Roberto Casati
PRIMA LEZIONE DI FILOSOFIA
La filosofia vive in ogni attività umana, teorica o pratica, in ogni tipo di...
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Roberto Casati
PRIMA LEZIONE DI FILOSOFIA
La filosofia vive in ogni attività umana, teorica o pratica, in ogni tipo di lavoro e professione; si manifesta nel momento in cui si passa dall’azione secondo una procedura alla riflessione sul perché e sul come di questa azione e di questa procedura. Molto più diffusa nella società di quanto non ci si aspetti, la filosofia è un’arte più che una forma di conoscenza. Ed è essenzialmente negoziato concettuale, ovvero costruzione di impalcature , definizioni, narrazioni, esperimenti mentali, immagini, parabole , che permettano il confronto tra punti di vista diversi sul mondo, tra diversi modi di operare. Roberto Casati spiega in questa Prima lezione come la filosofia sia un motore inarrestabile: presente da sempre nelle pieghe della società e della vita, sarà sempre accanto a noi, mai domata, a permetterci di esplorare nuovi orizzonti. Roberto Casati è direttore di ricerca del CNRS all’Institut Nicod a Parigi. Autore di molti lavori specialistici, collabora da anni all’inserto Domenicale del “Sole 24 Ore”. Tra le sue pubblicazioni, Buchi e altre superficialità (con A.C. Varzi, Milano 20022) e Il pianeta dove scomparivano le cose (con A.C. Varzi, Torino 2006).
PRIMA LEZIONE DI FILOSOFIA
1. Il filosofo è un negoziatore concettuale
Tenere una prima lezione di filosofia è una sfida. Non basta stilare un’introduzione o disegnare un panorama storico della filosofia. Non è nemmeno detto che una prima lezione , seppur affidata a un filosofo , sia un esercizio filosofico. In queste pagine cercherò di mostrare come una teoria della filosofia forse inconsueta, forse poco filosofica, possa spiegare che cosa fanno o hanno fatto i filosofi; non solo i filosofi di professione ma anche le persone che senza veramente ritenere di star facendo filosofia stavano in realtà facendo filosofia. Vorrei anche mostrare che cosa dobbiamo aspettarci dal lavoro filosofico, e perché questo è importante. Dico subito che cosa è un filosofo[1]. Un filosofo è un negoziatore concettuale. Alcuni saranno d’accordo, altri meno: ma teniamo ferma questa idea di negoziato. Quando si fa un negoziato concettuale? Molto spesso e in molti luoghi. Ecco un esempio. In un certo paese si passa dalla monarchia alla repubblica. Prima, eravamo quasi tutti (ad eccezione di re e regina, voglio dire, e della loro famiglia) dei sudditi. Adesso siamo dei cittadini. Passare da sudditi a cittadini significa ridefinire il perimetro dei diritti e dei doveri; ridefinire la concezione che ciascuno di noi ha di se stesso o di se stessa di fronte agli altri; cambiare gerarchie e organizzazioni; scoprire che la propria opinione conta e decidere come scegliere i propri rappresentanti. La lista è lunga. Questi cambiamenti non avvengono con un tocco di bacchetta magica; e non avvengono alla cieca. Bisogna pensarci. Per esempio, bisogna riscrivere molte leggi, e soprattutto si deve redigere una specie di manuale che ci dica come fare a scrivere leggi , ovvero, bisogna creare una Costituzione. In tutto questo si deve negoziare concettualmente. Che cos’è un cittadino? Tipicamente in un negoziato concettuale si cerca di imbastire una spiegazione o una narrazione che ci permettano di ricomporre una tensione concettuale. Adesso sono un suddito, mi spieghi che cosa vorrà dire essere un cittadino? Me lo spieghi in modo che lo possa capire, sulla base della mia esperienza, della tradizione in cui sono vissuto finora? Era un esempio semplice, ho detto. Il fatto è che esempi di questo tipo abbondano. Se cominciamo a guardarci intorno, li scorgiamo spesso e
volentieri. Li ritroviamo ovunque dei cambiamenti in quello che sappiamo o in quello che facciamo esercitano una pressione sulle idee nelle quali fino ad allora ci eravamo cullati riguardo alle situazioni del mondo che ci circonda. Sono cambiamenti dovuti alle nuove conoscenze che la scienza ci propone; a nuovi assetti della società; a profonde trasformazioni nella nostra vita personale. Il Sole non gravita intorno alla Terra. Non tutto quello che il mio cervello fa mi è noto. La materia è energia. Un orinatoio viene esposto come opera d’arte in un museo. Mia figlia parla perfettamente una lingua che io capisco a malapena. Io e lo scimpanzé abbiamo un antenato in comune. Posso parlare in tempo reale a un amico dall’altra parte del pianeta. Laura è andata in Spagna per potersi sposare con Luisa. Un lutto improvviso mi ha colpito. Le idee e le abitudini antiche sono difficili da abbandonare: forse hanno una loro legittimità; forse ci eravamo arrivati con un percorso faticoso e ci risulta difficile rinunciarvi; forse sono un lascito ancora più radicato, biologico, e non riusciamo neanche volendo a vedere oltre di esse. E tuttavia la situazione nuova ci obbliga a confrontarci con esse, ed eventualmente a trasformarle. Come si fa a cambiare idea? Da qualche parte dobbiamo iniziare. Si apre una trattativa concettuale. Che cosa è un pianeta? Che cosa sono io? Che cosa è un matrimonio? E come faccio ad accettare il nuovo stato delle cose? Non si tratta soltanto di un interesse teorico. Quale nuova narrazione del mondo mi permette di agire, se accetto che il mondo non è più quello di prima? Come posso agire, se comunque i concetti che uso per orientare la mia azione sono quelli vecchi? Qui c’è spazio per l’intervento dei filosofi, che sono negoziatori concettuali per vocazione o di professione. Da quando ci sono tracce di filosofia nella storia, ci sono tracce di negoziato concettuale. I filosofi naturalmente negoziano concettualmente anche tra loro a distanza più o meno ravvicinata. Aristotele negozia con Platone e Kant negozia con Hume, Heidegger con Husserl, Russell con Frege: le cose individuali sono tutto quello che c’è o ci sono delle entità universali che esse esemplificano? Ci sono dei costituenti ultimi del mondo? Sono veramente libero o la natura detta legge anche sulla mia azione? Possiamo veramente conoscere la realtà o siamo offuscati dal velo della percezione? I numeri sono cose come le altre? Ma come vedremo questi non sono gli unici negoziati filosofici. Due parole allora sul negoziato non filosofico. Ci sono molti modi di negoziare, ma due attirano la nostra attenzione. Si può mercanteggiare,
ovvero sondare poco a poco l’altrui obiettivo, svelando a poco a poco il proprio, fino a raggiungere un punto di equilibrio o di stallo in cui si dichiara che un certo prezzo è il più alto che si vuol pagare, e si apprende che un certo prezzo è il più basso a cui il nostro interlocutore intende vendere. Questo tipo di negoziato cerca essenzialmente di scoprire che cosa vuole la nostra controparte, che fa di tutto per non rivelarlo, e di celare alla controparte quello che vogliamo, mentre lei fa di tutto per scoprirlo. I teorici del negoziato in genere non sono molto soddisfatti di questa procedura, che toglie profondità al lavoro negoziale, relegandolo alla sola dimensione conoscitiva , il negoziato servirebbe soprattutto a ottenere informazioni, e si incaglia per mille motivi estrinseci, come l’antipatia che può capitarci di provare per la controparte. Un modo più articolato di negoziare descritto nel classico Getting to Yes dell’Harvard Negotiation Project si impernia su alcuni capisaldi: separare le persone dai problemi, concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni dichiarate, inventare delle opzioni che possono portare a reciproci vantaggi, e insistere sull’uso di criteri obiettivi. Gli ultimi due punti sono fondamentali per quello che intendo dire in questa Lezione. Infatti l’invenzione di opzioni è una caratteristica pervasiva del lavoro filosofico; e la richiesta di criteri comuni di giudizio, anche se forse meno pervasiva, fa parte della buona retorica filosofica. Questi due modi di procedere in filosofia non hanno molto senso in sé, ma lo acquisiscono appieno se li si vede come strumenti per permettere il dialogo tra posizioni o concezioni del mondo differenti. In un negoziato maturo si deve anche spesso negoziare con se stessi; un negoziatore a volte deve lasciare il tavolo per tornare sulle sue posizioni, convincere la propria parte, ripensare a quello che vuole veramente. Al tempo stesso l’apertura alla revisione delle proprie idee si accompagna alla necessità di offrire alla controparte un aiuto, delle opzioni perché questa possa a sua volta rivedere le proprie idee in modo da trovare un punto comune o comunque di sbloccare l’azione. Lasciatemi subito mostrare alcune conseguenze di questo modo di vedere la filosofia. Uno: se il filosofo è un negoziatore concettuale, ne segue che la filosofia, più che una materia, è un’arte; l’arte del negoziare concetti, che richiede non solo rigore ma una buona dose di immaginazione. Questo significa, due, che non c’è un canone della filosofia nel senso in cui ci può essere un canone della fisica o della biologia, o del metodo storico. Tre: allora spiegare la filosofia significa spiegare le tecniche del negoziato sulla base di esempi. Certo, ci sono dei
temi ricorrenti; ma vedremo come, forse sorprendentemente, questi temi mostrano che le competenze del filosofo sono vicine a quelle dell’artista, o del matematico creativo, o dell’ingegnere, per un aspetto o per l’altro. Un’altra conseguenza, quattro, è che la filosofia è molto più diffusa nella società di quanto non ci si aspetti, o di quanto non dica di essere o venga rappresentata. Troviamo negoziati concettuali quando abbiamo fusioni aziendali e dobbiamo far dialogare diverse culture di impresa, quando decidiamo quali statistiche sono pertinenti per valutare il senso di insicurezza, quando ci poniamo domande sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce, quando ci prefiggiamo degli obiettivi educativi, quando aiutiamo i nostri figli a crescere, quando accettiamo di star invecchiando. Cinque: abbiamo una chiave di lettura semplice per molta storia della filosofia, che altro non è che la traccia lasciata da negoziati concettuali ambiziosi, svoltisi in coincidenza di cambiamenti a volte brutali: quando si comincia a capire che il corpo umano è una specie di macchina (Cartesio), quando le città si dotano di leggi autonome (Platone), quando si cerca di fermare la spirale della violenza tra comunità religiose (Locke), quando le persone scelgono di decidere da sole il proprio destino invece che conformarsi supinamente a paternali (Kant) , per esempio. E questo vuol dire che, sei, innumerevoli altri negoziati non sono stati registrati con l’etichetta di ‘negoziato filosofico’, ma le loro tracce sono presenti nella società che ne è stata plasmata. Possiamo fare anche una previsione, sette: troveremo molte tracce esplicite di negoziati concettuali quando le trasformazioni sociali, economiche e scientifiche saranno particolarmente radicali. La storia della filosofia è discontinua ed eterodiretta; cambia il mondo, la filosofia serve; la filosofia accorre. Otto: risulterà che alcune cose cui incolliamo l’etichetta di filosofia sono tali solo di nome. Per finire, nono punto: la filosofia ha dei bei giorni davanti a sé, non abbiamo nessuna ragione di pensare che il futuro non ci riservi sempre nuove sorprese, che metteranno noi e chi verrà dopo di noi di fronte alla necessità di negoziare concettualmente. E sappiamo che ci sono molte persone diverse da noi, le cui idee possono essere molto distanti dalle nostre. Dobbiamo accettare questi fatti come una ricchezza e una sfida.
2. La filosofia all’opera
Andiamo a vedere da vicino tre casi in cui il negoziato concettuale ha occupato la scena. I primi due esempi risalgono al secolo scorso e riguardano il concetto di opera d’arte e il concetto di famiglia. Il terzo, molto più antico, riguarda la scoperta che la Terra non è immobile al centro dell’universo. Sono esempi lontani tra di loro nello spazio e nel tempo; sembrano molto distanti in spirito l’uno dall’altro, ma come vedremo li unisce un filo sottile. Il punto su cui intendo attirare l’attenzione del lettore è che si tratta di discussioni che non avvengono in una sede istituzionalmente filosofica come un’aula universitaria o un libro di filosofia; ma che si tratta comunque di filosofia.
1. 1927: Ma è veramente arte? Mr. Higginbotham: È indifferente che sia fatta da uno scultore o da un artigiano? Jacob Epstein: Un artigiano non può realizzare un lavoro bello. H. Intende dirci che il Reperto Uno, se fosse stato fatto da un artigiano , diciamo, da un artigiano di prima classe con una lima e degli attrezzi per levigare, non potrebbe ottenere questa levigatezza? J.E. Potrebbe levigarlo, ma non può concepire un oggetto come questo. Il punto sta tutto qui. Non può concepire queste linee particolari che gli danno la sua bellezza individuale. Questa è la differenza tra un artigiano e un artista: l’artigiano non può ideare come fa un artista. Giudice Waite: Se potesse ideare, non sarebbe più un artigiano e diventerebbe un artista? Testimone: Diventerebbe un artista, proprio cosě. In questo frammento di dialogo, pare, si cerca di capire che cosa sia arte e che cosa non lo sia. Ma qual è il contesto di questa curiosa messa in scena che sembra svolgersi nelle aule di un tribunale? In effetti è una vera e propria discussione filosofica; e il contesto è un vero e proprio processo. Nel 1927 lo scultore Constantin Brâncusi (1867-1957) intentò causa agli Stati Uniti. L’anno prima il fotografo Edward Steichen aveva acquistato una scultura di Brâncusi, Oiseau dans l’espace, ma al momento dell’importazione non aveva potuto ottenere l’esonero dai costi doganali di solito concesso alle
opere d’arte. I doganieri statunitensi, dopo un rapido esame della forma affusolata e astratta di Oiseau, classificarono la scultura di Brâncusi come utensile di cucina e imposero una tassa di 240 dollari dell’epoca: non è veramente arte, è un oggetto utilitario, deve pagare. Ovviamente non era tanto la tassa a infastidire Brâncusi, quanto la classificazione della sua creazione come oggetto utilitario, il mancato riconoscimento del suo valore artistico. Quando Steichen parlò del reclamo alla fondatrice del Whitney Museum, questa vide la possibilità di stabilire un precedente importante e gli mise a disposizione i suoi avvocati. Gli atti del processo sono uno straordinario documento: registrano le opinioni di esperti che devono convincere una giuria del fatto che Oiseau sia, o non sia, un’opera d’arte. Gli avvocati delle due parti sfidano i testimoni con domande insidiose che saggiano la consistenza della loro concezione di arte. Il punto di partenza è la definizione di oggetto artistico che utilizzavano le dogane americane: fino al 1922 doveva trattarsi di una riproduzione di un modello naturale (come il ritratto di una persona, un paesaggio, una natura morta), e solo in seguito si cominciò a concedere ad altri tipi di oggetti il privilegio dell’artisticità, posto che fossero originali, che non fossero prodotti in serie, che fossero attribuibili ad artisti noti, e che non avessero fini utilitari. L’interesse degli atti del processo contro Brâncusi sta nel fatto che le definizioni di arte o di artista proposte non servono semplicemente ad articolare una posizione teorica, ma sono pensate per convincere una giuria in un processo. Siamo al di fuori dell’ambito accademico; e tuttavia il livello della discussione è altamente teorico. Non si sta cercando di accertare dei fatti, come si confà a un processo in cui si fosse trattato di dimostrare che Brâncusi aveva rubato, o plagiato, o truffato. Stiamo assistendo al tentativo di negoziare i limiti del concetto di oggetto d’arte. L’arte moderna impone un negoziato concettuale perché le sue produzioni , Oiseau ne è un esempio , sfidano le categorie in cui si vuole incasellarle. Nello scambio di battute che ho citato dianzi, secondo il testimone, che è un esperto, la scultura in causa è arte perché è stata prodotta da un artista; se un oggetto dalla forma del tutto identica fosse stato prodotto da una persona che non è un artista, non sarebbe arte. Questo stile argomentativo si ritrova spesso in filosofia: se vuoi capire quali sono i limiti di un concetto, pensa a un oggetto che cade sotto quel concetto, immagina un duplicato dell’oggetto che ha tutte le caratteristiche dell’originale meno una, e vedi se il concetto si applica ancora. Ne
riparleremo. Brâncusi vince la causa nel novembre del 1928. Nel caso della sentenza del giudice Waite possiamo considerare che il negoziato ha un esito ancora tentennante, perlomeno se si pensa a quanto viene oggi accettato come opera d’arte. Nel frattempo, si è sviluppata una cosiddetta nuova scuola artistica i cui esponenti cercano di rappresentare idee astratte invece che imitare oggetti naturali. Che si abbia o meno simpatia per queste nuove idee e per le scuole che le rappresentano, riteniamo che i fatti della loro esistenza e della loro influenza sul mondo dell’arte come questo viene riconosciuto nelle corti debbano venir tenuti in debito conto. L’oggetto che viene preso in considerazione adesso è stato dimostrato esistere per scopi puramente ornamentali, e il suo uso è quello di una qualsivoglia altra scultura degli antichi maestri. È bello e dal profilo simmetrico, e seppure si possa rinvenire qualche difficoltà nell’associarlo a un uccello, è purtuttavia gradevole allo sguardo e altamente ornamentale. E dato che riteniamo, in base alle prove, che sia la produzione originale di uno scultore professionale e che sia a tutti gli effetti una scultura e un’opera d’arte stando alle autorità cui si è fatto sopra riferimento, ci associamo alla richiesta e concludiamo che sia autorizzato a un’importazione esentasse sulla base del paragrafo 1704, supra. Il caso è chiuso. È arte, d’accordo, ma solo in quanto ha certe caratteristiche delle cose che tradizionalmente consideriamo come arte, è un oggetto decorativo, ha una gradevole simmetria, è stato prodotto da una persona che fa lo scultore di professione. Al tempo stesso questa ridefinizione, per quanto ancora timida, sblocca la vita: si può ricominciare ad agire, e lo si può fare con consapevolezza. Si potrebbe certo pensare che il succo di questa discussione sia soltanto che dobbiamo accettare l’esistenza di differenze culturali o terminologiche. Quello che oggi è arte, magari un domani, in un’altra cultura, non lo sarà più. In realtà il problema è più profondo. Queste differenze hanno un impatto sulla vita. Possiamo agire solo in quanto ci rappresentiamo il mondo in un certo modo. Se le circostanze ci propongono con forza degli oggetti che sfuggono alle nostre categorie, dobbiamo intervenire sulle categorie, sul nostro modo di pensare.
2. 1946: Ma è veramente una famiglia? Il secondo esempio riguarda la filosofia della persona e della società. Ne va della famiglia e dei suoi rapporti con lo Stato, al centro delle discussioni che tra il 1946 e il 1947 hanno preceduto in Assemblea Costituente la stesura definitiva dell’articolo 29 della Costituzione italiana, che recita: Art. 29. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. Sembra un articolo semplice, ma il negoziato che si è svolto per arrivare a questa formulazione è stato lungo e complesso. Passerò un po’ di tempo su questo negoziato perché è possibile lasciare la parola a chi vi è intervenuto. Come per il processo a Brâncusi, le discussioni sono state messe agli atti. E come in quel caso, l’eco del negoziato si fa sentire ancora oggi nella vita di tutti i giorni. Vediamo intanto lo sfondo, che è assai turbolento, della stesura della Costituzione. Vi troviamo una guerra persa che ha sancito, sotto l’occupazione alleata, la fine della dittatura fascista; un referendum popolare che ha deciso la transizione dalla monarchia alla repubblica; l’elezione, la prima elezione libera dopo il Ventennio, dei rappresentanti alla Costituente; l’esigenza di definire una forma di governo democratica; e il fatto che in questa situazione fluida molti degli attori del negoziato sono latori di grandi visioni del mondo , alcuni di una concezione cattolica dell’ordinamento sociale, altri di una visione socialista o comunista, altri di ancor diverse filosofie della vita e della società. L’Italia è peraltro molto divisa e polarizzata; il rischio di una guerra civile viene sempre tenuto presente. La discussione sulla famiglia occupa allora un nodo centrale in particolare per i rappresentanti di area cattolica. Si intende opporre la famiglia come società naturale da un lato a una concezione liberale vista come troppo individualista, e dall’altro a una concezione che si pensa voglia far troppo intervenire lo Stato nella vita delle persone. Che la famiglia sia stata pensata dai Costituenti dell’area cattolica come una società sussidiaria, un piccolo Stato nello Stato, traspare da due argomenti ricorrenti. Uno riguarda la supremazia del padre, nozione alla quale intellettuali come Aldo Moro e Giorgio La Pira hanno difficoltà a
rinunciare. Se una società è ordinata gerarchicamente, e se la famiglia è una società, la famiglia sarà ordinata gerarchicamente; all’epoca lo è ancora, posta com’è sotto l’ala del padre-capofamiglia. Cosě dirà La Pira che ha in mente una concezione ben precisa della famiglia, nella quale è sempre compreso il concetto del padre di famiglia primus inter pares. L’altro argomento mette in guardia dalle aberrazioni del Codice civile fascista, che imponeva le scelte dello Stato nell’educazione della prole. Voglio dare ancora un elemento di sfondo. L’arte (in questo caso il teatro) lavora ai fianchi del negoziato istituzionale: la vicenda di Filumena Marturano (1946) di Eduardo de Filippo riassume in nuce le perplessità della società di fronte alla complessità incontenibile della famiglia e alla poca flessibilità dei codici che la inquadrano. Filumena, che fu prostituta, da trent’anni vive more uxorio con il suo vecchio cliente Mimě Soriano. Cerca di sposarlo con l’inganno, ma viene smascherata e umiliata. Può solo ricorrere alla mozione degli affetti. Rivela di avere tre figli segreti e che ignorano che lei è la loro madre; uno di essi è figlio proprio di Don Mimě. L’orgoglio paterno scatta in Don Mimě, ma egli cercherà invano di scoprire quale dei tre è il proprio figlio: Filumena non vuole che Mimě lo privilegi a scapito degli altri due. Non resta a Don Mimě che accettare di sposare Filumena e prendere i tre ragazzi in casa come figli propri. Nelle parole di Filumena, ‘E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!. La storia di Filumena riassume il percorso per la conquista della dignità sia dei figli nati fuori dal matrimonio sia dei genitori che fuori del matrimonio li hanno generati. Filumena negozia un difficilissimo equilibrio tra conoscenza e verità: cela l’identità del figlio di Mimě per evitare che il padre disconosca gli altri due figli. Questa è una strategia razionale: la scelta consapevole di ignorare la verità rende possibile un’azione che nel contesto è l’unica vincente (tutte le altre soluzioni sono perdenti per Filumena: indulgere a una situazione di fatto in cui lei è senza veri diritti, non venire riconosciuta come madre, vedere la discordia insinuarsi tra i propri figli, relegare due di essi a una condizione di subordinazione inaccettabile). Va a tutto credito di Mimě l’aver accettato questa soluzione negoziale, che dal suo punto di vista non è semplicissima, ma che gli permette comunque di essere padre a tutti gli effetti. Se avvertiamo la presenza di uno scoglio in questo negoziato e nelle soluzioni proposte è per via della difficoltà nel tracciare il perimetro della famiglia. Nella società in cui vivono Filumena e Mimě alcuni individui
sono considerati figli illegittimi. Filumena è dapprima costretta all’inganno crudelissimo nei confronti dei ragazzi cui non dice di essere la loro madre; e di Mimě che cerca di sposare con uno stratagemma; in seguito è obbligata a tacere la filiazione di Mimě al fine di imporre a questi un vero e proprio ricatto. Ma se simpatizziamo con Filumena è perché avvertiamo che è il perimetro assolutamente ristretto della famiglia a imporre queste azioni. Rinegoziare il perimetro della famiglia permette alle persone che si trovano nella condizione di Filumena di evitare prese di posizione estreme come quelle che lei deve invece adottare. Se i figli di Filumena non fossero considerati persone di seconda classe perché illegittimi, lei non dovrebbe celarsi, imporsi la rinuncia disumana a vivere accanto a loro come madre. Se la famiglia aperta di Mimě fosse considerata una famiglia a tutti gli effetti, Filumena non sarebbe degradata a mantenuta. Se non ci fosse questa asimmetria tra uomo e donna nella famiglia aperta di Mimě, Filumena non dovrebbe cercare il matrimonio ad ogni costo, con un sotterfugio umiliante. Altri inganni sono oggi necessari a molti cittadini per convivere con la legislazione sulla famiglia; e proprio a causa del lascito dell’articolo 29 della Costituzione. Leggiamolo di nuovo. La famiglia vi viene definita come società naturale fondata sul matrimonio. Se è naturale, in che senso è fondata su un atto sociale e culturale come il contrarre matrimonio? Dalle minute della Costituente emerge la sofferta progressione del testo costituzionale fino all’approdo dell’articolo 29 (che risulta dalla sintesi di due articoli più e più volte rielaborati). Non possiamo seguirne qui tutti i passi, per cui ci limiteremo a mettere in luce alcune prese di posizione particolarmente eloquenti e significative. Quello che leggerete nelle prossime pagine è uno stralcio in cui lascio spesso la parola ai protagonisti; non una ricostruzione filologica, piuttosto un director’s cut. Il 7 novembre 1946, nella prima Sottocommissione, interviene Giorgio La Pira, intellettuale cattolico (fu poi sindaco di Firenze negli anni della ricostruzione e si adoperò per la pace e la cooperazione internazionale). [Il Presidente Tupini ] Pone in discussione il secondo comma dell’articolo proposto dai relatori, cosě formulato: ‘La legge regola la condizione giuridica dei coniugi, allo scopo di garantire l’unità della famiglia’. La Pira propone subito di emendare l’articolo in modo che reciti: La legge regola la condizione giuridica dei coniugi allo scopo di garantire
l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. L’indissolubilità del matrimonio dovrebbe venir sancita dalla Costituzione? La proposta di La Pira viene suffragata da una serie di considerazioni consegnate alle minute dell’Assemblea: Indipendentemente dal principio religioso dell’indissolubilità del sacramento, la sua proposta è basata sul fatto che effettivamente gli studi più recenti di cattolici e non cattolici nel campo biologico, fisiologico e sociologico, hanno dimostrato sempre più come il principio dell’indissolubilità sia corrispondente alla struttura e alle finalità che il matrimonio si propone di raggiungere. A questo motivo di carattere razionale ne aggiunge uno di carattere legislativo, nel senso che sia l’attuale legislazione russa che molte altre Costituzioni moderne, si sono orientate verso l’affermazione del principio della indissolubilità del matrimonio. Perciò, per ragioni scientifiche, legislative e storiche, ritiene che tale principio debba essere affermato nella Costituzione italiana, se si vuole veramente costruire una società nella quale non valga più il principio individualistico, ma quello della responsabilità sociale. Per quanto sia stato affermato che non si farà cenno al divorzio né nella Costituzione, né nella futura legislazione, è dell’avviso che bisogna dare al legislatore una indicazione che limiti la sua volontà in questo campo. Come credente, poi, non può tacere il principio religioso, secondo il quale quos Deus conjunxit, homo non separet. Traspare il desiderio di vincolare costituzionalmente il legislatore. Ma che tipo di argomento è contenuto in queste affermazioni? Far riferimento ad altre Costituzioni è una mossa legittima? È lecito far cenno a degli studi scientifici senza però entrare nel merito? Il 13 novembre 1946, Giuseppe Dossetti, giurista democristiano, chiama a sua volta in causa le opinioni degli scienziati e cerca di spostare la discussione dal terreno dei valori a quello dei fatti: La questione va posta in questi termini: il matrimonio deve essere o meno indissolubile secondo ragioni di pura etica naturale? Contrariamente al parere negativo di alcuni, i democristiani su questo punto rispondono affermativamente con il conforto di una vasta opinione di sociologi e di scienziati, i quali, in base a rilievi sperimentali della psicologia e della biologia, affermano che l’umanità tende sempre più verso l’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Si deve quindi discutere la questione su questo piano etico naturale, mettendo da parte tutti gli argomenti riguardanti la religione. La richiesta non è innocente. Quali risultati empirici vengono effettivamente citati? Sono pertinenti per una
discussione di principio? Se per esempio si scoprisse che una maggioranza delle coppie che si formano si dissolvono in seguito (ammesso che la legge lo consenta), Dossetti cambierebbe parere sul principio dell’indissolubilità? Come ho detto, la discussione sulla famiglia è parte di un più ampio confronto sulla natura e i limiti dello Stato. Lo stesso Dossetti continua: Come sono state introdotte nella Costituzione norme che incidono profondamente sulla struttura politico-economico-sociale dello Stato, cosě vi si deve introdurre questa norma che incide sulla sostanza più intima della struttura sociale e politica italiana. Contestando l’importanza del problema del matrimonio, gli si viene a dare una soluzione negativa, che rigetta la famiglia in quell’angolo di scarsa considerazione e di visione puramente individualistica in cui l’aveva gettata lo Stato liberale. Qui si invocano principi molto più generali. I democristiani avevano difeso l’idea di un intervento minimo dello Stato in opposizione all’ideologia totalitaria dello Stato fascista, che si intrufolava in tutte le pieghe della vita, normandole. Le parole di Lodovico Benvenuti (ex partigiano democristiano, fu il primo italiano a dirigere il Consiglio d’Europa) nella discussione sul progetto del 17 marzo 1947 sono eloquenti e accorate: Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, l’articolo 147 del Codice civile fascista, ove si diceva che l’educazione e la istruzione della prole devono essere conformi al sentimento nazionale fascista: il che significava che i genitori italiani, per essere in regola con la legge, dovevano educare i loro figliuoli a detestare la libertà e a servire l’oppressione. Queste sono le aberrazioni a cui può arrivare una legislazione, quando dimentichi che la famiglia è una società di diritto naturale. È quindi importante dare alla famiglia lo statuto di un mini-Stato nello Stato per creare uno spazio protetto di libertà dall’ingerenza statale. Il paternalismo che traspare da queste concezioni non è appannaggio dei soli democristiani; sottende le dichiarazioni di esponenti di sinistra parimenti contrari al divorzio. Lelio Basso, socialista, ricorda che la maggioranza dei Paesi ammette il divorzio, ma dichiara di essere contrario ad introdurre oggi il divorzio in Italia, perché ritiene che il livello morale e sociale della vita italiana non sia tale da poter ammettere questo istituto (13 novembre 1946). Fin qui possiamo considerare il negoziato come una schermaglia, uno scambio di opinioni, un’enunciazione di posizioni di principio. Si
troverà un accordo? Le posizioni sembrano molto distanti le une dalle altre. Come procedere? Nello scambio tra Palmiro Togliatti, l’allora segretario del Partito comunista, e Dossetti durante la stessa seduta sono enunciati alcuni meta-principi, che dovrebbero permettere al negoziato di non incagliarsi: Togliatti fa osservare all’onorevole Dossetti che uno dei motivi per i quali si insiste da parte dei comunisti nel chiedere che non si ponga nella Costituzione il principio della indissolubilità del matrimonio, è proprio perché negli argomenti che vengono portati a favore della introduzione di questo principio essi vedono una prova che tutto ciò viene fatto per dare una determinata impronta ideologica alla Costituzione. I comunisti vogliono che la Costituzione sia aperta a tutte le possibilità ideologiche e non ad una sola. […] Dossetti afferma non essere esatto che i democristiani vogliono affermare nella Costituzione la loro ideologia e rileva che, poiché le diverse ideologie non riescono a confluire, inevitabilmente si dovrà arrivare al risultato che una di esse dovrà essere sacrificata. Che cosa cerca di fare Togliatti? Afferma che la discussione non potrà mai sfociare in una deliberazione fintantoché le parti non cercano di guardare al di là del proprio orizzonte. La Costituzione dovrebbe fornire il quadro che permette di risolvere i conflitti, e non deve riflettere un’ideologia particolare o gli interessi di una sola parte. Togliatti aveva poco prima presentato un ordine del giorno che cerca di disincagliare il negoziato: La prima Sottocommissione, constatato che da nessuna parte è stata avanzata la proposta di modificare la vigente legislazione per quanto concerne la indissolubilità del matrimonio, non ritiene opportuno parlare di questa questione nel testo costituzionale. Osserviamo questo episodio. L’ordine del giorno venne respinto per 7 voti a 6, con due astenuti. Due assenti dichiareranno in una seduta successiva (15 novembre 1946) che avrebbero votato a favore dell’O.d.G. Togliatti. La ricerca del consenso venne spostata sul voto , che di per sé è un fallimento del negoziato concettuale; e il voto fu in questo caso ostaggio della contingenza, ovvero di chi era presente a una certa riunione. Che il passaggio al voto sia un fallimento del negoziato non significa che il negoziato sia intrinsecamente da preferire al voto. Da un lato può semplicemente accadere che i negoziati falliscano: le persone possono
decidere di restare ancorate alle proprie idee. Dall’altro lato il voto è un modo di evitare la paralisi quando le persone ritengono che le proprie idee non siano negoziabili. Il voto non produce consenso. Un voto a maggioranza permette il governo, ma non rende l’opinione della maggioranza opinione comune. L’articolo 29 finirà col decretare che la famiglia è una società naturale. Che cosa vuol dire? La naturalità non è una nozione neutra, e per nulla scontate sono le conseguenze morali del decretare naturale una famiglia. Aldo Moro (allora giovanissimo Costituente, poco più che trentenne) spiega in che senso intende che la famiglia sia naturale, in quanto vi sono due possibili accezioni del termine. La famiglia è una società naturale. Che significa questa espressione? Escluso che qui ‘naturale’ abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto, non si vuol dire con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico e quindi qui ‘naturale’ sta per ‘razionale’. (15/01/1947) A questo Lina Merlin, nota per l’omonima legge del 1958 che abolirà le case chiuse e renderà illegale la prostituzione, e Mario Cevolotto rispondono con una mossa metanegoziale: sostengono che sarebbe preferibile evitare le definizioni. Cevolotto in particolare dirà che Si è opposto per due ragioni: prima di tutto perché dire che la famiglia è una società naturale è dare una definizione che, in fondo, è l’unica esistente in tutta la Costituzione, e costituirebbe una stonatura; in secondo luogo perché la famiglia, a suo parere, non è una società naturale, ma una società costituita in base alla legge dello Stato, che ha un suo contenuto etico. (15/01/1947) In effetti mostra di non accettare l’equivalenza tra naturale e razionale cara a Moro. Il momento è difficile: Cevolotto riconosce l’impasse del negoziato: Cevolotto ritiene superfluo fare una questione sulla dissolubilità o indissolubilità del matrimonio. Tutti hanno delle idee precise e parlare per convincersi reciprocamente sarebbe una cosa assolutamente assurda. (15/01/1947) A questo punto una serie di votazioni consolida il testo. Viene proposto di abrogare il secondo comma dell’articolo, che sancisce l’indissolubilità del matrimonio:
La legge regola la loro [dei coniugi] condizione allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Ma la proposta raccoglie 25 voti favorevoli a fronte di 28 contrari. Nel Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione quello che sarà l’articolo 29 si presenta sotto forma di due articoli, il 23 e il 24: Art. 23. La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della nazione. La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose. Art. 24. Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Regna l’insoddisfazione. Nelle discussioni che fan seguito alla Relazione al progetto il Costituente Ottavio Mastrojanni del Fronte dell’Uomo Qualunque afferma: Onorevoli colleghi, noi siamo preoccupati da queste affermazioni le quali, ripeto, possono essere determinate da fini nobilissimi, da un concetto etico della vita, da una religiosità e da una spiritualità che può anche commuovere, ma non dimentichiamo che noi non scriviamo un libro di filosofia o di morale, scriviamo la Costituzione, la quale impegna il legislatore futuro. (04/03/1947) Non scriviamo un libro di filosofia o di morale, questo il rimprovero di Mastrojanni; tanto gli pare che le discussioni fossero ormai soltanto confronto tra diverse concezioni del mondo. Il rischio, per Mastrojanni, è che si finisca col normare troppo; in futuro noi potremmo trovarci di fronte ad uno Stato totalitario ed invadente, che vigila l’essere umano dalla sua nascita, vigila la famiglia per stabilire se adempie e soddisfa quelle esigenze sociali, economiche e morali che impone in coerenza a quegli orientamenti politici prevalenti. (04/03/1947) Qual è la mossa da compiere a questo punto? Alcuni relatori cercano di mettere a confronto e soppesare i costi dell’adesione ai principi discutendo delle conseguenze che tale adesione può avere. Se uno dice che la famiglia è una società naturale, che cosa ne segue? Cevolotto interviene il 6/3/1947: La famiglia è una società naturale e la Repubblica ne riconosce i diritti. Ma allora la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, cioè dell’unione libera. (Proteste al centro). Come no?
Tanto è vero che se ne sono viste le conseguenze quando si è parlato di figli illegittimi. Noi avevamo proposto una formula che ci pareva potesse avere un certo pregio e cioè: la legge provvede perché non ricadano sui figli le conseguenze di uno stato familiare non conforme al diritto. Non c’è accordo su naturale. Vittorio Emanuele Orlando (primo ministro durante la Prima Guerra Mondiale) il 10/3/1947 fa un lavoro di analisi concettuale sul significato di naturale. Per esempio, una città è naturale o artificiale? Non è certo creata dalla legge. Orlando sta verificando la tenuta del concetto. Mette il dito sull’ambiguità irrisolta della naturalità che si pretende di associare alla famiglia: se è troppo larga, finisce con l’includere famiglie considerate illegittime; ma se si cerca di definire la famiglia legittima, se è la legge che lo decide, la legge potrà sanzionare positivamente le famiglie che in quel momento venivano considerate non accettabili. Già il 30 ottobre 1946 Lelio Basso aveva dichiarato di temere che la definizione di famiglia nei termini di sue pretese finalità potrebbe far ritenere anticostituzionale perfino il fatto che due coniugi non vogliano procreare; il che significherebbe violare il campo delle libertà fondamentali del cittadino. Basso critica l’uso dell’aggettivo naturale, che suggerisce che lo Stato riconosca come naturale un tipo di famiglia che è invece il frutto di un’evoluzione storica. Infine, come è organizzata la famiglia? Qual è il suo perimetro? Tra i molti elementi di discussione, si chiede (La Pira, Corsanego) di dare preminenza al padre in quanto capofamiglia; e si discute a lungo la questione dei figli nati fuori dal matrimonio. L’esito sarà l’articolo 30 della Costituzione: Art. 30. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità. Filumena Marturano potrebbe a questo punto ritenere che se non lei stessa quantomeno i suoi figli sono tutelati. Spero con questo estratto di aver dato conto dell’intensità di un dibattito filosofico colto sul nascere. Il tema di questo lavoro non è la bontà o meno degli articoli della Costituzione che definiscono il quadro per i rapporti tra famiglia e società. Mi è soprattutto parso importante
osservare come le discussioni che hanno portato all’articolo siano un precipitato di grandi opzioni metafisiche e politiche, di visioni del mondo che devono trovare un punto di incontro e di equilibrio, e per questo negoziano sull’unica materia su cui si può discutere, ovvero i concetti che usano. Molto tempo ed energia vengono spesi intorno alle parole e ai loro significati. Molte analisi cercano di mettere in luce le conseguenze da considerarsi contraddittorie o inaccettabili. Il negoziato si ripropone la ricerca di un consenso, ma a volte, come abbiamo visto, ricorre a un voto. Non è chiarissimo in che senso una definizione possa venir sottoposta ai voti; e tuttavia con il voto si impedisce in alcuni casi il blocco. Il risultato del negoziato non è un’ulteriore posizione metafisica, ma un pacchetto di istruzioni su come comportarsi , se si è legislatori, datori di lavoro, cittadini che pensano al proprio futuro , nei confronti dell’idea di famiglia. Come ben sa chi oggi vuol metter su famiglia e non si ritrova nell’ordito concettuale tessuto dai Costituenti, le conseguenze di un negoziato puramente concettuale possono essere enormi e farsi sentire a decenni di distanza.
3. 1593 e dintorni: La Terra gira veramente su se stessa? Terminiamo il nostro percorso tra le pieghe della società e della scienza alla ricerca di negoziati concettuali , ovvero, se le tesi di questo libro sono convincenti, di filosofia. L’affacciarsi di nuove teorie scientifiche che mostrano di spiegare in modo proficuo i fatti noti, o che permettono di scoprire fatti nuovi, impone drastiche, a volte brutali revisioni dei nostri schemi concettuali. Osserviamo da vicino una di queste revisioni, forse la più imponente di tutte; e come nei casi precedenti, cerchiamo di non perdere di vista il contesto in cui si svolge il negoziato. Il sistema planetario di Copernico (formulato nel testo del 1543, Le rivoluzioni dei corpi celesti) ipotizza che il Sole sia al centro dell’universo e non, come era sino ad allora opinione comune, la Terra. Si tratta di un cambiamento concettuale radicale: certo in disaccordo con l’esperienza quotidiana che vede la corsa del Sole e delle stelle nel cielo intorno all’osservatore terrestre, ma nel contesto dell’astronomia dell’epoca soprattutto in disaccordo con un modello matematico molto sofisticato, risalente a Tolomeo, che descrive con una certa accuratezza i movimenti apparenti dei pianeti , anche quelli più strani e apparentemente
irregolari , utilizzando un espediente cinematico elegante, l’insieme di deferenti ed epicicli. Per dare un’idea del modo in cui il sistema tolemaico funziona, pensiamo al fatto che vediamo Venere sempre in prossimità del Sole, ma a volte a oriente e a volte a occidente. Oggi, da post-copernicani, sappiamo che Venere compie le sue rivoluzioni intorno al Sole su un’orbita interna rispetto a quella della Terra, ed è questo che spiega la sua danza apparente in prossimità del Sole. Il modello tolemaico, che vieta le rivoluzioni intorno al Sole, postula che il movimento apparente di Venere sia il risultato di due movimenti: la rotazione di Venere su un epiciclo o orbita ausiliaria il cui centro a sua volta ruota intorno alla Terra su un deferente o orbita di costruzione. Il centro dell’epiciclo è in linea tra Terra e Sole; Venere stessa orbita su questo epiciclo; per questo dalla Terra la vedremmo oscillare da una parte all’altra del Sole. Usando il modello copernicano si possono fare ipotesi osservative ambiziose basate sulla predizione di alcuni fenomeni incompatibili con il sistema tolemaico. Per esempio, dove è mai situato il deferente che ospita il centro dell’epiciclo di Venere? È più ampio o più piccolo dell’orbita del Sole? Nel primo caso, dalla Terra non si vedrà mai Venere completamente oscurata (Venere ‘nuova’ come la Luna nuova). Nel secondo caso, non si vedrà mai Venere completamente illuminata (Venere ‘piena’ come è piena la Luna). È Galileo a scoprire nel 1609 che Venere ha un corredo completo di fasi, e che quindi nessuna delle due possibilità di posizione del deferente è accettabile. Venere deve ruotare intorno al Sole; il sistema tolemaico non prevede questa ipotesi; il sistema tolemaico è falso. Non per questo è automaticamente vero il sistema copernicano, dato che si possono contemplare ipotesi intermedie , un tentativo di negoziato in extremis , come quella di Tycho Brahe: il Sole ruoterebbe intorno alla Terra, e tutti gli altri pianeti intorno al Sole. Tuttavia le ipotesi di salvataggio parziale del geocentrismo non possono impedire la confutazione del sistema tolemaico. E difatti la comunità scientifica accetta rapidamente il sistema eliocentrico. Ma come negoziare con le intuizioni tolemaiche che sono cosě potenti e non sembrano di facile revisione? Dopotutto continuiamo ad avere l’impressione che il Sole giri intorno alla Terra; anche oggi, dopo quattrocento anni dalla scoperta di Galileo e tutto quello che sappiamo del cosmo. Questa tensione va affrontata e risolta in sede concettuale. Ne erano ben consapevoli i contemporanei di Galileo.
Keplero, il primo a trovare una rappresentazione matematica dei veri movimenti orbitali, ha percorso in modo assai deciso la strada impervia di una riconciliazione tra senso comune e sistema copernicano. Il suo sorprendente e straordinario argomento ci mostra come le intuizioni tolemaiche siano contingenti, ovvero dipendano dal fatto che ci troviamo sulla Terra, e che basterebbe poco, un piccolo volo dell’immaginazione, a rimetterle radicalmente in discussione. Annotiamoci questa idea, il fatto che in filosofia l’immaginazione è regina. Il negoziato concettuale di Keplero è stato consegnato a uno stranissimo testo. Keplero ne scrive una prima, giovanile versione nel 1593, ben prima delle scoperte galileiane, come dissertazione durante i suoi studi di astronomia a Tübingen sotto la direzione di Michael Maestlin. Il tema era: Come apparirebbero i fenomeni celesti a un osservatore posto sulla Luna?. Non pubblicato, il testo subisce diverse rielaborazioni; cammin facendo incorpora una storia di magia che gli conferisce un cupo carattere onirico. Il riferimento al mondo magico è in realtà autobiografico (la madre di Keplero era stata coinvolta in un processo per stregoneria), tuttavia la ragione principale della scelta narrativa di Keplero sembra essere il desiderio di non voler sollevare un polverone con un testo scopertamente copernicano. La storia, abbastanza opaca, racconta di come i demoni lunari possano viaggiare tra Terra e Luna sul ponte d’ombra che si crea durante un’eclissi di Sole. Loro allieva è la strega Fiolxhilda, che vuole iniziare il figlio Duracotus alle arti magiche dopo averlo esiliato dalla sua nativa Thule per cinque lunghi anni in Danimarca. Duracotus affronta a sua volta durante un’eclissi il viaggio per la Luna, e sopravvive alla rarefazione dell’aria respirando attraverso una spugna umida. I demoni gli mostrano la Terra e gli spiegano i principi dell’astronomia lunare. Qui c’è il passaggio cruciale del negoziato di Keplero: perché mai gli abitanti della Luna dovrebbero pensare che la Terra è ferma? Dalla Luna (da quella che per noi è la faccia visibile) vedono la Terra girare vorticosamente su se stessa, più di 29 volte in un giorno lunare, misurato dal sorgere al tramontare del Sole sulla Luna. Tant’è che , ci dice Keplero , gli astronomi Lunari la chiamano la Volva, la cosa che gira, la trottola. Pensate all’effetto che vi farebbe vedere la Luna girare su se stessa 29 volte in 24 ore, più di un giro completo all’ora. Isaac Asimov ha definito il Sogno uno dei primi scritti di fantascienza, e voglio sottoscrivere questa dichiarazione. I testi di fantascienza ci permettono di esplorare con la
mente situazioni immaginarie senza troppo curarci dei vincoli fisici che regolano gli eventi di questo mondo. Come vedremo, la fantascienza è una ricca fonte di ispirazione per i negoziati concettuali della filosofia. Il negoziato di Keplero è brutale e diretto quanto lo sono le scoperte astronomiche dell’epoca: cambia il tuo punto di vista, e i tuoi concetti risulteranno datati, obsoleti, contingenti. La Terra gira! Basta che ti immagini sulla Luna perché ti sembri evidente. Come avevano fatto a non pensarci prima? Non ci avevano pensato abbastanza.
3. Segni particolari Propongo adesso di iniziare una riflessione su questi esempi. Il primo punto da affrontare: non si tratta di esempi della filosofia che si trova nei testi filosofici. Di che cosa si tratta?
1. Ma è veramente filosofia? Quali sono i segni particolari che ci permettono di dire che siamo in presenza di filosofia, ovvero di qualcosa di diverso dalla disciplina o attività in cui a prima vista ci si muove , arte, diritto, astronomia? Perché la discussione sulla famiglia in Assemblea Costituente è filosofica e non è una questione di stretta pertinenza giuridica? C’è un modo forse imperfetto ma semplice ed immediato per capirlo: Le domande di tipo filosofico su una certa disciplina o attività sono domande cui la disciplina non saprebbe rispondere con i propri mezzi, e sono domande alle quali si risponde con gli stessi mezzi con cui si risponde a domande filosofiche riguardo ad altre discipline. Che cosa vuol dire? Prendiamo delle domande che stando a questo modo di vedere non sono filosofiche. Per esempio: chi dei tre figli di Filumena Marturano è figlio di Don Mimě? Quanti pianeti ha il Sole? E andiamo a vedere come vi si risponde. In ambito giuridico ci sono delle procedure che permettono di accertare la paternità: certificati, dichiarazioni, testimonianze, confessioni, prove indiziarie o dirette, oggi esami genetici. In astronomia ci sono delle tecniche per raccogliere dati e fare previsioni , l’osservazione del cielo, il calcolo delle masse necessarie a spiegare la forma di un’orbita, lo studio delle differenze tra due fotografie scattate in momenti diversi. Ma queste procedure e tecniche non permettono di rispondere alle domande che ho considerato filosofiche. Non c’è una procedura per determinare che cosa sia una famiglia, anche se una volta che lo si è determinato si possono definire delle procedure per decidere se una certa persona fa o non fa parte di una data famiglia. Inutile raccogliere indizi per aiutare i Costituenti. Non c’è una tecnica osservativa per decidere che cosa sia un pianeta, anche se una volta che lo si è determinato si possono mettere a punto delle tecniche per andare a caccia di pianeti (piuttosto che di satelliti o di galassie). Inutile puntare il telescopio su un pianeta per decidere che cosa sia un pianeta.
Quindi, primo segno particolare della filosofia: sono filosofiche le domande cui non trovi risposta nella disciplina che le formula. È davvero un fenomeno generale? Un esperimento in biologia permette di capire se questo batterio appartiene o non appartiene a una determinata specie, ma non c’è un esperimento in biologia che permette di decidere che cosa sia una specie. Un calcolo in matematica permette di conoscere la somma di 179+46, ma non ci sono calcoli che ci dicono che cosa sia un numero. Una serie di gesti e di tecniche ti permette di dipingere un quadro, ma non c’è gesto o tecnica che ti dica che cosa è un’opera d’arte[2]. Secondo segno particolare, collegato al primo: Gli strumenti che usiamo per rispondere alle domande filosofiche in una disciplina sono gli stessi che utilizziamo per rispondere alle domande filosofiche in un’altra disciplina. Per decidere che cosa è un pianeta o una famiglia si procede all’incirca nello stesso modo; si negozia sul perimetro dei concetti di pianeta o di famiglia. Terzo segno particolare: Le domande filosofiche sono comunque inestricabilmente intrecciate alla disciplina che le genera. Questo significa due cose. La prima, che sono domande di un certo tipo, ma non hanno un contenuto specificamente filosofico. Non è che a parlare della Vita, dell’Essere o della Storia si sia più filosofi che a parlare di pianeti o di famiglie. La seconda, che non si trovano domande filosofiche autonome. La filosofia, se pure non arriva sempre buona ultima, si mette comunque in moto su sollecitazioni esterne. C’è un’elegante simmetria qui. Da un lato ciò che rende filosofica una domanda, il suo essere di un certo tipo, è quanto le permette di stare in compagnia di domande filosofiche assai diverse, e di poter venir affrontata con tecniche generali. D’altro lato il fatto che le domande filosofiche non abbiano un contenuto specificamente filosofico le rende tutte l’una diversa dall’altra. Non sappiamo quali saranno le domande filosofiche del futuro, anche se quando le incontreremo sapremo che sono domande filosofiche. I filosofi di professione che si sono occupati di estetica o di filosofia morale troveranno certo le discussioni al processo di Brâncusi o alla Costituente embrionali, non sufficientemente articolate. Ma questo non le rende di per sé meno filosofiche. Moro e la Merlin non sono filosofi, ma agiscono come filosofi in determinati momenti dell’attività della Costituente. Questo deve farci riflettere e probabilmente incoraggiarci.
Parrebbe che abbiamo delle risorse per fare i filosofi anche se non siamo filosofi di professione. I tre casi di cui abbiamo parlato , il processo di Brâncusi, una parte delle discussioni dell’Assemblea Costituente sulla famiglia, il Sogno di Keplero , ci sono serviti per mostrare come la filosofia si nasconda nelle pieghe della vita. La filosofia è diffusa; emendando Amleto, direi che vi sono più cose filosoficamente interessanti tra cielo e terra di quante ne siano passate per la mente dei filosofi di professione. Proprio questo carattere diffuso dei problemi concettuali costituisce una sfida per i filosofi; per il negoziatore concettuale che è in ciascuno di noi come per il filosofo professionista.
2. I negoziati hanno avuto buon esito? Se il lavoro filosofico è un’attività negoziale, è legittimo chiedersi se il negoziato è andato a buon fine. I nostri tre esempi parlano di diversi gradi di successo. Oiseau viene accettata tra le opere d’arte in sede legale, e la sentenza rappresenta un precedente importante per come gli oggetti dell’arte contemporanea circolano, vengono scambiati, vengono riconosciuti , negli Stati Uniti, certo, e in un determinato momento storico; ma più in generale nella sensibilità contemporanea. Non è soltanto un risultato limitato al fatto che gli uffici doganali non sono più lasciati soli a decidere che cosa è arte e che cosa non lo è. È al tempo stesso una richiesta fatta alla società tutta di trovare un punto d’equilibrio con il fare artistico, riconoscere che l’artista ha uno spazio di autonomia non solo rispetto alla scelta dei suoi soggetti e delle tecniche, ma rispetto al modo in cui concepisce il proprio fare. L’esito della discussione costituzionale sulla famiglia mi sembra assai meno soddisfacente. La necessità, per una delle parti, di far accettare che si adotti una vera e propria definizione di famiglia crea un artefatto concettuale, l’ossificazione di un concetto che avrebbe dovuto restare fluido. Non si deve nemmeno troppo scavare per cogliere la difficoltà: c’è a rigor di termini una contraddizione nel considerare la famiglia come naturale e come al tempo stesso fondata sul matrimonio, ovvero su un contratto sociale. Se è naturale, il contratto sociale non può fondarla; e se è il contratto che la fonda, non è naturale. Il desiderio di trovare alla famiglia un ruolo politico e sociale ha creato questo artefatto definitorio, come
sottolineò il Costituente Rubilli (Unione Democratica Nazionale): È una società naturale! Non so perché poi sia indissolubile; tutte quante le società si possono sciogliere. Vedete adunque che avete definito in modo da stabilire una contraddizione in una stessa legge. (6/3/1947) Da questo fatto discendono molti problemi. Una contraddizione, oltre che a essere intellettualmente insoddisfacente, può paralizzare l’azione (giunto al bivio, devi andare contemporaneamente a destra e a sinistra). Se invece si dà per scontato che si debba leggere tra le righe della definizione, se il termine naturale è volutamente ambiguo, si vanifica il desiderio di creare una definizione. Difficile dar torto a quei Costituenti che avrebbero voluto semplicemente togliere la definizione dal testo finale, in base a meta-principi (o principi meta-negoziali) come quello per cui la legge non deve provvedere definizioni[3]. C’è il rovescio della medaglia: una eventuale ambiguità fondamentale del termine società naturale, se da un lato può attenuare la contraddizione annidata nell’articolo 29, d’altro lato lascia aperta la possibilità di famiglie diverse da quelle che avevano in mente i Costituenti e i loro contemporanei. Nulla vien detto di famiglie omosessuali, per esempio; ma nulla viene direttamente negato. La sentenza della corte statunitense e l’articolo 29 della Costituzione hanno comunque, nel bene e nel male, propagato i risultati del negoziato al di là delle mura entro le quali questo si è svolto. Il negoziato concettuale è stato efficace. Il testo di Keplero invece ha avuto una fortuna limitata per cause contingenti sulle quali vale la pena di riflettere. Pubblicato postumo, non è intervenuto al momento giusto, e il suo prudente paludamento lo ha fatto considerare dai contemporanei più come eccentrica narrazione di un mito che come profonda riflessione epistemologica. Non basta scrivere un testo di fantascienza per contribuire alla filosofia; non basta avere un’idea assolutamente brillante (la Terra vista dalla Luna è una trottola! altro che sistema tolemaico!) , si deve anche operare strategicamente perché questa idea ottenga un effetto, metta radici nella società. Al di là di queste considerazioni epidemiologiche c’è forse un’altra lezione che riguarda il successo o il fallimento di un negoziato. Alcuni negoziati sono più difficili di altri. Cambiare il proprio punto di vista, immaginare di guardare la Terra dalla Luna, ci porta momentaneamente al di là dei limiti dei nostri concetti, intrisi di geocentrismo. Ma può trattarsi di una vittoria di Pirro: abbandonato il punto vista nuovo e inedito ricadiamo sulla Terra dove l’architettura stessa della nostra mente ci detta
una rappresentazione geocentrica, ci fa parlare di un Sole che sorge e tramonta. È una difficoltà ben nota a chi cerca di spiegare i concetti di base dell’astronomia; una difficoltà che si ritrova nell’insegnamento di molte discipline scientifiche. La mente non è plastica al punto da poter modificare alcune delle rappresentazioni più profonde del mondo fisico, rappresentazioni che sono quello che sono perché quanto abbiamo ricevuto in eredità dal passato della nostra specie è quello che è. Bisogna allora aspettarsi che avvenga qualcosa che molti non troveranno affatto soddisfacente: il negoziato deve riprendere sempre di nuovo. Questo dà alla filosofia il suo aspetto a volte inconcludente, in alcuni casi deludente. Alcuni autori hanno accettato che sia necessario ripensare sempre da capo, in proprio, in prima persona, tutti i problemi filosofici. Ora, la filosofia è una pratica di cui si avverte la necessità in innumerevoli contesti e che viene presentata sotto nomi diversi. Ma i suoi risultati non sono misurabili facilmente, e in alcuni casi non sono nemmeno misurabili. Altri autori hanno tratto una conseguenza estrema da questa difficoltà, e hanno incoraggiato una visione puramente terapeutica della filosofia; il negoziato non avrebbe il compito di fornire una soluzione efficace, ma servirebbe , se condotto correttamente , ad attenuare il senso di urgenza che il problema concettuale ci pone. Il negoziato è una pratica e il suo esito non è scontato. L’alternativa al negoziato aperto, che riprende sempre da capo, è il dibattito. Anche il dibattito può essere senza fine, ma per ragioni assai differenti. Il linguista, attivista politico e filosofo Noam Chomsky ha riassunto in questo modo il problema: I dibattiti sono un’istituzione del tutto irrazionale, che non dovrebbe esistere in un mondo ragionevole. In un dibattito si dà per scontato che ciascun partecipante abbia una posizione, e che debba mantenere questa posizione quali che siano gli esiti dello scambio. In un dibattito è un’impossibilità istituzionale (vale a dire, se accadesse, non si tratterebbe più di un dibattito) che una persona dica all’altra: questo è un buon argomento, dovrò regolarmi su di esso e cambiare le mie idee. Ma quest’ultima opzione fa parte dell’essenza di ogni scambio tra persone razionali. Chiamare [lo scambio intellettuale che Chomsky ebbe con lo psicologo Jean Piaget] dibattito è sbagliato e contribuisce a modi di pensare e di comportarsi che dovrebbero venir abbandonati. Il negoziato cerca una soluzione, il dibattito no. Non è detto che il primo la trovi, ma quantomeno ha il merito di cercarla.
4. Lo spazio negoziale I negoziati che ho presentato nei capitoli precedenti sono filosofici anche se non verrebbero di solito descritti come tali. La filosofia è però anzitutto visibile in alcuni luoghi istituzionali: dipartimenti di filosofia, testi con la parola ‘filosofia’ nel titolo, riunioni di persone che si definiscono filosofi. Come lavorano i filosofi di professione, e quali aspetti della loro attività si ritrovano nella filosofia diffusa? Per dare un’idea della complessità del lavoro filosofico professionale, voglio mostrare le notevoli potenzialità di un esempio classico. Nonostante si tratti di un caso di scuola molto discusso, prego chi legge di seguirmi nei dettagli in quanto le morali che intendo trarre sono ampie. Dico subito che si tratta di una fantasia molto lontana dai negoziati concettuali che hanno introdotto la nostra discussione. Quelli erano totalmente immersi nella vita, dettati dall’urgenza, votati a modificare una pratica. Questo, invece, è completamente astratto e a prima vista[4] praticamente fine a se stesso. Ripeto, non per questo è più filosofico.
1. Qual è la vera nave? Ecco una versione della storia che introduce il nostro problema. Teseo costruisce una nave, chiamiamola ‘Argo’ per comodità anche se con una piccola licenza mitologica[5]. La nave viaggia e Teseo la ripara continuamente, mettendo da parte, per ragioni sue, i pezzi che sostituisce via via. Alla fine ha sostituito tutti i pezzi; la nave con cui approda alla fine del viaggio è composta da parti completamente diverse da quelle che la costituivano al varo. A quel punto Teseo prende i pezzi vecchi e li rimette insieme esattamente come erano all’inizio. Attenzione a questo passaggio! Teseo si ritrova con due navi, una al porto, e una nel cortile di casa sua. La nave al porto ha accompagnato Teseo nel suo viaggio ma non contiene più un solo pezzo di quelli che la componevano al varo. La nave in cortile è fatta dei pezzi che erano presenti al varo ma è stata ricomposta via via. Quale nave è (identica al)la nave che era stata varata? In altre parole, se vi proponessero il sondaggio seguente, come votereste, per A o per B? Pensateci un attimo. A: Argo è la nave che adesso è in porto.
B: Argo è la nave che adesso è nel cortile di casa. Anche se avete votato per una delle due possibilità, probabilmente a rifletterci una seconda volta l’altra non vi sembra del tutto implausibile. Il che significa che rispondiamo a due intuizioni che ci portano in direzioni opposte. Si può sostenere che la ‘vera’ Argo sia quella che è appena approdata e un minuto dopo pensare che è invece quella che si trova nel cortile di casa; è un effetto che ad alcuni rammenterà quello del coniglio papero, la figura che appare diversa a seconda di come si dirige la propria attenzione su di essa; adesso mi sembra un coniglio, adesso un papero. Quel che è preoccupante è che le due intuizioni, prese entrambe per buone, ne contraddicono una terza. Se è vero che Argo è la nave al porto ed è vero che Argo è la nave a casa, per la transitività dell’identità (il principio che sottende ragionamenti come: se Giovanni è la persona che adesso è sul tetto, e se la persona che è adesso sul tetto è il ladro che ieri si è infilato in casa mia, allora Giovanni è il ladro che ieri si è infilato in casa mia) risulta che La nave al porto è la nave a casa. Ma una terza intuizione, che ci pare quantomeno altrettanto forte delle altre, ci dice che La nave al porto non è la nave a casa. (Come nel caso del coniglio papero: che non potevamo vedere contemporaneamente come coniglio e come papero.) C’è dunque un problema, una contraddizione. È un problema perché ci sembra che la nave al porto non possa essere, e al tempo stesso non essere, la nave a casa; probabilmente abbiamo anche un’intuizione stando alla quale: Non possono essere entrambe vere le risposte A e B. Indipendentemente dalla risposta che si vuol dare al quesito particolare dell’identità della Nave di Teseo, le strategie di risposta sono filosoficamente interessanti, e tratteggiano grandi concezioni metafisiche o opzioni negoziali di alto livello. Le presento brevemente , ma va notato subito che ve ne sono molte. (1) Chi accetta che Argo sia identica alla nave che adesso si trova nel cortile di casa ha una concezione materialista delle navi. Difatti quello che conta è l’identità della materia, l’identità delle parti componenti. Parlare di materialismo in senso filosofico non significa dire nulla di particolarmente astruso o ideologico, o sottoscrivere una forma di riduzionismo scientista. Ci sono pratiche del tutto quotidiane e accettate che sono intrise della stessa concezione materialista. Per esempio il restauro conservativo e l’antiquariato. Avendo facoltà di scegliere, un antiquario o una soprintendente alle Belle Arti cercherà di comprare la
nave che è nel cortile di casa, e non considererà degna di attenzione la nave al porto. Si tratta di un’intuizione fortissima e radicata in molte pratiche umane. (2) Per quanto l’intuizione materialista sia forte, si ritrova però con il problema ulteriore di stabilire che cosa garantisce l’identità della materia che aveva usato per fondare l’identità della nave. Il materialista rende esplicita la sua preferenza per la nave a casa dicendo che quel che conta è il fatto che la materia di cui era composta Argo è la stessa materia che troviamo nel cortile di casa. Notiamo allora che le soluzioni di alcuni problemi di identità presuppongono la soluzione di altri problemi di identità, per altri tipi di entità. Come facciamo a dire che si tratta proprio della stessa materia? I problemi per il materialista non finiscono qui. D’accordo, l’identità della materia può ben convincerci del fatto che Argo sia la nave a casa, e non quella al porto. Ma questo lo diciamo adesso che vediamo una nave nel cortile. L’intuizione che l’identità della nave dipenda da quella della materia è cosě forte da farti dire che Argo era davvero quel mucchio di tavole prima che Teseo le rimettesse insieme? Forse sě , e in effetti cosě dovrebbe rispondere il materialista convinto. Ma il materialista titubante dovrebbe chiedersi che ne era della nave quando il fasciame era ammucchiato in una cantina. Forse le navi hanno un’esistenza intermittente? Oppure si può cercare di risalire all’indietro lungo la storia della materia, fino a prima della nascita di Argo, guardare l’etichetta di tracciabilità del legno, vedere che proveniva, diciamo, da alcune querce di rovere che hanno un nome e un indirizzo, e chiedersi se Argo esistesse già nelle querce. Abbiamo forse una forte intuizione che non sia cosě, ma come fa il materialista a convivere con questa intuizione, se è solo la materia che conta? (3) Chi invece accetta che Argo, la nave che era stata varata, sia la nave adesso in porto al ritorno dal viaggio, nonostante tutti i suoi pezzi siano stati cambiati, ha una concezione formale o ilomorfica delle navi. Quel che conta non è l’identità della materia, che infatti è completamente diversa nel caso della Argo e della nave al porto, ma un altro principio, quello dell’identità di forma, intesa qui in modo assai lato ad includere la funzione della nave, ovvero il fatto che la nave abbia potuto assolvere ai suoi compiti durante il periodo in esame. Cosa che per l’appunto il fasciame che veniva via via accatastato a casa di Teseo non garantiva affatto.
Come nella coppia di casi (1)-(2), si pone qui il problema di formulare un criterio di identità nei termini di un altro criterio; in questo caso abbiamo l’identità di funzione come criterio da esplicitare. Che cosa fa sě che un oggetto stia assolvendo alla stessa funzione ininterrottamente per un certo periodo? Abbiamo detto che un problema interessante per il materialista riguarda l’esistenza della nave Argo nel periodo in cui essa non era stata ricomposta, in cui era smembrata, ovvero dopo che Teseo aveva raccolto tutti i pezzi e li aveva ammassati in cantina. Ma c’è qualcosa di più interessante ancora, ovvero il problema dell’identità della nave, supponendo che tale identità sia garantita soltanto dall’identità della materia, quando questa materia era per metà in cantina e per metà ancora nella nave che continuava a navigare. Il materialista ha due modi di rendere conto di questa situazione: (4) accettare che gli oggetti possano esistere anche se le loro parti sono disperse nello spazio (questo garantisce la continuità temporale della Argo); oppure (5) accettare che gli oggetti possano esistere anche se sono intermittenti nel tempo (questo evita che la Argo cessi di esistere quando non è ben compatta, quando non è tutta d’un pezzo). Sono idee strane? Che cos’è un oggetto disperso nello spazio? E uno intermittente? Qualche esempio della vita o dalla storia ci aiuta, e questo è il modo in cui i filosofi a volte procedono, richiamando situazioni quotidiane o note, intessendo narrazioni a partire dal banale: la classe terza C è un’entità dispersa nello spazio , in certi momenti sono tutti presenti in classe, ma in altri sono chi a casa, chi in biblioteca e chi per strada. La Polonia è stata un’entità intermittente: ha subito svariate spartizioni ad opera dei suoi vicini, durante le quali ha cessato di esistere, per poi rinascere. (6) Bisogna distinguere queste posizioni del materialista da una posizione simile, che è stata definita ‘essenzialismo mereologico’ e che dice che a=b se e soltanto se a ha necessariamente tutte le sue parti in comune con b e viceversa. L’essenzialismo mereologico costituisce una soluzione forte, nel senso che genera molte conseguenze controintuitive. Per esempio, la distruzione di una piccolissima particella di Argo fa morire Argo e fa nascere una nave diversa (anche l’aggiunta di un chiodino decreterebbe la morte di Argo e la nascita di una nave nuova). Nella storia di Teseo, Argo non sopravviverebbe alla prima sostituzione del fasciame. Ciò detto, Argo potrebbe vivere per un tempo lunghissimo, fintantoché
non cominci a perdere o acquisire parti. (7) Bisogna ancora distinguere la teoria non materialista, funzionalista, da una teoria della continuità spaziotemporale. Secondo questa teoria, è la nave al porto che è identica alla Argo perché si può reperire almeno in linea di principio un percorso continuo nello spaziotempo che porta dall’una all’altra (invece, come abbiamo visto, la dispersione e la discontinuità spaziotemporale non sono vietate nella concezione materialista, e anzi ne costituiscono uno sbocco quasi obbligato). Ancora una volta, se si va in profondità, si ritrova un criterio di identità che si basa sull’identità di altre entità. Nel caso in questione per esempio tutto si riconduce alla capacità di tracciare l’identità delle regioni di spazio e degli intervalli di tempo. Se riuscite a mostrare che con una transizione continua nello spazio e nel tempo dalla nave al porto si arriva alla Argo (studiando la storia della Argo e quella della nave al porto si scopre che sono state esattamente negli stessi luoghi negli stessi istanti), allora la nave al porto e la Argo sono una e una stessa cosa. Tiriamo il fiato. C’è un problema di identità e sopravvivenza degli oggetti, e un ventaglio di proposte tra cui optare. La scelta metterà in luce il nostro lato più materialista, o quello più antimaterialista. Ma la parte interessante deve ancora cominciare. Andiamo a esplorare un livello negoziale completamente diverso. Si possono infatti considerare soluzioni assai più impegnative. (8) Per esempio si può accettare che la Argo sia identica tanto alla nave al porto che a quella a casa, ma che queste ultime non siano identiche tra loro. Ovvero, si rinuncia qui alla transitività dell’identità (il principio per cui se a=b e b=c, allora a=c); se non lo si fa, si incappa, come abbiamo visto, in una contraddizione. (9) Sulla falsariga della soluzione precedente, ma con maggiori ambizioni: si possono accettare tanto la soluzione materialista che quella ilomorfica, e accettare pure la transitività dell’identità! Si deve però decidere di non accogliere il principio di non contraddizione. La nave al porto è identica a quella in cortile, e la nave al porto non è identica a quella in cortile! (10) Si può pensare di relativizzare l’identità: la nave al porto è lo stesso mezzo di trasporto della Argo, ma è una diversa quantità di materia. La nave a casa è la stessa quantità di materia che Argo, ma è un diverso mezzo di trasporto. Tuttavia, questo suggerisce che non si possa mai porre
la questione dell’identità assoluta. Per allargare ulteriormente il quadro, facciamo un ultimo sforzo di immaginazione teorica. Vi sono delle risposte ‘negative’ alla questione dell’identità della Nave di Teseo: (11) Si può anche supporre che la nave adesso in porto sia in fondo identica alla nave adesso a casa. Qui si richiede una leggera riformulazione del nostro concetto ordinario di identità, ma in fondo perché pensare che questa riformulazione sia più importante di quella suggerita, ad esempio, dall’essenzialista mereologico o dal materialista? La nave al porto e quella a casa sono esattamente la stessa nave, e ci sembrano soltanto navi diverse. Che male c’è? Abbiamo qualche risorsa concettuale per cavarcela con le illusioni di duplicità. Potrei aver l’impressione di avere due figlie gemelle, ma poi mi accorgo che mia figlia si sta guardando allo specchio. (12) Si può pensare che vi siano sin dall’inizio due (o forse molte di più) navi differenti, che all’inizio coincidono spaziotemporalmente. In pratica, la nave al porto e la nave a casa sono due navi ben distinte (cosa che ci è del tutto chiara oggi che le vediamo entrambe) ma sarebbero state sovrapposte nello spaziotempo quando Argo salpò. Poco a poco le sostituzioni di pezzi di nave hanno reso visibile la differenza tra le due navi. (13) Si può negare che gli oggetti abbiano un’esistenza più che istantanea. Sembra che ci sia una nave che dura anni e anni, ma in realtà è un’illusione, un po’ come è illusione al cinema l’impressione di movimento prodotta dal rapido succedersi di immagini statiche. Questa è una posizione indipendente da quella dell’essenzialismo mereologico, ed è anche una posizione assai più forte: nel caso dell’essenzialismo mereologico, un oggetto può esistere per un tempo indefinitamente lungo, posto che non perda né acquisti parti. Se invece ad ogni istante la nave è differente, non sarà mai vero che Argo (ovvero, la nave al momento in cui Teseo l’ha comprata, tanto tempo fa) possa essere identica alla nave che è al porto adesso.
2. Tredici soluzioni? Per quanto possa sembrare strano al lettore non filosofo, la lista che precede non pretende di essere esaustiva. Devo confessare di non sapere
con precisione quante soluzioni al problema della Nave di Teseo siano state offerte; molte di queste sono implicite nelle risposte ad altri problemi filosofici. Sembreranno risposte astruse per un problema bizzarro. Non nego questa impressione ma come ho detto voglio trarre spunto dall’esempio per guardare oltre. Per il momento ci basti tener fermi due punti. In primo luogo, queste diverse soluzioni cercano di trovare un equilibrio negoziale tra le intuizioni che di volta in volta vengono evocate. Che cosa significa? Ho detto che le soluzioni non sono tutte sullo stesso piano. Pensate alla soluzione molto radicale che dice di non accettare il principio di non contraddizione. Questa soluzione permette di salvare tanto l’intuizione materialista che quella ilomorfica. Ma a che prezzo? Che cosa vuol dire non tener conto delle contraddizioni, non considerarle nocive per la nostra vita mentale, per il modo in cui parliamo con gli altri e desideriamo che gli altri ci parlino? Come ci comportiamo per esempio con una persona che dice Volevo prendere una bibita dal frigorifero e pensavo che per prenderla dovevo aprirlo, per questo non l’ho aperto?. Rinunciare alla coerenza non significa abbandonare una certa idea di noi stessi e di come presentiamo noi stessi agli altri? Rinunciare al principio di non contraddizione significa rinunciarvi per sempre, diremmo. È una rinuncia impegnativa. Mentre rinunciare all’intuizione materialista sembra essere cosa di minor conto , costosa magari, ma che fa salva la nostra razionalità. Quindi, secondo punto, quando valutiamo le risposte al rompicapo della Nave di Teseo teniamo sempre presente una domanda di sfondo: A che prezzo?. Quanto ci costa l’una o l’altra soluzione? Quali sacrifici ci impone? Da filosofi siamo diventati strateghi, giocatori di scacchi. Il sacrificio della regina ci apre una nuova possibilità? E come valutiamo se un’opzione è più o meno costosa di un’altra, in particolare quando sembra trattarsi di capra e cavoli? È una dinamica insita in tutti i tipi di negoziato. Ne parliamo nel prossimo capitolo.
5. La rinuncia necessaria e il dovere dell’immaginazione
Lo studio della strategia delle rinunce è l’elemento centrale della discussione sulle molte risposte al problema di Teseo; ma è anche la chiave di volta dell’attività filosofica come attività negoziale. Soffermiamoci ancora per un istante sull’esempio di Teseo. C’è qualcosa nel nostro modo di pensare agli oggetti materiali e agli artefatti che non sembra funzionare: comunque la mettiamo, dobbiamo rassegnarci a rinunciare a qualche aspetto del nostro modo di rappresentarci il mondo. A che cosa vogliamo rinunciare? All’idea che le cose non possano sovrapporsi nello spazio? Ai principi dell’identità? Alla coerenza? All’idea che la materia conti per l’identità degli oggetti? All’idea che conti la funzione? All’idea che le cose durino nel tempo? 1. Costi e benefici La prima grande morale della nostra discussione è dunque che in filosofia, quando intraprendiamo un negoziato concettuale, a un certo punto saremo di fronte a una analisi dei costi e dei benefici delle nostre scelte. Nel decidere ci ispireremo ad alcuni principi assai generali , a loro volta negoziabili, beninteso. Che immagine di noi stessi ci piace coltivare e offrire agli altri? In che modo veniamo mutilati dal rinunciare all’uno o all’altro modo di rappresentare il mondo? In che modo la rinuncia è invece intellettualmente soddisfacente? Seconda morale. Ci sono molte assunzioni e ipotesi nascoste in un pensiero che pure sembra assai banale. Dovremmo sapere che cosa è una nave. Eppure non lo sappiamo veramente; e quello che ci sembra di sapere è opaco. Quando cerchiamo di precisarlo, ci accorgiamo che il pensiero nasconde delle contraddizioni. Quindi: il lavoro filosofico richiede che si renda esplicito quanto vi è di implicito nelle nostre descrizioni, immagini, teorie e narrazioni del mondo. Se non rendi espliciti i tuoi pensieri, rischi di non vedere le eventuali contraddizioni o lacune che vi si annidano. Forse non è giusto rendere tutto esplicito, come vedremo, ma quantomeno in prima battuta si deve cercare di mettere nero su bianco il pensiero. Terza morale. C’è del metodo nel lavoro filosofico. Si individua una
posizione e si cerca di circoscriverla concettualmente. Il dilemma della Nave di Teseo richiede una presa di posizione, almeno a prima vista. Rifiutare il dilemma, introdurre alternative, significa prendere comunque posizione. Anche qui non tutto è esplicito: le nostre scelte vengono rese evidenti da certi aspetti della narrazione. Per esempio, l’intuizione dell’antiquario dà molto senso alla posizione materialista, che viene circoscritta concettualmente con l’associare l’identità delle navi (degli oggetti materiali in generale) a quella delle loro parti materiali. Quarta morale. Si va costantemente in cerca delle conseguenze delle nostre scelte teoriche. Non è infatti detto che il costo o il vantaggio di un’intuizione sia immediatamente evidente. Magari a me l’intuizione da antiquario, materialista, sta bene; però se scavando scopro che devo accettare delle navi intermittenti che lampeggiano sulla scena dell’esistenza, posso ricredermi. Un certo intuizionismo ispirato in filosofia non ha molto mordente, anche perché è raramente al centro del problema che si vede la soluzione, ma ai suoi confini, là dove si spinge l’esame delle conseguenze. Sono le ramificazioni di una posizione a contare, più che i principi che la definiscono. I principi, spesso semplici e accattivanti, attirano la nostra attenzione e la trattengono gelosamente, e se ci sembra buona cosa attenervisi è semplicemente perché non ne valutiamo le conseguenze. Il filosofo John Campbell ha definito la filosofia come un pensiero al rallentatore, alla moviola. Pensare alla moviola significa soffermarsi su ogni singolo passaggio, soppesarlo, cercare i pro e i contro per ogni affermazione, cercare di eliminare le zone d’ombra dell’implicito. Fare questo può anche avere un valore in sé; ma per chi pensa che la filosofia sia un’attività negoziale il valore principale sta nel fatto che in questo modo si riesce a saggiar meglio la consistenza di una posizione su cui si sta negoziando.
2. Il dovere dell’immaginazione: abbiamo ‘veramente’ pensato a tutto? Quinta morale. Andare alla ricerca di assunzioni nascoste per renderle esplicite è anche e soprattutto fare un lavoro di immaginazione. Il risultato di tale lavoro è una cartografia delle possibilità, e in questo senso il filosofo è soprattutto armato di, o deve sviluppare, un senso della possibilità. Cito una frase celebre di Musil: Ma se il senso della realtà
esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è. Il senso della possibilità è un aspetto del lavoro intellettuale creativo, filosofico e no; è condiviso da tutte le professioni intellettuali, dalla matematica all’ingegneria alla filosofia all’improvvisazione jazz e, ovviamente, alla letteratura. Per come funziona la mente umana, essere creativi significa essere in grado di generare un ventaglio di possibilità in modo da poterne scegliere o da farne emergere una o più d’una come soluzione a un problema, in base a dei vincoli che ci si impone e degli obiettivi che ci si prefigge. Prendiamo proprio il caso della letteratura. L’apertura del ventaglio di possibilità si svolge in due tempi. Il primo tempo è quello della creazione di una storia, di una trama. Chi scrive sceglie una possibilità di sviluppo della storia tra le molte che gli si offrono a ogni svolta narrativa. Certi personaggi vengono accompagnati lungo tutto il filo della storia; altri resteranno per sempre racchiusi nello scrigno delle possibilità non realizzate , non conosceremo mai il destino di innumerevoli protagonisti e personaggi secondari (che ne è stato delle allegre comari di Windsor? Sono invecchiate felicemente?) Ma c’è un secondo momento in cui il senso della possibilità insito nella creatività letteraria ci investe con tutta la sua energia. Siamo avidi divoratori di trame: consumiamo storie, narrazioni di eventi non reali ma solo possibili: film, spettacoli teatrali, romanzi, fiabe sono un ingrediente essenziale della nostra vita mentale. Anche la storia documentaria, la storia degli storici viene presentata in una forma narrativa che si adatta a questa richiesta. E non solo le storie che inventiamo e scartiamo, ma anche quelle che altri hanno fabbricato sono per noi importanti. Alcuni autori pensano che questa richiesta di storie risolva un problema adattativo: faccia di noi persone preparate, serva a tenerci sempre all’erta, ci metta a disposizione una risposta già pronta ai molti casi della vita. Faccio ginnastica tutte le mattine perché magari un giorno dovrò chiedere al mio corpo di tirarmi d’impaccio , scartare per evitare di essere
investito, correre per raggiungere un bambino che si è messo nei guai. Il consumo di storie sarebbe allora una specie di simulazione. I piloti di aereo si esercitano nel simulatore ad affrontare in modo automatico, quasi senza pensarci, le emergenze che richiedono delle risposte complesse e sequenziali. I marinai simulano il recupero di un uomo in mare perché quando poi capita veramente di dover salvare una persona caduta fuori bordo bisogna agire senza perdere un momento. In modo analogo i filosofi aprirebbero spazi concettuali che vale la pena di frequentare per non trovarsi troppo impreparati di fronte alle continue sollecitazioni della scienza e della vita. Per esempio, avere presenti le molte opzioni filosofiche sull’identità personale riduce il senso di stupore, amplificato a bella posta dalla rappresentazione mediatica, di fronte alle nuove e a prima vista strane possibilità aperte dalla ricerca in genetica, come le chimere o i cloni. Oppure: disporre di una concezione non riduzionista e non puramente biologica della famiglia (non solo, quindi, come luogo deputato alla riproduzione) permette di guardare con maggiore serenità all’emergere di nuclei familiari diversi da quelli tradizionalmente riconosciuti. Non è detto che uno poi debba riconoscerli; il negoziato può concludersi negativamente, ma sarebbe un peccato se venisse bloccato solo per un difetto di immaginazione. Meno ambiziosamente, la ricerca delle possibilità alternative potrebbe essere un correttivo, che i filosofi hanno involontariamente scoperto, a una assai radicata e ben documentata tendenza cognitiva, quella della ricerca selettiva di conferme alle proprie opinioni. Lasciati a noi stessi, ci preoccupiamo poco di cercare smentite; è più comodo e a breve termine meno costoso circondarsi di yes men che di no men. Però a lungo termine la miopia delle scelte può penalizzarci duramente; gli errori iniziali si amplificano; è difficile tornare sui propri passi. La ricerca filosofica delle alternative remote ci aiuta ad attenuare la propensione alla miopia. Quale che sia la spiegazione profonda del nostro profilo di consumatori di possibilità, aver presente la possibilità di situazioni alternative è un elemento chiave di ogni negoziato, concettuale o meno. Ricordiamo una delle regole del negoziato (non solo filosofico): Inventare delle opzioni che possono portare a vantaggi reciproci. E raccogliamo, facendolo nostro, l’invito di Wittgenstein, che raccomandava di non seguire una dieta unilaterale di esempi.
L’analogia con l’invenzione letteraria è poi meno peregrina di quanto non possa sembrare a prima vista. In compagnia di tutti gli inventori di situazioni immaginarie il filosofo ricava un beneficio indiretto dalla sua attività, che è quello del piacere della contemplazione. La dura necessità dell’invenzione si fa piacere. (Di converso, la citazione da Musil non è del tutto innocente. Musil si forma come matematico, filosofo e psicologo; si laurea in filosofia nel 1908 con una tesi sulle teorie del fisico Ernst Mach sotto la direzione di Carl Stumpf, filosofo e psicologo che fu come Husserl allievo di Brentano. L’uomo senza qualità ricama sul tema filosofico delle impressioni sensibili come base della conoscenza e dell’identità personale.) Sesta morale. Se per assolvere al suo compito di negoziatore concettuale, il filosofo lavora di immaginazione, pensa alla moviola, esplora alternative, rende esplicito l’implicito, questo significa che la filosofia, più che una scienza, o un metodo conoscitivo, è un’arte; come lo è del resto il negoziato in senso più generale. Nel prossimo capitolo cercheremo di impratichirci in quest’arte.
3. La neutralità della filosofia Infine: mostrare una carta del terreno, aprire spazi logici, è un’attività in fin dei conti neutra, ma in un senso che va precisato. Non ci obbliga a scegliere una posizione o l’altra. Ci permette di mostrare le opzioni sul tappeto a chi si ponga un problema, come quello del libero arbitrio o della natura degli oggetti materiali, o della conoscenza, o della natura dell’opera d’arte, o della famiglia. Ma non c’è nulla nel lavoro filosofico come arte che ci vincoli a deliberare in merito alle posizioni descritte. Dire questo , e qui si apre un capitolo su cui torneremo, quello del ruolo della logica nella filosofia , significa dire che nella sostanza la filosofia è una fabbrica di condizionali: se questa tesi è vera, allora quest’altra tesi è vera. (Per esempio: Se accetti la versione materialista della nave, allora ti impegni all’esistenza di oggetti intermittenti nel tempo.) Non è affatto detto che i filosofi di professione condividano l’immagine del loro lavoro che sto dando. Per alcuni di essi è veramente importante poter difendere l’idea che solo la nave materiale è identica a Argo, che il futuro non esiste veramente, o che le persone sono veramente libere o, invece, esclusivamente determinate dalla loro natura e da eventuali circostanze esterne. Si fa valere un vecchio adagio filosofico, per
cui il modus ponens di un filosofo è il modus tollens di un altro. (Niente oggetti intermittenti: quindi il materialismo è falso; oppure: il materialismo è vero, quindi gli oggetti intermittenti esistono.) Molti filosofi troveranno la versione qui presentata della filosofia blanda o esangue. Probabilmente molti intellettuali non filosofi condivideranno questa impressione. In realtà la posizione che ho delineato (apertura del ventaglio delle possibilità, immaginazione, valutazione metodica delle conseguenze, costruzione attenta di condizionali, ma non necessariamente presa di posizione per l’una o l’altra teoria) qualche richiesta sanguigna l’avanza. In un negoziato, a un certo punto si passa alla fase della decisione. Hai esplorato le conseguenze e i punti di forza; ora devi decidere. Hai di fronte a te le opzioni: la Nave di Teseo è quella al porto, è quella in cortile, è entrambe, non esiste più da un pezzo, non ci curiamo di eventuali problemi di identità, eccetera. A un certo punto devi comunque decidere; ma non è la filosofia che ti fa decidere per l’una o l’altra opzione, è la vita. La filosofia ti aiuta a riconciliarti con la tua decisione, ma la decisione è tua, e a questo punto dovresti sapere che avrà innumerevoli conseguenze pratiche. Sei tu, giudice, che influenzerai il modo in cui gli ufficiali delle dogane agiranno di fronte a un oggetto che Brâncusi descrive come opera d’arte; sei tu, membro dell’Assemblea Costituente, che influenzerai il modo in cui milioni di persone vivranno e saranno viste dai loro concittadini quando decideranno di vivere assieme e far nascere, adottare, far crescere dei figli, separarsi, far fronte a un problema medico o a un lutto. Sei tu, responsabile di un’organizzazione aziendale, che deciderai che certe funzioni sono ridondanti o non occupate e licenzierai o assumerai del nuovo personale, creerai dei nuovi profili professionali, ne considererai altri come obsoleti. Sei tu, statistico, che deciderai di misurare la sicurezza dal numero di fermi di polizia, determinando volontariamente o involontariamente dei comportamenti di un certo tipo da parte delle forze dell’ordine. Sei infine tu, persona, che deciderai di condurre la tua vita in un certo modo. Filosofica può esser stata la strada che ti ha portato a quella decisione. Ma la decisione è un atto pratico, non filosofico. E tuttavia offrire alternative in un negoziato che sembra non conoscerne è già un atto profondamente trasgressivo, tutt’altro che esangue. In particolare dal momento che i negoziati non avvengono in un vuoto silenzioso e senza attrito, retto solo dalle leggi di una razionalità cristallina. Come accennato or ora, siamo tutti vittime del pregiudizio della conferma: abbiamo un’intuizione, formuliamo un’ipotesi; e a questo punto
non solo ci mettiamo a cercare le prove a favore della nostra ipotesi, ma selezioniamo accuratamente e diamo particolare risalto ai fatti che sembrano confermarla, tenendoci alla larga da quelli che potrebbero inficiarla. Abbiamo tendenze anche più difficili da contrastare: molte delle nostre argomentazioni sono a volte puri e semplici ricami che articolano un’intuizione preesistente e tenace. Nel campo morale questo è particolarmente evidente: diversi esperimenti di psicologia sociale mostrano come i soggetti cui si chiede di motivare una certa opinione (per esempio, sull’illiceità dell’incesto) non sono in grado di trovare una giustificazione che vada al di là della semplice ripetizione dell’opinione controversa. Portato alle estreme conseguenze il lavoro del filosofo si ridurrebbe quindi a quello di un semplice scrittore fantasma di una trama preconfezionata: gli si chiederebbe di mettere in bella copia (di articolare o formattare) delle intuizioni preesistenti: gli si chiederebbe di rinunciare alla ricerca di argomenti per sostituirla con l’illusione dell’argomentazione. C’è un’alternativa alla separazione tra lavoro filosofico di sfondo e momento della decisione; ma è pesantemente normativa. Il desiderio filosofico di pensare in modo ordinato fagocita la decisione, vorrebbe che fosse una logica conseguenza della riflessione. Date le circostanze, non si può agire altrimenti. Vediamo questo modo normativo all’opera in mille occasioni: certe cose non sono veramente arte, è logicamente necessario (o impossibile) che esista una divinità personale ed è quindi obbligatorio (non) credervi o assolutamente sbagliato (non) credervi, la società deve avere un certo ordine perché altrimenti non sarebbe nemmeno una società, una figlia adottiva non è veramente una figlia, le donne non sono veramente razionali, un certo modo di metter su una famiglia è deviante, gli animali non hanno dei veri pensieri. Lo spirito normativo spiega anche una parte dell’accanimento con cui alcuni filosofi si dedicano alla critica del lavoro filosofico altrui. Si può sostenere che questo accanimento sia certamente benefico per la filosofia nel suo complesso; permette di mettere in luce i punti deboli (spesso si tratta di conseguenze insospettate) di una certa posizione. Ma nella norma non fa che riproporre il tema della divisione della filosofia accademica, in correnti, dipartimenti, scuole. È un altro tema.
6. L’arte della filosofia
Chi lavora filosoficamente, che si tratti di filosofi accademici o di persone che all’interno della propria professione prendono le distanze dall’agire o dall’operare nella professione e rivolgono a quanto stanno facendo uno sguardo filosofico (ovvero attento alle sfumature concettuali), lo fa di norma in un modo ordinato. Wittgenstein ha tratteggiato una vignetta efficace: il lavoro del filosofo consisterebbe nell’assemblare ricordi per uno scopo determinato. C’è una parte di verità in questo, ma c’è sicuramente dell’altro. Ci sono svariate tecniche filosofiche, modi dell’operare filosofico. Se la filosofia è un negoziato, è un’arte. Al modo in cui gli artisti figurativi possono scegliere tra disegnare al tratto, stendere il colore, o elaborare un’immagine digitale, i filosofi hanno a disposizione un certo numero di strumenti. Questo capitolo fa una panoramica di alcuni metodi utilizzati dai filosofi. Vale la pena tener sempre presente lo scopo di questa Prima lezione, che è quello di un’indagine sul contributo della filosofia anche al di fuori dell’ambito accademico. Se qui si discute soprattutto di alcuni metodi ed esempi dal repertorio accademico, lo si fa con un occhio rivolto alla loro possibile applicazione in altri ambiti.
1. La preparazione del negoziato: a che altezza tendiamo la rete? Stai giocando a tennis con un’avversaria ostica. Ti piacerebbe avere un telecomando mentale che abbassa la rete quando tiri tu, e l’alza fino a due metri quando è lei ad avere la palla. Ma naturalmente non si può , o perlomeno, non senza il suo accordo: non sarebbe più una partita di tennis. Daniel Dennett ha usato questa metafora per criticare il doppio standard spesso in vigore negli attacchi alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale: i critici cercano giustamente il pelo nell’uovo invocando il più grande rigore metodologico quando esaminano i dati a supporto delle teorie evoluzionistiche, ma non sono altrettanto severi con se stessi quando propongono le loro alternative. Il che significa che non c’è un vero e proprio confronto tra teorie, come non c’è una vera e propria partita di tennis se usi il telecomando mentale. Una delle prime mosse utili in uno scambio intellettuale è in realtà un meta-negoziato, un accordo sul modo in
cui si cerca di trovare un accordo. Per esempio, posso tentare di convincerti usando dei dati quantitativi. Se non sei d’accordo su questo metodo e preferisci che discutiamo di dati qualitativi, meglio dirlo subito; cosě posso cercare anch’io nella buona direzione. Se il mio metodo consiste invece nel citare fonti autorevoli, anche tu devi avere il diritto di andare in cerca delle tue autorità di riferimento. Nella preparazione del negoziato, di qualsiasi negoziato, dobbiamo fare dei gesti che mostrano a chi ci sta di fronte come pensiamo di comportarci per facilitare il raggiungimento di un risultato. Tanto importante è questa esigenza di facilitazione che il negoziato non concettuale a volte richiede addirittura un uso sottile dell’ipocrisia. Gli annali della diplomazia abbondano di dichiarazioni ufficiali soppesate con estrema cura; capita di ottenere un risultato importante a nostro vantaggio, ma nell’annunciarlo bisogna scongiurare che la controparte perda la faccia, e non mancano le frasi tornite che sminuiscono la vittoria e abbelliscono la sconfitta. La sincerità è invece una caratteristica distintiva del negoziato filosofico. L’accordo preliminare sulla sincerità viene dato per scontato: quello che mi dici è detto in buona fede, e devo fare tutto quello che è in mio potere per trovare un senso alle tue parole. Il principio di carità regola questa fase del negoziato. Fino a prova contraria, ti considererò sincero.
2. Non è solo questione di parole; ma a volte le parole contano molto Si discute; ma il negoziato concettuale non è soltanto una questione di parole. Non ci si sta soltanto mettendo d’accordo sull’uso della parola ‘arte’ o ‘famiglia’ o sulle espressioni ‘rotazione sul proprio asse’ o ‘identità e sopravvivenza al passare del tempo’: si stanno negoziando i concetti di arte o famiglia o di rotazione per permettere a chi li deve utilizzare (un doganiere, un giudice, un astronomo, un filosofo) di decidere in modo ponderato. Se fosse solo una questione di parole, i negoziati terminerebbero assai velocemente: Quello che tu chiami famiglia per me è semplicemente un’unione di fatto; tu continua a chiamarla famiglia e io continuerò a chiamarla unione di fatto; per capirci, ci capiamo. D’accordo, tu chiamavi queste cose pianeti e io le chiamavo stelle. Per questo non ci capivamo. D’ora in poi le chiamerò anch’io pianeti. Non nego che transazioni di questo tipo avvengano, ma sono in realtà abbastanza indolori.
Le dispute verbali possono mascherare differenze di sostanza; non rendersene conto può portare rapidamente la discussione fuori tema. Il nostro interlocutore può cambiare il soggetto. Guarda che per me la doppia negazione non equivale affatto a un’affermazione. Ma allora quando parliamo di negazione, e di logica, non parliamo affatto della stessa cosa. Poi magari le parole contano anche troppo; uno dovrebbe andarsi a leggere la discussione che fa da sfondo alla voce ‘Macedonia’ su Wikipedia, per esempio, per vedere che cosa accade quando ogni parola viene accuratamente soppesata, editata, rimessa in questione, e quando una persona o un gruppo sociale rivendicano un qualche tipo di potere o di giurisdizione su una parola. Si deve allora prestare attenzione alle parole quando diventano troppo importanti. Nate per fini pragmatici, per fissare le idee, stabilizzare la comunicazione, le parole finiscono col dare l’impressione che dietro ad esse vi siano sempre delle cose; o che non si possa evitare un certo modo di fare. Qui è sempre necessario vigilare e sovente si deve resistere con tutte le forze; si tratta dei passi preliminari in un negoziato, ma sono passi da cui può dipendere tutto il negoziato. Per esempio, per descrivere la posizione del mio interlocutore posso utilizzare un termine che in maniera nemmeno troppo velata tradisce un fondamentale disinteresse o addirittura disprezzo per quello che pensa. Posso bollare il mio interlocutore. Chiamare ‘atea’ o ‘miscredente’ una persona che non ha credenze religiose significa già incasellarla, costringerla a difendersi. Non per questo devo automaticamente accettare il termine che il mio interlocutore propone. Autodefinendosi bright (luminosa, brillante: è un termine adottato da alcuni intellettuali americani), la persona che non ha credenze religiose si auto-attribuisce una statura che può rendere scomodo il dialogo. Negoziare sulle descrizioni, dunque. Altro esempio: un gruppo intellettuale può cercare di consolidare la propria visione chiamandola la versione standard; cosě hanno fatto alcuni giuristi e intellettuali americani di fronte al Secondo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti che regola il porto d’armi , suggerendo che l’interpretazione a favore della libertà di circolare armati sia considerata quella scontata. Altro esempio ancora. Un gruppo sociale può utilizzare una descrizione degradante di un altro gruppo, rappresentandolo come al di sotto dell’umanità e aprendo la strada a ogni forma di sopruso e sfruttamento. Le parole dividono. Titola un quotidiano nazionale: Tragico incidente a Pistoia. La vittima aveva 49 anni. Travolti anche un albanese di
22 anni e un uomo di 58. Con l’uso del contrasto, quasi impercettibilmente, si introduce una distinzione tra essere albanese e essere uomo. In casi come questo bisogna resistere (in primo luogo prestando attenzione, e poi magari scrivendo una lettera ai giornali). Resistere paga. Per tornare alle discussioni dell’Assemblea Costituente, tredici tra le Costituenti presentano il 22 maggio 1947 un emendamento all’articolo 48 che in bozza leggeva Tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizioni d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite da legge. Le Costituenti chiedono (e ottengono) che venga soppressa la frase conformemente alle loro attitudini, che introduce surrettiziamente una discriminazione. Maria Federici perora con vigore la causa: Poiché le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli. […] Sono molte le carriere oggi interdette alle donne. Per esempio, molte funzioni ispettive, molti concorsi sono ad esse preclusi, da quelli delle scuole superiori (liceo) a taluni delle Belle Arti; e non se ne vede la ragione. Abbiamo visto, del resto, che l’ammissibilità ai pubblici impieghi è conseguenza dell’uguaglianza giuridica riconosciuta a tutti i cittadini nei confronti dello Stato. Se quelli che precedono sono esempi che si situano al margine del negoziato e lo precedono, lo rendono possibile, assai più corpose sono le strategie di attacco che chiamano in causa il potere evocativo delle parole. Wittgenstein ha messo in guardia dal rischio di farsi fuorviare da un sostantivo e dare per scontato che nomini un oggetto, una cosa; il linguaggio tenderebbe a reificare. Molte le pagine di Wittgenstein dedicate al modo in cui questo sofisma condiziona la comprensione della vita mentale; l’eliminazione della mente stessa in quanto entità separata è il principale obiettivo di un processo che ha come imputato la reificazione. Se vogliamo un esempio meno accademico e più vicino a noi nel tempo, si pensi al modo in cui si parla di realtà virtuale, dando per scontato che si stia parlando di un secondo mondo, o un mondo parallelo, cui avremmo accesso tramite gli schermi dei nostri computer o gli occhiali di un simulatore. La prudenza ci inviterebbe a parlare piuttosto di una rappresentazione ingannevole che sconfina nell’illusione, e non di una realtà; la reificazione troppo facile viene di nuovo messa sotto accusa. E tuttavia, anche se vanno prese con le pinze, le parole sono la forma pubblica dei nostri pensieri, e cavarsela con le parole è senz’altro mostrare
di avere delle risorse per pensare. Tra le tecniche comunemente impiegate nei negoziati concettuali c’è anche l’andare a cercare in territori finitimi, esplorare la word cloud, la nuvola semantica che sta attorno a una parola che ci sembra importante. Ma si tratta di euristiche iniziali, che ci permettono al massimo di vedere dove è situato il cuore delle cose, senza veramente avvicinarci ad esso. I filosofi tipicamente pensano di poter scendere più in profondità, di poter aggredire direttamente i concetti.
3. L’analisi concettuale Tradizionalmente, affrontare direttamente i concetti al di là delle parole è lo scopo dichiarato dell’analisi concettuale. L’analisi concettuale si propone di mettere in evidenza gli elementi portanti della nostra rappresentazione ordinaria del mondo. Il linguaggio fa da filo conduttore; l’analisi tenta di mettere in evidenza il modo in cui un termine viene usato in seno a una comunità linguistica, e per far ciò insegue i legami tra i differenti concetti usati in maniera implicita o esplicita da chi parla quando usa il termine. Per esempio: chi procedesse a un’analisi della conoscenza cercherebbe di mettere in relazione il modo in cui vengono usati il termine ‘conoscenza’ e altri termini, come ‘credenza, ‘verità’, ‘giustificazione’, e potrebbe dire che la conoscenza è un tipo particolare di credenza, la credenza che è vera e giustificata. Si è parlato di analisi concettuale per indicare attività filosofiche abbastanza diverse, come la filosofia del linguaggio ordinario di un Austin e la metafisica descrittiva di uno Strawson. Di solito si rimprovera alla filosofia del linguaggio ordinario di non riuscire a vedere la distinzione fra i tratti essenziali e i tratti accidentali di un concetto. Questo tipo di filosofia si limiterebbe a collezionare le idiosincrasie dell’uso di un termine in seno a una comunità linguistica senza esplorare le intuizioni di chi parla riguardo all’applicazione del termine in situazioni meno ordinarie. Quello che diciamo normalmente della conoscenza potrebbe semplicemente essere poco significativo. È anche per questo che i filosofi fanno molta attenzione agli esperimenti mentali, di cui parlerò tra poco, al fine di evadere dalle idiosincrasie degli usi linguistici ordinari; o non temono l’invenzione lessicale, il neologismo e la formalizzazione, che allontanano anch’essi dal linguaggio quotidiano.
Che cos’è allora una analisi concettuale, visto che comunque dobbiamo esprimerla a parole? Se fare analisi concettuale significa mettere in relazione l’uso di un termine, da una parte, e dall’altra le credenze e intuizioni delle persone che lo utilizzano, comprendere l’analisi concettuale significa comprendere i suoi limiti, distinguendola dalla caratterizzazione teorica che permette di circoscrivere l’estensione di un termine, ovvero l’insieme degli oggetti cui si può applicare il termine isolando, se possibile, le proprietà essenziali dei membri di questo insieme. L’analisi concettuale di ‘acqua’ va alla ricerca delle connessioni nella mente di chi usa il termine ‘acqua’ con concetti come liquido, minerale, potabile, e via dicendo. La caratterizzazione teorica di ‘acqua’ dice che l’acqua è tutto ciò che è H20. L’analisi concettuale sta alla caratterizzazione teorica un po’ come il disegno sta alla fotografia. Se vogliamo capire che cosa ha in mente una persona che pensa che ci siano gli unicorni è inutile chiederle di mostrarci una foto, dato che non può farla. Un disegno o un dipinto ci aiutano, anche se non riflettono la realtà, ma solo quello che ne pensa la persona che stiamo interrogando. Lo studio del disegno ci dice qualcosa sulla nostra interlocutrice più che sugli unicorni: ovvero ci dice qual è l’aspetto che lei ritiene di poter attribuire a un unicorno. Un’altra differenza fra l’analisi concettuale e la caratterizzazione teorica riguarda i limiti, sovente avvertiti come troppo angusti, di applicazione dei concetti ordinari. Certi esperimenti mentali possono palesare i limiti delle intuizioni di chi parla relativamente all’applicazione di un termine. Questi limiti possono rivelarsi sia perché le intuizioni divergono dall’una all’altra persona, sia perché esse ci mancano completamente. In una simile situazione, una definizione teorica può risultare da una stipulazione sull’estensione esatta del termine. Per esempio, questo genere di stipulazione permette al fisico di allargare il concetto di suono per includervi le vibrazioni meccaniche inudibili, come gli ultrasuoni. Gli ultrasuoni sono davvero suoni? Come rispondereste a questa domanda? Ebbene, non ha senso cercare una risposta perché è stato stipulato che gli ultrasuoni sono un tipo di suono: prendere o lasciare. I vantaggi e gli svantaggi di questo allargamento del concetto di suono sono da soppesare, come in tutti gli interventi di natura concettuale. Ci è utile lavorare con un concetto allargato di suono perché in questo modo fenomeni apparentemente diversi vengono unificati; anche se non ci rassegnamo facilmente all’idea che un suono possa essere qualcosa in linea
di principio non udibile (riparleremo di questo esempio nel capitolo 11). Un’ultima osservazione, di opportunità. L’analisi concettuale è indispensabile nei casi in cui non ci sono alternative. Per esempio, in filosofia morale, qualcuno potrebbe trovare interessante fare degli esperimenti in cui si infliggono punizioni crudeli a dei bambini e vedere come reagiscono i genitori, ma ovviamente il buon senso e i codici etici lo impediscono. Questo lascia ampio margine all’analisi concettuale, che ha il vantaggio di essere puramente concettuale.
4. Le definizioni operative Gli scienziati non hanno sempre tempo per l’analisi concettuale, anche se vedremo come la scienza sia spesso in cerca di chiarificazione concettuale; diffidano di uno strumento che parrebbe utile più a descrivere il modo in cui rappresentiamo la realtà che la realtà stessa. La pratica scientifica ha adottato uno strumento autonomo, che si è molto sviluppato nel XX secolo, e ha fatto una carriera spettacolare con Einstein. Si tratta dell’operazionalizzazione, una nozione resa sistematica dal fisico Percy Williams Bridgman, autore di molti testi di filosofia della scienza, premio Nobel per la fisica nel 1946. Operazionalizzare una nozione o una variabile significa considerarla definita in base alle operazioni che si compiono per misurarla. Per esempio, nelle parole di Bridgman, il concetto di lunghezza viene fissato quando sono fissate le operazioni con cui si misura la lunghezza. Questo ha come conseguenza che vi sono diversi concetti di lunghezza, dato che non si usano le stesse procedure per misurare la dimensione del nucleo di un atomo, la distanza tra Parigi e New York e la distanza tra la Terra e Betelgeuse. (Il lettore può chiedersi se non vi sia un problema ad avere più concetti di lunghezza. Lascio questo come piccolo esercizio di analisi negoziale: quali conseguenze accetteremmo? Quali ci parrebbero indigeste?) Einstein, per l’appunto, si inserě in una discussione concettuale sulla natura dello spazio e del tempo. La fisica pre-einsteniana si basa sulla possibilità di asserire, per ogni due eventi qualsiasi nell’universo, se sono o meno simultanei. Abbiamo probabilmente tutti quanti una nozione intuitiva di simultaneità stando alla quale l’idea che qualcosa stia succedendo in questo stesso momento in una qualche parte remota dell’universo ci sembra perfettamente plausibile: come stanno capitando
adesso delle cose nella stanza accanto, stanno capitando adesso delle cose sul Sole (per esempio un elettrone si stacca da un atomo di idrogeno) e stanno capitando pure delle cose adesso su una stella assai lontana. La nozione di simultaneità è talmente fondamentale che Leibniz aveva pensato addirittura di definire lo spazio come l’ordine di tutte le situazioni simultanee. Einstein si è posto la domanda cruciale: come facciamo ad accertarci della simultaneità, a verificare che due eventi sono veramente simultanei? In assenza di una definizione operativa, che ci permetta di dire se due eventi o situazioni sono o non sono simultanei, il concetto di simultaneità non solo è vago, è inutilizzabile. Ne discende che il concetto di tempo che presuppone la simultaneità è inutilizzabile, e che le teorie fisiche che si basano su questo concetto sono insufficienti. Messa in termini molto diretti, operazionalizzare il tempo significa dire che il tempo è ciò che un orologio può misurare. E operazionalizzare la simultaneità significa cercare di capire come far parlare tra loro due orologi in luoghi diversi. Non è questo il luogo per raccontare la storia ma da questa riflessione è nata la teoria della Relatività Ristretta. Usata dalla scienza, l’operazionalizzazione non è però filosoficamente neutra. La decisione su quale definizione operativa preferire richiede comunque un lavoro di scavo concettuale, dato che molte sono le opzioni possibili. Vedremo alcuni esempi nel capitolo 9.
5. A tracciare distinzioni Un tipico rimprovero che il filosofo si sente rivolgere nel corso di una discussione è di aver tralasciato una distinzione. Il che significa aver utilizzato un termine o un concetto in modo ambiguo o al posto di un altro, sia nel caso in cui il termine include quello che si sarebbe dovuto utilizzare, sia nel caso in cui il termine è parente stretto di quello che si sarebbe dovuto utilizzare. Per fare un esempio moderatamente tecnico e abbastanza controverso, nelle discussioni sulla percezione si corre spesso il rischio di confondere diversi concetti di visione , la visione cosiddetta epistemica, da un lato, che dipende da quello che sappiamo, e la visione non epistemica, che ci mette in contatto con un oggetto nella scena davanti a noi senza fornire una descrizione di questo oggetto. Per vedere in modo conoscitivo o epistemico devo mettere in campo alcuni concetti; ma nessun concetto in particolare deve essere messo in campo quando si vede
in modo non conoscitivo. Uno può aver visto il Presidente della Repubblica senza aver visto che si trattava del Presidente della Repubblica. Davanti a Lucia c’era un signore dall’aria bonaria, Lucia gli ha teso la manina e gli ha sorriso; presumibilmente lo ha visto. Ora, il signore in questione era il Presidente della Repubblica. Quindi Lucia ha certamente visto il Presidente della Repubblica (e difatti l’episodio viene ricordato da zii e nonni a ogni piè sospinto). Il fatto è che Lucia ha un anno e mezzo. E quindi non può aver visto che quello che era davanti a lei era il Presidente della Repubblica, dato che per via della sua tenera età non ha nessuno dei concetti appropriati, non può sapere che cosa sia un presidente o una repubblica. Tralasciare delle distinzioni, per quanto piccole, può condurre a grandi errori; o quantomeno a notevoli divergenze filosofiche. Se si descrive tutto il vedere come un vedere epistemico, conoscitivo, si tratteggia una concezione assai impegnativa del rapporto tra mente e mondo; stando alla quale si devono considerare i bambini piccoli e gli animali come incapaci di vedere, o sostenere a priori che persone appartenenti a culture diverse vedono il mondo in modi molti diversi. Poi magari una di queste tesi è vera, ma è molto probabile che la sua verità sia fattuale, e non dipenda semplicemente dal non aver fatto una distinzione concettuale. Altri esempi di distinzioni considerate come acquisite dalla letteratura filosofica: la distinzione tra lettura de re e lettura de dicto di una frase (Anni desidera un cucciolo: nella lettura de re, il pensiero di Anni riguarda un cane preciso, Medoro, e in quella de dicto il pensiero di Anni esprime desiderio generico); e quella tra uso e menzione di una parola (che permette di vedere una differenza tra la parola chiave e la parola ‘chiave’).
6. Esempi e controesempi Entriamo nel vivo della materia quando realizziamo che il metodo filosofico si nutre di esempi e controesempi. I filosofi di professione passano una buona parte del loro tempo a cercare controesempi alle tesi dei loro avversari, delle quali pensano che si ammantino di una generalità immeritata. I controesempi sono moneta corrente in poche altre discipline, con l’eccezione notevole della matematica, dove sono utilizzati per lo stesso scopo: produrre un controesempio significa mostrare che una data definizione non ha la generalità auspicata, o che una determinata proprietà
matematica non segue da un’altra. Il caso più noto in filosofia è quello del controesempio di Edmund Gettier alle definizioni di conoscenza (che presuppone che ci muoviamo intorno a una concezione definitoria della pratica filosofica, al limite per denunciarla come inutilizzabile). La storia è questa; cominciamo dalla parte più generale. Marco vuole sapere che ore sono. La cosa più semplice è guardare l’orologio. L’orologio segna mezzogiorno. E in effetti è mezzogiorno. Guardando l’orologio, Marco si fa l’idea che sia mezzogiorno. Date le condizioni, diremmo che sa che è mezzogiorno. Difatti: se non fosse mezzogiorno, ma l’orologio segnasse mezzogiorno, non potremmo dire che Marco sa che è mezzogiorno: non basta quello che l’orologio dice. E se fosse mezzogiorno, ma l’orologio non segnasse mezzogiorno, non potremmo dire che Marco sa che è mezzogiorno: non basta che sia mezzogiorno. A partire da queste riflessioni ci pare di poter dire in che cosa la conoscenza, il sapere, si differenzi dalla semplice opinione; è un’opinione vera (è effettivamente mezzogiorno e Marco pensa che lo sia) e giustificata (Marco ha guardato l’orologio, che indicava effettivamente mezzogiorno). Però non è cosě. C’è una batteria di controesempi alla caratterizzazione della conoscenza come opinione vera giustificata. Nel caso che abbiamo discusso, la storia prende la forma seguente. Marco ha effettivamente guardato l’orologio a mezzogiorno, ed era mezzogiorno, ma l’orologio era fermo. Marco ha guardato per caso l’orologio proprio a mezzogiorno. Ha avuto fortuna! Possiamo dire che sa che è mezzogiorno? Ha comunque una credenza vera e giustificata. Se avesse guardato l’orologio in un qualsiasi altro momento del giorno, o in un qualsiasi momento che ci vada di considerare sufficientemente distante da mezzogiorno, si sarebbe fatto un’opinione falsa. Se pensiamo invece che Marco non sa, allora che cos’è la conoscenza? Che cosa mancava alla definizione di conoscenza? Le strade possibili sono tante; come nel caso della Nave di Teseo, che illustrava un problema di metafisica, anche nel caso dei problemi della teoria della conoscenza le opzioni andranno valutate con la bilancia dei costi e dei benefici. Tanto per indicare un’opzione e vederne rapidamente le ramificazioni: la conoscenza potrebbe essere opinione vera e giustificata attraverso un processo affidabile; l’orologio del controesempio non era affidabile , per questo guardarlo non generò conoscenza. A questo punto
dobbiamo capire che cosa è l’affidabilità. Un modo di farlo è di parlare in termini di possibilità non realizzate: se Marco avesse guardato l’orologio alle 11, si sarebbe formato un’opinione falsa (l’orologio rotto segna sempre mezzogiorno, ricordiamolo); e se lo avesse guardato alle 18, si sarebbe formato un’opinione falsa; e cosě via per quasi tutti i momenti in cui Marco avrebbe potuto consultare l’orologio. Ma che cosa significa parlare di possibilità non realizzate? La discussione si sposta rapidamente sul piano della teoria del significato e della metafisica. Risolvere il problema della conoscenza significa impegnarsi su certe opzioni metafisiche e semantiche. Qui però stiamo parlando di metodo, e in particolare dei controesempi. Ma dove cercare i controesempi? Raramente i filosofi si accontentano di aneddoti o situazioni della vita reale. Cercano piuttosto di immaginare delle situazioni in cui potrebbe avvenire questo o quello. Ovvero, cercano di costruire un esperimento mentale. Agli esperimenti mentali è dedicato il prossimo capitolo, in cui vedremo l’immaginazione filosofica all’opera.
7. Come si costruisce un esperimento mentale?
Gli esperimenti mentali servono a dare forma alle nostre intuizioni con il racconto di una situazione immaginaria. La pratica degli esperimenti mentali non è limitata alla filosofia e ha una rispettabilissima storia in fisica. Galileo, Newton e Einstein, per citare tre casi, hanno annunciato le loro concezioni dello spazio e del tempo ricorrendo a immaginifici esperimenti mentali. Qui vediamo come si costruisce un esperimento mentale filosofico. Il suggerimento fondamentale è di ricorrere a delle duplicazioni o simmetrie quasi perfette rispetto alle situazioni ordinarie, dove l’elemento di differenza esercita una certa pressione concettuale sul concetto che si sta studiando, e permette di saggiarne la tenuta. Le duplicazioni negli esperimenti mentali sono pletora: invito il lettore che si accosta alla filosofia ma anche il lettore esperto a esplorare la letteratura in cerca di esempi. Colpiranno i nomi evocativi: il teletrasporto, la Terra gemella, gli zombies, lo spettro dei colori invertito, l’uomo della palude, tra molti altri. Guardiamo da vicino un esperimento mentale ambientato in uno scenario fantascientifico alla Star Trek. Giovanni entra nella macchina del teletrasporto e in una versione della storia che sembra innocente si ritrova in un luogo diverso. La macchina opera cosě: agisce facendo una scansione completa di Giovanni molecola per molecola; poi lo annichilisce, trasmette a distanza le informazioni della scansione, e ricrea sulla loro base una copia identica molecola per molecola a Giovanni. La persona che ne emerge assomiglia in tutto e per tutto a Giovanni, e in particolare visto che tutte le connessioni cerebrali sono state ripristinate come nell’originale, a chiederle informazioni sul suo passato risponderebbe con descrizioni dettagliate della vita di Giovanni e direbbe di ricordare di essere entrata in una macchina per il teletrasporto pochi istanti prima. Domanda: si tratta di Giovanni o no? Due opzioni, che cosa votate? A: La persona che si ritrova all’altro capo della macchina del teletrasporto è proprio lui, Giovanni B: La persona che si ritrova all’altro capo della macchina del teletrasporto assomiglia in tutto e per tutto a Giovanni, ma è qualcun altro. Giovanni è morto.
Che cosa avete risposto? In mancanza di ulteriori elementi, possiamo avere l’impressione che proprio di Giovanni si tratti. Si fa strada un’intuizione: la somiglianza qualitativa perfetta è più che sufficiente a farci votare a favore dell’identità. Entrare nella macchina del teletrasporto può perfino apparirci conveniente; fosse cosě facile viaggiare, compreremmo subito il biglietto! Ma cambiamo di un poco i parametri della situazione, e immaginiamo uno scenario appena differente. (Bisogna porre attenzione a questa operazione, il cambiamento di un piccolo parametro, che è cruciale per comprendere come funzionano gli esperimenti mentali.) La macchina si inceppa, ricrea in effetti la copia perfetta laggiù, ma si dimentica di distruggere qui. A questo punto nel nostro scenario ci sono due individui: Giovanni, che non si è spostato da qui, e una cosa all’altro capo del filo che come nella storia precedente assomiglia in tutto e per tutto a Giovanni, crede e dice di essere Giovanni, si comporta come Giovanni. Probabilmente le nostre intuizioni ancora fluide nella prima versione della storia si solidificano, e votiamo contro l’identità: neghiamo che questa seconda persona sia Giovanni. Probabilmente si solidificano ancora di più se ci mettiamo nei panni di Giovanni e immaginiamo in prima persona la situazione; per esempio tirando un respiro di sollievo all’idea che la macchina si sia inceppata e non ci abbia distrutto (siamo rimasti qui!). Ne concludiamo , ed è una conclusione metafisica, sul mondo reale , che il teletrasporto non può esistere per come lo descrivevamo di primo acchito; la macchina distrugge chi vi entra e ricrea all’altro capo del filo una persona simile quanto si vuole a Giovanni ma pur sempre diversa; è un’altra persona; se la macchina lo annichilisce, Giovanni muore per sempre. L’idea di identità personale oscilla tra il polo della somiglianza (e al limite un’identità qualitativa), e quello della continuità spaziale, temporale e causale; ma messa sotto pressione tende a stabilizzarsi sul versante della continuità piuttosto che su quello della somiglianza. Dobbiamo toccare con mano la sopravvivenza di Giovanni nell’incidente della macchina rotta per renderci conto della sua morte quando la macchina funziona. Questo che sembrerebbe un problema filosofico astruso e legato a doppio filo alla fiction che lo genera ha insospettate e immense ramificazioni sociali. Da Star Trek torniamo alla vita, alla decisione, per esempio quando vogliamo misurarci con il problema della clonazione. Molte discussioni a uso dei media sulla clonazione giocano in modo assai
ambiguo sull’intuizione della somiglianza. Arriverà il momento in cui potremo tutti clonarci, e quindi vivere più a lungo, potenzialmente in eterno. L’intuizione della somiglianza è talmente radicata che è difficile sconfiggerla. Non è nemmeno utile cercare di farlo mostrando due gemelli omozigoti (cloni naturali l’uno dell’altro) e chiedendo di riconoscerli come due individui; infatti il senso comune tratta i gemelli identici in modo del tutto idiosincratico. I genitori a volte vestono i gemelli omozigoti nello stesso modo fin nel più piccolo dettaglio, a rinforzare il pregiudizio culturale con segni visibili e ostentati che solleticano la nostra prevenzione a favore della somiglianza. Ma se l’esperimento mentale ci convince, non abbiamo ragione di riporre assurde speranze o altrettanto assurdi timori nella clonazione; la clonazione crea un individuo che ti somiglia molto, ma non ti trasferisce nel corpo di un altro individuo; non ti regala un suppelemento di vita o di identità. Ci sorprende forse dover accettare che Giovanni muore, contrariamente alla nostra prima impressione? Gli esperimenti mentali possono rivelarci aspetti sorprendenti delle nostre intuizioni? Allora non abbiamo un controllo diretto e immediato sulle intuizioni. Un esperimento mentale come quello del teletrasporto può convincermi del fatto che i principi causali e di continuità spaziotemporale dominano quelli di somiglianza nel decidere della sopravvivenza o meno di un’entità di un certo tipo, anche se all’inizio ho delle intuizioni del tutto diverse. Tipicamente si trova accettabile il teletrasporto, ma si cambia idea quando viene presentato l’esperimento mentale della macchina teletrasportatrice inceppata.
1. Ad allargare gli orizzonti concettuali Alla fine di un esperimento mentale emettiamo dei giudizi: Giovanni muore, il teletrasporto non è possibile. Il giudizio sul risultato di un esperimento mentale non ha però la meccanicità dell’applicazione di un algoritmo; non è come trovare il risultato di una moltiplicazione a due cifre. La valutazione si impernia sul modo in cui le nostre intuizioni riguardo alla situazione narrata, intuizioni che l’esperimento ha manipolato, sono considerate accettabili o meno sulla base di criteri non facili da mettere nero su bianco, come il fatto che sono coerenti con altre intuizioni alle quali non vorremmo rinunciare, o che ci appaiono
perfettamente convincenti (anche se non abbiamo idea alcuna del perché ci appaiano cosě convincenti). Gli esperimenti mentali ci possono dunque sorprendere, stabilizzando le nostre intuizioni; ma hanno anche un’altra funzione: allargano lo spazio concettuale, ovvero ci mostrano che potremmo avere più risorse concettuali di quante pensassimo. Il che può avere la sua utilità. Diamo uno sguardo a un altro esempio classico. Sembrerebbe che la nozione di tempo e quella di cambiamento siano strettamente associate. Se nulla cambiasse, se tutto restasse immoto, potremmo ancora dire che passa il tempo? Certo, ci vien fatto di dire che non potremmo accorgercene, ma qui stiamo chiedendo qualcosa di ancora più profondo, che riguarda non la nostra conoscenza delle cose ma la loro stessa natura. In un universo in cui nulla cambiasse mai (sempre che in tale universo si possa ancora usare la parola ‘mai’!) ci sarebbe il tempo? Un ingegnoso esperimento mentale di Sydney Shoemaker narra di una situazione immaginaria in cui esistono solo tre mondi, ciascuno dei quali può guardare quanto succede sugli altri due. I mondi vengono sottoposti a una gelata metafisica, un po’ come avviene nella favola della Bella Addormentata. Le cose vanno cosě. Il primo mondo ogni due anni si ferma completamente; guardandolo con un telescopio, gli abitanti degli altri due mondi vedono che per un anno intero nulla avviene, e che alla fine della gelata tutto riprende come se niente fosse là dove si era interrotto. Il secondo pianeta subisce una gelata di un anno ogni tre anni, e il terzo pianeta una gelata di un anno ogni cinque. Quando gli abitanti di un mondo guardano quello che succede a un altro mondo durante una gelata sono in una condizione in cui il tempo per loro (che osservano) sta passando; è ovvio a tutti che la gelata su un pianeta diverso dal proprio non influenzi il passaggio del tempo sul proprio pianeta. Quindi: tutti fermi un giro a turno, e durante la pausa il tempo va avanti come prima. Ma che cosa succede ogni due per tre per cinque = trent’anni? Quando i periodi delle gelate si incontrano, tutti stanno fermi un giro. Ora, se pensavamo che stare fermi un giro a turno non fermasse il tempo, abbiamo una ragione per ritenere che nemmeno stare tutti fermi un giro lo fermerà. Quindi, ed ecco il giudizio che chiude l’esperimento mentale, abbiamo ragione di pensare che il tempo senza cambiamento sia quantomeno una possibilità. L’esperimento mentale vuol contribuire alla metafisica del tempo. Si può discutere dei dettagli (se su un pianeta c’è una gelata, come fanno i
fotoni a raggiungere gli abitanti degli altri pianeti?). Ma anche se non siamo completamente d’accordo con chi pensa che possa veramente esistere il tempo senza cambiamento, l’esperimento raggiunge senz’altro un altro traguardo: scavando nei legami tra i concetti vediamo che abbiamo le risorse per concepire il tempo senza cambiamento. Forse non lo avremmo detto, di primo acchito, e anche dopo una prima riflessione ci sarebbe potuto sembrare che, no, il tempo senza cambiamento non può esistere. E invece questa possibilità è quantomeno disponibile sotto le spoglie di una cosa che possiamo concepire. Perché un esperimento mentale ci serve nel negoziato concettuale? È parte integrante dell’analisi concettuale, come abbiamo visto nel capitolo precedente; ci permette di saggiare la consistenza della nostra posizione, e creando una narrazione ci fa uscire dai limiti visibili della nostra posizione, che potrebbe rischiare il destino di tutte le posizioni di principio, di solito non molto amiche del negoziato. Dal punto di vista di una teoria matura del negoziato, il vantaggio è evidente. Se hai più opzioni a tua disposizione è più facile che trovi un accordo negoziale. In parte perché puoi metterti più facilmente nei panni del tuo interlocutore; in parte perché si offre anche a lui una scelta più grande. Ma qui vorrei esprimere una considerazione di valore. Mi sembra che la varietà di opzioni sia in sé un valore. È meglio abitare in un mondo in cui ci sono opinioni diverse che in un mondo monocolore. È meglio la biodiversità della monocoltura. Se poi si devono offrire degli argomenti a favore della diversità si insiterà probabilmente su qualche aspetto strumentale. Come amano dire gli immunologi, con una chiave si apre una serratura e basta, ma sono poche le serrature che resistono a chi ha in tasca tre milioni di chiavi. Accettare e ricercare la diversità non ci esime dal dover cercare un consenso in molti casi; e non ci esime dal negoziare. Come non ci esime dal renderci sempre disponibili a cambiare idea.
2. Gli esperimenti mentali hanno una lunga storia Non si deve pensare che l’uso degli esperimenti mentali sia appannaggio della sola filosofia contemporanea. Senza volerne ripercorrere la lunga storia, voglio presentare qualche esempio classico, che ci aiuterà a capire la struttura degli esperimenti mentali. Nietzsche ci chiede di immaginare
che senso daremmo alle nostre azioni , ad ogni singola azione , se scoprissimo che ogni singolo evento dell’universo ritornerà ad accadere esattamente come è accaduto nel tempo cui noi apparteniamo: Che faresti se un giorno o una notte un demone si introducesse di soppiatto nella tua solitudine più solitaria e ti dicesse: Questa vita, quale la stai vivendo adesso e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte; e in essa non ci sarà niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e ogni sospiro e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà per te ritornare, e tutto nello stesso ordine e successione - e cosě pure questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e cosě anche questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta - e tu con essa, granello di polvere! - Non ti getteresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che cosě avrebbe parlato? Oppure hai vissuto una volta un attimo prodigioso, per cui gli diresti: Tu sei un dio e mai ho sentito una cosa più divina!? Se questo pensiero acquistasse potere su di te, avrebbe su di te, quale sei, l’effetto di trasformarti e forse di schiacciarti; la domanda di fronte a tutto e a ogni cosa: Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte? graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! O quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare nient’altro che quest’ultima eterna conferma e suggello? L’immagine dell’Eterno Ritorno è straordinaria anche se richiede un momento di riflessione. Per esempio, se tutto ritorna esattamente come è stato, ritorna anche una condizione nella quale non sappiamo che ciò che avviene è una reiterazione di quanto è già avvenuto. Dato che non ci risultano memorie di un passaggio in una vita precedente, continueranno a non risultare in ogni passaggio futuro. Al limite si potrebbe pensare che la possibilità dell’Eterno Ritorno non faccia alcuna differenza; gli eventi si ripetono uguali, ma per me è come se fossero comunque unici. D’altro canto la si può concepire come un invito a dare importanza a ogni singolo evento della propria vita nel momento in cui lo si sta vivendo. L’esperimento mentale di Nietzsche ci aiuta ad apprezzare quanto la contingenza domini in maniera insospettata le nostre decisioni, in particolare la decisione di aderire a un certo profilo morale. Un passo indietro nel tempo. Cartesio racconta la storia di un pezzo di cera e ci invita a compiere un esperimento mentale per capire la differenza tra qualità essenziali (non sensibili, colte dalla ragione) e qualità non essenziali (sensibili, colte dai sensi) degli oggetti materiali.
Nella sua discussione Cartesio prende le mosse da un’osservazione metodologica: cerchiamo di mettere a fuoco un esempio concreto, non di ragionare in generale sui corpi fisici. La narrazione è semplice e vivida: è un esercizio di immaginazione. Consideriamo quelle cose che di solito tutti ritengono di comprendere nel modo più distinto: cioè i corpi, quelli che tocchiamo, quelli che vediamo; certo non i corpi in generale , queste percezioni generali sono infatti di solito alquanto più confuse , ma uno preso singolarmente. Prendiamo, ad esempio, questo pezzo di cera: da pochissimo è stato estratto dai favi, non ha ancora perso del tutto il sapore del miele; conserva una traccia del profumo dei fiori dai quali è stato raccolto; il suo colore, la forma, la grandezza, sono palesi; è duro, è freddo, lo si tocca facilmente, e, se lo colpisci con le dita, emetterà un suono; in esso sono presenti insomma tutte quelle cose che sembrano richiedersi affinché un corpo possa essere conosciuto nel modo più distinto possibile. Ma ecco, mentre parlo, viene avvicinato al fuoco: i resti del sapore se ne vanno, il profumo svanisce, il colore cambia, la forma viene meno, la grandezza aumenta, diventa liquido, caldo, a stento lo si può toccare, e ormai, se lo colpisci, non emetterà più alcun suono. Rimane ancora lo stesso pezzo di cera? Bisogna dire di sě; nessuno lo nega, nessuno la pensa diversamente. Che cosa era presente in esso che veniva conosciuto tanto distintamente? Certo nessuna di quelle cose che coglievo con i sensi; quelle infatti che cadevano sotto il gusto, o sotto l’odorato, o sotto la vista, o sotto il tatto, o sotto l’udito, sono ormai mutate: rimane la cera. Ritroviamo il processo immaginativo nel metodo dei fenomenologi. Edmund Husserl aveva inventato un termine per una procedura filosofica come quella di Cartesio; parlava di ‘variazione eidetica’ o immaginativa. Se andiamo in cerca delle proprietà essenziali di una cosa, immaginiamo di togliere una dopo l’altra le proprietà e vedere quali sottrazioni fanno implodere il concetto. Quel che non si può togliere senza far implodere il concetto è l’ossatura, l’essenza. Husserl ci chiede di immaginare un colore senza nessuna estensione spaziale, un rosso che non è una macchia di rosso né una luce rossa, un rosso senza luogo e senza dimensione. Se non possiamo farlo, come crede Husserl, vuol dire che è nell’essenza del colore di essere esteso. Husserl pensava che questo ci illuminasse sulle cose stesse, ci informasse sulla natura del colore; meno
ambiziosamente, potremmo pensare di aver fatto una scoperta sul concetto di colore. In entrambi i casi non è una scoperta enorme, e Husserl la usa soprattutto come indicazione della legittimità del metodo della variazione eidetica. Leibniz progetta un esperimento mentale per dimostrare che l’idea del moto più veloce di tutti gli altri moti sarebbe contraddittoria, l’esperimento della Ruota Più Veloce. Immaginate che una ruota stia girando sul suo asse e che al suo bordo si misuri una velocità tangenziale che per ipotesi è la massima possibile. Ebbene, ora immaginate una ruota che gira alla stessa velocità angolare ma che ha un raggio più lungo, o immaginate di far sporgere una bandierina dal bordo della ruota. La velocità tangenziale misurata sul profilo di questa seconda ruota o alla punta della bandierina è maggiore della prima; ma non avevamo detto che la prima era una velocità massima? Quindi non ci sarebbe una velocità massima. Come sappiamo, la fisica contemporanea detta un limite alla velocità di un oggetto fisico , che non può essere superiore a quella della luce. Leibniz sbaglia, ma dove? Potremmo accontentarci di una conclusione assai modesta ma comunque interessante: Leibniz indica che i limiti del nostro concetto intuitivo di velocità sono troppo ampi. Questo concetto regola lo svolgimento dell’esperimento mentale della Ruota Più Veloce, che decreta che non vi possa essere una velocità massima. Si tratta, alla luce della fisica contemporanea, di un concetto inadeguato. Nulla ci vieta di pensare che Leibniz descriva un mondo le cui leggi fisiche sono diverse da quelle del nostro: un mondo che invera il concetto di una velocità superiore a qualsiasi limite assegnato. E nulla ci vieta di sospendere il giudizio sulla fisica soggiacente per dire che Leibniz sta dando una caratterizzazione non fisica, ma matematica (puramente cinematica) del movimento di un corpo (astratto) circolare sul suo asse. Di passaggio: se si accetta che esistano delle entità non fisiche, queste possono avere una velocità maggiore di quella della luce. Il cono d’ombra provocato da un oggetto davanti a una pila puntata verso il cielo si sposta, a una distanza sufficiente da noi, a velocità maggiori di quelle della luce. Nessun timore: il cono d’ombra non è un oggetto fisico. (Che cos’è? Uno pseudo-oggetto? Lascio la discussione di questo caso al lettore.) Se l’esperimento mentale della Ruota Più Veloce riguarda la geometria del movimento, si situa in una regione di confine con la matematica. Come abbiamo visto la matematica è prossima alla filosofia in
quanto le è lecito procedere metodologicamente per controesempi. La matematica non è distante dalla filosofia nemmeno nel suo far uso di esperimenti mentali e nel suo descrivere casi e presentare teorie che non sono necessariamente realizzati in natura. Tanto la filosofia che la matematica creano descrizioni in cerca di un mondo che le inveri. Ma qui importa ancora di più il fatto che in matematica si studia il comportamento di una funzione guardando i suoi punti notevoli o casi limite. Alcune funzioni possono venir considerate casi degeneri di altre. Il cerchio è un’ellisse degenere; questo significa che è in realtà un’ellisse , la modifica di un piccolo parametro è tutto quello che li separa concettualmente.
3. A ragionare in modo parametrico Una lezione importante di questa panoramica è che quando eseguiamo un esperimento mentale pensiamo in modo parametrico. Un po’ come quando usiamo il menu a tendina di un programma di scrittura al computer: possiamo variare un parametro alla volta (formato: carattere:corsivo, oppure formato:carattere:grassetto) per vedere l’effetto che fa. Se volete creare il vostro esperimento mentale, abituatevi a scovare piccoli parametri da cambiare. Vediamo l’alterazione di piccoli parametri nell’esperimento mentale di Nietzsche (eventi ciclici/lineari), in quello di Cartesio (cambiamenti di stato della materia) e in quello di Leibniz (la variazione di una semplice misura). Nell’esempio del tempo senza cambiamento si erano create delle gelate metafisiche locali, un mondo alla volta, prima di passare alla gelata globale. Nell’esperimento sul teletrasporto si era modificato solo l’inceppamento della macchina teletrasportatrice. I controesempi alla Gettier sulla definizione della conoscenza procedono per piccoli aggiustamenti della situazione narrata (l’orologio è fermo, l’orologio non è fermo). Il testimone chiamato in causa nel processo di Brâncusi inserisce una variazione di un dettaglio nella definizione di oggetto artistico: se è fatto da un artigiano, e non da un artista, non è più arte. Possiamo adesso provare ad esercitarci mettendo in pratica l’insegnamento delle piccole modifiche parametriche. Riandiamo all’esempio della Nave di Teseo che abbiamo discusso in dettaglio nel capitolo 4. Variamo qualche parametro e vediamo se le nostre intuizioni
sulla nave cambiano. Se non sostituissimo il fasciame a poco a poco, ma tutto in un colpo solo? La nave formale, quella che continua a navigare, forse non ci apparirebbe più un buon candidato per la sopravvivenza della nave iniziale. Se prendo un coltello e gli cambio in un sol colpo lama e manico, ho veramente lo stesso coltello? L’intervento del parametro tempo (cambiamento graduale/cambiamento in un sol colpo) influisce sulle nostre intuizioni sulla sopravvivenza della nave o del coltello. Oppure riflettiamo sulla famiglia cercando di variare la dieta unilaterale di esempi; il trucco consiste ancora nel variare la dieta un ingrediente alla volta. Possiamo comodamente prendere le mosse dal paradigma di famiglia normale che viene esibito a ogni piè sospinto dal discorso tradizionale e dai media. Ci si para dinanzi una coppia eterosessuale con due figli, magari il maggiore maschio e la minore femmina (le choix du roi, come dicono in Francia, ‘la preferenza del re’). Togliamo i figli dalla scena: questa coppia ha consapevolmente desiderato non averne; quest’altra non ne ha potuti avere; quest’altra li ha persi in un incidente. Sono ancora famiglia? Togliamo un partner dalla scena: questo bambino è stato allevato dalla madre single; non si sa chi è il padre; il padre è morto; il padre se ne è andato. Aggiungiamo un partner: questa donna, che non ha dato alla luce dei figli, vive ora con un uomo che ne ha uno da una relazione precedente. Siamo sempre in presenza di una famiglia? Facciamo entrare in scena i figli, ma mettiamo da parte la generazione: questa coppia ha adottato due bambini. Reintroduciamo la generazione, ma assistita: questa donna ha avuto un bambino da un donatore. Modifichiamo il parametro gender: la coppia è omosessuale. Filiazione biologica/non biologica, naturale/artificiale; domani negozieremo con il fantasma della clonazione (io e mio figlio clonato saremmo una famiglia?) ma non c’è bisogno di scomodare il futuro. Le vicende di Filumena Marturano e Mimě hanno mille varianti, e sono tutte parametriche, come da un menù a tendina. La storia e l’antropologia ci soccorrono offrendo altre possibilità e quindi altri parametri. In diverse culture si è investita di diversi valori l’una o l’altra evenienza. In molte culture si registrano forme di poligamia. Nella Roma antica il figlio adottivo aveva una posizione prominente; in determinate circostanze un’adozione permetteva di risolvere le controversie sulla successione. Nel secondo dopoguerra i sopravvissuti all’Olocausto si ritrovarono senza fratelli, zii e cugini; vennero allora create delle finte riunioni di famiglia in
cui si incontravano persone senza legami di parentela; i piccoli avevano un’illusione di una rete familiare, parlavano ai loro coetanei chiamandoli ‘cugino’, agli adulti chiamandoli ‘zii’; nel tempo questi rapporti sono rimasti e ancora oggi i ‘cugini’ partecipano agli incontri delle rispettive, vere famiglie, mantenendo il ruolo che svolgerebbero se fossero cugini veri. Il Sogno di Keplero varia i parametri della situazione che percepiamo. Anzitutto varia il punto di vista; trasportiamoci con l’immaginazione sulla Luna. Sappiamo tutti che la Luna mostra sempre la stessa faccia alla Terra. Che cosa significa questo per un abitante lunare? Che se si trova sulla faccia visibile della Luna, vedrà sempre la Terra. Non solo: per un abitante della faccia visibile della Luna, la Terra non segue un ciclo di albe e tramonti. Fatta salva qualche piccola oscillazione, il lunare la vedrà sempre fissa nel cielo, sempre alla stessa altezza sull’orizzonte. Ma la vedrà ruotare su se stessa. L’esperimento mentale del volo sulla Luna permette di separare il parametro della rivoluzione apparente nel cielo da quello della rotazione sul proprio asse. Dalla Terra la situazione è esattamente speculare: la Luna sembra compiere una rivoluzione diurna intorno alla Terra, e non sembra ruotare su se stessa; i parametri sono invertiti rispetto alla Luna (naturalmente la Luna ruota su se stessa, ma bisogna pensarci un attimo per rendersene conto). Osservo di passaggio che questo esperimento mentale si avvale di una robusta dose di contingenza: capita (per ragioni legate alle forze di marea) che la Luna sia bloccata con una faccia sempre rivolta alla Terra, e la Terra non sia ancora (ma lo sarà) rallentata al punto da restare bloccata sulla Luna. C’è una specie di fortuna epistemologica che determina se si durerà fatica a fare una certa scoperta. Sfortunato fu Tolomeo a non poter viaggiare fin sulla Luna; ma avrebbe potuto lavorare di immaginazione.
8. A comporre le tensioni tra visioni del mondo La riflessione filosofica nasce da una tensione concettuale, abbiamo detto. E abbiamo osservato come le tensioni concettuali siano spesso esogene. I cambiamenti sociali, nella scienza, nell’arte, nella nostra vita, ci mettono di fronte a dei casi cui non avevamo pensato, o per i quali la mente non è attrezzata. Dei mondi sino ad allora soltanto possibili sono diventati attuali! Da ogni lato ci incalzano nuove domande. Che cosa è uno straniero se posso andare in 24 ore agli antipodi e se la mia pensione dipende dal lavoro dei migranti? Che cosa è la natura , un tempo un enorme serbatoio apparentemente inesauribile, un cuscinetto tra le società umane, adesso una risorsa misurata, divisa, contata, e minacciata; che cosa siamo noi in una natura di questo tipo? Che cosa sono veramente gli oggetti materiali di cui ci curiamo quotidianamente e che reggono l’architettura concettuale del mondo con cui interagiamo, se dobbiamo credere alla scienza che ne postula altri, di un genere diverso? E a chi dobbiamo credere? Ci sono però anche domande e tensioni del tutto endogene. Per il puro piacere della conoscenza, o per il desiderio di chiarirci le idee, possiamo essere indotti a riflettere sui nostri concetti, e non di rado li troviamo inadeguati; per esempio perché nascondono una contraddizione. L’esempio della Nave di Teseo di cui abbiamo discusso in precedenza è eloquente. Non è la fisica a dirci se bisogna preferire la nave materiale o la nave formale , e a farci quindi dubitare delle nostre ipotesi pre-riflessive sulla realtà. È una riflessione del tutto interna a renderci dubbiosi. Una parte di noi vota per la nave materiale, ma un’altra parte vota per la nave formale. Le due opzioni sono incompatibili; e dato che non abbiamo ragione di pensare che la difficoltà dipenda dal fatto che stiamo ragionando sulle navi , e infatti potremmo parlare dell’orologio di Teseo, della casa di Teseo, e via dicendo , una contraddizione si annida nel modo di pensare agli oggetti più comuni. Come abbiamo visto, si presentano qui delle ragioni che ci spingono a cercare di correggere la nostra concezione degli oggetti. La nostra metafisica, o la nostra filosofia morale, o la nostra epistemologia, diventano correttive. Naturalmente non ci basta rilevare il problema di una contraddizione tra le nostre ipotesi per farci capire a quale delle ipotesi contraddittorie dobbiamo rinunciare. A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra. Persone diverse possono avere intuizioni diverse sulla stessa materia. Quando Strawson formulò il suo programma di metafisica descrittiva parlò di un solido nucleo centrale
del pensiero umano che non ha storia, o non ne ha una che sia riportata nelle storie del pensiero; vi sono categorie e concetti che, nei loro caratteri più fondamentali, non cambiano affatto. Ovviamente non si tratta delle particolarità del pensiero più raffinato. Si tratta invece dei luoghi comuni del pensiero meno raffinato, che però sono il nucleo indispensabile dell’equipaggiamento concettuale degli esseri umani più sofisticati. La tesi di Strawson è a ben guardare una tesi empirica. Ci si può domandare: il nucleo profondo è davvero immutabile, o nessun tipo di pensiero e intuizione è esente dal rischio della variabilità, storica e geografica? Il fatto che il nucleo sia profondo, ovvero riguardi elementi fondamentali della vita mentale (riguardi concetti come quello di oggetto o di evento, che sono senz’altro meno effimeri di concetti come quello di aerobica o di gavotta) non lo mette di per sé al riparo dalla variabilità. I ricercatori che appartengono al movimento della filosofia sperimentale, che hanno lavorato soprattutto sui temi normativi (conoscenza, giustizia, riferimento), hanno proprio messo in discussione l’esistenza di un nucleo profondo e immutabile del pensiero, rilevando almeno due tipi di variazione nelle intuizioni da un soggetto all’altro: variazioni dovute a differenze culturali, e variazioni dovute a differenze socioeconomiche. Si presume che queste variabili indipendenti non debbano avere un effetto significativo sul risultato di un esperimento mentale, per esempio sulla maggiore o minore inclinazione a considerare una determinata situazione come un caso di conoscenza, e tuttavia un effetto viene rilevato (per esempio, i maschi occidentali sono più facilmente convincibili dal controesempio di Gettier, vedi capitolo 6). Esiste inoltre un tipo di variabilità intrasoggettiva legata all’ordine in cui vengono presentati gli esperimenti mentali: una stessa persona può descrivere una certa situazione potenzialmente dubbia come un caso di conoscenza se le viene precedentemente presentato un caso che chiaramente non è conoscenza, ma la descriverà come un caso di non conoscenza se le viene precedentemente presentato un caso chiaro di conoscenza. (Si tratta di una variabilità intrasoggettiva ma comunque esogena, nel senso che viene rivelata dall’esperimento. I soggetti non hanno nessuna consapevolezza di questa variabilità, mentre chi riflette sulla Nave di Teseo prima o poi si scontra con la contraddizione, è questione di tempo.) Non c’è ragione di pensare che questo tipo di variabilità non si
estenda anche a materie non normative come il nucleo concettuale metafisico descritto da Strawson. Di fronte alla variabilità, sorge di nuovo un problema per il metafisico che intenda far uso delle intuizioni: di quali intuizioni può fare uso, ovvero a quale gruppo di intuitori fare riferimento? A quello cui si appartiene? Frank Jackson scrive: Le mie intuizioni sono indicative della concezione comune nella misura in cui sono ragionevolmente autorizzato, come di solito lo sono, a considerarmi tipico. Ma questa resta una dichiarazione di intenti. Se ha senso proporre un gruppo di soggetti di riferimento, su quali basi lo si sceglie? Se si sceglie per esempio il gruppo di riferimento maggioritario, che cosa ci può far escludere che un gruppo minoritario non abbia delle intuizioni migliori? I filosofi sperimentali sono tipicamente ostili alle intuizioni e tendono a dare risposte scoraggianti a tutti questi quesiti. Si potrebbe certo sostenere che gli esperimenti mentali in etica sono più soggetti alla variazione interculturale di quelli in metafisica. Comunque sia, resta il problema della stabilità interna. I critici dei filosofi sperimentali hanno fatto notare che le differenze di intuizione riguardo alla conoscenza possono venir reinterpretate in termini di differenze verbali o concettuali. Per esempio gli orientali e gli occidentali reagiscono diversamente all’esperimento mentale di Gettier. Laddove gli occidentali non sono più inclini a parlare di conoscenza, gli orientali sembrano di più larghe vedute. Orbene, nell’esperimento si chiede se il protagonista di un caso alla Gettier ‘sappia’ o ‘non sappia’ una certa cosa, date determinate circostanze. La differenza nelle risposte potrebbe venir spiegata in modo metanegoziale dicendo che orientali e occidentali fanno riferimento a due diversi concetti di sapere. Se io ho la mia nozione di sapere e tu la tua, le differenze di intuizioni non indicano nessun disaccordo sulla mia o sulla tua nozione. Al limite posso cercare di capire la tua nozione e vedere se le mie intuizioni su di essa mi aiutano a capire che cosa è il sapere per come tu lo intendi. Il rischio di questo tipo di risposta è semplicemente di andare fuori tema; un rischio che diventa straordinariamente costoso per un certo tipo di metafisico, quello che vede la filosofia come ricerca di una teoria della realtà (o di un suo dato ambito). A questo tipo di metafisico non interessa una teoria che spieghi che cosa sono gli ingredienti della realtà-per-un-soggetto appartenente a un dato gruppo; e certo non gli interessa fermarsi al progetto descrittivo di Strawson. A chi si occupa della
natura del colore non interessa mettere in fila una dopo l’altra una metafisica del colore per i normovedenti, una per i daltonici monocromati, ed eventualmente una ancora diversa per i tetracromati (non umani, come per esempio alcuni volatili). Il rischio di andare fuori tema incombe anche sui filosofi sperimentali, che sembrano spesso ripiegare su una versione non molto ambiziosa del progetto; tolto il contributo negativo (l’instabilità delle intuizioni) il loro apporto costruttivo, per esplicita ammissione, non è alla filosofia, ma alla psicologia. Potremmo riassumere in modo brusco dicendo che fare filosofia sperimentale non è fare filosofia; è fare psicologia del pensiero. Scopriremo se le persone hanno intuizioni diverse o meno. Presa per il verso giusto, la filosofia sperimentale è allora una critica indiretta di un certo modo di fare filosofia: della pretesa della filosofia di essere una scienza che vuole scoprire come è fatto il mondo. Il problema sorge solo per chi si cullava in quell’illusione. Ma quale che sia il destino della filosofia sperimentale, resta ai filosofi il problema della variabilità intuitiva. Ci sono dunque ragioni endogene, legate alla riflessione ponderata, e ragioni esogene, legate a nuove conoscenze, per cercare di correggere una certa concezione (metafisica, etica, epistemologica, estetica). Gli esempi nell’uno e nell’altro senso abbondano. Nessuno sembra aspettarsi nuovi dati empirici per corroborare una concezione platonista dei numeri primi, o per considerare che una certa definizione della sicurezza stradale è incoerente; ma nessuno pensa di poter ignorare i dati empirici nel discutere problemi di filosofia della biologia o della psicologia; sono i dati empirici che spesso danno l’avvio alla discussione.
1. Le azioni illuminano i concetti quando le parole non vi riescono I negoziati concettuali si svolgono tra persone che parlano e costruiscono narrazioni. Queste persone hanno intuizioni, e di solito le esprimono a parole, e cercano di modificare le intuizioni altrui usando le parole. E se le parole non bastassero? Due casi sono possibili: potrebbero veramente esserci dei contenuti ineffabili, non esprimibili a parole; oppure usare un negoziato verbale non cambierebbe le carte in tavola. Come procedere? Roger-Pol Droit suggerisce che in alcuni casi un’azione potrebbe sbloccare il pensiero e riuscire là dove la parola fallisce. Provate a mangiare
qualcosa che non vi piace, qualcosa che di solito non mangereste se non per buona educazione e comunque controvoglia. È un’esperienza strana, molto filosofica. Fa certamente riflettere sul senso del mangiare per puro piacere, riflessione che forse potremmo tenere a mente quando prendiamo decisioni su come nutrirci o cerchiamo di capire che cosa significa per altre persone non avere di che nutrirsi a sufficienza. Oppure considerate quest’altra situazione. Da decenni è possibile, grazie all’opera di sensibilizzazione svolta da alcune associazioni, andare a cena con delle persone non vedenti o mal vedenti: in un locale completamente buio, per comprendere la natura del deficit visivo. Seduti a tavola con un non vedente, si è assistiti da un cameriere non vedente. Può ben darsi che non sia sufficiente una descrizione per apprezzare la complessità di un’esperienza; un’azione fa fare il passo avanti necessario; in alcuni casi il fare, più che il riflettere, sblocca l’impasse concettuale. Vorrei poter parlare di una categoria di azioni filosofiche, ma naturalmente il fatto che un’azione sia filosofica o meno è del tutto contestuale. Mangiare qualcosa che non ci piace perché non abbiamo scelta è diverso dal mangiarlo per scelta. Nella discussione di questo libro le azioni filosofiche non sono rinunce al negoziato concettuale, ma modi di intervenire nel negoziato. Ripeto, non tutto è esprimibile a parole; l’assenza di parole non è assenza di concetti. Se le parole non riescono a descrivere un concetto, può forse riuscirvi un’azione. Si sa peraltro che essere convincenti non basta; la persuasione è inoperosa se non viene accompagnata da misure che incitano o fanno da deterrente. Le persone possono essere perfettamente convinte del fatto che sia estremamente pericoloso superare i limiti di velocità o non portare le cinture di sicurezza, e tuttavia in assenza di un deterrente efficace possono continuare imperterrite a fare tutte queste cose. In generale, sapere quello che si sta facendo non sempre aiuta a farlo e la consapevolezza non è sempre necessaria per l’azione. Non è nemmeno necessaria per un’azione efficace. Dato che la razionalità umana è limitata, i nostri obiettivi a lungo termine, o il prendersi cura della nostra immagine razionale, possono scontrarsi in modo anche catastrofico con le nostre preferenze del momento e con le decisioni prese giorno per giorno, soggette come sono queste ultime a una miriade di influssi cognitivi e culturali. Ma non è per questo che dobbiamo rinunciare a porci delle domande, a valutare le conseguenze di ogni azione, decisione, pensiero.
2. Ancora sul fallimento negoziale Stai negoziando concettualmente; le cose non vanno come ti aspettavi. A un certo punto devi anche essere in grado di cambiare idea. Il che significa non solo che devi compiere il passo , accettare il fallimento negoziale, decidere di cambiare idea , ovvero passare a un piano pratico; significa anche che ti è utile avere a disposizione un repertorio di alternative, il piano B. Forse siamo meglio attrezzati di quanto pensavamo: in diversi esempi che abbiamo illustrato (i tre mondi di Shoemaker nel capitolo 7) si è visto come un esperimento mentale ci mostri che abbiamo le risorse concettuali per descrivere una situazione che non ci sembra familiare. Il fallimento è comunque una possibilità, a tutti i livelli. Abbiamo visto nel capitolo 6 che nella teoria generale del negoziato si suggerisce di meta-negoziare, ovvero di condurre un negoziato parallelo o preliminare per mettersi d’accordo sul modo in cui si condurrà il negoziato principale. La proposta si applica in modo diretto ai negoziati filosofici. Quali standard argomentativi accettiamo? Possiamo davvero criticare la teoria dell’evoluzione sulla base di un’epistemologia rigorosissima, per poi emettere a cuor leggero un’ipotesi come quella del cosiddetto progetto intelligente che non specifica neanche in modo grossolano come verrebbe messo in atto tale progetto? Ora, il meta-negoziato può fallire esattamente come può fallire il negoziato. E tuttavia si deve andare avanti. A questo punto la lezione di Isaiah Berlin dovrebbe illuminare il nostro cammino. Dobbiamo imparare ad accettare che vi possano essere dei punti di vista e dei valori diversi dai nostri. La diversità può essere irriducibile. Accettare questo fatto, non cercare a tutti costi un’ulteriore mediazione, non cercare di imporre comunque il proprio punto di vista, è un segno di maturità; e la maturità, come è noto, è spesso assai difficile da raggiungere.
9. Dov’è la filosofia?
Se la filosofia è negoziato concettuale allora è diffusa: la si ritrova un po’ dappertutto e in particolare dove non ci si aspetterebbe di trovarla. Gli esempi da cui abbiamo preso l’avvio mostravano alcuni luoghi inaspettati , una discussione legale sull’arte, un dibattito costituzionale, una rivoluzione scientifica. Mi soffermerò nelle prossime pagine sulla presenza della filosofia nella scienza. Non parlerò di filosofia della scienza, ma proprio della commistione di scienza e filosofia. È un tema spinoso data la tendenza a contrapporre filosofia in quanto disciplina umanistica alla scienza. Secondo questa tendenza è tutt’al più accettabile che la filosofia si occupi di scienza a cose fatte, per l’appunto come filosofia della scienza, con uno sguardo esterno, senza disturbare. Intendo invece sostenere che la filosofia come negoziato concettuale fa parte integrante della pratica scientifica, anche se non le si dà volentieri questo nome. I casi di Brâncusi e del Sogno di Keplero che abbiamo discusso all’inizio di questa Lezione erano tutti conseguenze di trasformazioni sociali o scientifiche. Il caso della discussione in Assemblea Costituente ha di contro mostrato come la filosofia sia richiesta a volte a monte. Si tratta di gettare le basi normative per il lavoro dei legislatori ed è importante mettere i paletti al posto giusto. Non vogliamo accettare che il perimetro della famiglia si estenda oltre questo punto; non possiamo accettare che includa meno che questo. Anche nella pratica scientifica alcune decisioni devono essere prese a monte, con un negoziato concettuale, ovvero una riflessione filosofica, che non si può compiere con i mezzi della disciplina scientifica in questione. Cominciamo con due esempi, uno dalle scienze esatte e l’altro dalle scienze sociali.
1. Che cos’è veramente un pianeta? Il Piccolo Principe viveva su un pianeta che era poco più grande di una casa, ma questo non stupisce il suo interlocutore: Sapevo benissimo che, oltre ai grandi pianeti come la Terra, Giove, Marte, Venere ai quali si è dato un nome, ce ne sono centinaia ancora che sono a volte cosě piccoli
che si arriva sě e no a vederli col telescopio. Quando un astronomo ne scopre uno, gli dà per nome un numero. Lo chiama per esempio: ‘l’asteroide 3251’. Dunque: il Piccolo Principe viveva su un pianeta o su un più banale asteroide? Non pare che il senso comune sia restio ad accettare qualsiasi soluzione venga proposta dagli esperti in astronomia; un’incertezza sul significato di ‘pianeta’ e di ‘asteroide’ non rende incomprensibile la favola di Saint-Exupéry. Ma non appena si decide che le parole contano, ovvero che ci deve essere una qualche ragione per chiamare una cosa ‘pianeta’ e non ‘asteroide’, cominciano a sorgere dei dubbi. Come insegna il dibattito filosofico sulla vaghezza, i concetti hanno confini sfumati, e i tentativi di renderli più precisi portano a soluzioni insoddisfacenti se non addirittura a contraddizioni. Se hai mezzo milione di capelli non sei calvo, se ne hai mille sě. Intorno ai cinquantamila non sappiamo bene, ed è inutile decidere una cifra esatta, perché, dice un argomento, se hai cinquantamila capelli un capello in meno non può essere quello che ti rende calvo. Se però un capello in meno non ti rende calvo, la ripetizione meccanica dell’argomento per cinquantamila volte fa di ogni calvo un irsuto. Ma qui, si obietterà, i concetti in gioco sono quelli assai poco precisi derivati dall’esperienza quotidiana. Con altri concetti, meno vicini al senso comune, investiti di dignità scientifica, l’esattezza del limite diventa importante. A volte una decisione la si deve prendere. Il legislatore è spesso obbligato a decretare, laddove il senso comune oscilla o non va d’accordo con la scienza. Le leggi che normano sui limiti non sono sempre cristalline; in alcune normative si danno per esempio dei diritti all’embrione e al feto (non lo si può vendere o donare), ma non personalità giuridica, che si acquisisce oltrepassata la fondamentale frontiera morale della nascita (non è prevista una registrazione anagrafica per l’embrione e il feto, che neppure possono ereditare patrimoni o vedersi intestare case). Tuttavia anche qui i concetti in gioco sono a metà strada tra scienza ed esperienza, per di più legati alla vita, al suo procedere incerto, e alle mille pratiche che la investono. I concetti scientifici più vicini alla fisica non dovrebbero sottrarsi a questa imprecisione? Un conto è un embrione, un altro un pianeta. Non c’è modo di dire una volta per tutte se una cosa è un pianeta o se non si ha invece a che fare con un asteroide? Misura e forma svolgono un qualche ruolo se si cerca una definizione. Una cosa troppo piccola non conta come pianeta; un’approssimazione a uno sferoide sembra anch’essa necessaria.
La composizione? Essere abbastanza diversi tra di loro non ha messo Giove e la Terra in categorie differenti. Meno chiaro è se ci importi che il corpo sotto esame graviti o meno intorno a qualcosa che chiamiamo già ‘pianeta’. Galileo non aveva difficoltà a chiamare ‘pianeti’ i satelliti di Giove; oggi non li si annovera tra i pianeti del sistema solare, come non vi si annovera la Luna. Ma a che pro questa discussione? Non sappiamo forse già che cosa è un pianeta e cosa un asteroide? Lo sapevamo, o facevamo finta di saperlo, finché non è apparso il rischio della retrocessione di Plutone. Nella zona di Plutone (la cintura di Kuiper) si sono scoperti molti altri fratelli o cugini di Plutone; e in particolare Eris, 2003UB313, che di Plutone è più grande, e che molti vorrebbero considerare un pianeta a tutti gli effetti (ha pure un satellite); ma anche Haumea, 2003EL61 (un ovoide, con due satelliti) e 2003FY9, entrambi grandi circa tre quarti di Plutone. La storia dei concetti ci mette del suo, il che rende il percorso di definizione concettuale accidentato. Se si vuol considerare pianeta solo un corpo con un diametro maggiore di 10.000 km, la Terra non sarebbe più da annoverare tra i pianeti, cosa non semplice da proporre a un senso comune che a volte non digerisce nemmeno il fatto che la Terra si muove. Se bastassero 100 chilometri di diametro a far di un corpo celeste un pianeta, dovremmo promuovere la Luna. Se non vogliamo promuovere Eris a pianeta, potremmo trovarci a dover retrocedere Plutone. La massa di Plutone è molto minore di quella della Luna; qui poi anche il contesto fa il suo effetto; qualsiasi corpo della dimensione di Plutone su un’orbita tra il Sole e la Terra sarebbe un pianeta a tutti gli effetti. Se invece Plutone avesse la forma di una grossa patata irregolare che hanno alcuni asteroidi, nemmeno un’orbita ‘interna’ lo salverebbe (probabilmente) dalla retrocessione. Ricorrere a un voto come ha fatto l’Unione Astronomica Internazionale nel 2006 a Praga , decretando la retrocessione di Plutone , non è esattamente quello che ci aspetteremmo da una discussione scientifica. Il fatto è che la questione della distinzione tra pianeti e asteroidi non è scientifica, ma squisitamente filosofica. E il voto, come abbiamo visto, è un modo di sbloccare un negoziato concettuale. Non c’è un esperimento o un viaggio spaziale che ci possa dire se una cosa è un pianeta o un asteroide; anche se, come spesso avviene, la scienza ci mette di fronte a scoperte che ci obbligano ad allargare e riannodare almeno alcune maglie della rete concettuale.
2. Che cos’è veramente la sicurezza pubblica? Il secondo esempio di filosofia nella scienza viene dalle scienze sociali. Uno scienziato sociale cerca di misurare un fenomeno (la criminalità, il diffondersi di nuovi tipi di famiglia). In realtà di solito gli scienziati sociali misurano più fenomeni per vedere se ci sono correlazioni significative tra di essi. Il tasso di occupazione femminile è correlato all’alfabetizzazione? La criminalità è inversamente correlata alla ricchezza media, o alla diseguaglianza? E cosě via. Ora, misurare un fenomeno sociale come la criminalità o la diseguaglianza è un’attività complessa. Le misure statistiche richiedono notevoli cautele metodologiche e interpretative. Ma soprattutto viene richiesta una operazionalizzazione (vedi capitolo 6) delle variabili in discussione. Il lavoro di operazionalizzazione è un tipo di negoziato concettuale condotto a monte della ricerca vera e propria. Supponiamo di voler paragonare il tasso di criminalità in diversi paesi. Come misuriamo la criminalità? Ecco una lista di proposte da un manuale di statistica per le scienze sociali: Contare il numero di arresti da un registro pubblico; calcolare la percentuale di detenuti sulla popolazione totale; chiedere alle persone in diversi Paesi se hanno commesso dei crimini; contare il numero di esecuzioni capitali che hanno luogo in un Paese in un anno determinato. Come fa notare l’estensore, ciascuno di questi criteri ha i suoi problemi. Chiedere alle persone se si sono comportate disonestamente può portare a misure assai imprecise, dato che non è detto che le risposte saranno sincere; misurare il numero degli arresti può operazionalizzare involontariamente altre variabili, come l’operosità delle forze dell’ordine; contare i detenuti può misurare la severità di un sistema giudiziario più che la propensione al crimine, e via dicendo. Ci sono problemi ulteriori che dipendono dal fatto che in paesi diversi gli uffici statistici misurano la criminalità in modo diverso. Se in un paese la criminalità è misurata in base alla percentuale di detenuti sulla popolazione e in un altro è misurata in base al numero di arresti, i dati potrebbero essere incommensurabili. Supponiamo che ciascun paese definisca un indice di criminalità che in fin dei conti si riduce a un numero. Per l’Italia, poniamo, è 6, per gli Usa è 9, e via dicendo. Possiamo dire che in Italia c’è meno criminalità che negli Usa? No, fintantoché non sappiamo in che modo i vari indici vengono calcolati in Italia e negli Usa, ovvero in che modo gli statistici hanno negoziato
concettualmente la variabile criminalità. Un ulteriore lavoro di negoziato concettuale si impone, un lavoro che assomiglia a quello del traduttore. Osservo di passaggio che qui si rivela tutto il valore del lavoro degli storici, stretti collaboratori dei filosofi in negoziati concettuali che richiedono una consapevolezza dei passi svolti (ne riparleremo nel capitolo 12). Anche misure apparentemente semplici come la conta della popolazione in un censimento o la misura dell’inflazione richiedono un notevole lavoro di preparazione concettuale. Chi conta come residente? Come definiamo il paniere per misurare l’inflazione? Se cambia il paniere, cambiano i dati. Tutto questo fa parte del lavoro degli statistici. Ma ha senso chiamarlo filosofia? Ha senso in quanto non è esso stesso parte del metodo statistico e richiede delle analisi concettuali. La componente normativa esula dalle misure empiriche , e come ho sostenuto, le rende possibili. Come non puoi decidere che cos’è un pianeta andando a esplorare lo spazio, ma puoi metterti a cercare pianeti quando hai deciso che tipo di cosa è un pianeta, cosě non puoi decidere che cos’è la criminalità semplicemente contando una parte di popolazione o il numero di manifestazioni di un certo fenomeno, ma puoi capire che cosa contare quando hai deciso che cosa conta come un criminale o come atto criminale.
3. A unificare teorie Un negoziato concettuale molto importante in campo scientifico è quello che precede e accompagna l’unificazione teorica. La storia della scienza è costellata di unificazioni teoriche. Una teoria della combustione è parte di una teoria di cui è parte anche una teoria della respirazione e della formazione di ruggine. Einstein unifica le nozioni di spazio e tempo e quelle di massa ed energia. Newton unifica la caduta dei gravi con le rivoluzioni dei pianeti. ‘Unificare’ non significa ‘ridurre’; l’unificazione è un’operazione che permette di ricomprendere nozioni che sembravano irrelate o solo debolmente imparentate in un quadro teorico più ampio, eventualmente mostrando che i fenomeni in questione sono manifestazioni di un qualcosa di più profondo. L’unificazione newtoniana della caduta dei gravi con i movimenti
planetari è talmente ampia e profonda da richiedere un negoziato supplementare per aiutare la comprensione. Sembra impossibile vedere come fenomeni dello stesso tipo la caduta di una mela, che per l’appunto cade, e il movimento di un pianeta, che proprio non sembra cadere. Newton affida il suo negoziato a un esperimento mentale di grande eleganza e vividezza. Supponete di recarvi in cima a una montagna altissima con un cannone molto potente (immaginate che la tecnologia vi permetta di avere un cannone potente a piacere). Ora sparate a alzo zero, in orizzontale, un colpo debole. Il proiettile cadrà a una qualche distanza da voi. Sempre mantenendo l’alzo a zero sparate un colpo più forte che lancerà il proiettile assai più lontano. Più lontano, ma la Terra è curva: le prossime palle di cannone, sparate con forza sempre maggiore, cominceranno a fare un pezzo di giro della Terra prima di ricadere al suolo. L’ultima verrà sparata cosě forte da fare un giro completo e ritornare verso di voi. Abbassate la testa! Lasciatela passare dove cadrà? Abbassate la testa un’altra volta, rieccola! La palla di cannone è entrata in orbita. Un oggetto in orbita intorno a un pianeta altro non è che un oggetto che cade verso il pianeta senza mai posarsi (attenzione, mai dire mai, le orbite sono cadute stabili per un certo periodo, a lungo andare possono venir perturbate e i corpi orbitanti finire sul pianeta o sfuggire dall’orbita). Ve ne accorgete se fate un giro su un’astronave in orbita intorno alla Terra: tutto cade, voi, l’astronave, le matite, i bicchieri. Dato che però cadete tutti insieme, le cose sembrano volare intorno a voi , come si è visto mille volte nei documentari. Non è una situazione di assenza di gravità, come si dice impropriamente. Se in ascensore o in aereo vi accorgeste che le cose cominciano a volare intorno a voi, dovreste concludere che siete in caduta libera. L’esperimento è elegante perché l’unificazione tra i movimenti planetari e la caduta dei corpi in prossimità della Terra si svolge praticamente tutta all’interno del senso comune; ci risulta intuitiva.
4. Il fallimento negoziale Un esperimento mentale riuscito; un negoziato di successo. Eppure non è affatto detto che un negoziato nell’ambito scientifico vada a buon
fine. Possono fallire i negoziati tra diverse teorie scientifiche; possono fallire i negoziati tra una teoria scientifica e il senso comune. Abbiamo parlato dello scarso successo di alcuni negoziati, come quello sulla nozione di famiglia all’interno dell’Assemblea Costituente. Un tentativo di riaprire il negoziato su Plutone si è prodotto nel 2009, quando il Senato dell’Illinois, lo Stato natale di quel Clyde Tombaugh che nel 1930 scoprě Plutone, ha decretato che non poteva accettare la risoluzione dell’Unione Astronomica Internazionale e che quantomeno quando Plutone attraversa il cielo dell’Illinois gli verrà restituita la piena dignità di pianeta, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Abbiamo anche visto che in alcuni casi a sbloccare un negoziato serve un’azione, un gesto, un passaggio esterno alla discussione. Vorrei proporre una tesi forse arrischiata. L’intervento della matematica nella ricerca scientifica è di fatto un gesto esterno di questo tipo. La matematica non usa concetti simili a quelli che usiamo quando rappresentiamo il mondo, e non ha molto senso parlare di comprensione in matematica nello stesso senso in cui si dice di capire che aumentando il numero dei passeggeri la barca rischia di affondare. Comprendere un vettore significa saper eseguire il calcolo vettoriale; comprendere un teorema geometrico significa saperne effettuare una costruzione alla lavagna, tracciando dei segni; comprendere un integrale significa saper integrare. Comprendere la meccanica quantistica significa saper risolvere determinate equazioni, e comprendere certi aspetti della chimica significa saper calcolare delle ossidoriduzioni. Non prenderemmo sul serio una persona che ci dicesse che ha capito la chimica ma che non sa come si calcola un’ossidoriduzione, o una persona che dice di aver capito il movimento dei pianeti ma non sa come calcolare una derivata. Ci sono teorie scientifiche per le quali non si pone il problema di una riconciliazione con il senso comune semplicemente perché il senso comune non ha a sua disposizione nessuno strumento adeguato. In questi casi non ha quindi molto senso negoziare nel modo in cui la filosofia lo fa di solito (cercando di allargare il campo concettuale, lo spazio logico delle possibilità, per arrivare su un terreno di mutua comprensione). Richiedere di arrampicarsi per anni sulle impalcature di un formalismo matematico è precisamente negare questa possibilità. È una richiesta di azione; di spostamento su un altro terreno, in cui il fare è condizione del pensare. Questo anche per dire che la filosofia non ha una risposta a tutti i
problemi intellettuali, e che la scienza ha strategie di risposta che sono inedite. Corollario: non ha alcun senso contrapporre filosofia e scienza al modo in cui si contrappongono due teorie. Sono cose diverse, che fanno cose diverse con metodi diversi. Il dialogo straordinario tra scienza e filosofia viene dalla loro complementarità, non da una inesistente guerra su un territorio disputato. Da un certo punto in poi gli scienziati non inventano nuovi concetti, ma strategie di azione e di intervento. Questo è anche, dopotutto, l’enorme potere trasgressivo della scienza, che la rende invisa a filosofi timorosi, a prelati gelosi e a politici che si vedono sottrarre enormi fette di potere.
5. La filosofia ancillare Ci sono allora due aspetti essenziali del rapporto tra filosofia e scienza. Sono in realtà due facce della stessa medaglia: l’ancillarità delle questioni filosofiche e il loro contributo alla formulazione di ipotesi empiriche. La filosofia diffusa è per forza anche una filosofia ancillare. Serve ad altro, dipende da altro. Le domande filosofiche acquisiscono autonomia con il tempo. Non solo perché nella storia spesso i filosofi non erano una categoria autonoma come la conosciamo oggi, e il temine ‘filosofo’ ha avuto un significato più ampio in passato, coincidendo con quello di ‘scienziato’. Spesso le domande più creative, quelle che hanno dettato le linee di ricerca e di riflessione, hanno avuto origine all’interno delle discipline non filosofiche, e sono state poste da persone che non erano filosofi o che sono state considerate filosofi solo più tardi. La filosofia della matematica trae origine dal lavoro di matematici, come era avvenuto per Dedekind, che alla fine dell’Ottocento si pone esplicitamente la domanda Che cosa sono i numeri, e che cosa dovrebbero essere?, ma anche per Leibniz e Newton, matematici-filosofi il cui lavoro sul calcolo infinitesimale è intriso di riconcettualizzazioni delle nozioni di numero e di calcolo. Alla nascita della psicologia sperimentale a metà dell’Ottocento molti psicologi erano per formazione e appartenenza accademica filosofi. Molte domande psicologiche sono nate come domande generali sulla mente: sulla conoscenza o la volontà o la percezione. Ma in realtà si potrebbe vedere gran parte della filosofia del Sei e Settecento come un tentativo di dar forma e corpo alla ricerca psicologica. Il Saggio
sull’intelletto umano di Locke, il Trattato di Hume, i lavori di Thomas Reid, alcune delle ricerche di Cartesio, i Nuovi saggi di Leibniz presentano vere e proprie teorie sul funzionamento della mente che da un lato razionalizzano le intuizioni pre-teoriche su che cosa accade quando si percepisce o si ricorda, e dall’altro formulano delle ipotesi sull’architettura delle facoltà (memoria, intelletto, percezione, linguaggio, e il modo in cui sono tra loro collegate) che hanno largamente ispirato al suo nascere la psicologia come scienza empirica. Guardando più vicino a noi, tutto il lavoro di Freud potrebbe venir riconcettualizzato come un tentativo di estendere le categorie del senso comune a coprire i dati psicologici che non ricaviamo dall’introspezione diretta e cosciente (come i sogni o gli atti mancati). Quanto avviene non è dunque un trasferimento dalle domande formulate in modo autonomo in sede filosofica verso lidi empirici. Chiedersi se la conoscenza dipenda dalla percezione o se non vi siano idee innate è già porre una domanda che si trova al confine tra la metodologia della psicologia e il tentativo di definire la conoscenza, la percezione e le idee. L’aspetto filosofico di questa domanda è nel suo essere una domanda meta-scientifica, alla quale non può rispondere direttamente la psicologia, ma rispondendo alla quale si creano le condizioni che permettono alla psicologia di procedere nelle sue indagini.
10. Esiste una conoscenza filosofica?
Se invece la filosofia fosse solo filosofia da camera, armchair philosophy, letteralmente fatta in poltrona, ovvero senza andare a guardare fuori nel gran libro del mondo, che cosa impareremmo? Una persona che si mette a riflettere filosoficamente sul soggetto X (sull’amore, sulla società, sui quark, sull’universo) impara qualcosa su X? Ci sono alcune opzioni che mette conto di discutere. L’opzione veramente debole è che ragionando il filosofo impara qualcosa su se stesso, forse, e comunque nulla di più. Non lasciando la poltrona o lo studio non esce nemmeno dal recinto della sua mente. La riflessione filosofica diventerebbe semplicemente autobiografia. Un’opzione un poco più forte è di tipo cautelativo, ma è praticabile solo se si presuppone un minimo di esposizione a dei dati che il filosofo da camera deve comunque andarsi a procurare fuori casa. Se scopro che molte delle cose che mi vengono in mente a proposito di X dipendono dal modo in cui il mio cervello o il mio sistema cognitivo è fatto, avrò ragione di considerare queste cose con una certa prudenza. Se per esempio ho delle ragioni per pensare che certe proprietà dei colori siano spiegate dal modo in cui è fatto il mio sistema visivo, ho anche delle ragioni per pensare che queste proprietà non siano spiegate dal modo in cui è fatto il mondo esterno, e questo mi inciterà a non essere un realista riguardo ai colori; i colori non esisterebbero. Un’altra possibilità è compatibile con la posizione difesa in questa Lezione: facendo filosofia si ottiene una preconoscenza di X, ovvero si fanno dei passi per ottenere conoscenza di X. Per esempio si mette in opera una strategia per arrivare a conoscere X, un metodo. Non ho difficoltà ad accettare questa posizione, ma vale il fatto che quando poi si conoscerà X, se lo si conoscerà, questa conoscenza non sarà filosofica, ma empirica. I più ambiziosi ancora paragoneranno il caso della conoscenza filosofica a quello della conoscenza matematica. Le ragioni che abbiamo per pensare che a riflettere (per esempio) sui numeri primi possiamo ottenere delle vere e proprie conoscenze su di essi (per esempio, potremmo scoprire che ogni numero pari maggiore di due è il risultato della somma di due numeri primi , questa è la congettura di Goldbach, a tutt’oggi non dimostrata) sono valide anche per sostenere che a riflettere sulla Nave di
Teseo otteniamo una vera e propria conoscenza su certi aspetti di come va il mondo. L’analogia tra filosofia e matematica è controversa , quantomeno per quei filosofi che pensano che la matematica non sia una vera e propria parte del mondo esterno, e che abbia quindi una realtà solo mentale. Se cosě fosse, il giorno in cui apprenderemo, se mai lo apprenderemo, che ogni numero pari è la somma di due numeri primi, non saremo usciti della sfera mentale (e ricadremmo nella prima opzione). D’altro canto chi pensa che la conoscenza matematica verta su oggetti al di fuori della sfera mentale si trova in genere nella scomoda posizione di difendere l’idea che esistano oggetti astratti. E questo non è in genere quello che intende fare chi pensa che la conoscenza filosofica ci informi sul mondo esterno. Il fatto è che se la matematica fosse un modello per la filosofia, sarebbe un modello del tutto particolare. L’enorme proliferazione dei controesempi nella letteratura filosofica suggerisce che molta conoscenza filosofica sia di tipo negativo: chiude delle possibilità, mostra che non è lecito mantenere certe credenze come abbiamo visto nel capitolo 6. L’esperimento mentale di Gettier non ci ha detto che cos’è la conoscenza, ma ha dimostrato che cosa non è. L’esperimento del teletrasporto ci ha detto che cosa non è la sopravvivenza individuale. I grandi risultati limitativi resi possibili dall’uso del formalismo (i Teoremi di Incompletezza di Gödel, il Teorema di Arrow che mostra come non è possibile per un sistema di voto soddisfare simultaneamente un certo numero di richieste a prima vista ragionevoli come la transitività delle preferenze) sono di questo tipo. L’ignoranza filosofica è anche l’ignoranza di distinzioni (la distinzione tra uso e menzione di un termine, tra frasi de re e frasi de dicto, tra visione epistemica e visione semplice). La conoscenza negativa non è affatto disprezzabile, e tantomeno in un negoziato concettuale, dato che tagliando i rami secchi del pensiero ci fa risparmiare tempo ed energia. Infine si può sostenere che la conoscenza filosofica sia conoscenza di relazioni tra concetti, delle produzioni della fabbrica dei condizionali: se la Nave di Teseo è quella dell’antiquario, allora ha un’esistenza intermittente. Se Dio è onnisciente, allora non è immutabile. Ma i condizionali di questo tipo parlano del mondo, ci informano sulla realtà al di là della poltrona del filosofo? Se lo fanno, è in un senso assai debole. Supponete di discutere con una collega; entrambi accettate che sia vero che se la Nave di Teseo è quella dell’antiquario, allora ha un’esistenza intermittente. Ma voi pensate che la Nave di Teseo sia quella dell’antiquario, e la vostra collega pensa
che nulla abbia un’esistenza intermittente. Lei nega quindi che la Nave di Teseo sia quella dell’antiquario; e voi invece pensate che la Nave abbia un’esistenza intermittente. Accettare un condizionale lascia aperta la possibilità di accettare la sua premessa o di negare la sua conclusione; il disaccordo è dietro l’angolo. Mi pare che tutte queste opzioni eludano la questione. Se non hanno cambiato il tema, per esempio suggerendo che ogni conoscenza filosofica è al meglio una forma di autobiografia, hanno risposto più o meno velatamente che non c’è una conoscenza filosofica positiva nel senso forte che interessa a chi di solito pone il problema. Affronterei la difficoltà a testa bassa accettando direttamente questa conclusione. Se la filosofia apre possibilità, la conoscenza filosofica è conoscenza di possibilità, ma si tratta di una conoscenza particolare e indiretta sul mondo. Sapere che potrei essere stato inviato in missione in Antartide o che non potrei essere un’iguana è certo una forma di conoscenza di quello che sono. Sapere che le leggi della fisica avrebbero potuto essere differenti o che ci sono diversi tipi di sistemi assiomatici per la logica allarga le opzioni disponibili, ma se il problema è quello di scegliere un sistema assiomatico o una teoria fisica adeguata il passo alla conoscenza è un passo ulteriore. Se poi la filosofia è un’arte, non c’è una conoscenza filosofica nel senso in cui ci sono una conoscenza di fatti biologici, o della matematica (intesa come regno extramentale). Le conoscenze dell’artista che crea o rappresenta un mondo non sono conoscenze su quel mondo; sono piuttosto conoscenze tecniche; una forma di saper fare piuttosto che di sapere.
1. Si fanno progressi in filosofia? Dato che la filosofia è un’arte, non c’è nemmeno un vero progresso in filosofia, se non nella forma di un raffinamento tecnico, e nella generazione di controesempi che ci permettono di evitare errori o trappole comuni. Abbiamo imparato che certe tecniche hanno funzionato in determinate circostanze, e possiamo auspicarci che funzionino in circostanze simili. I pittori sanno che possono tracciare una linea per segnalare il profilo visibile di un oggetto, e che questa sarà più efficace di una linea tracciata all’interno del profilo visibile; che possono aumentare la vividezza di un colore circondandolo del colore complementare, e via dicendo. I filosofi sanno che c’è una differenza tra epistemologia ed
ontologia, una distinzione tra vedere semplice e vedere epistemico; che bisogna fare attenzione alla china pericolosa, o ad andare fuori tema. Sanno anche che la conoscenza non è credenza vera giustificata, e che un essere onnisciente non può essere immutabile. Non a caso la letteratura richiama spesso i risultati negativi, lamentando che i controesempi sono stati dimenticati, che le distinzioni tracciate una volta sono di continuo trascurate. In questo senso, molto limitato, c’è un aspetto cumulativo della filosofia. E in questo rispetto può risultare utile familiarizzarsi con la lunga lista di rompicapo filosofici, o di esperimenti mentali (potete trovarli anche su Wikipedia); tanto per cominciare. Nell’arte di negoziare è importante creare opzioni alternative, e anche qui si possono misurare dei progressi: un negoziatore avrà un repertorio di possibilità più vasto di un altro; i cataloghi di possibilità sono cumulativi, si può far tesoro delle iniziative altrui. Facendo attenzione, naturalmente, al perimetro del problema originale, quello per cui si è cominciato a stilare una lista di possibilità; e tenendo presente che per estendere questo perimetro si deve utilizzare l’analogia (ne parliamo nel prossimo capitolo). Il progresso positivo in filosofia è eterodiretto: la filosofia è ancella di altre pratiche e discipline, e al loro cambiare le domande filosofiche si rinnovano, altre ne nascono. Di converso, si può parlare di un progresso in filosofia quando questa progredisce in virtù del contributo filosofico alla disciplina di cui la filosofia è ancella. Quando, per esempio, vengono scoperti nuovi problemi filosofici.
11. Come si insegna la filosofia?
Questo libro è pensato come una prima lezione, per cui non mi sottraggo alla domanda su che cos’è insegnare la filosofia; e su che cosa si può fare per chi trovasse che le forme di insegnamento attuali non siano soddisfacenti. Lo spunto è autobiografico. Insegno filosofia da due decenni in contesti molti diversi: dalla lezione universitaria frontale al seminario avanzato all’insegnamento in dipartimenti e facoltà diversi dal mio; alla conferenza per il grande pubblico, che è una forma di insegnamento, con una sua pedagogia tutta particolare. Per molto tempo mi sono posto il problema di un corpo condiviso di conoscenze, di requisiti minimi per chi apprende. Il problema nasce dal fatto che anche a livello di lauree biennali o addirittura di dottorato non è affatto insolito dover passare una parte notevole del proprio tempo a insegnare cose che sembrava normale considerare acquisite a quel livello. Ma quali sono i presupposti irrinunciabili? Qual è esattamente il problema? Guardiamo per un istante in casa d’altri. I colleghi nelle facoltà di matematica si aspettano che gli studenti del terzo anno padroneggino il calcolo differenziale, il calcolo vettoriale, il calcolo matriciale e un sacco di altre cose. Non fai un dottorato e nemmeno ti laurei in matematica se non sai calcolare un integrale. Che cosa si aspettano i colleghi delle facoltà di filosofia dal loro studente del secondo anno? Che cosa dovrebbero aspettarsi? Deve sapere che cosa ha scritto Aristotele? Deve sapere distinguere un’inferenza valida da una non valida, o il modus ponens dal modus tollens? Deve saper criticare un argomento di Cartesio , assumendo che non si tratti di lesa maestà , o di Frege? Deve saper dimostrare il teorema di completezza? Deve saper scrivere come Horkheimer? A un certo punto, nel 2000, con Achille Varzi, di cui sono da lunga data coautore, ci siamo anche messi a riflettere alla forma che potrebbe avere un manuale di filosofia ad uso di studenti dell’ultimo anno delle superiori e del primo anno di università. A quali testi canonici far riferimento? Ma dieci minuti di conversazione con lo storico della filosofia Paolo Rossi hanno raffreddato qualsiasi velleità canonica. Da storico Rossi non trova elementi sufficienti per individuare le basi canoniche della filosofia. Rossi ritiene che non vi sia un canone. Dopo quella conversazione penso che nemmeno
vi possa essere. Perlomeno, non un canone robusto. Che cosa potrebbe essere un canone della filosofia? Per capirlo vale la pena di osservare il funzionamento delle discipline in cui il canone esiste, oltre alla matematica che ho citato sopra. Se uno studia chimica può per esempio organizzare le sue conoscenze o quelle dei suoi studenti a partire dalla tavola degli elementi. Una volta imparato che esistono delle periodicità nella tavola, le si riconduce alla struttura atomica ad orbitali e al modo in cui gli orbitali possono venir occupati per tappe discrete; c’è un percorso di apprendimento che deve includere la fisica quantistica come tappa essenziale, non opzionale. Se uno studia informatica, deve capire che cos’è una macchina di Turing e imparare a trattare i problemi in modo algoritmico. Se uno studia storia moderna, deve impratichirsi di metodi documentari, e immagazzinare un certo numero di dati fattuali sui quali esiste un consenso da parte della comunità degli storici, per esempio il fatto che la Pace di Augusta del 1555 sancě il principio del cuius regio eius religio. In matematica c’è un ordine canonico che a ogni nuova acquisizione richiede che le competenze del passo precedente siano acquisite. In fisica-chimica c’è una base fattuale che controlla in modo canonico l’organizzazione del sapere. In informatica il funzionamento (astratto) di un computer detta il formato canonico della scrittura di un programma. In storia la raccolta dei dati e il confronto tra le fonti procede sullo sfondo di un orizzonte canonico dettato dalla cronologia disponibile e accettata. Nulla di simile avviene per la filosofia. In filosofia non c’è una base fattuale paragonabile a quella della chimica. La sola base fattuale che si trovi nei paraggi, in verità, è quella fornita dalla storia della filosofia. Come si sa, è una lista di quello che alcuni filosofi hanno detto e scritto, in ordine di apparizione. Ma imparare tutto ciò non è né necessario né sufficiente; questi fatti non costituiscono un canone della filosofia. Molti ottimi filosofi sono assai evidentemente all’oscuro di una buona parte della storia della filosofia, cosě come molti ottimi matematici sono all’oscuro di buona parte della storia della matematica. Questa ignoranza non ne fa forse delle persone particolarmente articolate, ma non inficia necessariamente la qualità della loro filosofia o matematica. In filosofia non c’è nemmeno un ordine canonico dell’acquisizione e per questo per l’appunto si ricorre a volte all’ordine storico; l’ordine alfabetico andrebbe altrettanto bene. Per esempio, non è che devi imparare prima la logica formale e poi tutto il resto , le tue capacità informali di
ragionamento sono del tutto sufficienti a farti capire la struttura di un argomento filosofico e non è detto che vengano migliorate dall’apprendimento di un sistema formale. E anche se ci sono discipline che sono considerate lo zoccolo duro della filosofia, non è che devi imparare prima la metafisica, poi la teoria delle conoscenza e poi l’estetica; un qualsiasi altro ordine può andar bene. Ci sono degli ottimi filosofi morali che non hanno nessuna intenzione di documentarsi sull’ontologia, e va bene cosě. Giunti sin qui non dovremmo essere particolarmente sorpresi di questo stato di cose. Che la filosofia non abbia un canone è legato a doppio filo al fatto che sia diffusa e al fatto che sia un’arte. Vedere la filosofia come diffusa, ovvero vederla all’opera entro discipline e pratiche non filosofiche, tende a localizzare i problemi filosofici in prossimità di queste pratiche e discipline, e ad allargarne quindi al di là di ogni possibile controllo il numero. Per questo è oggi molto interessante accogliere studenti che vogliono professionalizzarsi come filosofi di una determinata disciplina (filosofi della biologia, o del diritto) e ai quali è abbastanza naturale richiedere una competenza in quella disciplina (in biologia, in diritto) più che una competenza specificamente filosofica. Ma sempre per questo è al tempo stesso difficile trovare elementi comuni, canonici. Vedere la filosofia come un’arte , come ho suggerito nelle pagine che precedono , è un altro modo di tenere alla larga il progetto del canone. Ma , si obietterà , non è forse vero che le discipline artistiche hanno un canone? Sě; però non è un canone robusto nel senso in cui lo è, per esempio, quello della fisica-chimica. Per fare il pittore magari devi padroneggiare il disegno; e per fare la violinista è meglio che ti eserciti con scale e arpeggi. Ma queste richieste riguardano abilità pratiche, e come tali queste hanno molte diverse porte di ingresso. Puoi essere un’ottima violinista anche se il tuo repertorio è soltanto quello della musica kletzmer, non sai leggere la musica e non hai idea di come sia fatto un concerto di Paganini, e un ottimo pittore anche se non hai mai usato l’acquerello. In un certo senso, questo aspetto è legato al ricominciare sempre da capo della filosofia (discusso alla fine del capitolo 3). Ma soprattutto al fatto che il saper fare non è cumulativo; bisogna tenersi in esercizio; devi fare le scale ogni giorno se vuoi continuare a suonare il pianoforte. Ci sono invero alcune cose che alcuni filosofi vorrebbero erigere a canone, nel senso di un canone robusto. Mi sembra che questo sia però solo un fenomeno istituzionale, che dipende dall’esistenza di
(autoproclamate) scuole o correnti della filosofia, e dal fatto che sbandierare un canone è semplicemente un modo di dire chi sta dentro e chi sta fuori. I filosofi che si dicono analitici non trovano probabilmente facile parlare con una persona che dimostra di non conoscere l’argomento di Gettier o il modo in cui Frege introduce la distinzione tra senso e riferimento. I fenomenologi presuppongono che uno sappia che cosa è la riduzione eidetica. I filosofi continentali non troverebbero accettabile l’ignoranza o la conoscenza superficiale delle opere di Heidegger. Naturalmente questa varietà è di per se stessa una reductio dell’idea di canone universale della filosofia; anche perché i filosofi dell’una corrente sono in genere perfettamente felici di ignorare le richieste di canonizzazione avanzate da quelli di altre correnti, quando addirittura non rivendicano tale ignoranza come un distintivo dell’appartenenza alla propria. Tiriamo le fila. Più che di un canone robusto, la filosofia ha bisogno di un buon praticantato. Ritorna la domanda da cui eravamo partiti. Se la filosofia è un’arte, come la insegniamo?
1. L’analogia Ho una proposta. L’unico strumento veramente utile nell’acquisizione della pratica filosofia è l’analogia. Imparare a fare filosofia passa per l’imparare a vedere in un certo ambito delle figure, dei pattern di impostazione o di soluzione di problemi che possiamo sperare di esportare in un altro ambito. Il ricorso all’analogia ha in realtà due aspetti. Da un lato è generativo, ovvero permette di produrre nuovi argomenti e nuove soluzioni a partire da argomenti e soluzioni note. D’altro lato è cautelativo, nel senso che di fronte a un argomento dato può mettere in guardia da difficoltà analoghe incontrate nella discussione di un argomento differente. Discutiamo di un esempio. Chi si occupa di filosofia della percezione si trova ad affrontare il problema della soggettività delle qualità sensibili. La domanda è: i colori e i suoni sono indipendenti dalla mente, o hanno una natura intrinsecamente mentale? C’è un’immagine fascinosa di ispirazione berkeleyana che racchiude il problema. L’albero che cade nella foresta disabitata fa rumore o no?. L’immagine ci affascina perché non possiamo fare a meno di
piazzarci mentalmente davanti a quell’albero e guardarlo cadere in un silenzio spettrale, quasi fossimo entrati in un film muto. Naturalmente non è importante , dal punto di vista del negoziato concettuale , che si trovi il modo di decidere più o meno rapidamente se l’albero fa o non fa veramente rumore. È invece importante stilare un elenco ordinato delle ragioni che possiamo accampare per l’una o l’altra ipotesi. La risposta che dai, e il modo in cui la difendi, ci dice qualcosa su quello che ritieni che siano i suoni, sulla tua metafisica del suono. Per esempio, se identifichi completamente i suoni con le onde sonore , come fa chi studia l’acustica fisica , ci dirai che l’albero fa rumore anche se non lo sente nessuno. Se identifichi i suoni con un elemento mentale , come fanno molti psicologi sperimentali , troverai più naturale condannare l’albero al silenzio. Abbiamo cominciato dai suoni. Se a questo punto ci viene posto il problema della soggettività dei colori, possiamo riutilizzare quanto pensiamo di aver imparato dall’esempio dei suoni. In generale tutte le ragioni che consideravamo convincenti per dire che l’albero che cade nella foresta disabitata fa (o non fa) rumore sono ragioni che ci fanno dire, mutatis mutandis, che le cose hanno (o non hanno) un colore in una stanza vuota. Le domande che possiamo porre a una teoria soggettiva dei suoni vengono traslate a una teoria soggettiva dei colori. Se i suoni sono soggettivi, come faccio ad essere sicuro che tu senti la stessa cosa che sento io? Lo stesso vale per i colori. Se sono soggettivi, come faccio a sapere che quando tu mi dici di vedere rosso in realtà non abbia l’impressione di vedere un colore che io chiamerei ‘verde’? L’analogia è un ponte tra argomentazioni. Il ponte funziona nei due sensi. Ragionando sui colori, variamo i parametri dell’esperimento mentale. Un lampo di luce in una stanza vuota ed ermeticamente chiusa dà colore alle cose? O invece le cose hanno comunque un colore al buio, in completa assenza di luce? Riattraversiamo il ponte analogico: le cose danno un suono nel vuoto, in assenza di un mezzo che trasmetta l’informazione acustica? Nelle mani di un filosofo come Berkeley l’analogia diventa estremamente potente, il suo uso arrischiato: tutte le ragioni che ci fanno dire che i colori non esistono se non sono percepiti diventano ragioni per farci dire che anche le forme degli oggetti non esistono se non sono percepite e sono quindi altrettanto dipendenti dalla mente di quanto lo sono i colori. Perché mai le forme al buio dovrebbero godere di un qualche privilegio rispetto ai colori? Ma se le forme diventano qualità soggettive,
come fermiamo lo scivolone verso l’idealismo, verso l’idea che tutta la realtà dipende dalla mente? Davvero le cose non avrebbero una forma se non ci fossero esseri in grado di percepire le forme? L’albero che cade nella foresta forse non solo non fa rumore, ma nemmeno esiste se non lo percepiamo! Queste considerazioni che fanno parte della filosofia della percezione possono venir almeno in parte ulteriormente trasposte alla filosofia morale e all’estetica. La discussione sull’oggettività dei colori e dei suoni è una potente base analogica per discutere dell’oggettività dei valori. Se pensiamo che l’albero che cade nella foresta non fa rumore , se quindi sposiamo una tesi soggettivista riguardo ai suoni , possiamo anche pensare che questo evento sia moralmente neutro in assenza di persone che l’abbiano causato, ne tengano conto, lo usino per influenzare altre persone. Un’eruzione vulcanica può anche distruggere una città, ma non è in sé cattiva , semplicemente avviene. È solo perché ci sono delle persone che provocano un certo evento che questo evento ha delle connotazioni di valore. Ma se i valori sono veramente soggettivi, come possono essere condivisi? Come possiamo conoscerli? L’analogia è all’opera: il rosso soggettivo è un rosso-per-me, l’ingiusto soggettivo è un ingiusto-per-me. Se non sono sicuro di quello che tu vedi quando mi dici di vedere rosso, posso non essere sicuro di quello che provi quando mi dici di provare un sentimento di ingiustizia. Il campo si allarga. In che senso il numero nove è oggettivo? Possiamo quantomeno iniziare a trasporre gli argomenti per la soggettività di suoni e colori al campo della matematica. Potrebbero esserci delle verità matematiche anche se non c’è nessuno che fa matematica? Il teorema di Pitagora era vero anche quando sulla Terra non c’erano ancora i mammiferi? Era vero prima che venisse dimostrato? E la congettura di Goldbach è vera oggi anche in assenza di una sua dimostrazione? Le ramificazioni contemporanee del problema della soggettività di un certo tipo di proprietà sono vaste; possiamo appena sfiorarle superficialmente in queste pagine. Ci basti rimarcare la possibilità in sede pedagogica di far pratica in un settore della filosofia per poi muovere a un altro settore facendo leva sulla pratica acquisita. L’analogia è la chiave di questa trasposizione. Si tratta però soltanto di analogia. Non sto difendendo la tesi , molto forte , stando alla quale i problemi filosofici sono generali e indipendenti
dal soggetto specifico che si sta trattando. Può darsi che non possiamo più di tanto estrapolare strategie di soluzione dal caso dei colori a quello dei numeri. Non sto nemmeno difendendo un’altra tesi assai forte, ovvero che i problemi filosofici siano sostanzialmente gli stessi al passare del tempo. Gli esempi storici che ho usato (per esempio, l’argomento di Berkeley) possono suggerire il contrario; ma il mio scopo non è quello di far dialogare Berkeley e i filosofi contemporanei in un improbabile talk show fuori dal tempo e dallo spazio, quanto quello di far tesoro della strategia di Berkeley a fini pedagogici. Stiamo parlando solo di come si insegna a fare filosofia. Si può benissimo accettare che l’analogia sia una forma assai debole di procedimento scientifico; ma se anche è un’euristica scientifica povera, resta comunque un potente strumento di valutazione concettuale. In particolare serve in negativo a mostrare che certe teorie non sono adeguate. Questo argomento non funziona qui proprio come non funzionava là. Per restare in tema di filosofia della percezione: quando ascolto una registrazione della Callas è veramente la voce della Callas che sento? Forse non abbiamo intuizioni sufficienti per discutere del caso uditivo; possiamo rivolgerci alla visione per un prestito analogico? Quando guardo una fotografia di Maria Callas, è proprio la Callas che vedo o è qualcos’altro? Le ragioni che ho di criticare l’idea che vedo veramente la Callas in fotografia sono le stesse che ho per criticare l’idea per cui sento direttamente la Callas nella registrazione. In fondo, l’uso dell’analogia ha un valore che alcuni filosofi considererebbero come terapeutico. Ma dell’uso terapeutico della filosofia parleremo più tardi.
2. Il menu dei parametri Nel capitolo 7 abbiamo passato in rassegna gli esperimenti mentali discussi in questa Lezione e abbiamo visto come creare esperimenti mentali sia in generale null’altro che cambiare i valori a qualche parametro. Se ritocco questo e quello, sto ancora parlando di famiglia, di conoscenza, di suono, di cambiamento, di oggetto materiale? Esercitarsi con gli esperimenti mentali ci convince dell’importanza di pensare in modo parametrico. Mi sembra che questo valga soprattutto per la trasmissione dell’arte filosofica, per la pedagogia della filosofia.
Per capire quante influenze possa avere il cambiamento di un solo parametro in una rappresentazione provate a studiare una di quelle carte rovesciate del mondo , in cui il sud si trova in alto, per intenderci. Anche se gli elementi sono facilmente riconoscibili, si ottiene una strana impressione (un effetto di straniamento, di cui parleremo tra poco), quasi venisse rappresentato un altro pianeta. Per esempio, l’immensa proporzione delle acque salta agli occhi, come la scarsità di terre emerse nell’emisfero sud. Gli esperimenti mentali servono al negoziato non solo per generare controesempi e per dilatare lo spazio concettuale, lo spazio delle possibilità. Come abbiamo visto nel caso di Newton, possono anche venir usati per rendere plausibili cose che a prima vista non lo sembrano affatto, e in questo si apparentano a molti esperimenti reali, che ricercano una retorica del mostrare. Galileo ha proposto un esperimento per mostrare che i suoni sono veramente delle vibrazioni meccaniche; grattare sempre più velocemente un oggetto rugoso permette di passare dall’ascolto di eventi individuali separati a quello di un suono con un’altezza definita, che cresce al crescere della velocità. Galileo cerca di rendere percepibile, intuibile una verità fattuale che sembra di difficile comprensione. Che vi sia un aspetto didascalico negli esperimenti mentali si inquadra in modo naturale nella concezione negoziale della filosofia e della sua trasmissione.
3. L’uso della logica Si fa molto caso della necessità di insegnare la logica come propedeutica filosofica , e anche come propedeutica a discipline non filosofiche. La logica è uno strumento: serve a valutare il modo in cui traiamo conclusioni a partire da alcune assunzioni (se accetti questo, allora accetti anche quest’altro: ti va bene?), e serve a tenere sotto controllo e regolare i negoziati (hai ben visto che devi accettare questo; però prima avevi detto che accettavi piuttosto il contrario: ti va ancora bene?). Al tempo stesso, la logica, o la necessità di procedere in modo logico, non è che una delle assunzioni di fondo, e come tale è negoziabile. Ripensiamo alla discussione sulla Nave di Teseo: una delle opzioni era di rinunciare al principio di non contraddizione. Quanto ci costava accettare la possibilità di contraddirsi? La centralità della logica negli schemi concettuali è dovuta
al fatto che una modifica negoziale alla logica tende a propagarsi rapidamente in tutti gli altri negoziati, mentre le rinegoziazioni di molti principi sono in generale assai più locali. Accettare che una nave possa essere colorata e al tempo stesso priva di colore significa automaticamente esser disposti ad accettare anche che un gatto possa essere e al tempo stesso non essere un animale. Mentre discutere se i gatti siano coscienti o meno, ed eventualmente decidere che lo sono, non ci dispone automaticamente a dire che lo siano i topi. Nel negoziato concettuale sono importanti le connessioni che si riescono ad instaurare tra i concetti; per esempio si vuole mostrare che una certa cosa, che si pensava essere di un certo tipo, è in realtà di un tipo completamente diverso. La mente è una entità fisica, non un’entità di natura non fisica. La mente non è un’entità, è una proprietà di un’entità. Oppure si vuole mostrare che un certo tipo di entità non può esistere perché il concetto che la descrive è contraddittorio. Se Dio fosse onnisciente, non potrebbe essere immutabile; dato che il mondo cambia, la conoscenza divina deve seguire il cambiamento. Le connessioni tra i concetti sono spesso connessioni inferenziali; la filosofia fabbrica frasi condizionali. Per questo è stato considerato importante, nell’apprendistato filosofico, saper tenere sotto controllo la struttura logica degli argomenti che si utilizzano. Imparare a smascherare fallacie è da sempre un elemento centrale dell’educazione del filosofo. Ma si tratta quasi sempre di fallacie incarnate in qualche settore della conoscenza. Le fallacie logiche più semplici non sono particolarmente interessanti; la confusione tra condizioni necessarie e sufficienti, la fallacia del condizionale, non richiedono un enorme investimento intellettuale per venir sanate, anche se è vero che sono abbastanza recalcitranti. (Un esempio: so per certo che se piove, Nina tiene aperto l’ombrello. Vedo Nina con l’ombrello aperto, posso dedurne che piove? In molti tendono a rispondere di sě, e invece no: la pioggia è una condizione sufficiente, ma non necessaria , Nina avrebbe potuto aprire l’ombrello per mille altre ragioni.) Le fallacie filosofiche sono in generale di tipo semantico, non riguardano la forma astratta dell’argomentazione ma il suo contenuto. In logica si distingue tra argomenti validi e argomenti fondati. Un argomento è valido quando la verità delle premesse rende necessaria la verità della conclusione. Un argomento valido potrebbe però essere infondato se una o più premesse non fossero vere , la conclusione potrebbe essere falsa. Se pensi che il Sole orbiti intorno alla Terra, dato che
compierebbe quest’orbita in ventiquattr’ore dovresti concludere (data la distanza) che viaggia sull’orbita a una frazione significativa della velocità della luce. Il ragionamento non fa una piega, solo che la premessa iniziale è sbagliata. Le controversie filosofiche sono spesso legate a critiche delle premesse altrui, o a critiche della pretesa di far seguire da tali premesse una determinata conclusione. Una fallacia specifica (e molto diffusa) è l’inferenza indebita dall’epistemologia all’ontologia, da quello che sappiamo o di cui possiamo accertarci in modo ragionevole a quello che vi è. Per esempio, se mi tolgo gli occhiali mi sembra di vedere degli oggetti dai confini sfumati. Se gli occhiali non fossero mai stati inventati, vedrei sempre e soltanto degli oggetti dai confini sfumati; avrei forse una ragionevole convinzione che il mondo che mi circonda è sfumato. Ma da questo fatto non segue che esistano degli oggetti con i confini sfumati, o che siano veramente questi gli oggetti che vedo. La tentazione di postularli è forte per chi intendesse difendere una teoria indiretta della percezione. Dato che gli oggetti fisici non sono sfumati (assunzione ragionevole) e dato che io vedo degli oggetti sfumati (dato percettivo da spiegare), postulerò l’esistenza di oggetti intermedi (dati sensoriali, immagini mentali) che sono sfumati, che in quanto tali sono diversi dagli oggetti fisici, e che spiegano la mia percezione di oggetti con un alone sfuocato. Woody Allen ci ha regalato una squisita visualizzazione della fallacia in Harry a pezzi (1997). Robin Williams, nella parte di Mel, un attore, è sfuocato. Sul set i tecnici non riescono a metterlo a fuoco, ma si accorgono che il problema non sono le ottiche della telecamera, ma Mel stesso. È lui ad essere sfuocato. Un altro tipo di malanno logico spesso diagnosticato dai filosofi negli argomenti che vogliono criticare è la china pericolosa. Avviati che ci si è sulla brutta china, si rischia di non fermarsi più; per ragioni logiche. Per esempio, se si accettano i mondi possibili come entità a se stanti, si rischia di dover accettare troppe cose, di fare un’indigestione ontologica. Se si pensa che l’azione debba essere sempre preceduta da una deliberazione si rischia di asserire che non si potrà mai intraprendere un’azione. La china pericolosa ci risucchia senza che ce ne accorgiamo, i primi passi sono di solito piccoli incrementi rispetto a convinzioni salde e comunemente accettate. Ma possiamo percorrerla tutta se pensiamo che valga la pena di esplorare una posizione estrema, che probabilmente ci allontanerà dal consenso. Ci sono sistemi educativi che hanno messo in gran conto lo studio
dell’argomentazione basandolo su quello della logica. Dalla fondazione della sua Università la Norvegia impone la filosofia come esame di sbarramento al primo anno per tutte le facoltà. Se non si passa l’esame dopo tre tentativi non se ne può sostenere alcun altro. Il testo adottato è stato per diverso tempo un libro di Jon Elster, Dagfinn Fřllesdal e Lars Walloe, dal titolo promettente di Argomentazione razionale, di fatto un’introduzione alla logica e alla filosofia della scienza. Fřllesdal ritiene che sia utile avere uno sbarramento in generale, dato che in un sistema universitario che registra molti abbandoni è utile tanto per l’università che per gli studenti accorgersi presto delle difficoltà; ritiene inoltre in particolare che proprio lo studio dell’argomentazione razionale sia adatto a fare da sbarramento (L’esame richiede una qualche capacità di seguire un argomento e di esprimersi in modo sufficientemente chiaro, e penso che chiunque non sia in grado di farlo tragga guadagno dal non intraprendere un corso di studi teorici lunghi e costosi; e debba invece scegliere un’altra istruzione o professione). Tuttavia in questo caso la logica ha un valore diagnostico più che propedeutico. Come in tutti i casi in cui si pensa che una certa materia serva a determinate altre (il latino aiuta a ragionare) queste discussioni sono abbastanza sterili in mancanza di dati. Bisognerebbe poter studiare i risultati di due campioni scelti a caso tra gli studenti, divisi tra quelli che hanno studiato logica o latino e quelli che non l’hanno fatto. Ma quali risultati? I voti ad altri esami? I libri pubblicati dopo dieci anni, o lo stipendio medio, o la risposta a un test?
4. L’eleganza, l’amore degli spazi vuoti, e altri vincoli speciali Tra le cose che si vorrebbe insegnare ai propri allievi filosofi c’è anche un certo stile. Se si continua ad accettare che la filosofia sia un’arte più che una scienza, la richiesta appare del tutto naturale. Come ci sono stili artistici, o stili di comportamento in molte attività umane, dal gioco del calcio alla scelta delle parole in una conversazione, ci saranno stili filosofici. Che si declinano in differenze di scrittura e di argomentazione, di retorica e di capacità immaginifiche, e anche di scelta dei temi. I filosofi del passato remoto hanno stili per noi difficilmente decifrabili, legati anche ai veicoli della loro scrittura: una Meditazione di
Cartesio ha un andamento caratteristico, diverso da quello di una lettera di Leibniz e altrettanto lontano da noi da richiedere un ampio lavoro preliminare di ricostruzione e immersione nel contesto sociale e letterario dell’epoca. Ma anche avvicinandosi al tempo presente la varietà non manca. Husserl scrive in modo molto diverso da Heidegger e da Adorno; questi ultimi scrivono in modo molto diverso da Quine che è a sua volta assai distante da Kripke. Strawson ha uno stile, Russell un altro, Frege un terzo. Ci sono filosofi che accatastano definizioni come Chisholm, altri che preferiscono inondarci di brevi lampi come Wittgenstein. Ci sono filosofi barocchi e altri che preferiscono gli spazi deserti. Ci sono filosofi sistematici, alla ricerca di una posizione filosofica coerente su tutto lo spettro dei problemi filosofici riconosciuti come importanti dalla loro epoca, come Kant o Putnam; e filosofi monotematici come Galileo o Rawls. Per alcuni filosofi è importante prendere lo spunto da quanto dicono i loro colleghi, passati o contemporanei; altri vogliono condurre il lettore in un mondo a parte. Varie volte si è tentato di incanalare i filosofi in alvei angusti basati su tratti stilistici , come quando si è tracciato uno spartiacque affilato tra analitici e continentali , ma le zone grigie sono troppe e popolate di figure troppo importanti (Wittgenstein è analitico? Brentano è continentale?), il che naturalmente dà l’abbrivio a tentativi di appropriazione che suonano come usurpazioni. Se avere uno stile non è un tratto distintivo, è forse invece una richiesta ragionevole; dire questo significa accogliere qualche desiderio normativo. Difficilmente accetteremmo dai nostri studenti che scrivano come Wittgenstein o come Husserl. Difficilmente accetteremmo testi veramente oscuri: un testo oscuro non piace a nessuno, continentale o analitico che sia; nessuno vuole fare l’esegesi di un lavoro di uno studente (anche se poi Russell l’ha fatto per Wittgenstein quando ricevette il Tractatus). Più difficile insegnare l’eleganza: ma gli esempi non mancano. Va soprattutto ricordato che il lavoro filosofico, anche se galleggia sopra un immenso e inesplorato patrimonio di tradizione orale, è oggi più che mai una produzione di testi scritti e un operare sul testo scritto. Dimenticare o peggio trascurare questo dato, nell’insegnamento della filosofia, mi sembra una colpa ben maggiore di quella di chi cerca di inculcare una propria visione filosofica. Richard Lewontin, scienziato-filosofo, ha messo a confronto lo stile di presentazione dei filosofi e degli scienziati della natura nei colloqui scientifici; i secondi cercano di far parlare i fatti, e quindi non leggono mai
un testo scritto, a differenza dei primi, per i quali l’ordine del testo, e la scelta delle parole sono valori irrinunciabili. La venerazione del testo scritto corrisponde a una richiesta che va al di là della scrittura, la quale, per sua natura lenta, permette di costruire una vera e propria mappa del pensiero, porta con sé il ritratto di un ordine. Anche nell’oralità si ricercano queste qualità, ma è legittimo pensare che lo si faccia sull’impronta della scrittura.
5. A pensare al rallentatore. Esistono filosofi volutamente oscuri? In tutti i casi, ed è un’esigenza perfettamente compatibile con la conduzione di un negoziato, è importante che si possano sempre riesaminare i passaggi che si sono svolti , allo scritto come all’orale. Cercheremo dunque di insegnare a rendere esplicito l’implicito. A portare a galla quel che può esservi di nascosto nella trama dei pensieri , e che in quanto nascosto potrebbe bloccare la ricerca di una soluzione negoziale, di un’intesa. Chiederemo, seguendo la raccomandazione di John Campbell, di pensare alla moviola. Ma rallentare non basta; è un’operazione che si svolge nel tempo, una delle tante dimensioni del pensiero: ad ogni fotogramma vorremmo poter congelare tutte le altre dimensioni, usando una specie di supermoviola metafisica. Arrivato a questo passo, quali sono le conseguenze cui non hai pensato? Quali sono le premesse su cui ti basi e che non ti sei curato di formulare? Una volta che vedi tutti questi elementi squadernati davanti a te, ti ci riconosci ancora? I metodi della filosofia di cui abbiamo parlato nei capitoli 6 e 7, l’analisi concettuale, il cercare di dare definizioni, la creazione di esperimenti mentali, sono tutti contributi all’esplicitazione delle dimensioni nascoste di un argomento. Devo confessare di essere un filosofo lento , ho sempre nutrito una certa diffidenza nei confronti di colleghi rapidi e a loro agio all’orale. Devo poter leggere per giudicare, e ho l’impressione di non sapere veramente quello che voglio dire finché non l’ho messo per iscritto. Al tempo stesso non penso che vi siano veramente dei filosofi del pensiero oscuro. Chi sono, in realtà? Scartiamo gli artefatti, i casi costruiti come bersaglio polemico dai filosofi di opposte fazioni. Riconosciamo invece che i negoziati concettuali non sono soltanto definizioni e argomenti; la chiarezza e la distinzione non sono obbligatorie a tutto campo. A volte una
certa dose di implicito è accettabile. Rendere esplicito l’implicito ha i suoi costi; e rendere esplicito l’implicito non significa rendere completamente esplicito. Può per esempio servire mantenere un certa latitudine nei concetti , concetti centrali come quello di mente o di vita, concetti più marginali come quello di colore o di memoria , non foss’altro che per permettere a discipline diverse di comunicare tra loro, di riconoscersi almeno parzialmente nel concetto, e, in fondo, di avere una storia. Questo non contraddice la richiesta di pensare al rallentatore; indipendentemente dal fatto che non è detto che un negoziato sia il toccasana, dato che non è detto che la filosofia sia utile in tutte le situazioni.
6. Lo straniamento Se la filosofia è vicina alla letteratura, la letteratura non mancherà nella formazione del filosofo. Ci sono filosofi come Jon Elster o Isaiah Berlin che riescono ad attingere dal patrimonio immenso di sfumature dell’anima consegnato alle pagine scritte dai grandi autori del passato. Ed è certo un bene leggere i classici della letteratura universale. Qui però mi è stato chiesto di parlare di come si insegna la filosofia, per cui troverete in questo paragrafo dei suggerimenti forse non ortodossi volti a massimizzare l’utilità filosofica delle letture. Insisto sulla metodologia perché vedo un facile rischio di essere frainteso. Non sto contrapponendo grandi classici e curiose opere di serie B, non sto invitando in modo snobistico a leggere le seconde a scapito dei primi. Leggere i capolavori contribuisce in modo diverso alla formazione del filosofo, lo informa su ciò che è o si è pensato che fosse essere una persona; il tipo di opere che suggerisco di guardare serve più ad affinare l’arte del far filosofia. Nel capitolo 5 abbiamo visto come la filosofia si nutra di esercizi di immaginazione, e sono questi che ci interessano da vicino. L’immaginazione vive di narrazioni, di trame. Non è importante che queste siano affidate alla parola scritta; quello che conta è che vi sia una trama sufficientemente articolata ed evocativa , per cui anche le opere cinematografiche andranno benissimo. Quando Truman Burbank, il protagonista di The Truman Show (interpretato da Jim Carrey) cerca di fuggire dalla sua città navigando verso l’orizzonte, si scontra con un fondale dipinto. A questo punto si rende conto del fatto che tutta la sua vita era un’immensa finzione. A volte
si deve visitare il limite, la frontiera del nostro mondo e del nostro paesaggio mentale per capire dove siamo. Ho già parlato dell’esplorazione del limite come strumento di comprensione. Mi interessa un altro aspetto, l’effetto di straniamento che si accompagna alla frequentazione dei casi limite. Lo straniamento è una condizione comune del filosofo; qualora non lo fosse, andrebbe coltivato scientemente. C’è uno straniamento propriamente filosofico: siamo spaesati di fronte a proposte radicali di revisione dei nostri schemi concettuali (le cose sono veramente solo aggregati di atomi; oppure, le cose sono veramente solo collezioni di rappresentazioni mentali). Siamo spaesati mentre cerchiamo di costruire l’impalcatura di un esperimento mentale (il teletrasporto, i mondi congelati). Siamo spaesati quando compiamo le azioni filosofiche come mangiare le cose che non ci piacciono. Lo straniamento è più in generale una tecnica letteraria usata laddove si intende associare alla letteratura una funzione pedagogica. Il drammaturgo Bertolt Brecht l’ha teorizzata e messa in atto in diverse sue opere. Il suo è un contesto diverso, quello della scrittura teatrale, che ci permette di spingere ancora più in là l’esplorazione della contiguità di letteratura e filosofia. Alcuni espedienti di straniamento usati nel teatro brechtiano riguardano il desiderio di prendere distanza dal teatro tradizionale: interviene un coro; gli attori si rivolgono al pubblico; recitano senza entrare nella parte; c’è un commento affidato a una voce fuori campo; si parla un po’ in prosa e un po’ in versi. Con tutti questi interventi si vuole attutire se non negare l’obiettivo non dichiarato del teatro di imitare una situazione reale; per l’appunto rendendo questo obiettivo esplicito e sottoponendolo a un esame critico (o permettendo allo spettatore di sottoporlo a questo esame). Un altro espediente è il ricorso al senso della possibilità, il principio per cui le cose avrebbero potuto anche andare altrimenti. Che cosa si ottiene? Si ottiene che lo spettatore non vede più le persone sul palcoscenico rappresentate come inalterabili, impermeabili a ogni influsso, abbandonate senza aiuto al loro destino. Vede: questa persona è quello che è perché le circostanze sono quello che sono. E le circostanze quello che sono perché la persona è quello che è. Ma la persona non è rappresentabile solo com’è, ma anche altrimenti, come potrebbe essere, e anche le circostanze possono venir rappresentate diversamente da come sono. Si ottiene che lo spettatore adotta un nuovo
atteggiamento a teatro. Ha rispetto alle immagini del mondo umano sul palcoscenico lo stesso atteggiamento che in quanto uomo di questo secolo ha riguardo alla natura. Verrà accolto anche a teatro come il grande trasformatore che è in grado di intervenire nei processi naturali e sociali, che non si limita ad accettare il mondo ma lo controlla. Il teatro non cerca più di stordirlo, di nutrirlo di illusioni, di fargli dimenticare il mondo, di riconciliarlo con il suo destino. Da oggi il teatro gli sottopone il mondo per permettergli di afferrarlo.
7. Ancora lo straniamento. Ai confini della realtà Lo straniamento è al cuore di alcune serie di fantascienza. Se le condizioni in cui viviamo fossero molto diverse, di quali concetti sarebbe opportuno armarsi? La serie televisiva Ai confini della realtà (The Twilight Zone, letteralmente ‘la zona di penombra’, un margine sfumato in cui non sai mai bene da che parte stai) potrebbe tranquillamente venir usata come introduzione alla filosofia sotto l’angolo dello straniamento. È un tipo di fantascienza molto particolare, diciamo a bassi effetti speciali. Non vediamo alieni a tre proboscidi resi in modo realistico. Di solito siamo portati per mano in una ambientazione rassicurante: cittadine americane come quelle da un quadro di Edward Hopper. Mi piacerebbe poter scrivere una guida ragionata alla filosofia della Twilight Zone e di altre opere di fantascienza. Alcuni episodi ricamano sul potere di Pigmalione e sull’esistenza del tutto particolare dei personaggi fittizi, che si estende a suggerire la possibilità dell’idealismo, ovvero di una dipendenza completa del mondo dalla mente. In And when the sky was opened, gli astronauti al rientro da un volo spaziale esistono solo perché ci si ricorda di loro; e a poco a poco svaniscono con l’affievolirsi dei ricordi altrui. In Perchance to dream la vita si rivela essere un sogno lungo un attimo. La sorpresa filosofica si manifesta quando ci si accorge che alcune cose a noi del tutto familiari sono in realtà qualcosa d’altro. Questo capitava a Truman Burbank: gli altri sanno cose di te che tu non sai. La solitudine metafisica di Truman veniva dettata dall’asimmetria nella conoscenza. E l’effetto è tanto maggiore quando la narrazione ci fa capire che l’inganno riguardava noi stessi. In The Hitch-Hiker, scopri addirittura di essere morta (rivisitato da The Sixth Sense, con Bruce
Willis); in The After Hours, scopri di essere un manichino. In Third from the sun i personaggi fuggono dal proprio pianeta e finiscono su un pianeta alieno , ma scopriamo che questo pianeta è la Terra. In I shot an arrow into the air pensi di essere su un asteroide e sei invece sulla Terra, con un effetto di straniamento al contrario. In tutti questi esempi ritroviamo una vecchia conoscenza, la variazione parametrica. Uno degli episodi più interessanti è Mirror Image. La situazione è metafisicamente distorta: un tuo doppio si è inserito nel tuo mondo e cerca di prendere il tuo posto. Che cosa fai? Le persone trovano le tue azioni bizzarre perché in contraddizione con quelle che il tuo doppio ha appena compiuto a tua insaputa; o, peggio ancora, perché assurdamente ridondanti rispetto alle azioni del tuo doppio. Devi scoprire che cosa lui intende fare; e per farlo devi cercare comunque di non indisporre gli altri, che hanno aspettative per te incomprensibili. C’è un’urgenza di azione, ma anche di razionalizzazione. Chi sono io, se c’è un mio doppio nei paraggi? I viaggi nel tempo sono un classico della fantascienza, e le trame puntano spesso sulla difficoltà di fare i conti con lo spostamento in un tempo storico che non è quello cui siamo abituati. In Walking distance si visita il villaggio della propria infanzia, ma entrati in un anello temporale si turba il proprio passato. In The last flight, la situazione si rovescia: compiendo un viaggio nel futuro si scopre di dover tornare nel passato per mettere le cose a posto, per cancellare una diserzione infamante. Oppure cambia il modo in cui il tempo scorre: Long live Walter Jameson, se sei immortale ti annoi (una ripresa compatta de L’affare Makropulos di Karel Capek). Se i filosofi hanno lungamente discusso degli aspetti metafisici dei viaggi nel tempo, il loro lato morale è stato meno apprezzato. Quali sono le conseguenze per l’azione, il modo in cui lo straniamento viene vissuto dai personaggi? Lo scrittore Kurt Vonnegut in Timequake racconta di un reset temporale che riporta l’orologio indietro di dieci anni; rendendosi conto che il tempo si sta ripetendo, tutti si lasciano andare, disinnescano la propria volontà, come affidandosi a un pilota automatico. In The Groundhog Day di Harold Ramis ogni giorno ricomincia identico al precedente e l’unico ad accorgersene è il protagonista. Ma come cambiano i nostri concetti se la struttura profonda del mondo cambia? Per esempio, se il tempo si ripete , una versione domestica dell’Eterno Ritorno di Nietzsche , e tu sei l’unica cosa che cambia. C’è sempre la responsabilità? L’amore è possibile? Che cosa fai se lo stesso giorno si ripete di continuo e tu sei l’unica persona che se ne accorge? Che cosa fai? Puoi forse
approfittare della ripetizione, visto che ogni giorno impari qualcosa di più degli altri che non si accorgono di come tu sia diverso da loro, sempre più potente nei loro confronti; visto che tu hai il diritto di fare errori e loro no. O non devi invece cercare di migliorare te stesso, accettando un destino che Nietzsche aveva evocato con l’immagine poderosa dell’Eterno Ritorno? Anche in questo caso il negoziato deve rendere possibile un’azione: ci vuole tempo se si è intrappolati nell’Eterno Ritorno. Si deve imparare a orientarsi in questo meta-tempo, che ha leggi sue.
8. La vita è più strana della letteratura? Esercitarsi allo straniamento, a guardare le cose come se fossero altro, dovrebbe far parte del percorso formativo del filosofo. Se le fonti letterarie e cinematografiche che si possono consultare sono innumeri non bisogna per questo trascurare la realtà, una sorgente di spaesamento a volte maggiore dell’immaginazione. Uno dei più travolgenti e sconcertanti esempi di negoziato concettuale , anzi, si tratta di un’intera batteria di negoziati , è il tour de force del neuropsichiatra Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Pubblicato nel 1985, presenta i resoconti di alcuni casi clinici neurologici che danno conto di come delle lesioni cerebrali di varia natura abbiano prodotto nei suoi pazienti la perdita irreversibile di capacità mentali che consideriamo fondamentali al punto da giudicarle spesso costitutive della nostra umanità. C’è la donna disincarnata, che sente il suo corpo solo quando la brezza di una corsa in auto le sfiora la pelle, e lo può controllare soltanto guardando l’arto che intende muovere; c’è quello che ha perso la capacità di memorizzare e vive confinato nel presente brevissimo che può esser contenuto nella memoria di lavoro, continuamente riscritta con nuove informazioni che cancellano le precedenti. C’è l’uomo che non sa riconoscere le cose pur potendone descrivere con dovizia di particolari la forma. C’è il paziente tourettico succube di scariche di tic. La descrizione accurata di Sacks cerca di farci rivivere l’esperienza di queste persone; cosě forse potremo capirle; cosě potremo cercare un canale per comunicare con loro e trovare il modo di aiutarle. Che cosa vuol dire vivere davvero solo nel presente, nei pochi attimi che precedono
l’adesso? L’uomo che non può più memorizzare non ha perso la memoria delle cose passate, avvenute prima del trauma che lo ha menomato cosě duramente. Da trent’anni ormai è malato. Se si guarda allo specchio si aspetta di vedere un volto giovane. Il vecchio che vi scorge lo riempie di sgomento e terrore. E come vive l’uomo che scambia sua moglie per un cappello? Che cosa vuol dire davvero non riuscire a riconoscere le cose più semplici intorno a noi, pur sapendo come afferrarle e riuscendo a descrivere la loro forma e il loro colore? Sacks è stato un pioniere del trattamento farmacologico dei pazienti con gravi problemi neurologici. Ma il suo progetto terapeutico ha soprattutto fatto perno sull’esigenza di concepire la malattia mentale in modo globale, a investire tutti gli aspetti della vita di un paziente. La narrazione letteraria di casi clinici che evoca con grande vividezza il mondo vissuto dei pazienti con gravi menomazioni serve a noi, lettori, ad entrare nella mente di persone che sono talmente distanti da essere dei veri e propri alieni. Questa conoscenza, questo sforzo di immaginazione è il primo passo per poter compiere i gesti corretti nei confronti dei pazienti. Dobbiamo rinegoziare il nostro modo di concepirli , non più come malati, come persone menomate, come nonpersone: ma come esseri umani che vivono in un mondo diverso e tuttavia vivono in modo degno. Scoprire che la nostra stessa mente, la cosa che più ci appartiene e che più diamo per scontata, può risultarci estranea, ci permette di prendere una posizione negoziale più aperta. Concludo questa carrellata. Se la filosofia è un’arte ed è diffusa, insegnare la filosofia significa in definitiva insegnare a vederla nelle pieghe della vita. Gli strumenti di questo insegnamento non possono che essere molti, vari, opportunistici. Si può certo educare la sensibilità alla ricerca di analogie generative e cautelative, e si può attingere all’immenso patrimonio di trame che permettono di esercitarsi a negoziare da un punto di vista straniato. L’obbedienza a un canone è invece soggetta alla parzialità delle scelte canoniche, serve semplicemente a tenerci al riparo dalla varietà. Per alcuni, naturalmente, questo non è affatto un rischio, ma un obiettivo confortevole.
12. A che cosa serve la storia della filosofia?
Come c’è una differenza tra lo studio della matematica e lo studio della storia della matemantica, cosě c’è una differenza tra lo studio della filosofia e lo studio della storia della filosofia. E tuttavia la maggior parte dei manuali di filosofia sono in realtà dei manuali di storia della filosofia, che disegnano un percorso grossomodo dai presocratici a Wittgenstein (o poco oltre). Ho già fatto notare che questa scelta ha una sua razionalità, anche al di là della sua evidente filiazione da un immagine della storia della filosofia che la considera attraversata e quasi guidata da un ordine interno, un inverarsi della ragione e del suo contrario in grandi figure storiche. È una razionalità strumentale, resa necessaria dall’esigenza di ovviare all’assenza di un canone filosofico. La storia della filosofia surroga quest’assenza con il rispetto (o presunto tale) del canone fattuale: la successione nel tempo delle figure che sono state considerate o che intendiamo oggi, retrospettivamente, considerare come filosofi. Va subito detto che come tutti i canoni anche un qualsiasi esempio del canone storico, un qualsiasi manuale di storia della filosofia è comunque intriso di normatività. Gottlob Frege, padre della logica e della filosofia del linguaggio contemporanee, non compare in molti manuali di storia della filosofia. Compaiono invece molti teologi. La geografia della filosofia è molto selettiva: difficile imparare granché di filosofia indiana o cinese dai manuali occidentali. Se poi accettiamo l’idea che la filosofia sia diffusa, è giocoforza che passino sotto silenzio innumerevoli micro-contributi filosofici che hanno segnato la crescita dell’arte o della scienza o della società. E ciò che viene presentato in genere non sono fatti storici, ma ricostruzioni. La filologia filosofica è appena accennata o del tutto assente. Se si pone mente al tipo di fonti di cui si dispone per i presocratici (per esempio, nessun testo ci è rimasto di Talete) o alla necessità di concentrare in pochi paragrafi le quaranta e passa mila pagine che ci ha lasciato Husserl, si ha un’idea dell’enorme varietà di problemi metodologici che devono affrontare gli storici della filosofia e gli estensori dei manuali. Le ricostruzioni razionali del pensiero di altri filosofi sono già incursioni al di fuori del campo della storia. Le ricostruzioni razionali obbligano a cercare le tesi principali per poterle confrontare; un esercizio tipico per una tesi di
laurea è la ricerca di parallelismi (tra Vico e Wittgenstein, tra Eraclito e Heidegger) o di anticipazioni (in mancanza di dati che corroborino l’ipotesi di un’influenza di Brentano su Wittgenstein, possiamo sempre cercare di mostrare che Brentano abbia anticipato Wittgenstein, all’insaputa di quest’ultimo). I manuali di storia della filosofia sono in realtà un genere particolarissimo di letteratura e come tali devono essere letti, studiati e valutati. I fatti di stretta pertinenza della storia della filosofia sono assai aridi , per esempio, chi ha scritto quale testo e quando; chi è l’editore di riferimento di Diderot e perché; quali lettere di Russell sono rimaste nella collezione di Frege; inserirli in una narrazione non è facile e tanto più grande la tentazione di far parlare non dei testi ma dei messaggeri ricostruiti di mondi spirituali cui si chiede di volta in volta d’essere plausibili, sorprendenti o interessanti, o magari tutte e tre le cose insieme. Ma davvero non c’è un ordine interno della storia della filosofia? In fondo Hegel può soltanto venire dopo Kant. Cosě diranno, probabilmente, i difensori di una concezione per cui lo spirito si invera nella storia. Se però c’è una verità nell’asserzione che Hegel poteva venire solo dopo Kant, e se non si tratta del fatto banale che Hegel lesse Kant e lo commentò ma non viceversa, questo non è per un legame interno tra Hegel e Kant, ma per un legame interno tra lo sviluppo della società e della scienza all’epoca di Hegel rispetto alla società e la scienza dell’epoca di Kant. I problemi di Hegel non sono più, o non solo, quelli di Kant. Direi che c’è comunque anche un problema più profondo. Non è infatti nemmeno chiaro che possa esserci una storia unitaria della filosofia proprio data l’enorme disparità di cose che oggi potremmo etichettare come filosofiche, pur se si accetta una visione di manica meno larga di quella difesa in questa Lezione che vede nella filosofia un fenomeno diffuso e ancillare, quindi esposto alle contingenze di cambiamenti che avvengono altrove. Altre discipline hanno una storia più lineare. La storia della matematica è certo una storia di tecniche, di sistemi simbolici, di metodi, di progressive generalizzazioni, di problemi che attraversano i secoli. E tuttavia un filo conduttore lega nel tempo la scoperta della possibilità di addizionare e l’invenzione della teoria dei gruppi. Certo, qualcosa lega Russell e Aristotele tra di loro, ma forse questo significa che la logica formale è in realtà più parte della matematica che della filosofia. Ma di che cosa è storia la storia della filosofia? Come accade quando i problemi non sembrano solubili dalla nostra
prospettiva limitata, possiamo cercare di allargarli, di guadagnare un punto di vista diverso, se possibile più elevato o più generale. A che cosa serve la storia in generale, non solo la storia della filosofia? Togliamo di mezzo l’agiografia e le narrazioni a tema che sono comunque un’insidiosa tentazione per chiunque metta le mani sul passato, ma non perdiamole di vista, in quanto il lavoro dello storico è spesso lavoro di demistificazione delle improbabili parentele e affinità del giorno dopo. Mi affido volentieri a uno storico che mette i puntini sulle ‘i’. Sarà vero che a ordini sociali conservatori corrispondono forme artistiche ieratiche e società più libere sono invece foriere di un’arte movimentata e naturalista (come sostiene la Storia sociale dell’arte di Hauser)? Sarà vero che con la rivoluzione scientifica si è passati dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (come ha scritto con fortunatissima frase Koyré)? La filosofia di Heidegger è intrecciata con le sue convinzioni o financo azioni politiche (come denunciò Croce)? Le posizioni filosofiche possono venir classificate davvero in base all’etnia di chi le ha sostenute? Quest’ultimo esempio pare artificioso, epperò è reale: lo storico e filosofo Max Wundt pubblicò nel 1944, in pieno sfacelo del regime nazista, un libro corredato di fotografie e ritratti nel quale cercò di mostrare delle correlazioni tra tratti somatici come il colore degli occhi e tendenze più o meno idealiste dei filosofi tedeschi. Su temi come questi gli storici sono le sentinelle, la coscienza dell’umanità. È importante che le società formino gli studenti al metodo storico, e che incoraggino la vigilanza nei confronti delle facili generalizzazioni e delle rappresentazioni mitologiche degli eventi del passato. Qui però ho allargato il problema. Nell’ambito filosofico, e più specificamente nella concezione della filosofia come negoziato concettuale, direi che i filosofi si devono avvalere degli storici per due ragioni principali, di carattere assai diverso tra loro, ma entrambe squisitamente teoriche. Da un lato serve spesso al filosofo la consapevolezza dei passi effettuati per giungere a una certa posizione. Per capire certi aspetti di una posizione filosofica ha molto senso cercare di accedere ai passi che in un determinato contesto hanno fatto sě che una determinata persona l’abbia enunciata. In un negoziato non filosofico se voglio capire perché la mia controparte non intende rinunciare a un pezzo di terra che non sembra avere alcun valore commerciale o strategico, non è inutile venire a sapere che lui legge tutte le sere un libro scritto secoli addietro nel quale si dice che quel particolare luogo viene
considerato come sacro. In questo modo di vedere le cose il lavoro di scavo storico non è un obbligo; ha un valore pragmatico o euristico. E una volta messa a nudo la storia, esiste l’opzione del far la tara. Visto dipendere dal contesto storico, un problema può risultare intrattabile, e allora il contesto dev’esser messo in quarantena, ignorato per permettere l’avanzamento della trattativa. Sapere dov’è l’ostacolo storico significa sapere come evitarlo, se necessario. E a ben guardare la cura della storia ancillare e la ricerca della verità storica è altrettanto diffusa della filosofia, tratteggiando un percorso comune a molte altre discipline. I demografi che studiano l’evoluzione di una popolazione devono capire come sono state fatte certe misure nel passato, quali fossero i criteri dei censimenti, per poterle confrontare con le misure odierne. Gli archeoastronomi che determinano le serie storiche delle eclissi (che incidentalmente hanno permesso di scoprire che la rotazione terrestre sta rallentando) devono estrarre dei numeri da delle narrazioni romanzate. Ma non è questo l’unico contributo fondamentale della storia all’operare filosofico. Se da un lato c’è il serbar traccia di come si è giunti a certe posizioni, d’altro lato la storia della filosofia permette di contemplare altri paesaggi concettuali; in questo senso aiuta, come aiuta l’immaginazione filosofica. Non è cosa da poco scoprire che nel passato la tecnologia era diversa, erano diverse le idee, diverse le priorità. Attenzione, non sto con questo sminuendo il ruolo del lavoro storico; lo sto anzi potenziando. Capire il presente è anche capire che il passato era profondamente altro. In questo senso la frequentazione della storia ha un ruolo simile a quello che ha la frequentazione dell’etnologia e dell’antropologia; Maurice Bloch parla di un mental health exercise, un esercizio di salute mentale. È un senso molto diverso, mi pare, da quello in cui viene oggi insegnata la storia: il passato eretto a giustificazione del presente, il genius loci trasformato in mitologie nazionali e finanche regionali. Antropologia e storia dovrebbero invece allearsi per suggerire che un mondo diverso è possibile: ed è possibile perché è stato, o perché è ora al di là del nostro breve orizzonte. Come scrive Philippe Descola, l’etnologia fornisce uno strumento per prendere le distanze da un presente troppo spesso pensato come eterno, suggerendo, per esempio, le molteplici strade che porta in esso il nostro avvenire. Quello che proprio non va è accettare simultaneamente due principi: che si debbano ricondurre le posizioni filosofiche ai loro contesti storici e
culturali; e che esistano problemi filosofici eterni, fuori dal tempo (i grandi problemi filosofici dell’umanità). In questo testo il dilemma ha una soluzione netta; non ci sono problemi filosofici universali.
13. La filosofia dei filosofi Tu dici che la filosofia è arte del negoziato concettuale. Ma tutti i filosofi la pensano cosě?. Ci sono molte altre proposte sulla natura della filosofia, i filosofi e anche i non filosofi amano dire che cosa pensano sia la filosofia. Consideriamo alcune di queste proposte per vedere se sono in qualche modo legate tra loro e se il presentare la filosofia come un’arte negoziale è in conflitto o in armonia con esse. Non cercheremo di discutere di tutte, ma dalla discussione di alcune di esse si potrà delineare una strategia.
1. Le questioni filosofiche sono grandi questioni Secondo una prima concezione, la filosofia si distinguerebbe da altre attività umane in quanto tratta delle grandi questioni dell’esistenza, della vita, dell’universo. Le domande come Qual è il senso della vita? sarebbero domande tipicamente filosofiche. Ora, si possono dare diverse risposte, a vario titolo, a questa domanda, come a molte altre domande. Per esempio, vi sono teorie biologiche, testi religiosi, ipotesi legate alla teoria dell’evoluzione, e anche opere letterarie o poetiche che propongono un loro modo di accostarsi alla questione del senso della vita. Ma vi sono anche risposte filosofiche alla domanda sul senso della vita? E se vi sono, in che cosa si distinguono dalle proposte della poesia, della biologia, o della religione? Molte altre domande hanno ricevuto attenzione da discipline o pratiche umane assai diverse tra loro. Esistiamo veramente? Esistono le cose intorno a noi? Siamo sicuri di sapere quello che sappiamo, e che cosa ci autorizza ad esserne sicuri? Dove finisce la mia sfera di azione, dove comincia la cieca necessità delle cose? Penso veramente o quello che mi passa per la testa è l’esecuzione di un programma?. Si tratta di domande di cui trattano, a vario titolo, discipline come la psicologia, la fisica, l’Intelligenza Artificiale, il diritto. È anche vero che sappiamo che si tratta di domande care ai filosofi. Ma in che senso queste domande hanno anche o prevalentemente o esclusivamente un lato filosofico? Non certo perché sono domande difficili, o addirittura di cui si ha il presagio che siano senza risposta. Vi sono domande difficili e per ora senza risposta in matematica, in fisica e in psicologia, ma questo non ne fa domande filosofiche. Vorrei
proporre un piccolo rovesciamento di prospettiva. Invece di chiederci che cosa fa sě che consideriamo le domande sopra elencate domande filosofiche, chiediamoci quali domande non siano filosofiche. La prima risposta è che le domande non filosofiche sono domande fattuali, come chiedersi se vi sia ancora del latte nel frigorifero, se il Titanic sia affondato nel 1912 o nel 1913, se il Sole graviti intorno alla Terra, o se il cerchio sia quadrabile (se poi quest’ultima è una domanda fattuale). In seconda battuta osserveremo che alcune domande considerate come tipicamente filosofiche sembrano anch’esse del tutto fattuali: se la mente sia identica al corpo, o se la vita non sia semplicemente un sogno, un’illusione. Mi sembra difficile negare che sia fattuale la questione se la vita sia o meno un sogno. D’altro lato, c’è invece un aspetto filosofico delle domande fattuali sulla natura dell’universo o il senso della vita; per rispondere domande fattuali come queste dobbiamo chiarificare i concetti che usiamo nel formularle , come abbiamo visto nel capitolo 9; ma questo lavoro di chiarificazione non è specifico della domanda in gioco. Per riassumere: molte delle grandi domande considerate come filosofiche sono in fin dei conti domande fattuali, che riceveranno una risposta , se la riceveranno , in una sede non filosofica. Domande come quelle sul senso della vita o sull’esistenza di Dio sono fattuali. Un filosofo può aiutare a circoscriverle, a trovar loro un senso; ma non può rispondervi più di quanto lo possa chiunque altro.
2. Le questioni filosofiche sono questioni immortali Una seconda concezione della filosofia è meno impegnata ma conserva uno statuto del tutto particolare. Ci sarebbero in filosofia grandi questioni sovratemporali, sulla natura della conoscenza, dell’esistenza, sul rapporto tra la mente e il corpo, sul modo in cui il linguaggio ci permette di parlare del mondo. Non sono le grandi questioni come quella sul senso della vita, ma sono questioni specifiche, tipicamente filosofiche, che attraversano le epoche e ci sfidano come gli enigmi della Sfinge. Secondo Colin McGinn è difficile inventare nuovi problemi filosofici. La mia critica è semplice: dal fatto che in ogni contesto storico si possano individuare delle questioni tipicamente filosofiche, non segue che le questioni siano sempre le stesse. Non esiste una questione mente-corpo che si ritroverebbe in forme più o
meno simili in diversi periodi storici. Consideriamo di nuovo il tema della soggettività delle qualità sensibili , colori e suoni , cui abbiamo fatto un cenno rapido nel capitolo 11. Sembra essere un ottimo candidato al titolo di problema filosofico universale e al di fuori del tempo. Non si fatica a leggerne una versione in Democrito: Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto; se ne troverebbero versioni nella filosofia moderna, e rielaborazioni nella filosofia contemporanea. In realtà è più giusto considerarlo come una costellazione di problemi che si sovrappongono parzialmente. Agli albori della scienza moderna , tra il XVI e l’inizio del XVII secolo , ci si preoccupava soprattutto di tracciare una linea tra diversi tipi di sorgente conoscitiva. Se le qualità sensibili come i colori e i suoni sono irrimediabilmente soggettive, allora non hanno la dignità di altri tipi di proprietà più utili alla conoscenza. L’esempio della cera di Cartesio presentato nel capitolo 7 milita a favore di questa interpretazione. Le qualità sensibili non sono necessarie per capire che cosa è veramente la cera (suggerisce Cartesio: è un corpo esteso, poco importa che sia colorato o meno). Va nella stessa direzione la discussione di Galileo, che sostiene che le qualità sensibili tengono solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sicché, rimosso l’animale, (sono) levate e annichilate tutte queste qualità. Il problema filosofico di Galileo e dei suoi contemporanei è quindi: se vuoi conoscere il mondo, non ti preoccupare delle qualità sensibili. Nella filosofia della mente nostra contemporanea il problema è esattamente invertito, ovvero è quello dell’incerta cittadinanza delle qualità sensibili nella visione scientifica: come puoi dire di conoscere il mondo, se quando lo descrivi non trovi un posto per le qualità sensibili? Come ha riassunto Frank Jackson: non diremmo di una scienziata che per ipotesi conoscesse tutto dei colori e della loro percezione , fisica, chimica, fisiologia , ma che non li avesse mai visti perché tenuta in una stanza bianca e nera tutta la vita, che imparerebbe qualcosa di nuovo quando le si mostrasse un campione di rosso? Certamente i due problemi sono legati, ma il problema contemporaneo delle qualità sensibili non è il problema moderno e non è neppure il problema antico , se mai possiamo parlare di un vero e proprio problema in quest’ultimo caso.
3. La filosofia è una terapia Se non si crede all’esistenza di problemi specificamente filosofici, ci sono comunque altre possibilità. Wittgenstein ha difeso una concezione terapeutica della filosofia. La chiarezza alla quale aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire solamente che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi permette di smettere di filosofare quando voglio. Quella che mette a riposo la filosofia, cosě che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa non c’è un metodo della filosofia ma ci sono metodi; per cosě dire, differenti terapie. Il presentarsi di grattacapi filosofici sarebbe sempre sintomatico di qualcosa che non funziona nel modo in cui abbiamo descritto una certa situazione; la diagnosi è per Wittgenstein un qualche cattivo uso del linguaggio (abbiamo visto nel capitolo 6 un esempio di questo malanno, la ricerca sconsiderata di sostanze per sostantivi). La terapia consiste nell’andare a vedere caso per caso come è stato usato male il linguaggio; questo lenirà i tormenti dei filosofi. Se cerco a tutti i costi un oggetto che mi permetta di dare un senso alla parola ‘pensiero’, rischio di imbarcarmi in un programma di ricerca che in realtà è una strada senza uscita. Ma i problemi filosofici devono scomparire davvero? Si deve davvero smettere di far filosofia? È certo un’opzione: il negoziato concettuale può terminare; si può decidere di agire e di vivere invece che di continuare a riflettere. Direi però che Wittgenstein fa solo metà strada, e se non percorre l’altra metà i suoi avversari fanno bene a tacciarlo di quietismo; il che sarebbe un peccato, visto che la metà del cammino che possiamo percorrere in sua compagnia è notevole. Ripensata in una teoria della filosofia come negoziato concettuale, la proposta di Wittgenstein acquista un senso compiuto. Per esempio permette di localizzare i punti deboli del negoziato dovuti al mancato accordo sul modo in cui si usa un termine. Giunti a questo punto possiamo fermarci, come fa Wittgenstein, o possiamo invece decidere di andare in cerca di altre possibilità. Va anche detto che a dispetto delle connotazioni spesso pessimistiche il contributo di Wittgenstein ha molti aspetti costruttivi; la sua mappa dei fenomeni mentali e in particolare degli usi del linguaggio per descrivere il comportamento animato da pensiero e intenzioni è stata per decenni una miniera in cui hanno scavato filosofi e
psicologi.
4. La filosofia, come la scienza, è alla ricerca della verità Per alcuni filosofi la filosofia è una scienza o assomiglia alla scienza non tanto in quanto condivide con la scienza l’esigenza di rigore metodologico ma in quanto ha come obiettivo la ricerca della verità. Un metafisico, per esempio, dovrebbe avere come obiettivo la scoperta di verità ultime sul mondo. Queste possono essere meno altisonanti di quelle ricercate da chi vede la filosofia come dedita ai grandi problemi. Il mondo è veramente fatto di oggetti, o è fatto di processi, o di entrambi, o di nessuno dei due e invece di qualche altro tipo di cosa? La mente è veramente riducibile a degli stati fisici del cervello? La Nave di Teseo è veramente quella al porto? (Pensate a quante domande veramente avete incontrato in questo libro.) Questa posizione è in contrasto con quella difesa qui, stando alla quale la filosofia non cerca direttamente la verità sul mondo, ma esplora le possibilità che ci permettono di riconcettualizzare in modo utile il mondo a fini negoziali. Le verità ultime sul mondo possono a volte venir scoperte grazie all’impostazione filosofica dei problemi; ma saranno allora verità di pertinenza di discipline empiriche come la fisica o la psicologia. Se ci sono verità filosofiche, queste sono di un altro tipo. Ne abbiamo discusso nel capitolo 10 parlando della conoscenza filosofica: le verità filosofiche possono al più essere legate alla possibilità e alla necessità; o a formulazioni condizionali, o a tesi negative. La ricerca di verità sul mondo viene circoscritta, aiutata dalla formulazione di asserzioni in forma condizionale o negativa. Ma la fatica della ricerca non viene scansata.
5. Le questioni filosofiche sono questioni concettuali Ci sono filosofi che avanzano pretese meno ambiziose. Per esempio, quei filosofi analitici che rivendicano una caratterizzazione metodologica e non contenutistica della filosofia. Non ci sarebbero temi squisitamente filosofici, ma un modo filosofico di trattare questo o quest’altro tema. La filosofia sarebbe essenzialmente analisi concettuale, condotta con metodo o quantomeno con rigore e onestà.
Questa posizione è forse troppo poco ambiziosa. Gli esempi ci mostrano che il senso profondo dell’analisi concettuale è legato al suo uso. Considerare la filosofia come circoscritta all’analisi concettuale è certo possibile, ma al di là dell’interesse intrinseco (e francamente limitato) di tracciare mappe concettuali, non si vede perché dedicarsi a questa attività, che sfocerebbe nell’autobiografia o, al meglio, contribuirebbe alla psicologia; scopriremmo solo che cosa pensa Tizio, o che cosa pensano tutti quelli come Tizio. Sono invece gli impieghi dell’analisi concettuale a rederla meritevole. E difatti la nozione di negoziato concettuale rivela a che cosa serve l’analisi concettuale. Come abbiamo visto nel capitolo 6, l’analisi concettuale è uno dei modi in cui si istituisce un tavolo per le trattative concettuali. Puoi cercare di capire che cosa ho in mente quando ti presento la mia teoria degli unicorni, e questo ti aiuta a formulare una teoria alternativa degli incontri ravvicinati con strane creature del bosco e a farmi capire in che modo la tua teoria è eventualmente migliore della mia. Ripeto: se la filosofia fosse solo analisi concettuale, non si capirebbe bene a che pro impegnarvisi. L’analisi concettuale non fornisce da sola nemmeno le basi per uno studio empirico utile dei concetti (perché potremmo essere sotto la presa di un’illusione introspettiva). Parlare di negoziato spiega invece a che cosa serve l’analisi. E a questo punto va anche bene che l’analisi concettuale non sia raffinatissima , per esempio, che non sbocchi in una definizione o in una caratterizzazione. Quel che conta è che sia efficace per il negoziato.
6. La filosofia offre giustificazioni ultime La ricerca delle cose ultime è un’altra richiesta sovente posta ai filosofi (è indipendente dalla ricerca di verità ultime sul mondo o dall’affrontare grandi questioni). La filosofia sarebbe ricerca dei fondamenti, della giustificazione ultima al conoscere e in fin dei conti anche all’agire. Si dovrebbero cercare principi fondamentali e assiomatici dai quali far discendere tutte le sfumature della vita come conseguenze logiche. Per esempio, si può sostenere che la società debba essere fondata sull’amore universale, e in conseguenza di ciò rigettare certi tipi di organizzazione sociale. O che il fondamento ultimo della conoscenza sia la percezione, e quindi rifiutare ogni tipo di conoscenza che non sia in un qualche modo ricondotta o riconducibile in linea di principio alla percezione.
Al di là della prudenza che dovremmo esercitare sulla scorta di quanto si è visto avvenire ogni volta che nella storia si è cercato di fondare la vita su principi ultimi dotati di carattere giustificativo, dobbiamo esser coscienti delle molte difficoltà per questa concezione di fronte al problema non banale di capire quello che le persone fanno e quello che dovrebbero fare. Siete convinti di aver trovato la giustificazione ultima per X. Questa giustificazione rischia di essere fuorviante. Rischia altresě di essere sbagliata. Rischia di essere decorativa, una giustificazione del giorno dopo, e di limitarsi a formattare in modo servile una posizione preconfezionata, di fatto non giustificando più nulla, e per soprammercato tradendo la vocazione di libertà della ricerca filosofica. Di fatto le persone agiscono sotto il controllo di impulsi, o sulla base di giustificazioni locali; raramente sulla base di giustificazioni ultime e teoriche, e quando lo fanno sembrano persone strane, invasate, scollegate dalla trama multiforme della vita. Voglio fare un semplice esempio. Un argomento ricorrente è che in assenza di una sorgente della morale, gli individui non saprebbero decidere in modo retto, sarebbero lasciati a loro stessi , l’uomo leverebbe la mano sull’uomo e la società si sfilaccerebbe. Ma vediamo. Un bambino sta per annegare. Paola si butta e lo salva. Un altro bambino sta per annegare. Giovanna si butta e lo salva. Chiediamo a Paola e a Giovanna perché si sono buttate. Paola ci guarda stralunata e dice: Che altro avrei potuto fare?. Giovanna ci dice (variazione di un piccolo parametro nell’esperimento mentale): L’ho fatto perché andare in soccorso agli altri mi è imposto dalla religione che seguo. Chi delle due è in deficit morale? Chiaramente Giovanna: come fa a non sapere da sola che si deve cercare di salvare dei bambini in pericolo di vita? Troviamo inquietante il fatto che per compiere un’azione giusta e necessaria Giovanna debba invocare un fondamento. L’esempio ci mostra che se la sola differenza è tra la presenza o l’assenza di un’autorità morale, allora invocare l’autorità non è necessariamente indice di una situazione moralmente sana. Di fatto getta una luce oscura sul profilo morale di tutti coloro che ritengono che tale autorità sia indispensabile. Per tacere, naturalmente, di tutti i crimini perpetrati adducendo il richiamo irresistibile della voce della coscienza. Rifiutare una giustificazione ultima è riproporre una visione esangue della filosofia? Non credo. È piuttosto proporre una visione che fa i conti con la realtà, con i fatti dell’umana psicologia. Nel corso di un negoziato (anche con la voce della propria coscienza!) l’obiettivo che dovremmo
prefiggerci non è tanto il fondamento ultimo, quanto più modestamente la trasparenza e la condivisione.
7. ‘La filosofia è sempre filosofia’ di, ‘ma non tutto è tema per la filosofia’ Anche se riconosciamo che la filosofia ha un ruolo ancillare, che è filosofia di, possiamo ancora voler dire la nostra su ciò per cui la consideriamo ancella. Non tutte le materie potrebbero venir elette al rango di materie per cui c’è una filosofia. Come fa notare Peter Kivy, ci sono una filosofia della musica e una filosofia della fisica, ma non sembra esserci una filosofia del baseball o delle fognature. Perché? Secondo Kivy quello che conta perché vi sia filosofia di una certa pratica o disciplina è che questa pratica o disciplina sia centrale per il nostro modo di vivere. Una pratica o una disciplina o un insieme di conoscenze sembra diventare ‘eleggibile’ (se questa è la parola giusta) per la filosofia, a rigor di termini, quando diventa per noi un modo di vita; quando affonda cosě profondamente nelle nostre nature di esseri umani che siamo sospinti a esplorare e a mettere a nudo i suoi recessi più profondi. Ma è vero? Una filosofia dello sport c’è. E nei libri non c’è una filosofia dell’arte barocca, arte che è magari centrale, anche se solo per alcuni di noi. Mi sembra che l’idea di Kivy sia in parte giusta, ma vada reinterpretata in senso contestuale. Se le fognature diventano importanti e vitali, possiamo aspettarci che una qualche riflessione filosofica, un qualche negoziato concettuale lo generino. È peraltro quello che accadde al medico John Snow, che studiando la distribuzione geografica dei casi di colera a Soho nel 1854 notò che erano legati alle abitazioni servite da un certa pompa dell’acqua. (Da notare che la teoria all’epoca dominante associava il colera alla qualità dell’aria.) Snow mise in relazione i concetti di spazio, tempo e malattia permettendo la riconcettualizzazione delle epidemie indipendentemente dalla scoperta di una causa precisa del loro manifestarsi. Un piccolo negoziato locale, ma con grandi effetti, dato che ha segnato la nascita dell’epidemiologia. In realtà si deve soprattutto por mente al fatto che la filosofia è molto più diffusa di quanto non appaia nei libri di filosofia. Se cercate nei libri di filosofia non troverete una discussione della filosofia delle fognature. Ma non faccio fatica a immaginare che non poche discussioni concettuali si
producano laddove si deve negoziare sul passaggio di una condotta fognaria in un contesto meno privilegiato di quello occidentale. La differenza quantitativa tra le produzioni di filosofia della musica e filosofia delle fognature rischia di riflettere soltanto il fatto che le fognature per quelli fortunati come me e Kivy non sono più un problema centrale e quotidiano della vita. C’è anche il rovescio della medaglia. Anche degli episodi del tutto occasionali e affatto marginali nella vita di una persona possono suscitare riflessioni filosofiche. Non è solo questione di ciò che mette in moto la riflessione (le seicento pagine di Massa e potere di Canetti occasionate , pare , dall’assistere a una manifestazione di piazza sono poi il frutto di un lavoro di quasi quarant’anni, e comunque riguardano un elemento centrale della vita, il rapporto con il potere e il comando). Ci sono incontri occasionali con attività non centrali che si rivelano ricchi di spunti filosofici. Fare una fila, per esempio, può indurci a riflettere sul senso dell’attesa (un esercizio per il lettore la prossima volta che gli capita di fare la fila). Sottoporsi a un massaggio ci rivela il senso della passività, del poter divenire un puro corpo. Il mio corpo non è solo un insieme di possibilità di azione, ma di passività: può essere rivelato dal gesto altrui. Posso imparare a essere completamente passivo? Richiedere che la filosofia di sia legittima solo quando a essere investiti dalla riflessione sono i temi centrali della vita significa privarsi dunque di molte occasioni di incontro filosofico, e in definitiva di molte possibilità di vedere il mondo sotto una luce diversa.
8. Davvero non esiste la filosofia pura? Riprendiamo le fila del nostro discorso più generale. Dire che la filosofia ha un carattere ancillare significa dire che le questioni filosofiche sono sempre state questioni metodologiche o metadisciplinari. Quelle che oggi ci sembrano domande tipicamente filosofiche , domande di pertinenza di un dominio autonomo rispetto a quello che è indagato dall’una o dall’altra disciplina empirica , quando sono riviste nel loro contesto storico sono domande non autonome ma legate ai tentativi di formare programmi di ricerca empirica, o a rendere possibile un’azione efficace in una vita individuale o sociale che muta continuamente. È solo a posteriori che, fuori dal contesto della loro nascita, queste
domande ci sembrano autonome: questioni come quella dei rapporti tra mente e corpo, dell’esistenza dei numeri, dell’esistenza di oggetti fittizi, sono tutte in realtà domande prive di autonomia filosofica. La versione forte della mia tesi è quindi che tutte le domande filosofiche sono metadisciplinari, che nessuna è autonoma, e che per ragioni da indagare alcune ci sembrano oggi autonome. Rudolf Carnap aveva introdotto una distinzione tra problemi esterni e problemi interni a una teoria scientifica o di un sistema di rappresentazione. Per esempio, un problema interno all’aritmetica è se esista un numero pari che non sia la somma di due numeri primi; un problema esterno è se esistano i numeri, nientemeno. Secondo Carnap le domande interne sono senza peso filosofico. Quelle esterne, filosofiche, sarebbero invece prive di significato, nel senso che la teoria (in questo caso l’aritmetica) non ha i mezzi per rispondervi, ed eventuali decisioni vengono prese a un livello più alto in cui si paragonano tra loro teorie diverse che hanno ontologie diverse. Qualcosa di questa idea potrebbe venir generalizzato a tutti gli aspetti dell’operare umano. Un pittore può affrontare il problema della scelta dei colori, è un problema interno; ma può interrogarsi sul senso del fare artistico, e questo è un problema esterno. C’è una componente metateorica che si affianca al lavoro svolto in ogni teoria o attività. Se proprio si dovesse trovare un senso all’espressione filosofia pura, si dovrebbe trovare un sinonimo simpatico di metateoria delle metateorie. Forse conviene rinunciare da subito; resta che se la filosofia è fatta essenzialmente di questioni metateoriche, e la filosofia pura ci dice come affrontare le questioni filosofiche, ovvero metateoriche, dobbiamo rassegnarci a questa infilata di livelli. Cosa non poi cosě terribile, in fondo; l’infilata di livelli ‘meta-’ è cosa abbastanza comune. Ci sono macchine che costruiscono macchine. Ci sono programmi informatici che servono a scrivere programmi. Nei cataloghi d’arte ci sono fotografie di quadri e alcuni di questi ultimi rappresentano ulteriori quadri. La Costituzione è una legge che permette di scrivere leggi. Nel 1982 il filosofo Peter Suber inventò il Nomic, un gioco reso popolare dalla rubrica di Douglas Hofstadter sulla rivista Scientific American (e devo ammettere che si trattò di una delle letture più interessanti della mia formazione di filosofo). In realtà era un metagioco, le cui mosse consistevano nel cambiare le regole del gioco, attenendosi a meta-regole immodificabili. Una regola immodificabile recita: I giocatori
hanno sempre la possibilità di lasciare il gioco piuttosto che continuare o subire una penalità. Non possono essere assegnate penalità più gravi della sconfitta a giudizio di chi le deve subire. Una regola modificabile è invece I giocatori si alternano in senso orario, completando un turno a testa. I turni non possono essere saltati o ceduti, e non si deve tralasciare alcuna parte del turno. Tutti i giocatori cominciano con 0 punti. Giocando per posta o via computer, i giocatori si alternano in ordine alfabetico per cognome. I giocatori possono cambiare questa e altre regole modificabili (per esempio possono decidere che si usi denaro vero e non punti, o che chi perde viene esiliato). Le regole immodificabili permettono di inquadrare i cambiamenti, per esempio in modo da non snaturare la natura di gioco del Nomic. E sappiamo che il confine tra gioco e non gioco è labile, ovvero è facile oltrepassarlo senza accorgersene. Il poker è solo un gioco? Non puoi lasciare il tavolo senza onorare il tuo debito. La legge è dalla tua , il gioco d’azzardo è di norma vietato , ma magari i tuoi creditori non la pensano cosě. La filosofia pura starebbe alla filosofia come le regole immodificabili del Nomic stanno alle regole modificabili. Le regole immodificabili stabiliscono come cambiare le regole modificabili. Abbiamo visto che le domande fattuali non esistono nel vuoto. Non ci sono domande fattuali cui si possa dare una risposta al di fuori di un quadro teorico, seppur minimo, che dia senso alla domanda e permetta di individuare una strategia di risposta. Questo è evidente per domande come quella sulla quadratura del cerchio, del tutto incomprensibile a chi non domini i concetti teorici di cerchio e di numero razionale. Ma anche domande che sembrano meno impregnate di teoria come quella sulla presenza del latte in frigo o sulla data dell’incidente al Titanic possono ricevere una risposta solo se si presuppone il possesso di alcuni strumenti di indagine e di conferma percettiva o storica. Si noti che le teorie in questione non sono necessariamente esplicite o note in tutta la loro articolazione a chi le possiede. Può trattarsi di teorie implicite, tacite, del modo in cui funzionano le cose. Le domande fattuali sono legate a doppio filo all’esistenza di teorie. E la formulazione di una teoria richiede che si ponga attenzione alle questioni metateoriche. In definitiva un aspetto che mi sentirei di sottolineare della proposta che viene avanzata in questa Lezione è che la distinzione tra filosofico e non filosofico coincide (spesso) con un’altra distinzione, quella tra metateorico e teorico. Le teorie permettono la formulazione di domande
fattuali; le metateorie permettono la costruzione di teorie. Il negoziato sale di un livello. Si incontra filosofia ogniqualvolta si incontra una domanda metateorica. Una conseguenza di questa riflessione è che le teorie filosofiche sono piccole , proprio perché sono metateorie. Questo non le rende meno importanti. Che la filosofia sia ancella, che debba ad altre discipline o pratiche la definizione della sua agenda, non significa che sia poi una decorazione apposta ai risultati di queste discpiline o pratiche. Non è solo un modo di mettere in bella copia concettuale quanto altri hanno prodotto , come pensavano i neopositivisti. È invece come l’acqua e l’aria in cui si muovono e respirano le scienze, l’arte, e in definitiva la stessa vita quando questa non vuole essere cieco agire.
14. In fine Con questa Lezione ho cercato di ottenere due risultati. In primo luogo, mi auguro di essere riuscito a incoraggiare i filosofi ad occuparsi di problemi non soltanto, o non tipicamente accademici. In secondo luogo ho cercato di incitare chi, al di fuori dell’accademia filosofica, si occupa di problemi concettuali, a vedere se stesso come filosofo a tutti gli effetti, e incoraggiarlo quindi ad adottare quelle pratiche e quelle tecniche che i filosofi di professione hanno raffinato nei secoli misurandosi con mille problemi diversi. In entrambi i casi penso si possa andare alla ricerca di margini inesplorati per il lavoro filosofico. Potrei rivolgere altri inviti. Agli storici della filosofia, per esempio, perché riconsiderino (o rinegozino concettualmente) il perimetro delle loro ricerche a partire dal fatto che la pratica filosofica è del tutto permeabile, e invero permeata da altre pratiche. Abbiamo molto bisogno di storia; uno sguardo critico e attento al passato, a quello che è stato fatto, è al tempo stesso uno sguardo critico su quello che stiamo facendo. La ricerca storica in certo senso agisce come l’immaginazione, mostrando possibilità diverse da quelle che il presente ci offre. Ho presentato una teoria della filosofia. L’interesse di una teoria è di cercare di rendere conto di un ampio numero di fenomeni che potrebbero sembrare poco collegati tra loro, e di fare delle previsioni sul manifestarsi di altri fenomeni. La teoria che ho difeso dice che la filosofia è un’attività di negoziato, un’arte più che una forma di conoscenza. La filosofia , la pratica sul terreno della filosofia, non la sua versione falsamente canonica e un po’ caricaturale che si ritrova nei manuali , è essenzialmente negoziato concettuale, ovvero costruzione di impalcature , definizioni, narrazioni, esperimenti mentali, immagini, parabole , che permettano il confronto tra punti di vista diversi sul mondo, tra diversi modi di operare. Ne segue subito che la filosofia è molto più diffusa di quanto non si riconosca di solito. In particolare la si ritrova come componente non opzionale della scienza: ad alcune domande indispensabili nella scienza non si può rispondere utilizzando i metodi scientifici interni. Per determinare che cos’è un pianeta non serve andare a esplorare lo spazio; anche se poi una volta che lo si è determinato, è la ricerca empirica, una misura, che decide se Plutone è un pianeta o se non lo è. E si ritrova la filosofia come componente non opzionale nella vita ogni volta che delle tensioni concettuali bloccano la decisione e l’azione, come hanno mostrato
gli esempi della Costituzione e del processo a Brâncusi. La tenuta dell’idea della filosofia come arte del negoziato concettuale si può misurare sul numero di fenomeni che riesce a spiegare. Come abbiamo visto, le conseguenze della concezione negoziale della filosofia sono molte e assai articolate. Per esempio, pur essendo spesso necessaria la filosofia non è sufficiente a sbloccare un negoziato; non è quindi un toccasana. Questo fatto segue dalla constatazione che non sempre serve negoziare. A volte si devono tagliare dei nodi gordiani; passare la mano alla vita, o alla scienza, o all’arte. Inoltre la filosofia offre soprattutto possibilità, e la scelta tra queste non è una sua prerogativa. Infatti dalla natura negoziale della filosofia discende una predilezione essenziale per la neutralità di una filosofia che si propone soprattutto di allagare la visione del gioco; unita a una predilezione strumentale, non fine a se stessa, per il lavoro di scavo nei concetti. Con alcune raccomandazioni metodologiche: l’uso degli esperimenti mentali che si basa su piccole variazioni parametriche; un’analisi dei costi e dei benefici che deve sempre orientare la ricerca di soluzioni. Un’altra importante conseguenza è che si spiega come mai non vi sia un canone della filosofia: questo fatto è conseguenza della concezione negoziale, e del carattere diffuso della filosofia. Il che significa che il modo naturale di imparare a fare filosofia richiede essenzialmente che si coltivi la capacità di scorgere analogie tra argomenti e problemi in apparenza diversi. Altra conseguenza: molti problemi tipicamente considerati come filosofici sono in realtà dei problemi di altra natura, spesso fattuale: le grandi questioni, come quella sul senso della vita o l’origine del mondo, sono questioni empiriche (quando sono questioni sensate, ma non ci siamo lasciati sedurre dalla scelta obbligata wittgensteiniana tra parlare di cose dotate di contenuto empirico o tacere: il negoziato concettuale non è silenzio, e non è fattuale). Una certa tolleranza filosofica risulta peraltro del tutto automatica nella concezione negoziale: Heidegger negozia concettualmente (quando lo fa, per esempio nelle sue profonde discussioni sulla cura) anche se lo fa con mezzi suoi che non sono necessariamente condivisibili per un filosofo che ami far riferimento a Frege; e viceversa. Se certi aspetti della modalità negoziale di Heidegger o di Frege ci risultano inaccettabili o poco condivisibili, questo dipende probabilmente da fattori contestuali. La realtà è complessa, le persone sono complesse, e non c’è ragione di privarsi di strumenti interpretativi.
Pensare alla filosofia come negoziato fa sě che dovrebbero considerarsi filosofia cose che tipicamente non lo sono; e che alcune cose che tipicamente sono considerate filosofia non lo siano , ma questo è solo normale, è il privilegio delle ipotesi anche solo un po’ avventurose e auspicabilmente interessanti; servono a farci vedere in modo nuovo la realtà. Ho fatto mia l’idea del filosofo come una persona che pensa al rallentatore, che guarda il pensiero alla moviola, rallentandolo fino al fermo immagine. La filosofia non è quindi una materia, e se è una disciplina lo è nel senso in cui serve a disciplinare il pensiero, ovvero a rendere esplicito quello che è spesso lasciato implicito. È un’arte. Un’arte strana, che avanza di continuo richieste di trasparenza e rigore intellettuale, laddove questo è possibile. Ho suggerito che una componente filosofica esiste in ogni attività umana, teorica o pratica, in ogni tipo di lavoro e professione; si manifesta nel momento in cui si passa dall’azione secondo una procedura alla riflessione sul perché e sul come di questa azione e di questa procedura. Ma allora la filosofia è sempre ancella di qualcun altro , delle scienze, dell’arte, della storia? È sempre filosofia di? È sempre la nottola di Minerva che prende il volo a cose fatte, sul far del crepuscolo, come diceva Hegel? Certo, la filosofia è sempre di fronte al dato. Ma la vita è comunque sempre di fronte al dato. Tuttavia questo non toglie che la filosofia possa volare oltre, andare lontano , non subire il dato. È anzi vitale che la filosofia cerchi di guardare lontano; è facendo questo che arricchisce lo spazio del negoziato. Difendere una concezione ancillare, non pura della filosofia non significa sminuire il lavoro filosofico. La filosofia, la riflessione concettuale, è linfa vitale per le scienze, l’arte, la vita. Mi oppongo pertanto a una certa timidezza e ritrosia del filosofo. Non intendo dire che il filosofo debba a tutti costi occupare la scena pubblica e tanto meno mediatica; ma penso che possa e debba intervenire in quanto filosofo in molti contesti proprio perché, come spero di aver mostrato, il suo lavoro è utile. Se preferite, questo libro è una difesa dell’intellettualismo, della necessità di andare a fondo nelle cose anche più semplici, perché anche le cose più semplici sono la punta di un iceberg di smisurata grandezza e complessità, e a voler negoziare soltanto con la parte emersa si rischia di non andare lontano. Cantieri aperti e a venire non mancano. Alcuni sono facilmente prevedibili; altri non sono oggi nemmeno immaginabili; per altri ancora mi
si conceda qualche scommessa. Le nuove tecnologie irrompono nella vita; non di tutti , e questo è già un problema , ma di molti. Nella prospettiva di una tracciabilità totale dell’informazione si dovrà riflettere sul rapporto tra segretezza e trasparenza. La trasparenza rende più giusta la società o è solo uno strumento di controllo? La segretezza protegge gli individui o permette a chi non vuole rispettare le regole di condurre traffici illeciti al riparo da sguardi indiscreti? Quale punto di equilibrio vogliamo raggiungere? Ancora, la medicalizzazione della società: la mappatura del genoma umano e le tecniche non invasive di neuroimmagine aprono possibilità enormi per la diagnosi precoce di malattie genetiche e disturbi del comportamento. Questo trasforma le persone in potenziali pazienti dal momento della diagnosi, anche se l’anomalia si manifesterà molto più tardi nella loro vita: fino a che punto deve spingersi la conoscenza? Le nuove frontiere dell’epistemologia: la raccolta di un numero impressionante di dati osservativi e misure crea le basi per delle indagini ad ampio raggio che cercano in modo selvaggio correlazioni inusitate tra fenomeni. Questo tipo di ricerca non è guidata da nessuna ipotesi teorica, non si ispira ad alcuna intuizione: che conoscenza possiamo ottenere? I diritti delle minoranze in un mondo in cui le maggioranze si consolidano e tendono a instaurare delle vere e proprie situazioni di monopolio economico, culturale e sociale. Il dialogo tra burocrazia e democrazia, esemplificato dal successo straordinario di un’istituzione come l’Unione Europea, e dall’impasse in cui si trovano spesso gli Stati che la compongono. La fine annunciata del libro, della monografia di duecento pagine, per ragioni di mercato: e la conseguente scomparsa di un formato di elaborazione intellettuale che se pur contingente ha marcato l’evoluzione culturale degli ultimi quattrocento anni. Come ce la caveremo con dei nuovi tipi di scrittura filosofica, più frammentata, più rapida? E altri temi ancora: l’inizio e la fine della vita, l’educazione per chi e come, le controversie epistemologiche sulla teoria dell’evoluzione, le guerre combattute dai robot, l’obbligo morale di donare per promuovere il benessere di persone lontane, la sfida degli Ogm, l’epistemologia distribuita esemplificata dalle discussioni sul cambiamento climatico, la neuromania, l’opera d’arte nell’epoca della creatività di massa, l’essere straniero in un mondo in cui la mobilità è una richiesta economica e una condizione di vita, il voto elettronico e l’allentamento del controllo sociale sui meccanismi della partecipazione, la perdita di orizzonte temporale in una società dell’accesso e non del possesso, la cura del luogo in cui si vive, la
biodiversità. E non è che una piccola lista , ci aspetta molto lavoro. Che la filosofia sia intrecciata con la vita, che anche la contemplazione sia al servizio della prassi, ci ricorda che non possiamo esimerci dall’agire: dobbiamo essere parte della società in cui viviamo, saper dire di no quando le circostanze lo richiedono. Per poterlo fare conta molto imparare a guardare oltre. Se c’è qualcosa che mi piacerebbe restasse di questa lezione, è l’aver comunicato il senso che si possa sempre guardare lontano. Forse il mondo in cui viviamo non ci convince; e allora va visto come una possibilità tra tante. Vale sempre la pena di pensare a possibilità non realizzate, spingendoci oltre, sperimentando.
Annotazioni, letture e visioni
Per scrivere questa Prima lezione di filosofia penso di aver tenuto presente tutte le letture di filosofia che ho fatto; ma qui citerò soltanto quelle che sono più direttamente attinenti al testo. Come ho detto, questo lavoro non è un’introduzione alla filosofia, o un riassunto di posizioni filosofiche. La lista di riferimenti che segue non va quindi presa per una bibliografia o filmografia per accostarsi alla filosofia. Per i classici, di cui vi sono molte edizioni, vengono dati solo riferimenti sommari. 1. Il filosofo è un negoziatore concettuale Sul negoziato in generale, lo Harvard Negotiation Project: Fisher, R., Ury, W.L., Patton, B., 1981, 1991, Getting to Yes: Negotiating Agreement Without Giving In, London, Penguin (trad. it. L’arte del negoziato, Milano, Corbaccio, 2007). 2. La filosofia all’opera Su Brâncusi: Brancusi contre États-Unis, un procès historique, Paris, Adam Biro, 1995. Giry, S., 2002, An Odd Bird, Legal Affairs, September/October, http://www.legalaffairs.org/issues/September-October2002/story_giry_sep oct2002.msp. Le minute dell’Assemblea Costituente sono disponibili sul sito dell’Archivio della Camera dei Deputati (http://archivio.camera.it/archivio). È consigliabilissimo il sito http://www.nascitacostituzione.it, a cura di Fabrizio Calzaretti, che raggruppa le discussioni relative a ogni singolo articolo. De Filippo, E., 1946, Filumena Marturano, in Teatro, vol. II, Cantata dei giorni dispari, t. I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 487-646. Dall’opera è stato tratto un film (1951) diretto e interpretato da Eduardo De Filippo. Che cosa è una specie? Casetta, E., 2009, La sfida delle chimere. Realismo, pluralismo e convenzionalismo in filosofia della biologia, Milano, Mimesis. L’uso delle duplicazioni per capire se un certo oggetto è artistico o meno: Danto, A., 1981, The Transfiguration of the Commonplace, Cambridge (Mass.), Harvard University Press (trad. it. La trasfigurazione del banale, Roma-Bari, Laterza, 2008). 3. Segni particolari Velázquez ha dipinto un quadro filosofico? Foucault, M., 1966, Les mots et les choses, Paris, Gallimard (trad. it. Le parole e le cose, Milano,
Rizzoli, 1967). Più cose fra cielo e terra: W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V. Ripensare sempre da capo i problemi filosofici: Strawson, P., 1959, Individuals, London, Methuen (trad. it. Individui, Milano, Mimesis, 2008). 4. Lo spazio negoziale La Nave di Teseo: Plutarco, Teseo; Hobbes, T., De Corpore, 2, 11, 7. La letteratura sull’identità degli oggetti materiali è smisurata ma può venir facilmente ricostruita con una breve ricerca online utilizzando parole chiave come identity of material objects, Ship of Theseus. Per un’introduzione, Wasserman, R., 2009, Material Constitution, in Zalta, E.N. (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2009 Edition),http://plato.stanford.edu/archives/spr2009/entries/material-constit ution. Il problema della Nave di Teseo è molto meno astratto di quanto non lasci supporre la sua popolarità filosofica. Nel 1995 una corte californiana ha incolpato il signor Boyd Coddington di una truffa detta Nave di Teseo. Boyd Coddington è stato un’icona della cultura americana delle auto cosiddette Hot Rods. Una Hot Rod (Hot Roadster) è un’automobile truccata che viene rifatta artigianalmente, vuoi per renderla più veloce (cambiando l’aerodinamica, alleggerendola, e potenziando il motore), vuoi per cambiarne il design e gli elementi decorativi. I modelli di Coddington, dai nomi evocativi come ‘CadZZilla’, hanno spopolato nel settore (di cui è facile immaginare l’ampiezza: gare, concorsi, indotto). Bono degli U2 è stato uno dei clienti di Coddington. Il problema nasce dalla nozione di auto truccata: fino a che punto si tratta di un’auto vecchia modificata, o di un’auto tutta nuova? Il caso legale ha messo in contatto la cultura popolare e l’accademia; il legislatore filosofo ha indossato i panni del negoziatore concettuale. Coddington è stato condannato perché da anni si erano fatte rare le bagnarole da modificare; difficile convincere la corte che quei modelli tirati a lucido non fossero del tutto nuovi. Vedi Casati, R., 2009, Teseo sulla Hot Rod, Il Sole 24 Ore, 3 maggio. La Polonia venne spartita varie volte tra i suoi vicini alla fine del 1700. Ci si può chiedere se fosse veramente la stessa Polonia l’entità che esisteva prima della spartizione e quella che si ritrovava dopo il ricongiungimento. È difficile inventare nuovi problemi filosofici: McGinn, C., 2002, An Ardent Fallibilist, New York Review of Books, 49, 11, June 27. Essere straniero: Schutz, A., 1944, The Stranger: An Essay in Social
Psychology, American Journal of Sociology, 49, 6, pp. 499507. Sui dibattiti: la citazione di Chomsky è contenuta nell’articolo di Piattelli-Palmarini, M., 1994, Ever since language and learning: afterthoughts on the Piaget-Chomsky debate, Cognition, 50, pp. 315346. 5. La rinuncia necessaria e il dovere dell’immaginazione Il filosofo pensa alla moviola: Campbell, J., intervento nel libro fotografico Pyke, S., 1995, Philosophers, London, Zelda Cheatle Press. Il senso della possibilità: Musil, R., 1930/1943, Der Mann ohne Eigenschaften (trad. it. L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1972). La teoria della creatività: Johnson-Laird, P.N., 2005, The shape of problems, in Girotto, V., Johnson-Laird, P.N. (a cura di), The Shape of Reason: Essays in Honour of Paolo Legrenzi, New York, Psychology Press, pp. 3-26. Siamo avidi consumatori di storie: Schelling, T., 1984, The Mind as a Consuming Organ, American Economics Review, 74, 2, pp. 1-11. La filosofia è simulazione di situazioni in cui potremmo trovarci un giorno: Bencivenga, E., 1988, Tre dialoghi, Torino, Bollati Boringhieri. I problemi etici della riproduzione: Bacchini, F., 2006, Persone potenziali e libertà, Milano, Baldini Castoldi Dalai. Evitare una dieta unilaterale di esempi: Wittgenstein, L., Ricerche filosofiche, § 593. È possibile anche un approccio sfumato alla scelta tra la filosofia che si limita a offrire possibilità e quella che richiede che si militi decisamente per l’una o per l’altra possibilità. In alcuni casi vorremmo essere più impegnati che in altri; le intuizioni o il ragionamento ci guidano in una direzione. Basta metterlo nero su bianco. I giudizi morali sono soltanto decorazioni a partire da intuizioni preconfezionate: Haidt, J., 2001, The emotional dog and its rational tail: A social intuitionist approach to moral judgment, Psychological Review, 108, pp. 814-834, che ha iniziato una vasta letteratura. 6. L’arte della filosofia Assemblare ricordi: Wittgenstein, L., Ricerche filosofiche, § 127. Il doppio standard nella discussione sull’evoluzione: Dennett, D., 2005, Darwin’s Dangerous Idea, New York, Simon and Schuster (trad. it. L’idea pericolosa di Darwin, Torino, Bollati Boringhieri, 2004). Che cosa si annida in un nome: http://en.wikipedia.org/wiki/Macedonia; http://en.wikipedia.org/wiki/Macedonia_naming_dispute.
Andrebbero guardate non solo le voci, ma le discussioni editoriali che fan loro da sfondo. Opporsi al modo in cui vengono nominate le cose: Corriere della sera, rilevazione del 16 marzo 2010. Wills, G., 1995, To Keep and Bear Arms, The New York Review of Books, 42, 14, September 21. Gli insulti e la disumanizzazione del proprio avversario: Pinker, S., 2002, The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature, London, Penguin Putnam. Atei e bright: vedi la voce Brights movement di Wikipedia. Sostanze per sostantivi: Wittgenstein, L., 1958, Libro blu, Torino, Einaudi, p. 1; 1990, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Milano, Adelphi. L’illusione della realtà virtuale: Pasquinelli, E., 2011, Toute ressemblance ne saurait ętre que fortuite, Paris, Vrin. L’analisi del linguaggio: Austin, J.L., 1962, How to do Things with Words: The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, Oxford, Clarendon (trad. it. Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987). L’analisi concettuale e la metafisica descrittiva: Strawson, P.F., 1992, Analysis and metaphysics, Oxford, Oxford University Press. Analisi concettuale, definizione, caratterizzazione teorica: Neander, K., 1991, Functions as Selected Effects: The Conceptual Analyst’s Defense, Philosophy of Science, 58, 2, pp. 168-184, in particolare il § Le definizioni operative: Bridgman, P.W., 1927, The Logic of Modern Physics, New York, Beaufort Books (trad. it. La logica della fisica moderna, Torino, Einaudi, 1952). Einstein e la simultaneità: Galison, P.W., 2003, Einstein’s Clocks, Poincare’s Maps: Empires of Time, New York, W. Norton & Company (trad. it. Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo, Milano, Raffaello Cortina, 2004). La distinzione tra visione semplice e epistemica: Dretske, F., 1969, Seeing and Knowing, Chicago, The University of Chicago Press. Esempi e controesempi in matematica: Steen, L.A., Seebach Jr., A.J., 1978, Counterexamples in Topology, New York, Springer Verlag. Il controesempio di Gettier: Gettier, E., 1963, Is Justified True Belief Knowledge?, Analysis, 23, pp. 121-123. Si veda la ricca discussione di Nozick, R., 1981, Philosophical Explanations, Cambridge (Mass.), Harvard University Press (trad. it.
Spiegazioni filosofiche, Milano, Il Saggiatore, 1987). 7. Come si costruisce un esperimento mentale? Una lista di esperimenti mentali in filosofia si trova alla voce Thought Experiments di Wikipedia. Si veda anche Sorensen, R., 1999, Thought Experiments, Oxford, Oxford University Press. Si possono eliminare gli esperimenti mentali? Gendler, T., 1998, Galileo and the Indispensability of Thought Experiments, The British Journal for the Philosophy of Science, 49, 3, pp. 397-424. Gli esperimenti mentali distraggono dallo studio dei casi reali: Wilkes, K.V., 1994, Real People, Oxford, Oxford University Press. Teletrasporto: Parfit, D., 1984, Reasons and Persons, Oxford, Oxford University Press (trad. it. Ragioni e persone, Milano, Il Saggiatore, 1986). L’esperimento mentale della gelata metafisica: Shoemaker, S., 1969, Time Without Change, The Journal of Philosophy, 66, 12, pp. 363381. La strada dalla concepibilità alla possibilità non è cosě immediata; vedi i saggi contenuti in Gendler, T., Hawthorne, J., 2002 (a cura di), Conceivability and Possibility, Oxford, Oxford University Press. Cartesio e la cera: Meditazioni metafisiche, 30, 5 (1641, trad. it. Milano, Mursia, 2009). Husserl sulla variazione eidetica: Esperienza e giudizio, § 87 (1939, trad. it. Milano, Bompiani, 2007). Leibniz e la Ruota Più Veloce: Meditazioni sulla conoscenza, le verità e le idee, in Leibniz, G.W., Scritti di logica (1684, trad. it. Bologna, Zanichelli, 1968, pp. 226-232). Nietzsche e l’Eterno Ritorno: La Gaia Scienza (1881, trad. it. Milano, Adelphi, 1977), Aforisma 341. Il tema è ripreso in Cosě parlò Zarathustra (1885, trad. it. Milano, Adelphi, 1976). Nietzsche è fonte di interessanti esperimenti mentali e ne voglio citare uno in particolare, descritto nella Seconda delle Considerazioni inattuali, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874, trad. it. Milano, Adelphi, 1974). Come sarebbe la vita di un uomo (o di una comunità) che non dimenticasse nulla? Un certo grado di oblio, suggerisce Nietzsche, è necessario per agire. Sull’immagine dell’impossibilità dell’oblio convergono la letteratura e la psicologia. Il coltello senza lama cui manca il manico. Un celebrato esempio, amato da Freud e Wittgenstein, tratto da una lettera a Heyne del fisico e scrittore Hans Georg Lichtenberg (1742-1799).
Famiglie, adozioni, gemelli: Lewontin, R., 1997, The Confusion over Cloning, The New York Review of Books, October 23 (trad. it. in Il sogno del genoma umano, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 225240). 8. A comporre le tensioni tra visioni del mondo Il capitolo è riadattato da Casati, R., 2009, L’uso delle intuizioni in filosofia, Sistemi intelligenti, 2, pp. 335-354. Strawson sul nucleo profondo e immutabile del pensiero: Individui, 1959, p. 10. Le intuizioni filosofiche sono variabili? Questo ha pertinenza per la filosofia? Il dibattito contemporaneo è acceso. Si vedano soprattutto: Marraffa, M., 2009, Lo studio empirico delle intuizioni , ovvero perché la filosofia ha bisogno della scienza (e in particolare della psicologia sociale), Sistemi intelligenti, 2, pp. 313-329; Knobe, J., Nichols, S. (a cura di), 2008a, Experimental Philosophy, Oxford, Oxford University Press; Knobe, J., Nichols, S., 2008b, An Experimental Philosophy Manifesto, in Knobe, Nichols, 2008a, pp. 314; Jackson, F., 1998, From Metaphysics to Ethics: A Defence of Conceptual Analysis, Oxford, Oxford University Press; Scholl, B.J., 2007, Object persistence in philosophy and psychology, Mind and Language, 22, 5, pp. 563-591; Weinberg, J., Stich, S., Nichols, S., 2001, Normativity and epistemic intuitions, Philosophical Topics, 29, pp. 429-460; Swain, S., Alexander, J., Weinberg, J., 2008, The instability of philosophical intuitions: running hot and cold on truetemp, Philosophy and Phenomenological Research, 76, pp. 138155; Sosa, A., 2009, A defense of the use of intuitions in philosophy, in Murphy, D., Bishop, M. (a cura di), Stich and his critics, Malden, Wiley-Blackwell, pp. 101-112. Il significato morale della nascita: Bermùdez, J.L., 1996, The Moral Significance of Birth, Ethics, 106, 2, pp. 378-403. Un’azione sblocca il negoziato: Roger-Pol Droit, 2001, 101 expériences de philosophie quotidienne, Paris, Odile Jacob (trad. it. Piccola filosofia portatile. 101 esperimenti di pensiero quotidiano, Milano, Rizzoli, 2001). L’irriducibilità dei punti di vista: Berlin, I., 1990, The Crooked Timber of Humanity, London, John Murray (trad. it. Il legno storto dell’umanità, Milano, Adelphi, 1994). 9. Dov’è la filosofia? Il dibattito sulla vaghezza: Varzi, A.C., 2008, Vaghezza e Ontologia, in Storia dell’ontologia, a cura di M. Ferraris, Milano, Bompiani, pp. 672-698.
Pianeti e asteroidi: de Saint-Exupéry, A., 1943, Le petit prince (trad. it. Il piccolo principe, Milano, Bompiani, 1984). Le risoluzioni su Plutone: IAU 2006, General Assembly: Result of the IAU Resolution votes. RESOLUTION B5: Definition of a Planet in the Solar System; RESOLUTION B6: Pluto (http://www.iau.org/static/resolutions/Resolution_GA26-5-6.pdf). L’Illinois non getta la spugna e mantiene Plutone tra i pianeti: Illinois General Assembly, Senate Resolution SR0046 del 2/26/2009 (http://www.ilga.gov/legislation/96/SR/PDF/ 09600SR0046lv.pdf). Da notare che una delle ragioni addotte per ridare dignità a Pluto è che Tombaugh è finora l’unico Illinoisiano e anche l’unico americano ad aver scoperto un pianeta, rimarchevole petizione di principio. Osservo anche che un emendamento interessante nel negoziato dell’Unione Astronomica aveva previsto di distinguere tra pianeti storici e altri, al solo fine di salvare Plutone. La scoperta di Plutone nel 1930 avvenne utilizzando coppie di fotografie celesti scattate ad alcuni giorni di distanza. Le si guardava in un apparecchio apposito che le faceva scorrere rapidamente l’una dopo l’altra; in quelle condizioni il sistema visivo umano è in grado di notare piccoli cambiamenti. Ci volle un anno di osservazioni di questo tipo a Clyde Tombaugh per notare la differenza interessante. Da notare che Plutone era già stato fotografato nel 1915, ma nessuno aveva potuto notarlo (lo si è scoperto solo a posteriori). Negoziati scientifici e operazionalizzazioni: Argyrous, G., 1996, Statistics for Social Research, Melbourne, MacMillan. Il cannone di Newton: Newton, I., 1728, A Treatise of the System of the World, pp. 4-7 dell’edizione del 1731. Dedekind, J.W.R., 1888, Was sind und was sollen die Zahlen?, Braunschweig, Vieweg. Freud estende il senso comune: Hopkins, J., 1991, The interpretation of dreams, in Neu., J. (a cura di), The Cambridge Companion to Freud, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 86135. 10. Esiste una conoscenza filosofica? Jackson, F., 1998, From Metaphysics to Ethics, Oxford, Oxford University Press. Williamson, T., 2008, The philosophy of philosophy, Oxford, Wiley-Blackwell. La posizione cautelativa: Goldman, A., 1989, Metaphysics, Mind, and Mental Science, Philosophical Topics; ristampato in Goldman, A.,
1992, Liaisons, Cambridge (Mass.), MIT Press, pp. 35-48. 11. Come si insegna la filosofia? Rossi, P., La filosofia, Torino, Utet, 1995: un punto sulla filosofia del XX secolo, e sulla varietà irriducibile di quest’ultima. Suoni, qualità primarie e secondarie: Casati, R., Dokic, J., Sounds, Stanford Encyclopedia of Philosophy, www.plato.stanford.edu. L’argomento di Berkeley per cui tutte le qualità sarebbero soggettive: Berkeley, G., 1710, Trattato sui principi della natura umana, Parte I (trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2002). La discussione contemporanea su qualità primarie e secondarie: Casati, R., Tappolet, C. (a cura di), 1998, Response-dependence, European Review of Philosophy, 3. Cartine rovesciate: http://flourish.org/upsidedownmap/. Anche la logica è negoziabile: Quine, W.v.O., 1951, Two dogmas of empiricism, The Philosophical Review, 60, pp. 20-43 (trad. it. in Da un punto di vista logico, Milano, Raffaello Cortina, 2004). La propedeutica logica: Elster, J., Fřllesdal, D., Walloe, L., 1988, Rationale Argumentation, Berlin, De Gruyter. La frase citata nel testo è tratta da una comunicazione personale di D. Fřllesdal. Un attore veramente sfuocato: Allen, W., 1997, Deconstructing Harry. Lo scavo nella confusione tra ontologia e epistemologia: Varzi, A.C., 2010, Il mondo messo a fuoco, Roma-Bari, Laterza. L’oscurità di espressione è un valore? Sperber, D., 2007, The Guru Effect, Magyar Pszichologiai Szemle (Hungarian Psychological Review), 62, 1, pp. 127-138. Le narrazioni che attraversano le nostre vite: Schapp, W., 1953, In Geschichten Verstrickt, Hamburg, Verlag Richard Meiner. Ecco i limiti del mondo in cui credete di vivere: Weir, P., 1998, The Truman Show. Per aggiungere una piccola nota autobiografica: una parte della ricerca che ho condotto in questi anni è stata su casi limite della realtà materiale: entità come ombre, buchi, suoni, eventi, che pur non essendo immateriali (come potrebbero esserlo i sogni e i numeri) sono tuttavia casi limite della realtà materiale. Comprendere queste entità come variazioni su un tema ci permette di fare ipotesi sulla composizione delle idee a proposito della realtà materiale. Il teatro dello straniamento: Brecht, B., Über das experimentelle Theater (1939), in Gesammelte Werke, Bd. 15, Frankfurt/M., Suhrkamp
(la traduzione di questo passo è di Gianfranco Soldati). Gli episodi della Twilight Zone citati nel testo: Ganzer, A., 1960, The Hitch-Hiker; Heyes, D., 1960, The After Hours; Leader, T., 1960, Long Live Walter Jameson; Florey, R., 1959, Perchance to Dream; Heyes, D., 1959, And When the Sky Was Opened; Claxton, W., 1960, The Last Flight; Stevens, R., 1959, Walking Distance; Brahm, J., 1960, Mirror Image; Post, T., 1960, A World of Difference; Bare, R.L., 1960, Third from the Sun; Rosenberg, S., 1960, I Shot an Arrow Into the Air. Molti di questi episodi sono stati scritti da Rod Sterling, che dirigeva la serie. La bibbia della Twilight Zone è Zicree, M.S., 1980, The Twilight Zone Companion, New York, Bantham Books. Altri esempi della Twilight Zone tra i tanti che meritano una visione: in A world of his own (R. Nelson, 1960) il dittafono contiene la vita dei personaggi; in A world of difference (T. Post, 1960) il protagonista scopre di essere un personaggio fittizio; in The sixteen millimeter shrine (M. Leisen, 1959) l’attrice che non accetta di invecchiare riguarda ossessivamente i film della sua gioventù fino a entrarvi (rivisitato in The Purple Rose of Cairo di Woody Allen, del 1985). Film che trattano temi affini: Night, M., 2006, The sixth sense; Forster, M., 2006, Stranger than fiction. L’Affare Makropulos (1922) di Capek è stato messo in musica da Leo Janácek e eseguito per la prima volta nel 1926. Commentando la trama il filosofo Bernard Williams ha dichiarato in modo assai discutibile che la richiesta di immortalità non è condivisibile: B. Williams, 1973, The Makropulos Case: Reflections on the Tedium of Immortality, Problems of the Self, Cambridge, Cambridge University Press (trad. it. Problemi dell’io, Milano, Il Saggiatore, 1990). Siamo in molti a pensare che Williams soffra di un difetto di immaginazione, come ha affermato Thomas Nagel: Nagel, T., 1979, Death, in Nagel, T., Mortal Questions, Cambridge, Cambridge University Press (trad. it. Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore 2001). I viaggi nel tempo: Torrengo, G., 2010, Guida filosofica ai viaggi nel tempo, Roma-Bari, Laterza. Vonnegut, K., 1997, Timequake (trad. it. Cronosisma, Milano, Bompiani, 2000). E un film cult: Ramis, H., 1993, The groundhog day. Sul quale: Casati, R., 2009, La tragedia dell’eterno ritorno, in Massarenti, A. (a cura di), Stramaledettamente logico, Roma-Bari, Laterza. Sacks e la necessità di immaginare gli universi spirituali della malattia mentale: Sacks, O., L’uomo che scambiò sua moglie per un
cappello, Milano, Adelphi, 1985. Il genere del racconto clinico ha avuto esiti notevoli prima di Sacks , Freud un nome sopra tutti. Il testo più vicino per tema e ricchezza della descrizione è Lurjia, A., 1968, The Mind of a Mnemonist, New York, Basic Books (trad. it. Viaggio nella memoria di un uomo che non dimenticava nulla, Roma, Armando, 2004). Sono noti i contatti con la letteratura: Borges, J.L., 1942, Funes o della memoria, in Finzioni (trad. it. Torino, Einaudi, 2005). 12. A che cosa serve la storia della filosofia? In filosofia lo spaesamento è dietro l’angolo; e a volte si accompagna a una curiosa sensazione di familiarità. A chi si reca a un congresso di filosofia in India può capitare di sentirsi fuori posto e a casa. In una discussione di filosofia del linguaggio (non di filosofia indiana, ma di filosofia del linguaggio contemporanea) a un certo punto vengono citati dei testi in sanscrito di antichi autori come Panini (IV secolo prima dell’era volgare). Tutto d’un tratto ci si rende conto della strana e provinciale usanza di fare citazioni pompose in greco e tedesco nei nostri congressi. (Laddove, naturalmente, una citazione pomposa è inutile per il procedere del testo.) La filologia filosofica: Untersteiner, M., 1979, Problemi di filologia filosofica, a cura di L. Sichirollo e M. Venturi Ferriolo, Milano, Cisalpino. I frammenti dei presocratici: Diels, H., Kranz, W., 2006, I presocratici: Testimonianze e frammenti, Milano, Bompiani. Storia a tema e la sua demistificazione: Hauser, A., 1971, Storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi. La recensione critica è di Gombrich, E.H., 1963, Social History of Art, in Meditations on a Hobby Horse (trad. it. A cavallo di un manico di scopa, Torino, Einaudi, 1971). Altre demistificazioni: Koyré, A., 2000, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Torino, Einaudi; criticato da Rossi, P., 2002, I filosofi e le macchine 1400-1470, Milano, Feltrinelli. Croce lucido su Heidegger: Croce, B., 1933, Un filosofo e un teologo, in Conversazioni critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza, 1939, pp. 362 sgg. Un filosofo razzista: Wundt, M., 1944, Die Wurzeln der deutschen Philosophie in Stamm und Rasse, Berlin, Junker und Dünnhaupt. Le qualità primarie e secondarie nella storia: per Democrito, si veda Sesto Empirico, Contro i Matematici, VII, 135; Frammenti dei presocratici, Frammento B 9. Galileo, G., Il Saggiatore. Nella scienza: Burtt, E.A., 1924, The Metaphysical Foundations of Modern Physical
Science. A Historical and Critical Essay, London, Kegan Paul, Trench, Trübner. Jackson, F., 1986, What Mary didn’t know, Journal of Philosophy, pp. 291-295. L’etnologia come rappresentazione di possibili insiti nel presente: Descola, P., 1993, Les lances du crepuscule, Paris, Terre Humaine. 13. La filosofia dei filosofi La filosofia come terapia: Wittgenstein, L., Ricerche filosofiche, § Filosofia di: Kivy, P., Philosophy of Music, Oxford, Oxford University Press, p. 7. La filosofia dello sport ha un’associazione propria (IAPS) e una rivista (il Journal of the Philosophy of Sport). Sul baseball, Gould, S.J., 1993, Baseball: Joys and lamentations, New York Review of Books, 40, 1. (Esercizio: pensate a un negoziato concettuale nel calcio, il passaggio dal sistema che attribuisce due punti alla vittoria e uno al pareggio a quello che ne attribuisce tre alla vittoria e uno al pareggio. Fate una valutazione delle conseguenze.) Fare la fila: Schwartz, B., 1975, Queueing and Waiting: Studies in the Social Organization of Access and Delay, Chicago, University of Chicago Press. L’immensa letteratura sugli oggetti fittizi oggi si dedica soprattutto a questioni come lo status esistenziale dei personaggi letterari. All’origine aveva tutt’altro afflato. Si trattava, per Alexius Meinong, il suo ispiratore, di dare un significato a parti corpose della matematica , le assunzioni in logica, l’uso di figure geometriche ideali, gli enunciati di probabilità , per i quali nessun oggetto o stato di cose effettivamente esistente sembra fungere da riferimento. Questioni interne ed esterne: Carnap, R., 1950, Empiricism, Semantics, and Ontology, Revue Internationale de Philosophie, 4, pp. 20-40. Sul Nomic: Hofstadter, D., 1982, Nomic: A Game That Explores the Reflexivity of Law, Scientific American, 246, 6 (June), pp. 16-28. Episodi che creano riflessioni filosofiche: Canetti, E., 1960, Massa e potere (trad. it. Milano, Adelphi, 1981). 14. In fine Trasparenza e segretezza: da vedere il documentario di Galison, R., Moss, R., 2008, Secrecy. Medicalizzazione precoce: Jacob, F., 1997, La souris, la mouche et
l’homme, Paris, Odile Jacob. L’epistemologia con la forza bruta: Anderson, C., 2008, The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete, Wired, 16:07, http://www.wired.com/science/discoveries/magazine/1607/pb_theory. Burocrazia vs. democrazia: Ferraris, M., Morena, L. (a cura di), 2009, Europa!, numero monografico di The Monist, 92, 2. Il fascino delle neuroimmagini: Legrenzi, P., Umiltà, C., 2009, Neuromania, Bologna, Il Mulino. Donare: Singer, P., 2009, The life you can save, New York, Random House (trad. it. Salvare una vita si può, Milano, Il Saggiatore, 2009). Newton Garver e le libertà accademiche: Harry Keyishian et al. v. Board of Regents of the University of the State of New York et al. No. 105 Supreme Court of the United States 385 U.S. 589 Argued November 17, 1966 Decided January 23, 1967.
Ringraziamenti
Questo libro tira le fila di molti e molti interventi, letture, lezioni, e sopratutto discussioni. Ho insegnato filosofia in contesti molto diversi, a studenti universitari e di dottorato, a studenti delle superiori, ho tenuto lezioni per il grande pubblico, a filosofi e a non filosofi: a geografi, psicologi, informatici, astronomi, storici dell’arte, architetti, designers, dirigenti aziendali, frequentatori delle Case del Popolo, membri di fondazioni no-profit, militanti politici, pubblico di eventi culturali e ne dimentico senz’altro qualcuno. Non mette quasi neanche conto di dire che in tutti questi contesti ho imparato almeno se non di più di quanto ho cercato di insegnare. Una cosa che non ho detto nel testo è che l’idea della filosofia viene spesso associata al lavoro solitario. È vero: un’immensa solitudine accompagna il lavoro intellettuale in generale; ma non è completamente vero. Dato che più della metà delle mie pubblicazioni è il risultato di collaborazioni, voglio ringraziare qui tutti i miei coautori, in primis Achille Varzi, e poi Jérôme Dokic, Maurizio Giri, Vittorio Girotto, Barry Smith, Beatrice Biagini, Elena Pasquinelli, Alessandro Pignocchi, Nivedita Gangopadhyay, Marco Bertamini, Gino Roncaglia, Gianfranco Soldati, Giuliano Torrengo, Gloria Origgi, Valeria Giardino, Judith Simon, Magda Stanová, Alexis Ouspensky, Chiara Somajni; e poi ancora Yasmina Jraissati e Dario Taraborelli; infine i miei tanti insegnanti, dal Professor Manzoni del Liceo Alessi di Perugia, a Giovanni Piana, Andrea Bonomi, Kevin Mulligan, Roberta de Monticelli, Paolo Bozzi. Dialoghi ininterrotti con Marco Panza, Paolo Legrenzi, Maurizio Ferraris e Diego Marconi ne fanno degli inconsapevoli coautori virtuali. Il lavoro di questi ultimi anni è stato svolto all’Institut Nicod a Parigi, la casa intellettuale in cui ho la grande fortuna di abitare, coltivando un certo nomadismo con l’Università degli Studi di Torino, lo Iuav di Venezia e la Columbia University a New York. Ermanno Bencivenga mi ha incitato più volte a mettere nero su bianco una teoria della filosofia. Le prime versioni del manoscritto sono state commentate da colleghi e interlocutori scrupolosi: Achille Varzi, Diego Marconi, Valeria Giardino, Mario De Caro, Francesco Fagioli, Maurizio Giri, Giuliano Torrengo, Beatrice Biagini, Paolo Rossi, Elena Pasquinelli, che mi hanno aiutato in mille modi a migliorarlo. Come è d’uso, li libero dalla responsabilità di tutte le manchevolezze che restano. Marco Vigevani è da anni sorgente assidua e paziente di incoraggiamento.
Beatrice, Nina e Anni: ispirazione quotidiana, allegria, motivazione per capire, immaginare, fare. Ho due ringraziamenti del tutto speciali. Più di dieci anni fa, in una meravigliosa giornata dell’estate indiana di Buffalo, ho fatto una passeggiata per il campus con Newton Garver. Dico due parole su questo filosofo che ha una storia importante alle spalle. Si tratta di un grande pacifista e fautore della non violenza, fervente quacchero, che fece un anno di prigione nel 1948 per aver obiettato al servizio di leva statunitense. Nel 1964 non volle firmare il certificato di anticomunismo, uno degli ultimi residui di maccartismo, all’epoca condizione sine qua non per l’assunzione in molte università. L’università minacciò di licenziarlo; lui e un gruppo di colleghi fecero causa; la persero; il caso risalě fino alla Corte Suprema che bocciò il giudizio con una landmark opinion. Dalle reazioni inferocite della minoranza dissenziente si capisce l’importanza della decisione della Corte Suprema. Di fatto molte delle libertà accademiche degli Stati Uniti dipendono da quella sentenza. Durante la nostra passeggiata Newton Garver mi ha raccontato lungamente delle sue attività extraaccademiche come assistente sociale nelle carceri dello Stato di New York, dove andava un paio di volte alla settimana a insegnare alternative alla violenza (da notare che aveva già una settantina d’anni all’epoca). Per quel lavoro difficile usava un testo che tanto l’aveva colpito da far sě che egli lo adottasse anche a lezione, Getting to Yes, il manualetto dell’Harvard Negotiation Project. Da tempo pensavo che si dovesse snidare la filosofia al di fuori dei contesti accademici, ma non immaginavo di trovare un lavoro non filosofico tanto illuminante sulla filosofia. Il secondo ringraziamento speciale va a Paolo Rossi; per me un incontro tardivo, un maestro mancato per ragioni geografiche. Il mio debito intellettuale nei suoi confronti è immenso e posso solo ripagarlo con l’espressione di una immensa ammirazione. [1] In questo libro filosofo significa filosofo o filosofa. [2] Su ciascuno di questi punti potrebbe esserci dissenso. Michel Foucault pensa che Las Meninas di Velázquez sia un quadro sulla rappresentazione. Velázquez avrebbe dipinto una sorta di quadro filosofico? Se ne può discutere. Non va da sé che il quadro, o il gesto pittorico che l’ha prodotto, abbia in sé alcunché di filosofico, senza che vi siano parole di accompagnamento, senza una riflessione che dia una voce alle domande sulla rappresentazione.
[3] Il 15 aprile 1947 Crispo ribadirà che le definizioni sono sempre da evitare nelle leggi. L’8 marzo ‘47 Gustavo Ghidini, socialista, farà rimarcare una incongruenza tra la decisione di definire la famiglia e l’assenza di definizione dello Stato: Perché si è voluto dire che ‘la famiglia è una società naturale’? Una definizione eguale non si pone nei confronti dello Stato. Lo scopo è chiaro, ed è quello di trarne una quantità di conseguenze che si riflettono sull’istituto della scuola, sul matrimonio, sul trattamento giuridico dei figli illegittimi e cosě via. Con questa frase si afferma una priorità della famiglia nei confronti dello Stato; una priorità che diviene prevalenza e può in questo modo creare un’atmosfera di rivalità tra la famiglia e lo Stato. [4] A prima vista soltanto: la vita riesce ad essere ancor più astratta della filosofia e ci sono molti casi, in ambito legale, modellati su questo. [5] Nelle Argonautiche di Apollonio da Rodi la nave Argo venne costruita dal carpentiere Argo, ed era pilotata da Giasone.