attenzione si fissò in un punto. Una donna era entrata nella radura, su un cavallo bianco, senza sella e senza briglie. LI Elvezio mi afferrò il braccio. «Scommetto che è la profetessa.» «Non c'è nessuno che accetti scommesse, amico.» Due degli smilzi che portavano messaggi per conto dei visitatori camminavano ai due lati del cavallo che veniva avanti. Se non avesse portato in
groppa un cavaliere, avrei detto che la creatura non era mai stata domata. Era di taglia inferiore alla media, con il mantello lungo e l'occhio folle. Ciascuno degli smilzi teneva una mano sulla criniera per guidarlo e aveva l'aria nervosa, ma non c'era alcun dubbio su chi comandasse quei due e anche il cavallo selvaggio. Velleda smontò in mezzo alla sua gente. Claudia Sacrata aveva detto che gli uomini pensavano che fosse bella. Claudia aveva ragione. Eravamo ventidue uomini nel nostro gruppo e lo pensavamo tutti. Era alta, composta e decisa. Aveva quel colorito pallido che fa sembrare gli uomini deboli e affascinanti mentre alle donne dà un'aria misteriosa. La massa di capelli color oro chiaro le scendeva fino alla vita. Erano in perfette condizioni. Elena avrebbe detto che una donna che passa la maggior parte delle giornate da sola in una torre ha un bel po' di tempo per pettinarli. Portava una tunica color porpora senza maniche ed era sufficientemente in carne perché la scollatura rotonda e il giro delle maniche distraessero lo sguardo. Gli occhi erano azzurri. E, cosa più importante, avevano la sicurezza del potere. Cercai di scoprire in che modo avesse conseguito il suo prestigio. Appariva schiva ma sicura di sé. Aveva l'aria non solo di saper prendere decisioni, ma anche di far capire agli altri che qualunque cosa decretasse era la loro unica linea di condotta possibile. Avrebbe decretato il nostro ineluttabile destino. La profetessa dei bructeri era troppo vecchia per essere considerata una giovane donna, e tuttavia troppo giovane per essere definita vecchia. Per Roma, aveva l'età sbagliata in tutto e per tutto. Sapeva troppo per perdonarci e troppo poco per stancarsi di combatterci. Capii subito che non avevamo niente da offrirle. Lo capì anche Elvezio. «Che la fortuna ci assista, Falco. Speriamo per il nostro bene di non esserci presentati alla sua porta nel periodo sbagliato del mese.» Avevo cinque sorelle e una ragazza, e tutte si sfogavano quando gli tornava comodo. Io avevo imparato a scantonare. Ma incominciavo a pensare che questa signora avrebbe potuto considerare sbagliato qualunque giorno in cui si fosse trovata a trattare con dei romani. Mi si stava formando un nodo di tensione nelle budella, causato dal cibo cattivo e dalla mancanza di sonno. Lei prese ad aggirarsi fra gli uomini che banchettavano come se desse loro il benvenuto. Come padrona di casa non era né fredda né animata da un fascino invitante. I suoi modi erano aperti, ma estremamente riservati.
Vedemmo che non toccava cibo (un elemento della sua aura: non avere bisogno di nutrimento), ma una volta sollevò una coppa in un brindisi all'intera compagnia, dopodiché si scatenarono di nuovo le acclamazioni e un allegro baccano. Mentre girava fra i tavoli, le persone le parlavano apertamente da pari a pari, ma ascoltavano regolarmente le sue risposte. Solo una volta la vedemmo ridere, con un guerriero che sembrava aver portato il figlio adolescente per la prima volta a un raduno. Poi parlò per alcuni minuti con calma al ragazzo, che era così intimorito da non riuscire quasi a risponderle. La gente le porgeva doni. Il guerriero che mi aveva catturato le diede il mio pugnale. Il nostro capo ci indicò con un gesto. Lei lo ringraziò sicuramente per il dono. Guardò una volta nella nostra direzione e ci diede la sensazione di sapere tutto di noi senza bisogno di esserne informata. Stava proseguendo. Spezzai con entrambe le mani la corda che mi legava agli altri. Le andai vicino a grandi passi, sebbene non così vicino da rischiare di beccarmi una lancia nella gola. Lei era più alta di me. Portava una splendida torque in lega d'oro attorcigliata, meno pesante di altre ma più intricata. Sembrava ibernica. Gli orecchini erano greci, due mezzelune d'oro con una lavorazione a grani estremamente fini. Erano deliziosi. Così come la sua delicata carnagione luminosa. Per un attimo fu come avvicinarsi a una qualunque ragazza attraente che aveva avuto fortuna con l'eredità. Poi subii in pieno l'impatto della sua personalità. Da vicino, la prima impressione era di una straordinaria intelligenza, sfruttata brillantemente. Sembrava che quegli occhi azzurri non aspettassero altro che di confrontarsi con me. Erano assolutamente tranquilli. Non ero mai stato tanto consapevole di incontrare qualcuno così diverso. La cosa più pericolosa era la sua onestà. La banda di arruffoni che la circondava poteva anche essere composta da ciarlatani, ma Velleda si teneva distinta e brillava, immune dalla loro volgarità. Mi rivolsi al capo. «Spiega alla tua profetessa che sono venuto apposta fin da Roma per parlare con lei.» Fui sorpreso che nessuno si muovesse per afferrare un'arma, ma sembrava che aspettassero l'imbeccata da lei. Lei non ne diede. Il capo non rispose alla mia richiesta. «Spiega a Velleda» insistetti «che desidero parlarle a nome di Cesare!» Lei fece un piccolo gesto di impazienza, probabilmente a causa del mio accenno al nome odiato e temuto di Cesare. Il capo disse qualcosa nella lo-
ro lingua. Velleda non gli rispose. La diplomazia è già abbastanza difficile quando la gente si rende conto degli sforzi che stai facendo. Persi la pazienza. «Signora, non assumere quell'aria così ostile, rovina il tuo bel viso!» Dopo avere iniziato in modo così stizzito senza preoccuparmi che lei capisse, fermarmi sarebbe stato ben poco efficace. «Sono venuto in pace. Come potrai vedere tu stessa esaminandola, la mia scorta è composta di ragazzi giovani e impacciati. Non rappresentiamo una minaccia per i potenti bructeri.» A dire il vero, le loro esperienze, e forse l'esempio di vivere con dei veterani incalliti come Elvezio e me, avevano reso le reclute visibilmente più forti. Il mio discorso aveva suscitato in apparenza un certo sdegnoso interesse da parte di Velleda, così mi affrettai a proseguire: «È abbastanza brutto guidare una missione di pace che nessuno ha chiesto. Speravo che tu mi permettessi di sperimentare la leggendaria ospitalità germanica. Sono deluso, signora, per la nostra situazione attuale...». Feci nuovamente un cenno in direzione del resto dei miei compagni; loro si strinsero ancora di più fra loro alle mie spalle. Questa volta un guerriero, probabilmente ubriaco, fraintese e fece uno scatto in avanti con aria aggressiva. Velleda non mostrò alcuna reazione, ma qualcun altro lo tenne a bada. Sospirai. «Vorrei poter dire che la comunicazione non sembra essere il forte della tua tribù, ma è penosamente evidente che cosa intendono fare. Se ti rifiuti di ascoltare il mio messaggio, ti chiedo solo di lasciarmi partire con i miei compagni per riferire al nostro imperatore che abbiamo fallito.» La profetessa mi fissava ancora, senza fare alcun cenno. In un'esistenza di conversazioni difficili era come sondare nuove profondità. Lasciai che la mia voce assumesse un tono più leggero. «Se ti proponi davvero di farci tutti schiavi, ti avverto che i miei soldati sono pescatori cresciuti sulla costa: non sanno niente di bestiame e nessuno di loro sa usare un aratro. Quanto a me, posso anche cavarmela un po' con qualche lavoretto nell'orto, ma mia madre ti direbbe subito che sono inutile in casa...» Ce l'avevo fatta. «Silenzio!» ordinò Velleda. Avevo ottenuto più di quanto mi aspettassi. «Giusto. Sono un bravo ragazzo romano, principessa. Quando le donne mi parlano risolute in latino, faccio quello che mi dicono.» A questo punto si stava arrivando da qualche parte. Come sempre, era giù per un vicolo dove avrei preferito non andare. La profetessa sorrise amaramente. «Sì, parlo la tua lingua. A quanto pare
era necessario. Quando mai un romano si è preso la briga di imparare la nostra?» Aveva una voce forte, tranquilla e squillante che sarebbe stato un piacere ascoltare. Non ero più sorpreso. Riusciva a far sembrare inevitabile tutto ciò che faceva o diceva. Era naturale che, quando arrivavano dei mercanti, volesse scambiare notizie e assicurarsi che non potessero imbrogliarla. Lo stesso valeva per qualunque ambasciatore che emergesse furtivamente dalla foresta. Io avevo un'infarinatura di celtico dai tempi della Britannia, ma c'erano così tante miglia fra queste tribù e quelle che si trattava di un dialetto a sé stante e inutile quaggiù. Ripiegai sui consueti riti avvilenti della diplomazia: «La tua educazione è un rimprovero per noi». Pareva una commedia già mediocre in origine, tradotta da un qualche poetastro di Tusculum. «Vorrei rendere lode alla nobile Velleda per la sua bellezza, ma credo che lei preferirebbe sentirmi elogiare il suo talento e il suo intelletto...» La nobile Velleda parlò nella propria lingua, con calma. Ciò che disse era sintetico e la sua gente scoppiò a ridere. L'espressione probabilmente era molto più offensiva, ma il significato era: Quest'uomo mi fa sentire esausta. Addio diplomazia. Velleda sollevò il mento. Era consapevole dell'effetto della sua bellezza, ma disprezzava l'idea di servirsene. «Che cosa sei venuto a dirmi?» s'informò senza fretta. Era una domanda esplicita. Tuttavia, non potevo mica risponderle semplicemente: "Dov'è Munio? E saresti così gentile da fare in modo che i tuoi guerrieri la smettano di attaccare Roma?". Tentai con il sorriso franco. «Sto avendo la peggio!» Qualche impostore doveva averle già sorriso così in precedenza. «Stai avendo ciò che meriti.» Somigliava a un'altra ragazza dispotica con la quale litigo spesso. «Velleda, ciò che Vespasiano mi ha mandato a dirti è cruciale per tutti noi. Non può essere buttato là come un meschino scambio di insulti in una competizione di urla fra ubriachi. Tu parli per il tuo popolo...» «No» mi interruppe lei. «Sei la venerata sacerdotessa dei bructeri...» Velleda sorrise pacatamente. Il suo sorriso era assolutamente interiore, non partecipava di alcun contatto umano. Aveva l'effetto di farla sembrare intoccabile. Disse: «Sono una donna nubile che vive nella foresta con i
suoi pensieri. Gli dèi mi hanno dato la conoscenza...». «Ma neppure le tue imprese saranno mai dimenticate.» «Non ho fatto nulla. Mi limito a esprimere le mie opinioni se qualcuno me le chiede.» «Allora le tue semplici opinioni ti hanno dato un'enorme autorità! Nega l'ambizione se vuoi, ma tu e Civile avete quasi dominato il continente.» E l'avete quasi rovinata. «Signora, le tue opinioni hanno illuminato il mondo come i fulmini di un temporale. Forse avevi ragione, ma ora il mondo ha bisogno di quiete. La lotta è finita.» «La lotta non sarà mai finita.» Il modo semplice che Velleda aveva di parlare mi inquietò. Se fosse stata una comune persona in cerca di potere, quei guerrieri turbolenti avrebbero riso di lei e Civile l'avrebbe vista come una rivale invece di una socia. Sarebbe magari riuscita a sobillare la plebaglia una o due volte con un'oratoria incalzante, ma probabilmente gli stessi bructeri avrebbero finito per cacciarla. Perfino l'eroe Arminio alla fine era stato sconfitto dal suo stesso popolo. Un capo che non cercava le onorificenze del comando sarebbe stato incomprensibile a Roma. Qui, proprio il suo rifiuto di ogni ambizione accresceva la sua forza. «È finita» insistetti. «Roma è tornata a essere quella di sempre. Combattere ora vorrebbe dire scontrarsi con la realtà. Non potete sconfiggere Roma.» «L'abbiamo fatto. Lo faremo ancora.» «Questo è successo allora, Velleda.» «Verrà ancora il nostro momento.» Per quanto io apparissi convinto, anche Velleda si sentiva sicura di sé. Si stava allontanando di nuovo. Detestavo che una donna mi voltasse le spalle per zittirmi. Per tutta la mia vita adulta le donne mi avevano trattato come uno schiavo delle terme addetto ai massaggi che non si era guadagnato la mancia. Non avendo niente da perdere, cercai di buttarla sul piano personale. «Se questo è il tanto vantato impero gallico, non sono affatto impressionato, Velleda. Civile se l'è svignata, e tutto quello che vedo qui è una radura nella foresta con il tipico baraccone chiassoso che compare a ogni fiera di cavalli. Vedo solo una delle tante ragazze che sogna il mondo dello spettacolo e cerca di farsi un nome e, quel che è peggio, poi scopre che avere successo significa che tutti i suoi spregevoli parenti si aspettano di ottenere da lei lavoro nel suo seguito... Mi dispiace per te. Mi sembra che ve la passate
perfino peggio di me.» A giudicare dalle loro facce impassibili, i parenti della signora erano più stupidi di quanto pensassi oppure non avevano avuto il suo stesso precettore di latino. Ora lei mi guardò in faccia. Il senso della famiglia, credo. Continuai con più calma: «Perdonami le malignità. La mia famiglia sarà anche abietta, ma mi manca». Non sembrò disposta ad ammettere che anche i romani erano esseri umani. Tuttavia, avevo la sua attenzione, forse. «Velleda, la tua influenza si basa sulla tua profezia azzeccata che le legioni romane sarebbero state annientate. Un'impresa facile. Chiunque avesse osservato la lotta per diventare imperatore avrebbe capito che la posta romana nel continente era a rischio. Avevi solo due pagliuzze da estrarre e hai scelto la risposta fortunata. Ma ora non funzionerà più. Roma ha di nuovo il controllo totale. Dopo che Roma si è risollevata, Petilio Ceriale ha guidato i suoi uomini lungo la riva occidentale del Reno dalle Alpi fino all'oceano Britannico, e i nemici di Roma si sono ritirati davanti a loro lungo tutto il percorso. Dov'è oggi il tuo Civile trionfante? Nel mare, probabilmente.» Forse la versione ufficiale sull'abilità di combattente del nostro comandante poteva soddisfare la sua cortese amante di Colonia, ma non impressionare una donna scaltra e sprezzante che vedeva la nave pretoria di Ceriale ancorata al suo pontile personale. E tuttavia Velleda sapeva bene quanto me che, per quanto disorganizzato, perfino Ceriale aveva vinto. «Ho sentito dire» dichiarò la profetessa, come se sperasse di godersi il mio sconcerto «che il nostro consanguineo Civile si è tinto di nuovo i capelli di rosso.» Quello era davvero un regalo inaspettato. Non avevo osato sperare di ottenere notizie. E non sembrava che il ribelle si nascondesse lì. «Non è con te?» «Civile si sente a casa solo sulla riva occidentale del fiume.» «Nemmeno nell'Isola?» «Oggigiorno, nemmeno laggiù.» «Roma farà barba e capelli a Civile. La questione è, mia cara profetessa dalle mille risorse, se adesso avrai il coraggio di ammettere che le legioni non sono state annientate e se quindi contribuirai a ricostruire il mondo che per poco non abbiamo perduto tutti quanti.» Avevo esaurito le istanze. La profetessa era ancora così calma che mi sentivo come un uomo costretto a mangiare sabbia. «La decisione» mi disse «sarà presa dai bructeri.»
«È per questo che sono qui? Velleda, rinuncia alla tua vita di fanatica opposizione a Roma. I bructeri, e gli altri popoli, ti daranno ascolto.» «La mia vita è irrilevante. I bructeri non rinunceranno mai a opporsi a Roma!» Guardandomi in giro fra quei barbari, mi domandavo se avessero addirittura mai ascoltato qualcuno. Velleda si teneva in disparte come una sibilla o un oracolo greco. La sua messinscena con la torre era una mistificazione né più né meno dei terrificanti rituali cumani o delfici di quegli altri. Ma i profeti greci e romani nascondono i destini in enigmi; Velleda usava la pura e semplice verità. Era questo il suo trucco migliore, pensai: come un oratore che dà voce ai pensieri segreti della gente, lei attingeva a sentimenti profondi che già esistevano. Loro credevano di fare da soli le proprie scelte. L'avevamo visto qui: lei ospitava quell'assemblea come se non avesse nessuna intenzione di entrare nelle discussioni che sarebbero seguite. E tuttavia credevo ancora che la profetessa avrebbe ottenuto il risultato che voleva. Sarebbe stato il risultato sbagliato per Roma. E la fiducia che vi riponeva Velleda sembrava incrollabile. Questa volta il mio intervento era finito. La rara comparsa in pubblico di Velleda si stava concludendo. Incominciò a muoversi e i suoi sostenitori si disposero di nuovo in gruppo per impedire che fosse trattenuta. Ancora una volta lei mi voltò le spalle. Era come se mi leggesse nel pensiero: se a quell'assemblea stavano per essere prese importanti decisioni, forse eravamo arrivati al momento giusto. Si prese la soddisfazione di dirmi che non avrei avuto nessuna possibilità di influire sugli eventi: «Tu e i tuoi compagni siete un dono per me. Mi è stato chiesto di avallare un destino che probabilmente puoi immaginare». Per la prima volta sembrò curiosa riguardo a noi. «Hai paura della morte?» «No.» Provavo solo rabbia. «Devo ancora decidere» annunciò lei cordialmente. Riuscii a controbattere un'ultima volta: «Velleda, tu svilisci te stessa e la tua onorata reputazione trucidando un vecchio soldato, il suo servo e un gruppo di ragazzi innocenti!». Avevo offeso tutti. Il capo che ci aveva condotti lì mi atterrò con un colpo stupefacente. Velleda aveva raggiunto la sua torre. I suoi parenti maschi si radunarono alla sua base, rivolti verso la compagnia. Mentre la figura slanciata scivo-
lava via da sola nel suo eremo, l'ombra del grande vano della porta romana calò sui suoi capelli biondi. La torre di segnalazione la inghiottì all'improvviso. L'effetto era sinistro. Suscitava apprensioni anche maggiori se si stava sdraiati sull'erba con l'orgoglio ferito e un dolore alla testa, cercando di affrontare l'idea di una morte raccapricciante in un boschetto sacro dei bructeri. LII Elvezio fece un frettoloso tentativo di aiutarmi a rialzarmi. «Non te la sei cavata troppo bene.» Mi liberai di lui con una scrollata. «Chiunque pensi che le sue parole abbiano un maggior potere persuasivo delle mie può andare a tentare la sorte nella torre!» Le battute caustiche cessarono. Due dei parenti della signora erano stati incaricati di trasferirci dentro un lungo recinto fatto di graticci di ramoscelli che pareva stessero ancora crescendo. Doveva essere lì che teneva i doni vivi prima della carneficina rituale. Ci radunarono come pecore e ci rinchiusero lì dentro. Il recinto era già occupato. L'esemplare che trovammo rannicchiato in un angolo non sembrava avere molte possibilità di rabbonire la veneranda divinità che io e Lentullo avevamo visto nel boschetto. «Oh, guardate un po' qui, abbiamo trovato Dubno!» Il nostro venditore ambulante perduto era stato abbondantemente pestato. Doveva essere stato ammaccato per bene, poi alcuni giorni dopo qualcuno gli aveva dato una ripassata con il preciso intento di riempire qualunque vuoto si fosse creato fra le precedenti contusioni. «Che cosa hai fatto?» «Sono un ubio.» «Non mentire! Sei venuto a vendere ai bructeri informazioni su di noi. Hanno usato le informazioni, mostrandoti però il loro disprezzo!» Sembrava aspettarsi che lo aggredissimo anche noi, ma ci facemmo un dovere di spiegargli che non colpivamo mai individui le cui tribù erano ufficialmente romanizzate. «Nemmeno quelli che fanno il doppio gioco, Dubno.» «Nemmeno gli interpreti fuggitivi pronti a svignarsela proprio quando abbiamo bisogno di loro.» «Nemmeno i bastardi ubii che ci vendono per farci catturare.»
«Nemmeno te, Dubno.» Lui disse qualcosa nella propria lingua, e non ci fu bisogno di un interprete per capirlo. Ciò che successe dopo fu una sorpresa. I dinoccolati seguaci di Velleda avevano appena finito di legarci al graticcio, lasciandoci a rimuginare, che tornarono di nuovo a rimuovere i fragili pezzi di corda e ad aprire lo steccato di uscita. «Per Mitra, la strega ha cambiato idea. Stiamo per ricevere tutti dei bei mantelli nuovi e per essere invitati come ospiti d'onore al banchetto...» «Risparmia il fiato per raffreddare la tua pappa d'avena, centurione. Quella non cambierà idea.» Gli smilzi ci trascinarono fuori tutti. La vista di Dubno sembrò rammentare loro che si sarebbero potuti divertire a sentirsi potenti. Lui era già troppo pesto perché valesse la pena farlo strillare ancora, così incominciarono a dare qualche colpo occasionale a me e a Elvezio. Quando li spingemmo via con ira, loro lasciarono correre e se la presero invece con il servitore del centurione. Questa volta Elvezio decise che non l'avrebbe tollerato e li fronteggiò per difendere il suo uomo. Ci preparammo ad affrontare qualche guaio, e il guaio arrivò puntualmente. Non quello che ci eravamo aspettati, però. Per prima cosa Velleda emerse di nuovo all'improvviso dal suo eremo di pietra. Squillò una tromba. «Giove Ottimo Massimo... è una delle nostre!» Era uno squillo breve e lento di uno strumento distinto ma sommesso. Il suo fremito lamentoso sembrava romano, anche se poco preciso. Proveniva da qualche punto della foresta abbastanza vicino. Era il suono del corno di bronzo ritorto che usano le sentinelle, e lo squillo era riconoscibile come il segnale per il secondo turno di guardia notturna. Quella sera era in anticipo di quattro ore. Poi Tigre si precipitò nella radura, andò dritto verso Velleda e si accucciò con il muso fra le zampe. Ebbi a malapena il tempo di intuire che la profetessa doveva avere scorto la delegazione dalla sua torre di segnalazione quando arrivò qualcun altro. Era il fratello minore di Elena. Sospettavo da tempo che il personaggio celasse nell'intimo grandi qualità, ma era la prima volta che ci mostrava il suo talento per gli spettacoli improvvisati. Entrò nella radura con un clop clop di zoccoli, con Orosio a fare da bat-
tistrada. Nessuno dei due aveva con sé la tromba, cosa che lasciava astutamente intendere che ce l'avesse qualcun altro (dovevano averla lasciata appoggiata a un albero). Avevano un ottimo aspetto. Uno di loro, o entrambi, avevano passato l'intero pomeriggio a pettinare cimieri e a lucidare bronzi. Il fratello di Elena affrontava i bructeri come se avesse un esercito di quindicimila uomini che aspettava lungo la strada. Non c'era nessuna strada, ma Camillo Giustino dava l'impressione che avrebbe potuto essersene fatta costruire una. Non c'era nemmeno un esercito. Questo noi lo sapevamo. Per essere un uomo che aveva trascorso l'ultimo mese sotto una tenda in una regione selvaggia, il suo equipaggiamento era perfettamente pulito. Anche la sua aria di misurata spavalderia era esibita in modo perfetto. Aveva il migliore fra i nostri cavalli gallici. Doveva aver saccheggiato le nostre provviste in cerca di olio d'oliva e lucidato l'animale al punto che perfino gli zoccoli luccicavano per quell'insolita marinata. Se il cavallo era ben strigliato, lo stesso valeva per lui. In qualche modo, nel folto della foresta, lui e Orosio erano riusciti a radersi. Facevano sembrare il resto di noi come quelle marmaglie pulciose dagli accenti buffi che non riescono mai a trovare un posto a sedere alle corse nemmeno quando il guardiano è andato a pranzo e ha lasciato il fratello di dieci anni come buttafuori. Giustino indossava l'intera panoplia del suo rango tribunizio, oltre ad alcuni dettagli che si era inventato: una tunica bianca orlata di porpora, magnifici schinieri dalla doratura elaborata, un lungo cimiero di crine di cavallo in cima a un elmo così lucente che lampeggiava per la foresta ogni volta che muoveva la testa. La corazza fissata sulla base di cuoio dalle frange abbondanti pareva tre volte più splendente del solito. Avvolto intorno al busto eroicamente modellato il nostro ragazzo indossava con un noncurante dondolio il suo pesante mantello porpora. Nella piega del braccio teneva, con fare molto rilassato, una specie di bastone cerimoniale, una novità che apparentemente aveva copiato dalle statue ufficiali di Augusto. La sua espressione possedeva la nobile calma di quell'imperatore, e se la nobile calma serviva a mascherare la paura, neppure i suoi amici avrebbero potuto dirlo. Cavalcò fino al centro della radura, abbastanza lentamente per consentire alla profetessa di osservare bene l'insieme. Smontò da cavallo. Orosio ricevette le redini e il bastone con silenziosa deferenza. Giustino si avvicinò a Velleda con passo deciso ed elastico nei suoi stivali da tribuno, poi si tolse l'elmo in segno di rispetto per lei. I Camilli erano una famiglia di
gente alta, in particolare con i calzari militari a tripla suola; una volta tanto lei guardava un romano dritto negli occhi. Gli occhi che avrebbe visto erano grandi, marroni, schivi e notevolmente sinceri. Giustino si fermò. Arrossì leggermente: un bell'effetto. Togliendosi la celata dorata aveva consentito alla signora di beneficiare completamente della sua aperta ammirazione e del suo riserbo fanciullesco. Gli occhi sensibili stavano senza dubbio operando la loro magia, e lui contrappose al profondo silenzio della profetessa la propria tranquillità. Poi disse qualcosa. Sembrò rivolgersi a Velleda in modo confidenziale, anche se il tono della sua voce arrivava ovunque. Conoscevamo l'uomo. Conoscevamo la voce. Ma nessuno aveva la minima idea di ciò che aveva detto alla profetessa. Camillo Giustino le aveva parlato nella sua lingua. Lo fece con la ritmica scioltezza che mi ricordava il suo greco. Velleda impiegò più di quanto avrebbe voluto per riprendersi; poi inclinò il capo. Giustino le parlò di nuovo. Questa volta lei lanciò un'occhiata nella nostra direzione. Doveva averle fatto una domanda. Lei soppesò la risposta, poi replicò bruscamente. «Grazie» disse Giustino in modo molto garbato, questa volta in latino, come se le facesse il complimento di presumere che anche lei lo avrebbe capito. «Allora saluterò prima i miei amici, per favore...» Non le chiedeva il permesso; era una dichiarazione di intenti. Poi si voltò di nuovo verso di lei come per scusarsi educatamente: «A proposito, mi chiamo Camillo Giustino». La sua faccia rimase impassibile mentre veniva verso di noi. Seguimmo il suo esempio. Lui strinse la mano a ciascuno di noi, in modo solenne e misurato. Con gli occhi dell'intera assemblea di bructeri fissi su di lui, Giustino si limitò più o meno a pronunciare i nostri nomi, mentre noi mormoravamo il maggior numero di informazioni possibile. «Marco Didio.» «Lei sostiene di essere solo una donna che vive nella torre con i suoi pensieri.» «Elvezio.» «Qualcuno dovrebbe fornirle qualcos'altro a cui pensare!» Elvezio non riuscì a resistere alla sua tipica frecciata. «Ascanio.» «Siamo tutti destinati a una morte orribile, signore.»
«Probo.» «Tribuno, che cosa le hai detto?» «Sesto. Discuteremo ogni cosa con calma, lasciatemi vedere che cosa posso fare. Lentullo!» Quando ci ebbe salutati tutti, i suoi occhi luminosi cercarono direttamente i miei. «E così hai lasciato fare tutto a me! Ho dovuto perfino suonare da solo quella dannata tromba.» Dietro la battuta si nascondeva una certa apprensione e sotto al lampo divertito il suo viso appariva triste. All'improvviso feci un passo verso di lui, togliendomi l'amuleto che mi avevano dato a Vetera. Lui vide di che cosa si trattava e abbassò la testa perché glielo mettessi intorno al collo. «Se la cosa può aiutarti, una conoscente mi ha detto che a Velleda piacerebbe molto fare un po' di conversazione decente... Questo è per Elena. Sii prudente.» «Marco» mi abbracciò come un fratello, poi io gli presi l'elmo. Si allontanò da noi, intrepido. Tornò da Velleda. Era un uomo timido, che aveva imparato a rispondere da solo alle sfide. Velleda lo aspettava come una donna che pensi che probabilmente si pentirà di qualcosa. Mi voltai di colpo verso l'ambulante, il solo fra di noi che il tribuno avesse ignorato apertamente. «Che cosa le ha detto, Dubno?» Dubno imprecò, ma mi rispose. «Ha detto: "Tu devi essere Velleda. Ti porto i saluti del mio imperatore e messaggi di pace...".» «Mi nascondi qualcosa! Lui le ha fatto un'offerta... questo era evidente.» Senza preoccuparsi di chiedere che cosa avessi in mente, il nostro fidato Elvezio arrivò alle spalle dell'ambulante e gli tirò indietro le braccia con uno strattone in una presa da lotta assai persuasiva. Dubno borbottò con voce strozzata: «Ha detto: "Vedo che i miei compagni sono tuoi ostaggi. Mi offro io in cambio"». L'avevo capito. Giustino si lanciava nel pericolo con lo stesso disinvolto coraggio che mostrava sua sorella quando decideva spazientita che qualcuno doveva essere efficiente. «E che cosa gli ha risposto Velleda?» «"Vieni nella mia torre!"» Il venditore ambulante aveva detto la verità. Non appena Giustino la raggiunse, Velleda tornò decisa verso il suo monumento. Lui la seguì. Poi restammo a guardare il nostro tribuno che entrava con lei nella torre da solo.
LIII Mi diressi a grandi passi verso la base della torre. Quei ladri di capre delle guardie se ne stavano lì attorno con aria interdetta, ma serrarono i ranghi alla mia comparsa. Restai davanti alla porta con la testa all'indietro, guardando in su verso l'antica opera di muratura romana, con le sue file di rinforzi di mattoni rossi. Non c'era niente che io potessi fare. Tornai dalle truppe. Il cane del tribuno rimase indietro, seduto all'entrata della torre. Deciso ad aspettare che ricomparisse il suo padrone. Le reclute accettavano scommesse sulle sue possibilità, un po' terrorizzate, un po' invidiose. «Lei se lo mangerà!» Io volevo concentrarmi su altre cose. «Forse lo sputerà fuori...» Come avrei fatto a parlare di questo alla sorella del tribuno? Avrebbe dato la colpa a me, lo sapevo. «Perché è entrato là dentro, signore?» «L'hai sentito. Per discutere le cose con calma.» «Quali cose, signore?» «Non molto, immagino.» Il fato. La storia del mondo. La vita dei suoi amici. La morte del tribuno... «Signore...» «Taci, Lentullo.» Tornai verso i graticci. Mi accovacciai in una posizione comoda, cercando di tenermi sollevato dal suolo. Era il periodo sbagliato dell'anno per sedersi sull'erba; quella sera ci sarebbe stata abbondante rugiada. Incominciavo ad avere la sensazione che fosse il periodo dell'anno sbagliato per qualsiasi cosa. Gli altri si precipitarono tutti verso Orosio, poi vennero piano piano a raggiungermi, sistemandosi in attesa dell'ignoto. Orosio aveva di per sé ben poco da dire, a parte il fatto che secondo lui il tribuno era in gamba. Gli tirai l'orecchio e gli dissi che quello lo sapevamo. Avrei dovuto immaginarlo. Aveva un vorace desiderio di informazioni. Camillo Giustino non poteva aver trascorso tre anni a difendere i confini di una provincia senza imparare a comunicare con la gente. Adesso era solo e sapeva molto più che una lingua straniera. Era così diligente che mi turbava. Con quel suo modo spontaneo di voler arrivare a conoscere tutti i soldati al suo comando, quel tipo incredibile aveva perfino convinto qualche incallito bucinator a insegnargli a suonare l'allarme con la tromba in modo passabile. Un mese di vita nei boschi lo aveva depresso, ma non aveva intaccato la sua ingegnosità. Avendo preso
parte a questa avventura di sua spontanea volontà, non intendeva arrendersi. Ma aveva vent'anni. Non era mai stato in balìa del pericolo. Non aveva nessuna possibilità. Non era mai stato in balìa delle donne, ma forse sotto questo aspetto non c'era da preoccuparsi. «Le profetesse straniere sono vergini, signore?» «Credo che non sia obbligatorio.» Solo Roma identificava la castità con la santità, e perfino Roma insediava dieci vestali alla volta, per consentire un certo margine d'errore. «Il tribuno...» «Parlerà di politica.» Anche così, combinare come in un romanzo il destino dei popoli con la donna più attraente con la quale si fosse mai trovato a parlare poteva rivelarsi una miscela inebriante. «La strega potrebbe avere altre idee!» Ormai si erano fatti più sfrontati. «Forse il tribuno non sa che cosa fare.» «Il tribuno sembra essere un ragazzo capace di improvvisazione.» Ma di certo speravo di non dover mai spiegare a sua sorella che avevo lasciato che una profetessa dallo sguardo folle facesse un uomo del suo fratellino in cima a una torre di segnalazione. Quando le torce si furono consumate e il festino placato, ordinai ai nostri ragazzi di riposare. Più tardi, lasciai Elvezio di guardia, mi feci strada con attenzione fra i bructeri addormentati e mi avvicinai furtivamente alla torre. Una guardia con una lancia dormiva stravaccata sui gradini d'ingresso. Avrei potuto afferrare la sua arma e soffocarlo schiacciandogli l'asta contro la trachea, ma lasciai perdere. Ce n'erano altre all'interno della base della torre, per cui era impossibile entrare. Vi girai intorno all'esterno. Il chiarore lunare avvolgeva il muro di drappeggi di un bianco impressionante. Lassù in cima brillava il debole baluginio di un lume. Sentivo delle voci. Difficile dire quale lingua usassero; il livello delle voci era troppo basso. Sembrava uno scambio di opinioni più che una controversia. Dava più la sensazione che parlassero di musica o dei pregi di un affresco murale che non dell'oroscopo dell'impero. A un certo punto il tribuno disse qualcosa che divertì la profetessa; lei rispose, poi risero entrambi. Non sapevo se gemere o sorridere. Tornai dai miei uomini. Elvezio mi batté sulla spalla. «Tutto bene?» «Parlano.»
«Sembra pericoloso!» «Sarà più pericoloso quando smettono, centurione.» Tutta un tratto gli confidai: «Voglio sposare sua sorella». «Me l'ha detto.» «Non pensavo che mi avesse preso sul serio.» «Lui è preoccupato» disse Elvezio «che tu possa non renderti conto che questo è quello che ha in mente sua sorella.» «Oh, lei è una donna schietta! Ma credevo che lui mi considerasse solo uno spregevole avventuriero che vuole divertirsi con lei.» «No, è convinto che tu sia l'uomo giusto.» Elvezio mi diede una pacca sulla schiena. «E così questo è un vantaggio. Ora sappiamo tutti chi siamo.» «È vero. L'uomo che voglio che sia lo zio preferito dei miei figli è...» «È probabile che torni da noi con l'andatura indolenzita e uno sguardo sospetto negli occhi! Non puoi decidere per lui. Non è un bambino.» «No, ha vent'anni, e non è mai stato baciato...» Be', probabilmente. Con chiunque altro mi sarei certo chiesto se avesse acquisito da una ragazza la sua scioltezza nel padroneggiare la lingua germanica. «Non ha nemmeno mai avuto la gola tagliata da un falcetto in un boschetto sacro, centurione!» «Riposati un po', Falco. Lo sai com'è Giustino quando è preso da una conversazione interessante. Se la donna è altrettanto loquace, sarà una notte lunga.» Fu la notte più lunga che trascorsi in Germania. Quando tornò, tutti gli altri dormivano. Io aspettavo di vederlo tornare. Era buio. La luna si era nascosta dietro una profonda striscia di nuvole, ma i nostri occhi si erano abituati. Vide che mi alzavo. Ci stringemmo le mani, poi parlammo sottovoce, Giustino in un tono allegro ed eccitato. «Ho un sacco di cose da raccontarti.» L'adrenalina gli scorreva a un ritmo furioso. «Che cosa succede? Sei in libertà sulla parola?» «Lei vuole restare sola per un po'. Devo tornare quando la luna apparirà di nuovo, e allora mi dirà se sarà guerra o pace.» Era esausto. «Spero che la sua previsione lunare sia attendibile...» Osservai il cielo. Le nubi grevi lassù erano di un temporale che non si era sfogato; vedevo che sarebbero passate. «Ha ragione, e come tutta la magia, si tratta di osservazione, non di profezia.» Ci accovacciammo accanto a un albero. Lui mi porse qualcosa. «Un pu-
gnale?» «Il tuo. Aveva i suoi doni appoggiati su un forziere. Le ho detto che apparteneva a mio cognato.» «Grazie... e questo comprende il complimento. È il mio pugnale migliore, ma se lei elargisce doni di ospitalità, posso suggerirle qualcosa di più utile.» «Credo che mi abbia dato il pugnale per dimostrarmi che è imparziale e che non si lascia influenzare dai doni.» «O che è in cerca di conquiste!» «Cinico! Che cosa avrei dovuto chiedere?» Gli diedi un suggerimento stupido, e lui rise. Ma il suo compito era troppo gravoso per scherzarci su. «Marco, non ho nulla da offrirle. Avremmo dovuto portarle dei doni.» «Abbiamo portato la cassa del denaro.» «Ma quella serve a pagare le reclute!» Possedeva uno strano candore. «Loro preferirebbero essere vivi piuttosto che morti ma pagati.» «Ah!» «Andrò a prendere il denaro dove l'hai lasciato. Orosio può mostrarmi il luogo. Adesso raccontami di che cosa avete parlato tu e Velleda.» «È stata un'autentica esperienza!» La cosa sembrava minacciosa. «Abbiamo parlato di tutti gli argomenti possibili. Ho fatto tutto ciò che ho potuto per la missione dell'imperatore. Le ho detto che dovremmo essere tutti disposti ad accettare che gli abitanti della sponda occidentale del Reno hanno scelto di essere romanizzati, e che se la loro sicurezza non è minacciata, l'imperatore non ha alcuna intenzione di venire a interferire su quella orientale.» Giustino abbassò la voce. «Marco, io non sono poi così sicuro che questo varrà per sempre.» «È la politica. Può darsi che le cose cambino lungo il Danubio, ma non complicare la faccenda con ciò che forse non succederà mai. Lei è abbastanza accorta da trarre le sue conclusioni da sola.» «Non ho alcuna preparazione in queste cose. Mi sento così poco attrezzato!» La nostra unica speranza era che Velleda si fidasse di lui proprio per la sua trasparente integrità. «Abbi fiducia. Almeno lei ti sta a sentire. Prima che tu facessi la tua esibizione da parata, le ho parlato anch'io.» «Ho sentito qualcosa. Orosio e io eravamo nascosti fra gli alberi. Non potevamo avvicinarci abbastanza da sentire tutto quanto, ma ho cercato di
sfruttare quello che hai detto tu sulla ritrovata forza delle legioni.» «Bisogna riuscire a convincerla che se le tribù si scaglieranno contro le forze disciplinate di Roma per loro sarà solo un suicidio.» «Marco, lei lo sa.» Parlava in tono pacato, come per lealtà verso di lei. «Non è quello che ha detto.» «Era davanti alla sua gente...» «E per di più discuteva con un imbroglione...» «No, credo che le tue parole abbiano colpito nel segno. Sembra profondamente turbata. Immagino che stesse riflettendo sul futuro ancora prima che arrivassimo noi. Forse è per questo che ha convocato l'assemblea tribale. Quando l'ho incoraggiata a dire la verità alle tribù su ciò che prevedeva per loro, dalla sua faccia ho capito che la responsabilità la spaventa.» «Serviti di quello.» «Non è necessario. Velleda sta già soffrendo.» «Dèi misericordiosi, è proprio come parlarti della serva della Medusa!» Voleva essere solo una battuta, ma Giustino abbassò il capo. «C'è qualcosa che avrei dovuto dirti. Ti devo le mie scuse.» «Per quale ragione?» Sembrava trascorso un migliaio di anni dal nostro pranzo a base di polpette alla Medusa. «Dopo che sei partito per Colonia c'è stato un pandemonio alla taverna. Qualcuno ha notato uno strano odore, e quella volta non era il piatto del giorno. Hanno trovato il corpo dello schiavo personale del legato seppellito sotto il pavimento. Regina ha confessato. Mentre stavano litigando, lei ha perso le staffe e l'ha colpito troppo forte con un'anfora.» Dissi che questo rappresentava comunque una novità rispetto alle cameriere assassinate. «Tu avevi capito che era una fonte di guai. Ma adesso, Marco, parlami di questa!» «Usa il tuo spirito di iniziativa... sembra che tu ne abbia parecchio. Io mi tengo alla larga dai profeti. Mia madre dice che i bravi ragazzi non hanno niente da spartire con le ragazze venerate.» Stavamo ancora ridacchiando quando ricomparve la luna. «Marco.» «Giustino.» «Chiamami Quinto» propose con ironia, come qualcuno che stringe un'amicizia tardiva dopo essere andato a letto. «Sono onorato. Non sapevo neppure quale fosse il tuo prenome.»
«Non lo dico a molte persone» mi spiegò in tono pacato. «Allora, che cosa devo fare? Scambiare doni, mettere fine ai combattimenti...» «Bazzecole! E usare cautela. Non fare la fine di Luperco.» «Ah! Chiedere di Luperco.» Da parte mia ero stato pronto a dimenticare quanto era successo a Luperco, nel caso il ricordo avesse suggerito a Velleda delle idee sanguinarie. «La prima cosa è convincerla a liberare tutti voi... Spero che riusciate a tornare indietro.» Non riuscì a mascherare l'incrinatura nella sua voce. «Spero che ci riusciremo tutti! Ascolta, quando sali di nuovo in cima alla torre, se trovi Velleda vestita con il suo abito migliore e con i capelli intrecciati in modo speciale, il mio consiglio è di dimenticare l'impero e tornare subito qui di corsa.» «Non essere ridicolo!» rispose lui, in un raro accesso di permalosità. Per lo meno durante la sua assenza trovai un'occupazione. Svegliai Orosio e insieme ci allontanammo strisciando fra gli alberi fino al luogo dove lui e Giustino avevano lasciato la tenda e le vettovaglie. Raccogliemmo tutto e lo portammo più vicino alla torre. Poi conducemmo avanti il cavallo con la cassa del denaro e io lanciai un fischio per avvertire il tribuno. La profetessa in persona uscì dalla porta fra una massa di suoi parenti; Giustino non era con lei. Era estremamente pallida e si teneva il mantello stretto addosso. Lasciammo cadere a terra il forziere e io lo aprii per mostrarle l'argento. Velleda esaminò con cautela il denaro mentre io mi sforzavo di apparire onesto come Giustino. «Lo so, i bructeri non possono essere comprati... Non è questa l'intenzione, signora. Questo è un segno dell'amicizia dell'imperatore.» «Il tuo negoziatore è stato chiaro su questo.» «Dov'è adesso?» domandai in tono fermo. «Al sicuro.» Derideva la mia preoccupazione. «Tu sei Falco? Vorrei parlarti.» Mi condusse appena dentro la parte inferiore della torre. C'era uno spoglio basamento ottagonale, con una scala che saliva per parecchi piani lungo i corsi ordinati di mattoni romani delle pareti interne. Ogni piano aveva il diametro leggermente ridotto per dare stabilità alla torre; solo in cima c'era il pavimento, poiché solo il tetto aperto era stato costruito per essere usato. Era quello, con alcune modifiche che lo avevano reso più confortevole, il luogo dove viveva la profetessa. Lei non mi invitò a salire. Velleda era accigliata. Cercai di mostrarmi comprensivo quando chiesi:
«Devo dedurre che la dea Luna è ricomparsa prematuramente?». Avevo ragione. Velleda non aveva ancora deciso che cosa fare. L'incertezza l'avviluppava come una rete da pesca impigliata. «Ho un paio di cose da dirti.» Parlò frettolosamente, come se si sentisse sotto pressione. «Ho accondisceso alla vostra partenza. Andatevene questa notte. Nessuno vi bloccherà.» «Grazie. Qual è l'altra cosa?» «La morte di Munio Luperco.» «Allora lo sai? Una donna degli ubii mi aveva detto il contrario.» «Ora lo so» ribatté con distacco. Era evidente che avevano in comune meno di quanto credesse Claudia Sacrata. Mi porse un pezzetto di stoffa color porpora ripiegata. Dentro c'erano altri due gingilli provenienti dal suo baule dei reperti: lance d'argento in miniatura del genere che i legati ricevono dall'imperatore come onorificenza per il buon servizio reso. Luperco avrebbe dovuto riceverne una terza alla fine del suo fatale turno a Vetera. «Allora è arrivato qui?» «Non è mai arrivato.» Parlò con la consueta sicurezza, sollevata forse dal fatto di non essere coinvolta in quella storia ignobile. «Queste mi sono state consegnate in seguito. Sono contenta che tu le restituisca alla madre o alla moglie di quell'uomo.» La ringraziai, e a quel punto lei mi riferì che cos'era successo. Perfino Velleda appariva intimidita quando ebbe finito. Non avevo alcuna simpatia per i legati, ma questa storia mi lasciò interdetto. «Hai riferito queste informazioni al tribuno Camillo?» «No.» Capivo perché. Aveva concluso un accordo amichevole con Giustino e questo avrebbe potuto mandarlo a monte. Civile aveva inviato Munio Luperco attraverso la regione con quello che Velleda definì un gruppo eterogeneo di diverse tribù. Non insistetti per avere altri particolari; lei aveva ragione a non voler soffiare sul fuoco delle recriminazioni. Il legato era stato ferito. Aveva perduto il suo forte e visto massacrare le sue legioni, e aveva pensato che anche l'impero fosse allo sfascio. Che avesse invocato la liberazione o la morte, o che i suoi guardiani avessero semplicemente perso la pazienza e volessero tornare sul campo di battaglia con Civile, all'improvviso Luperco fu accusato di codardia. Poi gli riservarono la loro versione del destino di un codardo: fu spogliato, legato, semistrangolato, gettato in una palude e spinto sotto con
dei bastoni finché non annegò. Per essere giusti, bisogna ammettere che Velleda sembrava trovare odioso raccontare quella storia almeno quanto io trovavo odioso ascoltarla. «Mi avevano privato del mio dono, così la verità tardò a venire a galla.» Mi portai una mano davanti alla bocca. «È meglio che questa verità rimanga sepolta con lui nella palude.» «Se io fossi sua madre o sua moglie» disse Velleda «lo vorrei sapere.» «Lo stesso farebbero mia madre e la mia futura sposa, ma, loro come te, sono persone fuori dal comune...» Lei cambiò argomento. «È tutto quello che posso dirti. Tu e i tuoi uomini dovete partire con discrezione. Non voglio offendere il capo che vi ha condotti qui scambiando il suo dono troppo apertamente.» «Dov'è Camillo?» domandai sospettoso. «Di sopra. Desidero parlare ancora con lui.» Velleda esitò, come se leggesse tutti i miei pensieri. «Naturalmente» aggiunse piano «il tuo amico verrà a salutarvi.» Ero disperato. «Deve essere per forza uno scambio?» «È stata questa l'offerta» rispose la profetessa sorridendo. A quel punto Giustino in persona uscì sulle scale sopra di noi e scese rumorosamente fino in fondo. «Allora che cosa è successo a Luperco?» «Il legato» risposi con circospezione, riflettendo mentre parlavo «è stato giustiziato mentre era diretto qui. È trascorso troppo tempo per conoscere i particolari.» Velleda teneva la bocca serrata, ma convenne su quella versione. Poi passò accanto a Giustino e ci lasciò insieme. Mentre saliva le scale, il mantello le scivolò. Non riuscii a vedere che genere di abito indossava, ma i folti capelli biondi adesso erano perfettamente raccolti in una treccia dello spessore del mio polso. Giustino e io evitammo di guardarci negli occhi. Sbuffai leggermente seccato. «Uffa! Avevo intenzione di chiederle alcuni cavalli...» Giustino rise. «Le ho chiesto io ciò che volevi.» Lei aveva accolto il mio suggerimento stupido. «Quinto, sei un demone mellifluo! Spero che tu non venga mai da me cercando di ottenere un prestito... Bene, mi sembra che lei abbia ancora bisogno della tua parlantina. Non morderti la lingua chiacchierando! Lei vuole che ce ne andiamo al più presto, ma dovremo aspettare fino alle prime luci...»
«Devo fare ciò che devo qui, Marco.» Sembrava teso. «Troppi uomini di valore hanno detto la stessa cosa, gettando via promettenti carriere senza nemmeno un pubblico ringraziamento. Non fare lo sciocco... e nemmeno l'eroe morto. Dille che lo scambio è finito. Mi aspetto di vederti prima della nostra partenza, tribuno. Caricherò tutto, poi resteremo ad aspettarti.» Lui e io eravamo responsabili della vita di Elvezio e delle reclute. Sapevamo tutti e due che cosa sarebbe accaduto. «Partite all'alba» tagliò corto Giustino. Si aggrappò al vecchio pilastrino di legno e risalì agilmente le scale. Lo lasciai, senza sapere con certezza se intendesse venire o meno con noi. Avevo la brutta sensazione che forse lo stesso tribuno non lo sapeva ancora. In ogni caso, ero maledettamente certo che Velleda da parte sua avesse piani ben precisi su di lui. Una volta fuori, svegliai tutti senza far rumore. Loro mi si affollarono intorno mentre riferivo sottovoce ciò che stava succedendo. «La strega lascia che ce ne andiamo alla chetichella, ma i suoi colleghi potrebbero pensarla diversamente, quindi non fate rumore. Grazie al nostro formidabile negoziatore, lei ci fornirà un nuovo mezzo di trasporto.» Feci una pausa. «Quindi la domanda è, quanti di voi orribili vagabondi della costa si sentono a loro agio su una liburna?» Come avevo pensato, una volta tanto non avemmo alcun problema. Dopo tutto, la Prima legione adiutrix era stata costituita con gli scarti della flotta di Miseno. Queste erano le truppe migliori che avrei potuto scegliere per riportare a casa la nave pretoria del generale. SESTA PARTE Il ritorno a casa (forse) GERMANIA LIBERA, BELGICA E GERMANIA SUPERIORE Novembre, 71 d.C. Dopo la sua prima azione militare contro i romani, Civile aveva giurato, da quel selvaggio primitivo che era, di tingersi di rosso i capelli e lasciarli crescere fino a quando non avesse annientato le legioni...
TACITO, Storie LIV Riuscimmo a salire a bordo senza mettere in allarme i bructeri. In un primo tempo mi rifiutati di portare anche il venditore ambulante, poi mi lasciai commuovere, per avere la certezza, tenendolo con noi, che non potesse denunciarci di nuovo. I nostri ospiti si erano subito appropriati dei due cavalli con cui erano arrivati Giustino e Orosio, ma riuscimmo a far salire i rimanenti quattro sulla passerella, probabilmente perché non vedevano dove li stavamo conducendo. Brancolando nel buio, faticammo in silenzio per districare le cime e liberare i remi incastrati. Se governata da un equipaggio esperto, la liburna avrebbe distanziato qualunque altra imbarcazione in quelle acque, ma il suo stato era discutibile, eravamo a corto di uomini e nessuno di noi conosceva la nave, tanto meno il fiume lungo il quale avremmo navigato. Un gruppetto di reclute scivolò furtivamente lungo la sponda per fallare con un arpione le barche che avrebbero potuto inseguirci, ma il rumore preoccupò Elvezio, così le richiamammo. Le reclute erano nel loro elemento. Sapevano tutte navigare a vela e a remi. Be', tutte all'infuori di Lentullo. Era pur sempre il nostro ragazzo difficile che non sapeva fare niente. Il cielo incominciava a schiarire, e io incominciavo a farmi prendere dalla disperazione. «Elvezio, se Camillo non arriva alla svelta, tu prendi i ragazzi e vattene da qui.» «Non vorrai per caso andare di nuovo a terra?» «Non posso abbandonarlo.» «Lascia perdere gli atti di eroismo. Eccolo!» Ne fui sorpreso, lo ammetto. Avevamo già mollato gli ormeggi e gettato di nuovo l'ancora nell'alveo del fiume. Probo aspettava presso la banchina con un canotto a remi per trasportare il tribuno da noi. Avevamo già levato l'ancora quando li tirammo a bordo. «È la guerra?» «È la pace.» Era troppo buio perché potessi vedere il volto del tribuno. Giustino s'incamminò verso la poppa della nave senza dire altro. Guar-
dai la sua schiena ferma, poi feci cenno agli altri di non disturbarlo. Lui si sistemò in un angolo buio, appoggiato alla cabina del generale, lo sguardo fisso verso la riva. Il cagnolino si coricò ai suoi piedi, mugolando poiché avvertiva l'infelicità. Vedendo l'atteggiamento sconfortato del tribuno, mi si strinse il cuore. Avevamo un sacco di cose da fare. Dapprima lasciammo che la nave seguisse la corrente, in modo da non fare rumore. Quando si fece più chiaro, ci rendemmo pienamente conto dell'entità dei danni causati da un anno di abbandono. Mettemmo subito metà delle truppe ad aggottare mentre Elvezio imprecava e cercava di riparare una pompa di sentina completamente essiccata. Un tempo era stato un congegno sofisticato. Così sofisticato che quel periodo di disarmo aveva reso inutilizzabile il legno e la pelle di vitello. Proseguimmo facendoci portare dalla corrente, senza che ci fosse alcuna traccia di inseguitori. Ascanio e Sesto avevano trovato le vele. Il cuoio si era indurito al punto che era quasi impossibile farlo cedere, ma riuscimmo ad appiattirlo alla meglio. Il fiocco triangolare, di dimensioni minori, salì abbastanza in fretta, ma la vela quadrata richiese molto più tempo per essere sistemata. Dopodiché scoprimmo che la nave deviava avvicinandosi troppo alla riva. La liburna è una nave grossa da manovrare per una banda di pivellini, alcuni dei quali anche stupidi, ma scossi egualmente la testa quando qualcuno iniziò a lanciare occhiate verso poppa. «Il tribuno potrebbe aggiungere il suo peso qui!» «Il tribuno ha già fatto abbastanza.» «Signore...» «Lui vuole crogiolarsi nella sua tristezza. Lasciatelo stare!» Con tutti gli altri a dare una mano sul lato critico, ritirammo i remi appena in tempo per evitare di fracassarli, poi trattenemmo il fiato mentre la galea superava le secche, grattando e sbattendo. Riuscimmo in qualche modo a riportarla dove l'acqua era più alta. Avanzava con difficoltà nella luce livida di un freddo mattino di novembre, mentre noi passammo un'altra ora a lavorare sulla vela. Finalmente andò a posto con uno scossone fra stanche grida di urrà. Dopodiché tornammo precipitosamente ad aggottare, e poi facemmo il punto della situazione. Non avevamo armi, a parte i giavellotti, e il cibo era molto scarso. Solo due di noi avevano l'armatura. Avevamo salvato quattro cavalli, che avrebbero anche potuto finire cucinati alla griglia. Non c'era più denaro per fare baratti. Avevamo i bructeri sul lato settentrionale, e i tencteri su quello
meridionale, entrambi pieni di disprezzo verso dei romani in difficoltà. Toccare terra sarebbe stato fatale finché non fossimo arrivati al fiume Reno, che doveva essere a più di una settimana di distanza. Il modo in cui l'imbarcazione sbandava e arrancava faceva prevedere una settimana di duro lavoro. Eravamo vivi e liberi. Quella sorpresa era così piacevole che mettemmo metà delle reclute a remare mentre gli altri buttavano in acqua tutto il ciarpame per alleggerire il carico, regolavano le vele e cantavano. Elvezio fece qualche progresso con la pompa. Allora, finalmente, lasciai il timone ad Ascanio e me ne andai a poppa per cercare di capire che cosa aveva fatto Velleda al nostro ragazzo. LV «Ehi, Massinissa!» Giustino era troppo educato per dirmi di far sparire il mio allegro sorriso. «Sono contento che l'amuleto abbia funzionato.» «Oh, ha funzionato!» Lo disse con uno strano tono di voce. Assunsi la mia posa solenne da zio: «Hai l'aria stanca». «Non è niente di grave.» «Bene. Temevo che potesse essere causata da un cuore infranto.» «Per fortuna sappiamo entrambi che non è vero» ribatté lui, con eccessiva pacatezza. «Lei è troppo vecchia per te, non avete niente in comune e tua madre deve già sopportare abbastanza con Elena e me.» «È vero» disse lui. Avrebbe magari potuto obiettare qualcosa riguardo al punto su me ed Elena. «Davvero, Quinto Camillo, sono contento che tu riesca a prenderla con filosofia. Sei un ragazzo perbene e meriti di divertirti un po' prima di assestarti in una vecchia e noiosa esistenza da senatore, ma entrambi sappiamo che ciò che è successo laggiù aveva tutti gli ingredienti per essere un'esperienza importante, del genere che non può che intristire il morale di un uomo premuroso.» «È escluso che io possa accedere al Senato.» «Sbagliato. Tu hai riscritto le condizioni. Credo che ci siano dei vantaggi, se sei in grado di sopportare i seccatori e gli ipocriti. Devi solo frequentare la Curia una volta al mese e puoi avere posti in prima fila a teatro.» «Ti prego, non prendermi in giro.» «D'accordo. Solo per curiosità, sei scappato tu o la signora ti ha buttato
fuori?» «La mia offerta era davvero intesa come uno scambio. Ho detto che sarei rimasto.» «Ah, bene. Certe donne non sopportano i tipi pomposi che restano fedeli ai propri princìpi.» Lui rimase in silenzio. «Vuoi parlare di quello che è successo?» «No» disse. Restammo a guardare il fiume che scivolava via dietro di noi. Viaggiavamo più lentamente di quanto avrei voluto per la nostra incolumità, ma era comunque troppo in fretta per il tribuno. Era stato travolto, poi strappato via a forza prima di poter riprendere il controllo. Adesso si sentiva torturato dalla profondità dei propri sentimenti. «Preparati» lo ammonii. «Altre persone a parte me te lo chiederanno. Persone altolocate. Un ufficiale subalterno che ha parlato con il nemico ha l'obbligo di dare spiegazioni.» Mi stavo voltando per andarmene. All'improvviso Giustino domandò in tono ironico: «Che cos'è successo a Massinissa?». Mi fermai. «Dopo essersi liberato della sua principessa? Visse con onore per molti anni, dedicandosi alla sua funzione di re e altre cose del genere.» «Ah, sì, naturalmente!» Restai in attesa. Lui si stava sforzando di esaurire le incombenze ufficiali della giornata. «Quando sono tornato di sopra, lei aveva già deciso. Dirà alla sua gente che è impossibile costituire un impero gallico indipendente. Che Roma non lascerà la sponda occidentale del Reno durante il tempo della nostra vita. Che vivere liberi nel loro territorio vale più di una guerra inutile... Riuscirà a farsi ascoltare?» Sembrava disperato. «Lei non si serve mai della coercizione. Lasciando alle persone la libertà di scelta, a volte le si spinge a imboccare la strada più difficile.» «Oh sì» disse con una certa intensità. «Era preoccupata?» Mi assalì il fugace pensiero che lui si fosse messo a consolarla. Lui non rispose alla mia domanda, ma mi chiese a sua volta: «Che ne sarà di lei?». «O diventerà uno spettro folle, o si sposerà con qualche omaccione con i capelli rossi e avrà nove figli in dieci anni.» Dopo un momento di silenzio, Giustino disse: «Mi ha predetto che se le tribù orientali riprenderanno la loro esistenza nomade, invadendo i territori
gli uni degli altri, i bructeri saranno sterminati». «È possibile.» Per molto tempo nessuno di noi due parlò. Sentimmo Ascanio gridare che voleva aiuto. Avevo ordinato a Elvezio di riposare in modo che potesse stare di guardia più tardi, così dovetti andare. «C'è una cosa che non mi torna, Quinto. Se Velleda aveva già deciso, perché le ci è voluto fino all'alba per cacciarti fuori?» La sua esitazione fu quasi impercettibile. «Aveva un disperato bisogno di fare un po' di conversazione soddisfacente, come hai detto tu. Lo stesso valeva per me» aggiunse. Risi, poi dissi che sapeva essere insolente in modo sottile, e che ero in grado di capire l'allusione. Tornai indietro velocemente per sorvegliare Ascanio. Quando Ascanio domandò a nome di tutti: «L'ha fatto oppure no?» risposi baldanzoso di no. Giustino non mi restituì l'amuleto del quartiermastro. Mi sorprese alquanto che se lo fosse tenuto. In realtà a volte, soprattutto quando sfoggiava quella mesta espressione che aveva quando era salito sull'imbarcazione, mi pareva quasi che avesse l'aria di un uomo che l'aveva regalato a una ragazza come pegno d'amore. La Fortuna l'aveva protetto. Non era innamorato; così mi aveva detto. Quinto Camillo Giustino, tribuno anziano della Prima adiutrix, si era dimostrato un diplomatico imperiale nato. La diplomazia richiede una certa dose di menzogna, ma non potevo credere che il fratello di Elena mi avrebbe nascosto la verità. LVI Ben presto ci trovammo a non avere tempo per fare congetture. La nave pretoria di Petilio Ceriale era impetuosa e inaffidabile come il generale stesso. A parte i deplorevoli effetti dell'incuria, il timone doveva aver preso un brutto colpo mentre i ribelli la trainavano via. Si lasciava governare come un cammello cocciuto e navigava con una straordinaria mancanza di considerazione per il vento o la corrente. Per qualche ragione, tutto il peso pareva appoggiarsi su un lato solo, un problema che peggiorava di giorno in giorno. Eravamo fuggiti su una nave di carattere... il genere di carattere riottoso con cui tornava a casa mio fratello maggiore Festo dopo una notte passata in una taverna, molto lontano da casa, e di cui non ricordava più niente. Scendere il fiume su quella nave era come montare un
cavallo che voleva andare all'indietro. Imbarcava acqua con tutta la grazia di un tronco fradicio. La maggior parte delle difficoltà derivava dal nostro esiguo equipaggio. Nelle mani giuste sarebbe stata splendida. Ma era stata costruita perché il doppio ordine di remi avesse gli uomini al completo, perché ci fossero marinai addetti al sartiame, un comandante, il suo secondo e un effettivo di truppe marinare, per non parlare del generale, che senza dubbio avrebbe fatto il suo turno ai remi in una situazione difficile. Venticinque di noi semplicemente non bastavano, e il numero comprendeva Dubno, che si rivelò inutile, e il servitore del centurione, che fece capire chiaramente che avrebbe preferito essere escluso (la sua supplica di essere trasferito nella Mesia si era ripresentata in modo patetico). Poi, man mano che passavano i giorni e" il fiume si allargava, le nostre scorte di cibo si ridussero al lumicino. Diventavamo più deboli proprio quando avevamo bisogno di maggior vigore. La confluenza con il Reno ci colse alla sprovvista. La nave stava imbarcando acqua. Avevamo ammainato le vele e molti di noi erano sottocoperta, cercando freneticamente di tappare le falle. Quando Probo gridò, all'inizio nessuno lo sentì. Quando gettò indietro la testa e urlò con più forza, ci precipitammo convulsamente sul ponte. Ci fu un momento di esaltazione prima che ci rendessimo conto della gravità della nostra situazione. La corrente di riflusso si era rinforzata. La nave pretoria, che era sempre inclinata su un fianco a tribordo, adesso era pericolosamente bassa nell'acqua e quasi incontrollabile. Non eravamo in condizioni di affrontare una turbolenza. Gridai di gettare l'ancora, ma non tenne. Proprio quando pareva che la salvezza fosse in vista, ci fu strappata. Il cielo grigio rendeva tutto più minaccioso. Un gelido vento del nord portava l'odore dell'oceano, ricordandoci in modo crudele che noi volevamo andare nella direzione opposta. Speravamo di andare a finire nel fiume principale; avevamo sempre saputo che senza rematori esperti saremmo stati costretti a scendere la corrente. Dovevamo riuscire ad attraversare il Reno andando alla deriva verso la sponda romana, poi piegare dolcemente verso Vetera. Affrontare la corrente per risalire il fiume sarebbe stato impossibile. Per un gruppo di dilettanti che si sforzavano di mantenere stabile una galea troppo grande e che imbarcava acqua, la situazione sarebbe stata già abbastanza delicata nell'altro modo. Per lo meno, se fossimo riusciti a raggiungere sani e salvi il Reno, avremmo potuto chiedere a una nave della flotta che ci rimorchiasse, o che addirittura ci prendesse a bordo, poiché
saremmo stati ben felici di rinunciare alla gloria di aver recuperato la liburna in cambio di un veloce viaggio verso casa. La sorte era stata generosa abbastanza a lungo e ora decise di voltarci le sue spalle seducenti. Spinta dalla corrente sempre più forte e appesantita dalla sentina allagata, la nave pretoria incominciò pian piano a ruotare. Persino noi ci accorgemmo che aveva deciso di affondare. Non c'era speranza. In novembre il fiume era al suo livello più basso, ma scorreva ancora imponente, e noi non eravamo certo delle folaghe dai piedi palmati. Elvezio gridò: «Dobbiamo portarla a riva, prima che il Reno la risucchi!». Aveva ragione. Eravamo sul lato sbagliato del fiume, e ancora sul fiume sbagliato, ma se fosse affondata al centro della corrente, avremmo perso tutto e gli uomini sarebbero annegati. Le reclute potevano anche essere cresciute per i porti, ma solo i famosi batavi avevano attraversato a nuoto il Reno ed erano sopravvissuti per vantarsene. Io non dissi nulla, ma c'era almeno un membro della nostra comitiva (io) che non aveva mai imparato a nuotare. Per fortuna, pur rifiutandosi con ostinazione di navigare fino alla salvezza, la scorbutica galea era assolutamente ben disposta ad arenarsi su una riva ostile. La portammo a riva, il che vuol dire che fu la nave a fermarsi di propria iniziativa sulla spiaggia più fangosa che fosse riuscita a trovare, con un lacerante scricchiolio che ci disse che ora era pronta a marcire. Sebbene l'imbarcazione fosse in secca, il suo sdegnato equipaggio fu costretto a guadare un vasto pantano di acque profonde e limacciose prima di raggiungere quella che per i piedi umani poteva considerarsi terra. La nave aveva scelto la riva dei tencteri. Speravamo che almeno non sapessero che eravamo sgattaiolati via dalla torre di Velleda in circostanze sulle quali i loro colleghi bructeri avrebbero forse avuto qualcosa da obiettare. La confluenza di quei due grandi fiumi era uno scenario tenebroso. L'aria era fredda e l'intera zona inospitale. Il suolo era troppo spugnoso per essere coltivato e il luogo appariva disabitato e deserto. Uno stormo improvviso di grosse oche passò nel cielo, silenzioso a parte il fruscio quasi soprannaturale delle ali, facendoci sobbalzare più di quanto avrebbe dovuto. Avevamo i nervi tesi al punto da poter commettere facilmente degli errori. Eravamo in vista del Reno, così mandammo una piccola squadra a sguazzare fino al bordo del fiume in cerca di una nave romana a cui chie-
dere aiuto. Una volta tanto non ce n'era nessuna, naturalmente. I nostri scocciati esploratori tornarono, disubbidendo agli ordini, con la debole scusa che il terreno era troppo acquitrinoso da attraversare, ma eravamo troppo abbacchiati per rimproverarli. Elvezio, essendo un centurione, fece uno stanco tentativo di rianimarci con l'azione. «E adesso che facciamo, Falco?» «Io ho intenzione di asciugarmi gli stivali e poi passare almeno tre ore seduto su una collinetta a lamentarmi con gli altri per ciò che è andato storto... Qualcun altro ha qualcosa da suggerire?» «Tribuno?» «Sono troppo affamato per avere idee brillanti.» Eravamo tutti affamati, così Elvezio suggerì che, visto che eravamo intrappolati lì e visto che la zona pullulava di uccelli di palude e di altri animali selvatici, tanto valeva tirare fuori i giavellotti e andare a vedere di scovare qualche preda con un po' di carne addosso. Mi ricordai di quello che aveva detto una volta a proposito degli stupidi ufficiali che volevano andare a caccia di cinghiali in luoghi notoriamente pericolosi, ma le reclute erano intrattabili per la fame, così gli lasciammo guidare una piccola squadra alla ricerca di cibo. Io mandai Lentullo con un secchio in cerca di gamberi, in modo da tenerlo fuori dai piedi. I rimanenti di noi scaricarono la galea e caricarono la roba sui cavalli, salvati temporaneamente dalla pentola ora che ne avevamo bisogno. Poi ci avviammo in cerca di terreno più asciutto dove accamparci. Avevo i piedi bagnati, e la prospettiva di dividere con altre ventiquattro persone una tenda da otto non mi confortava. Le pietre focaie nella nostra scatola erano così consunte che nessuno riuscì ad accendere il fuoco. Elvezio ci sarebbe riuscito: lui era competente in tutto. Avevamo quindi un assoluto bisogno di lui proprio nel momento in cui Orosio e gli altri tornarono al campo con un paio di uccelli di palude maciullati ma senza il centurione, dichiarando che, a quanto pareva, Elvezio si era perso. Dal tipo che era pareva impossibile, così capii all'istante che doveva essere successa una disgrazia. Giustino rimase di guardia all'accampamento. Io presi Orosio, un cavallo e il nostro cofanetto dei medicamenti. «Dove eravate quando l'avete visto l'ultima volta?» «Nessuno lo sapeva con certezza. Per questo siamo tornati tutti indietro.»
«Per Giove!» La cosa non mi piaceva affatto. «Che cos'è successo, Falco?» «Credo che sia ferito.» O peggio. Come prevedibile, il ragazzo non si ricordava in che punto il gruppo si era diviso. Mentre perlustravamo la palude, ci sembrò di sentire dei rumori, come se qualcuno ci stesse inseguendo. Forse l'avevamo solo immaginato, poiché i suoni erano saltuari, ma non avevamo il tempo di verificare. Arrivammo in un punto dove dei canali secondari ristagnavano fra gigantesche canne palustri. Lì, su un rialzo di solido terreno erboso, lungo un ruscello, trovammo il nostro uomo. Era vivo. Ma non era stato in grado di chiedere aiuto. Una lancia romana gli trafiggeva la gola e un'altra era conficcata nell'inguine. «Per gli dèi misericordiosi! Orosio, uno di voi giovani bastardi disattenti sarà strangolato per questo...» «Ma non sono le nostre...» «Non mentire! Guardale. Guarda!» Erano giavellotti romani. Su questo non c'era alcun dubbio. Avevano punte di nove pollici con colletti di ferro dolce che si erano incurvati per l'impatto. Erano fatti così di proposito. Una volta che il giavellotto si conficca nello scudo di un nemico, una lunga asta di legno che si prolunga da una punta ricurva impedisce ogni movimento ed è impossibile da estrarre e rilanciare. Mentre le vittime cercano faticosamente di liberarsi, noi ci avventiamo su di loro con le spade. Gli occhi del centurione mi supplicavano o, per essere più esatti, mi davano ordini. Mi rifiutai di sostenere lo sguardo sconvolto di quei profondi occhi marroni. Da qualche parte lì vicino un uccello si alzò in volo, stridendo. «Fai la guardia, Orosio...» La vista del sangue non dovrebbe mai far perdere il controllo, mi aveva detto una volta un chirurgo. Lui poteva permettersi di atteggiarsi a filosofo; per lui il sangue significava denaro. In quel momento, se quel chirurgo fosse spuntato da dietro un salice, l'avrei reso milionario. Elvezio gemeva, trattenendo il rumore con orgoglio. Di fronte a un uomo che soffriva in modo così atroce, era difficile non farsi prendere dal panico. Non osavo muoverlo. Anche se fossi riuscito a trasportarlo fino al campo, non ci sarebbe stato alcun vantaggio. Tanto valeva fare lì ciò che andava fatto. Poi avremmo potuto anche pensare a come trasportarlo. Arrotolai il mantello e lo misi sotto la lancia più bassa per bloccarla. El-
vezio, ancora perfettamente lucido, teneva stretta l'altra con le mani. Spezzando le aste di legno avrei contribuito ad alleggerirne il peso, ma con il ferro conficcato in quelle posizioni non osavo tentare... Voci. Orosio, lieto della scusa, sparì per andare a controllare. Io stavo borbottando, in parte per rassicurare Elvezio, ma più che altro per calmarmi. «Non guardarmi in quel modo, amico. Tutto quello che devi fare è startene sdraiato lì facendo il bravo. Il problema è mio...» Lui continuava a sforzarsi di dire qualcosa. «D'accordo. Farò del mio meglio. Più tardi potrai presentarmi il tuo elenco delle rimostranze.» Sapevo di dover lavorare in fretta, ma sarebbe stato più facile se mi fossi sentito un po' più sicuro di me. La maggior parte del sangue proveniva dalla ferita al collo. Una delle punte uncinate non era penetrata, e questo poteva significare che l'intero affare era estraibile. Scacciai dalla mente il pensiero che l'altra ferita stesse magari sanguinando internamente. Bisogna fare ciò che si può. Il nostro cofanetto dei medicamenti era una delle cose che Giustino era riuscito a salvare dai bructeri. Conteneva soprattutto unguenti e bende, ma riuscii a trovare un paio di sottili uncini di bronzo che mi sarebbero potuti servire per tenere indietro la pelle circostante quel tanto da liberare la punta uncinata. C'era perfino un arnese per estrarre dardi, ma una volta ne avevo visto usare uno: andava inserito, fatto girare sotto il punto e poi tirato fuori con grande abilità. Un'abilità che io non avevo. Per prima cosa decisi di tentare senza. Ci fu del movimento o del rumore nel canale alla mia sinistra. Non proprio un tonfo, piuttosto una specie di sciabordio. Era così lieve che non ci feci quasi caso mentre mi chinavo su Elvezio; non avevo tempo per lontre o rane fra i giunchi. «Uro...» Il nostro vecchio soldato incallito aveva le allucinazioni come un bambino febbricitante. «Non parlare...» Poi ci fu del trambusto fra i salici, una corsa precipitosa, un grido, e un gruppo di uomini balzò fuori dal nulla. Avevano le lance sollevate pronti a scagliarle, ma ebbero il buon senso di tenerle ben strette in mano quando si accorsero di noi. LVII Era una battuta di caccia, guidata da un qualche bastardo di alta classe in
abito di buon tessuto di lana marrone. Aveva un cavallo spagnolo, alcun compagni ossequiosi, due portatori che recavano delle lance supplementari e un grave caso di collera furibonda. Si guardò in giro, mi individuò e fu in perfetto latino che disse sbottando: «Oh, Castore e Polluce!... E che ci fanno qui delle persone?». Mi alzai in piedi. «Vivono... come te» Il mio latino lo bloccò di colpo. Balzò giù da cavallo, lasciò cadere le redini, poi si avvicinò a lunghi passi, ma non troppo vicino. «Credevo che foste tencteri. Li abbiamo sentiti qui intorno.» Proprio ciò di cui avevo bisogno. «Ho perduto la mia preda. Qualcosa di grosso...» I capelli che si stava strappando erano neri, dal taglio scalato con cura per mettere il mostra la bella forma del capo; i denti che digrignava erano regolari, in ordine e bianchi. La cintura era niellata d'argento, gli stivali erano degli affari flessuosi con le nappe attaccate con borchie di bronzo, come sigillo aveva al dito uno smeraldo. La sua collera era del genere che si può vedere al Foro in qualunque momento dopo che il conducente distratto di un asinello ha urtato un uomo importante che usciva dalla basilica Iulia. Io ero molto stanco. Mi doleva tutto il corpo. Il mio cuore raramente era stato più cupo. «La tua preda è qui» dissi con calma. «Non ancora morta del tutto.» Mi spostai di lato in modo che l'uomo con le rintronanti vocali senatorie avesse una visuale migliore del nostro centurione che giaceva ferito ai miei piedi. «Ti presento Appio Elvezio Rufo, centurione della Prima legione adiutrix. Non preoccuparti» aggiunsi affabilmente «Elvezio è una persona realista. Ha sempre saputo di correre meno pericoli da parte del nemico che per l'ottusa incompetenza di un superiore...» «Io sono un ufficiale romano» mi informò con arroganza il capo dei cacciatori, inarcando le sopracciglia ben curate sotto la linda frangetta nera. «Lo so chi sei.» Qualcosa nel modo caustico con cui osai ricambiare il suo sguardo avrebbe dovuto metterlo in guardia. «So un sacco di cose su di te. Le tue finanze si basano su una complessa struttura di debiti, la tua vita familiare è nel caos. Tua moglie è irrequieta e la tua amante merita di meglio. E nessuna delle due gradirebbe sapere che fai visita a una certa persona a Colonia...» Era esterrefatto. «Mi stai minacciando?»
«Può darsi.» «Chi sei?» «Mi chiamo Didio Falco.» «Non mi dice niente» sbraitò. «Dovrebbe. Mi sarei presentato sei settimane fa, se tu fossi stato disponibile. Allora ti saresti anche risparmiato un ufficio pieno di dispacci senza risposta, fra cui una cruciale lettera di Vespasiano sul futuro della tua legione.» Fece per parlare. Io continuai senza alzare la voce né affrettarmi: «Si sta anche interrogando sul tuo di futuro. Il tuo nome è Florio Gracile. La tua legione è la Quattordicesima gemina e possiamo solo augurarci che i suoi uomini abbiano esperienza sufficiente per sopravvivere a un legato la cui attitudine al comando è superficiale in modo inverosimile». «Ascolta...» «No, ascolta tu, signore!» Usai il titolo come un insulto. «Ti ho appena trovato a usare lance dell'esercito per scopi personali, sulla sponda sbagliata del Reno, con una compagnia che l'imperatore non potrà che definire immorale.» Uno dei compagni del legato fece all'improvviso un gesto osceno. Riconobbi la rapidità del movimento così come la fossetta nel mento e l'evidente ghigno beffardo. Guardai l'uomo dritto negli occhi. «Sei molto lontano da Lugdunum!» dissi. LVIII Il Gallo che avevo visto l'ultima volta mentre litigava con i due vasai germanici mi fronteggiò furioso. Ero stato in un altro mondo da quando ero passato per la sua provincia durante il viaggio verso la Germania Superiore, ma ora la lite a Lugdunum e il ritrovamento dei corpi dei vasai mi tornarono vividi alla mente. Il Gallo grande e grosso con il ghigno non disse una parola. Meglio così. Poteva aspettare. Quaggiù, in una condizione vulnerabile, ero riluttante ad affrontarlo. Più che vederlo, intuii il debole movimento di Elvezio. Sapevo che mi stava mettendo in guardia. All'improvviso compresi perché il centurione fosse disteso lì su quel costone di terreno erboso con due lance in corpo. Mi ricordai della conversazione che avevamo avuto io e lui prima di lasciare Moguntiacum. Anche lui aveva visto il vasaio gallico che litigava con Bruccio e suo nipote a Lugdunum; più tardi aveva anche visto il Gallo
che li pedinava. Forse il Gallo aveva visto Elvezio. In tribunale, la parola di un centurione sarebbe bastata a decretare la colpevolezza di un provinciale. Trovare Elvezio da solo qui in questa landa desolata doveva essere sembrato un dono degli dèi a un uomo che aveva già ucciso due volte. Mi chiedevo se Florio Gracile sapesse che genere di "incidente" era capitato al ferito, ma dalla sua espressione non appena aveva visto Elvezio ne dubitavo. Essere coinvolto in un caso di corruzione era una cosa; l'omicidio sarebbe stato troppo stupido. Non essendo a conoscenza dell'intera storia, Gracile optò per un atteggiamento spavaldo. Era certamente convinto di essere riuscito a coprire le tracce nella frode degli appalti e di poter sistemare in qualche modo il resto una volta che fossimo arrivati a casa. «Una tragedia» borbottò. «Fammi sapere se posso essere di aiuto... Una vera sventura. Gli incidenti capitano. L'intero viaggio è stato pieno di inconvenienti fin dal primo giorno. Avrei dovuto incontrare un certo venditore ambulante che sosteneva di potermi mostrare il campo di battaglia di Varo. Un imbroglione incapace. Ha preso il mio denaro per equipaggiarsi e poi non si è fatto più vedere.» Dubno. «Se è un ubio con il labbro allungato e una notevole capacità di lamentarsi, l'ho rapito io» dissi. La mia posizione si fece impercettibilmente più forte. Anche Dubno era un testimone del giretto del legato, e adesso era sotto il mio controllo... Notai che Gracile strizzava gli occhi; aveva afferrato l'idea. Per rafforzarla, aggiunsi ancora: «L'ambulante ci ha traditi vendendoci ai bructeri, e si può ritenere con certezza che vi avrebbe riservato lo stesso destino». «Oh, ne dubito!» Perfino dopo anni passati a tenere d'occhio senatori, l'arroganza di quell'uomo mi lasciava senza fiato. In un modo o nell'altro dovevamo tornare a casa. Ero disposto a patteggiare. Piantai i piedi con maggiore ostinazione e dissi bruscamente al legato: «Se questo Gallo è un tuo amico, dovresti fare più attenzione. Ci sono due morti a Cavillonum su cui potrebbe essere chiamato a rendere conto». Gli offrii una scappatoia. «Le vittime erano gente del posto sotto il tuo comando. La comunità di Moguntiacum si rivolgerà a te perché te ne occupi.» Non mi ero sbagliato nel giudicarlo. «Sembra proprio che io abbia qualcosa su cui indagare!» Il legato si distanziò in modo impercettibile dall'uomo con la fossetta nel mento. Alla fine la condotta spregiudicata ha la bella abitudine di funzionare in entrambi i sensi. «Non so che cosa ci fai tu qui» mi disse per sfida. Aveva la disinvolta e sfrontata voce patrizia di
un uomo che si aspetta di cavarsela in ogni circostanza grazie al suo disinvolto e sfrontato lignaggio patrizio. «Per quanto mi riguarda, io sono impegnato in una ricognizione politica.» Era un modo come un altro per definire il suo regalino tutto pagato. «Oh, davvero?» L'irritazione per il suo modo frivolo di esprimersi mi inasprì la voce. «Civile, vero? L'Isola? Batavodurum? Ti sei trattenuto molto a Vetera?» «Mi interessava fiutare un po' in giro...» Uno in viaggio di piacere. Elvezio fu scosso da un sussulto nervoso. Stavo perdendo anch'io le staffe. «Vedere i danni, sentire l'odore della catastrofe, raccogliere una pietra dai bastioni da portare a casa come ricordo? Dopodiché qualche giorno libero per la vera caccia, e se qualche robusto veterano romano si trova sulla traiettoria delle tue lance imprecise, peggio per lui... in realtà, pensavo che fossi andato sull'altra riva per negoziare con la profetessa.» «Velleda?» Gracile sembrò sinceramente colpito. «Vespasiano non vorrebbe che qualcuno si impegolasse con quella strega!» Non volli deluderlo. «E hai trovato Civile?» «No» disse. Ah, bene. Era un senatore. Probabilmente avrebbe ottenuto una corona di alloro solo per averci provato. Dopo le nostre avversità, dovevo aver perso il controllo. Non ero tanto ingenuo da sperare che Vespasiano avrebbe retrocesso quello sgradevole individuo a meno che non avessi prodotto qualche scandalo più grave di una truffa nella concessione di un appalto o della partecipazione a una partita di caccia in territorio barbaro. Le sue abiezioni comprendevano soldi, sesso e morte, ma non faccende di sesso abbastanza scandalose da impressionare Roma al punto da tirarne fuori il lato bigotto. Nessuna tangente abbastanza alta da dover ingaggiare avvocati per esigere una rivalsa. E non abbastanza morti. «Hai superato i limiti, legato.» Superato i limiti in ogni senso. Ma ai miei piedi Elvezio diventava sempre più debole. «Ho un gruppo di uomini sfiniti e mezzi morti di fame e questo centurione gravemente ferito. Stiamo svolgendo una missione imperiale che non posso discutere in pubblico, e siamo bloccati qui senza mezzi di trasporto, armature o provviste. Posso invitarti a riabilitare la tua reputazione aiutandoci a tornare alla base?» L'avevo giudicato male. Il Gallo mormorò qualcosa. Il legato della Quattordicesima valutò cinicamente la nostra situazione disperata contro le prove con cui avremmo potuto diffamare il suo nome.
«Voglio prima vederti nell'Ade!» esclamò Gracile. Ma aveva fatto anche lui un errore. E il suo era più grave del mio. Parecchie cose si susseguirono rapidamente. Elvezio emise un orribile gemito che mi fece cadere su un ginocchio accanto a lui. Il Gallo sollevò il giavellotto. Venne fermato da alcuni squilli di voce. All'altra estremità del crinale, Orosio emerse da alcuni grossi cespugli insieme a Lentullo, che portava ancora il secchio dei gamberetti, e al servitore del centurione. Afferrai Elvezio per il polso per avvertirlo di stare tranquillo mentre mi occupavo di ogni problema. Allora lui fu scosso da un violento spasmo. Mi diede un colpo, facendomi cadere su un fianco. Era un gesto intenzionale... mi stava mettendo in guardia. Mentre ero sdraiato scompostamente sulla schiena, il grido di protesta mi morì in gola. A tre passi da me, che sbuffava contro il legato, c'era il toro più grosso che avessi mai visto. LIX Mi alzai in piedi con un balzo, poi battei le braccia contro i fianchi e grugnii in tono supplichevole. L'uro agitò superbo la testa. Nessuna stalla avrebbe potuto contenere quel bovino. La bestia era di un colore brunastro con tratti neri sulla coda. Aveva la schiena diritta, una testa massiccia, zampe corte e spalle che avrebbero potuto demolire una costruzione civile in muratura, coperte da un profondo collare di pelliccia più pesante di un bruno rossastro. Le corna incurvate verso l'alto erano abbastanza forti e ampie da legarvi una fanciulla: una qualche Dirce che fosse riuscita a offendere persone capaci di immaginare punizioni deliranti. Il suo respiro raschiava come quello di un Ciclope nella fase terminale di una polmonite. Sono animali non addomesticabili. L'uro esisteva secoli prima che l'uomo inventasse la placida vita domestica. Questo in particolare era enorme, eppure doveva essere in grado di muoversi con grande delicatezza: il genere di passi eleganti che si accompagnano anche a improvvisi scatti di straordinaria velocità. L'occhio feroce ci disse che le lance che erano conficcate nel suo mantello come spine di rovo lo avevano già inferocito e ora che, con furtiva perfidia, aveva scovato i colpevoli, progettava di provocare gravi danni a qualunque cosa si muovesse. Per sottolineare il concetto, e-
mise un lungo muggito forzato che rivelava sonoramente rabbia e dolore primordiali. Fissava assorto il legato, come se calcolasse dove avrebbe potuto fargli più male. Poi scalpitò. Restammo tutti assolutamente immobili. Ora, non amo ricordare quello che successe a Florio Gracile. La cosa peggiore fu che lo vide arrivare. Emise un lieve gorgoglio, poi si mise a correre. Mugghiando, l'enorme animale si lanciò al suo inseguimento con una tale velocità da non lasciargli scampo. Fu incornato, gettato a terra, schiacciato e poi calpestato a morte. Alcuni di coloro che erano con lui cercarono di scagliare lance, ma una volta che Gracile fu a terra il terrore si impadronì di tutti. Scapparono. Io e i miei compagni restammo. All'uro dovette piacere la mia faccia; intuii che aveva scelto me come prossima vittima. Dovevo proteggere Elvezio. Incominciai a camminare lentamente verso sinistra. Era la sola direzione possibile, e ben presto dovetti fermarmi, poiché mi stavo avvicinando al margine del ruscello. La riva scendeva di colpo di un piede o più, e poi c'era un sinistro strapiombo di erba lunga e sudicia. L'ultima cosa che volevo era finire dentro un'acqua dalla profondità incerta, a sguazzare indifeso mentre l'enorme creatura caricava. L'uro respirò ferocemente, dando al corpo insanguinato del legato morto un ultimo colpo sprezzante con un corno terrificante. Aspettò che mi fermassi, poi incominciò a muoversi. Il resto fu rapido, confuso e niente affatto eroico. Alle spalle dell'uro i miei tre compagni irrigiditi dalla paura si rianimarono. Orosio incominciò a gridare e si fece avanti per raccogliere un giavellotto caduto. Vidi che il servitore correva verso Elvezio. Lentullo scagliò coraggiosamente il secchio dei gamberetti. Questo colpì l'uro sul muso che gettò indietro la testa, ma continuò ad avanzare. Era come essere incalzati da una casa che correva. La punzecchiatura del secchio dei gamberetti non lo fermò. Niente avrebbe potuto. Ma mentre sbatteva gli occhi, ebbi appena il tempo di balzare da qualche parte. Intrappolato dal ruscello, c'era una sola direzione: scivolai di lato. La bestia mi oltrepassò, così vicino che ritrassi il braccio. L'uro attaccò il nulla. La testa era abbassata. Se mi fossi messo a correre, mi avrebbe incornato prima che potessi fare un secondo passo, ma qualco-
sa lo fermò questa volta: Lentullo. Si era lanciato in avanti e l'aveva afferrato per la coda. Aveva la faccia stravolta per lo sforzo mentre per fortuna teneva duro. Il poderoso animale distolse furioso l'attenzione da me. Con una violenta scrollata avanti e indietro delle spalle si liberò del giovane idiota. La sferzata della sua groppa scaraventò lontano il nostro ragazzo, mandandolo a finire nel ruscello. A quel punto un altro idiota si era messo a fare una cosa stupida. Marco Didio Falco, che una volta aveva visto un affresco cretese, scelse come arena quella fredda e umida riva germanica per far rivivere l'arte dimenticata della danza del toro. Mentre l'uro muggiva ancora contro Lentullo, corsi dritto verso l'animale e balzai a cavalcioni sulla sua groppa. La sua pelliccia era ruvida come la cima di una nave e puzzava di selvatico. Una coda appiccicosa di sterco mi sferzò la spina dorsale. Avevo solo un'arma, dentro lo stivale, come sempre: il mio pugnale. In qualche modo lo tirai fuori. L'altro braccio era stretto intorno a un corno. Non c'era tempo di riflettere: la morte cercava uno di noi. Serrai entrambe le ginocchia, mi sollevai con tutte le forze sul corno enorme, girai la testa, mi protesi lungo un orecchio guizzante e un occhio furente, poi incominciai a vibrare colpi nella gola tesa dell'uro. L'uccisione non fu rapida né pulita. Ci volle parecchio tempo e molta più energia di quanto chiunque avrebbe mai potuto immaginare dopo avere assistito, in scintillante toga bianca, a un sacrificio taurino sul colle del Campidoglio eseguito dai raffinati sacerdoti di Giove. LX «Per Mitra!» Pensai che il grido sgomento provenisse da Elvezio, ma doveva essere stato il suo servitore. Il mio braccio sinistro era serrato così strettamente dove mi ero tenuto aggrappato che non fu facile liberarlo. Mi pareva che l'odore dell'animale mi permeasse i vestiti e la pelle. Crollai a terra, tremando. Orosio si avvicinò di corsa e mi trascinò via. Lentullo uscì barcollando dal ruscello, poi svenne di colpo. «Dev'essere stato il trauma» borbottò Orosio, voltandosi per badare a lui. «Trovare qualcosa che sapeva fare davvero...» Mi sentivo disgustato... di me stesso, dell'animale la cui furia mi aveva costretto a quello, e del sangue caldo che avevo addosso. Appoggiai la mano sulla fronte, poi allontanai di colpo il palmo sentendovi sopra altro sangue. Riuscii ad avvicinarmi zoppicando a Elvezio. Il suo servitore, che
si chiamava Dama, alzò lo sguardo verso di me. «Lo sapevo che me ne sarei dovuto andare nella Mesia...» farneticò amaramente. Poi scoppiò in lacrime. Elvezio era morto. Avevo a stento soffocato la mia angoscia quando alcuni dei compagni di caccia del legato ebbero l'ardire di tornare. Erano capeggiati dal Gallo dal ghigno beffardo, intenzionato senza dubbio a tutelarsi. Fu un confronto breve. Io ero ancora inginocchiato accanto a Elvezio e gli tenevo la mano. Dissi al Gallo: «Non voglio vedere mai più la tua faccia nella Germania Libera o in quella Romana. Hai ucciso per proteggere la tua industria e hai ucciso per proteggere te stesso. La cosa finisce qui». «Le prove?» mi sfotté lui, indicando con un gesto il centurione morto. All'improvviso Dama parlò. Si rivolse a me, come se non fosse sicuro di riuscire a parlare all'assassino del suo padrone. «Elvezio Rufo era un uomo riservato, ma parlava con me mentre lo aiutavo ad armarsi. Mi ha riferito ciò che ha visto in Gallia.» «Saresti disposto a testimoniare in tribunale?» Lui assentì. Il Gallo sollevò la lancia. La sua intenzione era evidente. Ma non eravamo più indifesi. Orosio e Lentullo sollevarono a loro volta i giavellotti, pronti a scagliarli. Mi alzai, coperto di sangue. Dovevo avere un aspetto orribile. «Una parola fuori luogo, o un gesto che non mi piace, e sarò lieto di mostrarti come si sente l'uro adesso che è morto!» I cacciatori arretrarono tutti lentamente. Con un cenno furioso, ordinai loro di andarsene. Altrettanto lentamente si allontanarono fino a scomparire, portandosi via il Gallo di Lugdunum. Non so che cosa ne fu di loro in seguito, e non me ne importa. Come celti, correvano molti meno rischi di noi nella Germania Libera. Quella sera cenammo con bistecche di uro, ma avevano un gusto amaro. Montammo di guardia in due alla volta. Nessuno dormì molto. Levammo il campo molto presto, poi ci mettemmo in cammino diretti a sud, nella speranza di trovare l'imbarcazione del legato morto in qualche punto della riva del fiume. Stavamo andando a casa. Avevamo due cadaveri da trasportare, e in più d'uno ci sentivamo affranti dal dolore. Ben presto lo fummo tutti. Infatti, mentre procedevamo con animo lugubre, arrivammo in una zona boscosa. Poco dopo esservi entrati scoprimmo che c'erano altri occupanti.
Erano in numero cinque volte superiore a noi, e ci avevano individuati. Erano una banda di guerrieri della tribù dei tencteri, quelli che sapevano cavalcare e odiavano Roma. LXI Fummo circondati ancora prima di rendercene conto, ma non ci attaccarono subito. Forse erano sorpresi quanto noi di trovare altre persone nei loro boschi. Ordinammo alle reclute di disporsi in quadrato, cosa che riuscì abbastanza bene, considerato che avevano imparato la manovra solo in teoria. Elvezio però gliel'aveva insegnata. Come formazione, il risultato era passabile. Ma sapevamo tutti di avere un quadrato troppo piccolo. Il vero scopo di un quadrato è di unire gli scudi tutt'intorno per formare un muro protettivo. Ma noi non avevamo scudi. Giustino era troppo stanco e sconvolto per tenere una focosa orazione, ma incitò le reclute a fare del loro meglio. Loro si scambiarono occhiate franche, come veterani. Capivano la situazione in cui ci trovavamo. Era pomeriggio inoltrato. Una pioggerellina sottile cadeva sulla foresta. Eravamo tutti sporchi, affamati e intirizziti, con i capelli schiacciati dalla bruma. Notai che il cuoio dei nostri stivali si era indurito ed era increspato sui bordi, con bianchi arabeschi lasciati dal fango e dal sale. Gli alberi avevano cambiato colore durante l'ultima settimana o poco più. L'inverno faceva capolino nell'aria gelida. Sentivo odore di terriccio e di paura. L'ennesima prova da superare: proprio non ci voleva. Sembrava un incubo in cui si scivola attraverso una serie infinita di sciagure paradossali, sapendo che è un incubo e che si deve uscirne al più presto, e incapaci tuttavia di liberarsi e svegliarsi al sicuro nel proprio letto con una persona amica che ci conforta. Non riuscivamo a capire perché i tencteri non avessero fatto alcuna mossa. Ogni tanto riuscivamo a intravederli fra gli alberi. Erano a cavallo. La loro presenza era palpabile su ogni lato. Sentivamo lo scalpitare impaziente degli animali e il tintinnio dei finimenti. Un uomo a un certo punto tossì. Se viveva in quella nebbia che saliva dal fiume, era comprensibile. Erano appena fuori tiro delle lance. Rimasero fermi lì per quelli che parvero secoli, aspettando tesi il primo movimento che avrebbe significato la fine per noi. Sentivamo lo scalpicciare degli zoccoli tra le foglie secche.
Sentivamo il fruscio di una brezza furtiva sopra di noi. Mi sembrò di sentire qualcos'altro. Giustino e io stavamo schiena contro schiena. Doveva essersi accorto della mia tensione perché si guardò intorno. Avevo la faccia completamente rivolta in su verso la pioggerella, nello sforzo di percepire un suono o un'impressione. Non avevo niente da dirgli, ma quello strano spirito tranquillo aveva conservato dalla torre di Velleda la sua abitudine all'azione solitaria. Ascoltava anche lui, senza fare commenti. Poi lanciò un urlo e, prima che potessimo fermarlo, balzò fuori dal quadrato. Percorse correndo i dieci passi che lo separavano dal luogo dove avevamo lasciato i nostri scarsi bagagli. Per fortuna si muoveva a zigzag poiché una lancia uscì sibilando dagli alberi. Lo mancò. Un istante dopo era accucciato, al riparo dei nostri cavalli. Vedemmo che rovistava furiosamente. Subito dopo si alzò. Si appoggiò con i gomiti a un cavallo per tenersi saldo mentre reggeva in mano qualcosa. Era il corno dalla bocca larga che aveva portato nel suo bagaglio per divertimento. Quando lo suonò, quello che uscì era più simile a un tremolio che alle note che aveva prodotto fra i bructeri, ma conservava ancora chiare tracce del secondo turno di guardia notturno. Doveva essere la sola cosa che aveva imparato a suonare. Una scarica di frecce e lance tenctere cercò di ridurlo al silenzio. Giustino si buttò a terra e si coprì la testa. Ma doveva aver sentito, come tutti noi, un'altra nota: chiara, acuta e sostenuta in modo professionale. Da qualche parte, non lontano da lì, una tromba di bronzo romana gli aveva risposto dolcemente. Non li vedemmo sparire. I tencteri dovevano essersela squagliata in silenzio. Non molto tempo dopo una pattuglia di legionari della Quattordicesima gemina uscì marciando dal bosco. Erano tutti volontari. Il reparto era stato messo insieme e condotto lungo il fiume per iniziativa dell'uomo che lo guidava. A dispetto dei miei pregiudizi, dovetti riconoscere che si trattava di Sesto Giovenale, il prefetto dell'accampamento. Stavano cercando il loro legato scomparso, ma quelli della Quattordicesima si sono sempre vantati di essere diligenti, così oltre a esigere il suo corpo salvarono anche noi. LXII
Moguntiacum. Un ponte, un casotto del dazio, una colonna ridicola... e la ragazza che morivo dalla voglia di rivedere. Il viaggio aveva richiesto un tempo sufficiente perché potessimo ricominciare ad adattarci al mondo reale. Tuttavia, il mondo ne avrebbe richiesto ancora di più per adattarsi a noi selvaggi. Lungo il fiume c'erano state città civili con terme e cibo romani. Anche contatti civili, con uomini che capivamo, anche se per la maggior parte del viaggio ci eravamo ritrovati a stringerci fra di noi nel nostro gruppo ristretto, messi in quarantena da un'avventura che sembrava troppo grande per poterne parlare. Quando finalmente sbarcammo e tornammo al forte dal quale eravamo partiti, portammo le ceneri del centurione a riposare nel sacrario dei Principia. Quando lasciammo la piazza d'armi, le reclute presero congedo. Io sarei sicuramente partito presto, e anche lo stretto contatto con il loro tribuno anziano era destinato a finire non appena Giustino avesse ripreso la normale alterigia che ci si aspettava dal suo rango. La nostra cenciosa combriccola ci lasciò, quasi in lacrime, sulla via Principalis, ma proprio allora passò un gruppetto di loro compagni gridando un bentornato: li vedemmo assumere di colpo un'andatura impettita, poi si allontanarono con visibile ostentazione. Solo Lentullo si voltò un ultimo istante, facendo un timido cenno. Giustino aveva qualche problema di gola. «Detesto ammettere che mi mancheranno.» «Non preoccuparti.» Anch'io mi sentivo un po' giù di corda. «Sei di nuovo sulla breccia, Quinto. Ci saranno presto un sacco di nuove seccature...» Lui imprecò allegramente, in una delle numerose lingue che aveva imparato per chiacchierare con le donne. Ebbe la buona idea di mandare un messaggio al segretario del suo legato dicendo che c'erano così tante cose da riferire che aveva bisogno di un appuntamento vero e proprio, più tardi. Questo stratagemma ci lasciò liberi di andarcene a casa sua, facendo finta di passeggiare con indolenza come se non avessimo in mente niente di speciale. Elena era in giardino. Faceva troppo freddo per stare lì, ma questo le aveva garantito la solitudine. Era angosciata per noi. Io e suo fratello sbucammo nel porticato, fianco a fianco. Il suo viso si illuminò per l'emozione quasi prima che sentisse i nostri passi. Poi il suo unico dilemma fu chi cor-
rere ad abbracciare per primo. Ci trattenemmo entrambi, per lasciare che fosse l'altro a ricevere l'abbraccio. Vinsi la gara della cortesia. Era quello che volevo. La mia intenzione era di lasciare che Giustino l'abbracciasse prima, dopodiché, quando me l'avesse passata, mi sarei sentito libero di tenerla stretta a me. Ma Elena Giustina superò a tutta velocità il fratello e si gettò tra le mie braccia. Lui ebbe la buonagrazia di sorridere, prima di voltarsi mestamente. «Rimani, amico...» Elena fu rapidissima. Come se avesse sempre avuto intenzione di farlo, si staccò da me e gli buttò festosa le braccia al collo. «Falco, mostro, che cosa hai fatto a mio fratello?» «È cresciuto» dissi. «Un'afflizione che la maggior parte delle persone riesce a risparmiarsi, ma quando colpisce tende a fare male.» Lei rideva. Mi ero dimenticato quanto amavo quella risata. «Com'è successo questo incidente?» «Non chiederlo. Deve essere stato così terribile che non vuole dirlo.» Elena assunse quella calma che significava che il giovane Quinto si sarebbe dovuto rassegnare perché lei aveva deciso che presto avrebbe confessato. Lo allontanò per ispezionarlo attentamente. «Sembra più alto!» Quinto si limitò a sorridere di nuovo, come un uomo in grado di tenere segreti i propri piani, e deciso a farlo. Fu allora che mi resi conto che forse avevo commesso un piccolo errore a proposito dell'avventura del tribuno nella torre di Velleda. Non ebbi la possibilità di domandarglielo, perché la mia terribile nipote e Treccine Bionde dovevano averci sentiti arrivare. Uscirono al galoppo strillando in un modo che voleva essere un saluto, poi il cane del tribuno si mise a proprio agio morsicando un servitore, dopodiché arrivò un messaggio che diceva che il legato della Prima era così felice che fossimo tornati sani e salvi che aveva annullato tutti gli altri appuntamenti e voleva vedere Giustino immediatamente... Quando se ne fu andato, mi aspettavo che Elena mi facesse delle domande pertinenti, ma sebbene lui fosse il suo cocco e io sapessi che lo amava teneramente, per qualche motivo lei volle dedicarsi soltanto a me. Avrei potuto protestare, ma la ragazza era chiaramente determinata a trascinarmi in un angolo buio per dedicarsi ad attività spudorate, così piuttosto che deluderla collaborai con lei. Avevo portato a termine la mia missione fino ai limiti del possibile, fa-
cendo anche più di quanto Vespasiano aveva diritto di aspettarsi, anche se non ero tanto ingenuo da credere che quel despota irragionevole sarebbe stato d'accordo. Il vecchio spilorcio si aspettava di ricavare il massimo dal suo denaro prima di lasciarmi tornare a casa. In primo luogo, la mia lista comprendeva ancora la coercizione di Civile. Ma mi ero comportato abbastanza bene da guadagnarmi il mio compenso. La mia massa di riccioli non avrebbe ricevuto il bentornato sul Palatino fino all'ultimo istante possibile ora che le richieste al Tesoro non si sarebbero limitate alle spese essenziali. Per ragioni personali, non avevo nessuna fretta di andarmene di lì. C'erano penose decisioni da prendere, e il peggio era che sapevo già quale doveva essere la risposta. Dato che Elena si rifiutava di decidere da sola, dovevo costringerla a scegliere la cosa giusta. Feci finta di dover restare al forte per completare il mio rapporto sulla Quattordicesima. Sostenevo che era difficile. Una giustificazione credibile. Odio i rapporti. Ero perfettamente capace di scriverlo, ma mi mancava la volontà di cominciare. Trascorsi parecchio tempo nello studio del tribuno mangiucchiando l'estremità di uno stilo mentre osservavo Elena Giustina che giocava da sola a dama. Mi chiedevo quanto avrebbe impiegato a rendersi conto che avevo notato che barava. Alla fine mi sentii obbligato ad accennarvi. Lei si alzò di scatto e se ne andò stizzita, il che era irritante poiché preferivo di gran lunga stare a fantasticare osservandola. Continuai nella mia fatica. Lo stilo ormai era più corto di almeno un dito. Frammenti di legno inzuppato continuavano a staccarsi e a pungermi la lingua. Mentre li sputavo fuori, mi accorsi che mia nipote e la sua amica si aggiravano intorno all'uscio sussurrando in segreto. Erano assorte in un evidente mistero da quando ero tornato. Ne avevo una tale barba del rapporto che questa volta mi alzai furtivamente, balzai fuori urlando e afferrai quelle due. Poi le trascinai nello studio e le feci sedere, una su ciascun ginocchio. «Adesso siete prigioniere. Starete sedute qui finché non racconterete allo zio Marco perché continuate a fare capolino dietro l'architrave. Mi state spiando?» Dapprima sembrò che non ci fosse niente. Ero il sospetto del giorno. Loro passavano un sacco di tempo giocando a fare gli investigatori. Non era un complimento: era per lo stesso motivo che io e Festo avevamo sempre voluto fare gli straccivendoli: un'esistenza sudicia e disdicevole che a nostra madre non sarebbe affatto piaciuta.
«Ma non ti diremo niente di ciò che abbiamo visto!» si vantò Augustinilla. «Meglio così. Mi evita di dover prendere provvedimenti.» Lei parve soddisfatta. Corrispondeva all'opinione della mia famiglia secondo la quale il suo ignobile zio Marco avrebbe preferito starsene a letto tutto il giorno piuttosto che darsi da fare per guadagnare un onesto denaro. Sogghignai con perfidia. «Dovreste essere davvero in gamba per scoprire qualcosa di utile. La maggior parte degli investigatori si apposta per settimane eppure non trova mai niente...» Vidi che Treccine era tormentata. A differenza di mia nipote, era abbastanza in gamba da volere che la sua intelligenza fosse riconosciuta, sebbene non abbastanza da nascondere la cosa e approfittare appieno del vantaggio. «Raccontagli del ragazzo con le frecce!» sbottò. Qualcosa fece vibrare una corda. Ora sì che ero interessato, così mi sforzai di sembrare annoiato. Augustinilla affrontò la richiesta scuotendo con forza il capo. Allora chiesi direttamente ad Arminia dove avessero visto il ragazzo. «Augusta Treverorum.» Mi prese un colpo. «Che cosa ci facevate laggiù?» Mia nipote spalancò la bocca e indicò un buco arrossato dove una volta c'era stato un dente. «Smettila di fare la sciocca. Riesco a vedere quello che hai mangiato a colazione che si agita per le tue budella. Da chi siete andate?» «Marte Lenus» mi informò lei, come se parlasse con un idiota. «Marte chi?» «Marte Guaritore» si degnò di spiegare Arminia. Era una cosa complicata. Riuscii a colmare da solo alcune lacune: «Augustinilla aveva mal di denti... me lo ricordo da prima che partissi». Le donne non sembrarono affatto colpite da quel sottile riferimento alle foreste piene di nebbia e di animali feroci che avevo appena sopportato. «Così Elena Giustina vi ha portate in un santuario...» «Il dente è caduto prima che ci andassimo» mi disse Arminia con un certo disgusto. «Elena ci ha portate lo stesso.» «Mi chiedo perché.» «Per dare un'occhiata in giro!» risposero in coro. «Ah già. È evidente! Ha visto qualcosa che meritasse?» No. Elena me ne avrebbe parlato, anche se non mi avrebbe disturbato con notizie di un viaggio inutile. Non mentre avevo il mio rapporto da scrivere. Lo considerava una cosa seria. «Ma voi avete visto questo ragazzo?»
«Ci stava prendendo di mira. Ha detto che eravamo romani e che lui era nell'impero gallico indipendente e aveva il permesso di suo padre per ucciderci. Così allora abbiamo capito» disse Treccine. «Raccontami, Arminia.» «Chi era.» Era più di quanto sapessi io. Lei sussurrò nervosa: «Il figlio del capotribù. Quello che uccide i prigionieri veri!». Resistetti all'impulso di stringerle più forte in modo protettivo. Quelle erano due donne forti; nessuna delle due aveva bisogno di me. «Spero che siate fuggite.» «Naturale» mi schernì Augustinilla. «Sapevamo che cosa fare. Era patetico. Ce lo siamo tolto di torno, poi siamo tornate indietro e l'abbiamo seguito.» Ridacchiarono felici della facilità con cui l'avevano infinocchiato. Nessun ragazzo era al sicuro con quelle due giovani arpie alle calcagna. In modi diversi, erano destinate entrambe a diventare delle mangiatrici di uomini. Lasciai che mi vedessero deglutire. «E poi?» «Abbiamo visto l'uomo con un occhio solo.» «L'uomo con la barba rossa. La barba che è tinta» specificò quel piccolo biondissimo tesoro. Nel caso non avessi capito quali assistenti assolutamente brillanti avessi convinto in qualche modo a collaborare con me. Elena disse che avrebbe scritto lei il mio rapporto. «Non sai niente dell'argomento!» «E allora? La maggior parte degli uomini che scrivono rapporti ne sa ancora meno. Che ne diresti di: "La Quattordicesima gemina martia victrix è una valida unità operativa, ma ha bisogno di una mano più ferma di quanto avuto dalla recente struttura di comando. La nomina di un nuovo legato con forti attitudini alla supervisione sarà un'indubbia priorità. La Quattordicesima sembra prestarsi a essere dislocata in Germania su base permanente o semipermanente. Questa scelta ne consentirà un controllo più stretto; permetterà anche di sfruttarne appieno la notevole esperienza con le popolazioni celtiche, che deve considerarsi particolarmente opportuna dato il delicato clima politico esistente nel corridoio del Reno...".» «Tutte sciocchezze!» la interruppi. «Esattamente. Proprio ciò che vogliono sentire in un segretariato.» Glielo lasciai fare. Lei calcolava di poter buttare giù e mettere insieme parecchie pagine delle stesse frasi altisonanti entro il mio ritorno. La sua
calligrafia era più curata della mia, oltretutto. Mi sarebbe piaciuto portare Elena con me, ma Augusta Treverorum si trovava a novanta miglia di distanza e io dovevo cavalcare senza sosta se volevo essere di ritorno a Moguntiacum per il compleanno dell'imperatore e la parata che ci sarebbe stata. Un uomo però ha bisogno di un compagno di viaggio, così portai qualcun altro al suo posto. Xanto, che amava tanto vedere il mondo, era il candidato naturale. LXIII Augusta Treverorum, capitale della Belgica. Era stata fondata da Augusto, che aveva scelto un luogo disabitato in uno strategico crocevia sul fiume Mosella e aveva iniziato con un ponte, come qualunque uomo assennato: un ponte come si deve, con sette piloni di bugne ammassate. L'intera struttura era costruita su scala imponente poiché il fiume in quel punto è bizzoso. La città era stata progettata in modo ordinato. C'erano nuovi vigneti che stentavano ad affermarsi, oltre a colture di cereali, ma l'economia locale prosperava soprattutto grazie a due prodotti: le ceramiche e la lana. Le pecore servivano per rifornire opifici ufficiali che producevano stoffa per le uniformi dell'esercito, e anche per il vasellame di terraglia rossa c'erano contratti con le legioni. Quindi, non fui sorpreso di scoprire che i ricconi di Augusta Treverorum si erano fatti costruire alcune delle ville più grandi e meglio arredate che avessi visto da quando avevo lasciato l'Italia. Questa era una città che avrebbe attirato l'attenzione di chiunque avesse imparato ad apprezzare l'esistenza romana nei suoi aspetti più civilizzati (ricchezza e ostentazione). Qualcuno, per esempio, come un batavo romanizzato di alto grado. Il tempio di Marte Lenus era dedicato sia al nostro dio che al suo equivalente celtico, Tiu. Quest'ultimo non era Marte il guerriero, bensì Marte il guaritore: un corollario implicito, poiché il dio dei soldati deve anche guarire le loro ferite se vuole rimandarli in prima linea il più in fretta possibile. Era raffigurato anche Marte dio della gioventù (giovane carne da lancia). Il tempio era il centro di un fiorente santuario per gli infermi. C'era una notevole quota di taverne trascurate e puzzolenti camere in affitto, oltre a baracche e baracchini dove venditori di ninnoli e oggetti inutili cercavano a loro volta e con determinazione di arricchirsi in fretta prima che la loro
clientela morisse nel vero senso della parola. C'erano i soliti deprimenti tirapiedi che vendevano modelli votivi di ogni parte anatomica, dagli organi sessuali (di entrambi i sessi) ai piedi (destro o sinistro) alle orecchie (indefinite), oltre all'intera avida categoria di speziali, ciarlatani medici e dentisti, dietisti, indovini e cambiavalute. Tutti questi personaggi si affollavano al santuario, nutrendosi in ugual misura di speranza e disperazione mentre incassavano le notevoli percentuali stabilite. Di quando in quando individuavo qualcuno che era realmente storpio o malato, ma costoro erano esortati a non farsi vedere troppo. I volti pallidi e tristi danneggiano il commercio. Come in tutti questi luoghi, doveva esserci un rapido ricambio di loschi imprenditori. Le persone potevano andare e venire senza molte spiegazioni. Chi preferiva a sua volta mantenere il riserbo non faceva molte domande, nel caso si presentasse un funzionario a informarsi sulle licenze. Un uomo che volesse nascondersi avrebbe potuto vivere fra quelle baracche più o meno alla luce del sole. Non vidi mai suo figlio, il ragazzo con le frecce. Poco male. Avevo intenzione di dargliele di santa ragione per non avere mirato meglio contro mia nipote. Trovai Giulio Civile con l'aria di un uomo senza un soldo, seduto su uno sgabello davanti a una stamberga fuori città, che affilava un bastone con difficoltà. Teneva un occhio aperto in caso di guai, ma aveva solo un occhio con cui stare in guardia. Le mie informatrici erano state efficienti: sapevo in quale viottolo polveroso viveva e avevo una descrizione personale. Feci il giro attraverso i campi del posto e mi avvicinai silenzioso dal lato in cui era cieco. «Il gioco è finito, Civile!» Lui si girò di colpo e mi vide lì in piedi. Mi tolsi la spada e la posai a terra fra di noi. Serviva a stabilire una tregua perché potessimo parlare. Doveva avere indovinato che avevo ancora il mio pugnale, e siccome Civile era stato comandante di cavalleria, non dubitavo affatto che anche lui avesse in giro qualche arma appuntita per togliere le pietre dagli zoccoli dei cavalli... o fare intagli nelle costole degli agenti imperiali. Per cogliermi in fallo avrebbe dovuto scattare per primo ed essere veloce, ma sembrava troppo abbacchiato per provarci. Era più vecchio di me. Più alto e molto più massiccio. Probabilmente perfino più depresso di me. Portava braghe di cuoio che arrivavano appena
sotto il ginocchio e un mantello guarnito di ciuffi di pelliccia consunta. Era sfregiato da molte cicatrici e si muoveva rigidamente, come un uomo caduto da cavallo una volta di troppo. L'occhio mancante doveva averglielo cavato qualcosa di simile a un dardo di balista, che aveva lasciato una profonda cicatrice deformata. L'occhio buono era decisamente intelligente. Aveva una barba che gli arrivava al fermaglio del mantello e lunghe ciocche di capelli ondulati; la barba e i capelli erano rossi. Non il rosso violento che mi ero aspettato, ma un colore più triste e sbiadito che pareva rispecchiare ciò che restava dell'esistenza del ribelle. Anche quella mostrava il grigio alle radici. Lasciò che mi presentassi. «È così dunque che ci si sente a incontrare una nota in calce alla storia!» «Meno di una nota in calce!» grugnì lui. Mi accorsi di provare simpatia per lui. «Che cosa vuoi?» «Sono solo di passaggio. Ho pensato di venire a farti visita. Non sorprenderti. Ti troverebbe anche un bambino qui. In effetti una bambina l'ha fatto, una bambina di soli otto anni, e non molto intelligente, anche se è stata aiutata da una ubia molto più sveglia. Preoccupato?» gli chiesi in modo cortese. «Tu sai che cosa significa. Se può trovarti un bambino, può farlo altrettanto un qualunque legionario pieno di rancore al quale hai ucciso il compagno a Vetera. O un qualunque batavo scontento, se tanto mi dà tanto.» Giulio Civile mi disse che cosa avrebbe voluto che facessi di me stesso. Un'arguzia elaborata ed espressa in modo sintetico. «Lo dici più o meno negli stessi termini della famosa Quattordicesima gemina. Anche loro pensano che io puzzi. Dev'essere l'influenza romana. Ti manca tutto questo?» «No» rispose, ma con un po' di invidia. «La Quattordicesima? Quegli spacconi!» Lui stesso aveva comandato un distaccamento di truppe ausiliarie in Germania prima di mirare alla gloria; doveva aver sentito parlare della loro legione d'origine dai suoi consanguinei delle otto famose coorti batave che avevano disertato. «Immagino che dobbiamo parlare. Vuoi la storia della mia vita?» Aveva l'impostazione giusta; quel colloquio sarebbe stato efficace. Era come se stessi trattando con uno dei nostri. Be', in effetti lo stavo facendo. «Mi dispiace.» Speravo potesse sentire che il mio rammarico era sincero. Non so quanto avrei dato per sentire l'intera storia proprio dalle labbra del ribelle. «Devo essere di ritorno a Moguntiacum per la parata in occasione del compleanno dell'imperatore. Non ho tempo di stare ad ascoltare le
ciance di vent'anni negli accampamenti romani, e poi di come tu abbia voluto per sola ricompensa i sospetti imperiali e la minaccia di essere giustiziato... Veniamo al dunque, Civile. Avevi il denaro. Ti godevi la vita. Eri grato di essere esentato dalle tasse e di ottenere i benefici di una rendita regolare e di una carriera pianificata. Se le cose fossero state diverse, avresti ricevuto il tuo foglio di congedo e ti saresti ritirato come un qualunque cittadino romano. Proprio quando Vespasiano è diventato imperatore avresti potuto bearti della sua amicizia e mantenere un grande prestigio locale. Hai gettato via tutto per un sogno che è diventato privo di senso. Adesso sei senza uno stato, e anche senza speranza.» «Queste sono solo sciocchezze! Hai finito?» Il suo unico occhio mi osservava con maggiore discernimento di quanto avrei voluto. «No, ma tu sì. Sei stato sorpassato dagli eventi, Civile. Io vedo qui un uomo prostrato. Hai sulle spalle una famiglia numerosa. Proprio come me. Ora che la tua resistenza contro il fato è a brandelli, posso immaginare quanto devono assillarti. Soffri di mal d'orecchi, di mal di schiena e di mal di cuore. Sei stufo marcio dei grattacapi e stanco della campagna...» «Lo rifarei.» «Oh, non ne dubito. Al tuo posto, lo rifarei anch'io. Hai visto un'occasione e l'hai sfruttata al massimo. Ma l'occasione è svanita. Anche Velleda lo ha ammesso.» «Velleda?» Parve sospettoso. Dissi con calma: «Agenti imperiali hanno appena avuto un colloquio con la donna nella sua torre di segnalazione. Per inciso, la mia opinione è che dovremmo farle pagare l'affitto per quella... Lei è d'accordo per la pace, Civile». Sapevamo tutti e due che il movimento di indipendenza batavo non era niente senza il sostegno della Germania Libera e della Gallia. La Gallia era da tempo una causa persa per la rivolta: di gran lunga troppo amanti dell'agiatezza. E ora anche la Germania aveva deciso di non partecipare più. «Addio libertà!» mormorò l'uomo con i capelli rossi. «Libertà di vivere come selvaggi, vuoi dire? Mi dispiace. Sembro un padre che rimproveri il figlio di voler stare fuori fino a tardi la notte con una compagnia disdicevole.» «Non puoi farne a meno» replicò con sarcasmo «Roma è una società paternalista.» Mi faceva uno strano effetto essere apostrofato in un latino ricercato e assai ironico da un uomo che dava l'impressione di aver passato un mese rannicchiato contro un cespuglio di ginestra spinosa nell'aperta
brughiera. «Non sempre» confessai. «Mio padre se ne è andato di casa e ha lasciato le donne a cavarsela da sole.» «Avresti dovuto essere un celta.» «Allora avrei combattuto con te.» «Grazie» disse lui. «Grazie per averlo detto, Falco. E così è di nuovo libertà sulla parola?» Si stava riferendo alle altre volte in cui altri imperatori l'avevano perdonato. Speravo che si rendesse conto che questo imperatore era lì per restare. «Che cosa dovrò fare?» «Tu e la tua famiglia vivrete ad Augusta Treverorum a un indirizzo stabilito. Ti sarà garantita la protezione in un primo tempo, anche se credo che finirai per inserirti presto nella comunità locale.» Sorrisi. «Non penso che Vespasiano voglia offrirti di nuovo il comando di una legione!» Era troppo vecchio perché la cosa gli importasse. «A parte questo, ecco qui qualcuno a cui ho chiesto apposta di venire a trovarci...» Una figura familiare si era avvicinata, del tutto incongrua fra le catapecchie fatiscenti dove si era nascosto Civile. Aveva un taglio di capelli di qualità strepitosa, e calzari di un inaccettabile color rosa gamberetto. Imperturbato dal proprio abbigliamento sensazionale, esaminò Civile con evidente commiserazione. «Falco! Il tuo amico ha un vistoso mucchio di fogliame che deturpa il suo frontone!» Sospirai. «Questo individuo esibisce un pessimo genere di retorica da quando ha conosciuto me... Giulio Civile, principe di Batavia, posso presentarti Xanto, già barbiere di imperatori, e senza dubbio il miglior barbiere del Palatino. Ha rasato Nerone, Galba, Otone, Vitellio e probabilmente Tito Cesare, anche se non rivela mai i nomi dei suoi clienti attuali. Ha qualcosa in comune con i celti, credo: colleziona teste di celebrità. Xanto» annunciai con garbo al capo ribelle dai capelli orrendi «ha fatto tutto il viaggio da Roma fino ad Augusta Treverorum per farti un taglio e una rasatura alla moda.» LXIV Riuscii a parlare con Elena Giustina durante la parata. Speravo che in un luogo pubblico l'educazione l'avrebbe obbligata a controllare la propria reazione rispetto a ciò che avevo in mente. Be', valeva la pena tentare. Mi aspettavo problemi in qualunque posto avessi affrontato quell'argomento
delicato. Lei non avrebbe mai gradito ciò che le dovevo dire, anche se cercavo di convincermi che avrebbe dovuto ammettere che avevo ragione. La Quattordicesima aveva fatto capire abbastanza chiaramente che quella, come qualsiasi altra cosa a Moguntiacum, sarebbe stata la loro esibizione. Era la solita faccenda noiosa. La mancanza di denaro e l'eccesso di cinismo significavano che non c'erano quasi mai spettacoli decenti, neppure a Roma. Qui eravamo in Europa, e il diciassettesimo giorno di novembre non era il periodo più adatto per organizzare festeggiamenti all'aperto. Avrebbero dovuto stabilire una regola per impedire a chiunque di diventare imperatore a meno che non dichiarasse che il suo compleanno era a metà estate. Si poteva fare eccezione solamente per qualcuno nato sull'Aventino trent'anni prima in marzo... Come mi ero aspettato, tanto la folla quanto lo sfarzo erano distribuiti in modo fin troppo rado, il clima era gelido, l'approvvigionamento di cibo terribile... sempre che se ne trovasse. Le formalità ebbero luogo sulla piazza d'armi che, a differenza di un anfiteatro decoroso, non aveva comode uscite. Le poche donne di estrazione romana che assistevano erano naturalmente soggette a severe convenzioni pubbliche. Tre di loro, insieme a un paio di ospiti, dovettero sedere su un palco avvolte in sete adorne di gemme mentre dodicimila maschi pelosi le fissavano apertamente. Una bella occupazione, se la cosa era di loro gradimento. Conoscevo una ragazza che non si stava divertendo affatto. L'evento era destinato a durare tutto il giorno. Io mi sentivo obbligato a presenziare solo fino alla consegna della Mano. Conclusa quella, intendevo fare il mio discorsetto a Elena - sempre che fossi riuscito ad arrivarle vicino - e poi svignarmela. Entrambe le legioni prendevano parte alla parata, e questo faceva sì che le cose procedessero con passo pesante. Le formazioni in marcia, anche se composte da uomini in uniforme di gala con cimieri sugli elmi, non hanno mai corrisposto alla mia idea di teatro stimolante. L'azione è strascicata, e il dialogo è terribile. In questo caso il promotore non era nemmeno riuscito a procurarsi tutti i musicisti: tutto ciò che avevamo erano ottoni e argenti militari. Vedere ogni cosa due volte di seguito in modo che entrambe le serie di milizie potessero affermare la loro lealtà all'imperatore accresceva la noia fino a renderla una tortura. Mi sentivo già abbastanza afflitto. Incominciò a piovere. Era quello che aspettavo. Le signore sul palco strillarono allarmate nel timore che i loro abiti si restringessero o il belletto sul viso colasse. Il
gruppo di schiavi che avrebbe dovuto sollevare un baldacchino sulle loro teste stava combinando un eccellente pasticcio. Vedevo che Elena stava perdendo la pazienza, come le capitava sempre quando altre persone si rivelavano disorganizzate e lei non era in condizioni di interferire. Sapendo che mi avrebbe scusato se avessi salvato la situazione, balzai sul palco, afferrai uno dei pali di sostegno e aiutai gli schiavi a sollevare il baldacchino. Le donne che stavamo proteggendo erano la moglie del legato della Quattordicesima, Menia Priscilla, una donna più anziana e assennata che doveva essere la chioccia della Prima adiutrix, Elena Giustina, un'altra ospite che era stata una compagna di scuola della chioccia e Giulia Fortunata. Presumo che l'avessero invitata perché il suo rango era troppo elevato per ignorarla e la sua posizione nella vita del defunto legato troppo spregevole per ammetterla. In ogni caso, Menia Priscilla, con un attraente abito bianco da lutto, approfittava al massimo del suo ruolo, mentre Giulia coglieva ogni opportunità di vezzeggiarla e consolarla. Non ci sarebbe stata nessuna pubblica dichiarazione sul comportamento tutt'altro che esemplare dell'ex legato, ma entrambe le sue donne ne erano state informate. Per questo, nessuna delle due si sentiva in dovere di piangerlo troppo sinceramente. Ero lieto di vedere che la vedovanza, o il suo equivalente, portava alla luce il meglio di entrambe. Il loro coraggio era splendido da osservare. Smise di piovere. Le signore si rilassarono. Chiudemmo il riparo temporaneo, poi mi accovacciai a fianco di Elena, pronto a balzare sull'attenti di servizio al tendone se la calamità avesse colpito di nuovo. Mi parve che sua signoria mi lanciasse un'occhiata curiosa. Fuori sul campo si stava arrivando al culmine dell'elaborato cerimoniale. Comparvero coorti di cavalleria ausiliaria per mettere in scena una finta battaglia. Ora la Prima adiutrix poteva prendersi una rivincita, poiché la Quattordicesima non aveva ancora rimpiazzato i propri batavi perduti, e questo offriva finalmente alla Prima la possibilità di fare dell'ironia nel mettere in campo i suoi ausiliari. Che erano spagnoli, credo. I loro piccoli cavalli robusti erano ben assortiti e agghindati con tutte le insegne da parata, con dischetti scintillanti sui finimenti di cuoio, paraocchi dorati ed enormi dischi sul petto. I cavalieri portavano uniformi color indaco che facevano contrasto con le gualdrappe di uno scarlatto acceso. Si muovevano maestosamente in incessanti cerchi e volute, agitando lance guarnite di piume e brandendo scudi rotondi decorati con borchie appuntite che formavano disegni esotici estranei a Roma. L'aria di mistero era intensificata
dai solenni elmi da parata, che coprivano le facce come maschere teatrali serenamente inespressive. Per mezz'ora quel nobile corpo equestre cavalcò per la ventosa piazza d'armi come un gruppo di dèi altezzosi, poi tutta un tratto si lanciò fuori dalle grandi porte verso la via Principalis, lasciando desolati e sbigottiti tutti gli spettatori. Sul podio vennero distribuite bevande calde. Era ora. Mi chiedevo abbastanza miserevolmente se avrei dovuto parlare con Elena in quel momento. Lei si stava gustando la sua bevanda, così decisi di posticipare. «C'è Giulio Mordantico!» mi gridò Elena, con un cenno della mano in direzione della folla di locali. Dal gruppo assiepato di cappucci a punta uno alzò un braccio per ricambiare il saluto. Lui e i suoi amici erano felici. Avevo avuto un colloquio con il governatore provinciale a proposito della frode nella concessione per la fornitura delle ceramiche e in seguito ero stato in grado di portare buone notizie ai vasai locali. «Mi sono dimenticata di dirti» mi spiegò Elena con aria colpevole «che mentre tu eri ad Augusta Treverorum, ci ha portato in dono un magnifico servizio di terrine da tavola. Che peccato» scherzò la mia insensibile innamorata «che non abbiamo una sala da pranzo in cui usarle!» Non l'avremmo mai avuta ormai. Distolsi lo sguardo. La pausa per le formalità si prolungava mentre le persone tenevano strette le bevande bollenti nel tentativo di riscaldarsi le mani. Elena continuava a chiacchierare. «È vero che quando Xanto ha tagliato la barba e i capelli al ribelle, tu te li sei portati via in una piccola borsa per far colpo sull'imperatore?» «È vero.» «Come hai fatto a convincere Xanto a collaborare?» Ultimamente Xanto avrebbe fatto qualsiasi cosa per me. Gli avevo regalato un corno di uro autentico. Se avesse voluto servirsene come coppa per bere, ci sarebbe annegato, tanto era grosso. Gli avevo raccomandato di tenerlo da conto, perché a parte quello che possedevo io stesso, non ce ne sarebbero stati altri. «Mi sembra una scelta singolare per sorvegliare un ribelle» mi disse Elena per punzecchiarmi. «Xanto sta cercando di sistemarsi e far fortuna in una città dove il nome di Nerone potrà dargli grande prestigio, e in cui potrà sollevarsi dalla sua passata esistenza di schiavo. Augusta Treverorum è perfetta: elegante, ma non troppo altezzosa. Raderà il fior fiore della società belgica nel suo por-
ticato, mentre le donne povere faranno la coda all'entrata di servizio per farsi tagliare le trecce dorate con cui fabbricare costose parrucche per le gentildonne dell'alta società di Roma.» «Non credo di approvare la cosa.» «Potrebbero vendere cose peggiori, amore. In ogni caso, scommetto che il nostro amico con i lacci dei calzari color pulce finirà con il diventare un cittadino facoltoso, che donerà templi e colonne civiche alla pari dei migliori.» «E Civile?» «Xanto gli ha fatto una tintura color ebano per impedire che venga riconosciuto. Sarà al riparo dagli assassini e sicuro per noi. Il barbiere andrà a casa sua a raderlo ogni giorno. Se Civile scappa, la sua scomparsa sarà notata subito.» Era una perfetta libertà vigilata. E lo sventurato capo non avrebbe più avuto la possibilità di fare l'arruffapopoli, ora che sarebbe stato tenuto sotto le salviette calde ad ascoltare pettegolezzi per gran parte della giornata. Elena sorrise. Amavo il suo sorriso. «Marco, sei stupendo!» Il dileggio era abbastanza delicato. Fuori, sulla piazza d'armi, il governatore provinciale, con il capo coperto, si stava preparando a ricavare un'altra serie di auspici. Era assistito, per conto della Quattordicesima, dal tribuno anziano Macrino, che faceva le veci del legato morto. Vidi che Menia Priscilla si emozionava. Ormai non aveva alcuna possibilità. L'ambizione aveva soppiantato ogni altra cosa. Avendo quell'opportunità di mettersi in mostra come sostituto, Macrino era troppo impegnato a perseguire la sua carriera pubblica. Io non avevo bisogno di scrutare il nauseante fegato di una pecora per sapere che i presagi erano cattivi per me. «Che cosa c'è?» mi chiese Elena con calma. «C'è qualcosa che devo dirti.» «Bene allora, è meglio che ti decida.» I vessilliferi stavano portando le loro aste nell'arena centrale. Uomini giganteschi con indosso pelli di orso e di lupo, con la testa dell'animale appoggiata sull'elmo e le zampe incrociate sul petto. Avanzarono con il loro passo cupo fino a disporsi intorno al governatore, poi conficcarono nel terreno le robuste punte delle aste portanti. Le punte tennero: gli dèi erano favorevoli. Ecco lì dunque le insegne della Quattordicesima gemina martia victrix. L'aquila dorata con il numero della legione. I contrassegni individuali di ogni coorte di fanti e gli stendardi quadrati guarniti di frange usati
dalla cavalleria. Il ritratto dell'imperatore in posizione di riguardo. Onorificenze di battaglie di mezzo secolo. La statua di Marte. E adesso, presentata alla legione davanti alla compagnia riunita, con il palmo in fuori come simbolo di potere o di amicizia, la Mano imponente. Ancora inginocchiato accanto a Elena, fissavo intensamente la cerimonia. «Ho portato a termine la mia missione. È ora che io me ne vada. Ci ho pensato molto. Alcune donne possono fare più bene per il mondo di molti uomini.» Il suo dito mi solleticava il collo; fra un istante si sarebbe resa conto che era inopportuno e avrebbe smesso. Mi costrinsi a parlare: «Elena, per il bene di Roma dovresti sposare Tito. Quando rispondi alla sua lettera...». Uno squillo di trombe mi interruppe. Splendido. Il grande gesto della mia vita rovinato da una strombazzata fuori luogo. Il vessillifero con la Mano ricevette l'approvazione del governatore, poi incominciò a camminare per l'intera legione per mostrare il dono di Vespasiano. Si avvicinò alle coorti. Davanti a ciascuna, la persona con il segnale distintivo eseguiva una breve procedura di riconoscimento prima che lui proseguisse verso la successiva. Durante tutta la sua lenta marcia, tutte le trombe della legione suonarono ininterrottamente. La mano di Elena indugiava, assolutamente immobile, sul mio collo. Perdere il suo dolce tocco confortante sarebbe stato insopportabile. Ma ero determinato. Ci sarei riuscito. Mi sarei costretto. Se Elena Giustina sceglieva di fare il suo dovere per Roma, l'avrei rimandata a casa da sola, mentre io avrei scelto l'esilio permanente, errando per i margini più selvaggi dell'impero, o perfino oltre, come un fantasma miserabile... Proprio mentre stavo per balzare giù dal palco e andarmene come un eroe, Elena si chinò su di me. I suoi capelli mi sfiorarono la guancia. Il suo profumo mi avvolse in una nube di cannella. Le sue labbra si mossero dolcemente proprio contro il mio orecchio: «Puoi dismettere quell'aria patetica. Gli ho scritto il giorno in cui hai lasciato Colonia». Elena si ricompose. Io rimasi accovacciato dov'ero. Osservammo il vessillifero che procedeva con passo deciso intorno ad altre due coorti di fanteria, dopodiché le trombe tacquero. Alzai lo sguardo. Elena Giustina mi batté leggermente sul naso con la nocca, quella che portava l'anello d'argento che le avevo regalato una volta. Non mi guardò. Fissava la piazza d'armi con un'espressione di raffinato interesse come qualunque altra signora di nobili natali che si stia chieden-
do quando potrà andarsene a casa. Nessuno a parte me era in grado di capire quanto fosse ostinata, e quanto fosse bella. La mia ragazza. Il vessillifero principale della Quattordicesima gemina offrì al tribuno anziano la Mano di ferro dell'imperatore. Era un oggetto notevole, alto due piedi, e l'uomo con la pelle d'orso doveva avere il fiatone a causa del peso. Un armiere aveva provveduto a dorare di nuovo le scheggiature nella decorazione, ma io sapevo comunque che aveva il pollice ammaccato nel punto in cui aveva sbattuto con violenza contro il telaio di un letto in un qualche misero dormitorio per viandanti durante il mio viaggio attraverso la Gallia. «Hai intenzione di restare con me, Elena?» osai chiedere in tono umile. «Non ho scelta» rispose lei (dopo una breve pausa di riflessione). «Posseggo metà del tuo servizio da tavola di Samo, a cui non ho alcuna intenzione di rinunciare. Piantala di dire sciocchezze, Marco, e goditi la parata.» FINE