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*** File Asci ad uso esclusivo per non vedenti. WILBUR SMITH. STIRPE DI UOMINI. A quell'epoca, le miniere di diamanti di Kimberley erano un unico buco circolare, largo poco più di mille metri e profondo sessanta, dove bianchi e negri lavoravano dal mattino alla sera avvolti da una perenne nube di polvere rossa... Tutti scavavano: pochi facevano fortuna, molti morivano. Qualcuno diventava uomo, come Ralph Ballantyne, tra le braccia mercenarie della bella Lil; altri come Jordan, lui pure figlio di Zouga Ballantyne, s'accingevano a prendere strade differenti che non ne avrebbero fatto davvero dei campioni di virilità, pur rendendoli potenti sotto altri punti di vista, magari grazie all'amicizia affettuosa di un Cecil Rhodes... Non tutti i diamanti trovati, però, andavano ad arricchire i titolari delle concessioni: molte pietre, sottratte dai lavoranti negri, finivano nelle mani del re dei matabele, l'enorme, gottoso, saggio ma superstizioso e crudele Lobengula, che li scambiava contro fucili e munizioni per arginare lo strapotere di Rhodes. E, mentre si prepara una guerra sanguinosa, altre passioni non meno violente s'accendono tra uomini e donne; altre bramosie inducono alla competizione, al tradimento, al delitto... I romanzi di Wilbur Smith. WILBUR SMITH è nato nel 1933 in Rhodesia del Nord (l'attuale Zambia), ma è cresciuto e ha studiato in Sudafrica. La stampa lo definisce « il più importante scrittore di avventure del nostro tempo ». Il ciclo dei Courteney. Il destino del leone La voce del tuono Gli eredi dell'Eden I Courteney d'Africa. La spiaggia infuocata Il potere della spada
I fuochi dell'ira L'ultima preda La Volpe dorata Il ciclo dei Ballantyne. Quando vola il falco Stirpe di uomini Gli angeli piangono La notte del leopardo Gli altri romanzi. Un'aquila nel cielo L'ombra del sole Dove finisce l'arcobaleno Come il mare L'orma del Califfo L'uccello del sole Cacciatori di diamanti Il canto dell'elefante Una vena d'odio Sulla rotta degli squali Il dio del fiume. STIRPE DI UOMINI. Romanzo di WILBUR SMITH. TRADUZIONE DI ATTILIO VERALDI. Traduzione dall'originale inglese Men of Men di Attilio Veraldi. STIRPE DI UOMINI Questo libro è dedicato a mia moglie, Danielle, con tutto l'amore di sempre. NON era mai stato esposto alla luce del giorno, non una sola volta nei duecento milioni di anni da quando aveva assunto la sua attuale forma, eppure sembrava esso stesso una goccia di distillata luce solare. Era stato concepito in un calore immenso quanto la superficie del sole, nelle impossibili profondità sotto la crosta terrestre, nel magma fuso che sgorgava dal cuore stesso della terra. A quelle terribili temperature ogni impurità era stata bruciata ed eliminata lasciando, soli e puri, gli atomi di carbonio che, sotto pressioni che avrebbero frantumato montagne, era-
no stati ridotti di volume e compressi a una densità non posseduta in natura da nessun'altra sostanza. Questa minuscola bolla di carbonio liquido era stata trascinata su, nel lento fiume sotterraneo di lava fusa, attraverso uno dei punti deboli della crosta terrestre e aveva quasi, ma non del tutto, raggiunto la superficie quando il flusso di lava s'era interrotto e, alla fine, fermato. Nel millennio che era seguito la lava s'era raffreddata e aveva cambiato forma, divenendo una roccia variegata e bluastra composta da frammenti minuti irregolarmente cementati in una matrice solida. Questa formazione non aveva nulla a che vedere con la roccia locale che la circondava e riempiva solo un profondo pozzo circolare la cui bocca, a forma di imbuto, aveva un diametro di oltre un chilometro e la cui estremità scendevi dritto nelle profondità smisurate della terra. Mentre la lava si raffreddava, la purificata bolla di carbonio subiva una trasformazione ancor più meravigliosa. Solidificava in un cristallo a otto facce di geometrica simmetria, della misura di un verde fico, e sino a tal punto era stata purgata di ogni impurezza nell'infernale fornace del nucleo della terra da essere trasparente e limpida come i raggi stessi del sole. Così intense e costanti erano state le pressioni alle quali quel singolo cristallo era stato sottoposto e così uniformemente s'era raffreddato, che al suo interno non c'erano né incrinature né segni. Era perfetto: una cosa di fuoco freddo così bianca che a una buona luce sarebbe apparsa d'un blu elettrico. Ma quel fuoco non era mai stato destato, perché era rimasto intrappolato attraverso i tempi nel buio totale e non un solo barlume di luce aveva mai sondato le sue lucide profondità. Eppure, per tutti quei milioni di anni la luce del sole non era mai stata molto distante, forse una cinquantina di metri o anche meno, un sottile strato di terra, dunque, in confronto alle immense profondità dalle quali il suo viaggio verso la superficie era iniziato. Ora, negli ultimi attimi, pochissimi anni rispetto a tutti quei milioni, il suolo sovrastante era stato continuamente intaccato, frantumato e smosso dagli sforzi deboli, inefficaci ma ostinati di una colonia di creature vive che sembrava un formicaio. I progenitori di quelle creature non esistevano neppure su questa terra quando quel puro e singolo cristallo aveva raggiunto la sua attuale forma, ma ora ogni giorno il disturbo causato dai loro utensili di metallo mandava lievi vibrazioni nell'interno della roccia rimasta inerte tanto a lungo; e ogni giorno quelle vibrazioni si facevano più forti, mentre lo strato tra il cristallo e la superficie si riduceva da sessanta metri a trenta e poi a quindici, da dieci a due, finché ora solo pochi centimetri separavano il cristallo dalla brillante luce del sole che, finalmente, ne avrebbe portato in vita i fuochi dormienti. Il maggiore Morris Zouga Ballantyne stava vicino all'aerea teleferica, in alto sopra il baratro profondo e circolare che s'apriva là dove una volta sorgeva, nel paesaggio piatto e desolato
dello scudo continentale africano, una piccola collina. Anche in quel caldo spietato portava alla gola una sciarpa di seta la cui estremità era infilata sotto l'abbottonatura della camicia di flanella. Benché lavata e stirata di recente, quella camicia era indelebilmente macchiata d'un opaco color rossastro. Era il pigmento della terra africana, terra rossa, quasi come carne cruda, là dove le ruote ferrate dei carri l'avevano solcata o le pale degli scavatori ne avevano rivoltata la superficie. Terra che, quando i caldi venti asciutti la battevano, si levava in rosse nubi di polvere, o si trasformava in rosso fango glutinoso quando i temporali ne sferzavano la superficie. Rosso era il colore degli scavi. Macchiava il pelo dei cani e delle bestie da soma, macchiava gli abiti degli uomini e le loro barbe e la pelle delle braccia, macchiava le loro tende di tela e ricopriva le baracche di lamiera ondulata dell'insediamento. Solo nell'immenso buco ai piedi di Zouga il colore era alterato nel giallo tenue del petto di un tordo. Il buco misurava più di un chilometro in larghezza, la sua circonferenza era quasi un cerchio perfetto e in certi punti il suo fondo toccava già la profondità di sessanta metri. Gli uomini che lavoravano laggiù sembravano piccoli insetti, ragni forse, perché soltanto dei ragni avrebbero potuto tessere la vasta tela che brillava in un'argentea nube sopra l'intero scavo. Zouga sostò un attimo per levarsi il cappello dalla falda larga con la puntuta cupola macchiata dal suo stesso sudore e dalla polvere rossa. S'asciugò con cura le gocce di sudore sulla pelle più pallida e levigata lungo l'attaccatura dei capelli, quindi studiò la macchia rossa e umida sul fazzoletto di seta e fece una smorfia di disgusto. I capelli, fitti e ricci, erano stati protetti dal cappello dallo spietato sole africano ed erano ancora colore del miele selvatico, la barba invece era stata schiarita fino a un giallo oro pallido e gli anni l'avevano striata di fili di argento. Anche la pelle era scura, cotti come la crosta del pane appena sfornato, e solo la cicatrice sulla guancia, nel punto in cui tanti anni prima il fucile da elefanti lo aveva colpito scoppiando, era d'un bianco porcellana. A furia di scrutare con gli occhi socchiusi contro il sole gli orizzonti lontani, c'erano piccole pieghe sotto gli occhi, e dai lati del naso fin giù nella barba rughe profonde gli solcavano le guance, rughe di stenti e sofferenze. Guardò nella gran buca ai suoi piedi e il verde dei suoi occhi s'oscurò al ricordo delle grandi speranze e della viva attesa che lo avevano portato li... Quando? Dieci anni prima? Sembrava un giorno e un'eternità. Aveva sentito il nome, Kopje Colesberg, per la prima volta quando era sbarcato dalla bettolina sulla spiaggia di Rogger Bay, sotto la gran massa squadrata e monolitica della Table Mountain, ed era bastato il solo suono di quel nome a dargli la pelle d'oca. « Hanno trovato diamanti a Kopje Colesberg, diamanti gros-
si come chicchi d'uva. » In un lampo di intuizione aveva capito che era lì che il destino lo avrebbe guidato. Aveva capito che i due anni appena trascorsi nella vecchia Inghilterra, nel disperato tentativo di raccogliere aiuti per la sua grande avventura nel nord, non erano stati altro che l'attesa di quel momento. La strada per il nord cominciava tra la ghiaia diamantifera di Kopie Colesberg. L'aveva capito con certezza appena udito il nome. Gli erano rimasti un solo carro e un tiro di buoi rinsecchiti ed esausti: quarantotto ore dopo arrancavano nella sabbia profonda della pista che attraversava le Pianure del Capo, in direzione nord, a quasi mille chilometri da quel kopie, al di qua del fiume Vaal. Sul carro erano caricati tutti i suoi beni, che erano ormai pochi e preziosi. Dodici anni all'inseguimento di un sogno grandioso avevano consumato tutte le sue sostanze. I consistenti diritti dei libro che aveva scritto dopo i suoi viaggi nelle terre inesplorate al di qua dello Zambesi, l'oro e l'avorio che s'era portato dietro da quei territori remoti, l'avorio di altre quattro spedizioni di caccia in quello stesso paradiso pieno di incanti e, purtroppo, di imperfezioni: tutto era sparito. Migliaia di sterline e dodici anni di stenti e frustrazioni, finché lo splendido sogno s'era assottigliato ed era svanito, e a lui non era rimasto altro da mostrare che un pezzo di pergamena sciupata sulla quale l'inchiostro cominciava a ingiallire e le cui pieghe erano logorate al punto che aveva dovuto incollarla su un foglio per tenerla insieme. Quella pergamena era la « Concessione Ballantyne », il titolo di proprietà per mille anni su tutta la ricchezza minerale di un enorme territorio del selvaggio interno africano, un territorio della grandezza della Francia, che lui era riuscito a strappare a un selvaggio re nero. In quello sterminato territorio aveva ricavato oro puro rosso da un affiorante filone di quarzo. Era una terra ricca ed era tutta sua; ma occorreva un capitale, un capitale enorme, per prenderne possesso ed estrarre i tesori che nascondeva. Per metà della sua vita di adulto s'era battuto per mettere insieme quel capitale: una lotta, però, che non aveva dato frutti, perché ancora non aveva trovato un solo uomo ricco disposto a condividere i suoi sogni e le sue visioni. Alla fine, disperato, s'era rivolto al pubblico inglese. S'era recato ancora una volta a Londra per promuovere la fondazione della « Compagnia Mineraria delle Terre Centrali Africane » per lo sfruttamento della sua concessione. Aveva ideato e stampato un bell'opuscolo nel quale magnificava le bellezze della terra da lui chiamata Zambesia. Lo aveva illustrato con disegni da lui stesso eseguiti delle belle foreste e delle pianure erbose che abbondavano di elefanti e altra selvaggina. Aveva incluso un facsimile della concessione originale con, in calce, il grande sigillo con l'elefante di Mzilikazi, re dei matabele, e aveva distribuito l'opuscolo per tutte le Isole Bri-
tanniche. Aveva viaggiato da Edimburgo a Bristol tenendo conferenze e discorsi, e aveva appoggiato questa sua campagna con annunci a piena pagina sul Times e su altri rispettabili giornali. Eppure, quegli stessi giornali che, dietro pagamento, avevano accettato i suoi annunci avevano poi ridicolizzato le sue asserzioni, e intanto l'attenzione del pubblico degli investitori veniva sedotta dal lancio delle società ferroviarie sudamericane, che sfortunatamente aveva coinciso con la sua campagna promozionale. Era rimasto con il conto della stampa e distribuzione dell'opuscolo da pagare, quello degli annunci sui giornali, gli onorari degli avvocati e le spese per i propri viaggi, e una volta pagato tutto questo, nonché il suo viaggio di ritorno in Africa, di quella che una volta era stata una considerevole fortuna non rimanevano che poche centinaia di sovrane. Svanita la ricchezza, restavano le responsabilità. Era in testa, davanti al tiro di buoi neri pezzati, e si voltò a guardare indietro. Aletta sedeva al posto di guida. Alla luce del sole i capelli erano ancora color oro pallido e serici, ma i suoi occhi erano induriti e le labbra non più dolci e morbide, come se si fosse predisposta alle prove che sapeva che l'attendevano. Guardandola adesso, sembrava impossibile che un tempo fosse stata un amore di ragazza spensierata, la prediletta vezzeggiata di un padre ricco, con nessun altro pensiero per la testa all'infuori dei modelli appena arrivati con il postale da Londra e i preparativi per il prossimo ballo nel brillante giro mondano della società di Città del Capo. Era stata attratta dall'atmosfera romantica che circondava il giovane maggiore Zouga Ballantyne, avventuriero ed esploratore dei luoghi più remoti del continente africano. Lo accompagnavano la leggenda che era un grande cacciatore di elefanti nonché la fama del libro che aveva di recente pubblicato a Londra. Tutta la società del Capo era eccitata per quel giovanotto e le invidiava la corte che le faceva. Questo era accaduto tanti anni prima e ormai la leggenda era sbiadita. Lasciatasi alle spalle il clima gentile e temperato del litorale del Capo, la fine educazione di Aletta non era stata all'altezza dei rigori offerti dal selvaggio interno: quel paese rozzo e la gente ancor più rozza l'avevano spaventata. Era stata rapidamente sopraffatta dalle febbri e dalle pestilenze, che l'avevano indebolita a un punto tale che aveva avuto ripetuti aborti. Tutta la sua vita matrimoniale sembrava fosse trascorsa in puerperio o negli annebbiamenti della febbre malarica o, ancora, nell'attesa interminabile che quell'uomo dalla barba dorata che lei venerava come un dio ritornasse dal di là di un oceano o dal rovente e insalubre entroterra nel quale lei non poteva più seguirlo. In quel viaggio ai campi diamantiferi Zouga aveva dato per scontato che lei ancora una volta rimanesse a casa del padre,
al Capo, a curarsi la salute cagionevole e a badare ai due ragazzi, frutto delle uniche gravidanze che era riuscita a portare a termine. Invece, all'improvviso, la donna aveva mostrato una determinazione insolita in lei, e nessuno degli argomenti avanzati per farla restare era valso a niente. Aveva forse una premonizione di quello che sarebbe accaduto: « Sono stata sola troppo a lungo », gli aveva risposto, a voce bassa ma decisa. Ralph, il ragazzo più grande, era ormai abbastanza cresciuto per cavalcare in testa al carro insieme col padre e per sparare alle mandrie di springbuck, le antilopi saltanti che, come una nube di fumo marrone pallido, attraversavano le pianure dalla vegetazione stenta del vasto Karrù. Già cavalcava il suo piccolo e robusto pony basuto con l'ostentazione di un ussaro, e sparava come un uomo. Jordan, il più giovane, talora guidava i primi buoi del tiro, altre volte si allontanava dai carri per cacciare una farfalla o per raccogliere un fiore selvatico; ma il più delle volte si contentava di starsene seduto accanto alla madre sulla cassetta del carro mentre lei leggeva ad alta voce un libretto rilegato in pelle di poesia romantica, e i verdi occhi di lui brillavano al suono eccitante di parole che era ancora troppo giovane per capire appieno, e il brillante sole del Karrù gli trasformava i riccioli dorati nell'aureola di un angelo. Da Buona Speranza ai campi erano quasi mille chilometri, un viaggio che prese alla famiglia otto settimane. Ogni notte si accampavano in pieno veld e il cielo notturno era limpido e freddo e tempestato di stelle bianche, che brillavano come i diamanti che li attendevano - ne erano certi- alla fine del viaggio. Seduto accanto al fuoco, con i due figli ai lati, Zouga parlava con quel suo tono avvincente che teneva i due ragazzi irrigiditi nella loro attenzione. S'abbandonava alle descrizioni della caccia al grande elefante e delle antiche città in rovina, degli idoli scolpiti e dell'oro rosso li nella terra del nord, la terra nella quale un giorno lui li avrebbe portati. Dall'altra parte del fuocco Aletta ascoltava in silenzio, avvolta in uno scialle contro il freddo della notte, anche lei incantata, come lo era stata da ragazza, dal sogno romantico, e ancora una volta si meravigliava di se stessa e della strana attrazione per quel forte uomo dalla barba dorata, che era suo marito da tanti anni ma che spesso ancora le sembrava uno sconosciuto. Ascoltava mentre lui raccontava ai ragazzi di come avrebbe riempito i loro cappelli di diamanti, grossi diamanti luccicanti, e di come poi alla fine si sarebbero messi in viaggio per il nord. Si scopriva a credere di nuovo a tutto, anche se la prima delusione l'aveva ormai provata da un pezzo. Lui era così convincente, così vitale e forte ed efficace che i fallimenti e le frustrazioni sembravano di nessun valore, nient'altro che un freno temporaneo al destino che lui aveva stabilito per tutti loro. I giorni passavano al ritmo lento con cui giravano le ruote del carro, e divennero settimane, settimane in cui viaggiarono
attraverso un grande altopiano inondato di sole, solcato da profondi corsi d'acqua disseccati e disseminato di fitti cratego dalle foglie verde-scuro dai cui rami pendevano gli enormi nidi comuni di migliaia di ploceidi, ogni nido della grandezza di un mucchio di fieno che cresceva fino a spezzare il ramo robusto che lo reggeva. La linea monotona dell'orizzonte ogni tanto era interrotta da qualche bassa collina, il kopie del continente africano, e la pista li conduceva direttamente verso una di queste. Kopje Colesberg. Solo settimane dopo esservi arrivato Zouga apprese la storia di come quella piccola collina diamantifera era stata scoperta. Pochi chilometri a nord di Kopje Colesberg la pianura era interrotta dal letto di un fiume ampio e poco profondo sulle cui sponde gli alberi crescevano più alti e più verdi. I boeri lo avevano chiamato Vaal, che in afrikaans significa « il fiume grigio », dal colore delle sue acque lente. Nel suo letto e tra la ghiaia delle pianure alluvionali lungo il suo corso una piccola colonia di cercatori di diamanti era andata racimolando per anni qualche pietra brillante. Un lavoro bestiale, che rompeva la schiena, e dopo la prima ondata di cercatori speranzosi solo i più duri erano rimasti. Queste anime terree sapevano da anni che nel terreno asciutto cinquanta chilometri a sud del fiume era possibile raccogliere ogni tanto qualche piccolo diamante di qualità inferiore, e difatti il vecchio boero arcigno, un certo De Beer, che possedeva il terreno in quella zona, vendeva licenze per concessioni diamantifere nella sua proprietà, anche se preferiva i cercatori della sua stessa razza ed era notoriamente contrario a concedere « titoli » agli inglesi. Per queste ragioni, e anche per le più accettabili condizioni di vita lungo il fiume, i cercatori non avevano mostrato troppo interesse per gli scavi « all'asciutto » al sud. Poi, un giorno, il servo ottentotto di uno dei cercatori sul fiume s'era abbandonato a una sbronza completa col Cape Smoke, il forte brandy del Capo, e in quelle condizioni aveva dato accidentalmente fuoco alla tenda del padrone, bruciandola completamente. Quando era tornato sobrio, il suo padrone lo aveva picchiato con lo sjambok, lo scudiscio di pelle di rinoceronte, finché ancora una volta non era stato più in grado di reggersi in piedi. Poi quando, sempre in disgrazia, egli s'era ripreso da questa cura, il padrone gli aveva ordinato di spingersi nel territorio al di là del fiume e di scavare « finché non trovi un diamante ». Obbediente, e ancora malfermo sulle gambe, l'ottentotto s'era messo in spalla badile e sacca e s'era allontanato barcollando. Ben presto il padrone s'era dimenticato di lui finché, imprevedibilmente, due settimane più tardi il servo era ritornato e aveva piazzato in mano al padrone una mezza dozzina di belle pietre bianche, la più grande delle quali era della misura della falangetta d'un mignolo di donna.
« Dove? » aveva chiesto Fleetwood Rawstorne, e quell'unica parola era stata tutto quanto era riuscito a pronunciare a causa della gola improvvisamente riarsa e occlusa dall'eccitazione. Pochi minuti dopo, abbandonando la « culla » a metà di un processo di setacciatura della ghiaia diamantifera più pesante, Fleetwood s'allontanava al galoppo dal campo lasciandosi dietro un intero carico di materiale raschiato dal letto del fiume. Daniel, il servo ottentotto, era aggrappato alla cinghia della staffa e, coi piedi nudi che strusciavano nell'arida terra, sollevava nuvolette di polvere mentre il berretto di lana rossa, che era l'insegna della squadra di Fleetwood, gli volava indietro sul capo calvo e sbatteva come una bandiera che invitava altri a seguire. Un tal modo di fare aveva scatenato il panico immediato nella piccola comunità altamente competitiva di cercatori lungo il fiume. Nel giro di un'ora, dal piatto terreno asciutto s'era levata un'altra colonna di polvere rossa: una precipitosa schiera di uomini a cavallo frustava le bestie mentre dietro di essa i carri avanzavano cigolando e i meno fortunati inciampavano e scivolavano nel terreno sabbioso correndo per chilometri a piedi in direzione sud, verso la piccola, spoglia e arida fattoria del vecchio De Beer nella quale si levava un altro piccolo kopie spoglio e pietroso, in tutto simile ai diecimila altri disseminati per la pianura. Quello stesso giorno del grigio e asciutto inverno del 1871 il kopie era stato chiamato Colesberg, perché Colesberg era il luogo di nascita di Fleetwood Rawstorne, e verso di esso, dalle polverose e assolate distanze, s'era diretta la New Rush, la Nuova Ondata, di De Beer. Era quasi buio quando, precedendo di poco quelli che lo seguivano, Fleetwood aveva raggiunto il kopie. Il suo cavallo era sfiancato, coperto di sudore e di bava bianca, ma il servo ottentotto era ancora aggrappato alla cinghia della staffa. Padrone e servo abbandonarono in fretta e furia la bestia, affannata e barcollante, e si precipitarono verso il declivio. Poco dopo, svettanti al di sopra della macchia, i loro berretti rossi erano visibili da un chilometro di distanza, e così dalla colonna di straccioni che li seguivano si levò una roca ed eccitata acclamazione. In cima alla collina il servo ottentotto aveva scavato un pozzo di tre metri nel duro terreno, appena un graffio in confronto a ciò che sarebbe seguito, e ora, frenetico nella sua fretta, lanciando occhiate timorose all'orda che saliva verso di lui, Fleetwood aveva piantato i picchetti che costituivano la linea centrale della sua concessione intorno alla stretta bocca del basso pozzo scavato. La notte era scesa su un vero e proprio campo di battaglia nel quale muscolosi cercatori imprecavano gli uni contro gli altri agitando pugni e manici di piccone per sgombrare il terreno e piantare i propri picchetti. Entro mezzogiorno dell'indomani,
quando il vecchio De Beer aveva lasciato la sua baracca di due stanze ed era venuto a scrivere le briefies, che era la parola afrikaans per « lettere », l'intero kopie era picchettato e anche il terreno piatto tutt'intorno alla sua base, per circa un chilometro, era irto di paletti. Ogni concessione era un quadrato di novanta metri di lato con il centro e gli angoli segnati da un appuntito palo ricavato da un ramo di cratego. Dietro pagamento di un fitto annuale di dieci scellini al vecchio De Beer, il cercatore riceveva da lui una briefie scritta che gli dava diritto a tenere e a lavorare la concessione a tempo indeterminato. Prima che la notte cadesse su quel primo giorno, i cercatori fortunati, che avevano picchettato il centro della nuova zona di ricerche e a malapena scalfito il terreno pietroso, avevano già trovato quaranta pietre della prima acqua, e già altri uomini erano montati a cavallo ed erano corsi verso sud a portare al mondo la notizia che Kopje Colesberg era una montagna di diamanti. Quando il carro di Zouga Ballantyne percorse cigolando gli ultimi pochi chilometri della solcata pista di terra rossa verso Kopje Colesberg, questo era già mezzo demolito, mangiato come un vecchio formaggio dai vermi, e su ciò che ne restava ancora sciamavano uomini. Sulla polverosa piana ai suoi piedi erano accampate quasi diecimila anime, nere, marrone e bianche. Il fumo dei loro fuochi per cucinare macchiava di grigio sporco l'azzurrissimo cielo e per miglia e miglia tutt'intorno i cercatori, per alimentare quei fuochi, avevano spogliato la pianura dei bei cratego. Sparsi qua e là, s'erano insediati sotto sporchi teli consunti, anche se già alcune lastre dell'onnipresente lamiera ondulata erano state trasportate faticosamente dalla costa e inchiodate a formare rozzi capanni simili a scatole. Con un bel senso dell'ordine, alcuni di questi erano allineati secondo una fila approssimativamente dritta, formando in tal modo le prime essenziali strade. Quei capanni appartenevano ai kopie-wallopers, i compratori di diamanti, un tempo nomadi, che sino a poco prima s'erano aggirati tra gli scavi ma che ora avevano trovato conveniente impiantare dei negozi permanenti ai piedi dei frananti resti di Kopje Colesberg. Secondo le leggi sui diamanti da poco stabilite nel Libero Stato Boero, ogni compratore munito di licenza doveva esporre il proprio nome in maniera evidente, e ciò essi facevano con rozze insegne sopra le soffocanti baracchette di lamiera, ma la maggior parte di loro andavano anche oltre: su un'asta sopra il tetto innalzavano una sgargiante bandiera sproporzionatamente grande e dai disegni estrosi per annunciare ai cercatori che il titolare era in bottega, pronto a mercare. Quelle bandiere davano una certa aria di parco dei divertimenti a tutta la colonia. Seguendo una delle strette e serpeggianti piste piene di solchi che attraversavano l'insediamento, Zouga Ballantyne avan-
zava accanto al bue-guida del suo carro. Ogni tanto doveva farlo deviare per evitare lo sterile proveniente da una delle stazioni di recupero che s'era accumulato sulla pista o per aggirare qualche profonda pozza formata dalle acque di decantazione e lavaggio dei tavoli di scelta. La prima impressione di Zouga fu che in quell'insediamento la gente fosse troppo accalcata. Lui era uomo di pianure e savane, abituato ai grandi orizzonti ininterrotti, e le resse lo innervosivano. I cercatori vivevano a contatto di gomito, ognuno di loro cercava di stare il più vicino possibile alla propria concessione in modo che la ghiaia ricavatane non dovesse essere trasportata troppo lontano per la selezione. Zouga aveva sperato di trovare uno spazio aperto dove staccare i buoi dal carro ed erigere la sua grande tenda, ma nel raggio di mezzo chilometro dal kopie non esisteva nessuno spazio aperto. Si girò a gettare un'occhiata ad Aletta che sedeva a cassetta. Se ne stava immobile, solo sobbalzando ai movimenti del carro, con lo sguardo dritto davanti a sé come se fosse ignara di tutti quegli uomini quasi nudi, molti con solo un semplice straccetto sul davanti, che spalavano la gialla ghiaia nelle culle in attesa, imprecando o cantando mentre lavoravano, tutti unti del proprio sudore sotto il sole implacabile. La sporcizia colpì persino Zouga, che aveva conosciuto i kraal dei mashona nel nord e aveva vissuto in una colonia di boscimani, che non si lavano mai in tutta la vita. L'uomo civile produce rifiuti particolarmente disgustosi, e infatti ogni centimetro quadrato della polverosa terra rossa tra quelle tende e quelle baracche sembrava coperta da uno strato di scatolette di latta arrugginite, frammenti di bottiglie e porcellane che luccicavano al sole, un tappeto di pezzi di carta, cadaveri in decomposizione di gatti randagi e cani non desiderati, residui di cibo grattati dalle pentole, escrementi di coloro che erano troppo pigri per scavarsi una latrina nella terra dura e ripararla con uno schermo d'argentea erba dell'altopiano, e tutti gli altri non identificabili rifiuti di cui diecimila esseri umani senza controllo né regole sanitarie erano riusciti a circondarsi. Zouga incontrò lo sguardo di Aletta e le sorrise rassicurante, ma lei non restituì il sorriso. Aveva le labbra strette, e gli occhi grandi brillavano per le lacrime che s'erano accumulate sulle palpebre inferiori. Passarono davanti a un mercante che aveva portato dalla costa, mille chilometri, un intero carico di merce, e aveva trasformato il proprio carro in bottega esponendo un cartello sul quale aveva scritto a gesso una lista di prezzi: CANDELE: 1 STERLINA IL PACCO WHISKY: 12 STERLINE LA CASSA SAPONE: 5 SCELLINI IL PEZZO Zouga non si voltò a guardare Aletta di nuovo, i prezzi era-
no venti volte superiori a quelli che si pagavano sulla costa. Kopje Colesberg in quel momento era probabilmente il posto più caro sulla faccia della terra. Le ultime sovrane rimaste nell'ampia cintura portamonete di cuoio intorno alla vita di Zouga parvero improvvisamente leggere come piume. Entro mezzogiorno avevano trovato, alla periferia dell'enorme accampamento, il posto dove staccare i buoi. Mentre Jan Cheroot, l'attendente ottentotto di Zouga, portava via le bestie alla ricerca di pascolo e d'acqua, Zouga in gran fretta eresse la pesante tenda di tela, con Aletta e i ragazzi che tenevano i tiranti mentre lui piantava i picchetti. « Devi mangiare », borbottò Aletta, sempre senza guardarlo; davanti al fuoco fumante, stava girando nella pentola di ferro i resti di uno springbuck che Ralph aveva ucciso tre giorni prima. Zouga le si avvicinò, si chinò e con le mani sulle spalle la sollevò in piedi. Si muoveva rigida come una vecchia, il lungo e duro viaggio aveva fatto pagare un caro prezzo al suo fragile corpo. « Andrà tutto bene », le disse, mentre lei ancora non lo guardava; forse aveva sentito quell'assicurazione troppo spesso. Le prese il mento in mano e le sollevò il viso, e finalmente le lacrime sgorgarono e le corsero giù per le guance lasciando piccoli solchi nella polvere rossa che le incipriava il viso. Irragionevolmente, quelle lacrime indispettirono Zouga; come se fossero un'accusa. Lasciò cadere la mano e indietreggiò d'un passo. « Tornerò prima di buio », le disse in tono duro e, giratosi, si allontanò verso la rovinata sagoma del kopie che si profilava netta anche tra il puzzolente fumo e la polvere che incombevano sul campo. Zouga sarebbe potuto essere un'apparizione, una creatura dell'aria, invisibile a occhio umano: gli passavano accanto in fretta sulla stretta pista o, al suo passaggio, rimanevano chini sui setacci e sulle culle senza muovere il capo o lanciare un'occhiata sia pure casuale. Un'intera comunità che viveva per una sola cosa, completamente assorbita e ossessionata da questa. Per esperienza, Zouga sapeva che esisteva un posto in cui avrebbe potuto stabilire un contatto umano e, grazie a questo, ottenere l'informazione di cui aveva tanto disperato bisogno; cercava dunque una taverna dove vendessero alcolici. Ai piedi del kopie c'era uno spazio aperto, l'unico del campo. Era di forma pressoché quadrata, circondato da baracche di tela e lamiera e invaso dai carri dei mercanti. Scelse una delle baracche che, a tutte lettere, si presentava come THE LONDON HOTEL e, sullo stesso cartello, annunciava: WHISKY: 7 SCELLINI E SEI PENCE BIRRA INGLESE DELLA MIGLIORE QUALITA: 5 SCELLINI IL BOCCALE Stava attraversando cautamente quella piazza del mercato
piena di solchi e di immondizie, quando fu fermato da roche esclamazioni provenienti dal kopie e da un coro che cantava a squarciagola For he is a jolly good fellow. Pestando i piedi nella polvere, cantando e strillando, le facce rosse come mattoni per la polvere e l'eccitazione, stava arrivando una eterogenea banda di cercatori che recava in spalla uno di loro. Entrarono, facendosi largo a spintoni, nel traballante bar che era lì davanti a Zouga mentre dalle altre taverne e dai carri in sosta altri uomini arrivavano di corsa per scoprire la causa di tanta eccitazione. « Cosa succede? » strillavano. « Black Thomas ha trovato una scimmia », fu urlato in risposta. Solo in seguito Zouga apprese il gergo dei cercatori: una scimmia era un diamante di cinquanta carati e più, mentre un pony era l'impossibile sogno di ogni cercatore, una pietra di cento carati. « Black Thomas ha trovato una scimmia. » La risposta corse di bocca in bocca e attraversò la piazzale tutto l'accampamento, e presto la folla gremì perfino l'esterno della traballante taverna, così che i traboccanti boccali di birra dovettero essere passati di mano in mano al di sopra delle teste fino agli uomini che si trovavano ai margini della calca. Il fortunato Black Thomas era nascosto alla vista di Zouga, immerso nella folla che gli si stringeva addosso, e tutti cercavano di avvicinarglisi, come se parte della fortuna di quell'uomo potesse comunicarsi toccandolo. I kopie-wallopers udirono tanta agitazione e in fretta ammainarono le bandiere e si precipitarono attraverso la piazza, raccogliendosi come avvoltoi intorno al leone che ha ucciso la sua preda. I primi arrivarono senza fiato ai limiti della calca e presero a saltellare su e giù per lanciare un'occhiata al fortunato Thomas. « Di' a Black Thomas che Werner Cuor di Leone gli fa un'offerta aperta. Passa la voce. » « Ehi, Blackie, Cul di Leone fa un'offerta aperta. » Era questa un'offerta decisa e il cercatore era libero di rivolgersi ad altri compratori; se non riceveva proposte più alte per il suo diamante aveva diritto a ritornare al primo offerente e concludere sulla base della cifra stabilita. Black Thomas fu sollevato di nuovo sulle spalle dei suoi compagni perché vedesse al di sopra delle loro teste. Era un gallese piccoletto e scuro come uno zingaro e aveva i baffi bianchi di spuma di birra. Con la sua dolce cadenza gallese urlò in risposta: « Stammi a sentire, ladro d'un Cul di Leone, preferirei... » ciò che avrebbe preferito fare col proprio diamante fece spalancare gli occhi persino a quei rozzi uomini che lo circondavano e che subito scoppiarono in una gran risata sgangherata « ... Piuttosto che fartici mettere sopra quelle tue zampe da ladro. » In quelle parole echeggiava il ricordo di un centinaio di umiliazioni e di cattivi affari a cui era stato fino allora costretto.
Ora Black Thomas con la sua scimmia era il re degli scavatori, e benché il suo regno sarebbe stato breve era tuttavia deciso a godersi tutte le delizie che esso prometteva. Zouga non posò mai lo sguardo su quella pietra né rivide più Black Thomas, perché prima di mezzogiorno dell'indomani il piccolo gallese aveva venduto il diamante e anche le sue briefies e aveva preso la lunga strada per il sud, con la quale iniziava il suo viaggio di ritorno a casa, verso una terra più bella e più verde. Nella calca di tutti quei corpi caldi e sudati che riempivano la taverna, Zouga attese cercando di scegliere con cura uno di quegli uomini; intanto, man mano che i boccali venivano mandati giù, le voci aumentavano di tono e il linguaggio diventava più osceno. Alla fine scelse uno che con il suo comportamento e i suoi discorsi sembrava un gentiluomo e non aveva affatto l'aria d'essere del posto. Stava bevendo whisky e quando Zouga vide che il suo bicchiere era ormai vuoto si avvicinò e ordinò che glielo riempissero. « Molto gentile da parte sua, vecchio mio », lo ringraziò l'uomo. Non aveva ancora trent'anni e d'aspetto era assai attraente, con un bell'incarnato inglese e fedine che sembravano di seta. « Mi chiamo Pickering, Neville Pickering », disse. « Ballantyne, Zouga Ballantyne. » Zouga strinse la mano che gli veniva offerta e l'espressione dell'uomo cambiò. « Santo cielo, lei è il cacciatore d'elefanti. » Pickering alzò la voce. « Sentite, amici, questo è Zouga Ballantyne. Sapete, quello che ha scritto Odissea del cacciatore. » Zouga dubitava che metà di quegli uomini sapesse leggere, ma il fatto che avesse scritto un libro lo rendeva oggetto di ammirazione. Scoprì così che il centro dell'interesse generale non era più Black Thomas ma lui stesso. Solo quando fu buio poté ritornare al carro. Aveva sempre avuto una buona resistenza all'alcol e c'era una gran bella luna, cosicché poté destreggiarsi tra gli escrementi di cui era disseminato il sentiero. Aveva speso alcune sovrane nella taverna, ma in compenso aveva appreso parecchio sugli scavi. Aveva appreso delle speranze e dei timori dei cercatori. Ormai conosceva il prezzo corrente delle briefies, sapeva quali criteri c'erano dietro i prezzi dei diamanti, conosceva la composizione geologica del giacimento e cento altri fatti riguardanti questo. Aveva anche fatto un'amicizia che avrebbe cambiato la sua vita. Mentre Aletta e i ragazzi già dormivano sotto la tenda del carro, Jan Cheroot, il piccolo ottentotto, stava aspettandolo accoccolato davanti al fuoco di bivacco, piccola figura che nell'argentea luce della luna sembrava uno gnomo. « L'acqua non è gratuita », disse a Zouga in tono cupo. « Il fiume è a un intero giorno di marcia da qui e quel ladro di boero che possiede i pozzi vende l'acqua allo stesso prezzo a cui in questo buco d'inferno vendono il brandy. » Era un fatto
certo che nel giro di dieci minuti dall'arrivo in una nuova città Jan Cheroot già conoscesse il prezzo corrente dei liquori. Zouga s'arrampicò sul carro badando a non scuoterlo per non svegliare i ragazzi; Aletta se ne stava sdraiata rigida nella stretta branda. Lui le si distese accanto e per molti minuti nessuno dei due disse niente. Alla fine lei bisbigliò: « Sei deciso a restare in questo... » esitò, poi aggiunse con una certa veemenza: « ... In questo posto orrendo? » Zouga non rispose e nel giaciglio dietro la tenda tesa a metà del carro Jordan mandò un lamento e poi tacque. Zouga attese che si fosse calmato, quindi disse: « Oggi un gallese, un certo Black Thomas, ha trovato un diamante. Dicono che gli siano state offerte dodicimila sterline da uno dei compratori ». « Mentre tu eri via, una donna è venuta a vendermi un pò di latte di capra. » Sembrava che Aletta non lo avesse sentito. « Ha detto che nel campo c'è un'epidemia. Una donna e due bambini sono già morti e molti altri sono malati. » « Per mille sterline si può comprare una buona concessione sul kopie. » « Temo per i ragazzi, Zouga », bisbigliò Aletta. « Torniamo indietro. Potremmo smetterla con questa vita da zingari. Papà ha sempre desiderato che tu entrassi negli affari... » Il padre di Aletta era un ricco mercante del Capo, ma nel buio Zouga ebbe un fremito al pensiero di una scrivania nello squallido ufficio contabile della Cartwright and Company. « E' ora che i ragazzi vadano a una buona scuola, altrimenti verranno su come selvaggi. Ti prego, Zouga, torniamo indietro. » « Una settimana », disse lui. « Dammi una settimana di tempo... Siamo arrivati fin qui. » « Non credo di farcela a sopportare mosche e sporcizia per un'altra settimana. » Aletta mandò un sospiro e gli girò le spalle, badando bene a non sfiorarlo nello stretto giaciglio. A Città del Capo, il medico di famiglia che aveva visto nascere Aletta e l'aveva assistita durante il parto di entrambi i ragazzi e nei suoi numerosi aborti, li aveva avvertiti in tono minaccioso: « Un'altra gravidanza potrebbe essere la tua ultima, Aletta. Non rispondo di quello che può succedere ». Da allora, per tre anni, nelle rare occasioni in cui erano riusciti a dividere lo stesso letto, lei gli aveva sempre voltato le spalle. Prima dell'alba, mentre Aletta e i ragazzi dormivano ancora, Zouga sgusciò giù dal carro. Nel buio che precede la luce smosse le ceneri e, accoccolato su di esse, bevve un caffè; poi, ai primi rosei bagliori dell'alba, si unì alla colonna di carretti e uomini frettolosi che muovevano al quotidiano assalto della collina. Man mano che la luce e il calore aumentavano, tra turbini di polvere, si mosse da una concessione all'altra, osservando
e studiando. Si era preparato da tempo, ormai era un geologo dilettante. Aveva letto ogni libro che era riuscito a trovare sull'argomento, spesso alla luce di candela nelle solitarie notti sul veld, e nei suoi non frequenti ritorni in patria aveva trascorso giorni e settimane nel Museo di Storia Naturale a Londra, soprattutto nella Sezione Geologica. Aveva addestrato l'occhio alle formazioni rocciose e alla struttura, al peso e al colore d'ogni campione di roccia. In quasi tutte le concessioni, ai suoi approcci scrollavano le spalle o gliele voltavano, ma un paio di cercatori si ricordarono di lui, il « cacciatore d'elefanti », l'« amico scrittore », e approfittarono della sua visita per appoggiarsi un pò alle vanghe e chiacchierare per qualche minuto. « Io ho due briefies », disse un cercatore che si presentò come Jock Danby, « ma io le chiamo Le Diaboliche. Con queste due mani », sollevò due enormi palmi coperti di calli, con unghie cortissime e nere, « con queste mie mani ho smosso quindici tonnellate di roba e la pietra più grossa che ho trovato era un due carati. Quella », indicò la concessione accanto, « era la concessione di Black Thomas. Ieri lui ha trovato una scimmia, una maledetta, grossa scimmia fetente, a neppure mezzo metro dal mio picchetto. Cristo! Ce n'è abbastanza da spezzarti il cuore. » « Le offro una birra. » Zouga indicò col capo la taverna più vicina e l'uomo si leccò le labbra, ma poi scosse il capo con rammarico. « Il mio ragazzo ha fame, gli si vedono le costole, poverino, ed entro domani a mezzogiorno ho dei pagamenti da fare. » Indicò la dozzina di neri mezzo nudi che con piccone e secchio lavoravano insieme con lui sul fondo di uno scavo di precisa forma quadrata. « Questi bastardi mi costano una fortuna al giorno. » Si sputò sui palmi callosi e sollevò la vanga, ma Zouga aggiunse, sommesso: « Dicono che il filone si contrarrà al livello della pianura ». A quel punto il kopje era ridotto ad appena una sessantina di metri di altezza sopra la circostante pianura. « Cosa ne pensa? » « Mister, porta male anche solo parlare di cose del genere. » Jock fermò la vanga a mezz'aria e guardò accigliato Zouga, che stava più in alto di lui; c'era timore in quel suo sguardo. « Ha mai pensato di vendere? » gli chiese Zouga, e immediatamente il timore scomparve dall'espressione di Jock per essere sostituito da uno sguardo circospetto. « Perché, mister? Pensa di comprare? » Jock si drizzò nella persona. « Voglio dirle una cosa. Non ci pensi neppure, a meno che non abbia pronte seimila sterline. » Guardò pieno di speranza Zouga, che restituì lo sguardo, impassibile. « Grazie per l'attenzione, signore, e per il suo bene spero che la ghiaia duri. » Zouga si toccò la larga falda del cappello e s'allontanò. Jock
Danby rimase a guardarlo, poi sputò nella terra gialla ai propri piedi e subito dopo la colpì con la vanga come se fosse un nemico mortale. Mentre si allontanava, Zouga avvertì uno strano senso di esaltazione. C'era stato un tempo in cui la sua vita s'era fondata sulle carte e sui dadi e ora si sentiva dentro l'istinto del giocatore. Sapeva che la ghiaia non si sarebbe esaurita. Sapeva che affondava, ricca e pura, nelle profondità della terra. Lo sapeva con certezza incrollabile e, con altrettanta certezza, sapeva anche un'altra cosa. « La strada per il nord comincia da qui. » Lo disse ad alta voce, e si sentì fremere il sangue nelle vene. « E' da qui che comincia. » Avvertì il bisogno di compiere un atto di fede, di affermazione completa, e sapeva anche qual era questo atto. Lì tra gli scavi il prezzo del bestiame era alle stelle e abbeverare i suoi buoi gli costava una ghinea al giorno. Sapeva come chiudersi la porta alle spalle. A metà pomeriggio aveva già venduto i buoi: cento sterline l'una le bestie e cinquecento il carro. Ormai era impegnato a fondo: nel depositare le monete d'oro sul rozzo banco di legno della baracca di lamiera che ospitava l'agenzia della Standard Bank avvertì in tutto il corpo fremiti di eccitazione. Il ponte alle spalle era bruciato. Stava puntando tutto su quella ghiaia gialla e sulla strada per il nord. « Zouga, avevi promesso », disse Aletta in un bisbiglio quando il compratore si presentò al campo per prendersi i buoi. « Avevi promesso che entro una settimana... » Quindi, nel vedere la faccia di lui, tacque. Conosceva quell'espressione. Tirò a sé i due ragazzi e se li tenne stretti. Jan Cheroot si avvicinò a ciascun bue e gli bisbigliò a turno nell'orecchio, teneramente, come un amante, e quando il tiro venne condotto via si girò verso Zouga con uno sguardo carico di rimprovero. Nessuno dei due disse nulla e, alla fine, l'ottentotto abbassò lo sguardo e s'allontanò, piccolo gnomo scalzo e dalle gambe arcuate. Zouga pensò di averlo perso e fu invaso da un'ondata di tristezza perché per dodici anni quel piccolo uomo era stato un amico, un maestro e un compagno. Era stato lui, Jan Cheroot, a trovargli le tracce del suo primo elefante, e gli era stato al fianco quando lo aveva abbattuto. Insieme avevano percorso in lungo e in largo un intero, selvaggio continente. Avevano bevuto dalla stessa bottiglia e mangiato nella stessa pentola in un migliaio di bivacchi. E tuttavia ora non se la sentiva di richiamarlo; sapeva che l'ottentotto doveva prendere da solo la propria decisione. Ma non era il caso di preoccuparsi. Quando fu l'ora del dop, la sera, Jan Cheroot era lì, pronto con la sua sbeccata tazza di smalto. Zouga sorrise e, ignorando la linea che misurava la sua razione quotidiana di brandy, gliela riempì fino all'orlo.
« E' stato necessario, mio vecchio amico », disse, e Jan Cheroot annuì con aria grave. « Erano delle buone bestie. Ma dalla mia vita ho visto uscire molte ottime bestie, a quattro e due gambe. » Assaggiò il forte brandy. « Dopo un pò e dopo qualche goccio, non importa più tanto. » Aletta non parlò più finché i ragazzi non furono addormentati sotto la tenda. « La vendita dei buoi e del carro è stata la tua risposta », disse. « Costava una ghinea al giorno abbeverarli e per chilometri tutt'intorno non c'è più pascolo. » « Ci sono state altre tre morti nel campo. Ho contato trenta carri che andavano via. «E' un campo appestato. » « Sì. » Zouga annuì. « Alcuni dei cercatori stanno diventando nervosi. Una concessione che m'era stata offerta per mille e cento sterline ieri, oggi è stata venduta per novecento. » « Zouga, non è giusto nei confronti miei e dei ragazzi », cominciò a dire Aletta, ma lui la interruppe. « Posso trovare un passaggio per te e i ragazzi sul carro di un mercante. Ha venduto tutta la sua merce e parte nei prossimi giorni. Ti riporterà a Città del Capo. » Si spogliarono al buio e in silenzio, e quando Aletta lo seguì nel duro e stretto giaciglio il silenzio continuò ancora, finché lui pensò che si fosse addormentata. Poi sentì la sua mano, liscia e morbida, sfiorargli la guancia. « Mi dispiace, mio caro. » La sua voce era lieve come il tocco della mano e il suo fiato gli agitò la barba. « Ero così stanca e depressa. » Lui le prese la mano e si portò la punta delle dita alle labbra. « Sono stata una cattiva moglie per te, sempre debole e malata, quando tu avevi bisogno di qualcuno davvero forte. » Timidamente gli sfiorò il corpo col proprio. « E ora che dovrei esserti di conforto non faccio che piagnucolare. » « No », disse lui. « Non è vero. » Nel passato, tuttavia, aveva provato del risentimento verso di lei, proprio per quelle ragioni. S'era sentito come uno che provi a correre con una palla al piede. « E tuttavia ti amo, Zouga. Ti ho amato dal primo giorno che ti ho visto e non ho mai cessato di amarti. » « Anch'io ti amo, Aletta », le bisbigliò lui, ma le parole gli erano corse automaticamente alle labbra; per riparare a quella mancanza di spontaneità, le passò un braccio intorno alle spalle, l'attirò a sé e le spinse la guancia contro il proprio petto. « Mi odio per essere così debole e cagionevole di salute », disse lei, e aggiunse, esitando: « Per non saper essere più una buona moglie ». « Sst! Aletta, non turbarti. » « D'ora in poi sarò forte. Vedrai. » « Dentro di te sei sempre stata forte. » « No, ma lo sarò d'ora in poi. Troveremo insieme molti diamanti e dopo ce ne andremo al nord. » Lui non rispose e Aletta
disse ancora: « Zouga, voglio fare l'amore con te... Adesso ». « Aletta, lo sai che è pericoloso. » « Ora », ripeté lei. « Ora, ti prego. » Gli allontanò la mano dal viso e gliela piazzò sotto il bordo della camicia da notte, sulla pelle calda e levigata della coscia. Non lo aveva mai fatto prima e lui provò insieme stupore ed eccitazione, ma subito dopo fu preso da tenerezza e compassione per lei come non gli capitava ormai da molti anni. Quando il respiro le fu tornato regolare, gentilmente lei gli allontanò le mani e sgusciò fuori del giaciglio. Appoggiato su un gomito, lui la osservò mentre accendeva una candela e s'inginocchiava davanti al baule legato alla branda con una corda. S'era intrecciata i capelli e li aveva legati con un nastro, e il suo corpo era esile come quello di una fanciulla. La luce della candela l'abbelliva, facendo scomparire i segni della malattia e della preoccupazione. Ricordò quanto era stata bella. Aletta sollevò il coperchio del baule, prese qualcosa dall'interno e la portò da lui. Era un cofanetto con una serratura d'ottone riccamente ornata. La chiave era nella serratura. « Aprilo », disse. Alla luce della candela lui vide che il cofanetto conteneva due spessi rotoli di banconote da cinque sterline, ciascuno legato con un pezzo di nastro, e una borsa a cordone di velluto verde scuro. Sollevò la borsa. Era piena di pesanti monete d'oro. « Le tenevo da parte », bisbigliò lei, « per il giorno in cui ne avessimo avuto veramente bisogno. Sono quasi mille sterline. » « Dove le hai prese? » « Mio padre, il giorno del nostro matrimonio. Prendile, Zouga. Compra quella concessione. Questa volta ci andrà bene. Andrà tutto bene. » La mattina dopo il compratore venne a ritirare il carro. Attese impaziente che la famiglia trasferisse sotto la tenda conica i suoi pochi averi. Una volta rimossi i giacigli dalla tenda che ricopriva metà del carro, Zouga poté sollevare il pianale sullo stretto scomparto posto sopra il carrello posteriore. Lì, dentro, per tenere basso il centro di gravità del veicolo, venivano riposti gli oggetti più pesanti: la catena da tiro di riserva, il piombo per fare le pallottole, una piccola incudine e, infine, l'idolo a forma di uccello che Zouga e Jan Cheroot sollevarono con grande sforzo e deposero a terra accanto al carro. Insieme, poi, lo trasportarono fino alla tenda conica e lo sistemarono, dritto, contro il telo in fondo alla tenda. « Ho trasportato quest'affare maledetto dal Matabeleland fino a Città del Capo, e da lì fin qui », si lamentò Jan Cheroot, disgustato, ritraendosi dall'uccello scolpito sulla sua base di pietra. Zouga sorrise, indulgente. L'ottentotto aveva odiato quel-
l'antico idolo sin dal primissimo giorno in cui, insieme, lo avevano scoperto tra le rovine di un'antica città murata, una città nella quale erano capitati mentre andavano a caccia di elefanti in quella selvaggia regione sperduta del nord. « E' il mio portafortuna », disse Zouga, sorridendo. « Quale fortuna? » chiese, amaro, Jan Cheroot. « E' fortuna dover vendere i buoi? E' fortuna vivere in una tenda piena di mosche in mezzo a una tribù di bianchi selvaggi? » Continuando a brontolare, Jan Cheroot uscì a grandi passi dalla tenda e, una volta fuori, afferrò la cavezza dei due cavalli rimasti per portarli ad abbeverarsi. Zouga sostò un attimo davanti alla statua. Si levava alta sulla sua colonna di lucida steatite verde e gli arrivava fino alla testa. Aveva la forma stilizzata di un uccello nell'atto di prendere il volo, un falco, e la curva accentuata di quel becco affascinava Zouga; con un gesto abituale carezzò la pietra levigata e, inscrutabili, gli occhi inespressivi restituirono il suo sguardo. Stava per aprire le labbra e bisbigliare qualcosa all'uccello quando, in quel momento, Aletta s'affacciò all'apertura triangolare della tenda e lo sorprese in quell'atteggiamento. Lesto, quasi con un senso di colpa, lasciò cadere la mano e si girò verso di lei. Aletta odiava quella statua di pietra ancor più di Jan Cheroot, e a quella vista rimase immobile. Aveva le braccia piene di una pila di biancheria e vestiti accuratamente piegati e, negli occhi, uno sguardo preoccupato. « Zouga, dobbiamo tenerlo proprio qui quell'affare? » « Non prende spazio », rispose lui. Le si avvicinò, le tolse di mano la pila di roba e la poggiò sulla branda a rotelle, dopodiché si girò per abbracciarla. « Non dimenticherò mai quello che hai fatto questa notte », le disse e sentì la rigidità scomparire dal corpo di lei. La moglie gli si appoggiò contro e sollevò il viso verso il suo. Una volta ancora lui provò una stretta al petto ed ebbe compassione quando vide le pieghe agli angoli degli occhi e della bocca di lei; era stanca, malata e preoccupata. Chinò il capo per baciarle le labbra avvertendo al tempo stesso imbarazzo per una tale insolita manifestazione d'affetto; ma in quel momento i due ragazzi entrarono di corsa nella tenda, ridendo e gridando eccitati, tirandosi dietro un cucciolo legato a una corda. Aletta si staccò in fretta dall'abbraccio del marito e, arrossendo per l'imbarazzo, si sistemò il grembiule. Sgridò affettuosamente i figli. « Portatelo fuori! E' pieno di pulci. » « Per piacere, mamma! » « Fuori, ho detto! » Guardò il marito allontanarsi in direzione delle sparse baracche dell'insediamento: avanzava sul sentiero polveroso, con le spalle ben squadrate e la vecchia baldanza nel passo, e a un certo punto si girò verso il cono di tela sporca che si stagliava sull'arida pianura sotto il crudele e azzurro cielo d'Africa e man-
dò un sospiro. Lei fu assalita di nuovo, a ondate, dalla stanchezza. Quando era ragazza c'erano i servi che s'occupavano delle umili incombenze della cucina e delle pulizie. Lei invece ancora non s'era abituata alle fumose fiamme agitate del fuoco da campo e intorno a lei, su tutto, s'era già depositato un lieve strato di polvere rossa, persino sulla superficie del latte di capra. nella brocca di terracotta. Con un enorme sforzo di volontà raccolse le proprie energie e, chinandosi, entrò decisa nella tenda. Ralph aveva seguito Jan Cheroot fino ai pozzi per dargli una mano con i cavalli. Sapeva che non sarebbero tornati fino all'ora del pasto. Strana coppia formavano quei due, il vecchietto avvizzito e il bel ragazzo sventato già più alto e più robusto del suo inseparabile protettore e tutore. Jordan era rimasto con lei. Non aveva ancora dieci anni, ma senza la sua compagnia lei dubitava che sarebbe riuscita a sopportare il terribile viaggio di tanti massacranti chilometri, i soffocanti giorni polverosi e le notti di freddo pungente. Il ragazzo già era in grado di preparare i semplici piatti del mangiare da campo e, a ogni pasto, la famiglia gustava con piacere il suo pane senza lievito e le sue focaccine alla griglia. Lei gli aveva insegnato a leggere e a scrivere e gli aveva trasmesso il proprio amore per la poesia e le cose belle e delicate. Sapeva già rammendare una camicia lacerata e maneggiare il pesante ferro pieno di carboni per stirarla. La sua vocetta acuta e la sua angelica bellezza erano per lei fonte di costante e intensa gioia. Gli aveva fatto crescere molto lunghi i riccioli dorati, resistendo al marito che voleva tagliarglieli corti come aveva fatto con Ralph. Le stava accanto ora, Jordan, aiutandola a piazzare un telo a metà tenda per separare la zona letto dall'altra di soggiorno; all'improvviso lei avvertì l'impulso di chinarsi a carezzargli quei bei riccioli morbidi. A quel contatto il ragazzo le rivolse un dolce sorriso mentre, di colpo, lei avvertiva un capogiro. In piedi sulla traballante branda Aletta vacillò e cercò di tenersi in equilibrio, e mentre cadeva Jordan tentò di trattenerla. Non aveva forza, e il peso di lei li trascinò entrambi a terra. Jordan la guardò con occhi spalancati e pieni di raccapriccio, poi, un pò carponi, un pò traballando, l'aiutò a sollevarsi fino alla branda e a crollarvi sopra. Lei fu travolta da ondate di nausea e capogiro. Quando l'impiegato aprì la porta che dava sulla Market Square, Zouga fu il primo cliente a entrare nell'ufficio della Standard Bank. Una volta che ebbe depositato il contenuto del cofanetto di Aletta e l'impiegato l'ebbe chiuso nella grande cassaforte verde in fondo al locale, Zouga aveva un conto di quasi duemilacinquecento sterline. Tale consapevolezza lo rese deciso. Si sentiva ricco e impor-
tante mentre avanzava sulla rampa che dava sulla strada soprelevata centrale. Le strade di accesso agli scavi erano larghe più di due metri. Dopo la lezione ricevuta a Bultfontein e a Dutoitspan, il commissario alle miniere aveva preteso che quelle strade di accesso venissero lasciate aperte per servire le concessioni al centro della gran fossa che s'andava allargando. Gli scavi si presentavano come un mosaico di piattaforme quadrate, ognuna di dieci metri esatti di lato. Alcuni dei cercatori, con più capitale e miglior organizzazione, scavavano più velocemente degli altri, così che quelli che lavoravano più lentamente erano isolati su picchi di terra gialla, alti sopra le concessioni vicine, mentre nel frattempo i cercatori più svelti avevano scavato profondi pozzi quadrati sul cui fondo lavoravano, nudi, gli operai neri. Muoversi da una concessione all'altra già rappresentava ormai un vero e proprio complicato viaggio, a volte senz'altro pericoloso: bisognava avanzare su vacillanti passerelle tese sopra il profondo pozzo di una concessione, o arrampicarsi su per oscillanti scale di corda o calarsi giù per una scala di legno, cioè due lunghi pali messi insieme con pioli che cigolavano e spesso cedevano sotto il peso di un uomo. Fermo sulla strada che si sgretolava, con i profondi pozzi ai suoi piedi, Zouga si chiese quale sarebbe stato il risultato se il filone continuava sino a grande profondità: avventurarsi in quel pozzo disuguale già richiedeva un bello stomaco e un forte senso dell'equilibrio. Stupì, riflettendo, di fronte a quella prova della decisa determinazione dell'uomo ad accumulare ricchezze contro ogni circostanza avversa e di fronte a ogni pericolo. Stette a guardare mentre dal fondo di uno degli scavi, oscillando alla fine di una lunga corda, un secchio di cuoio, colmo di compatta ghiaia gialla, veniva issato da due neri sudati e chini sull'argano, con i muscoli che si contraevano e distendevano all'accecante luce del sole. Il secchio raggiunse il bordo della strada e i due l'afferrarono, lo portarono al carretto in attesa con la sua paziente coppia di muli e lo vuotarono nel cassone mezzo pieno. Poi uno di loro lo calò, vuoto, agli uomini che stavano una quindicina di metri sotto. Questa operazione veniva ripetuta contemporaneamente in un altro centinaio di punti lungo le quattordici soprelevate; carichi e oscillanti, i secchi venivano issati, vuotati e calati di nuovo. Ogni tanto, rompendo quel ritmo monotono, la cucitura di uno di quei secchi di cuoio cedeva e gli uomini di sotto venivano investiti da una pioggia di ghiaia e pezzi di roccia; oppure una corda consumata si rompeva di schianto e, avvertiti con grida acute, gli uomini in fondo al pozzo si scansavano precipitosamente per non essere colpiti dal secchio che crollava giù. Un'eccitazione impaziente e ronzante sembrava invadere l'intera zona degli scavi: gli ordini pressanti urlati tra pozzo e strada in alto, il cigolio delle carrucole, gli stridenti tonfi dei picconi, l'agitar di pale e il coro ritmico di una squadra di basuto
intenti a cantare mentre lavoravano, piccoli e muscolosi montanari della Dragon Range. Urlanti e invadenti, i cercatori bianchi sciamavano su e giù per le oscillanti scale o sorvegliavano le loro squadre in fondo ai pozzi, con gli occhi aperti per prevenire ogni « pizzico »: la possibilità che un diamante di valore venisse portato alla luce e rapidamente nascosto da uno degli operai neri nel palmo della mano per poi cacciarselo in bocca o in qualche altro orifizio del corpo alla prima occasione. La vendita e l'acquisto illegali dei diamanti erano già una persecuzione per i cercatori. Ai loro occhi ogni nero era sospetto. Solo uomini con meno di un quarto di sangue nero avevano diritto ad acquistare e lavorare una concessione. Questa legge rendeva più facile l'attribuzione delle colpe, perché una faccia nera con un diamante in suo possesso era colpevole al di là di ogni dubbio. Tuttavia questa legge non riusciva a impedire che dei loschi individui, bianchi, s'aggirassero intorno agli scavi, spacciandosi per venditori ambulanti, attori o proprietari di infime taverne, ma in realtà tutti CID, Compratori Illegali di Diamanti. I cercatori li odiavano con una ferocia che certe notti esplodeva in tumulti, assalti e incendi, nei quali degli innocenti mercanti, insieme col colpevole, perdevano tra le fiamme tutti i loro averi, mentre la folla di cercatori danzava intorno alle baracche in fiamme urlando: « CID! CID! » Zouga avanzava cauto lungo il bordo della strada spinto a volte troppo in punta dal passaggio di un carretto carico di terra diamantifera. Giunse infine al punto soprastante le concessioni di Jock Danby dal quale il giorno prima aveva parlato col giovane cercatore. Le due concessioni erano deserte, la fune arrotolata e il secchio di cuoio erano abbandonati, laggiù sotto il livello della strada un piccone era rimasto con la punta infilata nel terreno. Un cercatore alto e barbuto stava lavorando nella concessione vicina: quando Zouga lo salutò, si girò a guardarlo accigliato. « Cosa vuole? » « Sto cercando Jock Danby. » « Be', sta cercando nel posto sbagliato. » L'uomo si voltò e con un calcio prese di mira l'operaio più vicino. « Sebenza, brutta scimmia nera! » « Dove posso trovarlo? » « Dall'altra parte di Market Square, dietro il Lord Nelson », rispose l'uomo, senza neppure girare il capo. Lo spiazzo era coperto di rifiuti quanto il resto dell'accampamento ed era affollato dai carri dei mercanti e dai carretti dei contadini, che venivano a vendere il latte o i prodotti della terra, e dei venditori d'acqua, che smerciavano il prezioso liquido a secchi. Il Lord Nelson era una struttura di legno sovrastata da un telo macchiato e coperto di polvere rossa. Tre dei bevitori della notte precedente giacevano come cadaveri imbalsamati nello
stretto vicolo di fianco alla taverna, mentre l'unica sala di questa era già piena dei primi clienti della mattinata. Un cane paria si avvicinò ad annusare il fiato a uno degli ubriachi privi di coscienza e si ritrasse di colpo, quindi si allontanò per andare a rovistare nel bidone aperto e pieno di rifiuti dietro la baracca. Zouga scavalcò i corpi distesi a terra e avanzò nel vicolo sporco e rumoroso. Dovette chiedere una mezza dozzina di volte prima di trovare il capanno di Jock Danby. Così ossessionati erano i cercatori di diamanti nella loro ricerca del nascosto brillio della ricchezza, e così provvisoria era la popolazione lì agli scavi, che ognuno sembrava conoscere solo i nomi dei suoi immediati vicini. Era una comunità di estranei in cui ciascuno badava a se stesso, completamente disinteressato nei confronti degli altri esseri umani che lo circondavano se non quel tanto in cui potevano aiutarlo o contrastarlo nella sua ricerca delle pietre brillanti. Il capanno di Jock Danby si distingueva a malapena dai mille altri. Due stanze costruite con mattoni di argilla e coperte di paglia e tela lacerata. Di lato c'era una tettoia con sotto un fumoso fuoco sul quale, sopra un treppiedi, c'era una pentola affumicata. Sull'ingombro e polveroso spiazzo davanti al capanno c'era l'inevitabile tavolo per la scelta dei diamanti, un tavolo basso con dei robusti piedi di legno e un piano coperto da una lamina di metallo, resa lucida e brillante dalla ghiaia diamantifera strofinata sulla sua superficie. I raschini di legno giacevano abbandonati sul piano del tavolo, al cui centro, come una brillante piramide, si levava un mucchietto, di ghiaia setacciata e lavata. Davanti alla porta del capanno c'era un carretto a due ruote con due sonnolenti asini ancora legati alle stanghe. Agitavano le orecchie alla nera nube di mosche ronzanti. Sul carretto c'erano mucchi di terra gialla, ma lo spiazzo era deserto. In gran contrasto, ai due lati della porta d'ingresso c'erano alcuni stenti gerani scarlatti piantati in latte da un gallone. C'erano anche, all'unica finestra del capanno, delle graziose tendine di pizzo lavate molto di recente perché ancora non erano diventate rosso-ocra né erano macchiate dagli escrementi delle mosche sciamanti. Inconfondibile, dunque, c'era una mano femminile e, a conferma, dalla porta aperta giungeva il pianto debole ma straziante di una donna. Mentre, sconcertato da quel pianto, Zouga esitava lì davanti, un uomo grande e grosso riempì il vano della porta e, sbattendo le palpebre alla luce del sole, si riparò gli occhi con una mano nodosa nella quale lo sporco era penetrato fin sotto la pelle. « Chi è lei? » chiese Jock Danby con inutile sgarbo. « Le ho parlato ieri », spiegò Zouga. « Su, allo scavo. » « Cosa vuole? » chiese ancora Danby, non mostrando alcun segno di riconoscerlo, con i tratti contorti in un'espressione di truculenza e qualcos'altro ancora, un'emozione che Zouga non
riconobbe immediatamente. « Aveva parlato di vendere le sue briefles », gli ricordò Zouga. La faccia di Jock Danby parve gonfiarsi e diventare d'un brutto rosso scuro e anche le vene del collo gli si gonfiarono allorché reclinò il capo sulle spalle vigorose. « Brutto, sporco avvoltoio », esclamò con voce strozzata, e uscì nel sole con l'irresistibile possanza di un bufalo che carica. Era più alto di Zouga di tutta una testa, dieci anni più giovane e trenta chili più pesante. Colto di sorpresa, Zouga tardò un centesimo di secondo a chinarsi e scansarsi dalla carica di quell'uomo. Come una palla di cannone, un pugno lo colpì alla spalla, un colpo menato alla cieca ma con la forza sufficiente per mandare Zouga a sbattere contro il tavolo di scelta. La ghiaia diamantifera si sparse dappertutto nella polvere dello spiazzo. Jock Danby caricò di nuovo, il viso gonfio, gli occhi di fuori, le grosse dita adunche; afferrò alla gola Zouga, che si piegò in due, ritrasse le gambe e, teso, come una vipera nell'atto di ghermire, colpì con i tacchi degli stivali il torace dell'uomo. Jock Danby sfiatò e si bloccò a metà carica come se fosse stato colpito in petto da una doppia carica di pallettoni. Testa e braccia gli scattarono in avanti e, fiacco come un fantoccio di paglia, volò all'indietro, andando a sbattere contro il muro di mattoni d'argilla del capanno. Zouga balzò via dal tavolo. Aveva il braccio sinistro intorpidito fino alla punta delle dita dal colpo inatteso, ma si sentiva leggero sulle gambe come un ballerino e armato e rafforzato dall'improvvisa ondata di fredda rabbia che lo invase. Accorciò la distanza da Jock Danby con due rapidi passi e lo colpì con un destro alto sul lato della testa, al disopra dell'orecchio. La violenza del pugno gli fece sbattere i denti ma mandò l'altro strisciante contro il muro, ginocchioni nella polvere rossa. Jock Danby era stordito e aveva gli occhi vitrei, ma Zouga lo sollevò di scatto e lo sbatté contro la fiancata del carretto, sistemandoselo per un altro pugno. Era spinto dalla rabbia a vendicarsi di quell'attacco insensato e non provocato e, tenendo fermo l'altro con la sinistra, trasse indietro il pugno destro pronto a colpire con tutta la forza. Ma si bloccò. Non fece scattare il pugno, guardò invece l'altro, incredulo. Jock Danby stava piagnucolando come un bambino, con le spalle che gli si scuotevano e le lacrime che gli scorrevano giù per le guance abbronzate nella barba piena di polvere. Era in un certo senso sbalorditivo e imbarazzante vedere un uomo come quello piangere, e la rabbia di Zouga sbollì rapidamente. Abbassò il pugno e lo aprì lungo il fianco. « Cristo... » esclamò Jock Danby con voce strozzata. « Che razza d'uomo è lei, da cercare di trarre profitto dal dolore di un altro? » Zouga lo guardò stupito, incapace di rispondere all'accusa. « Deve aver sentito l'odore, come una iena o un avvoltoio
fetente. » « Sono venuto a farle un'offerta onesta... Tutto qui », rispose Zouga, irrigidito. Si tolse il fazzoletto di tasca e lo porse a Jock Danby. « Si pulisca il viso », ordinò brusco. Jock si asciugò le lacrime e poi guardò il fazzoletto macchiato. « Allora non sapeva? » chiese in un bisbiglio. « Non sapeva del ragazzo? » Sollevò lo sguardo e fissò dritto in faccia Zouga, poi, leggendovi la risposta, restituì il fazzoletto e scosse ripetutamente il capo come uno spaniel che si scuota l'acqua dalle orecchie, cercando di ritornare in sé. « Mi dispiace », borbottò. « Pensavo che avesse saputo del ragazzo... E fosse venuto, a comprarmi tutto. » « Non capisco », disse Zouga. Jock Danby si diresse verso la porta del capanno. « Venga », disse e introdusse Zouga nella stanza sul davanti, rovente e mal ventilata. Le poltrone di velluto verde-scuro erano troppo ingombranti per le dimensioni della stanza e sul tavolo al centro erano esposti i tesori della famiglia: una Bibbia, delle vecchie fotografie sbiadite, delle posate di poco prezzo e un piatto di porcellana che commemorava le nozze della regina col principe Alberto. Sulla porta dell'altra stanza Zouga esitò, avvertendo una stretta allo stomaco. Una donna stava inginocchiata accanto al letto. Aveva uno scialle sulla testa e sulle spalle, e le mani giunte davanti al viso erano incallite e arrossate dall'incessante fatica al tavolo di scelta dei diamanti. Sollevò il capo e guardò Zouga fermo sulla soglia. Un tempo doveva essere stata graziosa, ma il sole le aveva seccato la pelle e il dolore le aveva gonfiato e arrossato gli occhi. I ciuffi di capelli che sporgevano da sotto lo scialle erano unti e prematuramente grigi. Abbassò di nuovo il capo, dopo aver lanciato quello sguardo, muovendo le labbra; stava pregando. Sul letto era disteso un ragazzo non più grande di Jordan. Aveva gli occhi chiusi e i tratti pallidi, esangui come cera, ma straordinariamente distesi. Indossava una camicia da notte pulita e aveva le mani giunte sul petto. Occorse un buon minuto a Zouga per rendersi conto che era morto. « L'epidemia », bisbigliò Jock, accanto a lui. Poi tacque, e rimase lì, immobile e massiccio come un bue in attesa del colpo del macellatore. Zouga andò in Market Square col carretto di Jock Danby e comprò una dozzina di rozze assi di legno pagando senza discutere il prezzo chiesto dal mercante. Nel polveroso spiazzo davanti al capanno dei Danby, poi, si mise in maniche di camicia a piallare le rozze assi, mentre Jock le segava e dava loro forma. Lavoravano in silenzio, s'udiva solo lo stridere della pialla e della sega. Prima di mezzogiorno la rozza bara fu pronta, e quando Jock sollevò il corpo del figlio per riporvelo Zouga avvertì la prima
zaffata della decomposizione che, nel caldo africano, sopravviene molto rapidamente. La moglie di Jock montò sul vecchio carretto accanto alla bara e Zouga e Jock si avviarono a piedi. L'epidemia infuriava sul campo. Sul luogo della sepoltura, un paio di chilometri oltre le ultime baracche sulla strada per il Transvaal, c'erano già altri due carretti, circondato ognuno da un gruppo di persone silenziose, due fosse già scavate e il becchino pronto a chiedere la sua ghinea. Sulla via del ritorno Zouga fermò il carretto davanti a una delle taverne di Market Square e con le ultime monete che gli restavano in tasca comprò tre bottiglie di brandy del Capo. Lui e Jock sedettero poi sulle poltrone di velluto verde con una bottiglia aperta e due bicchieri sul tavolo in mezzo a loro. Su questi era incisa in allegre lettere d'oro la scritta: ALLA REGINA, DIO LA BENEDICA Zouga riempì a metà i bicchieri e ne spinse uno verso Jock. Quell'uomo grande e grosso ne studiò il contenuto tenendolo nel grosso pugno tra le ginocchia, le spalle curvate e la testa china. « E' stato così improvviso », mormorò. « Ieri sera è corso incontro al carretto ed è tornato a casa sulle mie spalle. » Bevve un sorso dello scuro brandy ed ebbe un fremito. La sua voce era roca quando aggiunse: « Era così leggero. Era pelle e ossa ». Bevvero contemporaneamente. « M'è calato addosso il malocchio dal momento che ho piantato il primo picchetto di quelle maledette concessioni. » Jock scosse la gran testa dai capelli scompigliati. « Sarei dovuto restare a scavare al fiume, come diceva Alice. » Fuori dell'unica finestra con la tendina di pizzo il sole stava già calando, un tramonto rosso sporco tra le nubi di polvere; e mentre le ombre avanzavano nella stanza, Alice Danby entrò e poggiò sul tavolo in mezzo a loro una lanterna e, subito dopo, due ciotole di farinata alla boera che galleggiava in un unto stufato di montone. Dopodiché scomparve, sempre in silenzio, nell'altra stanza e di tanto in tanto durante la lunga notte Zouga udì giungere dal di là della parete sottile i suoi singhiozzi soffocati. All'alba Jock Danby s'allungò nella poltrona di velluto verde con la camicia aperta fino all'ombelico e lo stomaco villoso che ne sbucava fuori. La terza bottiglia era mezzo vuota. « Lei è un gentiluomo », farfugliò Jock. « Non intendo un damerino o un signorotto ma un maledetto galantuomo, ecco che cos'è lei. » Zouga se ne stava seduto dritto, attento e grave; a parte un lieve rossore degli occhi, non mostrava il minimo segno della lunga bevuta. « Non affibbierei Le Diaboliche a un galantuomo come lei. » Tranquillo, Zouga rispose: « Se va via, a qualcuno deve pur
vendere ». « Hanno sopra il malocchio quelle due concessioni », brontolò Jock. « Hanno già ucciso cinque uomini, hanno ridotto me sul lastrico e mi hanno dato il peggiore anno di tutta la mia vita. Ho visto i miei vicini tirar fuori grosse pietre, li ho visti diventare ricchi... Mentre io... » Con un ampio gesto da ubriaco abbracciò l'intero capanno. « Si guardi attorno. » La tela che chiudeva la porta di comunicazione fu tirata di lato e Alice Danby, senza scialle in testa, si avvicinò al marito. Dai suoi tratti sconvolti era evidente che neanche lei aveva dormito. « Vendile », disse. « Non posso restare qui un giorno di più. Vendile, vendi tutto... Andiamocene, Jock, andiamo via da questo posto orribile. Non potrei passare un'altra notte qui. » Il commissario alle miniere era un piccolo e arcigno magistrato nominato dal presidente Brand del Libero Stato Boero, che aveva avanzato le sue rivendicazioni sugli scavi. Brand non era stato il primo ad averlo fatto. Il vecchio Waterboer, il capo dei griqua-bastaard, aveva contravanzato le proprie rivendicazioni sulle aride pianure sulle quali la sua gente aveva vissuto per cinquant'anni e più. A Londra, intanto, Lord Kimberley, segretario di Stato alle Colonie, cominciava appena a rendersi conto della potenziale ricchezza delle miniere di diamante, e per la prima volta prestava ascolto alle richieste degli imperialisti di appoggiare la rivendicazione del vecchio Nicholaas Waterboer e di far rientrare il Griqualand entro la sfera dell'influenza britannica. Nel frattempo il commissario alle miniere del Libero Stato cercava, con ben poco successo, di mantenere un pò d'ordine tra gli indisciplinati cercatori. Come sul Kopje Colesberg le strade si sgretolavano nei pozzi che le circondavano, così la sua autorità si sgretolava davanti al precipitare degli eventi: l'affiorare degli interessi nazionali e l'avanzare sulla scena dei primi potenti personaggi dell'aristocrazia finanziaria dei campi minerari. Zouga e Jock Danby trovarono il commissario che affogava il dispiacere per la propria situazione in una prima colazione liquida al bar del London Hotel e, reggendolo ciascuno per un gomito, lo accompagnarono attraverso Market Square al suo ufficio. Entro la metà mattinata di quello stesso giorno, il commissario aveva copiato gli estremi del contratto di cessione delle concessioni n. 141 e 142, dette Le Diaboliche, da parte di J.A. Danby, Esq., al maggiore M.Z. Ballantyne, contro il pagamento della somma complessiva di 2000 sterline mediante assegno della Standard Bank. Un'ora dopo mezzogiorno, Zouga era sull'angolo di Market Square e guardava il carretto carico delle poltrone di velluto verde e della lettiera di ottone allontanarsi in direzione dell'angolo settentrionale della piazza. Jock Danby conduceva la
pariglia e, magra ed eretta, sua moglie sedeva in cima al carico. Nessuno dei due si voltò a guardare indietro verso Zouga e, nel momento in cui scomparirono nel dedalo di vicoletti e baracche, lui si girò e si avviò verso il kopje. Nonostante non avesse dormito tutta la notte, non si sentiva affaticato e il suo passo era così leggero che quasi correva sulla stretta soprelevata che tagliava in mezzo ai pozzi delle concessioni. Le Diaboliche erano deserte, due trascurati appezzamenti di terra gialla, due quadrati esatti, con sparsi qua e là utensili abbandonati. Gli operai neri di Jock Danby se n'erano andati perché lì agli scavi c'era sempre una disperata richiesta di mano d'opera. Quando all'alba del giorno prima Jock non li aveva radunati, non avevano fatto altro che andare a offrire i loro servigi a un altro cercatore. Quasi tutto il materiale abbandonato nelle due concessioni sembrava inutilizzabile, le cuciture dei secchi erano sul punto di cedere e le funi erano sfilacciate e somigliavano a grassi e gialli vermi. Zouga non avrebbe affidato loro nessun carico. Lentamente, scese giù per la scala oscillante e i suoi cauti movimenti resero subito chiaro agli scavatori nelle concessioni vicine che era uno venuto da fuori. « Quelle sono le briefies di Jock Danby, amico », gridò uno di loro in tono di sfida. « Sta infrangendo la legge degli scavi. E' suolo privato. Farà bene ad andar via... E subito anche. » « Le ho comprate da Jock », gridò Zouga di rimando. « Ha lasciato la città un'ora fa. » « Come faccio a saperlo? » « Perché non va a chiedere all'ufficio del commissario? » ribatté Zouga. L'altro lo scrutò incerto, era più in basso perché il livello della sua concessione era un sei metri sotto quello delle Diaboliche. Lungo tutto il pozzo irregolare gli uomini avevano smesso di lavorare, altri s'erano adunati sulla soprelevata e nemmeno uno sembrava ben disposto quando, col tono e la cadenza d'un inglese raffinato, risuonò una voce chiara e giovanile: « Maggiore Ballantyne... è lei, vero? » Zouga guardò in su verso la soprelevata e riconobbe Neville Pickering, il suo compagno di bevuta del primo giorno lì al London Hotel. « Certo, mister Pickering. » « Va tutto bene, amici. Garantisco io per il maggiore Ballantyne. Si tratta del famoso cacciatore di elefanti, sapete. » Quasi immediatamente tutti persero interesse e ritornarono al loro affannoso lavoro di riempire di gialla terra i secchi da mandar su in superficie. « Grazie », gridò Zouga all'uomo che lo sovrastava dalla soprelevata. « E' stato un piacere, signore. » Pickering sfoggiò un brillante sorriso, si toccò la falda del cappello e s'allontanò a passo lento nella calca degli scavatori barbuti e sporchi di polvere. Zouga rimase solo, come solo in spirito era sempre stato in
tutto il suo errare per il vasto continente africano. Aveva speso fino all'ultimo penny che possedeva per quei pochi metri quadrati di gialla terra in fondo a quel pozzo rovente e polveroso. Non aveva uomini che lo aiutassero nel lavoro, né esperienza né capitale, e dubitava che se ne avesse avuto uno nel palmo della mano avrebbe riconosciuto un diamante grezzo. Con la stessa rapidità con cui l'euforia del giocatore s'era impossessata di lui, il presentimento della buona fortuna che lo attendeva sì evaporò e fu sopraffatto dal pensiero della propria presunzione e dell'enormità del rischio che correva. Stava puntando tutto su concessioni che fino allora non avevano dato una sola pietra buona, e per di più il prezzo dei diamanti stava crollando, le « sbrecce », le piccole schegge di mezzo carato o meno che formavano il grosso delle pietre ritrovate, raggiungevano solo i cinque scellini l'una. Un grosso rischio, dunque, e provò una stretta allo stomaco allorché si prospettò le conseguenze del fallimento. Il sole cadeva quasi a perpendicolo e arroventava il fondo dello scavo, l'aria intorno a Zouga tremolava per il calore che, attraverso gli stivali di cuoio, gli bruciava la pianta dei piedi. Ebbe l'impressione di soffocare, di non riuscire a sopportare quel caldo un altro minuto ancora, di dover tirarsi fuori da quel pozzo, tornar su dove l'aria era più dolce e più fresca. Capì che si trattava di paura. Un turbamento al quale non era abituato. Aveva resistito alla carica di un grosso elefante ferito e aveva corso i suoi rischi - uomo contro uomo e acciaio contro acciaio - alle frontiere dell'India e nelle guerre ai confini selvaggi del Capo. Non era abituato ad aver paura, ma le ondate di panico si levavano da chissà quale oscuro angolo dell'animo suo e lui si sforzò di controllarle. Si sentiva schiacciato dal senso del disastro incombente. Quasi avvertiva sotto i piedi la sterilità di quella terra rovente, quella terra che lo avrebbe vinto alla fine, distruggendo il sogno che per tutti quegli anni era stato il carburante con il quale la sua vita s'era alimentata. Sarebbe tutto finito lì, in quell'infernale pozzo rovente? Inspirò profondamente e trattenne il fiato, opponendosi alle ondate di panico cieco, e lentamente quelle si ritirarono, lasciandolo debole come dopo un attacco di febbre malarica. Si piegò su un ginocchio, raccolse una manciata di terra gialla e la lasciò filtrare tra le dita, dopodiché esaminò il pietrisco senza valore rimastogli in mano. Poi lasciò cadere anche questo e si pulì la mano contro i pantaloni. Aveva respinto il panico ma era rimasto con un terribile senso di abbattimento e una stanchezza che avvertiva fin nelle ossa, così che a malapena ebbe la forza di arrampicarsi su per l'oscillante scaletta di corda, e quando si avviò verso la sua tenda ormai strascicava i piedi nella polvere rosso-ocra del sentiero. Al disopra dei rumori del campo risuonò una chiara voce infantile e, sollevando il capo, staccando la dorata barba dal petto, Zouga provò un senso di sollievo nel riconoscere l'acuta
e cara voce del figlio. « Papà! Oh, papà! » Jordan stava correndo verso di lui, agitando le braccia e volando sulla polvere del sentiero, mentre la massa di serici riccioli gli si agitava intorno al viso. « Oh, papà, ti abbiamo cercato... Tutta la notte e tutto il giorno. » « Cosa c'è, Jordan? » L'evidente afflizione del figlio lo allarmò di nuovo; gli andò incontro. Jordan lo raggiunse e gli buttò le braccia intorno alla vita premendo il viso contro la giacca così che la sua voce risultò soffocata. Tremava come un animaletto spaventato. « Si tratta di mamma! Le è successo qualcosa! Le è successo qualcosa di terribile! » Il delirio della febbre tifoidea prendeva Aletta a ondate roventi di grigia nebbia che cancellavano la realtà e le riempivano la testa di fantasmi e fantasie che tuttavia scomparivano di colpo, lasciandola troppo debole per mettersi a sedere in mezzo al letto ma acuendole i sensi, così che la pelle accaldata era più che sensibile al contatto della flanella appiccicaticcia sulla pelle e il peso degli abiti stessi minacciava di soffocarla. Anche la vista le s'era acuita e le immagini le apparivano ingrandite come attraverso una lente. Riusciva a distinguere una per una le lunghe ciglia curve che contornavano come una fitta frangia i bellissimi occhi verdi di Jordan. Riusciva anche a distinguere ogni singolo poro della serica pelle delle sue guance, esaltandosi alla curva perfetta delle sue labbra, che in quel momento, mentre era chino su di lei, tremavano per l'agitazione e il timore. Era persa nella contemplazione della bellezza del figlio quando nelle orecchie le riprese l'insopportabile ronzio; il viso di Jordan retrocesse finché le parve di vederlo come dal fondo di un lungo e stretto tunnel, attraverso un ronzante buio. S'aggrappò disperatamente all'immagine, ma questa cominciò a girare, agli inizi lentamente, come la ruota di un carro, poi sempre più in fretta finché il viso di Jordan s'offuscò del tutto e lei si sentì precipitare di nuovo giù nell'umido buio, come una foglia sospinta dal vento. Di nuovo il buio si disperse, in un luogo recondito della sua mente un velo s'aprì e con gioia Aletta cercò ancora il viso del ragazzo... Invece vide il falco che torreggiava sopra di lei. Era l'idolo scolpito che aveva sempre fatto parte della sua vita fin da quando Zouga v'era entrato. In ogni cottage, in ogni attendamento o stanza che per un giorno o una settimana o un mese avevano considerato casa loro, quell'idolo di pietra era stato presente, silenzioso, implacabile, greve di antica malevolenza. Lo aveva sempre odiato, aveva sempre avvertito quell'atmosfera malefica che lo circondava, e ora il suo odio e la sua paura erano concentrati proprio su quell'uccello di pietra che incombeva sulla branda sulla quale lei stava distesa.
Lo maledisse in silenzio, debole, distesa lì sulla schiena nella stretta branda, col sudore della febbre che le faceva appiccicare alla pelle la vestaglia che indossava; poi movendo le labbra espresse il proprio odio per quell'immagine di pietra che si levava alta sulla sua colonna di lucida steatite verde. Quindi la visione le si restrinse, si concentrò su quella testa di falco che assorbì tutta la sua esistenza. Come per un miracolo, gli inespressivi occhi di pietra cominciarono a brillare d'una strana luce dorata; girarono nelle orbite di lucida pietra e, all'improvviso, si posarono su di lei. Le pupille erano lucide e nere, vive, ma così crudeli, espressione di tanto male, che lei mandò un gemito di terrore. L'adunco becco di pietra s'aprì e la lingua ne venne fuori aguzza come una punta di freccia; dalla sua estremità pendeva, unica, perfetta, color rubino, una goccia di sangue in cui brillava una stella di luce... E Aletta capì che era il sangue del sacrificio. Il buio intorno all'uccello si riempì di ombre in movimento, i fantasmi delle vittime dei sacrifici, le ombre dei sacerdoti del falco morti in tutte quelle migliaia d'anni e riunitisi di nuovo per accogliere lei... Urlò e poi ancora urlò, col terrore che le cresceva dentro, incontrollabile... Finché delle mani ben ferme la scossero dolcemente, affettuosamente. La vista le si schiarì di nuovo, ma non completamente. Intorno a lei tutto era vago e indistinto e, ancora ansimando per le urla lanciate lei strizzò gli occhi. « Ralph, sei tu? » Il viso scuro, che già stava acquistando i tratti della virilità, così diverso dal dolce viso angelico del fratello, era chino su di lei. « Non disperarti così, mamma. » « Ralphie, perché è così buio? » mormorò lei. « E notte. » « Dov'è Jordie? » « Dorme, mamma. Non riusciva più a star sveglio, l'ho mandato a dormire. » « Chiama papà », bisbigliò lei. « Jan Cheroot lo sta cercando... Arriverà presto. » « Ho freddo. » Tremava violentemente e, prima di precipitare di nuovo nel buio, sentì che il figlio le tirava sotto al mento la ruvida coperta. Nell'oscurità vide ombre di uomini accorrere, farlesi intorno; avvertì la loro fretta, l'incalzare dei loro terribili propositi, e vide le loro braccia luccicare nell'ombra, il lampo del bianco acciaio sfoderato per la guerra. Udì lo scatto dell'otturatore, il fruscio della baionetta contro il fodero, e qua e là nella calca riconobbe un volto; erano visi che lei non aveva mai visto prima ma che ravvisò immediatamente con un lungimirante lampo d'intuizione. Uno era un uomo grande e grosso, barbuto, forte, ed era suo figlio - suo figlio che andava alla guerra -, e altri, tanti altri, sangue suo, carne sua, che avanzavano verso quella terribile calca in attesa. Provava per loro un irrefrenabile dolore che la consumava, ma non riusciva a piangere. Alzò invece lo sguar-
do e vide il falco nel singolo e brillante raggio di sole che attraversava le cupe e minacciose nubi che si stendevano da un orizzonte all'altro, le nubi grige e terribili della guerra. Il falco si librava su ali tese contro il ventre delle nubi il bel capo girato per scrutare giù, quindi le lunghe ali puntute si piegarono e l'uccello calò in picchiata come un fulmine, i grandi artigli tesi in avanti e pronti a colpire. Lei li vide afferrare la carne viva e notò la smorfia sul volto che non aveva mai visto prima ma che conosceva bene come il proprio. E allora urlò di nuovo. Subito delle forti braccia la strinsero, le amate, familiari braccia che lei aveva atteso tanto a lungo. Alzò lo sguardo sull'uomo: i limpidi occhi color smeraldo così vicini ai suoi, la linea possente del mento mezzo nascosto dalla barba striata d'oro. « Zouga », sospirò. « Sono qui, amor mio. » I fantasmi retrocessero, il terribile mondo di incubi del suo delirio svanì e lei si ritrovò in una polverosa pianura ai piedi di una collina mezzo rovinata: il vivido sole africano lanciava attraverso l'apertura della tenda un fascio di luce sul pavimento coperto di rossa polvere. Fu stupita del rapido passaggio dalla notte al giorno, dalla fantasia alla realtà, e bocca e gola le si riempirono di una terribile arsura. « Ho sete », disse in un roco bisbiglio. Zouga le avvicinò il boccale alle labbra spaccate e il fresco e la dolcezza dell'acqua giù per la gola furono per lei un delizioso ristoro. Ma subito dopo il ricordo degli incubi l'assalì ed ella lanciò un'occhiata timorosa alla statua silenziosa dall'altra parte della tenda. Improvvisamente sembrò innocua, insignificante, immagine cieca e muta, e tuttavia restava un fremito del terrore della notte passata. « Sta' attento al falco », bisbigliò, e gli lesse negli occhi verdi il timore che lei stesse ancora farneticando. Avrebbe allora voluto convincerlo del contrario, ma si sentiva terribilmente, mortalmente stanca, e chiuse gli occhi e s'addormentò tra le braccia di lui. Quando si svegliò, i raggi del sole s'erano trasformati in una gloria di luce arancione che riempiva l'intera tenda e accendeva piccole stelle tra la barba e i riccioli di Zouga. Provò un senso di pace infinita. Le braccia di lui erano così forti, così avvolgenti. « Abbi cura dei miei figli », disse in un soffio ma in maniera molto chiara, dopodiché morì. La tomba di Aletta non era che un altro tumulo di terra rossa nella lunga e dritta fila di tumuli recenti. Dopo averla seppellita, Zouga mandò i ragazzi alla tenda insieme con Jan Cheroot. Jordan piangeva, inconsolabile, il bel viso stravolto dal dolore; Ralph cavalcava dietro di lui in groppa al macilento castrato baio, stringendo il fratello più piccolo
con ambedue le braccia intorno alla vita. Lui taceva, impassibile, ma il suo corpo era teso e rigido per l'emozione tenuta sotto controllo, e gli occhi, dello stesso verde profondo di quelli del padre, erano pieni di inespresso dolore. Jan Cheroot conduceva il baio e, lì in groppa, i due ragazzi sembravano fragili e sperduti come rondinotti rimasti appollaiati su uno steccato ancor molto tempo dopo che tutti gli altri son volati via all'approssimarsi dell'inverno. Zouga rimase, militarescamente immobile, accanto alla tomba, impassibile come il figlio maggiore, ma la bella maschera del suo viso nascondeva il turbamento per il proprio dolore e un incalzante senso di colpa. Avrebbe voluto parlare ad alta voce, dire ad Aletta che gli dispiaceva, che sapeva d'essere responsabile di quella tomba sperduta, così lontana dalla famiglia affettuosa di lei e dalle belle montagne coperte di foreste di Buona Speranza da lui tanto amate. Avrebbe voluto chiederle perdono per averla sacrificata a un sogno, a un sogno impossibile e grandioso. E tuttavia sapeva che le parole erano vane e che la terra rossa occludeva le orecchie della moglie. Si chinò e con le mani sistemò uno degli angoli del tumulo che s'era sgretolato. Col primo diamante comprerò la lapide, promise entro di sé. Sotto le unghie era rimasta della terra rossa, piccole mezze lune del colore del sangue. Con uno sforzo supremo, superò il suo senso di inutilità e il proprio imbarazzo quel tanto che bastava per rivolgersi ad alta voce a qualcuno che non poteva udire. « Avrò cura di loro, mia cara », disse. «E' l'ultima promessa che ti faccio. » « Jordie non vuole mangiare, papà. » Ralph lo accolse con queste parole allorché entrò chinandosi nella tenda, e lui avvertì un tuffo al cuore che gli soffocò subito dolore e senso di colpa. Si avvicinò alla branda sulla quale il ragazzo stava disteso e vi si accovacciò accanto. Il viso di Jordan scottava come roccia infuocata dal sole e, solcate dalle lacrime, le sue guance erano del rosso vivido della febbre. La mattina dopo anche Ralph aveva la febbre, e ambedue si agitavano e farfugliavano nel delirio, i corpi roventi come piccole fornaci, le coperte intrise del sudore e la tenda invasa dall'odore della febbre. Ralph era il più resistente. « Già, guardatelo. » Con tenerezza Jan Cheroot asciugava con una spugna il robusto corpo dalla forte struttura ossea. « Affronta la malattia come un nemico e lotta con esso. » Aiutandolo, inginocchiato dall'altra parte della branda, Zouga sentì il familiare senso di orgoglio affiorare al disopra della preoccupazione. Guardò il figlio. Già aveva ciuffi di peli sotto le ascelle e una più scura esplosione di ricci alla base dell'addome, dove il pene non era più un piccolo ciondolo con un in-
fantile cappuccio di pelle grinzosa. Le spalle erano quadrate e muscolose e le gambe dritte e robuste. « Guarirà », disse Jan Cheroot, e Ralph si dimenò con furia nel delirio, col viso corrucciato e deciso. I due gli ridistesero sopra la coperta e s'avvicinarono all'altra branda. Le lunghe ciglia di Jordan sbattevano come le ali di una bella farfalla e i suoi gemiti intenerivano, mentre s'abbandonava a loro che lo spogliavano e l'asciugavano con la spugna. Il suo piccolo corpo era ben formato come il viso, ma ancora ricoperto qua e là di grasso infantile, tanto che le natiche erano tonde come mele e sode come quelle di una fanciulla; ma le braccia e le gambe erano di bella e delicata forma e i piedi e le mani lunghi ed esili. « Mamma », piagnucolò. « Voglio la mamma. » I due uomini curavano i ragazzi dandosi il cambio giorno e notte, dimenticando e trascurando tutto il resto, rubando qualche ora ogni tanto per badare ai cavalli e qualcun'altra per una rapida puntata al campo a comprare medicine da un mercante o qualche ortaggio offerto in vendita sui carretti dei contadini. Dimenticati dunque erano i diamanti, che non venivano mai neppure menzionati nella rovente tenda sotto la quale si svolgeva quella lotta per la vita, e, quanto alle Diaboliche, le due concessioni erano completamente abbandonate. Nel giro di quarantotto ore Ralph aveva ripreso conoscenza e nel giro di tre giorni fu in grado di tirarsi su a sedere, senza essere aiutato, per divorare il suo cibo. Dopo sei giorni non riuscirono più a tenerlo a letto. Jordan si riprese brevemente il secondo giorno, acquistando lucidità e chiedendo continuamente della madre, poi si ricordò che era morta e cominciò a peggiorare immediatamente. La sua vita era in pericolo, un pendolo che andava su e giù freneticamente, e ogni volta che peggiorava la presenza della morte, in quella fornace di tela che era la tenda, diventava più palpabile, sino a che il suo odore superò quello della malattia. Bruciata dalla febbre, la carne sembrava fonderglisi addosso; la pelle acquistò una perlacea trasparenza così che all'incerta luce del crepuscolo o della prima alba sembrava di intravedere, di sotto, la delicata struttura ossea. Jan Cheroot e Zouga lo curavano a turno, uno dormiva mentre l'altro vegliava o, quando nessuno dei due riusciva a riposare, sedevano li insieme, cercando conforto l'uno dall'altro, cercando di minimizzare la propria impotenza di fronte alla morte prevaricante. « E' giovane e forte », si dicevano. « Guarirà anche lui. » E, giorno dopo giorno, Jordan peggiorava; gli zigomi gli sporgevano sempre più e gli occhi sempre più gli si affossavano in cavità profonde del colore di vecchi lividi. Esausto per il senso di colpa e per il dolore, impotente nella sua preoccupazione, a ogni nuovo giorno Zouga lasciava la tenda prima del sorgere del sole per essere il primo ad arrivare a Mar-
ket Square: magari poteva esserci qualche mercante appena arrivato con delle medicine tra il suo carico, e certamente c'erano i contadini boeri con cavoli e cipolle e, con un pò di buona fortuna, qualche pomodoro avvizzito e mezzo verde; tutta roba che sarebbe stata venduta entro mezz'ora dopo l'alba. Il decimo giorno, quando Zouga s'affrettò a tornare alla tenda, si fermò sull'ingresso di questa, seccato. La statua del falco era stata tolta dalla tenda e nella polvere c'era ora un lungo solco tracciato dalla sua base: stava infatti appoggiata contro il tronco dello spoglio cratego che gettava la sua misera ombra sul campo. Dai rami dell'albero pendevano, come festoni, nere strisce di carne di antilope disseccata e finimenti di cavallo, così che la statua sembrava far parte di quell'abbandono. Sulla testa del falco era appollaiata una delle scure galline del campo che aveva lasciato cadere una lunga striscia di escremento lungo tutta la figura di pietra. Accigliato, Zouga si chinò ed entrò nella tenda. Jan Cheroot stava accoccolato accanto alla branda di Ralph e i due erano impegnati in una partita di « cinque pietre » per la quale usavano lucidi ciottoli di quarzo e agata. Jordan giaceva nella sua branda immobile e pallido e lui, Zouga, provò una stretta al cuore. Solo quando si chinò sulla branda s'accorse che il petto del ragazzo s'alzava e abbassava e avvertì il lieve soffio del suo respiro. « Avete spostato il falco di pietra? » Senza distogliere lo sguardo dalle scintillanti pietre, Jan Cheroot brontolò: « Sembrava che infastidisse Jordie. S'è svegliato gridando e continuava a indicarlo ». Zouga avrebbe voluto insistere sull'argomento, ma improvvisamente gli parve che non ne valesse la pena. Era stanco e scoraggiato. Decise che più tardi avrebbe riportato la statua nella tenda. « Ci sono delle patate dolci e nient'altro », borbottò, disponendosi a vegliare accanto alla branda di Jordan. Jan Cheroot preparò uno stufato di fagioli secchi e montone e vi mescolò le patate, bollite e schiacciate. Era un pasticcio tutt'altro che invitante e tuttavia quella sera, per la prima volta, Jordan non girò il capo davanti al cucchiaio che gli veniva offerto; dopodiché la sua guarigione fu sorprendentemente rapida. Chiese solo un'altra volta ancora della madre, quando lui e il padre furono soli nella tenda. « L'andata in cielo, papà? » « Sì. » La sicurezza del tono di Zouga parve rassicurare ragazzo. « Sta con gli angeli di Dio? » « Sì, Jordie, e d'ora in poi starà sempre con loro, guardandoti dall'alto. » Jordan parve rifletterci su, dopodiché scosse il capo contento, e il giorno dopo sembrò che si fosse rimesso abbastanza da poter essere affidato alle cure di Ralph, mentre Zouga e Jan
Cheroot andavano su al kopie. Andarono sulla Strada n. 6 per lanciare dall'alto un'occhiata alle Diaboliche. Tutta l'attrezzatura, le vanghe, i picconi, i secchi, le funi, le carrucole e le scale erano stati rubati. Ai prezzi che i mercanti praticavano ci sarebbero volute cento ghinee per rimpiazzarli. « Avremo bisogno di uomini », disse Zouga. « E che farai quando li avrai? » chiese Jan Cheroot. « Scaverò.» « E poi? » chiese il piccolo ottentotto con un lampo malizioso negli occhi scuri. « Poi? » ripeté. « Poi vedremo », rispose Zouga, cupo. « Abbiamo già perso abbastanza tempo. » « Mio caro amico. » Neville Pickering gli rivolse il suo affascinante sorriso. « Sono contento che abbia chiesto. Non l'avesse fatto, mi sarei offerto io... E' sempre un pò un problema per un nuovo arrivato sbrogliarsela », tossicchiò e aggiunse subito: « Non che lei sia un nuovo arrivato, per l'amordiddio ». Il termine era riservato a quelli che, pieni di speranza, erano appena sbarcati dalla nave, appena arrivati da « casa ». « Casa » era l'Inghilterra, e anche quelli che erano nati nella colonia la chiamavano così. « Scommetto cinque sterline contro lo sterco di una giraffa che lei conosce questo paese meglio di chiunque di noi. » « Sono nato in Africa », ammise Zouga. « Sul fiume Zouga, su nel nord, nella terra di Khama. Ciò spiega lo strano nome: Zouga. » « Per Giove! Devo dire che non lo sapevo! » « Non me lo rinfacci. » Zouga accennò un sorriso, ma sapeva che molti glielo avrebbero rinfacciato. Chi era nato in patria, a « casa », era senz'altro superiore a chi era nato in colonia; per questa ragione, quando era sembrato che le sue gravidanze stessero per giungere alla fine, lui aveva preteso che Aletta si assoggettasse al lungo viaggio con lui. Sia Ralph che Jordan erano nati nella stessa casa di Londra ed erano arrivati a Buona Speranza prima di essere svezzati. Erano nati in patria: era stato il suo primo regalo ai figli. Con tatto, Pickering lasciò cadere l'osservazione. Quanto a lui, non doveva dichiarare la propria nascita: era un gentiluomo inglese, su questo non c'era da sbagliare. « Molte parti del suo libro mi hanno affascinato. Le insegnerò ciò che so sui diamanti se lei risponderà alle mie domande. D'accordo? » Nei giorni che seguirono si bombardarono a vicenda di domande. Zouga voleva sapere ogni particolare del lavoro alla concessione, come veniva presa e setacciata la ghiaia gialla e tutto il resto, mentre Pickering non faceva che riportare la conversazione sulla regione nel nord del paese, chiedendo delle tribù e delle miniere d'oro, dei fiumi, delle montagne e degli animali selvatici che sciamavano nelle pianure e che abitavano le isolate foreste che Zouga aveva descritto con tanta efficacia nel-
l'Odissea del cacciatore. Ogni mattina, un'ora prima che facesse giorno, Zouga s'incontrava con Pickering sulla strada sopra i pozzi. C'era sempre un bollitoio smaltato che pippolava sul braciere e bevevano caffè nero così forte da macchiargli i denti, mentre intorno a loro, nel buio, i lavoratori neri si radunavano sonnacchiosi, stringendosi sulle spalle le kaross di pelliccia, le voci soffocate ma musicali, i loro movimenti rigidi e lenti per il sonno e il freddo dell'alba. In un centinaio di altri punti, tutt'intorno agli scavi, le squadre si radunavano e attendevano la luce; e quando questa appariva sull'orizzonte, a oriente, come colonne di formiche gli uomini si calavano nei pozzi per le passerelle e le scale oscillanti, sparpagliandosi per le concessioni, col vocio che cresceva insieme col canto dei neri, il cigolio delle carrucole le grida dei sorveglianti bianchi e, quindi, il rumore della ghiaia gialla che dai secchi pieni veniva scaricata nei carretti in attesa sulla strada. Pickering lavorava a quattro concessioni, che possedeva in società. « Il mio socio è giù a Città del Capo. Sa il cielo quando tornerà. » Si strinse nelle spalle con quella sua ingannevole aria indolente. « Lo incontrerà uno di questi giorni e sarà un'esperienza, memorabile ma non necessariamente piacevole. » Per Zouga era divertente vedere come Neville Pickering riuscisse a mantenere la propria eleganza da damerino in ogni occasione, come riuscisse a percorrere tutta la Strada n. 6 senza che la polvere si posasse sui suoi stivali lucidi, come riuscisse ad andar su e giù per le scale senza macchiarsi la camicia di sudore, come riuscisse ad azzuffarsi con un muscoloso cercatore che aveva invaso la sua concessione senza che ciò mutasse l'appiombo della sua giacca a un petto con cintura. Con la sua andatura saltellante, andava da uno scavo all'altro a un passo che costringeva Zouga ad allungare il proprio. Le quattro concessioni non erano in un unico blocco, ma ognuna separata dalle altre da una dozzina circa di altre concessioni, e Pickering si spostava dall'una all'altra per coordinare il lavoro o per guidare una squadra di neri mezzo nudi da una concessione a quella dove il lavoro risultava arretrato. Improvvisamente tornava sulla strada a controllare l'operazione di carico dei carreni e poi, altrettanto improvvisamente, eccolo allo spiazzo recintato oltre Market Square dove i suoi operai neri dondolavano le culle piene di ghiaia. Queste culle erano la versione ingigantita delle vecchie culle per bambini, da cui prendevano il nome. In piedi su ciascun lato, due uomini le facevano dondolare da una parte all'altra mentre un terzo operaio, prendendola dal mucchio scaricato dal carretto, buttava palate di ghiaia gialla sul ripiano superiore. Questo non era altro che un crivello a rete d'acciaio di tre centimetri per riquadro. Mentre la culla dondolava ritmicamente, la ghiaia rotolava giù per il crivello inclinato e i ciottoli di meno di tre centimetri
di diametro cadevano sul secondo ripiano della culla, mentre quelli più grandi rotolavano via sotto la sorveglianza dei due uomini che stavano attenti al minimo quanto improbabile lampeggiare di un diamante troppo grande per cadere sul secondo ripiano. Un diamante di più di tre centimetri di diametro rappresentava una fortuna, il passaporto, per-chi lo trovava, per una grande ricchezza, era insomma il quasi impossibile pony che tutti gli scavatori sognavano, una pietra che pesava più di cento carati. Sul secondo ripiano la rete del crivello era molto più sottile, un centimetro per riquadro, e a ogni dondolio della culla se ne levava una nube di polvere gialla che sembrava fumo, mentre sul terzo ripiano la rete era più fine ancora e lasciava passare solo lo sterile senza valore, roba più sottile di un cristallo di zucchero raffinato. Dal terzo ripiano la ghiaia veniva raccolta con somma cura e lavata in una tinozza di acqua preziosa, ogni goccia della quale veniva trasportata dal fiume Vaal, a cinquanta chilometri di distanza. Il lavaggio avveniva su un crivello circolare la cui rete era la n. 3, cioè quella del terzo ripiano, la più sottile di tutte. L'operaio agitava il crivello e stava chino sulla tinozza con le braccia fino al gomito nell'acqua. Alla fine, ripulito del fango, il contenuto del crivello veniva rovesciato sulla piatta superficie meta]lica del tavolo di scelta e i selezionatori cominciavano a vagliarlo con le piatte lame di legno dei loro raschini. Le donne erano di gran lunga le migliori selezionatrici, avevano la pazienza, la destrezza manuale e l'occhio per il colore e la « tessitura » necessari. I cercatori sposati tenevano le mogli e le figlie al tavolo di scelta dal momento in cui sorgeva la prima luce del mattino fino al tramonto. Pickering non aveva la fortuna di avere donne a lavorare ai suoi tavoli, ma gli africani che vi teneva li aveva accuratamente addestrati anche se non si fidava di loro. « Non s'immagina quel che sono capaci di fare pur di sgraffignare una buona pietra. A volte sorrido all'idea di quello che penserebbe la duchessa se sapesse che il brillante che porta al collo è stato nel deretano di un grosso e nero basuto. » Pickering sorrise. « Venga, le faccio vedere. » Il piccolo e sparuto selezionatore nero al capo del tavolo sfoggiava la propria superiorità con un vistoso abbigliamento europeo, panciotto ricamato e bombetta, ma era scalzo e portava il corno per la polvere rossa infilato nel lobo dell'orecchio. S'alzò allegramente dal suo posto al tavolo e lo cedette a Neville Pickering, che prese il raschino e cominciò a vagliare la ghiaia poco per volta. « Ecco! » esclamò a un tratto. « Il suo primo diamante grezzo, amico! Lo guardi bene e speriamo che per lei non sia l'ultimo. » Zouga rimase sorpreso. Non era come si aspettava, tanto che
presto la sorpresa fu sostituita dalla delusione. Era una piccola scheggia di pietra, non più grande d'una delle tante pulci di sabbia che infestavano la polvere rossa del campo. Mancava del fuoco e dello sfavillio che lui s'aspettava, e il suo colore era giallo sporco: forse il colore dello champagne, senza l'effervescenza di questo. « E' sicuro? » chiese. « A me non sembra un diamante. Come fa a dirlo? » « L'una scheggia, probabilmente un pezzo d'una pietra più grande. Sarà un dieci punti, che sono la decima parte di un carato, e saremo fortunati se ne caviamo cinque scellini, ma bastano per la paga settimanale di uno dei miei uomini. » « Come fa a stabilire la differenza tra questa... E quelli? » Zouga indicò il mucchio di ghiaia al centro del tavolo, ancora bagnata dopo la tinozza, che luccicava in mille tinte diverse, dal rosso al giallo-oro, al nero-antracite e al rosa, lo sgargiante spettacolo della ghiaia diamantifera. « La consistenza », spiegò Pickering, « la consistenza della tessitura. Ci farà presto l'occhio, ma non-deve badare al colore, badi alla consistenza. » Prese la pietra tra i denti di una pinzetta di legno e la girò al sole. « Il diamante non si bagna, respinge l'acqua, quindi nella ghiaia bagnata risalta, e la differenza è proprio la sua consistenza. » Neville tese la pietra. « Sa che le dico, lo prenda come regalo, il suo primo diamante! » Erano a caccia da quasi dieci giorni ormai e, a poco a poco, s'erano spinti sempre più a nord. Due volte avevano avvistato selvaggina, piccoli gruppi in realtà, ma ogni volta s'era sparpagliata velocemente al primo approccio. Zouga stava per essere preso dalla disperazione. Le sue concessioni erano abbandonate lì, negli scavi di Kopie Colesberg, o New Rush, com'era chiamato, mentre il livello di quelle circostanti si abbassava rapidamente, rendendo più difficile lavorare le sue e aumentando ogni giorno il pericolo di smottamenti. Quelle concessioni avevano già ucciso cinque uomini. Jock Danby lo aveva avvertito. Stava disteso ventre a terra su un piccolo kopie roccioso, un'ottantina di chilometri a nord dei fiume Vaal e a un centinaio da New Rush, e ancora non sapeva quando avrebbe portato a termine quella faccenda e sarebbe ritornato di nuovo a sud. Jan Cheroot e i due ragazzi erano più giù, ai piedi del declivio, con i cavalli; li tenevano in una gola poco profonda e fitta di cespugli spinosi. La voce femminea di Jordan arrivava fino a lui, mescolandosi alle grida degli uccelli volteggianti. Abbassò il binocolo per riposare gli occhi e ascoltare la voce del figlio. Aveva riflettuto a lungo se portare con sé il ragazzo in quella spedizione, specialmente così presto dopo quel suo attacco di febbre, ma non c'era stata scelta, non c'era un posto sicuro dove lasciarlo. Ancora una volta la resistenza del ragazzo aveva
smentito il suo gracile aspetto. Aveva cavalcato duro e s'era tenuto al passo col fratello, recuperando al tempo stesso tutto il peso che la febbre gli aveva fatto perdere; negli ultimi giorni, poi, il pallore mortale delle guance era stato sostituito da un color pesca vellutato. Pensare a Jordan risvegliava direttamente il ricordo di Aletta, ricordo ancora tanto pieno di dolore e senso di colpa da riuscire insopportabile, e così Zouga sollevò di nuovo il binocolo e prese a scrutare la pianura in cerca di una distrazione. Con sollievo, la trovò. Laggiù, sul vasto piano, c'era un insolito movimento. Attraverso le lenti individuò una mandria d'un centinaio di gnu, i wildebeest dei boeri. Questi sgraziati animali, col loro triste naso aquilino e la scarna barba, sono i clown del veld. Si danno la caccia in circoli concentrici, col muso a terra e le zampe posteriori che scalciano verso il cielo, poi di colpo cessano quel pazzo carosello e rimangono lì a sbuffare l'uno contro l'altro con un'espressione di stupore negli occhi selvaggi. Oltre quegli animali, Zouga colse il guizzo di un altro movimento: fino a quel momento era rimasto nascosto dalla polvere sollevata dagli zoccoli degli gnu. Piano piano mise a fuoco il binocolo e laggiù, davanti al suo sguardo, il miraggio prodotto dal caldo vibrò e si fuse, trasformando il movimento in un serpentesco contorcimento che parve galleggiare sulla pianura come su un lago di scintillante acqua argentea. « Struzzi » pensò, disgustato. Quelle forme lontane parevano agitarsi come lunghi girini neri nel tremolante miraggio acquoso della distanza. Gli uccelli dalle lunghe gambe sembravano fluttuare staccati dalla terra, sbocciando miracolosamente nell'aria tormentata sopra la pianura. Cercò di contarli, ma cambiavano forma e si coagulavano in una scura massa vibrante, con i didietri piumati che si muovevano a scatti. D'un tratto si tirò su. Abbassò il binocolo e ne pulì le lenti con un angolo del fazzoletto di seta che aveva al collo, dopodiche si riportò di nuovo lo strumento davanti agli occhi. Le grottesche forme scure s'erano separate, i tozzi corpi dimenantisi si rimpicciolirono, le lunghe gambe assunsero proporzioni normali. « Uomini! » bisbigliò, e prese a contarli con avidità, la stessa con la quale aveva avvistato la prima volta gli enormi e grigi elefanti carichi d'avorio nel veld. Arrivò a undici prima che un altro strato di aria calda intervenisse a trasformare le lontane figure d'uomini di nuovo in grottesche forme mostruose. Si mise il binocolo a tracolla e scese il declivio, con la ghiaia che cedeva sotto gli stivali. Jan Cheroot e i ragazzi stavano distesi in fondo alla gola sulle loro coperte da sella, con le selle stesse poggiate dietro come sostegno. Zouga si buttò giù per l'argine e atterrò in mezzo a loro prima che rientrassero dal mondo di favole che Jan Cheroot gli stava evocando con i suoi racconti. « Una bella banda », disse a Jan Cheroot.
Poi si chinò e prese la corta carabina Martini-Henry dal fodero di pelle legato alla sella di Ralph. Tirò l'otturatore e controllò che l'arma fosse scarica. « Non cacciamo antilopi. Non caricare fin quando Jan Cheroot o io non te lo diciamo », ordinò in tono severo. Jordan era ancora piccolo per maneggiare quell'arma pesante, ma cavalcava abbastanza bene per compiere il giro accerchiante col quale avrebbero cercato di tendere la loro rete. « Ricordati, Jordie, devi stare sempre abbastanza vicino a Jan Cheroot per sentire quello che ti dice », gli disse Zouga, lanciando un'occhiata in alto verso il sole. Mezzogiorno era passato da un pezzo e dovevano sbrigarsi, perché se non riuscivano a circondare la piccola banda di neri al primo tentativo, se non li prendevano di sorpresa, li aspettava la lunga operazione di rintracciarli uno per uno, operazione che fino allora era sempre stata puntualmente interrotta dal calare della notte africana. « In sella », ordinò Zouga, e quelli corsero ai loro cavalli. Lui, Zouga, saltò sul baio castrato e lanciò una severa occhiata a Ralph. « Ora fa' quello che ti si dice o la vedrai, giovanotto. » Tirò le redini e guidò il cavallo in fondo alla gola mentre, dietro di lui, Ralph, rosso in viso per l'eccitazione, lanciava un sorriso d'intesa a Jan Cheroot, e il piccolo ottentotto gli ammiccò un attimo rimanendo però impassibile nel volto aggrinzito. Dopo un chilometro, Zouga si tolse di testa il cappello dall'ampia falda e s'alzò sulle staffe finché gli occhi furono a livello con l'argine; da quella posizione lanciò una rapida occhiata a nord, dopodiché s'abbassò immediatamente. « Fermati qui », disse a Ralph. « E non muoverti finché non mi muovo io. » Avanzarono sul fondo della gola mentre Zouga piazzava Jan Cheroot e Jordan l'uno accanto all'altro in una curva, in un punto in cui l'argine s'era sgretolato formando una facile rampa su per la quale avrebbero potuto lanciare la loro carica. « Tieni Jordie vicino a te », disse Zouga a Jan Cheroot, e fece fare dietrofront al baio. La sella cigolò mentre l'animale si girava. Poi Zouga tornò indietro al trotto finché fu al centro della fila in attesa; lì si fermò e controllò la propria impazienza, lanciando ogni tanto occhiate al sole che calava. Probabilmente un'occasione come quella non si sarebbe presentata per molti giorni ancora e, per quelle concessioni abbandonate, ogni giorno era d'importanza vitale. Tirò fuori il fucile dal fodero di cuoio accanto al suo ginocchio, scelse una cartuccia dalla cartucciera che portava intorno alla vita e l'infilò nell'arma. Quindi rimise questa, senza avere abbassato il cane, nel fodero. Era una semplice precauzione, non sapeva che specie d'uomini erano quelli che stavano avvicinandosi. Anche se le loro intenzioni erano pacifiche e il loro scopo simile al suo, erano tuttavia armati e nervosi, nervosi soprattutto, altrimenti non avrebbero evitato la strada che veniva da
nord per avanzare sul veld aperto. Erano in gruppo per difendersi e Zouga sapeva che lungo il cammino potevano in effetti essere attaccati da bianchi e da neri, i neri per cercare di rubargli o portargli via con l'inganno i loro poveri averi e i bianchi per privarli di qualcosa d'infinitamente più prezioso: il diritto di cedere la propria opera al datore di lavoro che offriva di più. Il giorno in cui lui, Zouga, aveva ringraziato Neville Pickering per le sue informazioni e aveva cominciato a fare i preparativi per lavorare alle Diaboliche, si era trovato di fronte al problema che già sconvolgeva l'intero subcontinente. Solo i neri riuscivano a tollerare le condizioni di fatica fisica agli scavi, e solo i neri potevano lavorare per quella paga misera che rendeva profittevole scavare, ma anche quella miseria di paga era molto più alta di quanto i contadini boeri delle circostanti repubbliche del veld potevano permettersi di pagare. Per circa ottocento chilometri intorno gli scavi avevano privato della mano d'opera la campagna, e il risentimento che per questo provavano i boeri era profondo almeno quanto quello che provavano contro quella banda di avventurieri e cercatori di fortuna che gli scavi avevano attirato. I diamanti avevano causato uno sconvolgimento nella tradizionale maniera di vivere dei boeri; non solo i minatori minacciavano di privarli della mano d'opera a basso costo, che sola permetteva a un contadino di ricavare da vivere per sé e la famiglia da quella terra selvaggia, ma facevano qualcos'altro che dal punto di vista dei boeri era imperdonabile, che contrastava con i loro più profondi convincimenti e minacciava non solo la loro maniera di vivere ma la loro stessa esistenza fisica. I cercatori di diamanti pagavano i neri con fucili. I boeri avevano combattuto le tribù al Blood River e a Mosega, avevano disposto i carri in circolo in migliaia di altre minacciose, l'ora preferita per l'attacco. Avevano visto il fumo levarsi dalle loro case e dai loro raccolti, erano andati armati alla ricerca del loro bestiame rubato e avevano seppellito i pallidi corpi dei loro figli, corpi fragili dissanguati per le terribili ferite degli assegai. Li avevano seppelliti a Weenen - il Luogo del Pianto - e in altri maledetti e abbandonati luoghi di sepoltura sparsi in tutto paese. Pagare i neri con i fucili era contrario a ogni loro istinto; violava in pieno le loro leggi e offendeva il ricordo degli eroi morti. Per queste ragioni, commando di boeri delle piccole repubbliche del veld controllavano la regione e perlustravano le strade solitarie che venivano dal nord, cercando di impedire ai neri di raggiungere gli scavi per costringerli invece a lavorare la terra. Ma cinque scellini la settimana e un moschetto alla fine d'un contratto di tre anni erano un richiamo che spingeva i neri ad affrontare a piedi, contro mille pericoli, un viaggio di quasi duecento chilometri, sfidando i commando boeri e tutto il resto, per
raggiungere gli scavi. Arrivavano a centinaia, ma sempre in numero non sufficiente a riempire quegli insaziabili pozzi. Invano Zouga e Jan Cheroot avevano percorso in lungo e in largo gli scavi, ogni nero era vincolato da un contratto e gelosamente sorvegliato dal suo datore di lavoro. Zouga aveva detto a Jan Cheroot: « Offriamo sette scellini e sei pence la settimana ». Quello stesso giorno avevano assunto cinque uomini e il seguente c'erano una dozzina di lavoratori fuori del campo di Zouga, desiderosi di guadagnare la nuova paga. Prima che Zouga li assumesse, Neville Pickering s'era presentato al campo. « Visita ufficiale, vecchio amico », aveva mormorato in tono di scusa. « Come membro del nostro Comitato dei Cercatori, devo dirle che la paga è cinque scellini e non sette. Quando Zouga aveva aperto la bocca per protestare, Pickering aveva sorriso tranquillo e aveva sollevato una mano. « No, maggiore. Sono cinque scellini e non un penny in più.» Zouga già sapeva perfettamente che il Comitatato godeva di ampi poteri. Un suo editto veniva fatto rispettare prima con un avvertimento, poi con percosse e, infine, con un'aggressione da parte dell'intera comunità di cercatori, aggressione che poteva concludersi con un incendio se non addirittura un linciaggio. « E allora, cosa devo fare per trovare una squadra? » aveva chiesto Zouga. « Faccia quello che facciamo tutti noi: vada a scovarsela, prima che la trovi un altro cercatore o un commando boero. » « Ma è probabile che debba spingermi a nord sino al fiume Shashi », aveva ribattuto Zouga, in tono sarcastico. Pickering aveva annuito. «Probabile.» Zouga sorrise al ricordo di quella prima lezione sui rapporti con la mano d'opera lì agli scavi, si sistemò il cappello in testa e raccolse le redini. « Va bene », mormorò, « andiamo a reclutare! » E piantò gli speroni nei fianchi del castrato che si lanciò su per l'argine della gola uscendo sulla pianura aperta. I neri erano a cinquecento metri là davanti e lui li contò rapidamente: sedici. Se li prendeva tutti, si sarebbe potuto rimettere in marcia per New Rush l'indomani all'alba. Sedici uomini erano sufficienti per lavorare Le Diaboliche, e in quel momento ai suoi occhi essi avevano lo stesso valore di un diamante di cinquanta carati. Erano disposti in fila indiana e si muovevano rapidamente, al passo saltellante dei guerrieri zulu. Non avevano né donne né bambini con loro. « Bene », grugnì Zouga, mentre il baio gli si tendeva sotto. Guardando a destra, lui lo trattenne a un passo normale. Jan Cheroot s'era avviato nella pianura con Jordan che avanzava nella sua polvere a una cinquantina di passi dietro. A quella distanza non sembrava un fanciullo: sarebbero potuti essere benissimo una coppia di cavalieri armati, e Jan Cheroot
stava prendendola larga, cercando di arrivare dietro al piccolo gruppo di uomini, bloccandoli prima che si sparpagliassero, bloccandoli il tempo necessario perché Zouga arrivasse a portata di voce. Zouga lanciò un'occhiata a sinistra e vide, seccato, che Ralph era lanciato in pieno galoppo, chino sul collo della puledra, brandendo la carabina Martini-Henry. Sperò che non fosse carica, si rammaricò di non aver detto a Ralph di non mostrare la carabina e tuttavia, nonostante la rabbia, provò un piccolo fremito di orgoglio nel vedere il figlio cavalcare: quel ragazzo era nato per stare in sella. Trattenne ancora il castrato, portandolo al trotto, dando il tempo agli uomini sul fianco di completare l'aggiramento e, insieme, cercando di ridurre l'effetto minaccioso del suo avvicinarsi. Sapeva che i neri li avrebbero presi per un commando armato con intenzioni bellicose, e cercò di riparare levandosi il cappello e agitandolo sopra la testa. Poi, di colpo, Jan Cheroot rallentò, facendo cenno a Jordan di fare altrettanto. Erano arrivati dietro il gruppo e, di fronte a loro, Ralph stava frenando la sua puledra, che si alzò di colpo sulle zampe posteriori, indietreggiando e scuotendo la criniera in maniera teatrale. Al centro, i neri s'erano mossi rapidamente, con un'azione concertata, da combattenti allenati. Avevano lasciato cadere il fagotto arrotolato della stuoia, della pentola e del sacco di pelle col grano che portavano in testa, e avevano formato di scatto un circolo difensivo, spalla contro spalla, scudo sopra scudo, mentre sopra questi l'acciaio dei loro assegai lanciava lampi al sole. Non portavano tutte le insegne dei loro reggimenti, i gonnellini di code di scimmia, i mantelli di pelliccia di volpe del deserto, gli alti copricapi di penne di struzzo e di viduino; viaggiavano con le sole armi, e il luccichio dell'acciaio disse a Zouga tutto quello che voleva sapere. Gli scudi gli rivelarono il nome della tribù: matabele, la gente dai lunghi scudi. Il piccolo gruppo di uomini che stava li impalato, impassibile al sole, a guardare Zouga che s'avvicinava, era formato dai migliori guerrieri che l'Africa abbia mai dato. Eppure erano circa ottocento chilometri a sud dai confini del Matabeleland. Zouga sorrise entro di sé. « Vado per una nidiata di pernici e mi trovo di fronte una razza di aquile. » A cento metri dal cerchio di scudi frenò il cavallo ma, risentendo della tensione, il baio gli si agitò sotto. I lunghi scudi erano fatti di pelle di bue bianca e nera, e ogni reggimento matabele aveva uno scudo ben distinto. Zouga sapeva che quello bianco e nero era del reggimento dell'Inyati, il Reggimento dei Bufali, e avvertì di nuovo un fremito di nostalgia. Un tempo, l'induna che comandava l'Inyati era stato suo amico: avevano viaggiato insieme attraverso le pianure coperte di mimosa del Matabeleland, erano andati a caccia insieme
e avevano diviso il conforto dei fuochi da campo. Era stato tanto tempo prima, alla sua prima visita alla terra a sud del fiume Zambesi, ma ne conservava così vivido il ricordo che riuscì a cancellarlo solo con uno sforzo. Sollevò la mano destra con le dita aperte, nell'universale gesto dell'amicizia. « Guerrieri di Matabeleland, vi vedo », gridò; parlava fluentemente la loro lingua, come uno di quel popolo, e le parole gli vennero subito alle labbra. Notò un piccolo movimento dietro gli scudi, uno spostarsi di teste, in risposta alle sue parole. « Jordan! » chiamò, e il ragazzo fece il giro e andò a fermarsi accanto al padre. Ora la differenza di dimensioni tra uomo e ragazzo fu evidente. « Visto, guerrieri di re Lobengula, mio figlio cavalca con me. » Nessun uomo portava il proprio figlio in guerra. Il cerchio di scudi s'abbassò di qualche centimetro, quel tanto da permettere a Zouga di vedere gli occhi scuri e vigili che v'erano dietro. Ma, allorché spinse di qualche passo in avanti il baio, gli scudi si sollevarono immediatamente nella posizione di difesa. « Che notizie avete di Gandang, l'induna del reggimento Inyati? Gandang, che per me è come un fratello? » gridò di nuovo Zouga, in tono persuasivo. Alla menzione di quel nome uno dei guerrieri non seppe più trattenersi, scostò di lato lo scudo e fece un passo fuori del cerchio di lance. « Chi chiama Gandang fratello? » chiese con voce chiara e ferma, una voce giovanile, e tuttavia col tono e l'inflessione dell'abitudine all'autorità. « Sono Bakela, il Pugno », disse Zouga, dando il suo nome matabele, e si rese conto che il guerriero che aveva di fronte era ancora giovane, poco più grande di Ralph. Ma era magro e dritto, stretto di fianchi e con spalle e braccia muscolose, formate dai giochi di guerra. Zouga immaginò che probabilmente aveva già ucciso il suo uomo, lavato la sua lancia nel sangue. Poi avanzò sul terreno aperto verso Zouga, il passo leggero, le gambe lunghe e ben formate sotto, il gonnellino di pelle. « Bakela », disse, e si fermò a una dozzina di passi dalla testa del baio. « Bakela. » Sorrise, un brillante sfoggio di denti bianchi ed eguali su un bello e largo viso ngumì. « E' il nome che ho sentito mentre bevevo il primo sorso del latte di mia madre, perché io sono Bazo, l'Ascia, figlio di quello stesso Gandang che tu chiami fratello e che ti ricorda come un vecchio e fidato amico. Ti riconosco dalla cicatrice sulla guancia e dall'oro della tua barba. Ti saluto, Bakela. » Zouga smontò dal baio lasciando il fucile nel fodero della sella e, con un gran sorriso, andò a stringere le braccia del giovane in un affezionato saluto. Poi, giratosi con i pugni nei fianchi, sempre sorridendo, gridò a Ralph: « Vai a vedere se puoi abbattere un'antilope o, ancora meglio, uno gnu. Abbiamo bisogno di molta carne per
stasera ». A quell'ordine, Ralph lanciò un grido e costrinse la puledra a indietreggiare, girare e lanciarsi al galoppo, con la criniera che sventolava e gli zoccoli che tonfavano nel terreno. Senza aver ricevuto nessun ordine, Jan Cheroot mise al piccolo galoppo la sua ossuta giumenta e seguì la puledra ormai lanciata. I due tornarono al crepuscolo e la caccia era stata buona. Avevano trovato una preda rara, un maschio di antilope alcina così vecchio che il collo e le spalle erano diventate blu con l'età e l'oscillante giogaia quasi spazzava il terreno polveroso tra le tozze zampe anteriori. Era grande quanto un magnifico toro da monta, con un petto tondo come un barile di brandy, e Zouga calcolò che non pesasse meno di una tonnellata, perché era grasso e soffice; doveva avere un'intera botte di bianco lardo nella cavità del petto e spessi strati di giallo grasso sotto la pelle lucida. Una gran bella preda, e il piccolo gruppo di matabele batté gli assegai contro gli scudi e lanciò urla di entusiasmo quando vide l'animale. La grossa bestia sbuffò a sentir quel fracasso e, a un goffo galoppo, cercò di fuggir via, ma Ralph lanciò la puledra e gli tagliò la strada, e cento metri dopo l'antilope cambiò il galoppo in un piccolo trotto e si lasciò spingere indietro verso il gruppo degli uomini in attesa. Ralph frenò la puledra, si liberò delle staffe e saltò agile a terra, sollevando la carabina quando toccò terra e facendo fuoco, a quanto parve, nello stesso istante. La testa della bestia sobbalzò sotto il colpo e gli enormi occhi lucenti si chiusero ripetutamente allorché la pallottola si conficcò nel cranio in mezzo a essi. Crollò con un tonfo che parve far tremare la terra. I matabele si precipitarono come un branco di cani selvaggi sull'enorme carcassa, usando gli affilatissimi assegai come coltelli da macellaio, mirando ai bocconi prelibati, le budella e il fegato, il cuore e il grasso bianco e dolce. I matabele si rimpinzarono della grassa carne di antilope, arrostendo sul fuoco le budella, infilando ghirlande di fegato e grasso e cuore succulento su rametti di mimosa bianca ai quali avevano tolto la corteccia così che il grasso sfrigolava, fondendosi sugli strati di carne. « Non abbiamo ucciso selvaggina da quando abbiamo lasciato la foresta », spiegò Bazo per giustificare quel vorace appetito. Anche se il deserto brulicava di branchi di antilopi saltanti, queste non erano proprio il tipo di selvaggina che un uomo a piedi e armato solo di lancia possa abbattere facilmente. « Senza carne il ventre di un uomo è come un tamburo di guerra, pieno di niente se non rumore e aria. » « Sei lontano dalla terra dei matabele », osservò Zouga. « Nessun matabele s'è spinto così a sud da quando il vecchio re portò la sua tribù a nord del Limpopo, e a quel tempo persino Gandang, tuo padre, era un bambino. »
« Siamo i primi a fare questo viaggio », convenne Bazo, in tono orgoglioso. « Siamo la punta della lancia. » Alla luce del fuoco gli altri guerrieri sollevarono il capo e nei loro visi c'era la stessa espressione di orgoglio per la propria impresa. Erano tutti giovani, il più anziano era solo di qualche anno più vecchio di Bazo; nessuno di loro aveva più di diciannove anni. « Dove andate in questo vostro lungo viaggio? » chiese Zouga. « In un posto meraviglioso nel sud, da dove si ritorna con grandi tesori. » « Che tipo di tesori? » insisté Zouga. « Questo. » Bazo allungò la mano verso Ralph, appoggiato contro la sella, e toccò il lucido calcio di legno del MartiniHenry che sporgeva dal fodero. « Isibamu. Fucili! » disse. « Fucili? » chiese Zouga. « Un indoda matabele con un fucile? » Il suo tono era leggermente ironico. « Non è l'assegai l'arma del vero guerriero? » Per un attimo Bazo parve a disagio, poi si riprese. « I vecchi sistemi non sempre sono i migliori », disse. « I vecchi ci dicono che lo sono per farsi considerare saggi dai giovani. » E i matabele in cerchio intorno al fuoco annuirono e mandarono suoni d'approvazione. Benché fosse certamente il più giovane del gruppo, Bazo era senza dubbio il loro capo. Figlio di Gandang, era perciò nipote del re Lobengula e pronipote del vecchio re Mzilikazi. I suoi nobili natali gli davano spicco sugli altri, ma era chiaro che era anche lesto e abile. « Per guadagnare i fucili che tanto desideri bisogna lavorare duro, in un pozzo sprofondato nella terra », disse Zouga. « Col tuo sudore devi riempire una zucca intera ogni giorno per tre anni, prima di essere pagato con un fucile. » « L'abbiamo sentito dire », ribatté Bazo. « Allora avrete i vostri fucili, ognuno di voi un bel fucile, alla fine dei tre anni. Io, Bakela, il Pugno, ti do la mia parola. » Era un'abitudine lì agli scavi, una cerimonia di iniziazione: quando un gruppo di neri ignari arrivava a New Rush, gli operai neri già lì da un pezzo si precipitavano ad assieparsi ai due lati della pista, la maggior parte vestiti con i più begli avanzi dell'eleganza europea come segno della loro raffinatezza. Accoglievano con grida i fratelli appena arrivati: « Guardateli, i babbuini sono scesi dalle colline ». « No! I babbuini sono scaltri, questi non possono essere babbuini. » E lanciavano contro i nuovi venuti immondizia varia oltre che insulti. Bazo e i suoi erano i primi matabele ad arrivare agli scavi. La lingua dei matabele è quasi identica a quella dello Zululand e molto simile allo xhosa meridionale. Bazo quindi capiva ogni parola di quegli insulti e così lanciò subito sottovoce un ordine
al proprio gruppo. I suoi uomini lasciarono cadere a terra le stuoie, i lunghi scudi risuonarono l'uno contro l'altro e i larghi e lucidi assegai brillarono al sole allorché vennero puntati. Di colpo grida e insulti cessarono per essere sostituiti da espressioni di stupore e vero disagio. « Manje! Ora! » sibilò Bazo. Il cerchio di scudi esplose verso l'esterno e la folla si disperse disordinatamente in preda al panico. In groppa al castrato, Zouga ebbe una visione perfetta della carica e del fuggi fuggi, e non si fece illusioni sulla pericolosità del momento. « Bazo! Kawulisa! Fermali! » gridò, dando di sprone e correndo davanti alla micidiale fila di scudi e d'acciaio. Gli ex dileggiatoti scappavano ora col capo rivolto all'indietro, gli occhi di fuori e strillando per, il terrore. Si buttavano a terra a vicenda e i caduti strisciavano nella polvere. Un grosso nero, che indossava delle brache di tela di molte misure più piccole e una redingote di molte misure più grande, si precipitò contro il fianco di una delle baracche che costeggiavano la pista e che era la casa di uno dei cercatori meno abbienti. All'urto la tela si lacerò e il tetto di paglia crollò addosso al fuggitivo coprendolo completamente di paglia e salvandogli probabilmente la vita, visto che nel momento in cui la baracca crollò la punta dell'assegai di un matabele era a pochi centimetri dalla cucitura delle brache sul punto di scoppiare. Bazo soffiò una sola volta nel fischietto di corno che portava appeso al collo e gli uomini armati di lancia si fermarono di colpo. La carica ebbe fine immediatamente e i matabele tornarono nel punto in cui avevano lasciato cadere i loro bagagli, tutti sorridenti, deliziati. Mentre riprendevano la loro formazione, Bazo intonò con voce altisonante il primo verso del canto di guerra del reggimento lnyatì: Guarda gli scudi di guerra neri come la mezzanotte, bianchi come le alte nubi temporalesche a mezzogiorno... E subito gli uomini dietro di lui risposero in coro: Neri come il toro Inyati, bianchi come le egrette che lui si porta sul dorso... L'ingresso di quel piccolo gruppo di guerrieri a New Rush divenne un corteo trionfale. Zouga li precedeva a cavallo e si sentiva un imperatore romano. E tuttavia nessuno di quei giovani guerrieri aveva mai sollevato un piccone o maneggiato una vanga. Jan Cheroot dovette piazzargli in mano gli utensili, sistemargli le dita intorno ai manici, brontolando al contempo, sdegnato per tanta ignoranza. In ogni modo, in pochi minuti impararono e quei neri muscoli vellutati, forgiati in guerra e nella preparazione alla guerra,
cambiarono quei semplici utensili in armi letali; attaccavano la terra gialla come se fosse un nemico mortale. Alle prese con una carriola per la prima volta, due di essi la sollevarono di colpo e la portarono via con tutto il suo contenuto. Quando Ralph mostrò loro il corretto uso del piccolo veicolo, stupirono e si rallegrarono come bambini e, compiaciuto, Bazo gli disse: « Vi avevo promesso molte meraviglie, no? » Erano un gruppo di giovani molto disciplinati, abituati sin da piccoli innanzi tutto alle severe regole della vita familiare nei kraal e quindi, dalla pubertà in poi, all'allenamento in comune e al lavoro di squadra nei reggimenti. Gli piaceva anche la competizione ed erano felici di sfidarsi a vicenda per provare la propria forza o abilità. Sapendo tutto questo, Zouga li organizzò in quattro squadre di quattro uomini, ciascuna chiamata con un nome di uccello - le Gru, i Falchi, i Lanieri e i Khorbaan - e ogni settimana la squadra che aveva ottenuto i migliori risultati nello scavare la ghiaia aveva diritto a portare tra i capelli le piume dell'uccello adottato e in più a una doppia razione di carne, pannocchie e twala, la birra di miglio africana. Avevano trasformato il lavoro in un gioco. Bisognava tuttavia adattarsi. I matabele erano allevatori di bestiame, tutta la loro vita era dedicata ad allevare, proteggere e ingrandire le loro mandrie, anche a spese di vicini meno bellicosi. La loro dieta fondamentale era a base di manzo e maas, il latte acido degli nguni. Il manzo invece era un lusso lì agli scavi, e così con chiaro disgusto erano costretti a mangiare la carne di montone grassa e tigliosa che Zouga forniva loro. E tuttavia il duro lavoro fisiso porta appetito, sicché nel giro di pochi giorni i matabele s'erano adattati a quella nuova dieta se non con piacere almeno senza lamentarsi. Contemporaneamente, il lavoro venne suddiviso e ognuno di loro imparò il proprio compito. Non era possibile indurre Jan Cheroot a scendere nei pozzi. « Ek is nie 'n meerkat nie », diceva a Zouga in tono grave, ricorrendo all'olandese bastardo della Colonia del Capo. « Non sono una mangosta, non vivo in un buco nel terreno. » Zouga aveva bisogno di un uomo fidato ai tavoli di scelta, e quelli infatti presidiava Jan Cheroot, accoccolato come un idolo giallo sui lucenti mucchi di ghiaia lavata, con la forma triangolare del viso accentuata dalla barbetta a punta, dagli zigomi alti, orientali, e dagli occhi all'insù, ciascuno in una ragnatela di rughe. Era lestissimo a individuare il luccichio delle pietre nobili nel mucchio delle scorie, ma c'era un altro paio d'occhi ancora più acuti e più lesti. Tradizionalmente le donne erano le migliori selezionatrici, ma il piccolo Jordan dimostrò subito di avere un talento particolare nell'individuare i diamanti, di qualunque forma e colore. Il ragazzo trovò la primissima pietra nella primissima pas-
sata. Era una pietra minuta, un venti punti, la quinta parte di un carato, e il colore era quello del cognac scuro, così che Zouga dubitò della sua purezza. Ma quando la mostrò a uno dei kopie-wallopers risultò che era un vero diamante e l'uomo gli offrì tre scellini. Dopo di allora nessuno mise più in dubbio l'abilità di Jordan, gli venivano anzi passate tutte le pietre dubbie perché le giudicasse. Entro una settimana divenne il selezionatore capo delle Diaboliche. Sedeva di fronte a Jan Cheroot al basso tavolo metallico, ed era quasi della stessa altezza dell'ottentotto. Portava un sombrero di steli di mais intrecciati per proteggere dal sole la pelle delicata e selezionava la ghiaia come se fosse un gioco, di cui non si stancava mai. Gareggiava avidamente con Jan Cheroot e ogni suo grido stridulo segnalava una nuova scoperta, mentre le sue piccole mani volavano sulla ghiaia come quelle di un pianista sulla tastiera. Zouga aveva trovato una donna che dava lezioni a Ralph e Jordan. Era la moglie di un predicatore luterano e aveva un gran petto e un viso dolce, contornato da capelli grigio-ferro raccolti in un'enorme crocchia dietro la testa. Mistress Gander era l'unica insegnante che si trovasse nel raggio di ottocento chilometri e per alcune ore, ogni mattina, dava a un piccolo gruppo di figli di cercatori lezioni di lettura, scrittura e aritmetica, nella chiesetta di lamiera dietro Market Square. Era un rito quotidiano al quale Ralph doveva essere spinto dalle minacce del padre e al quale invece Jordan accorreva con lo stesso entusiasmo col quale si precipitava al tavolo di scelta quando la scuola era finita. Con quella sua faccia angelica, e l'interesse per la parola scritta che Aletta gli aveva inculcato, Jordan divenne immediatamente il prediletto di mistress Gander. Non faceva nulla per nascondere questa sua preferenza. Lo chiamava « Jordie-caro » e gli affidava il compito di pulire la lavagna, compito che si trasformò immediatamente in un onore per il quale gli altri ragazzi della classe, una dozzina, gli avrebbero cavato i begli occhi angelici dalle lunghe ciglia. C'erano due gemelli nella classe di mistress Gander. Rozzi figli di un rozzo cercatore sfortunato venuto dalle miniere di opale dell'Australia, formavano una degna coppia, con le loro teste rasate per impedire la crescita dei pidocchi, i piedi scalzi perché il padre lavorava una povera concessione al limite orientale degli scavi -, le brache di tela sopra camicie lise e scolorite. Henry e Douglas Stewart erano una coppia formidabile, agivano sempre di concerto, lesti a lanciare maligne frecciate a voce bassa perché mistress Gander non udisse o a dare una gomitata o a strappare i capelli, sempre senza farsi vedere. Jordan era la vittima predestinata. « Jordie-cara » lo chiamavano, ed era un piacere tirare quei riccioli morbidi, o vedere le sue lacrime scorrere, specialmente quando si resero conto che Jordan, per chissà quale motivo d'orgoglio, non si rivolgeva
al fratello più grande per essere protetto. « Di' a Oca-Gander che ho mal di pancia », disse Ralph a Jordan. « E che papà dice che sto troppo male per venire alla lezione. » « Dove vai? » chiese Jordan. « Cosa farai? » « Vado al nido... Credo che i piccoli siano pronti ormai. » Ralph aveva scoperto il nido di un lanario in cima a una sporgenza d'un kopie roccioso, a sette-otto chilometri sulla strada per il Capo. Aveva in mente di prendere i piccoli e di allevarli come falchi da caccia. I progetti di Ralph erano sempre eccitanti: una delle ragioni per cui Jordan lo adorava. « Oh, fammi venire con te. Ti prego, Ralph. » « Sei ancora un bambino, Jordie. » « Ho quasi undici anni. » « Ne hai solo dieci », lo corresse Ralph, altezzoso, e per esperienza Jordan sapeva che non era il caso di insistere. Jordan riferì la bugia di Ralph con una tale vocetta e un tal innocente sbattere delle lunghe ciglia, che a mistress Gander non venne neppure in mente di dubitare, e i due gemelli Stewart si scambiarono un rapido sguardo d'intesa. C'era una latrina dietro la chiesa, una garitta di lamiera che celava un sedile di legno con un taglio ovale posto sopra un secchio di ferro. La latrina era calda come un forno, e il contenuto del secchio fermentava rapidamente. I gemelli intrappolarono Jordan là dentro durante l'intervallo di metà mattina. In piedi sul sedile di legno, col buco in mezzo a loro, lo afferrarono ognuno per una caviglia. Jordan pendeva a testa in giù e si afferrava disperatamente al sedile, mentre i due cercavano di forzargli la testa e le spalle attraverso l'apertura nel secchio colmo. « Schiacciagli le dita col piede », disse Douglas, ansimando. Jordan aveva offerto un'inaspettata resistenza. Douglas aveva un lungo graffio rosso sul collo e avevano dovuto aprire a forza la bocca a Jordan per fargli mollare la presa sul pollice di Henry. Quelle ferite avevano influito sul loro umore. Avevano cominciato per ridere, sprezzanti ma pur sempre per ridere, ora erano infuriati e malevoli, con l'orgoglio che gli doleva quanto le ferite. « Zitto, femminuccia », sbottò Henry, obbedendo al fratello e schiacciando col duro calcagno le dita bianche di Jordan. Le grida di dolore, orrore e terrore del ragazzo, che scalciava e si dimenava, echeggiavano nella piccola baracca di lamiera. I suoi sforzi più sfrenati erano inefficaci contro la forza combinata di quei due. Con le unghie strappava schegge dal sedile di legno e le sue grida aumentavano in maniera isterica, ma la testa continuava a calare. Il puzzo era insopportabile e il disgusto lo strozzava in gola e soffocava le grida. Nel momento in cui Jordan sentì quella fredda e bagnata sporcizia inzuppargli i riccioli d'oro, la porta della baracca venne spalancata di colpo e la grossa sagoma materna di mistress Gander riempì il vano.
Per un attimo rimase a guardare, incredula, poi montò su tutte le furie. Levò di scatto il braccio destro, muscoloso a furia d'impastare pane e sbattere biancheria bagnata, e con un ampio gesto a mano aperta fece volare entrambi i gemelli in un angolo della baracca; dopodiché tirò su Jordan e lo tenne a distanza. Rossa in viso, con una smorfia di disgusto per il puzzo che emanava dai riccioli inzuppati, si precipitò fuori col ragazzo e gridò al marito di portare un secchio della preziosa acqua e un pezzo di sapone giallo screziato di blu. Mezz'ora dopo Jordan puzzava di sapone disinfettante e i suoi riccioli erano di nuovo gonfi e morbidi mentre si asciugavano al sole, che li trasformava in un'aureola luminosa. Intanto, da dietro la porta chiusa della sagrestia le grida di dolore dei gemelli erano inframmezzate dal rumore dei colpi secchi del bastone di malacca del reverendo Gander, che veniva di quando in quando sollecitato dalla moglie a un maggior impegno. Intorno ai resti sconvolti del kopie era cresciuta tutta una serie di piccole alture artificiali. Erano formate dalle scorie delle culle scaricate a caso sul terreno aperto oltre il campo. Alcune di queste alture artificiali arrivavano già a oltre sei metri di altezza e formavano un paesaggio desolato in un'area dove non crescevano né alberi né erba. La zona era inoltre attraversata da un'infinità di stretti sentieri, aperti dal quotidiano pellegrinaggio ai pozzi di centinaia di operai neri. La via più breve tra la chiesa luterana e il campo di Zouga seguiva uno di questi sentieri che nell'ora infuocata di mezzogiorno, quando gli operai si trovavano ancora agli scavi, erano deserti. Il sole a picco creava solo strette strisce di nera ombra ai piedi delle montagnole di ghiaia, mentre Jordan s'affrettava lungo il sentiero polveroso, con gli occhi ancora cerchiati di rosso per le lacrime e per la schiuma del sapone disinfettante. « Salve, Jordie-cara. » Jordie riconobbe immediatamente la voce e si fermò di colpo, sbattendo le palpebre contro il sole per guardare in cima a una di quelle montagne di ghiaia lungo il sentiero. Uno dei gemelli si stagliava contro il cielo azzurro-pallido di mezzogiorno. Con i pollici infilati sotto le bretelle, la testa rapata sporta in avanti e gli occhi, contornati dalle ciglia sottili, malevoli come quelli di un furetto. « Tu hai parlato, Jordie-cara », accusò il gemello, in tono deciso. « Non ho mai parlato », negò Jordie, incerto, con la voce che gli tremava. « Hai strillato. E' lo stesso che parlare... E ora strillerai di nuovo, solo che questa volta nessuno ti sentirà, Jordie-cara. » Jordan girò su se stesso e, senza interrompere quel movimento, si mise a correre con tutta la disperazione e la velocità di una gazzella inseguita da un ghepardo; ma non aveva fatto neppure una dozzina di passi che il secondo gemello scivolò giù lungo il fianco della montagnola, con la ghiaia che frusciava
sotto i piedi nudi, è capitò nel mezzo dello stretto sentiero davanti a Jordan. Allargò le braccia come per accoglierlo e storse la bocca in una smorfia di piacere. Avevano disposto la trappola con cura. Lo avevano sorpreso in un punto stretto ai lati del quale i banchi di ghiaia erano più alti. Dietro di lui il primo gemello scivolò giù per bloccargli la ritirata e scivolò tenendosi in equilibrio sulla piccola valanga di ghiaia finché arrivò sul sentiero piano. « Jordie-cara », chiamò. « Jordie-cara », fece eco l'altro, e avanzarono dall'una e dall'altra parte, lentamente, gongolanti. « Le bambine non dovrebbero mai aprir bocca. » « Non sono una bambina », disse Jordan in un bisbiglio, indietreggiando. « Allora non dovresti avere i riccioli, solo le bambine hanno i riccioli. » Douglas si frugò in tasca e tirò fuori un coltello pieghevole col manico d'osso. Aprì la lama con i denti. « Ti trasformeremo in un ragazzino, Jordie-cara. » « E poi ti insegneremo a non aprir bocca. » Henry tirò via la mano da dietro la schiena. Aveva tagliato un ramo di cratego e ne aveva tolto le foglie ma non le spine. « Ti faremo la stessa cosa che Oca-Gander ha fatto a noi. Quindici colpi ciascuno. Vale a dire trenta, Jordie-cara. » Lo sguardo di Jordan era come affascinato da quel ramo spinoso. Era spesso il doppio del pollice di un uomo, più una mazza che un bastone da passeggio, e le spine erano lunghe quasi un centimetro, ognuna sporgente da un nodo di ruvida corteccia nera. Henry menò un fendente per prova e quello sibilò come una vipera. Quel suono fu come una scarica elettrica per Jordan: si girò e corse su per l'alta montagnola vicina a lui. Scivolava sulla ghiaia, sicché dovette usare le mani per arrampicarsi fino in cima. Dietro di lui i gemelli guaivano d'eccitazione, come un branco di cani scatenati nella caccia, e gli corsero dietro, arrancando sull'argine che si sgretolava. A ogni passo affondavano fino alle caviglie nella ghiaia così che Jordan, più leggero e spinto dal terrore, raggiunse la cima della montagnola prima di loro e, muto e bianco in viso, corse su per la piatta cima aumentando ancor più la distanza. Henry, correndo, afferrò una pietra, un pezzo di quarzo grande quanto il suo pugno e, sfruttando la propria velocità, lo lanciò. Passò a pochi centimetri dall'orecchio di Jordan, che trasalì e lanciò un grido, perse l'equilibrio e, giunto sul bordo estremo della montagnola, inciampò, rotolando giù per l'erto declivio. « Fermalo », gridò Douglas, e si lanciò dall'alto. Impolverato e scarmigliato, coi riccioli che gli pendevano davanti agli occhi, giunto in fondo, Jordan riuscì a rialzarsi in piedi. Perse un secondo prezioso per guardarsi intorno disperatamente, dopodiché schizzò via per lo stretto sentiero che correva tra le montagnole di ghiaia.
« Afferralo. Non farlo scappare. » I gemelli s'incitavano a vicenda, ansimando intanto per il ridere, come due gatti con un topo, e lì in piano le loro gambe più lunghe accorciarono la distanza da Jordan. Questi sentiva vicinissimo alle sue spalle il tonfo dei loro piedi nudi sulla terra dura e si girò a guardare indietro, quasi accecato dal sudore e dai riccioli che gli danzavano davanti agli occhi, col fiato che gli veniva meno, bianco in volto come porcellana e con gli enormi occhi, colmi di lacrime, che parevano occupare tutto il viso. Henry si fermò, tirò il braccio destro il più indietro possibile e lanciò il bastone spinoso facendolo volare basso sul terreno così che colpì Jordan dietro le ginocchia. Le spine lacerarono la pelle nuda e delicata producendo profondi graffi paralleli, come se fosse stato colpito dalla zampa di un gatto. A Jordan le gambe si piegarono. Crollò a terra, scivolando sul ventre e sfiatando allorché colpì il terreno battuto del sentiero. Prima che potesse rialzarsi, Douglas gli piombò con tutto il suo peso sulle spalle, mentre Henry recuperava il ramo spinoso e si metteva a danzare intorno ai due in cerca di un'apertura, stringendo il ramo con ambedue le mani sopra il capo. « Prima i capelli », ansimò Douglas, soffocato dalle risate e dall'eccitazione. « Tienigli la testa. » Henry lasciò cadere il ramo e si chinò su Jordan afferrandogli una doppia manciata di riccioli e tirando così forte, con tutto il suo peso, che Jordan dovette allungare il collo. Douglas stava sempre piazzato sopra le spalle di Jordan. Inchiodandolo dunque a terra, brandì il coltello a serramanico e disse al gemello: « Tienilo sempre fermo ». I bei riccioli d'oro erano tesi come corde di violino e Douglas li colpì ripetutamente. Vennero via a ciuffi in mano a Henry, alcuni tagliati, altri strappati dalle radici, come penne dal corpo di una gallina uccisa, e il gemello li lanciava in aria gridando e ridendo nel vederli brillare al sole. « Ora sei un maschietto! » Ogni resistenza cessò da parte di Jordan. Rimase lì schiacciato a terra, scosso dai propri singhiozzi, mentre Henry afferrava un altro ciuffo. « Tagliali più corti », ordinò l'altro gemello, ma subito dopo lanciò un urlo di paura e di dolore. La punta assottigliata di una frusta di pelle di rinoceronte s'avvoltolò intorno al fondo delle brache di Henry, sui lividi freschi lasciati dal bastone di malacca del reverendo Gander, e il gemello schizzò tenendosi le natiche con entrambe le mani e saltellando su e giù. Una mano gli afferrò il colletto della camicia. Fu sollevato in aria e tenuto, scalciante, a un mezzo metro da terra, con l'impressione intanto che il fondo delle brache fosse ora pieno di carboni ardenti. Sempre seduto sulle spalle di Jordan, suo fratello guardò in su. Nell'eccitazione che gli procurava il tormentare un ragazzo
più piccolo, nessuno dei due gemelli aveva sentito o visto avvicinarsi l'uomo a cavallo. Questi era sbucato da dietro la curva che compiva il sentiero tra le montagnole di ghiaia e aveva visto davanti a sé, al centro del sentiero, quel groviglio di piccoli corpi, urlanti e agitati. Aveva riconosciuto immediatamente i gemelli, che s'erano conquistati una certa notorietà li agli scavi, e gli era bastato un secondo per capire chi erano gli attaccanti e chi la vittima. Douglas si rese immediatamente conto di come le circostanze fossero cambiate appena, alzato lo sguardo, vide il fratello pendere a mezz'aria, come un uomo dalla forca. Scattò in piedi e corse via, ma, come un giocatore di polo, il cavaliere fece girare il proprio cavallo con un colpo di staffa e lanciò la lunga frusta di pelle di rinoceronte. Il dolore acuto paralizzò Douglas. Non fosse stato per la spessa tela delle brache, quel colpo di frusta gli avrebbe lacerato la pelle. Prima che schizzasse via di nuovo, l'uomo si chinò sulla sella, gli afferrò il braccio e lo sollevò con facilità. Ai due lati del cavallo i gemelli scalciavano e piagnucolavano per il dolore della frustata mentre l'uomo li guardava uno per uno pensieroso. « Vi conosco, voi due », disse, calmo. « Siete i due Stewart, quelli che mandarono il mulo del vecchio Jacob a sbattere contro il filo spinato. » « Per piacere, signore, per piacere », farfugliò Douglas. « Zitto, ragazzo », disse l'uomo a cavallo. « Siete quelli che tagliarono le redini del carro di De Kock. La cosa costò una bella sommetta a vostro padre, e ancora il Comitato dei Cercatori vorrebbe sapere chi appiccò il fuoco alla tenda di Carlo e ancora... » « Non siamo stati noi, mister », piagnucolava Henry. Era chiaro che entrambi sapevano chi era quell'uomo a cavallo e che ne avevano davvero paura. Jordan si sollevò in ginocchio e alzò il capo per guardare il suo salvatore. Doveva essere qualcuno molto importante, forse addirittura un membro del Comitato che aveva appena menzionato. Pur nella sua angustia, provò sgomento; Ralph gli aveva spiegato che un membro di quel Comitato era qualcosa tra il poliziotto, il principe e l'orco delle favole che la madre un tempo gli leggeva. E ora quell'essere favoloso stava guardandolo, inginocchiato com'era lui in mezzo al sentiero, con le guance solcate di lacrime, la camicia strappata, i bottoni appesi ai fili e la parte posteriore delle ginocchia corsa da graffi sanguinanti. « Questo ragazzino è la metà di voi », disse. Aveva gli occhi azzurri, di uno strano azzurro elettrico: gli occhi di un poeta, o di un fanatico. « Era solo un gioco, signore », mormorò Henry. « Non volevamo fargli male, mister. » L'uomo a cavallo trasferì quel brillante sguardo azzurro da Jordan ai due corpi scalcianti che reggeva a mezz'aria. « Un gioco, eh? » esclamò. « Bene, la prossima volta che vi
sorprendo a giocare così, voi e vostro padre dovrete avere pronta una giustificazione per il Comitato, intesi? » Li scosse brutalmente. « Mi avete capito bene? » « Sì, signore... » « Così vi piacciono questi giochi, vero? Bene, eccone uno nuovo, e lo giocheremo ogni volta che oserete toccare con un dito un ragazzino più piccolo di voi. » Li lasciò cadere improvvisamente a terra e, prima che i gemelli riacquistassero il loro equilibrio, aveva colpito a destra e a sinistra con la frusta, facendoli scappar via a tutta velocità; poi gli corse dietro a un facile trotto per un centinaio di metri, sporgendosi dalla sella e colpendoli dietro le gambe per farli correre il più possibile. Infine, all'improvviso, li lasciò andare, girò il cavallo e tornò verso Jordan, che era rimasto pallido e tremante sul sentiero. « Se proprio devi batterti, uno per volta è la tattica migliore, giovanotto », disse, scendendo agilmente da cavallo; gettò le redini sulla sella e s'accoccolò di fronte a Jordan. « Ora, dov'è che fa più male? » chiese. All'improvviso, per Jordan fu terribilmente importante non apparire un bambino. Deglutì cercando di controllare le lacrime, e l'uomo parve capire. « Bravo ragazzo », disse, scuotendo il capo. « Questo è coraggio. » Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto di cotone e gli asciugò le lacrime frammiste a polvere. « Come ti chiami? » « Jordie... Jordan », si scosse, tirando su col naso. « Quanti anni hai, Jordan? » « Quasi undici, signore. » Il dolore delle ferite e il senso d'umiliazione cominciarono a diminuire d'intensità per essere sostituiti da una calda ondata di gratitudine verso il suo salvatore. « Sputa! » ordinò l'uomo porgendogli il fazzoletto, e Jordan obbedì, inumidendo con la sua saliva un angolo del fazzoletto. Con una mano sulla spalla l'uomo lo fece girare e col fazzoletto bagnato gli pulì i graffi sanguinanti dietro le ginocchia. Un rimedio superficiale, e in più il tocco di quella mano fu un tantino pesante, ma bastò quell'attenzione perché Jordan si ricordasse di sua madre e avvertisse un vuoto dentro di sé, tanto che quasi si metteva a piangere di nuovo. Trattenne le lacrime e girò la testa per guardare lo sconosciuto che gli curava le gambe ferite. Le dita erano robuste e forti, ma il loro movimento non molto coordinato. Le unghie erano grandi e forti e tagliate corte, con una lucidità perlacea. Il dorso delle mani era coperto da una peluria che al sole appariva dorata. Mentre era intento alla sua opera, l'uomo guardò Jordan. Il viso era bello, ben rasato e liscio, a parte i baffetti. Le labbra erano piene, rosse, sensuali. Il naso largo, ma non troppo per la gran testa rotonda e le fitte onde dei capelli castano-chiaro. Era giovane, probabilmente aveva dieci anni più di lui, Jor-
dan, anche se l'imponenza del fisico e l'impressione che dava di forza e maturità lo facevano sembrare molto più vecchio. Eppure c'era qualcosa in lui che sembrava contraddire quella prima impressione. Il rosso delle labbra e delle guance non era il colore della salute e della vita all'aria aperta; sembrava un tantino febbrile, e, sebbene la pelle fosse liscia, agli angoli degli occhi e della bocca c'erano i segni sottili della sofferenza, mentre dietro quello sguardo penetrante c'era come un'ombra tragica, un senso di tristezza che era forse percepibile soltanto agli occhi innocenti di un bambino. Per un attimo l'uomo e il ragazzo si guardarono negli occhi e giù, dentro di sé, ben nel profondo, Jordan provò un fremito, un fremito dolce: gratitudine, trasporto infantile, compassione, adorazione, era tutto questo e qualcos'altro ancora che lui non avrebbe mai saputo esprimere. Poi l'uomo si alzò in piedi: era alto e possente e Jordan gli arrivava a malapena al petto. « Chi è tuo padre, Jordan? » E Jordan gli fu grato per non avere usato il diminutivo. Alla sua risposta il cavaliere annuì. « Sì », disse. « Ho sentito parlare di lui. Il cacciatore d'elefanti. Bene, allora, sarà meglio tornare a casa. » Balzò in sella e si chinò a prendere Jordan per un braccio, issandolo in groppa. Jordan sedeva con le gambe da una parte e, quando il cavallo si avviò, per tenersi in equilibrio strinse le braccia intorno alla vita del cavaliere. Quando arrivarono al trotto nel campo di Zouga, Jan Cheroot lasciò il tavolo di scelta e corse loro incontro, e allorché l'uomo fermò la bestia allungò le braccia e mise giù Jordan. « Si è azzuffato », disse lo sconosciuto all'ottentotto. « Gli metta della tintura di iodio sulle ferite e starà bene. Il ragazzo ha coraggio. » Jan Cheroot si mostrò ossequioso, quasi servile, ben lungi dall'ostentare il suo solito aspro cinismo. Sembrava reso muto dallo sguardo diretto di quell'uomo grande e grosso in groppa a quel cavallo dalle lunghe gambe. Con una mano tenne Jordan e con l'altra si tolse il vecchio berretto militare e se lo portò sul petto, come annuendo all'ordine che l'uomo gli aveva dato. Lo sconosciuto trasferì di nuovo lo sguardo su Jordan e, per la prima volta, sorrise. « La prossima volta scegli qualcuno della tua altezza, Jordan », consigliò e, prese le redini, s'allontanò al trotto dal campo senza voltarsi a guardare indietro. « Sai chi era quello, Jordie? » chiese Jan Cheroot guardando l'uomo che s'allontanava. Non attese la risposta del ragazzo. « E' un pezzo grosso del Comitato dei Cercatori, l'uomo più importante di tutta New Rush, Jordie... » S'interruppe, poi, con aria teatrale, annunciò: « Era mister Rhodes ». « Mister Rhodes. » Jordan ripeté il nome dentro di sé. « Mister Rhodes. » Aveva un suono eroico, come certa poesia che sua madre gli leggeva. Capì che gli era capitato qualcosa di molto importante nella vita.
Ogni membro della famiglia di Zouga e del seguito trovò rapidamente il proprio posto di lavoro, come se a ciascuno di essi fosse stato riservato un compito speciale: Jan Cheroot e Jordan al tavolo di scelta, l'amadoda matabele negli scavi e Ralph... naturalmente per lui c'era solo un posto: negli scavi con loro. E così trovarono le pietre; le scavavano in piccoli riquadri di terra nella profondità del pozzo che affondava sempre più, e le portavano alla superficie nei secchi oscillanti, le trasportavano nel carretto per le strade che andavano continuamente sgretolandosi, così da divenire sempre più pericolose ogni giorno che passava, e le lavavano e setacciavano sinché alla fine Jan Cheroot o Jordan vi piombavano sopra sul tavolo di scelta. Poi la sera sotto il cratego accanto alla tenda di Zouga c'erano tre o quattro operai matabele in attesa. « Vediamo », diceva Zouga con un grugnito, e con abilità l'operaio scioglieva i nodi di un pezzo di stoffa sporca e mostrava una scheggia di pietra o un piccolo cristallo trasparente. Questi erano i ritrovamenti fatti agli scavi. Mentre i matabele maneggiavano il materiale, spalandolo o vuotando i secchi di cuoio, succedeva che il luccichio di una pietra attraesse la loro attenzione. Per ogni diamante ritrovato in quel modo e consegnato c'era una ricompensa. La maggior parte di essi, però, non erano veri diamanti, perche gli operai mettevano da parte tutto ciò che luccicava o qualsiasi pietra più bella delle altre o insolitamente colorata. Prendevano così schegge di agata e quarzo, feldspato e cristallo di rocca, diaspro e zircone, e ogni tanto un diamante. Allora, per ogni diamante, grande o piccolo, limpido o no, Zouga regalava una sovrana d'oro del gruzzolo che andava sempre più assottigliandosi e aggiungeva il diamante al contenuto della piccola borsa a stringhe di camoscio che portava nella tasca di petto e che quando dormiva la notte metteva sotto il cuscino. Poi, ogni domenica mattina, Jan Cheroot e i due ragazzi si radunavano intorno al tavolo sotto il cratego accanto alla tenda e, con cautela, Zouga versava il contenuto della borsa su un foglio di carta bianca pulito e insieme esaminavano e discutevano sul ritrovamento della settimana; e sempre Zouga cercava di celare la propria delusione e di ignorare i morsi della preoccupazione quando guardava quei diamanti minuscoli, scoloriti e macchiati, che Le Diaboliche cedevano con tanta riluttanza. Poi, con la borsa di camoscio di nuovo nella tasca di petto abbottonata, gli stivali appena lucidati da Ralph, il colletto liso della camicia accuratamente rammendato - i bottoni sostituiti da Jordan e il castrato baio tirato a lucido da Jan Cheroot, sfoggiando la migliore espressione che gli riusciva di sfoggiare, fumando un sigaro per dimostrare quanto poco avesse bisogno di denaro, Zouga cavalcava verso gli scavi e fermava il castrato alla porta della baracca di lamiera del primo diamantiere. « Le Diaboliche. » Il primo kopje-walloper era un olandese il cui accento era difficilmente comprensibile, ma che non si la-
sciava ingannare dallo sfoggio che faceva Zouga della propria indifferenza; quella volta tirò il fiato e scosse il capo davanti all'offerta di Zouga. « Le Diaboliche », ripeté. « Hanno ucciso cinque uomini e mandato in fallimento altri tre. Jock Danby è stato fortunato a cavarne il prezzo che lei gli ha pagato. » « Qual è la sua offerta? » chiese Zouga, calmo. Il diamantiere sparse sul banco le minuscole pietre. « Vuole vedere un vero diamante? » chiese e, senza aspettare risposta, fece ruotare la sedia e aprì la cassaforte nella parete dietro il banco. Con reverenza, spiegò un pezzo quadrato di carta bianca e mise in mostra un bellissimo e sfavillante cristallo, grande quasi quanto una ghianda matura. « Cinquantotto carati », disse in un bisbiglio, e Zouga lo fissò con l'acido sapore dell'invidia in bocca. « L'ho comprato ieri. » « Quanto? » Chiese Zouga, maledicendosi al tempo stesso per la propria debolezza. « Seimila sterline! » disse il diamantiere e, con cura, ripiegò il pezzo di carta, rimise il diamante nella cassaforte, chiuse la porta pesante di questa, riattaccò la chiave alla catena dell'orologio e tornò a guardare le pietre di Zouga. « Quaranta sterline », disse, in tono distratto. « Tutte? » chiese Zouga, calmo. Doveva pagare e dar da mangiare a sedici uomini, aveva bisogno di una corda nuova e ne avrebbe dovuto pagare il prezzo esagerato ai mercanti. « Il prezzo del pietrame è basso. » Il diamantiere si strinse nelle spalle. « Ogni cercatore a sud del Vaal si presenta con robaccia simile. » Zouga riempì di nuovo la borsa e s'alzò. « Le ho fatto un prezzo di favore », lo avvertì il diamantiere. « Se torna più tardi le sterline saranno trenta. » « Correrò il rischio. » Zouga si toccò la falda del cappello e uscì fuori nel sole. Il secondo diamantiere al quale si rivolse versò le pietre nel ciotolino della bilancia da diamanti e poi aggiunse pesi nell'altro braccio finché la bilancia fu in equilibrio. « Avrebbe dovuto continuare a dare la caccia agli elefanti », disse, mentre annotava i pesi e faceva i suoi calcoli in un taccuino rilegato di pelle. « Il mercato è invaso di diamanti. C'è un limite al numero delle ricche signore che vogliono portare gioielli appesi al collo e qui, sul Vaal, abbiamo tirato fuori più pietre in pochi anni di quante ne sono state trovate nei seimila anni precedenti. » « Li adoperano per i movimenti degli orologi, per gli utensili per tagliare il vetro e l'acciaio », disse Zouga, calmo. « Una moda passeggera. » Il diamantiere agitò la mano come per allontanare l'argomento. « I diamanti sono finiti. Le darò cinquantacinque sterline per tutte queste, è un prezzo generoso. »
Una mattina Zouga trovò Ralph che lavorava accanto a Bazo in fondo al pozzo, calando il piccone a tempo, con il canto matabele. Rimase a guardarlo per alcuni minuti, vide la forma dei muscoli sviluppati emergere da quello che era stato fino allora un fisico infantile e notò l'ampiezza delle spalle. Il ventre di Ralph era piatto e la stoffa delle brache, che improvvisamente risultavano di molte misure più piccole, era tesa su natiche tonde e piene quando si chinava per conficcare la punta del piccone nella terra gialla e compatta. « Ralph », chiamò alla fine. « Sì, papà. » Il sudore aveva scavato dei solchi nella polvere che ricopriva come una pellicola la parte superiore del corpo e ricadeva a gocce lucenti dalla peluria riccia e scura che improvvisamente era comparsa al centro del suo petto. « Mettitì la camicia », ordinò Zouga. « Perché? » Ralph parve sorpreso. « Perché sei un inglese. Con la grazia di Dio e, se necessario, con la forza del mio braccio destro ti comporterai anche da gentiluomo. » E così Ralph lavorò abbottonato fino alla gola accanto ai matabele nudi, di cui guadagnò dapprima il rispetto e poi l'affetto e l'amicizia. Dal primo giorno in cui s'erano incontrati sul veld aperto, i matabele erano rimasti impressionati dalla sua bravura a cavallo e dalla maniera con cui aveva abbattuto con un sol colpo il vecchio maschio di antilope. Ora cominciarono ad accettarlo in mezzo a loro trattandolo prima come fratello minore e poi, a poco a poco, come uguale finché Ralph si trovò a gareggiare con loro in tutto ciò che facevano, nel lavoro e nello sport. Ancora non era alto e forte come i matabele e quindi vinceva di rado, ma quando era battuto s'accigliava fino a oscurarsi tutto in viso e a far congiungere le folte sopracciglia sopra il gran naso. « Un vero sportivo sa perdere con grazia », gli disse una volta Zouga. « Non voglio essere sportivo. Non voglio imparare a perdere », ribatté Ralph. « Voglio imparare a vincere. » E a quel compito si dedicò con rinnovata determinazione. Sembrava che ogni giorno passato agli scavi la sua forza aumentasse; il grasso infantile veniva bruciato via e, alla fine, il giovane raggiunse la sua definitiva altezza senza perdere di forza. A quel punto imparò a vincere. Cominciò col battere Bazo nelle gare sul lavoro, raccogliendo ghiaia e riempiendo freneticamente grossi secchi di cuoio uno dopo l'altro, con la gialla polvere che si levava a nubi soffocanti. Vinse una delle pericolose gare giù per le scale dalla strada al fondo del pozzo, bruciandosi le mani sulle funi e dondolandosi nel vuoto per superare un altro uomo sul lato opposto della scala, usando il palo di un cavalletto per superare il vuoto profondo tra due concessioni, correndovi sopra dritto come un funambolo, senza guardare i propri piedi o il salto di
trenta metri sotto di lui. Persino Bazo scosse il capo e disse « Hau! » - che era un'esclamazione di profondo stupore - mentre Ralph, in fondo al pozzo, guardava in su verso di lui scoppiando in una trionfante risata. Poi Ralph imparò a usare i bastoni da combattimento, imparò a usarli nella maniera dura, perché quello era un gioco che i matabele avevano imparato sin da quando erano pastori nel veld. Prima di impadronirsi dell'arte di combattere con i bastoni, dovette imparare a fermare il sangue di più d'una ferita infertagli al capo dal bastone di Bazo, e lo fermava spruzzandovi sopra una manciata di polvere afferrata da terra in pieno combattimento. Una settimana prima del suo sedicesimo compleanno, Ralph batté Bazo per la prima volta. Combatterono dietro le capanne col tetto di paglia che i matabele avevano costruito in pieno veld, dietro l'accampamento di Zouga. Cominciò come per gioco. Bazo era l'istruttore che insegnava all'alunno a eseguire i passi tradizionali del combattimento con la grazia indolente di una sonnacchiosa pantera nera, un bastone da combattimento stretto in ciascuna mano e brandito e agitato con studiata abilità di movimento in maniera da formare uno schermo fluido, da dietro il quale poteva essere lanciato, con l'una o l'altra mano, un attacco micidiale. Ralph si girò per affrontare Bazo, e così i due ruotarono su se stessi come provetti ballerini; intanto si schernivano a vicenda, e le proprie battute Ralph le diceva in perfetto matabele. Era in brache da cavallerizzo e nudo sino alla cintola e il suo torso che per ordine di Zouga era stato tanto a lungo protetto dal sole, era bianco-crema. Solo le braccia e una « V » profonda alla gola erano abbronzate dal sole. « Una volta avevo un babbuino » disse Bazo. « Era un babbuino albino, bianco come la luna, e così stupido che non imparò mai nessun trucco. Quel babbuino mi ricorda qualcuno, ma non saprei dire chi. » Ralph sorrise solo con le labbra mettendo in mostra una chiostra bianca di denti, ma le scure sopracciglia erano unite sopra il naso. « Mi meraviglio che un matabele possa pensare di insegnare qualcosa a un babbuino. Certamente dovrebbe essere tutto il contrario. » Bazo balzò indietro con un grido e iniziò la giya - la danza di sfida del guerriero - saltando alto e facendo sibilare i corti bastoni nell'aria, fino a che ronzarono come le ali di un uccellomosca in volo. « Vediamo se sei lesto con i bastoni come con la lingua », gridò. E di colpo attaccò. Il sibilo dei bastoni divenne quasi un urlo allorché mirò al ginocchio di Ralph, urlo che terminò in uno schianto, come un colpo di fucile, quando Ralph bloccò il colpo con la propria guardia. Immediatamente, con l'altra mano, Bazo mirò al gomito, e ci fu un altro schianto quando Ralph deviò il colpo col proprio bastone. I bastoni battevano l'uno contro l'altro a un ritmo crescente,
e il cerchio degli spettatori matabele incoraggiava i due con alte grida - « jee! » - ogni volta che un colpo veniva abilmente restituito e ogni sibilante risposta a sua volta ancora contraccambiata. Bazo ruppe per primo il ritmo, saltando all'indietro, con un leggero velo di sudore che faceva sembrare di velluto nero i suoi muscoli, col petto che gli si alzava e abbassava, e accennando risatine un tantino roche. Era il momento buono per una pausa ora, mentre i due avversari giravano uno intorno all'altro in quella specie di danza stilizzata, scambiandosi insulti, trattenendo il fiato, chinandosi ad asciugare le mani nella polvere per migliorare la presa sui bastoni, e invece Bazo balzò all'indietro e per un attimo abbassò la mano destra, così che Ralph penetrò la sua guardia. Anche la sola parvenza di un sorriso era scomparsa dalle labbra di Ralph. Stringeva la mascella, gonfiava i muscoli facciali e nel volto gli si leggeva la determinazione. La guardia destra di Bazo s'era abbassata e la sua attenzione era adesso rivolta alla schiera di facce degli spettatori matabele per il cui beneficio stava già preparandosi alla mossa successiva. « Jee! » gridarono quelli per incoraggiarlo e avvertirlo al tempo stesso, e Bazo cercò disperatamente di alzare la propria guardia per parare l'attacco inatteso. Riuscì a toccare col bastone quello dell'avversario giusto quel tanto per attutire il colpo, altrimenti gli avrebbe fratturato l'osso. Il corto bastone di Ralph gli prese in pieno la punta della spalla e, improvvisamente, non fu più un gioco. Il colpo alla spalla provocò un rigonfio grosso come un dito sul muscolo e quasi paralizzò il braccio di Bazo fino alla punta della mano, e così, allorché parò il successivo colpo di Ralph, il matabele sentì il proprio bastone girare tra le dita intorpidite e quasi sfuggirgli; lo shock si trasferì al muscolo offeso e lui, involontariamente, lanciò un grugnito, un piccolo grugnito di dolore che parve stimolare ancor più Ralph. Il viso abbronzato del ragazzo era una maschera di furia combattiva, gli occhi erano freddi e verdi, e a ogni colpo che menava piccole gocce di sudore gli volavano via dai lunghi capelli neri. I matabele non l'avevano mai visto così, ma riconobbero subito la furia assassina, perché tutti loro erano già stati in battaglia e avevano ucciso, e la cosa li contagiò al punto che presero a danzare e a battere i piedi a terra per l'eccitazione, spronando intanto Ralph ad alta voce. « Jee! » gridavano, e Bazo arretrò cedendo terreno a Ralpb, mentre i bastoni cozzavano e rumoreggiavano. Il matabele teneva la bocca spalancata, boccheggiando, e la sua gola era una profonda caverna rosa. Da dietro l'orecchio gli colava un sottile e scintillante rivolo di sangue, che si stendeva sulla gola tesa e poi sulla spalla destra, come un mantello. Un colpo casuale sopra l'occhio non aveva aperto la carne ma aveva formato sotto la pelle una vescica di sangue nero grande quanto
una noce, che pendeva dalla fronte di Bazo come una bizzarra sanguisuga. Intanto, tutt'intorno al matabele i colpi sibilavano e schioccavano, fitti come una pioggia tropicale, abbattendosi sulla sua guardia così da ripercuotersi attraverso il braccio e la spalla e da scuotergli la testa sulla spessa colonna nera del collo. Poi un altro colpo penetrò la guardia e l'eburneo brillio dei denti di Bazo fu offuscato da una pellicola di sangue che gli serpeggiò giù da una narice in bocca; poi un altro colpo andò a segno sulla coscia, che si gonfiò istantaneamente, tendendo la pelle lucida e nera, e quasi azzoppò Bazo, che fu così impedito dalla gamba ferita. E Ralph continuava ad attaccare, mentre Bazo era lento e impacciato. Poi di nuovo uno dei bastoni di Ralph colpì con un tonfo il muscolo elastico e Bazo barcollò e quasi andò giù. Si riprese con immenso sforzo, e il suo colpo di risposta fu lento e debole, e Ralph lo deviò facilmente. Spinse l'estremità del bastone che stringeva nella destra attraverso la guardia di Bazo, usandolo come fosse una spada, e Bazo fu colto di sorpresa. Con tutto il peso di Ralph dietro al colpo, il bastone piombò sui muscoli del ventre di Bazo, proprio sotto la cassa toracica, e per il colpo il matabele si piegò in due e uno dei bastoni gli volò via di mano, mentre l'altro gli penzolava inutilmente lungo il fianco. Cadde in ginocchio, la testa piegata in avanti tanto da esporre la nuca, con le vertebre della spina dorsale che sporgevano di tra i fasci di neri muscoli. Gli occhi di Ralph erano fissi su quel collo esposto ed erano vitrei, della stessa lucentezza di un diamante grezzo, mentre i suoi movimenti erano troppo rapidi per non essere altro che istintivi. Sollevò alto il bastone e spostò il peso del corpo dal piede posteriore a quello che aveva piantato in avanti, e tutta la sua forza affluì nella schiena e nelle spalle mentre si preparava al colpo fatale. « Jee! » ruggirono gli spettatori, anche loro trascinati oltre le frontiere della ragionevolezza dall'onda della furia combattiva, stringendosi intorno per assistere alla fine del perdente. Ralph s'irrigidì in quella posizione, il braccio destro alzato, il corpo piegato all'indietro come un arco teso, il matabele caduto ai suoi piedi... Poi, lentamente, la tensione abbandonò braccia e gambe, e lui scosse il capo con la goffa incertezza di uno che si svegli da un incubo. Si guardò intorno con stupefatta incredulità, sbattendo le palpebre come per allontanare dagli occhi quel velo opaco di follia e, di colpo, le gambe gli tremarono, incapaci di reggere il suo peso. Cadde giù di fronte a Bazo, gli si inginocchiò davanti e sollevò il braccio che pose intorno al collo del matabele. Appoggiando poi la propria guancia contro la sua. « Dio », bisbigliò. « Oh, Dio... Quasi ti ammazzavo. » Sangue e sudore si mescolarono, mentre ambedue ansimavano sollevando e abbassando il petto. « Non insegnare mai nessun trucco a un babbuino albino », disse alla fine Bazo. Aveva la voce incerta e roca. « Può impa-
rare un pò troppo. » Poi furono sollevati entrambi dai matabele urlanti e ridenti e furono trascinati fino alla capanna più vicina. Ralph bevve per primo dalla zucca di gruel - la densa e frizzante birra di miglio -, quindi la passò a Bazo. Bazo si sciacquò la bocca dal sangue e sputò a terra, dopodiche bevve, buttando il capo all'indietro, una dozzina di grosse sorsate; quindi abbassò la zucca e guardò Ralph. Per un attimo rimasero lì con aria grave, gli occhi verdi che sostenevano lo sguardo di quelli nerissimi, e poi di colpo entrambi scoppiarono a ridere, una gran risata incontrollata che li scuoteva tutti; e così i matabele che stavano accoccolati in cerchio intorno a loro cominciarono prima a sorridere e poi a ridere anch'essi. Sempre ridendo, Bazo si sporse in avanti e strinse per un attimo il braccio di Ralph. « Sono il tuo uomo », disse, sempre ridendo, sempre con la bocca piena di sangue. Quando Zouga scese l'ultimo piolo della scala sul fondo delle Diaboliche, il sudore era già abbastanza da produrre una macchia scura dietro la camicia di flanella. Sollevò il cappello per asciugare le gocce dalla fronte, quando trasalì e s'accigliò immediatamente. « Ralph! » gridò, e suo figlio conficcò la punta del piccone nella ghiaia gialla e lo lasciò lì ritto, quindi si eresse con le mani sui fianchi. « Cosa fai? » « Abbiamo trovato un nuovo sistema », rispose Ralph. « Prima la squadra di Bazo infrange la roccia, poi dopo di loro viene Wengi e... » « Sai benissimo cosa voglio dire », lo interruppe Zouga, impaziente. « E' lunedì, dovresti essere a scuola. » « Ho sedici anni ormai », ribatté Ralph. « E inoltre so leggere e scrivere. » « Non credi che avresti dovuto parlarmi della tua decisione? » chiese Zouga, con ingannevole calma. « Almeno un accenno. » « Eri occupato, papà. Non volevo disturbarti per qualcosa di così poca importanza. Hai già abbastanza di che preoccuparti. » Zouga esitò. Era la solita abilità del figlio a stravolgere le cose o si rendeva davvero conto della loro situazione e di quanto lui, Zouga, avesse veramente da preoccuparsi? Ralph s'accorse del proprio vantaggio. « Abbiamo bisogno di tutte le braccia possibili, e le mie sono gratuite. » Le sollevò e, per la prima volta, Zouga notò com'erano possenti e com'erano callose le mani. « Sentiamo, qual è questo nuovo metodo? » Il cipiglio del padre era svanito e Ralph sorrise nel rendersi conto che non sarebbe più andato a scuola. Cominciò a spiegare, facendo ampi gesti con le mani mentre il padre annuiva. « Va bene », disse alla fine Zouga. « Mi sembra ragionevole.
Lo proveremo. » Si girò e s'allontanò, mentre Ralph si sputava sulle mani e gridava in matabele: « Avanti, su, non siete delle donnette che zappano la terra. Rompetevi la schiena ». Alla concessione n. 183 un cercatore americano, un certo Calvin Hine, incappò in un filone, una piccola sacca, e in un solo secchio tirò su duecentosedici diamanti, il più grande dei quali era di oltre venti carati. Di colpo, da uno straccione abbronzato e barbuto che frugava nella polvere gialla divenne un uomo ricco. Calvin era li la sera in cui Diamond Lil saltò sul banco di legno del suo bar, con le piume di struzzo che oscillavano e i lustrini che brillavano alla luce delle lampade. Chiese in un cockney che suonava come le campane di St Mary-le-Bow: « C'è qualche gentiluomo di spirito che offre un prezzo per questa bella merce? » e si strizzò tra le dita dalle unghie tinte di rosso i grossi seni rotondi, che traboccarono da sopra il corpetto di velluto cremisi, con la pelle più morbida dello stesso velluto e il gran tondo roseo di un capezzolo che sorgeva come l'alba sopra l'orizzonte della sua scollatura. « Avanti, su, carini, una notte di delizie. Una sbirciatina al paradiso, amorini. » « Dieci scellini, Lil cara. Dieci soldini », gridò un cercatore in fondo al bar, e Lil si girò e sollevò le gonne di dietro nella sua direzione. « Vergognati, piccolo miserabile », lo rimproverò guardando da dietro la bianca spalla. I mutandoni di pizzo e nastrini sotto le fruscianti gonne non avevano cavallo e, per l'infinitesima parte di un secondo, tutti videro ciò che vendeva e muggirono come buoi trainanti un carro da cinque giorni nel deserto quando annusano una sorgente d'acqua. « Lil, bellezza mia. » Calvin s'arrampicò traballando sulla cassa che serviva da tavolo. Stava bevendo da mezzogiorno, quando aveva lasciato l'ufficio del kopie-walloper. « Lily, anima mia », farfugliò, « per un anno e più, ogni notte ho sognato questo momento. » Si frugò nella tasca della giacca e tirò fuori una manciata di sgualciti biglietti da cinque sterline. « Non so quante sono », annunciò, « ma sono tue. » Per un attimo le sopracciglia disegnate di Lily si contrassero, mentre eseguiva un rapido calcolo dell'offerto fascio di banconote; poi sorrise e il piccolo diamante incastonato nel suo incisivo brillò come la stella della sera. « Magnifico ragazzo », gongolò. « Questa notte sono la tua sposa. Prendimi tra le braccia, mio amante. » Il giorno dopo qualcuno trovò una pietra di trenta carati nella sezione orientale, una splendida pietra bianca della più bell'acqua, e il giorno dopo ancora un enorme diamante color champagne saltò fuori nel blocco di Neville Pickering.
« Andrà via, ora? » gli chiese Zouga quando s'incontrarono sulla strada sopra Le Diaboliche, e sperò che il suo sorriso non tradisse l'invidia. « No. » Pickering scosse il capo e rispose con il proprio sorriso accattivante. « Scommetto sempre su una serie di vittorie. Il mio socio e io rimaniamo in gioco. » Sembrava che il dio dei diamanti fosse propenso a elargire con generosità a New Rush, e tutti erano tanto presi dalla febbre dell'attesa e dell'eccitazione che a mezzogiorno il gran pozzo risuonava come un'arnia di api selvatiche quando la foresta di acacie è in piena fioritura. Tre grandi ritrovamenti in tre giorni: nessuno l'aveva mai visto succedere prima. La sera, intorno ai fuochi e nelle bettole illuminate dalle lanterne, venivano avanzate le più sfrenate teorie dagli impolverati cercatori ubriachi di pessimo alcol e di rinata speranza. « E' uno strato », pontificava uno. « Un filone di ricchi ciottoli che attraversa il kopje. Sentite quel che vi dico, qualcuno troverà un pony prima della fine della settimana. » « No, accidenti », argomentava un altro. « Le pietre stanno in buche. Qualche fortunato bastardo troverà di nuovo la buca giusta, come Calvin con il suo venti carati o Pickering con la sua scimmia. » Il martedì sera di quella pazza settimana piovve. Lì, ai bordi del deserto del Kalahari, il livello delle piogge era meno di quaranta centimetri l'anno; in quella sola sera raggiunse i venti. Al crepitante bagliore azzurro dei lampi la pioggia formava una cortina sbieca di argentee frecce. Le nubi ricoprivano in gran massa il cielo e cozzavano le une contro le altre come tori furenti, grandi come montagne alla luce dei lampi, e i tuoni facevano tremare la terra mentre la pioggia scrosciava. All'alba pioveva ancora. In un'altra occasione gli scavatori se ne sarebbero stati fuori dei pozzi, ad aspettare che il terreno asciugasse. Non quel giorno, però, non con l'eccitazione che faceva fremere l'intero campo. Quel giorno nulla li avrebbe tenuti lontano dai pozzi. Gli scavi erano pieni di fango giallo. Nelle concessioni più basse vi si affondava fino al ginocchio. Incrostava le gambe nude degli operai neri, inzaccherava a interi strati gli stivali dei sorveglianti bianchi, appesantendoli e impedendo di camminare, come fosse una palla al piede. Il denso fango rosso delle strade bloccava le ruote dei carretti e doveva essere scrostato con la punta di un palanchino. Giù nei pozzi ne riempivano i secchi a palate, e quando questi venivano issati il fango acquoso pioveva sugli uomini di sotto, così che dietro quelle lucide maschere gialle era impossibile distinguere i bianchi dai neri. Ciò di cui nessuno degli uomini lì agli scavi si rendeva conto era che, a parte la sporcizia e il disagio provocati dalla pioggia del temporale notturno, questa aveva creato un cambiamento meno evidente ma infinitamente più grave in quelli che erano i resti del Kopje Colesberg.
I precipitosi rivoli d'acqua avevano trovato una fessura all'estremità della Strada n. 6 e vi s'erano riversati dentro, scavando e intaccando e demolendo, e il viscido fango giallo aveva nascosto le profonde crepe che s'erano aperte verticalmente nell'argine di terra alto trenta metri. Su quella strada, in quel momento, s'affollavano sedici carretti trainati da muli, quasi tutti pieni del primo carico della mattinata, e, tra un'esplosione di schiocchi delle lunghe fruste, i vetturali imprecavano gli uni contro gli altri nel tentativo di farsi largo e portare il rispettivo carico alle culle in attesa. Giù alle Diaboliche le squadre dei matabele lavoravano a fianco a fianco, ma gli scrosci pungenti e gelati della pioggia sulle spalle e le schiene nude rallentavano i colpi di piccone e a ogni passo gli uomini sdrucciolavano e perdevano il precario equilibrio. Il loro canto risuonava funebre e Zouga urlava per sollecitarli. L'umore di tutti era pessimo. Sulla strada, intanto, un carretto stracarico di ghiaia cominciò a scivolare di lato e, incapace di trattenerlo, il mulo del timone fu trascinato giù in ginocchio. Una delle ruote cadde fuori del bordo della strada e il carretto s'inclinò pericolosamente, rimanendo sospeso sul pozzo. Sotto il peso ineguale della ghiaia l'asse si spezzò. Il carretto di Zouga veniva subito dietro, rivolto nella stessa direzione, e Ralph saltò giù dalla cassetta e, furioso, gridò: « Dannato idiota, ci hai bloccati tutti ». « Piccolo insolente », gridò di rimando il vetturale del veicolo impantanato. « Hai bisogno di una ripassata di frusta sulla schiena. » Immediatamente una mezza dozzina di cercatori accorsero, schierandosi da una parte o dall'altra e gridando consigli e imprecazioni. « Taglia le tirelle, porta quei maledetti animali via dalla strada. » « Scarica la ghiaia, sei sovraccarico. » « Voi non toccate niente! » strillò il vetturale del carretto bloccato. Ralph intanto trasse il coltello dal fodero che portava nella cintura e corse avanti. « E' quello che ci vuole, Ralph. » « Quel bricconcello ha bisogno di una lezione. » Uomini, veicoli e animali infangati formavano un pericoloso ingorgo su in cima all'alto muro di terra. In fondo al pozzo, Zouga buttò il capo all'indietro e si portò le mani alla bocca: « Ralph! » ruggì. Capiva quanto pericolosa fosse diventata la situazione. Gli animi erano accesi e lui si rendeva conto del pericolo mortale che correvano tutti se, scontrandosi tra loro, gli uomini perdevano il controllo degli animali in preda al panico. La voce di Zouga fu soffocata dal fracasso, e se Ralph l'udì non lo diede tuttavia a vedere. Era inginocchiato accanto al mulo caduto e tagliava ripetutamente col coltello le corregge delle tirelle.
« Va' via di là », strillò il vetturale, e si piegò all'indietro. Il lungo cordone della frusta volò alto sopra le sue spalle e quindi, con uno schiocco, schizzò in avanti, sibilando come le ali di un'anatra selvatica in volo. Ralph se ne accorse in tempo e si chinò dietro il corpo a forma di barile del mulo. La frusta esplose nell'aria come una granata e il mulo fece un balzo, facendo ruotare le stanghe del carretto a metà della strada così che l'asse spezzato crollò; seguì poi la rottura delle corregge di cuoio mezzo segate che permise al mulo di rimettersi in piedi e di galoppar via nel fango verso un terreno più solido. Ralph si rialzò e corse verso i propri muli. Gridò rivolto a quello di timone: « Tira, Bishop! » Le ruote del carretto frusciarono nel fango e lui spingeva verso lo stretto passaggio tra il carretto affossato nel fango da un lato, che occupava quasi mezza strada, e lo strapiombo sugli scavi dall'altro. « Aah, Rosie! » Ralph afferrò la briglia della mula di testa e, correndo verso di lei, la guidò verso il passaggio. « Ralph, maledizione a te! » ruggì Zouga. « Fermati! Mi senti? Fermati! » Ma era uno spettatore impotente. Gli ci sarebbero voluti cinque minuti o più per raggiungere la strada soprelevata attraverso il complicato sistema di scale e passerelle, quindi non poteva far niente per impedire l'incombente tragedia. L'infuriato proprietario del carretto affossato era ancora a bordo del suo veicolo e brandiva la lunga frusta, urlando di rabbia. Non era alto, qualche centimetro meno di Ralph, ma aveva spalle pesanti, un gran ventre e mani ruvide come corteccia di quercia, cotte dal sole come mattoni e segnate dal maneggio del piccone e della vanga. « Ti metto a posto io, vermiciattolo », gridò, e di nuovo tirò indietro la frusta. A sua volta, Ralph di nuovo si scansò, ma questa volta la punta della frusta gli prese la manica della camicia scolorita e rattoppata, lacerando il tessuto liso e aprendo la pelle sulla parte superiore del braccio con un taglio, sottile come quello di un rasoio, dal quale spuntò immediatamente il sangue. Ralph era accovacciato nel fango; si alzò, piazzò una mano sul garrese del mulo del timone e, sfruttando il proprio slancio, saltò in aria. Era un trucco insegnatogli da Jan Cheroot, la maniera con cui un bravo vetturale passa da una parte all'altra del proprio tiro. A mezz'aria, infatti, volteggiò al disopra del dorso dei muli e atterrò dall'altra parte del carretto. Un altro salto ancora e fu a cassetta. Immediatamente afferrò la propria frusta dall'alloggiamento accanto alla maniglia del freno. Il manico era lungo tre metri e il sottile cordone altri sei. Un abile vetturale poteva colpire con lo sverzino una mosca sulla punta dell'orecchio del mulo-guida, e Jan Cheroot aveva addestrato Ralph: era bravo con la frusta, molto bravo. Le sue labbra erano una sottile linea bianca, gli occhi verdi pieni di furia. Quel colpo di frusta gli aveva messo addosso
una rabbia assassina e incontrollabile. « Ralph! » gridò inutilmente Zouga. Aveva già visto il figlio in quelle condizioni. Era spaventato. « Ralph! Fermati! » In piedi sul carretto, Ralph sparò la frusta all'indietro in tutta la sua lunghezza: un movimento pieno di grazia, come quello di un pescatore di salmone che si accinge a lanciare la mosca; poi, con lo stesso movimento, spinse avanti il manico della frusta, con uno scatto del polso e delle spalle, e il cordone sibilò e arrivò fino al vetturale. Lo colpì come un fendente di spada, dal petto alla fibbia della cintura, e solo la pesante incerata che il vetturale portava gli evitò una brutta ferita. La tela lacerata sbatté e la pioggia diluì il rivolo di sangue che sgorgò dalla lieve ferita. Allo schiocco della frusta i muli di Ralph ebbero un balzo e la ruota esterna del suo carretto s'agganciò a quella del carretto affossato, bloccandoli entrambi nel fango molle. Ralph era troppo vicino all'altro vetturale per far schioccare di nuovo la frusta e allora capovolse il manico e, adoperandolo come una mazza, lo menò contro la testa dell'uomo. Giù di sotto, negli scavi, i matabele incoraggiavano il loro favorito con il grido da combattimento - « jee! » - che pungolò ulteriormente Ralph. Fu più lesto dell'altro vetturale, che era troppo stordito per evitare il bastone, brandito come quelli da combattimento con i quali il ragazzo s'era così assiduamente allenato. I muli intanto erano spaventati dal fracasso, dagli schiocchi delle fruste, dal canto di guerra dei matabele, dagli insulti e dalle urla degli spettatori. Rosie indietreggiò, agitò le zampe anteriori, ragliando in maniera isterica, e il compagno di tiro si buttò in avanti dando strattoni alla ruota incastrata. Bishop si liberò del collare, con le zampe posteriori raspò proprio sull'orlo della strada soprelevata e precipitò, rimanendo appeso al groviglio di redini e catene, calciando e ragliando come un disperato. Poi, quasi dolcemente, come si svegliasse da un sonno profondo, la terra gialla della strada si scosse. Il movimento iniziò sotto le ruote dei carretti incastrati e gli zoccoli dei muli atterriti e scalcianti, e si trasmise lungo tutto l'argine finché, come per miracolo, nel muro giallo e infangato si aprì una profonda crepa verticale. Si aprì con appena un debole suono di risucchio, come un lattante che poppi al seno materno, ma bastò per zittire gli spettatori che urlavano e cantavano. Di colpo gli unici suoni in tutti gli scavi furono gli scrosci della pioggia e i ragli del mulo appeso. Sul carretto Ralph si levava come la statua di un atleta greco, il manico della frusta buttato all'indietro, i muscoli del collo allentati, la furia svanita dagli occhi verdi per far posto a un'espressione di incredulità: giù giù, sotto i suoi piedi, la terra stava muovendosi. « Ralph! » Questa volta la voce di Zouga gli giunse chiara e
lui si girò a guardar giù nel pozzo e vide le loro facce; vi lesse lo stupore e il terrore. « Scappa! » gridò Zouga. « Allontanati dalla strada! » Ralph gettò via la frusta e saltò giù dal carretto. Aveva di nuovo in mano il coltello. La redine che teneva Bishop, il grosso mulo grigio, era rigida e tesa come una barra di ferro. Si spezzò netta al tocco della lama e la bestia, libera, precipitò giù, agitandosi nell'aria e, mentre gli uomini di sotto si sparpagliavano di corsa, piombò nel fango. Poi, arrancando, la bestia si rimise in piedi e rimase lì a tremare, col ventre immerso nel fango giallo che gli aveva salvato la vita. La terra vibrava come gelatina sotto il piede di Ralph, che tagliava intanto le tirelle che trattenevano gli altri tre muli. Quando questi furono finalmente liberi, li spinse davanti a sé sulla strada, urlando perché galoppassero via. In quel momento, l'intera massa di fango giallo tremò ancora e vacillò, mentre le crepe s'aprivano, e la strada cominciò ad avvallarsi. « Scappa, maledetto idiota! » gridò Ralph all'uomo col quale s'era scontrato e che stava impalato sotto la pioggia guardandosi intorno, con l'incerata lacera che gli sbatteva contro le gambe e la faccia stralunata. « Avanti, scappa! » Ralph lo afferrò per un braccio e lo trascinò via, dietro i muli che s'allontanavano al galoppo. Intanto, una dopo l'altra, le incastellature disposte lungo la strada, alcune con gli enormi secchi ancora appesi alle carrucole, cominciarono a crollare nel pozzo sottostante: il legno si schiantava e le corde s'aggrovigliavano e si spezzavano come fili di cotone. Davanti a Ralph i tre muli raggiunsero il terreno fermo e galopparono via, agitando la coda e scalciando, liberi da ogni carico. La strada vacillò e s'avvallò, così che a Ralph parve di correre su per un'erta salita. Accanto a lui, il vetturale perse l'equilibrio e cadde in ginocchio, quindi cominciò a scivolare all'indietro: si buttò a faccia in giù e allargò le braccia come per avvinghiarsi alla terra. « Alzati! » Ralph si fermò e si chinò su di lui. Dietro di loro la terra brontolava come un animale vorace, sommuovendosi tutta, e c'erano ancora quattordici carretti sulla strada che stava crollando. Una mezza dozzina di vetturali avevano abbandonato i loro tiri e correvano lungo la strada che tremava e si fendeva, ma s'erano mossi troppo tardi. A un certo punto si fermarono, raccogliendosi in un piccolo gruppo. Alcuni di loro caddero a braccia spalancate. Uno, invece, corse verso il bordo e si lanciò nel vuoto. Cadde nel fango del pozzo sottostante e tre operai neri si precipitarono ad afferrarlo e a portarlo in salvo, con una gamba rotta che strisciava dietro di lui. Uno dei carretti carichi, con quattro muli alla stanga, si rovesciò e precipitò, e quando toccò il fondo del pozzo il peso del-
la ghiaia lo fece esplodere in una serie di taglienti schegge di legno bianco, mentre uno dei muli, nero e fangoso, rimasto impalato nella stanga, lanciava urla d'angoscia quasi umane, scalciando come un forsennato e strappandosi i propri visceri dalla gran ferita nel fianco. Ralph sollevò il vetturale spingendolo su per la salita che diventava sempre più erta, ma l'uomo era semiparalizzato dal terrore e impedito dai lembi della pesante incerata che gli sbattevano contro le gambe. Il centro della strada cedette all'improvviso e una trentina di metri di essa crollarono di lato con un tuonante fragore, proiettando, come una gigantesca catapulta, carretti e animali nel pozzo di sotto. Ralph lanciò un'occhiata dietro di sé alla terrificante carneficina e vide che l'intera strada stava cedendo, cominciando da quel punto centrale e avvicinandosi via via a lui, un'irrompente ondata di molle terra gialla simile a un liquido denso e viscido che s'infrangeva con un agghiacciante risucchio. « Avanti, su », gridò Ralph all'uomo che gli si attaccava al braccio. All'improvviso la terra sotto i loro piedi s'inclinò di lato lanciandoli verso il ciglio del pozzo e la salvezza. Corsero in avanti a precipizio, col vetturale che si sosteneva appoggiandosi alla spalla di Ralph. Mancavano una dozzina di passi al terreno fermo e Ralph non si voltò a guardare di nuovo indietro. I rumori spaventosi che giungevano dal pozzo erano già abbastanza snervanti e lui sentiva che un'altra occhiata a quella massa di terra che crollava gli avrebbe paralizzato le gambe. « Avanti », disse ansimando. « Ce la facciamo... Ci siamo quasi. Avanti, su! » Mentre lo diceva, la terra davanti ai loro piedi s'aprì, come spaccata da un colpo d'ascia di un gigante. Si aprì con un forte risucchio, e quella bocca spalancata era profonda trenta metri e larga uno, ma in quei pochi secondi in cui i due vacillarono sul suo ciglio si spalancò ancor più; due metri, due metri e mezzo, poi la strada si piegò di lato: l'ultima convulsione. « Salta! » gridò Ralph. « Salta, amico! » E spinse il vetturale verso quella spaventosa crepa che sembrava spaccare la terra fino al suo centro. L'uomo inciampò perdendo l'equilibrio, agitò freneticamente le braccia per tenersi in piedi, quindi, goffo, saltò al disopra della crepa. I lembi lacerati dell'incerata gli si avvilupparono alle gambe e gli sbatterono intorno al capo. Colpì col petto il ciglio della fenditura, le gambe nel vuoto, e, scalciando disperato, s'aggrappò al bordo fangoso. Ma non aveva presa e, inesorabilmente, cominciò a scivolare all'indietro. Dal canto suo, Ralph sapeva di non avere la possibilità di una rincorsa, doveva saltare da fermo, e lo squarcio s'allargava di secondo in secondo; ora era di tre metri e più, e per giunta l'argine tremante della terra che cedeva rappresentava una piattaforma instabile.
Cadde in ginocchio, si resse puntando un pugno a terra, quindi, come una molla rilasciata di colpo, in un improvviso scoppio di energia, tese gambe e corpo e saltò, in alto, perché nel frattempo la strada s'era abbassata al disotto del livello del ciglio. La forza del salto sorprese persino lui; superò il corpo del vetturale che si dimenava e atterrò su un terreno fermo e solido come una roccia, inciampò per il suo stesso slancio e fece di corsa una mezza dozzina di passi. Dietro di lui il vetturale lanciò un gemito e scivolò indietro di altri centimetri. Intorno alle sue dita piantate adunche a terra s'aprì una serie di crepe più piccole che correvano parallele al ciglio dello squarcio nel terreno. Ralph si girò e tornò indietro di corsa. Si gettò ventre a terra e afferrò il polso del vetturale. Era viscido per il fango e lui capì che non avrebbe potuto trattenerlo a lungo. Guardò giù negli scavi al disopra della testa del vetturale. Assisté così al crollo definitivo della strada: una massiccia frana di terra, in parte fango liquido, mescolata a enormi blocchi di ghiaia compatta che sfregavano l'uno contro l'altro come le fauci di un mostro enorme stritolante uomini e animali. L'intera Strada n. 6 era scomparsa e, da un capo all'altro, sul fondo del pozzo, scure crepe s'aprirono come una grottesca ragnatela. Laggiù, in fondo agli scavi, gli uomini sembravano fragili figure, insetti: le loro grida flebili e senza conseguenze; senza scopo il loro andare su e giù. All'improvviso Ralph riconobbe il padre. Lui solo era rimasto immobile, il capo buttato all'indietro, e anche da quella distanza Ralph sentiva la forza del suo sguardo. « Resisti, ragazzo! » La voce di Zouga giunse flebile al disopra del pandemonio. « Resisti! Stanno arrivando. » Ma sotto il ventre di Ralph la terra brontolava e tremava, impaziente, e il peso del vetturale lo tirò di altri centimetri verso il precipizio. « Resisti, Ralph! » Da laggiù Zouga tendeva le braccia come per superare quella spietata distanza, un gesto più eloquente di qualsiasi parola, un gesto di sofferenza e di amore disperato. Poi, improvvisamente, Ralph sentì delle forti mani afferrargli alle caviglie gli stivali infangati, udì le grida di molti uomini dietro di sé, avvertì il contatto di una corda di manila contro la guancia, vide il cappio pendere davanti al suo viso e, con enorme sollievo, vide anche il vetturale sospeso nel vuoto infilare il braccio libero nel cappio e questo stringersi. Poteva mollare la presa, lasciò scivolar via il polso infangato e strisciò all'indietro ritirandosi dal ciglio. Guardò giù verso suo padre. Erano troppo lontani l'uno dall'altro per vedere le rispettive espressioni. Zouga guardò per un attimo in su, poi di colpo si girò e, allontanandosi a grandi passi, con gesti imperativi ordinò ai suoi matabele di iniziare l'opera di soccorso.
L'opera di soccorso andò avanti per tutto quel giorno. Per una volta tanto, i cercatori furono uniti da uno scopo comune. Il Comitato dei Cercatori chiuse gli scavi e ordinò a tutti di abbandonare anche le zone non disastrate. Le altre cinque strade che non erano crollate furono dichiarate chiuse al traffico e rimasero deserte, alte e minacciose nell'argentea pioggia che continuava a scrosciare. Su ciò che restava della franata Strada n. 6 i soccorritori sciamavano. Erano gli uomini che erano rimasti ad assistere impotenti sul fondo degli scavi, intrappolati dalle scale spazzate via e dal sistema di incastellature crollato. Non c'erano membri del Comitato nella zona della n. 6 e Zouga Ballantyne, grazie alla sua naturale aria di autorità, fu subito accettato come capo. Al momento del crollo aveva notato la posizione dei carretti di ghiaia e dei vetturali sulla strada e così divise gli uomini disponibili in squadre e li mise a scavare nei punti in cui reputava che gli uomini e i veicoli fossero sepolti. Attaccarono così l'infida e informe massa di terra con una passione che era un miscuglio di odio e timore, nonché espressione del proprio sollievo per essere sfuggiti alla mortale cascata di terra gialla. Nella prima ora estrassero degli uomini ancora vivi, alcuni miracolosamente protetti da un carretto capovolto o dal corpo di un mulo morto. Uno di questi sopravvissuti, quando la terra fu spalata via, si alzò in piedi, tremante e senza l'aiuto di nessuno, e fu salutato dai soccorritori con grida isteriche. Tre muli erano sopravvissuti al crollo (e uno di questi era il vecchio e grigio Bishop di Zouga), ma gli altri erano spaventosamente mutilati dai rottami dei carretti. Qualcuno calò dall'alto una pistola e un pacchetto di cartucce e, scivolando e incespicando, Zouga andò da una squadra all'altra e sparò alle povere bestie che giacevano raglianti e scalcianti nel fango. Nel frattempo altre squadre di uomini si davano da fare in alto, a livello del suolo. Sotto la direzione del Comitato dei Cercatori stavano montando scale di corda e incastellature di fortuna per portar su i morti e i feriti. Entro mezzogiorno già poterono cominciare a issare i feriti, legati a tavole di legno e sollevati sui ponteggi provvisori, oscillanti contro l'alta parete del pozzo. Poi cominciarono a trovare i morti. L'ultimo dei dispersi fu rinvenuto ripiegato in posizione fetale nel freddo grembo fangoso della terra. Zouga e Bazo, chini spalla contro spalla sulla bocca dello scavo, afferrarono il polso inerte che sporgeva dal terreno e, unendo gli sforzi, liberarono il cadavere. Venne fuori con un fruscio di viscido fango, come al momento della nascita, ma gli arti del poveretto erano già tesi nel rigor mortis e le occhiaie erano piene di fango. Altre mani sollevarono il cadavere e lo portarono via. Zouga piegò la schiena e mandò un gemito: freddo e stanchezza gli avevano annodato i muscoli.
« Ancora non abbiamo finito », disse, e il giovane matabele annuì. « Cos'altro c'è da fare? » chiese, e Zouga avvertì un impeto di gratitudine e affetto verso di lui. Gli mise una mano sulla spalla e per un attimo entrambi si guardarono con aria grave, quindi Bazo chiese di nuovo: « Cosa c'è da fare? » « La strada è andata. Non ci saranno lavori in queste concessioni, non ci saranno per molto tempo », spiegò Zouga con voce spenta, ritirando con un gesto stanco la mano dalla spalla di Bazo. « Se lasciamo utensili ed equipaggiamento quaggiù, li ruberanno. » Avevano perso il carretto per la ghiaia, il paranco con le pulegge metalliche, della preziosa corda e i secchi per la ghiaia. Zouga sospirò e la stanchezza lo invase come una fredda ondata. Non c'erano soldi per rimpiazzare quel corredo essenziale. « Dobbiamo salvare tutto ciò che possiamo dagli avvoltoi. » Bazo chiamò i suoi uomini nella propria lingua e, lungo l'informe argine di terra crollata dal quale sporgevano pezzi rotti di equipaggiamento e viluppi di corda inzuppata, li condusse verso Le Diaboliche. Nel suo crollo la strada aveva sepolto l'angolo orientale della n. 142, ma il resto delle concessioni erano sgombre. La pressione, tuttavia, aveva aperto una crepa che correva in un profondo zigzag lungo il fondo del pozzo e parte dell'equipaggiamento di Zouga v'era caduta dentro, e lì era rimasta, mezzo sommersa nell'acqua fangosa. Bazo si calò nella fessura e, a tentoni, cercò corde e utensili passandoli poi ai matabele rimasti sull'argine sopra la sua testa i quali, sotto la sorveglianza di Zouga, legarono in fasci gli attrezzi e, barcollando, li portarono all'alto argine orientale, dove aspettarono il loro turno per issarli al livello del suolo per mezzo dell'unica carrucola funzionante. Mentre lavoravano, gli ultimi pallidi raggi del sole forarono la massa di nuvole basse e illuminarono l'enorme pozzo scavato dall'uomo. Sul fondo della crepa, intanto, Bazo trovò l'ultimo piccone mancante e lo passò ai compagni, dopodiché s'appoggiò all'argine per qualche secondo. Sentiva di non aver più la forza di arrampicarsi fuori della profonda crepa. Il freddo gli aveva intirizzito le gambe e ammollato la pelle fino a raggrinzargliela come quella di un affogato. Tremò e poggiò la fronte sul braccio, addossandosi all'argine di terra gialla. Sapeva che se avesse chiuso gli occhi si sarebbe addormentato in piedi. Li tenne aperti con uno sforzo e guardò fisso la terra davanti al suo viso. Un rivolo d'acqua piovana scorreva ancora dall'alto e aveva scavato uno stretto canale largo e profondo pochi centimetri. Quasi tutto il fango era andato via via depositandosi in quel piccolo rivolo, che era infatti limpido, solo d'un lieve colore latteo. A un certo punto del suo corso giù per la parete di fango aveva incontrato un ostacolo e ora ne fluiva in basso formando
una cascatella d'acqua corrente. Di colpo, Bazo sentì sete. Aveva la gola secca e asciutta. Si piegò in avanti e lasciò che il rivolo gli scorresse sulle labbra e sulla lingua, quindi bevve una gran sorsata. Il pallido sole colpiva ora l'argine e, a pochi centimetri dal viso di Bazo, brillò una strana luce. Proveniva, forte e pura e bianca, proprio dal piccolo rivolo dal quale stava bevendo. La guardò per un pò, quindi, a poco a poco, si rese conto che l'ostacolo dal quale l'acqua cascava era un qualcosa incassato nell'argine di ghiaia, un qualcosa che brillava con una luce tremolante al disperso raggio di sole che lo colpiva, un qualcosa che sembrava cambiar forma e sostanza attraverso l'acqua che vi fluiva sopra. Lo toccò con l'indice e la fredda acqua gli corse lungo l'avambraccio e colò giù dal gomito. Cercò di smuoverlo, ma era fermamente incassato e viscido sotto le dita intirizzite, così che la presa non poteva esser forte e sufficiente. Prese il fischietto di corno che portava legato al collo e ne usò la punta per scalzare quello strano oggetto, che alla fine gli cadde nel roseo palmo della mano riempiendolo tutto. Era una pietra, ma una pietra come non ne aveva mai viste prima. La tenne sotto il rivolo d'acqua e col pollice ne scrostò il fango rimasto attaccato finché fu pulita. Quindi la guardò di nuovo, rigirandola incuriosito alla debole luce del sole. Fino a che non era arrivato agli scavi Bazo non aveva mai pensato che delle pietre o delle rocce potessero essere diverse tra loro, non più che una goccia d'acqua potesse differire da un'altra, o una nuvola in cielo potesse essere più preziosa o utile delle sue consorelle. La lingua matabele non distingueva tra un ciottolo di granito e un diamante, entrambi non erano altro che imitsbe. Solo la maniacale ossessione dei bianchi per le pietre lo aveva indotto a guardarle con occhio nuovo. In tutti quei mesi passati a lavorare negli scavi aveva visto molte strane cose e imparato parecchio sui bianchi e sulle loro usanze. Sulle prime non riusciva a capacitarsi, rimaneva incredulo di fronte allo straordinario valore che essi attribuivano alle cose più banali. Che un semplice ciottolo potesse essere scambiato con seicento capi di ottimo bestiame gli sembrava il sogno grottesco di un pazzo, ma alla fine aveva visto che le cose stavano proprio così, e la sua piccola squadra di amadoda era diventata una banda di fanatici raccoglitori di ciottoli. Si avventavano come gazze su ogni pietra lucente o colorata e, fieri, la portavano a Bakela per ricevere la loro ricompensa. Ma questo entusiasmo iniziale era andato scemando rapidamente, perché non c'era né logica né sistema nella mente del bianco. Le più belle pietre venivano scartate con disprezzo. Con un grugnito e uno scuotimento del capo, Bakela restituiva loro delle pietre bellissime, rosse e azzurre, brillanti, mentre a volte, molto di rado per la verità, sceglieva un'insignificante piccola scheggia e consegnava una moneta d'oro a chi, felice, l'aveva trovata.
Sulle prime quella moneta data in pagamento aveva confuso i matabele, ma poi avevano imparato rapidamente. Quei dischetti metallici potevano essere scambiati con qualsiasi cosa uno desiderasse: se se ne possedevano abbastanza si potevano avere un fucile o un cavallo, una donna o un bue. Bakela aveva cercato di spiegare a Bazo e ai suoi matabele come riconoscere le pietre per le quali lui pagava quelle monete. Innanzi tutto erano piccole, mai più grandi di un seme di cratego. Bazo studiò la pietra che aveva ora nel palmo della mano. Era enorme, a stento riusciva a chiudervi intorno le dita. Le pietre che Bakela accettava di solito erano di una certa forma, una forma regolare con otto lati, uno per ogni dito meno i pollici. Quella pietra enorme non aveva quella forma. Aveva un lato liscio, come se fosse stata tagliata con un coltello, e il resto era tondo e levigato con una strana consistenza. Bazo la tenne di nuovo sotto il rivolo e, quando la riavvicinò a sé, la pellicola d'acqua che ne ricopriva la superficie coagulò in tante piccole gocce che corsero via, lasciando la pietra lucente e asciutta. La cosa gli sembrò strana, per di più la pietra non era del colore giusto. Bakela aveva spiegato che dovevano cercare pietre giallo-limone o grigio lucido, magari anche marrone. Quella lì invece sembrava un limpido stagno montano. Poteva vedervi attraverso la forma della propria mano, ed era piena di mobili stelle di luce che, quando la rigirò incuriosito, gli rilanciarono negli occhi quella del sole. No, era troppo grande e troppo bella per essere di valore, decise alla fine. « Bazo! Checha! » Bakela stava chiamandolo. « Vieni, su, andiamo a mangiare e a dormire! » Bazo lasciò cadere la pietra nella borsa di pelle che aveva alla vita e s'arrampicò fuori della crepa. La fila di matabele, guidata da Zouga, stava già allontanandosi arrancando nel fango, ognuno di loro chino sotto un fascio di vanghe e picconi, o uno dei grandi secchi di cuoio o un rotolo di corda inzuppata. « Ha la vita di sei uomini sulla coscienza. Io ero lì. Ho visto tutto. Ha spinto il suo carretto contro quello carico di ghiaia di Mark Sanderson. » Chi accusava era un cercatore alto, con un enorme capo grigio e irsuto, con spalle grosse e una pancia ancora più grossa. Stava montandosi da solo, e Zouga capì che la sua indignazione era contagiosa, la folla cominciava a brontolare e agitarsi inquieta intorno al carro. Il Comitato dei Cercatori stava tenendo una seduta pubblica. Dieci minuti prima aveva costituito una commissione d'inchiesta sul crollo della Strada n. 6. Un carro era stato trascinato al centro di Market Square per fornire alla commissione una piattaforma sulla quale sedere e deliberare, e intorno vi s'era già accalcata una folla di cercatori della Sezione n. 6. Dal crollo in poi nessuno di loro era potuto tornare agli scavi, a lavorare alle concessioni, e ora erano tutti
reduci dal funerale dei sei uomini schiacciati dalla massa di terra gialla. Quasi tutti avevano cominciato la veglia funebre per i loro compagni e avevano con sé delle verdi bottiglie stappate. Mescolati a loro c'erano tutti i fannulloni di New Rush, i mercanti e persino i kopje-wallopers, che avevano chiuso i loro uffici per l'occasione. Quella riunione avrebbe infatti influenzato direttamente il futuro di tutti loro. « Vediamola un pò, questa piccola canaglia », gridò qualcuno ai margini della folla, e subito si levò un minaccioso grugnito di consenso da parte di tutti. « Giusto, vediamola. » Zouga stava accanto all'alta ruota posteriore del carro, bloccato dalla calca di tutti quei corpi. Lanciò un'occhiata a Ralph, che gli era al fianco. Non doveva più guardare dall'alto in basso suo figlio, ormai erano della stessa altezza. « Salgo sul carro e li affronto », disse Ralph in un bisbiglio. Era livido sotto l'abbronzatura e gli occhi verde scuro erano pieni di preoccupazione. Sapeva bene quanto suo padre che la sua situazione era molto grave: sarebbe stato processato da una folla arrabbiata e vendicativa e, per la maggior parte, sbronza. Il crollo della strada aveva distrutto il valore delle concessioni. Non potevano più portarne via la ghiaia; le loro concessioni erano isolate, tagliate fuori, e tutti avevano quindi una gran voglia di incolpare qualcuno e di vendicarsi. E la loro vendetta sarebbe stata brutale. Ralph poggiò una mano sui raggi della ruota, pronto ad arrampicarsi sul carro dove i dodici membri del Comitato erano già in attesa. « Ralph. » Zouga lo fermò con una mano sul braccio. « Aspetta qui. » « Papà... » cominciò a protestare Ralph, sempre con la paura negli occhi verde scuro. « Rimani qui », ripeté Zouga a bassa voce, e saltò agile sul carro. Fece un cenno del capo ai membri del Comitato, dopodiché si voltò ad affrontare la folla. Era a capo scoperto, con la barba dorata illuminata dal sole, e si piantò a gambe larghe con i pugni sui fianchi. « Signori », disse, e la sua voce giunse chiara all'intera folla, « mio figlio ha solo sedici anni. Sono qui per rispondere al suo posto. » « Se è abbastanza grande da uccidere sei uomini, allora é abbastanza grande anche per affrontare di persona la musica. » « Non ha ucciso nessuno », rispose Zouga, gelido. « Se cercate di dare la colpa a qualcuno, allora datela alla pioggia. Scendete nel pozzo e vedrete in che punto ha rotto l'argine. » « Ha cominciato lui lo scontro », ruggì l'irsuto accusatore. « L'ho visto io adoperare la frusta con Mark Sanderson. » « Ci sono litigi su tutte le strade a ogni ora di ogni giorno », ribatté Zouga. « Ho visto proprio lei menar pugni; e prenderle pure, se è per questo. »
Ci fu uno scoppio di risa, un cambiamento di umore, e Zouga ne approfittò. « In nome di tutto ciò che è sacro, signori, non c'è uno tra noi che non desideri proteggere i propri diritti. Mio figlio questo stava facendo, contro un uomo più grande e più forte di lui, e se è colpevole per questo allora lo siete tutti voi. » Piacque a quegli uomini, piacque sentirsi dire che erano inflessibili e indipendenti, fieri di essere pronti a battersi. « Mi state dicendo che un ragazzo con una frusta ha fatto crollare la Strada n. 6 tutto da solo? In tal caso, sono molto fiero che quel ragazzo sia mio figlio. » Risero di nuovo e alle spalle di Zouga, sul carro, il tipo alto, vestito sciattamente, con una fossetta sul mento e gli occhi azzurri, sorrise assorto e mormorò al membro del Comitato accanto a sé: « E' bravo, Pickling ». Aveva adoperato il soprannome di Neville Pickering. « Parla come scrive, vale a dire molto bene. » « No, signori », Zouga cambiò tono. « Quella strada era una trappola mortale, pronta a crollare già prima che il primo carretto di ghiaia l'imboccasse venerdì mattina. La colpa del crollo non è di nessuno, abbiamo solo scavato troppo in profondità e c'è stata troppa pioggia. » Ora annuivano, con espressioni gravi e preoccupate. Zouga proseguì: « Siamo andati troppo in profondità qui a New Rush: a meno che non troviamo un nuovo sistema per portar via la ghiaia dalle nostre concessioni, ci saranno ancora molti altri morti da seppellire ». Zouga abbassò lo sguardo e vide uno dei cercatori farsi largo tra la calca e arrampicarsi sulla stanga del carro. « Ora state a sentire, razza di straccioni », strillò. « Il Comitato dà la parola a mister Sanderson », mormorò con sarcasmo Neville Pickering. « Grazie. » Sanderson si levò la bombetta ammaccata, una raffinatezza che sfoggiava per l'occasione, quindi si rivolse di nuovo alla folla: « Il figlio di Zouga Ballantyne, da grande, sarà uno col quale sarà bene non avere a che fare e, insieme, uno che sarà bene avere al fianco quando sorgono difficoltà ». Si girò e chiamò Ralph: « Sali quassù, giovane Ballantyne ». Sempre pallido e preoccupato, Ralph esitò, ma delle tozze mani lo spinsero avanti e lo sollevarono sul carro. Sanderson dovette alzare il braccio per circondargli la spalla. « Questo ragazzo avrebbe potuto lasciarmi cadere nel pozzo come un pomodoro marcio a farmi spiaccicare sul fondo per l'appunto come un pomodoro. » Emise un rumore vagamente osceno con le labbra per illustrare la propria fine. « Sarebbe potuto scappare e lasciarmi perdere, ma non l'ha fatto. » « Perché è giovane e stupido », gridò qualcuno. « Se avesse avuto giudizio, ti avrebbe dato una spinta, miserabile bastardo. » Si levarono grida di approvazione e scherno.
« Offrirò da bere a questo ragazzo », annunciò Sanderson in tono di sfida. « Sarà un fatto memorabile, non hai mai offerto niente a nessuno. » Sanderson ignorò il commento. « Appena il ragazzo avrà diciotto anni gli offrirò da bere. » La riunione cominciò a sciogliersi in una tempesta di fischi e risate, e i cercatori si avviarono tutti attraverso la piazza alle taverne. Era evidente, anche al più assetato di sangue di loro, che non ci sarebbe stato alcun linciaggio, e dunque quasi nessuno si prese la briga di aspettare il verdetto del Comitato. Era più importante trovare un buon posto al bar. « Il che non significa che noi approviamo il tuo comportamento, giovanotto », disse Pickering a Ralph, in tono grave. « Qui non siamo a Bultfontein o a Dutoitspan. Qui a New Rush cerchiamo di dare l'esempio a tutti i cercatori. In futuro vedi di comportarti come un gentiluomo. Voglio dire, i pugni sono una cosa, ma la frusta... » Sollevò un sopracciglio con aria di sdegno e si rivolse a Zouga: « Se lei ha qualche idea di come faremo a procedere con i lavori nella zona n. 6, ci piacerebbe conoscerla, maggiore Ballantyne ». Hendrick Naaiman si sarebbe definito un « bastaard », e avrebbe adoperato il termine con un profondo senso di orgoglio. Il British Foreign Office, tuttavia, aveva trovato il termine imbarazzante: quella doppia « a » avrebbe potuto incidere sulla proprietà di linguaggio della corrispondenza e dei trattati ufficiali, specialmente se uno di questi trattati fosse stato sottoposto per la firma alla regina Vittoria. E così al gruppo etnico era stato dato il nome di griqua e la terra sulla quale sorgeva New Rush era stata ribattezzata Griqualand West, una definizione che rendeva più facile a Whitehall difendere le rivendicazioni del vecchio Nicholaas Waterboer, il capitano bastaard, su quel territorio contro quelle dei presidenti boeri delle repubbliche del veld, che a loro volta avanzavano diritti su quel territorio come parte dei loro domini. Da notare il fatto che prima della scoperta dei diamanti nessuno, particolarmente la Gran Bretagna, aveva mostrato il minimo interesse per quella pianura arida e desolata, comunque si chiamasse. Nelle vene di Hendrick Naaiman scorreva un ricco miscuglio di sangue di numerose razze che aveva conosciuto. La base di questo miscuglio era costituita dal sangue degli ottentotti, la vigorosa gente dalla pelle dorata e gli occhi scuri che aveva conosciuto i primi circumnavigatori del globo portoghesi quando avevano messo piede per la prima volta sulla lucente sabbia bianca della spiaggia di Buona Speranza. A quello degli ottentotti, poi, s'aggiungeva il sangue delle gialle ragazze boscimane catturate. Piccole creature, vere bambole, la cui attrattiva era costituita solo in parte dalla vellutata
pelle gialla e dai delicati volti triangolari con gli orientali occhi a mandorla e i tratti schiacciati. Per gente che considerava un grosso didietro un segno di bellezza femminile, le natiche delle boscimane erano irresistibili, una doppia e abbondante prominenza che si stagliava come la gobba di un cammello... E che negli aridi deserti del Kalahari serviva allo stesso scopo. A questo miscuglio di sangue si aggiungeva ancora il contributo dei reietti delle tribù fingo e pondo, sottrattisi agli inganni dei loro capi crudeli e dei loro spietati stregoni; e degli schiavi malesi che, fuggiti dai padroni olandesi, avevano trovato la loro strada tra i passi segreti delle montagne che difendono il Capo di Buona Speranza come le mura turrite di un grande castello, e s'erano poi uniti alle bande di griqua nomadi sulle vaste pianure dell'interno. Il miscuglio era poi rafforzato dal sangue delle giovani figlie sopravvissute degli inglesi provenienti dall'India e naufragati e periti sulle infide rocce toccate dalla corrente di Agulhas, le quali erano state prese in moglie ancora in pubertà dai loro salvatori dalla pelle scura. E c'era anche altro sangue nordico, quello dei marinai inglesi arruolati con la forza nella Royal Navy al tempo delle guerre napoleoniche e disperatamente desiderosi di cambiare la dura vita di bordo anche con quella del disertore in una terra selvaggia e deserta come il Sudafrica. Altri ancora erano fuggiti in quel deserto: i detenuti evasi dalle navi trasporto che avevano toccato Buona Speranza per rifornirsi prima del lungo tratto orientale del viaggio verso l'Austrafla e il bagno enale di Botany Bay. Questi erano gli antenati di Hendrick Naaiman. Era un bastaard ed era fiero di esserlo. Aveva riccioli scuri e zingareschi che gli arrivavano fin sul collo della giacca di camoscio e denti quadrati e forti, segnati da piccole macchie bianche per aver sin da bambino bevuto l'acqua ricca di calcare delle sorgenti del Kartú. Gli occhi erano neri come pece e la pelle, color zucchero bruciato, era tutta segnata dalle scure e tonde cicatrici del vaiolo, perché i suoi antenati avevano donato alla tribù molti dei vantaggi della civiltà: polvere da sparo, alcol e più di una malattia esantematica. Nonostante quel viso segnato, Hendrick era un bell'uomo, alto, con spalle larghe, gambe lunghe e muscolose, occhi neri e splendenti e un allegro sorriso. In quel momento stava accoccolato di fronte a Bazo, dall'altra parte del fuoco, con ancora in testa il cappello dalla falda larga. Rideva e parlava, e a ogni suo ampio gesto le piume di struzzo sul cucuzzolo del cappello si muovevano allegre. « Solo il formicbiere e la suricata scavano la terra per nessun'altra ricompensa che una boccata di insetti. » Naaiman parlava fluentemente lo zulu, che era abbastanza simile alla lingua dei matabele perché questi lo seguissero con facilità. « Forse che queste creature pelose e dalla faccia bianca posseggono la terra e tutto ciò che c'è sotto e sopra? Cosa sono, creature ma-
giche, dèi del cielo, che possono dirvi: 'Io posseggo ogni pietra della terra, ogni goccia d'acqua degli...' » S'interruppe perché stava per dire « oceani », ma sapeva che i suoi ascoltatori non avevano mai visto il mare. « ' ... Ogni goccia d'acqua dei fiumi e dei laghi? » Il bastaard scosse il capo, così che i riccioli gli si agitarono sulle guance. « Io vi invito a far caso a come, quando il sole gli brucia la pelle, la carne rossa che s'intravede sia la stessa carne, dello stesso colore della vostra o della mia. Se li considerate dèi, allora annusategli il fiato la mattina o guardateli accovacciati sopra la fossa della latrina. Fanno allo stesso modo vostro e mio, amici. » Il circolo di negri ascoltava affascinato, perché non avevano mai sentito idee del genere espresse ad alta voce. « Hanno i fucili », osservò Bazo. E Hendrick scoppiò a ridere, ironico. « I fucili », ripeté, e batté con le dita sull'Enfield che aveva in grembo. « Io ho un fucile, e quando avrete concluso il vostro contratto anche voi avrete un fucile. Allora siamo anche noi dèi, voi e io. E allora possediamo anche noi le pietre e i fiumi. » Astutamente, il bastaard diceva « noi » e « nostro » invece di « io » e « mio », sebbene disprezzasse quei selvaggi neri e nudi quanto qualsiasi intollerante cercatore di New Rush. Bazo tolse il tappo al corno che portava al collo e si versò un pò della sottile polvere rossa che conteneva sul palmo roseo della mano, palmo ancora segnato dall'opera di soccorso alla Sezione n. 6. Si tappò una narice col pollice e con l'altra aspirò profondamente la polvere, prima a destra e poi a sinistra, quindi si raddrizzò nella persona e sbatté deliziato le palpebre, mentre gli si formavano lacrime di estasi; poi passò il corno a Kamuza » suo cugino, che gli sedeva accanto. Hendrick Naaiman aspettò con la pazienza di un vecchio africano che il corno completasse il giro e arrivasse fino a lui. Prese un pizzico in ogni narice e buttò il capo all'indietro e starnutì nel fuoco, quindi rimase in silenzio, aspettando che Bazo parlasse. Il matabele fissò pensieroso le braci e osservò i demoni formarsi e scomparire, facce e figure di strani uomini e bestie, gli spiriti delle fiamme. Desiderò che lo consigliassero. Alla fine sollevò lo sguardo sull'uomo dall'altra parte del fuoco e, ancora una volta, studiò gli stivali con i lacci ai suoi piedi, i pantaloni di buon velluto, il coltello d'acciaio di Sheffield alla cintola, il panciotto ricamato di bella stoffa di velluto e il vistoso fazzoletto di seta alla gola. Era senza dubbio un uomo importante. E un furfante. Non si fidava di lui. Quasi gli sentiva addosso l'odore dell'inganno. « Perché un gran capo, un uomo di valore come te, viene a dirci queste cose? » « Bazo, figlio di Gandang », esordì Hendrick con voce profonda, « stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato che sotto il pavimento della tua capanna erano seppellite certe pietre. »
Per un attimo, gli occhi di tutti i guerrieri matabele si trasferirono dal viso di Hendrick al pavimento di terra battuta in fondo alla bassa e fumosa capanna dal tetto di paglia, la zona più buia di quella stanza circolare, e Hendrick represse il sorriso che stava affiorandogli alle labbra. I tesori venivano sempre sepolti sotto il pavimento della capanna, sul quale la notte stendevi la stuoia e potevi custodirlo anche nel sonno; non era dunque difficile indovinare dove fosse il nascondiglio, l'unico problema era se la squadra di matabele aveva già imparato il valore delle pietre e cominciato a raccogliere le proprie, come faceva ogni altra squadra lì agli scavi. Quegli sguardi furtivi erano la risposta all'interrogativo, ma il bastaard non tradì la propria soddisfazione, continuò con calma: « Nel mio sogno ho visto che venivi ingannato, che quando portavi le pietre al bianco, a Bakela, lui ti dava una sola moneta d'oro con sopra la testa della regina ». Il bel viso largo di Hendrick s'abbuiò di malinconia. « Amico mio, sono venuto ad avvertirti. A impedire che t'ingannassero. A dirti che c'è un uomo disposto a pagarti il vero valore delle tue pietre e che avrai così un bel fucile nuovo, un cavallo con la sella e un sacchetto di monete d'oro. Tutto ciò che desideri sarà tuo. » « Chi è quest'uomo? » chiese Bazo, cauto, e Hendrick allargò le braccia e per la prima volta sorrise. « Sono io. Hendrick Naaiman, tuo amico. » « Quanto darai? Quante regine bianche per le pietre? » Hendrick si strinse nelle spalle. « Devo prima vedere le pietre. Ma una cosa ti prometto: sarà molto, molto di più della sola moneta che ti darà Bakela. » Di nuovo Bazo tacque. « Ho una pietra », ammise alla fine. « Ma non so se ha lo spirito che cerchi tu, perché è una strana pietra, come nessun'altra che ho visto. » « Fammela vedere, mio vecchio amico », l'incoraggiò Hendrick con un bisbiglio. « Ti consiglierò come un padre consiglia il suo figlio preferito. » Bazo prese il corno e se lo girò e rigirò tra le dita, assorto; i suoi tratti regolari sembravano intagliati nell'ebano. « Vai », disse alla fine. « Ritorna quando la luna cala. Vieni solo, senza fucile e senza coltello. E sappi che uno dei miei fratelli ti sarà sempre alle spalle pronto a trafiggerti con la lama del suo assegai se solo t'azzardi a pensare qualcosa d'infido. » Quando Hendrick Naaiman entrò a quattro zampe per la porta bassa, era di nuovo mezzanotte; il fuoco era ridotto a un mucchietto di braci e, alla luce della lanterna che recava con se, il fumo creava grigi fantasmi e le lame nude delle corte lance lampeggiavano azzurre e minacciose nell'ombra. Il bastaard o griqua quasi sentiva l'odore del sudore nervoso degli uomini che stringevano quelle armi terribili, e nei bui recessi della capanna sembrò che frusciassero le ali da avvoltoio
della morte. Sapeva come gli fosse da presso quella oscura presenza, perché gli uomini spaventati sono pericolosi. Faceva parte del suo mestiere quella minaccia sempre presente di morte, e tuttavia non riusciva mai ad abituarcisi. Quando salutò Bazo, avvertì il tremito della propria voce. Il giovane matabele sedeva come l'ultima volta che lo aveva visto, rivolto verso la porta della capanna, le spalle protette dallo spesso muro di fango e l'assegai al fianco, l'asta già pronta in mano. « Siedi », disse al griqua, e Hendrick gli si accoccolò di fronte. Bazo fece un cenno del capo a due dei suoi uomini e quelli sgusciarono via silenziosi come leopardi in caccia per andare a montare la guardia sotto la luce delle stelle, mentre altri due s'inginocchiavano alle spalle di Hendrick con gli assegai nella mano destra, le punte a pochi centimetri appena dalla sua spina dorsale percorsa da fremiti. Fuori, nella notte, si udì lo strano richiamo del caprimulgo, « Uuh-Uuh »: chiaramente il segnale che Bazo aspettava; uno dei suoi matabele lo rassicurava: nessuno li osservava. Hendrick Naaiman scosse il capo in segno d'approvazione, il giovane matabele era abile e cauto. Bazo sollevò da terra e si mise in grembo un piccolo involto di stracci sui quali era ancora attaccato, a piccole chiazze giallastre, del terriccio. Lo svolse rapidamente e, sporgendosi sopra il fuoco di braci, piazzò il contenuto dell'involto nelle mani che Hendrick porgeva. Il grosso griqua rimase paralizzato, con le mani a coppa davanti al viso, gli scuri tratti segnati dal vaiolo tesi in un'espressione d'incredulità ed estremo stupore. Poi le dita presero a tremargli leggermente e, lesto, piazzò la grossa pietra brillante sul pavimento di terra battuta, come se gli bruciasse le mani; ma mentre poi, immobile, la guardava, gli occhi scuri sembrarono sul punto di uscirgli dalle orbite. Nessuno parlò o si mosse per quasi un minuto, poi il griqua si scosse come se si svegliasse da un profondo sonno; intanto i suoi occhi non s'erano mai staccati da quella pietra. « E' troppo grossa », bisbigliò in inglese. « Non è possibile. » Poi, di colpo, ebbe fretta. Prese la pietra e, stringendola, immerse la mano fino al polso nella zucca di acqua da bere che era accanto al fuoco; quindi, levandola in alto alla luce della lanterna, osservò l'acqua scorrer via dalla grossa pietra, come se fosse ingrassata, come se fosse una piuma d'anatra selvatica. « Per il sangue vergine di mia figlia », bisbigliò di nuovo, e gli uomini che stavano osservandolo si agitarono nel buio. Aveva trasmesso loro la propria emozione. Fece per ficcare la mano nella tasca della giacca di camoscio e immediatamente la punta dell'assegai lo punse dietro l'orecchio. « Digli che non ho brutte intenzioni! » borbottò, e Bazo fece cenno con il capo. La punta dell'assegai s'allontanò e il griqua cavò di tasca un frammento di vetro verde scuro e curvo, una
grossa scheggia di bottiglia di champagne raccolta nel veld dietro qualche bettola. La poggiò a terra e la schiacciò in modo che le punte entrassero nel pavimento di terra battuta. Poi per qualche attimo esaminò attentamente la pietra: un lato era tagliato di netto e aveva un bordo molto affilato. Poggiò lo spigolo tagliente della pietra contro il piano curvo e verde del frammento di bottiglia, quindi schiacciò con tutta la forza del braccio destro e mosse la pietra contro il vetro. Ci fu un fruscio stridente e sotto lo spigolo della pietra brillante, sul vetro verde, apparve un profondo solco bianco. La pietra aveva tagliato il vetro come un coltello rovente taglia il burro. Pieno di riverenza, il griqua si piazzò la pietra di fronte, sul pavimento nudo, e quella sembrò fremere di vita propria al gioco della luce sulle sue limpide profondità, che parevano mandar riverberi color viola e verde e rosso fiammeggiante. La voce gli venne meno, la gola gli si chiuse, il griqua riusciva a stento a respirare perché l'avidità gli stringeva il petto in una morsa di ferro. Gli occhi, però, gli brillavano come quelli di una volpe al riverbero delle braci. Hendrick Naaiman conosceva i diamanti come un fantino conosce un buon cavallo o un sarto una buona stoffa di tweed. I diamanti erano il suo sale e il suo pane, il suo stesso fiato, sicché capì subito che lì davanti a lui, sul pavimento di terra battuta di quella piccola capanna dal tetto di paglia e piena di fumo, c'era qualcosa che un giorno avrebbe fatto parte del tesoro di un grande re. Era già leggenda: qualcosa che solo un re poteva acquistare, qualcosa il cui valore, convertito in sterline o dollari d'oro, avrebbe sbalordito anche un uomo ricco. « Questa pietra ha lo spirito che tu cerchi? » chiese Bazo, calmo; e il griqua dovette deglutire prima di rispondere: « Ti darò cinquecento regine d'oro per questa pietra ». Aveva la voce rotta, come se fosse in preda a chissà quali dolori. Quelle parole colpirono il gruppo di matabele come il vento dell'est che soffia dal mare e si abbatte sulle foreste di Tzikhama, e così dondolarono e strusciarono i piedi per terra per lo stupore. « Cinquecento! » ripeté Hendrick Naaiman. « Con le quali potrete comprare cinquanta fucili e molto bestiame. » « Dammi la pietra », ordinò Bazo, e allorché il griqua esitò fu punto di nuovo dall'assegai, così che ebbe un sobbalzo. Bazo prese la pietra e la fissò assorto, quindi mandò un sospiro. « E' una faccenda seria », disse. « Devo pensarci sopra. Ora vai e ritorna domani alla stessa ora. Avrò una risposta per te. » Nella buia capanna il silenzio durò a lungo anche quando il griqua se ne fu andato via. Lo ruppe alla fine Kamuza. « Cinquecento pezzi d'oro », disse. « Ho desiderio, intenso desiderio, di rivedere le colline di Matopos. Ho desiderio del dolce latte delle greggi di mio padre. Con cinquecento regine
d'oro potremmo lasciare questo posto. » « Sai cosa fanno i bianchi a quelli che rubano queste pietre? » chiese Bazo a bassa voce. « Non appartengono a loro le pietre. Il bastaard ci ha detto... » « Non importa quello che ha detto il bastaard, se i bianchi ti prendono sarai un matabele morto. » « Un uomo l'hanno bruciato vivo nella sua capanna. Dicono che mandasse un odore simile a quello di una coscia di facocero arrostita », mormorò uno dei matabele. « Un altro l'hanno legato per i piedi e trascinato dietro a un cavallo al galoppo fino al fiume. Alla fine non sembrava più un uomo. » Per un pò pensarono a queste atrocità, ma non ne erano particolarmente colpiti perché avevano già visto uomini bruciare vivi. Durante una razzia di bestiame nell'est del Matabeleland il loro reggimento aveva dato la caccia a duecento mashona, tra uomini, donne e bambini, che s'erano rifugiati nella miriade di caverne dei kopie, sopra il loro villaggio. Sarebbe stato un compito lungo e tedioso stanarli dal ventre delle colline, così davanti a ogni ingresso dei passaggi sotterranei avevano ammassato rami di mopani e vi avevano dato fuoco. Alla fine alcuni mashona erano corsi fuori attraverso le fiamme, torce vive e urlanti. « Il fuoco è una brutta maniera di morire », disse Kamuza, sturando il proprio corno. « E cinquecento pezzi sono un bel pò d'oro », osservò uno dei suoi amici dall'altra parte del fuoco. « Un figlio ruba i vitelli dalla mandria del padre? » chiese Bazo rivolto a loro, che ora, sì, apparvero turbati. Per i matabele le grandi mandrie di bestiame erano la ricchezza della nazione e le dure leggi che governavano la gestione di quelle mandrie essi le apprendevano sin da quando erano ragazzi, durante il mujiba, l'apprendistato alla pastorizia. « C'è la morte anche se si beve il latte della vacca di un altro », rammentò Bazo, e tutti ricordarono come avevano corso quel rischio almeno una volta nella solitudine della boscaglia, schizzandoselo in bocca direttamente dalla mammella così che gli colava giù per il mento sul petto nudo, rischiando la vita per un pò di dolce latte bianco. « Non si tratta di un vitello », osservò Kamuza, « ma di una semplice pietra. » « Gandang, che è mio padre, considera il bianco Bakela suo fratello. Se prendo qualcosa a Bakela, sarà come prenderla a mio padre. » « Se tu porti questa pietra a Bakela, lui ti darà una sola moneta. Se la dai al bastaard, lui te ne darà cinquecento. » « E' una faccenda seria », ammise Bazo. « Ci penserò sopra. » E rimase solo a lungo, dopo che tutti gli altri s'erano stesi a dormire sulle loro stuoie sotto i kaross di pelliccia, chino sul fuoco morente, con il grande diamante che gli bruciava, gelido,
nella mano destra. Quel lunedì mattina tre uomini giunsero a cavallo all'accampamento di Zouga, che uscì fuori della tenda per andargli incontro a testa nuda sotto il sole. Guidava il gruppo Neville Pickering, che quando scese di sella disse: « Spero che non la disturbiamo, maggiore, ma vorrei farle conoscere dei miei amici ». « Conosco mister Hayes. » Zouga strinse la mano all'alto e dinoccolato ingegnere texano, quindi si rivolse al terzo cavaliere. « E naturalmente conosco mister Rhodes, di vista e di fama. » La mano di Rhodes era fredda e asciutta, con le nocche grosse e sporgenti. Dava un'impressione di forza, anche se la stretta fu breve e leggera. Zouga incontrò lo sguardo dei suoi occhi azzurri, che erano allo stesso livello dei suoi. L'uomo era alto e sorprendentemente giovane; doveva avere poco più di vent'anni, molto giovane per essersi già guadagnato una così grande reputazione. « Mister Rhodes. » Nessuno, neppure Pickering, lo chiamava per nome. Dicevano che firmasse persino le lettere alla madre: « Tuo affezionatissimo figlio, C.J. Rhodes ». « Maggiore Ballantyne. » Zouga fu di nuovo sorpreso perché Rhodes aveva una voce stridula. « Sono lieto di conoscerla alla fine. Naturalmente ho letto il suo libro e avrei parecchie domande da farle. » « Jordan, prendi i cavalli », disse Zouga, e condusse i suoi ospiti verso la scarsa ombra del cratego. Ma quando Jordan obbediente all'ordine del padre, uscì di corsa dalla tenda, Rhodes si fermò. « Buongiorno, giovane Jordan », disse, e il ragazzo si fermò di colpo e lo guardò ammutolito, cominciando ad arrossire, strabiliato che il suo eroe lo riconoscesse e gli si rivolgesse chiamandolo per nome. « Vedo che ora ti dai alla lettura e non fai più a pugni. » Nella fretta, Jordan aveva ancora in mano un libro. Rhodes si chinò e glielo tolse di mano. « Santo cielo... » esclamò. « Plutarco! Hai dei gusti raffinati per essere così giovane. » « E' un libro affascinante, signore. » « Altroché, è uno dei miei preferiti. Hai letto Gibbon? » « No, signore », disse Jordan in un timido bisbiglio. Il rossore stava cedendo il posto a un vago color rosa. « Non so dove potrei trovarne una copia. » « Te ne presterò io una quando hai finito questo. » Restituì la copia sciupata delle Vite di Plutarco. « Sai dov'è il mio campo? » « Oh, sì, mister Rhodes. » Ogni giorno Jordan, al ritorno dalle lezioni nella chiesa, faceva una deviazione per passare davanti al campo di tende e ca-
panne dal tetto di paglia che Pickering e Rhodes tenevano in un disordine da scapoli. Due volte aveva intravisto da lontano il suo idolo e ogni volta era stato preso dalla timidezza e aveva tirato dritto. « Bene. Vieni a trovarmi quando sarai pronto. » Studiò per un attimo ancora il viso angelico del ragazzo, dopodiché si girò e seguì gli altri all'ombra dell'albero. C'erano delle cassette vuote e dei ceppi su cui sedersi, e i quattro finirono col sistemarsi in circolo, Zouga fu contento che fosse troppo presto per offrire ai suoi ospiti da bere. Aveva a malapena i soldi sufficienti per comprare da mangiare alla famiglia, non poteva quindi permettersi una bottiglia di whisky che, immaginava, in quella compagnia non sarebbe durata a lungo; tutti e tre i suoi ospiti erano buoni bevitori. Sorseggiarono il caffè e si scambiarono notizie su New Rush prima che Pickering tirasse fuori il vero motivo della loro visita. « Ci sono due progetti per rimettere la Sezione n. 6 in grado di lavorare », disse. « Il primo è la rampa... » « Io sono contro », disse Rhodes, brusco, con impazienza. « Entro pochi mesi saremmo punto e daccapo con lo stesso problema. Si è scavato troppo in profondità. » « Sarei d'accordo con mister Rhodes », disse Hayes, l'ingegnere. « Nel migliore dei casi sarebbe una soluzione solo temporanea. Dopodiché anche questa rampa crollerebbe. » « L'idea del maggiore Ballantyne è l'unica degna di considerazione », intervenne ancora Rhodes, e Zouga fu colpito dal modo in cui quell'uomo tagliava ogni discussione inutile per venire subito al punto. « L'idea di costruire delle impalcature all'estremità degli scavi è l'unica che risolve il problema della profondità. Hayes, qui presente, ha eseguito dei disegni. » L'ingegnere srotolò i disegni che aveva portato con sé e li stese sul terreno polveroso ai suoi piedi, fermandone gli angoli con dei ciottoli diamantiferi provenienti dal mucchio di residui che s'erano sparsi per tutto il campo di Zouga e minacciavano di ricoprirlo per intero. « Ho preso in considerazione una soluzione a vari stadi. » Hayes cominciò a spiegare progetti in termini tecnici, e gli altri si avvicinarono di più e si chinarono sui disegni. « Dovremo usare degli argani a mano, o forse dei verricelli azionati da cavalli, fino a quando non avremo una macchina a vapore per il carreggio. » Discussero la cosa con calma, facendo domande pertinenti. Non ci fu spreco di parole, nessuna ripetizione, e la discussione procedé rapida. Le impalcature dovevano essere costituite da ponteggi eretti ai bordi del pozzo e avrebbero ospitato gli argani per il sollevamento del materiale. « Dovremo usare dei cavi d'acciaio. Le corde di canapa non sono sufficienti », disse Hayes. « Ci sarà un cavo singolo per ogni singola concessione. Una quantità di cavo, quindi. » « Quanto tempo ci vuole per averlo? »
« Due mesi da Città del Capo. » « Quanto costerà? » Zouga pose la domanda che gli aveva bruciato le labbra periutta la mattinata. « Più di quanto ognuno di noi possa permettersi », disse Pickering, sorridendo. Un uomo con mille ghinee in tasca era un uomo ricco a New Rush a quell'epoca. « Ciò che non possiamo permetterci è di non farlo », gli rispose Rhodes, senza sorridere. « E quei cercatori che non possono permettersi la loro parte del costo delle impalcature? » insisté Zouga, e Rhodes si strinse nelle spalle. « O troveranno i soldi o non avranno il cavo fin giù nella loro concessione. D'ora in poi ci vorrà del capitale per lavorare una concessione a New Rush. » « Quelli che non lo hanno dovranno vendere. Tutto qui. » « Dal crollo in poi il prezzo delle concessioni, lì al n. 6, è sceso a cento sterline », disse Zouga. « Chiunque vende adesso avrà un brutto colpo. » « E chiunque compra a cento sterline compie un delitto », gli rispose Rhodes, e distolse lo sguardo dei suoi occhi azzurri dai progetti di Hayes. Per un attimo ricambiò quello di Zouga. Stava dando un consiglio, si rese conto questi, rimanendo impressionato dalla forza e dalla determinazione che erano concentrati in quello sguardo. Non si chiese più perché uno così giovane godesse di tanto rispetto lì agli scavi. « Siamo tutti d'accordo, allora? » chiese Rhodes. Con meno di venti sterline in tasca, e le sue concessioni tagliate fuori a venticinque metri sotto il livello del suolo e parzialmente coperte dalla terra franata con il crollo della strada, Zouga esitò. « Maggiore Ballantyne. » Stavano tutti guardando lui. « Ci sta? » « Sì », Zouga annuì, deciso. « Ci sto. » I soldi li avrebbe trovati da qualche parte e in qualche modo. Tutti trassero un sospiro e Pickering s'abbandonò a una risatina. « Non è mai facile puntare tutto su una carta », disse. Aveva capito. « Pickling, non ho sentito qualcosa tintinnare nella sacca della tua sella quando sei smontato? » chiese Rhodes, e Pickering rise di nuovo e andò a prendere la bottiglia. « Cordon Argent », disse, stappandola. « Quello che ci vuole per un'occasione come questa, signori. » Buttarono via i resti del caffè dalle loro tazze e le porsero per ricevere la loro parte di cognac. « Alle impalcature della n. 6. Che vengano presto impiantate e che resistano a lungo! » brindò Pickering. Tutti bevvero. Hayes si asciugò i baffi col dorso della mano e s'alzò. « Appronterò i calcoli perché partano con la corriera di mezzogiorno di domani », disse, e s'affrettò verso il suo cavallo. Quelli che lavoravano per Rhodes avevano sempre fretta. Pickering e Rhodes non si mossero.
Rhodes invece allungò le gambe, nei pantaloni da cricket di flanella bianca macchiati, incrociò gli stivali impolverati e, contemporaneamente, porse la propria tazza a Pickering. « Mi dannino se non abbiamo qualcos'altro da celebrare oggi », disse mentre Pickering versava il cognac nelle loro tazze. « L'Avanzata dell'Impero », suggerì Pickering. « L'Avanzata dell'Impero », ripeté Rhodes, e quando sorrise gli si approfondì la fossetta sul mento e la linea malinconica delle labbra piene sotto i bei baffi si distese. « Neppure quell'orribile creatura che è Gladstone è riuscita a fermare la marcia dell'Impero verso nord attraverso l'Africa. Il Foreign Office alla fine s'è mosso. I griqua saranno riconosciuti come cittadini britannici e la richiesta di Waterboer è stata accolta. Griqualand West diventerà parte della Colonia del Capo e dell'Impero. Abbiamo l'assicurazione di Lord Kimberley al riguardo. » « E' una magnifica notizia », osservò Zouga. « Crede? » Gli occhi azzurri cercarono quelli di Zouga. « Senz'altro », disse Zouga. « C'è un solo modo per portare pace e civiltà in Africa, ed è con l'Union Jack. » Immediatamente ci fu una distensione nel rapporto tra i tre uomini, un tacito accordo, così che, senza muoversi, parvero avvicinarsi di più l'uno all'altro. « Siamo la prima nazione del mondo e non fare il proprio dovere sino in fondo è indegno di noi », proseguì Zouga, e Rhodes annuì. « Abbiamo distrutto la schiavitù su questo continente, ed è stato soltanto l'inizio. Solo quando si son viste le condizioni che ancora esistono al nord, la ferocia e la barbarie, solo allora ci si rende conto di quanto impegnativo sia questo dovere. » « Mi parli dell'hinterland », disse Rhodes con quella sua voce sottile, quasi querula, che contrastava tanto con la sua costituzione robusta. « L'hinterland. » Era un termine insolito, ma Zouga finì per adoperarlo nella sua descrizione delle regioni selvagge attraverso le quali aveva viaggiato e cacciato. Rhodes sedeva su un ceppo per il fuoco, l'irsuta testa leonina china in avanti, silenzioso, gli occhi lesti e attenti, e ascoltava quasi con religiosità, scuotendosi solo di tanto in tanto, sollevando il capo per fare una domanda e abbassandolo poi di nuovo per ascoltare la risposta. Zouga parlò dei grandi fiumi lenti che scorrono nelle loro profonde valli, sui cui banchi crescono i cream ol tartar trees, i cosiddetti alberi di cremor-tartaro, e nelle cui verdi acque poco profonde branchi di ippopotami sfidano il viaggiatore spalancando le grandi fauci rosee e mostrando le curve zanne bianche. Descrisse le mortali paludi malariche e le vaste distese di papiro, ondeggianti come ballerini da un orizzonte all'altro, sulle quali il cielo sembrava premere e schiacciare il mondo sotto una pesante coperta blu densa di vapori, e parlò del sollievo provato ad arrampicarsi su per le erte scarpate rocciose sino ai freschi altopiani con le loro distese di erba dorata.
Con le parole mostrò loro i vasti spazi vuoti, le pianure percorse dai branchi di animali selvatici, le fresche e verdi foreste di alti alberi, i corsi di acqua dolce ai quali l'uomo poteva attingere e abbeverare le proprie mandrie. Parlò degli svaniti regni di re defunti da tempo, quello del Mambo e del Monomotapa, che avevano costruito città di massiccia pietra verde abbandonandole poi alla vegetazione selvatica; dei loro idoli abbattuti e frantumati; delle fondamenta delle mura minacciate dalle contorte e grige radici, grosse come pitoni, del fico selvatico, che trovavano i punti di giunzione nella muratura e inesorabilmente la spaccavano. Disse loro dei pozzi minerari quadrati che quelle genti scomparse avevano scavato nella matrice e poi abbandonato, lasciando l'aurifero quarzo là dove l'avevano accumulato prima di fuggire. « Oro », disse, « visibile e con la densità del burro. Abbandonato là nella boscaglia. » Parlò delle genti, di quelli che restavano dei sudditi dei re monomotapa, decimati dalle guerre. Parlò loro dei conquistatori, i matabele, delle crudeli legioni provenienti dal sud che chiamavano le tribù subordinate « bestiame » e, sprezzantemente, « mashona: mangiatori di lordure », prendendoli come schiavi, uccidendoli per sport, per provare la propria virilità o semplicemente per un capriccio del re. Descrisse la ricchezza dei matabele, le loro sterminate mandrie di bestiame, decine e decine di migliaia di bestie magnifiche, di lucidi tori gibbuti i cui antenati venivano dall'Egitto e dalla terra tra il Tigri e l'Eufrate, grossi animali dalle lunghe zampe, dalle grosse corna e dalla pelle di ogni colore, dal nero uniforme al più puro bianco. Disse loro delle caverne profonde e segrete nelle colline, in cui i sacerdoti dei re scomparsi ancora si abbandonavano ai loro misteri e ancora sostenevano l'oracolo, tessendo una sottile rete di stregoneria e magia che avvolgeva persino i loro fieri e arroganti signori matabele. Poi, mentre il giorno moriva e il sole cominciava a calare dietro una fiammeggiante cortina di polvere rossa, Zouga parlò loro dei kraal dei matabele, degli impi, i reggimenti addestrati a essere la più spietata macchina per uccidere che l'Africa avesse mai prodotto, guerrieri che si precipitavano scalzi nella battaglia dietro i loro alti scudi di pelle non conciata, con le piùme che ondeggiavano sulle scure teste e il luccichio dei loro assegai che illuminava le pianure come le stelle illuminano il cielo notturno. « Come li combatterebbe, Ballantyne? » Rhodes sparò la domanda all'improvviso, bloccando Zouga in pieno slancio lirico. Si guardarono per un istante; ma fu un istante carico di portento, un istante che mise in gioco la vita di molte migliaia di uomini, bianchi e neri. Poi, lentamente, il braccio della bilancia scese da una parte e il destino di un continente si mosse, come un infuocato pianeta che cambi orbita nell'universo.
« Io colpirei al cuore », disse Zouga, e di botto i verdi occhi gli divennero gelidi. « Una piccola forza mobile di uomini a cavallo... » « Quanti uomini? » Improvvisamente si trovarono a parlare di guerra, mentre il sole calava dietro la pianura impolverata color viola e porpora, lasciando sinistre ombre intorno al piccolo gruppo sotto il cratego. Jan Cheroot gettò dei ceppi sul fuoco e loro rimasero lì, alla luce vacillante, a parlare di oro e guerra, diamanti e oro e guerra, impero e guerra, e le loro parole evocavano nella notte colonne di uomini armati a cavallo, scuri fantasmi che cavalcavano nel futuro. All'improvviso Zouga s'interruppe a metà di una frase e cambiò espressione, come se nelle ombre sotto il cratego avesse visto un fantasma o riconosciuto un vecchio nemico implacabile. « Cosa c'è, Ballantyne? » chiese bruscamente Rhodes, girando il capo di scatto per seguire la direzione dello sguardo di Zouga. Contro il tronco dell'albero si levava, alta e verde, la statua di steatite dell'uccello. Passata inosservata fino allora, nascosta dal groviglio di finimenti e altro che pendeva dai rami intorno a essa, l'improvvisa caduta e il fiammeggiare di uno dei ceppi che bruciavano l'aveva illuminata di repentina e drammatica luce. Si levava più alta degli uomini lì seduti e sembrava presiedere alla loro riunione, ascolando e ispirando i discorsi sull'oro e sul sangue. La testa del falco, antica come il male, antica come le colline della terra remota dalla quale era stata portata via, ricambiava lo sguardo di Zouga con occhi vuoti che non vedevano e tuttavia erano onnivedenti. La crudele punta del becco sembrava sul punto di aprirsi per emettere il grido di caccia del falco... O per affondare nella carne viva. Parve allora a Zouga che nel buio che sovrastava la statua ancora risuonassero, librandosi come cose vive tra le ombre, le parole della profezia pronunciate tanto tempo prima in quelle profonde caverne delle colline di Matopos dalla bella strega nuda che era la Umlimo dei monomotapa: I falchi di pietra... Voleranno lontano.... Non ci sarà pace nel regno dei mambo o dei monomotapa finché essi non torneranno. L'aquila bianca continuerà a combattere contro il toro nero finché i falchi di pietra non si poseranno di nuovo. Zouga udì di nuovo nel ricordo quelle parole, pronunciate da quella voce vellutata, ed esse parvero riecheggiargli nel capo e riempirgli gli orecchi. « Cosa c'è, mio caro amico? » Pickering ripeté la domanda, e a Zouga un fremito corse lungo la schiena e la pelle gli si accapponò, e quando venne il brivido fu come una liberazione.
« Niente », rispose, roco. « Non è niente. » Ma rimase a fissare immobile la statua, e Rhodes seguì il suo sguardo. « Per Giove. Quello non è l'uccello di cui ha scritto nel libro? » Rhodes si alzò di scatto. A passi rapidi si avvicinò alla statua e vi rimase fermo davanti in silenzio per un lungo momento, poi allungò un braccio e toccò la testa. « Che opera straordinaria », disse a bassa voce, e s'inginocchiò per esaminare il disegno a forma di dente di pescecane inciso sulla sua base. In quella posizione sembrava un adoratore, un sacerdote che officiasse uno strano rito davanti all'idolo. Di nuovo Zouga sentì accapponarglisi la pelle, quella superstiziosa impressione che degli insetti gli camminassero addosso, e per rompere l'indugio chiamò ad alta voce Jan Cheroot e gli disse di portare una lanterna. Alla luce di questa, poi, esaminarono a lungo la lucida pietra verdastra, e quando Rhodes vi passò sopra la grossa mano dalle grandi nocche la sua espressione era rapita, lo sguardo in quegli strani occhi chiari remoto, come quello di un poeta che senta parole echeggiargli in testa. Dopo che Pickering e Zouga furono ritornati a sedersi, Rhodes rimase a lungo sotto il cratego col falco; e quando alla fine li raggiunse il tono della sua voce era pieno di accusa: « Quell'affare è un tesoro, Ballantyne. E' imperdonabile lasciarlo abbandonato così, sotto un albero ». « E' stato in condizioni peggiori per centinaia, forse migliaia di anni », ribatté Zouga, brusco. « Ha ragione. » Rhodes sospirò, la sua attenzione attratta di nuovo dall'uccello. « E' suo, può farne quello che vuole. » Poi, d'impulso, aggiunse: « Vorrei comprarglielo. Dica un prezzo ». « Non è in vendita », rispose Zouga. « Cinquecento sterline. » La somma sorprese Zouga, ma la sua risposta non si fece attendere. « No ». « Mille. » « Ehì », intervenne Pickering. « Ci può comprare dieci concessioni alla Sezione n. 6 con quella somma. » Rhodes non stava guardando lui, ma annuì. « Sì, certo, oppure, con mille sterline, il maggiore Ballantyne potrebbe pagare la sua quota per le nuove impalcature. » Mille sterline. Zouga si sentì tentato. Mille sterline erano quello che ci voleva. « No. » Scosse il capo. « Mi dispiace. » Sentì che doveva una spiegazione. « E' diventato il mio nume tutelare, il mio personale simbolo di buona fortuna. » « Buona fortuna! » grugnì Jan Cheroot dall'altra parte del fuoco, e tutti e tre gli uomini girarono il capo verso di lui. Nessuno di loro lo aveva notato, seduto ai margini dell'ombra come un avvizzito gnomo giallo. « Buona fortuna! » ripeté sdegnato l'ottentotto. « Da quan-
do abbiamo preso con noi quello stramaledetto uccello, non abbiamo conosciuto un giorno solo di buona fortuna. » Sputò nel fuoco e la saliva sfrigolò in uno sbuffo di vapore. « Quell'uccello ci ha fatto venire le vesciche ai piedi e ci ha scorticato le schiene, ci ha rotto gli assi dei carri e azzoppato i cavalli. Ci ha fatto venire la febbre, la malattia e la morte. Miss Aletta è morta guardando quell'uccello e Jordie l'avrebbe seguita se non avessi portato fuori quello stramaledetto affare. » « Sciocchezze », sbottò Zouga. « Sono superstizioni da vecchia zitella ottentotta. » « Già », ribatté Jan Cheroot, accalorandosi. « E' una vecchia superstizione ottentotta il fatto che ci troviamo nella polvere di questo buco d'inferno, a schiacciar mosche e a grattarci la pancia vuota? E' superstizione il fatto che tutti intorno a noi trovano grossi diamanti e noi troviamo solo letame? E' superstizione il fatto che la terra sia piombata sulle nostre concessioni e quasi abbia ingoiato Ralph? E' questa la buona fortuna di cui ti vanti, master Zouga, la buona fortuna che ti porta l'uccello? In tal caso, allora, ascolta quello che ti dice il vecchio Jan Cheroot: prenditi le mille sterline che mister Rhodes ti offre, prendile con tutt'e due le mani e ringrazialo per averti liberato di quel... quel... » Le parole gli vennero meno e lanciò un'occhiata dall'altra parte del fuoco, all'uccello sotto l'albero. « Che mi dannino », disse Pickering sorridendo, « ma tu sei molesto come una moglie. » Ma nessuno di loro era sorpreso per la familiarità che correva tra servo e padrone. In Africa era motto comune; il servo si considerava parte della famiglia e metteva voce negli affari di questa, e la sua pretesa era accettata da tutti. « Jan Cheroot ha odiato quell'idolo sin dal giorno che lo scoprimmo. » « Parlami di quel giorno, Jan Cheroot », ordinò Rhodes, brusco, e l'ottentotto parve gonfiarsi di piacere per l'importanza attribuitagli. Poche cose gli facevano più piacere di un pubblico di ascoltatori importanti e attenti e di una buona storia da raccontare. Mentre si dava un gran da fare a riempire la pipa di terracotta con nero tabacco Magaliesberg e ad accenderla con un tizzone preso dal fuoco, attirati dalla prospettiva di un racconto, i due ragazzi vennero fuori dalla tenda. Lanciarono un'occhiata al padre e, poiché questi non mostrò nessuna intenzione di mandarli via, si sentirono tranquilli. Jordie sedette accanto a Jan Cheroot e poggiò la sua bionda testa ricciuta sulla spalla dell'ottentotto, mentre, cauto, Ralph andava a sedersi accanto agli uomini, davanti al fuoco. « Eravamo nella boscaglia da un anno », esordì Jan Cheroot, « un anno senza vedere un uomo civile, un anno di caccia... » I ragazzi si disposero ad ascoltare, deliziati, la storia. L'avevano già sentita cento volte e ogni volta gli piaceva più della precedente. « Da quando avevamo lasciato il fiume Zambesi avevamo uc-
ciso duecento grandi elefanti e avevamo combattuto contro i selvaggi e i malvagi. I nostri portatori avevano quasi tutti disertato o erano morti di malattia o erano stati divorati dalle bestie feroci; le nostre provviste erano finite da un pezzo, non avevamo sale né tè né medicine e c'era rimasta poca polvere da sparo. I nostri vestiti erano ormai degli stracci, i nostri stivali consumati da un pezzo e riparati con pelle di bufalo non conciata. « Un viaggio massacrante, questo era stato, su per montagne senza passi e attraverso fiumi senza nome. Degli uomini normali sarebbero crollati da un pezzo e gli uccelli li avrebbero già spolpati. Eravamo però stanchi e malati e c'eravamo perduti. Intorno a noi, per quello che riuscivamo a vedere, c'erano soltanto colline e brutta boscaglia, attraverso la quale solo il bufalo poteva passare. » « E avevate bisogno di miele per recuperare le forze », intervenne Jordie, incapace di controllarsi. Conosceva la storia a menadito. « Altrimenti sareste morti nella boscaglia. » « E avevamo bisogno di miele per recuperare le forze, altrimenti saremmo morti nella boscaglia », ripeté Jan Cheroot in tono solenne. « Dalla boscaglia sbucò un piccolo indicatore marrone e cantò così... » L'ottentotto imitò il canto stridulo e ronzante dell'indicatore e agitò le dita in una buffa imitazione dell'uccello. « 'Venite!' chiamò. 'Venite, seguitemi e vi condurrò all'alveare.' » « Ma non era un vero indicatore, è così, Jan Cheroot? » esclamò Jordie, eccitato. « No, Jordie, non era un vero indicatore. » « E lo seguiste! » « E lo seguimmo per molti giorni per un aspro terreno. E quando persino master Zouga, tuo padre, sarebbe voluto tornare indietro, il vecchio Jan Cheroot fu ben deciso. Dobbiamo continuare, gli dissi, perché infatti io, che ho una profonda conoscenza di fantasmi e di spiriti, m'ero reso conto che quello non era un vero indicatore ma un folletto sotto forma di uccello. » Zouga sorrise. Lui ricordava l'episodio in maniera diversa. Avevano seguito l'uccello per alcune ore ed era stato proprio lui, Jan Cheroot, a perdere interesse nella caccia e aveva dovuto essere incitato e stimolato a continuare. « Poi, d'un tratto... » Jan Cheroot s'interruppe e allargò le braccia in un gesto teatrale « ... Davanti ai nostri occhi si levò dalla boscaglia un muro di pietra grigia. Un muro così alto che sembrava una montagna. Con l'ascia tagliai la vegetazione e trovai un grande passaggio custodito da feroci spiriti... » « Spiriti? » Zouga sorrise di nuovo. « Erano invisibili agli occhi ordinari », spiegò l'ottentotto con aria di sufficienza. « E io li misi in fuga con un gesto magico. » Zouga ammiccò a Pickering, ma Cheroot ignorò i loro sorrisi.
« Oltre il passaggio c'era il cortile di un tempio in cui c'erano le statue dei falchi, abbattute, alcune in pezzi, ma tutte coperte da mucchi d'oro, montagne d'oro. » Zouga mandò un sospiro. « Cinquanta libbre per essere esatti. Frammenti e pezzetti minuscoli che bisognò passare al crivello e separare dal terreno. Come mi sarebbe piaciuto che fosse stata una montagna. » « Raccogliemmo l'oro, sollevammo quella statua sulle nostre spalle e la portammo per mille miglia... » « Lamentandosi a ogni passo », osservò Zouga. « ... Finché raggiungemmo di nuovo Città del Capo. » Era mezzanotte passata quando Jan Cheroot portò i cavalli sellati accanto al fuoco. Rhodes prese le redini e, nell'atto di montare, si fermò. « Mi dica, maggiore, questa terra nel nord, questa Zambesia, come lei la chiama nel suo libro... Che cosa ve la tiene lontano? Cosa ci fa qui? » « Ho bisogno di soldi », rispose Zouga, in tutta semplicità. « E, non so come, ho la sensazione che la strada per il nord cominci qui. I soldi per prendere e tenere la Zambesia verranno dagli scavi di New Rush. » « Mi piace chi la pensa in grande, chi non conta a unità ma a decine di migliaia. » Rhodes annuì, in segno di approvazione. « In questo momento io conto la mia fortuna a unità. » « Questo possiamo cambiarlo. » Rhodes lanciò un'occhiata penetrante all'uccello, ma Zouga scosse il capo. « Vorrei una prima opzione », insisté Rhodes. « Se la vendo, sarà solo a lei », convenne Zouga, e Rhodes infilò il piede nella staffa, fece volteggiare l'altra gamba sulla groppa del cavallo, si sistemò in sella e s'allontanò. Pickering avvicinò il proprio cavallo a Zouga e si chinò dalla sella per dirgli, in tutta serietà: « Gliela darà. Alla fine, gliela darà ». « Non credo. » Zouga scosse il capo. Ma Pickering gli sorrise. « Ottiene sempre ciò che vuole. Sempre. » Salutò Zouga con la mano che stringeva le redini, mise il cavallo al trotto e seguì Rhodes sul sentiero polveroso e illuminato dalle stelle. « Dai la pietra all'uomo giallo », sollecitò Kamuza, calmo. « Cinquecento regine d'oro e ritorneremo dalla nostra gente con dei tesori. Tuo padre, l'induna di Inyati, sarà contento e saremo persino chiamati dal re nel grande kraal a Thabas Indunas. Diventeremo importanti. » « Non mi fido del bastaard. » « Non fidarti di lui, fidati solo delle monete gialle che porta. » « Non mi piacciono i suoi occhi. Sono freddi e quando parla sibila come un cobra giallo. » Dopodiché tacquero, un circolo di scure figure nella capanna piena di fumo, accoccolate intorno al diamante che giaceva sul
pavimento di terra battuta e che riluceva di strani riflessi ai riverberi della fiamma. Avevano discusso sin da quando il tramonto li aveva liberati della fatica. Avevano discusso durante il pasto di tiglioso montone col suo grasso e la farinata di mais cotta fino a diventar dura come crosta. Avevano discusso annusando la loro polvere rossa e bevendo la loro birra, e adesso era tardi. Presto, molto presto, avrebbero bussato alla porta della capanna e il bastaard sarebbe entrato per ricevere la risposta. « La pietra non è nostra. Appartiene a Bakela. Un figlio vende i vitelli delle mandrie del padre? » Kamuza sbuffò, esasperato. « Certo è contro la legge e le abitudini rubare alla tribù, agli anziani della tribù, ma Bakela non è matabele. E' buni, bianco, e non è reato togliere a lui più di quanto sia contro la legge e le abitudini trapassare il cuore di un cane mashona con l'assegai, o montargli la moglie per sport o prendere il bestiame di uno tswana e dar fuoco al suo kraal per sentir urlare i suoi figli. Queste son cose naturali e giuste, un uomo può farle. » « Bakela è mio padre, la pietra è il suo vitello, affidato a me. » « Ti darà una sola moneta », ribadì Kamuza, e Bazo parve non udirlo. Prese di nuovo il diamante e se lo rivoltò in mano. « E' una grossa pietra », disse, come pensando ad alta voce, « una pietra molto grossa. » Se l'accostò all'occhio e guardò nella pietra come se fosse uno stagno montano, e dentro, con stupore, vide fuochi e figure muoversi. Sempre tenendola davanti all'occhio, disse: « Se porto a mio padre un vitello appena nato, lui sarà contento e mi darà una ricompensa. Ma se gli porto cento vitelli, quanto più grande sarà la sua gioia! E cento volte più grande sarà la ricompensa che mi darà ». Mise giù la pietra e diede una serie di ordini che mandarono gli uomini di corsa fuori nella notte per ritornare immediatamente con gli utensili che Bazo li aveva mandati a prendere. Poi, in silenzio, i matabele rimasero a guardarlo mentre faceva i suoi preparativi. Prima distese sul pavimento di terra battuta un kaross di argentea pelliccia di sciacallo, poi al centro della pelliccia piazzò una piccola incudine sulla quale aveva visto Zouga dar forma a ferri di cavallo e lavorare i cerchi di ferro delle ruote del carro. Piazzò il diamante sull'incudine, quindi si scostò il mantello di dosso, in modo da rimaner nudo alla luce della fiamma, alto e magro e vigoroso, con i muscoli del ventre che sporgevano in forme concentriche sotto la serica pelle scura e le ampie spalle sovrasviluppate dalla pratica con lo scudo e la lancia. A gambe larghe, si piazzò davanti all'incudine e sollevò il piccone dal manico levigato dall'uso. Sentì il peso della testa d'acciaio che gli era diventato tanto familiare.
Strinse gli occhi, prendendo la misura, quindi indietreggiò col piccone che quasi toccava il tetto di paglia. Mise nel colpo tutto il peso del proprio corpo e la testa d'acciaio del piccone calò con un sibilo dall'alto. La punta colpì il diamante esattamente al centro della sua curva superficiale superiore e la gran pietra esplose come un secchio colmo d'acqua di montagna lasciato cadere a terra. Le scintillanti gocce, i frammenti lacerati, le lucenti schegge di preziosissimo cristallo parvero riempire l'intera capanna con uno scoppio di luce solare. Picchiettarono contro le pareti di paglia, punsero la pelle esposta dei matabele presenti, sollevarono piccoli sbuffi di cenere grigia quando caddero nel fuoco e si sparpagliarono sull'argentea pelliccia di sciacallo del kaross, brillando lì come pesci vivi nella rete. « Figlio del Grande Serpente », esclamò Kamuza. « Siamo ricchi. » E, ridendo, i matabele si precipitarono a raccogliere i frammenti. Li tirarono su dalle ceneri, li raccattarono dal pavimento di terra battuta, li scossero via dal kaross e li accumularono nella mano di Bazo chiusa a coppa finché ne traboccò. E tuttavia non videro né raccolsero le piccole schegge che erano cadute nel fuoco o nella polvere e che furono perdute per sempre. « Sei un uomo saggio », disse Kamuza a Bazo con ammirazione. « Bakela avrà le sue pietre - un centinaio di vitelli - e noi avremo più monete di quanto ci avrebbe dato il giallo bastaard. » Non c'era lavoro alla crollata Sezione n. 6, nessun bisogno di alzarsi prima dell'alba, quindi il sole era già alto sull'orizzonte quando Zouga uscì dalla tenda, stringendosi la cintola e raggiungendo Jan Cheroot e i due ragazzi sotto il cratego. La tavola era una vecchia cassetta col coperchio macchiato dal grasso delle candele e dal caffè versato, e la colazione del mattino era costituita da una farinata di mais in ciotole di ferro smaltato e sbeccate, senza zucchero, perché lì agli scavi il prezzo dello zucchero era salito a una sterlina la libbra. Zouga aveva gli occhi cerchiati di rosso perché aveva dormito poco durante la notte; era infatti rimasto sveglio, in preda alla preoccupazione, a pensare e ripensare a ogni minimo dettaglio dei progetti delle nuove impalcature, soffermandosi ogni volta su quello che era il particolare più importante, quello per il quale sembrava che non ci fosse soluzione: il costo, l'enorme costo dell'impresa. I due ragazzi notarono i'espressione dei suo viso, riconobbero il suo stato d'animo e tacquero immediatamente, concentrandosi sul poco appetitoso miscuglio grigio nelle loro ciotole. Un'ombra cadde sul gruppo intorno al tavolo e, seccato, Zouga alzò il capo e guardò sbattendo le palpebre nel sole del mattino, col cucchiaio a mezz'aria. « Cosa c'è, Bazo? » « Trovato, Bakela. » L'alto e giovane matabele parlò in ingle-
se. « Trovato. » Zouga mandò un grugnito. « Vediamo. » Era del tutto disinteressato. Quasi certamente doveva trattarsi di qualche scheggia di quarzo o di cristallo di rocca senza valore. Ma Bazo piazzò un piccolo involto di tela sporco accanto alla sua ciotola. « Bene, aprilo », ordinò Zouga, e il matabele sciolse il nodo e aprì l'involto. « Vetro! » pensò Zouga disgustato. Ce n'era una manciata, schegge e frammenti, il più grande dei quali non più grosso della testa di un fiammifero. « Vetro! » E fece il gesto di spazzarlo via quando si bloccò; cadendo sul mucchio di pietre, il sole infatti ne aveva tratto un riverbero accecante, uno scoppio di luce, un arcobaleno di colori. Lentamente, incredulo, cambiando il proprio gesto, allungò la mano esitando, quasi con riverenza, verso il lucente mucchio, ma Jordie lo precedé. Con un urlo di gioia, il ragazzo fece danzare le piccole dita della mano protesa sul mucchio. « Diamanti, papà », urlò. « Sono diamanti, veri diamanti. » « Sei sicuro, Jordie? » chiese futilmente Zouga, con voce roca, pensando che la cosa fosse troppo bella per essere vera. Dovevano esserci molte centinaia di pietre preziose nel mucchio, piccole, molto piccole, ma di che superbo colore, bianco, bianco-ghiaccio, e sembravano crepitare come lampi tant'erano lucenti. Sempre esitando, Zouga tolse di mano a Jordan una delle pietre più grandi. « Sei sicuro, Jordie? » ripeté. « Sono diamanti, papà. Tutti. » Gli ultimi dubbi di Zouga scomparvero, ma per essere sostituiti immediatamente da una più profonda incertezza. « Bazo », disse. « Sono tanti... » Poi fu colpito da un'altra idea. Con rapidi gesti scelse venti delle pietre più grandi e le allineò sul ripiano della cassetta. « Lo stesso colore, sono tutte dello stesso identico colore! » Scosse il capo, s'accigliò; era confuso. Poi, all'improvviso, le ombre gli scomparvero dallo sguardo. « Oh, mio Dio », bisbigliò e, lentamente, il sangue gli fluì via dal viso, lasciandogli la pelle di un colore giallo sporco, come dopo dieci giorni di febbre malarica. « Le stesse, sono identiche. Le spaccature sono tutte nette e fresche. » Lentamente, alzò il capo e guardò Bazo. « Bazo, com'era grande... » la voce gli tremò così che dovette deglutite. « Com'era grande la pietra prima... Prima che tu la spaccassi? » « Così grande. » Bazo chiuse il pugno e lo mostrò. « Col piccone ne ho fatte tante pietre, per te, Bakela, sapendo che apprezzi molte pietre. » La voce di Zouga era ridotta a un roco bisbiglio. « Ti am-
mazzo », disse in inglese. « Per questo ti ammazzo. » La cicatrice sulla guancia si mutò lentamente in un brutto livido infiammato, lo stigma della sua rabbia, e, mentre si alzava in piedi, prese a tremare tutto. « Ti ammazzo. » La sua voce divenne un mugghio e Jordan urlò di nuovo, questa volta di terrore. Non aveva mai visto così suo padre, c'era un che di terrificante in lui. « Era la pietra che aspettavo, bastardo, nero bastardo, ecco cos'era. Era la chiave per il nord. » Afferrò il Martini-Henry che stava appoggiato contro il tronco dell'albero, accanto alla scultura del falco. L'acciaio scattò quando lui infilò la cartuccia nella camera di caricamento e sollevò al tempo stesso la canna. « Ti ammazzo », ruggì. Poi si controllò. Ralph era scattato in piedi e s'era girato verso il padre. Avanzò ora fino a quando la bocca del fucile, carico e col cane alzato, quasi gli toccò gli attorcigliati serpenti di ottone della fibbia della cintura. « Devi uccidere prima me, papà », disse. Era pallido quanto il padre, gli occhi dello stesso verde intenso. « Togliti di mezzo. » La voce di Zouga si ridusse a un roco bisbiglio e Ralph non riuscì a rispondergli, si limitò a scuotere il capo, serrando così forte la mascella che si sentirono i denti stridere. « Ti ho avvertito, fatti da parte », sibilò Zouga, e rimasero lì l'uno di fronte all'altro, ambedue tremanti per la tensione e il risentimento. Poi il pesante fucile vacillò in mano a Zouga e la bocca dell'arma si abbassò lentamente, fino a restare puntata contro la polvere rossa tra la punta degli stivali di Ralph. Il silenzio durò ancora parecchi secondi, poi Zouga inspirò profondamente e il petto gli si gonfiò sotto la camicia di flanella blu stinta. Con un gesto di estrema impotenza scagliò il fucile contro il tronco dell'albero, quindi cadde a sedere al suo posto, alla cassetta che fungeva da tavolo e, con un gesto lento, si prese la testa bionda tra le mani. « Via. » Tutta la furia e l'ardore erano scomparsi dalla sua voce. « Via, tutti quanti. » Rimase così solo sotto il cratego. Si sentiva ardere dall'emozione e dalla rabbia, vuoto e devastato dentro, come il veld dopo che l'incendio l'ha invaso tutto. Quando, alla fine, sollevò il capo, la prima cosa che vide fu il falco che si levava lì di fronte a lui sulla sua base di pietra verde. Sembrava sorridere, c'era una piega crudele e ironica nel becco del predatore, ma quando lo fissò Zouga vide che si trattava semplicemente di un gioco d'ombre e luce solare che filtrava attraverso i rami spinosi dell'albero. Il kopie-walloper era piccolino, con gambe così corte che, quando sedeva sul girevole sgabello da pianoforte dietro il
banco, i suoi lucidi stivali dai tacchi alti non toccavano terra. Il banco riempiva quasi tutta la piccola baracca di lamiera, rovente come una fornace. Sulle rozze assi del piano del banco c'era tutto l'equipaggiamento del diamantiere: la bottiglia di whisky e i bicchierini per accattivarsi il cliente con le pietre da vendere, il foglio di carta bianca sul quale esaminare e studiare il colore delle pietre, le pinze di legno, la lente da gioielliere, la bilancia e il libretto degli assegni. Quest'ultimo era delle dimensioni di una Bibbia, ogni assegno impresso a rilievo su carta dorata con stampati sul bordo, in vari colori, un coro di angeli celesti, ninfe marine in mezze conchiglie trainate da saltellanti delfini, la regina rappresentata come la Gran Bretagna, con elmetto, scudo, tridente, la cornucopia dalla quale traboccavano i tesori dell'Impero e una dozzina di altri patriottici simboli della potenza vittoriana. Il libretto degli assegni era dunque la cosa che più impressionava in quella baracca, non contando la cravatta larga di seta del diamantiere e le ghette gialle che ricoprivano i suoi stivaletti. Era improbabile che un cercatore potesse essere in grado di rifiutare un'offerta fatta in stile cosi sgargiante. « Quanto, mister Werner? » chiese Zouga. Werner aveva rapidamente suddiviso il lucente mucchio di schegge di diamante in mucchietti separati, scegliendole soltanto in base alla grandezza, visto che tutte le pietre erano dello stesso bel colore bianco. Le pietre più piccole erano di tre punti, cioè tre centesimi di carato, poco più grandi di un granello di sabbia, la più grande era di quasi un carato. Werner si passò la mano tra i riccioli neri. « Prenda un altro whisky », mormorò e, quando Zouga rifiutò, aggiunse: « Be', io me lo prendo ». Riempì entrambi i bicchieri fino all'orlo e, nonostante l'espressione di diniego di Zouga, ne spinse uno verso di lui. « Quanto? » insisté Zouga. « Il peso? » Werner bevve un sorso di whisky e fece schioccare le spesse labbra rosso scuro. « Novantasei carati in tutto. Che diamante dev'essere stato! Non ne vedremo mai più uno simile... » « Quanto in contanti? » « Maggiore, le avrei offerto cinquantamila sterline se si fosse trattato di una sola pietra. » Zouga trasalì e per un istante chiuse le palpebre, come se avesse ricevuto uno schiaffo a mano aperta in pieno viso. « Maledizione, non m'interessa sapere quanto mi avrebbe dato », sibilò. « Mi dica solo quanto mi darà per queste. » « Duemila sterline. E' il mio prezzo più alto, e non è un'offerta aperta. » La pietra era stata ridotta a quasi duecento schegge, il che significava per Bazo una ricompensa, per averla trovata, di altrettante sovrane. Zouga non aveva nessunissima voglia di pagarle, naturalmente, ma doveva e le avrebbe pagate. Di quello
che rimaneva dopo, almeno mille sterline sarebbero andate come sua quota per le nuove impalcature alla Sezione n. 6. Rimanevano ottocento sterline, e lavorare le concessioni gli costava cento la settimana: quindi aveva guadagnato due mesi. Sessanta giorni invece di una terra. Sessanta giorni invece di centinaia di migliaia di chilometri quadrati di ricca terra. « Le prendo », disse, calmo. Afferrò il bicchiere di whisky e lo vuotò. Gli tolse il sapore amaro che aveva in bocca. Quello di Ralph era un lanario femmina, un autentico membro della famiglia Falconidae, dalle ali lunghe, perfetto per la caccia sulle ampie pianure di Griqualand. Alla fine, dopo molti tentativi, lui l'aveva trovato e scelto per sé; un falco femmina, dunque, e perciò più grande del maschio, che non era un falcone pur essendo sempre un Accipiter e, in quel caso, un « lanario maschio » appunto. Era una « nidiacea », il termine dei falconieri per indicare un uccello selvatico catturato nel nido quando ha già messo quasi tutte le piume. Ralph s'era arrampicato fino al nido in cima ai rami più alti di una acacia gigantesca e aveva portato giù l'uccello nascosto sotto la camicia, sanguinando, perché gli aveva graffiato il ventre con gli artigli. Bazo lo aveva aiutato a fare i geti e a modellare il cappuccio di morbida pelle di guanto per la fiera testa, ma era stato Ralph a portarla in giro sulla mano, per ore e giorni, carezzandola e coccolandola, chiamandola « cara » e « bellezza » e « amore », finché il rapace aveva cominciato a mangiare dalla sua mano e a salutarlo quando lo vedeva con un « Quit! Quit! » di riconoscimento. Poi gli aveva fatto conoscere il richiamo, o logoro, di piume di piccione, insegnandogli a colpirlo mentre lo faceva roteare sulla sua lunga corda. Alla fine, nel tradizionale rituale del falconiere, aveva vegliato tutta la notte con l'uccello sul pugno e una candela accesa al suo fianco. Aveva vegliato con l'uccello in quella gara di forza di volontà che avrebbe provato il suo dominio su di lui, fissandolo nei feroci occhi gialli, al lume della candela, ora dopo ora, finché all'uccello le palpebre erano calate sugli occhi e s'era addormentato appollaiato sul suo pugno e lui aveva vinto. Infine l'aveva portato a caccia. A Jordan l'uccello piaceva per la sua bellezza e, una volta addestrato, Ralph ogni tanto glielo lasciava portare sul pugno e gli permetteva di carezzargli le lucide piume. Fu Jordan a trovargli il nome. Lo prese dalle Vile di Plutarco, che lui stava appunto rileggendo, e così l'uccello fu battezzato Scipione. Ma Jordan li accompagnò nella caccia una sola volta, cadendo irreparabilmente in disgrazia allorché scoppiò in lacrime al momento dell'uccisione. Da quel giorno Ralph non lo invitò più. La stessa pioggia che aveva provocato il crollo della Strada n. 6 aveva anche allagato ogni depressione o vlei per un paio di centinaia di chilometri intorno agli scavi di New Rush. Lentamente, nei caldi mesi asciutti che seguirono quel diluvio, le
pozze più basse s'erano prosciugate; ma una decina di chilometri a sud della Cape Road, a mezza strada dal basso profilo delle azzurre colline Magersfontein, c'era ancora un'ampia distesa centinaia di chilometri intorno agli scavi di New Rush. Lentaperimetro e colonie di tessitori color scarlatto ed ebano avevano intrecciato i loro nidi sospesi alle oscillanti canne. Tra queste, Ralph e Bazo costruirono il loro nascondiglio. S'abbassarono sul capo le lunghe foglie, badando a non ferirsi le mani sul loro bordo tagliente come un rasoio, e dalle cariche cime delle canne gli cadde addosso una pioggia di barbe bianche e lanuginose. Intrecciarono poi una specie di tetto con gli steli, nascondendosi alla vista dall'alto del cielo. Ralph raccolse una manciata di fango nero e se lo passò sul viso. Sapeva che, rivolta in su, la sua faccia bianca avrebbe brillato come uno specchio attirando l'attenzione degli uccelli, anche se volavano altissimi. « Dovevi nascere matabele, così non avresti avuto bisogno del fango », lo prese in giro Bazo, e Ralph gli rispose con un gesto osceno delle dita. Dopodiché si disposero all'attesa. Era affascinante vedere come Scipione, cieca sotto il cappuccio di pelle, riusciva ad avvertire un frullo di ali lontane molto prima che loro due vedessero o sentissero, cosicché erano messi in allarme dallo scatto del capo dell'uccello o dalla stretta degli artigli. « Non ancora, cara », bisbigliava Ralph. « Tra poco, cara. » Poi Bazo mandò un fischio acuto e indicò col mento. E Ralph le vide, dall'altra parte della palude, ad ancora tre chilometri di distanza, altissime contro il cielo sgombro. Erano tre, con le grandi ali nere che battevano in quel loro caratteristico volo calmo e pesante. « Arrivano, amore mio », mormorò Ralph, e sfiorò con le labbra il petto color ruggine del lanario. Sentì contro il viso il battito del fiero cuore. « Dio, ma sono grosse », mormorò di nuovo. Il ben formato corpo che aveva sul braccio era leggero come una piuma. Non l'aveva mai lanciata contro anatre ed era preso da dubbi. La formazione a « V » di anatre sorvolò la palude calando tranquillamente in cerchio, poi, tornando indietro, riprese il volo, basso, contro il sole. Perfetto. Scipione avrebbe avuto il sole dietro quando fosse stata lassù. I dubbi di Ralph svanirono. Tolse il cappuccio di morbida pelle dalla bella testa grigiocolombo e i gialli occhi s'aprirono come lune piene e misero subito a fuoco. L'uccello scosse le penne, gonfiandosi per un attimo, sporgendo in fuori il petto, finché vide il grosso stormo nero di anatre contro il cielo e le piume le s'appiattirono addosso diventando lucide e del color dell'aciciaio nel primo sole del giorno. S'accucciò, spingendo la testa in avanti, sul pugno di Ralph. Girandosi insieme con lei per seguire il volo delle anatre, Ralph sentì le punte aguzze dei suoi artigli attraverso il guanto di pelle e avvertì la tensione del piccolo corpo. Scipione
sembrava vibrare come le corde di un violino sfiorate dall'archetto. Con la mano libera, il ragazzo sciolse il nodo semplice che assicurava il geto alla zampa di Scipione. « Va'! » esclamò, e la lanciò in aria, al disopra delle canne. L'uccello volò in alto come un giavellotto, puntando rapido verso il sole su ali che avevano la forma delle pericolose lame di un paio di coltelli da duello. Le anatre la videro immediatamente e rallentarono il battito delle ali, prese da improvvisa paura. La loro stretta formazione a « V » si ruppe allorché ogni uccello se ne allontanò. Due di loro presero quota, battendo forte le ali per guadagnare altezza, mentre la terza virava di nuovo verso nord in direzione del fiume, si buttava giù in picchiata per guadagnare la velocità persa quando aveva rallentato il volo e quindi, battendo con forza le ali, s'allontanò bassa, il collo teso, i piedi palmati nascosti sotto la gola. Scipione continuò il suo volo, puntando in alto con ali che battevano veloci e che la prima luce obliqua del sole tramutava in fremiti dorati. La sua tattica era quella del killer istintivo. Aveva bisogno di ogni centimetro di quota che riusciva a ottenere. Ne aveva bisogno per convertirla in velocità al momento di cominciare la sua picchiata, perché il peso del suo corpo era molto inferiore a quello degli enormi uccelli cui stava dando la caccia e quindi doveva uccidere con la velocità e l'impatto. Pur mentre prendeva quota teneva il capo rivolto di lato, guardando e giudicando, mentre le prede sotto di lei si sparpagliavano. « Non venir meno, dolcezza », le gridò Ralph. Il pericolo c'era, infatti, perché, per quanto avida di caccia fosse, Scipione non era stata mai lanciata contro uccelli come quelli. Le anatre non erano la sua preda naturale; la natura non l'aveva equipaggiata per un attacco a uccelli così grandi. E più saliva, più la differenza di dimensioni tra cacciatore e prede acquistava risalto; poi, di colpo, fu all'altezza da lei giudicata sufficiente e si librò lassù mentre, guardandola e vedendola quasi ferma nell'aria, il cuore di Ralph accelerava i battiti. Era intimidita, la preda era troppo grande, sarebbe venuta meno. « Dai, amore, dai! » le gridò il ragazzo, e l'uccello parve averlo sentito. Lanciò il suo terribile grido di morte, stridulo e spaventoso, quindi ripiegò le ali e si tuffò. « Prende l'uccello che vola basso », gridò trionfante Ralph: non sarebbe venuta meno, aveva scelto l'anatra che s'era abbassata fino a terra e che le passava ora davanti ad angolo acuto. « C'è un fegato di leone in quel piccolo corpo. » Nella voce di Bazo risuonava lo stupore dettato dalla vista, lassù contro il cielo, di quella piccola freccia mortale in volo. Riuscivano a sentire il vento che sibilava tra le ali mezzo piegate, a vedere i movimenti infinitesimali delle penne di coda con
le quali l'uccello controllava quel terribile tuffo in picchiata. L'anatra sferzò l'aria, pesante, massiccia, un balenio di bianco contro il nero del corpo, il panico evidente in ogni battito delle ali frenetiche. La velocità con cui Scipione si avvicinava era raggelante. Ralph sentì i capelli rizzarglisi in testa come se fosse stato toccato da un gelido vento mentre l'uccello allungava in avanti gli artigli d'acciaio. Quello era il momento per il quale lui e il rapace avevano lavorato e s'erano addestrati tanto a lungo. Il momento supremo dell'uccisione... Un grido involontario gli uscì dalla gola, un grido animalesco, primitivo, mentre Scipione piombava sulla grossa anatra. Il rumore all'impatto fu simile al battito di un tamburo e parve scuotere l'aria stessa intorno alla testa di Ralph. Le ali spiegate dell'anatra vorticarono come i raggi di una ruota e uno scoppio di piume nere riempì l'aria come uno shrapnel sparato da un grosso cannone; quindi sotto l'urto il corpo dell'anatra crollò, un'ala si staccò e volteggiò nel cielo cadendo, mentre il lungo collo serpentino s'inarcava nelle convulsioni della morte, e intanto Scipione era avvinta al gigantesco corpo nero, gli artigli affondati in profondità nel cuore che ancora batteva frenetico. L'impeto della picchiata di Scipione aveva infranto le ossa nel gran corpo dell'anatra e fatto scoppiare i pulsanti vasi sanguigni intorno al suo cuore. Ralph si mise a correre, lanciando grida eccitate, e Bazo lo seguì, il capo buttato all'indietro per guardare l'uccello che cadeva lasciandosi dietro una traccia di piume simile alla coda di una cometa. Un falco mantiene la presa sulla preda dal momento dell'urto sino a che cade a terra. Un lanario no. Scipione avrebbe dovuto mollare e lasciar cadere l'anatra, invece non l'aveva fatto. Era ancora attanagliata, e Ralph sentì il primo brivido di preoccupazione raffreddare il suo entusiasmo. Che il suo uccello si fosse rotto qualche osso o ferito in qualche modo in quel terribile impatto? « Bellezza! » gridò. « Molla! Molla! » Poteva finire sotto la pesante anatra e restare schiacciata a terra. « Molla! » gridò di nuovo, e la vide sbattere le ali. Era stordita, e la terra si stava avvicinando. Poi, di colpo, Scipione mollò. Lasciò andare la preda, la lasciò precipitar giù, andare a schiantarsi contro la roccia al di là della palude; e solo allora volteggiò e calò e andò a posarsi alla fine sulla carcassa nera. Ralph sentì il petto gonfiarglisi di orgoglio e amore per il coraggio del suo magnifico uccello. « Quit », chiamò Scipione quando lo vide. « Quit », il grido di riconoscimento. Mollò la preda, per prendere la quale aveva rischiato la vita, e andò a posarsi sulla sua mano. Lui si chinò, con gli occhi che gli ardevano d'orgoglio, e baciò la bella testa. « Non te lo faccio fare più », disse in un bisbiglio. « Dovevo
solo vedere se sapevi farlo... Ma non te lo faccio fare più. » Ralph lasciò la testa dell'anatra a Scipione, che la fece a pezzi col becco ricurvo. Tra un boccone e l'altro si fermava a fissare Ralph. « Quell'uccello ti ama », disse Bazo. Sollevò lo sguarde dal fuoco sul quale stava arrostendo pezzi di anatra, col grasso che colava sui carboni sfrigolando. Ralph sorrise, sollevò l'uccello e baciò il becco ricurvo. « E io amo lei. » « Tu e l'uccello avete lo stesso spirito. Kamuza e io ne abbiamo parlato spesso. » « Nessuno è coraggioso quanto la mia Scipione. » Bazo scosse il capo. « Ricordi il giorno in cui Bakela voleva uccidermi? Nel momento in cui mi puntò contro il fucile era fuori di sé, fuori di sé al punto di uccidere. » Ralph cambiò espressione. Erano passati parecchi mesi da quando era intervenuto per salvare il giovane matabele dalla furia di suo padre. « Non ne ho mai parlato prima. » Bazo sostenne lo sguardo di Ralph. « Non è una cosa di cui un uomo parla, chiacchiera, come una donna al fiume. Probabilmente tu e io non ne parleremo mai più, ma sappi che non lo dimenticherò mai... » Il giovane matabele s'interruppe, poi aggiunse, in tono solenne: « Lo ricorderò, Henshaw ». Ralph capì immediatamente. Bazo gli aveva dato un nome d'onore, cosa che non veniva fatta alla leggera, segno di enorme rispetto. Suo padre era Bakela, il Pugno, e ora lui era Henshaw, il Falco, chiamato così per il coraggioso e bell'uccello che aveva sul pugno. « Lo ricorderò, Hensbaw, fratello », ripeté Bazo, l'Ascia. « Lo ricorderò sempre. » Zouga non avrebbe proprio saputo dire perché andava all'appuntamento; certamente non perché Jan Cheroot lo aveva sollecitato ad andare, né per il fatto che le duemila sterline incassate per le schegge del grande diamante Ballantyne non gli erano durate quanto aveva sperato, col costo delle nuove impalcature che aumentava di continuo. La sua quota, a quanto pareva, s'avvicinava più alle duemila sterline che alle mille. A volte, quando era in uno stato d'animo meno benevolo, lui sospettava che Pickering e Rhodes e qualche altro membro del Comitato fossero contenti di veder aumentare i costi delle impalcature e la crisi schiacciare i cercatori più piccoli. Il prezzo corrente delle concessioni nella crollata Sezione n. 6 continuava a scendere mentre il costo delle impalcature saliva, e qualcuno comprava, se non Rhodes e i suoi soci certamente Beit o Werner, se non addirittura il nuovo venuto, Barnato. Forse andava all'appuntamento per distrarsi da questi problemi, forse perché incuriosito dal mistero che circondava la cosa o forse ancora, se voleva essere onesto, per la prospettiva di
un guadagno. L'intera faccenda puzzava, era la parola, di profitto, e lui, Zouga, era un uomo disperato. A parte le concessioni, gli era rimasto ben poco da vendere. Vendere le concessioni significava abbandonare il proprio sogno. Era dunque pronto a tentare ogni altra via, a correre qualsiasi rischio, piuttosto che vendere. « C'è un uomo che desidera parlarti. » Le parole di Jan Cheroot lo avevano sorpreso e qualcosa nel suo tono lo aveva indotto ad alzare di scatto la testa. Stavano insieme da molti anni e c'era poco che non conoscessero l'uno dell'altro. « E' molto semplice », gli aveva risposto. « Fallo venire qui al campo. » « Desidera parlarti in segreto, in un posto dove non ci siano occhi indiscreti. » « Mi sembra la proposta di un furfante. » S'era accigliato. « Come si chiama quest'uomo? » « Non conosco il suo nome », aveva ammesso Jan Cheroot e poi, vedendo l'espressione di lui, aveva spiegato: « Ha mandato un ragazzo con un messaggio ». « Allora rimanda il ragazzo indietro, chiunque sia. Digli che mi troverà qui ogni sera e che, di qualunque cosa voglia parlarmi, sarò ben lieto di ascoltarlo in privato, sotto la mia tenda. » « Come vuoi. » Jan Cheroot aveva grugnito e in faccia le rughe gli s'erano approfondite: sembrava una noce. « Così continueremo a mangiare farina di mais. » Dopodiché non ne avevano più parlato per molte settimane, ma il tarlo s'era ormai insinuato e rodeva, finché era stato proprio Zouga a chiedere: « Jan Cheroot, che ne è di quel tuo amico senza nome? Quale fu la sua risposta? » « Mandò a dire che è impossibile aiutare chi rifiuta di farsi aiutare », gli aveva risposto l'ottentotto. « Ed è chiaro al mondo intero che noi non abbiamo bisogno di aiuto. Guarda i nostri bei vestiti, è di moda ora avere le natiche scoperte. » Lui aveva sorriso all'iperbole, perché le sue brache erano accuratamente rappezzate. Ci aveva pensato Jordan. « E guarda me », aveva proseguito Jan Cheroot. « Che motivo ho di lamentarmi? Sono stato pagato un anno fa, no? » « Sei mesi fa », lo aveva corretto Zouga. « Non ricordo », aveva ribattuto Jan Cheroot, imbronciato. « Come del resto ho dimenticato il sapore della carne di manzo. » « Quando le impalcature saranno completate... » aveva cominciato a dire lui, e l'ottentotto aveva mandato un grugnito. « E' molto probabile che ci crolleranno in testa. Così almeno non avremo più la preoccupazione della fame. » Dei gravi difetti erano saltati fuori nel progetto delle impalcature, infatti. Non erano in grado di reggere il peso del cavo. Tutti insieme, i cavi pesavano più di trecento tonnellate e dovevano essere portati alla tensione sufficiente per sopportare i carichi di ghiaia senza che le impalcature si incurvassero eccessivamente.
Al primo giorno di prova, nella parte settentrionale della sezione, le impalcature avevano ceduto. Due verricelli avevano mollato di colpo e i cavi erano caduti vibrando e serpeggiando sugli scavi. In quel momento una gabbia stava portando giù, sul fondo degli scavi, cinque operai neri per la riapertura delle concessioni da tempo abbandonate; i poveretti avevano urlato durante tutta la caduta, mentre la gabbia ruotava su se stessa lanciandoli lontano e il groviglio di cavi scattanti li catturava come i tentacoli di un vorace mostro marino. C'era voluto tutto il resto del giorno per tirar fuori i corpi orrendamente mutilati, e il Comitato dei Cercatori aveva chiuso di nuovo la Sezione n. 6 mentre venivano rinforzate le impalcature. La Sezione n. 6 era ancora chiusa. A Zouga era rimasta una bottiglia di brandy del Capo, era dunque andato a prenderla, l'aveva stappata con i denti e aveva riempito due tazze. Lui e Jan Cheroot erano rimasti a bere per un pò in un cupo silenzio, dopodiché Zouga aveva mandato un sospiro. « Di' al tuo amico che lo vedrò », aveva detto. Una chiara polvere sbiancava il cielo sopra la pianura così che le distanze s'allungavano lente, inconsistenti come in un sogno, verso un orizzonte indefinito. Nel cielo bianco-latte non c'era essere vivente, neppure un avvoltoio, e tra la vegetazione bassa e stenta non c'era movimento né c'erano nubi di polvere sollevate da branchi di antilopi. In quella desolazione il piccolo gruppo di costruzioni si levava misero, da tempo abbandonato, con i tetti incurvati e l'intonaco che cadeva a pezzi dalle pareti mettendo in luce lo scheletro di legno rozzo. Zouga toccò le redini e mise al passo il castrato, poi si abbandonò sulla sella. Cavalcava con staffe lunghe e l'aria disinteressata di chi affronta un viaggio lungo,e noioso; ma sotto l'ampia falda del cappello gli occhi erano attenti e inquieti. Avvertiva con disagio il fodero vuoto del fucile sotto il ginocchio destro. « Disarmato. » L'invito era stato più che chiaro. « Sarà tenuto d'occhio. » L'uomo aveva scelto un posto ideale per l'appuntamento. Non c'era accesso a quella fattoria abbandonata se non attraverso chilometri di spoglio veld, nessun riparo più alto del ginocchio d'un uomo e, con il sole a occidente, la luce era perfetta per mirare e sparare. Inquieto, Zouga spostò il peso del corpo sulla sella e la grossa e poco maneggevole Colt sotto la giacca gli si ficcò nel fianco, un dolore a cui non fece caso, anche se il conforto che gli dava era illusorio. Mentre lui si avvicinava a cavallo, un uomo con un fucile avrebbe avuto tutto il tempo di mirare con calma. Il recinto delle pecore faceva parte delle mura non intonacate della casa, davanti alla quale c'era un pozzo anch'esso con
una copertura di pietra. Accanto al pozzo c'erano i resti di un carro al quale mancavano tre ruote e la stanga e dal quale la vernice, seccata, era venuta via; le erbacce erano cresciute tra le assi del pianale. Zouga toccò il collo del castrato e lo fermò accanto al carro. Smontò rapidamente, scese dalla parte opposta alla fattoria, usando il cavallo come riparo, e fingendo di sistemare il sottopancia studiò di nuovo la casa deserta. Le finestre erano buchi vuoti e scuri, come denti mancanti, e bene arretrato nell'interno in penombra poteva esserci, non visto, un uomo armato di fucile. La porta d'ingresso era sbiancata dal sole, attraverso le crepe passava la luce. Sbatteva irregolarmente e continuamente per il vento che sibilava nella grondaia e tra le finestre vuote. Al riparo del corpo del castrato, Zouga spostò la rivoltella che portava alla cintola, assicurandosi che fosse pronta a essere impugnata. Legò il cavallo al carro con un nodo che si sarebbe facilmente sciolto al minimo strappo, dopodiché inspirò, raddrizzò le spalle e uscì da dietro il cavallo. Si avviò verso la porta d'ingresso, ma teneva la destra sul fianco, sotto la falda della giacca, quasi a contatto con l'impugnatura zigrinata della rivoltella. Raggiunta la porta, si tolse dall'ingresso e s'appiattì contro la parete. Con lieve sorpresa, si rese conto che ansimava, come se avesse corso. Poi un'altra sorpresa: stava gustando il proprio timore, il senso di acuita sensibilità della pelle, l'aumentata chiarezza di visione, il canto dell'adrenalina nel sangue, la tensione dei tendini e dei muscoli, la consapevolezza d'essere vivo di fronte alla minaccia della morte. Era stato troppo a lungo senza questi stimolanti. Piazzò una mano sul davanzale della finestra e saltò dentro con un volteggio leggero, buttandosi giù allorché toccò il pavimento di terra battuta e rotolando e scattando di nuovo in piedi quando fu nell'angolo, con la stanza davanti a sé. Era piccola e vuota; dalle travi pendevano fasci di ragnatele impolverate e il pavimento era coperto in tutta la sua estensione dello sterco a macchia bianca dei gechi. Avanzò lungo la parete, tenendosi le spalle coperte, e passò nella seconda stanza. Il camino era nero di fuliggine e l'odore di cenere lo prese alla gola. Attraverso la porta aperta guardò nel recinto delle pecore illuminato dal sole. C'era un cavallo senza cavaliere legato in un angolo del muro: un pezzato grigio, con una criniera lunga e scura e una coda che quasi spazzava per terra. Il fodero del fucile accanto alla sella era vuoto e lui ebbe un fremito. Il cavaliere sconosciuto doveva avere l'arma con sé. Spiando fuori nel sole, allentò ancor più la pressione della cintura sulla lunga canna della Colt. « Tenga via le mani da quella pistola. » La voce giunse da dietro, dalla stanza vuota attraverso la quale lui era appena
passato. « Non la tiri fuori e non si volti. » La voce era calma, controllata e molto vicina. Zouga obbedì, rimanendo goffamente fermo con la destra sotto la giacca, e sentì il contatto dell'acciaio tra le scapole. Era stato tutto ben congegnato: l'uomo era rimasto fuori lasciando che lui attraversasse per primo la casa, quindi era entrato dietro di lui. « Ora, molto lentamente, tiri fuori la pistola e la metta a terra tra i suoi piedi. Molto lentamente, per piacere, maggiore Ballantyne. Non vorrei farle del male, ma se sento scattare il cane l'ucciderò... Mi creda, lo farò. » Lentamente, lui tirò fuori la pesante pistola, si chinò e la posò sullo sporco pavimento della cucina, guardò indietro in mezzo alle proprie gambe e vide i piedi dell'uomo. Portava stivaletti di pelle di cudù e ghette pure di pelle: piedi grandi, gambe forti... Uomo grosso. Si raddrizzò, tenendo le mani lontano dal corpo. « Non avrebbe dovuto portare una pistola, maggiore. E' stato molto sospettoso e ha messo in pericolo entrambi. » Zouga avvertì il sollievo nel tono della voce, che gli era familiare. Cercò di ricordare. Quello strano accento, dove lo aveva udito? Sentì l'altro ritirarsi in fondo alla cucina. « Ora, lentamente, maggiore, molto lentamente, si può voltare. » L'uomo stava nella penombra delle pareti sporche di fuliggine, ma il raggio di sole dall'alta finestra gli cadeva sulle mani e sull'arma che stringevano. Era una doppietta. Ambedue i cani erano alzati e le dita dell'uomo erano piegate sui grilletti. « Lei! » « Sì, maggiore, io! » Il butterato griqua bastaard gli sorrise: i denti bianchi contro il bel viso scuro e i riccioli zingareschi che gli cadevano sul bavero della giacca. « Hendrick Naaiman, al suo servizio, ancora una volta. » « Se vuol comprare bestiame, è proprio un bel modo di fare gli affari questo. » Il griqua era quello che gli aveva comprato il tiro di buoi, che gli aveva dato i soldi per acquistare Le Diaboliche. « No, maggiore, questa volta vendo. » E subito aggiunse: « No, maggiore, non si muova e tenga le mani bene in vista. Ho caricato con Big Loopers, cartucce da leone, maggiore. A questa distanza la taglierebbero in due. » Zouga sollevò le mani, allontanandole dai fianchi. « Che cosa vende? » « Ricchezza, maggiore, una nuova vita per lei. E per me. » Zouga sorrise, ironico. « Le sono molto grato per la sua gentilezza, Naaiman. » « Per piacere mi chiami Hendrick, maggiore... Se dobbiamo essere soci.» « Soci? » Zouga piegò la testa di lato con aria grave. « Un onore. » « Vede, lei ha qualcosa di cui io ho bisogno e io ho qualcosa
che può far comodo a lei. » « Vada avanti. » « Lei ha due ottime concessioni, ottime davvero sotto ogni punto di vista a parte il fatto che danno pochissimi diamanti. » Zouga sentì riscaldarsi la cicatrice che aveva sulla guancia, ma mantenne la sua espressione impassibile. « E come lei sa, maggiore, la mia origine, quel pizzico di sangue misto che ho nelle vene, o più brevemente il mio sangue cafro, mi impedisce di possedere concessioni. » Tacquero, guardandosi dalle due estremità della cucina in penombra. Zouga aveva abbandonato l'idea di buttarsi sulla doppietta. Il tono chiaro e persuasivo dei griqua cominciava a incuriosirlo. « Per questa ragione non posso venderle le mie concessioni, neppure sotto la minaccia di un fucile », disse Zouga, calmo. « No, no, lei non ha capito. Lei ha le concessioni ma non i diamanti, mentre io non ho le concessioni ma... » Da una tasca interna Hendrick tirò fuori una borsa per il tabacco e la tenne sospesa per il laccio dall'indice. « ... Ma ho i diamanti. » Finì la frase e lanciò la borsa attraverso la stanza. D'istinto, Zouga allungò un braccio e la prese al volo. La tenne in mano fissando Naaiman. « L'apra, per piacere, maggiore. » Lentamente, Zouga obbedì. Aprì la piccola borsa di panno e guardò dentro. La luce era cattiva, ma nella borsa qualcosa brillava come le spire di un serpente addormentato. Zouga sentì l'eccitazione che sempre gli procuravano i diamanti stringergli il petto; quella sensazione di mancanza di respiro che sempre aveva quando vedeva brillare una pietra. Capovolse la borsa e versò una cascatella di diamanti grezzi nel palmo della mano. Li contò rapidamente: otto in tutto. Una era una pietra splendente, gialla, d'un venti carati all'incirca. Duemila sterline, stimò Zouga. « Sono solo un campione della mia merce, maggiore, l'arrivo di una settimana. » C'era un'altra perfetta pietra, levigata e grigio-argento, più grossa del diamante giallo, del valore di almeno tremila sterline. Un'altra pietra ancora era di forma triangolare, simmetrica, come quelle pasticche per la gola che sanno di liquirizia, ricordi soprattutto d'infanzia. Una pietra argentea, limpida e splendente. Zouga la prese tra l'indice e il pollice e la tenne contro la luce proveniente dall'alta finestra. « CID? » chiese. « Brutte parole, maggiore, offendono la mia natura delicata. Non stia a preoccuparsi da dove vengono e di come le ho avute, stia solo certo che ve ne saranno altre, molte altre. Ogni settimana ci sarà un arrivo di pietre di prima acqua. » « Ogni settimana? » chiese Zouga, e avvertì il proprio tono
avido. « Ogni settimana », ripeté Hendrick guardandolo, e capì che la mosca aveva toccato i fili appiccicaticci della sua ragnatela. Abbassò le canne del fucile verso il pavimento di terra battuta e sfoggiò quel suo smagliante sorriso. « Ogni settimana avrà un pacchetto come questo da buttare nella sua culla o sul suo tavolo di scelta. » C'era un'altra pietra nel palmo della mano. Sulle prime Zouga aveva pensato che si trattasse di un diamante nero, di un bort, un diamante quasi senza valore per uso industriale, ma di colpo il cuore gli diede un tuffo allorché la povera luce vi cadde sopra e la pietra assunse fin nel suo interno un intenso color smeraldo. Le dita gli tremavano leggermente quando la sollevò. « Sì, maggiore. » Hendrick Naaiman stava annuendo. « Ha l'occhio buono: è un drago verde. » Una bizzarria della natura, un diamante verde, un capriccio, nel gergo del kopie-walloper. C'erano capricci del colore dei rubini o degli zaffiri o dei topazi, e il loro valore dipendeva dal mercato. Non era improbabile che quel drago verde raggiungesse diecimila sterline e finisse tra i gioielli della corona di un imperatore. « Ha detto soci? » chiese Zouga a bassa voce. « Sì, soci. » Hendrick annuì. « Io troverò le pietre. Le farò un esempio. Ho pagato trecento sterline a uno dei miei uomini per quel drago verde. Lei lo registra come un ritrovamento alle Diaboliche... » Zouga lo guardava fisso, avido, con le mani che ancora gli tremavano, e Hendrick avanzò verso di lui fiducioso. « Lei dovrebbe ottenere quattromila sterline per una pietra come quella, un guadagno di tremilasettecento sterline, e dividiamo a metà, perché io non sono avido. Soci in parti uguali, maggiore, milleottocentocinquanta per lei e milleottocentocinquanta per me. » Zouga si passò le pietre nella mano sinistra. I suoi occhi non avevano abbandonato le labbra del griqua. « Che ne dice, maggiore? Soci in parti uguali. » Hendrick Naaimari trasferì il fucile nella sinistra e porse la destra. « Soci in parti uguali », ripeté. « Stringiamoci la mano. » Lentamente, Zouga allungò la propria destra, a dita aperte e col palmo all'insù. Poi, quando le loro dita si toccarono, gettò la manciata di diamanti in faccia a Hendrick Naaiman. C'era tutta la sua forza dietro quel lancio, tutta la sua rabbia per essere stato così penosamente tentato, tutto il suo risentimento per quel diabolico attacco alla stima che aveva di se stesso. I diamanti ferirono il griqua; uno, acuminato, gli produsse una lacerazione sulla liscia fronte dalla pelle olivastra sopra l'occhio destro, un altro gli tagliò il labbro. Involontariamente, mentre indietreggiava barcollando per quell'improvviso attacco, Hendrick Naaiman alzò le braccia sollevando la bocca del fucile in alto davanti al proprio viso,
ma al tempo stesso la sua destra si chiuse sull'impugnatura e il suo indice si piegò sui grilletti. Entrambi i cani erano alzati e ogni canna era caricata con cartucce da leone. Hendrick Naaiman cominciò ad abbassare l'arma, puntandola contro il ventre di Zouga. Ma Zouga afferrò le canne e spinse in su il fucile, allungando la sinistra verso il polso destro del grosso griqua, che fece scattare entrambe le braccia all'indietro. Zouga non fece nessuno sforzo per resistergli; si lanciò invece in avanti spingendogli il fucile in faccia. Le canne di acciaio brunito urtarono contro lo zigomo e il griqua annaspò sotto il colpo e indietreggiò. Zouga gli si lanciò di nuovo contro spingendolo verso la parete nera di fuliggine e facendogli mandare un grugnito di dolore. Il griqua rimase lì inchiodato per un momento, con il fucile puntato contro il soffitto. In quei pochi secondi Zouga allungò la sinistra, infilò il pollice nel ponticello e spinse contro i grilletti. Le due canne esplosero contemporaneamente. Lo scoppio, in quella piccola cucina, fu assordante. Le due vampate color arancione illuminarono la penombra con un lampo e le scariche bucherellarono il soffitto marcio. Dai buchi lassù piovvero dentro lunghi raggi brillanti di sole. Il forte rinculo del fucile spinse il calcio nel ventre di Hendrick Naaiman, che si piegò in due, boccheggiando per lo shock e il dolore. Il fucile adesso era scarico, innocuo. Zouga lo lasciò andare e si buttò a tuffo sul pavimento polveroso. Era tutto teso in avanti e le sue dita sfiorarono il calcio zigrinato della Colt nera. Mentre disperatamente cercava di afferrarla, udì un leggero stropiccio di piedi sulla terra battuta dietro di lui e rotolò sulla destra, scattando sul dorso senza sollevare il capo. Hendrick Naaiman era sopra di lui col fucile scarico levato sul capo con ambedue le mani, come la scure di un boia, e aveva già menato il colpo. Il fucile calò in un ampio arco: l'acciaio brillava nella penombra e il sibilo della caduta era simile al frullo dell'ala di un'anatra. Zouga rotolò di nuovo sul fianco, scansandosi. Ma il calcio del fucile lo colse. Lo sfiorò appena, in alto sulla spalla, ma gli fece scattare indietro la testa, così da fargli sbattere i denti, e immediatamente il braccio destro gli si intorpidì dalla spalla alla punta delle dita. La Colt gli volò via di mano e, strisciando sul pavimento della cucina, andò a sbattere contro la parete più lontana. Immediatamente il griqua si voltò per rincorrere la pistola e Zouga gli mollò un calcio sul retro del ginocchio, colpendolo forte col tacco dello stivale. Sotto il colpo la gamba di Hendrick si piegò, e sarebbe caduto se la parete non lo avesse sostenuto. Vi sbatté contro, immobilizzato per un momento dalla gamba indolenzita, e Zouga scattò in piedi. Colpì con la sinistra, sentendo il solido impatto della mascella del griqua contro il suo pugno. Poi colpì di nuovo, sempre con la sinistra, e questa volta sentì la cartilagine del naso aquilino cedere con uno scricchiolio come un morso su una mela, e il san-
gue che colò dalle narici del griqua gli procurò una fiera gioia. Avrebbe ridotto quell'uomo a una massa sanguinante di carne. « Aspetti! » gridò Hendrick. « Per piacere! Non mi colpisca di nuovo. » Il grido era così disperato e il terrore sul viso del griqua così penoso che Zouga controllò la sua fredda rabbia. Fece un passo indietro e abbassò le mani, e il griqua gli lanciò il fucile scarico in faccia. Fu così inaspettato, lo colse talmente alla sprovvista, che pur mentre s'abbassava per scansarsi Zouga capì che era troppo tardi, e si maledisse per la propria ingenuità. L'impressione fu che qualcuno gli avesse sbattuto una porta in faccia; la vista gli s'annebbiò improvvisamente per il sangue. Si lanciò in avanti, si tuffò di nuovo per prendere la pistola. Fece in tempo a mettere una mano sulla canna ma, proprio mentre la toccava, tutto il peso del corpo lanciato di Hendrick Naaiman gli piombò sulle spalle, mandandolo a sbattere contro lo stipite della porta. Ma Zouga aveva conservato la presa sulla canna della pistola e colpì allora alla cieca, usandola come mazza. Sentì il calcio affondare nella carne e colpì ancora e ancora; alcuni colpi finirono nel vuoto, altri contro il pavimento, ma altri ancora andarono a segno contro ossa. Zouga ansimava, accecato dal proprio sangue, e per alcuni secondi non si rese conto che Hendrick non reagiva più. S'abbandonò contro la parete, allora, e s'asciugò il sangue dagli occhi, poi sbirciò come un vecchio attraverso il velo rosso. Hendrick era accanto a lui. Stava disteso sulla schiena, con le braccia allargate come se fosse crocifisso, e il sangue gli usciva a bolle dalle narici. Era immobile, e il respiro era l'unico segno di vita. Zouga abbassò la pistola e, appoggiandosi contro la parete, si alzò in piedi. Rimase lì vacillante, col capo chino e con la pistola che gli pendeva dalla mano, che improvvisamente era tanto debole da potere a stento sopportarne il peso. « Master Zouga! » Jan Cheroot si precipitò nello spiazzo davanti alla fattoria, affannato per la corsa, recando il LeeEnfield poggiato contro il petto, con il sudore che gli colava da sotto il berretto militare senza tesa e in faccia un'espressione preoccupata allorché vide il viso insanguinato di Zouga. « Ce ne hai messo », lo accusò Zouga con voce roca, sempre tenendosi allo stipite della porta per reggersi in piedi. Aveva lasciato l'ottentotto nascosto con il fucile in una gola a un chilometro di distanza sulla pianura polverosa. « Mi sono messo a correre appena ho sentito gli spari. » Zouga si rese conto che lo scontrò con il griqua era durato appena pochi minuti, quanto occorreva a un uomo per compiere di corsa quel tragitto. Jan Cheroot si sfilò la borraccia dalla spalla e cercò di lavargli via un pò di sangue dal viso. « Lascia stare. » Zouga lo allontanò bruscamente. « Guarda se c'è una corda nelle borse della sella del bastaard, qualcosa
per legarlo, una cavezza, qualsiasi cosa. » C'era un rotolo di corda di cuoio intrecciato sul pomo della sella della cavalla storna. Jan Cheroot andò a prenderla e s'affrettò a tornare, ma sulla soglia della baracca si fermò. « Lo conosco. » Guardò fisso il volto insanguinato di Hendrick Naaiman. « Credo di conoscerlo, ma lo hai conciato brutto. » « Legalo », bisbigliò Zouga, e bevve dalla borraccia. Poi si slegò dal collo il fazzoletto di seta e lo bagnò alla borraccia, dopodiché cominciò a togliersi con cura il sangue e la polvere dai tagli e dai graffi. La ferita peggiore l'aveva all'attaccatura dei capelli, nel punto in cui era stato colpito dall'otturatore del fucile; al tatto, capì che aveva bisogno di punti. Jan Cheroot mormorava insulti e imprecazioni contro il griqua mentre lo legava. « Serpente giallo. » Fece rotolare il griqua sulla schiena. « Solo perché hai delle scarpe ai piedi e un paio di pantaloni che ti copre quel culo nero, ti credi un gentiluomo. » Gli mise le braccia dietro la schiena e, lesto ed esperto, lo legò ai polsi e ai gomiti. « Faresti sfigurare un avvoltoio. » Gli avvolse la corda intorno alle caviglie e la strinse forte. « Persino le iene si rifiuterebbero di mangiare sterco accanto a te, bellezza. » Zouga tappò la borraccia e raccolse da terra la borsa da tabacco vuota. Dopodiché si misero a cercare i diamanti. Erano sparpagliati per tutta la cucina. L'ottavo e ultimo era il drago verde, scuro e quasi invisibile in un angolo buio. Zouga lanciò la borsa a Jan Cheroot, che quando vi guardò dentro emise un fischio. « CID », mormorò l'ottentotto, con la faccia rugosa distorta in una maschera di autentica cupidigia. « Il serpente giallo era un CID. » « Voleva che facessimo passare quelle pietre per il nostro tavolo di scelta. » « A quali condizioni? » chiese Jan Cheroot, giocherellando con i diamanti. « Metà e metà. » « Buone condizioni. Potremmo arricchirci in sei mesi e andar via da questo stramaledetto deserto per sempre. » Zouga gli strappò di mano la borsa. Aveva già superato una volta la tentazione. « Prendi il suo cavallo », ordinò, arrabbiato. Sollevarono il corpo inerte del griqua e lo buttarono sulla sella della cavalla. Mentre Jan Cheroot stava legandolo alla bestia, il griqua scalciò debolmente e, storcendo il collo per sbirciare dalla parte di Zouga, cercò di sollevare la testa. « Maggiore », gracchiò, ancora mezzo incosciente. « Maggiore, lasci che le spieghi. Lei non ha capito. » « Chiudi il becco », ringhiò Zouga. « Maggiore, non sono un ladro, lasci che le spieghi. »
« Ti ho detto di chiudere il becco », l'avvertì Zouga. Poi gli fece spalancare la bocca affondando con forza i pollici nelle guance insanguinate e gli cacciò in bocca la borsa di diamanti. « Strozzati con i tuoi maledetti diamanti, ladro, bastardo traditore », gli disse minaccioso, sistemando la borsa. La tenne ferma legando il fazzoletto di seta sulla bocca del griqua, che gridava rauco e roteava gli occhi, buttando il capo di qua e di là. Le grida erano soffocate e la saliva bagnava la seta dai colori allegri. « Questo ti farà star zitto fino a che arriviamo davanti al Comitato. » Jan Cheroot montò dietro l'imbavagliato griqua sulla cavalla storna e seguì Zouga fino al castrato. Sbuffava, sospirava e scuoteva il capo. « Che spreco! » borbottò a voce abbastanza alta perché Zouga sentisse. « Quella borsa ci avrebbe riportati al nord. » Sbirciò dalla parte di Zouga ma non ci fu nessuna reazione. « Comunque, il Comitato lascerà linciare questo bastardo giallo. E' un pasto già pronto per gli avvoltoi... » Hendrick si dimenò inutilmente e tirò su col naso gonfio. « ... Se lo facessimo noi, invece - un lavoretto tranquillo pulito, una pallottola in testa - e lo lasciassimo ai suoi fratelli e sorelle, gli sciacalli e le iene, be', nessuno saprebbe mai niente. » Sbirciò di nuovo pieno di speranza verso Zouga. « Il contenuto di quella borsa ci porterebbe di nuovo al nord, fin dove abbiamo voglia di andare. » Zouga mise il castrato al piccolo galoppo e davanti a loro i tetti di lamiera e i coni impolverati delle tende di New Rush brillarono rossi ai raggi obliqui del sole al tramonto. Jan Cheroot mandò un sospiro e spinse la cavalla storna col suo doppio carico attraverso il campo, seguendo Zouga. Pickering e Rhodes facevano mensa comune con alcuni altri cercatori scapoli dietro Market Square, vicino ai principali cumuli di sterile. C'erano due ottime acacie che davano loro ombra e avevano piantato una siepe tutt'intorno al gruppo di capanne di lamiera e baracche recintate. Ogni partecipante alla mensa possedeva delle buone concessioni e ne trovava di pietre, altrimenti non avrebbe potuto permettersi di pagare i conti della mensa, visto che lo champagne e il cognac invecchiato costituivano la dieta principale del gruppo. Uno di loro era il figlio più giovane di un conte. Un altro era un baronetto, anche se solo dell'aristocrazia irlandese. Quasi tutti, poi, erano membri del Comitato dei Cercatori, e il loro stile aveva guadagnato al gruppo il titolo « I Magnifici ». Quando Zouga entrò nel campo, una mezza dozzina di loro era raccolta sotto le acacie. Stavano pranzando con champagne Veuve Cliquot, benché il sole fosse ancora alto sull'orizzonte, e litigando amabilmente a proposito delle grosse scommesse da loro fatte sul numero delle mosche che si sarebbero posate sulle zollette di zucchero che ognuno aveva sul tavolo pieghevole
davanti a sé. Pickering alzò lo sguardo e per la prima volta espresse stupore alla vista di Zouga. « Signori », esclamò Zouga, solenne. « Ho qualcosa per voi. » Si sporse dalla sella e tagliò la corda che legava Hendrick Naaiman al sottopancia della cavalla storna, dopodiché lo spinse giù dalla groppa lasciandolo cadere a testa in giù nella polvere davanti al gruppo di membri del Comitato dei Cercatori. « CID », annunciò, mentre quelli lo guardavano. Pickering si mosse per primo. Saltò in piedi. « Dove sono i diamanti, maggiore? » chiese. « Li ha in bocca. » Pickering si inginocchiò accanto al griqua e sciolse il fazzoletto. Tirò fuori dalla bocca la borsa bagnata di saliva e ne versò il contenuto sul tavolo pieghevole in mezzo alle mosche, alle zollette di zucchero e alle bottiglie di champagne. « Otto. » Rhodes contò rapidamente le pietre e parve molto risollevato. « Ci sono tutte. » « Ti avevo detto di non preoccuparti. Ho scommesso cinquanta ghinee che ci sarebbero state tutte. Non dimenticare. » Pickering sorrise a Rhodes e si girò di nuovo verso il griqua, che si dibatteva nella polvere come una gallina legata. Pickering, sollecito, lo aiutò a rialzarsi. « Mio caro amico », chiese. « Sta bene? » « Per poco non mi ha ammazzato », belò il griqua. « E' pazzo. » « Le avevo detto di esser cauto », convenne Pickering. « Non è uno con cui si scherza. » Batté sulla spalla del griqua. « Ben fatto, Hendrick. Un buon lavoro. » Poi Pickering si rivolse a Zouga. « Le dobbiamo delle scuse, maggiore. » Allargò le braccia e sorrise. Zouga lo stava guardando fisso, incapace di aprir bocca, il viso tanto pallido che i graffi e i tagli acquistarono risalto. Poi, alla fine, la cicatrice sotto l'occhio s'arrossò e lui ritrovò la voce. « Una trappola! » sibilò. « Mi avete teso una trappola. » « Dovevamo essere sicuri di lei », intervenne Rhodes. « Dovevamo sapere che tipo d'uomo è lei, prima di accoglierla nel Comitato dei Cercatori. » « Porco », ringhiò Zouga. « Porco arrogante. » « Lei ne è venuto fuori con tutti gli onori, signore », ribatté Rhodes, irrigidito. Non era abituato a sentirsi chiamare in quel modo. « Se fossi caduto nella vostra trappola, che avreste fatto? » Rhodes scosse le sue pesanti spalle. « Il problema non si pone. Lei s'è comportato da vero gentiluomo inglese. » « Non saprà mai quanto vicino sono stato a cedere. » « Oh, sì, lo so. Quasi tutti noi qui presenti siamo stati sottoposti alla prova. » Zouga si rivolse a Pickering. « Cosa sarebbe successo, un linciaggio? »
« Oh, mio caro amico, probabilmente niente di così teatrale. Sarebbe solo potuto scivolare sulla strada soprelevata e precipitare giù negli scavi, o avere la sfortuna di trovarsi sotto una gabbia quando la fune si spezzava. » Rise, allegro, e gli uomini intorno al tavolo risero con lui. « Lei ha bisogno di un bicchiere di Charlie Champers, maggiore, o forse di qualcosa di più forte. » « Si unisca a noi, signore », esclamò un altro, facendogli spazio al tavolo. « Un onore, bere con un gentiluomo. » « Venga, maggiore. » Pickering sorrise. « Manderò a chiamare il cerusico per quella ferita alla testa. » Poi Pickering tacque e la sua espressione cambiò. Zouga aveva sfilato i piedi dalle staffe ed era saltato a terra davanti a lui. Erano della stessa altezza, entrambi grandi e grossi, e il gruppo intorno al tavolo rimase subito affascinato. Ci sarebbe stato uno spettacolo più divertente che guardare delle mosche posarsi su zollette di zucchero. « Perdio, sta per colpire Pickling alla testa. » « O Pickling lui. » « Dieci ghinee che vince il cacciatore d'elefanti. » « Non approvo le risse », mormorò Rhodes, « ma punto dieci su Pickling. » « Dico io, quell'altro ha già fatto la sua parte, penso che potreste anche offrirgli più probabilità. » A Pickering il sorriso si era gelato sulle labbra; stava piantato a gambe larghe, coi pugni chiusi e la guardia mezzo sollevata. Zouga abbassò la propria e si girò disgustato verso il gruppo sotto le acacie. « Vi ho già offerto abbastanza divertimento per oggi », disse, gelido. « Potete tenervi i vostri maledetti diamanti e il vostro dannato Comitato e... » Uno scoppio di applausi e di risate coprì il suo sfogo. Il maggiore saltò in groppa al castrato e lo mise al galoppo, e l'ironico applauso lo seguì fuori del campo. « Spero che non l'abbiamo perso. » Pickering abbassò i pugni e rimase a guardare Zouga che si allontanava. « Dio, se abbiamo bisogno di uomini onesti. » « Oh, non preoccuparti », disse Rhodes. « Diamogli il tempo di calmarsi, dopodiché lo convinceremo. » « Henshaw. » Bazo teneva il cesto di canna intrecciata in grembo e vi guardava dentro con aria grave. « Henshaw, non è ancora pronta per combattere di nuovo. » Sedevano in circolo intorno al fuoco, al centro della capanna dal tetto di paglia. Ralph si sentiva più a casa sua lì che nella tenda sotto il cratego. Lì era con amici, gli amici più intimi che avesse mai conosciuto nella sua vita di nomade, e lì era anche libero dalla stretta e continua sorveglianza di suo padre. Immerse la mano sinistra nella pentola nera sul treppiede che avevano in comune e tirò su un pò di dura e bianca fari-
nata di mais. Arrotolandola poi tra le dita per formarne una palla, si rivolse al giovane principe matabele che sedeva di fronte a lui. « Se fossi tu a decidere, non tornerebbe mai a combattere », gli disse, e immerse la palla nella salsa di montone ed erbe selvatiche. « La sua zampa nuova ancora non è abbastanza forte. » Bazo scosse il capo. Ralph si cacciò in bocca la palla e disse, masticando: « La zampa è forte e lucida come un coltello ». Bazo gonfiò le guance e assunse un'espressione ancora più grave, e sul suo posatoio, nell'ombra dietro di lui, Scipione, il falco, scosse le piume e lanciò un basso « Quit », come per esprimere la propria solidarietà con lui. La decisione di Bazo, benché profondamente scossa dagli argomenti di Ralph e dalle sollecitazioni degli altri giovani matabele, sembrava definitiva. Perché era stato lui, Bazo, a catturare la bestia di cui stavano parlando. « Ogni sera che non combatte, noi, fratelli, diventiamo più poveri », intervenne Kamuza, a sostegno di Ralph, « Henshaw ha ragione. E' forte come un leone e pronto a farci guadagnare a tutti quanti molte regine d'oro. » « Già parli e pensi come un bianco », ribatté Bazo, con aria di superiorità. « Le monete gialle ti riempiono la testa giorno e notte. » « C'è qualche altro motivo per possedere quella cosa? » E, con un lieve brivido, Kamuza indicò il cesto. « Se ti punge, la lancia della tua virilità si raggrinza e restringe come un frutto marcio finché diventa poco più grande del dito di un neonato. » « Che seccatura sarebbe », disse Ralph ridendo. « Come un ippopotamo che si contrae diventando un topo dei campi. » Bazo sorrise e fece il gesto di piazzare il piccolo cesto in grembo a Kamuza. « Avanti, su, facciamola succhiare un pò per darle forza per il combattimento », propose, e il circolo di matabele esplose in una sonora risata alla vista dell'orrore di Kamuza, che strillò e s'allontanò con un balzo. Le loro grida coprivano il disagio per la vicinanza del cesto, e quando Bazo sollevò con cautela il coperchio tacquero immediatamente. Allungarono il collo affascinati. Sul fondo del cesto qualcosa di scuro e peloso, grande come un topo, si mosse. « Hau! Inkosikazi! » salutò Bazo, e la cosa indietreggiò sulle sue molte zampe, sollevando il paio anteriore in difesa; le fila d'occhi lampeggiarono alla luce vacillante delle fiamme. Bazo sollevò la mano destra per restituire il saluto delle lunghe zampe pelose. « Anch'io ti vedo, Inkosikazi. » Bazo l'aveva battezzata Inkosikazi, la regina, perché, come aveva spiegato a Ralph: « E' regale nella sua furia e assetata quanto una regina matabele ». Lui e Ralph stavano caricando travi di legno all'estremità
orientale delle nuove impalcature e, allorquando uno dei carichi aveva oscillato nel venire issato dalla braca, il grande ragno era venuto fuori dal suo nido tra le travi segate e, sollevando il suo gonfio addome vellutato, s'era arrampicato su per il braccio di Ralph e da lì era balzato a terra. A zampe stese il ragno era grande quanto un piatto da tavola. Il suo aspetto irsuto e la sua elasticità nel saltare avevano guadagnato alla specie il nome diffuso di ragno babbuino. « Prendilo, Bazo! » aveva urlato Ralph dall'alto del carro che stavano caricando. Perché ora che Griqualand West e gli scavi di New Rush facevano parte della Colonia del Capo e dell'Impero britannico c'erano stati dei cambiamenti. New Rush era stata ribattezzata Kimberley, da Lord Kimberley, il ministro delle Colonie a Londra, e la città di Kimberley stava cominciando a godere dei benefici della civiltà britannica e della moralità vittoriana, tra i quali figurava il divieto assoluto dei combattimenti di galli, divieto che era severamente applicato dal nuovo amministratore. Ma i cercatori, sempre avidi di distrazioni, non avevano messo molto a trovare uno sport alternativo. I combattimenti di ragni erano la nuova moda lì agli scavi. « Non lasciarlo scappare! » Ralph era saltato giù dal carro lacerandosi la camicia. Bazo era stato più lesto. S'era tolto di colpo il perizoma e l'aveva sventolato davanti al ragno come un matador che sfida il toro, e l'enorme aracnide s'era fermato sulle zampe posteriori agitando le altre, minaccioso; al che Bazo gli aveva gettato sopra il perizoma e lo aveva avvoltolato con rapidità. Ora, lentamente ma con decisione, allungò la mano nel cesto e il ragno si sollevò sulle zampe muovendo minaccioso le mandibole da lupo con in mezzo l'unica zanna curva e rossa, fuori del suo alveolo in quel momento e con una pallida goccia di veleno che brillava sulla sua punta aguzza come un ago. Nella buia capanna non si sentiva neppure respirare, e il lieve frusciare e scoppiettare delle braci suonò assordante nel silenzio in cui erano piombati mentre guardavano la mano aperta di Bazo avvicinarsi sempre di più alla creatura. Alla fine la toccò con la punta delle dita e cominciò a carezzare il morbido dorso peloso. Lentamente, il ragno abbandonò la sua posizione minacciosa e i presenti lanciarono un sospiro di sollievo e ripresero a respirare. Inkosikazi aveva combattuto cinque volte e cinque volte aveva ucciso, anche se nell'ultimo combattimento contro un'altra femmina enorme e feroce aveva perso una delle zampe, divorata fino alla prima giuntura. Questo era successo quasi tre mesi prima, ma l'arto mutilato s'era rigenerato e la nuova zampa era di colore più chiaro delle altre, come i nuovi germogli in un cespuglio di rose. Lentamente, Bazo voltò la mano col palmo in su e il ragno s'arrampicò lesto e vi si accoccolò, riempiendolo completamente
pur senza allungare le sue molte zampe. « Una regina », disse il giovane matabele. « Una vera regina. » Poi si rivolse al ragno: « Henshaw vorrebbe vederti combattere di nuovo ». Lanciò un'occhiata a Ralph e atteggiò le labbra in una smorfia maliziosa. « Va' da Henshaw e digli se combatterai o no. » E offrì il ragno a Ralph. Ralph si sentì strisciare sulla pelle le orribili zampette e vide il ragno accovacciarsi come un rospo peloso davanti al suo viso. « Su, Henshaw. » Bazo sorrise. « Parlale. » Era una sfida e, pregustando, i presenti si agitarono. Se la sfida non fosse stata raccolta, il loro scherno sarebbe stato spietato. Ralph si sforzò di muoversi, ma la ripugnanza era come un groppo di fredda nausea alla gola, e il velo di sudore sulla fronte gli si gelò all'improvviso. Bazo continuava a sorridere, ma la sfida che c'era nel suo sguardo diretto stava lentamente mutandosi in sdegnosa derisione. Con un enorme sforzo, allora, Ralph alzò la mano e a quel movimento il ragno si sollevò sulle zampe e il morbido e gonfio addome parve pulsare leggermente, oscenamente. Solo una persona aveva mai toccato Inkosikazi e la sua reazione a un contatto estraneo era imprevedibile; ma Ralph si costrinse ad allungare la mano verso di lei. Lentamente, le punte delle dita si avvicinavano sempre più, sei centimetri, quattro, due dal corpo peloso. A un tratto il ragno scattò. Si lanciò in un'alta parabola atterrando sulla spalla di Ralph. Il cerchio di spettatori si ruppe e, in preda a un panico comico, strillando di terrore, i matabele si precipitarono, cadendo uno sull'altro, verso la bassa apertura della porta. Solo Bazo e Ralph non si mossero. Ralph stava con la mano ancora stesa e il grosso ragno accoccolato sulla sua spalla. Con un movimento infinitamente lento, Ralph inclinò il capo e lo guardò, e la bestia cominciò a muoversi; sollevando le zampe pelose con una raggelante delicatezza, strisciò lateralmente fin nell'alveo del suo collo, così che lui non riusciva più a vederlo ma poteva sentire il contatto delle punte acuminate di quelle zampe sulla pelle morbida della gola. Un grido di orrore gli si strozzò in gola ma, con un enorme sforzo di volontà, rimase immobile. Il ragno gli si arrampicò sul mento e rimase per un istante sospeso a testa in giù, come un grosso pipistrello peloso, e lui, Ralph, continuò a non muoversi. Sollevò invece gli occhi e incontrò lo sguardo del matabele di fronte a lui. La derisione era scomparsa dallo sguardo di questi e dietro di lui gli altri spettatori si avvicinarono di nuovo, affascinati e timorosi. Rimasero così per qualche minuto, e alla fine Ralph alzò la mano. Il gesto fu così calmo, così controllato, che il ragno mostrò solo qualche lieve segno d'allarme, dopodiché zampettò verso le dita che lo invitavano e Ralph lo trasferì con cautela di nuovo nel cesto. Sarebbe voluto balzar su e fuggire nel buio, per essere solo
e vomitare tutto il suo orrore, ma si costrinse a rimanere seduto e a guardare impassibile Bazo, finché il matabele abbassò gli occhi. « Combatterà », disse poi a bassa voce. « Come vuoi tu, Henshaw. Domani combatterà di nuovo. » E chiuse il coperchio del cesto. Inkosikazi non combatteva da almeno tre mesi e gli scommettitori, sempre volubili, s'erano dimenticati di lei. Altri campioni erano emersi durante la sua assenza e suscitavano ora il fanatismo dei loro ammiratori. Costoro si accalcavano in quadrupla fila intorno ai loro proprietari, cercando, nell'attesa del primo incontro del pomeriggio, di sbirciare nei cesti e di stabilire le qualità combattive delle creature prigioniere. Benché ogni sera dietro la taverna di Diamond Lil si tenessero degli incontri a lume di lanterna, il maggior evento della settimana era rappresentato da quello della domenica pomeriggio, quando ogni cercatore di Kimberley correva all'angolo occidentale di Market Square a scegliere il suo ragno preferito. L'arena era una struttura di legno di due metri per due e profonda uno, coperta da una lastra di cristallo. Questa lastra era la più grande del Griqualand; in origine destinata alla vetrina di un negozio di moda femminile su Main Street, era miracolosamente sopravvissuta al lungo viaggio in carro dalla costa ed era ora probabilmente uno degli oggetti più apprezzati di Kimberley. Senza di essa lo sport sarebbe morto e le domeniche pomeriggio sarebbero state più che tediose. La lastra di cristallo e l'arena di legno erano di proprietà di un ex kopje-walloper il quale aveva scoperto che si facevano più soldi con i ragni che con i diamanti. La proprietà del cristallo gli dava il monopolio dei combattimenti e gli permetteva di far pagare un biglietto d'ingresso molto caro e di prendersi una parte da leone delle vincite. Una mezza dozzina di carri erano stati disposti in quadrato intorno all'arena e costituivano la tribuna. Le taverne intorno alla piazza fornivano un servizio all'aperto, con i camerieri che barcollavano sotto i vassoi carichi di boccali di spumeggiante birra per calmare la sete furiosa che gli uomini avevano accumulato durante la settimana negli scavi. La popolazione femminile, da quando Kimberley era diventata parte dell'Impero, era raddoppiata e riraddoppiata, e le signore approfittavano dell'occasione per sfoggiare qualche grazioso cappellino o una benformata caviglia. I loro deliziati gridolini d'orrore quando i ragni combattenti venivano lasciati liberi nell'arena accrescevano l'atmosfera generale di eccitazione. In uno dei vicoli che davano nella piazza, Ralph e i suoi matabele erano immersi in una profonda discussione. « Io non so cosa significa quel nome », stava protestando Bazo. « E' il nome di una donna pericolosa che ballava così bene che, quando lo richiese, il re tagliò la testa di un uomo e gliela
offrì. » Tutti rimasero impressionati. Era il tipo di storia che affascinava i matabele. « Qual è il nome, ripetilo », chiese Bazo, pensieroso. « Salomè... » « Ma perché non possiamo farla combattere con il suo vero nome? » Bazo lanciò un'occhiata al cesto che aveva sottobraccio. « Perché per questo combattimento dobbiamo cambiare il nome di Inkosikazi? Non è di buon auspicio. » Ralph apparve esasperato. « Se usiamo quel nome, capiranno che è la stessa che ha già ucciso cinque volte. Se la chiamiamo Salomè, be', un ragno è uguale all'altro. Non la riconosceranno. Penseranno che non è di razza e noi vinceremo più soldi. » « E' una buona ragione », intervenne Kamuza, ma Bazo lo ignorò. « Chi ha trovato questo nome? » insisté. « Jordie. L'ha trovato nel grande libro. » Questo fu decisivo. Bazo aveva un enorme rispetto per il bel ragazzo e la sua conoscenza dei libri. « Salomè. » Annuì. « D'accordo, ma solo per oggi. » « Bene. » Ralph si stropicciò le mani con gesto vivace. « Ora, dove sono i soldi? » Tutti guardarono Kamuza. Era il tesoriere del gruppo. In anni di ininterrotto lavoro la squadra di giovani matabele aveva accumulato un mucchio di monete d'oro e d'argento, perché alle paghe s'erano aggiunti i premi per i ritrovamenti. C'erano poi naturalmente le consistenti vincite negli incontri precedenti di Inkosikazi. Kamuza teneva il suo tesoro sepolto sotto il pavimento della capanna comune ma, riluttante, ne aveva esumato una parte la sera prima e ora tirò fuori una morbida borsa bianca e pelosa fatta con la pelle dello scroto di un'antilope saltante e, sempre riluttante, contò le monete consegnandole a Ralph. Nessun allibratore avrebbe accettato una scommessa da un nero, così Ralph faceva da copertura per il sodalizio dei matabele. « Fa' uno scritto », disse Kamuza, e Ralph scribacchiò una ricevuta per sedici sovrane su una pagina del suo taccuino, la strappò e la porse al matabele, che l'esaminò attentamente. Si fidava senz'altro di Ralph. Non sapeva leggere, ma i riti del commercio europeo lo affascinavano e aveva sempre visto i bianchi passarsi dei pezzi di carta ogni volta che scambiavano denaro. « Bene. » Cacciò la ricevuta nella borsa di antilope. « Ho quattro regine d'oro mie personali. » Ralph mostrò i risparmi di tutta la sua vita. « Pagherò la mia parte dell'ingresso e scommetterò il resto. » « Che gli dèi siano con noi tutti, Henshaw », disse Bazo, e porse a Ralph il piccolo cesto prezioso. Ralph si sistemò il berretto in modo che gli nascondesse il più possibile il viso. Era improbabile che suo padre fosse tra la folla, e in quel caso il berretto difficilmente gli avrebbe impedito di riconoscere il suo figlio maggiore, ma il gesto fu istintivo, come lo era il suo timore per la severità del padre.
« Io aspetterò qui i soldi », gli disse Kamuza. « Se vince », rispose Ralph. « Vincerà », intervenne Bazo, cupo. « Potessi metterla in campo con le mie mani... » Non c'era nessuna legge che impedisse a un nero di iscrivere un proprio combattente, ma finora nessuno di loro l'aveva mai fatto. Le raffinatezze di quella società complessa non erano scritte ma tutti le capivano. Ralph lasciò il vicolo e andò a mescolarsi alla folla facendosi largo tra la calca finché ebbe raggiunto il gruppo di proprietari, ognuno col suo cesto, che aspettavano di iscrivere i loro campioni. « Ah, il giovane Ballantyne. » Chaim Cohen sollevò il capo dal registro, con gli occhiali dalla montatura sottile in punta al naso. Sudava allegramente nella polvere e sotto il sole cocente. « Da un pò non ti vedevo. » « Non avevo un campione, mister Coben. Ora ne ho preso uno nuovo », mentì Ralph, con disinvoltura. « Che ne è di... Com'è che la chiamavi? Un nome cafro. » « E' morta. Perse una gamba nell'ultimo combattimento ed è morta. » « Qual è il nome della tua nuova signora? » « Salomè, signore. » « E Salomè sia. Fanno due sterline, giovane Ballantyne. » Le monete scomparvero velocemente nella grande tasca che Cohen aveva cucito all'interno della redingote e, con sollievo, Ralph s'inoltrò tra la folla, cercando di perdervisi fino a quando l'incontro non fosse annunciato. Trovò un posto vicino alla ribalta di uno dei carri, dove stava in parte nascosto e da dove avrebbe potuto osservare le signore presenti tra la folla. Alcune di loro erano giovani e graziose e sapevano di esserlo. Ogni tanto qualcuna gli passava abbastanza vicino perché lui sentisse il fruscio delle sue sottovesti e il suo odore; il caldo faceva infatti affiorare il sottile odore di muschio di donna, a cui quello dolce del profumo francese dava risalto più che nasconderlo. Lo prendeva alla gola, troppo acuto, lo eccitava e gli metteva strane idee in testa. Di colpo, il denso odore del cognac cancellò quello del profumo francese e una voce rauca, molto vicina al suo orecchio, mise in fuga quelle idee. « Metti in campo un nuovo campione, vedo, giovane Ballantyne. » « Sì, signore. Esatto, mister Lennox. » Mister Barry Lennox era un uomo grande e grosso con una gran fama di avere il pugno lesto, fama che gli attirava il rispetto di tutti da lì fino al fiume. Era un giocatore d'azzardo che, una volta, aveva scommesso mille ghinee su un solo gallo e aveva vinto. Questo succedeva prima che la civiltà raggiungesse gli scavi, e così ora lui era passato ai combattimenti di ragni, nei quali puntava altrettanto forte. Era ricco, per la media di New Rush, perché possedeva diciotto concessioni nella
Sezione n. 4. Aveva le guance chiazzate e la voce roca del gran bevitore, ma ciò che più di tutto incuriosiva Ralpb era il fatto che avesse tre giovani donne, non una, tre, a mandargli avanti la casa. Una era una graziosa e giovane griqua giallo-giunchiglia, un'altra una mulatta portoghese del Mozambico dallo sguardo sfacciato, e la terza una nera basuto dai fianchi come quelli di una cavalla da riproduzione. Ogni volta che Ralph pensava a quel trio, ciò che capitava spesso, con l'immaginazione evocava un giardino di delizie proibite. Naturalmente né il padre di Ralph né i membri del Comitato riconoscevano l'esistenza di Lennox e, tutti, fingevano di non vederlo per strada. Alla domanda di Lennox di iscrizione al Kimberley Club era stato risposto con un record di cinquantasei palle nere. Eppure ora Ralph si tolse rispettosamente il berretto mentre Lennox gli chiedeva con voce gutturale: « Che ne è di Inkosikazi? Ci ho guadagnato parecchio su di lei ». « E' morta, mister Lennox. Vecchiaia, immagino. » « I ragni babbuini vivono quasi vent'anni e più », disse Lennox con un grugnito. « Diamo un'occhiata a quest'altra signora. » « Non vorrei turbarla... Non prima di un incontro, signore. » « Tuo padre sa dove passi il pomeriggio delle domeniche, giovane Ballantyne? » « Va bene, signore. » Ralph capitolò subito e sollevò leggermente il coperchio del cesto. Lennox vi buttò dentro l'occhio, iniettato ma esperto. « Sembra una zampa forte, quella anteriore di sinistra. Appena cresciuta. » « No, signore. Be', potrebbe essere. L'ho catturata solo l'altro giorno. Non conosco la sua storia, mister Lennox. » « Ragazzo, non avrai iscritto qualcuno sotto falso nome, vero? Confessa. » Lennox lo guardò severamente negli occhi e Ralph li abbassò. « Non vorrai andare davanti al Comitato dei Cercatori, vero? La vergogna che tuo padre proverebbe! Gli si spezzerebbe il cuore. » Zouga Ballantyne non avrebbe avuto il cuore spezzato ma certamente avrebbe rotto la testa al figlio. Avvilito, Ralph scosse il capo. « E va bene, mister Lennox. E' Inkosikazi, le è cresciuta una zampa nuova. Pensavo di raccogliere migliori scommesse... Ma la ritirerò. Vado a dire a mister Cohen che ho mentito. » Barry Lennox si chinò tanto che le sue labbra quasi sfioravano l'orecchio di Ralph e l'odore di ottimo cognac invecchiato quasi tramortiva il ragazzo. « Non farai niente di tanto stupido, Ralph, ragazzo mio. Farai combattere la tua campionessa e se vince ci sarà una ricompensa speciale per te. E' una promessa. Ora, se permetti, ho da sbrigare una faccenda. » Lennox agitò il bastone e si fece largo col pancione tra la calca.
Chaim Cohen s'arrampicò sulla stanga del carro più vicino all'arena e cominciò a scrivere col gesso su una lavagna. Gli allibratori allungarono il collo per vedere gli accoppiamenti estratti, dopodiché cominciarono a gridare le loro offerte per ogni incontro. « Tre a uno per mister Gladstone nel primo. » « Cinque a uno su Ranuncolo nel secondo. » Ralph aspettava mentre si estraevano gli incontri, e ogni volta che il nuovo nome di Inkosikazi veniva omesso la sua tensione aumentava. Gli incontri erano solo dieci e mister Coben aveva già finito di scrivere il nono. « Incontro numero dieci », annunciò mentre scriveva. « Questo è un incontro biblico, signore e signori, un incontro diamantifero, da Vecchio Testamento. » Chaim Cohen usava l'aggettivo « diamantifero » per descrivere qualsiasi cosa, da un purosangue a un whisky invecchiato di quindici anni. « Un autentico incontro diamantifero, l'unica e sola, la grande e mortale Golia. » Ci fu uno scoppio di applausi e fischi di approvazione. Golia era il ragno campione dei campi di diamanti, con ben dodici uccisioni al suo attivo. « Contrapposta alla vostra favorita ci sarà una graziosa principessa, Salomè! » Il nome fu accolto con indifferenza mentre i giocatori si affrettavano a puntare i loro soldi sul campione. « Do Salomè a dieci », annunciò uno degli allibratori, disperato, mentre cercava di arginare il fiume di scommesse. Golia era la grande favorita e Ralph condivise il disagio dell'allibratore. A passo lento se ne tornò nel vicolo. Kamuza aveva sentito annunciare gli incontri. « Dacci indietro le sedici regine », furono le parole con cui accolse Ralph; ma la richiesta offese Bazo. « Inkosikazi le berrà il sangue... » « L'altra è un gigante... » « Inkosikazi è lesta e veloce come un mamba. » Mentre discutevano un improvviso scoppio di urla da Market Square annunciò l'inizio del primo incontro e, subito dopo gli urli delle donne annunciarono che la prima uccisione era già avvenuta. Discussero animatamente e Bazo era così agitato che non riusciva a star fermo. Con un balzo, iniziò una giya, la danza di sfida del guerriero matabele che si prepara alla battaglia. « Devi deciderti. » Ralph interruppe la sua danza e Bazo di colpo cessò la giya e guardò Kamuza. In fatto di soldi Kamuza era senza dubbio il capo del gruppo, così come Bazo lo era in tutto il resto. « Henshaw », chiese Kamuza con aria grave. « Tu rischi le tue quattro regine contro quel mostro? » « Inkosikazi rischia la sua vita », rispose Ralph, senza esitare. « E io sono pronto a rischiare i miei soldi per lei. » « E allora così sia. Ti seguiremo. »
Mancavano pochi minuti soltanto al decimo incontro del pomeriggio. Chaim Cohen vuotò il suo boccale di birra e, ristorato, s'asciugò la spuma dalla barba. Da un momento all'altro sarebbe salito sul carro a invitare i proprietari a portare i loro combattenti all'arena per l'incontro finale. Ralph aveva ancora cinque sovrane da piazzare. « Aveva detto a dodici. » Stava discutendo animatamente con l'allibratore dagli occhi di furetto e dalla svolazzante e larga cravatta. « Se scommetti sul tuo campione, allora è a dieci. » « E' una truffa. » « La vita è tutta una truffa », rispose l'allibratore scuotendo le spalle. « Prendere o lasciare. » « E va bene, prendo. » Ralph afferrò la ricevuta e si fece largo verso il circolo di carri, e ancora una volta si trovò la strada sbarrata dal gran pancione di Barry Lennox. « Tu scommetti su di lei? » « Tutto quello che ho, signore. » « E' quanto volevo sapere, Ralph, ragazzo mio. » E si diresse a grandi passi verso il più vicino allibratore tirando fuori di tasca la borsa proprio mentre Chaim Cohen dall'alto del carro gridava: « Adorabili signore e nobili signori. Il decimo e ultimo incontro della giornata! La possente Golia contro la danzante Salomè! » Golia avanzò diagonalmente nell'arena coperta dal vetro. Le sue quattro paia di zampe ondeggiavano sinuosamente e la sua avanzata fu solenne e decisa. Era una bestia enorme, appena reduce dalla muta; infatti il suo corazzato prosoma era d'un lustro color rame e i lunghi peli che coprivano l'addome e le zampe erano lucidi come fili d'oro. Lasciò una doppia colonna di piccolissime impronte nella sabbia spazzata del pavimento dell'arena e la folla l'applaudì. Le inibizioni degli spettatori s'erano ormai da un pezzo perdute con gli altri combattimenti avvenuti nella piccola arena e quasi tutti stavano bevendo sin da mezzogiorno; c'era un particolare accento di ferocia e crudeltà nelle loro voci. « Ammazzala! » gridò una bionda graziosa, con riccioli dorati e fiori nel cappello. « Falla a pezzi! » Era rossa in viso, come se avesse la febbre, e gli occhi le mandavano lampi. « Va bene, mister Ballantyne. Faccia entrare la sua campionessa », ordinò Chaim Cohen alzando la voce per farsi udire al disopra del chiasso. Ma Ralph s'attardò per qualche secondo, lasciando che l'altro ragno completasse il proprio circuito e non fosse rivolto verso la sua gabbia. Quindi sollevò lo sportellino scorrevole e picchiò sul cesto per incitare Inkosikazi. Venne avanti cautamente, tenendo l'addome ben alto sulla sabbia, avanzando sulle punte aguzze delle zampe articolate e bloccandosi di colpo allorché vide l'avversario dall'altra parte dell'arena. I suoi molteplici occhi brillavano come schegge di
diamante nero. Golia avvertì la sua presenza e saltò in alto, girandosi in aria e atterrando in modo da fronteggiarla. I due ragni erano di fronte l'uno all'altro, ora, dalle due parti del tratto di bianca sabbia di fiume accuratamente spazzata, e solo adesso fu evidente la loro differenza di dimensioni. Golia era enorme, gonfia di rabbia, il lungo e serico manto di lustri peli, irti come gli aculei di un istrice, che ne aumentava le dimensioni. Diede inizio alla danza di sfida all'avversaria più piccola. Immediatamente Inkosikazi rispose alla provocazione, sollevando e abbassando l'addome a tempo col ritmico oscillare del suo prosoma, muovendo le zampe e incrociandole con terribile grazia, come il dio indù dalle molte braccia, Siva. Un profondo silenzio era caduto sulla scena mentre gli spettatori erano tutti tesi ad afferrare ogni particolare di quella stilizzata danza di morte; d'un tratto fu rotto da un boato sottocato allorché Golia saltò. Esplose in un volo, alta nell'aria con le zampe tutte tese, superando l'intera lunghezza dell'arena senza sforzo e atterrando esattamente dove stava Inkosikazi un millesimo di secondo prima. Quest'ultima aveva scansato quel salto fulmineo con un elastico balzo laterale e ora era di fronte all'enorme creatura infuriata e danzava la sua sfida. La sorprendente agilità di questi grandi ragni era l'attrazione essenziale di quegli incontri, il particolare che attirava quella folla di spettatori avidi. Nulla, né il disporsi delle zampe né la preparazione del corpo, annunciava quei salti fulminei. Improvvisi e infallibili, i ragni partivano sparati come pallottole contro il rivale, e reagivano con altrettanta rapidità al contrattacco. Quindi, tra un assalto e l'altro, riprendeva quell'affascinante e raggelante danza. « Jee! Jee! » Il teso silenzio fu interrotto dal terrificante minaccioso grido dei guerrieri matabele. « Jee! Jee! » risuonò il ripetuto e sibilante coro che aveva trascinato un'ondata nera di corpi nudi attraverso un continente, un'ondata che aveva per cresta le piume dei copricapi di guerra ed era illuminata dal luccichio degli assegai di lucido argento. Bazo non era stato capace di rimanere nascosto nel vicolo oltre la piazza. S'era fatto largo tra la folla fino a raggiungere i carri, ma col procedere del combattimento la sua tensione di guerriero era aumentata. S'era spinto avanti tra le file accalcate di spettatori e adesso era in prima fila e non riusciva più a controllarsi. « Jee! Jee! » Lanciò il suo grido di battaglia, e Ralph si trovò a fargli eco. Inkosikazi stava combattendo d'istinto, reagendo automaticamente alla presenza di un'altra femmina in una mortale rivalità sessuale. L'agitarsi delle zampe della gigantesca femmina dall'altra parte dell'arena l'infuriarono e fu una pura coincidenza che il suo primo balzo d'attacco fosse sincronizzato col canto
di guerra. Due volte si lanciò e due volte Golia cedette terreno, poi, al terzo balzo, Inkosikazi saltò troppo in alto e toccò il tetto di cristallo dell'arena. L'impatto ruppe la parabola perfetta del suo volo e lei ricadde giù e perse l'equilibrio, raspando freneticamente nella sottile sabbia bianca. Golia vide giunta la sua occasione e s'avventò per uccidere. Gli uomini lanciarono urla di crudele allegria e le donne trilli di deliziato orrore allorché i due grossi corpi pelosi si scontrarono petto contro petto e le zampe s'attanagliarono rispettivamente in un mostruoso abbraccio polipesco. L'impeto del balzo di Golia le fece rotolare entrambe attraverso tutta l'arena come una palla di gomma, finché cozzarono contro la parete estrema e lottarono in un serpentesco groviglio di arti. Le lunghe zanne di entrambe erano erette e con le lupesche fauci pelose si colpivano a vicenda; le punte d'ago delle zanne colpivano l'impenetrabile e lucida corazza del prosoma, venivano deviate dalla superficie levigata e lasciavano sui rispettivi petti minuscole gocce di veleno incolore e denso come miele. Istintivamente, tenevano gli addomi vulnerabili fuori portata mentre cercavano di strapparsi dall'abbraccio per poter colpire la pelle morbida dell'altra. S'avventavano avanzando sulle zampe posteriori e lottavano e, immediatamente, il peso di Golia cominciò ad avere effetto. Con un forte scricchiolio, come una noce nella morsa di un argenteo schiaccianoci, una delle zampe di Inkosikazi fu staccata di colpo dalla giuntura col prosoma e lei diede un balzo convulso, contraendo il soffice ventre in un terribile spasmo. « Ammazzala! Falla a pezzi! » urlò la graziosa bionda, tormentando il profumato fazzoletto di seta. Aveva la faccia gonfia e infiammata e mandava lampi selvaggi dagli occhi. Golia spostò la presa delle sue molte zampe cercando il punto debole in cui immergere la sua rossa zanna. « Jee! Jee! » cantava Bazo, con gli occhi iniettati, e Inkosikazi lottò con tutte le sue rimanenti zampe per infrangere la stretta che stava lentamente soffocandola sotto quell'enorme corpo peloso. Ci fu un altro sinistro scricchiolio e una delle sue zampe anteriori si staccò con un piccolo spruzzo di liquido; istintivamente, Golia si portò l'arto mutilato alla bocca. La distrazione fu sufficiente: Inkosikazi si liberò con uno strappo e balzò a metà dell'arena, atterrando con un movimento scomposto e perdendo l'equilibrio, coi liquidi che fluivano fuori dai moncherini delle zampe staccate. Ma si riprese immediatamente. Golia, dal canto suo, stava ancora divorando le zampe mutilate, talmente affascinata dal sangue dell'avversaria che colpiva le zampe che aveva in bocca con la zanna, tutta la sua attenzione dedita a esse, quando Inkosikazi rimbalzò come una palla di gomma lanciata contro una parete di mattoni. Calò leggera sull'ampio dorso peloso di Golia, vi s'aggrappò con le zampe restanti e quindi immerse la lunga zanna rossosangue nell'addome dell'avversaria, muovendo su e giù la testa
mentre pompava un getto di veleno continuo nel corpo gonfio. Golia s'inarcò, le lunghe zampe si tesero in uno spasmo agonico e il ventre, gonfio come un pallone, si contrasse convulsamente mentre il veleno entrava in lei. Piantata sul suo dorso come un grottesco incubo, Inkosikazi iniettò il liquido fatale finché gli arti della creatura più grande di lei cedettero sotto il peso e l'addome s'abbassò a poco a poco fino a toccare la bianca sabbia dell'arena. Mentre si levavano il ruggito di costernazione degli spettatori delusi e le grida delle donne, gli uni e le altre disgustati e gongolanti al tempo stesso, Ralph e Bazo si corsero incontro e s'abbracciarono con urla di trionfo. Nell'arena sotto il cristallo, intanto, Inkosikazi ritirava lentamente come una siringa la lunga zanna ricurva. Il suo veleno non solo paralizzava e uccideva, ma liquefaceva anche il tessuto del corpo della sua vittima. Aprì e richiuse le fauci sul corpo inerte e molle come gelatina sotto di lei, e il suo addome cominciò a gonfiarsi e sgonfiarsi mentre succhiava i liquidi dell'avversaria, che era ancora viva. Ralph si sciolse dalla stretta delle braccia muscolose di Bazo. « Tirala fuori dall'arena », gli disse. « Io vado a prendere i soldi. » Nell'allontanarsi dall'arena Bazo teneva alta la cesta. Gli stavano dietro i suoi matabele dal petto nudo che correvano con passo stilizzato e dinoccolato, metà danza e metà trotto, brandendo i bastoni da combattimento e cantando la canzone d'elogio che Kamuza aveva composto in onore di Inkosikazi: Guarda coi tuoi mille occhi, stringi forte con le tue molte braccia d'acciaio, bacia con il tuo lungo e rosso assegai, gusta il sangue, non è più ricco del latte delle mandrie di Mzilikazi? Gusta il sangue, non è più dolce del selvatico miele nel favo? Bayete! Bayete! Saluti regali, Nera Regina. Saluti leali, Grande Regina. Ralph volentieri sarebbe corso dietro a loro in quel corteo festante, ma sapeva cosa avrebbe detto suo padre se avesse saputo che suo figlio aveva partecipato a quel trionfo barbarico attraverso le strade polverose, davanti all'ingresso stesso del Kimberley Club, dove molto probabilmente lui stava trascorrendo il pomeriggio della domenica. Li seguì dunque nel modo che meglio s'accordava con l'idea di Zouga di come dovesse comportarsi un giovane gentiluomo inglese, ma teneva il berretto buttato all'indietro e le mani sprofondate nelle tasche, dove faceva tintinnare le monete d'oro, e c'era un sorriso di beatitudine sul suo viso. Sorriso che s'allargò ancor più allorché vide una ben nota figura panciuta venir
fuori dalla taverna di Lil Diamond. « Mister Ballantyne », ruggì Barry Lennox dall'altra parte della strada. « Mister Ballantyne, vuoi farmi il grande onore di bere un bicchiere con me? » « Ben volentieri, signore. » Ralph si sentiva abbastanza imbaldanzito da replicare in maniera faceta, e Lennox gli passò un braccio sulla spalla e lo condusse verso la taverna. Il ragazzo si guardò rapidamente intorno: era la prima volta che metteva piede in un posto come quello. Sperava di vedere donne nude che danzavano sui tavoli e giocatori dai panciotti a fiori che mettevano a terra combinazioni di assi e re e ramazzavano piatti di sovrane d'oro. L'unica figura parzialmente nuda era invece quella di Charlie, l'imprenditore di pompe funebri, che russava sulla segatura del pavimento con la camicia aperta sul ventre peloso; quanto ai giocatori, erano tutte facce familiari, uomini al cui fianco lui lavorava ogni giorno, sulle impalcature o giù negli scavi. Erano vestiti con gli abiti da lavoro e le carte erano unte e logore. Il piatto era un mucchietto di monete di rame e qualcuna d'argento, anch'essa consunta. « Ralph », disse uno di loro alzando il capo. « Tuo padre sa dove sei? » « E il tuo? » replicò Ralph, sempre pieno di baldanza. « E, soprattutto, tu sai chi è? » Ci fu uno scoppio di risate da parte degli altri giocatori e quello che aveva parlato sorrise, di buonumore. « Che mi dannino, il ragazzo ha una lingua piuttosto lunga. » « Dia una birra al mio amico », disse Lennox al barista, che parve incerto. « Quanti anni ha il suo amico? » « Farà quarant'anni in uno dei suoi prossimi compleanni. In ogni modo, signore, considero la domanda una diretta offesa all'onore del mio amico, e ho rotto mascelle che facevano domande meno impertinenti. » « Due birre in arrivo, mister Lennox. » Barry Lennox e Ralph sollevarono in segno di saluto i boccali e Lennox fece un brindisi: « A una signora di nostra comune conoscenza. Benedetti suoi occhi lucenti e le sue belle gambe ». La birra era leggermente calda e sapeva di sapone e chinino, ma Ralph buttò giù un sorso e schioccò le labbra in segno di apprezzamento. Avrebbe preferito molto di più una verde bottiglia di gassosa fresca, tappata con una pallina di vetro. « Sigaro? » Lennox aprì il suo portasigari d'argento e Ralph esitò un attimo solo, quindi scelse uno dei grossi avana e ne staccò l'estremità con un morso, in una fedele imitazione di Zouga Ballantyne. Accese al fiammifero Vesta che Lennox gli porse e, cauto, trattenne il fumo in bocca. Fu l'unica tirata che fece perché subito dopo usò il sigaro come la bacchetta di un direttore d'orchestra, agitandolo nell'aria e creando una nuvola di fumo az-
zurro intorno a sé, praticamente senza più portarlo alle labbra. Stando lì in piedi al rozzo banco del bar, fu abbastanza abile da dare una certa impressione d'essere a proprio agio. « Insomma, tutti conoscono la classica tattica di battaglia degli zulu. Cercano il terreno favorevole e la boscaglia fitta. Ci sono pochi soldati bravi a coprirsi come loro. » Sorseggiava la birra e agitava il sigaro mentre discuteva della campagna di Lord Chelinsford contro il re zulu Cetywayo. Le opinioni che esprimeva erano quelle di Zouga Ballantyne, imparate a memoria e lasciate tali e quali sicché, benché sorridessero e si dessero di gomito, i suoi ascoltatori non potevano non ammettere la sua logica. « Lo stratagemma di attirare la colonna di Chelinsford fuori dal campo e quindi di piegare per andare a distruggere la base con le sue difese abbandonate è vecchio quanto Chaka Zulu stesso. Chelmsford ha sbagliato, non ci sono dubbi. » I cadaveri di settecento inglesi, milizia e reggimenti regolari, giacevano ormai da sei mesi sull'erba della pianura ai piedi della piccola collina. Lord Chelinsford aveva abbandonato il campo e i suoi morti giacevano lì dove erano caduti, coi ventri squarciati dagli assegai degli zulu per permettere alle loro anime di fuggire, i resti dei carri e dell'equipaggiamento sparsi intorno a loro, la carne divorata fino all'osso dagli avvoltoi, dagli sciacalli e dalle iene. L'idea di lasciare dei soldati inglesi non sepolti sul campo di battaglia sembrava minacciare le fondamenta stesse del più grande Impero che il mondo avesse mai conosciuto. « Chelmsford deve riprendere il campo », disse uno degli uomini al bar. « No, signore », rispose Ralph, scuotendo il capo. « Significherebbe chiamarsi addosso un altro disastro per un gesto sentimentale. » « Cosa propone lei, mister Ballantyne? » chiese l'uomo, in tono ironico. « Di imparare dai boeri. » Ralph aveva un pubblico di uomini adulti che lo ascoltavano, forse non con rispetto ma almeno con attenzione. Era un fatto esaltante, anche se le idee erano quelle di suo padre, e così volle mandare un'imprecazione: « Perdio, quei tipi sanno come combattere le tribù. Uomini a cavallo come schermo intorno a una colonna di carri pronti a chiudersi in cerchio in pochi minuti. Mirare al cuore della nazione zulu - alle loro mandrie -, trascinare gli impi all'aperto, attirarli su un terreno ottimo per sparare dietro i carri chiusi in cerchio... » Ralph non terminò il suo piano di battaglia, di colpo perse il filo del discorso e cominciò a balbettare come uno stupido, mentre la bella faccia giovane e abbronzata gli si arrossava. Barry Lennox seguì la direzione dello sguardo del ragazzo e sorrise divertito. Lil Diamond era entrata nella taverna per la porta sul retro. Erano le sei di sera e un'ora prima s'era alzata, stiracchiandosi e sbadigliando come un leopardo insonnolito, dal letto di otto-
ne nella stanza buia dietro la taverna. Una serva aveva riempito di acqua calda il semicupio smaltato e Lil vi aveva versato dentro una boccetta di profumo prima di entrare nel bagno, di sistemarsi lussuriosamente nell'acqua fragrante e di chiamare gridando il gestore della taverna. Aveva poi ascoltato attentamente, la pallida fronte liscia segnata da un lieve cipiglio, mentre quello riferiva le cifre dell'incasso della sera prima cercando di staccare gli occhi dalla pelle bianca delle spalle e dal seno dalle punte rosee che s'intravedeva tra la spuma. Quindi Lil lo aveva mandato via con un gesto della mano ed era uscita nuda dal bagno, arrossata leggermente dall'acqua calda e con i capelli inumiditi dal vapore che le ricascavano sul lucido corpo bianco. S'era versata un pò di gin in un colorato bicchiere veneziano e, sorseggiandolo, aveva cominciato a incipriarsi e dipingersi, guardandosi nello specchio e facendo roteare gli occhi, esercitando il suo sorriso professionale col piccolo diamante incastrato al centro della bianca chiostra di denti e, infine, ammirandosi e apprezzandosi. Aveva ventitré anni e ne aveva fatta di strada, lunga e scabrosa, dal tempo della casa di Mayfair, dove Madame Hortense aveva venduto per cento ghinee la sua verginità a un anziano ministro di stato whig. Ne aveva allora tredici, cioè erano passati solo dieci anni, ma a lei sembravano una dozzina di intere vite. La casa di Mayfair era stata effettivamente l'unica casa che lei avesse mai conosciuto e spesso pensava con nostalgia a quei tempi. Madame Hortense l'aveva trattata più come una figlia che come una ragazza della casa. C'erano sempre stati un grazioso cappellino o un abito nuovo al suo compleanno o a Natale, e lei aveva sempre goduto di privilegi speciali. Lil sarebbe statta sempre grata a Hortense per ciò che da lei aveva imparato sugli uomini, sui soldi e sul potere. Poi, una domenica sera, una mezza dozzina di giovani ufficiali di un famoso reggimento di cavalleria che celebravano il loro trasferimento all'estero avevano visitato la casa di Mayfair. Tra loro c'era un giovane capitano, focoso, ricco e bello; aveva visto Lil in fondo al salone nel momento stesso in cui v'era entrato. Dieci giorni dopo Lil s'era imbarcata con lui per l'India sul postale della Peninsular and Orient, mentre Madame Hortense piangeva sul molo e salutava agitando la mano finché la nave s'era allontanata sul Tamigi ed era scomparsa dietro la prima ansa del fiume. Quaranta giorni dopo Lil era stata abbandonata dal suo protettore. Da una finestra all'ultimo piano del Mount Nelson Hotel, a Città del Capo, era stata a guardare la nave del suo capitano di cavalleria avanzare nella Table Bay e puntare su Calcutta, e il suo dolore per la separazione era stato alleviato dall'ambiente lussuoso in cui il protettore l'aveva lasciata. Aveva allontanato il proprio dolore con una stretta di spalle, aveva bevuto un bicchiere di gin, s'era fatta il bagno e ridipinta la faccia, dopodiché aveva mandato a chiamare il direttore.
« Non posso pagare il conto », gli aveva detto e, prendendogli la mano, lo aveva condotto, senza nessuna protesta da parte di lui, nella camera da letto del suo appartamento. « Madame, posso darle un consiglio? » aveva detto il direttore poco dopo, mentre lei gli riannodava la cravatta e gli frugava nel panciotto. « Un buon consiglio è sempre benvenuto, signore. » « C'è un posto chiamato New Rush un migliaio di chilometri nord di qui dove ci sono cinquemila cercatori, ognuno con una tasca piena di diamanti. » Ora Lil entrò nella taverna. Era ancora presto per essere domenica. Era una delle cose che aveva imparato da Madame Hortense: sempre presentarsi molto prima di quando si è aspettati. Rende i clienti soddisfatti e onesti gli impiegati. Controllò rapidamente la sua clientela. Era la solita folla della domenica pomeriggio. Presto sarebbe migliorata. Si chinò a contare le bottiglie sotto il banco, esaminando i sigilli di ceralacca per assicurarsi che non fossero state manomesse. « Non essere mai avida, mia cara », le aveva insegnato Madame Hortense. « Annacqua la birra, se l'aspettano; ma non toccare il whisky. » Si tirò su e, tra un suono di campanelli, aprì l'enorme registratore di cassa e s'accertò che annunciasse il prezzo corretto, dopodiché carezzò la fila di sovrane d'oro nello speciale cassetto scanalato. Il metallo le comunicò una meravigliosa sensazione attraverso le punte delle dita, e lei prese una delle monete semplicemente per sentirne il peso e ricavarne altro piacere. L'oro era l'unica cosa al mondo di cui si fidava. Mentre puliva il piano del banco il barista la guardò nello specchio; lei intanto finse di rimettere la sovrana al suo posto, invece se la tenne nel palmo della mano e chiuse il cassetto del registratore. Il barista era nuovo. Era interessante vedere se copriva la mancanza o la denunciava. Questi piccoli particolari l'avevano resa ricca all'età di ventitré anni. Lanciò un'occhiata nello specchio e ancora una volta apprezzò il proprio viso e le spalle alla luce meno gratificante del sole che entrava nella taverna. I suoi occhi erano acuti come spilli ma la pelle intorno a essi era chiara e fresca come petali di rosa, senza il minimo segno d'una ruga. « Invecchierai bene, mia cara », le aveva detto Hortense, « se userai il gin e non ti lascerai usare. » Aveva ragione, decise. Il suo era l'aspetto di quando aveva sedici anni. Allontanò lo sguardo dal proprio viso e lo fece spaziare su tutta la taverna. Lo specchio era imperfetto, stavano formandosi delle macchie scure nell'argentatura e queste distorcevano leggermente il viso giovane che stava guardandola fisso. Lo sguardo di lei vi passò sopra, poi vi ritornò. Il ragazzo stava arrossendo mentre la scrutava avidamente: fu l'unica cosa che attrasse la sua attenzione. Ora, quando lo guardò di nuovo, si rese conto che probabilmente era troppo giovane, e lei aveva già avuto noie col Comitato. Portava, but-
tato all'indietro, un berretto di panno e appariva chiaro che era ancora in piena crescita, la giacca con cintura infatti gli tirava sulle braccia muscolose e sulle spalle. Troppo giovane e certamente senza un soldo. Doveva farlo uscire immediatamente, concluse, e si girò mesta, coi pugni sui fianchi, la testa bionda buttata all'indietro in posa aggressiva. « Buongiorno, miss Lil. » Ralph si stupì lui per primo della propria audacia a rivolgersi direttamente a quella creatura celeste. « Stavo per offrire un giro ai miei amici. Saremmo onorati se lei prendesse un bicchiere con noi, ma'am. » E gettò una sovrana sul banco. Lil rizzò il capo e tolse una mano dal fianco per toccarsi i capelli. « Mi piacciono gli spendaccioni. » Fece brillare il piccolo diamante che aveva incastrato nell'incisivo e fece un cenno al barista. Per lei avrebbe attinto alla speciale bottiglia con l'etichetta Booth's Gin ma piena d'acqua piovana attinta al serbatoio di zinco accanto alla porta sul retro. Di colpo, si rese conto che il ragazzo era bello, con un mento pronunciato e bei denti bianchi. Ora che il rossore gli s'era ritirato dal viso, la pelle risultava chiara e levigata come la sua e gli occhi erano di un penetrante verde-smeraldo. L'ardore e la freschezza che emanavano da lui lo rendevano ben diverso dai pelosi cercatori, sporchi di polvere rossa e puzzolenti come capre, che costituivano la sua normale clientela. Che pagasse quel giro, il ragazzo, dopodiché c'era tutto il tempo per liberarsi di lui. Nel frattempo, la sua palese ammirazione era divertente e gratificante. « Lil, mia cara. » Barry Lennox si sporse sul banco e lei non arretrò davanti al suo fiato. « Prestami il tuo adorabile orecchio. » Con un sorriso brillante, lei accostò l'orecchio alle labbra di lui e chiuse la mano a coppa in un esagerato atteggiamento di riservatezza. « Lavori stasera, Lil? » « Sono sempre pronta a una strofinatina con te, dolcezza. Vuoi andare subito o finisci prima il tuo bicchiere? » « No, tesoro, non si tratta di me. Che ne dici di essere la prima a sellare un puledro non domato? » Lo sguardo di lei scattò di nuovo verso il viso di Ralph e il brillante sorriso le s'addolcì. Era un bel ragazzo e per la prima volta da quando il suo capitano di cavalleria l'aveva lasciata a Città del Capo avvertì quel formicolio nel profondo di se stessa e quel dolceamaro groppo alla gola, così che non si fidò del tutto della propria voce. « E' ancora presto, Lil, e a quest'ora di domenica gli affari non vanno bene, Lil, tesoro. » Barry Lennox blandiva e rideva dentro di sé al tempo stesso. « E' un bel ragazzo e dovresti pagarmi tu per il piacere, invece ti lascerò fare un prezzo speciale. » Di colpo, la gola di Lil si schiarì e l'espressione languida svanì. La sua risposta fu pronta.
« Non ti faccio pagare tariffe scolastiche, Barry Lennox, solo le solite dieci ghinee. » Lennox scosse il capo. « Non sei facile, Lil. Comunque, tesoro, te lo manderò. Una cosa, però: su brava, fa' che se ne ricordi dovesse vivere cent'anni. » « Io non t'insegno a cercare diamanti, Barry Lennox », disse Lil e, senza voltarsi a guardare, scomparve dalla taverna. Sentirono sbattere la porta della sua camera da letto e Ralph guardò in quella direzione dispiaciuto... Ma Barry Lennox gli mise un braccio intorno alla spalla e gli parlò, tranquillo, sottolineando ogni frase con una risatina roca, mentre Ralph sbiancava in volto. « Entra. » Quella voce ricordò a Ralph il tubare dolce e soddisfatto dei colombi selvatici al tramonto, in cima al cratego lì al campo del padre. Con una mano sulla maniglia di ottone sollevò i piedi uno per volta e lustrò la punta degli stivaletti sul retro della gamba del pantalone. Aveva cacciato il capo sotto il rubinetto del serbatoio d'acqua piovana e s'era pettinato i capelli mentre erano ancora bagnati, allontanandoli dalla fronte, così che le gocce d'acqua gli erano corse giù per il collo trasformando la polvere sul colletto rammendato della camicia in una rossa poltiglia. Lanciò un'occhiata alla mano che aveva sulla maniglia, vide la riga nera sotto le unghie e se la portò lesto alla bocca, cercando disperatamente di togliere lo sporco con il canino. « Entra! » L'ordine fu ripetuto; ma niente tubare questa volta, si trattava di un ordine imperioso e Ralph si tuffò verso la maniglia della porta, che si spalancò di colpo e lui precipitò dentro. Entrò nel boudoir di Diamond Lil come una carica di cavalleria, inciampò nell'orlo del mediocre tappeto orientale e cadde lungo disteso sul letto d'ottone. C'era un paravento laccato cinese in un angolo della piccola stanza vistosamente arredata e sopra di esso sporgeva la pettinatura magnificamente scolpita di Diamond Lil. « Oh », esclamò, languida, spalancando gli occhi. « Hai intenzione di cominciare senza di me, tesoro? » Scomposto, Ralph si tirò in piedi come un cucciolo dalle zampe grosse e si mise sull'attenti in mezzo alla stanza, tenendo il berretto di panno contro lo stomaco con ambedue le mani. Da dietro il paravento giungevano i rumori più evocativi che avesse mai sentito: un fruscio di pizzi e stoffe, un tintinnare di porcellana e il gorgoglio di acqua versata da una brocca. Il paravento laccato era decorato con figure orientali, donne che si bagnavano in uno stagno circondato da salici con una cascata sullo sfondo. Le donne erano tutte nude e l'artista s'era indugiato sulle loro attrattive fisiche. Ralph si sentì infiammare di nuovo orecchie e collo, e si odiò per questo. Pensò che avrebbe dovuto tenersi il sigaro, come prova della propria maturità. Pensò che avrebbe dovuto mettersi una camicia pulita, pensò... Ma a questo punto non ci fu più tempo
per pensare. Lil venne fuori dal paravento. Era scalza e le dita del piede erano grassocce e rosse come quelle di una ragazzina. « L'ho vista per strada, mister Ballantyne », disse, calma. « E ho ammirato il suo temperamento virile. Sono contenta che abbiamo ora l'occasione di conoscerci. » Queste parole operarono un miracolo. Ralph si sentì crescere di statura; il tremito delle gambe svanì e se le sentì forti e salde. « Le piace la mia vestaglia? » chiese Lil, e prese il lungo lembo in mano, girandosi per farlo allargare. Ralph annuì, ammutolito; la forza appena ritrovata non aveva ancora raggiunto la lingua, ma aveva gli occhi spalancati. Lei gli si avvicinò; senza tacchi gli arrivava appena alla spalla. « Lasci che l'aiuti a togliersi la giacca. » E quando lui fu in maniche di camicia aggiunse: « Venga a sedere sul divano ». Gli prese la mano e lo guidò attraverso la stanza. « Le piaccio, mister Ballantyne? » Finalmente lui riuscì a parlare: « Oh, sì. Oh, sì! » « Posso chiamarti Ralph e darti dei tu? Mi sembra di conoscerti tanto bene. » Presto, la mattina di un gennaio di tanto tempo prima, lei era uscita dalla casa di Mayfair e aveva raggiunto il parco deserto nel quale era nevicato durante la notte. La neve era bianca e soffice e senza tracce. Lei aveva lasciato il viale di ghiaia e la neve le scricchiolava come zucchero sotto i piedi. Quando s'era voltata a guardare, le sue piccole impronte risaltavano sulla neve intatta, come se lei fosse la prima e unica donna al mondo. Le aveva dato uno straordinario senso d'importanza. Ora, distesa sull'ampio letto accanto a quel ragazzo, provò la stessa sensazione. Non era un ragazzo ma le piaceva pensarlo tale. Il suo corpo era pienamente maturato, ma la sua innocenza lo rendeva vulnerabile come un bambino non svezzato; quel suo corpo era come neve che nessun altro piede avesse calpestato. Il sole gli aveva abbronzato il collo e la gola formando una profonda « V » che gli arrivava fin sul petto, ma la pelle di questo e del ventre piatto era del bianco lustro del marmo bagnato o della neve appena caduta. Lo sfiorò con le labbra, e quando i piccoli capezzoli rosa s'eressero e la fecero fremere di delizia, gli prese le mani. I palmi erano duri e incalliti per il lavoro agli scavi. Le unghie erano lacere e spaccate con sotto una riga di sporco. Ma era uno sporco onesto e le mani erano ben formate e lunghe. Aveva imparato a giudicare gli uomini dalla forma delle mani, e ora si portò quelle di Ralph alle labbra e le baciò leggermente, guardandolo intanto negli occhi. Poi, lentamente, gliele abbassò e le chiuse intorno ai propri seni morbidi. Sentì la pelle scabra rasparle i capezzoli, che s'eressero come due lune piene, rosa-pallido e tesi. « Ti piace, Ralph? » Ripeté quella domanda cinque volte, l'ultima quando la stanza era quasi al buio e lui si muoveva convulso e tremante cir-
condato dalle braccia e dalle gambe di lei, bagnato dal suo dolce sudore giovanile, col respiro interrotto da ansimi. « Ti piace, Ralph? » E lui rispose con voce rotta e roca: « Oh, sì. Oh, sì, miss Lil ». A un tratto lei provò tristezza. La neve era calpestata, la magia stava passando, così com'era stato transitorio il potere da lei posseduto. Non aveva pianto da dieci lunghi e duri anni, da quella prima sera nella casa di Mayfair, ma ora fu stupita nel provare il groppo alla gola e il bruciore agli occhi. « Cosa c'è da piangere? » si chiese, desolata. « E' troppo tardi per le lacrime. » Con gesti esperti, fece ruotare Ralph sulla schiena; il corpo di lui abbandonato non offrì resistenza e, per un attimo, lei lo guardò con odio. Le aveva toccato dentro qualcosa che le aveva fatto un male insopportabile. Poi l'odio passò e rimase solo la tristezza. Lo baciò ancora una volta, dolcemente, con rammarico. « Ora devi andare, Ralph », disse. Sulla porta lui indugiò, con la giacca sul braccio e il berretto in mano. « Tornerò a rivederti, Lilly. » Lei sporse le labbra e le dipinse con destrezza e rapidità prima di rispondere, ma mentre si passava il rossetto lo guardava nello specchio. Era già cambiato, vide. Stava lì piantato, le spalle larghe e la fiera testa eretta sul collo abbronzato. La dolce diffidenza era scomparsa, l'affascinante timidezza evaporata. Un'ora prima avrebbe detto: « Per piacere, posso tornare a rivederla, miss Lil? » Gli sorrise nello specchio, quel suo splendente sorriso, e il diamante nel dente ammiccò ironico. « Vieni sempre quando vuoi, caro... Ogni volta che hai messo da parte dieci ghinee. » Fu nient'altro che sorprendente il fatto che il resoconto completo dell'incursione di Ralph nei giardini fioriti di Venere ci impiegasse tanto a giungere alle orecchie di Zouga, perché Barry Lennox aveva ripetuto la storia con gusto e abbellimenti a chiunque fosse disposto ad ascoltarla, e frizzi e lazzi avevano turbinato ogni sera come una tempesta di polvere del Kalahari nella taverna di Lil Diamond. « Signori, state parlando del figlio maggiore di uno dei pilastri della società di Kimberley », li ammoniva Lil, sarcastica. « Ricordatevi che il maggiore Ballantyne non solo è socio del Kimberley Club ma anche membro rispettabile del Comitato dei Cercatori. » Sapeva che uno di loro prima o poi avrebbe ceduto alla tentazione di andare a riferire la storia a Zouga Ballantyne. « Mi piacerebbe sentire cosa dice quel presuntuoso pieno di sé quando viene a saperlo », diceva intanto dentro di lei. « Anche l'acqua gelata che ha nelle vene bollirà. »
« Puttane e puttanieri », disse Zouga. Stava sull'ampia veranda all'ombra del tetto di paglia che aveva sostituito la tenda originale del primo campo. Giù, al sole, c'era Ralph, che guardava sbattendo le palpebre il padre. « Forse non hai rispetto per la tua famiglia, per il nome dei Ballantyne... Ma non ne hai nessuno per te stesso e per il tuo corpo? » Zouga ostruiva la porta d'ingresso del cottage di mattoni crudi. Era a capo scoperto e la folta capigliatura dorata brillava come un elmetto mentre la barba ben curata dava risalto alla grossezza del mento forte; il lungo curbascio nero di pelle d'ippopotamo gli pendeva dalla mano destra e sfiorava il pavimento davanti ai suoi stivali da cavallerizzo. « Hai una risposta? » Il suo tono era calmo, minacciosamente gelido. Ralph era ancora impolverato come un mugnaio per il lavoro agli scavi. Tra i capelli la polvere era abbondante e rossa, e sul viso sottolineava la piega delle narici e gli scorreva come lacrime dagli angoli degli occhi. Si pulì la fronte con la manica della camicia, una scusa per infrangere lo sguardo fisso del padre, e studiò con attenzione la macchia che ne risultò. « Rispondi », la voce di Zouga non era mutata. « Dammi una spiegazione, un motivo... Un motivo solo per cui non dovrei cacciarti via da questa casa... Per sempre. » Jordan non sopportò oltre, il pensiero di perdere Ralph ebbe la meglio sul terrore che provava per l'ira del padre. Fece di corsa tutta la veranda e afferrò la mano che stringeva la sferza. « Papà! Ti prego, papà... Non mandarlo via. » Senza guardarlo, Zouga fece scattare il braccio e il colpo colse il figlio in pieno petto, mandandolo a sbattere contro la parete della veranda. « Jordie non aveva fatto niente », disse Ralph, con la stessa calma del padre. « Oh, dunque ce l'hai la lingua? » « Togliti di mezzo, Jordie », ordinò Ralph. « Non è affar tuo. » « Rimani dove sei, Jordan. » Zouga continuò a non guardarlo, i suoi occhi erano puntati sul viso di Ralph. « Rimani qui e saprai delle puttane e del tipo d'uomini che le desiderano. » Jordan rimase colpito, il viso del colore della cenere di un fuoco spento e le labbra secche e bianche come ossa. Sapeva di cosa stavano parlando perché aveva sentito Bazo e Ralph fantasticare ad alta voce e, colpito nella propria curiosità, aveva chiesto di nascosto a Jan Cheroot... E le risposte lo avevano disgustato e atterrito. « Non come gli animali, Jan Cheroot, certamente non come i cani e le capre. » Le sue domande a Jan Cheroot erano state generiche: uomini e donne, non una persona che lui conosceva e amava e ri-
spettava. Gli erano occorsi giorni per afferrare in pieno la risposta dell'ottentotto e solo allora s'era reso terribilmente conto: tutti gli uomini e tutte le donne; ma suo padre, che per lui rappresentava tutto ciò che c'era di nobile e forte e giusto, e sua madre, l'essere dolce e gentile che era già un ricordo che svaniva... Loro due no, certamente loro due no. Era stato fisicamente male, aveva vomitato ed era stato preso da tali crampi allo stomaco che il padre gli aveva somministrato dosi di zolfo e sciroppo di melassa. E ora stavano parlando di quella cosa, quella cosa così terribile di cui lui aveva cercato di eliminare anche solo il ricordo. Ora le due persone più importanti della sua vita ne stavano parlando apertamente, usando parole che lui aveva visto solo stampate e che anche allora lo avevano fatto arrossire. Stavano pronunciando quelle parole e l'aria era piena di vergogna e odio e repulsione. « Hai sguazzato come un maiale nel fango in cui prima di te hanno sguazzato altri mille maiali, nella fetida fogna tra le gambe di quella puttana schifosa. » Jordan s'allontanò strisciando contro la parete e raggiunse l'angolo della veranda. Oltre non poteva andare. « Se non hai provato vergogna a insozzarti in quel trogolo, non hai almeno pensato a quel che gli altri porci in calore avevano lasciato lì per te? » Le parole del padre evocavano immagini vivide alla fantasia di Jordan. Lo stomaco gli si ribellò e si coprì la bocca con una mano. « La malattia che una meretrice porta lì è la maledizione di Dio sul desiderio sessuale e la libidine. Se li vedessi nel lazzaretto di Greenwich, idioti deliranti con il cervello mezzo distrutto dalla malattia, sbavanti da bocche vuote, i denti marci, i nasi ridotti a neri buchi putrefatti, gli occhi ciechi che roteano in quei crani da dementi... » Jordan si piegò in due e vomitò sui propri stivaletti. « Piantala », disse Ralph. « Hai fatto star male Jordie. » « Io l'ho fatto star male? » ribatté Zouga, calmo. « Sei tu che faresti star male qualsiasi persona decente. » Scese i gradini e avanzò sullo spiazzo polveroso. Vibrò la frusta, tagliando l'aria su e giù ripetutamente, e quella schioccò. Ralph non si mosse, teneva la testa alta in segno di sfida. « Se usi quella frusta con me, papà... Mi difenderò. » « Mi sfidi? » Zouga si fermò. « La frusta si usa solo con gli animali. » « Sì. Un animale... Per questo la uso con te. » « Papà, ti ho avvertito. » Con aria grave, Zouga piegò il capo di lato e studiò il giovane che aveva davanti. « Benissimo. Sostieni di essere un uomo. Dimostralo. » Gettò la frusta di pelle di ippopotamo sulla veranda quindi si girò di nuovo verso suo figlio. Ralph era preparato, il peso del corpo ben distribuito sulle gambe; anche se teneva le mani basse davanti a sé, erano tutta-
via chiuse a pugno. Non lo vide arrivare. Per un momento pensò che qualcun altro lo avesse colpito con una mazza da dietro. Il colpo parve esplodergli nel cranio. Indietreggiò, quasi non sentiva più il naso e al tempo stesso lo sentiva orribilmente gonfio. Avvertì un gocciolante calore al labbro superiore e, stordito, lo leccò. Era salato, allora si pulì le labbra col dorso della mano sul quale poi vide la macchia di sangue. La rabbia lo invase con sorprendente ferocia come se una bestia gli si fosse avventata sulla schiena, una bestia nera che lo pungolava e incitava con i suoi artigli. La sentì ringhiargli nelle orecchie, senza riconoscere la propria voce, dopodiché si lanciò. La faccia del padre era davanti a lui, bella, solenne e gelida, e lui vi menò contro il pugno con tutta la forza, col desiderio sentire la carne cedere sotto le sue nocche, la cartilagine di quell'arrogante naso aquilino schiacciarsi e rompersi, i denti saltare in quella bocca implacabile. Il pugno andò a vuoto, non incontrò nessuna guancia, vibrò nell'aria all'altezza della sua testa e morì lì, con uno strappo muscolare alla spalla procurato dall'inaspettata traiettoria del braccio. Ci fu un'altra esplosione nel cranio, i denti cozzarono e la testa sbatté all'indietro, mentre la vista gli si appannava, con punti luminosi qua e là in una vasta zona di buio, e poi gli si schiariva di nuovo così che di colpo il volto del padre gli fu ancora una volta davanti. Fino a quell'istante gli unici sentimenti che aveva provato per il padre erano stati rispetto e timore e immenso amore; ora di colpo, dalla profondità della sua anima sorse un furioso ed empio odio. Lo odiò per le mille umiliazioni e punizioni, lo odiò per gli impedimenti e le frustrazioni con i quali aveva riempito ogni prezioso giorno della sua vita, lo odiò per la stima e il profondo rispetto che gli portavano gli altri, per l'esempio che, sapeva, ci si aspettava che lui seguisse fedelmente per tutta la vita e che invece dubitava di poter seguire. Lo odiò per l'enorme carico di devozione che gli doveva e di cui sapeva che non si sarebbe mai potuto liberare, lo odiò per l'amore che gli aveva rubato, l'amore che la madre gli aveva portato in abbondanza e che lui avrebbe voluto tutto per sé. Lo odiò perché sua madre era morta e lui, suo padre, non le aveva impedito di andarsene. Ma soprattutto lo odiò perché gli aveva tolto qualcosa che era stato meraviglioso e l'aveva reso immondo, lo aveva privato di un momento magico inducendolo a vergognarsene, una vergogna rivoltante. Gli si precipitò contro, vibrando alla cieca ambedue i pugni e frustando solo l'aria, mentre i colpi che gli arrivavano alla testa e al viso gli davano l'impressione che qualcuno, lontano, stesse abbattendo un albero con un'ascia d'acciaio.
Zouga scansava tranquillo ogni carica del figlio, buttando il capo all'indietro o piegandolo di lato, deviando un colpo con le braccia, chinandosi cauto sotto un pugno in arrivo e contrattaccando col sinistro, facendolo scattare con ingannevole leggerezza, ingannevole perché a ogni colpo la testa di Ralph scattava all'indietro e il sangue dal naso e dalle labbra gonfie gli trasformava lentamente il viso in una sconvolgente maschera rossa. « Basta, oh, per piacere, basta! » Jordan stava accovacciato contro la parete della veranda e il vomito giallo gli macchiava il davanti della camicia. « Per piacere, basta! » Voleva coprirsi il viso con le mani per cancellare quello spettacolo di violenza e sangue e odio terribile, ma non ci riusciva. Era bloccato, orribilmente affascinato, e guardava ogni colpo crudele, ogni goccia di sangue che schizzava via dal viso del fratello. Come un toro in una corrida, alla fine Ralph fu stanco e rimase fermo, piantato a gambe larghe, con le ginocchia che gli cedevano come canne stracariche di rugiada; debolmente cercava di scuoter via il buio dalla testa e il sangue davanti agli occhi, con i pugni ancora chiusi ma troppo pesanti per essere sollevati al disopra della cintura, ansimante, barcollante, ogni tanto riprendendo l'equilibrio con uno scatto incontrollato e guardandosi intorno senza vedere, alla ricerca del suo tormentatore. « Qui », disse Zouga, calmo, e mentre lui si precipitava nella direzione della voce, per la prima volta Zouga adoperò il destro. Lo colpì netto sotto l'orecchio, un colpo misurato, e Ralph cadde a faccia in avanti sul terreno, ansimando, sollevando piccoli sbuffi rossi di polvere a ogni respiro. Jordan scese i gradini di corsa e si buttò in ginocchio accanto al fratello, gli girò il capo di lato in modo da farlo respirare liberamente e cercò inutilmente con le dita di fermare il sangue. « Jan Cheroot », chiamò Zouga. Respirava profondamente ma con lentezza e al disopra della barba le sue guance erano colorite; col fazzoletto che aveva al collo si deterse alcune gocce di sudore dalla fronte. « Jan Cheroot », chiamò di nuovo, irritato, e questa volta il piccolo ottentotto si scosse e si precipitò giù per i gradini. « Prendi un secchio d'acqua », gli ordinò Zouga. Jan Cheroot versò il contenuto di un secchio da un gallone sul viso di Ralph, lavando via il sangue, e subito dopo il ragazzo annaspò e inspirò e cercò di mettersi in ginocchio. Jan Cheroot lasciò cadere il secchio e gli prese un braccio; Jordan si chinò e infilò la testa sotto l'altro braccio di Ralph, e così entrambi lo sollevarono in piedi. Erano tutt'e due più bassi di Ralph, che pendeva in mezzo a loro come una coperta sporca dalla corda del bucato; il miscuglio di sangue e acqua gli gocciolava sul davanti della camicia lasciando piccole macchie rosa-pallido. Zouga accese un sigaro, studiò la brace, per essere sicuro che
tirasse bene, quindi se lo rimise tra i denti. Si avvicinò al figlio maggiore. Col pollice gli abbassò una per volta le palpebre inferiori e studiò le pupille, dopodiché mandò un grugnito di soddisfazione. Esaminò il taglio sul sopracciglio del ragazzo, quindi gli prese il naso tra le dita e lo mosse delicatamente da una parte e dall'altra per controllare i danni, poi gli sollevò il labbro superiore ed esaminò i denti, per vedere se erano scheggiati o spezzati, infine si trasse indietro. « Jan Cheroot, portalo da Jameson. Chiedi al dottore di cucirgli quel sopracciglio e di dargli una manciata di pillole al mercurio per la lue. » Jan Cheroot si avviò, conducendo via Ralph, ma Zouga continuò: « Poi, sulla via del ritorno, fermati alla palestra di Barnato e iscrivilo a un corso di lezioni di pugilato. Deve imparare a battersi un pochino meglio o, prima che muoia di sifilide, gli spaccheranno la testa ». Ritornando da Market Square, Jan Cheroot e Ralph, le teste accostate, parlavano in tono serio. « Perché, secondo te, lo chiamano Bakela, il Pugno? » chiese l'ottentotto, e Ralph fece una smorfia. Aveva la faccia gonfia e i lividi gli si stavano colorendo, un blu-prugna sfumato come un nembo estivo. I punti di crine gli sporgevano duri dal sopracciglio e dal labbro, e i tagli erano coperti da croste morbide del colore della marmellata di mirtillo. Jan Cheroot sorrise e fece la domanda che gli bruciava la lingua sin da quando aveva appreso la causa della furia di Zouga. « E allora, ti è piaciuto il tuo primo assaggio dello zuccherino? » La domanda fece fermare di colpo Ralph, che ci rifletté su con aria seria, quindi rispose senza muovere il labbro ferito. « E' stato meraviglioso », disse. Jan Cheroot rise, deliziato. « Ora ascoltami, ragazzo, ascoltami bene. Io amo tuo padre, siamo stati insieme tanti anni che non riesco a contarli, e quando ti dice una cosa tu ci puoi credere... Quasi sempre. Quanto a me, però, non ho mai in vita mia perso un'occasione per una fetta di quella buona roba... mai, neppure una volta, giovane o vecchia o di mezza età, brutta come una scimmia o bella da spezzarti il cuore, mai ogni volta che mi è stata offerta, e un sacco di volte anche quando non m'è stata offerta. Jan Cheroot ha sempre afferrato l'occasione, ragazzo. » « E non ti ha mai ucciso », fu la conclusione di Ralph. « Credo che sarei morto a farne senza. » Ralph riprese a camminare. « Spero che Bazo faccia combattere la sua Inkosikazi domenica prossima. Per allora avrò un bisogno matto di dieci ghinee. » La luna lambiva l'orizzonte, facendo impallidire le stelle. Mancavano ancora alcuni giorni alla luna piena, ma sulla veran-
da del cottage c'era abbastanza luce da poter leggere i titoli di una copia stropicciata del Diamond Fields Advertiser che giaceva a terra accanto alla sedia vuota di Zouga. Gli unici suoni erano il latrato lontano di un cane alla luna e il frullo delle ali dei pipistrelli che compivano alte parabole contro la luce lunare o venivano volteggiando sotto il tetto della veranda per catturare al volo qualche insetto. La porta d'ingresso era spalancata e fermata per permettere al fresco della notte di entrare nelle stanze interne del cottage. Jordan la varcò con passo esitante. Era scalzo e la vecchia camicia di flanella che portava la notte a letto era stata un tempo del padre; i suoi lembi gli sbattevano intorno alle ginocchia nude mentre avanzava sulla veranda. Alla fine si fermò davanti all'alta scultura di pietra che si levava sul suo piedistallo in fondo alla veranda. I raggi obliqui della luna cadevano di lato sull'uccello scolpito, lasciandone l'altra metà in una misteriosa ombra nera. Jordan rimase lì fermo. Il pavimento di terra battuta era freddo sotto la pianta dei piedi nudi e lui ebbe un tremito, non proprio di freddo, e si guardò cauto in giro. Il campo di Zouga era immerso nel sonno, il sonno che precede l'alba. Scompigliati dal cuscino, i riccioli del ragazzo brillavano come un'aureola alla luce della luna mentre gli occhi erano in ombra, buchi neri come quelli di un teschio. Tutta la notte se n'era stato irrigidito nel suo stretto letto ad ascoltare il fratello respirare pesantemente attraverso il naso gonfio. Strana sensazione di leggerezza e di vuoto alla testa gli dava la mancanza di sonno. Aprì il piccolo involto di carta di giornale che aveva tenuto nascosto sotto il cuscino quando era andato a letto. Conteneva un mezzo pugno di riso e una fredda fettina di agnello arrosto. Depose l'involto ai piedi della colonna di steatite e fece un passo indietro. Ancora una volta si guardò intorno per assicurarsi di essere solo, quindi, tenendo il libro contro il petto, cadde in ginocchio e chinò il capo. Il libro era rilegato in pelle blu con sul dorso il titolo in lettere d'oro: Religioni degli indiani d'America. « Ti saluto, Panes », disse in un bisbiglio, con le palpebre gonfie serrate. « Gli indiani di California, le tribù acagchemem, adorano la grande poiana Panes. » Il libro che stringeva contro il petto era diventato di gran lunga la cosa più preziosa che possedeva. Gli seccava ricordarsi di come l'aveva ottenuto. Era stata l'unica cosa che avesse mai rubato in vita sua, ma era stato perdonato per quel peccato. Aveva pregato la dea ed era stato perdonato. « Panes era una donna, una giovane e bella donna, che era fuggita tra le montagne ed era stata tramutata in uccello dal dio Chinigchinich. », Sapeva con tutto il suo essere a chi si adattava questa de-
scrizione. Sua madre era giovane e bella ed era fuggita tra le nere montagne della Morte senza di lui. Ora aprì il libro e vi chinò sopra il capo. Non c'era abbastanza luce per leggere i caratteri piccoli del testo, ma conosceva a memoria l'invocazione alla dea. « Perché fuggisti via? » bisbigliò. « Saresti stata meglio con noi. Non siamo noi quelli che tu ami? Sarebbe stato meglio se fossi rimasta, perché ora sei Panes. Se ti offriamo un sacrificio di riso e carne tornerai da noi? Guarda l'offerta che disponiamo davanti a te, grande Panes. » Il vento del mattino si levò e lui udi il ramo del cratego frusciare contro il tetto prima ancora d'essere sfiorato dal vento. Era caldo, lieve, e gli scompigliò i capelli. Strinse ancor più forte gli occhi e i piccoli insetti dello sgomento zampettarono sulla sua pelle. La dea aveva molti modi di palesare la sua presenza. Quella era la prima volta che veniva come vento caldo e lieve. « Oh, grande Panes, non voglio guazzare nel sudiciume come Ralph. Non voglio mai sentire l'odore del trogolo nel quale hanno grufolato mille maiali. Non voglio impazzire e farmi marcire i denti in bocca. » Bisbigliava lieve ma con ardore, quando le lacrime gli spuntarono tra le palpebre. « Ti prego, salvami, grande Panes. » Sfogò col sacro uccellodonna tutto il proprio orrore e disgusto. « Si colpivano. Si odiavano, e il sangue, oh, il sangue... » Alla fine tacque, col capo chino, tremando, poi s'alzò in piedi e per la prima volta guardò la scultura. Lo sguardo di pietra dell'uccello era posato su di lui, che reclinò il bel capo dorato come se stesse in ascolto. I raggi di luna gli inargentarono la pelle. Si voltò, sempre stringendo il libro, e tornò lentamente indietro. Quando girò l'angolo opposto della veranda, ci fu un fruscio di scuri corpi nell'ombra e s'udirono gli squittii attenuati dei topi di boscaglia che si contendevano l'offerta sacrificale. Aprì spingendola la porta della cucina e avvertì l'odore di fumo, polvere di curry e sapone al fenolo. Si chinò sulla cassetta delle ceneri del fornello di ghisa quando soffiò leggermente attraverso la grata le braci avvamparono. Spinse tra le sbarre una lunga candela sottile, soffiò di nuovo e una fiammella azzurra prese vita. La portò con cautela attraverso la cucina, riparandola con la mano chiusa a coppa, e la trasferì sul mozzicone di candela infilata nel collo della bottiglia di champagne. Quindi spense la candela sottile, piazzò la bottiglia sul tavolo di abete tutto segnato e fece un passo indietro. Esitò alcuni secondi, poi prese i lembi della scolorita e rattoppata camicia da notte, li sollevò fino all'altezza delle spalle e guardò il proprio corpo. Dal ventre e dai fianchi gli era scomparso il grasso infantile.
L'ombelico era un occhio scuro sulla piatta distesa del tronco e le gambe erano ben formate. Le natiche strette e sode come un frutto immaturo. Il corpo era liscio e senza peli a eccezione del ciuffetto dorato alla base del ventre. Non erano ancora lunghi abbastanza da arricciarsi ed erano radi e sottili come filo di seta appena tirato dal bozzolo. Dal centro di quel ciuffo vaporoso pendeva inerte il pene. Era cresciuto in maniera allarmante negli ultimi mesi e, nella sua inorridita immaginazione, lui già prevedeva che un giorno sarebbe stato grosso e pesante come il braccio, un grosso peso vergognoso da portarsi dietro tutta la vita. In quel momento, però, sembrava morbido e bianco e innocente, ma quando lui si svegliava la mattina era duro come un osso, caldo e pulsante, e gli procurava un dolore peccaminosamente piacevole. Ciò era male, ma in quelle ultime settimane quel terribile gonfiore e quel l'indurimento gli erano capitati nei momenti più impensati: a tavola, con suo padre seduto di fronte, a scuola, quando la nuova insegnante si chinava su di lui per correggergli il dettato, al tavolo di scelta dove stava seduto accanto a Jan Cheroot, in groppa al cavallo, provocato dallo sfregamento contro la sella. E quella orribile cosa dura gli gonfiava il davanti delle brache. Ora lo prese in mano e gli sembrò inerme e morbido come un gattino appena nato... Ma non si lasciava ingannare, lui. Lo carezzò leggermente, avanti e indietro, e subito lo sentì cambiar forma tra le dita. Lo lasciò andare immediatamente. Il pezzo di montone col quale la famiglia aveva pranzato la sera stava sul tavolo sotto un coperchio a rete antimosche. Sollevò quest'ultimo: la zampa era ridotta all'osso. E coltello da caccia di suo padre era accanto al pezzo di carne freddo. Il manico era di corno di cervo e la lama era lunga quasi venti centimetri e terminava in una punta acuminata come uno stiletto; sopra vi s'era congelato il bianco grasso di montone. Prese il coltello con la destra. Era taglientissimo. Guardò giù di nuovo alla cosa bianca che gli sporgeva fuori del corpo. La pelle molle alla sua punta era mezzo ritratta così che spuntava fuori il roseo glande. Si cacciò sotto al mento i lembi della camicia in modo da aver le mani libere e afferrò il pene alla radice, chiudendo nel cerchio delle dita anche la raggrinzita borsa con le sue tenere palline di carne, tirò, allungandolo come il collo del condannato a morte sul ceppo del boia, mentre con l'altra mano abbassava il coltello e ne poggiava la lama contro il ventre, proprio al disopra del dorato ciuffo di peli del pube. La lama era così fredda che per un attimo rimase senza fiato mentre il grasso di montone gli lasciava una piccola striscia di unto sul ventre. Trasse un profondo respiro, quindi lentamente cominciò ad abbassare ancora di più la lama, per liberarsi per
sempre di quel vergognoso e vermesco affare. « Jordie, cosa stai facendo? » La voce dalla porta alle sue spalle lo fece sobbalzare talmente che lanciò un grido. Gettò il coltello sul tavolo e al tempo stesso lasciò ricadere la camicia per coprirsi. « Jordie! » Si voltò lesto, ansimando, e Ralph gli si avvicinò allontanandosi dalla porta della cucina. Indossava solo un paio di mutande sformate e sul petto nudo e levigato aveva la pelle d'oca per il freddo che precede l'alba. « Che stai facendo? » ripeté. « Niente, non stavo facendo niente. » Jordan scosse il capo ripetutamente. « Stavi menandotelo, vero? » lo accusò Ralph, e sorrise. « Piccolo sporcaccione. » Jordan fu scosso da un soffocante singhiozzo e gli passò davanti di corsa diretto verso la porta, e lui, Ralph, rise scuotendo il capo. Poi prese il coltello dal manico di corno e tagliò dal pezzo una grossa fetta di montone. Immerse poi la lama nel vasetto, spalmò un bel pò di senape gialla sul pezzo di carne e lo addentò, disponendosi ad accendere il fornello per mettere a bollire l'acqua del caffè. Il pomeriggio della domenica seguente, sulla bianca sabbia dell'arena, Inkosikazi morì d'una morte atroce nel velenoso abbraccio d'un avversario più piccolo e più agile. Bazo la pianse come avrebbe pianto un'amante e Kamuza cantò l'inno funebre insieme con lui con altrettanta tristezza, perché il sodalizio dei matabele aveva perso venti sovrane con la dipartita del ragno. Il ritorno da Market Square al campo di Zouga sembrò la ritirata di Napoleone da Mosca, con in testa Ralph e Bazo che recavano entrambi il cesto con il suo triste contenuto. Davanti alla taverna di Lil Diamond, Ralph fermò per un momento il corteo e, voglioso, studiò le vetrine dipinte dall'altra parte della strada; per un attimo rimase in ascolto del vocio e delle risate che giungevano da dietro la porta verde, credendo di riuscire a distinguere l'argentina risata di Lil. Quando raggiunsero la capanna dal tetto di paglia, Kamuza porse a Ralph il vaso di terracotta con la spumeggiante birra di miglio. « Quanto hai perso, Henshaw? » « Tutto », rispose Ralph, con aria tragica. « La ragione stessa della vita. » Bevve un lungo sorso della densa birra. « Male, solo uno sciocco tiene tutte le sue vacche nello stesso recinto. » « Katnuza, le tue parole sono sempre di grande consolazione », disse Ralph, in tono amaro. « Ma io sono indegno di tanta saggezza. Serbali per te questi tesori. » Kamuza si rivolse a Bazo. « Ora sai perché non volevo scommettere cinquanta regine d'oro, come tu hai voluto. »
Bazo lanciò un'occhiata a Ralph e i due agirono contemporaneamente. Ralph passò, in un apparente gesto fraterno, un braccio intorno al collo di Kamuza; in realtà, era una ferrea cravatta che lo tenne immobile mentre con l'altra mano gli apriva sul davanti il perizoma. Intanto Bazo raccoglieva dal cesto la soffice carcassa pelosa del ragno e la lasciava cadere nell'apertura. Quando Ralph lo lasciò andare, Kamuza balzò in aria, indietreggiando come uno stallone non domato a contatto con la sella per la prima volta, nitrendo d'orrore, picchiandosi all'inguine con entrambe le mani. Se Ralph non l'avesse tenuto, Bazo, in un convulso attacco d'ilarità, sarebbe caduto nel fuoco al centro della capanna. Kamuza era stato via quasi tre anni. Quando Bazo e gli altri matabele avevano firmato il contratto per un terzo periodo, solo Kamuza aveva chiesto a Bakela di « Bala Isitupa », sciogliergli il contratto, e aveva preso la strada per il nord per ritornare nel Matabeleland. Bazo ne aveva sentito moltissimo la mancanza. Di lui e di quella sua lingua biforcuta e dei suoi continui consigli. Gli era mancata l'intuitiva comprensione di Kamuza del modo di pensare dei bianchi, che per lui, Bazo, era ancora insondabile. Nonostante Henshaw fosse suo amico, avesse lavorato a spalla a spalla con lui per tutti quei lunghi anni, fossero andati a caccia insieme, col falco e senza, avessero mangiato la stessa farinata di mais e bevuto dalla stessa caraffa di birra, nonostante Henshaw parlasse la sua lingua così fluentemente che, seduti al buio, quando il fuoco s'era ridotto in braci, poteva sembrare benissimo un giovane matabele quello che parlava, così completa era la sua padronanza dell'uso comune della lingua, così poetiche le immagini che adoperava, nonostante tutto questo, nondimeno non sarebbe mai stato un matabele come Kamuza, non sarebbe mai stato un fratello come Kamuza; infatti non aveva mai partecipato agli stessi riti d'iniziazione con lui come vi aveva partecipato Kamuza, non aveva mai formato con lui le « corna del toro » quando il reggimento, l'impi, serrava le file per andare all'attacco e uccidere, e non aveva mai affondato l'assegai e non aveva mai visto sgorgare il brillante sangue come Kamuza. Perciò fu pieno di gioia quando udì la notizia: « Kamuza è di nuovo tra noi ». La sentì prima bisbigliare da un altro matabele mentre si mettevano in riga all'ingresso del recinto. « Kamuza viene come l'uomo del re », sussurravano intorno ai fuochi, e c'era rispetto, persino timore, nelle loro voci. « Kamuza ora porta l'isicoco. » Molti giovani matabele erano venuti a lavorare all'Umgodi Kakulu, « Il Grande Buco », in quegli ultimi anni, e ogni mese altri ne arrivavano per la lunga e stancante strada del nord, piccoli gruppi di dieci o venti, a volte solo due, altre tre e, di
tanto in tanto, anche uno che viaggiava da solo. Quanti avevano raggiunto Kimberley? Nessuno teneva il conto, mille certamente, forse duemila, e a ognuno di loro era stata indicata la strada per il sud dal Grande Elefante Nero, ognuno di loro aveva il permesso del re di viaggiare oltre i confini del Matabeleland, perché senza di esso sarebbero stati trafitti dai lucenti assegai degli impi di guardia a ogni strada che andava o veniva dal grande kraal del re a Thabas Indunas: le Colline dei Capi. Anche in esilio quei giovani matabele formavano un'associazione tribale molto stretta. Ogni nuovo arrivato dal nord portava notizie, lunghi messaggi dei padri e degli induna, ripetuti parola per parola, con ogni sfumatura dell'originale. Così come ogni matabele che lasciava i campi di diamanti, sia perché aveva terminato il suo contratto di tre anni sia perché era stanco e aveva nostalgia di casa o non ne poteva più delle insensate e complicate leggi del bianco e disertava, portava indietro con sé messaggi e istruzioni affidati alla fenomenale memoria di un popolo che non conosceva la parola scritta. E ora la notizia corse di matabele in matabele: « Kamuza è qui ». Kamuza non aveva mai attirato tanta attenzione prima. Era stato uno tra mille; ma ora ritornava come uomo del re e quando facevano il suo nome abbassavano la voce. Bazo lo aspettava di giorno in giorno, osservando le facce sulle alte impalcature o sugli elevatori in moto. La notte se ne stava insonne disteso sulla sua stuoia accanto al fuoco che andava spegnendosi, tendendo l'orecchio all'eventuale bisbiglio di Kamuza nel buio. Attese molti giorni e molte notti e poi, all'improvviso, Kamuza arrivò, chinandosi sulla bassa soglia e salutandolo. « Ti vedo, Bazo, figlio di Gandang. » Colmo di gioia, Bazo replicò, calmo: « Anch'io ti vedo, Kamuza ». E fecero posto a Kamuza nel cerchio intorno al fuoco, senza stargli addosso, dandogli spazio, perché ora Kamuza portava sui capelli tagliati corti l'anello nero, l'emblema del Consigliere, dell'induna dei re del Matabeleland. Lo chiamavano « Baba », termine di grande rispetto, e persino Bazo batté leggermente le mani per salutarlo e gli passò il vaso della birra. Solo dopo che Kamuza si fu rinfrescato, Bazo poté cominciare a chiedergli di casa, celando la propria impazienza dietro toni misurati e un'espressione di calma dignità. Kamuza non era più un giovanotto, nessuno di loro lo era più; gli anni erano volati e Kamuza e Bazo erano nel pieno della loro maturità. I tratti di Kamuza erano più taglienti di quelli di un matabele di sangue zanzi, il vecchio sangue dello Zululand, perché il suo era misto con sangue tswana, la gente meno guerriera ma sveglia e abile del re Khama. La nonna di Kamuza era stata catturata da ragazza, ancora impubere, da uno degli impi
di re Mzilikazi e presa in moglie dall'induna che comandava coloro che l'avevano catturata. Da lei Kamuza aveva ereditato la pelle nero-gelso, l'inclinazione egiziana degli occhi, le narici strette e le labbra sottili. Non erano molti i matabele che potevano rintracciare la propria ascendenza fino al puro zanzi, al sangue di Chaka e Dingaan, gli zulu, i Figli del Cielo, e Bazo era uno di loro. E tuttavia era Kamuza che portava ora in testa l'anello dell'induna. Al tempo di Mzilikazi un uomo doveva avere la brina della saggezza e dell'età che gli imbiancava i capelli, e le code di vacca legate ai gomiti e alle ginocchia, che proclamavano al mondo le sue imprese in battaglia, prima che il re gli ordinasse di portare l'isicoco. Allora le sue mogli gli intrecciavano l'anello direttamente tra i capelli e glielo cementavano lì stabilmente con colla, argilla e sangue di bue, un'aureola permanente di onore che dava diritto a chi la portava di sedere nel Consiglio della nazione matabele. E tuttavia i tempi stavano cambiando. Più astuto che feroce, Lobengula, figlio di Mzilikazi, in coloro che lo circondavano cercava l'astuzia. Mzilikazi era stato un guerriero ed era vissuto al lampeggiare dell'assegai. Lobengula, benché avesse insanguinato la sua lancia, non era mai stato un guerriero e sdegnava la semplicità di pensiero e la spontaneità d'azione dei guerrieri. Man mano che gli anziani del padre venivano meno, lui li aveva rimpiazzati con uomini che pensavano con la stessa sveltezza con la quale i vecchi avevano ucciso. Non sopportava la preoccupazione dei vecchi per un mondo che andava scomparendo e cercava giovani con occhi freschi, uomini che come lui riuscissero a vedere le nere nubi che andavano accumulandosi ai confini meridionali come gli alti cumulonembi della piena estate. Uomini che avvertivano il cambiamento e i terribili avvenimenti che i suoi stregoni e le sue stesse divinazioni gli avevano detto che presto lo avrebbero travolto, come il fuoco che avvolge le distese di papiro nelle paludi dello Zambesi alla fine della stagione asciutta. Lobengula, il Grande Elefante Nero, il cui passo scuote le fondamenta stesse della terra e la cui voce spacca i cieli, sceglieva giovani con occhi per vedere e orecchie per sentire. E così ora Kamuza portava l'isicoco dell'induna e mentre parlava davanti al fuoco con i suoi secchi bisbigli, gli occhi neri e lucenti come quelli di un mamba alla luce della fiamma, gli uomini ascoltavano, ascoltavano con grande attenzione. Prova della gravità delle notizie che recava dal nord fu il fatto che Kamuza iniziasse il consiglio - l'indaba - con un racconto della storia della nazione matabele. Ognuno di loro l'aveva sentita sin da quando era attaccato al seno della madre, l'aveva bevuta col suo latte, e tuttavia adesso ascoltavano con la stessa avidità di allora, rafforzando i propri ricordi in modo che quando fosse giunto il momento avrebbero potuto ripeterla perfettamente in ogni particolare ai loro figli, affinché non
venisse mai persa. La storia cominciava con Mzilikazi, capo guerriero degli impi zulu, combattente senza pari, compagno amato e fidato e intimo dello stesso re Chaka. Parlava del male nero del re Chaka, impazzito dal dolore alla morte della madre Nandi, la Dolce. Di Chaka che ordinava l'anno di lutto durante il quale nessuno avrebbe seminato, pena la morte; durante il quale il latte delle vacche doveva essere gettato a terra, pena la morte; e nessuno poteva giacere con la propria donna, pena la morte. Il pazzo Chaka rimuginava nella sua grande capanna e cercava motivi per colpire tutt'intorno a sé, abbattere anche i più fidati, i più amati. Fu così che i messaggeri di Chaka vennero da Mzilikazi, il giovane capo guerriero. Lo trovarono nel campo con i suoi impi intorno, cinquemila dei più bravi e coraggiosi guerrieri dello Zululand, tutti ancora accesi per la battaglia e tutti che spingevano davanti a sé le spoglie catturate, le mandrie, le ragazze giovani e belle legate in fila per il collo. I messaggeri del re recavano i copricapi di lunghe piume della coda dei maestosi aironi azzurri, segno della solennità della loro missione. « Il re accusa l'induna Mzilikazi », esordì il primo messaggero, e guardando la sua faccia arrogante Mzilikazi capì che stava guardando la faccia della morte. « Il re accusa Mzilikazi di rubare la sua parte delle spoglie di guerra.» Poi parlò il secondo messaggero, e le sue parole furono un'eco della nera follia del re; così le parole dello stesso re Chaka rimasero sospese nell'aria sopra gli impi di Mzilikazi come avvoltoi che volteggiano sui campi di battaglia su ali ampie e immobili. Se la sentenza di morte fosse stata emessa solo contro di lui, Mzilikazi sarebbe andato dal suo re ad affrontarlo con coraggio e dignità. Ma con lui erano condannati anche i cinquemila guerrieri, e Mzilikazi li chiamava i suoi figli. Così Mzilikazi allungò una mano e afferrò i messaggeri del re e, per un attimo, la terra parve fermare il suo corso, perché toccare coloro che portavano le piume d'airone azzurro significava toccare la persona stessa del re. Con il suo assegai affilato come un rasoio tagliò poi di netto le piume azzurre sulle teste dei messaggeri insolenti e gliele gettò in faccia. « Questa è la mia risposta a Chaka, che non è più mio re. » Ebbe così inizio il grande esodo verso il nord e, seduto davanti al fuoco, Kamuza, l'uomo del re, ne parlò, lo raccontò di nuovo. Raccontò delle imprese guerriere di Mzilikazi il rinnegato. Raccontò di come Chaka mandasse i suoi più famosi impi contro i cinquemila in fuga e di come Mzilikazi li affrontasse con la classica tattica di battaglia degli nguni, di come li aspettasse su terreno a loro sfavorevole. Raccontò ancora, Kamuza, di come Mzilikazi lanciasse intorno agli impi di Chaka le « corna del toro » e di come i suoi giovani guerrieri gridassero « Ngi dhla! Ho mangiato! » mentre affon-
davano l'acciaio; e coloro che ascoltavano nella buia capanna mormorarono e si mossero inquieti, mentre i loro occhi brillavano e le lance che stringevano in mano si agitavano. Quando la battaglia fu finita, i superstiti degli impi, dispersi di Chaka andarono da Mzilikazi e, in ginocchio, giurarono fedeltà a lui, a Mzilikazi, che non era più un rinnegato ma un piccolo re. Raccontò inoltre di come il piccolo re marciasse verso nord con i suoi impi aumentati di numero e di come sconfiggesse altri piccoli re e diventasse un grande re. Raccontò di come, dopo la morte di Chaka per mano dei suoi fratelli, Dingaan, il nuovo capo della nazione zulu, non osasse mandare altri impi a inseguire Mzilikazi. E così Mzilikazi divenne più forte e, come un leone distruttore, divorò le tribù, i cui guerrieri fecero aumentare di numero i suoi i impi combattenti, e i suoi zanzi, di puro sangue zulu, procrearono con le fanciulle catturate. I matabele divennero una nazione e Mzilikazi divenne un imperatore nero il cui dominio oscurò persino quello di Chaka. Gli uomini intorno al fuoco ascoltavano e sentivano il proprio cuore gonfiarsi d'orgoglio. Poi Kamuza raccontò di come i buni, gli strani uomini bianchi, attraversassero il fiume con i loro piccoli carri e si spargessero sulla terra che Mzilikazi aveva conquistato con il suo assegai. Allora questi radunò i suoi uomini, che danzarono con le loro piume di guerra e i lunghi scudi che urtavano tra loro e sfilarono davanti a lui. Dopo aver passato in rivista la forza della sua nazione, Mzilikazi prese la piccola lancia cerimoniale, segno della sua autorità di re, si piazzò davanti ai suoi impi e lanciò l'arma-giocattolo contro la riva del fiume Gariep sulla quale gli uomini bianchi avevano fermato i loro carri. Li assalirono nell'ora che precede l'alba, l'ora delle corna, quando le corna del bestiame sono appena visibili contro il cielo che va illuminandosi. Le prime file dei neri guerrieri all'assalto ricevettero la prima scarica dei lunghi fucili ad avancarica, e l'assorbirono come se si trattasse di una manciata di sassi lanciati in un nero mare in tempesta. Poi trafissero gli uomini barbuti mentre armeggiavano freneticamente con la polvere da sparo e gli scovoli. Trafissero le donne bianche che correvano dai carri in camicia da notte per portare il secondo fucile ai loro uomini. Strapparono i neonati dalle loro culle e gli fracassarono il cranio contro le ruote ferrate dei carri. Oh, fu un gran festino quello che loro prepararono per le galline di Mzilikazi, i grotteschi avvoltoi dalla testa nuda. Credevano che fosse la fine, invece era solo l'inizio, perché i matabele dovevano ancora conoscere la tenacia e il fiero coraggio di quella strana gente pallida. L'ondata successiva di uomini bianchi venne da sud, e quando videro i carri abbandonati e le ossa ripulite dagli sciacalli
sulla riva del Gariep la loro fu una furia quale i matabele non avevano mai conosciuto in tutte le loro guerre. E così, rifiutandosi di lasciarsi trascinare tra le gole e la macchia spinosa, i buni affrontarono gli impi su terreno aperto. Avanzavano in squadre pietosamente piccole, su pony dal pelo lungo dai quali smontavano per scaricare i loro fucili, in una tuonante nube di azzurro fumo di polvere da sparo. Quindi ritornavano in sella per allontanarsi dal muro avanzante di scudi di pelle, ricaricavano le loro armi e tornavano indietro, compiendo un giro, per far esplodere di nuovo quel tuono contro la massa di corpi mezzo nudi e luccicanti di olio e sudore. I buni costruirono fortezze sulla pianura aperta, fortezze con i loro carri che legavano ruota contro ruota, e lasciarono che gli impi andassero a morire contro le mura di legno della fortezza, mentre accanto a loro le donne prendevano i fucili dalle canne ancora roventi e passavano il secondo fucile già caricato. Poi quando, scossi e malconci, gli impi si ritirarono, i carri sciolsero il cerchio formato e, come una lenta ma mortale vipera del deserto, avanzarono verso il kraal di Mzilikazi. E i terribili cavalieri galoppavano davanti, sparando e accerchiando, sparando e accerchiando. Triste, Mzilikazi contò i suoi morti e il prezzo era troppo alto; il rosso fango nel quale le ruote ferrate avanzavano era intriso del sangue degli zanzi, il sangue del Cielo. Così chiamò a raccolta la sua nazione e i ragazzi pastori fecero rientrare le mandrie, le donne arrotolarono le stuoie per dormire, le fanciulle si misero in equilibrio sul capo i vasi di terracotta e Mzilikazi diede fuoco ai suoi kraal e condusse via la nazione matabele. Una lunga fila di gente e animali fu scortata dagli impi superstiti mentre i bianchi sui loro robusti pony li guidavano e indicavano loro la strada come il cane guida il gregge. Mzibkazi li condusse verso nord, finché attraversarono il grande fiume e furono nella nuova terra. « Ora gli uccelli bianchi si radunano di nuovo », disse Kamuza ai giovani raccolti intorno al fuoco. « Ogni giorno arrivano della strada per Thabas Indunas e portano con sé i loro vistosi doni e le verdi e piccole bottiglie di follia. Le loro parole sono dolci come miele sulla lingua, ma prendono alla gola coloro che cercano di inghiottirle come se fossero la verde bile del coccodrillo. » « Cosa vogliono dal re? » chiese Bazo a nome di tutti quelli che ascoltavano, e Kamuza si strinse nelle spalle. « Questo chiede il diritto di cacciare l'elefante e di prenderne le zanne, quest'altro chiede che le giovani ragazze siano mandate al suo carro, un altro vuole parlare alla nazione di uno strano dio bianco che ha tre teste, un altro ancora vuole scavare un buco e cercare il ferro giallo, un altro infine vuole comprare bestiame. Uno dice che vuole solo questo, un altro che vuole solo quello, ma in verità vogliono tutto. Questa gente è rosa da una fame che non può essere mai soddisfatta, brucia di una sete che non può essere mai appagata. Vogliono tut-
to quello che vedono e anche quello non è mai abbastanza. Prendono la terra, ma non basta, così l'aprono come un uomo che strappa un figlio dal grembo della madre. Prendono i fiumi, ma non basta, così li ostruiscono con dei muri e li trasformano in laghi. Inseguono le mandrie di elefanti e li abbattono, ma non solo uno o due, non solo i grossi maschi ma anche le femmine incinte e i figli con zanne d'avorio non più lunghe del tuo dito. Tutto quello che vedono prendono, e vedono tutto, perché sono sempre in movimento, a cercare e a guardare. » « Lobengula deve mangiarseli », esclamò Bazo. « Deve mangiarseli come se li sarebbe mangiati Mzilikazi suo padre. » « Hau! » Kamuza fece una smorfia di sorriso. « Quanta saggezza da parte di mio fratello. Lui ricorda come Mzilikazi si mangiò gli uomini bianchi sulle rive del Gariep e perse la terra. Date ascolto a Bazo, miei ragazzi. Lui consiglia al re Lobengula di scagliare la lancia di guerra e di scatenare i suoi impi come Cetywayo, il re degli zulu, fece alla Collina della Piccola Mano. Quanti inglesi trucidò Cetywayo? Non furono contati, perché le loro giacche rosse giacevano una sull'altra come le nevi delle Montagne del Drago quando il tramonto le infuoca, e il loro sangue irrigò la terra così che ancor oggi l'erba cresce più verde e più fitta e più dolce sui pendii della Piccola Mano. Oh, un bell'uccidere, miei ragazzi, un grande e bell'infilzare... E dopo Cetywayo lo pagò con la lancia della sua autorità di re. Lo pagò con le sue mandrie reali, lo pagò con il fegato e il cuore dei suoi uomini giovani, con le erbose colline dello Zululand. Perché dopo che i vendicatori ebbero compiuto il grande massacro a Ulundi i bianchi presero tutto, e piazzarono catene ai polsi e alle caviglie di Cetywayo e, ancora, incatenarono i suoi induna e i suoi capitani e li condussero via. Ora, Bazo, il saggio, vuole che sappiate che buon affare fece il re Cetywayo e sollecita Lobengula a fare lo stesso con questi uomini bianchi. » L'espressione di Bazo rimase grave e piena di dignità mentre Kamuza lo prendeva in giro, ma tormentava il corno della polvere rossa tra le dita e, a un certo punto, lanciò un'occhiata nell'angolo buio della capanna dal tetto di paglia dove erano ammucchiati i lunghi scudi di guerra e i larghi assegai. Quando poi Kamuza ebbe finito, scosse il capo. « Nessuno qui osa dare consigli al re, noi siamo solo i suoi cani. Nessuno qui dubita della potenza e della risoluzione degli uomini bianchi, noi che viviamo ogni giorno con le loro strane e strabilianti maniere. Tutto quello che chiediamo è questo: qual è la parola del re? Dicci cosa desidera Lobengula, perché udire è obbedire. » Kamuza annuì. « Ascolta allora la voce del re, perché il re ha viaggiato con tutti i suoi induna anziani - Babiaan e Somabula e Gandang -, tutti gli induna della casa di Kumalo, e sono andati tra le colline di Matopos al luogo della Umlimo... » Un tremito di superstizione scosse il gruppo davanti al fuoco, un brivido, come se il nome della maga di Matopos avesse strisciato sulla loro pelle come la mosca tse-tse dalle ali falciformi.
« La Umlimo ha dato il suo oracolo », disse Kamuza e poi tacque, una pausa teatrale, per stuzzicare la loro curiosità, per drammatizzare l'effetto delle parole che avrebbe pronunciato. « Il primo giorno la Umlimo ripeté l'antica profezia, le parole che risalgono al tempo dei monomotapa. Il primo giorno la Umlimo parlò così: I falchi di pietra voleranno lontano... Non ci sarà pace nel regno dei mambo o dei monomotapa finché essi non torneranno. L'aquila bianca continuerà a combattere contro il toro nero finché i falchi di pietra non si poseranno di nuovo. » Tutti loro l'avevano già sentita, la profezia, ma ora ebbe un effetto nuovo e sinistro. « Il re ha meditato sull'antica profezia e ha detto così: 'Gli uccelli bianchi van radunandosi. Aquila e avvoltoio... Tutti bianchi, già si posano sul tetto del mio kraal'. » « Qual è il significato dei falchi di pietra? » chiese uno degli ascoltatori. « I falchi di pietra sono gli dèi-uccelli che gli antichi lasciarono sul luogo di sepoltura dei vecchi re, a Zimbabwe. » « Come fanno a volare gli uccelli di pietra? » « Uno è già volato. » Rispose Bazo questa volta. « Uno dei falchi di pietra è vicino a noi ora. Sta sotto il tetto di Bakela, il Pugno. E' stato lui a prendere il falco e a portarlo via. » « Quando gli altri uccelli voleranno, allora la guerra infurierà sul Matabeleland », affermò Kamuza. « Ma ascoltate ora l'oracolo della Umlimo. » E le loro domande furono messe a tacere. « Il secondo giorno la Umlimo profetizzò così: Quando il cielo di mezzanotte volgerà al mezzogiorno e le stelle brilleranno sulle colline, allora il pugno porterà la lama alla gola del toro nero. « Questa fu la profezia del secondo giorno. » Di nuovo tutti tacquero meditando su quelle parole, poi guardarono Kamuza perché spiegasse il significato della profezia. « Lobengula, l'Elefante Nero, lui solo capisce il significato della profezia del secondo giorno. Non è versato nei misteri degli stregoni forse? Non ha trascorso forse la giovinezza nelle grotte e nei luoghi segreti degli stregoni? Così dice Lobengula: 'Questo non è ancora il momento di spiegare le parole della Umlimo ai miei figli, perché sono parole molto importanti e verrà il giorno in cui la nazione comprenderà. » Bazo annuì e passò il corno della polvere rossa. Kamuza lo prese e si cacciò nelle narici la polverina con due profonde inalazioni mentre Bazo, senza guardarlo, non osava dar voce al proprio sospetto che forse Lobengula, il possente tuono dei cieli, era reso perplesso dalla profezia del secondo giorno quanto il piccolo gruppo intorno al fuoco.
« Tutto qui l'oracolo? » chiese invece, e Kamuza scosse il capo. « Il terzo giorno la Umlimo fece la sua ultima profezia: Colpisci il mamba col suo stesso veleno, abbatti il leone con le sue stesse zampe, inganna il furbo paviano nero con la sua stessa furbizia. « Questa fu la profezia del terzo e ultimo giorno. » « Intende il re che noi, sua umile mandria, si debba conoscere il significato della profezia del terzo giorno? » « Così ha parlato Lobengula: 'Noi matabele non prevarremo finché non ci armeremo come il nostro avversario, finché non raccogliamo anche noi la forza che si trova nelle monete gialle e nelle pietre lucenti. Perché sono queste cose che hanno fatto forte l'uomo bianco'. » Nessuno ruppe il silenzio che seguì, perché tutti sapevano che altro ancora sarebbe seguito. « Così il re mi ha chiamato nel kraal reale e mi ha ordinato di portare la sua parola a tutti i matabele che vivono al di là dei confini dei domini reali. Perché così ha parlato il re: 'Portami fucili per rispondere al fumo dei fucili dell'uomo bianco. Portami i diamanti e portami le monete gialle affinché io possa diventare forte come la regina che vive al di là del mare. Perché allora i suoi soldati non oseranno più venire contro di me'. » Bazo rispose per tutti loro: « Che Lobengula sappia che ciò che chiede a noi da noi avrà. Fucili avrà, perché faranno parte del nostro contratto con l'uomo bianco. Ognuno di noi recherà un fucile quando ritornerà nel Matabeleland, e quelli di noi che avranno lavorato per due Isitupa recheranno due fucili quando ritorneranno. Alcuni tre fucili ». « Questo si sa », disse Kamuza, annuendo. « Lobengula avrà monete d'oro perché noi siamo pagati in monete e ciò che portiamo a casa a Thabas Indunas appartiene al re. » « Questo è giusto e doveroso. » « Ma i diamanti? » chiese Bazo. « I diamanti appartengono all'uomo bianco. Li guardano con la stessa ferocia con cui la leonessa guarda i suoi cuccioli. Come facciamo a portare i diamanti al re? » « Ascoltami », bisbigliò Kamuza. « Non ci saranno più 'ritrovamenti'. Quando uno di voi scopre il luccichio di un diamante nella ghiaia, quel diamante appartiene a Lobengula. » « E' contro la legge. » « E' solo contro la legge dell'uomo bianco, non contro la legge di Lobengula, che è il tuo re, » « Udire è obbedire », grugnì Bazo, ma pensò a Bakela, il Pugno, che era suo padre, e a Henshaw, il Falco, che era suo fratello, e non gli piacque l'idea di dover rubare le pietre per le quali essi lavoravano duro quanto lui. « Non solo nel pozzo », proseguì Kamuza. « Ognuno di voi
terrà gli occhi bene aperti ai tavoli di scelta. Tu, Donsela », scelse un matabele di fronte a lui dall'altra parte del fuoco, un giovane con una gran fronte intelligente e un forte mento, « tu sei stato scelto per lavorare lì al grasso. » « I tavoli sono custoditi », rispose Donsela. « Sono coperti con una rete metallica. » Tutti loro avevano sentito parlare della meraviglia della nuova idea del grasso. Ancora una volta l'ingegnosità dei bianchi aveva posto a proprio vantaggio le singolari qualità del diamante. Il diamante non si bagna, come le piume di un'anatra, così mentre la ghiaia bagnata rotolava sul piano metallico di un tavolo cosparso di spesso grasso giallo il diamante, asciutto, aderiva. La conduttura proveniente dal fiume Vaal aveva alla fine raggiunto Kimberley e questa fornitura era aumentata dall'acqua sotterranea pompata dalle profondità degli scavi. C'era ora acqua a sufficienza per lavare la ghiaia, invece di dover ricorrere alla laboriosa cernita a secco, acqua a sufficienza per lavare la ghiaia setacciata sul piano inclinato e ingrassato dei tavoli. I diamanti rimanevano attaccati come piccole bolle, mezzo incassati nel grasso, pronti a essere grattati via con una spatola metallica alla fine di ogni turno. « C'è una rete metallica sui tavoli », ripeté Donsela, e Kamuza sorrise e gli porse una canna sottile raccolta sulla riva del fiume. In cima alla canna c'era una pallottolina di cera d'api. « La canna passerà attraverso le maglie della rete », disse Kamuza. « Il diamante s'attaccherà alla cera più facilmente che al grasso. » Donsela esaminò attentamente la canna. « La settimana scorsa un basuto fu trovato con una pietra. Quello stesso giorno cadde dall'elevatore che lo portava su dal pozzo. Quelli che rubano le pietre hanno incidenti. E questi incidenti sempre li uccidono. » « Il dovere di un guerriero è di morire per il suo re », gli rispose brusco Kamuza. « Non farti sorprendere dal sorvegliante e scegli solo le pietre più grosse e più lucenti. » Nei tre anni intercorsi tra la partenza di Kamuza e il suo improvviso ritorno, Ralph aveva raggiunto il suo pieno sviluppo. Solo pochi mesi prima del suo ventunesimo compleanno era già alto quanto Zouga, ma a differenza del padre era rasato, a eccezione dei folti baffi scuri che portava arricciati agli angoli della bocca. A rari intervalli riusciva ancora a mettere insieme le dieci sovrane d'oro necessarie per tener viva la sua clandestina amicizia con Lil Diamond. Poi, di colpo, la cosa non ebbe più importanza, perché Ralph s'innamorò. Successe per strada, davanti a quell'istituzione esclusiva, ormai già la più famosa dell'Africa a sud dell'equatore, che era il Kimberley Club, che conferiva ai suoi membri un enorme prestigio; farne parte, infatti, significava appartenere a quel mitico
gruppo elitario di uomini che possedevano la fiorente ricchezza e il crescente potere nei campi diamantiferi. Eppure il Kimberley Club non era altro che una costruzione di legno e ferro, a un piano, rozza quanto qualsiasi altra lì agli scavi. E' vero che vantava una sala da biliardo con un tavolo normale, uno steccato di ferro battuto e una porta d'ingresso a vetri colorati, ma era situato nella strada più rumorosa appena fuori da Market Square e si godeva la sua parte di mosche e di onnipresente polvere rossa. Era metà mattina e Ralph stava tornando col carretto dal fabbro che aveva sostituito le fasce di ferro alle ruote. Ci fu del movimento giù in fondo alla strada. Vide degli uomini correr fuori dalle taverne e dalle botteghe dei kopie-wallopers, quasi tutti a capo scoperto e in maniche di camicia. Un veicolo stava arrivando veloce dalla piazza, uno straordinario veicolo, leggero e veloce, con alte ruote strette e così ben molleggiato che sembrava fluttuare dietro la pariglia che lo trainava. Erano bene accoppiati i due cavalli, d'uno strano colore ambrato più tenero del miele, e con le criniere bionde quasi bianche. Ambedue avevano la martingala, che li costringeva ad arcuare il collo, e le lunghe e ben pettinate criniere bionde sventolavano come le insegne di guerra di un glorioso reggimento. Chi li guidava, vuoi per caso, vuoi, molto più probabilmente, per abilità, li spingeva a muovere le zampe anteriori esterne all'unisono, e il loro passo era un trotto esagerato nel quale lanciavano gli zoccoli anteriori così in alto che quasi sembravano toccare le teste splendenti quando le abbassavano nel ritmo della corsa. Ralph provò una fitta d'invidia tale che si trasformò in vero dolore fisico. Non aveva mai visto niente di così bello come quei chiari cavalli lucidi e il veicolo che essi trainavano... Finche non alzò gli occhi su chi li guidava. La ragazza portava un tricorno blu-notte calato disinvoltamente su un occhio. Le sopracciglia erano nerissime, sottili e dolcemente arcuate sopra enormi occhi a forma di goccia. Quando fu vicina al carretto che avanzava lento, si limitò a sollevare la mano guantata che stringeva le redini: la lanciata pariglia di cavalli chiari scartò e l'elegante veicolo sfrecciò così vicino che, se avesse osato, Ralph avrebbe potuto allungare un braccio e toccare una di quelle sottili caviglie in stivaletti abbottonati che appena s'intravedevano sotto l'elegante gonna di taffettà moiré. Poi abbassò di nuovo la mano e la pariglia portò la carrozza proprio davanti al cancelletto di ferro battuto del Kimberley Club e si fermò, scuotendo nervosamente le criniere e battendo a terra gli zoccoli anteriori. « Bazo, pensaci tu », disse Ralph, « prosegui per le impalcature. Io ti raggiungo. » Quindi attraversò la strada di corsa e afferrò la testa del più vicino purosangue.
Fece appena in tempo, perché una mezza dozzina di altri perdigiorno erano accorsi a loro volta. Ralph si tolse il cappello e guardò in su alla donna sul sedile di pelle imbottito della carrozza. Lei lo guardò e con un sorriso fugace lo ringraziò, e Ralph vide che i suoi occhi erano dello stesso blu-notte del cappello che aveva in testa. Quegli occhi lo sfiorarono solo per un istante, quindi ritornarono sulla porta a vetri colorati del club; ma a Ralph quello sguardo provocò uno shock fisico, come un colpo in pieno petto, così che non riuscì a riprendere fiato. Era consapevole delle voci, voci maschili che provenivano dal club, ma non riusciva a staccare gli occhi da quel bel viso. Stava assimilando ogni delicato particolare: la treccia di capelli, del colore del carbone appena lavato, spessa come la coda d'una leonessa, che cascava da sotto il cappello sulle spalle e raggiungeva la vita; la sottile punteggiatura delle lentiggini scure, alte sugli zigomi, che sembrava dar risalto alla purezza del resto della pelle; le orecchie piccole e puntute, che sembravano tese in un attento ascolto, ciò che dava una particolare vivacità al viso; l'attaccatura accentuata dei capelli sotto il cappello, che esaltava l'ampiezza della fronte; il naso, che era stretto e dritto, con narici eleganti che davano alla sua espressione un'altezzosità subito smentita quando sorrideva, come in quel momento, ma non a lui, Ralph. Stava sorridendo al gruppo degli uomini che erano venuti fuori sul portico del club, parlando animatamente e sistemandosi i cappelli. « Una splendida colazione, signori. » L'unico sconosciuto per Ralph - del gruppo ringraziò i suoi ospiti e li guidò per il breve tratto fino alla strada. Era un uomo alto e ben proporzionato. Vestiva sobriamente. Il taglio del vestito non era inglese ma lui lo portava con un'eleganza che faceva apparire vivaci i colori scuri. Portava su un occhio una benda scura che gli dava una certa aria piratesca. La barbetta era tagliata a punta e segnata di grigio. « Avrà almeno quarant'anni », pensò Ralph, con amarezza, allorché si rese conto che la donna stava sorridendo direttamente a quello sconosciuto. Sulla destra di questi c'era un tipo bassino, un uomo con una faccia scialba, capelli radi sulla fronte, baffetti di colore indeterminato ma occhi così intelligenti e vivaci da alterare il suo aspetto, renderlo interessante. « Ah, Ralph », mormorò, notando il giovanotto piantato accanto alla testa del cavallo. Ma Ralph evitò il suo sguardo. Il dottor Leander Starr Jameson era un amico intimo di suo padre e al corrente della sua vergogna e disgrazia. Era stato lui infatti a somministrargli le pasticche di mercurio, e le aveva accompagnate con una severa ammonizione a evitare in futuro le trappole del meretricio. Per un attimo Ralph si chiese se il dottore avesse comunicato il suo segreto alla bella signora sul sedile della carrozza, e il pensiero gli gelò l'anima come brina.
Dall'altro lato dell'uomo barbuto c'era mister Rhodes, grosso e serio, il vestito scomposto, il nodo della cravatta allentato, i calzoni deformati, ma con la determinazione e sicurezza che sempre colpiva Ralph. Dietro di loro, come l'ombra di mister Rhodes, seguiva la figura piegata di Alfred Beit. I quattro si fermarono in gruppo accanto alla carrozza e lo sconosciuto alto allungò una mano e prese quella della donna. Se ne portò alle labbra le dita. « Signori, posso presentarvi mia moglie, mistress St John? » Il suo accento era inconfondibile, persino Ralph lo riconobbe: la cadenza strascicata del sud degli Stati Uniti d'America. In ogni modo fu ciò che l'uomo disse e non come lo disse che colpì Ralph come un dardo al petto. « ... Mistress St John, mia moglie... Mistress St John... » Mentre Ralph stava irrigidito accanto alla testa del cavallo, sprofondato in un'adorazione che ormai sapeva senza speranza, il gruppo lo ignorò e gli uomini si abbandonarono ai loro inchini. « Louise, mia cara, questi è mister Rhodes, di cui hai già sentito tanto parlare... » Per quanto riguardava lui, Ralph, quelle formalità potevano benissimo essere state pronunciate in lingua straniera. Si chiamava Louise ed era sposata. Fu tutto quello che lui capì. Il generale St John montò in carrozza accanto alla moglie. Si muoveva con agilità per essere un uomo così grosso, e così vecchio anche, concesse Ralph, riluttante, e lo odiò per questo. St John prese le redini dalla mano guantata di Louise, si tolse il cappello per salutare i tre uomini e avviò i cavalli. Ralph dovette balzare di lato per evitare di essere travolto, e Louise intanto stava parlando animatamente al generale. Nessuno di loro lanciò una seconda occhiata a Ralph, e la carrozza s'allontanò in fondo alla strada. Ralph rimase a guardarla, pieno di tristezza. Jordan decorò i bordi del menu con scene romanticizzate degli scavi: le impalcature che si levavano sopra il gran pozzo, figure eroiche che lavoravano sugli argini di terra gialla, un selezionatore al suo tavolo e, in alto sul foglio, le mani di un uomo chiuse a coppa e traboccanti di diamanti grezzi; poi colorò le illustrazioni ad acquerello. « Cos'è la Velouté de la Nouvelle Ruée? » chiese Ralph. « Zuppa New Rush », rispose Jordie, senza staccare gli occhi dal suo lavoro d'artista. « E che c'è dentro? » « Ossobuco e orzo perlato. » « ... E che cos'è Quartier de Chevreuil Diamant Bleu? » « Cosciotto di antilope alla diamante blu. » « Non so perché non ci limitiamo a parlare inglese », si lamentò Ralph. « Cosa significa alla diamante blu, in ogni modo? »
« Si avvolge il cosciotto in lardo, lo si marina in olio d'oliva e cognac, con aglio selvatico, e poi lo si mette al forno in crosta. » Ralph inghiottì la saliva. L'abilità culinaria di Jordan era sempre fonte di delizia per lui. « Va bene... lo mangerò. » Jordan leccò il pennello, lasciandosi sulla lingua una striscia di blu di Prussia, poi guardò il fratello. « Tu lo dovrai servire, non mangiare. » Jordan fece una pausa studiata. « Mister Rhodes viene a colazione. » Come se questo spiegasse tutto. « Bene, se non sono degno di sedere alla stessa tavola con il tuo famoso mister Rhodes, che mi dannino se faccio il cameriere. Puoi rivolgerti a Donsela. Per uno scellino Donsela fa cadere la zuppa addosso a mister Rhodes, per uno scellino Donsela getterebbe la zuppa addosso allo stesso re Lobengula. Lo corrompo io. » In ogni modo, alla fine la curiosità e la promessa che Jordan gli fece degli avanzi prevalsero e Ralph, con indosso la ridicola giacchetta corta e attillata che Jordan gli aveva disegnato e tagliato, portò il vassoio di Velouté sull'ampia veranda del campo di Zouga, e lì per poco non lo fece cadere a terra. « Madame, lei mi ricorda l'eroina del poema di mister Longfellow », stava dicendo Neville Pickering, complimentando Louise St John, che gli sorrise dal suo Posto al centro del tavolo. « Grazie, signore. » La giacca che indossava era di pelle di daino color crema, con nappe alle maniche, e il corpetto era ricamato, con perline dai vivaci colori, in disegni decisamente geometrici. Si era spartita i folti capelli neri nel mezzo, aveva legato un nastro azzurro a ognuna delle spesse trecce e s'era fissata una fascia sulla fronte, lasciando cadere le trecce sul davanti, sul petto. Di morbida pelle di daino era anche una gonna pantalone che arrivava fino alle caviglie, e perline comparivano anche sugli stivaletti. Louise era l'unica donna al lungo tavolo poggiato su cavalletti nella veranda del campo di Zouga. Gli uomini seduti ai suoi lati stavano già emergendo come i sudditi più influenti, su quel continente, di una regina onnipotente. Come gli uomini che un'altra regina inglese aveva mandato ai quattro angoli della terra, costoro erano i nuovi elisabettiani, quasi tutti già ricchi, tutti inquieti e consumati dalla sete di potere, ricchezza e terra. Ognuno con un proprio sogno che avrebbe seguito implacabilmente tutta la vita, ognuno un uomo spietato, dinamico. Ballantyne. Beit. Jameson. Rhodes. Robinson. Un elenco di nomi che sembrava l'appello di una compagnia di filibustieri, eppure stavano ascoltando un discorso sulla moda femminile come se si trattasse di un rapporto di una società su un tonnellaggio trattato e su spese di spedizione recuperate. Solo Zouga Ballantyne non stava sorridendo. Quella donna
offendeva. La sua bellezza era troppo vistosa, i suoi colori troppo vivi. Lui preferiva i capelli oro pallido e una pelle color crema e fragola. Un'idea inglese della bellezza. Offensivo era il vestito di quella donna, la sua maniera di pettinarsi pretenziosa. Il suo sguardo era troppo diretto, i suoi occhi troppo azzurri, la sua conversazione troppo disinvolta, e c'era troppa familiarità nella sua maniera di rivolgersi agli altri. Naturalmente le donne americane avevano la fama di ostentare modi mascolini, ma lui si scoprì a desiderare che Louise St John avesse tenuto quei modi dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, dove erano di casa. Era già abbastanza che fosse arrivata al suo campo a cavallo precedendo il marito, in sella a cavalcioni, e fosse smontata liberando entrambi i piedi, in stretti stivaletti, dalle staffe e scendendo a terra con un leggero volteggio; in più era salita sulla veranda con passo sicuro e un sorriso fermo, tendendo la destra come un uomo e, senza aspettare che il marito la presentasse, aveva detto: « Lei dev'essere Zouga Ballantyne. Dalla descrizione che Mungo ha fatto di lei, la riconoscerei dovunque ». La sua mano era stretta e lunga, la pelle calda ma asciutta, la stretta delle dita poco femminilmente decisa, la stretta di un'amazzone provetta. Quelle tranquille colazioni domenicali al campo di Zouga erano intanto l'unica stravaganza del maggiore, ed erano diventate ormai una tradizione a Kimberley, perché mangiar bene e bere ancor meglio in compagnia di uomini intelligenti rendevano memorabili quei pomeriggi. Le donne raramente erano invitate a quelle riunioni e Louise St John non sarebbe stata lì se Zouga non fosse stato incapace di far sì che il marito andasse da solo, ma Mungo St John aveva risposto all'invito: « Il generale e mistress St John hanno il piacere di accettare ». L'amicizia tra St John e Zouga era cominciata molti anni prima e il generale era il tipo d'uomo che Zouga riusciva ad ammirare: un uomo che somigliava a lui, duro e deciso, uno che viveva secondo un proprio codice, senza compromessi. Uno che non s'aspettava preferenze né favori, ma i cui trionfi erano frutto del proprio ingegno e i cui disastri erano affrontati con forza d'animo, senza scuse né pretesti, anche quando erano dovuti a circostanze crudeli al di là del suo controllo. Verso la fine degli anni Cinquanta St John aveva costruito un impero commerciale, una flotta di navi mercantili che trasportava l'avorio nero - gli schiavi - dal continente africano all'America del Nord. La leggenda voleva che in tre viaggi, nel corso di soli dodici mesi, compiendo la traversata dell'Atlantico, avesse trasportato schiavi per un valore di due milioni di dollari e che con quei profitti avesse acquistato vaste proprietà in Louisiana. Era stato a quell'epoca che Zouga lo aveva conosciuto. Zouga aveva viaggiato come passeggero sul magnifico clipper di St John, l'Huron, dal porto di Bristol, nell'Inghilterra meridiona-
le, fino al Capo di Buona Speranza. L'ironia della sorte aveva voluto che Zouga al tempo del viaggio non si fosse reso conto che St John era impegnato nella tratta degli schiavi e che, al tempo stesso, fosse accompagnato dalla sua unica sorella, Robyn Ballantyne, medico e missionaria, il cui dichiarato scopo nella vita era la distruzione della tratta degli schiavi nel continente africano. Quando Robyn Ballantyne aveva scoperto che St John non si recava in Africa per barattare perline e filo di rame con avorio e piume di struzzo, copale e polvere d'oro del regno di Monomotapa, ma cercava invece un più ricco carico di neri vivi, il suo odio fu reso ancora più implacabile dalla vergogna per aver viaggiato in compagnia di un uomo simile. Era stata Robyn Ballantyne a evocare lo spettro vendicatore della Royal Navy. Era stata lei lo strumento principale nella consegna di St John e del suo bel clipper Huron, col suo carico di cinquecento neri di prima qualità, alle cannoniere della squadra inglese che combatteva la tratta degli schiavi. St John, com'era suo diritto quale capitano americano, aveva resistito agli arrembaggi inglesi e, nella selvaggia azione che era seguita, metà del suo equipaggio era stata uccisa o ferita e la sua bella nave ne era uscita così malconcia da dover essere rimorchiata nella Table Bay dai suoi catturatori. Sebbene, dopo un periodo di imprigionamento nel castello di Città del Capo, il governatore inglese alla fine avesse rilasciato St John e gli avesse permesso di salpare, il suo carico di schiavi era stato tuttavia sequestrato e liberato dalle catene, e la costa africana era stata chiusa per sempre alle sue navi. Era stato allora che Zouga aveva perso i contatti con lui; ma dopo la pubblicazione del suo libro Odissea di un cacciatore, St John gli aveva scritto presso il suo editore londinese, messrs Rowland Ward, e da allora in poi i due s'erano scritti a intervalli irregolari. In verità, la descrizione che Zouga aveva fatto in una delle sue lettere dei campi diamantiferi era responsabile della presenza di St John lì in quel momento. Attraverso quel loro scambio di lettere, Zouga aveva potuto seguire le vicende di St John; aveva così appreso che, dopo essere stato rilasciato dalla prigionia nel castello di Città del Capo, St John era ritornato a Fairfields, le sue piantagioni di cotone e zucchero vicino a Baton Rouge, appena poche settimane prima che il primo colpo di cannone venisse sparato a Fort Sumter. La Louisiana aveva votato per la secessione dall'Unione e, quando la guerra era scoppiata, Mungo aveva messo insieme una propria forza irregolare di cavalleria e l'aveva condotta in una serie di brillanti incursioni contro le linee di rifornimento e le retrovie dell'esercito federale. Era stato tale il successo di questi saccheggi che i nordisti lo avevano battezzato « Mungo Assassino » e dichiarato fuorilegge ponendo sulla sua testa una taglia di cinquantamila dollari. Promosso maggior generale, era stato in seguito colpito all'occhio sinistro dalla scheggia rovente di uno shrapnel e trascinato per un paio di chilometri dal
cavallo imbizzarrito. Quando era stato dimesso dall'ospedale, Vicksburg era caduta. Rendendosi conto che quello era un colpo fatale al cuore della Confederazione, zoppicando, era tornato a piedi per la strada ormai deserta fino a Fairfields. Il puzzo dei succhi di zucchero in fermentazione mescolato a quello della carne bruciata era più rivoltante di qualsiasi fetore di campo di battaglia che lui avesse mai conosciuto. Come monumento a tutti i suoi sogni, dalle ceneri della sua casa sorgevano solo quattro colonne. Ora, dopo tutti quegli anni, Mungo St John era comparso sulla strada che veniva da Buona Speranza conducendo una pariglia di magnifici cavalli dorati con svolazzanti criniere bianche, che lui chiamava « palomino », con un lungo sigaro nero tra i denti bianchi, uno sguardo luccicante nel singolo occhio e quella donna stranamente conturbante accanto a lui sul sedile del phaéton. La prima cosa che St John aveva fatto a Kimberley era stata di entrare nell'ufficio della Standard Bank in Market Square e di presentare allo sbalordito impiegato una lettera di credito. Questa lettera era su carta doppia e costosa, con una stampa a svolazzi rosa e dorati e il sigillo in ceralacca dei messrs Coutts and Co. dello Strand, e la somma che veniva accreditata era esattamente mezzo milione di sterline. St John aveva ritirato cento modeste sterline contro quel formidabile totale e aveva preso dimora insieme con la moglie al Craven Hotel, il più elegante e comodo di Kimberley. Quando s'era ripreso dallo stupore, l'impiegato della banca aveva cominciato a spargere tutto eccitato la notizia. C'era un generale americano, lì ai campi diamantiferi, che disponeva di mezzo milione di sterline in contanti. Il mezzogiorno seguente St John aveva accettato in tutta naturalezza un invito a colazione al Kimberley Club e aveva sorriso con indulgenza quando mister C.J. Rhodes, spalleggiato dal dottor Leander Starr Jameson, aveva proposto la sua iscrizione come socio. C'era chi, ricco e influente, aveva tentato invano sin dalla fondazione del club di ottenerne l'iscrizione. E lo stesso sorriso stava sfoggiando adesso mentre, allungato nella sua sedia, faceva rigirare tra le dita lo stelo del suo bicchiere di champagne e guardava gli altri convitati che si davano da fare intorno a sua moglie. Persino mister Rhodes, che era famoso per essere insensibile alle attrattive femminili, e che di solito terminava bruscamente ogni conversazione frivola, stava rispondendo alle ingenue domande di Louise e ridendo compiaciuto alle sue uscite. Con uno sforzo, Zouga Ballantyne distolse la propria attenzione da Louise per rivolgerla a Mungo St John. Senza esitare, cambiò l'argomento della discussione dalle gonne pantalone, che permettevano a sua moglie di stare in sella come un uomo, a ciò che aveva fatto lui, Mungo, dopo il loro ultimo incontro. Il motivo di questo cambio d'argomento non sfuggì a Louise. Lanciò una lunga occhiata a Zouga, dopodiché sorrise con grazia
e si chiuse in un doveroso silenzio, mentre la conversazione divenne alla fine seria e importante. St John era stato in Canada e Australia e, senza che scendesse in dettagli, tutti capirono che entrambi i viaggi erano stati redditizi, perché St John parlava di frumento e opali, lana e oro, e loro tutti ascoltavano con avidità, lanciando le loro domande come frecce e annuendo alle pronte risposte, sinché alla fine St John concluse: « Bene, poi ho saputo dal mio caro amico Zouga cosa stavate facendo voi signori qui e ho pensato che era ora di venire a dare un'occhiata ». Quasi fosse stato un segnale, Ralph arrivò in quel momento sulla veranda recando il vassoio col suo carico di selvaggina arrostita avvolta in una croccante crosta scura. I commensali applaudirono con esclamazioni di piacere e approvazione. Zouga si alzò per tagliare l'arrosto e, mentre affilava il coltello da caccia contro l'acciaiolo, lanciò un'occhiata a Ralph che ancora indugiava sulla veranda. « Ti sentì bene? » chiese, parlando con un angolo della bocca, e Ralph si riscosse, distogliendo lo sguardo incantato da Louise St John. « Oh, sì, papà. Benissimo. » « Non hai una buona cera. Hai l'aria di avere mal di pancia. Meglio che ti fai dare da Jan Cheroot una dose di zolfo e melassa. » Jan Cheroot, con indosso la sua vecchia giacca militare dai bottoni lucidi e in testa il berretto scarlatto messo sulle ventitre, portò altre bottiglie di champagne in secchielli pieni zeppi di bianco ghiaccio frantumato. « Ghiaccio! » Louise batté le mani. « Non mi aspettavo una tale raffinatezza qui. » « Oh, a noi mancano poche cose, ma'am », la rassicurò Rhodes. « La mia fabbrica di ghiaccio è attiva ormai da un anno e più. Tra un anno circa la ferrovia raggiungerà Kimberley, dopodiché diventeremo una città, una vera città. » « E tutto questo si regge sulla vanità femminile. » Louise scosse le lunghe trecce nere fingendosi scoraggiata. « Fronzoli femminili, una città costruita su anelli di fidanzamento. » Nonostante tutti gli sforzi di Zouga, l'attenzione generale aveva ancora cambiato oggetto. Pendevano di nuovo tutti dalle labbra di Louise con quell'espressione leggermente stupefatta che hanno anche gli uomini più ragionevoli quando guardano una bella donna. « Bella donna. » Era la prima volta che Zouga ammetteva quel fatto con se stesso e, chissà perché, ciò accrebbe il suo risentimento verso di lei. « Sa, mister Rhodes », Louise si sporse sul tavolo con aria confidenziale, « sono qui da cinque giorni ormai e, sebbene mi sia guardata intorno attentamente, non ho visto un solo diamante. E mi avevano assicurata che le strade di Kimberley erano lastricate di diamanti. » Tutti risero, certamente più di quanto la battuta esigesse, e
Rhodes mormorò qualche parola a Pickering prima di rivolgersi di nuovo a Louise. « Faremo il possibile per rimediarvi, mistress St John. » Mentre lui diceva questo, Pickering scrisse qualcosa su un pezzo di carta, dopodiché chiamò uno degli inservienti di colore che stava steso a fumare all'ombra del cratego. « Maggiore, mi presta uno dei suoi secchielli per lo champagne? » chiese poi e, quando Zouga assentì, porse il secchiello vuoto e il biglietto all'inserviente, Zouga stava scalcando di nuovo l'arrosto quando l'inserviente tornò. Era seguito da un bianco di aspetto indescrivibile in sella a una rozza cavalla. Costui salì sulla veranda recando il secchiello come se fosse pieno della nuova gelatina esplosiva di mister Alfred Nobel. Piazzò il secchiello sul tavolo davanti a Rhodes con un gesto timido, dopodiché parve scomparire letteralmente. Coi suoi radi capelli incolori, gli occhi miopi dietro occhiali dalle lenti spesse montate in metallo, e la giacca scura lisa e lucida ai gomiti e ai polsi, si confuse come un camaleonte col proprio sfondo. « Dov'è il giovane Jordan? » chiese Rhodes. « Quel ragazzo ama i diamanti quanto ciascuno di noi. » Jordan arrivò dalla cucina col grembiule e il colorito acceso per il caldo del fornello. Salutò timidamente Rhodes. « Signore e signori, mister Jordan Ballantyne non è solo il più bravo chef qui agli scavi, ma è anche il miglior selezionatore di diamanti che abbiamo. » Rhodes era espansivo come pochi di loro lo avevano mai visto. « Vieni qui vicino a me, Jordan, così potrai vedere bene. » Quando Jordan fu vicino alla sua sedia, Rhodes capovolse il secchiello con cautela e persino Zouga trattenne il fiato per la sorpresa, mentre Louise St John lanciava un grido. Il secchiello era pieno fino all'orlo di diamanti grezzi: cascarono sulla tovaglia bianca formando una lucente piramide, dalla quale partivano dardi di luce che lasciavano sbalorditi. « Benissimo, Jordan. Dicci qualcosa di questa roba », invitò Rhodes. E il ragazzo si chinò sul favoloso mucchio di pietre preziose e con le lunghe dita affusolate prese a sfiorarle leggermente, spargendole e scegliendole e formando piccoli mucchi. Mentre lavorava parlava, e la sua voce era bella come il suo viso, bassa e melodiosa. Con ricchezza di particolari, spiegò la forma dei cristalli, indicò i difetti in qualcuno, ne piazzò due vicini per confrontare i colori, girandone poi uno alla luce per risvegliare le fiamme assopite. Zouga era perplesso. Quella piccola scena era troppo teatrale per essere nello stile solito di Rhodes, che non si sarebbe mai preso tanta briga per impressionare una donna, anche se bella. Mescolando alla rinfusa quelle pietre, aveva infatti procurato ai suoi selezionatori molti giorni di lavoro extra. Ognuna di quelle pietre doveva essere riclassificata e rivalutata e rimessa nella sua bustina bianca. « Ecco una pietra perfetta. » Jordan prese un diamante delle
dimensioni di un pisello. « Guardate che colore, azzurro come il lampo e altrettanto pieno di fuoco. » Rhodes glielo tolse di mano, lo esaminò un momento tenendolo tra pollice e indice, quindi si sporse sul tavolo e lo piazzò davanti a Louise St John. « Signora, il suo primo diamante. Spero sinceramente che non sia l'ultimo », disse. « Mister Rhodes, non posso accettare un dono così generoso », rispose Louise sgranando gli occhi per il piacere, poi si rivolse a Mungo St John: « Vero? » « Se mi dico d'accordo con te, non me lo perdoneresti mai », mormorò Mungo St John, e Louise si rivolse di nuovo a Rhodes. « Mister Rhodes, mio marito insiste e io non trovo parole per esprimere la mia gratitudine. » Zouga seguiva la scena attentamente; stavano succedendo cose, c'erano molte sottigliezze, molti sottintesi. In superficie, non era altro che una dimostrazione del notevole effetto che quelle pietre lucenti avevano su una donna. Questo era il loro vero valore, forse il loro unico valore. Quando guardò il viso di Louise St John, vide che non era cupidigia quella che la illuminava tanto, ma un'emozione mistica non lontana dall'amore: l'amore per una cosa viva, un bimbo, un cavallo, un uomo, una cosa trepidante da guardare. Di colpo, si trovò a desiderare di essere lui la causa di tanta gioia. Gli sarebbe piaciuto che fosse stato lui e non Rhodes a farle quel regalo che l'aveva trasformata, e gli ci volle qualche istante per liberarsi di quel desiderio, così che quasi rischiò di perdersi lo sguardo che Rhodes lanciava al di là del viso della donna. Di colpo gli fu chiaro, allora, che Rhodes non stava allettando la donna, stava mirando all'uomo. Quello sfoggio di pietre era per Mungo St John, l'uomo con mezzo milione di sterline a disposizione. Rhodes aveva bisogno di capitali, infatti. Quando uno si metteva a comprare ogni singola concessione nel campo di Kimberley e quando lo faceva con fretta disperata non poteva non essere assetato di capitali. L'ambizione di Rhodes non era un segreto. Lui stesso, Zouga, era stato presente nel bar del Kimberley Club quando Rhodes aveva dichiarato le proprie intenzioni. « C'è un solo mezzo per rendere stabile il prezzo della merce » - l'eufemismo di Rhodes per i diamanti - « ed è una politica di mercato ordinata e centralizzata. C'è un solo mezzo per porre fine ai furti della merce da parte dei CID, ed è la costituzione di un rigoroso servizio di sicurezza, un vero e proprio schermo. E c'è un solo mezzo per raggiungere entrambi questi obiettivi, il possedimento di tutte le concessioni da parte di una sola società. » Tutti quelli che lo ascoltavano sapevano chi, secondo Rhodes, doveva essere a capo di quella società. Questo era successo un anno prima; ora quel secchiello di diamanti versato sul tavolo della colazione dimostrava fino a
che punto Rhodes aveva posto in atto la sua minaccia, fino a che punto aveva conquistato il campo. Era già a più di mezza strada dal suo obiettivo, ma era stato costretto ad accettare dei soci e ancora aveva bisogno, disperatamente bisogno, di capitali. Perché infatti l'ostacolo serio che si levava tra lui e la conquista completa del campo era la società di Barney Barnato. Sarebbero occorsi milioni - milioni di sterline - per quell'ultimo passo. Così ora a Zouga fu chiaro il motivo di quel piccolo sfoggio; stava per girare il capo e studiare la reazione del generale Mungo St John quando la scena all'altra estremità del tavolo lo colpì con violenza. Il giovanotto vestito in maniera sciatta, con le spalle pesanti, che si sporgeva dalla sedia, con i capelli ricci che gli ricascavano sulla larga fronte sopra il viso florido, e che con le grosse braccia e le possenti mani squadrate abbracciava un luccicante mucchio di pietre preziose; alle sue spalle, la figura sottile e delicata del ragazzo col bel viso luminoso, e dietro i due, torreggiante su di loro, tenendoli entrambi in soggezione, la statua scolpita del dio falco. Tremò, fu percorso per la prima volta, alla presenza del falco, da un fremito superstizioso. Per la prima volta fu consapevole del senso del male che il vecchio ottentotto aveva immediatamente scoperto negli occhi di pietra del falco. Per un orribile istante, si convinse che l'uccello stesse per allargare le sue ali a forma di lama tagliente e tenerle come un baldacchino possessivo sui due esseri umani ai suoi piedi; poi l'attimo passò. La scena scomparve. Rhodes stava rimettendo le gemme nel secchiello e intanto parlava tranquillamente con Jordan. « Stai sempre studiando il libro sulla stenografia di mister Pitman che ti ho mandato, Jordan? » « Sì, mister Rhodes. » « Bene. Lo troverai di grande utilità un giorno. » Il ragazzo capì che quello era un congedo e se ne tornò in fondo alla veranda nella sua cucina, mentre Rhodes porgeva con gesto indifferente il secchiello di diamanti al suo impiegato e si rivolgeva direttamente al generale St John. « Nella sezione degli scavi da noi posseduta troviamo una media di dieci carati per ogni tonnellata di ghiaia che trattiamo; a questi bisogna aggiungerne altri due per tonnellata rubati dagli operai tra il fondo del pozzo e la camera di classificazione. Rendendo più efficace il nostro sistema di sicurezza, e migliorando le leggi per il controllo dei CID, potremo eliminare questo spreco... » Parlava con quella vocetta acuta così imprevedibile in un uomo tanto grosso e gesticolava con le forti mani squadrate, chiaro e convincente. Citando cifre di costi di produzione e ritrovamenti previsti, stime di profitti su tonnellaggi lavorati, guadagni su capitali impiegati, stava rivolgendosi a un uomo solo, l'eretta e barbuta figura con una nera benda sull'occhio, e tuttavia i suoi modi erano così convincenti che tutti
i presenti ascoltavano attentissimi, anche Louise St John. Zouga la guardò e vide che cercava di concentrarsi su quella confusione di cifre e che sembrava, in grado di capirle. Ne diede infatti una prova immediata: « Mister Rhodes, lei prima ha detto che i costi di lavorazione alla Sezione n. 9 erano di dieci scellini e sei penny; ora cita un'altra cifra: dodici scellini ». La sua sfida era inaspettata e Rhodes tacque per un attimo; con un cenno del capo riconobbe poi l'acutezza della sua osservazione, quindi rispose: « Ai livelli più bassi il costo aumenta. Dieci e sei è il costo attuale, dodici scellini è il costo previsto da qui a dodici mesi ». La sua voce conteneva una nuova nota di rispetto. « Sono lusingato dal fatto che lei abbia seguito con tanta attenzione il mio discorso, signora. » Quindi si rivolse di nuovo a St. John. « Da questo capirà, generale, che i guadagni sul capitale investito sono migliori che in qualsiasi altro campo: dieci per cento è certo, quindici è possibile. » St John stringeva tra i denti un sigaro spento, ora se lo tolse di bocca e guardò fisso Rhodes col suo unico occhio. « Finora, mister Rhodes, lei non ha menzionato il blu. » Il blu. Ognuno dei commensali al lungo tavolo rimase immobile. Il blu. Fu come se St John avesse detto una grossa oscenità, sconvolgendoli e riducendoli al silenzio. Il blu era il motivo principale per cui Rhodes era tanto affamato di capitale. Il blu era il motivo per cui le banche stavano invitando tutti i cercatori che avevano ricevuto prestiti, contro la garanzia collaterale delle loro concessioni, a ridurre del cinquanta per cento i loro scoperti di conto; e Rhodes aveva preso in prestito milioni di sterline per finanziare il suo tentativo di acquistare ogni singola concessione sul campo di New Rush. Man mano che acquistava un blocco, Rhodes lo usava immediatamente come garanzia per prendere in prestito altro denaro per comprare il blocco successivo, accumulando prestito su prestito, debito su debito. Zouga era uno dei pochi che fino allora aveva resistito alle offerte di Rhodes, resistito, con grossa sofferenza, a un'offerta di cinquemila sterline per le sue concessioni, Le Diaboliche. L'offerta era stata fatta sei mesi innanzi, prima che quella terribile parola, il blu, fosse bisbigliata nel sancta sanctorum del lungo bar del Kimberley Club. Nessuno più ormai gli avrebbe offerto cinquemila sterline per le sue concessioni. Al contrario, una settimana dopo aver sentito per la prima volta quella terribile parola, il direttore della Standard Bank gli aveva scritto chiedendogli di passare da lui. « Maggiore Ballantyne, alla luce dei recenti sviluppi della situazione, la banca è stata costretta a rivedere il valore delle garanzie collaterali dei clienti con scoperti di conto. Abbiamo stimato l'attuale valore di mercato delle sue concessioni: cinquecento sterline l'una. »
« E' ridicolo, signore. » « Maggiore, nelle concessioni della Orphen Company è comparso il blu. » Il direttore della banca non doveva aggiungere altro. Il blocco della Orphen era separato dalle Diaboliche soltanto da una dozzina di concessioni intermedie. « Mi dispiace farlo, maggiore, ma devo chiederle di ridurre il suo scoperto a mille sterline. » Il blu era il motivo per cui tanti mercanti della città stavano esaurendo le loro scorte e si preparavano ad andar via. Il blu era il motivo per cui tanti altri mercanti dirigevano ora i loro carri verso i nuovi campi d'oro di Pilgrim's Rest. « Cos'è il blu? » chiese Louise St John, e poiché nessuno dei presenti rispondeva toccò a Zouga, in qualità di ospite, farlo. « Il blu è il nome che i cercatori danno a un tipo di formazione rocciosa, mistress St John. Un conglomerato vulcanico, blu scuro di colore e molto duro... Troppo difficile da lavorare. » Prese il suo bicchiere di champagne, sorseggiò il giallo vino, quindi studiò le bollicine che si levavano. « E' tutto? » chiese calma Louise. « Contiene degli zirconi, piccoli zirconi della grandezza di un granello di zucchero, ma gli zirconi non hanno mercato », aggiunse Zouga, di malumore. « Qual è il significato di questo... blu? » insisté Louise. Zouga esitò, per scegliere con cura le parole. « La terra diamantifera è una ghiaia gialla friabile... Friabile significa che si sbriciola. » « Grazie. » Louise sorrise senza rancore. « Conosco la parola. » « Bene. Dunque: in alcune delle concessioni più profonde, nella sezione settentrionale, la ghiaia gialla si è contratta e siamo praticamente incappati in questo filone di blu, duro come marmo e altrettanto sterile. » « Questo non è stato provato », intervenne brusco Rhodes, e Zouga chinò il capo, accettando l'interruzione. « No, non è stato provato, ma è quello che noi tutti temiamo. Di essere arrivati alla fine. Che i campi siano esauriti. » Tutti tacquero, riflettendo sulla terrificante eventualità. « Quando lo saprete per certo? » chiese Mungo St John. « Quando saprete che questa zona blu è sotto l'intero campo e che non ci sono quindi più diamanti? » « Ci vorranno ancora parecchi mesi prima che le concessioni meno profonde siano portate al livello di quelle che hanno già incontrato il blu », rispose Rhodes. « Allora, se troviamo che copre l'intero campo, vi dovremo praticare dei fori attraverso per assicurarci che non sia uno strato sottile e che la ghiaia gialla non ritorni sotto di esso. » « Capisco. » St John annuì. « A quanto sembra, sono stato fortunato a ritardare la mia visita a Kimberley fino a quando è stato scoperto questo blu, altrimenti mi sarei trovato proprietario di una montagna di marmo blu e niente diamanti. » « Tu sei sempre stato un uomo fortunato, Mungo. » Louise
gli sorrise, e lui rispose con un sorriso più grave. « Tu, mia cara, sei la più grande di tutte le mie fortune. » Con evidente sollievo di tutti, la compagnia abbandonò l'argomento del terribile blu e si dedicò ad altre questioni più piacevoli. Solo Rhodes non si unì agli altri ma rimase in silenzio a riflettere al capo del lungo tavolo. Dal canto suo, pur sorridendo e annuendo alla conversazione brillante, Zouga era stato definitivamente distratto da quel discorso sull'incombente disastro, e ora i suoi pensieri erano come una barriera tra lui e la compagnia di commensali, al punto che Louise St John dovette ripetere il suo nome per attirare la sua attenzione. « E' possibile, maggiore Ballantyne? » Zouga si riscosse e si girò verso di lei. « Mi perdoni, mistress St John. Vuole ripetere la domanda? » Louise non era abituata al fatto che i pensieri di colui al quale rivolgeva la parola vagassero altrove. Quell'inglese freddo e corretto cominciava davvero a irritarla, e così si sorprese a desiderare di sbalordirlo, di provocare in lui una reazione naturale. Aveva pensato di introdurre nella propria conversazione qualche tipica espressione maschile, una di quelle espressioni da caserma di Mungo, ma il buon senso le aveva fatto capire che l'altro si sarebbe limitato ad alzare un sopracciglio davanti a tale mancanza di tatto. Aveva poi pensato di ignorarlo del tutto, ma l'intuizione le aveva suggerito che con tutta probabilità lui avrebbe bene accolto tale trattamento. La cosa migliore da fare per lei era di rivolgere direttamente a lui le sue domande e di costringerlo in tal modo a riconoscere la sua esistenza, irritandolo. « Se ho ben capito, lei è il presidente del Kimberley Sporting Club? » « Ho questo onore », rispose Zouga. « Ho anche sentito dire che le vostre corse a ostacoli o su tracciato fisso - non sono mai molto sicura della vostra terminologia inglese - sono la distrazione più popolare sui campi diamantiferi. » Zouga scosse il capo e sorrise. « Neppure io sono sicuro della terminologia. Di certo non sono delle corse a ostacoli, perché siamo maledettamente a corto di siepi da queste parti, e neppure sono a tracciato fisso perché ci mettiamo dentro un pò di esercitazioni alla carabina. Così preferiamo chiamarle corse accidentate. Una definizione abbastanza accurata, secondo me. » « Pensavo di iscrivere uno dei miei cavalli a una corsa... Accidentata », disse Louise. « Saremmo ben felici di una sua partecipazione », rispose Zouga. « Potrei preparare un elenco dei migliori cavalieri tra i quali lei potrebbe scegliere. » Louise scosse il capo. « Preferisco montare io il mio cavallo. » « Temo che questo non sarebbe possibile, mistress St John. » « Perché no? »
« Perché lei è una donna. » L'espressione di Louise diede a Zouga i primi momenti di vera soddisfazione in sua compagnia. Era diventata cerea in viso e il pallore aveva dato risalto alle lentiggini, che si stagliavano nette sulle sue guance; gli occhi le brillarono di un azzurro più chiaro, più luminoso e più carico di rabbia. Zouga si aspettava una sua replica, ma lei lo capì e, con un enorme sforzo, gli negò questa soddisfazione. Si rivolse invece al marito: « Sono le tre passate. E' stata una colazione molto piacevole, ma ora vorrei ritornare all'albergo ». Si alzò in fretta. Mungo St John si strinse nelle spalle, rassegnato, e si alzò a propria volta. « Per favore, non sciogliete per colpa nostra questa piacevole compagnia. » Il sorriso e il tono della donna chiedevano chiaramente perdono per quel suo capriccio femminile. Il ragazzo le portò il cavallo e lei ne carezzò il muso chiaro e levigato. Poi raccolse le redini, guardò il gruppo radunato sulla veranda, ricambiò lo sguardo di Zouga per un attimo e, decisa, voltò le spalle. Piazzò una mano guantata sul garrese dello stallone nel punto in cui iniziava la lunga criniera bianca e un attimo dopo era seduta sulla larga e possente groppa, i piccoli piedi infilati nelle staffe di tipo messicano a stelle d'argento. Zouga rimase sorpreso. Non aveva mai visto una donna saltare in sella con un volteggio. Di solito ci voleva uno stalliere che mantenesse la testa del cavallo e un altro che formasse un appiglio con le dita incrociate per sollevarla fino all'altezza della groppa. Louise St John era montata con tanta leggerezza e facilità che sembrava aver volato, e il movimento della mano sinistra che fece indietreggiare lo stallone fu visibile solo a chi guardava attentamente. L'enorme cavallo s'alzò sulle zampe posteriori e, agitando nell'aria le anteriori, arretrò fino a quando fu di fronte alla recinzione di filo spinato alta un metro e mezzo che segnava la divisione tra il campo di Zouga e la strada. A quel punto Louise mosse la mano di nuovo e lo stallone calò le zampe anteriori e iniziò una corsa dritto contro il filo spinato. Gli uomini sulla veranda mandarono un grido d'allarme perche lo stallone disponeva di appena una ventina di passi per acquistare la velocità necessaria per il salto, e tuttavia stava filando contro l'ostacolo con le rosse froge allargate e le serpeggianti vene sotto la lucida pelle delle guance gonfie per il pompare possente del grande cuore. Le spesse trecce nere di Louise volavano dietro il capo per la forza d'accelerazione dello stallone. Poi, a un certo punto, con le ginocchia e le mani, lei lo sollevò nel salto. Per un decimo di secondo il cavallo e la minuscola figura in groppa parvero sospesi contro l'azzurro pallido del cielo, il cavallo con le zampe anteriori ritratte sotto la sua nobile testa e
la donna ritta nella sella per attutire il colpo del balzo e dell'atterraggio... Quindi furono al di là. Lo stallone ricadde in maniera splendida, con la sua amazzone in perfetto equilibrio, e quel corpo dorato fluì via nella continuazione della corsa. Il gruppo sulla veranda tirò un lieve sospiro e Zouga avvertì entro di sé un'ondata di sollievo possente quanto il balzo dello stallone. Aveva avuto la visione della donna presa tra gli insanguinati fili spinati, come un uccello selvatico nella rete del cacciatore, col corpo lacerato e le ali spezzate. Zouga stava in cima all'impalcatura centrale. Era, rispetto al livello della pianura, a un'altezza corrispondente al terzo piano di un edificio, e da lassù riusciva a vedere verso nord fino al fiume Vaal. La macchia verde-scuro dei lussureggianti cespugli e dell'erba lungo il suo corso sembrava l'ombra di una nube sulla pallida polvere della terra, ma non c'erano nubi nell'alta volta del cielo e il sole, implacabile, creava ombre nette sotto le alte impalcature, disegni geometrici che replicavano su un piano bidimensionale l'intricata struttura di legno, ferro e cavi d'acciaio. Le impalcature s'affacciavano pericolosamente sul precipizio che s'apriva nelle profondità della terra. Era come se una gigantesca meteora fosse precipitata sulla gialla ghiaia scavando quella buca a forma di boccia nella crosta terrestre. Nelle sezioni più basse raggiungeva già la profondità di sessanta metri, e ogni carico di ghiaia era stato vangato a mano, portato alla superficie e laboriosamente selezionato, prima di essere scaricato nei mucchi di rifiuti enormi come montagne. Era, un monumento alla tenacia di quelle creature che, come formiche, brulicavano laggiù sul fondo del pozzo. Zouga si pulì le mani unte di grasso nero con un batuffolo di cotone e fece un cenno del capo all'arganista matabele che manovrava la leva del verricello a vapore. Ancora una volta il fracasso della macchina gli martellò in testa mentre il sottile cavo di scintillante acciaio s'avvolgeva intorno ai tamburi. Il verricello e la caldaia a vapore gli erano costati più di mille sterline, l'intero guadagno di una settimana insolitamente produttiva, quando Jordan aveva trovato undici buoni diamanti al tavolo di scelta. Il ritrovamento di quella settimana era stato una delle false promesse che Le Diaboliche gli avevano bisbigliato, come una moglie infedele. Si spostò sul davanti dell'impalcatura per sfuggire al rumore assordante del verricello. Stava su una specie di balconata di legno senza ringhiera, col baratro che lo attirava seducente e che lui ignorò. Aveva ora dieci minuti di respiro, il tempo che l'elevatore della ghiaia impiegava per raggiungere la superficie dal fondo della concessione. Lo vide staccarsi da terra sotto di sé come un grasso ragno che salisse verso di lui sul suo singolo filo di seta, ma ancora troppo in fondo perché Zouga riconoscesse la figura umana che viaggiava nell'enorme secchio metallico.
Accese un sigaro che aveva il sapore del grasso per macchine di cui le sue dita erano sporche. Guardò giù di nuovo e decise che invece di un formicaio la fessa gli ricordava un alveare. Anche a quella profondità era stata mantenuta l'esatta forma di ogni concessione, e le sezioni geometriche erano simili alle singole celle di un favo. « Se solo le mie contenessero un pò più di miele », pensò. L'elevatore era adesso abbastanza vicino perché non vi fossero dubbi sull'identità dell'alta figura che stava disinvoltamente in piedi sul bordo del secchio metallico, tenendosi in equilibrio con entrambe le mani sui fianchi mentre sotto di lei il baratro sprofondava sempre di più. Era una questione di orgoglio per un giovane cercatore viaggiare nell'elevatore nella maniera più spettacolare possibile. Zouga aveva proibito a Ralph di danzare nell'elevatore, una moda lanciata da un giovane scozzese che una volta aveva danzato nel viaggio tra il fondo e l'impalcatura accompagnandosi con una cornamusa. Ralph andava avvicinandosi sempre più, venendo su attraverso la luccicante ragnatela di cavi d'acciaio tesi sopra il pozzo come una nube d'argento. Centinaia di cavi, uno per ogni singola concessione, e ogni cavo lucido per le ruote dei paranchi, per la frizione contro i tamburi d'avvolgimento; riflettevano la luce del sole e brillavano come una foschia d'argento sospesa come un alone sul pozzo, una foschia eterea e magnifica, che nascondeva la dura realtà di quella terra scavata, con i suoi pericoli e le sue delusioni. Mentre aspettava che l'elevatore lo raggiungesse, Zouga riandò col pensiero a quel primo giorno in cui aveva guidato il suo tiro di buoi nell'accampamento, con Aletta seduta a cassetta del carro accanto a lui, ed entrambi intenti a guardare il kopie squarciato e scavato. Quanta terra era stata rimossa da allora, quanti uomini erano morti in quella terribile fossa dove una volta sorgeva quel kopie, e quanti sogni erano morti con loro. Si tolse il cappello dall'ampia falda. Lentamente, si asciugò le gocce di sudore sulla pelle più pallida lungo l'attaccatura dei capelli, dopodiché studiò l'umida macchia rossa sul fazzoletto di seta e fece una smorfia di disgusto. Sembrava sangue. Si riannodò il fazzoletto intorno alla gola, sempre guardando giù nel precipizio, e il disincanto gli cadde come un velo davanti agli occhi al ricordo delle grandi speranze e della tesa aspettativa che si portava dietro quel giorno. Era stato davvero dieci anni prima? Sembrava un giorno e insieme un'eternità. Si scoprì a sognare gli avvenimenti di quegli anni perduti e rivissuti nella mente, i dolori e le gioie ingranditi dall'immaginazione e dal passare del tempo. Poi, dopo qualche istante, si riscosse. Sognare era un vizio da vecchi. Il passato era al di là del rimorso; l'oggi era ciò che contava. Raddrizzò le spalle e guardò in giù a Ralph nell'oscillante elevatore. Qualcosa lo scosse e mise in fuga gli ultimi
sogni. L'elevatore stava viaggiando in maniera diversa, non aveva il solito carico; infatti lui ancora non vedeva il mucchio di ghiaia gialla che, nonostante i suoi ordini Ralph di solito versava dentro fin oltre l'orlo dell'elevatore. Era vuoto, e Ralph era solo. Stava venendo su senza la squadra dei matabele che lo aiutavano a far girare l'elevatore e a capovolgerlo perché scaricasse il suo contenuto sul piano inclinato che lo riversava a sua volta nel carretto in attesa. Si portò le mani alla bocca per gridare una domanda, ma le parole gli morirono in gola. Ralph era abbastanza vicino per distinguerne l'espressione del viso. Tragica, sconvolta da qualche terribile emozione. Abbassò le mani e guardò il figlio, in attesa. L'elevatore colpì le sbarre terminali con un rumore metallico e l'arganista spinse la leva in avanti, frenando con abilità la gabbia contro le sbarre. Ralph superò con un balzo la breve distanza dalla piattaforma e rimase impalato a guardare il padre. « Cosa c'è, ragazzo mio? » chiese Zouga, calmo e insieme spaventato. E per tutta risposta Ralph si girò e lanciò un'occhiata nell'interno vuoto dell'elevatore. Zouga gli fu al fianco e guardò anche lui in quella direzione. Vide che s'era sbagliato: l'elevatore non era vuoto. « Ci abbiamo impiegato tutta la mattinata per estrarlo, nella sezione orientale », disse Ralph. Sembrava grosso modo una lapide tagliata prima che vi incidessero l'iscrizione, larga quanto la distanza tra braccia allargate e squadrata in maniera imperfetta, con ancora freschi i segni delle zeppe d'acciaio e dei picconi. « Ci abbiamo rotto sopra i manici di tre picconi », proseguì Ralph, incupito, « e siamo riusciti a staccarlo solo perché c'era una frattura naturale che abbiamo potuto allargare con le zeppe. » Zouga fissava quel brutto cubo di pietra, non volendo credere ai propri occhi, rendendosi sordo alla voce del figlio. « Sotto è lo stesso, solido, duro come il cuore di una puttana, senza crepe. » Il masso era una brutta cosa screziata, sulla quale gli utensili d'acciaio avevano lasciato segni e solchi più chiari. « Sedici di noi », continuò Ralph. « Abbiamo lavorato in sedici tutta la mattinata. » Aprì le mani e mostrò i palmi. I calli erano lacerati e la carne di sotto era sporca di polvere e terra. « Tutta la mattina ci abbiamo rotto sopra il cuore e i picconi... « quella maledetta scheggia pesa meno di mezza tonnellata. » Lentamente, Zouga si chinò sul bordo dell'elevatore e toccò la pietra. Era fredda come il suo cuore in quel momento. E il suo colore era blu scuro screziato. « Il blu », confermò Ralph, calmo. « Abbiamo trovato il blu. »
« Dinamite o gelatina esplosiva », disse Ralph. « E' l'unica maniera per smuoverlo. » Era nudo fino alla cintola, le braccia lucide di sudore, gocce del quale pendevano come rugiada dai folti peli del petto. Ai suoi piedi c'era la lapide di marmo blu e lui stava appoggiato alla mazza. I colpi che vi aveva inferto avevano levato scintille e piccoli sbuffi di polvere pungente alle narici come pepe, ma non aveva intaccato la roccia. « Non possiamo fare esplodere niente nella fossa », disse Zouga. « T'immagini duecento cercatori che fanno esplodere dinamite come e quando vogliono? » Scosse il capo. « Non c'è altro sistema », ribatté Ralph. « Nessun altro sistema per toglierlo di mezzo. » « E anche se lo togli di mezzo? » chiese Jordan dalla veranda, dove era rimasto per quell'ultima ora senza parlare. « Che vuoi dire? » chiese Zouga. Avvertiva la tensione nella propria voce e sapeva che rabbia e frustrazione erano sul punto di affiorare. « Che farete quando l'avrete tolto di mezzo? » insisté Jordan, mentre tutti guardavano l'orribile masso blu. « Non ci sono diamanti in quella roba lì. » Lo disse Jordan per conto di loro tutti. « Che ne sai? » ringhiò Ralph, con la voce rotta dalla stessa tensione che tormentava Zouga. « Lo so », rispose Jordan, deciso. « Lo sento... Guardatelo. E' duro e spoglio e vuoto. » Nessuno rispose e Jordan scosse i suoi riccioli, dispiaciuto. « Anche se contenesse diamanti, come li togliereste dal blu? Non puoi certo frantumarlo con i martelli. Al massimo vi ritrovereste in mano polvere di diamanti. » « Ralph. » Zouga girò le spalle a Jordan. « Questa roba, questo blu... Solo nella sezione orientale, vero? » « Finora », rispose Ralph. « Ma... » « Voglio che tu copra tutta la sezione orientale », disse Zouga, deciso. « Vanga tutta la ghiaia sulla roccia esposta, coprila. Nessuno deve vederla. Nessuno deve sapere. » Ralph annuì e Zouga proseguì: « Continueremo a togliere la ghiaia gialla dalle altre sezioni, come se nulla fosse accaduto. E nessuno, nessuno di voi, deve farne parola, deve dire che... che abbiamo trovato il blu. » Guardò dritto negli occhi Jordan. « Capisci? Non una parola a nessuno. » Zouga stava disinvolto in sella, cavalcava con le staffe lunghe dei boeri. Sapeva che Rhodes sarebbe partito nelle prossime settimane per il suo trimestre all'uffiversità di Oxford. Forse l'imminente partenza avrebbe reso frettoloso il suo giudizio. « Speriamolo, in ogni modo. » E il cavallo fece scattare le orecchie all'indietro all'udire la sua voce. « Calmo, vecchio mio. » Zouga gli sfiorò il garrese provando un certo senso di colpa per i propri pensieri. Sapeva che comunque avrebbe provato a vendere della merce avariata, e do-
veva far forza sulla propria coscienza. Sfiorò il fianco del cavallo col ginocchio facendolo allontanare dal sentiero polveroso e, attraverso l'apertura nello steccato di legno, lo fece entrare nel campo di Rhodes. Rhodes stava seduto con la schiena poggiata contro la parete di fango della baracca, con una tazza in mano e l'irsuta testa leonina intenta ad ascoltare ciò che Pickering stava dicendo. Li agli scavi si diceva che Rhodes fosse già multimilionario, e quanto a lui, Zouga, aveva visto il secchiello dello champagne pieno di diamanti grezzi versato sul suo tavolo; eppure eccolo lì, Rhodes, seduto su una cassetta di legno nel cortile polveroso, vestito con abiti dimessi e non adatti alla sua persona, che beveva da una tazza sbeccata. Zouga lasciò andare le redini e il cavallo si fermò, obbediente, e quando lui smontò dalla sella non ci fu bisogno di legarlo. Sarebbe rimasto lì fermo in attesa di Zouga. Attraversò il cortile dirigendosi verso il piccolo gruppo. Entro di sé sorrideva. La tazza di Rhodes poteva essere sbeccata, ma conteneva cognac con ventiquattro anni d'invecchiamento. Poteva sedere su una cassetta di legno, ma ci stava seduto come su un trono, e quelli che gli stavano seduti intorno come cortigiani o supplici erano tutti uomini ricchi e potenti, la nuova aristocrazia lì agli scavi. Uno di costoro si alzò e andò incontro a Zouga, ridendo e brandendo un giornale arrotolato. « Perdio, maggiore, arriva proprio in tempo. » Gli batté sulla spalla. « Spero che lei abbia preso questo attacco al suo orgoglio d'uomo seriamente come lo abbiamo preso noi... E che sia venuto a offrirsi per difendere la nostra causa. » « Non capisco. » La protesta di Zouga si perse tra le risate e le amichevoli pacche sulle spalle di tutti loro, che gli si stavano affollando intorno. Solo Rhodes non aveva lasciato il suo posto contro la parete, ma anche lui stava sorridendo. « Faglielo leggere, Pickling », suggerì Rhodes, e Pickering porse con un ampio gesto il giornale a Zouga. Era una copia del Diamond Fields Advertiser, così fresco di stampa che l'inchiostro gli imbrattò le dita. « Prima pagina », disse Pickering, tutto allegro. « Il titolo: GETTATO UN GUANTO DI SFIDA SIGNORA INSULTATA CERCA SODDISFAZIONE « In mattinata il redattore di questo giornale ha avuto il privilegio di ricevere la visita di una bella e distinta signora di passaggio a Kimberley. Mistress Louise St John è la moglie di un eroe della guerra civile americana e lei stessa una famosa amazzone. « Il suo stallone Shooting Star è un notevole esempio della razza di recente sviluppata in America e nota come palomino. E' un ex campione della Louisiana e decisamente uno degli ani-
mali più belli che siano mai stati visti a Kimberley. « Mistress St John ha cercato di iscrivere il proprio cavallo in una delle regolari corse a ostacoli organizzate dal Kimberley Sporting Club, ma è stata informata dal maggiore Ballantyne, il presidente del club, che a lei era proibito cavalcarlo... » Zouga saltò i paragrafi successivi. « Semplicemente perché sono una donna... Insopportabile arroganza maschile. » Zouga sorrise e scosse il capo. « Sfido il bravo maggiore a cavalcare contro di me su qualunque percorso di sua scelta e per qualunque premio da lui stabilito. » Ora Zouga rise divertito e restituì il giornale a Pickering. « La signora ha un bel coraggio », ammise, « pari al suo bel viso. » « Le presto King Chaka », promise Beit. Era un forte stallone addestrato per la caccia, di sangue inglese e arabo, di uno dei famosi allevamenti del Capo. Beit lo aveva pagato trecento ghinee. Zouga scosse il capo e lanciò uno sguardo affettuoso al proprio cavallo dall'altra parte del cortile. « Non sarà necessario. Non cavalcherò. » Ci fu un urlo di gioviale protesta da parte di tutti i presenti. « Perdio, Ballantyne, non può tradirci. » « Quella dannata volpe dirà che ha avuto paura, vecchio amico. » « Mia moglie gracchierà per una settimana... Lei rovina il mio matrimonio. » Zouga alzò le mani. « Mi dispiace, signori. Questo è un piccolo esempio di assurdità femminile... E potete anche riferirlo. » « Allora non corre? » « Certamente no. » Zouga stava sorridendo, ma la sua voce era tesa. « Devo occuparmi di cose più serie. » « Lei ha ragione, naturalmente. » La voce acuta di Rhodes li mise tutti a tacere; si creò un rispettoso silenzio. « Quella bestia chiara è un diavolo volante e la signora cavalca come una strega... L'abbiamo visto tutti. » La cicatrice sulla guancia di Zouga divenne rosa pallido, e ci fu un improvviso lampo nei suoi occhi; ma il sorriso rimase sulle labbra. « Quel bel cavallo da giostra si muove bene in pianura, glielo concedo, ma sul percorso che sceglierei io sarebbe già fortunato se arrivasse sino alla fine, per non parlare di vincere. » « Allora corre? » chiesero immediatamente tutti. « No, signori. E' la mia parola definitiva. » Dopo che tutti gli altri furono andati via, loro tre rimasero seduti a lungo: Pickering, Rhodes e Zouga. Il sole era calato e il riverbero arancione del fuoco illuminava le loro facce. La prima bottiglia di cognac era vuota e Pickering ne aveva aperta un'altra. Ora Rhodes stava guardando nella propria tazza e parlò senza alzare lo sguardo.
« E così, maggiore, lei alla fine è pronto a vendere, e io mi pongo una domanda, una semplice, piccola domanda: perché? » Zouga non rispose. Dopo un momento, Rhodes sollevò il capo. « Perché, maggiore? » ripeté. « Perché così all'improvviso? » Zouga scoprì che la bugia che aveva preparato non gli veniva alle labbra. Era ammutolito, ma sostenne lo sguardo di quegli occhi azzurro-pallido; fu Rhodes a rompere il silenzio: « Mi sono fidato di pochi uomini nella mia vita ». Involontariamente, i suoi occhi si spostarono su Pickering e poi di nuovo su Zouga. « E lei, maggiore, è uno di essi. » Prese la bottiglia del cognac e versò un pò del liquido ambrato nella tazza di Zouga. « Una volta le furono offerte centomila sterline in diamanti illeciti, e lei non se la sentì di prenderli. » Rhodes stava parlando così piano che Zouga dovette sporgersi in avanti per afferrare le parole. « Ieri suo figlio ha tirato su il primo masso di blu lì alle Diaboliche, e ancora lei non se la sente di mentire. » « Ha saputo! » bisbigliò Zouga, e Rhodes annuì e poi sospirò. « Perdio, ne vorrei conoscere altri come lei. » Scosse il gran capo ricciuto e la voce gli divenne brusca e assunse un tono pratico. « Una volta le ho offerto cinquemila sterline per le sue concessioni. Va bene, offro lo stesso prezzo... » e alzò una grossa mano per far tacere Zouga. « Aspetti! Aspetti il resto, prima di ringraziarmi. L'uccello è compreso nel prezzo. » « Cosa? » Per un momento Zouga non capì. « L'uccello di pietra, la statua. Fa parte del contratto. » « Maledizione! » Zouga quasi si alzò dal ceppo sul quale stava seduto. « Aspetti! » Rhodes lo interruppe di nuovo. « Ascolti... Prima di rifiutare. » E Zouga tornò a sedere. « Lei correrà. » Zouga scosse il capo, senza capire. « Correrà contro quella donna, la signora St John, alle sue condizioni, e se vince si tiene le concessioni, l'uccello e le mie cinquemila sterline. » Il silenzio durò un intero minuto, dopodiché Zouga, con voce aspra e gutturale, chiese: « E se perdo? » « Lei stesso ha detto che ci sono poche probabilità », gli ricordò Rhodes. « E se perdo? » insisté Zouga. « Allora lascerà questi campi così com'è venuto... Con niente. » Zouga guardò in direzione del suo cavallo che stava al margine dell'ombra. Lo aveva chiamato Tom, il nome di un amico, il primo cacciatore che gli aveva parlato della terra del nord e di come raggiungerla, Tom Harkness, ormai morto da molti anni. Il cavallo faceva parte del sogno suo del nord, era lui che lo avrebbe portato di nuovo in Zambesia. Lo aveva scelto con
molta più cura di quanto di solito si dedica alla scelta di una moglie, e la bellezza era stata l'ultima cosa da lui cercata. Tom era un miscuglio di molte razze: le froge ampie e il petto grande della potenza dell'arabo, le gambe robuste e gli zoccoli sicuri del basuto, l'occhio cauto e la testa a martello del mustang selvatico, il cuore e la forza, dello stallone da caccia inglese. Tom era di un uniforme colore grigiastro. Spazzolato, ma non strigliato, il suo mantello era fitto e di pelo lungo, una protezione contro il gelo della notte e il sole di mezzogiorno, contro le pietre schizzate dagli zoccoli frenetici della selvaggina durante un'implacabile caccia o le lacerazioni delle spine di smilace dalla punta rossa. Tom aveva dimostrato che il lampo d'intelligenza nei suoi occhi non era un'illusione. Imparava presto e bene. Aveva imparato a star fermo quando le redini erano allentate sul suo collo, così che il cavaliere potesse adoperare entrambe le mani per il fucile, e rimaneva immobile quando lo sparo esplodeva sopra la sua testa: solo un fremito delle orecchie tradiva il suo spavento. Quando Zouga lo portava sul veld aperto per continuare il suo addestramento, Tom sfoggiava un'abilità di zampe sui declivi rocciosi dei kopie e una pelle da bufalo attraverso i cespugli spinosi; imparò a cacciare e sembrava gli piacesse come a un buon pony da polo piace la calca tumultuosa. Sembrava capire d'istinto quando il padrone si appostava dietro di lui, manteneva il proprio corpo tra Zouga e la selvaggina, dava un'angolazione al suo avvicinamento senza dirigersi mai direttamente verso la selvaggina, e le mandrie di antilopi saltanti lasciavano che quel cavallo apparentemente senza cavaliere si avvicinasse sino alla distanza per un facile tiro. E dopo portava sul dorso la carcassa appena uccisa senza agitarsi e far storie per il sangue. Era brutto, con un muso tondo, orecchie un pò troppo lunghe, gambe un tantino corte, e correva con una strana andatura storta, ma poteva tenerla per tutto un giorno e su qualsiasi terreno. Era un ladro incorreggibile. L'orto di Jordan era stato recintato e tuttavia Tom lasciava ciuffi dei suoi peli grigi sugli aculei del ferro spinato. Aveva un suo metodo per cogliere le carote, le stringeva delicatamente tra i quadrati denti bianchi e le sbatteva contro le zampe anteriori per liberarle della terra. Aveva imparato ad aprire spingendola la finestra della cucina e afferrava le pagnotte di pane fresco messe a raffreddare sul marmo del lavello. Una volta che Jan Cheroot non chiuse il catenaccio della porta della dispensa, entrò e mangiò mezzo sacco di zucchero, a venti scellini la libbra. Comunque, seguiva il padrone come un cane e quando glielo ordinavano rimaneva immobile per ore. Zouga, che non era un sentimentale in fatto di animali, aveva finito con l'amarlo. Ora distolse lo sguardo dal cavallo e lo riportò sul giovanotto seduto dall'altra parte del fuoco.
« D'accordo », disse senza enfasi. « Ci occorrono altri testimoni? » « Non credo, maggiore », rispose Rhodes. « E lei? » « Al colpo di pistola i concorrenti cavalcheranno fino alla prima bandiera... » Neville Pickering era il giudice di gara e, attraverso il megafono, la sua voce arrivava a ognuno dei membri dell'enorme folla domenicale che s'era radunata e sparpagliata sul veld asciutto ai piedi delle colline Magersfontein. « Alla prima bandiera rossa spareranno contro i bersagli immobili. Quando li avranno colpiti tutti e quattro, con soddisfazione dei commissari sportivi, saranno liberi di puntare sulla seconda bandiera gialla, e di là di ritornare al traguardo. » Indicò i due pali, ciascuno con la sua corona di bandiere colorate. « Il primo cavaliere che vi passa in mezzo sarà dichiarato vincitore. » Pickering s'interruppe, prese fiato e continuò: « Ci sono domande? » « Vuole esporci le regole, per piacere, mister Pickering? » gridò Louise St John. Sembrava una bambina in groppa al grande stallone lucido. Lo faceva girare su se stesso, piegandosi in avanti per dargli qualche pacca sul collo, perché la folla lo aveva reso nervoso. Lo stallone masticava il morso leggero e sudava a chiazze scure sulle muscolose spalle frementi. « Non ci sono altre regole, ma'am. » Pickering rispose abbastanza forte perché anche quelli in fondo alla folla lo sentissero. « Niente regole... Niente falli? » « Non ci sono falli, ma'am », rispose Pickering. « Se uno di voi spara deliberatamente contro l'avversario dovrà risponderne alla magistratura, ma non sarà squalificato. » Louise girò il capo in direzione della figura sul sedile anteriore del phaéton dalle alte ruote parcheggiato dall'altra parte degli indicatori del percorso. Era pallida in viso e le lentiggini erano evidenti sulle guance. Era anche a testa nuda e la grossa treccia scura le sbatteva contro la spalla. Al disopra delle teste della folla, Mungo St John le restituì il sorriso e si strinse leggermente nelle spalle, così che Louise fu costretta a rivolgersi di nuovo a Pickering. « Benissimo, allora », disse. « Ma la posta? Ancora non abbiamo stabilito la posta. » « Maggiore Ballantyne », chiamò Pickering rivolto a Zouga, montato su Tom. « Lei ha stabilito il percorso. Ora sia tanto gentile da indicare la posta. » A questo punto successe qualcosa di strano. Per la prima volta da quando Zouga la conosceva, Louise St John pareva preoccupata. Nessun altro sembrò accorgersene, forse era soltanto perché lui, Zouga, era diventato sensibile a ogni sfumatura della voce di lei e a ogni sua espressione, sta di fatto però che fu certo di aver visto qualcosa di scuro muoversi nell'azzurra profondità degli occhi di lei, come l'ombra di uno squalo sotto
la superficie del mare; e la vide, ancora, stringersi il labbro inferiore tra i bianchi denti e di nuovo guardare, quasi furtivamente, verso Mungo St John. Non era stata immaginazione quella di Zouga. Mungo St John non restituì lo sguardo di Louise con la sua solita divertita indulgenza. Stava guardando Zouga, e dietro la sua calma c'era come una piccola corrente sotterranea di disagio, come un vortice nella piena dell'alta marea. Zouga alzò la voce così che giungesse fino a St John. « Primo, chi perde pubblicherà a proprie spese sulla prima pagina dell'Advertiser, nei termini dettati dal vincitore, un riconoscimento della propria sconfitta. » « Una dichiarazione che gradirò leggere. » Louise riprese rapidamente il proprio atteggiamento abituale. « E che altro, maggiore? » « Il pagamento da parte del perdente a un istituto pio scelto dal vincitore della... » Zouga fece una pausa e, con calma esteriore, ambedue, marito e moglie, lo guardarono in faccia « ... Della somma di uno scellino! » « D'accordo! » Ci fu una nota leggermente stridente nella risata di Louise, sollievo forse; e sebbene Mungo St John non avesse mutato espressione, le sue spalle non parvero più tese. « Mistress St John, il mossiere sta aspettando lei », gridò Pickering nel megafono. « Sia tanto gentile da tenere sotto controllo la sua cavalcatura. » « E' perfettamente sotto controllo », gridò lei di rimando, e Shooting Star abbassò il capo e scalciò con entrambe le zampe posteriori in direzione della folla. « Se lui è sotto controllo, signora, lo è anche mia suocera », gridò un burlone, e ci fu uno scoppio di risa. « Conto fino a tre », annunciò Pickering, e il megafono non alterò la solennità del suo tono. « Uno. » Shooting Star indietreggiò verso la folla, che prese a sparpagliarsi mentre lui sobbalzava. « Due. » Sollevando le zampe anteriori lo stallone compì un circolo così stretto che il suo muso quasi toccò la punta dello stivaletto di Louise nell'elegante staffa d'argento. « E tre. » Louise alzò la mano sinistra. Shooting Star smise di girare su se stesso con un movimento continuo e, per la prima volta, fu di fronte alla linea di partenza verso la quale s'avviò a passi maestosi; il colpo di pistola, poi, secco e improvviso, lo fece scattare con un impeto tale che la leggera figura sul suo ampio dorso parve vulnerabile e infantile. Non c'era cavallo nei campi diamantiferi capace di un simile scatto iniziale, e la distanza tra i due animali aumentò, ma non così tanto come gli spettatori s'aspettavano. Il goffo galoppo di Tom lo faceva procedere a sorprendente velocità e non stava direttamente dietro a Shooting Star. « La sta prendendo larga, Thomas », gli disse Zouga con
soddisfazione, e Tom drizzò le orecchie per sentire. « Non affronteranno il fiume. Bene, del resto non pensavamo che l'avrebbero fatto, vero? » Direttamente di fronte a loro il fiume compiva una serie di curve, dei simmetrici gomiti a « U », serpeggiando su se stesso come un pitone morente. Zouga aveva piazzato la bandiera rossa in modo che la linea diretta avrebbe attraversato il fiume due volte e, come in quasi tutti i fiumi dell'Africa meridionale, le rive erano scoscese, un salto di un tre metri fino alla sabbia asciutta; lungo il corso, poi, c'erano innumerevoli pozze d'acqua. Ogni attraversamento era dunque una trappola nella quale un cavallo poteva rompersi una zampa e il cavaliere il collo. L'alternativa all'attraversamento del fiume era un ampio giro, un vero e proprio circuito oltre il serpeggiante corso del fiume; ma questo raddoppiava la distanza fino alla prima bandiera. Ormai Shooting Star era già una lontana figura che volava laggiù sulla destra e che compariva a intervalli nei varchi tra i cespugli, sollevando una leggera nuvola di polvere con gli zoccoli. « Ci siamo », disse Zouga e, sotto il brutto muso di Tom, il suolo s'aprì all'improvviso. Zouga allentò le redini e Tom, sull'orlo della riva scoscesa, non ebbe un attimo di esitazione. Quasi si sedette e slittò oltre la riva sulle sue grasse anche, puntando rigide le zampe anteriori in avanti, e così scivolarono giù nel letto del fiume e trovarono la sabbia, dopodicbé Tom si alzò e puntò contro l'altra riva sulla quale s'inerpicò a metà prima che il terreno asciutto franasse sotto gli zoccoli e loro scivolassero indietro. Rigido nelle zampe, Tom tremava per lo sforzo. Zouga gli fece compiere mezzo giro nella sabbia bianca, poi lo rimise di nuovo contro la riva e Tom andò su, con una serie determinata di balzi, spostando il proprio peso in avanti prima che il terreno cedesse sotto gli zoccoli. Volarono sopra l'argine e ripresero la corsa, con la successiva curva del fiume trecento metri davanti a loro. All'attraversamento successivo Tom ormai s'era impadronito della tecnica, andarono così giù da un argine e su per l'altro senza la minima esitazione. Sotto gli zoccoli di Tom l'erba esplose in un improvviso e rumoroso frullo d'ali e, con un grido acuto che avrebbe spaventato un altro cavallo, una grossa otarda dal ventre chiaro schizzò alta nell'aria. Tom lanciò un'occhiata sdegnata all'uccello, si concentrò e raccolse le forze sulla riva del fiume per l'ultimo attraversamento, quindi andò giù slittando e sollevando polvere e ciottoli. Quando risalirono sulla sponda opposta, la bandiera rossa era a duecento passi davanti a loro. Zouga s'agitò sulla sella e guardò verso destra. « Buon per te, Tom », gridò. « Li hai distanziati di un bel pò. » Lontano, a un paio di chilometri di distanza, il dorato stal-
lone stava appena aggirando l'ultima curva del fiume e Louise era china sul suo collo e lo spingeva a rotta di collo sull'accidentato terreno. « Se corre così per uno scellino... » Zouga s'interruppe e si chinò in avanti, andando a ritmo col galoppo di Tom. Quel paio di chilometri erano un margine esile, e la posta in gioco per lui era enorme. La sua fortuna, il suo sogno... No, la sua stessa esistenza era in gioco. « Vai, Thomas, vai! » bisbigliò nelle lunghe orecchie pelose, e Tom pugnalava la terra con gli zoccoli nel suo goffo galoppo. Zouga non si voltò più a guardare indietro; sapeva che lo stallone li seguiva veloce, troppo veloce. Non volle farsi distrarre, sfilò la carabina dal fodero accanto al suo ginocchio e controllò che fosse carica. I bersagli erano dei piatti di ceramica bianca e la distanza di tiro duecento metri, considerevole dopo un galoppo come quello. I commissari sportivi stavano agitando i loro cappelli per guidarlo verso la linea di fuoco. « Da questa parte, maggiore. » Zouga lasciò andare le redini appena raggiunse la bassa barriera di rami spinosi che segnava la linea di fuoco. Tom si bloccò e lui sollevò la carabina e sparò appena il calcio urtò contro la spalla. Una delle macchie bianche lontane esplose e svanì. Caricò di nuovo e lanciò un'occhiata dietro. Lo stallone era ancora a quasi un chilometro di distanza, ma stava arrivando con un rumore di zoccoli che pareva un rullo di tamburi di guerra. Fece fuoco di nuovo, ma tra le sue ginocchia Tom soffiava, ansimava per lo sforzo del galoppo scatenato. « All'inferno! » La fretta sarebbe stata fatale ora, ma le sue dita armeggiarono per ricaricare e una scintillante cartuccia scivolò via, colpì lo stivale e cadde nella sabbia. Ne cacciò un'altra nell'otturatore, trasse un profondo respiro e giudicò i movimenti di Tom sotto di lui. Il fucile rinculò contro la spalla, l'acre nube di fumo di polvere da sparo gli sbuffò in faccia e il secondo bersaglio esplose. « Due, maggiore », gridò uno dei commissari sportivi e poi, quando Zouga fece di nuovo fuoco: « Tre. Un altro ancora ». Poi, accanto a lui, comparve lo stallone dorato che si bloccò tuffando la testa in basso. Con un volteggio e uno svolazzo di gonna di daino imperlata, Louise smontò. Per un attimo s'intravide uno sprazzo di pelle bianca al di sopra della caviglia e la fossetta del retro di un ginocchio. Anche nella fretta del momento, Zouga fu abbastanza turbato da quella visione di bella carne pallida da farsi rovinare la mira; il colpo successivo andò a vuoto e lui imprecò. Louise disponeva dell'ultimissimo modello del leggendario Winchester '73 a ripetizione, con l'originale struttura di ottone lucido sostituita da una di acciaio brunito, e Zouga sapeva che
la moderna cartuccia a percussione centrale sparava la pesante pallottola di piombo con straordinaria potenza e accuratezza. Louise si buttò sulla spalla sinistra le redini dello stallone e si preparò a far fuoco in piedi, spinta leggermente in avanti per assorbire il rinculo del Winchester; quindi sparò il suo primo colpo. Sparava all'americana, spingendo il fucile contro la spalla e facendo fuoco nello stesso istante, senza mantenere la mira né dare alla canna il tempo di spostarsi. Un'ottima tecnica. « Un centro per mistress St John », gridò il commissario sportivo. L'esplosione tuttavia aveva spaventato Shooting Star, che diede un balzo e indietreggiò sulle zampe posteriori, facendo allentare le redini che passavano intorno alla spalla di Louise, la quale fu spinta all'indietro. Il suo secondo colpo partì con una gran fumata verso il cielo, dopodiché lei cadde lunga distesa sulla schiena, con la gonna impigliata tra le gambe. Il Winchester le volò via di mano. Lo stallone ricadde sulle zampe anteriori. Uno zoccolo, tagliente come l'ascia di un boscaiolo, sfiorò la nuca di Louise, proprio sotto la grossa treccia nera, e lasciò una chiazza rosea sulla pelle chiara, senza lacerarla. Zouga provò una tale stretta alla gola che non riuscì a deglutire. Fece girare bruscamente Tom per allontanare lo stallone. Per alcuni angosciosi secondi, il corpo di Louise fu nascosto dalla polvere sollevata e dagli zoccoli battenti; Zouga cercò di gridarle di lasciare andare lo stallone, ma la voce gli si strozzò in gola e subito dopo, di colpo, Louise si sollevò sulle ginocchia. Stava di faccia a Shooting Star, ostinatamente aggrappata alle redini con ambedue le mani, e quando la bestia indietreggiò di nuovo lei sfruttò la sua forza per alzarsi in piedi. « Fermo! » gli gridò. « Fermo, ti dico! » Era impolverata e un ciuffo di capelli neri era sfuggito alla treccia e le pendeva davanti agli occhi, ma era sana e salva e molto arrabbiata. La sua voce crepitava come ghiaccio che si spezzi. Il sollievo di Zouga fu immediato e tuttavia la prese in giro mentre lui faceva girare Tom di nuovo verso la linea di fuoco per il suo ultimo colpo. « Le consiglio di fare allenare come si deve quell'animale, signora. » « Vada al diavolo, maggiore Ballantyne! » rispose lei, con lo stesso tono con cui s'era rivolta al suo cavallo. Eppure, sulle sue labbra quell'imprecazione non stupì affatto, fu anzi stranamente eccitante. Zouga diede alcuni secondi a Tom per mettersi in posizione e riprendere fiato, dopodiché sollevò il fucile, prese la mira sulla lontana macchia bianca e tirò il grilletto. « Quattro centri. Lei può proseguire, maggiore », gridò il commissario sportivo. Louise stava tirando Shooting Star per le redini verso un prugno selvatico, un albero con rami bassi e robusti. Svelta,
avvolse le redini intorno a un ramo, dopodiché tornò indietro di corsa reggendosi la gonna proprio sotto al ginocchio mentre i commissari sportivi fissavano attoniti le sue caviglie negli stivaletti attillati e abbottonati. Recuperò il Winchester in una macchia di sansevieria e corse verso la linea di fuoco, ricaricando strada facendo. Zouga vide che sulla fronte aveva piccole gocce di sudore e capì che doveva essere molto scossa, perché quando sollevò il fucile non sparò subito e la pesante arma oscillò. Lei l'abbassò, le spalle le tremavano. Trasse due profondi respiri, quindi risollevò il Winchester facendo fuoco nello stesso istante. « Centrato! » gridò il commissario sportivo. Il labbro inferiore le tremava, lei lo morse con forza e fece fuoco di nuovo. Zouga infilò la carabina nel fodero di cuoio, rivolse a Louise un saluto da cavaliere toccandosi il cappello e disse: « Le auguro di far centro, ma'am ». Allontanò Tom dalla linea di fuoco. Quando raggiunsero il prugno selvatico, si sporse dalla sella. Louise aveva legato le redini di Shooting Star al ramo con un nodo d'ancorotto, un nodo da marinaio facile da sciogliersi. Tirò la parte pendula e, quando il nodo si sciolse, con la mano aperta diede uno schiaffo alla guancia di Shooting Star. « Avanti », disse. « Va' via. » Lo stallone girò di scatto il capo, scoprì di essere libero e, scalciando, balzò via. Prima di raggiungere l'avvallamento successivo di quel tratto piano, Zouga si voltò a guardare indietro. Lo stallone stava pascolando a testa in giù, ma anche a quella distanza era possibile vedere che teneva d'occhio la figura solitaria che gli correva dietro con uno sventolio di gonne. Appena Louise giungeva alla distanza di un braccio dalla briglia, la bestia alzava di scatto il capo e trottava via fino al successivo cespo d'erba, lasciandosela dietro che annaspava con le braccia. « Avanti, Tom. » Zouga si girò, cercando di non lasciarsi prendere da rimorsi. Non c'erano regole, ogni espediente era buono, e tuttavia gli rimordeva la coscienza... Finché non si ricordò della posta in gioco. Uno scellino contro tutto ciò che lui possedeva. Lanciò Tom al galoppo. Dopo un paio di chilometri si voltò a guardare, giusto in tempo per vedere Shooting Star e la sua amazzone arrivare su per la salita. Sembravano sfiorare la terra, portati dal tappeto volante della polvere sollevata. « Corri, Tom! Corri! » Si tolse il cappello con uno scatto e lo sbatté contro il collo di Tom, spronandolo. Dopo un altro chilometro, le spalle di Tom erano calde e bagnate di sudore. Rivoli di saliva gli spuntavano dagli angoli della bocca e bagnavano gli stivali di Zouga... Ma la bandiera gialla era in vista. « Ancora poco », gridò Zouga, ansioso. « Dobbiamo arrivare
alla bandiera prima di loro. » Si voltò a guardare indietro. Non riusciva a credere che fossero così vicini. La testa dello stallone s'alzava e abbassava come un martello a ogni passo e il collo e le spalle erano scuri di sudore. Louise lo aveva spinto al massimo. Lo incitava ora con le braccia e il movimento ritmico del corpo. Intorno al viso aveva un groviglio di capelli e dagli occhi mandava lampi azzurri. Eppure, mentre si avvicinava a lui e a Tom, si raddrizzò nella sella, alzò il mento e guardò Zouga con freddezza, senza espressione, come una regina può guardare un monello che corre di fianco alla ruota della sua carrozza. Zouga sollevò la destra in segno d'ammirazione per l'impresa di lei. Era stata davvero un'impresa recuperare tanto terreno. Zouga era girato leggermente verso di lei e quell'espressione di freddo distacco lo ingannò per l'istante vitale necessario alla donna per portare Shooting Star all'altezza della spalla di Tom. Poi non vide il comando, probabilmente la punta dello stivaletto dall'altra parte del petto dell'ansimante Shooting Star; certamente non s'aspettava che quella specie di cavallo da circo avesse imparato i meschini trucchi di un pony da polo. L'enorme spalla bagnata di sudore di Shooting Star sbatté contro Tom, cogliendolo alle costole con una forza che lo sfiatò di colpo. Mentre veniva spinto di lato, Tom scartò disperatamente per non cadere, dimenandosi e crollando infine sulle ginocchia, col muso a terra, troppo stanco e preso alla sprovvista per reggere a quella carica spietata. Zouga perse una staffa e fu scagliato contro il collo di Tom. Vi s'aggrappò disperatamente, sentendo la sella scivolargli di sotto per quell'improvviso trasferimento di peso, poi Tom scartò di nuovo e lui cascò giù, battendo con la schiena a terra. Gli parve di aver cozzato contro solida roccia e un velo nero gli calò davanti agli occhi. Quando si disperse, lui era di nuovo in piedi, barcollante come un ubriaco, e, battendo le palpebre, vide il lanciato stallone correre verso l'ultima bandiera. Fece rialzare Tom, controllò rapidamente che non vi fosse qualche tendine tirato o qualche osso rotto, quindi saltò di nuovo in sella. « Ancora non siamo battuti », disse a Tom. « Ci sono ancora le spine. » Lontano, laggiù, Shooting Star stava compiendo il giro intorno all'ultima bandiera. Da lì Louise era libera di ritornare poi alla linea d'arrivo a suo piacimento, ma c'erano ancora i cespugli spinosi. Tom era sfiatato, il petto gli tremava per lo sforzo che gli costava ogni faticoso respiro. Raggiunsero la bandiera, tuttavia, a un trotto irregolare, e fecero il giro. Davanti a loro i cespugli spinosi si stendevano come una solida barriera verde. Era l'ultimo ostacolo, al di là c'era un tratto sgombro fino al traguardo. Un concorrente poteva scegliere: attraverso i cespugli o gi-
rare al largo. « Da che parte è andata? » gridò Zouga ai commissari sotto la bandiera quando li superò. « S'è diretta verso il varco », gridò uno di loro, e subito dopo Zouga vide la nuvoletta di polvere a un paio di chilometri sulla destra che andava posandosi lentamente mentre lo stallone tirava dritto. La barriera di cespugli spinosi finiva gradatamente sui pendii rocciosi delle colline Magersfontein e lì, sotto gli erti costoni di roccia, s'apriva un varco. Lo stallone stava dirigendosi proprio lì. Seccato, Zouga fece girare Tom intorno alla bandiera e lo puntò poi diritto verso i cespugli. Quell'itinerario era più corto di circa tre chilometri e lui aveva bisogno di ogni centimetro di quei chilometri. E tuttavia quando furono davanti alla barriera di spine fermò Tom e lo lasciò respirare; nel frattempo tolse il pesante pastrano dal pomo della sella alla quale era legato e, divincolandosi, lo infilò. Se lo abbottonò fino al mento e sentì il sudore spuntargli sulla fronte mentre infilava anche i guanti di pelle per poteggersi le mani. « Andiamo », bisbigliò poi, e s'appiattì contro il collo di Tom mentre si precipitavano nei cespugli. Le punte rosse e arcuate delle spine scivolarono sul cappello di spesso feltro con un suono lacerante e tirarono poi alle spalle e ai lembi del cappotto. I cespugli crescevano fino all'altezza della testa di un uomo a cavallo, con i robusti tronchi distanti l'uno dall'altro quel tanto per far passare un grosso animale, ma i rami spinosi s'intrecciavano tra loro e fecero pagare un caro prezzo a cavallo e cavaliere. Tom, tuttavia, continuò ad andare, scansando e spezzando rami. Evitava i tronchi dalla corteccia bianca, abbassava la testa sotto i rami, con gli orecchi appiattiti contro il cranio e gli occhi ridotti a due fessure, e manteneva la velocità necessaria per strappare le spine dalla loro base triangolare e far cadere su se stesso e su Zouga una pioggia di leggere foglie verdi. Ogni tanto sbuffava al dolore di una spina che era penetrata sotto la sua pelle. Shooting Star aveva invece una pelle così sottile da mostrare il groviglio di vene e arterie. Le spine gliela avrebbero ridotta a brandelli sanguinanti. Zouga sentì il sangue corrergli giù per il collo dall'orecchio che gli era stato lacerato da una spina, ma s'abbassò ancora di più e lasciò che Tom continuasse la sua strada attraverso la barriera. « Povero Tom », lo incoraggiava. « Povero, coraggioso Tom. » Il cavallo nitriva per il dolore che gli procuravano quei rossi aghi pungenti, ma non rallentò il passo. Eppure gli era più facile respirare adesso, l'andatura più lenta lo aveva aiutato e il sudore stava asciugandosi, lasciandogli bianche chiazze sulle spalle. Poi, di colpo, sbucarono di corsa fuori dei cespugli sull'aperto pianoro. Zouga si sfilò i guanti di pelle e li gettò. A strap-
pi si sbottonò il cappotto e lo lasciò volar via sbattendo e svolazzando come un grosso corvo nero nel vento creato dal galoppo di Tom; alla fine, si alzò dritto sulle staffe e si riparò gli occhi dalla luce con la falda del cappello. Lesto, scrutò il terreno aperto. Era deserto fino alle minutissime macchie di colore laggiù: i vestiti delle spettatrici e i festoni che segnavano il traguardo. Il cuore gli batté per il sollievo e sotto di lui Tom si lanciò a un goffo galoppo. Sempre dritto sulle staffe, scrutò verso la linea delle colline sulla sua destra e finalmente li vide. Lo stallone aveva doppiato l'estremità della barriera spinosa, dove questa sfiorava le colline, e stava venendo giù per il pendio cosparso di rocce a un passo pericoloso. L'esile figura sul suo dorso veniva sbattuta qua e là brutalmente. Ora sembrava stargli sul collo e un attimo dopo s'abbatteva all'indietro, mentre Shooting Star si tuffava e scartava per mantenere l'equilibrio. « Li abbiamo in pugno ora, Tom. Ecco qui. Ecco il traguardo, dritto davanti al tuo naso. » Zouga indicò col capo. « Ora non possono più prenderci. Vai, vecchio mio, vai! » Gli zoccoli di Tom battevano sulla dura terra come un allegro suonatore batte sui tamburi. Superare i cespugli spinosi era stato duro ma gli aveva dato fiato, e ora correva a tutta velocità. « Attento alla buca! » gridò Zouga, e Tom sbatté le orecchie in segno di rimprovero. L'aveva vista prima di lui e scansò tranquillamente la tana, da cui vennero fuori le teste di piccoli citelli, incuriositi da quel passaggio. Il terreno era cosparso dei loro scavi, ma Tom quasi non controllava neppure il proprio galoppo, scartando per evitare i mucchi di terra appena scavata o tendendosi per saltare i buchi d'ingresso delle tane. I citelli quasi non si distinguono dai loro cugini settentrionali, gli scoiattoli, se non per una striscia nella pelliccia sul dorso e le loro abitudini sotterranee. Stavano sulle loro zampe posteriori davanti all'ingresso di ogni tana, come piccoli gruppi di spettatori, con comiche espressioni di sorpresa e le lunghe code gonfie arricciate all'indietro, e guardavano Tom che gli passava davanti. Zouga si voltò: Shooting Star aveva lasciato il pendio delle colline e si trovava adesso sul terreno piano. Era chiaro che stava bruciando le ultime riserve della sua grande forza, sparato nella sua corsa, lanciando le zampe anteriori in avanti e ritraendo le posteriori per lanciarsi nel balzo successivo. Louise lo incitava a colpi di braccia, come una lavandaia che lavora sulla sua tavola, ma era troppo lontana perché Zouga potesse vederle l'espressione del viso. Troppo lontana, quasi un chilometro indietro, mentre lui aveva davanti ancor poco più di cinquecento metri da percorrere fino alla linea d'arrivo segnata da festoni dai colori vivaci. Zouga riusciva a vedere chiaramente la folla ai due lati dei pali del traguardo, accalcata come api all'ingresso dell'alveare,
e altri ancora accorrevano. Sentiva i deboli spari lontani, vedeva le nuvolette di fumo levarsi sopra le teste della folla: i suoi tifosi sparavano in aria giubilanti. Presto avrebbe udito anche le loro voci, avrebbe afferrato il suono dei loro evviva anche al disopra del battito degli zoccoli di Tom. Era finita. Aveva vinto. Aveva mantenuto le proprie concessioni e l'adorata statua del dio falco... E aveva vinto le cinquemila sterline con le quali avrebbe condotto la sua famiglia incontro a una vita nuova. Aveva corso il rischio e aveva vinto. Una sola cosa gli dispiaceva: che il coraggio dell'amazzone e del cavallo dietro di lui fosse stato vano. Badando a non sbilanciare il pesante galoppo di Tom, si voltò a guardare indietro sotto il proprio braccio. Perdio, Louise ancora non aveva accettato la sconfitta. Cavalcava con tutta la sua energia e tutto il suo cuore, forzando il grande cavallo come forzava se stessa, avanzando così rapidamente che lui guardò a disagio sopra le orecchie ritte di Tom per assicurarsi della vicinanza della linea di arrivo. No, la possibilità non esisteva: anche a quella incredibile velocità, Shooting Star non li avrebbe raggiunti. Già sentiva le voci della folla, già distingueva i visi, riconobbe persino Pickering, il giudice di gara, a cassetta del suo carro, e accanto a lui l'inconfondibile fisico di Rhodes e la sua massa di capelli in disordine. Con lui come testimone, il trionfo era completo. Si voltò per l'ultima volta a guardare Shooting Star, giusto in tempo per vederlo cadere. Era stato troppo veloce, troppo incontrollato, quel galoppo scatenato sul terreno cosparso di tane di citelli. Le zampe anteriori di Shooting Star cedettero. A Zouga parve persino di sentire un rumore di ossa rotte, come lo sparo di una pistola. L'enorme cavallo andò giù, con le spalle in avanti, il collo torto in un'agonizzante contorsione, simile a quello di un fenicottero morente. Si levò una nuvola di polvere che li avvolse e al disopra della quale gli zoccoli dello stallone si agitavano spasmodicamente, convulsamente, per poi abbassarsi. La nuvola di polvere si disperse e rivelò il tragico groviglio di cavallo e amazzone. Shooting Star giaceva su un fianco e, mentre Zouga tirava le redini e faceva girare Tom dirigendolo verso Louise, il grande stallone fece il debole tentativo di sollevare la testa dal suolo, dopodiché la lasciò ricadere. « Avanti, Tom, avanti! » sollecitò Zouga. Era stupito del senso di estrema desolazione che lo aveva assalito mentre galoppava verso di lei. C'era qualcosa di così definitivo, così terribilmente agghiacciante nel completo abbandono, nella completa mancanza di vita di quel piccolo corpo abbandonato. « Ti prego, Dio. » Lo disse ad alta voce, con la gola secca per la polvere, la sete e il timore. « Ti prego, fa' che non sia. » Immaginava il bel collo delicato torto a un angolo impossibile contro le vertebre spezzate. Immaginò il terribile incavo nella
volta delicata del cranio di lei. Immaginò quei grandi occhi scuri aperti e fissi, con la luce interna scomparsa. Immaginò, oh, Dio, immaginò... Quindi liberò di scatto i piedi dalle staffe e saltò giù mentre Tom era ancora in pieno galoppo, barcollando ma mantenendo l'equilibrio, e corse verso di lei. Louise s'allungò tutta e, leggera, saltò in piedi. « Vieni, tesoro, su, tesoro », gridò a Shooting Star, correndo verso di lui. Lo stallone ebbe uno scatto, poi un altro e alla fine fu in piedi, con la testa alta. « Che bravo », esclamò la padrona ridendo, ma eccitazione, tremito e sforzo le resero roca la voce. Non aveva la forza di salire con un balzo e un volteggio in sella e per un momento saltellò con un piede in una staffa prima di trovare la forza per passare l'altra gamba al disopra della groppa. Intanto Zouga, impalato, la guardava a bocca aperta. Louise si girò verso di lui dall'alto della, sella. « Fingersi morti è un vecchio trucco degli indiani piedi neri, maggiore. » Fece girare il capo allo stallone verso la linea d'arrivo. « Ora corriamo quest'ultimo tratto alla pari », disse, sfidando, e Shooting Star partì a pieno galoppo. Per un attimo Zouga non riuscì a credere che potesse aver insegnato a quello stallone a cadere in maniera così convincente e a giacere immobile. Poi, subito dopo, la preoccupazione per la salvezza di lei, la desolante sensazione provata nel crederla morta o ferita si tramutarono in cieca furia. Mentre correva verso Tom, le gridò dietro: « Signora, lei è un'imbrogliona. Che Dio la perdoni ». Lei si girò sulla sella e agitò allegramente una mano. « Signore, lei è un ingenuo, ma io la perdono. » E Shooting Star la portò via, verso il traguardo, a un passo che il povero Tom non avrebbe mai potuto eguagliare. Zouga Ballantyne era ubriaco. Era la prima volta, in ventidue anni che stavano insieme, che Jan Cheroot lo vedeva in quelle condizioni. Stava seduto molto eretto sulla sedia di abete a schienale alto e, al disopra della barba, la sua faccia era di uno strano colorito cereo. Gli occhi, vitrei e fissi, sembravano avere la stessa consistenza dei diamanti grezzi. La terza bottiglia di brandy del Capo stava sul tavolo in mezzo a loro e, allorché Zouga cercò di prenderla, la rovesciò. Il liquido gorgogliò fuori e inzuppò la tovaglia. Jan Cheroot la raddrizzò di colpo esclamando, stupito: « Ehi, se vuoi perdere Le Diaboliche non m'interessa... Ma sprecare il brandy è un'altra cosa ». Jan Cheroot incespicò un pò con le parole: stavano bevendo da un'ora prima del tramonto. « Cosa dirò ai ragazzi? » mormorò Zouga. « Digli che fanno festa... Per la prima volta in dieci anni. Facciamo tutti festa. » Jan Cheroot gli versò del brandy nella tazza e gliela spinse
vicino alla mano. Poi se ne versò un bel pò nella propria, ci pensò su un momento, e ne versò ancora altrettanto. « Ho perso tutto, vecchio Jan. » « Già », fece l'ottentotto, in tono allegro. « E non era molto, dopotutto. » « Ho perso le concessioni. » « Bene. » Jan Cheroot scosse il capo. « Per dieci anni quei due volte dannati pezzi di terra ci hanno mangiato l'anima... e nel frattempo ci hanno affamati. » « Ho perso il falco. » « Bene anche questo! » Jan Cheroot buttò giù il suo brandy e fece schioccare le labbra, in segno di apprezzamento. « Che ora mister Rhodes abbia la sua parte di cattiva fortuna. Quell'uccello lo finirà, come ha quasi finito noi. Mandaglielo appena puoi, e ringrazia Dio che te ne liberi. » Lentamente, Zouga si nascose il viso tra le mani, coprendo gli occhi e la bocca, così che la sua voce risultò soffocata. « Jan Cheroot. E' tutto finito. Per me la strada per il nord è chiusa ormai. Il mio sogno è finito. Abbiamo fatto tutto per niente. » Il ghigno inebetito scomparve lentamente e la faccia gialla di Jan Cheroot mostrò una profonda compassione. « Non è tutto finito. Sei ancora giovane e forte, con due figli forti, » « Perderemo anche quelli... Presto, molto presto. » « Allora ci sarò io, vecchio amico, come ci sono sempre stato. » Zouga sollevò la testa e guardò fisso il piccolo ottentotto. « Che facciamo, Jan Cheroot? » « Finiamo questa bottiglia e poi ne apriremo un'altra », rispose Jan Cheroot, deciso. Nella mattinata caricarono l'idolo di pietra sul carretto della ghiaia, lo distesero su un letto di paglia e, sopra, Zouga vi stese un telo macchiato e lacero, poi, con l'aiuto di Jordan, lo legò con una fune. Nessuno di loro aprì bocca finché non ebbero finito, solo allora Jordan parlò a voce così bassa che il padre a stento afferrò le parole. « Non puoi lasciarlo andare, papà. » Zouga si voltò a guardare il figlio, vedendolo per la prima volta dopo molti anni. Con non poco stupore si accorse che era un uomo ormai. Forse a imitazione di Ralph, s'era lasciato crescere anche lui i baffi. Erano d'un denso color oro ramato e accentuavano la linea delicata della bocca: se mai era possibile, l'uomo era ancora più bello di quanto fosse stato il ragazzo. « Non c'è modo di tenerlo? » insisté Jordan, con una vaga nota di disperazione nella voce. E Zouga continuò a fissarlo. Quanti anni aveva ora? Più di diciannove, e appena ieri era un bambino, il piccolo Jordie. Tutto era cambiato. Zouga si girò dall'altra parte e piazzò una mano sull'idolo avvolto nel telo.
« No, Jordan. Era una scommessa. Una questione d'onore. » « Ma, la mamma... » cominciò a dire Jordan, poi s'interruppe di colpo appena il padre si voltò a guardarlo. « Che c'entra Aletta? » chiese, e Jordan distolse lo sguardo e arrossì. « Niente », rispose, e s'avvicinò al primo dei muli. « Porterò l'uccello a mister Rhodes », aggiunse, e il padre annuì, felice del fatto che Jordan gli risparmiasse quel compito ingrato. « Chiedigli quando è disposto a firmare il trasferimento delle concessioni. » Zouga toccò di nuovo la statua avvolta nel telo come per dirle addio, dopodiché ritirò la mano, salì i gradini della veranda ed entrò nel bungalow senza voltarsi a guardare indietro. Jordan condusse i muli sulla strada piena di solchi e li diresse verso Kimberley. Andava a testa nuda nel sole. Era alto e magro e si muoveva con una grazia particolare, avanzando a passo leggero nella soffice polvere rossa. Teneva la testa alta, gli occhi puntati lontano davanti a sé, con lo sguardo sognante e tuttavia attento di un poeta. Al suo passaggio uomini e donne si voltavano a guardarlo e cambiavano espressione, sembravano addolcirsi, ma lui, Jordan, tirava dritto come se fosse solo su una strada deserta. Pur non muovendo le labbra ripeteva a memoria le parole d'invocazione alla dea Panes: « ... Perché sei corsa via? Saresti stata meglio con noi... » Tante volte le aveva rivolte alla dea che quelle parole facevano ora parte della sua stessa esistenza. « Non tornerai tra noi, grande Panes? » Ed ecco che la dea se ne stava andando... E lui non credeva che sarebbe riuscito a sopportare il dolore. Statua, dea e madre erano una cosa sola nella sua immaginazione, il suo ultimo legame con Aletta. Aletta che era diventata Panes. Provava un senso di desolazione, come se lo privassero dell'amore più caro, e quando raggiunse lo steccato di legno del campo di Rhodes si fermò e si abbandonò ai più scatenati pensieri. Avrebbe preso la dea e sarebbe scappato con lei nel deserto, l'avrebbe nascosta in una grotta lontana. Il cuore gli batteva forte. No, l'avrebbe riportata all'antica città in rovina da cui proveniva, in quel luogo lontano nel nord dal quale suo padre l'aveva rubata, lì sarebbe stata al sicuro. Poi, con un senso di abbattimento e una stretta disperata al petto, si rese conto che quelli erano sogni infantili e che lui non era più un bambino. Con un lieve tocco alla briglia del primo mulo lo guidò nel campo. Rhodes era sulla porta del suo bungalow, a testa nuda e in maniche di camicia. Stava parlando con un uomo che stava giù dalla veranda. Jordan lo riconobbe come uno dei sorveglianti della Central Diamond Company. Quando Rhodes alzò lo sguardo e vide Jordan, congedò il sorvegliante con poche parole e un cenno del capo. « Jordan. » La sua accoglienza fu grave, forse aveva capito
lo stato d'animo del giovanotto. « Lo hai portato? » Jordan annuì e allora lui si rivolse di nuovo al sorvegliante che era lì fermo in attesa. « Porta quattro dei tuoi uomini migliori », ordinò. « Voglio che questo carretto sia scaricato con cautela. Si tratta di una preziosa opera d'arte. » Rimase a guardare con attenzione mentre scioglievano la fune che tratteneva il telo, ma piegò di lato il capo ricciuto quando Jordan parlò. « Visto che dobbiamo perderlo, sono contento che vada proprio a lei, mister Rhodes. » « Quell'uccello significa qualcosa anche per te, Jordan? » « Significa tutto », rispose Jordan semplicemente, poi si trattenne: suonava ridicolo. Mister Rhodes lo avrebbe considerato strano. « Voglio dire, è stato nella mia famiglia da quando sono nato. Non so proprio come sarà d'ora in poi senza quella dea. Proprio non voglio pensare di averla persa. » « Non è detto che tu l'abbia persa, Jordan. » Jordan lo guardò, incapace di chiedergli cosa intendesse dire. « Puoi seguire la dea, Jordan. » « La prego, non mi prenda in giro, mister Rhodes. » « Sei sveglio e volenteroso, hai studiato la stenografia di Pitman e sei un'ottima penna », disse Rhodes. « Io ho bisogno di un segretario, qualcuno che conosca e ami i diamanti come me. Qualcuno col quale io stia a mio agio. Qualcuno che conosco e che mi piace. Qualcuno di cui posso fidarmi. » Jordan si sentì invaso da un'ondata improvvisa di gioia, qualcosa come non aveva mai provato prima. Non riusciva a parlare, stava lì impalato e guardava negli occhi belli e azzurri quell'uomo che da tanti anni lui adorava. « Bene, Jordan, ti sto offrendo quel posto. Lo vuoi? » « Sì », rispose Jordan a bassa voce. « Più di qualsiasi cosa al mondo, mister Rhodes. » « Bene, allora il tuo primo compito sarà di trovare un posto dove mettere l'uccello. » Il sorvegliante bianco aveva scostato il telo ed esposto la statua; il telo pendeva ora sul fianco del carretto. « Piano, ora », gridò alla squadra di operai neri. « Passategli una fune intorno. Non fatelo cadere. Attenti all'estremità, maledizione. » Sciamavano intorno alla statua, in troppi per quel lavoro, intralciandosi a vicenda, e la gran gioia di Jordan per l'offerta di Rhodes fu subito sommersa dalla preoccupazione per la salvezza dell'uccello. Fece un passo avanti per mettere la fune lui stesso, ma in quel momento ci fu un rumore di zoccoli e Neville Pickering entrò a cavallo nel cortile. Era in sella alla sua giumenta, focosa e di buona razza, e tirò subito le redini e la mise al passo. Lanciò un'occhiata a Jordan e il viso gli s'abbuiò per un istante, una breve espressione irritata o qualcosa di simile. Con un lampo d'intuizione, Jordan si rese conto che la sua pre-
senza lì dava fastidio a Pickering. Poi, rapida com'era discesa, l'ombra disparve dal bel viso dai tratti delicati di Pickering, che gli rivolse quel suo splendente e affascinante sorriso e guardò la statua ancora sul carretto. « Cosa abbiamo qui? » Il suo tono era allegro, i suoi modi disinvolti e tranquilli. Come sempre, era elegantemente vestito, col taglio della giacca in pettinato che dava risalto alle spalle larghe e la bulinata cintura di cuoio che evidenziava la sottigliezza della vita, così come i lucidi stivali da cavallerizzo evidenziavano la lunghezza e la forma delle gambe. Stava sorridendo. « Oh, l'uccello. » Guardò Rhodes sulla veranda del bungalow. « Così ce l'hai, finalmente, come t'eri ripromesso. Dovrei congratularmi con te. » Il giorno era stato sereno e troppo caldo, presto il tempo sarebbe cambiato. Il vento avrebbe soffiato da sud e la temperatura sarebbe scesa, ma fino allora gli unici movimenti d'aria erano gli improvvisi turbini di polvere che si levavano dal nulla, piccoli ma violenti vortici che levavano alte colonne di polvere, erba secca e foglie morte, fino a una trentina di metri nel cielo sereno, e che procedevano in una pazza corsa imprevedibile attraverso la pianura per poi, all'improvviso come s'erano accesi, spegnersi e disintegrarsi di nuovo nel nulla. Uno di questi diavoli del deserto, come son chiamati tali vortici, si levò ora nel terreno aperto al di là dello steccato. Sollevò dalla superficie della strada una densa nube rossa di vorticante polvere, poi deviò improvvisamente e si precipitò nel cortile del campo di Rhodes. Jordan avvertì al cuore una fredda stretta di panico superstizioso. « Panes! » Il grido rimase inespresso. « Grande Panes! » Sapeva cos'era quel vento, sentiva la presenza della dea... quante volte, infatti, aveva risposto alla sua invocazione? Di colpo, tutto il cortile fu pieno di vorticanti turbini di polvere, e il vento si abbatté. Soffiò in faccia a Jordan, che dovette socchiudere gli occhi, gli scompigliò i capelli davanti al viso e gli schiacciò la camicia contro il petto e il ventre piatto. Il cappello dalla falda larga volò via dalla testa di Pickering, i lembi della giacca gli sbatterono contro la schiena e lui dovette sollevare una mano per proteggersi dalla sabbia pungente e dai ramoscelli taglienti. Poi il vento s'infilò sotto il vecchio telo lacero e lo riempì con uno schiocco, come la vela maestra di una nave che si orienti verso il bordo opposto. Il duro angolo del telo sferzò il muso della giumenta, che indietreggiò nitrendo per il panico, poi s'impennò. Si levò così in alto che Jordan temette che ricadesse all'indietro sul dorso, e si tuffò allora nella sferzante nube di polvere per tenerle la testa. Ma arrivò un istante troppo tardi. Pickering aveva una mano davanti al viso e l'impennata della giumenta lo colse alla sprovvista, cadde all'indietro dalla sella
e batté a terra con la nuca e una spalla. Il suono frusciante del vortice, il rumore soffocato dell'aria spinta fuori dai polmoni di Pickering e il tonfo della sua caduta quasi coprirono il piccolo schianto dell'osso che si rompeva all'interno del suo corpo. Poi la giumenta venne giù dalla sua alta e danzante impennata e si lanciò immediatamente in pieno galoppo. Volò verso l'ingresso nello steccato trascinandosi dietro Pickering, la cui caviglia era rimasta impigliata nella staffa e il cui corpo volò anch'esso, strisciando e sobbalzando per terra. Quando la giumenta virò per infilare il varco nella siepe, Pickering venne sbattuto contro questa, e le bianche spine, ciascuna lunga quanto l'indice di un uomo, gli penetrarono nella carne come aghi. Poi fu strappato via, di nuovo sul terreno aperto, strusciando contro il suolo roccioso, colpendo e piegando i piccoli cespugli che la giumenta saltava, il corpo completamente abbandonato e le braccia rovesciate all'indietro. Ora strisciava con la nuca e ora, per la torsione della caviglia nella staffa, era a faccia in giù, con la pelle che gli veniva grattata via dalle guance e dalla fronte al contatto con la dura terra. Jordan si trovò a correre dietro di lui, singhiozzando per l'orrore, chiamando la giumenta. « Iih, bella! Ferma, bella! » Ma era impazzita, prima atterrita dal vento e dallo schiaffo del telo e ora dal peso poco familiare che si trascinava dietro. Raggiunse il pendio dei mucchi di sterile e deviò di nuovo, e questa volta, grazie al cielo, la cinghia della staffa partì con uno schianto. Libera del suo carico, la giumenta galoppò via lungo il sentiero tra i mucchi di scarti. Jordan cadde in ginocchio accanto al corpo inerte e martoriato di Pickering. Stava a faccia in giù; la costosa giacca di pettinato era lacera e impolverata, gli stivali graffiati fino a mostrare il bianco della pelle di sotto. Con gran cura, reggendogli la testa con le mani, Jordan lo fece girare sulla schiena, togliendogli il volto dalla polvere così che potesse respirare. Il viso di Pickering era una maschera insanguinata, sporca, con un lembo di bianca pelle che gli pendeva dalla guancia; ma gli occhi erano spalancati. Sebbene braccia e corpo fossero completamente inerti, Pickering era cosciente. I suoi occhi ruotavano verso il viso di Jordan e le sue labbra si mossero. « Jordie », bisbigliò. « Non sento niente, niente del tutto. Intorpidito... Le mani, i piedi, tutto il mio corpo è intorpidito. » Lo trasportarono in una coperta, un uomo per ogni angolo, e lo deposero con cautela sulla stretta brandina di ferro nella stanza da letto accanto a quella di Rhodes. Il dottor Jameson arrivò nel giro di un'ora e annuì col capo in segno di approvazione quando vide in che modo Jordan ave-
va lavato e fasciato le ferite, e tutto il resto che aveva fatto per il conforto del poveretto. « Bene. Chi ti ha insegnato? » Ma non aspettò la risposta. « Su », disse, « ho bisogno del tuo aiuto. » Porse a Jordan la borsa, si sfilò in fretta la giacca e si arrotolò le maniche della camicia. « Vada fuori », disse a Rhodes. « Qui è solo d'impaccio. » Occorsero al dottore solo pochi minuti per accertarsi che la paralisi al disotto del collo era completa, dopodiché alzò il capo e guardò Jordan e, assicuratosi che gli occhi attenti e febbricitanti di Pickering non lo vedessero, scosse il capo. « Torno tra un minuto », disse. « Devo parlare a mister Rhodes. » « Jordie », bisbigliò con gran pena Pickering appena Jameson ebbe lasciato la stanza. Jordan si chinò e accostò il capo alle sue labbra. « Il collo... è rotto. » « No. » « Zitto. Ascolta. » Pickering s'accigliò all'interruzione. « Credo di averlo sempre saputo ... Che saresti stato tu. In un modo o nell'altro, saresti stato tu ... » S'interruppe, altro sudore gli imperlò la fronte, ma fece un altro terribile sforzo per parlare: « Credevo di odiarti. Ma non c'è più tempo per odiare ». Non parlò più, né quella notte né il giorno dopo. Ma all'alba, quando il caldo in quella stanzetta dalle pareti di lamiera diminuì un poco, aprì di nuovo gli occhi e guardò Rhodes. Era penoso vedere come s'era ridotto. Sotto la pelle quasi trasparente le ossa della fronte e del viso sembravano rilucere, gli occhi erano sprofondati in buie cavità. Rhodes abbassò ia sua grande testa irsuta fino a che l'orecchio sfiorò le labbra aride e bianche di Pickering. Il bisbiglio fu così leggero, come una foglia morta soffiata via su un tetto a mezzanotte, che Jordan non riuscì ad afferrare le parole, ma Rhodes abbassò le palpebre dei suoi occhi azzurri come preso da un'angoscia mortale. « Sì », rispose, quasi con lo stesso bisbiglio del morente. « Sì, lo so, Pickering. » Quando riaprì gli occhi, traboccavano di lucenti lacrime e sul viso erano comparse preoccupanti chiazze purpuree. « E' morto, Jordan », disse con voce strozzata, e si portò una mano sul petto, premendo forte come per calmare i battiti del cuore gonfio. Poi, molto lentamente, deliberatamente, abbassò di nuovo il capo e baciò le labbra lacere e screpolate dell'uomo sulla brandina di ferro. Zouga pensò che la voce facesse parte del suo sogno: dolce, bassa, e tuttavia tremula e piena di un terribile fascino. Poi si svegliò e la voce stava ancora chiamandolo; subito dopo, qualcuno bussò ai vetri della finestra sopra il suo letto. « Vengo », rispose, con voce altrettanto bassa. Non aveva bi-
sogno di chiedere chi era. Si vestì rapidamente, nel buio completo, perché l'istinto gli aveva suggerito di non accendere la candela, e quando uscì sulla veranda del cottage aveva gli stivali in mano. L'altezza della luna nel cielo gli disse che era mezzanotte passata, e tuttavia vi lanciò appena un'occhiata perché si rivolse subito alla figura che stava appoggiata contro la parete accanto alla porta. « E' sola? » chiese a bassa voce. Qualcosa nel modo in cui la figura era abbandonata contro la parete lo spaventò. « Sì. » Adesso che erano così vicini avvertì chiaramente nella voce di lei la disperazione e il dolore. « Non doveva venire qui... Non sola, mistress St John. » « Non avevo altri a cui rivolgermi. » « Dov'è Mungo? Dov'è suo marito? » « E' in difficoltà... Una terribile, terribile difficoltà. » « Dov'è? » « L'ho lasciato oltre l'incrocio della strada per il Capo. » Per un attimo la voce le si trozzò in gola, poi le tornò e s'affrettò a dire: « Sta male. E' ferito, una brutta ferita ». Aveva alzato la voce e c'era pericolo che svegliasse Jan Cheroot e i ragazzi. Zouga le prese un braccio per calmarla e immediatamente la donna s'appoggiò a lui. Il contatto con quel corpo lo colse di sorpresa, ma non riuscì ad allontanarla. « Ho paura, Zouga. Ho paura che muoia. » Era la prima volta che lo chiamava per nome. « Cos'è successo? » « Oh, Dio! » Stava piangendo adesso, aggrappata a lui, che si rese conto di quanto doveva essere provata. Le passò un braccio intorno alla vita e la condusse in fondo alla veranda. In cucina la fece sedere su una sedia e accese una candela. Rimase turbato di nuovo quando vide il suo viso. Era pallida e tremava, con i capelli in disordine, il volto sporco di terra e gli occhi iniettati di sangue. Le versò del caffè dal bricco smaltato blu che stava sul fornello. Era denso come melassa. Vi aggiunse un pò di brandy. « Bevi. » Lei ebbe un fremito e rimase per un attimo senza fiato quando bevve la forte mistura nera, che tuttavia parve calmarla un pò. « Non volevo che andasse. Ho cercato di fermarlo. Ero disgustata. Gli ho detto che non sopportavo più gli inganni e le bugie. La vergogna e le fughe... » « Non ha senso quello che dici », le disse lui bruscamente, e la donna trasse un profondo respiro e ricominciò: « Mungo è andato a incontrare un uomo questa notte. L'uomo doveva portargli un pacchetto di diamanti del valore di centomila sterline. E Mungo li avrebbe pagati duemila ». Zouga s'incupì in viso. Sedette di fronte a lei e la guardò fisso. La sua espressione la intimidì.
« Oh, Dio, Zouga, Lo so. Ora odio la sola idea. Ho vissuto in questo modo per tanto tempo, ma lui aveva promesso che questa sarebbe stata l'ultima volta. » « Vai avanti. » « Lui però non aveva le duemila sterline. Zouga, siamo quasi al verde... Ci sono rimaste in tutto poche sterline. » Questa volta lui non riuscì a trattenersi e l'interruppe. « La lettera di credito, il mezzo milione di sterline... » « Falsa », rispose lei, calma. « Vai avanti. » « Non aveva i soldi per pagare i diamanti... E io sapevo quello che aveva intenzione di fare. Ho cercato di fermarlo. Te lo giuro. » « Ti credo. » « Era d'accordo di incontrare quest'uomo stanotte... In un punto della strada per il Capo. » « Conosci il nome dell'uomo? » « Credo, ma non ne sono sicura. » Si passò una mano sugli occhi. « E' un uomo di colore, un griqua. Henry... No, Hendrick... » « Hendrick Naaiman? » « Sì. Naaiman. Così si chiama. » « E' una trappola. » « Polizia? » « Sì, polizia. » « Oh, Dio santo, è anche peggio di quanto pensava, allora. » « Cos'è successo? » « Mungo mi ha lasciata all'incrocio della strada ed è andato all'appuntamento da solo. Ha detto che doveva proteggersi... così ha preso la pistola. E' andato col mio cavallo... Con Shooting Star. Poi ho sentito gli spari. » Bevve un altro sorso di caffè e tossì. « E' tornato. Gli avevano sparato, e anche a Shooting Star. Non potevano andare oltre, nessuno dei due. Erano stati colpiti entrambi in brutto modo, Zouga. Li ho nascosti nei pressi della strada e sono venuta da te. » La voce di Zouga suonò dura. « Mungo lo ha ammazzato? » « Non lo so, Zouga. Dice che l'altro ha sparato per primo e che lui ha solo cercato di proteggersi. » « Mungo ha cercato di derubarlo, di prendersi i diamanti senza pagarli », ribatté Zouga. « Ma Naaiman è un uomo pericoloso. » « C'erano quattro bossoli nella pistola di Mungo, ma non so che è successo al poliziotto. So solo che Mungo è scappato. Se l'è cavata, ma ha una brutta ferita. » « Ora sta' calma e riposa un attimo. » Zouga s'alzò e prese a passeggiare su e giù per la cucina; scalzo, non faceva rumore, e teneva le mani incrociate dietro la schiena. Louise St John lo guardava con ansia, quasi timore, finché lui all'improvviso si fermò e le disse: « Sappiamo tutt'e due cosa dovrei fare. Tuo marito è un
CID. E' un ladro e ora, probabilmente, anche un assassino ». « E' anche tuo amico », si limitò a dire lei. « Ed è ferito. » Lui riprese a passeggiare, ma ora mormorava tra sé e sé, seccato e accigliato, e Louise si tormentava le dita in grembo. « Benissimo », disse lui alla fine. « Ti aiuterò a portarlo via. » « Oh, maggiore Ballantyne... Zouga... » S'accigliò e la mise a tacere. « Non perdiamo tempo in chiacchiere. Abbiamo bisogno di bende, laudano, cibo... » Intanto contava sulle dita. « Tu non puoi andare così vestita. Cercheranno una donna. Gli abiti smessi di Jordan ti andranno bene... pantaloni, cappello e giacca... » Zouga procedeva di fianco al mulo e il carretto della ghiaia era carico di balle di paglia. Louise stava distesa in silenzio tra due balle, con un'altra a portata di mano per tirarsela sopra nel caso il carretto fosse stato fermato. Le ruote ferrate frusciavano nella sabbia, ma la rugiada notturna aveva inumidito la polvere che non s'alzava. La lanterna sulla ribalta del carretto dondolava e cigolava nel movimento. Avevano appena superato le ultime case sulla strada per il Capo ed erano ormai quasi all'altezza del cimitero quando, soffocato dalla polvere, vi fu un rumore di zoccoli dietro di loro e Louise ebbe appena il tempo di mettersi giù e coprirsi che un piccolo gruppo di uomini a cavallo gli passò accanto e li superò. Quando furono nell'arco di luce della lanterna, Zouga vide che erano tutti armati. Chinò il capo e affondò il mento nel bavero del cappotto; il berretto di lana era già abbassato sugli occhi. Uno degli uomini avvicinò il cavallo e gridò: « Ehi, tu. Hai visto qualcuno su questa strada stanotte? » « Niemand nie! Nessuno! » Zouga rispose in afrikaans e il suono di quella lingua gutturale rassicurò l'uomo. Mosse le redini e s'allontanò al galoppo dietro ai suoi compagni. Quando il rumore degli zoccoli si fu spento lontano, Zouga parlò, calmo: « Questo significa che Naaiman se l'è cavata e ha sparso la notizia. A meno che non muoia in seguito per le ferite, non è omicidio ». « Ti prego, Dio », bisbigliò Louise. « Significa anche che non potete prendere né la strada per il Capo né quella per il Transvaal. Saranno sorvegliate. » « E da che parte possiamo andare? » « Se fossi in voi prenderei la pista per il nord. Va a Kuruman. C'è una missione li... è tenuta da mio nonno. Il suo nome è dottor Moffat. Vi darà ricovero e Mungo avrà bisogno di un dottore. Poi, quando avrà ripreso abbastanza forza, potete tentare di raggiungere il territorio tedesco o portoghese e andarvene via per la Lúderitz Bay o per Lourenco Marques. » Per parecchio tempo nessuno dei due parlò; Zouga avanzava accanto al mulo e Louise era venuta fuori di sotto le balle del fieno e s'era seduta a cassetta. Fu lei a rompere il silenzio:
« Sono stanca di fuggire. A quanto sembra non abbiamo più dove andare. America, Canada, Australia, non possiamo tornare in nessuno di questi paesi ». « Potresti tornartene a casa in Francia », disse Zouga. « Dai tuoi figli. » Louise sollevò il capo di scatto. « Perché dici questo? » « Quando Mungo e io ci siamo conosciuti, lui mi parlò di te, sua moglie: che eri di una famiglia nobile francese. Mi disse che tu e lui avevate tre figli. » Louise affondò il mento nel petto e il berretto di Jordan le coprì gli occhi. « Io non ho figli », disse. « Ma, oh, come mi piacerebbe averne, un giorno. Appartengo a una famiglia nobile, si... Ma non francese. Mia nonna era la figlia di Falco Vola Leggero il capo dei piedi neri. » « Non capisco, Mungo mi ha detto... » « Ti ha parlato della donna che è sua moglie. Madame Solange de Montijo St John. » Louise tacque di nuovo e lui si sentì costretto a chiedere: « E' morta? » « Il loro fu un matrimonio infelice. No, non è morta. Ritornò dai suoi tre figli in Francia all'inizio della guerra civile. Da allora lui non l'ha più vista. » « Allora lei e Mungo sono... » Zouga esitò davanti alla parola sgradevole « ... Divorziati? » « Lei è cattolica », rispose Louise, e non aggiunse altro. Passarono ben cinque minuti prima che il silenzio fosse di nuovo rotto. « Sì », disse Louise « Quello che pensi è esatto. Mungo e io non siamo sposati, non potevamo esserlo. » « Non è affar mio », mormorò Zouga, e tuttavia quello che lei aveva detto non lo aveva scandalizzato. Avvertì invece come uno strano senso di leggerezza, una specie di gioia. « E' un sollievo parlare in tutta sincerità », spiegò lei. « Dopo tante bugie. In un certo senso, dovevi essere tu, Zouga. Non avrei potuto ammetterlo con nessun altro. » « Lo ami? » La voce di Zouga era roca, brusca. « Una volta lo amavo completamente, senza limiti... Follemente. » « E ora? » « Non so... Ci sono state tante bugie, tanta vergogna, tante cose da nascondere. » « Perché stai con lui, Louise? » « Perché ora ha bisogno di me. » « Capisco. » La voce di lui suonò più dolce. Capiva, capiva davvero. « Il dovere è duro e non perdona. Eppure tu hai dei doveri anche verso te stessa. » I muli avanzavano nel buio e l'oscillante lanterna non illuminava la faccia della donna a cassetta, ma a un certo punto lei sospirò, e quel sospiro strinse il cuore a Zouga. « Louise », disse alla fine. « Io non faccio questo per Mun-
go. Neppure l'amicizia può indurre a perdonare il furto premeditato e l'omicidio. » Lei non rispose. « Avrai notato più di una volta la maniera in cui ti guardavo... Perché, Dio m'è testimone, non riuscivo a trattenermi. » Lei continuò a tacere. « Tu sapevi », insisté lui. « Tu come donna, devi sapere quello che provo. » « Sì » disse lei alla fine. « Quando pensavo che eri sposata a un amico, non avevo speranza. Ora, almeno, posso dirti quello che provo. » « Zouga, tì prego, no. » « Farei qualunque cosa dovessi chiedermi... Persino proteggere un assassino... Questo provo per te. » « Zouga... » « Non ho mai conosciuto nessuna donna così bella, brillante e coraggiosa... » « Non sono niente di tutto questo. » « Potrei mettervi, te e Mungo, sulla strada per Kuruman e poi tornare a Kimberley e dire alla polizia dove trovarvi. Prenderebbero Mungo e tu saresti libera. » « Potresti, sì », ammise lei. « Ma non lo faresti mai. Entrambi, tu e io, Zouga, siamo legati. Dal nostro particolare senso del dovere e dell'onore. » « Louise... » « Siamo arrivati », disse lei, con evidente sollievo. « L'incrocio. Abbandona la strada qui, in questo punto. » Da cassetta lo guidò mentre lui portava il carretto tra gli sparsi cespugli e le alte ruote urtavano contro i sassi e le irregolarità del terreno. A mezzo chilometro dalla strada c'era un grande cratego, argenteo e alto come una collina alla luce della luna. Sotto i rami l'ombra era nera e impenetrabile. Nel buio una voce roca intimò: « Fermi dove siete, Non avvicinatevi ». « Mungo, sono io. E Zouga è con me. » Louise saltò giù dal carretto, tolse la lanterna dal suo sostegno e avanzò, chinandosi, sotto i rami. Zouga legò i muli e la seguì. Louise stava ìnginocchiata accanto a Mungo St John, disteso su una coperta da sella e appoggiato contro una sella messicana decorata d'argento. « Grazie per essere venuto », disse a Zouga, e la sua voce era tesa per il dolore. « E' una brutta ferita? » « Abbastanza », ammise. « Hai un sigaro? » Zouga ne accese uno alla lanterna e glielo porse, Louise intanto svolse le strisce di camicia e sottana che gli fasciavano il petto. « Fucile? » chiese Zouga. « No, grazie a Dio. Pistola. » « Sei fortunato », disse Zouga, con un grugnito. « L'arma di Naaiman di solito è un fucile a canne mozze. Ti avrebbe ta-
gliato in due. » « Lo conosci? Naaiman? » « Lavora per la polizia. » « La polizia. » Mungo mandò un sospiro. « Oh, Dio. » « Sì. » Zouga annuì. « Sei nei pasticci. » « Non lo sapevo. » « Ha importanza, forse? » disse Zouga. « Avevi in mente di trafugare dei diamanti, e sapevi che avresti potuto uccidere un uomo. » « Non farmi prediche, Zouga. » « D'accordo. » Zouga s'accoccolò accanto a Louise, che stava scoprendo la ferita insanguinata e circondata da un esteso livido. Insieme sollevarono Mungo e lo misero a sedere. « Da parte a parte », mormorò Zouga quando vide il foro d'uscita dietro la schiena di Mungo. « E si direbbe che abbia mancato di poco il polmone. Tu sei più fortunato di quanto immagini. » « Una è rimasta dentro », ribatté Mungo St John, indicando la propria gamba. Le brache erano lacerate e lui scostò il lembo di stoffa insanguinato e rivelò un tratto di coscia bianca al cui centro c'era un altro piccolo foro rotondo dal quale scorreva del liquido simile a succo di ribes. « La pallottola è ancora dentro », ripeté Mungo. « L'osso? » chiese Zouga. « No. » St John scosse il capo. « Non credo. Ero ancora in grado di camminare. » « Non è possibile cercare di tirar fuori la pallottola. Louise sa dove trovare un dottore e io le ho spiegato come arrivarci. » « Louise? » chiese Mungo, torcendo ironicamente le labbra. La donna non alzò il capo, concentrata com'era a passare tintura di iodio intorno alle ferite. Mungo stava fissando Zouga e quel suo unico occhio brillava. Zouga si sentì pulsare la cicatrice sulla guancia e non si curò di nascondere la propria rabbia. « Non penserai che faccio questo per te », esclamò. « Odio i CID quanto qualsiasi cercatore di diamanti, e non chiudo nessun occhio sul furto e l'assassinio. » E prese la pistola che stava sulla coperta accanto a Mungo. Controllò se era carica mentre si avvicinava a Shooting Star che stava, col capo chino, oltre il cratego, nella luce della luna. Lo stallone sollevò la testa e sbuffò dalle froge quando gli si avvicinò, poi spostò il peso del proprio corpo sulle tre zampe sulle quali si reggeva dolorosamente. « Piano, bello. Calma, bello. » Zouga carezzò il fianco della bestia. Era appiccicaticcio per il sangue che stava asciugandosi, e Shooting Star ebbe un fremito quando gli toccò la ferita. Era dietro le costole, un foro di pallottola, e lui l'annusò immediatamente: la pallottola aveva forato gli intestini, lo sentì dall'odore. Si piegò su un ginocchio e, dolcemente, tastò la zampa che lo
stallone non poggiava a terra. Trovò il danno: un'altra ferita di pallottola. Aveva colpito poco sopra al nodello e l'osso era frantumato. Eppure il cavallo aveva portato Mungo, un uomo grosso e pesante, per molti chilometri. Il supplizio doveva essere stato tremendo, ma il gran cuore dello stallone aveva retto sino alla fine. Si sfilò il cappotto e l'avvolse intorno alla pistola che stringeva nella destra. Lo sparo avrebbe potuto allarmare le squadre di ricerca sulla strada non lontana. « Ecco, bello », bisbigliò, e gli accostò la bocca della canna alla fronte, in mezzo agli occhi. La stoffa attutì lo sparo. Fu uno schiocco soffocato, e lo stallone cadde pesantemente su un fianco, senza neppure scalciare. Louise era ancora china su Mungo e stava facendo nodi alle bende, ma al lume della luna Zouga vide che aveva gli occhi lucidi di lacrime. « Grazie », bisbigliò lei. « Io non avrei potuto farlo. » Zouga l'aiutò a sollevare Mungo e a trasportarlo al carretto. Il respiro di Mungo era un rantolo e il sudore della sofferenza gli inzuppava la camicia: aveva un odore rancido, selvatico. Lo sistemarono tra le balle di paglia e gli stesero sopra la coperta. Dopodiché Zouga guidò i muli sul veld fino a che trovarono la pista che conduceva a nord, verso il fiume Vaal e, più oltre, Kuruman e il vasto deserto del Kalabari. « Viaggia di notte e fa pascolare i muli durante il giorno », disse Zouga a Louise. « Di cibo e di carne secca ce n'è abbastanza, ma dovrai risparmiare il caffè e lo zucchero. » « Non ho parole per ringraziarti », bisbigliò lei. « Non attraversare il Vaal al guado principale. » « Non so, sento che questo non è un addio. » Sembrava che non avesse sentito il consiglio di lui. « E quando ci incontreremo di nuovo... » s'interruppe. « Vai, ora », disse Zouga, ma lei scosse il capo; poi gli tolse le redini di mano e condusse i muli sulla pista. Il carretto parve fondersi nella notte e le ruote non facevano nessun rumore sulla sabbia chiara. Zouga rimase a guardare a lungo dopo che furono spariti. Poi Louise tornò indietro. Arrivò silenziosa come un fantasma, correndo come in preda a una terribile disperazione. Le lunghe trecce le erano cadute da sotto il cappello e le sbattevano contro la schiena. Alla luce della luna il suo volto era pallido e teso. La stretta delle sue braccia intorno al collo fu forte, quasi dolorosa, e la sua bocca sorprendentemente rovente e bagnata quando coprì quella di lui. Ma quel sapore, il sapore di quel bacio, lui non l'avrebbe mai più dimenticato. Per pochi secondi, solo pochi secondi, rimasero attaccati l'uno all'altra, Zouga temeva che il cuore stesse per scoppiargli; poi le si sciolse dall'abbraccio e, senza una parola, senza neppure voltarsi a guardare indietro, fuggì nella notte. Scomparve. Dieci giorni dopo il funerale di Neville Pickering, Zouga fir-
mò gli atti del trasferimento di proprietà delle concessioni Le Diaboliche, poi rimase a guardare il segretario di Rhodes che lì registrava a favore della Central Diamond Company. Dopodiché uscì fuori, nel freddo. Per la prima volta a memoria d'uomo stava nevicando sui campi diamantiferi. Grossi fiocchi soffici cadevano giù sghembi come piume di un bianco airone colpito da pallini da caccia. I fiocchi svanivano appena toccavano terra, ma il freddo era una presenza vendicativa e il fiato di Zouga fumava nell'aria e gli si condensava sulla barba mentre si dirigeva verso gli scavi per osservare per l'ultima volta la squadra di turno che usciva dalle Diaboliche. Mentre camminava cercava di formulare la frase con cui dire a Ralph che quello era appunto l'ultiino turno. Stavano venendo su nell'elevatore. Zouga intravide Ralph, perché era l'unico che portava una giacca. Gli altri che erano con lui erano quasi nudi. Ancora una volta Zouga si chiese come mai gli uomini non s'erano ribellati alle dure misure della nuova Legge sul Commercio dei Diamanti applicata dal colonnello John Fry della Diamond Police di recente formazione, legge che mirava a debellare per sempre i CID. Ormai gli operai neri vivevano in recinti di filo spinato; c'erano nuove regole più il coprifuoco per tenerli nei recinti al cadere della sera, e c'erano controlli sul posto e nei recinti, perquisizioni degli uomini per strada anche durante il giorno e di tutti i turni che venivano fuori dagli scavi. Persino i cercatori, almeno alcuni di loro, avevano protestato contro le più draconiane delle nuove regole di John Fry. Tutti gli operai neri erano costretti a scendere nel pozzo completamente nudi, così che non potessero nascondersi pietre negli abiti. John Fry era rimasto sorpreso quando Zouga e una dozzina di altri cercatori avevano chiesto di vederlo. « Gran Dio, Ballantyne, ma sono comunque un branco di selvaggi nudi. Altro che pudore. » Alla fine, con la collaborazione di Rhodes, lo avevano costretto a venire a un compromesso. Controvoglia, Fry aveva concesso a ogni operaio di coprirsi con un limbo di cotone senza cuciture. Così Bazo e i suoi matabele portavano solo un perizoma mentre salivano insieme con Ralph nell'elevatore. Il vento soffiava gelido e Bazo tremava, e sul liscio petto e le braccia aveva una nera pelle d'oca. Sopra di lui, in bilico sul bordo dell'elevatore, e ignorando il terribile precipizio sotto, c'era Ralph Ballantyne. Ralph lanciò un'occhiata a Bazo, accucciato al riparo della fiancata dell'elevatore, e, d'impulso, si tolse dalle spalle il pezzo di tela macchiata. Sotto portava una vecchia giacca di tweed e un pullover impolverato. Mise la tela intorno al collo di Bazo. « E' contro la legge dell'uomo bianco », mormorò Bazo, e
fece per liberarsene. « Non c'è nessun poliziotto nell'elevatore », ribatté Ralph, e Bazo esitò un attimo, poi si accucciò ancora di più e, grato, si tirò sulle spalle e sul capo il pezzo di tela. Ralph si tolse dalla tasca di petto il mozzicone di sigaro mezzo fumato e, con cura, se lo rigirò tra le dita; il tabacco bruciato volò via portato dal vento e scomparve nel precipizio di sotto. Ralph accese il mozzicone e inspirò profondamente, poi sbuffò il fumo dopo averlo trattenuto in bocca e passò il sigaro a Bazo. « Non solo hai freddo, ma sei infelice », disse Ralph. Bazo non rispose. Chiuse il mozzicone di sigaro tra le mani a coppa e tirò. « E' per Donsela? » chiese Ralph. « Conosceva la legge, Bazo. Sapeva ciò che dice la legge a proposito di quelli che rubano le pietre. » « Era una pietra piccola », mormorò Bazo. Parole e fumo azzurro gli si mescolarono sulle labbra. « E quindici anni sono molti. » « E' vivo », replicò Ralph, prendendo il sigaro che Bazo gli stava ripassando. « Ai vecchi tempi, prima della legge sul commercio dei diamanti, sarebbe morto. » « Tanto vale che muoia », bisbigliò Bazo, amaro. « Dicono che lavorano come animali, incatenati come scimmie sul frangiflutti, lì nel porto di Città del Capo. » Tirò di nuovo e il sigaro bruciò con una piccola vampa che gli scottò le dita. Lo spense contro i duri calli che aveva alle mani e lasciò che le briciole di tabacco volassero via. « E tu, Henshaw... Tu sei felice? » chiese, calmo, e Ralph si strinse nelle spalle. « Felice. Chi è felice? » « Questo pozzo » - con un ampio gesto Bazo indicò l'enorme scavo sul quale pendevano - « non è la tua prigione? Non ti tiene incatenato come le catene tengono Donsela mentre depone i sassi sul frangiflutti sopra il mare? » Avevano quasi raggiunto l'alta impalcatura e Bazo si liberò del pezzo di tela che lo copriva prima di essere visto da qualcuna delle guardie nere che pattugliavano la zona all'interno del nuovo steccato di sicurezza. « Mi chiedi se sono infelice. » Bazo s'alzò in piedi ma non guardò Ralph in faccia. « Pensavo alla terra nella quale sono un principe della casa di Kumalo. In quella terra, i vitelli che ho portato al pascolo da ragazzo sono oggi tori e hanno procreato altri vitelli che io non ho visto. Una volta conoscevo ogni bestia delle mandrie di mio padre, quindicimila capi di bestiame scelto, e li conoscevo tutti uno per uno, di ognuno conoscevo la stagione in cui era nato, la forma delle corna e i marchi sulla pelle. » Sospirò e andò a mettersi accanto a Ralph, sul bordo dell'elevatore. Erano alti entrambi, alti e ben formati, giovani, e ognuno, alla maniera della propria razza, bello.
« Dieci volte non sono stato con il mio impi quando ha danzato alla Festa della Frutta Fresca, dieci volte non ho assistito al lancio da parte del mio re del giavellotto di guerra, quando ci mandava sulla strada rossa. » S'incupì ancor più e la sua voce si fece più bassa. « I ragazzi sono diventati uomini da quando sono andato via e alcuni di loro recano sulle gambe e le braccia le code di vacca simbolo del valore. » Si guardò il corpo nudo, con quello straccio sporco alla vita. « Le bambine sono diventate donne, con ventri maturi, pronte per essere reclamate dai guerrieri che hanno guadagnato l'onore sulla strada rossa della guerra ». E tutt'e due, lui e Ralph, pensarono alle notti solitarie in cui gli apparivano fantasmi. Poi Bazo incrociò le braccia sull'ampio petto e proseguì: « Penso a mio padre, e mi chiedo se la neve dell'età si è già posata sulla sua testa. Ogni uomo della mia tribù che viene giù dal nord mi porta le parole di Juba, la Colomba, che è mia madre. Ha dodici figli, ma io sono il primo e il più grande ». « Perché sei rimasto tanto? » chiese bruscamente Ralph. « Perché tu sei rimasto tanto, Henshaw? » ribatté il giovane matabele, calmo, e Ralph non seppe rispondere. « Hai trovato fama e ricchezza in questo buco? » Di nuovo ambedue guardarono giù nel pozzo e, da quell'altezza, gli uomini dei turni che smontavano in attesa di salire con gli elevatori sembravano colonne di formiche. « Hai forse una donna con i capelli lunghi e chiari come l'erba invernale che ti dia conforto la notte, Henshaw? Che cosa ti trattiene qui? » Ralph alzò il capo e fissò Bazo, ma prima che avesse trovato una risposta l'elevatore fu al livello della piattaforma sulla prima rampa delle impalcature. Lo scossone riportò Ralph alla realtà. Salutò agitando il braccio il padre sulla piattaforma sopra di loro. Il ruggito del verricello a vapore si spense. L'elevatore rallentò e Bazo guidò la squadra di matabele sulla rampa. Ralph attese che fossero tutti sbarcati prima di superare con un balzo la breve distanza dalla piattaforma di legno, che sentì tremare sotto il peso combinato di venti uomini. Ralph fece di nuovo il segnale e il verricello riprese a brontolare mentre il cavo d'acciaio si tendeva stridente sulle carrucole. L'elevatore col suo pesante carico salì fino a che cozzò contro i paraurti. Ralph e Bazo, allora, vi infilarono sotto le leve e fecero forza con tutto il peso del corpo. L'elevatore s'inclinò e, con un ruggito, il carico di ghiaia andò giù per lo scivolo nel carretto in attesa. Ralph si girò per vedere il sorriso d'incoraggiamento del padre e sentirgli gridare le sue congratulazioni: « Ben fatto, ragazzo! Duecento tonnellate oggi! » Invece l'impalcatura era deserta: Zouga era andato via. Zouga aveva riempito un solo baule, quello che apparteneva
ad Aletta e che era venuto con lei dal Capo. Ora vi ritornava... ed era quasi tutto quello che vi ritornava. Mise la Bibbia di Aletta sul fondo del baule insieme col diario di lei e la scatola che conteneva tutto ciò che era rimasto dei suoi gioielli. Quelli più preziosi erano stati venduti da un pezzo, per sostenere il sogno morente. Su quei pochi ricordi mise i propri diari, le mappe e i libri. Quando prese il pacco del suo manoscritto non terminato, lo soppesò in mano. « Forse ora troverò il tempo per finirlo », mormorò, e lo depose con cura nel baule. Sopra vi mise i suoi vestiti, a malapena una bracciata di roba: quattro camicie e un paio di stivali di riserva. Il baule era pieno a metà e lo portò facilmente giù per i gradini della veranda. Era tutto quello che lui portava via, il resto, lo scarso mobilio del bungalow, lo aveva venduto a uno dei banditori di Market Square. Dieci sterline tutto il lotto. Come aveva previsto Rhodes, se ne andava così come era venuto. « Dov'è Ralph? » chiese a Jan Cheroot, e il piccolo ottentotto, che stava legando la pentola e il bricco nero alla ribalta del carro, interruppe il suo lavoro. « Forse è alla taverna di Diamond Lil. Il ragazzo ha diritto di dissetarsi, ha lavorato abbastanza. » Zouga non gli badò, rivolse invece un'occhiata d'apprezzamento al carretto. Era il più nuovo e robusto dei tre veicoli che possedeva. Uno se n'era andato con Louise St John, che s'era portata via anche i muli migliori, quello li però li avrebbe ricondotti a Città del Capo, anche col peso addizionale del carico che lui stava pensando di mettervi sopra. Jan Cheroot gli s'avvinò e prese l'altra maniglia del baule, pronto a sollevarlo e caricarlo sul carretto. « Aspetta », gli disse Zouga. « Prima quello. » E indicò il blocco, sgrossato rozzamente, di roccia blu sotto il cratego. « Accidenti... » esclamò Jan Cheroot. « Questa non la credo. In ventidue anni ti ho visto fare cose sciocche e pazze... » Zouga si avvicinò al blocco di blu che Ralph aveva portato su dalle Diaboliche e vi mise un piede sopra. « Lo solleviamo col paranco. » Guardò il robusto ramo sul suo capo dal quale pendevano il bozzello e la fune di canapa. « E portiamo il carretto qua sotto. » « Ecco qua! » Jan Cheroot si sedette sul baule e incrociò le braccia. « Questa volta mi rifiuto. Un tempo, mi sono rotto la schiena per te, ma è stato quando ero giovane e stupido. » « Avanti, su, Jan Cheroot, stai perdendo tempo. » « Cosa vuoi fartene di quel... pezzo di maledetta pietra inutile? » « Ho perso il falco... Ho bisogno di una divinità domestica. » « Ho saputo di qualcuno che elevava un monumento a un uomo coraggioso o a una grande battaglia... Ma elevare una pietra alla stupidità... » « Porta il carretto qua sotto. »
« Mi rifiuto, questa volta mi rifiuto. Non lo faccio. Né per niente né per qualsiasi prezzo. » « Quando lo avremo caricato, avrai una bottiglia tutta per te, per celebrare. » Jan Cheroot mandò un sospiro e s'alzò. « E' il mio prezzo. » Scosse il capo e andò a mettersi accanto a Zouga. Guardò con odio il blocco di pietra blu. « Ma non aspettarti che mi piaccia. » Zouga sorrise, per la prima volta da settimane e, in un insolito sfoggio di affetto, mise un braccio intorno alla spalla dell'ottentotto. « Ora che hai di nuovo qualcosa da odiare, pensa a come ti farà felice la cosa », disse. « Hai bevuto », disse Zouga, e Ralph lanciò il berretto in un angolo e annuì. « Sì, ho bevuto un paio di birre. » Andò al fornello di ghisa nera e si scaldò le mani. « Ne avrei prese di più... Se avessi avuto i soldi. » « Ti stavo aspettando », proseguì Zouga, e Ralph si girò verso di lui con aria bellicosa. « Ti dedico ogni ora della mia giornata, papà, lasciami un pò di tempo alla fine di essa. » « Ho una cosa di grande importanza da dirti. » Zouga indicò col capo la sedia di fronte a lui. « Siediti, Ralph. » Poi si stropicciò gli occhi con l'indice e il pollice mentre cercava le parole. Aveva pensato più volte negli ultimi giorni a una maniera semplice per dire a Ralph che era tutto finito, che erano falliti, che tutta quella fatica e sudore erano stati vani, ma non esisteva nessuna maniera semplice. C'erano solo le dure parole della realtà. Abbassò la mano e guardò il figlio, poi, lentamente, con cura di particolari, glielo disse e quando ebbe finito attese che Ralph replicasse qualcosa. Il figlio non s'era mosso durante tutto il lungo discorso e ora, impietrito, guardava Zouga. Questi fu costretto a parlare ancora. « Partiamo domani mattina. Jan Cheroot e io abbiamo caricato il carro numero due, e avremo bisogno di tutti i muli, doppia pariglia... è un lungo viaggio. » Di nuovo attese, ma di nuovo non ci fu nessuna reazione. « Ti chiederai dove andiamo e cosa faremo. Bene, una volta tornati al Capo abbiamo ancora il cottage di Harkness. » « Hai giocato tutto. » Ralph finalmente parlò. « Senza dirmi niente. Tu... Tu, che mi hai sempre fatto prediche sul gioco e sull'onestà. » « Ralph! » « Non era roba tua, apparteneva a tutti noi. » « Sei ubriaco », disse il padre, calmo. « Ho ascoltato le tue promesse per tutti questi anni. 'Andremo a nord, Ralph.' » Imitò il padre con un tono improvvisamente crudele. « E' per tutti noi, Ralph. Hai la tua parte. C'è una terra che ci aspetta, Ralph. Sarà tua come mia, Ralph.' »
« Non è tutto finito... Ho ancora la concessione del re. Quando torniamo a Città del Capo... » « Tu, non io. » Il tono di Ralph era carico di rabbia. « Tu torni a Città del Capo. Vai a sognare i tuoi sogni da vecchio, io ne sono stufo. » « Osi adoperare quel tono con me? » « Sì, oso. E, perdio, oserò anche di più. Oserò ciò che tu sei troppo debole e impaurito per osare... » « Tu, stupido ragazzino insolente! » « Tu, vecchio sdentato! » Zouga si slanciò al disopra del tavolo e fece scattare il braccio destro. Prese Ralph in pieno viso e il rumore dello schiaffo fu secco come un colpo di pistola. La testa di Ralph scattò all'indietro. « Questa », disse, è l'ultima, l'ultimissima volta che mi colpisci. » S'alzò e andò a grandi passi verso la porta. Li giunto si girò. « Vai a sognare i tuoi sogni, io andrò a realizzare i miei. » « Vai pure », disse il padre, e la cicatrice sulla guancia era lucida e bianca come ghiaccio. « Vai e sii maledetto. » « Ricordati che non porto niente con me, papà, neppure la tua benedizione », rispose Ralph. E uscì fuori nella notte. Bazo si svegliò immediatamente quando si sentì toccare la guancia e allungò la mano verso l'assegai al suo fianco, spalancando gli occhi al debole barlume delle braci. Una mano gli si chiuse intorno al polso, allontanandoglielo dall'arma, e una voce, bassa, disse: « Ti ricordi la strada per Matabeleland, o principe di Kumalo? » Ci volle qualche istante prima che Bazo si risvegliasse completamente. « Ricordo ogni corso d'acqua e ogni verde collina, ogni dolce stagno lungo la strada », rispose in un bisbiglio, « con la stessa chiarezza con cui ricordo la voce di mio padre e la risata di mia madre. » « Arrotola la tua stuoia, Bazo, l'Ascia, e mostrami quella strada », disse Ralph. Diamond Lil non sorrideva più con tanta prontezza ormai, non da quando il dente che portava incastrato il diamante le era diventato di un grigio scuro, perché la radice era morta, e aveva cominciato a tormentarla tanto da farla piangere con le sue piccole esplosioni di dolore. Il dentista ambulante che veniva dal Capo glielo aveva estratto e aveva pulito il virulento ascesso che v'era sotto. Il sollievo era stato immediato, ma aveva lasciato un buco nero nel suo sorriso. Era anche ingrassata, conseguenza del buon cibo e di quei bicchierini di gin che scandivano le sue giornate. Il seno, sempre generoso, aveva perso la sua definizione originale e la fenditura che compariva al disopra del corpetto finemente ri-
camato non era più un solco scolpito ma una linea sottile formata da carne abbondante ammassata contro altra carne abbondante. La mano che reggeva la tazza di porcellana era grassoccia, con fossette in corrispondenza delle nocche, e gli anelli che ornavano ogni dito piccolo e pienotto affondavano nella carne, ma i diamanti e i rubini e gli smeraldi brillavano in un regale sfoggio di ricchezza. I suoi capelli erano ancora d'oro luminoso ed erano arricciati in lunghi e oscillanti boccoli col ferro rovente. La pelle era ancora levigata e ricca come panna densa, ma intorno agli occhi cominciava a far mostra di sé una fitta ragnatela di rughe. Sedeva nell'angolo della veranda, al secondo piano sopra la strada, dove la grondaia era un intricato e bianco lavoro di ferro battuto, grazioso come un merletto. Benché ormai a Kimberley esistessero altri edifici a due piani, neppure gli uffici della Central Diamond Company, dall'altra parte dell'ampia strada non pavimentata, sfoggiavano simili ricchi ornamenti. La sedia aveva lo schienale alto e, magnificamente intagliata in rosso tek da artigiani orientali, intarsi in madreperla e avorio. Era stata trasportata attraverso l'oceano orientale dalle alte navi dell'ormai defunta, da un pezzo, Compagnia Olandese dell'India Orientale, ed era costata a Lil duecento sterline, ma da quel trono lei poteva osservare tutto ciò che succedeva sulle due strade principali che portavano a Market Square, poteva tastare il polso della città dei diamanti, poteva controllare tutto ciò che andava e veniva, la fretta di un compratore che aveva annusato qualcosa di buono e la tracotanza di un cercatore che aveva trovato una pietra lucente. Poteva sorvegliare l'ingresso delle quattro taverne intorno alla piazza, ormai tutte di sua proprietà, e giudicare il volume degli affari dal movimento della gente che entrava e usciva. Allo stesso modo poteva guardare sulla sua sinistra, giù lungo la De Beers Street, fino al cottage di mattoni rossi dietro il suo bianco steccato e la discreta insegna: « Sartoria francese. Haute Couture. Sei cucitrici del Continente. Specialità per ogni gusto ». Gli affari andavano bene lì: da mezzogiorno a mezzanotte. Le ragazze raramente reggevano il passo per più di sei mesi all'incirca, prima di riprendere la diligenza per il sud, esauste ma considerevolmente più ricche. Quanto a lei, Lil, s'abbandonava al vecchio commercio solo di tanto in tanto, ormai, un paio di volte la settimana, insomma, con qualche « regolare » preferito, giusto per il ricordo dei vecchi tempi e perché le faceva bene alla circolazione e la faceva dormire meglio la notte. Molte altre cose, per il resto, esigevano la sua costante attenzione. Versò ora dell'altro tè dalla teiera d'argento rococò nelle belle tazze di porcellana, con dipinte a mano rose rosse e farfalle dorate. « Quanti cucchiaini? » chiese. Ralph sedeva sulla sedia di bambù di fronte a lei. Odorava
di sapone da barba e acqua di Colonia di poco prezzo. Il mento gli brillava lucido per il rasoio tagliente adoperato e la camicia era così inamidata e stirata che scricchiolava a ogni movimento. Dietro la tazza di tè Lil lo studiò accuratamente. « Il buon maggiore conosce i tuoi piani? » chiese con calma, e Ralph scosse il capo. Lil ci pensò su per un pò, poi si abbandonò al piacere di avere il figlio di un membro fondatore del Kimberley Club seduto sulla sua veranda. Il figlio di uno dei gentiluomini di Kimberley che non la salutava incontrandola per strada, che le aveva restituito la donazione per l'ospedale, che non aveva neppure risposto al suo invito a presenziare alla cerimonia della posa della prima pietra del suo nuovo edificio... oh, l'elenco delle umiliazioni era fin troppo lungo. « Perché non sei andato da tuo padre? » chiese. « Mio padre non è ricco. » Ralph non volle aggiungere altro, troppo leale nei confronti del padre per dire che era al verde completo, che presto avrebbe lasciato Kimberley con tutti i suoi pochi averi caricati su un carretto. Non voleva che Lil sapesse che lui e suo padre s'erano lasciati dopo aver litigato. Lil studiò per un momento la faccia del giovanotto, quindi prese dal vassoio del tè il foglio di carta da lettera dozzinale e diede una scorsa all'elenco e alle cifre. « Novecento sterline per i buoi? » « Un intero tiro degli animali migliori e più grossi », spiegò Ralph. « La strada per il fiume Sbashi è veld sabbioso, dura da affrontare. Io voglio trasportare un intero carico, ottomila libbre di peso. » « Merce di scambio... Quindicimila. » Guardò di nuovo il giovanotto che aveva di fronte. « Fucili, polvere, brandy, perline e stoffa per perizoma. » « Che tipo di fucili? » « Moschetti. Cinque sterline e dieci scellini l'uno. » Lil scosse il capo. « Hanno visto i fucili a retrocarica. I tuoi moschetti non attireranno molto. » « Non posso permettermi dei retrocarica, e non saprei dove trovarne una partita. » « Mio caro Ralph, potrei assoldare un gruppo di megere per mandare avanti la mia sartoria e potrei assoldarle per poco. Ma non lo faccio. Le scelgo giovani, graziose e fresche. Se pensi in grande, i tuoi profitti saranno grandi. Non essere meschino, mio caro Ralph, mai essere meschini. » Versò un pò di gin dalla fiaschetta d'argento nella tazza da tè vuota prima di continuare. « Posso procurarmi dei Martini-Henry, ma ci costeranno millecinquecento sterline in più. » Allungò la mano e intinse la penna nel calamaio, quindi cancellò e riscrisse la cifra. « Brandy? » « Cape Smoke in barilotti da venti galloni. » « Ho sentito dire che a Lobengula piace il cognac Courvoisier e che sua sorella Ningi beve solo champagne Piper-Heidsieck. »
« Altre cinquecento sterline... Almeno », si lamentò Ralph. « Trecento. » Lil corresse l'elenco. « Posso averli a prezzi all'ingrosso. E ora le munizioni: diecimila cartucce? » « Ce ne vorranno almeno mille per me, il resto va con i fucili. » « Se Lobengula ti dà il permesso di cacciare gli elefanti », lo corresse lei. « Mio nonno è uno dei suoi più vecchi amici. Mia zia Robyn e suo marito sono alla missione sul fiume Khami da quasi vent'anni. » « Sì, so che hai degli amici a corte. » Lil spinse in fuori le labbra in segno d'approvazione. « Ma ho sentito dire che in tutto il Matabeleland gli elefanti sono stati massacrati. » « I branchi sono stati spinti nella zona infestata dalla tse-tse, sullo Zambesi. » « Non puoi portare i cavalli nella zona della tse-tse, e cacciare gli elefanti a piedi nella zona della tse-tse non è lavoro per un bianco. » « Mio padre cacciava a piedi, e in ogni modo non posso permettermi un cavallo. » « Va bene », ammise lei, riluttante, e spuntò sull'elenco. Lavorarono per un'altra ora ancora, ripassando l'elenco punto per punto e poi ricominciando da capo e ripassandolo tutto di nuovo. Lil spuntando e cancellando con la penna, togliendo dieci sterline qui e cento lì, e alla fine gettò la penna nel vassolo del tè, si versò ancora un altro pò di gin nella tazza e lo sorseggiò tenendo teso il mignolo, con il liquido che gorgogliava leggermente attraverso il buco al posto dell'incisivo. « Va bene », ripeté. « Significa che mi presterai i soldi? » « Sì. » « Non so cosa dire. » Ralph si sporse verso di lei, giovane e ardente e avido. « Lil, proprio non... » « Allora non dire niente finché non avrai sentito le mie condizioni. » Gli sorrise, senza sollevare il labbro superiore. « Venti per cento all'anno di interesse sul prestito. » « Venti per cento! » A Ralph venne meno il fiato. « In nome di Dio... Questa è usura, Lily! » « Esatto », fece lei, compassata. « Ma fammi finire. Venti per cento di interesse e metà dei profitti. » « E metà... Lil... Questa non è usura, è furto bell'e buono. » « Giustissimo », convenne lei. « Almeno hai l'intelligenza di riconoscerlo. » « Non possiamo soltanto... » cominciò a dire, disperato, Ralph. « No, non possiamo. Queste sono le mie condizioni. » E, di fronte allo sguardo freddo di quegli occhi, Ralph si ricordò di Scipione, il suo lanario. « Accetto », disse, e sebbene Lil non sorridesse con le labbra, di colpo i suoi occhi luccicarono allegri. « Soci », mormorò, e piazzò la mano grassoccia sull'avam-
braccio di lui. I suoi muscoli erano tesi, la pelle abbronzata dal sole. Lo carezzò lentamente, sensualmente. « Non rimane che suggellare il nostro patto », disse. « Vieni! » Fece scivolare la mano lungo il braccio e incrociò le proprie dita con le sue. Lo condusse attraverso la porta a vetri colorati, e quando tirò la tenda di velluto nella stanza ci fu fresco e buio. Si girò verso di lui, allungò una mano e prese a sbottonargli la camicia. Ralph rimase immobile mentre lei scendeva lentamente verso la fibbia della cintura. Alla fine gli posò la mano, a palmo in giù, sul petto nudo. « Ralph. » La sua voce era roca e tremava. « Voglio che tu mi faccia una cosa. » « Che cosa? » chiese lui, e Lil si alzò sulla punta dei piedi, avvicinò le labbra al suo orecchio e parlò in un bisbiglio. Lo sentì ritrarsi. « Soci? » bisbigliò lei, e Ralph esitò un attimo, poi si piegò e la sollevò, con un braccio sotto le ginocchia, e la trasportò verso l'ampio letto di ottone con la coperta a centone. « Lo troverai meno arduo che cacciare l'elefante a piedi nella zona della tse-tse », disse lei, e nella stanza c'era abbastanza buio da non preoccuparsi per quel dente mancante. Sollevò le braccia sopra la testa, aprì la bocca e rise a bassa voce, già pregustando. « La cosa bella della vita, mio caro, è che puoi avere tutto quello che vuoi purché sia disposto a pagarne il prezzo », disse, sempre ridendo. « Questi non sono manzi », disse Bazo a Ralph. « Ognuno di loro è figlio di un serpente accoppiato col fantasma di un cane mashona. » Erano tutti buoi forti, dalla grossa struttura ossea, di spalle robuste, con corna ampie e dritte e denti gialli, scelti uno per uno da Bazo, che era un matabele e amava il bestiame, e aveva vissuto con le mandrie sin da quando era grande abbastanza per trotterellare dietro i vitelli. Però non aveva mai viaggiato su un carro trainato da buoi. Non aveva mai guidato un carro di sei metri con un carico di ottomila libbre, e non aveva mai provato a mettere le tirelle a ventiquattro buoi. L'intera nazione matabele possedeva solo un paio di veicoli a ruote, e appartenevano a re Lobengula. Per Bazo il bestiame era fonte di ricchezza, di carne e latte, non si doveva usare per il tiro. L'unica esperienza che lui e Ralph avevano di animali da tiro era quella con i muli del carretto a due ruote della ghiaia. Ralph pensava che i buoi che aveva comprato fossero addestrati e docili, ma pochi attimi dopo il primo tentativo suo e di Bazo di legarli al carro gli animali avvertirono la loro incompetenza e divennero ombrosi e recalcitranti quanto bufali selvatici.
Ci vollero due ore di inseguimento scatenato per il terreno erboso oltre i confini della città, due ore di corse e imprecazioni e schiocchi di frusta, per riunire insieme i manzi e mettergli il giogo sul collo. Metà di loro erano ormai senza fiato e si calmarono presto, gli altri invece recalcitrarono ancora e volsero le grandi teste cornute dalla parte del carico, ingarbugliando la catena da traino e creando il caos. Quello scompiglio aveva attirato fuori delle taverne su Market Square tutti i perditempo di Kimberley, previdenti abbastanza da portarsi dietro le bottiglie. Formarono così un pubblico entusiasta di spettatori che accoglievano ogni sforzo di Bazo e Ralph con sonori fischi e ironici commenti. Bazo s'asciugò il sudore dal viso e dal petto e si guardò incupito intorno. « Presto Bakela verrà a sapere di tutto questo e verrà ad assistere alla nostra vergogna », disse. Ralph non vedeva il padre da quella sera tempestosa, ma era andato a trovare Jordan nel suo piccolo ufficio accanto a quello di mister Rhodes, nel nuovo e magnifico edificio della Central Diamond Company sulla De Beers Street. Forse Zouga Ballantyne non s'era ancora ripreso dal colpo di essere abbandonato da entrambi i suoi figli ma, aveva detto Jordan, ancora non era partito per Città del Capo. Il pensiero che il padre assistesse alla sua umiliazione fece affluire il sangue al viso di Ralph. Questi fece schioccare una volta la lunga frusta - almeno quel trucco l'aveva imparato - e urlò contro le bestie. « Nkosana! » Quel saluto si levò più o meno dall'altezza del gomito di Ralph, e il tono della voce era tradito da quel titolo ironico. Nkosi significava capo e Nkosana era il diminutivo, di solito riservato a un ragazzo bianco, un bambino inesperto. Ralph si girò e guardò colui che aveva parlato, il quale proseguì, con lo stesso tono condiscendente: « Solo una bestia su dieci traina sul davanti ». Indicò uno dei buoi. « Quello lì è un bue-guida. Chiunque conosca i buoi lo vede, anche a occhi chiusi. » Era un vero e proprio gnomo, nero, non più alto della spalla di Ralph. La faccia era rugosa e segnata come quella di un vecchio e gli occhi erano delle semplici fessure, ma il casco di capelli lanosi e la barbetta a punta non avevano un solo filo grigio, e i denti erano regolari e bianchi, i denti di un uomo nel pieno della sua maturità. Sulla testa portava il nero anello lucido dell'induna e intorno alla vita aveva un gonnellino di code di gatto selvatico. Sopra questo portava una lisa giacca di tipo militare dalla quale distintivi e bottoni erano stati strappati lasciando piccoli buchi nella stoffa, alcuni dei quali ingranditi in strappi dai quali spuntava la fodera. Nel lobo forato di un orecchio portava un contenitore di polvere da fiuto d'avorio e nell'altro lobo il relativo cucchiaino dello stesso materiale e un aculeo di porcospino che
usava come stuzzicadenti. La lingua da lui adoperata era molto vicina al matabele, ma conservava l'antica intonazione e la classica struttura della frase dello zulu. Così quando Ralph chiese: « Zulu? » la domanda risultò superflua, e l'ometto lanciò un'occhiata sprezzante a Bazo. « Zulu puro, non dell'infida casa di Kumalo, del traditore Mzilikazi che rinnegò un re e il cui sangue è ora così annacquato dai venda, tswana e mashona, che non sanno più dire se a un bue le corna crescono in testa o sui testicoli. » Bazo s'inalberò immediatamente. « Sentitelo! » Reclinò il capo. « Sento un piccolo babbuino vantarsi abbaiando dall'alto dei kopje? » Il piccolo zulu gli rivolse un ghigno di sorriso e tolse la frusta dalla mano sudata di Ralph, poi si avvicinò ai buoi a passo baldanzoso. Sfiorò il collo del grosso bue nero. « Ah, Satana! » esclamò, battezzandolo al tempo stesso. Il grande bue ruotò un occhio nella sua direzione, parve riconoscere la sua sicurezza e immediatamente si quietò. Il piccolo zulu lo sciolse e lo portò sul davanti, parlandogli intanto in un bizzarro miscuglio di zulu, inglese e afrikaans, e lo incatenò nella posizione di bue-guida. Tornò immediatamente indietro e liberò il bue rosso dal groviglio di redini intorno alle corna. « Olandese... » lo battezzò, senza nessun motivo. « Vieni, tuono rosso! » E lo mise al posto guida vicino a Satana, poi si rivolse a tutt'e due: « Donsa, Satana, tira. Pakamisa, Olandese, solleva la catena! » Obbediente, la pariglia drizzò le zampe anteriori e spinse la testa avanti sotto il giogo. Avvenne un miracolo. La lunga e pesante catena della stanga si tese dritta come una barra di ferro e gli animali che s'erano accoccolati furono costretti a balzare in piedi; quelli invece che erano indietreggiati furono tirati verso la stanga, con le corna e le teste puntate in avanti. In quel momento Ralph imparò la regola più importante e più semplice in fatto di traino: tieni tesa la catena e tutto il resto è possibile. Poi il piccolo zulu si mosse con finta aria distratta lungo la doppia fila di buoi, toccando, parlando e blandendo. « Ehi, Francese, dai tuoi begli occhi saggi capisco che sei nato per la ruota! » E spostò la bestia nera e bianca, robusta, nella posizione accanto alla ruota. Ci vollero dieci minuti in tutto, poi alla fine lo zulu vibrò la lunga frusta. Sibilò come un nero mamba e poi serpeggiò sopra le orecchie del tiro, senza toccare un solo pelo, esplodendo in uno schiocco. Il pesante e lungo carro ebbe un sobbalzo, la tenda di tela bianca che ne copriva metà s'agitò come la vela maestra d'un'alta nave che si spieghi e finalmente il tiro si mosse, lento. Lo zulu strizzò l'occhio a Ralph e gridò una domanda: « Ya-
pi? Dove? Da che parte? » « Yakato! Nord! » rispose Ralph, allegro, e Bazo afferrò suo scudo e l'assegai e si lanciò in una frenetica danza di sfida, saltando e trafiggendo immaginari nemici, gridando il proprio disprezzo e la propria estasi a tutto il mondo. La strada per il fiume Vaal era la prima parte del viaggio. I solchi arrivavano fino all'asse delle ruote, il terreno era rosso come una ferita recente, la polvere una nebbia nell'aria senza vento attraverso la quale era possibile distinguere solo le corna dei due buoi alle ruote. La polvere nascose a Ralph la sua ultima visione della città, con le alte impalcature sopra il profondo pozzo che era stato la sua casa e la sua prigione per tanti anni, e quando il traffico sulla strada si fu abbastanza assottigliato da far posare la nube di polvere avevano ormai coperto una decina di chilometri e le impalcature non erano altro che una lontana linea di crateghi morti stagliati contro il tramonto. Il piccolo zulu chiamò il ragazzo che conduceva il bue-guida e quello lo spinse fuori della strada. Le alte ruote posteriori sobbalzarono sui solchi, quindi proseguirono sulla soffice erba invernale, mentre il carro procedeva in direzione di un'acacia a forma di ombrello che avrebbe offerto loro riparo e legna da ardere per la notte. Avvicinandosi alle ruote anteriori, Ralph rifletté su quelle due inattese aggiunte alla sua compagnia. Il ragazzino era sbucato fuori da una cortina di polvere rossa, nudo a parte il piccolo lembo di mutsba sul davanti, e con il rotolo della stuoia e la pentola in bilico sulla testa. Aveva deposto i suoi miseri averi sulla ribalta del carro, quindi, a un cenno del capo e a una parola dello zulu, aveva preso la cavezza dei buoi-guida e s'era messo ad avanzare solennemente in testa al tiro, con i piedi nudi che affondavano fino alle caviglie nella polvere sottile. Ralph si chiese quanti anni avesse e decise che non poteva averne più di dieci. « Come si chiama? » chiese allo zulu. « Vuoi un nome? » L'ometto si strinse nelle spalle. « Non è importante. Chiamalo Umfaan, il Ragazzo. » « E tu come ti chiami? » continuò Ralph, ma il piccolo zulu ebbe subito un affare urgente da sbrigare alla testa del tiro e forse la polvere gli aveva tappato le orecchie, perché parve non sentire la domanda. Dovette ripetergliela, quando ebbero staccati i buoi e lo zulu stava accoccolato davanti al fuoco e guardava Umfaan che girava la farinata di mais nella pentola nera. « Come ti chiami? » Lo zulu sorrise come a un pensiero segreto, quindi disse: « Un nome può essere pericoloso, può incombere sul capo di uno come un avvoltoio e segnarlo a morte. Prima che i soldati venissero al kraal reale di Ulundi, ero chiamato in un modo... » Ralph si agitò, a disagio, al riferimento alla battaglia che ave-
va concluso la Guerra. La vecchia giacca che lo zulu indossava un tempo era stata dello stesso blu scuro di quella dell'uniforme della polizia di Natal, e uno di quegli strappi nella stoffa scolorita poteva essere stato fatto da una lama trafiggente. Lord Chelmsford aveva mandato il re zulu e quasi tutti i suoi induna in catene nell'isola di Sant'Elena, dove un altro imperatore era morto in cattività. In ogni modo, alcuni dei suoi capi combattenti erano fuggiti dallo Zululand e ora vagavano, esuli, per il vasto continente. E il piccolo zulu portava in testa l'anello di induna. « ... Era un nome che un tempo gli uomini pronunciavano con cautela, ma non l'ho più sentito da tanto tempo che ormai l'ho dimenticato », proseguì lo zulu, e di nuovo Ralph si chiese se tra gli zulu sconfitti esisteva qualche leggenda di un piccolo induna, più piccolo degli alti guerrieri che comandava e avvizzito più del normale per la sua età, che li aveva guidati in quella terribile carica contro il campo inglese alla Collina della Piccola Mano. Alla luce del fuoco Ralph studiò di nuovo la giacca dello zulu e si disse che era improbabile che fosse stata sfilata di dosso a un inglese in quel terribile campo di battaglia, e tuttavia ebbe un brivido, nonostante la notte fosse calda. « Ora hai dimenticato quel nome? » lo incoraggiò, e lo zulu strizzò gli occhi di nuovo. « Ora mi chiamo Isazi, il Saggio, per ragioni che dovrebbero essere chiare anche a un matabele. » Dall'altra parte del fuoco Bazo mandò un grugnito di sdegno, poi s'alzò e s'allontanò dalla luce dei fuoco, nel buio dove gli sciacalli gridavano lamentosi. « Il mio nome è Henshaw », disse Ralph. « Vuoi restare con me e guidare il mio carro per tutto il viaggio? » « Perché no, Piccolo Falco? » « Non chiedi dove vado. » « Ho bisogno di una strada », rispose Isazi, stringendosi nelle spalle. « Quella per il nord non è più lunga né più dura di quella per il sud. » Lo sciacallo guaì di nuovo, ma molto più vicino questa volta, e Bazo si fermò, passò l'assegai nella mano destra e rispose al guaito, portandosi alla bocca la mano a coppa per dare risonanza al suono. Poi avanzò fin dove un piccolo kopie brillava alla luce della luna come un mucchio di lingotti d'argento. « Bazo. » Un bisbiglio, lieve come il vento notturno tra l'erba pallida. Un'ombra si staccò dalle ombre alla base del kopje. « Kamuza, fratello mio. » Bazo gli si avvicinò e lo abbracciò, poggiandogli le mani aperte contro le spalle. « Ho una pietra nella pancia, pesante per il dolore di questa separazione. » « Faremo di nuovo la strada insieme... Un giorno. Berremo dallo stesso boccale e combatteremo a spalla a spalla... » rispose Kamuza, calmo. « Ma ora siamo insieme in questa missione del re. »
Kamuza slegò le cinghie che reggevano il suo gonnellino e questo cadde pesantemente ai suoi piedi, lasciandolo nudo. « Fa' presto », disse. « Devo tornare prima della campana del coprifuoco. » Da quando era entrata in vigore la Legge sul Commercio dei Diamanti, i neri non potevano percorrere le strade di Kimberley dopo che la campana del coprifuoco era suonata. « Non sei stato notato dai poliziotti? » chiese Bazo, togliendosi il proprio gonnellino e scambiandolo con quello di Kamuza. « Sono dappertutto, come zecche tra l'erba nuova di primavera. » Kamuza mandò un grugnito. « Ma non mi hanno seguito. » Bazo soppesò con ambedue le mani il gonnellino di pelliccia mentre Kamuza s'agganciava l'altro intorno alla vita. « Fammi vedere », disse Bazo, e Kamuza gli tolse il gonnellino di mano e lo stese sui piatti sassi illuminati dalla luna. Tirò la cinghia che costituiva la cintura e quando venne via sfilandosi aprì la tasca segreta di morbida pelle con un ricamo di perline di ceramica. La tasca correva per tutta la lunghezza della cintura del gonnellino e la sua apertura era nascosta dalla decorazione di perline; l'interno, poi, era diviso in celle, come un nido di vespe. In ognuna di quelle celle di pelle c'era una grossa pietra che brillò di una luce splendente al lume della luna. « Contali », disse Kamuza. « Accordiamoci sul numero... E che Lobengula, il grande Elefante Nero, conti lo stesso numero con le sue mani possenti quando gli porrai davanti la cintura nel kraal di GuBulawayo, il Posto dell'Uccisione. » Bazo toccò i diamanti uno per uno con la punta del dito, muovendo le labbra. « Amashumi amatatu! » « Trenta », ripeté Kamuza. « D'accordo. » Ed erano tutte pietre grandi e limpide, la più piccola della grandezza della falangetta del mignolo di un uomo. Bazo si legò il gonnellino alla vita: le lanose code della volpe dalle orecchie di pipistrello gli arrivavano fino alle ginocchia. « Ti sta bene », disse Kamuza, e aggiunse: « Di' a Lobengula, il Grande Elefante, che sono il suo cane e che striscio a terra ai suoi piedi. Digli che ci saranno altre monete gialle e altre pietre lucenti. Digli che i suoi figli lavorano ogni giorno nella grande fossa... E che saranno sempre di più, molti di più. Ognuno di quelli che prenderanno la strada per il nord gli porterà ricchezze ». Fece un passo avanti e pose la destra sulla spalla di Bazo. « Va' in pace, Bazo, l'Ascia. » « Sta' in pace, fratello mio, e possano i giorni svanire come gocce di pioggia nella sabbia del deserto fino a quando di nuovo ci sorrideremo. » Isazi mise il tiro alla sua prima prova al guado del fiume
Vaal. Le acque grige a malapena si muovevano, ma coprivano i mozzi delle alte ruote posteriori cerchiate di ferro, e il fondo era costituito da pietre levigate che si smuovevano o rotolavano sotto il peso, minacciando di bloccare le ruote e di impedire la marcia del tiro. Eppure i buoi trainarono nell'acqua il carro con tutto il suo peso, piegati sotto il giogo, con i musi che sfioravano la superficie dell'acqua e la tenda del carro che sobbalzava e oscillava dietro di loro. Finché, sull'erto pendio dell'altra sponda, le ruote posteriori si bloccarono e il carro s'inclinò pericolosamente. Fu allora che Isazi mostrò la sua bravura. Fece fare un ampio giro al tiro, gli diede spazio per avanzare e, quando chiamò per nome i buoiguida e fece schioccare improvvisamente la lunga frusta, quelli avanzarono a zampe rigide, sbloccarono le ruote e tirarono via il carico dal letto del fiume a passo svelto, mentre Isazi cantava le loro lodi e perfino Umfaan sorrideva. Ralph ordinò di staccare più presto quella sera sotto gli alti alberi dell'altra sponda, perché c'erano erba buona e acqua in quantità e perché il prossimo tratto di strada fino alla missione del suo bisnonno Moffat era lungo duecento chilometri, tutto un percorso arido e duro. « Visto, Piccolo Falco? » Isazi era ancora tutto preso dall'entusiasmo per il suo tiro. « Hai visto come sono bravi? Scelgono un piccolo tratto erboso e lo divorano, non vanno da un tratto all'altro, sprecando tempo e fatica, come fanno bestie meno abili, e presto digeriranno il loro bolo e domani mattina saranno forti e riposati. Ognuno di loro è un principe dei buoi. » « Da domani marciamo di notte », ordinò Ralph, e il sorriso di Isazi scomparve. « Io l'ho già fatto », disse. « Ma tu, Piccolo Falco, come sai delle marce notturne? E' un trucco degli uomini saggi. » « Considerami uomo saggio allora, Isazi », rispose Ralph, in tutta solennità, e s'allontanò dal campo per trovare un posto della riva dal quale godersi il tramonto. In quel punto le sponde del Vaal erano intaccate e trasformate in monticelli di terra e buche irregolari: i vecchi scavi nel fiume operati dai primi cercatori e ora abbandonati e coperti dalla vegetazione. Era un vasto cimitero dei sogni umani e, guardandolo, il buonumore di Ralph, dettatogli da quel primo giorno di viaggio sulla strada aperta per il nord, cominciò a svaporare. Era il primo giorno della sua vita in cui era stato libero e completamente padrone di sé. Camminando di fianco alla ruota del proprio carro s'era abbandonato a sogni di grande fortuna. Aveva immaginato i suoi carri - cinquanta, cento - che trasportavano i loro carichi attraverso l'intero continente. E li aveva visti ritornare a sud stracolmi di avorio e barre d'oro. Aveva visto, con gli occhi della fantasia, le ampie distese di terra, i branchi di elefanti, le grandi masse di bestiame selvatico, tutte
le ricchezze di quella terra del nord, invitarlo, levare un canto di sirene ai suoi orecchi. Era stato trascinato tanto in alto quanto ora, con lo svanire del buonumore, si sentiva trascinato in basso. Guardò gli scavi abbandonati sulla riva dall'altra parte del fiume, quei vani graffi con cui gli uomini avevano tentato di piegare al proprio servizio quel grande e scuro gigante di continente. D'un tratto, si sentì piccolo e solo. Ebbe paura. Il pensiero volò a suo padre e il suo stato d'animo precipitò ancora più in basso al ricordo delle ultime parole che il padre aveva pronunciato: « Vai pure! Vai e sii maledetto ». Non era questo che lui voleva. Zouga Ballantyne era stato la figura dominante della sua vita fino a quel giorno. Un colosso che regolava tutte le sue azioni e tutti i suoi pensieri. Per quanta irritazione avesse provato quand'era incatenato dal proprio dovere verso il padre, per quanto risentimento avesse provato per ogni sua decisione e ogni suo ordine, ora tuttavia sentiva che una gran parte di sé era stata staccata da lui con un taglio drastico. Fino a quel momento non aveva mai pensato di perdere suo padre, non aveva permesso che il ricordo di quella loro brutale separazione lo avvilisse profondamente. Ora, invece, all'improvviso, quel lento e sporco fiume si levava come una barriera tra lui e la vita che aveva conosciuto. Non era possibile tornare indietro, né adesso né mai. Aveva perso suo padre, suo fratello e Jan Cheroot, ed era solo. Sentì acide lacrime bruciargli le palpebre. Ma la vista gli stava giocando un brutto tiro perché, dall'altra parte dell'ampio fiume, sull'altra sponda, scorse la figura di un uomo a cavallo. L'uomo stava abbandonato sulla sella, con una mano sul fianco e il gomito piegato; l'inclinazione del capo sulle ampie spalle, poi, era inconfondibile. Lentamente, Ralph s'alzò in piedi, guardando incredulo, quindi di colpo si mise a correre giù per il pendio della sponda e, poi, nell'acqua grigia del guado che gli arrivava alla cintola. Zouga smontò di sella e corse incontro a lui che stava risalendo ora sull'altra riva. Poi entrambi si fermarono e rimasero a guardarsi. Non s'erano abbracciati mai più dalla notte del funerale di Aletta e non se la sentivano di farlo adesso, quantunque negli occhi di entrambi si leggesse invece il desiderio di farlo. « Non potevo lasciarti andare, non in quel modo », disse Zouga, ma Ralph non poté rispondere: sentiva un groppo alla gola. « E' tempo ormai che tu vada per la tua strada. » Zouga scosse la barba dorata. « E' tempo, ormai. Sei come un aquilotto che è diventato troppo grande per il nido. Me ne sono reso conto prima di te, Ralph, ma non volevo accettarlo. Per questo ho detto cose crudeli. »
Prese le redini di Tom e il cavallo gli diede una spinta affettuosa. Lui gli carezzò il muso vellutato. « Ho due regali per te. » Mise le redini in mano a Ralph. « Questo », disse senza cambiare tono, ma le ombre verdi nei suoi occhi tradirono l'emozione che il gesto gli procurava. « E l'altro è nella sacca da sella di Tom. E' un libro di appunti. Leggilo quando hai tempo. Li potrai trovare interessanti... Persino preziosi. » Ralph ancora non riusciva a parlare. Teneva in mano le redini goffamente, e sbatteva le palpebre per respingere le lacrime. « C'è ancora un altro piccolo regalo, ma non ha un vero valore. E' solo la mia benedizione. » « E' tutto quello che volevo », riuscì a bisbigliare Ralph. Mancavano mille chilometri al fiume Shashi, alla frontiera del Matabeleland. Isazi attaccava il tiro ogni sera al crepuscolo e viaggiavano nel fresco della notte. Quando la luna calava, ed era molto buio, allora Umfaan poggiava la cavezza del bue-guida sulla testa dell'Olandese e il grosso bue nero abbassava il muso e seguiva la pista come un cane da caccia segue la traccia, fino a che le prime luci dell'alba annunciavano il riposo. Durante una buona notte di viaggio potevano fare venticinque chilometri, ma quando la sabbia impediva la marcia riuscivano a farne a malapena dieci. Durante il giorno, mentre le bestie pascolavano all'ombra, Ralph sellava Tom e, con Bazo che correva di fianco al cavallo, andavano a caccia. Trovarono branchi di bufali lungo le rive del fiume Zouga, il fiume sulle cui rive il padre di Ralph era nato, grossi branchi, fino a duecento capi. I maschi erano enormi, pelati per l'età, con i dorsi incrostati di fango, l'ampiezza delle teste corazzate superiore alla lunghezza d'un braccio, le punte delle lucide corna nere che sporgevano simmetricamente come i corni di una falce di luna, le ampie fronti bitorzolute. Li abbattevano e a Tom piacevano quelle scatenate cacce esattamente quanto al suo cavaliere. Cacciavano le grige antilopi camoscio sulle fumanti dune rosse, e, tra i cespugli spinosi, le giraffe dalle lunghe gambe e facevano crollare a terra a ogni sparo quei corpi goffi con i lunghi e graziosi colli che si torcevano nell'agonia della morte come quelli di cigni. Usavano le carcasse di zebra come esca e all'odore del sangue sbucavano fuori i rossi leoni kalabari. Tom resisteva alla loro carica. Benché tremasse e nitrisse e ruotasse gli occhi al terribile odore del felino, resisteva fino allo sparo, che Ralph effettuava dalla sella, mirando tra i feroci occhi gialli o diritto nelle fauci rosse tra le bianche zanne. E così, dopo cinquanta giorni di marcia da Kimberley, arrivarono al fiume Shashi, e quando l'ebbero attraversato Bazo fu
sulla sua terra nativa. Si mise le piume di guerra e, recando sulle spalle lo scudo, avanzò con nuova energia e gioia nel proprio passo. Guidò Ralph su una collina dalla quale era possibile vedere la strada davanti a loro. « Vedi come brillano le colline? » bisbigliò Bazo con un fervore quasi religioso. Ed era vero. Nella luce del primo sole le cime di granito luccicavano come preziosi gioielli. Rubini di sogno, delicati zaffiri e lucenti perle si fondevano, come in una coda di pavone, in una fantasia di colori. Davanti a loro le colline si stendevano elevandosi gradualmente verso l'altopiano centrale, e le valli erano rivestite di foresta vergine. « Non si vedono alberi come quelli nella piana intorno a Kimberley », disse Bazo, e Ralph annuì. Si levavano su tronchi eccelsi, alcuni squamati come coccodrilli, altri bianchi e levigati, con le cime che svettavano in grovigli di verde alti sopra le aperte radure di erba gialla. « Guarda, i branchi di bufali... Numerosi come buoi. » C'era anche altra selvaggina. C'erano piccole famiglie di grigi cudù, pallidi come fantasmi, con le orecchie a trombetta, e i maschi che recavano il peso delle loro lunghe e nere corna elicoidali con studiata grazia. C'erano nubi di rossi impala sul tappeto intessuto di seta dell'erba dorata. C'erano le massicce e scure statue dei rinoceronti, che sembravano scolpiti nello stesso granito delle colline, e c'erano le antilopi più nobili di tutte, le antilopi nere, nere e imperiali, con le lunghe corna ricurve e taglienti come la scimitarra di Saladino e il ventre bianco lucente. Il maschio del branco arcuava altezzosamente il collo mentre guidava le femmine di colore più chiaro via dall'aperta radura nel fresco e verde santuario della foresta. « Non è bello, Henshaw? » chiese Bazo. « E' bello. » C'era lo stesso tono riverente nella voce di Ralph, e uno strano groppo alla gola, un desiderio che lui sapeva che non sarebbe mai stato soddisfatto... E, di colpo, capì l'ossessione del padre per quella terra di leggenda. « Il mio nord », come lo chiamava Zouga. « Il mio nord », bisbigliò lui ora; poi, pensando al padre, gli venne immediatamente alla mente la domanda successiva: « Elefante... Indhlovu? Non ci sono elefanti, Bazo. Dove sono i branchi? » « Domanda a Bakela, a tuo padre », grugnì Bazo. « Lui è stato il primo a cacciarli con il fucile, ma altri lo hanno seguito, molti altri. Quando Gandang, mio padre, figlio di Mzilikazi il Distruttore, fratellastro del grande toro nero Lobengula, attraversò lo Shashi da bambino in grembo a sua madre, i branchi d'elefanti erano neri come la mezzanotte sulla terra e le loro zanne splendevano come stelle. Ora troveremo le loro ossa che spuntano come bianchi gigli nella foresta. » Nelle ultime ore di luce, mentre Bazo e Isazi e Umfaan an-
cora dormivano per raccogliere le forze per la lunga marcia notturna, Ralph prese il taccuino rilegato in pelle nella borsa della sella di Tom. Ormai le pagine erano sudicie e avevano le orecchie per il costante uso a cui lui le aveva sottoposte. Era il dono che Zouga Ballantyne gli aveva fatto sulla riva del fiume Vaal e all'interno della copertina c'era scritto: A mio figlio Ralph. Possano questi pochi appunti guidarti verso nord, e possano ispirarti quel coraggio che io non ho avuto. ZOUGA BALLANTYNE. Le prime venti pagine erano piene di mappe eseguite a mano delle zone di territorio comprese tra lo Zambesi e i fiumi Limpopo e Shashi per le quali Zouga, e prima di lui il vecchio cacciatore Tom Harkness, aveva viaggiato. Spesso le mappe portavano l'annotazione: « Copiata dalla mappa originale disegnata da Tom Harkness nel 1851 ». Ralph si rendeva conto del valore straordinario di tale spiegazione, ma c'era di più. La pagina 21 del taccuino recava una concisa informazione nella precisa e aguzza calligrafia di Zouga: Nell'inverno del 1860, mentre marciavo da Tete, sul fiume Zambesi, alla città del re Mzilikazi, a Thabas Indunas, ho ucciso 216 elefanti. Mancando di portatori e di carri, sono stato costretto a nascondere l'avorio lungo il percorso. Durante le mie ulteriori spedizioni in Zambesia, ho potuto recuperare il grosso di questo tesoro. Rimangono ancora quindici separati nascondigli, contenenti ottantaquattro zanne, che per varie ragioni non ho potuto raggiungere. Quello che segue è un elenco di tali nascondigli con tutti gli appunti e le indicazioni necessarie per raggiungerli. E a pagina 22 l'elenco cominciava: Nascondiglio del 16 settembre 1860. Posizione calcolata sul sole e per stima: 30' 55' E; 17- 45' S. Un kopje di granito da me battezzato Monte Hampden. Il più grande per molti chilometri tutt'intorno. Cima distinta con tre torri. Sulla faccia settentrionale, tra due grandi ficus natalensis c'è una crepa nella roccia. 18 grandi zanne per un peso totale di 426 libbre sono piazzate nella crepa e coperte di piccoli massi. Il prezzo corrente dell'avorio era di ventidue scellini e sei penny la libbra e Ralph aveva calcolato il peso totale dell'avorio ancora nascosto. Superava le tremila libbre: una grande fortuna che aspettava solo di essere raccolta e caricata sul suo carro. E non era tutto. L'ultimo appunto nel taccuino diceva:
Nel mio libro Odissea di un cacciatore ho descritto la scoperta da parte mia della città che le tribù chiamano « Zimbabwe », un nome che può essere tradotto con « Il Cimitero dei Re ». Ho descritto come riuscii a racimolare nei cortili interni delle rovine murate frammenti d'oro per un totale di poco più di 50 libbre in tutto. Portai via con me anche una delle statue antiche di uccelli. Un ricordo che è rimasto mio fino a poco tempo fa. E' possibile che ci sia metallo prezioso sfuggitomi, mentre certamente nei recinti murali rimangono ancora sei altre statue d'uccello che non ho potuto portar via. Nell'Odissea di un cacciatore mi sono deliberatamente astenuto dal rivelare la località delle antiche rovine. Per quel che mi risulta, non sono state riscoperte da nessun altro bianco, mentre un tabù superstizioso proibisce a qualsiasi africano di avventurarsi nella zona. C'è dunque ogni motivo per credere che le statue siano ancora là dove le ho viste l'ultima volta. Tenendo presente che il mio cronometro non era stato controllato da parecchi mesi quando queste osservazioni furono eseguite, indico qui la posizione della città come l'ho calcolata io a quel tempo. Le rovine giacciono sulla stessa longitudine del kopje da me chiamato Monte Hampden a 30° 55'E, ma 280 chilometri più a sud, a 20° 0'. Seguiva una dettagliata descrizione del percorso seguito da Zouga per raggiungere Zimbabwe, quindi gli appunti terminavano con questa dichiarazione: Mister Rhodes mi ha offerto la somma di 1000 sterline per la statua da me portata via. A mezzodì del giorno seguente Ralph prese il sestante di ottone dalla malconcia cassetta di legno. L'aveva pagato dieci scellini a una delle aste del sabato in Market Square a Kimberley, e Zouga ne aveva controllato la precisione col proprio strumento e aveva insegnato al figlio come rilevare un « mezzodì locale apparente » per stabilire la latitudine alla quale si trovava. Non aveva un cronometro per fissare la longitudine, ma poteva calcolarla in base alla sua vicinanza alla confluenza dei fiumi Shashi e MaCloutsi, Mezz'ora di lavoro col Brown's Nautical Almanac gli fornì la posizione approssimativa da confrontare con quella che suo padre aveva dato negli appunti per Zimbabwe. « Meno di duecentocinquanta chilometri », mormorò, sempre chino sulla mappa del padre ma guardando verso est. « Seimila sterline nascoste laggiù », disse a bassa voce, e scosse il capo. Era una somma difficile da immaginare. Mise via il sestante, arrotolò la mappa e andò a raggiungere il trio che dormiva sotto il carro per quello che ancora restava
del sonnolento pomeriggio. Ralph si svegliò alla stentorea esclamazione che parve echeggiare dal costone di granito sopra l'accampamento. « Chi osa prendere la strada del re? Chi sfida la rabbia di Lobengula? » Strisciò via da sotto il carro. Il giorno era quasi concluso, il sole fiammeggiava sui rami più alti della foresta e il fresco della sera gli pizzicava il petto nudo. Si guardò intorno ansioso, ma l'istinto gli suggerì di non allungare la mano sul fucile carico appoggiato alla ruota posteriore del carro. Sotto gli alberi le ombre erano vive, del nero si muoveva nel nero, scuro strato su scuro strato. « Fatti avanti, uomo bianco », ordinò la voce. « Di' che cosa fai, se non vuoi che le bianche lance di Lobengula diventino rosse. » Colui che aveva parlato era venuto innanzi, fuori della foresta al limite del campo. Dietro di lui c'era il cerchio di scudi di guerra bianchi e neri, sovrapposti bordo su bordo per formare un interrotto muro che circondava l'intero campo: le « corna di toro » della formazione di combattimento matabele. C'erano molte centinaia di guerrieri in quel cerchio mortale, e le larghe e micidiali lance erano tenute a braccio abbassato, così che di tra gli scudi le argentee lame erano puntate all'altezza del ventre. Al disopra di ogni scudo vibrava il copricapo di piume di struzzo che oscillavano alla brezza della sera, unico movimento tra quella silenziosa moltitudine. L'uomo che aveva rotto la fila era una delle figure più impressionanti che Ralph avesse mai visto. L'alta corona di piume di struzzo lo trasformava in un torreggiante colosso. L'ampiezza del torace era accresciuta dagli oscillanti ciuffi di bianche code di vacca che portava alle braccia. Ogni singola coda gli era stata assegnata dal suo re per un atto di valore, e le portava non solo alle braccia ma anche alle ginocchia. Il suo gran viso intelligente era leggermente segnato dal passare degli anni come dallo scalpello di un abile ebanista e formava quella che sembrava unicamente una cornice per lo scintillio penetrante dei suoi occhi; e tuttavia il torace era coperto dall'elastica muscolatura di un uomo che ha appena raggiunto la maturità. Sul ventre piatto s'agitarono gli stessi muscoli allorche venne innanzi. Le gambe erano lunghe e dritte sotto il gonnellino di code di zibetto a macchie nere, e i sonagli di guerra che portava legati alle caviglie risuonavano a ogni passo. « Vengo in pace », esclamò Ralph, sentendo l'esitazione nella propria voce. « Pace è una parola che si posa leggera sulla lingua come l'uccello-mosca si posa sul fiore aperto, e vola con la stessa leggerezza. » Ci fu del movimento dietro Ralph e Bazo venne fuori dal
suo giaciglio sotto il carro. « Baba! » disse in tono riverente, e si batté leggermente le mani davanti al viso. « Ti vedo, Baba! Il sole è stato scuro tutti questi anni, ma ora risplende di nuovo, padre mio. » L'alto guerriero fece un rapido passo avanti e, per un istante, un bellissimo sorriso fiorì sull'ebano scolpito del suo volto. Poi si controllò e si erse di nuovo in tutta la sua statura, con un'espressione grave; ma le piume del suo copricapo tremarono e c'era una luce negli occhi nerissimi, una luce che lui non riuscì a controllare. Sempre battendo le mani, chinandosi con rispetto, Bazo avanzò e si piegò su un ginocchio. « Gandang, figlio di Mzilikazi, il tuo figlio maggiore, Bazo, l'Ascia, ti porta i saluti e il rispetto del suo cuore. » Gandang guardò suo figlio e in quel momento al mondo non esisté altro per lui. « Baba, chiedo la tua benedizione. » Gandang piazzò una mano sul capo villoso del giovane. « Hai la mia benedizione », disse, calmo, ma la mano indugiò, il gesto della benedizione divenne una carezza. Poi, lentamente, con riluttanza, Gandang ritirò la mano. « Alzati, figlio. » Bazo era alto quanto il padre e per un attimo, in silenzio, si guardarono dritto negli occhi. Poi Gandang si voltò e agitò lo scudo di guerra, un gesto di congedo, e subito il cerchio immobile e silenzioso di guerrieri rivolse gli scudi così che parvero chiudersi come un ventaglio di donna; quindi, con una sveltezza straordinaria, i matabele si divisero in piccoli plotoni e scomparvero nella foresta. In pochi secondi sembrò che non fossero mai esistiti. Solo Gandang e suo figlio rimanevano sul bordo del campo, poi anche loro si voltarono e sgusciarono via come due ombre proiettate dai rami inquieti degli alberi di mopani. Isazi venne fuori da sotto il carro, nudo a eccezione della guaina di zucca scavata che gli copriva il pene, e sputò nel fuoco con aria pensosa e filosofica. « Chaka è stato troppo debole », disse. « Avrebbe dovuto inseguire il traditore Mzilikazi e insegnargli le buone maniere. I matabele sono bastardi, senza educazione e ancor meno rispetto. » « Un induna zulu si sarebbe comportato in quel modo? » chiese Ralph, mentre allungava una mano verso la camicia. « No », ammise Isazi. « Ci avrebbe certamente trafitti tutti e uccisi. Ma lo avrebbe fatto con maggior rispetto e maniere migliori. » « Cosa facciamo ora? » chiese Ralph. « Aspettiamo », disse Isazi. « Mentre quel vano signorino, che dovrebbe portare l'anello dell'induna non sulla fronte ma intorno al collo, come il collare di un cane, decide cosa fare di noi. » Sputò di nuovo nel fuoco, questa volta con disprezzo. « Forse dovremo aspettare a lungo, un matabele pensa alla stessa velocità con cui corre un camaleonte. » Strisciò di nuovo sot-
to il carro e si tirò sul capo il kaross. Durante la notte, i fuochi del campo dell'impi matabele giù nella valle lanciavano riverberi ambrati e color ruggine sulle cime dei mopani e, ogni volta che il lieve vento della notte cambiava, il suono melodioso e profondo dei loro canti arrivava fino al campo di Ralph. Nella grigia alba Bazo comparve di nuovo, silenzioso come era svanito. « Mio padre, Gandang, induna del reggimento Inyati, ti convoca all'indaba, Henshaw. » Ralph s'indignò immediatamente. Gli sembrava quasi di sentire la voce di suo padre: « Ricordati sempre che sei un inglese, ragazzo mio, e come tale sei un diretto rappresentante della tua regina in questa terra ». La risposta affiorò rapida alle sue labbra: « Se vuole vedermi, di' a lui di venire da me ». Ma si trattenne. Gandang era un induna, l'equivalente di un generale. Era figlio di un imperatore e fratellastro di un re, l'equivalente di un duca inglese, e quella era la terra dei matabele nella quale lui, Ralph, era un intruso. « Di' a tuo padre che vengo subito. » E andò a prendere una camicia pulita e gli stivali di riserva che aveva insegnato a Umfaan a pulire. « Tu sei Henshaw, il figlio di Bakela. » Gandang sedeva su un basso sgabello intagliato e ricavato da un solo pezzo d'ebano. A Ralph non era stato offerto da sedere e così se ne stava accoccolato a terra. « E Bakela è un uomo. » Ci furono un mormorio di assenso e un fruscio di piume allorché i guerrieri ammassati tutt'intorno si agitarono. « Tshedi è il tuo bisnonno e nel nome del re ti ha indicato la strada per GuBulawayo. Tshedi aveva il diritto di farlo, perche è amico di Lobengula e prima ancora era amico di Mzilikazi. » Ralph non rispose. Si rendeva conto che quelle dichiarazioni a proposito del suo bisnonno, il vecchio dottor Moffat, il cui nome matabele era Tshedi, erano a beneficio dei guerrieri in attesa più che suo. Gandang stava spiegando la propria decisione al suo impi. « Ma per quale ragione prendi la strada per il kraal del re? » « Sono venuto a vedere questa bella terra della quale mio padre mi ha parlato. » « Tutto qui? » chiese Gandang. « No, sono venuto anche per commerciare. E se il re è abbastanza gentile da darmi la sua parola, allora desidero cacciare anche l'elefante. » Gandang non sorrise, ma gli occhi scuri gli brillarono. « Non spetta a me chiederti che cosa desideri di più, Henshaw. La vista dall'alto di una collina... O un carro carico di avorio. » Ralph represse il proprio sorriso e rimase in silenzio. « Dimmi, figlio di Bakela, che merci porti con te da scambiare? »
« Ho trenta balle delle migliori perline e stoffe. » Gandang fece un gesto di disinteresse. « Roba da donne », disse. « Ho trenta casse di bottiglie, del tipo preferito da re Lobengula e dalla sua reale sorella Ningi. » Questa volta la bocca di Gandang si assottigliò e indurì. « Se dipendesse da me, ti caccerei nella tua gola quelle cinquanta casse di veleno. » La sua voce era quasi un bisbiglio, ma subito dopo riprese a parlare in tono normale. « E tuttavia Lobengula, il Grande Elefante, apprezzerà il tuo carico. » Poi tacque e rimase come in attesa. Ralph si rese conto che Bazo doveva aver riferito ogni particolare del carico della sua carovana. « Ho fucili », disse in tutta semplicità e, di colpo, ci fu un intenso interesse nell'espressione di Gandang. Gli occhi gli si strinsero e le labbra gli si socchiusero. « Colpisci il mamba col suo stesso veleno », bisbigliò, e accanto a lui Bazo sobbalzò. Era la profezia della Umlimo che suo padre aveva ripetuto, e Bazo si chiese se Gandang poteva pronunciarla alla presenza di uno che non era matabele. « Non capisco », disse Ralph. « Non importa. » Gandang agitò la bella mano dal palmo rosa. « Dimmi, Henshaw. Questi tuoi fucili sono del tipo che inghiottono una palla rotonda dalla bocca ed espongono la vita dell'uomo che spara a un pericolo maggiore di quello che corre l'uomo che sta di fronte? » Ralph sorrise alla descrizione degli antichi moschetti ad avancarica, molti dei quali erano sopravvissuti alla campagna iberica di Wellington e alcuni dei quali avevano sparato a Bull Run e Gettysburg prima di essere spediti in Africa; con la canna sottile come carta per l'uso e il meccanismo dell'innesco e del cane così malridotti che ogni colpo sparato minacciava di staccare la testa a chiunque avesse tanto coraggio da premere il grilletto. « Questi sono i migliori fucili », rispose. « Con i serpenti attorcigliati nella canna? » chiese Gandang, e a Ralph occorse un pò di tempo per capire l'allusione alla rigatura della canna. Annuì. « E la canna si apre per accogliere la pallottola. » « Portami uno di questi fucili », ordinò Gandang. « Il prezzo di ognuno di essi è una grossa zanna d'avorio », gli disse Ralph e, per qualche attimo ancora, Gandang lo guardò impassibile. Poi sorrise, per la prima volta; ma il sorriso era tagliente come il filo della sua lancia. « Ora », disse, « credo veramente che sei venuto nel Matabeleland per vedere come sono alti gli alberi. » « Io ora ti lascio, Henshaw », disse Bazo, senza sollevare gli occhi dalla grossa e gialla zanna che aveva portato per conto di suo padre, in pagamento del fucile. « Sapevamo che non era per sempre », gli rispose Ralph. « Il legame tra noi è per sempre », rispose Bazo, « ma ora
devo andare a raggiungere il mio reggimento. Mio padre lascerà dieci dei suoi uomini perché ti scortino e guidino fino a GuBulawayo, dove il re Lobengula ti aspetta. » « Lobengula non è a Thabas Indunas, le Colline dei Capi? » chiese Ralph. « E' lo stesso kraal, Al tempo di Mzilikazi era Thabas Indunas, ora Lobengula gli ha cambiato il nome in GuBulawayo, il Posto dell'Uccisione. » « Capisco. » Ralph annuì, poi rimase in attesa, perché era chiaro che Bazo aveva altro da aggiungere. « Henshaw. Tu non mi hai sentito dirlo: ma i dieci guerrieri che verranno con te fino al kraal del re non sono solo per la tua protezione. Non guardare troppo da vicino le pietre e le rocce lungo la strada e non scavare buchi, neppure per sotterrare i tuoi escrementi, altrimenti Lobengula verrà a saperlo e crederà che tu stia cercando le pietre lucenti e il metallo giallo. E questo è morte. » « Capisco. » « Henshaw, finché sei nel Matabeleland abbandona l'abitudine di viaggiare di notte. Solo i maghi e gli stregoni vanno fuori nel buio, a cavallo della iena. Il re verrà a saperlo... E questo è morte. » « Sì. » « Non cacciare gli ippopotami. Sono le bestie del re. Ucciderne uno è morte. » « Capisco. » « Quando sarai alla presenza del re fai in modo che la tua testa sia sempre al disotto di quella del Grande Elefante, anche se devi strisciare sul ventre. « Me l'hai già detto. » « Te lo ripeto. E ti dirò ancora una volta che le fanciulle del Matabeleland sono le più belle del mondo. Accendono fuochi furiosi nei lombi dell'uomo, ma prenderne una senza la parola del re è morte tanto per l'uomo quanto per la fanciulla. » Per un'ora stettero accoccolati l'uno di fronte all'altro, annusando ogni tanto e passandosi uno dei sigari neri di Ralph, ma sempre Bazo parlava e Ralph ascoltava. Parlava con calma, Bazo, citando i nomi dei più potenti induna, i governatori di ogni provincia militare del Matabeleland, elencando tutti coloro che avevano l'attenzione del re e dovevano essere trattati con cura, spiegando come bisognava comportarsi per non recare offesa, annunciando quale tributo ognuno avrebbe chiesto e alla fine accettato, cercando di informare Ralph di tutto in quegli ultimi istanti. Quindi, lanciando un'occhiata al cielo, disse: « E' ora ». S'alzò. « Va' in pace, Henshaw. » E s'allontanò dal campo di Ralph senza voltarsi a guardare indietro. Man mano che il carro di Ralph, con la sua scorta di guerrieri, s'inerpicava fuori del basso veld il caldo diminuiva. L'aria
era così dolce e limpida da dare a Ralph l'impressione che il sangue nelle sue vene fosse diventato effervescente. Isazi provava lo stesso senso di ebbrezza. Compose nuovi versi da cantare ai suoi buoi, lodando la loro forza e bellezza, e ogni tanto v'inframmezzava dei riferimenti a un « babbuino piumato » o a qualche altra fantasiosa e poco piacevole creatura, mentre significativamente faceva ruotare gli occhi in direzione della scorta di guerrieri matabele che precedeva il carro. Via via che salivano la foresta si assottigliava, lasciando il posto a boschi aperti di belle mimose con la corteccia sottile come carta, che veniva via per rivelare la superficie levigata di sotto, e i rami carichi dei soffici e gialli fiori. L'erba ricopriva la terra ondulata, fitta e dolce, così che dopo lo snervante calore del bassopiano i buoi ora ingrassavano e si sottoponevano al giogo con nuova energia. Era paese di bestiame, quello, il cuore del Matabeleland, e cominciarono a incontrare i branchi. Enormi assembrarnenti di animali multicolori, rossi e bianchi e neri e di tutte le combinazioni di quei colori. Più piccoli dei grossi buoi del Capo, ma robusti e agili come selvaggina, i maschi con la gobba e la pesante pagliolaia dei loro progenitori egiziani. Isazi li guardava con avidità e a un certo punto andò da Ralph di fianco alla ruota anteriore del carro a dirgli: « Così erano i branchi dello Zululand, prima che arrivassero i soldati ». « Devono essere centinaia di migliaia e varrebbero venti sterline per capo. » « Non imparerai mai, Piccolo Falco? » Isazì ricorreva a quell'appellativo quando una delle sciocchezze di Ralph lo esasperava. « Uno non può dare un valore a un bell'esemplare di bovino, o a una bella donna, in piccole monete rotonde. » « Eppure, come zulu, tu paghi per una moglie. » « Sì, Piccolo Falco. » Gli argomenti ottusi di Ralph davano un tono stanco alla voce di Isazi. « Uno zulu paga la moglie, ma paga in bestiame, non in monete, ed è quello che sto cercando di dirti. » E chiuse la discussione con un tuonante schiocco della sua lunga frusta. Piccoli kraal familiari punteggiavano l'estesa savana, ciascuno costruito intorno al recinto delle bestie e fortificato contro predatori e predoni. Quando passavano davanti ai gruppi di capanne dal tetto di paglia, i pastorelli nudi davano l'allarme e le donne venivano fuori, scalze e col petto nudo, tenendo in bilico sulla testa pentole di terracotta o zucche svuotate, un esercizio che dava loro una gran dignità di movimento. In quelle occasioni la scorta di guerrieri del reggimento di Gandang si fermava a rinfrescarsi con la spumeggiante birra di miglio o il delizioso latte acido, denso come yogurt. Le giovani donne studiavano Ralph con occhio spavaldo e curioso. Del tutto ignare del fatto che lui parlava la loro lingua, si abbandonarono una volta a congetture sul bianco in termini tali che le orecchie gli diventarono rosse, e allora esclamò:
« E' facile parlare del leone e delle sue dimensioni e della sua forza quando è nascosto dall'erba alta, ma sarete altrettanto coraggiose quando lui verrà fuori in tutta la sua furia per affrontarvi a faccia a faccia? » Stupite e incredule, caddero in un silenzio che durò solo pochi secondi, poi si coprirono la bocca e scoppiarono in allegre risate, e alla fine le più coraggiose gli si avvicinarono e gli chiesero con modi civettuoli un pezzo di nastrino o una manciata di graziose perline. Man mano che si avvicinavano alla fortezza di Lobengula, superavano i grandi kraal reggimentali. Distavano tra loro ottanta chilometri, un giorno di viaggio al passo di un impi in marcia, il trotto cioè che poteva essere mantenuto per ore e ore. Lì non avvenivano scambi di saluti e battute scherzose. I guerrieri uscivano dal kraal come api da un alveare disturbato, si allineavano ai due lati della pista in minaccioso silenzio e guardavano passare il carro di Ralph nella più assoluta immobilità. I loro sguardi erano vacui, lo sguardo imperscrutabile con cui il leone scruta la sua preda prima di attaccarla. Ralph passava tra loro lentamente, stando eretto in sella a Tom, senza guardare né a destra né a sinistra alle file minacciose; ma quando raggiungeva di nuovo l'aperto terreno erboso, la sua camicia era bagnata sotto le ascelle e tra le scapole, e c'era un'esitazione nel suo respiro e un brivido di freddo gli percorreva il corpo. Il Khami era uno degli ultimi ampi fiumi da attraversare prima di raggiungere il kraal del re a GuBulawayo. Appena Ralph vide infittirsi gli alberi di mimosa che segnavano il corso del fiume, sellò Tom e partì in ricognizione. Recessi erano stati scavati nei ripidi fianchi del fiume per permettere a un carro di entrare nella corrente, e i banchi di sabbia tra due tranquille pozze verdi erano stati ricoperti con rami d'albero abbastanza lunghi, messi di traverso per impedire alle sottili ruote di affondare. Chiunque aveva percorso quella strada prima di lui gli aveva risparmiato un bel pò di difficoltà. Fermò Tom su un tratto di erba buona, smontò e scese fino al fiume per controllare il guado. Erano chiaramente passati molti mesi da quando l'ultimo carro aveva attraversato il fiume, e lui avanzò lentamente sul tracciato di rami d'albero, riparando i danni che il tempo aveva procurato, rimettendo a posto con un calcio qualche ramo asciutto e colmando la cavità che acqua e vento vi avevano scavato sotto. Il caldo era asfissiante e il fiume e la bianca sabbia riflettevano i raggi del sole, così che quando raggiunse l'altra sponda Ralph era tutto sudato; si buttò allora a sedere all'ombra di uno degli alberi e si asciugò il viso e le braccia col fazzoletto bagnato nell'acqua di una pozza del fiume. D'un tratto ebbe la sensazione di essere guardato e s'alzò subito in piedi. C'era qualcuno sulla sponda sopra di lui, al-
l'estremità del tracciato di rami. Non credendo ai propri occhi, si rese tuttavia conto che era una ragazza, una ragazza bianca e vestita tutta di bianco: un abito dritto e abbondante che le arrivava fino alle caviglie, proprio sopra i piedi nudi, stretto in vita da un nastro blu. Era così esile che lui ebbe la sensazione di poterla sollevare con una sola mano. Il vestito era chiuso con bottoni di madreperla fino alla gola e le maniche le arrivavano ai gomiti; ma quel vestito era stato lavato, stirato e candeggiato tante volte che sembrava aver meno sostanza di una ragnatela, e la luce era alle sue spalle. Riusciva a vedere chiaramente il contorno delle gambe sotto la gonna, e ne rimase talmente colpito che gli venne meno il fiato. Aveva gambe lunghe e di forma così delicata che Ralph dovette fare uno sforzo di volontà per distogliere gli occhi. Col cuore che gli batteva guardò la ragazza in faccia. Era pallida come porcellana, sembrava quasi trasparente, al punto che ebbe l'impressione di vedere una lucentezza di fragili ossa sotto la pelle. I capelli erano d'un biondo chiaro, quasi argenteo, spazzolati in modo da formare una cascata che le ricadeva sulle spalle; brillavano e vibravano a ogni respiro che sollevava il piccolo seno infantile sotto il cotone delicato. Aveva dei fiori sulla fronte e una ghirlanda sulle spalle e intorno all'ampio cappello di paglia che aveva in mano, all'altezza degli esili fianchi; e lui, Ralph, provò come un senso di irrealtà. Quei fiori erano rose. La ragazza e i fiori non sembravano appartenere a quella terra selvaggia, ma a un bel giardino inglese coltivato. La ragazza scese giù per la sponda; i piedi nudi non facevano rumore e sembravano scivolare sul terreno sabbioso. Aveva occhi grandi e luminosi nel viso pallido, e stava sorridendo. Il sorriso più dolce che lui avesse mai visto, né timido né affettato. Mentre lui stava lì, imbarazzato e goffo, la ragazza sollevò le braccia sottili e s'alzò sulla punta dei piedi per baciarlo sulla bocca. Le labbra erano fresche e soffici, delicate come i petali delle rose che recava sulla fronte. « Oh, Ralph, siamo così contente di vederti. Non s'è parlato d'altro da quando abbiamo saputo che eri per strada. » « Chi... Chi sei tu? » balbettò lui, reso villano dalla sorpresa e dall'imbarazzo. Ma la ragazza parve non farci caso. « Salina », disse, e gli infilò la mano sotto il braccio per guidarlo su per la sponda. « Salina Codrington. » « Non capisco. » Trattenne il braccio, costringendola a girarsi di nuovo verso di lui. « Salina... » ripeté, ridendo adesso, e la sua risata era dolce e calda come il suo sorriso. « Sono Salina Codrington. » Poi, quando fu evidente che quel nome non significava nulla per l'altro, aggiunse: « Sono tua cugina, Ralph. Mia madre è la sorella di tuo padre, Robyn Codrington, ma era Robyn Ballantyne ». « Gran Dio! » Ralph rimase a fissarla. « Non sapevo che zia
Robyn avesse una figlia. » « Immagino di no. Zio Zouga non è mai stato un buon corrispondente. » Ma di colpo il sorriso svanì dalle labbra della ragazza e, improvvisamente, lui si ricordò di non essersi mai preso la briga di svolgere l'intricata matassa della storia della sua famiglia, tranne che per comprendere vagamente che c'erano del risentimento e dei conti in sospeso tra suo padre Zouga e zia Robyn. Poi ricordò, aveva sentito per caso suo padre ricordare con rammarico che, con mossa sleale, Robyn aveva pubblicato la propria versione della loro comune spedizione allo Zambesi mesi prima che Zouga desse alle stampe il suo Odissea di un cacciatore, in tal modo privandolo della sua giusta parte di critiche favorevoli e di diritti. Quel suo indiretto riferimento alle inimicizie familiari doveva aver causato il rapido cambiamento di umore di Salina, ma fu un cambiamento passeggero: gli riprese il braccio e sorrise di nuovo, mentre risalivano la sponda. « Non una figlia, Ralph. Noi Codrington non te la lasceremo cavare con così poco. Siamo una vera tribù: quattro, tutte femmine. » Si fermò, sollevò il cappello per ripararsi gli occhi e guardò verso la serpeggiante pista che s'allontanava nell'erbosa savana. « Oddio! » esclamò. « Sono corsa avanti ad avvertirti... e ho fatto appena in tempo! » Lungo la pista, nella loro direzione, s'affrettavano tre piccole figure, correndo per superarsi l'un l'altra, con le grida d'eccitazione che andavano acquistando volume, i lunghi capelli che svolazzavano, le fluttuanti gonne di stoffa scolorita e rappezzata sollevate sopra le ginocchia, così che s'intravedevano delle gambe nude, i volti lentigginosi e arrossati, alterati dallo sforzo, dall'eccitazione e l'agitazione. « Salina! Avevi promesso di aspettare! » Arrivarono dove Ralph stava con la bella bionda al braccio. « Gran Dio! » mormorò di nuovo Ralph, e Salina gli strinse il gomito. « Questa è la seconda volta che adoperi il nome del Signore, cugino Ralph. Per piacere, non farlo. » Dunque era questo il motivo del passeggero dispiacere della ragazza. « Oh, mi dispiace molto. » E si ricordò troppo tardi del fatto che i genitori di Salina erano dei pii missionari. « Non intendevo... » Di nuovo s'ammutolì, perché improvvisamente l'opinione di quella ragazza era la cosa più importante al mondo. « Non lo faccio più, prometto. » « Grazie », disse lei a bassa voce e, prima che uno di loro due riuscisse ad aprir bocca di nuovo, si ritrovarono circondati da quello che sembrava un oceano di piccole donne, ognuna delle quali saltellava su e giù con notevole agilità, richiamando l'attenzione di Ralph e al tempo stesso urlando accuse alla sorella maggiore. « Ci hai ingannate, Salina. Avevi detto... » « Ralph, cugino Ralph, io sono Victoria, la gemella più grande. »
« Cugino Ralph, abbiamo pregato il Signore che ti facesse arrivare in fretta. » Salina batté le mani e ci fu una riduzione - pur se pressoché insensibile - nel volume del vocio. « In ordine di età! » disse, calma. « Tu dici sempre così perché sei la più grande! » Salina ignorò la protesta e pose la mano sulla spalla di una bambina dai capelli neri. « Questa è Catherine. » La spinse in avanti verso Ralph. « Cathy ha quattordici anni. » « E mezzo, quasi quindici », corresse Cathy e, a quella dichiarazione, i suoi modi cambiarono, divennero controllati, da signora. Era magra, col petto piatto come quello di un maschietto, ma il giovane corpo dava l'immediata impressione di forza e agilità. Naso e guance erano ricoperti di lentiggini, ma la bocca era piena e generosa, gli occhi dello stesso verde-Ballantyne di quelli di Ralph, e le spesse e scure sopracciglia erano una cornice per la loro luccicante espressione intelligente. Il mento era un pochino troppo grande, e così anche il naso, ma avevano un taglio deciso. I folti capelli neri erano intrecciati e raccolti in cima al capo, lasciando le orecchie esposte, piccole e puntute e appiattite contro la testa. « Benvenuto a Khami, Ralph », disse e accennò un piccolo inchino, sollevandosi la gonna, come le era stato evidentemente insegnato a fare; e Ralph s'accorse così che la gonna era fatta di tela di sacco di farina tinta di un verde muschio. La scritta ancora si leggeva: « Mulini del Capo ». Poi Cathy s'alzò sulla punta dei piedi e lo baciò rapidamente, lasciandogli un senso di umido sulle labbra. Il bacio era ovviamente il tipo di saluto che la famiglia accettava e Ralph guardò con trepidazione le facce ansiose e sudicie delle gemelle. « Io sono Victoria, la gemella più grande. » « E io sono Elizabeth, ma se mi chiami 'piccola' ti odierò per sempre, cugino Ralph. » « Tu non odierai nessuno », intervenne Salina, ed Elizabeth si lanciò al collo di Ralph, l'abbracciò e strinse forte mentre appiccicava la propria bocca su quella di Ralph. « Scherzavo, Ralph. Ti amerò », bisbigliò. « Sempre! Sempre ! » « Io! » urlò Victoria, indignata. « Io sono più grande di Lizzie. Tocca a me per prima. » Salina andò avanti con quell'andatura sciolta che non le faceva muovere le spalle e a malapena smuoveva la cascata di capelli biondo-oro. Ogni tanto si voltava e sorrideva a Ralph, che dal canto suo pensava di non aver mai visto niente di così bello. Le gemelle tenevano entrambe Ralph per mano, farfugliavano tutto ciò che per settimane avevano messo da parte per riferirgli e saltellavano per andare al passo con lui. Cathy veniva dietro a tutti, conducendo Tom. Lei e il cavallo avevano stretto
un'immediata amicizia. « Oh, è una bella bestia, Ralph », aveva detto, baciando poi il muso vellutato di Tom. « Noi non abbiamo cavalli », spiegò Victoria. « Papà è un uomo di Dio, e gli uomini di Dio sono troppo poveri per avere un cavallo. » La piccola comitiva superò la prima bassa altura oltre il fiume e Salina si fermò e indicò giù la conca che era davanti a loro. « Khamil » annunciò, e tutte guardarono Ralph in cerca di un segno di approvazione. C'era un'interruzione nella catena successiva di colline di granito, una linea di displuvio naturale per acque sotterranee, ciò che spiegava la distesa lussureggiante di erba che ricopriva la valle. Come pulcini sotto la chioccia, il piccolo gruppo di costruzioni sorgeva al riparo delle colline. Erano ben distinte, con tetti di paglia gialla e imbiancate in maniera accecante a calce La costruzione più grande aveva una croce di legno fieramente piazzata in cima al tetto. « Papà e mamma hanno costruito la chiesa con le loro mani. Re Stupido Gatto non ha permesso a nessuno della sua gente di aiutarli », spiegò Victoria. « Stupido Gatto? » chiese Ralph, perplesso. « Re Mzilikazi », tradusse Salina. Poi si rivolse alla sorella, rimproverandola: « Vicky, lo sai che a mamma non piace che tu usi quei nomi ridicoli per i re ». Ma Victoria stava stringendo la mano di Ralph, eccitata, e gli indicava una figura lontana nella valle sotto di loro. « Papà! » gridarono le gemelle all'unisono. « Quello è papa. Stava lavorando in uno dei giardini disposti geometricamente più giù della chiesa, una figura alta e dinoccolata le cui spalle rimasero piegate anche quando si drizzò per guardare verso di loro. Infisse la vanga nel terreno e si avviò su per la salita. « Ralph! » Si tolse il cappello macchiato di sudore. Era calvo come un monaco, con solo una corona di serici capelli che formavano una specie di aureola intorno al capo. Fu subito chiaro da chi Salina avesse ereditato quei gloriosi capelli biondo-oro. « Ralph », ripeté l'uomo; si pulì la destra contro i pantaloni e la porse. Nonostante quell'inclinazione delle spalle, era alto quanto Ralph, con il viso abbronzato, il cranio calvo lucido come se fosse stato passato a cera, gli occhi di un azzurro pallido come il cielo estivo. Ma il suo sorriso somigliava a quello di Salina: calmo e tranquillo, così che quando gli prese la mano Ralph si rese conto che quello era l'uomo più soddisfatto e felice che avesse mai conosciuto in vita sua. « Sono Clinton Codrington », disse. « E immagino che possa chiamarmi zio, sebbene sa il cielo se mi sento tanto vecchio. » « Io l'avrei riconosciuta dappertutto, signore », disse Ralph.
« Davvero? » « Ho letto il libro di zia Robyn e ho sempre ammirato le sue imprese da ufficiale della Royal Navy. » « Oh, figurarsi. » Clinton scosse il capo in finto scoraggiamento. « Credevo fosse ormai acqua passata! » « Lei è stato uno dei più illustri e coraggiosi ufficiali della flotta antischiavista d'Africa, signore. » Negli occhi di Ralph si leggeva ancora la sua infantile ammirazione per l'eroe. « Il racconto di tua zia Robyn sbandava terribilmente a dritta, temo. » « Papà è l'uomo più coraggioso del mondo », dichiarò Victoria. Lasciò andare la mano di Ralph e corse dal padre. Clinton Codrington la prese in braccio e se la dispose sul fianco. « E la tua, signorina, è probabilmente l'opinione più spassionata di tutto il Matabeleland », disse ridendo, e Ralph provò un'improvvisa gelosia per quella palpabile atmosfera di profondo affetto e amore che saldava insieme quel piccolo gruppo dal quale lui si sentiva escluso. Era un qualcosa di cui non aveva esperienza, qualcosa di cui fino a quel momento non aveva mai sentito la mancanza. Probabilmente Salina avvertì quella sua ondata di malinconia e gli prese la mano che Victoria aveva lasciato andare. « Vieni », disse. « Mamma aspetta. E c'è una cosa che imparerai presto, Ralph. In questa famiglia nessuno fa mai aspettare mamma. » Scesero verso la chiesa, passando in mezzo a tratti di terreno piantati a verdura. « Non hai portato semenze? » chiese Clinton, e quando Ralph scosse il capo aggiunse: « Bene, come potevi saperlo? » Indicò poi con orgoglio le sue coltivazioni: « Mais, patate, fagioli e pomodori vengono particolarmente bene qui. » « Noi li dividiamo così », disse Cathy, prendendo in giro il padre. « Uno per gli insetti, due per i babbuini, tre per le antilopi... E uno per papà. » « Bisogna essere buoni con tutte le creature di Dio. » Clinton le scompigliò i capelli neri, e Ralph si rese conto che quella brava gente si toccava e baciava in continuazione. Non aveva idea di una cosa del genere. Accovacciati in paziente attesa contro il lato in ombra del muro della chiesa c'erano una ventina o più di matabele di tutte le età e di entrambi i sessi, da un vecchio scheletrico, con i capelli completamente bianchi sul capo chino ed entrambi gli occhi trasformati in orbite cieche dall'oftalmia tropicale, a un neonato tenuto al petto gonfio di latte della madre e col faccino distorto dalle terribili coliche della dissenteria infantile. Catherine legò Tom accanto alla porta della chiesa e tutti entrarono nel fresco interno, isolato dal calore circostante dalla paglia e dalle pareti spesse di mattoni crudi. La chiesa odorava di sapone fatto in casa e di tintura di iodio. Le panche di legno rozzo erano state ammucchiate di lato per far posto a un tavolo
operatorio dello stesso materiale. C'era una ragazza al lavoro su quel tavolo. Quando loro si avvicinarono, fece l'ultimo nodo a una fasciatura e congedò il paziente seminudo con qualche parola e una pacca sulle spalle, quindi, strofinatasi le mani su un pezzo di stoffa pulito ma logoro, andò verso di loro. Ralph fu certo che si trattasse della gemella di Cathy perché, sebbene fosse un pò più alta, era magra e senza petto; i capelli infatti erano dello stesso color castano scuro, con riflessi rossicci; tuttavia, la pelle aveva la stessa lucentezza giovanile e il mento e il naso la stessa dimensione e prominenza. Poi, man mano che si avvicinava, si rese conto di essersi sbagliato: era più grande di età di Cathy, forse anche di Salina. Ma non molto. « Salve, Ralph », disse la ragazza. « Sono tua zia Robyn. » Ralph stava lasciandosi andare di nuovo a un'esclamazione blasfema di sorpresa ma, consapevole della mano di Salina nella sua, si controllò. « Sei giovanissima », disse invece. « Dio ti benedica per questo », rispose lei ridendo. « Mi fai un complimento più sitnpatico di quanti mai me ne abbia fatti tuo padre. » Fu l'unica che non fece nessun tentativo di baciarlo; si rivolse invece alle gemelle: « Bene! » disse. « Voglio dieci pagine di bella calligrafia scritte prima della preghiera della sera. E non voglio vedere una sola macchia. » « Oh, mamma! Ralph... » « Ralph è stata una scusa per due settimane. Vai, o stasera mangerai nella capanna della cucina. » Poi a Cathy: « Hai finito di stirare, signorina? » « Non ancora, mamma. » Cathy seguì le gemelle. « Salina, la tua torta. » « Sì, mamma. » Così nella piccola chiesa rimasero solo loro tre, e Robyn scrutò con occhio professionale il nipote. « Bene, Zouga ha cresciuto un ragazzo promettente », commentò. « Del resto, non mi aspettavo altro. » « Come sapevate tutti voi che stavo per venire? » Ralph espresse alla fine il proprio stupore. « Nonno Moffat ha mandato un corriere quando tu hai lasciato Kuruman, e l'induna Gandang è passato da qui due settimane fa diretto al kraal di re Lobengula. Il suo figlio maggiore era con lui e la madre di Bazo è una mia vecchia amica. » « Capisco. » « Niente si muove a Matabeleland che tutta la nazione non lo sappia immediatamente », spiegò Clinton. « Ora, Ralph, come sta tuo padre? Sono rimasta terribilmente dispiaciuta alla notizia della morte di Aletta, tua madre. Era una persona meravigliosa, così dolce e gentile. Scrissi a Zouga, ma non ha mai risposto. » In quei primi dieci minuti sembrava che Robyn volesse ag-
giornarsi sugli avvenimenti di un decennio, e le sue domande erano rapide e incisive; Clinton ben presto si scusò e li lasciò soli nella piccola chiesa per tornare ai suoi giardini. Ralph rispose puntualmente a tutte le domande mentre rivedeva la sua prima impressione della zia. Giovane lo sembrava, ma non era certo infantile. Ora finalmente capiva le notevoli imprese di quella donna di polso. Come avesse frequentato una famosa scuola di medicina a Londra, un ospedale che non accettava donne tra i suoi iscritti, travestendosi da uomo. In calzoni, aveva eseguito i suoi studi e conquistato il suo dottorato all'età di ventun anni. Lo scandalo che era seguito alla scoperta che una donna aveva invaso quella che era una riserva esclusiva degli uomini aveva fatto tremare tutta l'Inghilterra. Poi aveva accompagnato Zouga in Africa, membri di una spedizione per ritrovare il loro padre Fuller Ballantyne, che da otto anni era scomparso in quei territori inesplorati. Quando poi lei e il fratello avevano litigato sugli scopi della spedizione, Robyn aveva continuato, una donna bianca sola con soltanto dei neri primitivi come compagni di viaggio, a perseguire l'obiettivo principale per conto suo. Il libro in cui aveva descritto la spedizione, intitolato L'Africa nel mio sangue, era stato un successo editoriale con quasi duecentocinquantamila copie vendute, tre volte il numero di copie dell'Odissea di un cacciatore di Zouga Ballantyne, pubblicato sei mesi dopo. Robyn aveva ceduto tutti i proventi dei diritti del libro alla London Missionary Society, e quell'augusto ente era stato tanto soddisfatto della donazione da accoglierla di nuovo come membro della società, da nominare il marito suo assistente e approvare la sua decisione di guidare una missione nel Matabeleland. Le sue due pubblicazioni successive non avevano avuto lo stesso successo della prima. L'africano malato, un saggio di medicina tropicale, conteneva ridicole teorie che le avevano guadagnato la derisione dei suoi colleghi medici: aveva persino osato avanzare l'ipotesi che la febbre malarica non fosse causata dall'inquinata aria notturna delle paludi tropicali, quando invece questo era un fatto conosciuto e accertato sin dai tempi di Ippocrate. Il suo successivo resoconto della propria vita come medico missionario, Fede cieca, era scritto in stile troppo semplice e difendeva troppo le tribù indigene. Aveva decisamente fatte proprie le teorie di Jean-Jacques Rousseau apportandovi dei ritocchi personali. La sua globale condanna di tutti i colonizzatori, cacciatori, prospettori e mercanti, e della loro maniera di trattare i nobili selvaggi, era troppo azzardata per i lettori europei. In verità, scandali e polemiche sembravano seguire Robyn Codrington come gli avvoltoi e gli sciacalli seguono il leone, e a ogni nuova provocazione subito venivano ricordate tutte le sue precedenti avventure. Quale donna decente, missionaria per giunta, avrebbe provocato degli uomini tanto da indurli a un sanguinoso duello per
lei? Robyn Ballantyne l'aveva fatto. Quale donna timorosa di Dio si sarebbe imbarcata a bordo di una nota nave negriera, senza chaperon e con soli schiavi per compagnia? Robyn Ballantyne vi s'era imbarcata. Quale signora avrebbe scelto per marito un uomo che era stato processato da una corte marziale, degradato e imprigionato per pirateria e negligenza? Robyn Codrington l'aveva scelto. Quale fedele suddita della regina avrebbe salutato il terribile rovescio dell'armata britannica a Isandhlwana, la tremenda morte di centinaia di inglesi per mano dei selvaggi zulu, come un giudizio di Dio? Robyn Codrington l'aveva fatto, in una lettera all'Evening Standard. Chi altri se non Robyn Codrington avrebbe scritto a Lord Kimberley per chiedergli che metà dei profitti dei campi diamantiferi che portavano il suo nome andassero al capitano griqua Nicholaas Waterboer? Solo Robyn Codrington poteva chiedere a Paulus Kruger, neoeletto presidente della piccola Repubblica del Transvaal, che restituisse a Lobengula, re dei matabele, la terra al di qua delle montagne Casban, dalle quali erano partiti i commando boeri contro Mzilikazi, suo padre. Non risparmiava nessuno. Nulla era sacro per lei se non il suo Dio, che Robyn trattava più come un socio di maggioranza nell'amministrazione dell'Africa. I suoi nemici, ed erano legioni, l'odiavano con tutto il cuore e i suoi amici l'amavano con altrettanta passione. Era impossibile non restare colpiti da lei, e Ralph scoprì di esserne affascinato mentre lei gli sedeva accanto sul banco della chiesa e lo catechizzava su ogni aspetto della vita e della famiglia. « Tu hai un fratello. » A quanto pareva sapeva tutto. « Jordan? Si chiama così, vero? Parlami di lui. » Era un ordine. « Oh, Jordie è il coccolo di tutti. Tutti lo amano. » Ralph non aveva mai conosciuto una donna come lei. Dubitava però che avrebbe finito col piacergli, era troppo spinosa. Era l'esatta parola per descriverla, ma lui non avrebbe mai dubitato della sua forza e della sua determinazione. Mentre fuori la luce s'addolciva in quella del tardo pomeriggio, Clinton Codrington ritornò nella chiesa. « Mia cara, ora davvero devi lasciarlo andare quel poveretto. » Si rivolse a Ralph: « Il tuo carro è arrivato. Ho mostrato al tuo uomo dove staccare i buoi. Mi sembra un tipo di prim'ordine, devo dire ». « Tu dormirai nella foresteria », annunciò Robyn mentre Ralph si alzava. « Cathy ha preso i tuoi abiti sporchi dal carro e li ha lavati e stirati », proseguì Clinton. « Vorrai indossare una camicia pulita prima della preghiera della sera » disse Robyn. « Non inizieremo fino al tuo ritorno. » Era meglio durante il viaggio, pensò Ralph, seccato: allora decideva da sé quando lavarsi e cambiarsi e dove passare le serate. Ma andò a cambiarsi la camicia come gli era stato detto
di fare. Le donne di casa Codrington riempivano la prima panca. Clinton Codrington, sul pulpito, le aveva di fronte. Ralph stava in mezzo alle gemelle; c'era stato un breve ma deciso litigio tra Victoria ed Elizabeth per decidere su chi doveva sedergli più vicino. A parte la famiglia, nella chiesa non c'era nessun altro. Victoria vide l'occhiata che Ralph lanciò in giro e gli spiegò in un bisbiglio: « Re Ben non vuole che quelli della sua gente vengano in chiesa ». « Re Lobengula », la corresse Salina, « non re Ben. » Benché il pubblico dei fedeli fosse tutto li, Clinton ritardò l'inizio del servizio della sera, trovando e perdendo la pagina nel libro di preghiere una mezza dozzina di volte, e lanciando frequenti occhiate verso il fondo della chiesetta. All'improvviso, da quella parte ci fu del movimento. Un piccolo gruppo di donne matabele era arrivato davanti alla chiesa. Erano chiaramente serve, schiave e cortigiane dell'imponente figura femminile che era nel loro mezzo. Questa le congedò con un gesto regale ed entrò nella chiesa. Le Codrington voltarono tutte la testa e i visi gli si illuminarono di piacere. Il modo in cui quella matrona avanzò maestosa nel corridoio tra le panche non lasciava dubbi sui suoi alti natali e sul suo posto nell'aristocrazia matabele. Ai polsi e alle caviglie portava bracciali di rame battuto e fili di preziosissime perline che solo un capo poteva permettersi. Il mantello era di pelle meravigliosamente conciata, ornato di piume di ghiandaia azzurre e con disegni eseguiti con gusci di ostriche. « Ti vedo, Nomusa », dichiarò. I suoi enormi seni nudi brillavano per un unguento fatto di grasso e terra rossa, sporgevano pesanti da sotto il mantello e pendevano fino al livello dell'ombelico. Le sue braccia erano grosse quanto la coscia di un uomo e le sue cosce quanto la vita. Aveva rotoli di grasso intorno al ventre e il viso era una luna piena nera, la pelle lucida tesa sulla carne abbondante. Gli occhi allegri brillavano affondati nel grasso e quando sorrideva i denti le scintillavano come la superficie di un lago illuminata dal sole. Le sue proporzioni erano la prova per il mondo intero del suo rango, della sua straordinaria bellezza e della sua fecondità. Erano una prova incontestabile dell'alta considerazione in cui veniva tenuto suo marito, della sua prosperità e importanza nei consigli di Matabeleland. « Ti vedo, Figlia della Misericordia », disse sorridendo a Robyn. « Ti vedo, Juba, piccola colomba », rispose Robyn. « Non sono una cristiana », dichiarò Juba. « Che nessun malintenzionato porti false notizie a Lobengula, il Nero e Possente Elefante. » « Se lo dici tu, Juba », rispose Robyn, e Juba la strinse in un vasto abbraccio e al tempo stesso si rivolse a Clinton sul
pulpito. « Vedo anche te, Hlopi. Ti vedo, Testa Bianca! Ma non lasciarti ingannare dalla mia presenza qui dentro, io non sono cristiana. » Inspirò aria come un elefante e proseguì: « Sono venuta solo per salutare i vecchi amici, non per cantare inni e adorare il vostro Dio. Ti avverto anche, Hlopi, che se stasera leggi la storia di un uomo chiamato La Roccia che rinnegò il suo Dio tre volte prima del canto del gallo, mi dispiacerà ». « Non leggerò quella storia », rispose Clinton. « Perché ormai la conoscerai a memoria. » « Benissimo, Hlopi, e allora che il canto cominci. » E, guidata da Juba e dalla sua bella e sorprendentemente limpida voce da soprano, l'intera famiglia Codrington attaccò i primi versi di Avanti, soldati cristiani, che Robyn aveva tradotto in matabele. Alla fine del servizio si rivolse a Ralph. « Tu sei Hensbaw? » chiese. « Nkosikazi! » rispose Ralph, e Juba con un'inclinazione del capo riconobbe la sua maniera corretta di rivolgersi alla moglie più importante di un grande capo. « Allora tu sei quello che Bazo, il mio figlio primo nato, chiama fratello », disse Juba. « Sei molto magro e molto bianco, Piccolo Falco, ma se sei fratello di Bazo allora sei mio figlio. » « Mi fai un grande onore, Umame! » replicò Ralph, e Juba lo accolse tra le sue braccia enormi. Odorava di grasso chiarificato e di ocra e di fumo di legna, ma l'abbraccio fu stranamente confortevole e la sensazione che Ralph provò non fu molto diversa da quella, quasi dimenticata, che aveva provato un tempo tra le braccia di Aletta. Le gemelle stavano inginocchiate accanto alla bassa branda a rotelle, entrambe in camicia da notte lunga, con le mani giunte davanti agli occhi chiusi così stretti che sembrava che entrambe soffrissero. Salina, anche lei in camicia da notte, stava dietro di loro per sorvegliare l'ultima preghiera del giorno. « Gentile e dolce Gesù... » Cathy era già nella sua branda, con nastrini tra i capelli per la notte, e alla luce di una vacillante candela stava scrivendo le annotazioni del giorno nel suo diario. « Commisera la mia semplicità... » borbottarono le gemelle; arrivate poi all'amen, balzarono nella branda che insieme dividevano, si tirarono la coperta fino al mento e guardarono affascinate Salina che si spazzolava i capelli, fiammeggianti alla luce della candela. Poi la sorella maggiore andò a baciarle e spense con un soffio la candela, e dall'altra parte della piccola capanna dal tetto di paglia le cinghie della sua branda cigolarono. « Lina? » bisbigliò Victoria. « Vicky, dormi. » « Una sola domanda, per piacere. »
« Va bene, una sola. » « Dio permette che si sposi il proprio cugino? » Il silenzio che seguì la domanda parve vibrare nella capanna buia come un filo del telegrafo colpito da una spada. Lo ruppe Cathy. « Sì, Vicky », rispose, « Dio lo permette. Leggi la Tavola dei Parenti e Affini nell'ultima pagina del tuo libro di preghiere » « Ci fu di nuovo silenzio. « Lina? » « Lizzie, dormi. » « A Vicky hai concesso di fare una domanda. » « E va bene, una sola. » « Dio s'arrabbia se preghi per qualcosa che riguarda solo te, non papà o mamma o le sorelle, ma unicamente te sola? » « Non credo », la voce di Salina stava diventando sonnacchiosa. « Potrà non concedertelo, ma non credo che si arrabbi. Ora dormite, tutt'e due. » Cathy giacque immobile, sulla schiena, con le mani lungo i fianchi, e fissava il riquadro più chiaro dall'altra parte della capanna dove la luna delineava l'unica finestra. « Ti prego, Dio », implorò. « Fa' che mi guardi come guarda Salina. Solo una volta. Ti prego. » « Che pensi del figlio di Zouga? » Robyn prese il braccio di Clinton. Stavano sulla buia veranda e guardavano la nera notte africana punteggiata di stelle. « E' un ragazzo gagliardo... E non alludo soltanto ai muscoli. » Clinton si tolse la pipa di bocca e guardò nel fornello. « Il suo carro è carico di casse, lunghe casse di legno i cui marchi sono stati stampigliati con un ferro rovente. » « Fucili? » chiese Robyn. « Credo. » « Non c'è nessuna legge contro il commercio dei fucili a nord del Limpopo », gli ricordò Robyn. « E Lobengula ha bisogno di tutta la forza che può raccogliere per difendersi. » « E tuttavia, fucili! Voglio dire, non è giustificato. » Clinton tirò nella pipa e ogni sbuffo di fumo che mandava era più denso e più puzzolente. Tacquero entrambi per un pò. « Ha il suo lato duro e spietato, come suo padre », concluse Robyn alla fine. « Ce n'è bisogno per sopravvivere in questa terra. » Robyn ebbe un improvviso brivido e si strinse le braccia al petto. « Hai freddo? » Clinton fu immediatamente sollecito. « No. Un cattivo presentimento. » « Andiamo a letto. » « Ancora un momento, Clinton. La notte è così bella. » Clinton le mise un braccio intorno alla spalla. « A volte sono così felice che ho paura », disse. « Tanta felicità non può durare per sempre. » Quelle parole parvero dar corpo al vago timore che aveva
perseguitato Robyn per tutto quel giorno. Il presentimento che qualcosa avesse cambiato le loro vite prese forma. « Che Dio ci salvi, tutti. » « Amen », disse Clinton, anche lui a bassa voce, e la portò dentro, sottraendola alla notte. L'interno della grande capanna dal tetto di paglia era a cupola e buio, così che i disegni dei tralicci di rami e della corda di corteccia amorevolmente annodata scomparivano nella penombra sopra le loro teste come gli archi di una cattedrale medievale. L'unica luce proveniva da un piccolo fuoco acceso su un camino di argilla al centro della capanna. Una delle mogli del re vi buttò sopra un'altra manciata di erbe secche e fili di fumo azzurro serpeggiarono verso l'alto, verso il tetto invisibile. Dall'altra parte del fuoco, su una bassa piattaforma di argilla secca coperta da spessi tappeti di pelliccia - sciacallo dal dorso d'argento e scimmia blu, volpe dalle orecchie di pipistrello e zibetto maculato -, sedeva il re. Era una montagna d'uomo, completamente nudo, con la pelle lucidata con grasso così che luccicava come un enorme Budda scolpito in un solido blocco di antracite. La testa era rotonda come una palla di cannone, sormontata dall'anello dell'induna. Le braccia erano enormi, muscolose e grasse, ma le mani che teneva in grembo erano stranamente delicate, dai palmi rosa stretti e dalle dita lunghe. Il tronco era robusto, il petto pendulo. Tutta quella era carne accuratamente coltivata. I boccali di birra e i piatti di carne erano lì a portata di mano. La densa birra di miglio ribolliva lievemente e i tagli di manzo avevano ognuno uno spesso strato di grasso giallo. Ogni pochi minuti una delle sue mogli, in risposta a un cenno del capo o a un piccolo movimento di una mano graziosa, gli offriva un piatto. Peso e dimensioni erano il marchio di un re. Non per niente Lobengula era chiamato il Grande Elefante Nero di Matabeleland. I suoi modi erano lenti, dettati dalla grandissima dignità delle sue dimensioni e del suo rango. Eppure i suoi occhi erano pensosi e profondamente intelligenti, i suoi tratti, nonostante il peso del grasso che li alterava, erano belli e mancavano dei segnì esteriori dell'odiosa crudeltà che doveva far parte della vita di ogni re matabele. « La mia gente s'aspetta che io sia forte e severo. C'è sempre chi è attento al segno della più piccola debolezza in me, come i giovani leoni osservano il capo dalla criniera nera del branco », aveva spiegato Mzilikazi al figlio. « Guarda come i miei pulcini mi seguono per essere nutriti. » Aveva indicato con la piccola lancia reale l'alta ruota di piccoli puntini che girava lentamente nel cielo sopra le colline di Thabas Indunas. « Quando i miei avvoltoi mi abbandoneranno, io sarò polvere. » Lobengula, suo figlio, aveva imparato bene la lezione, ma questo non lo aveva reso brutale. In verità, non s'era mai aspettato
di dover un giorno prendere in mano la lancia reale di suo padre. Non era mai stato l'erede legittimo, c'erano stati fratelli maggiori, figli di madri di rango più alto e sangue più nobile. Guardò ora dall'altra parte del fuoco all'uomo che stava seduto a gambe incrociate. Un magnifico guerriero, il corpo temprato come acciaio nero da lunghe marce e guerre selvagge, la sua comprensione e la sua compassione accentuate dal contatto quotidiano e intimo con uomini comuni, il suo coraggio e la sua lealtà provati a tutto il mondo diecimila volte, così che non c'erano dubbi... Lobengula si scoprì a desiderare di liberarsi di quel terribile peso dell'autorità di re e di piazzarla sulle spalle di quell'uomo. Si scoprì a desiderare quella tranquilla e segreta grotta nelle colline di Matopos nella quale aveva conosciuto gli unici giorni felici della sua vita. L'uomo di fronte a lui era un suo fratellastro; il suo sangue, come quello di Lobengula, discendeva incontaminato da quello di Zanzi di Zululand. Era un principe della Casa di Kumalo, saggio e coraggioso e non perseguitato da dubbi. « Uno così doveva essere re », pensò Lobengula, e l'amore per il fratellastro lo strinse alla gola. Tossì. Mosse un mignolo e una moglie gli portò il boccale di birra alle labbra; bevve una volta, quindi fece cenno che lo portassero via. « Ti vedo, Gandang. » La sua voce era bassa e profonda e vi risuonava ancora la tristezza, perché sapeva di non potersi sottrarre al proprio destino. Si sentiva come uno che viaggi da solo attraverso una foresta battuta da leoni in caccia. Quel saluto consentì a Gandang di rompere il suo rispettoso silenzio. E infatti l'induna batté leggermente le mani e cominciò a levare le rituali lodi del fratellastro, la cui mente, intanto, vagava lontano negli anni. Il suo primo ricordo era quello della strada, la dura strada che veniva da sud, e degli uomini vestiti tutti di marrone sui loro sauri. Ricordava lo scoppio dei fucili, che solo in seguito imparò a temere, e l'odore della polvere da sparo, acre, che il vento portava fin dove lui stava attaccato alla madre, e ricordava i gemiti delle donne che piangevano i morti. Ricordava il calore e la polvere quando trotterellava nudo come un cucciolo di fianco alla madre. Come sembrava alta, con i muscoli della schiena lucidi per il sudore, con Ningi, sua sorella, sospesa nella sua fascia sul fianco, attaccata con la bocca e le manine chiuse a pugno a uno dei grossi seni vacillanti della madre. Ricordava quando arrancava su per le pietrose colline, con l'unico carro di suo padre che traballava davanti a loro. In esso viaggiavano la prima moglie di Mzilikazi e suo figlio Nkulumane, di tre anni più grande di Lobengula ed erede legittimo al regno di Matabeleland. Erano gli unici a non camminare. Ricordava come la schiena di sua madre fosse piegata, come la bella pelle lucida diventasse vizza e le costole cominciassero a sporgere, mentre la fame consumava la sua sostanza e Ningi piangeva perché il ricco flusso di latte del suo seno s'era sec-
cato. Era da qui che iniziava il ricordo di Saala. Si mescolava agli inizi, a quello delle grida e dei canti di una squadra di incursori matabele che ritornavano alla loro colonna. Aveva visto Saala la prima volta alla luce del fuoco acceso, mentre i guerrieri macellavano le bestie catturate e lui addentava la carne, col grasso caldo e il sangue che gli colavano sul petto nudo; festeggiavano infatti, banchettavano, rompendo i lunghi giorni e mesi di fame, col bestiame preso agli uomini bianchi, i buni. Quando il suo ventre fu ben pieno di carne, s'era unito al circolo di principi e principesse matabele che circondava incuriosito i prigionieri, ma non aveva partecipato agli scherni e alle provocazioni degli altri bambini. Saala era la più grande di due bambine. Solo molto tempo dopo lui, Lobengula, aveva appreso che il suo nome era Sarah, ma ancora oggi non riusciva a pronunciarlo. La squadra di matabele aveva sorpreso una piccola carovana di carri boeri e aveva ucciso tutti tranne quelle due bambine bianche. Il bianco della sua pelle era stato la prima cosa che lo aveva colpito. Com'era bianca la sua faccia alla luce delle fiamme, bianca come l'ala di un airone, e non piangeva come la sua sorellina più piccola. Da allora i ricordi divenivano più vividi. Saala che camminava davanti a lui mentre la lenta colonna avanzava nella fitta foresta di alberi spinosi. Saala che prendeva la piccola Ningi dalle braccia della madre e scivolava e cadeva per la debolezza nel fango nero della palude, mentre le zanzare formavano sulle loro teste una scura nube ronzante. Quando fosse morta esattamente la sorellina di Saala, lui non lo ricordava. Poteva essere successo nelle paludi. Lasciarono il suo bianco corpicino nudo e non sepolto e la colonna continuò la sua marcia. Alla fine anche sua madre cadde, ma non si rialzò più e, con le sue ultime forze, porse la piccola Ningi a Saala; quindi si raggomitolò, tranquilla, e morì. Tutte le più deboli morirono così e i loro piccoli morirono con loro, perché delle altre donne nessuna volle prendere gli orfani avendo da badare ai propri figli. E così Saala si legò sulla esile schiena bianca Ningi, come fanno le donne matabele con i loro figli, gli prese la mano nella propria e insieme arrancarono dietro a quella nazione in fuga. A quel punto il vestito a Saala le era caduto dal bianco corpo e lei era come tutte le altre ragazze matabele che non avevano raggiunto la pubertà: completamente nuda. Aveva quasi dimenticato la propria lingua e parlava ora quella della tribù. Il sole le aveva scurito la pelle e le piante dei piedi nudi s'erano incallite, erano diventate dure come pelle di rinoceronte e dunque poteva camminare su pietre taglienti come rasoi e spine pungenti come aghi. Lui aveva finito con l'amare Saala, trasferendo tutto ciò che aveva mai provato per la madre su di lei, e lei rubava il cibo
per darglielo e lo proteggeva dalle prepotenze dei fratelli, specialmente da Nkulumane, il crudele, e dalla madre di Nkulumane, che odiava tutto ciò che un giorno avrebbe potuto ostacolare l'aspirazione di suo figlio a regnare sui matabele. Poi i matabele avevano attraversato il Limpopo, il Fiume dei Coccodrilli, e oltre questo la terra era bella, ricca di selvaggina e di dolci fiumi. La nazione in fuga seguì Mzilikazi tra le magiche colline di Matopos. Lì, sull'isolata cima di una collina, il re incontrò a faccia a faccia la maga di Matopos. Mzilikazi vide il fuoco sprigionarsi dietro ordine della Umlimo, e sentì gli spiriti parlare nell'aria intorno alla Umlimo, cento voci diverse - voci di bambini e vecchi, di uomini e bestie, il grido dell'aquila, il ringhio del leopardo -, e da quel giorno la Umlimo si guadagnò il rispetto e il timore superstizioso del re e della sua gente. La Umlimo indicò di nuovo la via per il nord, e quando i matabele vennero fuori dalle colline di Matopos videro aprirsi davanti a loro una bellissima terra, ricca di erba e di alti alberi. « Questa è la mia terra », disse Mzilikazi, e costruì il suo kraal sotto le Colline degli Induna. Comunque, i matabele avevano perso quasi tutto il loro bestiame e molte donne e bambini erano morti in quel terribile viaggio verso il nord. A Thabas Indunas, Mzilikazi lasciò la sua moglie più anziana, la madre di Nkulumane, come reggente, scelse cinquemila dei suoi guerrieri migliori e andò contro le tribù: per donne e bestiame. Andò verso ovest, nella terra retta dal grande Khama, e non si ebbero notizie di lui. Le stagioni vennero e mutarono, la pioggia seguì la lunga siccità, il caldo seguì il freddo, e ancora nessuna notizia di Mzilikazi. A poco a poco il severo ordine della società matabele cominciò a infrangersi perché la reggente, la moglie più anziana di Mzilikazi, non conosceva limiti alle proprie voglie e si accoppiava vergognosamente con i suoi amanti. Alcune delle mogli minori seguirono il suo esempio e così la licenza si diffuse tra la gente comune; i giovani, senza il permesso reale di entrare nelle donne, aspettavano le fanciulle sul sentiero per il pozzo d'acqua e le trascinavano uggiolando tra i cespugli. Infranto il codice della moralità, seguirono altri vizi. Il bestiame restante, le mandrie che servivano per l'allevamento, venne macellato e il festino durò mesi. Dissolutezza e ubriachezza imperversarono sulla nazione come la peste, e nel pieno di tanta sregolatezza una delle pattuglie matabele catturò un piccolo boscimano giallo che s'era avventurato a ovest, e il boscimano aveva notizie straordinarie. « Mzilikazi è morto », disse a quelli che lo avevano catturato. « Ho cacciato io stesso le mie dita nella ferita al cuore e ho visto la iena divorare la sua carne e frantumare le sue ossa. » La moglie più anziana fece bollire dalle guardie pentole di
acqua e le fece versare sul boscimano, finché la carne gli si staccò dalle ossa e lui morì, perché questo è il trattamento che si merita chi porta notizia della morte di un re. Poi chiamò gli induna a consiglio e li sollecitò a proclamare Nkulumane re al posto del suo defunto padre. Ma nessuno degli induna fu tanto sciocco. Si bisbigliavano tra loro: « Ci vuole più di un cane tswana per uccidere Mzilikazi ». Mentre rimandavano e parlavano, la moglie più anziana divenne impaziente e mandò a chiamare i carnefici, ormai decisa a che suo figlio non avesse più rivali. Saala stava giocando fuori della capanna della regina, plasmando piccoli buoi e figure di uomini e donne di creta per Ningi; attraverso la parete di paglia sentì la regina dare i suoi ordini ai Neri. In preda al terrore, temendo per la vita di Lobengula, corse dalle altre madri reali. « I Neri stanno venendo a uccidere i figli reali. Dovete nasconderli. » Poi Saala lasciò la piccola Ningi, ormai svezzata e forte, con una delle donne reali che era sterile e non aveva figli. « Abbi cura di lei », le bisbigliò, e corse fuori tra l'erba. Lui, Lobengula, aveva ormai dieci anni e stava badando a quel che restava delle mandrie reali: il dovere di ogni ragazzo matabele, il servizio essenziale attraverso il quale imparava i segreti del veld e le abitudini del bestiame, tesoro della nazione. Saala lo trovò che portava la mandria ad abbeverarsi. Era nudo, tranne il piccolo lembo di pelle intorno ai fianchi, e armato soltanto di due corti bastoni da combattimento con i quali avrebbe dovuto tener lontani i predatori e sostenere le sue gare con gli altri pastorelli. Tenendosi di nuovo per mano, lui, il principe matabele, e la ragazza bianca fuggirono e istintivamente si diressero a sud, da dove erano venuti. Vissero di radici e di bacche, delle uova degli uccelli selvatici e della carne delle iguana. Fecero a gara con gli sciacalli e gli avvoltoi per impossessarsi dei resti delle vittime del leone, e a volte soffrirono la fame, ma alla fine si ritrovarono tra le colline di Matopos, dove i Neri non li avrebbero mai seguiti. Dormirono sotto l'unico kaross che Saala aveva portato con sé, sicché trascorsero le fredde notti abbracciati, stretti in cerca di calore. Una mattina presto il vecchio li trovò così abbracciati. Era magro e sembrava pazzo, con strani amuleti e oggetti magici intorno al collo, e i due bambini ne furono atterriti. Saala spinse lui, Lobengula, dietro di sé e, con uno sfoggio di falso coraggio, affrontò il mago. « Questo è Lobengula, il figlio prediletto di Mzilikazi », dichiarò. « Chi gli fa del male fa del male al re. » Il vecchio ruotò gli occhi pazzi e s'insalivò tutto mentre sorrideva con una smorfia, mostrando le gengive senza denti. Poi, all'improvviso, l'aria fu piena del suono di voci di spiriti e Saala urlò; lui, Lobengula, pianse di terrore e si aggrapparono l'uno all'altra.
Poi il mago li condusse, tremanti e piangenti, attraverso passaggi segreti e per erti sentieri, sempre più addentro tra le colline, sinché alla fine giunsero alle grotte che foravano la roccia. Li il vecchio diede inizio all'istruzione del ragazzo che sarebbe stato re. Gli insegnò molti dei suoi misteri, ma non a controllare le voci degli spiriti né a lanciar fiamme puntando il dito né a vedere il futuro in una zucca piena d'acqua di montagna. Lì, nelle grotte di Matopos, lui, Lobengula, imparò la portata e la forza dell'ordine magico. Apprese che i piccoli maghi, gli stregoni, erano sparsi per tutto il paese, e celebravano piccoli riti, facevano piovere, davano amuleti per la fertilità, riconoscevano dall'odore coloro che fanno il male e inviavano i loro rapporti alla grotta di Matopos. Li i grandi maghi, ai quali il vecchio apparteneva, eseguivano le grandi magie, evocavano gli spiriti dei loro antenati e guardavano nelle nebbie del tempo per vedere cosa avrebbe portato il futuro. Sopra a tutti loro c'era la Umlimo. Era un nome soltanto per lui, Lobengula. Umlimo, un nome che anche dopo che ebbe vissuto cinque anni nella grotta ancora lo faceva tremare e sudare. Poi ebbe sedici anni e il vecchio lo portò nella grotta della Umlimo. E l'Umlimo era una donna, una bella donna. Di ciò che lui vide nella grotta della Umlimo non volle mai parlare, neppure a Saala, ma quando tornò da quella grotta c'era tristezza nei suoi occhi e il peso di ciò che aveva saputo sembrava piegargli le spalle. Ci fu un violento temporale la notte del suo ritorno e gli azzurri lampi martellavano sull'incudine delle colline con colpi che torturavano le orecchie di loro due, che giacevano insieme sotto il kaross. Fu allora che la piccola orfana bianca fece di lui ragazzo un uomo, del principe un re; e quando fu il momento gli diede un figlio che era del colore del primo sole al mattino sulla gialla erba invernale, e lui conobbe per l'unica volta nella sua vita la felicità. Nella loro gioia fecero poca attenzione alla notizia che il vecchio mago pazzo portò nella loro grotta. Gli annunciò infatti che Mzilikazi, ricco per i saccheggi e grasso per il bestiame, era tornato a Thabas Indunas, arrivando all'improvviso con il sangue a malapena asciugato sulle lance del suo impi e la rabbia rossa nel cuore. A un cenno di Mzilikazi i Neri radunarono tutti coloro che si erano comportati come se il re fosse morto. Alcuni furono gettati giù dalla rupe dell'esecuzione, altri furono legati a picchetti nella sabbia delle rive del fiume dove i coccodrilli prendevano il sole, altri ancora furono impalati con canne di bambù attraverso gli orifizi segreti dei loro corpi. Ma quando la madre di Nkulumane fu condotta dinanzi al re, pianse e si strappò la carne con le unghie, invocando intanto tutti gli spiriti dei morti perché testimoniassero quanto era rimasta fedele a lui durante la sua assenza, quanto costante era stata la sua convinzione dell'eventuale ritorno di lui e come
durante la sua assenza avesse salvato gli altri figli reali dai Neri e avesse persino mandato Lobengula nel deserto per salvarlo. Mzilikazi, che in fondo era soltanto un uomo, le credette. E tuttavia gli altri morirono a centinaia, vittime della rabbia del re, e la nazione gioì per il ritorno del re e dei bei tempi. Nel frattempo lui, Lobengula, e Saala e il loro figlioletto giallo rimasero nella caverna di Matopos e conobbero la felicità. Lontano, intanto, a sud, al di là del fiume Limpopo, un cacciatore d'elefanti ottentotto si fermò ad abbeverare il cavallo accanto a una casa boera che sorgeva non lontano dal campo di battaglia sul quale i cavalieri boeri tanto tempo prima avevano sconfitto Mzilikazi e lo avevano cacciato via da quel paese. « Ho visto una cosa curiosa », disse l'ottentotto al suo ospite, un uomo grande e solenne e barbuto. « Tra le colline meridionali del Matabeleland, ho visto una donna bianca, adulta e nuda. Era timida come un cervo ed è fuggita via tra le rocce, dove non ho potuto seguirla. » Due mesi dopo, quando l'agricoltore boero portò la famiglia al servizio religioso di Nachtmaal nella nuova chiesa di Rustenberg, riferì la strana storia che il cacciatore ottentotto gli aveva raccontato. Qualcuno ricordò il massacro della famiglia Van Heerden e la scomparsa delle due bambine, Sarah e Hannah, rapite dai selvaggi assassini. Al che Hendrik Potgieter, quel boero dal colorito terreo, nemico dei cafri, salì sul pulpito e tuonò: « I pagani tengono prigioniera una donna cristiana! » E le parole erano un'offesa per ciò che la congregazione aveva di più caro: Dio e le loro donne. « Commando! » ruggì Hendrik Potgieter. « Voglio un commando! » Le donne riempirono i corni della polvere da sparo e versarono il piombo nelle forme delle pallottole, e gli uomini scelsero i loro migliori cavalli ed elessero Potgieter loro capo. Ma non tutto questo veniva fatto per Dio e per le donne, perche tra di loro bisbigliavano: « Anche se non c'è nessuna donna bianca, ho sentito dire che c'è del bestiame nel Matabeleland ». Allora il vecchio mago andò nella grotta di lui, Lobengula, e roteò gli occhi e gracchiò: « I buni hanno attraversato il fiume dei coccodrilli a cavallo di strane bestie. Molti uomini, molti uomini ». E lui Lobengula, capì d'istinto perché il commando boero stava venendo e capì anche che cosa doveva fare. « Rimani qui col bambino », ordinò a Saala. « Io vado al kraal di mio padre e tornerò alla testa dei suoi impi. » Ma Saala era una donna, con la curiosità di una donna, e sangue chiama sangue. Vagamente ricordava che quegli strani uomini bianchi un tempo appartenevano alla sua stessa razza. Quando lui se ne fu andato nel nord, a Thabas Indunas, lei si legò il bambino sulla schiena e uscì dalla grotta. Sulle prime la guidarono gli spari lontani, perché il commando boero vive-
va dell'abbondante selvaggina, poi in seguito udì le loro voci e i nitriti dei loro cavalli, suoni che destarono una terribile nostalgia nel suo petto. Strisciò sempre più vicino al bivacco, con tutta la cautela di un animale selvatico, sempre più vicino, finché poté chiaramente vedere quegli uomini alti, abbronzati dal sole, coperti fino alla gola e ai polsi di stoffa marrone e con i cappelli dalla falda larga sulle teste; sempre più vicino, finché poté udire le loro voci levare lodi al loro Dio cantando gli inni sacri intorno al fuoco del bivacco. Riconobbe le parole e fu invasa dai ricordi. Non era più Saala ma Sarah, e uscì dal suo nascondiglio per andare tra la sua gente. Poi si guardò e vide che era nuda. Guardò il bambino che aveva sul fianco, e vide che era giallo, che i suoi tratti non erano né i suoi né quelli del padre matabele. La consapevolezza del peccato calò su di lei come un'ombra, com'era successo a Eva in un altro Paradiso, e provò vergogna. Si allontanò strisciando e all'alba stava in cima a uno di quei, costoni di granito sul bordo di un precipizio, tra le colline di Matopos. Baciò il figlio, quindi, stringendoselo al petto, si scagliò nel vuoto. Lui, Lobengula, li trovò ai piedi del costone. Li trovò prima degli avvoltoi, e stavano ancora stretti insieme. La stretta di Sarah non aveva ceduto durante la lunga caduta dall'alto del precipizio. Stranamente, sembrava che lei e il figlio dormissero, tranquilli e in pace. A quel ricordo, Lobengula ora sospirò e rivolse il suo sguardo di nuovo sul fratellastro, l'induna Gandang, che stava ancora seduto dall'altra parte del fuoco di fronte a lui. Se solo fosse stato capace di sfuggire alla profezia della Umlimo; perché lei infatti aveva profetizzato il suo destino: Il tuo nome è Lobengula, colui che vola come il vento. Eppure il vento ti porta, in alto come un'aquila. Lobengula terrà la lancia di Mzilikazi. Eppure ancora il vento ti porterà, giù, giù, giù, e con te la tua nazione. Queste erano state le parole della strana e bella donna della grotta, e già la prima parte della profezia s'era avverata. Mzilikazi, il grande guerriero, era morto come una vecchia donna - devastato dall'artrite e dall'idrope e dalla gotta e dall'alcol - nella sua capanna reale. Le sue vedove lo avevano avvolto nella pelle di un toro appena ucciso e lo avevano pianto per dodici giorni, finché i suoi resti quasi erano diventati liquidi per la putrefazione nel caldo dell'estate. Dopo il pianto i reggimenti avevano portato il suo corpo tra le colline di Matopos, le Colline Sacre, e lo avevano sistemato
nella grotta del re. Avevano sistemato poi intorno a lui tutti i suoi beni: il suo assegai, i suoi fucili, persino il suo carro, che era stato smontato e i pezzi sistemati nei crepacci della grotta. I muratori avevano chiuso l'ingresso con blocchi di granito e, dopo il banchetto e le danze, gli induna di Matabele si erano riuniti per decidere chi sarebbe succeduto a Mzilikazi come re. La discussione era durata molte settimane, finché gli induna, guidati dai principi di Kumalo, erano ritornati tra le colline di Matopos recando ricchi doni alla grotta della Umlimo. « Dacci un re! » avevano implorato. « Quello che vola come il vento », aveva risposto la Umlimo; ma lui, Lobengula, era fuggito, cercando sino all'ultimo momento di sottrarsi al suo destino. Gli impi della frontiera lo avevano catturato e riportato a Thabas Indunas come un criminale condotto al giudizio. Gli induna erano andati da lui uno per volta e avevano giurato la propria fedeltà fino alla morte. « Nero Toro di Matabele, il Tonante! Il Grande Elefante. Colui i cui passi scuotono la terra. » Nkulumane era stato il primo dei suoi fratelli a strisciare davanti a lui, e sua madre, la moglie più anziana di Mzilikazi, aveva seguito il figlio in ginocchio. Lobengula s'era rivolto ai Neri che stavano dietro di lui come cani al guinzaglio: « Non desidero rivedere le loro facce ». Era stato il primo ordine suo, pronunciato da vero re, e i Neri avevano preso madre e figlio e li avevano portati nel recinto degli animali, dove avevano loro torto il collo, lesti e senza pietà. « Sarà un grande re », aveva commentato la gente, contenta. « Come suo padre. » Ma lui non aveva conosciuto più la felicità. Ora, con un fremito, si liberò del terribile peso del passato e la sua voce risuonò bassa e profonda: « Alzatì, Gandang, fratello mio. Il tuo contegno mi riscalda come un fuoco di bivacco in una notte fredda ». Dopodiché parlarono, in tranquillità e fiducia, leali compagni di tutta una vita sinché alla fine Gandang porse il fucile Martini-Henry al suo re e Lobengula lo tenne in grembo e carezzò con un dito il freddo acciaio brunito dell'arma, poi si portò il dito al naso per annusare il grasso fresco. « Colpisci il mamba col suo stesso veleno », mormorò. « Questa è la zanna del mamba. » « Il ragazzo, Henshaw, figlio di Bakela, ne ha un carro pieno. » « E allora sarà il benvenuto. Ma ora fammi sentire tutto questo dalla bocca stessa di tuo figlio. Portalo da me. » Bazo si stese faccia al suolo sul duro pavimento di terra battuta della capanna del re e levò le lodi di rito con un groppo alla gola; pur coraggioso com'era, sudava per la paura alla presenza del re.
« Alzati, Bazo, l'Ascia », lo interruppe Lobengula, impaziente. « Avvicinati. » Bazo strisciò a quattro zampe e offrì il gonnellino ornato. Lobengula cavò fuori i diamanti dalla tasca e se li passò tra le dita. « Ci sono pietre più belle di queste in ogni fiume della mia terra », disse poi. « Queste sono brutte. » « I buni ne vanno pazzi. Nessun'altra pietra li soddisfa, ma la loro fame per queste è tale che sono pronti a uccidere chiunque gli sia d'ostacolo. » « Dilania il leone con i suoi stessi artigli. » Lobengula ripeté la profezia della Umlimo e proseguì: « Sono queste piccole e brutte pietre gli artigli del leone? Se sì, che tutti gli uomini vedano come è pronto Lobengula con gli artigli. » E batté le mani perché le sue mogli accorressero. La capanna reale era affollata adesso, file e file di uomini accoccolati di fronte alla bassa piattaforma sulla quale stava Lobengula. Ognuno di loro, eccetto Bazo, portava l'anello dell'induna e i loro nomi formavano l'elenco delle glorie della nazione matabele. C'era Somabula, il vecchio guerriero cuor di leone, e accanto a lui Babiaan, principe di Kumalo, e tutti gli altri. Le loro file erano silenziose e attente, le loro facce gravi alla luce del fuoco che era stato acceso e le cui fiamme balzavano quasi fino all'alto tetto della capanna regale. Guardavano il re. Lobengula stava disteso sulla schiena sulla piattaforma al di là del fuoco. Sotto la nuca aveva un basso poggiatesta scolpito. Solo la punta del pene era coperta dalla zucca secca e scavata, per il resto era completamente nudo. Il suo gran ventre era una montagna e le sue gambe erano come tronchi d'albero. Quattro delle sue mogli stavano accovacciate intorno a lui e ognuna di loro aveva accanto una zucca piena di bianco grasso di bue fuso. Ungevano il re, spargendo il grasso sul suo corpo, dalla gola alle caviglie. Poi, quando ebbero finito, si alzarono in silenzio e uscirono per l'apertura sul retro della capanna che dava nel quartiere delle donne. Cantando a bassa voce, strusciando i piedi e dondolando al canto, un'altra fila di mogli più giovani entrò nel capanno; ognuna di loro recava sulla testa un boccale da birra di terracotta. Ma quei boccali non erano pieni della frizzante birra di miglio. Le mogli si inginocchiarono ai due lati del re e, a un ordine della moglie più anziana, immersero le mani nei boccali e le ritrassero, ognuna di loro con un gran diamante grezzo tra le dita. Cominciarono ad appiccicare le pietre sulla pelle del re, e lo spesso strato di grasso le tratteneva secondo il disegno che quelle formavano sulle lucide gambe di Lobengula. Lavorarono svelte, perché avevano già fatto altre volte quel lavoro, e sotto le loro dita Lobengula si trasformò: divenne una creatura mitologica, metà uomo e metà pesce dalle scaglie lucenti.
I diamanti riflettevano la luce delle fiamme e la proiettavano contro le pareti di paglia e l'alto tetto, schizzanti insetti di luce dorata che lampeggiavano agli occhi degli spettatori accecandoli, così che mormoravano per lo stupore e levarono lodi ancora più alte al loro re. Alla fine il lavoro terminò e le mogli sgusciarono via, lasciando Lobengula steso sullo spesso strato di pellicce e coperto dalla gola ai polsi e alle caviglie di un'argentea e lucente cotta di maglia, ciascun anello della quale era un prezioso diamante; e ogni volta che il petto e il ventre del re s'alzavano e abbassavano alla marea del suo respiro, quell'immenso tesoro bruciava e fiammeggiava. « Induna di Matabele, principi di Kumalo, salutate il vostro re! » « Bayete! Bayete! » Il saluto al re esplose nelle loro gole. « Bayete! » Poi il silenzio fu completo ma carico di attesa, perché era ormai abitudine del re, dopo quel rituale sfoggio del tesoro della nazione, dispensare onori e ricompense. « Bazo. » La voce di Lobengula era altisonante. « Fatti avanti! » Il giovane si alzò dalla sua posizione prona nell'ultima fila. « Bayete, Nkosi! » « Bazo, tu mi hai recato piacere. Ti elargisco un favore. Quale dev'essere? Parla. » « Desidero solo che il re sappia la profondità del mio amore per lui e del mio senso del dovere. Assegnami un compito, ti prego, e che sia arduo e sanguinoso, e il mio cuore e la mia bocca canteranno per sempre le lodi del re. » « Per le natiche reali di Chaka, il tuo cucciolo è affamato di gloria. » Lobengula guardò Gandang nella prima fila degli induna. « E disdegna tutti quelli che chiedono ciondoli e bestiame e donne. » Rifletté un momento, quindi sogghignò. « Nella direzione dell'alba, a due giorni di marcia oltre le foreste di Somabula, su un'alta collina vive un cane mashona che si crede tale gran mago e propiziatore di pioggia da essere al di fuori della portata del re. Si chiama Pemba. » Dalle file degli anziani accovacciati giunse il sibilo di un gran sospiro. Tre volte nella passata stagione il re aveva inviato impi alla collina di Pemba, e tre volte erano tornati a mani vuote. Il nome Pemba era una beffa per tutti loro. « Prendi cinquanta uomini del tuo vecchio reggimento, Piccola Ascia, e portami la testa di Pemba, così che possa vedere con i miei occhi il suo sorriso insolente. » « Bayete! » Trascinato dalla gioia, Bazo superò d'un solo balzo le grige teste degli induna. Atterrò leggero, nello spazio libero davanti al fuoco, e iniziò la giya, la danza di sfida: Così trafiggerò il cane traditore... e così strapperò i visceri ai suoi figli...
Gli induna sorrisero e annuirono indulgenti, ma i loro sorrisi erano allentati dal rimpianto per la furia e la passione della giovinezza che da tempo s'erano raffreddate nei loro petti. Lobengula sedeva sulla panca del suo carro. Era un grosso carro a quattro ruote costruito a Città del Capo con buona quercia inglese, ma ancora mostrava i segni del lungo viaggio dal sud. Non era stato mosso per molti anni e l'erba era cresciuta tra i raggi delle ruote e intorno agli assi. La tenda era bianca e incrostata degli escrementi delle galline che s'appollaiavano sui cerchi dell'intelaiatura, ma la tela proteggeva Lobengula dal sole e la panca, costituita da una cassetta, lo teneva a un livello superiore ai suoi cortigiani, alle guardie, alle mogli, ai figli e ai supplicanti che affollavano il recinto. Il carro era il suo trono e il recinto la sua camera delle udienze. Poiché ci sarebbero stati uomini e donne bianchi in quell'udienza, aveva indossato per l'occasione i suoi vistosi abiti europei. La lunga giacca ricamata d'oro un tempo era appartenuta a un diplomatico portoghese; il ricamo era annerito, mancava una spallina e il davanti non s'abbottonava sul nobile ventre del re per buoni venti centimetri, mentre i polsi gli arrivavano solo a metà avambraccio. La piccola lancia del re, l'asta di mogano rosso e la lama di lucentissimo argento, era nella mano destra e lui la usò per chiamare un ragazzo presente nella ressa. Il giovane era in preda al terrore e la voce gli tremava al punto che Lobengula dovette piegarsi in avanti per sentire. « Ho aspettato che il leopardo entrasse nella stalla delle capre, poi sono corso strisciando e ho chiuso la porta e l'ho barricata con delle pietre. » « E come hai ucciso la bestia? » chiese Lobengula. « L'ho infilzata attraverso le fessure nella parete con l'assegai di mio padre.» Il ragazzo avanzò e depose ai piedi di Lobengula la lucida pelle chiazzata d'oro e di nero. « Scegli tre vacche dalla mia mandria reale, piccolo, e portale nel kraal di tuo padre dicendogli che il re ti ha dato un nome glorioso. Da oggi tu sarai conosciuto come Colui-che-guardanegli-occhi-il-leopardo. » Quando indietreggiò levando le lodi del re, la voce del ragazzo era stridula come quella di una bimba. Veniva dopo un olandese, un bianco grosso e arrogante con una voce viva. « Ho aspettato tre settimane che il re decidesse... » Le parole furono tradotte a Lobengula. « Visto come diventa la faccia dell'uomo quando è arrabbiato? Come le caruncole sulla testa dell'avvoltoio nero. Digli che il re non conta i giorni, forse dovrà aspettare altrettanto, chissà. » E lo mandò via con un gesto, uno scatto della lancia. Lobengula bevve un sorso dalla bottiglia di champagne che
stava accanto a lui sul sedile. Il vino spumeggiò e si riversò sul davanti della giacca ricamata d'oro. Poi, d'improvviso, il viso del re s'illuminò d'un sorriso beato, ma la sua voce risultò lamentevole. « Ti ho mandato a chiamare ieri, Nomusa, Figlia della Misericordia. Sono in gran pena, perché non sei venuta subito? » « Un'aquila vola, un ghepardo corre, ma io sono limitata al passo di un mulo, o re », disse Robyn Codrington, mentre avanzava tra i rifiuti sparsi sul pavimento di terra battuta del recinto e, con uno scacciamosche in mano, si faceva strada tra la folla verso il carro, osando persino colpire uno dei carnefici del re col mantello nero. « Togliti di mezzo, mangiatore di carne umana », gli disse, senza scomporsi. « Va' via, uccisore di bambini. » E l'uomo fece un salto di lato e la guardò arcigno. « Cosa c'è, Lobengula? » chiese quando fu giunta davanti al carro. « Cosa ti fa male questa volta? » « Ho i piedi pieni di carboni roventi. » « Gotta », disse Robyn, toccando le reali estremità grottescamente gonfie. « Bevi troppa birra, o re, bevi troppo brandy e champagne. » Aprì la borsa che aveva con sé. « Tu mi vorresti far morire di sete. Il nome non ti si addice, Nomusa: non c'è misericordia nel tuo cuore. » « Neppure nel tuo, Lobengula », ribatté Robyn. « Mi dicono che hai mandato un altro impi a uccidere la gente di Pemba.» « E' solo un mashona. » Lobengula sogghignò. « Serba la tua compassione per un re che si sente come se avesse lo stomaco pieno di pietre aguzze. » « Indigestione », lo rimproverò Robyn. « L'ingordigia ha ucciso tuo padre e sta uccidendo anche te. » « Ora mi vorresti far morire anche di fame. Tu mi vuoi pelle e ossa, un uomo di nessuna importanza. » « Un magro vivo o un grasso morto », ribatté Robyn. « Aprì la bocca. » Lobengula trattenne il fiato e roteò gli occhi in modo teatrale. « Il dolore è migliore del sapore della tua medicina. » « Ti lascerò cinque di queste pillole. Prendine una quando i piedi ti si gonfiano e il dolore diventa insopportabile. » « Venti » disse Lobengula. « Una scatola piena. Io, Lobengula, re dei matabele, lo comando. Lasciami una scatola di queste piccole pillole bianche. » « Cinque », rispose Robyn, decisa. « Altrimenti le prendi tutte insieme, come hai già fatto una volta. » Il re scoppiò in una gargantuesca risata dondolandosi sul sedile e quasi cadde giù dal carro. « Credo che ti ordinerò di lasciare quelle tue piccole capanne bianche a Khami e di venire a vivere più vicino a me. » « Non obbedirei. » « Per questo non te l'ordino », ribatté Lobengula, con un'altra risata.
« Questo kraal è un porcile, il sudiciume, le mosche... » « Qualche ossicino qua e là e un pò di merda di cane non hanno mai ucciso un matabele », disse il re, quindi tornò serio e le fece cenno di avvicinarsi di più, abbassando la voce così che lei soltanto potesse sentire. « L'olandese con la faccia rossa, sai che vuole costruire una stazione commerciale al guado del fiume Hunyani? » « Quell'uomo è un imbroglione. La merce che tratta è scadente e imbroglierà la tua gente. » « Un corriere mi ha portato questo libro. » Il re porse un foglio piegato e ripiegato a Robyn. « Leggimelo. » « E' di Sir Francis Good. Desidera... » Per quasi un'ora, bisbigliando perché nessuno udisse, Lobengula consultò Robyn su cinquanta diversi argomenti che andavano dalla lettera del Commissario inglese ai problemi mestruali della sua moglie più giovane. Poi alla fine disse: « La tua venuta è stata come la prima dolce pioggia alla fine della lunga siccità. C'è niente che posso fare per la tua felicità? » « Puoi lasciare che la tua gente venga a pregare nella mia chiesa. » Questa volta la risata del re non fu allegra. « Nomusa, tu sei tenace come le termiti che divorano i pali della mia capanna. » Si accigliò e rifletté, poi sorrise di nuovo. « Benissimo, ti lascerò prendere uno, dei miei, purché sia donna, moglie di un induna di sangue reale e madre di dodici figli. Se trovi una della mia gente che risponda a questi requisiti, puoi portarla nella tua chiesa, bagnarla con l'acqua e farle il segno sulla fronte, e può cantare, se lo desidera, inni ai tuoi tre dèi bianchi. » Questa volta Robyn dovette rispondere al suo ghigno ingannevole. « Sei un uomo crudele, Lobengula, e mangi e bevi troppo. Ma ti voglio bene. » « E anch'io ti voglio bene, Nomusa. » « Allora ti chiedo un altro favore. » « Chiedilo. » « C'è un ragazzo, figlio di mio fratello... » « Henshaw? » « Il re sa tutto. » « Ebbene? » « Vuole il re ascoltare la sua richiesta? » « Mandamelo. » Anche da dove si trovava Bazo riusciva a vedere che i granai traboccavano di grano asciugato dal sole ancora sulla spiga. Ce n'era abbastanza da sfamare un esercito, decise, seccato. Non c'era la possibilità di prenderli per fame. I granai erano di forma cilindrica, con le pareti di ramoscelli intrecciati impastati di argilla ed escrementi di vacca. Si levavano su palafitte fatte di pali di mopani perché l'aria vi circolasse sotto e per tener lontani i topi della boscaglia e altri animali nocivi. Erano situati proprio sul bordo del precipizio.
« Quel cane ha portato della buona pioggia sui suoi campi », mormorò Zama, il luogotenente di Bazo. « E' pieno di grano. Forse davvero è un mago della pioggia come dice di essere. » « Acqua », disse Bazo, rimuginando e guardando il costone di roccia. Oltre i granai riusciva a distinguere i tetti di paglia delle capanne della tribù. « Possiamo stanarli con la sete? » chiese, poiché Zama aveva partecipato a una delle precedenti e infruttuose spedizioni contro la fortezza. « Gli altri tre induna ci provarono come prima cosa », rispose Zama, « ma poi uno dei mashona catturati gli disse che c'è una sorgente dalla quale attingono tutta l'acqua che vogliono. » Il sole era dietro la sommità della collina e Bazo dovette socchiudere gli occhi. « C'è della folta vegetazione là... » Indicò una stretta gola che divideva la cima del costone come un colpo d'ascia e che era piena di verde. « Dev'essere là. » Quasi a conferma delle sue parole, a un tratto fuori della gola spuntò la figura lontana di una ragazza. Era resa piccola dall'altezza a cui si trovava rispetto a loro e le sporgenze lungo le quali si arrampicava non erano visibili da dove si trovavano Bazo e Zama. Portava in bilico sulla testa una zucca tappata con delle verdi foglie perché l'acqua non ne venisse fuori a ogni movimento. Arrivata in cima al costone scomparve. « E così », disse Bazo con un grugnito, « dobbiamo arrampicarci noi fino a loro. » « Sarebbe più facile volare », rispose Zama. « Quella roccia scoraggerebbe un babbuino... O un saltarupe. » La roccia era grigia come perla e levigata come marmo. Era striata di licheni, verdi e blu e rossi, come i colori asciutti sulla tavolozza di un artista. « Vieni », ordinò Bazo e, a passo lento e misurato, cominciarono ad aggirare la collina. Man mano che avanzavano, altrettanto facevano, a passo con loro, le guardie armate sulla cima del costone, tenendo d'occhio ogni loro mossa, e se si avvicinavano troppo ai piedi della rupe li investivano con una scarica di pietre, che rotolavano giù levando scintille sul pendio sassoso e rimbalzando pericolosamente vicino alle loro teste, costringendoli infine a mettere da parte la loro dignità e a ritirarsi in fretta. « E' il solito sistema dei mashona », disse Zama. « Pietre invece di lance. » In certi punti il costone era corso da crepe verticali, e tuttavia nessuna di queste andava dalla base fino alla cima, nessuna di esse offriva una maniera per arrivare fin su. Bazo cercava un punto della roccia che fosse stato levigato dalle zampe dei babbuini o dagli zoccoli dei piccoli saltarupe, ma non trovò niente. Il costone circondava l'intera collina, trasformandola in una fortezza. « Là! » Zama indicò una piccola irregolarità sulla superficie. « E' là che due guerrieri cercarono di farsi strada fino alla cima. Si arrampicarono fino a quel piccolo cespuglio. » Cresceva in un
crepaccio sulla superficie della roccia, a una trentina di metri dalla base del costone. « E là la sporgenza si restringe e scompare. Non riuscirono più ad andare avanti, né a tornare indietro. Rimasero appesi là due giorni e tre notti finché le forze gli vennero meno e precipitarono, uno dopo l'altro, sfracellandosi su queste rocce dove stiamo noi. » Proseguirono e, mentre il sole calava, tornarono lì da dove erano partiti, il bivacco alla base della scala. La gente di Pemba aveva costruito una scala di lunghi e dritti pali di mopani legati insieme da corda di corteccia e l'aveva usata per attraversare il punto più basso del costone, un posto dove una gola profonda s'apriva dalla sommità fino a una quindicina di metri dal piano circostante. Come un ponte levatoio, la massiccia scala era controbilanciata da enormi massi in modo che poteva essere facilmente ritirata per mezzo delle sue corde - come era ritirata in quel momento - e la fortezza sulla collina diventava inespugnabile. Quando il sole tramontò, Bazo era ancora appoggiato al suo lungo scudo e guardava in alto al costone, apparentemente ignaro degli insulti gridati dai mashona che gli giungevano nel silenzio della sera. « Pustole sulle natiche grasse di Lobengula. » « Cuccioli del cane rabbioso Lobengula. » « Merda secca dell'elefante matabele. » Solo quando fu troppo buio per distinguere la cima del costorie Bazo s'allontanò, ma rimase seduto fino a tardi davanti al fuoco e si avvolse nel suo kaross solamente quando in cima al kopje sorse la grande stella bianca. Ma anche allora il suo sonno fu turbato. Sognò acqua, ruscelli, laghi e cascate. Si svegliò prima della luce e controllò che le sentinelle fossero all'erta, dopodiché sgusciò via dal campo e, protetto dal buio, si arrampicò sulla base del costone, nel punto direttamente sotto la gola piena di vegetazione, dove il giorno prima aveva visto la ragazza recare la zucca piena d'acqua. Udì il gorgoglio dell'acqua e si sentì ottimista. Guidato da quel rumore, avanzò a tentoni nel buio e trovò la sorgente alla base del costone. Riempiva un piccolo bacino naturale di roccia grigia e traboccava per andare a perdersi nel terreno piano alla base del costone. Ne raccolse nella mano a coppa ed era ghiacciata e dolce di sapore. La sorgente sprizzava fuori da una buia crepa nella roccia. Bazo la esplorò nel breve tempo che ancora restava prima che, aumentando, la luce lo rendesse visibile alle sentinelle sopra il costone. « Su, in piedi », gridò quando fu di ritorno al bivacco. « Tutti voi, in piedi! » E i suoi uomini si levarono dalle stuoie con l'agilità di un leopardo, con le lance già in pugno. « Cosa c'è? » sibilò Zama. « Danzeremo », rispose Bazo, e quelli si guardarono increduli e stupiti. Sul fianco settentrionale del kopje, nel punto più lontano
dalla sorgente nella roccia e dalla lunga scala retrattile, danzarono. E mentre loro danzavano tutta la gente di Pemba stava allineata in cima al costone a guardarli, dapprima in stupito silenzio e poi urlando, sboccati, e ridendo, sbeffeggiando e lanciando sassi. « Ne ho contati quattrocento, senza i bambini. » Zama ansimava mentre batteva i piedi a terra e saltava e colpiva l'aria con la lancia. « Ce ne saranno abbastanza per ognuno di noi », disse Bazo, e piroettò, con lo scudo sopra la testa. Danzarono finché il sole fu alto, dopodiché Bazo li condusse di nuovo al campo; quando poi si distese sulla sua stuoia e s'addormentò, immediatamente i suoi guerrieri guardarono Zama stupiti e Zama poté solo stringersi nelle spalle e levare gli occhi al cielo. Un'ora prima del tramonto Bazo si svegliò. Mangiò un pò di farinata di mais e bevve un pò di latte acido da una zucca, quindi chiamò Zama e parlò tranquillamente con lui finché fu quasi buio. Zama ascoltava e annuiva e gli occhi gli brillavano, e mentre parlava Bazo affilava l'argentea lama del suo assegai finché sul suo filo tagliente la luce sfavillò come tante piccole stelle. Quando fu buio Bazo s'alzò, porse il suo lungo scudo a Zama e, armato solo dell'assegai, s'allontanò a grandi passi dal bivacco. Alla sorgente alla base del costone, si tolse il gonnellino, il mantello e il copricapo, poi, completamente nudo, con solo l'assegai legato dietro la schiena con un laccio di cuoio, entrò nell'acqua della pozza. Il riflesso delle stelle sulla sua superficie esplose in tante schegge di luce. L'acqua gli cascava addosso dalla fontana nella roccia ed ebbe un brivido di freddo, poi allungò un braccio verso la scura apertura, trovò una presa per le dita, trasse un profondo respiro e si tirò su. Con un solido e nero getto d'acqua che gli scorreva sulla testa, trattenne il fiato e, dimenandosi, s'inerpicò su nell'apertura nel costone. La forza dell'acqua lo contrastava e ci voleva tutta la sua forza per avanzare contro di essa. A palmo a palmo, col petto che gli si gonfiava in cerca d'aria, avanzò strisciando e poi, proprio quando aveva concluso che si sarebbe dovuto lasciar trascinare di nuovo giù nella pozza, la testa gli venne fuori dall'acqua e poté respirare. Inspirò aria disperatamente, piantando spalle e ginocchia contro la roccia levigata dall'acqua per reggersi a dispetto della corrente che veniva giù. Era molto buio, non c'era la minima luce, neppure di una stella, e quel buio sembrava avesse un peso fisico che minacciava di schiacciarlo. Allungò il più possibile il braccio e trovò un'altra presa per le dita, dopodiché con tutta la forza delle braccia guadagnò qualche altro metro, quindi allungò di nuovo il braccio. La roccia era come vetro, e in certi punti ricoperta di una spessa barba di alghe, viscida come la pelle di un'anguilla. Il freddo era una
cosa viva, terribile, che gli avvolgeva il corpo. Le ossa gli facevano male e le dita erano così intirizzite che a malapena riusciva a tenere la presa. Intanto l'acqua gli si rovesciava addosso con forza, picchiando sulle spalle, entrandogli nel naso e nella bocca e nelle orecchie, riempiendogli la testa di un furioso ruggito animale. Eppure lui continuava a salire in quel tunnel irregolare e serpeggiante, a volte in posizione orizzontale, avanzando a furia di contorcimenti sul ventre, picchiando la testa contro il tetto se la sollevava troppo precipitosamente per trovare quei pochi preziosi centimetri d'aria intrappolata là sotto. Ma per lo più il tunnel saliva verticalmente, e lui puntava gomiti e ginocchi per reggersi contro la cascata, mentre la pelle, ammollata dall'acqua, veniva strappata via a pezzi contro la roccia; ma i centimetri divennero metri e i minuti ore, e lui continuava a salire. Poi il tunnel si restrinse così bruscamente che rimase intrappolato, fredda e viscida roccia contro le spalle e altra dura roccia che gli premeva tra le scapole. Non poteva andare avanti e non poteva tornare indietro. Era intrappolato nel roccioso ventre della montagna e urlò di terrore, ma la sua voce si perse nel rombo dell'acqua che cascava e che gli si precipitò in gola. Si dibatté con l'ultima forza disperata che ancora gli restava e d'un tratto, a furia di calci, strisciò in su in una stretta caverna, dove poté respirare di nuovo e dove l'acqua mulinava in piccoli gorghi così che, non più trascinato dalla sua corsa, poté riposare per qualche attimo. Mentre tossiva e annaspava per i polmoni invasi d'acqua, si rese tuttavia conto di aver perso l'assegai; lo cercò a tentoni dietro di sé finché sentì sotto le dita il laccio che aveva attorno alla schiena: c'era ancora qualcosa legato alla sua estremità. Ritirò a poco a poco il laccio finché le dita si chiusero sulla familiare asta e lui sospirò di sollievo portandosi alle labbra l'amato acciaio. Ci mise un pò a rendersi conto che l'aria nella piccola caverna era dolce; se la sentiva muovere sulla pelle come le dita di un'amante, calda e soffice: calda, fu questo che gli fece balzare il cuore in petto. Individuò l'apertura attraverso la quale il torrente risucchiava aria dalla superficie e, alla fine, trovò la forza per esplorarla. S'arrampicò lentamente, angosciosamente, e di colpo di fronte a lui ci fu una striscia bianca di luce, distorta dall'acqua che precipitava giù nera. Spinse la testa in avanti e il vento notturno gli carezzò la guancia. Poi avvertì odore di fumo ed erba e terra, quest'ultima che ancora sentiva del caldo del sole, e subito la grande stella bianca brillò sulla sua testa nel cielo scuro. Quel terribile passaggio collegava la sorgente alla base del costone con quella in alto. Non aveva la forza di trascinarsi neppure di qualche metro lontano dalla sorgente e lì, sotto un cespuglio, su un soffice letto di foglie, giacque ansimando come un cane. Esausto e come drogato dal freddo, dovette scivolare in un
sonno profondo perché si svegliò con un sobbalzo. Il cielo era impallidito: poteva vedere soltanto i rami del cespuglio sulla sua testa che vi si stagliavano contro. Si tirò fuori e scoprì che gli doleva persino la spina dorsale e che i gomiti e le ginocchia sbucciati gli bruciavano anche al solo tocco del vento dell'alba. C'era un sentiero, ben segnato da molti piedi, che andava dalla sorgente fin su agli ultimi metri del costone; quando vi si inoltrò guardò giù e vide, lontano là sotto, il bosco argentato dalla luna e le piccole scintille che erano i fuochi del suo bivacco. Muovendosi, sentiva i muscoli sciogliersi e alleggerirglisi, sentiva il sangue riaffluirgli alle gambe. Benché fosse preparato a trovarne una, non c'era invece nessuna sentinella alla fine del sentiero; allora si guardò intorno con cautela da dietro un masso di fianco alla gola e vide il tranquillo villaggio. « Per i denti di Chaka, dormono come cani grassi e indolenti », pensò. Le porte erano tutte chiuse e il fumo usciva da ogni fessura delle pareti. Stavano mezzo soffocandosi per tenere lontane le zanzare. Riuscì a sentire la tosse roca di un uomo nella capanna più vicina. Stava per sgusciar fuori da dietro il suo nascondiglio di roccia, quando un vago movimento nella penombra tra le capanne lo spinse di nuovo a ripararsi. Una figura scura stava avanzando dritto nella sua direzione. Cambiò presa sull'assegai ma a soli pochi passi da lui la figura si fermò. Era avvolta in un mantello di pelle contro il freddo dell'alba ed era piegata come una vecchia. Finché si raddrizzò e si tolse l'indumento. Lui si sentì strozzare il fiato in gola e si morse le labbra. La ragazza, nuda, era in quel delizioso e tenero stadio che viene subito dopo la pubertà, poco prima della femminilità completa. C'erano le ultime vulnerabili tracce dell'infanzia nelle natiche piccole e rotonde e nella maniera goffa che aveva di stare con le punte dei piedi rivolte all'indentro. Era nuda e la prima luce dava una chiara luminosità alla sua pelle nera. Poi girò il capo. Aveva un lungo collo sottile e la bella testa vi si bilanciava perfettamente sopra: era piccola e coperta da un complicato disegno di treccine strettissime. La fronte era alta e levigata, gli zigomi pronunciati alla egiziana, le labbra cesellate e perfettamente simmetriche, come le ali di una bella farfalla, e quando si guardava intorno brillava luce nei suoi enormi occhi a mandorla. Poi si accovacciò e la sua acqua schizzò a terra. Fu un suono che a lui, inspiegabilmente, riempì il petto di un tenero sentimento, perché l'atto era così innocente e naturale. La ragazza s'alzò e, un istante prima che si coprisse di nuovo la testa con il mantello, lui ne scorse ancora una volta il viso. Si rese conto di non aver mai visto niente di tanto bello in tutta la sua vita. Rimase a guardarla fisso, con un particolare e pungente desiderio che pareva consumasse il suo stesso essere,
mentre la ragazza s'affrettava a ritornare tra le capanne. Gli ci vollero parecchi minuti per alzarsi e poi, mentre procedeva, scoprì che per quanto tentasse non riusciva a scacciare l'immagine della ragazza dalla sua mente. Il sentiero che conduceva dal villaggio alla scala retrattile era inconfondibile. Era largo e la sua superficie levigata. Ai due lati c'erano muri di pietre lavorate dietro i quali i difensori potevano affrontare qualunque attacco venisse dal sentiero. C'erano anche mucchi di sassi a intervalli regolari lungo il sentiero, pronti per essere lanciati contro chiunque tentasse di forzare la scala o di farsi strada su per il sentiero. Questo s'infilava ripido nella gola e terminava su un'ampia piattaforma nella roccia. Ora c'era più luce e lui vide che lì c'erano sentinelle; due di loro stavano proprio sul bordo e guardavano la pianura, quindici metri sotto la piattaforma: erano di guardia alla massiccia scala controbilanciata. Più oltre, quattro guardie stavano accovacciate intorno a un piccolo fuoco fumoso, e a lui venne l'acquolina alla bocca nel sentire l'odore di focacce di mais arrostite. Gli uomini parlavano col tono basso e sonnacchioso di chi ha fatto una lunga guardia e davano la schiena alla gola, perché non s'aspettavano che un nemico potesse venire da quella direzione. S'avvicinò strisciando. Nell'angolo della piattaforma c'era un altro mucchio di pietre, pronte a essere buttate giù dal costone dalle guardie. Strisciò nell'ombra dietro di esso. Non dovette aspettare molto. Vagamente, portato dal vento del mattino, sentì il canto. Zama aveva cominciato la danza sotto il costone. Il canto era l'inno di combattimento del suo reggimento e a lui pulsò il sangue nelle vene. Sentiva avvicinarsi l'inizio della divina follia. Una sensazione che uomini inferiori ricavano solo fumando droga. Sentì il sudore spuntare sulla propria pelle e la follia montare dallo stomaco al cuore: sentì il sangue pulsargli alla gola, sentì gli occhi bruciargli e gonfiarglisi. Le guardie ora avevano lasciato il fuoco e s'affollavano sul ciglio del costone, guardando in basso, ridendo e indicando. « Sentite abbaiare i cuccioli di Lobengula! » « Guardateli danzare come vergini alla Festa dei Primi Frutti! » Il segnale che aveva convenuto con Zama era la conclusione dell'inno di battaglia, ma lui a stento riusciva a trattenersi, ad aspettare. S'alzò dal suo nascondiglio. I muscoli gli si tesero, la testa scattò all'indietro come quella di un pazzo, e nella luce dell'alha i suoi occhi erano vitrei come cocci di ceramica: la rossa rabbia del feroce guerriero. In quell'istante il lontano inno terminò. Il suo grido raggelò gli uomini sul ciglio del costone. Fu il muggito del bufalo colpito al cuore, il grido dell'aquila che piomha sulla preda. Nell'attimo paralizzante prima che riuscissero a voltarsi, li
colpì. Caricò a braccia tese e precipitò quattro di loro nel vuoto. Si dimenarono e rigirarono nell'aria mentre cadevano, e urlarono lungo tutto il volo fin giù, una nota alta che andava diminuendo finché tacque improvvisamente. La carica era stata così impetuosa che a momenti li seguiva nel vuoto; per un attimo rimase in bilico sul ciglio, poi riprese l'equilibrio e si girò per colpire all'improvviso uno dei sopravvissuti. La lama entrò nel ventre dell'uomo e uscì dall'altra parte, trapassandogli visceri e reni e frantumandogli la spina dorsale, e quando lui ritrasse l'acciaio il sangue vitale gli schizzò caldo sull'avambraccio e sul petto. L'ultima sentinella scappò via, silenziosa e disperata, sul sentiero e lui la lasciò andare. Saltellando lungo il ciglio del costone, poi, raggiunse il punto in cui era assicurata la cima della scala. Le corde che la tenevano erano di corteccia ritorta e intrecciata, rinforzata da liane e cinghie di cuoio. Erano grosse come il suo braccio e lui mutò presa sull'assegai per un fendente. Le corde saltavano e crepitavano mentre lui le colpiva ripetutamente. Grugniva a ogni colpo, socchiudendo gli occhi contro le schegge di legno e corteccia che volavano. Dietro di lui, sul sentiero, sentì il mormorio di molte voci. La sentinella stava chiamando gli altri come cani da caccia, ma lui si rifiutò di voltarsi prima che il lavoro fosse compiuto. Una corda cedette e la grande scala s'abbassò e tremò. Tagliò ancora, cambiando presa per colpire in senso opposto, e le altre corde saltarono. La scala s'abbassò in avanti, poi precipitò, prendendo velocità, e i pali scricchiolarono e cigolarono coprendo le voci degli uomini che stavano dandogli addosso. Il fondo della scala colpì il suolo ghiaioso ai piedi del costone con uno schianto e, nell'impatto, alcuni dei montanti si spezzarono con un rumore secco. La cima della scala era ancora sicura lì ai suoi piedi, tutto il resto pendeva contorto come il sartiame di una nave disalberata. Rimase lì fermo il tempo necessario per vedere Zama e i suoi guerrieri sciamare su per quel groviglio di corde e pali appesi. Poi si girò. Stavano venendo giù per il sentiero, una solida falange di corpi neri e di armi luccicanti; ma la loro marcia esitò quel tanto perché lui si precipitasse in avanti e raggiungesse la stretta apertura nel muro prima di quelli che erano in testa. Con la solida roccia che gli proteggeva i fianchi, gli rise in faccia e fu una risata che li fermò di colpo: quelli che stavano davanti spingevano indietro e quelli che stavano indietro spingevano avanti. Uno di loro scagliò una lunga lancia che levò scintille dal muro all'altezza della sua testa. Bazo spinse in avanti l'assegai e l'infilzò nella calca dei corpi presi nello stretto budello tra i muri di pietra. Le grida e i gemiti lo stimolarono, e il sangue delle ferite gli schizzò sul viso e gli finì nella bocca aperta, una terrificante sorsata che lo rese ancora più folle. Gli altri si dispersero e fuggirono, lasciando quattro di loro a contorcersi sul
sentiero. Lui guardò dietro di sé. Nessuno dei matabele aveva raggiunto la cima della scala. Tornò a guardare verso il sentiero e vide che i veri uomini stavano venendo. Quelli erano i migliori guerrieri, i lancieri scelti: non c'erano dubbi sulla loro superiorità rispetto alla calca che aveva appena messo in fuga; erano più alti e più possenti nel fisico, le loro espressioni erano truci e determinate e la loro formazione ordinata e controllata. Gli altri intanto stavano avanzando a file strette verso il punto nel quale si trovava lui, con gli scudi sollevati e le lance puntate, e alla loro testa danzava un vecchio vizzo e scheletrico con la faccia sconvolta da una qualche terribile malattia, il naso e le orecchie divorate e le guance e la fronte coperte da chiazze bianco-argento. Alla vita e al collo portava appesa l'attrezzatura delle sue arti magiche e urlava e farfugliava come una scimmia arrabbiata. « Uccidete il cane matabele. » Lui era nudo, senza scudo, ma sollevò l'assegai e rimase lì fermo ad aspettarli, loro e il loro orribile capo, e rise di nuovo la gioiosa risata di chi ha vissuto una vita intera negli ultimi pochi secondi. « Bazo! » Udì il grido al disopra della sua stessa rabbia, e si girò. Zama s'era arrampicato strisciando sulla piattaforma, stremato dalla lunga salita su per l'oscillante scala contorta. Si mise in ginocchio e lanciò sulla piattaforma il grande scudo chiazzato. Come un falco che arriva ad ali spiegate, lo scudo si posò sulle spalle di lui, Bazo, che rise e si precipitò innanzi. Il suo assegai s'immerse nella carne marcia dello stregone come se fosse una patata bollita e Pemba lanciò un ultimo grido. « Bazo, aspetta! Lasciane qualcuno anche a noi! » urlarono i cinquanta matabele dietro di lui, mentre s'arrampicavano sulla piattaforma. Quindi la muscolosa spalla di Zama fu accanto alla sua e unirono gli scudi e insieme invasero il sentiero come le piene improvvise d'estate invadono i fiumi asciutti. Fu un gran bell'infilzare, una gloria della quale avrebbero cantato a lungo. Gli assegai sembravano mantenere il loro filo tagliente nonostante gli innumerevoli infilzamenti, e le braccia che li reggevano non si stancavano mai, nonostante il gran lavoro. I matabele infuriarono sulla cima della collina da una estremità all'altra, ruggendo di frustrazione quando gli ultimi uomini di Pemba gettarono via le lance e si lanciarono giù dal costone, andando incontro a una facile morte proprio mentre gli assegai erano ancora assetati e la follia ancora impazzava tra loro. Poi Bazo e i suoi tornarono indietro e attraversarono il villaggio, perquisirono le capanne, lanciarono in alto bambini e neonati cogliendoli con la punta dell'assegai quando ricadevano, e immersero l'acciaio tra le mammelle vizze di una vecchia in fuga, perché la follia non passa rapidamente.
Con una spallata, Bazo aprì la porta di un'altra capanna e Zama balzò al suo fianco, ambedue tinti dalla gola alle ginocchia di rosso sangue gocciolante, i visi contorti e orribili a vedersi, due maschere macchiate di sangue. Qualcuno cercò di fuggire dal buio interno della capanna. « Tocca a me! » ruggì Zama, e puntò il suo lungo acciaio. Il primo sole, basso, inviò un raggio attraverso la porta aperta, brillando sull'assegai di Zama e cadendo nello stesso istante sui grandi occhi a mandorla atterriti e gli alti zigomi egiziani della ragazza che stava per uccidere. L'acciaio di Zama batté contro lo scudo di Bazo e fu deviato oltre la guancia della ragazza per la distanza di appena un dito, e il colpo si spense nell'aria. Prima che Zama potesse colpire di nuovo, Bazo fu sulla ragazza coprendola con lo scudo, così come l'airone copre il suo piccolo con l'ala, e ringhiò contro l'amico come un leopardo il cui cucciolo è minacciato. Dopo la prima stancante giornata della marcia di ritorno, mentre la lunga fila di prigionieri legati con una fune riposava esausta e avvilita all'ombra di un folto di msasa, Bazo ripercorse tutta la fila e si fermò accanto alla ragazza. « Tu! » disse, e con un colpo dell'assegai tagliò la fune che aveva al collo. « Cuoci il mio pasto! » Mentre lei si dava da fare davanti al fuoco, Bazo scambiava battute con Zama e i suoi uomini, evitando però di guardarli in faccia. Mangiò quello che lei aveva cucinato senza mostrare né piacere né disgusto, mentre la ragazza stava inginocchiata a rispettosa distanza e guardava ogni boccone che lui prendeva. Poi, a un tratto, quando ebbe finito di mangiare, lei strisciò fino al suo fianco con quella sconcertante grazia silenziosa e sollevò lo strato di foglie appassite sulla gonfia e ormai incrostata ferita di lancia nel fianco di Bazo. Era un'impertinenza e lui alzò la mano per colpirla, ma poi la lasciò ricadere. Lei non aveva indietreggiato e i suoi gesti erano sicuri e competenti. Pulì la ferita con dita abili, quindi stappò due dei piccoli corni che portava alla cintola e con la polvere che contenevano fece una poltiglia. Bruciò come fuoco per alcuni secondi, poi diede una sensazione di sollievo. Bazo rimase impassibile, ma quando uno dei matabele si avvicinò per legarla di nuovo agli altri prigionieri, s'accigliò e l'uomo tirò via. Quando poi si stese sulla sua stuoia, lei si acciambellò come un enunco ai suoi piedi. Bazo si aspettava che tentasse di fuggire una volta stabilito il campo, invece dopo mezzanotte la ragazza ancora non si era mossa e lui si addormentò. Un'ora prima dell'alba, quando lui si alzò per controllare le sentinelle, c'era della brina sull'erba e sentì i denti della ragazza battere. Nel passare, allora, la coprì con il proprio mantello di pelliccia e lei vi si rannicchiò subito sotto. Quando Bazo ordinò che la marcia avesse inizio per quel giorno, la ragazza aveva la stuoia di lui e la pentola in bilico sul-
la testa e, durante la marcia, poi, una dozzina di volte, Bazo sentì il bisogno di tornare indietro lungo la serpeggiante colonna, rallentando ogni volta il passo quando arrivava all'altezza di lei. Osservava allora il gioco dei muscoli dietro la sua schiena, il rollio delle tonde natiche nere e il sussultare dei lucidi seni scuri. Ma quando lei girava la testa e gli sorrideva timidamente, assumeva allora un'aria gelida e tornava a grandi passi in testa alla colonna. Quella notte si concesse un cenno d'approvazione col capo quando assaggiò ciò che gli aveva cucinato, e quando lei gli curò la ferita disse: « Non mi dà più calore ». La ragazza sollevò gli occhi. « Chi ti ha insegnato queste cose? » insisté Bazo. « Pemba, il mago », bisbigliò lei. « Perché? » « Ero la sua apprendista. » « Perché tu? » « Ho il dono. » « Allora, piccola maga, fammi un oracolo », disse Bazo ridendo, e lei sollevò il capo e lo guardò con quegli sconcertanti occhi a mandorla, lucenti come pece. « Non prendermi in giro, signore. » Nkosi, signore, lo aveva chiamato, ma lui smise di ridere e provò un brivido dietro la schiena. Quella notte, quando la sentì tremare, sollevò il kaross e lei vi s'infilò sotto. Lui finse di dormire, ma il suo corpo era teso ed era consapevole di ogni minimo movimento della ragazza nel disporsi a dormire. Sarebbe stato così facile inchiodarla giù con una mano sul petto, e intanto spingere un ginocchio tra i suoi. Il solo pensiero gli fece storcere il muso e mandare un grugnito. « Signore? » bisbigliò lei. « Qualcosa ti tormenta? » « Come ti chiami? » chiese Bazo non trovando una risposta, e s'accorse di bisbigliare anche lui. « Tanase. » « Tanase. » Lo pronunciò e vide che aveva un bel suono, pur riconoscendo che era un nome rozwi, una delle tribù divise dei mashona, e pur non conoscendone il significato. « Io conosco il tuo nome. Tutti lo pronunciano con rispetto », disse lei, « Bazo, l'Ascia. » « Ho ucciso il tuo padrone, Pemba, con le mie mani. » Non avrebbe saputo dire perché lo aveva confessato. « Lo so », bisbigliò lei. « Mi odi per questo, piccola maga? » « Ti lodo per questo! » La voce le tremò appena e le sue labbra sfiorarono quelle di lui sotto il kaross. « Lodi? Non amavi Pemba come un cane ama il suo padrone? » « Lo odiavo, e quando vidi la sua morte nella zucca magica, fui piena di gioia. » « Hai visto la sua morte? » « Ho visto la sua morte... Come ho visto il tuo viso, molto
prima che tu venissi a prendermi. » Bazo ebbe un fremito involontario e lei se ne accorse. « Hai freddo, signore. » Gli si fece più vicino. Il suo corpo era caldo e morbido, lui sentì la propria carne rispondere a quel contatto. « Era malvagio oltre ogni dire. Le cose che mi ha costretto a fare non le dimenticherò mai. » « Ha usato il tuo corpo? » C'era un certo nervosismo nella voce di lui. « Neppure Pemba oserebbe violare il corpo di una delle elette, perché strappare il velo della verginità significa distruggere il dono. » « Il dono? » « Il dono di prevedere, che quelli come Pemba stimano molto. » « E allora cosa ti costrinse a fare? » « Oscure cose, cose da mezzanotte, torture non del corpo ma dello spirito. » Ora toccò a lei fremere; si girò verso Bazo e si aggrappò al suo ampio petto liscio nascondendovi contro il viso così che la voce risultò soffocata e lui a stento afferrò le sue parole. « Non volevo essere scelta, odio e temo ciò che mi aspetta se seguo quella strada. » « Pemba è morto. » « Tu non capisci. Pemba era solo un piccolo mago, mi aveva già insegnato quasi tutto quello che sapeva. Poi sarei stata chiamata da quelli il cui nome non oso pronunciare ad alta voce. Quell'appello potrà ancora venire, e io non sarò capace di ignorarlo. » « Tu sei sotto la mia protezione. » « C'è una sola maniera in cui puoi proteggermi, Bazo, signore! » « Quale? » « Come hai distrutto Pemba con l'affilata lancia d'acciaio, distruggi il mio dono con la tua grande lancia di carne, lacera il mio velo e lascia che questa cosa vada via da me. » Lo sentì, caldo e pressante, che aderiva a lei, e il suo corpo parve fondersi e diventare flessibile e pieghevole. « Ah, sì, signore. Rendimi come le altre donne, così che possa sentire il tuo nobile ventre sul mio la notte, e possa sentire tuo figlio scalciarmi in grembo e succhiare al mio seno quando glielo porgo. » « Tutte queste cose avrai, Tanase. » La voce di lui era roca per il desiderio. « Quando arriveremo a GuBulawayo il re mi ricompenserà e mi darà licenza di entrare nelle donne e di prendere moglie. » « Signore, è pericoloso, aspettare. » « Non voglio possederti come una schiava. Sarai la prima e più importante delle mie mogli. » « Signore... » « Basta, Tanase, non tentarmi più, perché ciò che tu senti,
per quanto duro possa essere, non è pietra ma carne. » « Nkosi, tu non conosci il potere dei maghi. Salvami da loro. » « Conosco le leggi e i costumi matabele, e questo è tutto quanto un uomo deve conoscere e rispettare. » L'esploratore di Bazo ritornò di corsa, col sudore che gli scorreva lungo la schiena e il petto, e gridò il suo rapporto non appena ebbe raggiunto la testa della colonna. Bazo si girò di scatto e lanciò tre ordini. Immediatamente la colonna si chiuse su se stessa e i prigionieri furono costretti ad accoccolarsi cori una dozzina di guerrieri di guardia. Il resto dei matabele si schierò dietro Bazo, che li condusse via a un passo che era tra il trotto e la corsa e che sollevò polvere fino alle ginocchia. Bazo stabilì il suo agguato con occhio esperto. Scelse un posto dove il terreno accidentato e la fitta boscaglia costituivano uno stretto passaggio, e il cavaliere solitario lo imboccó. I lunghi scudi furono subito intorno a lui, stringendolo in mezzo, mentre il cavallo nitriva e frenava scivolando. Il fucile era estratto a metà dal fodero di cuoio accanto al ginocchio del cavaliere, quando Bazo lo fermò con un grido. « Troppo tardi, ormai. Potresti essere già morto e già gli sciacalli potrebbero banchettare col tuo corpo. Sei diventato incauto, nonostante tutto quello che ti ho insegnato, Henshaw. » Ralph lasciò scivolare il fucile nel fodero e alzò le mani; piacere e disappunto gli si leggevano in viso. « Scuoti qualsiasi albero e ne cadrà un matabele. » Il suo tono era ironico. Smontò di sella e s'avvicinò a grandi passi a Bazo. « Mi aspettavo di vedere già l'anello dell'induna sulla tua testa, o grande uccisore di mashona », disse ridendo mentre si abbracciavano. « Presto, Piccolo Falco, molto presto. Ma tu, pensavo che il tuo carro fosse carico di avorio... » « Fatto, Piccola Ascia, già fatto. » Ralph fece qualche passo indietro e lo guardò. Nei mesi passati dalla loro separazione entrambi erano cambiati. In Bazo non restava nessuna traccia del giovane operaio degli scavi che aveva fatto i suoi turni nel pozzo e mangiato le razioni di Zouga Ballantyne. Quello era un guerriero e un principe, alto e piumato e fiero. Ralph, dal canto suo, non era più il ragazzo immaturo che eseguiva solo gli ordini del padre. Era un uomo cresciuto adesso, con la testa alta e un senso di sicurezza nella posizione delle spalle. E tuttavia, sebbene i suoi abiti fossero consumati dal viaggio e macchiati, ancora si vedevano le tracce dell'insegnamento di Zouga Ballantyne, perché erano lavati di recente e le guance erano state rasate quella stessa mattina. Si guardarono e l'affetto che li legava fu temperato dal rispetto. « Ho abbattuto una bufala neppure due ore fa. »
« Sì. » Bazo annuì. « E' stato lo sparo che ci ha portati qui. » « E allora sono contento. La carne di bufala è grassa e ce n'è abbastanza anche per un matabele affamato. » Bazo lanciò un'occhiata verso il sole. « Anche se ho fretta, in questa mia missione per il re, i miei prigionieri hanno bisogno di riposo. Ti aiuteremo a mangiare la tua bufala, Henshaw, ma all'alba proseguiremo. » « Allora abbiamo molto da dirci, e poco tempo per farlo. » Ci fu lo schiocco di una frusta. Bazo guardò alle spalle di Ralph e vide i buoi avanzare lenti tra gli alberi col carro che gli traballava dietro. « Sei sempre in cattiva compagnia », disse ironico, con un ghigno, riconoscendo Umfaan alla testa del tiro e Isazi, il piccolo zulu, al suo fianco. « Ma il carico che porti è il benvenuto. » Dal carro infatti pendevano i quarti e le spalle della bufala appena macellata. « Non mangiamo carne fresca da quando abbiamo lasciato il kraal del re. » Ralph e Bazo sedevano davanti a un fuoco distante dal resto della scorta, così potevano parlare liberamente. « Il re ha accettato di comprare i fucili e le bottiglie che avevo portato da Kimberley », raccontò Ralph, « e mi ha pagato generosamente. » Non si dilungò a precisare in quale moneta era stato pagato, né descrisse il proprio stupore quando Lobengula gli aveva offerto un diamante grezzo, una gran pietra lucente della più bell'acqua. In realtà il suo stupore era stato immediatamente temperato dalla consapevolezza; non aveva dubbi infatti sulla provenienza della pietra. Consapevolezza che era però durata quanto lo stupore, dopodiché aveva mercanteggiato con gusto, portando il prezzo a sei pietre, che aveva poi scelto con occhio reso esperto da tanti anni di lavoro agli scavi. Sapeva che il loro valore era sulle diecimila sterline quando le avrebbe riportate alla civiltà. E così, in un solo colpo, s'era pagato il carro e il tiro e il suo intero debito con Diamond Lil - interessi e tutto -, e gli restavano molte migliaia di sterline di profitto. « Poi ho chiesto a Lobengula di lasciarmi cacciare l'elefante e lui ha riso: ha detto che ero troppo giovane e che l'elefante mi avrebbe divorato. Mi ha fatto aspettare fuori del suo kraal dieci giorni. » « Se ti ha fatto aspettare così poco, vuol dire che hai trovato favore presso di lui », lo interruppe Bazo. « Alcuni uomini bianchi hanno aspettato dall'inizio della stagione asciutta a metà di quella delle piogge per il solo permesso di prendere la strada per andar via dal Matabeleland. » « Dieci giorni sono stati lunghi per me », rispose Ralph. « Ma quando gli ho chiesto in quale parte delle sue terre mi era concesso cacciare ha riso di nuovo e ha detto: l'elefante corre tanto poco pericolo con te, Piccolo Falco, che puoi andare
dove vuoi e uccidere tutti quelli che sono tanto stupidi o zoppi da farsi uccidere da te. » Bazo rise deliziato. « E quanti stupidi elefanti hai trovato finora, Henshaw? » « Ho già cinquanta belle zanne nel mio carro. » « Cinquanta! » la risata di Bazo si spense. Guardò Ralph stupito, quindi si alzò e si avvicinò al carro. Sciolse uno dei legacci e sollevò la tela per dare una sbirciata al carico, mentre Isazi, dal suo fuoco, alzava il capo, s'accigliava e gridava a Ralph: « Il bisnonno di questo ragazzo, Mashobane, era un ladro; suo nonno, Mzilikazi, era un traditore: hai tutte le ragioni di fidarti per quell'avorio, Hensbaw ». Bazo non lo guardò neppure, guardò invece in alto tra gli alberi. « Le scimmie qui intorno fanno un terribile fracasso », mormorò, e tornò da Ralph. « Ottime zanne », ammise. « Come quelle che i cacciatori prendevano quando io ero ancora un ragazzo. » Ralph non gli disse che la maggior parte di quelle che erano nel carro erano state prese anche prima di allora. Aveva infatti scoperto tutti, tranne due, i nascondigli che il padre gli aveva indicato. L'avorio era secco, aveva perso un quarto del suo peso, ma era per lo più ancora in buone condizioni e avrebbe raggiunto il prezzo di mercato una volta arrivato alla stazione terminale della ferrovia. Pur mettendocela tutta, mentre cercava gli antichi nascondigli di Zouga, nella caccia al propri elefanti Ralph aveva avuto poco successo. Ne aveva uccisi sei, uno dei quali un maschio le cui giovani zanne pesavano poco più di sessanta libbre; il resto era avorio di piccole femmine, che quasi non valeva la pena di prendere. I grandi branchi che Zouga aveva descritto in Odissea di un cacciatore non esistevano più. Da allora c'erano stati troppi cacciatori, alcuni dei quali ispirati dal libro di Zouga, boeri, inglesi, ottentotti e tedeschi, che avevano cacciato e decimato le grandi bestie grige, lasciando le loro bianche ossa ammucchiate nel veld e nella foresta. « Sì, sono delle buone zanne », ammise Ralph. « E il mio carro è ormai stracarico. Sto infatti tornando al kraal del re per chiedergli il permesso di lasciare il Matabeleland e tornare a Kimberley. » « E allora quando te ne sarai andato non ci vedremo più », disse Bazo, con voce sommessa. « Farai come fanno tutti gli altri uomini bianchi che vengono nel Matabeleland: prendi tutto ciò che vuoi e non torni più. » Ralph rise. « No, vecchio amico. Tornerò. Ancora non ho tutto quello che desidero, non ancora. Tornerò con i carri, forse sei, tutti carichi di merce di scambio. Stabilirò delle stazioni commerciali dal fiume Shashi allo Zambesi. » « Sarai un uomo ricco, Henshaw, ne sono sicuro », disse Bazo. « Ma gli uomini ricchi non sono sempre felici. Questo
l'ho notato spesso. Nel Matabeleland per te non c'è altro all'infuori dell'avorio, dell'oro e dei diamanti? » L'espressione di Ralph cambiò. « Come lo sai? » chiese. « Ho chiesto, non sapevo », negò Bazo, sempre sorridendo. « Anche se non devo lanciare in aria le ossa o guardare nella zucca magica per sapere che si tratta di una donna. Hai fatto all'improvviso la faccia del cane che sente odore di cagna. Dimmi, Henshaw, chi è e quando la prenderai in moglie? » Poi rise forte. « Ancora non hai chiesto al padre? Oppure hai chiesto e lui ha rifiutato? » « Non è il caso di ridere », disse Ralph, seccato, e con uno sforzo Bazo fece la faccia seria, ma gli occhi gli lampeggiavano ancora. « Perdona a chi ti vuole bene come un fratello, davvero non sapevo che fosse una questione così importante per te. » Alla fine riuscì a fare anche lui una faccia grave mentre aspettava la risposta. « Una volta, tanto tempo fa, mentre salivamo nell'elevatore, tu parlasti di una donna con i capelli chiari e sottili come l'erba d'inverno », disse finalmente Ralph, e Bazo annuì. « E' lei, Bazo. L'ho trovata. » « Lei ti vuole come tu vuoi lei? » chiese Bazo, deciso. « Altrimenti è tanto stupida che non ti merita. » « Ancora non l'ho chiesta in moglie », ammise Ralph. « Non chiederlo alla donna, diglielo soltanto, chiedilo al padre. Mostra al padre le tue zanne d'avorio, sarà la cosa decisiva. » « Hai ragione, Bazo », disse Ralph. Sembrava incerto. « E' molto semplice. » E aggiunse, a bassa voce e in inglese, perché Bazo non capisse: « Dio sa che farò se non lo è. Non credo di poter vivere senza di lei ». Anche se non afferrò le parole, Bazo ne capì il senso e lo stato d'animo. Sospirò e il suo sguardo si posò su Tanase china sul fuoco a cucinare. « Sono deboli e cedevoli, ma feriscono più del più affilato acciaio. » Ralph seguì il suo sguardo e, di colpo, la sua espressione cambiò. Fu la sua volta di prendere in giro, e allungò un braccio e batté sulla spalla di Bazo. « Ora riconosco la faccia di cui parlavi prima, del cane che ha sentito l'odore della cagna. » « Non c'è niente da ridere », disse Bazo, altezzoso. Molto dopo che l'ultimo osso di bufala rosicchiato era stato buttato nel fuoco e l'ultimo boccale di birra era stato bevuto, molto dopo che i guerrieri matabele s'erano ormai stancati di levare le lodi al proprio valore e coraggio sulla collina del mago, molto dopo che s'erano avvolti nei loro kaross e molto dopo che l'ultima ragazza prigioniera aveva cessato di gemere, Bazo e Ralph sedevano ancora davanti al fuoco. Il mormorio delle loro voci e il ruminare dei buoi erano gli unici rumori nel campo.
Era come se ogni attimo fosse prezioso per loro, perché entrambi sentivano che quando si fossero ancora incontrati sarebbero stati diversi, e diverso sarebbe stato forse anche il mondo. Rivissero la loro giovinezza, ricordarono Scipione, il falco femmina, e Inkosikazi, il grande ragno; sorrisero al ricordo degli scontri con i bastoni da combattimento e della rabbia di Bakela quando Bazo gli aveva consegnato il diamante fatto a pezzi; parlarono di Jordan e di Jan Cheroot e di Kamuza e di tutti gli altri, finché, riluttante, Bazo si alzò. « Andrò via prima che sorga il sole, Henshaw », disse. « Va' in pace, Bazo, e goditi gli onori che ti attendono e la donna che hai conquistato. » Quando Bazo raggiunse la sua stuoia, la ragazza era già avvolta nel kaross. Appena Bazo le si fu steso accanto, la ragazza allungò una mano verso di lui. Era calda come se avesse la febbre, il corpo le bruciava e la pelle era secca, asciutta. Silenziosi singhiozzi la squassavano e la sua stretta era forte. « Cosa c'è, Tanase? » Bazo era sorpreso e allarmato. « Una visione. Una terribile visione. » « Un sogno. » Bazo fu risollevato. « E' stato solo un sogno. » « Era una visione », ribatté lei. « Oh, Bazo, non vuoi togliermi questo terribile dono prima che ci distrugga entrambi? » Lui la strinse e non riuscì a risponderle; lo stato della ragazza lo commuoveva, ma non sapeva cosa fare. Dopo un pò lei si calmò e Bazo pensò che dormisse, invece, all'improvviso, bisbigliò: « E' stata una visione terribile, Bazo, signore... E mi perseguiterà fino alla tomba ». Lui non rispose ma avvertì un fremito superstizioso in tutto il corpo. « Ti ho visto in alto, su un albero... » disse lei alla fine, e un altro singhiozzo, isolato, la colpì come una mazzata. « Il bianco, quello che tu chiami Hensbaw, il Falco... Non fidarti di lui. » « E' mio fratello e, come un fratello, gli voglio bene. » « E allora perché non ha pianto, Bazo, perché non ha pianto quando ti ha visto in alto sull'albero? » Salina Codrington spianò la pasta con lunghi ed esperti colpi di matterello. Aveva le maniche arrotolate alte ed era infarinata fino al gomito. Piccoli pezzi di pasta erano attaccati alle mani e alle dita. Il tetto di paglia della cucina della missione di Khami era fuligginoso per il fumo del fornello di ghisa. L'odore dell'impasto era invitante. Un ciuffo dei capelli biondo-oro era sfuggito al nastro e ora le solleticava il naso e il mento. Salina sporse le labbra e lo soffiò via; fluttuò nell'aria come una ragnatela, quindi le si posò di nuovo sul viso, ma lei non cambiò il ritmo col quale manovrava il matterello.
Quel piccolo gesto per Ralph fu il più toccante che avesse mai visto. Ma, del resto, tutto quello che lei faceva lo affascinava, anche il modo in cui inclinava il capo e gli sorrideva, a lui che stava appoggiato allo stipite della porta della cucina. Quel sorriso era così gentile, così spontaneo, che lui provò una stretta al petto e la sua voce suonò strozzata ai suoi stessi orecchi. « Domani vado via. » « Sì », disse Salina, annuendo. « Ci mancherai moltissimo. » « Questa è la prima occasione che ho di parlarti da sola, senza i mostri... » « Oh, Ralph, non è gentile, anche se del tutto accurata, la descrizione che fai delle mie sorelle. » Rise, e la risata aveva un timbro sorprendente. « Se volevi parlarmi, dovevi dirmelo. » « Te lo dico ora, Salina. » « E siamo soli. » « Non puoi fermarti un momento? » « Rovinerei l'impasto. Ti sento lo stesso mentre lavoro. » Ralph cambiò posizione e s'incurvò nelle spalle, incerto. Non l'aveva prevista così. Sarebbe stato un problema di tempestività e destrezza prenderla tra le braccia tutta coperta di farina e con un matterello in mano. « Salina, tu sei la più bella ragazza... Donna... Voglio dire signora, che ho mai visto. » « Questo è gentile ma non vero, Ralph. Ho uno specchio, sai. » « E' vero, giuro... » « Ti prego, non giurare, Ralph. In ogni caso, nella vita ci sono cose molto più importanti della bellezza fisica... La gentilezza, la bontà, la comprensione, per esempio. » « Oh, sì, e tu hai tutto questo. » A metà colpo di matterello, Salina si fermò e lo guardò con un'espressione costernata. « Ralph », bisbigliò. « Cugino Ralph... » « Sarò cugino... » Nella fretta di dire tutto Ralph farfugliava: « ... Ma ti amo, Salina. Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista al fiume ». « Oh, Ralph, mio caro, povero, Ralph. » La costernazione ora era mista alla compassione. « Non l'avrei mai detto, non prima... Ma ora, dopo questa spedizione, ho una certa sostanza. Potrò pagare i miei debiti e quando tornerò avrò dei carri tutti miei. Non sono ancora ricco ma lo sarò. » « Se solo l'avessi saputo. Oh, Ralph, se solo l'avessi sospettato. Avrei potuto... » Ma ormai nessuno poteva fermare il balbettio di lui. « Ti amo, Salina, oh, come ti amo, e voglio che tu mi sposi. » Lei allora gli si avvicinò, con gli occhi pieni di lacrime azzurre che tremavano sull'orlo delle palpebre inferiori. « Oh, caro Ralph, mi dispiace tanto. Avrei dato qualsiasi cosa per risparmiarti dolore. Se solo l'avessi saputo. »
Lui la guardò, stupito. « Non mi... Questo significa che non mi sposerai? » Lo stupore scomparve, Ralph sporse in fuori la mascella e la linea della bocca gli s'indurì. « Ma perché no? Io ti darò tutto. Avrò cura di te e... » « Ralph. » Salina gli sfiorò le labbra con un dito e vi lasciò sopra una piccola traccia di farina. « Zitto, Ralph, zitto. » « Ma, Salina, io ti amo! Non capisci? » « Sì, capisco. Ma, caro Ralph, io non amo te. » Cathy e le gemelle andarono sino al fiume con Ralph. Vicky e Lizzie erano in groppa a Tom. Lo cavalcavano con le gonne tirate su e ogni tanto lanciavano piccole urla deliziate, finche Ralph pensò che gli avrebbero rotto i timpani. Andava avanti accigliato, senza rispondere alle domande di Cathy e ai commenti che lei faceva mentre procedeva al suo fianco, finché il suo passo perse elasticità e anche lei tacque. Si sarebbero separati alla sponda del fiume Khami. Tutti loro lo sapevano e non ne parlavano. E quando la raggiunsero Isazi aveva già portato il carro dall'altra parte del guado. Le ruote cerchiate di ferro avevano lasciato profondi solchi sull'altra sponda. Aveva un'ora circa di vantaggio. Loro si fermarono intanto su quest'altra sponda, e adesso anche le gemelle tacevano. Ralph si voltò a guardare indietro verso il sentiero, poi si tolse il cappello e si riparò gli occhi con la falda contro il primo sole basso. « Allora Salina non viene? » disse. « Ha mal di pancia », rispose Vicky. « Così mi ha detto. » « Secondo me, sarà invece la maledizione di Eva », disse Lizzie, altezzosa. « Non è gentile », replicò Cathy. « E solo le ragazzine sciocche parlano di ciò che non capiscono. » Lizzie fece la faccia seccata e Vicky assunse una virtuosa aria innocente. « Ora voi due dite addio al cugino Ralph. » « Ti amo, cugino Ralph », disse Vicky, e dovettero staccarla da lui come una sanguisuga. « Ti amo, cugino Ralph. » Lizzie aveva contato i baci che Vicky gli aveva dato e ora si apprestava a stabilire un nuovo record mondiale, un nobile tentativo, ma fu frustrata da Cathy. « Ora basta », disse Cathy. « Andate, tutt'e due. » « Cathy sta piangendo », disse Lizzie, e ambedue le gemelle andarono immediatamente in estasi. « Non è vero », disse Cathy, furiosa. « Oh, sì, stai piangendo », disse Vicky. « Ho qualcosa nell'occhio. » « Tutt'e due gli occhi? » chiese Lizzie, scettica. « Vi avverto », disse Cathy. Conoscevano quell'espressione e, riluttanti, le due gemelle si portarono fuori portata di mano. Cathy volse loro le spalle, così che persero buona parte di quello che seguì.
« Hanno ragione. » Un bisbiglio pieno di lacrime come gli occhi. « Sto piangendo, Ralph. Odio vederti andar via. » Ralph non l'aveva mai guardata bene, aveva avuto occhi sempre e solo per Salina, ma ora quella franca ammissione lo commosse e la vide per la prima volta. L'aveva creduta una bambina e, si rese conto all'improvviso, s'era sbagliato. A dare un'espressione di forza al viso di lei erano le spesse sopracciglia brune e il mento fermo, così che, era sicuro, qualsiasi cosa la facesse piangere doveva essere sentita nel profondo. Certo non era così alta quando lui l'aveva conosciuta un anno prima. Ora con la testa gli arrivava al mento. Le lentiggini sulle guance la rendevano giovane, ma il naso aveva già la forma della maturità e lo sguardo dei suoi verdi occhi, ancor pieni in quel momento di lacrime, era troppo fermo per essere quello di una bambina. Portava ancora il vestito verde ricavato da sacchi di farina ma le stava diversamente. Ora era abbondante alla vita mentre al tempo stesso era troppo stretto al petto. E tuttavia non riusciva a reprimere il gonfiore dei seni giovani e fermi, e le cuciture erano tese sui fianchi, che lui ricordava stretti e ossuti come quelli di un ragazzino. « Tornerai, Ralph? A meno che non lo prometti non ti lascerò andare. » « Lo prometto », disse lui, e d'un tratto il dolore d'essere stato respinto da Salina, che lui aveva creduto dovesse distruggerlo, risultò sopportabile. « Pregherò per te ogni giorno fino al tuo ritorno », disse Cathy, e si avvicinò per baciarlo. Non era più magrolina e goffa tra le sue braccia: Ralph s'accorse improvvisamente della morbidezza del suo corpo contro il proprio petto. La sua bocca aveva il sapore dell'erba verde di primavera e le sue labbra furono un cuscino per quelle di lui. Ralph non bruciava certo dal desiderio di rompere quell'abbraccio e Cathy sembrava contenta che durasse. Il dolore per l'amore non corrisposto s'attenuò ancor più per essere sostituito da una calda e confortevole sensazione, un ardore quanto mai piacevole, finchè di colpo lui si rese conto di due cose. Primo, le gemelle erano avide spettatrici, i loro occhi erano spalancati e i loro sorrisi impudenti. Secondo, l'ardore piacevole che lo aveva invaso aveva la sua fonte molto più in basso del suo cuore infranto, ed era accompagnato da mutamenti molto tangibili che presto sarebbero diventati più che apparenti alla giovane innocente tra le sue braccia. Quasi la cacciò via, e saltò in groppa a Tom con non necessario impeto. Comunque, quando guardò Cathy di nuovo, le verdi lacrime negli occhi di lei erano scomparse e al loro posto c'era ora un'espressione di soddisfazione, una consapevolezza che dimostrava al di là di ogni dubbio ciò di cui lui si era appena reso conto, e cioè che non era più una bambina. « Quando? » chiese lei. « Non prima della fine delle piogge », rispose Ralph. « Sei o
sette mesi a partire da oggi. » E, all'improvviso, anche a lui quello parve un tempo lunghissimo. « In ogni modo, ho la tua promessa. » Arrivato sull'altra sponda del fiume si voltò a guardare indietro. Le gemelle avevano perso interesse e stavano avviandosi verso casa. Si rincorrevano lungo il sentiero, con uno svolazzo di gonne e uno sventolare di trecce, ma Cathy era ferma a osservare nella sua direzione. In quel momento alzò una mano e l'agitò. Continuò ad agitarla finché cavallo e cavaliere scomparvero tra gli alberi. Poi sedette su un tronco di lato al sentiero. Il sole salì al suo apogeo e quindi calò, nel fumo denso dei fuochi nella boscaglia che azzurrava l'orizzonte, e si trasformò in una rossa orbita che lei non riusciva a guardare direttamente senza ferirsi gli occhi. Nel crepuscolo un leopardo ruggì nella buia e fitta foresta lì vicino. Cathy ebbe un brivido e s'alzò. Lanciò un'ultima occhiata dall'altra parte dell'ampio fiume e alla fine si voltò per tornare a casa. Bazo non riusciva a dormire; da ore aveva lasciato la stuoia e s'era accoccolato davanti al fuoco al centro della capanna. Gli altri, Zama e Kamuza e Mondane, che l'indomani mattina lo avrebbero accompagnato, non s'erano neppure mossi. I loro ornamenti erano ammucchiati accanto alle loro figure distese. I mantelli di piume e pelliccia e perline, i copricapi e i gonnellini: le decorazioni riservate solo per le occasioni di più grande importanza, come la Festa dei Primi Frutti, o una convocazione personale davanti al re o, ancora, la cerimonia per la quale s'erano radunati e che sarebbe cominciata all'alba dell'indomani. Bazo li guardò, ora, e la gioia gli procurò una stretta al petto. Una gioia così intensa che gli cantò nelle orecchie e gli spumeggiò nel sangue. Una gioia ancora più intensa in quanto i suoi compagni di tanti anni, quelli con i quali aveva vissuto la sua gioventù prima e la maturità poi, sarebbero stati di nuovo con lui in uno dei giorni più importanti della sua vita. Ora se ne stava solo davanti al fuoco mentre i suoi compagni russavano e brontolavano nel sonno e, come un avaro che conta e riconta il suo tesoro, carezzò mentalmente ogni suo ricordo, se lo girò e rigirò tra le dita, per così dire, come fossero monete della sua buona fortuna. Rivisse ogni momento del suo trionfo, quando i prigionieri erano sfilati davanti a Lobengula e avevano ammucchiato il bottino davanti al suo carro: le barre di rosso rame, le lame di asce, le sacche di pelle piene di sale, le pentole di terracotta piene di perline, perché Pemba era stato un mago famoso e aveva raccolto i suoi tributi da miriadi di clienti timorosi. Lobengula aveva sorriso quando aveva visto quel tesoro, che era poi all'origine della sua ostilità per Pemba. Il re non era al disopra delle gelosie degli uomini comuni. Quando Lobengula
sorrideva, tutti i suoi induna sorridevano e mandavano quei piccoli suoni di approvazione. Ricordò come il re lo avesse chiamato, gli avesse detto di farsi innanzi e avesse sorriso di nuovo quando lui aveva vuotato la sacca che portava sulla spalla. La testa del mago, già in avanzato stato di decomposizione, era rotolata fino alle ruote anteriori del carro mostrando un ghigno a Lobengula, con quelle labbra ritratte sui denti ineguali macchiati dalle pipate di hashish. Una frotta dei macilenti e rognosi cani paria che s'aggiravano per il kraal del re s'era precipitata a ringhiare e litigare per quel boccone, e quando uno dei carnefici dal mantello nero li aveva dispersi a colpi di bastone, il re lo aveva trattenuto. « Le povere bestie sono affamate, lasciale stare. » E s'era poi rivolto a lui, Bazo: « Dimmi come hai fatto ». Rivisse così ora nel ricordo ogni parola con la quale aveva descritto la spedizione. Mentre raccontava aveva iniziato a danzare la giya e cantare l'ode a Pemba che aveva composto egli stesso: Come una talpa nelle viscere della terra Bazo trovò il cammino segreto... Aveva cantato e, nella prima fila degli induna più importanti, Gandang, suo padre, guardava, grave e fiero. Come il cieco pesce gatto che vive nelle grotte di Sinoia Bazo nuotò nel buio... Poi, man mano che i versi dell'inno li menzionavano, Zama e i suoi guerrieri balzavano fuori e si mettevano a piroettare e danzare al suo fianco. Come il nero mamba sotto una pietra Zama ha spillato morte dalla sua zanna d'argento... Quando la danza trionfale era terminata, s'erano buttati tutti a faccia a terra davanti al carro. « Bazo, figlio di Gandang, vai e scegli duecento capi dalle mandrie reali », aveva detto Lobengula. « Bayete! » aveva gridato lui, ancora affannato per la danza. « Bazo, figlio di Gandang, che hai comandato cinquanta guerrieri con tanta abilità, ora te ne darò mille da guidare. » « Nkosi! Signore! » « Comanderai la leva dei giovani che aspettano ora nel kraal reale sul fiume Shangani. Ti darò le insegne per il tuo nuovo reggimento. I vostri scudi saranno rossi, i vostri gonnellini sarano fatti di code di genetta, le vostre piume saranno le penne delle ali del marabù e in testa porterete una fascia di pelliccia di talpa. » Poi Lobengula s'era interrotto. « Il nome del
tuo reggimento sarà Izimvukuzane Ezembintaba, le-Talpe-chescavano-sotto-la-montagna. » « Nkosi kakbula! Grande Re! » aveva intonato Bazo. « Ora, Bazo, alzati e vai dentro le donne e scegliti una moglie. Accertati che sia virtuosa e feconda, e il suo primo dovere sia quello di cingerti il capo con l'anello dell'induna. » « Indhlovu! Ngi ya bonga! Grande Elefante, canto le tue lodi! » Seduto ora nella sua veglia solitaria davanti al fuoco, ricordò ogni parola, ogni cambiamento di tono, ogni pausa e ogni enfasi che il re aveva avuto nell'accumulare tutti quegli onori su di lui. Sospirò soddisfatto e piazzò un altro ceppo sul fuoco, badando a non svegliare i suoi compagni. Le scintille volarono e volteggiarono e scomparvero nell'apertura al centro del tetto a cupola. Poi un suono lontano interruppe i suoi ricordi; era il grido isolato di una iena, un grido non insolito, solo che era la prima volta che lo udiva da quando era scesa la sera. Ogni due notti i gridi orribili di quell'odioso animale si levavano al tramonto, quando veniva fuori dal suo nascondiglio, e continuavano fino al sorgere del sole. S'aggirava nel piccolo bosco ceduo oltre il recinto del bestiame che tutti gli abitanti del kraal di Gandang usavano come latrina all'aria aperta. Durante la notte le iene ripulivano la zona di tutti gli escrementi, per questo la gente di Gandang tollerava la presenza di quell'animale che di solito aborriva e di cui aveva superstizioso terrore. E così quella notte, a mezzanotte, nel silenzio che lo aveva preceduto, quel grido attirò la sua attenzione. Rimase in ascolto ancora alcuni secondi, quindi lasciò che i suoi pensieri si appuntassero sull'indomani. Dopo il re, Gandang era uno dei tre personaggi più importanti di Matabeleland; solo Somabula e Babiaan gli stavano alla pari, e dunque un matrimonio del suo kraal era un avvenimento di eccezionale importanza pur se lo sposo non era il suo figlio maggiore, anche lui un induna di mille uomini di nomina recente. Juba, la moglie più anziana di Gandang e madre di Bazo, lo sposo, aveva presenziato alla preparazione della birra, e ora erano pronte mille pentole, ciascuna contenente mezzo gallone della sua famosa birra, pronte ad accogliere gli ospiti man mano che sarebbero arrivati al kraal di Gandang. Gli invitati sarebbero stati mille. Lobengula e la sua scorta erano già per strada; quella notte dormivano al kraal del reggimento di Intemba, a soli otto chilometri di distanza, e sarebbero arrivati prima di mezzogiorno. Somabula era con il re mentre Babiaan sarebbe arrivato dal suo kraal nell'est con una scorta di cento guerrieri. Nomusa e Hlopi sarebbero venuti dalla missione di Khami come ospiti speciali di Juba e avrebbero portato tutte le loro figlie con sé. Gandang aveva scelto cinquanta grassi buoi delle sue man-
drie e lo sposo e i suoi giovani compagni avrebbero cominciato a macellarli all'alba, mentre le ragazze non sposate portavano la sposa alla pozza del fiume, le facevano il bagno e l'ungevano di grasso e argilla fino a farla brillare nella prima luce del sole. Quindi l'avrebbero adornata di fiori selvatici. La iena gridò di nuovo, molto più vicina questa volta, come se fosse appena fuori del recinto. Quindi successe una cosa strana. A quel grido isolato rispose un coro, come se una grande moltitudine di quelle bestie irsute e maculate, simili a cani, avesse circondato il kraal di Gandang. Stupito, Bazo s'alzò e fece per allontanarsi dal fuoco. Non aveva mai sentito niente del genere: dovevano esserci cento o più di quegli orribili animali là fuori. Riusciva a immaginarli, le spalle alte che declinavano verso la magra parte posteriore, la testa piatta tenuta bassa come se il peso della grossa mascella e dei gialli denti taglienti fosse troppo per il collo. Almeno cento, quasi sentiva il loro fiato quando aprivano quelle fauci capaci di frantumare le ossa più grandi di un bufalo. Puzzavano di carogne ed escrementi e altre lordure, ma era il suono delle loro voci che gli gelò i visceri e lo fece rabbrividire lungo tutta la schiena. Era come se tutte le anime dei morti fossero sorte dalle loro tombe per strepitare fuori del recinto di Gandang. Gridavano e ululavano, iniziando con un basso gemito e finendo con una nota acuta. « Oooh-uii! » Urlavano come lo spirito di un mashona che senta di nuovo l'acciaio penetrargli il petto, e quei terribili gridi levavano echi tra i kopje lungo il fiume. Quasi come esseri umani, ridevano: una risata da folle, triste. Quello scroscio di diaboliche risa si mescolava alle grida tormentate e agli urli delle guardie del kraal, alle grida delle donne che si svegliavano nelle loro capanne, agli urli degli uomini che, ancora mezzo addormentati, afferravano a tentoni le loro armi. « Non andar fuori », gridò Kamuza mentre lui balzava verso la porta con lo scudo sulla spalla e l'assegai nella destra. « Non andare nel buio, questa è una stregoneria. Quelli là fuori non sono animali. » Quelle parole lo fermarono sulla soglia. Non c'era niente in carne e ossa che lui non si sentisse di affrontare, ma quelle... Il terribile coro raggiunse un punto culminante, quindi, d'improvviso, cessò. Il silenzio che seguì fu ancora più agghiacciante e lui indietreggiò dalla porta. I suoi compagni si levarono dalle stuoie, con le armi in mano e gli occhi spalancati e bianchi alla luce del fuoco, ma nessuno di loro si mosse verso la porta. Tutto il kraal di Gandang era ormai sveglio, ma c'era silenzio, attesa, le donne strisciavano negli angoli più isolati delle loro capanne e si coprivano le teste con i kaross di pelliccia, gli uomini erano immobilizzati dal terrore superstizioso.
Il silenzio durò il tempo occorrente a un uomo per compiere il giro completo del recinto di corsa, poi fu rotto dal grido di una sola iena, lo stesso grido crescente, che cominciava con una nota bassa e diventava un urlo. La testa di ognuno dei guerrieri presenti nella capanna allora si sollevò e tutti guardarono il tetto e il cielo trapunto di stelle al disopra di questo, perché era da lì che proveniva quel grido spettrale, dall'aria stessa sopra il kraal di Gandang. « Stregoneria. » La voce di Kamuza tremava e lui, Bazo, dovette soffocare l'urlo di terrore che gli urgeva in gola. Quando il grido della iena tacque, nella notte ci fu solo un altro suono: la voce di una fanciulla in preda a un terribile tormento. « Bazo! Aiutami, Bazo! » Era l'unica cosa che poteva smuoverlo. Si scosse come un cane appena uscito dall'acqua, scrollandosi di dosso il terrore che lo paralizzava. « Non andare! » gridò Kamuza. « Non è la ragazza, è la voce di una strega. » Ma lui tolse la sbarra che chiudeva la porta. La vide immediatamente. Tanase stava correndo verso di lui. Veniva dal quartiere delle donne, dalla grande capanna di Juba, dove stava passando la notte prima delle nozze. Il suo scuro corpo nudo era senza sostanza, come un'ombra della luna. Balzò verso di lei e s'incontrarono davanti al cancello principale del recinto. Tanase s'aggrappò a lui. Nessun altro aveva lasciato le capanne, il kraal era deserto e il terribile silenzio opprimente. Lui sollevò lo scudo per coprire se stesso e la ragazza e, istintivamente, girò il viso verso il cancello. Solo allora si accorse che era aperto. Cercò di ritirarsi verso la capanna, portandosi dietro la ragazza, ma lei gli si era irrigidita tra le braccia, radicata a terra come la ceppaia di un ebano selvatico. E la forza di lui era indebolita dal terrore. « Bazo », bisbigliò Tanase. « Sono loro, sono venuti. » Aveva appena parlato che il fuoco di guardia accanto al cancello, che da tempo era ridotto a braci, di colpo esplose di nuovo in una fiammata. Le lingue di fuoco si levarono più alte della testa di un uomo, ruggendo come una cascata d'acqua, e il recinto tutto fu illuminato a giorno da quella gialla luce danzante. Oltre il cancello, ai limiti estremi della luce, c'era una figura umana. Era un uomo vecchissimo, curvo e con braccia e gambe come stecchi; i capelli erano bianchi come il sale del bacino del Makarikari, la pelle grigia e polverosa per l'età. Il bianco dei suoi occhi lampeggiò allorché ruotarono nel cranio e la saliva gli gocciolava dalla bocca sdentata sul petto, bagnando la pelle secca sotto la quale sporgevano le costole. La sua voce era stridente e tremante. « Tanase! » chiamò. « Tanase, figlia degli spiriti. » Alla luce delle fiamme ogni vita si spense negli occhi della ragazza, che divennero inespressivi.
« Non badarci... » mormorò lui; ma un velo bluastro apparve sulle pupille di Tanase, come la membrana nittitante che copre l'occhio dello squalo o la cataratta dell'oftalmia tropicale, e, come una cieca, lei girò il capo verso la spettrale figura al di là del cancello. « Tanase, il tuo destino ti chiama! » Si divincolò dalle braccia di lui. Sembrò farlo senza sforzo. Non era possibile trattenerla, la sua forza era sovrumana. Cominciò a camminare verso il cancello, e quando Bazo cercò di seguirla scoprì che non riusciva a sollevare i piedi da terra. Lasciò cadere lo scudo, ma Tanase non si voltò a guardare indietro. Camminava con grazia leggera, leggera come la nebbia del fiume, verso la figura ricurva. « Tanase! » La voce di Bazo era disperata. Cadde in ginocchio. Il vecchio tese una mano e Tanase la prese. In quell'attimo, il fuoco si spense all'improvviso, così com'era cominciato, e il buio oltre il cancello fu immediatamente impenetrabile. « Tanase! » bisbigliò lui, a braccia tese. Lontano, giù verso il fiume, la iena gridò un'ultima volta. Le gemelle entrarono a precipizio nella chiesa, spingendosi e superandosi nell'ansia, ognuna, di arrivare prima. « Mamma! Mamma! » « Vicky, l'ho visto prima io! » Robyn Codrington alzò il capo dal nero corpo disteso sul tavolo e le guardò accigliata. « Le signore non spingono. » S'avvicinarono fingendo un controllo che non avevano e fremendo invece d'impazienza. « Benissimo, Vicky. Di che si tratta? » Cominciarono a parlare insieme e Robyn le interruppe. « Ho detto Vicky. » E Victoria si gonfiò tutta quanta. « Sta venendo qualcuno. » « Da Thabas Indunas? » chiese Robyn. « No, mamma, da sud. » « E' probabilmente uno dei messaggeri del re. » « No, mamma, è un uomo bianco su un cavallo. » Immediatamente l'interesse di Robyn si destò; non avrebbe mai ammesso, neppure a se stessa, quanto fosse noioso l'isolamento. Un viaggiatore bianco significava notizie, forse lettere, rifornimenti e persino la cosa più preziosa di tutte: libri. Mancando questi tesori, ci sarebbe stato soltanto lo stimolo intellettuale di una faccia sconosciuta e di uno scambio di idee, una conversazione. Fu tentata di lasciare il paziente sul tavolo, non si trattava di una ustione seria, ma si controllò. « Dite a papà che vengo subito », disse, e le gemelle partirono di corsa, s'incastrarono un attimo sulla soglia, poi schizzarono via come il tappo di una bottiglia di champagne.
Quando Robyn ebbe finito di fasciare il paziente, l'ebbe dimesso, si fu lavata le mani e si fu affrettata a uscire sotto il portico della chiesa, lo sconosciuto stava già venendo su per la salita. Clinton stava conducendo il mulo che quello montava. Era una bestia grigia dall'aspetto robusto e in groppa a essa il cavaliere sembrava piccolo ed esile. Era un ragazzo, con una vecchia giacca di tweed e un berretto di panno. Le gemelle avanzavano danzando ai due lati del mulo e Clinton procedeva col capo voltato per sentire quello che lo sconosciuto stava dicendo. « Chi è, mamma? » Salina venne fuori dalla cucina dall'altra parte dello spiazzo. « Lo scopriremo tra un momento. » Clinton condusse il mulo fino alla veranda e la testa del cavaliere fu all'altezza di quella di Robyn. « Dottor Ballantyne, suo nonno, il dottor Moffat, mi ha mandata qui. Ho delle lettere e della roba per lei. » Con stupore, Robyn s'accorse che sotto la giacca di tweed e il berretto c'era una donna e, anche in quel momento di sorpresa, si rese conto che si trattava di una donna straordinariamente bella, più giovane di lei, poco sopra la trentina, con occhi fermi e scuri e gli zigomi quasi da mongola. Saltò giù dal mulo con l'agilità di un'amazzone esperta e salì i gradini della veranda per prendere le mani di Robyn. La sua stretta era decisa, come quella di un uomo, e la sua espressione era tesa. « Mio marito è malato e sofferente. Il dottor Moffat dice che lei è l'unica che può occuparsene. Lo farà? Oh, la prego, lo curi. » « Sono medico », rispose Robyn. Liberò le dita dalla stretta, ma non era questa che la preoccupava, c'era qualcosa di troppo intenso, troppo appassionato in quella donna. « Sono medico e non potrei mai rifiutare di aiutare chi soffre. Naturalmente farò tutto ciò che posso. » « Lo promette? » insisté la donna, e Robyn se ne risentì. « Ho detto che l'aiuterò, non c'è bisogno di promettere. » « Oh, grazie. » La donna sorrise, risollevata. « Dov'è suo marito? » « Non molto lontano. Sono corsa avanti per avvertirla... E per assicurarmi che ci avrebbe aiutati. » « Cos'ha suo marito? » « Il dottor Moffat ha spiegato tutto in una lettera. Le ha mandato anche dei regali. » La donna fu evasiva e si sottrasse allo sguardo di Robyn correndo al mulo. Dalla tasca della sella tirò fuori due pacchi, avvolti in tela cerata per proteggerli contro gli elementi, e legati con lacci di cuoio. Erano così pesanti e voluminosi che Clinton glieli tolse di mano e li portò in chiesa. « Lei è stanca », disse Robyn. « Mi dispiace di non poter offrirle del caffè, lo abbiamo finito il mese scorso... Ma un bicchiere di limonata? »
« No. » La donna scosse il capo, decisa. « Torno immediatamente da mio marito, per stare con lui, ma arriveremo prima di sera. » Tornò indietro e saltò agilmente in groppa al mulo. Nessuno di loro aveva mai visto una donna fare una cosa del genere. « Grazie », ripeté, e s'allontanò al trotto dallo spiazzo, giù per la discesa. Clinton venne fuori dalla chiesa e mise un braccio intorno alle spalle di Robyn. « Che donna bella e insolita », disse, e Robyn annuì. Era una delle cose che la inquietavano: non si fidava delle belle donne. « Come si chiama? » chiese. « Non ho avuto occasione di chiederglielo. » « Eri troppo occupato a guardare, forse », disse lei, caustica, e si sottrasse al suo braccio per tornare in chiesa. Clinton rimase a guardare nella sua direzione con un'espressione afflitta. Dopo un momento si mosse, fece per seguirla, ma lanciò un sospiro e scosse il capo. Era sempre meglio lasciare che Robyn si calmasse da sola, le blandizie riuscivano solo a stizzirla ancor più irragionevolmente. Nel silenzio della chiesa Robyn svolse il primo pacco e radunò il contenuto sul tavolo. C'erano cinque pesanti bottiglie con i tappi di vetro. Le prese una per una e lesse le etichette. « Acido fenico. » « Allume. » « Mercurio. » « Tintura di iodio. » La quinta bottiglia portava l'etichetta: TRICLOROMETANO. « Dio ti benedica, nonno. » Sorrise, contenta, e stappò l'ultima bottiglia. Annusò con cautela, per avere una conferma alla sua buona fortuna. L'odore pungente e dolce era inconfondibile. Il cloroformio era più prezioso del suo stesso sangue, l'avrebbe volentieri scambiato goccia per goccia. La sua ultima provvista era finita ormai da mesi e la London Missionary Society era quanto mai parsimoniosa in fatto di rifornimenti. A volte pensava che sarebbe stato meglio se si fosse tenuta per sé qualche centinaia di ghinee degli enormi profitti del suo libro, così si sarebbe comprata le medicine necessarie invece di doverle chiedere implorando ogni volta al segretario londinese attraverso una corrispondenza che spesso impiegava dodici mesi in un senso e nell'altro. A volte, quando doveva rimuovere un occhio danneggiato da un colpo di bastone e appeso all'occhiaia su una guancia nera, oppure quando doveva eseguire un parto cesareo, il tutto senza anestetico, desiderava, poco cristianamente, che quel-
l'ometto esangue e miope fosse lì accanto a lei. Si strinse al petto la bottiglia per un momento. « Caro nonno », ripeté; poi, con la stessa riverenza che avrebbe usato per il favoloso diamante Kohinoor, mise da parte la bottiglia dell'incolore ma prezioso liquido e rivolse la sua attenzione al secondo pacco. Un rotolo di giornali: The Cape Times e The Diamond Fields Advertiser. Nelle settimane a venire quelle colonne sarebbero state lette e rilette, fino agli annunci economici, poi la carta sarebbe stata adoperata per una dozzina di usi domestici. Sotto i giornali: libri; meravigliosi, grossi volumi rilegati in pelle. « Dio ti benedica, Robert Moffat. » Prese in mano una traduzione di Un nemico del popolo di Ibsen. Ammirava lo scrittore norvegese per la comprensione che aveva della mente umana e per la poesia di cui era soffusa la sua scrittura. Virginibus Puerisque, di Robert Louis Stevenson; il titolo la lasciò perplessa. Aveva quattro vergini in casa sua e intendeva mantenere quella felice situazione senza permettere che fosse minata da nessun libro incendiario. Sfogliò il volume. Nonostante quel titolo dubbio, si trattava di una semplice raccolta di saggi... E l'autore era un buono scozzese calvinista. Le ragazze potevano leggerlo, ma lei lo avrebbe prima controllato. C'era poi Tom Sawyer, di Mark Twain. Questa volta fu meno ottimista. Aveva sentito parlare dell'atteggiamento frivolo e irriverente di quell'americano verso l'adolescenza, l'operosità e il dovere filiale. L'avrebbe letto attentamente prima di lasciarlo prendere in mano a Salina o a Catherine. Con riluttanza, rimandò gli altri libri a un ulteriore esame e prese in mano la lettera del nonno. Erano molte pagine, scritte con nerissimo inchiostro fatto in casa, e la scrittura era tremula e ondeggiante. Scorse rapidamente i saluti e le notizie personali finché giunse a metà della seconda pagina: Robyn, dicono che un medico nasconde i propri sbagli: quanto mai falso. Io rimetto i miei a te. Il paziente che è latore di questa lettera avrebbe dovuto da tempo riparare nel santuario di un moderno ospedale, come quello di Kimberley. Si è ostinatamente rifiutato. I motivi li sa solo lui, io non ho indagato. In ogni modo, il fatto che da oltre un anno ormai abbia una pallottola di pistola in corpo può far capire i suoi motivi. Due volte ho tagliato questo corpo sconosciuto, ma a ottantasette anni i miei occhi non sono buoni e la mia mano non è ferma come la tua. Ogni volta ho fallito, e temo di aver fatto più danno che bene. So che tu sei interessata e hai l'abilità necessaria a curare questo tipo di ferita, come dovresti, del resto, visto che i giovani guerrieri di Lobengula ti offrono infinite possibilità di esercitare la tua tecnica. Così ti mando ancora un altro paziente sul quale dimostrare la tua arte, e con lui la mia ultima bottiglia di cloroformio, perché il poveretto, quali che siano i suoi peccati,
ha già sofferto abbastanza sotto il mio coltello. La lettera le procurò uno strano presentimento, come del resto era già successo con la donna che l'aveva portata. La piegò e la cacciò nella tasca del vestito. Lasciò la chiesa e si affrettò attraverso lo spiazzo. « Cathy », chiamò. « Dov'è quella ragazza? Deve mettere in ordine la foresteria. » « E' già lì, mamma. » Salina alzò il capo quando la madre si precipitò in cucina. « E allora dov'è tuo padre? » Nel giro di un'ora la missione fu pronta a ricevere gli ospiti; ma dovettero aspettare fino a metà pomeriggio, quando un carretto a due ruote insolitamente alto e di robusta costruzione apparve sull'altura davanti al fiume. Era tirato da un paio di muli. L'intera famiglia si radunò sul portico dell'edificio principale, e tutti s'erano cambiati d'abito, mentre le ragazze s'erano spazzolate i capelli e li avevano acconciati con nastrini. Quanto alle gemelle, erano state avvertite una dozzina di volte di non fare commenti incauti e di comportarsi come si doveva. Alla fine il carretto arrivò sullo spiazzo. La donna aveva legato il suo mulo alle stanghe e ora camminava a piedi di fianco alla ruota del carretto. Un servo di colore, in vecchi abiti stracciati, guidava i muli, e sul carretto era montata una tenda alla buona fatta di rami e tela macchiata. Arrivato davanti al portico, il carretto si fermò e tutti stettero a guardare: al disopra della fiancata apparivano la testa e il torso di un uomo. Era disteso su un materasso di lana sul fondo del carretto e in quel momento si sollevò su un gomito. Era macilento e deperito. Dalle spalle forti ogni robustezza era scomparsa, le guance erano incavate e d'un colore giallognolo, la mano sulla fiancata del carretto era ossuta e sotto la pelle le vene erano gonfie come serpenti blu. I capelli, folti e scompigliati come un cespuglio, erano scuri e corsi da strisce di un bianco spento. Aveva la barba di giorni, una stoppaglia spessa che gli copriva le guance, macchiata dello stesso bianco dei capelli. Un occhio era sprofondato in una livida occhiaia e aveva quella lucentezza febbrile che Robyn riconobbe immediatamente: il segno di un male mortale. L'altro occhio era coperto da una nera benda piratesca. C'era qualcosa di straordinariamente familiare nel gran naso aquilino e nella bocca larga, e nondimeno solo quando sorrise, quel sorriso ironico e tuttavia tenero che lei non aveva mai dimenticato, solo allora Robyn indietreggiò e si portò una mano alla bocca, troppo tardi per soffocare un grido. Per reggersi si appoggiò a uno dei pali di mopani che sostenevano il tetto. « Mamma, ti senti bene? » Ma Robyn allontanò le mani premurose di Salina e continuò a fissare l'uomo nel carretto. Solo un ricordo si levò fra tanti, come un'onda vagante in un mare in tempesta, e la travolse. Rivide quella scura testa ric-
ciuta, priva allora delle sue argentee strie, china sul suo seno nudo. Rivide sopra il suo capo il soffitto a travi della grande cabina di poppa della nave negriera Huron e ricordò, come aveva ricordato migliaia di volte nei venti anni trascorsi da allora, il dolore. La profonda e fulminea penetrazione che l'aveva fatta tremare. Successivamente, quattro parti non erano stati sufficienti a cancellarne il ricordo, il ricordo del tormento della trasformazione da fanciulla a donna. Ebbe un fremito, e poi un ronzio nelle orecchie; stava per cadere ma la voce di Clinton le diede forza. Quel tono duro che non sentiva da anni. « Lei! » Clinton si raddrizzò nella persona e gli anni parvero cadergli di dosso. Era di nuovo alto e sottile, era di nuovo il giovane ufficiale della Royal Navy divorato dalla furia, salito sul cassero della nave negriera con le pistole in pugno e il coltellaccio da marinaio al fianco per affrontare proprio quell'uomo. Sempre appoggiata al palo della veranda, Robyn ricordò le parole pronunciate da Clinton in quello stesso tono duro: « Capitano Mungo St John, la sua fama la precede, signore. Il primo mercante che in un solo periodo di dodici mesi abbia trasportato più di tremila anime attraverso l'Atlantico... Darei la paga di cinque anni per far saltare i boccaporti delle sue stive, signore ». Quindi Robyn ricordò come fosse dovuto passare un altro anno prima che Clinton potesse soddisfare il suo desiderio, quando, al largo di Buona Speranza, era ritornato sul ponte dell'Huron, abbordandola da poppa, tra il fumo dei cannoni, seguito dai suoi marinai, e come quell'azione gli fosse costata più della paga di cinque anni. Era stato processato da una corte marziale, radiato dalla Royal Navy e messo in prigione. « Osa venire qui, da noi. » Clinton era pallido di rabbia; i suoi occhi azzurri, dolci per tanto tempo, erano pieni di odio. « Lei, lei, negriero avido e crudele, osa venire qui. » Mungo St John stava ancora sorridendo, provocandolo con quel sorriso e il luccichio del suo unico occhio, ma la sua voce era bassa e roca per la sofferenza: « E lei, lei, gentile e santo gentiluomo cristiano, osa mandarmi via? » Sembrò che Clinton fosse stato colpito in pieno viso, fece un passo indietro. Lentamente, perse quella giovanile baldanza, le spalle tornarono a piegarglisi. Scosse incerto il capo calvo, poi, istintivamente, si girò verso la moglie. Con un enorme sforzo, Robyn si riprese, si staccò dal palo al quale si reggeva. Nonostante il forte turbamento, riuscì a mantenere neutrale la propria espressione. « Dottor Ballantyne. » Louise St John si avvicinò ai gradini della veranda. Si tolse il berretto di testa e di sotto ne cadde la grossa treccia nera. « Non mi è facile implorare », disse. « Ma ora la imploro. » « Non è necessario, signora. Le ho dato la mia parola. » Ro-
byn si girò. « Clinton, per piacere, aiuta mistress St John a mettere a letto il paziente nella foresteria. » « Sì, cara. » « Arriverò subito per visitarlo. » « Grazie, dottore, oh, grazie. » Robyn ignorò Louise, ma quando il carretto si fu avviato verso la foresteria, si rivolse alle figlie: « Nessuna di voi, neppure tu, Salina, vi avvicinerete alla foresteria finché quell'uomo è qui. Non, parlerete né a lui né alla donna e non risponderete se vi rivolgono la parola. Farete del vostro meglio per evitare di vederli, lui o lei, e se per errore vi trovate in loro presenza andrete via immediatamente ». Le gemelle tremavano di eccitazione, i loro occhi brillavano e persino le orecchie sembravano aver preso un colorito roseo. Non ricordavano di aver mai avuto un giorno tanto eccitante. « Perché? » riuscì a dire Vicky, presa dall'incredibile serie di eventi e dimenticandosi di non dover mettere in questione gli ordini della madre. Per un attimo sembrò che stesse per pagare la sua impertinenza con uno schiaffo sull'orecchio rosa, ma la mano di Robyn ricadde lungo il fianco. « Perché... » disse la madre, a bassa voce « ... Quell'uomo è il demonio... Il demonio in persona. » Stava disteso sulla brandina, con un cuscino dietro le spalle, e Louise s'alzò dall'altra brandina quando Robyn entrò nella capanna della foresteria recando la propria borsa. « Signora, voglia essere tanto gentile da aspettare fuori », ordinò Robyn, brusca, e, senza degnarsi di vedere se era stata obbedita, piazzò la borsa sulla sedia accanto alla brandina. Dietro di lei il chiavistello della porta scattò. Mungo St John portava solo un paio di sformati pantaloni bianchi una gamba dei quali era stata tagliata fino alla coscia. Come il viso, il suo corpo era devastato dalla malattia, ma c'erano ancora l'ampiezza delle spalle e la solida struttura ossea che lei ricordava tanto bene. Il ventre era incavato come quello di un levriero e le costole sporgevano in fuori, ma la peluria che gli copriva di ricci il petto non era macchiata d'argento come la barba e i capelli. « Salve, Robyn », disse. « Io le rivolgerò la parola solo quando è assolutamente necessario per curarla, e lei farà lo stesso », disse lei senza guardarlo in faccia. Cominciò dalle ferite sul fianco e sulla schiena - ferite da pallottola, si rese conto, ma da parte a parte - e completamente guarite. Poi, con un lieve sussulto, notò l'altra, vecchia cicatrice sotto la ferita da pallottola. Riconobbe i puntini bianchi della sutura che aveva chiuso la ferita da taglio. Lei lavorava diversamente, non c'era nessuno che suturasse come lei, e prima che si rendesse conto di ciò che faceva toccò la vecchia cicatrice indurita. « Sì », disse Mungo. « Me la fece Camacho. »
Lei tirò via la mano di scatto. Mungo s'era fatto quel taglio quando era intervenuto per proteggerla dal negriero portoghese. Le aveva salvato la vita quella sera. « Ricordi anche questo? » chiese Mungo, e le mostrò il segno della pustola sull'avambraccio. Era lì che lei gli aveva inoculato il vaccino quando il vaiolo era scoppiato sull'Huron. « Ricordi? » insisté Mungo, a bassa voce, ma lei teneva il viso voltato dall'altra parte e le labbra strette a formare una sottile linea dura mentre gli sollevava la fasciatura dalla coscia. L'orrore le comparve sul viso. Gli irregolari colpi di bisturi del nonno gli avevano lacerato la gamba dal ginocchio all'inguine, dove poi aveva sondato e cercato la pallottola, e i suoi punti alla buona avevano poi rabberciato il tutto come una valigia preparata in fretta e furia. « Brutto? » chiese Mungo. « E' un pasticcio », rispose lei, e si odiò per aver criticato indirettamente il lavoro del nonno. La carne della gamba aveva un colore livido, malsano e c'erano delle ulcerazioni nelle ferite, quella terribile degenerazione del tessuto che fa pensare alla putrefazione di sotto. Suo nonno aveva lasciato dei fili di drenaggio nelle ferite, spessi crini neri che sporgevano rigidi tra i punti. Ne tirò via uno e Mungo rimase senza fiato ma immobile. Un rivoletto di pus acquoso seguì il crine tirato fuori. Robyn si chinò, annusò e fece una smorfia. Non era il ricco, cremoso pus che gli antichi avevano chiamato pus bonum et laudabile. Dal puzzo si capiva che la cancrena non era improbabile. Avvertì un brivido di freddo e immediatamente ne fu stupita; certamente non nutriva più alcun sentimento per quell'uomo. « Mi dica com'è successo? » « Questo, dottore, è affar mio. » « Sporchi affari, senza dubbio », ribatte lei. « E io non voglio saperne nulla, ma se devo localizzare la pallottola devo sapere dove si trovava lei rispetto all'arma che le ha sparato, il tipo di arma, il calibro e la carica... » « Naturalmente », s'affrettò a dire lui. « Suo nonno non s'è preso la briga di chiedere. » « Lasci stare mio nonno. » « L'uomo ha usato una pistola. Sembrava una Remington non automatica, modello militare, nel qual caso la pallottola doveva essere una 44, di piombo, cuneiforme, del peso di cinquanta grani e spinta da polvere nera. » « Bassa penetrazione, la palla si rompe se colpisce l'osso », mormorò lei. « L'uomo stava steso a terra, a un venticinque passi di distanza, e io stavo smontando da cavallo, questa gamba alzata... » « Era dritto davanti a lei. » « Spostato sulla destra. » Robyn annuì. « Proverà dolore. » Dieci minuti dopo s'allontanò e chiamò: « Mistress St John ». Appena Louise entrò le disse: « Opererò appena ci sarà ab-
bastanza luce domani mattina. Avrò bisogno della sua assistenza. L'avverto che anche se l'operazione riesce suo marito non recupererà il pieno uso della gamba. Claudicherà in maniera pronunciata ». « E se non riesce? » « La degenerazione aumenterà e la cancrena... » « Lei è franca, dottore », bisbigliò Louise. « Sì. Lo sono sempre. » Robyn non riusciva a dormire, ma si disse che raramente ci riusciva alla vigilia di un'operazione con anestetico. Il cloroformio era infatti una sostanza imprevedibile, i margini di sicurezza erano terribilmente limitati, uno sbaglio di dosaggio, una troppo alta concentrazione e un'inadeguata ossigenazione potevano portare a un collasso con una fatale compromissione del cuore, dei polmoni, del fegato e dei reni. Stava distesa accanto a Clinton nel buio ed elencò mentalmente i propri preparativi per l'indomani, soffermandosi poi sulle procedure che avrebbe dovuto adottare. Primo, doveva riaprire e trovare la fonte della necrosi. Si mosse e Clinton, accanto a lei, s'agitò e mormorò nel sonno. Lei rimase immobile e aspettò che cambiasse posizione. Quella distrazione mutò il corso dei suoi pensieri, si scoprì a pensare all'uomo e non al paziente. Per un attimo cercò di evitarlo, poi alla fine si arrese. Lo ricordava sul cassero, con la camicia di lino bianco aperta sul davanti e i peli ricci del petto fuori della « V » della camicia, col capo buttato all'indietro mentre guardava verso la testa d'albero, la folta capigliatura scura che s'agitava al vento. Poi, improvvisamente, si ricordò della mattina in cui era sgusciata fuori della cabina ed era salita sul ponte dell'Huron. Lui stava sotto la pompa manovrata da due marinai e la limpida acqua di mare gli scrosciava addosso. Era nudo sotto il getto. Ricordò quel corpo e il modo in cui lui le sorrise, senza neppure cercare di coprirsi. Quindi, di colpo, ricordò i suoi occhi, quegli occhi screziati di giallo posati su di lei nella penombra della cabina, occhi da leopardo. Si mosse di nuovo e questa volta Clinton si svegliò. Pronunciò il suo nome e le cinse la vita con un braccio. Per un pò lei giacque immobile sotto quel braccio, poi, lentamente, allungò una mano e si sollevò il lembo della camicia da notte. Prese il polso di Clinton e guidò la sua mano verso il basso. Sentì che si svegliava completamente, udì il suo respiro cambiare. La mano di lui proseguì senza ulteriore insistenza da parte di Robyn. Tanto tempo prima aveva imparato, penosamente, che c'erano limiti al controllo che lei riusciva a esercitare sulla propria sensualità. E così ora chiuse gli occhi, si rilassò e lasciò correre la sua fantasia, senza più controllo. Bevve solo una tazza calda di succedaneo di caffè ottenuto con sorgo arrostito e miele selvatico, e mentre beveva si pre-
parò mentalmente dando un'occhiata ai propri appunti. Trovava sempre conforto nei consigli del Celso; in un certo modo, il fatto che fossero stati scritti più o meno all'epoca di Cristo li rendeva più profondi. Ora, un chirurgo dovrebbe essere giovane o in ogni modo più vicino alla giovinezza che alla vecchiaia, con una mano forte e ferma che mai tremi, pronto a usare la sinistra quanto la destra, con vista acuta e limpida e spirito intrepido... Poi c'era Galeno, il chirurgo dei gladiatori, che aveva riversato tutta la sua esperienza in numerosi volumi. Lei li aveva letti nell'originale greco e ne aveva estratto le perle del suo genio, che aveva poi adoperato con grande successo nel curare le ferite di tipo gladiatorio dei giovani di Lobengula, pur sostituendo il grano con l'allume, lo sterco di piccione con la tintura di iodio e l'olio di lampada con l'acido fenico, nella sua lotta contro l'infiammazione e la necrosi. Il tipo di trauma che doveva affrontare ora, china sul lungo tavolo nella chiesa, era molto simile a quello descritto da Galeno, sebbene causato da un tipo diverso di arma. Il respiro roco e soffocato di Mungo St John era l'unico suono nel silenzio della chiesa. Lei saggiò la profondità del suo coma pungendogli il dito con uno specillo, dopodiché sollevò immediatamente la maschera di bambù intrecciato e garza dal naso e dalla bocca del paziente. Quindi ascoltò il suo respiro, che diventava più leggero, e si scoprì a esaminargli il viso come non era riuscita a fare quando lui era sveglio. Era ancora un bell'uomo, nonostante l'occhio mancante e i segni della sofferenza e dell'età avanzata scolpiti sul viso. Louise St John aveva preso in prestito il giorno prima il rasoio di Clinton e Mungo adesso era sbarbato. Di colpo, Robyn si rese conto che le nuove rughe sul viso e le strisce argentee sopra le tempie accentuavano il carattere di forza dell'uomo, mentre al tempo stesso la distensione della bocca gli conferiva una certa aria di infantile innocenza che le fece trattenere il fiato. Clinton stava guardandola dall'altra parte del tavolo e lei voltò il viso prima che lui notasse la sua espressione. « E' pronta, signora? » Assunse un tono disinvolto e freddo. Louise annuì. Era molto pallida, le lentiggini si stagliavano in acuto contrasto sulle guance e sul naso. E tuttavia Robyn esitava. Sapeva che stava sprecando i momenti preziosi durarte i quali il cloroformio produceva i suoi effetti, ma era presa da un terribile timore. Per la prima volta in vita sua aveva paura di maneggiare il bisturi, e un pensiero la paralizzava. « Se una volta hai amato un uomo, puoi mai cessare interamente di amarlo? » Non osò guardare più la faccia di Mungo St John addormentato; provò il desiderio di voltarsi e fuggire dalla chiesa.
« Non si sente bene, dottore? » La domanda di Louise St John la fece riprendere. Non avrebbe lasciato che quella donna la sospettasse di debolezza. La gamba era di un colore marrone giallastro per via della tintura di iodio. Sembrava una banana marcia. Recise i punti fatti dal nonno e la ferita si aprì. Vide la profondità dell'ulcerazione e capì, per la terribile esperienza che ne aveva, che una ferita come quella non sarebbe mai guarita. Suo compito principale non era di trovare la pallottola di pistola ma di riparare proprio a quel danno. Andò più in profondità, giù, oltre lo spesso serpente pulsante dell'arteria femorale, giù, fino all'osso, il femore scoperto, e di nuovo rimase sgomenta. L'osso era malformato, giallo e caseoso. Ne immaginò la causa: era lì, infatti, che la pallottola aveva colpito ed era stata deviata. Aveva staccato una lunga scheggia d'osso dal femore, e Robyn prese con le pinze qualcosa, nel tessuto morto e maleodorante, che sollevò alla luce della finestra. Era una scaglia di piombo nero. La lasciò cadere nel secchio sotto il tavolo e si chinò di nuovo sulla ferita aperta nella carne di Mungo. Quasi non c'era sangue, alcune gocce soltanto, dai punti, il resto era materia gialla e viscosa che puzzava come un cadavere. Conosceva i rischi del tentativo di rimuovere chirurgicamente quel tessuto in decomposizione, lo aveva già fatto prima... e aveva ucciso nell'eseguirlo. Era un sistema drastico cui solo un uomo forte poteva sopravvivere, ma intanto se avesse richiuso la cancrena avrebbe preso il sopravvento. Prese il raschino e raschiò l'osso esposto del femore. Ne sgorgò del pus maleodorante. Osteomielite, la necrosi del tessuto osseo. Si mise all'opera, accigliata, e quel raschio fu l'unico suono nella sala, finché Louise St John non ansimò. « Signora, se deve rigettare, per piacere vada fuori », le disse lei, senza distogliere lo sguardo. « Starò bene », bisbigliò Louise. « E allora usi il tampone come le ho detto di fare. » La parte marcia dell'osso venne via e piccoli riccioli gialli, come trucioli di legno dalla pialla del falegname, finché lei non raggiunse il nucleo poroso, attraverso il quale, finalmente, venne fuori del sangue rosso, pulito, come vino da una spugna strizzata, e l'osso intorno al buco fu duro e bianco come porcellana. Mandò un sospiro di sollievo. Nello stesso istante Mungo emise un gemito e avrebbe mosso la gamba se Clinton non l'avesse tenuta alla caviglia. Lesta, Robyn gli rimise la piccola maschera di bambù sul naso e sulla bocca e versò alcune gocce di cloroformio sulla garza che la ricopriva. Tagliò via le ulcerazioni lavorando pericolosamente vicino all'arteria e alla bianca corda del nervo femorale. Trovò altre sacche di sepsi intorno alle suture con le quali il nonno aveva chiuso i vasi sanguigni. Le ripulì e, cautamente, rimosse il tessuto morto.
C'era del sangue, ora, parecchio, ma era limpido e rosso. Aveva dunque raggiunto lo stadio più critico della chirurgia riparatrice. Sapeva che c'era ancora dell'infezione in mezzo a quel tessuto sano e che appena avesse richiuso la ferita si sarebbe sviluppata oltre. Aveva preparato l'antisettico la sera prima, una parte di acido fenico con cento parti di acqua piovana. Con esso lavò ora lo squarcio aperto nella gamba di Mungo e l'azione astringente del miscuglio asciugò il sangue che sgorgava dai vasi troppo piccoli per essere legati. Adesso poteva cucire. Aveva già lasciato altre volte dei corpi estranei nelle ferite, che spesso s'erano stabilizzati e incistati causando qualche piccolo ulteriore disagio al paziente, ma questa volta l'istinto le disse di non farlo. Lanciò un'occhiata al grosso orologio d'argento di Clinton, che lo aveva piazzato accanto alla cassetta degli strumenti perche lei lo vedesse facilmente, e constatò che stava operando da venticinque minuti; ora l'esperienza le insegnava che più a lungo insisteva più grande diventava il pericolo di un collasso primario o secondario. Alzò il capo e guardò Louise St John. Era ancora molto pallida, ma il sudore per la nausea provata le s'era ormai asciugato sulla fronte. Aveva coraggio, ammise Robyn, e questo era una cosa che lei ammirava, molto più della bellezza esotica. « Signora, adesso io cercherò la pallottola », disse. « Ho tempo di fare un solo tentativo. » Sapeva, per averlo letto negli scritti di Lister e per propria esperienza, com'era rischioso usare le mani nude in una ferita, ma quel rischio era preferibile al rimestare con uno strumento tagliente nel nido di vene, arterie e nervi dell'inguine. Aveva immaginato la posizione della pallottola, l'aveva capito dal movimento ristretto del femore nella cavità pelvica e dall'intensità del dolore quando aveva palpato la zona mentre Mungo era ancora sveglio. Sondò con l'indice, molto vicino al tessuto sopra la zona grattata dell'osso. La pallottola, dal davanti all'insù, doveva aver seguito quella direzione. Incontrò della resistenza e provò di nuovo e poi ancora. All'improvviso, il dito scivolò in uno stretto canale nella carne viva della coscia e lo percorse per tutta la sua lunghezza, e proprio quando non poté andare più avanti toccò qualcosa di duro. Poteva essere la testa del femore o la cresta inferiore dell'osso pelvico, e tuttavia lei prese lo scalpello. Un getto sottilissimo di sangue da un vaso sanguigno intaccato le schizzò sulla guancia e sulla fronte prima che lei riuscisse a chiuderlo torcendolo, e anche questa volta sentì Louise annaspare, ma le mani che reggevano il tampone tremarono appena e tolsero via il sangue, così che lei poté tagliare di nuovo finché ci fu un fiotto di spessa materia gialla cremosa che sprizzò dal taglio come le fangose acque di un'alluvione da una diga saltata. Nel fiotto c'erano piccole schegge e frammenti di metallo, fili marci di tessuto di lana e altre scorie.
« Sia lodato Dio! » bisbigliò, e tirò fuori la mano gocciolante di quella materia gialla puzzolente. Tra il pollice e l'indice stringeva un pezzo di piombo bluastro distorto e sformato. Da un pezzo ormai le gemelle avevano scoperto il piccolo tesoro letterario che Robyn teneva chiuso nello stipo contro la parete di fondo della sua camera da letto. Naturalmente potevano sfogliarlo solo quando i genitori o le sorelle maggiori erano occupati altrove, per esempio quando re Ben li convocava a GuBulawayo e Salina cucinava e Cathy dipingeva o leggeva. Allora sgusciavano nella camera da letto e spingevano una sedia contro la parete, in modo che Victoria salisse sulle spalle di Lizzie e potesse raggiungere la chiave. C'erano più di cinquanta libri nello stipo. La gran parte, purtroppo, senza illustrazioni. Questi volumi s'erano dimostrati abbastanza ingrati, visto che i loro sforzi di decifrare il testo erano naufragati davanti a molte parole ardue come scogli; altre volte, proprio quando il testo stava diventando interessante, incontravano il solido ostacolo di una lingua straniera che, secondo i loro sospetti, doveva essere latino o greco. Evitavano questi volumi, mentre quelli con le illustrazioni rappresentavano una delizia proibita, accresciuta ancor più dal pericolo e dal senso di colpa. Ce n'erano alcuni con addirittura disegni dell'interno delle donne, con o senza bambino in situ, e altri del bambino nell'atto di emergere. In ogni modo, il preferito assoluto era quello che loro chiamavano « Il libro dei diavoli », perché in ogni pagina pari c'era un'illustrazione realistica e precisa di anime in tormento e dei diavoli che le tormentavano. L'artista che aveva interpretato quell'edizione dell'Inferno di Dante s'era indugiato mostruosamente sulle decapitazioni e gli sventramenti, sui ferri roventi e gli uncini, sulle lingue penzolanti e gli occhi gonfi. Anche la più breve lettura di quel capolavoro bastava perché loro due passassero la maggior parte della notte seguente abbracciate nel loro letto, tremando di piacevole terrore. Comunque, quella particolare visita allo stipo proibito era nell'interesse della ricerca scientifica, altrimenti non avrebbero mai corso il rischio mentre la madre era alla missione. Scelsero l'ora delle visite mattutine, quando la madre era certamente in chiesa con i pazienti e il babbo era occupato nel porcile e Salina e Cathy erano intente ai compiti affidati loro. L'incursione si svolse con la precisione che derivava da una attenta preparazione. Lasciarono i loro libri di lettura aperti sul tavolo nella camera da pranzo, raggiunsero il fondo della veranda e si procurarono la chiave nel tempo necessario per trarre un profondo respiro. Lizzie si mise di guardia alla finestra, da dove poteva scorgere la cucina, la chiesa e i porcili, mentre Vicky apriva lo stipo, tirava fuori il « Libro dei diavoli » e lo apriva alla pagina giusta. « Visto! » bisbigliò. « Te l'avevo detto. » Eccolo lì: Satana, Lucifero, il re degli Inferi. E Vicky aveva
ragione: non aveva le corna. Tutti i demoni inferiori le avevano, ma non il Diavolo, non il Diavolo in persona. Aveva sì una coda, una magnifica coda con una punta all'estremità come la lama di un assegai matabele. « Ha la barba in questa illustrazione », osservò Lizzie, riluttante ad abbandonare la propria posizione. « Probabilmente se l'è tagliata... Per ingannarci », rispose Vicky. « Ora guarda! » Si tolse una forcina dai capelli e ne usò la punta rotonda per coprire uno degli occhi di Lucifero. Immediatamente la rassomiglianza fu innegabile: i folti capelli ricci e scuri, la fronte larga, il naso a becco e l'occhio vivido sotto il sopracciglio arcuato e il sorriso, lo stesso satanico, ironico sorriso. Lizzie ebbe un fremito. Vicky aveva ragione, era proprio lui. « Attenzione! » sibilò Vicky. Salina stava venendo fuori dalla cucina e loro due avevano rimesso a posto il libro, chiuso lo stipo, riposto la chiave nel suo nascondiglio, ed erano di nuovo sedute al tavolo chine sui loro libri di lettura, allorché Salina ebbe attraversato lo spiazzo e controllato quel che facevano. « Bene. » Sorrise loro compiaciuta: a volte erano davvero due angeli: « Brave ragazze », disse, e se ne tornò in cucina. « Dove la metterà? » chiese a bassa voce Lizzie, senza staccare gli occhi dal libro. « Cosa? » « La coda. » « Guarda! » disse Vicky. « Ti faccio vedere. » Napoleone, il vecchio cane bastardo giallo, stava dormendo nell'angolo della veranda illuminato dal sole. Ogni tanto sognava conigli o una gallina faraona e agitava spasmodicamente le zampe posteriori lasciandosi sfuggire per l'eccitazione una scoreggia maleodorante. « Cagnaccio! » disse Vicky ad alta voce. « Napoleone, sei cattivo, proprio cattivo. » Napoleone saltò in piedi, colpito da quell'ingiusta accusa, e scosse tutto il corpo mentre il labbro superiore si sollevava in un ghigno servile. Al tempo stesso la sua lunga coda scomparve tra le gambe e s'arricciò sotto al ventre. « E' così che la mette via. Come Napoleone », annunciò Vicky. « Come lo sai? » « Se guardi attentamente, vedrai il gonfiore lì dove gli spunta, davanti. » Continuarono a leggere distrattamente per alcuni secondi, poi Lizzie non seppe più trattenersi. « Pensi che potremo vedergli la coda? » « Come? » « Se... » Lizzie spiegò per metà il suo piano poi tacque. Persino lei si rendeva conto che sarebbe stato impossibile manomettere la latrina, praticando un foro da cui spiare nella parete posteriore, senza essere sorprese. E non avrebbero mai potuto spiegare in maniera convincente i loro motivi, specialmente alla
madre. « In ogni modo », concluse Vicky, « i diavoli probabilmente sono come le fate, non la fanno. » Ci fu di nuovo silenzio. Evidentemente risollevato per il fatto che l'accusa rivoltagli non aveva avuto nessun seguito, Napoleone tornò ai suoi sogni, e sembrò proprio che il progetto originale fosse stato abbandonato, quando Vicky alzò il capo dal libro con uno sguardo deciso negli occhi. « Glielo chiediamo. » « Ma », balbettò Lizzie, « la mamma ci ha proibito di rivolgergli la parola... » Poi capì che la propria protesta era vana: quel lampo negli occhi di Vicky le era familiare. Dieci giorni dopo avere estratto la pallottola di pistola, Robyn andò nella foresteria con una gruccia intagliata in legno di mopani « Gliel'ha fatta mio marito », disse a Mungo St John. « E da ora in poi la userà sempre. » Il primo giorno Mungo riuscì a fare, zoppicando, un giro dello spiazzo; alla fine era pallido e sudato. Robyn controllò la gamba e i punti; questi avevano tenuto, tutti, ma i muscoli della coscia s'erano contratti, tirando la gamba e rendendola di qualche centimetro più corta dell'altra. La mattina dopo Robyn era di nuovo lì, a sorvegliare il suo esercizio. Mungo si muoveva con maggiore facilità. Dopo quindici giorni lei rimosse gli ultimi punti e, sebbene la cicatrice fosse rilevata e ispessita, d'un livido rosso purpureo non c'era nessuna indicazione di necrosi. Sembrava guarita: il drastico uso del forte anestetico sul tessuto vivo sembrava dunque giustificato. Dopo cinque settimane Mungo abbandonò la gruccia per un robusto bastone e prese il sentiero che girava intorno al kopje dietro la missione. Ogni giorno si spingeva più avanti e stava via più a lungo. Era un sollievo evitare le amare discussioni con Louise, che punteggiavano ormai i lunghi periodi del suo glaciale silenzio. Aveva trovato un punto oltre la cima settentrionale del kopje, una piattaforma naturale e una panca di scura roccia sotto i lunghi rami di un bell'albero di legno ferro, dove poteva starsene seduto a rimuginare di fronte all'ondulata piana erbosa, che si spingeva fino al lontano profilo blu delle colline che segnavano la località dov'era il kraal di Lobengula. L'istinto lo avvertiva che laggiù c'era qualcosa per lui. Erano l'istinto e la consapevolezza dello squalo che si aggira intorno alla preda di cui ha scoperto la presenza a distanze e profondità al di là della portata dei sensi. Raramente l'istinto gli era venuto meno e c'era stato un tempo in cui aveva afferrato ogni occasione con coraggio e spietata applicazione di tutta la propria abilità e la propria forza. Seduto sotto quell'albero, le mani sul pomo del bastone e il mento sopra le mani, riandava col pensiero ai suoi trionfi: le
grandi navi che aveva vinto e che aveva portato sino alla fine degli oceani, riportandole indietro cariche di tesori, tè, caffè e spezie, oppure con le stive piene di schiavi neri. Ricordava la ricca e fertile terra che gli era appartenuta e il dolce odore dei campi di canna da zucchero al momento del raccolto. Ricordava mucchi di monete d'oro, carrozze e bei cavalli... E donne. Tante donne. Troppe, forse, perché erano la causa della sua attuale situazione. Alla fine lasciava che il pensiero si soffermasse su Louise. Era stato come un incendio nelle vene, che era divampato tanto più forte quanto più lui aveva tentato di spegnerlo. Lo aveva indebolito, distratto, allontanato dai suoi crudeli propositi. Era la figlia di uno dei suoi sorveglianti di Fairfields, la sua vasta proprietà in Louisiana. Quando aveva sedici anni lui le aveva permesso di far esercitare il cavallo di sua moglie, un palomino, e a diciassette era riuscito a portarla in casa, come compagna e serva di sua moglie; a diciotto l'aveva violentata. Sua moglie era nella camera da letto accanto, in preda a uno dei suoi terribili mal di testa, e lui aveva strappato i vestiti di dosso a Louise, preso da una follia che non aveva mai conosciuto prima. Lei s'era difesa con tutto l'ardore degli indiani piedi neri suoi antenati, e tuttavia in maniera perversa quella sua resistenza lo aveva fatto impazzire quanto la visione del suo giovane corpo, visione che gli era stata consentita solo a un tratto per volta. Con le unghie lei gli aveva prodotto rossi graffi sul petto e lo aveva morso fino a farlo sanguinare, senza però pronunciare una sola parola, senza emettere un solo suono, mentre sarebbe bastato un solo grido per far accorrere la padrona e tutti i servi della casa. Alla fine, l'aveva messa giù sulla spessa e bianca pelliccia di un orso polare al centro della stanza, nuda, a parte i brandelli della sottana che le pendevano dalle lunghe e belle gambe, e col suo peso l'aveva schiacciata a terra e penetrata. Solo allora lei aveva aperto bocca, lo aveva afferrato con lo stesso ardore con cui s'era difesa, lo aveva circondato con braccia e gambe e aveva bisbigliato, con voce rauca, rotta: « Ti amo, ti ho sempre amato ». Quando le armate nordiste avevano marciato contro di loro e sua moglie era fuggita con i bambini nella nativa Francia, Louise era rimasta con lui. Quando aveva potuto era stata sul campo con lui, altrimenti lo aveva aspettato, occupando i giorni e quasi tutte le notti a curare i feriti nell'ospedale confederato di Galveston, e lì aveva curato anche lui quando vi era stato portato dal campo di battaglia, mezzo cieco e terribilmente ferito. Era stata al suo fianco quando lui era tornato a Fairfields per l'ultima volta, e aveva condiviso la sua angustia allo spettacolo dei campi bruciati e degli edifici in rovina; da allora non lo aveva mai lasciato. Forse, se l'avesse fatto, le cose ora sareb-
bero state diverse, perché lei lo aveva indebolito, aveva appannato la sua forza di decisione. Quante volte aveva annusato le opportunità, le possibilità per un colpo che gli avrebbe ridato tutto, e ogni volta lei lo aveva fatto esitare. « Non potrei rispettarti più se facessi una cosa del genere », gli aveva detto una volta. « Non ho mai sospettato che fossi capace di questo, Mungo. E' sbagliato, moralmente sbagliato. » A poco a poco tutto era cambiato, finché a volte, dopo qualche altro abortito tentativo di ricrearsi una fortuna, lei aveva preso a guardarlo con freddezza, una specie di glaciale disprezzo. « Perché non mi lasci? » le chiedeva allora, per provocarla. « Perché ti amo », rispondeva lei. « Oh, come lo desidero, a volte. » A Perth, quando lui l'aveva costretta a fare da esca in una trappola per una vittima predestinata, lei si era ribellata per la prima volta. Era corsa ad avvertire l'uomo e così erano stati costretti a fuggire di nuovo, imbarcandosi su un piccolo schooner appena un'ora prima che arrivassero i poliziotti col mandato di arresto. Da allora non si era più fidato di lei, anche se non era stato capace di prendere la decisione di lasciarla. Sentiva di avere ancora bisogno di Louise. A Città del Capo una lettera lo aveva finalmente raggiunto. Era una delle cinque copie inviate da suo cognato, duca de Montijo, a ciascuno dei cinque indirizzi da lui cambiati negli anni trascorsi da quando la moglie lo aveva abbandonato. Solange, sua moglie, s'era presa un raffreddore andando a cavallo ed era morta cinque giorni dopo di polmonite. I suoi figli erano ora affidati al duca e venivano educati insieme con i figli di costui, il quale faceva capire che si sarebbe opposto a qualsiasi tentativo da parte sua di assumerne la custodia come padre. Alla fine era libero di mantenere la propria promessa a Louise, la promessa solenne che le aveva fatto quando stavano inginocchiati, la mano nella mano, davanti all'altare nella chiesa londinese di St Martin-in-the-Fields. Aveva giurato davanti a Dio che non appena avesse potuto farlo l'avrebbe sposata. Aveva letto quella lettera del cognato tre volte, poi l'aveva bruciata alla fiamma di una candela. Aveva ridotto le ceneri in polvere e non aveva mai fatto menzione della lettera o del suo contenuto a Louise. Lei aveva continuato a credere che Mungo fosse sempre sposato, e il loro rapporto era andato avanti, peggiorando. E tuttavia lei riusciva a influenzarlo anche quando non era fisicamente presente. Al buio incrocio delle strade a sud di Kimberley, anche quando aveva visto i diamanti brillare nelle mani di Hendrick Naaiman, non era stato capace di cancellare l'immagine di Louise dalla propria mente: Louise, con il disprezzo negli occhi e le fredde accuse sulle belle labbra. Esperto tiratore com'era, l'ombra di Louise gli aveva rovi-
nato la mira. Aveva fatto fuoco un attimo troppo tardi e mirato troppo largo. Non aveva ucciso il bastaard, ma se lo avesse fatto la reazione di Louise non sarebbe stata meno severa. Aveva cavalcato fino al punto in cui lei lo aspettava, barcollando sulla sella, con lo stallone ferito che gli si trascinava sotto, e aveva visto il viso di Louise al lume della luna. Anche se lei lo aveva sorretto quando stava per cadere, gli aveva curato le ferite ed era andata a chiamare soccorso, Mungo aveva capito che avevano ormai attraversato una linea divisoria oltre la quale non c'era più ritorno. Quasi a conferma di questo, aveva visto Zouga Ballantyne guardarla alla luce della lanterna con uno sguardo inconfondibile negli occhi. Molti uomini l'avevano guardata a quel modo nel corso degli anni, ma questa volta lei aveva restituito apertamente lo sguardo, senza fare nessun tentativo per nasconderlo né a Zouga né a Mungo. Sulla lunga strada per il nord, poi, mentre camminava accanto al carretto nel quale lui stava disteso, ferito, l'aveva provocata di nuovo e lei non aveva negato. « Almeno Zouga Ballantyne è un uomo d'onore. » « Allora perché non mi lasci? » « Sai che non posso lasciarti ora, non nelle condizioni in cui sei... » Non aveva terminato la frase e non ne avevano mai più parlato, anche se nei suoi gelidi silenzi lui aveva immaginato la presenza nei suoi pensieri dell'altro uomo. Sapeva però che, per quanto disperatamente infelice possa essere, una donna raramente tronca un rapporto finché non ha la prospettiva di uno migliore con cui sostituirlo. Louise aveva quella prospettiva adesso, e ne erano entrambi consapevoli. Si chiese, ora, se l'avrebbe lasciata andare qualora lei alla fine si fosse decisa. Un tempo, non molto prima, l'avrebbe uccisa piuttosto, ma da quando avevano raggiunto Khami tutto aveva cominciato a cambiare a un ritmo molto veloce. Stavano correndo verso una conclusione e lui, Mungo, sentiva che sarebbe stata esplosiva. Perché infatti aveva dimenticato il fascino che Robyn Ballantyne aveva esercitato un tempo su di lui; ora però la donna matura, Robyn Codrington, gliel'aveva ricordato in maniera molto viva. Ai suoi occhi, ora, Robyn era ancora più attraente di quanto lo era stata da ragazza. Sentiva che la forza e la sicurezza di lei potevano offrire un porto sicuro a un uomo stanco fino alla nausea delle tempeste della vita. Sapeva che era la confidente fidata del re matabele, e che se la sua fortuna lo aspettava lì nel nord, come aveva finito col sospettare, allora un'intercessione con il matabele sarebbe stata preziosissima. Ma c'era dell'altro, un bisogno più oscuro in lui. Mungo St John non dimenticava né perdonava mai un'offesa. Clinton Codrington era stato al comando dell'incrociatore della Royal Navy che aveva catturato l'Huron al largo di Capo di Buona Speranza, e quell'azione era stata per lui l'inizio di un lungo
declino, l'annuncio di una maledetta sfortuna. Codrington adesso era vulnerabile. Attraverso quella donna lui poteva dunque vendicarsi, e la prospettiva era stranamente avvincente. Sospirò e scosse il capo, poi s'alzò e adoperò il bastone per tenersi dritto. Si trovò di fronte due piccole figure. A lui piacevano tutte le donne, di qualsiasi età e, sebbene non avesse mai più visto i suoi figli da molti anni, il più piccolo doveva avere la stessa età di quelle due. Erano graziose. Benché prima le avesse viste solo di sfuggita e da lontano, aveva comunque sentito destarsi dentro un certo istinto paterno; ora, in quel momento, la loro presenza era un sollievo dai suoi oscuri pensieri e dalla solitudine di quelle ultime settimane. « Buongiorno, signorine. » Sorrise e si chinò quanto più in basso la gamba gli permise. Il suo sorriso era irresistibile, e parte della rigidità scomparve dai due giovani corpi. Ma la loro espressione rimaneva pallida e fissa, i loro occhi, grandi e trepidanti, erano fissi sulla patta dei suoi pantaloni, tanto che dopo alcuni secondi di silenzio persino lui fu a disagio. « Posso esservi utile in qualcosa? » chiese. « Vorremmo vedere la sua coda, signore. » « Ah! » Mungo riusciva a non mostrare mai imbarazzo di fronte a una donna, di qualsiasi età. « Voi non dovreste saperne nulla », disse. « No? » Scossero il capo contemporaneamente ma i loro occhi rimasero fissi, affascinati, al disotto della sua cintura. Vicky aveva ragione, là c'era decisamente qualcosa. « Chi ve ne ha parlato? » Tornò a sedersi, portando il proprio sguardo a livello con quello delle gemelle, il cui disappunto fu evidente. « Mamma dice che lei è il Diavolo, e noi sappiamo che il Diavolo ha la coda. » « Capisco. » Con un enorme sforzo riuscì a non ridere; mantenne la sua espressione seria e quel tono di voce da cospiratore. « Voi siete le uniche a saperlo », disse. « Non lo direte a nessuno, vero? » Di colpo, si rese conto del vantaggio prezioso di avere degli alleati a Khami, due paia di occhi bene aperti che vedevano tutto e di lunghe orecchie che tutto udivano. « Non lo diremo a nessuno », promise Vicky. « Se lei ce la mostra. » « Non posso farlo. » E ci fu subito un'esclamazione di disappunto. « Perché no? » « Vostra madre non vi ha insegnato che è peccato mostrare a qualcuno quello che si ha sotto i vestiti? » Si guardarono, poi, riluttante, Vicky ammise: « Sì, non ci è permesso neppure di vedere noi stesse là sotto. Lizzie è stata picchiata per questo ». « Ecco », annuì lui. « Ma vi dico cosa farò. Vi racconterò la storia di come mi ritrovo la coda. »
« Storia! » Vicky batté le mani ed entrambe allargarono il vestito e sedettero a gambe incrociate ai suoi piedi. Se c'era qualcosa migliore di un segreto era una storia, e quel Diavolo ne aveva di storie, meravigliosamente paurose, agghiaccianti, del tipo che garantivano gli incubi la notte. Ogni pomeriggio, quando lui arrivava a quel punto panoramico sotto l'albero di legno ferro, le gemelle erano già là che lo aspettavano, prigioniere del suo fascino, drogate dalle sue straordinarie storie di spettri e draghi, di streghe cattive e belle principesse che sempre avevano i capelli di Vicky o gli occhi di Lizzie. Poi, dopo aver raccontato ogni volta una di quelle storie, lui con tatto spostava il discorso sulle faccende di Khami. In un giorno tipico, per esempio, apprendeva che Cathy aveva cominciato a dipingere un ritratto del cugino Ralph a memoria e che unanime verdetto delle gemelle era che Cathy non avesse solo un debole per il cugino Ralph ma addirittura gli svenisse dietro. Apprese così che re Ben aveva ordinato all'intera famiglia di presenziare alla cerimonia chawala della luna nuova e che loro due attendevano con ansia e insieme raccapriccio la rituale uccisione del toro nero. « Lo fanno con le mani », diceva Vicky. « E questa volta ci permetteranno di assistere, ora che abbiamo undici anni. » Gli raccontarono, nei minimi particolari, di come il babbo avesse chiesto alla mamma, a tavola, quanto tempo ancora « quell'infame pirata » doveva restare a Khami, e lui dovette spiegare alle gemelle che « infame » significava « famoso e anche di più ». Poi, in uno di quei pomeriggi, apprese da Lizzie che re Ben aveva di nuovo « khombisile » ai suoi induna. Gandang, uno dei fratelli del re, lo aveva detto a Juba, che era sua moglie, e Juba lo aveva detto alla mamma. « Khombisile? » chiese lui, puntualmente. « Che significa? » « Significa mostrato. » « Mostrato che cosa? » « Il tesoro », intervenne Vicky, e Lizzie le aveva dato addosso. « Glielo dico io! » « Va bene, Lizzie. » Lui era tutto proteso in avanti, interessato e sorridente. « Dillo tu. » « E' un segreto. Mamma dice che se altri lo sapessero, gente cattiva, sarebbe terribile per re Ben. Potrebbero arrivare i ladri. » « Quindi è un segreto e non si ripete », ammise lui. « Mettiti la mano sul cuore. » Lui non l'aveva ancora messa, la mano sul cuore, che Lizzie già stava dicendo tutto. Non voleva che Vicky potesse precederla questa volta. « Gli mostra i diamanti. Le mogli lo cospargono di grasso e poi conficcano i diamanti nel grasso. » « E dove li prende, re Ben, tutti questi diamanti? » Lo scet-
ticismo combatteva contro il bisogno di credere. « La sua gente glieli porta da Kimberley. Juba dice che non è furto vero e proprio. Re Ben dice che è solo un tributo che spetta a un re. » « Juba ha detto quanti diamanti? » « Pentole piene, pentole e pentole di diamanti. » Mungo allontanò il suo unico occhio dal viso arrossato di lei e guardò oltre la dorata piana erbosa, verso le Colline degli Induna, e il suo occhio era chiazzato di giallo-oro come quelli dei grandi felini predatori dell'Africa. Jordan aspettava trepidante quelle prime ore del giorno. Uno dei suoi doveri era di controllare ogni sera sulle effemeridi nautiche l'ora in cui il sole sorgeva, e di svegliare mister Rhodes un'ora prima. A Rhodes piaceva vedere il sole sorgere, sia dalla piattaforma della sua magnifica carrozza ferroviaria privata, sia bevendo il caffè nel polveroso spiazzo davanti al cottage di lamiera che lui ancora manteneva dietro Market Square, a Kimberley; sia dal ponte di passeggiata di un transatlantico, sia dalla groppa di un cavallo lungo i tranquilli sentieri della sua proprietà alle pendici della Table Mountain. Era l'ora in cui Jordan era solo col suo padrone, l'ora in cui le idee che mister Rhodes chiamava i suoi « pensieri » gli sarebbero venute a dozzine. Idee incredibili e magnifiche e fantasiose, ma tutte affascinanti. Era l'ora in cui Jordan poteva sentirsi parte della vasta genialità di quell'uomo, quando sul proprio blocco stenografava la bozza dei discorsi di mister Rhodes, discorsi che sarebbero stati pronunciati nell'aula solenne del Parlamento del Capo, al quale era stato portato dagli elettori di quella che un tempo era stata Griqualand, oppure nel consiglio d'amministrazione della De Beers, di cui era presidente. La De Beers era la gigantesca società che mister Rhodes aveva formato fondendo insieme tutte le concessioni dei piccoli cercatori e le società concorrenti più piccole. Come un mitico serpente boa, li aveva inghiottiti tutti, anche la Barney Barnato, altro gigante nel campo dei diamanti. E ora mister Rhodes possedeva tutto. Altre mattine cavalcavano in silenzio, finché mister Rhodes sollevava il mento dal petto e fissava Jordan con quei suoi occhi azzurro scuro. Sempre, aveva qualcosa di sorprendente da dire. Una volta, per esempio: « Dovresti ringraziare Dio ogni giorno, Jordan, per essere nato inglese ». E un'altra volta: « C'è solo un vero scopo, in effetti, Jordan. Non è l'accumulazione di ricchezza. Io sono stato fortunato a riconoscerlo così presto. Il vero scopo è di portare tutto il mondo civile sotto il governo britannico, recuperare l'America del Nord alla corona, e fare di tutta la razza anglosassone un solo unico impero ». Era eccitante e inebriante far parte di tutto questo, specie quando, molto spesso, quella gran figura robusta tratteneva il
cavallo e girava il capo per guardare verso nord, verso una terra che né lui né Jordan avevano mai visto ma che durante gli anni in cui Jordan era stato con lui era diventata parte dell'esistenza di entrambi. « Il mio pensiero », lo chiamava lui. « Il mio nord: la mia idea. » « E' là che tutto avrà davvero inizio, Jordan. E quando sarà il momento ti ci manderò. La persona di cui posso fidarmi più di chiunque altro. » E a lui, Jordan, non risultava mai strano che quegli occhi azzurri guardassero in quella direzione, che quella terra aperta, lì a nord, avesse finito con l'incombere nell'immaginazione di mister Rhodes al punto di assumere l'aspetto di una sacra ricerca. Jordan poteva dire qual era il giorno in cui era cominciato, non solo il giorno ma l'ora. Per settimane, dopo che Pickering era stato sepolto nel cimitero su Cape Road, lui aveva rispettato il lutto di mister Rhodes. Poi, un pomeriggio, questi aveva lasciato presto il suo ufficio ed era ritornato al campo. Aveva recuperato l'immagine dell'uccello, abbandonata nel cortile, e con l'aiuto di tre operai neri l'aveva trasferita nel cottage. Il soggiorno era troppo piccolo per contenerla, avrebbe impedito l'accesso sia al tavolo sia alla porta d'ingresso. Nel piccolo cottage c'era una sola parete libera ed era nella camera da letto di mister Rhodes, alla testa della stretta brandina. La statua entrava esattamente nel tratto di parete accanto alla finestra. La mattina dopo, quando lui andò a chiamarlo, mister Rhodes s'era già alzato dalla brandina e stava in piedi, in vestaglia, davanti alla statua. Nella fresca e rosea luce dell'alba, mentre andavano a cavallo fino agli uffici della De Beers, all'improvviso mister Rhodes aveva detto: « Ho avuto un pensiero, Jordan, uno del quale vorrei farti partecipe. Mentre studiavo la statua ho pensato che il nord è la porta d'ingresso, è l'entroterra di questo nostro continente ». Era cominciato così, all'ombra dell'uccello. Quando l'architetto Herbert Baker aveva consultato mister Rhodes a proposito dell'arredamento della dimora che stavano costruendo nella proprietà del Capo, « Groote Schuur », « Il grande capannone », lui, Jordan, sedeva accanto ai due uomini. Come sempre alla presenza di altri, se ne stava molto appartato e prendeva nota di ciò che mister Rhodes andava dettando, fornendo qualche cifra o citando qualche fatto solo quando veniva interrogato, e anche allora a bassa voce. Mister Rhodes a un certo punto s'era alzato di scatto dalla cassetta sulla quale stava seduto contro la parete del cottage e s'era messo a passeggiare, in uno di quei suoi tipici stati d'animo eccitabili e volubili. « Ho avuto un pensiero, Baker. Voglio che il posto abbia un tema, qualcosa che rappresenti essenzialmente me, che resti il mio motivo anche quando non ci sarò più, qualcosa che agli uomini che la vedranno, anche tra mille anni, ricordi immedia-
tamente il nome di Cecil John Rhodes. » « Un diamante, per caso? » aveva azzardato Baker, eseguendo lo schizzo stilizzato di una pietra sul suo taccuino. « No, no, Baker. Sia originale, amico. Prima ho dovuto rimproverarla per la sua avarizia, per aver cercato di costruirmi una meschina stamberga, e ora che finalmente le ho inculcato l'idea di dimensioni e spazio magnifici e ampi, vuole rovinare tutto. » « L'uccello! » aveva detto Jordan. Aveva parlato suo malgrado, e gli altri due lo avevano guardato sorpresi. « Cosa hai detto, Jordan? » « L'uccello, mister Rhodes. L'uccello di pietra. Credo che debba essere il suo motivo. » Rhodes lo aveva guardato per un momento, poi s'era colpito col pugno destro il palmo della sinistra. « Esatto, Baker. L'uccello. Me lo disegni. Me lo disegni adesso. » E così l'uccello era diventato lo spirito di Groote Schuur. Non c'era una sola delle enormi stanze che non avesse un fregio, o gli stipiti scolpiti delle porte, che riproducevano l'uccello; persino il bagno, undici tonnellate di granito lucidato e cesellato, era adorno ai suoi quattro angoli dell'immagine del falco. La statua originale era stata spedita da Kimberley e nel principesco atrio d'ingresso c'era una nicchia dall'alto della quale essa ora guardava con i suoi occhi ciechi tutti quelli che entravano dalla porta d'ingresso di tek massiccio della dimora. Quella mattina erano usciti a cavallo ancora più presto del solito; mister Rhodes infatti aveva dormito male e dalla piccola camera da letto in fondo al corridoio aveva convocato Jordan. Faceva freddo. Un vento cattivo scendeva dalle montagne dell'Hottentots Holland e quando imboccarono il sentiero che portava allo zoo privato Jordan si voltò a guardare indietro. Dall'altra parte delle pianure del Capo vide la neve sulle vette lontane divenir rosa e oro alla prima luce. Mister Rhodes era d'umor cupo, taciturno, lì in sella, con il bavero alzato fino alle orecchie e il cappello a falda larga calcato fino a sfiorarlo. Accortamente, Jordan avvicinò il proprio cavallo al suo e studiò il suo viso. Rhodes non aveva ancora quarant'anni, e tuttavia quella mattina ne dimostrava quindici di più. Non badava all'azzurra piombaggine ai lati del sentiero fiorita fuori stagione, altre mattine, invece, avrebbe lanciato piccole esclamazioni deliziate, perché quello era il suo fiore preferito. Non si fermò allo zoo per veder dare da mangiare ai leoni, s'inoltrò nella foresta e alla fine, sul tratto di terra che conduceva ai dirupi del massiccio dalla cima piatta, smontarono da cavallo. Da quella distanza il tetto di paglia di Groote Schuur, con le sue torrette, sembrava un castello di fiaba. Ma Rhodes stava guardando oltre.
« Mi sento come un cavallo da corsa », disse a un tratto, « come un purosangue arabo col cuore e la voglia e la necessità di correre. Ma in groppa a me c'è uno scuro cavaliere che mi trattiene con un duro morso di ferro e mi tormenta con crudeli speroni. » Si stropicciò gli occhi chiusi con il pollice e l'indice, poi si massaggiò le guance come per farvi riaffluire il sangue. « Era con me anche questa notte, Jordan. Molto tempo fa lasciai l'Inghilterra, venni in questa terra e credetti di essergli sfuggito, ma eccolo di nuovo in sella. Il suo nome è Morte, Jordan, e mi concederà molto poco tempo. » Si premé una mano sul petto, a dita aperte, come per rallentare la corsa del cuore malato. « C'è così poco tempo, Jordan. Devo far presto. » Si girò, si tolse la mano dal cuore e la posò sulla spalla di Jordan. La sua espressione divenne dolce e un breve e triste sorriso gli comparve sulle labbra. « Come ti invidio, ragazzo. Perché tu vedrai tutto e io no. » In quel momento Jordan temé che il cuore gli si spezzasse e, guardandolo in faccia, Rhodes sollevò la mano e gli sfiorò la guancia. « E' tutto così breve, Jordan, la vita e la gloria... Persino l'amore. E' tutto così breve. » Si girò verso il suo cavallo. « Andiamo, c'è del lavoro da fare. » Quando uscirono dalla foresta, il corso dei pensieri di quella mente brillante era cambiato di nuovo. La morte era stata messa da parte e, all'improvviso, disse: « Dobbiamo persuaderlo, Jordan. Lo so che è tuo padre... ma dobbiamo persuaderlo. Pensaci sopra e fammi sapere cosa hai pensato. Ma ricordati, abbiamo poco tempo e non possiamo fare a meno di lui ». La strada che superava la gola tra il massiccio principale della Table Mountain e Signal Hill era molto frequentata e Jordan superò una ventina e più di diligenze prima di raggiungere la cima, ma oltre questa c'erano ancora altre due ore di viaggio e la strada diventava sempre meno frequentata sinché alla fine fu solo una pista deserta che conduceva a uno dei burroni sul fianco della montagna. Nella stagione invernale i cespugli di protea sui pendii al di là della costruzione dal tetto di paglia erano color grigio e i loro fiori s'erano avvizziti e scuriti sui rami. La cascata che spumeggiava giù dalla montagna aveva levigato le rocce nere e fredde, e gli schizzi d'acqua gocciolavano dagli alberi che s'infittivano intorno allo stagno. Eppure il cottage aveva un aspetto curato. La paglia era stata rinnovata di recente, era infatti ancora dorata, e le spesse pareti erano imbiancate a calce. Con sollievo vide che dal camino usciva del fumo. Suo padre era in casa. Sapeva che la proprietà un tempo era appartenuta al vecchio cacciatore ed esploratore Tom Harkness e che suo padre l'aveva acquistata con centocinquanta sterline provenienti dai suoi diritti dell'Odissea di un cacciatore. Un gesto sentimentale,
forse, perché era stato il vecchio Tom a consigliare e incoraggiare Zouga Ballantyne alla sua prima spedizione in Zambesia. Smontò e legò il grosso e lucido cavallo delle stalle di Groote Schuur alla barra sotto la veranda e salì i gradini d'ingresso. Guardò il masso di pietra blu che stava in cima agli scalini come una sentinella e, al ricordo di quel fatale giorno in cui Ralph l'aveva incontrato negli scavi delle Diaboliche e l'aveva portato alla superficie, una piccola ombra gli passò sul viso. Era l'unica cosa che restava a tutti loro di quegli anni di pene e fatiche. Si chiese se suo padre non l'avesse portato fin lì con grande sforzo e non l'avesse piazzato così in vista perche risultasse un eterno rimprovero. Poggiò per un attimo la mano sulla pietra e sentì sotto le dita la levigatezza prodotta da altre mani in quello stesso punto, come i segni delle mani dei fedeli su una sacra reliquia. Forse anche Zouga la toccava ogni volta che passava. Ritirò la mano e gridò verso il cottage. « C'è nessuno? » Ci fu del movimento nella stanza sul davanti e la porta d'ingresso si spalancò. « Jordan, Jordan mio! » gridò Jan Cheroot, e si precipitò giù per i gradini. I capelli grigi erano diventati tutti bianchi ormai, ma gli occhi erano pieni di vita e la ragnatela di rughe intorno a essi non s'era infittita. Abbracciò Jordan con tutta la forza delle sue braccia scure; pur trovandosi di un gradino più in alto di lui, sulla veranda, non gli arrivava al mento. « Come sei alto, Jordie », esclamò. « Chi avrebbe detto che saresti diventato tanto alto, mio piccolo Jordie. » Si fece indietro e guardò Jordan in faccia. « Guardati. Scommetto una ghinea contro una fatta di babbuino che hai già rotto più di un cuore femminile. » « Non quanto te. » Jordan lo attirò di nuovo a sé e lo abbracciò. « Sono partito avvantaggiato », ammise Jan Cheroot, poi sorrise, malizioso. « E ho ancora il fiato per qualche paio di salti. » « Temevo che tu e papà foste ancora via. » « Siamo tornati a casa tre giorni fa. » « Dov'è papà? » « Jordan! » L'amata voce familiare lo fece sussultare; si sciolse dall'abbraccio di Jan Cheroot e guardò oltre di lui a Zouga Ballantyne, in piedi sull'ingresso del cottage. Non aveva mai visto suo padre con un così bell'aspetto. Non solo era magro e abbronzato, ma sembrava anche più alto e più dritto nella persona, così diverso da quando, sconfitto e piegato, aveva lasciato gli scavi. « Jordan! » ripeté, e gli si avvicinò. Si strinsero la mano e Jordan studiò il viso del padre. Quell'espressione fiera e determinata che il lavoro negli sca-
vi gli aveva bruciato era ritornata, ma sembrava avesse assunto una qualità sottilmente diversa. Ora aveva l'aria dell'uomo che vive la vita che era preparato a vivere. Nei suoi occhi verdi c'erano ora le ombre di una nuova pensosità e nel suo sguardo il peso della comprensione e della compassione. Ecco lì, dunque, un uomo che s'era sottoposto a una prova che l'aveva portato quasi al punto di distruggersi, che aveva esplorato le frontiere della propria anima e le aveva trovate sicure. « Jordan », disse di nuovo, calmo, per la terza volta, dopodiché fece qualcosa che dimostrò il profondo cambiamento che aveva subito: si chinò in avanti e, per un breve attimo, premé i morbidi riccioli dorati della sua barba contro la guancia del figlio. « Ti ho pensato spesso », disse, senza imbarazzo. « Grazie per essere venuto. » Poi, con un braccio intorno alla spalla, spinse Jordan nella prima stanza del cottage. Quella stanza era sempre piaciuta a Jordan; l'attraversò, andò verso il fuoco acceso nel grande camino e allungò le mani verso le fiamme mentre si guardava intorno. Era la stanza di un uomo: scaffali pieni di libri, enciclopedie, almanacchi e grossi volumi rilegati in pelle di viaggi ed esplorazioni. Alle pareti erano appese delle armi, archi e faretre di frecce boscimane avvelenate, scudi e assegai dei matabele e degli zulu e, naturalmente, gli strumenti del mestiere che Zouga aveva ripreso, armi da fuoco, fucili di grosso calibro di famosi armieri: Gibbs, Holland and Holland, Westley Richards. Erano sistemati alla parete di fronte al camino, di acciaio brunito e legno elegantemente scolpito. C'erano inoltre ricordi e trofei del passato di Zouga, corna di antilopi e bufalo, contorte o curve o dritte come lance, pelli striate di zebra e dorate e folte del leone del Kalahari, e avorio, grandi zanne gialle che raggiungevano l'altezza di un uomo, gialle come burro fresco e lucide come cera da candela alla fredda luce invernale che entrava dalla porta. « Hai fatto un buon viaggio? » chiese Jordan, e Zouga si strinse nelle spalle. « A ogni stagione diventa sempre più difficile trovare buoni esemplari per i miei clienti. » I suoi clienti erano uomini sportivi, ricchi e aristocratici, venuti in Africa a cacciare. « Ma almeno alla fine sembra che gli americani abbiano scoperto l'Africa. Ne ho un buon gruppo prenotato per la prossima stagione, tra cui un giovanotto, un certo Roosevelt, sottosegretario alla Marina. » S'interruppe. « Sì, cerchiamo di cavarcela, il vecchio Jan Cheroot e io... Di te, invece, non devo chiedere, a quanto pare. » Lanciò un'occhiata alla costosa stoffa inglese del completo del figlio, alla pelle morbida degli stivali da cavallerizzo, all'argento solido degli speroni e alla catena d'oro nel taschino; quindi il suo occhio si posò sul bianco scintillio del brillante che portava infilato nella cravatta.
« Fu una buona scelta quella di metterti con Rhodes. Mio Dio, la stella di quell'uomo sale sempre più in alto ogni giorno che passa. » « E' un grande uomo, papà. » « O un gran furfante. » Poi Zouga sorrise, un sorriso di scusa. « Mi dispiace, so in quale considerazione lo tieni. Prendiamo un bicchiere di sherry, Jordie, mentre Jan Cheroot ci prepara la colazione. » Sorrise di nuovo. « Ci manca la tua cucina. Temo che troverai la nostra un pò misera. » Mentre versava del dolce sherry del Capo in lunghi bicchieri, chiese, senza voltarsi: « E Ralph, che notizie hai di Ralph? » « Ci incontriamo spesso a Kimberley o alla stazione di testa della ferrovia. Mi chiede sempre di te. » « Come sta? » « Diventerà un uomo importante, papà. I suoi carri già arrivano a Pilgrims' Rest e a quei nuovi campi auriferi nel Witwatersrand. Ha appena vinto la gara d'appalto per la corriera di Algoa Bay. Ha delle stazioni commerciali a Tati e sul fiume Shashi. » Mangiarono davanti al fuoco, pane vecchio e formaggio, un pezzo freddo di montone e una bottiglia di vino Constantia; e Jan Cheroot stava chino su Jordan, rimproverandolo amorevolmente per il suo appetito e riempiendogli di nuovo il bicchiere quando era ad appena un quarto. Quando finirono allungarono le gambe verso il fuoco e Jan Cheroot portò una candela per accendere i sigari che Jordan tirò fuori da una scatola d'oro. Jordan parlò da dietro la profumata nube di fumo. « Papà, la concessione... » E per la prima volta uno sguardo stizzito comparve negli occhi di Zouga. « Avevo sperato che fossi venuto a trovare noi », disse, gelido. « Dimentico sempre che sei l'uomo di Rhodes, ormai, più che mio figlio. » « Sono tutt'e due le cose », gli ribatté Jordan. « Perciò posso parlarti così. » « Che messaggio ha per me questa volta il famoso mister Rhodes? » chiese Zouga. « Maund e Selous hanno accettato le sue offerte. Hanno venduto le loro concessioni a mister Rhodes, ed entrambi sono più ricchi di diecimila sterline. » Maund era un soldato e un avventuriero e Fred Selous, come Zouga, un cacciatore ed esploratore. Inoltre, come Zouga, aveva scritto un libro, di discreto successo, sulla caccia in Africa, Viaggi di un cacciatore in Africa. Ambedue, in epoche diverse, erano riusciti a convincere Lobengula a dargli delle concessioni sull'avorio e i minerali nei suoi domini orientali. « Mister Rhodes desidera che io ti faccia notare come ambedue le concessioni di Maund e Selous riguardino lo stesso territorio della concessione che ti diede Mzilikazi. Lui le possiede entrambe ora: la validità di tutti i trattati è certamente
confusa e vaga. » « La concessione Ballantyne fu data per prima... Da Mzilikazi. Quelle che seguono non hanno validità », ribatté Zouga. « Gli avvocati di mister Rhodes hanno consigliato... » « Al diavolo mister Rhodes e i suoi avvocati. Che vadano tutti all'inferno. » Jordan abbassò lo sguardo e tacque. Dopo una lunga pausa Zouga sospirò e si alzò. Andò a uno stipo di legno giallo e prese un documento macchiato e spiegazzato, tanto che era stato incollato su un altro pezzo di carta per impedire che andasse a pezzi. L'inchiostro era scolorito, era diventato marrone, ma la calligrafia era precisa e netta, quella di un uomo arrogante e giovane e sicuro di sé. L'intestazione del documento diceva: CONCESSIONE ESCLUSIVA PER LE MINIERE D'ORO E LA CACCIA ALL'AVORIO NEL TERRITORIO SOVRANO DI MATABELELAND Alla base di questa scritta c'era un rozzo sigillo con l'immagine di un elefante e le parole: NKOSI NKHULU - GRANDE RE E sotto, in una calligrafia tremante nello stesso inchiostro: MZILIKAZI Zouga mise il documento sul tavolo in mezzo a loro ed entrambi, padre e figlio, rimasero a guardarlo. « Va bene », concesse Zouga. « Cosa dicono gli avvocati di mister Rhodes? » « Che questa concessione può essere scavalcata per cinque distinti motivi legali. » « Io lo citerei. » « Papà, è un uomo deciso. La sua influenza è enorme. Alla prossima legislazione sarà primo ministro al Parlamento del Capo, non ci sono dubbi al riguardo. » Jordan toccò il sigillo di ceralacca. « La sua fortuna è enorme, forse dieci milioni di sterline... » « E io lo citerei lo stesso », disse Zouga, e fece tacere il figlio ponendogli una mano sul braccio. « Jordan, non capisci? Un uomo deve avere qualcosa, un sogno, una luce da seguire nel buio. Io non potrò mai vendere questa concessione, per troppo tempo è stata tutto nella mia vita. Senza di essa non avrò niente. » « Papà... » « Lo so cosa vuoi dire, che non potrò mai trasformarlo in realtà. Non ho i soldi che sarebbero necessari. Puoi anche dire
che non ne ho neppure la forza. Ma, Jordan, finché ho questo pezzo di carta posso sperare, avrò il mio sogno da seguire. Non posso venderlo. » « Gliel'ho detto e lui ha capito immediatamente. Vuole che tu partecipi. » Zouga sollevò il capo e guardò il figlio. « Un posto nel consiglio d'amministrazione della società per la quale mister Rhodes chiederà un decreto reale a Sua Maestà. Allora ti verranno assegnate terre coltivabili, concessioni d'oro e un posto di comando attivo. Non capisci, papà, non vuole portarti via il tuo sogno, vuol farlo avverare, alla fine. » Il silenzio durò un pò; un ceppo crollò nel camino, le scintille si alzarono e la vampata illuminò il viso di Zouga. « Quando vuole vedermi? » chiese. « Possiamo essere a Groote Schuur in quattro ore. » « Sarà buio per allora. » « Ci sono quindici camere da letto tra le quali puoi scegliere. » Jordan sorrise e Zouga rise, come uno a cui siano tornate l'eccitazione e l'avidità della giovinezza. « E allora che facciamo qui seduti? » disse. « Jan Cheroot, portami il cappotto pesante. » Zouga uscì sulla veranda del cottage e, sull'ultimo gradino, allungò una mano verso il masso di pietra blu. Lo sfiorò con una carezza stranamente formale e poi si portò la mano alle labbra e alla fronte, il gesto con cui un arabo accoglie un vecchio amico. Quindi lanciò un'occhiata a Jordan e sorrise. « Superstizione », spiegò. « Buona fortuna. » « Buona fortuna? » interloquì Jan Cheroot da dove stava, sul primo gradino. Stava tenendo il cavallo di Zouga. « Pietra maledetta. Fin da Kimberley abbiamo dovuto portarla, un viaggio tremendo. » Mentre Zouga montava a cavallo, lui continuò a borbottare. « Jan Cheroot muore se non ha qualcosa di cui lamentarsi. » Zouga ammiccò a Jordan ed entrambi si allontanarono al trotto verso la pista. « Penso spesso al giorno in cui trovammo il blu », disse Jordan. « Se l'avessimo saputo. » « Come potevamo saperlo? » « Sono stato io, ne sono sicuro. Sono stato io a convincerti che lo strato blu era sterile. » « Jordan, tu eri solo un ragazzo. » « Ma ero anche il rabdomante di diamanti. Se io non fossi stato tanto sicuro che quello era terreno sterile, tu non avresti mai venduto Le Diaboliche. » « Io non le ho mai vendute, le ho giocate. » « Solo perché pensavi che non valessero niente. Non avresti mai accettato la scommessa di mister Rhodes se avessi saputo che il blu non era la fine ma solo l'inizio. » « Nessuno lo sapeva questo, non allora. » « Mister Rhodes l'aveva capito. Non ha mai perso la fidu-
cia. Sapeva che cos'è il blu. Lo sapeva con un istinto sicuro che nessun altro aveva. » « Non sono mai più tornato a Kimberley, Jordie. » Zouga si sistemò sulla sella, cavalcava con staffe lunghe, come un cacciatore boero. « Non sono mai voluto tornarci, ma naturalmente le notizie arrivano lo stesso. Ho sentito dire che quando Rhodes e Barnato fecero il loro accordo, valutarono Le Diaboliche mezzo milione di sterline. » « Erano la chiave del campo », spiegò Jordan. « Il caso volle che nello sviluppo ulteriore quelle concessioni fossero al centro. Ma tu questo non potevi saperlo, papà. » « Strano come l'istinto di un uomo possa aver ragione e quanto possa sbagliare quello di un altro », rifletté Zouga. « Io ho sempre saputo, ho creduto di sapere, che la mia strada per il nord cominciava in quel buco, quel terribile buco. » « Forse è ancora così. I soldi che ci porteranno tutti al nord verranno sempre da lì. I milioni di mister Rhodes. » « Parlami del blu. Tu sei stato con Rhodes sin dagli inizi. Parlamene. » « Cambia », disse Jordan. « Si diversifica, semplicemente questo. » Zouga scosse il capo. « E' come una specie di miracolo. » « Sì. » Jordan annuì. « I diamanti sono un bel miracolo della natura. Non dimenticherò mai il mio stupore quando mister Rhodes me lo mostrò. Quella roccia blu è dura quanto qualsiasi granito quando vien fuori dalla terra, e tuttavia dopo un anno o due che è stata esposta all'aria comincia a sgretolarsi. E' il sole, pensiamo. Si sgretola come un pezzo di pane stantio... E i diamanti, oh, papà, i diamanti! Pietre incredibili, undicimila carati di diamanti al giorno. Il blu è il filone principale, il blu è il cuore. » S'interruppe, imbarazzato. « A volte mi lascio trasportare », confessò, e Zouga sorrise con lui. Chi poteva resistere a quell'uomo giovane e bello? Era la parola: non simpatico o di bell'aspetto, bello; con una qualità, una dolcezza e una bontà che sembravano formargli un'aureola intorno. « Papà. Oh, papà, non saprai mai quanto sono felice che tu dopotutto ne faccia parte. Tu e mister Rhodes. » « Mister Rhodes », pensò Zouga. « Sempre mister Rhodes. E tuttavia è una buona cosa per un giovane avere un eroe. Quando l'ultimo eroe sarà svanito, sarà un peccato per questo nostro povero mondo. » Si può giudicare un uomo dai suoi libri? si chiese Zouga. La biblioteca ne era strapiena. Una parete completa era zeppa fino al soffitto di tutte le fonti consultate dal Gibbon per Declino e caduta dell'impero romano. Così impressionato era rimasto Rhodes da quell'opera, da ordinare a Hatchards a Londra di raccogliere e, se necessario, far tradurre e rilegare tutte le fonti al completo. Jordan disse che la raccolta era costata ottomila sterline fino a quel momento, e non era ancora completa.
Accanto a questa formidabile serie c'erano poi tutte le biografie pubblicate di Alessandro, Giulio Cesare e Napoleone. Quali sogni di impero dovevano alimentare! Zouga sorrise dentro di sé mentre ascoltava la voce stridula e ipnotica di quell'uomo robusto e col viso gonfio e arrossato seduto dietro l'enorme scrivania, nei cui pannelli era intagliata la figura stilizzata dell'uccello, il falco di Zimbabwe. « Lei è un inglese, Ballantyne, un uomo d'onore e dedizione. Questo mi ha sempre attratto in lei. » Era irresistibile, abile nell'evocare con poche parole una serie di emozioni, e Zouga sorrise ancora una volta dentro di sé. Correva il rischio di finire con l'adorare lo stesso eroe di suo figlio. « Io desidero lei ancor più che la sua concessione. Lei capisce, lei sa cosa cerchiamo, non semplicemente ricchezza e benessere personale. No, no, è qualcos'altro, qualcosa di sacro. » Poi Rhodes venne subito al punto. « Ecco », disse. « Lei sa cosa mi occorre: lei e la sua concessione. Cosa vuole in cambio? » « Che compito mi sarà affidato? » chiese Zouga. « Bene. » Rhodes scosse la testa leonina. « La gloria prima dell'oro. Lei mi piace, Ballantyne... Ma veniamo agli affari. Avevo pensato di chiederle di guidare la spedizione che dovrà occupare il territorio che lei conosce tanto bene, ma altri possono fare una cosa così semplice. Lo farà Selous. Per lei ho qualcosa di più importante. Lei sarà il mio alter ego nel kraal del re matabele. I selvaggi la conoscono e la rispettano, lei parla la loro lingua, conosce le loro abitudini e, in più, è un soldato. Ho letto il suo rapporto militare sulla tribù... E non dobbiamo illuderci, Ballantyne, può darsi che si finisca con una soluzione militare. Pochi possono fare tutte queste cose, pochi hanno tutte queste qualità. » Si guardarono dai due lati della scrivania, entrambi protesi in avanti; quindi Rhodes riprese: « Io non sono un uomo meschino, Ballantyne. Faccia questo lavoro per me e mi dica quale dev'essere la sua ricompensa. Soldi: diecimila sterline; terra: ogni terra assegnata sarà di millecinquecento ettari; concessioni aurifere: ognuna sarà di cinquecento metri quadrati. Quante? Diciamo cinque per ognuna. Diecimila sterline in contanti, settemilacinquecento ettari di terra di sua scelta, cinque concessioni sul ricco filone d'oro sul quale ha ucciso il grande elefante di cui parla in Odissea di un cacciatore. Che ne dice, Ballantyne? » « Dieci per tutto », rispose Zouga. « Diecimila sterline, dieci assegnazioni di terra e dieci concessioni aurifere. » « D'accordo! » Rhodes batté la mano sulla scrivania. « Scrivilo, Jordan, mettilo per iscritto. Ma il salario per il tempo in cui sarà nostro agente nel kraal di Lobengula? Duemila, quattromila l'anno? Non sono un uomo meschino, Ballantyne. » « E io non sono avido. » « Quattromila, allora, e, visto che siamo d'accordo su tutto, possiamo andare a colazione. »
Zouga rimase cinque giorni a Groote Schuur, cinque giorni in cui parlò, progettò e ascoltò. Lo divertiva veder svanire una leggenda. L'idea di Rhodes come uomo solitario e meditabondo, ritirato in chissà quale alto Olimpo dove altri non potevano seguirlo, si dimostrò falsa. Perché Rhodes si circondava di uomini; non c'era pasto nel quale alla sua generosa tavola non sedessero almeno una quindicina di commensali. E che uomini: abili o ricchi o entrambe le cose, duchi e boeri nati contadini, uomini politici e finanzieri, giudici e soldati. E se non erano ricchi, erano potenti o utili o semplicemente divertenti. A un pranzo c'era persino un poeta, un ometto con gli occhiali, di passaggio nel suo viaggio dall'India in Inghilterra. Jordan aveva letto i suoi Racconti dalle colline e aveva fatto in modo che venisse invitato e, nonostante il suo aspetto, la compagnia ne fu del tutto affascinata. Rhodes lo invitò a tornare e a scrivere dell'Africa: « Il futuro è qui, giovane Kipling, e abbiamo bisogno di un poeta che ce lo canti ». Uomini a dozzine, e mai una donna. Rhodes si rifiutava di avere domestiche in casa sua. Non c'era neppure un dipinto di donna alle pareti. E la leggendaria figura taciturna e meditabonda non smetteva mai di parlare. In sella quando attraversavano a cavallo la proprietà, a piedi quando passeggiavano sui prati, seduto dietro la scrivania o al capo della lunga e stracarica tavola da pranzo, parlava sempre. Cifre e fatti e stime citate senza neppure un'occhiata ad appunti, tranne qualcuna a Jordan, per conferma. E poi: idee; ridicole, profetiche, affascinanti o fantastiche, ma soprattutto continue. A un membro del Parlamento inglese in visita: « Dobbiamo creare un legame pratico col vecchio paese, perché le future generazioni nasceranno oltre i suoi confini. Un legame utile, fisico per entrambi, o la corrente ci separerà ». A un senatore americano: « Potremmo tenere sedute di Parlamento per cinque anni a Westminster e per i successivi cinque anni a Washington ». A un finanziere rivale che guardava con invidia il suo monopolio dell'industria diamantifera: « Senza di me, il prezzo dei diamanti sarebbe tale che non varrebbe la pena neppure di rivoltare una pietra per raccoglierne uno. Kimberley sarebbe di nuovo deserto e in trentamila morirebbero di fame ». Quando cominciarono a progettare la grande spedizione al nord, Zouga immaginava che Rhodes si sarebbe occupato di ogni particolare. Sbagliava. Lui definì l'obiettivo: « Abbiamo bisogno di un documento di Lobengula, in cui ratifichi e consolidi tutte queste concessioni in una sola, per portarlo a Londra ». Poi scelse il suo uomo: « Rudd, tu hai la preparazione legale ». E gli diede carta bianca. « Vai ed esegui. Porta Jordan con te. Lui parla
la lingua. Portati tutti quelli di cui hai bisogno. » Poi a Zouga: « Abbiamo bisogno di una forza d'occupazione, abbastanza piccola da muoversi velocemente ma abbastanza grande da proteggersi dalla perfidia matabele. Ballantyne, questo sarà il suo primo compito. Mi faccia sapere cosa decide, ma si ricordi che c'è poco tempo ». Ciò che a un altro uomo avrebbe preso sei mesi fu invece raggiunto in cinque giorni, e quando Zouga lasciò Groote Schuur Jordan cavalcò con lui fino alla gola della montagna. Il vento aveva soffiato verso nord-ovest e ora veniva giù come una bestia rapace, ruggendo contro i dirupi della montagna e portando con sé i freddi e grigi piovaschi dell'Atlantico. Non riusciva a demoralizzarli tuttavia e, con le cerate che il vento gli sbatteva addosso e i cavalli che tremavano e abbassavano le orecchie, gridavano al disopra del vento. « Non è un grande uomo? Ogni attimo che passo con lui è come un sorso di buon vino, inebriante. E' tanto generoso. » « Sebbene sia proprio lui ad approfittare di più di tanta generosità », disse Zouga, ridendo. « Questo non è giusto, papà. » « Un santo non accumula una tale fortuna in così poco tempo. Ma se c'è qualcuno che può portare a termine questa cosa è proprio lui, Rhodes, e per questo io lo seguirò sino all'inferno. » « Speriamo che non sia necessario. » In cima al passo il vento era ancora più forte e Jordan dovette far girare il proprio cavallo finché le loro ginocchia si toccarono. « Papà, la colonna. La colonna delle forze d'occupazione. C'è una sola persona che ha i carri, conosce la strada, può requisire i rifornimenti e reclutare gli uomini. » « Chi, Jordan? » « Ralph. » Zouga rimase a guardare il figlio che ridiscendeva il passo, in direzione delle acque scurite dal vento della Table Bay e dei bianchi edifici aggrappati ai pendii più bassi della montagna, sotto lo scuro cielo spazzato dal vento. Poi girò il proprio cavallo controvento e scese per l'altro lato. Era ancora eccitato. Si rendeva conto che era il genio particolare di Rhodes la causa dell'eccitamento degli uomini che lo circondavano. Anche se avesse avuto davanti delle sabbie mobili dalle quali sapeva di poter essere inghiottito, il suo entusiasmo non sarebbe cessato. Dieci assegnazioni di terra significavano quindicimila ettari di terreno; ma ci sarebbero volute più di diecimila sterline per mandarli avanti. Case e pozzi e steccati da costruire, bestiame da fornire, uomini per lavorare la terra, tutto questo costava denaro, molto denaro. Le concessioni aurifere: non riusciva neppure a immaginare quanto sarebbe costato il solo trasporto di tutta l'attrezzatura occorrente. Naturalmente, per la mancanza del capitale neces-
sario per sfruttare le concessioni non avrebbe potuto approfittare delle centinaia di opportunità che la nuova terra offriva. Agli inizi ettari su ettari di terra sarebbero stati messi in vendita per poco prezzo, e poiché lui non aveva soldi sarebbero andati ad altri; quella terra che lui aveva sempre considerato sua. Ma niente riusciva a cambiare il suo umore, non il vento che gli soffiava in faccia intirizzendolo né il fatto di rendersi conto che il suo sogno restava pur sempre un sogno. Non riusciva a cambiarlo perché ora, alla fine, quel sogno stava per realizzarsi, e tutto si muoveva al passo stabilito da un uomo impaziente. Sollevò il mento e si raddrizzò sulla sella, ignorando i rivoli ghiacciati di acqua piovana che gli scorrevano all'interno del bavero giù per il collo, sorretto al disopra di ogni dubbio dalla certezza che finalmente la sua fortuna era cambiata. Gli scrosci di pioggia gli nascosero il cottage finché fu nel fitto degli alberi del latte. Solo allora un soffio di vento aprì la cortina d'acqua e il suo buonumore scoppiò come una bolla d'aria. S'era sbagliato, la sua fortuna non era cambiata, s'era trattato di parole e illusioni, la serie delle sue sfortune continuava incontrollata: davanti a lui, infatti, la sua casa appariva parzialmente distrutta. Uno degli antichi alberi del latte, stanco di resistere alle burrasche di cento inverni, aveva alla fine ceduto; era crollato sul davanti del cottage. Il tetto aveva ceduto sotto il colpo e s'era incurvato. I sostegni della veranda erano andati in pezzi e un groviglio di travi e rami dell'albero bloccava l'ingresso. Il soggiorno doveva essere allagato... I suoi libri, le sue carte. Scoraggiato dal disastro, smontò e rimase lì fermo a guardare. Il suo stato d'animo peggiorò ancora di più. Sentiva le costole che gli impedivano di respirare e il terrore prendergli i visceri come un serpente appena desto. Il terrore superstizioso di chi ha offeso gli dèi. Il masso di roccia blu marmorizzata che lui aveva messo a guardia della sua soglia era stato abbattuto. Giaceva a metà sotto la paglia del tetto crollato. Un tempo era stato duro e levigato come granito, ma il sole e l'aria lo avevano reso marcio e la caduta lo aveva fatto andare in pezzi. Si piegò su un ginocchio e toccò l'ammasso irregolare di roccia blu frantumata. La distruzione della casa non era niente al confronto. Quello era l'unico suo possesso insostituibile, e il presagio che la sua distruzione rappresentava lo raggelò fin nel profondo dell'animo. Quasi come un coro al suo terrore, nuovi piovaschi si precipitarono giù nella valle, piegando gli alberi e strappando via la paglia crollata. La pioggia batteva sulla superficie infranta della roccia che lui stava toccando e sotto le sue dita quasi scoppiò un piccolo bianco lampo, cosi accecante, così bruciante, che quando lui lo toccò parve staccargli la pelle dal dito.
Ma era freddo, freddo come un cristallo di ghiaccio artico. Non era mai stato esposto alla luce del giorno, non una sola volta nei duecento milioni di anni da quando aveva assunto la sua attuale forma, eppure sembrava esso stesso una goccia di distillata luce solare. Non aveva mai visto niente di così bello né toccato mai nulla di così sensuale. Dava un senso a tutti gli sforzi e a tutte le palpitazioni, una giustificazione a tutti gli anni che lui aveva creduto sciupati, confermava la convinzione da lui un tempo fermamente nutrita che la strada per il nord cominciasse nel pozzo di De Beers New Rush. Con mani che tremavano come quelle di un vecchio, riuscì ad aprire la lama del suo coltello a serramanico e delicatamente, facendo leva, staccò quell'arcobaleno di luce dal suo alveo nella roccia blu frantumata e se lo portò davanti agli occhi. « Il diamante Ballantyne », bisbigliò, e guardando fisso nella sua limpida e liquida profondità come uno stregone nella sua sfera di cristallo vide luce e ombra agitarsi e cambiare e, nella sua immaginazione, diventar visioni di pascoli incantati ricchi di dolce erba; vide lente mandrie di bestiame e le incastellature di estrazione di favolose miniere d'oro stagliarsi contro l'alto cielo azzurro. Non lo aspettavano. Impiegò così poco tempo che nessun corriere lo precedette con la notizia del suo arrivo. Aveva lasciato Rudd e il resto della compagnia al fiume Shashi e aveva proceduto da solo, portandosi due cavalli, e cambiava appena quello sotto di lui si stancava. I cavalli erano i migliori delle stalle della De Beers e impiegò cinque giorni dalla frontiera del Matabeleland alla missione di Khami. « Sono Jordan Ballantyne », annunciò, e guardò la famiglia che si era frettolosamente radunata sulla veranda della missione. L'assedio si concluse senza che un solo colpo venisse sparato: entrò nella missione con quei suoi riccioli che brillavano e quel caldo, quasi timido, sorriso sulle labbra, e conquistò di colpo i cuori di tutti loro. I doni che aveva portato erano stati scelti ovviamente con cura e denunciavano una conoscenza di ciascuno di loro e delle loro individuali necessità. C'erano due dozzine di pacchetti di semi per Clinton - verdure ed erbe rare: consolida e gombo, barbaforte e curcuma, scalogno e sou-sou - e per Robyn una scatola di medicinali che comprendeva anche cloroformio, più una borsa pieghevole di lucidi e affilati strumenti chirurgici. L'ultimissimo volume delle poesie di Tennyson per Salina, un paio di meravigliosi cani di porcellana con gli occhi che si muovevano per le gemelle e per Cathy il meglio di tutto, una scatola di colori a olio, un fascio di pennelli e una lettera di Ralph. Nella prima settimana, mentre aspettava che Rudd e gli altri arrivassero dallo Shashi, usò un rametto verde per indivi-
duare l'acqua, un'arte che Clinton non aveva mai imparato, e lo aiutò a scavare il nuovo pozzo. Fecero centro, acqua dolce a tre metri di profondità. Raccontò a Cathy una biografia di Ralph, a partire dal giorno e l'ora della sua nascita, a puntate così minutamente particolareggiate che ci volle l'intera settimana per completarla, mentre lei ascoltava con attenta avidità. Si rimboccò le maniche e dal nero fornello a legna tirò fuori una serie di fenomeni culinari - quenelles e soufflés, croquesen-bouche e meringhe, salse sia olandese che béarnaise - e mentre Salina non gli si staccava di fianco, avida di imparare e aiutare, le citava a memoria l'intero In Memoriam di Alfred Lord Tennyson: E dunque non crucciarti, come una ragazza pigra, perché la vita è cosparsa di minuti peccati. Attendi: la tua ricchezza è raccolta quando il Tempo ha diviso la perla dalla conchiglia. E lei era estremamente incantata dalla sua malia dorata. Insegnò alle gemelle a ripiegare e ritagliare da un pezzo di giornale ogni tipo di uccello e animale fantastici e raccontò storie che erano le migliori che esse avessero sentito da quando Mungo St John aveva lasciato Khami. Per Robyn aveva le ultimissime notizie dal Capo. Era in grado di descriverle infatti le stelle nascenti dell'orizzonte politico, elencandone le qualità e i difetti. Conosceva le ultime novità sull'ambiente politico inglese. Membri di entrambe le Camere, infatti, sia del Capo sia d'Inghilterra, erano spesso ospiti a Groote Schuur, così poteva ripetere le chiacchiere su quel « vecchio incomprensibile », come la regina aveva chiamato Gladstone. Poteva spiegarle il problema dell'autogoverno e dirle quali erano le probabilità di una vittoria del partito liberale alle prossime elezioni, anche dopo il fallimento di Gladstone, che non aveva salvato Gordon a Khartoum, e la sua conseguente perdita di popolarità. « Al giubileo della regina, la gente comune per strada lo ha acclamato ma l'aristocrazia dai balconi lo ha fischiato », le disse. Per Robyn, persa da più di vent'anni in un paese selvaggio, tutto questo era nettare. A Khami il pranzo di solito terminava al cadere della sera e un'ora dopo la famiglia era a letto, ma dall'arrivo di Jordan le chiacchiere e le risate a volte duravano fino a mezzanotte. « Jordan, non c'è dubbio che se vogliamo il Mashonaland dovremo convincere tua zia. Mi dicono che Lobengula non prende nessuna decisione importante senza ascoltare il dottor Codrington. Voglio che tu preceda Rudd e gli altri. Va' a Khami e parla a tua zia. » Questa, nel salutarlo, era stata l'ingiunzione di mister Rhodes, e la coscienza di Jordan non trovava nessun conflitto tra il proprio dovere e la propria lealtà
nei confronti della famiglia. Più e più volte, durante la settimana, Jordan aveva esaltato mister Rhodes con Robyn, aveva parlato della sua integrità e della sua sincerità, della sua visione di un mondo di pace unito sotto un solo potere sovrano. Sapeva d'istinto quali lati del carattere di mister Rhodes accentuare agli occhi di Robyn, e cioè il suo patriottismo, il suo buon cuore, il trattamento giusto a cui sottoponeva i suoi operai neri, la sua opposizione alla legge, in discussione al Parlamento del Capo, che dava diritto ai datori di lavoro di frustare i servi neri, e solo quando capì che lei era quasi convinta le parlò della concessione. E tuttavia, nonostante tanti preparativi, l'opposizione di Robyn fu immediata e decisa. « Un'altra tribù privata della sua terra, no », esclamò. « Non vogliamo il Matabeleland, zia. Mister Rhodes garantirebbe la sovranità di Lobengula e la sua protezione... « Ho letto la lettera che hai scritto al Cape Times, zia, in cui spieghi la tua preoccupazione per le incursioni dei matabele nel Mashonaland. Con la bandiera inglese che sventola sulle tribù shona, sarebbero protette dalla giustizia britannica. « I tedeschi, i portoghesi e i belgi si van raccogliendo come avvoltoi... Sai, zia, c'è una sola nazione in grado di assumersi la sacra responsabilità. » I ragionamenti di Jordan erano calcolati e suadenti, i suoi modi schietti e la sua fiducia in mister Rhodes commovente e contagiosa, ed egli tornava di continuo sull'argomento più convincente: « Zia, tu hai visto i matabele tornare dal Mashonaland con le loro lame insanguinate e le ragazze shona legate a una corda. Pensa al disastro che si sono lasciati dietro, ai villaggi bruciati, ai bambini e agli anziani uccisi, ai guerrieri shona macellati. Non puoi negare agli shona la protezione che noi gli offriremo ». Quella notte Robyn parlò a Clinton, stesa accanto a lui al buio nella stretta brandina, sul duro materasso di paglia, e la sua risposta fu immediata e semplice: « Mia cara, mi è sempre stato chiaro come il sole africano che Dio ha preparato questo continente alla protezione dell'unica nazione al mondo che ha la virtù sufficiente per governarlo a vantaggio delle sue popolazioni indigene ». « Clinton, mister Rhodes non è la nazione inglese. » « E' un inglese. » « Lo era anche Edward Teach, ovvero il pirata Barbanera. » Rimasero in silenzio per parecchi minuti, poi all'improvviso Robyn disse: « Clinton, non hai notato niente di strano in Salina? » L'interesse di lui fu immediato. « E' malata? » « Temo di sì. Incurabilmente. Credo che sia innamorata. » « Gran Dio. » Clinton si mise a sedere in mezzo al letto. « E di chi mai può essere innamorata? » « Quanti giovanotti ci sono, qui a Khami, in questo mo-
mento? » La mattina, nell'andare nella sua clinica, cioè la chiesa, Robyn si fermò in cucina. La sera prima Clinton aveva ammazzato un maiale e ora Salina e Jordan stavano facendo delle salsicce. Lui girava la manovella del tritacarne nel quale lei introduceva i pezzi di carne. Erano così assorti a lavorare e a parlare allegramente insieme che non si accorsero della presenza di Robyn sulla soglia. Formavano una bella coppia, così belli, invero, che guardandoli Robyn avvertì come un senso di irrealtà seguito immediatamente da disagio: niente nella vita era tanto perfetto come quei due insieme. Salina la vide ed ebbe un sussulto, poi, inspiegabilmente. arrossì. « Oh, mamma, mi hai spaventata. » Robyn provò un'improvvisa invidia per la sua figlia maggiore. Le sarebbe piaciuto d'essere ancora capace di provare anche lei simili emozioni pure e innocenti. Di colpo ebbe la visione contrastante di Mungo St John, magro e segnato di cicatrici e privo di scrupoli, e la cosa la colpì talmente che la sua voce fu brusca. « Jordan, ho deciso. Quando mister Rudd arriva, andrò con lui al kraal di Lobengula e parlerò a vostro favore. » Dopo una spedizione commerciale prolungata e senza frutti fino allo Zambesi, Mungo era ritornato con Louise al kraal di GuBulawayo, dove furono tenuti quasi sette mesi. Ma i rinvii di Lobengula andarono a tutto vantaggio di Mungo St John. Robyn Codrington s'era rifiutata di parlare al re in suo favore, di conseguenza lui era adesso uno dei tanti bianchi che cercavano concessioni accampati intorno al kraal reale di Lobengula. Il re non voleva che Mungo andasse via, se mai questi lo avesse desiderato. Sembrava che gli piacesse parlare con lui, e ascoltava avidamente i suoi racconti della guerra americana e dei suoi viaggi di mare. Ogni settimana circa lo convocava in udienza e lo interrogava, attraverso il suo interprete, a volte per ore. La potenza distruttiva del cannone lo affascinava e chiedeva descrizioni dettagliate delle mura crollate e dei corpi umani fatti a pezzi. Il mare era un'altra fonte di intenso interesse per il re, che cercava di immaginarsi la vastità delle acque e la violenza delle tempeste. In ogni modo, quando, con delicatezza, Mungo accennava a un'assegnazione di terra e a una concessione commerciale, Lobengula sorrideva e lo mandava via. « Ti chiamerò di nuovo, Unico Occhio, quando ci avrò pensato ben bene sopra. Ti manca qualcosa da mangiare o da bere? Te lo porteranno le mie donne al tuo campo. » Una volta diede a Mungo il permesso di andare a caccia nel veld a condizione di tenersi a sud del fiume Shangani e di non uccidere né elefanti né ippopotami. In quella spedizione Mun-
go abbatté un enorme struzzo e ne salò e seccò la pelle con tutto il suo magnifico piumaggio intatto. In altre tre occasioni il re gli permise di ritornare alla missione di Khami perché lui si era lamentato che la gamba gli faceva male. Il suo istinto predatorio gli diceva che Robyn Codrington era seccata ed eccitata da quei ritorni, e ogni volta era capace di protrarre la visita per giorni, a poco a poco consolidando la propria posizione con lei, così che quando le chiese di nuovo di intercedere per lui presso Lobengula lei praticamente ci pensò su per un intero giorno prima di rifiutare di nuovo. « Non posso mettere un topo davanti a un gatto, generale St John. » « Signora, ho liberato i miei schiavi ormai da molti anni. » « Quando v'è stato costretto », ammise lei. « Ma chi la controllerebbe qui a Matabeleland? » « Tu, Robyn, e io mi sottometterei volentieri. » Lei era arrossita e aveva girato il capo per nascondergli il proprio rossore. « La sua familiarità è arrogante, signore. » E lo aveva lasciato, così lui aveva potuto presentarsi al suo solito appuntamento con le gemelle sotto l'albero di legno ferro. La sua lontananza, dopo quei primi incontri durante la convalescenza, non aveva diminuito la loro attrazione per lui. Erano diventati alleati. Nessun altro avrebbe potuto cavare da Juba le informazioni vitali di cui lui aveva bisogno per il suo piano. Aveva infatti espresso dubbi sull'esistenza dei diamanti e aveva dichiarato che si sarebbe convinto solo se loro gli dicevano dove Lobengula teneva il suo tesoro. Juba, dal canto suo, non sospettava nessun pericolo da parte di quelle gemelle così innocenti e un pomeriggio tardi, dopo aver bevuto un intero gallone della sua famosa birra, s'era mostrata socievole e garrula come sempre: « Ningi tiene i diamanti sotto dove dorme lei », aveva riferito Vicky a Mungo. « Chi è Ningi? » « La sorella del re, ed è grassa quasi quanto re Ben. » Ningi era la più fidata tra coloro che circondavano il re, e la sua capanna nel santuario del proibito quartiere delle donne era il posto più sicuro di tutto il Matabeleland. « Ora vi credo. Siete ragazze abili, voi due », gli aveva detto lui, e loro avevano gongolato. Non c'era nulla che non avrebbe potuto chieder loro. « Vicky, ho bisogno di colori. E' per una cosa segreta. Te lo dirò dopo, se mi procuri dei colori. » « Che colori? » intervenne Lizzie. « Te li procuro io. » « Rosso, bianco e giallo. » Alla fine Lizzie s'era messa di guardia mentre Vicky saccheggiava la scatola dei colori di Cathy, e avevano portato le loro offerte a Mungo godendo poi delle sue stravaganti lodi. Nel suo piano non doveva prevedere soltanto il modo in cui
mettere le mani sui diamanti ma anche, cosa più vitale, come sfuggire alle conseguenze. Nessun uomo o donna poteva sperare di raggiungere la frontiera senza il permesso del re, ed erano centinaia di chilometri di territorio selvaggio pattugliato dagli impi di frontiera. Non poteva afferrare e fuggire. Doveva usare l'astuzia e magari volgere a proprio vantaggio il timore che nutrivano i matabele per il buio e le magie. Così pianificò con meticolosa concentrazione e attese il momento giusto con la pazienza del leopardo appostato, perché sapeva che quello era il suo ultimo tentativo. Se falliva questa volta, allora né la sua pelle bianca né la sua condizione di ospite del re lo avrebbero salvato. Se falliva, i Neri gli avrebbero fracassato il cranio con i loro bastoni e il suo corpo sarebbe stato gettato dall'alto delle rupi agli avvoltoi in attesa o scagliato nel fiume dove i coccodrilli lo avrebbero ridotto a pezzi con i loro taglienti e gialli denti. Louise avrebbe subito la stessa sorte, ne era certo, ma era un rischio che lui era preparato a correre. Fu molto attento a nasconderle i suoi preparativi, e questo fu reso più facile dalla distanza che da un pezzo ormai lei aveva stabilito tra loro due. Sebbene dividessero la capanna dal tetto di paglia che gli uomini di Lobengula avevano costruito per loro nel boschetto oltre il kraal reale, e sebbene consumassero gli stessi pasti a base di manzo e latte acido e focacce di mais cotte sulla pietra che il re mandava loro ogni sera, Louise passava i suoi giorni da sola, s'allontanava in sella a uno dei muli di primo mattino e non ritornava fino al crepuscolo. Aveva isolato il suo materasso di paglia nell'angolo più lontano della capanna con un paravento fatto con la tenda di tela del carretto, e lui aveva cercato solo una volta di superare quello schermo. « Non provarci più », aveva sibilato lei. « Mai più! » E gli aveva mostrato il coltello che teneva sotto la gonna. Così lui poté lavorare indisturbato durante il giorno e nascondere l'equipaggiamento sotto il proprio materasso ogni sera. Intagliò la maschera dalla parte naturalmente curva di un tronco d'albero cavo, una scimmiesca faccia odiosa e ghignante con degli occhi che guardavan fisso e una bocca spalancata piena di zanne bianche, e la dipinse con i colori della scatola di Cathy. Dalla pelle piumata di struzzo si tagliò un mantello che andava dal collo alle caviglie, e per i piedi e le mani si fece dei grotteschi mezziguanti e mezzecalze di pelle nera di capra. Così parato, avrebbe paralizzato dal terrore il più coraggioso dei guerrieri. Era l'incarnazione stessa del Tokolosbe della mitologia matabele. Robyn Codrington gli aveva dato in varie riprese delle dosi di laudano per il persistente dolore alla gamba e lui le aveva messe da parte per l'occasione. Aveva deciso per una delle festività matabele, e aspettò sino alla terza notte, quando ogni uomo e ogni donna dell'intera nazione, sopraffatti dalla birra e da tre giorni e tre notti di danze scatenate, erano crollati a
terra e s'erano addormentati. Al cadere della notte diede il laudano a Louise in una tazza di latte acido e un'ora dopo il buio attraversò cauto la capanna, scostò il paravento e per un minuto ascoltò il respiro regolate di lei prima di chinarsi e darle un leggero buffetto sulla guancia. Non si mosse né aprì bocca e il ritmo del suo respiro non cambiò. Indossò rapidamente il mantello piumato e non infilò né la maschera né i mezziguanti e le mezzecalze; s'annerì invece il viso, le braccia e le gambe con una mistura di grasso e polvere di carbone. Quindi, con la maschera e una corda sotto il braccio e un pesante assegai nell'altra mano, sgusciò fuori della capanna. Il boschetto era deserto, nessun matabele si sarebbe avventurato lì mentre gli spiriti erano scatenati; l'attraversò in fretta, poi, giunto al limite degli alberi, si fermò a scrutare la palizzata del kraal reale. Stava sorgendo una falce di luna che gli dava luce sufficiente per farsi strada ma anche per tradire la sua presenza a occhi attenti. Quella notte però pochi occhi sarebbero stati aperti. E tuttavia si piegò in avanti nell'attraversare quel tratto aperto; con quel mantello sembrava un'irsuta iena e, quindi, non poteva destare nessun vero interesse. Alla palizzata esterna si fermò per guardare e ascoltare, quindi lanciò la corda di manila al disopra della barriera di pali appuntiti. S'arrampicò con cautela, sostenendo la gamba malata, e scrutò nel kraal. Era deserto, ma davanti al cancello sbarrato bruciava un piccolo fuoco di guardia. Scivolò lungo la corda e raggiunse rapidamente l'ombra della capanna più vicina, lì si fermò per infilare i mezziguanti e le mezzecalze e sistemarsi la maschera sul viso, prima di scivolare verso la palizzata interna che circondava il quartiere delle donne. Nelle settimane precedenti, usando il suo cannocchiale dall'alto della collina più vicina, aveva potuto vedere oltre la palizzata e studiare la disposizione del quartiere delle donne. C'era un doppio cerchio di capanne, come gli anelli concentrici di un bersaglio, e al centro c'era una capanna più grande che, con la complicata disposizione della paglia sul tetto e l'intrecciatura delle pareti, denunciava la sua maggiore importanza. Secondo lui, quella doveva essere la residenza della sorella del re. Ne aveva avuto poi la conferma quando una volta aveva visto, attraverso il cannocchiale, l'elefantesco e lucido corpo nudo di Ningi emergere, scortato da una dozzina di ancelle, nella prima luce del sole, dalla bassa soglia. Ora raggiunse il cancello della palizzata interna e lo studiò standosene al riparo della capanna più vicina. Di nuovo la fortuna fu dalla sua. Lui era preparato a usare l'assegai in quel caso, invece entrambe le guardie erano distese a terra, avvolte
nelle pellicce, e nessuna di loro si mosse quando lui ne scavalcò i corpi prostrati. Dall'interno di una capanna giungeva il ronfare basso e regolare di una grassa moglie, in un'altra una donna tossì e brontolò nel sonno, ma, pur a nervi tesi, lui tirò oltre, lesto. La porta della capanna di Ningi era chiusa. Lui aveva affilato come un rasoio l'assegai con il quale ora segò la fune di corteccia che assicurava la porta. Il raschio e il fruscio della lama suonarono strepitosi ai suoi orecchi e gli venne la pelle d'oca, ma dall'interno non giunse alcun rumore. Quando però indietreggiò s'accorse che stava sudando. Da sotto il mantello tirò fuori le vesciche piene di sangue di capra. Tagliò le vesciche e sparse il sangue puzzolente sulla soglia. Aveva appreso dalle gemelle, che erano due autorità in fatto di soprannaturale, che un Tokoloshe spargeva sempre sangue su qualsiasi soglia attraverso la quale passava. Era una delle sue caratteristiche. Con l'assegai stretto nella destra, si chinò, entrò nella capanna e attese che gli occhi gli si adattassero al buio. E fuoco al centro della grande capanna era quasi tutto consumato. C'era però luce sufficiente per distinguere due figure accucciate come cani sulle stuoie ai lati del fuoco e, più oltre, la massa enorme della principessa sotto le sue pellicce. Il suo ronfare iniziava con un sordo brontolio, come un vulcano, e aumentava con un sibilante crescendo che avrebbe coperto qualsiasi rumore lui avesse fatto mentre sgusciava verso la prima delle ancelle addormentate. Prima che potesse muoversi, le cacciò un bavaglio di pelle di capra in bocca e le legò le caviglie e i polsi con un laccio di cuoio. Non oppose resistenza, ma guardò quell'orribile maschera con occhi spalancati e bianchi alla luce del fuoco basso. Mungo legò e imbavagliò anche la seconda ancella prima di avvicinarsi alla piattaforma sulla quale dormiva Ningi. Quel pomeriggio, come gli altri ospiti del re, aveva visto Ningi seduta accanto al re ingollare un boccale dopo l'altro di champagne francese. Mentre lui ora le legava le braccia e le gambe, continuò a russare e grugnire. Solo quando le cacciò il bavaglio nella bocca spalancata tirò su ripetutamente col naso e gemette e venne fuori dal suo intontimento. Mungo la fece rotolare giù dalla piattaforma e lei cadde con un tonfo sul pavimento di terra battuta. La trascinò fino alle ancelle, stese legate a terra. Fu una faticaccia, perché pesava centocinquanta chili se non di più. Gettò un ceppo sul fuoco e quando le fiamme si levarono prese a danzare e saltellare intorno alle sue vittime, avvicinando ai loro visi la sua odiosa maschera e farfugliando in maniera minacciosa. Alla luce delle fiamme il sudore della loro paura brillava e scorreva a rivoli giù per i loro corpi, mentre si dimenavano e cercavano di liberarsi dei legacci. D'un tratto, con un'esplosione e un frusciante crepitio, Ningi per il terrore vuotò i visceri e un caldo puzzo di feci riempì la
capanna. Lui allora buttò loro addosso un kaross di pelliccia e immediatamente giacquero immobili e i loro gemiti e grugniti soffocati tacquero. A quel punto si mosse con rapidità. Ritornato alla piattaforma, gettò da parte le pellicce e trovò un pagliericcio di bambù intrecciato. Si sollevava come una botola e sotto, in un basso incavo, c'erano una dozzina di piccole pentole di terracotta. Le mani gli tremavano quando le allungò per prenderne una e tirarla fuori. Il sudore quasi lo accecava ma, anche con la vista offuscata, distinse subito il luccichio della luce riflessa lì nella pentola. Non poteva prenderle tutte, erano troppe per trasportarle e troppe per nasconderle in seguito. Inoltre, il suo istinto di sopravvivenza gli diceva che più avesse preso, più spietata sarebbe stata la reazione. Versò il contenuto di tutte e dodici le pentole in un luccicante mucchio accanto al fuoco e, a quella luce incerta, scelse le pietre più grandi e più brillanti tra le centinaia che lo allettavano con i loro luminosi ammicchi. Trenta pietre bastarono a riempire la borsa di pelle che s'era portato dietro. Se la legò alla vita, afferrò l'assegai e sgusciò fuori della capanna. Le guardie alla palizzata interna dormivano ancora e lui le superò in silenzio. Sotto la palizzata esterna si tolse il mantello, i mezziguanti e la maschera e buttò il tutto nel fuoco non custodito. Poi vi ammucchiò sopra dei rami: al mattino ci sarebbero state solo ceneri. S'arrampicò lesto lungo la corda e la ritirò. Il kraal reale dietro di lui era immerso nel silenzio e, tranquillo, lui ridiscese dall'altra parte della palizzata. Si lavò nello stagno nelle vicinanze del campo, eliminando la polvere di carbone e il grasso, e trovò la camicia e i pantaloni dove li aveva lasciati, nel cavo di un tronco d'albero vicino allo stagno. Giunto nella capanna, s'inginocchiò accanto a Louise e le posò una mano sulla guancia. Lei mandò un sospiro e si girò su un fianco. Gli venne voglia di ridere e di urlare il proprio trionfale entusiasmo. Invece nascose la borsa con le pietre preziose sotto il materasso e si avvolse nella coperta. Non dormì per il resto della notte e all'alba udì il baccano di superstizioso terrore nel kraal del re, gli urli delle donne e le grida degli uomini, che chiassosamente si facevano coraggio contro gli spiriti e i demoni. « E' una cosa crudele che un buon re non fa », disse Robyn a Lobengula, amareggiata. « Nomusa, tu sei una saggia donna, la più saggia che io abbia mai conosciuto, ma non capisci gli spiriti e i demoni di Matabeleland. » « Capisco che il mondo è pieno di uomini cattivi, ma che ci sono assai pochi spiriti cattivi. »
« La cosa che è entrata nella capanna di mia sorella veniva dall'aria. Tutti gli accessi al kraal erano custoditi da uomini svegli, mi hanno giurato di essere stati al loro posto dal tramonto all'alba, con gli occhi bene aperti e le lance in mano. Niente è passato davanti a loro. » « Anche i tuoi uomini migliori possono addormentarsi e poi mentire per difendersi. » « Nessuno oserebbe mentire al re. E' venuta dall'aria, e ha sparso sangue marcio e puzzolente sulla soglia della capanna di Ningi. » Suo malgrado, Lobengula rabbrividì. « Per le scarne natiche di Chaka, questa è opera di Tokoloshe. Nessun uomo avrebbe potuto farlo. » « A meno che non portasse il sangue in una pentola per spargerlo sulla soglia. » « Nomusa... » Lobengula scosse il capo, afflitto. « Mia sorella e le sue serve hanno visto questa grande cosa pelosa, nera come la mezzanotte e fetida come una tomba con sangue e non sudore che gli spuntava dalla pelle. I suoi occhi erano come la luna piena e la sua voce quella di un leone e di un'aquila. Non aveva né mani né piedi, solo delle zampe pelose. » Lobengula rabbrividì di nuovo. « E ha rubato diamanti », disse Robyn. « Che se ne fa dei diamanti un demone? » « Chi sa di cosa ha bisogno un demone per i suoi incantesimi e le sue magie, o per far piacere al suo scuro padrone. » « Sono gli uomini che vanno dietro ai diamanti. » « Nomusa, per i neri i diamanti non hanno valore, quindi non può essere stato un nero. D'altro canto, se un bianco fosse entrato nella capanna di mia sorella non si sarebbe contentato di poche pietre. Un bianco le avrebbe prese tutte, perché così fanno. Dunque, non può essere stato né un bianco né un nero. Cosa rimane se non un demone? » « Lobengula, grande re, tu non puoi permettere una cosa del genere. » « Nomusa, dentro il kraal reale è stata compiuta una terribile stregoneria. Una persona cattiva o molte persone cattive hanno evocato un demone nero, e io non sarei un re se gli permettessi di vivere. I cattivi devono essere individuati e i miei uccelli devono banchettare perché ci si possa ripulire di questa sporca cosa. » « Lobengula... » « Non dire altro, Figlia della Misericordia, le parole non possono distogliermi dal mio proposito, perché tu e la tua famiglia e tutti gli ospiti del mio kraal siete convocati per veder fare giustizia. » Occorsero dieci giorni perché tutti i matabele venissero a GuBulawayo. Arrivarono a reggimenti, guerrieri e fanciulle, induna con l'anello e matrone feconde, bambini e vecchi bavosi, canuti e senza denti. A migliaia, a decine di migliaia; e la mattina indicata da Lobengula la nazione si riunì, fila per fila, reggimento per reggimento, un nero oceano di umanità che
traboccava dal grande recinto del bestiame. C'era una particolare immobilità in quell'immensa adunata, solo i copricapi piumati si muovevano leggermente alla piccola brezza inquieta, e una coltre di paura pendeva sopra di loro, così palpabile che sembrava togliere calore al sole e offuscarne i raggi. Il silenzio era oppressivo, sembrava togliere il respiro. Solo una volta, quando un nero corvo volò basso sulle file serrate e lanciò il suo rauco grido nel silenzio, tutte quelle teste si girarono e un lieve sospiro le scosse, come il vento scuote i rami più alti della foresta. Davanti ai cancelli del kraal reale, di fronte a quell'enorme massa di gente, erano schierati gli induna anziani dei matabele, Somabula e Babiaan e Gandang e i principi meno importanti di Kumalo, mentre dietro di loro, con le schiene contro la palizzata del recinto, c'erano gli ospiti bianchi di Lobengula, quasi un centinaio, tedeschi e francesi, olandesi e inglesi, cacciatori e cercatori, uomini d'affari e avventurieri, missionari e mercanti. Vestiti in abiti civili o da cacciatori con cartucciere o in luccicanti uniformi, tutti attendevano nel soffocante silenzio. C'erano solo due donne bianche presenti, perché Robyn s'era decisamente rifiutata di portare da Khami le figlie, e Lobengula aveva ceduto e fatto un'eccezione per loro. Il re aveva dato il permesso alle due donne di sedersi. Robyn sedeva accanto all'entrata del recinto e Clinton le stava accanto in atteggiamento protettivo, fiancheggiato dai membri della deputazione di mister Rhodes. Mister Rudd, rosso in viso, con i basettoni e la bombetta calcata in testa, e Jordan Ballantyne, a testa nuda e con i dorati riccioli al sole, stavano sull'altro lato di Robyn. Più oltre, nella fila degli ospiti, Louise St John sedeva su uno sgabello di lacci di cuoio intrecciati. Le grosse trecce le scendevano fino alla vita del semplice vestito bianco, e gli occhi degli uomini intorno ritornavano furtivamente su quella bellezza esotica. Dietro di lei c'era Mungo St John, un occhio nascosto dalla benda nera, appoggiato disinvoltamente al bastone; sorrideva dentro di sé vedendo la direzione degli sguardi degli uomini intorno. La nazione, a un certo punto, ondeggiò come un nero mare sonnacchioso colpito da un'improvvisa folata di vento, e le piume s'agitarono come spuma. Ci fu un solo tonfo come la scarica di un cannone, allorché ogni gamba destra fu sollevata fino all'altezza della spalla e portata poi giù per picchiare la dura terra, mentre da ogni gola usciva il saluto reale: « Bayete! » Il Grande Elefante Nero dei matabele varcò il cancello e dietro di lui le sue mogli, guidate da Ningi, avanzavano dondolando e strusciando i piedi a terra e cantando le sue lodi. Con la piccola lancia in mano, Lobengula avanzò verso il mucchio di terra battuta sul quale era sistemata la sedia a ro-
telle che era stata il trono di suo padre, e Gandang e Babiaan, suoi fratelli, si fecero avanti per aiutarlo a salire i gradini. Dall'alto di quella piattaforma Lobengula lanciò un'occhiata al suo popolo, e quelli che erano a lui più vicini lessero il dolore nei suoi occhi. « Che s'inizi », disse, e si lasciò cadere nella sedia. Da dietro la palizzata giunse un coro di grida roche e gemiti e risa isteriche e, attraverso il cancello, si fece avanti un'orribile processione di vecchie megere, streghe impettite e negromanti borbottanti. Al collo e alla vita portavano appesi gli ornamenti della loro arte di streghe, crani di babbuini e bambini, pelli di rettili, pitoni e iguana, gusci di tartaruga, corni, sonagli fatti di baccelli e ossi e altri truci resti di uomini e animali e uccelli. Urlando e gemendo si radunarono davanti al trono di Lobengula. « Scure sorelle, sentite l'odore dei cattivi? » « Sentiamo il loro fiato... Sono qui. Sono qui! » Una delle streghe crollò nella polvere con la bava che le usciva dalle gengive sdentate, gli occhi ruotati all'indietro e mani e piedi contorti spasmodicamente. Una delle sue sorelle le spruzzò sul viso la polvere rossa di un corno e lei lanciò un urlo e balzò in aria. « Scure sorelle, individuerete coloro che hanno fatto il male? » chiese Lobengula. « Li porteremo a te, Grande Toro di Kumalo. Te li consegneremo, figlio di Mzilikazi. » « Andate! » ordinò Lobengula. « Fate ciò che va fatto. » Alcune si mossero, saltellando e piroettando, brandendo le loro verghe divinatorie, chi una coda di giraffa, chi una vescica di sciacallo gonfia legata a un bastone di rosso legno di tambooti, chi ancora il pene teso e seccato al sole di un leone dalla criniera nera, le verghe con le quali avrebbero indicato i cattivi. Altre sgusciarono via, furtive e timide come iene nella notte. Altre ancora si misero a strisciare a quattro zampe annusando la terra come cani da caccia, infilandosi tra le file di gente in attesa. Una delle streghe percorse la fila degli ospiti bianchi ballonzolando come un vecchio babbuino, con le mammelle vuote che sbattevano contro il ventre incavato, la pelle grigia e sporca e gli amuleti che oscillavano e risuonavano. Si fermò davanti a Mungo St John e alzò il naso per annusare l'aria, poi ululò come una cagna in calore. Mungo St John si tolse di bocca il lungo sigaro nero arrotolato a mano di tabacco locale e studiò la cenere sulla sua punta. La vecchia si avvicinò a saltelli e lo guardò in faccia. Lui si rimise il sigaro tra le labbra e restituì lo sguardo, senza interesse. La vecchia fece un altro saltello avanti, portò il viso a pochi centimetri dal suo e rumorosamente gli annusò il fiato, poi s'al-
lontanò danzando e si girò di nuovo. Gli stava di fronte, ora, e sollevò sopra la testa la lunga coda di giraffa. Urlò come una civetta e si precipitò verso di lui, sollevando la coda per colpirlo in faccia. Giuntagli davanti, si bloccò nell'atto di colpirlo. Mungo St John si tolse il sigaro di bocca e formò un perfetto anello di fumo, che roteò nell'aria finché si ruppe in faccia alla strega e si disperse. Lei lanciò una risata, selvaggia, pazza, e avanzò oltre lungo la fila, fermandosi davanti a Robyn Codrington. « Puzzi come la iena che ti ha figliato », le disse Robyn in perfetto matabele, e la strega corse via piroettando fin dove stava Juba, nella prima fila delle nobili matrone. Sollevò la coda per colpire e si voltò a guardare Robyn, con odiosa aria trionfante. Robyn era diventata bianca come un osso, e s'alzò in piedi reggendosi il seno. « No », bisbigliò. « Ti prego, sorella, lasciala stare. » La strega abbassò il braccio e tornò danzando davanti a Robyn, poi di nuovo lanciò un urlo, girò su se stessa e si precipitò verso Juba. Questa volta colpì, e la coda sibilò nell'aria e s'abbatté sulla pelle nera... Ma all'ultimo momento la strega aveva deviato il colpo e la coda s'abbatté sul viso stralunato della giovane donna che stava accanto a Juba. « Sento il male », urlò la strega, mentre la donna cadeva in ginocchio. « Sento il sangue. » Colpì di nuovo e poi ancora. La coda s'abbatteva implacabile sul viso indifeso della donna, finché le lacrime cominciarono a correrle giù per le guance. I carnefici si fecero avanti e la sollevarono in piedi. Le gambe della donna erano paralizzate e dovettero trascinarla di peso davanti a Lobengula, che lanciò uno sguardo triste e smarrito alla donna e infine sollevò l'indice della mano destra. Uno dei carnefici abbassò con forza la sua mazza di guerra, un colpo che centrò in pieno la donna alla testa. L'osso scricchiolò come ghiaia sotto i piedi e la forza del colpo spinse gli occhi della donna fuori dalle orbite. Quando cadde a faccia in giù nella polvere c'era una depressione senza sangue, sul suo cranio, grande quanto il pugno di un uomo. La strega s'allontanò a passi rapidi per continuare la caccia e Juba guardò Robyn, che era ricaduta a sedere, tremante e pallida, mentre Clinton le poggiava una mano sulla spalla per farle coraggio. Tra le file serrate ci fu un altro grido trionfante e i carnefici trascinarono via un giovane guerriero di bell'aspetto. Questi si liberò della loro stretta e avanzò fiero fin davanti al trono di Lobengula, dove s'inginocchiò. « Padre della nazione, ascolta le mie lodi. Grande Tuono, Nero Toro, lascia che muoia col tuo nome sulle labbra. O Lobengula, che voli come il vento... » Il re sollevò il dito e la mazza cadde col fruscio dell'ala di un'anatra.
Il coro di civette e le urla erano ora incessanti mentre le streghe s'indaffaravano sempre più, e le vittime erano trascinate via e ammazzate, finché i loro corpi formarono un alto mucchio davanti al trono del re, un groviglio di membra nere e teste maciullate che cresceva sempre più. Altre cento, altre duecento s'aggiunsero al mucchio, mentre il sole raggiungeva lo zenit e la polvere, il caldo e il terrore diventavano soffocanti, e le mosche blu-metallico sciamavano sugli occhi fissi e le bocche spalancate dei morti, e le streghe danzavano e gongolavano e uggiolavano e colpivano con le loro verghe. Qua e là una fanciulla, travolta dalla paura e dal caldo opprimente, cadeva svenuta e allora le streghe si precipitavano su quella prova inconfutabile di colpa facendo piovere colpi sulle sue spalle nude o sui seni, e i carnefici s'affrettavano a compiere il loro spaventoso dovere. Il sole cominciò la sua lenta discesa verso l'orizzonte a occidente e, finalmente, una per volta, le streghe strisciarono verso la montagna di morte che avevano creato. Barcollavano esauste, la polvere s'era incrostata al sudore, ma ululavano come cani mentre frugavano tra i cadaveri, scegliendo quelli che si sarebbero portati via, nelle loro caverne e luoghi segreti: un pezzetto d'utero di una vergine era un potente amuleto per la fertilità, una fetta di cuore di guerriero era un meraviglioso talismano in battaglia. « Il lavoro è fatto? » chiese Lobengula. « E' fatto, o re. » « Tutti i cattivi sono morti? » « Sono tutti morti, figlio di Mzilikazi. » « Andate allora, e andate in pace », disse Lobengula, stanco. « Sta' in pace, Grande Re. » Urlando e uggiolando, portandosi via il loro raccapricciante bottino, uscirono strusciando i piedi dai cancelli del recinto. Tre volte, in altrettante settimane, Mungo St John aveva supplicato il re, chiedendogli di « dargli la strada » per il sud, ma ogni volta il re aveva chiacchierato affabilmente per un'ora e poi lo aveva mandato via. « Ci penso su, Unico Occhio, ma non ti trovi bene qui? Il manzo e la birra che ti mando non ti riempiono la pancia? Forse vuoi andare un'altra volta a caccia? » « Voglio andare a sud, o re. » « Forse alla prossima luna piena, Unico Occhio, e poi di nuovo forse quando la pioggia sarà passata, o dopo la Cerimonia Chawala. Chi sa? Vedremo col tempo. » Poi, una mattina, com'era diventata sua abitudine, Louise partì presto, ma dopo che furono passate alcune ore Mungo si rese conto che questa volta s'era portata il fucile e la bandoliera con le munizioni, il rotolo della coperta e la borraccia da un gallone. Rimase a riflettere su questo suo comportamento per tutto
il resto del giorno ma non si allarmò, finché arrivò la notte e lei ancora non era ritornata. Rimase seduto davanti al fuoco tutta la notte; alle prime luci dell'alba prese il secondo mulo e attraversò il fiume per raggiungere il punto in cui la comitiva di Rudd era accampata in grande stile in una piacevole radura nella foresta. Avevano sei carri e altrettante tende di tela impermeabile della migliore qualità munite di zanzariere. I cavalli erano tutti di sangue arabo: uno di loro avrebbe portato lui e la sua borsa di pietre preziose fino al fiume Shashi in sei giorni o anche meno. Li stava guardando con cupidigia quando Robyn Codrington uscì da una delle tende. Lo vide e stava per rientrare, ma lui la chiamò, smontando dal mulo. « Per piacere, dottor Codrington, è una questione di grande urgenza.» Riluttante, lei si girò. « Mia moglie è scomparsa, non è rientrata la notte scorsa. » Immediatamente l'espressione distaccata di Robyn scomparve, sembrò molto preoccupata. « Ha detto dove andava? » Lui scosse il capo. « Posso solo pensare che sia andata fino a Khami... Sa, era diventata molto amica della sua figlia maggiore... » « Manderò un servo alla missione. » « Non può chiedere al re di lasciarmi andare? » « Il re si è ritirato con le sue mogli. Nessuno, neppure io, osa disturbarlo fino a quando non verrà fuori dal quartiere delle donne. » « E quanto tempo ci vorrà? » « Un giorno, una settimana... Non si può dire. Le manderò notizie appena ne avrò io. » Quella notte lui attese di nuovo, poi, all'alba, seduto, stanco e con gli occhi annebbiati, davanti al fuoco, tendendo le orecchie per sentire eventualmente il rumore degli zoccoli del mulo o il suono della voce di Louise, fu colto all'improvviso da un pensiero che gli agghiacciò il sangue nelle vene e gli fece fremere i visceri. Balzò su, corse nella capanna e frugò freneticamente sotto il materasso. Trasse un grosso sospiro di sollievo quando sentì la borsa sotto le dita. La tirò fuori e armeggiò con il laccio che la chiudeva. Alla fine si versò sul palmo della mano le pietre splendenti. C'erano tutte, ma con in più qualcosa che prima non c'era. Un pezzo di carta ripiegato. Lo prese e lo portò vicino al fuoco per leggerlo alla luce delle fiamme. Quando troverai questo biglietto saprai perché sono andata via. Mentre scrivo, il ricordo di quei poveri disgraziati che sono morti a centinaia a causa della tua avidità ancora mi tormenta. Con loro è morto definitivamente il mio amore per te. Ti lascio queste pietre macchiate di sangue nella certezza che siano maledette. Non seguirmi. Non mandare a cercarmi. Non pensarmi più.
Non lo aveva firmato. La comitiva di Rudd stava facendo colazione sotto la tenda da mensa aperta ai lati. Era una mattina abbastanza fresca. La conversazione intorno al tavolo era intelligente, colta e spiritosa. Robyn si stava divertendo. Sedeva al capo del tavolo poggiato su cavalletti e i commensali erano molto deferenti verso di lei. Mister Rudd era stato chiaramente colpito da Robyn sin dal loro primo incontro e rivolgeva a lei soltanto tutte le proprie osservazioni. Jordan aveva presieduto alla preparazione della gigantesca colazione all'inglese: uova fresche e prosciutto affumicato, pesce salato e salsicce di maiale in scatola, gamberi conservati e pasta di aringhe, il tutto con burro fresco appena tolto dalla zangola e focaccine calde. Trascinato dalla propria euforia, mister Rudd fece portare una bottiglia di champagne che era stata appesa tutta la notte in un sacco bagnato a raffreddarsi. « Bene », disse rivolto a Robyn, sollevando il bicchiere, « sono sicuro che sopravvivremo a questa vita primitiva fino a quando il re prende la sua decisione. » Nonostante l'intercessione di Robyn, infatti, Lobengula ancora non aveva ratificato la concessione come gli avevano richiesto. I suoi induna più anziani erano stati in seduta segreta per settimane e settimane, senza raggiungere un accordo, mentre Lobengula era incerto e reagiva alle insistenze di mister Rudd ritirandosi nel quartiere delle donne, dove nessuno poteva raggiungerlo. « Può metterci ancora dei mesi. » Robyn alzò il proprio bicchiere e restituì il brindisi a Rudd. « Non credo che Lobengula prenda una decisione così importante senza recarsi alle colline di Matopos a consultare l'oracolo, la Umlimo. » A un tratto Clinton guardò verso il fiume, s'accigliò e bisbigliò a Robyn: « E' quel farabutto di St John. Cosa viene a fare qui? » Mungo St John era smontato alla periferia del campo, ma non si avvicinava alla compagnia sotto la tenda aperta. Robyn s'alzò immediatamente. « Vi prego di scusarmi, signori. La moglie del generale St John è scomparsa e, naturalmente, lui è preoccupato. » « Grazie per essere venuta », disse Mungo quando lei si fu affrettata verso di lui. « Non ho nessun altro a cui rivolgermi, Robyn. » Lei cercò di ignorare il tono di familiarità e l'uso del suo nome di battesimo. « Ha avuto notizie? » gli chiese. « Ho scoperto un biglietto che Louise mi ha lasciato. » « Me lo faccia vedere. » Robyn tese la mano. « Mi dispiace. Contiene riferimenti molto personali e, temo, imbarazzanti », rispose lui. « Ma ciò che importa è che Louise
sta cercando di lasciare il Matabeleland per la strada del sud. » « E' follia », disse lei in un bisbiglio, « senza il permesso del re e senza una scorta. La strada è disagiata, il paese è selvaggio e infestato da leoni, né può sperare di superare gli impi di frontiera, che hanno ordine di uccidere chiunque non abbia l'autorizzazione di Lobengula a passare. » « Lei sa tutto questo. » « E allora cosa l'ha spinta a fare il tentativo? » « Abbiamo avuto una discussione. Lei è offesa dal sentimento che sa che ancora nutro... per te. » Robyn fece un passo indietro, impallidendo e trattenendo il fiato. « Generale St John, le proibisco di parlare in questo modo. » « Me l'hai chiesto, Robyn, e una volta, tanto tempo fa, ti dissi che non avrei mai dimenticato quella notte a bordo dell'Huron... » « La pianti! La pianti immediatamente! Come può parlare in questo modo quando sua moglie è in pericolo? » « Louise non è mai stata mia moglie », disse lui, calmo, guardandola negli occhi verdi con lo sguardo penetrante di quell'unica pupilla. « Era la mia compagna di viaggio, non mia moglie. » Robyn vacillò, il colore le riaffluì alle guance e, contemporaneamente. Sorse in lei una strana, inspiegabile e perversa esultanza. « Mi aveva detto... Una volta... Che era sposato. » « Lo ero, Robyn. Ma non con Louise. L'altra signora è morta molti anni fa in Navarra, in Francia. » Era confusa. Era sposata a un uomo gentile e coraggioso, a suo modo un sant'uomo, mentre davanti a lei in quel momento c'era l'incarnazione del male, l'autentico serpente dell'Eden, e tuttavia non riusciva a sopprimere un inconscio senso di soddisfazione al sapere che era libero. Libero per cosa? Non sapeva né voleva pensarci. « Andrò dal re », disse, penosamente consapevole del tremito della propria voce. « Gli chiederò di mandare degli uomini in cerca di sua... della signora. Gli chiederò anche di dare a lei il permesso di viaggiare, generale, e riterrò un segno di gratitudine da parte sua se ne profitterà immediatamente e non ritornerà mai più a Matabeleland. » « Ciò che c'è tra noi non potrà mai essere negato, Robyn, fino a quando entrambi viviamo. » « Desidero non vederla mai più. » Con un enorme sforzo di volontà, affrontò lo sguardo di lui. « Robyn... » « Le manderò un messaggero con la risposta del re. » « Robyn... » « La prego. » La voce le venne meno ancora una volta. « Nel nome santo di Dio, la prego, mi lasci in pace. » Passarono tuttavia due giorni prima che Robyn inviasse Jordan Ballantyne al campo di Mungo.
« Il dottor Codrington mi prega di dirle, signore, che il re ha già inviato uno dei suoi induna più fidati con un corpo scelto di guerrieri in cerca di sua moglie. Hanno ordine di proteggerla dalle guardie di frontiera e di scortarla fino al fiume Shashi. » « Grazie, giovanotto. » « Inoltre, il dottore mi ha chiesto di dirle che il re le ha dato il permesso di viaggiare. Lei può seguire immediatamente sua moglie. » « Di nuovo i miei ringraziamenti al dottor Codrington. » « Generale St John, si ricorda di me? » « Temo... » Mungo guardò Jordan in sella al cavallo arabo. « Jordan, il figlio di Zouga Ballantyne. Ci siamo incontrati a Kimberley alcuni anni fa. » « Ah! Ma naturalmente... Mi perdoni. E' cambiato. » « Generale, so che non è affar mio, ma siccome lei è un fidato amico di mio padre è mio dovere avvertirla che corsero voci spiacevoli dopo la sua partenza da Kimberley. » « Non lo sapevo », disse Mungo, in tono indifferente. « E tuttavia, è una delle spiacevoli verità della vita il fatto che più un uomo è in vista più decisi sono i meschini a buttarlo giù. » « Lo so, generale. Io lavoro per un grande uomo... » Jordan si controllò. « In ogni modo, un agente di polizia, un griqua, un certo Hendrick Naaiman, sosteneva che lei tentò un contatto CID e che quando si rese conto che era una trappola cercò di ucciderlo. » Mungo fece un gesto impaziente. « Perché uno nella mia posizione, con le mie risorse, dovrebbe correre il ridicolo rischio di comprare illegalmente dei diamanti? » « E' quello che disse mister Rhodes, signore, che ha più volte espresso la propria certezza della sua innocenza. » « Dopo che avrò trovato mia moglie tornerò immediatamente a Kimberley e affronterò questo Naaiman. » « Generale St John, questo non sarà né necessario né possibile. Naaiman è stato ucciso mesi fa con una coltellata in una delle taverne. Non può testimoniare né contro né a favore di lei. E senza né testimone né accusatore lei è ritenuto innocente. » « Maledizione... » Mungo s'accigliò per nascondere il proprio enorme sollievo. « Avrei profittato dell'occasione per fargli rimangiare le sue menzogne. Ora ci sarà sempre chi dubiterà di me. » « Soltanto i meschini, signore. » Jordan si toccò la falda del cappello. « Non la trattengo oltre, lei sarà ansioso di andare a cercare sua moglie. Buona fortuna e Dio sia con lei. Sono sicuro che ci incontreremo ancora, generale. » Quando Jordan s'allontanò, Mungo St John rimase a guardarlo. Non era facile afferrare la portata della sua fortuna: lo spettro della giustizia implacabile che lo aveva inseguito dal sud era svanito; aveva l'autorizzazione a lasciare il Matabeleland e un'immensa fortuna in diamanti da portarsi dietro.
Un'ora dopo aveva fatto visita a uno dei mercanti e aveva scambiato il carretto e le altre poche cose di cui non aveva più bisogno con un buon fucile e cento cartucce. Montò sull'ampia groppa confortevole del mulo e lo diresse verso sud, passando davanti alle colline di granito degli induna. Non guardava né a destra né a sinistra: il suo unico occhio era puntato in avanti, verso sud, quindi non vide la esile, quasi infantile, figura sulla collina sopra di lui. Robyn si riparò gli occhi con la falda del cappellino e rimase a guardarlo allontanarsi finché la piccola nube di polvere levata dai grossi zoccoli del mulo non scomparve nella foresta di mimose. Louise St John era spinta dalla necessità di sfuggire a qualsiasi inseguimento, ossessionata dalla consapevolezza di dover evitare i kraal lungo la strada, perseguitata dal senso della colpa che, sapeva, doveva dividere con Mungo, con l'animo in terribile tumulto, e perciò non ebbe modo di pentirsi della sua affrettata decisione, presa dopo la sconvolgente scoperta dei diamanti, né poteva rendersi conto della portata della propria solitudine... Finché non ebbe superato l'ultimo dei grandi kraal e lasciato le piacevoli distese d'erba dell'altopiano. Ora davanti a lei si apriva la terra selvaggia, rovente e fitta di foreste, che sapeva piena di animali selvaggi e guardata dagli spietati impi di frontiera. Il fatto che mai, neppure una volta, prendesse in considerazione la possibilità di tornare indietro dava la misura del suo disperato bisogno di liberarsi di Mungo St John e di tutto ciò che lui rappresentava, pur sapendo che c'era un rifugio per lei alla missione di Khami, pur sapendo che Robyn Codrington sarebbe intervenuta in suo favore presso il re, che le avrebbe certamente concesso una scorta di guerrieri fino alla frontiera. Non poteva tornare indietro, non sopportava l'idea di essere di nuovo vicina a Mungo St John. L'amore che una volta aveva provato per lui s'era tramutato in totale repulsione. Nessun rischio era troppo grande pur di sfuggirgli. Non poteva tornare indietro. Quella notte si distese per l'ultima volta accanto ai solchi lasciati dai carri, che erano il suo tenue legame con la civiltà e la vita stessa, e ascoltò il mulo che mangiava l'erba lì vicino, e lontano, giù dalla scarpata dell'altopiano, il lieve ruggito di un leone. Intanto cercava di ricostruire mentalmente la mappa che compariva sul frontespizio del libro di Zouga Ballantyne, Odissea di un cacciatore. Il racconto dei viaggi di Zouga l'aveva affascinata, ancor prima di conoscere lui, e aveva studiato a suo tempo la mappa con grande attenzione. Secondo lei, da dove si trovava in quel momento il fiume Tati non distava più di centocinquanta chilometri a ovest. Nessun inseguitore si sarebbe aspettato che lei prendesse quella direzione. Nessun impi controllava quella zona desolata e il fiume Tati segnava il confine tra il Matabeleland e il territorio di Khama. Secondo tutti i resoconti, re Khama era un uomo gen-
tile e onesto; il suo paese era sotto la sovranità della Corona inglese e la giustizia inglese era assicurata dalla presenza di Sir Sidney Shippard nel kraal di Khama. Se avesse potuto raggiungere il fiume Tati e l'avesse seguito fino a sud, avrebbe incontrato della gente di Khama che l'avrebbe portata da Sir Sidney, il quale a sua volta avrebbe provveduto a farla proseguire verso sud fino a Kimberley. Il ricordo di quella città la rese consapevole del vero motivo della sua disperata fretta. Per la prima volta si rese conto del terribile bisogno che avvertiva dentro di essere con un uomo di cui poteva fidarsi e la cui forza l'avrebbe protetta e resa forte di nuovo. L'uomo sul quale - doveva alla fine riconoscere aveva trasferito l'amore che Mungo St John aveva da un pezzo ormai perduto. Doveva raggiungere Zouga e doveva raggiungerlo subito, questa era l'unica cosa certa nella sua confusione e nella sua disperazione; ma prima c'erano centocinquanta chilometri di terra desolata da attraversare. S'alzò alla prima pallida luce del giorno, buttò della sabbia sul fuoco, sellò il mulo, infilò il fucile nel fodero, assicurò al pomo della sella la borraccia e la coperta e montò in groppa. Lasciandosi alle spalle l'irreale bagliore rosso del sole che sorgeva, spinse il mulo in avanti e, dopo una cinquantina di passi, quando guardò indietro, la vaga doppia traccia delle ruote dei carri non era più distinguibile. La terra che stava attraversando aveva una sua dura e minacciosa magnificenza; gli orizzonti erano infiniti e il cielo era di un azzurro lattiginoso. Era vuota di ogni vita. Non vedeva infatti né uccelli né altri animali, e la luce del sole era bianca e spietata. La notte le stelle riempivano il cielo di mulinelli e volute di fredda e vivida luce, e lei si sentiva ancora più piccola in tutta quella immensità e solitudine. La terza sera capì di essersi persa, disperatamente e irrimediabilmente persa. Era a malapena certa della direzione del tramonto, ma non aveva idea delle distanze e il suo ricordo della mappa, che lei aveva ritenuto vivo e chiaro, era diventato confuso. La borraccia era vuota. Aveva bevuto l'ultimo sorso di acqua calda un pò prima di mezzogiorno. Non aveva visto selvaggina che le fornisse carne e aveva mangiato l'ultima focaccia di mais la sera prima. Il mulo era troppo esausto e assetato per pascolare. Se ne stava avvilito sotto un sicomoro selvaggio che lei aveva scelto per il campo di quella notte, con la testa che gli pendeva fino ai ginocchi. Una scheggia di pietra tagliente gli aveva lacerato il fettone dello zoccolo anteriore sinistro. Era decisamente zoppo e lei non aveva idea di quanto lontano fosse il fiume Tati né in quale direzione fosse. Si mise un piccolo ciottolo bianco e tondo sotto la lingua per far affluire la saliva e si distese accanto al fuoco. Era esausta e il sonno arrivò come un'improvvisa morte nera. Si svegliò come se stesse lottando per risalire dalle profondità dell'inferno stesso.
Piena e gialla, la luna era alta nel cielo, e lei era stata svegliata dal ronfare nervoso del mulo e dal suo picchiare gli zoccoli sul terreno pietroso. Louise si tirò su appoggiandosi al tronco del sicomoro e si guardò intorno. Qualcosa si mosse al limite estremo del suo campo visivo, qualcosa di grosso e di spettralmente pallido, e mentre lo fissava avvertì l'acre alito ammoniacale del felino. Il mulo ragliò per il terrore e s'allontanò zoppicando al galoppo, con le pastoie che gli impedivano il movimento delle zampe anteriori, così che procedeva lento e goffo. D'un tratto, la grossa cosa pallida schizzò in alto, stagliandosi come un enorme pipistrello bianco contro il cielo illuminato dalla luna, e gli piombò addosso. Il mulo urlò una volta e lei udì chiaramente la colonna vertebrale spezzarsi. Intanto sul suo dorso la leonessa lo azzannava al collo e, con lo stesso movimento, allungava le zampe verso il muso, artigliandoglielo e torcendogli la testa all'indietro. Il mulo crollò con un tonfo sulla terra dura e la leonessa s'appiattì immediatamente dietro il suo corpo, che vibrava e scalciava spasmodicamente, e cominciò a lacerare la parte morbida intorno all'ano, creando un'apertura nella cavità del ventre attraverso la quale raggiungere i bocconi prelibati dei reni, della milza, del fegato e dei visceri. Dietro di sé Louise vide altre pallide forme feline sbucar fuori dall'ombra. Ebbe la presenza di spirito di afferrare il fucile prima di arrampicarsi fino all'inforcatura del sicomoro e di là, spinta da un terrore soffocante, ancora più su. S'aggrappò a uno dei rami più alti e rimase in ascolto del festino sinistro e rumoroso che intanto si svolgeva sotto di lei, il brontolio rabbioso e i litigi di una dozzina di leoni intorno alla carcassa, il suono lappante che producevano quando staccavano, leccandola, la carne dalle ossa con lingue che erano vere e proprie raspe, e gli orribili e gutturali gorgoglii e risucchi. Mentre, lentamente, la luce del giorno andava aumentando, i rumori s'attenuarono. I grossi felini erano sazi e s'allontanarono nella boscaglia. Poi Louise guardò giù alla base del sicomoro e si trovò a fissare due implacabili occhi gialli; le evocarono nuovo terrore, ancora più profondo. Alla base dell'albero c'era un leone dalla folta criniera. Aveva spalle ampie come un cavallo da tiro e, a quella cattiva luce, il suo colore era d'un grigio azzurrastro. Stava guardandola e, mentre lei ricambiava quello sguardo, inorridita, la gran folta criniera s'eresse per l'eccitazione; la bestia parve gonfiarsi e riempire l'intero campo visivo. D'un tratto, indietreggiò sulle zampe posteriori e allungò le anteriori verso di lei; i lunghi, curvi artigli sfoderati da quelle massicce zampe tracciarono lunghe strisce parallele nella corteccia del sicomoro, dal quale la linfa sgorgò in bianche gocce. Poi il leone spalancò le fauci e Louise si trovò a guardare nella rosea e profonda cavità della sua gola. La lunga e vellutata
lingua s'arricciò come il carnoso petalo di un'insolita orchidea. Ogni lucente zanna d'avorio era lunga quanto l'indice di un uomo e acuminata come la punta della picca di una guardia reale. Ruggì contro di lei. Una tempesta di suono che la colpì come un pugno. Le penetrò i timpani e ridusse a gelatina ogni muscolo del suo corpo. Poi l'enorme bestia s'arrampicò sull'albero. S'inerpicò con una serie di salti, con i gialli artigli che laceravano pezzi di corteccia dal tronco, salendo sempre più su, lanciando quegli orribili ruggiti e con gli enormi occhi gialli fissi su di lei, freddi e spietati. Louise cominciò a urlare e l'albero oscillò; i rami si spezzavano e scricchiolavano mentre il gran corpo fulvo si faceva largo in mezzo a essi con una velocità e una forza che Louise non avrebbe mai creduto possibile. Sempre urlando, puntò in basso la lunga canna del fucile e, senza mirare, premette il grilletto. Non successe nulla. Intanto il leone s'avvicinava sempre più. Nel panico aveva dimenticato di togliere la sicura dell'arma. Ma era quasi troppo tardi: il leone allungò un'enorme zampa e colpì la canna. Il colpo si ripercosse sui polsi e le intorpidì le braccia, ma lei mantenne la presa e col pollice spinse in avanti la sicura, cacciando la bocca della canna nelle fauci della bestia; contemporaneamente premette di nuovo il grilletto. L'esplosione fu quasi soffocata dal ruggito del leone. Il rinculo le fece perdere la presa e l'arma balzò via, sbatté contro i rami e cadde giù, lasciandola completamente indifesa. Proprio sotto di lei il leone stava ancora aggrappato al tronco dell'albero, ma l'enorme testa irsuta era buttata all'indietro, al massimo consentito dallo spesso collo, e una vivida fontana di sangue sgorgava dalle mascelle aperte, tingendo di rosso le brillanti zanne. Lentamente, poi, gli artigli adunghi allentarono la loro presa profonda nella corteccia e il felino cadde, contorcendosi nell'aria, finché crollò a terra ai piedi dell'albero. Giaceva su un fianco e allungò le zampe e inarcò la schiena, mentre l'ultimo respiro soffocato gli gorgogliava in gola. Dopodiché s'immobilizzò nel totale abbandono della morte. Cauta, Louise scese giù dal sicomoro e, tenendosi alla larga dalla carcassa, recuperò il fucile. Il calcio era spaccato e l'otturatore bloccato. Vi armeggiò per alcuni minuti, dopodiché lo lasciò cadere. Il terrore ancora le impediva il respiro e le congestionava la vescica, ma non si fermò per liberarsi. Frenetica, afferrò la piccola borsa di tela che conteneva la scatola con l'esca, l'acciarino e la pietra focaia, un coltello a serramanico, alcuni gioielli e altri oggetti che le appartenevano. Abbandonò la bandoliera, la coperta e la borraccia vuota, perché era disperatamente spinta dalla necessità di lasciare quel posto, e si allontanò barcollando dal sicomoro. Si girò una sola volta a guardare indietro. Un paio di scia-
calli erano già al lavoro sulla carcassa del leone e giù dal cielo del mattino d'un pallido giallo-limone il primo avvoltoio arrivava planando sulle ampie ali eleganti per appollaiarsi, gobbuto, sui rami più alti del sicomoro. Agitava quella sua ripugnante testa pelata, dall'aspetto bollito, in golosa attesa. Lei si mise a correre. Corse in preda al panico e alla disperazione, voltandosi a guardare indietro, così che i cespugli spinosi la graffiavano, barcollando negli stivali da cavallerizzo dai tacchi alti. Quasi si stremò in quella pazza corsa e, quando alla fine cadde, rimase a faccia in giù, scossa dal singhiozzo di ogni respiro, con le lacrime della paura e della disperazione che si mescolavano sulle sue guance al sudore. Era già quasi mezzogiorno quando recuperò le forze e raccolse la determinazione necessaria per controllare alfine quel terrore scatenato. Poi proseguì. A metà pomeriggio un tacco le si staccò dallo stivale e si storse penosamente la caviglia. Andò avanti zoppicando finché il buio si raccolse intorno a lei e tutte le sue paure ritornarono. S'arrampicò fino all'alta inforcatura di un mopani. Quella complicata posizione sul tronco duro, il freddo e la paura le impedirono di addormentarsi. All'alba scese giù. La caviglia le si era gonfiata ed era diventata di un colore rosa intenso. Sapeva che se si fosse tolta lo stivale non sarebbe mai più riuscita a infilarlo di nuovo. Strinse più forte che poté le stringhe e tagliò un ramo del mopani da adoperare come gruccia. A mezzogiorno non c'era vento e il caldo era feroce. La mucosa del naso le si era seccata e gonfiata, ed era costretta a respirare con la bocca. Le labbra le si screpolarono e cominciarono a sanguinare. Il sapore salato e metallico del proprio sangue parve bruciarle la lingua. La gruccia dello scabro ramo di mopani le irritò la pelle dell'ascella e del fianco e a metà del pomeriggio la lingua le si era gonfiata tanto che era diventata come un bavaglio soffocante, una palla di stoppa cacciatale in bocca. Quella notte non ebbe la forza di arrampicarsi su un albero. S'accucciò alla sua base e quando alla fine, esausta, il sonno l'assalì, fu tormentata da sogni di ruscelli di montagna dai quali si svegliò, farfugliando e tossendo, al peggior tormento della realtà. Quando la luce la svegliò definitivamente, riuscì a tirarsi su. Ogni passo era uno sforzo da affrontare. S'appoggiava alla gruccia, fissando il terreno con occhi iniettati e palpebre gonfie in cerca del punto in cui poggiare il piede, e si spingeva in avanti e vacillava e poi ripigliava l'equilibrio prima di tirare il piede ferito accanto all'altro. « Cinquecentoquattro... » Contava ogni passo e poi si preparava a quello successivo. Arrivata a mille, riposava e si guardava intorno nel tremolante miraggio del calore. A metà pomeriggio, durante una di quelle pause di riposo, sollevò la testa e vide una fila di figure umane. La sua gioia
fu così intensa che per un momento la vista le s'annebbiò, poi si erse in tutta la persona e provò a gridare. Dalla bocca secca, spaccata e gonfia, non venne fuori nessun suono. Sollevò la gruccia e l'agitò in direzione delle figure in cammino... E in quel momento si rese conto che il miraggio e le proprie allucinazioni l'avevano ingannata. In quell'incerta e ondeggiante visione la fila di figure umane si trasformò in una frotta di struzzi selvaggi, che si sparpagliarono poi nella pianura. Non aveva lacrime per piangere la propria profonda delusione. Le si erano seccate da un pezzo. Al crepuscolo cadde a faccia in giù e il suo ultimo consapevole pensiero fu: « E' finita. Non ce la faccio più ». Ma all'alba il fresco la svegliò. Sollevò dolorosamente la testa e davanti a sé vide un ciuffo d'erba piegata dal peso delle gocce di rugiada che ne pendevano, tremando precariamente e brillando come preziosi gioielli. Allungò la mano e lo toccò: immediatamente le belle gocce caddero sulla terra asciutta e scomparvero senza lasciare traccia. Strisciò fino al ciuffo successivo e questa volta i liquidi diamanti le caddero nella bocca gonfia. Il piacere fu così intenso da tramutarsi alla fine in dolore. Il sole s'alzò rapidamente e asciugò la rugiada, ma lei aveva raccolto abbastanza forza da tirarsi su e proseguire. La notte seguente ci fu una lieve brezza calda che la tormentò nel sonno, ma a causa di essa non ci fu rugiada la mattina e lei capì che quello era il giorno in cui sarebbe morta. Più facile morire dove si trovava, e dunque chiuse gli occhi... poi li riaprì e, con uno sforzo, si mise a sedere. Ogni serie di mille passi sembrava prendere un'infinità di tempo. Aveva di nuovo le allucinazioni. Una volta suo nonno le camminò accanto per un pezzo. Portava il suo copricapo di guerra di piume d'aquila e la sua pelle di daino ricamata di perline. Quando lei cercò di rivolgergli la parola, sorrise tristemente e scomparve. Un'altra volta Mungo St John la superò in groppa a Shooting Star. Non guardò dalla sua parte e gli zoccoli del grande stallone non facevano rumore. S'allontanarono e scomparvero. Poi, all'improvviso, la terra sotto i suoi piedi si aprì e lei cadde, precipitò leggera come una piuma staccatasi dal petto di un'anatra, leggera come un fiocco di neve, ruotando su se stessa, sempre più giù, finché uno sconvolgente impatto la riportò di colpo alla realtà. Stava distesa a faccia in giù su un letto di sabbia bianca come zucchero. Per un attimo pensò che fosse acqua, ne prese una manciata e se la portò alle labbra, ma gli asciutti e scabri granellini furono come sale sulla lingua. Si guardò intorno e si rese conto, con una specie di amaro trionfo, che alla fine aveva raggiunto il fiume Tati e che stava distesa sul letto del fiume asciutto. La sabbia sottile, bianca come sale, andava da una sponda all'altra: stava per morire di sete in un fiume.
« Una pozza... » pensò. « Dev'esserci una pozza d'acqua. » Si mise a strisciare sulla sabbia dirigendosi verso la prima curva del corso del fiume. La curva s'apriva su un'altra lunga prospettiva di alti banchi e di alberi sporgenti, ma davanti, beffarda, continuava la luccicante distesa ininterrotta di sabbia. Sapeva di non avere la forza di strisciare fino alla curva successiva. La vista le si stava annebbiando di nuovo. Strinse gli occhi e si concentrò sui mucchi di roba scura a forma di palla sparsi al centro del fiume e, vagamente, si rese conto che erano escrementi di elefanti e che accanto a essi c'erano cumuli di sabbia, come i castelli di sabbia dei bambini sulla spiaggia. Di colpo, ricordò la descrizione che Zouga Ballantyne faceva nel suo libro degli scavi degli elefanti; ciò le diede la forza sufficiente per tirarsi su in piedi e avvicinarsi barcollando al più vicino monticello di sabbia. Gli elefanti avevano scavato con le zampe nel fondo del letto del fiume fino alla profondità della vita di un uomo. Si calò giù e cominciò a raspare freneticamente con le mani nude. In pochi minuti le unghie le si ruppero e le punte delle dita sanguinarono mentre la sabbia continuava a crollar giù nel buco, ma lei continuò a scavare, ostinata. Poi la sabbia bianca cambiò colore, divenne umida e meno farinosa e finalmente sul fondo ci fu un luccichio. Louise si strappò una striscia di stoffa dal lembo della gonna e lo compresse nel buco, poi dopo un momento se lo portò alla bocca e, con dita sanguinanti, ne strizzò una goccia d'acqua sulla lingua spaccata e annerita. Era come aveva sempre immaginato che fosse. Zouga attraversò il fiume Shashi un'ora prima del mezzodì di un giorno caldo e senza vento, con cumuli di nembi azzurri e argentei sull'orizzonte lontano e, davanti, le folte foreste e il veld ricco di selvaggina del Matabeleland. Era in sella a un magnifico cavallo e alla sua destra cavalcava suo figlio, il maggiore, ormai un uomo adulto, dritto e forte, un uomo caro al suo cuore di padre. « Eccolo, papà. » Ralph si tolse il cappello di testa e con esso compì un ampio gesto che abbracciò l'orizzonte di colline blu sfumato e verdi foreste. « E' il tuo nord, finalmente. Siamo venuti a prenderne possesso. » Zouga rise con lui, la barba dorata che brillava al sole e i denti bianchi e regolari come quelli del figlio. « Non ancora del tutto, ragazzo mio. Questa volta dobbiamo corteggiare questa terra e la prossima prenderla come sposa. » Zouga aveva interrotto il suo viaggio per fermarsi tre mesi a Kimberley e, con tutte le risorse della De Beers Diamond Mines a sua disposizione, aveva preparato i piani che Rhodes gli aveva ordinato di allestire. Aveva deciso per una colonna di duecento uomini con i
quali avrebbe preso e tenuto il Mashonaland. Sarebbero stati appoggiati da un distaccamento della Bechuanaland Police di Sir Sidney Shippard, fatto venire dal kraal di Khama, e da un distaccamento della polizia privata di Rhodes. Aveva specificato le armi e l'equipaggiamento di cui avrebbero avuto bisogno - centosedici pagine di elenchi e tabelle - e Rhodes l'aveva approvato con la sua svolazzante firma e la secca ingiunzione: « Esegua ». Quattro giorni dopo Ralph era arrivato a Kimberley dai campi auriferi di Witwatersrand con due dozzine di carri, e Zouga era stato in piedi con lui tutta la notte nel suo appartamento nel nuovo albergo di Lil. La mattina Ralph fischiettava tant'era eccitato. « E' una cosa così grossa, tanti uomini, tanto equipaggiamento... » « Ce la fai, Ralph? » « Tu vuoi che io mi offra, in appalto, di reclutare gli uomini, comprare l'equipaggiamento e riunire tutto qui a Kimberley, fornire i carri e i buoi per tirarli, i cavalli per gli uomini, i fucili, le munizioni, le mitragliatrici, una macchina a vapore per alimentare un riflettore; poi vuoi che mi offra di costruire una strada per portare tutto a un certo punto, un posto che tu chiami Monte Hampden, laggiù in quella zona selvaggia, e vuoi che tutto questo sia pronto in nove mesi? » « L'hai afferrato abbastanza bene, il concetto », aveva detto Zouga sorridendo. « Ce la fai? » « Dammi una settimana di tempo », aveva ribattuto Ralph, e cinque giorni dopo era stato di ritorno. « E' un affare troppo grosso per me, temo, papà », aveva annunciato, e poi aveva sorriso all'espressione delusa di Zouga. « Ho dovuto prendere un socio: Frank Johnson. » Johnson era un altro giovane che andava di fretta e, come Ralph, s'era già fatto la fama di essere bravo nel concludere le cose. « Tu e il tuo amico Johnson avete calcolato un prezzo? » « Lo facciamo per ottantaduemiladuecentottantacinque sterline e dieci scellini. » Ralph gli aveva porto il contratto d'appalto firmato e il padre lo aveva studiato in silenzio. Quando alla fine aveva alzato il capo, aveva chiesto: « Dimmi, Ralph, per cosa sono quei dieci scellini? » « Be', papà », aveva risposto il figlio, spalancando in maniera disarmante gli occhi. « Quelli sono il nostro profitto nell'affare. » Zouga aveva telegrafato il prezzo dell'appalto a Rhodes al Claridge's Hotel di Londra e il giorno dopo Rhodes aveva risposto con un altro telegramma: in linea di massima accettava. Non rimaneva altro che ottenere la ratifica di Lobengula delle concessioni unificate, e Zouga aveva ordine da parte di Rhodes di andare subito a GuBulawayo a chiedere a Rudd il motivo del ritardo. Ralph aveva immediatamente deciso di andare con Zouga.
« Una volta che mister Rhodes ci dà l'ordine di cominciare, non avremo tempo per nient'altro. Ho un affare in sospeso nel Matabeleland, alla missione di Khami... » E una poco tipica espressione sognante era comparsa sul suo viso. « Questo è il momento di sistemarlo. Finché ne ho la possibilità. » E così ora, l'uno al fianco dell'altro, Zouga e Ralph spirisero i loro cavalli su per la sponda del fiume Shashi ed entrarono nel Matabeleland. « Ci accamperemo qui per qualche giorno, papà », disse Ralph; e Zouga non riusciva ancora ad adattarsi all'idea che fosse suo figlio a prendere le decisioni, senza consultarlo. « Il pascolo è buono, faremo riposare i buoi e andremo a caccia. C'è ancora molta selvaggina da qui alla confluenza col fiume Tati. » Agli inizi di quei lungo viaggio insieme Zouga era stato colpito dallo spirito competitivo del figlio, che trasformava in una gara anche la cosa più semplice. In tutto il tempo che erano stati separati lui aveva dimenticato questo lato del carattere del figlio, ma ora trovava che durante quel periodo gli si era sviluppato ancora di più. L'energia di Ralph lo scoraggiava, riteneva ormai che in quel viaggio - per mancanza di altra opposizione - lui era diventato un appiglio per il bisogno che suo figlio aveva di gareggiare. Spararono a uccelli, faraone e francolini, e Ralph controllò e s'indispose quando scoprì che il padre ne aveva uccisi di più. Ogni volta che si accampavano stavano in piedi fino a tardi con i dadi d'avorio o un vecchio mazzo di carte unte, e Ralph gongolava quando vinceva uno scellino o brontolava quando lo perdeva. Così ora, quando disse: « Domani andiamo a caccia insieme, papà », Zouga capì che l'aspettava una dura giornata campale. Si allontanarono dai carri un'ora prima dell'alba. « Il vecchio Tom sta diventando madala, vecchio, ma scommetto una sovrana che surclassa quella tua bella bestia », sfidò Ralph. « Non posso permettermi queste poste », rispose Zouga. Era ancora in forma, le sue lunghe spedizioni da cacciatore professionista lo avevano tenuto in allenamento, ma il ritmo che Ralph era riuscito a stabilire aveva finito col metterlo a dura prova. E c'era qualcos'altro che lo inquietava. Quando Ralph andava a caccia in competizione con qualcun altro, diventava pericoloso. Allorché veniva sfidato, faceva una sola considerazione, la ricchezza del bottino. Lui, Zouga, era stato cacciatore per gran parte della sua vita. Era andato a caccia di elefanti per il fascino particolare di quei belli e nobili animali, non soltanto per l'avorio. Era quasi una forma di amore quella per la quale uno studiava e capiva e inseguiva e finalmente catturava la preda. In quelle ultime stagioni era andato a caccia, per necessità,
con molti uomini, ma non ne aveva ancora incontrato uno che andasse a caccia come suo figlio. Era come se la selvaggina non fosse altro che un punteggio, un punteggio nella gara. « Io non voglio essere sportivo, papà, questo lo lascio a te. Voglio solo essere vincitore. » « Non posso permettermi queste poste », ripeté Zouga, cercando di allentare la tensione del figlio. « Non puoi permetterti una sovrana? » Ralph buttò all'indietro la sua bella testa bruna e gli occhi gli lampeggiarono, mentre rideva deliziato. « Papà, hai appena venduto quel tuo grosso diamante per trentamila sterline. » « Ralph, oggi prendiamocela con calma. Se possiamo prendere una giraffa o un bufalo non abbiamo bisogno d'altro. » « Papà, stai invecchiando. Una sovrana. Se non puoi pagare immediatamente, godi ancora di credito. » A metà mattinata trovarono verso est le tracce di un branco di giraffe che mangiavano lungo la riva del fiume. « Ne conto sedici. » Ralph si sporse dalla sella per esaminare le grosse doppie tracce a forma di fagiolo nella terra sabbiosa. « Non sono neppure a un'ora davanti a noi. » E piantò i calcagni nei fianchi del vecchio Tom. La foresta si alternava a radure aperte attraversate da piccoli ruscelli che defluivano giù per la scarpata nel fiume Shashi. Erano asciutti in quella stagione dell'anno, ma questo non spiegava la scarsezza della selvaggina. Quando Zouga aveva attraversato la prima volta quella zona, andando verso sud di ritorno dal kraal di re Mzilikazi, ognuna di quelle radure era piena di branchi. In un giorno di viaggio aveva contato più di cento mostruosi rinoceronti grigi, mentre gli argentei branchi di grasse zebre e di buffi e purpurei gnu erano innumerevoli. A quei tempi, dopo che avevi sparato un colpo, la polvere che i branchi lanciati al galoppo sollevavano sembrava il fumo che si leva da un incendio della boscaglia, invece quel giorno erano in viaggio dall'alba senza aver visto un solo animale selvaggio. Zouga rifletteva su questo mentre cavalcava al fianco del figlio. Naturalmente quella zona era sulla strada diretta per il kraal di Lobengula, strada per la quale passavano sempre più carri. Più oltre si trovavano ancora vaste zone nelle quali i branchi erano ancora fitti come l'erba di cui si nutrivano; ma una volta costruita la strada fino al Mashonaland, e in seguito anche la linea ferroviaria, si chiese, cosa sarebbe rimasto? Forse un giorno i suoi nipoti sarebbero vissuti in una terra di cui ogni angolo sarebbe stato spoglio come quello. Non gli invidiava la prospettiva. Pur pensando a tutto questo, intanto, il suo occhio addestrato di cacciatore scorse una macchiolina proprio sopra la linea della foresta, dritto davanti a loro. Per un attimo esitò a richiamare l'attenzione di Ralph su quel puntolino. Era la testa di una giraffa che s'era allungata a guardare al disopra dell'albero di mimosa dei quale si stava
nutrendo. Per la prima volta, provò una stretta al cuore all'idea della strage che stava per aver luogo e pensò di distogliere l'attenzione di Ralph dal branco degli enormi animali maculati nella foresta di mimose davanti a loro. Ma in quel momento Ralph gridò, entusiasta: « Eccole lì, che mi dannino! Sono timide come vergini stanno già scappando ». C'era stato un tempo in cui Zouga riusciva a cavalcare fino a duecento metri da un branco prima che questo si allarmasse. Loro invece erano ancora a più di un chilometro di distanza e le giraffe già cavalcavano via. « Vieni, papà. Le prendiamo quando cercheranno di attraversare lo Shashi. » E s'inoltrarono nel folto delle mimose. « Dài! » urlò Ralph. Il berretto gli cadde e, rimasto appeso al sottogola, gli sbatteva contro la schiena, mentre i lunghi capelli scuri s'agitavano al vento del galoppo. « Perdio, papà... dovrai darti da fare per vincere la tua sovrana, oggi », disse ridendo. Uscirono di corsa dalla foresta e si trovarono su un'altra pianura aperta. Il branco degli enormi e vulnerabili animali s'era sparpagliato davanti a loro, maschi e femmine e piccoli, ma non fu questo ad attirare l'attenzione di Zouga. Rallentò la corsa del suo cavallo e si voltò a guardare verso ovest. « Ralph », gridò. « Lasciale andare! » Ralph si voltò a guardare indietro attraverso la polvere sollevata. Era tutto rosso in viso per l'eccitazione. « Guerrieri », gridò Zouga. « Uomini sul piede di guerra, Ralph. Stringi! » Per un attimo sembrò che Ralph non volesse obbedire, poi il suo buon senso prevalse. Sarebbe stato incauto separarsi con in giro dei guerrieri, e così ritornò al fianco di Zouga e lasciò che, spinte dal panico, le giraffe si allontanassero verso il fiume. Tirò le redini e Tom si fermò. « Chi sono, secondo te? » chiese. Si riparò gli occhi e, scrutando attraverso l'aria distorta dal calore, guardò l'incerta linea nera che, come un banco di girini sul fondo di uno stagno ondulato, si muoveva dall'altro lato della pianura aperta. « Uomini di Khama? Predoni hamangweto? Siamo a pochi chilometri dalla frontiera. » « Non corriamo rischi finquando non lo sappiamo, » gli disse Zouga, serio in viso. « Fa' prender fiato ai cavalli. Potremmo dover correre... » Ma Ralph lo interruppe. « Scudi lunghi. E sono rossi. Quelle sono le Talpe, gli amici di Bazo. » Spinse Tom verso l'impi che andava avvicinandosi. « E che mi dannino se quello lì davanti non è Bazo in persona. » Quando Zouga lo raggiunse, lui era già smontato e, lasciando libero Tom, era corso ad abbracciare il suo vecchio compagno; stava già prendendolo in giro.
« Guarda, le Talpe-che-scavano-sotto-la-montagna ritornano da una razzia senza donne né bestiame. Forse che la gente di Khama vi ha fatto conoscere l'acciaio? » Il sorriso soddisfatto di Bazo scomparve a quella battuta. Scosse le piume, deciso. « Non dirlo neppure per scherzo, Henshaw. Non parlare come una stupida ragazzina. Se il re ci avesse mandati contro Khama » - e agitò nell'aria l'assegai - « ci sarebbe stata una bella carneficina. » S'interruppe quando riconobbe Zouga. « Baba! » esclamò. « Bakela... Ti vedo e i miei occhi sono bianchi di gioia. » « E' passato molto tempo, Bazo, ma ora vedo che hai l'anello intorno alla tua fronte e un impi alle tue spalle. Stasera abbatteremo una bestia e festeggeremo insieme. » « Ah, Bakela, sono desolato... Ma sono in missione per conto del re. Devo ritornare a GuBulawayo in fretta per riferire della morte della donna al re. » « Donna? » chiese Zouga senza vero interesse. « Una donna bianca. E' fuggita da GuBulawayo senza il permesso del re che mi ha mandato alla sua ricerca... » Bazo s'interruppe per lanciare un'esclamazione: « Hau! Ma tu conosci questa donna, Bakela! » « Non sarà Nomusa, mia sorella? » chiese Zouga, subito preoccupato. « o qualcuna delle sue figlie? » « No, non loro. » « Non ci sono altre donne bianche a Matabeleland. » « E' la donna di Unico Occhio. La stessa donna che gareggiò a cavallo con te a Kimberley... E vinse. Ma ora è morta. » « Morta? » Il sangue era defluito via dal viso di Zouga, che divenne giallo sotto l'abbronzatura. « Morta? » bisbigliò di nuovo, e vacillò in sella, tanto che se non si fosse tenuto al porno sarebbe caduto. « Louise... Morta. » Zouga trovò il sicomoro che Bazo gli aveva descritto semplicemente seguendo le tracce dell'impi. Ne aveva lasciate di profonde, e lui raggiunse l'albero a metà del pomeriggio. Non sapeva perché si fosse sottoposto a tanta tortura. Non c'erano dubbi che fosse morta. Bazo gli aveva mostrato i miseri resti che aveva trovato, il fucile danneggiato e la bandoliera, la borraccia vuota e i pezzi di stoffa lacerati e masticati dalle onnivore iene. Il terreno sotto il sicomoro era battuto e tutte le tracce di Louise erano scomparse sotto quelle delle zampe degli sciacalli e delle iene, cancellate dall'agitar delle ali e dagli artigli di centinaia di avvoltoi che avevano mangiato e litigato tra loro. C'era un odore di stia unito al puzzo delle feci di avvoltoi, e delle piume volteggiavano qua e là alla lieve brezza. A parte qualche scheggia d'osso e qualche ciuffo di peli, ogni traccia di carcasse d'animali e di corpi umani era sparita. Le iene dovevano aver divorato anche il cuoio degli stivali di
Louise e la sua cintura, e i pochi brandelli di coperta e di stoffa rimasti erano macchiati di sangue. Non era difficile ricostruire l'accaduto. Louise era stata attaccata da un branco di leoni. Era riuscita a sparare un solo colpo - c'era infatti una cartuccia vuota nell'otturatore del fucile danneggiato - e aveva ucciso uno dei felini prima di essere tirata giù dal mulo. Riusciva a immaginare ogni istante della sua agonia, quasi sentiva le sue grida mentre le grandi fauci la dilaniavano fino all'osso e i gialli artigli le laceravano la carne. Ne rimase nauseato e fisicamente stanco. Avrebbe voluto pregare sul posto dove lei era morta ma, a quanto pareva, non aveva l'energia neanche per un così piccolo sforzo. Era come se si fosse svuotato dell'energia stessa della vita. Fino a quel momento non s'era reso mai conto di cosa rappresentava per lui il ricordo di Louise, di come la certezza che le loro vite si fossero incontrate lo avesse sostenuto nella separazione da lei, di come la convinzione che alla fine si sarebbero riuniti avesse dato uno scopo alla sua esistenza. Louise era diventata parte del suo sogno, e ora era stata cancellata via in quell'angolo di terra selvaggia e spietata. Due volte tornò al suo cavallo per montare e andarsene, ma ogni volta esitò e tornò indietro a frugare con le dita nella polvere maleodorante, in cerca di qualche traccia di lei. Alla fine guardò verso il sole. Non ce l'avrebbe fatta a raggiungere i carri prima di sera. Aveva detto a Ralph di lasciare Jan Cheroot e i cavalli di riserva al guado dello Shashi quando lui avesse proseguito con i carri, quindi non c'era urgenza. Non c'era fretta. Senza Louise la sua vita non aveva più senso. Niente aveva più importanza. Andò al cavallo, gli strinse il sottopancia e montò. Lanciò un'ultima occhiata al terreno calpestato, quindi girò la testa del cavallo verso il fiume Shashi e i carri. Non aveva fatto neppure cinquanta metri che si trovò a girare in cerchio. Non era stata una decisione consapevole quella di cominciare a cercare le tracce che s'allontanavano. Sapeva che era inutile, ma ormai i suoi movimenti erano dettati dalla riluttanza ad andar via. Girò una volta intorno al sicomoro, sporgendosi dalla sella ed esaminando il terreno pietroso, poi si spostò più in fuori e compì un altro giro. D'un tratto il cuore gli balzò contro le costole e una nuova speranza invase il suo animo devastato, ma dovette farsi forza per sporgersi dalla sella a esaminare il rametto spinoso, per paura di una nuova delusione. Il bianco del rametto aveva attirato la sua attenzione. Il rametto era stato spezzato a metà e ora pendeva dal ramo principale all'altezza della vita di un uomo. Le verdi foglie erano appassite, il che significava che la rottura doveva aver avuto luogo un due o tre giorni prima, ma non fu questo a far tremare le dita di Zouga. Da una delle curve spine dalla punta rossa pendeva un sottile filo rosso di cotone. Lo prese con reverenza e se lo portò
alle labbra come se fosse una sacra reliquia. Si trovava a ovest del sicomoro; riusciva a distinguerne i rami superiori nella circostante boscaglia, il che significava che Louise aveva lasciato quel filo impigliato nella spina nel fuggir via dall'albero. L'altezza da terra mostrava che era a piedi e il rametto spezzato e il filo strappato erano prova della sua fretta. Era corsa via dal sicomoro e aveva continuato ad andare nella direzione che aveva ostinatamente seguito fin dal principio, verso ovest, verso il fiume Tati e il territorio di Khama. Piantò i calcagni nei fianchi del cavallo e galoppò nella stessa direzione. Era inutile cercare tracce vecchie di tre giorni in quel terreno pietroso. Il vento aveva soffiato continuamente per quasi tutto quel tempo e doveva aver cancellato tutto. Doveva contare sulla buona fortuna e sulla rapidità. Aveva visto la borraccia vuota e sapeva quali erano le probabilità di sopravvivere a piedi, senz'acqua, in quel territorio in mezzo ai due fiumi. Galoppava nella direzione presa da lei, battendo la zona da una parte all'altra, cercando deciso, non concedendosi più di dubitare, concentrandosi nella ricerca di un altro piccolo segno. Negli ultimi minuti del crepuscolo lo trovò. Era il tacco di uno stivale marrone staccato dalla suola. Il luccichio dei chiodi aveva attirato la sua attenzione. Trasse il fucile dal fodero e sparò tre colpi distanziati l'uno dall'altro contro il cielo che andava oscurandosi. Sapeva che Louise non aveva un fucile per rispondere, ma se da qualche parte laggiù lei udiva il suo segnale questo le avrebbe dato forza e speranza. Aspettò, davanti a un piccolo fuoco acceso, che la luna sorgesse e quindi, alla luce di questa, proseguì e ogni ora si fermava e sparava dei colpi nel gran silenzio pieno di stelle, e dopo restava attento in ascolto, ma c'era solo qualche grido di civetta e il latrato di uno sciacallo lontano laggiù, nella pianura argentea. All'alba raggiunse l'ampio e bianco corso del fiume Tati. Era asciutto come le dune del deserto del Kalahari e tutte le speranze che lo avevano sorretto fino allora cominciarono a svanire. Scrutò il cielo del mattino in cerca dell'alta spirale dei volteggiamenti degli avvoltoi, che avrebbero indicato la presenza di un cadavere, ma non vide altro che uno stormo di pterocli che veleggiavano su rapide e ampie ali. La loro presenza dimostrava che da qualche parte doveva esserci uno specchio d'acqua. Louise poteva averlo trovato... Era l'unica possibilità. Bevve un cauto sorso dalla propria borraccia e il cavallo nitrì quando sentì l'odore del prezioso liquido. Presto la sete avrebbe stancato anche lui. Doveva pensare che se Louise aveva raggiunto il fiume ne avrebbe seguito il corso. Era in parte indiana, certamente sapeva stabilire la propria direzione in base al sole e doveva anche sapere che la sua unica e sola possibilità era verso sud, verso la confluenza con lo Shashi. Si diresse da quella parte,
rimanendo sulla sponda, guardando il letto del fiume e la riva opposta e il cielo. Gli elefanti avevano scavato nel letto del fiume ma i loro scavi erano ormai asciutti. Continuò al trotto lungo l'alta sponda. Davanti a lui ci fu un precipitare di grossi corpi beige-porpora allorché un branco di antilopi camoscio sbucò fuori dalla sparsa vegetazione sull'altra riva. Contro il cielo pallido dell'orizzonte le loro corna dritte erano come lance; galopparono via in direzione dei deserti del territorio di Khama. Potevano vivere senz'acqua per mesi di seguito e la loro presenza quindi non gli diede nessuna speranza, ma mentre le seguiva con lo sguardo la sua attenzione fu attratta da un altro movimento molto più lontano, sul piatto terreno aperto oltre il fiume. C'era un babbuino sciacma che stava mangiando laggiù, si distingueva benissimo la forma umanoide. Cercò il resto del branco, forse stavano tra gli alberi oltre la pianura. I babbuini devono bere ogni giorno. Si riparò gli occhi contro il bagliore per vedere la scura bestia muoversi laggiù. A quanto sembrava, stava nutrendosi del verde frutto del viticcio dei meloni del deserto, ma a quella distanza era difficile essere sicuri. Poi, di colpo, si rese conto che mai prima aveva incontrato babbuini così a ovest, e al tempo stesso si convinse che non c'era nessun branco. Era un animale solitario, stranissimo per quella specie tanto gregaria. Poi, immediatamente dopo, vide che quell'animale era troppo grosso per essere un babbuino e che i suoi non erano i movimenti tipici di una scimmia. Con una gioia che quasi gli dava dolore fisico, si lanciò al galoppo. Gli zoccoli del cavallo battevano con un ritmo crescente sul terreno duro come ferro, ma quando tirò le redini e fermò di colpo la bestia e smontò la sua gioia scomparve. Stava piegata sulle ginocchia, che erano graffiate a sangue dal terreno pietroso. Il vestito era quasi andato del tutto e negli spacchi compariva la tenera carne di sotto. Il sole le aveva bruciato le braccia e le gambe, che erano coperte di vesciche rosse. I piedi erano avvolti nei resti della gonna, ma il sangue aveva inzuppato gli stracci. I capelli erano un disordinato e secco viluppo tutt'intorno alla testa, spruzzati di polvere e con le punte spezzate e schiarite. Le labbra erano nere croste, bruciate e spaccate fino a mostrare la carne viva, e le palpebre in su verso di lui come se fossero state punte da api. Lo guardava come una vecchia cieca attraverso due fessure tra le palpebre incrostate di secco e giallo muco. Dal viso e dal corpo la carne era scomparsa. Le braccia erano scheletriche e gli zigomi sembravano sporgere dalla pelle. Le mani erano artigli anneriti, con le unghie consumate fino alla carne viva. Stava accoccolata come un animale sulle foglie piatte del viticcio; aveva spaccato uno dei verdi meloni selvatici con le dita e s'era cacciata la polpa nella bocca ferita. Il succo le scorreva giù per il mento, scavando un piccolo solco nello
sporco che le incrostava la pelle. « Louise. » Le s'inginocchiò di fronte. « Louise... » La voce gli venne meno. Lei mandò una specie di miagolio e poi si toccò i capelli in un commovente gesto femminile, cercando di sistemarsi le rigide trecce piene di polvere. « E'? » gracchiò, spiandolo con occhi iniettati di tra le fessure delle palpebre gonfie. « Non è... » Cercò di coprirsi, con lo straccio che era diventato la sua blusa, il seno soffice e bianco. Poi cominciò a tremare, in maniera incontrollabile, quindi chiuse gli occhi stringendoli forte. Zouga allungò una mano e a quel contatto Louise gli crollò contro il petto, sempre tremando, e lui la strinse. Era leggera e fragile come una bambina. « Lo sapevo... » mormorò. « Non aveva senso, eppure sapevo che saresti venuto. » « Non vuoi spegnere la lanterna, Ralph? » bisbigliò Cathy entrando sotto la tenda del suo carro, e i suoi occhi erano grandi e scuri e imploranti. « Perché? » chiese lui, sorridendo, sollevandosi su un gomito nella brandina del carro. « Può venire qualcuno. » « Tuo padre e tua madre sono ancora al kraal di Lobengula. Non c'è nessuno ... » « Mia sorella ... Salina... » « Salina dorme da un pezzo, sta sognando mio fratello Jordan, senza dubbio. Siamo soli, Cathy, completamente soli. Perche quindi dovrei spegnere la lanterna? » « Perché sono timida, per questo », disse lei, e arrossì, una nuova gradazione di scarlatto. « Tu non fai altro che prendermi in giro. Sarebbe stato preferibile che non venissi. » « Oh, Cathy. » La sua risatina fu soffocata e indulgente. Si mise a sedere nella brandina e la coperta gli scivolò fino alla vita. Immediatamente lei distolse lo sguardo dal suo petto nudo e dalle sue braccia muscolose. Erano così bianchi e levigati al confronto con gli avambracci e il viso abbronzati. Le provocarono delle strane emozioni sconosciute. « Vieni! » Le prese un polso e l'attirò verso la brandina. Ma lei resisté e Ralph la tirò con più forza finché, presa di sorpresa, lei gli cadde sulle gambe. Prima che potesse liberarsi, lui le aveva afferrato una manciata di capelli scuri sulla nuca e le aveva girato il viso verso la propria bocca. Per un pò, con non molta convinzione, Cathy continuò a dibattersi, poi il suo corpo s'ammorbidì, come cera alla fiamma di una candela, e parve fondersi sopra di lui. « Dici ancora che sarebbe stato preferibile non venire, Cathy? » le chiese. Ma lei non poté rispondere, gli strinse invece le braccia convulsamente intorno al collo. Ancora una volta cercò la bocca di lui con la propria e mandò un piccolo gemito. Ralph la stuzzicò con le labbra e la lingua, come Lil gli aveva
insegnato a fare tanto tempo prima, e lei era indifesa come un bell'insetto dal corpo morbido nella tela di un ragno. La cosa lo eccitò come non lo aveva mai eccitato nessuna delle donne pratiche e calcolatrici con le quali aveva speso le sue sovrane d'oro. Il respiro gli si fece affannoso e, con dita tremanti, armeggiò coi lacci del corpetto di lei. La pelle delle spalle era di seta, calda, e Ralph la sfiorò con la punta della lingua mentre lei fremeva e ansimava. Quando poi lui tirò giù la leggera stoffa di cotone, Cathy scosse le spalle per farla venir via. Per un attimo rimase impigliata, poi scivolò fino al livello delle costole più basse. Lui non era preparato alla vista di quei teneri, giovani seni, così terribilmente vulnerabili, pallidi e con la punta rosa, e al tempo stesso duri ed esaltanti nella loro meravigliosa simmetria. La guardò e Cathy guardò lui attraverso le palpebre abbassate, ma non fece nessun tentativo di coprirsi, pur essendo tutta arrossita in viso. Però le labbra le tremavano quando bisbigliò: « No, Ralph, non voglio andare... Né adesso né mai ». « La lanterna... » Lui allungò una mano ma questa volta Cathy gliela fermò. « No, Ralph, non ho vergogna di te e di me. Non voglio il buio, voglio vedere la tua cara faccia. » Allentò il nastro che aveva alla vita, si sollevò il vestito sopra la testa e lo lasciò cadere sul pianale del carro. Aveva le gambe e le braccia lunghe e sottili, i fianchi ancora ossuti come quelli di un ragazzino e il ventre incavato di un levriero sopra lo scuro e triangolare cespuglietto della sua femminilità. Il corpo le brillò alla luce della lanterna con quel particolare luccicore della gioventù sana e vibrante. Ralph la guardò fisso per un istante, dopodiché lei sollevò l'angolo della coperta di lana grezza e vi scivolò sotto. Le braccia e le gambe lunghe e sottili s'avvinghiarono a lui. « Non c'è niente che non farei per te. Ruberei e mentirei e ingannerei... Ammazzerei persino per te, mio bello, meraviglioso Ralph », bisbigliò. « Non so con sicurezza che cosa fanno un uomo e una donna, ma se tu me lo mostri sarò la ragazza più felice del mondo nel farlo con te. » « Cathy, non volevo che succedesse questo... » Con un ultimo rimorso di coscienza cercò di allontanarla. « Io si », disse lei, aggrappandoglìsi ostinatamente. « Altrimenti perché credi che sia venuta qui? » « Cathy... » « Io ti amo, Ralph. Ti ho amato dal primo momento che ti ho visto. » « E io amo te, Cathy. » E fu stupito nello scoprire che ciò che aveva detto era vero. « T'amo davvero e con tutto il cuore », disse ancora e poi dopo, molto dopo: « Non m'ero reso conto di quanto, prima d'ora ».
« Non sapevo che sarebbe stato così », bisbigliò lei. « Ci ho pensato spesso, ogni giorno da quando sei capitato a Khami. Ne ho letto persino nella Bibbia. Dice che David la conobbe. Tu e io ci conosciamo adesso, Ralph? » « Io voglio conoscerti meglio... E più spesso », le rispose lui con un sorriso, con i capelli sconvolti ancora umidi di sudore. « Mi sento come se attraverso un buco buio della mia anima fossi precipitata in un altro bel mondo. Non voglio più tornare indietro. » La voce di Cathy era ancora carica di stupore e meraviglia, come se lei fosse la prima di tutto l'infinito creato a fare quell'esperienza. « Non lo provi anche tu, Ralph? » Si tennero stretti sotto la coperta e parlarono a bassa voce, scrutandosi in faccia alla luce gialla della lanterna, interrompendosi ogni pochi minuti per baciarsi la gola e le palpebre e le labbra. Fu Cathy a staccarsi alla fine. « Non voglio sapere l'ora, ma senti gli uccelli? Presto sarà giorno. » Poi aggiunse in fretta: « Oh, Ralph, non voglio che tu vada via ». « Non sarà per molto, te lo prometto. Tornerò. » « Portami con te. » « Lo sai che non posso. » « Perché no? Perché è pericoloso: per questo? » Ma lui evitò la domanda cercando di baciarla di nuovo. Cathy gli mise una mano sopra la bocca. « Morirò un pò ogni giorno mentre sarai via, ma pregherò per te. Pregherò che i guerrieri di Lobengula non ti trovino. » « Non preoccuparti di me », disse lui, ridendo. « Presto precipiteremo di nuovo attraverso il buco buio della tua anima. » « Promettilo », bisbigliò Cathy, sfiorando gli umidi riccioli sulla fronte di lui. « Promettimi che tornerai, mio bello, caro Ralph. » Ralph mise di nuovo in viaggio la sua fila di carri verso sud; sulla strada per il fiume Shashi, e nella prima parte della mattinata cavalcò alla testa dei veicoli che avevano un carico insolitamente leggero. A mezzogiorno diede ordine di staccare i buoi. Lui e Isazi dormirono per tutto il caldo pomeriggio mentre i buoi e i cavalli pascolavano e riposavano. Poi, al crepuscolo, scelsero cinque buoi della mandria e li legarono alle ruote del carro con briglie di cuoio intorno alla protuberanza delle corna mentre gli sistemavano sulle groppe i portacarichi. Lui e Isazi avevano scelto quei buoi in particolare per la loro forza e disponibilità, e durante il lungo viaggio da Kimberley Ralph li aveva abituati a sopportare quell'insolito carico con rassegnata docilità. Jordan gli aveva fornito le misure esatte e il peso della statua dell'uccello che ora ornava l'ingresso della nuova dimora di mister Rhodes, Groote Schuur, e sulla base di quelle misure lui aveva disegnato i portacarichi e li aveva costruiti con
le sue mani, non volendo confidare a nessuno le proprie segrete intenzioni. Ogni portacarico poteva reggere due statue come quella di Groote Schuur. Fatti di reti di buona corda di manila, andavano posti ai due lati del bue, e Ralph aveva lavorato meticolosamente per assicurarsi un adattamento perfetto del basto, per proteggere la groppa delle bestie da scorticature e impedire che il carico si spostasse anche sul terreno più accidentato e sui pendii più erti. Ora, quando Isazi, il piccolo zulu, condusse la fila di tre buoi fuori dal campo e scomparve nella foresta dove il buio stava aumentando, le bestie lo seguirono docili. Lui, Ralph, rimase indietro il tempo necessario per ripetere i suoi ordini agli altri conducenti. « Marcerete fino al fiume Shashi. Se gli impi di frontiera vi chiedono dove sono, direte che sto andando a caccia a est, col permesso del re, e che aspettate che io raggiunga i carri da un momento all'altro. Capito? » « Ho capito, Nkosi », disse Umfaan che, sebbene promosso da voorlooper a conducente, ancora veniva chiamato « Ragazzo ». « Una volta attraversato il fiume, vi spingerete fino alle sorgenti, a cinque giorni di marcia oltre la frontiera. Gli impi di Lobengula non vi seguiranno fin là. Poi aspettate che io vi raggiunga, capito, Umfaan? » « Capito, Nkosi. » « Allora ripeti. » Finalmente soddisfatto, Ralph montò in sella e guardò dall'alto della groppa di Tom. « Andate, presto. » « Va' in pace, Nkosi. » S'allontanò dal campo, seguendo la fila dei buoi di Isazi e tirandosi dietro un grosso ramo spinoso di mimosa per cancellare le tracce. A metà mattinata del giorno seguente erano molto lontani dalla strada dei carri ed erano penetrati tra le mitiche colline di Matopos. Mentre i buoi pascolavano e riposavano, lui si spinse avanti per tracciare un sentiero tra i kopje di granito e le profonde e improvvise gole. Al tramonto rimisero i basti ai buoi e proseguirono. Il giorno dopo, a mezzodì, misurò l'altezza del sole col vecchio sestante di ottone. Tenendo conto dell'errore cumulativo del suo cronometro, ottenne una posizione che, sapeva, era approssimata nel raggio di una quindicina di chilometri. Anche per esperienza, sapeva che le osservazioni del padre, fatte prima che lui nascesse, erano di solito altrettanto accurate. Senza di esse, infatti, non avrebbe mai rintracciato i nascondigli dell'avorio che era stato l'inizio della sua crescente fortuna. Confrontati con quelli del padre, i suoi calcoli mostravano che si trovava duecentocinquanta chilometri a ovest dell'antica città in rovina che i matabele chiamavano Zimbabwe, il luogo di sepoltura degli antichi re.
Mentre aspettava il buio per riprendere la marcia, prese dalla tasca della sella il fascio di appunti che Zouga gli aveva dato come regalo di addio la prima volta che aveva lasciato Kimberley. Lesse la descrizione della strada per Zimbabwe e della città stessa forse per la centesima volta. « Quanto ancora dobbiamo marciare attraverso queste colline? » Isazi interruppe la sua concentrazione. Stava preparando delle focacce di mais su un piccolo fuoco senza fumo di legna secca. « Le mie bestie soffrono su queste pietre e questi pendii erti », brontolò. « Saremmo dovuti andare più a sud e passare sotto le colline, per il terreno pianeggiante. » « Dove i guerrieri di Lobengula aspettano e pregano ogni giorno per avere l'occasione di trapassare con i loro assegai un piccolo scheletrico zulu », gli rispose lui, sorridendo. « C'è lo stesso pericolo anche qui. » « No. Nessun matabele si spinge tra queste colline sacre senza una buona ragione. Qui non incontreremo impi, e una volta sbucati dall'altro lato ci troveremo oltre i più avanzati kraal reggimentali. » « E in questo posto di pietre dove stiamo andando? Non ci saranno impi ad aspettarci là? » « Lobengula proibisce a tutti anche solo di guardare nella valle dove stanno le pietre. E' un posto segnato dalla morte, maledetto da Lobengula e dai suoi sacerdoti. » Isazi s'agitò, a disagio. « Chi dà importanza alla maledizione di un grasso cane matabele? » esclamò, e si toccò l'amuleto che portava alla cintura e che lo proteggeva dai demoni, dagli spiriti maligni e da altre oscure e segrete cose. Nonostante le assicurazioni date a Isazi, lui, Ralph, si muoveva con la massima cautela tra quelle colline. Durante il giorno nascondeva i buoi nel folto della vegetazione di una gola e andava avanti in ricognizione, scrutando la strada metro per metro e segnandola, perché Isazi la seguisse, con qualche discreta incisione su un tronco d'albero oppure con un ramo spezzato a ogni svolta o punto difficile. Queste precauzioni lo salvarono. Il terzo giorno aveva legato Tom in un buon nascondiglio ed era andato avanti a piedi fino alla cresta della collina dalla quale avrebbe goduto di una buona vista della valle successiva. Proprio sotto la cima fu messo sull'avviso dal grido, a sua volta allarmato, di un grigio lurie, l'uccello più allarmista della boscaglia africana. Il grido veniva da poco più giù della cima e, immobilizzatosi in ascolto, Ralph udì un lieve fruscio, come quello del vento tra l'erba alta. S'abbassò e saltò giù dal sentiero, stendendosi ventre a terra, col fucile piazzato nell'ansa del gomito, sotto i rami di un basso cespuglio di bacche rosse, proprio mentre una prima fila di guerrieri matabele spuntavano sull'altura davanti a lui, con i loro mantelli e gonnellini e copricapi che frusciavano: il suono che lo aveva preavvertito. Da dove si trovava, sotto il cespuglio, poteva vedere fino all'altezza delle loro ginocchia mentre passavano, ma la loro
andatura era quel trotto deciso che i matabele chiamano minza hlabathi, mangiar la terra avidamente. Li contò. Davanti a lui passarono duecento guerrieri, e quando il soffice fruscio dei loro piedi cessò lui non osò muoversi, stette immobile sotto il cespuglio, non osò neppure strisciare più al coperto. Pochi minuti dopo udì il basso canto dei portatori venire su dalla valle successiva; quindi comparvero, passando al trotto davanti al suo nascondiglio. Con le loro profonde voci melodiose cantavano l'inno di lode al re. Dalla loro andatura più lenta e spaziata capì che portavano una pesante lettiga. Aveva immaginato che il gruppo iniziale fosse soltanto una avanguardia. Questo che passava adesso era il grosso, e nella lettiga doveva esserci Lobengula in persona, perché la seguivano i suoi attendenti, i suoi induna più importanti e altri personaggi. Dopo di loro, altri portatori recavano stuoie per dormire e kaross di pelliccia, boccali di birra e sacchi di pelle pieni di mais e altro carico. Gli passarono davanti e scomparvero, ma lui ancora non osò lasciare il suo nascondiglio. Ci fu un altro lungo silenzio dopodiché, preannunciata da un debole fruscio, passò al trotto la retroguardia, altri duecento guerrieri scelti. Dopo cinque minuti, finalmente, giudicò sicuro uscire sul sentiero e togliersi la polvere e le foglie umide attaccate alle ginocchia e ai gomiti. Dall'alto della cima scrutò nella direzione presa dalle schiere di Lobengula, chiedendosi dove fossero dirette e perché. Da Cathy aveva saputo che Rudd e la sua comitiva erano ancora a GuBulawayo e che Clinton Codrington e Robyn erano con loro per far ratificare la concessione che mister Rhodes tanto agognava. Perché Lobengula aveva abbandonato degli ospiti cosi importanti nel suo kraal ed era venuto tra quelle sacre e deserte colline? Non c'era risposta, doveva contentarsi del fatto di averla scampata e di sapere che ora nella zona c'erano quelle schiere di guerrieri. Proseguì con precauzioni ancora maggiori di prima, cosicche ci vollero tre notti di viaggio, al passo dei buoi, per arrivare a un altro valico tra dirupi di granito e per vedere aperte foreste di bellissimi e alti alberi che s'agitavano sotto di loro, argentei e neri alla luce della luna. All'alba Ralph s'arrampicò sul costone che portava alla cima dell'ultima delle colline di Matopos e all'orizzonte, a est - quasi esattamente dove aveva sperato di trovarlo - distinse i contorni azzurri di un kopje isolato che si levava sulla piana altrerata. Era distante ancora cinquanta chilometri, ma quella sua forma di leone accucciato era inconfondibile e rispondeva esattamente alla descrizione che ne aveva fatto Zouga Ballantyne nei suoi appunti: La collina che ho battezzato « Testa di leone » si leva alta sopra il terreno circostante e indica esattamente al viaggiatore
la direzione della grande Zimbabwe... Si sarebbe potuto camminare all'ombra delle massicce mura di pietra senza accorgersi che c'erano, tanto fitta era la vegetazione che le copriva. Era una giungla di liane e rampicanti fioriti, mentre dalle mura stesse sporgevano le radici contorte e serpeggianti dei fichi strangolatori, che avevano spaccato la muratura senza malta e ne avevano fatto cadere grossi blocchi. Al disopra del livello delle alte mura si stagliavano le teste di altri alberi, cresciuti in maniera smisurata da quando gli abitanti del posto erano fuggiti o erano morti in quel labirinto di passaggi e cortili. Quando, prima della nascita di Ralph, Zouga Ballantyne aveva scoperto quel massiccio maschio, ci aveva messo quasi due giorni per trovare sotto quel viluppo di vegetazione lo stretto ingresso, ma ora le sue indicazioni e descrizioni vi condussero immediatamente Ralph. Questi si fermò davanti agli antichi portali e guardò in alto alla modanatura dei blocchi di pietra che decoravano la cima del muro, a dieci metri sopra la sua testa, e fu preso da uno strano sgomento superstizioso. Sebbene potesse vedere i segni lasciati dall'ascia di suo padre e i vecchi intagli su ciascun lato dell'apertura, uno schermo di nuove piante era ricresciuto e nascondeva l'ingresso: prova che nessun essere umano era entrato in quel posto dopo la visita di Zouga, venticinque anni prima. I gradini che conducevano all'ingresso erano levigati per il passaggio continuo, nel corso dei secoli, degli antichi abitanti. Trasse un profondo respiro e dentro di sé si disse che dopotutto era un cristiano civilizzato; eppure, mentre saliva quei gradini, si chinava per passare sotto i rampicanti e superava l'ingresso, quel suo timore superstizioso perdurò. Si trovò in uno stretto budello a cielo aperto tra le alte mura. Seguì quel passaggio scavalcando i blocchi di pietra caduti e aprendosi la strada tra la vegetazione che lo stipava, finché all'improvviso sbucò in un ampio cortile dominato da un'immensa torre cilindrica di granito grigio coperta di licheni. Era esattamente come il padre l'aveva descritta, c'era persino l'apertura praticata da Zouga nel parapetto per scoprire se l'interno di quella struttura non contenesse una camera del tesoro segreta. Sapeva che suo padre aveva frugato tra quelle rovine in cerca di un tesoro, aveva persino zappato e setacciato il terreno del recinto del tempio in cerca di oro. Era riuscito a recuperarne circa mille once, piccole sfoglie del metallo prezioso, fili d'oro finemente intrecciati e piccoli lingotti della grandezza del dito di un bambino, e dunque sapeva che l'unico tesoro rimasto per lui erano gli idoli di steatite verde. In un momento di pessimismo pensò che qualcun altro lo avesse preceduto. Secondo Zouga, i falchi di pietra si sarebbero dovuti trovare in quel cortile e, dimentico dei propri timori, con la paura, invece, di essere stato privato del proprio bottino, si mosse. Si tuffò nella vegetazione alta fino alla vita, avanzò verso la
torre... E inciampò, e quasi cadde, nella prima delle statue. Si chinò e con le mani la liberò dal viluppo che la copriva, quindi guardò nei crudeli occhi vuoti sopra il curvo becco che ricordava così bene sin dall'infanzia. La statua era identica a quella che stava nel cottage di Kimberley, solo che quella lì era stata abbattuta ed era mezzo sepolta tra radici e cespugli. Passò la mano sulla liscia steatite verde, quindi, con un dito, rintracciò il disegno a forma di denti di squalo che ricordava così bene intorno alla base. « Sono venuto per te, alla fine », disse a voce alta. Poi si guardò immediatamente intorno. La sua voce echeggiò contro le pareti circostanti e lui tremò, nonostante il sole fosse ancora alto. Poi s'alzò e continuò la ricerca. C'erano sei statue, quante ne aveva contate Zouga. Una era a pezzi, come colpita a martellate, con la testa staccata lì accanto. Altre tre erano danneggiate in misura minore, ma le rimanenti due statue erano perfette. « Questo è un posto cattivo », disse, inaspettatamente, una voce sepolcrale, e lui sobbalzò e si girò di scatto. Isazi lo aveva seguito e stava dietro di lui, preferendo il terrore che ispiravano quegli stretti passaggi e quelle mura minacciose a quello più grande del restar solo ad aspettare all'ingresso della città. « Quando ce ne andiamo, Nkosi? » Isazi lanciava di continuo occhiate negli angoli tutt'intorno. « Non è un posto dove si può stare a lungo. » « In quanto tempo le possiamo caricare sui buoi? » Ralph si chinò e batté con la mano su una delle statue cadute. « Ce la facciamo prima di sera? » « Yebbo, Nkosi », promise subito Isazi. « Quando cadrà la sera saremo già lontani da qui. Hai la mia parola. » Ancora una volta il re aveva scelto Bazo per una missione speciale, e il cuore di Bazo era gonfio d'orgoglio mentre guidava l'avanguardia del suo impi lungo la strada segreta che li conduceva sempre più addentro al sognato territorio delle colline di Matopos. La strada era molto battuta, abbastanza larga per permettere a due guerrieri di correre affiancati con gli scudi che appena si toccavano, perché era stata usata sin dal tempo in cui Mzilikazi, il vecchio re, aveva per la prima volta condotto la propria nazione su dal sud. Mzilikazi in persona aveva tracciato il sentiero per la caverna segreta della Umlimo. In ogni momento di crisi nella storia della nazione, il vecchio re aveva imboccato quella strada; in tempi di siccità o pestilenza o altre sciagure, era venuto ad ascoltare la parola dell'eletta. Ogni stagione era venuto ancora per chiedere delle mandrie e del raccolto o per essere aiutato a decidere in quale direzione mandare i suoi impi nelle loro razzie. Lobengula, egli stesso un iniziato a misteri meno importanti,
era entrato per la prima volta nella caverna della Umlimo quando era ragazzo, condottovi dal vecchio mago pazzo che era stato il suo mentore e il suo tutore. Ed erano state le parole della Umlimo a mettere in mano a Lobengula la piccola lancia del re, quando Mzilikazi l'aveva lasciata cadere. Era stata la Umlimo a scegliere Lobengula a preferenza di Nkulumane o degli altri fratelli, di età maggiore e di più nobile nascita; ed era stata la Umlimo a fare di lui il favorito degli antichi spiriti ancestrali e a sostenerlo nelle ore buie del suo regno. Per questo Lobengula, perseguitato dalle importune richieste degli emissari di un uomo bianco che lui non aveva mai visto, confuso dai pezzi di carta che gli si chiedeva di firmare e che non sapeva leggere, turbato dai dubbi e tormentato dai timori, confuso dai consigli contrastanti dei suoi induna più anziani, stava alla fine ritornando alla caverna segreta. Stava disteso nella lettiga, su una morbida pelliccia gialla a chiazze nere, cullato dal movimento dei portatori, così che le pieghe e le sporgenze del suo corpo nudo tremavano e vibravano, e guardava davanti a sé, a quello che lo aspettava, con occhi scuri. Lodzi, questo era il nome sulle labbra di ogni uomo bianco. Ovunque andasse, sentiva il nome Lodzi. « Questo Lodzi è un re come me? » aveva chiesto all'uomo bianco con la faccia rossa; lo chiamava così perché lui era un matabele e non poteva pronunciare la « R » iniziale del nome. « Mister Rhodes non è un re, eppure è più grande di un re », aveva risposto Rudd. « Perché Lodzi non viene lui stesso da me? » « Mister Rhodes è andato dall'altra parte del mare, e ha mandato noi uomini meno importanti per sbrigare questo affare. » « Se potessi guardargli in faccia, a Lodzi, allora saprei se il suo cuore è grande. » Ma Rhodes non veniva e, giorno dopo giorno, Lobengula aveva ascoltato le insistenze dei tirapiedi di Lodzi; la sera, poi, i suoi induna lo interrogavano, gli consigliavano cautela e litigavano fra di loro. « Se agli uomini bianchi dai un dito, vogliono la mano », diceva Gandang, « e, avuta la mano, vogliono il braccio e poi il petto e poi il cuore e la testa. » « O re, Lodzi è un uomo di orgoglio e d'onore. La sua parola è come quella di Lobengula », diceva Nomusa, di cui lui si fidava come di pochi altri. « Dai un pò a ogni uomo bianco e dovrai dare la stessa cosa a ognuno di loro », sosteneva Kamuza, uno dei suoi più giovani ma più acuti induna, uno che aveva vissuto con i bianchi e li conosceva. « Così ogni bianco diventa nemico dell'altro. Metti un cane contro l'altro, per non aver contro l'intero branco. » « Scegli il più forte degli uomini bianchi e fallo tuo alleato », diceva Somabula. « Questo Lodzi è il maschio del bran-
co. Scegli lui. » E lui aveva prestato orecchio a ciascuno di loro, a turno, e s'era disperato di più e confuso di più a ogni contrastante opinione, sicché ora gli restava una sola strada aperta davanti, quella per le colline di Matopos. Dietro la lettiga venivano i portatori con i doni per l'oracolo, rotoli di filo di rame, sacche di pelle piene di sale grezzo, pentole colme di perline, sei grandi zanne di giallo avorio, pezze di stoffa colorata, coltelli fabbricati dal suo miglior fabbro con manico di corno di rinoceronte, un considerevole tesoro in cambio di parole che, sperava, gli avrebbero dato consolazione. Il sentiero s'inoltrava tortuoso come un serpente nella gola tra le colline, e il sole era perso e c'era solo una stretta striscia di cielo azzurro che s'intravedeva tra le cime dei costoni di granito. La vegetazione lussureggiante lungo il sentiero si congiungeva in alto sopra questo formando un tunnel, e il silenzio era una presenza pesante, oppressiva, perché nessun uccello cantava e nessun animale gridava o guizzava fra la vegetazione. Ma Bazo guidava i suoi uomini allo stesso passo sempre, dondolando la testa, attento a ogni pericolo o minaccia, e stringendo ben forte l'asta della lancia, coi muscoli tesi come le molle di una trappola, pronti a far scattare il suo corpo in avanti incontro a un nemico a ogni svolta del sentiero. A un certo punto questo fu tagliato da un corso lento di verde acqua, con le sponde scivolose per le alghe, e Bazo lo saltò agevolmente e quasi senza cambiar passo. Cinquanta metri più avanti la vegetazione si diradava e gli speroni di roccia s'accostavano a formare un passaggio naturale che conduceva a un improvviso precipizio. Li un uomo armato di lancia e deciso poteva bloccare mille altri uomini. Bazo valutò la situazione con occhio esperto di soldato, poi spostò lo sguardo verso una specie di piattaforma che sporgeva in alto e sulla quale era appollaiata una piccola capanna dal tetto di paglia. Poggiò a terra la punta inferiore del suo lungo scudo e, rivolto verso il costone, gridò: « io, Bazo, induna di mille, chiedo di passare ». La sua voce s'infranse in una miriade di echi contro le pareti di roccia. « Nel nome di chi vieni a turbare gli spiriti dell'aria e della terra? » rispose una querula voce di vecchio, e una figura esile, resa più piccola dall'altezza del costone, comparve sul bordo di questo. « Vengo nel nome del re, Lobengula, il Toro Nero di Matabele. » Bazo sdegnava aspettare per un permesso o un favore e, rimessosi lo scudo in spalla, avanzò d'un balzo attraverso il minaccioso portale di roccia. Il passaggio oltre questo era così stretto che i suoi guerrieri poterono procedere solo in fila indiana, e la sabbia che rico-
priva il terreno luccicava per le brillanti schegge di mica di cui era cosparsa e scricchiolava sotto i piedi nudi. Il passaggio compiva una curva e poi s'apriva all'improvviso su una valle nascosta. Questa era completamente chiusa da scoscesi dirupi e quello stretto passaggio era l'unica via d'ingresso. Il terreno era coperto di erba verde e da un costone accanto, all'ingresso sgorgava una fonte che si perdeva serpeggiando nel fondo della valle. Al centro di questa, a mille passi di distanza, c'era un piccolissimo villaggio, una ventina di capanne dal tetto di paglia disposte in un circolo perfetto. Bazo fece accovacciare i suoi guerrieri e, con un gesto dell'assegai, li fece disporre in doppia fila ai due lati del sentiero che conduceva alle capanne. Attesero immobili e in silenzio finché il canto lontano dei portatori della lettiga divenne più forte e, alla fine, la brigata del re emerse nella valle nascosta. Bazo e i suoi uomini levarono un coro di lodi e saluti. La brigata del re rimase accampata due giorni accanto al piccolo ruscello in attesa che la Umlimo si decidesse. Ogni giorno le aiutanti di questa venivano da Lobengula a ricevere i doni e i tributi per l'oracolo. Erano una strana e macabra compagnia di streghe e maghe di minore importanza; alcune, toccate dagli spiriti che esse servivano, erano folli e con lo sguardo allucinato, altre erano giovani ragazze nubili, con i corpi dipinti e gli occhi inespressivi e vuoti come quelli dei fumatori di hashish. C'erano bambini con loro, con occhi da vecchi, che non ridevano né giocavano come gli altri bambini, e vecchi con i corpi rinsecchiti e occhi inquieti che parlavano col re in tono basso e piagnucoloso e prendevano i doni e promettevano: « Domani, forse. Chi sa quando il potere della divinazione scenderà sulla Umlimo ». Poi, all'alba del terzo giorno, Lobengula mandò a chiamare Bazo e quando questi arrivò al fuoco del campo del re, Gandang suo padre era già pronto con Lobengula, vestito con tutte le piume e le pellicce e le nappe ai gomiti e alle ginocchia, e con lui c'erano altri sei induna anziani. « Bazo, mia Ascia dal filo tagliente, ho scelto te al mio seguito mentre incontro la Umlimo perché mi guardi le spalle contro i tradimenti », ordinò Lobengula, e Bazo sentì il petto gonfiarglisi di orgoglio a un tal segno di fiducia da parte del re. Borbottando e muovendo le labbra, una strega li condusse attraverso il villaggio e su per il lato opposto della valle. Rallentato dal proprio peso, Lobengula si fermava spesso durante la salita, ansimando, col fiato corto, e s'appoggiava al gomito di Gandang prima di procedere oltre. Alla fine giunsero ai piedi di un'alta e ripida scarpata. Lì c'era una caverna nella roccia. La sua entrata era ampia cento passi, ma il suo tetto era tanto basso che lo si poteva toccare allungando una mano. Tanto tempo prima l'ingresso era stato murato da blocchi squa-
drati di pietra, ma ora quel muro era crollato lasciando dei varchi scuri come i denti mancanti nella bocca di un vecchio. A un cenno della testa di suo padre, Bazo piazzò lo sgabello scolpito del re di fronte alla grotta e Lobengula vi calò sopra graziosamente le sue grandi natiche nere. Bazo rimase alle spalle del re, con l'assegai pronto in mano, puntato verso la buia entrata nella roccia. All'improvviso dalla bocca della caverna giunse il terribile, lacerante ringhio di un leopardo infuriato, così forte e vicino e reale che il gruppo di vecchi guerrieri incalliti sobbalzò e vacillò, e rimasero dov'erano solo per un evidente sforzo di volontà. La vecchia strega ridacchiò e la saliva le corse giù per il mento. Poi ci fu di nuovo silenzio, carico però di promesse e della minaccia, soprattutto, di una presenza invisibile che li teneva d'occhio dall'estremo buio dell'interno della caverna. Poi si levò una voce, la voce di un bambino, dolce e chiara. Non veniva dalla caverna ma dall'aria intorno alla testa del re, così che tutti alzarono gli occhi. Non c'era niente, tranne quella voce. « Le stelle brilleranno sopra le colline e il Toro Nero non le estinguerà. » Gli induna del piccolo gruppo si fecero più vicini gli uni agli altri, come per farsi coraggio a vicenda, e ci fu di nuovo silenzio. Bazo s'accorse di tremare, anche se scorrendogli tra le scapole il sudore lo solleticava come un insetto. Poi, udendo un'altra voce parlare, il giovane induna sollevò di scatto la testa. Questa volta la voce saliva da terra, ai piedi del re, e sembrava provenire dalle labbra di una bella e seducente donna. « Il sole splenderà a mezzanotte, e il Grande Elefante non lo affievolirà. » Di nuovo quello spaventoso silenzio prima che qualcosa gracchiasse in alto sulla roccia, sopra di loro, un suono inumano, come il verso di una cornacchia nera. « Bada più alla saggezza della volpe femmina che a quella del maschio, Lobengula, re di... » La voce s'interruppe di colpo e nella profonda oscurità della caverna ci fu il rumore di un tafferuglio. Subito la vecchiaccia che annuiva e sogghignava ai piedi di Lobengula s'alzò a fatica e gridò un ordine in una lingua sconosciuta. Ci fu ora del movimento dentro la caverna e questo causò costernazione in Lobengula e nei suoi induna, perché avevano visitato quella caverna più di cento volte e mai avevano veduto la Umlimo o intravisto la sua presenza lì dentro. Era dunque qualcosa che andava oltre il rito e l'abitudine; la vecchia balzò innanzi, gridando arrabbiata, e ora tutti poterono vedere ciò che stava succedendo nella penombra. A quel che pareva, due delle sinistre aiutanti della Umlimo stavano cercando di trattenere una figura più piccola e più agile. Non ci riuscirono, perché quella figura sfuggì alla loro stretta e cor-
se avanti sulla soglia della caverna, dove alla fine la luce del primo sole rivelò che si trattava della Umlimo in persona. Era così bella che tutti loro, persino il re, rimasero senza fiato e con gli occhi fissi. La sua pelle era unta d'olio e del colore dell'ambra scura. Le sue gambe e braccia erano lunghe e flessuose come il collo di un airone, i piedi e le mani di bella forma. Era nel pieno della maturità femminile, il corpo non sformato da gravidanze, e anche se il ventre era voluttuoso come un frutto maturo la sua vita era stretta come quella di un giovinetto. Non portava altro che una collana di perline color porpora intorno alla vita, legata all'altezza dell'incavato ombelico. I fianchi avevano una linea delicata e formavano un ampio bacino per contenere lo spicchio lanceolato del suo sesso. Era annidato lì come un animaletto peloso dotato di vita propria. La testa era perfettamente bilanciata sul lungo gambo del collo, e i capelli corti delineavano i meravigliosi contorni del cranio ed esponevano la forma precisa e piccola delle orecchie. I tratti erano orientali, i grandi occhi a mandorla, gli zigomi alti e il naso delicato e dritto, ma la bocca era contorta dall'angustia e gli occhi accecati dalle lacrime mentre guardava il giovane induna che era alle spalle del re. Lentamente sollevò una mano e l'allungò nella sua direzione; il palmo dritto e delicato era roseo e soffice, il gesto infinitamente triste. « Tanase! » bisbigliò Bazo, guardandola fisso, e le mani gli tremavano tanto che la lama dell'assegai batté contro il bordo dello scudo. Quella era la donna che lui aveva scelto e che gli era stata portata via con tanta crudeltà. Da quando era scomparsa, Bazo non aveva cercato nessun'altra moglie: nonostante il re lo prendesse in giro e gli altri sussurrassero che ciò non era naturale, aveva voluto conservare il ricordo di quella dolce fanciulla. Avrebbe voluto precipitarsi verso di lei, afferrarla, caricarsela sulle spalle e portarla via, ma rimase lì inchiodato, l'angustia di lei riflessa nei suoi occhi. Perché, sebbene fosse lì, davanti a lui, in realtà la giovane era lontana e remota come la luna piena. Era una figlia degli spiriti protetta dai loro orribili servi, fuori della portata delle mani di lui, innamorato, e del suo cuore. Le sue aiutanti vennero ora fuori dalla caverna dietro di lei per rimproverare e gemere. Lentamente, Tanase abbassò il braccio, anche se per un momento ancora tutto il suo corpo fu teso verso Bazo; poi la sua bella testa appassì come un fiore sul lungo, grazioso gambo del collo e lei si lasciò prendere per le braccia. « Tanase! » Bazo pronunciò quel nome per l'ultima volta e al suono della sua voce le spalle di lei ebbero un sussulto. Poi successe una cosa terribile. La schiena di Tanase fu corsa da un convulso fremito, dai globi perfetti delle sue dure e strette natiche alla base del collo, e ai due lati della sua spina
dorsale i nervi e i muscoli si torsero e contrassero. Poi la sua colonna vertebrale cominciò a piegarsi all'indietro come l'arco di un cacciatore. « Lo spirito è in lei », strillò la vecchia strega. « Che lo spirito la prenda! » Le lasciarono andare le braccia, scostandosi dal corpo di lei sussultante. Ogni muscolo di quel corpo era preda di una tale tensione che risaltava netto e chiaro sotto la lucida pelle, e la sua schiena era arcuata fino a un angolo impossibile, la base del cranio quasi toccava la carne morbida dietro le ginocchia. La sua faccia era contorta nell'insopportabile tormento della divinazione, gli occhi erano ruotati all'indietro così che solo il bianco se ne vedeva. Le labbra erano ritratte in modo da esporre i denti candidi e perfetti in una smorfia contratta, e dagli angoli della bocca spuntavano bolle di una densa spuma. Sebbene le sue labbra non si muovessero, una voce tuonò fuori della sua gola tormentata. Una voce da basso, una voce stentorea di guerriero, e non recava tracce del terribile martirio della giovane donna che la emetteva. « I falchi! Il falco bianco ha violato il nido di pietra. I falchi stanno volando. Salva i falchi! I falchi! » La voce divenne di colpo grido selvaggio e Tanase crollò, dimenandosi a terra come un insetto schiacciato. « Nessun nero, matabele o rowzi o karanga, nessuno di loro oserebbe dissacrare il nido dei falchi », disse Lobengula, e gli induna in cerchio intorno a lui annuirono. « Solo un bianco può avere la sfrontatezza di sfidare la parola del re e l'ira degli spiriti. » Fece una pausa e annusò un pò di polvere rossa, attardandosi nel rituale per rimandare il momento della decisione. « Se mando un impi a Zimbabwe e cogliamo un uomo bianco nell'atto di saccheggiare quel posto antico, potrò trapassargli il cuore con l'acciaio? » Lobengula si rivolse a Somabula, e il vecchio induna sollevò la testa grigia e volse uno sguardo triste al suo re. « Uccidine uno e gli altri arriveranno brulicando come formiche », disse poi. « Non organizzare un festino per gli uccelli quando può attirare invece un branco di leoni. » Lobengula sospirò e guardò Gandang: « Parla, figlio di mio padre ». « O re, Somabula è saggio e le sue parole hanno lo stesso peso di massi di nera pietra del ferro. E tuttavia le parole del re sono ancora più pesanti, le parole del re sono state espresse: i saccbeggiatori degli antichi luoghi devono morire. Queste sono le parole di Lobengula. » Il re annuì lentamente col capo. « Bazo! » disse a bassa voce, e il giovane induna s'inginocchiò davanti allo sgabello del re. « Prendi uno degli stregoni perché guidi il tuo impi fino al
nido dei falchi. Se gli uccelli di pietra sono scomparsi, seguili. Trova il saccheggiatore. Se è un uomo bianco, portalo dove nessun occhio può vederti, neppure quello del più fidato dei tuoi guerrieri. Uccidilo e seppelliscilo in un luogo segreto, e non parlarne a nessun altro che al tuo re. Hai sentito le parole di Lobengula? » « Ho sentito, o Grande Re, e sentire è obbedire. » Olandese, il bue con le corna meno sporgenti, fu l'unico che Isazi riuscì a spingere giù per lo stretto passaggio fin nel recinto del tempio in rovina. Nei portacarichi sulla sua robusta groppa screziata sistemarono una dopo l'altra le statue degli uccelli, anche quelle danneggiate, e le ricaricarono in groppa agli altri buoi che aspettavano fuori delle massicce mura. Grazie all'abilità di Isazi nel guidare i buoi e nel caricarli, il lavoro fu terminato entro la metà del pomeriggio, dopodiché legarono con una corda i buoi in fila indiana. Con evidente sollievo, Isazi li condusse poi via attraverso la foresta, verso sud. Il sollievo di Ralph fu altrettanto intenso. Era stato a disagio sin da quel fortuito incontro con l'impi matabele tra le colline. Ora lasciò che Isazi andasse avanti con i buoi mentre lui aggirava le tracce lasciate da loro nel giungere alla città in rovina, esaminando il terreno con l'occhio del cacciatore in cerca di qualche segno che mostrasse che erano stati seguiti o che c'erano altri esseri umani nella zona. Non era detto che dovessero essere dei guerrieri, anche una schiera di raccoglitori di miele o un cacciatore poteva portare la notizia nel kraal di Lobengula o mettere in guardia gli impi di frontiera. Sapeva cosa fare se avesse trovato un viandante o un cacciatore solitario, e slegò il fucile nel fodero di cuoio accanto al ginocchio. Quelle foreste erano molto popolate. Vide branchi di cudù striati dalle grosse orecchie, antilopi nere dai candidi ventri e dalle corna a scimitarra, grandi bufali neri e vasti branchi di zebre dalle puntute orecchie ritte, ma non c'era nessun segno di presenza umana. Era solo leggermente rassicurato quando tornò indietro e ritrovò le impronte della fila di buoi a una decina di chilometri, sull'altro lato delle rovine. Seguì le tracce ampie e profonde e i suoi timori ritornarono. Erano troppo facili da seguire. Raggiunse Isazi e la fila di buoi al crepuscolo e lo aiutò a sollevare i pesanti carichi dalle groppe delle bestie e a esaminarle in cerca di scorticature o piaghe da basto, dopodiché le lasciarono pascolare. Più di una volta nel corso della notte si svegliò di soprassalto e rimase con l'orecchio teso per sentire suoni di voci: udì invece solo il latrato dello sciacallo. Alle prime luci del giorno giunsero a un'ampia pianura erbosa; gli alberi all'altra estremità formavano una linea scura sull'orizzonte e c'erano enormi branchi di zebre che pascolavano all'aperto. Sollevarono le teste al passaggio di quella strana carovana ed espressero la loro curiosità e preoccupazione con i loro acuti, quasi canini latrati.
A metà della pianura Ralph fece girare la fila di buoi ad angolo retto rispetto alle loro tracce e fino a mezzogiorno marciarono dritto verso est, quindi rientrarono nella foresta. Erano diretti ancora verso est quando cadde il buio e si accamparono. Isazi brontolò lamentandosi della giornata sprecata e della deviazione di tanti chilometri dalla loro rotta diretta verso il fiume Limpopo e, più oltre, le sorgenti del Boscimano, dove Umfaan li aspettava con i carri. « Perché facciamo questo? » « Nel caso qualcuno ci segua. » « Seguiranno lo stesso le tracce che ci lasciamo dietro », protestò Isazi. « Cambierò anche questo, domani mattina », lo rassicurò Ralph, e all'alba lasciò che Isazi riprendesse la direzione per il sud. « Se non ti raggiungo, non aspettarmi. Continua ad andare finché non ritrovi i carri, oltre la frontiera matabele. Aspettami lì », ordinò, poi lasciò Isazi e cavalcò via, ripercorrendo le tracce che avevano lasciato il giorno prima. Raggiunse la pianura erbosa dove avevano cambiato direzione bruscamente la mattina prima e le zebre latrarono contro. Le loro strisce erano indistinguibili a quella distanza e i branchi erano masse grigio-argento che si muovevano sull'erba gialla. « Questo ti piacerà, vecchio Tom. » Batté sul collo del cavallo e trottarono via, inoltrandosi nella pianura verso il più vicino branco di zebre. Era formato da un centinaio di bestie che lasciarono avvicinare cavallo e cavaliere fino a poche centinaia di passi prima di girarsi di colpo e galoppare via. « Rincorrile, Tom! » gridò Ralph, e s'infilarono nella nube di polvere sollevata, guadagnando rapidamente terreno sui grassocci e sobbalzanti posteriori delle striate bestie. Gli tagliò la strada e le fece girare, e quelle si raccolsero in un altro branco e poi in un altro e in un altro ancora, finché ci furono due o tremila zebre che galoppavano davanti a loro. Ralph si spostò su un fianco dell'enorme branco e lo spinse sul terreno attraversato il giorno prima dalla sua fila di buoi. Migliaia di zoccoli smossero la terra sollevando piccole esplosioni di polvere. Quando raggiunsero l'altra estremità della pianura, lui costrinse Tom a mettersi davanti alle pririne zebre e tagliò loro la strada, gridando e agitando il cappello. La densa massa di animali girò come un vortice vivo e la polvere arrivò al cielo. Tornarono ancora al centro della pianura, con Tom che si divertiva in quella caccia, e spinsero le zebre verso nord finché i branchi raggiunsero la foresta e corsero paralleli agli alberi, sconvolgendo il terreno con i loro zoccoli per una striscia larga cinquecento metri. Su e giù li spinsero, come un cane con un gregge, sulle tracce dei buoi sino a quando, alla fine, Tom rallentò il passo e il sudore gli corse a rivoli lungo i fianchi e le spalle: sbuffava e soffiava come un vento meridionale sulla False Bay.
Ralph smontò all'ombra degli alberi mentre laggiù, sulla pianura, i branchi di zebre, rese nervose dall'inatteso sconvolgimento, ancora galoppavano senza meta, in cerchi, o soffiavano e battevano con gli zoccoli la terra sconvolta. « Nessuno, neppure un boscimano, riuscirà a individuare le tracce in tutto questo » disse Ralph a Tom, e si chinò per sollevargli, uno per volta, gli zoccoli. Col coltello, poi, staccò i ferri dagli zoccoli e li mise nella tasca della sella. Senza ferri, le tracce di Tom erano quasi identiche a quelle delle zebre. Forse, prima che raggiungessero i carri alle sorgenti del Boscimano, la bestia avrebbe zoppicato, ma sarebbero andati avanti lentamente, sicuri alla fine di non essere seguiti. Una volta raggiunti i carri, poi, c'erano una forgia e un'incudine per riferrarlo e Tom non avrebbe subito altri danni. Asciugò il cavallo con la coperta da sella e lo lasciò riposare per un'altra ora prima di risellarlo. Poi tornò tra i branchi sparpagliati delle zebre per mescolare le tracce di Tom con quelle delle zebre prima di puntare definitivamente verso ovest, la direzione opposta a quella presa dai buoi di Isazi. Si sistemò in sella e si accinse a lasciare una falsa traccia nella foresta prima di girare di nuovo verso sud per raggiungere Isazi. La mattina dopo dormì fino al sorgere del sole, sicuro finalmente, e la tentazione di bere un caffè fu troppo forte. Sarrischiò ad accendere un piccolo fuoco e si godette il caffè forte e bollente. Quando si mise in marcia, il sole era già alto sopra le cime della foresta. Per non danneggiargli gli zoccoli non ferrati, lasciò che Tom procedesse al proprio passo, poi si buttò il cappello all'indietro e prese a fischiettare, stonato, ripetutamente, le prime note di Yankee Doodle. La mattina era fresca. Era entusiasta del successo del proprio colpo e già pensava alla vendita delle statue. Avrebbe mandato delle lettere al British Museum o alla Smithsonian Institution di Washington. Poco discosto, sulla destra, un cucù dal petto rosso lanciò il suo richiamo. Tom rizzò le orecchie, ma Ralph continuò a fischiettare allegramente, abbandonato nella sella. Il vecchio J.B. Robinson, uno dei milionari di Kimberley che aveva messo insieme altri milioni ancora nei campi auriferi di Witwatersrand, avrebbe comprato almeno una delle statue per la semplice ragione che Rhodes ce l'aveva. Non poteva sopportare... Nella radura erbosa davanti a lui un francolino chiamò roco Kuali, kuali! solo due volte e suonò falso ai suoi orecchi. Quelle specie di pernici di solito chiamavano cinque o sei volte, non solo due. Tirò le redini e si sollevò sulle staffe. Studiò attentamente la stretta striscia di tifa elefantina alta quanto un uomo. Di colpo, una frotta di brune pernici sbucò fuori dall'erba e volò via su
ali rumorose. Lui sorrise, s'abbandonò di nuovo nella sella e Tom entrò al trotto nell'ondeggiante striscia di erba alta. Immediatamente, tutt'intorno si levarono scure figure con piume oscillanti e rossi scudi. Circondarono Tom e la luce del sole si rifletté sulle lunghe lame argentee. « Via, Tom! » sollecitò lui, e gli piantò i calcagni nei fianchi mentre strappava il fucile dal fodero tenendolo contro il fianco. Appena Tom balzò in avanti, uno dei guerrieri piumati si buttò ad afferrare le redini e Ralph fece fuoco. La pesante pallottola di piombo colpì il matabele alla mascella asportandogliene metà; per un attimo denti e osso bianco furono visibili nel viso sconvolto, poi furono sommersi in un'eruzione di sangue brillante. Tom puntò verso il varco lasciato dall'uomo nella linea di guerrieri ma, mentre lo superava, uno di loro scattò in avanti e colpì con tutta la forza. Con orrore Ralph vide la lunga lama d'acciaio penetrare tra le costole di Tom, a due centimetri dalla punta della sua scarpa. Menò un colpo col fucile scarico contro la testa del guerriero, ma l'uomo lo scansò e mentre lui, Ralph, si girava nella sella, un secondo matabele colpì e l'intero corpo di Tom fremé convulso tra le sue ginocchia mentre l'uomo spingeva sempre più a fondo l'acciaio nel collo di Tom. Poi superarono la linea dei matabele. L'assegai era stato strappato dalle mani del guerriero e la sua asta sporgeva ora dal collo di Tom a un angolo tale che si capiva quanto la punta dovesse essere affondata nei polmoni della bestia. Eppure il coraggioso e vecchio cavallo portava ancora il suo padrone attraverso la radura e quindi tra i primi alberi della foresta. Poi, di colpo, un doppio fiotto di sangue lucente e pieno di spuma sgorgò dalle froge di Tom e schizzò contro gli stivali di Ralph. Tom morì mentre correva. Andò giù, il muso colpì il terreno e la bestia compì una capriola che scagliò lontano Ralph. Questi cadde con tanta violenza che ebbe l'impressione che le costole gli si fossero incrinate, ma strisciò disperatamente fino al fucile che gli era caduto e ficcò di colpo una nuova cartuccia nell'otturatore. Quando alzò il capo erano quasi su di lui, una linea avanzante di rossi scudi e, sotto, di piedi nudi che battevano il terreno; i sonagli di guerra alle caviglie facevano frastuono e il coro guerresco era come il latrare profondo dei cani da caccia. Un alto indoda sollevò lo scudo per dar spazio al braccio armato di lancia di colpire e la lama scintillò mentre calava. Poi il movimento si bloccò. « Henshaw! » Il nome esplose dalla gola tesa del guerriero, dopodiché Bazo proseguì nel colpo pur se all'ultimo istante ruotò il polso e la pesante lama colpì di piatto sopra la tempia il cranio di Ralph, che cadde faccia a terra e giacque immobile come morto.
« Hai tolto i ferri dagli zoccoli del cavallo. » Bazo approvò col capo. « Un buon trucco. Se non avessi dormito troppo questa mattina, non ti avremmo mai potuto raggiungere. » « Tom è morto », disse Ralph. Era appoggiato contro il tronco di un mopani. Aveva la faccia graffiata nel punto in cui era caduto quando era stato sbalzato di sella. I capelli sopra la tempia erano incrostati di nero sangue coagulato laddove la lama di Bazo lo aveva colpito di piatto, facendogli perdere i sensi, e aveva i polsi e le caviglie legati con lacci di cuoio. Le mani erano già livide e gonfie per la stretta. « Sì! » Bazo scosse di nuovo il capo, con aria grave, e guardò la carcassa del cavallo a una cinquantina di passi di distanza. « Era un buon cavallo, e ora è morto. » Guardò di nuovo Ralph. « L'indoda che seppelliremo domani era un buon uomo, e anche lui ora è morto. » Tutt'intorno a loro erano allineati i guerrieri matabele, tutti gli uomini di Bazo, in un fitto circolo nero, seduti sugli scudi e con le orecchie tese ad ascoltare ogni parola. « I tuoi uomini mi sono venuti addosso senza preavviso, come se fossi un ladro o un assassino. Mi sono difeso come avrebbe fatto chiunque. » « E così non sei un ladro, Henshaw? » lo interruppe Bazo. « Che domanda è questa? » « Gli uccelli, Henshaw. Gli uccelli di pietra. » « Non so di cosa parli », replicò Ralph, arrabbiato, scostandosi dal tronco dell'albero e fissando Bazo con sguardo arrogante. « Lo sai, Henshaw. Sai degli uccelli, perché ne abbiamo parlato molte volte. Sai anche dell'avvertimento del re: spogliare i luoghi antichi significa morte per chiunque, perché io stesso te ne ho parlato. » Ralph continuò a guardarlo con arroganza. « Le tue tracce conducevano dritto al luogo di sepoltura dei re e poi via da lì. E gli uccelli sono spariti. Dove sono, Henshaw? » Ancora per un pò Ralph continuò la sua finzione, poi scrollò le spalle, sorrise e si riappoggiò al tronco. « Sono andati via, Bazo, volati lontano dove tu non puoi seguirli. Era la profezia della Umlimo, che nessun uomo mortale può ostacolare. » Alla menzione del nome della profetessa un'ombra di dolore passò sul viso di Bazo. « Sì, faceva parte della profezia », ammise. « E ora è giunto il momento di eseguire gli ordini del re. » Si alzò e si rivolse agli altri matabele: « Tutti voi avete sentito le parole del re. Ciò che va fatto va fatto in segreto e da me solo. Nessuno può esserne testimone o parlarne dopo, neppure un bisbiglio, pena una morte lenta e dolorosa. Avete sentito le parole del re ».
« Abbiamo sentito le parole del re », convennero tutti, in un sol coro. « Andate » ordinò Bazo. « Aspettatemi alla grande Zimbabwe e cancellate dai vostri occhi le cose che avete visto oggi. » I guerrieri saltarono su e lo salutarono. Si misero in spalla il corpo dell'uomo che Ralph aveva ucciso, usando gli scudi come portantina, e si allontanarono. La lunga colonna di guerrieri in corsa si snodò attraverso la radura e, poi, nella foresta. Bazo li seguì con gli occhi, appoggiato al suo scudo, e poi, controvoglia, si rivolse a Ralph: « Sono l'uomo del re », disse, a bassa voce. « Sono stato incaricato della tua morte. Ciò che devo fare oggi lascerà una profonda cicatrice nel mio cuore per tutta la vita, anche se diventerò vecchio coi capelli grigi. Il ricordo di questa cosa mi impedirà di dormire, e nello stomaco il cibo mi diventerà acido e pesante. » Lentamente si avvicinò a Ralph e si fermò, alto su di lui. « Non dimenticherò mai quello che sto per fare, Henshaw, anche se non riuscirò mai a parlarne, né a mio padre né alla mia moglie preferita. Devo rinchiuderlo nel buio della mia anima. » « Se devi farlo, fallo subito », lo sfidò Ralph, cercando di non mostrare paura, sforzandosi di tener fermo lo sguardo. « Sì », disse Bazo annuendo, e cambiò la presa sull'asta della lancia. « Intercedi per me presso il tuo Dio, Henshaw », disse. E colpì. Al dolore pungente e bruciante dell'acciaio affilato, Ralph lanciò un grido e il sangue gli sgorgò dalla ferita e schizzò sulla terra asciutta. Bazo cadde in ginocchio accanto a lui e raccolse il sangue con le mani a coppa. Se lo spalmò sulle braccia e sul petto. Lo spalmò sull'asta e la lama della lancia, finché l'acciaio non luccicò più. Poi balzò su e strappò una striscia di corteccia al mopani. Raccolse un mucchio di foglie verdi e ritornò da Ralph. Tenne insieme i labbri della profonda ferita nell'avambraccio di Ralph, poi vi piazzò il fascio di foglie e lo legò con la striscia di corteccia. L'emorragia rallentò e cessò, e lui tagliò i lacci di cuoio che legavano i polsi e le caviglie di Ralph e s'alzò. Indicò le proprie braccia e la propria arma bagnate di sangue. « Chi, vedendomi così, crederebbe che sono un traditore del mio re? » chiese a bassa voce. « E tuttavia l'amore per un fratello è più forte del dovere verso un re. » Ralph si tirò su in piedi contro il tronco di mopani, tenendo il braccio ferito contro il petto e guardando il giovane induna. « Va' in pace, Henshaw », disse Bazo in un bisbiglio. « Ma prega il tuo Dio per me, perché ho tradito il mio re e ho perso l'onore. » Dopodiché girò su se stesso e attraversò di corsa la radura d'erba gialla. Quando ebbe raggiunto gli alberi dall'altra parte,
non rallentò né si fermò a guardare indietro, ma si tuffò tra i tronchi con una specie di avventata disperazione. Dieci giorni dopo, con gli stivali consumati fino alla tomaia e le gambe delle brache a pezzi per le spine e la sagittaria, col braccio sinistro infiammato e infetto legato al collo con una striscia di corteccia, il viso scarno per la fame e il corpo ossuto e devastato, Ralph entrò barcollando nel circolo dei carri fermi vicino alle sorgenti del Boscimano, e Isazi chiamò gridando Umfaan e corse a reggere Ralph prima che crollasse a terra. « Isazi », disse Ralph con voce rotta, « gli uccelli, gli uccelli di pietra? » « Li ho messi al sicuro, Nkosi. » Ralph tentò un sorriso, e le labbra secche gli si screpolarono e gli occhi iniettati brillarono. « Per tua stessa ammissione, Isazi, sei un uomo saggio. Ora ti dico che sei anche bello da guardare, bello come un falco in volo », disse, e barcollò all'indietro così che per reggersi si appoggiò con un braccio alle piccole spalle dello zulu. Lobengula sedeva a gambe incrociate sulla sua stuoia, solo nella sua grande capanna. Davanti aveva una zucca piena di limpida acqua di fonte. Stava guardandola fisso. Molti anni prima, quando viveva nella caverna di Matopos con Saala, la ragazza bianca, il vecchio pazzo stregone gli aveva insegnato l'arte della zucca. A volte, molto di rado, dopo essere stato molte ore a fissare l'acqua limpida nella zucca, e dopo il massimo sforzo di concentrazione, era riuscito ad avere visioni del futuro, facce e avvenimenti; ma anche allora erano state confuse e poco chiare, e subito dopo aver lasciato Matopos quel piccolo dono era scomparso. A volte, per disperazione, tornava ancora alla zucca sebbene, come quella sera, niente succedesse, niente si muovesse sotto la superficie immobile di quell'acqua di fonte, e a lui risultasse impossibile concentrarsi. Quella sera, poi, continuava a ripetere le parole della Umlimo. L'oracolo parlava sempre in maniera oscura, i suoi consigli erano sempre nascosti dietro parole fantasiose ed enigmi. Spesso era ripetitiva e, almeno in cinque visite precedenti, la maga aveva parlato di « stelle che brillano sulle colline » e di « sole che splende a mezzanotte ». Per quanto lui, Lobengula, e i suoi induna si fossero sforzati di interpretare il significato di quelle parole, non avevano trovato nessuna risposta. Ora mise da parte l'inutile zucca e si distese sul suo kaross per meditare sulla terza profezia pronunciata dalla gracchiante voce di cornacchia dall'alto del dirupo sopra la caverna: « Bada più alla saggezza della volpe femmina che a quella del maschio ». Ripeté le parole e le soppesò una per una, quindi le considerò nell'insieme e le girò e rigirò da ogni parte. All'alba, dopo tutta una notte di riflessioni, restava una sola soluzione. Per una volta tanto, a quel che pareva, l'oracolo ave-
va dato un consiglio inequivocabile. Toccava a lui decidere chi era la « volpe femmina » di cui parlava l'oracolo. Considerò una per una le sue mogli più anziane: non ce n'era nessuna che avesse il minimo interesse in qualcosa che non fosse la nascita e l'allattamento dei figli o i nastri e nastrini che i mercanti portavano a GuBulawayo. Ningi, sua sorella, che ancora amava perché era l'unico legame con la madre che lui a stento ricordava, era grassa e grossa e lenta nel capire, sempre di cattivo umore e crudele, quando era sobria; quando poi era piena dello champagne e del cognac che le portavano i mercanti, sorrideva e diceva sciocchezze, ed era incontinente e torpida. Il giorno prima le aveva parlato per un'ora e più, e poco di quello che lei gli disse aveva senso ma, soprattutto, nulla aveva a che vedere con le terribili pressioni di Lodzi e dei suoi emissari. E così alla fine ritornò su quella che lui aveva sempre ritenuto la chiave dell'enigma della Umlimo. « Guardie! » gridò all'improvviso. Ci fu subito uno stropiccio di piedi e uno dei carnefici avvolto nel nero mantello entrò nella capanna e si prostrò sulla soglia. « Vai da Nomusa, la Figlia della Misericordia, e pregala di venire da me al più presto », disse il re. Considerato che sono stato molto molestato negli ultimi tempi da diverse persone che desideravano e cercavano di ottenere concessioni di terre e diritti minerari nei miei territori... Sono ora dunque portato alle seguenti considerazioni: Uno, pagamento da parte del concessionario al concessore di Cento sterline al mese in perpetuità. Due, fornitura da parte del concessionario al concessore di Mille fucili Martini-Henry insieme con Centomila cartucce di munizioni per gli stessi. Tre, fornitura da parte del concessionario al concessore di una barca a vapore armata per pattugliare i tratti navigabili del Fiume Zambesi. Ora, pertanto, lo, Lobengula, Re del Popolo Matabele, e Capo Supremo del Mashonaland, Monarca di tutti i territori a sud del Fiume Zambesi e a nord dei Fiumi Shashi e Limpopo, con la presente concedo: Completa ed esclusiva competenza su tutti i metalli e i minerali nel mio Regno, Principato e Dominii, insieme col pieno potere di fare tutto ciò che vien ritenuto necessario per ottenere e procurarsi gli stessi e per godere dei profitti e delle entrate, se ve ne saranno, derivanti dai detti metalli e minerali. Con la sua bella calligrafia, Jordan redasse il documento sotto la dettatura di mister Rudd. Robyn Codrington lesse il testo a Lobengula e glielo spiegò, quindi lo aiutò ad apporre il sigillo del Grande Elefante. Alla fine confermò come testimone l'autenticità del segno che Lobengula vi appose accanto. « Che mi dannino, Jordan, qui tra noi non c'è nessuno che cavalchi come te. » Rudd non fece nessuno sforzo per nascon-
dere la propria esultanza quando furono soli. « Ora è la velocità che conta. Se parti immediatamente puoi raggiungere la missione di Khami entro sera. Scegli tre dei migliori cavalli che abbiamo lasciato là e va' come il vento, ragazzo mio. Porta la concessione a mister Rhodes, e digli che ti seguirò subito. » Le gemelle si precipitarono giù per i gradini d'ingresso della missione di Khami e circondarono Jordan mentre scendeva di sella. In cima ai gradini, Cathy teneva alta una lanterna e accanto a lei Salina stava immobile con le mani giunte davanti a sé e gli occhi che le brillavano di gioia alla luce fioca. « Benvenuto, Jordan », esclamò. « Ci sei mancato tanto. » Jordan salì i gradini. « Posso fermarmi una notte soltanto », le disse. Un pò della gioia di lei svanì e, con essa, il sorriso. « Alla prima luce di domani vado a sud. » Era così bello, alto e dritto e biondo, e, pur avendo spalle larghe e braccia muscolose, era smilzo e leggero come un ballerino e la sua espressione, nel guardare Salina in viso, era dolce come quella di un poeta. « Una notte sola », mormorò lei. « Allora dobbiamo sfruttarla al massimo. » Cenarono, prosciutto affumicato e ignami dolci arrostiti; dopo sedettero sulla veranda e, mentre Salina cantava per loro, Jordan fumò un sigaro ascoltando con evidente piacere, battendo il tempo sul ginocchio e unendosi poi alle altre nel coro. Quando Salina smise di cantare, Vicky balzò in piedi. « Tocca a me », annunciò. « Lizzie e io abbiamo scritto un poema. » « Non questa sera », disse Cathy. « Perché? » esclamò Vicky. « Cathy », piagnucolarono le gemelle, insieme. « E' l'ultima sera che abbiamo Jordan. » « Proprio per questo. » Cathy s'alzò. « Avanti, tutt'e due. » E tuttavia le due gemelle ancora protestarono e persero tempo finché, di colpo, Cathy socchiuse gli occhi in maniera minacciosa e sibilò con tanta veemenza che le due balzarono in piedi, appiccicarono un bacetto sulla guancia a Jordan e s'affrettarono giù dalla veranda, seguite da vicino da Cathy. Jordan rise divertito e lanciò il sigaro oltre la ringhiera della veranda. « Cathy ha ragione », disse. « Domani sarò in sella per dodici ore... è bene che si vada tutti a letto. » Salina non rispose ma si spostò verso l'estremità della veranda, nel punto opposto alle camere da letto, e s'appoggiò alla ringhiera, guardando dritto davanti a sé alla valle illuminata dalle stelle. Dopo un pò Jordan la raggiunse e chiese, a bassa voce: « Ti ho offesa? » « No », rispose lei subito. « E' giusto che io sia un pò triste. Ci divertiamo tutte tanto quando sei qui. » Jordan non rispose e, dopo un pò, lei chiese:
« Cosa farai ora, Jordan? » « Non lo saprò finché non avrò raggiunto Kimberley. Se mister Rhodes è già a Groote Schuur, andrò là; ma se è ancora a Londra allora vorrà che lo raggiunga. » « Quanto ci si mette? » « Da Kimberley a Londra e ritorno? Quattro mesi, se le partenze delle navi coincidono. » « Parlami di Londra, Jordan. Ne ho sempre letto e l'ho sognata. » E lui ne parlò, calmo, obiettivo e senza interrompersi, mentre lei rideva prorompendo in esclamazioni alle sue descrizioni e ai suoi aneddoti, e i minuti divennero ore, finché, all'improvviso, Jordan s'interruppe. « Ma cosa credo? E' quasi mezzanotte. » Lei s'aggrappava a qualsiasi scusa pur di non farlo andare. « Mi avevi promesso di parlarmi della casa di mister Rhodes a Groote Schuur. » « Sarà per un'altra volta, Salina. » « Ci sarà un'altra volta? » chiese lei. « Oh, sono sicuro di sì », rispose lui, senza riflettere. « Vai in Inghilterra e a Città del Capo, potranno passare anni prima che ritorni a Khami. » « Ma gli anni non diminuiranno la nostra amicizia, Salina. » Lei lo guardò come se l'avesse colpita. « E così, dunque... Jordan... Siamo amici, solo amici? » Lui le prese entrambe le mani. « Gli amici più cari e più intimi », confermò. Era pallida come avorio alla fioca luce, Salina, e la sua stretta intorno alle mani di lui era come quella di una donna che sta affogando. Poi si accinse a parlare ma la voce, quando alla fine le venne fuori, era così tesa che non fu sicura che lui avesse capito. « Portami con te, Jordan. » « Salina, non sai quello che dici. » « Non posso perderti... Portami. Ti prego, portami. » « Ma... » lui era confuso e scosso, « ma cosa faresti? » « Qualunque cosa mi dici di fare. Sarò la tua schiava, la tua schiava innamorata, Jordan, per sempre. » Lui cercò di liberare le mani, ma lo fece con gentilezza. « Non puoi andartene e lasciarmi, Jordan. Quando sei arrivato a Khami è stato come se il sole sorgesse nella mia vita. E se ora vai via ti porti con te la luce. Io ti amo, Jordan. O dolce Gesù, perdonami, ma io ti amo più della vita stessa. » « Salina, smettila! Ti prego, smettila, subito. » Lui la implorava ma la ragazza s'era aggrappata alle sue mani. « Non posso lasciarti andare senza dirtelo... Ti amo, Jordan, ti amerò sempre. » « Salina. » La voce gli tremava. « Oh, Salina, il mio cuore è già preso. » « Non è vero », bisbigliò lei. « Oh, ti prego, di' che non è vero. » « Mi dispiace, Salina. Mi dispiace moltissimo. »
« Nessun'altra può amarti quanto me, nessuna sacrificherebbe ciò che io son pronta a sacrificare. » « Per piacere, Salina, smettila. Non voglio che ti umilii. » « Umiliarmi? Oh, Jordan, sarebbe un prezzo così piccolo... tu non capisci. » « Salina, ti prego. » « Lascia che te lo provi, Jordan, lascia che ti dimostri con quanta gioia farò qualsiasi sacrificio. » Lui cercò di parlare, ma Salina gli poggiò leggermente una mano sulla bocca. « Non dobbiamo neppure aspettare il matrimonio, mi darò a te questa sera stessa. » E, quando lui scosse il capo, gli premé la mano sulla bocca per soffocargli le parole di diniego. E dunque non crucciarti come una ragazza pigra, perché la vita è piena di minuti peccati. Recitò in un bisbiglio, con la voce che le tremava. « Dammi la possibilità, caro Jordan, ti prego, dammi la possibilità di dimostrarti che ti amo e ti ho caro più di qualsiasi altra donna al mondo. Vedrai come l'amore di quest'altra donna si riduce a niente di fronte alla fiamma del mio. » Lui le prese il polso e le allontanò la mano dalla propria bocca, poi chinò il capo su quello di lei, terribilmente rammaricato. « Salina », disse, « non si tratta di un'altra donna. » Lei lo guardò e ambedue rimasero immobili e tesi, mentre l'enormità delle parole di lui lentamente le avvolgeva l'animo come gelida brina. « Non si tratta di un'altra donna? » chiese alla fine e, quando lui scosse il capo, aggiunse: « Allora non posso mai neppure sperare... mai? » Lui non rispose. Alla fine Salina si scosse come chi si svegli da un sogno all'agghiacciante realtà. « Vuoi darmi il bacio dell'addio, Jordan, per l'ultima volta? » « Non è detto che sia l'ultima... » Ma lei s'alzò in punta di piedi e gli soffocò le parole sulle labbra con tanta decisione che i suoi denti lasciarono un sapore di sangue sulla lingua di lui. « Addio, Jordan », disse e, voltategli le spalle, s'allontanò sulla veranda con l'incertezza di un invalido appena reduce da una lunga malattia. Sulla porta della sua camera da letto vacillò e allungò una mano per reggersi, poi si girò a guardarlo. Le sue labbra si mossero, ma non ne venne fuori alcun suono. « Addio, Jordan. Addio, amore mio. » Ralph Ballantyne trasportò i fucili, mille, nuovi e ancora nel loro grasso giallo, cinque per cassa e venti casse per carro. C'erano poi ancora dieci carri carichi di munizioni - tutti per conto della De Beers Diamond Mines -, altri tre carri carichi di liquori - questi per proprio conto - e un solo carro di mobilio e oggetti casalinghi per il bungalow che Zouga si stava costruen-
do a GuBulawayo. Attraversò il fiume Shashi con mille sterline di profitto già depositate al sicuro nella Standard Bank a Kimberley, ma con dentro di sé una strana e fastidiosa sensazione. Non aveva modo di sapere se Bazo lo aveva denunciato al re come ladro dei falchi di pietra o se uno dei guerrieri di Bazo lo aveva riconosciuto e, nonostante l'avvertimento del re, ne aveva parlato alla moglie che lo aveva riferito alla propria madre che lo aveva detto al marito. « Niente si muove nel Matabeleland che l'intera nazione non lo sappia », gli aveva detto Clinton Codrington una volta. In ogni modo, i profitti su quel viaggio e la prospettiva di una nuova visita alla missione di Khami valevano il rischio. Il primo giorno di marcia oltre il fiume Shashi quel rischio fu confermato, perché fu proprio Bazo in persona, alla testa dei suoi scudi rossi, a intercettare il convoglio e a salutare Ralph in maniera imperscrutabile. « Chi osa prendere la strada? Chi sfida la rabbia di Lobengula? » Dopo che ebbe ispezionato il carico dei carri, mentre lui e Ralph sedevano soli davanti al fuoco del campo, Ralph gli chiese, calmo: « Ho sentito dire che un uomo bianco è morto nella boscaglia tra la grande Zimbabwe e il Limpopo. Come si chiamava quell'uomo? » « Nessuno ne sa niente, tranne Lobengula e uno dei suoi induna », rispose Bazo, senza staccare lo sguardo dalla fiamma. « E neanche il re sa chi era quello straniero o da dove veniva, né sa qual è il luogo dove è sepolto quello straniero senza nome. » Annusò un pò di polvere rossa e proseguì: « Né noi parleremo mai più di questa faccenda, tu e io ». Dopodiché sollevò lo sguardo, finalmente, e c'era qualcosa nella profondità dei suoi occhi scuri che prima non c'era mai stato. A Ralph parve lo sguardo di un uomo distrutto, un uomo che non si sarebbe fidato mai più di un fratello. La mattina Bazo andò via e Ralph si diresse verso nord, con i suoi dubbi ormai dispersi e il cuore gonfio come i nembi argentei e color malva che s'addensavano all'orizzonte davanti a lui. Zouga stava aspettandolo al guado del fiume Khami. « Un buon tempo di marcia, ragazzo mio. » « Nessuno ha mai fatto meglio », ammise Ralph, arricciandosi i folti baffi scuri, « e nessuno farà di meglio, finché mister Rhodes non avrà costruito la sua ferrovia. » « Mister Rhodes ha mandato i soldi? » « In belle sovrane d'oro. Le ho nella tasca della mia sella. » « Allora non ci resta che farle accettare a Lobengula. » « Questo, papà, è compito tuo. Sei tu l'agente di mister Rhodes. » E tuttavia, tre settimane dopo i carri stavano ancora fuori del kraal di Lobengula, il carico legato sotto i teli, mentre Zouga aspettava ogni giorno, dal primo mattino al crepuscolo, davanti alla grande capanna del re.
« Il re è malato », dicevano. « Il re sta con le mogli. » « Forse il re verrà domani. » « Chissà quando si stancherà delle mogli, il re », dicevano, e alla fine persino Zouga, che conosceva e capiva le abitudini dell'Africa, s'arrabbiò. « Di' al re che Bakela, il Pugno, va ora da Lodzi a dirgli che il re respinge i suoi doni », ordinò a Gandang, che era andato a riferirgli la scusa di quel giorno, dopodiché chiamò Jan Cheroot e gli disse di sellate i cavalli. « Il re non ti ha dato il permesso della strada. » Gandang era sorpreso e turbato. « Allora di' al re che i suoi impi possono uccidere l'emissario di Lodzi sulla strada, ma che non ci vorrà molto perché la notizia giunga a Lodzi. Lodzi sta ora nel grande kraal della regina dall'altra parte dell'acqua, e ha i favori di lei. » I messaggeri del re raggiunsero Zouga prima che arrivasse alla missione di Khami, perché aveva proceduto a un passo volutamente lento. « Il re ordina che Bakela ritorni immediatamente, gli parlerà al momento del suo arrivo. » « Di' a Lobengula che Bakela stanotte dorme alla missione di Khami e forse anche domani notte, perché chissà quando giudicherà opportuno parlare col re. » Qualcuno a Khami doveva aver puntato il cannocchiale sulla polvere levata dai cavalli di Zouga perché quando erano ancora a un paio di chilometri dalle colline un cavaliere gli andò incontro a tutto galoppo, una figura esile con lunghe trecce nere che le cascavano dalla bella testa. Quando s'incontrarono, Zouga saltò giù dalla sella e sollevò la donna dalla sua. « Louise », sussurrò nella bocca sorridente di lei. « Non sai come passano lenti i giorni quando sono lontano da te. » « E' una croce che fai portare a tutt'e due », rispose lei. « Io mi sono rimessa completamente, grazie a Robyn, e tu ancora mi tieni a Khami a non far altro che struggermi. Oh, Zouga, perché non lasci che ti raggiunga a GuBulawayo? » « Mi raggiungerai, mia cara, appena ci sarà un tetto sul cottage e un anello al tuo dito. » « Sei sempre così corretto. » Gli fece una smorfia. « Chi lo avrebbe mai detto? » « Io », disse lui, e la baciò di nuovo prima di sollevarla e rimetterla in sella al baio arabo che le aveva regalato. Cavalcarono con le ginocchia che si toccavano e le dita allacciate, mentre Jan Cheroot li seguiva a discreta distanza, fuori portata d'udito. « Dobbiamo aspettare ancora solo pochi giorni », la rassicurò Zouga. « Ho forzato la mano a Lobengula. Questa faccenda dei fucili sarà sistemata presto, dopodiché potrai decidere dove rendermi l'uomo più felice del mondo. Nella cattedrale di Città del Capo, forse? »
« Caro Zouga, la tua famiglia a Khami è stata tanto gentile con me. Le ragazze sono diventate delle sorelle per me, e Robyn mi ha prodigato cure e attenzioni quando ero malata, bruciata e disidratata dal sole. » « Perché no? » convenne lui. « Sono sicuro che Clinton accetterà di celebrare la cerimonia. » « Ha già accettato, ma c'è dell'altro. Il matrimonio è già programmato, ma sarà un doppio matrimonio. » « Un doppio matrimonio? Chi sono gli altri? » « Non indovineresti mai e poi mai. » Sembravano più fratelli che padre e figlio, fermi davanti all'altare scolpito della chiesa di Khami imbiancata a calce. Zouga portava la sua alta uniforme, e la giacca scarlatta, tagliata vent'anni prima, gli stava a pennello. I galloni d'oro erano stati cambiati per impressionare Lobengula e i suoi induna, e ora brillavano, lucidi e immacolati, anche nella penombra fresca della chiesa. Ralph indossava un completo costoso con colletto alto e cravatta larga di seta grigia che in quel caldo giorno di giugno gli imperlavano la fronte di sudore. I folti capelli scuri erano impomatati e lucidi, e i suoi magnifici baffi, ritorti con la cera, sporgevano come due punte affilate. Ambedue erano irrigiditi nell'attesa e fissavano, sull'altare, le candele che Clinton aveva tirato fuori per l'occasione e acceso pochi minuti prima. Dietro di loro una delle gemelle si dimenava per l'eccitazione, e Salina pompò aria nel piccolo organo e si lanciò nell'Ecco arriva la sposa, mentre Ralph sorrideva spavaldo e, parlando con un angolo della bocca, diceva al padre: « Bene, ci siamo, papà. Inasta la baionetta e preparati a ricevere la cavalleria ». Si girarono con militaresca precisione verso la porta della chiesa proprio mentre le due spose la varcavano. Cathy indossava il vestito ordinato per posta che Ralph le aveva portato da Kimberley, mentre Robyn aveva tolto dal baule rivestito di pelle, dove era rimasto tanto tempo, il proprio abito da sposa che era stato stretto in vita e allungato perché andasse a Louise. Il delicato pizzo era diventato color dell'avorio vecchio, e Louise portava un fascio delle rose gialle di Clinton. Dopo, sfilarono tutti nel cortile. Le spose trotterellavano sui loro tacchi alti inciampando nelle code degli abiti e aggrappandosi al braccio dei nuovi mariti, e le gemelle lanciarono manciate di riso prima di correre avanti sulla veranda, dove la tavola nuziale era apparecchiata con montagne di cibo e reggimenti di bottiglie del miglior champagne fornito dai carri di Ralph. A un capo della tavola Ralph s'allentò il colletto e, circondando la spalla di Cathy con un braccio e stringendo un bicchiere nell'altra mano, tenne il suo discorso: « Mia moglie... » esordì, rivolgendosi a lei, e la compagnia
applaudì e rise deliziata, mentre Cathy s'aggrappava a lui e lo guardava con evidente adorazione. Poi, terminati i discorsi, Clinton guardò dall'altra parte del tavolo alla figlia maggiore. La testa calva gli brillava per il caldo, l'eccitazione e lo champagne buono. « Non canti per noi, mia cara Salina? » chiese. « Qualcosa di allegro e gioioso. » Salina annuì e sorrise, poi sollevò il capo per cantare con la sua dolce voce: Per quanto lontano tu vada, amore mio, ti seguirò. In cima alla più alta montagna, amore mio, attraverso l'oceano più profondo. Louise si giro verso Zouga e quando gli sorrise gli angoli degli occhi azzurro-scuro s'allungarono all'insù e le labbra si socchiusero e brillarono. Sotto il tavolo, Clinton allungò una mano per prendere quella di Robyn, ma i suoi occhi erano fissi sul viso della figlia. Persino Ralph tornò serio e ascoltò attentamente, mentre Cathy gli poggiava una guancia sulla spalla. Nessuna notte artica sarà troppo fredda, amore mio, nessun giorno tropicale sarà troppo rovente, perché io ti sarò attaccata, amore mio, finché la morte il cuore mi trapasserà. Salina sedeva dritta sulla panca di legno con le mani in grembo. Sorrideva cantando, un dolce sorriso sereno, ma una lacrima isolata le spuntò sulla palpebra inferiore e le scese, con tortuosa lentezza, lungo la curva vellutata della guancia, fino a giungere all'angolo della bocca. La canzone terminò e tutti rimasero zitti a lungo, poi Ralph picchiò col palmo della mano sul tavolo. « Oh, brava, Salina. E' stato magnifico. » Quindi tutti applaudirono; Salina sorrise e quella singola lacrima le cadde sul petto, dove lasciò una stella scura sul raso del corpetto. « Scusatemi », disse. « Vi prego di scusarmi. » S'alzò e, sempre sorridendo, scivolò in fondo alla veranda. Cathy scattò in piedi, col volto preoccupato, ma Robyn la trattenne per il polso impedendole di seguirla. « Lasciala stare », disse in un bisbiglio. « La bambina ha bisogno di star sola per un pò. Tu la turberesti di più. » E Cathy tornò a sedere accanto a Ralph. « Vergognati, Louise », esclamò con allegria forzata Clinton dall'altra parte del tavolo. « Il bicchiere di tuo marito è vuoto, lo trascuri di già? » Un'ora dopo Salina non era ancora ritornata e Ralph parlava a voce più alta, più sicuro di sé. « Ora che mister Rhodes ha
ricevuto la sua concessione, possiamo cominciare a radunare la colonna. Cathy e io partiamo domani con i carri vuoti. Sa il cielo se non abbiamo bisogno di ogni paio di ruote di cui disponiamo... E io che credevo che re Ben non mi avrebbe mai liberato di quei fucili. » Ma, per una volta tanto, Cathy non pendeva dalle sue labbra; continuava a guardare in fondo alla veranda e di nuovo bisbigliò qualcosa a Robyn, che aggrottò la fronte e scosse il capo. « Tu parli come se tutto l'affare fosse stato studiato per il tuo profitto personale, Ralph », disse Robyn, distogliendosi da Cathy e rivolgendosi al genero. « Non sia mai detto, zia. » Ralph scoppiò a ridere e ammiccò al padre, in fondo alla tavola. « E' tutto per il bene dell'Impero e per la gloria di Dio. » Cathy attese che fossero più coinvolti nella loro discussione, quindi sgusciò via con tanta discrezione che Robyn non se ne accorse finché lei non fu in fondo alla veranda. Per un attimo parve che stesse per chiamarla indietro, invece fece un gesto seccato e si rivolse a Zouga: « Quanto tempo rimarrete a GuBulawayo tu e Louise? » « Fino a quando la colonna non raggiunge Monte Hampden. Mister Rhodes vuole che non ci siano malintesi tra i volontari e i giovani guerrieri di Lobengula. » « Ti manderò verdura fresca e anche qualche fiore fino a quando sarai nel kraal del re, Louise », disse Clinton. « Siete stati già tanto gentili », rispose Louise, e s'interruppe con un'espressione di profonda preoccupazione. Tutti si voltarono immediatamente nella direzione in cui stava guardando lei. Cathy era tornata e stava salendo i gradini della veranda. Poi si appoggiò a una delle colonne imbiancate a calce. Aveva in faccia il colorito smorto d'una malata di malaria e la fronte e il mento imperlati di sudore. Negli occhi aveva un'espressione di angoscia e sulle labbra una smorfia di orrore. « Nella chiesa », disse. « Sta nella chiesa. » Quindi si piegò su se stessa e vomitò con un terribile impulso, dalla bocca le esplose un solido fiotto giallo che sporcò la candida gonna del suo abito da sposa. Robyn fu la prima a raggiungere la porta della chiesa. Fissò con occhi spalancati soltanto per un attimo, poi si girò e nascose il viso contro il petto di Clinton. « Portala via », ordinò Zouga a Clinton, brusco, e quindi a Ralph: « Aiutami! » La ghirlanda di rose era caduta dal capo di Salina e giaceva sotto di lei a terra, sul pavimento della navata. Aveva lanciato una corda al di sopra di una delle travi del tetto e doveva essere salita sul tavolo che Robyn usava per i suoi interventi chirurgici. Le mani le pendevano lungo i fianchi. Le punte delle scarpe erano rivolte all'indentro, l'una verso l'altra, in una posizione
teneramente toccante, come quella di una bambina che s'alzi sulla punta dei piedi; invece erano sospese all'altezza della vita d'un uomo al disopra del pavimento lastricato. Zouga guardò in alto, al viso. La corda la stringeva sotto un orecchio e la testa era piegata di lato, a un angolo impossibile. La faccia gli parve gonfia il doppio del normale, ed era piena di chiazze scure. In quel momento una lieve brezza pietosa entrò dalla porta e la fece girare lentamente sulla corda fino a che fu di faccia all'altare, e ora Zouga poté vedere solo i capelli d'oro, che s'erano sciolti e le arrivavano alla vita: uno spettacolo sempre bello. Cathy Ballantyne non aveva mai conosciuto tanta felicità come nei mesi passati nel campo della British South Africa Company sul fiume Macloutsi. Era l'unica donna in mezzo a quasi settecento uomini, e la favorita di tutti. La chiamavano « missus » e la sua presenza era avidamente richiesta a ogni avvenimento mondano col quale ufficiali e uomini cercavano di distrarsi durante la lunga attesa. Le dure condizioni della vita del campo avrebbero scoraggiato qualsiasi ragazza della sua età appena sposata, ma Cathy non aveva conosciuto altra vita e aveva trasformato la capanna di vario materiale e paglia che Ralph aveva costruito per lei in un accogliente rifugio, con tende di calicò alle finestre senza vetri e stuoie d'erba intrecciata sul pavimento di terra battuta. Aveva piantato petunie ai lati dell'ingresso e gli uomini della colonna facevano a gara per avere l'onore di annaffiarle. Cucinava all'aperto, sotto una tettoia accanto alla capanna, e i suoi inviti a pranzo erano molto ambiti da uomini che si nutrivano di carne in scatola e focacce di mais. Lei era raggiante per tutta quell'attenzione e quell'eccitamento al punto che da semplicemente graziosa sembrava divenuta bella, e ciò attirava ancor più l'affetto e la simpatia degli uomini. E poi, naturalmente, aveva Ralph. A volte la notte, quando giaceva sveglia e ascoltava il suo respiro, si chiedeva come avesse mai potuto vivere senza di lui. Ralph aveva il grado di maggiore adesso e le diceva, ammiccando e con tono irriverente: « Siamo tutti colonnelli e maggiori, ragazza mia. Penso persino di nominare capitano il vecchio Isazi ». Ma era così bello nella sua uniforme, con la giacca guarnita di alamari, il cappello floscio e il cinturone, che lei avrebbe preferito che l'indossasse più spesso. Ogni giorno, poi, Ralph le sembrava più alto, con un fisico più possente, un'energia più inesauribile. Anche quando era via a sollecitare il convoglio di carri, a impiantare le stazioni dell'eliografo o a incontrarsi con gli altri direttori della British South Africa Company a Kimberley, lei non si sentiva mai sola. In un modo o nell'altro, lui sembrava sempre lì, presente, e la sua assenza trasformava l'attesa del suo ritorno in una specie di gioia segreta.
Poi, all'improvviso, tornava. Entrava al galoppo nel campo e la afferrava e lanciava in aria come fosse un bambino, prima di baciarla sulla bocca. « Non in pubblico », ansimava lei, arrossendo. « La gente ci guarda, Ralph. » « E diventa verde d'invidia », replicava lui, e la trascinava nella capanna. Quando c'era lui, tutto vorticava senza lasciar respiro. Era dappertutto, con quei suoi passi lunghi e sicuri e quella sua allegra risata comunicativa, tirandosi gli uomini dietro con una parola d'incoraggiamento o qualche punzecchiatura o, a volte, abbandonandosi a improvvise e terribili sfuriate. Le sue sfuriate la atterrivano, anche se non erano mai contro di lei; l'atterrivano e al tempo stesso, stranamente, la eccitavano. Lo guardava impaurita e affascinata, guardava quel suo viso, che l'emozione gonfiava e oscurava, e sentiva la sua voce levarsi in un ruggito, come di un leone ferito. Poi vedeva volare pugni o sferrare calci e qualcuno rotolava nella polvere. Dopo si sentiva debole e tremante e correva trafelata nella capanna, tirava le tende e aspettava. Quando lui arrivava aveva quell'aspetto fiero e selvaggio che le dava i fremiti, e le occorreva uno sforzo di volontà per non corrergli incontro ma aspettare invece che fosse lui ad andare da lei. « Perdio, Cathy, ragazza mia », le disse una volta che, poggiato su un gomito, era chino su di lei, col sudore che gli brillava sul petto nudo e il fiato grosso, come se avesse corso, « puoi sembrare un angelo, ma potresti insegnare qualche paio di trucchi al diavolo in persona. » Sebbene lei a volte pregasse per avere la forza di controllare la sensualità sfrenata e i desideri del proprio corpo, le preghiere erano semplicemente formali e mancavano di vera convinzione, e quella bella sensazione di soddisfazione non la lasciava. Con Ralph l'eccitamento non finiva mai, quando erano soli e quando erano in compagnia. Le piaceva osservare la deferenza con cui gli altri lo trattavano, uomini ricchi e famosi e più anziani di lui, come il colonnello Pennefather e il dottor Leander Starr Jameson, che erano i capi della colonna. Ma del resto, si diceva, non potevano fare a meno di lui. Ralph era già un direttore della società commerciale, la British South Africa Company di mister Rhodes, e quando partecipava alle sedute consiliari nell'edificio De Beers sedeva in compagnia di lord e generali e dello stesso mister Rhodes, anche se poi Ralph le diceva, ridendo con malizia: « Grandi uomini, Cathy, ma non uno a cui col caldo i piedi non puzzino come a me ». « Sei terribile, Ralph Ballantyne », lo rimproverava lei, ma poi si sentiva piena di orgoglio, come quando udì due degli uomini che parlavano tra di loro: « Ralph Ballantyne, quello sì che è un uomo ». La notte, poi, dopo aver fatto sfrenatamente l'amore, parlavano al buio, a volte per quasi tutta la notte, e i sogni e i programmi di lui la affascinavano, perché sapeva che li avrebbe rea-
lizzati. La sua beatitudine era accresciuta dallo stato d'animo dei settecento uomini che la circondavano, e la frustrazione dell'attesa quotidiana dell'ordine di muoversi accresceva la tensione di loro tutti. I buoi di Ralph portarono i cannoni, due pezzi che sparavano proiettili da sette libbre, e l'artigliefia faceva fuoco sul veld deserto oltre il campo; gli spettatori esultavano quando le nuvolette fioccose di fumo mortale s'aprivano all'improvviso nella limpida aria secca. Le quattro mitragliatrici Maxim vennero tolte dalle loro casse e sgrassate, poi, in un memorabile giorno, la mostruosa macchina a vapore arrivò nell'accampamento ansimando e trascinandosi dietro il generatore elettrico e il riflettore da marina, una precauzione, questa, contro un eventuale attacco notturno da parte delle orde dei matabele. Quella notte, mentre giaceva tra le sue braccia, Cathy fece a Ralph la domanda che si ponevano tutti: « Che farà Lobengula? » « Cosa può fare? » Ralph le accarezzò i capelli, come si può accarezzare un cucciolo. « Ha ratificato la concessione, s'è preso i soldi e i fucili e ha dato a papà il permesso per andare sino al Mashonaland. » « Dicono che ha diciottomila uomini che aspettano al di là del fiume Shashi. » « Che vengano pure, Cathy, ragazza mia. Non sono pochi quelli tra noi che accoglierebbero volentieri l'occasione di dare ai giovanotti di re Ben una bella lezione. » « Dici una cosa terribile », osservò lei, senza convinzione. « Ma è la verità, perdio. » Cathy non lo rimproverava più quando bestemmiava con tanta leggerezza, perché i giorni e le abitudini della missione di Khami sembravano appartenere ormai a un lontano passato. Poi un giorno, agli inizi di luglio del 1890, lo specchio di un eliografo ammiccò attraverso le polverose distanze bagnate di sole. Era la parola che avevano aspettato per tutti quei mesi. Il ministro degli Esteri inglese aveva alla fine approvato l'occupazione del Mashonaland da parte dei rappresentanti della British South Africa Company. La lunga e nutrita colonna si svolse come un serpente. Alla sua testa cavalcava il colonnello Pennefather, nell'uniforme della Company, e alla sua destra cavalcava la guida Frederick Selous, il cui compito era quello di tenere la colonna alla larga da qualsiasi insediamento matabele, di attraversare le bassure malariche prima delle piogge e di guidarla su per la scarpata verso l'aria dolce e salutare dell'altopiano. L'Union Jack si spiegò sulle loro teste e una tromba annunciò l'avanzata. « Eroi tutti, uno per uno », disse Ralph a Cathy, sorridendo. « Ma tocca a quelli come me portarli alla meta. » Aveva le maniche della camicia arrotolate sulle braccia mu-
scolose e un cappello, purtroppo macchiato, abbassato su un occhio. « Quando tornerò, sarò più ricco di ottantamila sterline », disse alla moglie, e la sollevò da terra col suo abbraccio. « Oh Ralph, come vorrei venire con te. » « Sai che mister Rhodes ha proibito a qualsiasi donna di attraversare la frontiera, e inoltre starai maledettamente più sicura e comoda al Lily's Hotel di Kimberley, con Jordan che ti tiene d'occhio. » « E allora fai attenzione, mio caro », raccomandò lei, senza fiato per l'abbraccio. « Non ce ne sarà bisogno, Cathy, mia dolce. Il diavolo protegge la sua gente. » « Questi non sono uomini venuti per scavare buche. » Gandang uscì dal circolo degli induna. « Sono vestiti come soldati e portano cannoni che possono abbattere le colline di granito col loro fumo. » « Cosa ha promesso il re a Lodzi? » chiese Babiaan. « Che può venire in pace a cercare l'oro. Perché marcia contro di noi come un esercito? » Bazo parlò a nome dei giovani. « O grande re, le lance sono lucenti e i nostri occhi rossi. Siamo quindicimila, possono i nemici del re resisterci? » Lobengula guardò il suo bel viso giovane e impaziente. « A volte il nemico più pericoloso è un cuore precipitoso », disse a bassa voce. « E altre volte, Elefante di Kumalo, può essere un braccio lento a scagliare la lancia. » Un'ombra di irritazione per quell'insistenza giovanile passò sul viso del re, che sospirò. « Chi sa », dichiarò. « Chi sa dov'è veramente il nemico. » « Il nemico è davanti a te, grande re. Ha attraversato il fiume Shashi ed è venuto a toglierti la tua terra », disse Somabula. Poi Gandang si alzò di nuovo: « Lascia scagliare le lance, Lobengula, Figlio di Mzilikazi, scatena i tuoi uomini giovani o, sicuro come il sole sorgerà domani, te ne pentirai finché vivrai ». « Non posso farlo », disse Lobengula a bassa voce. « Non ancora. Non posso usare l'assegai quando ancora bastano le parole. » Si alzò e ordinò con voce ferma: « Va', Gandang, fratello mio, e portati dietro il tuo figlio dal cuore caldo. Va' dal capo di questi soldati, chiedigli perché viene nelle mie terre in ordine di battaglia e portami qui la sua risposta ». Frederick Selous cavalcava avanti, seguito da un uomo con un'ascia, e indicava gli alberi da tagliare. L'uomo li segnava con un colpo di scure e riprendeva a seguire Selous. I diboscatori venivano dietro di loro, in cinquanta. Cavalcavano a coppie; uno di loro smontava, porgeva le redini
al compagno e, sputatosi sulle mani callose, sollevava l'ascia e attaccava il tronco dell'albero condannato. Mentre la sua ascia colpiva e le schegge di legno volavano bianche come osso nel sole, il secondo uomo se ne stava in sella col fucile pronto in mano e scrutava la foresta intorno, qualora apparissero una testa piumata e un lungo scudo munito di nappe. Quando poi l'albero scricchiolava e cadeva, il primo uomo rimontava a cavallo e proseguivano fino all'albero successivo, dove questa volta lui rimaneva di guardia e il suo compagno maneggiava l'ascia. Dietro di loro arrivavano, lenti, i tiri dei buoi che incatenavano i tronchi caduti e li sgombravano dalla strada, dopodiché l'intera, possente carovana avanzava rumorosa. Un lavoro lento, dunque, e il terzo giorno Ralph raggiunse la testa della colonna per discutere con Selous la possibilità di usare la macchina a vapore per strappare dalla terra sabbiosa gli alberi più piccoli, con le radici e tutto. Avevano lasciato i loro cavalli a uno degli uomini e proseguirono a piedi per meglio scrutare la strada davanti a loro quando Ralph disse: « Non si muova, mister Selous. Non tiri fuori la pistola e, in nome di Dio, non mostri nessuna agitazione ». Ombre nere si muovevano nella foresta tutt'intorno a loro; poi, all'improvviso, apparvero i temuti scudi lunghi che formarono un muro davanti a loro. « Ha il re ucciso qualche uomo bianco? » esclamò una voce profonda. « Se non ha ucciso, perché questo impi di guerrieri ha attraversato il confine? » « Lobengula non ha ucciso nessuno », rispose Ralph. « Allora gli uomini bianchi hanno perso qualcosa di valore e vengono a cercarla qui? » Calmo, Ralph si rivolse a Selous: « Conosco quest'uomo. E' uno degli induna anziani del re. Quello con lo scudo rosso dietro di lui è suo figlio; insieme, dispongono di ottomila uomini. Sarà bene procedere con circospezione, mister Selous. Siamo circondati da un esercito ». Quindi si rivolse ai guerrieri che osservavano e attendevano: « Il re ci ha dato il permesso della strada ». « Il re nega di aver chiamato un esercito nel suo dominio. » « Non siamo un esercito », ribatté Ralph, e Gandang buttò il capo all'indietro e rise, una risata breve e amara. Quindi parlò di nuovo: « Ascoltami, Henshaw, nessun uomo bianco oltrepassa questo posto senza il permesso di Lobengula. Dillo ai tuoi padroni ». Ralph confabulò brevemente con Selous, quindi si rivolse di nuovo a Gandang: « Aspetteremo il permesso del re ». « E noi vi guarderemo mentre aspettate », promise Gandang, minaccioso. A un suo gesto, i guerrieri scomparvero di nuovo nella foresta e sembrò che non ci fossero mai stati. « Stabilite i picchetti », ordinò il colonnello Pennefather.
« Disponete i carri in cerchio. Ballantyne, può fare arrivare un messaggio a Tuli per l'eliografo e far mandare poi qualcuno di corsa a GuBulawayo per scoprire quali sono le vere intenzioni di Lobengula? » E mentre Ralph gli voltava le spalle per correr via, aggiunse: « Oh, un'altra cosa, Ballantyne. Può mettere in moto il generatore e far sì che il riflettore sia pronto a spazzare tutta la zona intorno al campo stanotte. Non vogliamo che quei tipi ci piombino addosso strisciando nel buio ». Gandang e suo figlio stavano insieme sulla cresta di uno dei piccoli kopje rocciosi sparsi nell'ampia pianura tra i fiumi, Erano soli anche se, girando il capo e guardando giù per il ripido pendio della collina, Bazo riusciva a vedere il bivacco dei loro impi riuniti insieme. Non avevano acceso fuochi per non rivelare la loro presenza ai bianchi, quella notte avrebbero mangiato razioni fredde e dormito al buio. Le lunghe file nere stavano acquattate con rassegnata pazienza, fitte come sciami d'ape sotto i rami dei mopani. Bazo sapeva che bastava che sollevasse il braccio destro al disopra dello scudo per farli saltare in piedi e precipitare all'attacco, silenziosi e feroci come leopardi, e questo pensiero gli procurava una gioia selvaggia. Riluttante, si voltò e rimase lì in silenzio, con lo scudo che sfiorava appena quello del padre. La lieve brezza del pomeriggio veniva su dal fiume e agitava le loro piume di guerra mentre guardavano giù verso il cerchio di carri dei bianchi. I buoi erano stati rinchiusi nel cerchio e, da quella distanza, erano visibili i cannoni da campo e le mitragliatrici Maxim sistemati in certi punti della barricata, le loro postazioni fortificate con scatole di biscotti e casse di munizioni tolte dai carri. I cannonieri stavano distesi accanto ai pezzi e tuttavia la scena appariva tranquilla e pacifica. « Nell'ombra buia che precede l'alba potremmo prenderli prima che mettano mano alle armi », mormorò Bazo. « Sarebbe così facile. » « Aspetteremo la parola del re », rispose suo padre, quindi sobbalzò e lanciò un'esclamazione. « Cosa c'è, padre? » Gandang sollevò l'assegai e lo puntò verso sud, verso il pallido orizzonte azzurro, molto oltre il fiume Shashi, alla vaga linea di colline che si stagliavano come le torri di un castello di fate. Su quelle lontane e pallide colline qualcosa brillava e ammiccava, un puntolino di vividissima luce bianca, come una lucciola nella notte o lo scintillio della stella del mattino. « Le stelle », bisbigliò Gandang con superstizioso timore, « le stelle brillano sulle colline. » Il piccolo gruppo di ufficiali stava dietro il treppiede dello strumento e metteva a fuoco i cannocchiali sulla lontana luce ammiccante.
L'eliografista traduceva il messaggio ad alta voce e al tempo stesso lo scriveva sul suo quaderno. « Giove consiglia di mantenere la vostra posizione fino a che saranno chiarite le intenzioni di Lobengula. » Giove era il nome in codice di mister Rhodes. « Benissimo. » Pennefather chiuse con uno scatto il suo cannocchiale. « Rispondi che il messaggio è stato ricevuto e capito. » L'eliografista si chinò sul prisma dello strumento e ne regolò il fuoco, dopodiché girò il primo specchio perché prendesse la luce del sole e il secondo perché la riflettesse direttamente verso la linea lontana delle colline. Prese poi il manico e l'otturatore scattò, spezzando il raggio di sole e inviando i punti e le linee dell'alfabeto Morse istantaneamente attraverso ottanta chilometri di landa desolata. Pennefather s'allontanò e s'avvicinò alla grossa macchina a vapore sulle sue alte ruote d'acciaio. Alzò il capo e guardò Ralph sulla piattaforma. « E' pronto ad accendere, Ballantyne? » Ralph si tolse dalla bocca il lungo sigaro nero ed eseguì la parodia di un saluto militare. « Abbiamo sessanta libbre di pressione in caldaia. Un'altra mezz'ora e fischierà dalla valvola. » « Benissimo. » Pennefather nascose la propria perplessità. Lui non capiva né amava quegli aggeggi diabolici. « Purché abbiamo luce al cadere della notte. » Gandang sedeva sul suo scudo con il kaross di pelle di scimmia sopra le spalle. Le sere invernali erano fredde anche lì nel bassopiano. Non c'erano fuochi nel bivacco e a malapena riusciva a distinguere la faccia dei suoi comandanti, seduti di fronte a lui, perché l'ultima luce del tramonto andava affievolendosi nel cielo a occidente. « Quel qualcosa l'abbiamo visto tutti, ed era un qualcosa che non avevamo mai visto prima. » Ci fu un mormorio d'approvazione. « Era una stella, caduta dal cielo, ed era sopra le colline. L'abbiamo vista tutti. » « Domani mattina manderò due delle mie più veloci staffette dal re. Deve sapere di questa terribile stregoneria. » S'alzò e lasciò cadere il kaross. « Ora vado... » Non finì la frase. S'accoccolò invece in una posizione difensiva, coprendosi la testa con lo scudo, e intorno a lui i guerrieri gemettero come bambini spaventati, spalancando gli occhi, che brillarono al gran fascio di luce che piovve su di loro dal cielo. Le stelle della sera furono spente dalla brillantezza di quel gran fascio di luce bianca, che andava dalla terra al cielo e faceva stagliare come nere sagome le colline. « Il sole è ritornato », esclamò Gandang, preso da religioso terrore. « E' la profezia. La profezia per intero. I falchi di pietra sono volati via, le stelle brillano sulle colline e ora il sole
splende a mezzanotte. » Fort Salisbury 20 settembre 1890. Mia cara Cathy, sono passati più di due mesi dall'ultima volta che ti ho baciata... E, tra le altre cose, mi manca anche la tua cucina. Dall'indirizzo capirai che abbiamo raggiunto la nostra destinazione; anche se abbiamo perso alcuni uomini, uno affogato, un altro per il bere, un terzo morso da un mamba e un quarto divorato da un leone, i matabele non hanno sfiorato nessuno di noi. Così Lobengula ha mantenuto la sua parola, tra la sorpresa di tutti e la delusione di non pochi. Dopo uno scambio di insulti con Gandang, alla testa dei suoi ottomila bravacci, ci hanno fatto passare. Il resto non è stato altro che tedio, sudore e piaghe. Il grande Selous una volta quasi ci faceva smarrire, poi gli ho mostrato il passo tra le colline che Isazi e io trovammo quando facemmo la nostra piccola incursione alla Grande Zimbabwe. Selous l'ha chiamato Passo Provvidenziale (provvidenziale che io fossi con lui) e s'è preso lui la gloria (che buon pro gli faccia). Probabilmente scriverà un altro libro sulla sua impresa. Abbiamo raggiunto Monte Hampderi il 6 del corrente mese e mi ha spaventato l'idea che papà sia stato il primo uomo a metter piede qui tanti anni fa. In ogni modo, nella sua grande saggezza, Pennefather ha deciso che lì c'era poca acqua e ci ha spostati di venti chilometri fin qui. Naturalmente l'amico è un novellino, appena sbarcato da queste parti, e non sa che con le prime piogge questo posto diventerà una palude. (Per allora, però, io intendo essere ben lontano!) Ne ho visti di luoghi desolati nei miei viaggi, ma questo li batte tutti. E' infestato da leoni, e ho già perso quindici bestie grazie a loro. Il pascolo è magro e le bestie rimaste perdono peso. Oh, come mi mancano i bei pascoli del Matabeleland. Certamente i matabele hanno scelto il paese migliore per il bestiame, quindi non mi meraviglio quando qualcuno comincia a mettere gli occhi sulle mandrie e i pascoli di Lobengula. Se solo quella vecchia volpe si fosse decisa a scagliare la sua lancia, ci avrebbe offerto la scusa, e a quest'ora staremmo già innalzando la bandiera su GuBulawayo invece di trovarci in questo brutto buco. Bene! Almeno io qui sono il solo che abbia del whisky, due carri pieni. E faccio affari a dieci sterline la bottiglia. Avrai il cappellino più grazioso di Kimberley quando ritorno, Cathy, mia cara. Il giorno in cui Pennefather ha issato la bandiera i ragazzi sono stati. Liberi di andare, e il fuggi fuggi che c'è stato? Tutti intenti a picchettarsi con paletti il proprio pezzo del terreno
aurifero di cui abbiamo tanto sentito parlare. Alcuni di loro già stanno tornando con la coda tra le gambe, Questo non è l'Eldorado, se c'è oro devi sgobbare per prenderlo, e poi, naturalmente, mister Rhodes e la British South Africa Company se ne leccheranno la metà. Ovviamente, quando hanno firmato il contratto erano tutti contenti di questa quota della Company, ora invece cominciano ad avere mal di pancia al riguardo. Questa mattina, per « elio », abbiamo ricevuto la notizia che le azioni della British South Africa Company si vendono a Londra a tre sterline e quindici scellini l'una e che nella prima settimana c'è stato un aumento di cinquemila nuovi azionisti. Bene, quello che posso dire è che chiunque paghi quel prezzo non ha mai visto Fort Salisbury! « Giovane Ballantyne », mi dice Leander Starr Jameson, « lei è stato dannatamente fortunato a prendersi metà dei suoi compensi in azioni BSA valutate a una sterlina l'una. » « Jameson », dico io, « è strano come più lavoro e penso, più fortunato divenga. » Così ho quarantamila azioni BSA, Cathy, amore mio, e unita a questa mia troverai una lettera indirizzata ad Aaron Fagan, il mio legale a Kimberley, in cui gli do istruzioni di venderle tutte fino all'ultima. Portagliela immediatamente, mia brava ragazza. Ce ne libereremo con un profitto di due sterline e quindici scellini l'una, e su questo non ci piove! Magari ti compro due cappellini quando ritorno! Se solo avessimo il Matabeleland! Nessuna meraviglia che Lobengula abbia lasciato il Mashonaland ai mashona! Anche se non lo chiamano più così. Il nuovo nome di moda è Rhodesia, né più e né meno! Un nome buffo, ma certamente mister Rhodes ne sarà lusingato e mio fratello Jordan ne sarà felice. Per quanto mi riguarda, la mia parte di Rhodesia possono anche tenersela. Perciò non dimenticarti di portare la lettera a Fagan, ricorda! Tuttavia c'è ancora modo di fare qualche penny da queste parti. Ho un socio, e stiamo costruendo un Emporio e un Bar. Si occuperà lui di entrambi come della rimessa di Salisbury per miei carri. Sembra un ragazzo onesto, il nostro Tom Meikle, e lavoratore, così gli ho assegnato una paga di cinque sterline il mese e il dieci per cento dei profitti... Non era il caso di viziarlo! Appena la costruzione è pronta e la merce è sugli scaffali, gli affido tutto e torno da te. Mister Rhodes vuole che prenda in appalto la costruzione della linea telegrafica da Kimberley a Salisbury al prezzo di veriticinquemila sterline. Calcolo che ci sarà un guadagno di diecimila sterline. Avrai tre cappellini, Katie, te lo giuro! Devo partire da qui il 10 del prossimo mese se voglio evitare le piogge. Quando cominceranno, le zanzare prenderanno d'assalto Salisbury e tutti i fiumi da qui allo Shashi saranno in piena: un'alluvione che scoraggerebbe persino Noè. Così conto di raggiungere Kimberley per la fine di ottobre, quindi guardati ben bene il pavimento, Katie, mia dolce, perché
quando arriverò non vedrai altro che il soffitto per una settimana. Hai la mia parola! Il tuo marito innamorato RALPH BALLANTYNE (ex maggiore della polizia della BSA a riposo!). « Dobbiamo prendere il Matabeleland. Non c'è altro da fare », disse Zouga Ballantyne, e Jordan alzò di scatto il capo dal blocco per stenografia. Suo padre sedeva in una delle profonde poltrone di pelle di fronte alla scrivania di mister Rhodes. Alle sue spalle le tende di velluto verde erano aperte e trattenute da cordoni di seta gialla con nappe. La vista dall'ultimo piano dell'edificio della De Beers Company abbracciava tutta l'asciutta pianura del Griqualand con i suoi cratego sparsi qua e là e, più vicino, le discariche dove la terra blu della miniera di Kimberley era lasciata a deteriorarsi al sole prima di ricavarne i preziosi diamanti. Ma Jordan non pensava alla vista in quel momento, le parole del padre lo avevano molto colpito. Mister Rhodes, invece, socchiuse gli occhi, s'appoggiò pesantemente alla scrivania e fece segno a Zouga di continuare. « A Londra le azioni della società sono arrivate a sei scellini, contro le tre sterline e quindici scellini del giorno in cui issammo la bandiera a Salisbury, tre anni fa... » « Lo so, lo so », disse Rhodes, scuotendo il capo. « Ho parlato con gli uomini che restano, ho passato gli ultimi tre mesi viaggiando tra Fort Victoria e Salisbury, come lei mi aveva detto di fare. Non rimangono, mister Rhodes, non vogliono rimanere a meno che lei non gli faccia finire il lavoro. » « Matabeleland. » Rhodes alzò il gran capo irsuto e Jordan pensò che era terribilmente invecchiato in quegli ultimi tre anni. « Matabeleland », ripeté a bassa voce. « Sono stanchi della costante minaccia delle orde di Lobengula ai loro confini. Si sono convinti che l'oro che non hanno trovato nel Mashonaland si trova sotto la terra di Lobengula. Hanno visto le grasse mandrie di bestiame di prima qualità di Lobengula e le hanno paragonate alle loro scarne bestie, che fanno la fame sui magri pascoli nei quali sono costretti... » « Vada avanti. » Rhodes scosse di nuovo il capo. « Sanno che, per raggiungerli, telegrafo e ferrovia devono passsare attraverso il Matabeleland. Sono stufi a morte della malaria e del costante timore dei matabele. Se lei vuol tenere la Rhodesia, deve dar loro il Matabeleland. » « Ho sempre saputo tutto questo. Penso che tutti l'abbiano sempre saputo. E tuttavia dobbiamo muoverci con cautela. Dobbiamo andar cauti col delegato imperiale, con Gladstone e con Whitehall. » Rhodes s'alzò e prese a passeggiare su e giù davanti agli scaffali carichi di libri rilegati in pelle e con i titoli in oro.
« Dobbiamo prepararci. Deve ricordare, Ballantyne, che praticamente abbiamo solo il diritto di scavare per cercare l'oro. Finché Lobengula non ci molesta, non possiamo dichiarargli guerra. » « Ma se Lobengula dovesse intralciare in qualche modo la nostra gente e i suoi diritti? » « Allora sarebbe un'altra cosa. » Rhodes si fermò davanti alla poltrona di Zouga. « Allora certamente metterei fine a questa partita con lui. » « Intanto le azioni della società sono a sei scellini l'una », gli ricordò Zouga. « Ci occorre un incidente », disse Rhodes. « Nel frattempo però dobbiamo prepararci, ma non lo direi per telegrafo. Voglio che lei parta immediatamente per Fort Victoria per parlare con Jameson. » Girò la gran testa verso Jordan. « Non prendere nota di questo, Jordan », ordinò, e il giovane doverosamente sollevò la matita dal blocco. « Dia istruzioni a Jameson di mandarmi una serie di telegrammi per mezzo del nuovo impianto. Telegrammi in cui mi sconsiglia la guerra, telegrammi che, quando tutto sarà finito, potrò mostrare al governo inglese e agli altri... Ma nel frattempo gli dica di prepararsi alla guerra. » Poi si rivolse di nuovo a Jordan: « Prendi nota, Jordan. Vendi cinquantamila azioni della BSA Company al prezzo che riusciranno a fare. Jameson deve avere quello che gli occorre per darsi da fare. Gli dica, Ballantyne, che io lo appoggerò fino in fondo. Ma ci occorre un incidente ». Ralph Ballantyne fermò il cavallo in cima alla scarpata che scendeva in forte pendio davanti a lui, in un precipite splendare di colline rocciose e foreste. Il fogliame primaverile trasformava i boschetti di msasa in nuvole rosa e scarlatte, e l'aria era così limpida che riusciva a distinguere la linea telegrafica fin laggiù all'orizzonte. I fili del telegrafo erano fili di ragnatela che brillavano come oro rosso alla luce del sole, così fragili, così inconsistenti, che sembrava impossibile che corressero, dritti come frecce, per mille chilometri e più fino alla stazione ferroviaria di Kimberley. Gli uomini di Ralph avevano costruito quella linea. Gli ispettori andavano avanti segnando il tracciato, gli uomini armati di ascia seguivano per sgomberare la linea e infine arrivavano i buoi con i pali e gli enormi rotoli di luccicante filo di rame che si svolgevano all'infinito. Ralph aveva ingaggiato uomini in gamba, li pagava bene e andava a trovarli almeno una volta al mese. Eppure in quel momento, vedendo i fili luccicare, pensò con orgoglio all'importanza e al significato di quell'impresa. All'improvviso il caposquadra che era accanto a lui imprecò. « Ecco lì! Quei bastardi ladri! » E indicò il punto in cui la fila di pali del telegrafo s'arrampicava su per il pendio boscoso di una collina. Ralph aveva creduto che l'ombra di una nuvola avesse affievolito il luccichio del filo di rame su per il pendio,
ma ora mise a fuoco il binocolo e vide che i pali erano stati spogliati. « Andiamo », disse, seccato, e s'avviò avanti. Quando giunsero ai piedi del pendio, scoprirono che uno dei pali era stato tagliato alla base e abbattuto come un albero. I fili erano stati strappati e i segni a terra dove erano stati successivamente arrotolati ancora non erano stati cancellati dal vento. S'inerpicarono lentamente su per il pendio e Ralph non dovette smontare da cavallo per distinguere le tracce di piedi nudi. « Erano almeno una ventina », disse. « C'erano anche donne e bambini. Una gita di famiglia, maledizione a loro. » « Sono le donne che li spingono a farlo », disse il caposquadra. « Col filo fanno dei braccialetti da polso e da caviglia. Le ragazze nere li adorano. » In cima al pendio un altro palo era stato abbattuto e il filo strappato. « Si sono portati via cinquecento metri di filo », brontolò Ralph. « Ma la prossima volta saranno cinquemila. Sai chi sono? » Il caposquadra scrollò le spalle. « Il capo mashona locale è Matanka. Il suo villaggio è dall'altra parte della valle. Si vede il fumo da qui. » Ralph estrasse il fucile dal fodero accanto al ginocchio. Era un magnifico Winchester Repeater modello 1890 nuovo, col suo nome cesellato in oro sul blocco. Mise un colpo in canna. « Andiamo a trovare fratello Matanka. » Era un vecchio con gambe da cicogna e un caschetto di lanosi capelli bianchi che gli copriva la testa. Tremava per la paura e cadde in ginocchio davanti al furioso e giovane uomo bianco con un fucile in mano. « Cinquanta capi », gli disse Ralph. « E la prossima volta che la tua gente tocca i fili saranno cento. » Ralph e il caposquadra scelsero le bestie più grasse dalla mandria di Matanka e le guidarono su per la scarpata fin nel piccolo insediamento di Fort Victoria, che era sorto a metà strada tra il fiume Shashi e Fort Salisbury. « Bene », disse Ralph al caposquadra. « Portali via da qui. Li consegni al banditore, dovremmo cavarne dieci sterline a capo. » « Coprirà cinquanta volte il costo di rimpiazzo dei fili », disse il caposquadra con un sorriso. « Non è mia abitudine perdere quando non è necessario », rispose Ralph, ridendo. « Vai ora. Io devo andare a sistemare la cosa col buon dottore. » L'ufficio del dottor Jameson, come direttore delle Concessioni della British South Africa Company, era una costruzione di legno e lamiera con un tetto di paglia proprio di fronte all'unica taverna di Fort Victoria. « Ah, giovane Ballantyne », esclamò Jameson salutando Ralph, e dentro di sé si compiacque per la faccia seccata di
lui. Non condivideva la buona opinione che tutti avevano su quel giovanotto. Era troppo presuntuoso e aveva troppo successo, mentre fisicamente era tutto quello che lui, Jameson, non era: alto e con le spalle larghe e di bella presenza. Gli spiritosi dicevano che un giorno Ralph Ballantyne avrebbe posseduto metà della Concessione sulla quale Rhodes ancora non aveva apposto il suo marchio. In ogni modo, anche Jameson doveva ammettere che se volevi che qualcosa, per difficile che fosse, venisse fatta e venisse fatta presto e bene, ed eri pronto a pagare, Ralph Ballantyne era il tuo uomo. « Ah, Jameson », ribatté Ralph, omettendo nel suo saluto il titolo del piccolo e grigio dottore e rivolgendosi subito dopo all'altro uomo presente nella stanza. « Generale St John. » Sfoggiò quel suo affascinante sorriso. « Che piacere vederla, signore! Quando è arrivato a Fort Victoria? » Mungo St John attraversò zoppicando la stanza e andò a stringergli la mano. Il suo unico occhio brillava. « Sono arrivato proprio questa mattina. » « Congratulazioni per la sua nomina, signore. Abbiamo bisogno di un buon soldato da queste parti per come stanno andando le cose. » Quel complimento di Ralph era una frecciata alle aspirazioni militari del dottor Jameson. Rhodes aveva nominato di recente Mungo St John capo di stato maggiore della BSA Company. Sarebbe stato alle dipendenze di Jameson, naturalmente, ma sarebbe stato anche il diretto responsabile degli affari militari e di polizia delle Concessioni della Rhodesia. « I suoi uomini hanno trovato i fili tagliati? » li interruppe Jameson. « Braccialetti per polsi e caviglie », rispose Ralph. « E' la fine di quei fili. Ho dato al capo locale una lezione che spero gli insegni a comportarsi bene. L'ho multato per cinquanta capi di bestiame. » Jameson s'oscurò immediatamente in viso. « Lobengula considera Matanka suo vassallo. E' lui che possiede quel bestiame, i mashona curano soltanto le mandrie per conto del re. » Ralph si strinse nelle spalle. « E allora Matanka dovrà dare delle spiegazioni. Meglio lui che io, questa è la verità. » « Lobengula non lascerà correre... » Jameson s'interruppe e il viso gli si schiarì. « Forse è quello che stavamo aspettando. Lobengula non lascerà correre... E neppure noi, perdio. » Guardò Ralph. « Per quando avrà rimesso a posto i fili? » « Per domani a mezzogiorno », rispose Ralph, pronto. « Bene! Bene! Dobbiamo mandare un messaggio a suo padre a GuBulawayo. Se lui protesta con Lobengula perché il suo vassallo ruba il nostro materiale e lo informa che gli abbiamo fatto pagare una multa in bestiame, quale sarà la reazione di Lobengula? » « Manderà un Impi per punire Matanka. » « Punirlo? » « Tagliargli la testa, uccidere i suoi uomini, violentare le sue
donne e bruciare il suo villaggio. » « Esatto. » Jameson si batté un pugno contro il palmo della mano. « E Matanka è su suolo della Company e sotto la protezione della bandiera inglese. Sarà nostro dovere, nostro sacrosanto dovere, respingere gli uomini di Lobengula. » « Guerra! » disse Ralph. « Guerra », convenne St John a bassa voce. « Ben fatto, giovanotto. E' quello che aspettavamo. » « Ballantyne, vuol prendere un appalto per la fornitura di carri e vettovaglie per una forza di spedizione, diciamo di cinquecento uomini? Ci occorreranno venticinque carri e seicento cavalli quando avanzeremo su GuBulawayo. » « Quando pensa di mettersi in marcia? » « Prima delle piogge. » Jameson era risoluto. « Se cominciamo, dovremo finire prima che arrivino le piogge. » « Avrò pronta un'offerta per quando il telegrafo sarà ripristinato, domani. » Ralph saltò giù di sella e lanciò le redini al servo che stava accorrendo. Anche se era una sistemazione temporanea, che lui usava nelle sue non frequenti visite per controllare come progrediva il lavoro delle squadre di costruzione, sorvegliare i posti di tappa dei suoi trasporti e le sue stazioni commerciali, quella tuttavia era la casa più importante di Fort Victoria, con vetri alle finestre e reti contro gli insetti alle porte. I suoi speroni rumoreggiarono sui gradini quando si precipitò sotto la veranda, e Cathy lo sentì arrivare e corse fuori col bambino in braccio. « Sei già a casa! » esclamò, felice, riabbottonandosi il corpetto dopo aver allattato. « Non potevo star via da voi due. » Rise e le diede un gran bacio sulla bocca, quindi le strappò il bambino e lo lanciò in aria. « Fai attenzione! » Cathy tentò invano di riprendersi Jonathan, ma il bambino gorgogliò felice e sgambettò eccitato, mentre un rivolo di latte gli scorreva giù per il mento. « Sporcaccioncello! » Ralph sollevò in alto il figlio e lo annusò. « Tutt'e due le cose contemporaneamente, perdio. Tieni, Cathy. » Le porse il bambino e le passò un braccio intorno alla vita. « Andiamo a GuBulawayo », annunciò. « Chi? » Lei lo guardò confusa. « St John, il buon dottore e io, e quando arriviamo lì le azioni BSA saliranno a cinque sterline. L'ultimo prezzo che ho saputo prima che tagliassero i fili era di cinque scellini. Il primo messaggio che partir… domani sar… il mio ordine di acquisto per Aaron Fagan, per cinquantamila BSA! ¯ L'impi di Bazo sbuc• fuori dalla foresta a ovest, uomini silenziosi come ombre e assetati di sangue come cani da caccia.
® Ammazza quel cane di Matanka ¯ , aveva ordinato il re. ® Ammazza lui e tutti i suoi uomini. ¯ E Bazo li sorprese all'alba, mentre i primi di loro venivano fuori dalle capanne sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, e poi inseguirono le fanciulle, che fuggivano gridando come galline tra le capanne, e le legarono a gruppi. ® E tutti i suoi uomini ¯ , era stato l'ordine del re, e alcuni degli uomini di Matanka lavoravano per i bianchi alla miniera Prince, uno dei pochi filoni auriferi che veramente rendeva in tutto il Mashonaland. Rompevano la roccia e la trasportavano. ® Non interferire ¯ , disse Bazo al sorvegliante della miniera. ® Questa Š una faccenda del re. Nessun uomo bianco sar… toccato, Š l'ordine del re. ¯ E inseguirono gli operai mashona nell'impianto di frantumazione e li trafissero mentre cercavano di nascondersi sotto i tavoli di scelta. Poi percorsero la linea telegrafica, cinquecento scudi rossi. Gli operai mashona facevano ruotare gli enormi tamburi dei cavi e tendevano i fili luccicanti. ® Nessun uomo bianco verr… toccato ¯ , grid• Bazo, scatenando i suoi uomini. ® Fatevi da parte, uomini bianchi. ¯ Ormai era assetato di sangue, preso dalla febbre d'uccidere. ® Questo non Š per voi, uomini bianchi. Non ancora, uomini bianchi, ma il vostro giorno verr…. ¯ Tirarono gi— i mashona dai pali telegrafici e gli abbaiarono intorno come cani che sbranano una volpe, mentre i mashona urlavano invocando la protezione dei loro padroni bianchi. ® Portate indietro il bestiame, tutto il bestiame di Matanka ¯ , aveva ordinato il re, e gli uomini di Bazo setacciarono i pascoli dei mashona e spinsero verso ovest in una nuvola di polvere le mandrie sparse dai molti colori. Tra esse v'erano mischiate alcune bestie dei bianchi, perch‚ le bestie si somigliano tutte e i marchi lasciati dal ferro rovente sui loro fianchi non significavano niente per i guerrieri matabele. Venne tutto eseguito con tanta rapidit… che Jameson dovette cavalcare a briglia sciolta alla testa della sua squadra di volontari messa insieme in fretta per raggiungerli prima che varcassero il confine della Concessione. Aveva trentotto uomini con s‚, e quando Bazo vide i cavalieri torn• indietro e, con i guerrieri ammassati alle sue spalle, salut• Jameson. ® Sakubona, Daketela! Ti vedo, dottore! Non temere, per ordine del re nessun uomo bianco sar… molestato. ¯ Ma i volontari strinsero i cavalli in un gruppo solo e ci fu lo scatto metallico degli otturatori quando caricarono le armi. Trentotto contro cinquecento, ed erano nervosi e pallidi. Il piccolo dottore spron• e avanz•, e Ralph mormor• a St John: ® Perdio, Š proprio un galletto, ci butta gi… nella mischia ¯ . Ma jameson non mostrava agitazione quando s'alz• sulle staffe e grid•: ® Uomini di Matabele, perch‚ avete attraversato il confine? ¯
® Hau, Dakatela! ¯ rispose Bazo fingendosi sorpreso. ® Di quale confine parli? Di certo questa terra, tutta quanta, appartiene a Lobengula. Non ci sono confini. ¯ ® Gli uomini che avete massacrato erano sotto la mia protezione. ¯ ® Gli uomini che abbiamo ucciso erano mashona ¯ , rispose Bazo, sdegnato. ® E i mashona sono cani di Lobengula, da ammazzare o lasciar vivere secondo i suoi desideri. ¯ ® Il bestiame che avete rubato appartiene alla mia gente. ¯ ® Tutto il bestiame dei mashona appartiene al re. ¯ A quel punto St John grid•: ® Attenzione, Jameson, qui c'Š un tradimento. Attento a quegli uomini sulla sua sinistra ¯ . Alcuni degli uomini di Bazo s'erano fatti avanti per vedere e sentire meglio. Alcuni di loro erano armati di vecchi fucili Martini-Henry, probabilmente quelli che Rhodes aveva dato al re in pagamento per la sua Concessione. Jameson volt• il cavallo nella loro direzione. ® Indietro! ¯ grid•. ® Indietro, ho detto. ¯ Sollev• il fucile per far rispettare l'ordine e uno dei matabele, istintivamente, copi• il gesto, col suo fucile, quasi minacciando il piccolo gruppo di bianchi a cavallo. Mungo St John alz• il suo di scatto e mentre il calcio gli toccava la spalla fece fuoco. Nella calda aria polverosa l'esplosione parve un tuono e la pesante pallottola colp il petto nudo del matabele. Il fucile gli cadde di mano e un piccolo fiotto di sangue brillante gli sgorg• dal petto. Il guerriero gir• su se stesso lentamente, quasi con grazia, finch‚ apparve il terribile foro d'uscita tra le scapole, poi croll• a terra, scalciando convulsamente. ® Non toccate gli uomini bianchi! ¯ rugg Bazo nel grave silenzio che segu , ma non pi— della met… degli uomini a cavallo capiva la sua lingua; per gli altri suon• come un ordine di uccidere. Lo schianto di una scarica di fucileria si fuse allo scalpitio e ai nitriti impauriti dei cavalli. La nube di fumo azzurro si mischi• alla chiara polvere sollevata e all'ondeggiare delle piume dei guerrieri in fuga. L'impi di Bazo si stava ritirando nella foresta trascinandosi via i feriti e, a poco a poco, il fuoco dei fucili rallent• e cess•, e i cavalli si calmarono. Il piccolo gruppo rimase in silenzio a guardare stupito i morti matabele sparsi sul terreno. Sembravano giocattoli abbandonati da un bambino capriccioso. Ralph Ballantyne non aveva sfilato il Winchester cesellato d'oro dal suo fodero e tra le labbra aveva un lungo sigaro spento. Parl• stringendolo tra i denti, sorridendo ironico, ma negli occhi verdi aveva uno sguardo freddo e duro. ® Ho contato trentatr‚ caduti, dottor Jim ¯ , disse, alzando la voce. ® Non male, in verit…, anche se erano un bersaglio facile. ¯ Strofin• un fiammifero Vesta contro la coscia e accese il sigaro, poi prese le redini e gir• il cavallo in direzione del forte. Lobengula si rigirava tra le mani minute e delicate la piccola
borsa di tela contenente le sovrane. Stava al centro del recinto delle capre e con lui c'erano solo tre matabele, Gandang, Somabula e Babiaan. Gli altri li aveva mandati via. Davanti a lui c'era un piccolo gruppo di bianchi. Zouga aveva portato con s‚ Louise: non aveva osato lasciarla sola nel cottage al di l… della palizzata del kraal reale, non con l'aria che tirava tra i matabele dopo il massacro di Fort Victoria. Di fronte a lui, ma separati dall'altra coppia, c'erano anche Robyn e Clinton Codrington. Sempre palpando la borsa dell'oro, Lobengula gir• il capo verso Robyn. ® Visto, Nomusa? Queste sono le regine d'oro che tu mi consigliasti di accettare da Lodzi. ¯ ® Mi vergogno profondamente, o re ¯ , disse Robyn in un bisbiglio. ® Dimmi, in tutta sincerit…, ho dato via la mia terra quando ho firmato la carta? ¯ ® No, re, hai dato via solo l'oro che c'Š sotto. ¯ ® Ma come possono gli uomini scavare l'oro senza la terra che c'Š sopra? ¯ chiese Lobengula, e Robyn tacque, sconfortata. ® Nomusa, tu dicesti che Lodzi era un uomo d'onore. Allora perch‚ mi fa questo? I suoi giovani uomini attraversano con tracotanza la mia terra e dicono che appartiene a loro. Sparano ai miei guerrieri e ora stanno radunando un grosso esercito contro di me, con carri e cannoni e migliaia di soldati. Come pu• Lodzi farmi questo, Nomusa? ¯ ® Non so risponderti, o re. Ti ho ingannato come hanno ingannato me. ¯ Lobengula sospir•. ® Ti credo, Nomusa. Tra noi ancora non c'Š litigio. Porta la tua famiglia, tutta la tua gente, qui nel mio kraal affinch‚ possa proteggervi durante i tempi scuri che ci aspettano. ¯ ® Non merito la considerazione del re. ¯ Robyn pronunci• le parole con voce strozzata. ® Nessun male vi verr… fatto, Nomusa. Hai la parola di Lobengula. ¯ Si gir• lentamente verso Zouga. ® Quest'oro, Bakela. Mi ripaga del sangue dei miei giovani guerrieri? ¯ E gett• la borsa ai piedi di Zouga. ® Prendi il tuo oro, Bakela, e riportalo a Lodzi. ¯ ® Lobengula, io sono tuo amico e ti dico questo come amico: se rifiuti il pagamento mensile, Lodzi lo considerer… una rottura dei patti. ¯ ® L'uccisione dei miei giovani guerrieri non Š gi… stata una rottura dei patti, Bakela? ¯ chiese Lobengula in tono triste. ® Se non lo Š stata, la mia gente la considera tale. I reggimenti sono raccolti, essi oscurano le Colline degli Induna. Portano le loro piume e i loro assegai e i loro fucili, e i loro occhi sono rossi. Il sangue dei matabele Š stato versato e i nemici del re si radunano contro di lui. ¯ ® Ascoltami, o re, pensaci prima di scatenare i tuoi giovani guerrieri. Cosa sanno di come combattono gli inglesi? ¯ Zouga
era arrabbiato adesso e la cicatrice sulla guancia era diventata rossa come il segno di una frustata. ® I miei giovani guerrieri li mangeranno ¯ , disse Lobengula. ® Come fecero gli zulu alla Collina della Piccola Mano. ¯ ® Dopo la Piccola Mano ci fu Ulundi ¯ , gli ricord• Zouga. ® La terra era nera per gli zulu morti, e misero catene alle gambe del re zulu e lo mandarono in un'isola lontana, dall'altra parte del mare. ¯ ® Bakela, Š troppo tardi. Non posso trattenere i miei giovani guerrieri. Li ho trattenuti troppo a lungo. Ora devono correre. ¯ ® I tuoi giovani guerrieri sono coraggiosi quando si tratta di trafiggere vecchie mashona o sventrare bambini, ma non hanno mai incontrato uomini veri. ¯ Alle spalle del re, Gandang sibil• di rabbia, ma Zouga continu•, imperterrito: ® Mandali a casa a far l'amore con le loro donne e a lisciare le loro piume, perch‚ se li scateni allora sarai fortunato se vivi abbastanza da vedere il tuo kraal bruciare e le tue mandrie portate via ¯ . Questa volta sibilarono tutti e tre gli induna anziani e Gandang, d'impulso, fece un passo avanti, ma Lobengula tese un braccio per trattenerlo. ® Bakela Š un ospite del re ¯ , disse. ® Finch‚ si trova nel mio kraal ogni suo capello Š sacro. ¯ Ma gli occhi del re non avevano lasciato neppure per un attimo la faccia di Zouga. ® Vai, Bakela, parti oggi stesso e portati via la tua donna. Va' da Daketela e digli che i miei impi sono pronti. Se lui attraversa il fiume Gwelo, scatener• i miei giovani guerrieri. ¯ ® Lobengula, se parto l'ultimo legame tra gli uomini bianchi e i neri sar… rotto. Non ci saranno pi— parole, ci sar… la guerra. ¯ ® Che cos sia, Bakela. ¯ Fu una dura cavalcata. Presero la strada che i carri di Ralph Ballantyne avevano di recente tracciato da Fort Salisbury a GuBulawayo. Lasciarono tutti i loro mobili e averi nel cottage fuori della palizzata del kraal reale e si misero in viaggio leggeri, con una coperta arrotolata avvolta al pomo della sella e una borsa per il cibo su uno dei cavalli di riserva che Jan Cheroot conduceva dietro di loro, legato a una cavezza. Louise cavalcava come un uomo, a cavalcioni e senza lamentarsi, e il quinto giorno, inaspettatamente, raggiunsero la colonna di Jameson accampata intorno alle scheletriche incastellature d'estrazione della Collina della Miniera di Ferro, dove i volontari di Salisbury e Fort Victoria l'avevano raggiunta. ® Zouga, Š cos che Jameson affronta gli impi di Lobengula? ¯ Il piccolo accampamento sembrava pateticamente inadeguato. C'erano due dozzine di carri e sulle tende di tela della maggior parte di essi c'era la scritta della societ… di trasporti di Ralph. Ma lui indic• gli angoli dell'accampamento.
® Mitragliatrici ¯ , disse. ® Sei, e valgono ognuna cinquecento uomini. Hanno anche cannoni da campo, guarda le loro postazioni. ¯ ® Oh, Zouga, devi proprio andare con loro? ¯ ® Lo sai che devo. ¯ Entrarono nel campo e mentre superavano i picchetti di guardia ci fu un grido che fece sussultare le sentinelle e impennare il cavallo di Louise. ® Pap…! ¯ Ralph arriv• correndo dal carro pi— vicino. ® Ragazzo mio. ¯ Zouga salt• gi— da cavallo e si abbracciarono felici. ® Avrei dovuto immaginarlo che ti saresti trovato dovunque c'era qualcosa da fare. ¯ Louise si sporse dalla sella e Ralph le sfior• la guancia con i suoi bei baffi. ® M'Š ancora difficile credere che ho una matrigna cos giovane e bella. ¯ ® Tu sei il mio figlio preferito ¯ , rispose lei, ridendo. ® Ma ti amer• di pi— se puoi organizzarmi un bagno caldo... ¯ Da dietro la tenda di tela Louise continu• a chiedere altri secchi d'acqua calda e Zouga andava a prenderli sul fuoco e poi riempiva il semicupio di ferro zincato nel quale lei stava seduta, con le grosse trecce scure arrotolate sul capo, tutta arrossata per l'acqua quasi bollente ma prendendo pienamente parte alla conversazione che si svolgeva dall'altra parte del telo. Ralph e Zouga sedevano a un tavolo da campo con davanti una caffettiera smaltata e una bottiglia di whisky. ® Abbiamo seicentottantacinque uomini in tutto. ¯ ® Avevo avvertito Rhodes che ne occorrevano almeno millecinquecento ¯ , disse Zouga, accigliandosi. ® Be', ci sono altri cinquecento volontari agli ordini del maggiore Goold-Adams, pronti a muoversi da Macloutsi. ¯ ® Non arriveranno mai in tempo per prendere parte ai combattimenti. ¯ Zouga scosse il capo. ® E le linee di rifornimento, e i rinforzi? Che succede se abbiamo problemi con i matabele? Che possibilit… abbiamo di avere rinforzi? ¯ Ralph sorrise, diabolico. ® Sono io il Commissariato. Non penserai che sia disposto a dividere i profitti con qualcun altro, vero? ¯ ® Gli approvvigionamenti? I rinforzi? ¯ Ralph allarg• le braccia. ® Il dottore mi informa che non ne abbiamo bisogno. Dio e mister Rhodes sono dalla nostra parte. ¯ ® Se invece sono contro, significa morte e mutilazione per ogni uomo, donna e bambino, da questa parte del fiume Shashi. Gli impi di Lobengula sono assetati di sangue ormai. Una volta che cominciano n‚ il re n‚ gli induna li controlleranno pi—. ¯ ® Ci avevo pensato ¯ , ammise Ralph. ® Ho Cathy e Jonathan a Fort Victoria, con le valige pronte, e il vecchio Isazi Š con loro, insieme con uno dei miei migliori giovanotti. Ho dei cambi di muli disposti lungo tutta la strada da Fort Vicky fino allo Shashi. Nel momento in cui Jameson d… l'ordine alla colonna di mettersi in marcia, la mia famiglia sar… in viaggio per il sud. ¯
® Ralph, io porto Louise a Fort Victoria. Pu• stare con Cathy e partire con lei? ¯ ® Nessuno mi ha chiesto niente ¯ , grid• Louise da dietro la tenda, e ci fu un forte sciabordio. ® Ho fatto un giuramento: finch‚ morte non ci separ , Zouga Ballantyne. ¯ ® Hai anche giurato di amare, rispettare e obbedire ¯ , le ricord• Zouga, e strizz• l'occhio a Ralph. ® Spero che non subirai la stessa insubordinazione da parte di tua moglie, ¯ ® Picchiala regolarmente e falle fare un sacco di figli ¯ , consigli• Ralph. ® Certo, Louise deve andare con Katie, ma intanto sar… bene che partiate immediatamente per Fort Vicky, il dottore morde il freno per guastare le uova nel paniere a Lobengula. ¯ S'interruppe e indic• un soldato che stava attraversando di corsa il campo in direzione del loro carro. ® Sembra che alla fine abbia saputo del tuo arrivo. ¯ Il soldato, senza fiato, salut• Zouga. ® E' lei il maggiore Zouga Ballantyne, signore? Il dottor Jameson le chiede se per piacere pu• raggiungerlo nella sua tenda appena le Š possibile. ¯ Il dottor Jameson s'alz• di scatto dallo scrittoio da viaggio e attravers• la tenda per andare incontro a Zouga. ® Ballantyne, ero preoccupato per lei. Viene direttamente dal kraal di Lobengula? Che possibilit… ci sono? Di quali forze dispone, secondo lei? ¯ S'interruppe e si disapprov• con una risatina soffocata. ® Ma cosa vado dicendo? Lasci che le offra di bere, amico. ¯ Fece entrare Zouga sotto la tenda. ® Conosce il generale St John, naturalmente... ¯ E Zouga s'irrigidi, il viso impassibile. ® Zouga! ¯ Mungo St John stava allungato in una sedia pieghevole e non fece neppure finta di alzarsi n‚ offr la mano. ® Quanto tempo Š passato. Ma hai un bell'aspetto. Il matrimonio ti giova... Ancora non ho avuto l'opportunit… di congratularmi con te. ¯ ® Grazie. ¯ Zouga annu . Naturalmente sapeva che Mungo era il capo di stato maggiore del dottore e tuttavia, con la sua rabbia e la sua amarezza, non era pronto all'incontro. Quello era l'uomo che aveva avuto Louise come amante, che aveva abbracciato il suo tenero e prezioso corpo. Scopr che stava tremando e scacci• quel pensiero dalla sua mente, ma fu subito sostituito dall'immagine di Louise come lui l'aveva vista nel deserto, la pelle bruciata dal sole... Ed era stato Mungo St John a lasciarla andare, a non fare nessuno sforzo per trattenerla. ® Ho saputo che tua moglie Š nel campo con te... ¯ L'unico occhio di St John brill•, malizioso. ® Dovete pranzare con me stasera, sar… bello parlare dei vecchi tempi. ¯ ® Mia moglie ha avuto un viaggio lungo e stancante. ¯ Zouga cerc• di controllare la propria voce, non voleva dare a Mungo la soddisfazione di fargli capire che era arrabbiato. ® E domani mattina la porto a Fort Victoria. ¯ ® Bene ¯ , s'intromise Jameson, in modo sbrigativo. ® Questo s'accorda con i miei piani. Ho bisogno di un uomo di fidu-
cia che trasmetta un messaggio telegrafico per mister Rhodes. Ma ora, Ballantyne, che novit… ci sono da GuBulawayo, e quali sono secondo lei le nostre possibilit…? ¯ ® Be', dottor Jim, Lobengula Š pronto. I suoi giovani guerrieri sono impazienti di combattere e lei qui ha forze abbastanza scarse. In genere direi che inoltrarsi nel Matabeleland senza forze di rincalzo nei paraggi sarebbe un suicidio, tuttavia... ¯ ® Tuttavia? ¯ chiese Jameson, impaziente. ® Quattro dei reggimenti di Lobengula, quelli da lui mandati contro Lewanika, il re del Barotse, sono ancora sullo Zambesi e non potr… avvalersene. ¯ ® Perch‚, no? ¯ ® Vaiolo ¯ , rispose Zouga. ® E' scoppiato in quei reggimenti, e il re non osa richiamarli nel sud. Non possono prendere parte su combattimenti. ¯ ® Met… dell'esercito matabele fuori gioco ¯ , esult• Jameson. ® Questo Š un segno del cielo, St John. Che ne pensa? ¯ ® Direi che Š sempre un rischio, un maledetto rischio. Ma pensi alla posta in gioco. Un intero paese da conquistare, con tutte le sue terre e le sue mandrie e il suo oro. Io direi che, se mai dobbiamo marciare, dobbiamo farlo subito. ¯ ® Ballantyne, sua sorella, la missionaria... Come si chiama? Codrington... Š ancora a Khami? La sua famiglia Š con lei? ¯ Zouga annu , perplesso, e Jameson afferr• una matita e scrisse un messaggio sul suo blocco. Quindi strapp• il foglio e lo porse a Mungo St John. Mungo lesse e sorrise. Sembrava un uccello da preda, col naso a becco e feroce. ® S ¯ , disse. ® Perfetto. ¯ Pass• il foglio a Zouga. Jameson aveva scritto a stampatello: URGENTE A GIOVE REGGIMENTI MATABELE AMMASSATI PER ATTACCARE STOP DONNE E BAMBINI INGLESI IN MANO AL TIRANNO MATABELE STOP URGE PORSI IMMEDIATAMENTE IN MARCIA PER SALVARLI STOP RISPONDERE AL PIU' PRESTO. ® Neppure LabouchŠre potrebbe cavillare su questo ¯ , osserv• Zouga. LabouchŠre era il direttore della rivista Truth di Londra, un campione degli oppressi e uno dei pi— eloquenti e tenaci avversari di Rhodes. Zouga fece per restituire il foglio, ma Jameson lo respinse con un gesto. ® Lo tenga. Lo mandi. Immagino che non possa partire questa sera, vero? ¯ ® Sar… buio tra un'ora, e mia moglie Š esausta. ¯ ® Benissimo ¯ , replic• Jameson. ® Ma torner… qui appena pu• con la risposta di mister Rhodes? ¯ ® Certamente. ¯ ® E c'Š un'altra cosa che voglio che lei faccia al suo ritorno. Un compito molto importante. ¯ ® Di che si tratta? ¯ ® Il generale St John glielo spiegher…. ¯ Sospettoso, Zouga si gir• verso Mungo.
I modi di questi divennero improvvisamente concilianti. ® Zouga, non c'Š nessuno di noi che non abbia letto il tuo libro Odissea di un cacciatore. Direi che Š la Bibbia di chiunque voglia sapere di questo paese e della sua gente. ¯ ® Grazie. ¯ Zouga era ancora tutto irrigidito. ® E una delle parti pi— interessanti Š il racconto della tua visita all'oracolo della Umlimo, sulle colline a sud di GuBulawayo. ¯ ® Le Matopos ¯ , precis• Zouga. ® Esatto, le Matopos. Puoi ritrovare la strada fino alla caverna della strega? Dopotutto. Sono passati venticinque anni. ¯ ® S , potrei ritrovarla. ¯ Zouga non esit•. ® Magnifico ¯ , interloqu Jameson. ® Vada avanti, St John, gli dica perch‚. ¯ Ma Mungo sembr• divagare. ® Conosci il vecchio zulu che lavora per tuo figlio... ¯ ® Isazi, il primo conducente di Ralph? ¯ chiese Zouga. ® Proprio lui. Bene, abbiamo catturato quattro esploratori matabele e abbiamo messo Isazi nel recinto con loro. Pu• passare per un matabele e cos i prigionieri hanno parlato liberamente davanti a lui. Una delle cose che abbiamo appreso Š che la Umlimo ha convocato tutti gli stregoni della nazione a una cerimonia sulle colline. ¯ ® S ¯ , convenne Zouga, ® ne ho sentito parlare prima di lasciare GuBulawayo. La Umlimo predica la guerra e promette agli impi un amuleto che trasforma in acqua le pallottole. ¯ ® Ah, cos Š vero, dunque. ¯ Mungo annu . Poi, con aria pensosa: ® Esattamente, quale influenza esercita questa profetessa? ¯ ® La Umlimo Š una figura ereditaria, una specie di semidivinit… vergine le cui origini risalgono a molto prima dell'arrivo dei matabele in questa terra, forse mille anni o pi—. Prima Mzilikazi poi Lobengula ne hanno subito il fascino. Ho persino sentito sussurrare che Lobengula ha fatto un apprendistato in stregoneria sotto la guida della Umlimo, nelle Matopos. ¯ ® Quindi esercita un certo potere sui matabele? ¯ ® Un immenso potere. Lobengula non prende decisione importante senza il suo oracolo. Nessun impi marcerebbe senza la protezione dei suoi amuleti. ¯ ® E se morisse il giorno in cui marciamo sul Matabeleland? ¯ ® Il re e i suoi guerrieri precipiterebbero nella costernazione. Probabilmente agirebbero in maniera sconsiderata. L'incantesimo della Umlimo morirebbe con lei, il suo consiglio potrebbe rivolgersi come un serpente e colpire chi lo riceve. Sarebbero demoralizzati, e occorrerebbero almeno tre mesi per scegliere una profetessa per rimpiazzarla. Durante questo periodo la nazione sarebbe vulnerabile. ¯ ® Zouga, io voglio che tu prenda una compagnia di uomini a cavallo - i migliori, i pi— duri che abbiamo -, vada fino alla caverna della maga e distrugga lei e tutti i suoi stregoni. ¯
Will Daniel era il sergente di Zouga. Era un canadese che stava in Africa da venticinque anni e non aveva perso il suo accento. Aveva combattuto contro le trib— sul fiume Fish e nello Zululand. Si vantava di aver ucciso a Ulundi tre degli uomini di Cetywayo con un sol colpo e di essersi fatto una borsa per il tabacco con lo scalpo di uno di essi. Aveva partecipato alla ribellione di Gazaland e aveva combattuto alla Collina delle Colombe contro i liberi cittadini della repubblica del Transvaal. Dovunque c'erano stati tumulti e sparatorie Will Daniel s'era fatta la sua pessima reputazione. Era grande e grosso, con un gran pancione, prematuramente calvo e con grandi orecchie tonde che sporgevano dal suo cranio lucido come quelle di un cane selvatico. I suoi pugni erano nodosi, le gambe arcuate dalla sella, e sfoggiava un gran sorriso perpetuo che non si rifletteva mai negli occhietti freddi. ® Non ti deve piacere, n‚ ti devi fidare di lui ¯ , aveva detto Mungo St John a Zouga. ® Ma Š l'uomo che ci vuole. ¯ Con Will Daniel c'era il suo scagnozzo, Jim Thorn, la met… di lui ma identico a quello in quanto a ferocia. Era un londinese piccolo e scarno, con i toni grigi dell'abitante dei bassifondi cos profondamente impressi nella sua faccia malinconica e macilenta che cinquemila soli africani non erano riusciti a cancellarli. Il dottor Jameson lo aveva liberato dalla galera di Fort Victoria, dove si trovava in attesa di processo per aver picchiato a morte un servo mashona con lo siambok di pelle di rinoceronte. Il suo condono dipendeva dal suo comportamento durante la campagna. ® Quindi puoi contare su di lui, far… tutto ci• che c'Š da fare ¯ , aveva fatto notare Mungo. Gli altri tredici soldati erano uomini della stessa razza. Erano tutti volontari, secondo il Doctor Jim's Victoria Agreement, e avevano firmato la carta di arruolamento, un documento che Jameson aveva fatto in modo che rimanesse segreto. Nessuna copia ne era stata mandata all'Alto Commissario a Citt… del Capo n‚ al governo di Gladstone, perch‚ prometteva ai volontari una partecipazione alla divisione della terra, del bestiame e dei tesori di Lobengula; la parola ® bottino ¯ era specificamente menzionata nel testo. Nella prima notte di viaggio Will Daniel strisci• fino al punto in cui Zouga dormiva, un p• appartato, e si chin• sulla sua figura distesa. Un braccio vigoroso lo cinse improvvisamente per il collo e la bocca di una rivoltella Webley gli prem‚ contro le costole con forza sufficiente a fargli espellere aria dai polmoni. ® La prossima volta che ti accosti a me strisciando, ti ammazzo ¯ , gli sibil• in faccia Zouga, e i denti di Will brillarono alla luce della luna allorch‚ sorrise, in segno di apprezzamento. ® Mi avevano detto che era uno svelto. ¯ ® Cosa vuoi? ¯ ® Io e i ragazzi vogliamo vendere i nostri diritti alla terra... tremila morgen ciascuno, sono tremilaseicento ettari. Li pu• avere per cento l'uno. ¯
® Ancora non ve li siete guadagnati. ¯ ® E' un rischio che deve correre, capo. ¯ ® Credevo che fossi di guardia, sergente. ¯ ® Be', un attimo soltanto, signore. ¯ ® La prossima volta che abbandoni il tuo posto ti sparo, senza stare a infastidire la corte marziale. ¯ Daniel lo fiss• per un istante. ® S , credo che lo farebbe. ¯ E sorrise, mesto. Zouga condusse la pattuglia a sud e a ovest, attraverso le foreste nelle quali tanto tempo prima aveva cacciato i branchi vaganti di elefanti. Ora l'avorio era tutto andato e persino i branchi di selvaggina minore erano spaventati dalla caccia spietata dei nuovi coloni: si sparpagliavano non appena la piccola compagnia di uomini a cavallo si avvicinava. Zouga evitava le strade tracciate tra le citt… dei reggimenti matabele, e quando dovevano passare vicino a un insediamento o alle terre coltivate che lo circondavano, lo facevano di notte. Bench‚ sapesse che gli impi avevano risposto tutti all'appello di Lobengula ed erano gi… radunati a Thabas Indunas, prov• tuttavia un gran sollievo quando le vette di granito delle Matopos comparvero al disopra delle cime degli alberi davanti a loro e, in fila indiana, gli uomini lo seguirono in una delle valli circondate da rupi scoscese. Quella sera ci fu una deputazione di quattro soldati guidati da Will Daniel e Jim Thorn. ® I ragazzi hanno tutti votato, capo. Accettiamo cento per tutto l'insieme. ¯ Will sorrise, suadente. ® Non c'Š uno di noi che abbia di che pagarsi da bere per celebrare quando torniamo a casa... E lei ha quella cintura piena di monete intorno alla vita. Dev'essere dannatamente pesante e non le servir… a niente se un tiratore matabele le pianta una pallottola nella schiena. ¯ Il sorriso era ancora sulle labbra di Will ma la minaccia era leggibile nei suoi occhi. Se Zouga non comprava le loro concessioni di terra, gliel'avrebbero piantata loro una pallottola nella schiena. Si sarebbero divisi il contenuto della cintura in ogni caso. Pens• di sfidare quel sergente grande e grosso e brutto, ma erano in quindici. L'oro nella sua cintura poteva essere il suo mandato di morte. I matabele gi… rappresentavano un bel pericolo. ® Ho settantacinque sovrane nella mia cintura ¯ , disse, arcigno. ® Bene ¯ , replic• Will. ® Ha fatto un affare, maggiore. ¯ Zouga scrisse sul retro di uno dei fogli del suo blocco dei messaggi un contratto di vendita di concessioni di terra, e dodici di loro lo firmarono, mentre Will Daniel e altri due analfabeti apposero una croce, dopodich‚, tutti e quindici, litigarono per la divisione delle sovrane d'oro di Zouga. Il quale prov• sollievo a liberarsene ma poi, mentre rimetteva il blocco nella tasca della sella, pens• che se quelle concessioni erano valide allora Will Daniel aveva ragione: aveva fatto un affare. Decise che una vol-
ta raggiunta la colonna di Jameson si sarebbe comprato, tutte le altre concessioni messe in vendita da qualunque sradicato avesse voluto cederle per il prezzo di una bottiglia di whisky. Zouga aveva dimenticato quanto profondo era il particolare silenzio che regnava tra le magiche colline di Matopos. Aveva un peso, quasi una sostanza, quel silenzio, e sgomentava. Nessun uccello cantava o saltellava su qualche ramoscello nel fitto sottobosco che premeva ai lati dello stretto sentiero, e nessuna brezza si spingeva nella profondit… delle valli circondate di granito. Il silenzio e il caldo pesavano anche su quegli uomini duri e insensibili che seguivano Zouga in fila indiana. Cavalcavano coi fucili in grembo, gli occhi socchiusi contro il bagliore delle luccicanti schegge di mica nelle pareti di granito, attenti e ansiosi, con la fitta boscaglia verde-scuro intorno a loro carica di imprecisata minaccia. A volte la stretta pista tracciata dalla selvaggina che stavano seguendo diventava ancora pi— angusta, o cessava bruscamente al centro di una valle, ed erano costretti a ritornare sui loro passi e a cercarne un'altra; ma Zouga puntava sempre a sud poi a ovest. Infine, il terzo giorno, fu ricompensato. Tagli• la larga strada battuta che conduceva da GuBulawayo alla valle nascosta della Umlimo. Era abbastanza larga e liscia da permettergli di mettere il cavallo al piccolo galoppo. Dietro suo ordine, gli uomini avevano fasciato il proprio equipaggiamento per smorzarne il suono e avevano messo dei coprizoccoli di pelle ai cavalli, cosicch‚ l'unico rumore era il cigolio delle selle e l'occasionale fruscio e scatto di un ramo piegato dal loro passaggio. Il disagio iniziale era scomparso ormai, stavano piegati in avanti sulle selle, avidi come cani da caccia tenuti al guinzaglio che abbiano annusato qualcosa. Jameson aveva promesso loro un premio di venti ghinee ciascuno e tutto il bottino che fossero riusciti a portar via dalla valle della Umlimo. Zouga cominci• a riconoscere alcuni particolari del paesaggio che stavano attraversando. Vide una pila di massi, il pi— grande dei quali delle dimensioni della cupola di St Paul, e poi ancora altri tre, di dimensioni scemanti, tutti ridotti a sfere perfette dal tempo e in equilibrio gli uni sugli altri, e cos cap che avrebbero raggiunto l'ingresso della valle prima di mezzogiorno. Ferm• la pattuglia e lasci• che mangiassero qualcosa in fretta, in piedi accanto ai cavalli, mentre lui controllava il loro equipaggiamento e assegnava a ciascuno un compito diverso. ® Sergente, tu e il soldato Thorn verrete dietro di me. Saremo i primi a varcare il passo e a entrare nella valle. C'Š un piccolo villaggio al centro di questa e tra le capanne potranno esserci dei matabele. Non vi fermate, anche se ci fossero dei guerrieri tra loro, lasciateli agli altri. Cavalcate dritto fino alla caverna in fondo alla valle. Dobbiamo trovare la maga prima che scappi. ¯
® Questa maga, capo, che aspetto ha? ¯ ® Non sono sicuro, pu• essere molto giovane, probabilmente nuda. ¯ ® Affidala a me, amico. ¯ Jim Thorn sorrise, lascivo, e diede una gomitata a Will, ma Zouga lo ignor•. ® Qualunque donna trovate nella caverna pu• essere la maga. Ora non lasciatevi scoraggiare da gridi di animali selvaggi o da strane voci umane, Š una brava ventriloqua. ¯ Prosegu fornendo particolari precisi, quindi concluse: ® Gli ordini che abbiamo ricevuto saranno sgradevoli, ma alla fine potranno salvare la vita a molti dei nostri compagni, spezzando il morale dei guerrieri matabele ¯ . Rimontarono a cavallo e, quasi immediatamente, la strada cominci• a restringersi cos che al loro passaggio i rami strusciavano contro gli speroni. Il cavallo di Zouga, a disagio per i coprizoccoli, incespic• in uno stretto ruscello. Poi furono dall'altra parte e Zouga alz• il capo per guardare l'erto costone di granito che bloccava loro la strada. L'ingresso al passaggio nella roccia era un buio crepaccio verticale e, in alto sopra di esso, una capanna dal tetto di paglia era appollaiata in una nicchia nel granito. Mentre guardava in su, Zouga not• un vago movimento sulla sporgenza. ® Attenzione lass—! ¯ Proprio mentre gridava, una dozzina di neri comparvero sul bordo del costone e ognuno di loro lanci• in basso un fascio di quelli che sembravano bastoni. Si sparpagliarono nel volo e ci fu un luccichio d'acciaio mentre, con le punte pesanti in avanti, volavano verso di loro. S'ud un fruscio nell'aria, lieve come un frullo d'ali di rondine, quindi il rumore di acciaio contro la roccia e il tonfo delle punte nel terreno sotto gli zoccoli dei cavalli. Uno dei giavellotti dalla punta d'acciaio colse un soldato nel collo, di lato, penetrando oltre la clavicola, fin gi— nel polmone, e quando quello tent• di gridare i sangue glielo imped e riboll tutt'intorno alla bocca. Il cavallo indietreggi• e nitr e lui cadde all'indietro dalla sella, dopodich‚ ci furono una gran confusione e grida sullo stretto sentiero. In mezzo a tutto questo, Zouga allung• il collo per guardare in su e vide i difensori allinearsi di nuovo lungo il ciglio del dirupo, ciascuno con un altro fascio di giavellotti in spalla. Lasci• allora cadere le redini e us• ambedue le mani per puntare il fucile verticalmente all'ins—. Vuot• il caricatore, sparando con la rapidit… con cui gli riusciva di pompare cartucce nell'otturatore, e bench‚ il cavallo gli si muovesse sotto e non gli permettesse di mirare bene, uno degli uomini sul bordo si pieg• all'indietro agitando freneticamente le braccia e poi precipit• gi—, dimenandosi e rigirandosi e urlando nell'aria, finch‚ si sfracell• contro la roccia davanti al cavallo di Zouga e il suo dimenarsi e le sue grida cessarono di colpo. Gli uomini sul costone si sparpagliarono e Zouga agit• il fu-
cile scarico sopra il capo. ® Avanti! ¯ strill•. ® Seguitemi! ¯ E si tuff• nel crepaccio che fendeva il costone verticalmente dalla base alla cima. Il passaggio era cos stretto che gli speroni cavavano scintille dalla roccia su tutt'e due i lati, ma quando lui si volt• a guardare indietro vide Will Daniel che lo seguiva. Aveva perso il cappello floscio, la testa calva era bagnata di sudore e ghignava come una iena affamata mentre ricaricava il fucile prendendo i colpi dalla cartucciera. Il crepaccio comp una curva brusca, la sabbia bianca si sollev• sotto gli zoccoli dei cavalli e le schegge di mica scintillarono anche nella penombra. Davanti a Zouga un piccolo zampillo d'acqua sgorgava dalla roccia e scorreva via, e il suo cavallo raccolse le zampe anteriori sotto il petto e salt• facilmente il ruscello. Poi, all'improvviso, uscirono dallo stretto passaggio di nuovo al sole. La valle nascosta della Umlimo si stendeva sotto di loro in un verde bacino con al centro il piccolo villaggio di capanne. Alla base del dirupo, oltre il villaggio, Zouga riusciva a vedere il basso ingresso della caverna, buio come le occhiaie di un teschio sbiancato. Era tutto esattamente come lo ricordava. ® Truppa, allinearsi! ¯ grid•, mentre i suoi uomini uscivano all'aperto al galoppo dietro di lui. Formarono un lungo schieramento, rivolti verso la valle, con i fucili fuori del fodero e impazienti nel vedere l davanti a loro la preda per prendere la quale erano venuti da cos lontano. ® Amadoda! ¯ grid• Will Daniel, indicando il gruppo di guerrieri che stavano uscendo di corsa dal villaggio per affrontarli. ® Venti ¯ , cont• rapidamente Zouga, ® Non saranno un problema. ¯ Quindi si sollev• sulle staffe. ® Al passo, avanti! ¯ Gli uomini a cavallo avanzarono mantenendo il loro schieramento, mentre i guerrieri alzavano gli scudi e correvano incontro a loro. ® Truppa, alt ¯ , ordin• Zouga quando il matabele pi— vicino fu a un centinaio di passi. ® Scegliete il vostro bersaglio. ¯ La prima scarica, grazie alla mira di quei soldati esperti, falci• come l'acciaio del mietitore la fila dei guerrieri che avanzavano. Crollarono, cadendo sugli scudi, con le piume che gli volavano via dalla testa e gli assegai che s'infilavano nel terreno. E tuttavia un gruppo di loro continu• la carica senza fermarsi. ® Fuoco a volont…! ¯ grid• Zouga, e attraverso il mirino del fucile guard• un matabele che avanzava. Lo osserv• mentre aumentava di dimensione a ogni passo, preso da una strana riluttanza a uccidere un uomo tanto coraggioso. ® Jee! Jee! ¯ strillava il matabele, sfidandolo, e sollev• lo scudo per dar spazio alla mano che stringeva la lancia. Zouga gli spar• nell'incavo dell'osso alla base della gola e il matabele gir• su se stesso, cadde a terra battendo con una spalla e rotol• contro le gambe del cavallo. ® Inseguiteli. ¯ Zouga non alz• affatto la voce, come se stesse conversando. ® Avanti! Carica!
® Sergente Daniel. Soldato Thorn, alla caverna. ¯ Diresse il cavallo al galoppo girando al largo del gruppo di capanne e, direttamente davanti a lui, vide il corpo di uno dei matabele caduti. Cambi• direzione per evitarlo e Thorn e Daniel acquistarono vantaggio su di lui. A un certo punto il matabele si gir• e balz• in piedi, poi scans• il cavallo. Fingersi morto era un vecchio trucco zulu, e Zouga avrebbe dovuto aspettarselo ed essere pronto. Ma aveva il fucile nella sinistra e cerc• di passarlo nella destra, facendo girare il cavallo al tempo stesso e lanciando un grido di sfida al guerriero. Il matabele allung• e irrigid il braccio che stringeva la lancia, e il cavallo, lanciato, and• a impalarsi sull'argentea e larga lama. Gli entr• in profondit… nel petto tra le zampe anteriori. La bestia indietreggi• per il colpo, quindi s'abbatt‚ su un fianco. Zouga ebbe appena il tempo di liberare il piede dalla staffa e di saltar via prima che il cavallo crollasse a terra, con tutte e quattro le zampe che scalciavano contro il cielo. Zouga batt‚ malamente contro il suolo, ma raccolse le proprie forze e balz• su per affrontare il guerriero. Fece appena in tempo a deviare l'assegai insanguinato con il quale il matabele aveva mirato al suo stomaco. L'acciaio urt• contro la canna del fucile, dopodich‚ loro due si ritrovarono avvinghiati. Il nero puzzava di fumo di legna, ocra e grasso, e il suo corpo era duro come ebano scolpito e viscido come un pesce gatto appena catturato. Zouga sapeva che non poteva tenerlo per pi— di pochi secondi e, con una mano sulla punta della canna e l'altra sull'otturatore sbatt‚ il calcio del fucile sotto il mento dell'altro, sul pomo d'Adamo, e cerc• disperatamente di agganciargli la caviglia con la rotella dello sperone. Caddero gi— all'indietro, con Zouga sopra, e al momento in cui batterono contro il duro terreno questi cerc• di premere con tutto il peso del corpo sul fucile, spingendo selvaggiamente contro la gola del matabele finch‚ il collo si spezz• con un rumore simile a quello di una noce schiacciata. Le palpebre del guerriero sbatterono sugli occhi iniettati di sangue e il corpo s'afflosci•. Zouga si tir• in piedi e si guard• rapidamente intorno. I soldati erano ora tra le capanne e s'udivano di tanto in tanto degli spari: stavano eliminando i superstiti di quella coraggiosa quanto inutile carica. Uno degli uomini stava inseguendo una vecchia nuda che scappava con le mammelle vuote che le ballonzolavano davanti e le gambe sottili che quasi le si piegavano per il terrore. La invest col cavallo e poi fece indietreggiare la bestia perch‚ la calpestasse, gridando intanto e imprecando eccitato e sparando nel fragile corpo avvizzito che giaceva a terra ai suoi piedi. Oltre il villaggio, poi, vide due cavalli che risalivano al galoppo il pendio alla base del dirupo. Allorch‚ lui si lanci• avanti, raggiunsero la caverna e Daniel e Thorn saltarono gi— e scomparvero nell'antro.
Da dove si trovava lui fino alla base del dirupo c'era poco meno di un chilometro. Zouga ricaric• l'arma mentre correva. Il combattimento col matabele lo aveva scosso e gli stivali da cavallerizzo lo impacciavano a ogni passo. Impieg• molti lunghi minuti per raggiungere, su per il pendio, il punto in cui Daniel e Thorn avevano lasciato i cavalli, e quando vi arriv• era senza fiato. S'appoggi• alla roccia di lato all'ingresso della caverna e scrut• nel buio e minaccioso interno fremendo a ogni respiro che traeva. Tumultuosi echi risuonavano nel buio della caverna, grida umane e ruggiti e ringhi di animali selvaggi, soprattutto le grida di una donna in terribile pena e scariche di fucileria. Si spost• dalla roccia e avanz• nell'ingresso. Quasi immediatamente inciamp• in un corpo. Era quello di un vecchio, con i capelli bianchissimi e la pelle avvizzita come una prugna secca. Lo scavalc• e fin in una pozza del suo scuro sangue appiccicoso. Mentre avanzava, gli occhi ormai abituati alla poca luce, guardava intorno a s‚ i corpi mummificati di morti antichi ammucchiati a caso contro le pareti della caverna. Qua e l… qualche bianco osso risaltava attraverso la pelle secca e incartapecorita e un braccio era levato in un macabro saluto o in quello che pareva un gesto di supplica. Avanz• dunque attraverso quella sinistra catacomba e davanti a lui comparve una sorgente di luce. Affrett• il passo mentre a un'altra ondata di grida selvagge questa volta si mescolava il rimbombo di una risata inumana, che echeggi• tra le pareti di roccia e il tetto. Gir• intorno a una roccia scabra e guard• gi— in una specie di naturale anfiteatro che s'apriva nella caverna. Era illuminato dalle fiamme di un fuoco vacillante e da un singolo raggio di sole che entrava attraverso una stretta crepa nell'alto tetto a volta. Il raggio di sole era attenuato dalle azzurre e soprannaturali spirali del fumo che si levava dal fuoco e, come le luci di un palcoscenico, dava risalto al gruppo di figure che lottava a teira al di l… del fuoco. Scese i gradini naturali e le aveva quasi raggiunte quando si rese conto di cosa stavano facendo. In mezzo a loro, Daniel e Thorn avevano il corpo di una ragazza nera steso sul pavimento di roccia, nuda e con le braccia e le gambe aperte. Il corpo oleato era lucido come la pelle di una pantera, le braccia e le gambe erano lunghe e ben formate. Si dibatteva con la disperazione di un animale selvaggio preso in trappola. Ma le sue grida erano soffocate dal kaross di pelliccia avvolto intorno alla testa. Jim Thorn era inginocchiato sulle sue spalle e la inchiodava a terra; le torceva le braccia piegandole ai gomiti e intanto rideva, una risata crudele che era troppo alta per quel suo scheletrico corpo. Will Daniel era sopra la ragazza, il volto gonfio e scuro per la congestione. Cintura e brache erano abbassate fino alle ginocchia. Grugniva e sbuffava come un maiale al trogolo. Le sue na-
tiche bianche erano coperte da un velo di ricci peli sparsi. Si spingeva contro la ragazza con uno spiaccichio simile a quello che fa una lavandaia che sbatta il bucato su una lastra di pietra. Prima che Zouga lo raggiungesse, il corpo di Will Daniel s'irrigidi e quindi sussult• spasmodicamente, dopodich‚ il canadese rotol• via dal corpo tenero e giovane. Era macchiato di sangue dalle ginocchia all'ombelico di quel pancione cascante e peloso. ® Perdio, Jim, ragazzo mio ¯ , ansim• rivolto al piccolo compagno, ® Š stato meglio che liberarsi di un mal di pancia. Monta sulla cagna, ora, tocca a te... ¯ Poi vide Zouga che usciva dall'ombra e gli sorrise. ® Chi tardi arriva male alloggia, maggiore... ¯ Zouga fece due passi, lo raggiunse e gli moll• un calcio in bocca col tacco dello stivale. Il labbro inferiore si spacc• come il petalo di una rosa e Will Daniel scatt• in piedi, sputando bianche schegge di dente e tirandosi su le brache per coprire la sua mostruosa nudit…. ® L'ammazzo per questo. ¯ Fece per sfilare il coltello dal cinturone che pendeva non ancora affibbiato, ma Zouga gli piant• nel ventre la punta della canna del suo fucile. Poi si gir• di scatto e colp col calcio dell'arma la tempia di Jim Thorn, che stava per afferrare il proprio fucile abbandonato. ® In piedi ¯ , disse, gelido, e Jim Thorn, vacillante e tenendosi la tempia gonfia, indietreggi• contro la parete della caverna. ® L'ammazzo per questo. ¯ Will Daniel ansimava in preda al dolore, reggendosi la pancia. Zouga gli punt• di nuovo contro il fucile. ® Via ¯ , disse a bassa voce. ® Andate via da qui, animali schifosi. ¯ Risalirono i gradini dell'anfiteatro e dall'ombra accanto all'ingresso della caverna Will Daniel strill• di nuovo, con voce tremante di rabbia: ® Questa non la dimenticher•, maggiore Ballantyne del cavolo. L'ammazzer• ¯ . Zouga si gir• verso la ragazza. Si era tolta il kaross che le avvolgeva la testa e stava accovacciata sul pavimento di pietra con le gambe piegate sotto. Cercava di fermare il flusso del suo virginco sangue con le mani, ma intanto guardava Zouga con la spasmodica ferocia di un leopardo tenuto dalle fauci serrate di una trappola a scatto. Zouga si sent invaso da un'ondata travolgente di compassione, eppure non poteva soccorrerla in alcun modo. ® Tu, che eri l'Umlimo, non sei pi— l'Umlimo ¯ , disse alla fine. E lei butt• indietro il capo e gli sput• addosso. Lo sputo spumoso si spiaccic• contro gli stivali, ma lo sforzo la fece fremere di dolore. Si prem‚ le mani contro l'inguine. Un rivolo di lucido sangue arterioso le corse gi— per la coscia. ® Sono venuto a distruggere la Umlimo ¯ , disse Zouga. ® Ma non Š stata distrutta da una pallottola di fucile. Vai, ragazza.
Il dono degli spiriti ti Š stato tolto. Vai svelta, ma vai in pace. ¯ Come un animale ferito, lei strisci• a quattro zampe nel buio dedalo di gallerie oltre l'anfiteatro, lasciandosi dietro una traccia di gocce di sangue sul pavimento di pietra. A un certo punto si volt• indietro verso di lui. ® Pace, hai detto, uomo bianco? Non ci sar… mai pace, mai! ¯ Dopodich‚ scomparve nell'ombra. Le piogge non erano ancora venute, ma forieri, lass—, volavano nel cielo grandi strati di cumulo-nembi dalle teste a forma di funghi. Argentei e azzurri e color porpora, incombevano sulle Colline degli Induna. Il caldo sembrava intrappolato sotto di essi. Piombava sulle colline come il martello del fabbro sull'incudine. I guerrieri erano fitti come formiche sui pendii; accovacciati in folte file, con gli scudi sotto di s‚, gli assegai e i fucili poggiati a terra davanti, a migliaia e migliaia, aspettavano, ogni testa piumata piegata in gi— a guardare il kraal reale ai piedi della collina. C'era il battito di un solo tamburo. Tap-tap! Tap-tap! E a un certo punto la gran massa nera di guerrieri s'agit• come un mostro marino che sorga dagli abissi. ® L'Elefante arriva! Eccolo! Arriva! ¯ Un coro basso che si levava da tutti loro. Attraverso i cancelli della palizzata sfilava una piccola processione venti uomini con i simboli del valore, venti uomini che avanzavano fieri, il sangue reale di Kumalo, e alla loro testa l'enorme e pesante figura del re. Lobengula aveva buttato via tutti i fronzoli europei, i bottoni d'ottone, gli specchietti e la giacca con gli alamari d'oro, ed era vestito con tutta la dignit… di un re matabele. L'anello del capo sulla fronte e le piume di airone tra i capelli. Il mantello era di regale pelle di leopardo, chiazzata d'oro, e il gonnellino era di code dello stesso animale. Le caviglie gonfie e storpiate dalla gotta erano coperte dai sonagli di guerra, ma lui controllava il dolore della malattia avanzando con ponderosa dignit…. Lo splendore della sua presenza lasci• senza fiato i guerrieri in attesa. ® Ecco il Grande Toro il cui passo scuote la terra! ¯ Nella destra recava la lancia-giocattolo di sandalo rosso levigato, la lancia del re. Ora lev• in alto la piccola arma e tutta la nazione s'alz• in piedi e gli scudi, i lunghi scudi che davano il nome a ogni impi, fiorirono sul pendio della collina, coprendolo come un giardino di mortali fiori esotici. ® Bayete! ¯ Il saluto regale tuon• come l'onda di un mare invernale che s'infranga su una roccia. ® Bayete! Lobengula, figlio di Mzilikazi. ¯ Dopo quel grande scoppio di grida il silenzio fu scoraggiante, ma Lobengula percorse lentamente le file e nei suoi occhi c'era il terribile dolore di un padre per il figlio che deve morire. Quella era l'ora che pi— aveva temuto sin dal primo giorno in cui aveva preso nella destra la piccola lancia di sandalo rosso. Quel-
lo era il destino che aveva cercato di evitare, e ora lo aveva di fronte. La sua voce echeggi•, e lui sollev• la lancia e la punt• verso est. ® Il nemico che ci assale Š come... ¯ la lancia gli trem• nella mano ® ... Come il leopardo nel recinto delle capre, come le termiti bianche nel palo di una capanna. Non si fermer… finch‚ tutto non sia distrutto. ¯ I reggimenti matabele ammassati ringhiarono, tesi come cani da caccia al guinzaglio, e Lobengula si ferm• al centro delle loro file e scost• il manto di pelle di leopardo dal braccio destro. Si gir• lentamente finch‚ fu rivolto verso est dove, lontano oltre l'orizzonte, era ammassata la colonna di Jameson, e il braccio che stringeva la lancia si pieg• il pi— possibile all'indietro. Rimase in quella posizione, quella classica del lanciatore di giavellotto, e nell'aria si lev• un brusio allorch‚ diecimila polmoni si riempirono di fiato e lo trattennero. Poi, con un grido accorato, il grido di un uomo schiacciato dalla ruota di ferro del proprio destino, Lobengula scagli• la lancia di guerra verso est. Il suo grido echeggi• in diecimila gole. ® Jee! Jee! ¯ Ruggirono, tutti, e agitarono nell'aria le larghe lame argentee, trafiggendo il nemico ancora invisibile. Poi gli impi si disposero in formazione, gli uni dietro gli altri. Guidati dai loro induna, gli scudi sovrapposti, sfilarono davanti al re, feroci nel loro orgoglio, brandendo e facendo lampeggiare gli assegai; e Lobengula l salut•: l'Imbezu e l'Inyati, l'Ingugu e l'Izinivukuzane e le Talpe-che-scavano-sotto-la-montagna, con gli scudi rossi tenuti alti e Bazo, l'Ascia, che procedeva alla testa. S'allontanarono spiegandosi sui terreni erbosi a oriente e Lobengula ud ancora il loro canto, fievole nell'aria calda, molto dopo che l'ultimo guerriero era scomparso. Un piccolo gruppo di induna e di guardie ancora scortavano il re, ma attesero gi— all'ingresso della palizzata. Lobengula rimase solo sul fianco della collina ormai deserto tutta la dignit… e la fierezza regali erano scomparse dal suo portamento. Il suo grosso corpo gonfio era prostrato corne quello di un uomo vecchissimo e malato, i suoi occhi erano pieni di lacrime non versate. Stava guardando fisso verso est, senza muoversi, ascoltava il canto di guerra che andava affievolendosi. Alla fine emise un sospiro, si scosse e avanz• barcollando sui piedi distorti. Dolorosamente, si chin• a recuperare la piccola lancia. Ma si ferm• prima che le dita la toccassero. La lama della lancia del re s'era spezzata. Raccolse i pezzi e li tenne in mano, poi si gir• e, strascicando i piedi, s'avvi• lentamente gi— dalle Colline degli Induna. La bandiera della BSA Company si levava alta sul campo in cima a un palo di mopani leggermente storto. Pendeva inerte nel calore che intontiva e cos era stata tutta la mattina, ma ora che la pattuglia a cavallo attravers• il ter-
reno aperto sopra la sponda del fiume si agit• appena a una lieve corrente d'aria, come se volesse attrarre l'attenzione su di s‚, poi, per un momento, si allung• in tutta la sua piena gloria prima di afflosciarsi ancora una volta, stanca. Alla testa della pattuglia, Ralph Ballantyne si gir• verso suo padre che gli cavalcava al fianco. ® Quella bandiera non lascia dubbi, pap…. ¯ Le croci di san Giorgio, sant'Andrea e san Patrizio, che formano l'Union Jack, erano sovrimposte al simbolo della Company, un leone rampante con una zanna d'avorio tra le zampe e, sotto, le lettere BSAC: British South Africa Company. ® Servi della BSA Company prima e poi, molto dopo, della regina. ¯ ® Sei un cinico, Ralph. ¯ Zouga riusc a stento a reprimere un sorriso. ® Vuoi dire che c'Š qualcuno, qui, in tutta la BSA Company, che si batte per interessi personali piuttosto che per la gloria dell'Impero? ¯ ® Lungi da me il pensiero. ¯ Questa volta Ralph rise. ® A proposito, pap…, quante concessioni di terra hai comprato finora? Ho perso il conto: trenta o trentacinque? ¯ ® Questo Š un sogno al quale ho teso per tutta la vita, Ralph. Sta avverandosi davanti ai nostri occhi, e quando sar… fatta avr• avuto la mia giusta ricompensa. Nient'altro. ¯ Il campo, esattamente quadrato, si trovava a trecento metri dalle ripide sponde del fiume Shangani, al centro di un avvallamento di terra arida. La superficie era piatta e spoglia come un campo da tennis. Il terreno era spaccato in riquadri irregolari arricciati ai bordi che scricchiolarono sotto gli zoccoli dei cavalli quando Zouga condusse la pattuglia dentro al campo. Erano stati fuori due giorni a perlustrare la strada oltre il fiume, e Zouga fu contento di vedere che durante la sua assenza St John aveva seguito il suo consiglio e aveva fatto abbattere dagli uomini tutta la macchia intorno ai bordi dell'avvallamento per aprire il campo al fuoco. Ora qualunque attaccante avrebbe dovuto attraversare trecento metri di terra esposta per raggiungere il quadrato dei carri, il tutto sotto il tiro implacabile delle Maxim. Quando rallentarono, una compagnia di soldai tolse le catene alle ruote di uno dei carri e lo spost• di lato per permettere loro di entrare. Un sergente nell'uniforme della BSA Company salut• Zouga quando pass• e gli grid• dietro: ® Il generale St John la saluta, signore. Vuole presentarsi da lui direttamente? ¯ ® Scommetto che hai bisogno di un sorso. ¯ Mungo St John diede un'occhiata alla polvere che macchiava come farina la barba di Zouga e alle chiazze scure di sudore sulla camicia. Zouga ringrazi• freddamente con un cenno del capo e si vers• dalla bottiglia che fermava uno degli angoli della carta geografica. ® Gli impi sono tutti schierati ¯ , disse poi. Lasci• che il whisky gli lavasse via la polvere dalla bocca e prosegu : ® Li ho idenfificati quasi tutti. C'Š l'impi Inyati di Gandang e l'Insu-
kamini di Manonda... ¯ Riferiva i nomi degli impi dei vari induna dando occhiate agli appunti che aveva preso sul proprio taccuino, ® Abbiamo avuto un piccolo scontro con le Talpe e ci siamo dovuti far largo sparando, tuttavia abbiamo raggiunto il fiume Bembesi prima di tornare indietro. ¯ ® Dove sono gli impi, Ballantyne? Maledizione, amico, abbiamo fatto un'avanzata di oltre cento chilometri dalla Collina della Miniera di Ferro senza incontrare un'anima ¯ , esclam• Jameson, seccato. ® Sono tutt'intorrio a noi, dottore. Un migliaio o pi—, tra gli alberi al di l… del fiume, e ho incontrato tracce che mostravano che altri due impi ci hanno aggirato da dietro. Probabilmente stanno sulle Colline Longiwe a spiare ogni nostra mossa. ¯ ® Dobbiamo spingerli a battersi ¯ , dichiar• Jameson, preoccupato. ® Ogni giorno di campagna costa soldi agli azionisti. ¯ ® Non ci attaccheranno qui, finch‚ siamo nel campo. Non attaccheranno su terreno scoperto. ¯ ® Dove, allora? ¯ ® Attaccheranno alla maniera degli zulu, su terreno accidentato o nella boscaglia fitta. Ho notato quattro gole davanti a noi, posti nei quali possono avvicinarsi strisciando su ambedue i lati mentre passiamo o tendere un'imboscata ai carri. ¯ ® Vuoi farci cadere nella loro trappola, invece di tirarli fuori allo scoperto? ¯ chiese Mungo. ® Non li tiriamo allo scoperto. Credo che il loro comandante sia Gandang, il fratellastro del re. E' troppo astuto per attaccarci allo scoperto. Se vogliamo combatterli, dovr… essere su terreno a noi favorevole. ¯ ® Quando il serpente Š attorcigliato, con la testa all'indietro e la bocca aperta che mostra il veleno che pende come gocce di rugiada dalle zanne, allora l'uomo saggio non tende la mano verso di lui. ¯ Gandang parlava a bassa voce e gli altri induna piegavano il capo per sentire le sue parole. ® L'uomo saggio aspetta che il serpente si srotoli e strisci via, allora gli schiaccia la testa col piede. Dobbiamo aspettare. Dobbiamo aspettare per prenderli nella foresta, quando i carri sono bloccati e le avanguardie non vedono gli altri. Allora tagliamo la colonna a pezzi e ce li mangiamo uno per uno, un boccone per volta. ¯ ® Ma i miei giovani guerrieri sono stanchi di aspettare ¯ , disse Manonda, di fronte a Gandang, dall'altra parte del fuoco. Manonda era il comandante dell'impi scelto Insukamini e, benche ci fosse argento sul suo capo, c'era ancora fuoco nel suo cuore. Tutti sapevano che era coraggioso ai limiti della follia, lesto a offendersi e ancora pi— lesto a vendicarsi. ® Questi barbari bianchi hanno marciato attraverso le nostre terre senza incontrare resistenza, mentre noi gli giriamo intorno come ragazzine timide attente alla loro verginit…. I miei giovani guerrieri sono stanchi di aspettare, Gandang, e io anche. ¯ ® C'Š il momento per la timidezza, Manonda, cugino mio, e c'Š quello per essere coraggiosi. ¯
® Il momento per essere coraggiosi Š quando il nemico ti sta sfrontatamente davanti. Loro sono seicento, li hai contati tu stesso, Gandang, e noi siamo seimila. ¯ Manonda sorrise, ironico, al circolo di uomini che ascoltavano. Tutti, in testa, portavano l'anello dell'alto comando, e sulle braccia e le gambe le insegne del coraggio. ® Vergogna per quelli che esitano ¯ , disse Manonda, il Coraggioso. ® Vergogna per te, Bazo. Vergogna per te, Ntabene. Vergogna per te, Gambo. ¯ La sua voce era piena di disprezzo e ogni volta che pronunciava i loro nomi gli interessati sibilavano di rabbia. Poi, all'improvviso, dal di l… del circolo di induna seduti, giunse nella notte un suono che li raggel• e zitt tutti. Era lo spaventoso pianto per i morti. Mentre tutti ascoltavano, s'avvicin• e a esso erano ora mischiate molte altre voci. Gandang salt• in piedi e grid• forte: ® Chi viene? ¯ Dal buio sbucarono una dozzina di guardie che trascinavano e insieme reggevano una vecchia. Portava solo una gonna di pelle di leopardo e al collo aveva gli ornamenti e l'orribile attrezzatura del mestiere di maga. I suoi occhi erano ruotati all'ins— cos che alle fiamme del fuoco brill• soltanto il loro bianco. Aveva spuma alle labbra cascanti. Dalla gola le uscivano i gemiti del canto per i morti. ® Cosa c'Š, maga? ¯ chiese Gandang, e i timori superstiziosi gli storsero la bocca e gli annebbiarono la vista. ® Che notizie porti? ¯ ® Gli uomini bianchi hanno violato i luoghi sacri. Hanno distrutto l'eletta dagli spiriti. Hanno massacrato i sacerdoti della nazione. Sono entrati nella caverna della Umlimo tra le colline sacre e il sangue di lei Š schizzato sulle antiche rocce. Sventura su tutti noi! Sventura su coloro che non cercano vendetta. Ammazzate gli uomini bianchi! Ammazzateli tutti! ¯ La maga si liber• dalla stretta delle guardie e, con un urlo selvaggio, si lanci• in mezzo alle alte fiamme del fuoco di bivacco. La gonna prese fuoco. I capelli incolti bruciarono come una torcia. Tutti arretrarono inorriditi. ® Ammazzate gli uomini bianchi ¯ , url• ancora la maga dalle fiamme, e loro tutti rimasero a guardare la sua pelle annerirsi e la carne staccarsi dalle ossa. Croll• e un torrente di scintille vol• su verso i rami incombenti della foresta. Alla fine ci fu solo il crepitio del fuoco. Nel silenzio e nello stupore generali, Bazo si alz•. Si sentiva crescere dentro, dal profondo dell'animo, la rabbia. Fissando tra le fiamme i neri e contorti resti della maga, avvert lo stesso bisogno di sacrificio: un'espiazione e una liberazione dalla rabbia e dal dolore. Vide tra le fiamme gialle l'immagine del viso amato di Tanase e qualcosa parve lacerarglisi in petto. ® Jee! ¯ inton•, lanciando il grido di guerra, dando espressione alla sua rabbia. ® Jee! ¯ Sollev• l'assegai e punt• la lama nella direzione del fiume e del campo dei bianchi, che distava
poco pi— di un chilometro oltre la scura sagoma delle colline. ® Jee! ¯ e la brezza notturna gli raggel• le lacrime sulle guance, che divennero fredde come neve sciolta sulle montagne Drakensberg. ® Jee! ¯ Manonda riprese il grido. Punt• la lancia verso il nemico e la follia divina discese su di loro. Gandang era il solo in cui fossero rimasti ragione e timore delle conseguenze. ® Aspettate! ¯ grid•. ® Aspettate, figli e fratelli miei! ¯ Ma erano gi… andati, di corsa nel buio, a svegliare i loro rispettivi impi. Zouga Ballantyne non riusciva a dormire, anche se, per il bisogno di riposo, la schiena e le gambe gli facevano male dopo la lunga cavalcata, e la terra sotto di lui non era pi— dura di quella sulla quale aveva passato migliaia di altre notti. Stava disteso e ascoltava gli uomini intorno a lui che russavano e farfugliavano nel sonno; oscuri pensieri e vaghi presagi gli impedivano di imitarli. Ancora una volta, vivo, il ricordo di ci• che era accaduto nella caverna tornava a perseguitarlo. Si chiese quanto tempo avrebbe messo la notizia a giungere al re e ai suoi induna. Sarebbero occorse forse settimane perch‚ un testimone giungesse fino a loro dalla caverna tra le Matopos, ma quando ci• fosse successo lui l'avrebbe capito dalla reazione degli induna matabele. Dalla parte opposta del campo un razzo s'alz• sibilando nel cielo notturno ed esplose in piccole stelle rosse. I picchetti di guardia sparavano un razzo ogni ora per guidare verso il campo una pattuglia sperduta. Zouga allung• una mano sotto la sella che gli faceva da cuscino e tir• fuori l'orologio d'oro. Alla luce del razzo controll• l'ora. Le tre. Scost• la coperta e afferr• gli stivali. Mentre li infilava, il suo presagio di un male in agguato divenne pi— forte. Si mise la bandoliera a tracolla e controll• la rivoltella Webley che pendeva dalla cinghia. Poi scavalc• gli uomini avvolti nelle coperte intorno a lui e and• verso i cavalli. Il castrato baio nitr quando lo riconobbe e Jan Cheroot si svegli•. ® Va tutto bene ¯ , gli disse Zouga, calmo, ma il piccolo ottentotto sbadigli• e, con la coperta gettata sulle spalle come uno scialle, and• verso il fuoco a rimuovere le braci. Vi mise sopra la caffettiera blu di ferro smaltato e, mentre il caffŠ si riscaldava, loro due sedettero l'uno al fianco dell'altro a parlare, da vecchi amici quali erano. ® Meno di ottanta chilometri da qui a GuBulawayo ¯ , mormor• Jan Cheroot, ® Ci sono voluti pi— di trent'anni, ma ora finalmente sento che siamo arrivati a casa. ¯ ® Ho comprato quasi quaranta concessioni di terra ¯ , disse Zouga. ® Sono circa centomila ettari. S , Jan Cheroot, finalmente stiamo tornando a casa. Perdio, Š stato un cammino lungo e difficile dagli scavi di Kimberley allo Zambesi... ¯ S'interruppe e rimase in ascolto. C'era stato un lontano grido, forse
il verso di un uccello notturno, al di l… del campo. ® I mashona ¯ , disse Jan Cheroot con un grugnito. ® Il generale dovrebbe farli stare nel campo. ¯ Durante il lento cammino dalla Collina della Miniera di Ferro, molti piccoli gruppi di mashona s'erano avvicinati ai carri implorando protezione contro i matabele che andavano radunandosi. Sapevano, per amara esperienza, cosa aspettarsi quando gli impi fossero arrivati schierati in battaglia. ® Il generale non poteva correre pericoli. ¯ Zouga scosse il capo. ® Possono esserci molte spie matabele in mezzo a loro, e lui deve guardarsi da ogni colpo a tradimento. ¯ Mungo St John aveva ordinato ai profughi di stare alla larga dal campo e ora ce n'erano un tre o quattrocento, quasi tutte donne e bambini neri, accampati tra i cratego sulla sponda del fiume. A cinquecento metri dal carro pi— vicino. Zouga tolse la caffettiera dalle braci e si vers• nella tazza il nero liquido fumante, poi pieg• il capo e rimase di nuovo in ascolto. C'era uno strepito lontano, un coro distante di grida nella direzione del fiume. Con la tazza in mano, and• sino al carro pi— vicino e sal sulla stanga. Guard• fuori del campo, verso il fiume. Il tratto scoperto di terreno piatto era spettralmente illuminato dalla luce delle stelle; pi— oltre, dov'era il limite degli alberi, c'era ombra nera. Non c'era niente da vedere... Tranne che... Sbatt‚ le palpebre, temeva che gli occhi gli stessero facendo uno scherzo. Non c'era niente, tranne che la nera ombra del limite degli alberi sembrava pi— vicina, l'ombra nera si stendeva fino al campo attraverso il tratto scoperto, come olio versato o una pozza di sangue. Poi ci fu un rumore, un fruscio come d'ali di locuste quando ti passano sul capo e, con spaventosa rapidit…, l'ombra nera s'avvicin• ancor pi—. In quel momento un altro razzo sibil• su nel cielo notturno. Quando esplose, invase l'avvallamento di una luce rossa, e Zouga lasci• cadere la tazza di caffŠ fumante. La terra era nera dell'orda di matabele. Avanzava come una marca nera verso i carri, una fila dopo l'altra di grandi scudi ovali, e gli assegai riflettevano la luce del razzo. Zouga estrasse la pistola dalla fondina e spar• verso il nero muro di scudi avanzante. ® Alle armi ¯ , rugg , col pesante revolver che gli rinculava in mano. ® Arrivano i matabele! Alle armi! ¯ E dalla marea nera part un suono come uno sciamare di api quando l'alveare Š capovolto. Il cane della pistola di Zouga batt‚ su una cartuccia vuota e lui salt• gi— dalla stanga e corse verso la linea di carri dov'era la postazione della Maxim pi— vicina. Per tutto il campo ci furono un andirivieni di uomini e uno strepito di grida spaventate, mentre i soldati correvano ai loro posti. Quando Zouga raggiunse l'angolo del quadrato, il mitragliere venne fuori da sotto un carro dove stava dormendo. Il suo
viso era una chiazza bianca e aveva i capelli davanti agli occhi. Era in calzini e le bretelle gli pendevano ai lati mentre si sollevava le brache e prendeva posto sul piccolo sedile disposto dietro la gamba posteriore del treppiede della Maxim. Del suo compagno addetto al caricamento non c'era traccia nella gran confusione di uomini appena svegliati e cos Zouga infil• la pistola nella cintura e cadde in ginocchio accanto all'arma. Spalanc• il coperchio di una cassetta di munizioni e sollev• un primo tratto del nastro di tela. ® Bene, camerata! ¯ mormor• il mitragliere, e Zouga infil• il tassello d'ottone all'estremit… del nastro nel blocco dell'otturatore. ® Pronto! Uno! ¯ grid•. Il mitragliere abbass• la manopola dalla parte opposta del blocco, poi la lasci• andare e il raccordo in cima all'estrattore afferr• la prima cartuccia. Le lance ora battevano contro gli scudi di cuoio duro e il coro dei guerrieri in corsa era assordante. Dovevano essere a pochi metri dalla barricata di carri, ma Zouga non alz• il capo. Concentrava tutta la sua attenzione nel complicato compito di caricare la Maxim. ® Due! ¯ Il mitragliere abbass• di nuovo la manopola e il blocco d'alimentazione scatt•. Zouga diede uno strappo al tassello del nastro e il mitragliere fece scattare una seconda volta il blocco. La prima cartuccia scivol• nell'otturatore. ® Carica e pronta! ¯ disse Zouga, e batt‚ sulla spalla del mitragliere. Ora alzarono ambedue il capo. La prima fila di scudi e piume di guerra stava per abbattersi su loro due, appostati accanto all'arma, come un'onda sulla spiaggia. Era il movimento dell'® avanzata ¯ che gli amadoda amavano e per la quale vivevano: gi… gli scudi si sollevavano per lasciar libere le braccia che stringevano la lancia, e le lame erano pronte a trafiggere. Il gioioso ruggito del canto di guerra riemp la notte; erano ai carri, ormai, stavano entrando nel campo, e il mitragliere se ne stava irrigidito, con la mitragliatrice tra le ginocchia ed entrambe le mani sulle maniglie. Infil• le dita a uncino nell'anello della sicura e, mentre tirava, schiacci• i pollici sul pulsante di sparo zigrinato. La punta della canna toccava quasi il ventre di un alto guerriero piumato che stava avanzando tra due carri, quando la grossa canna trem• e una fiamma vacillante sprizz• dalla sua bocca. L'assordante martellio rimbomb• nelle orecchie di Zouga. Sembrava che un gigante stesse passando e ripassando una gran barra di ferro su un'enorme lamiera ondulata. Il guerriero fu spazzato via di colpo. Il mitragliere spostava la Maxim da una parte all'altra, come una meticolosa casalinga che spazza un pavimento polveroso, e i continui lampi che uscivano dalla bocca dell'arma illuminavano l'avvallamento davanti al campo con una danzante luce soprannaturale. L'ondata nera dei matabele non stava pi— avanzando; era fer-
ma, bloccata davanti ai carri, e bench‚ la sua cresta spumeggiasse per le piume ondeggianti e gli scudi che formavano il corpo dell'onda s'alzassero e sbattessero e rumoreggiassero, non veniva pi— avanti. Erano bloccati da quelle fiamme vacillanti che schizzavano dalla mitragliatrice Maxim. Il solido fiotto di pallottole s'abbatteva su di loro come un getto d'acqua da una canna, e non appena uno di quei guerrieri che continuavano a cantare si avvicinava di corsa, moriva nello stesso punto in cui era morto l'uomo davanti a lui; cadeva cos sul suo corpo, mentre un altro guerriero appariva al posto lasciato vuoto e la mitragliatrice girava, martellando e spruzzando, finch‚ anche quell'uomo andava gi—, con lo scudo che sbatteva per terra e il lampo dei colpi riflesso dall'acciaio brunito del suo assegai, che volava via lanciato dalla sua mano senza pi— forza. Tutt'intorno al quadrato dei carri le Maxim ruggivano e falciavano, e seicento fucili a ripetizione s'univano a quel coro infernale. L'aria era azzurra per il fumo, e il puzzo della cordite bruciava le gole dei soldati facendogli lacrimare gli occhi: sembrava che piangessero per quel terribile massacro al quale stavano prendendo parte. E tuttavia i matabele continuavano a venire, sebbene ora dovessero arrampicarsi sull'informe barricata formata dai corpi dei loro morti, sicch‚ il mitragliere accanto a Zouga sollev• i pollici dal pulsante di sparo e fece ruotare la rotellina dell'innalzamento della Maxim, spostando la bocca di qualche centimetro pi— su, in modo da mantenere il fuoco all'altezza del ventre dei guerrieri che s'arrampicavano sul mucchio di cadaveri. Poi, ancora una volta, l'arma rugg e falci•, e i lucidi corpi neri sobbalzavano e si contorcevano e s'abbattevano sotto quella pioggia di pallottole che li penetravano, laceranti. Ma i matabele continuavano ad arrivare. ® Perdio, non si fermeranno mai! ¯ grid• il mitragliere. La bocca dell'arma era rovente, rossa come un ferro di cavallo appena tolto dalla forgia, e il vapore dell'acqua della camicia di raffreddamento sibilava, acuto, perch‚ il liquido era in ebollizione. I lucidi bossoli d'ottone schizzavano dall'estrattore; volavano via, urtavano contro le ruote ferrate del carro e formavano un luccicante mucchio sotto il carro. ® Arma scarica! ¯ strill• Zouga mentre l'estremit… finale del nastro s'infilava sbattendo nell'otturatore. Stavano sparando da meno di sessanta secondi e la cassetta col nastro di cinquecento cartucce era vuota. Zouga l'allontan• con un calcio e tir• a s‚ un'altra cassetta. I matabele avanzarono ondeggiando verso l'arma silenziosa. ® Pronti, uno ¯ , grid• Zouga. ® Due! ¯ Stavano sciamando nello spazio vuoto tra i carri. ® Carica e pronta! ¯ Ancora una volta il crepitante battito, come d'ali d'un angelo nero, li stord , mentre la canna si spostava da una parte all'altra, ininterrottamente, ricacciando i matabele nel buio. ® Stanno scappando ¯ , grid• il mitragliere. ® Guarda, scap-
pano! ¯ Davanti ai carri ora non c'era altro che i mucchi di cadaveri. Qua e l… qualche uomo morente si muoveva, per afferrare un assegai scappato di mano o per cercare con dita tremanti di fermare il flusso di sangue da uno degli orribili buchi nella propria carne. Oltre i cadaveri ammassati, i feriti e i mutilati si trascinavano verso la linea degli alberi lasciando sul terreno una scura striscia bagnata. Uno di loro era in piedi e si muoveva barcollando in un inutile girotondo, usando ambedue le mani per trattenere i visceri che gli sporgevano fuori del ventre lacerato. La Maxim lo aveva sventrato come un pesce. Dietro gli alberi il cielo era di un colore meraviglioso, di ceneri di rose, e le nubi si stagliavano scarlatte e oro pallido mentre l'alba sorgeva con silenziosa furia sopra il campo invaso dal puzzo. ® Quei bastardi neri ne hanno avuto abbastanza. ¯ Il mitragliere ridacchiava, una reazione nervosa allo sguardo che aveva appena lanciato all'inferno stesso. ® Torneranno ¯ , disse Zouga, calmo, mentre avvicinava un'altra cassetta di munizioni e ne faceva saltare il coperchio. ® Te la sei sbrigata bene, amico ¯ , disse il mitragliere, sempre ridacchiando, fissando con occhi inorriditi il mucchio di cadaveri. ® Riempi d'acqua il bocchettone, soldato ¯ , gli ordin• Zouga. ® L'arma Š surriscaldata e alla prossima ondata s'incepper…. ¯ ® Signore! ¯ Il mitragliere si rese improvvisamente conto di avere a fianco Zouga. ® Mi dispiace, signore. ¯ ® Ecco il tuo compagno. ¯ Il numero due stava arrivando senza fiato. Era un ragazzo, dal viso fresco, con una testa ricciuta e guance rosee. Sembrava pi— un chierichetto che un mitragliere. ® Dov'eri, soldato? ¯ chiese Zouga. ® A controllare i cavalli, signore. E' successo cos in fretta. ¯ ® Ascolta! ¯ disse Zouga, mentre il ragazzo prendeva il suo posto alla mitragliatrice. Dal folto degli alberi, al di l… dell'insanguinato avvallamento, giunse un canto, profondo e sonoro nell'alba. Era il canto delle Talpe-che-scavano-sotto-una-montagna. ® Rimani al tuo posto, soldato ¯ , ordin• Zouga. ® Non Š ancora finita. ¯ Gir• sui tacchi e, ricaricando la pistola, s'avvi• a grandi passi lungo la fila di carri. Cantando, Bazo, avanzava lungo le file acquattate del suo impi, e i guerrieri cantavano con lui. Aveva trattenuto le file disperse al di qua della linea degli alberi, man mano che ritornavano dal quadrato dei carri. Ora erano riraggruppate, e cantavano per raccogliere il coraggio per un nuovo attacco. Quelli che restavano dell'impi di Manonda erano ora mescolati ai suoi. Erano stati la prima ondata d'at-
tacco e ne erano rimasti ben pochi. All'improvviso ci fu un forte suono frusciante nell'aria sopra le cime degli alberi, come il precipitarsi del primo violento temporale estivo. Poi in mezzo alle file acquattate si lev• un'alta colonna di fumo e polvere e fiamme, e i corpi degli uomini volarono in alto con essa. ® Ammazza il demone di fumo ¯ , grid• qualcuno. Un altro proiettile esplose in mezzo a loro e poi un altro, saltellanti fontane di fumo e fiamme, e, impazziti, i guerrieri fecero fuoco con i loro vecchi Martini-Henry contro quei demoni, ammazzando e ferendo i loro compagni dall'altra parte. ® Non sono demoni ¯ , grid• Bazo, ma la sua voce si perse nel frastuono del fuoco di sbarramento dell'artiglieria e nel pandemonio dei guerrieri che cercavano di difendersi contro qualcosa che non capivano. ® Venite! ¯ rugg Bazo. C'era un solo modo per riprenderne il controllo. ® Ai carri. Avanti, ai carri! ¯ Quelli che erano abbastanza vicini da sentire lo seguirono e, vedendoli andare, anche gli altri corsero dietro di loro. Vennero fuori all'aperto come uno sciame e gli altri impi dispersi, sentendo levarsi il canto di guerra, tornarono indietro verso l'avvallamento; immediatamente, quel terribile e assordante crepitio, simile alla risata di tanti pazzi, ricominci• e l'aria fu piena del sibilo e dello schiocco di mille frustate. ® Arrivano di nuovo ¯ , disse Zouga, calmo, quasi tra s‚. ® E' la quinta volta. ¯ ® E' pazzia ¯ , mormor• Mungo St Jolm, mentre le file uscivano di corsa da dietro gli alberi e da sopra la sponda del fiume, con le piume che s'agitavano come la superficie del latte che bolle, e venivano verso la linea di fuoco. I cannoni da campo erano abbassati al limite del loro angolo d'elevazione, le spolette regolate per la traiettoria pi— corta, e lo scoppio dei proiettili costituiva uno spettacolo stranamente bello nel cielo del mattino, con batuffoli di fumo che s'aprivano improvvisi seguiti da esplosioni di rosse fiamme. La scarica delle armi portatili, poi, risuonava come pioggia di monsoni che batte su un tetto di lamiera, e quando i guerrieri entravano nei banchi di fumo alla deriva le loro fitte file si assottigliavano e perdevano slancio, come un'onda su per una spiaggia erta. Ancora una volta l'ondata esit• e, a poca distanza dai carri, si ferm• e torn• indietro mentre il fuoco dei difensori continuava a lungo anche dopo che l'ultimo dei guerrieri era scomparso tra gli alberi. In una specie di insensata furia, le pallottole delle Maxim strappavano pezzi di corteccia dai tronchi degli alberi; poi, alla fine, una dopo l'altra, le mitragliatrici tacquero. In piedi accanto a Zouga, il dottor Jameson si freg• le mani contento. ® E' finita. Gli impi sono distrutti, sparpagliati, dispersi. E' meglio di quanto avessimo sperato. Mi dica, St John, come militare a quanto stima le loro perdite? ¯ .
Mungo St John riflett‚ con seriet… alla domanda, poi sal su uno dei carri per avere una vista migliore del campo di battaglia, ignorando il crepitio del fuoco dei Martini-Henry che proveniva da dietro gli alberi, dove alcuni tiratori matabele sparavano con ben poca efficacia. Convinti che alzare il mirino al massimo rendesse pi— micidiali le pallottole, quasi tutti i loro colpi finivano molto in alto sulle teste dei nemici. In piedi sul carro, Mungo St John s'accese un sigaro senza distogliere la sua attenzione dalla carneficina che li circondava. Alla fine disse, con aria grave: ® Non meno di duemila, forse anche tremila ¯ . ® Perch‚ non manda fuori una pattuglia a contarli, dottore? ¯ disse Zouga, e Jameson non avvert il sarcasmo. ® Non possiamo permetterci il ritardo... Tanto peggio. Abbiamo davanti ancora un'intera giornata di marcia. Far… buona figura nel rapporto. ¯ Tir• la catena d'oro dal taschino e apr il coperchio dell'orologio con l'unghia del pollice. ® Sono le otto ¯ , annunci•, meravigliato. ® Sono solo le otto del mattino. Vi rendete conto che abbiamo vinto una battaglia decisiva prima di colazione, signori, e che per le dieci possiamo essere in viaggio verso il kraal reale di Lobengula? Credo che i nostri azionisti possano andare ben fieri. ¯ ® Io penso invece ¯ , l'interruppe gentilmente Zouga, ® che avremo ancora dell'altro lavoro da fare. Stanno venendo di nuovo. ¯ ® E' incredibile ¯ , mormor• Mungo St John. Bazo pass• lentamente in rassegna le file sparse. Quello non era pi— un impi, ma una patetica piccola banda di sopravvissuti disperati. La maggior parte s'erano curati le ferite con manciate di foglie verdi, e i loro occhi avevano lo strano sguardo fisso di chi ha guardato nell'eternit…. Non cantavano pi—, se ne stavano accoccolati in silenzio... Ma erano rivolti verso il campo degli uomini bianchi. Bazo super• la corta fila e si ferm• sotto i rami allungati di un albero di tek selvatico. Guard• in su. Manonda, il comandante di quello che una volta era stato il glorioso impi Insukamini, pendeva per il collo da uno dei grossi rami. Aveva un laccio di cuoio intorno alla gola e gli occhi ancora aperti, sporgenti dalle orbite in uno sguardo di sfida verso il nemico. La gamba destra, maciullata sopra il ginocchio dal fuoco delle mitragliatrici, era torta in un brutto angolo e pendeva pi— in basso dell'altra gamba. Bazo alz• l'assegai in un saluto all'induna morto. ® Ti saluto, Manonda, che hai scelto la morte piuttosto che bere l'amaro calice della sconfitta. ¯ L'impi Insukamini non esisteva pi—. I suoi guerrieri giacevano a mucchi davanti ai carri. ® Ti lodo, Manonda, che hai scelto la morte piuttosto che vivere da storpio e da schiavo. Vai in pace, Manonda, e parla dolcemente agli spiriti in nostro favore. ¯
Si gir• ed ebbe di fronte le file silenziose, in attesa. Il sole del primo mattino, che stava appena spuntando da dietro le cime degli alberi, gettava lunghe ombre davanti a loro. ® Sono gli occhi ancora rossi, miei figli? ¯ esclam• Bazo con voce alta e chiara. ® Sono ancora rossi, Baba! ¯ gli risposero in coro. ® E allora andiamo a fare il lavoro che ancora aspetta d'essere fatto. ¯ Mentre alla prima ondata avevano partecipato dieci amadoda, ora solo due comandavano l'ultima carica nell'avvallamento bagnato di sangue. Un solo guerriero di quella pietosa banda and• oltre la mezza strada tra gli alberi e i carri, il resto di loro torn• indietro e lasci• che Bazo continuasse a correre da solo. Singhiozzava a ogni passo, la bocca aperta, il sudore che gli colava in rivoli serpeggianti gi— per il petto nudo. Non sent la prima pallottola che lo colp . Avvert solo un improvviso intorpidimento, come se una parte del suo corpo mancasse. Continu• a correre, saltando sopra il mucchio di cadaveri contratti, poi lo strepito delle armi parve soffocato e lontano, e ci fu un fracasso pi— grande nelle sue orecchie che rimbomb• ed echeggi• stranamente, come il fragore di una possente cascata d'acqua. Avvert un altro improvviso strappo, come se la curva spina dalla punta rossa di uno smilace gli avesse addentato la carne, ma non ci fu dolore. Lo scroscio nella sua testa era pi— forte e la sua visione ristretta: gli sembrava di guardare nel buio attraverso un lungo tunnel. Di nuovo avvert quell'irritante ma indolore strappo nella carne e, all'improvviso, fu stanco. Aveva voglia di stendersi e di riposare, ma continuava ad andare verso le bianche tende di tela dei carri. Poi ancora quell'insistente strappo, come se fosse tenuto a un guinzaglio, e le gambe gli vennero meno. Con estrema lentezza, si pieg• in avanti e giacque col viso contro la dura terra cona dal sole. Il crepitio delle armi era cessato ma al suo posto c'era un altro suono, un suono di acclamazioni: dietro la parete dei carri gli uomini bianchi stavano esultando. Lui era stanco, estremamente, mortalmente stanco. Chiuse gli occhi e lasci• che il buio avanzasse. All'improvviso, cosa non normale per quella stagione, il vento aveva preso a soffiare verso est. C'era una nebbia fredda e umida sospesa sulle colline, la sottile guti che faceva gocciolare tristemente gli alberi e gelava persino le ossa del corpo di Tanase, arraneante su per lo stretto sentiero che portava al valico tra due picchi di granito grigio-perla. Sulle spalle portava un mantello di pelle e in bilico sulla testa un fagotto di tutti gli averi che era riuscita a raccogliere nella caverna della Umlimo. Raggiunse il valico e guard• gi— in un'altra valle ancora, con un fitto sottobosco verde scuro. La scrut• attentamente e alla fine, a poco a poco, lo scoramento la riprese. Come in tutte le
altre, in quella valle non c'era traccia di presenza umana. Da quando aveva lasciato la valle segreta, la luna aveva compiuto il suo ciclo completo e s'era ridotta a niente, e ora ce n'era di nuovo una gialla falce nel cielo notturno. Per tutto quel tempo lei aveva cercato le donne e i bambini della nazione matabele. Sapeva che erano l , nascosti da qualche parte tra le Matopos, perch‚ cos facevano sempre. Quando un potente nemico minacciava la nazione, le donne e i bambini venivano mandati tra le colline. Ma era una zona cos vasta, c'erano tante valli e tante caverne profonde come labirinti che avrebbe potuto cercare una vita intera senza mai trovarli. Cominci• a scendere lentamente nella valle deserta. Si sentiva le gambe di piombo e un altro attacco di nausea le fece affluire saliva alla bocca. Deglut , ma quando raggiunse il fondovalle si lasci• cadere su un masso coperto di muschio accanto al piccolo ruscello. Sapeva qual era la causa del malessere; anche se aveva saltato il ciclo di soli pochi giorni, sapeva che l'odioso seme che il suo violentatore pallido, peloso e panciuto, aveva piantato in lei aveva fatto presa, e sapeva che cosa doveva fare. Mise gi— il suo carico e cerc• sotto gli alberi, l… dove la guti non li aveva ancora inumiditi, degli sterpi. Li ammucchi• sul lato protetto dal vento di un masso e vi si chin• sopra. Per molti lunghi minuti concentr• tutta la sua volont… sopra gli sterpi. Poi alla fine mand• un sospiro e si rilass•. Anche quel piccolo potere, quella piccola magia dell'accendere il fuoco, le era stato tolto. Come le aveva detto l'uomo bianco con la barba dorata, lei non era pi— la Umlimo. Non era altro, ormai, che una giovane donna, senza pi— strane doti e terribili doveri. Era libera. Gli spiriti non potevano pi— richiederle niente, era libera alla fine di cercare l'uomo che amava. Mentre si preparava ad accendere il fuoco nel modo convenzionale, con l'archetto per far ruotare il ramoscello secco, due passioni le davano la forza per affrontare la prova che l'aspettava: il suo amore e l'altrettanto fiero odio. Quando il contenuto della piccola pentola di terracotta boll , vi aggiunse alcuni pezzi di corteccia secca del tambooti e immediatamente l'odore dolce di quel vapore velenoso la prese alla gola. Il corno dell'antilope camoscio, dritto, appuntito e nero, era stato tagliato all'apice cos che poteva essere usato come imbuto per introdurre liquidi nel suo corpo. Stese il mantello di pelle sotto un riparo di roccia e vi si sdrai• sopra, sulla schiena, con i piedi poggiati in alto contro lo scabro granito. Aveva lubrificato il corno con del grasso; ora trasse un profondo respiro, strinse i denti e infil• il corno dentro di s‚. Quando incontr• resistenza, lo maneggi• con cautela, ma anche decisione, dopodich‚ lasci• andare il fiato in un singulto d'agonia mentre la punta del corno trovava l'apertura e s'introduceva di forza sempre pi— dentro nelle sue segrete profondit….
Il dolore le procur• una strana, empia gioia, come se stesse infliggendolo all'odiata cosa che aveva messo radici dentro di lei. Si sollev• su un gomito e prov• il contenuto della piccola pentola di terracotta. Era abbastanza raffreddato da potervi immergere dentro l'indice. Prese la pentola e vers• il contenuto nella bocca del lungo imbuto nero, e questa volta mand• un gemito e inarc• involontariamente la schiena, ma continu• a versare finch‚ la pentola fu vuota. Avvert il salato sapore di sangue in bocca e si rese conto d'essersi morsa a fondo il labbro. Strinse il corno e lo estrasse fuori dal suo corpo, dopodich‚ s'acciambell• sul mantello di pelle e si strinse le ginocchia contro il petto, tremando e gemendo per il fuoco che le divampava in grembo. Durante la notte la presero i primi terribili crampi e sent i muscoli del ventre tendersi e indurirsi, come se sotto le dita stringesse una palla di cannone. Desider• che ci fosse almeno qualcosa di gi… formato, una replica minuscola di quell'animale bianco che l'aveva penetrata, cos da potersi prendere contro di essa una forma di vendetta qualsiasi. Le sarebbe piaciuto mutilarla o bruciarla, ma non c'era niente di consistente su cui sfogare il proprio odio. E cos , pur avendo purgato il corpo, si port• ancora dentro il proprio odio, fiero e irriducibile, mentre arrancava inoltrandosi sempre pi— tra le colline di Matopos. La guidarono grida allegre e dolci risate di fanciulli. Strisci• lungo la sponda del fiume usando come riparo le canne dalle punte filamentose finch‚, al disopra di queste, guard• gi— nel verde stagno tra le sponde di sabbia finissima. Erano fanciulle mandate a prendere l'acqua. Le grandi pentole nere di terracotta stavano in fila sulla sabbia bianca chiuse con foglie verdi per evitare che traboccassero quando le ragazze le avrebbero portate in bilico sulla testa. Una volta riempite le pentole, non avevano resistito alla tentazione della fresca acqua verde, s'erano tolte le gonne e ora strillavano e sguazzavano nello stagno. Le pi— grandi erano puberi, con i boccioli dei seni gi… gonfi. Una di loro la scorse tra le canne e lanci• un grido d'allarme. Lei fece appena in tempo ad afferrare la pi— giovane e la pi— lenta mentre tentava di scomparire su per l'altra sponda, e strinse quel corpicino che si dimenava, nero, lucido e bagnato, contro il petto, mentre la bambina gemeva e si dibatteva atterrita. La rassicur• dicendole parole dolci e carezzandola con mano gentile finch‚ la piccola si calm•. ® Sono della tua gente ¯ , le sussurr•. ® Non devi aver paura, piccola. ¯ Mezz'ora dopo la bambina chiacchierava allegra e la conduceva per mano. Le madri uscirono a frotte dalle caverne in cima alla valle per salutarla, e le si affollarono intorno. ® E' vero che ci sono state due grandi battaglie? ¯ chiedevano. ® Abbiamo sentito dire che gli impi si sono dispersi sullo
Shangani e che quelli che sono rimasti sono stati macellati come bestie sulle rive del Bembesi. ¯ ® I nostri mariti e i nostri figli sono morti? Per piacere, dicci che non Š vero ¯ , imploravano. ® Dicono che il re sia fuggito dal kraal reale e che siamo ora dei figli senza padre. E' vero? Sai dirci se Š vero? ¯ ® Io non so niente ¯ , disse lei. ® Sono venuta per avere notizie, non per portarle. Non c'Š nessuna tra voi che sappia dirmi dove posso trovare Juba, la moglie di Gandang, fratello del re? ¯ Tutte indicarono verso le colline, e lei prosegu e trov• un altro gruppo di donne nascoste nella fitta boscaglia. Quei bambini li non ridevano e non giocavano, erano magri come stecchi ma avevano i ventri gonfi. ® Non c'Š da mangiare ¯ , dissero le donne. ® Presto moriremo di fame. ¯ E la mandarono ancora pi— a nord. Lei arrancava e cercava e interrogava, sforzandosi di non notare l'angustia di una nazione sconfitta, finch‚ un giorno entr• chinandosi nell'apertura di una grotta profonda e fumosa e una figura vagamente familiare s'alz• e le and• incontro. ® Tanase, ragazza mia, figlia mia. ¯ Solo allora lei la riconobbe, perch‚ la carne abbondante s'era come sciolta, era scomparsa da quel corpo, e i seni una volta enormi pendevano inerti come sacche vuote sul ventre. ® Juba, madre mia ¯ , esclam•, e corse ad abbracciarla. Pass• molto tempo prima che potesse parlare tra i singhiozzi. ® Oh, madre mia, tu sai che ne Š di Bazo? ¯ Juba l'allontan• gentilmente da s‚ e la guard• negli occhi. Quando lei vide il devastante dolore in quelli di Juba, esclam• inorridita: ® Non Š morto! ¯ ® Vieni, figlia mia ¯ , sussurr• Juba, e la condusse pi— in fondo alla grotta, lungo un passaggio naturale tra le rocce. C'era li, nell'aria fresca e buia, un odore di cimitero, un odore di corruzione e di carne in decomposizione. Quella seconda grotta era illuminata solo da un lucignolo acceso che galleggiava in una ciotola d'olio. C'era una lettiga, contro la parete in fondo, sulla quale giaceva un corpo devastato e scheletrico. L'odore di morte era insopportabile. Tremante, lei s'inginocchi• accanto alla lettiga e sollev• un fascio di foglie da una delle fetide ferite. ® Non Š morto ¯ , ripet‚. ® Bazo non Š morto. ¯ ® Non ancora ¯ , disse Juba. ® Suo padre e quelli che sono sopravvissuti alle pallottole degli uomini bianchi hanno portato mio figlio da me sul suo scudo. Mi hanno pregata di salvarlo ma nessuno pu• salvarlo. ¯ ® Non morir… ¯ , disse lei, con impeto. ® Non permetter• che muoia. ¯ E si chin• sul corpo scheletrico e prem‚ le labbra sulla carne rovente per la febbre. ® Non ti permetter• di morire ¯ bisbigli•.
Le Colline degli Induna erano deserte. Non c'erano bestie al pascolo perch‚, ormai da tempo, le mandrie erano state condotte via per salvarle dagli invasori. Non c'erano avvoltoi n‚ corvi a volteggiare alti sulle colline, perch‚ le mitragliatrici Maxim avevano predisposto un banchetto pi— ricco per loro ad appena quaranta chilometri a est, all'incrocio con il Bembesi. Il kraal reale di GuBulawayo era quasi deserto. Il quartiere delle donne era immerso nel silenzio. Nessun bambino piangeva, nessuna fanciulla cantava, nessuna vecchia brontolava. Erano tutti nascosti tra le magiche colline di Matopos. Gli alloggi dei reggimenti erano deserti. Duemila morti sullo Shangani, altri tremila al Bembesi, e nessuno avrebbe mai contato quelli che erano strisciati via a morire come animali nelle caverne e nella boscaglia. I sopravvissuti s'erano sparpagliati, alcuni per raggiungere le donne sulle colline, gli altri, stupefatti e demoralizzati, per rifugiarsi dovunque riuscissero a trovare riparo. Di tutti gli impi matabele solo uno rimaneva intatto, il reggimento Inyati dell'induna Gandang, il fratellastro del re. Solo Gandang era riuscito a resistere alla follia di lanciare i propri uomini su un terreno aperto contro le mitragliatrici Maxim in attesa, e ora aspettava gli ordini del re sulle colline a nord del kraal dove il suo impi s'era raccolto intorno a lui. In tutta GuBulawayo era rimasto solo un piccolo gruppo. Ventisei erano uomini e donne bianchi. Erano i mercanti e i cacciatori di concessioni che erano rimasti nel kraal quando Jameson aveva marciato dalla Collina della Miniera di Ferro. Con loro c'era la famiglia Codrington: Clinton, Robyn e le gemelle Lobengula aveva ordinato loro di restare sotto la sua protezione, mentre gli impi erano via schierati in battaglia, e ora li aveva convocati nel recinto per la sua ultima udienza. Disposti davanti alle due nuove case di mattoni che erano state costruite al posto della grande capanna dal tetto di paglia, c'erano i quattro carri di Lobengula con i buoi gi… attaccati. Intorno ai carri c'era un piccolo gruppo di gente del re: due delle sue mogli pi— anziane, quattro induna anziani e una dozzina di schiavi e servi. Il re sedeva sulla cassetta del carro di testa. In quel carro c'erano tutti i suoi tesori, un centinaio di grosse zanne d'avorio, le piccole pentole sigillate con i diamanti grezzi e i sacchetti di tela con la scritta THE STANDARD BANK LTD stampigliata sopra che contenevano le sovrane pagate a Lobengula durante i quattro anni trascorsi da quando aveva dato la sua concessione alla British South Africa Company; quattromila sovrane, meno di una sovrana per ognuno dei suoi guerrieri morti. Intorno al carro erano raccolti anche i bianchi, e il re stava guardandoli. Nelle poche settimane da quando aveva scagliato la sua lancia di guerra sulle Colline degli Induna, Lobengula era diventato un vecchio. C'erano rughe profonde di dolore e disperazione intorno alla bocca e agli occhi, che erano umidi e miopi. I capelli erano diventati grigio-argento, il corpo s'era
gonfiato e sformato e il respiro era irregolare e stento, come quello di un animale morente. ® Dite alla vostra regina, uomini bianchi, che Lobengula ha mantenuto la sua parola. A nessuno di voi Š stato fatto del male ¯ , disse ansimando. ® Daketela e i suoi soldati saranno qui domani. Se andate sulla strada orientale potrete incontrarlo anche prima di sera. ¯ S'interruppe per riprendere fiato, quindi prosegu : ® Andate, ora. Non ho pi— niente da dirvi ¯ . I bianchi tacevano, sottomessi, stranamente umili, mentre in corteo sfilavano fuori del recinto. Solo Robyn e la sua famiglia rimasero. Le gemelle stavano ai due lati della madre. A ventun anni erano ormai alte come lei. Sembravano tre sorelle, perch‚ avevano tutte gli occhi chiari e i capelli lucenti delle donne giovani e sane. Clinton Codrington, dietro di loro, era curvo e calvo, vestito di un completo sobrio che era diventato verde col tempo ed era lucido ai polsi e ai gomiti, e sembrava il padre anche di Robyn oltre che delle gemelle. Il re li guard• con terribile rimpianto. ® E' l'ultima volta che fai lieti i miei occhi, Nomusa ¯ , disse. ® O re, il mio cuore Š in fiamme per te. Penso a quello che Š successo e a come ti ho consigliato. ¯ Lobengula alz• una mano per zittirla. ® Non torturarti, Nomusa. Sei stata un'amica sincera per molti anni e quello che hai fatto l'hai fatto per amicizia. Niente di quello che tu o io avremmo potuto fare avrebbe cambiato le cose. Era la profezia, era certo come la caduta delle foglie dall'albero msasa quando il gelo Š sulle colline. ¯ Robyn corse verso il carro e Lobengula si chin• per prenderle la mano. ® Prega per me i tuoi tre dŠi che sono un dio solo, Nomusa. ¯ ® Ti ascolter…, Lobengula, tu sei un uomo buono. ¯ ® Nessun uomo Š tutto bene o tutto male ¯ , disse il re con un sospiro. ® Ora, Nomusa, Daketela e i suoi soldati saranno presto qui. Digli che Lobengula dice questo: 'Sono sconfitto, uomini bianchi, e i miei impi sono distrutti. Lasciatemi andare ora, non datemi pi— oltre la caccia, perch‚ io sono un vecchio malato. Vorrei solo trovare un posto dove poter piangere la mia gente... E alla fine morire in pace'. ¯ ® Glielo dir•, Lobengula. ¯ ® E ti ascolteranno, Nomusa? ¯ Robyn non riusc a guardarlo e abbass• gli occhi. ® Tu sai che non mi ascolteranno. ¯ ® La mia povera gente ¯ , bisbigli• Lobengula. ® Penserai tu alla mia povera gente quando sar• andato, Nomusa? ¯ ® Te lo giuro, o re ¯ , disse Robyn con slancio. ® Rimarr• alla missione di Khami fino al giorno in cui morr•, e dedicher• la mia vita alla tua gente. ¯ Ora Lobengula sorrise e ancora una volta gli lampeggi• negli occhi quel suo sguardo malizioso.
® Ti do il permesso reale che ti ho negato per tutti questi anni, Nomusa. Da questo giorno in poi, a chiunque della mia gente lo desideri, uomo o donna o bambino, puoi versare l'acqua sulla testa e fargli la croce dei tuoi tre dŠi sulla fronte. ¯ Robyn non riusc a rispondere. ® Stai in pace, Nomusa ¯ , disse Lobengula, e lentamente il suo carro usc cigolando dal recinto. Clinton Codrington ferm• il mulo in cima all'altura che dominava il kraal reale e cerc• la mano di Robyn. Rimasero seduti in silenzio sul sedile del piccolo barroccio a guardare le ultime tracce di polvere lasciate dai carri del re, che stavano scomparendo lontano, nel nord, al di l… della pianura erbosa. ® Non lo lasceranno mai in pace ¯ , disse Robyn a bassa voce. ® Lobengula Š il trofeo ¯ , osserv• Clinton. ® Senza di lui, Jameson e Rhodes non avranno vittoria. ¯ ® Cosa faranno di lui ¯ , chiese lei con voce triste, ® se lo prendono? ¯ ® Esilio, certamente ¯ , rispose Clinton. ® L'isola di Sant'Elena, probabilmente. E' l che hanno mandato Cetywayo. ¯ ® Pover'uomo ¯ , bisbigli• Robyn. ® Colto tra due epoche: mezzo selvaggio e mezzo civilizzato, mezzo despota crudele e mezzo sognatore timido e sensibile. Povero Lobengula. ¯ ® Guarda, pap…! ¯ esclam• all'improvviso Vicky, indicando la pista che andava verso est. Una fitta colonna di polvere si sollevava al disopra delle cime dei crateghi e, mentre loro guardavano, una schiera di uomini a cavallo sbuc• sulla pianura erbosa con le armi che brillavano al sole. ® Soldati ¯ , disse Lizzie in un bisbiglio. ® Soldati ¯ , ripet‚ Vicky, allegra. ® Centinaia. ¯ E le gemelle si scambiarono un'occhiata: s'erano capite. Clinton prese le redini ma Robyn lo trattenne, stringendogli la mano. ® Aspetta ¯ , disse. ® Voglio vedere cosa succede. Pi— o meno Š la fine di un'era, la fine di un'era crudele ma innocente. ¯ Lobengula aveva lasciato uno dei suoi fidati induna nel kraal reale, con l'ordine di dar fuoco a tutto appena l'ultimo dei carri fosse scomparso. Nell'edificio di mattoni di fango dietro la nuova residenza del re c'erano i resti di centomila cartucce per i Martini-Henry in cambio dei quali lui aveva venduto la sua terra e la sua gente. C'erano anche venti barili di polvere nera. ® Guarda! ¯ disse Robyn. La colonna di fumo nero e fiamme si levava a decine e decine di metri, dritta nell'aria tranquilla. Solo dopo molti secondi l'onda d'urto e il grande scoppio arrivarono all'altura da cui loro stavano guardando, e il fumo, sempre attorcigliandosi, s'apr a forma di incudine, alto sopra il kraal distrutto. La casa di Lobengula, di cui il re era andato tanto orgoglioso, era solo uno scheletro: il tetto era saltato e le mura erano crollate.
Le capanne del quartiere delle donne erano in fiamme e, mentre loro guardavano, queste saltarono la barricata e attaccarono i tetti al di l…. In pochi minuti l'intera GuBulawayo fu in preda alle implacabili lingue di fuoco. ® Ora possiamo andare ¯ , disse Robyn, calma, e Clinton incit• il mulo. C'erano trenta uomini nell'avanguardia mandata innanzi a esplorare e, mentre si avvicinavano al galoppo, l'alta e dritta figura che era alla loro testa fu riconoscibilissima. ® Grazie al cielo siete salvi! ¯ grid• Zouga. Era bello ed eroico nell'uniforme, con gli alamari e i gradi d'oro che brillavano al sole. Portava il cappello floscio abbassato sulla fronte, a ombreggiare i suoi bei tratti. ® Non siamo mai stati in pericolo ¯ , rispose Robyn quando fu vicino. ® E tu lo sapevi benissimo. ¯ ® Dov'Š Lobengula? ¯ Zouga cerc• di cambiar discorso, ma lei scosse il capo. ® Sono colpevole di un atto di tradimento contro Lobengula... ¯ ® Tu sei un'inglese ¯ , le ricord• Zouga. ® Dovresti sapere a chi essere fedele. ¯ ® S , sono inglese ¯ , ammise lei, gelida, ® ma oggi ho vergogna d'esserlo. Non ti dir• dov'Š il re. ¯ ® Come vuoi. ¯ Zouga guard• Clinton. ® Tu sai che cosa Š bene per tutti in questa terra. Finch‚ non avremo Lobengula, non ci sar… pace. ¯ Clinton chin• il capo calvo. ® Il re Š andato a nord, con i suoi carri, le mogli e il reggimento Inyati. ¯ ® Grazie ¯ , disse Zouga. ® Mander• una scorta con voi fino al grosso della colonna. Non sono molto indietro. Sergente! ¯ Un giovane soldato con triplici galloni sulle maniche si fece avanti. Era un bel ragazzo, con un colorito tipicamente inglese e spalle larghe. ® Sergente Acutt. Prendi sei uomini dalle ultime file e scorta questi signori. ¯ Zouga salut• la sorella e il cognato, quindi ordin•: ® Soldati, al galoppo! Avanti! ¯ Le prime due dozzine di soldati s'allontanarono sferragliando verso GuBulawayo mentre il sergente e i suoi sei uomini si disponevano di fianco al barroccio. Vicky gir• il capo e fiss• dritto negli occhi il giovane sergente, poi trasse un profondo respiro che fece sporgere il petto in fuori sotto la blusa di cotone scolorito. Il sergente ricambi• lo sguardo e dall'alto collo della giacca il rossore gli si soffuse in fuori sotto la blu Vicky s'umett• le labbra con la punta di una lingua rosea e lo guard• di sottecchi... E il sergente Acutt parve sul punto di cadere di sella, perch‚ lo sguardo di Vicky lo aveva colpito da una distanza di meno di due metri. ® Victoria! ¯ esclam• bruscamente Robyn, senza voltarsi a
guardare. ® S , mamma. ¯ Vicky spinse le spalle in avanti, per dare un'angolazione meno provocante al petto, e assunse un'aria grave. MESSAGGIO TELEGRAFICO RICEVUTO FORT VICTORIA 10 NOVEMBRE 1893 RITRASMESSO PER ELIOGRAFO A GUBULAWAYO: PER JAMESON STOP GOVERNO DI SUA MAESTA RIFIUTA DICHIARARE MATABELE COLONIA DELLA CORONA O METTERLA SOTTO LA GIURISDIZIONE DELL'ALTO COMMISSARIO STOP MINISTRO DEGLI ESTERI DI SUA MAESTA SI DICHIARA D'ACCORDO CHE LA CHARTERED COMPANY PROVVEDA AL MECCANISMO DI GOVERNO DEL NUOVO TERRITORIO STOP SIA MASHONALAND SIA MATABELELAND RICADONO ORA SOTTO AMMINISTRAZIONE BSA COMPANY STOP AZIONI COMPANY QUOTATE OTTO STERLINE CHIUSURA LONDRA STOP LE PIU' SINCERE CONGRATULAZIONI A LEI SUOI UFFICIALI E UOMINI DA GIOVE PER JAMESON URGENTE E CONFIDENZIALE DISTRUGGERE TUTTE LE COPIE STOP DOBBIAMO PRENDERE LOBENGULA STOP NESSUN RISCHIO TROPPO GRANDE NESSUN PREZZO TROPPO ALTO DA GIOVE ® Reverendo Codrington, sto per mandar fuori una considerevole forza per scortare Lobengula fin qui. ¯ Jameson stava sull'ingresso della sua tenda e guardava oltre il campo alle rovine annerite del kraal reale. ® Ho gi… inviato questo messaggio al re. ¯ Torn• alla scrivania e lesse dal suo blocco: Ora, per cessare questo inutile massacro, deve tornare immediatamente da me a GuBulawayo. Le garantisco salva la vita e un trattamento dignitoso. ® Il re le ha mandato una risposta? ¯ chiese Clinton. Aveva rifiutato di sedersi e stava ora in piedi, irrigidito, di fronte al tavolo da campo che serviva a Jameson da scrivania. ® Ecco. ¯ Il dottore porse a Clinton un pezzo di carta sporco e piegato. Clinton lo scorse rapidamente: Ho l'onore di informarla che ho ricevuto la sua lettera e ho sentito tutto quello che lei aveva da dire, cos verr•... ® Questo Š stato scritto da un furfante mezzosangue, un certo Jacobs, che ha raggiunto Lobengula e s'Š unito a lui ¯ , mormor• Clinton, sbirciando il resto di quel messaggio vergato con calligrafia incerta e pieno di errori. ® Conosco la sua scrittura. ¯ ® Secondo lei, il re dice sul serio? ¯ chiese Mungo St John. ® Pensa che intende davvero venire qui? ¯ Clinton non gir• il capo verso di lui, stravaccato in una sedia da campo di tela dall'altra parte della tenda. ® Dottor Jameson, io non perdono le vostre azioni n‚ quelle della vostra scellerata Chartered Company, ma sono venuto qui dietro sua richiesta per fare quel poco che posso per riparare
ai terribili torti che sono stati perpetrati contro il popolo matabele. In ogni modo, mi rifiuto di rivolgere la parola o di comunicare in qualsiasi modo con questo suo tirapiedi. ¯ Jameson s'accigli•, seccato. ® Reverendo, vorrei che lei tenesse presente che ho nominato il generale St John Amministratore e Alto Magistrato del Matabeleland... ¯ Clinton l'interruppe bruscamente: ® Lei sa, naturalmente, che il suo Alto Magistrato un tempo era un noto negriero, che comprava e vendeva quei neri sui quali ora lei gli conferisce poteri supremi ¯ . ® S , grazie, reverendo, so che il generale St John era un regolare mercante, e so anche molto bene che mentre lei era nella Marina di Sua Maest… port• un attacco contro la sua nave, un'azione che la condusse davanti alla corte marziale e per la quale and• in prigione e fu radiato dalla Royal Navy. Ora continuiamo, reverendo. Se non desidera parlare direttamente col generale St John, si pu• rivolgere a me, invece. ¯ Sulla sua sedia pieghevole, Mungo St John incroci• le gambe con gli stivali lucidissimi e sorrise, indifferente, ma il suo occhio era lucido e tagliente come una lama nuda. ® Dottor Jameson ¯ , disse, ® vuol chiedere al buon sacerdote se secondo lui Lobengula ha intenzione di arrendersi? ¯ ® Lei lo farebbe? ¯ chiese Clinton, sempre senza guardare nella direzione di St John. ® No ¯ , rispose Mungo, e guard• Jameson scuotendo il capo in maniera significativa. ® Reverendo, il generale St John sta per mettersi alla testa di una colonna per andare a prendere Lobengula. Voglio che lei vada con lui, per piacere ¯ , disse Jameson. ® Perch‚ io, dottore? ¯ ® Lei parla fluentemente la loro lingua. ¯ ® La parlano anche parecchi altri. Zouga Ballantyne, per esempio, che Š anche un soldato. ¯ ® Suo cognato ha un altro importante lavoro da fare... ¯ ® Come rubare il bestiame del re ¯ , l'interruppe Clinton, acido. Era gi… noto a tutti il fatto che a Zouga Ballantyne era stato assegnato il compito di radunare le enormi mandrie dei matabele e di portarle a GuBulawayo perch‚ venissero distribuite. Comunque, Jameson parve non aver sentito la sua osservazione perch‚ continu•, tranquillo: ® Inoltre, reverendo, lei e sua moglie siete stati per anni molto amici di Lobengula, che si fida e ha simpatia per lei. Invece, poich‚ Š stato proprio il maggiore Ballantyne a consegnargli il nostro ultimatum, Lobengula lo considera ormai un nemico ¯ . ® Non senza ragione ¯ , mormor• Clinton, secco. ® In ogni modo, dottore, rifiuto di essere il vostro Giuda. ¯ ® La sua presenza nella colonna pu• impedire un altro sanguinoso scontro, con l'inevitabile risultato di altre centinaia, se non migliaia, di matabele massacrati. Direi che Š suo dovere cristiano cercare di evitarlo. ¯
Clinton esit• e Mungo mormor•: ® Faccia anche notare, dottor Jim, che, dopo che Lobengula si sar… arreso, il reverendo Codrington sar… in condizioni di confortarlo e proteggerlo, far s che il re venga trattato bene e nessun male gli sia fatto. Su questo do la mia parola ¯ . ® Benissimo ¯ , disse Clinton, capitolando. ® A condizione che io sia il protettore e il consigliere del re anfr• com la vostra colonna. ¯ ® Ci seguono ¯ , disse Gandang a bassa voce. ® Ancora ci seguono. ¯ E Lobengula sollev• il capo e guard• in cielo. Le gocce di pioggia, pesanti e dure come scellini d'argento appena coniati, lo colpirono sulle guance e sulla fronte. ® La pioggia ¯ , disse Lobengula. ® Chi ha detto che non ci potevano seguire con la pioggia? ¯ ® Io, mio re, ma mi sbagliavo ¯ , ammise Gandang. ® Quando s'Š messo in marcia a GuBulawayo, Unico Occhio aveva trecento uomini e quattro dei tre piccoli cannoni con tre gambe che chiacchierano come vecchie. Aveva anche carri e un cannone grande. ¯ ® Questo lo so ¯ , disse il re. ® Quando Š arrivata la pioggia ho pensato che sarebbero tornati indietro, invece i miei esploratori sono giunti con questa brutta notizia. Unico Occhio ha mandato indietro met… dei suoi uomini, i carri, il cannone e due dei piccoli cannoni a tre gambe. Non procedevano col fango... Ma... ¯ Gandang s'interruppe. ® Non cercare di risparmiarmi, fratello mio, dimmi tutto. ¯ ® Avanza con l'altra met… dei suoi uomini e due piccoli cannoni trainati da cavalli. Avanzano veloci, anche col fango. ¯ ® Veloci quanto? ¯ chiese il re, calmo. ® Sono a un giorno di marcia dietro di noi, domani sera s'accamperanno proprio qui, su questo fiume. ¯ Il re si strinse sulle spalle il vecchio cappotto sbrindellato. Faceva freddo sotto la pioggia, ma non aveva l'energia per strisciare sotto la tenda di tela del suo carro. Guard• al di l… dell'alveo del fiume. Erano accampati sullo Shangani, quasi duecentocinquanta chilometri pi— su del posto in cui, alle sorgenti di quello stesso fiume, era stata combattuta la prima battaglia di quella guerra. Si trovavano in una folta foresta di mopani, cos fitta che dovevano tagliarsi la strada in mezzo agli alberi per far passare i carri del re. Il terreno era piatto e gli unici rilievi erano i nidi di termiti sparsi per la foresta, alcuni grandi come case, altri della misura di una botte di birra, grandi abbastanza da rompere gli assi dei carri. Il cielo, grigio e pesante come il ventre di una scrofa pregna, premeva sulle cime dei mopani. Presto sarebbe ripreso a piovere a scrosci pesanti, quelle grosse gocce erano solo un avvertimento del diluvio che sarebbe seguito, e quel rivolo di acqua fangosa, del colore della bile di un alcolizzato, al centro dell'alveo si sarebbe trasformato di nuovo in un rovinoso torrente
nel giro di pochi minuti. ® Centocinquanta uomini, Gandang ¯ , disse il re con un sospiro. ® Quanti ne abbiamo noi? ¯ ® Duemila ¯ , rispose Gandang. ® E, forse domani o dopo, Gambo verr… a unirsi a noi con altri mille. ¯ ® E non ce la facciamo contro di loro? ¯ ® Gli uomini ce li mangeremmo. Sono quei piccoli cannoni con tre gambe, o re. Neppure diecimila guerrieri, ciascuno col fegaro di un leone, potrebbero prevalere quando cominciano a ridere, Se il re comanda, noi correremo. ¯ ® No, E' l'oro ¯ , disse all'improvviso Lobengula. ® Gli uomini bianchi non mi lasceranno in pace finch‚ non avranno l'oro, io glielo mander•. Forse allora mi lasceranno in pace. Dov'Š Kamuza, il mio giovane induna? Lui parla la lingua degli nomini bianchi, lo mander• da loro. ¯ Kamuza arriv• immediatamente all'ordine del re. Rimase immobile sotto la pioggia crepitante, accanto alla ruota anteriore del carro. ® Metti i sacchetti dell'oro nelle mani degli uomini bianchi, Kamuza, mio fedele induna, e digli cos : 'Avete mangiato i miei reggimenti e ucciso i miei giovani guerrieri; avete bruciato i miei kraal e disperso le donne e i bambini di Matabeleland tra le colline, dove scaveranno le radici come animali selvaggi; avete preso le mie mandrie reali e adesso avete il mio oro. Uomini bianchi, avete tutto, volete lasciarmi ora in pace a piangere la mia gente perduta?' ¯ C'erano dieci sacchetti di tela bianca con la stampigliatura in nero. Rappresentavano un carico pesante per un uomo solo. Kamuza s'inginocchi• e li leg• insieme a gruppi, poi infil• ognuno di questi in un sacco di pelle per grano. ® Sentire Š obbedire, Grande Elefante ¯ , fu il suo saluto al re. ® Vai svelto, Kamuza ¯ , ordin• Lobengula a bassa voce. ® Perch‚ ci sono addosso. ¯ Will Daniel stava in sella al suo cavallo con la falda del cappello tirata gi— per proteggere il fornello della pipa di terracotta dalla pioggia sottile. Sulle spalle aveva un telone impermeabile che luccicava, bagnato, e gli dava uno strano aspetto gravido, abbandonato com'era sulla sella con quel suo gran pancione. Alla cavezza aveva altri due cavalli, uno portava un carico coperto da un telo bianco. Non aveva pi— i gradi di sergente. Dopo quello che aveva fatto nella valle segreta della Umlimo, Zouga Ballantyne lo aveva fatto degradare a soldato semplice e, come ulteriore mortificazione, al momento attuale era attendente di uno degli ufficiali della colonna. Il cavallo carico portava infatti gli effetti personali del capitano Coventry. L'altro cavallo apparteneva al suo vecchio compagno d'armi, Jim Thorn. Quest'ultimo stava accovacciato dietro un cespuglio spinoso poco distante, con il cinturone appeso al collo.
Imprecava in tono monotono. ® Sozza acqua, pioggia stramaledetta... Paese schifoso... ¯ ® Ehi, Jim, avrai il culo in fiamme ormai. E' la dodicesima volta oggi. ¯ ® Chiudi quel fornaccio, Will Daniel ¯ , grid• in risposta Jim, poi riprese la sua monotona litania: ® Fetente d'una diarrea che stravolge i visceri... ¯ ® Avanti, su, Jim, ragazzo mio. ¯ Will sollev• la tesa del cappello per guardarsi intorno. ® Non possiamo restare troppo indietro dal resto della colonna, questa boscaglia Š un vermicaio di neri selvaggi. ¯ Jim Thorn usc da dietro il cespuglio affibbiandosi il cinturone, ma storcendo il viso per un altro crampo allo stomaco. Mont• lentamente in sella e i tre cavalli avanzarono lungo le tracce profonde dei carretti trainati dai cavalli che portavano le mitragliatrici Maxim. La retroguardia della colonna era davanti a loro, invisibile tra gli alberi grondanti pioggia. Loro due avevano imparato presto ad attardarsi dietro alla colonna, lontano dagli sguardi degli ufficiali, cos non sarebbero stati comandati a scendere nel fango che arrivava alle ginocchia quando i carretti con le Maxim rimanevano bloccati e dovevano essere spinti a mano. ® Attento, Will! ¯ strill• all'improvviso Jim Thorn. La sua incerata sbatt‚ come le ali di un gallo sorpreso allorch‚ tent• di estrarre il fucile dal fodero. ® Attento, maledetti selvaggi! ¯ Un matabele era sbucato fuori dal fitto sottobosco ai lati delle tracce dei carretti e stava ora direttamente di fronte ai cavalli. Teneva le mani alzate per mostrare ai bianchi che non era armato. ® Aspetta, Jim ¯ , esclam• Daniel. ® Vediamo cosa vuole il bastardo. ¯ ® La cosa non mi piace, amico. E' una trappola. ¯ Jim scrut• nervosamente la boscaglia tutt'intorno. ® Spariamo al nero e andiamocene via da qui. ¯ ® Sono venuto in pace ¯ , disse il matabele in inglese. Aveva soltanto un gonnellino di pelle, senza bracciali e senza fiocchi alle ginocchia, e la pioggia gli brillava sul torso muscoloso. In testa aveva l'anello dell'induna. I due uomini a cavallo a questo punto avevano estratto i fucili e li tenevano puntati, all'altezza del fianco, contro Kamuza, a poca distanza. ® Ho un messaggio del re. ¯ ® Be', sputa fuori, allora ¯ , ordin• Will. ® Lobengula dice: prendete il mio oro e tornate a GuBulawayo. ¯ ® Oro? ¯ chiese Jim Thorn. ® Quale oro? ¯ Kamuza torn• tra i cespugli, prese il sacco di pelle e lo port• da loro. Will Daniel rideva eccitato mentre tirava fuori i sacchetti di tela. Gli tintinnavano in mano. ® Perdio, Š la musica pi— dolce che ho mai sentito. ¯
® Cosa farete, uomini bianchi? ¯ chiese Kamuza. ® Porterete l'oro dal vostro capo? ¯ ® Non preoccuparti, amico. ¯ Will Daniel gli batt‚ soddisfatto sulla spalla. ® Andr… alla persona giusta, hai la parola di William Daniel al riguardo. ¯ Jim Thorn aveva sfibbiato le tasche della sella e vi stava cacciando dentro i sacchetti di tela. ® Natale e compleanno tutt'insieme. ¯ Ammicc• a Will. ® Uomini bianchi, ve ne tornate indietro a GuBulawayo ora? ¯ chiese Kamuza, ansioso. ® Non preoccuparti, sta' tranquillo ¯ , lo rassicur• Will, e trasse dalla tasca della propria sella una pagnotta di pane duro. ® Ecco un regalo per te, bonsela. Regalo, capisci? ¯ Poi, rivolto a Jim: ® Andiamo, mister Thorn. E' cos che ti chiamer• ora che siamo ricchi: mister ¯ . ® Faccia strada, mister Daniel ¯ , rispose Jim con un ghigno, ed entrambi passarono davanti a Kamuza, lasciandolo l , impalato in mezzo al sentiero fangoso, con la pagnotta di pane ammuffito in mano. Scivolando e sguazzando, Clinton Codrington avanz• sulla sponda del fiume Shangani. Le nuvole basse anticipavano la notte e la foresta sull'altra sponda del fiume era umida e buia. Il tuono brontolava sordo, come se sul tetto del cielo venissero fatti rotolare dei macigni, e per alcuni secondi la pioggia venne gi— a scrosci per poi diventare ancora una volta un piovischio sottile. Clinton ebbe un tremito, si tir• su il bavero della giacca di montone e si affrett• verso i carretti fermi in testa alla colonna. Tra i due carretti era stato teso un telone e sotto di esso se ne stava accoccolato un gruppo di ufficiali. Mungo St John alz• il capo quando Clinton s'avvicin•. ® Ah, pastore ¯ , esclam•. Aveva scoperto che quell'appellativo irritava molto Clinton. ® Ce ne ha messo di tempo. ¯ Clinton non rispose; stava chino sotto la pioggia e nessuno degli ufficiali gli fece spazio sotto il telone. ® Il maggiore Wilson va in ricognizione oltre il fiume con una dozzina di uomini. Voglio che vada con lui per fare da interprete, se incontra il nemico. ¯ ® Sar… buio in meno di due ore ¯ , fece notare Clinton, impassibile. ® Quindi Š bene che vi affrettiate. ¯ ® Pu• piovere a dirotto da un momento all'altro ¯ , insist‚ Clinton. ® Le sue forze saranno divise... ¯ ® Pastore, lei si occupi della salvezza delle anime, lasci che pensiamo noi alle cose militari. ¯ Mungo si rivolse ai suoi ufficiali: ® E' pronto ad andare, Wilson? ¯ Allan Wilson era uno scozzese schietto, con lunghi baffi scuri e un accento che evocava tutto il colore dell'altopiano di Scozia. ® Allora mi d… ordini dettagliati, signore? ¯ chiese, irrigi-
dito. Era corso cattivo sangue tra lui e St John sin da quando avevano lasciato GuBulawayo. ® Voglio che lei adoperi tutto il suo buon senso, giovanotto ¯ , sbott• St John. ® Se riesce a raggiungere Lobengula, lo prenda, lo metta su un cavallo e lo porti qui. Se Š attaccato, ripieghi immediatamente. Se si lascia tagliar fuori io non potr• attraversare il fiume e appoggiarla con le Maxim se non alle prime luci, lo capisce questo? ¯ ® Lo capisco, generale. ¯ Wilson si tocc• la falda del cappello floscio. ® Andiamo, reverendo ¯ , disse poi rivolto a Clinton. ® Non abbiamo molto tempo. ¯ Burnham e Ingram, i due esploratori americani, guidarono la pattuglia gi— per la ripida sponda dello Shangani; Wilson e Clinton seguivano immediatamente. La figura alta, magra e curva di Clinton, avvolta nella vecchia giacca di montone, col cappello informe e macchiato tirato fin sopra gli orecchi, sembrava stranamente fuori posto in mezzo a quella pattuglia di uomini armati in divisa. Quando arriv• all'altezza di Mungo St John, impalato in cima alla sponda con le mani dietro la schiena, Clinton si sporse dalla sella del cavallo avuto in prestito e disse, a voce cos bassa che solo Mungo lo ud : ® Legga Samuele II, capitolo undici, versetto quindici ¯ . Dopodich‚ si raddrizz•, tir• le briglie e lui e il vecchio castrato grigio fornitogli dalla BSA Company scesero, scivolando, gi— nel varco che i matabele avevano aperto nella ripida sponda del fiume per far passare i carri di Lobengula. In quel punto lo Shangani era largo duecento metri. Quando la piccola pattuglia lo guad•, nella parte meno profonda, le acque melmose arrivavano fino agli speroni. S'arrampicarono sull'altra sponda e quasi immediatamente scomparvero nel bosco gocciolante e nella poca luce. Mungo St John rimase fermo ancora per molti minuti a guardare dall'altra parte del fiume, ignorando la pioggia fitta e sottile. Pensava. Stava chiedendosi perch‚ aveva mandato una forza cos esigua al di l… del fiume con sole poche ore di luce davanti a s‚. Il pastore aveva ragione, naturalmente, presto sarebbe venuto a piovere sul serio. Il cielo era carico di pioggia. I matabele erano in forze. Il pastore aveva visto l'impi Inyati, agli ordini del vecchio e abile comandante Gandang, scortare i carri via da GuBulawayo. Se voleva perlustrare il terreno al di l… del fiume, sapeva cosa avrebbe dovuto fare: sfruttare le ultime luci per guadare con la sua intera forza. Era la tattica corretta. In tal modo, la pattuglia avrebbe potuto ripiegare sotto la protezione delle Maxim in ogni momento durante la notte, oppure lui avrebbe potuto avanzare per soccorrerli se si fossero trovati nei guai. Un demone doveva essersi impadronito di lui quando aveva dato quell'ordine. Forse Wilson lo aveva irritato oltre ogni limite. Lo scozzese aveva discusso con lui a ogni occasione, aveva fatto del suo meglio per indebolire la sua autorit… tra gli uffi-
ciali, che erano seccati per il fatto che lui, americano, comandasse ufficiali inglesi. Colpa soprattutto di Wilson se quella era stata una spedizione infelice. Forse una notte passata in compagnia del reggimento Inyati lo avrebbe ridotto alla ragione e sarebbe stato un p• pi— trattabile in avvenire... Se c'era un avvenire per lui. Mungo St Jolm ritorn• al riparo del telone teso tra i due carretti che trasportavano le mitragliatrici. All'improvviso fu colto da un'idea e chiam•: ® Capitano Borrow ¯ . ® Signore? ¯ ® Lei ha una Bibbia, vero? Me la presti, per piacere. ¯ L'attendente di Mungo aveva acceso un fuoco sotto il riparo e aveva messo del caffŠ a bollire; ora mise il cappotto di Mungo ad asciugare e quando il generale si acquatt• davanti al fuoco gli pose una coperta di lana grigia sulle spalle. Mungo sfogli• lentamente le pagine della piccola Bibbia rilegata in pelle. Trov• quel che cercava e rimase a fissarlo pensieroso: Nella lettera aveva scritto cos : ® Ponete Uria sul fronte della battaglia pi— dura, poi ritiratevi da lui, perch‚ sia colpito e muoia ¯ . Si chiese se era ancora capace di sorprendersi. C'erano strani punti della sua anima che lui ancora non aveva esplorato. Prese un rametto dal fuoco e s'accese il sigaro, poi immerse la punta rossa del tizzone nella tazza, per dare pi— sapore al caffŠ. ® Bene, bene, pastore! ¯ mormor•. ® Hai un istinto pi— sviluppato di quanto ti attribuivo. ¯ Poi pens• a Robyn Codrington, cercando di vagliare obiettivamente i propri sentimenti. ® L'amo? ¯ si chiese, e la risposta fu immediata. ® Non ho mai amato una donna e, per grazia di Dio, non l'amer• mai. ¯ ® La desidero, allora? ¯ E di nuovo non vi fu esitazione. ® S . La desidero. La desidero abbastanza da mandare alla morte chiunque si frapponga tra me e lei. ¯ ® Perch‚ la desidero? ¯ si chiese ancora. ® Se non ho mai amato una donna... Perch‚ desidero questa qui? Non Š pi— giovane, e Dio sa se non posso scegliere tra cento pi— belle. PerchŠ voglio proprio lei? ¯ Sorrise davanti alla propria lucidit…. ® La voglio perch‚ Š l'unica che non ho mai avuto e che non avr• mai completamente. ¯ Chiuse la Bibbia di colpo e guard• sorridendo verso l'ampio fiume, nella foresta buia e silenziosa di mopani. ® Ben fatto, pastore. L'hai capito molto prima di me. ¯ Le tracce dei carri di Lobengula erano facili da seguire, anche con quella poca luce, e Wilson mise il cavallo al piccolo galoppo. Il vecchio castrato di Clinton era stremato da due settimane di ardua marcia. A poco a poco rimase indietro finch‚, dopo sette od otto chilometri, cavalcavano con la retroguardia del ca-
pitano Napier. Il fango sollevato dagli zoccoli dei cavalli che lo precedevano aveva macchiato il viso di Clinton, che sembrava soffrisse di qualche strana malattia. Davanti alla piccola pattuglia i mopani andavano assottigliandosi; ora su entrambi i lati c'erano basse colline spoglie. ® Li guardi, padre ¯ , grid• Wilson, rivolto a Clinton, e indic• le colline. ® Devono essere centinaia. ¯ ® Donne e vecchi ¯ , rispose Clinton, con un borbottio. Sui pendii erano sparpagliate silenziose figure ferme a guardarli. ® Gli uomini in grado di combattere devono essere con il re. ¯ I dodici uomini a cavallo proseguirono senza rallentare. Il tuono brontol• e scosse il cielo sopra la bassa nuvolaglia. All'improvviso Wilson alz• la destra. ® Soldati, alt! ¯ Il castrato di Clinton si ferm• col capo basso e il petto che gli si sollevava e abbassava tra le gambe. Anche Clinton fu grato per quella fermata. Non era un cavaliere, lui, e non era abituato a cos dure cavalcate. ® Il reverendo Codrington in prima fila! ¯ L'ordine pass• di bocca in bocca e Clinton mise in marcia il castrato. In quel momento uno scroscio di pioggia lo colp al viso come una manciata di salgemma, e lui si asciug• col palmo della destra. ® Eccoli l ! ¯ disse Wilson, teso. Attraverso la pioggia, Clinton scorse la tenda di tela macchiata e lacerata di un carro che spiccava al disopra dei cespugli, a non pi— di duecento passi di distanza. ® Lei sa cosa dire, padre. ¯ L'accento scozzese di Wilson parve ancor pi— marcato e pi— fuori luogo in quel posto e in quelle circostanze. Clinton fece fare ancora alcuni passi al castrato, poi trasse un profondo respiro. ® Lobengula, re di Matabele, sono io, Hlopi. Questi uomini desiderano che tu venga a GuBulawayo a parlare con Daketela e Lodzi. Mi sent , o re? ¯ Il silenzio fu rotto dal fruscio di un ramo scosso dal vento e dal picchiettio della pioggia sulla falda del vecchio cappello di Wilson. Poi, chiarissimo, Clinton sent lo scatto di un Martini-Henry che veniva caricato e nella macchia vicina al carro una voce giovane bisbigli•, in matabele: ® Dobbiamo sparare, Baba? ¯ Una voce pi— profonda, pi— ferma, rispose nella stessa lingua: ® Non ancora. Lasciali avvicinare di pi—, cos non possiamo sbagliare ¯ . Poi le voci furono cancellate dal sordo brontolio di un tuono. Clinton fece indietreggiare il castrato. ® E una trappola, maggiore. Ci sono dei matabele armati appostati intorno ai carri. Li ho sentiti parlare. ¯ ® Crede che il re sia l ? ¯ ® Non credo, ma quello di cui sono sicuro Š che in questo
momento il grosso dell'impi ci sta aggirando, disponendosi tra noi e il fiume. ¯ ® Che cosa glielo fa pensare? ¯ ® E' la solita tattica degli zulu, l'accerchiamento e poi l'avanzata. ¯ ® Cosa consiglia, padre? ¯ Clinton si strinse nelle spalle e sorrise. ® Ho dato il mio consiglio quando eravamo sulla sponda del fiume... ® Fu interrotto da un grido d'allarme in fondo alla collina. Era uno degli americani, il suo accento era inconfondibile. ® Ci sono dei nemici che si muovono dietro di noi. ¯ ® Quanti? ¯ grid• a sua volta Wilson. ® Molti. Vedo le loro piume. ¯ ® Soldati, dietrofront! ¯ ordin• Wilson. ® Al galoppo, avanti! ¯ Allorch‚ i cavalli si tuffarono indietro nel sentiero a malapena tracciato, la pioggia che da tanto tempo li minacciava esplose su di loro con una ghiacciata e argentea cascata. Li frustava in viso e li accecava e batteva sulle loro cerate. ® Questo coprir… la nostra ritirata ¯ , brontol• Wilson, e Clinton frust• il castrato con l'estremit… delle briglie, perch‚ il vecchio cavallo stava di nuovo perdendo terreno. Tra i fitti scrosci argentei della pioggia che cadeva intravide al disopra della macchia un ondeggiar di piume di guerra; stavano incalzando per tagliare la strada alla pattuglia. In quel momento il castrato inciamp• e Clinton fu spinto contro il suo collo. ® Jee! ¯ Sent il canto di guerra levarsi e si aggrapp• disperatamente al collo del cavallo, che sobbalzava per riprendere l'equilibrio. ® Avanti, su, padre! ¯ grid• qualcuno, mentre gli altri soldati lo superavano nel fango e sotto la pioggia. Poi il suo cavallo riprese a correre. Clinton aveva perso una staffa e sobbalzava dolorosamente sulla sella bagnata, aggrappato al pomo. Ma erano passati. Nella boscaglia intorno a loro non c'erano n‚ scudi n‚ piume, solo gli sghembi scrosci di pioggia e il buio della notte che avanzava. ® Mi sta dicendo, Napier, che il maggiore Wilson ha deliberatamente preferito passare la notte sull'altra sponda nonostante il mio ordine esplicito di ritornare prima del cadere della sera? ¯ chiese Mungo St John. L'unica luce era quella della lanterna a vento. La pioggia aveva spento i fuochi. Il telone sulla testa dei due ufficiali sbatteva al vento, schizzandogli addosso gocce di pioggia, e la fiamma della lanterna vacillava incerta dentro il suo riparo di vetro, illuminando la faccia del capitano Napier dal basso, cos che sembrava un teschio. ® Siamo arrivati vicinissimi a Lobengula, generale, a un tiro di voce dai carri. Il maggiore Wilson ha concluso che una ritirata non sarebbe stata giustificata. In ogni caso, signore, la bo-
scaglia trabocca di nemici. La pattuglia ha pi— probabilit… di sopravvivere fermandosi per la notte nel folto ad aspettare la luce del giorno. ¯ ® Questo Š il giudizio di Wilson, vero? ¯ osserv• St John, facendo la faccia severa. Dentro di s‚, per•, si congratulava con se stesso per l'accurata valutazione del carattere impetuoso dello scozzese. ® Deve rinforzare la pattuglia, signore. Deve mandare almeno una Maxim dall'altra parte... Ora, subito. ¯ ® Presti ascolto, capitano ¯ , disse Mungo. ® Cosa sente? ¯ Al disopra, della pioggia e del vento c'era come un'eco, come il suono di una conchiglia accostata all'orecchio. ® Il fiume, capitano ¯ , incalz• Mungo. ® Il fiume Š in piena. ¯ ® L'ho appena guadato. Pu• ancora attraversarlo, signore. Se d… l'ordine ora. Se aspetta l'alba, sar… davvero in piena. ¯ ® Grazie per il consiglio, Napier. Non rischier• le Maxim. ¯ ® Signore, signore... Pu• almeno togliere una delle Maxim dal suo carro. La possiamo portare avvolta in una coperta e attraversiamo a nuoto. ¯ ® Grazie, capitano. Mander• Borrow dall'altra parte con venti uomini per rinforzare Wilson fino al mattino. Il grosso della forza seguir…, con le due Maxim, solo quando ci sar… abbastanza luce per vedere il guado e attraversare il fiume in tutta sicurezza. ¯ ® Generale St John, lei sta firmando la condanna a morte di quegli uomini. ¯ ® Capitano Napier, lei Š agitato. Quando si sar… ripreso, mi aspetto le sue scuse. ¯ Clinton sedeva con la schiena poggiata al tronco del mopani. Con una mano ficcata sotto la giacca di montone teneva la Bibbia al riparo dalla pioggia. Desider•, al disopra di ogni altra cosa al mondo, di avere abbastanza luce per leggerla. Tutt'intorno gli uomini della piccola pattuglia stavano distesi nel fango, infagottati nei loro teli di gomma e nelle loro cerate, ma Clinton era sicuro che, come lui, nessuno di loro dormiva, n‚ avrebbe dormito per tutta la notte. Stringendo la Bibbia sopra il cuore, ebbe il presentimento certo della propria morte e fece la sorprendente scoperta che non ne aveva nessuna paura. Una volta, prima che scoprisse com'era a portata di mano il conforto di Dio - era trascorso tanto tempo da allora -, aveva avuto paura: la liberazione da quella paura, concluse adesso, era un dono divino. Seduto nel buio, pens• all'amore, all'amore per il suo Dio, per la sua donna e per le sue figlie: era tutto quanto rimpiangeva di lasciarsi dietro. Pens• a Robyn e a come l'aveva vista la prima volta, in piedi sul ponte dell'Huron, la nave negriera americana, con i capelli scuri che s'agitavano al vento e i verdi occhi lampeggianti. Si ricord• di lei sullo scompigliato letto intriso di sudore mentre lottava per partorire, ricord• l'incantevole sensazione
che gli diede il corpo caldo e viscido della sua prima figlia mentre scivolava via dal corpo di Robyn tra le sue mani in attesa. Si ricord• del primo vagito petulante e di com'era bella Robyn quando gli sorrise, sfinita e agitata e fiera. C'erano altri piccoli rimpianti: uno, per esempio, era che non avrebbe mai cullato tra le braccia un nipote; un altro, che Robyn non era mai riuscita ad amarlo come lui amava lei. Di colpo si tir• su contro il tronco del mopani e pieg• il capo per ascoltare, scrutando nel buio profondo da dove era giunto il suono. No, non era un suono vero e proprio: l'unico vero suono era quello della pioggia. Era pi— una specie di vibrazione nell'aria. Cauto, infil• il prezioso libro nella tasca interna della giacca, si chiuse le mani a coppa intorno all'orecchio, l'accost• alla terra bagnata e ascolt• attentamente. La vibrazione che veniva su dal suolo era quella di piedi in corsa, piedi nudi, che trottavano al ritmo che ha un impi in marcia. Sembrava la pulsazione stessa della terra. Strisci• a quattro zampe e avanz• a tentoni verso il punto in cui aveva visto l'ultima volta il maggiore Wilson disteso sotto la sua coperta. Non c'era un barlume di luce sotto la notturna nuvolaglia e quando, alla fine, le sue dita toccarono della stoffa grezza chiese, a bassa voce: ® E' lei, maggiore? ¯ ® Cosa c'Š, padre? ¯ ® Sono qui, tutt'intorno a noi. Stanno disponendosi tra noi e il fiume. ¯ Rimasero fermi immobili, mentre l'alba tentava invano di penetrare il basso tetto di nuvole sopra di loro. I cavalli sellati erano delle forme gibbose solo un p• pi— scure della notte intorno a loro. Erano disposti in cerchio, con gli uomini all'interno che, i fucili poggiati sulle selle, scrutavano la folta boscaglia che li circondava. Aguzzavano gli occhi, mentre la luce grigia si posava come polvere di perle sul loro buio mondo bagnato. Al centro del cerchio di cavalli, Clinton stava inginocchiato nel fango. Con una mano teneva le redini del cavallo grigio e con l'altra la Bibbia contro il petto. La sua voce giungeva chiara a ognuno degli uomini in attesa nello scuro cerchio. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome... La luce divenne pi— forte, riuscivano a distinguere la forma dei cespugli pi— vicini. Uno dei cavalli, contagiato forse dalla tensione degli uomini in attesa, nitr e drizz• le orecchie. Sia fatta la Tua volont… cos in cielo come in terra...
Ora sentirono tutti ci• che aveva allarmato il cavallo. Il vago rombo che si avvicinava dalla direzione del fiume e che diventava sempre pi— forte con l'aumentare della luce dell'alba. ... Percb‚ Tuo Š il Regno, il Potere e la Gloria... Ci fu lo scatto metallico di un otturatore di fucile nel cerchio degli uomini silenziosi in attesa, poi una mezza dozzina di voci roche echeggiarono il calmo ® Amen ¯ di Clinton. All'improvviso qualcuno grid•: ® Cavalli! Ci sono dei cavalli laggi—! ¯ E si lev• una breve acclamazione quando tutti riconobbero la forma di berretti flosci ondeggianti contro il cielo grigio. ® Chi va l…? ¯ grid• Wilson. ® Borrow, signore! Il capitano Borrow! ¯ ® Perdio, lei Š il benvenuto. ¯ Wilson scoppi• a ridere di gioia mentre la colonna di uomini a cavallo sbucava dalla foresta ed entrava nel loro cerchio difensivo. ® Dov'Š il generale St John? Dove sono le Maxim? ¯ I due ufficiali si strinsero la mano e Borrow smont• da cavallo, ma non rispose al sorriso di Wilson. ® Il generale Š ancora sulla sponda sud. ¯ Wilson lo guard• incredulo, mentre il sorriso gli scompariva dal volto. ® Ho venti uomini. Solo fucili. Niente Maxim ¯ , aggiunse Borrow. ® E la colonna quando guader…? ¯ ® Abbiamo dovuto far attraversare i cavalli a nuoto. Ormai il fiume Š profondo tre metri, ¯ Borrow abbass• la voce per non allarmare gli uomini. ® Non verranno. ¯ ® Ha preso contatto col nemico? ¯ chiese Wilson. ® Li abbiamo sentiti tutt'intorno a noi. Si chiamavano tra di loro mentre noi passavamo, e li abbiamo sentiti che ci seguivano nella foresta sui due lati. ¯ ® Quindi sono ammassati tra noi e il fiume, e anche se ci apriamo la strada fino a l non possiamo attraversarlo. E' cos ? ¯ ® Temo di s , signore. ¯ Wilson si tolse il cappello e lo sbatt‚ contro la gamba per liberarlo dalle gocce di pioggia. Quindi se lo rimise in testa, spinto all'indietro. ® Si direbbe che c'Š una sola direzione da prendere, quella nella quale i matabele non si aspettano che ci muoviamo. ¯ Si rivolse di nuovo a Borrow: ® L'ordine che abbiamo Š di prendere il re, e ora le nostre vite dipendono da questo. Dobbiamo prendere Lobengula come ostaggio. Dobbiamo andare avanti... E presto ¯ , Alz• la voce: ® Soldati, a cavallo! Avanti. Al trotto! ¯ Avanzarono in formazione stretta, tesi e silenziosi. Il vecchio castrato di Clinton aveva tratto beneficio dal riposo notturno e manteneva il suo posto in terza fila. Alla sua destra cavalcava un giovane soldato.
® Come ti chiami, figliolo? ¯ chiese Clinton. ® Dillon, signore... Voglio dire, reverendo. ¯ Era quasi imberbe, con un viso fresco. ® Quanti anni hai, Dillon? ¯ ® Diciotto, reverendo. ¯ Sono tutti cos giovani, pens• Clinton. Anche il maggiore Allan Wilson ha appena trent'anni. Se solo, pens•, se solo... ® Padre! ¯ Clinton guard• davanti a s‚, la sua attenzione era stata distolta. Erano emersi da un pezzo dalla fitta boscaglia e si trovavano ora nello stesso posto dal quale s'erano ritirati la sera prima. I carri erano ancora l , abbandonati accanto al sentiero appena tracciato; le loro tende formavano delle pallide figure geometriche di solida tela contro la macchia scura e bagnata. Ancora una volta Wilson diede l'alt e Clinton spinse avanti il cavallo grigio. ® Gli dica che non desideriamo combattere ¯ , ordin• Wilson. ® Non c'Š nessuno l…. ¯ ® Provi lo stesso ¯ , lo sollecit• Wilson. ® Se i carri sono abbandonati, allora andremo avanti finch‚ non raggiungiamo il re. ¯ Clinton avanz• ancora e grid•: ® Lobengula, non aver paura. Sono io, Hlopi ¯ . Non ci fu risposta, solo il fruscio del vento tra i teli lacerati dei carri. ® Guerrieri di Matabele, figli di Mashobane, noi non vogliamo combattere... ¯ grid• ancora Clinton, e questa volta gli rispose una voce tuonante, arrabbiata e fiera. Venne fuori dalla penombra e dalla pioggia, e sembrava emanata dall'aria stessa, perch‚ non un'anima era visibile. ® Hau, uomini bianchi. Voi non desiderate combattere, ma noi s , perch‚ i nostri occhi sono rossi e il nostro acciaio Š assetato. ¯ Le ultime parole furono inghiottite da una grande esplosione. La macchia intorno a loro fu avvolta di fumo azzurro e l'aria sulle loro teste venne lacerata da una tempesta di colpi. ® Indietro! Ripiegare! ¯ grid• Wilson, e i cavalli stavano tutti indietreggiando. Il fuoco era per lo pi— troppo alto. Come al solito, i matabele avevano alzato i mirini al massimo; ma dove vano essercene almeno un centinaio nascosti nella macchia, e cos alcune pallottole fecero centro. Uno dei soldati fu colpito a entrambi gli occhi e il dorso dei naso gli fu asportato completamente. Stava chino sulla sella, tenendosi il viso, col sangue che gli sgorgava di tra le dita. Il suo compagno si precipit• a reggerlo prima che cadesse di sella e, con un braccio intorno alla spalla, lo condusse al galoppo di nuovo sul sentiero. Il cavallo del giovane Dillon venne colpito al collo e lui fu scagliato nel fango, ma s'alz• col fucile in mano e, tornando indietro al galoppo, Clinton gli strill•:
® Taglia le tasche della sella. Avrai bisogno di ogni cartuccia che Š l dentro, ragazzo ¯ . Gli si avvicin• per raccoglierlo ma Wilson lo spinse via, come un giocatore di polo. ® Il suo ronzino Š mezzo andato, padre. Non ne porta due. Lei prosegua. ¯ Cercarono di prendere posizione nel folto bosco dove avevano passato la notte, ma i tiratori matabele strisciavano cos vicini che quattro dei cavalli furono abbattuti, scalciando e nitrendo e lasciando esposti gli uomini che erano appostati dietro gli animali e sparavano al disopra delle selle, e tre di loro furono cos colpiti. Uno, un giovane boero di Citt… del Capo, ebbe l'osso sopra al gomito destro frantumato. Il braccio gli pendeva, trattenuto da una striscia di carne, e Clinton adoper• le maniche della camicia per fargli una benda a cui tenerlo sospeso. ® Bene, padre, ora ci siamo. Non c'Š da sbagliare. ¯ Il soldato gli sorrise, un ghigno in un viso tutto chiazzato di sangue come un uovo di tordo. ® Non possiamo restare qui ¯ , grid• Wilson. ® Due feriti per cavallo e un uomo per guidarli. Stiamo al centro, con quelli che hanno perso il cavallo. Il resto di noi cavalcher… in quadrato intorno a loro. ¯ Clinton aiut• il giovane boero a montare sul castrato grigio con uno dei volontari di Borrow dietro di lui. Le aguzze schegge dello stinco gli sporgevano dalla carne della gamba. S'avviarono lentamente, al passo, e dalla boscaglia ai lati del sentiero i moschetti sparavano e fumavano; ma loro, i matabele, erano tutti ben nascosti. Chiaramente non volevano correre rischi neppure con quel piccolo gruppo di una trentina di uomini. Clinton camminava di fianco al castrato, reggendo la gamba buona del ferito per impedirgli di scivolare gi— dalla sella. Portava i due fucili che appartenevano ai feriti appesi alla spalla. ® Padre! ¯ Clinton alz• gli occhi e vide Wilson sopra di s‚. ® Abbiamo tre cavalli che sono abbastanza in forze da tentare una sortita verso il fiume. Ho ordinato a Burnham e Ingram di tentare di arrivare al campo e di avvertire St John della nostra situazione. C'Š un cavallo per lei. La porteranno con loro. ¯ ® Grazie, maggiore ¯ , rispose Clinton, senza un attimo di esitazione. ® Sono un marinaio e un prete, non un cavaliere. Inoltre, penso di avere del lavoro da fare qui. Faccia andare qualcun altro. ¯ Wilson annu . ® Me l'aspettavo che dicesse cos . ¯ Mise il cavallo al trotto e raggiunse la testa della piccola e miserabile colonna. Pochi minuti dopo Clinton udi il battito rapido di zoccoli di cavalli lanciati al galoppo e vide tre uomini che s'allontanavano dal gruppo e si tuffavano nella boscaglia che li circondava. Ci fu un coro di grida di rabbia e di ® jee! ¯ cantati a bassa voce allorch‚ i matabele cercarono di fermarli, ma Clinton vide i loro berretti allontanarsi sussultando al disopra del fitto sottobosco e gli grid• dietro:
® Che Dio vi dia velocit…, ragazzi! ¯ Poi, mentre arrancava nel fango che gli risucchiava la suola degli stivali da cavallerizzo, cominci• a pregare dentro di s‚. Sul lato esterno della colonna un altro cavallo cadde, catapultando il cavaliere al disopra della propria testa; poi, con uno sforzo, si risollev• e rimase su tre gambe, tremando sotto la pioggia, con una delle zampe anteriori che pendeva inerte come un calzino alla corda della biancheria. Il soldato torn• indietro zoppicando, trasse il revolver dalla fondina e spar• all'animale in mezzo agli occhi. ® Una pallottola sprecata ¯ , grid• Wilson. ® Non sprecatenc pi—. ¯ Continuarono, avanzando lentamente, e dopo un p• Clinton s'accorse che non seguivano pi— le tracce dei carri. Wilson, a quanto pareva, li guidava sempre pi— verso est, ma era difficile stabilirlo con precisione perch‚ il sole era sempre nascosto dalla bassa e grigia nuvolaglia. Poi, di colpo, la colonna si ferm• di nuovo e ora, per la prima volta, l'insistente crepitio dei moschetti dei tiratori nascosti tra i mopani cess•. Wilson li aveva guidati in una magnifica foresta; sembrava un parco, con erba bassa e verde sotto i tronchi dei mopani. Alcuni di quegli alberi erano alti una ventina di metri e i loro tronchi erano affusolati e contorti, come se fossero stati modellati nell'argilla di un vasaio. Riuscivano a vedere in profondit… nella foresta, tra gli alberi distanziati tra loro. Laggi—, direttamente davanti alla colonna, schierata di fronte a loro, c'era l'armata di Lobengula. Quante migliaia fossero era impossibile dire, perch‚ la loro retroguardia era nascosta nella foresta. Poi, mentre il piccolo gruppo di bianchi fissava il nemico, ebbe inizio il Jikela, l'accerchiamento, la tattica degli zulu sin dai tempi del grande Chaka. Le ® corna ¯ venivano allungate in quel momento, i guerrieri pi— giovani e pi— svelti correvano sui fianchi, con la pelle nuda che bruciava come fuoco nero nella foresta. Una rete intorno a un branco di sardine. Si lanciarono in avanti finch‚ le punte delle ® corna ¯ s'incontrarono dietro il gruppo di bianchi. E, a quel punto, di nuovo ogni movimento cess•. Di fronte alla pattuglia c'era il ® petto del toro ¯ , i duri ed esperti veterani. Quando le ® corna ¯ si fossero strette, il ® petto ¯ avrebbe avanzato e travolto. Ma ora invece aspettavano, fila dietro fila, silenziosi e attenti. Gli scudi erano screziati in bianco e nero, le piume erano di struzzo, nero-ebano e biancoschiuma, e i gonnellini di code pezzate di zibetto. Di fronte al loro silenzio e alla loro immobilit…, non fu necessario per Wilson alzare la voce. ® Bene, signori. Non andremo pi— oltre... Non per un p•, comunque. Vogliate gentilmente smontare da cavallo e formare il cerchio. ¯ Con calma, i cavalli furono disposti in cerchio in modo che ognuno toccava col muso il didietro di quello che stava davanti.
Al riparo di ogni cavallo il rispettivo cavaliere se ne stava appostato, con il fucile appoggiato sulla sella, e mirava al circostante muro di scudi bianchi e neri, in attesa. ® Padre ¯ , chiam• Wilson a bassa voce. Clinton lasci• i feriti ai quali stava badando e gli fu lesto al fianco. ® Voglio che lei traduca, se loro vogliono parlamentare. ¯ ® Non ci saranno pi— altri discorsi ¯ , replic• Clinton, e nientre lui parlava le file ammassate del ® petto ¯ si aprirono e un alto induna si fece avanti. Anche a quella distanza di duecento passi era una figura imponente con le piume e gli emblemi del suo valore. ® Gandang ¯ , disse Clinton, calmo. ® Il fratellastro del re. ¯ Per lunghi secondi, Gandang fiss• il cerchio di cavalli bagnati dalla pioggia e i volti bianchi e torvi che spiavano da sopra di essi, poi alz• il suo largo assegai sopra la testa. Era quasi un saluto da gladiatore, e quel braccio rest• sollevato per quasi una dozzina di battiti del cuore di Clinton. Poi la voce di Gandang arriv• chiaramente fino a loro in attesa. ® Cominciamo ¯ , disse. E il braccio che teneva la lancia s'abbass•. Immediatamente le ® corna ¯ avanzarono di corsa, stringendo come la presa di uno strangolatore alla gola. ® Fermi! ¯ grid• Wilson. ® Non sparate ancora. E non sprecate cartucce, ragazzi! Non sparate, aspettate di essere sicuri. ¯ Con un suono raspante, le lame vennero fuori dalle cinghie che le legavano agli scudi e, profondo e risuonante, si lev• il canto di guerra: ® Jee! Jee! ¯ Ora le argentee lame picchiavano contro il cuoio screziato degli scudi e i cavalli batterono gli zoccoli a terra e levarono le teste. ® Aspettate, ragazzi. ¯ La prima fila era a una cinquantina di metri e avanzava sotto la pioggia come in una sottile nebbia grigia. ® Scegliete il vostro uomo! Scegliete il vostro uomo! ¯ Venti metri. Cantavano e picchiavano contro gli scudi, al ritmo dei piedi nudi che battevano il terreno. ® Fuoco! ¯ Il crepitio corse lungo tutto il cerchio di uomini appostati; non una singola esplosione, ma ciascun colpo distanziato dall'altro, perch‚ mirato. La prima fila degli attaccanti si fuse col terreno bagnato. Gli otturatori scattarono e il fuoco ora fu continuo, come di petardi cinesi, e ne tornava un'eco, il tonfo sordo delle pallottole di piombo che colpivano la nuda carne nera. In due punti i guerrieri riuscirono a entrare nel cerchio, e per alcuni disperati secondi ci furono grovigli di corpi in lotta e gli spari di pistole puntate dritto contro petti e ventri. Poi l'ondata nera perse impeto, esit• e infine si ritir•. I guerrieri sopravvissuti rientrarono nella foresta lasciando i loro morti sparpagliati sull'erba bagnata. ® Ce l'abbiamo fatta, li abbiamo respinti! ¯ grid• qualcuno, e tutti acclamarono.
® Troppo presto per celebrare ¯ , mormor• Clinton. ® Li lasci gridare. ¯ Wilson stava ricaricando la pistola. ® Che si incoraggino un p•. ¯ Poi guard• Clinton. ® Lei non si unisce a noi, allora? ¯ chiese. ® Una volta era un combattente. ¯ Clinton scosse il capo. ® Ho ucciso il mio ultimo uomo venticinque anni fa. Bader• ai feriti e far• qualsiasi altra cosa lei desidera che faccia. ¯ ® Vada in giro tra gli uomini. Raccolga le munizioni di riserva. Riempia le bandoliere e le distribuisca man mano che sono necessarie. ¯ Clinton torn• al centro del cerchio. C'erano tre uomini nuovi l…: uno era morto, colpito alla testa; un altro aveva l'anca frantumata e il terzo aveva l'asta di un assegai che gli sporgeva dal petto. ® Tirala via! ¯ La voce di quest'ultimo aument• di tono, mentre inutilmente tirava l'asta. ® Tirala via. Non resisto. ¯ Clinton gli s'inginocchi• davanti e calcol• l'angolo di penetrazione della lama. La punta doveva essere vicina al cuore. ® E' meglio lasciarla stare ¯ , consigli•. ® No! No! ¯ La voce dell'uomo divenne pi— forte e quelli del circolo esterno si voltarono a guardare, colpiti da quel grido isterico. ® Tirala via! ¯ Forse dopotutto era meglio, meglio di una morte tra urla che avrebbero snervato quelli che gli stavano intorno. ® Tenetelo per le spalle ¯ , ordin• Clinton, calmo, e un soldato s'inginocchi• dietro l'uomo morente. Clinton afferr• l'asta. Era una bell'arma, legata in disegni decorativi con peli di coda d'elefante e lucido filo di rame. Tir• e, con un risucchio, il suono di uno stivale nel fango spesso, la larga lama venne via. Il soldato grid• solo un'altra volta mentre il sangue del cuore seguiva la lama in un lucido torrente. Prima di mezzogiorno ci furono altre quattro ondate di guerrieri. Ogni volta sembrava impossibile che non riuscissero a travolgere il cerchio di uomini assediati, e ogni volta s'infrangevano su di loro come un'onda su uno scoglio ed erano poi risucchiate via nella foresta. Dopo ogni assalto il cerchio doveva essere rimpicciolito, per riempire i vuoti lasciati dai cavalli caduti e dagli uomini morti e feriti, e allora i moschettieri matabele entravano di nuovo in azione, muovendosi come ombre leste e silenziose tra i mopani, offrendo un misero bersaglio, lo sporgere di una spalla da dietro un tronco, piccoli batuffoli di fumo di polvere da sparo tra l'erba verde, la nera forma di una testa che spuntava da sopra uno dei tanti nidi di termiti allorch‚ un guerriero si sollevava per sparare. Wilson s'aggirava calmo nel cerchio, parlando tranquillamente con gli uomini, carezzando il muso di un cavallo inquieto e poi tornando al centro. ® Ce la fa, padre? ¯
® Ce la caviamo bene, maggiore. ¯ I morti giacevano distesi con quel poco di dignit… che gli restava e Clinton aveva coperto i loro visi con le coperte da sella. Ce n'erano ormai dodici e mezzogiorno era passato solo da poco: altre sette ore di luce. Nel suo delirio, il ragazzo che aveva perso gli occhi nella prima scarica stava parlando con qualcuno del suo passato, ma le parole erano confuse e non avevano senso. Clinton gli aveva fasciato la testa con una benda presa nella tasca della sella del costrato grigio, ma ormai era sporca e intrisa di sangue. Altri due soldati giacevano immobili, uno respirava rumorosamente attraverso un buco nella gola intorno a cui l'aria formava bolle e fischiava; l'altro, silenzioso e pallido, di tanto in tanto tossiva, una tosse breve e secca. Era stato colpito alla schiena, e la parte bassa del corpo era inerte e insensibile. Gli altri, troppo gravemente feriti per far parte del cerchio, aprivano i pacchetti di carta cerata delle cartucce e riempivano le bandoliere. Wilson sedette sui talloni accanto a Clinton. ® Munizioni? ¯ chiese a bassa voce. ® Quattrocento colpi ¯ , rispose Clinton, anche lui a bassa voce. ® Meno di trenta per ciascuno ¯ , calcol• rapidamente Wilson. ® Non contando i feriti, naturalmente. ¯ ® Bene, maggiore, mettiamola cos : almeno non piove pi—. ¯ ® Sa, padre? Non me n'ero neppure accorto. ¯ Wilson fece un vago sorriso e guard• in su al cielo. La coltre di nuvole s'era squarciata e in quel momento apparve un pallido sole spettrale; ma era cos velato e senza calore che potevano guardarlo senza ferirsi gli occhi. ® Lei Š stato colpito, maggiore ¯ , esclam• all'improvviso Clinton. Fino a quel momento non se n'era accorto. ® Mi faccia vedere. ¯ ® Ha quasi smesso di sanguinare. Lasci stare. ¯ Wilson scosse il capo. ® Conservi le bende per gli altri. ¯ Fu interrotto da un grido lanciato da uno dei soldati del cerchio esterno. ® Eccolo di nuovo! ¯ Immediatamente ci fu un crepitio di spari e la stessa voce impreco, infuriata: ® il bastardo, il bastardo fetente... ¯ ® Cosa c'Š, soldato? ¯ ® Il grosso induna... Si muove di nuovo laggi—. Ha una fortuna del diavolo, signore. Abbiamo appena sprecato un pacchetto di munizioni contro di lui. ¯ In quel momento il vecchio castrato di Clinton sollev• il capo e cadde in ginocchio, colpito al collo. Cerc• di risollevarsi e s'abbatt‚ su un fianco. ® Povera vecchia bestia! ¯ mormor• Clinton. Immediatamente tiri altro cavallo indietreggi•, agit• freneticamente in aria le zampe anteriori e croll• sul dorso. ® Sparano meglio, adesso ¯ , disse Wilson, calmo.
® Direi che Š opera di Gandang ¯ , replic• Clinton. ® Sta andando da un tiratore all'altro, gli sistema i mirini e gli mostra come sparare. ¯ ® Bene, Š il caso di restringere ancora il cerchio. ¯ In piedi erano rimasti ancora solo dieci cavalli, gli altri giacevano l… dov'erano caduti, e i soldati stavano stesi ventre a terra dietro di loro, aspettando con pazienza di sparare con sicurezza a una delle centinaia di figure sfuggenti in mezzo agli alberi. ® Stringetevi. ¯ Wilson s'alz• e fece segno al cerchio di soldati. ® Spostatevi al centro... ¯ S'interruppe all'improvviso, comp un mezzo giro, si strinse con una mano la spalla ma rimase in piedi. ® L'hanno colpita di nuovo! ¯ Clinton salt• in piedi per aiutarlo e immediatamente le gambe gli vennero meno. Croll• nel fango e rimase l a guardarsi le rotule dei ginocchi frantumate. Doveva essere stato uno degli antichi fucili da elefanti che qualche matabele ancora usava. Era un'arma che sparava una palla di piombo pesante pi— di un etto. Lo aveva colpito a uno dei ginocchi trapassandolo e colpendo anche l'altro. Ambedue le gambe erano andate, ormai; una era ripiegata sotto le natiche, e Clinton stava seduto sullo stivale infangato, l'altra era rovesciata, con la mascherina dello stivale infilata nel fango e l'argenteo sperone puntato verso la vorticante nuvolaglia in cielo. Gandang s'inginocchi• dietro il tronco di un mopani e strapp• di mano a un giovane guerriero il Martini-Henry. ® Anche un babbuino ricorda una lezione quando gli vien data ¯ , disse, furente. ® Quante volte ti Š stato detto di non fare cos ? ¯ La lunga leva del mirino in cima alla canna brunita era alla massima estensione, stabilita per i mille metri. Ricevute le istruzioni da Gandang, il giovane matabele poggi• il fucile in una biforcazione del mopani e fece fuoco. L'arma rincul• e lui lanci• un grido di gioia. Nel piccolo cerchio un grosso cavallo grigio col dorso incurvato cadde sulle ginocchia, cerc• di risollevarsi, quindi s'abbatt‚ su un fianco. ® Avete visto, fratelli? ¯ grid• il guerriero. ® Mi avete visto uccidere il cavallo grigio? ¯ Le mani di Vamba tremavano per l'eccitazione mentre ricaricava e appoggiava di nuovo il fucile. Fece fuoco e questa volta un baio indietreggi• e poi croll• sul dorso. ® Jee! ¯ inton• Vamba, e sollev• il fucile fumante sopra la testa. Il canto di guerra venne ripreso da altri cento nascosti tiratori e la scarica dei loro fucili crepit• nell'aria. ® Sono quasi pronti ¯ , pens• Gandang, vedendo un altro del difensori colpito dal rinnovato fuoco di fucileria. ® Devono essere rimasti in pochi ancora in condizioni di sparare. Presto sar… il momento di attaccare con le lance e stasera avr• una vittoria
da riferire a mio fratello il re. Una piccola vittoria, dopo tante terribili sconfitte... E comprata a cos caro prezzo. ¯ Sgusci• via dal riparo del mopani e raggiunse a balzi un altro dei tiratori che sparava non appena riusciva a ricaricare. A met… strada, per•, avvert il vibrante impatto al braccio, ma percorse il terreno scoperto fino al riparo senza fermarsi, quindi si appoggi• a un tronco ed esamin• la ferita. La pallottola era entrata da una parte del bicipite e uscita dall'altra. Il sangue gli colava dal gomito come densa melassa nera. Prese una manciata di fango e se la spiaccic•: sulle ferite, otturandole e mascherandole. Poi disse sdegnato al guerriero l al suo fianco: ® Spar come una vecchia scartoccia il mais ¯ . E gli strapp• il fucile di mano. Clinton si trascin• sui gomiti e, allentate, le gambe gli scivolavano dietro nel fango. Aveva adoperato la cintura di tela di uno dei morti come laccio emostatico e la perdita del sangue era molto poca. L'intorpidimento dello shock persisteva ancora quindi il dolore era sopportabile, anche se il rumore delle estremit… scheggiate delle ossa che sfregavano le une contro le altre gli procurava la nausea e un sapore acido in bocca. Raggiunse il ragazzo cieco e si ferm• per prendere fiato prima di parlare. ® Gli altri stanno scrivendo lettere, dopotutto qualcuno le trover…. Hai qualcuno a casa? Scrivo io per te. ¯ Il ragazzo taceva, sembrava non avesse sentito. Un'ora prima lui, Clinton, gli aveva somministrato una delle preziose pillole di laudano della provvista che Robyn gli aveva dato prima che lasciasse GuBulawayo. ® Mi hai sentito, ragazzo? ¯ ® Ho sentito, padre. Stavo pensando. S , c'Š una ragazza. ¯ Clinton apr il taccuino a una pagina bianca e lecc• la punta della matita. Il ragazzo alla fine mormor•, timidamente: ® Bene, Mary. L'avrai letto sui giornali, qui oggi abbiamo avuto un bello scontro. E' quasi finito ormai, e io stavo pensando a quel giorno sul fiume... ¯ Clinton scriveva rapidamente, per stargli dietro. ® Ora ti saluto, Mary. Nessuno di noi ha paura. Credo insomma che vogliamo farlo bene... Quando viene il momento... ¯ All'improvviso, mentre scriveva l'ultimo saluto, la vista a Clinton s'offusc•. Guard• allora il pallido viso imberbe. Gli occhi erano avvolti in bende insanguinate ma le labbra gli tremavano. Deglut pi— volte mentre finiva di dettare. ® Come si chiama lei, ragazzo? Devo indirizzarla. ¯ ® Mary Swayne. Al Verro Rosso, a Falmouth. ¯ Era la cameriera di un bar, dunque, pens• Clinton, mentre infilava il foglio ripiegato nella tasca sul petto del ragazzo. Probabilmente, se mai l'avesse ricevuto, avrebbe riso di quel biglietto, che avrebbe fatto leggere a tutti i clienti regolari del bar. ® Padre, mentivo ¯ , bisbigli• il ragazzo. ® Ho paura. ¯ ® L'abbiamo tutti Clinton gli strinse la mano. ® Ti dico
una cosa, ragazzo. Se vuoi, puoi caricare per Dillon qui vicino. Lui ha occhi per sparare ma solo un braccio, e tu invece hai due braccia. ¯ ® Bravo, padre ¯ , esclam• Dillon. ® Perch‚ non ci abbiamo pensato noi? ¯ Clinton poggi• una bandoliera sulle gambe del ragazzo cieco. C'erano solo quindici cartucce nelle tasche... E, in quel momento, tra i mopani cominci• il canto. Era lento e profondo e molto bello, ed echeggiava e risuonava per tutta la foresta. L'inno di lode dell'Inyati. Clinton volt• la testa e guard• in giro per il cerchio. Tutti i cavalli erano morti; giacevano a terra in una confusione di selle ed equipaggiamento sparso, di pezzi di gialla carta cerata dei pacchetti di cartucce, di bossoli vuoti e di fucili scarichi. In tanta confusione solo la fila dei morti era ordinata. Quanto Š lunga quella fila, pens• Clinton. O Dio, che spreco, che crudele spreco. Alz• il viso e le nuvole alla fine stavano aprendosi. C'erano valli di dolce cielo azzurro tra le grandi montagne di nuvole. Il tramonto gi… lambiva quelle creste con soffusi toni di rosa mentre le profondit… delle masse accumulate erano del colore delantimonio bruciato e dell'argento ossidato. Avevano combattuto tutto il giorno su quell'insanguinato tratto di fango. Entro un'ora sarebbe stato buio, ma gi… adesso scure macchie si muovevano come granelli di polvere contro l'alto cielo blu della sera. Le piccole macchie cominciarono a mulinare lentamente, come un pigro vortice, perch‚ gli avvoltoi erano ancora molto in alto, e aspettavano e guardavano con l'infinita pazienza dell'Africa. Clinton abbass• lo sguardo e, dall'altra parte del cerchio, Wilson stava osservandolo. Sedeva con la schiena appoggiata contro il ventre di uno dei cavalli morti. Il braccio destro gli pendeva inerte sul fianco, e il tampone sulla ferita allo stomaco era rosso di sangue, ma teneva la pistola pronta in grembo. I due uomini si guardarono a lungo finch‚ il canto si lev• pi— alto, diminu e si lev• di nuovo. ® Ora vengono ¯ , disse Wilson. ® Per l'ultima volta. ¯ Clinton annu , poi sollev• il capo e anche lui cominci• a cantare: Pi— vicino mio Dio a Te, pi— vicino a Te... La sua voce era sorprendentemente chiara e ferma, e Wilson stava ora cantando con lui, premendosi il tampone sulla ferita alla stomaco: ... Il buio cala su di me, il mio riposo una pietra...
La voce del ragazzo cieco tremava. Dillon era vicino a lui. Bench‚ caviglia e gomito gli fossero stati trapassati da una pallottola, stava steso sulla schiena con un fucile poggiato sui ginocchi incrociati, pronto a sparare con una mano sola quando fossero venuti. La sua voce era monotona, ma ammicc• sfrontatamente a Clinton e sorrise: ... Angeli per farmi cenno... Otto, in tanti erano rimasti, ognuno ferito pi— di una volta, ma tutt'e otto cantavano nella fitta foresta di mopani, le voci esili, quasi perdute nel risonante coro dell'inno di lode del reggimento Inyati. Poi echeggi• un tuono nell'aria, il battere contemporaneo di duemila assegai su scudi bianchi e neri, e il tuono piomb• sul loro piccolo cerchio. Allan Wilson si tir• su a fatica per affrontarli in piedi. A causa della ferita allo stomaco non riusciva a stare dritto, e un braccio gli pendeva di lato. La sua pistola fece uno strano inaspettato rumore, un piccolo schiocco, nel ruggito del canto di guerra e delle lame che battevano sugli scudi. Dillon stava ancora cantando, afferrava i fucili carichi e sparava. Cantava e afferrava un altro fucile e sparava. Il ragazzo cieco infil• l'ultima cartuccia in uno dei fucili ancora caldi e lo pass• a Dillon, poi allung• la mano per prendere un'altra cartuccia e le sue dita presero a muoversi freneticamente allorch‚ si rese conto che la bandoliera era vuota. ® Sono finite ¯ , grid•. ® Sono tutte finite! ¯ Dillon si tir• su in piedi sulla gamba sana e avanz• a saltelli, tenendo il fucile scarico per la punta della canna e agitando il calcio contro l'ondata di scudi e piume che avanzava su di lui. Lo men•, ma il colpo non aveva forza e fu deviato facilmente da uno degli alti scudi ovali. Poi, come in un miracolo, una lunga e larga lama gli spunt• tra le scapole e la punta d'acciaio era bagnata di sangue. ® Non voglio morire ¯ , strill• il ragazzo cieco. ® La prego, padre, mi aiuti. ¯ E Clinton gli pass• un braccio intorno alla spalla e strinse con tutta la sua forza. ® Va tutto bene, ragazzo ¯ , disse. ® Andr… tutto bene. ¯ I corpi erano nudi. La pelle, mai lambita dal sole, era bianchissima e con uno strano aspetto delicato, come i morbidi petali della calla. Su questo bianco, le ferite erano dell'impressionante colore delle more schiacciate. Intorno a quel macello s'aggirava una gran quantit… di guerrieri, alcuni dei quali gi… portavano parti di divise depredate. Tutti ansimavano ancora per l'esaltazione di quell'ultima carica selvaggia e per la carneficina che l'aveva conclusa. Dalle fitte file un vecchio guerriero dai capelli grigi si fece avanti reggendo l'assegai lungo il fianco, come il coltello di un
macellaio. Si chin• sul corpo nudo di Clinton Codrington. Era giunto il momento di liberare gli spiriti degli uomini bianchi, di lasciarli uscire dai loro corpi e volar via, perch‚ se fossero restati sulla terra avrebbero perseguitato i vivi. Era il momento dello sventramento rituale. Il vecchio guerriero poggi• la punta della lama sul ventre di Clinton e stava per colpire da sotto in su. ® Fermo! ¯ Una voce chiara lo blocc•, e il guerriero arretr• e salut• rispettosamente Gandang, che stava avanzando tra le file dei guerrieri che s'erano fatti da parte per farlo passare. Al centro di quel campo atroce, Gandang si ferm• e guard• i corpi nudi dei nemici. Il suo viso era impassibile, ma i suoi occhi erano spaventevoli, come se piangessero per il mondo intero. ® Lasciamoli stare ¯ , disse, calmo. ® Erano una stirpe di uomini, perch‚ i padri sono stati uomini prima di loro. ¯ Quindi si gir• e, a grandi passi, torn• indietro. I suoi guerrieri si schierarono dietro di lui e, a passo di corsa, si diressero verso il nord. Lobengula era giunto alla fine dei suoi domini. Sotto di lui la terra si apriva nella ripida scarpata della valle del fiume Zambesi, un posto selvaggio e infernale di gole rocciose e impenetrabile vegetazione, di animali feroci e caldo spietato. Ai limiti del campo visivo, la scura e folta linea della vegetazione fluviale rivelava il corso del padre di tutte le acque e, a occidente, un'alta e argentea nube di spruzzi si levava contro il cielo: segnava il posto in cui lo Zambesi si precipita gi— da una parete di roccia in una terribile, schiumosa cascata che cade da un'altezza di oltre cento metri nella stretta gola di sotto. Lobengula sedeva sulla cassetta del carro di testa e guardava quel grandioso paesaggio selvaggio con occhio indifferente. Il carro era trainato da duecento dei suoi guerrieri. I buoi erano tutti morti, il terreno era stato troppo impervio e roccioso per la maggior parte di essi ed erano crollati e morti durante il cammino. Poi la colonna era incappata nella prima zona della mosca tse-tse, e i terribili, piccoli insetti erano piombati a sciami sui rimanenti buoi e avevano perseguitato gli uomini e le donne della carovana di Lobengula. Nel giro di poche settimane, l'ultima delle bestie punte dalla mosca era morta e gli uomini, pi— resistenti alla puntura della tse-tse, avevano preso il loro posto e avevano trainato il re nella sua disperata fuga senza meta. Adesso persino loro erano scoraggiati da ci• che gli si apriva davanti. Si fermarono e voltarono a guardare Lobengula. ® Dormiremo qui questa notte ¯ , disse il re. Immediatamente la stanca e affamata schiera che seguiva i carri si sparpagli• e cominci• a preparare il campo: le ragazze a portare l'acqua nelle pentole di terracotta, gli uomini a costruire le capanne provvisorie e a tagliare legna per il fuoco e le donne a tirar fuori il contenuto dei sacchi di grano quasi vuoti e i pochi resti
di carne secca. La mosca aveva ucciso, insieme con i buoi da tiro, l'ultima delle bestie da macello e la selvaggina era scarsa e spaurita. Gandang s'avvicin• al primo carro e salut• il suo fratellastro. ® Il tuo letto sar… presto pronto, Nkosi Nkulu. ¯ Ma Lobengula stava guardando con occhio sognante l'erto kopje roccioso che torreggiava sul bivacco. I grandi tronchi robusti degli alberi del cremor-tartaro avevano spinto da parte i massi neri. I piccoli rami contorti, carichi dei pelosi baccelli, s'allungavano verso il cielo indifferente come le braccia mutilate di uno storpio. ® E' una grotta quella lass—, fratello? ¯ chiese Lobengula a bassa voce. Una scura crepa s'apriva nella roccia in cima alla collina. ® Vorrei andare su fino a quella grotta. ¯ Venti uomini trasportarono Lobengula su una portantina di pali e pellicce e lui faceva una smorfia a ogni sussulto; il suo grande corpo era gonfio e martoriato dalla gotta e dall'artrite, ma i suoi occhi erano fissi sulla cima lass— in alto. Proprio sotto la parete di roccia Gandang fece un cenno ai portatori e questi deposero delicatamente la portantina sul pendio roccioso. Poi l'induna si spost• lo scudo dietro la schiena, liber• la lancia dal laccio che la legava e and• avanti. La grotta era stretta ma profonda e buia. A terra davanti all'ingresso erano sparsi i resti coperti di pelliccia e le ossa maciullate di piccoli animali: babbuini, gazzelle e saltarupi. Dalla grotta usciva l'odore fetido della gabbia di un carnivoro, e quando Gandang si pieg• sull'ingresso e guard• dentro ci fu l'improvviso e minaccioso ringhio di un leopardo. L'induna vide vagamente la bestia muoversi nella penombra, poi scorse il lampo dei suoi fieri occhi dorati. Gandang si spost• lentamente, allontanandosi dal sole, e si ferm• per abituare gli occhi alla penombra. Il leopardo lo avvert di nuovo con un terrificante ruggito di rabbia, che echeggi• nello spazio limitato della grotta. Si era avvicinato strisciando sul ventre ed era montato su una stretta sporgenza sopra la testa di Gandang, che riusciva a intravedere la forma della larga fronte. Le orecchie erano abbassate e gli occhi socchiusi, due fessure. Con cautela, Gandang si mise in posizione sotto la sporgenza, perch‚ non voleva provocare la carica finch‚ non fosse pronto a riceverla. Mezzo accovacciato, con l'assegai sollevato e puntato contro la gola dell'animale infuriato, spost• lo scudo e chiam• la bestia. ® Vieni, malefico! Vieni, figlio del diavolo. ¯ E, in un altro scoppio di rabbia, il leopardo si lanci•, una visione dorata, contro l'alto scudo screziato. Ma, mentre ricadeva, Gandang sollev• la punta della lancia e lo tocc•, lasciando che il suo stesso peso gli facesse trapassare il cuore dall'acciaio. Poi indietreggi• al riparo dello scudo e i crudeli artigli uncinati striarono inutilmente il cuoio duro come ferro. La lama era ancora infilata nel petto dell'animale. Questo tos-
s una volta, soffocando nel proprio sangue, poi si dibatt‚, si liber• dall'acciaio e balz• via attraverso l'apertura della grotta. Quando Gandang la segu con cautela al sole, la bella bestia era stesa a terra sulla roccia in una pozza di sangue. Era un maschio magnifico, dalla pelliccia intatta. Le chiazze sul suo dorso non erano molto pi— scure dello sfondo ambrato, che sotto il ventre diventava del colore di una burrosa crema. Un animale nobile, e solo un re poteva portare la sua pelliccia. ® La strada Š sicura, o re ¯ , esclam• Gandang dall'alto del pendio, e i portatori trascinarono Lobengula fin su in alto. Il re li mand• via e lui e il suo fratellastro rimasero soli sul fianco della collina, in alto, su quella terra selvaggia. Lobengula guard• il leopardo morto e poi la scura bocca della grotta. ® Questa sarebbe una tomba adatta per un re ¯ , disse, soprappensiero, e Gandang non seppe rispondergli. Rimasero a lungo in silenzio. ® Sono un uomo morto ¯ , disse Lobengula alla fine, e sollev• una mano delicata per far tacere la protesta di Gandang. ® Cammino e parlo ancora, ma dentro di me il cuore Š morto. ¯ Gandang tacque, non riusciva a guardare in faccia il re. ® Gandang, fratello mio. Io voglio solo pace. Me la concedi? Quando te lo ordino, alzerai la tua lancia contro di me e, trapassandomi il cuore morto, lascerai il mio spirito libero di trovare quella pace? ¯ ® Mio re, fratello mio, non ho mai disobbedito a un tuo ordine. Ogni tua parola Š sempre stata il centro della mia esistenza. Chiedimi qualunque cosa, fratello, qualunque cosa, tranne questa. Non potrei mai alzare la mano contro di te, figlio di Mzilikazi, mio padre, nipote di Mashobane, mio nonno. ¯ Lobengula sospir•. ® O Gandang, sono cos stanco e malato di dolore. Se non mi vuoi dare la fine, allora manda a chiamare il mio stregone pi— anziano. ¯ Lo stregone venne e ascolt• con aria grave l'ordine del re; poi s'alz• e and• alla carcassa del leopardo. Tagli• i lunghi e rigidi baffi bianchi e li bruci• in una piccola pentola sopra un piccolo fuoco. Per rendere la pozione pi— forte, schiacci• poi una dozzina di semi riducendoli a una pasta e mescol• questa con le ceneri. Quindi da un corno tappato che portava nella cintura vers•, e mescol• col resto, un liquido verde. Infine, sulle ginocchia, con la faccia a terra, strisci• verso il re come un ossequioso cane bastardo e piazz• la piccola pentola sulla roccia davanti a lui. Quando le sue dita vizze lasciarono il recipiente letale, Gandang s'alz• in silenzio, gli and• dietro e infisse l'assegai tra le sue sporgenti scapole, facendoglielo spuntare dal petto carenato. Poi sollev• il corpo scheletrico e lo port• nell'interno della grotta. Quando torn•, s'inginocchi• davanti a Lobengula. ® Hai ragione ¯ , disse Lobengula annuendo. ® Nessuno all'infuori di te deve sapere come Š finito il re. ¯ Prese la pentola e la tenne tra le mani a coppa.
® Ora tu sarai il padre della mia povera gente. Stai in pace, fratello ¯ , disse. Si port• la pentola alle labbra e la vuot• in un sol sorso. Poi s'adagi• sulla portantina e si tir• il kaross di pelliccia sulla testa. ® Vai in pace, mio amato fratello ¯ , disse Gandang. I suoi nobili tratti erano tesi come granito, ma quando sedette accanto al corpo del re le lacrime gli corsero gi— per le guance e bagnarono il petto con le tante cicatrici riportate in battaglia. Seppellirono Lobengula nella grotta, seduto sul pavimento roccioso e avvolto nella pelle bagnata del leopardo. Smontarono i suoi carri, trasportarono i pezzi su per la collina e li sistemarono in fondo alla grotta. Ammucchiarono le zanne d'avorio ai due lati e ai suoi piedi Gandang piazz• la lancia-giocattolo del re, le sue pentole della birra e i suoi piatti, i suoi coltelli e i suoi specchi, le sue perline e i suoi ornamenti, un sacco di sale e un altro di grano per il viaggio, e infine le piccole pentole di terracotta sigillate con i diamanti grezzi per pagare il pedaggio verso il mondo degli spiriti dei suoi progenitori. Sotto la direzione di Gandang, chiusero l'ingresso della caverna con grandi lastre di roccia nera dopodich‚, cantando addolorati le lodi del re, scesero dalla collina. Non c'erano bestie da macellare per il festino funebre n‚ grano per fare la birra. Gandang chiam• a s‚ i capi del popolo in lutto. ® Una montagna Š caduta ¯ , disse semplicemente. ® E un'era Š passata. Ho lasciato dietro di me mia moglie e mio figlio e la terra che amavo. Senza queste cose un uomo Š niente. Io torno indietro. Nessuno di voi Š tenuto a seguirmi. Ognuno deve scegliere la propria via. La mia porta di nuovo a sud, a GuBulawayo e alle magiche colline di Matopos. Vado a incontrare e parlare con quest'uomo, Lodzi. ¯ La mattina, quando Gandang si mise in viaggio di nuovo per il sud, si volt• a guardare e vide ci• che era rimasto della nazione matabele arrancare dietro di lui, non pi— un gran popolo guerriero ma una moltitudine stupefatta e disordinata. Robyn Codrington stava sulla veranda fresca e riparata della missione di Khami. Era piovuto quella mattina, l'aria era nitida e la terra bagnata odorava come pane appena sfornato man mano che il sole la riscaldava. Robyn portava i nastri neri del lutto cuciti alle maniche. ® Perch‚ Š venuto qui? ¯ chiese con calma, ma senza sorridere, all'uomo che era smontato da cavallo davanti ai gradini della veranda. ® Non avevo scelta ¯ , rispose Mungo St John. Si ferm• sul primo gradino e la studi• per un momento, senza tracce di ironia in viso. Lei aveva il viso lavato e fresco, privo di rossetto e di cipria. Un viso levigato, dalla bella carnagione. Non c'erano borse sot-
to i chiari occhi verdi n‚ pieghe ai lati della bocca, e i capelli erano tirati indietro dalle tempie e dalla fronte. Aveva seni piccoli e fianchi stretti, era alta e flessuosa, ma quando vide la direzione dello sguardo di lui la linea delle labbra s'indur e tese. ® Le sarei grata, signore, se lei dicesse cosa desidera e andasse via. ¯ ® Robyn, mi dispiace, ma forse Š meglio porre fine all'incertezza. ¯ Nei quattro mesi trascorsi dal ritorno della colonna dal fiume Shangani, parecchie voci erano giunte dalla boscaglia. Quella fatale mattina la colonna di Mungo St John, tagliata fuori dal fiume in piena, aveva sentito molti spari sull'altra riva. Poi, quasi immediatamente, anche loro erano stati attaccati da elementi dell'esercito matabele. Erano stati costretti a ripiegare, una lunga e stancante ritirata sotto la pioggia che era durata settimane di fame e di stenti, sinch‚ alla fine gli impi attaccanti li avevano lasciati andare, ma non prima che i carri che trasportavano le mitragliatrici fossero stati abbandonati e met… dei cavalli perduti. Nessuno sapeva che fine aveva fatto la pattuglia di Allan Wilson sulla sponda nord del fiume Shangani, poi a GuBulawayo era giunta voce che il piccolo gruppo di uomini s'era fatto largo tra gli impi, aveva raggiunto lo Zambesi e s'era rifugiato nell'insediamento portoghese di Tete, a cinquecento chilometri. In seguito questa voce era stata smentita dai portoghesi e le speranze erano crollate, per risvegliarsi di nuovo quando un induna matabele venuto ad arrendersi aveva avanzato l'ipotesi che i bianchi fossero stati fatti prigionieri dal reggimento Inyati. Voci, smentite e altre voci ancora, per quattro penosi mesi, e ora Mungo St John era l davanti a lei. ® E' certo ¯ , disse. ® Non volevo che fosse uno sconosciuto a portarti la notizia. ¯ ® Sono morti ¯ , disse lei, senza inflessione nella voce. ® Tutti. Dawson ha raggiunto il campo di battaglia e li ha trovati. ¯ ® Non sarebbe stato in grado di riconoscerli, e neppure di stabilire quanti corpi c'erano. Non dopo tanti mesi, non dopo le iene e gli avvoltoi... ¯ ® Robyn, ti prego. ¯ Mungo allung• una mano ma lei indietreggi•. ® Non ci credo. Clinton pu• essere scampato. ¯ ® Nella boscaglia Dawson ha incontrato l'induna anziano dei matabele. Sta venendo con tutta la sua gente ad arrendersi. Ha descritto a Dawson l'ultimo scontro della pattuglia e ha detto che sono tutti morti. ¯ ® Clinton potrebbe... ¯ Era molto pallida, e scuoteva decisamente il capo. ® Robyn, era Gandang. Lui conosceva bene tuo marito. Hlopi lo chiamava, l'uomo coi capelli bianchi. L'ha visto disteso tra gli altri morti. E' certo. Non pu• esserci pi— speranza. ¯
® Lei pu• andare, ora ¯ , disse Robyn. Poi, all'improvviso, si mise a piangere. Dritta nella persona, si mordeva il labbro inferiore per cercare di controllarsi, ma il viso era tutto una smorfia e il bordo delle palpebre era rosso per il dolore. ® Non posso lasciarti in queste condizioni ¯ , disse Mungo, e avanz• sulla veranda verso di lei. ® Non s'avvicini ¯ , disse Robyn, roca, e indietreggi• davanti a lui. ® Per piacere, non mi tocchi. ¯ Mungo continu• ad avanzare, magro e slanciato come un vecchio leopardo; ma l'espressione crudele e scura del viso s'era addolcita, sostituita da un'altra che lei non gli aveva mai visto prima, e il suo unico occhio fissava i suoi, verdi e umidi, con profonda preoccupazione. ® No. Oh, per piacere, non... ¯ Ora lei tese entrambe le braccia come per tenerlo a distanza, e gir• il viso dall'altra parte. Era giunta alla fine della veranda, con la schiena premeva contro la porta della camera da letto che un tempo era stata di Cathy e Salina, e cominci• a pregare, la voce soffocata dalle lacrime. ® O gentile Ges—, aiutami a essere forte... ¯ Le mani di lui si poggiarono sulle sue spalle; erano dure come pietra e fresche attraverso il cotone sottile della sua blusetta. Lei trem• e il fiato le venne meno. ® ... Abbia piet…. La prego. Mi lasci. ¯ Lui le prese il mento in mano e la costrinse ad alzare il viso verso il suo. ® Non mi darai mai pace, mai? ¯ farfugli• Robyn, dopodich‚ la bocca di Mungo copr la sua e lei non pot‚ pi— parlare. A poco a poco il suo corpo perse rigidit… e s'appoggi• a lui. Singhiozz• una volta, poi s'abbandon• alla stretta delle sue braccia muscolose. Mungo la sollev•, prendendola sotto le ginocchia e intorno alle spalle, e la tenne contro il proprio petto come una bambina addormentata. Con un calcio apr la porta della camera da letto, varc• la soglia e col tacco richiuse l'uscio. C'era una copertura contro la polvere sul letto, e niente cuscino n‚ coperta. Mungo ve la depose sopra e s'inginocchi• accanto a lei, sempre stringendola al petto. ® Era un santo ¯ , disse lei con voce strozzata. ® E tu l'hai mandato a morire. Sei il diavolo in persona. ¯ Poi, con le dita frenetiche e tremanti di una donna che annega, cominci• ad allentare i bottoni di madreperla sul davanti della camicia di lino di Mungo. Il petto era duro e levigato, la pelle olivastra coperta di una peluria riccia e scura. Robyn vi poggi• le labbra, respirando in profondit… l'odore virile di lui. ® Perdonami ¯ , disse singhiozzando. ® O Dio, perdonami. ¯ Dal suo angolo accanto alla dispensa, Jordan Ballantyne poteva guardare nell'enorme cucina di Groote Schuur. C'erano cuochi al lavoro alle luccicanti cucine Aga, che fun-
zionavano ad antracite, e uno di loro si affrett• verso di lui recando un bagnomaria smaltato e un cucchiaio d'argento. Con questo Jordan assaggi• la salsa b‚arnaise che sarebbe andata con il galjoen. Il galjoen Š un pesce delle tempestose acque del Capo; con un p• di fantasia, la sua forma pu• essere paragonata a quella di un galeone spagnolo, e la sua delicata carne verdognola rappresenta una delle grandi prelibatezze dell'Africa. ® Perfetta ¯ , dichiar• Jordan. ® Parfait, Monsieur Galliard, comme toujours. ¯ Il piccolo francese s'allontan• raggiante e Jordan si gir• verso la pesante porta di tek che conduceva alle cantine sotto la cucina. Quel pomeriggio aveva travasato il porto con le sue mani, dieci bottiglie di Vilanova de Gaia del 1853, di quarant'anni, dunque. Aveva preso il bellissimo colore fulvo del miele selvatico. Ora un servo malese in lunga veste bianca kanzu, con fascia cremisi alla vita e fez in testa, sal i gradini di pietra portando con reverenza la prima caraffa di cristallo su un vassoio d'argento georgiano. Jordan vers• una piccola quantit… nel tastevin cesellato d'argento che portava appeso a una catena intorno al collo. Sorseggi•, se lo ripass• sulla lingua quindi inspir• sporgendo le labbra in fuori per far s che il vino si dichiarasse. ® Avevo ragione ¯ , mormor•. ® Che acquisto fortunato. ¯ Apr il pesante registro dei vini rilegato in pelle e constat• con piacere che rimanevano ancora dodici dozzine di bottiglie di Vilanova, dopo aver dedotto quella travasata quel giorno. ® Straordinario. Migliora sempre. ¯ Quindi si rivolse al servo malese: ® Allora, Ramallah, offriremo una scelta di sherry Finos Palma o Madeira con la zuppa, col pesce lo Chablis o il Krug 1889... ¯ Ripass• rapidamente il men—, quindi lo licenzi•. ® I convitati saranno ben presto qui, per cortesia bada a che ognuno prenda il suo posto. ¯ I dodici camerieri stavano con le spalle rivolte ai pannelli di quercia della sala da pranzo, con le mani guantate di bianco giunte davanti a s‚, impassibili come sentinelle, e nel passare Jordan lanci• a ognuno di loro un'occhiata di apprezzamento, cercando una macchia sulle candide vesti o una cintura male annodata alla vita. Giunto all'estremit… del lungo tavolo, si ferm•. Il servizio era quello di argento dorato regalato a mister Rhodes dai direttori della Chartered Company, i bicchieri erano veneziani a calice, bordati in oro ventidue carati. C'erano ventidue posti apparecchiati quella sera e la loro disposizione era stata una vera e propria agonia per lui. Alla fine aveva deciso di mettere il dottor Jameson in fondo alla tavola e Sir Henry Loch, l'Alto Commissario, alla destra di mister Rhodes. Ora scosse il capo soddisfatto per quella sistemazione, prese uno degli Alphonso Havanas dall'humidor d'argento e l'annus• prima di farlo scricchiolare contro l'orecchio: anche quello era perfetto. Lo rimise a posto e diede un'ultima occhiata alla sala.
I fiori li aveva sistemati lui con le sue mani, grandi fasci di protea dei pendii della Table Mountain. Al centro, gialle rose inglesi dei giardini di Groote Schuur e, naturalmente, il fiore preferito da mister Rhodes, quello bellissimo, violaceo della piombaggine. Da dietro le doppie porte giunsero il calpestio di molti piedi sul pavimento di marmo dell'ingresso e la voce quasi querula che lui conosceva e amava tanto. ® E noi lo convinceremo, il vecchio. ¯ Jordan sorrise a quelle parole. Il vecchio era certamente Kruger, il presidente della Repubblica Boera, e ® convincere ¯ era una delle parole chiave del vocabolario di mister Rhodes. Immediatamente prima che le porte si spalancassero per far entrare la compagnia di uomini brillanti e famosi sobriamente vestiti in smoking, lui sgusci• via dalla sala, se ne torn• nel suo angolino, ma sollev• il portello accanto alla propria scrivania in modo da poter udire la conversazione alla lunga e luccicante tavola nella sala da pranzo. Gli dava una gloriosa sensazione di potere il trovarsi cos vicino al centro di tutto questo, sentir battere il polso della storia e sapere di poter sottilmente alterarne e dirigere il corso, e di poterlo fare in segreto. Una parola qui, un accenno l , persino una cosa cos banale come sistemare due uomini potenti l'uno accanto all'altro alla lunga tavola da pranzo. A volte, in privato, mister Rhodes gli chiedeva effettivamente: ® Che ne pensi, Jordan? ¯ e ascoltava con attenzione la sua risposta. Il grande eccitamento di quella vita era diventato una droga per lui, e non passava giorno che non se ne inebriasse. C'erano momenti speciali il cui ricordo lui conservava con gelosia. Quando il pranzo terminava e i commensali passavano al porto e ai sigari, lui se ne restava l seduto a godersi quei particolari ricordi. Ricordava, per esempio, che era stato lui a riempire quel leggendario assegno, firmato poi da mister Rbodes, il giorno in cui avevano comprato la Kimberley Central Company. La somma era di 5.338.650 sterline, l'assegno pi— grosso mai riempito al mondo. Ricordava di essersi trovato nella galleria dei visitatori del Parlamento quando inister Rhodes s'era alzato per tenere il discorso con il quale accettava l'incarico di primo ministro della Colonia del Capo. Aveva alzato la testa, incontrato il suo sguardo e sorriso prima di cominciare a parlare. Ricordava come, dopo la sfrenata cavalcata gi— dal Matabeleland per consegnare nelle sue mani la Rudd Concession con il sigillo di Lobengula, mister Rhodes lo avesse afferrato per le spalle e in un attimo, con quei suoi occhi azzurri, gli avesse detto pi— di quanto mille parole scelte avrebbero mai potuto dire. Ricordava che aveva cavalcato accanto alla carrozza di mister Rhodes lungo il Mall quando s'erano recati a Buckingham Palace a pranzo dalla regina, mentre il postale Union Castle rimandava di ventiquattro ore la partenza per aspettarli.
Proprio quella mattina aveva aggiunto un altro ricordo ai tanti altri: aveva letto ad alta voce il telegramma della regina Vittoria al ® Nostro beneamato Cecil John Rhodes ¯ in cui lo nominava Consigliere Privato di Sua Maest…. Torn• al presente. Era mezzanotte passata e nella sala mister Rhodes stava, al suo modo caratteristico, interrompendo bruscamente il pranzo. ® Ebbene, signori, vi auguro una buona notte. ¯ Jordan s'alz• immediatamente dalla scrivania e infil• il corridoio della servit—. In fondo a questo c'era una porta, la socchiuse e, con ansia, osserv• l'imponente figura che saliva le scale. I commensali avevano fatto onore alla sua scelta dei vini, eppure il passo di mister Rhodes era abbastanza fermo. Bench‚ inciampasse sull'ultimo gradino di marmo, riprese l'equilibrio e prosegu , e lui, Jordan, scosse il capo risollevato. Quando l'ultimo servo fu andato via, chiuse la cantina e la dispensa. Sulla sua scrivania era rimasto un vassoio d'argento con un bicchiere di Vilanova e due tartine di caviale Beluga. Lo prese e lo port• attraverso la casa immersa nel silenzio. Nell'imponente sala d'ingresso era accesa una sola candela; era sul grande tavolo di tek scolpito che si levava massiccio al centro. A passi lenti avanz• sui riquadri di marmo bianco e nero del pavimento, come un sacerdote che si avvicini all'altare, e con gesto riverente depose il vassoio d'argento sul tavolo. Poi guard• in su all'immagine scolpita che si levava, in alto, nella sua nicchia in penombra e mosse le labbra mentre invocava in silenzio la dea-uccello, Panes. Quando ebbe finito, rimase immobile in attesa nella luce vacillante della candela. Intorno a lui la grande casa dormiva. La dea dalla testa di falco guardava con i suoi crudeli occhi ciechi verso il nord, a mille miglia e pi—, verso un'antica terra ora benedetta, o maledetta, con un nome nuovo, Rhodesia. Attese tranquillo, guardando in su all'uccello come un credente davanti alla statua della Vergine; poi nel silenzio, all'improvviso, dal fondo dei giardini, dove crescevano le alte e scure querce che il governatore van der Stel aveva piantato quasi duecento anni prima, giunse il grido strano, triste, del gufo reale. Si rilass• e s'allontan• indietreggiando dal tavolo dove aveva lasciato la sua offerta. Poi si gir• e sal saltellando la scala di marmo. Nella sua cameretta si tolse immediatamente l'abito impregnato degli odori della cucina. Nudo, si lav• il corpo con una spugna e acqua fredda, ammirando la propria immagine snella nello specchio a figura intera sulla parete in fondo alla stanza. Si deterse con un asciugamano ruvido e si strofin• le mani con acqua di Colonia. Con un paio di spazzole d'argento si spazzol• i capelli finch‚ i riccioli brillarono alla luce della lampada come spirali di filo d'oro puro, poi infil• le braccia nella vestaglia di raso blu-notte, con disegni a rilievo, se l'annod• in vita, prese la lampada per
farsi strada e usc nel corridoio. Chiuse senza far rumore la porta della sua camera e rimase in ascolto per alcuni secondi. La casa era sempre immersa nel silenzio, gli ospiti dormivano. A piedi nudi, scivol• sullo spesso tappeto fino alla doppia porta in fondo al corridoio. Picchi• leggermente su uno dei pannelli, due volte, poi altre due volte, e una voce rispose, bassa: ® Entra! ¯ ® Questi sono pastori. Non puoi portargli via le mandrie. ¯ Robyn Ballantyne parlava con voce bassa e controllata, ma in viso era pallida e negli occhi le brillavano furiosi lampi verdi. ® Per piacere, Robyn, siediti. ¯ Mungo St John indic• la rozza sedia di legno, uno dei pochi pezzi di mobilio in quella capanna di fango che era l'ufficio dell'Amministratore del Matabeleland. ® Stai pi— comoda e io mi sentir• pi— a mio agio. ¯ Nulla poteva farlo apparire pi— a suo agio, pens• lei con rabbia. Mungo si dondolava infatti sulla sedia girevole con i piedi calzati di stivali sulla scrivania davanti a lui. Era in maniche di camicia e aveva il panciotto sbottonato. ® Grazie, generale. Rimarr• in piedi finch‚ non ricever• una tua risposta. ¯ ® Il costo della liberazione del Matabeleland e della condotta della guerra Š stato sopportato interamente dalla Chartered Company. Persino tu devi renderti conto che dev'esserci una riparazione. ¯ ® Vi siete presi gi… tutto. Mio fratello, Zouga Ballantyne, ha radunato pi— di centoventicinquemila capi di bestiame dei matabele... ¯ ® La guerra Š costata centomila sterline. ¯ ® D'accordo. ¯ Robyn scosse il capo. ® Se non vuoi ascoltare la voce dell'umanit…, allora forse ti convinceranno i conti puri e semplici. I matabele sono sparpagliati e disfatti, le loro organizzazioni tribali sono distrutte, il vaiolo infuria tra loro... ¯ ® Una nazione conquistata deve sempre affrontare sofferenze, Robyn. Oh, siediti, mi stai facendo venire il torcicollo. ¯ ® A meno che non gli restituiate parte delle loro mandrie, almeno per il latte e la carne, dovrete affrontare una carestia che vi coster… pi— di quanto Š costata la vostra piccola cara guerra. ¯ Il sorriso scomparve dalle labbra di Mungo St John, che pieg• leggermente la testa di lato e studi• la cenere del suo sigaro. ® Pensa a questo, generale. Quando il governo imperiale si render… conto della portata della carestia, costringer… la vostra famosa Chartered Company a nutrire i matabele. Quanto costa trasportare grano da Citt… del Capo? Cento sterline a carico. O adesso Š di pi—? Se poi la carestia raggiungesse le proporzioni di un genocidio, far• in modo che il governo di Sua Maest… si trovi di fronte a una tale protesta dell'opinione pubblica, guidata da gente come LabouchŠre e Blunt, che sar… costretto a revocarvi il mandato e fare, dopotutto, del Matabeleland una
colonia della Corona. ¯ Mungo St John tolse i piedi dalla scrivania e sedette dritto nella sedia. ® Comunque, chi ti ha nominata campione di questi selvaggi ¯ chiese. Ma lei ignor• la domanda. ® Io ti propongo, generale, di riferire queste cose a mister Rhodes prima che scoppi la carestia. ¯ Gongol•, poi, allo sforzo visibile che occorse a lui per riguadagnare la calma. ® Puoi anche avere ragione, Robyn. ¯ Il suo sorriso era ritornato ironico. ® Far• notare tutto questo ai direttori della Chartered Company. ¯ ® Immediatamente ¯ , insist‚ Robyn. ® Immediatamente ¯ , capitol• lui, e allarg• le braccia, come se si sentisse indifeso. ® Desideri ancora qualcos'altro? ¯ ® S ¯ , disse lei. ® Voglio che mi sposi. ¯ Mungo s'alz• lentamente e la guard•. ® Potrai non crederci, mia cara, ma niente mi darebbe piacere pi— grande. E tuttavia sono confuso. Chiesi la tua mano quel giorno alla missione di Khami. Perch‚ ora hai cambiato idea? ¯ ® Mi occorre un padre per il bastardo che mi hai dato. E' stato concepito quattro mesi dopo la morte di Clinton. ¯ ® Un figlio ¯ , esclam• lui. ® Sar… un maschio. ¯ Fece il giro della scrivania. ® Devi sapere che ti odio ¯ , disse lei. Il suo unico occhio si socchiuse quando le sorrise. ® S , e questa Š probabilmente la ragione per cui ti amo. ¯ ® Non ripeterlo mai pi— ¯ , sibil• Robyn. ® Oh, ma devo. Vedi, non me n'ero reso conto neppure io. Ho sempre creduto d'essere immune a sentimenti come l'amore. Mi ingannavo. Tu e io dobbiamo coraggiosamente affrontare questo fatto. Ti amo. ¯ ® Io da te non voglio altro che il nome, e tu da me non avrai altro che odio e disprezzo. ¯ ® Sposami prima, amore mio, e poi, dopo, decidiamo chi avr… che cosa dall'altro. ¯ ® Non toccarmi ¯ , disse lei, e Mungo la baci• in pieno sulla bocca. Erano occorsi quasi dieci giorni di lenta cavalcata per compiere il giro dei confini del ranch che Zouga aveva costituito con le sue concessioni di terra. Si stendeva a est verso il fiume Khami, quasi fino alla confluenza con il Bembesi, e a sud fin quasi a GuBulawayo: un territorio, delle dimensioni della contea del Surrey, di ricchi pascoli con tratti di fitte foreste e basse colline dorate. Lo attraversavano una dozzina di fiumi minori che fornivano acqua alle mandrie che Zouga stava gi… radunando. Mister Rhodes aveva nominato Zouga custode della propriet… nemica, con la facolt… di prendere possesso delle mandrie
reali di Lobengula. I cento soldati che s'erano offerti volontari per questo lavoro avevano radunato ormai quasi centotrentamila capi di bestiame di prima scelta. Met… di questi appartenevano alla Chartered Company, ne rimanevano sessantacinquemila da distribuire come bottino agli uomini che erano entrati a GuBulawayo con Jameson e St John. Comunque, all'ultimo minuto, mister Rhodes aveva cambiato idea e telegrafato a St John dandogli istruzioni di ridistribuire quarantamila capi alla trib— matabele. I volontari s'erano infuriati per la perdita di tutto quel bottino e, ben presto, per i bar e le taverne improvvisate di GuBulawayo era corsa voce che il bestiame era stato restituito alla trib— per le minacce e le rimostranze della donna dottore della missione di Khami. La voce acquistava maggiore credibilit… anche per il fatto che lo stesso messaggio telegrafico autorizzava l'assegnazione di duemilacinquecento ettari di terra alla missione. Mister Rhodes voleva tenersi buoni i preti, e loro, i volontari, non l'avrebbero sopportato. Cinquanta soldati, tutti pieni di whisky, erano montati a cavallo per andare a dar fuoco alla missione e appendere a una corda la megera responsabile della loro perdita. Zouga Ballantyne e Mungo St John gli erano andati incontro ai piedi delle colline. Con poche battute salaci li avevano calmati e fatti ridere, poi li avevano strapazzati ben bene e, infine, indotti a torPare a GuBulawayo, dove avevano offerto loro da bere, una dozzina di giri a testa. Nonostante la restituzione di tante mandrie alla trib—, l'eccesso di bestiame sul mercato aveva abbassato il prezzo a due sterline il capo e Zouga aveva speso met… del ricavato del diamante Ballantyne per comprare diecimila capi con cui rifornire le sue nuove propriet…. Ora, mentre lui e Louise cavalcavano insieme, seguiti da Jan Cheroot sul barroccio con la tenda e l'attrezzatura per accamparsi, passarono davanti a piccole mandrie di bestiame guardate dai pastori matabele che lui aveva ingaggiato. Zouga aveva avuto l'abilit… di selezionare solo gli animali migliori e li aveva divisi per colore, cos che una mandria era formata da bestie tutte rosse mentre la successiva solo da bestie nere. Ralph s'era impegnato a portare tutto il materiale per la nuova casa dalla stazione ferroviaria di Kimberley, e con lo stesso convoglio ci sarebbero stati venti tori purosangue di razza Hereford, dai quali Zouga intendeva far montare le sue vacche. ® Questo Š il posto ¯ , esclam• Louise estasiata. ® Come puoi esserne tanto certa... Cos presto? ¯ ® Oh, Zouga, Š perfetto. Posso passare il resto della mia vita a guardare questo panorama. ¯ Sotto di loro la terra degradava fino agli stagni profondi del fiume. ® Almeno ci sar… acqua in abbondanza... E in quel terreno laggi— cresceranno delle ottime verdure. ¯
® Non essere cos poco romantico ¯ , lo prese in giro lei. ® Guarda gli alberi. ¯ Si levavano alti sulle loro teste, come le campate di una cattedrale, e le foglie autunnali erano di mille sfumature di rosso e oro. Ronzavano di api e risuonavano di canti d'uccelli. ® Daranno una buona ombra nella stagione calda ¯ , comment• Zouga. ® Vergognati ¯ , disse lei, ridendo. ® Se non riesci a vedere la loro bellezza, guarda allora le Thabas Indunas. ¯ Le Colline degli Induna erano a forma di dorso di balena e di un azzurro sognante sotto le alte nubi argentee. Le distese erbose nel mezzo erano punteggiate da piccoli gruppi del bestiame di Zouga e di selvaggina, zebre e gnu. ® Sono abbastanza vicine ¯ , disse Zouga. ® Quando la societ… di Ralph raggiunger… finalmente GuBulawayo con la linea ferroviaria, allora avremo solo poche ore di cavalcata dalla stazione di testa e, quindi, tutti i conforti della civilt…. ¯ ® Allora, mi costruisci una casa qui... Proprio su questo posto? ¯ ® Non prima che tu gli abbia dato un nome. ¯ ® Come ti piacerebbe chiamarlo, mio caro marito? ¯ ® Qualcosa che ricordi il paese di un tempo. Io ho passato la mia giovinezza a King's Lynn. ¯ ® Eccolo il nome. ¯ ® King's Lynn ¯ , ripet‚ Zouga. ® S , andrebbe bene. Ora avrai la casa che vuoi. ¯ Louise gli prese la mano e si avviarono a piedi sotto gli alberi verso il fiume. Un uomo e una donna venivano gi— per lo stretto sentiero serpeggiante attraverso la fitta vegetazione lungo il fiume. L'uomo recava lo scudo sulla spalla sinistra, con l'assegai assicurato a esso da lacci di cuoio; ma il suo braccio destro era pi— corto e deforme, contorto rispetto alla spalla, come se l'osso fosse stato rotto e mal raggiustato. Non c'era carne superflua sulla sua forte struttura ossea; si vedevano le costole e la pelle mancava della brillantezza della buona salute. Era del colore senza vita del nerofumo, come se l'uomo si fosse appena alzato dopo una lunga malattia. Sul tronco e sulla schiena risaltavano le rosette chiare delle. Ferite da arma da fuoco da poco guarite, come monete di puro cobalto blu coniate di fresco. La donna che lo seguiva era giovane e dritta. Aveva gli occhi a mandorla e i tratti di una principessa egiziana. I seni erano grossi e pieni di latte e portava il figlio legato stretto alla schiena in modo che la testa non dondolasse troppo al ritmo dei suoi passi lunghi e spediti. Bazo raggiunse la sponda del fiume e si gir• verso la moglie. ® Riposiamo qui, Tanase. ¯ Lei sciolse il nodo e si pass• il bambino in grembo. Poi prese uno dei capezzoli gonfi tra il pollice e l'indice e prem‚ fin-
che non ne sgorg• il latte, quindi lo accost• alle labbra del bambino. Immediatamente questo cominci• a succhiare, grugnendo e sbuffando come un maialino. ® Quando raggiungeremo il prossimo villaggio? ¯ domand• lei. ® Quando il sole Š l . ¯ Bazo indic• la met… del cielo. ® Non sei stanca? Abbiamo viaggiato tanto. ¯ ® Non mi stancher• mai, non prima che avremo recato la parola a ogni uomo e donna e bambino di Matabeleland ¯ , rispose lei, e cominci• a cullare il piccolo e a canticchiargli: ® Tungata Š il tuo nome, perch‚ sarai un cercatore. ® Zebiwe Š il tuo nome, perch‚ ci• che cercherai Š quello che Š stato rubato a te e alla tua gente. ® Bevi le mie parole, Tungata Zebiwe, insieme col mio latte. Ricordatele per sempre, Tungata, e insegnale ai tuoi figli. Ricorda le ferite sul petto di tuo padre e quelle nel cuore di tua madre. E insegna ai tuoi figli a odiare ¯ . Cambi• posizione al bambino, gli diede l'altro seno e continu• a cullarlo finch‚ lui ebbe succhiato a sufficienza e la testolina gli scivol• via dal seno, nel sonno. Lei allora se lo pass• sulla schiena di nuovo e attraversarono il fiume e tirarono oltre. Raggiunsero il villaggio un'ora prima del tramonto. C'erano meno di cento matabele che vivevano in quelle capanne sparpagliate. Qualcuno vide la giovane coppia da lontano e una dozzina di uomini le and• incontro per salutarla con rispetto e accoglierla nel villaggio. Le donne portarono focacce di mais e denso latte acido in boccali di zucca, e i bambini vennero a guardare gli stranieri e a bisbigliare tra di loro. ® Sono quelli che vagano... Quelli delle colline di Matopos. ¯ Quando ebbero mangiato e il sole fu tramontato, la gente del villaggio accese il fuoco. Tanase stava in piedi nella luce delle fiamme e i matabele si accoccolarono in cerchio intorno a lei, silenziosi e attenti. ® Io mi chiamo Tanase ¯ , disse lei. ® E una volta ero la Umlimo. ¯ Ci fu un bisbiglio di stupore alla menzione di quel nome. ® Ero la Umlimo ¯ , ripet‚ Tanase. ® Ma le forze degli spiriti mi furono portate via. ¯ Tutti sospirarono e si mossero come foglie al passaggio di una brezza. ® Ora c'Š un'altra che Š la Umlimo e vive nel posto segreto tra le colline, perch‚ la Umlimo non muore mai. ¯ Ci fu un mormorio d'assenso. ® Ora io sono soltanto la voce della Umlimo. Sono il messaggero che vi reca la parola della Umlimo. Ascoltate bene, figli miei, perch‚ la Umlimo cos profetizza. ¯ S'interruppe un attimo e il silenzio era carico di religioso terrore. ® Quando il sole di mezzogiorno Š scuro per l'ali e gli alberi sono spogli delle foglie di primavera, allora, guerrieri di Matabele, affilate il vostro acciaio. ¯
Tanase fece una pausa e la luce delle fiamme brill• nelle centinaia d'occhi che la guardavano. ® Quando il bestiame giace con la testa girata per toccarsi il fianco e non pu• rialzarsi, allora Š il momento di sorgere e di colpire con l'acciaio. ¯ Allarg• le braccia, come se fosse in croce, e grid•: ® Questa Š la profezia. Ascoltatela attentamente, figli di Mashobane. Ascoltate attentamente la voce della Umlimo. Perch‚ Matabele sar… grande di nuovo ¯ . All'alba i due erranti, insieme col bambino, che si chiamava Colui-che-cerca-ci•-che-Š-stato-rubato, proseguirono per il villaggio successivo, dove gli anziani gli andarono incontro per salutarli. Nella primavera del 1896, sulle sponde di un lago vicino all'estremit… meridionale della Rift Valley, quella possente faglia che divide lo Scudo Continentale Africano come un colpo d'ascia, vi fu una strana cova. Le enormi masse di uova di Schistocerca Gregaria, la locusta del deserto, che erano sepolte nel terreno lungo i bordi del lago, rilasciarono innumerevoli moltitudini di ninfe incapaci di volare. Le uova erano state deposte dalle femmine nella fase solitaria del ciclo vitale della locusta; ma cos vasta era la covata di quella progenie che quel territorio non avrebbe potuto contenerla, e bench‚ si sparpagliassero su un'area di oltre cento chilometri quadrati erano purtuttavia costrette a strisciare l'una sul dorso dell'altra. La costante agitazione e lo stimolo del contatto con altre ninfe portarono a un miracoloso cambiamento in quella brulicante marea d'insetti. Il loro colore divenne un arancione vivo e un nero mezzanotte, ben diverso dal marrone dei genitori. Il loro ritmo metabolico acceler• e divennero iperattive e nervose. Le zampe crebbero pi— lunghe e pi— forti, il loro istinto gregario pi— potente, cos che fluivano in un solo corpo compatto che sembrava un singolo, mostruoso organismo. Erano entrate nella fase gregaria del ciclo vitale e quando, alla fine, mutarono per l'ultima volta e le loro ali appena spuntate si furono asciugate, l'intero sciame si lev• spontaneamente nel cielo. In quel primo battesimo dell'aria furono spinte dall'alta temperatura del loro corpo, accresciuta ulteriormente dalla loro attivit… muscolare. Non riuscivano a fermarsi fino al fresco della sera, quando si posavano in sciami cos densi che i rami degli alberi si spezzavano sotto il loro peso. Si nutrivano voracemente per tutta la notte e al mattino l'aumentato calore le spingeva di nuovo a volare. Si levavano in una nube cos densa che il suono delle loro ali era come il ruggito d'un vento di tempesta. Gli alberi che si lasciavano dietro erano completamente spogli del tenero fogliame di primavera. E quando passavano in alto le loro ali eclissavano il sole di mezzogiorno e un'ombra profonda cadeva sulla terra.
Erano dirette a sud, verso il fiume Zambesi. Dal Grande Sud, dove il Nilo appena nato avanza serpeggiando tra le impenetrabili paludi di fluttuanti papiri, gi— per le selvagge savane dell'Africa orientale e centrale, gi— fino allo Zambesi e oltre, vagavano vasti branchi di bufali. Non erano mai stati cacciati dalle trib— primitive, che preferivano selvaggina pi— facile; solo pochi europei con armi sofisticate s'erano avventurati in quelle lande remote, e anche i leoni che seguivano i branchi non riuscivano a controllarne la naturale moltiplicazione. Le distese d'erba nereggiavano per i grossi e neri bovini. I branchi, di venti o trentamila, erano cos fitti che le bestie della retroguardia morivano letteralmente di fame, perch‚ il pascolo era distrutto prima che loro riuscissero ad arrivarci. Indeboliti dalla loro stessa moltitudine, erano dunque maturi per la pestilenza che venne dal nord. Era la stessa piaga che il Dio di MosŠ aveva inflitto al faraone d'Egitto, la peste bovina, una malattia da virus che attacca il bestiame e tutti gli altri ruminanti. Gli animali colpiti erano accecati dal denso muco che sgorgava dai loro occhi, pendeva in densi filamenti dalle bocche aperte e dalle narici, e contaminava i pascoli infettando gli altri animali che seguivano. I loro corpi emaciati erano scossi da spasmi di inarrestabile diarrea e dissenteria. Quando alla fine crollavano, le convulsioni facevano loro girare il capo sul collo torturato, sicch‚ i loro musi toccavano i fianchi... E non riuscivano pi— a rialzarsi. Cos rapido fu il passaggio della malattia che un branco di diecimila grandi bestie nere e cornute fu spazzato via tra l'alba e il tramonto. Le loro carcasse erano tante che si toccavano l'una con l'altra, e il caratteristico fetore della malattia si mescolava a quello della carne in decomposizione; perch‚, per quanto banchettassero, gli avvoltoi non riuscivano a divorare che una millesima parte di questa terribile messe di morte. Presto, portata dagli avvoltoi e dai branchi confusi e mugghianti, la peste dilag• verso sud, verso lo Zambesi. Sulle sponde di quell'imponente fiume, Tanase stava in piedi davanti a un altro fuoco e ripeteva la profezia della Umlimo: Quando il sole di mezzogiorno Š scuro per l'ali e gli alberi sono spogli delle foglie di primavera... Quando il bestiame giace con la testa girata per toccarsi il fianco e non pu• rialzarsi... Cos declamava, e la gente di Matabele ascoltava, si faceva animo e guardava il suo acciaio. Finito di stampare nel mese di giugno 1994
per conto degli Editori Associati S.p.A. dal Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche - Bergamo Printed in Italy.