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MIKE ASHLEY STORIA DEI MAGAZINE DI FANTASCIENZA PARTE PRIMA L'ERA DI GERNSBACK (1926-1935) (The History Of The Science Fiction Magazine Part 1 1926-1935, 1974) INDICE Introduzione MICHAEL ASHLEY: Un sorprendente esperimento 1926 (Amazing Stories): G. PEYTON WERTENBAKER: E vennero i ghiacci 1927 (Amazing Stories): FRANCIS FLAGG: L'Uomo-Macchina di Ardathia 1928 (Amazing Stories Quarterly): R. F. STARZL: Venuti dal sub-universo 1929 (Science Wonder Stories): D. D. SHARP: L'uomo eterno 1930 (Astounding Stories of Super-Science): CHARLES WILLARD DIFFIN: Il potere e la gloria 1931 (Amazing Stories): LLOYD ARTHUR ESHBACH: Un messaggio dall'etere 1932 ( Wonder Stories Quarterly): CLIFFORD D. SIMAK: La voce nel vuoto 1933 (Wonder Stories): EDMOND HAMILTON: L'uomo dagli occhi a raggi X 1934 (Wonder Stories): PHILIP BARSHOFSKY: Una notte preistorica 1935 (Astounding Stories): RAYMOND Z. GALLUN: Relitto APPENDICE Bibliografie 1926-1935 Elenco delle riviste 1926-1935 Elenco dei curatori 1926-1935 Guida ai disegnatori 1926-1935
FRANK R. PAUL (Wonder Stories, settembre 1931) Copyrights THE HISTORY OF THE SCIENCE FICTION MAGAZINE, PART ONE, 1926-1935. (Introduction and Appendices), copyright © 1974 Michael Ashley; used by permission of the author and author's agent, Cosmos Literary Agency. THE COMING OF THE ICE by G. Peyton Wertenbaker, copyright 1926 by Experimenter Publishing Co., Inc., for Amazing Stories, June 1926. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the estate. THE MACHINE MAN OF ARDATHIA by Francis Flagg, copyright
1927 by Experimenter Publishing Co., Inc., for Amazing Stories, November 1927. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the estate. OUT OF THE SUB-UNIVERSE by R. F. Starzl, copyright 1928 by Experimenter Publishing Co., Inc., for Amazing Stories Quarterly, Summer 1928. Reprinted by arrangement with the copyright owners. THE ETERNAL MAN by D. D. Sharp, copyright 1929 by Gernsback Publications, Inc., for Science Wonder Stories, August 1929. Reprinted by arrangement with copyright owners. THE POWER AND THE GLORY by Charles Willard Diffin, copyright 1930 by the Publishers' Fiscal Corp., for Astounding Stories of Super Science, July 1930. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the estate. THE VOICE FROM THE ETHER by Lloyd Arhur Eshbach, copyright 1931 by Teck Publications, for Amazing Stories, May 1931. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the author. THE VOICE IN THE VOID by Clifford D. Simak, copyright 1932 by Gernsback Publications, Inc., for Wonder Stories Quarterly, Spring 1932. Reprinted by permission of Robert P. Mills for the author. THE MAN WITH X-RAY EYES by Edmond Hamilton, copyright 1933 by Gernsback Publications, Inc., for Wonder Stories, November 1933. Reprinted by permission of Scott Meredith for the author. ONE PREHISTORIC NIGHT by Philip Barshofsky, copyright 1934 by Continental Publications, Inc., for Wonder Stories, November 1934. Reprinted by arrangement with the copyright owners. DERELICT by Raymond Z. Gallun, copyright 1935 by Street and Smith Publication, Inc., for Astounding Stories, October 1935. Reprinted by permission of the author. Introduzione
Chi è il vostro scrittore di fantascienza preferito? Robert Heinlein? Arthur Clarke? John Wyndham? Isaac Asimov? Frank Herbert, Clifford Simak, Michael Moorcock...? Nominate uno qualunque dei principali autori d'oggi, e con ogni probabilità avrà fatto il suo debutto su una rivista specializzata. Pochissimi scrittori, in questo campo, hanno «sfondato» unicamente grazie ai libri. Certo, molti sono ascesi alla fama per i loro libri, ma con ogni verosimiglianza, quegli stessi volumi erano stati pubblicati in origine su una rivista di science fiction. Eppure, quali meriti sono stati riconosciuti alle riviste? Di regola vengono derise, disprezzate e calunniate. Oggi, quando ormai è quasi troppo tardi, a poco a poco si accordano alla fantascienza i riconoscimenti che merita, e finalmente la si considera una letteratura per adulti: malgrado ciò, persino nel suo campo la rivista specializzata viene ancora giudicata una lettura per giovanissimi. Per quale ragione? Per le sue copertine sgargianti? Per le chiassose presentazioni? In verità, la science fiction ha denigrato se stessa. Molti editori si sono presto resi conto del potenziale ascendente di queste caratteristiche sul pubblico giovanile, e di conseguenza hanno cercato di sottolinearle per attirarlo. Come risultato, tutta la fantascienza ne ha risentito. Se questa è la colpa delle riviste, tuttavia è stato il trattamento inflitto alla science fiction dall'industria cinematografica a dare all'intero genere una cattiva fama nel mondo della letteratura. È venuto il momento di fare ammenda. Per troppo tempo la fantascienza è stata «quella roba alla Buck Rogers», e le pubblicazioni per adulti sono state equiparate ai fumetti per ragazzi. La rivista specializzata è invece il fondamento della science fiction. Senza di essa, molti dei maggiori autori d'oggi sarebbero probabilmente sconosciuti tecnici di laboratorio o normali scrittori del mainstream. Nell'aprile del 1976 le riviste fantascientifiche hanno compiuto cinquant'anni, ed il modo migliore per commemorare l'evento è senza dubbio una storia rappresentativa del cinquantennio. Il libro che avete in mano costituisce una parte della panoramica di questi dieci sorprendenti lustri. Per fortuna degli storici specializzati, l'evoluzione delle riviste di science fiction s'inquadra in alcuni ben distinti periodici. Nell'aprile 1926 Hugo Gernsback pubblicò la prima rivista interamente fantascientifica, Amazing Stories. Nel marzo 1936, apparve l'ultimo numero di Wonder Stories, dello stesso Gernsback, con il quale egli abbandonava l'editoria fantascientifica
(per qualche tempo). Perciò quei dieci anni vengono chiamati «l'èra di Gernsback»; ed è appunto l'èra di cui si occupa la Parte Prima di questo volume. Ho cercato di dare un'idea chiara della nascita e dell'infanzia delle riviste nel saggio delle pagine seguenti, e poi ho scelto un racconto per ognuno dei dieci anni, dal 1926 al 1935. in modo che rappresenti adeguatamente quell'annata. Perciò, forse non troverete necessariamente i grandi nomi, ma incontrerete autori fantascientifici il cui ricordo è stato cancellato dal tempo, e che tuttavia furono molto importanti per lo sviluppo del genere: autori come Charles Willard Diffin, Francis Flagg e Drury D. Sharp. Troverete anche opere narrative degli esordi di autori oggi famosi, come Clifford Simak ed Edmond Hamilton. Troverete soprattutto uomini immortali, mondi submicroscopici, avventure sui pianeti, civiltà remotissime e vicende nella preistoria. Sono racconti dei tempi in cui scrivere fantascienza era già un'avventura, quando gli autori facevano a gara nel fornire idee e temi originali. Quello fu anche il periodo della grande rivista pulp. La rivista d'avventure pulp è sinonimo dell'inizio del XX secolo. Fascicoli grossi e voluminosi (di solito cm 17,5x25) con orli mal tagliati, confezionati con carta di «polpa di legno», la più a buon mercato allora esistente, e carichi di piccoli annunci pubblicitari. Ma dentro c'era tutto ciò che costituiva l'essenza della rivista pulp: gialli, avventure, storie di guerra, storie di mare. La fantascienza arrivò piuttosto tardi, ma arrivò come una bomba. Sarebbe venuto il tempo in cui ogni editore di pulp avrebbe avuto almeno una testata del genere nella sua catena, spesso di più. Oggi la rivista fantascientifica è una rarità. Mentre scrivo, la Gran Bretagna ne ha al suo attivo una sola. Gli Stati Uniti, dove è nata la specie, ne hanno soltanto sette. I suoi giorni migliori sono passati, ed il sole sta tramontando. Amazing Stories si sta ancora battendo contro la sorte avversa. È arrivata fortunosamente ai cinquant'anni, ed in ogni caso merita che si faccia una sorta di omaggio alla memoria di tutto ciò che rappresenta. Ritorniamo così all'alba delle riviste fantascientifiche, e vedrete voi stessi i prodigi dell'«èra di Gernsback». Desidero esprimere la mia gratitudine per la preziosa assistenza datami da Philip Harbottle e Walter Gillings nella preparazione di questa antologia; e ringrazio anche Dot Houghton della New English Library, che mi ha dato la possibilità di rendere un tributo a quella reietta della letteratura che è la rivista di fantascienza.
MICHAEL ASHLEY Febbraio 1974 Michael Ashley Un sorprendente esperimento 1. Preistoria Quando Amazing Stories apparve nelle edicole americane nell'aprile 1926, non costituì un fulmine a ciel sereno. I lettori di fantascienza furono certo felici: ma non dovettero sentirsi troppo sorpresi. Una rivista interamente dedicata alla science fiction era un logico passo avanti nel progresso della fantascienza come genere. Lo stesso Gernsback ebbe a dire: «... il concetto di Amazing Stories non era un'impresa avventata. Le basi erano ormai in preparazione da quindici anni!» (1). Quindici anni ci riportano al 1911, ma dobbiamo risalire ancora più indietro nel tempo. Come vedremo in seguito, il 1911 fu l'anno in cui Gernsback incominciò a pubblicare fantascienza. Certo, allora non veniva chiamata science fiction. Gernsback non avrebbe coniato quel termine se non dopo vent'anni. Allora, il suo termine era scientifiction, ma quello più comune era scientific romance. Comunque, nelle pagine seguenti, la chiamerò soltanto science fiction. La nostra storia può risalire al massimo all'inizio delle pubblicazioni periodiche. Il primo periodico apparve a Parigi nel gennaio 1665, ed era intitolato Journal Des Savans. Aveva lo scopo di raccogliere articoli di scienziati ed eruditi europei. Era diretto da Denis de Sallo (1626-1669), fondatore della critica periodica moderna. Sopravvisse per tredici numeri, prima che la censura francese ne causasse la soppressione. Tuttavia, l'anno successivo rinacque, e visse molto a lungo. La nascita della prima rivista generica si ebbe in Gran Bretagna nel 1731 con il Gentleman's Magazine, fondato da Edward Cave (1691-1754), e fu grazie alla popolarità di questo periodico che la parola magazine passò nella lingua inglese per indicare la rivista. Poco dopo vennero il London Magazine (1732), lo Scots Magazine (1739) ed il Royal Magazine (1759). Tutte queste pubblicazioni avevano in comune una caratteristica: erano riviste di commento e di critica. Solo quando il libraio scozzese William Blackwood (1776-1834) fondò il Blackwood's Magazine nel 1817 la narra-
tiva cominciò a venir pubblicata regolarmente in un periodico. La rivista conteneva anche poesie, e arrivò persino a pubblicare romanzi a puntate: la sua collaboratrice più famosa fu Marian Evans (1819-1880), meglio nota come George Eliot, la cui prima opera, The Sad Fortunes of the Rev. Amos Barton, venne pubblicata dal Blackwood's nel 1857. La metà dell'Ottocento segnò il boom della pubblicazione delle riviste. Molti autori crearono i propri periodici, come Charles Dickens con Household Words, e William Thackeray con Cornhill. Quest'ultimo, anzi, fu il primo a raggiungere la magnifica tiratura di 100.000 copie. Nel gennaio 1965 c'erano ben 544 riviste pubblicate regolarmente in Gran Bretagna e in Irlanda. Ovviamente, un pubblico sempre più numeroso affluiva verso le riviste. All'inizio, i periodici costituivano un campo ristretto. Erano autori che scrivevano per gli autori, politici che scrivevano per i politici. Ma la grande riforma nel settore dell'istruzione, che ebbe inizio nel 1815 con la creazione delle scuole per bambini, e raggiunse il culmine nel 1870 con l'Education Act, fece sì che la gente capace di leggere diventasse sempre di più. L'espansione delle ferrovie, inoltre, significava che un numero maggiore di persone trascorreva più tempo sui treni, e la lettura divenne un passatempo molto popolare. Nel 1849 William Henry Smith (1825-1891) si assicurò l'esclusiva della vendita di libri e giornali nelle stazioni ferroviarie. Ovviamente, il settore delle riviste dovette espandersi, per accontentare la più ampia varietà di lettori. Dobbiamo tuttavia riconoscere al Blackwood's Magazine il merito di essere stato il primo a pubblicare fantascienza, sotto forma di racconti di guerre future. Tutto cominciò con il racconto The Battle of Dorking, pubblicato anonimo nel numero del maggio 1871. L'autore era George Tomkyns Chesney (1830-1895), che in seguito divenne deputato conservatore di Oxford. La vicenda narrava l'invasione della Gran Bretagna da parte delle truppe prussiane, e la vittoria dell'esercito inglese a Dorking. Pubblicato un mese dopo il successo prussiano nella guerra contro la Francia, il racconto suscitò molta sensazione tra i lettori del Blackwood's. Apparvero innumerevoli imitazioni, e non si può negare che The Battle of Dorking contribuì notevolmente all'introduzione d'un certo tipo di science fiction nelle riviste. Una fase decisiva si ebbe nel 1881. In quell'anno George Newnes (18511910) fondò Tid-Bits, un pout-pourri di storie «d'interesse umano». E nel gennaio 1891 nacque The Strand Magazine, la prima rivista del genere po-
sta in vendita per soli sei pence. (Per esempio, il Cornhill's costava il doppio già trent'anni prima).
Il numero di Natale 1897 di The Strand Magazine, ed il primo fascicolo (gennaio 1896) del Pearson's Magazine. Lo Strand dava la preferenza a racconti di facile lettura, e ad un miscuglio di articoli su tutti gli aspetti dell'esistenza. Lo Strand acquisì un'immediata popolarità, senza dubbio dovuta al fatto che pubblicava le avventure di Sherlock Holmes, scritte da Conan Doyle. Le imitazioni dilagarono sul mercato: il Pearson's Magazine, il Ludgate Monthly, il Pall Mall Magazine e The Idler erano i principali. In seguito, queste riviste avrebbero pubblicato autori famosi come H. G. Wells, George Griffith ed Arthur Conan Doyle. Per esempio, The War of the Worlds di Wells apparve a puntate nel Pearson's Magazine dal numero dell'aprile 1897. George Griffith si incontra nel Pearson's Weekly con Valdar the OftBorn, che ebbe inizio con il numero del 2 febbraio 1895. In effetti, dal 1890 in poi, le riviste popolari della Gran Bretagna furono mercati regolari per la science fiction, così come veniva divulgata da questi autori. E soprattutto, con i miglioramenti della tecnica tipografica, si ebbero periodici meglio rifiniti e stampati con maggiore rapidità. Ma la Gran Bretagna era già rimasta indietro, rispetto alla sua cugina transatlantica. In America, le riviste popolari erano comparse sulla scena poco prima delle idee di George Newnes, ma la science fiction faceva già parte regolarmente delle riviste letterarie pubblicate fin dai tempi di Edgar Allan Poe. La Gran Bretagna diventò un mercato importante per la fantascienza solo trent'anni dopo gli Stati Uniti.
Edgar Allan Poe (1809-1849) vinse un premio di cinquanta dollari con il suo racconto fantascientifico MS. Found in a Bottle. Il concorso era stato lanciato da The Baltimore Saturday Visitor, ed il racconto apparve sul numero del 19 ottobre 1833. Poco dopo, Poe prese a collaborare con il Southern Literary Messenger, pubblicato a Richmond, in, Virginia. Il numero del marzo 1835 conteneva Berenice; pochi mesi dopo, Poe era diventato il vicedirettore della rivista, che fra l'altro pubblicò anche la sua avventura lunare Hans Pfaall. Poe lasciò la testata nel 1837, e nel 1839 cominciò a collaborare con il Burton's Gentleman's Magazine, mentre dal 1842-43 diresse il Graham's Magazine. Si trattava di riviste importanti, e senza dubbio l'influenza di Poe sui lettori americani fu significativa. La sua prosa apparve su molti periodici, compreso il Godey's Lady's Book, che era stato fondato nel 1830 ed era famoso per le incisioni di moda a colori. Poiché gran parte della narrativa di Poe era fantastica, senza dubbio contribuì a far includere la fantasy anche in altri periodici. Di conseguenza, il successore di Poe nel campo del «bizzarro», FitzJames O'Brien (1828-1862), trovò un mercato già disponibile per la propria narrativa. La sua storia fantascientifica più famosa, The Diamond Lens, apparve sull'Atlantic Monthly nel numero del gennaio 1858. La stessa rivista pubblicò The Wondersmith (ottobre 1859), ma uno dei principali mercati per opere del genere, come What Was It?, era lo Harper's New Monthly Magazine, apparso per la prima volta nel 1850. Molti racconti di O' Brien uscirono su questa rivista, che continuò a pubblicare regolarmente testi fantascientifici dei grandi nomi della letteratura, inclusi Mark Twain ed Edward Bellamy. Non passò molto tempo prima che apparisse l'Overland Monthly (1868), e poi lo Scribner's Monthly (1870). Queste quattro riviste furono tra i principali periodici americani, sia per l'elevata qualità del contenuto, sia per la consistenza del pubblico. Ma c'era una forza di cui bisognava tenere conto, ed era il pubblico dei giovani. Lo Harper's e lo Scribner's si rivolgevano alle classi medio-alte d'America. Intorno al 1860, Irwin Beadle aveva dato inizio all'American Novels, una pubblicazione economica regolare che veniva venduta a dieci centesimi, cioè per un dime. Nacque così il termine dime-novels, per indicare i romanzi a buon prezzo: la Gran Bretagna ebbe il suo equivalente nei penny-dreadfuls dell'epoca vittoriana, letteralmente «gli spaventosi da un penny». Il dime-novel ebbe un boom nel decennio 1870-80; l'editore principale era Frank Tousey, il maggior autore fantascientifico era Luis Senarens (1865-1939). Tousey pubblicava una collana per ragazzi, intitolata
Boys of New York, che nel numero del 28 febbraio 1876, cominciò a pubblicare a puntate Frank Reade and His Steam Man of the Prairies di Harry Enton. Uscirono parecchie altre avventure di Frank Reade, e quando Enton si stancò dell'idea, gli subentrò Senarens, con Frank Reade jr., and His Steam Wonder. Senarens aveva soltanto quattordici anni, a quel tempo, sebbene Tousey non lo sapesse. Del resto, erano pochi i lettori che conoscevano l'esistenza di Senarens, poiché i racconti apparivano con la firma «Noname», in pratica «Senza Nome». Ma i ragazzi di New York impazzirono per le avventure di Frank Reade jr., che Senarens sfornava con straordinaria rapidità. In seguito, Tousey fondò un'altra collana di dime-novels, Young Men of America, per la quale Senarens scrisse una serie di vicende che avevano per protagonista un ragazzo inventore, Jack Wright.
Una delle tante avventure di Frank Reade, jr. Come si può ben capire, il tema ricorrente di queste avventure era sempre un'invenzione nuova, e perciò venivano chiamate invention stories. Erano così popolari che molte case editrici ne pubblicarono imitazioni: fra le più notevoli va ricordato Good News, degli editori Street & Smith. La Street & Smith era stata fondata nel 1855, ed era una formidabile rivale di Tousey in questo campo. La rivalità, senza dubbio, spronò Tousey a giocare d'azzardo, e pur avendo le avventure di Frank Reade jr. che garantivano ottime tirature, egli compì un passo storico. Il passo storico fu rappresentato da una pubblicazione settimanale interamente dedicata alle invention stories. Intitolata Frank Reade Library, uscì per la prima volta il 24 settembre 1892. Benché, a stretto rigore, si trattasse di una collana di libri in brossura, non si può negare che fosse la prima pubblicazione regolare di fantascienza in formato rivista. I numeri di
solito comprendevano 32 pagine in mezzo ottavo (circa cm 20 x 13). La collana era scritta quasi esclusivamente da Luis Senarens, e includeva anche le ristampe di tutte le precedenti avventure di Frank Reade. Rimase settimanale fino al 5 febbraio 1897, quando diventò bimensile. La sua ultima edizione apparve dopo 192 numeri, nell'agosto 1898, quando Tousey ritenne opportuno di sospenderla. La collana era ancora molto popolare, e a causarne il declino fu solo l'ostilità di molti americani, i quali sostenevano che i dime-novels rovinavano l'istruzione dei loro figli. Nel 1902, tuttavia, Sinclair Tousey, realizzando i desideri di suo padre, pubblicò il Frank Reade Weekly Magazine. Era formato interamente di ristampe ed il suo primo numero recava la data del 31 ottobre: erano passate poche settimane dalla morte di Frank Tousey. Il Frank Reade Weekly continuò fino al 26 agosto 1904, e perciò le invention stories di Luis Senarens hanno il vanto non solo di aver dato origine al primo periodico fantascientifico, ma anche alla prima pubblicazione regolare di ristampe di fantascienza! Ma ormai, il dime-novel era in declino. Prima però che apparisse la Frank Reade Library nel 1892, deve essere presa in considerazione un'altra rivista per ragazzi, di un decennio prima, The Golden Argosy. Frank Andrew Munsey era nato a Mercer, nel Maine, il 21 agosto 1854. Nel 1882 si era trasferito a New York, dove, all'età di ventotto anni, cominciò a pubblicare un settimanale per bambini, The Golden Argosy, il cui primo numero uscì il 9 dicembre 1882. Con il passare degli anni, l'interesse di Munsey per il pubblico dei ragazzi tramontò, sebbene la rivista continuasse a rendere molto bene. Perciò cambiò la testata in The Argosy (1° dicembre 1888) e cominciò ad ampliare il campo fondando nel febbraio 1889 il Munsey's Magazine. The Argosy cominciò a rivolgersi a un pubblico di adulti, e diventò la prima rivista pulp di avventure per i grandi. Aveva il tipico formato delle riviste pulp (cm 17 x 25, o superottavo). La science fiction entrò a far parte regolarmente del suo contenuto; all'inizio vi furono le ristampe di romanzi come The Conquest of the Moon di André Laurie (pseudonimo di Paschal Grousset, grande amico di Jules Verne), che uscì a puntate a partire dal numero del 16 novembre 1889. Argosy divenne mensile nell'aprile 1894, e tale sarebbe rimasto fino al settembre 1917. Nel gennaio 1905 apparve una rivista gemella, All-Story. Munsey avrebbe pubblicato anche, fra le sue testate, All-American Fiction, Scrap Book, Live Wire e Cavalier. Queste furono, in particolare, le grandi riserve della fantascienza nel mercato dei periodici americani dal 1894 al 1926.
Il capitano Mors, «pirata dell'aria», sotto una pioggia di meteore. Le riviste di Munsey erano le formidabili rivali degli altri editori di pulp, in particolare della Street & Smith. Quest'ultima lanciò nel 1904 la sua testata pulp di avventure, Popular Magazine, che però non viene ricordata con lo stesso affetto nostalgico delle testate di Munsey. Soltanto riviste come The Black Cat di Herman Umbstaetter, che ebbe inizio nell'ottobre 1895 e visse fino all'ottobre 1920 (in seguito divenne The Thriller), e The Clack Book, che uscì per soli dodici numeri nel 1896-97, suscitano la stessa nostalgia negli appassionati del bel tempo antico. Mentre Argosy raggiunse il suo culmine nel 1907, ed in generale le riviste d'avventura ebbero la massima fioritura prima della Grande Guerra, l'importanza di Argosy nella fantascienza non ebbe inizio fino al 1912, l'anno successivo a quello in cui entrò in scena Gernsback. A questo punto è opportuno un breve accenno alla fantascienza al di fuori dell'America e della Gran Bretagna, soprattutto perché dobbiamo ricordare che le prime riviste fantascientifiche pubblicate al mondo non furono in lingua inglese. La prima in senso assoluto apparve nella Russia zarista, nel 1903, ed era intitolata Mirpriklusheniya (cioè Mondo d'avventure). Secondo Willy Ley «... i primi numeri consistevano soprattutto di traduzioni di opere di Jules Verne, ma c'erano anche diversi autori russi, tra cui una scrittrice specializzata in vicende romanzesche interplanetarie» (2). A quanto pare, la rivista sopravvisse alla prima guerra mondiale e alla rivoluzione, ed era ancora in attività nel 1923: tuttavia, cessò le pubblicazioni qualche tempo dopo.
Modern Electrics, dicembre 1911. È la prima illustrazione raffigurante un'astronave sulla copertina d'un periodico americano. Sempre sul Continente, stavolta nella Germania del Kaiser, apparve un'altra rivista fantascientifica, Kapitän Mors. All'inizio era un mensile, apparso nel 1908, e in seguito divenne bimestrale: sopravvisse fino al 1914 e alla Grande Guerra. Uscirono almeno 180 numeri, tutti imperniati sul protagonista, il Capitano Mors. (S'intuisce qui il prototipo di Captain Future e di Captain Zero, riviste di un periodo molto più tardo). Purtroppo, le mie ricerche non mi hanno permesso di trovare ulteriori informazioni sulla rivista tedesca e su quella russa, e sarei felice se qualche lettore fosse in grado di fornire. Arriviamo così al 1911, l'anno indicato da Gernsback nella genesi di Amazing Stories. Hugo Gernsback era nato a Lussemburgo il 16 agosto 1884. A diciannove anni emigrò negli Stati Uniti e si mise a commerciare in pile a secco. Uno dei suoi interessi principali era la radio: nel 1905 aveva progettato il primo apparecchio radio privato. In seguito pubblicò un catalogo radio, e quando gli affari con le pile a secco andarono male, lanciò la prima rivista di radio del mondo, Modern Electrics, nel 1908. Nel 1911, per riempire un «buco» nella rivista, cominciò un episodio della storia di Ralph 124C 41 + . Questa prima parte apparve nel numero di aprile del 1911, e successivamente uscirono altri undici episodi, fino al marzo 1912. Da allora, la science fiction diventò una parte regolare del contenuto della rivista: in particolare la serie di Jacques Morgan, Mr. Fosdick, che ebbe inizio nel 1913, ed i racconti di Clemente Fezandié. Modern Electrics, in quell'anno divenne Electrical Experimenter, e fu su questo periodico che Gernsback cominciò, nel maggio 1915, le sue Scientific
Adventures of Baron Munchhausen. Nel 1919, Gernsback lanciò Radio News, ed in seguito l'Electrical Experimenter si trasformò in Science and Invention. Ralph 124C 41 + portava come sottotitolo «Un romanzo dell'anno 2260», e oggi appare piuttosto pesante. Viene ricordato come una vera e propria enciclopedia di predizioni, come i microfilm, i registratori a nastro, i distributori automatici, le lampade fluorescenti. Fu il modello della narrativa pubblicata dalla rivista di Gernsback: in sostanza era un articolo scientifico in forma letteraria... estrapolazione tecnologica pura. All'estremità opposta della gamma c'era lo scientific romance, che appariva nelle riviste di Munsey. In concorrenza con il Ralph di Gernsback, Cavalier pubblicò a puntate due romanzi di fantascienza, The Second Deluge di Garrett Serviss, e lo straordinario The Elixir of Hate di George Allan England. Serviss aveva già sessant'anni, ed era all'apice della sua carriera. Ma England, che ne aveva trentaquattro, era un astro sorgente. Dopo The Elixir of Hate, su Cavalier apparve Darkness and Dawn, un romanzo di England che descrive una Terra degenerata d'un futuro lontanissimo. La sua pubblicazione a puntate aveva appena avuto inizio quando All-Story cominciò Under the Moons of Mars di «Norman Bean». Si venne a sapere che Bean era un certo Edgar Rice Burroughs (1875-1950), il cui nome vero apparve con un'altra vicenda, Tarzan of the Apes, su All-Story del mese di ottobre. Una seconda avventura marziana, The Gods of Mars ebbe inizio su All-Story del gennaio 1913, e presto le avventure di John Carter e quelle di Tarzan cominciarono a gareggiare tra loro in popolarità nel mondo dei pulps. Il pubblicò s'innamorò delle storie di Burroughs. Ovviamente, vennero subito imitate, ed i redattori di Munsey, in particolare Bob Davis, cercarono di ottenere il meglio dagli autori. Fu così, quindi, che scrittori come John U. Giesy, Austin Hall, Homer Eon Flint, Charles B. Stilson, Junius B. Smith ed altri cominciarono a scrivere «romanzi scientifici» per Munsey. All-Story, che fino a quel momento era mensile, divenne settimanale dal 1914. Nel 1916, la rivista pubblicava testi come Almost Immortal di Austin Hall, Thuvia, Maid of Mars e Tarzan and the Jewels of Opar di Edgar Rice Burroughs; Box 991 di J. U. Giesy e J. B. Smith, Minos of Sardanes di Charles Stilson e The Sea Demons di Victor Rousseau. E nel 1917 la rivista fece un altro colpo gobbo. Il numero del 24 novembre pubblicava Through the Dragon Glass, il primo racconto di Abraham Merritt (18841943). All'inizio del 1918 uscì The People of the Pit, e poi, nel mese di
giugno, The Moon Pool. The Moon Pool ed il suo seguito, The Conquest of the Moon Pool (che ebbe inizio su All-Story il 15 febbraio 1919) lanciarono Merritt, assicurandogli una grande popolarità. Il contenuto scientifico era in pratica inesistente: per la verità, si trattava di vicende di fantasy, ma come opere d'immaginazione non avevano eguali. L'effetto che Merritt avrebbe avuto sugli autori fantascientifici apparsi in seguito fu profondo. Con Merritt e Burroughs da una parte, e Gernsback dall'altra, la science fiction prometteva di essere la creatura ermafrodita di due genitori del tutto estranei. Ma nel mondo fantascientifico vi sono sempre sorprese in serbo. La prima rivista di narrativa specializzata in lingua inglese, al di fuori dell'ambito dei dime-novels, non fu di science fiction. Fu Detective Story Magazine, che costava quindici centesimi, e che cominciò ad uscire settimanalmente dal 5 ottobre 1915, pubblicata da Street & Smith. Sempre la Street & Smith si baloccò con l'idea di una rivista fantascientifica, prima ancora di Gernsback. Accadde nel 1919, quando Harold Harsey venne assunto come futuro direttore di una pubblicazione del genere. Purtroppo, quando The Thrill Book apparve, risultò uno dei tanti pulps avventurosi. Poiché il tempo altera la realtà, oggi, oltre mezzo secolo dopo la sua comparsa, la rivista viene considerata come una pubblicazione fantascientifica ante litteram. Ma chi può smentirlo più del suo stesso direttore? Così ha scritto nella sua autobiografia, Pulpwood Editor (1937): «A quanto sembra, io godo di una reputazione di direttore ed editore nel campo della fantasy, del tutto sproporzionata ai miei meriti effettivi. Fallii miseramente con The Thrill Book nel 1919, un pulp che includeva molte eccellenti vicende pseudoscientifiche di Murray Leinster e di altri, ma che non era interamente dedicato a questo genere» (3). Murray Leinster (1896-1975) è forse il nome più famoso dei tempi di The Thrill Book. La rivista era quattordicinale, costava quindici centesimi, ed il suo primo numero recava la data del 1° marzo 1919. Conteneva narrativa di vario genere, dalla licantropia in Wolf of the Steppes di Greye La Spina, all'avventura pura e semplice come The Ivory Hunters di W. C. Carey. Tuttavia, la fantascienza non era molto lontana, sotto forma di The Man Who Met Himself di Donovan Bailey. Murray Leinster apparve solo al decimo numero (15 luglio 1919) con A Thousand Degrees Below Zero.
A quel tempo, Harold Hersey aveva ceduto la direzione a Ronald Oliphand, e la rivista si stava allontanando ancor di più dalla fantascienza. Comprendeva un settore editoriale estremamente informativo, intitolato Cross-Trails, che spesso forniva molte notizie redazionali, e nel complesso poteva venir considerata una rivista molto più personale della maggior parte degli altri pulps d'avventura. Certamente la sua rubrica della posta dei lettori traboccava di elogi, inclusi commenti di personalità come lo stesso dottor John U. Giesy. The Thrill Book sopravvisse per sedici numeri, e morì il 15 ottobre 1919, lasciando nei lettori il ricordo... di quel che avrebbe potuto essere. Il 1919 fu un anno di boom per la fantascienza. A parte The Thrill Book, All-Story ed Argosy traboccavano di ottimi racconti fantascientifici. The Runaway Skycraper di Murray Leinster era apparso su Argosy del 22 febbraio. Leinster, il cui vero nome era William F. Jenkins, fin dal 1915 vendeva articoli e racconti a riviste come Smart Set, ed aveva sempre avuto un mercato molto vasto. Ma nel ricordo dei fan della fantascienza, tutto cominciò con quella storia sui viaggi nel tempo, nel 1919. Meno di un mese dopo, All-Story pubblicava The Girl in the Golden Atom (15 marzo) che segnava il debutto di Ray Cummings (1888-1957). Gli ultimi numeri di quell'anno pubblicavano a puntate The Flying Legion di George Allan England. Poi apparvero That Receding Brow di Max Brand (All-Story, 15 febbraio), The Strange Case of Lemuel Jenkins di Philip Fisher (All-Story, 26 luglio), The Lord of Death e The Queen of Life di Homen Eon Flint (usciti entrambi su All-Story, il 10 maggio e il 16 agosto rispettivamente), The Mouthpiece of Zitu di John Giesy (pubblicato a puntate al 5 luglio al 2 agosto su All-Story), The Man Who Saved the Earth di Austin Hall (Argosy, 13 dicembre) ed il suo romanzo Into the Infinite (All-Story, dal 12 aprile al 17 maggio)... e via di seguito. Chi poteva negare che i tempi fossero maturi per una rivista dedicata esclusivamente a quel genere? E tuttavia, non si materializzò ancora. Viceversa, la narrativa poliziesca era in pieno rigoglio. Attirò l'attenzione della Rural Publishing Corporation di Chicago, diretta da Jacob C. Henneberger (1890-1969), che pubblicava allora College Humor e Magazine of Fun. Venne deciso di lanciarsi nei gialli, e fu assunto lo scrittore specializzato Edwin Baird per dirigere Detective Tales. Henneberger, appassionato di Edgar Allan Poe, decise che era opportuno creare una rivista gemella, e così Baird si trovò responsabile anche di Weird Tales: nacque in tal modo una vera e propria leggenda.
Il primo numero di Weird Tales, marzo 1923. Weird Tales divenne non tanto una rivista quanto un'istituzione. Il suo primo numero, datato marzo 1923, aveva 192 pagine, e si vendeva allo spaventoso prezzo di venticinque centesimi: ma non era affatto sensazionale. Conteneva ventiquattro racconti, in genere un pout-pourri di storie di spettri e del bizzarro. Comunque, comprendeva un racconto importante, Ooze, di Anthony M. Rud, oltre alla prima parte di un romanzo a puntate, The Thing of a Thousand Shapes di Otis Adalbert Kline. Ooze veniva illustrato alla copertina, e sebbene fosse una vicenda dell'errore, aveva una spiegazione completamente razionale e scientifica. Inoltre Cranmer, uno dei personaggi, viene presentato dal narratore come uno scrittore di narrativa pseudoscientifica. Il «limo» o «fanghiglia» o «viscidume» del titolo è in realtà un'ameba gigante, sfuggita al controllo. Oggi è un tema arcinoto, ma Ooze segnò il suo esordio nel campo della science fiction. Weird Tales fu la prima rivista interamente dedicata alla fantasy. Ovviamente, tendeva soprattutto all'orrore, ma attirava anche molti racconti di science fiction. In questa rivista venivano chiamati weird-scientific, cioè «scientifici-bizzarri»: ma questo non cambia il fatto che Weird Tales, ancor più di All-Story e Thrill Book, divenne ben presto il principale mercato per la fantascienza. Purtroppo, ciò non avvenne sotto Edwin Baird, sebbene egli pubblicasse H. P. Lovecraft, Otis Kline, Frank Owen, Clark Ashton Smith (solo le poesie), tra molti altri. Sebbene Weird Tales fosse una rivista fatta bene, non si vendeva. Non ricavava abbastanza da coprire le spese. Con il numero dell'anniversario, maggio-giugno-luglio 1924 (4), per poco non chiuse bottega. Fu solo grazie alla decisione di Henneberger che la rivista continuò e sopravvisse. Real Detective Tales vendeva bene, e po-
teva mantenere Weird Tales, e la testata venne passata agli stampatori, che riuscirono a farla tirare avanti fino a quando pagò i propri debiti. E così Farnsworth Wright si ritrovò direttore di Weird Tales; il primo numero da lui gestito uscì nel novembre 1924. Wright ammetteva di non amare la science fiction, ma non poteva negare che l'amassero i lettori: perciò se la tenne. Ormai, il racconto del tipo Ooze compariva regolarmente. In sostanza, la trama parlava di uno scienziato pazzo che era riuscito a creare o a inventare una mostruosità orrenda, la quale invariabilmente si scatenava. Un esempio perfetto fu The Malignant Entity di Otis A. Kline, che era apparso sul numero dell'anniversario di Weird Tales nel 1924. Cinque anni dopo la stessa trama veniva sfruttata ancora, quasi immutata, in racconti come The Thing in the House di H. F. Scotten. A parte H. P. Lovecraft (1890-1937), i cui Miti di Cthulhu costituivano una categoria a sé stante, un solo autore infranse i vincoli della fantascienza imperniata sul mostro prodotto in laboratorio, nei primi tempi di Weird Tales: Nictzin Dyalhis, oggi dimenticato. Il suo primo racconto, When The Green Star Waned parlava dell'invasione della Terra da parte dei venusiani. (Più tardi scrisse un seguito, The Oath of Hul Jok, nel numero del settembre 1928). Il racconto uscì su Weird Tales nell'aprile 1925, ed ebbe l'onore di venire illustrato in copertina. Era un'autentica avventura fantascientifica, ed evidentemente ai lettori piacque. Si aprì così la strada ai racconti di Edmond Hamilton, che un anno dopo espugnò Weird Tales con la sua invasione marziana della Terra, il romanzo Across Space (pubblicato dal settembre al novembre 1926). Perciò, prima del 1926 c'erano tre tipi di fantascienza. Innanzi tutto, il romanzo avventuroso scientifico, epitomizzato da Burroughs e da Merritt, che appariva sulle pubblicazioni di Munsey. In secondo luogo, l'estrapolazione scientifica di Gernsback, e infine la science fiction bizzarra di Weird Tales. Questi tipi di fantascienza non erano nati per desiderio degli autori, ma per la politica editoriale delle riviste: un particolare, questo, su cui oggi si tende a sorvolare. Se vi siete chiesti cosa faceva nel frattempo Gernsback, ecco la risposta. Radio News e Science and Invention erano, da oltre un decennio, mercati regolari per la science fiction. I suoi narratori stavano diventando sempre più prolifici, con il risultato che negli uffici di Gernsback il materiale si accumulava. Perciò egli fece del numero dell'agosto 1923 di Science and Invention un fascicolo speciale dedicato alla scientifiction: conteneva sei racconti, più articoli estrapolativi. Fu un trionfo, e ovviamente Gernsback
pensò che i tempi fossero maturi. Ma, come disse egli stesso: «Parecchi anni fa, quando mi venne per la prima volta l'idea di pubblicare una rivista di scientifiction, spedii una circolare a ben 25.000 persone, annunciando che tra poco sarebbe stata lanciata una nuova rivista, Scientifiction. La reazione fu tale che per due anni abbandonai l'idea» (5). Quando finalmente Gernsback si decise, lo fece senza preavvisi, e questa volta non ci ripensò sopra. Ma, come ho detto inizialmente, nessuno si stupì quando apparve Amazing Stories. Come vedete, sarebbe dovuta uscire anche prima. 2. Tre anni da solo Gernsback fece in modo che Amazing Stories non passasse inosservata nelle edicole. Tutte le altre innumerevoli pubblicazioni pulp incluse Weird Tales e All-Story, avevano il tipico formato di cm 17 x 25. Amazing Stories era di formato grande (21 x 27, o mezzo quarto), e la carta era così gonfiata che le sue novantasei pagine avevano lo spessore dei pulps di 192. Quindi, Amazing Stories, a stretto rigore, non era una rivista pulp. La sua carta era di qualità un po' migliore, e si trattava in pratica di una rivista di narrativa che si affiancava alla scientifica Science and Invention. Costava venticinque centesimi e usciva il cinque di ogni mese; era pubblicata dalla Experimenter Publishing Company, con sede al 53 Park Place, New York. (Il presidente della compagnia era Hugo, ma spesso si dimentica che l'amministratore era suo fratello Sidney Gernsback). La copertina era opera di un artista austriaco quarantacinquenne, Frank R. Paul, che in origine era stato cartoonist del Jersey Journal, prima che Gernsback l'attirasse all'Electrical Experimenter nel 1914. La copertina, raffigurante alcuni pattinatori sul ghiaccio che praticavano tranquillamente il loro sport su di un mondo gelato, con la grande sfera di Saturno incombente sullo sfondo, rappresentava una scena di Hector Servadac (1877) di Jules Verne, che veniva pubblicato in due puntate con il titolo Into Comet. Nell'editoriale, Gernsback spiegava i suoi programmi. Innanzi tutto, definiva la science fiction: «Per "scientifiction", io intendo la narrativa tipo Jules Verne, H.
G. Wells ed Edgar Allan Poe... un'affascinante vicenda romanzesca intrecciata a dati scientifici ed a visioni profetiche... Data l'accresciuta richiesta di questo genere di narrativa, c'era una sola cosa da fare... pubblicare una rivista riservata esclusivamente alle vicende di tipo scientifico.» Gernsback nutriva grandi speranze per la science fiction, come spiegava più avanti, nello stesso editoriale: «Non solo queste storie sorprendenti costituiscono una lettura estremamente interessante... sono sempre istruttive. Dispensano conoscenze che altrimenti non potremmo acquisire... e lo fanno in forma molto gradevole. Perché i migliori autori moderni della scientifiction hanno il dono di dispensare la conoscenza, e anche l'ispirazione, senza dare mai la sensazione d'insegnare» (6). Senza dubbio, Gernsback era convinto che i suoi lettori si sarebbero istruiti grazie alla fantascienza: e questa convinzione la conservò sempre. (Quattro anni dopo, lanciando un concorso per uno slogan per Science Wonder Stories, suggerì: «La scienza insegnata per mezzo della narrativa»). Purtroppo, non riuscì a mantenere la promessa nella narrativa che pubblicava: infatti, quel tipo di narrativa non esisteva. C'era a piccole dosi, ma di regola gli scrittori non avevano il dono di trasformare le loro storie in letture emozionanti, anziché in vere e proprie lezioni. Spesso, in un racconto del genere, il narratore s'interrompeva a metà di una scena per spiegare, con un linguaggio da libro di testo, le ragioni di quanto era appena accaduto, spesso cospargendo qua e là esclamazioni tipo: «Perché non ci avevo pensato prima?». Per Amazing Stories, comunque, fu una fortuna che i racconti di questo genere fossero poco comuni. Per la maggior parte, la rivista era piena di avventure meravigliose, perché all'inizio Amazing Stories era zeppa di ristampe. Tra l'aprile 1926 e il luglio 1928, dei primi diciotto romanzi a puntate, diciassette erano ristampe (Verne e Wells capeggiavano la classifica con cinque a testa). I primi due numeri erano formati interamente da ristampe; il primo racconto inedito (The Coming of the Ice di Wertenbaker) apparve soltanto nel terzo numero, in giugno. Per la cronaca, lo storico numero d'esordio della prima rivista fantascientifica conteneva, oltre alla puntata iniziale del romanzo di Verne: The
New Accelerator di H. G. Wells, la prima parte di The Man From the Atom di G. Peyton Wertenbaker, The Thing From... Outside di George Allan England, The Man Who Saved the World di Austin Hall e The Facts in the Case of Mr. Valdemar di Edgar Allan Poe. Era una scelta molto ben equilibrata. C'era un'ampia gamma di temi e di stili, dalla divertente storia wellsiana dei due scienziati che prendono una droga capace di accelerare il ritmo della loro vita, al racconto d'orrore psicologico di England, imperniato su un'invasione aliena. Tuttavia, sarebbe stato necessario scavare molto a fondo per ricavare una conoscenza scientifica dal contenuto della rivista. Ma non c'è dubbio che al pubblico piacesse, e Amazing Stories segnò una continua scesa di tiratura: in pochi mesi superò le 100.000 copie. Gernsback era direttore ed editore di Amazing Stories, e sebbene scrivesse gli editoriali, decidesse la linea della rivista ed avesse l'ultima parola, non faceva il lavoro più pesante. Due persone meritano di essere ricordate per la parte che ebbero nella creazione di questo prototipo: C. A. Brandt e T. O'Conor Sloane. Brandt era un chimico, nato in Germania nel 1897. Gernsback venne a sapere da un libraio che Brandt possedeva una favolosa biblioteca fantascientifica, e che era l'ideale per collaborare alla scelta della migliore science fiction del mondo. Perciò Brandt divenne il Direttore Letterario di Amazing Stories, e le ristampe erano invariabilmente selezionate da lui. Brandt restò per parecchio tempo con Amazing Stories; il suo principale contributo era rappresentato dalle regolari recensioni, che divennero una caratteristica tipica della rivista fino al 1938. Morì nel 1947, prima di concretare la creazione d'una nuova rivista fantascientifica che intendeva pubblicare.
Il singolare frontespizio dei primi numeri di Amazing Stories, raffigurante il monumento sulla tomba di Jules Verne ad Amiens.
Thomas O'Conor Sloane era nato a New York il 24 novembre 1851, e nel 1888 era diventato professore di scienze naturali al Seton Hall College di South Orange, nel New Jersey. Al suo nome è legata tutta una serie d'invenzioni, soprattutto il fotometro ad autoregistrazione per determinare la capacità illuminante del gas. Nel 1877 aveva descritto un nuovo processo per determinare la presenza dello zolfo nel gas illuminante. Inoltre, era autore di diversi libri, tra cui Electric Toy Making for Amateurs (1892) e Rapid Arithmetic (1922). Era un vecchio signore bonario e barbuto di settantaquattro anni, quando divenne Condirettore di Amazing Stories. In pratica, Sloane era il vero direttore. Leggeva i testi nuovi di narrativa, e modellava il contenuto della rivista, lasciando a Gernsback le trovate e le idee. Come vedremo, in seguito avrebbe ereditato Amazing Stories, e l'avrebbe diretta fino al 1938. Ormai aveva ottantasei anni, e perciò era e rimase il più vecchio direttore d'una rivista fantascientifica mai esistito. Morì il 7 agosto 1940. Un altro nome figurava su Amazing Stories: quello di Wilbur C. Whitehead. Nel suo necrologio, apparso nel numero di settembre 1931, era scritto: «Nei primi tempi influenzò con i suoi consigli la linea della rivista. Possedeva una vastissima conoscenza della narrativa scientifica, che era il suo hobby» (7). Whitehead è più noto come esperto di bridge.
Uno dei «concorsi» di Gernsback: 300 dollari per il miglior racconto ispirato da questo disegno di Frank R. Paul (Air Wonder Stories, luglio 1930). Amazing Stories era stata programmata come mensile, ma Gernsback propose ai lettori di votare quale sarebbe stata la scadenza ideale. I risulta-
ti, riferiti nel suo editoriale del numero del settembre 1926, furono: Mensile, 498; Bimensile, 32.644. Lo schiacciante plebiscito a favore di Amazing Stories quindicinale indusse Gernsback a promettere che avrebbe cercato di realizzare il programma. Non lo realizzò mai, ma offrì qualcosa di ancora più grande. Tra un attimo ne riparleremo. Gernsback si rese conto del potenziale del suo pubblico. Nell'editoriale del giugno 1926, si confessava stupito di constatare che nel paese c'era un esercito di fan, «i quali sembrano ben orientati in questa letteratura» (8). Ovviamente, Amazing Stories aveva attratto gli ardenti seguaci che avevano pascolato nelle riviste di Munsey alla ricerca della narrativa preferita, la science fiction, ma che adesso se la ritrovavano già confezionata. Il futuro di Amazing Stories fu assicurato quando Gernsback decise di andare incontro a questo pubblico: e lo fece in due modi. Innanzi tutto, i concorsi. Ben presto, divenne quasi un sinonimo di Gernsback e delle sue riviste di science fiction il fatto che non trascorressero molti mesi senza un concorso di qualche tipo. Il primo venne lanciato nel numero di dicembre 1926. L'abilissimo Frank Paul aveva disegnato una copertina sconcertante, ed i lettori venivano invitati a mandare racconti imperniati su quell'illustrazione. Un ulteriore incentivo era costituito dal primo premio, 250 dollari. I risultati superarono persino i sogni più rosei di Gernsback. Nel suo editoriale di marzo, annunciò che erano arrivati più di trecentosessanta manoscritti. La sua seconda trovata fu l'inclusione di una rubrica di corrispondenza dei lettori, intitolata Discussions. La posta dei lettori non era una novità nelle riviste, neppure in quelle specializzate. Detective Story Magazine della Street & Smith la possedeva, e fin dai primi tempi Weird Tales aveva ostentato The Eyrie. Ma in un certo senso Discussions divenne qualcosa di diverso, grazie agli appassionati della fantascienza. Dopo ogni lettera, Gernsback pubblicava il nome e l'indirizzo completo del corrispondente, e questo significava che i lettori potevano scrivere agli altri fan, o addirittura andarli a trovare. Le prime lettere apparvero nel numero del gennaio 1927. Per la cronaca, il primo autore nominato di una lettera fu il professor Jack Edwards di San Francisco. (Ho detto il primo nominato, perché erano citati brani di altre due lettere, ma purtroppo i loro autori venivano ridicolizzati, e perciò i nomi non furono stampati. Uno dei due diceva che Jules Verne era «un autore molto promettente»!). Nel 1927 Gernsback offrì una ghiottoneria ai suoi avidi lettori. Per fe-
steggiare l'anniversario di Amazing Stories, venne pubblicato un Annual. L'intenzione era quella di pubblicare un romanzo completo, ed il numero era completato da testi più brevi. L'Annual uscì in giugno, e il romanzo era nientemeno che The Master Mind of Mars, appositamente commissionato da Gernsback ad Edgar Rice Burroughs. Il resto del materiale era costituito da ristampe, quasi tutti racconti già apparsi in Amazing Stories nel corso del primo anno. Ovviamente, Gernsback puntava sul pubblico di Munsey, non ancora conquistato dalla sua pubblicazione. La spuntò. Sebbene l'Annual costasse cinquanta centesimi, andò esaurito. Comprendeva trentadue pagine in più della rivista mensile, ed era molto pesante. Con il successo dell'Annual e l'entusiasmo dei lettori che aspettavano Amazing Stories trasformata in quindicinale, Gernsback arrivò ad un compromesso. A partire dal gennaio 1928, cominciò a pubblicare un Quarterly, un'edizione trimestrale della rivista. Amazing Stories Quarterly era una vera leccornia. Constava di 144 pagine di grande formato, al prezzo di cinquanta centesimi, con due romanzi e parecchi racconti. Sebbene il primo numero contenesse una ristampa, When the Sleeper Wakes di H. G. Wells, ospitava anche un romanzo breve di Earl L. Bell, The Moon of Doom, una delle prime vicende catastrofiche imperniate sulla Luna che precipita verso la Terra, con conseguenti disastri. Poiché The Moon of Doom si può considerare un romanzo, va ricordato che fu il terzo romanzo originale pubblicato da Gernsback nelle sue riviste. Come abbiamo già ricordato, a proposito dei primi diciotto romanzi a puntate, uno solo era inedito, cioè Beyond the Pole di un autore veterano, A. Hyatt Verrill (1871-1954). Comunque, ovviamente Gernsback disponeva di testi più lunghi, perché stava pubblicando a puntate i romanzi di Ray Cummings in Science and Invention. Inoltre, la decisione di ristampare i romanzi non era completamente allineata con il suo programma: imparare la scienza per mezzo della narrativa. Per esempio, il romanzo di maggior successo dei primi due anni fu The Moon Pool di Merritt, apparso nel maggio, giugno e luglio 1927. Merritt sarebbe stato il primo ad ammettere che la vicenda era più fantasy che science fiction. Tuttavia, fu una delle opere più influenti che egli pubblicò: molti autori, in seguito, indicarono in essa la fonte d'ispirazione della loro narrativa. La volta successiva che Gernsback pubblicò un romanzo originale a puntate su Amazing Stories, fece epoca. The Skylark of Space cominciò nel numero d'agosto del 1928, come una «stravaganza in tre parti». I lettori
non sapevano che era stato iniziato nel 1915, e che era stato rifiutato da tutti gli editori di libri e di riviste a partire dal 1920. Gli autori erano Edward Elmer Smith e Lee Hawkins Garby. In effetti, la signora Garby si era limitata a collaborare con Smith solo per l'inizio del romanzo, che era virtualmente tutta opera di lui. Narrava la storia del superscienziato Richard Seaton, alla ricerca della fidanzata, rapita dal malvagio dottor Marc DuQuesne. Come sfondo, Smith aveva scelto l'intero universo, e la grandiosa astronave Skylark si aggirava nel cosmo, incontrando molte avventure con innumerevoli, strani alieni. I lettori impazzirono per l'opera di Smith, e se The Moon Pool fu il romanzo più influente di quel periodo, quello di Smith fu un ottimo secondo. Con questa storia si mise veramente in moto la «superscienza». In precedenza, le vicende interplanetarie di Amazing Stories erano state circoscritte al Sistema Solare. Ma adesso non c'era più nulla di vietato. Fu una vera ironia che per creare il precedente occorresse una vicenda vecchia di tredici anni. Il romanzo di Smith finì nel numero di ottobre del 1928, lasciando i fan ad attendere con ansia un seguito. L'aspettarono per due anni; nel frattempo, un altro autore seguiva le orme di Smith, il giovane John Campbell. Nei primi tre anni di vita di Amazing Stories e del suo Quarterly, debuttò un numero considerevole di autori. Alcuni, purtroppo, oggi sono dimenticati; altri vengono ricordati con affettuosa nostalgia. Ecco alcuni degli astri più fulgidi: A. Hyatt Verrill (ottobre 1926), Miles J. Breuer (gennaio 1927), Bob Olsen (giugno 1927), Francis Flagg (novembre 1927), David H. Keller (febbraio 1928), Fletcher Pratt (maggio 1928), Harl Vincent (giugno 1928), Stanton Coblentz (estate 1928), R. F. Starzl (estate 1928), Edward E. Smith (agosto 1928), Jack Williamson (dicembre 1928) e S. P. Meek (inverno 1929). Questi dodici autori possono essere considerati scoperte di Gernsback. Tra loro, a parte E. E. Smith, David H. Keller era di gran lunga il più popolare, ed il 1928 fu per lui un anno eccezionale. Keller tendeva a concentrarsi sulle conseguenze sociali della scienza, più che sull'invenzione in se stessa. Il suo debutto, The Revolt of the Pedestrians, presentava un futuro in cui predominava l'automobile, ed i pedoni superstiti venivano trattati come animali; The Psychophonic Nurse predice un futuro in cui le madri affidano i figli a bambinaie robot. La narrativa di Keller dimostrava quanto fosse libera la politica editoriale di Gernsback. Per esempio, A Biological Experiment, nel numero di giugno 1928, esplorava un futuro in cui l'impulso della paternità e della maternità esiste ancora, in
un mondo in cui tutti gli uomini e le donne sono sterili. Era un racconto molto profondo, per quei tempi. Lo era ancor più The Menace, titolo dato a quattro racconti collegati tra loro, imperniati sulla rivoluzione dei negri americani, dopo che avevano trovato il modo di imbiancare la pigmentazione della pelle. Quando gli scienziati negri riuscivano ad estrarre l'oro dall'acqua marina, i loro piani per dominare il mondo si concretizzavano. Questo esempio mostra ammirevolmente l'ampia gamma permessa da Gernsback alle sue pubblicazioni. I lettori più attenti avranno forse notato che dal precedente elenco dei dodici mancano diversi nomi, e due in particolare. Dove sono Murray Leinster ed Edmond Hamilton, o anche Ray Cummings, Ralph Minle Farley e Clare Winger Harris? Erano tutti importanti autori fantascientifici, a quei tempi. Arriviamo così ad un particolare interessante, per quanto riguarda le riviste di Gernsback. Nessuno di questi scrittori fu una scoperta del grande Hugo, ed a parte una sola eccezione, nessuno gli deve la fama. L'unica eccezione è costituita dalla scrittrice Clare Winger Harris, che fu una delle collaboratrici preferite di Amazing Stories nel 1927 e nel 1928, con racconti come The Fate of the Poseidonia e The Miracle of the Lily: ma resta il fatto che il suo vero esordio avvenne su Weird Tales del luglio 1926, con A Runaway World. Pur se su quella rivista apparve soltanto un altro suo racconto, si trattò comunque di una scoperta di Farnsworth Wright.
Frank R. Paul illustra The Revolt of the Pedestrians, di David H. Keller, su Amazing Stories, febbraio 1928. La popolarità di Ralph Milne Farley era basata sulle avventure venusiane, narrate nella sua serie di The Radio Man, che ebbe inizio su Argosy nel
1924. Farley (il suo vero nome era Roger Sherman Hoar), era sostanzialmente un autore di Munsey, e non apparve mai, neppure una volta, su Amazing Stories di Gernsback. Non collaborò a riviste fantascientifiche sino al 1930. Lo stesso si può dire di Ray Cummings e di Murray Leinster. Entrambi erano di casa, nelle riviste di Munsey. Ray Cummings collaborava a Science and Invention di Gernsback, ma nonostante la sua popolarità apparve su un solo numero di Amazing Stories, con il romanzo breve principale del numero dell'ottobre 1927, Around the Universe. Persino Weird Tales stava meglio, con due romanzi a puntate di Cummings a pochi mesi l'uno dall'altro. Murray Leinster attirò ben presto l'attenzione di Gernsback, che ristampò molti dei suoi testi precedenti (The Runaway Skyscraper, The Mad Planet e The Red Dust) durante la prima annata di Amazing. Tuttavia, erano storie vecchie di sei anni. Leinster restò legato ad Argosy, ma un altro suo romanzo a puntate di fantascienza, The Strange People, apparve in Weird Tales nel 1928. Ma Edmond Hamilton era tutta un'altra cosa. Hamilton esordì sul numero d'agosto 1926 di Weird Tales con The Monster God of Mammurth; e altre sei opere sue, compresi due romanzi a puntate, vennero pubblicate su quella rivista, prima che fosse presentato ai lettori di Amazing Stories come un autore «nuovo» nel gennaio 1928. All'inizio, la produzione di Hamilton fu molto prolifica, e Weird Tales costituì il suo mercato principale. A quell'epoca, tutta la sua narrativa era fantascientifica, e già nel febbraio 1929 introdusse l'idea di un Consiglio dei Soli, le cui leggi venivano fatte rispettare dalla Pattuglia Interstellare. I lettori che preferivano Amazing Stories e scuotevano la testa di fronte alle storie di spettri di Weird Tales si persero così diversi testi storici. Tra Weird Tales ed Amazing Stories esisteva un grande via vai. Hamilton e Clare Harris andarono in una direzione, David Keller nell'altra. Un clamoroso colpo di Gernsback, in questo periodo, fu l'acquisto di The Colour Out of Space del principale autore di Weird Tales, H. P. Lovecraft. La storia, che era stata rifiutata da Wright e Davis di Argosy, è divenuta un classico del suo genere, e mi domando quanti di coloro che l'hanno letta sanno che fu pubblicata per la prima volta su Amazing Stories nel settembre 1927. Dall'aprile 1926 all'aprile 1929, Gernsback detenne il monopolio della pubblicazione di riviste fantascientifiche; ma ovviamente non quello della science fiction. Infatti, Weird Tales e Argosy rimanevano i suoi rivali più importanti, anche se Argosy, pur avendo una tiratura superiore a quella di
Amazing Stories, andava restringendo il suo contenuto fantascientifico. Weird Tales, d'altra parte, contava su di un pubblico molto più ristretto di lettori appassionati. La rivista trovò una debole rivale in Tales of Magic and Mystery, che sopravvisse per soli cinque numeri, dal dicembre 1927 all'aprile 1928. Riuscì ad attrarre i collaboratori di Weird Tales, soprattutto Lovecraft, Frank Owen ed Archie Binns; tuttavia non poté vantare, come Weird Tales, il merito di essere stata la rivista che pubblicò le opere prime dell'autore disneyano Robert Spencer Carr (The Composite Brain, marzo 1925) e di Tennessee Williams (The Vengeance of Nitocris, agosto 1928). Rivale ben più importante fu invece la rivista pulp a grande formato Ghost Stories, che era apparsa due mesi dopo Amazing Stories, nel giugno 1926, come mensile. Ghost Stories tentò di pubblicare le storie di spettri cosidette «vere», con fotografie fasulle. Ottenne un discreto successo, nella scia delle grosse riviste sorelle, True Story e True Detective Mysteries. L'editore era Bernard MacFadden (1868-1955), salutista fanatico che nel 1898 aveva fondato Physical Culture. La rivista aveva raggiunto una tiratura formidabile, e MacFadden era preoccupato del probabile successo delle testate concorrenti di Gernsback, soprattutto Your Body. Un giorno Gernsback si trovò alle prese con una richiesta di fallimento a carico dell'Experimenter Publishing Company. Fu costretto a vendere le sue testate (Science and Invention aveva chiuso i battenti nel 1928, ma Radio News veniva tuttora pubblicata). Vennero acquistate dalla RadioScience Publications Inc. di Jamaica Street, New York, e in seguito dalla Teck Publications Inc. di Dunellen, New Hersey. Gli uffici redazionali si trasferirono dapprima al 381 della Quarta Strada, a New York, e poi al 222 della Trentanovesima Ovest. Ma Gernsback non ne era più il direttore. Sebbene il direttore editoriale fosse adesso Miriam Bourne, Arthur Lynch divenne redattore capo. Il grosso del lavoro, comunque, lo svolgeva sempre Sloane. Il cambiamento ebbe luogo con il numero del maggio 1929, ed a novembre Sloane era in carica. A 77 anni guidò la rivista nella sua seconda èra. E Gernsback? Sarebbe ricomparso in seguito, trionfalmente. 3. La science fiction si moltiplica L'ultimo numero di Amazing Stories diretto da Gernsback fu quello dell'aprile 1929. Nel giugno 1929, ricompariva con il primo fascicolo di Science Wonder Stories. La nuova pubblicazione era edita dalla Stellar
Publishing Corporation, con sede al 96-98 di Park Place, New York... a un tiro di sasso dai vecchi uffici dell'Experimenter Publishing Company. Gernsback non venne abbandonato. Molti di coloro che aveva scoperto lo seguirono: in particolare il disegnatore Frank Paul. Ad Amazing Stories, Sloane dovette guardarsi intorno, alla ricerca di un nuovo illustratore per le copertine. All'inizio, per alcuni numeri provvidero Hugh MacKay e Hans Wessolowski, ma nel febbraio 1930 in poi colonna della rivista divenne l'artista peruviano Leo Morey. L'opera di Paul e di Morey è stata esaltata o criticata ferocemente, sebbene secondo me non fosse spettacolosa. Paul meritava ammirazione per la sua versatilità: si diceva che non ripetesse mai due volte il disegno della stessa astronave; aveva però, il punto debole nella figura umana: ed uno studio attento della sua opera susciterà proteste per le donne dal seno piatto e dai calzoni alla cavallerizza. Morey, d'altra parte, non aveva l'immaginazione di Paul, ma era forse più artista di lui. Science Wonder Stories, formato grande, 96 pagine, prezzo venticinque centesimi, era un mensile, e nel primo numero iniziò un romanzo a puntate, The Reign of the Ray di Fletcher Pratt ed Irwin Lester. I lettori di quel fascicolo iniziale rimasero doppiamente sorpresi nel trovare l'annuncio di un'altra rivista, Air Wonder Stories. La testata sorella comparve nel luglio 1929, nell'identico formato: era specializzata in avventure aeree ed interplanetarie. Il primo numero comprendeva la ristampa di un romanzo, Ark of the Covenant di Victor McClure. Fra l'altro, fu proprio nell'editoriale di quel fascicolo d'esordio che Hugo Gernsback coniò il termine science fiction, dopo di allora usato universalmente per indicare il genere.
La prima menzione del termine science fiction, nell'editoriale del primo numero di Science Wonder Stories, giugno 1929.
Ma Gernsback non si fermò qui. Il favore ottenuto da Amazing Stories Quarterly giustificava un successore. Nell'ottobre 1929 uscì Science Wonder Quarterly: formato grande, 144 pagine, prezzo cinquanta centesimi. Il romanzo era The Shot Into Infinity dell'autore tedesco Otto Willi Gail (1896-1956). In una certa misura, in Amazing Stories Gernsback aveva cercato di pubblicare buoni autori fantascientifici europei. Aveva incominciato con la traduzione, opera di Brandt, di The Eggs front Lake Tanganyika di Kurt Siodmak. Con le sue nuove pubblicazioni, spaziò in questo campo con avido entusiasmo, e la strada venne aperta dalla traduzione, fatta da Francis Currier, dell'avventura lunare di Gail. Nel contempo, la traduzione di The Problems of Space Flying, di Hermann Noordung, veniva pubblicata a puntate nei primi tre numeri di Science Wonder Stories. Tre riviste fantascientifiche non era abbastanza, per Gernsback. Fondò anche una collana di tascabili originali, intitolata Science Fiction Series. Con un'offerta speciale di dodici libri per un dollaro, la collana esordì con The Girl from Mars di Jack Williamson e Miles Breuer, e in pochi mesi furono disponibili tutti i dodici titoli.
Amazing Detective Tales, luglio 1930 Per coronare l'opera, Gernsback effettuò un altro esperimento. A partire dal gennaio 1930, i lettori poterono acquistare una quarta rivista, Scientific Detective Monthly. Gernsback aveva un debole per questo tipo di vicende, e aveva ristampato molti racconti di Edwin Balmer e William MacHarg. Arthur B. Reeve, autore delle avventure di Craig Kennedy, venne ingaggiato come responsabile editoriale, mentre Gernsback fungeva da direttore generale. Il lavoro più pesante ricadeva sulle spalle di Hector Grey, soprat-
tutto perché questa rivista era molto specializzata. A stretto rigore, era fantascienza solo marginalmente. Sebbene pubblicasse alcuni eccellenti testi di questo tipo, ne aveva anche moltissimi che erano veri e propri gialli, con un'infarinatura scientifica. La rivista, quindi, cadde nell'abisso tra due mondi. Dopo cinque numeri, cambiò testata e divenne Amazing Detective Tales. Dopo altre due numeri, Hector Grey venne sostituito da David Lasser: ma era troppo tardi. Dopo dieci numeri, nell'ottobre 1930, la rivista chiuse: era il primo insuccesso fantascientifico di Gernsback. Comunque, non fu una sorpresa, perché la rivista non entusiasmava né gli appassionati di science fiction né quelli dei gialli, a parte i devotissimi. Comunque, la sua esistenza testimonia la vivacissima attività di Gernsback in campo editoriale. (Nel frattempo, aveva fondato anche Radio-Craft e Short Wave Craft, e in seguito pubblicò Everyday Science & Mechanics, Sexology, e persino Pirate Stories.) Come aveva lasciato a Sloane il compito più pesante all'Experimenter, alla Stellar Gernsback lo addossò a David Lasser. Ma Lasser aveva cinquant'anni meno di Sloane. Nato a Baltimora nel Maryland il 20 marzo 1902, si era arruolato nell'esercito nel luglio 1918, e aveva fatto parte del corpo di spedizione americano. Venne congedato con il grado di sergente nel febbraio 1919, quando non aveva ancora compiuto diciassette anni. Divenne ingegnere alla Rosendale, a Newark, e poi agente d'assicurazioni e quindi redattore tecnico. In seguito, Lasser diventò il presidente fondatore dell'American Interplanetary Society nel marzo 1930, e scrisse il primo libro in lingua inglese sui viaggi spaziali, The Conquest of Space (1931). Tutto questo gli dava pieno diritto di dirigere una rivista fantascientifica: ma è assai sorprendente, quando si pensa a ciò che divenne in seguito. Air Wonder Stories era soprattutto una pubblicazione specializzata, ed attirava un numero di lettori minore della sua gemella. Per salvarla, Gernsback fuse le testate, e nel giugno 1930 uscì Wonder Stories. Una ragione del cambiamento del nome era questa: si aveva l'impressione che «la parola "Science" tendesse a ritardare il progresso di una rivista, perché molti pensavano che si trattasse d'una specie di periodico scientifico anziché di una rivista di narrativa» (9). Come spiegazione, però, era un po' stiracchiata, giacché la parola Science era stampata in caratteri minuti e pallidi, mentre Stories era scritta in grande, vistosamente. Dopotutto, Gernsback si era proposto d'insegnare per mezzo della science fiction, perciò c'era da pensare che avrebbe dovuto attirare coloro che s'interessavano di scienza. Comunque, Wonder Stories apparve nel giugno 1930, in concorrenza di-
retta con Amazing Stories. Ma ecco: oltre ai Quarterly, gli affezionati frequentatori delle edicole scoprirono una terza testata: Astounding Stories. Era un'altra pubblicazione di Gernsback? No, non era possibile, poiché la piccola manchette in alto a destra annunciava: «A Clayton Magazine». Inoltre, costava 20 centesimi, cinque di meno delle altre riviste. E soprattutto, era un pulp. Il monopolio di Gernsback nel settore era ormai alla fine. Gli editori dei pulps avevano finalmente deciso di buttarsi nel campo fantascientifico. La nuova rivista si chiamava Austounding Stories of Super Science, aveva il classico formato pulp e 144 pagine. Era edita da Wiliam L. Clayton, che per un certo periodo ebbe come redattore capo Harold Hersey. Hersey ricorda che «aveva discusso con Clayton il progetto di lanciare una pubblicazione di pseudo-science fantasy» (10). Ma ovviamente, Clayton aveva avuto bisogno di parecchio tempo per riflettere. Circa due anni dopo che Hersey aveva lasciato Clayton per MacFadden, quando Harry Bates era uno dei redattori principali, risultò che Clayton aveva la smania di pubblicare una nuova rivista. Fu Bates a proporre una rivista fantascientifica ed a creare il nome Astounding Stories of Super Science. Il primo numero portava la data del gennaio 1930, e l'elenco dei suoi collaboratori era formidabile: tra gli altri, vi figuravano Victor Rousseau, Ray Cummings, S. P. Meek e Murray Leinster. Le intenzioni furono chiare fin dall'inizio: Astounding Stories doveva essere una rivista d'avventure, con tanta fantascienza quanta ne bastava per giustificare il «super-science» del titolo. La copertina, disegnata dal quarantasettenne Hans Waldemar Wessolowski (conosciuto come Wesso) raffigurava una scena del romanzo a puntate di Rousseau, The Beetle Horde, e mostrava il nostro eroe che faceva a pugni con un grosso coleottero. Wesso sarebbe divenuto il Paul delle riviste di Clayton: eseguì le copertine di tutti i numeri, e moltissime delle illustrazioni interne. Non sempre Astounding Stories pubblicava fantascienza. Talvolta, nelle sue pagine s'insinuavano anche racconti tipici del bizzarro, (weird), si ridussero man mano. Astounding diventò ben presto molto popolare, soprattutto grazie a Ray Cummings, che nelle prime due annate della rivista fu rappresentato da quattro romanzi a puntate e tre racconti, ed a nuovi beniamini come Charles W. Diffin ed Anthony Gilmore. Dopo due racconti di minor importanza, Gilmore fu lanciato dal romanzo breve Hawk Carse, pubblicato nel novembre 1931. Era science fiction alla maniera di E. E. Smith, con il coraggioso Hawk Carse che inseguiva il malvagio pirata dot-
tor Ku Sui per tutto il Sistema Solare. Il romanzo breve, ed i quattro che ne costituirono il seguito, vengono affettuosamente ricordati come l'essenza dell'Astounding di Clayton. Solo dopo molto tempo si seppe che i veri autori, celati dietro lo pseudonimo di Anthony Gilmore, erano il direttore Harry Bates ed il suo vice, Desmond Hall. Harry Bates non era responsabile solo di Astounding. Aveva già una covata di riviste d'avventura, cui in seguito si aggiunsero Jungle Stories e, dal settembre 1931, Strange Tales. Questa rivista venne fondata per far concorrenza a Weird Tales, e sfoggiò alcune eccellenti opere dei grandi nomi dell'altra pubblicazione, Robert Howard, Clark Ashton Smith ed Edmond Hamilton, oltre a molti racconti del genere scientifico-bizzarro degli autori di Astounding, Charles W. Diffin, S. P. Meek e Ray Cummings. Molti dei suoi testi erano fantascienza pura del genere «mostro prodotto in laboratorio», ma il più famoso fu forse Wolves of Darkness di Jack Williamson, che trattava i lupi mannari in maniera quadridimensionale. Anche Weird Tales aveva una pubblicazione sorella. Farnsworth Wright nutriva una spiccata simpatia per la narrativa orientale, di cui Frank Owen era stato il pioniere nella rivista da lui diretta. Autori venuti poi, in particolare E. Hoffman Price, avevano scelto l'Oriente per ambientarvi le loro vicende del genere bizzarro. Finalmente, nell'ottobre 1930, uscì una rivista dedicata a questo sottogenere, Oriental Stories. Bimestrale, in formato pulp, 144 pagine, 25 centesimi, presenta un interesse marginale per gli appassionati di fantascienza. Di tanto in tanto pubblicava qualche racconto di science fiction, in particolare quando, rinata come Magic Carpet Magazine nel 1933, presentò le avventure di Stuart Merrick sul lontano mondo di Kaldar, tra i misteriosi uomini-ragno, opera di Edmond Hamilton (11). All'inizio del 1931, comunque, vi erano cinque importanti riviste di fantascienza: Amazing Stories, Wonder Stories con i relativi Quarterly, ed Astounding Stories (il suffisso of Super Science venne abbandonato con il numero del febbraio 1931). L'aprile dello stesso anno vide la nascita di un'altra pubblicazione: Miracle Science and Fantasy Stories. Harold Hersey aveva lasciato la Clayton Publications nel 1927 per passare a MacFadden, dove, come supervisore, si occupava un po' di tutto, in particolare di True Strange Stories e Ghost Stories. Ma nel giro di due anni aveva fondato una sua casa editrice, la Good Story Publishing, specializzandosi in riviste del genere gangster. Elliot Dold, un disegnatore della casa editrice, convinse Hersey a creare una rivista di science fiction. Lo stesso venne assunto come direttore, poiché era lui a commissionare i testi di
narrativa, benché Harold Hersey continuasse a prendere quasi tutte le decisioni. Fu quello uno dei rari tentativi redazionali di Elliot Dold. Suo fratello maggiore, Douglas Dold, era stato il competente direttore di una rivista d'avventure dei Clayton Magazines, Danger Trail. La cosa più straordinaria, per quanto riguarda Douglas Dold, era la sua cecità, conseguente ad un incidente avvenuto nel corso della prima guerra mondiale. Era stato assunto un assistente che aveva l'incarico di leggere ad alta voce i manoscritti. Deve trattarsi di uno dei rarissimi casi in cui una pubblicazione ebbe un direttore privo della vista. Miracle Stories non era esattamente di alto livello. La rivista, come al solito di 144 pagine, è oggi rarissima, ma soltanto il vero collezionista la ricerca. La narrativa non era eccezionale, sebbene il primo numero ostentasse nomi come Ray Cummings, Victor Rousseau ed Arthur Burks. Dold cercava d'imitare Astounding, al punto di includere anche il genere weird, il bizzarro. Il romanzo del primo numero era Valley of Sin, di suo fratello: la storia di una razza perduta. La rivista doveva uscire bimestralmente, ed in effetti un secondo numero apparve nel giugno 1931. E basta. Con ogni probabilità, Miracle imitava troppo Astounding per poter sopravvivere nei tempi della Depressione, quando venti centesimi rappresentavano già una somma. Secondo Hersey, comunque, «una grave malattia aveva impedito a Dold di continuare a collaborare come direttore, disegnatore e autore, perciò decisi di accantonare temporaneamente la rivista» (12). Le pubblicazioni non ripresero mai più. Nel 1931, comunque, la science fiction era diventata una forza con cui gli editori dovevano fare i conti. Ma non si trattava della narrativa scientifica di Gernsback. Era il romanzo avventuroso di Munsey a suscitare il maggior interesse, ed in questo, ovviamente, Astounding Stories ebbe una grande influenza. Il primo preavviso che i personaggi fantascientifici erano vendibili si era avuto con la transizione di Buck Rogers dalla narrativa ai fumetti. Buck Rogers era stato creato da Philip Francis Nowlan, ed era apparso per la prima volta in Armageddon 2419, su Amazing Stories dell'agosto 1928, cui fece seguito, nel numero del marzo 1929, The Airlords of Han. Nowlan trascrisse le avventure, che vennero pubblicate sotto forma di fumetti da centinaia di quotidiani, con il titolo di Buck Rogers in the 21st Century (13). La trama fondamentale, il supereroe contro l'arcicriminale, non era una novità: ma assumeva un aspetto nuovo. Era un tema che le riviste pulp d'avventura non potevano trascurare, ed in breve tempo apparvero testate con interi numeri dedicati alla narrativa avventurosa, con
un lungo racconto imperniato su un personaggio eroico o malvagio. Nell'aprile 1931 apparve The Shadow, che alla metà del 1932 era diventato quindicinale. Il primo personaggio fantascientifico apparso in una rivista di questo tipo fu Doc Savage: primo numero marzo 1933. Il dottor Clark Savage jr. possedeva una combinazione favolosa di cognizioni scientifiche, magia mentale e coraggio fisico, ed aiutava la gente a tirarsi fuori dai guai più strani. Tutte le avventure erano sceneggiate da Kenneth Robeson, ma era uno pseudonimo sotto cui si nascondevano numerosissimi autori. Virtualmente, tutte le avventure di Doc Savage erano opera di Lester Dent. La rivista uscì regolarmente ogni mese per quattordici anni, poi le pubblicazioni divennero meno regolari. All'inizio degli Anni Quaranta apparve anche un album a fumetti Doc Savage, ma questa è un'altra storia. Doc Savage era pubblicato dall'onnipresente Street & Smith Publishing Company. Si potrebbe dire che fu la sua prima rivista fantascientifica, se non si tiene conto di The Thrill Book; ma a stretto rigore Doc Savage non era una pubblicazione di questo tipo. Di solito, soltanto il romanzo principale era science fiction; le altre pagine contenevano normali vicende avventurose. Si rivolgeva ad un pubblico di ragazzi, ed era probabilmente la più popolare tra le riviste imperniate sulle avventure di uno specifico personaggio. Con il passare degli anni, nel decennio 1930-40, il campo dei pulps brulicò di periodici del genere. The Spider cominciò a uscire nell'ottobre 1933, Operator 5 nell'aprile 1934, Secret 6 nell'ottobre 1934, e così via. Nel campo della narrativa dell'orrore, la specializzazione proseguiva. Weird Tales era diventata ormai una pubblicazione di prestigio. Era un onore apparire sulle sue pagine. Ma Farnsworth Wright non era soddisfatto dei ristrettissimi margini economici della sua rivista, e teneva sempre d'occhio le pubblicazioni rivali per seguirne le tendenze. La concorrenza vera e propria ebbe inizio con Dime Mystery Magazine, lanciata da una nuova casa editrice, la Popular Publications di Chicago. Il presidente della società era Harry Steeger, ed il direttore editoriale Rogers Terril. Dime Mystery era specializzata nelle storie del bizzarro, e fin dal primo numero (dicembre 1932) divenne popolarissimo: attirò molti degli autori di Weird Tales, come Arthur Burkes, Paul Ernst e Hugh Cave. Dime Mystery non si rivolgeva ad un pubblico di ragazzi: tendeva piuttosto alla narrativa sexy e sadica. Le Popular Publications cominciarono ben presto ad ampliarsi in questo campo, con Terror Tales (settembre 1934) e Horror Stories (gennaio 1935); non passò molto tempo prima che spuntassero le
imitazioni: Spicy Mystery Stories (luglio 1934) e Mystery Adventure Magazine (gennaio 1935) furono tra le più notevoli. Tutto questo indusse Farnsworth Wright ad incorporare sesso e sadismo in Weird Tales, con il risultato che, a parte Edmond Hamilton, sulle sue pagine la science fiction apparve sempre meno di frequente. Questo periodo segnò l'inizio del declino di Weird Tales. Sotto la guida di Wright, la sua fioritura era durata dal 1928 al 1936. Poi, con la morte di H. P. Lovecraft e di Robert E. Howard, il ritiro di Clark Ashton Smith e quello virtuale di Otis Kline, e l'orientamento nuovo verso la narrativa sadica, Weird Tales non poté più venir considerata un mercato regolare per la science fiction. In questa nostra panoramica, perciò, dobbiamo dirle addio. (Weird Tales venne diretta da Wright fino al 1940, quando passò di mano, e Dorothy McIlwraith, direttrice di Short Stories, se ne occupò fino a quando la rivista scomparve nel settembre 1954, dopo 279 numeri). Tutto questo illustra la nascita della specializzazione del campo dell'avventura pulp all'inizio degli Anni Trenta. La science fiction era solo un ramo del grande albero: ma era un ramo redditizio. I tempi comunque erano difficili. Il crollo di Wall Street, nel 1929, aveva dato l'avvio alla Depressione economica, che nel 1933 raggiungeva il suo nadir. Naturalmente, questo influì sulle riviste fantascientifiche, ed i primi a risentirne furono i voluminosi trimestrali che, costando cinquanta centesimi, erano troppo cari per la maggior parte del pubblico. Gli ultimi due numeri di Amazing Stories Quarterly furono ristampe. Datata Inverno 1933 e Inverno 1934, la rivista non venne eliminata immediatamente. Senza dubbio sarebbe sopravvissuta agli anni della Depressione, se non fosse stato per il vecchio direttore Sloane, che non se la sentiva più di addossarsi troppi compiti. Rispondendo alle osservazioni dei lettori in Discussions, egli scriveva: «Il Quarterly avrà date di pubblicazione piuttosto irregolari. Qualche volta abbiamo pensato di sospenderlo definitivamente» (14). Sloane scrisse questo nel maggio 1935. Evidentemente, la decisione divenne irrevocabile, poiché il trimestrale non comparve più. Wonder Stories Quarterly morì nel gennaio 1933 con il quattordicesimo numero, e verso la metà dello stesso anno, anche Wonder Stories cominciò a saltare varie date di uscita. Ridivenne mensile alla fine del 1933, ma con molti cambiamenti. L'inizio degli Anni Trenta aveva visto Wonder Stories al culmine della popolarità, mentre Astounding lottava per il secondo posto con Amazing, la quale era in fase di virtuale declino. Amazing riuscì a non affogare grazie a due autori, E. E. «Doc» Smith e John W. Campbell, che
era apparso per la prima volta nel numero di gennaio del 1930; conservò anche il formato grande fino all'ottobre 1933, quando dovette assumere quello tipico dei pulps. La Teck aveva trasferito la sede a Chicago, sebbene gli uffici redazionali rimanessero a New York. Wonder Stories aveva incominciato piuttosto presto con il formato pulp. A partire dal novembre 1930, Wonder seguì Astounding, come seconda rivista fantascientifica pulp: ma dopo dodici numeri ritornò al formato grande. Restò così fino all'ottobre 1933, e dal novembre tornò al formato tradizionale. Stranamente, queste date coincidono con gli ultimi mesi del 1933: ma ancora più stranamente, nello stesso periodo anche Astounding Stories subì cambiamenti. Sotto la gestione Clayton, Astounding si era creato un seguito formidabile, e Bates stava per ispirare nuove idee rivoluzionarie. Aveva già acquistato il più recente romanzo di E. E. Smith. Ma purtroppo, i grandi progetti non si realizzarono. Clayton rilevò la parte del suo socio; ma il costo del danaro, in quei tempi bui, era troppo elevato. Dapprima Astounding uscì bimestralmente, e poi Harry Bates fu costretto a ritardare i pagamenti del materiale. Fu un colpo per gli autori fantascientifici, poiché la rivista era stata un mercato redditizio. Le testate di Gernsback (le precedenti e le attuali) pagavano solo mezzo centesimo a parola, e al momento della pubblicazione. Astounding, invece, pagava due centesimi la parola all'accettazione del racconto. Il marzo 1933 segnò la fine dell'Astounding Stories di Clayton, proprio quando la rivista stava crescendo. Era appena cominciata una rubrica scientifica regolare, Science Forum: corrispondeva a Science Questions and Answers di Gernsback. Ma non c'era il promesso romanzo a puntate di «Doc» Smith. Comunque, non fu la fine di Astounding Stories. Nell'ottobre 1933 la rivista era di nuovo in edicola, non più come «una rivista Clayton», bensì come... «una pubblicazione Street & Smith». Se c'era una casa editrice che, dopo tanti tentativi, meritava una rivista di fantascienza era sicuramente quella. La nuova Astounding era poco diversa nel formato e nel prezzo, ma la copertina non era di Wesso. Era opera del veterano Howard V. Brown, che sostituì quest'ultimo come illustratore fisso. Quel numero non era interamente fantascientifico; includeva anche numerose storie del bizzarro, come Don Mackinder's Model, di F. S. Howard-Burleigh. Ma c'erano anche i vecchi nomi: Paul Ernst, Donald Wan-
drei, Anthony Gilmore e Nat Schachner, ed ovviamente la rivista attirò i seguaci del genere. Non c'era l'editoriale, e neppure il nome del direttore, che venne rivelato solo nel numero di dicembre. Molti inarcarono le sopracciglia nel vedere che si trattava di F. Orlin Tremaine. Frederick Orlin Tremaine era nato il 7 gennaio 1899 a Harrisville, New York, e nel 1920 era diventato direttore di Torch. Nel 1924 lavorò per True Story Magazine di MacFadden, e poi, fino al 1926, fu direttore di Smart Set. Nel 1929 entrò alle dipendenze di William Clayton, e vi rimase fino al 1933, con un'interruzione nel 1930, quando diresse Everybody's Magazine. Poi passò alla Street & Smith, dove fra le altre riviste diresse Top-Notch, ed ereditò Astounding Stories. (Tremaine fu responsabile anche di Bill Barnes, una rivista di storie d'aviazione che in seguito dedicò alcuni numeri alla fantascienza rivaleggiando con Dusty Ayres And His Battle Birds, curato da Edythe Seims.) Sebbene Tremaine avesse una vasta esperienza editoriale, era virtualmente sconosciuto alla maggioranza degli appassionati. Fu lui, tuttavia, a trasformare la science fiction negli Anni Trenta, e sottrasse il monopolio a Gernsback. Lo fece sin dall'inizio. Tremaine voleva vicende basate su idee, trame e stile originali. Vicende che accendessero l'immaginazione. Le battezzò «tought variant» (varianti concettuali). Il primo racconto del genere apparve nel dicembre 1933: Ancestral Voices di Nathan Schachner. Parlava di un uomo che torna indietro nel tempo, ed uccide un unno che sarebbe stato destinato a diventare un suo lontano antenato: di conseguenza, lui stesso e migliaia d'altre persone spariscono. Nel numero di gennaio venne Colossus di Donald Wandrei, con un tema che in realtà si richiamava a The Man From The Atom di Wertenbaker, ma con uno svolgimento molto più folle. Nel 1934, Astounding Stories pubblicò romanzi e racconti l'uno più brillante dell'altro. Vennero Sidewise in Time di Murray Leinster, Bright Illusion di C. L. Moore, The Man Who Stopped the Dust di John Russel Fearn. Venne Born of the Sun di Jack Williamson, un racconto in cui i pianeti ed i satelliti si rivelano uova colossali contenenti entità embrionali. Poi c'erano i classici romanzi a puntate dell'anno: Rebirth di Thomas Calvert McClary, in cui un'amnesia universale faceva ripiombare l'umanità nella barbarie; The Legion of Space, una stravagante vicenda cosmica di Jack Williamson; il clamoroso finale della serie Skylark di E. E. Smith, The Skylark of Valeron; e per chiudere l'annata, l'epica di super science di John Campbell, The Mightiest Machine. Aggiungete la nascita dei racconti di Don A. Stuart,
che ebbero inizio con Twilight, e avrete una delle annate più formidabili della storia delle riviste fantascientifiche. Non bisogna poi dimenticare che nel marzo 1934 le pagine aumentarono da 144 a 160, e che da agosto vennero usati caratteri più piccoli, per far spazio ad una maggiore quantità di testi. Il prezzo restò venti centesimi: e c'erano eccellenti storie dei fedeli Harl Vincent, Raymond Gallun, Nathan Schachner, John Russell Fearn, Donald Wandrei ed Arthur Leo Zagat... come poteva far fiasco una rivista simile? Alla fine del 1934, Astounding era diventata l'incontestata capofila del campo. Per tutto il 1935, Tremaine continuò a presentare ottima narrativa, coronata dai racconti di Don A. Stuart e di Raymond Gallun. Stuart era uno pseudonimo di John W. Campbell: e fu lui, più di tutti gli altri autori, a cambiare la fantascienza alla metà degli Anni Trenta. Costrinse a cambiare persino se stesso. Questo venne esemplificato dal rifiuto opposto da Tremaine ai seguiti che Campbell scrisse per The Mightiest Machine. Quel genere di super science apparteneva ormai al passato. Tremaine era riuscito ad aumentare la tiratura di Astounding affidandosi ai giganti della «superscienza», Smith, Campbell e Williamson. Ma ormai i tempi erano maturi per un cambiamento. Sotto il nome di Don A. Stuart, con racconti come Twilight, ed il seguito Night, fu Campbell ad operare la metamorfosi. Presto venne imitato da Raymond Gallun, con racconti come Old Faithful ed i suoi vari seguiti. Poi il 1935 fu l'anno di Stanley G. Weinbaum. Ma sebbene Weinbaum presentasse ottimi testi su Astounding nel 1935, non fu una scoperta di Tremaine. Weinbaum aveva esordito in Wonder Stories: e se vi chiedete cosa stava facendo Gernsback mentre Tremaine gettava le fondamenta della fantascienza moderna, è venuto il momento di rivelarvelo. 4. Gernsback e i fan Come ho già accennato, quando pubblicava Amazing Stories Gernsback aveva già scoperto l'esistenza di un esercito bell'e pronto di fan, in attesa d'una pubblicazione del genere. Quando Gernsback introdusse Discussions nella rivista, permise ai fan di conoscersi tra di loro, e nacque così il fandom fantascientifico. Questa non è la sede più adatta per addentrarci nella sua storia: è già stato fatto altrove, e meglio di quanto potrei io (15). Ma è essenziale, per capire le riviste specializzate, occuparci almeno di alcuni periodici dilettantistici, o fanzine (fan magazine), pubblicati dagli appassionati del genere.
I fan erano particolarmente chiassosi nella posta dei lettori delle varie pubblicazioni, soprattutto in The Reader Speaks di Wonder Stories. Vi s'incontravano regolarmente i nomi di personaggi dinamicissimi, come Forrest J. Ackerman, Donald Wollheim, Raymond Palmer, Bob Tucker, e il meno attivo Jack Darrow. I fan scoprirono che nei loro dintorni vivevano altri fan, e di conseguenza si formarono vari gruppi. Uno dei primi fu lo Science Correspondence Club, fondato a Chicago da Walter Dennis e da Raymond Palmer. Naturalmente, il club pubblicava un bollettino, The Comet, un'edizione ciclostilata di otto pagine, il cui primo numero era datato maggio 1930. Tuttavia, si occupava soprattutto di scienza, non di narrativa; tirò avanti fino al 1933, con diciassette numeri variamente intitolati. Walter Dennis intavolò una corrispondenza con un fan di New York, Alien Glasser, e Glasser fondò un suo club, The Scienceers, e pubblicò The Planet, un altro organo ciclostilato, che però aveva solo da tre a cinque pagine. The Planet si occupava più di science fiction, e fu il primo fanzine fantascientifico vero e proprio. Lo curava Glasser, e Mort Weisinger era il curatore associato. Glasser cercava di fare pubblicità alla sua organizzazione: ed il posto ideale era la rubrica della posta di una rivista professionale. Perciò troviamo in Science Wonder Stories del maggio 1930 una lettera di Glasser, il quale informa i lettori della costituzione del club Scienceers, con un elogio editoriale da parte di Gernsback. Wonder Stories del giugno 1930 pubblicava un'altra lettera di Glasser, il quale informava Gernsback che tutti gli Scienceers avevano votato a favore del cambiamento di testata. Contemporaneamente, David Lasser (direttore editoriale di Wonder Stories) aveva fondato l'American Interplanetary Society. Il segretario era C. P. Mason, un condirettore di Wonder Stories; e per non farsi superare dagli Scienceers, il numero del giugno 1930 pubblicava una lettera di quel gruppo, che annunciava ai lettori le sue intenzioni. (Tra parentesi, oltre a Lasser ed a Mason, c'erano Laurence Manning, che era il tesoriere, e Fletcher Pratt che era il bibliotecario.) Lasser diede a Glasser l'idea che i due gruppi dovevano fondersi. Accettò solo il presidente, Warren Fitzgerald, e dopo soli sette mesi gli Scienceers si sciolsero. Glasser fondò allora The Time Traveller, che partì nel gennaio 1932 e durò per nove numeri, in quell'anno. Nel frattempo un fan dell'Oklahoma, Dan McPhail, aveva creato il primo foglio d'informazioni fantascientifiche, Science Fiction News, che durò dal giugno 1931 al dicembre 1936. Gernsback teneva moltissimo a scoprire fino a che punto si estendeva
questo fanatismo. Alla sua maniera, lanciò un concorso, con cinquecento dollari di premi, su Science Wonder Quarterly della primavera 1930: «Che cosa ho fatto per diffondere la fantascienza». Glasser vinse il terzo premio, con lo Scienceers Club. Il primo premio lo vinse Ray Palmer; ma molto più importante fu il secondo, attribuito al tipografo Conrad H. Ruppert, dell'Indiana, per la sua proposta di una «Settimana della Science Fiction». Gernsback prese a cuore l'idea, e dedicò l'editoriale di Science Wonder Stories del maggio 1930 a questa iniziativa, svoltasi dal 31 marzo al 7 aprile. L'idea di Gernsback, secondo cui la fantascienza era istruttiva, appariva evidente: «Se ogni uomo, donna, bambino e bambina venisse indotto a leggere science fiction, ne deriverebbe senza dubbio un considerevole beneficio per la comunità, in quanto il livello d'istruzione si eleverebbe enormemente» (16). Non è facile misurare il valore promozionale di una settimana dedicata alla diffusione della fantascienza: mi sembra evidente che, soprattutto grazie a Wonder Stories, le attività degli appassionati cominciarono a ingigantire. I fanzine presero a sorgere in abbondanza. Conrad Ruppert mise a disposizione la sua tipografia e stampò The Time Traveller di Glasser a partire dal terzo numero. Questo diede al fanzine un aspetto professionale. Poi, nel settembre 1932, venne Science Fiction Digest, curato da Maurice Ingher, stampato da Ruppert, con l'assistenza saltuaria di Mort Weisinger, Julius Schwartz e Forrest Ackerman. Science Fiction Digest (che dopo il 1933 divenne Fantasy Magazine) era una rivista semiprofessionale, che costituiva virtualmente una enciclopedia della fantascienza: conteneva non solo narrativa, ma anche biografie, indici, notizie e critiche. Divenne la voce del fandom sino alla sua morte, avvenuta nel 1937. Un'impresa memorabile di Science Fiction Digest fu Cosmos, un romanzo a puntate scritto da più autori, che ebbe inizio nel numero di luglio del 1933 con un episodio di Ralph Milne Farley e durò per diciassette puntate, fino a quando Edmond Hamilton lo concluse nel dicembre 1934. Collaborarono tutti i grossi nomi del settore, inclusi David Keller, Francis Flagg, John Campbell, Otis A. Kline, A. Merritt, E. E. Smith, P. S. Miller e Lloyd Eshbach. (In numeri successivi apparvero altre storie a più mani, incluso un racconto del bizzarro che ebbe tra gli autori H. P. Lovecraft e Robert E. Howard: ma nessuno ebbe il sapore e l'originalità del prototipo.) Il culmine delle riviste semiprofessionali si ebbe quando un appassionato di Los Angeles, William Crawford, pubblicò Unusual Stories e Marvel Tales, nel 1934. Crawford tentò di ottenere racconti dagli autori professio-
nisti, offrendo come pagamento un abbonamento a vita alla rivista. Il sistema funzionò benissimo, dato che i suoi pochi numeri presentarono opere di H. P. Lovecraft, David Keller, Robert Howard, Miles Breuer, Clifford Simak, Robert Bloch e P. Schuyler Miller. Alcuni di questi racconti, come The Titan di Miller, The Creator di Simak e Garden of Fear di Howard, sono oggi considerati dei classici. Unusual Stories non ebbe mai un vero e proprio lancio: apparvero tre numeri appena. Marvel Tales ottenne un po' più successo. Entrambe avevano un formato da libro tascabile, e Marvel Tales aumentò le pagine, passando dalle 40 del primo numero (maggio 1934) fino alle 108, formato gigante del quarto (marzo 1935). Uscirono in totale cinque numeri: la rivista mori nell'estate del 1935. Per tutto questo tempo, Crawford cercò di venderla nelle edicole, ma invano. Nel settembre 1933 Charles Hornig, un fan diciassettenne del New Jersey, creò un suo periodico amatoriale, The Fantasy Fan. Ne mandò una copia a ognuno dei direttori dei prozine (professional magazine, periodici professionali di fantascienza) e per uno strano scherzo del destino, la rivista arrivò a Gernsback quando il suo direttore generale David Lasser si era appena licenziato. Sebbene fosse presidente dell'American Interplanetary Society, Lasser si preoccupava soprattutto di chiedere aiuto per i disoccupati, e lasciò l'impiego presso Gernsback per diventare presidente della Workers Unemployed Union, di cui avrebbe sempre sostenuto la causa. Gernsback decise che Hornig era l'uomo adatto per dirigere la rivista, e dal novembre 1933 lo insediò in carica. Questa fulminea ascesa da semplice appassionato a professionista non sarebbe stata mai più eguagliata, soprattutto da una persona così giovane. Non è ben chiaro perché si debba scegliere il novembre 1933 come svolta decisiva della science fiction. Comunque, lo stesso mese in cui Hornig assunse la direzione, Tremaine annunciò i suoi programmi per Astounding Stories. Ovviamente, Tremaine era più avanti di Wonder Stories, ma Hornig non poteva lasciare che la situazione restasse com'era. In concorrenza con lui, lanciò la sua Politica «Nuova». Hornig era convinto che fosse stata Wonder Stories ad aprire la strada, precedendo Astounding. In uno speciale annuncio, nel numero di dicembre 1935, Hornig diceva: «In effetti, questa politica nuova era un'idea così buona che uno dei nostri rispettati rivali, obbedendo alla massima secondo la quale " l'imitazione è l'elogio più sincero ", se n'è uscito con quel-
la che viene chiamata thought variant. Siamo molto soddisfatti che sia stata Wonder Stories a dare inizio a questa nuova, affascinante èra della science fiction, così diversa dai vecchi tempi, in cui dominavano temi rifritti e personaggi stereotipati» (17). Ovviamente, Hornig non aveva avuto il tempo d'istituire una Politica Nuova: ma l'aveva avuto Gernsback. È molto probabile che Lasser non fosse d'accordo in questo con le idee di Gernsback mentre Hornig lo era. Soltanto questa spiegazione può chiarire perché mai Hornig insistesse tanto nel proclamare che Wonder Stories era stata la prima ad operare la «rivoluzione». Qualunque fosse la spiegazione, non si può negare che entrambe le riviste pubblicarono eccellente narrativa nel 1934 e nel 1935. Fu su Wonder Stories che Stanley G. Weinbaum esordì con A Martian Odyssey (luglio 1934). Il racconto ed il suo seguito, Valley of Dreams, apparso in novembre, portavano il lettore nei bizzarri panorami di Marte, tra legioni di esseri sorprendentemente diversi. Weinbaum aveva uno stile ricco di humour, e fu uno dei primi autori a rendere i suoi extraterrestri alieni ma «umani». Oltre a Weinbaum, Wonder Stories pubblicò ottimi testi fantascientifici di David Keller, Edmond Hamilton, Alan Connell, M. M. Kaplan, David Daniels e Laurence Manning. Il 1934 può essere considerato l'anno migliore per Wonder. La popolarità della rivista era stata confermata all'inizio del 1934, quando Raymond Palmer, presidente del Premio Jules Verne, l'assegnò al miglior racconto del 1933, The Island of Unreason di Edmond Hamilton, apparso su Wonder nel maggio 1933. Poiché la rivista, quell'anno, aveva pubblicato parecchie ottime storie di autori come Nathan Schachner, con la sua serie di Technocracy, e Laurence Manning, con la serie The Man Who Awoke, il premio indicava quale popolarità avesse ormai acquisito Hamilton. Wonder aveva anche battuto Amazing, Weird ed Astounding, benché queste riviste avessero pubblicato racconti come Shambleau di C. L. Moore (Weird, novembre), Unto Us A Child Is Born di David Keller (Amazing, luglio), ed A Race Through Time di Donald Wandrei (Astounding, ottobre). Ma l'evento principale del 1934, per Wonder, non riguardava la narrativa. Nel febbraio di quell'anno, Gernsback istituì la Science Fiction League, per accrescere la popolarità della fantascienza. In pochi mesi, diventò un'autentica forza nel mondo degli appassionati. Wonder pubblicava una
rubrica mensile dedicata esclusivamente alle notizie e alle proposte: e fra i distintivi, la carta intestata e i Diplomi, si aveva l'impressione che il fandom non fosse mai stato organizzato altrettanto bene. Per i fan della fantascienza, in Wonder Stories la narrativa divenne un fattore secondario. Come ha ricordato Robert Lowndes, «dai tempi di Charles D. Hornig a Wonder Stories... ho sempre avuto un debole per la rivista personalizzata, o per la rivista dotata di una spiccata personalità. Per questo, allora, attendevo il prossimo numero di Wonder con maggior ansia che quello di Astounding...» (18).
Lo stemma della Science Fiction League, disegnato da Frank R. Paul. Astounding aveva una vivace rubrica di posta dei lettori, Brass Tacks, ma non era all'altezza di Wonder, con la sua Lega e The Reader Speaks. In tutti gli Stati Uniti sorsero rapidamente sezioni della Lega: e altre nacquero persino in Inghilterra (Maurice Hanson ne formò una a Nuneaton, Douglas Mayer a Leeds. C'era una sezione a Belfast, con Hugh Carswell, e persino una a Sydney, in Australia, fondata da W. J. J. Osland). La Lega faceva le cose in grande; ma soltanto in apparenza. Il numero del settembre 1935 comunicava che tre membri erano stati espulsi per... «attività antilega»! Erano Donald Wollheim, John Michel e Wiliam Sykora, che avevano fondato l'International Scientific Association, che si contrapponeva alla Science Fiction League. Essi sostenevano che solo un'organizzazione indipendente poteva portare il fandom alla maturità e alla grandezza, giacché un club professionale, per sua stessa natura, doveva essere commerciale e quindi avrebbe bloccato il libero flusso della critica. Cominciò così la faida. Durò due anni, ed il risultato fu che il fandom
crebbe e crebbe in modo impensabile; nuovi club, nuovi fanzine e soprattutto nuovi appassionati. La sorte dalla battaglia venne decisa quando Wonder Stories si trovò a malpartito. Come si ricorderà, per Astounding Stories la Street & Smith pagava due centesimi la parola, mentre i compensi di Gernsback oscillavano tra il mezzo centesimo ed i tre quarti di centesimo. Ovviamente, se gli autori riuscivano a vendere ad Astounding, lo preferivano. Amazing Stories non pagava meglio, e per giunta gli scrittori non ci tenevano a inviare i loro manoscritti a Sloane, perché li tratteneva per molto tempo. Poiché il pagamento avveniva alla pubblicazione, era una situazione impossibile. Nell'agosto 1935 Amazing Stories usciva bimestralmente; nel novembre 1935, anche Wonder Stories cominciò ad apparire a mesi alternati. Astounding, d'altra parte, aveva iniziato come mensile nell'ottobre 1933, e nel 1934 si parlava di trasformarla in quindicinale. Il progetto non si concretizzò, ma Astounding non ha mai cessato di apparire puntuale in edicola ogni mese. Un altro fattore fu l'ulteriore specializzazione di diversi pulps. Doc Savage era un'altra carta vincente della Street & Smith, e dato che di danaro ne circolava poco, i lettori, ovviamente, cercavano di ottenere più che potevano in cambio dei loro venti centesimi. Nel tentativo di allargare il suo mercato, Wonder Stories ridusse il prezzo a quindici centesimi nel 1935: ma non servì a nulla, anzi ridusse drasticamente il ricavo. Dieci anni dopo la comparsa folgorante di Amazing Stories sulla scena della fantascienza, per la prima volta Gernsback si trovava di fronte a serie difficoltà. Poi venne il numero marzo-aprile 1936 di Wonder Stories, e il pubblico apprese la verità. Nel suo editoriale Wonders of Distribution (I misteri della distribuzione), Gernsback scriveva che nel commercio delle riviste la disonestà aveva superato ogni limite. I distributori più importanti toglievano le copertine alle riviste, vendendole al pubblico a minor prezzo come copie imperfette, e si tenevano l'intero ricavato. Gernsback decise che l'unico modo per evitarlo consisteva nell'eliminare gli intermediari e provvedere direttamente alla diffusione. Venne così ideato il suo «piano postale». In uno speciale annuncio pubblicato su quel numero, Gernsback rivelava che, mentre la fantascienza era «in auge» nel 1926, adesso era ormai in declino, e si vendevano meglio i gialli ed i western. Il suo progetto era un abbonamento a rovescio. In quel numero c'era uno speciale tagliando. I lettori erano invitati a spedirlo a Gernsback: avrebbero ricevuto la copia successiva di Wonder Stories con
un conto di quindici centesimi, più una busta per la restituzione. Per il lettore non c'erano spese in più, perché la tariffa postale era a carico dell'editore: avrebbe ricevuto la rivista e avrebbe pagato dopo. Gernsback concludeva dicendo: «E permettetemi di ringraziarvi tutti in anticipo perché renderete possibile questa nuova iniziativa. So che non mi deluderete in questo grandioso esperimento!» (19). Ebbe invece un'amara delusione. Arrivarono solo duemila risposte, troppo poche per rendere realizzabile il suo progetto. Gernsback vendette Wonder Stories alla Standard Magazines e si ritirò dal campo fantascientifico per continuare la pubblicazione assai più redditizia di Sexology. Poiché ormai Amazing Stories era ridotta all'ombra di se stessa, Astounding Stories rimase a regnare suprema. La politica di Tremaine, idee nuove di grandi nomi, aveva avuto successo. C'è qualcosa da dire, comunque, sui problemi di Gernsback con la distribuzione. Per le riviste è sempre stata una grossa questione, soprattutto per la science fiction, e bisogna rendersi conto che la Street & Smith, essendo una casa editrice più grande, aveva distributori migliori, e quindi maggiori possibilità di mettere la propria rivista sotto gli occhi dei potenziali acquirenti. Nel marzo 1936, gli Stati Uniti avevano visto compiersi il decennale delle riviste fantascientifiche: 115 numeri di Amazing Stories, 79 di Wonder Stories e 64 di Astounding. Tuttavia, come si suol dire, gli ultimi saranno i primi. E cosa aveva fatto la Gran Bretagna, in tutto questo tempo? Non si può negare che gli editori americani fossero sempre assai più disposti degli inglesi a correre rischi. È vero che, se un editore americano aveva una filiale inglese, sfornava un'edizione britannica, esattamente identica all'americana. La Street & Smith, la cui sede era al Covent Garden, a Londra, aveva creato appunto un'edizione di The Thrill Book, identica in ogni dettaglio alla versione statunitense. Ovviamente, alla Gran Bretagna mancava un editore indigeno, pronto a puntare su una rivista interamente fantascientifica. Gli ibridi erano abbondanti. Fin dai tempi di Strand e Pearson's, molte riviste britanniche pubblicavano science fiction, come Gran Magazine, Red Magazine e Royal. L'unica serie fantascientifica completa che fosse apparsa era quella delle ristampe britanniche dei dime novels di Frank Reade, sfornata dall'Aldine
Publishing Company di Crown Court, dalle parti di Chancery Lane, a Londra. Presentata come «la biblioteca delle invenzioni, dei viaggi e delle avventure», questa collana di tascabili in brossura continuò per parecchi anni, al ritmo di un volume la settimana, intorno alla metà del decennio 1890-1900. C'erano anche, sempre dell'Aldine, The Cheerful Library ed O'er Land And Sea Library. Erano tutte collane che si rivolgevano ad un pubblico giovanile, ma erano di gradevole lettura. La marea delle riviste avventurose pulp americane parve convincere gli editori britannici che ce n'era già più che a sufficienza, e che sarebbe stato superfluo tentare di creare una rivista inglese di science fiction. Gli autori britannici non scarseggiavano. I lettori di Gernsback leggevano spesso le loro opere: erano George C. Wallis, John Beynon (Wyndham) Harris, Festus Pragnell, J. M. Walsh, Benson Herbert, W. P. Cockcroft ed altri. In Gran Bretagna si erano formati vari gruppi di appassionati: uno dei primissimi, a Hayes, aveva pubblicato il prototipo dei fanzine inglesi, Fantasia. Nello stesso tempo Walter Gillins (nato nel 1912), destinato a cambiare la fantascienza britannica, stava fondando il suo Ilford Science Literary Circle. Ma i tentativi di convincere gli editori inglesi a creare una rivista di fantascienza furono vani. Era difficile spiegarsi tale reazione negativa in un periodo in cui le riviste di storie poliziesche erano regolari, e la Fleetway House aveva lanciato un settimanale da due penny, The Thriller, che pubblicava gialli di autori come Edgar Wallace, Sax Rohmer, Anthony Skene e Sydney Horler.
Il primo numero di Scoops (10 febbraio 1934). Fu quindi una grande sorpresa, quando la Pearsons lanciò il suo secondo settimanale, Scoops. Era più un giornale che una rivista, con trentadue pa-
gine a grande formato, stampate a caratteri piccoli. Il primo numero portava la data del 10 febbraio, ed era curato, senza che ne figurasse il nome, dal direttore di Scout, Haydn Dimmock. Anche tutti i collaboratori erano anonimi, ed il lettore doveva accontentarsi dei titoli, come Master of the Moon, The Striding Terror, The Rebel Robots, Rocket of Doom, The Mystery of the Blue Mist, Voice from the Void e The Soundless House. Tre erano romanzi a puntate. Con il secondo numero, la rivista si rivolse ancor più al pubblico giovanile, ed incominciò un altro romanzo a puntate. Fu l'unico, nei primi numeri, a portare il nome dell'autore, il professor A. M. Low. Il romanzo Space venne poi pubblicato in edizione rilegata con il titolo Adrift in the Stratosphere. (Fu il primo libro di fantascienza che lessi, a parte quelli di Verne. Ricordo ancora l'emozione, negli Anni Cinquanta, per le avventure dei tre intrepidi ragazzi che si erano lanciati accidentalmente nello spazio, cercavano di evitare la minaccia marziana, e si trovavano in uno strano corridoio di fiamme. Fu questo libro ad attirarmi alla fantascienza: non posso giudicarlo severamente. Ritengo che, allo stesso modo, avesse suscitato un notevole interesse nei giovani che, nel 1934, attendevano con ansia gli episodi successivi.) Piacque anche a molti adulti, ma non ai fan irriducibili che erano stati iniziati alla science fiction dai pulps americani. Quando, nei numeri successivi, Scoops cercò di crescere, si trovò in sospeso tra i due mercati, e mori dopo venti numeri: l'ultimo uscì il 23 giugno 1934. Ormai recava i nomi degli autori, e si potevano trovare John Russell Fearn, Maurice Hugi, W. P. Cockcroft, un romanzo a puntate di George E. Rochester, più una ristampa di The Poison Belt di Conan Doyle. L'insuccesso di Scoops diede agli editori l'impressione che una rivista di fantascienza «indigena» non fosse in grado di reggersi. E non solo agli editori. Su Wonder del marzo 1936, un fan di Nottingham, James Dudley, scriveva in una lettera: «Per l'uomo o gli uomini dotati del coraggio e del capitale per incominciare, questa nostra piccola terra sarebbe un "pascolo verdeggiante" per la science fiction, e si rivelerebbe una miniera d'oro.» E il direttore Hornig rispondeva:
«Si direbbe che tu non sappia che una rivista britannica di science fiction è stata pubblicata per venti numeri settimanali, ma poi è colata a picco. Per noi, e per gli editori britannici, questo dimostra che il tuo paese non è ancora pronto a tenere in vita una rivista professionale di science fiction in modo che si mantenga da sola» (20). E tutto si fermò lì. La science fiction britannica era praticamente morta prima di nascere, e nonostante una strana pubblicazione intitolata Breezy Science Stories, che apparve con un unico numero nel 1934, gli appassionati locali dovettero rassegnarsi a frugare nelle riviste generiche: il meglio era Passing Show di Odham, che aveva già ristampato alcuni romanzi di Edgar Rice Burroughs, e che nel luglio 1935 iniziò a pubblicare a puntate The Secret People di John Beynon Harris, un romanzo imperniato su una razza perduta insediata sotto il deserto del Sahara. Dieci anni dopo la nascita delle riviste di fantascienza, terminava l'«èra di Gernsback», che nel 1934 aveva lasciato il posto al periodo Tremaine, al quale nel 1938 succedette l'«èra di Campbell». Immergetevi per un po' nello splendore di qualcosa di speciale, qualcosa di nuovo. Tra il 1926 e il 1936 la science fiction era un tema molto personale. Gli appassionati, pur crescendo di numero, erano sparsi e lontani. Non ebbero nessuno con cui dividere la gioia appena scoperta, fino a quando la rubrica della posta di Gernsback li mise in grado di individuare i confratelli. Mentre leggerete questi racconti, ricordate i fan del passato, e vedete se riuscite anche voi ad evadere in quel loro mondo sognante del domani, che ormai è solo il fantasma d'una speranza del passato. Dopo il 1936, la science fiction non sarebbe stata la stessa, mai più. Note: (1) Dall'editoriale di Hugo Gernsback, in Amazing Stories, aprile 1961, pag. 7, edita da Ziff-Davis Publishing Co., Chicago. (2) Da For Your Information, la rubrica di Willy Ley, in Galaxy, febbraio 1963, pag. 91, edita da Galaxy Publishing Co., New York. (3) HAROLD B. HERSEY, Pulpwood Editor, F. A. Stokes Co., New York 1937 (dal Capitolo 10, Take Your Choice, pag. 188). (4) Il fascicolo conteneva ben tre storie di Lovecraft: Hypnos, a sua firma; Imprisoned with the Pharaohs, a firma Harry Houdini e presentata
come una «avventura vissuta» dal noto mago; The Loved Dead, a firma Clifford M. Eddy jr., che costituiva una delle note «revisioni» di HPL. Quest'ultima storia, per il suo insistito tema necrofilo, rischiò di far sequestrare la rivista proprio in un momento difficile della sua travagliata vita editoriale (Cfr. H. P. LOVECRAFT, Nelle spire di Medusa, Fanucci, Roma 1976) (N.d.C). (5) Dall'editoriale di Hugo Gernsback, Editorially Speaking, in Amazing Stories, settembre 1926, edita da Experimenter Publishing Co., New York. (6) Dall'editoriale di Hugo Gernsback, in Amazing Stories, aprile 1926. Ripreso dalla ristampa in Amazing Stories, aprile 1966, pagg. 188-9, edita da Ultimate Publishing Co., New York. (7) Dal necrologio di Wilbur C. Whitehead in Amazing Stories, settembre 1931, pag. 484, edita dalla Teck Publishing Corp., New York. Scritto probabilmente da Hugo Gernsback. (8) Dall'editoriale di Hugo Gernsback in Amazing Stories, giugno 1926. Ripreso dalla citazione nel capitolo Hugo Gernsback, in Sam Moskowitz, Explorers of the Infinite, World Publishing Co., Ohio, 1963, pag. 236. (9) Da un annuncio in Science Wonder Stories, maggio 1930, pag. 1099, edita da Stellar Publishing Corp., New York. (10) HAROLD B. HERSEY, Pulpwood Editor cit. (11) Cfr. EDMOND HAMILTON, Kaldar, mondo di Antares (Kaldar, World of Antares, aprile 1933), in BRIAN W. ALDISS, Space Opera, Fanucci, Roma 1977 (Enciclopedia della Fantascienza 1) (N.d.C). (12) HAROLD B. HERSEY, Pulpwood Editor cit. (13) La prima striscia del fumetto apparve il 7 gennaio 1929 (N.d.C). (14) Da un commento editoriale di T. O'Conor Sloane nella rubrica di posta dei lettori Discussions, Amazing Stories, maggio 1935, pag. 140. (15) The Immortal Storm di Sam Moskowitz; e All Our Yesterdays di Harry Warner jr. (16) Dall'editoriale di Hugo Gernsback, Science Fiction Week, in Science Wonder Stories, maggio 1930, pag. 1061. (17) New Policy Still «New», in Wonder Stories, dicembre 1935, pag. 748, edito da Continental Publications Inc. Scritto probabilmente da Charles Hornig. (18) Da una lettera di Robert A. W. Lowndes, pubblicata nella rubrica ...Or So You Say, in Amazing Stories, gennaio 1937, pag. 121. (19) Da un annuncio speciale di Gernsback, in Wonder Stories, marzoaprile 1936, pag. 923.
(20) Da una lettera di James Dudley con commento di Charles Hornig nella rubrica The Reader Speaks, in Wonder Stories, marzo-aprile 1936, pagg. 1017-18. 1926
G. Peyton Wertenbaker E vennero i ghiacci Non si può negare che la fantascienza attragga tanto i giovani quanto i vecchi. T. O'Conor Sloane, che senza dubbio fu il primo a leggere questo racconto, aveva settantaquattro anni, e l'autore ne aveva diciannove, ma scriveva science fiction già da un triennio. L'esordio di Green Peyton Wertenbaker avvenne nel numero speciale dedicato alla scientifiction di Science and Invention, nell'agosto 1923, quando aveva soltanto sedici anni, con il racconto The Man From the Atom. Nonostante molte ingenuità scientifiche, la vicenda era trattata con la maturità di un autore già adulto. The Man From The Atom parlava d'un giovane che collauda l'invenzione d'un professore, capace di ingrandire o rimpicciolire gli oggetti. Con il più totale disprezzo per le leggi di Newton, il protagonista continua a ingigantire, fino a quando la Terra gli apparve come una pallina. Continuando a crescere, lascia l'universo ed entra in un macrosmo, un universo in cui il nostro pianeta è soltanto un elettrone. Quando tenta di tornare alla Terra, scopre che è un mondo morto, estinto da milioni di anni. Il senso di desolazione espresso da questo sedicenne è straordinario. Non erano doti passeggere. The Coming of the Ice fu il primo racconto nuovo che apparve su Amazing Stories, nel terzo numero della rivista. Anche qui troverete lo stesso senso di solitudine, ma questa volta chi lo prova è un uomo immortale. Wertenbaker era figlio di William Wertenbaker e di Imogen Peyton, ed era fratello minore del romanziere Charles Christian Wertenbaker. Nato in Virginia nel 1907, abbandonò il campo fantascientifico dopo cinque soli racconti, tutti scritti con competenza e degni di venire ristampati (anche se bisogna tener conto delle sue... licenze scientifiche). In seguito diventò direttore della nota rivista Fortune e scrisse molti volumi sul Sud-Ovest a-
mericano. Wertenbaker non è comunque l'autore più giovane che abbia scritto su riviste fantascientifiche. Per esempio, Charles Cloukey vendette a Gernsback il suo primo racconto, Sub-Satellite, quando aveva soltanto quindici anni. Pochi anni dopo, questo giovane genio morì. Il primato, comunque, è detenuto da Kenneth Sterling, il cui racconto umoristico, The Brain Eaters of Pluto venne venduto a Wonder Stories quando aveva tredici anni! (1). Nessun autore famoso può vantarsi di eguagliare tanta precocità in campo fantascientifico. Isaac Asimov aveva diciotto anni quando vendette Marooned Off Vesta a Ray Palmer, mentre Robert Heinlein ne aveva trentuno quando John Campbell gli comprò Life Line. Ciò pone nel dovuto risalto la precocità di G. Peyton Wertenbaker. (1) Cfr. KENNETH STERLING, Abissi smisurati per l'uomo, in H. P. LOVECRAFT, Sfida dall'infinito, Fanucci, Roma 1976 (N.d.C).
«Strane creature, questi uomini del centesimo secolo, con le teste enormi ed i corpi minuti... Mostrai loro i miei vecchissimi documenti, provando la mia identità e la mia storia». (Illustrazione di Frank R. Paul). È strano essere solo, e avere tanto freddo. Essere l'ultimo uomo sulla Terra... La neve turbina silenziosa davanti a me, incessante, terribile. Ed io sono isolato in questo piccolo angolo bianco d'un mondo ovattato: sono senza dubbio la più solitaria creatura dell'universo. Quanti millenni sono trascorsi da quando ho avuto, per l'ultima volta, una vera compagnia? Da molto tempo sono solo: ma c'era gente, c'erano creature di carne e di sangue. Adesso non ci sono più. Adesso non ho neppure le stelle per tenermi compagnia, perché sono tutte perdute in un infinito di neve e di crepuscolo, quaggiù. Se almeno sapessi quanto tempo è trascorso, da quanto sono rimasto im-
prigionato sulla Terra. Ormai non ha importanza. Eppure un'insoddisfazione vaga, un fioco istinto, continua a chiedere nelle mie orecchie rombanti: Che anno? Che anno? Nel 1930 ebbe inizio il grande evento della mia vita. C'era allora un uomo famoso, il quale compiva operazioni sui suoi simili per sistemare i loro organi vitali... Gli uomini come lui, li chiamavano chirurghi. John Granden portava il titolo di «Sir» davanti al suo nome, quale indicazione di una nascita nobile, secondo le tradizioni in uso in Inghilterra. Ma la chirurgia era soltanto un hobby, per Sir John, se debbo essere preciso, perché, sebbene avesse acquisito una fama enorme come chirurgo, era convinto che il suo vero lavoro consistesse nella parte sperimentale della professione. In un certo senso era un sognatore: ma era capace di rendere reali i propri sogni. Io ero amico intimo di Sir John. Anzi, dividevamo lo stesso appartamento, a Londra. Non ho mai dimenticato il giorno in cui mi parlò per la prima volta della sua sensazionale scoperta. Ero appena rientrato da una lunga corsa in slitta nella campagna, in compagnia di Alice, ed ero seduto, un po' insonnolito, accanto alla finestra; rimuginavo pigramente, mentalmente, una descrizione del vento e della neve e del crepuscolo grigio. È strano, no?, che la mia storia incominci e finisca con la neve ed il crepuscolo. Sir John aprì all'improvviso una porta, in fondo alla stanza, e si diresse frettolosamente verso un'altra porta. Mi guardò e sorrise, come un pazzo trionfante. «Ci siamo!» gridò, senza fermarsi. «Ci sono quasi arrivato!» Io gli sorrisi: in quel momento mi sembrava molto ridicolo. «A cosa è arrivato?» chiesi. «Santo cielo, al Segreto... al Segreto!» E sparì di nuovo, mentre la porta si chiudeva sul suo grido di vittoria. «Il Segreto!» Naturalmente, ero divertito. Ma anche molto interessato. Conoscevo abbastanza bene Sir John per sapere che, sebbene la sua espressione fosse sconcertante, non vi sarebbe stato nulla di assurdo nel suo «Segreto»... quale che fosse. Ma era inutile formulare ipotesi. Potevo soltanto sperare che, a pranzo, fosse disposto a fornirmi qualche chiarimento. Perciò m'immersi nella lettura di un volume della sua splendida Biblioteca dell'Immaginazione, e attesi. Mi pare che fosse un libro del signor H. G. Wells, probabilmente When the Sleeper Wakes, o un'altra delle sue geniali fantasie profetiche, perché ero disposto a credere praticamente tutto quando, più tardi, sedemmo a tavola. Vorrei essere in grado di rendere l'atmosfera che pervadeva il nostro
appartamento. Allora, chiunque voi siate, potreste capire un po' la facilità con cui accettai la nuova scoperta di Sir John. Cominciò subito a spiegarmela, come se non fosse più in grado di tenerla per sé. «Aveva pensato che fossi impazzito, Dennell?» mi chiese. «Io stesso mi stupisco che non sia accaduto proprio questo. Per molti anni, per quasi tutta la mia vita, ho studiato il problema. E all'improvviso l'ho risolto! O meglio, temo di averne risolto un altro molto più grande.» «Me ne parli: ma per amor del cielo, non in termini troppo tecnici.» «Giusto,» fece lui. Poi tacque per qualche istante. «Dennell, è magnifico! Cambierà completamente il mondo.» I suoi occhi si fissarono nei miei, con una potenza ipnotica. «Dennell, è il Segreto della Vita Eterna,» disse. «Buon Dio, Sir John!» esclamai, quasi sul punto di mettermi a ridere. «Dico sul serio,» dichiarò. «Lei sa che ho trascorso quasi tutta la vita studiando i processi della nascita, cercando di scoprire esattamente ciò che avviene nell'intera storia della concezione.» «E l'ha scoperto?» «No, ed è questo che mi diverte. Ho scoperto qualcosa d'altro, senza sapere ancora che cosa causa entrambi i processi. «Non voglio ricorrere al linguaggio tecnico, ed io stesso so ben poco di ciò che avviene effettivamente. Ma posso cercare di dargliene un'idea.» Sono trascorsi millenni, forse milioni di anni, da quando Sir John me lo spiegò. Forse ho dimenticato quel po' che compresi allora, tuttavia cercherò di riferire come posso la sua teoria. «Nel mio studio dei processi della nascita,» cominciò, «ho scoperto i rudimenti di un'azione che si compie negli organismi di uomini e donne. Vi sono certe proprietà, nei cibi che ingeriamo, che rimangono nell'organismo per riprodurre la vita: due Essenze distinte, per così dire, una delle quali è conservata dalla donna, l'altra dall'uomo. È l'unione di queste due proprietà, naturalmente, a creare il figlio. «Ora, un giorno commisi un piccolo errore, mentre facevo esperimenti con una cavia, e ridisposi certi organi in modo da convincermi di aver scombinato completamente l'addome di quel povero animaletto. Comunque sopravvisse, ed io lo misi in disparte. Solo qualche anno dopo, per caso, lo notai di nuovo. Non aveva messo al mondo dei piccoli: mi sbalordì però constatare che apparentemente non era affatto invecchiato. Sembrava nelle stesse esatte condizioni in cui l'avevo lasciato. «Partii di lì. Riesaminai la cavia, e l'osservai attentamente. Non è neces-
sario che le spieghi in dettaglio i miei studi. Ma alla fine scoprii che il mio " errore " era stato in realtà una scoperta sensazionale. Scoprii che era sufficiente bloccare certi organi, ridisporre certi dotti ed aprire altri organi dormienti: e allora, mirabile dictu, l'intero processo della riproduzione cambiava. «Avrà sentito dire, è naturale, che i nostri corpi mutano di continuo, ora per ora, minuto per minuto, tanto che in pochi anni noi siamo letteralmente rinati. Sembra che un principio affine agisca nella riproduzione: ma invece di compiere la sostituzione del vecchio corpo con il corpo nuovo, approssimativamente nella stessa forma, il corpo nuovo si crea separatamente. È la creazione dei figli che ci fa morire, si direbbe, perché se questa attività viene per così dire arginata o avviata in nuovi canali, la riproduzione si compie sul vecchio corpo, rinnovandolo di continuo. È molto oscuro e molto assurdo, no? Ma la cosa più assurda è che questo è vero. Qualunque possa essere la vera spiegazione, resta il fatto che l'operazione può essere effettuata, che prolunga effettivamente la vita all'infinito, e che io solo conosco il segreto.» Sir John mi disse molte altre cose; ma in fondo penso che si trattasse più o meno di questo. Mi sarebbe impossibile esprimere l'impressione che la sua scoperta fece su di me, dal momento in cui me la riferì. Fin dall'inizio, affascinato dalla sua personalità, gli credetti; sapevo che stava dicendo la verità. E aprì davanti a me prospettive nuove. Cominciai a vedere me stesso divenuto improvvisamente eterno: non avrei mai più conosciuto la paura della morte. Mi vedevo, un secolo dopo l'altro, accumulare una saggezza ed un'esperienza che avrebbero fatto di me un dio. «Sir John!» esclamai, prima che avesse finito. «Lei deve compiere quell'operazione su di me!» «Ma, Dennell, è troppo precipitoso. Non deve mettersi nelle mie mani in maniera così avventata.» «Lei ha perfezionato l'operazione, non è vero?» «È vero,» disse lui. «E dovrà provarla su qualcuno, no?» «Sì, naturalmente. Eppure... non so, Dennell, ho paura, in un certo senso. Non posso fare a meno di pensare che l'uomo non è ancora preparato ad una cosa tanto enorme. Bisogna rinunciare all'amore, ad ogni piacere dei sensi. L'operazione non soltanto elimina la riproduzione, ma priva il soggetto di tutte le cose che si accompagnano al sesso, di tutto l'amore, di tutti i sentimenti di poesia e d'arte. Lascia soltanto le poche emozioni egoistiche
necessarie allo spirito di conservazione. Non capisce? Un individuo diviene un intelletto, nient'altro... una fredda apoteosi della ragione. Ed io non me la sento di affrontare con calma un simile problema.» «Ma, Sir John, come molte altre paure, è orribile in prospettiva. Dopo aver cambiato la sua indole, non può rimpiangerlo. Quello che lei è ora le apparirebbe un'idea orribile, dopo, quanto ora le sembra il pensiero di ciò che diverrà». «È vero, è vero. Lo so. Ma tuttavia, è difficile affrontarlo.» «Io non ne ho timore.» «Dennell, temo che lei non capisca. E mi chiedo se lei od io o chiunque altro, su questa Terra, è pronto per un simile passo. Dopotutto, per rendere immortale una razza, bisogna essere sicuri che sia perfetta.» «Sir John,» dissi io, «non tocca a lei affrontare questo problema, né a nessun altro al mondo, fino a quando si sentirà pronto. Ma io sono deciso, e glielo chiedo in nome della nostra amicizia.» Discutemmo a lungo, ma alla fine la spuntai. Sir John promise di compiere l'operazione tre giorni dopo. ... Ma ora vi rendete conto di ciò che avevo dimenticato nel corso della discussione, l'unica cosa che avevo pensato di non poter mai scordare in tutta la mia vita, neppure per un istante... il mio amore per Alice... l'avevo dimenticato! Non posso descrivere qui l'infinità di emozioni che provai più tardi quando, mentre tenevo Alice tra le mie braccia, mi resi improvvisamente conto di ciò che avevo fatto. Intere epoche fa... ho dimenticato i sentimenti, ora. Potrei nominare mille emozioni che provavo un tempo, ma ormai non so più neppure comprenderle. Perché soltanto il cuore può comprendere il cuore, e l'intelletto può capire solo l'intelletto. Tenendo Alice fra le braccia, le raccontai tutto. Fu lei che, d'istinto, afferrò ciò che non avevo notato. «Ma, Carl!» esclamò. «Non capisci?... Non potremo mai sposarci!» E per la prima volta, capii. Se almeno potessi ritrovare il minimo riflesso di quell'amore! Ho sempre saputo, fin da quando mi è sfuggito l'ultimo barlume di comprensione, di aver perduto qualcosa di meraviglioso, quando perdetti l'amore. Ma che importa? Persi anche Alice, e non avrei più potuto conoscere l'amore, senza di lei. Quella sera eravamo molto tristi, molto tragici. Per ore ed ore discutemmo il problema. Ma sentivo di essere inestricabilmente prigioniero del
mio fato, sentivo che ormai non potevo ritornare sulla mia decisione. Forse avevo una mentalità da studentello, ma pensavo che sarebbe stata una vigliaccheria tirarmi indietro. E ancora una volta fu Alice a intuire un aspetto finale della questione. «Carl,» mi disse, accostando le labbra alle mie «tutto questo non dovrà ostacolare il nostro amore. Dopotutto, sarebbe un amore ben meschino, se non fosse più della mente che della carne. Continueremo ad amarci, ma dimenticheremo il semplice desiderio carnale. Anch'io mi sottoporrò all'operazione!» Non mi fu possibile dissuaderla. Le parlai dei pericoli che non potevo permetterle di affrontare. Ma, come usano fare le donne, mi disarmò accusandomi di non amarla, di non volere il suo affetto; mi disse che cercavo di sottrarmi all'amore. Cosa potevo risponderle, se non assicurarle che l'amavo e che avrei fatto qualunque cosa al mondo per non perderla? Da allora, talvolta mi sono chiesto se avremmo potuto conoscere l'amore della mente. L'amore appartiene interamente alla carne, è stato creato da un Dio ironico al solo fine di propagare la Sua razza? Oppure può esistere l'amore senza sentimento, l'amore senza passione... l'amore tra due freddi intelletti? Non so. Allora non lo chiesi. Accettai tutto ciò che avrebbe facilitato la nostra strada. È inutile dilungarmi. Già mi tremano le mani, e me ne manca il tempo. Fra poco non esisterò più, non esisterà più la mia storia... né l'Umanità. Vi saranno soltanto la neve e il ghiaccio, e il freddo... Tre giorni dopo entrai nell'ospedale di Sir John, al braccio di Alice. Avevo messo in ordine tutti i miei affari... e non erano molto importanti. Avevo insistito perché Alice attendesse che io mi fossi sottoposto all'operazione, prima di fare altrettanto. Da due giorni non mangiavo, ed ero perduto in un mondo irreale di pareti bianche e di camici bianchi e di luci bianche, ebbro dei miei sogni del futuro. Quando venni portato in sala operatoria, per un momento la vidi brillare, nitida: una camera bianca, linda, metodica, alta, più o meno circolare. E poi mi trovai sotto il bagliore delle luci bianche, e la sala svanì in una nebbiosità vaga, in cui sottili aghi d'acciaio lampeggiavano vibrando su freddi strumenti argentei. Per un momento io e Sir John ci stringemmo la mano, e ci dicemmo addio - un attimo solo - come si dicono gli uomini. Poi sentii il tocco tepido delle labbra di Alice sulle mie, e all'improvviso provai sensazioni dolorose che non posso descrivere, che neppure allora avrei saputo descrivere. Per un momento, provai l'impulso di alzarmi, di gridare che non potevo farlo. Ma quella sen-
sazione passò, e rimasi passivo. Qualcosa premette sulla mia bocca, sul mio naso: qualcosa che aveva odore d'etere. Intorno a me, scorgevo occhi fissi, dietro le maschere candide. Lottai, istintivamente, ma invano... mi tenevano stretto. Punti infinitesimali di luce cominciarono a ondeggiare su di uno sfondo di pece: un grande ronzio sordo mi echeggiò nella testa. Mi parve che la mia testa fosse divenuta una gola, una grande gola vuota, cavernosa, in cui si mescolavano suoni e luci, con un ritmo convulso, che si avvicinava e si allontanava in eterno. Poi, credo, vennero i sogni. Ma li ho dimenticati... Cominciai a riprendermi dagli effetti dell'etere. Ogni cosa era indistinta, ma riuscii a scorgere Alice accanto a me, e Sir John. «Tutto bene!» stava dicendo Sir John, e anche Alice stava dicendo qualcosa: ma non ricordo che cosa. Parlammo a lungo: io dicevo le cose assurde di coloro che si destano dall'anestesia, loro m'incitavano, con una certa solennità. Ma dopo un po', mi accorsi che si accingevano ad andarsene. All'improvviso, Dio sa perché, capii che non dovevano allontanarsi. Qualcosa, in fondo alla mia mente, urlava che dovevano rimanere... sono cose che non si possono spiegare, se non alla luce degli eventi successivi. Cominciai a insistere perché restassero: mi sorrisero e dissero che dovevano andare a pranzo. Ordinai loro di non lasciarmi; mi parlarono con dolcezza, promisero che sarebbero tornati presto. Piansi anche un poco, credo, come un bambino; ma Sir John parlò all'infermiera, che cominciò a ragionare con me in toni fermi, e poi loro uscirono, ed io, non so come, mi addormentai... Quando mi svegliai, avevo la mente abbastanza lucida, ma tutto intorno a me c'era un odore d'etere insopportabile. Nell'istante in cui aprii gli occhi, intuii che era accaduto qualcosa. Chiesi di Sir John e di Alice. Vidi un'espressione bizzarra, che non seppi interpretare, passare sul volto dell'infermiera: poi riacquistò la calma, l'impassibilità. Mi rassicurò con brevi frasi insignificanti, e mi disse di dormire. Ma non potevo dormire: ero assolutamente certo che fosse accaduto qualcosa al mio amico ed alla donna che amavo. Eppure tutte le mie insistenze furono vane, perché le infermiere tacevano. Alla fine, credo, mi diedero non so che sonnifero, perché mi riaddormentai. Per due giorni caotici, interminabili, non seppi nulla di Alice e di Sir John. Diventavo sempre più agitato, e l'infermiera era sempre più taciturna. Diceva soltanto che si erano assentati per un giorno o due.
E poi, il terzo giorno, scoprii la verità. Credevano che io dormissi. L'infermiera di notte era appena arrivata per dare il cambio alla collega. «Ha chiesto ancora di loro?» domandò. «Sì, poveretto. Ho faticato molto a tenerlo tranquillo.» «Dovremo tenerglielo nascosto fino a quando si sarà completamente ripreso.» Vi fu una lunga pausa, mentre faticavo a controllare il mio respiro. «È stato così improvviso,» mormorò una delle due donne. «Uccisi in modo...» Non udii altro, perché balzai a sedere di colpo sul letto, gridando. «Presto! Per amor di Dio, ditemi cos'è accaduto!» Saltai a terra, ne afferrai una per il collo. Lei era inorridita: la scrollai con forza sovrumana. «Me lo dica!» urlai. «Me lo dica... oppure...» E lei me lo disse: che altro poteva fare? «Sono rimasti uccisi in un incidente,» ansimò. «Il taxi... uno scontro... sullo Strand!» E in quel momento arrivò una folla d'infermiere e d'inservienti, chiamati dall'altra, e mi rimisero a letto. Non ricordo i giorni che seguirono. Ero in delirio, e nessuno mi riferì mai ciò che dissi allora. Né so esprimere i sentimenti che mi saturavano quando finalmente recuperai la lucidità. Tra le mie emozioni di un tempo ed ogni tentativo di tradurle in parole, persino di ricordarle, c'è sempre la muraglia invalicabile della mia Metamorfosi. Non posso capire ciò che dovevo provare allora, non posso esprimerlo. So solo che per molte settimane restai immerso in un'infelicità inimmaginabile. I due soli amici che avevo avuto sulla Terra mi avevano lasciato. Ero rimasto solo. E per la prima volta cominciai a vedere dinanzi a me quegli anni interminabili che sarebbero stati eguali, opachi, solitari. Tuttavia mi ripresi. Ogni giorno sentivo crescere un vigore strano e nuovo nelle mie membra, una forza immane che esprimeva tangibilmente la vita eterna. Lentamente, la mia angoscia cominciò a spegnersi. Dopo un'altra settimana, cominciai a capire che le emozioni mi abbandonavano... che l'amore e la bellezza e tutto ciò che costituisce la poesia, tutto stava scomparendo. All'inizio non ne sopportavo il pensiero. Guardavo l'aurea luce del Sole e l'ombra azzurra del vento, e dicevo: «Dio! Com'è bello,» E quelle parole echeggiavano prive di senso nelle mie orecchie. Oppure ricordavo il volto di Alice, quel volto che avevo amato inestinguibilmente, e piangevo e mi stringevo la fronte, e serravo i pugni, gridando. «Oh, Dio, come posso vivere senza di lei!» Eppure nello stesso istante, nella mia mente c'era una strana fantasia che diceva: «Chi è Alice? Non l'hai mai conosciuta.» E veramente mi chiedevo se era mai esistita.
E così, lentamente, le vecchie emozioni mi abbandonarono, e cominciai ad allietarmi del corrispondente sviluppo delle mie percezioni mentali. Presi a baloccarmi pigramente con formule matematiche che avevo dimenticato anni prima, come un poeta si gingilla con una parola e con le sfumature del suo significato. Guardavo tutto con occhi nuovi, penetranti, con percezioni nuove, e comprendevo cose che prima non avevo mai capito, perché le emozioni mi avevano dominato assai più dei pensieri. E così trascorsero le settimane, fino a quando, un giorno, mi sentii bene. ...Dopotutto, a che serve questa cronaca? Sicuramente non vi saranno mai uomini che la leggeranno. Dirò loro che la neve non sparirà mai: verrò sepolto, ed essa verrà sepolta con me. Sarà la fine per entrambi. Eppure, inspiegabilmente, scrivere è un sollievo per la mia anima stanca... È necessario dire che, da allora, ho vissuto migliaia di migliaia d'anni, fino a questo giorno? Non posso spiegare dettagliatamente la mia vita. È un lungo turbinare d'impressioni nuove, fantastiche, che vengono come in un sogno, una dopo l'altra, fondendosi l'una nell'altra. Quando ci ripenso, come si ripensa ai sogni, mi pare di rammentare chiaramente solo pochi periodi isolati; e mi sembra che la mia immaginazione abbia colmato le lacune tra gli episodi. Ora ragiono, necessariamente, in termini di secoli e millenni, non di giorni e di mesi... La neve turbina terribilmente intorno al mio piccolo fuoco, e so che presto troverà il coraggio di spegnerci entrambi... Gli anni trascorsero: dapprima in una sorta di nitido stupore. Osservavo le cose che avvenivano altrove nel mondo. Studiavo. Gli altri allievi rimasero sbalorditi nel vedere un uomo di trent'anni che ritornava all'università. «Ma, per Giuda, Dennell, lei ha già una libera docenza! Che altro vuole?» mi chiedevano tutti. Ed io rispondevo: «Voglio la laurea in medicina e voglio diventare membro del Reale Collegio dei Chirurghi.» Non dicevo che volevo anche lauree in legge, e in biologia e in chimica, in architettura e in ingegneria, in psicologia e filosofia. Comunque, credo che mi giudicassero pazzo. Ma io li giudicavo sciocchi. Non potevano capire che avevo a disposizione un'eternità intera per studiare. Andai a scuola per molti decenni. Passando da un'università all'altra, raccogliendo tranquillamente i frutti in ogni materia che affrontavo, godendomi gli studi come mai nessuno studente aveva mai fatto prima. Non avevo bisogno di affrettarmi, non avevo paura di una morte prematura. Il
mio corpo era dotato di un vigore magnifico, e il mio cervello di una splendida chiarezza. Mi sentivo un superuomo. Bastava che continuassi ad accumulare la sapienza fino al giorno in cui tutta la conoscenza del mondo sarebbe stata mia: e allora avrei potuto comandare al mondo. Non avevo bisogno di affrettarmi. O vita immensa! Come mi gloriavo della mia eternità! E a quanto poco mi è servita, per un'ironia divina! Per diversi secoli, cambiando nome e passando da un luogo all'altro, continuai i miei studi. Non avvertivo la monotonia perché, per l'intelletto, la monotonia non può esistere; era una delle grandi emozioni che avevo lasciato alle mie spalle. Un giorno, tuttavia, nell'anno 2132, venne compiuta una grande scoperta, da un uomo che si chiamava Zarentzov. Riguardava la curvatura dello spazio, e cambiava le concezioni che tutti avevano seguito dopo Einstein. Già da molto tempo avevo appreso fino all'ultimo dettaglio la teoria einsteiniana come, con l'andar del tempo, l'aveva appreso il resto del mondo. Mi lanciai immediatamente nello studio di questa nuova, storica concezione. Con mia sorpresa, mi sembrava stranamente vaga e sfuggente. Non riuscivo ad afferrare ciò che cercava di formulare Zarentzov. «Ma,» gridavo, «è una frode mostruosa!» Mi recai dal professore di fisica dell'università che allora frequentavo, e gli dissi che si trattava di una truffa, di un grosso libro zeppo di assurdità. Mi guardò con aria di commiserazione. «Temo, Modevski,» mi disse, chiamandomi con il cognome che usavo in quel tempo, «che lei non la capisca, ecco tutto. Quando la sua mente si allargherà, potrà comprendere. Dovrebbe applicarsi con maggior impegno alla fisica.» Questo m'irritò, perché io avevo imparato la fisica prima ancora che lui nascesse. Lo sfidai a spiegare la teoria. E la spiegò! L'espose nel linguaggio più chiaro che conosceva. Eppure io non compresi nulla. Lo fissai sbalordito, fino a quando egli scosse il capo spazientito, dicendo che era inutile, che se non riuscivo ad afferrarla avrei dovuto continuare a studiare. Ero scombussolato. Me ne andai, sconcertato. Capite cos'era accaduto? In tutti quegli anni avevo studiato incessantemente, e la mia mente era stata limpida e pronta come il giorno in cui avevo lasciato l'ospedale. Ma da allora ero rimasto lo stesso... un uomo straordinariamente intelligente del ventesimo secolo. E intanto il resto della razza umana aveva continuato a progredire! Aveva accumulato rapidamente la conoscenza e la forza e la capacità, sempre più in fretta, mentre io soltanto restavo fermo. E adesso c'erano Zarentzov ed i professori universitari
e, probabilmente, altri cento uomini intelligenti che mi avevano superato! Ero rimasto indietro. Ed è ciò che accadde. È inutile dilungarmi. Alla fine di quel secolo ero stato superato da tutti gli studenti del mondo, e non compresi mai Zarentzov. Vennero altri uomini con altre teorie, che furono accettate dal mondo. Ma io non ero in grado di capirle. La mia vita intellettuale era alla fine. Sapevo tutto ciò che ero in grado di sapere: e da quel momento, avrei potuto soltanto baloccarmi stancamente con le vecchie idee. Molte cose accaddero nel mondo. Venne il tempo in cui l'Oriente e l'Occidente, le potenze unificate dei due emisferi, si levarono in armi, e fu la guerra civile del pianeta. Ricordo solo visioni caotiche di fuoco e di tuono e d'inferno. Per me era tutto incomprensibile: come in un sogno bizzarro gli eventi accadevano, la gente si agitava, ma io non sapevo mai che cosa facesse. Me ne rimasi rintanato, per tutto quel tempo, in un piccolo rifugio sotto la città di Yokohama, e per un miracolo sopravvissi. E l'Oriente vinse. Ma sembra che importasse poco chi aveva vinto, perché tutto il mondo, a parte pochi pregiudizi superstiti, era divenuto un'unica razza, e nulla cambiò quando venne ricostruito, sotto un governo unico. Vidi i primi strani esseri che apparvero tra noi nell'anno 6371, gli uomini di cui si seppe in seguito che provenivano da Venere. Ma furono respinti, poiché erano selvaggi, in confronto ai terrestri, sebbene fossero più o meno all'altezza della gente del mio secolo, il 1900. Coloro che non perirono di freddo, dopo il caldo intenso del loro mondo, e che non furono uccisi dai terrestri, ritornarono silenziosamente alla loro patria. E mi sono sempre pentito di non aver avuto il coraggio di andare via con loro. Vidi un tempo in cui il mondo raggiunse la perfezione nella meccanica, in cui gli uomini furono in grado di far tutto con un semplice tocco di un dito. Erano strani uomini, le creature del centesimo secolo, con cervelli enormi e minuscoli corpi incartapecoriti, arti atrofici, che si muovevano lentamente, poderosamente, su minuscoli veicoli. Con i miei antichi scrupoli, rabbrividii quando finirono per mandare a morte tutti i pervertiti, i criminali e i malati di mente, liberando il mondo della feccia di cui non avevano più bisogno. Allora fui costretto ad esibire i miei vecchi documenti sbrindellati, per provare la mia identità e la mia storia. Loro capirono che era vero, e da allora mi tennero in mostra come superstite dei tempi arcaici. Vidi il mondo reso immortale grazie alla nuova invenzione di un uomo
chiamato Kathol, il quale usava un metodo assai simile a quello che, secondo la «leggenda», era stato adottato nel mio caso. Assistetti alla fine della comunicazione verbale, di tutte le percezioni eccetto una, quando gli uomini impararono a comunicare direttamente a mezzo del pensiero, a ricevere direttamente nel cervello le miriadi di vibrazioni dell'universo. Vidi tutto questo ed altro, fino a quando non vi furono altre scoperte, bensì un Mondo Perfetto in cui non era più necessario nulla, eccettuata la memoria. Gli uomini, finalmente. smisero di contare il tempo. Parecchi secoli dono la 154a Dinastia dall'Ultima Guerra o, come si sarebbe calcolato nella mia epoca, intorno al 200.000 d.C, non vennero più tenuti meticolosamente i computi del tempo. Poi caddero in disuso. Gli uomini cominciarono a dimenticare gli anni, a dimenticare completamente il tempo. Che significato aveva il tempo, quando si era immortali? Dopo lunghi, lunghi secoli non contati, venne un periodo in cui i giorni diventarono assai più freddi. Poco a poco gli inverni si allungarono, le estati si ridussero alla durata di un mese o due. Temporali rabbiosi infuriavano continuamente nell'inverno, e durante l'estate, spesso, avvenivano tremende gelate: talvolta non c'era altro che quelle. Nelle località elevate e al Nord e nel Sud subequatoriale, giunse la neve e non si sciolse più. Gli uomini morivano a migliaia, alle latitudini più alte. Dopo un certo tempo, New York diventò la città abitabile più settentrionale, una città artica, dove raramente penetrava il calore. E grandi distese di ghiaccio cominciarono ad estendersi verso il Sud, ricacciando davanti a sé i fragili resti delle civiltà, coprendo implacabili le opere orgogliose dell'uomo. Un'estate, la neve comparve in Florida e in Italia. Alla fine, rimase sempre presente. Gli uomini abbandonarono New York, Chicago, Parigi, Yokohama, e dovunque, a milioni, si diressero verso il Sud, morendo lungo la via, inseguiti dalla neve e dal freddo, e da quelle inevitabili distese di ghiaccio. Erano creature deboli, quando il Grande Freddo piombò loro addosso, ma io parlo in termini di millenni; trasformarono ogni mezzo scientifico in un'arma per recuperare la forza fisica, poiché prevedevano che l'unica speranza di sopravvivere consisteva in un corpo forte e resistente. In quanto a me, avevo trovato finalmente un uso per i miei scarsi poteri, perché il mio fisico era il migliore del mondo. Era una scarsa consolazione, comunque, poiché eravamo tutti uniti dalla tremenda paura di quel Grande Freddo, di quella schiacciante distesa di ghiacci. Tutte le grandi città vennero abbandonate. Le scorgevamo, mute e terribili, mentre corre-
vamo sulle nevi a bordo delle nostre macchine... grandi scheletri famelici di città, avvolti da banchi di neve, una neve che il vento faceva turbinare per le strade desolate, dove un tempo il fior fiore della vita umana passava con serena sicurezza. Eppure i Ghiacci incalzavano ancora. Gli uomini avevano dimenticato l'ultima èra glaciale, quando avevano smesso di tener conto del tempo, quando avevano perduto di vista il futuro e si erano chiusi tra i loro ricordi. Non avevano ricordato che sarebbe giunto il momento in cui i Ghiacci avrebbero ricoperto, bianchi e lisci, la Terra intera, ed il Sole avrebbe brillato fioco tra interminabili intervalli di neve e nevischio, in un sempiterno crepuscolo. Lentamente, i Ghiacci ci ricacciarono verso l'equatore, fino a che gli ultimi resti della civiltà si raccolsero in Egitto e in India e nell'America Meridionale. I deserti rifiorirono, ma venivano sempre le gelate, ad azzannare gli scarsi raccolti. I Ghiacci continuavano ad avanzare. Ormai tutto il mondo, ad eccezione di una stretta fascia intorno all'equatore, era un grande, silenzioso panorama desolato di pianure di ghiaccio, accumulato sopra le rovine nascoste di città che avevano resistito per centinaia di migliaia di anni. Era terribile immaginare la spaventosa solitudine e l'incessante crepuscolo che si estendevano su quei luoghi, e la neve lugubre, che turbinava silenziosa su tutto... Ci circondò da ogni parte, fino a quando la vita rimase soltanto in poche isole sperdute intorno all'equatore, dove i fuochi non si spegnevano mai, per tener lontani i temutissimi Ghiacci. Ormai regnava un inverno perpetuo; e noi stavamo diventando animali in preda al terrore, che si depredavano a vicenda per prolungare una vita ormai condannata. Ah, ma io, il superstite arcaico, ora trovavo la mia vendetta, con il mio organismo robusto e le mascelle forti... Dio! Preferisco pensare ad altro. Quegli uomini che vivevano divorandosi l'un l'altro... una cosa orribile. Ed io ero uno di loro. E così, inevitabilmente, i Ghiacci ci assediarono... Un giorno, gli uomini della nostra piccola colonia si ridussero ad una ventina. Stavamo rannicchiati intorno al fuoco morente, alimentato da ossa e pezzi di tronchi. Non dicevamo nulla. Eravamo lì seduti, immersi in un silenzio senza parole e senza pensieri. Eravamo all'ultimo avamposto dell'Umanità. Penso che, all'improvviso, qualcosa di nobile dovette trasformare quelle creature in una parvenza di ciò che erano state un tempo. Vidi, nei loro occhi, la domanda che si scambiavano, ed in quegli occhi vidi la risposta: Sì. All'unisono si alzarono e, ignorandomi quale essere inferiore, si spogliarono dei loro stracci e, ad uno ad uno, si avviarono sulle gambette rinsecchite
nella tormenta turbinosa, e scomparvero. Ed io rimasi solo .. Perciò sono solo, ora. Ho scritto quest'ultima storia fantastica di me stesso e dell'Umanità su di una sostanza che, lo so, durerà più a lungo della neve e dei Ghiacci... così come è durata più a lungo dell'Umanità che l'ha prodotta. È la sola cosa da cui non mi sono mai separato. Non è un'ironia che debba essere io lo storico della specie... io, un selvaggio, un «superstite arcaico»? Perché scrivo? Dio solo lo sa: ma un istinto me l'impone, anche se non vi saranno mai uomini che leggeranno le mie parole. Sono rimasto qui seduto, in attesa, e spesso ho pensato a Sir John e ad Alice, che io amavo. È possibile che io provi di nuovo i sentimenti, dopo tutti questi millenni, una minuscola frazione di quell'emozione, di quella grande passione che conoscevo un tempo? Vedo davanti a me il volto di Alice, il volto che era svanito dai miei pensieri per interi eoni: ed in esso vi è qualcosa che sconvolge di nuovo il mio sangue. Gli occhi sono socchiusi, profondi, le labbra semiaperte, come se io potessi premerle in un infinito di stupore e di scoperta. Oh, Dio! È di nuovo l'amore, l'amore che credevo perduto! Spesso hanno sorriso di me quando parlavo di Dio, e borbottavano delle mie sciocche superstizioni primitive. Ma gli altri non ci sono più, e sono rimasto io solo, che credo in Dio, e senza dubbio questo ha uno scopo. Ho freddo, come ho già scritto. Ah, sono congelato. Il mio respiro si raggela, mescolandosi all'aria, e quasi non riesco a muovere le dita intirizzite. I Ghiacci mi si stringono intorno, e non sono più in grado di spezzarli. La tormenta urla pazzamente intorno a me nel crepuscolo, ed io so che è la fine. La fine del mondo. Ed io .. io, l'ultimo uomo... L'ultimo uomo... ... ho freddo... freddo... Ma sei tu, Alice? Sei tu? Titolo originale: The Coming of the Ice (Amazing Stories, giugno 1926). 1927
Francis Flagg
L'Uomo-Macchina di Ardathia Francis Flagg era lo pseudonimo di George Henry Weiss, ma poiché tutta la sua narrativa apparve sotto questo nom de plume, ha finito per usurpare il nome vero nella memoria dei lettori. The Machine Man of Ardathia segnò l'esordio di Flagg in campo fantascientifico, e fece sensazione. Fu sempre un autore molto popolare, e fu anche il primo a passare da Gernshack a Weird Tales, con il suo quarto racconto, The Chemical Brain. È molto probabile che si trattasse di storie rifiutate da Gernsback, poiché i loro elementi di bizzarria si prestavano soprattutto alla politica editoriale di Weird Tales. Comunque Flagg prese a collaborare spesso con questa rivista, che per la verità pubblicò alcuni di suoi testi migliori, in particolare The Distortion Out of Space, una delle sue ultime opere, apparsa nell'agosto 1934. Flagg è uno dei pochi autori che ebbero il loro primo racconto illustrato dalla copertina della rivista (anche se per scoprirlo bisognava guardare attentamente alla base dell'indice). Tuttavia, con una ricerca un po' più approfondita, si scopre che la cosa non è sorprendente, poiché il resto di quel particolare numero di Amazing Stories non era all'altezza del racconto di Flagg. Tanto per cominciare, il suo era l'unico testo nuovo, a parte il racconto di A. Hyatt Verrill, archeologo e naturalista: questo era solo una vicenda spiritosa del tipo «caccia all'errore», The Astounding Discoveries of Dr. Mentiroso. Tutto il resto era costituito da ristampe, compreso A Story of the Stone Age di H. G. Wells, una vicenda non molto scientifica, e la conclusione del lodevole romanzo di Garrett Smith, Treasures of Tantalus. Una delle caratteristiche più notevoli di Flagg è il suo atteggiamento nei confronti dei personaggi. La science fiction dell'epoca si poteva dividere in due settori: la «scuola di Verne», con tutti i suoi macchinari e le sue invenzioni, e la «scuola di Wells», che attribuiva maggior rilievo all'umanità e alla società. Flagg era senza dubbio un wellsiano, e questo contribuisce a tener viva la sua narrativa ancora oggi, quando gran parte della produzione di quel periodo apparve datata ed arcaica. Dopo The Distortion Out of Space, Flagg scomparve virtualmente dalla scena delle riviste fantascientifiche, a parte due collaborazioni con Forrest J. Ackerman. Morì nel 1946, a soli quarantotto anni. Un suo romanzo, The Night People, venne pubblicato postumo dalla Fantasy Publishing Corp. Inc. nel 1947, ed oggi è una rarità da collezionisti.
«Ero perfettamente consapevole quando i raggi mi sollevarono in aria. Per un istante, rimasi sospeso...». (Illustrazione di Frank R. Paul). Non so che cosa credere. Qualche volta, sono certo di avere sognato tutto. Ma poi c'è la faccenda della pesante sedia a dondolo. Indubbiamente, quella è scomparsa. Forse qualcuno mi ha giocato uno scherzo: ma chi si presterebbe ad un inganno tanto bizzarro, per il solo gusto di sbigottire un vecchio? Forse qualcuno l'ha rubata, la sedia a dondolo. Ma perché mai qualcuno poteva volerla? Certo, era un mobile robusto, ma non abbastanza prezioso per suscitare la cupidigia di un ladro. Inoltre, stava al suo posto, quando io ero seduto sulla poltrona. Certo, potrebbe darsi che io stia mentendo. Peters, cui ho avuto la pessima idea di raccontare tutto la notte stessa in cui il fatto avvenne, ha scritto un pezzo per il suo giornale, ed il direttore lo ha dichiarato più o meno apertamente, nell'editoriale, osservando: «Si direbbe che il signor Matthews possieda un'immaginazione degna di H. G. Wells». E considerando la natura di quanto è successo, sono disposto a perdonargli, se dubita della
mia sincerità. Tuttavia, i pochi amici che mi conoscono meglio pensano che avessi mangiato qualcosa di pesante, a cena, e che avessi avuto un incubo. Hodge dice che il giapponese che viene a pulirmi la casa aveva tolto la sedia a dondolo, e che io avevo dato per scontata la sua presenza quando mi sedetti sulla poltrona di fronte; ma il giapponese nega di averlo fatto. Debbo spiegare che ho un appartamento di due stanze più bagno, al terzo piano di un moderno palazzo di fronte al lago. Da quando mia moglie è morta tre anni fa, ho continuato a vivere così, facendo colazione e pranzo al ristorante, e cenando di solito al club. Ho anche uno studio in un palazzo al centro, dove trascorro qualche ora ogni giorno lavorando sul mio libro, un'analisi critica degli errori contenuti nelle teorie economiche marxiste, comprendente anche una confutazione meticolosa di Ancient Society di Lewis Morgan. È un'impresa ambiziosa, l'ammetterete, non certo tale da attirare l'interesse d'una persona portata ad inventare assurde fole al solo scopo di sbalordire gli amici. No: smentisco recisamente di aver inventato la storia. Tuttavia, il futuro parlerà da sé. Mi limiterò a mettere sulla carta i dettagli della mia strana esperienza: lo ritengo doveroso nei miei confronti, perché la stampa ha pubblicato versioni troppo ingarbugliate. E lascio al lettore il compito di trarne le conclusioni che preferisce. Contrariamente alle mie abitudini, quella sera avevo cenato insieme a Hodge all'Hotel Oaks. Permettetemi di ricordare con insistenza che, mentre gli intimi sanno bene che il mio amico ha una spiccata simpatia per i liquori, io non bevvi assolutamente nulla di alcolico, e Hodge può testimoniarlo. Verso le otto e mezzo, declinai l'invito di andare a teatro con lui, e me ne tornai a casa. Infilai la giacca da camera e le pantofole, e accesi un Avana leggero. La sedia a dondolo occupava il suo solito posto, quasi al centro del soggiorno. Lo ricordo chiaramente perché, come al solito, dovetti spingerla da un lato o girarle intorno, chiedendomi per la millesima volta perché quello sciocco giapponese insisteva a piazzarla in un punto tanto scomodo; e decisi, pure per la millesima volta, di parlargliene. Con un quaderno d'appunti e una matita, e una copia di Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels, accesi la lampada da tavolo con il paralume verde, spensi tutte le altre, e con un sospiro di sollievo mi abbandonai sulla poltrona. Intendevo prendere qualche appunto sull'opera di Engels per quanto ri-
guardava i matrimoni plurimi, dimostrando che contraddiceva certe conclusioni di Morgan; ma dopo aver lavorato per qualche minuto, mi abbandonai sulla poltrona e chiusi gli occhi. Non mi assopii: di questo sono certissimo. La mia mente era impegnata a costruire una frase che esprimesse con chiarezza i miei pensieri. Posso descrivere meglio quanto accadde poi dicendo che vi fu un'esplosione. In realtà non fu una vera esplosione: ma sul momento ne ebbi l'impressione. Un lampo accecante di luce s'impresse, con spaventosa nitidezza, sulla mia retina, attraverso le palpebre chiuse. Il primo pensiero fu che qualcuno avesse fatto scoppiare una carica di dinamite nel palazzo; il secondo, che fossero saltate le valvole dell'impianto elettrico. Trascorse qualche istante, prima che potessi vedere con chiarezza. E quando vi riuscii... «Buon Dio!» mormorai, con un filo di voce. «Che cos'è?» Nel punto dove prima si trovava la sedia a dondolo (anche se sul momento non ne notai l'assenza) c'era un cilindro che sembrava di vetro, alto all'incirca un metro e mezzo, direi. Racchiuso nel cilindro c'era la caricatura di un uomo... o di un bambino. Dico «caricatura» perché, sebbene il cilindro fosse alto in tutto un metro e mezzo, l'essere che vi stava racchiuso no superava i novanta centimetri; e potete immaginare il mio sbalordimento, nel vedere quell'apparizione. Dopo un po' mi alzai ed accesi tutte le lampade, per osservare meglio. Forse vi chiederete perché non chiamai qualcuno, ma non mi passò neppure per la mente. Nonostante l'età - ho sessant'anni - i miei nervi sono saldi, e non mi spavento facilmente. Girai intorno al cilindro, e scrutai da ogni angolo l'essere che vi stava all'interno. Era sostenuto, al centro, tra la sommità e il fondo, di una complessa struttura di tubi di vetro e di metallo. In certi punti, i tubi sembravano penetrare nel corpo; e notai che in quelli di vetro circolava una sorta di fluido scuro. La testa era molto grande, e calva: la fronte sporgente, le orecchie assenti. Gli occhi erano enormi, e le palpebre non battevano mai, il naso era ben definito; ma la parte inferiore del volto e la bocca si fondevano nel piccolo corpo rotondo, senza traccia di mento. Le gambe penzolanti erano magre e flaccide; le braccia sembravano piuttosto corti tentacoli, e partivano dal punto in cui si congiungevano la testa ed il corpo. Naturalmente, l'essere era nudo. Accostai la poltrona al cilindro e sedetti. Molte volte allungai la mano
nel tentativo di toccarne la superficie, ma una forza impediva alle mie dita di stabilire un contatto, e questo era stranissimo. Inoltre, non riuscivo a scorgere alcun movimento del corpo o degli arti della cosa bizzarra contenuta nel vetro. «Mi piacerebbe sapere,» mormorai, «che cosa sei e da dove vieni: sei vivo, ed io sogno o sono sveglio?» Improvvisamente, l'essere si animò. Una delle mani simili a tentacoli si portò di scatto alla bocca, stringendo un tubo metallico. Da questo scaturì una sorta di nastro bianco, che si fissò al cilindro. «Ah!» disse una chiara voce metallica. «Inglese primitivo: probabilmente del ventesimo secolo.» Le parole vennero pronunciate con un'intonazione indescrivibile, come se fosse uno straniero a parlare la nostra lingua. O meglio, come se parlasse una lingua morta. Non so perché mi venne questo pensiero. Forse... «Dunque puoi parlare!» esclamai. L'essere fece udire una risata gorgogliante, metallica. «Come dici tu, posso parlare.» «E allora dimmi cosa sei.» «Sono un Ardathiano... un Uomo-Macchina di Ardathia. E tu... Dimmi, quelli che hai in testa sono davvero capelli?» «Sì,» risposi. «E le coperture che avvolgono il tuo corpo, sono vestiti?» Risposi affermativamente. «Che strano! Allora sei veramente un primitivo: un Uomo Preistorico.» Dall'altra parte del vetro, gli occhi mi fissavano intenti. «Un uomo preistorico!» esclamai. «Cosa intendi?» «Intendo che appartieni a quella razza di uomini antichi di cui abbiamo riesumato gli scheletri, qua e là, ricostruendoli per le nostre Scuole di Biologia. È meraviglioso che i nostri scienziati vi abbiano ricreati partendo da frammenti d'osso! La testa piccola, coperta da capelli, la mandibola bestiale, il corpo e le gambe anormalmente grandi, le coperture artificiali di stoffa... persino la tua lingua!» Per la prima volta, cominciai a sospettare di essere vittima di un'impostura. Tornai ad alzarmi e girai cautamente intorno al cilindro, ma non scoprii alcun meccanismo esterno che controllasse l'oggetto. Inoltre, era assurdo pensare che qualcuno si prendesse il disturbo di costruire un apparecchio tanto complicato soltanto per il gusto di organizzare uno scherzo.
Comunque, andai a guardare sul ballatoio. Non vidi nessuno: allora tornai indietro e sedetti di nuovo davanti al cilindro. «Scusa,» dissi, «ma parli di me come se io appartenessi ad un periodo molto più remoto del tuo.» «È esatto. Se i miei calcoli non sono errati, tu sei trentamila anni nel passato, rispetto a me. Che data è?» «Il 5 giugno 1939,» risposi, con un filo di voce. L'essere eseguì alcune contorsioni, spostò con le mani alcuni tubi metallici, e poi annunciò, con la sua voce metallica: «Calcolando in termini del tuo metodo, sono ritornato indietro nel tempo esattamente di ventottomila anni, nove mesi, tre settimane, due giorni, sette ore e un certo numero di minuti e di secondi che è superfluo enumerare esattamente.» A questo punto, cercai di accertarmi che ero sveglio ed in pieno possesso delle mie facoltà mentali. Mi alzai, scelsi un sigaro dall'umidificatore, l'accesi e cominciai a lanciare boccate di fumo. Dopo qualche tirata, deposi il sigaro accanto a quello che avevo fumato in precedenza. Più tardi lo trovai lì. Una prova incontestabile... Ho detto di avere i nervi saldi. Tornai a sedere di fronte al cilindro, deciso questa volta a scoprire tutto ciò che potevo sul conto di quell'essere incredibile. «Tu dici di essere tornato indietro di migliaia d'anni nel tempo. Com'è possibile?» domandai. «Verificando il tempo quale quarta dimensione, e perfezionando apparecchi per attraversarlo.» «In che modo?» «Non so se sarò in grado di spiegarlo esattamente nella tua lingua, e tu sei troppo primitivo, troppo poco evoluto per comprendere la mia. Comunque, tenterò. Lo spazio, dunque, è relativo quanto il tempo. Non esiste in se stesso, ma soltanto in rapporto alla materia. Non puoi vederlo né toccarlo, e tuttavia di muovi liberamente nello spazio. È chiaro?» «Sembra la teoria di Einstein.» «Einstein?» «Uno dei nostri grandi scienziati e matematici,» spiegai. «Dunque avete scienziati e matematici? Meraviglioso! Questo conferma ciò che sostiene Hoomi. Mi debbo ricordare di riferirlo... Comunque, per proseguire la spiegazione: il tempo si valuta allo stesso modo dello spazio... cioè, in relazione alla materia. Quando si misura lo spazio, lo si fa
portando lo strumento misuratore da un punto di materia ad un altro: oppure, quando si tratta di superare il vuoto, diciamo dalla Terra a Venere, si comincia e si finisce con la materia, constatando che fra l'una e l'altra vi sono tanti chilometri di spazio. «Ma è chiaro che lo spazio non si vede e non si tocca: si calcola solo la distanza fra due punti di materia, con la vista o con un misuratore. La stessa cosa si fa quando si computa il tempo con il Sole, oppure per mezzo dell'orologio che vedo appeso a quella parete. Il tempo, dunque, non è un'astrazione più dello spazio. Se per l'uomo è possibile muoversi liberamente nello spazio, è possibile muoversi nel tempo, e noi ardathiani stiamo appunto cominciando a farlo.» «Ma come?» «Temo che la tua intelligenza limitata non possa afferrarlo. Devi renderti conto che, al nostro confronto, difficilmente puoi essere considerato un umano. Quando ti guardo, vedo che il tuo corpo è enormemente più grande della testa. Ciò significa che sei dominato da passioni animali, e che la tua capacità mentale non è molto elevata.» Il pensiero che quella ridicola e bizzarra creatura entro il cilindro di vetro fosse giunta ad una simile conclusione nei miei confronti mi fece sorridere. «Se uno dei miei concittadini ti vedesse,» risposi, «ti giudicherebbe... ecco, assurdo.» «Perché mi giudicherebbero in base all'unico criterio che conoscono... se stessi. In Ardathia, tu saresti ritenuto bestiale: anzi, è così che vengono considerati i vostri scheletri ricostruiti. Dimmi, è vero che voi nutrite i vostri corpi assumendo cibo che passa dalla bocca e finisce nello stomaco?» «Sì.» «E siete ancora in stadio della evoluzione organica in cui i rifiuti vengono eliminati attraverso l'apparato digerente?» Chinai la testa. «Disgustoso.» Gli occhi fissi mi scrutavano intenti. Poi accadde qualcosa che mi sbalordì moltissimo. L'essere si accostò alla faccia un tubo di vetro, facendone scaturire un raggio purpureo che attraversò l'involucro trasparente e volteggiò nella stanza. «Non hai motivo di allarmarti,» disse la voce metallica. «Mi limitavo ad esaminare il tuo habitat e ad effettuare alcune deduzioni. Correggimi se
sbaglio, prego. Tu sei un uomo del ventesimo secolo, e parli inglese. Tu ed i tuoi simili vivete in città e case. Mangiate, digerite e vi riproducete, in modo assai simile agli animali da cui siete discesi. Vi servite di rozze macchine, e avete un'idea elementare della fisica e della chimica. Correggimi se sbaglio, prego.» «Hai ragione, fino ad un certo punto,» risposi. «Non mi interessa però sentirmi dire da te che cosa sono; questo lo so. Io vorrei sapere cosa sei tu. Affermi di provenire da trentamila anni nel futuro, ma non fornisci alcuna prova. Come posso esser certo che non sei uno scherzo, un'impostura, una mia allucinazione? Tu affermi di poterti muovere liberamente nel tempo. Allora, come mai non sei venuto qui prima? Dimmi qualcosa di te: sono molto incuriosito.» «Le tue domande sono ben formulate,» rispose la voce, «e cercherò di rispondere. È vero che noi Uomini-Macchine di Ardathia cominciamo a muoverci nel tempo, non soltanto nello spazio: ma nota che ho detto "cominciamo". Le nostre Macchine del Tempo sono molto rozze, per ora, e io sono il primo ardathiano a penetrare nel passato al di là di un periodo di seimila anni. Devi renderti conto che un viaggiatore temporale corre certi rischi. In qualunque punto durante il percorso, può materializzarsi all'interno di un corpo solido. In tal caso, quasi sicuramente viene annientato. «Era un pericolo costante, fino a quando io ho perfezionato il raggio che mi avvolge. Non posso nominarlo o descriverlo nella tua lingua: ma se ti avvicinassi troppo a me, ne avvertiresti la resistenza. Il raggio disintegra e disperde ogni corpo solido entro cui può materializzarsi un viaggiatore temporale. Forse avrai notato una grande luce, quando sono apparso nella tua stanza. Probabilmente mi sono materializzato entro un corpo solido, ed il raggio l'ha disintegrato.» «La sedia a dondolo!» esclamai. «Si trovava nel punto che ora occupi tu.» «Allora è stata ridotta negli atomi che la formavano. È un momento meraviglioso, per me! Il mio raggio si è rivelato un successo incondizionato, per la seconda volta. Non solo elimina la materia che costituisce un ostacolo intorno al viaggiatore temporale, ma crea un vuoto in cui egli è perfettamente al sicuro da ogni danno. Ma, per proseguire... «È difficile credere che noi Ardathiani ci siamo evoluti da esseri come te. La nostra storia scritta non risale al tempo in cui gli uomini si nutrivano ingerendo cibi attraverso la bocca e lo stomaco, o si riproducevano nel modo animale, come voi. I primi uomini di cui abbiamo notizia sono i
Biocanici. Vissero circa quindicimila anni prima della nostra èra, ed erano già molto avanzati sulla strada dell'evoluzione meccanica, quando la loro civiltà decadde. «I Biocanici vaporizzavano le sostanze alimentari e le respiravano attraverso le narici, espellendo i rifiuti organici attraverso i pori della pelle. I loro figli venivano portati al momento della nascita per mezzo di incubatrici ectogenetiche. Esistono documentazioni autentiche sufficienti a dimostrare che i Biocanici avevano perfezionato l'uso dei cuori artificiali, ed erano in grado di... «Non riesco a trovare le parole per spiegare ciò che facevano, ma non ha importanza. Il fatto è che, sebbene avessero a disposizione soltanto macchinari parzialmente subordinati, furono la più antica razza di esseri umani di cui possediamo una vera conoscenza, ed io stavo cercando di raggiungere la loro epoca quando, inavvertitamente, mi sono spinto troppo lontano e sono finito nella tua.» La voce metallica tacque per un momento, ed io ne approfittai per parlare. «Non so nulla dei Biocanici, o come li chiami,» osservai. «Ma certamente non furono i primi a costruire cuori meccanici. Ricordo di aver letto d'uno scienziato russo il quale ha tenuto in vita un cane per quattro ore mediante un motore che pompava il sangue nel suo corpo.» «Vuoi dire che il motore fungeva da cuore?» «Precisamente.» L'Ardathiano compì un rapido movimento con una mano. «Ho preso nota della tua informazione: è molto interessante.» «Inoltre,» incalzai, «ricordo di aver letto che, alcuni anni or sono, un nostro scienziato ha fatto nascere conigli e cavie in incubatrici ectogenetiche.» L'Ardathiano fece un altro rapido movimento con la mano. Capivo che le mie parole l'emozionavano. «Forse,» dissi, con una certa soddisfazione, perché sentirmi definire a malapena umano aveva ferito il mio orgoglio, «forse visitare l'umanità di qui a cinquecento anni sarà interessante, per te, quando lo sarebbe recarti tra i Biocanici.» «Ti assicuro,» rispose la voce metallica, «che se riuscirò a ritornare nella mia natia Ardathia, quei periodi verranno meticolosamente esplorati. Posso soltanto esprimere la mia sorpresa nel constatare che siete molto evoluti,
nel complesso; e mi domando perché non avete sfruttato in pratica queste conoscenze». «Talvolta me lo domando anch'io,» risposi. «Mi interessa però moltissimo saperne di più sul tuo conto e sui tuoi tempi. Ti spiacerebbe proseguire il tuo racconto?» «Anzi, sarà un piacere,» rispose l'Ardathiano. «Noi non viviamo in case o città, in Ardathia: e non ci nutriamo come fate voi, né come facevano i Biocanici. Il fluido chimico che vedi circolare nei tubi collegati al mio corpo ha preso il posto del sangue. Il fluido è prodotto dall'azione d'un raggio luminoso su certi elementi vivificanti dell'aria. Viene prodotto continuamente nei tubi sotto i miei piedi, ed è immesso nel mio corpo mediante un meccanismo troppo complesso perché io possa descriverlo. «Lo stesso fluido circola nel mio corpo una volta soltanto, nutrendolo e raccogliendo tutte le impurità. Dopo aver completato il circuito, viene dissipato per mezzo di un altro raggio che lo reimmette nell'aria circostante. Hai notato la sostanza trasparente che mi racchiude?» «Il cilindro di vetro, vuoi dire?» «Vetro? Cosa sarebbe il vetro?» «Ma... quello!» esclamai, indicando la finestra. L'Ardathiano orientò un tubo metallico verso quel punto. Sfrecciò un lampo purpureo che restò librato per un momento davanti ad uno dei vetri, e poi si ritrasse. «No,» fece la voce metallica. «Non quello. Il cilindro, come tu lo chiami, è formato da una sostanza trasparente, molto forte, praticamente infrangibile. Nulla può penetrarvi, se non i raggi che tu vedi, ed i due di cui ho appena descritto l'effetto, che sono invisibili. «Noi Ardathiani, devi capire, non veniamo partoriti dalla carne; e non veniamo introdotti nelle incubatrici sotto forma di ovuli prelevati dai corpi femminili, come i Biocanici. Fra gli Ardathiani non esistono né maschi né femmine. La cellula da cui ci sviluppiamo viene creata sinteticamente. Viene fecondata per mezzo di un raggio, e quindi posta in un cilindro, come quello che vedi intorno a me. Via via che l'embrione si sviluppa, i nostri meccanici introducono nel corpo i vari tubi ed i vari macchinari, che ne divengono parte integrante. «Quando nasce, un giovane Ardathiano non lascia l'involucro in cui si è sviluppato. Il cilindro, come tu lo chiami, lo protegge dall'ambiente ostile. Se si spezzasse, esponendolo agli elementi, l'Ardathiano perirebbe miseramente. Mi segui?»
«Non proprio,» confessai. «Dici che vi siete evoluti da uomini come noi, e poi affermi che venite concepiti sinteticamente, fatti a macchina. Non capisco come sia stata possibile una simile evoluzione.» «E forse non lo capirai mai! Comunque, cercherò di spiegare. Non mi hai detto tu stesso che i vostri scienziati fanno esperimenti con cuori meccanici e incubatrici ectogenetiche? Dimmi, non ve ne sono altri che si dedicano ad esperimenti tendenti a dimostrare che è l'azione dell'ambiente, e non il passare del tempo, a giustificare l'invecchiamento degli organismi?» «Bene,» dissi esitando. «Ho sentito parlare di frammenti di cuore d'embrione di pollo tenuti in vita in recipienti speciali che li proteggono dall'ambiente normale». «Ah!» esclamò la voce metallica. «Hoomi resterà sbalordito quando saprà che tali esperimenti venivano compiuti dagli Uomini Preistorici, quindicimila anni prima dei Biocanici! Ascolta attentamente, perché quanto mi hai detto costituisce un punto di partenza, da cui potrai seguire la mia spiegazione circa l'evoluzione dell'uomo, dal tuo tempo al mio. «Non so quasi nulla dei millenni che separano la tua epoca da quella dei Biocanici. La mia conoscenza incomincia con questi ultimi. Essi furono i primi a comprendere che il progresso corporeo dell'uomo passava attraverso la macchina. Intuirono che l'uomo era divenuto tale solo quando aveva imparato a foggiare utensili; che gli utensili accrescevano la lunghezza delle sue braccia, la forza delle sue mani, la potenza dei suoi muscoli. Osservarono che, con l'aiuto delle macchine, l'uomo poteva fare il giro della Terra, parlare con i pianeti, vedere da vicino le stelle. Prolungheremo la durata della nostra esistenza terrena, dissero i Biocanici, ponendo all'esterno ed all'interno dei nostri corpi la protezione della macchina, ciò che la macchina produce. «E lo fecero, meglio che potevano, e prolungarono la durata della loro esistenza, fino ad una media di circa duecento anni. Poi vennero i Trinamici. Più progrediti dei Biocanici, essi pensarono che la vecchiaia era causata non già dal passare del tempo, bensì dall'azione dell'ambiente sulla materia di cui gli uomini erano composti. È il ragionamento che spinge gli uomini del tuo tempo a compiere esperimenti con i cuori di pollo. I Trinamici cercarono di perfezionare congegni per difendere la carne dall'usura dell'ambiente. Crearono involucri e cilindri, in cui tentarono di far nascere gli embrioni, di allevare i figli: ma ebbero un successo soltanto parziale.» «Tu parli dei Biocanici e dei Trinamici,» dissi io, «come se fossero razze distinte. Tuttavia mi ha fatto capire che i secondi si evolvettero dai primi.
Se la civiltà dei Biocanici decadde, passò un periodo di tempo fra quel declino e l'ascesa dei Trinamici? E come fecero questi ad ereditare la scienza dei predecessori?» «È a causa della tua lingua, che mi appare molto rozza e inadeguata, che non sono riuscito a spiegarmi chiaramente,» rispose l'Ardathiano. «I Trinamici, in realtà, erano la parte più progredita dei Biocanici. Quando dico che la civiltà di questi ultimi decadde, non lo intendo nel senso implicito nel tuo linguaggio. «Devi comprendere che, quindicimila anni dopo il tuo tempo, la razza umana, dal punto di vista scientifico, stava compiendo rapidi passi avanti. Ma non sempre era possibile pelle mentalità retrograde o conservatrici adattarsi alle nuove scoperte. Gruppi minoritari, composti quasi esclusivamente da giovani, si spingevano avanti, proponevano cambiamenti radicali, coltivavano nuove idee, e finalmente divennero quelli che io ho chiamato Trinamici. Inevitabilmente, con il passare del tempo, i Biocanici si estinsero, e con loro sparirono i metodi conservatori. È questo che intendo, quando affermo che la loro civiltà decadde. «Allo stesso modo, noi facciamo seguito ai Trinamici. Quando questi riuscirono finalmente ad allevare i bambini entro i cilindri, in pratica si autodistrussero. Ben presto, tutti i bambini nacquero in questo modo, e con il tempo, la sorte toccata già ai Biocanici capitò anche ai Trinamici, lasciando solo gli Uomini-Macchina di Ardathia, radicalmente diversi nella struttura organica, e tuttavia loro discendenti diretti.» Finalmente riuscivo a capire un po' di quel che intendeva l'Ardathiano quando diceva di essere un Uomo-Macchina. La tremenda storia dell'evoluzione finale dell'uomo, trasformato in un grumo che controlla un corpo meccanico suscitò nel mio cuore un sentimento simile alla paura. Se tutto questo era vero, che ne era stato dell'anima, dello spirito...? La voce metallica proseguì. «Non devi credere che i primi Ardathiani possedessero cilindri invulnerabili come quello che mi protegge. I primi involucri di questo tipo erano formati di una sostanza elastica, che si logorava dopo circa tre secoli. Ma la sostanza venne gradualmente migliorata, perfezionata, fino a che, oggi, per millecinquecento anni è immune a tutto, eccettuando solo una potente esplosione o qualche altra grave catastrofe.» «Millecinquecento anni!» esclamai. «Escludendo gli incidenti, è la durata della vita di un Ardathiano. Ma per noi, millecinquecento anni non sono più lunghi di quanto per voi lo sareb-
bero cento. Ricorda, ti prego, che il tempo è relativo: dodici ore del vostro tempo per noi è un secondo, ed un anno... Ma basti dire che soltanto pochissimi Ardathiani vivono per tutto il tempo teoricamente possibile. Poiché siamo di continuo impegnati in esperimenti rischiosi ed in pericolose spedizioni, gli incidenti sono parecchi. Migliaia di nostri coraggiosi esploratori si sono avventurati nel passato e non sono mai ritornati. Probabilmente si sono materializzati entro corpi solidi, e sono stati annientati: ma io credo di aver finalmente superato questo pericolo, grazie al mio raggio disintegratore.» «E tu quanti anni hai?» «Secondo il tuo computo del tempo, cinquecentosettant'anni. Devi comprendere che nel mio corpo non vi sono più stati cambiamenti, dopo la nascita. Se il cilindro fosse eterno, o impervio agli incidenti, potrei vivere per sempre. È l'usura o la frattura dell'involucro che si espone alle forze pericolose della natura e causa la morte. Alcuni nostri scienziati stanno cercando di perfezionare i metodi per ricostruire il cilindro via via che l'usura dell'ambiente lo logora; altri cercano di allevare embrioni usando i raggi come unica copertura... raggi incapaci di ledere l'organismo, e tuttavia immuni alla dissipazione ad opera dell'ambiente, indistruttibili anche con le esplosioni. Finora non vi sono riusciti; ma sono sicuro del loro trionfo finale. Allora saremo immortali come il pianeta su cui viviamo.» Io fissai il cilindro e l'essere che vi era racchiuso, le quattro pareti della stanza, e poi guardai ancora il cilindro. Mi pizzicai una gamba; ero sveglio, sicuro. Su questo non potevano esservi dubbi. «C'è qualche domanda che vorresti rivolgermi?» chiese la voce metallica. «Sì,» dissi alla fine, quasi intimorito. «Che gioia potete trovare nell'esistenza? Non avete sesso: non potete accoppiarvi. Mi sembra...» Esitai. «Mi sembra che nessun inferno potrebbe essere più atroce che essere ingabbiato vivo entro quella cosa che tu chiami involucro. Io ho la padronanza completa delle mie membra e posso recarmi dove voglio. Posso...» M'interruppi, senza fiato, sgomentato dalla luce che brillava all'improvviso in quegli occhi. «Povero mammifero preistorico,» fu la risposta. «Tu, che brancoli negli albori dell'esistenza dell'umanità, come puoi comprendere ciò che sta oltre il tuo misero ambiente? In confronto a voi, noi siamo simili a dèi. L'amore e l'odio, per noi, non sono più reazioni viscerali. I nostri pensieri e le nostre emozioni sono condizionati, modellati nella misura in cui controlliamo
il nostro ambiente immediato. Non esiste un... «Ma è impossibile continuare. La tua mentalità... è una parola che non amo usare, ma come ho detto la tua lingua è purtroppo inadeguata: ha una portata ristretta, poche migliaia di parole, e perciò non posso spiegarmi meglio. Una carenza analoga, anche se in modo diverso, e con gli oggetti al posto delle parole, ostacola il libero movimento delle tue membra. Tu dici che ne hai la piena padronanza. Povero primitivo, non capisci d'essere un prigioniero, poiché disponi solo delle mani e dei piedi? Naturalmente, voi li integrate per mezzo di qualche macchina, tuttavia rudimentale e ingombrante. Sei tu ad essere ingabbiato vivo, non io. Io ho infranto le sbarre della gabbia, mi sono liberato dei ceppi... Guarda quale padronanza ho delle mie membra!» Da un tubo proteso scaturì un raggio bianco, simile ad un imbuto, il cui diametro era sufficientemente ampio per circondare il mio corpo seduto. Mi accorsi che venivo sollevato e trascinato avanti a velocità inconcepibile. Per un istante, senza fiato, restai sospeso contro il cilindro, e gli occhi immobili erano a pochi centimetri dai miei. In quell'istante ebbi la sensazione di venire sondato, frugato. Venni fatto ruotare su me stesso parecchie volte, come un uomo può far girare un fuscello. Poi mi ritrovai di nuovo sulla poltrona, pallido e scosso. «È vero che io non lascio mai l'involucro in cui sono racchiuso,» continuò la voce metallica. «Ma ho ai miei ordini raggi che possono portarmi tutto ciò che desidero. In Ardathia vi sono macchine che è superfluo descrivere, ma con le quali io posso camminare, volare, smuovere montagne, frugare nelle viscere della terra, studiare le stelle, e scatenare forze che tu non puoi neppure concepire. Quelle macchine sono parti meccaniche del mio corpo, estensioni delle mie membra. Io le tolgo e le prendo a volontà. Con il loro aiuto, posso vedere un continente mentre sono indaffarato in un altro, posso costruire macchine del tempo, imbrigliare i raggi, e piombare trentamila anni nel passato. Lascia che te ne dia un'altra dimostrazione.» La mano dell'Ardathiano, così simile ad un tentacolo, agitò un tubo. Il cilindro risplendette di una luce intensa, roteò come una trottola e si dissolse nello spazio. Mentre restavo a bocca aperta, impietrito, il cilindro ricomparve con la stessa rapidità. La voce metallica annunciò: «Sono appena stato cinque anni più avanti nel tuo futuro.» «Il mio futuro!» esclamai. «Com'è possibile, se ancora non l'ho vissuto?»
«Ma certo, lo hai vissuto!» Spalancai gli occhi, frastornato. «Potrei visitare il mio passato, se tu non avessi vissuto il tuo futuro?» insistette l'essere. «Non capisco,» dissi con un filo di voce. «Non mi sembra possibile che, mentre io sono qui, in questa stanza, tu abbia potuto spostarti in avanti nel tempo e scoprire che cosa farò in un futuro che non ho ancora raggiunto.» «Questo avviene perché non sei in grado di afferrare intelligentemente che cos'è il tempo. Consideralo una dimensione, una quarta dimensione, che si estende come una via, davanti e dietro di te.» «Ma anche così,» protestai, «io potrei essere solo in un dato luogo in un dato momento, su quella strada, e non dove sono e contemporaneamente altrove.» «Tu non sei mai in nessun luogo, in nessun momento,» rispose la voce metallica, «se non nel passato e nel futuro, sempre. Ma è inutile cercare di farti comprendere una verità cosi semplice, trentamila anni prima del tempo in cui potresti capirla. Come ho detto, mi sono portato avanti di cinque anni nel tuo futuro. C'erano uomini che demolivano questo edificio.» «Demolivano questo edificio! Assurdo! È stato costruito solo due anni fa.» «Tuttavia lo abbattevano. Ho inviato il mio raggio visivo per localizzarli. Eri in una grande stanza, con altri uomini. Facevano tutti cose strane. C'era...» In quel momento bussarono energicamente alla porta della mia stanza. «Che succede, Matthews?» esclamò una voce. «Perché continua a parlare da solo? Sta male?» Lanciai un'esclamazione irritata, perché avevo riconosciuto la voce di John Peters, un giornalista che abitava nell'appartamento accanto al mio. Il mio primo impulso fu di dirgli che avevo da fare: ma un attimo dopo cambiai idea. C'era qualcuno cui potevo mostrare il cilindro e l'essere che vi era racchiuso; qualcuno che avrebbe testimoniato di averlo veduto, oltre me! Mi affrettai ad andare alla porta e la spalancai. «Presto!» esclamai, afferrando Peters per il braccio e trascinandolo nella stanza. «Cosa ne pensa di questo?» «Di che cosa?» chiese lui. «Ma di questo...» cominciai, tenendo la mano: e mi fermai di colpo, a bocca spalancata; perché nel punto dove, pochi secondi prima, stava il cilindro, non c'era più nulla. L'involucro e l'Ardathiano erano scomparsi.
NOTA DELL'AUTORE Il materiale di questo manoscritto è pervenuto nelle mie mani in modo strano. Circa un anno fa dopo che la stampa aveva smesso di pubblicare versioni ingarbugliate dell'esperienza di Matthews, conobbi il suo amico Hodge, con cui aveva cenato quella famosa sera. Gli chiesi notizie di Matthews. Hodge mi rispose: «Non sapeva che l'hanno chiuso in manicomio? Non lo sapeva? Beh, è così. Ormai è pazzo, povero diavolo; comunque, mi era sempre parso un po' strano. Sono andato a trovarlo, l'altro giorno, e per me è stato un colpo vederlo in una corsia insieme a molti altri uomini, tutti intenti a fare le cose più strane. «A proposito, Peters mi ha detto, qualche giorno fa, che il palazzo dove abitava Matthews sta per essere abbattuto. Demoliranno parecchie case, lungo il lago, per allargare il viale; ma lui dice che non abbatteranno la sua ancora per tre o quattro anni. Strano, eh? Le piacerebbe vedere quello che lo stesso Matthews ha scritto sull'episodio?» Titolo originale: The Machine Man of Ardathia (Amazing Stories, novembre 1927). 1928
R. F. Starzl Venuti dal sub-universo Il 1928 fu l'anno del boom per Amazing Stories. Mentre nei primi diciotto mesi della sua esistenza le ristampe erano state predominanti, nel 1928 il campo fu invaso da un intero esercito di autori nuovi, tra cui David H. Keller, Jack Williamson, Stanton Coblentz e R. F. Starzl. Starzl scelse come tema della sua prima vicenda il mondo submicroscopico, tutt'altro che nuovo. Fitz-James O'Brien l'aveva più o meno inventato per il suo lungo racconto The Diamond Lens, pubblicato su Atlantic Monthly nel gennaio 1858, che tuttavia era guastata dalla passione di
O'Brien per lo spiritismo. In tempi più recenti, il tema era stato affrontato da Ray Cummings, la cui prima storia, The Girl in the Golden Atom, apparve su All-Story del 15 marzo 1919. Il protagonista riesce ad entrare nel mondo in miniatura, dove le sue avventure imitano quelle alla Burroughs. Cummings, comunque, tornò spesso sul tema del mondo microscopico, ma non si diffuse mai sul suo concetto originale. Con ogni probabilità, Starzl aveva letto il racconto di Cummings. A quell'epoca aveva diciannove anni. Ma è molto più verosimile che fosse stato colpito dal racconto di Wertenbaker, The Man from the Atom che, se anche non aveva letto alla sua prima comparsa nel 1923, trovò senza dubbio ristampato da Gernsback nel primo numero di Amazing Stories (aprile 1926). Wertenbaker era affascinato dalla meccanica dei subuniversi, che Cummings invece evitava. Ma mentre Wertenbacker affrontava il tema dall'interno, Starzl lo abbordò dall'esterno. Perciò in Out of the SubUniverse, abbiamo la visione unica di un mondo all'interno di un mondo. I sub-universi costituirono un tema molto popolare nel primo decennio delle riviste fantascientifiche. Veniva usato tanto spesso nei racconti nello stile di Cummings, purtroppo, sebbene alcuni fossero maggiormente avventurosi, come Submicroscopic di S. P. Meek, ed il suo seguito Awlo of Ulm, che apparvero su Amazing Stories nel 1931. La narrativa della scuola di Sfarzi riecheggia invece in veri e propri gioielli come The Cosmic Pantograph di Edmond Hamilton (Wonder Stories, ottobre 1935). Il tema era così comune che ricorre anche in questa antologia, ma solo come un congegno all'interno della trama. Comunque, lascerò che il racconto giunga al lettore come una sorpresa. Starzl era un cronista, la cui narrativa era sempre abile e colta. Nato nel 1899, pubblicava soprattutto nelle riviste di Gernsback, ma apparve anche su Argosy negli Anni Trenta. È un autore strettamente legato a questo periodo poiché, indipendentemente dalle ristampe, comparve per l'ultima volta su una rivista di fantascienza con Dimension of the Conquered (Astounding Stories, ottobre 1934). «Se davvero tieni tanto ad andare, non te lo impedirò,» disse con un sospiro il professor Halley al giovane che gli sedeva di fronte nel laboratorio. «Prima o poi, si renderà necessario che un essere umano compia il viaggio, e nessuno è più qualificato di te per farne una relazione accurata.» «Penserei proprio di no,» fece sorridendo Hale McLaren, suo amico e discepolo. «Dato che sono il suo assistente e, se posso affermarlo, ho par-
tecipato alla scoperta. Ma...» ed i suoi occhi si oscurarono, «non so che ne penserà Shirley. Vuole venire anche lei.» «Io credo che dovresti lasciarla fare, se ci tiene,» disse lentamente Halley. «Sai che io amo mia figlia ancor più di quanto Shirley ama te, mi rendo però conto che, se non riuscissi a ritornare, come non sono tornati i conigli degli esperimenti, lei non sarebbe mai più felice. Preferirebbe essere con te, per quanto possa essere inospitale il piccolo mondo su cui ti rechi.» «Ma ritornerò!» insistette Hale McLaren. «Noi sappiamo perché i nostri animali da esperimento non sono tornati. Non appena giunti sulla superficie del piccolo pianeta su cui sono capitati, non sono rimasti a chiedersi dove potevano trovarsi. Si sono allontanati e, naturalmente, il nostro apparecchio non ha potuto ripescarli. Ma può star certo che non lascerò il luogo dell'arrivo.» «Comunque, è possibile che tu non ritorni. Shirley è ormai una donna. Le spiegheremo i pericoli: e se insisterà per venire, ti accompagnerà.» Andò al telefono e chiamò il numero di casa sua, che si trovava a poca distanza dal piccolo college nel quale era preside della Facoltà di Fisica. Pochi minuti dopo Shirley entrò, e scrutò divertita le loro espressioni serie. «A chi fate il funerale, oggi?» domandò. «Non parlare di funerali in un simile momento,» disse McLaren, un po' irritato. «Ti abbiamo chiamata per spiegarti ancora una volta i pericoli del viaggio che intendi compiere con me. Sinceramente, non ti vorrei portare, ma tuo padre dice che puoi venire, se ci tieni.» «Certo che verrò!» ribatté la ragazza, in tono di ironica sfida. «Credi che voglia perderti per colpa di qualche vamp atomica?» «È una cosa seria,» insistette McLaren, rifiutandosi una volta tanto di cedere allo scherzo. La condusse nell'angolo della grande stanza vuota, e scostò una tenda scorrevole che nascondeva un apparecchio enigmatico, evidentemente elettrico. Al centro di una grossa spirale, su di una base d'una strana sostanza verde e trasparente, stava una grande campana di vetro, abbastanza ampia per ospitare all'interno due o tre persone. Una fila di valvole ad alto voltaggio, allineate contro la parete, era collegata per mezzo di pesanti tubi di rame a vari punti della spirale. La base verde era sorretta da un gran numero di cilindri, che formavano un sostegno idraulico, in modo che il disco verde potesse venire abbassato per consentire l'introduzione di oggetti sotto la campana sospesa. «Partirò tra pochi minuti,» disse McLaren a Shirley, e nonostante il tono brusco, la sua voce aveva un fremito di tenerezza. «Tuo padre ti spiegherà
i pericoli: e se vorrai venire egualmente, partiremo insieme.» «Tu sai, Shirley,» cominciò il professor Halley, con il suo tono più cattedratico, «che Hale ed io ci siamo dedicati a intense ricerche per scoprire la composizione della materia. Ammetto che ancora oggi non abbiamo le idee chiare sulla nostra ricerca primaria; tuttavia abbiamo aperto prospettive nuove, non meno straordinarie ed interessanti delle verità che cercavamo. «Utilizzando il Raggio Cosmico da poco scoperto, che ha una lunghezza d'onda infinitamente più breve di ogni altro tipo di luce conosciuta, abbiamo potuto ottenere prove concrete del fatto che gli elettroni non consistono esclusivamente di una carica elettrica negativa, come credevano i fisici; questa carica è in effetti trattenuta da una vera particella di materia, così infinitamente piccola che non potremmo mai ottenere la prova diretta della sua esistenza per mezzo dei vecchi metodi. «Nel proseguire questi studi, ci siamo imbattuti in un'altra proprietà del Raggio Cosmico. Abbiamo scoperto che certe armoniche del raggio, quando vengono amplificate enormemente, hanno la proprietà di ridurre o di accrescere la massa ed il volume di tutta la materia, senza cambiarne la forma. Non abbiamo scoperto limiti a questo potere, e riteniamo che sia infinito. «Ora, questo suggerisce una possibile soluzione del problema della costituzione dell'universo. Se potessimo provare che l'atomo, con il suo nucleo centrale ed i suoi satelliti, chiamati elettroni, è veramente un universo in miniatura, nella realtà e non solo per analogia, potremmo desumere con certezza che i costituenti dell'infra-universo sotto di noi e del superuniverso sopra di noi sono soltanto anelli d'una catena che si estende all'infinito.» Il professor Halley fece una pausa. Il suo assistente era entusiasta, e alla figlia splendevano le guance e brillavano gli occhi. Ma Shirley non guardava l'apparecchio, bensì i lisci capelli scuri del fidanzato. «Abbiamo mandato diversi oggetti in quel sub-universo,» continuò Halley. «Sedie, monete, bicchieri, mattoni, cose del genere. Alcuni li abbiamo recuperati. Ma quando abbiamo inviato nel mondo del mistero cavie o conigli, o un cane randagio, non siamo riusciti a riportarli indietro. Secondo Hale, gli animali si sono allontanati dalla portata dei nostri raggi. Non so. Può darsi che abbia ragione lui, ma può darsi che abbiano incontrato una sorte terribile e sconosciuta. Ora si offre personalmente per l'esperimento. È pericoloso. Può essere atroce. Ma se desideri andare con lui, puoi farlo.
Tua madre è morta. Forse mi lascerai solo nella vecchiaia: ma puoi andare... in nome della scienza.» Un silenzio solenne seguì queste semplici parole. Poi Shirley disse con voce chiara: «Andrò.» Il fisico girò la testa, per un attimo. Quando tornò a volgersi nella loro direzione, non c'era sul suo viso alcuna traccia della lotta interiore. Con fermezza abbassò una leva, e la base verde si abbassò silenziosamente sul pavimento. McLaren e la ragazza vi montarono; quella risalì di nuovo e li portò sotto la campana di vetro. Il professore si girò verso la piattaforma rialzata, dove si trovava il quadro dei comandi. «Arrivederci!» esclamò. «Vi riporterò indietro tra un'ora.» «Arrivederci!» risposero i due, con voce soffocata. Entrò in azione un possente generatore, che riempì il laboratorio con il suo acuto ronzio. La valvole brillarono cupamente, ed un acuto odore d'ozono permeò l'aria. Con un scroscio sonoro, la corrente ad alta tensione si scaricò tra le spire adiacenti della spirale. Il professore si affrettò a regolare un condensatore, ed il silenzio tornò ad essere interrotto soltanto dal sibilo dei generatori e da un ronzio sommesso. Mentre il professore continuava a regolare i comandi, gradualmente la campana si saturò di un chiarore viola intenso, che ondeggiava e turbinava tenue, come i veli di un'aurora boreale. La luce serpeggiò intorno all'uomo e alla ragazza, talvolta quasi nascondendoli. Si concentrò gradualmente verso la parte bassa della campana, parve aderire alla base verde, allacciandosi alle due figure viventi fino a celarle. Tuttavia, quelle continuarono a sorridere e ad agitare le mani in cenno di saluto. Ma ormai si vedeva che stavano rimpicciolendo. Erano già alte meno di un metro e venti, e via via che l'apparecchio entrava in una risonanza più perfetta, il ritmo della contrazione si accelerò. Ben presto furono alti solo una trentina di centimetri, ritti in un mare di luce viola: poi quindici centimetri, poi poco più di due. Il professore spense il generatore. La ragazza e l'uomo si spostarono delle poche decine di millimetri necessarie per portarsi sul centro esatto della base. Lì, in una minuscola depressione, stava un piccolo granulo di carbonio, di cui dovevano esplorare uno degli atomi. Era così piccolo che già con il microscopio si scorgeva a fatica, normalmente: ma per McLaren doveva essere ormai chiaramente visibile, perché egli parlò alla ragazza, e questa lo raggiunse, ponendoglisi accanto su un punto del pavimento da lui indicato.
Le misteriose armoniche del Raggio Cosmico vennero nuovamente introdotte, e le due minuscole figure svanirono. Il professore restò ai comandi, gli occhi fissi ansiosamente sullo orologio, sino a quando fu trascorso l'intervallo prestabilito secondo i calcoli. Bloccò di nuovo la dinamo e posò l'orologio sul tavolo. Segnò il momento in cui li avrebbe recuperati, alle quattro e dieci, e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro nello stanzone, dove era rimasto solo. Il sudore gli imperlava la fronte. Si fermò a fissare la piccola depressione in cui si trovava un milione d'universi, ognuno completo e perfetto come il suo. E in uno di essi c'era un puntolino orbitante su cui aveva depositato sua figlia e il suo assistente preferito. Trasalì, quando il telefono squillò, e si sbarazzò di uno studente che aveva una domanda di poco conto da rivolgergli. Poi tornò all'orologio, ascoltò per accertarsi che non si fosse fermato. Nel laboratorio c'era un gran silenzio, e quando all'improvviso un rivoletto d'acqua sgorgò dal rivestimento refrigerante di una delle grosse valvole, il suono parve alto e stridente. Un nuovo pensiero, adesso, assillava il professor Halley. E se in quel mondo impensabilmente piccolo vi erano esseri pericolosi, con cui Hale e Shirley, forse, stavano lottando per salvarsi proprio in quel momento... Forse quel mondo era un sole sfolgorante: e se avessero esalato l'ultimo respiro su di una luna sterile e priva d'aria? Consultò di nuovo l'orologio. Era quasi trascorsa mezz'ora. Qualche minuto ancora, e loro sarebbero stati pronti, in attesa di tornare... sarebbe stato inopportuno attivare il raggio quando potevano essere ad una certa distanza, fuori portata... Ancora qualche secondo... via! Con un gesto vivace, il professor Halley fece scattare l'interruttore e la luce viola tornò a saturare la campana di vetro. Invertì con prontezza la corrente... e poi si portò alla base della cupola trasparente, per poter scorgere gli esploratori non appena fossero divenuti visibili. Dopo pochi minuti, una piccola nebulosità apparve nella depressione in cui era situato il granulo di carbonio. Davanti agli occhi del fisico, la chiazza si risolse in centinaia di puntolini minuscoli, ed i puntolini crebbero rapidamente, fino a sembrare minuti birilli diritti. E a poco a poco i birilli ingrandirono quanto bastava per mostrare braccia e gambe. Piccoli esseri d'aspetto umano, che erano chiaramente uomini e donne, alti poco più di un centimetro. Uomini e donne che crescevano e si aggiravano, e apparivano profondamente turbati.
Halley li osservò sbigottito, fino a quando raggiunsero la statura di diversi centimetri. Non si mosse fino a quando furono così stipati da far insorgere il rischio che qualcuno soffocasse. Allora il professore balzò sull'interruttore per arrestare la crescita, e fece abbassare il disco verde fino a portarlo alla stessa altezza del tavolo: alcuni dei più arditi vi balzarono sopra, per avere più spazio. E mentre li osservava stupefatti, cercando invano McLaren e Shirley, un uomo si staccò dalla folla, si portò sull'orlo del tavolo, fece un profondo inchino, e gridò: «Dove siamo?» La voce era sottile, come il trillo di un insetto, e l'accento era confuso, difficile da comprendere. Tuttavia parlava in un inglese riconoscibile. «Siete sulla Terra,» rispose automaticamente Halley. Quelle parole suscitarono una profonda impressione. Un esile grido sospirante si levò dalle gole dei minuscoli esseri umani, e molti si prostrarono. Indossavano tuniche leggere che arrivavano alle ginocchia, ed erano strette in vita da cinture. Uomini e donne erano abbigliati all'incirca allo stesso modo, ma gli ornamenti distinguevano i due sessi. Il capo si girò verso gli altri e gridò. «Udite! Udite! Non è come vi abbiamo detto noi, i vostri sacerdoti? Ai fedeli verrà concesso di passare dalla nostra valle di lacrime alla Terra, con le sue porte d'oro, dove scorrono latte e miele. Avete udito la voce dell'Angelo. Con voce di tuono egli vi ha detto che siete sulla soglia della Terra, mentre coloro che non credono verranno gettati nelle tenebre esterne, dove vi è pianto e stridor di denti!» Qualcuno, dalle ultime file, intonò un inno. La massa dei piccolissimi umani si unì al canto, ed il coro sottile riempì la stanza. Halley si rivolse di nuovo al sacerdote. «Da dove venite?» «Noi siamo cittadini di Elektron, così chiamato dai nostri illustri antenati, Hael, l'Uomo, e Shuerrely, la Donna, che vennero sul nostro pianeta nella sua giovinezza, coni ed eoni addietro... tanti milioni di anni fa che si possono calcolare soltanto secondo le ère geologiche.» «E come conoscete il nome della nostra Terra?» «Ci è stato tramandato di generazione in generazione. È conservato nei monumenti e nei templi e nei documenti dei nostri saggi. Da tempo immemorabile sappiamo che rappresenta i Campi Elisi della perfezione... il luogo della felicità infinita. Infatti, i nostri illustri antenati, Hael e Shuerrely, ricordavano con nostalgia la Terra, sebbene fossero giunti sul nostro Elektron quand'era un pianeta giovane, dal clima mite, e ricco di frutti ab-
bondanti.» «Voi dite che Hale e Shirley vennero sul vostro pianeta molte epoche fa? Non era popolato, allora?» «C'erano animali, alcuni dei quali avevano dimensioni terrificanti e spaventose armi naturali. Ma i nostri avi, inviati dalla Terra, grazie alla superiore intelligenza, li vinsero, ed i loro figli a poco a poco conquistarono tutto Elektron. Noi siamo i loro discendenti, ma abbiamo conservato la loro lingua e le tradizioni e la religione, e non abbiamo dimenticato la Grande Promessa.» «La Grande Promessa?» «La Grande Promessa,» intonò l'elektronita, con voce quasi risonante, nonostante le sue proporzioni piccolissime, «ci venne data da Hael e Shuerrely. Essi annunciarono che un grande mago, un Angelo dal potere e dalla sapienza superlativi, un giorno avrebbe penetrato l'immensa, vuota Terra. Nel luogo in cui essi erano apparsi, comandarono che i loro figli risiedessero, in attesa della venuta dell'Angelo, da loro chiamato Raggiocosmico. Vi sono stati molti che hanno abbandonato la vera religione, ma noi abbiamo eretto un tempio in quel luogo sacro, e la Grande Promessa è stata mantenuta!» Halley disse a loro, con voce spenta ed il cuore stretto dall'angoscia: «Io sono il padre di Shirley, l'amico di Hale, e non è trascorsa neppure un'ora da quando li ho inviati sul vostro Elektron!» Ma i suoi pronipoti di mille generazioni più tardi si prostrarono nuovamente e ripresero ad intonare i loro canti. Il professor Halley venne a trovarsi in una situazione decisamente difficile. Sfuggì per poco all'imputazione di omicidio. La scomparsa di sua figlia e dell'assistente provocò ovviamente un'inchiesta, e si diffuse il tremendo sospetto che li avesse eliminati ed avesse distrutto i cadaveri con la formidabile macchina del Raggio Cosmico. Stranamente, la prova che lo liberò dal sospetto di omicidio gli causò fastidi con le autorità dell'immigrazione, le quali non sapevano che fare con le centinaia di lillipuziani, dato che non potevano portarli in nessun posto. Il professor Halley rifiutò decisamente di rimandarli su Elektron, a meno che accettassero di andarvi di loro spontanea volontà; e nessuno volle saperne. Finalmente le autorità consentirono ad accettare gli elektroniti, in via provvisoria, quando fossero stati portati a dimensioni normali. Si trovarono amici che li aiutarono ad adattarsi ad una civiltà nuova e, secondo le ultime notizie, oggi si trovano quasi tutti benissimo.
Dopo molti tentativi, chi scrive è finalmente riuscito ad ottenere dal professor Halley un resoconto della sua esperienza ed una spiegazione dettagliata del funzionamento della sua invenzione. Lasciando fuori i particolari tecnici, che non hanno nulla a che vedere con questa storia, è sufficiente riportare la spiegazione data dallo stesso scienziato del ciclo vitale straordinariamente rapido di Elektron. «La colpa è mia,» mi ha detto tristemente il professor Halley, «perché ho trascurato un fatto importante. È vero che il sub-universo è simile al nostro; è vero che gli elettroni ruotano nelle orbite in modo analogo ai pianeti intorno ai soli. Tuttavia ho trascurato il fatto che, a causa della grande differenza di proporzioni, vi è anche un'enorme differenza di tempo. La Terra impiega un anno a girare intorno al Sole; un elettrone ruota intorno al suo nucleo positivo milioni di volte al secondo. Eppure, ogni volta che completa la sua orbita, è come un anno per gli abitanti. «Prima ancora che io avessi il tempo di battere le palpebre, Shirley e Hale avevano vissuto, si erano amati, erano morti, e molte generazioni dei loro discendenti avevano compiuto i loro cicli vitali. Per loro è stato normale... per noi è stato impensabilmente breve.» Il professor Halley girò con aria stanca il volto paziente in direzione della finestra, guardando con gli occhi annebbiati il vasto campus. Dicono che il suo apparecchio è impolverato e in disuso, ma il consiglio d'amministrazione del college ha deciso di confermargli a vita la cattedra. È un vecchio mite e patetico, che non vivrà a lungo. Titolo originale: Out of the Sub-Universe (Amazing Stories Quarterly, estate 1928). 1929
D. D. Sharp L'uomo eterno Sharp non fu, per la verità, una delle scoperte di Gernsback, poiché aveva già venduto a Weird Tales due racconti, uno dei quali, The Goddess of the Painted Priests era già stato pubblicato quando The Eternal Man gli
assicurò un immediato successo presso i lettori della nuova Science Wonder Stories. Sharp abbandonò quindi Weird Tales e si dedicò alle riviste di Gernsback, Un seguito del suo racconto, The Eternal Man Revives apparve su Wonder Stories Quarterly dell'Estate 1930. Nel frattempo, Science Wonder Stories del maggio 1930 aveva pubblicato The Day of the Beast, una vicenda alquanto banale, in cui uno scienziato riesce a perfezionare un procedimento per accrescere le dimensioni degli esseri viventi, e ben presto si trova a combattere con un ragno gigante. Un barlume d'originalità s'incontra nella conclusione, allorché scopriamo che lo scienziato, una volta tanto, non elimina i suoi appunti perché nessun altro scopra il tremendo segreto... ma si limita a chiuderli in una cassaforte. In un'epoca in cui le «scoperte terribili» erano di solito destinate a venir distrutte immediatamente con l'acido o con il fuoco, un finale del genere era una novità. Sharp comparve con tranquilla regolarità durante questo periodo: altri cinque racconti uscirono su Wonder Stories: tra gli altri, The Satellite of Doom, nel numero del gennaio 1931, che introduce l'idea d'un servizio postale razzo (e poiché il direttore, Lasser, era presidente dell'American Interplanetary Society, l'accettazione del racconto fu inevitabile) e Captive of the Crater, in cui il protagonista si trova ad oscillare come un pendolo da una faccia della Luna all'altra, collegate da un cratere cavo. Ma The Eternai Man rimane uno dei suoi racconti più memorabili, se non altro per la sorprendente osservazione con cui si conclude la vicenda. In questa Parte Prima abbiamo già visto una storia imperniata sull'immortalità, The Coming of the Ice di Wertenbaker. Peraltro, è tipico d'un buon autore introdurre qualcosa di originale. Tutto ciò che hanno in comune il racconto di Wertenbaker e quello di Sharp è il tema dell'immortalità. A parte questo, divergono come gli affluenti del Rio delle Amazzoni. Sharp abbandonò la fantascienza durante la seconda guerra mondiale: la sua ultima apparizione la fece con Children of the Gods in Trilling Wonder Stories del giugno 1943. Herbert Zulerich era un uomo grande e grosso, con una chioma scarmigliata, ributtata indietro sulla fronte sfuggente sino a ricadere intorno al colletto della giacca scura. Il naso era grosso, prominente, e sporgeva come un becco enorme dal volto; la bocca era un canyon profondo tra la vetta del naso e la protuberanza del mento. Le abitudini di Zulerich erano strane come la sua faccia, ponderose quanto il suo corpo massiccio. Nessuno sapeva come vivesse, né come fa-
cesse a mantenere quel formidabile schieramento di provette e di storte. Nel suo laboratorio c'erano i recipienti di vetro più strani, pieni di liquidi d'ogni colore. Un tempo, Zulerich era stato un chimico di fama, ma negli ultimi anni era diventato un recluso: se ne stava quasi sempre solo nella sua grande casa di pietra poco lontana dalla strada, dove la continua fiumana di automobili sembrava dargli poco fastidio. Ma in realtà, lo disturbava parecchio. Certi giorni, guardava le macchine che correvano all'impazzata sul rettilineo, e sul suo volto appariva un'espressione cupa e malinconica. E nei suoi grandi occhi azzurri si affacciava come una sofferenza, un senso di pietà per coloro che sembravano così pieni di vita, così spensierati. «Morte! Morte!» bisbigliava il vecchio. «L'uomo passa per lunghi anni di preparazione, per i pochi giorni della realizzazione, prima che la vincitrice distrugga tutto.» «Tanta preparazione,» mormorava la grossa testa. «Tante menti geniali sfolgoranti per un'ora, come rose coltivate e cresciute per essere tagliate; mani addestrate con tanta cura, e così presto ridotte all'immobilità.» Quanti lo conoscevano sospettavano da tempo che egli fosse in cerca di qualche grande segreto. Ma quale fosse il segreto, nessuno lo sapeva, e pochissimi si azzardavano a indovinarlo. La verità era che la mente di Zulerich era ossessionata da un unico pensiero: lo spreco spaventoso rappresentato dalla morte. E poiché la scienza e le invenzioni stavano sconfiggendo gli altri nemici dell'esistenza dell'uomo, Zulerich si accinse, seguendo l'esempio di Ponce de Leon, a scoprire gli elementi che, combinati, potevano donare la vita eterna. Per quanto possa sembrare strano, Zulerich stava compiendo qualche progresso. Aveva trovato alcune cose che l'avevano sbalordito. Alcuni esperimenti l'avevano sgomentato: e poi fece una scoperta che gli inculcò un vero e proprio spavento. Aveva fatto esperimenti con gli organismi unicellulari, ed aveva constatato che non si comportavano come le sostanze chimiche inorganiche. Sapeva che la reazione di questi esseri era nettamente fisiologica, non semplicemente fisico-organica e non semplicemente chimica. Non somigliavano a nessuna sostanza chimica conosciuta, perché reagivano come individualità non come puri e semplici materiali. La scoperta, come ebbe modo di constatare, era confermata da Jennings nel suo libro, Comportamento degli organismi unicellulari.
Il vecchio Zulerich aveva studiato i complicati processi della suddivisione e della moltiplicazione delle cellule, sperando di sviscerare la legge dell'organismo e di scoprire che cosa, al culmine della crescita, impediva l'ulteriore scissione. Insomma, voleva trovare il principio che limitava le dimensioni e la crescita, ciò che induceva le cellule di un corpo vivente a crescere e a moltiplicarsi fino alla maturità, e poi a interrompere lo sviluppo, eccettuato quando venivano sollecitate da una ferita o da altri incidenti ai tessuti. Perché una cellula diventava attiva per sostituire la carne ferita, e tuttavia esitava a ricostruire tessuti vitali come i polmoni, e rifiutava di sostituire per più di una volta un dente perduto? Fece numerosi esperimenti per provocare la crescita delle cellule, cercando d'intuire se avevano una loro individualità o se erano vincolate dall'individualità del tutto. Voleva scoprire se le cellule avevano un'intelligenza che le spingeva a fare le cose straordinarie necessarie alla loro coordinazione all'interno del corpo. Zulerich scoprì molte cose: stupende, sconcertanti, che nessuna teoria scientifica poteva spiegare. Perfezionò sostanze chimiche che, applicate sulla testa di un coniglio, ne fecero crescere il pelo al punto che egli fu costretto a raccoglierlo in un fiocchetto. Il pelo, comunque, crebbe tanto che il coniglio non fu più in grado di muoversi ed egli dovette ucciderlo per pietà. Ma i peli continuarono a crescere. Il cortile cintato della casa ospitò ben presto mostri creati dalle sue sostanze chimiche: cani con teste grosse come botti e corpi normali, e ratti grandi come mucche, ma con teste piccolissime, come noccioline. Un giorno, applicò una sostanza agli occhi d'un cavallo: gli occhi fuoriuscirono dalle orbite, come lunghe funi di tendini bianchi, con grandi sfere d'iridi gelatinose... canne flaccide e inerti che si trascinavano al suolo. L'effetto di quest'ultimo esperimento sconvolse a tal punto l'animo mite di Zulerich da indurlo ad uccidere tutte le mostruosità e ad abbandonare l'impresa. Allora riprese a guardare dalla finestra il vasto mondo in cui la morte compiva il suo spreco; sospirò, strinse le labbra, e si lanciò di nuovo nelle sue ricerche. Zulerich non cercava la crescita. Gli stava bene che l'uomo conservasse la statura attuale. Desiderava invece una maggiore longevità. E poi la scoprì. Non ebbe bisogno di confermare l'esperimento attendendo sino alla fine del tempo per accertare se le cellule, avrebbero finito per morire. Sapeva che non sarebbero morte. Poche gocce del liquido verdechiaro contenuto nella provetta graduata che teneva in mano avrebbero permesso a qualunque uomo di vivere in eterno. Zulerich sapeva che era
possibile, perché aveva finalmente trovato la combinazione che cercava: la sostanza chimica che faceva continuare la vita senza la necessità della decadenza. Dopo un anno di esperimenti con le cellule, provò con un ratto. Lo tenne in una mano, stringendo nell'altra il contagocce con il fluido verdechiaro. Ma, mentre il contagocce lasciava cadere la minuscola sferula di liquido, il ratto mosse la testa e la goccia cadde su un lato del muso, si sparse sulla gola. Lasciò una cicatrice tra il pelame, molto bizzarra, a forma di punto interrogativo. Zulerich tentò con una seconda goccia, e questa volta ebbe successo. Il ratto la deglutì. Zulerich osservò attento. Il cuore dell'animale parve cessare i suoi battiti. I polmoni si arrestarono, e tuttavia il ratto era vivo, con gli occhi rossi che ardevano. Continuò a vivere, giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, senza perdere peso, senza dar segno di aver fame o sete. Viveva con la piccola anima imprigionata nel corpo. Neppure allora, però, Zulerich osò bere il suo elisir, benché quell'attività esaurisse le sue forze ed il cuore fosse debole e lo spaventasse, talvolta, con le sue fibrillazioni. C'era un difetto nel suo esperimento. L'animale viveva senza respirare, senza cibo né acqua, ma era assolutamente incapace di muoversi! Al vederlo si sarebbe detto che era morto, se non fosse stato per il fuoco negli occhietti e l'assenza della putrefazione. Perciò Zulerich si accinse a rimediare all'errore. Ormai lavorava febbrilmente, perché era molto vecchio, ed il cuore minacciava di fermarsi. Non voleva morire quando il successo era ormai tanto vicino. Non voleva giungere quasi a offrire all'umanità il beneficio più grande, per poi fallire. Trascorsero due anni prima che trovasse l'ingrediente che mancava alle sue gocce verdichiare. Era una cosa tanto semplice che egli l'aveva completamente trascurata. La scoprì per puro caso. Un giorno, aveva portato un secchio contenente una soluzione di soda accanto alla finestra e stava lavando i vetri polverosi, per poter vedere il mondo infelice e trovare così la forza di continuare il suo lavoro. Non permetteva a nessuno di entrare nel laboratorio, e lavava personalmente le finestre. Alcuni spruzzi caddero nella bocca immobile e spalancata del ratto, che stava sul davanzale della finestra. La bocca era aperta nella stessa posizione in cui l'aveva lasciata Zulerich quando l'aveva socchiusa a forza per versarvi le gocce. L'animaletto era rimasto in quella posizione, come una statuetta vivente, paralizzata, per due lunghi anni. Per la verità, Zulerich
aveva pensato di togliere il ratto dalla finestra, prima di cominciare a lavarla. Ma invecchiando era diventato anche più distratto. Non possedeva la precisione di un tempo: ma questa volta la sua trascuratezza portò ad una grande scoperta. Non appena la soda cadde in bocca al ratto, questi lanciò uno squittio e corse a nascondersi. Ma poco dopo sgusciò fuori per rosicchiare un pezzo di biscotto che il pappagallo aveva lasciato cadere sul pavimento. Zulerich fu sopraffatto dalla gioia, nel vedere il ratto che riacquistava l'uso dei muscoli; ma poi divenne preoccupato e ansioso, perché l'animaletto mostrava di avere fame... questo poteva preannunciare la decadenza, che comportava la morte. E mentre rifletteva tremava, perché sapeva di essere vecchissimo e di non avere molto tempo per attendere ed osservare. E poi, per la tensione ed il sollievo della nuova scoperta, il cuore cominciò a battergli irregolarmente, in modo allarmante, come non aveva mai fatto. Il vecchio pensò che fosse giunto per lui il momento di morire, ed il suo esperimento era quasi completato e perfezionato, ma non era ancora stato donato al mondo. In tutte le leggende che conosceva sulla scoperta degli elisir di lunga vita, il frutto s'era appassito prima che potesse venire divorato. E così sarebbe stato per lui. Era la fine. Allora pensò alle sue gocce. Le avrebbe bevute, ed avrebbe avuto tutto il tempo di concludere l'esperimento. Preparò un bicchiere d'acqua di soda, poi andò alla tavola e sedette su un alto sgabello. Prese la boccetta del liquido verdechiaro, impolverata dal lungo ozio sullo scaffale, e misurò le gocce. Ma la mano gli tremava tanto che il flacone cadde sul pavimento, spandendo il liquido prezioso. Zulerich bevve le gocce del misurino, poi fece per prendere l'acqua di soda che stava a portata della sua mano. E non si mosse! Aveva dimenticato che non sarebbe stato in grado di portarsi la soda alla bocca. Per il momento era troppo sconvolto e spaventato per pensare con chiarezza. Aveva trascurato un dettaglio d'importanza vitale. Non poteva far altro che restar lì ed attendere che passasse un vicino. Era inamovibile, come scolpito nella pietra. Non poteva muovere neppure una palpebra. Il terrore l'invase. Trascorse una settimana. E in tutti quei giorni, il ratto guizzava e giocava per tutta la stanza. Una volta si avventurò beffardamente sul tavolo, davanti a lui. Zulerich l'osservò attento: l'animaletto non respirava. Passò un'altra settimana, prima che qualcuno entrasse in casa. Nel frat-
tempo il ratto si fece più ardito, e Zulerich ebbe molto tempo di osservarlo. Comprese che il suo esperimento era riuscito. Il ratto consumava solo il cibo sufficiente per sostituire l'energia fisica consumata. Aveva bisogno di carburante per correre qua e là, e naturalmente era un metodo di decadenza. Ma non ne aveva bisogno per restare in vita. Zulerich ebbe la certezza di aver scoperto un grande segreto. Aveva realizzato la vita perpetua, che aveva bisogno di nutrimento solo per riprodurre le energie fisiche. Poi un vicino, passando, guardò dentro. La sua espressione inquieta cedette il posto all'angoscia, alla malinconia, quando vide il vecchio Zulerich seduto rigido sullo sgabello accanto ai suoi prodotti chimici. Zulerich tentò di gridare, ma la voce era paralizzata come le membra. Tentò di gracchiare, persino di sussurrare, ma non vi fu alcun suono. Trasfuse tutte le sue invocazioni nel fuoco gelido e ardente degli occhi, puntati direttamente verso la porta. L'uomo vide quegli occhi, vivi e fulgidi. Sbatté l'uscio e fuggì via. Zulerich fece sensazione. Nessuno sapeva cosa gli fosse accaduto. Lo credettero morto, e immaginarono che si fosse rovesciato addosso un composto misterioso, finendo imbalsamato con la luce della vita negli occhi. Gli imprenditori di pompe funebri vennero da lontano per studiarlo, lì seduto nel laboratorio. Frugarono tra i liquidi nelle boccette, e gli anni passarono; ma il vecchio Zulerich non venne sepolto, perché tutti ritenevano che avesse scoperto un prodigioso fluido imbalsamatore e lo tenevano in osservazione. Il vecchio Zulerich, che non invecchiava più, sapeva tutto questo perché se ne stava lì, dentro ad una vetrina, adesso, e udiva tutto ciò che gli altri dicevano e vedeva tutto ciò che facevano. E nel cuore della notte il ratto, con il suo egoismo e la sua vita eterna, ed il chimico altruista nella sua bacheca, tornavano a incontrarsi. Il ratto guizzava svelto sopra la vetrina in cui Zulerich stava rigido, quasi scolpito nella pietra. Sedeva sul tavolo davanti a lui e lo fissava con gli sprezzanti occhietti rossi, prima di sfrecciar via. Zulerich lo riconosceva dalla bizzarra cicatrice sul collo. Il ratto sapeva che cosa mancava all'uomo. Per due lunghi anni era rimasto impietrito, come adesso lo era lo scienziato, prima che questi gli restituisse la capacità di movimento. Ma era troppo meschino per fare ad un uomo un favore tanto grande. Non gli portò mai quelle poche gocce di cui aveva tanto bisogno. Un giorno misero Zulerich in una cassa, delicatamente, e lo trasferirono.
Quando la cassa venne riaperta si trovò in un solenne edificio, con la mummia di un faraone al suo fianco, e reliquie ammuffite di altre epoche tutto intorno a lui. Riconobbe il vecchio palazzo, perché un tempo aveva amato recarvisi, lasciando vagare la fantasia, cercando con il pensiero qualcosa di tangibile tra i frammenti di un'età perduta. E mentre se ne stava lì, sul suo sgabello, protetto dalla vetrina, la sua vita inalterabile scrutava le strette corsie davanti a lui, ed oltre la grande vetrata della finestra di fronte. E là fuori vedeva passare la folla. Gente di un giorno. Uomini che ieri erano bambini tra le braccia materne ed oggi lottavano per salire la difficile scala del successo, e domani sarebbero precipitati nell'oblio. Le usanze cambiarono, le donne si posero in concorrenza con gli uomini, e vi fu sempre meno tempo ed inclinazione per godere i frutti della preparazione. Gli anni dell'addestramento si allungarono. In tutti quegli anni, era stabilito dalla sorte che i due dovessero incontrarsi ancora: il ratto con la sua avidità egoista e il chimico con il sogno altruista. Il ratto l'aveva cercato per guardarlo malignamente, come aveva fatto un tempo, per poter correre sulla vetrina e deriderlo con i suoi movimenti. Ma il custode del museo vide la bestiola e la percosse con la scopa, la storpiò con un colpo di tacco. Accadde durante la notte, e l'uomo lasciò il ratto sul pavimento, fino al mattino, perché gli addetti alle pulizie lo gettassero via. Ma prima degli addetti alle pulizie, il mattino seguente, arrivò uno degli scienziati che studiavano Zulerich; vide il ratto disteso sul pavimento davanti alla vetrina, con il corpo storpiato e gli occhi vivi, accesi, pieni di dolore. Si chinò per esaminarlo, e il suo interesse divenne intensissimo, perché il cuore ed i polmoni erano inerti, e l'animale sembrava morto; eppure i suoi occhi avevano la stessa espressione viva dell'uomo chiuso nella bacheca. Perciò anche il ratto venne tenuto sotto osservazione e collocato in una vetrinetta su di un sostegno, proprio davanti al vecchio Zulerich, che fissava il grande mondo attraverso la finestra. Il ratto si trovava sulla linea della visuale del chimico, così che per vedere il mondo oltre la finestra egli doveva guardare negli occhi l'essere cui aveva dato la vita eterna, e che era stato storpiato e condannato all'eterna sofferenza. Passarono gli anni, lunghi anni, tanto più lunghi nella certezza che non avrebbero avuto fine. Era così triste sapere che, invece di vedere l'infelicità e lo spreco di ottant'anni, doveva vederli per ottocento anni, e che anche
questo non sarebbe bastato. La vita scorreva sotto il suo sguardo, bruciando nella decadenza. Eppure egli possedeva il segreto che tutti desideravano. Tra loro e la vita eterna c'era un anello di congiunzione, poche gocce d'acqua alcalina. Ma i fili della comunicazione erano caduti, e nessuno sapeva come ripararli. Zulerich aveva il segreto, gli altri avevano il potere di realizzarlo, se solo avessero saputo. Impazienti, ansiosi, stanchi, scoraggiati e disfatti, gli abitatori del mondo continuavano a passare: torrenti di movimento sprecato. Per lunghi anni Zulerich l'invidiò, perché avevano il potere di pronunciare una parola per la libertà. Per lunghi anni, l'uomo immortale ed il ratto immortale si guardarono con odio. Per lunghi anni, lo scienziato studiò e trovò, nella mente, i mezzi per spezzare la paralisi del proprio corpo, per poter dare la vita eterna all'umanità. E poi apprese una grande lezione, da una bambina. La bambina aveva notato il ratto storpiato, e aveva veduto la sofferenza e il desiderio di morte nei suoi occhi. Supplicò il padre di uccidere il ratto, come aveva ucciso il suo cagnolino, che era stato storpiato irrimediabilmente da una macchina. Quella notte, gli occhi di Zulerich si addolcirono, mentre guardava la bestiola sotto la luce chiara delle lampade elettriche: e provò rimorso. Per la prima volta fu lieto di non aver potuto donare all'uomo la sua formula magica. Aveva scoperto che avrebbe dovuto cercare di migliorare la vita, prima di cercare di prolungarla. Titolo originale: The Eternal Man (Science Wonder Stories, agosto 1929). 1930
Charles Willard Diffin Il potere e la gloria In un periodo in cui la preferenza andava ai racconti lunghi, è sorprendente constatare con quanta esperienza venivano costruiti quelli brevi, quando venivano scritti. Dopo The Eternal Man, ecco un altro testo breve
con un trattamento simile, sebbene su di un tema completamente diverso. Si notino, in particolare, le sardoniche righe della chiusura. Charles Willard Diffin aveva un dono particolare per questo genere di cose. The Dog That Laughed fu un lungo racconto pubblicato nel primo numero della rivista gemella di Astounding, Strange Tales, del settembre 1931. Strange Tales era un tentativo di rivaleggiare con Weird Tales, e conteneva sia storie scientifico-bizzarre che racconti dell'orrore veri e propri. The Dog That Laughed era una vicenda del genere «minaccia nel laboratorio», ma con una delle frasi conclusive più agghiaccianti che riesco a ricordare. La storia è stata ristampata su Magazine of Horror n. 16 dell'estate 1967. L'abilità di scrittore di Diffin risultò evidente fin dall'inizio, e la sua breve comparsa nel campo fantascientifico sembra indicare che probabilmente egli era un redattore delle riviste di Clayton, soprattutto perché solo tre dei suoi testi fantascientifici pubblicati, su diciotto, apparvero al di fuori delle due pubblicazioni specializzate di Clayton, e precisamente su Astounding Stories, dopo la sua rinascita ad opera della Street & Smith. Diversi suoi racconti uscirono anche su una rivista gemella d'avventure, Top-Notch. Spawn of the Stars, nel secondo numero di Astounding Stories of Super Science, febbraio 1930, segnò il suo debutto nel campo. Vennero poi due racconti nel numero del giugno 1931; uno recava lo pseudonimo di C. D. Willard. The Power and the Glory apparve sul numero successivo; fu quindi il suo quarto racconto fantascientifico e segnò l'inizio della sua popolarità. Il vero successo giunse con Dark Moon, nel maggio 1931. Era il primo d'una serie di racconti che narravano le avventure di Walt Harkness e di Herr Schwartzmann su un misterioso corpo celeste. L'interesse crebbe con l'annuncio di un seguito costituito da un romanzo, Brood of the Dark Moon, che cominciò ad uscire in agosto. Un terzo racconto, The Finding of Haldgren, concludeva la vicenda. Non si sa perché nel 1935 la produzione di Diffin cessò, ma dopo la pubblicazione dell'ultimo episodio del suo romanzo Blue Magic, nel febbraio 1936, Diffin sparì per sempre dal campo fantascientifico. C'erano molte carte sulla scrivania, una quantità di fogli scarabocchiati nella grafia trascurata di studenti distratti con i simboli della chimica e lunghi calcoli matematici. L'uomo seduto alla scrivania li scostò, per appoggiare il volto scarno e segnato su una mano sottile. L'altro braccio, che
terminava al polso, era appoggiato sul piano della scrivania. Gli studenti della grande università avevano smesso da tempo di formulare ipotesi sulla causa di quella mutilazione. Era conseguenza di un esperimento, questo lo sapevano: una mano ridotta ad una massa di cellule prive di vita, amputata rapidamente per salvare il braccio. Ma era avvenuto diversi anni prima, e costituiva storia antica per coloro che andavano e venivano nell'aula del professor Eddinger. Ma adesso il professor Eddinger era stanco... stanco e vecchio, si disse, mentre chiudeva gli occhi per escludere la vista di quegli interminabili compiti e del moncherino che aveva posto fine per sempre ai suoi esperimenti ed alle delicate manipolazioni che egli solo era stato in grado di compiere. Tese la mano lentamente verso il telefono che squillava, ma i suoi occhi s'illuminarono, quando udì la voce. «Ci sono... ci sono!» Le parole erano quasi incoerenti. «Sono Avery, professore... Avery! Deve venire immediatamente. Una parte del merito è suo; le debbo tutto... lei sarà il primo a vedere... mando un tassì a prenderla...» Gli occhi stanchi del professor Eddinger si raggrinzirono in un sorriso. Un simile entusiasmo era raro tra i giovani. Ma Avery, con il viso da poeta, gli occhi da sognatore e la mente da scienziato... bravo ragazzo, Avery!... non lo vedeva da molto tempo... L'aveva avuto nel suo laboratorio per due anni... «Di che si tratta?» chiese. «No... no!» disse la voce. «Non posso spiegarglielo .. è troppo grande... più del motore a induzione... più della luce elettrica... è la cosa più grande del mondo. Il tassì dovrebbe essere ormai arrivato... lei deve venire...» Bussarono alla porta dell'ufficio ed una voce disse: «Macchina per il professor Eddinger.» «Vengo,» rispose il professore. «Vengo subito.» Mentre il tassì lo trasportava veloce attraverso la città, pensò quale poteva essere la cosa più grande del mondo. E si augurò, con mite scetticismo, che l'entusiasmo fosse giustificato. Un giovane aprì la portiera, quando la macchina si fermò. Era rosso in viso, notò Eddinger, con i capelli spinti all'indietro, in disordine, la camicia aperta sul collo. «Aspetti qui,» fece al tassista, e prese per il braccio il professore, per condurlo in un edificio malconcio. «Non è un gran che, come laboratorio,» disse. «Ma avremo di meglio,
lei ed io: avremo di meglio...» La stanza sembrava spoglia, con quelle sue scarse apparecchiature, ma era linda, come si conveniva al miglior allievo del chiature, ma era linda, come si conveniva al miglior allievo del reagenti, ma le tavole erano un caos di strumenti piazzati qua e là e di recipienti di vetro rotti, dove mani tremanti avevano pasticciato con frenetica eccitazione. «Sono lieta di rivederti, Avery.» La voce mite del professor Eddinger aveva perduto il tono stanco. «Stai lavorando da due anni, mi pare. Ora, cos'è questa grande scoperta, ragazzo mio? Cos'hai trovato?» Il giovane, il cui viso arrossiva e impallidiva alternativamente, ed i cui occhi brillavano nelle orbite cerchiate, testimonianza di lunghi giorni e di notti insonni, lo teneva ancora per il braccio. «È vero,» disse. «È grande! Significa la fortuna e la fama, e ce n'è anche per lei, professore. Il vecchio maestro,» aggiunse, e batté affettuosamente una mano sulla spalla magra dell'altro. «Devo tutto a lei. Ed ora ho... ho appreso... No, deve vedere con i suoi occhi. Aspetti...!» Si accostò svelto ad un tavolo. Sopra c'era un apparecchio: il professore spalancò gli occhi, nel vederlo. Era complicato... un labirinto di tubi. Sopra c'era una lampada di vetro, evidentemente il generatore di un raggio catodico, ed elettromagneti, sotto ed ai lati. Più in basso c'era una rozza sfera di piombo, che poteva essere una storta, da cui uscivano due grossi cavi isolati. Gli occhi attenti del professore li seguirono, uno fino al terminale di un grosso blocco isolante sul pavimento, l'altro fino ad un terminale egualmente protetto, formato di grafite, sospeso in aria parecchie decine di centimetri al di sopra. Le dita tremanti del giovane effettuarono alcuni assestamenti; poi egli lasciò lo strumento per prendere posto accanto a un interruttore. «Stia indietro,» avvertì, e fece scattare l'interruttore. Dai tubi di vetro uscì un sibilo sottile, ed il fioco bagliore di una luce verdazzurra. E questo fu tutto fino a quando, con uno scroscio simile al crepitare di un fulmine, una luce bianca s'inarcò tra i poli dei pesanti cavi. Sibilò incessante nell'aria, ormai pervasa dal sentore di ozono. I blocchi di carbone brillavano incandescenti, quando la fiamma cessò, nell'attimo in cui Avery fece scattare un interruttore. La sua voce era sommessa, ora. «Lei non sa ancora che cosa ha visto, ma c'era un potenziale enorme... un amperaggio che non posso misurare, con i miei strumenti limitati.» Con un gesto di deprecazione indicò il laboratorio mal fornito. «Ma ha visto...» La voce gli tremò, non riuscì a forma-
re le parole. «... La disintegrazione dell'atomo,» continuò sottovoce il professor Eddinger. «E la liberazione di un'energia illimitata. Hai usato il torio?» domandò. L'altro lo guardò sbalordito. Poi: «Dovevo immaginarlo, che lei avrebbe capito,» disse umilmente. «E lei sa cosa significa,» fece, alzando di nuovo la voce. «Energia senza fine per svolgere le attività del mondo... grandi navi che funzioneranno per una vita intera grazie all'energia di un'oncia di materia... una rivoluzione nei trasporti... nel modo di vivere...» S'interruppe. «La liberazione dell'umanità,» proseguì, con tono reverente. «Questo farà tutto il lavoro del mondo: creerà un nuovo paradiso ed una nuova terra! Oh, ho fatto tanti sogni,» esclamò. «Ho avuto tante visioni. Ed è stato concesso a me... a me!... di liberare l'uomo dalla maledizione di Adamo... il sudore della fronte... ancora non so rendermene conto. Io... io non sono degno...» Alzò gli occhi lentamente, in silenzio, per guardare stordito il vecchio insegnante. Sul volto segnato non si era accesa una luce di risposta. Solo tristezza, negli occhi stanchi che lo guardavano, attraversandolo, come concentrati su qualcosa appartenente ad un vago futuro... o al passato. «Non capisce?» chiese Avery, sbigottito. «La libertà degli uomini... la liberazione della specie. Niente più miseria, niente più fatica.» Anche i suoi occhi giovani guardavano nel futuro, un futuro di luce abbagliante. «La cultura,» disse, «anziché il lavoro sfiancante, una possibilità di evolversi mentalmente, spiritualmente: un altro mondo, una nuova vita...» E chiese di nuovo: «Lei capisce, sicuramente?» «Capisco,» rispose l'altro. «Capisco benissimo.» «Il mondo nuovo,» disse Avery. «Mi... mi abbaglia... suona come una musica nelle mie orecchie.» «Non vedo nessun mondo nuovo,» rispose l'altro, lento. Il giovane era chiaramente perplesso. «Non mi crede?» balbettò. «Dopo aver veduto... Pensavo che lei avrebbe avuto la visione, mi avrebbe aiutato ad emancipare il mondo, a salvarlo...» La voce gli venne meno. «Gli uomini hanno l'abitudine di crocifiggere i loro salvatori,» fece la voce stanca. D'improvviso, l'inventore s'indignò. «Lei è cieco,» disse aspramente. «È una cosa troppo grande per lei. Ed io che avrei voluto averla accanto nella grande opera... l'annuncerò da solo... Ci saranno laboratori... enormi... e fabbriche. La mia invenzione verrà perfezionata, semplificata, ridotta nelle
dimensioni. Verrà costruito un generatore... migliaia di cavalli-vapore per sbrigare il lavoro di una città, per rendere liberi migliaia di uomini... e sarà così piccolo che lei potrà tenerlo in una mano.» Il volto sensibile era illuminato d'orgoglio, un po' arrogante. L'esaltazione del futuro potere lo dominava. «Sì,» fece il professor Eddinger. «In una mano.» E alzò il braccio destro, per mostrare l'estremità della manica vuota. «Mi dispiace,» disse all'improvviso l'inventore. «Non avevo intenzione... Ma ora voglia scusarmi; c'è tanto da fare...» Ma il professore Eddinger si era portato accanto al tavolo per esaminare l'apparecchio. «Rudimentale,» disse sottovoce. «Rudimentale... ma efficiente!» Nel silenzio, un topo era comparso nell'angolo lontano. Il professore annuì, vedendolo. L'animale si fermò quando gli occhi dell'uomo si posarono su di lui; poi sedette come uno scoiattolo su uno degli scaffali, a rosicchiare una briciola di cibo. Senza dubbio un avanzo di uno degli affrettati pranzi di Avery, pensò il professore... Povero Avery! Sì, c'era molto da fare. Parlò quasi più a se stesso che al giovane che l'aveva raggiunto. «Entra qui,» disse, e abbassò lo sguardo sulla lampada al piombo. Posò un dito sul metallo. «Più o meno qui, direi... Hai un trapano? E un pezzetto di quarzo?» L'inventore lo guardò perplesso, ma la sicurezza del suo vecchio insegnante l'indusse ad obbedire. Portò un piccolo trapano ed un frammento che sembrava di vetro. E trasalì quando l'unica mano cominciò a lavorare goffamente per praticare un minuscolo foro nel piombo. Ma rinunciò a trattenerlo, e restò a guardare, in silenzio, sconcertato, mentre il quarzo veniva sistemato per formare una finestrella, ed una figura magra si piegava, come per puntare l'apertura verso l'angolo lontano, in cui un topo bruno sedeva intento a rosicchiare una crosta. Il professore trascinò con sé Avery, e si ritrasse senza far rumore dallo strumento. «Fai scattare l'interruttore,» sussurrò. Il giovane esitò, all'idea di quella dimostrazione inaspettata, ed il professore, allora, tese l'unica mano verso la leva nera. L'arco si riaccese, crepitando, rimase per un breve istante, fino a quando il professor Eddinger fece scattare ancora l'interruttore. «Ebbene,» chiese Avery, «è tutto qui? Crede d'insegnarmi qualcosa... a proposito del mio strumento?» nella sua voce c'erano orgoglio offeso e risentimento geloso. «Guarda,» disse sottovoce il professor Eddinger. La mano esile indicò lo
scaffale dove, nell'ombra, stava un mucchietto di pelo con un pezzetto di crosta. Cadde, mentre lo guardavano, ed il tonfo del corpo morbido sul pavimento risuonò nella stanza silenziosa. «La legge di compensazione,» fece il professor Eddinger. «Le due facce della medaglia. La tenebra e la luce... il bene e il male... la vita... e la morte!» Il giovane stava balbettando. «Cosa intende dire?... Un raggio della morte?» E poi: «E con questo?» domandò. «E con questo? Che cosa c'entra?» «Un raggio della morte,» confermò l'altro. «Tu hai sognato, Avery... bisogna sognare, per poter creare... ma è solo un sogno. Tu sognavi la vita... una vita migliore per il mondo: ma come hai visto, gli avresti dato la morte.» Il viso di Avery era cereo: gli occhi splendevano selvaggiamente nelle orbite scure. «Un topo!» protestò. «Lei ha ucciso un topo... e dice... dice...» Si portò la mano tremante alle labbra per non proferire parole irriferibili. «Un topo,» disse il professore. «O un uomo... o un milione di uomini.» «Lo controlleremo.» «L'avranno tutti gli uomini... i migliori ed i peggiori... E non ci sono difese.» «Libererà il mondo...» «Lo distruggerà.» «No!» L'uomo pallidissimo urlava, ora. «Lei non capisce... non può capire...» La figura scarna dello scienziato si raddrizzò in tutta la sua altezza. Gli occhi incontrarono quelli del giovane che adesso taceva, ma Avery sapeva che quegli occhi non lo vedevano; guardavano lontano, seguendo il volo del pensiero. Nel silenzio, le parole dell'uomo risuonarono aspre, autoritarie... «Vedi le città,» disse, «ridotte a rovine sotto le stelle fredde? I campi? Sono invasi da erbacce, devastati dalle acque; una terra desolata dove si aggirano gli animali. E la gente... la gente! Bande vaganti, inferiori, con il passare degli anni, persino alle bestie; i bambini che muoiono, dimenticati, nelle terre dimenticate; un popolo per il cui progresso della nostra civiltà appartiene ad epoche passate, per cui vi è ancora una strada lenta e faticosa per riconquistare la luce. «E chissà dove, forse, una razza conquistatrice, la più brutale ed insensibile dell'umanità, che impazza nel suo senso di potere e si precipita nell'o-
blio...» Lentamente, il suo sguardo tornò a posarsi sulla stanza, sulla figura dell'uomo che lottava ancora per il suo sogno. «Non lo faranno mai,» disse Avery, rauco. «Se ne serviranno a fin di bene.» «Davvero?» chiese il professor Eddinger. Parlava semplicemente, come formulasse fatti elementari. «Io amo i miei simili,» fece. «Eppure ne ho uccisi a migliaia durante l'ultima guerra... Io, e la mia scienza, e il mio gas velenoso.» Avery si lasciò cadere su una sedia, si nascose il volto tra le mani. «E sarei stato,» gemette, «l'uomo più grande del mondo.» «Sarai ancora più grande,» disse il professore, «anche se lo sapremo soltanto noi... io e te... Tu salverai il mondo... da se stesso.» La figura, abbandonata sulla sedia, non si mosse; l'uomo non si accorgeva neppure della mano posata amichevolmente sulla sua spalla. Quando parlò, la sua voce era lontana, uscita da un'immensa solitudine. «Non capisce,» ripeté, cupamente. «Non può...» Ma il professor Eddinger, che era una rotella nell'ingranaggio della grande macchina dell'istruzione, gettò un'occhiata all'orologio. Le spalle esili erano di nuovo chine, la voce stanca. «Le mie lezioni!» esclamò. «Debbo andare...» Nell'addensarsi dell'oscurità il professor Eddinger chiuse con cura la porta del suo ufficio. Passò dietro la scrivania e con l'unica mano cercò le chiavi. C'era un armadietto da aprire, ed egli guardò a lungo, nella luce fioca, l'oggetto che ne estrasse. Guardò con aria d'approvazione la costruzione perfetta di uno strumento in cui un generatore di raggi catodici ed un intricato labirinto di tubi sovrastavano gli elettromagneti e una rotonda lampada al piombo. C'erano i terminali cui andavano fissati i pesanti cavi: era una struttura bellissima... Il braccio mutilato si mosse, come per portare una mano immaginaria davanti alla finestrella di quarzo nella sfera al piombo. «Il potere,» sussurrò, e ripeté le parole di Avery: «Il potere di costruire una città... o di distruggere una civiltà... ed io lo tengo in una mano.» Rimise di nuovo l'apparecchio al sicuro, nell'armadietto. «I salvatori dell'umanità,» disse, in tono aspro e amaro. Ma un sorriso mite raggrinziva i suoi occhi mentre si girava verso la scrivania, e il suo mucchio di saggi d'esame.
«È importante, Avery,» sussurrò, rivolgendosi al discepolo lontano, «appartenere ad un gruppo così esclusivo.» Titolo originale: The Power and the Glory (Astounding Stories, luglio 1930). 1931
Lloyd Arthur Eshbach Un messaggio dall'etere I lettori di Amazing Stories erano abituati ai capricci senili dell'ottuagenario direttore T. O'Conor Sloane: tuttavia spesso venivano messi in ansia inutilmente. I fan di Lloyd Arthur Eshbach rimasero com'è naturale emozionati quando nel numero di marzo 1931 di Amazing Stories trovarono, illustrato in copertina, il suo racconto The Valley of the Titans. Secondo l'usanza di molte riviste di quei tempi, accanto al nome dell'autore, sotto il titolo del racconto, veniva fornita un'ulteriore precisazione, come il titolo di un precedente racconto di successo dello stesso scrittore. Naturalmente, doveva essere apparso nella stessa rivista, o in una testata gemella, non in una pubblicazione concorrente. Ma Eshbach, fino a quel momento, non era mai apparso su Amazing Stories. I lettori, perciò, dovettero restare sbalorditi, quando, sotto il titolo di The Valley of the Titans trovarono scritto: «Dell'autore di The Voice From the Ether». Possibile che fosse loro sfuggito? Dov'era stato pubblicato The Voice From the Ether? Una rapida occhiata alle loro collezioni rivelò ai fan che non era stato pubblicato da nessuna parte. Fino a quel momento erano usciti solo tre racconti: due nelle riviste di Gernsback, Scientific Detective Monthly ed Air Wonder Stories, il terzo in Astounding Stories di Clayton. Passarono due mesi prima che i lettori scoprissero The Voice From the Ether: ma valeva la pena di attendere. Evidentemente, Eshbach aveva presentato insieme i due racconti e Sloane aveva dimenticato che non ne aveva ancora pubblicato uno. Ma nel maggio 1931, a tempo debito, il racconto fu presentato così: «Dell'autore di The Valley of the Titans».
Eshbach era nato nel 1910 ed il suo nome era comparso spesso nelle rubriche della posta dei lettori sulle riviste. Verso la fine degli Anni Quaranta, fondò la Fantasy Press, che pubblicò in edizioni rilegate alcuni dei grandi delle prime riviste fantascientifiche, in particolare E. E. Smith e John Campbell. The Tyrant of Time, una raccolta di suoi racconti, uscì nel 1955. Un'opera non narrativa particolarmente interessante fu Of Worlds Beyond: The Science of Science-Fiction Writing (1947), curata da Eshbach, in cui i maggiori autori spiegavano i diversi modi in cui affrontavano la letteratura fantascientifica. Il 22 agosto 1924, Marte era in opposizione alla Terra. Vale a dire, i due pianeti, nel loro movimento perpetuo, avevano assunto una posizione tale da essere in linea retta rispetto al Sole, e la Terra eclissava il pianeta superiore, Marte. Un pianeta superiore ha un'orbita il cui diametro è maggiore di quello della Terra. In quell'occasione, la distanza che separava Marte e la Terra era inferiore di quanto lo fosse stata negli ultimi cento anni. Solo 55 milioni di chilometri separavano i due corpi celesti. La notte del 22 fu straordinariamente limpida, una notte ideale per le osservazioni astronomiche. Innumerevoli telescopi, grandi e piccoli, vennero puntati sul pianeta rosso. Ingegnosi apparecchi di varie specie si sforzavano di comunicare con gli abitanti di Marte. Ed in una piccola baita, tra i Monti Adirondack, io sedevo davanti alla mia radio. Lontano da ogni interferenza, cercavo di effettuare la più grande ricezione radio mai tentata. Avevo fatto preparativi piuttosto complessi per la registrazione delle comunicazioni interplanetarie che avrei potuto ricevere, procurandomi allo scopo un apparecchio funzionante in base allo stesso principio dei dittafono. Tuttavia differiva da questo strumento, in quanto poteva registrare ininterrottamente per un periodo di dieci ore. L'apparecchio, inventato da un oscuro ingegnere meccanico, stava a pochi passi dall'altoparlante. Regolai i quadranti. Una ricezione dopo l'altra compensarono i miei sforzi. Una voce che cantava, il gemito di un sassofono, i toni sonori di un annunciatore... i soliti programmi radio. Tuttavia, non m'interessavano, perché erano cose normali: io andavo a caccia di ben altra selvaggina. Marte però continuava a mantenere il silenzio, come faceva da innumerevoli secoli. Lentamente trascorsero le ore. Venne mezzanotte... la una. Una splendida notte, pensai, un po' stordito... mi appisolai. Il segnale orario della stazione su cui mi ero sintonizzato mi svegliò.
Uno... due! Udii vagamente i rintocchi, come da una grande distanza. Poi all'improvviso alzai la testa: ero completamente sveglio. Il crepitio disarmonico delle scariche mi aggredì le orecchie. Un ululato spaventoso, simile a quello di un dèmone alla tortura, riempì la stanza. Poi, improvviso quanto la scarica, venne il silenzio, opprimente, pesante, che cadde sulla radio come una cappa. E poi udii la... Voce. Risuonava nitida e forte, senza interferenze. Era acuta e pigolante e, nel corso della ricezione, percorse l'intera gamma delle emozioni. Ero affascinato. Mi sentii invadere da un senso di trionfo, misto a sgomento e reverenza. Ero riuscito! Vittoria! Ero certo di aver ricevuto un messaggio da Marte. Tremavo per l'eccitazione. Esitando, feci per modificare i comandi... e ritirai la mano prima di toccare la radio. Mi trattenne il pensiero che forse avrei potuto spezzare il filo sottile che teneva quella stazione lontana in comunicazione con la Terra. E del resto, non c'era bisogno di regolare i quadranti, perché la ricezione era quasi perfetta. Poi, l'eccitazione dei primi momenti passò, e io prestai maggiormente attenzione alle parole che uscivano dall'altoparlante. Mentre ascoltavo, una nota di concitazione s'insinuò nella Voce. Concitazione, e poi collera, fredda e terribile. E subito dopo la collera venne l'odio, un odio insano che mi riempì di paura. Continuai ad ascoltare per il resto della notte. Sebbene le parole fossero per me prive di significato, le ore che passavano mi videro seduto lì, immobile, incatenato dal potere di quella strana voce acuta. Un grigio raggio di luce penetrò nell'oscurità; la tenebra lasciò il posto al chiarore di un nuovo giorno; e all'improvviso la Voce s'interruppe. Vi fu un momento di silenzio completo, e poi un grido stridulo di spavento e di sofferenza terribile. Le ultime note del grido erano stranamente, orribilmente soffocate. E poi venne quel silenzio morto, incessante... Fuori, nell'erba alta, trillò un grillo. L'incantesimo era spezzato. Lentamente, mi alzai tremando; lentamente sollevai la mano e mi tersi dalla fronte un sudore freddo. L'esperienza era stata così strana, quegli ultimi momenti erano stati così terribili! Solo con la più grande difficoltà riacquistai l'equilibrio mentale. Mille domande mi si affacciarono nella mente. Mi ero sintonizzato veramente con Marte? E in tal caso, cos'era il messaggio che avevo ricevuto? Quale essere aveva effettuato la trasmissione? E... che cosa aveva causato quel grido?
Soltanto quattro anni dopo conobbi le risposte a queste domande. Quattro lunghi anni, durante i quali Millard lavorò instancabilmente per tradurre quel messaggio venuto da un altro mondo. Millard? Sì, Phineas J. Millard, l'archeologo. Con ogni probabilità, è l'unico uomo al mondo, oggi, capace di tradurre una registrazione basandosi interamente sulla fonetica. E persino a lui sono occorsi quattro anni per ultimare quel compito. Resta ancora ben poco da dire, come introduzione. Per comodità, ho approfittato delle interruzioni nell'azione del racconto e l'ho diviso in capitoli. Inoltre, mi sono preso la libertà di sostituire nomi inglesi di apparecchi scientifici a quelli incomprensibili usati dalla Voce. A parte questo, il racconto è immutato. E adesso potete leggere questa vicenda sorprendente, narrata da Tuol Oro, scienziato di un altro pianeta. I In questo immenso universo, brulicante di miriadi di forme di vita, vi è sicuramente una razza di esseri che ascolterà e comprenderà questo mio avvertimento. E forse, comprendendolo, ne terrà conto. È spinto da questa speranza che narro la mia storia. Quando incominciai la mia vita su questo pianeta, venni chiamato Tuol Oro. Grazie alla vivacità del mio intelletto e alla potenza della mia mente, feci in modo che questo nome venisse rispettato in tutto il mondo. Tuttavia, a causa della stupidità di un uomo, nonostante tutto ciò che avevo fatto, divenni un reietto. Fui beffato, deriso, evitato da coloro che mi avevano rispettato. Mi chiamavano Tuol il Pazzo, o Tuol lo Scemo, secondo quel che suggeriva loro la fantasia. La vendetta divenne l'unico scopo della mia vita. Desideravo soltanto distruggere la razza di sciocchi che dominava su Kotar. E ci sono riuscito! Erano falliti e si ritenevano perfetti: ma ormai non ci sono più. Ed io, l'unico superstite, ero considerato l'unico fallito della loro civiltà. Tuol, lo Scemo? No, io sono Tuol il Vincitore. Vi sono altri, ora, che hanno preso il posto dell'uomo: altri che finirò per dominare. Costoro, che ho disseminato nel mondo per compiere la mia volontà, sentiranno il peso del mio potere, ed io regnerò supremo su tutto Kotar. Presto mi farò avanti per rivendicare ciò che mi spetta di diritto: allora sarò veramente il vincitore. Ma prima che questo avvenga, racconterò la storia della caduta e della
distruzione dell'uomo; la storia della vendetta di Tuol Oro. E se questa storia verrà udita su qualche altro mondo, costituirà un ammonimento, affinché gli uomini che riferiscono i fatti strani ed insoliti vengano ascoltati, e siano rispettati come meritano. Ricordo bene gli eventi che furono la causa del mio bando. La riunione del Consiglio; la mia relazione sulla scoperta meravigliosa che avevo fatto; l'incredulità dei Consiglieri; il mio giuramento... Il Consiglio Supremo, l'augusto consesso dei Ricercatori della Verità, aveva indetto una riunione di tutti gli scienziati del pianeta. Si doveva riferire ciò che era stato realizzato per il progresso della civiltà in ogni campo della ricerca. L'aula gigantesca, la Sala del Consiglio, era piena da straboccare. Migliaia di scienziati, che rappresentavano un immane patrimonio di conoscenza, occupavano gli innumerevoli compartimenti che costituivano l'Aula. Tuttavia, costoro non avevano importanza: solo di rado apprendevano qualcosa che avesse veramente valore. Le scoperte più rilevanti dell'epoca erano state compiute da un piccolo gruppo di sei uomini, che occupavano un ampio compartimento nella parte anteriore della sala. Sei uomini, i più grandi intelletti di Kotar. Sei uomini, ed uno ero io! Li ricordo bene: anche adesso mi sembra di rivedere quegli scienziati. Ognuno era un esperto nel suo campo, l'autorità riconosciuta nella sua scienza. C'era Bor Akon, lo storico. Non un solo evento importante di qualunque epoca passata, per quanto remota, gli era ignoto. C'era Sarig Om, l'astronomo, che aveva sondato le profondità dello spazio con i suoi strumenti, e conosceva i segreti d'innumerevoli corpi celesti. La sua scienza era immensa. Cito in particolare questi due perché in seguito ebbero una parte di rilievo nella vicenda. Gli altri del gruppo erano Dees Oeb, specialista dello studio della materia. Stol Verta, appassionato di meccanica, l'inventore più grande nella storia di Kotar; Gano Tor, i cui strani preparati erano quasi in grado di rendere la vita ai morti; e Tuol Oro, che si occupava dell'infinitamente piccolo. Era davvero una straordinaria concentrazione di sapienza. Eppure ognuno, in quel gruppo, e così pure gli altri intellettuali minori, era un fallito. Tutti vennero annientati... cancellati dai figli della mia mente, ed i loro intelletti poderosi furono ridotti all'impotenza. Tutti... tranne uno. Io, Tuol il Pos-
sente, sopravvivo! Ma questa è una digressione. Su di una piattaforma elevata sedeva il Consiglio. Erano venti uomini venerabili: l'organo che governava Kotar. Ognuno dei Venti, fin dalla nascita, era stato addestrato nell'ambiente più adatto per prepararsi alla carica ora detenuta. Erano i giudici, le menti decisionali del nostro pianeta. Come i Consiglieri, anche noi scienziati eravamo stati addestrati meticolosamente, preparati al nostro futuro posto nella vita. Bor Akon, lo storico, disse una volta che nei tempi andati non esistevano tali specializzazioni, che ogni uomo, ogni donna decideva il proprio campo di attività quando arrivava alla maturità. Assolutamente ridicolo! I nostri destini erano predeterminati fin dalla nostra infanzia dal Sub-Consiglio di ogni distretto residenziale. In questo modo non esistevano occupazioni trascurate ed altre sovraffollate. Ma per tornare alla riunione nella Sala del Consiglio... Ogni scomparto era attrezzato con uno strumento che utilizzava la misteriosa «Energia delle Sfere», l'energia che sto usando ora per trasmettere questa storia e questo ammonimento. Per mezzo di tale strumento, noi scienziati non soltanto comunicavamo con i Venti ma, mediante l'uso di un grande disco ad amplificazione, facevamo udire le nostre relazioni a tutti coloro che erano presenti nell'Aula. I membri del Consiglio, tra l'altro, non avevano bisogno di tale mezzo per far conoscere i loro pensieri: grazie al potere delle menti ben addestrate, potevano renderci noti tutti i loro desideri. E poiché essi sapevano alla perfezione chi occupava i vari compartimenti, non avevano difficoltà a far sì che gli scienziati parlassero nell'ordine da loro voluto. All'improvviso, nella sala scese il silenzio; ogni suono si smorzò. I Venti avevano irradiato l'ordine mentale di tacere. Poi si alzò Stol Verta, l'inventore. Con voce monotona, sognante, si rivolse al Consiglio. La relazione di Stol riguardava la sua invenzione più recente, una macchina che, a quanto affermava, sarebbe stata in grado di varcare il grande vuoto tra i pianeti. Non ricordo come dovesse funzionare. Per la verità, ben poco di ciò che disse rimase impresso nella mia memoria. Le cosiddette meraviglie meccaniche avevano poco interesse per me; e lo stesso Stol Verta era un individuo poco interessante. Le sue affermazioni, tuttavia, parvero incontrare l'approvazione del Consiglio, poiché i Venti irradiarono un'onda di pensieri di elogi in tutta la sala. Con un lieve sorriso, Stol si sedette. Sarig Om fu il secondo scienziato invitato a parlare dai Venti. Quando si
alzò per fare la sua relazione, decisi di prestare maggiore attenzione. La scienza di Sarig Om era interessante, per me, dato che aveva una certa somiglianza con i miei studi. Egli si occupava di grandezze insondabili, io dell'infinitamente piccolo. Sarig fece una relazione dettagliata sui vari eventi celesti, prima di giungere alla parte veramente importante del suo discorso. Sul momento, la rilevanza della sua affermazione non mi colpì molto; in seguito ebbi motivo di ricordarmene. Parlò dell'imminente opposizione tra il nostro mondo e Santel, il nostro vicino planetario più prossimo. Dichiarò che i due pianeti sarebbero stati più vicini di quanto lo fossero stati negli ultimi cinquanta mallah (1). Sarebbe stata un'occasione eccellente, ci informò, per cercare di stabilire comunicazioni con i santelliani. Anche la sua relazione venne approvata dal Consiglio. Quando Sarig sedette, provai un curioso formicolio alla base del cervello. Poi una voce silenziosa, nella mia mente, mi ordinò di alzarmi. Era il comando. Mi alzai; girai lo sguardo sulla sala, poi mi rivolsi ai Venti. Questi mi trasmisero il comando di procedere con la mia relazione. Cominciai, dopo un attimo di pausa. «Al Consiglio Supremo, organo decisionale di Kotar, io, Tuol Oro, studioso dell'infinitamente piccolo, presento la mia relazione.» Era l'esordio tradizionale, ed ogni scienziato lo usava, naturalmente con le opportune variazioni. Proseguii: «Le mie fatiche dell'ultimo mallah, o venerabili Venti, non sono state prive di frutto; anzi, ho avuto la grande fortuna di fare una scoperta che non ha eguali nella storia della microscopia. «Il Consiglio conosce senza dubbio la struttura dell'atomo e la sua spiccata rassomiglianza con il Sistema Solare, con il suo corpo centrale, il Sole, che nell'atomo è il nucleo, ed i satelliti orbitanti, rispettivamente i pianeti e gli elettroni planetari. La concezione dell'atomo, naturalmente, non è accettata, o meglio, non era accettata come una realtà; era considerata soltanto una teoria plausibile. «Cinque stallo fa, operando in base ad un principio diverso da quelli adottati in precedenza, costruii un microscopio così potente da permettermi di vedere le parti che compongono un atomo. Gli elettroni planetari erano invisibili a causa della grande velocità con cui ruotano; ma si potevano vedere chiaramente i protoni, come sfere rotanti rapidamente e dotate d'una debole luminosità.
«Naturalmente, la mia invenzione e la scoperta mi resero euforico; ma non ero ancora soddisfatto. Sentivo di avere appena incominciato: e le possibilità poste in essere da quei risultati erano praticamente illimitate. Così, senza indugi, cominciai a costruire un microscopio assai più potente ed efficiente del mio primo strumento. Dopo quattro stallo d'intenso lavoro, vi riuscii. «L'ultimo apparecchio superava le mie aspettative: per suo mezzo scoprii qualcosa di sbalorditivo e d'incredibile, tanto che trovai difficile dar retta ai miei occhi. «Quando il microscopio fu completo in tutti i minimi particolari, puntai le lenti su di una particella di sodio. Il mio cuore batté più rapido, mentre guardavo per la prima volta nell'oculare. Cosa sarebbe apparso al mio sguardo? Un turbine di congetture impossibili mi passò per la mente; eppure nemmeno l'immaginazione più sfrenata poteva concepire ciò che vidi. «Stavo osservando una valle ampia e poco profonda, coperta da una vegetazione brillante, multicolore. Per qualche istante rimasi sbalordito1, incredulo; poi la scena scomparve e venne sostituita da una collina tondeggiante. Come la valle, era coperta dalla vegetazione sgargiante. E mentre guardavo, la collina si spostò lentamente attraverso la mia visuale. Un'altra valle prese il posto dell'altura; e questa era assai più grande della prima. «Mentre la guardavo, notai un fenomeno sorprendente, che prima era sfuggito alla mia attenzione. La vegetazione della valle era in movimento: continuava a cambiare posizione. Regolai la messa a fuoco del microscopio, concentrandone la capacità d'ingrandimento su una piccola parte della scena. La valle parve salire d'un balzo verso i miei occhi. Non osservavo più un vasto campo di vegetazione mobile: nella mia visuale, adesso, c'erano tre piante soltanto. «E quest'erano strane! Su Kotar non era mai esistito nulla di simile. Erano eguali per forma e dimensioni, sebbene ognuna avesse un colore diverso. Quando le guardai per la prima volta, erano piccole sfere pressoché perfette, coperte da un'epidermide lucente e scagliosa. Mentre le fissavo, divennero più grandi: anzi, la loro crescita fu così rapida che potei vederla compiersi! Man mano che crescevano, la pelle si tendeva sempre di più; e all'improvviso scoppiarono, disperdendo nell'aria grandi nubi di polvere colorata. Gran parte di quella polvere venne soffiata via: ma un po' si posò sul suolo. Là dove prima erano le sfere, c'erano tre pozzanghere di fanghiglia: e in esse cadde la polvere. «Quanto accadde allora fu forse la cosa più sbalorditiva che vidi nel cor-
so di tutte le mie osservazioni. Ecco in breve ciò che successe: la polvere, costituita evidentemente dai semi delle piante, cadendo nella fanghiglia germogliò, crebbe e raggiunse la maturità. Un attimo dopo, le nuove piante scoppiarono, lanciando i semi... e con tale rapidità da apparire come un unico movimento continuo. «Preso dall'interesse per la valle e la sua vegetazione, avevo dimenticato la stranezza delle condizioni in cui osservavo quella terra. Deciso a scoprirne l'ubicazione, cominciai a ridurre lentamente l'ingrandimento del microscopio, mettendo a fuoco lo strumento in modo da allontanare sempre più quel mondo. Rividi la panoramica della valle e delle montagne. Poi la scena assunse un bizzarro aspetto convesso. La convessità crebbe sino a quando, finalmente, tutti i dettagli del panorama si persero, ed il microscopio rivelò un immenso globo che girava lentamente sul proprio asse. La sfera rimpicciolì, ed altre ne apparvero: allora compresi la verità. Avevo scoperto la vita su un protone del nucleo di un atomo di sodio!» Così si concluse la mia relazione al Consiglio. Quando ebbi finito, rimasi in piedi, in attesa degli elogi dei Venti. Ma essi non mi diedero la loro approvazione. Accaddero invece due cose che non avevano precedenti nella storia di Kotar. Non era mai avvenuto che uno dei Venti parlasse mentre il Consiglio era in seduta; e nessuno dei sei Maestri era mai stato riprovato pubblicamente dai Venti. Entrambi gli eventi inauditi si verificarono allora. San Nober, il Capo del Consiglio, si alzò, con un'espressione di severa disapprovazione sul volto. Poi parlò, pronunciando le parole che segnarono la condanna a morte della razza dominante di Kotar. «Uomini di Scienza,» disse, «mai, in tutta la storia del Consiglio, ci siamo trovati alle prese con un simile problema. I nostri membri hanno sempre detto la verità. Ma ora non è più così. Tu, Tuol Oro,» disse, rivolgendosi a me, «hai violato ogni precedente. Hai mentito! La tua relazione non è altro che una serie di falsità. Le tue affermazioni sono assurde e ridicole e non contengono un solo granello di verità. «Ci è stato insegnato che per un individuo normale mentire è impossibile. Evidentemente, quindi, tu sei pazzo. Sebbene la demenza sia oggi una malattia pressoché ignota, tu sei pazzo. Se non fosse per le tue grandi scoperte del passato, verresti messo a morte. Ma grazie a queste scoperte, tu vivrai. Ma sarai reietto dalla società. Potrai frequentare i tuoi simili, ma essi sapranno della tua infermità. Per le tue menzogne o per la tua demenza,
diverrai oggetto di pietà. «Ed ora vattene: la Sala del Consiglio non è più un luogo per te.» Mentre San Nober parlava, io ero rimasto impietrito. La sua disapprovazione e la sua condanna erano così inattese ed ingiuste che non potevo credere di avere udito bene. Menzogne! Una serie di falsità! Pazzo! Demente! Per Sklow, ero pazzo? Sciocco, figlio d'uno sciocco! Oggetto di pietà, eh? Un reietto? All'improvviso, qualcosa parve scattare dentro il mio cervello, una nebbia rossa mi oscurò la vista. Poi tutto l'odio e la ribellione nel mio essere cercavo uno sfogo. Non so cosa dissi allora. Forse mi comportai come un uomo privo della ragione. Ma ero giustificato. Condannato, scacciato, bollato come bugiardo e pazzo, senza una possibilità di dimostrare la verità delle mie affermazioni! Ricordo, comunque, una delle cose che dissi. Fu il giuramento che pronunciai prima di lasciare la Sala del Consiglio. «Per Sklow, per Taw, per Maca, per tutti gli dèi che mai siano esistiti, giuro che ogni vestigio di questa civiltà verrà cancellato; che tutti gli uomini, ad eccezione di Tuol Oro, verranno annientati. Lo giuro e così sarà!» Sì e così è. Li ho annientati tutti. Lo meritavano. Oh, come li odio, anche se ora non ci sono più! Li odio, li detesto, li disprezzo... Dopo aver pronunciato il mio giuramento di vendetta, lasciai la Sala del Consiglio, seguito da migliaia di sguardi di commiserazione o di derisione. Raggiunsi la mia imbarcazione amarrata nel Grande Canale: ribollivo di collera. Già allora i progetti di vendetta prendevano forma nella mia mente. Quando raggiunsi la mia casa, nella ventisettesima divisione del nono Canale Minore, avevo già deciso un piano ben preciso. Fu questo piano, concepito durante il tragitto di ritorno, a causare la distruzione di un mondo. II Senza indugio, incominciai i preparativi per realizzare i miei piani, poiché sapevo che sarebbero occorsi molti stallo di ricerche, prima che potessi fare quanto mi proponevo. In verità, la meta che mi ero fissata sembrava al di là della portata delle capacità umane. Desideravo accrescere la grandezza delle piante inconcepibilmente minuscole del mondo piccolissimo che avevo scoperto, per trasportarle dal loro protonico luogo natale alla superficie di Kotar. Per loro mezzo intendevo assicurarmi la vendetta. I primi due stallo di sforzi furono vani. Spesso, in quel periodo, fui ten-
tato di abbandonare il mio progetto apparentemente impossibile; e forse l'avrei fatto, se non fossi stato spronato dal mio desiderio di vendetta. Tuttavia continuai, ed all'inizio del terzo stallo riconobbi il primo segno di successo, che mi ricompensò della mia instancabile attività. Fin dall'inizio, avevo avuto un'idea fondamentale, su cui operare. Poiché ogni particella di materia, indipendentemente dalle sue dimensioni, poteva almeno in teoria venir divisa in eterno a metà, certo doveva essere possibile invertire il processo, e raddoppiare la grandezza di ogni particella, anche di un elettrone o di un protone. Seguendo questa linea di ragionamento, ne conseguiva naturalmente che, alla fine, avrei accresciuto le dimensioni del mio protone fino a renderlo visibile ad occhio nudo, o a farlo divenire addirittura più grande. La difficoltà consisteva nella realizzazione pratica del processo d'ingrandimento. Due stallo vennero impiegati invano nel formulare congetture e teorie lungo questa direttrice. All'inizio del terzo stallo decisi di cominciare a lavorare con gli elettroni ed i protoni. Prelevando una porzione di sodio chimicamente puro dalla mia riserva, ne collocai una quantità minutissima sotto le lenti del mio ultratelescopio. Poi misi a fuoco lo strumento, per poter vedere l'intero atomo. Come nella mia prima osservazione del sodio che conteneva il protone popolato di entità viventi, scorsi ventidue piccoli protoni dalla luminosità fioca, ed undici elettroni nucleari quasi trasparenti, in gruppo compatto, ognuno dei quali ruotava rapido sul proprio asse. Intorno a loro, a varie distanze, orbitava quello che pareva un labirinto intricato di funicelle lucenti. Erano i percorsi luminosi degli elettroni planetari, che si muovevano a tale velocità da risultare invisibili. Finché l'atomo rimaneva in quelle condizioni, sapevo che non potevo far nulla. Decisi quindi che, in un modo o nell'altro, avrei dovuto ridurre la velocità della rotazione degli elettroni, per poterli osservare individualmente. Tenendo presente questo scopo, incominciai una serie di esperimenti. Tutto ciò che facevo, tra l'altro, doveva essere compiuto sotto le lenti del microscopio. Era un grave intralcio, e sembrava che il compito fosse molto difficile. Tuttavia, fui aiutato materialmente da un apparecchio inventato in tempi recenti da Stol Verta. La macchina, troppo complessa per spiegarla, permetteva a chi la usava di mettere a fuoco un raggio di freddo inconcepibile o di calore intenso su di un punto microscopico. Grazie ad un'idea che avevo in mente, ero certo che l'invenzione di Stol sarebbe stata molto utile. Infatti fu così. L'uso dell'apparecchio rivelò che il calore accresceva la
velocità degli elettroni, ampliandone le orbite, e facendo in modo che alcuni di essi uscissero turbinando dal campo del microscopio. Il freddo, al contrario, riduceva la loro velocità di rotazione. Per dirla semplicemente, più basso era il grado di calore, più il freddo era intenso, insomma, e più il moto rallentava, fino a che, allo zero assoluto, sia i protoni sia gli elettroni restavano privi d'ogni movimento. Avevo compiuto un passo decisivo verso la realizzazione del mio scopo. Senza perdere tempo, proseguii la ricerca, seguendo una teoria che mi era balenata in mente durante i primi esperimenti. Per questa idea ero tornato al tempo del mio addestramento iniziale, quando avevo appreso i rudimenti della chimica elementare. La mia teoria era imperniata sull'assenza di simmetria di alcuni atomi, tra cui quelli del sodio, e sul meccanismo dell'azione chimica. Un atomo di sodio, mi avevano insegnato, ha undici elettroni, carichi negativamente, che orbitano intorno al nucleo. Uno ruota in un'orbita dall'asse maggiore degli altri. Per questa ragione, non è trattenuto con molta fermezza dal nucleo. Inoltre, l'assenza di simmetria nell'atomo crea uno squilibrio di forze. Di conseguenza, l'atomo di sodio ha la tendenza a perdere questo elettrone, durante la collisione con altri atomi, rimanendo così più simmetrico ed equilibrato. In conclusione, gli atomi che hanno uno o vari elettroni in più di quelli che corrispondono a forme simmetriche, hanno una tendenza a perderli. Avevo imparato inoltre che ad alcuni atomi mancano uno o più elettroni per completare una struttura simmetrica. L'atomo di cloro appartiene appunto a questo tipo. Ha diciassette elettroni, e ne ha bisogno di uno per formare la struttura equilibrata e simmetrica di diciotto. Di conseguenza, quando un atomo di sodio viene portato in contatto con un atomo di cloro, si ha il trasferimento di un elettrone dall'uno all'altro. Entrambi gli atomi pagano la nuova simmetria con la perdita della neutralità. L'eliminazione di un elettrone carico negativamente dall'atomo di sodio lo lascia con un'unità di carica positiva in eccesso. L'aggiunta di un elettrone all'atomo di cloro dà a quest'ultimo un eccesso d'una unità di carica negativa. I due atomi, allora, avendo cariche opposte, si uniscono e formano il cloruro di sodio. Ma il cloruro di sodio non m'interessava; mi stavano a cuore solo le relative leggi della chimica. Armato di questi ricordi del meccanismo dell'azione chimica, sentii di aver trovato la strada giusta.
Prima di poter cominciare a tradurre in pratica la mia idea, però, decisi che dovevo abbandonare l'intimità della mia residenza e mescolarmi alla razza che disprezzavo, almeno il tempo necessario per procurarmi il cloro necessario per l'esperimento. Appena giunsi a questa conclusione, mi avventurai per la strada. Se mai avevo bisogno di un ulteriore stimolo, lo ricevetti dalle smorfie dissimulate e dal malcelato disprezzo che mi accolsero. Ritornai a casa poco dopo essermi procurato il cloro, in preda ad una collera rinnovata. Ormai tutto era pronto e mi posi all'opera. Per prima cosa, collocai una minuta particella di sodio sotto le lenti dell'ultramicroscopio, regolandole in modo che, come nelle occasioni precedenti, io potessi scorgere le singole unità di un atomo completo. Poi misi in posizione il proiettore di freddo, per interrompere il moto atomico quando lo volessi. Infine, liberai un po' di cloro, facendo in modo che coprisse completamente il sodio. Poi, nell'oculare del telescopio, osservai l'atomo, in attesa del cambiamento che si sarebbe prodotto all'inizio dell'azione chimica. A prima vista non notai alcuna differenza; ma poco a poco vidi l'elettrone esterno alla struttura simmetrica dell'atomo rallentare percettibilmente e abbandonare l'orbita, scomparendo interamente. Mentre l'atomo era in queste condizioni, privo di un elettrone, diressi un raggio di freddo intensissimo sul sodio e interruppi ogni attività atomica, impedendo così al sodio di unirsi al cloro. Ora avevo un atomo di sodio libero, con una scarica positiva in eccesso, od un protone di più di quanto potesse aver avuto in natura. Avevo compiuto il secondo passo avanti verso la mia meta. Con un sentimento di trepidazione affrontai la terza parte del mio compito; il successo o il fallimento di questa fase dell'esperimento avrebbe deciso il risultato dell'intero progetto. Escludendo per il momento dai miei pensieri il sodio ed il microscopio, esaminai dettagliatamente una recente scoperta di Dees Oeb. Era un raggio nuovo, il raggio della cinquantaquattresima ottava dello spettro elettromagnetico. Aveva una proprietà bizzarra: faceva crescere tutto ciò su cui veniva diretto. Non so come lo facesse: ma resta il fatto che questo accadeva. Mi proposi di orientare il raggio sul protone in eccesso nell'atomo sotto il microscopio, per ingrandirlo in modo che abbandonasse l'atomo stesso. Un breve periodo di tempo trascorso facendo esperimenti con un secondo proiettore di freddo mi permise di adattarlo al raggio amplificatore. Ormai ero pronto a continuare. Tornai al microscopio, guardai nell'oculare, e scelsi uno dei protoni più
centrali. Misi a fuoco il proiettore, e diressi su questo il raggio amplificatore. Vi fu un cambiamento immediato nell'aspetto della sfera. Le sue dimensioni crebbero percettibilmente. In poco tempo cominciò a non lasciar spazio agli altri corpi atomici, spostandoli dalle posizioni abituali. Via via che il protone ingrandiva, divenne meno solido, più nebuloso, finché, quando parve che non avesse più spazio da occupare, vi fu un lampo improvviso... e l'atomo scomparve. Al suo posto c'era una piccola sfera dalla luminescenza fioca, non più nebulosa, ma solida più di quanto fosse mai stata prima. Il protone era cresciuto fino ad assorbire l'intero atomo. Lasciai continuare la crescita fino a quando il sodio venne incorporato dalla sfera, che aveva ormai assunto dimensioni relativamente gigantesche. Mentre il processo continuava, tra l'altro, ero costretto a regolare continuamente il fuoco del microscopio, per osservare la crescita del protone. Sino a quel momento, avevo tenuto il raggio del freddo puntato sul sodio, per impedire che si unisse al cloro. Ormai non era più necessario, poiché non vi era più possibilità che la reazione avvenisse. Perciò, dopo aver rimosso quasi tutto il cloro, spensi il raggio dello zero assoluto. Come risultato dei miei sforzi, avevo una piccola sfera quasi perfetta, a malapena visibile ad occhio nudo. La mia meta era ormai prossima! Dovevo soltanto ripetere l'esperimento, usando il protone che ospitava la vegetazione vivente, e la vendetta sarebbe stata alla mia portata. Tolsi allora dalla cassaforte il sodio contenente il mondo protonico, e lo trattai come avevo fatto con l'altro, incentrando la mia attenzione, naturalmente, sul protone abitato dalla strana vegetazione mobile. Quando ebbi accresciuto le dimensioni della minuscola sfera al punto che ebbe assorbito quasi tutto il sodio, ricordai di aver trascurato di procurarmi un luogo adatto per situarvi il protone ingrandito mentre cercavo di prelevare un po' della polvere di semi. Spensi il raggio amplificatore, puntai quello del freddo sul sodio, e lo lasciai lì. Non fu difficile costruire l'apparecchio per contenere la sfera; lo completai in poco tempo. Era un congegno semplice, consistente in due alti supporti metallici, sulle cui sommità scanalate posava una forte, pesante barra metallica. La barra girava lentamente quando veniva data la corrente al piccolo motore cui era collegata per mezzo d'una serie di ingranaggi e di catene. Allorché il congegno fu completato, tornai al microscopio ed al processo d'ingrandimento. Mentre il protone cresceva e consumava il sodio di cui faceva parte, ag-
giunsi altre quantità dell'elemento, fino a quando raggiunse dimensioni tali da rendere superfluo il microscopio. Lo tolsi dallo strumento, ne accrebbi le dimensioni, senza aggiungere altro sodio, fino a quando divenne una grande bolla evanescente. Allora, togliendo la barra dalla macchina che avevo preparato, la feci passare attraverso il centro della sfera. Vi fu un lampo... e quello che era stato un protone aveva un asse metallico su cui ruotare. Dopo aver rimesso la barra sui sostegni, aggiunsi sodio alla sfera per farla ridiventare solida. Continuai l'ingrandimento fino a quando vi fu spazio sulla barra, e poi mi fermai. Avevo compiuto il terzo passo verso la mia meta. Nel mio laboratorio, a quel tempo, avevo una specie di grande cabina, col pavimento, le pareti e il soffitto di vetro. Parecchi stallo prima, l'avevo fatta costruire con l'intenzione di usarla come magazzino per le numerose culture di batteri e di germi che intendevo studiare. La stanza non era stata usata, poiché mi ero dedicato invece all'ultramicroscopio. Ne fui lieto. Dato il pericolo insito nella fase successiva del progetto, decisi di usare quella stanza, poiché poteva venire sigillata ermeticamente, se fosse stato necessario. Dopo aver tolto i pochi oggetti che vi si trovavano, coprii il pavimento con un pesante strato di terriccio. Poi, montando su rulli il congegno che sosteneva il protone gigante, portai la macchina nella stanza. Di fronte alla sfera collocai un proiettore, per puntare su di essa un fascio di raggi del freddo, e accanto l'apparecchio amplificatore. Dopo aver regolato quest'ultimo proiettore in modo che agisse solo su una piccola parte della superficie del protone, diedi energia ad entrambe le macchine, nonché all'apparecchio che sosteneva la sfera; poi mi affrettai ad uscire, chiudendo la porta alle mie spalle. Attraverso la parete di vetro, vidi che l'azione del raggio amplificatore doveva essere stata istantanea. Otto piante carnose, dai colori diversi, si stavano innalzando dal protone. Erano masse di cellule informi e disgustose, la cui esistenza era innaturale. Da piccoli, insignificanti organismi, divennero grandi, ripugnanti mostruosità vegetali. Via via che crescevano, l'epidermide si faceva sempre più tesa, fino a che, quando ebbero raggiunto le dimensioni del mondo da cui erano scaturite, scoppiarono, lanciando la polvere di semi in ogni parte della stanza. Posandosi, i semi crebbero a loro volta, e in breve tempo il pavimento della stanza si coprì di una sempre maggiore quantità di viscidume in cui si sviluppava un mucchio di piante ondeggianti, via via più numerose. Ad in-
tervalli crescenti, il raggio amplificatore aggiungeva altre piante multicolori e dalle strane forme a quelle già esistenti. Tutti gli oggetti metallici che si trovavano nella stanza si ricoprirono di una pellicola grigia, nebulosa. Le pareti di vetro si velarono e m'impedirono di vedere distintamente nell'interno. Quando i semi si posavano sulla pellicola, mettevano radici e crescevano. In pochi attimi, le macchine erano divenute grottesche caricature vegetali di se stesse. Le piante continuarono a crescere; ce n'era sempre uno strato che spuntava o si putrefaceva. La massa raggiunse un'altezza pari a un terzo della statura di un uomo; allora non riuscii più a distinguere nulla, all'interno. Non avevo modo di determinare per quanto tempo sarebbe continuata la crescita, ma la cosa aveva scarsa importanza. Mi restava da fare un'altra cosa, prima di liberare i miei servi nel mondo, affinché realizzassero il piano. Dovevo ancora imparare a controllare le piante mostruose, e trovare misure adeguate per proteggermi. Non incontrai difficoltà: l'applicazione d'un calore appena oltre i limiti della sopportazione umana faceva sì che la vegetazione avvizzisse e cadesse, in masse informi, nella fanghiglia fetida. Quando il calore era diretto contro il vetro, tra l'altro, il viscidume cominciava a fumare, ed un odore immondo, nauseante, sfuggiva dal cubo trasparente. Dunque il calore, decisi, era ovviamente il mezzo per distruggere le piante. Ed il calore, ne ero certo, mi avrebbe protetto. Avrei fatto costruire numerosi tubi con una larga imboccatura, sistemandoli in posizioni accuratamente prescelte sulle pareti e sul tetto, all'esterno della mia casa. Condotti a vapore collegati alle imboccature avrebbero coperto l'edificio di una coltre protettiva di calore. A causa di questo lavoro imponente e di altri di minor conto, nonché del tempo necessario per realizzarli, decisi che avrei dovuto nascondere la stanza di vetro agli occhi curiosi dei vicini o dei visitatori occasionali, fino a quando fossi stato pronto ad utilizzarne il contenuto. Ero appena giunto a questa conclusione, quando un ronzio insistente nei pressi della porta mi annunciò che avevo visite. Mi girai verso il piccolo schermo nell'angolo del laboratorio, e scorsi i volti familiari di Bor Akn e di Sarig Om. Mentre andavo verso la porta per farli entrare, mi resi conto, fulmineamente, che la loro venuta era un dono di Sklow. Erano i benvenuti... non sapevano quanto. Aprii la porta e li invitai ad accomodarsi. III
Quando i due furono di fronte a me, nella sala dei ricevimenti, lessi nei loro occhi l'incertezza. Non sapevano come li avrei trattati. Sorrisi, rassicurante, perché non tornava utile ai miei scopi destare in loro sospetti. Il sorriso riaccese evidentemente la loro sicurezza, perché Bor Akon, che fungeva da portavoce, si schiarì la gola e parlò. «Fratello Tuol,» cominciò... eravamo tutti fratelli, a parole. «Sarig ed io abbiamo deciso d'indagare sulla tua relazione al Consiglio. Siamo convinti che tu sia stato trattato ingiustamente. Senza dubbio, eri malato, o assillato da un grave peso mentale, quando hai formulato quelle ridicole affermazioni nella Sala del Consiglio. «Sarig ed io abbiamo deciso di tentare di convincerti a prendere misure per riconquistare la posizione che un tempo avevi nel mondo scientifico.» Dunque la pensavano così! Forse ero malato, o temporaneamente squilibrato! Bene, ritenni che non avrei impiegato molto tempo a correggere quella errata convinzione. Reprimendo la naturale indignazione, perché la mia voce non la tradisse, risposi in toni studiatamente disinvolti. «Fratello Bor, ti assicuro che ti sbagli. Tutto ciò che ho detto ai Venti era assolutamente vero. Non posso fare a meno di pensare d'essere stato trattato in modo vergognoso. Se mi fosse stata offerta una possibilità, avrei potuto provare le affermazioni in modo così convincente da persuadere anche i più scettici. In quanto alla proposta di riacquistare la mia posizione di un tempo... no! Hanno fatto di me un reietto, e per me va bene così. «Ora che siete qui, vi mostrerò la prova: il microscopio stesso. Se volete scusarmi...» Acconsentirono cortesemente, e li lasciai seduti, mentre mi avviavo verso il laboratorio. Tirai una grande tenda intorno alla cabina di vetro, per nasconderla ai visitatori. Poi tornai nella sala dei ricevimenti e condussi i miei ospiti in quella parte del laboratorio dove stava il microscopio. Quando il loro sguardo si posò sul complesso meccanismo, con le innumerevoli lenti e le lampade potentissime, mostrarono un interesse riluttante, sebbene un po' scettico. Sarig Om si rivolse a me, con una domanda negli occhi. Gli risposi. «Sarebbe inutile spiegarne la struttura o i sistemi d'ingrandimento, poiché nessuno di voi potrebbe capire. Comunque, nulla vi impedisce di osservare le meraviglie che l'apparecchio può mostrarvi. Chi di voi vuol essere il primo a vedere un elettrone?» Mentre collocavo una particella di materia sotto le lenti e regolavo il mi-
croscopio, Sarig Om si dichiarò disposto ad essere il primo. «Ho guardato attraverso le lenti per tutta la mia esistenza di adulto,» disse, «e poiché qualcuno deve essere il primo, tanto vale che sia io.» Mentre i due si alternavano all'oculare del microscopio, lanciando grida di stupore ad ogni nuova meraviglia, io mi scusai e lasciai la stanza. Tornai dopo pochi istanti, portando cibi che avevo alterato con un sonnifero. Quando entrai, Sargi Om alzò la testa, con un'espressione d'incredulità dipinta sul volto. «Fratello Tuol!» esclamò. «Abbiamo scoperto la vita su di un protone! È incredibile!» «Suvvia, suvvia,» risposi. «Non hai motivo di agitarti tanto. Ho qualcosa di ben più sbalorditivo da mostrarvi. Dopo aver mangiato, vi farò vedere qualcosa di veramente stupefacente.» Al mio invito, gli ospiti sedettero e, con malcelata impazienza, consumarono il cibo che avevo messo loro davanti. Pochi istanti dopo aver ingerito i bocconi drogati, vidi le loro palpebre chiudersi. Lottarono contro la sonnolenza che si era impadronita di loro, ma il sonnifero era troppo forte, ed in un attimo si addormentarono. Presi corde robuste e li legai stretti, poi li trascinai nello stanzone dove stava la grande cabina di vetro. Li appoggiai alla parete, in modo che potessero vedere bene uno dei lati della cabina, quando si fossero svegliati. Attesi con impazienza che i due scienziati si riprendessero dal sonno involontario; ero ansioso di compiere l'esperimento che avevo in mente. Finalmente si riscossero, e in breve riacquistarono completamente conoscenza. Avevano completamente perduto l'autocontrollo. Mi guardarono con occhi colmi di paura. Con ogni probabilità, pensavano di essere in balia di un pazzo. Mentre io attendevo che gli effetti residui della droga cessassero, Bor Akon, nel tentativo di farsi coraggio e forse d'intimidire me, mi rivolse la parola. «Tuol, sei pazzo!» esclamò. «Recidi questi legami e liberaci immediatamente, oppure farò in modo che tu riceva la meritata punizione. Sciocco! Cosa pensi di guadagnarci? E quale scopo puoi avere in mente? Liberarci subito, o informerò il Consiglio delle tue azioni demenziali!» Risi. Non seppi trattenermi; era troppo buffo. Il pensiero di quello sciocco scervellato, legato e impotente, che mi minacciava, sfiorava il ridicolo. Ma la mia gaiezza durò poco: di colpo si trasformò in collera. Quei due uomini appartenevano alla razza che aveva fatto di me un reietto. Ero uno
sciocco e un pazzo, dunque? «Silenzio!» ruggii, mentre Sarig Om apriva la bocca per parlare. «Chi siete, per permettervi di minacciarmi? Informare il Consiglio, proprio! Idioti! Farete ciò che io ordinerò, e soltanto questo. «Che cosa penso di guadagnare? Che scopo ho in mente? Ve lo dirò. Quando il Consiglio mi bandì, giurai che avrei distrutto ogni vestigio di questa razza di falliti, la razza dell'uomo. Ora possiedo lo strumento per compiere la distruzione. per tre lunghi stallo ho lavorato instancabile, sforzandomi di realizzare l'impossibile, e ci sono riuscito!» Mentre parlavo, mi ero avvinato alla cabina di vetro. Alzai le braccia, e scostai le tende. Attraverso la lastra non si scorgeva nulla, solo una pellicola biancogiallastra sulla superficie interna, ed una vaga impressione di movimento. «In quel cubo di vetro,» continuai, «sta il risultato dei miei sforzi. Ricorderete, certamente, ciò che dissi al Consiglio sulla vegetazione a crescita rapida che avevo scoperto su di un protone. In quella stanza c'è il protone, enormemente ingrandito. E insieme, probabilmente intente a distruggerlo, vi sono innumerevoli piante che si riproducono con velocità folle. Sono piante che io ho prelevato dalla superficie del protone. Crescono e crescono, una sull'altra, mettendo radici su qualunque superficie. Vi farò vedere come crescono: è giusto che lo sappiate, perché anche voi, Bor e Sarig, avete una parte nel mio piano. È appunto per questo che vi ho legati.» Dopo aver controllato le corde e aver constatato che erano ben strette, volsi le spalle ai due, sordo alle loro implorazioni di liberarli, e diressi un raggio di calore sulla porta della stanza di vetro. Rapidamente la pellicola e le piante che crescevano sulla porta sparirono, piombando sul pavimento. Il calore penetrava in quella schifosa massa ripugnante, liberando uno spazio sempre crescente. Alla fine, quando ebbi ridotto in fanghiglia circa metà del contenuto della grande cabina, spensi il raggio calorifico e avvertii i due di prestare molta attenzione. Le piante si ripresero con grande rapidità dall'effetto del calore. In pochi attimi, un rosso germoglio triangolare, su di un lungo stelo, si innalzò dalla massa e scoppiò spandendo intorno, nell'aria, il pulviscolo di spore. Gli occhi sbalorditi di Bor Akon e di Sarig Om videro i semi cadere nel viscidume, spuntare, crescere, maturare, scoppiare a loro volta e morire, il tutto nel volgere di pochi momenti. Non passò troppo tempo prima che le pareti avessero ritrovato il bianco rivestimento traslucido: e di nuovo non ve-
demmo più nulla. Un pesante silenzio seguì quello che, per i miei due ospiti, era uno spettacolo affascinante. Con impazienza, lo spezzai. «Bene, vi è piaciuto?» chiesi. «Interessante, non è vero? Ora sarà la volta di qualcosa ancora più interessante, ma io sarò l'unico a vederlo. «Considerate però queste piante. Immaginate cosa accadrà quando le libererò su Kotar. Immaginate l'effetto di una piccola nube di quei semi che si posa sul fondo di una imbarcazione, in uno dei grandi canali. I curiosi si affollano, attratti dalla vegetazione sconosciuta. In un momento vengono avviluppati da una nube di polvere che li tocca, e cresce, prendendo vita dalla loro carne. Immaginate un uomo che respira un po' di quel pulviscolo! «Ora figuratevi un vento fortissimo che trasporta i semi in tutte le parti del mondo. L'annuncio della minaccia porrà in fuga gli uomini. Alcuni perderanno la vita nel panico che si scatenerà. Altri, cercando di salvarsi, si nasconderanno forse in cantine o in pozzi profondi. Le piante invaderanno le crepe dei loro rifugi, ed essi finiranno per morire soffocati. «Immaginate il mondo, dopo che la minaccia avrà agito per uno stal. Ormai la parte solida della superficie di Kotar si sarà trasformata in una massa fluente, sempre mutevole, di vegetazione. L'aria sarà satura di dense nubi di semi d'ogni colore. Le imbarcazioni, sui canali, saranno coperte di piante. Andando alla deriva, essi si apriranno a forza la strada attraverso una pesante schiuma viscosa che probabilmente coprirà l'acqua. E le piante cresceranno in quella schiuma, che sarà il residuo della putrefazione di altra vegetazione, sulle rive. Non un suono infrangerà quel silenzio di morte. Non vi sarà più il chiacchiericcio ozioso uscito dalle labbra degli sciocchi. Il mondo sarà stato liberato dalla loro presenza: tutti saranno stati annientati. Tutti... tranne uno, Tuol Oro. Un bel quadro, vero?» Durante il mio discorso, i due scienziati restarono immobili, come impietriti, e sui loro volti si scorgeva un'espressione di orrore crescente. Quando tacqui, Sarig Om tentò di parlare, ma le parole gli morirono in gola; era ammutolito dalla paura. Bor Akon continuava a fissarmi. All'improvviso mi venne un pensiero. «A proposito,» esclamai, «vi avevo detto che anche voi avete una parte nei miei piani. Ho trascurato di dirvi quale sarà questa parte, quindi ve lo spiego ora. Non sono certo che le piante si comporteranno esattamente come desidero. Forse i miei sforzi sono stati vani. Per non correre il rischio
che i miei progetti falliscano, intendo mettervi nella cabina di vetro, ed osservare l'effetto che le piante avranno su di voi.» Il torpore in cui i due erano caduti li abbandonò di colpo. Dalle labbra di Bor Akon uscirono urla dopo urla. Brutalmente, gli tappai la bocca con la mano, minacciando di strozzarlo se avesse ricominciato a gridare. Quando ritrassi la mano, cominciò a mormorare ed a singhiozzare pietosamente. La sua mente aveva ceduto. La paura aveva detronizzato la ragione. Sarig Om era fatto d'altra stoffa. Mi maledisse in nome di tutti gli dèi che conosceva, mi rivolse tutti gli insulti che gli passavano per la mente. La sua eloquenza mi stupì. Quanto la sua tirata cessò, lo sollevai e sebbene si dibattesse e si divincolasse, lo portai accanto al cubo di vetro. Lo deposi sul pavimento accanto alla porta, orientai il raggio calorifico contro il vetro. Dopo aver bruciato circa metà delle piante, aprii l'uscio e spinsi all'interno Sarig. Poi, in fretta, chiusi e bloccai la porta, e diressi il raggio tutto intorno all'orlo, per distruggere i semi che potevano essere usciti. Poi rivolsi la mia attenzione sulla figura chiusa nella stanza. Sarig era seduto in una pozzanghera di viscidume, e cercava con tutte le sue forze di spezzare le funi che gli legavano le mani. Improvvisamente, mentre una delle piante scoppiava sopra di lui, compì uno sforzo supremo, e le corde si ruppero. Lentamente, il pulviscolo gli cadde addosso. Appena toccarono la pelle, i semi insinuarono minuscole radichette nei pori, nella carne, traendo vita dal suo corpo. Sarig lanciò un urlo terribile. Piante dalle forme strane spuntarono allora su ogni parte del suo corpo. Con furia frenetica, lo scienziato le strappava via, lasciando ferite sanguinose. Ma poté lottare solo per un momento contro i distruttori vegetali: parecchi vegetali, giunti a maturità sopra di lui, scoppiarono simultaneamente, avviluppandolo in una densa nube di polvere. Sembrò ingrossare davanti ai miei occhi. Innumerevoli piante gli spuntavano addosso, facendolo apparire tra volte più grande del normale. Crebbero... e imputridirono. La figura rimase così solo per un momento, poi cadde e si perse tra il viscidume e le piante al suolo. Per un attimo, la decisione di distruggere la razza vacillò... ma solo per un attimo. Sebbene la mia arma fosse terribile, e desse una morte atroce, non era troppo severa per gli sciocchi che governavano Kotar. Meritavano di venire annientati, ed io usavo l'unico mezzo di distruzione di cui disponevo.
Mi girai verso Bor Akon. Quando l'avevo guardato l'ultima volta, singhiozzava e tremava come un bimbo spaventato. Adesso giaceva sul pavimento, privo di sensi. La morte di Sarig Om era stata troppo per la sua mente indebolita: era svenuto. Avrei risparmiato Bor, perché venisse annientato insieme ai suoi simili, se non fosse stato che egli era al corrente dei miei progetti. Sapeva troppo: era necessario eliminarlo. Bruciai di nuovo le piante: poi spinsi oltre la soglia lo scienziato esamine. Dopotutto, fu più fortunato degli altri, perché la sua fu una morte indolore: non riprese mai conoscenza. Distrussi tutto ciò che poteva indicare il fatto che i due erano venuti a trovarmi. Non volevo essere implicato, se si fosse indagato sulla loro scomparsa. Qualunque interferenza, in quel momento, sarebbe stata fatale per i miei piani. Ma non vi furono indagini: con ogni probabilità, Sarig e Bor avevano tenuto segreta la loro visita, per non incorrere nel risentimento del Consiglio. Dopo aver atteso uno stal, decisi che potevo realizzare il resto del mio programma. Dovevo ancora prepararmi la difesa, procurarmi una macchina per purificare l'aria, e organizzarmi una scorta di tavolette alimentari: poi, sarei stato pronto. Senza indugio, perciò, assunsi degli uomini per costruire i grossi tubi a vapore e per fissarli alle pareti e al tetto della casa, secondo le mie indicazioni. Assunsi altri uomini per coprire l'edificio con una rete di tubi che dovevano trasportare il vapore. Essi costruirono il serbatoio che doveva produrre il calore. L'acqua proveniva dal canale che scorreva davanti alla casa. Poi ingaggiai altri uomini, per tappare le crepe e le fenditure dell'edificio. Mi fortificai in tutti i modi possibili contro gli eventuali attacchi che le piante avrebbero potuto sferrarmi. Quando le autorità cittadine chiesero spiegazioni sui tubi e sui getti, dissi che facevano parte di un nuovo sistema antincendio. Mi credettero, pensando con tutta probabilità che fosse una fantasia della mia mente «squilibrata». Poi mi lasciarono in pace, e ne fui lieto. Durante i pochi tron che precedettero il momento della distruzione dell'umanità, feci installare e attivare la macchina dell'ossigeno, e immagazzinai tavolette nutrienti, quante ne bastavano per alimentarmi per il resto della mia vita, se fosse stato necessario. Mi procurai anche il combustibile sufficiente per tenere in funzione la caldaia per dieci mallah, come minimo.
Quando l'oscurità scese per l'ultima volta sul vecchio, immutato mondo dell'uomo, ed io andai a dormire, mi godetti il primo vero riposo dopo la messa al bando. Il mio sonno non fu turbato da spettri inquietanti d'odio o di vendetta, perché l'indomani avrei realizzato il mio scopo supremo. IV I sei Maestri della Scienza avevano privilegi che non spettavano a nessun altro individuo, su Kotar. Uno di questi era il diritto di usare l'Energia delle Sfere, per trasmettere su qualunque lunghezza d'onda desiderata. Potevamo, quindi, ordinare a qualunque emittente d'interrompere il programma e di lasciare libera la lunghezza d'onda perché potessimo utilizzarla noi. Per una negligenza da parte del Consiglio, il privilegio non mi era stato revocato. Poco dopo essermi svegliato, riposatissimo, approfittai di quel diritto, ordinando al Notiziario Internazionale d'interrompere le trasmissioni. Quando l'annunciatore ebbe comunicato che la sua stazione cessava il programma in corso per ordine di uno dei Maestri, per riprenderlo quando egli avesse finito di parlare, l'emittente tacque. Allora feci scattare l'interruttore, e mi rivolsi al mio pubblico invisibile. «Popolo di Kotar,» dissi, «io, Tuol Oro, Maestro della Scienza e reietto, approfitto di questa occasione per dirvi, nei pochi momenti di cui posso disporre prima che il Consiglio intervenga, alcune cose a proposito del bando inflittomi, che sono state tenute nascoste dalle autorità. «Siete stati informati che io sono stato condannato senza processo? Che non ho avuto la possibilità di dimostrare la veridicità delle mie affermazioni? Che sono stato definito un pazzo, solo perché San Nover non ha saputo vedere la verità della mia relazione, e senza che nessuno avesse sottoposto a prova la mia mente? Certo, non l'avete saputo! È stato tenuto tutto segreto. «Subito dopo lo squillo della campana di Terai, dimostrerò a quanti si raccoglieranno davanti alla mia casa che quanto ho detto davanti al Consiglio era vero, e che lo stesso San Nover dovrebbe essere condannato, per la sua totale mancanza di giudizio. E se quell'individuo incompetente è in ascolto, gli rivolgo un invito particolare a presentarsi. Egli...» Vi fu una esplosione improvvisa, un lampo accecante nell'apparecchio trasmittente, e i miei contatti con il mondo esterno vennero interrotti. Sentii le parole che uscivano dal ricevitore, in un altro angolo della stan-
za. Era San Nober che interveniva usando la cosiddetta lunghezza d'onda universale del Consiglio, quella che copriva tutte le stazioni e portava la voce di chi parlava a tutti gli ascoltatori del pianeta. La pesante voce di basso di San fremeva di sdegno. «Tuol Oro,» ringhiò, «sei un pazzo, E per la tua follia, tu morirai. Sei autorizzato a fornire tutte le prove che possiedi, al momento da te stabilito, in modo che nessuno possa sostenere che è stata commessa un'ingiustizia. «Accetto il tuo invito: verrò.» Con un senso di soddisfazione, spensi l'apparecchio. Sarebbe venuto San Nober! Era ciò che volevo. Che importava, anche se probabilmente sarebbe stato accompagnato da un gruppo di seguaci, con lo scopo di arrestarmi? Non avrebbero potuto farmi del male, poiché possedevo un'arma più terribile di tutto ciò che essi avessero mai concepito. Durante l'attesa, mi dedicai ad un'ispezione finale dei miei sistemi protettivi. Mi accertai che fosse tutto pronto per il grande momento. Bastava girare una valvola per coprire la mia casa con una coltre di vapore. Bastava premere un pulsante per avviare la macchina dell'ossigeno. Un alimentatore automatico avrebbe aggiunto carburante alla caldaia, quando fosse necessario. A quanto potevo vedere, non c'era altro da fare, per proteggermi. C'era una cosa, tuttavia, che non avevo preso in considerazione. Come potevo liberare le piante senza correre rischi? Dopo qualche riflessione, scelsi un metodo. In breve tempo costruii un piccolo contenitore di vetro con un coperchio ermetico, che si chiudeva automaticamente allo scatto di un segnatempo regolato in precedenza. Bruciai di nuovo le piante, e collocai la cassa entro la stanza di vetro, con il coperchio regolato in modo da chiudersi dopo tre tron. Attesi con impazienza che il tempo passasse, dividendo la mia attenzione tra le piante e l'orologio appeso sulla vicina parete. Finalmente, quando i tre tron furono trascorsi, usando il calore riuscii ad asportare la cassa piena di piante, pulviscolo di semi e fanghiglia. Con grande cura, sterilizzai con un raggio calorifico ogni punto in cui i semi avrebbero potuto essersi insediati. Quando fui certo che neppure uno si fosse salvato dalla distruzione, portai il contenitore di vetro ad una finestra affacciata sul Canale, e incominciai la mia veglia. Il momento della vendetta era ormai imminente. Sotto di me, la strada era colma di una folla rumorosa. Uomini, donne e bambini si erano radunati lì, perché una pubblica dichiarazione di uno dei Sei Maestri era una cosa eccezionale e meritava ogni attenzione. Riconob-
bi molti dei presenti: erano scienziati di modesta importanza, che si erano trovati nella Sala del Consiglio il giorno in cui ero stato bandito. Il Canale era ancora più affollato della strada. Le imbarcazioni erano così fitte che l'acqua non si scorgeva. Ed ognuna era stracarica di passeggeri. In alto udivo il rombo sommesso e costante di molte macchine volanti. Alzai gli occhi e vidi piccoli aerei monoposto che sfrecciavano davanti e indietro, senza meta. Grandi elicotteri dalle pale turbinanti e dalle ali ronzanti stavano sospesi nell'aria. Erano a quota sufficientemente bassa perché i passeggeri udissero tutto ciò che avevo da dire. All'improvviso la mia attenzione venne distolta da un movimento, sul canale. Guardai giù. Non so come, le imbarcazioni erano state spostate, formando un passaggio che conduceva direttamente alla facciata di casa mia. In fondo al passaggio, vidi le linee eleganti e maestose della barca di San Nober. Le rifiniture argentee lampeggiavano nel sole. Man mano che si avvicinava, permettendomi di distinguere i volti, notai che c'erano tutti i membri del Consiglio, e inoltre i tre Maestri superstiti. Erano presenti anche sei rappresentanti della Guardia Internazionale della Pace. Sapevo che erano venuti per arrestarmi, dopo che avessi parlato. Ma per me non contavano affatto. Quando l'imbarcazione del Consiglio toccò la riva del canale, udii un profondo rintocco di campana, la campana di Terai. Era venuto il momento da me stabilito! Spalancai la finestra. Nel vedermi apparire, la folla tacque. Il suono dei motori, lassù, divenne meno intenso, quando i piloti inserirono i silenziatori. E allora presi la parola. Descrissi dettagliatamente tutto ciò che era accaduto nella Sala del Consiglio, parlai della grande scoperta che avevo fatto, ponendo in risalto le piante infinitesimali e la loro crescita sorprendentemente rapida. Parlai del mio bando, e del giuramento che avevo pronunciato... ed a questo punto mi fermai. La voce tonante di San Nober mi aveva interrotto. «Basta con queste assurdità!» esclamò. «La farsa deve finire! Le tue lagnanze non interessano il popolo! Non puoi sperare di guadagnare qualcosa da questa ulteriore pubblicità. Devi essere pazzo, se pensi di ricavarne qualche beneficio. «Se hai qualche prova da presentare, producila. Stol Verta comincerà a contare, e se non avrai provato almeno in parte le tue dichiarazioni nel momento in cui arriverà a cinquanta, la tua libertà finirà. Non avrai più
possibilità di ingannare i tuoi simili. «Comincia a contare, Stol.» Mentre la mano dell'inventore si alzava e si abbassava, lentamente e meccanicamente, enunciai il mio ultimo messaggio al mondo. «Popolo di Kotar,» dissi in tono solenne, «la tua vita è giunta quasi al termine. Quando San mi ha interrotto, stavo per dirvi che il mondo è condannato, che il mio giuramento si realizzerà. Voi siete una razza di sciocchi, indegni delle responsabilità che vi erano state assegnate. Non siete adatti al compito di dominare la vita di un pianeta, e quindi non potete sopravvivere. Voi...» Non proseguii. Nessuno mi avrebbe udito, comunque. Lo stordimento temporaneo che aveva fatto ammutolire la folla svanì. Urla e fischi, e grida di collera e d'ilarità si levarono dalla massa. Stol Verta smise di contare. San Nober disse qualcosa ai suoi colleghi, scese dall'imbarcazione e, seguito da Guardie e Maestri, cominciò a farsi largo tra la calca. Un varco si aprì, come per magia, e tutti tacquero. Approfittai di quel silenzio: sollevando alta sopra la testa la cassetta di vetro, esclamai: «Ecco la mia prova.» E la scagliai ai piedi di San Nober. Poi chiusi di scatto la finestra, la bloccai, e girai la valvola che produceva il vapore. Si arretrò, stupito, quando la cassetta d'infranse davanti a lui. Poi guardò affascinato il mucchietto di vetro sbriciolato e di sostanza pastosa che giaceva ai suoi piedi. Cresceva, e lui poteva vederla crescere! Si piegò in avanti per osservare più attentamente gli strani organismi... ed una pianta scoppiò. Una piccola nuvola di polvere si levò nell'aria e ricadde sulla testa e sulle spalle di San. Per un momento, egli colpì la vegetazione che gli spuntava dalle carni, agitando invano le braccia, disperatamente; poi cadde a terra. Coloro che lo videro morire indietreggiarono, mentre quelli più lontani si sforzavano di venire più vicino. Ma quando la polvere di semi cominciò a piovere su di loro, un unico impulso li vinse: quello della fuga. Ma ormai fuggire era impossibile: avevano indugiato troppo a lungo. Là dove prima c'era una pianta, ne erano cresciute mille; le mille erano divenute un milione; e ad ogni momento nuove nuvole di semi venivano scagliate in aria. In un tempo poco più lungo di quanto sia necessario per riferirlo, là dove prima c'era una folla non rimase un solo essere vivente. All'inizio della distruzione, vi erano stati scontri sul Canale, causati da
imbarcazioni che andavano a sbattere l'una contro l'altra quando i piloti diventavano mucchi di piante e di viscidume. C'erano stati incidenti anche in aria, e gli aerei sfrecciavano all'impazzata, senza pilota, con le eliche intasate dalla fanghiglia e dalle piante, e collidevano tra loro, o precipitavano al suolo. Ma tutto questo finì in poco tempo. Alcuni aerei e diverse imbarcazioni erano riusciti a mettersi in salvo, ed i loro occupanti non avevano perso tempo, ne ero certo, ma si erano affrettati a riferire al mondo quale orrore minacciava la civiltà. La cosa, tuttavia, non mi preoccupava: sapevo che le piante erano troppo saldamente insediate, perché i mezzi del meschino mondo degli uomini potessero fare qualcosa. La razza dominante di Kotar era indiscutibilmente spacciata. Quando anche l'ultimo uomo in vista fu annientato, e l'ultimo aereo scomparve, mi allontanai dalla finestra. M'ero vendicato: ero soddisfatto. Avevo visto San Nober morire d'una morte atroce. Davanti ai miei occhi erano stati annientati i membri del Consiglio. Ed io ero l'unico superstite dei sei Maestri della Scienza: mi avevano disprezzato, ma erano stati puniti. Mentre attraversavo la stanza, per andare ad attivare la macchina dell'ossigeno, guardai la trasmittente. Mi venne un'idea. Perché non rilevare all'Universo ciò che avevo fatto? Perché non avvertire tutti, in modo che, se mai si fossero ripetute le stesse circostanze, non commettessero l'errore del popolo di Kotar? Avevo una delle emittenti più potenti di Kotar, e sarebbe stato semplice accrescerne la potenza, in modo che il mio messaggio giungesse fino agli angoli più remoti dell'Universo. Presi una decisione: avrei raccontato la mia storia. Poi ricordai la relazione di Sarig Om al Consiglio. Aveva detto che Santel si sarebbe avvicinato a Kotar, ad una certa data, più di quanto fosse avvenuto da molti mallah. Se su Santel c'erano esseri intelligenti (e Sarig l'aveva sempre sostenuto) allora almeno essi avrebbero potuto udire il mio ammonimento. Comunque, decisi di attendere quella data e di trasmettere la mia storia. Dal momento della decisione a quello dell'opposizione dei due pianeti, ho passato il tempo studiando le piante che potevo vedere dalla mia finestra; e ho goduto di lunghi periodi di osservazioni interessanti, nonostante il vapore che continuava ad oscurarmi la vista. Ho impiegato qualche tempo, inoltre, a preparare gli appunti della mia storia, poiché non desideravo omettere niente. Finalmente, dopo vari stall di attesa, è venuto il momento dell'opposi-
zione. Ora, mentre parlo, Santel dovrebbe trovarsi alla distanza minima da Kotar. La mia storia è quasi terminata. Da qui, davanti all'emittente, posso vedere oltre la finestra. Un mare immenso di piante sorprendentemente colorate si offre al mio sguardo. Vi sono piante tozze e rotonde, altre alte e angolose, piante d'ogni forma e di ogni tinta. È una scena di una brillantezza abbagliante, ed ha una bellezza aliena, innaturale. E l'impossibile rapidità dello sviluppo delle piante contribuisce a creare un senso d'irreale, di fantastico. Non vi sono lotte o discordie o meschini contrasti: le piante sembrano l'incarnazione dell'unità. Un silenzio immane ha preso il posto del frastuono e dell'agitazione della civiltà dell'uomo. L'unico suono è il sibilo del vapore. Quel vapore, per me, simboleggia la civiltà perduta, che è esistita solo per un momento, rumorosa e senza scopo, e poi è svanita. Tra le due forme di vita, l'umanità e la vegetazione, quest'ultima è di gran lunga la migliore. È giusto, comunque, che io, creatore di questo mondo vegetale, ne sia il sovrano. Perciò, tra breve, cercherò di acquisire il dominio completo su queste piante, di diventare il dominatore supremo di tutto. Ho un piano... Buon Maca! Cos'è accaduto! Una delle pareti della cabina di vetro ha ceduto! Le piante ne escono! Il proiettore di calore! MACA! OH... Il racconto di Tuol Oro si concludeva con un grido stridulo d'orrore e di sofferenza, un urlo stroncato bruscamente e concluso in un singhiozzo soffocato. È semplice intuire con una certa esattezza la scena svoltasi in quella stanza. Una delle pareti della grande cabina di vetro che aveva contenuto le prime piante era crollata, lasciando liberi i mortali organismi. È facile immaginare la morte dello scienziato pazzo. E su Kotar, o Marte, se si tratta davvero del pianeta rosso, domina incontrastata una specie di fungo, che cresce con rapidità incredibile. (1) Non abbiamo la possibilità di determinare cosa significano in inglese le parole kotariane indicanti i pericoli di tempo. Dall'azione del racconto, comunque, possiamo dedurre che il mallah equivale al nostro anno, lo stallo al nostro mese, lo stal alla nostra settimana ed il tron al nostro minuto. Tuol non nomina nulla che corrisponda al giorno, all'ora o al secondo, sebbene sia probabile che esistano altre divisioni del tempo, oltre a quelle ricordate (Nota di L.A.E.).
Titolo originale: The Voice from the Ether (Amazing Stories, maggio 1931). 1932
Clifford D. Simak La voce nel vuoto Verso la fine degli Anni Trenta, molti lettori si domandavano se Simak sarebbe mai ricomparso. Aveva pubblicato solo cinque racconti su riviste professionali, e correva voce che avesse scritto un capolavoro per un fanzine... ma qual era? Marvel Tales o qualcosa di simile (1). In effetti, Clifford Simak si stava facendo tranquillamente strada nel giornalismo. La mancanza di un mercato sicuro l'aveva spinto a smettere di scrivere fantascienza, e solo quando John Campbell divenne direttore di Astounding Stories si lasciò convincere a rientrare in campo. Ripensandoci, possiamo tirare tutti un sospiro di sollievo, al pensiero che Simak prese questa decisione: altrimenti la fantascienza avrebbe perduto una ricchezza immensa, sotto forma delle gemme simakiane. Uno dei racconti più importanti degli esordi di Simak fu The Voice in the Void. Avete così l'occasione di confrontare un'opera del Simak ventisettenne con i suoi romanzi più recenti, scritti verso la settantina. In sostanza, Simak ha percorso un cerchio completo nelle sue opere, ma non ha mai perduto il suo fascino. La sua prima comparsa su una rivista professionale, World of the Red Sun, nel numero del dicembre 1931 di Wonder Stories, parla di due avventurieri che viaggiano nel tempo, recandosi nel futuro, e scoprono un cervello gigantesco che domina i resti dell'umanità. La storia di come essi riescono a sconfiggere il cervello è narrata abilmente, e l'arma finale non è una di quelle atomiche, usate con tanta frequenza nella science fiction degli Anni Trenta, ma semplicemente la psicologia. Uno dei suoi racconti più recenti, Construction Shack, apparso su Galaxy del gennaio 1973, narra come gli esploratori di Plutone scoprono i progetti per la costruzione del Sistema Solare, constatando in tal modo
che ogni pianeta era stato di volta in volta abbandonato perché era un fallimento. Simak ha prodotto più di un centinaio di splendide vicende fantascientifiche, come la serie di City, dove la vecchia Terra viene civilizzata da cani intelligenti, sotto la guida attenta di Jenkins il robot. City vinse l'International Fantasy Award, e in seguito Simak mise a segno un colpo doppio quando nel 1959 The Big Front Yard ricevette il Premio Hugo per il miglior racconto e Way Station ne vinse un altro per il miglior romanzo. Simak si distingue per i toni generalmente ottimistici della sua opera: i suoi personaggi sono più santi che peccatori, ed in generale il bene ha la meglio sul male. (1) Si tratta di the Creator, uscito su Marvel Tales del marzo-aprile 1935 e noto solo ad una piccola cerchia di lettori, ma subito famoso per l'audacia della trama. Cfr. CLIFFORD D. SIMAK, Il Creatore, in BRIAN W. ALDISS, Space Opera, Fanucci, Roma 1977 (Enciclopedia della Fantascienza 1) (N.d.C). I LE OSSA DI KELL RABIN «Darei un occhio per avere la possibilità di studiare le ossa di KellRabin,» dissi io. Kenneth Smith grugnì. «Dovresti dare ben altro che un occhio,» borbottò. «Sì, daresti ben altro che un occhio, lo volessi o no.» Eravamo seduti sulla terrazza del Clun Terrestre ed in lontananza, sul Monte di Athelum, scorgevamo le luci del Tempio di Saldebar, dove riposavano le ossa famose, venerate dall'intera nazione marziana. Nella valle poco profonda, ai nostri piedi, fluivano le luci multicolori di Dantan, la grande città, la seconda di Marte, prima comunque per la sua importanza nel commercio interplanetario. Molti chilometri più a Nord, gli enormi fari rotanti dello spazioporto, uno dei maggiori dell'universo, balenavano, tagliando grandi scie nella notte scura, immensi pennelli di luce che si potevano scorgere centinaia di chilometri al di sopra della superficie del pianeta, come lampade poste alla finestra per guidare i navigatori dello spazio gelido. Era una scena bellissima, da togliere il fiato: ma non mi sentivo impressionato. C'erano altri, sulla terrazza, e parlavano e fumavano, bevevano e
si godevano la pura bellezza del panorama che si stendeva davanti a loro. Tuttavia, per quanto mi sforzassi di trattenermi, i miei occhi vagavano dalla città illuminata e dalle luci del posto verso il fioco barlume che veniva, come il raggio di una candela, dal Tempio di Saldebar, situato su una delle montagne ancora esistenti sul Pianeta Rosso, la più alta. Rimuginavo pensieri pericolosi. Sapevo che lo erano. È sempre pericoloso, per uno straniero, interessarsi troppo alle cose sacre di una razza aliena. «Sì,» continuò lentamente il mio amico. «Dovresti dare ben altro che un occhio. Se andassi a curiosare da quelle parti li perderesti probabilmente tutti e due, ed in modo assai doloroso. Probabilmente metterebbero sale nelle ferite. Probabilmente perderesti anche la lingua, e quelli ti tagliuzzerebbero a dovere e proverebbero con il fuoco e con l'acido. E quando si decidessero ad ucciderti, e lo farebbero in modo molto artistico, tu non desidereresti altro che la morte.» «Debbo dedurre,» ribattei, «che sarebbe pericoloso cercare di dare un'occhiata allo scheletro di Kell-Rabin.» «Pericoloso! Sarebbe suicida. Tu non conosci i marziani come li conosco io. Li hai studiati, hai frugato nella loro storia, ma io continuo a ronzare da uno spazioporto all'altro, da una dozzina d'anni o più, ed ho imparato a conoscerli in un modo diverso. Si può commerciare benissimo, con loro, e sono cortesi ed educati quanto vuoi, ma hanno i loro tabù, e Kell-Rabin è il più grande. Questo lo sai benissimo anche tu. Hanno un aspetto strano. Ci vuole un po' di tempo per abituarsi a loro, però tutto sommato non sono cattivi. Ma stai attento! È meglio non pronunciare neppure il nome di KellRabin. Per quanto mi riguarda, non penserei neppure di nominarlo, quando un marziano può sentirmi.» «D'accordo, d'accordo,» risposi. «Ma vuoi degnarti di considerare, per un istante, cosa significherebbe per me, che ho passato la vita a studiare la razza marziana, scoprire che tipo d'uomo o di cosa può essere stato questo Kell-Rabin? Un'occhiata a quelle ossa potrebbe servire a risolvere, una volta per tutte, l'origine dell'attuale razza marziana; potrebbe servire a determinare se si è evoluta praticamente lungo le stesse direttrici dei terrestri; potrebbe addirittura aprire prospettive nuove.» «E tu,» brontolò Ken, «hai mai pensato che le ossa di Kell-Rabin sono per i marziani quello che un frammento di legno della vera Croce sarebbe per un cristiano, o un pelo della barba del Profeta sarebbe per un musulmano? Hai mai pensato che ogni uomo con una goccia di sangue marziano
nelle vene lotterebbe fino alla morte per proteggere la reliquia dalle mani degli stranieri?» «Tu la prendi troppo sul serio,» gli dissi. «So perfettamente che non avrò mai occasione di vedere quelle ossa.» «Bene,» rispose il mio amico, «forse un giorno me la squaglierò per qualche tempo e cercherò di andare a curiosare in quella tomba.» «Se lo fai,» dissi, «fammelo sapere. Ci terrei a dare una occhiata.» Ken rise e si alzò. Udii i suoi passi allontanarsi sulla terrazza. Io restai seduto a guardare la fioca luminosità del tempio marziano, in vetta alla montagna, torreggiante sul paesaggio bizzarro del quarto pianeta. Pensai al tempio ed alle ossa di Kell-Rabin. Nel possente tempio di Saldebar lo scheletro venerato riposava da tempo immemorabile. In tutta la storia documentata dei marziani, una storia di parecchi millenni più antica di quella della Terra, le ossa erano sempre rimaste là, custodite dai sacerdoti e venerate da un intero pianeta. Nell'insieme di leggende religiose legate alla Santissima Reliquia, la vera identità di Kell-Rabin si era perduta. I soli che potevano avere un'idea di ciò che era stato quell'essere mitico erano i sacerdoti; e forse non lo sapevano neppure loro. «Smettila di pensarci,» mi dissi, rabbiosamente: ma non potevo smettere. Esattamente tre settimane dopo ricevetti un ordine di espulsione perché avevo tentato, in modo del tutto legittimo, tramite le autorità ecclesiastiche e civili, di ottenere il permesso di studiare il Tempio di Saldebar, sotto la supervisione del Consiglio dei Sacerdoti. Avevo dimostrato, sentenziavano i documenti, «una curiosità insolita e sconcertante nei confronti della religione marziana». I documenti precisavano specificamente che non dovevo ritornare sul pianeta, pena la morte. Per me fu un colpo terribile. Avevo lavorato lì per anni. Ero considerato una delle maggiori autorità viventi nel campo della civiltà marziana moderna, e nel corso del mio soggiorno avevo raccolto moltissime informazioni sulla storia antica del pianeta. Avevo amici marziani altolocati, ma scoprii che non erano più i miei amici, quando tentai di avvicinarli, nella speranza che potessero intercedere in mio favore. Tutti, tranne uno, rifiutarono di ricevermi, ed uno mi insultò apertamente, con un ghigno rabbioso, come se fosse lieto della mia disgrazia. L'ambasciatore terrestre scosse il capo, quando mi rivolsi a lui.
«Non posso fare nulla per lei, signor Ashby,» disse. «Mi dispiace moltissimo. Ma lei conosce i marziani. Nessuno dovrebbe conoscerli meglio di lei. Ha commesso un errore. Per loro, si è trattato della scorrettezza peggiore. Non posso far nulla.» Mentre ero a bordo dell'astronave di linea che si allontanava veloce dal pianeta cui avevo dedicato tutta la vita, silenziosamente e inconsciamente, scossi il pugno in direzione della sua massa che recedeva nello spazio. «Un giorno... un giorno...» mormorai. Ma lo facevo solo per placare il mio orgoglio offeso. In realtà, non avevo intenzione di far nulla. Vidi la faccia nota e abbronzata di Kenneth Smith sullo schermo del visifono. «Bene,» disse lui. «Le ho!» «Che cos'hai, Ken?» domandai, stupito. «Ho,» rispose lentamente lui, «le ossa di Kell-Rabin!» Mi parve che il cuore balzasse in gola, soffocandomi. Dovetti diventare cinereo in viso: la mia bocca era così rigida che non riuscii a parlare. Una grande paura m'invase, frammista ad un'euforia altrettanto grande, e minacciò di sopraffarmi. Fissai lo schermo, a bocca aperta, ansimando. Mi tremava la mano, e credo che tutto il mio corpo vibrasse, come una foglia nella bufera. «Si direbbe che tu abbia visto uno spettro,» mi burlò Ken. Trangugiai, tentai di parlare. Finalmente ci riuscii. La mia voce era poco più di un mormorio. «Sì,» dissi. «Ho visto gli spettri di legioni di marziani levarsi dalle tombe per protestare.» «Si levino pure,» ringhiò l'immagine sullo schermo. «Abbiamo quelle maledette ossa, no? E adesso li costringeremo a strillare parecchio per riaverle.» C'era nella sua voce una durezza torva, macabra, che io non gli conoscevo. «Cos'è successo, Ken?» chiesi. «Dove sei stato?» «Sono stato nel deserto di Grondas, su Marte,» fece lui. «Ricerche minerarie. Ho trovato un deposito di pechblenda letteralmente saturo di radio, che avrebbe fatto di me uno degli uomini più ricchi dell'universo.» «Oh, è una bella notizia...» «Non è una bella notizia,» rispose Ken, e la sua voce ridivenne dura. «Il governo marziano me l'ha portata via, ed io me la sono cavata per il rotto della cuffia. Non so quale maledetta clausola in un vecchio trattato afferma
che gli stranieri non hanno alcun diritto sul radio del pianeta.» «Peccato,» mormorai. «Peccato,» Ken ghignò, come un mostro infernale. «Ma no. I marziani pagheranno dieci volte di più il valore del giacimento di pechblenda, per riavere le sacre ossa. Adesso tocca a me ridere. Intanto, vieni a dare un'occhiata. Sono al "Washington". La cassa è ancora chiusa. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere essere tu ad aprirla.» Tolsi la comunicazione e mi aggrappai al bordo della scrivania. Mi sentivo avvampare e gelare, alternativamente. Questo significava... che cosa? Kenneth Smith aveva derubato la nazione marziana del bene più prezioso del pianeta. E non era stato solo Kenneth Smith: c'ero di mezzo anch'io. Neppure per un momento potevo dubitare che la nostre breve conversazione sulla terrazza del Club Terrestre, tre anni prima, avesse ispirato il pazzesco furto del mio amico. Le mie parole gli avevano suggerito la vendetta suprema che si era preso sugli ometti furbi di Marte, nostri vicini nello spazio e nostri amici, ai sensi dei trattati. Non provavo rimorso. Se ne avessi avuto l'occasione, probabilmente avrei fatto lo stesso, e non solo per il desiderio di esaminare le famose ossa, ma anche per la stessa ragione che aveva spinto Ken ad agire. Lo sbrigativo allontanamento da Marte e il divieto di ritornarvi era stato un grave colpo per il mio orgoglio, e la ferita bruciava ancora. I marziani avevano giocato scherzi malvagi a me ed al mio amico. Non pensavo ai possibili torti che noi potevamo aver fatto ai marziani. Anzi, provavo una soddisfazione che diventava più forte ad ogni momento. In un certo senso, non era soltanto la vendetta di Ken: era anche la mia. Provavo tuttavia un terrore inesplicabile, presentimenti spaventosi. La fonte della religione marziana era stata profanata, e potevo immaginare quale sarebbe stata la sorte di coloro che avevano rubato le Sacre Reliquie, se i marziani li avessero catturati. Ero certo che avessero scoperto immediatamente il furto sacrilego e fossero già in caccia. Rabbrividii, per puro orrore fisico al pensiero di quei piccoli individui astuti e sinistri che mi cercavano. Avrebbero preteso che le autorità terrestri ci consegnassero ai loro tribunali, come ultima risorsa: ma solo come ultima risorsa. I marziani sono orgogliosi, e difficilmente avrebbero reso di pubblico dominio un episodio che li avrebbe fatti diventare lo zimbello dell'universo. Io ed il mio amico avremmo avuto a che fare con i sacerdoti di Marte. Risi e aprii un cassetto della scrivania. La mia mano frugò, si strinse in-
torno ad un freddo oggetto metallico. Lo estrassi e l'infilai in tasca. Forse avrei avuto bisogno di un'arma, e la piccola elettropistola che scagliava fulmini era l'arma più efficiente realizzata in tutti i mondi conosciuti. Neppure i marziani, nonostante i secoli di prodigiosa civiltà tecnologica, possedevano qualcosa di simile. La pistola era un segreto della Terra, e solo i terrestri ne erano armati. Mi alzai e risi ancora, la risata amara di un conquistatore che sa di avere ottenuto una vittoria vana e di correre il rischio di trovarsi, prima dell'alba, davanti ad un plotone d'esecuzione. Era una grande vittoria, un insulto supremo per i marziani. Il mio amico ed io non avevamo motivo di amare il popolo del pianeta rosso, anzi, avevamo molte ragioni per odiarlo. Ken aveva commesso una pazzia, rubando le ossa di Kell-Rabin, ma era stato un colpo magistrale... se non si teneva conto delle conseguenze. Uscii, scesi al pianterreno. Poi presi un aerotassì per recarmi al «Washington». Ken mi fece entrare e chiuse a chiave la porta alle mie spalle. Poi ci stringemmo la mano e ci guardammo a lungo negli occhi. «Non avresti dovuto farlo, Ken,» dissi. «Non preoccuparti tanto,» rispose. «L'avrei fatto comunque. Ho solo ricordato quello che avevi detto, e quanto tenevi a vedere queste ossa. Ci avrei pensato comunque, perché dopo la faccenda del giacimento, mi sono chiesto qual era il modo migliore per umiliare l'intera nazione che mi aveva derubato della ricchezza. Ma se non fosse stato per te, avrei scaricato quella maledetta cassa nello spazio, chissà dove. Se fossero riusciti a ritrovarla, diciamo, a metà strada fra la Terra e Marte, non me la sarei presa. Invece l'ho portata qui. Ora potrai studiare queste dannate ossa, come desideri.» Mi precedette in un'altra stanza dell'appartamento. «È stata la peggiore delle carognate,» mi disse. «Hanno lasciato che trovassi il giacimento, e poi me l'hanno portato via. Confiscato... E mi hanno minacciato di morte se non fossi stato zitto. Hanno detto che me la cavavo a buon mercato, perché in quel vecchio trattato c'era una clausola che prevedeva una condanna a dieci anni di carcere per gli stranieri che non segnalassero immediatamente una scoperta del genere alle autorità competenti. Avevano sempre saputo che lavoravo per trovare il giacimento, e non mi avevano mai detto nulla.»
Si fermò, si girò verso di me. «Per due anni ho lavorato in quell'infernale deserto. Quasi sempre soffrivo la fame e la sete, e la febbre del deserto mi tormentava. Ho lottato con il caldo e con la polvere rossa, con insetti e rettili velenosi, con la solitudine e la pazzia. Ho perduto tre dita della mano sinistra, per un avvelenamento causato da non so che maledetta erbaccia. E poi ho scoperto il giacimento, tonnellate e tonnellate di pechblenda, non so quante, e piene zeppe di radio. Sarebbe bastato un solo carico per fare di me uno degli uomini più ricchi del mondo. «Mi sarebbe bastato far schioccare le dita, e tutto il Sistema Solare avrebbe piegato il ginocchio davanti a me. Ho lavorato, per due anni, nel deserto marziano; ho perduto la giovinezza, tre dita e due anni della mia vita... e per cosa? Per cosa? ti chiedo. Perché qualche tronfio funzionario marziano potesse rimpinzarsi il ventre, e coprire di pietre preziose qualche femmina smorfiosa, e fare grandi doni ai preti, custodi dello scheletro d'un essere che avrebbe dovuto diventare polvere tanto tempo fa!» Il suo volto era illividito dalla rabbia. Era pazzo! Non era più il Ken Smith che avevo visto per l'ultima volta pochi anni prima. Era un uomo diverso, impazzito per il caldo orribile e l'atroce solitudine delle rosse distese di Marte, amareggiato oltre ogni sopportazione umana dall'ingiustizia di un popolo alieno che non aveva mai capito e mai avrebbe potuto capire la gente della Terra. Ken alzò un braccio e indicò il soffitto, in direzione dell'oscurità cieca dello spazio, dove, tra gli sciami di luci celesti, brillava un astro rosso. «Quando lo scopriranno,» gridò, «avranno paura! Accidenti a loro, quelle loro animucce fetenti si raggricceranno per lo spavento. Conosceranno il crollo della speranza ed il terrore che io ho conosciuto. Sono molto religiosi, ed io ho rubato la loro religione! Io, l'uomo che hanno rovinato, ho preso ciò che vi era di più prezioso per loro. Un giorno, se non lo scopriranno da soli, glielo farò sapere: dirò loro che ho agitato le ossa muffite di KellRabin nella sacra cassa, e ho riso di quel rumore!» Non c'era dubbio. Ken era impazzito, e delirava. «E se ci tengono tanto, come credo,» aggiunse in un bisbiglio, «forse gliele renderò... per un prezzo dieci volte superiore al valore della mia miniera di radio. Li manderò in fallimento. Li costringerò a scavare nel loro fetido sottosuolo per i prossimi cento anni, per pagare il prezzo da me richiesto. E dovranno sempre ricordare che un uomo della Terra ha fatto suonare le ossa di Kell-Rabin! Come ne soffriranno!»
«Ken,» gli gridai, «sei completamente impazzito? Loro lo sanno già: debbono saperlo. La cassa è scomparsa. Già in questo momento la staranno cercando in tutto il Sistema Solare.» «Non lo sanno,» rispose il mio amico. «Ho preso le mie precauzioni. Sapevo che, anche con la mia nave, non avrei potuto fuggire se se ne fossero accorti subito. C'è un'altra cassa, esattamente identica a quella che contiene le ossa di Kell-Rabin, nel Tempio di Saldebar: ma è vuota... L'ho fatta io, e l'ho messa là. Sono entrato di nascosto nel tempio, ho fatto una serie di foto con una macchina elettrica; e basandomi sulle fotografie, ho lavorato per settimane per costruire una cassa identica in tutto, ad eccezione di un unico particolare. Su un angolo della seconda cassa è inciso un messaggio per i sacerdoti di Marte: e quando uno di loro lo scoprirà, sapranno che le ossa di Kell-Rabin sono scomparse.» Una voce sonora riempì la stanza. «Abbiamo trovato il messaggio, Kenneth Smith,» disse. «E siamo qui per prendere la Sacra Reliquia e te.» Ci voltammo di scatto: sulla soglia stava ritto un sacerdote di Marte, bardato con il suo abbigliamento pittoresco. In mano stringeva una piccola, tremenda arma termica. Guardai alle sue spalle e vidi che la serratura della porta era stata fusa. È strano, come un uomo noti certi piccoli particolari anche negli attimi più sconvolgenti. Il sacerdote fu troppo lento. Penso che, sebbene avessi la pistola in tasca, sarei riuscito a batterlo sul tempo. I preti non sono abituati ad usare le armi. Mentre lo guardavo, compresi che una morte rapida sarebbe stata preferibile alla cattura, e mi accostai la mano alla tasca. Ma non avevo ancora toccato la pistola, quando uno scroscio tonante squarciò l'aria. Kenneth Smith impugnava la sua arma. Sembrava che l'avesse sempre avuta in mano. Era svelto con le armi: troppo svelto per il prete marziano. Il sacerdote era crollato sul pavimento in una massa carbonizzata. L'odore della pelle e dei capelli bruciati si mescolava al sentore acuto dell'aria ionizzata. Vi fu un rumore nell'altra stanza e, oltre il vano della porta, vedemmo un altro prete lanciarsi verso il corridoio. Sparammo contemporaneamente e la figura crollò, fumante, sul pavimento. «Li abbiamo arrostiti!» ansimai. Le parole mi uscirono dalle labbra d'impulso.
«Dobbiamo andarcene,» scattò Ken. «Presto, sul tetto. Sono solo due piani. Ho un piccolo apparecchio, lassù.» II IN FUGA Infilando in tasca la pistola, Ken si precipitò nella stanza accanto. Mentre io restavo lì stordito, quasi senza sapere dove andare, lui ricomparve, tenendo sotto il braccio una cassa lunga una novantina di centimetri. Mi afferrò per un braccio e insieme, scavalcammo i due cadaveri fumanti per raggiungere il corridoio. Molte porte si aprirono, molte teste si affacciarono dalle varie stanze. Sentimmo, più in basso, uno scalpiccio di passi affrettati: uno dei quadri degli ascensori indicava che una cabina stava salendo rapidamente. Ci lanciammo verso le scale e salimmo a precipizio. Quando arrivammo sul tetto, un'orda di persone agitate irruppe dallo ascensore, al piano sottostante. Un uomo ci intralciò la strada mentre correvamo verso il piccolo aereo rosso di Ken. Lo stesi con un sinistro e proseguimmo. Ci inerpicammo a bordo e Ken premette l'avviamento. I motori ronzarono e la macchina si mosse. Una massa di persone correva verso di noi. Due, che precedevano gli altri di qualche passo, raggiunsero l'aereo e si slanciarono nel vano tentativo di ritardare la partenza. Quando accelerammo, i due rotolarono via, e l'apparecchio sfrecciò in volo. Violammo tutti i regolamenti del traffico, levandoci vorticosamente dal campo d'atterraggio sul tetto dell'albergo, verso le quote più elevate. I piloti degli aerotassì gridavano infuriati contro di noi, e più di un uomo ai comandi di aerei passeggeri e merci dovette trattenere il respiro, mentre l'incrociavamo zigzagando a velocità vietatissime a quei livelli affollati, sopra la città. Per due volte, aerei addetti al controllo del traffico ci inseguirono, e per due volte li seminammo. Nessun pilota, ad eccezione di Ken Smith, straordinario vagabondo dello spazio, avrebbe potuto guidare il piccolo aereo rosso in quel pazzo volo ed uscirne con la pelle intatta. Dopo mezz'ora avevamo lasciato la città, e stavamo sorvolando la campagna. Sapevamo che l'uccisione dei sacerdoti marziani era stata scoperta e che una descrizione del nostro apparecchio, probabilmente anche delle nostre persone, veniva trasmessa in lungo e in largo in tutto il paese. Tutti gli aerei della Polizia ci avrebbero dato la caccia a vista. Tuttavia stava scendendo la notte, e noi contavamo su questo per dile-
guarci. Mezz'ora prima dell'oscurità, quando il crepuscolo avanzava sulle valli della Terra, avvistammo un cerchio dorato sull'ala di un apparecchio che ci seguiva da lontano, e ci rendemmo conto che la Polizia era sulle nostre tracce. Prima che l'altro apparecchio potesse guadagnare terreno, l'oscurità ci avvolse e, volando a luci spente, proseguimmo all'impazzata. Un'ora dopo, la Luna si alzò dall'orizzonte e, nella sua luce, vedemmo che avevamo raggiunto le Montagne Rocciose, e ne stavamo sorvolando le vette tormentate. Tenemmo consiglio di guerra. Ci stavano dando la caccia. L'uccisione dei due sacerdoti doveva apparire come uno dei più odiosi reati immaginabili, di portata interplanetaria; e nulla sarebbe stato lasciato intentato pur di catturarci. L'aereo rosso era facilmente riconoscibile. C'era una sola cosa da fare: abbandonarlo prima che ci avvistassero. Un attimo dopo due figure, una delle quali stringeva una cassa di legno e di metallo, si lanciarono dall'apparecchio in volo, precipitarono vertiginosamente per un momento e poi discesero, fluttuando, quando le valvole del paracadute si aprirono. Un aereo rosso, con i motori al massimo e la cloche fissata all'indietro, proseguì il suo folle volo, senza nessuno a bordo. Due mesi dopo venni a sapere che il relitto era stato trovato la mattina dopo a parecchie centinaia di chilometri dal punto in cui ci eravamo lanciati. Era una località selvaggia e desolata, quella in cui eravamo saltati dall'aereo. Atterrammo senza difficoltà e chiudemmo le valvole dei paracadute quando toccammo il suolo. Nell'aria c'era un intenso odore aromatico di pini ed una forte brezza sospirava tristemente fra le cime degli alberi. I sassi rotolavano sotto i miei piedi, quando mi muovevo. Trovammo un fitto boschetto di arbusti sempreverdi e ci nascondemmo lì; piombammo in un sonno irrequieto, destandoci quando i raggi obliqui del Sole s'insinuarono tra le fronde e ci sfiorarono il volto. Molte volte, quel mattino, mentre cercavamo di decidere sul da farsi, provai l'impulso di aprire il coperchio e di esaminare il contenuto della cassa, che aveva fama di contenere le ossa del celebre Kell-Rabin. Tuttavia, non osavo farlo. Temevo che, una volta esposte all'aria, quelle ossa preziose si disgregassero e si riducessero in polvere. Bisognava aprire la cassa in un laboratorio, e avere a disposizione apparecchiature e conservanti adeguati. Aprirla lì, in quella regione selvaggia e montuosa, sarebbe stato troppo rischioso. Decisi di attendere. La fame, alla fine, ci spinse ad uscire: fummo fortunati, e l'elettropistola di Ken abbatté un piccolo daino. Non avevamo sale, ma divorammo la
carne bruciacchiata sul fuoco, come lupi famelici. Trovammo alcune bacche e le mangiammo. Per settimane e settimane, ci muovemmo tra le montagne, trascinando con noi la preziosa cassa. Non avremmo mai pensato di abbandonarla, perché per Ken rappresentava la vendetta ed un riscatto favoloso, e per me costituiva l'occasione di sondare nei misteri della razza marziana... e pure una vendetta, che desideravo solo un po' meno del mio amico quasi pazzo. Perciò, sebbene ci causasse i calli sulla schiena e fosse un peso morto che rendeva più faticoso il cammino, la conservammo tenacemente. Ci facemmo crescere la barba, ed io acquisii un'abbronzatura poco meno intensa di quella che Ken si era procurato negli aridi deserti di Marte. Perdemmo parecchi chili, i nostri visi divennero più scarni. Penso che nessuno sarebbe stato in grado di riconoscerci, ad eccezione degli amici intimi. Arrivammo finalmente in un paesetto solitario tra le colline, e mentre Ken montava di guardia alla cassa, nei dintorni, entrai nell'abitato. Comprai un modesto baule antiquato in un negozio di ferramenta e mobilio, e abiti adatti nell'unica bottega d'abbigliamento locale. Quella sera, quando l'aereo diretto all'Est scese dal cielo, trovò due montanari, barbuti e laceri, silenziosi come tutti gli uomini forti che vivono all'aperto, ma che lasciavano capire di aver avuto un colpo di fortuna, e si recavano in città per darsi alla pazza gioia. Il loro unico bagaglio consisteva di un vecchio baule. A Chicago acquistammo una cassaforte e vi chiudemmo la cassa con le ossa marziane. Mezz'ora dopo, la cassaforte venne sistemata nel sotterraneo blindato della First Lunar Bank, ed io e Ken ricevemmo le chiavi. Non ritenevamo prudente tenere con noi la cassa, fino a quando la Polizia non avesse rinunciato a cercarci. Pensando che difficilmente avrebbero immaginato che saremmo tornati dopo così poco tempo nella città da cui eravamo fuggiti, decidemmo di restarvi. Il giorno in cui sistemammo la cassaforte nel sotterraneo blindato, lasciammo l'albergo. Poi andammo a far visita ad un tale che viveva in una delle zone più malfamate della città. Dovemmo lasciargli una somma rilevante, ma quando ce ne andammo eravamo due uomini diversi. Non eravamo più Kenneth Smith e Robert Ashby, e neppure i montanari barbuti imbarcatisi sull'aereo diretto all'Est con un solo baule per bagaglio. I nostri lineamenti erano opere d'arte. Nelle narici e nelle guance c'erano piccole lamine che potevano venire rimosse istantaneamente e non davano fasti-
dio. I nostri capelli erano tagliati in modo diverso, ed adattati a restare così, grazie all'intervento di una complicata macchina. Era un travestimento semplice ed efficace. Nelle settimane che seguirono, mi trovai faccia a faccia, per la strada, con diversi vecchi amici, e nessuno di loro mi riconobbe. Ci stabilimmo in una piccola, modesta zona residenziale, e lasciammo che il tempo passasse. Avremmo agito quando si sarebbe placato lo scalpore causato dall'uccisione dei due sacerdoti. Poi, un giorno Ken non tornò a casa. Lo attesi per ore, e cominciai una ricerca sistematica e prudente. Dopo una settimana, non avevo scoperto nulla. Non era stato arrestato, non era stato ritrovato il suo cadavere, non era in ospedale e non si era imbarcato in un aereo. Fui costretto ad affrontare la realtà. I marziani avevano catturato il mio amico. Una condanna a morte mi aspettava nel momento in cui avessi posto piede sul territorio marziano. Mi era stato assolutamente vietato di ritornare su quel pianeta. Ma ritornai. Trattenni il respiro, mentre passavo attraverso la barriera della dogana. Il mio travestimento, tanto efficace sulla Terra, sarebbe servito anche su Marte? I controlli, comunque, furono superficiali, e passai. Avevo dichiarato di essere un uomo d'affari in viaggio di piacere, uno degli innumerevoli turisti che ogni anno si liberano dei ceppi della prosaica Terra per godersi le stranezze offerte da un mondo alieno. Ero di nuovo sul Pianeta Rosso. Ancora una volta mi trovavo faccia a faccia con la nazione cui io e Ken Smith avevamo gettato il guanto di sfida. Il mio compito era lugubre: una missione di salvataggio, forse di vendetta. La mia destinazione era il Tempio di Seldebar. Ken mi aveva parlato a lungo del Tempio. Ne avevamo discusso per ore ed ore. Nella mia mente era impresso indelebilmente il percorso che il mio amico aveva seguito per due volte, quando aveva rubato le ossa di KellRabin. Preparai i miei piani che, necessariamente, erano una copia di quelli ideati e realizzati da Ken. Per la seconda volta nella storia del pianeta, un alieno si accingeva a penetrare nel Sancta Sanctorum, per la stessa strada seguita dal suo predecessore. Il Monte di Athelum era ammantato dall'oscurità. Due ore prima il Sole era calato oltre l'orizzonte, ed un'altra ora doveva passare prima che si levasse Deimos, la maggiore delle lune marziane.
Rabbrividii nel vento freddo che saliva ruggendo dal deserto sottostante e mi strinsi addosso il mantello nero. Nelle fondine alla cintura c'erano due elettropistole e, nella mia mano, fissata al polso da una cinghia di cuoio, c'era una mazza ferrata appesantita a un'estremità: un'arma silenziosa e temibile. Nella tasca della giacca stavano una piccola lampada tascabile ed un pacchetto di compresse di cibo concentrato. Non sapevo per quanto tempo avrei dovuto nascondermi nel grande tempio buio che levava davanti a me le mura massicce, prima di trovare colui che cercavo, o di accertarmi che non si trovava li. L'ora consueta del culto era passata, ma io attendevo ancora. Non intendevo entrare nel tempio quando brulicava di pellegrini e devoti. Preferivo aspettare che, senza dubbio, fossero rimasti soltanto i sacerdoti. Inoltre, era necessario agire nell'ora in cui venivano cambiate le guardie perché, quando fosse stata ritrovata una sentinella esanime, avrebbe avuto inizio una ricerca accanita, ed io avrei dovuto nascondermi e sperare in bene. Era impossibile entrare nell'edificio senza mettere fuori combattimento almeno una delle guardie, lo sapevo. Come una grande gemma scintillante incastonata nel nero stagno della notte, vedevo in lontananza le luci di Dantan; ridacchiai con maligna allegria quando cercai d'immaginare il subbuglio che si sarebbe scatenato in città, se la popolazione di Marte e della Terra avesse appreso il furto sacrilego delle veneratissime ossa. Il furto era stato tenuto segreto. Il governo marziano e la casta sacerdotale non gradivano pubblicità su un episodio del genere. Un giorno, forse, come atto finale di vendetta, avrei trasmesso la notizia in tutto il Sistema Solare. L'avrei fatta sapere dovunque, dalle piccole colonie minerarie di Mercurio agli ultimi avamposti commerciali nelle gelide solitudini di Plutone. I marziani e la loro religione sarebbero divenuti lo zimbello dell'universo. Forse allora, troppo tardi, gli alti funzionari ed i preti si sarebbero rammaricati di non aver agito in modo diverso con me e con il mio amico. Era un pensiero piacevole, mentre me ne stavo acquattato nel buio all'esterno de! tempio, attendendo il momento di colpire. Forse ero un po' pazzo. Probabilmente lo sono ancora. Una voce squillante gridò nell'oscurità, una luce balenò brevemente in una nicchia nel muro del tempio. Un'altra voce rispose. Vi fu un clangore cerimoniale di spade, che i sacerdoti portavano come emblemi quando montavano di guardia.
Stavano cambiando le sentinelle. In fondo al muro del tempio risuonò un'altra richiesta di parola d'ordine, un'altra risposta, seguite dal clangore dell'acciaio. Erano cerimonie tradizionali, null'altro. Le guardie e le spade erano reliquie di tempi lontani e dimenticati. Quella notte, però, pensai cupamente, le guardie sarebbero state necessarie. Avanzai senza far rumore per portarmi nell'ombra più cupa del muro, e toccando con la mano sinistra le rozze pietre, mi avviai lentamente. Mi fermai parecchie volte per osservare ed ascoltare, tendendo le orecchie e sforzando gli occhi. Nessuno sospettava la mia presenza, ne ero convinto; ma non volevo correre rischi. Qualunque tempio marziano, ma soprattutto il Tempio di Saldebar, è molto pericoloso per un terrestre. Le mie dita brancolanti, cercando a tentoni al di sopra della testa, trovarono una fenditura nella pietra: compresi di aver raggiunto la postierla che avevo scelto per penetrare nel tempio. Trattenendo il respiro per timore che la sentinella mi udisse, sbirciai cautamente oltre l'orlo della nicchia in cui era situata la porta. Come una statua, ritta nella posizione rituale delle guardie dei templi marziani, stava esattamente davanti all'uscio. La punta della spada massiccia era appoggiata sul pavimento di pietre, ed entrambe le mani stringevano l'elsa. Mi concentrai, mi aggrappai saldamente con le dita al bordo del muro, per orientare meglio il balzo, strinsi più forte la mazza ferrata, e scattai. La guardia non ebbe neppure il tempo di staccare dal suolo la punta della spada. Non credo che mi abbia riconosciuto per un terrestre. Mentre gli piombavo davanti, lo sfollagente, che avevo fatto ruotare nell'aria mentre spiccavo il salto, calò con un colpo tremendo sul suo cranio. Con il braccio sinistro afferrai il corpo prima che cadesse, con la destra gli serrai la bocca in una morsa ferrea, per soffocare l'eventuale grido. Lo adagiai sul lastricato e mi accostai alla porta. Posai la mano sul pesante chiavistello e mi fermai un attimo, pensando d'indossare gli abiti della guardia uccisa, ma poi vi rinunciai. Le vesti avrebbero intralciato i movimenti, e la mia statura mi avrebbe tradito non meno dell'abbigliamento terrestre. I cardini cigolarono lievemente, quando entrai, ma quel suono dovette passare inosservato, perché non accadde nulla, sebbene attendessi per parecchi minuti, pronto a fuggire al minimo segno di pericolo. Il corridoio oltre la porta era completamente buio, e quando chiusi l'uscio dietro di me, fui preso per un momento da quel terrore indescrivibile che afferra chi fronteggia un pericolo nell'oscurità. Per un istante pensai di
usare la lampada tascabile, ma sapevo che anche il minimo barlume luminoso avrebbe potuto denunciare la mia presenza e sventare i miei piani. Grazie alle conversazioni con Ken, che era passato due volte di lì per rubare la preziosa reliquia, conoscevo abbastanza bene il percorso che avrei dovuto seguire per raggiungere la grande navata centrale del tempio. Sapevo che il corridoio in cui mi trovavo procedeva diritto per duecento passi e poi deviava quasi ad un angolo retto verso sinistra. Dovevo percorrere il corridoio fino a quando ne avessi raggiunto un altro, più usato e quindi illuminato. Nel passaggio buio, lo sapevo, il pericolo era minimo. Solo una volta arrivato nel secondo avrei dovuto usare la massima cautela. Toccando con la mano la parete, avanzai, in punta di piedi, per smorzare il suono dei passi. Giunsi all'angolo e vidi una luce fioca in distanza, provenire dal secondo corridoio. Continuai a procedere, cautamente, guardandomi intorno. III L'UOMO SENZA CORPO Vicino al pavimento, sulla parete di sinistra, scorsi una piccola chiazza di luce: mi fermai per esaminarla, cercando di accertarne l'origine. Vi riuscii solo quando mi staccai dalla parete destra, passando dall'altra parte: vidi allora che la luce usciva da una sottile fenditura rettangolare nella parete di destra. A quanto pareva, oltre il muro c'era una stanza, ed un pezzo di pietra si era staccato. Tesi l'orecchio e udii un brusio di voci. Voci marziane, che provenivano dalla stanza illuminata. Deciso a scoprire cosa succedeva là dentro, avanzai lungo il muro. Quando arrivai a meno di quattro metri dalla fenditura, mi fermai di colpo. Avevo alzato un piede per muovere un altro passo, e non lo riabbassai: ero come un pointer che ha scoperto improvvisamente un uccello. Credo che le mie orecchie si mossero un poco, mentre cercavo di captare ancora le voci. Poi, distintamente, come se chi parlava fosse accanto a me, giunsero altre parole, pronunciate in inglese da una voce che conoscevo... la voce dell'uomo che cercavo, Ken Smith! «No, maledetti. Marcirete nell'inferno prima che io ve lo dica. Le ho squassate nella loro lurida cassa. Le ho agitate e ho riso mentre le udivo risuonare. Le ho squassate, capite, maledette le vostre anime fetide. Sono
soltanto ossa, ossa marce come lo saranno tra poche settimane quelle del mio corpo, laggiù, e come lo saranno le vostre quanto morirete...» La voce era diventata sempre più acuta, più stridula, e all'improvviso si spezzò in un terribile urlo di sofferenza che fece sgorgare un sudore gelido da ogni poro del mio corpo. L'urlo si spense ed udii il rombo d'una voce marziana. «Kenneth Smith, tu ci dirai dov'è il sacro scheletro di Kell-Rabin. Soltanto allora ti concederemo una misericordiosa liberazione. Ricorda, potremmo lasciarti qui, con la corrente al massimo... più forte di quanto era poco fa: e dimenticarti per anni interi. Forse allora parleresti. Sei immortale, non morirai mai. Potresti sopportare un'eternità di tortura?» Udii di nuovo la voce del mio amico, acuta e stridula. «Vi dirò dove sono le ossa... ve lo dirò.» Mi sembrava quasi di vedere la tensione muta di coloro che erano oltre il muro. «... Vi dirò dove sono le ossa di Kell-Rabin... quando il vostro lurido pianeta si sarà dissolto in una nube di polvere rossa e fluttuerà fra le stelle.» Il rombo delle voci marziane risuonò come il rullo rabbioso di un tamburo. Le urla ricominciarono, e salirono fino a quando mi parve che stessero per spezzarmi i timpani. Con un balzo raggiunsi la fenditura nella parete, agganciai le dita intorno al bordo di un grande blocco. Tirai con tutte le forze, e lo sentii cedere sotto le mie mani. Tirai ancora, freneticamente, e si staccò. All'impazzata, aggredii altri blocchi, smuovendoli, lottando follemente per aprirmi un varco sufficiente. Un ultimo blocco si staccò ed io passai, con un balzo. Nello stesso istante, le mani cercarono le fondine, e prima che i piedi toccassero il pavimento avevo già estratto le due elettropistole. Mi trovai di fronte ad una scena assurda. Su un tavolo, in un angolo della stanza, giaceva un corpo umano, nudo, con il cranio squarciato, il volto mancante, il collo orribilmente devastato. Su un altro tavolo, intorno al quale stavano raggruppati cinque sacerdoti marziani, c'era una piccola macchina, collegata da due fili a un cilindro trasparente alto circa un metro. Fu il cilindro ad attrarre il mio sguardo e ad incutere nella mia anima un profondo terrore. Era pieno di un liquido lattiginoso in cui galleggiava un cervello umano, nudo e pulsante. E sotto al cervello stava un volto, il volto
di Ken Smith! I lineamenti erano alterati dal dolore e dal cilindro uscivano stridule grida d'agonia. Sotto il viso pendevano un tratto del midollo spinale e quelli che, evidentemente, erano gli organi vocali. Mi sentii impazzire per il terrore e per l'angoscia. Con due balzi raggiunsi il tavolo su cui stava il cilindro, e spazzai via i preti sbalorditi. Di colpo la trasparenza del contenitore svanì e le grida cessarono. Mentre mi voltavo di scatto per fronteggiare i preti, che si erano rapidamente ripresi dallo sbalordimento, vidi, con la coda dell'occhio, che il cilindro aveva assunto una consistenza massiccia, una colorazione metallica grigiocupa. I sacerdoti avanzarono, ma quando puntai le due pistole, arretrarono mormorando. «Una sola parola,» sibilai, sottovoce, «e vi arrostirò senza pietà.» Compresero. Non erano armati, e conoscevano la fama delle elettropistole. E sapevano anche che un terrestre scoperto in un tempio marziano, doveva essere disperato e non avrebbe esitato a uccidere ed uccidere, implacabilmente. Riflettei, angosciato. Non sapevo che fare. Se avessi ucciso i sacerdoti e fossi fuggito, forse sarei riuscito a lasciare il tempio. Ma avevo trovato il mio amico, e non potevo abbandonarlo. Dovevo portar via il cilindro e la minuscola macchina che lo attivava. Non potevo lasciare Ken Smith, o ciò che restava di Ken Smith, alle torture indescrivibili di quei dèmoni. Se fosse accaduto il peggio, avrei puntato una delle pistole sul cilindro e avrei deliberatamente distrutto ciò che avevo visto nel contenuto lattiginoso. Sarebbe stato sempre meglio che lasciarlo lì, nelle mani dei marziani. Il mio sguardo si posò sul corpo mutilato che giaceva sul secondo tavolo. Era il corpo di Ken Smith, lo sapevo. Lui aveva detto «il mio corpo, laggiù.» I bestiali uomini di Marte gli avevano rubato il cervello, collocandolo nel cilindro. E avevano detto che era immortale. Gli ometti che mi stavano davanti avevano assunto l'espressione stoica che caratterizza la loro razza. Erano tutti drappeggiati nelle vesti che denotavano un alto rango. Sorrisi truce e quelli rabbrividirono. Avevo pensato di aver raccolto uno straordinario carniere di selvaggina. Le loro vite erano sul filo di un rasoio, ed essi lo sapevano. «Mostrami come funziona il meccanismo,» intimai a quello più vicino, con un mormorio cauto. Il prete esitò, ma io feci un movimento perentorio con una delle pistole e quello si affrettò ad avanzare.
«Una mossa falsa,» l'avvertii, minacciosamente, «e vi arrostisco tutti. Ho intenzione di andarmene presto, con quel cilindro. Forse vi lascerò in vita e forse no.» Le loro espressioni non cambiarono. Erano coraggiosi, dovevo riconoscerlo. «Cosa vuoi sapere della macchina?» chiese il marziano che si era fatto avanti. «Voglio parlare all'uomo nel cilindro,» dissi. «Non voglio torturarlo, sia chiaro. Voglio parlargli.» Il sacerdote tese una mano verso la macchinetta, ma gli accennai di scostarsi. «No,» feci. «Dimmi come debbo fare. Se mi fornisci indicazioni false...» Non conclusi la minaccia. Il sacerdote si umettò le labbra e annuì. Posai una pistola sul tavolo, dove avrei potuto riprenderla immediatamente, e tesi la mano verso la macchina. «Devi girare l'indicatore rosso e riportarlo sul verde,» rispose il marziano. «Allora il cervello ha il pieno possesso delle sue facoltà e non subisce effetti dolorosi. Al di sopra di quel segno incomincia la tortura. La macchina è molto semplice...» «Sì,» dissi io. «Lo sarà. Ma non m'interessa. Voglio parlare con il mio amico. Ora cosa debbo fare?» «Basta chiudere l'interruttore che hai aperto.» Strinsi le dita intorno all'interruttore e lo spinsi. Volgevo le spalle al cilindro e non potevo vedere cosa accadeva: ma non vi furono grida, e compresi che il sacerdote mi aveva detto la verità. «Sei tu, Ken?» chiesi. «Proprio io, Bob,» rispose la voce che ricordavo così bene. «Ascolta attentamente, Ken,» dissi. «Non abbiamo molto tempo. Può accadere qualcosa da un momento all'altro. Sai indicarmi come possiamo uscire di qui?» «La strada del corridoio è libera?» chiese la voce del mio amico. «Sì, a quanto ne so. La guardia è morta.» «Allora arrostisci i preti e prima di uscire spara anche a me. Ma promettimi che prima finirai loro. Dopo quel che mi hanno fatto... Tu capisci. Occhio per occhio. Sparagli al cervello, privali della vita eterna che hanno dato a me. E accertati che io sia finito, prima di andartene.» «No, Ken,» dissi. «Ti porto con me.» «Sei pazzo, Bob.»
«Sarò pazzo,» ribattei, quasi con rabbia, «ma di qui ce ne andremo tutti e due, o non se ne andrà nessuno». «Ma, Bob...» «Non c'è tempo per discutere. Tu sei più esperto di me. Qualche consiglio?» «E allora sta bene. Spegni il cilindro, staccalo e metti la macchinetta in tasca. Ne avrai bisogno... o meglio, ne avrò bisogno io. Si può collegare a qualunque fonte di elettricità. Staccala dalla rete del tempio. Liquida i preti e prendimi sottobraccio. È tutto. Se ce la facciamo, usciremo. Se no, distruggimi prima di morire.» «Questo è parlare,» commentai. «Ciò che ti hanno fatto questi animali non cambia niente. Siamo ancora amici.» «Sicuro, siamo amici. Ma d'ora innanzi ci sarai tu solo a combattere.» Posai le dita sull'interruttore. «Solo un attimo, Bob. Mi è venuto in mente qualcosa. Credi di poter portare due cilindri?» «Sono pesanti?» «Non so. Non molto, penso.» I preti si muovevano, irrequieti: lanciai loro un ordine brusco. «Se puoi farcela,» continuò la voce del mio amico, «entra nella stanza proprio di fronte a te. Puoi vedere la porta. Lì ci sono file e file di contenitori. Cervelli di grandi sacerdoti, capisci. Prendine uno. Può esserci di grande aiuto.» «Okay,» dissi. Feci per muovere l'interruttore. «Non dimenticare i preti. Maledetti, fai...» La voce s'interruppe di colpo, quando feci scattare l'interruttore. Una serratura cigolò, dietro di me, e mi voltai di colpo. Sulla porta del secondo corridoio c'era un altro prete. Sul suo volto si leggeva lo sbalordimento. Stava aprendo la bocca per urlare quando lo colpii. La scarica era appena scaturita dalla canna della pistola, quando tornai a girare sui tacchi, appena in tempo. I cinque sacerdoti mi si stavano avventando contro. La canna dell'arma era a pochi centimetri dal petto di quello che veniva avanti per primo, quando premetti il grilletto. Per un istante, il prete fu inondato da una viva fiamma azzurra che l'avvolse dalla testa ai piedi: vacillò davanti a me, raggrinzito e annerito, e poi cadde. Il corpo carbonizzato si sgretolò sul pavimento. La pistola crepitò e ruggì, e immagino che il rumore si udisse anche negli angoli più lontani del tempio. L'e-
lettropistola non è un'arma silenziosa. Due sacerdoti morirono a pochi passi da me, il terzo quasi mi sfiorò la gola con le mani scarne e adunche prima che potessi piantargli l'arma nello stomaco e sparare. Evaporò in un bagliore di energia elettrica che quasi mi fece cadere riverso. Barcollando per la scossa, intravvidi l'ultimo del quintetto precipitarsi verso l'uscio aperto. Il mio dito urtò il regolatore e lo spinse al massimo, mentre sparavo. Non fu un gesto intenzionale, ma per me fu una fortuna. Regolata sulla piena scarica, la pistola scagliò attraverso la stanza una folgore che disintegrò il prete in fuga e distrusse l'intera parete, aprendo un varco sul corridoio. Altre pietre, cadendo con tonfi risonanti, bloccarono completamente il passaggio. La stanza era invasa dal fetore della carne bruciata e dal sentore nauseante dell'ozono. Ero intronato dal rimbombo dell'elettropistola in quello spazio limitato, stordito dagli effetti delle scariche liberate a distanza ravvicinata. Con scrosci assordanti, le pietre continuavano a cadere nel corridoio. Udii grida fioche levarsi in altre parti dell'edificio, e compresi che i sacerdoti marziani si erano svegliati e stavano accorrendo. Mi avvicinai barcollando al tavolo, strappai i cavi dalla macchinetta e la infilai in tasca. Sollevai il cilindro, e mi stupii di sentirlo così leggero. Poi ricordai. Dovevo prenderne un altro. Ne avevo il tempo? Il mio amico aveva buone ragioni per desiderare che prelevassi uno degli altri contenitori. Ero sicuro di riuscire ad aprirmi la strada con le armi in pugno. Decisi di tentare. Posai di nuovo il cilindro sul tavolo, corsi verso la porta che Ken mi aveva indicato. A metà percorso, estrassi una delle pistole. Era inutile cercare di scassinare l'uscio. Contavano anche i secondi. Puntai l'arma sulla serratura e premetti il grilletto. La scarica distrusse una sezione della porta: correndo all'impazzata l'investii, spalancandola. Finii, ruzzolando, in una sala così immensa che in un primo momento mi sentii sgomentare. Su enormi scaffali fiancheggiati da strette corsie, erano allineati cilindri su cilindri, tutti identici a quello che conteneva il cervello di Ken Smith. Afferrai il più vicino, e tornai correndo nell'altra stanza. Potei udire le grida furiose dei preti che lavoravano freneticamente per sgomberare il corridoio bloccato dalla mia scarica. Non si vedeva nessuno. Con un grido di trionfo, raccolsi il cilindro contenente tutto ciò che restava del mio amico, e corsi verso la breccia che avevo aperto tra la stanza ed il corridoio buio.
Poi corsi, fino a quando pensai di aver raggiunto la svolta. Abbandonando ogni prudenza, estrassi la lampada tascabile e lacerai l'oscurità con un fascio di luce. Udii alle mie spalle un grido stridente, e vi fu il lampo d'una pistola a fiamma: ma la distanza era troppa, e la livida lingua di fuoco non mi colpì. Incalzato dalla paura, continuai a correre. La pistola non smise di sparare. Alla svolta, mi girai e intascai la lampada, estraendo una delle mie armi. Mi affacciai fulmineamente oltre il muro, e mi ritrassi con la stessa rapidità. In quel rapido secondo d'azione, avevo spazzato il corridoio dietro di me con una scarica elettrica che aveva incenerito tutto. Barcollando come un ubriaco, varcai la porta e uscii nella notte fredda. Per poco non inciampai sul cadavere della guardia, mi raddrizzai però e proseguii la corsa. Dietro di me si levò un vociare spaventato e iroso, quando i preti, infuriati e terrorizzati, cercavano troppo tardi d'impedirmi la fuga. L'oscurità m'inghiottì ben presto. Mezz'ora dopo ero a bordo di un aereo velocissimo, che il giorno prima avevo nascosto in un luogo sicuro. Ero diretto verso il centro del deserto di Arantian. Sul sedile accanto a me erano legati due cilindri, identici per forma e dimensione: ma uno conteneva il cervello di un terrestre, l'altro quello di un marziano. IV NEL DESERTO «È inutile, Ken,» dissi. «Abbiamo provato tutto. È stato per puro caso che io ho preso un marziano morto anni prima della venuta dei terrestri su questo pianeta. Comunque, può darsi che ne sappia quanto i preti di oggi. Ha parlato, soprattutto quando ho minacciato di fracassare il suo cilindro con un martello. Sembra che i marziani amino molto la vita eterna. Ma sa soltanto come viene messo un cervello nel cilindro. Sostiene che è impossibile estrarlo e rimetterlo in un corpo.» Sedevo accanto al contenitore in cui fluttuavano il cervello e il volto di Kenneth Smith. «Sì, Bob,» disse la voce del mio amico, mentre le labbra si muovevano lievemente. «Si direbbe che io debba restar qui per il resto della mia vita, e secondo il nostro amico marziano equivale all'eternità. È strano che loro sappiano fare una cosa simile. È una sostanza chimica che tiene in vita il cervello. Immagino che Tarsus-Egbo ti abbia detto di che si tratta.»
«Sì. Era piuttosto riluttante, ma ho alzato l'indicatore e l'ho lasciato urlare esattamente per quindici minuti cronometrati. Quando ho smesso, era disposto a dirmi tutto ciò che sapeva sulla composizione della sostanza.» «E adesso cosa intendi fare, Bob?» «È una domanda difficile, Ken. Vorrei provare a portarti sulla Terra, ma almeno per qualche anno sarà pressoché impossibile. I marziani passano al pettine fitto tutte le navi in partenza. Forse io potrei riuscire a passare... ma un uomo scoperto con uno di questi contenitori! Sarebbe un guaio! Se potessimo tornare sulla Terra, potremmo continuare a vivere come al solito. Su Marte siamo ricercati entrambi, per la profanazione del tempio, e sulla Terra per l'uccisione di due sacerdoti marziani, ma in qualche modo potremmo cavarcela. Comunque non ti abbandonerò, qualunque cosa accada.» «Grazie,» disse Ken. «Ma se diventassi un peso, spacca il cilindro e vattene per i fatti tuoi.» «Sai che non farei mai una cosa simile, Ken. Siamo amici, no? Se i marziani avessero messo me nel contenitore, al tuo posto, ti saresti comportato esattamente come io sto facendo ora. Sarei un bell'amico, se ti abbandonassi adesso.» Scese il silenzio, mentre guardavamo la rossa distesa di sabbie e di rovi che si allargava intorno a noi, per chilometri e chilometri, interminabilmente. «Se succede qualcosa,» gli assicurai. «Ecco, sai bene. Se comparisse un aereo marziano o se... beh, hai capito... ti prometto di sfasciare il cilindro. Farò in modo che tu non cada più nelle loro mani.» «Ecco,» disse Ken. «Di' soltanto: " Addio, amico, mi dispiace, ma è la cosa migliore ", e giù un colpo di martello. Ma colpisci abbastanza forte. Può darsi che questa sostanza sia difficile da spezzare, capisci.» Il Sole scendeva nel cielo, ed il freddo s'insinuava sul deserto cremisi. Mi alzai, lentamente. «Vado a mangiare qualcosa. Torno subito.» «Fai pure,» disse Ken. «Il panorama mi piace. Lasciami acceso. Anzi, spostami un po' verso Ovest. Mi piace guardare il tramonto.» «D'accordo, vecchio mio.» Battei la mano sul cilindro e lo spostai leggermente, in modo che il mio amico potesse osservare il calar del Sole. Eravamo nascosti da settimane. Nessun posto, su Marte, poteva essere più adatto, come nascondiglio, di quell'immane deserto, un deserto di sab-
bia rossa, popolato soltanto da arbusti spinosi e da insetti e rettili velenosi. All'inizio avevamo sperato di ottenere informazioni utili dal cervello marziano che avevo rubato nel tempio. Avrei voluto scoprire, soprattutto, se esisteva una possibilità di togliere il cervello di Ken dal cilindro e di ricollocarlo in un corpo umano. Se esisteva, non sarebbe stato troppo difficile trovare un uomo disposto a cedere il suo corpo e un chirurgo pronto a compiere l'operazione. Ma a quanto pareva era impossibile. Quando un cervello era in un cilindro doveva restarci... per sempre. Il marziano mi aveva assicurato solennemente che la sostanza chimica lattiginosa in cui il cervello fluttuava conteneva elementi nutrienti, quando bastava per alimentarlo per un periodo in pratica indefinito. Quando il cilindro non era collegato alla macchina, il cervello si trovava in uno stato di animazione sospesa e non si nutriva. Avevo proposto di tornare al tempio, per tentare di scegliere un cilindro contenente il cervello d'un sacerdote morto solo pochi anni prima, nella speranza che, dopo la morte di Tarsus-Egbo, vi fossero stati progressi scientifici tali da consentire lo svolgimento dell'operazione. Ken me l'aveva vietato recisamente. Mi aveva ricordato i pericoli. Il tempio, di sicuro, sarebbe stato ben protetto, dopo la nostra avventura, ed io avrei avuto solo una possibilità su cento di uscirne, ammettendo che riuscissi ad entrare. Mi aveva detto inoltre che non c'era motivo di credere che i sacerdoti conoscessero un sistema per ricollocare un cervello in un corpo. Venir messo in un cilindro, a quanto sembrava, era la più grande ambizione dei preti marziani. Significava la vita eterna, la cosa per loro più preziosa. Perché dunque, diceva Ken, dovevano cercare un modo per rimettere un cervello entro un corpo, quando la vita nel cilindro sembrava essere il tipo d'esistenza preferito? Con rammarico, avevo dovuto ammettere che aveva ragione. Penso, inoltre, che Ken non volesse separarsi da me. Soffriva molto della sua impotenza; dipendeva da me, completamente. Temeva che, se fosse rimasto solo, i marziani avrebbero potuto ricatturarlo. Io rabbrividivo al pensiero di ciò che gli sarebbe accaduto, se quell'eventualità si fosse verificata. Era strano, all'inizio, parlare con il cervello del mio amico racchiuso nel cilindro: ma rendendoci conto che dovevamo accettare la situazione, avevamo mantenuto la nostra amicizia sulle basi di un tempo. Ken scherzava sulla sua immobilità, mentre io fingevo di credere che fosse il solito Ken-
neth Smith, un tempo conosciuto in un corpo umano. Avevo mangiato, e stavo accendendo una sigaretta, quando il mio amico mi chiamò. Accorsi accanto al cilindro. «Cosa c'è, Ken?» «Dài un'occhiata laggiù, Bob. Proprio davanti a me, l'unica direzione in cui posso guardare. Stavo cercando di capire se vedevo qualcosa o no. Giurerei che si tratta di una specie di puntolino bianco. Tra quelle due colline, dove tramonta il Sole.» Aguzzai gli occhi, ma non riuscii a scorgere nulla. Glielo dissi. «È strano,» commentò Ken. «Sono certo di vedere qualcosa. Sembra una specie di edificio. Può darsi che i miei sensi si siano acuiti, da quando mi hanno posto in questo contenitore. Non mi resta altro, e forse si sono sviluppati. Sto osservando quel punto da molto tempo e sono convinto che non è il frutto della mia immaginazione.» «Ma cosa può farci un edificio, qui in mezzo al deserto, a ottocento chilometri dal più vicino centro abitato?» «Non so,» disse Ken. «È un pianeta molto vecchio, questo, e vi sono molte cose strane. Tira fuori Tarsus-Egbo e collegalo. Può darsi che la sua vista sia anche più acuta della mia. Se la mia teoria è esatta, dovrebbe esserlo. Lui è in un cilindro da molto più tempo di me.» Tornai all'aereo e scaricai il secondo contenitore. «Non ti terrò staccato a lungo,» dissi a Ken. «Solo il tempo necessario per collegare il marziano e scoprire se può dirmi qualcosa.» «Collegaci insieme: basta che lo connetta con gli stessi terminali. Ci ho pensato un poco. Sono certo, in base a quanto so della macchinetta, che due o più cilindri possono venire agganciati contemporaneamente.» «Lo credi davvero? Non voglio che succeda un guaio.» «Ne sono certo. Conciato come sono, non posso far altro che pensare, e credo di aver capito tutto. Vorrei parlare con Tarsus-Egbo; sarebbe una sensazione meravigliosa, conversare con un altro cervello in salamoia.» «Beh... se sei sicuro...» «Avanti, Bob. Non succederà niente.» Presi due corti fili, e collegai il cilindro del marziano trattenendo il respiro. Ero pronto a strapparli via al minimo segno di difficoltà, ma non accadde nulla. Il secondo cilindro splendette fiocamente e assunse la tipica trasparenza lattiginosa. Il marziano sbatté le palpebre, come se si destasse da un lungo sonno. «Kor,» dissi, salutandolo solennemente nella sua lingua.
Mi rispose con la stessa solennità. Girai il cilindro, in modo che fosse rivolto verso il mio amico. Ken gli parlò rapidamente, ed il marziano rispose in tono grave. «Sposta il mio cilindro, in modo che io possa vedere. La mia vista è buona. Straniero, la tua teoria è esatta. Essere posti in un cilindro acuisce i sensi. Sono certo di poterlo vedere, se là c'è qualcosa.» Spostai il contenitore e Ken, parlando sottovoce, indicò a Tarsus-Egbo dove doveva guardare. «La vedo anch'io,» disse il marziano. «È una piramide, una delle tante che esistevano qui nel deserto, ai miei tempi, ma che prima della mia morte furono quasi tutte distrutte dal mio popolo.» «Perché?» chiese Ken. «Per due ragioni,» rispose il marziano. «Sono strutture edificate da un popolo antico, asservito ad una religione blasfema, che le usava come templi. Era giusto che venissero distrutte. Coloro che le demolirono trovarono anche una degna ricompensa, perché le piramidi celavano invariabilmente grandi ricchezze. La devozione e la speranza del guadagno spinse il mio popolo a distruggerle. Vedere questa mi esaspera. Avevo creduto che, ormai, fossero state tutte annientate. È un insulto a Kell-Rabin, un insulto per tutto Marte che quella esista ancora. È la manifestazione immonda di un culto abominevole che un tempo dominava la nostra bella terra.» Mi parve di udire un riso sommesso proveniente dal cilindro di Ken, ma non ne fui sicuro, perché egli parlò immediatamente. «Cosa diresti, Tarsus-Egbo, se il mio amico distruggesse quella piramide? Riuscirebbe a farlo? Pensi che vi troverebbe grandi ricchezze?» «Se lo facesse, renderebbe un grande servizio a Marte,» rispose l'altro. «Io lo ringrazierei, e lo ringrazierebbe il grande sacerdote. Forse gli accorderemmo addirittura l'onore di venir collocato in un cilindro, alla sua morte, così come è stato concesso a te. Gli perdonerei il torto che mi ha fatto nella sua insana ricerca della conoscenza e lo ringrazierei, se distruggesse la piramide.» «Ma,» rispose Ken, «al mio amico non interessano i tuoi ringraziamenti o quelli del gran sacerdote. Anzi...» Ero sicuro di udirlo ridacchiare, questa volta. «Non ci tiene neppure a incontrare il gran sacerdote. E non penso che gli piacerebbe essere messo in un cilindro. A lui interessano solo le grandi ricchezze che potrebbe trovare nella piramide.» «Se non desidera altro,» tuonò Tarsus-Egbo, «le troverà. Ricchezze così grandi da abbagliarlo. Gemme simili al fuoco e gemme simili al ghiaccio,
ed altre azzurre come il cielo. E troverà anche...» «Aspetta,» l'interruppe Ken. «Ti rendi conto di essere in potere del mio amico? Sai che s'infurierebbe se non trovasse le ricchezze da te descritte? Sai che potrebbe indignarsi al punto di spezzare il cilindro e distruggere la tua immortalità? Il mio amico s'infuria facilmente, ed è meglio non scherzare con lui.» «Troverà ricchezze, grandi ricchezze, nella piramide,» insistette atterrito il marziano. «Ma come puoi essere certo che non le abbia già prese qualcuno del tuo popolo? Il fatto che la piramide esista ancora non significa che debbano esserci anche le ricchezze.» «Ci sono,» insistette ancora il marziano. «Se il mio popolo l'avesse trovata, adesso non esisterebbe più.» «Credo che non sappia dirci altro, Bob,» disse Ken. Staccai il cilindro di Tarsus-Egbo. «Questa è nuova,» dissi al mio amico. «Ho studiato a lungo i marziani, prima che mi espellessero, ma è la prima volta che sento parlare di questo popolo incredibilmente antico.» «È naturale che non ne avessi sentito parlare,» osservò Ken. «Si tratta di qualcosa strettamente legato alla loro religione, e devi ammettere che non è facile scoprire molto sull'argomento. Ciò che abbiamo saputo, l'abbiamo appreso contro la loro volontà pagandolo a caro prezzo.» «Questo cambia aspetto alla questione,» feci. Per un momento Ken non rispose, poi parlò. «Ti capisco. Con ricchezze simili a quelle descritte da Tarsus-Egbo, si può ottenere tutto ciò che si vuole. Bob, se riusciamo a impadronircene, saranno molto importanti per noi. Potremo continuare la nostra partita contro i marziani. Non saremo costretti a rinunciare alla vendetta. Forse tu potrai finalmente, in tutta sicurezza, studiare le ossa di Kell-Rabin. Val la pena di tentare.» «Sì, ne vale la pena,» dissi. «E tenteremo questa notte. Possiamo arrivarci in volo in pochi minuti.» «Così va bene. Vorrei avere un paio di mani per aiutarti. Peccato, in due si lavora meglio. Non potrò fare altro che starmene in disparte e tener viva la conversazione.» «Per me va bene, vecchio mio,» lo consolai. «Ora dovrò staccarti. Collegherò la macchina al generatore dell'aereo e ti connetterò di nuovo, così
non ti perderai il viaggio.» «Non importa,» protestò Ken. «Ti sono già abbastanza di peso...» «Silenzio, tu,» gli ingiunsi, e feci scattare l'interruttore, azzittendolo. Avevo lavorato un'ora, con i pochi utensili che avevo sottomano, per aprire la porta sigillata della grande piramide che torreggiava nera nella fredda notte del deserto marziano. Sopra di me volavano le due lune e migliaia di stelle trapassavano il cielo nerazzurro. Il vento notturno del deserto cantava bizzarramente intorno agli spigoli della piramide. Il motore atomico dell'aereo ronzava sommessamente, azionando il generatore cui avevo collocato la macchina che alimentava il cilindro di Ken Smith. «Ne sto smuovendo una grossa, credo,» dissi al cilindro e la voce del mio amico mi giunse distinta, incoraggiante. La pietra enorme si mosse un poco, ed io premetti con tutto il mio peso sulla barra d'acciaio. Piano piano la spostai, fino a quando fui certo che qualche altro tentativo sarebbe bastato ad estrarla. «Ormai è quasi uscita,» dissi a Ken, «e ti sposterò un poco. Non voglio che ti succeda qualcosa.» «Sarebbe una vera sfortuna se il cilindro si spaccasse proprio ora, nell'imminenza della grande scoperta,» ridacchiò Ken. «Il marziano potrebbe aver mentito,» risposi. «No,» protestò lui. «Diceva la verità. La minaccia di distruggerlo se avesse mentito l'avrebbe indotto a cambiare versione in tutta fretta. Strano che costoro attribuiscano tanta importanza ad una lunga vita. Se prima non mi succede qualcosa, dovrò ingaggiare qualcuno perché mi dia una botta in testa, quando arriverò a duecento anni.» Ridendo, sollevai il cilindro e lo spostai di un paio di metri, poi mi rimisi al lavoro. Dopo un po', il blocco di pietra cadde, sprofondando nella sabbia. Staccare la seconda pietra fu meno faticoso, e poi la terza e la quarta si svelsero facilmente. Alla fine ottenni un varco abbastanza ampio per insinuarmi all'interno della struttura. Puntando davanti a me la lampada tascabile, passai e mi lasciai cadere sul pavimento, rivestito di enormi lastre di pietra simili a quelle che formavano la piramide. Il cerchio di luce rivelò un grande blocco di pietra, apparentemente un altare, situato al centro della sala. Ma non fu quello ad attirare la mia attenzione. Ammucchiati davanti all'altare c'erano quattro grandi cofani. Le casse del tesoro!
Il cuore mi balzò in gola. Corsi avanti. Ne afferrai uno, cercai di sollevare il coperchio, e non vi riuscii. Lo strinsi sotto il braccio, mi avviai vacillando verso la porta, poiché era pesante: lo calai all'esterno e poi passai a mia volta. Con la barra attaccai il coperchio; con uno schianto di legno e di metallo, si staccò. Un fuoco vivo parve balzare verso di me, colpirmi in viso; mi coprii gli occhi con le braccia, di scatto, e indietreggiai. V L'ULTIMA SFIDA Davanti a me stava il tesoro dell'antico popolo di Marte, un tesoro rimasto per secoli sotto le sacre mura della piramide fantasma. Tarsus-Egbo aveva detto la verità: quel tesoro valeva un pianeta, era una ricchezza inimmaginabile. C'erano gemme che lampeggiavano nella luce fioca delle due lune e sembravano brillare e muoversi e fremere, come cose animate. Ken stava gridando. «È il tesoro, Bob! Il tesoro! Siamo ricchi, ricchi! Trilionari! Ora possiamo continuare. Ora possiamo cacciare le ossa di Kell-Rabin in gola alla nazione marziana! Adesso possiamo costringerli a pagare, a pagare, a pagare... a pagare, maledetti, per il mio radio e per il mio corpo, e per l'inferno che ci hanno fatto passare! Li teniamo in pugno!» La vista delle gemme splendenti aveva ridestato il vecchio odio, il desiderio di vendetta. Rappresentavano il potere, il potere di restituire a Marte colpo per colpo. Avevamo quasi dimenticato i progetti di vendetta... ma sempre, ora lo capivo, erano rimasti annidati in fondo alle nostre menti, attendendo la liberazione che era stata data loro dalle pietre preziose. Mi sembrava di vedere le gemme attraverso una nebbia rossa di strane emozioni. Ken aveva ragione. Tenevamo Marte in pugno, e potevamo ricacciare le ossa muffite di Kell-Rabin in gola agli alti funzionari e ai sacerdoti! Pazzi? Certo, eravamo pazzi. Credo che lo fossimo sempre stati; io dopo l'espulsione da Marte e Ken dalla confisca del suo giacimento di radio. «Sì, è il tesoro, Ken,» dissi con voce soffocata. «È il tesoro, e nella piramide ci sono altri quattro cofani.» Corsi avanti e affondai le mani nella cassetta, estrassi una manciata di pietre che scintillavano e brillavano e lampeggiavano azzurre e rosse e
verdi e bianche. Alcune rotolarono via, giacquero luccicanti sulla sabbia. «Guarda, Ken,» gridai. «Guardale. Dannazione, possiamo comprare l'intero pianeta. Possiamo comprare Marte e farlo saltare, se vogliamo.» Gettai una manciata di pietre sulla sabbia davanti a lui e ritornai correndo nella piramide. Uno dopo l'altro gettai fuori gli scrigni, e con la sbarra d'acciaio strappai i coperchi. Straboccavano di gemme, alcune non più grandi di un pisello, altre più grosse del mio pugno. Erano forse le offerte a qualche antico dio: offerte fatte da un popolo divenuto polvere molti millenni addietro. «Sei sicuro che sia tutto?» chiese Ken. «Non basta?» ribattei. «Basta,» convenne il mio amico. «Ma se ce ne sono altre, le vogliamo tutte.» Rientrai nella piramide. L'esplorai lentamente, da una estremità all'altra, e finalmente girai intorno al grande altare. Senza riflettere, alzai un piede e sferrai un calcio. Ricordo che mi ero chiesto, vagamente, se era un blocco solido o cavo. Quando il mio piede lo colpì, l'altare si mosse. Una pietra montata su un perno, inserita sulla parte posteriore del blocco, si spostò, e dall'apertura cadde una cassa lunga e stretta. Balzai da parte perché non mi colpisse: piombò sul pavimento con uno schianto, squarciandosi. Urlai e indietreggiai, tenendo il raggio della lampada puntato sulla cassa sfasciata. Ne ruzzolò fuori un oggetto rotondo e bianco, e mentre rotolava vidi che era un teschio umano. Tremando come una foglia, mi accostai e con il piede scostai le schegge di legno. La mia luce rivelò uno scheletro umano, lo scheletro di un terrestre. Inorridito, mi chinai, esaminai le ossa. Erano mal conservate, ma era facile identificarle per ossa di un terrestre, non di un marziano. Mi alzai, andai a raccattare il cranio ed esaminai i denti. Erano trentadue, mentre i marziani ne avevano al massimo ventiquattro. Il teschio si sbriciolò tra le mie mani. Doveva essere inconcepibilmente antico. Uscii correndo dalla piramide. Lo scheletro di un terrestre in un antico monumento marziano che era stato rinchiuso, che non era stato veduto da occhi mortali per migliaia di migliaia d'anni! Cosa significava? Quale segreto spaventoso nascondeva? I terrestri erano giunti su Marte solo poche centinaia d'anni prima. Eppure, avevo trovato un antico scheletro... La mia mente turbinava, i miei sensi vacillavano di fronte alle possibilità sbalorditive che mi si spalancavano.
I terrestri, dunque, erano già stati su Marte! Civiltà diverse dalla nostra avevano raggiunto vette elevate, e poi erano precipitate nel nulla. Potevano essere stati uomini dell'Atlantide, o uomini di Mu, o di una nazione già dimenticata prima della nascita delle altre due? Altre razze terrestri avevano visitato Marte... ma perché avevo trovato lo scheletro di un terrestre in una piramide associata ad una religione antica, antica persino per un pianeta vecchissimo come Marte? Era possibile... Possibile che i terrestri fossero stati considerati dèi? Possibile che le fiere razze di Marte... che l'orgogliosa religione...? Uscii vacillando dalla piramide e, rovesciando all'indietro la testa, risi sonoramente delle due lune che passavano sopra la morta distesa del deserto. Sono accadute molte cose negli ultimi cinque anni e, quando ci penso, ricordo che oggi è passato un lustro esatto da quando io e Ken Smith, con le gemme ed il cilindro contenente Tarsu-Egbo, lasciammo segretamente Marte a bordo dell'astronave di un comandante disposto a correre qualche rischio per due manciate di pietre preziose. Raggiungemmo la Terra sani e salvi; il comandante ci sbarcò in una zona isolata delle Montagne Rocciose. Per un anno rimanemmo nascosti e discutemmo i nostri piani. Alla fine, convinti che la Terra e Marte avessero perduto le nostre tracce, misi al sicuro le gemme, a parte un piccolo quantitativo, nascondendole insieme ai due cilindri in una grotta, e mi azzardai a muovermi. Questa volta non ebbi bisogno di camuffarmi. Quando mi guardo nello specchio, ora, quasi non riesco a credere di avere superato da poco la quarantina. I miei capelli sono nivei, il mio viso è il viso di un vecchio, segnato da rughe profonde e dall'apprensione. A Chicago ebbi qualche difficoltà a recuperare la cassaforte contenente le ossa di Kell-Rabin, nel sotterraneo blindato, ma i documenti che presentai erano in perfetta regola e non c'era motivo di sollevare troppe obiezioni: così, alla fine, me la consegnarono. C'era parecchio da fare, ed io mi misi all'opera. Mi rendevo conto che forse avrei avuto poco tempo a disposizione, e non volevo sprecarlo. Dovevo occuparmi di disegnatori, elettricisti, esperti radio, operai, ordinazioni d'acciaio e di altri materiali. Costava molto; ma le gemme rappresentavano un patrimonio colossale, e il prezzo non aveva importanza, purché mi assicurasse un lavoro svolto in fretta e con efficienza.
Un mese fa ho congedato l'ultimo degli operai che avevo assunto per costruire l'enorme trasmittente, a sedici chilometri dal luogo in cui sto scrivendo questo. È la più potente dell'universo, ancora più grande di quelle su Giove. È l'orgoglio della Terra. Su tutto il pianeta, io vengo acclamato come uno dei benefattori del mio mondo. Con quella stazione, può essere lanciato un messaggio fino ai limiti più remoti dell'universo, là dove il gelido Plutone orbita del vuoto e dove il Sole non è altro che una stella tra le tante. Se la Terra sospettasse quale sarà il primo messaggio lanciato dalla stazione, il governo ne ordinerebbe la distruzione immediata. Se Marte lo sospettasse, una flotta di astronavi da guerra lascerebbe la superficie del pianeta rosso fra poche ore, puntando verso la Terra. La Terra mi accuserà di aver tradito il Sistema Solare, Marte segnerà il mio nome nella lista più nera, e la mia gente mi crederà pazzo. Sono pazzo, infatti, pazzo per la sofferenza e per il desiderio di umiliare una nazione crudele e altezzosa. C'è un metodo nella mia follia, un metodo freddo, terribile, calcolatore. E il mondo non sospetta. I marziani, che hanno elogiato la mia attività filantropica, non sospettano. Pazzo, voi dite: pazzo, delirante. E come sono impazzito, vi domando? Chiunque perderebbe la ragione se, ogni giorno, si trovasse di fronte al cervello di un amico, racchiuso in un cilindro metallico. Ricordando altri tempi, quando la cosa dentro al contenitore camminava su due gambe, rideva e scherzava e fumava... Comunque, debbo affrettarmi. Rimane solo poco tempo. Negli ultimi quattro anni ho vissuto nella paura che qualcuno mi riconoscesse, mi smascherasse come l'assassino dei sacerdoti marziani nell'albergo di Chicago, o come l'uomo che ha profanato la religione marziana ed il Tempio di Saldbar. Ho vissuto un'esistenza isolata. Mi sono fatto la fama di essere timido, modesto, riservato. Non ho lasciato che mi fotografassero, non ho concesso interviste. Sono rimasto il Grande Enigma e per questo sono divenuto ancora più noto, ho acquisito una maggiore pubblicità. Non pensavo a me stesso, perché la vita per me non ha più valore. Temevo di essere scoperto prima che fosse suonata l'ora, prima di aver completato tutti i miei piani. Adesso l'ora è vicina e se vivrò ancora un poco, il mondo non mi troverà mai. Soltanto poche ore. I miei piani sono ben congegnati, tutte le disposizioni sono state prese. La trasmittente è completata. Qui, tra le montagne più
grandi dell'America settentrionale, c'è una grande cripta, scavata nella roccia eterna. Questa sera il dottor John E. Barston, il più grande chirurgo del mondo, eseguirà nella cripta un'operazione importante. Quando se ne andrà, porterà con sé uno scrigno colmo per metà di gemme, tutto ciò che rimane del grande tesoro marziano. Se lo porterà via come prezzo del silenzio. Anche gli uomini che hanno costruito la cripta tacciono, nelle colonie penali di Mercurio. Sono state necessarie parecchie manciate di gemme per riuscirvi. Finalmente ho in pugno la vendetta. Tra poche ore, Marte sarà lo zimbello dell'intero universo. Tra poche ore, la religione marziana sarà una barzelletta. I marziani, che mi hanno cacciato dal loro pianeta, che hanno rubato al mio amico prima il giacimento di radio e poi il corpo, i marziani, che hanno fatto di me e di Kenneth Smith i reietti del Sistema Solare, sentiranno il peso della nostra collera. Li colpirò nel modo che più li farà soffrire. Strapperò loro la religione di cui vanno tanto fieri, farò crollare il castello di carte addosso ai loro preti bestiali. Ruberò la loro fede, come essi hanno rubato il corpo di Kenneth Smith. Buon vecchio Ken! Eravamo amici dieci anni fa, e lo siamo ancora. Ho giocato meravigliosamente. Ho finto che non avesse importanza. È stato duro, per lui, come lo è stato per me. Si è affidato completamente a me. Ero io che l'accendevo e lo spegnevo, che spostavo il cilindro perché potesse posare gli occhi su di una scena diversa. Con il passare degli anni, i suoi sensi e la sua mente sono divenuti più forti. La sua facoltà di ragionamento è cresciuta, ed ora pensa secondo una logica quasi pura. Il suo unico desiderio è la vendetta contro la razza marziana, ed io sto per dargliela. Ho qui una trascrizione elettrica della mia voce. Tra poco, darò l'energia alla grande stazione e metterò davanti al microfono una macchina che tradurrà la trascrizione del cilindro metallico davanti a me, e la ripeterà di continuo, affinché tutti possano udire la dichiarazione che segnerà il destino della religione marziana. Sbarrerò le porte della stazione, e prima che l'abbattano ogni essere vivente dell'universo avrà ascoltato la mia storia. Ognuno saprà che le ossa di Kell-Rabin sono state sottratte al Tempio di Saldebar, che la razza marziana ha venerato per quasi sei anni una cassa vuota. Sapranno dello scheletro che ho trovato dentro la piramide nel deserto di Arantian e della frenesia religiosa che aveva spinto i marziani a distruggere tutte le piramidi che riuscivano a trovare.
E sapranno anche la verità sul conto di Kell-Rabin, cui ossa sono state venerate per innumerevoli secoli come le Sacre Reliquie. Sapranno che le ossa di Kell-Rabin sono le ossa di un terrestre, di un essere umano che dovette vivere sulla Terra milioni di anni prima che Mu sorgesse dal mare. Sapranno che un terrestre era adorato come un dio dalla razza marziana e che le sue ossa erano state poste religiosamente in una cassa per essere venerate per molto tempo dopo la sua morte... e del fatto che le ossa nella vecchia piramide e le ossa di Kell-Rabin appartenevano a scheletri di terrestri, potranno trarre le conclusioni. E i marziani? Quando le mie parole giungeranno alle miniere di Mercurio e agli avamposti commerciali di Plutone che fine farà l'orgogliosa religione marziana? Disgregata, dissolta, svanita! Andata, come il giacimento di radio di Ken Smith, come il suo corpo. Le mie parole li priveranno di ciò che hanno più caro, tutti i loro insegnamenti saranno vani, la loro fede sarà frasi vuote che sibilano nel vento. I marziani hanno adorato un terrestre! La razza di Marte, convinta di aver venerato un dio troppo grande per degnarsi di badare alle razze inferiori, saprà di aver adorato, non un dio, ma un uomo della Terra, uno dei disprezzati, avidi, interessati uomini del terzo pianeta. Quando avrò finito mi precipiterò al mio ultimo appuntamento terreno con il dottor Barston, nella cripta ricavata dalla roccia viva. Già da diverse settimane ho messo nelle sue mani istruzioni complete, datemi da TarsusEgbo, per il processo di trasferimento di un cervello umano in uno dei cilindri. Nella cripta, ora, c'è un contenitore costruito secondo le indicazioni fornitemi dal marziano. Là, nella cripta, mi stenderò sul tavolo operatorio e il dottor Barston asporterà il mio cervello e lo collocherà nel cilindro. Quando se ne andrà, con uno scrigno di gemme sotto al braccio, vi saranno tre cilindri in fila... in attesa di che? Si chiuderà alle spalle la porta di pietra, e scatteranno le serrature automatiche. Noi tre, io, Kenneth Smith e Tarsus-Egbo, rimarremo in attesa del nostro fato. Forse, tra milioni d'anni, uomini prodigiosamente avanzati nella scienza ci ritroveranno e forse sapranno come liberarci dai cilindri e darci corpi nuovi. Forse non verranno mai e noi resteremo per sempre immersi nel sonno profondo della morte apparente. Forse non verremo mai ridestati da quel sonno, forse nessuno collegherà mai la macchina ai cilindri. Se un essere intelligente entrerà nella cripta, vi troverà, impresse su pagine metalli-
che, informazioni precise che dovrebbe essere facile mettere in pratica. La vita non ha più nulla da darmi. Tanto varrebbe che morissi. Ma è un'idea di Ken, e l'ho accettata. Io avevo proposto di distruggere il suo cilindro e di uccidermi dopo aver compiuto la vendetta, ma lui ha suggerito questo altro metodo, che forse è il migliore. Rimangono solo pochi minuti. Tra poco dovrò recarmi alla trasmittente. Poi debbo affrettarmi all'appuntamento con il dottor Barston. Il mio ultimo pensiero, lo so, sarà chiedermi se tornerò a vivere o se, quando l'anestetico farà effetto, la mia esistenza sarà finita. Non ha molta importanza. La mia vendetta sarà comunque completa. Quando il bisturi frugherà nel mio cranio, tutto l'universo ascolterà le mie ultime parole, ed il nome di Kell-Rabin rimbalzerà tra le risate da un mondo all'altro. SENSAZIONALE SPARIZIONE INCENDIO NELLA NUOVA STAZIONE RADIO INTERPLANETARIA REGNA IL MISTERO PIÙ FITTO Dall'Amalgamated Press Ventnor, Calif., 5 ottobre - Quando la nuova gigantesca stazione interplanetaria IXXB è andata in onda questa sera per la prima volta, l'intero universo ha atteso, trattenendo il respiro, ciò che avrebbe detto il suo generoso proprietario, signor Robert Humphrey. Un grande mistero aveva circondato la costruzione della trasmittente, costata un patrimonio ingentissimo: sembra tuttavia che nessuno godesse della fiducia del taciturno Humphrey, il quale aveva lasciato capire che il mistero avrebbe avuto fine con la prima trasmissione. Il signor Humphrey aveva impiegato molto tempo nel preparare il discorso inaugurale, e invece di mettersi personalmente al microfono, aveva preferito effettuare una registrazione della propria voce; si sa che ne erano state fatte parecchie, come se egli non fosse soddisfatto delle prime. Intendeva far sì che la prima trasmissione fosse perfetta, ed era stata personalmente riveduta da lui parecchie volte. La stazione, come è noto, doveva andare in onda ieri sera alle otto in punto, e non soltanto la popolazione della Terra ma anche quelle degli altri pianeti attendevano con ansia la trasmissione inaugurale. La ragione, natu-
ralmente, era che Humphrey aveva speso milioni, nell'ultima settimana, per dare l'annuncio sui giornali e tramite le altre stazioni radio; aveva fatto ricorso ad ogni mezzo pubblicitario per attirare l'attenzione sulla prima trasmissione della IXXB. Nella pubblicità erano state usate frasi sensazionali, per far sì che tutti ascoltassero. Alcune, come «la più grande storia drammatica mai narrata nell'universo», «rivelazioni che sconvolgeranno il Sistema Solare», hanno suscitato le speculazioni più fantasiose. Pochi minuti prima delle otto, quando doveva compiersi l'evento memorabile, un tremendo temporale si è abbattuto nei pressi della città, ed esattamente alle otto meno cinque secondi, un fulmine ha colpito lo studio dell'immensa stazione. Gli ascoltatori hanno udito l'annunciatore presentare Humphrey, la cui voce registrata ha appena iniziato ad andare in onda con le parole: «Signore e signori, sto per fare la rivelazione più drammatica di tutti i tempi...» La trasmissione si è interrotta a questo punto perché il fulmine ha incendiato lo studio, e mentre l'annunciatore e i due tecnici erano storditi, le fiamme sono divampate, e la registrazione è andata distrutta. Non esiste una copia della registrazione, ma il particolare più strano è che Bob Humphrey non si trovava nell'edificio, ed è inspiegabilmente scomparso. Il mistero si è fatto ancora più fitto, perché da sedici ore non si hanno notizie di Humphrey. È certo che, se si fosse trovato nelle vicinanze, avrebbe potuto direttamente proseguire la trasmissione, o fornire una seconda registrazione. L'incendio non è stato di vaste proporzioni, e la stazione avrebbe potuto trasmettere già tre ore dopo l'incidente. Tuttavia, non si hanno ancora notizie di Humphrey. Il personale dell'emittente dice che nel pomeriggio ha salutato tutti, dicendo che «avrebbero potuto trovarsi un altro impiego dopodomani». Si teme che si tratti di un delitto. Titolo originale: The Voice in the Void (Wonder Stories Quarterly, primavera 1932). 1933
Edmond Hamilton L'uomo dagli occhi a raggi X
La carriera letteraria di Edmond Hamilton (1904-1977) è vecchia quanto le stesse riviste fantascientifiche. Il suo esordio, con The Monster-God of Mamurth avvenne su Weird Tales nell'agosto 1926, quando Amazing Stories aveva solo cinque numeri di vita. Più di quarant'anni dopo Amazing Stories del maggio 1969 pubblicava la sua opera più recente, The Horror From the Magellanic. Tra queste due date, Hamilton ha sfornato letteralmente un'intera biblioteca di racconti e di romanzi, che include tutta la gamma della narrativa dell'immaginazione: dal giallo all'orrore, dalla super science fiction alla fantascienza d'atmosfera. E in ogni caso, fu quasi sempre Hamilton a creare la tendenza. La sua prima opera venduta a Weird Tales fu un romanzo, Across Space, la storia di una colonia marziana sull'Isola di Pasqua, che cerca di attirare Marte verso la Terra, in modo che la civiltà morente possa cambiare pianeta. Da queste vicende si sviluppò la tendenza hamiltoniana ad assoggettare la Terra al disastro imminente, da cui il nostro eroe la salva all'ultimo istante. Queste opere, nate su Weird Tales e successivamente trasferite su Amazing Stories, fruttarono a Hamilton il soprannome di World-destroyer, cioè «Spaccamondi». Hamilton nacque nell'Ohio il 21 ottobre 1904, due mesi dopo Clifford Simak, a circa 800 chilometri di distanza. Aveva ventun anni, quando Farnsworth Wright comprò il suo primo racconto, e così iniziò la sua carriera di scrittore. Weird Tales rimase un mercato importante per parecchi anni, ed egli non l'abbandonò mai. La sua ultima comparsa originale sulla rivista la fece con The Watcher of the Ages (settembre 1948). Nel 1930, Hamilton entrò a vele spiegate nelle riviste fantascientifiche, e subito il suo stile cominciò a cambiare, e apparvero trame nuove. The Man Who Saw The Future (Amazing, ottobre 1930) segnò un mutamento radicale: narrava di un farmacista del secolo decimoquinto che viene condannato a morte per stregoneria, quando viene temporaneamente trasferito nel futuro. Quando la «Politica Nuova» di Hornig ebbe inizio a Wonder Stories, Hamilton fece altri esperimenti: un esempio è questo The Man With X-Ray Eyes. Segnando un cambiamento radicale, per quel periodo, Hamilton tornò dalle stelle alla Terra, non per raccontare in che modo gli alieni potevano distruggere il nostro pianeta, ma per mostrare con molta sottigliezza i guai che l'umanità si procurava da sola. Il dottor Jackson Homer, alto e magro e grigio, ascoltava affascinato e dubbioso il torrente di parole del visitatore. Quelle parole incalzavano, ra-
pide, ansiose, convincenti. Era un giovane dai capelli scuri e dal viso vivace, che aveva detto di chiamarsi David Winn. Le sue argomentazioni echeggiavano della sicurezza della gioventù non ancora avvezza alla sconfitta. Winn gesticolava in modo colorito, per sottolineare i suoi argomenti. La voce nitida risuonava tra le pareti del lungo laboratorio del dottor Homer, faceva tremare i delicati apparecchi di ottone e di nichel sugli scaffali ed i recipienti di vetro lucente, ed usciva dalla finestra aperta, perdendosi nella confusione mattutina di un'assolata strada newyorchese. «Non può rifiutare!» esclamò Winn. «Significa un essere umano su cui collaudare il suo procedimento, e lei ammette che intende provare con un umano.» «Mi piacerebbe molto, sì,» sospirò il dottor Homer. «Completerebbe la mia indagine. Ma non avevo pensato di poterlo fare, prima che lei si offrisse volontario. I rischi...» «Quali rischi?» ribatté il giovane David Winn. «L'ha già fatto con una dozzina di animali, dal cane alla scimmia, no, senza cambiarli in nulla, eccettuata la vista?» «L'alterazione della vista è già un mutamento sufficiente,» disse il dottor Homer. «Lei dice d'essere un giornalista, non uno scienziato. Capisce esattamente cosa comporta il mio processo?» «Certo che sì,» rispose Winn. «Ho letto con attenzione tutti i resoconti apparsi sui giornali, fin dal primo accenno al suo lavoro, comparso tre mesi fa. «Quel primo articolo diceva che lei, dottor Homer, l'eminente biologo della Fondazione Manhattan, riteneva di poter cambiare gli occhi degli animali, in modo che vedessero attraverso la pietra ed il metallo e simili sostanze con la stessa facilità con cui vedono attraverso il vetro. «Lei si proponeva di riuscirvi rendendo le retine di questi animali sensibili a certe vibrazioni ultraviolette, anziché a quelle della luce. Avrebbero visto grazie all'ultravioletto, e poiché tutta la materia inorganica è trasparente a tali particolari vibrazioni, lo sarebbe stata anche ai loro occhi.» Il dottor Homer annuì. «Sì, era un'esposizione piuttosto precisa delle mie intenzioni quando ho intrapreso questa serie di esperimenti. Ero sicuro di poter rendere gli occhi animali capaci di vedere attraverso la materia solida.» Winn si tese verso di lui. «Poi, due settimane fa, i giornali hanno annunciato che era riuscito nel
suo intento. Aveva cambiato la sensibilità degli occhi di diversi animali, tanto che vedevano grazie alle onde ultraviolette, attraverso la pietra, il metallo e tutte le sostanze inorganiche. Non potevano invece vedere attraverso esseri viventi o attraverso la materia derivata da questi, dato che tali vibrazioni non penetravano la materia organica. «L'articolo aggiungeva che lei era convinto di poter cambiare allo stesso modo anche gli occhi umani, alterando la sensibilità della retina; e si diceva certo che un uomo così trattato avrebbe potuto vedere attraverso muri di pietra e di mattoni ed ogni sorta di metallo... tutto, in pratica, tranne gli esseri viventi e quelle parti del loro abbigliamento e dei loro averi formati di materia organica.» Il volto di David Winn s'illuminò. «Per questo sono venuto ad offrirmi come soggetto sperimentale per il suo processo! Voglio che lei cambi i miei occhi, così potrò vedere attraverso la materia solida come se non esistesse!». «Ma perché?» gli chiese vivacemente il dottor Homer. «Perché desidera la capacità di guardare attraverso porte e muri, a volontà?» «Non per scopi criminosi, se è a questo che sta pensando,» gli disse Winn. «Sì, è a questo che stavo pensando,» ammise il dottor Homer. «Non posso rischiare di scatenare in questa città un criminale capace di vedere attraverso i muri come fossero vetro.» «Posso assicurarle che non ho intenzioni del genere,» gli garantì David Winn. «Le ho detto che sono un giornalista. Sono giovane e inesperto. Ma se avessi questo potere, diventerei il più grande cronista mai esistito! «Capisce cosa intendo? Se potessi guardare attraverso i muri ciò che la gente sta facendo dietro le porte chiuse, potrei dare notizie che nessun altro potrebbe procurarsi. Potrei persino vedere ciò che dice la gente, dietro le porte chiuse... mi sono esercitato a leggere i movimenti delle labbra, nelle ultime settimane, in previsione di questo.» Il volto del giovane splendeva, acceso d'entusiasmo. Il dottor Homer lo scrutò. «Dunque è così... vuole il mio procedimento per diventare il giornalista che vede tutto?» «È ciò che voglio: vedere tutto!» dichiarò Winn. «In poche settimane, questa facoltà potrebbe procurarmi un impiego migliore, e lo stipendio più alto di qualunque altro giornalista nell'intero paese!»
«Vuole che le modifichi la vista per assicurarsi uno stipendio più alto?» chiese lo scienziato. «Deve tenere moltissimo a quell'aumento.» David Winn sorrise. «Sì, e la ragione è la solita... una ragazza. Marta Ray ed io siamo molto innamorati, ma uno stipendio da principiante non basterebbe, se ci sposassimo. Con quello che potrei guadagnare se vedessi attraverso le porte e le pareti...» «Ed è disposto a sottoporsi al cambiamento, per ottenerlo,» commentò il dottor Homer. «Deve capire che, una volta che i suoi occhi saranno cambiati, il processo diverrà irreversibile.» «E perché non dovrebbe esserlo?» ribatté Winn. «Se potessi ottenere quella facoltà, sarei ben felice di tenerla e di servirmene.» Il dottor Homer rifletté in silenzio per qualche istante, aggrottando la fronte. Guardò oltre la finestra il rumoroso traffico mattutino. Poi il suo sguardo deviò verso un lungo tavolo bianco, sulla cui estremità era sospeso un meccanismo d'ottone, d'acciaio e di quarzo. Lo scienziato si avvicinò allo strumento, sfiorò i contatti. David Winn l'osservava attentamente. Il dottor Homer si girò all'improvviso. «Userò il procedimento sui suoi occhi, Winn,» disse. «Ma a certe condizioni.» Alzò un dito. «Primo: se il processo fa effetto, non dovrà parlare con nessuno, assolutamente, della sua facoltà.» «Sono d'accordo,» si affrettò a dire Winn in tono deciso. «Secondo: mi prometta di non usare mai tale facoltà per fini criminosi o di vendetta.» «Lo prometto,» disse David Winn. «E adesso? Provvederà subito?» «Potrei farlo.» Lo scienziato sembrava dilaniato dai dubbi. «Non so... forse sbaglierò, ma debbo accertare se la retina umana reagisce come le altre. «Sì, lo farò subito,» proseguì. «Il processo richiederà meno di due ore... naturalmente, lei verrà anestetizzato.» Seguendo le istruzioni di Homer, David Winn si tolse giacca e panciotto e si distese sul tavolo bianco. Il dottore girò sopra di lui l'apparecchio sospeso, regolò meticolosamente i tubi, fino a quando le due lenti gemelle di quarzo si trovarono direttamente al di sopra degli occhi del giovane. Poi preparò, su un tavolino, recipienti di vetro contenenti soluzioni rosee e verdi, strumenti e contagocce.
Girò verso la faccia di Winn il tubo d'un apparecchio a gas anestetico, stringendo in mano la maschera. «Pronto?» chiese. «Pronto.» David Winn sorrise. «Se tutto andrà bene, fra due ore la vedrò... e vedrò molte altre cose.» Il dottor Homer annuì. «Se tutto andrà bene,» ripeté. «Ecco.» Il gas cominciò a sibilare... David Winn riaprì gli occhi sul tavolo operatorio. Scorse il viso ansioso del dottor Homer, chino sopra di lui. La luce sembrava avere una fioca colorazione violetta, ma David Winn non notava altri cambiamenti. L'intervento era fallito? Poi, quando levò lo sguardo oltre la testa dello scienziato, lanciò un'esclamazione soffocata. Vedeva attraverso il soffitto del laboratorio, come se non esistesse. Guardava dal basso in alto un tavolo, parecchie sedie, e due scienziati in camice bianco, indaffarati con fornelli e provette: e sembrava che tutto fosse miracolosamente sospeso nell'aria, tre metri e mezzo sopra di lui. E ancora più in alto, David Winn vide altri oggetti ed altri uomini sospesi allo stesso modo. Piano per piano, li vedeva chiaramente come se i soffitti ed i pavimenti che li dividevano non esistessero, fino all'aria libera. Poi la spiegazione colpì quasi con violenza la mente semistordita di Winn. Si raddrizzò a sedere di scatto. «C'è riuscito, dunque!» esclamò. «Il processo è riuscito!» «Davvero?» gli chiese ansioso il dottor Homer. «La sua vista è cambiata?» «Cambiata?» Winn trasse un profondo respiro. «Direi che è cambiata! Posso vedere attraverso i soffitti e le pareti e persino il tavolo su cui sono seduto, come se non esistessero!» Era vero. Agli occhi di David Winn, le pareti, i pavimenti e i soffitti dell'edificio erano svaniti. Poteva guardare attraverso i vari piani, fino all'aria aperta. Ad ogni piano vedeva solo gli esseri umani, i loro indumenti, le porte ed i mobili di legno: solo la materia organica. Poteva guardare, attraverso altri piani, fino alla superficie del terreno. Pensò che vedeva il suolo soltanto perché era permeato di materia organica, negli strati superiori.
Il dottor Homer lo aiutò a scendere dal tavolo metallico. Winn aveva l'impressione di stare ritto nello spazio vuoto: il pavimento piastrellato era invisibile. Era una sensazione stranissima. Mosse qualche passo per la stanza, e andò a urtare contro qualcosa d'invisibile, che cadde con un tonfo. Winn assunse un'espressione sarcastica. «Dovrò stare attento ai mobili metallici, vero? Ma è meraviglioso... meraviglioso...» Il viso del dottor Homer esprimeva eccitazione. «Dunque può vedere solo la materia organica, come i miei soggetti animali?» «Esattamente,» rispose David Winn. L'euforia cominciava a prendere il posto dello sbigottimento. «Ci pensi! Vedo attraverso le pareti! Il giornalista che può vedere attraverso i muri!» «Allora non è pentito di essersi sottoposto al mio processo?» chiese lo scienziato, e Winn rise. «Pentito? Vorrei esser nato così! Vedrò il mondo com'è veramente, a partire da questo momento, e non soltanto i muri dietro cui si nasconde.» Si rimise il cappello e, manovrando, si diresse alla porta, con l'aiuto del dottor Homer. Afferrò la maniglia invisibile. «Domani tornerò per sottopormi a tutti i test scientifici che lei vorrà, dottore. Ma ora sono troppo ansioso di servirmi della mia facoltà.» «Sia prudente,» l'avvertì il dottor Homer. «Vada con calma, fino a quando avrà imparato a muoversi.» David Winn chiuse la porta, percorse prudentemente un corridoio invisibile, scese le scale invisibili, e uscì sulla strada. L'affollatissima New York era uno spettacolo sbalorditivo ai suoi occhi, ora che vedeva soltanto la materia vivente ed organica. I grandi edifici di pietra e d'acciaio erano spariti alla sua vista: ora notava soltanto, un piano dopo l'altro, la gente al lavoro, ed i vari oggetti organici. Non poteva vedere le automobili né gli autobus che affollavano la strada davanti a lui. I suoi occhi scorgevano solamente gruppi di persone sedute che sfrecciavano qua e là, sospese nell'aria. Si avviò verso la redazione del suo giornale. Distava solo due isolati, ma prima di arrivarci, David Winn aveva corso il rischio di venir travolto, agli incroci, da due tassì per lui invisibili; era stato insultato da un uomo che spingeva, lungo un marciapiede, un carrello metallico contro cui era anda-
to a sbattere; ed era inciampato per due volte su oggetti che non poteva vedere. Quando entrò nella redazione della cronaca cittadina, vide che presentava lo stesso strano aspetto della strada. Gli uomini sedevano a scrivanie invisibili, usavano telefoni e macchine da scrivere invisibili. Winn avanzò cautamente in mezzo a loro, dirigendosi alla scrivania del capo cronista, Ray Lanham. Questi alzò la testa e gli tese un pezzo di carta. «Dove sei stato tutta mattina, Winn?» chiese. «Ecco un elenco di alcuni uomini più eminenti della città. Voglio che ti metta in contatto con tutti quelli che puoi, per sentire cosa ne pensano dell'ultimo caso di corruzione nell'amministrazione civica.» «Dovrebbe essere un incarico abbastanza facile per te,» aggiunse Lanham. «Telefona tutto quello che riesci a sapere, in tempo perché lo possiamo riscrivere.» David Winn sorrise, intascando il foglio di carta. «Non cercarmi incarichi facili, perché d'ora innanzi sarò il migliore dei tuoi cronisti,» disse. «Tra una settimana, tutti i giornali della città mi supplicheranno di lavorare per loro...» Sogghignando tra sé dell'espressione confusa del capo cronista, uscì di nuovo. Quando vide un tassista che veleggiava in mezzo alla strana folla di figure sfrecciami sulla strada, David Winn lo fermò e salì sul tassì che non poteva vedere. Volò verso il centro della città, in una strada avanzata. Il primo nome dell'elenco era Roscoe Saulton, candidato alla carica di governatore. Winn scese dal tassì al quartier generale elettorale di Saulton e salì tra le pareti e le scale ed i piani invisibili, fino agli uffici che costituivano la sua meta. Trovò altri due giornalisti che attendevano di essere ricevuti da Roscoe Saulton, il quale stava appena uscendo dal suo ufficio. Il volto massiccio e gioviale era ornato da un sorriso di benvenuto. Il suo volto divenne serio, quasi austero, quando David Winn gli rivolse la sua domanda. «Posso soltanto esprimere la più ferma condanna per tutte le forme di corruzione,» dichiarò. «Gli scandali che sono stati scoperti nel nostro mondo politico debbono cessare!» «Possiamo dire che, se lei verrà eletto, compirà quanto è in suo potere per fare pulizia nella politica municipale?» chiese un altro cronista.
Saulton annuì energicamente. «Certamente, e spero che lo direte con molta chiarezza. Aspiro alla carica di governatore solo per servire il popolo, e non conosco modo migliore per servirlo che spezzare queste trame di frodi e di corruzione che da tempo disonorano la città.» Strinse cordialmente la mano ai giornalisti. «Buongiorno, signori... e ricordate che sono sempre lieto di vedervi.» Quando Roscoe Saulton rientrò nel suo ufficio e gli altri due cronisti se ne andarono, David Winn si trattenne. Attraverso i muri, poteva vedere l'ufficio in cui era entrato Saulton, ed il candidato governatore ed una mezza dozzina di altri uomini che fumavano sigari: li vedeva chiaramente, come se le pareti non esistessero. Winn poteva notare il movimento delle loro labbra e capire ciò che dicevano. Saulton si era lasciato cadere su una poltrona e parlava ad uno degli altri. «Altri stramaledetti giornalisti che volevano la mia opinione sui casi di corruzione,» stava dicendo. «È tutta mattina che non faccio altro che maledire l'organizzazione.» L'altro sogghignò. «Non maledirla troppo, visto che deve portarti alla carica di governatore il mese prossimo, Saulton,» disse uno. Un altro lo contraddisse. «Spingiti pure fin dove vuoi, nelle tue denunce,» consigliò al candidato. «Non danneggia affatto l'organizzazione e ti procura un sacco di voti.» «Beh, quando sarò sulla poltrona di governatore, farò correre tutti questi riformatori,» ringhiò Roscoe Saulton. «Ma per ora debbo assecondarli, purtroppo.» L'attento ascolto di David Winn venne interrotto da un segretario che gli si avvicinò. «Cosa succede?» gli chiese. «Sta fissando il muro da parecchi minuti.» Winn si girò. «Mi ero distratto un po', credo. Buongiorno.» Uscì dal palazzo. Si sentiva profondamente disgustato. «Non maledirla troppo, visto che deve portarti alla carica di governatore, la cui onestà non veniva messa in dubbio da nessuno! Era uno pseudoriformatore che denunciava la corruzione politica, mentre invece se ne serviva per dare la scalata al potere. Tutti gli altri potevano lasciarsi ingannare: ma la verità non poteva rimanere nascosta agli occhi di David Winn. Aveva guardato attraverso i
muri oltre cui Saulton si credeva al sicuro, e l'aveva osservato qual era veramente. Controllò il nome successivo dell'elenco. Era James Willingdon, finanziere, magnate minerario e filantropo, la cui eminenza era nota a tutta la nazione. Con un altro tassì, Winn si fece portare agli uffici di Wall Street di Willingdon & Company. Gli fecero passare la trafila, una mezza dozzina di segretari e di subalterni, fino a quando riuscì a farsi ammettere nell'ufficio del segretario personale di James Willingdon e spiegò quel che desiderava. Il segretario fu splendidamente cortese. «Il signor Willingdon è impegnato in un'importante riunione d'affari, ma chiederò se può vederla un momento. Le dispiace attendere?» David Winn seguì con lo sguardo il segretario che, passando attraverso un muro invisibile, entrò nell'ufficio accanto. C'erano dodici uomini, là, seduti intorno ad un lungo tavolo. Winn li vedeva chiaramente, come se tra loro non ci fosse la parete. Vide James Willingdon a capotavola: era un uomo sulla cinquantina, dal volto grigio, gli occhi color dell'acciaio, il portamento eretto. Stava parlando agli altri. Winn poteva leggere il movimento delle labbra, con chiarezza, come se udisse le parole. «Vi assicuro, è la miglior proposta che abbiamo mai ricevuto,» stava dicendo James Willindgon. «Lanciamo l'United Mines, e con i nostri nomi e la pubblicità che faremo, il pubblico si precipiterà a comprare le azioni. Quando saranno salite a sufficienza, le scaricheremo senza preavviso.» «E se poi il pubblico verrà a sapere quel che è successo?» chiese un uomo alto, dall'aria ansiosa. «Posso assicurarle che non ci guadagneremo in popolarità.» «Non è possibile che sospettino. Affermeremo semplicemente che i ribassisti hanno svalutato le azioni, e che noi abbiamo perduto più di tutti!» rispose James Willingdon. «Non dubiteranno, come non hanno mai dubitato prima.» «Benissimo, siamo con lei, Willingdon,» disse un altro. «Ma si ricordi: niente doppio gioco... vendiamo tutti contemporaneamente.» Il segretario personale, che era rimasto rispettosamente in attesa, si fece avanti e parlò al finanziere. David Winn vide Willingdon scusarsi con gli altri ed entrare nella stanza in cui egli lo aspettava.
Il suo volto sfoggiava un sorriso di assoluta sincerità, mentre stringeva la mano a Winn. «Posso dedicarle un momento solo, signor Winn,» disse. «Perché io ed i miei soci stiamo elaborando un progetto che significherà grandi cose per il nostro paese... sì, grandi cose. «Ma il mio segretario mi ha detto che lei desiderava conoscere la mia opinione sui recenti casi di corruzione. Come cittadino, tengo a dichiarare la mia più completa riprovazione per le malversazioni appena scoperte.» David Winn uscì, con un sorriso amaro. Dunque James Willingdon, grande finanziere e onorato filantropo era... un mascalzone. Un altro come Roscoe Saulton. Mentre usciva in strada, Winn pensò che la nuova vista di cui era dotato non gli conferiva solo il potere di vedere attraverso i muri... gli permetteva di vedere, oltre le falsità della vita quotidiana, nel cuore degli uomini. Dieci minuti dopo, David Winn rivolgeva la sua domanda al terzo dell'elenco, uno dei potenti dell'industria dell'abbigliamento. Il magnate si scagliò eloquentemente contro la corruzione civica. Condannò con orrore l'abitudine di frodare i poveri ed i ricchi. Parlò di Lincoln e di Washington. Ma David Winn non lo stava ascoltando. Gli uffici dell'industriale si trovavano al pianterreno, nel grande complesso della fabbrica. Winn guardava attraverso le pareti, come se non esistessero, fissando i vari reparti di produzione. Vide le lunghe file di donne e ragazze, pallide, con i volti contratti, chine sulle macchine: lavoravano come automi, senza alzare la testa. Vide giovani ansimanti che trascinavano pesanti carrelli a mano carichi di stoffe e di indumenti e di pelli, per corridoi e stanzoni mal illuminati e mal aerati. Winn evitò di stringere la mano all'industriale e fuggì in strada. Era in preda alla ripugnanza. Si avviò, dimenticando per il momento gli altri nomi, e si trovò a passare davanti ad una strana struttura. I muri erano trasparenti, ai suoi occhi, come quelli di tutti gli altri edifici intorno, naturalmente. Ma l'interno sembrava diviso in un gran numero di stanzette. C'erano uomini affollati in quasi ognuna, fino a perdita d'occhio. Alcuni erano immersi in un sonno stuporoso. Altri guardavano per la strada, con gli occhi accesi di desiderio. Era una prigione. Winn osservò le guardie nei corridoi tra le celle, vide
l'aspetto degradato di molti detenuti, la tremenda sporcizia, come se non vi fossero né sbarre né mura. Era passato molte volte davanti a quel maestoso edificio di pietra grigia, ma solo ora poteva vedere, oltre la facciata, la sozzura e l'infelicità all'interno. Si allontanò, allungando il passo. Ma l'edificio successivo era anche peggio. Era un grande ospedale. Era passato di frequente anche davanti ad esso, e aveva ammirato il lindore della grande costruzione di mattoni, con i solarii lucenti, le stanze dalle ampie vetrate risplendenti. Ma ora gli occhi di David Winn non vedevano i lindi muri di mattoni né i vetri scintillanti. Guardavano, oltre i mattoni e l'intonaco e il metallo, nell'interno dell'edificio. Vide lunghe file di materassi, sopra letti metallici che non poteva scorgere: ed erano centinaia. Vi stavano distesi uomini e donne, ed anche bambini. Alcuni si agitavano febbrilmente, in preda a terribili infermità. Altri gridavano per i dolori. Vide uomini i cui arti non erano altro che moncherini bendati, e bambini distesi e ingessati. Alzò lo sguardo, piano per piano, oltre le file di letti e di sofferenti, fino alle sale operatorie, scorse il balenio degli strumenti d'acciaio improvvisamente arrossati. Vide tirare i lenzuoli sui visi di figure divenute improvvisamente silenziose, vide altri sofferenti portati in fretta dalle ambulanze. Nauseato e sconvolto, David Winn proseguì, barcollando. Passò in fretta davanti all'adiacente ospedale psichiatrico, girando la testa dall'altra parte, per non guardare attraverso le pareti trasparenti uomini e donne che cercavano di svellere le sbarre delle celle, e si graffiavano, o stavano seduti, sbavando, a fissare nel vuoto. Tenne lo sguardo distolto fino a quando ebbe girato l'angolo. Lo spettacolo grottesco della città rombava e brulicava nella calda luce pomeridiana, mentre Winn camminava. Ormai non sapeva dove stava andando, conscio a malapena dello strano panorama che la strada offriva ai suoi occhi. Nella sua anima cresceva un orrore invincibile. Stava attraversando un tratto dei bassifondi. Ma non vedeva ciò che appariva agli occhi degli altri passanti, cioè una via stretta fiancheggiata da caseggiati sudici, invasa da bambini che giocavano sul selciato consunto. Vedeva ciò che stava dietro quelle squallide facciate. In quelle conigliere sudice e buie, la sua vista superpenetrante vide nascere e compiersi ogni genere di crimine. Vide uomini e donne fradici di liquori velenosi, altri resi pallidi e flaccidi dalle droghe che ingerivano
mentre egli li guardava. I bambini venivano abilmente addestrati al crimine, in luoghi i cui muri non potevano arrestare lo sguardo di David Winn. Il giovane cercò di dirsi che era sempre stato così, che era sconvolto dall'orrore solo perché adesso poteva vederlo: ma fu inutile. Dovunque lo portassero i suoi passi, dovunque si volgessero i suoi occhi, scorgeva oltre le pareti nuovi nidi di sofferenza o di sozzura o di crimine, celati alla luce del giorno. Era nauseato fino al profondo dell'anima. Perché, si chiese, era stato così pazzo da farsi modificare gli occhi? Perché non aveva intuito quanto sarebbe accaduto? Tutte le infelicità e le colpe e gli orrori della vita, nascosti agli altri dai muri, l'avrebbero ormai guardato in faccia per sempre. Li avrebbe sempre visti, con occhi capaci di penetrare in ogni nascondiglio. Se i suoi occhi avessero potuto tornare come un tempo, se la modifica avesse potuto venire annullata... ma no, era impossibile. Il dottor Homer l'aveva avvertito. Sarebbe stato sempre così, avrebbe sempre visto, al di là di ogni riparo, l'orrore celato a tutti gli altri. Ma poteva andarsene, con Marta! Il cuore di David Winn balzò, afferrandosi all'improvviso barlume di speranza. In campagna c'erano meno muri, meno cose nascoste. Potevano sposarsi e andare a vivere là, lui e Marta, da soli: Marta l'amava ed avrebbe compreso... Sarebbe andato da lei, le avrebbe spiegato. Febbrilmente, David Winn s'incamminò verso Nord, fino a quando raggiunse il caseggiato che cercava. Salì correndo le scale invisibili, si lanciò nel corridoio. Levò la mano per bussare alla porta di Marta Ray, ma si soffermò, guardò oltre la parete trasparente e vide Marta e sua madre. Stavano parlando, ed i loro volti erano girati quasi verso di lui. David Winn lesse il movimento delle loro labbra, chiaramente, come se ne udisse le parole. «Lui ha detto che se tutto andrà bene ci potremo sposare presto,» stava dicendo Marta. Sua madre arricciò il naso. «Non so proprio perché perdi tempo con lui. David Winn non ha niente e non avrà mai niente.» «Oh, non ricominciare, mamma,» disse stancamente Marta Ray. «Lo so che David non è gran che.» «E allora perché hai intenzione di sposarlo?» domandò la madre. «Perché David è quanto di meglio posso trovare. Dovrò pure sposare
qualcuno, no?» ribatté insoddisfatta la ragazza. David Winn restò immobile davanti alla porta, per qualche istante. Poi si voltò e, pallido e stranito in volto, scese le scale senza far rumore... Quella sera, il sergente della Polizia stava dando spiegazioni al dottor Homer, mentre lo precedeva lungo un corridoio che portava all'obitorio. «Abbiamo trovato il suo nome e il suo indirizzo in tasca al morto, quando l'abbiamo ripescato nel fiume, e abbiamo pensato che forse lei avrebbe potuto identificarlo,» disse il sergente. Il dottor Homer entrò nella sala dell'obitorio, e quando venne spostato il lenzuolo, guardò con fermezza l'annegato. Il cadavere era rigido, e teneva una mano levata, con il palmo verso l'esterno, sopra gli occhi. «Strana, la posizione di quel braccio,» commentò il sergente. «Quando l'abbiamo trovato, aveva la mano davanti agli occhi, così, e non abbiamo potuto spostarla. «Sembra proprio che cercasse di non vedere qualcosa, no?» Il dottor Homer annuì tristemente, fissando Davil Winn. «Cercava di non vedere qualcosa. Perché vedeva tutto, come aveva desiderato, e per lui era troppo. «Che Dio ci mantenga ciechi in questo mondo! Ci risparmi l'orrore di fare ciò che lui ha fatto, di vedere troppo bene!» Titolo originale: The Man With X-Ray Eyes (Wonder Stories, novembre 1933). 1934
Philip Barshofsky Una notte preistorica Qualche volta, nella fantascienza, un autore si presenta con un racconto affascinante, ed i lettori aspettano con impazienza il suo secondo tentativo per vedere se riesce a superare il valore dell'opera prima. Poi compare un altro racconto, e poi più niente. L'autore scompare nell'oblio. Si tratta di
casi comuni, spesso sconcertanti. Philip Barshofsky fu un caso del genere. One Prehistoric Night segnò il suo debutto, e fu onorato con la copertina di Wonder Stories del novembre 1934. In quel numero, era oscurato solo da The Walley of Dreams di Stanley G. Weinbaum, il seguito di A Martian Odyssey. Ma nonostante questa formidabile concorrenza, il racconto di Barshofsky ebbe molti commenti favorevoli. Tuttavia il suo nome sarebbe ricomparso una volta soltanto, nell'ultimo Wonder Stories di Gernsback, nel marzo 1936, con The Imperfect Guess, un racconto satirico che prendeva in giro gli scrittori di fantascienza: divertente, ma non memorabile. Un motivo poteva essere questo: Barshofsky era lo pseudonimo di un autore più noto. In seguito si scoprì che chi aveva scritto i racconti di Barshofsky ne aveva pubblicati altri sotto il nome di Philip Jacques Bartel. Bartel era apparso per la prima volta proprio sul numero di Wonder Stories del novembre 1934 con l'affascinante Twenty Five Centuries Late (e questo spiega l'uso di due nomi), ed avrebbe pubblicato diversi altri racconti su Wonder ed Amazing. Ma il vero autore chi era? Quando venne finalmente rivelato che dietro gli pseudonimi si celava un certo M. M. Kaplan, molti lettori scrollarono le spalle. Kaplan è senza dubbio l'uomo misterioso di questa antologia. Con il nome di Bartel, sarebbe apparso per l'ultima volta nel primo numero di Future Fiction di Hornig, nel novembre 1939, con The Infinite Eye: poi, più nulla. Sono anche questi misteri che rendono affascinante la science fiction. Chi era M. M. Kaplan? Che cosa l'indusse a scegliere uno pseudonimo moscovita ed uno gallico? Scrisse altra fantascienza sotto nomi ancora più oscuri? Spero di trovare le risposte a queste domande, un giorno. Nel frattempo, possiamo ricordarlo grazie a racconti come One Prehistoric Night. Con un rombo riverberante, un corpo enorme, a forma di siluro, balzò dall'orizzonte indistinto, carico di vapori, e si avventò verso un'isola grande ed accidentata, seguito da una coda fiammeggiante e lasciandosi dietro una scia di faville. I raggi penetranti del sole meridiano strappavano riflessi brillanti dalla superficie del velocissimo mostro metallico, e mostravano che lo strano visitatore recava insegne arancioni e verdi. Aveva quattro pinne metalliche arrotondate, che lo facevano sembrare una grande freccia incendiaria. Le pinne partivano dalla tozza prua e finivano inclinandosi contro il fianco del veicolo; parevano avere funzioni di osservatorii, con le
estremità perfettamente trasparenti. Dalla parte posteriore del razzo spuntavano numerosi ugelli, che turbavano le acque tranquille con un rombo tonante. Dal centro del muso tozzo, nella parte inferiore ed ai lati, si estendevano altri brevi tubi, che venivano usati per le manovre. L'isola, circondata da un mondo d'acqua (poiché era pressoché l'unica terra abitabile del pianeta) era coperta da piante gigantesche che si tendevano torreggianti verso il grande, sfolgorante sole rosso. La superficie tremava sotto i passi pesanti di esseri spaventosamente rudimentali, che sembravano il risultato di un macabro esperimento della natura. Tra rombi tonanti, il razzo scese verso il suolo coperto di vegetazione e sorvolò le cime degli alberi. Quando raggiunse una vasta radura, dove piante e felci avevano circondato un tratto di sabbia, atterrò con uno scoppio di fiamme che attutì la discesa. Quando gli ugelli della nave tacquero di colpo, divennero percettibili altri rumori. Strani suoni, che erano stati soffocati dall'arrivo del razzo, si levarono vigorosamente nell'aria umida. Da lontano e da vicino giungevano i sibili e le grida di rettili mostruosi... rettili che infestavano questo nostro mondo milioni di anni or sono: milioni di anni fa, nel Giurassico, per un periodo corrispondente all'incirca al sei per cento della vita della Terra. Il rettile carnivoro pareva non badare affatto all'ampio squarcio sul suo fianco, da cui scorreva abbondantemente il sangue. Di tanto in tanto girava la testa come un uccello, per scrutare il suolo accidentato, come in attesa che la terra tradisse, con i suoi involontari tremori, l'avvicinarsi di qualche creatura che il rettile potesse comprendere meglio di quella grossa cosa ovoidale. Lo strido di un archaeopterix, seminascosto dalle nebbie che salivano dal suolo caldo, attirò per un attimo lo sguardo dell'enorme sentinella. Non sapendo se era il caso di sfidare l'improvviso terribile calore creato dal fuoco del razzo, o abbandonare l'oggetto silenzioso e scintillante e andare a caccia altrove, il mostro rimase perplesso per un momento. All'improvviso, mentre era assorto nel suo dilemma, l'allosauro famelico sentì il terreno vibrare sotto le zampe frementi di qualche essere preistorico in lotta per la vita ed il cibo. Quel segnale risolse i suoi dubbi. Di colpo, lo stupido rettile dimenticò il visitatore metallico e si girò, avviandosi in direzione della battaglia: la brezza gli portava alle nari l'eccitante odore del sangue già sparso. Con le possenti zampe posteriori, lunghe quasi quanto il corpo, l'allosauro spiccava balzi enormi, muovendosi a velocità sorprendente mentre una
schiuma bianca gli scendeva dalle lunghe fauci sibilanti. Già le grida di morte di uno dei combattenti trapassavano l'aria. Il suolo si scosse, tremò, mentre da ogni parte altri esseri si precipitavano verso la scena della battaglia. L'aria nebbiosa si riempì delle strida e delle urla dei mostri affamati d'un pianeta giovanissimo. Numerosi animali, quasi tutti di specie di dimensioni più ridotte, si affollarono nella piccola radura aperta dalla zuffa a morte tra i due contendenti. Molti esseri più piccoli vennero schiacciati dalle zampe dei fratelli giganteschi che si precipitavano verso il cibo, e finirono nelle loro fauci. Qui un rettile furibondo fece a pezzi un piccolo animale che gli aveva rubato un pezzo di carne, e così arricchì il proprio pasto. Dall'alto, mascelle possenti, a loro volta, gli squarciarono la testa. Così, c'era a disposizione un maggiore quantitativo di carne. Di solito, gli esseri più piccoli afferravano un boccone e sfrecciavano via, temendo di venir depredati da animali più grandi, mentre i rettili di dimensioni maggiori restavano, sicuri del fatto loro. Mentre i rumori crescevano di volume, bocche fameliche si nutrivano e ventri vuoti si rimpinzavano. Lentamente il sole sanguigno tramontò, abbandonando la foresta fumante ai rumorosi dinosauri che l'abitavano. L'alieno di metallo brillava sotto la luce sommessa della luna maestosa. Con il dileguarsi del giorno, un portello rotondo, non lontano dal suolo, si aprì, ed un essere sorprendentemente piccolo ne uscì. Subito il portello si richiuse. Il nuovo arrivato, alto un metro e venti e del tutto privo di mezzi palesi di difesa fisica, sarebbe stato una facile preda per i grandi carnivori. Una calotta arancione copriva la grossa testa, dai due occhi tondi posti sotto l'alta fronte, fino alla nuca del collo corto e tozzo. Due paia di braccia ed un paio di gambe indicavano che l'essere si era probabilmente evoluto da un animale esapodo. Una sottile tunica verde, metallica, copriva il resto del corpo. Da un'alta cintura nera, sorretti da ganci, pendevano due piccoli tubi rotondi, ed un braccio sottile si teneva sempre accanto ad essi. La piccola creatura, a giudicare dalla sua aria vigile, sembrava pronta a sostenere qualunque attacco. L'esserino fischiò alcune note che, tradotte, significavano: «Potete uscire. Ora è più fresco di quando c'era il sole.» Il portello tornò ad aprirsi, e un secondo e un terzo individuo della stessa specie uscirono lentamente, esitando. Si disposero in un gruppo silenzioso,
non lontano dall'astronave, levando lo sguardo verso Marte che brillava in cielo come una gemma cremisi. Uno cominciò a fischiare: era quello uscito per primo dal veicolo spaziale. «Il nostro pianeta. Ci osserva come un occhio ardente.» «Da qui non possiamo vedere l'infelicità sul volto dei nostri compatrioti,» rispose il primo che era sceso dopo il fischio di richiamo. «Eppure,» sibilò il primo, «presto quel mondo luminoso diverrà inabitabile: e sarebbe stata la fine per la nostra razza se non avessimo scoperto un pianeta più ospitale. «I nostri scienziati avevano ragione, quando spiegavano che questo mondo non sarebbe stato troppo caldo per noi: e dire che tutti erano convinti che qui saremmo morti arrostiti. Il giorno non può essere molto più caldo della notte: perciò, per quanto riguarda la temperatura, questo pianeta ci andrà bene.» Scese il silenzio, lacerato da grida di rettili, cui gli esseri non prestavano attenzione. Ognuno era sprofondato nei suoi pensieri... pensieri tremendi. Un mondo stava morendo, ed una razza disperata cercava un luogo più abitabile, dove non avrebbe corso pericoli. Adesso era stato scoperto un pianeta adatto, che avrebbe potuto ospitare la loro specie. Ma quali forme di vita vi esistevano? Lietamente, il terzo essere fischiò una serie di brevi note. «Qui l'atmosfera è pura e innocua, esente dalle contaminazioni che anni di guerre inutili hanno causato sul nostro mondo. L'acqua dell'oceano può essere utilizzata dai nostri motori, ed il vapore che si produce incessantemente può essere condensato, formando liquido potabile, poiché ha la stessa composizione cui siamo abituati. Il suolo è molto attivo, ed in quanto alla gravità maggiore, le nostre cinture nere, costruite appositamente, rimedieranno alla situazione, fino a quando ci saremo abituati. «Al sorgere del sole, pianteremo i semi del meraviglioso albero quanghnni ed alcuni altri, per vedere se daranno su questo terreno gli stessi dolcissimi frutti che producono su Marte. Presto ci fortificheremo, poiché non sappiamo quali esseri abitano questo mondo, e alle prime ore dell'alba l'astronave tornerà al nostro pianeta con la buona notizia, lasciando qui una piccola colonia, incaricata di preparare tutto per la nostra razza. Ho sentito il nostro comandante dire questo al capo pilota, dopo che siamo atterrati ed abbiamo effettuato le analisi.» Stanchi di fissare le stelle, i tre si guardarono intorno, scrutando le fitte, buie foreste da cui udivano provenire forti suoni animaleschi; il primo es-
sere fischiò di nuovo, in tono di sicurezza. «Che dobbiamo temere da queste misere bestie chiassose? Siamo bene armati e possiamo difenderci da animali senza cervello.» Toccò i tubi appesi alla cintura antigravità. Poi aggiunse: «Venite: è ora di svegliare gli altri, per preparare immediatamente le fortificazioni.» Durante le ore d'oscurità, le macchine del veicolo spaziale ronzarono d'attività vibrante. I lavori continuarono anche all'esterno del mostro metallico. Una barriera di fili, carica di migliaia di volt di elettricità era stata eretta intorno al sabbioso campo d'atterraggio. Il cavo più alto era sospeso a sei metri dal suolo, fissato a pali metallici isolati che erano stati scaricati dall'astronave. Vennero fatte grandi buche circolari, per erigere una fortezza di metallo. Gruppi di alieni lavoravano, in ordinata confusione, all'interno della recinzione. Alcune sentinelle irrigidite ascoltavano nervosamente gli strani rumori all'esterno della protezione elettrica. Grossi cavi isolati erano stati collegati ai fili del recinto, e portavano ad enormi utensili per l'estrazione e la saldatura. Una scavatrice gettava la sabbia, in un torrente continuo, in un grande contenitore, mentre smuoveva il suolo con un gruppo di barre metalliche dalle estremità foggiate a pale inclinate. Il suo movimento sembrava quello di un cane che disseppellisce un osso. Ma se gli esseri all'interno della barriera elettrica erano in attività, anche le creature all'esterno erano in movimento, sebbene da loro non dipendesse la sopravvivenza della specie, come avveniva invece per i marziani. A circa tre chilometri di distanza, due rettili urlanti lottavano: uno per il cibo, l'altro per la vita. Un enorme, fragoroso brontosauro, simile ad una montagna di carne viva, tentava disperatamente di difendersi da un allosauro urlante, assetato di sangue. Il primo, un rettile erbivoro che viveva quasi sempre nelle acque dolci dell'isola a causa della sua massa di trentacinque tonnellate, sibilava furiosamente contro l'agile aggressore. Sorpreso lontano dall'habitat preferito, era quasi impotente contro il carnivoro, più piccolo ma più energico. Data la struttura del corpo, il rettile erbivoro non era fatto per muoversi attivamente sulla terraferma; perciò cercava di raggiungere l'acqua, dove sarebbe stato al sicuro dall'allosauro. Con un urlo, come se si fosse stancato di tutto, si girò all'improvviso, quasi spazzando via l'avversario guizzante con la coda muscolosa, lunga
un terzo del suo corpo, e si lanciò in direzione di un grande lago fangoso. Stridendo, il terribile carnivoro l'inseguì a balzi. Il suolo tremò sotto il loro peso mentre i due scomparivano fragorosamente nella foresta umida. Un diplodoco, pesantissimo e tuttavia più agile, un rettile erbivoro simile all'enorme brontosauro, ma più snello e con una testa eccezionalmente piccola, si mosse attraverso la foresta, calpestando per caso un piccolo rettile troppo lento per fuggire. Un mucchietto di ossa sfracellate, premute nel terreno soffice, fu quanto rimase quando il mostro passò, come muta testimonianza di una tragedia insignificante. Il rettile procedette, ignaro di ciò che aveva fatto: anch'esso si avviò verso una distesa d'acqua nell'interno dell'isola. Prima di raggiungere la sua destinazione, si fermò a divorare ciuffi di tenera vegetazione lussureggiante, dimenticando interamente l'acqua. Qua e là, il sottobosco devastato e gli alberi spezzati testimoniavano qualche precedente battaglia. Grossi insetti volavano o correvano sul fondo della foresta, in cerca di cibo o di preda. Dovunque, gli esseri cacciavano o venivano cacciati, e talvolta erano cacciatori e selvaggina contemporaneamente. Era un miracolo che alcune di quelle creature riuscissero ad arrivare alla maturità. Presso una grande palude, orde di piccoli rettili da poco usciti dall'uovo giocavano e mangiavano insieme. I minuscoli esseri a sangue freddo correvano rumorosamente, squittendo gioiosi, felici di essere vivi. Divoravano con avidità gli insetti lenti e goffi e ciuffi di vegetali. Talvolta si scatenava una zuffa in miniatura, e due piccoli rettili mordevano, graffiavano, si rotolavano sul suolo soffice e tiepido. All'avvicinarsi dei loro simili più grossi, tutti si dispersero, nascondendosi nelle piante fitte, mentre i loro sibili fiochi si smarrivano tra i suoni più forti. All'improvviso un enorme insetto dalle mandibole scattanti afferrò un rettile neonato e sparì, tenendolo in una stretta ferrea. Nessuno degli altri piccoli parve notare l'improvvisa scomparsa. Non lontano da quell'incubatrice naturale, un morosauro si tuffò nell'oceano che lambiva la spiaggia scistosa, per sottrarsi ad un grande mostro carnivoro. Nuotò silenziosamente lungo il bordo dell'acqua, sperando di stancare l'inseguitore che temeva l'acqua salata e procedeva ostinatamente lungo la riva. All'improvviso, l'inseguito lanciò uno strido tremendo: uno squalo gigantesco gli aveva tranciato in tre pezzi la lunga coda; uno rimase nelle fauci cavernose del pesce, mentre il secondo e il terzo salirono a galla, al
centro di una chiazza rossa sempre più ampia. Scalciando freneticamente, il morosauro si girò sul fianco, tenendo eretto il lungo collo. Le sue urla risuonarono alte e chiare: con la coda ridotta ad un moncherino sanguinante non era in grado di raggiungere la terraferma, e se l'avesse fatto, avrebbe trovato il carnivoro ad attenderlo, impaziente. Il rettile morente prese a rigirarsi e a dibattersi mentre innumerevoli pesci l'assalivano, strappando grandi pezzi di carne. Gridando, il carnivoro della terraferma, deluso, inghiottì un pesce morto gettato a riva dalle onde, e scomparve in cerca di prede meno sfuggenti, calpestando lungo il cammino tre insetti in lotta feroce fra di loro. Sebbene i morosauri non si azzardassero mai a nuotare nelle acque pericolose dell'oceano, preferendo istintivamente gli specchi d'acqua dell'entroterra, il minuscolo cervello di quell'esemplare aveva deciso di correre il rischio, per sfuggire alla morte certa fra le fauci del rettile carnivoro. Ora però, a prezzo della vita, scopriva perché era sempre rifuggito dall'oceano. Entro la recinzione, intanto, i preparativi continuavano. Già lunghi steli di ferro, piantati nei grandi fori circolari nel terreno, sostenevano una sottile piattaforma metallica, su cui stava una sentinella, accanto a un grosso cannone elettrico fisso. Più in alto veniva eretto lo scheletro della seconda piattaforma. In due baracche metalliche c'erano i viveri concentrati; una terza era in corso di costruzione. Tre grandi riflettori elettrici illuminavano quella scena sorprendente. Una struttura alta e rotonda, divisa in molti cubicoli, sarebbe servita ad ospitare la piccola colonia marziana destinata a rimanere lì. Tre macchine scavarono buche profonde nella terra; poi alcuni marziani, muniti di piccoli contenitori, regolarono i quadranti delle cinture antigravità e scesero lentamente nei pozzi, per effettuare analisi del suolo. Nei pressi, un gruppo di alieni tagliava piccole piante e le studiava con apparecchi di vario tipo. Ogni successo veniva accolto con fischi dagli operatori. Agli occhi compositi e curiosi non sfuggirono gli insetti, e neppure un piccolo rettile. Quando ebbero finito di studiare meticolosamente l'aspetto esterno degli animali, li sezionarono, con grande imbarazzo del rettile che si divincolava disperato. Il lavoro si svolgeva metodicamente, come se fosse stato predisposto in anticipo, ed ogni marziano sapesse esattamente cosa doveva fare. Instancabile, l'orda aliena continuava la sua attività, sforzandosi d'impadronirsi di questo pianeta, ancora nella sua infanzia... un progetto che frustrava
quelli della Natura. Stupiti, gli extraterrestri sentirono nel suolo una vibrazione nuova, che non proveniva dai loro macchinari. I tremori divennero più distinti: l'essere che era la causa di quella nuova nota si stava evidentemente avvicinando. Sebbene tutti continuassero a lavorare, alzarono la testa sempre più spesso, e le sentinelle armate divennero più nervose. Le mani a tre dita erano posate sui tubi a raggi calorici, pronte all'azione immediata. Dagli alberi vicini si sporsero un collo ed una testa serpentini, e mentre le piante gigantesche ondeggiavano, un grosso corpo massiccio si fece largo in mezzo a loro. Le luci elettriche brillarono su una collina di carne rozza e bitorzoluta. Gli occhi minuscoli, in una testa ridicolmente piccola, a circa otto metri dal suolo, sbirciarono gli alieni venuti da un altro mondo. Il brontosauro avanzò per «incontrare» quegli esseri. Una macchina sistemata sulla testa d'un marziano ronzò, poi tacque, allo scatto di un interruttore. «Nessun pensiero,» fischiò colui che la portava. Fu il segnale; dozzine di proiettori di raggi calorifici entrarono immediatamente in azione. Sfolgoranti luci purpuree colpirono il corpo che pesava quaranta tonnellate. Centinaia di ustioni nere apparvero sulla superficie dell'epidermide. Con un sibilo iroso, il gigante si accostò alla barriera elettrificata. Immediatamente, la sentinella sulla piattaforma metallica fischiò una nota sonora, mentre inseriva qualcosa di morbido e lanuginoso in una fessura laterale della propria testa. I marziani che si trovavano al suolo fecero altrettanto. Appena ebbero finito, il cannone entrò in azione tonando, dato che i raggi calorifici non sembravano avere alcun effetto sul rettile, e la barriera elettrificata, che aveva un'importanza vitale, veniva minacciata. Con un rombo immane che squassò la foresta circostante e fece crollare al suolo centinaia di creature, un fiume invisibile di elettroni scaturì dalla canna, colpendo l'enorme brontosauro che stava per sfondare la recinzione di fili. Il rettile si arrestò di colpo. Aprì la bocca per urlare, ma non un suono uscì dalla gola gigantesca. Il corpo cominciò a cambiare visibilmente colore, diventando verdognolo, prese a tremare. Poi, il terribile dinosauro divenne una massa di frementi vermi verdi. Nel momento della metamorfosi, il tuono del cannone elettronico cessò, ed il silenzio improvviso parve ultraterreno. Poi, le grida dei rettili saturarono di nuovo l'aria umida. Un tonfo soffocato, e la massa verde cadde sui fili: un grande bagliore il-
luminò la foresta circostante. I fili roventi folgorarono la massa aliena e la trasformarono in braci annerite. Il brontosauro era morto, sotto forma di un'orda di verdi vermi non terrestri. Il cannone, che liberava un flusso di elettroni, causava negli organismi rapide metamorfosi molecolari che li cambiavano completamente, e spesso, se adeguatamente regolate, ricavavano da un singolo individuo molti organismi viventi. Anche i composti inorganici venivano trasformati da quest'arma straordinaria, se era impiegata una quantità sufficiente d'energia. Il peso dei vermi aveva spezzato una serie di fili causando quasi un corto circuito. Subito ebbero inizio i lavori di riparazione. Uno degli operai cominciò a fischiare in tono disgustoso: «E abbiamo dovuto sorvolare tre quarti di questo pianeta, per arrivare a tanto»: si era procurato, in un incidente, un grosso taglio sul braccio esile. Un liquido azzurro sgorgava dall'arto lesionato. Su Marte l'atmosfera era così sottile che gli abitanti dovevano fischiare in toni acuti e penetranti, per farsi udire. Dopo millenni e millenni, i loro organi dell'udito si erano sintonizzati permanentemente sui suoni acuti e quindi sfuggivano loro molti rumori terrestri, troppo bassi. Nessuno rispose all'esclamazione del marziano ferito, che sapevano suggerita dalla sofferenza. Ma un alieno, che fermò per un momento la scavatrice, pensava che sarebbe scoppiato, se non avesse espresso la sua opinione. «Comunque, è quanto di meglio abbiamo potuto trovare. Non pensavamo neppure che questo mondo fosse abitabile per noi: invece, ha persino carne in abbondanza, sebbene i vegetali non siano adatti come cibo. Qui siamo al sicuro dalla morte, ed i nostri giovani cresceranno felicemente. Non è forse meglio di una lenta agonia sul nostro pianeta?» Un altro, intento a riparare un cavo spezzato, fischiò gaiamente: «Sì, è certo meglio. Creeremo la prima colonia su questo pianeta, ma presto giungerà qui l'intera nostra razza. Allora verrà anche la mia famiglia, e ogni cosa andrà per il meglio. Saremo al sicuro dalla morte. Questo non vale forse tutto il nostro impegno?» Una sentinella che stava ricaricando l'arma a raggi portò la conversazione su nuove direzioni: «Chissà come se la saranno cavata gli esploratori sugli altri due pianeti?» Poiché tutti i marziani erano indaffaratissimi, nessuno rispose alla sua domanda ed il lavoro proseguì in silenzio. Nei pressi, i rettili squarciavano
la notte con le loro grida. Molti non potevano udire, perché il cannone elettronico, liberando le particelle sub-atomiche da speciali sostanze per produrre la scarica, aveva causato un tale frastuono da renderli parzialmente o totalmente sordi. Peraltro, non era una grave menomazione, poiché quasi tutti erano in grado di percepire i tremori del suolo, che li avvertivano dell'avvicinarsi degli altri esseri; ma gli animali apparivano sorpresi di quella nuova condizione fisica. Il terreno annunciò di nuovo l'appressarsi di un visitatore mostruoso, ed i marziani ridivennero tesi. Ancora una volta, il trasmettitore del pensiero confermò che il nuovo venuto era un essere d'infimo ordine. Il morosauro lungo dodici metri non si soffermò a guardare gli alieni dalle sei membra; per lui erano soltanto minuscoli rettili che dovevano scostarsi reverenti al suo arrivo. Era la strana astronave rotonda ad attirare il suo sguardo. Era un uovo? Forse era buono da mangiare! I marziani, che preferivano non aver nulla a che fare con simili mostri, si auguravano che il rettile se ne andasse, o almeno li lasciasse in pace. Non era segno d'intelligenza sprecare munizioni contro creature che non causavano danni. Ma le sentinelle erano attentissime, con le braccia pronte sulle armi termiche, nel caso che il morosauro s'avvicinasse troppo. «Vedete,» fischiò un marziano, «ha la testa grossa, ed è assai più piccolo dell'altro. Credete che voglia ispezionare il nostro nido?» All'improvviso, due esseri apparvero simultaneamente sulla radura sabbiosa, ma da direzioni diverse. I marziani erano così assorti nel guardare il morosauro che, se non fosse stato per la vigilanza d'una sentinella, non avrebbero notato l'arrivo dei due nuovi intrusi. Ora tutti gli occhi si volsero verso di loro: tutti cercavano di scoprire nei tre esseri segni di una curiosità incontrollabile nei confronti del «nido». Ognuno dei visitatori aveva uno scopo diverso. L'allosauro aveva sentito l'odore del morosauro, ed aveva fame. Il grottesco stegosauro si affrettava verso il pascolo preferito e attraversava la radura secondo la sua abitudine. I rettili sembravano non riposare mai. Il calore della notte, salendo dalla terra tiepida, li teneva svegli, mentre di giorno il sole li rendeva particolarmente attivi. Se mai riposavano, lo facevano quando ne sentivano il bisogno. Con un urlo di fame trionfante, l'allosauro si avventò sul morosauro, che si era voltato per difendersi. La sua testa scattò fulmineamente, le fauci potenti azzannarono il carnivoro famelico, strappandogli dal petto un brano di carne. Gridando, i due girarono cautamente in cerchio, l'uno intorno
all'altro, cercando di acquisire un vantaggio. I loro passi ponderosi scuotevano il suolo morbido, mentre i marziani, sgomenti, assistevano alla battaglia suprema. Sebbene il morosauro fosse erbivoro, non pareva disprezzare la carne, se gli capitava a tiro. Il cervello microscopico non l'avvertiva del rischio che correva per assicurarsi il bocconcino desiderato: perciò scese in lizza contro il rettile carnivoro. La lunga coda del morosauro sferzò l'aria, sfracellando il sottobosco, mentre le pesanti zampe spezzavano gli arbusti e li schiacciavano al suolo. I corpi dei due giganti preistorici schiantavano alberi, calpestavano spietatamente il terreno, che riverberava i loro movimenti. Gli altri esseri, tutto intorno, seppero che era in corso una lotta tremenda. Digrignando i denti, mordendo, graffiando e urlando, i contendenti squarciavano la notte con i loro sforzi ciclopici. Si rotolarono al suolo, spezzando gli alberi con schianti secchi, strettamente avvinghiati. Sempre tornavano a separarsi, perdendo sangue, ma altrimenti illesi... in apparenza. Le potenti zampe del carnivoro straziavano il rettile erbivoro, mentre la coda di quest'ultimo si agitava all'impazzata, sferrando colpi tremendi. Lo stomaco dell'allosauro si stava ormai spazientendo, quando venne la sua occasione. Mentre la battaglia infuriava, lo stegosauro, prima che le sentinelle marziane potessero tentare di fermarlo, improvvisamente intimorito dall'avvicinarsi di qualche altro essere, si avventò contro i fili elettrificati e, con uno strido orribile, si trasformò in una massa carbonizzata di carne e di piastre ossee, mentre abbatteva diversi cavi nella caduta. Mai, neppure nei loro sogni più fantasiosi, i marziani avevano immaginato l'esistenza di simili mostri. Sapevano che contro simili esseri, se avessero attaccato all'unisono, le armi sarebbero state inutili, e loro stessi sarebbero stati massacrati senza la minima esitazione dai rettili aggressori. Eppure la loro situazione era disperata e, sebbene avessero un cannone elettronico, erano preparati alle situazioni di emergenza, ed avevano portato i pezzi per montarne un altro. Il cannone elettronico sembrava l'unica arma in grado di tenere a bada i mostri di quel mondo. Uno dei marziani lanciò una serie di fischi sommessi, ed un gruppo di suoi compagni si staccò da quelli che osservavano la scena ed entrò nell'astronave, dove c'erano i motori che avrebbero contribuito al montaggio di un altro cannone.
All'urlo dello stegosauro, il morosauro, sorpreso, girò la testa. Era l'occasione attesa dall'allosauro affamato, che balzò al fianco dell'avversario. Mentre il morosauro girava la testa, il carnivoro, con un urlo, gli piombò sulla schiena, quasi spezzandogli la spina dorsale. Immediatamente il mostro erbivoro girò la testa per mordere l'assalitore, che gliela afferrò tra le corte zampe anteriori, e la tenne stretta mentre affondava le zanne potenti nel lungo collo della vittima; contemporaneamente, le grandi zampe posteriori schiacciavano i fianchi del morosauro. Le fauci di questo si chiusero invano sul fianco dell'aggressore. L'allosauro strappò pezzi di carne viva dal morosauro che, disperato, lasciò la presa per cercarne una più efficace. Le mascelle dell'allosauro si chiusero in una stretta mortale vicino alla testa della preda, là dove il collo era più sottile. Gli alieni osservavano quella battaglia di giganti trattenendo il respiro. Il suolo era sconvolto, la vegetazione calpestata e distrutta, quasi come avrebbe potuto ridurla il loro meccanismo. Ma l'effetto più deleterio della lotta stava nel fatto che aveva attirato carnivori e insetti eternamente affamati, immediatamente al di fuori del recinto. La terra riprese a tremare sotto il peso di altri esseri che si avvicinavano, affamati di carne... carne che avrebbero potuto trovare nel corpo del morosauro. Il gigante erbivoro, negli spasimi finali, trascinò se stesso e il suo vincitore contro la recinzione di fili: ed i cavi, che non erano ancora stati riparati, non trasportavano la corrente elettrica. Interessati alla lotta e quindi impreparati, gli sbalorditi marziani avevano pensato che il morosauro sarebbe caduto, ucciso almeno dalla perdita di sangue; invece i due avversari avvinghiati si precipitarono nel recinto, e più avanti, contro l'astronave, facendola inclinare sul fianco. L'allosauro, vedendo l'astronave e immaginandola di carne, vi si avventò avido, ammaccando l'esterno liscio, e sfondando il metallo trasparente utilizzato come vetro. Per un attimo, parve King Kong in vetta all'Empire State Building. Il carnivoro vittorioso non riuscì a piantare le zanne da nessuna parte, se non sugli ugelli dei razzi, e mentre i raggi calorifici lo crivellavano di ustioni, venne impartito di nuovo l'avvertimento, ed i marziani si tapparono gli organi dell'udito, mentre il ruggente cannone elettronico tornava all'opera per la seconda volta in quella notte. Ad eccezione del brontosauro, l'arma non aveva mai avuto un bersaglio organico tanto enorme. Gli obiettivi erano sempre stati astronavi nemiche, o il suolo marziano trasformato in qualche metallo utile: ma non era mai
stata toccata una simile montagna di carne vivente. Quando l'allosauro fu trasformato in una massa brulicante di vermi verdi, i raggi termici bruciarono il risultato. Poi un'orda terrificante fece irruzione sulla raduna sabbiosa, da ogni parte della foresta. Un centinaio di animali fronteggiò il fragile riparo dei fili. Tra i marziani si manifestò immediatamente la più grande eccitazione. Per un momento si agitarono, preparandosi nervosamente al massacro. Mostri a sangue freddo di varie dimensioni, con lo stomaco vuoto, fronteggiavano la schiera degli alieni, come se li accusassero di strappare alla Natura un mondo che non apparteneva a loro. Gli esseri famelici non sprecarono neppure un secondo. All'unisono si lanciarono avanti. Era stato il clamore della battaglia ad attirarli lì. Per tutta la notte il costante rombo del terreno aveva devastato la loro eccitazione, ma non erano riusciti a individuarne la fonte. Molti, quindi, erano più famelici del solito, poiché avevano sprecato molte ore in una vana ricerca. Naturalmente, la battaglia aveva attirato una massa di animali affamati più numerosi del solito. Sibilando e urlando, si buttarono sul morosauro, morto ma immutato. Dopo un allarme tempestivo ai marziani, il cannone elettronico rientrò tonando in azione, e l'inferno si scatenò. Il cannone sommerse ogni suono, e parve che le fauci dei rettili si aprissero in silenzio. La barriera di fili, priva di corrente, scomparve all'istante. Se l'orda famelica avesse avuto più cervello e meno stomaco, sarebbe fuggita in preda al panico, di fronte al frastuono terrificante del cannone: invece i rettili avanzarono senza paura, calpestando e travolgendo i loro simili. Magicamente, apparvero in mezzo a loro orribili vermi verdi brulicanti, sui quali si avventarono gli insetti affamati, attirati anch'essi dall'odore del sangue. Una sentinella marziana cadde, il collo trafitto dalle lunghe mandibole di un grosso coleottero volante. Un piccolo rettile carnivoro afferrò un marziano per una gamba e gliela staccò con un morso, mentre l'alieno si trascinava via fischiando di dolore. Le lampade si spensero, e soltanto il chiarore della luna e delle stelle illuminò il tumulto. Grida di sofferenza, urla di agonizzanti, fischi alieni, frastuono di zampe, tutto si perse nel clamore del cannone elettronico che scelse un mostro enorme come bersaglio e lo disintegrò con un solo colpo. Per fortuna dei rettili famelici, il secondo cannone elettronico non era stato montato, perché l'astronave era stata rovesciata sul fianco dalla carica del morosauro morente, ed il macchinario non funzionava più.
Le pistole termiche brillavano continuamente, tagliando, bruciando, lacerando e uccidendo: ma non bastò. All'improvviso, il cannone elettronico interruppe la sua attività tonante; un insetto, sfuggendo all'attenzione della sentinella, si era insinuato nei meccanismi e, morendo, li aveva bloccati. Quando la voce dell'arma si spense, il frastuono dei rettili trionfanti si levò, stridente e acutissimo. Un marziano che lottava perduto in mezzo agli animali venne sbranato, e gli insetti trapassarono senza fatica la sua pelle sottile. Ridotto ad una massa di sangue, il suo corpo attirò l'attenzione di altri esseri. Un enorme mucchio di schifosi vermi verdi cadde su un'orda d'insetti intenti a divorare il corpo di un piccolo rettile in convulsioni. Il cadavere di un marziano venne trascinato in varie direzioni e smembrato. Le urla delle bestie ed i fischi degli esseri intelligenti si mescolavano, lacerando l'aria. Corpi frenetici riempivano quello che era stato un campo d'atterraggio alieno. I rettili lottavano contro i rettili ed i marziani. Gli alieni tentarono di raggiungere l'astronave, ma il tentativo si concluse con la morte, rapida ma misericordiosamente indolore. Persino la luna impassibile sbalordì per la sorpresa e lo sgomento. Gli ultimi marziani, in gruppo, tentarono una suprema resistenza, circondati da montagne fameliche di carne viva. Riunendosi, rivolti verso l'esterno, crearono una brillante muraglia di calore. Dall'alto, con un balzo tremendo spiccato dal dorso degli animali circostanti, un rettile assetato di sangue si lanciò in mezzo ai marziani, schiantando la loro difesa. Con la morte dell'ultimo esploratore inviato sulla Terra, la razza marziana era destinata a credere che il terzo pianeta fosse inabitabile, anche se non seppe mai il perché. Sopraggiunsero altri rettili e molte battaglie infuriarono intorno al corpo dello strano mostro metallico giunto da un altro mondo. I feriti fuggirono, lasciando un numero relativamente ridotto di belve affamate ad ingozzarsi tra quell'inaudita abbondanza di carne. Sulle masse di vermi verdi brulicavano insetti di tutte le dimensioni... insetti terrestri decisi a sterminare una specie non terrestre. Come al solito, il sole si levò, e con la solita dignità splendette maestosamente sulla Terra calda. Là dove, durante la notte, c'era stata l'aliena barriera elettrica, ora giacevano mucchi d'ossa e i corpi inerti di animali, a testimonianza della ferocia degli abitanti del giovanissimo pianeta. Qua e là si scorgeva il cranio rotondo di un marziano, un cranio che denotava intel-
ligenza... ed era una sorta di predizione, preannunciante una specie che, fra molti milioni di anni, avrebbe dominato la Terra. Le creature terrestri più stupide avevano conservato il loro mondo per le creature più intelligenti, che sarebbero venute dopo molti, molti millenni. Titolo originale: One Prehistoric Night (Wonder Stories, novembre 1934). 1935
Raymond Z. Gallun Relitto Quando F. Orlin Tremaine comincio a reclutare talenti nuovi per la risorta Astounding Stories, poté allettarli con i suoi formidabili due centesimi a parola, il quadruplo del compenso offerto da Wonder e Amazing. Il pagamento all'accettazione era un aspetto positivo in più. Naturalmente, gli autori mandavano prima le loro opere ad Astounding, e le altre testate dovevano accontentarsi degli avanzi. Questo non significava, comunque, che Tremaine ricevesse manoscritti affrettati e raffazzonati. Gli scritti rispettavano i suoi criteri, e rispondevano producendo opere narrative originali e affascinanti. Tino a quel tempo Gallun non era stato un autore di spicco, sebbene la sua produzione fosse sempre stata gradevole. I suoi primi due racconti erano stati pubblicati da Air Wonder e da Science Wonder nel novembre 1929; ma poi se ne stette tranquillo, fino a quando il 1931 vide l'uscita di altri due racconti su Amazing, intitolati Atomic Fire e Lunar Chrysalis, entrambi molto belli. Qualche altro racconto apparve nei due anni successivi, e poi all'improvviso Gallun trovò Tremaine: e fu come se un pesce avesse trovato l'acqua. Raymond Zinke Gallun era nato nel 1911, quindi aveva solo diciotto anni quando The Crystal Ray segnò il suo esordio, e ventuno quando Tremaine gli acquistò Space Flotsam. Il racconto uscì su Astounding nel febbraio 1934, e da allora Gallun comparve quasi ininterrottamente sulla stessa rivista per i tre anni successivi. S'impose con Old Faithful, nel nu-
mero di dicembre 1934, che divenne una delle vicende più popolari dell'anno. Il Vecchio Fedele era un marziano che si sacrificava nel tentativo di attraversare lo spazio. La sua popolarità giustificò due seguiti, e Gallun raggiunse il culmine della fama. La stessa atmosfera sentimentale divenne poi tipica di molti suoi racconti, soprattutto con Derelict e Davey Jones' Ambassador. Per anni, Gallun passò il tempo viaggiando nel mondo, e scrivendo nei brevi periodi che trascorreva a New York. Tuttavia, continuò a sfornare una produzione consistente durante gli Anni Trenta, e quasi mai gli capitò di scrivere un brutto racconto. Era là, alla deriva nello spazio, alla destra del Sole, ed il suo guscio sferico era per metà illuminato, per metà immerso nell'ombra. Nessuno degli esseri nativi del Sistema Solare sarebbe stato in grado d'indovinarne l'età o l'origine. Ammaccato, privo di vita, solitario e dimenticato, tradiva una bizzarra affinità con il passato lontanissimo e con le stelle distanti, contro il cui sfondo si profilava la sua massa. Jan Van Tyren avrebbe dovuto provare uno slancio d'entusiasmo per aver scoperto quel relitto, quel vascello sperduto nel vuoto. Ma non lo provava. Nel suo animo non c'era posto per nulla che non fosse il dolore logorante dell'angoscia. Con un interesse più simile all'indifferenza, stava davanti allo schermo telescopico del suo agile veicolo spaziale, ed osservava solo con un'ombra di curiosità lo sferoide che vi appariva. La sua figura robusta e sciolta sembrava afflosciarsi davanti agli strumenti, quasi senza animazione. Una ciocca di capelli biondi, cinica e disordinata, spuntava sotto il casco di cuoio. Tutta l'energia era defluita da lui. Gli occhi azzurri erano offuscati e rannuvolati, come se non contemplasse la realtà, ma piuttosto l'orrore di un ricordo. Aveva avuto occasione di vedere spesso il sangue, durante gli anni trascorsi con la Jupiter Company. Aveva visto la morte e la rivolta. Erano compagni inevitabili della colonizzazione, del progresso. Ma Greta ed il piccolo Jan... loro erano sempre stati al sicuro. Era sempre parso inconcepibile che qualcuno potesse fare loro del male, persino gli orridi Loathi della luna gioviana, Ganimede. La sua giovane moglie, il suo bambino... assassinati. La visione torturante di ciò che era accaduto ormai l'accompagnava da diversi giorni. Tre? Quattro? Preferiva non ricordare nulla che fosse legato a quella visione. E tuttavia, non voleva neppure dimenticarla. E non era possibile dimen-
ticare. Continuava a sentir riecheggiare, dentro di sé, le grida bizzarre dei Loathi; continuava a vedere i loro lunghi becchi affilati, ed i loro corpi da pipistrello che uscivano precipitosamente, in picchiata, dalla notte di Ganimede. Lì, dove nessuno poteva osservarlo, si concesse il sollievo di un gemito soffocato. Sul suo volto scarno, segnato, non c'era un'espressione d'odio. Aveva superato anche l'odio. Era intontito e perduto, come una macchina priva di guida. Per questo adesso era là, nel vuoto, attorniato dalle stelle gelide. Stava cercando di sfuggire a... non era completamente sicuro di saperlo. Stava ritornando alla Terra per dipingere quadri e per cercare, nella sua mite, luminosa atmosfera di pace qualcosa che mancava nell'ambiente crudele di Joraanin, l'avamposto di cui era stato il padrone. Se n'era andato... per ritornare in patria, a rimarginare le ferite della sua anima. Non era affatto sorprendente che neppure un'astronave, andata alla deriva senza meta attraverso gli anni-luce, forse proveniente da un'altra galassia, riuscisse a ridestare in lui una scintilla di entusiasmo autentico. Il mistero e la promessa di un'avventura non esercitavano più, nel suo animo, un fascino diretto. Eppure, Jan Van Tyren era comunque un abitudinario. Sebbene la sua mente fosse presa e travolta in un vortice di sofferenza una parte di lui, automaticamente, continuava a funzionare con una parvenza di normalità. Era un artista: e di conseguenza, quasi inconsciamente, gli ingranaggi che la passione avevano creato entro il suo cervello cominciarono a svolgere il loro compito... a prendere nota della forma e del colore. Vedeva i contrasti della luce e dell'ombra che giocavano i loro scherzi bizzarri su dettagli del grande scafo globulare. Vedeva i solchi profondi, le intaccature che meteore sperdute avevano inciso, in un motivo zigzagante, sul guscio grigio ed opaco del relitto. Prese mentalmente nota delle asticciole sottili che sporgevano come gli aculei d'un riccio spinoso dalla forma del vascello, e delle file dei finestrini che accoglievano vacui il suo sguardo, come fossero occhi che si chiedevano, senza comprendere, cosa potevano essere lui ed il suo veicolo spaziale. Tutto questo formava quasi un'immagine da dipingere: aveva una sua bellezza nitida e cruda, che spiccava contro lo sfondo tenebroso dell’ universo. E inoltre, Jan Van Tyren era ingegnere di professione: e sebbene preferisse lasciare questi ricordi profondamente sepolti nel passato, ancora una volta l'abitudine creata da una lunga esperienza ebbe la meglio. Qualcosa,
in fondo all'essere di Jan, distaccato dagli altri suoi pensieri, si chiese quali prodigi della tecnologia e della scienza avrebbe potuto rivelargli una ricognizione compiuta sul relitto. L'assommarsi di queste forze bastava a produrre in lui quel filo sottile d'interesse. La vita non aveva più uno scopo fondamentale, ed egli non aveva nessuna fretta di proseguire quei due mesi di volo ininterrotto che l'avrebbero portato al suo pianeta natale, attraverso il deserto dell'etere. Le mani di Van Tyren si mossero fulminee sui comandi, con noncurante disinvoltura, come se agissero senza bisogno di essere guidate dal cervello. Il vascello spaziale virò, incominciando a descrivere l'elegante curva che l'avrebbe portato a fianco dello sferoide. Sullo schermo telescopico le stelle turbinarono: poi apparve Giove, una minuscola perla variegata, lontana diversi milioni di chilometri. E intorno le aleggiavano i puntolini luminosi che erano le sue lune. Finalmente ricomparve il relitto, gigantesco ed ormai vicino. Sembrava avere un diametro d'un centinaio di metri circa. La luce fioca del Sole lontano l'investiva, rivelando nell'emisfero inferiore uno squarcio irregolare, la cui profondità era ammantata d'ombra. Jan portò il suo veicolo spaziale in una posizione che gli permettesse di vedere meglio l'interno dello sferoide, oltre l'apertura dilaniata dello scafo. Sottili punti di luce trapassavano le ombre fitte, rivelando masse aggrovigliate di metallo. Ma c'era spazio sufficiente, per i suoi scopi. Senza considerare il possibile pericolo dell'azione, e per la verità del tutto indifferente a quel rischio, Jan manovrò le leve e la cloche del suo apparecchio. Dagli ugelli dei razzi scaturirono bruschi scoppi incandescenti. Il vascello ruotò, ondeggiando, e poi planò entro lo squarcio sul fianco del relitto andando a posarsi tra i rottami. Spinto da un residuo di quello che era stato il suo vecchio spirito attivo, Jan Van Tyren indossò la tuta spaziale. Ma i suoi ricordi l'assediavano ancora. Bestemmiò. No, non era una vera bestemmia: gliene mancava il furore. C'era soltanto angoscia. Era come il guaito di un grosso cane con una spina confitta nella zampa. Passò attraverso il portello stagno, e per un minuto rimase immobile, in silenzio, a guardarsi intorno. Chissà dove, in quell'antico relitto continuavano a funzionare ancora le lastre della gravità artificiale, perché lì aveva riacquistato un peso... forse circa un terzo di quello che sarebbe stato normale sulla Terra. In quel vano così simile ad una caverna c'erano rottami,
sparsi dovunque, deformati e ammaccati in modo grottesco. Eppure il metallo era lucido e nuovo. Qualunque fosse stata l'arma colossale che aveva squarciato in quel modo il vascello globulare, poteva avere prodotto i danni un'ora come un miliardo di anni addietro, a quanto si poteva giudicare da un'ispezione a vista. Non c'era aria; non s'era formata ruggine di alcun tipo; non s'era mosso nulla, nulla era cambiato. Alle orecchie di Jan non giungeva altro suono che il fruscio delle sue stesse pulsazioni. Era come se il tempo si fosse fermato, entro quel minuscolo frammento d'universo. Soltanto l'aria di abbandono del relitto, ed il ricordo delle innumerevoli tracce lasciate dalle meteore sull'esterno dello scafo, suggeriva a Van Tyren un'antichità enorme. Le meteore sono troppo rare per costituire una seria minaccia sulle rotte del Sistema Solare, e nel vuoto interstellare sono addirittura rarissime. Potevano trascorrere intere vite umane, prima che si producesse una di quelle minuscole collisioni: eppure lì si contavano a migliaia. Dai rottami s'innalzava una scala. Jan, più tardi, finì per definirla con quel termine, sebbene non si trattasse di una scala come quelle che sarebbero apparse adatte agli umani. Era in realtà una colonna, scanalata a spirale, un po' come il passo di una vite. Ad intervalli regolari, lungo la filettatura, erano inseriti dei pioli, per offrire un appiglio a qualche tipo di arto prensile. La colonna saliva, fino a raggiungere un ampio soffitto. La luce del Sole, penetrando lancinante dallo spazio, destava un brillio opalescente sulle superfici metalliche di quello strano mezzo per salire verso ciò che si trovava lassù, nella parte più centrale del relitto. Jan si aggrappò ai pioli della colonna scanalata, e con slanci disinvolti issò la sua figura agile e muscolosa verso la cima. Accanto al punto in cui la filettatura del pilastro si saldava con il soffitto c'era una botola. Provò a manovrare la leva che fungeva da serratura. La botola slittò lateralmente, lasciandolo passare in un piccolo compartimento quadrato che sembrava avere la funzione d'una camera stagna, poiché sul soffitto c'era un'altra botola, del tutto identica. L'entrata inferiore si era chiusa sotto di lui. Jan Van Tyren sbloccò il portello che stava sopra la sua testa e salì nella camera soprastante. Polvere e silenzio e un'immobile grandiosità meccanica che faceva pensare alla tomba d'un Ciclope... questa poteva essere una sintetica descri-
zione di quel luogo. Era molto più vasto del vano più in basso. Attraverso le finestre disposte lungo una delle pareti brillava il Sole, che indorava i motori inerti le cui forme mostruose apparivano capaci di generare energia sufficiente per strappare un pianeta dalla sua orbita. Enormi cilindri di metallo opalescente si tendevano verso l'alto. Volani che sulla Terra avrebbero avuto un peso di centinaia di tonnellate, erano immobili sui perni snodati. Cavi, fili, tubi correvano tra apparecchi colossali che avevano tutta l'aria di essere generatori. Condutture di cristallo erano disposte in tripodi sottili, o sostenute da strutture fissate al soffitto; ma l'energia non fluiva nei filamenti delicati che ne formavano le viscere, e per un uomo era impossibile dire a quale scopo fossero state originariamente destinate. Tra le finestre erano montate aste massicce, che passavano attraverso la parete esterna della sfera, quasi fossero le armi di una corazzata. Qualunque fosse stata la specie che aveva creato quel vascello, una cosa era certa: si era trattato di una razza di combattenti. Jan Van Tyren, mentre si aggirava malinconicamente tra quelle meraviglie di un altro sistema solare, cominciò a farsi una prima idea di quello che doveva essere stato l'aspetto dei padroni dell'astronave. Chiazze sinuose di cenere grigia, contorte così da esprimere ancora le sofferenze della morte, erano sparse qua e là sul pavimento. Scaglie marroni, simili a frammenti di pergamena, erano frammischiate alle ceneri... i resti, forse, di gusci chitinosi simili agli esoscheletri delle aragoste o dei granchi. L'equipaggio del relitto era stato sterminato. Le lastre crivellate, intorno ai resti di ognuno di quei corpi, l'indicavano chiaramente. Qualcosa di rovente e corrosivo li aveva cancellati dall'esistenza. Si erano battuti valorosamente, ma avevano finito per venire sopraffatti. Jan scorse un oggetto argenteo che giaceva accanto ad una delle chiazze di cenere. Si chinò a raccoglierlo. Un frammento mummificato di carne, che ricordava la zampa di un uccello, vi stava ancora aggrappato: le tre dita prensili erano rabbiosamente contratte intorno all'impugnatura ed al pulsante-grilletto di quella piccola arma. Sì, quegli sconosciuti si erano battuti come avrebbero fatto gli uomini, ma erano stati sconfitti. Sul volto cupo di Van Tyren passò, fuggevolmente, una smorfia, mentre gettava in disparte l'oggetto. Proseguì la sua esplorazione. La polvere di quella morte remota si sollevava sul percorso dei suoi passi noncuranti, riempiendo di un pulviscolo turbinoso i raggi solari che penetravano dalle finestre. Lì c'era un'atmosfera che sosteneva le particelle di polvere: ma sembrava estremamente im-
probabile che fosse ancora respirabile, dopo il trascorrere dei secoli. Jan si soffermò davanti ad una console di comandi. La sua mano inguantata toccò esitando un quadrante situato al centro. Girò la manopola verso destra, ed una lieve vibrazione si trasmise alle sue dita. Girò ancora di più il comando, senza sapere che il suo gesto stava forse alterando un dettaglio nel corso normale del destino. La vibrazione divenne più intensa. Jan Van Tyren indietreggiò, in attesa. Sotto l'intelaiatura che sosteneva il quadro dei comandi c'era un armadietto d'una liscia sostanza brunita. La parte anteriore si aprì, rivelando l'interno buio. Dall'apertura si sporse una testa sottile, che ondeggiava da parte a parte in una cadenza ritmica. Aveva un unico occhio, inespressivo come la lente di una telecamera: e in realtà, era possibile che quella fosse per l'appunto la sua funzione. Non aveva bocca: e infatti non era necessaria. Quell'essere, benché presentasse caratteristiche associate normalmente alle creature viventi, portava inequivocabilmente il marchio della macchina. La testa triangolare aveva la lucentezza purpurea degli altri oggetti metallici della sala. Le complesse appendici che sporgevano intorno alla gola, formando una sorta di collare, erano dell'identica sostanza. Più sotto c'era un corpo snello, che si rivelò uscendo dal ripostiglio con un'ondulazione serpentina. Era formato da migliaia di segmenti lucidi, lavorati minuziosamente come se facessero parte di un orologio. Il mostro, ormai, era del tutto visibile: la testa era levata all'altezza degli occhi di Jan. Automaticamente l'uomo era arretrato, sebbene non provasse alcuna sensazione di pericolo. Forse aveva abbandonato su Ganimede ogni normale istinto di prudenza. Per qualche istante non accadde null'altro. La testa triangolare continuò ad ondeggiare da parte a parte, ma questo fu tutto. Van Tyren stava immobile come una statua, a gambe larghe, in una sfida taurina lanciata non tanto a quel meccanismo sorprendente, quanto ai suoi ricordi dolorosi. Neppure la realtà tangibile di quell'episodio fantastico bastava a soffocare interamente l'angoscia del recente passato. Dopo un po' il robot serpentino si girò e scivolò via, nel labirinto dei macchinari. Con un'eleganza che era insieme bellissima ed orrenda, si diresse guizzando verso un apparecchio situato al centro della sala. Le appendici scintillanti toccarono i comandi con mosse esperte. Un soffio d'aria eruppe dai ventilatori situati in alto sulle pareti. Jan ne sentì la pressione contro la tuta e vide le ceneri dei membri dell'equipaggio
sollevarsi turbinando, sparire in altri bocchettoni, insieme al vapore privo di vita che era rimasto sigillato per tanti eoni in quella tomba spaziale. Obbedendo a qualche altra manipolazione dei quadranti e degli interruttori compiuta dal robot, una luce azzurra e riposante si irradiò da un tubo di cristallo, sopra la testa di Jan. Alzò gli occhi: e gli parve che quel chiarore esercitasse su di lui un'influenza ipnotica, rasserenante. Non protestò neppure, quando la macchina ignota che egli aveva liberata gli ritornò al fianco e, gentilmente, cercò di togliergli la tuta spaziale. Lui stesso chiuse le dita sulle allacciature ed aiutò le sottili appendici metalliche a completare l'operazione. Liberato di quell'indumento ingombrante, rimase sotto quei freschi raggi azzurri: pareva sondassero ogni angolo del suo essere, rimuovendo tutta la sofferenza e tutta la tensione dai suoi nervi torturati. Nella sua mente, l'angoscia si confuse, svanì in un'aleggiante dolcezza. In un primo istante, Jan Van Tyren provò quasi una sensazione d'orrore. Era un sacrilegio permettere che il pensiero di sua moglie e di suo figlio si dileguassero in quel modo. Ma poi, senza più desiderio di pensare, si abbandonò completamente all'influenza letea e risanatrice dei raggi. L'aria intorno a lui era fresca e ristoratrice. L'aspirò, a profonde boccate, riempiendosi i polmoni. Fletté i muscoli, quasi con indolenza, e finalmente il suo volto incupito si schiuse in un sorriso. Chissà dove, prese a mormorare una musica... una musica esotica, che proveniva da un tempo e da un luogo lontanissimi, insondabili. L'automa serpeggiava qua e là, senza emettere altro suono che un sommesso tintinno frusciante. Stava rimettendo tutto in ordine, ispezionando e regolando ora questo apparecchio, ora quello. Jan si chiese quante migliaia di millenni erano trascorsi dall'ultima volta che una di quelle macchine era stata posta in attività. Lo stupiva, inoltre, l'insondabile mitezza del suo bizzarro ospite; e si chiedeva se avesse letto nella sua mente, scoprendo la sofferenza che lo schiacciava. Ma i raggi l'avevano reso propenso ad accettare, più che a discutere; e per qualche tempo non tentò di approfondire i propri pensieri. Non aveva fretta. Non aveva nessuna responsabilità nell'universo: c'era tempo per tutto. Dopo aver trascorso all'incirca un'ora sotto il tubo che irradiava la luce azzurra, Jan Van Tyren si accorse d'aver fame. Aveva mangiato pochissimo, da quando era partito affrettatamente da Ganimede. Indossò di nuovo la tuta spaziale, passò attraverso la camera stagna da cui era entrato, e sce-
se il pilastro scanalato. Prima che fosse arrivato in fondo, vide che il robot scendeva a sua volta, seguendolo: il corpo flessibile e serpentino scivolava agilmente lungo il solco scanalato. Aveva abbandonato i suoi compiti per seguirlo. Jan andò a raccogliere un po' di viveri della dispensa delle razioni concentrate, a bordo della sua scialuppa spaziale. Ma non aveva ancora finito di riunire il necessario, quando il robot gli fu accanto per cercare di aiutarlo. Jan tentò di respingere quelle zampe lucenti, ma quelle insistevano; e alla fine, cedendo a quel gentile suggerimento, capitolò, lasciando che il robot gli togliesse dalle mani numerosi contenitori. «Credo di sapere che cosa sei,» ridacchiò Jan, entro il casco ad ossigeno. «Eri stato costruito per prenderti cura delle piccole necessità di coloro che costituivano l'equipaggio di questa nave. Adesso che non hai più nessuno da servire, hai scelto me come tuo padrone.» Raccolse qualche altro oggetto - il sacco a pelo del suo veicolo, diversi strumenti astronomici e la cassetta che conteneva il suo equipaggiamento da pittore - e li spinse tra le braccia sollecite del robot. «Forse è meglio portare anche questa roba,» disse. «Così non sarò costretto a scendere di nuovo a prenderla.» Si soffermò, in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto, adesso, quel meccanismo così premuroso. Il risultato fu quasi divertente. Dopo un momento d'incertezza gli si avvicinò. Un arto tozzo che faceva parte della frangia di appendici fissate intorno alla gola si allungò come un telescopio, si avvolse intorno alla sua cintola e sollevò senza fatica. Poi il mostro serpentino si avviò ondulando alla scala, e cominciò ad ascendere, trasportando il nuovo padrone e l'ingombrante materiale. «Ehi!» protestò Van Tyren. «Adesso stai esagerando! Non sono un invalido!» Ma anche se, forse, l'automa possedeva un mezzo per sondare le onde mentali telepatiche che corrispondevano alle parole di Jan, non gli diede ascolto. L'uomo, sebbene fosse sempre stato un tipo coriaceo ed abituato a contare su se stesso, si adattò ad accettare il giogo blando e svirilizzante di un mostro di cui, in realtà, non sapeva nulla di nulla, con la stessa fiducia con cui un bambino accetta l'affetto della madre. Il raggio azzurro, lì, non poteva penetrare nel suo corpo, tuttavia si protraeva l'effetto della sua capacità di cancellare ogni preoccupazione. E Van Tyren non aveva pensato alle
possibili conseguenze pericolose di quell'incantesimo. Ricordò il mercuriano che aveva fatto da valletto ad uno dei suoi amici, ai tempi in cui era studente. Il mercuriano si chiamava Khambee... ed era un elfo bizzarro, la cui indulgenza discreta e tuttavia insistente era molto simile a quella dimostrata dal bizzarro schiavo meccanico. «Khambee secondo,» sentenziò bonariamente Jan Tyren, per battezzare l'automa che lo stava trasportando. «Ti si addice veramente.» Nella camera delle meraviglie, al di là del portello stagno, Jan tirò fuori le sue provviste e cominciò a mangiare, mentre Khambee l'osservava con quel suo occhio da telecamera, come se volesse imparare. Poi s'insinuò attraverso un'apertura della parete e ritornò, portando una ciotola che conteneva cubetti d'una sostanza dorata e trasparente, da cui esalava un odore gradevole. Depose la ciotola accanto all'uomo. Van Tyren prese uno dei cubetti, l'assaggiò, e lo divorò senza neppure stare a riflettere che, per il suo organismo terrestre, quella sostanza avrebbe potuto essere velenosa. Tuttavia, non risentì effetti spiacevoli. Il cibo era leggermente fibroso, ma dolce e saporito. Ne consumò ancora, con piacere. I raggi azzurri emananti dal tubo fissato al soffitto riversavano su di lui il loro fulgore acquietante. Il mormorio della musica, sottile come un filo e carico di serenità, operava una magia sui suoi sensi. Jan si raggomitolò sul pavimento, lasciando ciondolare la testa sulle ginocchia. Rimase così a lungo, né sveglio né completamente addormentato, mentre il suo cervello ed i suoi nervi erano pervasi da una semicoscienza deliziosamente riposante. Khambee era scomparso: forse era andato a sbrigare chissà quale oscura mansione in qualche altra parte della nave. Cominciò così l'avventura di Jan Van Tyren a bordo del relitto. Non pensava ancora al futuro, e viveva con noncuranza ogni momento, così come veniva; pensava, ma non troppo profondamente. Mai, prima di quel momento, il suo innato istinto di costruttore d'imperi s'era assopito in modo così totale. Con l'unico scopo di svagarsi, montò i suoi strumenti astronomici, e cominciò ad effettuare osservazioni minuziose di Giove e delle stelle, ad intervalli di un'ora, per cercare di scoprire quale rotta stesse seguendo il relitto. Il cambiamento angolare delle rispettive posizioni di quei corpi celesti finì per rivelargli la verità. Il vascello era divenuto una luna del pianeta Giove: gli ruotava intorno,
lentamente, descrivendo un'orbita immensa del diametro di molti milioni di chilometri. Probabilmente, era così già molti eoni prima che gli uomini avessero preso in seria considerazione il problema del traffico interplanetario. Il fatto che non fosse stato scoperto prima che Jan Van Tyren l'incontrasse per caso non era molto difficile da spiegare. Senza un'indicazione, sarebbe stato più semplice trovare un determinato granello di sabbia su di una spiaggia che localizzare un satellite tanto piccolo nell'immensità degli abissi spaziali. Ora, comunque, con le distanze e le velocità misurate perfettamente, non sarebbe stato un problema calcolare dove si sarebbe trovata la nave ad ogni dato secondo. Jan pasticciò un poco con il foglio di carta su cui aveva effettuato i suoi calcoli, poi lo gettò via. Da quel solerte servitore che era, Khambee raccattò il foglio e se lo mise in un piccolo astuccio che portava fissato alla gola. Mentre guardava le stelle che splendevano fulgide ne! firmamento d'ebano, Jan Van Tyren aveva avuto un'ispirazione. «Gli uomini sono sciocchi,» confidò a Khambee. «E affanni e sventura sono le uniche ricompense che essi ottengono in cambio dei loro sforzi. Lo stesso accadde al popolo serpentino che ti aveva creato. Coloro che costituivano l'equipaggio di questa nave vennero uccisi... assassinati. «Perché non possiamo sottrarci a queste assurdità, Khambee? Perché non possiamo riparare questa nave, in modo che voli verso le stelle? Che avventura meravigliosa sarebbe! Vagabondare da un pianeta all'altro, senza responsabilità, e senza ritornare mai più al Sistema Solare! Varrebbe veramente la pena di tentare, Khambee.» Jan stava parlando soltanto per sfogarsi, cercando di conferire ad un sogno ozioso una parvenza di realtà. Non era convinto che fosse possibile. C'era il problema dell'acqua, dei viveri, dell'energia. Sembrava inverosimile che le scorte di quel decrepito relitto fossero sufficienti per una simile impresa. Khambee, tuttavia, disponeva di poteri assai più ampi di quanto Van Tyren riuscisse ad immaginare. E nella sua struttura inorganica era stata incorporata un'acuta capacità di comprensione che penetrava le motivazioni e gli scopi da cui traevano vita la carne, le ossa, i nervi ed i tessuti cerebrali. Il robot sembrò ascoltare attentamente le fruscianti onde dei pensieri irradiati dal suo padrone umano. Poi, spinto dagli impulsi complessi che la
genialità dei suoi creatori aveva impresso indelebilmente nei congegni metallici e cristallini del suo essere, riprese ad occuparsi delle mansioni che gli erano state assegnate. E Jan Van Tyren, che aveva fondato e dominato Joraanin, la colonia ganimediana, continuò con il suo gioco ozioso. Dormiva, consumava cibi esotici, si aggirava per la nave, sognava: ma soprattutto dipingeva, piazzando il cavalletto dovunque glielo suggeriva il capriccio. E le meraviglie che lo attorniavano, con la loro aura di stranezza, parevano guidare e dominare le sue dita esperte. Dipinse i grandi motori, su cui scintillavano i raggi obliqui del Sole; studiò i riflessi che guizzavano fuggevolmente nelle scanalature cave delle colonne, che i sinuosi passeggeri di quella nave avevano usato, molto tempo prima, in luogo di scale, e trasferì sulla tela le forme di quei pilastri. Dipinse Khambee al lavoro con un saldatore fiammeggiante, sottile ed efficiente, che quasi non faceva rumore. Dipinse anche scene e soggetti della Terra e di Ganimede... reminiscenze piacevoli, perché tutto ciò che vi era di sgradevole era stato respinto lontano, in fondo alla sua mente. Un collie bianco della sua infanzia. Una montagna seghettata che sorgeva sul rosso deserto di Ganimede. Greta, bionda e graziosa e sorridente. Il piccolo Jan con i suoi riccioletti dorati. Questi erano i soggetti dei suoi quadri. Pensava a sua moglie ed a suo figlio, ma ricordava soltanto gli episodi più lieti dell'esistenza vissuta con loro. L'orrore era sfuocato e distante. A questo provvedevano i raggi azzurri. E così una volontà che non era la sua, e che forse non era neppure di Khambee, ma apparteneva ad un mostro serpentino morto ormai da chissà quanti millenni, dominava interamente Jan Van Tyren. Talvolta guardava lo spazio, e provava, fortissima, l'attrazione delle stelle. In quel modo, dovettero trascorrere molti giorni. Van Tyren non si preoccupava di contarli. Venne il momento in cui fu strappato al sonno da un suono pulsante, sommesso, ma indicativo di titaniche forze all'opera. Sgusciò fuori dal sacco a pelo e fissò la sorgente di quel bizzarro rumore. Gli enormi volani roteavano. Avvertì una spinta poderosa, quando l'apparato propulsore dell'astronave si mise in moto per una frazione di secondo. Poi Khambee, facendo guizzare come una spola da tessitore la sua sagoma snella tra i macchinari, tolse i contatti dei grandi interruttori. Il suono si spense di nuovo nel silenzio. Ma il collaudo era stato effettuato: e Jan
aveva la sensazione che fosse stato positivo. Si precipitò verso il robot. «Allora disponiamo dell'energia sufficiente?» domandò con voce rauca. «È così?» Per tutta risposta, il robot aprì lo sportello di un elemento cilindrico, e con l'estremità artigliata di una delle sue numerose appendici, indicò il labirinto di avvolgimenti e di cristalli che brillava nell'interno. Jan studiò attentamente l'apparato per parecchi minuti. In gran parte, per lui era incomprensibile: ma vi erano meccanismi in cui la realtà tangibile corrispondeva alle teorie degli umani. Energia proveniente dai raggi cosmici che esistevano dovunque, nello spazio. Un'energia illimitata, assolutamente inesauribile! Era quella che faceva funzionare i motori dell'astronave. «Capisco,» commentò sottovoce Van Tyren. «Il problema energetico è risolto. Ma abbiamo viveri, aria ed acqua in quantità sufficienti?» Attraverso i labirinti dell'astronave, Khambee lo condusse ad un luogo dove l'uomo non era mai stato... una sala fiancheggiata da enormi vasche trasparenti, quasi tutte piene di un liquido cristallino rimasto sigillato lì dentro per chissà quanti millenni. C'era acqua a sufficienza, lì dentro, per fare dell'astronave un piccolo mondo, indipendente dalle fonti di rifornimento esterne, poiché neppure una goccia poteva fuggire dallo scafo isolato. Più avanti, lungo il corridoio, c'erano altre vasche piene di viveri conservati, ed ancor più oltre stavano altre camere dove strane cose bulbose crescevano sotto la luce intensa di grandi globi. Erano piante? Oppure colture artificiali classificabili a mezza strada tra il regno organico e quello inorganico? Avevano un colore verde carico. Si trattava di clorofilla, o di una sostanza che aveva le stesse funzioni della clorofilla nelle pianti verdi? Forse non aveva molta importanza. Lì c'era del cibo, che veniva prodotto grazie agli effetti della luce intensa. L'anidride carbonica, portata in quelle camere da tutte le parti dell'astronave, veniva scissa da quella strana vegetazione, e l'ossigeno veniva liberato nuovamente nell'atmosfera della nave. Khambee aveva avviato di nuovo un processo che era stato inattivo per innumerevoli millenni: e adesso poteva proseguire all'infinito. Cibo, acqua ed ossigeno: tutto ciò che era essenziale alla vita, la nave poteva fornirlo. «Velocità?» chiese Jan. «Possiamo raggiungere una velocità sufficiente per volare tra le stelle senza che il viaggio duri per tutta l'eternità?»
Era una domanda importante. Nessuna astronave costruita dall'uomo avrebbe potuto raggiungere le galassie esterne in un tempo corrispondente ad una vita umana, sebbene fossero in corso esperimenti che, entro un decennio o poco più, avrebbero potuto dare risultati promettenti. Le appendici tattili di Khambee scattarono in direzione di un enorme tubo distributore d'energia, in un gesto fiducioso. Jan ne fu soddisfatto. «E allora andiamo,» disse. «Qui nel Sistema Solare, per me non è rimasto molto.» La sua voce era ferma: ma il fascino delle avventure che l'attendevano gli faceva battere più forte il cuore, gli faceva scorrere brividi lungo il cuoio capelluto. Khambee l'indecifrabile non protestò: ma il suo comportamento indicò che c'era ancora del lavoro da sbrigare. Afferrò il braccio del suo padrone: per corridoi semibui lo condusse ad un magazzino pieno di vari pezzi di ricambio dei macchinari e di altre scorte. Aveva scelto un grosso mucchio di lastre metalliche, e le trasportò al portello stagno che si apriva nel compartimento sventrato, dove si era posata la scialuppa spaziale di Jan. Il lungo corpo argenteo e guizzante passò, trascinando il pesante carico. Jan Van Tyren indossò la tuta e lo seguì. Per diverse ore rimase a guardare il robot che riparava il grande squarcio. Nel frattempo, gli effetti del raggio azzurro dovettero attenuarsi: e infatti, di sua spontanea volontà, cercò di collaborare, tenendo ferme le lastre massicce mentre il suo servitore serpentino le fissava con un saldatore. Khambee accettò l'aiuto senza protestare. Jan era quasi ritornato se stesso, ora... freddo, energico, deciso, si preparava ad un'avventura che nessun uomo prima di lui aveva tentato. Finalmente il lavoro fu completato. I rottami dell'antica battaglia erano stati scrupolosamente rimossi, lo squarcio irregolare era stato coperto, e restava soltanto un portellone ovale, da cui poteva passare la scialuppa di Van Tyren. La lente dell'occhio del robot incontrò per un istante lo sguardo di Jan. «È tutto pronto,» pareva dire. Van Tyren annuì, ed il suo viso segnato era severo, duro sorridente. «Bene!» commentò. Salì il pilastro a spirale. Khambee lo seguiva da vicino, ma senza offrirgli aiuto.
Il robot non andò immediatamente ai comandi dei motori. Condusse l'uomo, invece, ad un ampio schermo bianco, parte di un complesso apparecchio. Fece scattare gli interruttori e girò le manopole con mosse esperte. Sullo schermo apparvero immagini... un deserto ondulato e squallido e gole tormentate. Poi un'oasi dove c'era acqua, e dove i filoni sotterranei di minerali radioattivi fornivano abbastanza calore da permettere alla vegetazione di crescere. Al centro c'era una piccola, rozza città sotto una cupola di cristallo. Joraanin, la colonia su Ganimede, Intorno alla cupola erano trincerati uomini e Loathi fedeli, e combattevano le orde dei Loathi ribelli, che volteggiavano lassù, con le loro ali di pipistrello, i lunghi becchi lucenti. La rivolta era ancora in corso. C'era bisogno di una mano energica, lassù, per mettere fine al caos ed allo sterminio. Sì, era necessario. Le miniere di bensonio... Jan Van Tyren osservava, con il casco della tuta fra le mani, le labbra contratte. Mille pensieri gli turbinavano nella mente: problemi che aveva già dibattuto altre volte, ne era sicuro. Impressioni di coraggio, di paura, di fedeltà e d'amore. Loathi. Greta. Il piccolo Jan. Vendetta. No, non vendetta... cooperazione costruttiva. Quella era stata la sua politica. Ma non aveva più una politica, no? Un costruttore d'imperi. Ma aveva rinunciato a costruire imperi. No? Gli occhi di Jan scrutarono la lucente figura segmentata di Khambee che gli stava al fianco. E dalla confusione affiorò improvvisamente la verità. Comprese con chiarezza una delle funzioni del robot. Khambee era stato il servitore di una razza di combattimenti. Un operaio e, quando l'occasione lo richiedeva, anche... un guaritore. Lui, Van Tyren, era stato guarito e ritemprato. Il senso delle responsabilità future era ritornato, e adesso era pronto ad affrontarle. «Immagino che potrei decidere comunque di abbandonare il Sistema Solare, e tu mi obbediresti,» disse. «Ma probabilmente hai sempre saputo quale sarebbe stata la mia scelta finale. Rientra nel tuo ripostiglio, Khambee. Tornerò a Joraanin... da solo. È compito mio.» Khambee l'aiutò a raccogliere la sua roba ed a trasportarla alla scialuppa spaziale. Il portellone del compartimento si aprì. La luce del Sole entrò, e il corpo dell'automa rifletté mille colori cangianti e iridescenti. Mentre Van Tyren stava per salire a bordo, Khambee gli mise un foglio tra le mani. Era la carta su cui Jan aveva scarabocchiato le misurazioni astronomiche ed aveva calcolato l'orbita e la velocità del relitto. Più che mai, ebbe la sensazione che Khambee fosse in grado di leggere i
suoi pensieri più intimi. Sentì che qualcosa stringeva la gola. «Grazie, Khambee,» disse, in tono molto serio. «Questo potrà essermi utile. Forse, prima o poi, sentirò il desiderio di ritornare. Il bisogno di ritornare.» La scialuppa si lanciò nello spazio. Jan Van Tyren canticchiava un motivo che si perdeva nel rombo dei razzi. Davanti a lui stavano Giove ed i suoi satelliti. E più oltre, le stelle fulgide parevano sorridere. Titolo originale: Derelict (Astounding Stories, ottobre 1935). APPENDICI
LEO MOREY (Amazing Stories, agosto 1935). Le Appendici che seguono sono destinate a quanti, incuriositi e (spero) interessati dalle precedenti sezioni di narrativa e saggistica desiderino sapere qualcosa di più sul periodo esaminato. Tutti i dettagli relativi riempirebbero però interi volumi: ho fatto quindi del mio meglio per condensare l'essenziale in una forma facilmente comprensibile e consultabile. Il materiale bibliografico e informativo è organizzato nel modo seguente: APPENDICE 1: Bibliografie 1926-1935. Comprende l'elenco delle opere fantascientifiche e fantastiche dei dieci autori compresi nella Parte I, più altri dieci autori che considero particolarmente rappresentativi del periodo. APPENDICE 2: Elenco delle riviste 1926-1935. Riassume anno per anno le riviste apparse, divise per testate e per date di pubblicazione. Comprende anche le riviste semi-professionistiche. APPENDICE 3: Elenco dei curatori 1926-1935. Riporta in ordine alfabetico i nomi dei direttori editoriali di tutte le riviste fantascientifiche e fantastiche apparse nel periodo trattato, specificando i numeri da loro curati. APPENDICE 4: Guida ai disegnatori 1926-1935. Riporta la frequenza d'apparizione dei principali illustratori del periodo sulle copertine delle riviste. Legenda I titoli delle riviste sono stati abbreviati come segue: AD ARG AS ASQ ASS AW
= Amazing Detective Tales. = Argosy. = Amazing Stories. = Amazing Stories Quarterly. = Astounding Stories. = Air Wonder Stories.
FF FM GN MC MT OS PN S&I SD SFD SFS ST SW SWQ TSB WS WSQ WT
= The Fantasy Fan. = Fantasy Magazine. = The Galleon. = The Magic Carpet Magazine. = Marvel Tales. = Oriental Stories. = Paris Nights. = Science and Invention. = Scientific Detective Monthly. = Science Fiction Digest. = Science Fiction Series. = Strange Tales = Science Wonder Stories. = Science Wonder Quarterly. = Ten Story Book. = Wonder Stories. = Wonder Stories Quarterly. = Weird Tales.
Un numeretto 1 dopo un titolo rimanda in calce all'elenco, specificando l'eventuale pseudonimo sotto il quale è apparsa la storia. Una lettera maiuscola fra parentesi (A) dopo il titolo di una storia rimanda in calce all'elenco specificando se la storia stessa fa parte di una serie, e in questo caso riporta la denominazione con la quale la serie è più nota. Le seguenti indicazioni prima della sigla della rivista precisano la lunghezza della storia: s = short story (racconto breve: fino a 35 cartelle dattiloscritte) nt = novelette (racconto: da 35 a 70 cartelle dattiloscritte) sn = short novel (romanzo breve: da 70 a 100 cartelle dattiloscritte) n = novel (romanzo: più di 100 cartelle dattiloscritte). Se il romanzo è apparso a puntate, una cifra dopo la «n» indica il numero delle puntate: così, «n3» si riferisce ad un romanzo apparso in tre puntate (la data indicata è quella del primo episodio).
Appendice 1 Bibliografie 1926-1935
Appendice 2 Elenco delle riviste 1926-1935
Appendice 3 Elenco dei curatori 1926-1935
Appendice 4 Guida ai disegnatori 1926-1935 Per vendere, le riviste devono avere una copertina attraente, e durante questo periodo molti artisti famosi hanno prodotto i loro risultati migliori: in particolare Paul, Morey e Wesso. Nell'elenco che segue è riportato il numero di copertine eseguite per ciascuna rivista dai diversi illustratori (fra parentesi, la proporzione rispetto al totale).
FINE