PATRICK FOGLI LENTAMENTE PRIMA DI MORIRE (2006) a C. del colore del mare «Io sono una maschera che nasconde la realtà. Dietro di me, nascosta, la realtà continua, al riparo da occhi indiscreti.» PHILIP DICK, L'uomo nell'alto castello «Pensa che l'amore è il contrario della sottrazione, perché aggiunge soltanto, dopo pensa che non è così, anche l'amore toglie, pensa che l'amore non è fatto per essere pensato, è fatto per essere vissuto. Ha finito la sigaretta, rientra, l'amore termina quando ha bisogno di pensieri, quando si fa problema.» LUIGI BERNARDI, Tutta quell'acqua «Morte vigliacca, ho visto come gli giravi intorno in cerca di preda. Facile preda, un corpo che non può difendersi, una volontà che dorme e non può opporsi. Ma non sarà così facile. Questa notte sarò io di guardia.» PATRIZIA BISI, Daimon Uno «Mi benedica padre perché ho peccato» dice e si rende conto subito che non pronuncia quella frase da un sacco di tempo. Forse l'ultima volta è stata dopo la cresima. O subito prima. Non riesce a ricordare con precisione il momento, solo che è lontano e ripensarci lo fa sentire a disagio. Sono le nove del mattino di un giorno feriale e la chiesa di San Giacomo è praticamente deserta. Si è alzato molto presto per arrivare in tempo. Ha viaggiato con calma, ma è impaziente di finire in fretta quello che deve fare. Non gli piace l'idea di incontrarsi con un prete, sa per esperienza che spesso la tonaca nasconde
uomini più spietati di quelli che girano con la pistola in tasca. Come fa lui. Trovare il borgo di Soncino, a metà strada fra Crema e Manerbio, è stato facile. Più volte si è chiesto perché proprio lì. Perché una chiesa. Ma non è importante. Il prete deve dargli qualcosa da parte di qualcuno difficile da trovare. Qualcosa di molto costoso da portare subito in un posto lontano da lì. È una questione d'affari e alla fine quello che gli dà fastidio di più è non sapere esattamente con chi li sta facendo, questi affari. Di certo uno preciso, a giudicare dalle indicazioni che ha ricevuto e che lo hanno portato lì, inginocchiato, con quella frase in bocca. «Mi benedica padre perché ho peccato.» «Mi piacciono le persone puntuali.» La voce del prete è un sussurro senza timbro, un soffio di vento. Tenta di sbirciare ma riesce a distinguere solo una tonaca e una figura che potrebbe essere chiunque. Doveva essere già lì ad aspettarlo. Da quando si è seduto e ha tirato la tenda, secondo le istruzioni ricevute, non ha sentito entrare nessuno. «Hai la busta?» Quel sussurro gli mette paura perché proviene da un corpo immobile. È solo la voce di un'ombra. Meglio avere una pistola puntata contro, almeno sai che rischio stai correndo. E anche sentire il peso dell'arma nella tasca del giubbotto non serve a farlo stare tranquillo. L'unica cosa che lo rassicura è che durerà poco. «Sì, ho la busta.» «Guarda sotto l'inginocchiatoio.» Allunga una mano. Infilato sotto, c'è un pacchetto. «Sì, trovato.» «Quello che ti serve è lì dentro. Digli di lavarlo bene. Solo con acqua. Poi deve usare il sale.» «Va bene.» «Non aprirlo. Quando lo consegnerai lo apriranno per controllare, ma non noteranno niente. Sembrerà solo qualcosa di sporco.» «Ho capito.» «Adesso metti la busta sotto all'inginocchiatoio. Prendi la tua roba e vattene senza voltarti. Se lo fai muori. Forse non oggi, né domani. Forse quando credi che ti abbia solo minacciato. Ma stai sicuro che poi muori.» «Tu sei...» tenta di dire e quando l'altro lo interrompe capisce che non c'è
nessun intermediario, nessun prete. È un affare fra lui e il tizio dall'altra parte della grata. «Il tuo confessore» risponde il sussurro. «Colui che conosce tutti i tuoi peccati.» Fa una pausa. «E che sa come dispensare le penitenze.» Bologna, aprile 2003. Otto del mattino La luce diventa improvvisamente troppo forte e Alice si sveglia. A occhi chiusi, il corpo immobile disteso quasi sulla pancia, sente le zampine della gatta che si muovono sul copriletto. È una presenza che la fa stare bene. Forse l'unica presenza nella sua vita che senza un motivo ci riesce. Quella bestiolina finita in casa sua per puro caso la fa sentire amata in un modo che le assomiglia molto. L'unico modo che sente di volere, adesso, nella sua vita. «Dove sei, pirulina?» dice senza aprire gli occhi. La voce che le esce è una delle tante da cartone animato che le vengono spontanee quando parla con la gatta. Sposta il capo e apre piano l'occhio destro, libero dalla pressione del cuscino. Con la punta dello sguardo le sembra di vedere un'ombra, a meno di un metro da lei. Sente di nuovo quel movimento leggero, poi gira la testa del tutto e la vede. «Ciao micina» le dice sorridendo. La gatta le accarezza una guancia, senza unghie. La zampa sembra un piccolo batuffolo di cotone con dentro un bastoncino. È bello sentirla sulla pelle ancora morbida di sonno. Alice resta lì, nella stanza bianca avvolta dal silenzio, quasi che il mondo fuori si sia finalmente fermato. Guarda il corpo lungo e sottile della sua micia, le linee scure sul dorso grigio che svaniscono improvvisamente sulle zampe, gli occhi luminosi e attenti, le orecchie grandi che si drizzano per inseguire chissà quale suono. «Dai, ci alziamo?» dice all'improvviso. «Mi faccio una doccia poi ti do la pappa.» Si alza. Rapida e morbida. Il pigiama le scende su una spalla e lei lo riaggiusta con un breve gesto della mano. Si avvicina alla finestra, apre appena il vetro e guarda fuori. Sente l'odore della pioggia arrivare attraverso il vetro socchiuso prima ancora di vedere la strada, oltre il piccolo cortile e la gente che sfila giù dall'autobus tenendo stretti gli ombrelli. A Bologna piove quasi da una settimana e lei non ne può più di tutto
quel grigio che raccoglie in una cornice scadente i quadri senza colori delle sue giornate. Non ne può più di aprire gli occhi alla mattina senza un motivo e con quel peso addosso che non riesce a decifrare. Andare al lavoro e desiderare con tutte le sue forze di non farlo più, di cambiare, di essere diversa. Di riconoscere di nuovo se stessa nella donna che ha paura di essere diventata. Ha pensato a licenziarsi almeno un migliaio di volte, ma le manca il coraggio, per prendere il momento giusto e mandare a fare in culo quel rompiballe ansioso del suo capo. Ci pensa spesso a come potrebbe farlo. Di sera, quando l'arrivo del mattino dopo diventa un'ansia insopportabile alla base dei pensieri. E di pomeriggio, quando esce dall'ufficio stremata nella mente e nel corpo e la speranza che esista un modo per non tornarci più diventa così forte da trasformarsi in tristezza, a contatto con una realtà completamente differente. Succede ogni giorno, ma alla fine non cambia mai nulla. Forse, in fondo, non vuole davvero farlo. Perché sa benissimo che il problema è un altro. Non è il lavoro, non è la pioggia. Il problema, forse, è semplicemente affogato nei suoi pensieri. Con un balzo leggero la gatta salta sul bordo della poltrona a fianco della finestra, si siede e guarda fuori. Alice si volta e le sorride. L'accarezza seguendo con la mano il rilievo della spina dorsale. Sente il sottile rumore delle fusa che crescono, come un motorino elettrico in grado di alimentare la sua voglia di vivere. Resta ferma, la mano sulla schiena della gatta e lo sguardo lontano. Una goccia di pioggia che scivola sul vetro, una donna che sale sull'autobus, il traffico che da lì sembra muoversi senza far rumore. Poi, senza un motivo preciso, entra in bagno, si spoglia con pochi gesti e si infila nella doccia. L'acqua è tiepida e colorata dei riflessi della sua pelle. Con morbida energia si passa il bagnoschiuma sul corpo, la testa leggermente spostata, per non bagnarsi i capelli. Si insapona il seno grande e accogliente e i fianchi. Alza una delle lunghe gambe a cercare l'interno delle cosce, i polpacci, i piedi che non le sono mai piaciuti. Poi risale di nuovo, verso la pancia, accarezzandola piano, indugiando con la mano avvolta in una schiuma azzurrina, un gesto che ripete con ossessiva lentezza quando ha bisogno di tranquillizzarsi. Sono tutti movimenti forti, decisi, eppure pieni di una strana forma di morbida sensualità. Non è solo una donna che si lava. È una donna che conosce il suo corpo.
Esce dalla doccia in un bagno pieno di profumo. Le piastrelle blu luccicano di vapore acqueo. La luce azzurra che riempie la stanza le dipinge la pelle di una tonalità più scura. Nuda davanti allo specchio si guarda. Le piace farlo. In qualunque tipo di specchio. Quelli enormi dei grandi magazzini e quello piccolo del bagno di casa sua davanti al quale sta adesso, lievemente appannato dal vapore della doccia, velato dal riflesso azzurro delle piastrelle. Le piace guardarsi e cercare di capire com'è da fuori, con quel seno grande e sodo che non ostenta mai e contro cui ha lottato con ferocia in anni passati, con quel corpo morbido che si muove lentamente anche quando cammina veloce, gli occhi sottili e lunghi, mai spalancati che sembrano guardarti e tagliare qualcosa nell'aria, prima di arrivare a destinazione. Sa di essere bella. Lo saprebbe anche se non glielo avessero ricordato noiosamente sempre tutti nella sua vita. Come se non ci fosse altro sotto. Come se l'involucro nascondesse sempre tutto quello che contiene, tutto quello che c'è e che nessuno sembra aver mai visto, trovato, toccato. Nessuno, tranne uno. Si passa una mano piccola e quasi maschile fra i capelli umidi. Arrotola un ciuffo dietro le orecchie e poi, con tutte e due le mani, si ravviva i capelli corti e scuri, anarchici come i suoi pensieri e perennemente in lotta per mantenere una piega che sembrano non voler rispettare. Alla fine rinuncia e si volta, come per telepatia, nell'esatto istante in cui la testa della micia fa capolino dalla porta del bagno. «Croccantini?» La gatta accetta la proposta con un miagolio sottile. Si mette addosso un asciugamano e si infila in cucina, attraversando la casa ancora in penombra. «Giù da lì!» ordina secca alla micia balzata di scatto sul tavolo per controllare meglio la situazione. Lei la guarda, inclina la testa, scende su una sedia e con un altro salto si apposta sul lavello. Passa dagli occhi di Alice, così vicini ai suoi, alla scatola dei croccantini. Poi fa un altro di quei versi sottili. Come un segnale. «Va bene, te li do.» Alice sorride e riempie la ciotola. Poi torna in camera. Si veste, nella stanza piena della luce grigia di quel mattino, e quando ha finito resta un momento a fissare i suoi occhi dietro il vetro di una fotografia. Niente di quello che le passa nello sguardo le piace. Niente di quello
che passa nella sua vita. Eppure potrebbe bastare così poco. Guarda l'orologio, nell'ennesima puntata della sua corsa contro il tempo. Pensa a quanto ne perderà ferma al semaforo all'incrocio fra via Bovi Campeggi e via Zanardi. A Bologna, nelle ore di punta, il traffico assomiglia a una gita all'ufficio postale nel giorno di consegna delle pensioni. Bisogna portarsi un libro, un giornale, qualche genere di conforto e aspettare con rassegnata pazienza. Ma nello stesso tempo bisogna tenere d'occhio chiunque voglia tentare di infilarsi e fregarti il posto, guadagnando qualche metro. Praticamente una guerra. Prende la borsa, controlla rapida che dentro ci sia tutto. Poi raccatta il cellulare dal comodino. Lo accende e il messaggio arriva subito, come sempre, puntuale e preciso. «Anche te sei un bel tipo, Gabriele. Mah...» dice a metà fra l'orgoglioso e l'infastidito leggendo le parole che le sono arrivate. Le poche frasi di buongiorno che lui le manda ogni mattina. «Vado via, miciolina. Mi raccomando. Fatti pure le unghie sul divano di pelle, rompi un altro vaso e se ti annoi, attaccati alla biancheria e rovescia lo stendino.» Si china, stampa un bacio sul muso della gatta che socchiude gli occhi ricevendolo, ed esce. Sale in auto e mentre la prima goccia di pioggia di quella mattina cambia colore scivolando sul parabrezza, si chiede per l'ennesima volta che cosa ci sia che non va. In fondo è un giorno uguale a tutti gli altri. Almeno è quello che crede infilandosi in strada per cominciare la sua lotta personale contro il traffico. Scattando in una piccola nube d'acqua al primo semaforo non sa quanto invece tutto sia sul punto di cambiare, come una grandinata a settembre che si porta dietro l'autunno, spazzando dall'aria gli ultimi ricordi di una stagione vecchia e che ormai non c'è più. Supercarcere di Marino del Tronto, quattro del pomeriggio Nel silenzio della cella si passa i granuli di polvere da una mano all'altra. A contatto con la pelle sembrano fatti di quella strana gomma con cui si riempiono i pacchi postali. Solo infinitamente più piccoli, semplici palline bianche.
Gliele ha mandate lui. Lo sa perfettamente. Solo lui può avergli mandato una roba così. Si chiede come abbia fatto il Muto a contattarlo. Forse si è ricordato di una volta in cui gliene ha parlato, un sacco di tempo fa. Non che sia importante. Quello che conta è che abbia fatto qualcosa per aiutarlo. Nel pacco c'erano una maglietta e un paio di pantaloni. È stato suo cugino Luca a portarglielo. E poteva venire solo lui. Su questo il 41bis parla chiaro, un pacco dai famigliari e un colloquio al mese con un parente, in una stanza separata, con un vetro in mezzo, le telecamere a riprendere e microfoni a registrare tutto. E così è toccato a suo cugino portargli quel regalo in un pacco anonimo, una carta marrone e uno spago colorato. Chissà se sapeva cosa c'era dentro. «Hanno detto che potrebbe essersi sporcato, ma basta un poco d'acqua e va tutto a posto» gli aveva spiegato Luca e lì per lì non aveva capito cosa volesse dire. Poi però era tornato in cella, aveva lavato la maglietta e i pantaloni. E appena la maglia si era asciugata era venuta fuori la polvere. Come gli aloni di sale che restano attaccati ai boxer stesi al sole, dopo un giorno di mare. Forse quello è proprio sale. Un sale molto strano. Un sale che non esiste da nessuna parte. Si chiede che persona sia veramente quella che ha prodotto una sostanza del genere e perché lo faccia. Se c'è una cosa che ha capito è che c'è sempre un motivo dietro alle azioni di qualcuno. Anche per quello che ha fatto e che sta per fare uno come lui. E pensando a quel motivo finge di ignorare la paura, lecca la polvere bianca e si distende sulla branda. Appoggia le mani sul petto e aspetta. Anche se non sa assolutamente cosa. Bologna, all'inizio della notte «Non ti muovere.» Lo dice con decisione. E tutto scivola in un pesantissimo silenzio. «Perché se mi muovo che cazzo fai, poliziotto?» L'uomo che lo ha chiamato poliziotto è alto, pelato e vestito come qualcuno che potresti incontrare in un bar del centro e farci due chiacchiere mentre ceni a salatini. Ha due spalle grosse come un toro da corrida, la
barba che cerca disperatamente un rasoio, la mano ferma di chi si è già trovato in quella situazione. Stringe una calibro .38 puntandogliela dritta in direzione del volto. «Non ti muovere» ripete Gabriele Riccardi e il tono è esattamente lo stesso di prima. Anche lui ha una pistola in mano, la Beretta d'ordinanza, e la tiene davanti a sé, in direzione della punta del naso dell'altro. «Io adesso faccio due passi e me ne vado tranquillo tranquillo» dice l'uomo che lo ha chiamato poliziotto e dall'intonazione delle vocali Gabriele pensa che sia bresciano o bergamasco. Hanno sempre pensato che la banda delle ville non fosse di Bologna. Scuote lentamente la testa, lo sguardo fisso davanti a sé. «Non ti muovere» dice per la terza volta e con la coda dell'occhio controlla la situazione. L'ingresso della villa è illuminato da una sottile luce rossastra, forse una lampada, accesa da qualche parte. Ma non è quello che conta. È importante focalizzare altri particolari. I tre agenti che gli stanno a fianco e che bloccano con lui l'uscita sul giardino. E gli altri due, fermi vicini alla porta d'ingresso, le pistole spianate con un nervosismo per niente nascosto. È importante controllare i piedi dell'uomo che gli sta di fronte e vedere se si spostano. Qualcuno una volta gli ha detto che per capire da che parte si muoverà un individuo, bisogna guardare dove puntano i suoi piedi. E i piedi di quel tizio sono girati dritti verso di lui. Non è un dettaglio da poco. Ed è importante sapere che l'uomo che lo ha chiamato poliziotto tiene bloccata una ragazzina con un braccio intorno al collo. Un piccolo gruppetto di ossa ricoperte di pelle e di un pigiama a fiori, troppo spaventata per potersi muovere anche solo di un centimetro. Per poter dire o fare qualsiasi cosa che non sia avere paura. Tanto basta. È tutto quello che serve. «Senti poliziotto, adesso io e lei usciamo di qui e ce ne andiamo. E tu e i tuoi amici ci guardate andare via e non fate un bel cazzo di niente, hai capito?» Odia quell'accento. Non sa esattamente perché, ma lo odia. «No. Non vai proprio da nessuna parte. Ti ho detto di non muoverti.» È la quarta volta che lo dice. Sa che non ce ne sarà una quinta. Senza spostare lo sguardo vede il piede destro dell'uomo muoversi impercettibilmente. Probabilmente nemmeno lui sa di averlo fatto. Poi la
canna della pistola cambia lievemente inclinazione, come se stesse sistemando la mira per premere il grilletto. E prima che lo faccia, Gabriele spara. Il proiettile buca la spalla all'altezza della clavicola. Non fosse per la rapidità dello sparo e per il tuono sordo dell'esplosione, si sentirebbe l'osso spezzarsi. Così, invece, tutto evapora nella detonazione e nelle urla, quelle di dolore dell'uomo che lo ha chiamato poliziotto e quelle di paura della ragazzina in pigiama. Poi tocca agli altri agenti prendere in consegna l'armadio pelato e portarlo via insieme ai suoi complici, già nelle volanti. Gabriele Riccardi, commissario della mobile di Bologna, si avvicina alla ragazzina. Le pulisce con un fazzoletto il viso da uno schizzo di sangue non suo e le sorride. Da vicino è ancora più piccola. Accarezzandole piano una guancia sente tremare la pelle gelata. «È tutto finito. È tutto finito» ripete piano, poi si allontana. Fuori la notte è grigia e piena di pioggia. Ha ancora molte cose da fare, ma ad aspettarlo ora ci sono solo i suoi pensieri. Supercarcere di Marino del Tronto, un punto imprecisato della stessa notte Ha cominciato a pensare che quello stronzo lo avesse fregato verso le undici di sera. Il suo è un mondo in cui non ci si può fidare di nessuno nemmeno quando sei fuori di prigione. Figurarsi dentro. Qualcosa non andava. Non poteva essere tutto a posto quando sentiva la schiena spaccata in due, come se qualcuno gli avesse piantato qualcosa nelle reni, infilata così tanto dentro da uscirgli dalle palle. Gli ricordava il modo in cui aveva fatto fuori uno dei corleonesi, un paio d'anni prima, buttandolo da un ponteggio in un cantiere, di notte. Il tipo era caduto per cinque o sei metri e si era impalato su una fila di tubi d'alluminio che spuntavano dal pavimento. Quando era sceso dal ponteggio per dare un'occhiata, uno di quei cosi gli spuntava dalla pancia, sotto l'ombelico. Ma era ancora vivo. Probabilmente aveva sentito meno dolore di quanto ne stava provando lui adesso. Prima, mentre aspettava che succedesse, si era ripromesso di fingere do-
lore più che poteva, di urlare come un capretto sgozzato per la festa del paese o come certi che aveva visto al cinema che gridavano come maiali mentre morivano con la gola squarciata. Cazzo, lui aveva tagliato la gola di un bel po' di gente, ma nessuno riusciva a urlare. Gorgogliavano sangue e saliva mista a bestemmie e paura. Altro che parole. Non li avresti sentiti nemmeno a un centimetro di distanza. Poi tutto era cominciato. Una specie di prurito poco sopra il culo, poi una strana sudorazione e alla fine qualcosa di colpo gli aveva aperto la schiena come un asse di legno marcio. E lì aveva urlato per la prima volta. Aveva urlato come il maiale che viene attaccato al gancio, ed erano urli veri, che venivano da dentro, non puttanate. Era lì, quando aveva scoperto che non aveva bisogno di fingere, che aveva pensato che quello stronzo lo avesse venduto. Magari insieme al Muto, per tenersi i suoi soldi, ma tutti, non solo i centomila euro che gli aveva già dato. Anche quelli nascosti e che avrebbe impiegato una vita a scovare, quel figlio di una grandissima troia. Quando a forza di urlare sputava ormai fuori la voce come carta vetrata, era arrivato il dottore. Per visitarlo avevano dovuto tenerlo stretto in tre, perché lui proprio non riusciva a stare fermo. E grande e grosso com'è, quando partiva lo spasmo, saltava sul letto senza nemmeno volerlo. Come se un pezzo di vetro gli si spostasse da qualche parte fra lo stomaco e le palle. «Probabilmente è una colica renale» aveva detto il dottore, e i tre secondini lo avevano preso di peso, ammanettato a un lettino e spedito in infermeria, che per quelli del 4 Ibis, a Marino del Tronto, è allo stesso livello delle celle, al piano terra. Là gli avevano messo un tubo di plastica in un braccio, con una flebo piena di roba giallina che sembrava piscio. Un altro tubo di plastica nell'uccello e avevano concluso tutto con due punture che lo avevano fatto pisciare quasi subito, neanche si fosse fatto un barile di birra. Ma il dolore non era passato. Almeno fino alle tre del mattino. La guardia che c'era nella stanza e che lo sorvegliava, seduta in un angolo su una sedia di plastica, lo aveva visto sudare e stringere con le mani il lenzuolo, così forte che le nocche gli diventavano bianche. Era andata avanti per più di due ore. Poi era successo all'improvviso, come una scossa di terremoto. Il dolore era scomparso. Semplicemente, senza che ci fosse un motivo preciso.
Cazzo, chiunque fosse l'uomo che gli aveva mandato quel pacchetto era uno che sapeva il fatto suo. E adesso che il dolore non c'era più bisognava fare finta, ricordare com'era quando la schiena sembrava rompersi e ripetere tutto allo stesso modo. I gesti, le smorfie, le bestemmie. «Non possiamo tenerlo qui» aveva detto il dottore alle tre e mezza. Dopo meno di cinque minuti lo avevano di nuovo ammanettato al letto e con tutte le sue flebo era finito su un'ambulanza insieme al dottore e a una guardia, con una macchina della polizia davanti e una dietro. A quel punto bastava solo essere svelti di mano e il gioco era fatto. Bologna, a metà della notte La casa vuota puzza del silenzio e della tristezza di un giorno qualunque. Nel peggior senso della parola. Me ne accorgo improvvisamente, mentre questa notte di aprile vista dalla finestra ha uno strano colore azzurro e il cielo sembra una coperta rimboccata male, di fretta e senza nessuna cura. Sento ancora addosso la pioggia, fine e poi spessa, che copre le strade, le macchine, gli alberi, i pensieri. E non ne posso più. Prendo appunti per questo cazzo di rapporto tenendo gli occhi bassi, la radio accesa, talmente impercettibile che i Coldplay cantano piano, sottovoce, come se la musica fosse solo un pensiero. E invece anche di pensieri non ne ho quasi più. Avrei bisogno di ritrovare le mie idee, di sapere cosa fare e come farlo. Avrei bisogno di sapere delle cose sulla mia vita, cose che sfuggono, che ho perso, che non so più dove sono finite e che colore hanno. La telefonata del questore non ha certo aiutato. Prima mi fa i complimenti. Dice che aver preso quelli delle ville è un gran bel colpo, che finalmente la gente potrà dormire tranquilla, che la mia foto sarà su tutti i giornali di domani e che bisognerà organizzare una conferenza stampa perché finalmente si ricomincia a dare della questura di Bologna un'immagine sana, pulita e onesta. E poi, proprio quando non sto più ad ascoltarlo e spero che la batteria del cellulare si scarichi, lasciandomi in pace almeno nel tempo che mi serve per arrivare a casa, ecco che viene fuori il vero motivo della telefonata. Il rapporto. Deve averlo domattina, prima della conferenza stampa. Non vuole andare davanti ai giornalisti senza sapere esattamente come si sono svolti i fatti.
E io non sono capace di dirgli che non me ne frega un cazzo di quello che dirà ai cronisti domattina, del suo rapporto e della sua idea nemmeno troppo nascosta di usare questa storia per candidarsi a sindaco, l'anno prossimo. Non me ne frega nemmeno un cazzo se si candida, tanto non lo voto perché di un sindaco di quel genere mi basta e avanza quello che c'è adesso. Non riesco nemmeno a dirgli che tutto quello che so fare adesso è pensare al silenzio che mi aspetta a casa. E ai miei pensieri che non stanno mai zitti e che mi ripetono ossessivamente i ricordi e le mie aspettative. Guardo l'orologio. Le tre e mezza di una notte che potrebbe diventare ancora più lunga. Rileggo quello che ho scritto e lo distruggo. «E avanti...» sussurro appena, evitando per un pelo la bestemmia. Il telefono è lì, accanto al mouse. Mi osserva come un animale, muto, in agguato. E allora mando via un sms, picchiando sui tasti veloce come una decisione presa d'istinto. Poi provo a ricominciare la frase, il pensiero, il momento. Ma non ce la faccio e so che tutto quello che potrò fare sarà cercare di capire quello che non so capire e poi pedinare la nausea che sento già vicina, fino a quando non sarò costretto a inginocchiarmi davanti alla tazza del cesso per vomitare la mia tristezza. Tutto lì. Oltre, naturalmente, a pensare ad Alice in ogni piccolo istante. Statale fra Marino del Tronto e Ascoli Piceno, nello stesso momento L'ambulanza fila spedita e lui ormai si sente decisamente bene. Qualsiasi cosa ci fosse in quel maledetto sale, a questo punto è sparita, magari pisciata via in uno qualsiasi dei momenti da sogno che il pieno di medicinali gli ha regalato. Ora però, bisogna muoversi. Deve farlo finché è per strada. In ospedale sarà impossibile. Se si muove abbastanza alla svelta può sfruttare il fattore sorpresa e tutto andrà bene. Altrimenti ci sarà di nuovo la cella, i suoi soldi andranno in fumo e tutto il dolore che ha sopportato sarà stato inutile. Pensa al motivo per cui sta scappando. Un secondo solo, prima di agire. È tutto quello che gli serve. Farfuglia qualcosa fra i denti, gli occhi socchiusi. La guardia si muove appena, quel tanto che basta per voltare il viso tutto dalla sua parte. Probabilmente non si accorge nemmeno della gomitata che
parte. La sente solo arrivare dritta sul mento con attaccato tutto il peso del corpo dell'enorme detenuto. Poi succede tutto in un attimo. Allungandosi veloce, toglie la pistola al poliziotto e lo colpisce col calcio dell'arma alla tempia. Non vuole sprecare pallottole e non può fare rumore. L'ambulanza ha appena sterzato con decisione e il pronto soccorso ormai deve essere vicino. Si gira verso il medico e gli punta la pistola dritta in faccia. «Non dire una parola e cavami questa merda, dottore» dice svelto. «E per primo questa specie di tubo che m'avete infilato nel cazzo.» Il medico fa tutto in apnea. Due minuti dopo la volante che segue l'ambulanza vede un uomo buttarsi dal portellone di dietro, circa all'altezza dell'incrocio fra via di Folignano e la Salaria. Lo cercano tutta la notte senza nessun risultato. Gaspare Nunia sembra sparito nel nulla. Due Bologna, 19 aprile. Da qualche parte dietro la stazione Potrebbe anche spuntare il sole. Strano per questa primavera in cui piove sempre. Pensa che sia un segnale. Una giornata col sole, proprio una settimana prima di Pasqua, proprio quel giorno lì. C'è stata pioggia per una settimana intera. Un cielo troppo scuro per essere vero e poi il sole. Proprio quando non ci sperava più. Assomiglia alla sua storia. Anche lì è successo qualcosa che non si aspettava. E così quel sole è per forza un segnale. E lui è pronto. Resta ancora una cosa da fare. Una sola, piccola piccola. Talmente insignificante che nessuno ci baderà. È lì per quello. Da dietro il vetro della macchina la vede arrivare. Ha un paio di pantaloni scuri e un giubbotto di pelle nero. La segue con la coda dell'occhio mentre attraversa la strada e si avvicina al cancello. Lo fa ogni mattina. Guarda l'orologio. Le nove passate da poco. Ogni mattina lei arriva al lavoro alla stessa ora. Al massimo dieci minuti di ritardo, non di più. È una fortuna che esista gente così abitudinaria. Basta seguirla in silenzio, avere
la pazienza di annotare spostamenti, luoghi, ore, date e tutto torna. Dopo, basta solo fare quello c'è da fare. Quando la donna con il giubbotto di pelle entra nel cancello, lui s'infila nel bar e ordina un cappuccio. Lo beve appoggiato al frigo dei gelati, buttando un'occhio ai giornali alla ricerca di una notizia che ha sentito prima alla radio. Ma non la trova. Probabilmente hanno chiuso in tipografia troppo presto. O tutto è successo troppo tardi. Dipende dai punti di vista. Ma non è importante, solo una piccola curiosità. Nient'altro. Qualcosa da scacciare dalla mente subito dopo essersi pulito il viso dalla schiuma morbida del cappuccio. E che lo fa sorridere, pensando a quello che sta per fare. «Hai scritto quel rapporto?» mi chiede Ippoliti. E io non lo guardo nemmeno. Penso e basta. E non so neanche a cosa. So solo che ho un rumore di fondo che mi collega alla realtà, a quello che devo fare. Come il ronzio dei trasformatori o lo strano sibilo dei frigoriferi di notte. E so che ho paura. Una condizione normale per un poliziotto, forse. La paura che qualche fuori di cranio ti pianti un proiettile in testa per uno, cento o nessun motivo. La paura di sbagliare e di fare del male a qualcuno che non ha nessuna colpa. È una paura che devo affrontare, con i suoi rimorsi. Ma sono paure e rimorsi normali per uno che fa il mio lavoro, anche in un posto come questo. Bologna non è Milano, Bologna fa le cose piano, con metodo, ma sottopelle. Come i virus. E non è quella la paura che ho. Non è quella che sento scivolare sottopelle. Non è quello il mio virus. Assomiglia di più a qualcosa che ti manca dentro e su cui scopri, il giorno in cui ti accorgi che potrebbe non esserci più, che appoggiavano tutte le tue sicurezze. «Hai scritto quel rapporto?» mi chiede di nuovo Ippoliti e io lo guardo un po' stranito. Poi capisco. «No, non l'ho scritto.» «Questa volta il questore ti fa a pezzi. È tutta mattina che rompe i coglioni. Ha cominciato che non erano nemmeno le otto. La conferenza stampa è a mezzogiorno. Stavolta ti fa un culo così.» «Faccia quello che vuole. Non me ne frega un cazzo» gli rispondo tutto d'un fiato. Ed è esattamente quello che penso. «Io per prendere quegli stronzi mi sono sbattuto per due mesi. E lui mi ha spaccato le palle ogni
giorno perché aveva paura che quei quattro andassero a rapinare qualcuno pieno di pilla che abita su per San Mamolo. Tutti i giorni. Riccardi di qua e di là. E alla fine li ho presi. Quello che dovevo fare l'ho fatto. A farsi eleggere sindaco deve pensarci da solo.» Ippoliti si siede davanti a me. Ha la tipica faccia del bolognese stanco, gonfia, arrossata dal freddo di queste strane giornate di primavera. Vedo quella faccia da quasi dieci anni, tutte le mattine. Le sopracciglia folte e il naso lungo e affilato di uno di quarantasei anni, troppo magro per non sembrare più vecchio di quello che è. Uno che alla gente sembra stronzo, a pelle. Ma solo perché di solito la gente è abituata a considerare i silenzi come voglia di starsene lontani e la testa alta e il passo deciso come un sintomo di superiorità. Prendendo delle fregature terrificanti. Guardo i suoi occhi troppo azzurri per una faccia come quella e cerco di pensare che giorno era quando l'ho conosciuto. Ma non me lo ricordo. «Da quanto tempo non la senti?» Lo dice in un sussurro. Come se avesse una griglia in gola e la voce facesse fatica a uscire. Sorrido perché per lui sono trasparente. Io, da fuori verso dentro. «Un po'.» «Un po' quanto?» «Un po'» ripeto soltanto, ma più duro. E vorrei dirgli che sono cazzi miei, anche se non so se ho sentito bene quello che mi ha chiesto. E mi gratto piano il pizzetto. Mi giro e guardo fuori. Vedo la mia faccia, riflessa nel vetro e non è triste. Solo incazzata. Avevo quest'espressione spesso, da bambino, quando le cose non andavano come volevo. E continuo ad averla adesso, da grande, quando mi accorgo che la vita mi sfugge di mano e non so come fare per rallentarla, per agganciarle la coda e farla fermare. Quando sono incazzato con qualcuno e allo stesso tempo non lo sono. E sono incazzato con Alice, mentre continua a piovere, e guardando quella pioggia mi ricordo troppe cose. Di un sogno, per esempio, che lei mi aveva raccontato in macchina, il buio della strada fuori dai finestrini. Un sogno che parlava di una prigione e di un mare pieno di materassi in cui nuotare, nuotare e non trovare l'uscita. Sogni. Fuggire da una prigione che ti rinchiude è difficile. Specie se la prigione del tuo cuore l'hai costruita proprio tu. E magari non lo sai. Poi penso invece che da oggi i tipi delle ville sono solo un numero di protocollo in un archivio di carta destinata a diventare vecchia. E allora mi incazzo ancora di più. Perché non ho un'idea con cui passare il tempo, un
pensiero che mi tenga occupato. Giro intorno alla scrivania e mi siedo. «Me ne sbatto le palle di quel rapporto. E me ne sbatto le palle anche del questore.» «Per il rapporto non ti preoccupare.» Ippoliti mi allunga un foglio. L'ha scritto lui. D'altra parte c'era e ha visto tutto. E quello che non ha visto sa com'è andato. Lo guardo e non so dire niente. Solo prendere quel foglio di carta e tenerlo stretto un secondo prima di appoggiarlo sulla scrivania. Prendo la penna e firmo. «È evaso Nunia» mi dice Ippoliti e l'unico effetto è che rallento per un attimo mentre scrivo le due "c" del mio cognome. Di solito sono più grandi. Stavolta hanno l'aspetto di una piccola onda. «Quando?» «Stanotte.» «Da Marino del Tronto?» gli chiedo stupito. Il supercarcere di Marino del Tronto, a pochi chilometri da Ascoli, è la nuova residenza di Totò Riina, una di quelle fortezze dove vengono ospitati i detenuti in regime di 41bis. Il carcere duro nato per i mafiosi dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino e poi esteso a terroristi e a detenuti particolarmente pericolosi. Non si evade da un carcere come quello. Piuttosto si muore. «Da Marino del Tronto. Si è sentito male. Molto male. Lo stavano trasportando in ambulanza e lui ha steso una guardia, si è fatto togliere le manette dal dottore e poi si è buttato dal portellone di dietro in mezzo alla Salaria.» «Malato...» commento sorridendo. «Malato» risponde Ippoliti e alza appena le spalle. Il massimo dell'ironia che posso pretendere da lui. «Cazzate...» «Cazzate» conferma Ippoliti e si gratta il mento. «Te lo ricordi Nunia?» mi fa. Gaspare Nunia. Una bestia oltre il metro e novanta. Proprietà privata della famiglia Giulio. Uno dal tocco fine e delicato che una volta aveva ammazzato la sorella di un boss attaccandola per il collo a un gancio da macelleria. Lo avevamo preso per caso. Una soffiata. Probabilmente i Giulio stessi avevano deciso che non serviva più. Si faceva chiamare Mario Mannino. Era un giorno di pioggia come oggi. Forse anche peggio. Un giorno che non voglio dimenticarmi mai più.
L'ultima volta che l'ho visto è stato al processo. Ascoltandolo parlare, avevo capito perché tutti quanti avevano paura di lui. Anche lì, davanti a quella condanna grande come un grattacielo, non sembrava scosso e la sua voce non tremava nemmeno un po'. «Non si preoccupi, dottore. Quando una porta si chiude, significa che si può riaprire» mi aveva detto, e lì per lì mi ero chiesto se fosse una minaccia o una semplice affermazione. La porta che gli avevano chiuso dietro pesava tre ergastoli consecutivi. Evidentemente però aveva ragione lui. «Me lo ricordo bene Nunia» dico, e la mia voce esce piatta, sterile come un camice da sala operatoria. Non lo credo così idiota da venire a farmi visita e lo dico a Ippoliti che non è per niente convinto. «Stai attento» mi dice. Attento a cosa, vorrei chiedergli. A cosa faccio, a come mi muovo, alle ombre nel portone di casa o alla macchina che non va in moto per due volte consecutive? Attento alle mani grandi come vanghe di quell'animale, che ha finto di avere chissà che cosa per sgusciare fuori da un'ambulanza in mezzo alla strada come un bimbo abbandonato dalla madre? Quasi quasi, per un piccolo istante, spero che sia veramente a casa ad aspettarmi. Dietro la porta. Pronto a un saluto come si deve. Dai Gaspare, è quasi il mio compleanno. Portami un regalo. Portami un bel gancio in cui affondare la fronte e i pensieri, sentirli svanire, perdersi, annegare. Ma lo so che non ci sarà. Perché non ho paura. Non di Gaspare. So che dietro all'uscio di casa stasera non troverò un ex killer della mafia, ma i miei ricordi. Pronti a saltare fuori in un istante breve come quello che impiego adesso per alzarmi di scatto e guardare Ippoliti in faccia. «Vado dal questore.» Accenna a un sorriso. «In bocca al lupo.» Gli appoggio una mano sulla spalla. Gliela stringo e sento le mie dita strane. Come se avessero troppe falangi. Lo guardo ancora mentre esco dalla stanza. Tocco piano il cellulare nella tasca della giacca, quasi potessi farlo vibrare. Ma naturalmente non succede niente. «Alice, stai bene?» è la domanda che si sente fare. «Sì, sì. Sto bene. Solo un po' di mal di testa. Credo» è quello che risponde.
Però sta pensando al cioccolatino. Quando quel tizio glielo ha offerto, lei non ha saputo rifiutare, maledetta ingorda. «Non posso dire di no a una cosa come questa» ha detto, sentendo il sapore della crema che le si scioglieva in bocca. «Lo so» ha risposto lui. Pensandoci adesso le viene in mente che forse quell'uomo stava sorridendo in un modo strano. Ma è un pensiero che dura un attimo. Un attimo prima che tutto cambi, che qualcosa le tiri le ginocchia verso il pavimento, che senta un tonfo sordo e uno strano dolore alla base della spalla. Un attimo prima che si accorga per la prima volta che qualcosa sta cominciando. «Sei grasso come un maiale e continui a mangiare che mi sembri unto! Guarda che razza di pancia che hai!» Conosco Max da quasi trent'anni ed è sempre lo stesso stronzo. Uno di quelli che riesce a farmi ridere sempre e comunque. Anche in un momento così. «Veh, fighetto, te un fisico come il mio te lo sogni. E te lo sognerai sempre!» gli rispondo e caccio un morso lungo e gustoso al panino che tengo in mano. Il posto in cui secondo prassi collaudata mi sta insultando è un bar, il Calice, a metà strada fra il superlusso dei negozi di galleria Cavour e i vicoli umidi e bui del mercato. Una volta era un'osteria e del passato è rimasto l'ambiente piccolo e buio e la sala al piano di sopra, quella quasi sempre fuori dalla ressa da cortile delle ore di punta, dove mi siedo a spiare Bologna da un punto di vista diverso. Dalle finestre basse della sala al primo piano, Bologna sembra ancora un bel posto in cui vivere. E in fondo lo è. Ha solo deciso di tirare fuori un po' alla volta tutto quello che ha sempre nascosto sotto i sanpietrini e l'ombra dei portici. Cose che ci sono sempre state e che adesso vengono alla luce, una goccia alla volta. Il delitto Alinovi, la Uno bianca, tutta roba che pensi che qui non possa succedere. Tutta roba che in un posto come questo pensi non possa capitare. Ma se lo pensi, vuol dire che non conosci questa città. «Allora?» mi chiede Max. «Allora cosa?»
«Allora come stai?» «Pare che quello stronzo del questore si candidi a sindaco. Puoi immaginare che aria tira.» «Cazzo, quasi mi dimenticavo! Ti ho visto su "la Repubblica" oggi. Potevi almeno sorridere. Certo la tua faccia da sbirro tutto d'un pezzo sarebbe andata a farsi fottere, ma magari trovavi posto come letterina.» «Lo sai almeno che sei un idiota?» gli chiedo sorridendo e penso a quella foto. Me l'ha fatta un tipo che non sono nemmeno riuscito a vedere, mentre uscivo dalla villa. Nell'immagine guardo di tre quarti il cielo cercando di decidermi se verrà a piovere oppure no. Sembra che stia interpretando una difficile legge planetaria. In realtà penso solo al tempo. «Lascialo perdere il questore e smetti di cambiare discorso. Ti ho chiesto come va...» Bevo un altro sorso. «Secondo te?» «Secondo me sei lì che ti rigiri intorno a un sacco di pensieri.» «Può essere. In fondo è solo da tre settimane che non la sento. Che non mi risponde al telefono e ai messaggi. Cosa vuoi che sia?» «Senti» mi dice appena smetto di parlare. «Devi solo tenere duro. Lo so come stai, ma ha solo bisogno di stare sola. Niente di più e niente di meno. Lasciale il tempo di pensare e capire cosa vuole veramente dalla sua vita. Poi vedi cosa succede.» «Già. Forse la cosa che mi sta più sui maroni è proprio vedere cosa succede.» «Perché ogni volta che hai pensato qualcosa su quello che ti succede non hai mai capito un cazzo.» «Adesso... questa qui mi sembra un po' trop...» «No caro, arrenditi all'evidenza! Tu non capisci un cazzo di quello che succede nella tua vita e nella tua testa. Immagino che sia anche difficile capire cosa passa per la tua bella testina, ma è così. Fidati di quello che ti dico.» Bevo un sorso d'acqua e finisco la bottiglietta. «Vamolà un po' come sono messo. Mi tocca fidarmi di uno come te» dico e mi alzo. Max prende il foglietto con l'ordinazione e mi segue. «Io sono un genio, cretinetto, cosa credi?!» mi risponde e ride. Mi piace guardarlo mentre lo fa perché ride con gli occhi. Fuori mi infilo a sinistra, in via Clavature. Una tipa ci incrocia sculettando su tacchi troppo alti. Max la segue con lo sguardo e io penso a quan-
te volte abbiamo vissuto una scena come quella. Lo saluto a una decina di metri dalla fontana del Nettuno. Una goccia di pioggia mi colpisce la punta del naso. «Ricomincia» dico, toccando la pelle appena bagnata. «Stai tranquillo» mi risponde. Poi si porta la mano all'orecchio, il pugno chiuso tranne il pollice e il mignolo, a mimare un telefono. «Va bene. Se ho novità ti chiamo.» «No, chiamami lo stesso.» Mi tira una guancia, prendendola fra pollice e indice. Io lo guardo e mi rendo conto di avere una faccia triste, ma non so fingere. «Sì. Stasera, se torno presto. Adesso devo andare.» Lo saluto e mi muovo verso piazza Galileo. Il questore mi sta aspettando. Non capisco cosa succeda. E mi sta sulle palle non capire. Oggi cascando per terra in ufficio, in mezzo a tutti, ho fatto una gran figura di merda. Quella rinsecchita di Daria mi guardava con una faccia da idiota. «Alice, stai male?» mi ha pure chiesto. Sono volata per terra, che domande mi fai? E adesso la spalla mi fa pure male. Forse dovrei metterci della pomata. Ce ne deve essere da qualche parte. Anche se poi non serve a niente. Ed è pure unta. Sto qui sdraiata sul letto e ho le gambe che mi formicolano, ai polpacci. E in certi momenti anche le dita. Stai a vedere che, col culo che ho, mi becco pure l'influenza per Pasqua. Una bazza! Come se non fosse già un periodo abbastanza di merda. Che due maroni. La testa mi pesa come un sacco di patate e ho l'impressione che da qui a poco mi toccherà scappare in bagno. Sì. Mi devo essere beccata una bella influenza. Forse dovevo vestirmi di più. Mi vesto sempre col calendario, ma proprio quella volta che non lo faccio, figurati. No, l'influenza non la voglio. La volevo una settimana fa. Mi sarei accontentata anche di qualche giorno di febbre. Stavo lì a letto senza fare un cazzo, senza dover pensare, senza mettermi tanti problemi. Gubbiavo, leggevo, stavo per i fatti miei. Sì, ho bisogno di farmi i fatti miei. Lo sai te gatta che ho bisogno di farmi i fatti miei? Di fare come te. E di essere lasciata in pace. Adesso. Sono qui che sfoglio la mia malinconia come le pagine di un libro. Ho
bisogno di stare sola con i miei pensieri. Guarda, se mi tira il culo non faccio neanche la lavatrice. Do solo da mangiare a te, brutta bestia. E sto qui nella mia casina. Mi piace la mia casa. Più la guardo e più mi sembra molto mia. È bianca come piace a me. Piena di cose che servono e di altre che non servono, ma sono belle. Come il quadro con il topo che scappa, che non lo voleva comprare nessuno. Io l'ho preso subito e la tipa che li ha fatti non ci credeva quasi. Poi è piena di foto. Mi piace guardarle, passare intorno ai ricordi, toccarli con le mani e con gli occhi. E poi adoro la mia cucina. Anche te, vero? basta che senti nominare la parola e pensi già ai croccantini! Sì, dopo te li vengo a dare. Dopo però, adesso lasciami un po' qui, tranquilla. Adesso sto qualche giorno a casa e passa tutto. Torna tutto normale. Tutto bello. Dopotutto è primavera. È primavera ma mi sento sola. Tanto sola, delle volte. Sola perché penso che i miei pensieri sono miei e basta e nessuno può riuscire a capirli davvero. Nessun altro. Mi volto su un fianco e appoggio il libro. Poi prendo dal comodino la foto di mia mamma. La guardo e le sorrido. Non alla foto, proprio a lei. Chissà cosa mi direbbe e cosa penserebbe di me oggi. Chissà se sarebbe orgogliosa di quello che faccio, di come vivo. Mentre la appoggio mi blocco. La gatta mi cammina su un polpaccio e penso che dovrei sentirla che si appoggia, dovrei sentire le sue zampette che mi pestano. E invece no. Che cazzo sta succedendo? Forse è solo troppo leggera e non posso sentirla. Oppure stavo pensando ad altro e non ci ho fatto caso. La guardo mentre sale sul comodino, con un mezzo salto che mi sembra lentissimo. Come se potesse fermarsi in aria. Allora metto via la foto e il cellulare vibra piano. Striscio sul copriletto e lo guardo. Leggo il messaggio e non so cosa pensare. Davvero. Non so se voglio rispondere o no. Non so nemmeno cosa risponderei se lo facessi. E allora lo appoggio di nuovo, senza fare niente. Troppi pensieri per una testa sola. Ce ne vorrebbero almeno due o tre. Certo che due o tre teste come la mia non sarebbero male. Ho gli occhi pesanti. Magari è meglio se dormo un po'. Dopo vediamo. Quando mi sveglio. Merda, devo avere anche la febbre. Da come scotta la fronte ce l'ho di sicuro. Dai miciola vieni qui. No, non sul cuscino, qui, di fianco a me. Brava.
Certo che sei piccola piccola, sai? Stai qui con me, adesso. Spengo il telefono e stiamo qui. E bona lè. Chissà a cosa pensi quando ti drizzi sulle zampe e mi fai le gobbe, quando attorcigli la coda come fosse un serpente, quando parti a randa. Eh, me lo dici? Dai, dimmelo, su... Forse vedi delle cose che io non vedo. Chissà che cosa. Chissà cosa pensi. Anch'io dovrei pensare, micia. Ma non ci riesco. Non riesco a fare niente. Non ne ho la forza. Sono stremata. Lasciatemi in pace. Ora. «Immagino che saprà già tutto, commissario.» Il questore di Bologna, il dottor Mario Piras, è un uomo tozzo come un lottatore olimpionico, ma dai lineamenti regolari, senza un filo di grasso e con un'indiscutibile fermezza a toccargli la voce nei momenti che contano. Quelli che lo frequentano fuori e dentro il lavoro potrebbero testimoniare che possiede un tono impostato per le occasioni ufficiali e uno totalmente diverso, in cui lascia trasparire le sue origini sarde, per la vita nel mondo reale. In conferenza stampa sorride poco e mai in modo aperto. La sua immagine pubblica è quella di un difensore della legge tutto d'un pezzo, senza punti deboli e senza mai una macchia su quelle cazzo di camicie bianche che porta sempre nelle occasioni ufficiali. Odio le persone così e lui lo sa. «Sì, ho sentito» gli rispondo e penso che se mi ha fatto volare via dal mio pranzo per dirmi che uno che avevo arrestato è evaso allora poteva lasciarmi mangiare in pace. «Ho pensato di assegnarle una scorta.» Mi viene da ridere. Per un breve istante ho anche il pensiero di sghignazzargli in faccia, poi ci ripenso e mi trattengo. «Mi rimbocco le coperte da solo da quando è morta mia nonna, dottore.» «Senta Riccardi, lasci perdere questi machismi con me. Tanto non attaccano. Credo che non sia prudente sentirsi così tranquillo.» «Può essere che io non sia una persona prudente, dottore.» «E invece lo è. La conosco bene. Da molto tempo, ormai. E mi preoccupo. Ma non per lei, commissario. Mi preoccupo per me. Perché se quel Nunia decide di fare un giro dalle parti di casa sua, lei ci rimette la pelle, ma io ci rimetto le palle. E francamente tengo più alle mie palle che a lei.»
«Opinione condivisibile per qualcuno che ha il non celato desiderio di diventare sindaco. Un sindaco senza palle questa città lo ha già. Di certo non gliene serve un altro.» «Riccardi non...» Tenta di cominciare. Ma non ho voglia di sentire stronzate. Lui ha bisogno di me almeno quanto io ho bisogno di lui. Io di uno stimolo nuovo e lui di un nuovo colpo di teatro da presentare alla folla. E le sue sparate mi stanno sui coglioni almeno quanto la gente della sua parte politica. «Senta, dottore, facciamo così. Io provo a vedere che terra pesta Gaspare Nunia, se è tornato da queste parti, se ha dei conti in sospeso da quando è andato dentro. Se è da queste parti sa che finisco per beccarlo. E lei non mi attacca alle chiappe nessun agente, nessuna scorta armata che mi faccia da piantone fuori dall'uscio di casa.» «L'indagine non è nostra, commissario. Nunia non è evaso dal carcere di Bologna.» «Ufficialmente rimarrà un mio interesse personale. Con quello che è successo potrò almeno essere interessato a sapere che cosa combina quell'animale? Non credo che mi negheranno qualche informazione. Poi anch'io ho le mie fonti, questore.» «E se le dico di lasciar perdere?» «Non credo le convenga. Se Nunia è tornato da queste parti e qualcun altro ce lo viene ad arrestare sotto il naso, lei non ci fa una gran bella figura. Anche se l'indagine non è nostra. E se ha deciso di farmi la pelle è meglio se accoppa solo me. Niente uomini di scorta. Se decido di andarlo a cercare sa benissimo che lo faccio anche se lei tenta di impedirmelo. In più, se qualcosa va storto lei ufficialmente non sa niente. E ne esce pulito come una delle sue camicie.» Piras si appoggia allo schienale della poltrona e fa schioccare le dita. Il rumore è sordo e secco come un ramo che si spezza. «Faccia quello che deve, commissario. Naturalmente io non le ho detto niente.» «E questa conversazione non è mai avvenuta. Come nei film.» «Ma questo non è un film, commissario. Tenga gli occhi aperti.» «Malgrado quello che lei può pensare tengo alle mie palle, dottore.» Esco e appena in corridoio sento che mi chiama. Giro a destra verso la macchinetta del caffè e poi scendo per le scale, senza rispondere. Penso di avere cose più importanti da fare.
Da qualche parte fra Salerno e Reggio Calabria, qualche minuto prima dell'una L'autostrada fila liscia sotto un sole quasi estivo. Da bambino in aprile faceva il bagno con suo padre nella caletta, sotto a un sole molto simile a quello. Era stato in uno di quei pomeriggi che aveva visto il gatto. Lui tirava sassi nel mare e si era girato per un rumore. Il gatto scendeva saltando sulle rocce e lo aveva guardato per un po', sospettoso. Aveva il pelo rosso e nero e le orecchie dritte. Camminava zoppicando su una zampa. Si erano studiati un po' a una decina di metri, come nei duelli dei film western. Se lo ricorda perfettamente anche adesso a tanti anni di distanza. Il rumore del mare, suo padre che dorme e russa piano qualche metro dietro di lui, il tonfo delle pietre sull'acqua, il rumore della ghiaia spostata dal gatto scendendo. E quella sensazione, per la prima volta. La sensazione di aver voglia di farlo. Come qualcosa che ti fa il solletico all'altezza della nuca e che scende a sfiorarti la pelle da dentro. Qualcosa di simile, anni dopo, l'aveva provata la prima volta che una donna gliel'aveva preso in bocca. Si ricorda che a un certo punto aveva anche deciso di ignorare quella sensazione. Di buttarla via come si fa con la pelle del pesce dopo averlo pelato. Così si era girato e aveva ricominciato a tirare sassi nell'acqua. Al primo era riuscito a far fare due salti, forse tre, prima che andasse giù come un boccone mal digerito. Ne aveva tirato un altro e un altro ancora e l'ultimo aveva rimbalzato cinque volte, record storico. Qualcosa per cui forse si poteva anche svegliare il babbo e provare a ripetere l'impresa sotto i suoi occhi. Poi però il gatto aveva miagolato. Voltandosi lo aveva visto lì. Fermo a non più di cinque metri. Gli occhi che lo guardavano fisso, senza un movimento. Prima aveva girato solo la testa, poi lentamente si era voltato del tutto verso il micio. E lui aveva miagolato di nuovo. Allora aveva tirato il sasso. Era stato un lancio dritto e preciso, uno di quelli che se avesse colpito l'acqua forse avrebbe fatto anche sei salti. Magari sette. Invece aveva preso il gatto in testa. Non capiva perché non lo avesse evitato, ma soltanto guardato arrivare. Eppure il micio non aveva fatto niente. Solo appoggiato
per un secondo il fianco sulla ghiaia. Poi si era rimesso subito su. Senza scappare. Con una zampa si toccava un punto imprecisato sopra agli occhi, un movimento a scatti, meccanico, fastidioso da vedere. Forse era stato proprio quel movimento, più che il fatto che non era fuggito, a farlo decidere. Si era abbassato senza perdere di vista il gatto e aveva preso un'altra pietra. Più grossa questa volta. Si era sollevato piano e aveva tirato di nuovo. Questa volta il verso del gatto era stato più forte e la bestia si era piegata su un fianco, come una nave che imbarca acqua. Muoveva la testa ritmicamente, seguendo i battiti del cuore. La riabbassava e poi la tirava su di nuovo, come un pendolo. Allora si era avvicinato. Vedendolo arrivare il gatto aveva soffiato, tentando di rimettersi dritto. Aveva fatto due passi indietro, come un ubriaco sul ponte di una nave in mezzo alla tempesta, poi era crollato di nuovo. Avrebbe dovuto fargli pena, forse. Ma non provava pena. Solo schifo e non sapeva nemmeno perché. Si era abbassato di nuovo e aveva preso una pietra bella grossa. Gli riempiva la mano, liscia e fredda. Vedendolo che si chinava, il gatto aveva fatto uno strano verso mentre tentava di raddrizzarsi, poi si era mosso barcollando in un modo assurdo, come se le quattro zampe appartenessero a quattro animali diversi indecisi su che direzione prendere. Alla fine, era caduto di nuovo. E lui aveva capito che quello era il momento buono. Gli era stato sopra proprio quando l'animale era finito senza forze sulla ghiaia. Piegato in avanti, la mano sollevata, aveva preso a colpire. La pietra gli era atterrata dritta sulla fronte e aveva sentito il rumore preciso e distinto della scatola cranica che si rompeva. Mentre abbassava la mano, la zampa del gatto lo aveva colpito, netta come un rasoio, sopra al polso. La sensazione era stata simile a quella che si prova tagliandosi con le pagine di un libro. Ma non aveva smesso di colpire e uno schizzo di sangue era apparso sul suo petto, nel preciso momento in cui la pietra aveva preso il muso del gatto. L'animale aveva miagolato piano e lui aveva continuato, due, tre, dieci volte. Finché non c'era stato più nessun rumore. Solo la pietra che atterrava forte e sicura su qualcosa di molle e di indefinito. Allora aveva guardato e il gatto non c'era più. Al suo posto c'era uno strano animale che gli assomigliava, ma che invece della testa aveva una forma indefinita, qualcosa di simile alla faccia del pupazzo di pezza che sua madre aveva regalato a sua sorella. Qualcosa che
poteva sembrare un gatto, ma che non lo era più. Si era alzato in piedi e di colpo erano arrivati il rumore del mare, il vento sulla faccia e il suo respiro. Forse c'erano anche prima. Ma non riusciva a sentirli. Aveva guardato la pietra che teneva in mano. Era rossa del sangue del gatto e lucida sotto al sole. Appiccicati a un lato c'erano piccole schegge d'osso, bianche e sottili, come quelle che rimanevano attaccate al coltello dopo aver macellato i conigli. Il gatto sembrava piccolissimo. Guardandolo, aveva sentito qualcosa di salato e caldo sulle labbra e si era accorto di avere del sangue sulla faccia e sul petto liscio e magro. Altro sangue sulla mano destra e sull'avambraccio sinistro e sul polso destro, dove il gatto l'aveva graffiato. Sangue che colava sulle pietre e che si mescolava. Un patto fra lui e la morte siglato col sangue di quel gatto. Un patto da uomini, come quello che un giorno gli aveva raccontato il babbo. Allora aveva pensato di essere diventato un uomo e aveva guardato la carcassa del gatto su cui cominciavano a volare le mosche, con un sorriso vero e pulito e un forte senso di potere che gli aveva fatto stringere più forte quella pietra. Stava bene, davvero bene. Aveva appoggiato piano la pietra vicino al gatto morto e si era avvicinato a suo padre. Voleva dirglielo, fargli vedere, raccontare come si sentiva e come aveva fatto. Poi, proprio quando stava per svegliarlo, aveva lasciato perdere. Senza un motivo. Solo capendo che era meglio. Adesso sa che quella era stata solo la prima manifestazione di quell'istinto che lo aveva tenuto vivo per tanto tempo e che lo aveva portato, anni dopo, a scappare da quell'ambulanza, fino ad arrivare sulla macchina in cui sta adesso. Ma quel giorno non lo sapeva ancora. Aveva preso il sacchetto di nylon bianco che era servito per portare da mangiare in spiaggia e che suo padre aveva schiacciato sotto una pietra perché non volasse via e ci aveva cacciato dentro tutto quanto. Il gatto, la pietra grande che gocciolava sangue e tutte quelle piccole, vicine al corpo, chiazzate del sangue del micio. Aveva legato il sacchetto con un nodo perché restasse chiuso ed era entrato in acqua. Non poteva nuotare con quelle pietre. Non ci sarebbe riuscito. Così aveva appoggiato subito la sua zavorra su uno scoglio e aveva allungato qualche bracciata fino a trovarsi in mare aperto, lasciando che il sangue scivolasse via dal corpo insieme al mare, sentendolo allontanarsi. Si era passato
una mano fra i capelli per toglierseli dagli occhi e l'aveva trovata rossa come un tramonto di fine estate. Ma non si era spaventato. Si era immerso nell'azzurro del mare d'aprile fino a vedere la superficie alcuni metri sopra di sé, poi era risalito piano, guardando il colore del cielo prendere il posto del mare. Aveva dovuto farlo quattro volte perché il sangue se ne andasse del tutto, lasciando il posto al sale. A quel punto era pulito. Allora aveva controllato che il sacchetto fosse ancora al suo posto ed era tornato sulla spiaggia di sassi bianchi. Suo padre dormiva ancora. Salendo verso la riva aveva visto altri sassi, piccoli e impercettibili, macchiati di sangue. Li aveva raccolti in silenzio e portati insieme agli altri, nel sacchetto. Aveva fatto un altro nodo e tirato il sacchetto in acqua, più lontano possibile, con un gesto che aveva visto fare ai lanciatori di martello guardando le olimpiadi in televisione. E quando tutto era finito, quando per la prima volta nella sua vita aveva pulito la scena di un omicidio, si era solo sentito vuoto e con il desiderio irresistibile di farlo di nuovo. Si era guardato intorno, in cerca di qualcosa che si muovesse, qualcosa che riempisse quella sensazione. Ma aveva trovato solo il richiamo di suo padre. «Gaspare, che cazzo fai su quello scoglio. Vienn'accà, che ti fai male» ed era tornato a essere soltanto un bambino. «Il sacchetto è volato» aveva detto, appena arrivato vicino a suo padre. «E ha fatto bene... Andiamo che è tardi» era stata la risposta. E Gaspare aveva sorriso. Sorriso, perché suo padre non aveva sentito niente. Non aveva visto niente. Lui non sapeva niente. Ripensandoci, gli scappa una risata sottile anche adesso, lì, steso sul sedile di dietro della macchina, mentre il Muto guida per riportarlo a casa. «Ti sei svegliato allegro?» «Forse sì. Dove siamo?» «Ancora un'ora e siamo arrivati. Ti senti bene?» Aspetta un attimo prima di rispondere. Poi si ricorda del dolore della sera prima, di quel breve momento in cui ha pensato di morire. «Sì, sto bene.» E mentre chiude gli occhi pensa che sta bene, perché tra poco riproverà di nuovo la stessa sensazione di quel pomeriggio in spiaggia. Questura di Bologna, poco dopo le tre «Andiamo a cercare Nunia» dico a Ippoliti, fermo sull'uscio del mio uf-
ficio. Per qualche motivo che non conosco, mi sento bene. Quasi. Mentre guardo Ippoliti immobile come una statua, mi pare anche possibile riuscire a non pensare a dove cazzo sia finita Alice, a perché non risponde e ha deciso di svanire così, dalla mattina alla sera, poco prima del mio compleanno. Ma sì, che si fotta. Sai che cazzo me ne frega. Lo penso veramente mentre entro in ufficio e cerco di recuperare le idee su quello che devo fare. Mi tolgo la giacca e la attacco con sveltezza e indifferenza. Lo penso davvero. Forse per la prima e ultima volta, mi sorprendo a pensarlo. E mi faccio anche un po' paura. «Da dove cominciamo?» mi chiede Ippoliti. Mi siedo alla scrivania. «Da Marino del Tronto. Dall'inizio» rispondo e prendo in mano il telefono con la linea riservata. «E che cazzo gli racconti a quelli di Marino del Tronto?» Già, che cazzo gli racconto? Non lo so nemmeno io. Qualcosa. Improvviso. Vedo cosa salta fuori dalle labbra quando riesco a farmi passare il direttore del carcere. «Sono il commissario Gabriele Riccardi della questura di Bologna» dico, dopo una lunga trafila di passaggi fra segretarie e centralini. Elenchi le sue generalità, mi viene in mente, e per poco non mi scappa da ridere. Sentire il mio nome galleggiare nella mia voce mi fa sempre uno strano effetto. «La conosco di nome, commissario. Immagino il motivo della sua telefonata.» Mario Santonocito, il direttore, ha una voce rotonda come quella di certi attori. Sa di tabacco e di cognac di marca. Mi immagino una corporatura robusta, ma tonica. Un tipo con la pelle da marinaio, scurita dal sole e dalle mani grandi. Magari invece è piccolo e secco come uno straccio lasciato a congelare in terrazza, in inverno. Faccio un gesto a Ippoliti e lui si avvicina all'altro telefono, solleva la cornetta e ascolta. «Capirà che la mia è una telefonata soltanto confidenziale. Non ho nessun incarico ufficiale per avere informazioni.» «Non si preoccupi, commissario. Lei non avrà un incarico, ma di certo ha i meriti per ottenere almeno qualche informazione. Dopotutto Nunia lo ha preso lei. Mi dica quello che vuole sapere.» Sorrido. Dura solo un attimo, ma sorrido. Mi fa quasi male la faccia per
la mancanza di abitudine. «Ho saputo che si è gettato da un'ambulanza in corsa.» Cerco di tenere un tono neutro. Non voglio sembrare ironico. Forse non ci riesco del tutto, ma Santonocito mi sembra una persona di mondo. «Capisco la sua perplessità, commissario. È la stessa che ho avuto io, quando mi hanno informato della vicenda.» Fa una lunga pausa. Assomiglia a quegli strani fenomeni per cui ogni tanto la radio si zittisce. Spero che continui da solo. Guardo Ippoliti e lui annuisce, tranquillo. «Ho avuto la notizia che Gaspare Nunia si sentiva male intorno a mezzanotte» ricomincia. La sua voce ha una lieve inflessione che mi fa pensare sia romano. «Ero a casa, naturalmente. Ho messo in preallarme immediatamente il dottor Sottili. È un bravo medico. Poi la situazione è peggiorata. Nunia è stato visitato e gli sono state fatte delle analisi. Probabile colica renale.» Lo dice fra virgolette, ma con una solennità che mi toglie dalla testa ogni dubbio. Santonocito ha fiducia totale nel medico. «È stato a quel punto che avete deciso il trasferimento?» Lo sento che soffia piano, come se stesse fumando. «Non c'era altro da fare. Anche se si tratta di un detenuto in regime di 41bis, non possiamo esimerci dal garantirgli le migliori cure mediche. Lei conosce Nunia, commissario. L'ho sentito con le mie orecchie urlare come un capretto sgozzato. E le assicuro che non fingeva.» Sì, conosco Nunia. E non l'ho mai sentito alzare la voce. Nemmeno per dare ordini. Nemmeno quella sera, sotto la pioggia, con l'odore del sangue sulla pelle. «Le credo» dico semplicemente ed è vero. Non so perché, ma gli credo. Per un attimo, un'idea mi sfiora i pensieri, come una gonna di seta in mezzo alla folla. «Aveva ricevuto visite?» «Lei sa che il 41bis permette solo una visita mensile. Registrata in video e in voce. È venuto il cugino, un certo Luca De Simone a portargli dei vestiti.» «Dei vestiti?» «Sì, un pacco semplice. Naturalmente lo abbiamo aperto prima di consegnarglielo. Una camicia a scacchi e un paio di pantaloni. Roba da quattro soldi.» Qualcosa non mi torna. Roba da quattro soldi. Non ce lo vedo Nunia con dei vestiti così. Non ce lo vedo con una camicia a scacchi. Lo dico al diret-
tore e lui resta un attimo in silenzio. «Le assicuro che abbiamo controllato» mi spiega poi. «Solo una camicia e un paio di pantaloni. Abbiamo l'abitudine di fotografare gli oggetti che ricevono quelli del 41bis. Se vuole le mando le foto per fax.» «Per mail, se è possibile, sarebbe meglio.» «Vada per una mail.» «La ringrazio per la cortesia.» Sto per chiudere la telefonata, ma sento di avere ancora una cosa da chiedere. Anche se mi sento molto il tenente Colombo. «Giusto una curiosità, direttore. I vestiti che Nunia ha ricevuto sono ancora sotto la sua custodia, immagino.» Aspetta un secondo prima di rispondere. Come se avesse avuto il mio stesso pensiero. «No, sono svaniti insieme a lui. Li aveva addosso quando è evaso.» Sicilia, tre e mezza del pomeriggio Il sole brucia sulla pelle, più del calore del fuoco, lì vicino. Suo padre faceva lo stesso fuoco, tanti anni prima, quando bruciava i rami secchi nello spiazzo dietro casa. Forse è per quello che ha deciso di farlo così. Guarda in lontananza il mare, appena dietro la collina. Se non stai bene attento sembra cielo. A Marino del Tronto, nei giorni di vento e di temporale, l'odore del mare arrivava fino in cella. Si attaccava ai muri, alla pelle e ai pensieri. Ma non era lo stesso odore di adesso. Gaspare si china e raccoglie il pacco con i vestiti vecchi. Sono sporchi come quando li ha ricevuti, ma adesso è la terra che li macchia. Adesso la sporcizia sa che cos'è. Non come quel sale. Li guarda per un attimo, bianco nella camicia pulita che porta sopra a un paio di jeans chiari. Per un attimo chiude gli occhi e cerca d'immaginare da chi li ha avuti. Ma dura solo il breve istante in cui può permettersi una curiosità come quella. Poi stringe forte il pacchetto e lo butta nel fuoco. «Quando ha smesso di bruciare accendilo di nuovo» dice al Muto che lo guarda, come fosse una cerimonia. «Non voglio che ne rimanga niente.» Si gira e va verso la casa. Un vento leggero gli si infila sotto la camicia, caldo come le mani di una donna. «Tu cosa fai, adesso?» Si ferma. Il fumo sale dalla pira e un odore forte si mangia l'aria. Tra po-
co sarà sera. «Vado a dormire. Non mi svegliare fino a domani.» Bologna, appena fuori dal centro. Sera Spingendo sulle zampe posteriori la gatta salta sopra al letto. È morbido e sa di buono, di caldo, dell'odore della creatura con i capelli neri alla mattina. Ne vede la forma nella penombra della stanza, accucciata sotto quella cosa morbida che chiama piumino e che sembra cedere sotto le zampe, mentre ci cammina sopra. È ferma, appena appoggiata sul fianco destro, quasi supina. Il respiro regolare che fa muovere le coperte e che le fa il solletico, sotto le zampe. È ferma così da un sacco di tempo. Troppo tempo. A lei sarebbe bastato per mangiare tre volte. Ma la ciotola è vuota. Anche quella dell'acqua. Fa un altro passo, verso il respiro. Sa che la vita viene da lì. Se ne accorge quando si mette sul divano, il muso appoggiato alla spalla della creatura con i capelli neri. Lei le passa le dita sotto al pelo e le fa bene. Sente un soffio caldo, piccolo e impercettibile che le sfiora le orecchie e gli occhi. È quella la vita che va a cercare, adesso che ha bisogno di lei. E la sente di nuovo sul muso quando si abbassa per trovare il viso della creatura e ne vede solo metà. L'altra sparisce in mezzo al cuscino e sembra triste. Appoggia la zampa sulla guancia e la sente tenera. Ha solo sete. Le basta un po' d'acqua e di quelle cose che la creatura con i capelli neri chiama con quel suono, tipo crocchi. Come il rumore che fanno le cose quando si rompono. Basta quello e torna buona sulla poltrona. Le piace stare sulla poltrona, ma non quando ha sete o fame. Passa la zampa sulla guancia della creatura, ma non sente nulla. Allora lo ripete. E ancora. E poi appoggia il muso sul naso, mordendo piano, quasi senza denti, la punta. Niente. Di solito quando gioca così, lei apre la bocca e ha una bella espressione. Che sa di buono e di cibo. E le fa una carezza chiamandola mostro. Ma non stavolta. Stavolta non si muove. Forse solo gli occhi, appena appena. Ma sempre lo stesso respiro. Sempre la stessa posizione. Sempre. E allora si allontana e si mette in fondo al letto. A guardare quel silenzio e quell'immobilità.
Accucciandosi fra le zampe e la coda, la piccola micia ha paura di quello che sta succedendo. Ma malgrado chiami aiuto, nessuno le risponde. Una villetta alla periferia di Bologna La notte può avere troppe luci. Sono passati più di trent'anni da quando qualcuno gli ha detto quella frase, ma se la ricorda ancora. Ha una buona memoria, qualcosa di non comune. La gente normale ricorda le cose importanti, i momenti belli, e tende a seppellire in fondo alla polvere tutto quello che fa male, tutto quello che ha troppe punte o che scava buche troppo profonde e scure. La gente comune dimentica. Lui no. Lui ricorda tutto, come una condanna. Così si ricorda il momento in cui gli ha detto quella frase. Ricorda il suo viso di allora e le pieghe delle rughe ai lati degli occhi, come una fisarmonica che si può distendere solo ridendo, con quella risata di pancia che sembrava proprio musica. Ricorda il posto in cui gli ha detto quella frase, una casa modesta, piccola e senza avvenire. La casa di un uomo solo che sta per arrendersi. E ricorda una notte. Una notte come quella. Senza troppe luci. In una notte con troppe luci, il pericolo aumenta, perché diventi una luce anche tu e c'è sempre qualcosa che ti rimbalza contro, una scintilla, un riflesso, un lampione acceso, i fari di una macchina che ti scivolano addosso e ti fanno diventare una forma o un'ombra. La luce e la pioggia sono i due nemici peggiori: era stata la prima cosa che gli aveva insegnato. La prima che gli aveva messo in testa, mentre raccontava. Le prime volte ogni tanto lo chiamava zio, anche se non lo era. Ha imparato da lui come si entra in una casa. Ha imparato da lui quello che poi ha rifatto tante volte. Quello che sta per fare adesso. In una notte senza luci. Bisogna sapere tutto, anche i pensieri. I pensieri della gente assomigliano alla loro casa e viceversa. La voce gli rimbomba in testa ogni volta. Così famigliare che ormai non gli dà più fastidio. Come un manuale da consultare se ne hai bisogno. Ma sa tutto. Sa tutto della casa. La pianta, la disposizione degli ambienti, la dimen-
sione, gli ingressi. Su internet trovi tutto se sai dove cercare. Sa tutto su quelli che ci abitano. Cosa mangiano, cosa bevono, quali bibite preferiscono. Sa che non prendono medicine con regolarità. Che non hanno un animale, che la moglie ha cicli mestruali cronometrici, che comprano il giornale tutti i giorni e, dal tipo di giornale, si può fare anche un'idea del partito che votano. Nella spazzatura c'è scritto tutto, come nella Rete. Conosce la casa. Se la ricorda bene. Si è già infilato lì in una notte senza luci, come quella. Ha dovuto farlo di nuovo. Per entrare due volte nello stesso posto devi essere trasparente come un gatto. E lui lo è. Conosce bene i gatti. Lo zio e i gatti gli hanno insegnato molto di quello che c'è da sapere veramente. Al resto hanno pensato i libri. La villetta è silenziosa. È una fortuna che non abitino in un appartamento. In un appartamento non sarebbe potuto entrare due volte. Non senza essere notato. Cosi è stato facile aprire la finestra sul retro e infilarsi in cucina. Girare a sinistra e salire le scale, verso il bagno, camminando piano, senza fretta, nel mondo verde generato dagli occhiali per la vista notturna. Facile ritrovare il bagno e aprire la porta facendo attenzione che non scricchioli. Sono i particolari che fanno la differenza. Quelli a cui non pensi e che finiscono per fotterti. Ci mette quattro minuti ad aprire la porta. Uno spiraglio sufficiente a scivolarci dentro. Si guarda intorno, in quella strana visione color menta. Per primo vede il sapone. È nuovo e immagina la donna che lo cambia alla sera, prima di andare a dormire. Ha anche pensato al sapone. Sarebbe più facile, se non ci fosse lei. Basterebbe metterci quello che serve e aspettare. Ma non vuole la donna. Lei non ha colpe. È a causa della donna che è entrato, la prima volta. È a causa sua che si è infilato esattamente per la stessa finestra, per le stesse scale, per la stessa porta. Nello stesso bagno. Che ha fatto quello che ha fatto. Macchiare, lo chiama, ed è quello che fa anche ora. Solo che la sua macchia non si vede. Si sente. Dopo. Quando è entrato la prima volta nella casa e ha guardato dove sta guardando adesso, ha visto esattamente la stessa immagine virata in verde. Due spazzolini e due dentifrici diversi. Conosceva già le marche, le aveva viste nella spazzatura e si era chiesto chi dei due usasse Aquafresh. A lui aveva sempre fatto schifo. Aveva aperto i due tubetti e annusato l'odore dei denti-
frici, per capire se poteva farsi un'idea, un'impressione. Poi era toccato agli spazzolini. Uno chiaro e l'altro scuro. Con il visore non riusciva a dire di più sui colori. Aveva preso quello più scuro e lo aveva annusato. Chiunque usasse quello spazzolino, lo aveva spalmato di Aquafresh prima di andare a dormire. Si sentiva l'odore mescolato a un vago aroma di tabacco. Ma non era servito a decidere. Tutti e due fumavano le stesse sigarette. Allora aveva fatto una prova. Aveva preso fuori il piccolo tubetto argentato e aveva macchiato lo spazzolino scuro. In fondo, alla base delle setole, in modo che passandolo sotto l'acqua prima di spalmare il dentifricio, la macchia non se ne sarebbe andata. Due giorni dopo, aveva saputo che lo spazzolino che cercava era quello scuro. L'uomo non era andato al lavoro e nascosto in fondo alla strada aveva visto un tizio con una borsa da dottore arrivare alla villetta e uscire una mezz'ora dopo, con la donna sorridente che lo accompagnava. Lo spazzolino scuro. Quello dell'uomo. Quello che sta macchiando adesso. E anche stavolta lui non andrà a lavorare, fra due giorni. Solo che non avrà bisogno di nessun dottore. Rimette a posto lo spazzolino e si infila in una delle tante tasche dei pantaloni la fialetta argentata che ha usato per la macchia. Poi scivola attraverso l'apertura della porta ed esce dal bagno. Prima delle scale vede la porta della camera da letto e si ferma. È aperta, spalancata su due respiri pesanti che inseguono chissà quali sogni. Gli bastano due passi che non può avvertire nessuno. Solo un sismografo sensibile appoggiato alla superficie del parquet. La donna è girata di spalle, sotto la stampa di Monet. Può vedere la curva del suo corpo sotto il copriletto da mezza stagione. Ha i capelli, di cui ricorda il rosso acceso, sciolti ad accarezzarle la schiena. Lui, invece, lo sta guardando. Ha il viso girato verso la porta, l'inclinazione della testa che segue la linea del visore notturno. Se avesse gli occhi aperti lo potrebbe vedere e forse, credendolo uscito dai suoi incubi di bambino, finirebbe per urlare. Ma ha gli occhi chiusi. E se lo vede è solo con un riflesso della mente. Sta sognando. I bulbi oculari si muovono veloci sotto le palpebre abbassate, inseguendo chissà che cosa. Basterebbe così poco per mandare tutto a puttane. Soltanto che quello che sta inseguendo nel suo sogno lo portasse fuori, da qualche parte, in un mondo in cui devi aprire gli occhi per non morire. Ma non li apre. Due minuti dopo aver guardato di nuovo quello strano Monet tutto colo-
rato di verde, è fuori dalla casa. Ad attenderlo c'è soltanto la notte. «Perché?» chiede la voce, e Gabriele si infila nel corridoio. È lungo e stretto e la voce arriva da lì. Da in fondo, dalla stanza nell'angolo. Chiede sempre la stessa cosa. «Perché?» Da mesi. E lui non ha una risposta. Però la cerca. La risposta e la voce. La voce ha un che di infantile e di dolce, qualcosa che assomiglia a una ninna nanna di tanti anni fa. È la voce di una ragazza. Il corridoio è immerso in una luce rossastra, un colore simile alle lanterne dei ristoranti cinesi. Viene dal fondo. Dalla lampada nella stanza all'angolo. «Perché? Rispondimi, per favore.» La voce trema sempre quando arriva a quel punto del corridoio, vicino alla foto dei due ragazzi che si abbracciano. E appena passa la foto sa che avrà paura, che sentirà un brivido sfiorargli la schiena e allungherà la mano per prendere la pistola. Così passa davanti alla foto, la guarda, sente quel brivido ed estrae la pistola dalla fondina. La stringe, la punta davanti a sé. «Perché?» Non ha fatto così quando è successo e la voce non era proprio la stessa. Più adulta, forse. Anche se sa perché la sente così. Poi sente i propri passi e si gira a sinistra, davanti all'ingresso della stanza. La lampada rossa è sul tavolino. Il poliziotto invece è steso sul pavimento, gli occhi aperti che non guardano niente, la giacca scura bagnata di pioggia e di sangue. «Perché?» dice la ragazza e Gabriele la vede. È seduta sulla poltrona, rossa anche quella, e gli dà le spalle. Riesce a distinguere solo i lunghi capelli neri e lisci, e la camicia da notte che le lascia scoperto il collo, bianco come un'aspirina. È immobile. Non fa niente. Non si muove. Parla soltanto. «Perché?» ripete, come una cantilena. E adesso Gabriele ha paura. Paura perché sa cosa deve fare, perché sa cosa sta per fare e non vuole, non deve. Non è lì per quello, non è lì per lei. Non è venuto per lei. «Dimmi dov'è Gaspare, Teresa. Dimmelo» dice, e si avvicina alla poltrona. Lei è sempre immobile. Non gira la testa, non si volta verso di lui. Resta lì. Gabriele sa che lo sta aspettando. Lei lo aspetta sempre. «Perché?»
Tra i suoi piedi e la poltrona saranno sì e no due metri, ma lo spazio sembra troppo lungo. Troppo per qualsiasi cosa. Passa alla sua destra, dove fino a un secondo prima c'era il corpo del poliziotto, di Carmine, che veniva da Brindisi e stava a Bologna da un mese. Adesso non c'è più. Al posto di Carmine c'è un segno preciso col gesso che riga il pavimento. E una chiazza di sangue secco sulle piastrelle bianche. «Devo sapere dov'è Gaspare, Teresa. Lo sai. Andrà tutto bene se mi dici dov'è.» Gira intorno alla poltrona e la vede. Prima il profilo, poi piano piano tutto il resto. Tutto il resto di qualcosa che è totalmente sbagliato. «Teresa...» sussurra e mentre le arriva di fronte sente uno spasmo alla pancia, una specie di colica che si aggrappa con le unghie alle pareti del suo intestino. La ragazza è bella. Di una bellezza diversa. I capelli le sfiorano le spalle e l'ovale del volto è leggero, una cornice per gli occhi scuri. Ha uno sguardo buono, gentile. Sposta piano il viso e lo guarda e Gabriele vorrebbe urlare. «Non te lo dico. Tu devi dirmi perché, Gabriele» Teresa ha un rivolo di sangue che le cola dalla bocca, dal lato sinistro, e le scivola lungo il collo, incollato alla pelle. Sulla gola ha il foro d'entrata di un proiettile. È pulito, netto, senza sbavature, si vedono i margini bruciati della ferita e Gabriele è sicuro che se vi infilasse un dito potrebbe sentire il freddo metallo della pallottola. Non c'è sangue su quella ferita, ma c'è sangue sulle sue mani, appoggiate in grembo. Uno schizzo macchia il bianco della camicia da notte, poco sopra il seno sinistro. L'impronta di una mano, rossa e netta, si stacca all'altezza della spalla destra. È lunga, come la scia lasciata da una carezza venuta male. Quando le arriva davanti, Gabriele vede che anche i capelli sono macchiati di sangue. Secco, rappreso, fermo, immobile. Morto. Teresa alza il viso e lo guarda. Dritto negli occhi. «Perché mi uccidi?» dice la ragazza e il sangue che le cola dalla bocca gocciola per terra in una chiazza sottile. E senza avere una risposta, Gabriele le appoggia la pistola alla fronte e spara. È a quel punto che si sveglia e urla. D'istinto si gira verso l'altro lato del letto e allunga una mano. Ma Alice non c'è.
Solo le lenzuola fredde. Accende la luce e guarda sul soffitto il riflesso opaco della sua paura. Sicilia, 20 aprile. Otto e cinque del mattino La macchina nera si ferma nel cortile davanti alla casa, sollevando un fumo bianco di polvere. C'è una donna sull'uscio e la casa è bianca come la luce. La donna è giovane e bella. Porta i capelli scuri raccolti in un fermaglio con un fiore rosso, dello stesso colore di un piccolo braccialetto che le accarezza piano il polso sinistro. Tutto il resto è nero. La maglietta, i pantaloni, gli occhi, la carnagione bruciata dal sole. Gaspare Nunia scende e si guarda intorno. Finché è rimasto in Sicilia quella era casa sua. In quella casa è nato. In quel cortile ha imparato ad andare in bicicletta. Fra quelle mura è diventato quello che è. Guardare quel posto dopo tanto tempo, ha il sapore dei rimpianti mai dimenticati. La nostalgia di qualcosa che è stato e che non ritorna mai uguale, come un'onda sulla sabbia. Annusa l'aria e sente la salsedine, mescolata a tutto quanto, anche al sole troppo forte per quello che sta per vedere. Dalla casa si vede il mare, dappertutto, oltre la collina. È così che dovrebbe essere la vita. Come vedere il mare da quella collina. «Non dovevi venire, Gaspare» dice la donna con i capelli neri. Poi lo abbraccia. Appoggiata sul bianco della camicia, stretta all'enorme petto dell'uomo, sembra solo una piccola macchia. «Sei sempre bella, Serena.» Lei allontana la testa dal suo petto e lo guarda. Lui è stato il suo primo uomo, una notte di san Lorenzo di troppi anni fa. Un'unica notte. Poi di nuovo solo cugini. Gli occhi sono rimasti gli stessi. Se ne accorge subito, guardandoli mentre gli sorride. «E tu sei sempre troppo grande per me.» La guarda di riflesso, sullo sfondo di un mattino troppo splendente per un giorno di aprile e avrebbe voglia di sorriderle. Ma resta solo un pensiero. «Dov'è?» chiede lui. Serena muove i lunghi capelli neri a indicare la casa. «Nella tua camera.» Dentro l'aria è quasi fredda e la prima cosa che sente è il silenzio. Quella casa non è mai stata in silenzio. Da piccolo ci pensava lui, poi il sorriso e la voce di sua madre. Ricorda le dita sottili e lunghe, il suo non stare mai
ferma per correre dietro alle faccende di tutti i giorni, ai figli, al marito. Adesso non è rimasto più niente. Adesso di Maddalena resta solo il silenzio. Gaspare s'infila nella stanza e la vede. La donna è a letto, distesa sulla schiena. Coperta da un panno bianco ricamato a merletto. I pochi capelli che le sono rimasti sembrano fili di una strana erba che non riesce più a crescere. Ha un braccio sotto al seno e uno allungato sul fianco, fuori dalla coperta. Dagli occhi chiusi non scivola nessun movimento. Il petto, invece, è un mantice senza sosta, ritmico, con le labbra spalancate a cercare più aria che può. Come se nel mondo non ce ne fosse abbastanza per respirare come si deve. Seduta su una sedia accanto al letto, c'è una donna anziana, vestita di nero. Sta dormendo. Fa un passo verso di lei e l'accarezza. La donna apre piano gli occhi e gli stringe la mano, come per aggrapparsi a qualcosa di reale, all'uscita da un brutto sogno. «Non dovevi venire» sussurra. Gaspare la guarda, gli occhi che tremano. Poi scivola lentamente verso il viso di sua madre, come da piccolo scendeva dal fianco della collina, facendola infuriare. «Dove volevi che andassi?» dice, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un secondo. «Sono io l'unico uomo di casa, adesso. Sono io che devo accompagnarla.» «Vieni, usciamo» dice la donna e si alza. Serena li guarda uscire lungo il corridoio buio e sottile. E pensa che qualcosa se ne sta andando. Qualcosa che svanisce con il respiro di Maddalena che cerca in aria un motivo per continuare a vivere. Qualcosa che si conclude in silenzio, come è giusto. Pensa a quante volte è venuta da bambina in quella casa, a mangiare con quella donna, suo marito e i loro figli. Pensa alle stelle sbirciate in cortile e contate, una per una finché non bastavano i numeri. Al primo bagno d'aprile e alle corse dietro alle lucertole che si infilavano nel tufo, quel tufo così nero con tutti i suoi buchi, che sembrava la schiuma di un budino. Pensa alle gite a Palermo a trovare zi' Giulio, in macchina, senza sapere che in realtà non era zio proprio di nessuno. Pensa al silenzio che li accoglieva quando tornavano a casa, il silenzio di quel paese piccolo come le tasche nei pantaloni dei bambini e che allora sembrava grande come i sogni che in quelle tasche andavano a dormire la sera. Pensa al sorriso di Maddalena e cerca di ricordarsi quando lo ha visto per l'ultima volta. Perché sa che non
ce ne sarà un altro. Che non è la natura, ma sono tutti quei morti ammazzati, il marito, il fratello, il fratello di Gaspare, ad averle regalato il tumore che la sta divorando. E sa che tutti quei morti arrivano dall'uomo che è venuto a vederla morire. Da suo figlio. Dalle sue parole dette o non dette. Dalla paura che hanno cercato di mettergli. E sa che dopo quei morti ce ne saranno altri. Perché la gente come Gaspare Nunia non è capace di girare pagina, né di cambiare storia. E nemmeno lei. «È tutto a posto, Maddalena. State tranquilla» le sussurra agli occhi chiusi e al petto spalancato. «Non ci sarà più altro sangue. Tra poco sarà tutto finito» le dice. Ma non è vero. Perché l'arrivo di Gaspare in quella casa porterà solo altre lacrime e altre grida. E tutta quella gente, invece, avrebbe solo bisogno di silenzio. «C'è qualcosa di strano» dice Rufolo, e il capitano Guardigli toglie gli occhi dal mare e si volta, aggiustando il berretto da carabiniere sulla testa. «Che hai?» Rufolo è giovane e non è fatto per la sorveglianza. È impaziente. In un appostamento devi essere tranquillo e non aspettarti niente dal prossimo minuto, dalla prossima ora. A volte niente del tutto. «Guardi lei.» Il capitano si accuccia sotto l'ombra del grande albero e prende il binocolo. La casa è sempre uguale. Immobile. Fa quasi male agli occhi guardarla in mezzo al sole. Però davanti c'è una macchina nera. E fuori dalla macchina c'è un uomo in piedi. Una donna esce dalla casa e lo abbraccia. L'uomo è di spalle. Guardigli vede solo la camicia bianca come la casa e i jeans e la macchina nera, poi il volto della donna che scompare dentro la sua mole enorme. Quando la donna si stacca, l'uomo si volta. «Chiama la centrale, Rufolo. Comunica che quel bastardo di Nunia è venuto a trovare la madre.» Bologna, otto del mattino «Auguri passerone» mi dice Max, e mi scappa da ridere. Sono in macchina, su via Stalingrado, l'auricolare al telefono. È la matti-
na del mio compleanno e senza nemmeno accorgermi che succedeva, stamattina non mi sono svegliato pensando ad Alice. Non che non l'abbia fatto mentre mi radevo o non abbia pensato al fatto che non avevo ricevuto sue notizie e che almeno il giorno del mio compleanno un cazzo di messaggio me lo poteva anche mandare, ma non è stato quello il primo pensiero del mattino. Il primo pensiero del mattino sono stato io. «Attento a quello che dici, pazza. Ho il telefono sotto controllo e finisce che si scopre finalmente che sono una vecchia checca!» Fuori incredibilmente c'è il sole. Ce n'è talmente tanto che sembra scoppiata l'estate. Forse è un segno. Non può piovere per sempre. «Come va?» mi chiede. «Va che ho pensato di poter cominciare a essere un po' stronzo.» «Non è una gran novità. Che sei un gran stronzo lo so da più di vent'anni.» «No sul serio, Max. Ho cominciato a pensare di dover essere più cattivo. Meno...» «...presente» finisce lui. «Forse. Pensi che sia una cazzata?» «Ascolta,» comincia, alzando il tono per sovrapporsi all'urlo di un'ambulanza «di tutte le decisioni che potevi prendere, credo che questa sia la più sensata. In ogni modo.» «Chissà» riesco solo a dire. «Cazzo, certo che è pazzesco. L'altra sera davanti a quello stronzo con la pistola non avevo paura di niente. Avevo quel cannone a venti centimetri dal cranio e non mi faceva né caldo né freddo. Adesso, invece...» «...ti caghi adosso. È normale. Ah, dimenticavo. Quando ho letto sul giornale quello che avete fatto su alla villa... beh... ero orgoglioso di te...» Mi scappa da ridere, perché quello è un bel regalo di compleanno. «Grazie» riesco solo a dire, mentre giro e mi fermo al semaforo fra via Marconi e via Ugo Bassi. Poi sento il bip di una chiamata in attesa e per un piccolissimo secondo tutto si sfascia. Il tempo che passa fra il momento in cui avverto il suono e quello in cui vedo sul display la scritta non disponibile. Decido di non rispondere. Non è Alice e ormai sono arrivato in ufficio. «Era lei?» mi chiede Max mentre mi infilo verso piazza Roosevelt. «Secondo te?» «Secondo me no.»
«Appunto. Era anonimo. Sarà Ippoliti. Tanto sono arrivato.» «Allora ti mollo. Senti una di queste sere ci mangiamo qualcosa insieme, così ti faccio vedere la casa nuova?» «Solo se non cucini tu.» «Allora niente. Se vuoi vedere casa ti toccherà deliziarti con la mia abilità ai fornelli.» «Terrò in preallerta il pronto soccorso. Adesso devo scappare.» «Oh, semo. Auguri sai?» Lo dice proprio senza "c". Più bolognese di così si muore. «Vai a lavorare, scansafatiche» gli rispondo. E riaggancio. Guardo l'orologio e cerco di immaginare perché Ippoliti potrebbe avermi chiamato. Per un attimo mi viene in mente uno strano castello di ipotesi che si scioglie subito, come una statua di ghiaccio infilata in forno, quando il poliziotto di guardia all'ingresso mi saluta ributtandomi nella realtà. Salgo le scale quasi sorridendo. Ne ho diritto. È il mio compleanno. E trentacinque è una gran bella cifra. Mi piace, suona bene. Me la sento addosso. E sono contento. Però dura solo un attimo. «Ha chiamato il dottor Salvi» mi dice Ippoliti. Mi sta aspettando a braccia conserte sulla porta del mio ufficio. Ha una faccia strana. Giovanni Salvi è un medico dell'ospedale Sant'Orsola. Circa un anno fa liberammo sua figlia da un paio di balordi che l'avevano rapita scambiandola per un'altra. Da allora potrei dire che siamo amici. «Quando?» «Cinque minuti fa.» «E allora?» «Alice. L'hanno ricoverata stamattina» mi spiega. E sento il mio corpo appoggiarsi sulla sedia, come un grosso albero improvvisamente privo di tutte le sue radici. Tre Prima periferia di Bologna. Mattina «Senti, è oggi che hai l'appuntamento con il commercialista?» Paolo Biffi guarda la moglie attraverso la porta del bagno. Sono le otto e mezza del mattino e fuori c'è il sole. Se lo sente sul torace nudo, arrivargli addosso dalla finestra chiusa, come una luce troppo intensa, ma che fa be-
ne. Si toglie lo spazzolino di bocca e lo appoggia sul lavandino. «Cazzo, m'ero scordato completamente. Riesci a chiamarlo tu per chiedergli se può la prossima settimana?» La donna sorride. Quell'uomo è un disastro con gli appuntamenti, malgrado le due agende e l'organizer che gli ha regalato a Natale. Si solleva la spallina del reggiseno e guarda il marito. Ha i capelli accesi dalla luce del giorno e la stessa espressione scomposta e preoccupata della prima volta che lo ha visto, più di dieci anni prima. Pensa per un attimo che sarebbe bello se avessero avuto un figlio con quegli occhi lì. E con i suoi capelli rossi, morbidi e lunghi. Forse l'avrebbe aiutata a continuare ad amarlo allo stesso modo. Si avvicina e gli toglie da un labbro una traccia di dentifricio. «Va bene, pasticcione. Appena ho un secondo stamattina lo chiamo.» Si asciuga il dito umido in un asciugamano ed esce. Paolo guarda i capelli rossi sparire dietro all'angolo della porta e la sente cantare, seguendo il filo di una musica lontana che non riconosce. Ascolta quella voce e pensa che Lucia è ancora bella. Forse più adesso di quando l'ha conosciuta. Se ne accorge da come gli uomini la guardano per la strada, in modo diverso da allora. Resta un attimo a fissare l'aria vuota davanti alla porta spalancata, piena del suo profumo e cerca di scacciare la sensazione che il loro rapporto stia diventando esattamente come quel profumo rimasto sull'uscio. Il ricordo che lentamente svanisce di qualcosa che non c'è più. Poi sciacqua lo spazzolino sotto al rubinetto e tenta di affrontare la mattina. Quando scende al piano di sotto, seguendo il profumo del caffè, ha una sete strana, sottile, di quelle che arrivano a volte durante la notte dopo essere stato in Appennino a ingozzarsi di affettato e crescentine. Qualcosa che ti fodera il palato con una patina lunga e spessa e che ti incolla alla bottiglia fino a toglierti il respiro. Arrivato in cucina, si versa un bicchiere d'acqua e si siede davanti a Lucia. «Ieri ho conosciuto la nuova donna di Gerri» le dice. «Una nuova? Ma quante ne ha già cambiate?» «Da quando l'Angela l'ha smollato credo quattro... in quattro mesi.» Lucia lecca il cucchiaino di yogurt con involontaria sensualità. «E com'è?» «Come le altre. Secca come un palo della luce. E antipatica come sua madre. Te la ricordi la madre di Gerri? Per me le sceglie apposta. Ma tanto dopo un po' lo smollano tutte. L'Angela ha giocato il più bel jolly della sua vita a dargli dell'aria.»
«L'hai più vista?» Lucia si alza e butta nella spazzatura la confezione vuota dello yogurt. «La settimana scorsa. All'Ipercoop. È rifiorita. Ma è sempre stata bella. Non ho mai capito cosa ci vedesse in uno spento come Gerri.» «Vai a sapere...» dice Paolo. Svuota in un sorso il bicchiere di caffè e si alza. Passandole accanto, le dà un bacio sulla guancia e lei sente l'impronta delle sue labbra sulla pelle e il profumo del caffè. «Vado su a prendere le chiavi ed esco. Oggi c'è la riunione con quel tipo di Seattle, sai che palle.» Lucia sorride e lo vede salire al piano di sopra. Lo guarda sparire per le scale e butta un occhio all'orologio. Di lì a un'ora sarà in classe, a fare lezione a una ventina di ragazzotti del tutto disinteressati a quello che sta dicendo. Una mattinata inutile, lunga, noiosa e schifosamente sottopagata. Con un gesto del capo si sposta una ciocca di capelli dal viso. Poi apre la finestra per dare aria alla cucina e quando si muove sente il lamento. Sulle prime non ci fa caso. Resta ferma, solo un secondo, ad ascoltare. Più tardi, pensando a quel secondo, piangerà credendo di aver perso un momento prezioso. Ma anche se non lo saprà mai, non è così. Capisce cosa sta succedendo quando quel grido strozzato si fa sentire di nuovo. Allora si accorge che è passato troppo tempo. Che Paolo avrebbe già dovuto essere sceso. Che non le pare di aver sentito la porta del bagno chiudersi e che quindi deve per forza essere ancora in camera da letto. Sale le scale di corsa, perde una scarpa sul primo gradino e continua a salire rischiando di scivolare due volte. Nel corridoio gira l'angolo e s'infila in camera. Paolo è steso sul letto. La cravatta allentata, la camicia aperta, gli occhi spalancati che sembrano fissare la stampa di Monet. Una stampa che non riesce più a vedere. «Un infarto» le dirà un'ora più tardi un medico dalla faccia giovane e buona. E lei sentirà il trucco scivolarle via, insieme alle lacrime e a tutto il resto. Senza che esista qualcosa da poter fare per poterlo trattenere nella sua vita. Il pronto soccorso dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna è un lungo corridoio bianco pieno di porte a scorrimento chiuse e immerso in una luce gelata e candida per la maggior parte del giorno e della notte. Ho passato un sacco di tempo lì dentro e me lo ricordo improvvisamente mentre ci rimetto piede, scappando con una scusa qualunque a tutto quello
che invece dovrei fare. Non so se è l'odore o l'aria che sembra fredda anche d'estate. In fondo gli ospedali sono tutti uguali. Dipende dal motivo per cui ci vai. Sento qualcosa di sordo, ben piantato dalle parti dello stomaco. La stessa sensazione che ho provato quando ho visto Teresa per terra, in mezzo alla pioggia e al sangue. Non ho quasi pensieri. Una donna anziana si avvicina e mi guarda. Ha una giacca a scacchi e i capelli spettinati. La vedo sparire dietro la porta del bagno, più o meno a metà del corridoio, di fronte a un ambulatorio spalancato. Sembra una bocca. C'è una donna con i capelli rossi che piange piano, a qualche metro da me. Un dottore le tocca una spalla e tenta di sorriderle. Lei tira fuori un kleenex dalla borsetta e si pulisce gli occhi. Ho bisogno di una canna. Improvvisamente. Qui, in questo momento. Fermo davanti alla porta dell'ambulatorio. Vorrei tirare una boccata lunga, di quelle che sembra ti venga da vomitare e invece tutto si sistema. Come la realtà che torna limpida quando rimetti a fuoco una fotografia. «Mi sa dire dov'è radiologia?» mi chiede un tipo sbucato dal nulla. Lo vedo solo quando me lo ritrovo di fronte, in mezzo al corridoio. Non gli rispondo. Continuo a guardare nell'ambulatorio. So che Salvi è lì. L'ho sentito parlare. Affondo le mani nelle tasche dei jeans. Sono fredde. Ma il tipo non demorde. «Mi scusi, signore. Radiologia, per favore.» Lo guardo. Ha gli occhi lucidi. La voce fa fatica a uscire. «Le sembro un medico, per caso?» mi sento rispondere. «Come scusi?» «Le ho detto che non sono un medico. E di dove sia radiologia, sinceramente, non me ne frega un cazzo.» Mi guarda. Da un metro. Ha l'odore sudato di qualcuno che ha paura. Forse lo stesso che ho io, anche se i miei pori sembrano sigillati. Anche le mani. Secche come il legno di un burattino. Ho voglia di prenderlo a pugni. Devo prenderlo a pugni. Continua a guardarmi finché una donna non gli si avvicina. Lo prende per un braccio e gli dice qualcosa. Li vedo allontanarsi, dall'altra parte del corridoio. E allora vorrei seguirli e dire qualcosa, anche solo che mi dispiace. Però non posso. Perché Salvi esce dall'ambulatorio. E tutto il resto smette di esistere.
Sicilia, le undici del mattino Appoggiato alla portiera dell'auto il capitano Gagliardi vede la macchina nera sbucare dalla curva. Non sente il motore perché tutto è coperto dal frastuono dei due elicotteri che volano sopra alla statale che porta da Roccasole a Palermo. Adesso quella strada è chiusa, sigillata da posti di blocco da una parte e dall'altra, dopo il passaggio della Punto nera che Rufolo ha visto arrivare davanti alla casa bianca e poi ripartire. E che adesso ha girato la curva e si sta avvicinando. Il capitano toglie la sicura alla pistola. Accanto a lui, gli uomini della DIA di Palermo sollevano i mitra già con gli otturatori aperti. Sono loro che hanno la territorialità dell'intervento. È a loro che tocca prendere quel macellaio di Nunia. Ma sono lui e Rufolo che lo hanno visto. E sa che questo vuol dire qualcosa. A una ventina di metri dal posto di blocco, la macchina nera rallenta e Gagliardi stringe forte la pistola. Per un attimo è sicuro che farà una manovra veloce e tornerà indietro, cercando di scappare. E allora toccherà agli elicotteri inseguirla. Gli pare persino di vedere negli occhi l'uomo al volante che ingrana la retro per andarsene. Ma è solo una brevissima allucinazione. Perché invece la Punto continua a rallentare e qualche secondo dopo è ferma a non più di quattro metri da lui. Dalla macchina scendono in due, un uomo e una donna. L'uomo si chiama Luigi Pastoso, ma tutti lo conoscono come il Muto. È magro come un chiodo e ha lo sguardo arrogante e tronfio di chi ha appena segnato il goal decisivo nella finale di coppa dei campioni. Vedendolo lo saluta con un gesto del capo, ironicamente rispettoso. Gagliardi lo ha arrestato tre volte. Sempre roba da quattro soldi. E non è mai riuscito a trovare qualcosa che potesse portare a Nunia. Mentre Pastoso si gira con le braccia aperte per farsi perquisire, Gagliardi vede la donna e la riconosce. Si chiama Margherita Nunia. La sorella del padre di Gaspare. La conosce da quando era piccolo e suo padre gli diceva di stare lontano da quella donna e dalla sua famiglia. Ne sa più lei del diavolo in persona, gli aveva detto una volta, mentre la pentola con la zuppa faceva un fumo buono e pesante sul fuoco della piccola cucina. Così il capitano Gagliardi sa - ancora prima che la DIA apra il bagagliaio della Punto con i mitra spianati - che Gaspare Nunia non è su quella macchina. E non è nemmeno più nella casa bianca che guarda il mare e che tengono sotto sorveglianza da mesi. Quella
in cui sua madre sta morendo di cancro. Mette via la pistola e si avvicina alla macchina, cercando di capire perché Gaspare Nunia è andato fin laggiù. Perché da un'ambulanza in corsa è finito al capezzale di sua madre, nel posto per lui più pericoloso della terra. Guarda sotto, oltre la scarpata, la sagoma di Palermo immersa in una foschia di sole e smog e sente un pensiero che si avvicina. Un pensiero che non gli piace per niente. E che ha l'odore del sangue e della polvere da sparo. Bologna, Ospedale Sant'Orsola. Poco dopo le undici «Come sta?» sussurro e ho una paura terribile della risposta. «Potrebbe essere botulino.» «Botulino?» C'è un neon che ronza, da qualche parte. Forse nello studio accanto. O solo nella mia testa. «Botulino. Stiamo facendo delle analisi. Ha un cerotto su un dito. Potrebbe essersi ferita in qualche modo. Lo sapremo in breve tempo.» Botulino. Perché le malattie hanno dei nomi così buffi? «Come sta?» ripeto di nuovo. «Non bene. Quando l'abbiamo trovata...» «Come l'avete trovata?» lo interrompo. Non riesco a lasciargli finire una frase. «Una vicina. Ha sentito la gatta miagolare per tutta la notte. Ha provato a suonare alla porta e lei non le ha risposto. E nemmeno al telefono. Così ha chiamato i vigili del fuoco. L'hanno trovata a letto. Praticamente immobile. Gli animali sono incredibili. Le ha salvato la vita.» «Scusa. Ti ho interrotto. Dimmi. Spiegami, per favore.» «Dicevo che quando l'abbiamo trovata era cosciente, ma immobile. I muscoli totalmente rilassati.» La voce di Salvi è buona. Sa di menta, qualcosa di profondo e di domestico. L'ho sentita migliaia di volte. Eppure me ne accorgo solo adesso, mentre si avvicina con il camice aperto su una maglietta di cotone bianca. «Il botulino,» continua «è provocato da una neurotossina che induce la paralisi flaccida dei muscoli. Un po' come se non esistessero più. Le gambe non ti tengono, le braccia sembrano pesanti. Non riesci a tenere gli occhi aperti. Fai fatica a parlare.» «E poi?» Salvi sorride. «E poi arriva un dottore che ti cura.» Mi stringe le spalle
in un gesto affettuoso. Ha delle mani grandi e forti. Da falegname più che da chirurgo. Mani capaci di fare qualcosa di buono. Le mie di mani, invece, in questo momento sono capaci soltanto di sudare, strette fra le ginocchia. «Devi stare tranquillo. Esiste un'antitossina. Un antidoto. Se è botulino si sistemerà tutto.» «E se non è botulino?» Domande. Tutta la vita spesa a fare domande, spesso a chi non ne vuole sapere di dare risposte. Anche adesso, in questo momento. Domande e solo domande. Salvi si abbassa. Mi appoggia le mani sulle cosce. E io lo guardo. Duro. Cerco di tenere distante da me tutto quello che mi può far male. Come se uno sguardo bastasse. «Fidati di me» dice. «Avete mangiato qualcosa di strano? Scatolette o roba simile?» «Non la vedo da un po'» dico. «Mi dispiace, non sapevo che...» Mi alzo di scatto. Basta parole. Basta immaginare. «Senti, posso vederla?» «Andiamo» mi risponde subito. E usciamo in corridoio. Sicilia, stessa ora «Lei è pazzo a venire qui in questo modo.» L'avvocato Ludovico Accolti ha il viso magro e scavato di Peter Cushing in Guerre Stellari. Gaspare Nunia lo ha sempre pensato, dalla prima volta che lo ha visto, tanti anni fa. E ogni volta che si ricorda di quella strana somiglianza gli viene da ridere. Solo che non lo può fare per due motivi. Perché ridere in faccia all'avvocato Ludovico Accolti è terribilmente pericoloso anche per uno come lui. E soprattutto perché di quell'avvocato ha bisogno. E della sua attenzione. «Qualcuno potrebbe pensarlo, avvocato. Ma di sicuro non lo pensa lei. Lei è troppo intelligente per avere in testa una stronzata simile.» Lo studio è enorme e sa di legno antico e di palate di soldi. Quando è sceso dalla macchina e ha salito le scale sul retro, nel pieno centro di Palermo, si è sentito al sicuro come mai gli era capitato nella sua vita. Quella stanza così esposta agli occhi di tutti è incredibilmente il posto più tranquillo per una persona costretta a nascondersi. C'è una grande finestra sul lato opposto all'ingresso dello studio. È coperta da una tenda bian-
ca e sottile quel tanto che basta per far entrare la luce, ma non gli obiettivi delle macchine fotografiche che tengono sotto controllo quella stanza. «Forse lei sopravvaluta le mie capacità» dice Accolti, mentre Gaspare si siede davanti a lui e cerca di trovare una briciola di verità dietro a quello sguardo piccolo e marrone. «Non ho molto tempo per le formalità, avvocato. Immagino che lo sappia.» «Sì, ne ho notizia.» «Bene. Allora evitiamo le smancerie. Ho bisogno di parlare con don Beniamino Riccomini.» La risata di Accolti esplode con il fragore di un petardo in chiesa. Rimbalza sulle pareti dello studio e si spegne, rapida com'è arrivata. «E lei crede che io possa prendere appuntamento con don Riccomini come e dove voglio?» «No, avvocato. Non sono così fesso da crederlo. Però credo che lei conosca delle persone che conoscono delle persone che ne conoscono altre. E che magari alla fine...» «Lei si sbaglia.» Gaspare si alza. I suoi passi sono pesanti sul legno del pavimento. Si ferma davanti alla grande libreria e prende tra le mani una copia del codice penale. È grosso e ingombrante. «Avvocato, amuninni. Don Beniamino Riccomini è latitante da trentacinque anni...» «...trentotto.» «Trentotto anni, avvocato. Benissimo. Don Beniamino Riccomini, avvocato. La primula rossa,» sussurra arrotando la "r" a sottolineare l'accento palermitano «il capo dei capi di Cosa Nostra. Nessuno sa che faccia abbia adesso. Nessuno sa dove si nasconde. Da trentotto anni. E lei, don Ludovico, è il suo avvocato da quanto tempo?» «Ventotto anni.» «Ventotto anni. Sono tanti, eh? Sono tanti ventotto anni. E lei crede che io sia un picciriddu, avvocato? Pensa che io possa credere che lei non sappia come mettersi in contatto con don Riccomini? Amuninni, avvocato.» Accolti lo guarda e fa scrocchiare le dita. Si appoggia allo schienale della poltrona e pensa. Gaspare è di nuovo seduto li davanti. Sfoglia sen2a guardarlo il codice penale. Una pagina dopo l'altra. «Cosa vuole da don Riccomini?» Gaspare sorride. È la stessa espressione che molti hanno visto come ul-
tima scena prima di morire. Si siede di nuovo davanti ad Accolti. La poltrona sbuffa accogliendo il suo peso. «Qualcuno mi ha fatto un torto, avvocato. Lei lo sa?» «Ne ho avuto notizia.» «Ne ha avuto notizia» ripete, improvvisamente serio. «Bene. Sono qui per proporre un affare a don Riccomini. È un uomo d'affari, non è vero avvocato?» «Don Riccomini è un uomo d'affari.» «Allora credo che gli inter...» Lo squillo del telefonino gli cuce la frase in bocca. Guarda il display e il suo sguardo si fa piccolo e rassegnato. Alza il dito indice della mano sinistra a chiedere un momento di tempo. Poi risponde. Non dice una parola. Richiude il telefono e lo infila con cura nel taschino della camicia. Guarda verso la libreria e per un attimo in quello sguardo passano i pensieri di un uomo ferito. «Ho appena saputo che mia madre è morta, avvocato.» «Le mie condoglianze...» «Adesso, diventa molto urgente che io parli con don Beniamino. Conto su di lei.» Si alza e gli tende la mano. Accolti lo guarda e si alza a sua volta. È almeno quindici centimetri più basso del suo interlocutore. Esita un attimo poi gli stringe la mano. «Farò quello che posso, don Gaspare.» «Lo so, avvocato. È questo che tutti dicono di lei.» Bologna, undici e cinque «Chi ti ha chiamato? Che cazzo ci fai qui?» mi dice e la voce è talmente sottile che non so nemmeno se ho sentito qualcosa o letto le labbra. «Che cazzo ci fai tu, qui.» Mi sforzo di sorridere. «Come stai, rottame?» «Bene.» Già. Bene. Cos'altro può rispondermi? La guardo. È appoggiata sulla schiena, la testa reclinata da un lato, gli occhi ancora più sottili del solito. I capelli le disegnano una strana ombra sulla fronte, giocando con la luce della stanza. Le palpebre si abbassano lentamente, come trascinate da una corda. Quando riesce a tenerle appena socchiuse non riesco a capire dove guarda. Sembra strabica. Ma è solo un'impressione. Accanto a lei, una donna anziana sta russando. Ha il viso piccolo e i ca-
pelli bianchi attorcigliati sul cranio, annodati da troppe ore passate sul cuscino. Mi avvicino al letto e guardo Alice. Le accarezzo i capelli, piano. Sopra la fronte. Sono morbidi. Sento la pelle calda del viso sotto le dita, il tiepido del respiro sulla pelle delle mani e una strana rabbia che mi striscia sotto. Una rabbia che non capisco e che mi fa serrare i denti. Forse Alice se ne accorge, perché cerca di dire qualcosa. Mi abbasso, vorrei capire, vorrei sentire, ma non ci riesco. Non le chiedo niente. Non le chiedo di ripetere. Quando alzo gli occhi sembra che dorma. Le bacio la fronte. Piano. Sento la pelle sotto le labbra, il profumo di ospedale mischiato al suo. Lo annuso, per tenerlo a mente, per filtrarlo da quello che c'è di sbagliato intorno. Poi esco. Ed è cambiato tutto. Nessun telegiornale ha detto qualcosa. Li ha guardati tutti. Nazionali, regionali, locali. Ha guardato talmente tanti notiziari che gli viene il vomito solo a sentire parlare ancora di Saddam Hussein e di Iraq e di Afghanistan e di politica. Che si fottano e si ammazzino come vogliono. A lui non frega proprio un cazzo. E quando ha spento la televisione, dopo l'ultima notizia e il saluto di quella faccia da fesso del conduttore del tg regionale, ha saputo che non avrebbe mai trovato quello che cercava. Accende lo stereo e la voce di Sergio Cammariere riempie la stanza. «Amore disperato, amore bello e puro» canticchia, mentre si stende sul divano e aspetta. È un'attesa breve, perché dopo poche battute il gatto arriva, nero e pesante. Lo vede salire lentamente sul divano ed è sicuro che se potesse misurare lo spostamento d'aria accanto a quel corpo scoprirebbe che non muove nemmeno un atomo. Attraversa l'aria senza peso, come fosse un fantasma. Il micio enorme si appoggia alla testata del divano e a lui sembra che si muova con la musica, in una specie di danza. Si sistema un cuscino dietro la schiena e picchietta piano con la mano sulla sua gamba sinistra. L'animale lo osserva, gli occhi gialli e verdi, di una profondità irreale. Poi scende fino alle cosce e si stende sulle sue gambe, su un fianco. Mentre gli passa una mano sulla pancia, chiude gli occhi e il suo muso diventa
nero, in un'espressione di lontanissima beatitudine. Guarda il gatto e sorride. Pensa a quella stanza, al quadro di Monet, ai capelli della donna e si chiede se riuscirà mai a dormire con la stessa naturalezza con cui l'ha vista dormire. Di fianco a un uomo che mentre inseguiva chissà quali sogni era già morto senza sapere di esserlo. Morto perché lui lo ha deciso. E nessuno lo saprà mai. Qualcuno, anni fa, l'ha chiamato lo scienziato. Accarezzando il gatto, morbido e addormentato, è sicuro che quello che ha fatto appartenga alla scienza pura. Quella più misteriosa. Sicilia, notte già alta La guarda stesa sul letto ed è davvero piccola, come le cose semplici. Forse era la vita che la faceva sembrare grande. La vita che ora non c'è più. Un pensiero che lo fa sentire improvvisamente troppo stanco. Per tornare nella casa Gaspare ha dovuto aspettare la notte e così è arrivato che tutto era già stato fatto. C'è un buon odore di pulito e forse troppe candele accese. Si avvicina piano e ne spegne qualcuna. Girando intorno al letto, cercando un modo per avvicinarsi. Poi accende l'abat-jour sul comodino e la stanza prende un colore caldo, più famigliare. Si abbassa lentamente sul corpo di sua madre e le sfiora il viso. È freddo come le lenzuola di un letto lasciate incustodite da qualcuno che se n'è andato. «Non sono nemmeno riuscito a parlarvi» dice. Vorrebbe trovare un sistema per salutarla e non lo trova. Non ha mai avuto tante parole in testa. Forse se potesse guardarla negli occhi lei capirebbe tutto. Come ha sempre fatto. Ma non può più. E allora Gaspare sente solo la rabbia che parla. E sa che anche se non è scappato da Marino del Tronto solo per venire lì e vivere quel momento, in quella stanza nasce un motivo in più. Qualcosa da tenere davanti agli occhi sempre, finché non sarà finita. Tutto a suo tempo. Forse dovrebbe piangere, ma nessuno gli ha insegnato come si fa. Nessuno gli ha spiegato che si può, che non c'è niente di male e così Gaspare Nunia non piange davanti a sua madre. Sorride. È la cosa più simile a un pianto che possa produrre un uomo
come lui. Poi si china di nuovo, la bacia sulla fronte e le sfila gli orecchini. Li sente minuscoli fra le mani e stringe il pugno forandosi con la clip aperta. Guarda per l'ultima volta sua madre ed esce dalla stanza. Serena è in cucina, appoggiata al lavello, i capelli sciolti e gli occhi stanchi. «Ha detto qualcosa?» le chiede. «No» sussurra lei. «Non ha detto niente. Ha solo aperto un secondo gli occhi e sorriso.» Gaspare si avvicina e le prende la mano «Tienili tu questi» sussurra, appoggiandole gli orecchini sul palmo. «No, non è...» «Sono sicuro che lei avrebbe voluto così.» Serena lo guarda e poi, con un semplice gesto ripetuto due volte, s'infila gli orecchini. «Come mi stanno?» Gaspare non risponde. Si abbassa lentamente e la bacia. «Stanotte dormo qui. Me ne vado all'alba» dice dopo un lungo momento. «Allora andiamo.» Serena lo prende per mano ed escono dalla stanza. Sulla porta spegne la luce. E tutto, nella casa, torna a scivolare nel buio. Nel sogno cammino per casa. E lo so che è un sogno. Perché mi sono accorta di addormentarmi. Quando è venuta l'infermiera avevo gli occhi come un tondino di ferro. Poi li ho chiusi e adesso sto dormendo. Ma non trovo la gatta. Ho cercato sotto al divano, dietro le tende, sotto al termosifone, ma non c'è. In cima all'armadio, ma non c'è e il mio armadio non è così alto. Sulla cima quasi non c'arrivo, nemmeno con la scala. Cerco di spingere sui pioli, ma è come se salissi quindici piani e ho le gambe pesanti. Non ce la faccio. Però devo arrivare in cima. Devo arrivarci prima di cadere. Forse c'è una sedia e posso riposarmi. Una sedia in cima all'armadio, la mia sedia preferita. Ma non so se c'arrivo. Non riesco a fare un passo. Devo farcela, sogno di merda. Devo farcela. Cosa ci vuole. È solo una cazzo di scala, Alice. Sali. Devi farcela da sola.
E invece cado. All'indietro. Di schiena. Ho anche il tempo di pensare che sarà una brutta botta. Che farà un male della Madonna. E invece il pavimento è morbido. E mi accorgo che sono finita a letto. Ho gli occhi chiusi. Pesanti come un tondino di ferro. Però riesco ad aprirli, piano. La miciola è a un metro da me. Mi guarda. Allora la chiamo, ma non mi esce la voce. Mi muovo, allungo le mani, le sposto lungo il corpo, ma non le sento muoversi. Devo alzarmi. La gatta vuole che la prenda in braccio. Vuole che la chiami, vuole che le dica che è il mio amore. È per questo che mi guarda così spaventata. Apro la bocca ma esce solo aria. Tutto quello che mi esce dalle labbra è solo aria. Non posso parlare. Non posso muovermi. E anche se è un sogno, so che quando mi sveglierò non sarà diverso. Bologna, 21 aprile. Mezzogiorno Un bambino ride e io giro la testa verso la finestra, ma è fuori, per la strada. Tracce di Bologna che continua senza di me. Sono in piedi in mezzo alla stanza, lo sguardo che sfiora la tenda senza vederla, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e Fossati in sottofondo. Stamattina mi sono rasato con calma, nudo davanti allo specchio, ho pulito per bene il rasoio dai peli, mi sono buttato sotto la doccia, mi sono vestito scegliendo con cura un maglione nero scollato a V, una camicia bianca, un paio di Levi's. Quando sono uscito in macchina erano quasi le sei del mattino. L'ho lasciata in via Paolo Fabbri, vicino al Sant'Orsola. Sono entrato in un bar e mi sono fatto un cappuccino, sciogliendo l'umido che la mattina di aprile mi ha appoggiato sul pizzetto e sulla punta delle dita. Poi ho salito le scale e ho attraversato di nuovo il lungo corridoio del pronto soccorso, ascoltando il suono dei miei passi come i rintocchi di un orologio sul soffitto troppo basso. E alla fine sono entrato nella stanza. Alice stava dormendo. Era esattamente nella stessa posizione in cui l'avevo lasciata. Mi sono seduto accanto al letto e ho fissato per qualche lunghissimo secondo le
gocce che stavano scendendo dalla bolla della flebo, le ho viste scivolare nel tubicino di plastica, infilarsi nella cannula, sparire dentro di lei. E ho cercato di immaginare dove potessero finire, cosa potessero trovare nel sangue di Alice da combattere, in che modo. L'ho guardata, come si fa con qualcosa di lontano, di irraggiungibile, chiedendomi cosa stesse pensando e quanta paura ci fosse dietro le sue palpebre chiuse. Sono rimasto mezz'ora fermo a guardare il colore della pelle intorno agli occhi, il taglio delle orecchie, i riflessi dei capelli regalati dalla piccola luce della lampada del letto, i lievissimi movimenti delle dita delle mani, e ognuno di quei piccoli scatti mi sembrava il segno che qualcosa tentava disperatamente di continuare a vivere dentro di lei. E non ce la faceva. Ho visto gli occhi muoversi dietro le palpebre abbassate, inseguendo un sogno e qualcosa dentro di me ha sorriso pensando che lei non se lo sarebbe mai ricordato. Poi le ho passato un dito sul dorso della mano e mi sono alzato. In silenzio. E adesso che ci penso sono nel mio studio, in piedi davanti alla finestra, ad aspettare che Salvi mi chiami con l'esito delle analisi. La mattina è sfilata senza che nemmeno me ne accorgessi ed è un mezzogiorno pieno di un silenzio irreale. Finché non succede qualcosa a rompere tutto. Una cosa semplice. Squilla il telefono. «Ma porca troia!» sbraita e molla un pugno all'agenda nera appoggiata di fianco al mouse. «Se becco quel coglione che ha detto che Windows XP è stabile gli cucino le palle a fuoco lento come la marmellata.» Per la quarta volta Guido Bignami schiaccia con furia la maledetta trinità Ctrl Alt Canc, e si alza a guardare il cielo celeste sopra Bologna. Mentre si fa distrarre dai colori del giorno e da qualche pensiero non ben identificato, sullo schermo appaiono in rapida successione la schermata del BIOS e quindi il desktop, con la Canalis appoggiata al lato corto del monitor a 17" con due tette da far saltare i circuiti a qualunque microprocessore. Sembra in trance, Guido. Eppure non se lo può permettere. Ha un sito da mettere online entro la mezzanotte. Il sito di un cliente tanto pieno di soldi quanto deciso a rigargli le palle con un cacciavite nel caso il lavoro non venga finito nei tempi concordati. Seguendo la scia di una Punto nera che si allontana da Bologna imboccando via Ferrarese, Guido nota l'insegna di
una banca e ricordando l'ultimo estratto conto, decide di sedersi di nuovo a lavorare. È a casa, un appartamento piccolo, pieno di libri e dischi arrampicato all'ultimo piano di un palazzo alla prima periferia di Bologna. Un appartamento triste che da un po' di tempo ha finito per assomigliargli. Per un po' funziona tutto bene, in una di quelle strane forme di magia che a volte accadono e per cui programmare diventa facile, solo una successione rapida di istruzioni che sembrano andare a posto da sole. Poi qualcosa si appanna. Succede quando passa un aereo, diretto chissadove. Passa talmente basso che Guido riesce a distinguere il colore delle lettere sulla coda, l'inclinazione del timone. Oltre a sentire i timpani urlare per il rumore terrificante dei motori. Però quell'aereo porta dietro un pensiero e Guido, improvvisamente, stacca le dita dalla tastiera e gli occhi dal monitor. Qualche tempo dopo, ricominciando, non si ricorderà più che cosa stava per scrivere. Ma lì per lì non si preoccupa e molla tutto per correre dietro proprio a quel pensiero. Segue la scia dell'aereo lungo la finestra alla sua sinistra e poi sul muro, come se fosse trasparente e poi sul comodino e poi sulla libreria. E lì c'è la foto che lo guarda. La foto di Teresa. Teresa Rizzo, all'anagrafe, ma Titti per lui. Sempre e solo Titti. Nella foto sorride e ha una strana luce sui capelli, come se il sole non fosse di fianco, al centro di un cielo in sospetto di fotoritocco, ma proprio dentro al sorriso. Guido è innamorato di Teresa. Ma non gliel'ha mai detto. O forse lei lo sa da sola e ha preferito stare zitta. Tanto Teresa è innamorata di un altro. In realtà dovrebbe dire era innamorata di un altro, perché Teresa è morta. Fa il conto dei giorni che sono passati da quando è successo e cerca di ricreare nella testa l'ultima immagine che ha di lei. E tutto quello che si ricorda è la foto che è apparsa sui giornali, sempre la stessa. Sul «Carlino» cronaca locale e nazionale, su «la Repubblica» - cronaca locale e nazionale - e su tutti gli altri. Anche sul «Corriere della Sera». Perché la questura di Bologna fa notizia. E Teresa l'ha ammazzata un poliziotto. Così, l'ultima cosa che si ricorda è una foto grigia di inchiostro in cui lei sorride. Ma che non assomiglia alla vita vera. La foto che ha sul comodino, quella sì che assomiglia alla vita vera. La prende fra le mani e la guarda. Ed è lì che vede la vespa.
Vespa vulgaris. Vive nei prati e nei boschi, si nutre di carne e materie zuccherine, uccide le api per saccheggiare l'alveare. Sa tutto delle vespe da quando era bambino e una vespa l'aveva punto, a scuola. Se l'era trovata sotto un'ascella e lui aveva semplicemente chiuso le braccia. Senza saperlo. Così lei aveva punto. Non ce l'aveva con lei, anche lui avrebbe fatto lo stesso se fosse stato schiacciato fra un costato e un'ascella giganteschi. Però quella puntura aveva rischiato di ammazzarlo. Era arrivata l'ambulanza e aveva sentito i dottori dire che gli aveva preso un ciocco profilattico. Dopo, a casa, la mamma gli aveva detto che quello che aveva avuto si chiamava shock anafilattico e gli aveva insegnato anche a scriverlo. Non aveva un bel suono, però era difficile e a scuola nessuno sapeva cosa fosse. Forse nemmeno la maestra. Però quello shock che aveva rischiato di fargli fare un ciocco definitivo, aveva anche fatto saltare fuori che era allergico alle vespe. La vespa ha la bocca atta a masticare e lambire i menotteri aculeati. Ha sei arti come tutti gli insetti e le ali anteriori sono più grandi. È glabra, gialla e nera e lui la sta guardando, ferma sul comodino. Forse anche lei lo sta guardando. Dev'essere entrata prima, quando ha aperto la finestra del bagno. Chissà da quanto tempo è lì con lui. Per un attimo pensa di aprire la finestra. Poi lo sfiora il pensiero che se toglie la zanzariera potrebbero entrarne altre. Allora si sposta piano a destra, mentre una lunga goccia di sudore gli cammina sulla fronte e sulla tempia. Allunga una mano senza guardare e prende dalla scrivania un libretto spesso tre dita, rilegato con le anelle. Lo stringe, lo sente saldo in mano. Gli basta un solo tentativo. Ha anni di esperienza nell'eliminazione di quelle troie. Con un sorriso di soddisfazione la vede svanire sotto lo schiaffo che il libro le molla proprio sopra le ali anteriori. Quelle più grandi. Ma il sorriso gli muore subito sulle labbra quando si accorge con cosa ha schiacciato la belva. E quando comincia a pensare al suo danaroso cliente e a come potrà spiegargli che il suo preziosissimo catalogo in monocopia porta, indelebili sulla copertina rilegata, i resti spiaccicati di una vespa vulgarìs. «Si tratta di avvelenamento.» La semplicità delle cose. È quella che colpisce diretta. Quella che arriva. Cose semplici. Non riesco a muovermi mentre Salvi, seduto dietro alla scrivania, pro-
nuncia quella frase. Come se leggessi nel pensiero e lo avessi saputo prima. «Spiegami, per favore» dico e sento la mia voce uscire quasi invisibile, come quei fili di lana che si staccano dai maglioni. Quelli che quasi non li vedi, ma se continui a tirare poi il maglione svanisce. Una struttura complessa è basata su tante piccolissime strutture semplici. Funziona così anche per le persone e per tutto quello che ci succede, tutti i giorni. «Le abbiamo fatto le analisi» comincia e si sistema sulla poltrona. Il suo studio è caldo e la luce che passa da dietro le tende tirate sembra diversa da quella che è fuori. «Abbiamo trovato traccia di una sostanza sintetica. Qualcosa che assomiglia al batterio del botulino, ma che non lo è.» «Mi stai dicendo che qualcuno ha modificato in laboratorio il botulino e in qualche modo lei ne è venuta a contatto?» «No, Gabriele. Ti sto dicendo che qualcuno glielo ha somministrato. Al massimo quattro giorni fa. Probabilmente meno. Per bocca. La ferita al dito è troppo vecchia per essere la fonte. E non ci sono segni di iniezioni. Da nessuna parte.» Si ferma un attimo. Prende fiato, come se gli mancasse l'aria. Poi ricomincia. «La sostanza che abbiamo trovato non esiste in nessun modo in natura e non puoi venirne a contatto. A meno di non trovarti nel laboratorio dove viene prodotta.» «E dove viene prodotta?» È come se fossi due persone. Una che passa la vita a fare domande e una che invece la vita tenta di viverla davvero. «Stiamo contattando le case farmaceutiche. I laboratori chimici. Tutto. Ma non aspettarti risultati.» «Perché?» Salvi mi guarda e si alza. Fa il giro della scrivania in un tempo che mi pare eternamente lungo. Si siede sul bordo del tavolo. Il camice si apre e i miei occhi si fissano sul nero del suo maglione. E penso che quello è lo stesso colore del sangue di notte, quando c'è la luna. Penso al sangue di Teresa. Nero. «In laboratorio dicono che non hanno mai visto niente che assomigli a questo batterio.» Si volta. Prende in mano una penna. È solo una bic, blu, il tappo liscio e perfetto. «È come se tu prendessi questa penna, le togliessi il tappino, la smontassi, mettessi il tubo di plastica trasparente al caldo, lo facessi diventare una bella esse, poi ricomponessi il tutto. Avresti una penna a forma di esse. Ma non sarebbe più la stessa penna di prima.» «Non è botulino» ripeto semplicemente.
«No. Non lo è.» La "e" accentata resta appesa al silenzio. Forse non c'è davvero tutto questo silenzio. Forse fuori dalla porta qualcuno cammina con gli zoccoli o parla o grida o ride. Ma io non lo sento. «La situazione è seria, Gabriele. Non ho nessuna intenzione di raccontarti stronzate. Chiunque sia che ha elaborato il batterio è una persona con grandi conoscenze. Uno che sa il fatto suo. Che conosce il campo e il mestiere. Non è facile creare qualcosa di questo genere. Le abbiamo dato l'antisiero, l'antidoto. Ma non ha nessun effetto. È l'antitossina che si usa per il botulino, l'unica che esiste. Ma è come se fosse acqua. Se non conosciamo la tossina originale non possiamo fare niente.» Niente. Niente è una parola breve come buio, come nulla, come no. Sto pensando che tutte le parole che nascondono un vuoto enorme sono in realtà brevissime. Forse è il mio modo di reagire. Ho paura e penso ad altro. Se metto a fuoco invece tutto diventa semplice. «Quindi trovando chi è stato, sapendo come è stata modificata la tossina, è possibile creare un antidoto?» «Sì. Con la tossina originale, possiamo sintetizzare un antisiero.» Ecco. Basta girare l'otturatore, spostare il diaframma, aprire l'obiettivo e fare entrare luce. La vita è come una fotografia. Solo questioni di punti di vista. Trovare la giusta inquadratura. La luce che serve. Il soggetto. Mi alzo e i pensieri mi si schiariscono in un momento. So cosa devo fare. Salvi se ne accorge subito. È la prima volta che lo guardo negli occhi. «Vado a prenderlo» gli dico. «Chiunque sia stato te lo porto qui.» La stanza è fredda e lui si muove con calma attorno al grande tavolo bianco. Una volta quel posto era una cantina. Ci ha messo quasi sei mesi a trasformarla in quello che è adesso. Senza contare il tempo speso a cercare il materiale. Adesso però, tutto è perfetto. Si sposta con passi silenziosi, che il copriscarpe attutisce. Sa che se qualcuno lo vedesse lì, in quel momento, con la tuta di protezione che gli impedisce di contaminare l'ambiente, penserebbe a uno sbarco alieno. E in fondo è proprio con gli extraterrestri che ha a che fare. Una volta, tanti anni fa, guardando un vecchio film ha chiesto a qualcuno cosa volesse dire alieno. Alieno vuol dire diverso, gli ha risposto. È lì che ha pensato per la prima volta che alla gente quelli strani, non conformati alla massa, non piacciono. Quelli di cui non capiscono le reazioni so-
no quelli che fanno paura. I veri extraterrestri. E quindi lui lo è. E lo è anche quello che tiene con le mani, dopo aver affondato le braccia nei due condotti di plastica trasparente che lo dividono dal tavolo di lavoro sterile, appoggiato alla parete. È extraterrestre perché non appartiene alla terra. Viene da un posto che non esiste in nessuna parte del mondo. Dalla sua testa. Controlla con attenzione il movimento della centrifuga, solleva una provetta per ammirarne il contenuto trasparente e invisibile, poi lo travasa in una fialetta argentata e sfila le mani dai guanti protettivi. Infila una siringa nella fialetta e guarda il liquido salire, richiamato dall'azione combinata dei vasi comunicanti e della pressione. Lascia che la siringa sia piena per un quarto poi si infila la fialetta in tasca e appoggia la siringa sul tavolo. Resta un attimo fermo in mezzo alla stanza e guarda in direzione delle gabbiette. Sorride. Si avvicina e i topi cominciano a squittire. Uno più di tutti, come se sentisse che tocca a lui. Apre la gabbietta e lo prende, mentre gli altri due coinquilini scappano verso il fondo, schiacciandosi contro le inferriate. Solleva la cavia e la studia, mentre sente dentro la mano il rumore sordo e rapido del respiro del topo. È bianco come la tuta che indossa, come la tinta delle pareti, come ogni cosa in quella stanza. Se è vero che gli animali sentono i terremoti, i temporali, le alluvioni e le catastrofi naturali, allora lui ha tra le mani la prova che avvertono anche l'arrivo della loro morte. Perché quel topo che ha fra le dita è terrorizzato. Se avvicinasse il viso a quella morbida pelliccetta bianca sentirebbe perfino l'odore che ha, la sua paura. Ha impiegato due settimane a renderlo allergico al veleno delle vespe. Due settimane di iniezioni praticate a intervalli regolari, studiando le dosi, facendo attenzione a simulare quanto più possibile il comportamento dell'organismo umano. E ora è il suo turno. Solleva la siringa e gliela pianta inesorabilmente in corpo, infilando l'ago per metà nella carne tenera dell'animale che tenta invano di mordergli le dita. Fa appena in tempo a sfilare la siringa e in tutto ci vogliono due sole convulsioni. E mentre prende il topo e lo getta nel barile nero che usa per smaltire i rifiuti, pensa che per il prossimo corpo in cui inietterà la sua creatura non basterà un recipiente così piccolo. «Mi scusi, dottor Riccardi, ma cosa sta succedendo?»
«Nessun dottore, la prego» rispondo. Ha una faccia simpatica il professor Stefano Farneti, il capo di Alice. Me l'ero immaginato diverso e la differenza fra l'impressione e la realtà è stata un po' spiazzante. Ha circa quarantacinque anni e l'aspetto del compagno di banco un po' secchione, con quello sguardo furbo ma distante e spaventato, nascosto dietro gli occhiali con una montatura troppo grande. La camicia azzurra e la cravatta, i capelli perfettamente in piega, l'aria di chi è abituato a stare di fronte alle persone, a fingere di ascoltarle facendosi in realtà i cazzi suoi. Un fondo di simpatia negli occhi fragili e un'attenzione che probabilmente non dedica a tutti. Mi chiedo se sia dovuta al fatto che sono un poliziotto. «D'accordo, niente dottore. Riccardi va bene?» «Perfetto. Lei sa perché sono qui?» «Beh, non fino in fondo. So quello che è successo ad Alice. È incredibile come certe cose possano...» «L'hanno avvelenata. Probabilmente qui.» Lo vedo irrigidirsi. I dorsali si tendono dietro il cotone della camicia. L'ho fatto apposta a sbatterglielo in faccia così. Secco, diretto, preciso. Deve sentirsi in colpa. Accelera la collaborazione. Non ho molto tempo. Alice non sta semplicemente male. «Lei non penserà che...» «Non penso, professore. Cerco solo di collegare i fatti. E almeno per il momento i fatti non dicono che qualcuno che lavora qui sia la persona che cerco.» Lo vedo rilassarsi. Ho imparato a capire le emozioni della gente, studiando la posizione delle mani. Il modo in cui si distendono e si allungano, la distanza fra le dita, la pressione esercitata sui pugni chiusi. Tutta roba che si impara passando la vita a fare domande. E a interpretare risposte. «Come posso aiutarla?» «Ho bisogno di sapere con esattezza quali sono stati tutti gli appuntamenti di lavoro di Alice negli ultimi quattro giorni. Voglio i nomi delle persone che ha incontrato, gli indirizzi, i numeri di telefono, le facce e i motivi. Voglio sapere qualsiasi cosa. E vorrei parlare con i suoi collaboratori.» «Non si preoccupi. Nell'altra stanza c'è Ilaria, la segretaria di Alice. Le darà tutto quello che le serve. Noi... noi vogliamo bene ad Alice.» Vorrei dire anch'io le voglio bene e invece faccio solo un breve gesto con la testa. Di più non posso fare. Se mescolo i miei sentimenti - la pelle
che si spacca in due, il cuore che salta un battito - con quello che sto facendo, non troverò mai nessuno. Alice deve essere solo un caso da risolvere in fretta. Senza perdere tempo. Devo tenere la mia Alice fuori da questo caso. Chiuderla in un angolo. Sigillare le sensazioni, nasconderle in una stanza da aprire solo quando posso permettermelo. Una volta lo facevo sempre con le persone che amavo. Ora è il momento di scoprire se sono ancora capace. «Lei ha notato qualcosa di strano nell'ultima settimana?» Farneti ci pensa un secondo. «No» risponde. «Le solite cose. Niente che possa aver colpito la mia attenzione.» Per un attimo mi chiedo che cosa attiri veramente l'attenzione di un uomo così. Poi le priorità diventano altre, le cose da fare urgenti. «Credo che sia ora che conosca Ilaria» dico. E mi alzo. Palermo, primo pomeriggio Sente il rumore della macchina che rallenta e d'istinto allunga la mano in fondo alla tasca della giacca. La pistola è fredda e piccola nelle sue mani grandi. Gaspare la stringe più forte e prosegue. Detesta le pistole. Davanti a sé, a non più di cento metri, c'è l'incrocio fra la strada in cui sta camminando, via Cavour, e via Ruggero Settimo. A quell'incrocio, in un appartamento con le finestre che danno su Piazza Giuseppe Verdi, abita il notaio Calogero Cantalamessa. Dopo l'avvocato Accolti, è lui il suo secondo obiettivo. Per quello che ha in mente deve fare in fretta. Si ferma all'incrocio, aspettando che il semaforo passi dal rosso al verde, e spia con la coda dell'occhio il fuoristrada fermo qualche metro dietro. La macchina ha i vetri scuri ed è nera. Il sole gioca con la carrozzeria a formare strane scintille, come storie dimenticate da qualcuno senza rimorso e troppo in fretta. Non riesce a vedere chi c'è a bordo, ma sa che sono lì per lui. È la terza volta che vede quella macchina e in via Cavour si è sentito il peso dei suoi fari addosso, come se fossero uno sguardo che lo spia, fuori nei movimenti e dentro, nelle intenzioni. Sa come funzionano certe cose. È come un gioco. Deve fingere di non essersi accorto di nulla e loro - perché di certo sono più di uno - devono far finta di credere che lui non sappia che sono lì. Una scacchiera, un tavolo in mezzo e un cronometro che corre. Tic tac, tic tac.
Poi il semaforo diventa verde e Gaspare guarda il portone del palazzo di via Settimo che si ingrandisce nel suo campo visivo. L'auto parte normalmente, lo supera senza esitazione e sparisce per la sua strada. È a quel punto che Gaspare molla la pistola, si rilassa, sorride e comincia a pensare che tutto quello che sta capitando abbia inquinato il suo senso del pericolo e il suo intuito. Poi si infila nel portone al civico quattro di via Settimo. E capisce come stanno veramente le cose. «'un ti moviri» dice la pistola che ha puntata alla nuca e Gaspare la riconosce subito. E sa che non deve avere paura. «Amuninni» ripete la voce e in fondo al cortile del grande palazzo in cui è entrato si apre una piccola porta. Sulla porta c'è un uomo che lo guarda. «Quanti anni sono passati?» chiede Gaspare quando gli arriva accanto. «Sali» è l'unica risposta che ottiene. Poi tutto diventa buio. Bologna, quindici e venticinque Ilaria, la segretaria di Alice, è una di quelle donne che colpiscono gli uomini per strada perché troppi centimetri separano il pavimento dalla loro testa. Ma l'attenzione si ferma lì. È sui quaranta, dritta come un tavolo da cucito, con una fila di capelli lunghi fino alla schiena e l'aria di chi è sempre un po' intimorita da chi le sta davanti e reagisce abbaiando. Lo dicono le rughe intorno agli occhi, sottili, che lo sguardo rigido le ha disegnato. Però con me è gentile. Ha modi diretti, ma non scortesi. E non mi tratta da poliziotto. Anche mentre facevo il mio breve discorsino, spiegando di cosa ho bisogno senza fare riferimento a cosa sta esattamente succedendo, mi ha guardato più per quello che rappresento come persona che per il mio ruolo istituzionale. Gli altri due, un ragazzo e una donna, sono spaventati. Lei no. O almeno non lo mostra. Nella stanza ci sono quattro scrivanie, ma solo una può essere quella di Alice. Lo saprei anche se non conoscessi esattamente dove si trova rispetto alla finestra. La guardo e probabilmente qualcosa mi passa sul viso perché Ilaria mi sorride per un secondo con quei suoi strani occhi. Giusto il tempo di sedermi sulla sedia di Alice e di guardare fuori dalla finestra, in strada, la mia macchina parcheggiata dove non potrebbe. Lei si siede davanti a me.
«Vuole vedere il computer? Vuole che lo accenda?» No, non voglio. Non voglio vedere la sua e-mail, i file, le cose che magari scriveva e a chi le scriveva. Non voglio nemmeno guardare per bene tutte quelle carte che in un disordine tipicamente suo affollano la scrivania. Non voglio sapere cos'è successo nel periodo in cui la lampadina si è spenta. Non voglio ma lo dovrò fare, per forza. È una strada in cui non posso non passare. Ma non adesso. Adesso ho bisogno di quei nomi. E basta. Glielo dico. «In realtà non c'è molto da dire. Lavori nuovi non ne abbiamo avuti. Sa come funziona. Promesse, più che altro. Si scateneranno subito dopo le feste.» Annuisco. Sto cercando di distrarmi, di staccare gli occhi dalla stanza, da quelle pareti che ho immaginato così spesso, dalla radio accesa che so che è sua. Da tutto quello che quel mondo rappresenta. Ci sto provando. «Mi racconta cos'è successo l'ultima mattina, per favore?» L'ho chiesto solo perché continui a parlare e non tocchi a me dire qualcosa. Devo respirare. Allungo in avanti le gambe, affondo le mani nelle tasche dei pantaloni e le spingo forte. Fino alla fine. «Non stava bene. Si vedeva a guardarla. A un certo punto si è alzata in piedi ed è come... crollata. Caduta per terra come se le gambe non la tenessero più. Non è svenuta. Semplicemente... è caduta. Credo che si sia fatta male a una spalla. Le ho dato una mano ad alzarsi, a mettersi seduta. Poi l'abbiamo portata a casa. Io e lui.» Indica il ragazzo all'angolo. «Lui ha riportato la macchina di Alice e io ho portato a casa lei. Non ha voluto che entrassimo. Ha detto che si sarebbe messa subito a letto.» «Già. E questo quando è successo?» «Saranno passati quattro giorni.» «Tre.» È il ragazzo all'angolo. Ha la faccia sveglia e morbida. Uno di quelli che sembra che non ti caghino poi in realtà sono sempre attenti. «Perché tre?» gli chiedo. «Perché è il giorno che è venuto quel tizio. Anselmi, credo che si chiamasse, vero Ila?» Ilaria si accende. «Hai ragione. Non so come ho fatto a non ricordarmelo. Forse in tutto quel casino...» «E chi è Anselmi?» chiedo. E all'improvviso è come se sapessi già tutte le risposte. Ilaria si gira verso la scrivania. Apre un'agenda. Sembra che non mi ascolti. La lascio fare. Poi si alza e
mi mostra una pagina. C'è scritto Anselmi, 11. Conosco la calligrafia. La "n" con gli spigoli. La "s" che si lega alla "e" come fossero una "h" in un antico corsivo. La "l" dritta, precisa. Alice cammina così, penso. Come scrive la "l". «Sono passati tre giorni» sentenzia Ilaria. Un verdetto, penso. Litigare con questa donna dev'essere peggio che combattere da solo una guerra punica. «Chi è Anselmi?» Questa volta mi ascolta. «Un cliente. Uno degli appuntamenti di questa settimana. Era già venuto altre due volte, circa un mese fa. Ma c'erano ancora dei problemi da risolvere.» «Può farmi una lista con i nomi?» «Eccola» mi dice. E mi allunga un foglio che si deve essere stampata prima, come se si aspettasse quella richiesta. La ringrazio, lo prendo e lo leggo. C'è tutto. Nomi, numeri di telefono e le ditte di riferimento. Giovanni Anselmi è l'ultimo nome della lista. L'ultimo appuntamento di Alice. La mattina in cui è stata male. «Questo Anselmi, che tipo è?» chiedo e mi alzo. Mi risponde il ragazzo. «Normale. Sui quarantacinque. Non molto alto, non molto bello. Uno che non si nota. Però cordiale, simpatico.» «Noi golosi siamo sempre molto contenti di vederlo» aggiunge Ilaria. «Peccato che sia arrivata in ufficio troppo tardi, quel giorno. Non ho potuto approfittarne.» Mi irrigidisco. «Peccato?» «Oh sì! Peccato. Porta sempre dei cioccolatini.» «E quella mattina li aveva?» Devo stare calmo. Non devo far capire nulla. «Certo che sì!» È l'altra donna che parla. Fino ad allora ha taciuto. Sembra timida e ha una voce sottile che quasi non si sente. Però dice l'unica cosa che volevo sentire. «Alice né stava mangiando uno quando Ilaria è arrivata.» Palermo, nello stesso istante Un rumore e una sensazione lieve di bruciore. Come da lontano. Poi silenzio. E un ronzio. Uno strano odore di disinfettante sotto il naso. ...lia Il bisogno troppo forte di respirare, come appena uscito dall'acqua, da
bambino, quando faceva le gare di apnea con suo padre. ...glia G E poi di nuovo il rumore e il bruciore. Sulla guancia, poco sotto lo zigomo. Uno schiaffo. Come quelli che gli dava sua madre quando saltava la scuola per andare a fare il bagno. Sveglia Gasp... Un fruscio leggero nell'aria e Gaspare Nunia apre gli occhi, allunga il braccio destro e blocca con un movimento secco e preciso la mano che sta per tirargli un altro schiaffo. È dell'uomo che gli ha puntato la pistola alla nuca, poco fa. E che adesso guarda le dita grosse come cavi di Gaspare e sorride. «Ti sei svegliato. Bene. Era ora.» La presa si allenta. È seduto su una sedia antica, con lo schienale imbottito e il profilo disegnato da un numero indefinito di bulloni. La stanza è grande, con un soffitto alto della stessa età della sedia e dell'arredamento circostante. L'ambiente è in penombra. Le grandi tende scure sono tirate e la luce esterna fatica a filtrare, disegnando lunghe ombre sul pavimento. In un angolo della stanza, su un tavolino basso, è acceso un abat-jour. Sul divano a fianco della luce, c'è un uomo. Gaspare non lo vede da quasi vent'anni e il primo pensiero che fa, riuscendo a scorgerne i lineamenti, è che tutti gli identikit che circolano sono totalmente sbagliati. Don Beniamino Riccomini non assomiglia affatto alle elaborazioni che i computer hanno fatto per ricostruirne la fisionomia. Guardandolo seduto, Gaspare non può fare a meno di pensare che non lo prenderanno mai. Quando ha visto in televisione Totò Riina nella sua cella fresco di arresto e poi nel supercarcere, ha saputo subito che era lui, anche se non lo aveva mai incontrato di persona. Ma adesso, con l'uomo che gli sta a non più di tre metri, la sensazione è molto diversa. Sa chi è perché non potrebbe essere un altro. «Da quanto tempo, Don Beniamino.» Gaspare si avvicina e saluta, abbassando piano la testa in una specie di inchino. «Tua madre era una donna buona» dice il ricercato più famoso d'Italia e solo allora, sentendo la sua voce, Gaspare è assolutamente certo che sia lui. Quel tono profondo e graffiato dalle sigarette, è lo stesso che ha sentito parlare con suo padre, in un posto pieno di sole che sembra distante un
tempo troppo lungo per poter essere contato. Ed è la stessa voce con cui ha parlato lui, per un attimo appena più lungo di quelle due sole frasi, in un giorno più recente, ma molto lontano nella memoria. «Sono qui per un affare, don Beniamino» dice Gaspare e qualcuno dietro di lui sbuffa fuori una mezza risata. Beniamino Riccomini guarda in direzione di quella risata e l'ironia che la alimentava se ne va di colpo, colpita dalla durezza dello sguardo. «Tu sei un uomo morto, Gaspare. E i morti che riescono ancora a camminare di solito hanno buoni affari da proporre. Ti ascolto» Beniamino Riccomini appoggia una mano sulla parte vuota del divano e Gaspare si siede. Alza il viso e i loro occhi si incontrano. Regge lo sguardo solo per un momento. L'aria intorno a lui sa di shampoo e di antico. Sa di qualcosa di grande, da rispettare, contro cui non mettersi. Mai. «Ci sono due persone che devo proteggere. Sono qui per loro.» «E per quale motivo dovrebbe interessarmi?» Gaspare glielo dice. Senza girarci troppo intorno. Gli racconta quello che sa. Nomi, date, avvenimenti. Con precisione, senza parole di troppo. E mentre lo fa, vede, per un brevissimo istante, il viso di Riccomini lasciarsi andare a una smorfia di ricordo. Dura pochissimo, ma basta a Gaspare per riuscire a finire la sua storia. «Le due persone sono tua cugina Serena e tua zia Margherita» dice Riccomini ed è un'affermazione, non una domanda. Gaspare annuisce. «Allora portami quell'oggetto e fai quello che devi.» Beniamino Riccomini si alza dal divano ed esce dalla stanza. Zoppica lentamente, ma non sembra un segno di debolezza. Un secondo dopo l'uomo che guidava il fuoristrada gli si avvicina. E Gaspare capisce che sta di nuovo per calare la notte. Via Ostiense, tardo pomeriggio Acilia è un posto di confine fra Roma e il mare, sulla Ostiense. Mentre si infila con la macchina su per la collina, Gaspare pensa che a volte basta uscire dalla città per trovare un po' di pace. Il silenzio che c'è lì gli ricorda quello che sentiva nel boschetto dietro la casa di zio Giulio, tanti anni fa. Sorride pensando a per quanto tempo ha creduto che Giulio fosse il nome e alla confusione che ha avuto in testa quando ha capito che invece il nome era Candido. Ricorda di aver chiesto a suo padre come potesse suc-
cedere che un uomo avesse due nomi invece di un nome e un cognome. Ricorda ancora la risposta di suo padre, seduto al tavolo di cucina, mentre sua madre tagliava il pesce. «I nomi non sono importanti. Quello che conta è cosa sono le persone. E zio Giulio è una persona a cui portare rispetto.» È quella la frase esatta. Chissà se pensava la stessa cosa quando lo zio Giulio, che di nome fa Candido, lo ha fatto ammazzare. Stringe forte il volante della macchina con cui è arrivato fin lì, mentre le immagini di suo padre gli scivolano sfocate nella mente, come diapositive allungate sul muro di una stanza buia da un proiettore guasto. L'ultima volta che lo ha visto è stato al processo. Perché per andare al funerale il permesso non gliel'hanno dato. Troppo pericoloso hanno detto. E Gaspare si è chiesto per chi. Se per lui a cui avevano ammazzato il padre e che era disposto a rischiare la pelle per guardare la sua bara finire sotto terra o per la polizia che avrebbe dovuto scortarlo. Glielo chiederà allo zio Giulio se c'era pericolo. Ci sono tante cose che vorrebbe chiedergli. O magari no. Forse il tempo delle parole è davvero finito. Forse è solo il momento di fare quello che si deve fare. Superando l'incrocio vede la casa. Si aspetta di trovare una volante della polizia a sorvegliarla, ma non c'è. O almeno non la vede. Tenendo gli occhi sulla villetta dove Candido Giulio vive con la sua famiglia in soggiorno obbligato, Gaspare Nunia pensa a quello che succederà quando arriverà la notte. In fondo non gli resta ancora molto da aspettare. Bologna, venti e quindici «Come sta?» mi chiede Max mentre spignatta sui fornelli. Casa sua è colorata come i suoi occhi e gli assomiglia. C'è tutto quello che ci deve essere eppure ha un che di irreale che mi piace. «Non lo so come sta. Sta lì. Sul letto. Non parla. Non risponde. Si muove appena.» Sospiro, ma senza aprire la bocca, come se avessi paura che il respiro, uscendo, potesse far entrare qualcosa del mondo di fuori. In realtà mi sento spaccare a metà. Sono un poliziotto e sono un uomo. E Alice è un caso e la donna che amo.
«Il dottore che cosa ti ha detto?» chiede mentre taglia i pomodorini. Non gli rispondo. «Posso darti una mano?» dico e faccio per alzarmi. «Per tagliarti via un dito mentre affetti qualcosa? A parte la meravigliosa sensazione di vederti dolorante non credo che saresti di grande aiuto per me. Lascia fare al cuoco, va' e stai seduto.» «Guarda che ho preallertato il 118 e i NAS. Se quei pomodori non sono stati coltivati nell'orto di casa tua non potrai cucinare più nemmeno i pasti dei condannati a morte.» «In Italia non ci sono condannati a morte.» «Forse perché nessuno viene a cena a casa tua.» Sento una porta che sbatte e d'istinto alzo la testa verso il soffitto. «Che cazzo era?» «La tipa che abita sopra.» «Spero che abbiate gli stessi gusti musicali, perché con dei muri così se la musica che ascolta non ti piace sei rovinato.» «Musica? No, niente musica. Questa fa di meglio.» Mi drizzo sulla sedia. «Di meglio?» «Sì, di meglio. Ma non mi hai risposto. Cosa hanno detto i dottori?» «Domani passo a vedere come sta la gatta, poveretta... I dottori... Pare che la cosa non sia ferma. Qualunque cosa le abbiano dato in quel cioccolatino...» «Sei sicuro che sia stato il cioccolatino?» «No, non sono sicuro. Diciamo che non ho le prove. Ma se vuoi sapere cosa penso d'istinto, allora ti dico di sì. C'era qualcosa nel cioccolatino.» Mi interrompo un attimo, senza sapere perché. «Continua.» «Dicevo che qualunque cosa ci fosse in quel cioccolatino non è un veleno normale. La sta come paralizzando. Sembra che la leghi. Ci sono dei momenti in cui apre gli occhi e sembra non vedermi nemmeno. Sono occhi strani. Non lo so... Non so cosa aspettarmi...» «Intanto aspettati questo piatto di pasta» dice Max e si presenta a tavola con uno scodellone enorme da cui arriva un buon profumo. «Da dove è entrato il rosticciere? Dallo scarico del lavandino?» «Ascolta cretinetti, io sono un grande cuoco, che cosa credi...» Sorrido. Anche perché lo so senza agganciare la prima forchettata, che è buona. Si vede dal colore, dal profumo. Però non riesco a mangiare. Dai scopami adesso. La voce arriva dal piano di sopra, ma sembra sospesa a mezz'aria fra il
tavolo e il soffitto. Dai bastardo, scopami. «Ah buongiorno» dico e appoggio la forchetta. «Benvenuto allo spettacolo della Lazzarini. Si replica almeno tre volte la settimana.» «E il tono è sempre questo?» «Non hai ancora sentito niente.» Max cerca di non guardare la faccia da idiota che devo avere in questo momento. Mentre tracanna un sorso di birra dalla bottiglia si sente un urlo lacerante. «Eh che è? Dum l'ultimo Mandingo?» Sei un animale grida la Lazzarini e a quel punto Max scoppia a ridere, coprendosi la bocca col tovagliolo. «Se urla così adesso figurati mentre viene.» «La prima volta un po' meno, la seconda e la terza invece tremano i muri. Ho dovuto togliere la plafoniera perché ho paura che una di queste volte venga giù.» Il cigolio che si sente dal piano di sopra aumenta, un crescendo che sembra non debba mai finire. «Ma lui...» «Dovresti vederlo. Sarà un metro e mezzo, con la pancia. Non gli daresti una lira. Non che lei sia una gran penna.» Sì, sono la tua maiala urla lei e io quasi non sento il telefono che squilla. Rispondo e non sento l'orgasmo che dal piano di sopra lacera la gola e la pelle della donna e i nostri timpani. Riattacco. «Scusami ma devo scappare» dico. «Alice non respira più.» Quattro La stanza è piccola e rivestita di muffa. In fondo c'è una porta di metallo. Assomiglia a quelle che si vedono nei sottomarini o nelle astronavi dei film americani. La maniglia è circolare, sembra un grosso timone. Beniamino Riccomini la gira, ciabattando sul pavimento scuro e sporco. Sogna quella stanza da quasi un anno. Ogni volta gira la ruota e si infila nel corridoio buio, come sta facendo adesso, e ogni volta il corridoio ha l'odore stantio di una stalla tenuta chiusa per troppo tempo. È lo stesso odore che ha sentito tanti anni prima, quando ha visto la tigre allo zoo. Alla fine del corridoio c'è una stanza e ancora prima di entrare sa cosa
farà lì dentro. È sempre la stessa cosa. Così quando ci arriva non si sorprende nel vedere la vasca. È così che l'ha sempre immaginata. Scura, di pietra, un pozzo rettangolare in cui galleggia un liquido denso che sembra olio per autocarri. Si infila una mano nella tasca della vestaglia e trova la testa di una gallina. Lo sa ancora prima che la mano tocchi le penne del collo tranciato o la plastica rigidità del becco. La prende e la getta nella vasca con un movimento lento che lascia una scia nell'aria del sogno. La testa galleggia in quel liquido per un istante, poi comincia a fumare e sembra sparire, andare a fondo. Ma in realtà svanisce. Perché la cosa che c'è in quella vasca si nutre di carne. Don Beniamino guarda la sottile scia di fumo che svanisce e poi si volta verso sinistra. È lì che sa che si aprirà la porta di legno. E la porta di legno si apre. C'è un corridoio, di nuovo, ma questa volta è illuminato da tante piccole luci che sembrano la fiammella di una candela. Non appena si infila lì dentro, la stanza con la vasca scompare, come tutte le altre volte. E in fondo al corridoio appare una luce. Beniamino Riccomini avanza verso quella luce. Ricorda che la prima volta che l'ha vista ha pensato che è così che succederà quando toccherà a lui di morire. Un lungo corridoio e alla fine un prato di fiori bianchi e in mezzo al prato ci sarà Rosaria. E avrà sette anni per sempre. Ma non succede nel sogno. Nel sogno, alla fine del corridoio c'è un campo d'erba tagliata di fresco con una fila di tombe in mezzo. E non c'è Rosaria, ma la foto di Rosaria, sul marmo gelato e segnato dalla pioggia di una di quelle lapidi. Rosaria Caltagirone 1997-2003. Beniamino Riccomini allunga la mano per toccare l'immagine del volto sorridente di sua nipote e si sveglia. La casa è in silenzio. Fuori, da qualche parte sta abbaiando un cane. E se il racconto che Gaspare Nunia gli ha fatto è vero, c'è qualcuno che sta aspettando per giustificare davanti agli uomini la morte di un uomo, di una donna e di una bambina fatta scivolare come una bambola di pezza in una vasca piena d'acido. Beniamino Riccomini pensa a quell'uomo, socchiude gli occhi, si volta su un fianco e finalmente riesce ad addormentarsi senza che i sogni lo visitino di nuovo. Bologna, ventuno
Alice respira attaccata alla sottile proboscide di plastica che le spunta dalle labbra come un bacio. La vedo da dietro il vetro della rianimazione e ascolto la contrazione lunga dell'inspirazione e lo schiocco secco dell'espirazione come fossero un mantra che spiega il funzionamento della vita. È andata in arresto respiratorio proprio mentre stavo arrivando a casa di Max. Me lo ha raccontato Salvi, prima, e quando l'ho saputo, mi è saltata fuori un'incazzatura folle. Perché non ero lì mentre succedeva, mentre i suoi polmoni decidevano di non respirare più. E anche se so che non avrei potuto fare niente per lei, non mi sento meglio. «È sotto sedativi. Serve a preservare le sue funzioni vitali» mi ha spiegato Salvi mentre salivamo al piano e io adesso la guardo e cerco di capire dove siano le sue funzioni vitali. Cosa siano. E da dove arrivi quel respiro che sale e che scende con cronometrica precisione. Quel bip che scandisce il battito ritmato del suo cuore. Appoggio la fronte al vetro e respiro forte. Per un attimo mi sembra di incrociare il suo sguardo, dietro le palpebre chiuse. Per un attimo credo di vederle aperte e di vedere i suoi occhi come li ho visti una sera d'estate. Sorridere come se non ci fosse mai stata un'altra estate al mondo. Poi ripenso a quel cioccolatino e sento il palmo delle mani asciugarsi. E il mondo reale prende di nuovo posizione al centro della mia vita. «Non ti nascondo che siamo preoccupati» mi dice Salvi, davanti a un caffè che sa di pozzo nero, presentandomi il primario di rianimazione. Si chiama De Vitis e assomiglia al Bobo dei fumetti di Staino dopo una drastica dieta dimagrante. «Qualunque cosa sia sembra non volersi fermare. E per quanto tentiamo di arrestarla, non abbiamo mezzi.» «Quanto tempo abbiamo?» chiedo ed è la domanda più difficile che mi sia mai uscita di bocca in vita mia. Salvi guarda De Vitis, come se non avesse lui il coraggio di darmi la randellata che mi aspetta. «Poco. Non le so dire quanto tempo. Se la progressione dell'infezione è questa, temo non oltre le due settimane. Forse meno. Abbiamo stabilizzato la respirazione, intubandola. Ma per il resto... Non sappiamo contro cosa stiamo combattendo, dottor Riccardi.» Finisco il caffè tutto d'un sorso. «I dottori siete voi. Io sono un poliziotto. E nemmeno io so contro cosa sto combattendo.»
Acilia, mezzanotte Tutto intorno ci sono solo i grilli e la notte. Ha aspettato cinque ore nel piccolo boschetto di fronte alla casa, per vedere le luci che si accendevano, qualcuno che si muoveva dietro alle finestre chiuse. Ha aspettato di capire. Ma non è successo niente. Nessuno è passato da quelle parti. Nemmeno la polizia, per fare un controllo. Allora è uscito dal boschetto, verso la stradina sterrata che sta dietro la casa, sotto la luce della luna, fredda e opaca. In quella casa non c'è più nessuno. Lo sa mentre liscia con due dita la lama del coltello, come per salutarla prima di metterla via. Il suo è solo un appuntamento rimandato. Ovunque abbiano portato zio Giulio. Si guarda intorno e resta ad ascoltare i rumori della notte. E si ricorda di una delle prime cose che zio Giulio gli ha insegnato. Ascoltare e non sentire. Ha imparato un sacco di tempo fa a distinguere il fruscio del vento da quello provocato dai passi degli uomini nell'erba. A capire se il canto che si sente nelle notti come quelle è di una civetta o il richiamo di un essere umano. Ha imparato a diventare piccolo nel buio picchi se sì picciriddu 'a notte 'un ti viri. E quella è una notte in cui non c'è niente. Solo troppi grilli. E la voce di zio Giulio in testa. Una voce che tra poco sentirà di nuovo. Guardandolo negli occhi. Gira intorno alla casa, poi vede la finestra e si avvicina. È senza sbarre e rompere il vetro non è difficile. Si toglie la giacca e la avvolge attorno al braccio, come un cappuccio. Infila la mano nel buco del vetro e la apre. Un secondo dopo è dentro. E chiunque abbia abitato lì, se n'è andato in gran fretta. La cucina è grande, con un piano cottura di marmo. Sopra ci sono due scatole di cornflakes al cioccolato, aperte, una tazza con Minnie e una caffettiera appoggiata su uno straccio per asciugare i piatti. La tazza è piena per metà di latte e cornflakes. Un cucchiaino spunta come una bandiera sul suolo lunare. Al piano di sopra gli armadi sono aperti. I cassetti svuotati senza un ordine preciso. Un paio di mutandine di pizzo penzolano dal pomello di un cassetto. La signora Giulio è sempre stata una dai gusti sofisticati. Il letto è
disfatto, un cuscino per terra, l'altro appoggiato al muro. Gaspare guarda tutto quel casino e sorride perché sente la paura nella casa. La sente sui muri, sul disordine lasciato andare, sulle tracce di una fuga fatta all'improvviso per il terrore che quello che ti aspetta possa essere ovunque, in qualsiasi momento. Anche in casa tua. Mentre fai colazione con la tua bambina. La bambina. A quel pensiero, Gaspare smette di sorridere. Esce dalla stanza, gira l'angolo e si infila in camera della piccola. C'è un poster di Ricky Martin appeso a una parete. Uno zaino rosa dell'Invicta su una sedia, accanto a una scrivania di legno scuro. Una foto mostra zio Giulio al mare, seduto su uno scoglio. Dietro la foto, appoggiato alla parete di una mensola bianca, c'è un diavoletto rosso di peluche con una faccia buffa. Gaspare lo prende in mano e vede il rattoppo di cotone nero che ha sulla schiena, come la cicatrice di una brutta operazione. Sorride e lo stringe forte, come ha stretto tante volte le vertebre cervicali di qualcuno. Tanto da sentirle spezzarsi sotto le dita. Ma il diavoletto è morbido e non si spezza. Resta lì, incollato alla sua pelle. E ripensa a quando fra quelle mani stringerà di nuovo la pelle di qualcuno, al piacere che proverà sentendo la vita che sfugge via. E alla risposta che ha dato a un uomo in un pomeriggio di sole, dentro una stanza buia. «Andrai a Bologna, Gaspare» dice zio Giulio in quella casa dove lui non è mai stato. «Non mi fido più di quel verme. Sai di chi sto parlando, vero?» Gaspare lo sa. Il verme è un tipo che si chiama Antonio Pizzo, uno del suo paese che conosce da quando erano bambini. Uno che era già un idiota allora. Solo che la gente non se ne accorgeva. Una volta per ammazzare una lucertola aveva usato una matita. Ma non c'aveva messo abbastanza forza e il rettile era rimasto mezzo morto e mezzo vivo, con uno squarcio su un fianco. Non era divertente guardare un'agonia. Il divertimento era uccidere. Antonio non aveva mai capito la differenza. È la stessa che passa fra guardare un film porno e scopare. No, decisamente Antonio Pizzo non è un genio e adesso anche don Giulio se n'è accorto. E la gestione della droga che i corleonesi si fanno arrivare direttamente dai narcotrafficanti colombiani e che riempie le vene, le narici e le bocche di mezza Italia non è più un problema suo.
«E di lui che ne devo fare?» «Lui non è un problema. Ho già pensato a cosa fare. Non lo possiamo eliminare. Lo sai.» Gaspare lo sa di chi è nipote Antonio Pizzo. E sa che è uno con cui zio Giulio non si può permettere una guerra. Né adesso né mai. Quello che non sa e che non capisce è come crede di potersi togliere dai coglioni uno così. Uno che non sa stare zitto, che non vuole stare zitto. E che soprattutto sa come fare per farti capire che deve contare qualcosa anche se non ne ha i mezzi. Per quelli come Antonio Pizzo, Gaspare conosce una strada sola. Vorrebbe chiederlo a zio Giulio cos'ha in mente, ma non fa in tempo. Perché quando sta per aprire bocca entra un uomo. Ha quasi cinquant'anni e una cicatrice sul collo, sotto l'orecchio, che gli segna la faccia come un quadro futurista. La bambina che ha in braccio è piccola e sembra una bambola. Nelle braccia di quell'animale ricorda una vecchia illustrazione di Pinocchio di quando era bambino. I burattini appoggiati a dormire in un angolo, nel tendone di Mangiafuoco. Solo che quella bambina non dorme. Gaspare lo saprebbe anche se non si fosse accorto che ha gli occhi sbarrati e il collo livido, segnato dalle mani di qualcuno. «Portala di là e fai quello che ti ho detto» dice zio Giulio e l'uomo con la cicatrice si infila in silenzio in una porta e sparisce nella stanza vicina. «È la nipote di Beniamino Riccomini» spiega quando il tipo è sparito dall'altra parte. E Gaspare per un attimo sente qualcosa di freddo che gli pizzica la nuca. Poi passa. «Vieni.» Zio Giulio fa un gesto con la testa. Gaspare lo segue nella stanza in fondo. Dietro la porta ci sono delle scale che sprofondano in una specie di cantina. C'è della paglia per terra, una cassa di legno vuota, due ripiani pieni di bottiglie di vino fatto in casa, una vecchia vasca da bagno incrostata e rigata di ruggine, un frigorifero industriale che fa da sottofondo, con il suo ronzio, all'indaffararsi del tipo con la cicatrice attorno a un bidone alto un metro e mezzo da terra. Ha un diametro di circa un metro e sembra molto pesante, fatto di un materiale scuro che non è metallo. Zio Giulio si avvicina alla parete con il vino e resta a guardare lo sfregiato che trascina il bidone in mezzo alla stanza e cerca di aprirlo. Gaspare si ferma di fianco a lui, incrocia le braccia e aspetta di vedere cosa sta per succedere. Il corpo della bambina è sulla paglia. Ha i capelli lunghi e lisci sporchi
di qualcosa che sembra terra. Gli occhi sono neri e fissano un'immagine che deve sembrare spaventosa. Solo che non vedono più niente. Ha visto solo altre due volte degli occhi così: in un film dell'orrore di quando era bambino - uno di quelli in cui una bambola prendeva vita e squartava senza pietà chiunque le capitasse a tiro - e in una vecchia arrivata per caso dove non doveva mentre lui stava sgozzandole il figlio. «Quella bambina,» comincia zio Giulio vedendolo fissare il cadavere «è il nostro lasciapassare. Quella bambina e i suoi genitori ci faranno ricchi. Ricchi a palate.» I genitori della piccola sono la figlia e il genero di Beniamino Riccomini. È così che Gaspare capisce che in quella storia i morti ammazzati sono tre. Poi lo sfregiato riesce finalmente ad aprire il bidone. Lo fa con cautela, come se dentro ci fosse un animale. E invece c'è solo un liquido scuro e denso che sembra petrolio. Quando il coperchio cade per terra, dal liquido si solleva un sottilissimo filo di fumo e una puzza di disinfettante che fa quasi male agli occhi e alla pelle. Lo sfregiato prende in braccio la bambina e solo allora Gaspare capisce cosa c'è nel bidone e cosa sta per succedere. Ma quando sta per accadere zio Giulio ferma la scena. «Aspetta.» Si avvicina alla bambina e Gaspare si accorge che tra le mani stringe un pupazzetto. È un diavoletto di peluche. Lo tiene sigillato nella rigidità delle sue braccia e per toglierglielo Giulio deve strapparlo. Il pupazzo cade a terra, accanto ai piedi dello sfregiato. «A mia figlia piacerà» dice zio Giulio raccogliendolo. Fa un gesto all'uomo e tutto riprende il suo corso. «Cazzo, è rotto.» Infila un dito nel taglio del pupazzetto, proprio dietro alla coda e mentre lo fa, lo sfregiato lascia andare la bambina nella vasca da bagno. Il corpo fa un rumore sordo. Quando tocca la ceramica consumata, si sente uno schiocco come di qualcosa che si rompe. «Forse basta un po' di cotone e di filo. Che dici, Gaspare? A Chiara piacerà anche con il rammendo?» chiede zio Giulio e lo sfregiato comincia a versare l'acido nella vasca. «Sì. È un bel pupazzo.» Il corpo di Rosaria - a Gaspare pare si chiami così la bambina - comincia a fumare a contatto con l'acido, come l'acqua con le pastiglie balsamiche che ti fanno tornare la voce. Vede il viso che si squama piano piano, i lineamenti che svaniscono, il
naso piccolo e sottile che si piega e ricade su se stesso, risucchiato dalla cavità delle ossa. La pelle prima si arrossa e poi scoppia e un odore misto di carne bruciata e di ospedale permea la stanza. Un odore che ti entra dentro e che cresce man mano che lo sfregiato vuota sul corpo della bimba il contenuto del bidone. «Don Beniamino sarà molto incazzato quando verrà a sapere che Antonio Pizzo ha fatto una cosa come questa. E sarò proprio io a dirgli chi è stato. E perché lo ha fatto.» La voce di zio Giulio è un sussurro che taglia le orecchie. «Ce ne vuole un altro di bidone» dice lo sfregiato. «Allora vai, Michele. Vallo a prendere nel camion.» Michele esce, bravo bestione da soma. Giulio guarda la vasca e accarezza piano il peluche. «Quando ha finito di fare il suo lavoro,» spiega accennando con il viso alla porta da cui è appena uscito lo sfregiato «tagliagli la gola.» Gaspare lo guarda. «Lo immaginavo» dice soltanto. Bologna, una e quarantotto del mattino Sono quasi le due del mattino e il bar è praticamente deserto. Entro e mi siedo al bancone. Ho la vista annebbiata e le mani fredde, il bavero della giacca sollevato per ripararmi dall'umidità della notte, gli occhi pesti come se avessi fumato troppe sigarette. Conosco questo posto, anche se non ci sono mai stato. È piccolo, aperto solo dalle otto di sera alle dieci del mattino. In certi momenti stipato di ragazzotti urlanti di ritorno da chissà dove. A volte vuoto come i miei pensieri. Adesso. Sono uscito dalla rianimazione all'una e mezza del mattino e ho camminato per via Massarenti deserta, sbucando fuori dall'ospedale Sant'Orsola dal lato del pronto soccorso ostetrico. Via Massarenti è un lungo cordone ombelicale che più avanti diventa via San Vitale e arriva fino a Ravenna e dall'altro lato si infila nello strano buio senza stagione dei portici entro mura, giù fino alle due torri. A quest'ora è immersa nella luce gialla dei lampioni e delle due grandi insegne al neon del pronto soccorso. C'è un silenzio stranissimo e camminando verso il bar, riesco a sentire distintamente il suono dei miei passi sotto al portico. Rimbalzano sul soffitto e si spengono improvvisamente, da qualche parte
dietro di me. «Cosa ti do?» Il barista assomiglia a Claudio Bisio. Solo più vecchio e più grasso. Ha una voce triste, sagomata e ammorbidita dall'accento e mi guarda come se sapesse tutto quello che c'è da sapere. Sembra uno che ne ha visti tanti a quest'ora entrare e bere qualcosa. Probabilmente abbiamo tutti lo stesso odore. Di dolore e di disinfettante. Medicina e voglia di inventarsi qualcosa per sopportare l'idea che una madre o una moglie o un figlio siano dentro a quelle quattro mura a marcire insieme alla vita che se ne va. Ne ho visti tanti anch'io costretti ad affrontare la notte per non sopportare che un pezzo della loro vita sia stato strappato via all'improvviso e senza un motivo. Conosco come funziona quella merda. Conosco l'effetto che fa sugli uomini. «Hai un Calvados?» Bisio non dice niente. Si gira verso il bancone, prende il bicchiere giusto e mi versa due dita di Calvados. Annego il naso nel profumo del rum e chiudo gli occhi. In sottofondo c'è Springsteen che canta Into the fire, la canzone per i pompieri di ground zero. Possa la tua forza darci forza, possa la tua Fede darci Fede, possa la tua speranza darci speranza, possa il tuo amore darci amore. «...Fede...» sussurro. «Cos'è che hai detto??» Alzo gli occhi. Bisio si sta asciugando le mani su uno straccio, uno di quelli per i piatti che mia nonna chiamava burazzo. «Pensavo alla canzone e a tante altre cose.» «A questa qui? Quella del Boss? Una canzone. Belle parole, ecco tutto.» «Belle parole?» «Sai, per ogni coraggioso al mondo che fa qualcosa di eroico e ci lascia le penne c'è sempre qualcuno che lo racconta, che ci scrive sopra un po' di parole, magari una bella musica e ci fa un sacco di pilla.» «È questo che pensi?» «Del Boss? No, del Boss no. Sai, a occhio ho un po' di anni più di te. E c'ero al concerto dell'85. Il 21 giugno. Era la prima volta che veniva. No, non penserei mai una cosa simile del Boss. Ma su quei pompieri ci hanno marciato sopra in troppi. E poi c'è una cosa che non mi sono spiegato mai.» Appoggio il bicchiere e i gomiti sul bancone.
Un ragazzotto con un giubbotto di pelle - che con il caldo che c'è fuori sa tanto di vermi pronti per la pesca - entra sbattendo la porta. «Ehi, mi dai un birrino?» Bisio gli risponde senza nemmeno spostare lo sguardo. «No.» «Cos'hai detto?» «Ho detto no. Mi hai fatto una domanda. Nel contesto una domanda è mi dai una birra? O un birrino come dice uno come te. Ora ti faccio notare tre dettagli. Primo non me lo hai chiesto per favore. Secondo mi hai dato del tu e fra me e te ci sono almeno trent'anni di differenza. Terzo domandare è lecito e rispondere è cortesia. E io ti ho risposto. Nel contesto la mia risposta alla domanda è no. La birra la vai a bere da un'altra parte.» «Dai, non fare lo stronzo...» Mi giro sullo sgabello rotante. Fisso il tipo nel giubbotto di pelle. Ha un amuleto africano attaccato al collo e l'aria di non sapere nemmeno cosa significa. «Non hai sentito cosa ti ha risposto?» «E tu chi sei suo padre?» «No guarda bene, sono suo nonno. E guarda caso sono anche un poliziotto. È una vicenda che ti interessa?» «Dai non mi prendere per il culo.» Il ragazzotto mi caccia una manata sulla spalla. L'impronta del palmo della sua mano mi rimane appiccicata alla giacca come una macchia di unto su una camicia bianca. Mi infilo una mano in tasca. Poi faccio il gesto di pulirmi la spalla. E distendo il braccio per mostrargli il tesserino. «Credi che davvero sia interessato a prendere per il culo un cazzone come te? Allora, hai capito bene cosa ti ha risposto il signore, oppure te lo deve ripetere?» «No. No... ho capito.» Adesso sorrido. Odio questi stronzetti e Bologna ne è piena. Maragli da quattro soldi che girano su macchine troppo grandi e troppo rumorose e che hanno come unico interesse stordirsi. Di qualsiasi cosa. Anche di stanchezza. «Allora se hai capito chiedi scusa e gira il tuo culo. Subito.» «Mi... mi scusi. Davvero. Non volevo.» «Vai via, genietto» gli dice Bisio, fissandolo con compassione. «Vai via prima che il mio amico ti faccia il palloncino. Che mi sa che te di birre stasera ne hai già viste troppe. O forse non sono solo birre.» Il ragazzo fa due passi indietro, poi si gira e scappa fuori dal locale.
Mezzo minuto dopo si sente una moto che parte in un rumore assordante di motore truccato. «Senti, ma perché non gli hai dato la birra?» «Non ne avevo voglia. E poi questi qui che studiano da testa di cazzo mi stanno sui maroni. Vengono qui nel mio locale e pensano di comandare solo perché pagano. Ma chi se ne frega se paghi? Neanche fossero soldi loro.» Scuoto la testa e metto via il distintivo. Prendo il bicchiere in mano, cerco qualcosa nei riflessi del rum, poi mi bagno appena le labbra. L'odore mi rimane attaccato alle narici quel tanto che basta per fare quasi male. Poi va via. «Così sei un poliziotto dal cuore d'oro?» «Un poliziotto. Uno stronzo come tutti gli altri.» «Come preferisci. E uno stronzo come tutti gli altri che ci fa da queste parti a quest'ora a farsi un rum senza berlo?» «Lo sai perché sono qui.» «Lei chi è, tua madre?» «La mia donna. O almeno era la mia donna fino a qualche tempo fa. Adesso non lo so. Non so se mi abbia lasciato e si sia dimenticata di dirmelo. Non so proprio un cazzo, se devo essere sincero.» «Vuoi un consiglio?» «Se vuoi...» «Trovati una bella ragazza sui vent'anni. Ce ne sono tante. E scopala finché non ti fa male l'uccello.» «E se ti dicessi che lei ha scopato il mio cuore?» «Oh mamma mamma! Ti direi che ci sono due possibilità, amico. O non reggi l'alcool oppure sei in un bel casino. E se ti guardo bene non mi pare che tu abbia la faccia di uno che si sbronza.» Non gli rispondo. Questa volta bevo. Un sorso lungo e caldo che mi brucia l'esofago. Poi appoggio piano il bicchiere sul bancone. «Cos'è che non hai mai capito?» Bisio mi guarda come se fossi matto. Si gratta il cranio rasato e sorride. «Stai parlando dei pompieri? Ma se salti di palo in frasca così, faccio fatica a starti dietro a quest'ora, sai? Non ho mai capito cosa ci siano andati a fare su per quelle scale.» «Perché tu dici che lo sapevano?» «Dimmelo tu che sei un poliziotto. C'è un aereo che ha sfondato un grattacielo. C'è gente che si butta di sotto per non bruciare viva. E tu sali le
scale. E secondo me lo sai che vai a morire. Ma lo fai lo stesso. Perché?» «Non lo so. Però posso raccontarti una storia.» «Una storia di poliziotti?» «Una storia di poliziotti.» «Aspetta.» Il barista si leva il grembiule, gira intorno al banco e abbassa la saracinesca fino a metà. Poi si siede accanto a me, su un altro sgabello. «Adesso puoi raccontare.» «Qualche giorno fa ero in una villa, su per San Mamolo. Davanti avevo un tipo. Un armadio a tre ante con una ragazzina in ostaggio. Le teneva la pistola puntata alla testa, come se fosse un chiodo. E mi ha minacciato di ucciderla se non lo facevo uscire. Poi l'ha puntata verso di me.» «Cazzo ecco dove ti avevo già visto. Te sei quello che ha preso la banda delle ville?» «La vuoi sentire la mia storia?» «Dai, va mo avanti.» «Allora. Questo tipo mi punta la pistola davanti e vuole uscire. Avevamo già preso gli altri e potevo anche farglielo fare. Fuori eravamo in cinque pattuglie. Non andava da nessuna parte. Invece gli ho sparato a una spalla.» «Questo per dirmi che non avevi paura che ti sparasse. Che eri semplicemente lì per farlo e basta.» «Più o meno. Avevo paura quando l'ho visto e ho avuto paura dopo, quando era tutto finito. Una paura della Madonna. Ma lì, sul momento, no.» «E quando sei all'ospedale da lei, hai paura?» «Così tanto da non riuscire a uscire. Forse tutto il coraggio che ho, lo uso per il cazzo di mestiere che faccio.» «O forse la vita funziona in un altro modo.» «O forse ho paura di sparare e non colpire. E allora non ci sarebbe una seconda possibilità.» «Eh?» «Niente, lascia stare. Non puoi capire. Forse è solo che preferirei che quel tipo mi avesse sparato piuttosto che vedere lei là dentro.» Il barista sospira piano. «Mio nonno diceva mai lasciare che una donna ti prenda in mano la testa.» «E tu gli hai dato retta?» «Mai, nemmeno una volta.»
«Mio nonno invece diceva che nella vita ci vogliono tre cose. Salute, oc' avanti e bus dal cui.» «Occhio avanti e culo. Un bel motto. E tu li hai?» «Sono qui a quest'ora a bere del Calvados e a parlare con te. Secondo te li ho?» Bisio sghignazza. «Forse i due vecchi si conoscevano.» Finisco il rum. «Forse. Adesso è ora che vada, prima che venga fuori che siamo pure parenti.» «Se passi da queste parti...» «...finisce che ce ne raccontiamo un'altra» concludo ed esco abbassandomi sotto la serranda. Fuori, dopo i primi due passi, una lacrima mi aspetta in agguato, scivolandomi su una guancia in silenzio prima che la catturi e la spazzi via come un rumore lontano in una notte di primavera. Acilia, stessa ora Torturando con le dita l'apertura del serramanico che tiene in tasca, Gaspare Nunia esce dalla casa. Respira l'odore dell'erba e per un attimo gli sembra di sentire mescolata al profumo della notte la stessa puzza terrificante che sale dal corpo bruciato della bambina e dal sangue del suo assassino. Se lo sente ancora fra le dita, caldo. Vivo. La sua è una vita fatta di morti. Una vita che si è scelto e che gli piace. Pensa al corpo di Serena che lo aspetta a casa e pensa che niente potrà mai essere com'era Teresa. Niente. Forse solo uccidere. «Non ti muovere» dice una voce a due metri da lui e solo allora si rende conto di essersi distratto troppo. Ascolta i passi sull'erba e poi sullo stradino. È un uomo solo. Fa un passo. È più piccolo di lui, lo sente dal peso che appoggia mentre cammina. Un poliziotto. O un carabiniere. «Metti le mani in vista e non ti muovere.» La voce è giovane. Troppo per la DIA. È uno di leva. Uno che hanno mandato per controllare una casa vuota a cui nessuno ha dato importanza. Idioti. Senza dire niente Gaspare solleva le mani sopra le spalle. Annusa l'aria e sente l'odore del dopobarba del ragazzo. E del suo sudore. Poi ancora due
passi. «Che cazzo ci fai qui? Non lo sai che non si può stare?» Il ragazzo cammina spalle alla luna. Gaspare vede avvicinarsi la sua ombra sull'erba. Respira. Immobile. Sa che deve solo aspettare. «No, non lo sapevo.» «Adesso lo sai.» La voce del ragazzo trema. Avrebbe dovuto chiamare il suo compagno di pattuglia, avvertire di aver trovato qualcuno. Ma non l'ha fatto. Forse è la prima volta che estrae la pistola davanti a un uomo. Ancora un passo. «Adesso voltati e fallo piano.» E Gaspare si volta. «Oh cazzo» sibila il carabiniere riconoscendolo. Ed è l'ultima frase che pronuncia. Gaspare si butta sotto la linea di fuoco dell'arma tesa e colpisce il ragazzo fra le gambe. Lo sente cadere dietro alla spinta del suo corpo e con un colpo secco all'avambraccio gli fa cadere la pistola. Poi gli si siede sopra a gambe larghe, le ginocchia a bloccargli le braccia, la massa del suo peso che gli schiaccia la cassa toracica come un respiro soffocato. Guardandoli da lontano potrebbero sembrare due amanti che scopano sotto la luna. La radio gracchia. Il ragazzo sbatte continuamente le ciglia. «Un picciriddu mandarono» sibila Gaspare. Poi gli pianta il coltello nel collo e resta lì, a sentire il sangue che schizza fuori. La testa del ragazzo rimbalza seguendo i battiti del suo cuore impazzito. Quando Gaspare impugna il coltello e gira due volte il manico in senso orario, si sente uno schiocco di qualcosa che si spezza e tutto si ferma. Allora sfila il coltello e lo pulisce con un fazzoletto. Poi prende la pistola del carabiniere e si infila nel boschetto. Appena fuori, sulla strada, c'è la macchina parcheggiata. Devono essere arrivati mentre lui era dentro e non hanno visto la sua auto nascosta un po' dopo. Uccidere l'altro uomo non gli dà lo stesso piacere. È in piedi, davanti al cofano. Probabilmente non sente nemmeno la morte arrivare. Gaspare mette il piede fuori dal boschetto e spara. Un colpo solo che spacca il silenzio della collina e zittisce i grilli. Un colpo solo alla testa del carabiniere che cade come un frutto maturo dall'albero. Non c'è bisogno nemmeno di finirlo.
Nel silenzio cammina verso la sua macchina e se ne va. E non appena mette in moto i grilli ricominciano a cantare come se niente fosse. Bologna, quasi le tre Guido senza fretta, tanto non ho voglia di niente. E poi la notte mi piace. Perché questa città di notte diventa vera. Bologna è un vampiro. Quello che vedi di giorno è solo una facciata indolente. Serena e molle. Svaccata, forse. Ma mai sulle sue. Di notte invece è tutta un'altra cosa. C'è una parte di Bologna che rimane sempre nascosta. Che vive sotto pelle e che esce solo con le luci dei locali di moda. Posti dove vai adesso e fai fatica a entrare e magari l'anno prossimo troverai deserti, come i relitti dei vecchi siti web che restano a vagare per la Rete in eterno. Bologna è fatta di ricordi e di speranze. Ed è un posto abbastanza assurdo per coltivare le speranze e non abbandonare i ricordi. Ma per non vivere fino in fondo nessuno dei due. Accendo la radio. Canta Mick Jagger e anche lui e Hard woman sono un ricordo. Di Alice. E mi torna voglia di piangere perché a quest'ora, nella mia macchina, non sono un poliziotto, ma un uomo, cazzo. E ho il diritto di essere stanco e di essere triste. Però non lo faccio. Stringo solo il volante e penso a come la cantava lei, quella canzone lì. Piano. Cantava sempre piano. E se voleva cantare forte alzava il volume. Alzava. Mi accorgo di usare il passato e mi incazzo di più. Fuori c'è la luce gialla di sempre e le mura della cerchia dei Mille sembrano la porta di casa dentro cui nasconderti e non farti vedere. Ma nelle mura di casa succedono cose tremende. E quella sicurezza che sembra arrivare dalla pietra rossa, dalle strade strette, in realtà è la stessa che non fa passare la luce, che ti lascia al buio tutta la vita e ti spia mentre cerchi di capire. Bologna ti guarda e ti giudica. Lo ha sempre fatto, in silenzio, senza dire niente. Come le donne che si raccontano i pettegolezzi più recenti sulle vicine di casa o gli uomini che raccontano di scopate che non hanno mai avuto il coraggio di fare davvero. Bologna ti guarda e ti giudica. Solo che è sufficientemente troia da saperlo fare in silenzio. Senza che tu te ne accorga. E a un certo punto ti tira fuori il conto da pagare. Mi chiedo se il mio sarò capace di pagarlo. E ho paura, adesso, di sapere
quanto costa e che della cifra non me ne frega un cazzo. Solo sapere dove firmare per l'addebito. Straccio il rosso del semaforo di via Ferrarese e dopo due minuti sono a casa. Da dove parcheggio la macchina, si sente solo il fruscio degli alberi del parco e qualcuno che sgasa sullo stradone, come un'eco. Di solito però, perché stasera sembra che tutto il palazzo si sia radunato in cortile. «Ciao Gabriele, hai sentito che roba?» mi fa la Cecchetti, quella del terzo che ti attacca delle pezze che non finiscono più. È lì col cane e io infilo le mani nel pelo bianco di quell'enorme incrocio di razze che, per ringraziarmi, mi lecca l'avambraccio come fosse un ghiacciolo. «No, torno adesso da...» «È morto Guido» mi fa, senza neanche farmi finire. Lo conosco Guido. Uno che lavora in casa, che programma i computer e che ti saluta sempre per primo quando lo incontri. Uno di quelli che piacciono a me. Che per divertirsi non si mette a fare il grosso, che non ti guarda dall'alto in basso. Uno che assomiglia a quello che questa città era e che vorrei tornasse a essere. «Cosa è successo?» La Cecchetti abbassa lo sguardo e la sua cagna mi ricorda che ho smesso di strafugnarle il pelo, abbaiando piano. «Una vespa» dice la donna, mentre ricomincio a ballare con le dita in mezzo ai peli del suo bestione. E allora mi ricordo che più o meno un anno fa ho incontrato Guido Bignami in farmacia. Cercavo qualcosa per il mal di gola e lui comprava delle punture. E mi ha raccontato che doveva girare sempre con quelle punture in tasca perché è allergico al veleno delle vespe. Tanto da lasciarci le penne se lo pungono. E che ha messo le zanzariere in casa in tutte le finestre e anche in terrazza, perché ha paura. E allora mi chiedo come ha fatto a entrargli una vespa in casa e perché non si è fatto la sua puntura. E penso che domani potrei anche fare una mezza indagine per vedere cos'è successo davvero. Poi mi viene in mente che domani devo accompagnare quel tritapalle del questore che fa da scorta al trasferimento a Budrio di Candido Giulio. E allora forse potrei dire a Ippoliti di controllare. Ma Ippoliti sta controllando quel tipo, quell'Anselmi. E improvvisamente sono di nuovo in rianimazione e sento il respiro di Alice che sale e che scende.
E mi incazzo per avere dimenticato per un secondo qual è la realtà. Allora saluto la Cecchetti, gratto ancora un secondo il pelo del suo cane, poi mi infilo nel portone. Prima di entrare, tengo la porta aperta ai barellieri che portano via Guido Bignami in una sacca per cadaveri. Cinque Roccasole, Sicilia. 22 aprile. Otto e venticinque Il cimitero è a strapiombo sulla roccia. Da lì, nei giorni di tempesta, si sente il mare sbattere sul muretto di cinta. E mettendosi in piedi sopra al muretto si potrebbe vedere l'Africa se uno avesse gli occhi tanto buoni da riuscirci. A Gaspare lo diceva suo padre. «Guarda l'Africa» e lui gli raccontava dei leoni, delle zebre e di tutto quello che vedeva e immaginava. Succedeva quando andavano a trovare il nonno e portavano quelle rose lunghe e rosse come il sangue da mettere al posto di quelle vecchie, piene di rughe come le mani della nonna. Succedeva allora, che suo padre lo metteva su quel muretto a vedere l'Africa. E rideva dei suoi racconti. Aveva una bella risata suo padre. E quella di Gaspare è uguale. Sua madre lo diceva sempre. Sua madre che è il motivo per cui si trova lì, a guardare da lontano quello stesso posto da cui potrebbe vedere l'Africa con i leoni che ormai non esiste più, che appartiene a un'epoca destinata a non tornare e che si chiude con quel funerale. Il funerale di sua madre. La prima volta che ha pensato di scappare dal supercarcere di Marino, Gaspare Nunia lo ha fatto pensando a quel funerale. Ha scoperto che sua madre sarebbe morta il giorno in cui lo hanno preso. Quando è morta Teresa. E guardando la ragazza sul marciapiede, il sangue che scivolava via con la pioggia come i ricordi con il tempo, ha pianto una sola lacrima. Una e basta. Per lei, il cui corpo si raffreddava a contatto con l'asfalto e per sua madre, allora ancora viva. Ma con un assassino alle costole che non spreca sangue sul marciapiede, che non fa rumore e che non ti lascia la possibilità di scappare. «Mi dispiace, lei non c'entrava» gli aveva detto quel poliziotto, e Gaspa-
re aveva saputo che era vero. Ognuno ha il suo compito, il suo ruolo. Come da bambini. Chi fa la guardia e chi fa il ladro. Chi scappa e chi rincorre. Solo che il mondo reale non è così. Nel mondo reale c'è anche la gente come Teresa, che si becca una pallottola anche se non sa perché. Da lontano vede la bara entrare nella cappella privata. Spostando il raggio d'azione del binocolo, cerca di contare le pattuglie che sorvegliano il cimitero. Sei, per quello che può vedere. «Quanto tempo pensi di aspettare?» Gaspare si volta e guarda il Muto. Ha la fronte sudata, lucida al sole. «Quando finisce il funerale se ne andranno» dice. Ma pensa che prima di poter guardare il nome di sua madre sulla lapide, forse dovrà cominciare a venire sera. «E dopo?» «Dopo cosa?» «Dopo. Quando è tutto finito.» Gaspare prende il viso del Muto fra le mani. Lo bacia sulla fronte e sente il salato del suo sudore sulle labbra. «Dopo mettiamo le cose a posto» dice guardandolo negli occhi. «E c'è qualcuno che dovrebbe cominciare ad avere paura. Se è ancora un uomo.» Periferia di Bologna, metà mattina La macchina civetta viaggia sulla San Vitale e io guardo il telefono ogni due secondi. Aspetto di sapere cos'è uscito dai controlli di Ippoliti su quell'Anselmi. Aspetto di sapere se fra le carte che riempivano il cestino di Alice è saltato fuori l'incarto di un cioccolatino e se una strana sensazione che ho fra le dita da stamattina si scoprirà vera oppure no. Fuori c'è una giornata di sole quasi innaturale e la periferia di Bologna che si apre alla campagna ha un color kaki che sfuma sul verde e sull'azzurro. Davanti a noi la macchina blu - che porta la famiglia di Candido Giulio al soggiorno obbligato - cammina spedita, ma senza esagerare. Sulle ginocchia ho la copia di «la Repubblica» che ho appena comprato. In prima pagina la foto dei due carabinieri uccisi ieri notte. Davanti alla vecchia casa dell'uomo che stiamo andando a mettere al sicuro. Uccisi quasi sicuramente dalla mano grande come una vanga di Gaspare Nunia.
«Dovremo fare molta attenzione, Riccardi» mi dice il questore. È seduto dietro, da solo. Io non sopporto di salire dietro. Mi sembra di montare su un taxi. E invece lì comando le operazioni, non mi faccio portare a spasso. Anche se in fondo, di quello che sto facendo, non me ne frega poi molto. Per quanto mi riguarda Candido Giulio potrebbe tranquillamente trovarsi sotto due metri di terriccio pieno di vermi come lui. E se Gaspare Nunia è andato là per farlo fuori, beh, probabilmente ha i suoi buoni motivi. «Faremo tutto quello che si può. È il nostro lavoro» gli rispondo, ma mi sta sui coglioni che usi il plurale. Perché in realtà quel noi, siamo io e i miei colleghi. Io posso usare il plurale. Non lui. «Ha letto?» mi chiede, e dallo specchietto noto che sta indicando con un gesto della testa il quotidiano aperto sulle mie ginocchia. «Sì, ho letto.» «Quell'uomo è un animale. E lei resta sempre dell'idea che non verrà a cercarla?» Ci penso. Ma poco. «No, non verrà a cercarmi. E forse non verrà nemmeno a cercare don Giulio. Forse sparirà semplicemente per un po' di tempo. Forse per molto tempo. E alla fine, quando gliel'avremo data su, spunterà fuori e lo farà secco. Senza che nemmeno ce lo aspettiamo.» «Da come parla sembra che lo ammiri.» «No, non lo ammiro. Tutt'altro. Però lo capisco. Umanamente, intendo. È quella la differenza.» «La differenza?» Mi volto, appoggiando la spalla sinistra allo schienale. «La differenza, signor questore. Quando ti trovi ad avere a che fare con certi personaggi, devi imparare a pensare come loro. Devi capire cosa faranno. E soprattutto come ragionano. E io capisco Gaspare Nunia. Capisco che abbia voglia di uccidere Candido Giulio.» «Nunia è solo un animale. Un violento.» «C'è gente che con la violenza ci vive. Lei lo sa bene come me. Altrimenti la gente come noi sarebbe a spasso o a donne. C'è gente che conosce solo la violenza. È la loro quotidianità. E nella violenza ci sono regole e persone come Nunia, che seguono quelle regole. Trasgredire significa pagare. E caro. Se Gaspare Nunia in carcere avesse trasgredito a queste regole non sarebbe evaso.» «Non la capisco.» «Se Gaspare avesse parlato sarebbe rimasto a Marino del Tronto. Perché
quello che succedeva rientrava nel prezzo da pagare. Ma Gaspare Nunia non è mai stato un pentito. E non lo è stato perché non è nelle sue, di regole. Però don Candido gli ha ucciso tutti i famigliari. Tutti tranne una zia. Così, per prevenzione.» «E questo è fuori dalle regole.» «Già.» «E quindi lei è convinto che Nunia sia evaso per vendicare la sua famiglia.» «Esatto.» «E che non verrà a trovare lei, perché quello che è successo con la povera Teresa rientra nelle regole.» «Esatto» ripeto, e mi giro di nuovo verso la strada. La povera Teresa, come la chiama lui, era una regola che Gaspare non si poteva permettere. E che adesso non mi posso più permettere nemmeno io. «E la sua ragazza come sta?» Stringo gli occhi nascosti dietro le lenti da sole e per un momento la vedo, la mia ragazza. La vedo come l'ho vista stamattina prima di prendere servizio. Sotto a un lenzuolo bianco con un tubo che la fa respirare. La vedo ferma lì. «Sempre uguale» dico. E riapro gli occhi. Gli squilla il cellulare. Un suono breve e cupo. Un sms. «E sull'indagine?» mi chiede mentre risponde. Lo guardo dallo specchietto retrovisore. Non gliene frega un cazzo di Alice e dell'indagine. Se c'è una cosa che non sopporto è essere compatito. «Stiamo seguendo un indizio. La terrò informato.» Non mi risponde nemmeno. Mette il cellulare in tasca e si perde a pensare a chissà che cosa. La macchina con Don Giulio gira a sinistra molto lentamente e noi dietro di lei. Una processione. Come se fosse un prete. Poi squilla il telefono. È Ippoliti. «Dimmi.» «Sei in vivavoce?» «No.» «Ho trovato l'indirizzo della ditta di Anselmi.» «Anselsoft?» «Quella. È in via Arno 25. Tu per quanto ne hai?» «Poco. Hai mandato qualcuno?» «Cancemi e De Biase.» «Devono stare lì e non farsi vedere. E voglio una foto di tutti quelli che
entrano e che escono da là dentro.» «Va bene.» «Che posto è?» «Un palazzo. Sei piani. Venti appartamenti, più o meno.» «Ci vediamo lì. Da qua non è molto lontano.» Chiudo. Il questore mi guarda, come se si aspettasse qualche informazione. «Novità?» mi chiede. «Ancora non lo so» rispondo ed è la verità. Prima voglio vedere quel tizio in faccia. Forse guardandolo negli occhi riuscirò a capire qualcosa. Forse riuscirò a capire da che parte devo andare. Poi la macchina si ferma e la realtà torna a prendere la sua importanza. Sono come uno di quei vecchi computer a schede perforate. E a ogni scheda devo agire in modo perfetto, secondo le regole che tutti, a partire da me stesso, si aspettano da uno come me. Roccasole, Sicilia. Tredici e quarantasette Ci sono le cicale, la luce del giorno che filtra dalle tende socchiuse e la radio del Muto che canta una canzone di Fiorella Mannoia, quando arriva la macchina. Gaspare è dentro. Steso sul divano con gli occhi chiusi, la camicia aperta fino all'ultimo bottone, i capelli spettinati. La pistola appoggiata sul petto. Non dorme. Pensa al funerale di sua madre. A quello che è stato per lui. Spiare il piccolo gruppetto dalla collina e poi aspettare che tutti se ne andassero per infilare una carta da cento euro nella giacca sdrucita del custode e farsi accompagnare alla tomba, con ancora il profumo di fiori freschi e le impronte dei piedi sulla terra tenera. E rimanere poco, in silenzio, a guardare quel pochissimo che resta di te che se ne va. Ha pensato, in quel momento troppo breve, al volto di sua madre il giorno del funerale di suo padre. Ha pensato che non abbia pianto, ma che sia rimasta ferma, dura come il ceppo di un vecchio albero a cui puoi tagliare i rami e anche il tronco, ma non puoi togliere le radici. E per un momento si è rivisto com'era il giorno del pranzo per l'anniversario di nozze di zia Margherita. Aveva quasi quattordici anni e mentre passava correndo nel giardino del ristorante aveva visto suo padre che lo guardava in un modo in cui non lo avrebbe mai più guardato. Come se fosse un uomo. Per la prima volta. Aveva sussurrato qualcosa all'orecchio di sua madre e Gaspare aveva vi-
sto il volto di lei indurirsi e aveva sentito i suoi occhi cadergli addosso con un sorriso troppo pesante e troppo triste. Allora era corso via, dagli altri. Se pensa a sua madre davanti alla tomba di suo padre immagina quello sguardo. Quello di chi sa benissimo cosa deve succedere. E sa che non può fare niente per impedirlo. Lo vede anche adesso e quando sente i passi che entrano nella casa e la radio del Muto che si spegne, sa che lo vedrà spesso. Che tornerà a visitarlo in molti sogni finché tutto non sarà finito. Adesso però è il momento di aprire gli occhi. «Alzati» dice una voce, e come prima cosa Gaspare muove le mani, allontanandole dalla pistola. Si solleva sul divano in modo che l'arma scivoli sul cuscino e si alza. Nella stanza ci sono quattro uomini. Uno lo perquisisce, uno lo tiene sotto il tiro di una Beretta lucida come gli occhi di un bambino e uno si occupa del Muto. Li ha già visti tutti e tre la prima volta. Il quarto, quello che ha parlato, lo conosce di fama e di vista. È il figlio dell'uomo che lo guarda dalla porta d'ingresso. Beniamino Riccomini fa quattro passi nella stanza. Gaspare si allaccia la camicia. «Chiedo scusa» sussurra. Don Beniamino non dice nulla. Lo fissa e basta. Poi i suoi occhi cadono sul piccolo tavolo che sta nell'angolo, accanto alla televisione. Gaspare si muove e prende quello che c'è sopra. Con delicatezza, come fosse vivo. Quando don Beniamino ritira l'oggetto dalle sue mani Gaspare sente il tocco leggero di due dita calde e lisce. Beniamino Riccomini guarda il peluche che aveva regalato a sua nipote come un chirurgo osserverebbe una lastra in controluce. «È a Bologna» dice semplicemente, dopo un silenzio durato troppo. «Qui non c'è più niente che tocchi a te proteggere.» Gli lascia uno sguardo che dura meno di un respiro. Poi si gira e se ne va. Un minuto dopo la casa è di nuovo vuota. «Partiamo» dice Gaspare e il Muto lo guarda. «Lui era...» «Sì, era.» «Minchia, Gaspare...» «Muoviti. Il viaggio è lungo.» Il Muto si infila in cucina.
Fuori c'è il sole e mancano tre giorni a Pasqua. Gaspare pensa agli occhi del carabiniere mentre gli affondava il coltello nella trachea. Con don Candido non sarà così veloce. Bologna, tra l'una e le due Il condominio di via Arno 25 occupa una fetta di un palazzo rosso lungo una trentina di metri. «Prima ho provato a telefonare» mi spiega Ippoliti mentre saliamo verso il quarto piano. «Non mi hanno risposto.» «Il numero è quello che c'era nella lista di Ilaria?» «Sì. Il numero va bene. È anche sull'elenco. Però non rispondono.» Di questo Guido Anselmi conosciamo l'indirizzo di casa e quello del lavoro. Sappiamo che è un tipo gentile, che la sua azienda è registrata da due anni al CNA di Bologna e che produce software gestionale per gli studi di consulenza fiscale. E che molto probabilmente ha dato ad Alice un cioccolatino avvelenato con una tossina che la natura non si è mai sognata di creare. Sono curioso di conoscerlo, questo Guido Anselmi, di vederlo in faccia e capire che tipo è. Sono curioso mentre la cabina dell'ascensore sale con uno strano rumore metallico e poi si ferma al piano. La sede della Anselsoft è la prima porta che si incontra uscendo dall'ascensore. A destra e a sinistra due appartamenti. Grandi e Palazzeschi i nomi sui campanelli. Sulla porta c'è una targa dorata con un logo rosso. Qualcosa che dovrebbe assomigliare a un'ala, ma che sembra solo il marchio Telecom. C'è uno strano silenzio sul pianerottolo. Mi ricorda quello che ho sentito davanti alla villetta dove abbiamo sistemato la famiglia Giulio. Guardo Ippoliti e vedo che sta fissando la porta con uno strano sguardo. Lo stesso con cui potresti guardare un tipo che si avvicina e ti saluta con un gesto della mano. Una mano con sei dita. La porta è socchiusa, ma solo con un angolo piccolissimo. Dalla sua posizione probabilmente Ippoliti riesce a vedere dentro, perché i suoi occhi fissano la striscia chiara di luce che spunta dall'apertura. Poi mi guarda, E spalanca la porta spingendola con la mano aperta. Dentro l'ufficio dell'Anselsoft non c'è niente, solo una luce enorme che
arriva dalle finestre senza che nessun tendaggio la filtri. Camminando per le stanze deserte, sento l'eco dei miei passi come sotto i portici nelle notti d'estate. La sensazione, guardando il parquet perfetto e pulito e i muri ridipinti con cura, è che in quella stanza non ci sia mai stato un mobile. «Che cazzo significa?» mi chiede Ippoliti. Ci penso. A quelle pareti, a quel silenzio, a quel posto che non ha senso di essere. «Che qualcuno sta facendo un gioco. E che noi siamo le pedine.» Mi avvicino a una delle finestre e guardo fuori. La macchina con Cancemi e De Biase è parcheggiata dall'altra parte della strada. «Voglio una macchina qui sotto ventiquattro ore al giorno. E voglio le foto di tutti quelli che entreranno dalla porta di questo palazzo. Voglio sapere di chi è questo posto. Se è intestato ad Anselmi, da chi lo ha comprato e quando. Se è in affitto, a chi lo paga. Come lo paga. Quanto lo paga. Voglio interrogare tutti quelli che abitano qui dentro e sapere se hanno mai visto entrare un uomo da quella porta e, se lo hanno visto, voglio sapere che aspetto ha.» Ippoliti annuisce. Ma ha paura. E anch'io ho paura. Perché non capisco. Come da bambino quando sei nel tuo letto e senti i mobili scricchiolare. Li senti, ma non li vedi. «Abbiamo l'indirizzo di casa di Anselmi, vero?» «Sì. Sta in via Mazzini. Al cinque.» Prendo il telefonino e faccio un numero. Mi accorgo di muovermi come se stessi seguendo un binario. Causa ed effetto. Cerco di non sentire, di non pensare, di non dare corda alla mia testa che vorrebbe deragliare. Non ho tempo adesso. Quando si deve fare si fa. Funziona così. Ascolto due squilli poi la voce del questore. «Ho bisogno di un mandato di perquisizione... Un appartamento...Via Mazzini 5... Guido Anselmi... No, subito. Sto andando là... Se non fosse urgente non l'avrei chiamata al cellulare, signor questore.» Riaggancio e guardo Ippoliti. «Andiamo a vedere se anche a casa sua il signor Anselmi ha lo stesso gusto per l'arredamento.» «E adesso?» Ippoliti mi guarda mentre tutto intorno c'è gente che cammina e si muove. Ogni gesto, uno scopo. Ogni oggetto che muovono, un motivo. Pare tutto preciso e preordinato, mentre guardo la scientifica che fa il suo lavoro e tutto intorno a me quell'appartamento sembra essere lì per dirmi qualcosa. Quando ho suonato al campanello, un secondo prima di notare che anche
quella porta era aperta, ho sperato che il signor Anselmi mi sarebbe venuto ad aprire e che offrendomi un caffè avrebbe saputo darmi una spiegazione per tutto. Quando sono entrato, seguendo l'invito di quella porta aperta, ho cominciato a capire che invece non ero lì per ricevere spiegazioni. Ero lì perché tutto diventasse ancora più incomprensibile. La casa di Guido Anselmi è semplice e arredata con un gusto un po' antico. Ci sono alle pareti delle stampe di Bologna com'era secoli fa. Piazza Maggiore. Via Rizzoli con una carrozza trainata dai cavalli che passa sulla strada polverosa. C'è una luce debole. Il sole di primavera filtra dalle finestre abbassate con una lunga lama di pulviscolo che tocca le nostre mani e le pistole che stringiamo esplorando quella casa. Fino ad accorgerci che anche lì dentro non c'è nessuno. E non c'è nessuno da molto tempo. Basta guardare le dita di polvere accumulate sui mobili di legno, sul tavolo di cucina e su quello della sala, su un bicchiere lasciato nel lavello. Basta aprire il frigo tirando la maniglia con un fazzoletto in mano e trovarlo vuoto. Acceso, ma vuoto. E sentire la puzza di chiuso e un vago odore di fogna che arriva dal bagno. Basta sfiorare appena la coperta di lana verde che riveste il letto matrimoniale e che solleva una nuvoletta sottile di polvere non appena avvicino un dito. Spalancare l'armadio e vedere che dentro non c'è niente, come nei cassetti, come nell'armadietto del bagno, nei bicchieri dove dovrebbero esserci gli spazzolini. Niente. Nessuno abita in questa casa da moltissimo tempo. Forse nessuno ci ha mai abitato. «E adesso?» Ippoliti si gratta piano il mento e mi guarda. Io sono davanti alla finestra. Fuori c'è il mio vecchio liceo e qualche ricordo, arenato sui marciapiedi. «Adesso...» cerco di riordinare le idee. «Adesso dobbiamo cercare di capire qualcosa su questo Anselmi. Chi è, da dove viene, chi lo conosce. Abbiamo un ufficio vuoto, una società che probabilmente non esiste e un appartamento in cui nessuno vive. E probabilmente ha mai vissuto.» «Ci saranno dei contratti.»
Ippoliti mi piace perché è sempre sulla linea del mio ragionamento. «Contratti, bollette, conti correnti bancari. Questo Anselmi avrà una carta d'identità, una patente forse. E quindi una foto. Avrà una laurea, dei documenti, qualcosa. Cerchiamo di capire chi è. Anche se...» «Anche se?» Guardo verso un ragazzo della scientifica che rileva le impronte sulle maniglie di un cassetto. «È un'impressione, forse. Ma non credo che troveremo niente.» «In che senso?» «Non lo so. Ma chiunque sia questo tizio ci ha portati qui con qualcosa in mente. E sapeva che saremmo venuti oggi. Quelle porte sono rimaste aperte per poco tempo. La gente che abita sul pianerottolo le avrebbe notate.» «E quindi?» «Non lo so. Avevo messo in conto che questo Anselmi potesse essere stato usato da qualcuno. Che il cioccolatino non l'avesse avvelenato lui.» «E chi?» Sto per dirgli quello che mi è venuto in mente, ma non riesco a farlo. «Commissario?» Cancemi entra nel salone con qualcosa in mano, avvolto in una busta di plastica. «L'abbiamo trovato in fondo a un cassetto, in camera da letto.» Allungo la mano per prenderla. «Un cassetto vuoto, immagino.» «Sono tutti vuoti, commissario. Dappertutto.» La carta d'identità che Cancemi mi ha dato nella busta di plastica per preservare le impronte è di Guido Anselmi. Quando la apro, vedo la foto sorridente di un uomo anziano, pochi capelli alle tempie, una barba curata chiazzata di bianco e nero. Guido Anselmi, nato a Bari il 13/05/1930, residente a Bologna in via Mazzini 5, Stato civile Vedovo, Professione Ingegnere, Statura 1,82, Capelli castani, Occhi neri. La faccio vedere a Ippoliti. La fissa per qualche secondo poi la restituisce a Cancemi. «E adesso?» mi chiede. Io sposto gli occhi dal riflesso della luce su un mobile. E lo guardo. Sorride.
È seduto sul bordo del letto, la pelle che profuma ancora di bagnoschiuma e i capelli bagnati incollati alla fronte. Se avesse addosso il trucco che ha usato quella mattina, sorriderebbe con lo sguardo che qualcuno saprebbe associare al volto di Guido Anselmi. Un volto che non esiste più. Si accarezza piano un sopracciglio da cui cola una goccia d'acqua tiepida. Facendolo, pensa a quanto avrebbe voluto vedere la faccia del poliziotto davanti alle porte che gli ha lasciato aperte. Non aver potuto guardarlo, vedere la paura e la sorpresa che ti cambiano il colore degli occhi, è l'unica cosa che gli dispiace. Ma in fondo è poco importante. Tutto quello che conta è che il gioco sia iniziato. E che lui sia l'unico dei giocatori a conoscere le regole, i criteri per muovere le pedine. Si alza in piedi e guarda la strada e i tetti bastonati da quell'aprile troppo caldo. Bologna è la città giusta per uno come lui. Un posto dove tutti ormai si fanno solo i cazzi propri e che ci sia qualcuno vicino è importante solo per quanto fastidio dà alla propria vita. Non per quello che è. Una città che sembra aver perso la curiosità che ha sempre avuto. In un posto così, basta essere silenziosi per ricevere silenzio. E lui è abituato al silenzio. Il silenzio del suo lavoro. Il silenzio della sua casa, rotto solo ogni tanto da qualche rumore che dalla strada riesce ad arrivare fin lassù. Per uno come lui il silenzio è tutto. Segue con lo sguardo il movimento di un autobus poi lentamente inizia a vestirsi. Una camicia, un paio di jeans chiari. Roba semplice. Apre la porta a vetri ed esce in terrazzo a controllare le piante. Per un attimo pensa che basterebbe spostare un paio di palazzi e con un cannocchiale buono potrebbe vedere i poliziotti lavorare. Ma è solo un pensiero brevissimo. Dura il tempo che gli serve per controllare che le piante stiano bene, che i germogli crescano. Poi tutto sparisce. È tardi e anche lui deve andare a lavorare. In fondo, per molte cose, la sua è una vita come tutte le altre. Guido Anselmi, ingegnere, mi sorride da una fotocopia a colori. È quasi l'una di una notte silenziosa e l'unica luce ancora accesa a questo piano della questura è quella del mio ufficio. Sulla scrivania le foto dell'appartamento di via Mazzini, un foglio con i nomi dei condomini, un altro con quello degli abitanti di via Arno 25, dove
abbiamo trovato lo studio vuoto. Il fax con l'iscrizione al CNA di Bologna della Anselsoft. La visura camerale della ditta di cui Guido Anselmi è l'unico proprietario. Guardo il sorriso spalancato di quell'uomo anziano sulla carta d'identità e mi chiedo chi sia. E perché ci abbia fatto trovare quel documento. La prima pedina del domino. Una traccia lasciata in una casa deserta e piena di polvere. Una casa con la porta aperta e senza nemmeno un'impronta digitale. Esattamente come l'ufficio. «Sei ancora qui?» Ippoliti mi tira fuori dai miei pensieri, come un pesce strappato all'acqua da un amo e una lenza. «E tu?» «Mia moglie è da sua madre al mare per Pasqua. Con la prole.» Riordino le foto. «Lo sai che era lì oggi, vero?» «Intendi dire che Anselmi è andato ad aprire le porte?» «Sì. Tra l'ufficio e l'appartamento ci saranno sì e no dieci minuti di macchina. Lui le ha aperte tutte e due. Forse non sapeva in quale dei due posti saremmo andati per primo. Però sapeva che dopo averne visto uno avremmo visto anche l'altro.» «E che senza le porte aperte avremmo avuto dei problemi a entrare. Magari è su una delle fotografie che hanno fatto i ragazzi.» «Non credo. Questo tipo non è stupido. E c'è qualcosa sotto questo gioco. Un motivo. Non è solo Alice.» Stringo forte gli occhi e mi passo le mani sulla taccia, spingo dentro la pelle come se farlo potesse aiutarmi a fare uscire i pensieri. Ippoliti si avvicina alla scrivania. Prende in mano la foto di Anselmi e la guarda. Poi lascia andare il foglio. «Domani mattina dovrebbero mandarci qualche notizia da Bari.» «Ho fatto richiesta a tutte le banche di Bologna per sapere se hanno un correntista che si chiama Guido Anselmi. Ci vorrà un po' e forse faranno resistenza. Ma almeno dovremmo riuscire a sapere se ha un bancomat, una carta di credito. Se sul conto ci sono dei movimenti. Quanti soldi.» «Cosa ne pensi?» Faccio scrocchiare le dita. Alice lo faceva sempre. No. Lo fa sempre. Anche adesso. «Che chiunque ha montato questo luna park lo ha fatto con precisione. L'identità falsa, la società, le impronte digitali, le porte, la carta d'identità. Il cioccolatino. Alice. Tutto ha un suo senso preciso, anche se non so quale.»
«Quindi?» «Dobbiamo cercare i particolari. Tutti quanti, anche quelli che sembrano non c'entrare un cazzo. Tutti.» «Lo sai che non hai nessuna prova che questo Anselmi o come si chiama abbia avvelenato Alice?» «Lo so. Ma è stato lui.» «E il questore?» «Al questore basta che mi occupi di Nunia. È una specie di patto.» «Hai pensato che potrebbe esserci in mezzo lui?» «Gaspare? Non credo. Ma ci penserò.» Chiudo le foto in una carpetta e mi alzo. «Vai a casa?» «No. All'ospedale. Credo che ci sia qualcuno che mi aspetta.» 23 aprile. Mattina Budrio è un paese che sa di nebbia in inverno e di zanzare in estate. Quella provincia così diversa da quella in cui è nato, Gaspare se l'era dimenticata. Se ne accorge quando comincia a sentire l'odore dei campi e del sole sulla terra, di quel sole alto che sembra stare sempre fermo lì. Dritto sopra le case e le coltivazioni. Quel sole che poi cala all'improvviso e colora tutto d'azzurro in estate e di un grigio che sembra arrivare dal nulla, fra ottobre e la fine di marzo. È un odore che conosce bene. In un posto come quello, una provincia identica ma affacciata verso Modena, Gaspare Nunia ha abitato per tre anni. Tre anni spariti in una notte di pioggia macchiata dal rumore di una pistola e dal sangue di Teresa. Nella vita tutto quello che conta è quello che ami, gli diceva suo padre. Non quello che hai. Solo quello che ami. Guardando quella strada che si infila in mezzo agli alberi, sa per la prima volta con certezza che è vero. E che in fondo lo ha sempre saputo. Ancora prima di decidere di evadere. E di arrivare fin lì attraversando tutta l'Italia. Il Muto rallenta. «Dove devo andare?» «Tira dritto. Segui lo stradone e poi in fondo gira a destra e torna indietro dall'altra parte.» Lo stradone è una specie di viale alberato che costeggia la ferrovia, tagliato da strade piccole e sottili come i canali di irrigazione che attraversa-
no i campi. Nascoste in quelle stradine ci sono tante villette bifamigliari, ma non è una di quelle che stanno cercando. La casa che stanno cercando è in cima a una piccola collinetta. Di fianco c'è un asilo e di fronte la ferrovia, come un muro di cinta. Ai piedi della collinetta, c'è un piccolo parcheggio e dentro ci sono tre macchine. Due uomini per macchina. Gaspare non li guarda nemmeno quando la Clio del Muto passa di fianco, a cinquanta all'ora. Però li vede. E quando arriva in fondo allo stradone e gira per tornare indietro, si accorge da lontano che di macchine ce ne sono due anche sul retro. Dieci uomini in tutto per sorvegliare un cane rabbioso, rinchiuso in una gabbia di lusso fatta di mattoni. Troppi anche per lui. E mentre la Clio passa per Canaletti di Budrio, tornando a Bologna senza imboccare la via Emilia, Gaspare Nunia sa già che cosa deve fare. E a chi chiedere una mano per riuscirci. Riccione è un posto strano. Ci penso guardando la spiaggia e il mare talmente scuro da sembrare grigio, mentre la signora Rimondi è andata a chiamare suo marito Giulio. Giulio Rimondi è il proprietario dell'appartamento di Guido Anselmi. Quello a cui Anselmi pagava quasi duemila euro d'affitto al mese. Quando l'ho chiamato ieri pomeriggio mi ha detto che lui e sua moglie vivono tre mesi all'anno a Riccione. «Da aprile a fine giugno» mi ha spiegato. «Dopo no. Dopo c'è troppo casino.» Vista dal terrazzo di quella casa sul lungomare la spiaggia senza ombrelloni, senza bambini che urlano, sembra un palcoscenico senza scenografia. Uno spettacolo in cui gli attori recitano e tu devi immaginarti il resto. Le strade, le case, il cielo. Tutto quanto. «Bello vero, dottor Riccardi?» dice una voce alle mie spalle. «Sì. Bello. Mi piace questo posto.» «Anche a me. Almeno fino a luglio. Dopo sembra come il circo che ai miei tempi passava in paese. C'era la donna barbuta, il mangiatore di fuoco. Qui è uguale. Da luglio in avanti trovi la figliola che ti viene il torcicollo solo a guardarla, la mamma col bambino e il raduno di tutta la cinnaglia del mondo. No, non fa più per me. Adesso è bello. Bello come dovrebbe essere.» Giulio Rimondi è un uomo grande e grosso. Ha sicuramente più di ses-
sant'anni e il fisico di qualcuno che deve aver fatto molto sport in gioventù. Nuoto forse, a giudicare dalla larghezza delle spalle. Gli stringo la mano. «Non mi chiami dottore, per favore.» «Come vuole.» Sorride. Un bel sorriso segnato dal bianco della barba. Forse è del sorriso che si deve essere innamorata sua moglie. E magari non solo lei. «Entriamo?» Lo seguo in salotto. Una casa semplice, ma curata. Pochi oggetti di gusto. Una lampada a stelo bianca che sembra una medusa. Un tavolino basso trasparente. Una libreria semplicissima che quasi non si vede, talmente è piena di volumi. «Mi piace casa sua» gli dico. «Per la verità anche a me. Ma ha fatto tutto mia moglie. Quella lampada per esempio. Quando l'ha portata a casa a me sembrava orrenda. Poi invece è bella. L'occhio deve abituarsi alle cose. Come ai gusti. Mi scusi, divago. Veniamo, per così dire, al sodo. Non credo di aver capito bene cos'è successo e cosa si aspetta da me.» Gli racconto dell'appartamento. Sgrana gli occhi e sorride scuotendo piano la testa. Lo fa per tre volte, durante la mia spiegazione. E sempre nella stessa successione. Gli occhi, il sorriso, il movimento della testa. «Ho sempre pensato che fosse tutto molto strano» dice, quando ho finito di raccontare. «Strano in che modo?» «Strano. E adesso tutto alla fine ha una specie di senso.» Resto in silenzio. Aspetto. Vuole raccontarmi qualcosa e ho paura di rovinare quel desiderio. Lo guardo negli occhi. Lui li abbassa, poi si siede sul bordo del divano e appoggia i gomiti sulle ginocchia. «Vede, commissario, io Guido Anselmi non l'ho mai visto.» Non riesco a essere sorpreso. Con tutta la buona volontà non ce la faccio. Però qualcosa devo dire perché continui. «In che senso?» «Beh, a questo punto è una cosa un po'... diciamo... imbarazzante da dire. Forse sono stato un coglione. Non lo so. Tre anni fa è morto il papà di mia moglie. Lunga malattia, solita trafila e poi amen. Passare una guerra e finire così. Vabbè. C'è gente che fa la stessa fine molto prima. Comunque quell'appartamento era suo. Mia moglie lo eredita e decidiamo di affittarlo. Io di case non ne capisco un cavolo e mia moglie nemmeno. Così andiamo da un'agenzia. Anche lì soliti giri. Valutazione, notaio, tutte quelle pippe che ti ciucciano un sacco di soldi senza che si sappia bene perché. Poi un
giorno salta fuori questo Anselmi. Bene. Vediamoci, dico al tipo dell'agenzia. Il signor Anselmi è sempre molto impegnato, mi fa lui. Un uomo d'affari, dice, gira per tutta Italia e ha lasciato a me l'incarico di concludere l'affare. D'istinto sto per dire di no. Cazzo, vuoi abitare in casa mia e non mi fai nemmeno vedere che faccia hai? Poi però penso che è un uomo d'affari, che non mi farà problemi con l'affitto, che in fondo mi leva un casino e dico di sì. Così lascio fare tutto a loro. Alla fine del primo mese mi arriva il bonifico. E così puntuale tutti i mesi, lo stesso giorno, per tre anni. Circa un anno e mezzo fa ho anche aumentato l'affitto. Ho telefonato a casa sua, ma non mi ha risposto. Così gli ho mandato una raccomandata. Mi ha risposto sempre per raccomandata che accettava l'aumento. Mai una storia. Mai un problema con i pagamenti. Però io Guido Anselmi non so nemmeno che faccia abbia. Forse visto quello che è successo avrei dovuto chiedergli di più.» Sento il cellulare che vibra, nella tasca dei pantaloni. «Mi scusi un secondo» dico e guardo. Un sms. Per un istante, nel momento in cui mi accorgo che è un messaggio, penso che sia di Alice. Poi la realtà ritorna con tutto il suo peso. La mia mente se ne va altrove troppo spesso. L'sms è uno di quelli che si mandano da Internet. Dal sito della Wind. Ci sono due righe di pubblicità poi poche parole. Buona Pasqua. Nient'altro. Niente firma. «Problemi?» mi chiede Rimondi. «Qualcuno che si diverte» rispondo. Ma solo per evitare altre domande, mentre tutti i pensieri cercano di partire all'inseguimento di quel messaggio. «Mi scusi, ma questo Anselmi ha fatto qualcosa di grave?» Me lo chiede con il tono di uno che sta facendoti un pettegolezzo. «Temo che non riceverà più il suo affitto, signor Rimondi.» Faccio una pausa. Ho ancora il telefono in mano. E il messaggio in testa agganciato a un pessimo sospetto, senza nessuna logica apparente. «A che agenzia si è affidato?» chiedo. Devo rimettermi sul binario. Causa effetto. Domande risposte. Niente pensieri. Niente deragliamenti. Un problema alla volta. «La Fiduciaria Immobiliare, in via Murri. Mi ricordo sempre i nomi delle cose e delle persone. Non so perché.» Sto per dire qualcosa riguardo al fatto che almeno loro questo Guido Anselmi devono averlo visto, ma non faccio a tempo. Perché vibra ancora il telefono.
«Mi scusi di nuovo.» La voce di Ippoliti. Tono secco. Quello che ha quando è preoccupato. «Che cazzo stai dicendo?» dico e mi accorgo che mentre Ippoliti parlava mi sono alzato in piedi. «Dammi il tempo di arrivare. E chiama la scientifica. Subito.» «Problemi questa volta, vero?» Rimondi si alza. E io cerco di sorridere. «Sì, problemi» dico. Ed è una visione piuttosto limitata di quello che sta succedendo. «Viene qui anche il sabato di Pasqua?» Ippoliti rallenta il passo e sorride al ragazzo. È la stessa domanda che gli ha fatto sua moglie. «Ma come non parti ancora?» «Parto, parto. Tranquilla. Passo solo un attimo in questura a vedere una cosa» le ha risposto, e in effetti non sa cos'è passato a vedere. Forse solo che tutto sia esattamente come dovrebbe essere. Ha il bagagliaio pieno delle cose che sua moglie gli ha detto di portarsi dietro. Il vestito rosso della figlia Marina. Un costume da bagno, che fa caldo e magari prendiamo il sole. I teli. Una crema solare. La macchina pronta per Milano Marittima e due giorni in famiglia. Immagina che Gabriele invece li passerà all'ospedale. Ha paura per Gabriele. Paura che non ce la faccia. Che tutto gli scivoli via come l'appiglio sul palo della cuccagna. Paura dello sguardo che gli ha visto in faccia quando si è voltato a fissarlo, dentro l'ufficio vuoto di quel tipo che dovrebbe essere Guido Anselmi e che invece chissà chi cazzo è. Lo sguardo di chi ha visto un posto troppo scuro e troppo buio. E ci ha lasciato una parte di sé. Forse una parte della sua mente. Sta pensando a cosa può fare per aiutarlo e se esista un sistema che non sia guarire Alice e scoprire quello che c'è sotto. Non si ricorda quando è stata l'unica volta che ha visto Alice, però si ricorda i suoi occhi. Sorridevano come se ci fosse davvero un motivo nel mondo per sorridere. E non se li dimenticherà. Sta pensando a quegli occhi, quando entra nell'ufficio di Gabriele e vede la busta. È una di quelle gialle, imbottite, formato A4 che si usano per spedire documenti importanti, roba che non deve rovinarsi. Quando la prende in mano si accorge che è leggera. Troppo per contenere dei documenti. La tiene dalle estremità, con due dita e da lontano sem-
bra che galleggi in aria senza che nessuno la sollevi. La tiene così perché quella busta non gli piace. E non sa perché. Per un attimo ha pensato a un pacco bomba. Un regalo di Gaspare Nunia al poliziotto che lo ha arrestato, ma è troppo leggera. Resta un attimo a fissarla. Poi la apre. Due gesti secchi e precisi a sollevare la parte esterna. E guarda dentro. «Chi ha portato quella busta, Salvetti?» grida al ragazzo che lo aveva salutato. Arriva di corsa. «È salita dalla portineria.» «Quando?» «Dieci minuti prima che arrivasse lei.» Si infila per le scale. All'ultima rampa rischia di cadere per terra inciampando su un gradino. «Chi ha portato la busta nell'ufficio del commissario Riccardi?» «Io» gli risponde un poliziotto magro come un'agendina telefonica. Ippoliti si avvicina e lo fissa. «Chi te l'ha data?» «Un tipo, circa venti minuti fa.» «Che tipo?» «Uno qualunque. Un berretto da baseball in testa, occhiali scuri. Parlava roco. Sembrava avesse l'abbassamento di voce.» «Lo potresti riconoscere?» «Non so. Non c'ho fatto caso... era solo uno...» «Ma che cazzo siete uscieri di un ufficio postale qui dentro? Nessuno lo ha visto?» Dentro a quella stanza al piano terra sono in tre. «Una cosa ci sarebbe, capitano» dice il tipo fatto come un'agendina. «Cosa?» «Portava un paio di guanti di cotone bianco. Mi ricordo di aver pensato che fosse allergico a qualcosa.» Ippoliti esce e infila di nuovo le scale. A metà si ferma. Fa un numero col cellulare. «Marta? Sì, sono io. No, sono a Bologna. Senti, non so quando vengo. No, oggi no. Per favore... Non posso. Sì. Ti chiamo io.» Riaggancia. Sale le scale. «Chiama la scientifica. Subito. Capito Salvetti?» «Sì, signor capitano. Ma, mi scusi, ci sono problemi?» Ippoliti non gli risponde. Prende il telefono e fa un altro numero. «Gabriele? Sì, sono io. Senti è successa una cosa.»
Sei Periferia di Bologna, quattordici e quindici «Vuotagli le tasche, Muto» dice Gaspare Nunia, e appoggia la pistola alla tempia dell'uomo con le mani alzate, in piedi sulla soglia del fienile. «Che fiducia, Siciliano. Dopo tutto questo tempo.» Il Muto si muove veloce. Gli apre il giubbotto, tira fuori la pistola dalla fondina ascellare. Poi si abbassa e lo perquisisce con gesti lenti e accurati. Si infila la pistola in tasca e si allontana. «Entra» dice Gaspare e sposta la canna della .38. L'uomo fa tre passi nel vecchio fienile abbandonato, a metà strada fra Cento e Ferrara. Di notte, quando sulla statale non c'è nessuno, si riescono a sentire i camion che passano sulla A13. «Quanto tempo è passato, Siciliano?» gli chiede piantando i pugni nelle tasche del giubbotto. E alto e magro. Un fascio di nervi che potrebbe tranquillamente stendere uno di quei palestrati senza palle che il body building sforna con i muscoli pieni d'aria. La voce ha una vaga inflessione slava. «Abbastanza perché tu non cambiassi, Roland. O non ti facessi beccare.» Alza le spalle. «Qualcun altro è stato meno bravo che me.» Gaspare sorride. «Ma non sempre bastano i muri alti e le guardie, come vedi.» Roland si guarda intorno. «Perché cazzo mi hai fatto venire in questo posto, Siciliano? C'è puzza di piscio di topo che ti spacca lo stomaco.» «Soldi. Ti interessano ancora o sei diventato vegetariano?» «Mi piace ancora carne. Cos'hai in mente?» «Una casa. Una villetta di due piani. Tre persone dentro.» «Non sei mai stato ladro.» «Non voglio rubare.» Roland lo guarda per un momento senza seguire il discorso. Poi capisce. «Non ci voglio entrare. Non ho voglia di morire. E ho ancora una madre e due fratelli, in Slovenia.» «Guardami, slavo. Per che cosa credi che sia evaso, per paura di quelle quattro mura? O credi che sia uscito da quella fogna per far morire i pochi della mia famiglia che ancora sono al mondo? Lo sai cosa mi hanno fatto, vero?» «Lo sanno tutti.» «Allora è il momento che sappiano anche altre cose.»
«Te l'ho detto. Non voglio vedere morire i miei.» «Chi sta con me non muore. Ho delle garanzie.» «Quali garanzie?» Gaspare si avvicina a Roland. In lontananza si sente il verso di un corvo. «La garanzia dell'unica persona che può assicurarmi di non morire. A me e a chi sta con me. Ti basta come assicurazione sulla vita?» Gaspare si allontana. I sassi grattano sotto le scarpe. Roland lo guarda. Ha una strana espressione sul viso affilato, dalla barba incolta e nerissima. «Quanto?» dice, indurendo il tono per cercare di nascondere che ha paura. «Centocinquanta.» Lo slavo ride. «Tu sei pazzo. Io non faccio cosa come questa per spiccioli.» Con un gesto rapido Gaspare lo prende per il giubbotto e lo tira a sé. «Non fare il coglione, Roland. Non hai un soldo e lo sai. Se hai voglia di farmi perdere tempo posso mandarti a fare in culo in quella topaia in cui vivi anche subito.» «Potrei sempre andare a raccontare in giro quello che vuoi fare.» Le labbra di Gaspare si incollano all'orecchio dello slavo. «Credi che rivedresti tua madre? O i tuoi fratelli? Anch'io sono siciliano. T'u scuirdasti?» Lo lascia andare. Roland si aggiusta il giubbotto. «Quanti uomini ti servono?» «Quattro.» «E quanti ce ne sono?» «Dieci. Ma a noi interessano solo i quattro sul retro. Voglio gente esperta, che sa cosa fa. Gente che non ha paura a far fuori uno sbirro. E che sa farlo in silenzio. Al resto penso da solo.» «Polizia» sibila e sputa per terra un'imprecazione nella sua lingua. «Hai un piano?» «Sì. Ma non ti interessa adesso.» Roland tace. Si infila di nuovo i pugni chiusi in tasca. «Cinquanta subito. Resto alla fine. La sera stessa.» «Trenta subito. E il resto alla fine. La sera stessa.» «Va bene» dice lo slavo mentre si muove verso il Muto. Gaspare gli punta addosso la pistola e fa un cenno con la testa. Il Muto restituisce l'arma a Roland che la infila di nuovo nella fondina ascellare. «Due giorni» dice, passando di fianco a Gaspare. Poi esce dal fienile. «Dove li troviamo i soldi?» chiede il Muto quando l'eco della macchina di Roland si spegne nella campagna.
«Quelli che servono adesso ci sono e lo sai. E poi quattro pallottole costano molto poco» risponde. «E una fossa con un po' di terra non si nega nemmeno a gente come quella.» «Che sia tossico non ci sono dubbi.» Visto al microscopio elettronico il contenuto del pacco sembra un frattale. O il disegno di un bambino che ha deciso di pasticciare con i colori. Nel laboratorio al primo piano del gabinetto di polizia scientifica ci sono quattro persone oltre a me e Ippoliti. Quello che lavora al microscopio elettronico è un tipo basso, con un naso affilato e un po' storto e l'aria di uno che non si prende troppo sul serio. «Tossico in che senso, Vittorio?» gli chiedo. Vittorio Dallari smette di regolare le focali del microscopio e appoggia le mani sulla scrivania. «Mortale, direi.» «Cazzo, eri così teatrale anche all'Università. Smettila e dimmi che cosa hai trovato.» Vittorio fa due passi alla sua destra e prende una bustina di plastica trasparente. Dentro c'è il contenuto del pacco. O quello che resta dopo che la scientifica ne ha asportato una parte per gli esami. È l'incarto di un Lindor. Ci sono tracce di cioccolato al latte attaccate alla parte metallica della carta. «Vedi,» comincia a spiegarmi «se lo guardi sembra uguale a tutti gli altri. E in effetti lo è. Solo che quello che c'è rimasto attaccato non è solo cioccolato. O meglio: è cioccolato ma è tossico.» «Vuoi dire che è stato manomesso?» «Edulcorato, Gabriele. Abilmente edulcorato. Con una sostanza che si chiama ricina. Una tossina che si estrae dai semi del ricino. Quelli dell'olio dei fascisti. Solo che trattata in modo diverso si ottiene un composto che se viene a contatto con l'apparato respiratorio porta al soffocamento. In pratica gonfia la gola fino a che non riesci più a respirare. La usano anche per le armi chimiche. Però si può anche ingerire e allora la morte è molto più lenta e dolorosa. Vomito, crampi, dissenteria e poi la fine.» «Qualcosa che possa c'entrare col botulino?» «Assolutamente no. Tossine diverse. Esperienze diverse. Nessun punto di contatto. Solo che sono letali. E che ci vuole una grandissima capacità per metterci le mani. Non è una cosa che può fare chiunque.» «E nel cioccolatino come c'è finito?» «Cor una siringa, probabilmente. Abbiamo analizzato l'incarto e c'è un
foro, piccolissimo, che a occhio nudo non si può vedere. Direi un ago molto sottile.» «È assurdo» sussurro. «Quindi se ho ben capito questo incarto non aveva nessuna possibilità di essere pericoloso per qualcuno.» «A meno che tu non ti fossi messo a leccare la carta. In quel caso non saresti sopravvissuto più di qualche giorno. E non esiste vaccino.» «E la busta?» «Non ci sono impronte. Una normale busta imbottita formato A4. Mail Lite Gold. Tutte le tabaccherie e cartolerie del mondo le hanno. L'indirizzo è su un'etichetta, anche quella comunissima. Se mi dai un po' di tempo forse riesco a dirti che stampante ha usato per scriverla. E se attaccate alla busta sono rimaste fibre di qualche tipo.» «Quanto tempo?» «Un paio di giorni direi. Spero prima.» Gli appoggio una mano sulla spalla. «Ieri era già tardi.» «Hai un'idea di quello che sta succedendo?» mi chiede Ippoliti appena siamo in corridoio. Ma non lo ascolto. Gli allungo il mio cellulare. «Guarda cosa mi è arrivato oggi mentre ero da Rimondi.» «Un sms di auguri. Non c'è la firma.» «Io credo che la firma ci sia. È su quel cioccolatino.» «Pensi che te lo abbia mandato lui?» Domande, cazzo. Sempre e solo domande. Come se avessi qualche risposta buona da dare. Gli urlo in faccia. «Non penso a niente. Non riesco a pensare a niente!» Poi mi zittisco. Tiro il freno. Sospiro. «Scusa. Non volevo. È solo che...» «Non preoccuparti.» «Ci deve essere un motivo per tutta questa storia.» «Forse lui crede di averlo. Cosa sappiamo di questo tipo?» «Che ha tra i quaranta e i cinquant'anni. Un tipo dall'aspetto anonimo. Ho detto ai disegnatori di andare lunedì a farsi fare un identikit dai colleghi di lavoro di Alice. Comunque deve essere un chimico farmaceutico o un biologo. Uno che ha ottime conoscenze scientifiche. E capace di lavorare con i veleni.» «Gli servirà un'attrezzatura.» «Magari ha un laboratorio di analisi privato. Potrebbe essere qualcuno che fa questo mestiere in proprio o che può usare le apparecchiature di uno studio.»
«Oppure le ha in casa.» «Potrebbe essere. A questo punto sappiamo anche che ha avvelenato Alice. Quella busta è come una firma. Però non l'ha voluta uccidere.» «Tu pensi che lo abbia fatto apposta?» «Uno capace di creare tossine di questo genere uccide se vuole uccidere. Quello che non capisco è se sono io l'obiettivo oppure lei.» «Cosa sai del passato di Alice?» «Praticamente tutto, credo. Ho saputo tutto subito. È una delle cose che ci tengono legati. Sappiamo tutti e due quello che ci è successo. Adesso però...» «Però?» «Adesso però non lo so più. E non so cosa pensare.» Ippoliti apre la macchina. «Dobbiamo sapere chi sono e quanti sono i chimici farmaceutici» ricomincio mentre l'auto parte. «Tutti quelli che hanno avuto una laurea negli ultimi... diciamo vent'anni. E i laureati in farmacia, in medicina e in chimica. I nomi di tutti i tecnici di laboratorio che lavorano in un raggio di cento chilometri. Da Reggio Emilia a Forlì. E voglio sapere tutti quelli che si occupano di veleni e di piante velenose. Dagli agronomi alle grandi industrie. Tutti. Anche uno studente che sta scrivendo una tesi.» «Prima di lunedì non possiamo cominciare. Domani è Pasqua. E sarà un lavoro enorme. Sai quanti sono?» «Lo so, Ippoliti. Ma da qualche parte dobbiamo pure iniziare. Mettici Cancemi. È un gatto attaccato ai maroni quando ne ha voglia. Lunedì cerco di mettermi in contatto con l'agenzia immobiliare.» «Secondo l'agenzia che ha fatto da mediatore per l'ufficio, Anselmi lo ha pagato con un bonifico bancario. La pratica l'ha curata uno che adesso non lavora più da loro. Ho il nome. Domani provo a beccarlo, chissenefrega se è Pasqua. Mi hanno promesso i documenti dell'acquisto al massimo per martedì.» Guardo fuori dal finestrino. Le luci che rimbalzano dalle vetrine dei negozi in via Indipendenza. Il solito suonatore di sax e il suo meraviglioso chow chow che dorme, come se il mondo non gli interessasse. Una vecchietta che attraversa la strada vestita come i fiori che da anni vende in giro per il centro. Mi riconosce e mi sorride salutandomi con la mano. Bologna, fuori, sembra la stessa puttana di sempre. Anche quando tu dentro senti la vita che ti gocciola fuori un po' per volta, un respiro dopo l'altro.
«Da qualche parte devi essere» sussurro e se Ippoliti mi sente fa finta di non averlo fatto. «Da qualche parte devi essere, stronzo. Non puoi essere un fantasma.» Bologna, 24 aprile. Mattina Il giorno di Pasqua non è come tutti gli altri. Me ne accorgo appena apro gli occhi e trovo la camera piena di luce perché mi sono dimenticato di abbassare la tapparella, ieri sera. E non riesco a dormire con la luce. Ma non mi alzo. Me ne resto attaccato al cuscino, la fronte incollata al muro e gli occhi chiusi, stretti stretti come quando ero bambino e avevo paura che qualcosa scivolasse da sotto il letto fin dentro le coperte con me. Qualcosa di freddo e umido e con troppi occhi. Resto lì, adesso che sono un poliziotto e non dovrei avere paura di niente. Adesso che sono grande e che non so più cosa sono. Resto lì a pensare ad Alice. E mi viene in mente che stanotte ho sognato qualcosa che non mi ricordo e che la prendevo sempre in giro perché non si ricordava i sogni. E io invece me li ricordavo tutti. Prima di oggi. Poi mi giro di scatto e sono sicuro di aver sentito il telefono squillare e con la sua suoneria. Quella suoneria ce l'ha solo lei nel mio telefono, non può capitare per sbaglio. Arraffo il cellulare e quasi mi cade, ma non ha suonato. Nemmeno con un'altra suoneria. L'ho spento ieri sera proprio perché per due volte, mentre la radio passava chissà quale canzone, avevo creduto di sentirlo suonare. Una volta un messaggio e una volta quella stessa melodia. E tutte e due le volte non era nessuno. Forse sono io che dovrei stare spento. Forse sono sulla strada di diventare un pericolo per me stesso. Forse non so più nemmeno io cosa sono. Mi sento spaccato in due. Ci penso mentre mi faccio la barba, col sole che entra dalla finestra aperta e una domenica di aprile troppo calda per un clima normale. Ci penso perché la mia faccia allo specchio sembra strana. E mi sento solo nella mia casa, con i telefoni spenti che squillano, con la luce che disegna strane ombre nella stanza, con i pensieri che mi strappano alla realtà e mi portano via. Prima, lavandomi la faccia e inumidendomi la barba, ho sentito salire alle narici il profumo della sua pelle, quello che mi restava attaccato quando passavo le labbra sul suo corpo, le mani sui fianchi. Quell'odore lì. L'odore delle sue labbra, delle sue cosce.
Era vero, reale. Ma solo nella mia testa. Sulla mia pelle adesso non c'è l'odore di Alice. Alice è in una stanza in rianimazione con un tubo di plastica in gola che la fa respirare. Alice non apre gli occhi da quel giorno in cui con un filo di voce mi ha detto «Che cazzo ci fai qui?» e adesso che ci penso mi chiedo se facendolo ha sorriso o no. E quando risentirò di nuovo la sua voce. E se la risentirò. E contemporaneamente ogni volta che guardo fuori in strada, ogni volta che incrocio qualcuno al bar o per le scale o fermo a un semaforo, mi chiedo se sia lui. Se sia il bastardo che l'ha avvelenata. E ridivento un poliziotto. Come se la mia mente avesse un interruttore. Clic. Indagini. Domande, risposte. Causa, effetto. Indizi, prove. Clic. Silenzio. Mancanza. E una casa vuota che senza la sua risata mi sembra nuda. Mi vesto che è quasi mezzogiorno. I miei genitori riprovano a invitarmi a mangiare con loro. «Devo lavorare» rispondo e non ci vuole molto a capire che non è vero. Poi esco e quando sbuco sul pianerottolo trovo la mamma di Guido Bignami con un sacco di scatoloni. L'ho vista qualche volta. Anche lei abitava qui qualche anno fa. È una donna piccola che ora sembra minuscola. I capelli tenuti insieme con una forcina rossa, una tuta da ginnastica che la avvolge come un sacco di iuta. Gli occhi gonfi, segnati da occhiaie lunghe e troppo profonde per essere solo stanchezza. «Buongiorno signora. E auguri, malgrado tutto.» «Grazie. Già, auguri. Auguri. Sono venuta a portare via le cose di Guido. I vestiti, il computer, della roba che voglio tenere.» «È tutto pazzesco, signora.» La donna si sposta un ciuffo di capelli dagli occhi e trattiene il respiro per non piangere. «Non riesco ancora a capire. Non ci riesco proprio. Aveva sigillato tutto. Viveva con quelle cose alle finestre che a me facevano orrore. Tutto chiuso. Aveva le sue pillole, le punture sempre pronte da fare. Non le ha nemmeno toccate. Come se quella vespa fosse arrivata di notte e lo avesse punto così. Senza un motivo. Animale bastardo. Ho guardato in casa se lo trovavo. Ma non c'era. Chissà dov'è. Spero che sia crepata quella bestiaccia. Che sia crepata schiacciata da un camion!... Quando lo hanno trovato, era a letto. A vederlo sembrava che dormisse. Forse è stato come se gli si fosse interrotto un sogno.» Un sogno interrotto. Forse è davvero così che succede quando si muore
nel sonno. Stai sognando e tutto di colpo diventa nero. Sto pensando a cosa potrebbe sognare Alice adesso, mentre entra il marito della signora. Ha uno scatolone enorme con un marchio rosso e la scritta Cantate. Probabilmente devo averlo letto ad alta voce. «È una specie di volontariato» mi spiega la signora Bignami. «Guido ci andava quando poteva. Li aveva conosciuti perché gli aveva fatto il sito di Internet e alla fine aveva cercato di dare una mano. La roba che non ci serve la diamo a loro.» La guardo e le sorrido. E poi guardo il marito che pareva una montagna e adesso è solo un grande e gigantesco sasso che sembra muoversi a fatica. Non mi pareva che avesse tutti quei capelli bianchi l'ultima volta che l'ho visto. «Devo andare» dico e forse è vero e forse no. «Auguri ancora. In tutti i sensi» aggiungo. Poi esco nel parcheggio. Mentre metto in moto mi viene in mente che Caritate dovrebbe dirmi qualcosa. Ma non mi ricordo perché. «Auguri Sansone.» Il gatto lo guarda e lui gli fa una smorfia. L'animale si solleva veloce sulle zampe di dietro e salta sul tavolo della cucina. È incredibilmente agile, malgrado la mole. Quando plana sul tavolo di legno, il peso non si avverte nemmeno. Sansone miagola piano, un suono che assomiglia al pigolio di un pulcino. Strano sentire uscire quel verso da una decina di chili di gatto dal pelo nero come l'acqua dei pozzi di notte. Punta gli occhi gialli in quelli del suo padrone e si avvicina alla tazza di latte, appoggiata sul tavolo come ogni mattina. Dietro, da qualche parte, lo stereo canta una vecchia canzone di Sinatra. Sansone annusa la tazza. Poi infila dentro il muso enorme e comincia a lappare il latte. «Buono, eh?» Alza gli occhi e guarda l'uomo. Sta sfogliando il giornale con addosso un accappatoio blu scuro. Ha davanti una tazza uguale a quella del gatto, piena di cornflakes e latte al cioccolato. Una cucchiaiata e una ventina di righe di giornale. Tutte le mattine. All'improvviso si alza, ma il gatto non lo guarda nemmeno. Ha il muso per metà scomparso nella tazza. Lui sparecchia la tavola. Poi butta nel cestino due tovagliolini di carta e si avvicina a un mobile basso che sta accanto alla finestra. Fuori c'è troppo sole. Tira le tende e continua ad ascoltare il rumore del gatto. Sul mobile c'è un paio di guanti da chirurgo, talmente sottili da sembrare
la mano di un uomo svuotata dalla carne. Li raccoglie e mentre lo fa li annusa. Sanno di disinfettante e di una sostanza che usa per sterilizzare i recipienti. Un odore che gli piace. Butta anche quelli nel cestino e appoggiando un ginocchio su una sedia comincia ad accarezzare il gatto. Sansone lascia perdere il latte e si stende su un fianco, gli occhi socchiusi. L'uomo gli prende le zampe e le tiene fra le mani con una tenerezza che è capace di usare solo con quell'animale. Solo con Sansone. Poi la musica dallo stereo cambia. «Heaven, I'm in heaven» comincia l'uomo insieme a Fred Astaire. «And my heart beats so that I can hardly speak.» Prende il micio in braccio. L'animale lo guarda e fa qualcosa di simile a un sorriso. «And I seem to find the happiness I seek» canta l'uomo e segue la musica, la segue fino al salone dove lo stereo canta. E stringendo Sansone in braccio balla con quella musica «When we're out together dancing cheek to cheek» e canta con gli occhi chiusi finché il gatto non reclama il pavimento. Allora si china e lo lascia andare. Lo guarda saltare sul parquet e allontanarsi sculettando verso la lettiera. «And I seem to find the happiness I seek» sussurra. E per la prima volta dopo tanto tempo è davvero felice. Accarezzo la gatta che mangia e mi guardo intorno. La casa di Alice è bianca e semplice come le sue emozioni. È un posto silenzioso e pieno di luce che assomiglia davvero al luogo in cui i miei pensieri potrebbero pensare di appoggiarsi per decidere di vivere. La gatta mi guarda e continua a mangiare mentre mi aggiro senza scopo per la cucina. La prima volta che mi ha visto entrare mi ha annusato con circospezione, girandomi intorno alle caviglie mentre ancora ero sulla soglia. Non mi aveva mai visto e nel momento in cui ho aperto la porta l'ho sentita arrivare. Probabilmente aspettava la sua padrona perché si è fermata di colpo guardandomi, come un bob in derapata, poi ha abbassato il muso e mormorato un miao piccolo e confuso che avevo sentito solo al telefono. Mi ha fatto tristezza quel suono così piccolo, quello sguardo appoggiato al pavimento così simile al mio. Quella delusione così reale e così umana per una persona che non è arrivata. Poi piano piano ha cominciato a fidarsi. Non la prendo in braccio, e per il poco tempo che ogni giorno passo a darle da mangiare, a cambiarle la sabbia nella lettiera, la micia mi gira intorno e mi segue. Non si fa rincorrere come faceva con lei. Non mi viene a cercare. Semplicemente mi tiene dietro.
Come se conoscessi la strada che porta da Alice. Come se fosse nascosta da qualche parte in quella casa e lei non fosse riuscita a trovarla. E in fondo, forse, è davvero così. Le passo una mano sul dorso e la sento che segue la carezza, ma solo un momento. Poi smette di mangiare e sparisce trottando verso la lettiera. Lo sguardo mi cade sulla camera da letto. Non ho avuto il coraggio di entrarci. Solo di guardare le fotografie, i libri impilati uno sull'altro, il letto con la coperta ancora sopra le lenzuola e l'impronta del suo corpo, del volto sul cuscino. So che se annusassi quella stoffa sentirei il suo odore, ma ho già abbastanza fantasmi senza andare a infilare la testa nella tana in cui si nascondono. «Devo andare miciola, dirò alla tua padrona che sei stata brava.» Chiudo la porta. Da dietro l'uscio mi sembra di sentirla grattare. L'infermiera cambia la flebo con gesti rapidi e precisi, mentre la dottoressa Malvezzi controlla lo stato clinico di Alice. È piccola la Malvezzi e di fianco all'infermiera sembra scomparire come un bimbo sotto una statua gigantesca. «Fatto, dottoressa.» «Grazie Olga. La paziente è stata lavata, vero?» «Tutti i giorni. E le cambiamo posizione. Esattamente come ha detto il professore.» La dottoressa sorride e Olga esce. Il professore è Oreste De Vitis e malgrado l'aria da bonaccione non è un tipo morbido. Di sfuriate da lui ne ha prese più di una e la paziente del letto uno, quella che ha distesa davanti, è una paziente speciale. Anche se lei non sa ancora perché e in che modo. Quello che però ha capito subito è che quella donna sta male. Nella riunione della mattina, il giorno che l'hanno trasferita da loro, De Vitis ha parlato di intossicazione da parte di una tossina non meglio specificata. Una rara mutazione del botulino. Ne ha visti altri la Malvezzi col botulino. L'anno scorso c'era stata una bambina di undici anni intossicata con dei pomodori sott'olio. C'era mancato poco che non ci lasciasse la pelle, ma l'avevano salvata. Su quella ragazza che adesso ascolta respirare, non farebbe la medesima previsione. A guardarla sembra come quei sopravvissuti a un incidente stradale. Quelli che tirano fuori dalle macchine sfasciate segando via il tetto come
una scatoletta. Arrivano lì dentro con il corpo molle, inerme e possono restare così anche anni prima che un giorno finisca tutto. Ma è solo un'impressione perché i suoi dati clinici non li ha mai visti come si deve. È Salvi, l'aiuto di De Vitis, che fa tutto. Solo oggi che è Pasqua, riesce a vedere qualcosa di più. Oggi che è festa e che il giro tocca a lei, tanto non c'è nessun uomo che la porti fuori a pranzo. Si sistema la mascherina che le fa il solletico al naso e controlla i numeri e le linee che riempiono i tre monitor a un lato del letto. La donna è stabile. Il quadro respiratorio, la pressione, la frequenza cardiaca. Eppure qualcosa non quadra. Quando è arrivata in reparto le sue condizioni erano critiche, peggioravano progressivamente e senza nessuna possibilità di regresso. Poi, all'improvviso, tutto è rallentato e adesso il quadro clinico della donna è praticamente fermo. Senza che nessuno abbia fatto nulla perché accadesse. Niente di quello che possono somministrarle in terapia può aiutarla. Solo sostenere le sue funzioni vitali. Però quel brusco cambiamento è comunque insolito. Alza gli occhi dai monitor per guardare l'orologio e per poco non urla. Il dottor Salvi è lì, a non più di venti centimetri da lei. E la guarda. «Ti ho spaventata?» dice. Dal tono della voce sembra sorridere. «Non ti ho nemmeno sentito arrivare. Cammini sempre così in silenzio.» «Cammino come cammino, Anna. Come sta la paziente?» «Sta bene, per quanto possa stare bene. Ma com'è finita qui?» «L'hanno avvelenata» risponde Salvi prima ancora che la domanda sia conclusa. «Con un cioccolatino pare.» «Avvelenata? E perché?» «Non si sa.» «Adesso ho capito perché De Vitis ci tiene così tanto.» «Ti sbagli. Non è per motivi legali. È una persona molto cara a uno che conosco. Uno che ha salvato la vita a qualcuno a cui tengo molto, qualche tempo fa. Ho chiesto io a De Vitis di seguirla.» «Capisco» sussurra la Malvezzi e solleva gli occhi. Per un attimo incrocia lo sguardo di un uomo, fuori dal vetro della stanza. È in piedi, le mani affossate nelle tasche dei jeans e guarda dentro con una strana rassegnazione sul viso. «Quello è...» «Il commissario Riccardi» risponde Salvi. «Il suo compagno.» Compagno, pensa la Malvezzi, è una bella parola perché mette dentro tutto. Compagno è più di marito o fidanzato. È qualcuno che ti sta vicino sempre e comunque e in tutti i modi in cui si può stare vicino a una donna.
Lei, la Malvezzi, ascoltando quella parola sa che non ha mai avuto un compagno in vita sua. «È l'uomo che ha liberato tua figlia, vero?» «È lui.» La dottoressa guarda ancora Gabriele, gli occhi fissi su Alice al di là del vetro. E si rende conto che le sue labbra stanno sussurrando qualcosa, con un movimento impercettibile che sembra quello della brezza di notte. E pensa che la donna sul letto, forse, lo sta davvero ascoltando. «Perché non entri, Gabriele?» Salvi mi tocca la spalla ed è come se mi svegliasse. Mi accorgo che sto parlando e non so se l'ho fatto abbastanza forte da essere sentito. Ho il vetro che mi separa dalla stanza di Alice talmente vicino al viso che posso sentirne l'odore. «No, non voglio entrare. Non adesso. Non so perché. Forse per mantenere una specie di distacco.» Mi giro e lo guardo. Ha la tutina verde, la mascherina abbassata sul collo. Non so perché i medici vestiti in quel modo mi hanno sempre ricordato dei bagnanti che salgono dalla spiaggia. «Come sta?» gli chiedo e ci allontaniamo nel corridoio. Prima di farlo do un ultimo sguardo ai suoi occhi chiusi, dietro al vetro e dietro chissà a che cosa. «Sta così. Sembra che sia stabile e invece peggiora piano piano. Talmente piano che te ne accorgi solo guardando i monitor e i referti.» «Come quando vedi uno tutti i giorni e non ti rendi conto che dimagrisce.» «Più o meno. Tu hai qualche buona notizia?» «Riceverai dalla scientifica un campione di veleno. Una sostanza che ci hanno fatto trovare. Non ha niente a che fare col botulino. Probabilmente non servirà a niente. Ma te la faccio avere lo stesso.» «Che cos'è?» «Un estratto vegetale. Ricina.» «Da quel che ne so non ha attinenza, ma vediamo. Non sperarci troppo, però.» Salvi si ferma vicino a una macchinetta automatica, in corridoio. «Vuoi un caffè?» «No, grazie.» «Dicevi che te lo hanno fatto avere...» «Il veleno? Sì.» «E in che modo?»
«Un incarto di cioccolatino. Anonimo. La tossina era insieme al cioccolato attaccato alla carta.» «Cristo santo...» Gabriele sorride ironico. «È un gioco. Non so che gioco, ma è un gioco.» «E tu hai intenzione di giocare?» Lo guardo mentre beve piano il caffè e mi sembra di vedere il riflesso del liquido scuro mentre piega il bicchiere per bere. «Sto già giocando, Giovanni.» Istintivamente mi giro verso la fine del corridoio. È da lì che si va verso la stanza di Alice. «Il problema è se riuscirò mai a vincere.» «Mi fai un caffè?» «Subito signora Dida» dice il barista. «E auguri.» «Auguri, Domenico. Buona Pasqua.» Sorride. Qualcosa che le passa sul viso e se ne va. Come un ricordo. La donna fruga nella borsetta alla ricerca del portafogli. Quando lo trova, tira fuori qualche monetina e l'appoggia sul bancone. «Dove va di bello oggi, signora?» Domenico è giovane e molto gentile. Uno di quei ragazzi timidi che non devono avere molto successo con le donne. Potrebbe avere l'età di sua figlia. Se ne avesse ancora una. «Dove vuoi che vada con mio marito? Non vado da nessuna parte, tesoro. Al massimo faremo un giro fin sotto le due torri, a vedere che aria tira in centro. Mangiamo in casa. Ho fatto le lasagne.» «Lei deve essere molto brava a fare da mangiare» dice Domenico e le appoggia la tazzina davanti. «E tu sei molto bravo a fare complimenti alle donne che vengono qui dentro.» Domenico le sorride. Chissà se capisce che lei ha quel tono, quella voce, che scherza e sorride come se fosse un giorno qualunque solo perché non ha altra scelta. Sembra che non ti sia successo niente, le ha detto un giorno sua sorella. E lei l'ha guardata con quei suoi occhi neri così duri e le ha risposto: perché ho un'altra possibilità? Non ce l'ha un'altra possibilità. Perché la vita non gliel'ha data. Nemmeno a Teresa, che la prima fesseria che ha fatto è morta ammazzata. «Mi dai un goccio d'acqua?» Domenico, con una leggerezza che non ti aspetteresti dal suo sguardo
maldestro, riempie un bicchiere di minerale e l'appoggia di fianco alla tazzina. «Ma la besciamella la fa lei, signora Dida?» Dida. Una volta odiava quel nome. Si chiama Donatella, ma nessuno l'ha mai chiamata così. Dona, Dida. Qualcuno che voleva fare il moderno anche Dony. Ma lei non gli rispondeva. «Certo che la faccio io, cosa credi?» dice dopo aver bevuto, ancora con il bicchiere in mano. «Non ho mai comprato una confezione di besciamella in tutta la mia vita. Mio marito dice...» Si blocca. Non può essere. Il bicchiere le cade di mano ed esplode in miliardi di pezzi minuscoli non appena a contatto con il pavimento. «Si sente bene signora?» le chiede Domenico, ma lei nemmeno lo sente. Sta guardando oltre le sue spalle, alla destra del bancone del bar. Sta guardando fuori dalla porta l'uomo che è passato a piedi e che sta per voltare all'angolo. Lo segue con lo sguardo girando su se stessa come la ballerina di un carillon. E poi l'uomo la vede. La guarda. E lei è sicura che non si è sbagliata. Anche se lui non l'ha mai vista e lei una sola volta, in tribunale. «Oddio, no...» bisbiglia, mentre Domenico sta girando intorno al bancone e la guarda preoccupato. «Sta bene signora Dida?» le chiede, e solo allora, quando l'uomo è scomparso oltre le vetrine del bar, Donatella si ricorda di dove si trova. Solo allora capisce cosa deve fare. Anche se le costerà come perdere un pezzo di vita, si fa dare l'elenco telefonico, cerca un numero e fa una telefonata. «Mimi quante volte ti devo dire che la sabbia si mette nel secchiello? Se la tiri poi finisce in faccia alla gente e si arrabbiano!» Mimi, che di nome farebbe Marina, guarda sua madre e ride. Poi infila la paletta nella sabbia, la solleva a fatica aiutandosi con tutte e due le mani e infila la sabbia nel secchiello. «Così?» «Brava, così. Dai che dopo facciamo un castello.» A Milano Marittima questo giorno di Pasqua sembra estate. Perché, anche se mancano gli ombrelloni, fa caldo, l'aria è tiepida, i prezzi dei negozi sono quelli di luglio e agosto e gli alberghi sono pieni. Invece è solo primavera. E Ippoliti - che è arrivato da due ore e se ne sta seduto su una sdraio, gli occhi chiusi, il sole sulla faccia e la crema solare
sul petto - lo sa bene. D'estate riesce a staccare da tutto e a godersi sua figlia e la sua famiglia. D'estate non pensa ogni due minuti al momento in cui tornerà a Bologna. D'estate non ha paura di sentire il telefono squillare. Adesso sì. «Che cos'hai?» gli chiede sua moglie, sedendosi sulla sabbia. Lui apre gli occhi. «Hai detto sì e no due parole da quando sei qui. Già ci vediamo così poco.» «Hai ragione. È che... sono preoccupato.» «Vuoi parlarmene?» Si solleva a sedere. «Forse no, perché non lo so nemmeno io per che cosa sono preoccupato.» «Come vuoi.» Si rialza in piedi. «Gioca un po' con tua figlia, dopo. Le hai promesso che le facevi fare un castello di sabbia.» Ippoliti annuisce, si riappoggia sulla sdraio e chiude gli occhi. Cerca di convincersi che andrà tutto bene, che non può succedere nulla di brutto a Gabriele. Ma per quanto si sforzi, non ci riesce. E allora si alza e si siede a terra davanti alla figlia. Almeno nel sorriso della sua bambina, molte cose riescono a sembrare normali. Donatella Rizzo mi guarda e malgrado tutto quello che ha dovuto passare è ancora una donna splendida. È esattamente come la sua voce, quella che ho sentito poco prima dell'una al cellulare di servizio, mentre tentavo di mandare giù un trancio di pizza troppo grande insieme ai miei pensieri. All'apparenza fredda e distante, ma con qualcosa di morbido e famigliare nascosto sotto, qualcosa che ti spiazza e che non riesci a capire. Siamo seduti al tavolino di un bar, in piazza Maggiore. Ci sono due piccioni che tubano a pochi metri da noi e un sole strano e caldo che fa sembrare tutto spostato in avanti di mesi. «Le dico che l'ho visto, commissario Riccardi» mi dice e io mi chiedo come mai stia parlando con me. Se fossi io al suo posto, se fosse capitato a me, non avrei alzato il telefono per raccontare quello che ho visto all'uomo che ha ucciso mia figlia. Anche se quell'uomo è un poliziotto e sua figlia l'ha uccisa per sbaglio. «Le credo, signora» le dico. «No, lei non mi crede commissario. Lei pensa che con tutto quello che mi è capitato io sia uscita di testa. Ma non sono impazzita, commissario.
Ho visto Gaspare Nunia. L'ho visto bene. Con i miei occhi. Un'ora fa.» «Le credo» ripeto più convinto e tento di sorridere. Le credo veramente, anche se tutto quello che mi racconta potrebbe sembrare assurdo. Perché penso di sapere lo scopo per cui Gaspare è evaso. Anche se è folle. Uno scopo che non ha nessuna speranza di realizzarsi. Le ho creduto appena ho risposto al telefono e ho sentito quella voce, dura eppure scossa da qualcosa. Come un tremolio sul fondo di uno specchio d'acqua. Le ho creduto subito e ho mandato due pattuglie a fare il giro del quartiere san Donato, dove abita la signora. «Lei non capisce, vero?» Bevo un sorso d'acqua. «No, non capisco.» Donatella Rizzo si sposta un ciuffo di capelli dagli occhi e guarda la piazza. Sembra enorme con tutta quella luce. Un posto materno dove la cosa peggiore che può capitare è di pagare quattro euro un caffè. Peggio che in Piazza San Marco a Venezia. Bologna è tutta così e chi ci viene da fuori non sa cosa si nasconde dietro. Bologna è come la strega delle favole. Come la mela di Biancaneve, rossa, matura, sugosa. Ma se la mordi e scopri com'è sotto, rischi di morire avvelenato. «Non abbiamo mai parlato io e lei. Forse avremmo dovuto.» Ha ragione, non abbiamo mai parlato. Anzi no. Non è vero. Io non ho mai parlato con lei. Lei invece qualcosa mi ha detto. Il giorno del riconoscimento del corpo di sua figlia. «Non ce l'ho con lei. Non è lei che l'ha uccisa.» Mi ricordo esattamente le parole e il tono della voce che rimbalzava contro le pareti lisce dell'obitorio. In quel momento ho sentito tutta la rabbia che provavo. E per poco non sono crollato per terra invece di stringerle la mano. «Sì, forse avremmo dovuto...» All'improvviso mi guarda. «Sì, sì, lo so che dovrei odiarla. Mio marito la odia, credo. Mio marito non parla mai di nostra figlia. Per lui Teresa non è morta. Non è mai esistita. Per lui mia figlia è come se non ci fosse mai stata. E alla fine sono io che odio lui. Odio lui anziché lei. Per me non l'ha uccisa lei, commissario. L'ha uccisa l'uomo che ho visto stamattina.» Non so cosa dire, allora sto zitto. Tengo stretto il telefono che ho in tasca e spero che suoni e che mi porti fuori da quella conversazione, da quell'incubo. Voglio solo scappare. Spegnete tutta questa luce. Tutta questa calma. Basta. «...e invece per me mia figlia c'è stata» dice la signora e mi accorgo solo
allora che non ha mai smesso di parlare. Sono io che non ascolto più. «Perché è giusto ricordare e anche sorridere ricordandola. Invece non c'è nessuno che lo vuole fare. Mettono tutti la testa sotto la sabbia e dimenticano. Io non voglio dimenticare, sa?» Piange. O almeno ci prova. Una lacrima che non riesce a cadere, come se non fosse abbastanza pesante. Le allungo un fazzoletto di carta e lei si asciuga piano e con cura, cercando di non sbavarsi il poco trucco che indossa. Poi, mentre appoggia il fazzoletto stropicciato sul tavolo, lo sguardo mi scivola sul metallo del fermatovaglie e mi sembra di sentire quel rumore. Pling. Una lacrima. Una lacrima scappata fuori all'improvviso, che cade esattamente sul metallo del fermatovaglia. Pling. Basta poco. A volte per ricordare basta una lacrima. O una goccia di pioggia. «Cazzo, ma quante ore sono che piove così?» «Due giorni, Ippoliti. Sono due giorni che non smette» rispondo, guardando fuori dal furgone. La casa è lì. Sono sei ore che la vedo e due settimane che la sorvegliamo. Giorno e notte. È una villetta a due piani, in fondo a via Garibaldi, a Casalecchio. L'ultima di una lunga serie di case tutte uguali, tutte dello stesso colore che sfiorano la tangenziale senza vederla, senza nemmeno sospettare che oltre la siepe alta e sempre potata di fresco passa il traffico dell'autostrada e di tutta Bologna. Lì, per chissà quale mistero, c'è sempre silenzio. A parte quando piove così. Quando piove così senti il traffico che si muove, perché i camion sollevano nuvole d'acqua alte più di una macchina e le gocce sono così pesanti che sembra possano bucare il cemento quando cadono. Da dove ci troviamo col furgone riesco a vedere la villetta attraverso i rami degli alberi. È l'unica postazione possibile e di questi furgoni ce ne sono due. E due macchine. Un fuoristrada della BMW e un Galaxy con i vetri oscurati. Alla villetta si arriva solo dal parcheggio in cui siamo. In un angolo c'è l'agente Giovanna Mengoli con l'agente Piero Lardi. Stanno insieme e non fanno fatica a fingere di essersi appartati. Sotto, dopo la discesa che porta alla tangenziale, ci sono due volanti, ferme sulla corsia di emergenza. E altre due dall'altra parte, oltre il tratto di giardino che chiude le villette e
le separa da via Brigata Bolero. Altre tre macchine sono dietro, vicino alla Mengoli e controllano l'uscita sui garage. «Era meglio se non pioveva» dice il tipo della DIA sul sedile di dietro. «Forse. Ma non possiamo più farci un cazzo.» «A che ora entriamo?» Guardo l'orologio. «Alle ventidue. Voglio che per strada ci sia meno gente possibile.» Il tipo annuisce e dice qualcosa ai suoi, nella radio. Mentre gli rispondono arriva una macchina. È una Clio rossa metallizzata. Ci passa scivolando sulle pozzanghere e quando è all'altezza del mio finestrino riesco anche a sentire lo stereo che canta un pezzo di Ramazzotti. Una specie di eco che svanisce. «Porca troia» sputa Ippoliti. Prendo la radio. «Chi è che doveva fermare la Clio della ragazza?» Sto urlando. «Non è passata da qui. Non ha fatto il solito giro» mi rispondono e vedo la Clio che si ferma nel parcheggio e Teresa Rizzo che scende correndo in mezzo alla pioggia. Non la voglio la ragazza. Lei lì dentro non deve starci. Tutte le sere, appena uscita dal lavoro, Teresa torna a casa, si fa la doccia, mangia un boccone, prende la Clio e va in quella casa. Prende la tangenziale dal quartiere San Donato, esce a Casalecchio, si infila sullo stradone, poi in via Brigata Bolero e alla fine si ferma in quel parcheggio. Tutte le sere fra le nove e trequarti e le dieci. Come adesso. Dovevamo fermarla su via Brigata Bolero. Farle un controllo di routine che le avrebbe fatto perdere la mezz'ora che serve per non farla entrare nella casa dove abita il suo fidanzato. Gaspare Nunia. Che anche se lei non lo sa, è uno dei killer di mafia più pericolosi d'Italia. «E adesso che cazzo facciamo?» mi chiede lppoliti. «Adesso aspettiamo le ventidue e poi entriamo.» «E la ragazza?» Ci penso su un attimo, ma proprio una frazione di secondo. «Domani Gaspare parte. Torna in Sicilia, lo sai. Resta giù fino a Natale. E da qui a Natale molte cose possono cambiare. Potrebbe non tornare più.» Ippoliti lo sa benissimo e non dice niente. È stato proprio lui a dirlo a me. È lui che ha trovato quel tipo che ha vuotato il sacco in cambio di protezione e di un occhio chiuso su certi giri che frequenta. È lui che ha parlato con chi ci ha venduto Gaspare Nunia.
Il tizio della DIA, dietro, si aggiusta il giubbotto antiproiettile. «Stia tranquillo, commissario. I miei uomini sanno il fatto loro.» «Lo so bene. Ma non è dei suoi uomini che mi preoccupo.» Guardo di nuovo l'orologio. Mancano cinque minuti. Penso che ieri sera, proprio in questo momento preciso, stavo facendo l'amore con Alice. Ma è un pensiero che dura poco. L'intervallo fra due gocce di pioggia. «Posizione» dice lppoliti secco nella radio e ascolto la risposta degli uomini. Poi tocca alla DIA. E a quel punto è ora di andare. Mi allaccio più stretto il giubbotto antiproiettile e scendo dal furgone. Vista dagli alberi del giardinetto, la villetta sembra deserta. Le luci sono spente e non si vede nessun movimento. Il cappuccio della cerata abbassato mi moltiplica nella testa il rumore della pioggia. Se non avessi l'auricolare e il microfono non riuscirei a sentire niente. Da qualche parte, non tanto lontano, cade un fulmine e per un attimo il giardinetto è illuminato a giorno. Se un bambino si affacciasse alla finestra di una di quelle villette e guardasse verso di noi, proprio in questo momento, rischierebbe di avere incubi per molti anni. Accucciati e immobili nell'erba fradicia di pioggia sembriamo un gruppo di fantasmi pronti a popolare i sogni di qualcuno. Quello della DIA mi si avvicina quasi strisciando. Alza il pollice della mano sinistra. Annuisco e gli faccio cenno di cominciare. Sento il fruscio degli uomini che si avvicinano, proseguendo lentamente verso i margini del giardino. Li vedo entrare nella mia visuale e controllo la villetta, dritta davanti a me. «Pronti sul retro» sussurro nella radio. «Pronti» mi risponde qualcuno, ma non riconosco la voce. Poi guardo la casa. È ancora buia. Sono le dieci e dieci, Teresa è entrata lì dentro da circa venti minuti e in quella casa non c'è una sola lampadina accesa. «Mengoli, dimmi se vedi delle luci dentro.» «Negativo. Tutto spento.» La Mengoli e il suo uomo sono sul retro. E anche lì è buio. Tutto buio. Troppo buio. «Sei sicura? Guarda bene. Nessuna luce?» «Nessuna luce.» No, c'è qualcosa che non va. Sto per dire qualcosa alla radio quando sento quei due rapidi rumori. E mi abbasso al suolo prima di vederlo succedere. Il primo suono è un vetro che si rompe. Su, al secondo piano. Sembra una provetta che cade. Dura pochissimo. Poi arriva il primo sparo. L'uomo della DIA che era appena uscito dalla linea degli alberi vola per terra sulle ginocchia, crollando faccia in giù
nell'erba senza nemmeno riuscire a gridare. Guardandolo sembra che gli manchi un pezzo di cappuccio. Poi comincia il finimondo. «Mengoli, al copertoi» urlo nella radio e mi butto di corsa dentro al giardinetto, mentre partono le raffiche dei miei uomini e di quelli della DIA. Poi arriva il secondo sparo. Lo sento ovattato questa volta, dall'altra parte della casa. Non so se l'ho sentito nella radio o con le orecchie. «Mengoli che cazzo succede?» Vedo Ippoliti che mi passa dietro correndo e si infila nel cortile della prima casa, quella che dà sul parcheggio. C'è un tipo che ha deciso di mettere il naso fuori dalla finestra. «State dentro, cazzo! Tutti dentro!» sento che urla. «Che succede? Chiamo la polizia!» «Siamo noi la polizia! STIA DENTRO!» «Mengoli, che cazzo succede là dietro? MENGOLI?!» «Hanno colpito Piero! Cazzo, non risponde, hanno colpito Piero! C'è un cecchino, commissario. Un cazzo di cecchino alla finestra di dietro. Porse un altro da quella del cesso di servizio. Non possiamo muoverci.» Mi appoggio a una delle ruote della giostra per bambini e guardo la casa. Adesso tutto è in silenzio. Non spara più nessuno. Le finestre di quel lato sembrano esplose. Lo spiazzo d'erba davanti al cancello che porta nel cortile privato è deserto. Gli uomini si sono ritirati dentro al giardinetto, dove gli alberi sono più fitti. Davanti, come una vedetta, il ragazzo morto. In mezzo a quel silenzio sento il ticchettio della pioggia sulla schiena della sua cerata. Mi sposto più indietro, senza perdere di vista la casa. Ascolto le sirene arrivare dalla tangenziale e poco dopo dal lato del parcheggio, alla mia destra, arriva una luce blu che illumina quel lato del giardinetto. La illumina troppo, cazzo. Troppa luce. E infatti qualcuno spara ancora. Questa volta l'urlo lo sento. Due metri alla mia sinistra. Urla anche dopo lo sparo e questo è un buon segno. «Diocristo spegnete quelle sirene! Mengoli, ci sei?» «Sono qui. Piero è morto.» «Ascolta, non fare cazzate adesso. Vi voglio tutti via da lì entro un minuto. Strisciate al coperto, da dove siete arrivati. Usate i giardini delle ville di fianco e cavatevi dalle palle. Intesi?» «Intesi, commissario.» «Mettetevi tra il parcheggio e la villetta. Voglio che teniate d'occhio la
porta di servizio rimanendo fuori dalla linea di tiro, ok?» «Ok.» «Allora forza.» Cerco con gli occhi il tizio della DIA. Sta spostando lentamente il ragazzo ferito. Uno dei miei. Si tiene un ginocchio, la gamba ha un angolo innaturalmente concavo. Gli faccio cenno di passare dietro ai giochi per bambini e di uscire dal boschetto. Due minuti dopo siamo tutti nel parcheggio. Io ho la radio in mano e la centrale dall'altra parte. «Voglio che chiudiate la tangenziale. Da Casalecchio all'aeroporto, direzione sud. Chiudete tutto. Anche l'uscita dell'autostrada. Dirottateli tutti su Borgo Panigale. Me ne sbatto i coglioni del traffico, fatelo e bastai» Mi volto verso uno dei miei. «Recinta la zona. Qui tra un po' ci sarà un casino della Madonna. Non voglio rompicoglioni in giro. Stasera ci si fa male.» Poi è il momento di pensare cosa fare. Mi siedo sul cofano di una delle volanti e guardo il vialetto. Se non fosse per il cadavere del ragazzo sembrerebbe tutto tranquillo. Se non fosse per quello che è appena successo potrebbe anche essere una normale notte di pioggia. Dentro quella casa ci sono Gaspare Nunia, la sua fidanzata e almeno altri tre uomini. Uomini che nessuno di noi ha visto entrare. Che non risultano in nessuna delle nostre intercettazioni. Domani, quando questa storia sarà finita, qualcuno avrà bisogno di grossi rammendi al culo. Ippoliti e l'uomo della DIA si avvicinano. «Dobbiamo entrare» dice l'altro. Abbasso il cappuccio per far scrollare l'acqua. Quando lo rialzo ho il volto umido di pioggia. Una sensazione che mi piace. «Dobbiamo entrare» confermo. «Hai qualche idea?» Guardo Ippoliti. «Una sì. Andiamo in tre. Riposizioniamo gli uomini nel giardino davanti e dietro. Ci devono coprire.» «L'unico ingresso possibile è dalla cucina» dice il tipo della DIA. E ha ragione. Dalla finestra del salone e da quella del primo piano si possono sorvegliare i tre lati della casa. Dalla cucina si vedono solo il muretto di cinta, qualche albero e il retro delle case che stanno su via Brigata Bolero. Nient'altro. «Da dove passiamo?» mi chiede Ippoliti. «Tu resti qui» gli dico. «Se succede qualcosa non voglio casini con la catena di comando. Qualcuno in grado di sostituirmi ci deve essere. Lo
puoi fare solo tu.» Annuisce. «Passiamo dal muretto di fianco» dice il tizio della DIA. «Usciamo per la strada, ci infiliamo nel cortile della casa di fronte, facciamo un buco nella rete di recinzione poi scavalchiamo il muretto.» «Quando state per scavalcare avvisate. Vi copriamo da qui. Cerchiamo di tenerli impegnati» spiega Ippoliti. «Prendo uno dei miei, commissario. Lei ci ha già quasi rimesso due uomini.» Non dico niente e lo guardo allontanarsi. Qualche istante dopo torna insieme a un ragazzo enorme, con uno di quei pizzetti che sembrano disegnati con la riga e la squadra. «Agente Pozzi, signore.» «Sai che cosa stiamo per fare?» «Sissignore.» «Allora facciamolo» dico. Poi esco dal parcheggio. Quattro minuti dopo Pozzi sta tagliando la rete di recinzione del palazzo di fianco. La villetta è a non più di tre metri, dietro un muretto di cinta alto come un bambino di sei anni. «Fatto» dice Pozzi e lascia cadere il tronchese vicino alla rete tranciata. «Pronti?» chiedo e annuiscono entrambi. Pozzi controlla la mitraglietta. Sembra tranquillo. Strisciamo oltre la rete, fin contro il muretto. «Ippoliti? Quando vuoi puoi cominciare. Se dopo che siamo entrati qualcuno si avvicina alla porta della cucina, sparagli prima di chiedere chi è.» «Bene.» Aspetto. In uno strano silenzio in cui non sento nemmeno più il rumore della pioggia. Passano forse dieci secondi e ricominciano gli spari. La prima raffica arriva davanti e poi le pallottole sono dappertutto. Scavalchiamo il muretto. Vista da fuori la cucina è deserta. Rompiamo il vetro e ci infiliamo dalla porta di servizio. Poi i colpi cessano all'improvviso. In mezzo a tutto quel casino è praticamente impossibile che qualcuno abbia sentito il vetro rompersi. Però tutti e tre stiamo controllando la porta della cucina. E soprattutto ascoltiamo. Ci sono dei rumori di passi al piano di sopra. Due persone diverse. E qualcuno al piano di sotto, in salotto. Se mi ricordo bene la pianta della villetta, le scale che portano sopra sono a metà di un corridoio che inizia oltre la porta che sto fissando, di fronte a uno degli ingressi del salone. Un'altra rampa è in fondo, accanto alla porta principale. Non possiamo sparare lì dentro. Non possiamo uscire dalla cucina, infi-
larci nel salotto e sparare al tipo che sta di là. Troppo rumore. Forse potrei correre il rischio di una sparatoria in uno spazio così stretto se non ci fosse Teresa in casa. Ma non così. Lei non ha messo in conto di finirci in mezzo. Poi mi viene un'idea. «Fuoco. Un minuto» sussurro nella radio e non appena da fuori arriva la raffica parto verso il salone. Vedo l'uomo della DIA e Pozzi salire di corsa al piano di sopra. Giro l'angolo strisciando sul pavimento. Nel salone non c'è più nulla da distruggere tranne i mobili e il tizio disteso dietro il divano. Accanto a lui c'è un fucile di precisione. Ha in mano una pistola. «Fermo!» urlo. Sono disteso sul pavimento, la pistola puntata in avanti, a non più di tre metri da lui. Lo vedo trasalire appena sente la mia voce nel casino degli spari e poi, poco prima che da fuori concludano la loro copertura, cambia espressione e si gira, con una pistola stretta in mano. E allora sparo. Due colpi. Uno lo prende sotto la gola, l'altro al petto. Vola all'indietro lasciando andare la pistola che cade in una pozza di vetri accanto alla finestra. Poi è di nuovo silenzio e mi accorgo che fuori piove ancora. Quando mi avvicino e lo tocco, di lui è rimasto soltanto il corpo. Raccolgo la pistola e disarmo il fucile. Non ci sono rumori, non ci sono voci o passi. Non c'è qualcuno che urla. Niente. Cammino e mi tengo vicino al muro finché non arrivo davanti alla porta del salone. Sporgendomi dall'uscio guardo le scale. Col riflesso della luce che viene da fuori sembrano azzurre. Il tipo della DIA e Pozzi sarebbero già dovuti scendere. Quel silenzio non mi piace. Mi butto nel corridoio con la pistola puntata e mi giro verso la porta d'ingresso e la rampa di scale che porta al piano di sopra. La casa sembra deserta. Allora mi appoggio al muro che costeggia i gradini, cercando di tenere sott'occhio sia la base della rampa che la cima. E salgo. A metà delle scale vedo il primo cadavere. È un uomo che non ho mai visto. Ha una felpa verde militare con una chiazza di sangue sul petto. Gli occhi sbarrati e la mano aperta sul fianco, come se avesse tenuto stretta un'arma, prima che il colpo gliela portasse via insieme alla vita. Ma l'arma a terra non c'è. Mi fermo un secondo, poi ricomincio a salire. E quando arrivo al piano vedo gli altri corpi. L'uomo della DIA è crollato per metà sopra una sedia,
su cui si sta allargando una chiazza di sangue scuro e denso che gli cola dal viso. L'agente Pozzi è a pancia sopra, sul pavimento. Ha la gola tagliata e un buco nella trachea, poco sotto il pomo d'Adamo. Gaspare, penso. Nel corridoio che porta alle stanze da letto c'è uno strano odore. La pioggia che arriva da fuori attraverso le finestre devastate dai colpi, l'odore dolciastro del sangue e un profumo femminile alla vaniglia. Sto per infilarmi nel corridoio per controllare le stanze, quando sento una specie di grido soffocato dal piano di sotto. Sembra una donna. Teresa. E allora mi ricordo del posto macchina. Immaginando la mappa davanti agli occhi vedo una porticina che si apre a fianco della porta d'ingresso e che conduce sotto, nella rimessa. Oltre la saracinesca che chiude il garage ci sono gli uomini della Mengoli. Da lì non se ne può andare. Scendo le scale dall'altra rampa, sempre appoggiato alla parete. «Sto uscendo» dico alla radio e apro la porta d'ingresso. Poi corro verso l'altro lato della casa senza preoccuparmi più di niente. Solo di quello che può succedere quando si aprirà la porta del garage. E quando arrivo la porta è già spalancata. «Ferma!» grida la Mengoli in mezzo al piazzale, stretta fra due volanti e quattro uomini armati, le pistole tese in avanti. Un'altra volante chiude il passaggio, dietro le prime due. Un metro fuori dalla porta della rimessa c'è una ragazza. Resta lì, in mezzo alla pioggia, i capelli umidi incollati alla fronte e al viso. Sembra che pianga. Indossa un maglione nero e una gonna di jeans sopra a un paio di stivali di pelle che luccicano con il riflesso della luce delle auto e dei lampioni. Da dove sono, a metà strada fra lei e le pistole, circa cinque metri a destra delle auto, posso vedere bene tutta la scena. La ragazza, la Mengoli con il dito sul grilletto e gli occhi gonfi di rabbia, la rimessa. E dentro la rimessa c'è un'auto. È una Punto nera, una macchina che conosco bene. Quella di Gaspare Nunia. Incrocio lo sguardo con la Mengoli e vedo che la canna della sua pistola si sposta dalla ragazza all'auto. Uno spostamento impercettibile, ma fondamentale. Spara bene la Mengoli. Anche troppo per essere una donna. Eaccio un passo in direzione della ragazza. «Dov'è Gaspare, Teresa?» Si gira pianissimo verso di me. Si sposta una ciocca di capelli dal viso e mi guarda con una strana espressione di sorpresa. «Perché?» sussurra.
«È tutto finito, Teresa» ripeto. «Se mi dici dov'è Gaspare, è tutto finito.» Faccio un altro passo verso di lei. E quando sembra che Teresa stia per dire qualcosa, la macchina parte. Esce dal garage con una velocità sorprendente e si butta contro le volanti. Sento i colpi che partono dalle pistole della Mengoli e dei suoi agenti e mentre loro sparano alla Punto, io mi butto su Teresa per evitare che qualche pallottola la ferisca. Con la coda dell'occhio vedo gli agenti spostarsi e la Punto che si schianta contro la macchina messa di traverso dietro le prime due. Mi alzo e mi volto. E tutto quello che riesco a vedere è la Mengoli che si solleva sulle ginocchia, frugando con lo sguardo nell'auto. «Non c'è nessuno dentro!» urla un agente ed esce dalla Punto con una mazza da baseball mezza spezzata in mano. Gaspare l'ha incastrata fra il sedile e V acceleratore, per far partire la macchina da sola. Poi qualcuno alle mie spalle comincia a sparare. Il primo proiettile mi schizza così vicino all'orecchio che un attimo prima di buttarmi di lato sento solo un sibilo assordante invadermi la testa. Con la coda dell'occhio vedo Gaspare uscire correndo dalla rimessa, in direzione della tangenziale. Spara verso gli agenti con una mitraglietta, ma non fa molta strada. La Mengoli lo colpisce a un ginocchio, poco sopra la rotula. Si sente una specie di urlo soffocato, poi il rumore dell'arma che gli cade di mano e Gaspare che scivola a terra, sull'asfalto bagnato. «Buttala via!» grido e sento l'acqua che mi scivola lungo il mento e le guance. «Gaspare!» urla Teresa. Cerco di trattenerla ma mi sfugge e si inginocchia di fianco al suo uomo che tenta di rialzarsi. Ti sento parlare fitto e vedo lui che mi guarda e sorride mentre mi rialzo. «Allontana quel cazzo di mitraglietta!» ripeto e punto la pistola, pronto a sparare. «Prendi quell'arma per la tracolla» sento dire a Gaspare. «E portala a quella ragazza.» Fa un cenno con la testa indicando la Mengoli. Teresa afferra la mitraglietta e camminando piano la porta alla Mengoli. In quei tre passi si gira tre volte a guardare Gaspare che tenta di rialzarsi. Lui annuisce ogni volta per incoraggiarla, arrotolandosi su se stesso nel tentativo di tirarsi su, mentre io mi avvicino. «Spostati più in là» dice la Mengoli prendendole l'arma. L'appoggia a terra, dietro di sé. Teresa fa due passi verso il suo uomo, lo sguardo confuso.
Quando sono a non più di due metri da lui, Gaspare Nunia si alza in piedi. Ed è armato. Ha una .38 nera e lucida sotto la pioggia. È allora che succede. È allora che Teresa mi guarda stringere la pistola e parte di corsa. «No!» È allora che sparo, una volta sola. Però sento due colpi. Uno, quello della Mengoli, colpisce il braccio destro di Gaspare Nunia e lo disarma. L'altro, il mio, era diretto al petto dell'uomo che stava per spararmi. E colpisce alla gola Teresa Rizzo, schiacciandole in corpo il suo prossimo respiro. Basta. Finisce tutto lì. Quando mi avvicino lei è ancora viva. Gaspare invece sta dicendo qualcosa che non capisco mentre lo trascinano dentro una volante, ammanettato e ferito. «Perché» leggo sulle labbra della ragazza che mi guarda. Poi il suo sguardo si spegne e restano solo due occhi azzurri simili a cocci di vetro. E uno squarcio di sangue rosso che si allarga sull'asfalto. La madre di Teresa adesso non beve più. Lo ha fatto cinque o sei volte mentre parlavo. Quando ho cominciato a raccontare si è girata verso la piazza e ha lasciato che lo sguardo cadesse nel vuoto, raccogliendolo solo le volte in cui si è versata un po' d'acqua e ha bevuto lentamente. Mi asciugo sui jeans le mani sudate e aspetto che lei dica qualcosa. Qualsiasi cosa. Invece resta in silenzio. In questa piazza c'è troppa luce. Mi fa male agli occhi. Non è il tempo giusto per una luce così, per un sole così invasivo che sbiadisce i sanpietrini, i visi della gente, la facciata di San Petronio, enorme chiesa mai finita che mi ricorda i miei pensieri. Qualcosa che parte in grande e non finisce da nessuna parte. Ogni volta che li inseguo, in questi giorni, ho paura di sapere dove mi stanno portando. E quello che sarò diventato quando questa storia sarà finita. «Gli aveva comprato un regalo, commissario» spiega, rompendo il silenzio. Non capisco e glielo dico. «Quel giorno...» prosegue. «Lei gli aveva comprato un regalo. Per quello che non è passata da via Brigata Bolero. Per quello che ha fatto una
strada diversa. Gli aveva preso un maglione. Bello anche.» Di nuovo silenzio. Poi all'improvviso si alza. «Grazie» dice. «Grazie per aver voluto parlare di Teresa. Non deve essere stato facile nemmeno per lei.» «Non lo è» rispondo soltanto. E non le dico dei sogni e di quel perché che mi è rimasto appeso alle labbra e alle dita. Non le dico niente. Le stringo solo la mano che mi sta allungando per salutarmi. «Lo prenderà, vero?» «Sì» rispondo. E non so perché, ma so che è la verità. «Lei non sa quanto bene mi abbia fatto oggi.» Tento di sorridere. «E il maglione?» le chiedo. «Era bello. Sarebbe stato un peccato buttarlo via. Sa, mia mamma mi ha insegnato che non si buttano le cose che possono servire. Lo abbiamo dato alla Cantate.» Mi irrigidisco senza nemmeno accorgermene. «La Caritate?» «Sì. Teresa ci andava a fare volontariato due volte alla settimana. Qualcosa che non va?» «No, signora» rispondo pensieroso. E per la prima e unica volta quel giorno le racconto una bugia. Sette Bologna, 25 aprile. Mattina «Grazie, mi spiace di averla fatta lavorare anche oggi che è festa» dice Ippoliti e riaggancia il telefono. Un istante dopo il fax parte e il fascicolo appare lentamente nella vaschetta dei documenti ricevuti. Ippoliti prende i fogli uno alla volta, quasi strappandoli dal rotolo d'inchiostro che li sta scrivendo e li appoggia sulla scrivania. È tutto chiaro. È pazzesco, ma è tutto chiarissimo. A Bari Guido Anselmi non risulta più residente da tre anni, due anni dopo essere andato in pensione da un'azienda che si occupa di sicurezza informatica per le industrie. Nello stesso periodo appare a Bologna la Anselsoft e i contratti per l'ufficio e per l'abitazione. L'ingegner Anselmi è vedovo. La moglie è morta in un incidente stradale circa quindici anni fa. Non si è mai risposato, non ha figli, non ha fratelli e non ha più i genitori dalla fine degli anni Settanta.
Guido Anselmi è solo al mondo e - pensa Ippoliti lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona - probabilmente non è più vivo dal giorno in cui è scomparso da Bari. «Conosce bene la casa, signora?» chiedo, e la mamma di Guido Bignami mi guarda sorridendo. «Venivo io a fare le pulizie. Se aspettavo lui questo posto diventava un letamaio.» Apre la porta blindata girando la lunga chiave nella serratura. «E chiamami Giulia, per favore. Siamo stati vicini di casa per sei anni e mi dai ancora del lei.» Entra e respira forte, come se l'aria lì dentro fosse diversa. E forse lo è. La guardo infilarsi nel corridoio appena illuminato e resto sulla soglia insieme a Vittorio Dallari, il mio amico della scientifica. Un altro che come me non ha un cazzo di meglio da fare in un giorno di festa doppia come questo, lunedì di Pasqua e anniversario della Liberazione. Convincere la signora a vedere l'appartamento di Guido non è stato difficile. Quando le ho telefonato ieri pomeriggio e le ho proposto l'idea ha accettato immediatamente, come se anche lei sospettasse qualcosa su quella morte così improvvisa e silenziosa. Non le ho detto nulla. Solo che avrei dato volentieri un'occhiata alla casa e che avrei portato con me un collega. L'ho chiamata subito, non appena Donatella Rizzo è scomparsa dietro l'angolo di via D'Azeglio. E adesso sono qui a osservare i passi incerti di quella donna che si guarda intorno mentre si infila nel corridoio dell'appartamento del figlio morto. «Non entrate?» dice voltandosi verso di noi. Vittorio è accosciato, sta studiando la serratura. «Vai pure, io arrivo» mi dice senza distogliere lo sguardo dalla porta nemmeno un secondo. «La sua camera non l'abbiamo ancora vuotata del tutto» mi spiega Giulia. «Solo l'armadio, il frigorifero, le foto e il computer. Il resto è ancora come lo aveva lasciato lui. Vuoi cominciare da lì?» «Va bene.» La stanza di Guido Bignami è piccola e piena di carte. C'è un tavolo bianco da computer. C'è una pila di cartelline di plastica colorata con scritti dei nomi. Aperta sul tavolo ce n'è una azzurra con appunti sparsi, una stampata di una pagina di codice di programmazione, due numeri di telefono con accanto due nomi. Sulla copertina della cartella c'è scritto DocuNet. «È la calligrafia di Guido?» chiedo.
«Sì. Sono i clienti. Teneva tutto così, dentro quelle cartellette colorate. C'è la sua vita in quei fogli.» Si gira verso la finestra. Ha alzato la tapparella appena entrata e il sole si è infilato dappertutto. In lontananza si vede un campo di girasoli. Colpiti dalla luce brillano come uno specchio. Fanno quasi male agli occhi. Spostando lo sguardo vedo l'astuccio. È sopra al letto, in un ripiano della libreria appesa alla parete. Di pelle nera lucida. Nuovo. «Lo aveva comprato nemmeno un mese fa» dice la madre. «Quello che aveva prima l'aveva perso durante un viaggio.» Guardo l'astuccio e penso a quello che mi ha detto Salvi per telefono, poco prima che venissi lì. Lo shock anafilattico dà abbassamento di pressione, difficoltà respiratorie, prurito e orticaria. «Dove lo ha punto?» «Sul collo» risponde Giulia e si tocca la pelle a metà fra la clavicola e l'orecchio destro. «Nessuna autopsia?» chiedo, e non riesco a distogliere l'attenzione da quella confezione di pelle. «No. Non hanno avuto dubbi. Strano vero?» «Che cosa?» dico e finalmente mi volto e la guardo. Ma è una domanda idiota. So benissimo a cosa si riferisce. «Che quell'astuccio sia lì. Non l'abbiamo toccato sai? È sempre stato lì.» Certo che è strano. Cerco di immaginarmi la scena. La vespa che arriva, che si posa sul comodino. Che finisce fra i suoi capelli. Magari la sposta con una mano mentre sta dormendo e gira il volto. E lei scivola piano sul suo collo. Si ferma. Guido sposta la testa e lei lo punge. E poi non succede più nulla. Va in shock anafilattico e muore. Non si contorce nel sonno. Forse non si sveglia e non apre nemmeno gli occhi un istante per cercare di prendere la confezione. Non lo sposta. Lo lascia lì. Non tenta di infilarsi in corpo la siringa che gli salverebbe la vita. Muore nel sonno, semplicemente. «No, non torna, Giulia» le dico. E ci credo. Non torna perché un uomo che sta soffocando e che ha a distanza di venti centimetri tutto quello che gli serve per non morire non lo lascia lì. E non torna perché se lo avesse punto una vespa mentre dormiva, Guido Bignami si sarebbe per forza svegliato. E avrebbe preso quello che gli serviva. «Sembrava dormisse quando l'ho visto. Aveva solo quel segno sul collo,
rosso e gonfio. Solo quello.» Esco dalla stanza. «Guido aveva una fidanzata?» Giulia sorride. «No, una fidanzata no. Un'amica. Questo sì. O almeno l'aveva. Una cara ragazza. Penso che ne fosse anche innamorato, almeno a modo suo. Guido era una persona molto speciale e molto timida, lo sai.» Almeno l'aveva. Ha detto così. «Aveva?» le chiedo e mi sembra di sapere già la risposta. «Sì, Gabriele. Oddio, mi dispiace se ho fatto una gaffe.» «Non so di cosa stai parlando, Giulia.» «Pensavo lo sapessi. L'amica di Guido era Teresa Rizzo, Gabriele.» Certo che lo sapevo. Perché alle coincidenze non ci credo. Quel nome, Cantate, non poteva esser venuto fuori per caso. «L'ha conosciuta alla Cantate?» «Sì» risponde Giulia, guardando con una strana espressione malinconica il muro accanto alla finestra e poi la libreria piena di volumi consumati. «Un paio d'anni fa, credo. Tu pensi che Guido...» «Non lo so» rispondo senza farla finire e per la seconda volta in due giorni dico una bugia a una madre che ha perso da poco un figlio. Perché non ci posso credere che improvvisamente tutto quello strano gioco si sia messo in moto. Non ci posso credere che nel momento in cui Gaspare Nunia evade dal supercarcere, Alice viene avvelenata e Guido Bignami muore in quel modo lì. Se ci fosse una logica tutto dovrebbe portare in qualche modo a Gaspare Nunia. Ma Gaspare Nunia non è uno che avvelena. «Gabriele posso farti vedere una cosa?» Vittorio. Mi ero dimenticato di lui. Mi scuso con Giulia e lo seguo fino all'ingresso. Davanti alla porta blindata si accoscia di nuovo. «Vedi questi?» mi chiede e indica dei segni sullo stipite dell'uscio, dal lato in cui la porta si chiude e le sbarre di ferro si infilano nel muro. Mi abbasso anch'io, per guardare meglio. Ci sono due lunghe strisce nere. Talmente nette da sembrare tracciate con una matita tenera. «Li vedo. E allora?» «Queste porte,» mi spiega Vittorio abbassando il tono della voce «sono efficaci solo se le sbarre di ferro sono infilate nel muro. Altrimenti è meglio una bella vecchia porta di legno di quelle di una volta.» «Sì, ma cosa c'entra con quei segni?» «Se la porta non è chiusa a chiave, per aprirla basta una radiografia o
una tessera di plastica.» «E quelli sono i segni del passaggio di qualcosa che si è infilato nella serratura?» «Potrebbe essere una carta di credito. A giudicare dalle tracce dovrebbe essersi anche rovinata.» «Mi stai dicendo che qualcuno...» «...è entrato qui dentro» conclude. Mi volto. Giulia Bignami è dietro di me. Mentre parlavo con Vittorio l'ho sentita abbassare le tapparelle e chiudere le porte e adesso la casa è di nuovo buia e silenziosa come l'abbiamo trovata. «Che tu sappia Guido ha mai dimenticato le chiavi negli ultimi tempi?» «Vuoi sapere se è rimasto chiuso fuori? No. Io ho questo mazzo, lo saprei.» «Qualche motivo per cui avrebbe potuto non dirtelo?» «No, nessuno.» «E che tu sappia chiudeva questa porta alla notte, prima di andare a dormire?» «Lo scrocco della porta blindata? Quando era in casa mai. Glielo avrò detto cinquanta volte. Ma perché me lo chiedi?» Vedo Vittorio che solleva le sopracciglia e sospira. Allora mi alzo e la guardo. «Se chiedessi di riesumare il corpo di Guido tu cosa ne penseresti?» Tace un attimo e si appoggia con una mano al muro. «Lo hanno ucciso, vero?» Faccio un passo verso di lei. Le tolgo una lacrima dalla guancia con un dito. E decido che le bugie che ho detto sono abbastanza. «Sì, Giulia. Credo che lo abbiano ammazzato.» La dottoressa Anna Malvezzi si avvicina al letto di Alice sistemandosi con una mano i pantaloni della tutina verde. In rianimazione adesso ci sono tre pazienti e Alice è l'ultima che visita. Di solito, quando le tocca il giro, parte dal letto più vicino alla porta e poi prosegue verso destra. Alice è il primo paziente che si incontra entrando nella stanza, proprio davanti al vetro dove ogni giorno si ferma il commissario Gabriele Riccardi a raccontarle chissà che cosa in punta di labbra. Però l'ha tenuta per ultima lo stesso, perché ha bisogno di tempo per controllare una cosa che le gira in testa da quando ha visto i dati clinici di
quella donna. Ferma di fianco al letto, la guarda. I suoi lineamenti distorti dal sonno e dal tubo di plastica che le permette di respirare, le braccia nude rese livide dalle flebo. Il petto che si alza regolare è l'unico segno di vita. Per il resto non muove un muscolo. Eppure quella donna è viva. Come è vivo il ragazzino di sedici anni che sta tre letti più in là e che si è dimenticato uno stop, schiantandosi in motorino. E il vecchio sottile come una penna d'oca che cerca ancora disperatamente di resistere al tumore che se lo porterà via tra pochi giorni. Pensa che anche quelli sono vivi. Ma Alice è viva in un modo diverso anche se Anna non capisce come. Controlla le flebo, i monitor, la posizione del corpo. Le tocca la pelle del viso e la sente pulita e liscia. Poi guarda i dati clinici. E capisce. Tutto quello che credeva di aver visto è lì. C'è davvero, non è stata un'allucinazione. È scritto, sotto gli occhi di tutti. Quello di cui non riesce a rendersi conto è come hanno fatto gli altri a non accorgersene. Forse hanno pensato che fosse normale, qualcosa che fa parte del quadro clinico. Però lei non si fida. Esce dalla stanza e si infila nell'ambulatorio deserto. Fa un numero di telefono e aspetta. «Cinti? Ciao, sono Malvezzi. Senti, avrei bisogno di un favore. Ho una paziente a cui dovresti fare un'emocoltura, una paziente della rianimazione... Sì. Non so esattamente cosa cerco. Tracce di una sostanza. Solo che... è una questione delicata. Devi dare i risultati solo a me e non farne parola con nessuno... è il letto uno... Alice Mantovani... Con nessuno. Quando hai fatto, basta che mi avverti in reparto. Sì, ti ringrazio... sì, e auguri anche a te.» Riaggancia. «Tutto bene dottoressa?» le chiede l'infermiera che incontra in corridoio. Tenta di sorridere. «Sì, grazie. Solo i soliti casini.» «In un posto come questo qui non c'è Pasqua che tenga» risponde l'altra, mentre si allontana ciabattando. La Malvezzi resta ferma un momento in corridoio, la mascherina che spunta da una tasca. Poi si allontana verso il distributore dell'acqua e facendolo passa davanti al vetro dove ogni giorno si ferma Gabriele Riccardi. Non può fare a meno di guardare dentro.
Alice è ancora lì. Per un secondo, ha pensato che passando non l'avrebbe vista e che forse si sarebbe svegliata nel suo letto con il bisogno di un uomo da abbracciare e il pensiero di aver sognato qualcosa di assurdo e che non riesce a ricordare. Invece non è un sogno. È tutto vero. E anche se non ne ha ancora le prove, sa esattamente cosa sta succedendo. La Fiduciaria Immobiliare, in via Murri, è poco più di uno stanzino con un tavolo e un computer. Fuori dalla porta c'è un cartello chiuso che si intona perfettamente con il giorno di festa. Dentro, seduto dietro al computer, c'è un uomo sui cinquanta che armeggia fra mouse e tastiera con l'imbarazzo che un adolescente potrebbe avere a slacciare un reggiseno. «È un programma nuovo, mi scusi» dice, e Ippoliti gli sorride cercando di tranquillizzarlo. Quando gli ha detto che è un poliziotto ha visto subito il tipo dell'agenzia irrigidirsi come un torrone. «Non sono della Finanza» si è sentito in dovere di spiegare, e così il suo interlocutore si è rilassato un po'. Prima di arrivare lì è stato in un'altra agenzia, la CasaUfficio, ma senza nessun risultato. Il titolare dell'agenzia ricordava di aver concluso la trattativa per l'immobile in via Arno senza aver mai visto in faccia l'acquirente. Forse il notaio che ha redatto l'atto, gli aveva detto dandogli il numero. Ma il notaio era in ferie e la segretaria naturalmente non era autorizzata a dire nulla. Tanto meno alla polizia. «Eccolo, l'ho trovato!» Il tono dell'uomo dietro al computer è quello di un ragazzino che ha appena battuto il suo record a un videogioco. Sposta il monitor in modo che si possa vedere anche dall'altro lato della scrivania. Ippoliti si muove sulla sedia e la camicia gli sfrega la pelle della schiena bruciata, strappandogli un grugnito. «Troppo sole, ieri» gli viene da spiegare. Il tipo dell'agenzia immobiliare sorride, sollevando per un attimo lo sguardo. «Vede,» dice poi, mostrando la scheda a video «l'appartamento è questo. Via Mazzini, 5. Con questo programma possiamo vedere tutti gli immobili che sono passati in questa agenzia, senza nessun limite.» «E avete ancora i dati della persona che lo ha affittato?» L'uomo armeggia con il mouse, tenendolo in mano come fosse il pomello della leva del cambio, poi clicca su un angolo dello schermo e la scheda
di Guido Anselmi appare sul video. Solo nome e cognome e il numero di un cellulare. Lo stesso che risulta alla Camera di Commercio, che Omnitel ha chiuso almeno sei mesi fa e di cui stanno ancora aspettando i tabulati. «Credo di non esserle stato molto di aiuto, agente.» «Ha seguito lei la trattativa?» chiede Ippoliti appoggiandosi di nuovo alla sedia. «Non io personalmente. Qui siamo in quattro soci. Aspetti che guardo.» Altra strisciata del mouse sul tappetino. Un suono di sistema che assomiglia a una campana e poi un nuovo clic del mouse. «Cantelli. Mario Cantelli. È lui che ha seguito la trattativa. Il programma è preciso su questo.» «E quando posso parlare con il signor Cantelli? Dove posso trovarlo?» Lo sguardo del tipo si fa buio, come se la risposta gli costasse dolore. «Conoscevo Cantelli da quando eravamo bambini. Eravamo vicini di casa.» «Sta cercando di dirmi...» «Che è morto, agente. Un infarto. Più o meno tre mesi fa.» Don Giulio Boschi della Caritate è il classico prete che mi sarebbe piaciuto avere come catechista quando ero bambino. Ammesso che avessi voluto un prete catechista. Ha circa sessant'anni e parla come dovrebbe parlare un uomo di religione. Senza perdere di vista che vive in questo mondo e non nel regno di Dio. Quando è entrato nel mio ufficio in questura ha spalancato un sorriso gentile e rilassato e mi è venuto automatico pensare che la maggioranza della gente che varca quella soglia senza lavorare qui dentro, tiene le labbra serrate e irrigidisce i muscoli. Mi ha portato quello che gli avevo chiesto, i nomi di tutti quelli che prestano servizio con continuità per il suo ente e delle persone che collaborano esternamente. E dopo avermi spiegato che si occupano di assistenza agli anziani soli, ai malati terminali in ospedale e a casa, ai senzatetto e a quelli che ha chiamato i nuovi poveri, si è zittito, ha appoggiato le mani in grembo con le dita intrecciate e si è fermato ad aspettare. Non porta la tonaca, solo il colletto, e mi guarda sapendo benissimo che sta a me la prossima mossa. «Immagino che lei si chieda perché l'ho fatta venire qui.» «Un po'. Più che altro mi sono chiesto in che modo la sua indagine possa coinvolgere la nostra associazione.»
«Non è per qualcosa che la coinvolge direttamente, padre. Mi interessa solo conoscere chi fa parte della sua associazione. E parlare con lei di Guido Bignami.» Lo vedo cambiare espressione. Abbassa gli occhi e si fissa le mani per un momento brevissimo. Poi mi guarda di nuovo. A parte qualche criminale che si crede molto forte, ho incontrato pochissime persone capaci di guardarmi negli occhi con quella franchezza mentre sto facendo il mio lavoro. «Era un bravo ragazzo, il povero Guido. Una volta che è stato male era con me. Ma aveva con sé tutte le sue medicine ed è stato rapidissimo a farsi l'iniezione. Quello che gli è successo, povero ragazzo. Un destino insopportabile.» «Insopportabile davvero. Ma non parlerei di destino. Almeno non con il significato che gli dà lei.» «Sta cercando di dirmi qualcosa?» Cerco di deviare la sua attenzione. «Secondo lei era innamorato di Teresa Rizzo?» Sorride. «Lo sapevano tutti. Il fatto è che Guido era un ragazzo timido. Con le donne era un disastro. Per Teresa era un amico, un ottimo amico. Talmente amico da fare danni anche a se stesso.» «Danni?» «Posso parlare liberamente di Teresa, commissario?» «Parli pure.» «Gliel'ho chiesto perché era su tutti i giornali... insomma, quello che è successo...» «Non si preoccupi, padre. Vada avanti.» «Beh, circa un mese e mezzo fa Guido viene da me. "Ho un peso sulla coscienza, padre" mi dice. Lo faccio sfogare. E mi racconta una storia incredibile. Per circa sei mesi Guido ha giocato a calcetto tutti i giovedì sera con una squadra aziendale messa su da un suo amico. Una sera, alla fine della partita, Teresa lo è venuto a prendere per andare a bere una birra con la sua compagnia. Uno di quelli che giocava con lui l'ha vista e ha insistito per settimane finché lui non ha ceduto e li ha presentati. Quel tizio era Gaspare Nunia.» Stringo i braccioli della mia poltrona per scaricare la tensione. «E Guido?» «Capirà, era sconvolto. Si sentiva responsabile di quello che era successo a Teresa. Ho cercato di fargli capire che non poteva essere colpa sua e
non ne ha più parlato. Ma si vedeva che continuava a pensarci.» Prendo il foglio che mi ha portato e lo leggo. Poi mi viene un dubbio e decido di togliermelo subito. «Lei conosce personalmente tutte queste persone?» chiedo indicando la lista. «Chi più chi meno, direi di sì.» «E a qualcuna di queste persone è per caso capitato qualcosa di strano o di improvviso.» Ci pensa un attimo. «No, direi di no. Niente che potrei definire così.» «Però qualcosa c'è, non è vero?» «Cose come ne capitano tante, commissario.» «A volte sono proprio quelle che nascondono i particolari che servono a me, padre.» Si aggiusta i capelli con una mano. «Una di quelle persone è morta.» Mi irrigidisco sulla sedia. «Chi?» «Francesco Zani» dice padre Boschi indicando il nome sul foglio. «Aveva il diabete ormai da molti anni e la sua salute era molto precaria direi.» «Quando è successo?» «Circa nel periodo in cui è morto Guido.» Prendo una penna e faccio un segno colorato a fianco del nome di questo Zani. Poi apro una cartelletta bianca che tengo nel primo cassetto. Sopra c'è scritto Alice Mantovani. Dentro c'è un disegno. È il volto di un uomo. Un uomo come tanti, uno qualsiasi che si potrebbe vedere per strada. Uno che non cattura l'attenzione e che non ti ricorderesti se non associandolo a qualcosa in particolare. Uno che assomiglia a un sacco di gente che conosco. Uno che - ne sono sicuro - mi ha mandato dal sito della Wind un sms con gli auguri di Pasqua. E che nella mia mente è associato al nome di Guido Anselmi. Anche se non si chiama così. «Ha mai visto quest'uomo?» chiedo a padre Boschi. Prende il foglio e lo guarda con attenzione. «È un volto molto comune. Non lo associo a nessuno, però.» Rimetto al suo posto l'identikit che hanno dettato i compagni di lavoro di Alice. «Se dovesse vedere qualcuno che gli assomiglia, anche che lo ricorda da lontano, mi chiami.» Gli allungo un biglietto da visita. «È un numero privato. Nel caso, lo faccia subito, padre. È molto importante.» Don Giulio annuisce e si alza. Gli stringo la mano, una stretta forte e decisa. Poi lo guardo uscire e cerco di capire che cosa significhino tutti quegli indizi che sono saltati fuori. E che legame possa esserci fra l'uomo di cui ho visto l'identikit poco fa e Gaspare Nunia.
Pensieri. Solo pensieri. E padre Boschi li spazza tutti via rientrando nel mio ufficio prima di richiudere la porta. «È buffo» dice con la maniglia in mano. «Ci ho pensato solo adesso.» «A cosa?» «Francesco Zani, quel pover'uomo che è morto di diabete. Lavorava nella ditta in cui lavorava l'amico di Guido» spiega. «E anche Gaspare Nunia.» Bologna, 26 aprile. Le due del pomeriggio In Certosa piove. Il tempo si è guastato la mattina presto, sotto una cappa di umidità che avvolgeva le ossa e la pelle. Poi ha cominciato piano, intorno a mezzogiorno. Adesso cadono gocce spesse, che picchiano sugli attrezzi con cui gli addetti del cimitero stanno riesumando Guido Bignami davanti agli occhi sbarrati di sua madre. E ai miei. Ho dovuto fare il solito baratto col questore per ottenere il permesso di avere il corpo di Guido. Ho dovuto dirgli che Donatella Rizzo ha visto Gaspare Nunia e che ho in mente una persona che può aiutarmi a sapere se è vero che lui è in città. E non gli ho raccontato una cazzata. È la verità che conosco qualcuno che può darmi una mano, ma non ho nessuna intenzione di dirgli di chi si tratta. Soprattutto perché non so dove trovarlo e per riuscirci, devo rompere le palle a una tizia dove lavora. E non se lo merita che uno come me le vada a rompere le palle un'altra volta. Giulia Bignami mi prende la mano e me la stringe, senza voltare la testa. La sento che piange, sotto l'ombrello a scacchi, ma non dico niente. Guardo la bara che viene su e sento l'odore di terra che riempie tutta l'aria intorno al chiostro. Quell'odore e il rumore della pioggia sono tutto quello che resta quando la bara viene sistemata per il trasporto. Allora quel chiostro del monastero in cui fino a due secoli fa vivevano i monaci certosini diventa incredibilmente silenzioso. «Giuramelo» sussurra Giulia senza spuntare fuori dall'ombrello che la ricopre. «Che cosa?» «Che se lo hanno ammazzato lo prenderai.»
Una goccia di pioggia mi cade su una mano. La guardo scivolare per terra e penso ad Alice. «Te lo giuro» rispondo. E per non piangere, prendo Giulia per un braccio e la porto lontano da lì. Il dottor Carlo Bevilacqua, anatomo patologo, prende un lungo respiro e si abbassa la mascherina. Il corpo è davanti a lui, pronto. Ne ha visti tanti di cadaveri come quello. Ne ha visti anche di peggiori e conosce dei suoi colleghi che quei corpi se li ricordano, di notte, quando il vento scuote le tapparelle. Ma lui no. A lui la morte non fa paura. Perché la capisce, sa come è fatta, come arriva e perché. Sa che ha un odore dolciastro che si attacca ai vestiti, tanto che certe volte non basta nemmeno lavarli. E sa che può essere dappertutto e che spesso si nasconde proprio nei posti più strani, quelli che non ti aspetteresti mai. Sa che basta poco e che in fondo il vero segreto della vita è proprio quello. Che basta niente per perderla. Guarda il corpo e scrive qualcosa sul blocco degli appunti. Poi con un gesto semplice e preciso che ha ripetuto migliaia di volte, apre il torace del ragazzo con la solita incisione a Y. La morte è soltanto il suo lavoro. Quando lascio via Stalingrado, girando a destra su viale Aldo Moro, sono le undici e un quarto di sera, c'è già la fila e quella strana atmosfera mista di tristezza e goliardia che mi sono sempre sentito addosso passando di lì, in qualunque età della mia vita. La mappa della prostituzione a Bologna è una sicurezza che un maschio nato e cresciuto in città comincia a imparare intorno ai diciassette anni. In quella strada che si infila in mezzo alla fiera e che arriva fino al trionfo di marketing e di luminarie blu che è la multisala della Medusa, ci sono i travestiti, quelli che ti devi avvicinare bene e sentirli parlare per distinguerli da una donna vera, una di quelle che fanno sognare attaccate ai manifesti pubblicitari. È una di quelle che sto cercando. Non la vedo da quasi un anno. L'ultima volta aveva una parrucca scura liscia e lunga fino quasi al sedere, un vestito nero che lasciava scoperta tutta la schiena e una pelliccia di finto leopardo che le copriva appena le tette. Era dicembre. Adesso potrebbe essere diversissima ed è per questo che sono in coda dietro a una Mercedes e a un fuoristrada, camminando a passo
d'uomo accanto al marciapiede. Alla fine tocca a me. Quando abbasso il finestrino sulla destra la prima cosa che vedo è una scollatura gigantesca, in cui faticano a stare contenute due tette improbabili, ciclopiche e sode in un modo innaturalmente imbarazzante. «Ciao tesoro, sono Magda. Cinquanta euro ti vanno bene?» mi dice con una voce bassa e sottile la proprietaria di tutto quel silicone. «Cercavo Miriam» le dico. E lei sorride. «Aspetta che sento, amore» risponde. «Silvana!» la sento gridare, mentre qualcuno dietro reclama col clacson. «Dov'è la Miriam?» La Silvana, che è una moretta con le spalle da nuotatore olimpionico e due stivali che vanno per forza abbinati a un gatto a nove code, urla a sua volta qualcosa dall'altro lato della strada. Non capisco cosa dice, ma ci pensa Magda a riportare. «È salita con un tipo, su una Porsche. Se ti metti là in fondo, vicino all'edicola, appena arriva le dico che tocca a te.» «Pensi che ci vorrà molto?» «Ma no, figurati. Sai come sono gli uomini. Vedono due tette e non ce la fanno più. Vedrai che arriva subito la tua Miriam.» Sorrido e la ringrazio. Lei mi manda un bacio con la mano e si sistema la scollatura per il cliente successivo. Mi sposto sulla sinistra e parcheggio la macchina sotto una delle torri che ospitano gli uffici della Regione Emilia Romagna. Miriam arriva circa dieci minuti dopo. Scende da un Carrera 4, dice qualcosa a Magda e poi cammina nella mia direzione. È sempre mora, ma la parrucca lunga ha lasciato il posto a una corta. Ha una mini rossa e gli stivali d'ordinanza, bianchi, portati sopra a una camicia del medesimo colore. Con troppi bottoni aperti. Quando sale, l'abitacolo dell'auto si riempie di un profumo dolciastro e persistente. E solo quando la sento parlare sono sicuro che sia lei. «Ti donano i capelli corti» le dico prima ancora che mi abbia guardato in faccia. «Gabriele!» urla e mi si getta al collo. «Stai ferma! Penseranno che sono il tuo amante!» «Che pensino quello che vogliono quelle streghe. E poi ti piacerebbe farti un giro con me, brutto porco.» Rido. «Lo sai che per i miei gusti hai sempre qualcosa di troppo fra le gambe.» «La verità, caro il mio poliziotto, è che hai paura di scoprire che ce l'ho più grosso del tuo.»
«Sei sempre stata una stronza, Miriam. Fin da quando eravamo bambini e ti chiamavi ancora Lucio.» Si aggiusta i capelli. «Ah, ma quelli sono tempi che non ci sono più. Sai, adesso nemmeno mia mamma mi chiama più Lucio. Mio padre, invece, è passato al neutro. Tesoro, dice. Però quando qualcuno in giro mi guarda le tette si vergogna. Ogni tanto l'occhio gli cade anche a lui. Mi viene troppo da ridere. Senti, ma davvero ti piacciono i miei capelli?» «Stai da Dio. Hai un'aria... come dire... fine.» «Ah, fine. Questa è buona. Un troione da strada con l'aria fine. Va' là va' là che te sei sempre stato un bel leccaculo. Anche a scuola. Comunque se è vero che ti piacciono son contenta. Sono i miei.» «Senti, hai mangiato qualcosa?» «Sì, sì, ho mangiato prima di cominciare. Ma cosa fai qui?» «Ho bisogno di Montaldo.» «Ah» dice. Si abbandona sul sedile e la voce le si spegne in gola, come una sigaretta schiacciata da un tacco. «Dovevo immaginarlo.» «Qualcosa che non va?» «No, no. È che beh insomma... sono quasi due mesi che non... sì, che non si fa vedere. E non mi risponde nemmeno al telefono, 'sto stronzo. Però forse tutto sommato...» «Tutto sommato?» Si risolleva. Il bottone della sua camicetta regge per un pelo l'impatto improvviso delle tette, evitando al cotone di esplodermi sul cruscotto. «Tutto sommato è un bene che tu sia venuto adesso. Sai, a me quello stronzo è sempre piaciuto. Anche se ha vent'anni più di me e ogni tanto ha delle bazze con della gente che non li toccherei nemmeno gratis. E se a me non risponde, se gli dico che hai bisogno te, beh, sai, magari riesco a parlargli. Poi da cosa nasce cosa.» «Miriam, ti sarai mica innamorata?» «Ascolta Riccardino, cosa c'è di male? Sono una donna anch'io. E poi ormai stiamo insieme da tanti anni. Mi ha salvato il culo - e non è una metafora - almeno un centinaio di volte. Capirai. Senza di lui mi sento persa.» La guardo e per un momento lo vedo com'era a quattordici anni, alle medie. Uno stangone secco e pieno di parole che tutti prendevano in giro per come camminava. Ma non faceva apposta. Era proprio così. Già allora, anche se non lo sapeva. «Senti Miriam, se vuoi uscire da questa merda, su di me puoi sempre contare.»
Mi accarezza una guancia. Ha le unghie lunghe e rosse, smaltate di fresco. Se volesse potrebbe tranquillamente cavarmi un occhio in due rapide mosse. «Sei dolce, Gabriele. Ma guardami. Ho due chili e mezzo di silicone, sono alta uno e ottantadue, giro con la minigonna, ho un culo che modestamente non ha nemmeno una di quelle troiette che vanno a sculettare in televisione, però se parlo sembro un cartone animato doppiato da un deficiente. E soprattutto continuo a portarmi a spasso il mio bel cazzo come se niente fosse. Chi vuoi che mi dia un lavoro normale? Quelle come me vanno bene giusto per fare le puttane. Le incantonano in macchina, se le fanno in silenzio e poi tornano dalle mogli e dalle fidanzate. Per questo mi piace Montaldo. Per lui io sono la Miriam e basta. Senza il trucco e tutto il resto.» «Come vuoi. Ma mi basta una telefonata. E sai che il lavoro posso trovartelo io.» Mi accarezza di nuovo il viso e indica fuori con la testa. «Il mio mondo è quello lì, Gabriellino. Che mi piaccia o no.» Mi bacia sulla fronte e scende. Prima di chiudere lo sportello si china in avanti senza piegare le gambe. «Cosa gli devo dire a quello stronzo di Montaldo?» «Che ho bisogno. Urgente. E che tenga il culo al caldo.» «Va bene, stella. Appena ho un secondo gli mando un messaggino. Stasera stessa. Senti, ma Alice?» Respiro. «Torna a lavorare, che ti chiamano.» «Problemi, tesoro?» Respiro. «È all'ospedale. Magari una di queste volte ti passo a prendere e ti porto a bere una birra. Così ti racconto, ok?» «Ok, tesoro. Ci vediamo quando ci vediamo.» «Va bene, ci vediamo quando ci vediamo. E... grazie» mi viene da dire. «Ma vaffanculo» risponde e sbatte lo sportello. Due minuti dopo è piegata sul finestrino di una TT e quando passo di fronte a lei, dall'altro alto dello spartitraffico, mi saluta con la mano. Come si fa con qualcuno che guardi prendere un treno e che sai che non vedrai tornare più. Il fienile puzza di umidità, di pioggia e di erba bagnata. La sacca è appoggiata ai piedi di Gaspare e uno degli uomini di Roland non smette di guardarla nemmeno per un momento, mentre il Muto lo fru-
ga. Gaspare la stringe con le caviglie e guarda uno per uno i quattro che ha portato lo slavo. Gente che non ha mai visto e in fondo è meglio così. Oltre al tipo della borsa c'è uno con delle spalle larghe da palestrato e il pizzetto ossigenato, uno piccolo e tosto che sembra uscito da un vecchio noir francese e un altro biondo con la coda di cavallo che si toglie continuamente un ciuffo di capelli da davanti agli occhi. «Una casa» comincia Gaspare quando sono tutti pronti attorno al vecchio tavolo. «Prima provincia di Bologna. Andremo a vederla tra due giorni. A gruppi di due. Adesso non vi deve interessare dov'è.» «Che casa?» chiede il tipo che fissava la sacca. Ha un accento duro, come se le lettere avessero degli spigoli. «Una villetta a due piani.» «Quanti uomini?» Gaspare guarda Roland. Roland guarda l'altro e annuisce. E il tipo smette di fare domande. «Bene. Ci sono quattro macchine che fanno la guardia alla casa. Due davanti e due dietro. Le due davanti non ci interessano, solo le due dietro. Quattro uomini in tutto, forse cinque. Poliziotti. Qualcuno ha problemi?» In lontananza si sente un camion che passa. È l'unico suono. «Dentro la casa cosa c'è?» chiede Roland e Gaspare sorride. «Me lo chiedi o vuoi che lo dica, slavo?» «Loro non sanno.» «E non devono sapere. Dentro ci vado da solo. Nessun altro.» «Io non uccido poliziotti se non so perché lo faccio.» Gaspare guarda il tipo con la coda di cavallo e ride. «Tu ammazzi poliziotti per soldi, non per sapere perché lo fai. Sai cosa fanno dalle mie parti a un curioso? Gli strappano la lingua con le mani. Ma tu non sei uno curioso, vero?» Le mani del biondo corrono di nuovo al ciuffo di capelli, poi lo sguardo si stacca dagli occhi di Gaspare e scivola sulla borsa. Gaspare le dà un calcio piano, con il tacco della scarpa. «Silenziatori ne avete?» chiede a Roland. «Sì. Tutto quello che serve.» «Bene. Allora questa è tua, slavo.» Prende in mano la borsa e gliela lancia. Roland la apre. Infila una mano nelle banconote azzurre e la richiude. «Trentamila avevano da essere e trentamila sono» spiega Gaspare. «Il resto quando abbiamo finito. Mandali via.» Roland dice qualcosa nella sua lingua e gli altri se ne vanno. Uscendo
recuperano le armi, appoggiate a terra ai piedi del Muto. «Soddisfatto slavo?» chiede poi Gaspare. «Si lavora sempre bene con la mafia, siciliano. Pagate sempre quello che dite di pagare.» «Qui la mafia non c'entra, caruso. Questa è una questione personale.» «Appunto. Tu sei mafioso, siciliano.» Gaspare infila le mani nella tasca della giacca. Con le dita gioca con la canna della pistola. «I tuoi uomini sono fidati?» «Puoi stare tranquillo.» «Non voglio cazzate quando sarà il momento. Portane qui due tra due giorni, alle due del pomeriggio. E gli altri il giorno dopo. Andiamo a vedere la casa.» «Va bene.» «E adesso vai.» Roland si abbassa davanti al Muto e raccoglie la pistola. Sulla porta spalancata del fienile si ferma. «Senti siciliano, posso chiedere una cosa?» Gaspare si volta. «Sai cosa si dice in giro? Che per scappare dal supercarcere ti sei fatto dare una mano da un tizio...» «Si dicono tante cazzate in giro, slavo.» «...una specie di fantasma che gioca con le malattie. Uno famoso. È vero?» Gaspare lo guarda. Per un momento sente di nuovo in fondo alla schiena il dolore terribile di quella notte. Lo sente arrivare all'improvviso ed è sicuro che dovrà urlare e che cadrà in ginocchio in mezzo al fienile, senza poter fare niente per evitarlo. Ma è solo un'eco e se ne va subito. «Parli dello scienziato?» gli chiede. «Sì, lo scienziato. E lui che ti ha fatto uscire, vero?» Gaspare Nunia si volta verso il Muto. Gli appoggia una mano sulla spalla. «Roland vuole sapere se è stato lo scienziato a farmi uscire» dice e quando guarda di nuovo lo slavo ha una strana luce negli occhi. «Non c'è nessuno scienziato. Quell'uomo non esiste.» Roland scrolla le spalle. Qualche secondo dopo si sente il rumore di un bagagliaio che si chiude e un'auto che parte. Gaspare Nunia esce fuori e annusa la notte. Ha un colore diverso da quella delle sue parti, ma l'odore che sale dalla terra dopo che ha piovuto gli piace lo stesso. Sa di qualcosa di giusto e che resta sempre uguale, anche quando tutto cambia.
Alza gli occhi e guarda da lontano le torri della fiera. Poi pensa a quel pacchetto, a quella notte in infermeria e a quel sale. E a un tratto non si sente più al sicuro neanche con la pistola in tasca. Il posto sa un po' di fumo e molto di rock anni Ottanta sparato dalle casse attaccate al muro. L'uomo è seduto davanti al monitor e fissa qualcosa sullo schermo come se non esistesse niente altro al mondo. Almeno finché non arriva la cameriera a portargli la birra che ha ordinato. «Grazie» dice e le sorride, ma solo col viso. Niente occhi. La ragazza gli allunga lo scontrino e l'uomo conta le monete da un euro sul tappettino del mouse. Quando le allunga alla ragazza sorride di nuovo. Lei non ricambia. Senza dire niente se ne va. E allora ricomincia a guardare il monitor. Si prende fra le dita la pelle sotto al mento e ci gioca un attimo, cercando la concentrazione. Poi picchia alcune parole silenziose sulla tastiera e infila un floppy nel computer. Senza togliere gli occhi dallo schermo prende il mouse e clicca da qualche parte. Aspetta che il sistema elabori poi clicca di nuovo. Due tic talmente ravvicinati da sembrare uno solo, ma che fanno il loro dovere. E a quel punto tutto quanto è fatto. Beve un lungo sorso di birra, clicca sull'icona logout in fondo a destra e disconnette il computer. Resta per un attimo a guardare lo schermo con un enorme fiore rosso sullo sfondo e si chiede se quando tornerà a casa Sansone starà già dormendo sulla sua poltrona preferita. E se il commissario Riccardi gradirà la sorpresa che gli ha preparato. Poi si alza, paga la connessione alla cassa e firma accanto al nome che ha lasciato alla stessa cassiera poco meno di mezz'ora prima. Facendolo, uno strano ghigno gli si dipinge sulla faccia, ma lei non se ne accorge. Fuori è una notte umida, ma guardando il cielo sa perfettamente che non pioverà. Otto Bologna, 27 aprile. Otto e cinque «Questo caffè fa veramente schifo» dico a Salvi, e butto il bicchierino vuoto nel cestino accanto alla macchinetta. Lui affoga il liquido scuro in quattro bustine di zucchero. «Sono anni
che lo so» risponde tentando di amalgamare il pastone. «Hai guardato quello che ti ho mandato?» «Sì. È ricina. Tossica, mortale anche. Ma niente che possa assomigliare a quello che ha avvelenato Alice.» Mi volto verso la finestra e guardo fuori. Piove da stamattina alle sei e tutto sembra grigio e stinto. Bologna, con questo tempo, perde i colori come una vecchia coperta lavata troppe volte. C'è una signora anziana, con due sporte della Coop piene di chissà che cosa, che tenta di salire i gradini della clinica chirurgica senza ribaltare per terra i sacchetti e soprattutto se stessa. Tiene l'ombrello stretto fra il braccio sinistro e il torace e cammina come se nelle sue sporte ci fossero delle incudini. Poco prima che cada, una ragazza le si avvicina e le prende i sacchetti. Le vedo sparire dentro al grande portone. «Dimmi la verità, Giovanni» dico mentre un'infermiera ciabatta alle mie spalle. «Come sta?» «È stabile, Gabriele. Non so altro...» Mi giro verso di lui. Facendolo, urto il vetro della finestra che vibra. «Me ne sbatto dei termini medici, Giovanni!» grido e quando me ne rendo conto abbasso la voce. Una donna che cammina con la flebo in fondo al corridoio si volta a guardarmi con un'espressione compassionevole. «Voglio sapere come sta. Cosa devo aspettarmi.» «È stabile» ripete Giovanni con il tono di chi ha pronunciato qualcosa che gli ha procurato un dolore quasi fisico. «Significa che sta esattamente come la vedi. Esattamente. Né meglio né peggio. Non sta mai meglio e non sta mai peggio di così, Gabriele.» «Com'è possibile?» gli chiedo e mi sembra di aver detto una cosa assurda. Il mondo è pieno di gente che cade in coma e non si sveglia più. Incidenti stradali, ictus, aneurismi, proiettili. Le cause non mancano. Forse quello che non capisco è perché debba essere successo ad Alice. Forse il problema è che crediamo che le persone che amiamo siano immuni da tutto quello che c'è in giro di brutto. Che non si ammalino, che non siano in un negozio mentre qualche stronzo entra con la pistola, che non prendano un tumore che se le mangia un giorno alla volta finché non resta più niente. Eppure succede. Il nostro amore non le rende immuni. Non le rende immuni da niente. «Non so come sia possibile» mi risponde. «Ho visto molti casi di intossicati col botulino, Gabriele. Di solito muoiono in tempi molto brevi. Oppure si riprendono in tempi brevi. Ma questa volta... beh... Alice non ha...»
«...il botulino» concludo. «Lo so.» Mi volto di nuovo verso la finestra. Adesso piove più forte. Sento le gocce ticchettare contro i vetri. «Ma non so cosa devo aspettarmi, Giovanni.» «Per come vedo le cose io, potrebbe rimanere così per un tempo imprecisato. In altri casi, con problemi diversi, possono stare in coma anche anni e poi improvvisamente avere una crisi e tutto finisce.» «Oppure si svegliano.» «Sì, succede, Gabriele. Ma sono casi molto rari. Alice ha subito una grave intossicazione con una sostanza che non abbiamo idea di cosa sia. Solo che assomiglia come sintomi iniziali al botulino.» «Stai cercando di dirmi che potrebbe non svegliarsi più?» «Ti sto dicendo che potrebbe succedere, Gabriele. Se non troviamo l'antisiero.» L'antisiero. Guardo dalla finestra una macchina che fa manovra per uscire dal parcheggio e penso che potrebbe essere lui. Potrebbe essere dentro l'ospedale, da qualsiasi parte. Potrei anche avergli parlato e aver sentito la sua voce. Potrebbe essere ovunque. Lui e l'antisiero per Alice. Mi rendo conto che ormai comincio a pensarlo di tutte le persone che non conosco e che incontro per la strada. E anche di quelle che conosco. Mi volto verso Giovanni e tento di sorridergli, ma mi esce solo una strana smorfia. «Devo andare» dico. «Ti accompagno» risponde e si avvia con me per le scale. \ «Mi scusi, dottor Salvi?» Una dottoressa si affaccia sulla soglia dell'ambulatorio. Giovanni si gira e la guarda in modo strano. Infastidito. È una donna piccola con due occhi lucidi che sembrano sul punto di piangere. «Non posso adesso, Malvezzi.» «Ma è importante, dottore. Vorrei parlare con lei e con...» «Scusami un secondo» mi dice Giovanni e fa un passo in direzione della donna. Quando le è vicino lui si mette davanti e non riesco più a vederla. Parlano piano e Giovanni fa due gesti decisi con le mani. Poi si volta di nuovo e viene verso di me con un'espressione dura. Alle sue spalle la donna mi guarda come se potessi in qualche modo salvarla da una specie di punizione. Ma non faccio niente. «Scusami ancora» dice Salvi, e si sistema una catenina di argento che gli è uscita dalla camicia.
«Carina» dico per rompere la tensione e la indico. «Questa catena? Sì, carina. L'ho comprata da poco a un congresso.» «Un congresso, see. Dimmi piuttosto una vacanza pagata per meriti medici. Dov'era stavolta, alle Fiji?» «Magari. Vicino che più vicino non si può. Un gigantesco albergo in mezzo al nulla. In provincia di Brescia. A Manerbio.» Arrivando al palazzo non è più sicuro di aver fatto la cosa giusta. È venuto lì con l'autobus e per due volte ha avuto la sensazione di essere seguito. Una donna bionda prima e poi un uomo. Un tipo moro con un paio di strani occhiali. Così è smontato due fermate dopo, davanti all'insegna della Coop, prima che la strada si infili in mezzo ai campi di grano verso Castelmaggiore. Quando è sceso, sentendo lo sbuffo delle porte che si chiudevano, si è guardato intorno e non ha visto nessuno. Il bar dietro alla fermata era chiuso per turno e la strada sembrava deserta. Poi lo ha visto. Sotto al portico. Probabilmente è sceso davanti mentre lui ha infilato le porte dietro. Indossa un impermeabile bianco e cammina senza voltarsi, un passo sicuro e costante che schiocca sul pavimento il ritmo di una semicroma. No, probabilmente non mi hanno seguito, pensa mentre sale a piedi le scale fino all'ultimo piano perché ha paura degli ascensori. Forse è solo paranoico, e alla fine avrebbe anche potuto telefonare senza fare tutta quella strada quando fuori c'è un gran tempo di merda e lui non ha nemmeno un ombrello. Eppure ha saputo subito che doveva andare lì e parlare di persona e raccontare tutto quello che sa e che ha sentito. Tutto, anche quello che Gabriele Riccardi non si aspetta di sentire. Si guarda intorno un'ultima volta sul pianerottolo, sente il rumore dell'ascensore che sale, poi suona il campanello. Come un punto di non ritorno. «Chi è?» sente urlare dal fondo del corridoio, ma non risponde. Tutto quello che fa è bussare e ascoltare il rumore ovattato dal metallo dell'uscio. «Chi cazzo è?» sente e ha la sensazione che qualcuno lo stia guardando dallo spioncino. Poi Gabriele Riccardi apre la porta di casa. Ha un asciugamani allacciato in vita, i capelli bagnati, i piedi nudi e la Beretta d'ordinanza stretta nella mano destra. Ma sorride.
«Mi hanno detto che avevi bisogno di me, ma non credevo tanto da venirmi ad aprire nudo.» «Entra, idiota» risponde Gabriele al tizio fradicio di pioggia. «Dammi solo il tempo di infilarmi qualcosa.» Via del Pratello è un posto che vive in un mondo tutto suo. Ci venivo un po' di anni fa a vedere gli spettacoli al Pavese con Vito, Patrizio Roversi, la Syusy Biadi e i Gemelli Ruggeri quando ancora nessuno sapeva chi fossero. Ci sono tornato più avanti per parlare con qualcuno chiuso nel carcere minorile e poi di notte a bere o mangiare in qualche osteria con vista sulla strada. Quella strada in cui puoi vedere passare un po' di tutto, travestiti, poliziotti, barboni e punkabbestia con i loro cani tutti uguali, fighetti con morosa minigonnata a seguito, abitanti della zona che escono a vuotare la spazzatura in ciabatte, si fermano sul portone a parlare con qualcuno fumandosi l'ennesima paglia o bestemmiano contro qualcuno perché per strada c'è troppo rumore e non si può dormire. Una fauna strana e variegata di cui si possono trovare alla mattina le tracce sotto i portici, mentre la strada è ancora in silenzio e passano solo gli spazzini. In una di quelle osterie che sembrano tutte uguali, in un tavolo in fondo alla sala, sto guardando Montaldo che beve a sorsi brevi una birra media e si accende una Marlboro in fila all'altra, chiedendomi ogni due minuti se mi dà fastidio il fumo. Non ha parlato fino a che non siamo arrivati lì, seduti senza nessuno a romperci i maroni. Ha detto solo "sono venuto in autobus", e non so nemmeno perché lo ha detto. «Mi hai fatto cagare addosso quando hai suonato» gli dico e mi raffreddo la gola con un sorso di Adelscott. Spegne la paglia schiacciandola con metodo e decisione nel posacenere. «Mi dispiace. Ma ho pensato che fosse la cosa giusta da fare.» «Miriam...» «Lascia stare Miriam, Gabriele. Dimmi quello che vuoi, per favore.» «Sembra che tu abbia qualcosa da dire a me, Montaldo. Altrimenti non capisco perché tu non mi abbia telefonato.» «Dimmi quello che vuoi sapere» ripete e si accende un'altra Marlboro. La quarta. Bevo. Questa volta un sorso più lungo. «Gaspare Nunia, Montaldo. Immagino tu sappia chi è.» «Sì, lo so chi è. Lo sa tutta Italia direi. Almeno dalla settimana scorsa,
quando è evaso.» «Una persona dice di averlo visto in San Donato.» «La gente dice un sacco di stronzate.» «Forse. E ti dirò di più: questa persona avrebbe anche un motivo per aver immaginato di averlo visto. Ma io le credo.» Tira un lungo sorso dalla media. «Istinto di poliziotto?» «Chiamalo come vuoi.» Prende un sospiro poi sbuffa fuori fumo e nervosismo. «Nunia è a Bologna» dice tutto d'un fiato. «Sicuro?» «Sicuro. Ho anch'io della gente che potrebbe raccontare cazzate, ma di cui mi fido.» «Chi?» «Uno slavo. Sloveno, credo che sia. Un certo Milan, ma dubito che sia il suo vero nome. Uno che se gli dai quello che cerca non è capace di stare zitto.» «E cosa cerca questo Milan?» «Quello che cercano tutti quelli come lui. Cocaina.» «Ti sei messo a spacciare?» Montaldo ride. Si gratta la barba di tre giorni e si appoggia con i gomiti sul tavolo. «Guardami, Gabriele. Ho la solita faccia da stronzo e nessuna donna mi vorrebbe in casa come moroso di sua figlia, ma non sono uno che fa soldi sulla pelle degli altri. Non così almeno.» «E allora?» «Allora procuro contatti. Lo sai come mi guadagno da vivere. L'ho sempre fatto. Sono uno che conosce tutti da tutte le parti. Forse è per questo che sono ancora vivo.» «Milan, allora.» «Milan.» «E che cazzo dice questo Milan?» «Dice che qualcuno lo ha contattato per fare una cosa che vale trentamila euro.» «E chi lo ha contattato.» «Lui lo chiama il Capitano, ma non so chi sia. L'ho visto una volta sola, un tot di tempo fa. Però il Capitano gli ha detto che lavora con un siciliano. Uno della mafia.» «E pensi che sia Gaspare?» Tira dalla sigaretta poi resta a guardare un momento la brace che smette
di pulsare. «Milan, malgrado sia grande e grosso è uno che di suo si caga un po' in mano. L'idea di lavorare con la mafia non gli ispira mica tanto. Ha paura del dopo, capisci? E il Capitano gli ha assicurato che il siciliano ha le spalle coperte e il culo al caldo.» «Cos'altro?» chiedo e finisco la birra. «Che ci sono di mezzo dei poliziotti. Ma Milan mi è sembrato contento.» Sorrido. «Sai quando?» «No. Però il Capitano ha detto che il siciliano ha fretta. Non prima di una settimana a ogni modo.» «Questo Milan non lo vorrei con me nemmeno se non sapessi dove sbattere la testa.» «Nemmeno io. Però è uno che non ha paura di sparare e di obbedire agli ordini. E lo fa bene.» «Sarà la cocaina.» «Forse. Spero fosse quello che volevi sapere.» «Direi di sì. Dovrebbe servire a far star buono il questore. Almeno per un po'. Tieni gli occhi aperti, però. Di certo non finisce qui.» Montaldo si guarda intorno, come se avesse paura di qualcosa. Quando torna a cercare la sigaretta con lo sguardo sembra più tranquillo. «Qualcosa non va?» gli chiedo. «No. Volevo solo chiederti una cosa.» «Cosa?» «Come è evaso Nunia?» «Cosa si dice in giro?» «Si dice che si è buttato da un'ambulanza in corsa, come c'era scritto sul giornale.» «E cos'altro?» «Che stava davvero male. Una colica renale.» Lo ascolto e ripenso a quello che mi ha detto il direttore di Marino del Tronto. «Così dicevano anche gli esami.» Finisce la birra. «Sai, quando mi hanno raccontato questa storia ho pensato a quella volta che ho avuto una colica renale. Mi hanno raccolto col cucchiaino. Va bene che Gaspare Nunia è un armadio a tre ante, ma non credi che...» «Sì, c'ho pensato subito. Ma non c'è una spiegazione.» «Una forse sì» dice a bruciapelo. Fa l'ultima tirata e spegne la sigaretta. Non ne riaccende un'altra. «Sai quando ti ho detto che Gaspare ha raccon-
tato agli slavi di avere le spalle coperte?» «Sì.» «Tu cos'hai pensato?» «Che qualche boss gli avesse garantito protezione.» «La stessa cosa che ho pensato anch'io. Quando Milan mi ha detto che non doveva preoccuparsi del dopo gli ho chiesto perché non doveva preoccuparsi. E lui mi ha fatto un nome.» «Che nome?» «Lo scienziato» dice e quasi lo sussurra. «Mai sentito nominare?» Ci penso. Ma proprio un attimo. «No.» «D'altra parte come potresti.» Sospira di nuovo. Si fa scrocchiare le dita poi appoggia i gomiti sul tavolo. «È una faccenda un po' strana. Ho sentito parlare di questo tipo per la prima volta una decina di anni fa. Forse è solo una favola della buonanotte. Qualcosa che assomiglia al Kaiser Soze de I soliti sospetti. Però ci sono delle cose strane.» «Racconta.» «Se volessi semplificare direi che è un killer, uno che ammazza su commissione e che si fa pagare. E molto bene. Solo che non è così semplice. Perché molte delle sue vittime non sono vittime di omicidi.» «Spiegati meglio, per favore.» «Un infarto. Un aneurisma. O una leucemia fulminante. Un tumore. Ogni volta che qualcuno di scomodo viene tolto di mezzo da una cosa così si dice che qualcuno abbia pagato lo scienziato perché lo uccidesse. Te l'ho detto. È una favola della buonanotte.» «E perché me ne parli?» «Perché c'è molta gente che ha paura di questo tizio. Gli slavi, Milan, per esempio. È a lui che hanno pensato quando Gaspare ha parlato delle sue protezioni.» Comincio a capire. «Sanno qualcosa di preciso oppure...» «Oppure. Ma tutti quelli che hanno sentito della fuga di Gaspare e che sanno dello scienziato hanno pensato subito che in qualche modo fosse opera sua.» «Tu mi hai detto che questo tipo è un assassino.» «Infatti. Per questo hanno paura di Gaspare, Gabriele. Se questa storia fosse vera lui sarebbe l'unico ad aver avuto a che fare con lo scienziato e a non essere morto. Un po' come aver stretto la mano al diavolo e poter andare in giro a raccontarlo.» Adesso sono io che sospiro. «Questo scienziato, che tipo è?»
Montaldo ride. «Se trovi qualcuno che te lo racconta, fammelo sapere.» «Cosa intendi?» «Voglio dire che nessuno lo ha mai visto, Gabriele. E che se qualcuno lo ha fatto, non è più andato in giro a raccontarlo.» «Tranne Gaspare Nunia.» «Tranne Gaspare Nunia» dice. Poi mi guarda in un modo strano. «Ma forse non solo lui.» Lo prendo per il giubbotto e lo tiro verso di me. «Sai qualcosa che io non so?» «Solo quello che le è successo. Non so altro. Non è molto difficile da sapere, visto che vai là dentro tre volte al giorno.» Lo lascio. Si sistema la camicia. «Mi dispiace, scusami. È solo che...» «Non raccontare stronzate a me, Gabriele. Non ce n'è bisogno. Però pensaci. Gaspare Nunia esce e si dice che sia stato fatto uscire da questo tizio. E nello stesso momento Alice si ammala. Io non so cos'abbia, Gabriele. So che sta in rianimazione. E che tu non sei uno stupido. Te l'ho detto, pensaci.» Lo guardo. E mentre lo faccio penso anche a Guido Bignami che muore nel sonno senza fare niente. Allora lo fisso negli occhi. Ha la faccia di uno che ne ha viste troppe per non essere preparato a tutto. «Ci penserò» gli dico. «Ma tu a questo tipo, ci credi?» «Se credo che esista? Molti anni fa insegnavo a scuola, lo sai. Quando un ragazzo mi chiedeva se le leggende nascono dalla fantasia degli uomini rispondevo sempre di no. Nessuna strega cattiva è un'invenzione totale di qualcuno. Non so cosa sia questo tipo né se faccia davvero quello che dicono. Ma secondo me esiste.» Lo guardo un momento e cerco di immaginare che professore sarebbe stato se non avesse scelto la lotta armata, ormai troppi anni fa. E cerco di immaginare che brigatista sarebbe stato se non lo avessero preso subito. Ma tutto quello che mi viene in mente è che è bravo a raccontare le cose. «Forse è ora che io abbia il tuo numero di telefono.» Non mi risponde, ma tira fuori una penna e scrive su un pezzo della tovaglia di carta dell'osteria. Senza guardare prendo il numero e lo metto nel portafogli. È l'ultimo gesto che faccio in quel posto. Mentre lo porto a casa non dice nulla, nemmeno una parola. Canticchia a mezza voce una canzone di Sade che arriva dalla radio. Poi quando scende mi allunga la mano. Gliela stringo impugnandola dal pollice. «Tieni gli occhi aperti» mi dice.
«Anche tu. E Miriam?» Sorride. «Domani la chiamo» risponde e chiude la portiera. Lo vedo correre per attraversare la strada e quando entra nel portone mi ricordo che sta diluviando. E che ho molti motivi per avere una paura fottuta. Bologna, 28 aprile. Sette Vittorio Dallari appoggia il caffè sulla scrivania del laboratorio e controlla i risultati delle analisi sulla busta con l'incarto del cioccolatino. Sono le sette del mattino e a quell'ora il laboratorio è quasi deserto. Prende un sorso di caffè dal bicchierino di plastica. Poi muove il mouse e clicca due volte sulla foto. L'ingrandimento della busta si apre a tutto schermo e Vittorio guarda l'immagine con un'espressione preoccupata sul viso. Poi clicca di nuovo, l'immagine si chiude e lo schermo si riempie di numeri e di nomi. Vittorio li guarda distrattamente e ingrandisce di nuovo la foto. È nitida abbastanza perché si capisca di cosa si tratta, malgrado la dimensione eccessivamente grande. Con un ultimo movimento del mouse ordina la stampa e finisce il caffè davanti alla finestra. Fuori non piove più e tutto sembra avvolto in una strana foschia di umidità. Butta il bicchiere nel cestino e controlla le stampe. Poi le infila in una busta e la appoggia sul tavolo. Apre una mensola e prende una fialetta sterile da una delle confezioni che riempiono lo scaffale. È argentata e alla luce del neon brilla di un riflesso metallico che sembra un laser. Vittorio la guarda un momento e se la mette in tasca. Gli servirà, ma più tardi. Prende la busta ed esce dal laboratorio. Sono quasi le sette e mezza. E malgrado tutto sorride. Quando arrivo in questura non sono nemmeno le otto e mi sento investito da un tir con troppi rimorchi e troppe ruote. "Dovrebbe dormire, signor Riccardi" mi ha detto un'infermiera stamattina. Avrei voluto dirle che vorrei dormire, ma che non ci riesco. E che dopo ieri sera, dopo le parole di Montaldo, forse sarà ancora più difficile. Ma non le ho detto niente. Ho solo sorriso un secondo prima di guardare Alice
da dietro il solito vetro. Quando sono uscito, nell'umido di via Massarenti che si svegliava, ho dovuto entrare in un bar e chiudermi in bagno a vomitare, alla modica cifra di un caffè. Dopo sono stato meglio. Ma solo per un po'. Sono una nave diretta verso chissà dove, timonata da un comandante ubriaco che a giorni alterni dimentica la sua vera destinazione e che ha una paura fottuta di capire che sta portando la sua barca a rovinare su uno scoglio. E intanto il tempo passa troppo in fretta. «Ho della roba per te» mi dice Vittorio in piedi davanti alla porta del mio ufficio. Lo guardo e mi sembra che sorrida. In realtà non ho mai capito bene che faccia abbia Vittorio quando sorride. «Notizie buone, spero» gli dico mentre entro. Mi allunga una busta. «Guarda.» Butto la giacca sulla sedia, accendo il pc e la apro. La prima cosa che vedo è una foto. Un ingrandimento in formato A4 di un particolare. Si vede una parte della busta, una fetta che va dal lato destro a circa un quarto della lunghezza. In mezzo c'è qualcosa. Sembra una macchia sottile. La guardo e sfoglio le carte. «Un capello?» «No. Lo abbiamo analizzato. È il pelo di un gatto. Una femmina.» Appoggio la foto sulla scrivania. «Dove lo avete trovato?» «Dietro l'etichetta. L'abbiamo tolta per analizzarla e sotto c'era quel pelo. Una parte è rimasta sulla busta quando abbiamo staccato l'adesivo. L'altra è attaccata all'etichetta.» Mi siedo. «Il nostro uomo ha una gatta, allora.» «Direi di sì.» «Non migliora di molto la vicenda, però è già qualcosa.» «Sarebbe stato più semplice se l'animale fosse malato. Ma dalle analisi sembra sanissimo.» «Niente veterinario, quindi.» «No, però è giovane. Direi otto mesi al massimo. Quindi deve essere stato vaccinato.» «Proveremo a vedere cosa viene fuori.» Mi volto verso lo schermo, apro Outlook e scarico la posta. Poi mi alzo e guardo fuori dalla finestra. Sto per dire qualcosa quando sento bussare. Mi giro e vedo il dottor Bevilacqua con in mano una busta uguale a quella di Vittorio. È uno freddo Bevilacqua. Mi fanno paura quelli che
hanno sempre la stessa espressione. Da come mi guarda penso anche di stargli sulle palle. Non mi fido di lui e allora copro le foto che mi ha portato Vittorio e tento di sorridergli. «Buongiorno dottore.» Non saluta e non guarda nemmeno in faccia Vittorio. «Ho pensato di portarle di persona i risultati dell'esame autoptico.» Mi allunga la busta. Anche qui ci sono delle foto. Queste però sono molto più chiare. Il cadavere di Guido Bignami. Un primo piano della gola. Uno della testa dal lato in cui la vespa lo avrebbe punto. La lesione provocata dall'insetto adesso sembra grigio scuro e la pelle di Guido è lucida, come la carta grassa che usano i salumieri. «Dunque?» chiedo. «Penso di poter escludere che si tratti di una vespa, commissario.» Giro intorno alla scrivania. Butto un occhio a Vittorio e mi avvicino. «In che senso?» A una richiesta di spiegazione Bevilacqua si rianima. Come se cercare tracce di qualcosa di misterioso su corpi decomposti fosse la sua unica fonte di felicità. Mi sembra una versione dark di Kay Scarpetta. «Beh, commissario, lo stato del corpo come può vedere non è ottimale. D'altra parte era naturale supporlo. Però ho guardato con attenzione il diametro della ferita che l'insetto avrebbe praticato sul collo della vittima. Misurandola, seppure con qualche minimo margine di errore, mi sembra più compatibile con un ago che con il pungiglione di una vespa. Probabilmente un ago da insulina.» «Probabilmente?» «È stata la prima supposizione che ho fatto. Analizzando il fegato ho trovato quello che serviva per confermare le mie ipotesi. C'erano tracce di una sostanza con una composizione del tutto simile a quella del veleno della vespa. Solo con una concentrazione molto superiore.» «Un po' come se lo avesse punto più volte?» «Per fare un paragone direi una decina. O più. Solo che non è possibile, commissario. Perché la puntura è una sola. Si tratterebbe di un caso molto singolare di puntura sovrapposta.» «Molto singolare. E c'è altro?» «Una cosa ancora. Lei mi aveva detto che il paziente non aveva dato segni di reazione alla puntura e che le sembrava strano. In realtà non lo è. Ci sono tracce di un forte sedativo.» «Mi sta dicendo che qualcuno gli ha somministrato una specie di co-
cktail che lo ha ucciso nel sonno sfruttando la sua allergia al veleno delle vespe.» «Purtroppo non posso essere preciso al cento per cento, visto il tempo che è passato. Però sì. Credo che sia quello che è successo.» Appoggio il sedere alla scrivania e trattengo una risata isterica. «Grazie dottore» dico soltanto e Bevilacqua se ne va senza dire altro. «Che cazzo succede, Gabriele?» Mi siedo e lascio andare la schiena contro la poltrona. «Non lo so, Vittorio. Succede quello che hai sentito, ma...» Mi blocco. Lo sguardo mi cade sul monitor. Sulla schermata di Outlook ci sono due mail nuove. Una è quella che mi ha fatto lasciare la frase a metà. Ha la bandierina che segnala la posta urgente e l'oggetto è miciomiaooo con un allegato. Me la manda un certo
[email protected] Trascino la poltrona e clicco due volte sull'allegato. È un filmato in flash, una specie di successione di foto che danno la sensazione del movimento. Quando lo vedo partire sento qualcosa che mi stringe la gola da dentro, come se all'improvviso la trachea fosse diventata troppo stretta anche per far passare della semplice aria. Poi lo guardo una seconda volta e le cose cominciano ad assumere una specie di contorno. «Cazzo...» sussurro. «Cosa c'è?» Faccio cenno a Vittorio di venire a vedere e quando è davanti al monitor faccio ripartire il filmato. Nell'allegato si vede un gatto. È grigio, lungo e stretto e con un muso buffo segnato da due orecchie troppo lunghe. Le foto sono fatte con una macchina digitale e la risoluzione non è particolarmente buona, ma si vede prima un campo lungo del gatto che avanza in un corridoio bianco. Poi lo stesso gatto a metà corridoio e una specie di piano americano che lo inquadra di profilo. In mezzo c'è la foto di un sacchetto di croccantini aperto e rovesciato per terra. Non si capisce dove. L'ultima foto, palesemente un fotomontaggio, è quella di un gatto che assomiglia al primo, appoggiato su un tavolo, in avanzato stato di decomposizione. Allora clicco e visualizzo il testo del messaggio, una sola frase. La curiosità uccise il gatto. «Che cazzo è questa roba, Gabriele?» mi chiede Vittorio, ma non lo ascolto. «Il pelo del gatto potrebbe essere di questo colore, vero?»
«Sì» risponde immediatamente. «So dove ha stampato quell'etichetta» dico e mi alzo in piedi. «Che cazzo stai dicendo?» «Che quella è la gatta di Alice. E le foto sono fatte in casa sua.» «Dove cazzo mi avete portato?» Il capitano Federico Giunti guarda il capo della famiglia che ha avuto in consegna e tenta di sorridere. «Al sicuro. Vi abbiamo portato al sicuro.» Candido Giulio si aggiusta i pantaloni e sorride. Un sorriso che esce con un soffio d'aria che assomiglia a uno sputo. «Lo avete già detto la volta scorsa. Speriamo che questa sia quella buona.» Il capitano Giunti non risponde. È sveglio da trentasei ore, si sente sporco come un maiale appena sceso da un carro bestiame, ha voglia di una sigaretta e ogni volta che sente parlare zio Giulio gli torna in mente Mariangela Melato che si rivolge a Giannini in Travolti da un insolito destino. E gli prudono le mani. L'ordine di trasferire la famiglia Giulio dalla casa di Budrio è arrivato ieri sera e per tutta la notte lui e altri sei uomini hanno rinforzato la vigilanza alla villa di Budrio. Poi, alla mattina, il trasferimento. Scende dalla macchina e si guarda intorno per controllare la situazione. Dall'auto di fianco alla sua smonta una ragazza, il mitra di traverso impugnato con sicurezza e precisione. Tre uomini sono già alla porta d'ingresso. La strada è silenziosa e sembra tutto a posto. «Mengoli, portali dentro» dice alla ragazza. La poliziotta si avvicina alla macchina di Giunti e apre lo sportello di dietro. «Venga. Andiamo.» Candido Giulio scende per primo, poi la moglie e la figlia. La bambina è magra come un chiodo, con due occhi nerissimi e i capelli lunghi e sottili raccolti da un elastico rosso. La donna è spaventata. Tiene gli occhi bassi a terra, sull'asfalto lucido di pioggia e dell'umidità del mattino. E Candido Giulio, beh Candido Giulio - pensa Giunti - è solo uno stronzo. Uno stronzo molto pericoloso, ma sempre uno stronzo. «Non pioverà» dice il boss annusando l'aria. «No, non pioverà» conferma Giunti. «Vada ora. È più sicuro dentro casa.» Candido Giulio lo guarda. «Ci dovete proteggere, lo sa?» Il capitano incrocia con lo sguardo gli occhi della Mengoli. Sono duri e freddi e non sono sempre stati così. Lo sono diventati una notte di pioggia
per colpa di un uomo che lavorava per il tizio che adesso gli chiede protezione. Accarezza per un attimo l'idea di rispondergli quello che davvero si augura, poi fa un cenno con la testa alla Mengoli. «Vada dentro, per favore. E facciamola finita.» L'agente Mengoli si muove e Candido Giulio e la sua famiglia prendono possesso della loro nuova casa. Le scale le faccio di corsa e mentre salgo tento di tirare fuori le chiavi di Alice. Per un attimo sono sicuro di averle dimenticate, come sono sicuro di non riuscire ad aprire la porta in tempo e di arrivare troppo tardi, troppo maledettamente tardi per fare la mia mossa in questa partita del cazzo che mi sta facendo giocare. «Micia?» comincio a chiamare, mentre giro la chiave nel portone e vorrei sentirla muoversi dietro alla porta o miagolare da qualche parte, ma tutto quello che sento è solo un fottuto silenzio. Allora apro e per un attimo vedo la gatta morta, adagiata sul fianco come nella foto. Ma è solo uno scherzo della mia testa che corre su un binario troppo veloce e troppo scivoloso. «Micia?» chiamo di nuovo e questa volta è una specie di urlo strozzato che sputo fuori guardandomi attorno. Poi mi volto verso il corridoio, quello dove quel bastardo le ha fatto le foto e la vedo. È a metà e sentendosi chiamare si ferma e mi guarda, girando solo la testa. Soffia fuori un suono che assomiglia a un miagolio, poi si muove verso la fine del corridoio, dalla parte opposta a quella in cui mi trovo. La curiosità uccise il gatto. Il sacchetto rovesciato dei croccantini è lì, appoggiato alla parete. La vedo partire in un mezzo trotto che le fa muovere il sedere in un modo buffo e allora corro. Corro e sono solo pochi passi, quattro metri al massimo, cinque passi al massimo con il suono dei miei piedi che schiaccia il parquet e gli occhi che tentano di capire quanta distanza ci sia fra la bocca della gatta e quei croccantini, quanto tempo ho prima che sia tardi, quanti movimenti mi restano, quali movimenti e come devo farli. La curiosità uccise il gatto. Arrivo a sentire il pelo sotto le mani proprio quando mi sembra che stia per aprire la bocca e leccare un croccantino, appoggiato davanti al suo muso. Sento le orecchie che mi sfiorano le dita e affondo le mani in mezzo, stringendo e tirando verso l'alto. La sento miagolare e tentare di graffiarmi, mentre mi giro su un fianco e finisco quella corsa con una spallata contro il
muro che evita alla micia di finire schiacciata dal mio peso contro la parete e che strappa alla mia clavicola un urlo di dolore. Poi la guardo. È lì appesa alla mia mano come un lenzuolo fresco di bucato e mi fissa con un'espressione infastidita e sorpresa. La studio cercando di capire se sta bene, se c'è qualcosa di strano, ma mi sembra la stessa micia fetente di sempre. La stringo in braccio, come un neonato, e lei si lascia andare mentre la porto fuori dal corridoio. «Adesso tu vieni a stare con me, brutta bestia» le dico strofinandole il muso. In fondo al corridoio vedo Ippoliti. «Tutto bene?» Guardo di nuovo la gatta. «Direi di sì. Però la faccio vedere da un veterinario.» «La scientifica sarà qui a momenti. E tu stai bene? Non ti ha graffiato?» Mi guardo le mani e mi sembrano a posto. «No, sto bene. Perché?» Non dice niente. Mi fa solo un cenno con la testa, verso il corridoio. E allora vedo la macchia. Sul pavimento. Mi avvicino, la gatta ben stretta in braccio e la guardo. Circolare, rotonda, grande circa un centimetro. «Sangue» dico a Ippoliti. «Sangue.» Avvicino il viso al muso della gatta. «Brava micia. Qualunque cosa tu gli abbia fatto sei stata bravissima» le dico, e lei miagola piano. Poi chiude gli occhi e un secondo dopo la sento fare le fusa. «La mail è stata spedita da un Internet cafè» mi dice Vittorio entrando di colpo nel mio ufficio. La gatta alza la testa e lo guarda dal davanzale della finestra. Vittorio la fissa con aria interrogativa. «L'ho portata dal veterinario e poi sono venuto qui» spiego. Sorride con una buffa espressione e guarda Ippoliti, accanto alla micia. Lui le sta passando una mano sulla schiena e lei si lascia accarezzare senza proferire sillaba. «Dicevi?» gli chiedo. «Che la mail è stata spedita da un Internet cafè.» «Di dove?» «Via Nazario Sauro.» Via Nazario Sauro è una strada che taglia a metà il centro di Bologna. In linea d'aria è a meno di un chilometro da questo ufficio. Penso all'Internet
cafè, all'inizio della strada, vicino a un ristorante indiano. Ci sarò passato davanti un milione di volte. «Lo ha fatto apposta» dico. «Su questo non ci sono dubbi» risponde sicuro. «In che senso?» Ippoliti smette di accarezzare la gatta che apre gli occhi e gli lancia un miagolio di disappunto. «Scusa» sussurra guardandola e ricomincia. «Nel senso che è stato fin troppo facile capire l'origine.» Non capisco. «Ti spiace provare a spiegare?» «Ci provo. Ogni messaggio di posta elettronica che viene spedito ha un header, un'intestazione. Per i messaggi di posta elettronica funziona come per le lettere normali. Ci sono le buchette delle lettere, i camion o gli aerei, poi gli smistamenti e i postini. Il nostro messaggio parte con l'intestazione che gli viene data dal programma che lo ha mandato, poi prende un'intestazione in più per ogni passaggio che fa sulla rete, fino al computer di destinazione.» «Sembra facile» dico. «Apparentemente. I computer sulla rete hanno un nome. Si chiama indirizzo IP. Per semplificare posso dirti che è un nome composto. C'è il gruppo a cui il computer appartiene e il nome del computer. Determinare il nome del computer è difficilissimo e ci vuole la collaborazione del provider...» «...che è quello che ti dà l'abbonamento a Internet?» chiede Ippoliti. «Esatto. Il gruppo è relativamente semplice da trovare. Ci sono dei database pubblici in cui si può cercare. Può farlo chiunque dal computer di casa sua. Però spesso il gruppo è talmente grande che conoscere l'appartenenza dell'indirizzo IP a un gruppo non serve a niente. Al massimo si arriva a sapere da che zona geografica arriva il messaggio. A meno che...» «...a meno che il gruppo non sia abbastanza piccolo da delimitarsi da solo» spiego. «Bingo» dice Vittorio. «L'Internet cafè di via Nazario Sauro ha un suo dominio perché fa a sua volta da provider. E tutti i pc che ci sono dentro il locale hanno un indirizzo che arriva da quel gruppo.» «Voleva farci capire da dove lo ha mandato» dice Ippoliti. Ha ragione, ma non è tutto lì. «E che era sufficientemente vicino a dove ci troviamo tutti i giorni. Hai i dati di quell'Internet cafè?» «Giù in laboratorio. Te li mando subito» risponde Vittorio ed esce. Mi appoggio allo schienale. «Cosa ne pensi?»
«Lo sai come la penso. Per me c'è di mezzo Nunia.» Ha ragione, lo so come la pensa. E so anche che dovrei pensarla così anch'io, ma non ci riesco. Non riesco a vedere Gaspare Nunia in questa faccenda. Anche se c'entra in qualche modo. Probabilmente è solo una pedina, come me, come Alice, come Guido Bignami. «Questa storia non è nello stile di Gaspare, Ippoliti.» «Lo so me lo hai già detto. Ma tutto porta lì.» «Invece non credo. Comincio a pensare che non sia Gaspare il centro di questo bersaglio.» Ippoliti smette di accarezzare la gatta. La micia indignata scende dal davanzale e si sistema sulla mia scrivania. «E chi è?» Sorrido. «Teresa Rizzo» dico semplicemente e Ippoliti si siede di fronte a me. «Teresa Rizzo?» «Già.» «Fammi capire.» «Prima devo raccontarti una storia» gli spiego e comincio col racconto di Montaldo. Quando ho finito sembra non riuscire a decidersi se ridermi in faccia o preoccuparsi. «È una storia pazzesca» dice dopo un po' di silenzio. «Ma ammetto che vista dalla nostra parte possa sembrare vera. Anche se terribilmente più complicata.» Prendo la gatta in braccio. Lei apre gli occhi un momento e poi li richiude e si lascia andare sulle mie ginocchia. «Forse. Ma forse no.» «In che senso?» «Senti, vediamola così. Abbiamo in giro un personaggio uscito dalla favola di Hansel e Gretel. Uno che nessuno ha mai visto, che ammazza per mestiere e lo fa tanto bene che c'è gente terrorizzata da lui. Talmente terrorizzata che mentre questo tipo semina morti per una decina d'anni a noi non arriva all'orecchio niente. Questo tipo è anche talmente bravo che tutto quello che fa non viene mai scambiato per un omicidio.» «Magari qualche volta ci saranno stati dei dubbi.» «Magari sì. Però mai un errore decisivo, a quanto pare. Nessuno sbaglio che lo abbia fottuto.» «A quanto pare no.» «Bene. Per dieci anni o probabilmente di più questo tipo ammazza e si fa pagare per farlo. Poi all'improvviso non solo fa evadere Gaspare Nunia,
ma esce allo scoperto. Spedisce quel pacchetto con l'incarto e il pelo del gatto e contemporaneamente mi manda la mail perché possa salvare la micia. Ammesso che quei croccantini fossero davvero avvelenati e non facciano semplicemente parte del gioco.» «Esce allo scoperto.» «Esce allo scoperto, infatti. E non si limita a farlo. Ma uccide Guido Bignami. Lo uccide alla sua maniera, senza che nessuno possa accorgersene. Una puntura e via. E cosa lega Alice, me, Gaspare e Guido Bignami?» «Teresa Rizzo.» «Goal.» Appoggio una mano sul dorso della gatta e ascolto il suo sonno pesante e il calore del pelo. Fuori ricomincia a piovere. «Sta cercando di farmela pagare» sussurro. «Forse.» «E non solo a me, Ippoliti. A tutti quelli che hanno avuto a che fare con Teresa. Guido ha presentato Teresa a Gaspare e muore. In quanti conoscevano Teresa e sono morti nell'ultimo mese? Dobbiamo saperlo. E come sono morti?» «Se ci sono dei morti cosa facciamo, li riesumiamo tutti?» «Nel caso, sì. Ma non penso che sarà necessario. Io non credo alle casualità. Dobbiamo capire perché lo fa. È un innamorato respinto? Uno che lei ha scartato trascurandone la pericolosità?» «Non credi che se la sarebbe presa con lei?» «Forse no. Forse è uno che lei incontrava tutti i giorni. O spesso. Uno che si accontentava di vederla viva e di guardarla da lontano. C'è della gente così. In più Teresa era giovane e questo tizio sembra molto più vecchio di lei. Forse non ha mai nemmeno osato fare niente. Forse si è limitato ad amarla da lontano.» «Finché non gli è saltata la catena.» «Già. Devo parlare di nuovo con la mamma di Teresa. Chiederle se la figlia le aveva raccontato qualcosa. Capire che posti frequentava. Dobbiamo sapere tutto di Teresa, Ippoliti.» «Se vuoi ci vado io.» «No, devo farlo io. Quella donna si fida di me, anche se non capisco perché. A che punto è quella lista dei laureati in medicina e in chimica?» «La stanno inserendo nel database.» «Bisognerebbe riuscire a sapere il gruppo sanguigno di tutti e confrontarlo con quello della macchia di sangue che c'era a casa di Alice.» Quando pronuncio il nome di Alice la gatta apre gli occhi e mi guarda.
Sembra che sorrida in un modo triste, come se capisse. Le passo un dito in mezzo agli occhi e lei spinge il muso contro la mia mano. «E poi bisogna trovare Gaspare, Ippoliti. Subito.» «Sarà contento il questore.» «Probabilmente. Ma se è vero tutto quello che abbiamo detto, Nunia corre un rischio serissimo.» «Ma se lo ha fatto evadere...» «Secondo te perché lo ha fatto?» «Per ucciderlo, è chiaro.» Mi guarda, come se all'improvviso avesse capito una cosa più importante. Forse la più importante. «Oddio, Gabriele. E tu?» Mi scappa una risata, come un soffio. Per un secondo mi viene in mente Alice mentre sorride. E mi accorgo che quasi non mi ricordo la sua voce. «Io sono l'ultimo tassello» dico. «Con me chiuderà questa faccenda. E da quello che sta cercando di farmi capire, non sarà per niente indolore.» Stringo la micia al petto e mi alzo. «Cancemi!» urlo sul corridoio. Il ragazzo arriva subito. «Devi tenermela per un po'.» Sgrana gli occhi. «Dai che lo so che ti piacciono i gatti.» Gliela allungo e lui la prende in braccio con cura, come fosse un neonato. La micia lo guarda con il muso inclinato, poi miagola qualcosa e si stende su un fianco, come un essere umano. «Vedi? Le sei già simpatico. Trattala bene o ti scotenno.» «Signorsì» risponde Cancemi. Poi si allontana nel corridoio. Guardo Ippoliti. «Penso che sia ora di andare a quell'Internet cafè.» «'un sinni fa cchiù nenti» dice Gaspare fissando Roland. «Niente.» Roland si alza e fa due passi in avanti, in mezzo al fienile. Dietro di lui gli altri rumoreggiano in sloveno. «Che cazzo vuol dire, siciliano?» Gaspare sorride, un animale che mostra i denti. Si avvicina e gli mette una mano su una spalla. «La polizia ha trasferito il nostro uomo stamattina. Ti dice niente?» «Dove hanno trasferito?» «Siediti, slavo» sussurra Gaspare e Roland ubbidisce come un cagnolino. Dentro al fienile c'è una strana luce gialla. Il ticchettio della pioggia sul tetto si sente appena. L'odore di umidità è talmente forte da sembrare una seconda pelle che non ti staccherai di dosso nemmeno con un milione di docce.
Gaspare guarda il Muto, fermo sulla porta spalancata a sorvegliare gli altri, a tenere in custodia le armi, le orecchie tese alla statale e al viottolo sterrato che porta fino a li. Ma non c'è rumore. Solo il normale traffico che scorre lontano. Non sorride il Muto. Gaspare non l'ha mai visto farlo, nemmeno da bambino. Ma sa esattamente cosa gli passa per la testa in ogni momento. E anche adesso. «Oggi dovevamo andare a vedere la casa» comincia Gaspare. «E invece non c'è nessuna casa da vedere. Ci sarà un'altra casa, presto. E avrete i vostri soldi.» «Quanto presto?» chiede Roland e lo sguardo gli cade sulla cintura di Gaspare, da cui pende uno straccio bianco. Una parte di un lenzuolo vecchio strappato con le mani. Gaspare intercetta il suo sguardo e si strofina un dito contro il pezzo di tela. Poi guarda gli uomini. Sono tutti lì, intorno al tavolo di legno marcio. Roland seduto, il biondo in piedi, in fondo al tavolo e gli altri appoggiati col sedere ai bordi. Sente i loro occhi addosso. E quel peso gli piace. Scambia uno sguardo d'intesa con il Muto e si avvicina a Roland. Gli dà un pizzicotto su una guancia, ma senza stringere. Come si fa con i bambini. «Presto. Molto presto. Tieni stretto il tuo entusiasmo.» Stacca le dita dal viso dello slavo. Ma non lo sguardo. «Permetti che dica una cosa, vero?» Roland annuisce e Gaspare comincia a camminare in mezzo al fienile. «Voi sapete bene chi sono. E se non siete delle pecore sapete anche cosa devo fare. Sapete che ci sono soldi per voi e che i soldi sono tanti. E che la gente come me mantiene le promesse.» Li guarda. Uno per uno. «Ma sapete anche che non mi piacciono li curiusi. Da dove vengo io la gente che non sa, sta zitta. E anche quella che sa. E allora mi chiedo: perché oggi la polizia ha portato via una persona che mi sta molto a cuore? E perché devo trovare un'altra casa quando la casa che avevo mi piaceva molto?» Si zittisce un attimo e comincia a camminare intorno al tavolo. «Perché i poliziotti non sono fessi. E avranno avuto i loro buoni motivi per spostare quell'uomo. E quell'uomo mi sta molto a cuore.» Si picchia il petto con un pugno. «Molto a cuore. A me e alla mia famiglia. A tutta la mia famiglia.» Sospira e sorride. Ma non c'è niente di allegro in quel sorriso. Sembra la maschera di un clown in un film dell'orrore. Guarda il Muto e si ferma dietro allo spigolo del tavolo dove stanno il biondo con i capelli lunghi che faceva troppe domande e quello piccolo e tozzo che non dice mai niente e
ascolta solo. «Mi piace la gente che sa tenere la bocca chiusa» riprende, e appoggia la mano sinistra sulla spalla del tipo piccolo. «Mi piace perché se tieni la bocca chiusa le persone non sanno cosa pensi. E devono indovinarlo. E indovinare 'un è fàcili. Ci si può sbagliare. Ma se uno parla e dice e chiacchiera allora non ti sbagli. Ascolti e sai. E io non sopporto di perdere tempo con chi chiacchiera troppo.» Sospira di nuovo. Il tipo piccolo è girato appena alla sua destra e lo guarda, passando dall'uomo che parla alla mano che gli pesa sulla spalla. Il biondo, alla destra di Gaspare, lo cerca con la coda dell'occhio, senza voltarsi. Davanti, dall'altra parte del tavolo, Roland e gli altri due sono voltati e fissano la scena senza capire. Allora Gaspare guarda il Muto e lo vede sbattere gli occhi. Una volta sola, senza muoversi di un millimetro. Sorride di nuovo, Gaspare Nunia, e quando stacca la mano sinistra dalla spalla del piccolotto, ha già il coltello nella destra, improvvisamente saltato fuori da sotto lo straccio bianco. Tutto dura poco più di un secondo. Il Muto prende la mitraglietta e la punta dritta sul gruppo intorno al tavolo. Il braccio destro di Gaspare passa intorno alla spalla destra del biondo mentre con la mano sinistra gli tira i capelli legati per piegargli la testa all'indietro. Con uno strappo secco la lama del coltello apre la gola di Milan da sinistra verso destra in uno zampillo di sangue che arriva a metà del tavolo. Lo slavo mulina le mani all'indietro e Gaspare gli pianta un ginocchio sulla schiena tirando ancora più forte i capelli verso il basso. Il sangue gli schizza dalla carotide aperta sulle mani e sul viso mentre solleva il coltello e con un gesto veloce lo infila nel collo dello slavo affondando la lama nella trachea. Spinge una volta sola la lama e quando la ruota Milan sputa fuori uno strano grumo di sangue e saliva insieme al suo ultimo rantolo. Allora Gaspare lo lascia cadere, gettando sul corpo un ciuffo di capelli biondi che gli sono rimasti in mano. «Qualcuno deve dire qualcos'altro?» chiede voltandosi verso il resto del gruppo. E nel silenzio si asciuga sullo straccio le mani e il volto che gocciolano sangue. Il proprietario dell'Internet cafè è un tipo sui trentacinque anni, con i capelli rasati probabilmente per eliminare una calvizie precoce, l'alito che sa
di menta e il modo di fare un po' sulla difensiva comune a tutti quelli che hanno paura della polizia. Si chiama Piero Deserti e ci accoglie di persona sulla soglia del locale. Sono le tre del pomeriggio e c'è un solo cliente. Un ragazzo sui diciassette anni, con la faccia demolita dall'acne e una camicia a scacchi che occupa un computer nell'angolo della sala, con l'aria di chi sta sbirciando con avidità una sterminata distesa di tette e di culi più o meno in attività. Ci riceve in una specie di studio nel retro del locale. La stanza, probabilmente interamente fornita dall'Ikea, è bianca e pulita e sa di nuovo. «Le dispiace se fumo?» mi chiede Deserti e a un mio gesto affermativo si accende una Camel tirandola fuori da un pacchetto nuovo. «Il motivo della vostra visita?» «Stiamo cercando di rintracciare un suo cliente» spiega Ippoliti; tira fuori l'identikit di Anselmi e lo porge al gestore. Deserti lo squadra con attenzione, poi lo restituisce scuotendo la testa. «No, non mi dice niente.» Si tocca il cranio rasato di fresco. «Probabilmente se avessi i capelli potrei essere io.» Ha ragione. Potrebbe essere anche lui. Sospetto di tutti, ma non voglio che se ne accorga. Così, comincio con una domanda banale. «Ha notato qualcosa di strano in questi giorni?» Mi guarda senza capire. «Strano in che senso?» «Strano in tutti i sensi. Persone troppo rumorose o troppo silenziose. Clienti nuovi. Qualsiasi cosa abbia catturato la sua attenzione.» Adesso ride. «Non mi consideri scortese, commissario. Qui dentro si vede di tutto. Stranieri che vengono a spedire una mail a casa e a vedere se qualcuno gli ha scritto, gruppi di giovani che si fanno una birra e un panino e intanto giocano online, ragazzini tipo quello che vede là fuori.» «Quello che sbircia le tette?» Ride di nuovo, come se gli avessi rubato la battuta. «Esatto. È puntuale come un orologio. Viene qui all'apertura un giorno sì e uno no. Si fa la sua ora di porno e poi se ne va. Mai uno schiamazzo o un tentativo di disturbo. Mai niente di niente. Questo posto è un po' come Internet. Ci trovi di tutto.» «Tenete un registro delle connessioni e di chi le richiede, immagino.» «Chiaro. Di fatto lo facciamo più che altro per voi. Sappiamo benissimo che qui dentro può venire chiunque. Se qualcuno usa le nostre risorse per compiere un reato noi dobbiamo avere le spalle coperte, commissario.» «E chiaramente avete anche un elenco dei siti che vengono visitati du-
rante le connessioni.» «Sì, abbiamo un file di log che elenca tutte le pagine web visualizzate dai nostri visitatori suddivisi per macchine. Se lei sa a che ora il suo uomo è passato di qua le posso dire tutte le attività che ha svolto, quale macchina ha usato e come si chiamava.» Guardo Ippoliti. Mi allunga un foglio con i dati sulla mail che ci ha fornito Vittorio. «Abbiamo l'indirizzo IP della macchina. L'orario dovrebbe essere intorno alle venti, a giudicare dalla spedizione.» «Posso vedere?» Ci penso un secondo poi gli allungo i dati. Deserti clicca un paio di volte sul mouse poi sposta il monitor del pc che ha sulla scrivania in modo che anche noi possiamo vedere. Sul video c'è una tabella divisa in tre colonne. La prima colonna comincia con un quadratino verde e prosegue riempiendosi di quadratini rossi. Sulla seconda colonna c'è una fila di numeri divisi da un punto in gruppi di quattro. La terza colonna è vuota tranne nella riga che comincia col quadratino verde dove c'è scritto Michele Socci, chiaramente il nome del ragazzo arrapato a giorni alterni. «Come potete vedere,» spiega Deserti «in questo momento c'è un solo computer attivo. Quello che avete visto entrando. La macchina che state cercando è questa.» Sposta la freccetta del mouse su un punto a metà della tabella, nella colonna dei numeri. L'indirizzo IP corrisponde. Clicca due volte sul gruppo di numeri e si apre una nuova schermata. In cima c'è l'indirizzo del computer e sotto due campi vuoti per inserire ora e giorno. Deserti sbircia sul foglio che gli ho dato e inserisce i dati. Dopo un paio di secondi appare una nuova schermata divisa in quattro colonne. «A quanto pare il vostro uomo non aveva molto da fare. Prima ha guardato "La gazzetta dello sport" online, poi un sito di aste e alla fine è entrato nella webmail di libero. La webmail...» «...è il portale che serve a spedire le mail senza usare un programma di posta elettronica.» «Direi che non c'è molto altro. Su libero è rimasto una ventina di minuti. Cosa abbia fatto lì dentro purtroppo non glielo so dire. Forse guardato la posta e scritto a qualcuno. Almeno a giudicare dal foglio che mi avete dato. Sulla connessione non c'è altro.» «E sull'identità?» chiede Ippoliti. Deserti chiude il programma che monitorizza le connessioni e ne apre un altro, dalla barra delle applicazioni di Windows.
La schermata che appare è del tutto simile a quella che ha compilato prima. Tranne che occorre immettere un nome, una data e un'ora. Guardo i movimenti del mouse sullo schermo e vedo la maschera riempirsi. Dopo pochi istanti si materializzano i dettagli dell'utente LOG3. Ippoliti mi guarda e io rido d'isteria. «Controllate un documento per compilare questa scheda, vero?» chiede Ippoliti. Deserti è sbalordito quanto noi. «Sì. Federica, la ragazza che sta alla cassa è molto scrupolosa in questo. Non so... davvero come possa...» Lui non lo sa, ma io sì. Così lo tolgo dall'evidente imbarazzo. «Non si preoccupi. Non credo che sia stato un errore. Posso avere una stampa di questa scheda e anche di quella delle connessioni?» Adesso ha un sorriso differente. Quello dell'allievo che cerca di tenere buono un professore a cui non sa rispondere e che pensava lo cacciasse. «Certamente» dice e poco dopo mi consegna i due fogli. «È pazzesco» dice Ippoliti e ha ragione. Quel bastardo ha usato il mio nome. Nove Bologna, Ospedale Sant'Orsola. Sedici e trenta Il dottor Donato Aiuti entra nella guardiola della rianimazione e controlla i turni delle guardie. Sono le quattro e mezza del pomeriggio e tutto quello che vorrebbe fare è andare a casa, farsi una doccia e mettersi sul divano a coccolare il suo gatto con un bel film alla televisione. Quel giorno, per quanto lo riguarda, potrebbe tranquillamente finire lì. Invece manca ancora il giro del pomeriggio e il professor De Vitis gli ha chiaramente fatto capire che gli deve parlare. A suo comodo, naturalmente. «Una vita da cani, Malvezzi» dice alla collega che è appena entrata nella stanza. Lei sorride, con una smorfia, senza nemmeno guardarlo in faccia. «Qualcosa non va?» chiede. Lei si siede sul tavolo e lo guarda. Non è bello Donato, ma ha qualcosa che non riesce a intercettare, qualcosa che si nasconde dietro la sua tranquillità, il suo essere sempre gentile e disponibile con tutti. Per un attimo si affaccia nella sua testa la curiosità di sapere come deve essere a letto, un pensiero che le strappa un sorriso di cui lui probabilmente non si accorge nemmeno.
«Stavo pensando...» tenta di cominciare. «Stavi pensando a...» la incoraggia lui e le si siede accanto, sul bordo del tavolo. «Alice Mantovani.» «La paziente dell'uno?» «Proprio quella.» «E cosa stavi pensando, se posso chiedertelo?» «Per te va tutto bene?» «Oddio, considerando lo stato in cui è, dire che "va tutto bene" mi sembra un po' eccessivo.» «Intendevo un'altra cosa.» «Allora spiegati meglio.» «Mi chiedevo se la sua condizione è compatibile con l'evoluzione del suo stato.» «Stai pensando a qualcosa di particolare?» «Forse sì.» «Dovrei controllare personalmente. È Salvi che si occupa di lei, lo sai.» «Sì, lo so che è una paziente di Salvi. So tutto della faccenda di sua figlia e di quel poliziotto... poveretto... Però mi chiedevo... senti, tu sei sempre così gentile. Potresti dare un'occhiata? Così, solo per dirmi se sono diventata paranoica o se invece...» «Non credo che sia stato trascurato niente, Anna.» «Solo un'occhiata, Donato. Per favore.» Lui la guarda un secondo e sospira. «Andiamo, dai» dice alla fine. Un paio di minuti dopo Aiuti sta controllando la cartella clinica. «Vedi?» gli dice la Malvezzi. «Non ti sembra che...» Aiuti chiude la cartella. «La possibilità in effetti c'è. Solo che l'unico modo sarebbe che qualcuno...» «Ho chiesto a Cinti di farle un'emocultura» lo interrompe. «Che cosa hai fatto?» «È un mio amico» si difende lei. «Gli ho chiesto un favore personale. Niente di più.» Aiuti la guarda. «Spero che tu non l'abbia detto a Salvi.» «Non l'ho detto a nessuno, Donato.» Lui le prende le mani. «Mi raccomando, Anna.» «Mi aiuterai?» Donato Aiuti sorride. «Ci puoi contare» dice.
«Carta d'identità numero AC7851453...» comincia Ippoliti, leggendo sul foglio di registrazione che ci ha dato Deserti. Poi sposta lo sguardo sul monitor del pc del mio ufficio. «...corrispondente a Guido Anselmi, nato a Bari, eccetera eccetera.» «Ha usato la carta d'identità di Anselmi, per costruire quella con le mie generalità» spiego e in fondo non è nemmeno un'idea troppo originale. Basta fare regolare denuncia di smarrimento e andare all'anagrafe con una delega del richiedente. Tutto qui. E ti ritrovi con due carte d'identità perfettamente identiche. A quel punto il gioco è quasi fatto. Apro il fascicolo e tiro fuori i documenti su Anselmi. Guardo la foto, il sorriso schietto di un anziano senza nessuno al mondo. «Ti sei chiesto perché abbia scelto Guido Anselmi?» Ippoliti mi guarda. «In che senso?» «Nel senso che non credo lo abbia scelto per caso.» «Credi che lo conoscesse?» Chiudo il fascicolo. «Se c'è una cosa che ho capito di questo tizio è che è uno meticoloso. Uno preciso. Niente succede per caso. E se pensiamo che davvero il nostro uomo sia questo scienziato, allora tutta la sua vita è una sfida che richiede precisione. Per rispondere alla tua domanda: non credo che lo abbia scelto per caso.» «Forse hai ragione. Però come colleghiamo Anselmi al nostro uomo?» «È questo il problema. Bisognerebbe ricostruire tutta la vita di Anselmi, sia a Bari che qui. La vita degli ultimi vent'anni. E non abbiamo tutto questo tempo.» «E qui a Bologna nessuno lo ha mai visto?» «Di questo non sarei sicuro.» «Cosa vuoi dire?» «Che secondo me Anselmi a Bologna c'è venuto per un motivo. Il vero Anselmi, intendo. E poi per lo stesso motivo c'è rimasto e si è trasferito. Non aveva più legami, non aveva parenti né una moglie o una donna. Niente.» «E per quale motivo un uomo di settant'anni dovrebbe trasferirsi da Bari a Bologna?» Ippoliti mi guarda e mi accorgo fissandolo che abbiamo avuto la stessa idea. «Un ospedale» dice precedendomi. Sorrido. «Magari ha avuto un incidente e lo hanno ricoverato qui. Magari era al mare in riviera e si è rotto una gamba o ha avuto un infarto o chissà cosa. Forse una clinica specializzata.»
«Vale la pena controllare» dice ed esce in fretta dal mio ufficio. Nel mettere a posto il fascicolo di Anselmi lo sguardo mi cade sulle foto dei vestiti che Gaspare Nunia ha ricevuto poco prima di evadere. Li guardo senza notare niente di strano, ma sono sicuro che in un modo o nell'altro è grazie a quei vestiti che lui è evaso di prigione. Bologna, 29 aprile. Mattina La grande casa è in silenzio. Era sempre in silenzio quando aveva dodici anni. E anche prima. Guarda le finestre del secondo piano, oltre la terrazza e le tende chiuse e cerca di immaginare cosa sta facendo sua mamma. Oltre a cercare di non morire. Ha la tentazione di salire e guardarla, ma papà non vuole che lo faccia e forse alla fine nemmeno lui vuole davvero vederla com'è adesso, sapere com'è il suo viso oggi. Preferisce ricordarlo com'era un mese fa, quando l'ha vista salire le scale tenuta per braccio dal babbo e dall'Ada, la cameriera. Tentava di sorridere e guardava mentre i suoi piedi cercavano di non inciampare sugli scalini e il suo corpo frusciava nella vestaglia azzurra di seta che indossava sempre quell'estate. Poi la porta si era chiusa e Annarita Angeli non era più uscita da quella camera. Per mesi, anche oltre il giorno che sta sognando, aveva sentito solo urla e singhiozzi e lamenti uscire dalla porta chiusa a chiave. Poi tutto era terminato all'improvviso. E alla fine, un mattino d'inverno, suo padre era entrato in camera sua e aveva appoggiato la mano sul suo viso. «Dormi?» aveva chiesto. «No.» Aveva sorriso suo padre, un sorriso così simile a quello che aveva lei salendo le scale. «La mamma è morta» aveva detto, e dopo un'altra carezza se n'era andato. Anni dopo, vedendosi allo specchio mentre stava dicendo la stessa cosa alla figlia di una paziente, aveva pensato di avere lo stesso sorriso. Quello di suo padre quella mattina d'inverno, quello di sua madre in quel pomeriggio d'estate. Adesso però, nel sogno, la mamma è ancora viva. È malata, malata ormai da quando lui è troppo piccolo per ricordare. Ma è viva, respira. Sente la coda del gatto che gli si arrotola a una caviglia. Sorride. «Ciao Sansone.» Lo prende in braccio e comincia a camminare per il prato, verso il bo-
schetto che degrada a terrazzo su Bologna. Di sera, in estate, si siede sull'erba e guarda le luci della città e cerca di immaginare cosa siano, dove portino, cosa succeda là in fondo. Se ci siano bambini che giocano e che ridono. Se ci sia qualcuno. Lì, in quella casa, c'è solo silenzio. Tranne per Pietro. «Come sta Sansone?» Lo vede arrivare, Pietro. È lungo e sottile come le canne che ha visto con suo padre alla foce del Po. E come quelle canne sembra fragile e sempre sul punto di spezzarsi. E invece ha delle mani dure e forti, piene di calli, agili e veloci. «Sta bene. Vero che stai bene, gatto?» Sansone alza il muso e miagola. Poi cerca di divincolarsi dall'abbraccio e si tuffa sull'erba, atterrando morbido malgrado la massa enorme. Pietro sorride e lo accarezza. Poi intercetta uno sguardo diretto verso la terrazza del secondo piano. «Ti manca, vero?» «Sì. Mi manca.» «La vorresti vedere?» Ci pensa e nel sogno gli sembra di sentire le stesse voci che sentiva in testa quel giorno. La prima volta che Pietro glielo ha chiesto. Voci che dicevano quello che suo padre gli aveva detto di fare, voci che raccontavano della voglia di vedere la mamma e di sentire il profumo della sua pelle. Voci che avevano a che fare con tutte le paure dei bambini e con tutti i desideri del mondo. «Sì» aveva detto alla fine, e allora non sapeva cosa significasse quella risposta. Molto tempo dopo, quando era tornato in quella casa, si era chiesto davvero se quel sì avesse cambiato la sua vita o se sarebbe comunque diventato quello che poi era diventato. E l'unica risposta che aveva saputo darsi era che alla fine tutti diventiamo quello che siamo. Che prima o poi scopriamo quello che ci piace davvero fare. Lui lo aveva fatto quel giorno. Quando Pietro per la prima volta gli aveva mostrato come si apre una porta chiusa a chiave. Lo aveva scoperto vedendo sua madre dormire sopraffatta dai farmaci, la pelle giallastra e le mani troppo magre, le braccia piene di lividi. Sentendo l'odore di quella stanza e il respiro che non usciva, ma sembrava sobbalzare da quel petto. Lo aveva scoperto così quello che si trova dietro a una porta chiusa a chiave e aveva capito che spesso le porte chiuse a chiave nascondono cose che è meglio non vedere, ma che non puoi fare a meno di vedere. Cose come
quella in cui si era trasformata sua madre e che Pietro gli aveva mostrato semplicemente muovendo un pezzo di ferro nella serratura. «Come hai fatto?» aveva chiesto una volta sceso a respirare di nuovo l'estate della collina bolognese. Pietro lo aveva guardato dall'alto in basso, chiedendosi se era una cosa buona spiegare a quel bambino segreti che forse era meglio non insegnare a nessuno. Poi si era ricordato dello sguardo che gli aveva visto sul viso dentro la stanza di sua madre e gli era sembrato assurdo che suo padre non gli permettesse di vedere quello che stava succedendo. In fondo la morte e il dolore facevano parte della vita. E così glielo aveva spiegato. Tre mesi dopo, mentre spaccava la legna per il camino, se lo era trovato accanto, con Sansone in braccio senza nemmeno sentirlo arrivare. «So come fare a curarla» gli aveva detto e per la prima volta Pietro aveva capito cosa fosse quella strana sensazione che da circa un mese provava quando vedeva quel bambino. Gli faceva paura. Era una paura strana, del tutto simile a quella che aveva provato in carcere guardando un tizio che era lì dentro per avere ammazzato la moglie e il suo amante. Sembrava un buon cristiano, ma in fondo agli occhi, certe volte, potevi vedere una strana luce. Come se pensasse cose che gli altri non avrebbero mai potuto immaginare. Cose buie. Ecco, il bambino aveva quella stessa luce quel giorno d'inverno. E quando due giorni dopo il dottore era venuto a dirgli che la signora era morta, Pietro aveva saputo subito cos'era successo. Lui lo aveva sempre saputo che Pietro sapeva. Nella vita reale e quando faceva quel sogno in cui lui era bambino e Pietro un uomo, quel giorno d'estate che aveva capito per la prima volta cosa avrebbe voluto fare. Sapeva che sarebbe diventato un medico. Come suo padre e come suo nonno. E di solito quel sogno continuava con la laurea e con la prima volta in cui aveva iniziato il suo vero lavoro, quello che voleva davvero fare. Ma non in questo sogno. Questa volta si sveglia prima, con un peso sulle gambe che per un attimo non riesce a capire e che poi scopre essere l'enorme sagoma di Sansone che gli cammina addosso. «Sognavo tuo papà, micio» gli dice con gli occhi ancora socchiusi. «E anche il mio.» Si aspetta che Sansone dica qualcosa, che risponda come capita sempre ogni volta che gli parla e fa il suo nome, ma non succede nulla. Il gatto si
ferma all'altezza dei suoi fianchi. Si tira su con i gomiti e alla fine apre gli occhi. Sansone è scivolato sulla coperta, ma è sempre fermo, immobile e quando la vista lo mette finalmente a fuoco scopre che ha un grosso topolino di campagna stretto nelle fauci e uno sguardo di sfida e di soddisfazione negli occhi gialli. Il topolino è ancora vivo, malgrado la stretta che lo blocca. Apre gli occhi e tenta di muovere il muso che penzola dalla bocca aperta di Sansone, squittendo piano come uno di quei giochi per bambini che si usavano tanti anni fa. «Bravo micione» dice e lo accarezza fra le orecchie. E allora Sansone stringe la bocca e si sente lo scrocchio sottile della spina dorsale del topo che si spezza. Poi, mentre il padrone di casa si muove in direzione della doccia, il gatto scende dal letto, si apparta nella sua cuccia e rumorosamente inizia a mangiare. Sotto l'acqua, con il tepore del letto che scivola via insieme al bagnoschiuma, l'uomo pensa a quello che sta per fare e ripassa mentalmente tutte le tappe del piano che ha dovuto improvvisare. «Ti faccio sapere» gli dice l'uomo e senza aspettare una risposta, se ne va da dove è venuto. Il Muto lo vede sparire in via delle Moline poi si volta verso via Oberdan, con l'idea di fare quattro passi fino a piazza Maggiore. Bologna gli mette calma. Forse perché è un posto come lui, qualcuno che si fa i cazzi di tutti senza che nessuno lo capisca. Ha imparato da piccolo ad ascoltare e a stare zitto. Con suo padre c'era poco da scherzare. Parla solo quando sei interrogato, gli diceva, e col tempo aveva finito per stare sempre zitto, visto che non lo interrogavano mai. A sua madre quella storia faceva male, ma probabilmente era troppo occupata a scappare dalle botte di suo marito piuttosto che preoccuparsi del figlio piccolo. E così appena aveva potuto Luigi Pastoso era andato via da casa ed era diventato per tutti il Muto, pubblicamente, non più solo nelle mura domestiche. Stare in silenzio gli piace. «Tu non parli mai?» gli ha chiesto il tizio che se n'è appena andato e lui lo ha guardato, si è abbassato gli occhiali da sole e ha sorriso. «Solo quando ho qualcosa da dire» ha spiegato. «E la prossima volta che ci vediamo spero che tu abbia qualcosa di importante da dire
a me.» Il tizio che aveva detto di poter sapere dove la polizia ha nascosto zio Giulio, ha ascoltato l'accento siciliano scivolargli addosso e ha pensato che ogni volta avere a che fare con la mafia è la stessa cosa. Sono affidabili, pagano puntualmente e sempre la cifra che hanno promesso. Ma fanno paura. Perché sanno sempre quello che vogliono e non gradiscono quando non riescono a ottenerlo. «Farò quello che posso» gli ha risposto, e le due esse del verbo sono uscite più sibilanti del solito. Il Muto ha sistemato gli occhiali da sole sul naso e ha annuito. Ma lentamente, inclinando appena la testa verso sinistra. Poi l'uomo se n'è andato e adesso lui risale lentamente via Oberdan gustandosi la gente che passa e che sembra sempre sapere dove andare, avere una meta da raggiungere in fretta, come se il tempo stesse per scadere. Lui invece è uno che cammina piano e pensa molto. Il silenzio fa funzionare le persone un po' come un ingranaggio. Resta tutto dentro e si incastra, una ruota sull'altra, un pensiero sull'altro. E sta pensando, il Muto, mentre attraversa via Rizzoli verso le stradine del mercato. A come Gaspare ha ucciso quello slavo e come tutto possa sempre cambiare per colpa di qualcuno che non è capace di tenere la lingua al suo posto. Sta pensando che una volta, quando lui era un ragazzino, tutto era più semplice. Sta pensando che in questa città ci sono sempre delle belle fighe, e che il giorno in cui vedrà le mani di Gaspare sporche del sangue di zio Giulio sarà un bel giorno per berci finalmente sopra un biccchiere di vino, alla salute di tutte le persone che sono morte per arrivare a quel sangue. Sta pensando e forse è proprio il rumore dei suoi pensieri che non gli fa sentire la macchina. Pensieri che si spengono in un clacson che suona, nei freni che sibilano, in una donna che urla, in Luigi Pastoso detto il Muto che rimbalza sul cofano di una Fiesta nera e da lì sul selciato di sanpietrini, dove picchia la testa e si ferma, gli occhi spalancati a guardare il mondo da una strana inquadratura. «Chiamate una barella, forza!» grida una donna con un paio di stivali a punta. Ed è l'ultima voce che il Muto sente prima di svenire. Il telefono suona mentre Donatella Rizzo rimette nella borsetta il portafogli. Ha appena pagato alla cassa e ha ancora in mano il sacchetto della spesa che sembra scoppiare.
Lo appoggia dentro al carrello ed evita per un pelo di essere investita da una promoter che pattina senza guardare, in mezzo a una delle stradine dell'ipermercato. La ragazza le lascia un sorriso plastificato di scusa senza nemmeno una parola e Donatella risponde alla cieca alla telefonata prima che la suoneria la faccia impazzire. «Pronto» dice seccata. Poi l'espressione sul suo viso cambia. Sposta rapida il carrello per togliersi dalla bolgia della fila in uscita dalla cassa e cerca di sentire quello che Gabriele Riccardi le sta dicendo. «Sì, va bene. A che ora?» Guarda l'orologio. «Dovrei farcela. Solo il tempo di arrivare lì.» Riaggancia e il suo sguardo si appoggia su una donna dai capelli rossi rotonda come una mongolfiera che tenta di spingere verso le scale mobili un carrello riempito da una quantità smisurata di sacchetti. La fissa senza vederla pensando al tono di voce di Gabriele. Devo chiederle una cosa su Teresa. Quella frase le rimbalza in testa come il puntino bianco di un videogame che faceva con sua figlia quando era piccola. Le sembra di ricordare che si chiamasse pong. Devo chiederle una cosa su Teresa. Doveva immaginare che Gabriele Riccardi avrebbe cominciato a farsi delle domande. E che avrebbe finito per farle a lei. Spingendo il carrello verso il parcheggio, Donatella Rizzo non sente i rumori che le stanno intorno. Solo i suoi pensieri che cercano una possibile risposta a una domanda che avrebbe desiderato non sentirsi fare mai. Quando si rende conto che è ora di tornare a casa Anna Malvezzi sente addosso tutta la stanchezza della fine del turno. Si toglie il camice e si incammina per il corridoio della rianimazione. Non ha voglia di niente, solo del suo letto, di un cuscino morbido sotto la testa e di chiudere le finestre sul mondo per una dozzina d'ore. Passando davanti al vetro, l'immagine di Alice sdraiata sul letto le sfiora la vista, senza lasciare traccia nei suoi pensieri. Arrivata davanti all'ascensore preme il pulsante e fissa la traccia luminosa che le indica la salita della cabina. Solo cinque piani. Cinque piccoli piani e potrà uscire da lì. Poi lo sguardo le cade sul finestrone che dà sul cortile. E quando si accorge che piove si rende conto di non aver preso la giacca. «Uffa» sibila, tornando sui suoi passi.
Quando si muove la cabina è appena arrivata al piano. Infila una mano in tasca e sente il sacchetto delle caramelle. Ci passa un dito come faceva da bambino, quando suo padre arrivava a casa con le Rossana, quelle della Perugina color rubino e a lui piaceva sentire il fruscio degli incarti contro la pelle. Controlla l'ora e si infila in reparto. È in perfetto orario e in quel momento la persona che sta cercando dovrebbe essere ferma davanti alla cabina dell'ascensore, pronta per tornare a casa. Solo che non c'è. Confronta il suo orologio da polso con quello che sta attaccato al muro, proprio sopra l'ascensore. La stessa ora, precisa al minuto. Sta quasi per cominciare a pensare a un piano di riserva quando si sente chiamare. Voltandosi all'indietro vede la dottoressa Malvezzi che viene verso di lui, la giacca in mano. «Cosa fai, non mi saluti?» gli chiede. «No, scusa» risponde immediatamente. «È che ero perso nei miei pensieri.» «Una donna?» Sorride, uno di quei sorrisi che gli illuminano il viso. «Chiaramente.» «Cosa fai, scendi? Non dovresti essere di turno?» chiede lei premendo di nuovo il pulsante dell'ascensore. La cabina è già al piano e la porta si apre subito. «Ho dimenticato il cellulare in macchina.» «Te l'ho detto, devi pensare meno alle donne.» Poi Anna Malvezzi entra nella cabina dell'ascensore e lui dietro di lei. Quando la porta si chiude restano soli. «Senti, ma tu non sei quella golosa di caramelle di zucchero?» «Sì, perché?» Sorride di nuovo. «Guarda cosa ho appena comprato» sussurra e tira fuori di tasca il regalo che ha preparato per lei. Scartando la caramella le sembra che qualcuno, oltre la porta chiusa dell'ascensore, la stia chiamando. Ma è troppo stanca anche solo per pensare a chi potrebbe essere. «Anna» chiama, ma la porta dell'ascensore si è già chiusa. Probabilmente non si è nemmeno accorta di lui. Prova a chiamarla al cellulare, ma la linea non prende. Allora si volta di nuovo verso il corridoio ed entra in guardiola. «Quando rimonta la dottoressa Malvezzi?» chiede all'infermie-
ra. «Domattina, dottore. Deve lasciarmi qualcosa?» Il dottor Alessio Cinti guarda la busta che ha in mano con l'emocultura di Alice Mantovani, pensa a quello che ha scritto nel referto e alle parole che la Malvezzi gli ha detto al telefono. Poi guarda l'infermiera. «No, niente. Ripasso domani» risponde. Stringe la busta più forte fra le mani, si guarda intorno ed esce dal reparto. «Commozione cerebrale» dice qualcuno e il Muto si sveglia. Con gli occhi ancora chiusi sente l'odore di disinfettante e un bambino che piange, in lontananza. Poi qualcuno chiede qualcosa a proposito di un nome e si accorge che sentire parlare gli fa male alla testa. A quel punto apre gli occhi. «Come si sente?» gli chiede una donna giovane, con un camice bianco. Lui non risponde. Si guarda intorno e vede un paravento e una stanza bianca con una luce al neon che gli sembra troppo forte, ma che sa benissimo che è normale. «Non si preoccupi, va tutto bene» dice la donna, e il Muto si accorge che ha uno stetoscopio che le spunta dal taschino del camice e due belle tette che spingono sotto la maglietta di cotone. «Sto bene» sussurra. «Sì sta bene. Solo, non sappiamo come si chiama. È arrivato qui senza documenti. Forse li ha persi quando ha avuto l'incidente.» Incidente, pensa il Muto. Ho avuto un incidente, puttanatroia. E non mi ricordo un cazzo. Solo che stavo camminando e che sono caduto. «Mi dice il suo nome?» chiede la donna mentre gli misura la pressione. Il Muto gira la testa verso la mano del medico che armeggia sul suo braccio. «Luigi» dice. «Luigi e poi? La sua pressione è a posto. Solo una brutta botta alle costole.» Le costole. Ecco che cos'è che sente sulla schiena. All'inizio, appena sveglio, pensava fosse qualcosa nel materasso, una molla rotta che lo pungeva ogni volta che respirava. Adesso ha capito. Le costole. «Luigi» ripete, ma solo per guadagnare tempo. «Sì, Luigi. Luigi e poi?» Il Muto la guarda. «Silenziosi» risponde e dentro di sé sente scoppiare una risata.
«Va bene signor Silenziosi. Deve riposare. Adesso la portiamo in reparto e domani la mandiamo a casa.» Domani, pensa. Domani è maledettamente tardi. Adesso devo andare a casa. Tenta di muovere un braccio, ma una fitta di dolore gli apre a metà la schiena, fino a sotto la scapola. Allora appoggia la testa al cuscino e chiude gli occhi. Sente una siringa forargli il braccio, poi tutto scivola in uno strano buio che gli circonda il corpo e i pensieri. Poco prima di addormentarsi sente una voce, in lontananza, ma la scambia per un sogno. O l'inizio di un incubo. «Che lei sappia c'era qualcuno che si interessava a Teresa prima che conoscesse Gaspare?» È quella la domanda di Gabriele e, per un attimo dopo averla sentita, Donatella Rizzo è rimasta in silenzio, cercando di nascondere la sorpresa. Perché la domanda che si aspettava, invece, era decisamente un'altra. «Un uomo, più che un ragazzo. Uno di cui lei le aveva parlato» aveva spiegato Gabriele. «No» aveva risposto lei e adesso che ci pensa è convinta di averlo fatto con un tono che lasciasse intendere qualcosa. Come se la sua voce avesse aggiunto un "ma" a quella frase, senza pronunciarlo. Gabriele però non se n'è accorto. O ha fatto finta di niente. Adesso, mentre prepara la cena e suo marito seduto in poltrona legge il giornale, Donatella pensa che tutto, ma veramente tutto, è finito con la morte di Teresa, con quello sparo nel buio. L'angoscia che sente dentro, invece, ha cominciato a fiorire per caso, come succede sempre. Era un giorno di sole, proprio come oggi, solo più freddo. Pensa allo sguardo che le aveva lanciato Teresa allora, quando l'aveva vista stringersi nelle spalle, come per un brivido. Pensa a quel "non è niente" che le aveva sussurrato con un sorriso mentre, sdraiata in barella, la portavano via. E ricorda quegli occhi che aveva incrociato per caso nel corridoio del pronto soccorso. Il modo in cui avevano guardato prima lei e poi sua figlia. Appoggiandosi senza dire niente sul profilo di Teresa e sulla bocca di sua madre. E al sorriso. Forse era stato il sorriso a farle capire quello che era successo. Quel sorriso lo conosceva anche troppo bene e oggi, quando è andata da Gabriele Riccardi, pensava che le avrebbe chiesto qualcosa di quel sorriso
riemerso da un passato che credeva di non conoscere nemmeno più. Perché anche adesso, mentre controlla il condimento per gli spaghetti e il vapore della pentola con l'acqua che quasi bolle le sfiora la fronte riscaldandola, non capisce come possa c'entrare quel giorno in ospedale con Gaspare Nunia. Quel sorriso dal passato con sua figlia distesa per terra in una notte di pioggia. Non capisce, però l'istinto le dice che invece è tutto legato e che quegli occhi che non avrebbe mai immaginato di vedere hanno scoperchiato un baule di cui anche il colpo di pistola di Gabriele ha finito per far parte. E non sa perché ha così paura di dire a Gabriele quello che invece sente di dover dire. «È pronto» dice scolando la pasta e sente i passi di suo marito che dal salotto si avviano alla cucina. La televisione che si spegne, il giornale che cade sul tavolo, la vita di tutti i giorni. Annega in un angolo dell'occhio una lacrima e tenta di sorridere mentre prepara i piatti. Sedendosi a tavola senza dire una parola si accorge di avere paura come mai le è capitato in vita sua. Quando il Muto si sveglia è buio e qualcuno sta piangendo, in lontananza. La stanza è in penombra, illuminata solo dalla luce che arriva dal corridoio attraverso la porta aperta. Ci mette un po' a mettere a fuoco, ma quando la realtà torna nitida si accorge che il dolore alle costole è molto diminuito e che il bisogno di chiudere gli occhi è completamente scomparso. Si guarda intorno senza sollevare la schiena dal materasso. A quello penserà dopo, con calma. Nella stanza ci sono sei letti. Quattro sono occupati. Accanto al suo dorme un uomo anziano, inagrissimo nel suo pigiama azzurro. Ha la bocca aperta e una benda sporca di sangue sopra l'occhio sinistro. Di fronte a lui c'è un ragazzo. Lo sente girarsi nelle coperte e sa che è giovane perché lo è la voce con cui si lamenta ogni volta che cambia posizione. Di fronte al vecchio che russa c'è un tizio immobile, un braccio ingessato, attaccato a un gancio da trazione. I due letti più vicini alla porta sono vuoti. Respira e ascolta il corridoio. Adesso il pianto è sparito. Si sente il passo regolare e frettoloso di un'infermiera. È riuscito a intravederla l'ultima volta che è passata. Piccola, rotondetta, disinteressata a
quanto succede nella stanza. Dal lato della finestra ogni tanto arriva il suono dell'ambulanza e, più lontano, il traffico che passa lento sui viali. Cerca di sollevarsi e inarca la schiena, aiutandosi con i gomiti e le mani, e si accorge della flebo. La guarda per un momento, cercando di capire se esiste un sistema facile e indolore per sfilarsela dal braccio. Poi decide che la soluzione è una sola. Prende il lenzuolo e lo morde per non lasciarsi sfuggire un gemito che potrebbe svegliare i suoi vicini di letto. Con la mano sinistra impugna la cannula, conta fino a cinque e la sfila con un gesto deciso, tagliando con un morso il sottile cotone del lenzuolo. Stringe gli occhi e si fa scappare un lacrima di bruciore. Poi si concentra di nuovo e sposta le spalle, cercando di capire se le sue costole hanno intenzione di mettersi a urlare. Il dolore arriva, ma molto attutito. Si chiede per quanto tempo durerà ancora l'effetto dell'anestetico, poi punta i gomiti sul materasso e spinge. Questa volta il dolore arriva più forte e gli strappa uno sbuffo grosso e rumoroso che attenua il russare grasso del vecchio. Resta fermo e controlla la situazione. Ma non succede nulla. Allora con un secondo sforzo riesce a rialzarsi in piedi. La testa gli gira e si appoggia al muro per non cadere, ma dura poco. Mentre sta per aprire uno degli armadietti cercando i suoi vestiti, sente il passo militaresco dell'infermiera. Si appoggia al muro per non farsi vedere e quando la sente allontanarsi recupera i suoi vestiti. Poi si toglie la benda che gli hanno messo sulla parte sinistra della testa e la lascia cadere a terra. Uscire dall'ospedale è la cosa più semplice. Segue il lungo corridoio e si infila per le scale. Incrocia un paio di medici che salgono nella direzione opposta e un'infermiera che lo guarda sospettosa e a cui risponde con un sorriso bonario, uno di quelli che ha preso da sua madre. Poi sul pianerottolo del primo piano, si ferma. Non è sicuro di aver sentito bene e allora resta immobile, come gli ha insegnato Gaspare tanti anni prima. Isola tutto il resto e quando sente di nuovo, un brivido gli attraversa la schiena e rimbalza sulle pareti della sua testa malandata come un colpo di batteria. «Ti perdono, per stavolta» ha detto la voce ed era vicina, perché la risata di donna che è venuta dopo era così facile da sentire che allungando una mano oltre l'angolo della porta avrebbe potuto strapparla via dal volto di chi la stava pronunciando. Ha già sentito quel sussurro. Lo ha sentito una volta sola, ma gli è bastato. Appoggiato al muro del pianerottolo ascolta i loro passi che si allonta-
nano, fianco a fianco, lungo il corridoio. Quando sono abbastanza distanti si sporge a guardare e tutto quello che vede è una ragazza bionda, con i capelli a metà schiena e due belle gambe insieme a un uomo. L'uomo è di altezza media e ha i capelli scuri, forse neri. Cammina con passo regolare. Senza guardare la donna, senza nemmeno muovere la testa per un istante in direzione della voce che gli sta parlando. Un momento prima di infilarsi nell'ascensore, allunga la mano e le accarezza i capelli e il Muto pensa che adesso che lui l'ha toccata quei capelli andrebbero lavati. Ma non alla fine del turno. Subito. Quando l'ascensore si chiude Luigi Pastoso ricomincia a scendere le scale. Uscendo dal padiglione sente all'improvviso tutto il fresco della sera che gli accarezza la faccia. Il profumo degli alberi ancora umidi di pioggia lava via l'odore di disinfettante dell'ospedale. Sta per uscire attraverso l'arco e trovare un sistema per tornare a casa quando vede il commissario Gabriele Riccardi infilare la porta della rianimazione a non più di venti metri da lui. E allora il Muto pensa che in fondo è ancora presto per andarsene. Bologna, 30 aprile. Dieci e trentacinque Quando rientro dalle mie chiacchiere col questore trovo la scrivania piena di carta e Ippoliti che mi aspetta appoggiato al davanzale della finestra. «Che cazzo è tutta questa roba?» chiedo e probabilmente il tono è sufficientemente rabbioso perché capisca che il colloquio che ho avuto non è stato gradevole. «Iniziata male la mattina?» mi chiede. «Peggio non si poteva. Quello stronzo si è incazzato perché l'ho avvertito del trasferimento di Giulio solo a cose fatte. Dice che la faccenda di Gaspare si è incasinata con la morte dello slavo. E che vuole risultati.» «E tu?» «Io l'ho lasciato parlare. Mi sono scusato per non averlo avvertito in tempo e ho fatto finta di incassare. Sai quanto me ne frega... Allora, mi dici che cazzo è tutta questa roba?» Mi appoggio alla scrivania. Ci sono due pile di fogli alte come un paio di volumi di enciclopedia. E le solite due buste. Ippoliti sospira e si avvicina. «Quelli,» comincia indicando la montagna di carta «sono tutti i laureati in medicina, in chimica e in farmacia degli ul-
timi dieci anni. Entro oggi dovrebbe essere pronta anche la copia elettronica. In un paio di giorni forse riusciremo a sapere se c'è qualcuno che di queste lauree ne ha due o addirittura tutte e tre. Avendo un po' più di tempo si può vedere quanta di quella gente risiede in regione. Ma temo che sarebbe una faccenda molto lunga.» «Sì, sì. Dubito che servirà a qualcosa. Però sapere che molto probabilmente il nome del nostro uomo è su quella lista mi fa uno strano effetto.» «Il miglior nascondiglio è in mezzo alla folla.» «Niente filosofia, Ippoliti. Per favore. E quelle buste?» «Una è il rapporto della scientifica sul sangue trovato a casa di Alice. Gruppo 0. Bastano quelli che ci sono a Bologna perché il numero sia già troppo alto per servire a qualcosa. Hanno analizzato la stampante, cercato impronte digitali, recuperato l'hard disk di Alice e frugato a caccia di qualcosa.» «E chiaramente non c'è niente.» «Chiaramente. Avevo mandato Cancemi e Battaglia a sentire i vicini. La tizia che abita accanto ad Alice dice di aver sentito la gatta miagolare la mattina in cui poi siamo entrati.» «Le avevo lasciato da mangiare la sera prima, non credo che avesse fame.» «Probabilmente era lui.» «Probabilmente. Sulle prime non gradisce gli estranei.» «A proposito, la gatta sta bene?» «L'ho lasciata stamattina che dormiva sul tavolo della cucina. Ho provato a farla scendere tre volte, ma ci saliva sempre. Alla fine l'ho lasciata lì.» Ippoliti mi guarda e ride. «Ci sono anche delle notizie buone, però.» «La seconda busta?» Ippoliti annuisce mentre la apro. «Guido Anselmi è stato ricoverato a Bologna per due volte, tre anni fa. Al pronto soccorso prima e poi in ortopedia. Sembra che sia caduto per strada e si sia rotto il femore. A distanza di due mesi dall'intervento lo hanno operato di nuovo al femore. Pare per fissare meglio qualcosa. È tutto scritto lì, ammesso che tu ci capisca qualcosa.» Guardo la cartella clinica di Anselmi e il pacco di fogli con migliaia di nomi di laureati in medicina, biologia, chimica, farmacia, e penso che da quelle carte, incrociando quelle informazioni, deve venire fuori il nome di cui ho bisogno. Poi vedo le firme in fondo a quei referti. «E questi chi sono?»
«Uno è il primario di ortopedia. L'altro il medico del pronto soccorso che lo ha accolto. È in pensione. Li ho già sentiti tutti e due. Tu da quale vuoi andare?» «Io mi faccio il primario in pensione e tu quello in attività, ok?» Ippoliti annuisce. Poi si avvicina alla finestra e guarda fuori, verso le due torri. «Che cazzo succede in quell'ospedale?» mi chiede. «Non lo so» rispondo. E penso ad Alice in quel reparto. Il tizio che stiamo cercando potrebbe tranquillamente essere lì dentro. In piedi accanto al letto di Alice, Donato Aiuti pensa. Tiene la cartella della paziente stretta fra le mani e cerca di riassumere in testa le parole che Anna Malvezzi gli ha detto. È tutto in quelle poche frasi e in quei numeri che sta leggendo. Guarda l'orologio. Dà un'ultima sbirciata a quei dati, cerca di mettere ordine ai suoi pensieri ed esce dalla stanza. C'è una cosa che deve assolutamente fare. Prima che sia troppo tardi. Anna Malvezzi, seduta sul pavimento, beve dalla bottiglietta d'acqua che lui le ha portato e lo guarda. Le catene che ha alla caviglia e al collo le fanno male e il pavimento è freddo, sotto i piedi scalzi. Le ha tolto le scarpe, l'orologio, la catenina di sua madre e le calze. Li ha appoggiati su una mensola, sulla parete opposta, in modo che lei possa vederli, ma non prenderli. Fino a lì la catena non le permette di arrivare. La stanza è senza finestre e senza arredamento, tranne un tavolo bianco laccato, la mensola con la sua roba e la gabbia del gatto. Che la guarda ininterrottamente con due enormi occhi gialli, nero come un brutto sogno. Quando si è svegliata sono stati la prima cosa che ha notato. Ogni tanto miagola in modo sinistro e le mostra i denti. «Chi» le chiede lui. Ha sentito la sua voce milioni di volte. L'ha sentita ridere, scherzare e sussurrare, ma non l'ha mai sentita con quel tono. È freddo, distante, una linea retta in un mondo di onde. Come se la realtà fosse lontana e non potesse toccarlo in nessun modo. Come se fosse lui a poterla controllare. «Chi» le ripete e lei non risponde. Beve e continua a guardarsi intorno. Anche la stanza è bianca. Ha sentito da qualche parte che il bianco è un colore che rassicura, che tranquillizza, ma non pensa più che sia vero. Il bianco è il colore di qualcosa che non c'è, qualcosa che manca e che alla
lunga diventa insopportabile. Da qualche altra parte ha letto che una delle torture che gli uomini di Pinochet facevano ai loro oppositori era quella di rinchiuderli per giorni in una stanza senza finestre e senza orologi, con la luce sempre accesa e un bagliore insopportabile che li costringesse a perdere l'alternanza del giorno e della notte e diventare vulnerabili. La luce, quell'insopportabile neon bianco che illumina tutto come un tocco gelato, non è mai stata spenta e sulla porta, proprio di fronte a dove lei è costretta a restare seduta, c'è un enorme orologio da muro, fermo alle dieci e dieci. Nient'altro. Non ci sono rumori, non c'è suono, non c'è niente di niente. Solo quel cazzo di colore che riempie tutto, anche la sua testa. «Chi» ripete lui per la terza volta e Anna scola con un ultimo lungo sorso l'acqua dalla bottiglietta. Poi gli tira addosso la plastica vuota. Lui la prende al volo e sorride. La guarda, come se aspettasse qualcosa. Si siede sullo spigolo del tavolo e incrocia le braccia. Ha addosso ancora il camice. «Che cazzo guardi, stronzo?» Lui non la ascolta. Ride. Si avvicina esattamente al limite che lei può raggiungere con le catene. «Lo sai cosa voglio sapere, Anna» dice e il suono del suo nome detto da lui è maledettamente dolce. Lo è sempre stato. Le è sempre piaciuto. Lei si gratta sul collo. Poi su una guancia. «No che non lo so.» Lui ride di nuovo. «Devo ammetterlo. Ti ho sottovalutata. Sei una rompipalle, ma sei brava. Ti faccio solo un nome. Alice Mantovani.» Il fianco sinistro le prude. Infila una mano sotto la camicia e si gratta anche lì. Un prurito quasi insopportabile che le sale piano da sotto la pelle. «Alice Mantovani» ripete lui, mentre la sua mente è divisa fra quel nome e la sensazione che sente crescere nel suo corpo. Alice. «Avevo ragione...» sussurra, e guardandosi una mano scopre che le è apparsa sul dorso una piccola bolla rossastra. «Eritema» dice lui, intercettando il suo sguardo e si sposta all'altro lato del tavolo. Cammina tranquillo mentre lei vorrebbe avere le mani legate e non il collo e le caviglie, per poter resistere al prurito che le brucia la pelle e che la scortica dentro. «Cosa c'era in quell'acqua?» gli chiede, dimenando il corpo in modo innaturale nel tentativo di lenire il fastidio. «Un preparato di mia invenzione» spiega tirando fuori una fialetta ar-
gentata. «Incolore, insapore. Si scioglie in acqua... Naturalmente.» «Sei un bastardo.» «E tu una ficcanaso e non mi piace la gente che non si fa i cazzi suoi. Proprio per nulla.» Fa una pausa. Tira fuori un'altra fialetta identica alla prima e la appoggia sul tavolo. «Allora, Anna, non posso più restare qui. Io voglio sapere a chi hai detto qualcosa di Alice Mantovani. Voglio sapere nomi e cognomi. E voglio sapere che cosa hai detto. Cosa hai fatto. In questa fialetta c'è un'altra invenzione che ho preparato per te. Un bel rimedio efficace contro l'eritema. Se mi dici quei nomi la versiamo in una bella bottiglietta d'acqua e tutto finisce lì.» Anna Malvezzi stringe gli occhi. Il prurito è insopportabile e la pelle, ovunque riesce a vederla, si sta riempiendo di piccole bolle rossastre, come se un esercito di tafani le stesse camminando sul corpo, mordendola con gusto. Poi pensa ad Alice Mantovani. A quella stanza e a quell'intuizione che vorrebbe non avere mai avuto. E con un piccolo barlume di lucidità cerca di capire perché il suo carceriere dovrebbe aver fatto una cosa simile. E cosa potrebbe fare alle altre persone con cui ne ha parlato. «Impiccati» sibila. L'uomo prende le fialette e le mette sul bordo del tavolo, in modo che le veda ma non le possa prendere. La guarda e le sorride come se fosse una bambina. «Durerà circa otto ore. Almeno credo. Sai, è sperimentale.» Apre la porta e per un secondo vede uno squarcio di buio totale chiazzare il bianco immacolato che la circonda. Sulla soglia, prima di uscire, si volta. «Tu sei già morta. Già in quell'ascensore. Ma ricorda una cosa: dipende da me decidere quando smetterai di respirare. E come. E non ho nessuna fretta.» Chiude la porta e lei resta sola. Anna si strofina piano le gambe dentro i pantaloni di tela e il gatto soffia e miagola un verso sinistro. Guardandolo prima di chiudere gli occhi, si chiede perché diavolo lo abbia chiuso con lei nella sua gabbietta in quella stanza troppo illuminata. «Scusa il ritardo, ho avuto un'urgenza» dice Giovanni Salvi e io, appoggiato all'auto civetta, annuisco. «Saliamo» dico. «Fammi vedere dove abita la tua collega.» Via Agnesi è una strada alberata che costeggia il policlinico, al lato op-
posto della San Vitale. C'è silenzio e le cime dei palazzi sono nascoste dalle chiome degli alberi. L'appartamento in cui abita Anna Malvezzi è all'ultimo piano di un vecchio stabile ridipinto da poco. Salgo dietro di lui, sentendo l'odore della vernice e della calce che mi sfiora il viso. Circa a metà delle scale una signora anziana esce e appoggia un sacchetto della spazzatura fuori dalla porta. Si sente un cane abbaiare e il muso di un pechinese spunta appena dall'uscio socchiuso. La donna ci guarda aspettando che qualcuno dica qualcosa. Non ricevendo soddisfazione sbuffa e torna dentro. L'appartamento di Anna Malvezzi è uno di quelli ad angolo. Sulla porta di legno scuro c'è un'etichetta dorata ovale. Giovanni suona due volte. Ma nessuno risponde. Prende il telefonino e compone il numero. Da dietro la porta sentiamo il telefono squillare senza che nessuno alzi la cornetta. Allora riaggancia e mi guarda. Ha una strana espressione, non so se è preoccupato o incazzato. «Spostati un secondo» gli dico. Appoggio una mano a metà della porta, spingo. E la porta si apre. Mentre cigola sui cardini penso alla sensazione che ho provato sentendola cedere sotto il palmo della mano. A quello che ho sentito nello spalancare di nuovo una porta chiusa che qualcuno ha lasciato aperta per me. «Non capisco. Che c...» Mi appoggio l'indice della mano sinistra sul naso e Giovanni tace. Con lo stesso dito faccio due gesti secchi e brevi a indicargli che deve aspettarmi lì. Tiro fuori la pistola ed entro. Le tapparelle sono abbassate e fitte, come si lasciano quando fuori piove e non vuoi sporcare i vetri di casa. In cucina ci sono ancora i resti della colazione e il letto matrimoniale è disfatto, ma con un solo cuscino schiacciato. «Secondo me è uscita di qui ieri mattina e non è più tornata» spiego sbucando sul pianerottolo. Giovanni non dice niente, ma abbassa lo sguardo. Rimetto la pistola nella fondina e prendo il cellulare. «Ippoliti? Sì, mandami qualcuno in via Agnesi dodici. È la casa della dottoressa Anna Malvezzi... Sì, mettila sulla lista delle persone scomparse. Segnalazioni, ricerche, le solite cose... Sì, anche la scientifica. Ho trovato un'altra porta aperta.» Stacco la comunicazione. «E adesso?» mi chiede Giovanni, e a me viene da ridere perché quella domanda, in un modo o nell'altro, me la fanno tutti. Come se dovessi avere
sempre una risposta buona da dare. Invece non so un cazzo. «Tu se vuoi sei libero di andare. Io resto qui e aspetto i miei uomini.» «Non era quello che intendevo, Gabriele.» Gioco con i tasti del telefono. Le lucine si accendono e si spengono e io cerco di pensare. «Lo so che cosa intendevi, Giovanni» rispondo e lo guardo mentre in silenzio infila le scale e se ne va. «E lo hai visto lì?» chiede Gaspare mentre il Muto tenta di sistemarsi sul letto. «Sì, lì. Poi l'ho seguito. È entrato in rianimazione.» La casa è al buio, le finestre chiuse, le tapparelle abbassate e la radio accesa, in lontananza, in cucina, con una canzone degli U2 che nessuno sta ascoltando. Fuori, da qualche parte, si sente il rumore della corriera, la linea azzurra che collega quel paese con la città, fin sotto le torri. «In rianimazione» ripete Gaspare. «Eh, in rianimazione è andato. Allora ho cercato di capire dove stava, chi andava a trovare. E sai cos'ho scoperto?» Gaspare fa un gesto con il mento in avanti e aspetta la risposta. Non ha mai capito come succede, ma la gente quando parla con Luigi racconta tutto. Forse perché hanno bisogno di riempire il suo silenzio con delle parole. Il Muto si sistema il cuscino con la mano destra, la sinistra abbandonata sul fianco. «Ho scoperto che andava a trovare la fidanzata. E che ci va tutti i giorni. Due volte al giorno e certe volte tre.» «La fidanzata?» «Sì, la fidanzata. Dicono che l'hanno avvelenata e che è in coma.» Gaspare tace e pensa. Si avvicina alla finestra e attraverso i fori della tapparella sbircia fuori. A quell'ora la statale che passa in mezzo a Minerbio è lucida come un vestito di raso in una sala da ballo. Vede un vecchio passare piano in bicicletta e pensa che è quella calma che gli piace. Quel silenzio che non si trova più da nessuna parte. «Sei sicuro?» dice girandosi di nuovo verso la stanza. Il Muto ha gli occhi chiusi. Il bicchiere d'acqua che gli ha portato è sul comodino, quasi vuoto, accanto alla scatola del Voltaren a cui mancano tre pastiglie. «Vuoi ancora acqua?» Luigi apre gli occhi piano. Sono lucidi. «No, niente acqua. E Gaspare...» «Dimmi.» «Sono sicuro. L'avvelenarono la ragazza.» Gaspare tenta di sorridere, provando a farsi largo fra i suoi pensieri ammassati. «Dormi, adesso. Dormi.»
Esce dalla stanza e si chiude dietro la porta. Poi accende una sigaretta e si siede in poltrona, nella penombra giallastra del salone. Gabriele Riccardi è una strana persona e sapere che cosa gli sta succedendo ha lo stesso sapore di una medicina che ti farà bene, ma che è cattiva da mandare giù. Quella sera, quando ha tentato di ucciderlo, lo ha fatto per non morire lui stesso e non per odio. Uccidere per odio non è la stessa cosa. Se ne accorge ora che deve farlo per la prima volta, ora che sta aspettando il momento buono per ammazzare Candido Giulio e con lui tutta la rabbia che sente in corpo. Nel pomeriggio, mentre aspettava che il Muto tornasse, ha pensato a dopo, a quello che succederà quando tutto sarà finito. A quello che dovrà fare. Sa che può tornare in Sicilia e chiedere a don Beniamino di fare di nuovo la vita di prima. Oppure scappare. In America forse. In un posto lontano dove possa sedersi da qualche parte e sentire di nuovo lo stesso silenzio di casa. Lo stesso silenzio di quella strana campagna bolognese piena di nebbia d'inverno e di zanzare d'estate. Ha pensato a quello, mentre se ne stava solo come ora nella stessa poltrona. E ha pensato al dopo per cercare di scacciare un pensiero che lo insegue dal giorno in cui è riuscito a buttarsi fuori da quell'ambulanza. Una domanda a cui non riesce a dare risposta. Almeno fino adesso, fino a Gabriele Riccardi che va a visitare la sua donna avvelenata in rianimazione. Spegne la sigaretta con rabbia e torna in camera del Muto. Non dorme ancora e socchiude gli occhi quando lo sente entrare. Gaspare si siede sul letto. «Come hai fatto a farmi evadere?» «Mi avevi detto che non avresti mai voluto saperlo.» «Sì, ma ho cambiato idea. Come hai fatto a farmi evadere. Dove lo hai trovato?» Luigi Pastoso detto il Muto si solleva lentamente sul letto. Ora che l'effetto dell'antidolorifico è volato via e che le pastiglie di Voltaren non hanno ancora cominciato a fare il loro lavoro, ogni movimento è terribilmente doloroso. Anche parlare, anche un semplice respiro. Guarda Gaspare e capisce che ha aspettato una risposta fino a quel momento e adesso non può più farlo. «La prima volta mi ha trovato lui» dice in un soffio. Gaspare stringe gli occhi. Sente i muscoli delle spalle irrigidirsi come una sbarra di ferro. «Ti ha trovato lui» ripete, come cercando una falla in un ragionamento che invece gli è perfettamente chiaro.
«Sì, lui. Sai di chi parlo, non è vero?» «Sì. E poi?» «Poi mi ha raccontato quello che dovevo fare.» «E non sai altro?» «So del vecchio.» «Il vecchio?» «Se lo vuoi contattare devi usare il vecchio. Mi avevano detto così.» «E tu sai dove trovarlo?» «Me lo hanno detto una volta.» «Sapresti trovare quel vecchio?» Il Muto solleva piano il braccio destro e si tocca la fronte con l'indice. «È tutto qui dentro, lo sai.» Gaspare lo guarda. Quell'uomo è la cosa più simile a un fratello che gli sia rimasta al mondo. «Come ti ha trovato?» «Un cellulare. Mi è arrivato un pacco a casa. Con un cellulare dentro. Quando ho aperto il pacco e ho acceso il telefono, dopo poco è arrivata la chiamata.» Gaspare Nunia si alza e torna sulla poltrona. E quando si siede sente il suo corpo pesante e stanco. Ha un sacco di cose da mettere a posto prima di potersi permettere di sentirsi così. E da stasera ne ha una in più. La sensazione forte e impossibile da scacciare che per un motivo che non conosce quell'uomo che nessuno ha mai visto lo abbia fatto evadere per ucciderlo. Dieci Bologna, Primo maggio Scendendo dall'autobus Donatella Rizzo si infila gli occhiali da sole. È una mattina piena di luce, un sole brillante come succede spesso a cavallo fra aprile e maggio, un sole che le dà fastidio. Davanti all'ortopedica Sant'Orsola c'è il solito casino di gente che esce dal tabaccaio lì vicino, che aspetta l'autobus o che cerca di attraversare la strada, ma lei non la nota. Il suo sguardo è fisso sull'enorme città ospedaliera che si trova davanti, edifici diversi, alcuni vecchi e alcuni nuovi e che spesso nascondono solo dolore. È dal momento in cui ha parlato la prima volta con Gabriele Riccardi
che ci pensa. O forse da prima, da quel giorno in ospedale con Teresa, e quel "non è niente" che ha detto a sua figlia mentre cercava di intercettare il suo sguardo. Sì, forse è da quel giorno che sa che deve farlo e si sorprende di aver finalmente deciso. Guardandosi intorno si infila sotto l'insegna del pronto soccorso ostetrico e poi in uno di quei viali tutti identici che attraversano i padiglioni come vene e arterie in un unico corpo pensante. E alla fine si trova davanti all'ingresso e si ferma. Guarda la porta spalancata, come una bocca pronta a inghiottirla e scopre di non avere il coraggio. Scopre che la paura è semplicemente troppo grande perché possa affrontarla. E anche se sa benissimo che prima o poi si farà mangiare dai ricordi, gira a destra, si infila nel bar lì vicino, ordina un caffè e legge il giornale per buttare giù per la gola l'angoscia insopportabile che sente salirle da dentro. Il dottor Donato Aiuti si gratta un sopracciglio e guarda Donatella Rizzo fermarsi davanti all'ingresso del padiglione. Lei ha gli occhiali scuri e dall'ultima volta che l'ha vista si è tagliata i capelli, ma non potrebbe sbagliarsi mai. È lei. L'aveva già vista arrivare con passo deciso, tagliando da via Massarenti per il prato e poi rallentando man mano che si avvicinava all'ingresso. Sembrava in preda a qualche strano furore e si era spaventato. Poi ha respirato piano e si è fermato a guardarla, cercando di capire cosa ci faccia lì. Resta in piedi davanti al portone per qualche secondo, lo sguardo fisso. Poi abbassa il capo e si guarda intorno, come un naufrago caduto in mare che riemerge da sotto l'acqua. Alla fine, camminando piano, si infila nel bar di fianco alla grande fontana. E lui sa che non entrerà in quel portone. Almeno non quella mattina. Sorride perché con tutto quello che sta per capitare almeno quella rottura di coglioni per quel giorno è scongiurata. Girando il corridoio e preparandosi a cominciare il giro dei pazienti non può fare a meno di pensare che nella vita tutto prima o poi arriva a chiedere il saldo di quello che ancora gli devi. Un disegno che appare collegando i puntini. La sensazione che ho è esattamente questa. Da piccolo mi piaceva fare quel gioco lì o quello, analogo, di riempire gli spazi e di vedere che figura saltava fuori. Adesso mi sembra la stessa cosa, lo stesso gioco. Solo che i
puntini sono nascosti, infilati in cassetti che non so se aprire. O che non so se voglio aprire. Ippoliti è lì davanti a me e anche lui non sa bene cosa pensare di quello che abbiamo trovato. O forse quello sguardo perso significa soltanto che lui un'idea ce l'ha e aspetta solo l'ultimo tassello per tirarla fuori. L'elenco è davanti a me. Semplice e banale. Sono solo nomi e date, niente di più. Parole scritte a mano con la mia calligrafia. Stampatello blu di un pennarello sottile che macchia un foglio di carta. Sembra niente. Paolo Biffi, quarantasei anni, direttore del personale alla Galvez. Morto di infarto in casa sua, davanti alla moglie. Francesco Zani, sessant'anni, operaio alla Galvez e allenatore della squadra di calcetto in cui giocavano Guido Bignami e Gaspare Nunia. Diabetico. Morto per una dose sbagliata di insulina. Guido Bignami, trentadue anni, programmatore. Avvelenato in casa sua, nel sonno, a simulare uno shock anafilattico. Sono solo tre e li rileggo ad alta voce perché in realtà a me sembrano molti di più. «Un bell'elenco» commenta Ippoliti. Un bell'elenco perché sono tre morti ammazzati e lo so bene, anche se i cadaveri dei primi due non potrò farli riesumare. Tre morti ammazzati come tre condanne a morte. Paolo Biffi, direttore del personale, responsabile dell'assunzione alla Galvez di Gaspare Nunia. Colpevole. Damiano Vinciguerra, operaio, responsabile di aver preso Gaspare Nunia nella sua squadra di calcetto e di avergli fatto incontrare Teresa Rizzo. Colpevole. Guido Bignami, amico di Teresa Rizzo e responsabile di averle fatto conoscere Gaspare Nunia. Colpevole. «Davvero un bell'elenco» commento. E penso che a quell'elenco mancano ancora dei nomi. Quando giocavo a collegare quei puntini, da bambino, verso la fine il disegno si vedeva. Se staccavi la penna dal foglio e osservavi bene, riuscivi a capire cosa stava saltando «lori. Una bottiglia, una nave, un uomo che beve. Una vendetta. Non so chi sia quest'uomo, ma sta spazzando via dalla faccia della terra tutti quelli che hanno contribuito a far morire Teresa Rizzo. Come in un altro gioco che facevo da bambino, quello dell'e se.
E se Gaspare non fosse mai stato assunto? E se Gaspare non avesse mai giocato a calcetto? E se Gaspare non avesse mai incontrato Teresa? Domande, ipotesi. E se. Ma ne mancano due. E se Gaspare Nunia non fosse mai esistito? E se Gaspare Nunia avesse ucciso me prima che io sparassi a Teresa? Ancora ipotesi. E ancora puntini mancanti. Ormai non sono molti. Ormai siamo rimasti io e Gaspare per completare il disegno. E io, che ho ucciso materialmente Teresa Rizzo, sono quello che devo soffrire di più, quello che deve sentire scorrere la paura dentro e fuori, sulla pelle e nella sua vita. Per questo le case deserte e la carta d'identità. Per questo la mail con la gatta. E per questo Alice è in quell'ospedale. Adesso lo so. Perché devo sapere cosa si prova. Perché devo avere paura. E averne sempre, tanta. «A cosa stai pensando?» Al disegno che viene fuori da quei puntini, vorrei dirgli. Ma non capirebbe. Dovrei spiegargli che a volte in quei disegni c'era una specie di trabocchetto. Che a volte un puntino serviva non per fare il contorno del disegno, ma una sfumatura dell'interno. Il sorriso o il naso di un volto, per esempio. E che quando ti toccava di unirlo con un altro, allora perdevi il senso del totale. Perché era una sfumatura di cui non avevi tenuto conto. E anche in questo disegno qui c'è una sfumatura di cui si rischia di non tenere conto. Ma che fa parte del totale come e più di quei puntini. Ecco cosa dovrei spiegargli guardando quell'elenco e pensando ai nomi che ci sono e a quelli che mancano. Ma non è quello che dico. «Sto pensando che in quell'elenco manca la dottoressa Malvezzi.» Anna Malvezzi apre gli occhi e cerca di capire dove si trova. L'ultima cosa che ricorda è di aver mangiato con le mani un piatto di maccheroni scotti con della passata di pomodoro. Poi più niente. Solo uno strano buio. Il prurito è diventato sopportabile in un momento che secondo il suo orologio biologico avrebbe dovuto essere notte. Le tracce del passaggio delle bolle, ritiratesi come soldati sconfitti, le restano sul corpo in zone rossastre simili alle macchie di colore sulle cartine termiche. Ricorda di aver pensato, mentre si puliva le dita sporche di pomodoro
con i fazzolettini di carta che lui le aveva dato, a una vasca piena di schiuma morbida, a un po' di musica e alle mani che lavavano il suo corpo, piano, senza fretta, rendendo la pelle di nuovo bianca, pulita. Ecco, probabilmente è quello il pensiero che ha fatto prima di addormentarsi o di svenire. E il primo pensiero che fa, riacquistando coscienza, è che è caldo e sta sudando. Di essere nuda, distesa sul tavolo e legata se ne rende conto solo in un secondo momento. «Ben svegliata» dice la voce e girando la testa verso destra si accorge che lui è in piedi a un angolo della stanza. Tenta di muovere le mani per coprirsi, ma non può. Ci sono quattro anelli inchiodati ai quattro angoli del tavolo. Due a bloccarle le gambe e due a bloccarle le mani, in una oscena riproduzione di una grande X. Ha visto qualcosa di simile, una volta, in una foto sadomaso. «Non guardarmi» sussurra solo quando capisce che non ha altra scelta. Lui ride. «Non ti vedo nemmeno. E poi sai che non mi interessi, come donna. Lo sai da un sacco di tempo, Anna. Quanti anni sono che mi conosci? Sei?» «Otto» risponde, ma quello che pensa è che ha imparato a conoscerlo solo lì dentro e che nessuno, assolutamente nessuno tranne lei, sa veramente chi è. Lui si sorprende. «Otto, già. Beh in quegli otto anni avrei potuto scoparti quando volevo, Anna. Sarebbe bastato portarti fuori una sera e invitarti in casa mia, a bere qualcosa.» «Non avrei accettato.» Ride di nuovo. Quella risata dura che ha sentito per la prima volta lì dentro. «Oh certo che avresti accettato. E sai perché? Perché sei sola. Sola come un cane e insignificante. E lo sai. Ti ho vista come fissavi Riccardi che sussurrava al vetro le sue piccole parole per la povera Alice.» Anna stringe gli occhi e gira la testa dall'altra parte. Il collo è l'unica parte del suo corpo che gli anelli le lasciano libera. «Lo fissavi,» continua lui «come una che sarebbe disposta anche a stare in coma per avere qualcuno che sussurra il suo amore per lei da dietro a un vetro. Forse anche una parola sola e non mille come fa Riccardi.» Fa una pausa. Si avvicina al tavolo, le prende il volto fra le mani e rudemente lo gira verso di lui. Lei spalanca gli occhi. Lui avvicina le labbra a pochi centimetri da quelle della donna. «Per questo se ti avessi invitata avresti accettato» sussurra. «Per questo ti saresti fatta scopare.»
La lascia andare con la stessa indifferenza con cui l'aveva presa. La testa di Anna, abbandonata di colpo, picchia contro il tavolo. Le scappa un gemito che lui non sente nemmeno. «Chissà, forse saresti stata anche una bella scopata, dottoressa Malvezzi. Ma questo non lo sapremo mai, temo.» Lei respira forte e lo guarda avvicinarsi alla gabbietta del gatto. Ricorda di aver visto anni fa le foto dell'animale da cucciolo, senza immaginare che sarebbe diventato quel mostro enorme e nero che non ha smesso di fissarla per tutto il tempo della sua permanenza in quella prigione. L'uomo smette all'improvviso di sorridere e guarda l'animale. Il suo volto si fa dolce. «È tutto finito, Sansone. Tutto finito» sussurra. Il gatto lo fissa, gli occhi enormi e gialli spalancati in un'espressione di sorpresa. Allontana il volto dalla gabbietta, al secondo ripiano della mensola e cammina di nuovo verso il tavolo. «Però di una cosa ti devo dare atto, Anna» riprende come se non avesse mai smesso di parlare. «Quando ti ho portata qui pensavo che avresti parlato. Magari non subito, ma dopo un po' sì. Pensavo che l'eritema sarebbe stato sufficiente per farti dire quello che volevo sapere. Credevo fossi più debole. Invece no. Complimenti.» «Impiccati, stronzo.» «Sì, questo me lo hai già detto. La tua varietà di insulti non è molto ampia, a quanto pare. Come la dimensione delle tue tette, peraltro. Ma veniamo a noi. Mi sento molto buono oggi. Forse sarà il caldo. Qui dentro si muore. Devo aver sbagliato la temperatura del condizionatore.» Si siede sul bordo del tavolo, all'altezza della sua vita. Le passa un dito sulla pancia. «Lo vedi? Sei sudata... Dicevo. Oggi mi sento buono. Quindi, prima di procedere a fare quello che devo, vorrei farti un'ultima domanda. Una sola. Sta a te decidere, te l'ho già detto. Allora Anna, per l'ultima volta. Con chi hai parlato di Alice Mantovani?» Anna Malvezzi guarda il suo corpo spalancato davanti all'uomo che ha creduto un amico per otto lunghi anni e trattiene appena una lacrima. «Fai quello che devi» dice e forse se sapesse cosa l'aspetta la sua risposta sarebbe diversa. L'uomo si gratta un gomito, raccogliendo le idee. Incrocia le dita e le fa scrocchiare. «Come vuoi» dice. Poi si avvicina alla solita mensola e prepara un'iniezione. «Cosa vuoi fare?» Lui non la ascolta nemmeno. Controlla la siringa e la immerge nella fialetta. Poi la ritira piena, fa uscire la prima goccia e la infila senza nessuna
delicatezza nel deltoide della donna. «Che cazzo c'era in quell'iniezione?» L'uomo rimette il tappo di plastica all'ago e getta tutto, siringa e fialetta, in un sacchetto dell'immondizia. Poi prende la gabbietta del gatto e la appoggia sul tavolo, fra le gambe aperte di lei. «La temperatura che c'è qui dentro,» comincia a spiegare «non è casuale. E sono sicuro che, curiosa come sei, la domanda che ti sei fatta più spesso in questo tempo è stata "che cosa ci fa qui quel gatto"?» Guarda il micio e l'animale volta il muso verso di lui, sentendo lo sguardo del suo padrone. «Bellissimo Sansone. Bellissimo. Dicevo: non c'è nulla di casuale. Vedi, anni fa per motivi che non ti sto nemmeno a spiegare mi sono occupato di animali. Mio padre aveva due meravigliosi gatti. Molte delle cose che so su come si caccia le ho imparate da loro, oltre che da una persona molto cara. Comunque ho imparato che ci sono odori, aromi, profumi che vengono associati dagli animali a determinate sensazioni. Funziona così anche per gli esseri umani. Ma sei un medico, cosa te lo dico a fare.» Sorride. Si muove fino alla porta. La spalanca e rientra con un grosso sacco. Non appena è dentro, il gatto miagola. Lei non riesce a vedere di cosa si tratta, solo che è grigio, con un disegno sopra che non riesce a distinguere bene. Lui lo appoggia sul tavolo, dietro alla sua testa. Puzza. «E adesso, por favor, spalanca quelle belle labbra.» Anna lo vede sopra di lei. Il suo volto, visto al contrario, è simile a quello di uno strano pesce deforme, un mostro che arriva da chissà dove. E in fondo, per lei, è esattamente quello che è. Sigilla le labbra più forte che può e chiude gli occhi. Lui allarga le braccia, scorato. «Lo vedi Sansone quanto tempo perso?» Il gatto miagola e lui con forza le stringe il naso, tappandole le narici. «Come te la cavi in apnea, dottoressa?» le chiede e mentre lo fa comincia a picchiarle la trachea col dorso del pollice, con violenza, come se volesse far schizzare una biglia di plastica più lontano possibile su una pista di sabbia. Alla fine Anna tossisce. Veloce le lascia il naso e le infila in bocca un attrezzo di metallo che lei non riesce a identificare, ma che le blocca la mascella e la mandibola spalancandole la bocca. «Grazie per la collaborazione» dice, e Anna lo sente armeggiare con il sacchetto, alle sue spalle. Poi il gatto miagola più forte e tenta di spingere la gabbietta in avanti. Nello stesso momento una sostanza puzzolente e
secca le scende fra le labbra. La sta imboccando. Lei sputa. Il dorso della mano di lui arriva veloce a schiaffeggiarla. Se avesse un anello con quella forza le avrebbe aperto una guancia. «Non lo fare. È solo tempo perso. Te la riempio quella cazzo di bocca, stronza» spiega e ricomincia a versarle fra le labbra quella cosa che lei non distingue. Gliela caccia in bocca con un grosso cucchiaio da cucina, come un fuochista che riempie il forno di una macchina a vapore. E lei è esattamente questo che si sente. Una macchina che il suo manovratore sta usando per i suoi giochi. Proprio quando crede di cominciare a tossire e che la sua bocca non potrà più contenere nulla, lui smette. Tira fuori dalla tasca un piccolo tubetto bianco trasparente e glielo striscia sulle labbra, strizzandolo per farne uscire il contenuto. Allora Anna spalanca gli occhi perché capisce cosa sta facendo, perché l'odore che esce da quel tubetto è famigliare, una cosa nota che ha usato milioni di volte nella sua vita e che lui, ora, sta usando su di lei. Accorgendosi di quello che sta per succedere serra la mascella, spalancandola oltre quello che ha mai potuto immaginare. «Adesso non vuoi più tenere la bocca chiusa, vero? Adesso la vuoi tenere aperta. Non sai mai quello che vuoi, dottoressa Malvezzi» commenta mentre completa accuratamente la spalmatura delle sue labbra. Passa il tubetto sugli angoli di nuovo e poi nel punto in cui la sua bocca è più carnosa, sotto alle narici. Lo fa per due volte. «Comunque hai capito bene» dice poco prima di concludere l'opera. «Sto per incollarti le labbra» spiega e con due gesti rapidi le toglie di bocca l'arnese metallico e la colpisce sotto al mento con forza, serrandole le labbra. Se la lingua non fosse schiacciata da quella sostanza terribilmente salata e disgustosa che le chiude la gola, probabilmente se la sarebbe tranciata. Poi le spinge la nuca in avanti e la mandibola in alto, serrandola in una morsa e la tiene lì bloccata per un tempo brevissimo che a lei pare eterno. Quando la lascia, le sue labbra sono sigillate. Lui guarda le sue narici che si dilatano e si chiudono a un ritmo frenetico che si ripercuote sul torace, nel tentativo di respirare. E le mostra il tubetto di colla. «È molto potente, sai? Una volta per poco rimango attaccato a un mobile in cucina» le racconta, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Dimenticavo,» riprende dopo aver riposto in tasca il tubetto «quello che hai in bocca in una quantità troppo elevata perché tu lo possa ingerire è cibo per gatti.» Le mostra il sacchetto. «Croccantini. Sansone ne va matto,
non è vero?» Sansone questa volta non miagola. Soffia. La gabbietta si muove fra le gambe della donna e le sfiora le cosce. L'uomo la prende e la mette di nuovo sulla mensola. «Manca ancora una cosa da spiegarti. L'iniezione. Come vedi voglio dirti tutto quello che sta per succedere. Prima però devo fare una cosa.» Si china sotto al tavolo e tira fuori un secchio. Dentro c'è una spugna di quelle da doccia immersa in una specie di sostanza gelatinosa. L'uomo indossa un paio di guanti di lattice, prende la spugna e comincia a spargere quella sostanza sul corpo di Anna, delicatamente, con cura. Lei lo guarda, gli occhi sbarrati, il respiro serrato attraverso le narici sempre troppo piccole per poter incamerare aria, quel sapore disgustoso che le riempie la bocca, le labbra serrate che ormai non sente più appartenere al proprio corpo. E la curiosità, feroce e inconcepibile, di sapere quello che sta per succedere. Con un gesto secco l'uomo si toglie i guanti e appoggia il secchio accanto alla porta. «L'iniezione era una specie di reagente. Con la temperatura alta che c'è nella stanza e che ho intenzione di alzare ulteriormente, ti farà sudare. Sudare copiosamente, come se tu stessi correndo. Il sudore mi serve per accrescere l'odore della sostanza che ti ho spalmato addosso. È una specie di aroma vegetale. Qualcosa che nasconde l'odore naturale della tua pelle e lo sostituisce. Vedilo come un profumo, anche se le tue narici così impegnate a respirare non lo sentono. «Immagino che agli occhi di Sansone tu ora sembrerai come un enorme pezzo di carne succulenta. Perché l'aroma è proprio quello. È la stessa sostanza che si usa nei procedimenti chimici per dare un profumo ai croccantini di cui hai stipata la bocca. Lo stesso che ai micioni come Sansone piace così tanto. Sai, lui ha visto che hai i suoi croccantini in bocca. Lo ha visto molto bene. Molto, molto bene. E io sono curioso di vedere cosa farà una volta liberato. Se tenterà di tirarti fuori quello che hai in bocca o preferirà assaggiare qualcos'altro. Me lo sono chiesto, e resterò senza una risposta. Perché le tue labbra non si apriranno mai più.» Si avvicina al viso della Malvezzi e le liscia il mento con due dita. Poi le guance. «Ma ci sono tante parti morbide da cui potrebbe trovare un accesso alla tua bocca. Se lo volesse. O forse pensi che preferirà mangiare qualcos'altro? Piano piano.» Si avvicina alla mensola
con la gabbietta del gatto. «Dimenticavo» dice avvicinandosi alla porta. «Sono quattro giorni che non gli do da mangiare. E non ho intenzione di dargliene finché tutto non sarà finito. Quanta fame credi che abbia?» Anna Malvezzi lo guarda, le pupille dilatate dal terrore. Vorrebbe smettere di respirare per non vivere quello che sta per accadere. Inclina la testa a destra e segue con lo sguardo l'uomo che raggiunge la soglia buia. Lo vede sparire col secchio e poi tornare. Alla fine lui si ferma sull'uscio, la guarda e smette di sorridere. «Addio» dice semplicemente. Prima di sentire l'uscio che si chiude a chiave, le orecchie di Anna avvertono un breve rumore metallico e un miagolio sommesso. Nel silenzio della stanza in cui è rimasta sola, sente le zampe di Sansone che camminano. Lo vede saltare sulla mensola, guardarsi intorno in cerca di un appiglio e poi con un balzo preciso finire in mezzo alle sue gambe, sul tavolo. Lentamente, col cuore che salta un battito, vede il gatto salirle sulla pancia, camminare piano, gli occhi gialli infissi nei suoi, fermarsi sul suo sterno. Quando Sansone soffia, sente le unghie spuntate dalle zampe che le si conficcano nei seni. Poi il gatto spalanca la bocca e le mostra i denti. «Roland Kresic?» chiede qualcuno alle sue spalle e lui si volta, il boccale di birra in mano. «E a te che cazzo te ne frega?» dice guardando il tipo, uno con la faccia da bravo ragazzo e il giubbotto di pelle allacciato. Uno che se lo conoscesse chiamerebbe Cancemi. «Me ne frega. Polizia ti dice niente?» Roland tenta di alzarsi in piedi, in direzione della porta sul retro. Prima che si muova, la pistola di Cancemi gli si infila in un fianco. «Se provi ad andare via resti senza fegato, tesoro.» «Che cazzo volete da me?» chiede mentre sullo sfondo parte una canzone dei Simply Red e due uomini si fermano davanti all'ingresso del pub osservando la scena. «Abbiamo trovato un tizio sgozzato dentro un fosso. Si chiamava Milan, ti dice niente?» «Non conosco.» Cancemi sorride. «Peccato che avesse in tasca un elenco di nomi. Il primo era il tuo» spiega e Roland appoggia il boccale di birra e capisce che
quello stronzo di siciliano li ha fottuti tutti. Gaspare Nunia esce dalla doccia e si ferma davanti allo specchio appannato. Toglie il vapore con la mano e resta un momento a guardare il riflesso del suo viso stanco e a chiedersi quanto tempo impiegherà Riccardi per arrivare agli slavi a partire dal cadavere di Milan. Poco, immagina. Probabilmente non resta molto tempo nemmeno a lui. Lo sa che lo prenderanno presto e sa benissimo che per rappresaglia quei porci di slavi parleranno e diranno tutto. Ma non importa. In realtà non sanno un cazzo. Solo quello che vuole fare. E quello lo sa anche Gabriele Riccardi, se non si è fumato del tutto il cervello dentro quella sala rianimazione. Alice. È un nome che gli è sempre piaciuto. Alice nel paese delle meraviglie era la sua favola preferita da bambino, probabilmente perché non ci capiva un cazzo. Le altre favole, anche Cappuccetto rosso, con la nonna che esce sana e pulita dalla pancia del lupo, avevano tutte un senso. Alice no. Alice e quella festa del non compleanno e quel bianconiglio che non ha mai capito perché non si potesse chiamare coniglio bianco. Alice Mantovani l'ha vista una volta sola, con Riccardi al processo. Bella donna davvero. Testa alta e passo deciso, con una strana fragilità nello sguardo. In qualcosa Teresa le assomigliava. Forse proprio in quella fragilità, la sensazione di qualcosa che può rompersi da un momento all'altro. Toglie lo sguardo dallo specchio e tuffa la testa in un asciugamano. Quando riemerge, con i pochi capelli dritti come ciuffi d'erba in mezzo al vento, sente la voce del Muto che lo chiama dalla stanza in fondo. «Staju arrivannu!» grida verso la porta aperta, e l'altro gli risponde qualcosa che non riesce a capire. Adesso, con quello che è successo, è davvero solo. Luigi non servirà a niente con quelle costole e lui non può permettersi di perdere troppo tempo. La garanzia di don Beniamino non vale per sempre. E anziché un alleato finirebbe per farne un nemico. No, non ha molto tempo. Anche i suoi giorni stanno per scadere. E cercando di studiare tutti i particolari, Gaspare ha un'idea talmente folle da poter anche sembrare passabile. Il dottor Alfio Cinti è un ometto piccolo e con pochi capelli rossi distribuiti sulle tempie, a corredo di una calvizie precoce e implacabile. Si tiene
il mento stretto con la mano sinistra e pensa. Lo stesso pensiero lo ha perseguitato per tutta la giornata, da quando ha saputo la notizia. Anna Malvezzi. Ieri sera ha provato anche a chiamarla a casa, ma nessuno gli ha risposto e stamattina, appena arrivato in ospedale, ha sperato di trovare un suo messaggio. Invece niente. Allora ha chiamato in reparto e l'infermiera anziana gli ha detto semplicemente che non ne sapeva nulla. Che anche per quel giorno non si era fatta vedere e che giravano strane voci. Lui l'ha interrotta subito, bruscamente. Non erano i pettegolezzi lo scopo della sua telefonata. È uno pratico, Cinti. Uno con i pensieri binari. Bianco o nero, sì o no. Presente o assente. La Malvezzi non c'è. Il motivo dell'assenza non lo vuole sapere dall'infermiera della rianimazione. Ha paura di saperlo da solo. Guarda l'orologio e poi la cartella con l'esito degli esami di Alice Mantovani. Poi prende il telefono e prova chiamare di nuovo Anna. Prima il cellulare. Siamo spiacenti, il numero da lei richiesto non è al momento raggiungibile. Poi a casa. Ascolta una successione di venti impulsi tutti uguali e cerca di immaginarsi l'apparecchio che suona e la casa in silenzio. Nessuno risponde, e nel silenzio della stanza, con quegli esami davanti e quei numeri che parlano chiaro, il dottor Alfio Cinti comincia ad avere paura di tornare a casa. «Pensa, pensa. Sei sempre stato bravo a pensare» sussurra nell'ambulatorio vuoto. Poi lo sguardo gli cade sulla cesta dei giornali della sala d'aspetto, fuori dalla porta spalancata dell'ambulatorio. E gli viene un'idea. «Va già a casa, dottore?» gli chiede l'infermiere di turno, uno tozzo come un giocatore di rugby. «Sì, Giorgio. Non mi sento troppo bene.» «Si vede, dottore. Ha la faccia pallida. Certo la tipa di quel giornale è molto meglio, eh?» L'infermiere sorride e con un gesto della testa indica il giornale che Cinti tiene stretto sotto il braccio, come una maniglia che lo sorregge sul baratro. Tenta di sorridere, il dottor Cinti. «Molto meglio. Una che sa cosa fare, direi. L'ho preso dalla sala d'aspetto, spero che...» «Ma a chi vuole che freghi qualcosa, dottore. Con tutto quello che succede qui dentro? Adesso spariscono anche le dottoresse.» Cinti non risponde alla battuta idiota di Giorgio. E si infila in ascensore.
Scoprendo di non essere solo ha un sussulto. «Non l'avevo vista, scusi.» La signora grassoccia gli sorride con il suo bel viso tondo. «Non si preoccupi. Scende?» «Sì» risponde. «Alla svelta, spero.» Bologna, 2 maggio. Le tre del pomeriggio Quando rientra nella stanza sono passate quaranta ore. Non crede di averne bisogno, ma in mano ha un paio di tenaglie di ferro nel caso la situazione avesse preso una piega imprevista. Invece quando apre scopre che tutto è andato esattamente come doveva. Sansone è sulla mensola, mezzo addormentato e quando chiude la porta apre gli occhi e gli miagola con dolcezza una specie di benvenuto. Lo guarda stirarsi, mentre si infila i guanti di lattice, poi lo accarezza lentamente. «Bisognerà che troviamo il sistema di lavarti, sai?» dice guardando il muso del gatto, il pelo intorno alle zampe e al ventre. Sansone scosta il capo e comincia a leccarsi, prima piano poi furiosamente. «Non viene via, brutta bestiaccia» sussurra sfiorandogli un orecchio. «Ormai è secco. Ma non preoccuparti. Non lo facciamo adesso.» Sansone non lo degna di uno sguardo. Continua a cercare di togliersi dal pelo le chiazze di sangue rappreso. Lui, invece, si volta e guarda il corpo di Anna Malvezzi incatenato sul tavolo. Si avvicina e le appoggia lo stetoscopio sul petto. Poi una mano sul polso e sulla fronte. Gesti inutili, che fa solo per tranquillizzare se stesso. È ancora calda. Esce un attimo dalla stanza e gira la manopola del condizionatore, ripristinando una temperatura normale. Non appena apre la porta, Sansone scappa per le scale, con la rapidità di un bambino in fuga da un brutto sogno. Sorridendo, l'uomo si infila in bagno. Prende un secchio e lo riempie d'acqua, poi tira fuori dall'armadietto una spugna nuova, la toglie dal sacchetto di plastica e la getta nell'acqua. Rovescia dentro anche una buona quantità di disinfettante, chiude la bottiglia con cura e la rimette a posto. A quel punto è pronto. Rientra nella stanza e chiude la porta dietro di sé. L'aria è tornata respirabile e anche l'odore del sangue e del sudore è quasi svanito. Solleva il secchio, lo appoggia fra le gambe spalancate di Anna Malvezzi e con cura comincia a lavarla.
Ha sudato tanto prima di morire e quel gatto perde troppi peli perché l'operazione non sia necessaria. Mentre le lava i piedi e le caviglie il suo sguardo cade sul torace e poi sul viso della donna. E sorridendo pensa che Sansone ha fatto davvero un lavoro perfetto. «Hai capito quello che ti ho detto, Cancemi?» «Sì. Ho capito.» «E hai capito anche che...» «...non lo devo dire a nessuno» completa Cancemi e sorride. Ippoliti gli prende una guancia e gliela strizza piano. «Sei un bravo poliziotto, ragazzo. Uno con i coglioni. Ma tieni gli occhi aperti, chiaro?» «Lo sa, mi conosce. Non sono una testa calda.» «Lo so. Oggi sei stato in gamba con quello slavo.» «Senta, vorrei chiederle una cosa, se posso permettermi.» «Prova. Al limite non ti rispondo.» «Perché crede che il commissario Riccardi sia in pericolo?» «Non ne sono veramente sicuro. Chiamalo istinto, Cancemi. Tu da stanotte mettiti davanti a casa sua e tieni gli occhi bene aperti.» Guardandosi intorno accosta la macchina alla colonna e parcheggia. L'orologio sul cruscotto segna qualche minuto alle ventidue e sa che non ha più molto tempo. Aprendo lo sportello dell'auto sente l'eco del cancello elettronico che si chiude. Non è stato difficile rubare uno di quei telecomandi, una volta deciso cosa fare. Attende immobile che il cancello si chiuda e ascolta per qualche secondo il silenzio del grande garage sotterrato nelle viscere del palazzo. Scende senza chiudere lo sportello e apre il portabagagli. Guarda il sacco che ha riposto dietro e annuisce. Poi torna in macchina, si infila i guanti, chiude lo sportello e solleva il sacco sopra la testa, appoggiandolo alla nuca. Piega le ginocchia per compensare lo sforzo della schiena e allunga una mano a chiudere il portabagagli. Camminando senza fretta si infila in ascensore. Preme il pulsante e dopo meno di un minuto è al piano. Attendendo che le porte si aprano, sente le mani inumidirsi dentro i guanti e una goccia di sudore che gli cola sotto gli occhiali bianchi con le lenti trasparenti, che usa per mascherare il suo aspetto.
Fuori, sul pianerottolo non c'è nessuno. Allora senza appoggiare il sacco, infila la chiave artigianale nella serratura e gira piano, ascoltando i rumori degli altri appartamenti che lo circondano. Un bambino sta chiamando la madre proprio mentre sente la porta aprirsi. Con rapidità entra nel corridoio buio e chiude la porta dietro di sé. Sente la gatta miagolare e arrivare trottando dalla stanza da letto. «Ciao micia,» sussurra «ci rivediamo a quanto pare.» La gatta si ferma a metà corridoio e soffia. L'uomo piega le ginocchia e lascia scivolare per terra il sacco. «Questa volta però non mi graffi, lo sai?» spiega con lo stesso filo di voce e la prende per la collottola. La solleva a mezza altezza e la tiene in avanti, distante dal corpo. Entra nel bagno, la lascia andare e chiude la porta dietro di sé. La sente graffiare e miagolare. Poi più niente. Girandosi vede il sacco. Se lo accomoda di nuovo sulle spalle e si prepara a fare il suo lavoro. Non ha mai rischiato così tanto per qualcosa. Forse perché niente è mai stato così importante come quello che sta facendo. Forse perché niente è più importante della paura che Riccardi deve provare. Passo dopo passo. Respiro dopo respiro. Sempre. Spinge sulle ginocchia e si guarda intorno. Il tempo è decisamente troppo poco. Forse avrei dovuto fare il solito giro. Forse sarebbe servito a distendermi i nervi e i pensieri. Magari, con un po' di culo, riuscivo anche a non pensare a niente. Invece no. Dritto a casa come una pallina di plastica in una cerbottana. La mia vita prosegue a tappe così forzate che non so nemmeno quale sarà la prossima. Unò-due. Come le marce dei militari. Girando a destra per infilarmi nello stradone che porta al mio appartamento, mi chiedo se anche stasera sono passato davanti a Borgo Masini, come sempre. Perché non me lo ricordo. Mi capita spesso negli ultimi tempi di trovarmi in un posto senza sapere come ci sono arrivato, come se sbucassi nel mondo da una nuvola di fumo, all'improvviso, arrivando da una realtà che non ricordo. Forse sono i pensieri che mi portano a spasso e spero che almeno loro continuino a ricordarsi la strada del ritorno. Io credo di non saperla più. E sono sicuro che se mi capitasse un'occa-
sione qualunque di trovare una soluzione, la prenderei, mandando a puttane senza pensarci due volte tutto quello che ho creduto di essere finora e che probabilmente non sono più. Alla fine, mi ritrovo nella cabina dell'ascensore, a fissare il neon sporco sopra la porta che ogni volta mi sembra più giallo, più malato. E i numeri che crescono verso il mio piano. Poi esco, infilo la chiave nella serratura. Entro. E dovrebbe essere casa mia. Sta camminando nel corridoio quando sente l'ascensore salire. È una fortuna che quell'appartamento sia così silenzioso e che il motore dell'ascensore faccia quello strano suono metallico ogni volta che la cabina si muove. Controlla che sia tutto a posto. Guarda la luce giallastra che entra dalla tapparella appena sollevata e sente che tutto quanto è assolutamente perfetto. Poi raggiunge il salotto e si inginocchia dietro il divano. Quando sente la chiave nella serratura comincia ad aspettare. La prima cosa che sento, entrando, è la gatta che miagola. Penso a quello che mi diceva Alice, ai suoi racconti sulla bestiaccia che ha sempre fame e che la insegue fino in cucina, prendendola per esasperazione finché non le sgancia i croccantini. Penso a quello mentre chiudo l'uscio e accendo la luce. E non so se è un pensiero che mi fa bene o mi fa male. «Miciola?» la chiamo e aspetto vicino alla porta che lei esca dall'angolo del corridoio e mi squadri come fa sempre, cercando di capire se sono solo o se la sua padrona è tornata finalmente a riprendersela. Invece continua soltanto a miagolare. E non è nello studio, in fondo, dove le piace stare perché è la stanza più fresca quando fa caldo e più calda quando fa freddo. È in camera da letto. «Miciola?» provo di nuovo. Poi mi infilo verso la zona notte. Passando butto un'occhiata al salotto, giro l'angolo ed entro. Quando la porta si apre, per un attimo è sicuro che lo vedrà. Averlo li davanti a pochi passi dalle sue mani lo riempie di una sensazione strana che sa di paura ed esaltazione nello stesso tempo. «Miciola?» lo sente chiamare, ma la gatta non arriva. Quando l'ha liberata, dopo aver sistemato gli ultimi dettagli, la gatta lo ha squadrato con uno sguardo obliquo, scivolando fuori dal bagno rasente
al muro, senza avvicinarsi ma continuando a guardarlo fino quasi a girarsi il muso a rovescio. Era una minaccia quello sguardo. Li conosce bene i gatti. «Miciola?» chiama di nuovo Riccardi e lui sa già che, non vedendola arrivare sentirà qualcosa dentro che scatta, un interruttore d'allarme. Basta poco a un poliziotto come lui per avvertire il particolare che stona e annusare il pericolo. Cerca di immaginarselo bambino e in fondo quello che vede è un ragazzino solo, com'è stato lui. Il commissario accende la luce e la plafoniera dell'ingresso stende un velo colorato anche sul salotto, mescolandosi alla luce che entra dalla tapparella sollevata. Lo guarda camminare, conta i passi e si sporge appena per intercettare il suo sguardo. Quando Gabriele si ferma sulla soglia e guarda dentro, i loro volti si trovano così vicini che può quasi sentire il suo alito di caffè. Non ha mai visto un essere umano sveglio a così breve distanza in tutti i suoi passaggi per sporcare le case. È una sensazione nuova e scopre che il pericolo, quello vero e reale che può fargli davvero male, in realtà è intrigante come il profumo di una bella donna. Poi lo vede sparire verso la camera e il miagolio della gatta. E a quel punto sa che è ora di completare il suo piano. La micia è ai piedi del letto e mi guarda, ma io non guardo lei. Non più del tempo che mi serve per vedere dov'è. Guardo il letto illuminato dalla luce giallastra che viene da fuori. Un letto con qualcosa di terribilmente sbagliato. Lei miagola a intermittenza, come una specie di morse e al suo ennesimo suono infilo la mano in tasca e tiro fuori la pistola. D'istinto. Ed è sempre l'istinto che mi fa prendere in mano il lenzuolo e tirare per scoprire quella strana forma che occupa il mio matrimoniale. Tossisco quando la vedo. Un accesso che rischia di trasformarsi in un conato, ma che si arresta prima di compromettere definitivamente quella che diventerà l'ennesima scena di un crimine. Poi, mentre sto per decidere da che parte cominciare, sento il rumore e mi volto di scatto. Ancora istinto. Lo stesso che mi dice che ho appena sentito la porta di casa mia chiudersi e che quello stronzo era ancora qui, nascosto da qualche parte, ad aspettarmi quando sono rientrato.
Pensa. Pensa velocemente come è abituato a fare. E si muove rapido e in silenzio. Cammina fino alla porta d'ingresso. E quando esce dall'appartamento comincia a correre più forte che può. Spalanco la porta di casa e stendo la pistola in avanti, stringendola con forza con tutte e due le mani. Il pianerottolo è vuoto. Guardo la cabina dell'ascensore e la porta che dà sulla tromba delle scale. È spalancata e senza nemmeno pensarci mi infilo. I passi li sento subito un paio di piani più sotto. Mi sporgo sulla tromba della scala per capire se posso beccarlo, ma non vedo niente. Allora comincio a correre dietro a quel fantasma che finalmente ha deciso di prendere una forma umana. Aggrappandosi alla ringhiera per girare intorno al primo piano ha rischiato di cadere. Si è tenuto al bastone di ferro laccato con tutte e due le mani ed è riuscito a mantenere l'equilibrio. Poi ha ricominciato a correre. La tromba delle scale è silenziosa e buia e i gradini sembrano sempre troppi. Per sapere quanti deve ancora farne ha tenuto il conto di quanti ce ne sono per ogni rampa. Gli serve per tenere il ritmo della corsa. Il suo e quello di Gabriele Riccardi che lo insegue e che corre senza dubbio più forte di lui. Lo sente soffiare fuori l'aria dai polmoni come proiettili e sente i suoi passi più vicini a ogni rampa. Un gradino. Poi due. Tre. Mezza rampa. E intanto conta. Manca poco e c'è il garage e allora infila una mano in tasca e sente sotto le dita la plastica fredda del telecomando. Poi vede la porta, l'ultima, quella che manda di sotto e la spalanca con una spinta dell'avambraccio. Mentre corre verso la macchina che ha parcheggiato già con il muso in avanti, preme il pulsante del telecomando e sente il cancello aprirsi. Sta infilando la chiave nel cruscotto quando dal retrovisore vede Gabriele Riccardi che spunta sbandando dalla porta delle scale. Quando sbuco in garage sento il motore che parte e vedo la Punto nera muoversi in direzione del cancello.
Allora mi fermo. Adesso ti fotto. Punto i piedi in mezzo alla rimessa sotterranea e sparo. Crepa, stronzo. Sparo. Sparo finché nel caricatore non è rimasto che il rumore dei colpi. Riccardi si ferma in mezzo al garage e per un attimo pensa che sia finita. Il primo colpo frantuma il lunotto posteriore della Punto in una pioggia di coriandoli di vetro. Lo sente fischiare sopra la sua testa, abbassata fino al punto che gli permette ancora di vedere la rampa del garage col cancello che si sta aprendo. Il secondo colpo centra la gomma posteriore sinistra. La macchina sbanda di lato, allora dà gas e sterza quel tanto che basta perché il colpo successivo, destinato all'altra gomma, finisca invece perso contro il cancello elettrico. Con un nuovo sparo il parabrezza esplode, riempiendogli i capelli di schegge piccole e grandi. Quando la macchina imbocca la rampa, sente la gomma di dietro rotolare come una scia di barattoli in una festa di nozze. L'ultimo colpo colpisce l'appoggiatesta del suo seggiolino. Si alza di scatto e guarda dal retrovisore. Riccardi non c'è più. Solo la rampa che scende nel sottosuolo. Sorride e pesta col piede sull'acceleratore. Quando i suoi occhi tornano a cercare la strada vede solo due fari enormi a poco più di un metro da lui. Allora frena e sente l'auto che comincia a girare. E mentre il paesaggio davanti a lui cambia troppo velocemente perché possa vederlo, pensa che se fosse religioso questo sarebbe il momento buono per trovare una preghiera. Cancemi gira a sinistra sullo stradone deserto e vede a meno di un chilometro da lui, le luci del parco di fronte alla casa di Gabriele Riccardi. Conosce quel parco. Quando abitava da quelle parti c'andava spesso a correre di sera. Allora non c'erano tutti quegli alberi e sembrava più una specie di distesa brulla e secca in cui si poteva solo intuire quello che poi sarebbe cresciuto. Arrivato a poco più di cento metri dal parcheggio rallenta per far passare una donna in carrozzina sulle strisce pedonali. Poi, mentre sta per infilare la prima e ripartire, vede una macchina sbandare fuori dal parcheggio della
casa di Riccardi. Ha una gomma a terra e il parabrezza esploso. E viene dritta verso di lui senza accennare minimamente a rallentare. Esco in cortile e la macchina si infila sulla strada senza nemmeno rallentare. C'è una Clio grigia che arriva in senso opposto. Corro verso il marciapiede e la vedo inchiodare, mentre la Punto le tira addosso, come un treno agganciato al suo binario che corre verso un suicida. Poi la Fiat frena urlando e comincia a girare su se stessa. Fa tre testa-coda prima di fermarsi e ripartire nella direzione opposta a quella della Clio, lasciando per strada l'odore di pneumatico bruciato. La Renault resta ferma in mezzo alla carreggiata, un uomo scende di corsa. «Commissario Riccardi, non spari!» mi urla fissando la mia pistola. Lo riconosco subito. La abbasso e mi fermo sul ciglio del marciapiede. «Hai visto qualcosa Cancemi?» «Solo che non aveva la targa. E che la macchina era distrutta.» «Già. Gli ho vuotato il caricatore addosso. Non credo che andrà lontano con quell'auto» spiego allungandomi nell'abitacolo per cercare il microfono della sua auto civetta. «Sta bene, commissario?» mi chiede. Mi alzo e mi appoggio al tetto dell'auto. Ho il cuore che tenta di uscirmi dallo sterno. «Sì, sto bene» dico, pensando al regalo che quell'uomo mi ha fatto trovare nel letto. Poi lo guardo. «Tu piuttosto. Che cazzo ci facevi qui?» Parcheggia esattamente accanto alla sua macchina, in uno stradino buio che ha scelto con cura. Quando si ferma e spegne il motore, sbuffa fuori in un soffio tutta la tensione della giornata. Poi si sporge verso destra, scuote la testa e una pioggia di vetri ricade sul sedile del passeggero. Si passa fra i capelli la mano guantata e toglie gli ultimi frammenti che riesce a sentire. Per gli altri, ci vorrà la doccia e molta attenzione. Sfila di tasca il sacchetto della spazzatura che ha usato per il trasporto, ci infila la maglietta che indossa, il telecomando rubato e gli occhiali. Scende, chiude lo sportello e guarda la macchina. Sembra uscita da un bombardamento aereo. Frena una risata isterica, poi butta i guanti dentro al sacchetto, apre con il telecomando la sua macchina, butta il sacchetto nel bagagliaio e si infila una felpa pulita. Lentamente guida verso casa e passando per un baracchino aperto, sui
viali, si ferma a comprare una bottiglietta d'acqua minerale. «Mi hai regalato un cane da guardia?» chiedo e Ippoliti sta per rispondere qualcosa. Poi entriamo nella mia stanza da letto e la frase gli muore in gola. La scena è molto diversa da quella che ho visto prima e che ho tentato di raccontargli mentre salivamo, ma la sensazione non cambia. Ci sono gli uomini della scientifica che stanno cominciando il loro lavoro. La luce accesa e il lenzuolo completamente abbassato mostrano cose che non avevo nemmeno notato, la prima volta che ho spalancato quel sipario. «Mio Dio...» mormora Ippoliti. Ho la testa che mi gira e comincio a credere che forse dovrei riprendere a fare qualche corsetta, se un semplice inseguimento come quello mi fa sentire uno zerbino vecchio messo fuori dalla porta di una discoteca al sabato sera. Poi cerco di guardare meglio i particolari. Anna Malvezzi è distesa nuda nel mio letto. Ha gli occhi spalancati in un'espressione terrificante e le labbra chiuse, sigillate. Il corpo è di un biancore spaventoso e non c'è una sola goccia di sangue. La gola è squarciata in due punti, sotto al mento e nel lato destro del viso. Su entrambe le guance c'è una specie di foro circolare che lascia intravedere l'arcata dentaria superiore. I seni, i fianchi, parte dell'addome, le grandi labbra, le cosce sono ricoperte di una quantità spropositata di morsi circolari da cui dovrebbe essere facile ricavare un'impronta dentaria. Anche se so cos'è. «Quel bastardo l'ha fatta mangiare dal gatto» spiego, e Ippoliti mi fissa senza mettere a fuoco quello che sto dicendo. «Guarda» gli dico e avvicinandomi al cadavere gli mostro uno dei morsi che ricoprono il seno sinistro. Poi gli faccio vedere il mio avambraccio destro. «E adesso guarda questo.» «Cristo» sussurra guardando l'impronta dei dentini che la gatta di Alice mi ha lasciato un paio di giorni fa, per farmi capire che non voleva più essere tenuta in braccio. «Questo tizio ha un gatto» dico. «E a giudicare dai morsi, una bella bestia grossa» concludo, prima di sentire le ginocchia che mi cedono. «Gabriele!» urla Ippoliti mentre cado picchiando la rotula sinistra sul pavimento e guardando la stanza muoversi in una strana rotazione caleido-
scopica. Poi scivolo all'indietro, su un fianco e Ippoliti tenta di sorreggermi. Allora penso ai gesti che ho fatto e li rivedo tutti all'indietro, veloci, fino al primo. Ho scoperto il lenzuolo. Ho stretto il lenzuolo e ho scoperto il corpo della Malvezzi. «Non toccate niente senza guanti» tento di urlare e i due della scientifica che mi stanno sopra si guardano le mani coperte dal lattice bianco. «Non toccate niente da nessuna parte» dico, ma ormai mi esce solo un sussurro. «Un'ambulanza, presto!» urla Ippoliti. Lascio andare la testa all'indietro e la mia mano mi entra nel campo visivo. È rossa e con delle strane ulcere sul palmo. «Tranquillo» dice Ippoliti intercettando il mio sguardo. «Tranquillo. Andrà tutto bene. Cerca di stare sveglio.» Si dice sempre così. Cerca di stare sveglio, non mollare, non ti addormentare. L'ho detto troppe volte anch'io. «Che cazzo succede?» dico e penso che è finita qui. Che non c'è più niente che posso fare. Che quello stronzo ha vinto la sua battaglia. L'ultima cosa che sento distintamente è la sirena dell'ambulanza. «Presto!» dice qualcuno, vicino a me. Poi tutto si fa buio. Undici Bologna, 3 maggio. Dieci e quindici «Voglio i nomi e gli indirizzi di tutti i medici dell'ospedale con un'età fra i trenta e i cinquantacinque anni.» La mattina era grigia e opaca come una vecchia Trabant, quando Ippoliti è entrato nell'ufficio della direzione generale del policlinico Sant'OrsolaMalpighi, circa mezz'ora prima della frase che ha appena pronunciato. Ora che ha finito di spiegare quello che gli serve, c'è un largo squarcio di azzurro che tenta di far filtrare un po' di sole, ma è ancora troppo poco per sperare che il tempo possa mettersi al meglio. «Vuole un po' di caffè?» Il direttore generale dell'azienda ospedaliera si chiama Paolo Venuti ed è un uomo duro e silenzioso che lo ha ascoltato immobile, le mani intreccia-
te, un dito ad accarezzare morbidamente la fede. «Grazie, professore» dice Ippoliti. Venuti si alza. «Allora andiamo. La macchinetta qui in fondo ne fa uno assolutamente orribile.» Ippoliti sorride e lo segue in silenzio attraverso il corridoio. Davanti al distributore, il professore schiaccia qualche pulsante colorato e dopo poco il caffè comincia a scendere. «La richiesta che mi ha fatto mi lascia qualche piccolo dubbio» dice il professore, allungandogli il bicchierino col caffè. Ippoliti lo prende per il bordo e ne beve un sorso. «La capisco benissimo. Ma sappia che riusciremo ad avere comunque le informazioni che le ho chiesto.» Venuti annuisce. «Lo so. Ed è proprio per questo che sto pensando cosa è meglio fare.» Beve un sorso di caffè. «Da una parte ho la necessità di preservare il diritto alla privacy del personale medico. Dall'altra devo pensare all'interesse della struttura.» Butta il bicchierino di carta nel cestino e mima con le due mani, i piatti di una bilancia. «E sono sicuro che se ci fosse una richiesta da parte di un giudice la cosa difficilmente rimarrebbe fra queste quattro mura. E sarebbe ancora peggio.» «Sono d'accordo. Vorrei solo dirle una cosa, professore. Noi siamo sicuri che da qualche parte fra queste mura ci sia un assassino spietato. E credo che quello che le ho chiesto sia non solo un favore che fa all'azienda ospedaliera, ma anche a tutti i medici che lavorano qui dentro. Non penso che la sua struttura abbia bisogno di certa pubblicità sui giornali.» Venuti fissa un istante gli occhi di Ippoliti. Poi solleva i sopraccigli e incrocia le braccia. «Sono francamente allibito per quello che è successo a quella dottoressa che mi dicono anche brava e competente. Quante possibilità ci sono che lei abbia ragione?» «Molte, professore» risponde Ippoliti, forzando quella che per adesso è soprattutto una questione d'istinto. «Vedrò di farle avere al più presto quella lista. Un paio di giorni al massimo.» Ippoliti gli allunga la mano e Venuti la stringe. «Grazie. E se ha bisogno di dare una priorità, cominci dal padiglione dove si trova il reparto rianimazione.» Il professore annuisce. «Come sta il commissario Riccardi?» chiede prima di congedarsi.
«Tra poco lo saprò con certezza. Ma credo che sia stato solo un brutto spavento.» Infilandomi la camicia che qualcuno mi ha tolto la sera prima firmo il modulo che il dottore mi allunga. «Esce sotto la sua responsabilità» mi dice e io annuisco. Guardo Ippoliti. Appena mi ha raccontato quello che ha fatto prima di venire da me, mi sono incazzato. Poi, ripensandoci a mente fredda, capisco che la sua visita alla direzione del policlinico è stata una buona idea. Chiunque sia l'uomo che stiamo cercando, è molto probabile che lavori lì. L'omicidio di Anna Malvezzi è un dettaglio che non mente. «Deve prendere queste per tre giorni. Due volte al giorno» mi dice il dottore allungandomi un blister con delle pillole rosa e gialle. Le metto nel taschino della giacca. «Va bene» dico. In circostanze diverse le avrei buttate via. Ma non questa volta. Mi sono preso troppa paura per ignorare quelle medicine. Una paura che credo mi ricorderò per tutta la vita. «Che cosa mi è successo esattamente?» chiedo e gli passo il foglio firmato. Lui controlla che sia tutto compilato, poi alza gli occhi e mi guarda. «Dobbiamo aspettare le analisi per essere certi. Pensiamo che possa essere stata una reazione allergica, ma che probabilmente non ha niente a che fare con il calo di pressione che l'ha fatta svenire in quel modo. Come se si trattasse di due problemi diversi. La corsa che ha fatto ha sicuramente aiutato il lavoro della sostanza che le è stata somministrata attraverso il lenzuolo.» Sorrido pensando all'inseguimento e al fatto che gli unici rischi che quel bastardo ha veramente corso sono stati i proiettili della mia pistola e la possibilità che vedendolo lo potessi riconoscere in qualche modo. In realtà, non è mai stato in pericolo di essere catturato. Sarei svenuto prima di poterlo arrestare. «Mandate gli esami alla scientifica appena possibile» dico e il medico annuisce. È uno giovane, ma con una faccia troppo seria che lo fa sembrare più vecchio. «Si ricordi di prendere le pillole» si raccomanda quando esco dal reparto e dal fondo del corridoio lo saluto con un gesto della mano. «Come stai?» mi chiede Ippoliti non appena restiamo soli. «Come uno che ha fatto un frontale con il pendolino. Per lo meno non ho più la testa che mi pesa novanta tonnellate. Diciamo che sto bene e non
parliamone più. Piuttosto, per prima, mi dispiace di essere stato...» «Ok» mi interrompe. «Non c'è problema, davvero.» «È stata una buona intuizione.» «Probabilmente avremmo dovuto pensarci prima, ma stiamo correndo dietro ai suoi gesti dimostrativi. Adesso è ora di fargli capire che qualcosa possiamo farla anche noi. Tu, però, sarebbe meglio che non tornassi a casa stasera.» «L'hanno disinfettata e sterilizzata?» «Sì.» «Allora è chiaro che ci torno.» «Sei sicuro che sia una buona idea?» «Sì. Non sono vivo per sbaglio. Non mi voleva uccidere. È stato solo un avvertimento per farmi capire che può colpire chiunque. Ovunque. E che non potrò mai essere al sicuro.» Lo guardo. Non sembra convinto, ma la decisione è mia in ogni modo. «Come vuoi» dice mentre arriviamo alla macchina. «Comunque da oggi pomeriggio voglio un uomo a sorvegliare la stanza di Alice. Quello stronzo potrà anche farmi la pelle, ma a lei ha già fatto male abbastanza.» Cammina per il corridoio e si guarda intorno. È un'abitudine che ha sempre avuto, fin da bambino, ma che nelle ultime settimane ha accentuato. E che ora deve tenere sotto controllo come una poesia da recitare la notte di Natale. Ha pensato molto se valeva la pena di uccidere Anna Malvezzi e attirare l'attenzione su di sé. Poi ha capito che comunque il bersaglio si stava per spostare proprio in quel reparto, fra quei corridoi, in mezzo a quelle stanze. Che l'unico modo per tenere nascosta la scoperta della dottoressa fosse ucciderla e per avvertire chiunque sapesse, della fine che lo aspettava, se avesse parlato. Un buon esempio aiuta più di ogni altra cosa. Lo sa molto bene. Lo ha verificato l'unica volta in vita sua in cui ha dovuto fornirne uno. Certo può sempre succedere che le cose cambino. Ma dubita che succederà così in fretta da impedirgli di finire quello che ha in mente. E che ormai sta per accadere. Questione di poco. Solo di piccoli passi. Come quelli che sta facendo lungo il corridoio e che lo portano alla stanza di Alice Mantovani, distesa immobile sul letto mentre le infermiere la lavano e cambiano le flebo.
Entra, saluta e loro gli sorridono. Poi si volta, controlla gli altri pazienti, parla un istante con un parente ed esce. Senza dimenticare di salutare con cortesia i due poliziotti di guardia che, come aveva previsto, da quella mattina il commissario Riccardi ha consegnato alla sorveglianza della sua donna. «Ti ricordi di me, non è vero?» dice la voce al telefono e l'agente Guido Milani riconosce subito di chi si tratta. Nemmeno un dubbio, anche se non la sente da molti anni. La voce di quel vecchio non si può dimenticare facilmente. «Che cosa vuoi?» gli chiede. Preme più forte il cellulare sull'orecchio e si infila sotto un portico per ripararsi dalla pioggia. Deve aver cominciato di notte a diluviare così, perché quando si è svegliato i tetti delle case erano già lucidi e le strade fradicie e nere di pioggia. «Sentimi bene, Milani. Ti ricordi quel debito che abbiamo?» Una macchina passa a tutta velocità e gli schizza i pantaloni con una lunga striscia d'acqua. Trattiene in bocca una bestemmia. E non solo per la chiazza di bagnato. «Sì me lo ricordo.» «Bene, è venuto il momento di saldarlo.» Guido Milani si appoggia a una colonna del portico di via Ugo Bassi e aspetta. Se c'è una cazzata che ha fatto in vita sua è stata rubare quel pacchetto di cocaina alle persone sbagliate. Aveva perso un sacco di soldi in uno dei suoi tanti poker maledettamenti sfigati e ne aveva bisogno. Quel pacchetto era lì. Una tentazione troppo grande per resistere. Da quel giorno aveva aspettato il momento in cui il vecchio sarebbe venuto a presentare il conto. Non aveva mai capito come fosse riuscito ad avere quelle fotografie e quali fossero i suoi veri scopi. Poteva rovinarlo in qualunque momento e non lo aveva ancora fatto. Lo aveva tenuto sospeso, in attesa di qualcosa. Qualcosa che a quanto pare, alla fine, era arrivato. «Cosa vuoi da me?» chiede e forse la voce gli trema un po'. «Devi dirmi tutto di Gaspare Nunia.» Guido Milani tenta di sembrare tranquillo. «E che cazzo ne so io?» «Non lo so che cazzo ne sai. Ma questo è il tuo compito da bravo bambino. Lavori ancora con Riccardi, no?» «Sì.» «Bene. Se lo prendono a Bologna allora lo prende Riccardi. E se tu sai
qualcosa me lo dici. Questo è il pagamento che voglio da te, la prima rata per lo meno. Da ora in poi ti chiamo tutti i giorni. Due volte al giorno.» «E se non facessi i compiti?» Adesso è il vecchio che ride. Una risata finta che sa di denti ingialliti e marci e di fumo di troppe sigarette. «Non ho ancora capito se il tuo profilo migliore sia il destro o il sinistro, Guido. Ma dopo mi guardo le tue foto e poi decido. Salutami tua figlia.» Riaggancia. E Guido Milani resta fermo sotto al portico con il telefonino premuto ancora sull'orecchio a guardare l'autobus che attracca alla fermata scaricando un fiume di gente in fuga dall'acquazzone. «Come sta, Riccardi?» mi chiede il questore e ormai ho perso il conto di quante persone me lo hanno già chiesto da quando sono uscito dall'ospedale. Anche lui lo ha già fatto, all'inizio della nostra conversazione. «Bene» gli ripeto e per quanto riguarda il mio stato fisico è la verità. Ma solo per quello. Qualunque cosa mi abbia infilato nel sangue quello stronzo, se ne deve essere andata, diluita come la scia di schiuma di una barca. «Sarò sincero, Riccardi» riprende dopo avermi squadrato. «Sono stato molto indeciso se toglierle questa indagine oppure no. Troppi coinvolgimenti personali e troppe cose poco chiare nascoste sotto. Poi ho pensato che alla fine lei aveva un motivo per arrivare fino in fondo e che quel motivo poteva essere d'aiuto. E allora l'ho fatta continuare. Ma non mi sarei mai immaginato che lei venisse da me con una storia come questa. Questo scienziato è un personaggio francamente inimmaginabile.» «Forse è per questo che nessuno sa che esiste.» «Cosa intende fare?» «Trovare Gaspare Nunia. Bisogna intensificare i posti di blocco, i controlli e la sorveglianza.» «E per quanto riguarda Teresa Rizzo?» «Ho parlato con sua madre, ma non è stata di grande aiuto. Anche se...» «Anche se?» «Ho l'impressione che ci sia qualcosa che non vuole dirmi. O che non riesce a dirmi.» «È comprensibile, non deve essere facile per quella donna parlare proprio con lei.» «Probabilmente è per quello. Ma non ne sono sicuro.» Si alza. La conversazione è finita. Andate in pace. «Candido Giulio è al sicuro adesso, non è vero?» mi chiede.
«Per quello che possiamo fare non potrebbe esserlo più di così, signor questore.» «Faccia attenzione, Riccardi.» Lo guardo e stringo la mano che mi porge. «E perché dovrei?» chiedo. Poi esco dal suo ufficio. «Volevo avvertirti, Pietro» dice l'uomo, mentre si affaccia alla grande terrazza e guarda sotto, verso Bologna. «La vista da qui è quasi uguale a quella di casa nostra.» Pietro gli si avvicina e guarda con distacco il bosco e più giù i tetti delle case. «Troppo silenzio» sussurra, poi tossisce. L'uomo gli mette con delicatezza una mano sulla schiena. «Lo sai che per i tuoi polmoni la città è una bestemmia. Ormai ci si intossica a tenere la finestra aperta.» Pietro respira a lungo, finché il colorito non riprende il suo naturale pallore. «Forse. Ma qui c'è troppo silenzio» ripete. Poi guarda il cielo, lontano. «Ti sei chiesto se è giusto quello che fai?» L'uomo si volta. «Sì, me lo sono chiesto» risponde, senza alzare il tono della voce. «E sai che non avevo scelta.» Pietro guarda i suoi occhi e capisce perché dopo tutti questi anni continua a essere legato a quello strano patto che hanno concluso tanto tempo prima. Ha paura di lui. Voltandosi per non farsi vedere pensa che c'è sempre una scelta. Anche lui ne avrebbe una per sottrarsi a quell'uomo che ha visto crescere. Ma è troppo codardo per prenderla. «Pensi che arriveranno?» gli chiede. L'uomo lo guarda e i suoi occhi tornano quelli gentili di sempre. Si è chiesto più di una volta se siano proprio quegli occhi a nascondere alla gente che cos'è in realtà. Se basti uno sguardo potenzialmente buono perché qualcuno si fidi di un altro essere umano. «Forse. Ma non per collegarti a me.» «Questo l'ho capito» dice e tossisce di nuovo. «Hai preso le medicine che ti ho dato?» chiede l'uomo quando l'accesso si calma. «Sì, sì. Lo sai che faccio tutto quello che vuoi.» Fa una pausa. «Sempre.» «Non c'è niente da preoccuparsi» dice, ma sembra parlare con se stesso.
«Sai che nessuno può farti niente.» Pietro lo guarda e si siede sul divano. Lo sa che nessuno può fargli niente. Sa che la campana di vetro sotto il quale lo ha messo - o si è messo da solo - è totalmente infrangibile. Solo una volta qualcuno ha provato a infrangerla. È stato un russo. Peccato che i suoi killer non fossero all'altezza del loro compito. Quello che gli ha sparato, entrando dalla finestra della terrazza, non aveva una gran mira e nemmeno le palle per un colpo di grazia alla tempia. Pietro si è chiesto spesso cos'abbia pensato quando ha sentito la gola stringersi dopo aver mangiato uno yogurt. Se abbia capito che non era il Caso che era andato a trovarlo. E si è chiesto spesso anche cos'abbia pensato il russo dopo essere stato avvertito che sua moglie era in fin di vita perché qualcuno aveva mescolato dell'acido al suo detergente intimo. Non lo ha mai saputo e ogni tanto il pensiero gli torna. Però sa che da allora nessuno ha mai osato toccarlo e che qualcuno, andandolo a trovare, lo ha perfino chiamato Don. Uno nato fra Reggio Emilia e Parma e che da piccolo puliva le mucche nella stalla. «No, nessuno può farmi niente» dice con un filo di voce. Ed è la voce triste di un uomo prigioniero. Guarda l'altro, accanto alla finestra e pensa che in fondo è esattamente uguale al bambino che ha addestrato a entrare nelle stanze chiuse, a muoversi senza rumore, a non fermarsi di fronte a nessuna serratura. Un bambino triste e solo che è diventato un uomo forte e che gli ha dato tutto quello che voleva, quella casa, la cura della sua salute malandata, soldi e il sentimento più simile all'amore che è capace di dare. Un uomo che nessuno conosce veramente tranne lui. Un uomo che dopo quel colpo di pistola del russo è venuto in casa sua e in una notte di diluvio lo ha operato lì, portandosi i ferri sterili da casa, perché nessuno in ospedale potesse fare domande. E che gli è rimasto accanto finché non ha saputo arrangiarsi di nuovo da solo. Un uomo che è l'assassino più pericoloso in circolazione. Perché è il più abile e il più freddo. Perché non lascia tracce. Come un fantasma. «Stai bene?» chiede girandosi all'improvviso verso Pietro. «Sì. Mi chiedevo se non fosse il caso di parlare con quella donna. Come si chiama...» «Donatella?» «Sì, Donatella. In fondo è lei che...» «È venuta all'ospedale, sai? L'ho vista arrivare. Ma non ha avuto il co-
raggio di salire e di entrare.» «Pensi che abbia capito qualcosa?» L'uomo scrolla le spalle. «Non è molto importante a questo punto» dice, e anche se è abituato a sentire le sue parole, Pietro rabbrividisce perché non c'è nessuna umanità in quello che ascolta. «Ma lei è pur sempre...» «Devo finire quello che ho iniziato» dice piantandogli lo sguardo dritto in mezzo agli occhi. E questa volta alza appena la voce. Il massimo dell'irritazione che si concede. «Sono così stanco che tu non puoi nemmeno immaginare.» Si siede accanto a lui e gli prende le mani. «È cambiato tutto in quest'ultimo anno. Tutto. Io rivoglio solo la mia vita. Rivoglio soltanto quello che è mio. E voglio solo che chi mi ha fatto del male paghi. Paghi con quello che è giusto pagare. Io e te sappiamo che c'è un prezzo per ogni cosa, non è vero?» Pietro annuisce. Sta pensando che anche la sua libertà ha un prezzo. Quella casa è il suo prezzo. Quella vita, quella tranquillità. Quella solitudine. E che anche lui vorrebbe indietro la sua vita. Solo che non può. Perché da quella situazione potrebbe uscire solo con la morte. «Una cosa sola non ho capito» gli chiede e l'uomo lo guarda stupito. «Perché hai liberato il siciliano?» L'uomo sorride e si alza. «Hai presente la vecchia casa?» «Quella dei tuoi genitori?» «Quella. Quando i miei hanno comprato il papà di Sansone e gli altri gatti lo hanno fatto per i topi. Gatti in casa, niente topi. È così che funziona.» «E quell'uomo è il tuo gatto.» Adesso sorride davvero. Con gli occhi e con tutto il viso. «Sì. E senza saperlo ucciderà per me un topo che si è rintanato in una buca troppo profonda. Poi toccherà a lui. E alla fine il poliziotto. Non prima di avergli fatto provare fino in fondo cosa significa quando qualcuno che ami se ne va per sempre.» Leggo la lista del personale del reparto di rianimazione e penso al cadavere di Anna Malvezzi disteso nel mio letto. Allo sguardo spalancato su qualcosa di troppo orribile per essere vero. E cerco di immaginarmi un gatto, una di quelle bestie da una decina di chili, che le cammina sul corpo e la morde. Ma non per giocare. Per mangiarsela.
«Perché la Malvezzi?» mi chiede Ippoliti e per fortuna arriva quella domanda. Mi evita di proseguire nel mio delirio da horror di serie B. «Ha scoperto qualcosa» dico e appoggio il foglio che il direttore dell'azienda sanitaria ci ha fatto avere per e-mail, come anticipo della lista completa. Li conosco tutti quei nomi o quasi. «Sì, ma in questo modo ha attirato l'attenzione.» Mi appoggio allo schienale della sedia e guardo fuori. In lontananza sta arrivando un temporale. Attraverso la finestra vedo le nuvole scure, una larga striscia di azzurro e la luce grigia e viola che si abbassa sui tetti delle case, che da rossi diventano marroni. Mi piace Bologna dopo un temporale, di sera. Assomiglia a una donna che si risveglia piano in un giorno di festa. «Si sente sicuro» dico. «Comunque vada è convinto di poter fare tutto quello che vuole senza essere preso. E vuole che sia chiaro che è lui che conduce il gioco. E io quello che deve avere paura.» Mi alzo. Ho bisogno di sentire le gambe che si muovono. «E poi,» continuo «credo che il modo in cui ha ucciso la Malvezzi sia significativo.» «Pensi a un rito?» Appoggio il sedere al davanzale della finestra. «Penso a un esempio.» «Un esempio?» «Vedi, io ho visto la Malvezzi. E mi è sembrata una persona molto decisa che non si arrende facilmente. Salvi mi ha detto che era una rompipalle, una che seguiva la sua strada anche se ci doveva camminare da sola. Una così, in un reparto ospedaliero, non ha tanti amici.» «Però forse qualcuno sì.» «Esatto. E il messaggio di quel cadavere è chiaro. Se qualcuno sa qualcosa conviene che stia zitto. Altrimenti...» «Altrimenti finisce molto male» conclude secco Ippoliti. «Non riesco a non pensare che forse la Malvezzi sarebbe ancora viva se fossi meno stupido. Voleva dirmi qualcosa e io non le ho dato importanza. Non quando avrei dovuto.» «Non potevi sapere. E poi poteva sempre venire qui.» «Certo, bastava venire qui. Ma sai anche tu che la gente è fatta in un modo strano. Forse pensava di trovare l'occasione di beccarmi da solo in reparto. O forse voleva essere sicura di quello che aveva scoperto. Però di certo qualcosa d'importante lo aveva trovato. E adesso dobbiamo trovarlo noi. Se Salvi l'avesse lasciata avvicinare, avrei potuto ascoltarla e adesso forse le cose sarebbero molto diverse.»
«Stai pensando che Salvi possa essere...» Lo interrompo e prendo in mano la lista del personale. «Lo vedi questo foglio?» gli chiedo. «Il nostro uomo è su questo foglio. Potrebbe essere un medico o un infermiere. E Giovanni Salvi è su questa lista. Se mi chiedi se sospetto di lui, allora ti dico che da oggi non mi fido più di nessuno.» Appoggio il foglio sulla scrivania. «Di nessuno» ripeto e mentre lo dico sento con assoluta certezza che è la verità. E che vale anche per me stesso. A mezzanotte e dieci il silenzio nel corridoio della rianimazione è praticamente perfetto. Fuori piove da più di un'ora. Gocce grosse come secchiate alternate a una pioggerellina fitta, quasi autunnale, che si attacca ai pensieri e mette tristezza. E tristi sono i pensieri di Francesca Aliprandi, infermiera del turno di notte, che rompe il silenzio con il suono dei suoi zoccoli. Arriva dal bagno e uscendo dalla porta si sta ancora asciugando gli occhi gonfi e rossi di pianto. Quello stronzo di Gianni, il suo fidanzato, ha pensato bene di mandarle un paio di sms per spiegarle senza mezzi termini che la vuole mollare. Lei ha provato a chiamarlo, ma lui le ha sbattuto il telefono in faccia al terzo squillo. E poi ha spento il cellulare. E al messaggio di servizio della TIM, Francesca non ha avuto altra scelta che chiudersi in bagno e far sfogare tutte le lacrime che si è sentita crescere in gola. Adesso, mentre esce dal bagno, si sente quasi meglio. Ma sa bene che è un'illusione. Come quando fai un incidente e ti rompi qualcosa. Il dolore vero non lo senti subito, solo dopo un po'. «Tutto bene, Francesca?» le chiede il dottore e lei lo guarda e cerca di sorridere. Ma poi smette, perché anche se ride le viene da piangere. «Tenga» le dice lui e le allunga un fazzoletto. «Non c'è bisogno, dottore.» «Mi faccia essere cavaliere, no? Altrimenti che cosa ci sto a fare qui.» Francesca prende il fazzoletto pulito e si asciuga ancora la faccia. Per fortuna che ha incontrato lui. Se la beccava il professore era finita. Le faceva una cazziata da farsi venire i lividi. Il dottore invece è buono. Lo si vede dagli occhi. «Piove ancora» dice lui sbirciando dalla finestra del corridoio e avviandosi verso la rianimazione. In fondo, davanti all'altra finestra, c'è uno dei
due agenti di guardia ad Alice Mantovani. L'altro è a meno di due metri e cammina nervosamente avanti e indietro. Francesca li guarda e pensa che tutto quello che sta capitando è una gran brutta storia. Prima quella ragazza e il suo moroso poliziotto che fa pena a vederlo tanto è triste. Poi la dottoressa Malvezzi, che non era molto gentile, ma da lì a pensare che meritasse la fine che ha fatto. E adesso ci sono anche i poliziotti in reparto. Li guarda ancora. Uno dei due sta parlando col dottore. Parlano piano e le sembra che ridano. Anche a lei piace ridere. Anche troppo. Il suo ragazzo - che Dio lo stramaledica - le ha detto una volta che quelle che ridono come lei finiscono per sembrare stupide. E lei, lì per lì, non ha saputo cosa dire. Sbircia ancora un attimo il dottore che parla con i poliziotti, poi apre il fazzoletto, si soffia il naso cercando di non far rumore e si infila in guardiola. Ha appena messo piede dentro quando arriva l'allarme. Letto uno. Alice Mantovani. Esce di corsa dallo stanzino e vola verso la camera. Il dottore è già dentro. «Crisi cardiaca» dice serio appena la vede. E Francesca Aliprandi sa che quella notte forse riuscirà a non pensare ai messaggini di Gianni. Bologna, 4 maggio. Sette e cinquantasette Quando esco dal reparto di rianimazione sono quasi le otto del mattino. La notte l'ho fatta lì, avanti e indietro nel corridoio, a imbottirmi di caffè e a parlare con Giovanni e Donato Aiuti. E a guardare Alice, dietro al vetro, che si tiene aggrappata al respiro con una corda che diventa sempre più sottile. «È una donna forte» mi hanno detto tutti. E a me viene in mente che spesso una donna che appare forte sembra sempre che stia bene se la guardi da fuori. E invece la gente bisognerebbe guardarla da dentro. Alice è lì, su quel letto, da troppo tempo, da troppi giorni, e se la guardi da fuori, da dietro il vetro come faccio io, sembra che dorma. Se riesci a non vedere quei tubi e i monitor, se riesci a isolare solo una donna su un letto, la vedi dormire. Anche stanotte, anche quando la faccia di Giovanni Salvi era scura come una lampadina bruciata, Alice sembrava sempre solo una donna che dormiva se la guardavi da fuori.
Un po' come nella vita, dove se non la conosci puoi pensare che tutto le scivoli addosso, come una doccia calda. Solo perché il dolore resta dentro, chiuso. E non è capace di uscire. Un po' come il mio quando mi sono infilato nel bar vicino alla grande fontana, appena fuori dal reparto e ho preso un caffè in silenzio. E ho sorriso a un bambino che mangiava un enorme krapfen impiastricciandosi di Nutella anche le punte delle scarpe. Anche a me il dolore resta dentro, nascosto, e nessuno si accorgerebbe che sto male. Solo che ho passato una notte insonne, guardandomi gli occhi cerchiati, la barba incolta e la camicia azzurra sgualcita che infilo nei pantaloni prima di salire in macchina. La telefonata del dottor Bevilacqua mi prende mentre sto facendo manovra all'altezza della camera mortuaria e i viali sono già pieni di macchine e di automobilisti resi isterici dalla pioggia sottile che non ha mai smesso di cadere, da ieri sera. Per poco, mentre il patologo mi racconta com'è morta Anna Malvezzi, non investo un ragazzo che per prendere l'autobus attraversa la strada senza guardare. Inchiodo a poco più di venti centimetri dalle sue gambe secche e lui si ferma un attimo a fissarmi mentre lo mando a cagare, come se fossi sceso da Saturno con gli anelli al collo. «Sarebbe morta comunque» ha detto Bevilacqua ed è quella frase che mi ronza nella testa mentre con la macchina salgo per via San Mamolo. Non importa che le abbia incollato le labbra con un banale adesivo ultra-rapido ed efficace, non importa che prima le avesse stipato la bocca di croccantini di una marca scadente e - «non so come abbia fatto» mi ha detto Bevilacqua - aizzato la fame del gatto contro di lei. Non importa che l'abbia legata mani e piedi e immobilizzata a croce. È quel comunque che continua a scivolarmi addosso. Perché prima di legarla al tavolo le ha fatto una puntura di un estratto di una pianta, l'aconito. Un estratto velenoso, mortale. Anna Malvezzi sarebbe morta comunque. Aveva già deciso di ucciderla prima di mettere in scena la sua morte. E una volta di più, mentre suono il campanello della grande villa che sovrasta Bologna, penso che la sua morte sia stata un avvertimento. Una punizione esemplare. «Sono il commissario Riccardi» rispondo al gracchiare dell'interfono e il cancello elettrico si apre lentamente, lasciandomi intravedere il vialetto e la casa di mattoni rossi, in fondo. Sulla porta d'ingresso c'è una donna. Avrà circa quarantacinque anni e una gelida compostezza che mi mette a di-
sagio. «Mio padre non sta bene, come lei saprà» mi spiega mentre saliamo le scale verso il piano di sopra. E anche raccontando della malattia dell'uomo che sto andando a incontrare, il tono della sua voce rimane piatto, freddo, lontano. Come tutto il resto in quella casa, anche la donna sembra distante dal mondo, apparentemente indifferente a quello che le succede attorno. Si ferma davanti a una porta di legno, in fondo a un lungo corridoio pieno di finestre e con un gigantesco terrazzo che spia da lontano il panorama di Bologna. Vista da lì, con la pioggia che scende sempre più rapida, sembra avvolta in una strana nuvola di vapore umido e i tetti delle case prendono una sfumatura di grigio che mi ricorda il cielo di certe giornate di inverno, al mare. «Mi raccomando» dice la donna prima di aprire la porta. «Non lo stanchi troppo.» «Stia tranquilla. E mi scusi per lo scarso preavviso.» «Prego» risponde soltanto e mi lascia entrare. «Chiudi la porta» grida una voce profonda e anziana appena sono entrato. E la porta si chiude immediatamente. La stanza del professor Franco Dossena è grande quanto metà del mio appartamento. Due lati sono occupati dalla libreria, alta fino al soffitto. Di fronte alla finestra che porta sul terrazzo c'è un tavolo basso di legno circondato da tre poltrone di pelle. E poi, a sinistra dell'ingresso, c'è il letto: semplice, come tutto l'arredamento. Il professore è di fronte alla finestra e tiene le tende scostate con la mano sinistra. Guarda dritto di fronte a sé il bosco che sale sulla collina e sparisce nella foschia. Non mi sente arrivare finché non gli sono praticamente a un metro. «Buongiorno professore» dico. E lui si volta. È alto e magro come una canna di bambù, ma le spalle sono ancora diritte e gli occhi troppo vivi per arrendersi al passare degli anni. La mano destra è occupata da un bastone. Usandolo si gira in un tempo che a me pare molto lento. Per un attimo sono tentato di aiutarlo, ma lo sguardo con cui brucia in anticipo ogni mio tentativo di avvicinarmi è sufficiente a scoraggiarmi. Guardandolo capisco da che ramo della famiglia sono arrivati i cromosomi della figlia. Mi allunga la mano. Una stretta che un tempo doveva essere stata forte ora è solo un accenno. Qualcosa che cerca di partire, ma che non decolla mai. «Piacere di conoscerla» dice e si siede con la stessa lentezza su una
delle poltrone di pelle. Una volta accomodato mi fa cenno con il bastone di prendere posto davanti a lui. «Sua figlia mi ha...» «Mia figlia crede che sia un idiota» mi interrompe subito. «E io credo che invece l'idiota sia lei. Così siamo pari. In realtà non ci siamo mai presi troppo. Ma credo che sia colpa mia. O che lei ne sia convinta.» Non so se sorridere o far finta di niente. Dossena mi guarda. Reggendo quello sguardo penso che probabilmente sta cercando di capire il motivo per cui gli sono capitato in casa. L'unica cosa che ho saputo dirgli ieri è stato che sto conducendo un'indagine su un suo vecchio paziente e che ho bisogno di sapere se si ricorda qualcosa. In realtà non mi aspetto troppo ed ero disposto anche a parlare solo al telefono. Ma ha insistito perché salissi fin lassù, come se le visite fossero talmente rare da desiderare con tutto il cuore di ricevere persino quella di un poliziotto. «Allora, commissario, vuole chiedermi qualcosa o pensa di stare in silenzio tutto il tempo» comincia. «Sa, ho il diabete e ce l'ho da anni. Solo che il mio cuore ultimamente non ne è più tanto entusiasta. E la mia gamba nemmeno. Così ho dovuto mettermi a riposo.» Con l'indice si picchia la tempia. «La mia testa, però, è ancora a posto. Perfettamente funzionante. È il mio corpo che mi abbandona. Chieda pure. A meno che non voglia aspettare il mio prossimo infarto. Ne ho già avuti due. E sono di una generazione che crede ai proverbi.» «Sto seguendo un'indagine su una persona» gli dico e Dossena con la mano mi fa segno di continuare. «Una persona scomparsa circa tre anni fa. Le ultime notizie che ho sono che lo ha operato lei.» «Frattura del femore, immagino. Ho smesso di andare in sala operatoria circa in quel periodo e le ultime cose che ho fatto sono stati solo femori. Quindi non posso sbagliare.» «Infatti. Un femore rotto. Un certo Anselmi.» Prima che finisca di pronunciare il nome sento il rumore del bastone che picchia sul pavimento. «Guido Anselmi?» mi chiede e per poco non viene a me l'infarto che manca a lui per completare il proverbio. «Lo conosce?» «Un tipo più vecchio di me di qualche anno, stempiato, occhi chiari, la barba sale e pepe?» Mi infilo una mano in tasca e tiro fuori la copia della foto della sua carta d'identità. «Questo» dico e gli allungo la fotografia.
«Brutto Giuda, Guido Anselmi» sussurra. «Ingegnere se non mi sbaglio» dice e mi restituisce la foto. «Ingegnere.» «E che cosa è successo al caro ingegner Anselmi?» Appoggio i gomiti sulle ginocchia. «Che da quando è uscito dal suo ospedale non so più dove sia finito.» «Beh, una decina di giorni dopo la dimissione glielo dico io dov'era. Seduto al suo posto con un bicchiere di vino in mano.» No. Ho bisogno di capire. Allora mi sistemo sulla poltrona, guardo un istante fuori dalla finestra e poi cerco lo sguardo di Dossena. «Mi racconti tutto.» Lui non sembra minimamente scosso. «In realtà è molto semplice. Anselmi viveva a Bari, a quanto ne so. Era a Bologna a trovare un amico. Un giorno ha avuto un incidente. Un tizio in macchina ha rischiato di metterlo sotto. Lui si è spaventato ed è caduto per terra. E addio al femore. Più o meno dev'essere andata così. Mi scuserà se non sono preciso. Oltre al femore aveva qualche altro problema che non ricordo, per cui finisce che, quando mi arriva al Rizzoli, lo hanno già operato. Di cosa, se vuole saperlo, lo potrà leggere sulla cartella clinica. Io francamente non me lo ricordo. Però mi ricordo che gli ho fatto proprio un bel femore nuovo. Una salute di ferro quell'uomo. Tranne una fastidiosa allergia a qualcosa di alimentare, ma anche di questo non le so dire.» Eccola, penso. L'allergia. «Comunque,» continua «un paio di giorni dopo l'intervento lo trovo in stanza con uno che conosco da vent'anni, un amico che era andato a trovarlo. Il mondo è piccolo, se non sono donne di un altro sono amici di qualcuno. Ma da qualche parte ci si ritrova sempre. Sante Guerrazzi, si chiamava. Poveretto. Gli è venuto un tumore al fegato ed è morto l'anno scorso. Fine orribile. Comunque conoscevo Guerrazzi per via di certi lavori che avevo fatto fare alla sua ditta per la ristrutturazione di una casa che avevo in città. Anselmi credo che lo avesse conosciuto in vacanza, un sacco di anni prima. Avevano in comune la passione per gli edifici antichi, se non ricordo male. Comunque è così che ci siamo conosciuti.» «E poi?» Dossena si sposta lentamente sulla poltrona aiutandosi col bastone. «Poi niente. Per tutto il periodo della sua degenza, abbiamo continuato a incontrarci tutti e tre in camera per fare quattro chiacchiere. Poi, dopo dimesso, abbiamo cenato qui tutti insieme.»
Comincio a esser deluso. «E nient'altro?» «No, direi di no. Circa una settimana dopo la nostra cena, Guerrazzi ha provato a chiamarlo sul telefonino e Anselmi non ha più risposto. Ha provato ancora qualche volta, ma più niente. Per un po' abbiamo continuato a cercarlo. Poi abbiamo lasciato perdere. Però ogni tanto tornava nei discorsi, l'ingegner Anselmi. Per questo me lo ricordo.» Tossisce. «Sarebbe così gentile da prendermi un po' d'acqua? La bottiglia dev'essere sul comodino.» Mi alzo e gli verso da bere. «Mi spiace di non esserle di grande aiuto, commissario. Ma posso chiederle perché si interessa ad Anselmi?» Ci penso un attimo. Poi gli racconto una strana bugia che non sta in piedi nemmeno per un minuto. «Ho capito» dice lui alla fine del mio racconto. «Non me lo può dire. Ma non mi offendo.» Gli allungo il bicchiere con l'acqua e lo guardo bere, lentamente. Fuori ormai non piove più. «A dire la verità una cosa c'è che non le ho raccontato» dice appoggiando il bicchiere sul tavolino. «Mi dica.» «Il tizio che lo aveva quasi investito veniva a trovarlo all'ospedale. Penso che fosse una forma di scuse o solo un modo per sentirsi meno in colpa. Ne ho viste tante di queste menate. Andarono anche a cena insieme prima della nostra rimpatriata. Però la cosa strana è che quello lo avevo già visto.» «Lo conosceva?» «No, non si può dire che lo conoscessi. Sapevo chi era, ecco tutto. Pietro, si chiamava. Ma non mi chieda il cognome perché non lo so. Lo avevo visto a casa di un mio collega, un luminare nel campo dei trapianti di rene in Italia. Antonio Foschi, forse ne avrà sentito parlare.» Mi viene in mente una strada che attraversa il centro di Bologna, parallelamente a via Indipendenza. «Scusi l'ignoranza, ma quello della via?» Dossena sorride. «No, quello è il padre. Antonio Foschi anche lui. E medico anche lui. Presumo che se fossimo in America tutti avremmo chiamato il mio collega junior. Comunque questo Pietro lavorava come tuttofare nella villa del professor Foschi. La villa di famiglia che gli aveva lasciato suo padre. Ci andavo spesso con mia moglie a passare le domeniche in primavera, prima che mi lasciasse per sempre. Posto splendido.»
«Pietro, quindi...» penso ad alta voce. «Sì, Pietro. Uno di Reggio, credo. Pare che fosse stato un ladro. Un topo d'appartamenti si diceva ai miei tempi.» «E del professor Foschi che cosa ne è stato.» «Sono un sopravvissuto, commissario. Ancora per poco temo. Ma Foschi è stato uno dei primi ad andarsene. La moglie morì di tumore, povera donna. Lui finì in una depressione senza fine. Non era uno di grandi chiacchiere, Antonio. Né prima né tanto meno dopo. Bruciò vivo nella sua camera da letto. Fumava molto e se non ricordo male si addormentò con la sigaretta accesa. La moquette finì in cenere. Allora si usava, la moquette.» «Avevano figli?» «Solo un maschio. Marco. Avrà avuto più o meno una dozzina d'anni quando è successo. Mi sono sempre chiesto che fine abbia fatto. Un bambino inquietante.» «In che senso?» «Non saprei spiegarlo» dice Dossena dopo aver preso un lungo respiro e schivato un altro attacco di tosse. «Sempre solitario e silenzioso. Lui e quel gatto gigantesco che non si staccava mai di dosso. Parlava pochissimo e quando lo faceva usava un tono sempre uguale. Piatto. Una tranquillità assoluta che metteva i brividi. La malattia della madre doveva essere dura da sopportare per lui. E anche i modi freddi e distanti del padre. Se solo la gente potesse immaginare cosa si nasconde nella mente di un bambino, forse non ne metterebbe al mondo.» Taccio. Cerco di collegare i pezzi. Anselmi che scompare, Pietro, i Foschi, il gatto e il bambino. E quello che vedo da tutti i piccoli frammenti che mi galleggiano in testa non ha ancora un forma ben definita. Però non mi piace. «Non è vero che non è stato di nessun aiuto, professore» dico e mi alzo. «Se ne va? Mi toccherà chiamare mia figlia» dice indurendo il tono. «No, sua figlia non serve» spiego sorridendo. «E stia seduto, non c'è bisogno.» «Non sono ancora così messo male da non poter salutare come si deve un mio ospite. E soprattutto un ospite piacevole come lei.» A fatica si alza, aggrappandosi al bastone. Poi mi allunga una mano. Questa volta la stretta è più ferma. «Grazie» gli dico e penso davvero di doverlo ringraziare. È la prima persona che ha aperto la tenda sulla vita di Guido Anselmi, che mi ha dato un'idea di quello che devo cercare. «Grazie a lei. E torni a trovarmi. Anche senza persone scomparse.»
Sorrido e mi avvio verso l'uscita. «Commissario?» mi chiama poco prima che apra la porta. «Mi farà sapere di Guido Anselmi, non è vero? Sa, dopo tanti anni...» Lo guardo e basta che i nostri occhi si incrocino perché mi legga dentro quello che penso. «Certo» gli dico dopo un momento di esitazione. E allora il professor Dossena si volta verso la finestra a guardare il suo bosco. E mentre lo fa, per la prima volta, sembra davvero un sopravvissuto. Buttando nella pentola poco meno di mezz'etto di rigatoni, a Pietro viene in mente Guido Anselmi. La prima volta che era venuto da lui aveva voluto aiutarlo a cucinare e Pietro si era sentito molto in imbarazzo. Poi, però, i modi gentili dell'ingegnere lo avevano conquistato e alla fine si erano ritrovati come due vecchie zie intorno ai fornelli, pronte a raccontarsi piccoli frammenti di vita e ricette di cucina. Era stato bello. Divertente. Era stato soprattutto vero e a lui, adesso, manca proprio quella genuinità. Lo ha tradito lui, l'ingegner Anselmi, e il peso di quel tradimento se lo sentirà dentro per tutta la vita. Perché è stato un tradimento doppio. Prima a parole, raccontando l'incontro e la storia dell'uomo, poi nei fatti. Per qualcuno in cerca di un'identità da usare, un uomo solo al mondo è un'occasione che difficilmente si ripresenta. È morto lì, l'ingegnere. Sul divano del salotto. Subito dopo il caffè. E adesso è tornato in qualche modo a reclamare giustizia. Se lo ricorda ancora sdraiato per terra in via D'Azeglio, davanti al vecchio palazzo della maternità. La gamba piegata in modo innaturale e una goccia di sudore che gli colava sulla tempia, anche se faceva freddo. Si ricorda anche che se lo era trovato davanti senza vederlo e che se non si fosse spaventato non sarebbe arrivato nemmeno vicino a toccarlo. La paura, a volte, fa degli scherzi cattivi. E Pietro la paura la conosce bene. Una volta, quando svaligiava gli appartamenti a Milano, non aveva paura di niente. E nemmeno in galera. La paura è venuta dopo. È cominciata con il bambino e poi è cresciuta man mano che cominciava a capire, subito dopo la morte della signora. Un giorno che pioveva come adesso, era stato sul punto di andare dal dottor Foschi e dirgli tutto. Ricorda, tentando di mangiare la pasta che gli è scappata di cottura, che aveva aspettato con pazienza un momento in cui il dottore fosse pronto ad ascoltarlo. Un giorno buono, come li chiamava lui. Quando quel giorno era ar-
rivato, aveva salito le scale che portavano allo studio e deglutendo aveva allungato la mano per bussare. E il bambino era apparso senza che nemmeno lo sentisse, uscendo dalla porta del piccolo bagno di servizio con quel gatto in braccio che non lo lasciava un secondo. La paura era cominciata lì. Davanti a quella porta a cui non aveva mai bussato. «Cosa fai, Pietro?» gli aveva chiesto il bambino e lui era rimasto zitto. «Niente» aveva detto alla fine e si era infilato di nuovo per le scale. Una settimana dopo c'era stato l'incendio, poi tutto il resto, fino alla notte in cui Gabriele Riccardi aveva sparato a Teresa Rizzo e firmato, senza saperlo, una serie di condanne a morte. Tra cui, Pietro ne era sicuro, quella di molte delle cose della sua vita. C'è qualcosa di strano che non ha previsto e che ancora non capisce bene. Forse solo una sensazione, niente di preciso. Come quando un muscolo ti sfugge al controllo e si irrigidisce da solo, per un attimo. Ci pensa infilandosi il camice e guardandosi allo specchio, la faccia in ordine, ma stanca. Gli occhi che tutti giudicherebbero tranquilli, ma che a lui sembrano in continuo movimento, come i suoi pensieri. Troppi pensieri. Deve stare attento. Sta camminando su un filo e mai come questa volta l'altezza che lo separa dal suolo è grande. Basta mettere male un piede e tutto finisce, come un lungo silenzio rotto da un colpo di tosse. Bagnandosi le mani e sistemandosi i capelli si chiede quanto tempo deve ancora passare prima che il siciliano si decida a fare quello che deve. E poi c'è Pietro. Pietro che non ha mai fatto domande e che comincia a farne troppe, come a volte fanno i vecchi. Pietro e la sua fedeltà assoluta. Pietro che è l'unica persona al mondo che potrebbe essere suo padre. E con cui dovrà trovare più tempo per parlare, perché non si senta così terribilmente solo come l'espressione dei suoi occhi lascia invece capire. Le persone sole rischiano di diventare pericolose. In fondo le cose non vanno poi così male. Il filo è sottile, ma resistente. E i passi da fare sono ancora pochi. Sorride e la sua espressione gli piace molto di più, adesso. Pensa a quel piccolo passaggio che ha fatto poco prima di venire a montare di turno. Alla sorpresina che ha lasciato dentro una busta nella buchetta di Gabriele Riccardi. Si allaccia il camice ed esce dallo spogliatoio. Quando infila il corridoio
sta ancora sorridendo. E nei suoi pensieri, a fargli compagnia, c'è sempre l'immagine di Teresa come l'ha vista per l'ultima volta, leggera e luminosa, in una mattina di sole ormai troppo lontana. L'ascensore si apre e mi strappa dai miei pensieri. È tardi per tutto, anche per respirare. Ho la pelle che sa di ospedale e la testa troppo piena di supposizioni, idee, fantasie, fatti. La storia del professor Dossena è esatta. L'incendio che ha ucciso il professor Foschi, la morte della donna, il figlio Marco, i gatti e Pietro. Che di cognome fa Giannelli e che dal giorno dell'incendio è ritornato a vivere a Reggio Emilia, dove è morto di tumore osseo circa dieci anni fa. Controllarla non è stato difficile. È bastato cercare il rapporto di allora. C'è anche il referto dell'autopsia. Tutto esatto. Resta da capire cos'è successo dopo. Marco Foschi, il ragazzo, aveva tredici anni quando è rimasto orfano. Va a vivere con i nonni materni a Suzzara, dalle parti di Mantova, e lì resta finché non ha diciotto anni. Poi più niente. Nell'archivio dell'Università di Bologna risulta una sua iscrizione a Medicina, ma nessun esame. E il domicilio registrato nella scheda è ancora quello dei nonni. Nessuna foto. A quel punto scompare e non risulta più da nessuna parte. Non c'è una patente di guida a suo nome, una carta d'identità, una laurea. Niente di niente. E pensando a quel nulla assoluto, mi rendo conto che forse il vero nome del mio fantasma adesso lo conosco davvero. Quello che non so e a cui sto pensando quando salgo dal garage al piano terra per fermarmi a controllare la posta, è che cosa c'entra Teresa Rizzo in tutto questo. «Marco Foschi» sussurro mentre giro la chiave nella serratura della buchetta senza nemmeno accorgermi di quello che faccio. Recupero la posta, rientro nella cabina dell'ascensore e premo il pulsante del piano dove abito, mentre controllo senza interesse la bolletta della luce e quella del gas, un depliant di pubblicità della Coop, un volantino di sgombero cantine, una lettera di una società di assicurazione. E in fondo, quasi la disposizione non sia casuale, una busta bianca senza indirizzo né mittente, e un biglietto piegato in quattro. Arrivo al piano proprio mentre sto ancora leggendo e rileggendo il biglietto, quasi volessi essere sicuro che esiste veramente. Esco dalla cabina e per poco non tento di aprire la porta del mio vicino. Una volta in casa, mi siedo al tavolo della cucina, appoggio il resto della posta e rileggo quel biglietto per l'ennesima volta, cercando di farlo con calma.
Sono poche parole. CONOSCO QUALCUNO CHE TI INTERESSA PARCHEGGIO DEL CENTRO BORGO. DOMANI SERA ALLE 11.30 SOLO GASPARE NUNIA È scritto a mano, in stampatello. La sensazione è che sia stato scritto lentamente, con gesti curati, per evitare che una brutta calligrafia potesse rendere difficile la comprensione. Sembra il biglietto di un bambino per la festa della mamma, penso per un attimo. Poi cerco di capire che cosa vuole Gaspare e se è davvero lui ad avermi scritto. E prima di aver preso una decisione so già perfettamente che ci andrò, anche se potrebbe essere una trappola. Voglio sapere che cos'ha da dirmi. Voglio sapere chi è che conosce e se ha indovinato che esiste una sola persona al mondo che mi interessa veramente. Alice e il desiderio di vederla aprire di nuovo gli occhi e sorridere. La curiosità uccise il gatto, c'era scritto in quella mail. Forse adesso il gatto troppo curioso sono io. Mi alzo per bere a collo una sorsata d'acqua gelata e l'occhio mi cade sulla busta bianca, abbandonata sul tavolo. Senza rimettere in frigo la bottiglia mi appoggio alla lavastoviglie e la apro. Dentro c'è un foglio stampato al computer con due foto affiancate e una frase. La vita e la morte dipendono da me. E dalle tue guardie svizzere. Le due foto sono piuttosto chiare. A sinistra c'è Anna Malvezzi. L'inquadratura è un primo piano. Ha gli occhi chiusi e sembra dormire, la bocca lievemente spalancata. Alla base della foto si distingue appena la forma di una catena che le stringe il collo. Nella foto di destra c'è Alice all'ospedale. L'obiettivo inquadra il letto a circa un metro d'altezza, come se l'immagine fosse stata scattata nascondendo la macchina fotografica davanti al torace di un uomo, per non farsi vedere da chi sta alle spalle. Appoggio il foglio sul tavolo e resto a fissarlo. Sono stato stupido a pensare che fosse una coincidenza. La prima sera di sorveglianza Alice peggiora. Niente succede per caso nel mio mondo. Nemmeno gli scompensi cardiaci. Prendo il telefono e chiamo i due di guardia all'ospedale. Mi risponde
Trentin, il più vecchio. «Fate fagotto» gli dico e lui non capisce perché e cerca di dire qualcosa. «Ho detto che dovete andare via di lì» ripeto. «Ci sono novità, commissario?» Allora urlo. «Cazzo, Trentin, la novità è che ti ho dato un ordine e tu stai qui a fare storie! Vai a casa o a bere una birra o a scopare, ma vattene da quell'ospedale! Hai capito?» «Sissignore» risponde deciso, ma con la voce appena percettibile. «Bene. Prima però voglio sapere una cosa. E vedi di non sbagliarti. Prima che la sorvegliata si sentisse male, ieri sera, ti risulta che sia entrato qualcuno nella stanza? Pensaci bene. Prima e non dopo.» «Nessuno» risponde dopo un attimo di silenzio e lì per lì sto per urlare di nuovo. Poi mi viene in mente che invece potrebbe essere perfettamente logico. «Chiedi anche a Sterpi» dico, riferendomi al suo collega. «Un attimo» risponde e lo sento parlare. «Nessuno» ribadisce poi. Mi lascio andare a uno strano ghigno isterico. «Va bene. Fuori dalle palle, allora. Alla svelta.» Riaggancio. La vita e la morte dipendono da me. C'è scritto così e in un attimo capisco perché è morta Anna Malvezzi. E che sono stato davvero idiota a non ascoltarla quel giorno. Adesso però so esattamente cosa devo fare. Mi siedo di nuovo al tavolo della cucina, butto un'occhiata alla lettera, al biglietto con l'appuntamento e per ultimo alle due foto. Sorrido di tristezza sfiorando con lo sguardo il volto di Alice. Poi mi lascio andare sulla sedia e resto lì. A guardare il muro. Dodici Bologna, 3 maggio. Otto e dodici La macchinetta del caffè sputa il suo liquido color melma e il dottor Donato Aiuti recupera il bicchierino, facendo attenzione a non ustionarsi le dita. È una mattina inaspettatamente serena e dalla finestra del corridoio della rianimazione si ferma a guardare il cielo azzurro macchiato qua e là da piccole strisce bianche, sottili come il filo di lana che esce da un gomi-
tolo. «Strana giornata» sente dire alle sue spalle e si volta. «Strana giornata» ripete, guardando negli occhi Giovanni Salvi. Lo conosce da più di vent'anni, da quando tutti e due erano al primo anno di università e ancora non sapevano nemmeno cosa avrebbero fatto il giorno dopo. Conosceva anche Francesca, sua moglie. Almeno finché non si sono lasciati, nemmeno un anno dopo essersi sposati. Ha un viso strano, Giovanni. Il viso di qualcuno che mentre parla sta pensando alla parola successiva da dire. Sempre la frase giusta al momento giusto. Non ha mai capito se è talento, finzione o se gli viene naturale. «Problemi?» gli chiede Giovanni appoggiandogli una mano sulla spalla. «La Malvezzi, il lavoro. Le solite cose. Il ragazzo del cinque lo hai visto?» «Il trauma? Quello della Polo?» «Sì, è arrivato stanotte.» «Eri di turno? Pensavo fossi arrivato ora.» «Più o meno, visto che non posso andarmene a casa. Ero reperibile, mi hanno chiamato alle due e mezza. Ho fatto a tempo a tornare a casa a farmi una doccia e poi solo caffè» risponde sollevando il bicchierino. Salvi sorride. «Sto cercando di smettere con quella roba. Vorrei provare l'acqua del radiatore.» Fa una pausa. «Dicevi?» «Il ragazzo. Guidava sullo stradone della Barca. Ubriaco a giudicare dalle analisi. È uscito di strada e si è stampato contro il guardrail del distributore. Quello prima della rotonda della tangenziale. Meno male che non c'era nessuno. Né al distributore né in macchina con lui. Non aveva le cinture e l'airbag gli è scoppiato sul collo. Oltre al resto.» Salvi sospira e aggrotta le sopracciglia. Il modo in cui la gente riesce ad ammazzarsi da sola lo sorprende sempre. Come se non ci fossero già abbastanza motivi per morire, al mondo. «Ce la fa?» chiede. «A morire entro la settimana, sì» risponde Donato con il solito cinismo e Salvi lo guarda un po' storto. «Sono stanco» dice. «Capisco. Se vuoi andare a casa...» «No. Non stanco di corpo. Stanco di questa merda, Giovanni. Non era esattamente quello che pensavo di fare. L'ho scoperto solo dopo. Quello che mi piace fare non è questo lavoro.» «Lo so» risponde Salvi, e stavolta è Donato a guardarlo storto. «No, non lo sai. Non puoi nemmeno immaginarlo.» Restano in silenzio a guardare i piccioni che svolazzano sul prato, dentro
l'antico chiostro in cui è ricavato il reparto. Poi la voce di Francesca Aliprandi li interrompe. «Dottor Salvi?» Giovanni si volta e l'infermiera gli fa un gesto con il capo a indicare l'arrivo del professor De Vitis, in fondo al corridoio. «Grazie, Francesca. Donato? È arrivata la cavalleria.» Aiuti si volta lentamente. Sembra far fatica ad abbandonare la vista dei piccioni. «Arrivo.» «Senti, ti ricordi di stasera?» chiede Salvi mentre si avviano alla riunione del mattino. «La festa del tuo compleanno è stasera? Merda. Dovevo andare al poligono.» «Avevo capito che ti eri dimenticato. Fanculo a te e a quella cazzo di pistola che ti porti sempre dietro. È proprio una mania.» «Accidenti, Giovanni. Scusami. Auguri, sai?» «Grazie. Non preoccuparti. Però stasera ci terrei che tu ci fossi.» «Figurati se manco. Esco di qui, mi faccio una flebo per stare in piedi e arrivo. Chi hai chiamato?» «I soliti. Più Gabriele Riccardi.» «Anche Riccardi?» «Anche lui, sì.» «Hai fatto bene» dice Donato. «A volte mi chiedo come faccia quell'uomo a resistere...» comincia. Poi sente la voce tonante del professor De Vitis e capisce che il tempo delle chiacchiere è finito. Ma non quello dei pensieri. La festa di compleanno di Giovanni Salvi è una specie di ritrovo di medici in cui mi sento fuori posto. Ma non potevo mancare. Il mio uomo è qui dentro. A casa di Giovanni ci sono già stato tre volte. L'ho conosciuto proprio qui, interrogandolo per sapere qualcosa su sua figlia Beatrice, il giorno in cui l'hanno rapita. C'era anche la sua ex moglie e bastava sentire la tensione che scorreva fra loro quando si parlavano per capire che, malgrado fossero passati dieci anni dalla separazione, non si erano lasciati bene. Ci sono tornato, a mangiare sullo stesso tavolo da cui ora trafugo un sandwich col tonno, dopo che la sua bambina è stata liberata. E adesso sono qui di nuovo, decisamente con uno stato d'animo differente che tento di nascondere sorridendo a tutto quello che si muove.
Ci saranno una ventina di persone nell'appartamento di via Galliera dove abita Giovanni. Molti di loro li ho visti anche in ospedale, affaccendati intorno ai monitor di Alice. Guardandoli mi sento come un relitto che si è arenato su un'isola dove il mondo funziona alla rovescia. Non so perché, ma mi sembra strano che chi gestisce la salute della donna che amo possa essere gente normale. Gente che beve birre su birre, che ride e sghignazza, che si ingozza di patatine fritte e parla di moda, di politica, della trasferta del Bologna con la Juve, di donne o di uomini, ma soprattutto di medicina. Gente noiosa e divertente. Gente normale, appunto. Mi aggiro per il salone e tento di fare conversazione, ma non mi escono mai più di due o tre parole confuse. Guardo la casa, i mobili, le foto. In una c'è Giovanni bambino seduto per terra su un prato, con uno splendido sorriso che gli illumina il viso. E soprattutto guardo la gente, cercando di cogliere qualcosa dalle sfumature dei loro discorsi, come una cimice attaccata dietro a un lampadario che registra le conversazioni di tutti a beneficio di qualcuno che, con calma e attenzione, li trascrive per analizzarli. Poi, in fondo a tutto, l'appuntamento a cui sto per andare. È tutto il giorno che lo aspetto con lo stesso stato d'animo di un bambino nell'anticamera di un dentista. Con paura e rassegnata fatalità, ma sperando che arrivi il più presto possibile, che quell'attesa snervante finisca. «Come stai?» mi chiede Giovanni mentre mi verso due dita di frizzantino. «Sto» rispondo e bevo. «A proposito, auguri. Quanti sono?» «Abbastanza perché il calcolo sia difficile da fare» risponde fingendo civetteria. «Ho telefonato in reparto prima. Va tutto bene. Alice si è stabilizzata.» Non dico niente. Non glielo dico che ero in reparto quando lui ha chiamato per avere notizie e che prima che le dessero a lui, le stesse notizie le avevano già date a me. Io sono lì per osservare lui e i suoi colleghi. Perché non mi fido più di nessuno. Né di lui né di tutti gli altri. Nemmeno di Donato Aiuti che arriva dall'amico come una zattera di salvataggio. «Buonasera commissario. Si diverte?» «Per la verità mi sento un po' un pesce fuor d'acqua.» Aiuti sorride e si versa da bere. «La capisco. Noi medici abbiamo la pessima tendenza a parlare sempre del nostro lavoro. Alla lunga si finisce per diventare come i componenti di una setta. D'altra parte, come forse avrà avuto modo di capire, non è che rimanga molto tempo per altri interessi al
di fuori dell'ospedale.» «Anche fare il mio mestiere non ti lascia del tempo libero.» «E in più è anche pericoloso» commenta Aiuti. Mi accorgo di aver parlato e poi di essermi distratto. «Mi scusi?» L'altro sogghigna. «Dicevo che il suo lavoro è anche pericoloso. Come i fatti recenti stanno a testimoniare.» Scrollo le spalle. «Credo di essere fatalista. D'altra parte il mio indirizzo è sull'elenco del telefono. Come forse saprà.» Lo guardo e aspetto una reazione. Mi pare che faccia una strana espressione inarcando il sopracciglio, ma forse è una sua abitudine e io, semplicemente, non lo conosco abbastanza bene per valutarlo. «No, non lo sapevo» risponde, quasi scusandosi. Con la coda dell'occhio vedo Giovanni che si abbassa e raccoglie qualcosa. «Tieni Donato. Quante volte l'hai già persa?» dice passandogli la stessa catenina che porta lui al collo. La controlla. «Si deve essere consumato il fermaglio. Pensavo di non trovarla più.» «Bella» dico indicandola con un dito. Il volto di Aiuti si illumina di una finta espressione di giovialità. «Le piace? Ce l'ha anche Giovanni. L'abbiamo presa insieme a un congresso, qualche tempo fa. Quando ci si conosce da troppo tempo si finisce per avere gli stessi vizi. Era l'unico ricordo che potevamo portarci da un posto come Manerbio.» «Sì, me lo ha detto. Però mi pare che vi capiti di andare anche in posti più divertenti.» «A volte sì» dice Giovanni e controlla i gesti dell'amico che si infila la catenina rotta nella tasca della giacca. A quel punto cala il silenzio. Guardo l'orologio. «Devo andare» dico. Giovanni sembra sorpreso. «Te ne devi già andare?» «Sì» rispondo, e il mio tono di voce sembra sufficientemente deciso perché lui si limiti ad annuire con un gesto del capo. «Gabriele, volevo solo che tu sapessi che...» So dove vuole andare a parare. Così come so che i motivi per cui mi ha invitato a quella festa possono essere solo due: perché vuole controllarmi o perché gli faccio pena. «Devo andare» ripeto e gli stringo la mano. «Buon compleanno di nuovo. E grazie dell'invito.»
«Grazie a te di esser venuto.» Saluto con un gesto della mano il dottor Aiuti che si è allontanato per telefonare - la figlia piccola lo chiama ogni venti minuti - e che mi spara uno dei suoi sorrisi in serie, ed esco. Fuori, dopo le scale, l'aria mi sembra più respirabile. Una serata buttata, a parte il vino buono che ho appena assaggiato e i sandwich con un tonno da far rinvenire Lazzaro meglio del Redentore. Per il resto niente. Solo un brusio di parole vuote in mezzo al quale non sono riuscito a capire niente. Una volta, in mezzo alla gente, ero bravo a catturare certi segnali. Se c'era una nota stonata la sentivo subito, come un musicista che distingue il suono degli strumenti in un'orchestra sinfonica. Questa volta no, non ci sono riuscito. Forse perché il mio avversario è troppo bravo per me. O forse perché sono io che non sono più bravo come una volta. "Lei è il migliore investigatore con cui mi è mai capitato di lavorare", mi ha detto il questore quando gli ho raccontato dello scienziato. Lo pensavo anch'io fino a poco tempo fa di essere il migliore. Adesso, mentre mi infilo in macchina e metto in moto, penso solo di essere uno sfigato come tanti. Uno che cerca di inseguire gli eventi e di non rimanere troppo indietro. Fino a quando qualcuno non mi dirà che la gara è finita e che non sono stato abbastanza veloce. Attacco il telefono al caricabatterie per auto e all'improvviso mi viene in mente Donatella Rizzo. L'ho chiamata tre volte oggi e non mi ha mai risposto. Allora prendo un post-it dal cassettino e scrivo il suo nome. Poi l'attacco al centro del volante. Girando a sinistra in via dei Mille comincio a pensare all'appuntamento a cui sto andando. Senza nemmeno accorgermene la mano mi scivola sul calcio della pistola, nella fondina ascellare. È lì, fredda e dura come i miei pensieri. «Secondo te è stato lui?» chiede il Muto guardando il fondo della strada. «No. Se voleva farlo non lo faceva così» dice Gaspare e sembra tranquillo. Tiene gli occhi fissi in avanti e scala lentamente tutte le marce, finché la Peugeot nera si ferma, accodandosi alle altre auto che aspettano il verde del semaforo. Sono le undici e venti e le insegne dell'Ipercoop del Centro Borgo sono lì, meno di trecento metri oltre il semaforo a cui sono accodati. Il posto di blocco della polizia aspetta più avanti, appena dopo l'incrocio.
C'è sempre un po' di fila su quello stradone lungo che dalla periferia di Bologna porta fino alla via Emilia. Perché su quella striscia d'asfalto a due corsie per ogni senso di marcia c'è una distesa praticamente ininterrotta di prostitute slave e albanesi, un'esposizione di carne che richiama il trafuco dei curiosi e dei macchinoni metallizzati che si possono Permettere la prestazione delle fanciulle. L'offerta parte dalla rotonda della tangenziale e prosegue per tutta la strada, interrompendosi per poco solo nel punto in cui la macchina della polizia si è fermata e ha deciso di piazzare il suo controllo. Poco prima che torni il verde, Gaspare ingrana la prima e mette la freccia a destra. Mentre lo fa, il Muto infila il caricatore nella pistola con un rumore secco. «'un fari u fissa, Luigi. Metti via la pistola. Ci arriviamo da dietro al parcheggio della Coop» dice e volta a destra con calma, evitando il posto di blocco e accelerando piano lungo una strada secondaria. Mentre lo fa, dallo specchietto retrovisore, si gode il culo della slava in minigonna che senza preoccuparsi si piega in avanti per recuperare qualcosa dalla borsetta, mettendo in mostra un perizoma praticamente invisibile. Allontanandosi dal tavolo Donato Aiuti risponde al cellulare. «Pronto» dice tentando di isolarsi dal brusio del salotto. La voce dall'altra parte è flebile e incerta. Il dottor Cinti ha spesso quella voce, quando qualcosa lo spaventa. «Dimmi tutto. Non preoccuparti. Hai fatto quello che ti avevo chiesto?» lo incoraggia, e allora l'altro racconta. Tutto quanto. Quando torna il silenzio si guarda intorno, come se qualcuno avesse potuto sentire quello che gli hanno appena spiegato. «Chi lo sa oltre a te?» chiede e saluta con un gesto della mano Gabriele Riccardi che se ne va. «Bene. Molto interessante. Dimmi quando.» E mentre il suo interlocutore gli risponde si accorge che sta sorridendo. Il parcheggio del Centro Borgo a quest'ora è deserto come uno stadio in un giorno feriale. Mi infilo con la macchina sotto le luci dei riflettori e guardo passare il traffico dello stradone, con il suo misto di puttane, puttanieri e curiosi. Sul bordo della discesa che scivola fino al parcheggio c'è una ragazza bionda con un top e una minigonna nera che aspetta, accucciata sull'erba. Le macchine passano, qualcuno si sporge dal finestrino, dice qualcosa che lei non ascolta poi si allontana sgommando.
Mi fanno incazzare quelli lì. Ne ho visti un sacco tanti anni fa quando facevo i giri di pattuglia. Passano di lì per fare i grossi, per sentirsi forti e con il cazzo duro. Ma sono solo dei coglioni. Ho paura. Me ne rendo conto guardando le luci delle macchine e quelle dei fari che illuminano a giorno il parcheggio. Mi sembrano più fredde del solito e all'improvviso l'idea di essere lì da solo, seppur armato, non mi sembra più tanto buona. Tocco nervosamente il calcio della pistola con la punta dell'indice e mi accorgo di avere le mani umide. Sto asciugandomele sui jeans quando arriva una Peugeot. È nera e si infila nel parcheggio con una lentezza esasperante. Solo guardandola che si avvicina ho l'assoluta certezza che è davvero Gaspare Nunia che mi ha mandato il messaggio. E un po' mi dispiace. Forse speravo davvero che fosse lui, Marco Foschi o come cazzo si chiama, a sbucare dal nulla in mezzo a quel parcheggio. Per vedere che faccia ha e capire qualcosa, finalmente. Invece la macchina parcheggia a tre metri da me, il muso rivolto verso l'uscita. Giro intorno alla mia auto e mi metto davanti allo sportello del guidatore, aperto. Non voglio correre nessun rischio. Le chiavi sono nel quadro, pronte per essere usate. Apro la giacca e sento l'aria della sera sulla gola e sul collo. In questo modo davanti a me possono vedere chiaramente che porto la pistola. Quando la Peugeot si ferma e vedo qualcuno scendere dal posto passeggeri, ci rimango anche un po' male. Pensavo venisse da solo, Gaspare. Invece c'è quel tipo che non lo molla mai un secondo. Luigi qualcosa - non ricordo bene il suo nome - che tutti chiamano il Muto. Si mette davanti allo sportello e mi fissa senza dire niente. Poi scende Gaspare. Lascia lo sportello aperto e si mette davanti alla macchina. Ha un maglione nero sformato sotto al quale sicuramente nasconde un'arma. Forse non solo una pistola. È tipo da armi da taglio, Gaspare. Lo guardo che mi fissa, i capelli scomposti e arricciati, la barba di un paio di giorni, gli occhi stanchi ma attenti. L'ultima volta che l'ho avuto davanti senza nessun filtro è stato in quel cortile, poco prima che Teresa morisse. Restiamo qualche secondo a guardarci poi anch'io passo davanti alla macchina e mi avvicino. «Ci si rivede» dico.
«Sì, ci si rivede.» La sua voce me la ricordavo più profonda. Mi guardo intorno. Da qualche parte sento il muggito di un camion che cerca la via Emilia. Infilo le mani nelle tasche dei pantaloni. La paura, all'improvviso, è filata via. Come la stanchezza fatta svanire da una lunga notte di sonno. Lo fisso negli occhi. Devo capire se posso fidarmi di lui. Devo capirlo subito, per sapere se mi posso permettere di dargli qualcosa in cambio di quello che mi dirà. «Non credevo che ci sarebbe arrivato così presto, commissario» comincia Gaspare. «Non credevo che avrebbe capito bene con chi ha a che fare. Anzi, abbiamo a che fare.» La sta menando troppo per le lunghe. E mi sto stufando. «Senti, Gaspare, guardaci. Siamo qui in mezzo a questo parcheggio a mezzanotte. Uno davanti all'altro come in un vecchio film western a dire le nostre stronzate quando sappiamo benissimo tutti e due come stanno le cose. E corriamo i nostri rischi tutti e due a rimanere qui. Perciò fammi un favore: dimmi quello che devi dirmi oppure infilati in macchina e vattene e da domani ricominciamo a giocare a guardie e ladri come sempre. Nella mia vita, in questo momento, non c'è molto spazio per le troiate.» Adesso è lui che mi guarda. Incrocia le braccia sul petto e mi fissa. Poi fa un gesto con la testa al Muto. E il Muto inizia a parlare. «Mi ha mandato un telefono cellulare, per posta. E mi ha chiamato. Ha detto che poteva aiutarmi. Che era giusto che quel maiale morisse.» «Zio Giulio?» «Eh, zio Giulio. E allora gli ho chiesto cosa dovevo fare. E lui mi ha detto cosa dovevo fare.» «Lo hai visto?» «No. L'ho incontrato in una chiesa, in un confessionale. Gli ho portato i soldi e il telefono. E lui mi ha dato la roba.» «I vestiti? In una chiesa? Quale?» «E bravo il nostro poliziotto» si intromette Gaspare, e all'improvviso comincia a darmi del tu. «Però se vuoi sapere il resto dobbiamo fare un patto.» «Il resto? Quale resto?» «Quello che forse ti serve sapere.» «Forza, dimmi cos'hai pensato per sparire.» Gaspare mi ride in faccia. «Sparire? Credi che sia un codardo? Una femminuccia? Io me ne fotto di scappare. Se volessi scappare lo farei co-
munque. E non verrei mai a vendere qualcosa per scappare. Sei intelligente, poliziotto. Non puoi non capire cosa voglio. Non puoi non sapere che cosa voglio da te.» Ha ragione. È fin troppo facile. Forse mi ero sforzato di non capirlo perché così cambia tutto, perché è troppo, un prezzo che non posso permettermi di pagare. «No» dico e mi mordo un labbro per non urlare. Gaspare sorride e guarda il Muto. «Vedi, Luigi, ha capito! Dice che non può.» Fa qualche passo verso di me e si avvicina a non più di venti centimetri dalla mia faccia. Il suo alito sa di menta e di birra. Sento l'odore del suo bagnoschiuma. «Lo sai meglio di me perché sono evaso, commissario. Forse per un po' hai anche pensato che ti volessi fare fuori. Ma non me ne frega un cazzo di te. Tu non mi interessi. Mi interessa solo lui. Mi capisci vero? Sai come ha ucciso mio padre? Gli ha fatto spaccare la testa con una pietra. Voleva sapere se avevo parlato. Se volevo parlare. E poi tutti gli altri. Li ha uccisi tutti. Dice che ero roba sua. Tu lo sai come lo so io, Riccardi, cosa significa guardare morire qualcuno. Sai cos'ho pensato quando ho saputo che mia madre era ammalata? Che era un bene perché se no zio Giulio avrebbe ucciso anche lei e forse sarebbe stato più doloroso del cancro che le ha strappato le budella. Capisci?» Mi parla a distanza di bacio. Sussurra le parole e sento l'umido del suo fiato e il peso dei suoi occhi. Se volesse potrebbe uccidermi in qualsiasi momento. Ma non ho paura. Adesso davvero non ne ho più. «Sai perché siamo ancora vivi?» continua. «Te lo sei chiesto? Siamo vivi perché gli serviamo vivi. Tu con il tuo dolore e io con la mia vendetta. È per questo che mi ha fatto evadere. E dopo, quando avrò fatto quello che devo, mi ucciderà. E sarà doloroso. Lo so. Io ho assaggiato la sua medicina e so cosa vuol dire. Ma noi possiamo fotterlo, commissario. Io e te. E sai come faremo? Io avrò la mia vendetta e io ti dirò quello che so di lui. Ti dirò dove sta il fantasma. Dove lo puoi trovare. E poi tu mi porterai in prigione di nuovo.» Anche a quella distanza si rende conto che ho sgranato gli occhi per la sorpresa. Decisamente non avevo capito un cazzo di quello che aveva da dirmi. «Non te lo aspettavi, eh Riccardi? Io mi fido di te. Sei un bravo poliziotto. Ma se lui ti scappa, se tu muori e lei muore con te, resto solo io. E lui prima o poi mi troverà. Solo in carcere non può arrivare. Se sono fortunato. Hai capito bene cosa ti sto offrendo?»
Resta un momento a guardarmi. Poi si volta e torna davanti alla macchina. Il Muto lo guarda. Per un attimo mi chiedo se sa quello che Gaspare vuole fare dopo aver ucciso zio Giulio. Poi la mia mente torna altrove. «No» dico. «Non posso farlo.» Gaspare Nunia non si scompone. Resta immobile a braccia conserte. «Domani sera alla stessa ora io sarò qui. Se ci sei bene, altrimenti credo che non ci vedremo più. Aspetto solo dieci minuti, ma so che sarai puntuale.» Gira intorno alla macchina e apre lo sportello. «Salutami Alice» dice prima di salire. «Gran bella femmina. È un peccato che debba morire così.» La Peugeot riparte lenta com'era arrivata. Annoto mentalmente il numero della targa, ma so già che non mi servirà a un cazzo. Quando la vedo sparire risalgo in macchina e metto in moto. E col motore acceso e la radio che canta qualcosa che non sento, resto lì a pensare per un tempo che mi pare troppo lungo. Pensieri che portano solo a una strada senza uscita. Cammina lungo il corridoio e si infila nella stanza, contando mentalmente i suoi passi per concentrarsi. I numeri lo aiutano a stare tranquillo, lo hanno sempre aiutato. Alice Mantovani è lì davanti a lui. I capelli le sono scesi sul viso e lui con dolcezza li sistema dietro le orecchie. Resta a guardarla un momento. Non ha niente contro quella donna. Di tutte le persone che ha ucciso e ucciderà in questa storia, Alice è l'unica per cui non prova odio, né rancore, né invidia. Non prova nulla, tranne una strana forma di tenerezza ispirata dal taglio dei suoi occhi chiusi e dal modo curioso e buffo che ha avuto di muovere le mani, quando le ha dato quel cioccolatino. Eppure mentre la guarda, sa con precisione che Alice morirà. Lo sa con la stessa certezza con cui sa che al massimo ogni venti ore deve andare lì dentro e farle una piccolissima iniezione che di solito pratica direttamente nella flebo. Senza quella dose minuscola di antisiero sarebbe già morta. Gliela fa ogni giorno da quando l'hanno portata in quella stanza, e ha saltato solo una volta, il giorno in cui Gabriele Riccardi ha messo i suoi cani da guardia davanti alla porta della stanza. Quell'iniezione la tiene in vita, è appena sufficiente a fare in modo che il
processo della tossina si arresti. Quella sostanza che le sta iniettando dopo aver controllato che non ci sia nessuno in giro, non è sufficiente a non farla morire, ma è abbastanza perché la sua agonia si prolunghi per il tempo che a lui serve per finire il suo gioco. Mette il tappino di sicurezza all'ago, infila la siringa in tasca ed esce. Passando davanti alla guardiola saluta l'infermiera e si avvia verso la macchinetta del caffè. In reparto la vita procede normale come tutte le notti. La Feltrinelli in via dei Mille è il mio rifugio. È aperta tutta notte e quando devo pensare, quando ho bisogno di capire se c'è un filo in quello che mi passa per la mente, allora vengo qui. Ho fermato la macchina davanti senza nemmeno accorgermene, guidando col pilota automatico e rendendomi conto di essere arrivato solo dopo aver finito di parcheggiare. È mezzanotte passata e dentro si mescolano quelli che cercano «il Resto del Carlino» fresco di stampa e una maggioranza silenziosa e lenta che si aggira fra gli scaffali dei libri, le videocassette, e sgomita per spulciare le riviste, nel corridoio a destra dell'ingresso. Mi piace tenere in mano i libri. Di solito li scelgo così. Tenendoli in mano, leggendo la prima pagina e qualche brano a caso, senza logica, avanti e indietro nei capitoli. A volte penso che siano i libri che scelgono te e non viceversa. Prendo in mano una copia de Il club Dumas di Arturo Perez-Reverte. Tra quella che ho comprato io e tutte quelle regalate almeno una cena luculliana in diritti d'autore devo avergliela pagata allo scrittore spagnolo. Stavolta la prendo in mano per rileggere l'ultima frase dell'ultima pagina. I libri fanno di questi scherzi e ognuno ha il diavolo che si merita. Penso al mio di diavolo e non so se me lo sono meritato. Forse me lo sono meritato perché non riuscivo a capire tante cose, perché le dicevo nel modo sbagliato e tutta questa storia, dal silenzio di Alice fino alla folle richiesta di Gaspare, è semplicemente il mio diavolo, arrivato a farmi capire che cosa cazzo conta davvero nella mia vita. Riponendo il libro penso a tutti quelli che ho comprato per Alice e al modo infantile e delicato con cui lei li sfogliava con quei gesti duri. E penso a quando mi raccontava di un romanzo che le era particolarmente piaciuto o di qualcosa d'altro della sua vita e mi viene in mente la sua voce e da quanto tempo è che non la sento e chissà quando la sentirò. E alla fine
tutto viene fuori, come un fiume in piena che ho tenuto sepolto per troppo tempo. Allora esco, mi infilo in macchina e parto in fretta. Guido ignorando tutte le regole del codice della strada, con una rabbia feroce in corpo e parlo, forse urlo, parole sconnesse che un secondo dopo non ricordo più. Poi, quando mi fermo, nel parcheggio di casa, appoggio la fronte al volante e cerco di piangere. Ci provo con tutte le mie forze e mi caverei gli occhi per tirare fuori quello che rimane chiuso dentro senza che sia capace di sputarlo. E alla fine sento un pensiero che mi cammina sotto la pelle come un millepiedi che attraversa il mio corpo e chissà da quanto tempo è lì che aspetta quel momento, che aspetta una specie di resa dei conti per poter dire finalmente la sua. Allora prendo la pistola, me la punto alla tempia e sto lì a sentire la canna gelata e dura contro la pelle, il dito fermo sul grilletto. Sarebbe tutto più facile e l'ho sempre saputo di essere un vigliacco. C'hanno provato tante volte a farmi secco. C'ha provato anche Gaspare Nunia prima di capire che ha bisogno di me. C'hanno provato in tanti e nessuno ci è mai riuscito, perché quando una cosa non mi tocca dentro posso reggerla, posso affrontarla e sopportare la paura. E non c'è quasi niente che mi tocchi davvero. Niente. Lo dice sempre anche mia madre che non me ne frega di niente e di nessuno. Però questo è troppo anche per me. Questo diavolo è troppo grande e non ci riesco più ad affrontarlo. Non riesco a sopportare quello che sono diventato un giorno dopo l'altro. Non ci riesco ad ammettere con me stesso che tutto quello in cui credevo è diventato marcio, decomponendosi come un pezzo di carne lasciata a macerare al sole. E che adesso, alla fine, è qui davanti ai miei occhi, come uno specchio in cui posso vedere quello che sono e soprattutto quello che non sono più. Per un attimo, fermo a guardare il muretto del parcheggio mentre sul prato dietro di me si scioglie la luce della luna e dei lampioni, penso anche che premerò quel grilletto, che davvero finirò per disperdere l'unico neurone buono che ho, sul parabrezza e sui seggiolini. Il dito trema sul grilletto come il piede di un bagnante che cerca di sentire se l'acqua è abbastanza calda per immergersi. Poi lentamente il tremore passa e ho quasi paura a spostare il dito da dove si trova, paura che modificare quell'equilibrio possa far esplodere il colpo in canna. Alla fine lascio scivolare la pistola sulla tempia e poi sul collo
e poi sul sedile di fianco, mentre con un gesto rapido metto la sicura. Non so perché non l'ho fatto. Per un attimo però ho pensato che sarebbe stato più facile arrendersi e mandare tutto a puttane. Poi tutto è cambiato e quando scendo dalla macchina comincio a pensare che forse anche con il mio diavolo si può fare un patto, magari scritto col sangue. Salgo per le scale, evitando l'ascensore, entro in casa e mi butto sul letto vestito. Mi addormento quasi subito. Sogno una donna che per un po' è Teresa Rizzo e per un po' Alice. Un sogno confuso in cui rincorro qualcuno lungo un corridoio pieno di porte. So che è lì dentro, ma non lo vedo mai. Lo sento solo correre dietro alle porte e quando cerco di aprirle la maniglia mi scompare dalla mano, come fosse d'aria. Poi mi accorgo che tutto quanto è d'aria, anche il corridoio e finisco per precipitare per un tempo che mi sembra eterno, fino a che mi sveglio nel mio letto, col collo dolorante e la testa che pulsa. È mattina e dalla tapparella appena sollevata entra una lunga striscia di luce gialla in cui guardo annegare centinaia di piccolissime particelle di pulviscolo. Una lama di luce che taglia a metà la mia vita. Quella che era fino a ieri e che da oggi in avanti non sarà più. Bologna, 6 maggio. Dieci Quando la vede arrivare sono le dieci di una mattina piena di sole battuta da un vento troppo forte che colora il cielo di un azzurro luminoso e pulito. Il primo pensiero che fa è che Donatella è ancora un bella donna. Ha un maglione bianco sopra una gonna nera che le arriva alle caviglie e un paio di stivali semplici che la slanciano. Lo guarda e sorride tentando di sembrare naturale, ma il modo in cui stringe la borsetta scura tradisce tutta la fatica che sta facendo per mostrarsi disinvolta. «Ciao» gli dice e lui cerca di capire cosa si nasconde dietro il suo sguardo lucido. «Ciao» risponde e resta in silenzio un istante. «Non qui» riprende non appena ha l'impressione che lei stia per dire qualcosa. «Andiamo giù.» Si incamminano verso l'ascensore in silenzio mentre lei tenta di sciogliere la tensione in qualche colpo di tosse e lui sfoglia velocemente i suoi pensieri alla ricerca di un motivo potenzialmente pericoloso per cui Dona-
tella Rizzo è venuta a parlare con lui. «Cosa prendi?» le chiede davanti al bancone del bar. «Un caffè e un bicchiere d'acqua» risponde e lui ordina tutto doppio. In silenzio si siedono a un tavolino all'angolo, tanto vicino alla grande vetrata che dà sulla fontana da riuscire a sentire il rumore del vento che attraversa la piccola piazzetta. «È passato un sacco di tempo» comincia Donatella. «Un sacco, sì» conferma lui e pensa che quella definizione è inesatta perché non è il tempo che misura la distanza fra due momenti, ma le cose che ci sono passate in mezzo, quello che è successo. A volte anche anni di distanza non servono a tenere lontane le persone. A volte invece basta un giorno, una parola non detta o una bugia. «Sai che cosa è successo, vero?» gli chiede dopo aver bevuto silenziosamente il suo caffè. E sempre stata così Donatella. Silenzio e frasi dirette, che partivano e centravano il bersaglio, senza tanti giri di parole inutili. Lui la guarda e non sa se sorridere di quella domanda assurda o dell'ingenuità con cui dopo tanto tempo lei arriva lì a parlare di quella storia, partendo dalla fine. «Sì, lo so. Leggo i giornali. E non hanno parlato d'altro per una settimana. Sono altre le cose che non so, quelle che mi chiedo.» «Posso immaginarlo.» «No, non credo, Didi» risponde con il tono morbido che ha sempre usato e lei sobbalza. Solo lui l'ha chiamata così. Didi. Suona come qualcosa di piccolo che va difeso. Adora quel nomignolo e lo odia per questo. «Allora dimmelo tu.» «Come hai potuto permettere che accadesse?» le chiede. «Avevo paura. Eravamo giovani e tu non volevi niente da me. Solo scopare. Niente di più. Ho avuto paura. Eppure...» «Non intendevo questo» la interrompe e per un momento la sua voce diventa dura senza preavviso, come il bordo di una pagina di un libro che ti taglia in silenzio la mano mentre lo sfogli. «Non capisco, scusa. Cosa...» «Come hai potuto permettere che morisse. Questo non riesco a capire» le spiega. Il tono è tornato morbido, lungo e quasi silenzioso. Donatella Rizzo lo guarda e non ritrova niente dell'uomo che conosceva. Come se davanti avesse soltanto una maschera, un attore che in un film interpreta un ruolo sotto due dita di trucco spesso e perfetto. «Cosa potevo fare?» chiede e la voce le trema. Allora tossisce, cercando di ricoprire la sua vulnerabilità. «Cosa potevo fare» ripete, ma non è più
una domanda. E in ogni caso non riceve nessuna risposta. «Quando vi ho viste quel giorno,» riprende ignorandola «ho capito tutto subito. Era impossibile non capirlo, non immaginare guardandovi, guardandola. Ho pensato per un attimo che tutto si potesse fermare. Ho pensato che avrei potuto avvicinarmi e dire semplicemente ciao, come se nulla importasse. Come se non fosse mai passato tanto tempo. Tutti quegli anni. Poi ho visto la tua espressione spaventata. E ho capito. Ho capito che la verità che Teresa conosceva era molto diversa da quella che avevo intuito io fino a quel momento. E sono stato zitto. Ma poi è cambiato tutto. Tutto. Dentro. È cambiato tutto. Allora ho pensato che dovevo parlare con te. E lo volevo fare. E se lo avessi fatto, forse, le cose adesso sarebbero diverse.» «Niente sarebbe diverso e tu...» prova a dire Donatella, ma l'uomo davanti a lei non la ascolta. Sta parlando con se stesso. «Poi è successo quello che è successo, e adesso ci sono tante cose da fare. Troppe cose che devo fare...» Resta appesa quella frase. Lui non la finisce mai. All'improvviso è come se si svegliasse da un sogno. Donatella toglie una pastiglia da un blister e la ingoia con un po' d'acqua. «Qualcosa che non va?» le chiede. «No, solo che dopo quello che è successo ho un po' di malanni.» «Fammi vedere.» «Ma no, dai, non è niente.» Sorride. «Sono un medico, no?» Prende in mano la confezione di pastiglie e le guarda. In un angolo della sua mente il nome del medicinale rimane memorizzato, come l'eco di una connessione remota. Quando gliele restituisce il suo sguardo è diverso. Forse più sereno. Recuperando la scatola e sfiorando piano quello sguardo Donatella pensa che in fondo aveva solo bisogno di parlare. Di dire qualcosa anche lui. E forse ne aveva anche diritto. «La polizia è venuta da me, in questi giorni» dice appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Il commissario Riccardi. Mi ha chiesto se Teresa aveva uno spasimante. Non ho capito perché. Parlare con lui però mi ha fatto bene. Forse perché sto cercando di capire. Per questo sono qui. Almeno credo.» «E cosa gli hai detto?» «La verità. Che non sapevo niente. Davvero niente. E non gli ho raccon-
tato nulla.» «Tuo marito sa di Teresa?» chiede, e finalmente beve il suo caffè. «Sì, è chiaro. Quando l'ho conosciuto Teresa era già nata. Tu non puoi sapere quanto ti odio... E tu?» «Io cosa?» «Hai figli?» «Una figlia, sì.» «E da quanto sei sposato?» chiede indicando con il viso la fede che porta al dito. «Non è mia. È di mia madre» dice, e Donatella pensa che è l'unica cosa che lui le abbia mai detto della sua famiglia. Resta a fissarlo un momento poi tira fuori qualcosa dalla borsetta e gliela dà. L'uomo prende la foto di Teresa e la guarda. Per un momento Donatella pensa che si asciugherà una lacrima, poi invece il suo sguardo torna duro e feroce e lei spera che non dica niente. «Volevo che l'avessi anche tu. È solo un ricordo, lo so. Non vale tutto il resto. Però in fondo è giusto. Era anche tua figlia.» «Grazie» dice l'uomo e rimane per un attimo con la mano sospesa per aria, come in attesa. Poi prende il portafogli e infila la fotografia in mezzo alle banconote. «Devo andare» dice, e si alza. «Non lo so come è stato vederti dopo tanti anni» dice Donatella e lo bacia su una guancia, pelle fresca, appena rasata. «So che l'ho fatto per me, questo sì. Spero di non averti rubato troppo tempo.» «No, non hai rubato niente.» Donatella lo guarda e aspetta. Non può essere solo così. Non può essere tutto lì. Ci deve essere dell'altro. Per un attimo vorrebbe chiedergli cosa ha voluto dire con quella frase, come hai potuto permetterlo, poi pensa che sia inutile. Che non c'è davvero più niente che la lega a quell'uomo e che sarebbe così anche se sua figlia fosse viva. Senza dire niente si volta e se ne va. E guardandola andare via con il suo solito passo deciso, lui comincia a pensare che forse anche Donatella Rizzo deve morire. L'appartamento in cui teniamo Candido Giulio è all'ultimo piano di una palazzina di periferia e occupa tutto il livello. Doveva essere una sistemazione provvisoria in attesa di un posto che fosse più facile sorvegliare, ma alla fine la famiglia Giulio è ancora qui. È la terza volta che ci vado da
quando lo abbiamo spostato. La Mengoli è sul pianerottolo insieme a un agente che non conosco. Un terzo agente è sceso a vedere perché il cambio è in ritardo. Fuori, davanti alla casa, c'è sempre una macchina civetta con altri due uomini. «Buongiorno commissario» mi dice quando mi vede. «Buongiorno Mengoli. Tutto tranquillo?» Fa una smorfia di indifferenza. «Sì, tutto tranquillo.» La guardo. Dalla sera in cui abbiamo preso Gaspare non l'ho più vista sorridere e i suoi occhi sembrano avere un colore diverso, metallico e spento. Nella luce di metà mattina sembrano due monetine, come le dieci lire di una volta. «Vuole entrare?» mi chiede. Annuisco. «Grazie.» Suona il campanello e dopo poco la porta si apre. «Commissario,» mi saluta zio Giulio «si accomodi. In fondo questa è casa sua.» Odio la sua ironia e la sua strafottenza. Lui è nostro ostaggio tanto quanto noi siamo ostaggi suoi. Mengoli, che sta dodici ore al giorno fuori sul pianerottolo, rischia una pallottola in testa tanto quanto lui. E anche se dovrebbe saperlo, glielo ricordo. Sono troppo stanco per ascoltare certe stronzate. «Non si scaldi, commissario. Era una battuta. Solo per scherzare.» «L'Italia è piena di gente che per scherzare dice esattamente quello che pensa. Forse stamattina non ho voglia di scherzi.» «Come vuole, commissario. Un caffè lo gradisce? Lo abbiamo appena fatto.» «Sì, grazie. Un caffè lo prendo volentieri» rispondo e lo seguo in salotto. È una casa semplice quella in cui lo abbiamo sistemato. Grande, ma sicuramente meno lussuosa di quella in cui abitava in Sicilia e anche vicino a Roma. Probabilmente la meno lussuosa fra tutte quelle in cui ha abitato nella sua vita. Il grande difetto di Candido Giulio è proprio l'amore per il lusso. «Ha buone notizie da darmi, commissario?» mi chiede accomodandosi su una delle due poltrone del salotto. Mi siedo di fronte a lui. «Nessuna novità. Sono passato solo a vedere se tutto andava bene.» «Una visita di cortesia, quindi.» «Diciamo a metà» comincio a dire, e mi interrompo subito perché la moglie di zio Giulio entra con i caffè. «Buongiorno signora» dico e mi al-
zo, secondo le regole. «Commissario» mi saluta e allunga le vocali in una cantilena di scherno. Ha un viso duro e quadrato. Su di lei girano storie poco educative che raccontano di una crudeltà naturale affinata da anni passati al fianco del marito. Non ci sono mai state prove, ma guardandola da vicino, con quelle spalle robuste, lo sguardo tagliente e i modi sbrigativi si potrebbe anche pensare che siano storie vere. «Perdoni mia moglie» dice zio Giulio non appena la donna è uscita dalla stanza. «Non le piacciono i poliziotti.» Cerco di evitare di chiedermi se sono ancora un poliziotto e bevo il mio caffè. È bollente e abbastanza cattivo. «Mi spiace che per vivere siate costretti ad averli fuori di casa i poliziotti. O forse dovrei dire per sopravvivere...» «Non lo avete ancora preso?» «No, non lo abbiamo ancora preso. Ma non sono così convinto che le toglieranno la protezione quando Gaspare Nunia verrà arrestato.» «Cosa le fa credere che lo prenderete?» Lo guardo. È talmente pieno di sé da sentirsi inattaccabile. Gaspare ha cercato di farlo uccidere già due volte. Se avesse un po' di saggezza dovrebbe credere ai proverbi, invece continua a sentirsi al di sopra del bene e del male, come se la sua vita fosse diversa da quella di tutti gli altri esseri umani del mondo. «Io so che lo prenderemo, don Giulio» dico e la sicurezza con cui pronuncio quella frase deve fargli impressione perché per un attimo abbassa lo sguardo sulla tazzina di caffè, concentrandosi sul disegno azzurro della ceramica. «Comunque se tutto va bene fra un paio di giorni la trasferiamo di nuovo in un posto più adatto a lei e più comodo per chi la deve sorvegliare. Spero che sarà contento.» «Spero che sia l'ultimo viaggio.» «Probabilmente sì. Anzi, quasi certamente.» Mi allunga la mano e la stringo. «Grazie della visita, commissario.» «Grazie del caffè» dico e il tono è secco tanto quanto il suo. Mi accompagna alla porta. Prima di uscire butto un'altra occhiata all'interno poi sul pianerottolo saluto i tre ragazzi che sono arrivati a dare il cambio alla squadra di Mengoli. Sono contento che lei sia andata a casa e non torni a montare davanti a quella porta, almeno per oggi. Scendo le scale ascoltando il rumore dei miei passi nel silenzio del pa-
lazzo. Fuori, l'aria del mattino che mi colpisce la faccia è quasi fredda. Il Muto guarda dalla finestra il sole del pomeriggio che rimbalza sugli alberi del viale. «Verrà?» chiede. «Verrà» risponde Gaspare controllando la sacca. Dentro ci sono due pistole, una dozzina di caricatori e una mitraglietta immersi in una buona dose di biglietti da cento euro. Chiude la lampo con un gesto secco e la butta per terra, vicino al divano. Poi si sdraia. Il Muto si volta. «Come lo faremo?» , «Vado da solo» dice e il tono è di quelli che non ammettono repliche. «Se succede qualcosa tu non sei di nessun aiuto, con le costole messe in quel modo.» Il Muto si volta e ricomincia a guardare la strada. Non può far altro che aspettare e aspettare è la cosa che sa fare peggio. «E poi?» «Poi cosa?» Si volta di nuovo. «Poi che succede?» «Succede che tu ritorni in Sicilia, Luigi. E ricominci la tua vita. Succede che nessuno ti farà mai del male. A te e alla tua famiglia. Nessuno. Chistu av'a succèdiri.» «E tu?» Gaspare chiude gli occhi e sorride. «Di me non ti devi preoccupare. Ho già pensato a tutto.» «E cos'hai pensato?» «Che adesso voglio dormire. Sono stanco.» Luigi torna a quel viale alberato. Gli piace vedere la gente che passa in bicicletta. In quel paese sembra che tutti vadano in bicicletta. «Dormi, dormi. Che magari scopri che è tutto un sogno» sussurra, guardando un vecchio pedalare piano. E Gaspare, con gli occhi serrati, fa finta di non aver sentito. «Hanno trovato una Punto nera bruciata in un campo, alla Barca» mi dice Ippoliti e non è certo una sorpresa. Non c'è nemmeno bisogno di capire il numero di telaio per verificare che è quella che è scappata da casa mia. «Non ci servirà a un cazzo, probabilmente l'ha rubata» rispondo e resto ad ascoltare Country di Keith Jarrett in sottofondo. Mi rilassa e ne ho bisogno. Da un'ora almeno sto strisciando le mani sulla stoffa dei jeans per asciugarle, ma non serve a niente. Prendo la lista del reparto rianimazione. Dal foglio originario della dire-
zione, abbiamo creato una specie di libretto con i dati di ognuno e la foto. Eliminando le donne, i troppo vecchi, quelli esageratamente grassi o esageratamente magri, ne sono rimasti sei. «È qui in mezzo» dico a Ippoliti sventolando la lista di quei sei profili. Se potessi dirgli quello che so, se potessi dirgli che so quello che Anna Malvezzi aveva scoperto e raccontargli che credo che sia lui che mantiene in vita Alice per chissà quale motivo, allora anche lui capirebbe che non può essere altrimenti. Però non glielo posso dire. Perché se gli racconto tutto, la foto di Alice e la lettere che mi ha mandato, se gli dico che ho tolto la sorveglianza perché lui possa curarla dopo averla quasi uccisa, se glielo racconto, allora so che davvero non avrei più chance. Ormai siamo alla fine e la conclusione della partita la devo giocare da solo, perché nessuno potrebbe aiutarmi. «Uno di questi» ripeto, e lui mi guarda dubbioso. «Mi stai nascondendo qualcosa» dice. E non è una domanda. Lo ignoro e sfoglio il dossier. «Comunque,» riprende Ippoliti «ho fatto quello che mi hai detto. Stiamo indagando su tutti e sei. Magari un giorno mi dirai anche perché. Spero solo che tu abbia ragione.» Piego i fogli in modo che restino a dondolare solo le foto di Aiuti e di Giovanni. «Se vuoi sapere cosa penso è uno di questi due.» «Sono d'accordo con te, se il nostro uomo è in quella lista è per forza uno di quei due. Sono i due posti di responsabilità, i due aiuti di De Vitis, i due con cui la Malvezzi doveva per forza avere a che fare. I due che potrebbero aver capito che cosa non andava e come non andava.» Annuisco. «E se ho ragione allora uno dei due potrebbe essere in grande pericolo.» «Vuoi che li facciamo sorvegliare?» Ci penso un attimo. Poi penso ad Alice e allora gli dico di no. Chiunque sia deve avere via libera. Guardo l'orologio e mi alzo. Fuori il sole è già sparito dietro le case e Piazza Galileo si tinge di giallo e di arancione. «Vado, sono stanco» dico e mi infilo la giacca. Ci sono delle cose che devo trovare. Cose che mi servono. Quando gli passo davanti mi fermo e lo guardo. «Perché ti fidi di me?» Sorride malinconico. Ha la barba lunga e gli occhi stanchi. «Perché in questa storia ti stai giocando molto più di quello che hai da giocarti. Perché non so se al posto tuo avrei lottato con tanta tenacia. Per-
ché da quando ti conosco non ti sei mai sbagliato una volta, anche se non capisco bene cosa stai facendo e perché in tanti anni non ho mai visto uno come te. Per questo mi fido» dice. «Dai l'impressione di sapere sempre la cosa giusta da fare.» Adesso sono io che ho un sorriso malinconico. «Io invece non lo so se quello che sto facendo è la cosa giusta.» Gli faccio l'occhietto e me ne vado. Quando sono sul corridoio sento ancora il peso del suo sguardo sulla nuca. Gaspare Nunia parcheggia girando la macchina verso l'uscita e aspetta col motore acceso. Non crede che Gabriele Riccardi gli farà qualche scherzo strano, ma non ha nessuna intenzione di correre rischi. Sono le undici e venti di una notte umida e senza vento e sono gli ultimi dieci minuti di un'attesa che è durata anche troppo. Un'attesa che è arrivata all'ultima tappa. Accanto a lui Luigi tace e guarda fuori dal finestrino, la pistola carica stretta nella mano destra e appoggiata in grembo. Non ha più parlato da quel breve dialogo poco prima che Gaspare chiudesse gli occhi fingendo di dormire, per non dover raccontare bugie che fanno male. Steso sul divano, gli occhi chiusi a immaginare il soffitto, si è sentito di nuovo in prigione, con tutto quel tempo speso a immaginare che cosa succedesse fuori, se il mondo continuava a girare seguendo gli stessi percorsi. Non ha scelta. Sa che non ne ha perché non crede che Gabriele Riccardi riuscirà a prendere quell'uomo. Perché se deve immaginare una scena che possa concludere questa storia, riesce a vedere solo morti. Quell'uomo è troppo furbo, talmente furbo da aver gestito una vita come quella, curando e uccidendo, per anni. È un animale che se annusa odore di pericolo scappa. E poi non lo vedi più finché non te lo trovi stanco, affamato e incazzato, fuori dal portone di casa una sera in cui hai smesso addirittura di pensare che sia vivo. Se solo ne sapesse di più probabilmente andrebbe da solo a sistemare tutta la faccenda, e se non fosse un cane sciolto, una bestia che scappa anche lui come tutti, forse ci riuscirebbe anche. Ma nessuno può aiutarlo e anche Don Beniamino non potrebbe metterci le mani. Perché di quel tizio, in fondo, hanno bisogno tutti. Così non resta che Gabriele Riccardi e la speranza di riuscire a comple-
tare la sua vendetta e di stanare poi un fantasma seguendo le tracce di una voce. La speranza che tutto finisca per il verso giusto. A quel punto anche tornare nel supercarcere sarebbe indifferente. Perché tanto un sistema per evadere da lì si trova sempre. Guarda l'orologio del cruscotto e poi il Muto. Sta per dire qualcosa, ma le parole gli restano in gola. Davanti a lui, infilandosi lenta dall'uscita, l'auto di Gabriele Riccardi lo sta raggiungendo, bucandogli gli occhi con la luce rotonda dei fari. «Ai miei uomini non deve succedere niente» dico e l'aggettivo possessivo mi sembra molto stonato. Gaspare mi guarda senza espressione. Gli ho chiesto di salire da solo sulla mia auto e lui lo ha fatto, senza dire una parola. «Non è una condizione. È un ordine» spiego. «Tu hai bisogno di me e io ho bisogno di te. Tu farai quello che devi e io farò quello che devo. Ma nessuno dei miei uomini deve morire stasera.» Gaspare guarda la strada e i lampioni del parcheggio per un tempo che sembra eternamente lungo. «Va bene» dice quando si volta di nuovo verso di me. Allora metto la vibrazione al cellulare, lo infilo nel portaoggetti, metto in moto e partiamo. Dal retrovisore controllo che il Muto ci venga dietro. Camminando di notte nella casa silenziosa, Donatella Rizzo si sente improvvisamente molto sola. Fino a poco tempo fa non sentiva il peso del silenzio così forte, e non sentire i rumori del traffico, il casino della gente in strada era piacevole, non una maledizione. Adesso è tutto diverso, specie in serate come questa, quando suo marito fa il turno di notte e lei resta senza niente a cui pensare, prigioniera dei ricordi e dei rimpianti. Sì, forse avrebbe potuto fare qualcosa. Avrebbe potuto chiedere e cercare di capire. O forse sarebbe stato tutto inutile. Si versa un goccio d'acqua e prende le sue pillole. Quando lui le ha controllate, stamattina, ha fatto uno strano sorriso, qualcosa a metà fra il compatimento e lo scherno. Una brutta espressione che non gli conosceva, che non era catalogata insieme a quello che pensava di ricordare di lui. Come quell'odio che a volte gli ha sentito affiorare nella voce e la distanza da tutto, dal mondo e dai ricordi, che le è sembrata finta e fragile
come un breve strato di ghiaccio sulla bocca di un vulcano. Ingoia le sue pillole e guarda l'orologio. È da quando è uscita dall'ospedale che ci pensa. Non è troppo tardi. Forse è ancora in tempo per farlo, per togliersi anche l'ultimo peso prima di andare a letto e dormire tranquilla. Per qualche motivo che non capisce sente di dovergli la stessa sincerità che lui ha usato con lei. Allora per la seconda volta in quella giornata compone il numero di Gabriele Riccardi. Solo che stavolta schiaccia il pulsante e la chiamata parte. Poi il telefono suona, suona, suona. Suona senza che nessuno risponda. Come succede sempre più spesso alle tante domande che si continua a fare su se stessa, sulla sua vita e sua figlia che non c'è più. Un gatto scivola fuori da sotto una macchina e si infila in un giardino. È piccolo, grigio e con gli occhi che luccicano come aghi bianchi. Lo guardo sparire e so che sarà così che mi ricorderò questa notte. Con gli occhi di quel gatto che per un istante hanno incrociato i miei mentre scendevo dalla macchina. Gaspare è davanti a me e sembra annusare l'aria cercando qualcosa. Dovrei mettergli le manette e arrestarlo. Lui e il Muto che ha parcheggiato più avanti e che adesso cammina verso di noi grattandosi il mento. Dovrei ingabbiarli tutti e due e farla finita. Sarebbe anche relativamente semplice. Non se lo aspettano e a cento metri da qui c'è l'auto dei miei uomini ferma davanti alla casa di zio Giulio. Praticamente uno scherzo. Invece non lo faccio. Non lo faccio perché ogni volta che mi viene la tentazione penso al motivo per cui sono qui. Un motivo silenzioso disteso in un letto d'ospedale che non mi rivolge la parola da un tempo che mi sembra insopportabilmente lungo. Adesso non sono più un poliziotto. «Allora? Dov'è?» chiede Gaspare. Lo guardo e senza rispondergli apro il bagagliaio. Prendo il passamontagna e me lo infilo dentro i pantaloni vecchi e stinti che ho messo perché non li uso mai e non sono riconoscibili. Facendolo scopro la pistola e vedo Gaspare che la fissa con uno sguardo strano. «Credevi che sarei venuto con l'arco e le frecce? O disarmato, magari.» «Credevo che non ti volessi sporcare le mani.» «Perché questo che sto facendo come lo chiami? Lo sai che fine fa un poliziotto che aiuta uno come te a regolare dei conti? Non avete delle rego-
le solo voi della mafia, Gaspare. Le nostre non sono meno pesanti. E a volte non hanno un cazzo a che fare con la legge.» Non dice niente e mi guarda. Forse anche lui ha la tentazione di non fidarsi di me, ma ormai siamo nella stessa barca e ci tocca remare nella stessa direzione. «Dov'è?» mi chiede di nuovo. Indico con un dito un punto proprio di fronte a noi. «Girato quell'angolo c'è una strada lunga. In fondo c'è una palazzina a tre piani. All'ultimo piano c'è l'appartamento.» «Andiamo» dice Gaspare e si incammina. Appena parte gli stringo un braccio con la mano, piantandogli le dita nei bicipiti. Mi guarda come se gli avessi preso in mano l'uccello. «Buono» dico. «Ci sono delle cose che dobbiamo chiarire, prima.» «Che cazzo vuoi, ancora?» «Dirvi come stanno le cose. Davanti a quella casa c'è una macchina. È una Toyota nera. Dentro ci sono due uomini. Prima bisogna pensare a quelli. Sono collegati con la scorta di zio Giulio che sta sopra, sul pianerottolo. Altri tre. Se succede qualcosa dentro, il primo allarme arriva alla macchina. Chiaro?» «Chiaro» risponde Gaspare. «Però tu non vuoi che loro muoiano, giusto?» «Nessuno dei miei uomini deve morire stanotte. Abbiamo fatto un patto, ricordi?» «E allora?» «E allora ascolta me. Non sei l'unico a sapere come neutralizzare le persone, Gaspare. E forse ti sorprenderà sapere che per farlo non è sempre necessario piantargli un coltello in gola.» Chiudo il bagagliaio, mi infilo i guanti e comincio a spiegare. E non appena Gaspare Nunia capisce dove voglio andare a parare mi sorride. Un sorriso che incredibilmente mi fa sentire molto fiero di quello che sto facendo. «Cazzo iersera ho visto la Ferilli in tv. Una figa spaventosa.» L'agente Massimo Giannini guarda Lillo Verardi, il suo compagno e sorride. La porta della piccola palazzina di tre piani è dieci metri davanti a lui, silenziosa come quella strada senza uscita che finisce nel parcheggio in cui stanno da quasi sei ore. «Ha due tette grosse, ma sode. Capisci? Da affondarci la faccia prima delle mani. Sai che caldo ci deve essere lì in mezzo?»
«Scommetto che ci metteresti qualcos'altro oltre alla faccia vero Lillo?» «Perché tu no?» Sta per rispondere che tutte le volte che vede la Ferilli gli vengono certi pensieri in testa che quasi si vergogna a farli. Però non fa in tempo. Tutto succede troppo in fretta perché possa uscirgli anche una sola parola. Camminare a quattro zampe sull'asfalto mi fa male alle ginocchia. I miei legamenti me la faranno pagare per qualche settimana questa passeggiata nel parcheggio. La macchina che cerco si trova a non più di dieci metri davanti a noi, la prima della fila. La guardo e mi fermo. A due metri da me Gaspare e il Muto fanno lo stesso. Si voltano e mi guardano senza capire. Alzo l'indice della mano sinistra a indicargli di aspettare un secondo. Resto in ascolto e sento distintamente la risata grassa di Verardi. Probabilmente starà parlando di donne, come sempre. Respiro forte e mi guardo intorno. Ancora non so se mi rendo conto di quello che sto facendo. Però lo faccio e allora cerco di capire quanto spazio abbiamo ancora prima di dover agire allo scoperto. Abbastanza, forse. Altre due macchine e poi bisogna sbrigarsi. Sentire di nuovo la voce di Verardi mi fa sperare. Se sono tranquilli, in quella macchina, sarà più facile coglierli di sorpresa. Per un momento mi immagino la cazziata tremenda che farò a quei due domattina. Poi mi muovo e Gaspare e il Muto fanno lo stesso. La figura in nero è apparsa all'improvviso dietro il finestrino aperto e Verardi ha lasciato cadere la sigaretta sull'asfalto, accanto ai piedi del tizio col passamontagna. Poi ha tentato di portare la mano alla pistola, ma un altro uomo, a volto scoperto gli ha appoggiato la canna della pistola alla tempia attraverso il finestrino aperto, schioccando la lingua contro i denti ad indicare che non era affatto una buona idea. Conosce quell'uomo. Luigi Pastoso detto il Muto. Con la coda dell'occhio vede Giannini che scende dall'auto e quando anche lui è fuori si accorge che dall'altra parte c'è Gaspare Nunia. E quello che fino ad allora era un dubbio, diventa una certezza. Appoggia la schiena alla carrozzeria e si guarda intorno, nella speranza che qualcuno arrivi a distrarre i tre uomini e a dargli una piccola occasione
di fare qualcosa. Il tizio col passamontagna fa un cenno a Pastoso e lui lo perquisisce con attenzione mentre Lillo Verardi continua a fissare l'uomo che lo tiene sotto tiro senza esitare un momento solo. Guarda i suoi occhi per un momento, poi abbassa lo sguardo. Il Muto conclude la sua opera e passa dall'altra parte a perquisire Giannini. Poi recupera le due pistole che sono rimaste in macchina. Il resto si svolge in un secondo. «Apri il bagagliaio» ordina Pastoso, e Verardi si abbassa dentro allo sportello aperto e preme la levetta. L'uomo col passamontagna tira fuori un rotolo di scotch telato e glielo appoggia sulle labbra. Anche se non riesce a vederne il viso è sicuro che facendolo stia sorridendo. Poi lo fa girare bruscamente contro l'auto e con lo stesso scotch gli lega i polsi dietro la schiena. E alla fine le caviglie. Per immobilizzare Giannini ci vuole un altro rotolo di scotch. Qualche istante dopo l'agente Verardi è sdraiato tra il divano dietro e i due sedili davanti, mentre il suo collega è impacchettato per bene nel bagagliaio della Toyota. Entrambi, raccontando l'accaduto, diranno che l'uomo col passamontagna sembrava il capo della banda e faranno l'ipotesi che si trattasse di un professionista, un mercenario venuto da fuori. E non sarà qualcosa di molto diverso dalla realtà. Allontanandomi dalla Toyota mi tolgo il passamontagna e mi asciugo la fronte fradicia di sudore. Gaspare Nunia mi guarda come se fossi un elfo sbucato fuori dai boschi. «Potresti farlo da solo» mi dice. «Le puttanate le lasciamo per dopo, se non ti dispiace.» Guardo il Muto. «Sai cosa devi fare, vero?» Luigi annuisce. Allora mi rimetto il passamontagna e usando le chiavi che ho fregato a Verardi entriamo nel palazzo. Matteo Bellini è alla sua prima sorveglianza e sta pensando che in fondo è una gran noia quando tutto comincia. Accanto a lui c'è il caposquadra, l'agente Freddi, che gioca con un braccialetto di quelli di cotone colorato. Se lo passa attorno a un dito e poi lo fa arrotolare, come uno yo-yo. Seduto
sulle scale Antonio Sottili sembra perso nei suoi pensieri, il mitra abbandonato su un gradino. Poi la luce si spegne e tutto si anima. Il meccanismo che rende intermittente la luce delle scale è stato manomesso da un tecnico della polizia alcuni mesi fa, in modo che sui pianerottoli non ci sia mai la luce spenta, nemmeno di giorno. Una volta, circa tre settimane fa, si è rotto un fusibile e tutto il palazzo è finito al buio, ma era pomeriggio presto. Adesso invece è tutta un'altra faccenda. «Vado io» dice Sottili. Accende la torcia che porta in cintura, imbraccia il mitra e comincia a scendere. Nel sottoscala c'è odore di umido e di muffa. Viene dalla porta della cantina che sta dietro di me, dietro la rampa di scale sotto a cui mi sono nascosto mentre Luigi toglieva la luce staccando il quadro. Adesso è tornato alla Toyota, a controllare che tutto vada bene e io e Gaspare siamo sotto le scale, al buio, ad aspettare che succeda qualcosa. «Vado io» sento dire e riconosco la voce di Sottili, uno attento e preciso come due assi cartesiani. Poi si sentono i passi e nella penombra io e Gaspare ci guardiamo per capire cosa fare. Quando arriva al piano terra, l'agente Sottili spegne la torcia. C'è una luce azzurra che arriva dal portone con i vetri smerigliati e che illumina perfettamente l'atrio del palazzo. Si avvicina e controlla con la mano sinistra che il portone sia chiuso, senza staccare un momento la destra dal mitra. Poi si volta e guarda il quadro della luce delle scale. Sembra chiuso come al solito, ma avvicinandosi nota una fessura sulla parete laterale, come se lo sportellino non riuscisse più ad aderire dopo essere stato forzato. Allora infila la chiave quadrata e lo apre. Gli hanno detto di fare così se la luce si blocca. Aprire e controllare. E lui è uno che esegue gli ordini. Sempre. «Che cazzo» sussurra, poi qualcosa lo colpisce alla nuca e tutto diventa nero e buio. Gaspare si batte due volte con un dito sul petto e io mi accuccio. Lo guardo partire e spero che si ricordi del nostro patto. Spero che sap-
pia cosa deve fare e come lo deve fare. Altrimenti ho un proiettile per lui pronto in canna. Guardandolo uscire allo scoperto mentre Sottili ci dà le spalle per aprire il quadro della luce, mi rendo conto di come abbia fatto a uccidere tanti uomini in vita sua sparando così poco. Cammina senza far rumore e percorre quei pochi metri come se fosse un'ombra. Solo alla fine Sottili si accorge della presenza di qualcuno alle sue spalle, ma è troppo tardi. Il calcio dell'arma lo colpisce alla nuca e la mano di Gaspare gli tappa la bocca perché non si senta nulla. Sottili emette un gemito appena percettibile alla distanza in cui mi trovo. Nessuno, sopra, può averlo sentito. Mentre Gaspare lo trascina nel sottoscala e io preparo lo scotch per imbavagliarlo, sento la sua radio che gracchia e la voce dell'agente Bellini che da sopra chiede notizie. Notizie che nessuno può dargli. «Ci sta mettendo troppo.» Matteo Bellini è teso e ha smesso di pensare che la sorveglianza sia una gran noia nel momento preciso in cui la luce è andata via. Detesta il buio. Sempre, fin da bambino. Il buio ha riempito la sua infanzia di incubi mostruosi, perché è come un'ombra che non finisce mai. E nell'ombra si può nascondere qualsiasi cosa. «Troppo tempo» ripete e illumina con la torcia nella direzione dell'agente Freddi. «Non negli occhi, cretino.» Abbassa il raggio. «Scusa.» Poi prende la radio e chiama. Ma nessuno gli risponde. «Che facciamo Freddi?» «Resta qui» dice. Stringe fra le dita il braccialetto di cotone, accende la torcia e allungando la pistola in avanti comincia a scendere le scale. Sporgendomi in avanti vedo la luce di una torcia che rimbalza sulle pareti delle scale e capisco che qualcuno sta scendendo. Forse Freddi, questa volta. Ho controllato la composizione dei turni prima di uscire e lui è il caposquadra. Mi piace Freddi, e anche se ha sempre l'aria di uno che non gliene frega un cazzo di niente, è uno con la testa sulle spalle.
Allora mi viene in mente una cosa. Avvicino le labbra all'orecchio di Gaspare. C'è poca luce, ma dallo sguardo non mi pare contento dell'idea. Però annuisce. Faccio fare un altro giro di scotch intorno ai piedi di Sottili e mi preparo. Fabio Freddi scende le scale con lentezza, la torcia davanti a sé, attaccata alla pistola come un mirino per poter vedere il bersaglio a cui sta puntando. C'è qualcosa che non va, qualcosa che si sente in uno strano odore nell'aria, come un allarme. L'ultima volta che lo ha sentito è stato con Riccardi, dentro quella casa dove hanno preso la banda delle ville, poco prima che quell'armadio pelato sbucasse fuori con la ragazzina stretta intorno al braccio. Si tiene rasente al muro, distante dalla ringhiera e dalla tromba delle scale e scende. Arrivato all'ultima rampa vede la porta e alla sua destra il quadro della luce. Lo sportello è aperto e c'è un uomo che sta guardando dentro. Un uomo che se i suoi occhi non lo ingannano è Gaspare Nunia. Lo sente arrivare. Sente i passi sulle scale e si irrigidisce contro il quadro della luce, il coltello contro gli addominali tesi. Sa che se qualcosa andrà storto dovrà usarlo. Con la coda dell'occhio vede sul pavimento l'impronta della torcia del poliziotto. Poi sparisce, come un'ombra che si assorbe contro al muro quando il sole viene coperto da una nuvola. E allora sa che deve stare fermo, immobile e aspettare. E che per catturare un nemico a volte bisogna fingere di essere la preda. L'agente Freddi si ferma sul primo gradino delle scale. «Fermo» dice. Ha la voce decisa. Lo vedo puntare la pistola verso la nuca di Gaspare, girato perpendicolarmente alla direzione dell'arma e immobile. «Le mani. Fammi vedere le mani. Fai un passo indietro, girati lentamente verso di me e fammi vedere le mani.» Gaspare si muove piano e si volta verso Freddi. Lo guarda con quel sorriso strafottente, come se lo stesse aspettando. «Hai fatto il colpo grosso, sbirro» gli dice e la sua mania di essere teatrale mi fa incazzare.
«Tutto bene?» La voce di Bellini da due rampe più su. «Stai lì, Bellini. Stai lì e stai zitto!» gli grida Freddi e si avvicina a Gaspare. Con un colpo secco chiude il quadro della luce. «Girati. Mani larghe sopra la cassetta. Allarga le gambe.» Gaspare lo guarda. Poi esegue l'ordine e si lascia andare in avanti, le mani larghe a sostenere il peso del corpo. «Va bene così?» Freddi gli gira intorno e si mette dietro. Con una mano tira fuori le manette. «Adesso porta una mano alla volta dietro alla schiena. Molto piano» dice e io capisco che è il momento per agire. «Ricordati che hai una pistola incollata alla...» comincia l'agente, ma non riesce a finire. Si volta di scatto e il calcio della mia pistola lo prende in piena fronte. Cade all'indietro schiacciando Gaspare contro il quadro della luce. Nastro adesivo ne abbiamo anche per lui. «Tutto bene?» chiede Bellini scendendo piano le prime due rampe. Gli sembra di aver sentito Freddi dire qualcosa, ma non ne è sicuro, e rimanere lì da solo, davanti alla casa di zio Giulio, non lo fa stare per niente tranquillo. «Stai lì, Bellini. Stai lì e stai zitto!» La voce di Freddi dal piano terra. Vorrebbe chiedergli di nuovo se va tutto bene, ma gli ha detto di tacere e se c'è una cosa che ha capito con Freddi è che a un suo ordine bisogna obbedire senza storie. Allora tace. Gli sembra di sentire di nuovo Freddi parlare. E anche un'altra voce. Resta immobile e tenta di ascoltare qualcosa in mezzo al silenzio. Un rumore secco. Poi ancora qualche parola. Poi un tonfo sordo e una specie di pigolio. Adesso decisamente comincia a rimpiangere le ore passate a lasciare andare semplicemente il tempo. Guarda la porta dell'appartamento di zio Giulio, chiusa alle sue spalle, e ascolta ancora una volta il silenzio che arriva dalle scale. E capisce che ogni tanto agli ordini bisogna trasgredire. Si fa forza e comincia a scendere. Poi arrivano i passi. «Freddi?» dice. «Ssst. Ti ho detto di fare silenzio» sussurra l'uomo che sta salendo. Accende la torcia e la prima cosa che inquadra con la luce è un giubbotto della polizia. Poi vede la pistola che sale, dritta in direzione del suo viso.
Allora cerca di sollevare la sua. «Io non lo farei» dice un'altra voce e Matteo Bellini si rende conto che gli uomini che ha davanti sono due. Che sono armati. Che uno è Gaspare Nunia. Che l'altro gli sta facendo cenno di gettare la pistola per terra e di girarsi. E che tutto quello che riesce a vedere dell'uomo che indossa il giubbotto di Freddi, sono due occhi duri che lo squadrano da dietro un passamontagna. Il pianerottolo è silenzioso. Mentre salivano all'ultimo piano qualcuno ha aperto una porta, in basso. Probabilmente al primo. Hanno sentito qualche passo poi il rumore della porta che si richiudeva e di un catenaccio a molte mandate che girava nella serratura, e la palazzina è tornata in silenzio. Gaspare Nunia guarda l'uomo col passamontagna davanti a lui e lo vede infilare la chiave nella porta di casa di zio Giulio. E capisce che alla fine la sua vendetta è davvero arrivata. Quando apro la porta la casa è molto diversa da come l'ho vista stamattina. Forse è la luce, forse il silenzio o più probabilmente sono io che non sono più lo stesso. Sento il passamontagna incollato alla fronte, ai baffi e alla barba e ho la faccia in un bagno di sudore caldo che mi fa sentire addosso l'odore della mia paura. Non so se mi sono chiesto cosa sarebbe davvero successo quando ho fatto salire Gaspare sulla macchina, quando ho messo in moto, quando ho preso a tradimento i miei uomini. So che per un istante il pensiero mi sfiora quando vedo Gaspare superarmi e tirare fuori il coltello. La lama luccica colpita da un riflesso nella penombra e quando mi passa vicino lo fermo, toccandolo una volta sola sulla spalla. «La bambina no» gli dico e lui apre la bocca in un ghigno, quello di uno squalo che è digiuno da sempre e che finalmente riesce a trovare cibo da sbranare senza difficoltà. «Io non uccido bambini. Ma da adesso tutto quello che succede non sono più cazzi tuoi» risponde e indica con la mano libera le due porte che si aprono sul corridoio in fondo. Muovo la testa verso sinistra e lui si sposta in quella direzione. Aspetto un secondo per decidermi su cosa devo fare, poi lo seguo. Non so se sia curiosità morbosa, il desiderio di scoprire la forma sotto al lenzuolo o la strana consapevolezza che in fondo sto facendo esattamente la stessa cosa che sta per fare lui. Non so cosa sia, ma vo-
glio vedere. A quel punto conta più di tutto il resto. Quando arrivo sulla soglia della camera da letto Gaspare è già dentro. La tapparella è rada e la luce dei lampioni si infila nelle fessure rigando i muri con strane ombre lunghe. Gaspare si muove senza rumore e per un attimo controllo i suoi piedi, sicuro che non tocchino per terra, che camminino sull'aria. Poi guardo il letto. Rosa, la moglie di zio Giulio, dorme sulla schiena, dal lato dell'ingresso, la coperta alzata fino al seno. Suo marito è girato verso la finestra e russa profondamente. Gaspare li fissa a meno di mezzo metro dal fondo del letto. Muove lentamente il coltello nell'aria, facendo disegnare dei piccoli cerchi alla punta della lama. Nella penombra della stanza sembra un vecchio che lotta con i suoi ricordi. E in fondo è proprio così. Poi all'improvviso si muove verso la donna e mentre lo fa zio Giulio mugola qualcosa nel sonno, forse inseguito da un incubo. Gaspare lo guarda infastidito, come un direttore d'orchestra interrotto dallo squillo di un telefonino. E lì mi accorgo che non sta improvvisando nulla, che è tutto calcolato al dettaglio. Che ha vissuto quella scena nella sua testa per mesi e che ora sta semplicemente vivendo una sua fantasia. Si china sulla donna e le impugna il viso all'altezza del mento, coprendole la bocca con la mano. Rosa Giulio spalanca gli occhi e lo guarda terrorizzata, come un mostro sbucato fuori da un incubo. Tenta di allungare le mani verso di lui e allora Gaspare le si siede addosso, colpendola con un'anca alla bocca dello stomaco. La mano sinistra della donna si incolla a quella che lui le tiene sulle labbra. Si sente distintamente il rumore delle unghie che grattano sulla pelle di Gaspare, che lo graffiano cercando disperatamente di liberarsi. Poi lui le mostra il coltello e Rosa Giulio spinge con la testa all'indietro, come se volesse scomparire dentro al materasso. Gaspare sfrutta quel movimento per sollevarle la testa. Poi la guarda e sorride. La lama si infila nella pelle del collo e il primo schizzo di sangue che esplode dalla sua gola squarciata colpisce il maglione di Gaspare. Lentamente, annegando la mano in mezzo al sangue, Gaspare Nunia la sgozza, con la perizia e la precisione di un contadino che per una festa uccide il suo maiale più bello. All'improvviso apre gli occhi.
Il display della sveglia segna le due e mezzo di notte. Visto così, nel buio della stanza, i numeri sembrano di sangue. Ha il cuore che gli batte nel petto a una velocità che non capisce, come se uscire dal sogno che stava facendo lo avesse costretto a una corsa forsennata. Allora respira, Candido Giulio, respira e fruga con gli occhi sul soffitto della stanza alla ricerca di qualcosa che non conosce. Ma è tutto troppo buio per poter distinguere qualcosa. Eppure qualcosa c'è. Un odore e una sensazione di attaccaticcio e di umido che ha provato spostando il lenzuolo, mentre si svegliava. Se ne ricorda ora, aspettando che i suoi occhi si abituino alla luce sottile che filtra dalla tapparella tenuta rada. Sua moglie ha paura del buio. «Sei sveglia?» sussurra zio Giulio e si accorge che dalla sua sinistra non arriva nessun rumore. Nemmeno un respiro. Allora si gira e la vede. E tutto torna chiaro e preciso. Come il pigiama sporco di sangue. Come sua moglie sgozzata di fianco a lui, la bocca spalancata e gli occhi rivoltati all'indietro. «Ti saluto, zio Giulio» dice una voce da qualche parte nella penombra. Poi si accende la luce e la realtà è troppo pesante perché lui non ne abbia paura. Forse ce la faccio, pensa Fabio Freddi tentando di spostare lo scotch da pacco che gli lega le mani dietro la schiena. Ha un dolore atroce alla fronte, dove l'uomo col passamontagna lo ha colpito e la testa che pulsa in una strana morsa che qualche dottore chiamerebbe trauma cranico, ma a parte quello sta bene. Ogni tanto deve fermarsi per respirare dal naso l'aria che gli serve per un altro sforzo, ma ogni volta sente che il nastro cede piano piano e che lo spazio per muovere le mani comincia a crescere lentamente. Non è ancora abbastanza per riuscire a incidere lo scotch telato e tentare di liberarsi, ma è già a buon punto. Tira forte, capendo per la prima volta a cosa sono servite tutte quelle ore di palestra a cui lo hanno costretto, poi si ferma ad ascoltare la casa. C'è un silenzio irreale, una pace che stona con tutto quello che sta succedendo e col dolore sordo che man mano che si sforza gli gonfia la testa. Per un attimo è tentato di smetterla, di chiudere gli occhi e aspettare che tutto finisca. Se volevano ucciderli lo avrebbero fatto subito, senza im-
pacchettarli come salami. Poi, senza nemmeno rendersene conto, respira un'altra volta e tira forte con tutte e due le mani. E sente qualcosa che si rompe. «Ti saluto zio Giulio» dice Gaspare e Candido Giulio si solleva appoggiando la schiena alla testata del letto. «Gaspare...» sussurra e i suoi occhi schizzano impazziti, dal viso di Gaspare Nunia al coltello che gocciola sangue sul pavimento, ai miei occhi che da dietro al passamontagna lo fissano senza un'espressione. Non provo pietà per quell'uomo. Né per lui né per Gaspare. Entrambi sapevano la vita che facevano e quello che rischiavano. E che un momento come questo può anche arrivare. «Mia figlia» comincia a dire zio Giulio. «Che le hai fatto, bestia?» «Mi conosci così poco, zio Giulio? Sei tu quello che uccide le bambine. Sai, Don Beniamino Riccomini è stato molto contento di sapere come sono andate le cose. Molto soddisfatto.» «Potevi venire da me. Avremmo sistemato tutto. Potevi chiedere a me. Ti avrei fatto evadere io.» La voce di zio Giulio sembra il ticchettio di un codice Morse, ha il ritmo di una fuga, come se pronunciare quante più parole gli vengono in mente potesse salvargli la vita. Come se in mezzo alla massa di supposizioni ce ne potesse essere una per fermare il coltello di Gaspare. «Ci sono delle regole, zio Giulio» dice Gaspare. «E le conosciamo sia io che te. Cose da rispettare. Almeno cerca di morire da uomo.» Gaspare fa un passo in avanti e zio Giulio si solleva sulle ginocchia e tenta di scappare verso la porta. Me lo vedo arrivare addosso, camminando sul cadavere della moglie e allora faccio un passo in avanti e lo colpisco con una ginocchiata in pieno petto. Sento lo schiocco di una costola che si rompe e il tonfo di zio Giulio che mi cade ai piedi, come tante volte uno dei suoi protetti deve aver fatto con lui. Alza gli occhi e mi guarda, implorando un aiuto che non voglio dargli. L'unica cosa che voglio in questo momento è uscire da questa casa e sapere quello che devo sapere per trovare quell'uomo. Sapere quello che devo sapere perché Alice possa aprire gli occhi e rialzarsi da quel letto. Non c'è nessun altro che possa farglielo fare. Al mondo ha soltanto me. Guardo Gaspare. «Muoviti» sussurro e don Candido mi fissa come se riconoscesse la mia voce. Sta anche per dire qualcosa, ma non fa in tempo. Gaspare lo prende per il collo del pigiama e lo solleva, stringendoselo al
petto. «Fai il bravo» sento che gli sussurra. «Non svegliare la bambina.» Candido Giulio tenta di rispondere, ma la lama del coltello è più veloce della sua bocca. La punta si infila nel collo per due dita e riesco a contare fino a dieci prima che la lama abbia concluso la sua mezza luna, come se Gaspare volesse fargli sentire il dolore della morte che arriva, strappandogli via la vita nell'ennesima fontana di sangue. Poi lascia andare il corpo sul pavimento e guardando il letto dei Giulio imbrattato di sangue e i due cadaveri, abbassa il coltello e respira. Un respiro lungo in cui sbuffa fuori molte altre cose oltre all'aria. «Mamma?» chiama una voce dalla stanza in fondo e ci ributta bruscamente alla realtà. «Fuori» dico e mi avvio verso la porta. Uscendo e infilando di corsa le scale sentiamo l'urlo della bambina nella casa deserta. È appena riuscito a liberarsi i piedi quando sente la porta aprirsi, all'ultimo piano. Allora si fruga alla ricerca della pistola, e senza pensare la impugna e si alza. Gli hanno tolto il giubbotto, ma non l'hanno disarmato. Una distrazione stupida. Mentre sale, da qualche parte lontano, gli pare di sentire una bambina gridare. Appena sul pianerottolo chiudo a chiave la porta e mi tolgo il passamontagna. Sento le gocce di sudore che mi colano sul viso, fino sul maglione nero. «Dobbiamo muoverci» dico e Gaspare annuisce. Si sta pulendo le mani sporche di sangue sul maglione scuro. Uno schizzo gli ha colpito la fronte e gli è colato su una guancia, formando uno strano disegno nero, come una ferita che si sta chiudendo. Sento la bambina urlare di nuovo e mi infilo per le scale. Non c'è molto tempo, tra poco qualcuno la sentirà e scoppierà il casino. Dieci minuti al massimo e dobbiamo essere via di lì. Scendo di corsa e non sento i passi di Gaspare. Allora mi fermo e mi volto. È fermo, in cima alla rampa del secondo piano e guarda dentro la tromba delle scale. «Cazzo fai, muoviti» gli dico. Poi mi volto. E a tre metri da me c'è Fabio Freddi, la pistola in mano, che gira l'angolo
salendo di corsa dal piano terra. «Cazzo fai, muoviti» dice l'uomo vestito di nero e Fabio si blocca. Ha appena girato la rampa di scale che dal primo piano porta sopra e inquadrato con la coda dell'occhio Gaspare Nunia sul pianerottolo del secondo piano. Per lui ha in serbo il secondo colpo. Il primo è per l'uomo vestito di nero, quello che lo ha steso come un pivello di quart'ordine. È lui che ha la pistola in mano, lui il più pericoloso. Poi lo sente parlare e per un momento crede di avere un'allucinazione. Ma alla fine l'uomo si volta e l'agente Fabio Freddi si trova a fissare negli occhi il commissario Gabriele Riccardi. Sparo. Sparo senza nemmeno chiedermi perché. Sparo dritto, due colpi in successione che esplodono nella tromba delle scale come petardi dentro una scatola di plastica. Il primo colpo lo colpisce sotto al collo e Fabio lascia andare la pistola. Il secondo lo prende dritto in fronte e lo schianta contro il muro delle scale come un quadro attaccato a un chiodo. Per un brevissimo istante mi guarda, fisso e incredulo, e c'è ancora vita in quegli occhi. Poi scivola semplicemente lungo la parete, come una pallina lungo una guida, e ricade a terra inerme in un tonfo secco che mi spezza qualcosa dentro. Sto per lasciare andare la pistola quando sento il braccio di Gaspare che mi strattona. «Forza, commissario. Leviamoci da qui.» Accosto la macchina vicino al parco e scendo. Un viaggio di una ventina di minuti in silenzio, la radio spenta e i pensieri in moto troppo accelerato perché riesca a tenergli dietro. Ho bisogno d'aria. Respiro guardando il riflesso dei lampioni sulle chiome degli alberi. C'è vento e a seconda di come mi volto lo sento caldo oppure freddo. «Ti ammazzava» dice Gaspare, ed è la terza volta che lo dice stasera. Non ne posso più. Mi volto e lo prendo per il maglione sudicio di sangue. Lo appoggio alla macchina e lo guardo. «Non me lo dire più che mi ammazzava. Non me lo dire più. Capito? Mi hai capito?» Gaspare non dice niente e mi lascia fare. Da quello che ha visto stasera forse sa che sono pericoloso quanto lui. Anch'io in fondo ho ammazzato
uno che fino a poche ore fa stava dalla mia stessa parte. Lo lascio andare e lui si sistema i vestiti. «Con che pistola hai sparato?» mi chiede. Il primo pensiero che ho fatto mentre Fabio mi crepava davanti è stato proprio quello. Con che pistola ho sparato. Per un attimo sono stato anche sicuro di aver fatto fuoco con la mia, quella d'ordinanza, ma non è stato così. La balistica verificherà che Fabio Freddi è stato ucciso dall'arma dell'agente Verardi, legato e imbavagliato nell'auto di servizio da un uomo con il passamontagna. Lo stesso uomo che ha sorpreso l'agente Freddi e che legandolo si è dimenticato di disarmarlo. Non c'è nulla che possa collegare quello che è successo a me. E in fondo è proprio quell'assoluta impunibilità che mi fa ancora più schifo. Sono diventato esattamente tutto quello per cui ho sempre combattuto. Ma non è finita. Mi volto e guardo Gaspare Nunia e Luigi il Muto. Adesso non sono più dalla loro parte. Adesso sono solo dalla mia, la mia è quella di Alice e basta. «Come ti senti?» gli chiedo. Gaspare mi guarda. «Ci sono cose che vanno fatte e basta. Prima o poi capirò come mi sento. E lo sai anche tu.» Ha ragione. Ci sono cose che vanno fatte e basta. Io ho fatto quello che pensavo fosse giusto. Ho mandato a puttane tutta la mia vita per aiutare un assassino a farsi giustizia nell'unico modo che il suo mondo prevede. E ho pagato ammazzando a sangue freddo uno che conoscevo per pararmi il culo. Ora tocca a lui pagare. «Dammi quello che è mio» dico e Gaspare fa un cenno al Muto. «L'ho incontrato una sola volta» comincia. «L'ho sempre sentito solo al cellulare, te l'ho detto. Mi ha proposto di far evadere Gaspare. Era un'idea che avevamo già avuto. Tutte telefonate brevi. Parla con una voce bassa, quasi sussurrando. Sembrava strana.» «Usava un distorsore, probabilmente.» «Quando gli ho detto che ci stavo,» continua Luigi ignorando la mia precisazione «mi ha dato un appuntamento in una chiesa, al mattino presto. Mi ha detto che dovevo incontrare un prete e di entrare nel confessionale, il primo a destra. Mi ha spiegato la strada e il paese e come fare per arrivare alla chiesa.» «Sempre per telefono?»
«Sempre per telefono. E lì l'ho incontrato. Lui, non il prete. Era dentro quando sono arrivato e sussurrava. Faceva paura, quella voce. Ha preso i soldi e mi ha dato un pacco.» «Il pacco con i vestiti.» Annuisce. «E io l'ho preso. Mi ha detto di uscire senza voltarmi. Altrimenti mi ammazzava. Prima o poi.» «Va bene. Adesso dimmi qualcosa che mi possa interessare, Luigi.» «La chiesa era a Manerbio» comincia. «Manerbio? Sei sicuro?» «Certo che sono sicuro, sbirro. Manerbio. Vicino a Brescia» spiega e sento un brivido che mi pizzica la schiena e la voce di mia nonna in testa che dice è la morte che ti passa vicino. Nei proverbi popolari c'è sempre una nota di verità. «Continua.» «Qualche giorno fa ho avuto un incidente e sono andato in ospedale. Ti ho visto arrivare in rianimazione e ti ho seguito per capire cosa ci facevi. E mentre tornavo indietro l'ho sentito.» «Cos'hai sentito?» «Lui. Parlava con una donna. Sottovoce. L'ho visto solo di spalle, ma era lì, in mezzo al corridoio. Ho capito che era lui perché sussurrava. Non ho mai sentito la sua voce vera.» «L'hai sentito in rianimazione?» «Non so se era rianimazione. So che era dov'eri tu. Solo più in basso. È un dottore.» Un dottore. Dottore è una parola che si usa per dire che qualcuno sa fare delle cose bene. Non solo curare la gente. E questo tipo è un dottore. Lo è in ogni senso. Perché è bravo nel suo lavoro. Qualunque esso sia. «C'è dell'altro?» «Una cosa.» «È tardi.» «C'è un modo per contattarlo.» Eccola la chiave. Da quando so dell'esistenza di questo tizio mi chiedo come si faccia a contattarlo. La mia idea erano gli annunci economici, ma ora non ne sono più così sicuro. «C'è una persona da cui andare.» Pietro, penso, e lo invito ad andare avanti con un gesto della mano. Il tono della sua voce è cambiato, come se avesse paura di rivelare un segreto che potrebbe costargli la vita. E forse è davvero così.
Guarda Gaspare, poi continua. «Un vecchio. Abita a Bologna, in una grande casa sulla collina. Almeno così dice chi lo ha visto. Si chiama Mario. Non so altro. Magari lo trovi.» Tiro su col naso l'umidità della notte. Gli occhi mi fanno male. «Certo che lo trovo» dico, e per un momento penso alla catenina che Salvi e Aiuti si sono portati dal loro congresso. A Manerbio. «Lo trovo» ripeto e quasi non riconosco il tono della mia voce, come se stessi osservando la scena dal di fuori. Non sono qui, non sono io. «Fai attenzione» si intromette Gaspare. «Dicono che una volta uno ha provato a fotterlo, usando il vecchio come esca. È successo tanti anni fa, magari è una favola. Però dicono che lui è andato a casa sua e ha bruciato la fica di sua moglie.» Sgrano gli occhi. «Propriu accussì, sbirro. Gli ha sciolto la fica con l'acido.» Mi strofino gli occhi che mi bruciano e li guardo. «Domani pomeriggio» dico dopo un lungo momento di silenzio che mi serve per riordinare le idee. Gaspare si fa all'improvviso molto serio. Mi fissa. «Minerbio, in via Garibaldi. C'è una trattoria. Lì sopra.» «Gasp...» tenta di cominciare il Muto e Gaspare lo fulmina con uno sguardo. «Lui no» mi dice. Annuisco. «Fallo uscire domattina entro le undici. Manderò una macchina a sorvegliare la casa. Alle otto di sera precise ti vengo a prendere.» «Va bene» dice e il Muto abbassa lo sguardo. Poi senza dire niente montano in macchina. Li vedo allontanarsi e resto solo con i miei fantasmi. Allora mi sfilo il maglione sporco di sangue e lo butto nel bidone dell'immondizia. Poi vado via anch'io. Sono le tre e mezza del mattino e c'è una persona con cui devo parlare. «Gravissimo fatto di sangue poco fa nella prima periferia di Bologna» urla la radio e lui appoggia il bicchierino di caffè sulla scrivania. «Cos'è successo, dottore?» chiede l'infermiera. Le fa cenno di tacere sfiorandosi la punta del naso con l'indice e sorridendo per non sembrare scortese. Poi la radio racconta e lui capisce che adesso è davvero quasi finita. Bravo Gaspare, pensa. Ce l'hai fatta finalmente.
Finisce il caffè in un gesto solo e si alza. «Animali, ecco cosa sono» dice l'infermiera. La guarda e cerca di fare uno sguardo indignato, sapendo che non ci riuscirà. «Animali» ripete ed esce dall'ambulatorio. Per tutto il viaggio verso Manerbio Gaspare Nunia non dice una parola. Sente solo la strada scivolare sotto le ruote della Clio, e ha la sensazione che un periodo della sua vita sia veramente finito, chiuso dentro la coltellata che ha aperto come un pezzo di pane caldo la gola di zio Giulio. Pensava che avrebbe provato più piacere nel girare la lama nella carne e sentirla cedere. Pensava che sentire sulle dita, sul viso, sulle labbra, il calore del sangue dell'uomo che ha sterminato la sua famiglia lo avrebbe fatto sentire forte e finalmente in pace. Invece non è vero. L'unica cosa che sente, in fondo a quella strana notte arrivata quasi per caso, è solo una lunga e profonda solitudine. Per questo, pensandoci, l'idea del carcere non gli sembra così terribile. E non solo perché è sicuro di poterne uscire di nuovo. Non solo perché sa che dentro quelle mura è al sicuro dall'uomo che da domani comincerà a dargli la caccia. Ma anche perché là dentro non ha bisogno di inventarsi una vita. Non ha bisogno di tentare di essere ancora quello che forse non è più e nemmeno di diveptare qualcos'altro. «Te ne vai alle dieci, domattina. Prendi la macchina. Non voglio che ci siano casini» dice spezzando il silenzio. Al suo fianco il Muto annuisce. Ha tentato di dire qualcosa appena sono saliti. Ma lui gli ha fatto un gesto con la mano aperta e Luigi ha capito subito che non doveva parlare. Perché parlare non sarebbe servito a niente. «Grazie» dice spegnendo il motore davanti a casa. «E lasciami dormire. Non abbiamo bisogno di salutarci.» L'infermiera che lo vede arrivare non si sorprende nemmeno più. Il commissario Gabriele Riccardi arriva in reparto a qualunque ora del giorno e della notte. Si ferma davanti alla vetrata e guarda dentro, come se dall'altra parte ci fosse un mondo strano che potrebbe essere cambiato dalla mattina alla sera. E invece è sempre lo stesso. Sta per rientrare in guardiola quando si sente chiamare, allora si avvicina
piano. Gabriele Riccardi ha gli occhi rossi e cerchiati e la barba lunga, l'aspetto orribile di chi non si fa un sonno vero da mesi. «Mi dica, commissario.» «Vorrei entrare, posso?» le chiede. «Certo» risponde subito, e aprendogli la porta sulla stanza dove è ricoverata Alice Mantovani pensa che per qualche motivo che non sa, quella non è una notte come tutte le altre. Ho ammazzato Fabio Freddi. Te lo ricordi Fabio Freddi? Quello che era andato a vivere da poco con la morosa. Quello alto. L'ho ammazzato, Alice. Mi ha guardato in faccia e l'ho ammazzato. Non ha detto una parola, mi ha solo guardato. E adesso è cambiato tutto. Forse se mi vedessi ora, non mi riconosceresti. Forse mi diresti che farlo per te non ne valeva la pena e forse l'ho pensato anch'io mentre lo vedevo morire. Adesso però non so più cosa penso. Mi sento tagliato a metà, come se metà della mia vita fossi costretto a comportarmi in un modo e metà nell'altro e tutto quanto adesso è un misto assurdo di finzione e realtà. Ho così tante maschere che non so nemmeno più quale è giusto mettersi. Quando sono in servizio devo ignorare che tu sia tu. Solo un numero di fascicolo, una cosa che non ha mani, né occhi. Che non ha un cazzo di corpo disteso sempre allo stesso modo nello stesso letto. E adesso devo far finta che Fabio l'abbia ammazzato un altro. E devo far finta di essere sempre l'uomo di prima. Cazzo, non potrò mai più essere l'uomo di prima. Mai più. Chissà dove sei finita. A volte me lo chiedo dove sei finita. Me lo chiedevo prima, quando all'improvviso sparivi e non capivo. Figurati adesso. Mi chiedo se hai paura o se ti senti al sicuro. Se c'è silenzio o se i tuoi pensieri fanno rumore. Quando sono a casa, quando dormo, quando sono solo Gabriele e non il commissario Qualcosa, allora me lo chiedo. È lì che mi manchi. Come adesso, come prima. È per questo che l'ho ammazzato, capisci? Perché mi manchi, perché così non posso andare avanti, perché o ammazzavo lui o mi ammazzavo io. O forse facevo in modo che fosse lui ad ammazzarmi. Ma mi manchi troppo per farmi uccidere. E troppo per sopportare di vederti ancora così. Lo prendo. Stasera lo so che lo prendo. Prima ho avuto la tentazione di
urlarlo in corridoio. Ti prendo, figlio di puttana! Tanto lo so che è qui. E se non è qui stanotte, qualcuno che glielo riferisce domani lo trova di sicuro. Fanculo. Sono stanco. Troppo stanco e le poche volte che sogno, sogno Teresa e te, come se foste la stessa persona. Come se vi avessi uccise io tutte e due. Se non avessi sparato a Gaspare quella sera, tu non saresti qui. Forse non saresti con me, forse starei inseguendo uno dei tuoi silenzi o l'ultimo dei tuoi silenzi. Ma non saresti qui e potrei sempre pensare con una fottuta ombra di malinconia che tu possa essere felice, da qualche parte. Mi sento in colpa. Troppa gente è morta per colpa mia. Troppa. E adesso basta. Adesso è ora che sia io a restituire qualcosa. Chissà se ti sei mai accorta che non venivo a parlarti. Qualcuno mi ha anche detto che ero un vigliacco o che facevo male perché alle persone in coma bisogna parlare. Ma non avevo niente da dirti, un po' come se tutte le cose che sentivo dentro si fossero accumulate e avessero fatto muro. Troppi pensieri, troppe parole. Come fai tu. Chiedere aiuto non è concesso. Urlare che si sta male è lecito solo se nessuno ci può sentire. Fanculo anche a te, Alice. Non ci sto più a questo gioco. Forse l'ho capito solo stasera. Forse dovevo sparare a Fabio per capirlo che è tutta una gigantesca stronzata, che il silenzio è solo una cazzo di maschera di ferro che ci mettiamo perché nessuno capisca cosa succede dentro. Una maschera spessa come una porta blindata e che blinda tutto davvero, fuori e dentro. E allora fanculo a tutto quanto. Se sto male lo voglio dire. A te, che non mi puoi ascoltare adesso e che prima forse facevi finta di non sentirmi. Perché ascoltarmi voleva dire dare delle risposte e le risposte costano, non sono mai gratis. Sia quelle belle che quelle cattive. E anche dire a qualcuno che ti manca, che ti è mancato, che stai bene con lui, che non conta un cazzo è una fatica troppo grande da sopportare. Io non so se mi stai ascoltando adesso, brutta stronza. Non so se puoi sentirmi, ma se puoi sentirmi spero che non ci sia un cazzo di posto là dentro dove tu possa scappare da qualche parte. Perché se non c'è allora sei costretta ad ascoltare quello che ti devo dire. Io lo prendo, quel figlio di puttana senza faccia. Lo prendo e lo porto qui da te. Lo porto qui da te e quel bastardo ti restituisce quello che ti ha tolto a causa mia. E cosi tutto torna pari. A costo di lasciargli la mia di vita in cambio. Se fosse un cazzo di diavolo è un patto che gli proporrei.
È tutto quello che posso fare per te, Alice. Tutto quello che posso fare da solo. Aiutarti a ricominciare a vivere. Oltre a volerti troppo bene per dirtelo nel modo giusto, per essere nel modo giusto. Per il resto servi anche tu. Quello che hai dentro, quello che nascondi, quello che a momenti fai vedere e poi butti in un angolo, per paura che qualcuno possa farlo a pezzi, quasi con la certezza che tutto prima o poi debba per forza diventare merda. Da solo posso arrivare solo lì. E fin lì, te lo prometto, io ci arrivo. Dopo, non lo so. Dopo decidi tu. Quando le sfioro la fronte con le labbra ha la pelle fredda, ma sento il suo profumo, come un ricordo che riaffiora alla memoria dopo tanto tempo. Troppo tempo. Fuori è scoppiato il temporale, uno di quelli che arrivano ogni tanto in primavera. Cammino fino alla macchina ascoltando il rumore della pioggia sull'asfalto e sulla pelle. Poi guido piano fino a casa. Aspettando che mi chiamino. Tredici Bologna, 7 maggio. Nove e venticinque «Che cazzo è successo?» mi urla in faccia il questore e sbatte «la Repubblica» sulla scrivania. Boss mafioso sotto sorveglianza sgozzato nel suo appartamento. Ucciso un poliziotto. Alzo appena il giornale, giusto per dargli la soddisfazione. Li ho già visti tutti. Il «Corriere della sera» è più asettico, «Il Resto del Carlino» più drammatico e falso, ma la sostanza è sempre la stessa. «Allora si può sapere quello che è successo, Riccardi?» Glielo racconto cosa è successo e cerco di parlare adagio, scandendo bene le parole. Lo faccio perché voglio che sia tutto chiaro. Non ho dormito nemmeno dieci minuti, tendo alla confusione e devo stare attento a ripetere esattamente quello che mi hanno raccontato, non quello che so. È questa la
cosa più difficile. «Un professionista, dice?» «Sembrerebbe. Un volto noto. O uno che non lo vuole diventare, a giudicare dalla mascherata.» Non mi ascolta nemmeno. Continua a fissare le prime pagine dei giornali e a urlare. «E noi che cazzo abbiamo fatto per mantenere la protezione a Candido Giulio? Che cazzo abbiamo fatto, Riccardi?» Cerco di stare calmo e mi costa. Mi costa quando sono neutro, riposato e con la coscienza pulita come un confetto della prima comunione. La situazione opposta a quella in cui mi trovo. «Uno dei nostri c'ha lasciato la pelle» mi sforzo di dire e allora tace. «Non esiste una protezione sicura al cento per cento, non lo sa?» Il questore si lascia andare sulla poltrona. «I media ci faranno a pezzi. La questura di Bologna. Figurati.» Allora mi incazzo perché io che so quello che è successo mi preoccupo di Freddi. Lui che invece non sa niente sembra ignorarlo. «Me ne fotto dei giornali, questore» dico, quasi urlandogli in faccia. «Me ne fotto di quello che diranno e me ne fotto anche di quello che pensa lei.» «Stia attento a quello che dice, Riccardi.» «Vuole che me ne vada? Vuole che mi levi dalle palle? Perfetto. Se vuole mi tolgo dai coglioni anche subito. Non so se lo sa, ma conoscevo bene Freddi. L'ho voluto io qui. E oltre tutto ho anche i cazzi miei a cui pensare. Come immagino saprà.» «Non dica stronzate, Riccardi.» «Stronzate? Sono così stufo delle stronzate che mi tocca di sentire che lei non ne ha nemmeno idea. Ma lei sa cosa sta succedendo? Se ne rende davvero conto o è solo preso a cercare di capire qual è il profilo più bello con cui mettersi in posa quando una telecamera la inquadra? Lo sa quello che sta capitando davvero, nel mondo reale?» «Lei non si rende conto...» Lo interrompo subito. «C'è un uomo fuori di qui, da qualche parte, che ha in mente una sua specialissima vendetta privata. Un uomo che ha aiutato Gaspare Nunia a evadere proprio perché facesse quello che è successo ieri sera. Un uomo che, chissà per quale motivo, sta cercando di vendicarsi di tutti quelli che hanno avuto a che fare con la morte di Teresa Rizzo e che per farlo ha sbattuto la donna che amo in un letto d'ospedale in coma. Un uomo che alla fine dei giochi vorrà me. Solo me. E cercherà di farmi morire nel peggior modo possibile, dandomi l'impressione di poter dispor-
re della mia vita e di quella di tutti quelli che mi stanno vicino. Quindi la prego, questore, non mi dica che non riesco a rendermi conto. Perché glielo ripeto, queste sono le cose che contano davvero nel mondo reale. Non i suoi giornali del cazzo, di qualunque partito siano.» Silenzio. Sento un autobus passare da qualche parte e so che fuori dalla porta ci sono almeno cinque o sei persone che si sono radunate per ascoltare i miei urli. Il questore Piras mi guarda senza riuscire a capire se sono un pazzo, un duro o solo un uomo disperato sull'orlo di un esaurimento nervoso, che si è perso da qualche parte e che non troverà mai la strada per tornare indietro. «La sorveglianza era sotto la mia responsabilità. Se vuole mi dimetto.» «Non ci pensi nemmeno, Riccardi» dice come il suono di un piattello colpito da una fucilata. «Allora mi lasci lavorare. E se tutto va bene le porto Gaspare Nunia prima che lei se lo immagini.» Gli si illuminano gli occhi. «Ha una traccia?» mi chiede cercando di sembrare scettico. Sorrido perché ancora una volta di me non ha capito niente. Non c'è ancora arrivato che quando vado a parlare con lui ho in mano molto più di una traccia. Mi alzo. «Non sono solo chiacchiere e distintivo, questore. Ha presente quel film?» Guardo l'orologio. Sono quasi le dieci. «E ora mi scusi. Comincia a diventare tardi.» Esco e chiudo la porta dietro di me prima che possa riuscire a dire una parola. L'uomo dorme ma non gli interessa. Ha il respiro lungo di chi è affondato nel sonno come un relitto nel mare. E poi non ha bisogno di molto tempo. Quello che deve fare è una cosa breve, come tutte quelle che sono frutto di una decisione molto difficile. In fondo succede sempre così. Si pensa un sacco e quando si decide, tutto si svolge rapidamente. Anche cambiare il blister delle pastiglie di Donatella Rizzo. Vanno prese tre volte al giorno. Colazione, pranzo e cena. E il blister che lui ha preparato ha solo cinque pastiglie piene. E una sola è quella giusta. Al massimo succederà domani sera e non sarà doloroso. Donatella non merita dolore. È solo un incidente di percorso, come un chiodo che ti buca una gomma e ti costringe a pompare col cric. Niente di
più. Chiude la mensola molto lentamente e si avvicina alla porta d'ingresso. Guarda dallo spioncino e resta in ascolto. Quando sente silenzio esce e si infila per le scale. È appena uscito in mezzo alla pioggia quando suona il telefono. «Dimmi, Pietro» risponde. «Il mio amico poliziotto. Mi ha dato notizie.» «Interessante. Buone notizie?» «Riccardi ha trovato Nunia.» Stringe le labbra in una smorfia di compiacimento. «Notevole. Sai tutto?» «So tutto. Ha mandato una macchina a sorvegliarlo.» «Sai per quando è?» «Sicuramente non oggi pomeriggio. Riccardi in questo momento sta venendo da me.» «Arrivo subito» dice prima di riagganciare. Mettendo in moto la macchina non sa se ridere o preoccuparsi. «Ci scusi per l'urgenza della nostra visita» dice Ippoliti, ma Mario Tellarini non lo sta guardando. Guarda me. Non è stato difficile arrivare a lui. Fra i proprietari e residenti delle ville che sorvegliano Bologna dai colli, lui è l'unico ad avere il nome che mi ha fatto il Muto e l'età giusta. È stato più difficile convincere Ippoliti che avevo avuto quella soffiata da un vecchio confidente. Non credo che se la sia bevuta, ma non è importante. Quello che conta è la persona che abbiamo davanti e che mi scruta come un allevatore di bestiame che deve decidere l'acquisto di un capo pregiato. «Non si preoccupi» dice Tellarini e mentre lo fa inclina la testa verso sinistra, in una posizione che è esattamente la stessa che ha in una vecchia fotografia. In quella fotografia, sbucata fuori dall'archivio, lui è molto più giovane e ha ancora tutti i capelli, castani e luminosi. In quella fotografia sorride all'obiettivo senza l'ombra di malinconia e ferocia che invece mostrano oggi i suoi occhi verdi. In quella fotografia si chiama ancora Pietro Giannelli. Non avrei nemmeno bisogno di avere quella prova per sapere che l'uomo che ho davanti è l'unico collegamento vivente col tizio che sto cercando. Mi basterebbe il modo in cui mi guarda. E allora lo fisso anch'io allo stesso modo mentre lascio che sia Ippoliti a parlare. «Vorremmo sapere se si ricorda qualcosa di Guido Anselmi» gli
chiede e il viso di Pietro o Mario o come cazzo si chiama davvero, non muta minimamente espressione, come se si aspettasse quella domanda. «Me lo ricordo bene. L'ingegner Anselmi» precisa. «Anche perché quasi quasi mi metteva in un mare di guai. È successo qualche anno fa. Ma immagino conosciate già tutta la storia, visto che siete qui.» Ippoliti lo guarda impassibile. «Infatti.» Sul verbale della stradale redatto per l'incidente a Guido Anselmi c'è il suo nome. Mario Tellarini. Lo ha trovato proprio ieri Ippoliti ed è stato il controllo incrociato che ci serviva per arrivare fino a lì. «Cosa volete sapere dell'ingegner Anselmi?» «Quello che si ricorda. Se lo ha più sentito dopo l'incidente. Cose così.» Il nostro ospite tossisce. Per un attimo io e Ippoliti ci guardiamo temendo che l'accesso non finirà mai. Poi si riprende. Resta un momento con la testa bassa a respirare lentamente e infine rialza lo sguardo e sorride. «Scusate. La salute non è più quella di una volta» dice guardandomi, e aspettando di vedere la mia espressione. Che non cambia dall'assoluta impassibilità. «L'ingegner Anselmi, dunque» riprende. «Dopo l'incidente l'ho visto alcune volte all'ospedale e poi una sera qui a casa, a cena. Mi sembrava il minimo visto lo spavento che gli avevo fatto correre. Comunque mi sembrava una persona cordiale, semplice, un gentiluomo del sud, di quelli che non ci sono più oggi. Non so se mi spiego.» «E nient'altro?» gli chiedo. Si volta verso di me, come stupito del mio intervento. «Nient'altro» dice, e il tono della voce sottolinea l'assoluta certezza dell'affermazione. «Mi permetta di dubitare» dico con calma. «Le permetto quello che vuole, commissario Riccardi». Gli scappa un sorriso ironico. «Ma questo non cambia la mia risposta.» Guardo Ippoliti, un'occhiata d'intesa che dura un secondo. Mentre lo faccio mi pare che Giannelli sfiori con lo sguardo una porta chiusa in fondo al salone, come cercando conforto in qualche modo. Ma forse è solo un'impressione. «Lei vive in una splendida casa, signor Tellarini» dice Ippoliti. «La ringrazio.» «Posso chiederle come l'ha acquistata?» Ora l'ironia non è più solo nello sguardo. «Stiamo cambiando discorso, a quanto pare. Se proprio vi interessa è un'eredità di una lontana parente. Una zia di Genova, la sorella di mio padre. Mi ha lasciato un bel po' di li-
quido, anni fa e con quello ho comprato questa casa, l'ho ristrutturata e ci sono venuto ad abitare.» «Una zia molto generosa» commento. «Immagino che ci sarà un atto di vendita e le prove dell'acquisto da parte sua.» «Immagina bene, commissario Riccardi» risponde e questo suo insistere a ripetere il mio nome ogni volta che mi rivolge la parola comincia a infastidirmi. «Però immaginerà anche che per vederla deve produrre qualcosa di più di una richiesta a voce.» «E immagino anche che la sua collaborazione si fermi a una risposta e a nessun documento, signor Tellarini.» «Infatti. Ora, se volete scusarmi, questa conversazione comincia a diventare troppo lunga. Avrei da fare e...» Si interrompe e guarda il tavolino davanti a noi. Al centro ho appena appoggiato la fotografia, fissando il suo viso alla caccia di una qualche reazione. Di nuovo, per un momento, ha abbandonato gli occhi verso quella porta. Poi la frase gli è semplicemente morta in gola, come un vuoto d'audio in una registrazione. Prende la foto fra le mani e la guarda, e per un attimo il suo viso sembra solo quello di un vecchio alle prese con le spine dei ricordi. «Avevo qualche anno di meno» dice restituendomela. Rimetto la foto in tasca. «Il tempo passa per tutti, signor Giannelli.» Adesso sorride davvero. «Dunque è per questo che siete venuti. Per Pietro Giannelli.» Fa una pausa e quando parla di nuovo la sua voce è ritornata forte e sicura. «Non vorrete mettermi in galera per aver cambiato le mie generalità?» chiede ironico. «Lei non ha cambiato generalità. Le ha falsificate. E questo è reato.» Pietro respira lentamente, come per frenare un altro accesso di tosse. Poi mi guarda e questa volta non mi chiama per nome. «Sono vecchio» dice. «E malato. Nessun tribunale mi condannerebbe e non credo che nemmeno lei voglia farlo.» Si volta di nuovo verso la porta e quando si accorge che il mio sguardo segue il suo, lo sposta subito verso la finestra. «Non mi resta molto» sussurra, quasi parlasse da solo. Resta un momento a fissare la luce del pomeriggio che cala dietro le tende tirate, poi mi guarda di nuovo. «Mi dica perché è qui, commissario. Sono molto stanco.» Ha ragione. Sembra davvero molto stanco. E il tono duro che cerca di dare alla sua voce pare più un atteggiamento che è troppo abituato a usare piuttosto che qualcosa che fa davvero parte del suo carattere. Guardo le sue
mani, strette in grembo e penso a quella porta. Allora mi alzo e lo vedo irrigidirsi. Cammino un momento per il salotto, curioso sul camino dove di solito la gente nei film tiene le foto delle persone che ama e che invece qui è vuoto e pulito. Guardo da vicino l'azzurro di un vaso pieno di fiori freschi che sta su un mobile antico, un mobile che da solo vale quanto tutto il mio palazzo. Poi mi fermo davanti alla porta nell'angolo. «Marco Foschi» dico e alzo volutamente il tono della voce. Pietro mi guarda senza sorpresa e mi viene da pensare che tutti i momenti del nostro colloquio li abbia già vissuti e studiati con qualcuno, come i testimoni dei legal movie americani, e che per ogni domanda, per ogni spazzatura che posso tirare fuori dalla sua vita passata lui abbia già una risposta pronta, memorizzata. Magari con l'uomo dietro alla porta davanti alla quale mi sono fermato e davanti alla quale mi fa paura stare. Una porta che potrebbe nascondere qualunque cosa e che probabilmente è l'unico dettaglio che mi tiene separato dal tizio che sto cercando e che ha dato a Pietro Giannelli i soldi per questa casa. La apro, voltandomi senza movimenti bruschi e senza che il padrone di casa faccia o dica niente per fermarmi. Dà sulla cucina, grande, silenziosa. E soprattutto deserta. «Pensava di trovarlo lì dentro?» mi chiede Pietro. Vorrei dirgli di sì. Sarebbe la verità. Invece non dico niente e mi siedo. «Ci dica di Marco Foschi» chiede Ippoliti mentre appoggia i gomiti sulle ginocchia. «Non so molto di quel bambino» spiega, frenando a fatica la tosse e parlando al presente, come se il tempo non fosse mai passato. «Non ho mai capito molto. Immagino conosciate tutta la faccenda. Credo che lui sia stato molto traumatizzato da quello che è capitato. Tutto quello che è capitato.» Risponde misurando davvero le parole, come se avessero un peso. Come se da qualche parte ci fosse qualcuno che lo sta ascoltando. E io sono sicuro che ci sia. Sono sicuro che Marco Foschi si trovi davvero in quella casa, perché sicuramente è stato avvertito della nostra visita. È per questo che l'ho annunciata invece di farla a sorpresa. È per questo che la casa è sorvegliata e che da adesso in poi lo sarà sempre, giorno e notte. «Da quanto tempo non lo vede?» chiede Ippoliti. «Una quindicina d'anni. Di più forse» risponde in una smorfia che sottolinea come di anni ne siano passati veramente tanti. «A volte mi chiedo
che fine abbia fatto, quel bambino.» Bambino. Ne parla come se Marco Foschi non fosse mai cresciuto. «E quindi non ha idea di dove sia» dico, ed è un'affermazione, non una domanda. Mi fissa con un sorriso di cortesia. «Assolutamente no.» Mi alzo. «Credo che ci rivedremo, signor Giannelli. Non le dispiace se la chiamo con il suo vero nome, naturalmente.» Mi stringe la mano. Una stretta forte, mano asciutta e ferma. «Naturalmente no. Solo che non capisco cos'altro potreste volere da me.» Lo guardo fingendo sorpresa. «Davvero non capisce?» «No, non capisco.» «Allora sono sicuro che non appena ce ne saremo andati ci sarà qualcuno che glielo potrà spiegare molto bene. Anzi, mi faccia un favore. Gli dica che lo incontrerò presto.» «Marco Foschi» dice l'ispettore Riccardi e lui sente qualcosa che gli scivola lungo la schiena. Qualcosa che è come la pelle di un rettile e non sembra viva. Non si aspettava che c'arrivasse così presto. Nessuno lo chiama più con quel nome da un sacco di tempo e forse nessuno lo ha mai chiamato così. Sua madre lo chiamava Piccolo e suo padre Figliolo. Eppure Marco era un nome semplice. Un nome breve e morbido in qualche modo, anche se in bocca a Riccardi suona come una minaccia. Un nome che nessuno usa. Guarda Riccardi camminare per la stanza e fermarsi davanti alla porta della cucina, quella in cui è sparito dalla vista di Pietro nel momento in cui il campanello è suonato. Quella dietro la quale gli ha fatto credere che sarebbe rimasto ad ascoltare, che il suo sguardo ha tradito e che Gabriele Riccardi apre con un gesto un po' teatrale scoprendo solo l'ambiente vuoto, forse con un vago odore del ragù del pranzo. Sorride nascosto dietro l'altra porta, quella che porta all'ingresso. Sorride della sensazione che lascia la sua presenza in quella casa, e sorride a pensare che manca poco al momento in cui la sua presenza diventerà qualcosa che Riccardi potrà vedere e perfino assaggiare. Insieme alla vista, all'odore e al dolore della morte. Prima però ci sono cose da fare. Cose brevi come lo sono tutte quelle definitive. Fischietta mentalmente Tori Amos che canta Over the rainbow e
pensa che la sua vita sta cambiando. E che di lì a poche ore si sarà lasciato alle spalle un altro pezzo di quello che era Marco Foschi. Sfiora la nuca di Pietro ombreggiata dalla serratura da cui sbircia e sente una fitta intercostale trapassargli il torace. E pensando a sua madre e a suo padre sente che è così che si manifesta il dolore di sapere che per continuare a vivere deve fare qualcosa di tremendo. «Era lì.» Ippoliti annuisce mentre, uscendo dal grande cancello della villa, passiamo davanti all'auto di servizio che sorveglia la casa. «Forse sarebbe una buona idea farsi dare un mandato di perquisizione per andare a vedere cosa c'è in quella casa.» Sono perplesso, anche se è la prima cosa che ho pensato anch'io. Oltre a fare il pazzo e cominciare a correre per tutte le stanze della villa. «Non credo che troveremmo niente.» «Però da quella casa dovrà uscire, ammesso che ci sia davvero.» «C'è» dico guardando la strada che scivola lenta dalla collina ai viali. «Sarebbe bello che lo beccassero quando esce. Ci basta una foto, una mezza foto. Qualcosa che ci dia la traccia di un volto.» Ippoliti sta per dire qualcosa, ma lo interrompo. «Ferma la macchina» ordino e lui prima mi guarda come se fossi appena sceso da un'astronave nel bel mezzo di piazza Maggiore, poi si rende conto di dove siamo e capisce. La casa è dietro a un grande cancello di ferro battuto arrugginito dalla pioggia e dagli anni. La si intravede appena in fondo a una lunga discesa e dietro c'è tutta la città, spalancata come un sorriso e scolorita dalla pioggia. Il prato che un tempo doveva essere perfetto e pulito è pieno di foglie morte, di erbacce giallastre che crescono senza un apparente criterio, fino ai limitari del boschetto. C'è un forte odore di terra e di umidità e la facciata della casa, scrostata e scolorita, sembra guardarti aspettando qualcosa. «È questa la vecchia casa dei Foschi, vero?» mi chiede Ippoliti. «È questa» dico. «Da ragazzo ci sarò passato davanti mille volte. Un mio vecchio compagno di liceo diceva che di notte c'erano i fantasmi. Certo che, considerando tutto quello che è successo, forse non aveva tutti i torti. Adesso andiamo, però.» Ippoliti infila la marcia, lascia la frizione e la macchina scivola appena sulla strada bagnata di pioggia. Il cielo è ancora grigio, ma non fa più paura.
«Hai visto la foto di Freddi su "Repubblica" stamattina?» mi chiede, ma non lo sto ascoltando. Forse è stata quella casa a farmi venire in mente una cosa. Prendo il cellulare e faccio il numero del professor Dossena. Mi risponde la figlia e ci vuole un po' per convincerla che è urgente e che devo parlare un secondo solo con suo padre. «Commissario, sono contento di sentirla» mi dice, e dalla voce capisco che stava dormendo. «Mi spiace disturbarla, professore. Volevo sapere se posso venirla a trovare per un piccolo favore.» «Domani sicuramente. Stasera non mi sento troppo bene. Mi perdoni. Di cosa aveva bisogno?» «Mi chiedevo se avesse delle foto.» «Foto?» «Di Marco Foschi.» C'è un momento di silenzio in cui sento solo il respiro affannato del professore. «Mi scusi, ma stavo pensando» dice poi. «Venga su domani mattina e ci guardiamo. Anche presto, noi vecchi non dormiamo mai troppo a lungo.» «A domani.» «A domani» risponde e riattacca. «Ne ha?» mi chiede Ippoliti. «Forse. Magari abbiamo fortuna.» Non dice niente e guardandolo lo vedo perso nei suoi pensieri. «Cos'hai?» Si ferma a un semaforo, rallentando pianissimo dietro a un Galaxy. «Pensavo a Fabio» dice in un sussurro. Guardare i suoi occhi mentre pronuncia quella frase ha l'effetto di ributtarmi nella realtà. Come svegliarsi da un incubo e scoprire che quello che hai vissuto in realtà è tutto vero. «Verardi mi ha detto che erano in tre» è tutto quello che riesco a rispondere. «L'ha ammazzato quello con il passamontagna» dice e mi fissa come se all'improvviso tutto quello che è successo fosse apparso proiettato nel mio sguardo. «Uno venuto da fuori.» «Forse» sussurra e continua a fissarmi. «È verde» dico e lui si volta e parte. Guardo l'orologio e chiamo la pattuglia che sorveglia la casa di Gaspare. Lo hanno visto dietro le finestre molte volte, l'ultima pochi minuti fa. Lo dico a Ippoliti e lui non stacca lo
sguardo dalla strada. «Andiamo a prenderlo» dice. Poi s'infila accelerando nel traffico di viale Aldini. Da dietro la tenda di una finestra del secondo piano Marco Foschi guarda l'auto parcheggiata sulla strada, appena fuori dal cancello. Sa che sono lì per lui e sa anche che non lo prenderanno, che sono come cani da caccia appostati davanti a una gabbia indistruttibile con dentro una volpe. Li spia e cerca di capire cosa possono vedere con i teleobiettivi che sicuramente hanno. Cerca di immaginarsi i loro occhi che tentano di intuire chi sia da un'ombra che si muove dietro una tenda bianca. E allontanandosi dalla finestra sorride del loro sforzo inutile. L'unico che vedrà il suo volto sarà Gabriele Riccardi. E non potrà mai raccontarlo. Poi quando tutto sarà finito nessuno sentirà più parlare di lui per un bel pezzo. Almeno finché non avrà una faccia nuova da portare a spasso. Tutto a suo tempo. Adesso ci sono altri problemi di cui occuparsi, altri dettagli da mettere a punto perché tutto sia perfetto. Cammina nel corridoio e ascolta il silenzio della casa. In fondo a quel corridoio, nella sua stanza, Pietro sta dormendo. Gli ha dato un sedativo appena Riccardi se n'è andato. Qualcosa che gli calmasse la tosse e lo facesse riposare. Ha bisogno di riposo, Pietro. Ha bisogno di calma e di tranquillità. Quella calma e quella tranquillità che il tumore comincia a non dargli più. Prima, ascoltandolo parlare con il commissario, gli è addirittura sembrato che la voce fosse differente. Più acuta e sottile, evanescente. È lì che ha capito quello che bisognava fare, e quegli sguardi ripetuti verso la porta erano solo una richiesta di aiuto che volontariamente o no stava mandando a Riccardi perché lo tirasse fuori da lì. Di questo è sicuro. Quando ha diagnosticato per la prima volta il cancro ai polmoni a Pietro, ha saputo subito che sarebbe arrivato quel giorno. Ha saputo subito che ci sarebbe stato un momento in cui la malattia lo avrebbe reso così debole da farlo diventare pericoloso. E Pietro, dentro di lui, è morto quel giorno. Ci ripensa mentre entra nella stanza e lo guarda dormire, mentre ascolta il respiro che esce rumoroso e affaticato dalle labbra appena socchiuse, mentre guarda la sua pelle che alla luce della sera che filtra dalla finestra sembra quasi gialla. Carta vecchia e consumata lasciata per troppo tempo alla luce.
«Grazie» gli ha detto quando gli ha, dato la pastiglia di sonnifero e quel grazie, quella parola, è stata l'ultima che sentirà da lui. È un bel modo per chiudere. Un bel modo perché tutto finisca, perché Pietro Giannelli lo ringrazi di tutto quello che ha avuto dalla vita. Perché tutto quello che ha avuto lo ha avuto grazie a lui. I soldi, la tranquillità, l'affetto e le cure necessarie per stare bene. E infine la morte. Appoggiando il cuscino sul volto dell'uomo, Marco Foschi pensa che è così che ha ucciso sua madre. Abbassando il morbido del cuscino fino a incontrare il volto della donna che lo aveva messo al mondo. E poi spingendo, come sta facendo adesso sul viso di Pietro. È così che è successo ed è così che succede ora, come se le sole persone che ha davvero amato dovessero sempre morire per causa sua in quel modo. Non si sveglia nemmeno, Pietro. E se lo fa, per un attimo, non tenta di difendersi, come se si fosse già arreso da tempo. Quando è sicuro che sia morto toglie il cuscino, lo sistema e lo appoggia al suo posto, nella piazza vuota del letto matrimoniale. Resta un momento in piedi a fissare il corpo, gli sistema le mani e la coperta, sfiora piano la fronte ancora calda con la punta di un dito, esce dalla stanza e poi, dal retro, anche dalla casa, sapendo che non ci metterà piede mai più. Fuori è una sera umida e fresca e guardando l'orologio sa che non dovrà correre per montare di guardia. Appoggiato al frigo dei gelati, davanti alla vetrata del bar Claudia, il Muto guarda la casa. Quando è uscito, alle dieci di mattina, la volante della polizia all'angolo non c'era ancora e nemmeno la Galaxy coi vetri oscurati a metà della strada. Non c'era neanche quel tizio con gli occhiali che ogni tanto cammina per il viale e guarda in alto, a controllare se il cielo sta per scaricare pioggia, ma anche se qualcuno dietro alle finestre del terzo piano si muove. Quando è uscito, alle dieci del mattino, c'era solo Gaspare che dormiva ancora, o forse faceva solo finta perché non gli piacciono gli addii o gli arrivederci. Allora è uscito in silenzio, accompagnando la porta per non fare rumore perché comunque quello era l'ultimo sonno di Gaspare Nunia da uomo libero. L'ultimo prima di affondare nella branda di una cella e restarci probabilmente per l'equivalente di un paio di vite. È lì da mezz'ora il Muto, appoggiato al frigo dei gelati Sanson a guarda-
re quello che succede, a pensare se deve preoccuparsi anche lui di ricevere visite inaspettate e invisibili nel cuore della notte, a cercare di rallentare il momento in un attimo estremo di malinconia. L'aveva anche presa l'autostrada, alle dieci e mezza, Al, casello di Bologna-Casalecchio direzione sud. Poi, arrivato a Barberino del Mugello è uscito ed è tornato indietro. Perché si sentiva uno che scappa da qualcosa, uno che fila via durante la notte senza aspettare che la donna con cui ha passato poche ore di silenzioso divertimento si svegli e lo veda alla luce del mattino. Lui non è uno così. Per questo sta attaccato con i gomiti alla «Gazzetta dello Sport», aperta su una foto di Beppe Signori che sorride, a guardare la casa e ad aspettare di vedere scendere Gaspare in manette. O in barella, sotto a un lenzuolo, nel caso avesse cambiato idea all'ultimo momento. Alza gli occhi verso la finestra della cucina e lo vede, una forma nella luce accesa, dietro le tende socchiuse a fare entrare l'azzurro dei lampioni. Poi in fondo al viale sente arrivare una macchina e guardando riconosce quella di Gabriele Riccardi che si avvicina senza fretta, i fari accesi a bucare la penombra. Guarda l'orologio. Sono le otto meno cinque e il commissario è perfettamente in orario. Scende dal posto del passeggero e dopo un secondo sbuca il suo vice, da quello di guida. Fanno un gesto a una delle macchine e due uomini li raggiungono davanti al portone, la giacca aperta, la pistola nelle fondine ascellari. Riccardi suona il campanello e dopo un tempo che gli sembra lunghissimo e che lo fa quasi sperare, il Muto vede gli uomini entrare in fila indiana, come vecchi amici che vanno a trovare qualcuno che non vedono da lungo tempo. «Un caffè» dice al barista. «Corretto, che è meglio.» Qualcuno ride, ma lui non capisce perché. Poi ascolta il liquido caldo scendergli in gola e aspetta. Quando partono le sirene paga il caffè ed esce. C'è una piccola folla di vecchi che chiacchiera davanti al bar, ma non lo vedono nemmeno. Cammina verso la macchina che ha lasciato in una stradina laterale. C'è un lungo viaggio che lo aspetta e lo farà con la radio spenta e in silenzio con i suoi pensieri. Quello che è successo dopo lo saprà solo al suo arrivo, e per tutta la vita penserà che in qualche modo avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo.
«L'aspettavo, commissario» dice Gaspare. Mi accontento di guardarlo. Lo vedo che butta un'occhiata distratta a Ippoliti e poi ai tre uomini che stanno dietro di noi, le pistole spianate. È in piedi in soggiorno quando entriamo e ha lasciato la porta aperta. Ai suoi piedi c'è una sacca nera con dei vestiti. Niente soldi, niente armi. Quelle probabilmente le ha portate via il Muto. «Sei pronto?» gli chiedo e lui mi allunga semplicemente le mani in avanti, i polsi paralleli e alla distanza giusta. Lo ammanetto e usciamo dall'appartamento. Fuori c'è già una piccola folla che ci osserva dall'altra parte della strada. La paura, la curiosità, la distanza e il rispetto che si danno alle armi. Un agente si siede di dietro nella mia auto, mentre dall'altra parte un collega spinge dentro Gaspare. Sedendosi fa uno strano gemito e si sistema accanto a lui. Poi Ippoliti alla guida e alla fine io, al posto del passeggero. «Andiamo» dico e prima partono le sirene e le macchine. Poi succede tutto il resto. «Sta male» dice uno degli agenti di custodia e mi volto sul sedile per guardare mentre vedo gli occhi di Ippoliti correre al retrovisore. Gaspare Nunia fa fatica a respirare ed è bianco come la stella sulla punta dell'albero di Natale. Si appoggia con le spalle ora a un agente ora all'altro e tiene gli occhi spalancati sul soffitto. Poi si accorge del mio sguardo e mi fissa. E capisco cos'è successo. Capisco che non sta fingendo per tentare di scappare all'ultimo momento. Prendo la radio e chiedo un'ambulanza. Ippoliti si ferma piano nel parcheggio di un campo sportivo. C'è una squadra di calcio che si allena e si ferma a guardarci, contro le reti, attirata dalle luci e dalle sirene. I due agenti di dietro scendono e tentano di farlo stendere. «C'è qualcosa» dice uno dei due mentre sto smontando per passare dietro. «Non lo toccare!» gli urlo e lui fa una specie di salto all'indietro sorpreso dalla mia decisione. Esattamente in mezzo ai due sedili c'è una specie di aghetto. È lungo poco più della falange di un dito. Chiamo Ippoliti e glielo faccio vedere. Poi mi faccio aiutare da un agente e lo tolgo con le mani infilate in due fazzoletti. Ci sono tracce di colla alla base e per tirarlo via devo quasi strapparlo. Lo infilo in una bustina e guardo i due agenti che fanno stendere Gaspare sul sedile di dietro.
Adesso il respiro è un rantolo minimo e sommesso che sottolinea appena l'urlo dell'ambulanza che arriva dal fondo della strada. Gli faccio levare le manette e le braccia gli ricadono lungo il corpo, pesanti e inermi. «Mi ha fottuto» mi dice, e lottando contro il suo respiro che non vuole uscire mi pare quasi che tenti di sorridere. Muore poco prima che arrivi l'ambulanza e quando me ne accorgo guardo Ippoliti, in piedi davanti alla macchina. «Manco solo io, adesso. Io e Alice.» Marco Foschi finisce il caffè e getta il bicchiere nel cestino. Sono le undici di una sera tranquilla. Circa un'ora fa è sceso in pronto soccorso per una consulenza, ma niente di serio. La solita routine disordinata delle notti vicine al weekend. E poi è ancora presto. Il casino quello vero, arriverà più tardi, proprio quando ti sei ormai illuso che riuscirai a dormire. Guarda il giardino fradicio di umidità dalla finestra vicino alla guardiola e sente un brivido di freddo che gli graffia la schiena, scivolando da uno spiffero accanto al muro. Allora si infila la mano in tasca e controlla che ci sia tutto. Gli è dispiaciuto usare il suo elleboro. I fiori sono sbocciati da nemmeno un mese, verde con quel bel bordo rosso. Sono talmente belli che quasi non senti la puzza che fanno per attirare le api. Staccarne uno è quasi un delitto. Però gli serviva. Da quei fiori riesce a ricavare l'aconitina, un alcaloide che usa spesso per far diminuire il battito cardiaco e far salire la pressione. Qualcosa di simile c'è anche nelle pastiglie che ha fatto per Donatella Rizzo. E nella fialetta che ha in tasca quando entra nella stanza di Alice Mantovani per quella che chiama la dose della sera. Solo che questa volta non serve a farla stare meglio. Inietta la sostanza e resta un momento a guardare la donna che soffia il suo respiro dentro al tubo di plastica, gli occhi chiusi, la pelle sottile. Non si ricorda nemmeno più che aspetto aveva quando era un essere umano. Non ricorda nulla, nemmeno la sua voce. «Ancora poco» le dice sfiorandole la fronte con un dito. «Ancora poco, Alice.» Poi tira fuori la piccola telecamera. Ce l'ha in casa da almeno sei mesi, comprata in Internet a una specie di asta di materiale di spionaggio. È grande come un dito, parente prossima di quelle a fibra ottica che si usano per fare le endoscopie. Accanto alla lente c'è un'antenna minuscola, ma
sufficientemente potente a fare quello che deve. La fissa con un pezzetto di scotch sopra la porta di ingresso, poi la guarda da lontano. Nemmeno si vede. Probabilmente verrà notata prima o poi, ma sarà troppo tardi. Controlla la scena ed esce, appena un attimo prima che suoni il suo cicalino. «Dormi?» gli chiede sua moglie, e Ippoliti non si muove, sdraiato sul fianco, gli occhi fissi sul muro. Non vuole risponderle. Non vuole dire niente di quello che gli passa per la testa, della sensazione che ha dentro, l'idea che tutto stia scivolando verso un finale già scritto, verso una conclusione a cui non può porre rimedio. Manco solo io. Io e Alice. Quella frase di Gabriele gli ronza in testa come uno di quei mosconi che ti entrano in casa e non riesci più a mandare via. Gli ronza in testa perché è vera, nella sua assoluta semplicità. E perché il tono di Gabriele, mentre la pronunciava, era quello di un soldato che abbandona il fucile esausto alla fine della battaglia, senza voler sapere se ha vinto o ha perso. Con il solo desiderio di riposarsi. Se chiude gli occhi se lo vede davanti, con quella strana luce nello sguardo e il viso tirato e triste illuminato dai fari del campo di calcio. E quello che vede non gli piace per niente. «Lo so che sei sveglio» sussurra sua moglie accarezzandogli la schiena, e anche questa volta lui non risponde. Stringe più forte gli occhi e cerca di capire che cosa c'è che non gli torna in quello che è successo. Pensa a Fabio Freddi a occhi spalancati, seduto sul suo stesso sangue, a Gaspare Nunia disteso sul lettino e coperto da un lenzuolo, una mano che penzola nel vuoto. Pensa a quel piccolo ago, al viso di Pietro Giannelli rincorso dai suoi fantasmi e al fantasma che dalla vita di Pietro Giannelli è arrivato fino alla sua, passando attraverso una notte di pioggia. La prima volta in cui ha visto negli occhi di Gabriele uno sguardo simile a quello di stasera. Solo che allora c'era ancora la speranza a tenerli accesi. Adesso teme che se ne sia andata anche quella. «No, non sto dormendo» sussurra e prende la mano di sua moglie che spunta da sopra la spalla. Le bacia piano il dito e resta lì, ad aspettare il sonno. Quattordici
Bologna, 8 maggio. Otto e trentacinque Arrivo dal professor Dossena che non sono nemmeno le otto e mezzo del mattino e ho gli occhi rossi e stanchi di un'altra notte passata quasi a non dormire. Ormai vivo in uno strano stato di trance e, nel momento in cui stacco dal lavoro, faccio le cose quasi senza accorgermene, come se il mio cervello montasse un pilota automatico programmato su una routine malata, triste e senza uscita. Sono andato da Alice a guardarla da dietro il vetro e mi sono reso conto di nuovo di quello che stavo facendo quando mi sono scoperto in macchina, nel traffico dei viali, a pensare che da lì in poi avrei dovuto fare attenzione a ogni cosa che toccavo, mangiavo, annusavo, respiravo. Sono entrato in casa girando la maniglia con un fazzoletto. Senza toccare nulla, ho pulito ogni angolo, ogni fessura, tutte le porte, le finestre, il telefono, il computer, i mobili, il tavolo con un bottiglione di disinfettante. Poi ho tolto le lenzuola dal letto, gli abiti dall'armadio e li ho accatastati in una montagna che occupa metà del bagno di servizio. Da lì, sempre senza toccarli direttamente, li ho infilati in lavatrice. Ho intenzione di lavarli tutti, di sterilizzarli e di non mettermi nulla che non avessi addosso ieri sera o che non sia passato dall'acqua bollente e dal detersivo. Riempita la prima lavatrice sono uscito e ho comprato una pizza da asporto. Non mi fido nemmeno del fattorino che te la porta a casa. L'ho mangiata con le mani e me le sono pulite sotto l'acqua corrente. Poi, senza fretta, ho preso due enormi sacchetti e ho vuotato il frigo di tutto quello che c'era dentro. Dall'acqua alle scatolette sigillate e alla fine, esausto, mi sono sdraiato vestito sul materasso spoglio e ho fissato i miei pensieri sul soffitto, quasi vedendoli proiettati, come in un film. Non so a che ora sono svenuto, abbattuto da un sonno pieno di strane forme che non ricordo, ma so che la sveglia mi ha ricacciato nella realtà, sorprendendomi rannicchiato in posizione fetale e aggredito da brividi lunghi e sottili che non so se sono paura oppure febbre. La temperatura non me la sono misurata. Mi basta sapere che sono vivo e che se qualcosa doveva succedere, allora non è successa. Ma ho intenzione di pulire casa ogni sera, appena rientro. Di raccogliere i vestiti asciutti alla mattina e di portarmeli in ufficio, dentro a un sacchetto e con quelli cambiarmi alla sera. Non sono più al sicuro in nessun modo e da nessuna parte, nemmeno
nella mia auto e prima di salire, stamattina, ho infilato un paio di guanti di pelle che uso solo in inverno quando andiamo sottozero e ho controllato dappertutto, fra i sedili, sul cambio, sul volante, alla ricerca di qualcosa di strano. Poi, sempre con i guanti, ho guidato fino a qua, in mezzo a una mattina piena di foschia e di umidità, con l'aria quasi gialla che si sforza di far passare una briciola di sole. La casa di Dossena a quest'ora sembra un posto ancora più triste e l'unica concessione che sua figlia regala al fatto che mi conosce è un mezzo sorriso mentre mi stringe la mano. Il professore, invece, è di tutt'altro umore. «Commissario, sono davvero felice di vederla» dice salutandomi. «Anch'io, professore. La trovo bene.» «I vecchi malandati come me stanno sempre meglio alla mattina presto. Solo che passando il tempo, il concetto di presto si sposta sempre di più indietro, verso la notte, e la durata dei momenti buoni si assottiglia sempre di più. In pratica uno schifo.» Sorrido mentre mi accomodo davanti allo stesso tavolino della volta scorsa. Sopra, invece di un libro, c'è una serie di piccoli album colorati pieni di fotografie. «Un caffè?» mi chiede prima di notare che il mio sguardo è incollato agli album e che non vedo l'ora di sfogliarli per sapere che cosa ha trovato per me. «È importante, vero commissario?» Lo fisso. «Maledettamente.» «Ho preso informazioni su di lei, Riccardi» dice ignorando la mia fretta e per un attimo lo odio. «Non glielo avevo detto l'altra volta. Mi hanno riferito cose sorprendenti. Di solito non amo i poliziotti. Credo che dipenda dal mio modo di vedere l'autorità costituita come un'interferenza alla mia di autorità. Ma con lei è una cosa del tutto diversa. Lei ha un fondo di malinconia nello sguardo che... potrei dire che mi affascina, se lei non mi fraintende. Tutto questo lungo preambolo per dirle che per lei sto facendo un'eccezione. Lo faccio per due motivi, oltre al fatto che mi piace. Il primo è che ho il sospetto che quel bisogno di una foto derivi da qualcosa che quel ragazzo ha fatto crescendo. E come le ho detto quel ragazzino era spaventoso, mi faceva paura. Il secondo è che mi hanno detto che lei sta facendo tutto anche per una donna. E forse la invidio un po' per questo. Forse penso che anch'io avrei dovuto fare come lei, tanto tempo fa. Tutto qui.» Lo guardo mentre si solleva con fatica dallo schienale della sedia e
prende un album colorato. Il primo. Lo sfoglia e si ferma a fissare una fotografia. Sorride. «Ha una foto di Marco Foschi, professore?» Alza gli occhi dall'immagine e mi guarda. «Certo che ce l'ho» risponde. E mi allunga l'album. Ippoliti arriva a casa di Pietro con un mandato di perquisizione poco prima delle nove. Non è stato difficile ottenerlo dopo la morte di Gaspare Nunia. A parte il parcheggio della questura l'unico altro posto in cui la macchina di Gabriele Riccardi è stata ferma in sosta è il cortile della villa di Pietro Giannelli. O di Mario Tellarini. Quell'uomo era in quella casa, e se è entrato, allora deve anche essere uscito da qualche parte. Probabilmente in auto o a piedi. Con la pioggia dei giorni scorsi qualche traccia deve essere rimasta per forza. Impronte di scarpe o di pneumatici, se esiste un ingresso secondario. Guarda un momento la costruzione di mattoni rossi, le finestre ancora chiuse, il silenzio di quella zona della collina, le due auto che sono salite fin lì insieme a lui. Poi, con un gesto secco, suona il campanello del cancello di ferro battuto. «Dove sei?» chiede la voce di Donato Aiuti e a Giovanni Salvi sembra strana. Di solito quel tono è riservato alle occasioni importanti. Importanti e gravi. «A casa» risponde. «È stata una notte di merda e sono venuto a svaccarmi un po'. Perché?» Silenzio. Si sente un'ambulanza che passa, poi il rumore di un autobus. Una donna anziana che dice qualcosa di incomprensibile in dialetto. «Donato, sei ancora lì?» «Sì, ci sono... Senti, ho bisogno di vederti.» «Di vedermi? È successo qualcosa?» «Ho detto che ho bisogno di vederti» lo interrompe e il tono non ammette repliche. Ha il suono di un ramo che si spezza, così diverso dalla solita voce morbida. «Vengo subito. Dammi mezz'ora.» «No, vengo io» dice Donato e riaggancia.
Giovanni Salvi rimane un momento con il telefono in mano. Poi lo appoggia sul tavolo della cucina e si infila nella doccia. Per entrare nella villa di Pietro hanno dovuto scavalcare il cancello. Al terzo tentativo fallito con il campanello Ippoliti ha provato a telefonare, ma ancora senza successo. Allora si è deciso ad andare a vedere. «Non toccate niente in casa» si è raccomandato. «Non entra nessuno che non abbia i guanti addosso.» La porta della villa era aperta, la chiave ancora nella serratura, all'interno. Dentro, nel silenzio assoluto dell'abitazione, ha chiamato il padrone di casa e poi, guardandosi intorno, ha subito salito le scale insieme a due uomini, ignorando il salone e la cucina, chiaramente deserti. E adesso è in piedi sulla porta di una delle camere e guarda con una strana espressione negli occhi il cadavere di Pietro Giannelli disteso sul letto, le mani incrociate sul petto, gli occhi chiusi e un livido violaceo sul volto, all'attaccatura del naso. «Lo ha anche ricomposto...» sussurra. Poi si volta verso uno dei suoi uomini. «Chiama la scientifica. Questo posto lo rivoltiamo come un calzino.» Nella foto Marco Foschi sorride. Pensavo che guardarlo finalmente in faccia mi avrebbe fatto un effetto diverso. Forse perché adesso tutto quadra. Forse perché so esattamente cosa devo fare, sento solo una gran rabbia che raccoglie dentro tutto. Anche il corpo svuotato di vita di Fabio Freddi, che avrei potuto non uccidere semplicemente chiedendo prima al professore l'immagine che sto fissando. Tengo la foto stretta fra le dita e faccio per alzarmi. «La foto è sua. Lo conosce, non è vero?» mi chiede il professor Dossena. Mi sforzo di sorridergli e di essere cordiale. Vorrei anche avvertirlo che potrebbe correre dei rischi, ma alla fine preferisco evitare. In fondo adesso dipende solo da me. Da quanto saprò essere veloce nel momento in cui metterò piede fuori da quella casa. «Sì, lo conosco» dico semplicemente. «E adesso devo andare a prenderlo.» Dossena annuisce e mi stringe la mano senza alzarsi. Un minuto dopo sono in macchina ed esco dal vialetto. Mentre faccio
manovra appoggio la fotografia sul cruscotto. La voglio davanti. La guardo e penso che le cose spesso non le capisci perché te le figuri complicate, mentre la soluzione dei problemi è sempre quella più semplice, quella più banale, quella che per un motivo o per un altro hai finito per non considerare fino in fondo. Giro a destra per scendere verso Bologna e faccio per chiamare Ippoliti, ma quando prendo il cellulare in mano arriva una telefonata. Marco Foschi guarda l'uomo che gli sta davanti con la sensazione di non conoscerlo più. Ha visto la sua faccia praticamente tutti i giorni negli ultimi dieci anni e da quella mattina è diventato un estraneo. Forse, in fondo, è meglio così. Alla fine tutto deve sistemarsi. Tutto deve venire a galla. Lo guarda, in piedi a meno di due metri da lui, lo sguardo sconvolto. Poi tutto succede in un attimo. «La disturbo, commissario?» mi chiede Donatella Rizzo mentre l'auricolare quasi mi scivola in bocca. Vedo sotto la telefonata di Ippoliti in attesa e per un momento sono indeciso se rispondere o no. Poi la faccio continuare. Ha un tono strano nella voce. «No, non mi disturba.» «Le rubo solo un momento. Sa quella cosa che mi ha chiesto? Se Teresa avesse qualcuno che le filava dietro, qualcuno di... adulto, diciamo?» Mi irrigidisco. È l'unico legame che mi manca e forse è il più importante. L'unica cosa che ancora non so. Marco Foschi e Teresa Rizzo. «Lei mi ha detto che non...» «Le ho mentito» mi interrompe. «O meglio non le ho mentito. In realtà non c'era nessuno che filasse dietro a Teresa. Però un uomo adulto nella sua vita c'era. Suo padre.» Sul momento non capisco. «Non capisco cosa possa c'entrare suo marito...» Mi interrompe di nuovo, come se quello che deve dirmi fosse così urgente da non poter aspettare nemmeno la fine delle mie frasi. «Non sto parlando di mio marito. Mio marito non è il padre di Teresa.» Arrivo sul viale e appena vedo il casino delle macchine accodate al primo semaforo, abbasso il finestrino, appoggio la sirena sul tetto e la accendo. Poi accelero.
«Mi dica tutto, signora. Tutto quanto.» E lei racconta. Lo fa con parole secche e brevi. Lo fa senza nemmeno capire il senso di quello che mi sta dicendo e che sigilla un cerchio che senza di lei altrimenti non avrei mai potuto chiudere. È la seconda persona quel giorno che mi fa capire quanto sia stato fottutamente inutile uccidere Fabio. Lo avrei potuto evitare semplicemente guardandomi intorno, cercando di capire. Alla fine mi chiede scusa per non avermi raccontato tutto prima. «Cosa sta succedendo?» chiede. «Non glielo posso dire, adesso. Però le chiedo di fare come le dico, senza fare domande, intesi?» «Sì» risponde e la voce le trema un po'. La sto spaventando, lo so. Ma adesso è importante che sia spaventata. Non deve prendere nessuna iniziativa. «È in casa?» «Sì.» «Non esca per nessun motivo. Nessuno. Non apra alla porta, non usi il telefono, non faccia nulla. Le mando una persona prima possibile. Faccia conto che sia già lì. Ok?» «Cosa sta succedendo, commissario?» Mi rendo conto di urlare. «Mi dica che farà quello che le ho chiesto, signora!» «Sì» sussurra. «Bene. Mi scusi se sono stato brusco. Il padre di Teresa è una persona molto pericolosa. Ma se tutto va bene, questa storia sta per finire. Mi raccomando.» «Sì, sto in casa. Non mi sento nemmeno molto bene. Ho un mal di testa terribile.» «Le mando un uomo che si chiama Cancemi, signora. A lui può aprire la porta. È un bravo ragazzo. Ora mi scusi.» Riaggancio e giro a sinistra, facendo fischiare le gomme. Poi faccio il numero di Ippoliti e intanto stacco la sirena. Ormai sono vicino e non voglio che mi senta. «Pietro Giannelli è morto» mi dice prima ancora che possa aprire bocca. «Non importa, Ippoliti. Ho qui la foto di Marco Foschi da giovane. È Giovanni Salvi. Ho visto la stessa identica foto a casa sua.» «Dove sei?» «Sto andando da lui. Tu vai in ospedale, probabilmente è lì, ma se non c'è raggiungimi. Da qualche parte deve essere. Caccia due uomini di guar-
dia davanti alla porta di Alice e non parlare con nessuno. Solo con il professor De Vitis. Niente infermiere, niente dottori. Nessuno. E manda subito Cancemi a casa di Donatella Rizzo. Digli che si presenti quando suona, altrimenti lei non gli apre. Non mi chiedere perché, ti spiego tutto dopo.» «Va bene.» «Questa volta lo prendiamo, cazzo. Lo voglio vivo. Ho bisogno che sia vivo.» Mi infilo il telefono in tasca e fermo la macchina. Un vigile mi viene incontro già col blocchetto in mano e gli mostro il tesserino al volo. Lui annuisce e mi guarda entrare. Metto il telefono in vibracall e mi infilo nell'androne. L'appartamento è all'ultimo piano e non c'è l'ascensore. Salgo le scale di corsa, ascoltando il tocco rassicurante della pistola nella fondina ascellare. Non credo che ne avrò bisogno. Non è tipo da pistola. Quando uccide lo fa in silenzio. Mi sto chiedendo cos'avesse programmato per me e se la mia visita gli giunga davvero inaspettata, quando arrivo al piano. Suono il campanello. Un rumore sordo che mi sembra un ringhio. Non mi aspetto una risposta, e infatti non arriva. Prendo un fazzoletto e spingo la maniglia della porta, ma è chiusa. Allora mi ricordo di quello che mi ha detto Vittorio sulle porte blindate e tiro fuori dal portafogli il bancomat. Lo infilo con decisione nella fessura della porta, dall'alto. Lo sento scivolare contro una specie di guida e alla fine bloccarsi, all'altezza della serratura. Premo più forte e mentre la plastica della tessera stride e scende, la serratura manda un delizioso clic e scatta. Quando ritiro la tessera, metà del mio bancomat sembra una carruba masticata da un cavallo, ma la porta è aperta. Allora prendo la pistola ed entro in casa di Giovanni Salvi. È buio e c'è troppo silenzio. Mi fa paura e non dovrebbe. Mi sento come da bambino, quando dimenticavo di abbassare completamente la tapparella e la luce del mattino disegnava delle ombre strane sul muro del soffitto. Cose cattive che avevo paura mi cadessero addosso. Ecco, dentro questa casa qualcosa mi è caduto addosso. Tengo la porta aperta e attraverso la luce dell'ingresso avanzo nel corridoio. Cammino in mezzo alla stanza perché improvvisamente tutti quegli oggetti che ho già visto sono potenzialmente dei nemici, potenzialmente pericolosi. Appartengono a un altro, non a Giovanni Salvi. Appartengono a quello che Giovanni è veramente, quello che ha nasco-
sto. A metà corridoio controllo il salotto. È deserto. C'è un giornale aperto sul tavolo, alla pagina degli annunci immobiliari. Esco, stando attento a non dare mai le spalle alla stanza e alla porta. Poi faccio altri quattro passi nel corridoio. Li conto per tenere la mente lucida. Ho le orecchie che mi fischiano per la tensione e sento la schiena rigida, come spalmata di cemento armato. Mi volto di scatto, la pistola tesa davanti a me, ed entro in cucina. Mi fermo sulla soglia. Accanto al frigorifero c'è il corpo di un uomo. Ci sono tracce di sangue, minuscole schegge d'osso e tracce di materia cerebrale attaccate allo sportello del frigorifero, come se il corpo, scivolando, avesse lasciato la scia della sua caduta al suolo. E il foro di un proiettile. Probabilmente è dentro il frigo, infilato da qualche parte contro l'altra parete. Faccio un passo, osservando l'ambiente nella luce che arriva da una delle due finestre con la tapparella appena sollevata. L'uomo è privo di volto. Qualcuno gli ha sparato in faccia a brevissima distanza, forse addirittura appoggiando la canna di una pistola di grosso calibro al setto nasale. Ci vorrebbe il DNA per riconoscerlo, se non fosse che mi basta guardare il corpo per capire chi è. Conosco quei pantaloni e quella camicia. Conosco quelle scarpe da barca. Conosco i vestiti di Giovanni Salvi e la prima idea che mi viene è che all'improvviso si sia appoggiato una pistola in faccia e abbia deciso di dargliela su. Solo che non quadra. Lui non è uno da pistole di grosso calibro. Non è uno che spara. Non è uno che si arrende così, che molla tutto e che abbandona il gioco proprio quando è così vicino a vincere. Faccio un altro passo verso il corpo e cerco di capire, di vedere bene. No, non si è ammazzato. Non c'è nemmeno la pistola per terra. Eppure l'ambiente è così tranquillo. Non c'è una sedia fuori posto, nessun segno di lotta. Solo quel corpo senza faccia disteso per terra, le braccia spalancate. Poi sento qualcosa che avrei dovuto sentire prima, che avrei dovuto sentire subito. C'è puzza di fumo. Ma Giovanni non fuma. Donato Aiuti fuma. Le Philip Morris Blu. Come quelle che stanno nel piccolo portacenere che è in mezzo al tavolo. E Donato Aiuti porta la pistola.
Allora capisco che sono in pericolo. Ma prima che possa fare qualcosa una mano si appoggia sul mio viso e la stanza sfuma in una dissolvenza lunga e piena di nebbia. «Bravo, stenditi tranquillo» dice una voce alle mie spalle. E mi sembra di precipitare nel vuoto da un palazzo di cento piani. La prima cosa che vede arrivando è la macchina di Gabriele parcheggiata in doppia fila. Ha provato a chiamarlo uscendo dall'ospedale, ma il telefono suonava a vuoto. Salvi se n'è andato dal Sant'Orsola poco prima delle nove, dopo un turno di guardia lungo e ininterrotto. Lo aspettano in tarda mattinata, ma Ippoliti dubita che lo vedranno tornare. L'unico posto in cui potranno trovare il dottor Salvi è una stanza ben sorvegliata della questura di Bologna. Vedere la macchina di Gabriele, però, gli ha messo in testa uno strano ronzio, qualcosa che non capisce bene, e allora sale in fretta le scale che portano all'appartamento del dottore. La porta è aperta, spalancata sul corridoio, e non è un bel segno. Vista dal pianerottolo a Ippoliti sembra pronta per lui, come se la casa lo stesse aspettando. «Valgono le stesse regole della villa» dice ai due agenti che lo accompagnano e che annuiscono. Si infila i guanti, stringe la pistola e si infila dentro. L'appartamento è silenzioso e in perfetto ordine. Non c'è mai stato prima, ma la casa è esattamente come gliel'ha descritta Gabriele. In salotto, su un mobile di legno che sembra antico, c'è una foto di Salvi da ragazzino. È accucciato su un prato e sorride. Sta per prenderla in mano, con una strana sensazione addosso, quando lo chiamano dalla cucina. «Non toccate niente e fate venire la scientifica, il medico legale e un'ambulanza» dice guardando il cadavere sfigurato disteso accanto al frigo. Si china per osservare da più vicino. «Non sembra morto da molto.» Si alza e tira su col naso. C'è uno strano odore nell'aria, un misto di fumo e disinfettante. Prende il cellulare e fa di nuovo il numero di Gabriele, ma questa volta il telefono è spento e mentre infila il telefonino in tasca si rende conto che quell'odore potrebbe essere cloroformio. Esce sul pianerottolo e pensa che per l'ennesima volta tutto quanto ha cambiato rapidamente di posto. E come sempre lo ha fatto nel modo peggiore possibile.
Quindici La prendo per i fianchi e spingo lentamente, senza fretta ma con urgenza. Sento la sua pelle sotto le dita e scivolo dentro di lei allungando una mano ad accarezzarle un seno, tenendo il capezzolo fra le dita, giocandoci, cercandolo. Poi risalgo con un dito lungo la sua schiena e la sento inarcarsi piano, come se fossi la punta di un coltello, mentre con i fianchi asseconda il mio movimento. È un movimento strano. Come una parolaccia, un'oscenità detta a mezza voce che presto diventa un urlo. «Alice» sussurro scivolando con le labbra sul suo collo e facendole sollevare il torace. Lei volta appena il viso per guardarmi, ma solo un secondo. Poi chiude di nuovo gli occhi e sento le sue dita a pochissimi millimetri dal mio cazzo, mentre si accarezza, mentre si spinge indietro e mi trova. Intorno c'è una strana nebbia che non voglio vedere e così guardo solo lei, la sua pelle che ha un profumo che ho ricordato immediatamente, appena l'ho avuta di nuovo sotto le mani e sotto le labbra. La sua pelle nuda ha un odore che non avevo mai immaginato prima di sentirlo per la prima volta. La guardo, gli occhi socchiusi, i capelli spettinati, le calze lunghe che le scendono arrotolate a metà coscia, una mano appoggiata contro qualcosa, forse un muro, i denti che mordono il labbro inferiore e penso a quanto tempo è passato dall'ultima volta che l'ho vista così. Allora spingo più forte, un movimento violento che le strappa un gemito lungo e morbido, perché non mi accontento di averla, di prenderla, di sentirla. Voglio scoparla. Scoparla fino a farmi male, a farle male. Scoparla senza rispetto e senza scuse. Scoparla in mezzo a quella nebbia che mi attutisce il suono di lei che gode, il fruscio del suo corpo e del suo respiro, che si infila in mezzo ai suoi capelli come un ospite indesiderato. Il rumore del mio cazzo che la riempie e del suo corpo che lo riceve, aprendosi per accarezzarlo, per stringerlo. «Ti voglio, porca puttana» dico e mi rendo conto che sto quasi urlando e che le spinte sono diventati colpi. Allora lei si volta e mi sorride. «Gabriele» dice, ma dalle sue labbra non esce nessun suono. Vedo solo le labbra umide di voglia che sillabano il mio nome. «Gabriele» ripete passandosi la lingua sulle labbra in un gesto
rapido e privo di malizia. Un gesto che mi indurisce il cazzo ancora di più. E allora penso a quanta voglia ho di sentirla urlare, di sentirla venire e di venire con lei, ovunque, dappertutto, come fosse un territorio mio, qualcosa che mi appartiene e che devo difendere e proteggere. Riconquistare. Le infilo una mano alla base della nuca, passo le dita fra i capelli e li stringo. La guardo irrigidirsi e tiro facendole sollevare la testa. Lei mi sorride, dolorante e compiaciuta e spalanca le labbra abbandonando la testa all'indietro. È allora che sento che sto per venire e mentre urlo, mentre la sento godere e gemere più forte, mentre sento i suoi capelli fra le dita e la sua pelle sbattere troppo forte contro la mia, il mio sogno svanisce in uno strano grigiore. Dopo un istante la vedo allontanarsi, nuda e perfetta, con la sua camminata sicura, voltando ogni tanto il viso per guardarmi da lontano. Senza che possa avvicinarmi. Senza che possa toccarla. Finché non sparisce nella nebbia e io mi sveglio. «Lei mi chiede la verità, signor questore?» chiede Ippoliti. «Sì.» «La verità è che c'è un morto ammazzato con un colpo di pistola sul volto che gli ha portato via mezza faccia. Che ha in tasca i documenti di Giovanni Salvi, i vestiti di Giovanni Salvi, il portafogli di Giovanni Salvi e che quindi per quanto mi riguarda è Giovanni Salvi, signor questore. Però la verità è anche che noi cerchiamo un tizio che si chiama Marco Foschi e che secondo le nostre indagini anche questo tizio dovrebbe essere Giovanni Salvi. E quindi non lo so qual è la verità, signor questore.» Piras soffia fuori con violenza. Aria tinta di nervosismo. Fuori dalla questura c'è la fila di giornalisti che aspettano di parlare con qualcuno e lui, francamente, non ha nessuna voglia di parlare con loro. Oltre a non sapere cosa raccontargli. «E Riccardi?» Adesso è Ippoliti che respira rumorosamente. Si lascia cadere in avanti, appoggiando le mani alla scrivania del questore. «Se vuole la verità anche su questo, signor questore, è che non ho la più pallida idea di dove cazzo sia il commissario Riccardi. Ma sono assolutamente sicuro che chiunque sia questo Marco Foschi in questo momento è
con lui.» La stanza è bianca e pulita. È la prima cosa che noto quando mi sveglio. Poi arriva il dolore al collo e alla schiena, ma solo dopo, solo in un secondo momento. Prima c'è la stanza. Non ha finestre e sembra che i muri siano fatti di luce. Bianchi, tinteggiati da poco e con precisione. Anche il pavimento è bianco, piastrelle lucide che profumano di detersivo al limone. La mia testa cerca di tenere degli agganci con la realtà che conosco, perché quella che ho davanti non riesce a sentirla sua. Bianco. Anche il tavolo è bianco. Smaltato, con le gambe di ferro lucide, brillanti. Lo vedo subito, con gli occhi appena aperti. Anche la stanza è bianca e pulita. Poi sento le catene. Ne ho una intorno al collo. Pesante e stretta. Mi taglia la parte inferiore del mento, se appoggio la testa. E ne ho un'altra che mi lega le caviglie, con due grossi ceppi, come i lavoratori forzati dei vecchi film americani. Adesso so cos'erano quei segni sul corpo di Anna Malvezzi. Adesso so che cos'ha visto prima di morire. D'istinto mi porto le mani al collo e scopro che sono libere. Passo la destra dietro la nuca e sposto la testa in avanti. Poi impugno la catena e tiro. È fissata contro al muro in un modo che non riesco a vedere, ma che è terribilmente resistente. Per staccare via il sostegno dovrei strangolarmi e forse non basterebbe. Cerco di allungare le gambe di lato, per distenderle. Le ginocchia mi fanno male, come se fossi stato per troppo tempo seduto sui talloni. È così che mi sono svegliato e non so per quanto ho dormito. Cerco l'orologio e scopro che non me l'ha tolto. Non mi ha tolto niente. Solo la giacca, le scarpe e la cintura. E la pistola. Ho ancora la mia camicia, i miei Avirex chiari, e il mio orologio dice che sono lì dentro da non più di un'ora. Poi sento un rumore. Allora mi accorgo che dall'altra parte della stanza, oltre il tavolo, c'è una porta. Sento un gatto miagolare e vedo nettamente davanti agli occhi il cadavere della Malvezzi masticato a sangue. Poi la porta si apre. Ed entra un fantasma.
«Si sente male, signora?» chiede Cancemi e guarda Donatella. È la prima volta che la incontra, ma le è sembrata da subito di un pallore spettrale, malato. «È solo un capogiro, ora passa...» cerca di dire e crolla senza peso sul divano. Qualsiasi cosa succeda chiama un'ambulanza, gli ha detto Ippoliti. Anche solo per un dubbio. Allora Cancemi prende il telefono e fa quella telefonata. E mentre spiega chi è e cosa sta succedendo, gli sembra che il respiro di Donatella Rizzo diventi debole come il suono lontano di un'auto che senti svanire nella notte. Ippoliti chiude gli occhi e si lascia andare sulla sedia. Sulla scrivania c'è il fascicolo del caso, tutto quello che lui e Gabriele hanno raccolto dall'inizio. È sicuro che quello che cerca, quello che ha fatto precipitare le cose come una frana che scende da un dirupo, non sia in mezzo a quei fogli. È sicuro che Gabriele sapesse qualcosa e che glielo nascondesse. Che la chiave di tutto stia nella sua testa o, forse, in quella di Gaspare Nunia o del presunto confidente che gli ha permesso di scovarlo. Un uomo alla cui esistenza non crede. E adesso non c'è più nessuno. Solo lui e quelle carte. E il silenzio in cui è precipitata quella situazione, troppo pesante per poterla reggere da solo. Gabriele è stato rapito. È il suo turno. Non c'è rimasto nessun altro. E non potrà aspettare l'esito degli esami del DNA per scoprire chi sia il cadavere che ha trovato in casa di Giovanni Salvi e capire dove sia nascosto Gabriele. Deve agire prima. Deve agire subito. Ormai il tempo è poco, ammesso che ce ne sia ancora a disposizione. «Benvenuto» dice appena entrato, e il gatto si arresta di fianco ai suoi piedi, come se potesse calpestare solo il terreno che segue il suo padrone. «Spero che non riterrai la mia ospitalità troppo... scomoda.» Parla con un tono duro che non gli conoscevo, come se scoprire la sua identità avesse fatto uscire la sua vera voce. Mi vengono in mente le parole del professor Dossena.
Quel bambino mi faceva paura. L'adulto che ho davanti ora è una persona di una calma terrificante e razionale. Ho visto spesso persone che hanno dovuto nascondere le proprie emozioni e affossarle da qualche parte, dentro. Ma se le guardavi, c'era sempre un segnale che mostrava la loro interiorità. Movimenti bruschi delle mani, gli occhi sempre lucidi e uno sguardo con una luce sottile di insicurezza. Le parole dette in fretta, come per paura di essere interrotti, o i palmi delle mani sudati. Qualcosa. Qui no. Marco Foschi, in piedi davanti a me con un computer portatile sotto braccio, è assolutamente padrone di se stesso e delle sue emozioni. Probabilmente anche dei suoi pensieri. «Ho passato momenti più comodi» dico scuotendo rumorosamente la catena che mi pende dalla nuca. Sorride, divertito dal suono del metallo e appoggia il notebook sul tavolo smaltato. «Ti ci dovrai abituare, temo» sussurra guardandomi. Si picchia due volte con la mano sulla coscia e il gatto miagola. Poi gli si mette davanti e lui lo prende in braccio. «Sembri il capo della Spectre nei vecchi film di 007» gli dico, fingendo di essere totalmente indifferente alla mia sorte e a quello che ha in mente. Lui non sembra sorpreso della mia apparente tranquillità. Come se sapesse che in realtà è soltanto un gioco, una maschera. Accarezza il gatto. «Non mi sembri per niente curioso di sapere che cosa ti succederà.» Il gatto mi guarda e quello sguardo mi terrorizza forse più della curiosità di scoprire in che modo mi sta per uccidere. Sposto di nuovo le gambe. «Mi pare evidente.» «Evidente? Forse. Banale, magari anche. Tu morirai e in fondo non è così strano. Molta gente muore ogni giorno per circostanze naturali. Tu non sarai che uno dei tanti. Niente di più. Ma tu sai che non è tutto qui, non è vero?» Ho la tentazione di abbassare lo sguardo, ma non lo faccio. Ho deciso di continuare a sfidarlo. Voglio che questa farsa finisca alla svelta. «Lo so.» Lascia andare il gatto. È enorme, e quando cade sul pavimento alza il muso verso il padrone e lo fissa. «Non preoccuparti, Sansone ha già mangiato» dice e apre il portatile. Dopo pochi istanti sento il suono di avvio del sistema. Poi estrae dalla tasca un telefono satellitare e lo appoggia sul tavolo.
«Non mi aspettavo di averti qui già oggi» spiega. «Ma in realtà è stata un'ottima sorpresa. Questa storia deve finire. E deve finire alla svelta, Gabriele.» «Potevi uccidermi quella sera in casa mia. Immagino che tu ci avessi pensato, Marco.» Quando sente il suo vero nome fa una smorfia di disappunto. «No, non ci avevo pensato. Non era il momento. Dovevi avere paura. Devi avere paura. Sapere che potevo prenderti in ogni momento, che avevo nelle mie mani la tua vita e la vita di Alice. Che potevo ucciderla in ogni istante così come potevo fare con te. E nessuno si sarebbe accorto di quello che stava accadendo. Ma non era abbastanza.» Controlla l'avvio del sistema operativo sporgendosi da sopra il monitor del portatile. Poi, così abbassato mi fissa. Non avevo mai fatto caso che avesse gli occhi così scuri. «E non chiamarmi Marco. Quello è il nome di una persona che non esiste.» Fa una pausa. «Che non è mai esistita, credo.» «Anche se è il tuo vero nome?» «I nomi non contano un cazzo. Sono solo un modo per schedare quello che sembriamo. E basta. Chiamami come mi hai sempre chiamato.» Si abbassa e accarezza la testa del gatto che muove il muso per ricevere le sue attenzioni. «Il cadavere in casa è Donato Aiuti, vero Giovanni?» «Odio le pistole. Lo sai. E quella sua passione mi ha sempre dato... fastidio. Povero ingenuo. Era venuto a chiedere spiegazioni. Come se non fosse già tutto chiaro nella sua testa.» Infila una mano nella tasca del camice che indossa e tira fuori due fogli legati da una puntatrice e piegati in quattro. «E come se non fosse tutto scritto qui, Quella troia della Malvezzi è stato il mio unico errore. Aveva fatto fare delle analisi, sai?» «Analisi che spiegavano che c'era qualcosa che non andava nelle condizioni di Alice. Che qualcuno le somministrava qualcosa ogni sera.» Si illumina. «Non che avessero potuto provare niente. Ma era comunque un'interferenza. E Donato è venuto stamattina a chiedermi spiegazioni. Non riesco a dormire, mi ha detto. Chi pensi che possa essere? Mi ha chiesto. Povero ingenuo. Quando gli ho sbattuto la testa contro il muro della cucina non ha fatto nemmeno il gesto di reagire. È volato per terra e lì ho visto la pistola. Allora ho avuto l'idea. Non avevo molto tempo, ma mi bastava vestirlo come me. Sapevo che qualcuno avrebbe riconosciuto i pantaloni e che almeno per un giorno nessuno avrebbe notato la sua assenza. E poi i test del DNA sono lunghi. Mi serviva tempo.»
«Tempo per cosa?» «Tempo per organizzare la tua dipartita. E non solo la tua, Gabriele. Tempo per andarmene, soprattutto. Sparire. Confesso che sparargli in faccia non è stato facile. Ma ci sono cose che vanno fatte.» Guarda l'orologio. «Perché non mi uccidi, Giovanni? Perché non finisci questa pazzia subito e ti levi dalle palle? In fondo sei stato un fantasma, fino a oggi. Non ti costa nulla diventarlo di nuovo.» Sorride e mi pento di avergli scatenato quel sorriso. Sembra una iena che mostra i denti. «Tornerò a essere quello che sono sempre stato quando questa storia sarà finita. Prima però devi pagare per quello che hai fatto, Gabriele. E pagherai con tutto quello che hai da dare. Tutto quanto. A cominciare da adesso.» Gira il portatile verso di sé. Lo sento cliccare e poi collegare il telefono alla porta del modem. Sento distintamente il suono della connessione. Poi ancora rumore sui tasti. E alla fine, con un'espressione trionfante gira il portatile perché io lo possa vedere. Appoggia il mento sul bordo dello schermo, allungandosi sul tavolo. «Adesso capisci perché non ti uccido subito, commissario Riccardi?» Spinge il portatile sul bordo del tavolo, nel punto più vicino a me. «Non è ancora il tuo turno» dice, e non so come faccio a non pronunciare nessuna delle frasi che mi ronzano in testa come mosche impazzite in una stanza chiusa. Parlare col professor Dossena è servito solo ad avere la certezza che il cadavere nella cucina di Giovanni Salvi non è quello del padrone di casa. Le fotografie che il professore gli ha mostrato di Marco Foschi da bambino non lasciano nessuno spazio all'immaginazione. Giovanni Salvi e Marco Foschi sono la stessa persona. Il bambino della foto è soltanto la riduzione in scala dell'adulto che lui stesso ha conosciuto e se non fosse per la sfumatura di durezza e di cattiveria che si riflette nello sguardo, il sorriso del ragazzino e quello dell'adulto sarebbero lo stesso. Uscendo con l'auto dalla casa del professore, Ippoliti è convinto che quello che è successo quella mattina sia soltanto una strana coincidenza. Qualcuno è andato a casa di Salvi e lui lo ha ucciso. Forse qualcuno che aveva scoperto qualcosa o che aveva un sospetto. O che è capitato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Una vicina del piano di sotto ha sentito distintamente un colpo molto forte provenire dal piano di sopra ed è rimasta sorpresa, perché il dottore,
ha detto, è un tipo molto silenzioso. Silenzioso e cordiale, ha precisato. Poi è capitato Gabriele e probabilmente Foschi o Salvi o come cazzo si chiama, ha preso l'occasione al volo. Ormai manca davvero poco alla fine di quello strano gioco e anche se conosce la faccia del suo avversario e perfino il nome, snidarlo non sarà facile. Però forse ha ancora un po' di tempo. Manchiamo solo io e Alice. Quella frase non smette di ronzargli in testa. Alza il telefono e chiama la Mengoli, di guardia davanti alla stanza di Alice. «Sta male» spiega l'agente. «C'è dentro anche il primario, adesso. Pare che non ci sia niente da fare. Solo aspettare.» «Quanto?» chiede. «Ho bisogno di saperlo.» Per qualche motivo che ancora non conosce è sicuro che Gabriele sarà l'ultimo. Finché è viva Alice, allora è vivo anche lui. «Questione di ore» dice la Mengoli, e dietro si sente qualcuno che urla qualcosa a un'infermiera. Ippoliti riaggancia. Certe volte anche un minuto solo può servire. Si ferma per dare la precedenza a una Twingo e vede il bivio che sale verso Casaglia. Allora volta a destra, seguendo un'idea talmente insensata da poter anche essere vera. Quando Cancemi lo chiama per dirgli di Donatella Rizzo ormai il suo cellulare è scomparso, assorbito dalla mancanza di campo della collina bolognese. Sullo schermo c'è la stanza di Alice. È un'immagine opaca e sgranata che si muove a scatti rapidi, per fotogrammi molto vicini. Ma è la stanza di Alice. Vedo il professor De Vitis e altri due che si affannano intorno al letto. Qualcuno le fa un'iniezione, infilando l'ago nella cannula della flebo. Forse è così che faceva anche Giovanni. Alice non riesco a vederla bene. C'è troppa gente intorno al letto e ho la tentazione di sporgermi per poter riuscire a vederle il viso e trovare un'espressione che mi dica qualcosa sul suo stato di salute, qualcosa di più dell'affannato andirivieni di uomini in camice bianco. Poi De Vitis si volta e sparisce dall'inquadratura. La videocamera deve essere sistemata sopra la porta perché lo vedo uscire sotto lo schermo. Ha la faccia tesa e preoccupata. «Che cazzo le hai fatto, Giovanni? CHE CAZZO LE HAI FATTO?»
Giovanni Salvi è tranquillo. Si è seduto sul tavolo a braccia conserte, con quell'orribile gatto appollaiato a fianco, e mi guarda. «Che cosa ho fatto? Niente. Che cosa non le ho fatto, vorrai dire. Ieri sera non le ho fatto la solita iniezione e questa è una parte della reazione. Certo qualcosa di mio c'ho messo. Ho aggiunto a una delle sue flebo un po' di un alcaloide. Un estratto di una pianta che si chiama elleboro e che coltivo personalmente. Come tutte le piante che uso. Solitamente abbassa il battito cardiaco e alza la pressione. Solo un piccolo rimedio naturale.» Scatto in piedi e sento qualcosa di simile a un grido uscirmi di gola. Allungo le mani in avanti per colpirlo, ma la catena intorno al collo mi tira indietro prima che possa farlo e allora ricado, sbattendo la testa contro il muro e piegando le ginocchia in un angolo eccessivo. Sento il legamento del ginocchio sinistro che schiocca come un ramo secco e urlo, lasciandomi andare a terra. Lui continua a sorridere, gustandosi la scena. Poi si sporge e sbircia sul monitor, mentre aiutandomi con le braccia cerco di rimettermi seduto. Sento il ginocchio che comincia a gonfiarsi e stringo gli occhi mentre mi sposto la gamba con le mani per tenerla piegata nell'angolazione giusta. Poi alzo lo sguardo e sullo schermo vedo Alice. Non c'è più nessuno intorno al letto, nessun medico, niente andirivieni. Solo lei, inquadrata dalla camera da circa due metri e mezzo d'altezza e un'infermiera accanto che sta facendo qualcosa a uno dei monitor. «Perché?» sussurro. «Perché?» Salvi si alza e gira intorno alla tavola. Mi cammina intorno seguendo un immaginario semicerchio che lo tiene sempre alla giusta distanza. Il gatto segue i suoi spostamenti dal tavolo, disteso come un'odalisca a fianco del portatile. «Si sta male, non è vero? Si sta male a sapere che non puoi fare nulla, che morirà comunque, qualsiasi cosa tu faccia. E che la vedrai morire. Si sta male, Gabriele? Stai abbastanza male?» Appoggia le mani al bordo del tavolo. Lo vedo con la vista periferica. I miei occhi non ne vogliono sapere di staccarsi dal monitor, di staccarsi da Alice o da quello che è rimasto di lei. «Ti voglio raccontare una storia.» Prende un respiro. «Non ho mai saputo che Teresa fosse mia figlia. Non ho mai saputo nemmeno che Donatella fosse incinta. Poi un giorno vado a fare una consulenza in pronto soccorso e vedo lei e Teresa. Allora ho capito tutto. È bastato guardare Teresa e vedere come Donatella mi guardava. Aveva paura, capisci? Paura che io di-
cessi qualcosa. E io non sapevo cosa dire. Non sapevo niente. È bastato controllare la data di nascita di Teresa sul referto del pronto soccorso per avere la conferma. Avevo una figlia, capisci? Una figlia. Qualcosa di mio.» «Tu avevi già una figlia» gli dico, e la mia voce sembra secca come un colpo di pistola. Mi ride in faccia. «Mia moglie era sterile, Gabriele. Quella che hai liberato non era mia figlia. L'abbiamo adottata. L'ho fatto solo per farla contenta, non volevo nemmeno che venisse in casa mia la figlia di un bastardo qualunque. Ma credevo che fosse un'occasione per farmi una vita nuova. Non lo capisci che era questo che volevo? Una vita che fosse una vita. Qualcuno che mi impedisse di essere quello che sono. Qualcuno che mi desse un motivo per non essere quello che sono?» «E tu sei un assassino. È questo che intendi? Uno a cui piace uccidere?» «Sì» ammette semplicemente. «Mi piace uccidere. E sai una cosa? È quello che so fare meglio. È più facile curare qualcuno che ucciderlo come lo uccido io. È più facile dare un farmaco a qualcuno e guarirlo che farlo morire in silenzio, nel suo letto, senza che nessuno sappia cosa lo ha ucciso. Senza che nessuno sappia cosa è successo. Le chiamano cause naturali.» «Tu sei malato» dico, mentre l'infermiera esce dall'inquadratura e vedo le labbra di Alice dischiuse, il viso distorto in una strana espressione di affanno. Ma Giovanni non mi ascolta nemmeno. «Mia madre è morta per cause naturali. Era malata. E nessuno me la faceva vedere. Nessuno. Ero un bambino e ai bambini bisogna tenere nascosta la verità. Allora c'ho pensato da solo. È stato Pietro a insegnarmi come si fa a entrare in una stanza chiusa. A scassinare le serrature, a non fare rumore mentre cammini. E allora mia mamma l'ho potuta vedere. Ma non era lei, non era mia mamma. Mia mamma aveva la pelle morbida, non così ruvida, rosa, non ingiallita e secca. Mia madre non pesava così poco, mia madre era una bella donna. Non quel mostro. Allora l'ho uccisa. Piano, con un cuscino. Non potevo permettere che restasse lì al posto della mia mamma. Basta poco, davvero poco a spezzare il respiro di qualcuno. Quello di mia madre, quello di uno sconosciuto, quello di Alice. Quello di Teresa. Teresa era viva quando è arrivata in ospedale, dopo che le hai sparato. Appena appena, ma viva. Ma è morta senza nemmeno riaprire gli occhi.
Era la mia ultima possibilità. Una figlia a cui poter volere bene e che mi volesse bene. Una figlia che mi aiutasse. Una figlia a cui insegnare qualcosa.» «Tutto quello che potevi insegnarle era a uccidere qualcuno, Giovanni.» Ride, come se le mie fossero parole folli, senza senso. Ride, ma non alza mai la voce. «Voi me l'avete portata via. Tutti voi. Da sua madre che l'ha messa al mondo fino a te che l'hai uccisa.» Tocca con la punta del dito il viso di Alice sullo schermo. Ci picchia sopra due volte, con cattiveria, con decisione. Poi deve risollevare il portatile per permettermi di vedere. «E adesso la vedrai morire, Gabriele. E saprai che sono io che l'ho uccisa, come tu hai ucciso mia figlia. Poi tornerò qui e finiremo i nostri conti. Per sempre. Ora ti lascio solo. Con il tuo dolore.» Non lo guardo nemmeno. Sento solo il gatto che miagola e la porta che si chiude sbattendo. Io sto guardando Alice. Io devo guardare Alice. E a questo punto so che se non distolgo lo sguardo, di lì a poco la vedrò morire. «Abbiamo guardato tutto, palmo per palmo» dice l'uomo della scientifica. «E non è saltato fuori niente.» Ippoliti lo guarda in silenzio, come se le parole pronunciate gli arrivassero in differita di qualche secondo. «Niente provette, attrezzature chimiche, composti, robe così. Qualcosa che può esservi sfuggito.» L'uomo della scientifica lo fissa risentito. «Sono un chimico. Credo che avrei notato qualcosa. Le uniche attrezzature scientifiche di questa casa sono qualche pillola, una bombola d'ossigeno portatile e una cartelletta con i referti di diversi esami. Il signor Giannelli aveva un cancro al polmone destro e metastasi diffuse nel fegato e in un rene. Non so se lo sapeva.» «Lo immaginavo» dice Ippoliti e si volta a guardare fuori, verso Bologna ingrigita dalle nuvole. C'è un raggio di sole che sbuca da qualche parte e illumina una parte brevissima dei tetti del centro, come un faro su un palcoscenico. Da qualche parte, in mezzo a quei tetti, è nascosto il laboratorio di Marco Foschi. Quello in cui costruisce le sue armi silenziose che nessuno è capace di riconoscere. Non è lì e non è nemmeno nella casa di Giovanni Salvi, dove ha appena telefonato per avere notizie.
Ci deve essere qualcosa. Ci deve essere. Esce dalla villa buttando un'occhiata distratta e silenziosa ai giornalisti che cercano di strappargli notizie appoggiando i registratori al vetro della macchina, poi lentamente scende verso Bologna. A metà strada si ferma. Accosta la macchina in un piccolo spiazzo e scende a guardare la vecchia villa dei Foschi. In fondo tutto è cominciato da lì, vent'anni fa. E le persone sono molto più attaccate alle loro radici di quello che si potrebbe credere. Prende la pistola e si mette a girare intorno alla villa, cercando il punto più facile per scavalcare il cancello. Adesso non succede più niente. Adesso vedo solo il letto di Alice e lei immobile, distesa sempre nella stessa posizione. Un paio di volte ho pensato che fosse morta e ho dovuto fissare il monitor accanto al suo letto per vedere la variazione di qualche particolare che mi restituisse una speranza, un miglioramento, qualcosa. E tutte e due le volte l'apparire di quel dettaglio che mi faceva capire che invece era ancora viva, mi ha lasciato uno strano senso di vuoto, di disperazione, di dolore quasi. E mi sono morso un labbro per non urlare alla stanza vuota che in fondo stavo sperando che morisse. Che sto sperando che muoia. Che muoia e non si svegli, che muoia e non possa più vedere niente, più sentire niente. Nemmeno che ho fallito nell'unica cosa della mia vita che volevo veramente fare. Salvarle la vita. Ho il collo che mi brucia e il ginocchio gonfio che preme ostinatamente contro la stoffa degli Avirex. Probabilmente è grande come un melone. Se lo tocco lo sento morbido e acquoso sotto la stoffa. Però se riesco a tenerlo fermo nell'inclinazione giusta non mi fa male. Il dolore, invece, è dentro. Nella consapevolezza che c'era qualcosa che potevo fare e che non ho fatto, che da qualche parte ho sbagliato, trascurando un particolare che dovevo tenere in considerazione, lasciando perdere un dettaglio che mi è passato sotto gli occhi troppo veloce perché potessi coglierlo. Il dolore è dentro al mio sguardo che fissa il monitor, che spera che possa capitare qualcosa e nello stesso tempo spera che finisca presto. Il dolore è dentro, ogni volta che ricordo che ho messo la donna che amo
nelle mani dell'uomo che la voleva uccidere, perché la curasse. Abbasso lo sguardo dal monitor, solo per un attimo. Ogni volta che sono costretto a farlo, per scacciare i crampi che la posizione fissa e la tensione tentano di conficcarmi nel collo e nelle spalle, mi sento in colpa, come se i miei occhi potessero cambiare qualcosa che lui ha già scritto con quella cazzo di sostanza che le ha iniettato in corpo. Guardo la stanza senza finestre in cui mi trovo e cerco di immaginare cosa ci sia fuori. Potrebbe essere una cantina, una tavernetta, un seminterrato. Deve averlo isolato acusticamente. È troppo furbo per non averlo fatto. Oppure è un posto dove nessuno comunque potrebbe sentirmi. Non casa sua e nemmeno casa di Pietro. Da qualche altra parte, non lontano, un posto sicuro. Sto cercando di tenere sveglia la mia mente lavorando sulle mie ipotesi senza uno scopo, quando nell'inquadratura entrano due medici. Non li riconosco, ma la successione delle immagini a scatto rivela che la situazione è peggiorata. Riesco a vedere una serie di luci colorate che si accendono in uno dei monitor e il corpo di Alice che si muove, anche se impercettibilmente verso sinistra. Qualcuno le fa un'iniezione e poi un'altra e sento i palmi delle mani che si bagnano rapidamente. Cerco di asciugarli sui pantaloni, ma il gesto nervoso finisce per urtare il ginocchio che mi regala un urlo di dolore che si propaga fino al fianco. Uno dei due dottori si volta verso la porta e spalanca la bocca come per chiamare qualcuno. E infatti arriva un'infermiera con un carrello pieno di strani strumenti che non capisco, anche se uno mi sembra un defibrillatore. Sento qualcosa che mi si gonfia dentro e penso che ha ragione lui, cazzo. Ha ragione lui che devo pagare perché al suo posto, forse avrei fatto la stessa fottuta cosa. Ci deve essere qualcuno che deve pagare per quello che sta succedendo. Adesso Alice non la vedo più. È di nuovo circondata dai camici e dalle teste e da tutti quegli strumenti. Cerco di intravederla e nemmeno mi accorgo di una testa che appare in fondo allo schermo, dello sguardo che manda verso la camera, della mano che si avvicina. Vedo per un istante il viso di Alice apparire fra due medici, poi l'immagine svanisce, di colpo. E nello stesso tempo la porta della stanza si apre. Alice Mantovani sta morendo.
L'agente Mengoli osserva da fuori il via vai di medici e infermiere e le sembra di assistere per l'ennesima volta a uno spettacolo già visto. Qualcuno che conosce, qualcuno che ha visto, un amico di un amico, un collega, un fidanzato, che finisce la corsa imbottito di aghi e di medicinali senza avere avuto la possibilità di dire o fare niente. È stufa di quella merda. È stufa di vedere che le cose vanno sempre a finire male e che, malgrado tutte le stronzate che si raccontano in giro, non c'è niente che possa farle andare diversamente. È diventata cinica. Forse a forza di veder morire qualcuno che conosci diventi duro come i sassi che ti tagliano i piedi al mare, in silenzio, quasi senza farsi sentire. Oppure è semplicemente arrivata al limite e non ne può più di restare impalata a guardare. «Questione di ore» le ha detto un dottore prima, rispondendo a un suo sguardo interrogativo e lei ha saputo solo annuire. E rispondere a Ippoliti quando lui le ha chiesto qualcosa. Guardare e riferire. Non può fare nient'altro, niente di più. «Mi apre per favore?» le chiede un infermiere trafelato che spinge un carrello col defibrillatore. La Mengoli si allunga e spalanca la porta della stanza per farlo entrare. Poi il suo sguardo cade su un punto sopra alla lampada al neon, parallela alla parte superiore della porta. «Che cazzo è?» sussurra, sollevandosi sulle punte e passando una mano sopra alla lampada. Sente fra le dita un piccolo oggetto di plastica sferica, attaccato con dell'adesivo alla parte superiore della lampada. Lo stringe e lo strappa e mentre lo fa, qualcosa di simile a una piccola antenna cade per terra, accanto ai suoi piedi. Riappoggiando i talloni fissa la minuscola webcam ormai non più funzionante. Poi raccoglie l'antenna ed esce. «Figlio di puttana» sibila. E sparisce in fondo al corridoio. Si è strappato i pantaloni e graffiato un braccio e una guancia, ma alla fine è riuscito a passare. Poco oltre il cancello principale, la strada degrada in una semicurva e lì la siepe che la circonda diventa bassa abbastanza perché ci si possa arrampicare sul muretto e poi tentare di scavalcarla. Solo che per riuscire a passarci sopra Ippoliti avrebbe dovuto essere alto quasi due metri. E lui fa fatica ad arrivare a uno e settantacinque.
Allora si è praticamente infilato dentro la siepe e quando è sbucato dalla parte opposta ha sentito bruciare la pelle del viso e la mano sinistra. E uno sconsolante rumore di stoffa che si lacerava all'altezza della coscia destra, dalla parte del fianco. La vista della discesa che porta alla vecchia casa dei Foschi però gli ha tolto ogni altro pensiero. Vista da quella distanza e con la luce che filtra dalle nuvole e dagli alberi, sembra che fra quelle quattro mura non ci possano essere che ricordi, muri vecchi e logori e un buon numero di topi in residenza permanente. Magari, in mezzo alle travi del soffitto del secondo piano, anche qualche nido di vespe. Fa un passo in mezzo all'erba alta e si ferma un secondo. Forse quello che sta facendo è una grandissima stronzata. Andare a vedere lì dentro è soltanto un modo per nascondersi, per aspettare che tutto succeda in un posto lontano e isolato e illudersi di aver fatto qualcosa. «Faccio solo un giro veloce» dice nel silenzio del parco abbandonato e incolto. Dopo tutto la sua scalata da giovane marmotta un po' fuori età merita almeno una controllata. E soprattutto la merita Gabriele. Prende un lungo respiro e si avvicina alla villa. Avvicinandosi alla casa la puzza di marcio aumenta. Un piccolo albero è caduto sfondando una delle finestre del piano terra. Sembra un'orbita vuota, privata di un occhio. Nei pressi dell'ingresso l'erba arriva quasi al ginocchio inumidita dalla notte e dalla pioggia passata. La porta principale è scrostata e macchiata di chissà che cosa, e sembra talmente sottile da poter essere buttata giù soltanto appoggiando una mano sulla maniglia d'ottone aggredita dal tempo. Tutta la casa sembra uscita da un film dell'orrore, uno di quei posti che i bambini, ai suoi tempi, usavano come prova per determinare il proprio coraggio. Si ferma a meno di due metri dalla costruzione. Il prato è leggermente in discesa e la casa sembra crescerti davanti man mano che cammini per raggiungerla. Da dove si trova lui, riesce a vedere la facciata, un lato e tutta la terrazza del primo piano, con la grande vetrata ormai a pezzi. Non c'è niente in quella casa. Niente che sia sopravvissuto in qualche modo. Sente qualcosa in mezzo ai piedi e li solleva di scatto, scalciando una lucertola fuori dall'erba. La vede atterrare un metro e mezzo sulla sua sinistra, poi sparire in mezzo all'erba, muovendo appena i fili lunghi e sottili.
È guardando quei fili che se ne accorge. Sarebbe impossibile notarlo altrimenti. Cammina verso sinistra, in direzione dei primi alberi del boschetto. Lì il prato degrada scendendo in discesa verso chissà dove. L'erba è bassa, calpestata. Ci sono i segni dei passi, del tutto analoghi a quelli che ha lasciato lui arrivando fin lì. Si volta anche per controllare. Qualcuno ha camminato in mezzo a quell'erba. Qualcuno che proveniva da un punto in fondo alla discesa, in mezzo agli alberi. Si avvicina ancora ed estrae la pistola e quando arriva esattamente all'inizio di quel sentiero vede un cancello. È vecchio, basso e arrugginito e dà su una stradina sterrata di cui si intravede appena l'inizio. La vista, oltre il cancello, è praticamente oscurata dalle cime degli alberi e dai cespugli. Ma il muso di una macchina si vede lo stesso. È blu scuro, resa lucida dalla vernice metallizzata e dall'umidità. Vedendola, Ippoliti si rende conto che sta dando le spalle alla villa e si volta di scatto, la pistola spianata in avanti, convinto di avere qualcuno dietro di sé. Ma non c'è nessuno, solo la casa. Guarda il sentiero scolpito dai passi che si allontana verso il retro della costruzione. E cercando di ignorare la paura si incammina piano verso la villa dei Foschi. È sicuro che in casa ci sia qualcuno. Forse già in cima alle scale, forse ancora nell'atrio, prima del salone. Ma c'è. Se n'è accorto prima Sansone e ha drizzato la coda e le orecchie, ingobbendosi sul pavimento del piccolo laboratorio. Allora come prima cosa si è messo in silenzio, immobile, cercando di ascoltare. Le case si muovono per motivi loro, mobili che scricchiolano, muri che si assestano, travi che cigolano, e lo fanno continuamente, di giorno e di notte. Eppure ce ne accorgiamo solo quando restiamo in silenzio. E se non siamo troppo spaventati riusciamo a distinguere il respiro di un appartamento dal suono dei passi di qualcuno. Marco Foschi sa come si fa. Lo ha fatto tante volte. Si ferma in mezzo alla stanza e cerca di isolare il sottile sibilo del neon dal resto del mondo, fino a farlo diventare un sottofondo e poi a sentirlo svanire in un angolo della sua testa. E alla fine sente i passi. Li sente avvicinarsi e coglie l'esatto momento in
cui cominciano a scendere le rampe di scale che conducono fino al sotterraneo. Allora muovendosi solo lateralmente si sposta verso la porta che dà sul bagno di servizio, quella che si apre dallo stesso lato dell'ingresso al laboratorio, la spinge col sedere e si apposta dentro. Sansone lo segue e si siede sopra i suoi piedi, immobile come una statua di porcellana. Poi qualcuno apre la porta del laboratorio e sbircia dentro senza entrare. Marco Foschi si infila una mano nella tasca del camice e scopre che non ha la pistola di Donato. Cerca di ricordare dove l'ha messa e perché non l'ha portata con sé e mentre ripercorre all'indietro le sue mosse fino a quel momento, il suo ospite spalanca con un gesto secco la porta della prigione di Gabriele Riccardi. Quando sente le voci esce dal bagno, prende una siringa e si prepara a risolvere quel piccolo contrattempo. Dentro, la casa sembra abbandonata. I mobili sono ancora tutti lì, aggrediti dalle tarme e dai tarli. In una vetrinetta, in salone, ci sono dei bicchieri di cristallo resi opachi dalla polvere e in alto, sul soffitto, il muro è annerito e cotto. Tutto quanto lì dentro si è fermato al giorno dell'incendio e Ippoliti pensa che se salisse le scale potrebbe trovare ancora il vecchio professor Foschi che dorme con la sigaretta appoggiata sulle labbra e le braccia abbandonate sui fianchi. E che entrando in quella che un tempo era la sua stanza da letto, vedrebbe il suo vecchio scheletro ingrigito dal fumo aprire gli occhi e sorridergli, magari offrendogli una di quelle sigarette che tiene sul comodino, come un vecchio reduce dell'Overlook Hotel di Shining. Ma non è al piano di sopra che vuole andare. Non è lì che pensa di trovare qualcosa. Basta guardare il pavimento per capirlo. Dalle vetrate rotte filtra la luce del primo pomeriggio e dal riflesso sulle scale del corridoio Ippoliti capisce qual è la strada da prendere. Quelle scale scendono verso le cantine e sono pulite. Pulite come se qualcuno si fosse preso la briga di lucidarle per chissà quale motivo. Forse per rinforzarle e permettere il passaggio. La ringhiera è stata fissata al muro con due dadi nuovi e luccicanti. Scendendo i primi due gradini e chinandosi, Ippoliti nota una specie di rivestimento e di rinforzo che sorregge la rampa che con un quarto di arco scende verso il buio. Se guarda indietro, verso il corridoio, gli pare perfino di vedere nella polvere l'impronta di una scarpa, probabilmente la stessa che ha segnato quel sentiero nell'erba. Ma forse è solo la sua immaginazione.
Senza fretta e soprattutto cercando di non fare il minimo rumore, comincia a scendere le scale. Per qualche metro gli sembra di galleggiare in un mare nero e denso di oscurità, poi girando verso sinistra vede una luce. E due porte. Una dritta davanti a lui e una alla sua destra, disposta perpendicolarmente alla prima. Socchiusa abbastanza perché dagli ultimi due gradini riesca a scorgere una mensola smaltata bianca con sopra qualcosa che assomiglia a una provetta argentata. In lontananza, si sente distintamente il ronzio di un gruppo elettrogeno che in qualche modo tiene accesa tutta la baracca. Si volta verso il piano terra e controlla la situazione, poi lentamente si avvicina alla porta socchiusa e spingendola con un piede la apre. E finalmente vede il laboratorio. Dalla posizione in cui si trova, a ridosso delle scale, riesce a vederne distintamente tre lati. Uno è interamente occupato da un grande tavolo appoggiato al muro e pieno di apparecchiature che non conosce. Sta per allargarsi verso sinistra ed entrare a controllare il resto della stanza quando, da dietro l'altra porta, sente una specie di gemito sommesso. Allora senza pensarci due volte si volta e la apre di scatto. Per un attimo non sono contento di vedere Ippoliti. Per un attimo, quando si apre la porta, spero che sia Foschi e che mi metta a posto questo cazzo di monitor che mi guarda con la sua nebbia grigia. Rivoglio Alice, la voglio vedere. Anche se vedere significa assistere alla sua morte, è sempre meglio di quel vuoto assoluto che ho davanti agli occhi. «Stai bene?» mi chiede e la mia mente si mette a funzionare nel modo giusto. Forse, se lo becchiamo adesso facciamo ancora in tempo. Forse non sono costretto a vederla morire. «Devo essermi spaccato un legamento» rispondo, e tento di alzarmi, ma mi ferma con un gesto della mano. «Lui dov'è?» «Speravo me lo dicessi tu. Io non so nemmeno dove siamo.» Fa una smorfia, quello che ha di più simile a un sorriso, e si avvicina. Guarda le catene che mi legano i piedi e il lucchetto che le tiene chiuse. Poi fissa un punto dietro la mia testa, probabilmente l'aggancio dell'altra catena contro il muro.
«Adesso ti libero, anche se farà rumore. Ce la fai a camminare dopo?» «Ci provo» rispondo, e fisso la porta. Avvicina la canna della pistola al lucchetto e spara. La detonazione è forte e rimbomba lungo le scale. La sento salire per la rampa come se fosse viva, come l'eco di una voce che urla qualcosa. Poi tiro e la catena viene via, volando da qualche parte sotto al tavolo. Mi aiuto con le mani e mi piego in avanti senza perdere di vista l'ingresso. Dal momento in cui Ippoliti ha sparato potrebbe entrare in qualsiasi momento. Sento un altro sparo e il rumore di calcinacci che cadono a terra e quando muovo il collo la catena che mi tirava penzola dalla mia testa, come un guinzaglio senza più padrone. Allora mi sollevo, allungo una mano a Ippoliti e mi alzo in piedi con il suo aiuto. «Ce la faccio» dico, facendo un passo verso la porta e scoprendo che il ginocchio mi fa male, ma mi regge. Con un cenno della testa indico la sua pistola. «Hai un'altra di quelle?» «No.» «Allora tienila. Sei più lucido di me. Se devi sparare, ricordati di non ucciderlo. Se puoi. Hai chiamato rinforzi?» «Il cellulare non prende. Dobbiamo tornare alla macchina e usare la radio. Oppure vedere se all'aperto torna un po' di campo» risponde, poi si volta verso la porta e fa per muoversi. Guardo il portatile con la finestra ancora grigia. «Aspetta» dico. Prendo il telefono satellitare e stacco con un movimento secco la connessione dal portatile. Poi provo a fare il numero della centrale, ma la chiamata viene respinta. Una volta, due, tre. Ogni volta il telefono mi chiede l'immissione di un pin che non conosco per far partire la chiamata. Quello stronzo ha messo un filtro alle telefonate in uscita. «Lascia stare, usciamo di qui.» Fa un passo verso la porta, ma lo prendo per un braccio. «Alice?» chiedo. «Non è morta» dice soltanto. Ed è quello che mi basta per avere ancora la forza di tirare avanti. Una speranza, anche se terribilmente piccola. Mi muovo verso la porta. «Allora andiamo.» Lui mi precede di due metri e quando imbocca l'uscio sento un tonfo sordo e lo vedo cadere, come se oltre la porta, in mezzo al buio, ci fosse solo un burrone senza fondo.
«Ha visto qualcuno entrare lì dentro, Olga?» La Mengoli guarda l'infermiera con la solita aria truce e la donna arretra di un passo, come se la domanda fosse uno schiaffo in pieno viso. «No, nessuno di strano. Il dottor Salvi, il dottor Aiuti, il professore. Niente di strano.» La Mengoli annuisce. Il dottor Salvi, naturale. D'altra parte è lì per aspettare lui e se ha capito qualcosa del mestiere che fa, allora non avrà la soddisfazione di girargli un braccio dietro la schiena e infilargli le manette. Non lì, non adesso. Lì, adesso, c'è solo il rumore fastidioso dei monitor che sottolineano il cuore di Alice Mantovani. E ogni tanto le corse delle infermiere e dei medici che si infilano nella stanza e tentano di tenerla viva. «È già andata in arresto cardiaco due volte» dice l'infermiera intercettando lo sguardo della poliziotta diretto dietro la vetrata. «Se non succede un miracolo, ormai non c'è più niente da fare.» La Mengoli ascolta e non dice niente. È un sacco di tempo che pensa che la vita sia una gran troia e quello che sta vedendo non la aiuta sicuramente a cambiare idea. I poliziotti sono come le fighette nei bagni dei locali pubblici. Girano sempre in coppia, pensa mentre sente Gabriele che tenta di rialzarsi in piedi in uno strano rumore di ferraglia. Appoggia una mano sulla tasca del camice e avverte sotto le dita la plastica rigida della siringa. Nella mano destra ha le tenaglie che gli sono servite per i lavori della scala. Stringe forte il manico di plastica rossa e quando Ippoliti mette un piede fuori dalla porta della cella lo colpisce forte alla base della nuca. Poi con un gesto veloce toglie l'ago dal tappo di sicurezza. «Non mi sembra una buona idea» dice intercettando il mio sguardo. La pistola è volata di mano a Ippoliti quando lui l'ha colpito e adesso sto guardando il calcio, nero e lucido, a meno di un metro dalle scale. Buttandomi per terra, anche con il ginocchio come un melone, potrei facilmente prenderla e sparargli. Solo che ha ragione lui. Non è una buona idea. E per due motivi. Il primo è che si fa scudo del corpo svenuto di Ippoliti. Il secondo è che gli ha appoggiato un ago al collo e tiene il dito sopra al pistone della sirin-
ga, pronto a premere. E intanto mi guarda e sorride. Anche i serpenti, a volte, sembra che sorridano. Solo che stanno semplicemente per spalancare la bocca e morderti. «Lo so cosa stai pensando» dice. «Stai pensando che puoi buttarti e prendere quella pistola. Stai pensando che sei sufficientemente bravo da sparare un colpo solo e prendermi in mezzo agli occhi prima che io infili questa roba nelle vene del tuo amico.» Faccio un passo verso destra. Un passo piccolo senza staccare nemmeno per un momento gli occhi dai suoi. Sono lucidi e duri. Quando appoggio il piede sinistro il ginocchio mi urla qualcosa e allora faccio una smorfia. E il suo sorriso si allarga di più. Tiene sollevato Ippoliti cingendolo per il torace e appoggiandosi al muro per farsi forza. «Sai cosa c'è in questa siringa, Gabriele? C'è la stessa sostanza che ho usato per Alice. Solo che è molto concentrata. Molto. Una pera di queste e il cuore del tuo amico fa una fine molto poco gloriosa. In un soffio.» Fa una pausa che dura pochissimo. «Allora se non vuoi che lo faccia torna dentro quella stanza, da bravo, e aspetta che tocchi a te. Ti prometto che non lo uccido. Lui.» Sembra divertito da questo fuori programma, perfettamente a suo agio e disinvolto. Ma non ho nessuna intenzione di accontentarlo. Per un attimo penso anche di tornare dentro per recuperare la catena sotto al tavolo, per colpirlo. Ma sarebbe inutile. Se faccio il gesto di rientrare lui si prende la pistola e io non avrò un'altra occasione. Il tempo passa e la mia testa è divisa a metà fra quello che sto vedendo e la sensazione che, dietro a quel monitor spento, Alice sia ormai morta. Devo pensare che sia viva, devo credere che sia viva, altrimenti tutto questo perde di senso, altrimenti rischio di arrendermi. Allora provo a muovermi appena, sempre verso le scale, un altro brevissimo passo. Questa volta senza dolore. Sembra molto deluso dalla mia mancanza di collaborazione. «Non mi fare incazzare, commissario» dice e pianta l'ago nel collo di Ippoliti, senza delicatezza. Lo vedo fare una smorfia quando l'ago gli buca la pelle, come se stesse svegliandosi. «Non penserai davvero di prendere quella pistola e sparare? Non penserai di colpirmi? O magari stai pensando di sacrificare il tuo amico in nome della tua donna. Stai pensando che in fondo per salvare lei sei disposto ad ammazzare lui insieme a me? Lui non c'entra, lo sai che non lo ucciderei. Come non c'entrava quel povero poli-
ziotto che gli uomini di Gaspare hanno ammazzato. Quel povero ragazzo per le scale. I giornali sono stati molto eloquenti. Ci vanno a nozze con queste storie. L'uomo mascherato.» «Smettila, Giovanni» dico secco e lui si interrompe. Adesso sorride davvero. Un sorriso di gusto. «Lo hai già fatto, vero? L'uomo mascherato eri tu, vero? Hai ucciso uno dei tuoi uomini per ottenere qualcosa che la potesse salvare. Non dico zio Giulio, un assassino, ma un poliziotto. Uno dei tuoi. E ora stai pensando se vale la pena di farlo di nuovo, vero Gabriele?» «Smettila, Giovanni!» urlo e lo faccio solo perché so che ha ragione. Ci sto pensando. Sto pensando se sparandogli riuscirei a salvare Ippoliti. Sto pensando se voglio rischiare di ucciderlo o sparare a Ippoliti direttamente, sperando che il proiettile trapassandolo colpisca anche Giovanni. Sto pensando che se Giovanni muore, nel suo laboratorio potrebbe esserci tutto quello che serve per salvare Alice e che ho già ammazzato Fabio Freddi e avrei potuto non farlo, perché non mi ha aiutato davvero. Sto pensando che voglio che smetta di parlare perché forse nel silenzio posso riuscire a decidere cosa fare. Scuote la testa due volte e affonda ancora un po' l'ago nel collo di Ippoliti. Adesso è pronto per l'iniezione. «Torna dentro e facciamola finita. Tu non sei migliore di me. Meriti di morire.» Adesso sono io che sorrido. «Sì, forse. Ma lei no, Giovanni» rispondo. Poi succede qualcosa che spezza quell'equilibrio. E a quel punto non devo più pensare. Solo fare il poliziotto. «...smettila, Giovanni» sente da qualche parte e si sveglia. Sente uno strano pizzicore al collo e capisce che ha un ago infilato nella pelle. Non riesce a distinguere se sul collo o dietro a un orecchio, ma sa che c'è. Poi si ricorda di dove si trova e di quello che è successo e la testa comincia a pulsargli come una batteria stonata. Ogni battito un dolore sordo, che si allunga fino al trapezio, giù per la schiena. Quello stronzo lo ha colpito con qualcosa di molto duro e adesso lo regge per il torace, tenendolo sollevato di peso con un braccio e una gamba appoggiata sotto la schiena. E non ha più la pistola. Socchiude appena gli occhi e vede Gabriele, in piedi davanti a lui. E la pistola accanto alle scale. Allora si rende conto che la voce che ha sentito era quella di Gabriele e capisce il motivo di quella siringa.
«Lo hai già fatto, vero? L'uomo mascherato. Eri tu, vero?» dice Salvi e tutto all'improvviso diventa chiaro. C'era qualcosa che non quadrava nella morte di Fabio Freddi e nel misterioso uomo col passamontagna sbucato da chissà dove a rivelare un nascondiglio di cui pochissimi erano a conoscenza. E c'era qualcosa di strano in Gabriele e nell'arresto improvviso di Gaspare Nunia, caduto dal nulla nelle loro mani. Già, all'improvviso è tutto chiaro, anche troppo. E capendo la verità Ippoliti si rende conto che in fondo è come se l'avesse sempre saputa. «Smettila, Giovanni!» urla Gabriele e ha ragione. E ora di finirla. E ora che questa faccenda si concluda come si deve concludere. «Meriti di morire» dice Salvi mentre Ippoliti spalanca gli occhi e trova lo sguardo di Gabriele. Lo fissa per un attimo, prima che lui si accorga che è cosciente. Lo fissa per capire se lo avrebbe ucciso oppure no, se avrebbe usato il suo corpo come lasciapassare per la morte di Giovanni Salvi e una possibilità di salvezza per Alice. Lo fissa e finalmente Gabriele si accorge del suo sguardo. Allora Ippoliti fa l'unica cosa che può per dare a quella storia una possibilità. E mentre la fa, sente che malgrado tutto ha ancora fiducia nell'uomo che gli sta di fronte. Ippoliti si muove svelto e schiaccia la mano di Marco Foschi contro il pistone della siringa. Ho capito che lo avrebbe fatto appena l'ho visto aprire gli occhi. Sento il crepitio sottile dell'ago che si spezza e allora mi butto contro la pistola. Ricado pesantemente a terra, mentre lo sento gemere e capisco che Giovanni lo ha colpito di nuovo. Impugno l'arma proprio mentre Salvi mi cade addosso con tutto il peso, sulla schiena. Sputo fuori una quantità d'aria che mi sembra piccolissima e urlo per il dolore al ginocchio. La pistola mi scappa di mano e scivola davanti a me, nell'angolo del sottoscala, dove lui non può arrivare in piedi. Ma io da sdraiato sì. Allora Giovanni mi prende la testa per i capelli e me la picchia per terra. Vedo il mondo svanire per un attimo in una nube di stelle grigie come il fango, ma riesco ad allungare le dita in avanti e a sentire il metallo della canna sotto la pelle. Poi sento le sue ginocchia contro la schiena come se volesse camminarmi sopra per arrivare alla mia mano che sta per impugnare l'arma. Mi af-
ferra di nuovo i capelli e allora sgomito all'indietro, colpendolo due volte, la prima sul torace, la seconda sul mento. Geme e lascia la presa, strappandomi una ciocca di capelli. Infilo la faccia nel sottoscala, impugno la pistola e faccio per girarmi. È in quel momento che sento la presa. Mi impugna la tibia sinistra poco sotto la rotula e la spinge verso l'esterno. Contemporaneamente preme sulla coscia con un movimento opposto. Qualcosa mi sale dal ginocchio, come se avesse dei denti affilati che mi masticano la gamba. Non riesco a ruotarmi sul dorso per sparargli, solo a scostarmi su un fianco mentre mi tortura la gamba spingendo sempre più forte. Sento uno schiocco secco, come un ramo che si spezza e urlo più forte che posso mentre sento la gamba che mi ricade per terra e capisco che adesso, davvero, il mio ginocchio è fottuto. Allora stringo la pistola più forte e spostandomi su un fianco sparo alla cieca dietro di me. Due volte, tre, poi basta Mi pare di sentirlo urlare. Poi lo sento correre su per le scale e mi addento un labbro per riuscire a non svenire. La spalla sembra esplosa. Non riesce a muovere il braccio sinistro e a ogni passo che fa sembra che qualcuno gli infili un dito dentro la carne, tirandogli il tendine come un elastico. Il camice è sporco di sangue, sangue che cola fuori all'altezza della clavicola e che ha quasi del tutto inzuppato la manica della camicia. Dovrebbe toglierselo e tamponare la ferita in qualche modo, ma non ha tempo. Deve uscire di casa e arrivare alla macchina. E una volta dentro decidere se mettere in moto e andarsene o prendere la pistola di Donato Aiuti e tornare dentro a finire quello che è appena riuscito a cominciare. Per alzarmi mi infilo la pistola nei pantaloni e mi trascino con le mani fino al primo gradino. Poi mi aggrappo alla ringhiera e facendomi forza con le braccia mi rimetto in piedi. Su un piede solo. Sotto gli Avirex sento una massa informe e gonfia che spinge dilatando il tessuto dei pantaloni e facendomi un male terrificante. Mi sembra di avere un acquario in cui balla la rotula, senza nessuna sta-
bilità. Ho gli occhi che mi lacrimano e la testa pesante come un melone marcio, ma devo fare qualcosa. Non posso rimanere lì. Devo chiamare qualcuno, uscire e tentare di raggiungere la macchina di Ippoliti per usare la radio e non farlo morire lì, in un angolo di questo cazzo di scantinato che puzza di muffa e di marcio. Oppure usare il suo cellulare, fuori, da qualsiasi parte mi trovi oltre quelle scale. E far portare il più presto possibile in ospedale tutto quello che c'è in questa casa, per sperare di trovare qualcosa che possa ridare al sangue di Alice quello che le serve per vivere. Devo riuscirci. E devo riuscirci da solo. Anche a costo di camminare per il resto della vita con il bastone o le stampelle. Me ne fotto. Adesso tocca a me. A Salvi, dovunque decida di andarsene, penserò dopo. Appoggio appena la punta del piede per terra, poi provo con tutta la pianta e alla fine ho la gamba al suolo, piegata a trenta gradi e senza peso sopra, ma a terra. Allora provo a camminare. Devo fare dei passi brevissimi per non appoggiare nemmeno una briciola di peso sul ginocchio senza sostegno, ma riesco a muovermi abbastanza per arrivare vicino a Ippoliti. È seduto per terra, appoggiato al muro. Respira con la bocca aperta e quando sente la mia mano sulla fronte spalanca gli occhi e mi guarda. Ha le orbite rosse e lo sguardo liquido. Il fiato sembra incontrare una foresta di tronchi spessi e forti, prima di riuscire a sbucare fuori. Nelle mie condizioni non posso riuscire a portarlo di sopra e lui non è in grado di camminare da solo. Si infila una mano in tasca e tira fuori le chiavi della macchina. «No» gli dico prendendole e rimettendole a posto. «Adesso salgo e chiamo rinforzi. Poi torno e aspettiamo. Da qui ce ne andiamo insieme.» «Non preoccuparti» dice in una smorfia di dolore. E non so se lo dice per quello che ha sentito, per quello che ha capito di quello che ho fatto o per la sua salute. Poi mi allunga il suo cellulare. È acceso, ma lì sotto non c'è campo. Lo prendo, sfiorandogli le dita. Ha le mani fredde. Chiude gli occhi e mi sembra stia annuendo. Non so cosa dire. Allora mi volto e tento di compiere la scalata verso il piano di sopra. Guardando quei gradini piegarsi davanti a me mi sembra decisamente impossibile. Ma a questo punto il periodo delle scelte è finito.
Scappare sarebbe la scelta giusta. Non ha bisogno di dar retta alla sua paura per saperlo. Mettere in moto e andare via, da qualche parte. Recuperare i suoi soldi, tutti quanti, e ricominciare da capo. Un nuovo nome, una nuova identità, una nuova faccia. È un pensiero che ha già fatto in circostanze diverse. Senza quello strano terrore che gli è scoppiato dentro di colpo quando Gabriele Riccardi gli ha sparato sfracellandogli la spalla. Nessuno lo aveva mai fatto e se sparare in faccia a Donato gli ha regalato un piacere intenso e diverso dal solito, sentire la pallottola così vicina alla testa, così vicina da rischiare di ucciderlo lo ha soltanto spaventato terribilmente. Lo sente addosso quel terrore, mentre corre svelto giù per il sentiero che lo porterà alla macchina. In quel sentiero, da piccolo, si sedeva nell'erba a cacciare le lucertole, le guardava tentare di scappare anche quando le aveva già infilzate con il vecchio spillone per capelli di sua madre. Si agitavano per fuggire esattamente come sta facendo lui adesso, nello stesso sentiero, scostando i rami con attenzione perché non gli tocchino il braccio che gli penzola sul fianco quasi senza sensibilità. Sale in macchina e mette in moto. La pistola di Donato è appoggiata sul sedile del passeggero. Si ricorda di avergliela messa per riuscire a trasportare meglio il corpo di Gabriele. Il pensiero di infilarsela in tasca o nei calzoni come aveva visto fare nei film, non gli era proprio piaciuto. E adesso è lì. Facile da usare. Ferma a guardarlo come una tentazione. Basta prenderla. La impugna. È fredda. Sa che scappare sarebbe la scelta giusta. Ma ha sempre odiato scappare e ha sempre odiato avere paura. Non è più tempo di avere paura. È tempo di risolvere le cose. Tutte quante. E di ricordarsi perché è lì e che cosa è più importante adesso, in questo momento, nella sua vita. Allora spegne la macchina ed esce stringendo l'arma. In fondo, oltre le scale, lo aspettano solo un uomo disperato che non può camminare e un altro incapace di opporre resistenza. Dopo, chiusi tutti i conti, potrà sparire. Camminando di nuovo verso la casa pensa a Teresa e sorride un po'. Il campo torna quasi istantaneamente mentre faccio l'ultimo gradino e sbuco nell'enorme atrio di quello che una volta doveva essere la villa di famiglia di Foschi. Ma è ancora troppo poco e troppo instabile per poter te-
lefonare. Devo tentare di uscire. Dritta davanti a me c'è una grande vetrata. Stacco la mano dalla ringhiera e provo a camminare nello spazio. Salire, aggrappato al corrimano non è stato così difficile, ma camminare senza nessun aiuto per sostenere le mie gambe diventa un'impresa insopportabile. Punto verso la vetrata ormai disfatta, saltellando su un piede solo e ogni tanto controllo le tacche sul cellulare. Quando arrivano a due mi fermo e telefono. Immobile in mezzo alla stanza silenziosa, vecchia e impregnata dall'odore di putrido e umidità che hanno le case abbandonate, mi sento un cacciatore di fantasmi che affronta uno spettro troppo bravo per lui. E in fondo è così. Se Giovanni dovesse tornare dentro e sorprendermi da qualche parte difficilmente potrei cavarmela. Devo fare alla svelta e trovare un posto dove nascondermi, aspettare e fare lentamente defluire fuori la paura che ormai non controllo più. Qui sono troppo esposto, ma non ho altra scelta. Quando Cancemi mi risponde mi sono appena accorto che la gamba destra, quella buona, ha cominciato a tremare per lo sforzo. Non sarò in grado di rimanere lì in piedi come una gru in un canneto ancora per molto. «Pronto!» dice e ottiene in risposta un gemito sordo e soffocato che non riesco a trattenere quando appoggio il piede sinistro per terra, tentando di riposare. «Commissario, cosa...» tenta di dire, ma lo interrompo subito. «Stai zitto e ascoltami» comincio e la mia voce stanca rimbomba con un suono strano sulle pareti dell'atrio. «Venite subito alla vecchia casa dei Foschi. Non so l'indirizzo, ma basta che controlli. È sui colli. Giovanni Salvi è qui, probabilmente. O forse sta scappando. Potrebbe essere ferito. Chiama l'ospedale e di' che avremo in breve tempo tutto il laboratorio di chi ha avvelenato Alice. Che si tengano pronti. E vieni con due ambulanze. Subito, hai capito? Ippoliti è grave e io non posso spostarmi. Alla svelta, Cancemi. Molto alla svelta o si mette male.» Prendo un breve respiro. «Alice è viva?» chiedo, ma prima che possa sentire cosa mi ha risposto sento uno sparo e mollo per terra il telefono tentando di mettermi al riparo. Ma non sono abbastanza veloce. Mentre sta rispondendo alla domanda sente un tonfo sordo e un rumore, come un petardo fatto esplodere in un sottoscala. «Commissario!» grida. «Commissario!» ma l'unica cosa che gli risponde è una replica di quel rumore. E Cancemi sa benissimo che cos'è.
Allora chiude la comunicazione, esce nel parcheggio del pronto soccorso dove ha portato Donatella Rizzo e comincia a fare quello che deve. Sente la voce di Gabriele Riccardi non appena si avvicina alla porta di servizio. È nell'atrio e sta parlando con qualcuno. Chiedendo rinforzi probabilmente. Pensa un secondo e ascolta la direzione da cui proviene la voce. Ha imparato a capire dove si trova una persona ascoltando la sua voce. Il tono e il timbro contengono tutto quello che c'è da sapere e la voce di Gabriele Riccardi gli dice che il commissario è probabilmente girato verso di lui e che se aprisse la porta di servizio se lo troverebbe di fronte. Armato. E Gabriele Riccardi è sicuramente un tiratore migliore di lui. Se deve sparargli deve farlo di sorpresa, di nascosto. Allora si allontana dalla porta e gira intorno alla casa, fatta a ferro di cavallo. Da lontano, sopra Bologna, si sta muovendo un temporale e un temporale ci sarà anche lì, tra poco. Se vuole finire quello che ha iniziato deve fare in fretta. Gira intorno alla palazzina e costeggiando il muro si avvicina all'atrio. Allora lo vede. E a metà strada fra la vetrata e le scale. Ha ancora il telefono in mano e fissa un punto davanti a sé, in direzione della porta di servizio. Non lo può notare. Allarga i piedi per terra, solleva il braccio destro teso, respira per allontanare una fitta che dalla spalla ferita sta scivolandogli sul fianco e con uno strano ghigno di soddisfazione spara al commissario Gabriele Riccardi. Due volte di fila. Ricado pesantemente sulla schiena, cercando di tenere il più possibile sollevata la gamba sinistra e intanto un'altra parte della vetrata alla mia destra esplode. Il secondo proiettile si schianta sul muro alle mie spalle, oltre i primi gradini della scalinata che porta al piano di sopra. Non mi avrebbe mai colpito. Il rinculo del primo colpo probabilmente gli ha fatto perdere la mira. Per mia fortuna la pistola non è la sua arma. Però il primo colpo mi ha preso. Sul fianco destro. Me ne accorgo quando alzo il braccio e sparo due colpi verso la vetrata, a caso, e sento una specie di morso che mi aggredisce la carne, poco sopra l'anca. Non ho la più pallida idea di cosa ci sia lì sotto, ma fa un male terribile e sanguina troppo per i miei gusti. Tento di tamponare con la mano sinistra e le dita si impregnano rapidamente di sangue.
Sudo. Sudo troppo. Poi ho un attimo di lucidità e mi rendo conto di dove sono. Striscio come posso verso le scale e cerco di scendere di nuovo in basso. Se riesco a chiudermi in una delle due stanze forse posso resistere finché non arrivano Cancemi e i suoi. Se non muoio dissanguato prima. Appena mi muovo in avanti, trascinandomi come posso con le mani, sento un altro colpo che mi sibila sopra la testa. Forse non ha abbastanza luce per vedermi, forse è davvero un tiratore pessimo. Faccio ancora un metro e rotolandomi sul fianco sinistro riesco ad abbandonare le gambe verso i gradini. Urto il ginocchio malato e urlo, anche se ormai non capisco più da dove mi arriva il dolore. Ho bisogno di tutte e due le mani per scendere. Allora mi infilo la pistola nei pantaloni e spingo in avanti, ricadendo a sedere sul primo gradino. Provo a scendere così, più veloce che posso, e l'ultima mezza rampa la faccio scivolando completamente. Butto uno sguardo veloce a Ippoliti. Ha gli occhi chiusi e la bocca spalancata, una mano sul petto. Però respira ancora, anche se molto debolmente. Sento un rumore alle mie spalle e ignorando quello che mi sta gridando la rotula mi volto e sparo alla cieca. Ma non c'è nessuno. Devo pensare. Pensare è tutto. Non perdere la testa. Restare lucido. Appoggio un secondo la schiena al primo gradino e guardo le due porte. Mi aggrappo di nuovo alla ringhiera per rialzarmi. Questa volta è più dura, perché quando faccio forza con il braccio destro mi sembra che una girandola di lame si arrotoli dentro il fianco colpito. Allora tiro forte con il sinistro, mi alzo e cammino come posso fino alla porta che ho di fronte. È un laboratorio. C'è un mobile lungo, simile al lavello di una cucina, che occupa tutto il lato alla mia sinistra. Sopra è pieno di attrezzature che non conosco. C'è una siringa sporca di qualcosa e un'altra pulita, apparentemente nuova. Appesa a una parete c'è una mensola piena di sportelli trasparenti. Dentro ci sono dei vasetti con delle foglie. Qualcosa di simile l'ho visto da bambino, nella casa dove la mia bisnonna allevava i conigli. Ma non credo che siano le stesse erbe. Cerco di capire. Devo riuscire a trascinare in qualche modo Ippoliti lì dentro e poi barricarmi, aspettare. Per un attimo sono anche sicuro di sentire una sirena, in lontananza, ma non è vero. Una goccia di sudore gelato mi scivola dalla fronte in un occhio. Brucia, come tante cose ormai, dentro al mio corpo.
Però non ho voglia di arrendermi, non voglio arrendermi perché i miei uomini stanno per arrivare, perché loro sono in troppi perché lui possa farci qualcosa, perché manca poco e qualcuno volerà via da qui con queste cazzo di fialette e di barattoli e ci sarà qualcosa da fare per Alice, perché venga salvata, e ci sarà un'ambulanza per Ippoliti e tutto sarà finito, anche questa stanchezza che mi sta mangiando vivo, anche i miei pensieri. Tutto. In fondo al laboratorio c'è una porta. È chiusa a chiave e da dietro arriva una specie di ronzio sordo. Accanto alla porta, da un foro sul muro esce un fascio di cavi e allora capisco che dietro a quell'uscio c'è un generatore. Mi volto e sento dei passi sopra la mia testa. Tiro fuori la pistola e mi muovo più svelto che posso fino alla porta. Punto la pistola verso il primo piano e sparo a un'ombra che si muove. È lui, sono sicuro, e allora sparo continuamente, con rabbia verso qualcosa che non riesco nemmeno a vedere. Non risponde al fuoco e dopo che si è dispersa l'eco dei colpi che ho esploso sento solo silenzio. Mi volto. Ippoliti ha gli occhi aperti. «Aiutami» gli dico e chinandomi gli do la mano sinistra. Cerco di trascinarlo verso l'interno della stanza. Per farlo sono costretto ad appoggiare il piede sinistro per terra e mentre tiro mi sembra che qualcosa si strappi, sopra la tibia. Per non urlare mi mordo le labbra e sento la bocca riempirsi del sapore metallico del mio sangue. Altro sangue continua a colarmi dal fianco, sulla camicia, sui pantaloni. Ma alla fine Ippoliti è dentro. Mi sembra di averci messo un'eternità, ma non è vero. Allora tiro la porta e la chiudo. Qualunque cosa si muova, qualunque cosa provi a entrare, prima sparo e poi chiedo chi è. Mi appoggio al mobile e aspetto, tenendo d'occhio le due porte. A parte il mio respiro affannato, c'è troppo silenzio. Sa di averlo colpito. Il secondo colpo è volato via come un palloncino bucato, ma il primo no. Il primo lo ha preso. Era lì in piedi, con la gamba sollevata sembrava uno di quegli strani uccelli rosa, e lo ha visto crollare per terra come se il corpo fosse diventato troppo pesante. Si è spostato subito di lato, dietro al muro e ha sentito i due colpi fischiare un metro davanti ai suoi occhi, esattamente nel punto in cui si trovava prima. Sì, Gabriele spara meglio di lui, ma ha una gamba inutilizzabile. E adesso è ferito, anche se non sa dove. Aveva mirato al torace, ma non deve
averlo preso lì altrimenti sarebbe morto. Con una mano sola non riesce a fare di meglio. Aspetta ancora qualche istante poi sbuca di nuovo dietro il muretto e vede un'ombra strisciare sul pavimento in direzione delle scale. Allora spara di nuovo, ma senza risultato. Per un attimo pensa di entrare attraverso la vetrata ormai distrutta e provare da vicino, ma è troppo rischioso. Gira intorno alla casa e si ferma davanti alla porta di servizio. Ascolta, cercando di isolare il rumore della casa dal cinguettio di qualche uccello rompicoglioni che ha deciso di mettersi a cantare proprio adesso. Ascolta e non sente niente. Allora apre la porta ed entra. Gabriele non è più nell'atrio. Sente un rumore sordo e lo immagina scivolare per le scale, verso il laboratorio. Forse fa ancora in tempo a prenderlo alle spalle. Tenendosi lontano dal muro alla sua destra si imbuca nell'ingresso, ma quando sta per sparare sente un colpo dal fondo della rampa. Il proiettile sibila un paio di metri alla sua sinistra, nella direzione in cui avrebbe dovuto piazzarsi per riuscire a colpire il suo avversario al piano di sotto. Si butta a terra, sul pavimento gelato, e sente altri colpi, in rapida successione, colpire le pareti alle sue spalle. Poi più niente. Si ferma e cerca di immaginare cos'ha in mente Gabriele. E quando lo capisce torna sui suoi passi ed esce di nuovo dalla casa. Il tempo comincia a giocare contro di lui. La porta in fondo alla stanza si apre all'improvviso, con uno scatto secco, e io sparo nello spazio rivelato dall'apertura. Non c'è stato nessun rumore, non ho sentito passi. Niente. Solo la porta che si apre. Dietro c'è una specie di garage grande quanto due berline e aperto su un lato a mostrare il prato davanti alla casa. Il generatore è in un angolo e ronza con un ritmo periodico che invade le orecchie e sembra grattarti da dentro. Ma non c'è nessuno. Solo quel ronzio. Stendo la pistola in avanti e aspetto. Guardo l'uscio spalancato con lo stesso muto terrore con cui certe notti da bambino fissavo la porta aperta della mia camera convinto che avrei visto spuntare qualcuno venuto apposta per me. Lo immaginavo alto e smagrito, il volto scavato e gli occhi scuri e profondi, le mani con le dita lunghe. Erano le dita che mi terrorizzavano e per un momento sono sicuro che da quella porta uscirà proprio quella
creatura, con un cappotto nero e una strana arma da taglio in mano, a metà fra un'accetta e un machete. E invece non esce nessuno. Solo il ronzio del generatore e il rumore del vento che fuori ha cominciato a soffiare e che si infila nella stanza portando un morbido odore di pioggia. Faccio un passo indietro, piano, spostando immediatamente il peso sulla gamba sana e cercando di tenere la pistola con tutte e due le mani, dando stabilità alla presa con la sinistra. La destra mi formicola in un modo strano e quando sposto di colpo la visuale mi gira la testa. Comincio ad avere freddo e ho paura di svenire da un momento all'altro. Quando sento le forze che mi mancano mi mordo ancora una volta il labbro con forza, con un movimento secco della mandibola. «Vieni fuori stronzo» sussurro ed è quasi una supplica, non una minaccia. Lì in piedi in mezzo alla stanza, sembro più un soldato sconfitto che un uomo disposto a dare battaglia. Eppure resto in piedi. Sposto appena il peso sulla gamba malata e per poco non cado. Socchiudo gli occhi e faccio un altro passo indietro. Ora ho il controllo perfetto della visuale del garage. Dentro non c'è nessuno. Allora capisco e nello stesso momento sento il rumore e mi volto, lasciandomi andare contro il mobile alla mia destra. Lo colpisco in pieno col sedere, rovesciando per terra due provette vuote e le siringhe. Urlo per il dolore che mi sale dal fianco sporco di sangue rappreso mentre l'altra porta, quella che dà sulle scale, si spalanca di colpo e Giovanni entra e spara. Mi colpisce di striscio alla spalla sinistra. Poi anch'io faccio fuoco, ma tutto quello che sento è un piccolissimo clic che è breve e duro come una condanna. Allora lascio andare la pistola per terra e lo guardo. «Avanti, facciamola finita» dico e lui si avvicina. Ha un braccio abbandonato sul fianco e la clavicola piegata in uno strano angolo acuto. Il camice è sporco di sangue fino al gomito e altro sangue gli ha riempito la camicia, fino al torace, in una strana decorazione rosso scura. Mi guarda e fa un passo verso di me. Poi sento il freddo della canna della pistola appoggiata sulla fronte. «Mettiti in ginocchio» dice Marco Foschi e per la prima volta in vita sua si sente impaziente per qualcosa che sta per fare. I brividi che gli salgono
lungo la schiena non sono solo febbre, e anche il dolore che a tratti è insopportabile sembra placarsi per un momento. Eppure si sente anche terribilmente malinconico, e per un momento è convinto che si metterà a piangere proprio nel momento in cui svuoterà quello che rimane nel caricatore dentro la testa di Gabriele Riccardi. Le cose che finiscono lasciano sempre una traccia di tristezza, come i traguardi raggiunti e che hai sognato tanto da riempirti la vita. Guarda Gabriele piegarsi a fatica, aiutandosi con le mani, la testa bassa. Non lo ha fatto inginocchiare per prepararsi a un'esecuzione, ma soltanto perché tenere il braccio sollevato gli procura un dolore terribile alla spalla distrutta e ha paura di sbagliare. Ha paura che per qualche incredibile motivo un colpo non basti e sia costretto a sparare di nuovo e poi di nuovo e poi di nuovo, senza colpire il bersaglio. Lo vede appoggiare la gamba sana per terra e tenere sollevata quella malata, lasciando andare il ginocchio all'indietro e puntando le mani in avanti, come un centometrista che si prepara sui blocchi. Tiene la testa bassa e non la rialza mai. Marco Foschi cala lentamente la pistola e la avvicina alla fronte di Gabriele. Ormai basta solo premere il grilletto. Mentre sta per farlo gli sembra che piano, a testa bassa, Gabriele stia ridendo. «Mettiti in ginocchio» dice e appena mi muovo mi stacca la canna dalla fronte sudata. Ha gli occhi rossi e l'aspetto di uno che non si sente molto meglio di me, ma ha la pistola in mano. Carica. E non è un particolare da poco. Cercando di abbassarmi come posso, puntando le mani per cercare un appiglio, provo a capire perché quell'esecuzione mafiosa, perché quella messa in scena e l'unica spiegazione possibile me la dà lui, abbassando immediatamente il braccio mentre effettuo le mie manovre per inginocchiarmi. Non riesce a tenere il braccio sollevato. Non mi fa mettere in ginocchio per umiliarmi o per eseguire la sua condanna. Non c'è più niente di preordinato nel suo gioco da quando Ippoliti è entrato nella sceneggiatura che si era preparato con cura. Adesso improvvisa e conta solo uccidere ed essere sicuro di riuscire a farlo. Appoggio le mani a terra e allungo la gamba malata all'indietro, istinti-
vamente. Mi scappa da ridere perché sto per ricevere una pallottola in testa e mi preoccupo di non sentire dolore a un ginocchio o di capire perché mi ammazza in ginocchio e non in piedi. Come se avesse qualche importanza. Appoggio le mani qualche centimetro in avanti e aspetto. Se fossi coraggioso terrei la faccia alta, come si legge nei libri di storia. Niente benda, signor maggiore, voglio vedere il proiettile arrivare. Invece non me ne frega un cazzo di vedere il proiettile arrivare. Non me ne frega un cazzo di come devo morire. E l'unica cosa che mi spaventa in questo momento è di essere così stanco e sconfitto da non avere nemmeno paura. Meglio lasciarci le penne qui, adesso, che sopravvivere e avere perso tutto. Tutto quello che dovevo salvare. Sento che muove il braccio e con la vista periferica vedo la canna che si sposta verso la mia fronte. Per un attimo penso che a quella distanza, in quella posizione, può agevolmente scegliere se spararmi oppure farsi fare un pompino e non riesco a trattenere una mezza risata isterica e assurda che sicuramente ha sentito e che mi fa venire in mente un'idea terrificante. È mentre sento che posso provare, che scoppia la paura. Paura che prema quel grilletto e che il suono che ho sentito sia di nuovo uno scherzo della mia immaginazione e non il rumore di una sirena che si avvicina in lontananza, paura di morire prima di averci provato. Prima di aver davvero provato tutto. Dura un attimo. Poi lo faccio. E mentre lo faccio sento lo sparo. Marco Foschi respira piano. È sicuro di aver sentito una sirena che si avvicina, ma non è preoccupato. Ci sono almeno tre posti da cui può uscire dalla villa senza che lo vedano e ha ancora un posto sicuro dove rifugiarsi per un po'. Un posto che non troveranno mai. Fissa per un istante la testa china di Gabriele. Poi spara. Spingendo forte con le mani lo colpisco con una testata alle palle e mi lascio andare a peso morto contro di lui. Voliamo per terra uno sopra all'altro e sento la pistola che spara. Per un momento sono certo che mi abbia colpito alla schiena, ma il dolore che sento è solo la somma delle fitte che salgono dal ginocchio e dal fianco. Alzo gli occhi e vedo che non ha più la pistola. È scivolata alla sua sinistra, lontana poco più di un metro, e sta cercando di raggiungerla con il
braccio destro, l'unico che riesce a utilizzare. Affondo il gomito nel suo stomaco e lo sento soffiare fuori aria e un gemito, allontanando la mano dall'arma quel tanto che basta per non prenderla. Lo colpisco due volte in faccia, la prima sullo zigomo e la seconda sul naso, poi sollevo la mano deciso ad abbassare il pugno dolorante nella sua clavicola spezzata, ma non riesco ad affondare il colpo. Mi colpisce con una ginocchiata al fianco ferito e urlo rigirandomi sulla schiena, abbandonando il peso e chiudendo per un attimo gli occhi. Quando li riapro lo vedo che mi monta a cavalcioni sopra, la pistola stretta nella mano. Tento di colpirlo di nuovo, ma ogni volta stringe la presa sui fianchi con le ginocchia e qualcosa mi esplode dentro. Riesco a colpirlo, ma troppo piano perché possa ottenere qualche effetto. Allora comincio a mulinare le mani all'indietro come uno che affoga, cercando di scivolare fuori da quella presa. Sento qualcosa che mi scivola sotto le dita e un attimo dopo Giovanni allunga la pistola in avanti e spara di nuovo. Solo che stavolta è lui che ha finito le pallottole. Allora comincia a colpirmi forte con il calcio della pistola sul viso, continuando a maciullarmi il fianco con il ginocchio. Ansima forte, come un animale braccato. Il primo colpo mi spezza il setto nasale riempiendomi la bocca di sangue e prima che possa capire cosa sta succedendo e cosa devo fare il secondo colpo finisce sul labbro. Piccoli pezzetti di dente mi scivolano in gola mentre tento di sollevare il braccio destro per colpirlo e mi accorgo che in mano ho qualcosa. Prendo un lungo respiro spostando la testa per attutire un colpo diretto in mezzo agli occhi e gli affondo la siringa vuota nel collo. Aria nelle sue vene, è l'unica arma che mi è rimasta. Si solleva all'indietro quando l'ago affonda nella pelle e smette di colpirmi per un attimo, cercando di strapparmi via la mano che preme sul suo collo. Con le forze che mi rimangono premo fino in fondo il pistone della siringa più rapidamente che posso. Lo vedo stringere gli occhi con odio, come un animale ferito dal padrone, poi ricomincia a colpirmi sempre più forte. Lascio la siringa e allungo le mani in avanti tentando di ignorare il dolore che il mio corpo continua a spararmi dentro. Con tutte e due le mani gli fermo il polso e tento di girarlo, ma di nuovo mi colpisce il fianco e devo mollare la presa. Lo vedo sollevare la pistola come se fosse una clava, le vene del collo grosse, gli occhi arrossati, la siringa insanguinata piantata nella carne fino all'attaccatura dell'ago. Ma non riesce ad affondare il colpo. All'improvviso
è come se il suo corpo perdesse sensibilità, come se le forze gli scivolassero fuori da qualche parte, come se non avesse più il controllo di quello che fa. Spalanca la bocca per gridare, ma non esce nessun suono. Le dita si aprono lentamente e la pistola scivola per terra, mentre Giovanni Salvi spalanca gli occhi e digrigna i denti in un disperato tentativo di muovere il suo corpo che non gli risponde più. Poi il braccio destro gli ricade su un fianco, gli occhi si rovesciano e ricade pesantemente all'indietro, sbattendo inerte sul pavimento del laboratorio. «Ce l'ho fatta» sussurro, guardandolo crepare. Allora sento delle voci dal piano di sopra e qualcuno che scende gridando. E finalmente posso chiudere davvero gli occhi. Ippoliti apre appena gli occhi mentre un tizio con un giubbotto arancione gli sta infilando un ago in un braccio. È sdraiato su un lettino e Cancemi gli sorride. Un sorriso che lo fa sembrare troppo giovane per stare in un posto come quello. Sposta piano la testa e appoggia la guancia sinistra sul cuscino della barella. Prima che lo portino via riesce a vedere due corpi distesi al centro della stanza. Uno dei due è Gabriele. «Se la caverà» dice una voce che non riconosce e vorrebbe chiedere di chi sta parlando. Ma tutto diventa troppo scuro, denso e pesante perché possa riuscirci. A Riccione a fine giugno c'è una luce che non c'è in nessun altro periodo dell'anno. In spiaggia ci sono già gli ombrelloni, ma adesso, in mezzo alla settimana, stanno lì quasi tutti chiusi a guardarti come se ti stessero aspettando. Cammino piano lungo la spiaggia e fischietto una canzone di Springsteen che ho sentito poco fa alla radio. Cammino piano per godermi la luce e la tranquillità e il caldo della giornata che mi assaggia la pelle. Cammino piano perché riesco solo così. Se passeggio sulla spiaggia si nota meno che zoppico e forse la gente che mi vede riesce anche a non accorgersi che è la prima volta che mi muovo senza stampella e che lo spazio aperto mi fa paura. Sono passati quasi due mesi e il dottore dice che ce ne vorranno altri due
prima che tutto vada a posto. Faccio rieducazione tutti i giorni e piano piano il ginocchio si piega come dovrebbe. Mi hanno rimesso tutti i legamenti e ricostruito un pezzo di rotula. Non so come abbiano fatto, ma so che il ginocchio mi ha fatto molto più male dopo che l'hanno ricostruito che prima. Al fianco è andata meglio. Qualche centimetro più in là e mi avrebbe centrato il fegato. Invece ha fatto solo della gran macelleria. Ogni tanto, quando cambia il tempo, la ferita mi fa male. Ma non so se è per il ricordo di quello che è stato oppure se per un dolore fisico vero. Certo che qui, in mezzo al sole e con l'odore della spiaggia che ti salta addosso come se fosse contento di vederti, quasi tutto assume un'aria diversa. Anche quello che è successo dopo, fuori dalla villa di Marco Foschi. Anche l'infarto di Ippoliti preso per i capelli e lo sguardo con cui mi ha fissato la settimana scorsa quando ci siamo visti per bere qualcosa insieme, da soli. «Non so se sono ancora un poliziotto» gli ho detto ed è vero. «Non so se sono capace.» Non ha detto niente per un pezzo. È rimasto a fissare le stradine del mercato e per un po' ha scrutato con una strana espressione una signora anziana piccola e tonda che sceglieva del pesce. «Avrei fatto la stessa cosa, credo» ha detto poi voltandosi verso di me all'improvviso e non so perché ma ho sentito una fitta terrificante al ginocchio. Come un ricordo. «Avrei fatto la stessa cosa se fosse stata mia moglie o mia figlia.» «La stessa cosa che ho fatto io o la stessa cosa che ha fatto lui?» gli ho chiesto, ma ha ignorato la mia domanda. «Però io sono ancora un poliziotto, Gabriele. È una delle poche cose che so. Una delle poche che ho capito.» Ho finito quello che stavo bevendo e abbiamo aspettato in silenzio che il sole calasse sopra i tetti. Poi ce ne siamo andati. «Torno in servizio ai primi di luglio» mi ha detto quando ci siamo salutati. «Pensaci.» Ho cercato di sorridergli, ma non so cosa mi è uscito. Poi ho aspettato che sparisse in fondo all'angolo prima di muovermi, come si fa accompagnando a casa una fidanzata. Sull'omicidio di Fabio Freddi non è uscito niente. Nemmeno da Ippoliti. Mi capita di sognarlo, Fabio. Solo che non è proprio lui, perché ha la sua corporatura, i suoi capelli, la sua divisa, ma non ha un volto. Resto un momento sorpreso quando lo vedo salire quelle scale, ma alla fine sparo
sempre e quando sparo, lui non ha più una divisa oltre che la faccia. Forse se il sogno continuerà un giorno chiederò a qualcuno cosa vuole dire. Adesso no. Adesso è ancora troppo presto per avere tutte le risposte. Ho smesso di sognare Teresa. L'ultima volta durante una delle tre operazioni, la seconda mi pare. Un sogno confuso che non ricordo nemmeno e forse è meglio così. Mi è dispiaciuto davvero non poter essere al funerale di Donatella. Le ho messo un fiore, ieri. Ma non è la stessa cosa. Ripensandoci, l'ultima vittima di Giovanni è stata l'unica persona che da lui, anche se inconsapevolmente, aveva ricevuto qualcosa di buono. Che gli aveva anche voluto bene, probabilmente. E che come tutti quelli che gli avevano voluto bene aveva finito per morire per mano sua. Tutto succede per caso. Quella figlia venuta da chissà dove. Lui che la rivede dopo tanti anni quando tutto è cambiato e non è più possibile niente. Tutto succede per caso. Anche l'embolia che gli ho procurato con quell'iniezione d'aria. Poteva arrivare un minuto dopo. Oppure avrebbe potuto non partire il colpo che ha sparato a vuoto quando l'ho colpito in mezzo alle gambe. Tutto succede per caso e tutto sarebbe diverso. Anche adesso. Adesso che cammino piano sulla spiaggia e sento il profumo di Alice che mi cammina accanto, in silenzio. Mi ha raccontato Vittorio Dallari che con tutte le piante che c'erano nel laboratorio di Salvi, sintetizzare un antidoto non è stato così difficile. Non c'ero quando si è svegliata e la prima volta che l'ho vista eravamo ancora tutti e due in ospedale. Mi ha detto ciao e poi è rimasta in silenzio a lungo. Si muoveva piano nella stanza pulita e poco illuminata e sembrava aver bisogno di prendere di nuovo la distanza dalle cose, dalle persone, dalle parole. Da tutto. Appena siamo usciti dall'ospedale le ho riportato la gatta. La moglie di Ippoliti ha quasi pianto quando ha dovuto salutarla. Rivedendo la sua padrona la micia le ha girato un po' intorno, come se non si fidasse di vederla davvero viva, davvero presente. Poi quando Alice si è seduta sul divano di casa è salita sullo schienale e piano piano le è venuta in braccio. Tutto daccapo. Tutto come se. «Come stai?» le chiedo senza guardarla. «Bene» mi risponde con un soffio brevissimo di voce e mi viene da pensare che tutto davvero è tornato normale. Ma so che non è così. Non mi ha chiesto niente di quello che è successo. Non ha voluto sapere
niente e io non le ho detto niente. So benissimo che non sarò io a raccontarle le cose, che non me le chiederà e che se vorrà saperle forse andrà da Ippoliti o da sua moglie, con una scusa qualunque. Funziona così. Forse sono io che avrei voglia di chiederle delle cose. Magari da che punto abbiamo ripreso, se dal suo silenzio e dal suo avermi lasciato dimenticandosi di dirmelo, o da prima. Magari da capo, dall'inizio. Perché una cosa così non può succedere senza portarsi dietro tutto, come un'onda di mareggiata che si mangia la prima fila degli ombrelloni. Però non lo faccio. Mi accontento di vederla viva, di sapere che le ho salvato la vita e di averla vicino e spero che sarà lei a dirmi quello che vorrei sentirmi dire. Mi accontento di questa giornata al mare a parlare poco facendo finta che non sia mai successo niente. Mi accontento anche del suo silenzio duro e chiuso, anche se non so per quanto potrò farlo perché scava dentro troppo a fondo. Mi fermo e la guardo camminare. La testa alta e lo sguardo perso da qualche parte, le gambe che si muovono lente e decise sotto la gonna di jeans, le spalle che disegnano precise la curva del suo corpo contro il sole. Freno il desiderio di sentire quel corpo, di accarezzarlo. Poi si volta. «Senti...» comincia senza finire e non riesco a capire se stia sorridendo a me o a uno dei tanti pensieri che le scivolano morbidi fra i capelli. Allora aspetto. Ogni tanto quando la guardo riesco ancora a sorridere un po'. Ringraziamenti Qualcuno a cui dire grazie c'è sempre. A maggior ragione in un romanzo d'esordio. Quindi grazie a Eraldo Baldini, che mi ha dato il consiglio giusto al momento giusto. E che ha mosso la prima pedina del domino. A Caterina Spina che ha fatto le pulci alla totale improvvisazione del mio siciliano. Ad Ale - la dottoressa Alessandra Carta - che ha sopportato le mie domande sul suo lavoro. Tutto quello che riguarda i virus, le malattie e le cure, gli ospedali, la medicina in generale è merito suo. Tutti gli errori, inve-
ce, sono assolutamente colpa mia. E se ce ne sono, so che troverà un sistema poco consono per farmeli notare. A Carlo Lucarelli, perché le parole hanno sempre un significato. A Gianfranco Nerozzi, che in uno qualunque dei due fusi orari in cui vive, ha sbattuto la sua testa dura contro le mie parole e la mia testardaggine. Credo di avere ancora i lividi. E a Luigi Bernardi che ha creduto in me e in questa storia. E quindi, malgrado lui sia juventino, dirgli soltanto grazie è decisamente riduttivo. FINE